Grice e Bozzelli: la ragione conversazionale e l’mplicatura conversazionale di Lucano – su Catone il Giovane – Catone in Utica – scuola di Manfredonia – filosofia pugliese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Manfredonia). Filosofo pugliese. Filosofo italiano. Manfredonia, Foggia, Puglia. Grice: cf. tragic dialogue – Oreste a Pilade – and Enea’s Niso e Eurialo’ – Grice: “Not to mention the rape of Lucrezia, and Romolo killing Remo, and the rest of it.” -- Grice: “You’ve got to love Bozzelli; at Oxford, it would be difficult to find an English philosopher interested in English tragedy, but Bozzelli’s expertise is ‘tragedia romana’ – Ercole and the rest! Philosophically, Bozzelli speaks indeed alla Aristotle of the tragic – alla Nietzsche, too – since ‘lo tragico’ is possibly a philosophical category – On top, if I have been called a mimetist, so is Bozzelli – ‘lo tragico’ becomes an adjective, and qualifying ‘imitation’ – Aristotle’s principle for mimesis and tragedy as meant for catharsis – with Bozzelli, it is ‘imitazione tragica.’ He wisely skips (almost) the Middle Ages and reviews ‘tragedia romana’ and how it becomes ‘tragedia italiana’!” Noto per essere stato l'estensore della Costituzione del Regno delle Due Sicilie. Dopo le scuole secondarie dagli Scolopi, Studia a Napoli. Laureatosi, entra nell'amministrazione statale: uditore giudiziario presso il Consiglio di Stato. Entra nella sopraintendenza della Salute, dapprima come ispettore generale e poi come segretario. Nello stesso tempo si dedica all'attività metafisica. Pubblica "Poesie varie" una antologia di versi scritti secondo il gusto del XVIII secolo. Di sentimenti liberali, prese parte ai moti costituzionali che gli costarono dapprima la prigione e successivamente un esilio che trascorse in Francia. Durante l'esilio espose in numerosi saggi le sue concezioni politiche di liberale moderato, fautore di una monarchia costituzionale e avverso al programma democratico-radicale. Scrisse inoltre saggi filosofici di etica e di estetica. Rientra in patria. La fama di grande cultura e di integrità morale acquistata durante l'esilio, lo garante un grande prestigio all'interno del partito liberale delle Due Sicilie. La sua popolarità divenne ancora più grande dopo un nuovo periodo di prigionia assieme a Carlo Poerio e a Mariano d'Ayala. Pertanto, dopo l'inizio dell'insurrezione siciliana e incaricato dal presidente Serracapriola di preparare il decreto reale che fissa i principi costituzionali. Nominato ministro degli Interni, in sostituzione di Cianciulli, con l'incarico di stendere il testo della Costituzione. Dapprima fautore, con Poerio ed Ayala, dell'idea di ripristinare la Costituzione napoletana. Tuttavia, poco dopo si convinse della necessità di stendere carta costituzionale completamente nuova, un compito che porta a termine da solo e in soli dieci giorni. La costituzione delle Due Sicilie approntata da lui e composta di 89 articoli. Rcalca di fatto sia la Costituzione francese (eccetto nei punti in cui si trattavano le autonomie locali) che la Costituzione belga. La sua Costituzione venne tuttavia criticata immediatamente dai democratici perché non offer sufficienti garanzie di libertà ai cittadini, limita i diritti elettorali su base censuale e lascia al Re ampi poteri discrezionali. Venne escluso dal governo costituzionale di Troya per divergenze sulla politica estera (e contrario alla guerra contro l'Austria). Partecipa invece, come ministro degli Interni e dell'Istruzione Pubblica, al governo Spinelli costituito dopo il colpo di mano di Ferdinando II. Sebbene il suo'intento e quello di mitigare la reazione regia e affrettare il ritorno alla legalità, venne accomunato dall'opinione pubblica nel discredito del governo delle Due Sicilie, nonostante fosse sostituito agli Interni con Vignali per ordine dello stesso Ferdinando II. Si ritira a vita privata avendo come unica fonte di reddito la pensione maturata per essere stato consigliere di stato. Con la conquista del Regno delle Due Sicilie il nuovo Regno d'Italia gli revoca anche questa. Supremo Magistrato e Soprintendenza Generale di Salute delle Due Sicilie, Giornale di tutti gli atti, discussioni e determinazioni della Sopraintendenza Generale e Supremo Magistrato di Sanità del Regno di Napoli. In occasione del morbo contagioso sviluppato nella città di Nola. Napoli: nella Stamperia Reale. Poesie varie. Napoli: da' torchi di Giovanni de Bonis. La strega di Manfredonia. Napoli: Guida. Della imitazione tragica presso gli antichi e presso i moderni: ricerche del cavalier Bozzelli. Lugano: Ruggia. Dizionario biografico degli italiani. Per quanto voglia rifrugarsi attentamente negli annali della filosofia romana, risalendo fino all'epoca in cui la conquista della Macedonia menò con altri a Roma Panezio, e per mezzo di essi fe’scintillare i primi raggi di una positiva coltura filosofica tra quei feroci repubblicani, è difficil cosa il concepire quali sono ivi le origini, quali segnatamente i progressi del concetto del tragico. – CATONE UTICENSE: tragedia? TRAGEDIA PRETESTA – INCORONAZIONE DI POPPEA? LA MORTE DI DIDONE? IL FRATRICIDIO DI REMO? GL’ORAZI E I CURIAZI – MARCO – COROLIANO? L’ASSASSINIO DI GIULIO CESARE? Non possiamo di rettamente giudicarne da ciò che tentarono in questo genere Andronico e Gnevio, Ennio e Pacuvio, i quali precedettero il principato di Ottaviano; perchè le loro opere non sono giunte insino a noi. Lo stesso è a dirsi relativamente a quelle che furono scritte alquanto più tardi, quali, a cagion d'esem pio, furono la Medea di Ovidio e il Tieste di Vario, con altre molte che le ingiurie de' tempi ci hanno ugualmente involate. Questo fatto notabile ci vien però attestato da Orazio, che alla sua età la moltitudine interrompea spesso ne' teatri la rappresentazione di una favola tragica, per chiedere che se le desse invece a spettacolo un combattimento di fiere o una pugna di accoltellanti: ond' egli stimava che ciò scoraggiasse o distraesse i poeti dall'intraprendere quella carriera. Ecco i suoi versi all'uopo: Saepe etiam audacem fugat hoc terretque poetam, Quod numero plures, virtute et honore minores, Indocti, stolidique, et depugnare parali, Si discordet eques, medio inter carmina poscunt Aut ursum, aut pugiles: his nam plebecula gaudet. Il fatto dee tenersi per innegabile. Orazio lo afferma sto ricamente; nè può supporsi ch' ei si piacesse di mentire in faccia a ' suoi proprii contemporanei, ed allo stesso Augusto, a cui quei versi erano indirizzati. Ci vorrà intanto esser per messo di non consentir di leggieri nella induzione ch'egli ne cava, dando quel disordine, vergognoso invero a un popolo incivilito, a motivo di scoraggiamento ne' poeti. È certo che una simile plebecula esisteva pur essa in Atene, quando la tragedia vi nacque; e, gridando d 'impazienza che tal novità non avea niente a fare con Bacco, ella ben avrebbe gradito di veder piuttosto satiri, col volto intriso di feccia di vino, avanzarsi giocondi sopra ornate carrette per divertirla con racconti osceni e con ditirambi da ebbri. Non però Eschilo ne fu smagato. Forte del sentimento ardito che lo ispirava, e della profonda conoscenza che acquistato avea del cuore umano, ei seppe con la occulta seduzione operata da' suoi prodigiosi dipinti, innalzare il popolo insino a lui; e riem piendolo di maraviglia e di stupore, obbligarlo ad accoglier le sue opere co ' più straordinarii applausi, per cosi produrre una rivoluzione istantanea nella maniera di sentire, non già guasta, ma non ancora educata, del pubblico, in fatto di tragedia. E un simil fenomeno fu osservato poco tempo dopo, rela tivamente alla commedia greca. Il basso popolo, avvezzo a udir sulla scena il licenzioso linguaggio Aristofane, e a vedervi rappresentate sconce o grossolane situazioni, benchè sempre condite di un lepore comico ammirabile, mal sofferse che Cratino, cangiando sistema per la ingiunzione delle nuove leggi che miravano a reprimere quello scandalo, gli offrisse a spettacolo più decenti orditi; e un giorno andò fino a scacciarlo dal teatro con tutta la comitiva de' suoi attori. Chi non lancerebbe a piena mano i motteggi e il disprezzo su tanta corruzione di gusto e di costumi? E questo esempio frattanto non valse a scoraggiar Menandro, il quale, creando la nuova commedia, la depurò delle antiche sozzure, e ne fu coperto di lodi. Il popolo adunque s'increbbe non del decoro dell'azione, perchè lo applaudiva in Menandro, bensi del poco senno e della insipidezza onde Cratino, che era un me diocrissimo poeta, si avvisò di adombrargliela: ed era natu rale, se non lodevole, ch' ei preferisse le lascivie che gli te neano sveglio ed ilare il sentimento, ad una decenza freddis sima che lo facea sbadigliar di noia. Or fu il citato disordine che impedi ad un Eschilo di apparire, o non piuttosto la man canza di un Eschilo che suscitò un tal disordine in Roma? Questo problema non è sfuggito' a' critici moderni: e, benchè tutti lo abbiano riguardato da un solo aspetto, e non forse il più sicuro, ciascuno ha pur tentato di scioglierlo a suo modo. Interpretando a capriccio, ed oltre misura esten dendo il frizzo di Orazio, alcuni hanno attribuito quella penu ria di tragici presso i Latini alla grande ignoranza del popolo, il quale, avviluppato nelle sole abitudini di una vita pratica e materiale, non offria stabil presa a' poeti da esaltarlo ad alti concepimenti con lo spettacolo di azioni drammatiche. Altri ha soggiunto che ciò inoltre derivasse dall'affluenza de' tanti stranieri ammessi a cittadinanza, i quali aveano tras formata la città di Roma in un miscuglio informe di nazioni senza omogeneità nelle maniere di credere, di vivere e di sentire. I più arditi alfine, risalendo a cagioni ancor più uni versali, han pensato spiegar l'enigma con la mancanza presso che ivi assoluta di tradizioni eroiche, di abbaglianti remini scenze, di antichità remote, le quali, ricongiungendo l'ori gine delle umane razze a quella delle razze celesti, furono si feconde di nazionale orgoglio e di spontanee ispirazioni presso i popoli della Grecia. Esaminiamo in breve ciò che può es servi di falso e di vero in queste diverse ipotesi. Innanzi tutto, allor che gli eruditi con si franco animo attribuiscono il difetto di tragici ne' Latini alla grande igno ranza del popolo, par ch' essi non abbiano presente di quella storia se non lo splendido periodo in cui le vacche di Evandro ivano mugghiando non custodite per le strade ancor de serte di Roma. Se non che la curiosità dell'osservatore non è suscitata che dal vedere quel difetto continuarsi nel cosi detto secolo di Augusto, il quale vantò storici ed oratori e naturalisti e filosofi e giureconsulti di tanta eccellenza; e pro dusse in breve spazio di anni nobili poesie di ogni genere, se non di conio eccelsamente originale, ritemprate almeno con felicità portentosa e con mirabile forza d'immaginazione. Quando dunque con la parola popolo non voglia significarsi una frazione infinitesima della società, quella pretesa igno ranza in tanto apogeo di coltura intellettuale rimane incom prensibile, come l'idea di un vasto incendio che si súpponga scoppiato senza materie combustibili atte a servirgli di ali mento. Ed a chi volesse limitar l'accusa ad un solo oggetto, domanderei, onde tanta cecità in quel popolo per la ' sola poesia tragica, in mezzo a tanto e si dilicato senso di ammi razione per tutte le altre arti gentili? Noi ignoriamo alle opere drammatiche di qual poetonzolo il popolo impaziente facesse l ' oltraggio di cui parla ORAZIO. Quel si discordet eques, che questi non obblia d'indicarne a motivo, può interpretarsi in tante maniere !.... È certo non esservi memoria che ivi fosse interrotta del pari la rappresen tazione delle commedie di Plauto e di Terenzio: ed è sopra tutto nota la lusinghiera accoglienza che il primo eccitava sempre da parte degli spettatori. Taluno ha preteso che ciò dipendesse dalle troppo libere immagini onde talvolta questo comico solea rifiorire il suo dialogo: ma, non essendo questa libertà da imputarsi al nodo de ' suoi orditi, è poco presumi bile ch'ei fosse unicamente applaudito per l'espressione licenziosa degl’ornati. Senza che il divulgato aneddoto, che un fre mito di assenso e di approvazione universale si levò un giorno nel pubblico, udendo dire a un personaggio teatrale, Homo sum, nihil humani a me alienum puto, prova interamente il contrario: anzi ci dà a divedere di qual gusto squisito e di qual diritto senso morale fossero allora dotate le genti latine; poiché quel motto, riunendo in sė poetica bellezza a filosofica verità, par dettato alle muse latine nella santa scuola di Ari stide e di Focione. In quanto al concorso degli stranieri ammessi a cittadi nanza, per effetto del quale si è voluto far di Roma una Ba bele, in cui per la diversità de' linguaggi l'uno per poco non intendea più l'altro, mi sia permesso di riguardarlo come una esagerazione di dati e di conseguenze ugualmente privi di rea lità. Allor che il dritto di cittadini romani concedevasi a in tere popolazioni, come avvenne a molte del Lazio e prima e dopo lo stabilimento della repubblica, queste non trasmi gravano subito, a guisa di mulacchie, per andarsi ad attendare nel recinto de'sette colli: e allor che si conferiva quel dritto a semplici individui, eran questi ordinariamente principi e magnati che il senato volea rendere a sè benevoli, soffre gando loro quel titolo reputato, come avvenne a tanti celebri Germani, Celti ed Iberi, i quali essi stessi non sempre lascia vano le loro patrie per dimorare stabilmente in Roma. Nella sola classe de servi, il numero degli stranieri era immenso per l'abuso delle conquiste: ma nè il teatro era instituito pe’servi o frequentato da servi, nè la potenza de liberti usciti del loro seno, che infestarono Roma delle loro turpitudini, appartiene al secolo di cui qui si tratta. Una massa di veraci e purissime antiche razze romane esisteva dunque in quel centro di universal dominio, a cui i tragici poteano indiriz zarsi con buon successo: e l'osservazione che siegue ne dará evidentemente la prova. I latini scrittori non ebbero tutti la culla alle falde del Tarpeo; ne vennero dalle diverse regioni d'Italia, e sin dal l'Asia, dall'Africa dalla Spagna: ' e non dettavano al certo le loro opere ne' dialetti municipali o nelle straniere favelle 1 CICERONE, VITRUVIO, ORAZIO, OVIDIO nacquero in quel che oggi chiamasi regno di Napoli: Catullo, LIVIO (si veda), Cornelio Gallo, VIRGILIO (si veda), in quel che oggi chia masi regno Lombardo - Veneto: Plauto e Properzio nacquero nell'Umbria, Sal Justio ne' Sabini, Tacito in Terni, l'ersio in Volterra, Plinio il giovinc in Como: Fedro fu trace, Terenzio cartaginese; e più tardi Columella, Seneca, Marziale, Lucano, furono spagnuoli, ec., ch'essi erano stati avvezzi a balbettar nell'infanzia, ma in quella lingua nobile, purgata, numerosa, che, parlata gene ralmente in Roma, ogni di s’illeggiadriva e si magnificava nelle strepitose discussioni del fòro e della tribuna. Or come spiegar questo fenomeno allor che si niega ivi l'esistenza di un fondo, e di un fondo estesissimo di ingenua romana gente, la quale avesse quella rigorosa omogeneità nelle maniere di credere, di vivere e di sentire, senza cui una lingua nè sì forma, nè s'ingrandisce, nè si conserva? Era dunque per incantar le orecchie de' non Latini, che quegli scrittori avean cura di esprimersi nel più gentile latino idioma? era con la grammatica scarmigliata e con la mozza fraseologia de' Germani, de' Celti, degl'Iberi e de' Britanni di quella età, che si giudicavano meritevoli di elogio le tante sublimi opere di poesia, di storia e di eloquenza che videro ivi la luce? E può mai supporsi composta d'ignoranti o barbari quella folla di popolo che, siccome TACITO narra, uditi un giorno in teatro alcuni versi di VIRGILIO, tutta si levò in piedi con entusiasmo spontaneo, e fecegli riverenza come se fosse stato Augusto? Ne’ teatri di Roma erano stabiliti seggi distinti pe'con soli, pe’ senatori, pe' pontefici, pe' tribuni, pe' magistrati d'ogni ordine e d'ogni specie, e fin anche per le vestali; chè sotto il principato di Tiberio troviamo un decreto del senato, con cui si conferisce a Livia il privilegio di seder tra le vestali negli spettacoli. E dee dirsi che i vecchi sopra tutto li fre quentassero; essendo ivi legge antica, la quale obbligava i giovani, ovunque nelle sale degli spettacoli un vecchio si pre sentasse, a levarsi immediatamente in piedi, e cedergli il luogu per venerazione. Di questa massa principalmente for mavasi colà dunque il pubblico de' teatri: ed a questa massa dovea senza fallo aver Terenzio la mente, allor che asseriva non esser altro lo scopo di un poeta drammatico, se non quello di far gradire al popolo spettatore le favole ch'egli or diva; onde esclamò nel prologo dell’Andriana: Poeta cum primum animum ad scribendum appulit, Id sibi negoti credidit solum dari Populo ut placerent quas fecisset fabulas. Or io ripeto: era per lusingare un popolo di barbari e d'igno ranti che quel Cartaginese mettea tanto studio nel portar la favella de’ Latini al sommo della grazia e dell'eleganza, era per lusingar barbari ed ignoranti che Lelio e Scipione, rino mati a quei giorni per saviezza, per virtù e per credito, con fortavano questo poeta de' loro benevoli aiuti e de’ loro illu minati consigli? È fuor di dubbio finalmente che ad attingere svariate ma terie di rappresentazioni tragiche i Romani ebbero anch'essi dovizia di memorie nazionali ed eroiche; ove guerre di pas sioni, assedi di città, imprese di vendetta, mutamenti di sta ti, ratti di donne, e fratricidi e commozioni e rovesci e ma raviglie di ogni specie si succedono e si confondono ad im prontar di poetica grandezza le più lontane origini di quel popolo. Nè al mio soggetto fa ostacolo che quelle famose tra dizioni siensi trovate spoglie di storica certezza dalla nuova scuola in questo genere, che, aperta dal Vico in Italia, ė stata poi continuata dagli Alemanni. Verità o favole, storie positive o allegorie inventate per vaghezza di portenti, basta per me il sapere che eran generalmente divolgate e facean parte delle credenze pubbliche de' Romani a' tempi della loro intellettuale coltura. Per quanto infatti si tenga oggi per as surda la venuta di Enea in Italia, è pur vero nondimeno, e TACITO non isdegna di attestarlo gravemente, che la famiglia de' Giuli, perché supposta discendere da quel Troiano, si ri guardava di buona fede come del sangue di Venere. Le menti anzi con tal fervore si pascevano di siffatte finzioni, che dopo averle vagheggiate in quei vecchi canti rozzissimi che ne ser barono da prima le oscure reminiscenze, le videro un giorno con applauso universale rinfrescate di si egregi colori ne' qua dri dell’Eneide, la quale può da questo lato considerarsi co me un vasto tesoro delle più remote antichità latine. E se non vi ebbe tra’ Romani quella profusione di celesti discendenze onde i Greci avean abbellite le origini delle loro più insigni razze principesche, pur nondimeno una illusione prestigiosa, capace ivi d'imprimere forte movimento a tutte le facoltà poetiche, preoccupava tenacemente gli spiriti. E fondavasi nell'immagine di Roma, per memorandi oracoli riguardata come potenza eterna, invincibile, dominatrice; in nanzi a cui tutti i popoli della terra doveano tardi o presto piegar la fronte sommessi; che i numi stessi del cielo non aveano forza di abbattere; che la religion civile avea riposta finalmente a simbolo d'immensità fra le tenebre misteriose onde nell’Olimpo era inviluppato lo stesso Destino. Sicché ad un Romano bastava il tenersi parte integrale di questa città per credersi di discendenza più che celeste, e trovar nell'esaltazione di cosi nobile sentimento l'alito animatore di tutte le grandi imprese nelle arti della pace, come in quelle della guerra. E a far della tragedia una creazione indigena, oltre all'abbondanza delle loro nazionali antichissime vicen de, oltre a quel fermento di orgoglio che l'immagine di Roma suscitava in tutti, i Romani ebbero il medesimo o pri mitivo impulso che per facili associazioni d'idee la fe ’ nascere dalle feste di BACCO ne' Greci; avendo pur essi posseduto in certa guisa i loro Epigeni e i loro Tespi negli autori di quelle rinomate favole Atellane, che veniano rappresentate sopra palchi ambulanti nelle pubbliche solennità. Rimosse adunque come false o mal distinte le spiegazioni addotte sinora intorno all'oggetto che ci occupa, e sino a quando da’ricercatori dell'antichità non ne sieno poste innanzi delle meglio fondate, a me non resta che di attenermi al nudo fatto, quello cioè che grandi e veri tragedi mancarono assolu tamente a Roma per trasportar l' animo anche de' più ritrosi nella sublimità di questo genere di produzioni; e non conve nir quindi trattar con troppo di asprezza il popolo che osò far sene beffe. Nè poi questo fatto è realmente unico: chè lo veggiamo più volte ripetuto nella storia delle lettere moder ne. Or domando: trovandoci spiacevolmente arrestati dalla penuria di siffatte opere presso i Romani della età di OTTAVIANO, scenderemo noi ad attinger ivi contezza di quest'arte dal solo teatro di Seneca, apparso in tempi ne'quali, non che annien tata ogni reliquia dell'antica virtù, libertà ed altezza di so ciali condizioni, la stessa lingua che risonò con si dolce fre mito ne’versi di Catullo e di Orazio, di Lucrezio e di Virgilio, cra caduta quasi che pienamente nel fango? In verità, se per avventura il popolo romano potesse risorgere alcun poco da quel sepolcro che si erge smisurato al par di lui nella immensità de' secoli, e ricollocarsi gigante qual era nel periodo della sua letteraria grandezza, non so se oserebbe assumer senz' onta titoli di gloria per l'arte tragica, indicando unicamente codesto suo retore famoso, che rubò non saprei donde la maschera di Melpomene per introdursi sconosciuto nella schiera degli eminenti e benemeriti cultori di lei. Eppure, avendo egli acquistata una celebrità che nel suo genere assomigliasi di molto a quella di Erostrato, non è più concesso a' di nostri di tacerne, senza destar maraviglia ne' più timorati. Ognun rammenta che il Corneille, il Racine e l'Alfieri, benchè, grazie alla dirittura delle loro menti, uscissero incontaminati dalla compagnia di questo autore, non però sdegnarono di corteggiarlo: ognun rammenta che fra quei veterani dell'erudizione classica, i quali dal decimoquinto secolo in poi attesero con si lunghe vigilie a impinguar di chiose, di comenti e di elucubrazioni d'ogni specie tutte le opere de' Latini, i più valenti si fecero suoi campioni. Ma vi è alcun lume a trarre dall'autorità di questi ultimi, quando noi li veggiamo per troppa carità di patrocinio avvolgere i loro panegirici in mille ampollose stranezze, e storti giudizi; e contraddizioni evidentissime? Eccone in breve alcun passeg giero esempio. Giulio Cesare Scaligero sostiene che le tragedie di Se neca non sono per maestå in nulla inferiori a quelle di tutti i Greci, e che anzi per ornamenti e per grazia superano di molto le tragedie di Euripide. Questa bestemmia, uscita francamente dal labbro autorevole del patriarca de' dotti, non fu combattuta nel suo general dettato: ma i confratelli di lui della medesima scuola non si peritarono d'indebolir la, accapigliandosi bizzarramente fra loro per emendarla ne' particolari. Non si può senza rimanere attoniti percorrere quel che ne scrissero a vicenda Giusto Lipsio, Daniele Einsio, Giuseppe Scaligero, ed altri moltissimi che sarebbe infinito il citare. Uno trova la Tebaide si bella da crederla degna del secolo di Augusto; l'altro prendendo scandalo di questo giu dizio, la estima indegna della stessa penna di Seneca. Questi antepone la Troade a quanto sul medesimo argomento ci ha uno, di più alto fra i Greci; quegli la dichiara bruscamente opera di un poeta da bettola. Qui si esalta come magnifica l' Ottavia; lå si deprime come la più vil cosa della terra. E avvisi di tal sorta, non pur diversi, ma del tutto opposti fra loro, baste rebbero da sè soli a spandere il discredito su quel teatro: pe rocchè il bello è come il vero; e la natura doto gli uo mini, con più o meno di piezza, ma indistintamente tutti, della facoltà di scernerlo dovunque splende: sì che dissen sioni cosi risaltanti non possono altrimenti spiegarsi, che at tribuendole tutte a un inesplicabile delirio. Noi non vorremo a ogni modo, usando di un metodo che il buon senso condanna, nè accoglier cieche prevenzioni con tra il teatro di Seneca, sol perchè i giudizi che se ne fecero da molti sono fra loro contradittorii; nè cercar troppo innanzi ne'motivi da cui que' giudizi medesimi derivarono in tempi ne' quali era vastissima l'erudizione, ma non ancor nata la critica. Astretti a parlarne un po' minutamente, non foss' altro per indicarlo a' giovani poeti come uno scoglio fu nesto, a cui senza pericolo di naufragio non è lor permesso di avvicinarsi, il nostro cammino intorno a questo autore sarà più spedito e più breve. Indagheremo da prima di qual tempra fossero le potenze costitutive del suo ingegno, le tendenze morali che il dominavano da presso, le filosofiche dottrine ond’ era inflessibilmente preoccupato, e qual necessaria in fluenza esercitassero le particolari circostanze del secolo in cui visse, a rafforzare ed estendere queste predisposizioni del suo essere. Scendendo in seguito all'esame imparziale de' fatti, ci avverrà forse di scoprire ch ' ei fu il discepolo ingegnoso nelle cui mani ebbero sviluppo ed incremento i germi delle innovazioni di cuiEuripide fu l'inventore; e ch'egli pervenne ad esagerarle ne' più strani modi, a crearne delle più mo struose ed ardite, ed a svolger cosi l'attenzione pubblica dalle originarie bellezze ond'Eschilo e Sofocle aveano rivestito que sto ramo dell'arte. In assai fresca età SENECA era stato condotto di Cordova sua patria nella capitale del mondo; e correano forse gli ultimi anni del regno di Augusto. Vi fece i suoi studii sotto la dire zione di quei celebrati retori e filosofi, i quali prendeanvanto d'insegnare a'loro allievi tutte le scienze umane e di vine: concutiebant foecunda pectora, ut inde omnigenas cogitationes exprimerent. Dotato di uno spirito severo, vi goroso, penetrante, abbracciò le dottrine della setta stoica che ancor predominava in Roma; dedicossi alla carriera del fòro, ove acquistò riputazione di felice oratore, e mancò poco che un tal successo non gli riuscisse funesto, perchè suscitò le gelosie del frenetico Caligola. Fu avido di gloria e di sape re; ma e altresì di onori e di ricchezze; e a procacciarsi que st' ultimo intento gli era mestieri di un mecenate. Ne trovo uno efficacissimo in Domizio Enobarbo, rinomato a quei tempi per credito e per potenza, perchè del sangue de' Cesari: ed è fama che Seneca gli pervertisse la moglie, quasi a dargli un pronto attestato di riconoscenza per la protezione ottenutane. Se non che la nerezza di questo attentato pare attenuarsi nel rammentare che quella moglie fu Agrippina, il cui nome non venne mai registrato per avventura nel novero delle vestali: tal che non può determinarsi con sicurezza s'ei fosse il sedut tore o il sedotto. Ne’primi anni dell'impero di Claudio, accusato da Messalina di aperta complicità nelle turpitudini di Giulia, nipote di quel principe, fu esiliato duramente in Corsica, fosse vera o non vera la sua colpa. Ivi compose il suo libro de Consolatione, in cui adulò bassamente l'imperadore, e lo indirizzò a un costui favorito liberto, perchè quei servili omaggi non si restassero ignorati e senza effetto: il che non impedi che più tardi, non avendo più cagioni da temerne, gli scrivesse contro una velenosissima satira. Non si potrebbe definir net tamente s'ei mentisse innanzi alla sua coscienza quando pro fuse le lusinghe o quando scagliò le ingiurie: è certo che, toccando in cosi brusca guisa i due opposti estremi, non mo strò di avere un culto troppo edificante per gl'interessi della virtù e della verità. Intanto Agrippina avea lanciato l'inco modo marito nella eternità; e, divenuta sposa di Claudio suo zio, dopo l ' uccisione di Messalina, sua prima cura fu di ri chiamar Seneca dall'esilio. Reduce in Roma, ei fu accolto festosamente in corte, decorato delle insegne pretorie, e dato a precetlor di Nerone, il quale tenne a fortuna il poter apprendere da tanto maestro le scienze morali, le lettere genti li, e l'arte di regnare, a cui Agrippina sua madre occulta mente lo destinava. Ignoro quai progressi facesse quel giovinetto eroe nella pratica della virtù: so che non ne fece molti nelle lettere, perchè fu pessimo poeta e scrittor da nulla: e si segnalò solo nella perizia del canto e della musica, che non gli furono cer tamente insegnati da Seneca. Quindi è che, proclamato impe radore ad esclusione di Britannico, più prossimo erede del trono, bisognò a Seneca dettargli le orazioni, le lettere, i re scritti da recitarsi o da inviarsi al senato: e divenne questa per lui una nuova sorgente di gloria, essendosi divulgato in Roma che que' lavori eran suoi, e che Nerone parlava imboc cato. La voluttà che egli traea da questo genere di distrazioni intellettuali, si trasformò subito per esso in cosi dolce abitu dine, che, avendo quel pietoso principe ucciso prima il fra tello e poi la madre, ei non seppe resistere al solletico di scri verne le apologie da comunicarsi a’ Padri, in nome di lui: e non già ch'egli approvasse quei misfatti, ciò disdicendosi a filosofo; ma per non defraudar forse il popolo romano di una elegante perorazione in favor del fratricidio e del matricidio. Si può comprendere quanto ei si rendesse caro al suo augusto allievo per cotai servigietti, a ' quali aggiugnevansi quelli di essergli sempre intimo consigliere nelle alte cure dello stato, e talvolta per indulgenza verso la troppo fragile gioventù, anche mezzano in qualche intrigo d'amore con le sue liberte. Fu quindi colmato di ricchezze, che Tacito porta fino a trenta milioni di sesterzii; si fabbricò magnifiche abita zioni in villa ed in città; tolse in isposa la bella Paolina; e cercò di obbliare nell'opulenza i dispiaceri che gli cagiona vano i piccoli traviamenti a cui Nerone lasciava di tanto in tanto trasportarsi per eccesso di zelo in vantaggio del buon [Fu alla morte di Claudio, che Seneca, immemore de' mendicati favori, onde questi lo avea ricolmo, gli detto contra, sotto il titolo di Apocolokintosis, la satira di cui è detto pocanzi. Fa meraviglia che Agrippina potesse in questo li bello veder con tanta indifferenza smascherate le brutture di una Corte, di cui essa era l'arbitra. Ma vi si parlava della grand'anima di Nerone, il quale dovea succedere al defunto principe, come il più degno: e ciò spiega tutto l'enigma.ordine; traviamenti che Seneca vedea col medesimo occhio del suo collega Burro, morens et laudans. Non per ciò i suoi principii stoici cambiarono d'indole; anzi si tennero sempre incontaminati. Nuotando nelle ricchezze, scrivea su di una tavola d'oro con uno stiletto di diamante massime nobilissime in lode della innocente povertà: e, ritraendosi dalle stanze di Nerone, opere della più pura morale sgorgavano dalla sua intelligenza ad esaltare i preyi- della virtù e dannare il vizio all'obbrobrio de'secoli. Ma era Seneca veramente stoico? Intendiamoci. La filo sofia stoica fu coltivata in Atene nella sua parte teorica e nella sua parte pratica. Que' savi che la professavano, aspirando a un cotal sommo bene di cui si erano formata un'idea miste riosa, spregiavano gli onori, le ricchezze, le delizie della vi ta, e viveano intemerati e paghi solo di quell'interno con tento che vien luminoso e spontaneo da una coscienza in pace con sè medesima. Da gran tempo era stata introdotta in Ro ma; e, per analogia di abitudini austere, vi fiori pura e splendida fino alla morte dell'ultimo Romano, il quale bestem miando la virtù per impeto d'indignazione, parve segnar quasi direi il cominciamento alla decadenza di quelle famose dottrine. La filosofia pratica di Epicuro, se non pur forse quella di Aristippo, sottentrava destramente a tenere il cam po: e ad assicurarle il trionfo concorreano tutte le volontà, quantunque per diversi motivi: chè quell' efferato Governo aveva interesse di evirar tutti gli animi con la corruzione, per comprimere gradatamente le forze politiche dello stato, e cosi dar base alla concentrazione di un poter unico ed assoluto: ed il popolo avea bisogno di sommergersi in tutta l'ebbrezza de' piaceri sensuali per non sentir l ' acerbo contrasto fra una servitù divenuta inevitabile, e una libertà, che, di fresco spenta, non erasi ancor tutta obbliata. Per quanto però la depravazione de' costumi fosse gene rale e progressiva, le rimembranze della filosofia stoica non erano poi del tutto cancellate: ne restavano ancora le teorie astratte, i pomposi dettati e l’esteriore affettazione de’modi: e quei ne faceva più solenne apparato che più tendeva precipito samente a seppellirsi in tutte le iniquità della vita domestica e sociale. Pur nondimeno, quando sotto i successori di Augu sto le persecuzioni inferocivano, e Roma erasi trasformata in un miserando teatro di stragi e di rapine, lo stoicismo parve risorgere a metter vigore negli animi per un solo oggetto il disprezzo della morte. Il suicidio, quest'atto si altamente riprovato dalle più sante leggi della natura e della religione, rivesti la falsa maschera di una virtù, che per nuove malva gità di tempi fu abbracciata da moltissimi. Da prima fu ispi rato da tenerezza paterna. Le condanne per imputazioni poli tiche importavano la confisca de’ beni a vantaggio de’delatori: ma il senato pendeva per la regola che un individuo non per desse il suo patrimonio, quando preveniva la condanna con morte volontaria: si che, appena un Romano sentivasi accu sato, si affrettava subito ad uccidersi, per non gittare i suoi figliuoli nella miseria. E non vi era da nutrire speranze illu sorie; perché la semplice accusa era in quei tempi una sen tenza di morte. Tiberio contraddisse; dimostrò al senato esser quella una regola scandalosa ed assurda; sarebbe mancato co' premii il coraggio a' sostegni dello stato; e intendea con questo nome indicar le spie e i delatori. Questa prima cagione di strutta, non però i suicidi diminuirono in numero ed in fero cia: restava un altro non men potente motivo a renderli po polari ed onorati: quello cioè di sottrarsi all'infamia di cadere sotto la scure del carnefice. Accesi da questo sentimento che rammentava i bei giorni della romana fierezza, vedeansi uo mini, rotti ad ogni perversità, morir da forti dopo esser vi vuti da vili. Le storie latine son piene di siffatte risoluzioni che imprimono un particolar carattere di sopraumana costanza a quei popoli, e di cui non vi ha che pochissimi esempi presso gli altri popoli dell'antichità, anche de'più famosi e magna nimi. Erano anime maschie, gigantesche nelle virtù come ne' delitti, che riunivano in sè tutti i contrari: nobili pre cetti, azioni scelleratissime, vite degradate, morti eroiche e generose. Seneca fu stoico in questo senso, perchè in que sto solo senso lo furono tutti i suoi contemporanei. Or cer chiamo di ritornare al nostro proposito con un'altra general considerazione, che metterå suggello a tutte le precedenti. ne, La fantasia non può supporsi disgiunta dagli affetti, dalle opinioni, dalle abitudini dell'uomo: chè anzi questa facoltà non sembra attinger vita se non dal concorso di tutti i feno meni sensitivi, i quali agiscono in essa per conferirle tempra e serbianze analoghe, e su i quali essa reagisce dal suo canto ad estenderne e rafforzarne l'indole: si che, immedesimati in un sol tutto indivisibile, rivestono in comune caratteri, at titudini e colori identici. Un essere morale non si forma inol tre da sè solo e indipendentemente dagli altri esseri di simil natura che lo circondano. Rarissimi sono i casi, ove pur ve ne abbia di positivi a citarne, in cui un uomo, ergendosi come gigante isolato sulla terra, ben altro che ricevere la menoma impronta dalle condizioni de' suoi tempi, sembra de stinato a comunicar loro le sue proprie fattezze, e a divenirne a un tratto l'arbitro e il modello. Nelle ordinarie occorrenze della vita, l'uomo, considerato sotto tal rispetto, può dirsi come il lento prodotto dell'azion progressiva che in esso eser cita il secolo in cui si trova; onde, ritrattane in sé l'immagi ei lo rappresenta al vivo nelle sue moltiplici maniere di vivere e di sentire. Seneca, non ostante il suo fortissimo e riflessivo inge gno, era precisamente di questa tempra; e non avea in se nulla di straordinario che lo rendesse capace di luttar con le circostanze per imprimer loro una direzione più alta. Mancava sopra tutto di quel carattere d'indipendenza che la storia ci mostra come dote inerente a tutti i grandi poeti. La condotta che ei tenne con Claudio lo prova; e in quella cheadottò con Nerone, vi è peggio. Non arrossendo in prima di asserire che Nerone col suo regno lietissimo avea fatto obbliar quello di Augusto, andò poi sino a chiamarlo amantissimo della veri tà, modello d'innocenza, benevolo e clemente a'suoi stessi nemici: e non seppe scuotere la polvere de' suoi piedi, e ri trarsi da quella fogna di nequizie, se non quando la morte violenta di Burro gli fe' prevedere la sua, e sentir la neces sità insuperabile di rassegnarvisi. Quindi la sua fantasia, svi luppata e quasi direi nutrita in mezzo a tante nefandigie, non poteva esser troppo abile a sfangarsene per trasportarsi in altri elementi, e vagheggiarvi la creazione dal suo lato pill splendido. Egli stesso par che fosse ingegnoso a spezzarne le ali con quella sua trista inclinazione ad ammassar tesori: per chè lo veggiamo accusato in Tacito di rapace, e in Dione di prestatore ad usura. E se queste imputazioni son false, con vien dire almeno che il suo procedere fosse tale da dar facile presa a simili calunnie. Basterà dunque collocarlo nella sua propria sfera per riassumere in brevi detti quali esser potessero le disposizioni del suo spirito nell ' intraprendere la carriera tragica. Vide i principati di Tiberio, di Caligola, di Claudio e di Nerone: e questo nobile quadrumvirato non era certamente fatto per ispi rargli nozioni troppo rallegranti sulla dignità della natura umana. Ovunque ei volgesse lo sguardo, non iscopriva che orrori; e profondo indagatore qual erasi delle più occulte pas sioni del cuore, non ravvisava intorno a sè che depravazione di sentimenti, sete d'oro e di dominio, tendenze alla ven detta ed alle stragi, tanto da non poter egli rappresentarsi l'uman genere, se non come una congrega di mostri, bale strati sulla terra dal genio del male, perchè vi si divorassero a vicenda. Preoccupato quindi come attore e come spettatore più nella conoscenza degli uomini che in quella dell'uomo, egli dovea per necessità sentirsi tratto a rigettare in un mondo d'illusione ogni specie d'infortunio, che, derivante da for tuiti casi, potesse rannodarsi poeticamente alla segreta in fluenza di una fatalità invisibile: e a non veder quaggiù di positivo e di reale se non delitti e virtù in contrasto, carne fici e vittime in azione, e sempre il più debole schiacciato con perfidia o con violenza dal più forte. Non altrove in fatti che su queste basi egli attese ad innalzare il suo tra gico edifizio. Determinata cosi l'idea fondamentale che dovea servir di unico anello agli orditi, era geometricamente inevitabile che a riempirli con analoga successione di parti, gli fosse pria d'ogni altro mestieri di spingere ancor più oltre il sistema di conferire intensità concentrata alle situazioni, a' caratteri ed agli affetti, onde in tal guisa tutto concorresse ad isolar le im magini per rappresentarle ne' loro nudi e più rilevati contor ni. Quindi nelle sue sceniche figure vi ha sempre, se cosi è permesso di esprimersi, un esagerato lusso di anatomia, ed una secchezza di commessure che colpisce e non incanta: nulla è in esse tracciato sopra linee ondeggianti, ove l'occhio possa riposarsi con equabile digradazione di movimenti; nulla è la sciato ad arte nelle ombre da esser supplito dalla fantasia dello spettatore. La materia de' suoi componimenti, definita per ciò appunto sin da' suoi primi sviluppi con metriche dimensioni, e le più volte attinta più da' tesori della scienza che da quelli della poesia, non poteva allora che rivestire forme rigide, scarne e prive di calore e di vita; perché non si riferiva ad alcuna flessibile immagine che dominasse da lunge a spander vaghezza ed armonia di variati colori ne' suoi dipinti. E ciò spiega nettamente il biasimevole abuso che ei fe'de' monologhi, in cui talvolta si avviene a comprender l'esposizione intera di una tragedia. Il monologo è certamente in natura. Quando le passioni fermentano, l'uomo si piace a disvelare a sè stesso i sentimenti da cui la sua anima è coster nata; e riesce così a comprimerne o a rinfiammarne l'impe to, secondo che la ragione esercita in esso un impero più forte o più debole. Ma questa rivelazione ha pur essa le sue leggi rigorose ed inviolabili. Perché abbia luogo, bisogna che in quel momento gli affetti si trovino in un certo stato di equi librio e di moderato temperamento che loro permetta di rive stir forme possibili di linguaggio. Per l'opposto, le passioni attualmente in tumulto sono mute; perchè aggorgandosi con veemenza per le vie dell'anima, la rendono incapace di espan dersi di fuori e di manifestarsi con altra eloquenza che con quella di un convulsivo silenzio: sopra tutto quando esse son prossime a risolversi in atti esterni, perchè allora si opera e non si parla; e l'azione scoppia in tanto più spaventevole, in quanto fu meno preceduta da quella loquacità importuna che l'annunzia più romorosa che devastatrice. È sol quando mo strasi grave di calma passeggiera e bugiarda, che la tempe sta minaccia una più desolante rovina. A ciò si aggiunge che la rivelazione degl ' interni affetti è propria dell'infelice e non del colpevole: poichè il primo, as sorto ne’dolori che gli vengono da vicissitudini accidentali ed estranee, sembra ne' suoi solitari lamenti voler interrogare Dio e l'universo intorno alla cagione de' suoi infortuni; dove il secondo, il quale opera per impulsioni di volontà consapevo le, apprestasi a compiere il meditato delitto, ma rifuggendo sempre dal trovarsi troppo in presenza del suo delitto; altri menti se gli solleverebbe la coscienza, e le più volte sarebbe distolto dall'iniquo disegno diconsumarlo. Quindi avviene che in questo ultimo caso il personaggio è tratto sovente a discor rere con sè stesso, non di affezioni, ma di avvenimenti: e questo in poesia drammatica è un assurdo; perchè gli avve nimenti sono di loro essenza inalterabili, e, considerati nu damente in sè medesimi, non ribollono mai nell'anima a segno da indurci a rivelarli partitamente a noi stessi per alleviarne il peso. Or si osservino da presso i monologhi di SENECA: sono spessissimo declamazioni fuori natura, det tati da intemperanza prosuntuosa di far pompa di parole, o di narrar fatti che il poeta non sa rinvenir mezzi migliori da comunicare al pubblico; e agghiacciano la immagina zione, perchè interamente privi di convenienza e di verità poetica. Si richiedea l'occhio penetrante di Aristotile per disco prire che in Euripide i cori deviavano talvolta dalla loro bel lissima ed originaria istituzione; ma non vuolsi tanto corredo di sagacità per discernere ne' cori di Seneca un simile difetto; perchè vi è portato sconciamente all'estremo, e snatura l'in dole di questa preziosa macchina teatrale per cosi ridurla scientemente ad un vano frastuono di cantici estranei all'azione rappresentata. Sono ivi d'ordinario introdotti a tener veci di sinfonie per indicare i trapassi da un atto all'altro; e quindi senza alcun legittimo scopo in quanto al fondo dell'arte; se già non fosse per dar pretesti all'autore di sfoggiar la sua abilità nella lirica. Nè vorrò qui ripetere a lungo quanto dissi nel precedente capitolo intorno alle cagioni che spogliarono il coro tragico, si efficace ne' due primi Greci, di ogni specie di drammatico prestigio. Basti aver sempre innanzi agli occhi, che questo era un danno inevitabile per qualunque poeta, il quale, pari al tragico latino, tendesse unicamente verso un genere di immagini esclusivo di ogni conforto di pompa e di espansione. Non potendo io cessar mai d'insistere sopra un oggetto che reputo importantissimo, mi sia dato di riassumerne per un'ultima volta il senso. Lo spettacolo delle sventure, dipendenti da' casi della vi ta, eccita, per l'infelice che ne soffre, una serie di compas sionevoli simpatie, le quali si prolungano di là da' recinti del teatro, e si risvegliano con forza tutte le volte che noi ci fer miamo a riflettere sul nulla della condizione umana: per con seguenza i cori riescono splendidissimi ed utili a preparare, ad accendere ed a protrarre quelle tumultuose affezioni che il poeta seppe far nascere in altri. Per l'opposto, lo spetta colo della distruzione del più debole derivata dalla malvagità del più forte, eccita meno simpatie di pietà per l'oppresso, che sentimenti di abbominio per l'oppressore: e queste non son durevoli, perchè richiamano a non so quale immagine di desolante necessità, la quale concentra l'anima in sè stessa, e non lascia luogo alla fantasia di svagare in alcuna idea di possibilità che la vittima avesse potuto sfuggire al carnefice: quindi allora non vi è alcun partito a trarre dall'intervento de' cori; perchè le passioni odiose non han nulla di effusivo da esigere imperiosamente che si dispongano personaggi in termedi per farle passar con rapidità e veemenza nell'animo degli spettatori. Non vi ha dubbio esser questi propriamente difetti che appartengono alla sola esecuzione: ma io non mi sono tratte nuto alquanto ad indicarli, se non perchè li veggo suggeriti dalla stessa particolare idea che l'autore si elesse a guida, ed a cui si ricongiungono strettamente come necessari effetti di una cagione aperta ed immutabile. E non da altro fonte derivò pure quello smisurato lusso di motti, di sentenze e di arguzie, di cui Seneca si piacque d'ingemmare con tanta pro fusione le sue tragedie, le quali da questo aspetto rassomi gliano ad una collezione di aforismi spessissimo empi e sto machevoli. L'asprezza delle situazioni si presta difficilmente ad una calda ed espansiva magniloquenza; e sembra esigere di siffatti modi saltellanti di linguaggio, che dieno scolpiti ri salti ad attitudini si rigorosamente stentate. Nè gli era biso gno di molta tensione di spirito per rinvenirne in abbondan za: bastava frequentar, come lui, le anticamere de'potenti, per ammassarne de' più spaventevoli, si veramente che ne' suoi personaggi vien rappresentata piuttosto la natura de' Latini de' suoi tempi, che la natura umana in generale: e in cotal guisa perdė fin anche il merito della invenzione. Procuriamo di somministrarne in breve una prova. Quel suo celebre si recusares, darem, dato in risposta da un principe malvagio a chi gli chiedea la morte per uscir di tormenti, non è in sostanza che il feroce motto di Tiberio, il quale osò dir freddamente a coloro che gli domandavano in grazia di far perire un Romano ch'ei perseguitava: Adagio; non l'ho ancor perdonato. Quel detto del suo Atreo: Mise rum videre volo, sed dum fit miser, appartiene di diritto a Caligola, il quale prendea diletto ad assister personalmente alla tortura delle sue vittime, per pascere i suoi sguardi nel veder messe in pezzi le loro membra: e sdegnavasi contra i car nefici che non erano abbastanza lenti nella esecuzione de' loro nefandi incarichi: e Seneca dovè udirlo più volte dallo stesso Nerone, il quale non ordinava l ' assassinio di un infelice, se non dicendo à' suoi satelliti: Fategli sentir la morte; tal che nella congiura di Pisone un suo sgherro si vantò di aver tronca la testa di un cospiratore con un colpo e mezzo. Quell'ini quo tratto della sua Medea, Perfectum est scelus — vindicta nondum, era l'espressione favorita di tutti mostri che da Silla in poi aveano insanguinato Roma. Se si confrontassero alfine le sentenze di Seneca con quelle qua e là rapportate da Tacito e da Svetonio, si troverebbe ch'esse in gran parte sono di origine storica, più che formate dalla sola riflessione del tragico. Nė la ricca merce che in questo genere gli offrivano i suoi contemporanei, gli era pur sufficiente: spigolava ne' Greci at tentissimo; e dovunque scorgea una massima atroce, era in gegnoso ad annerirla più oltre per appropriarsela. Euripide, a cagion di esempio, fe’ dire ad Eteocle nelle Fenisse, che se per possedere un trono bisognava violar la giustizia, era pur bello il divenire ingiusto: massima che il buon Cicerone dolevasi di udir sempre ripetere da Cesare, come se Cesare avesse potuto aver massime di diversa specie. Ma Seneca la trovò gretta e leggiera: una semplice violazione della giustizia avea per lui certo che di vago e d'indeterminato che non rilevava troppo l'orrore della immagine: gli bisognò quindi ritoccarla per darle maggior precisione; e fe' dire più netta mente a Polinice: Pro regno velim patriam, penates, coniu gem flammis dare. Per la patria e i penati s'intende; rap presentano il capro espiatore di tutte le colpe d'Israele: ma quella povera Argia che gli avea somministrato un esercito floridissimo, avrebbe mai potuto credere che il tenero marito fosse disposto in ricompensa a gittarla tutta vivente nelle fiamme per ottenere un trono? Non per ciò Seneca mancò sempre di altissimi dettati. Quel Siste ne in matrem incidas, profferito dal cieco Edipo, allor che dopo la morte di Giocasta ei brancolando cercava una via per uscir di quella reggia contaminata, esprime un terror profondo di cui è difficile immaginar l'eguale. Si è tanto ammirato quel Medea superest, imitato in seguito con tanta felicità dal Corneille: ma ne' frammenti che di lui ci ri mangono delle Fenisse, vi è un tratto di simil natura che a me sembra non meno poetico ed eloquente. Antigone, per metter calma nell' esule padre, gli dice affannosa: nell' uni verso intero che più ti rimane a fuggire? Me stesso, risponde Edipo con fremito disperato. Ed è immagine bellis sima, perchè disvela come lampo tutta la tremenda condizione di quell' infelice famoso. Nella stessa tragedia, Edipo, volendo nell'eccesso del suo delirio uccidersi, sollecita Antigone a porgergli il ferro col quale ei versò il sangue paterno; ed ac cortosi del silenzio di lei, esclama con impeto: hai tu quel ferro, o i miei figli lo han conservato per essi con la mia corona? E questa terribile e veramente tragica idea riceve lume dagli amari motteggi, ond' ei riversa le sue imprecazioni sugli empi fratelli, che, dopo averlo bandito del regno, sel contendeano fra loro con le armi: Me nunc sequuntur: laudo et agnosco lubens..... Exbortor aliquid ut patre hoc dignum gerant. Agite, o propago clara; generosam indolem Probate factis..... Frater in fratrem ruat.... Ciò prova senza equivoci che, almeno nel linguaggio, Seneca non mancò al certo di bei momenti di forza. Ma che va le? È forza d'un ingegno fantastico ed intemperante, che non conosce modi, non ammette leggi, e confonde spesso il su blime con lo strano. Perocchè talora, imbattendosi in un alto concepimento, non gli giova esprimerlo d'un sol tratto; ei vi ritorna le mille volte, lo stempera in mille diverse guise, ne amplifica le forme con mille ricercati contorni, ed an nientando gli effetti di prima impressione, produce sazietà e disgusto: tal altra, per troppa smania di dire e di ripetere e di girar lungamente intorno ad un medesimo dettato, inciampa senza far colpo, e va sino a render puerili e ridicoli i più tra gici caratteri; perchè le immagini di spavento ch' ei cerca di eccitare, si risolvono allora prestamente in concetti ed in arguzie di spirito, e da'concetti e dalle arguzie si passa a poco a poco a vere scene di farsa. Nè vi ha uopo d'indagarne al trove la cagione che in quella perenne boria di mostrarsi nuovo ad ogni costo, e di prender dagli aridi campi di una prevenuta intelligenza quel che non sa troppo facilmente rin venire ne' regni fertilissimi di una spontanea immaginazione. Siemi concesso di trarne un solo esempio dalle medesime Fenisse. Edipo annunzia di voler morire; ma non per le ragioni che altri per avventura supporrebbe: ama le tenebre, e desi dera procurarsene di foltissime nella notte del sepolcro, per chè quelle della sua cecità non gli sono abbastanza profonde. Antigone piange in udir questa risoluzione; non si costerni dunque l'amata figlia; non più si muoia; eidecide di piantarsi ritto sul pendio di una rupe a proporre indovinelli a’ viandanti. A questo nuovo disegno le lacrime di Antigone si aumenta no, perchè vede allora nel padre, non più indizi di cordoglio, ma di demenza; si consoli dunque la infelice, non si rinnovi la storia della sfinge. Si crederà forse ch'egli le promet tesse di sopportar con dignità e rassegnazione la sua sventu ra? No: per render la calma a quella sconsolata donzella, e darle ampio attestato della sua riconoscenza, ei le offre di volere a un cenno di lei traversare a nuoto l’Egeo, e andare a raccogliere nella sua bocca tutte le fiamme dell'Etna. Hic OEdipus ægæa tranabit freta, Jubente te; flammasque, quas siculo vomit De monte tellus igneos volvens globos, Excipiet ore. Or non doveva essere per Antigone un gran principio di con forto, udendo il cieco padre che per diminuire le angustie di lei vuol mostrarle di possedere il coraggio di Leandro e i pol moni di Encelado? Seneca finalmente sentiva in astratto, che non è poesia dove non è pompa d'immagini; e che la stessa semplicità, piuttosto che nuocere alla pompa, concorre a renderla più splendida e più evidente. Se non che obbliava che questo in dispensabile pregio di esecuzione prende la sua prima radice nell'indole stessa del soggetto, il quale spontaneamente la produce, come fiore ingenerato dal successivo sviluppo del germe che ne contiene in sè le forme vaghissime, benchè in visibili all'occhio nudo: ond'è che dove il soggetto non ne somministri gli elementi, il poeta si studia invano di crearla per sua sola opera dal nulla; specialmente allor che le dispo sizioni del suo animo lo traggono ad abbandonar le illusioni della fantasia per tutto concentrarlo nella sollecitudine di sfog giar dottrine e di annerir la natura. La sua infatti riesce sem pre pompa di esteriore apparenza, 0, per dir meglio, pompa sovrapposta e forzata, che, non ricongiungendosi per alcun legame al fondo dell'idea, degenera sovente in apertissima stravaganza, e vien come clamide imperiale, che, gittata sulle spalle di un satiro, contribuisce meno ad abbellirlo, che a farne risaltar più oltre la villana difformità. Ne addurremo più giù gli argomenti di fatto incontrastabili. Ei tolse tutti i soggetti delle sue tragedie dalla mitologia greca; nè l'Ottavia fa eccezione, perchè ormai gli eruditi convengono non esser sua. A raggiugner però quelle situa zioni richiedeasi il volo dell'aquila; ed il tragico latino avea per avventura un manto di piombo ancor più grave di quelli che Dante pone addosso a una schiera di dannati. Per valu tarne il merito in complesso, giovi poter distinguere anche in lui tre diverse maniere di concepire e di dipingere i suoi qua dri. Allor che il soggetto era di tal condizione fitta ed invariabile ch'egli non potea da verun canto cangiarne l'idea pri mitiva, s' industriava di farne un'amplificazione da collegio, e di acquistare in una specie di morbosa gonfiezza quel che dovea necessariamente perdere in forza ed in elevazione: e fu questo particolarmente il caso dell'Edipo. Quando alcuna materia se gli offriva da esagerare a suo modo l'immagine del delitto, ei sentivasi nel suo vero elemento a dar libero corso alle sue predilette tendenze: e ne diè prova nel trattar la Me dlea. Piacendosi alfine di spingere all'estremo la dipintura delle atrocità meditate, riprodusse il Tieste, quasi a chiuder la strada che altri confidasse di sorpassarlo in questo mo struoso genere. L'esame analitico di queste tre sole fra le sue tragedie giustificherà quanto finora si è detto intorno alla in trinseca tempra di questo autore. Edipo. Se un contagio sterminatore non si fosse ma nifestato in Tebe, che obbligo di ricorrere agli oracoli per ap prendere i mezzi di porvi un termine, i casi di Edipo non si sarebbero mai scoperti. Quindi Sofocle, nella magnifica espo sizione della sua tragedia su questo soggetto, parla di quel flagello, ma in poche linee: il sacerdote non ne fa menzione al re che a solo fine di spiegargli il motivo per cui tutto il popolo è accorso in atto supplice a implorare i consigli e l'aiuto del savissimo de'principi. Seneca per l'opposto, ob bliando esser quello un incidente su cui non bisognava molto fermarsi, giudicò necessario d'impiegar tutto il primo atto del suo tessuto a una minuta descrizione della peste onde la città è tribolata. Edipo, dopo aver accennata la maledizione che pesa sul suo capo di divenir parricida e incestuoso, senza che alcun ordine d'idee ancor lo esigesse, togliesi di raccon tare a Giocasta, che dovea pur supporsene istruita, i feno meni meteorologici onde quella calamità pubblica era disgra ziatamente accompagnata: calori eccessivi, calme soffocanti, torrenti disseccati, campagne isterilite, tenebre profondissi e in mezzo a questo disordine degli elementi, prodigi straordinari, apparizioni di ombre, spiriti ululanti la notte sull'alto de' tempii, e simiglianti. Usciti appena di questa prolusione di fisica sperimentale, l'autore ci introduce in una sala di clinica, menando il coro con una descrizione patologica della peste a fare una mala giunta a quella di cui ci gra tificò Edipo. Gli spasimi, le convulsioni, le febbri, l'abbatti mento delle forze, i gavoccioli, e fin la tosse che affligge gl' infermi, somministrano materie al suo canto: nė vi man cano pure i portenti: perchè le fontane versano sangue invece di acqua, forse per alcuna chimica trasformazione operata dagl'influssi del pestifero contagio. Creonte, che era stato inviato a consultar l'oracolo, giu gne al secondo atto per dire al re, che, a cessar que’mali, era volontà de’numi che l' uccisore di Laio fosse punito: nė tras cura di narrare a lungo le difficoltà incontrate dalla Pitia per destar lo spirito profetico nel suo seno e dare i responsi analoghi alle domande. Mentre il re lancia, come in Sofocle, le sue tremende imprecazioni contra il colpevole, il cieco Tire sia, seguito dalla sua figliuola Manto, che gli serve di scorta, vien sulla scena, non si sa da chi chiamato, traendosi dietro altri ministri di tempii con un toro e una giovenca per fare un sacrifizio nella reggia: e richiesto del nome dell'omi cida, protesta di non saperlo; ma i numi glielo rivelerebbero mediante quell'olocausto. La cerimonia è immediatamente disposta; e le particolarità che l'accompagnano, benchè visi bili a tutti, pur vi sono minutamente notate per mezzo di lungo dialogo tra l'indovino e la figlia, pieno di mistiche al lusioni a' futuri casi di Edipo e di Giocasta, e fin di Eteocle e Polinice, che son personaggi estranei all'azione. La fiamma del rogo scintilla de' più variati colori, ed è solcata di strisce sanguinose ed insolite, si divide in due da sè stessa, ed oltre ogni espettazione si spegne prima che le manchi l'alimento. Il vino offerto in libazione si cangia in lurido sangue, e globi di fumo si spiccano dall'altare e van rotando intorno al dia dema del re. La giovenca cade al primo colpo della scure; ma il toro spaventato sembra fuggir la luce del sole; e men tre stenta a morire, il sangue che gli sgorga dalle ferite, spandesi a coprirgli gli occhi e la fronte. Le viscere sono aperte alle vittime per leggervi il gran segreto: ma nulla vi si scorge al suo luogo, cuore, fegato, polmoni, tutto è in dis ordine: le leggi della natura vi appariscono violate: la gio venca inoltre ha concepito, e il frutto che porta nel ventre, é extrauterino; fenomeno di cui Manto pare istruita più che a vergine si convenisse. Compiuta però questa dimostrazione anatomica, il re crede invano aver tocca la meta de' suoi desiderii con la sco perta del reo; quel romoroso apparato di strane investiga zioni fu opera perduta: Tiresia dichiara esser tuttavia al buio della verità, e quindi bisognargli evocar da' regni della morte l'ombra stessa di Laio che gliela riveli. Ei parte infatti per adempiere in luoghi solitari questa specie d'incanto magico: e Creonte, che con altri fu deputato ad assistervi, ritorna ed apre il terzo atto col racconto di tutto ciò che quivi era avve nuto. Poco lungi da Tebe è una selvaggia boscaglia: ei ne descrive la posizione, gli alberi, le acque, e fino i venti che vi dominano. Tiresia ordina che vi si scavi un ampio fosso, che vi s'innalzi sopra un rogo, e vi si gittino molti animali in sacrifizio con le consuete libazioni di vino e di latte, men tr' egli intonando lugubri carmi con voce minacciosa, invoca gli spiriti ad uscir fuori dell'Erebo. Si odono allora urlare i cani di Ecate; la terra trema; e sprofondandosi apre le vora gini dell'abisso, in fondo al quale si veggono le pallide divi nità infernali passeggiar confuse con le ombre; e con esse le Furie armate di serpi, i fratelli nati da' denti del dragone di Dirce, la Sfinge che fu flagello di Tebe, e tutti i mostri spa ventevoli che abitano quel nero soggiorno. A cosi tetro spet tacolo gli astanti sono inorriditi: ma Tiresia, intrepido sem pre, invoca con maggior forza gli spettri, che a torme innu merevoli arrivano volando sulla terra, e si spandono con fre mito, lungo la selva. Ne sono indicati i nomi come in una rassegna di eserciti: e lo spettro di Laio, che sfigurato dalle ferite è l'ultimo ad apparire, annunzia infine con voce tre menda, che a rimuovere i disastri di Tebe, doveasi cacciarne Edipo, ad espiazione di aver egli ucciso il padre, e di essersi congiunto in matrimonio con la madre. Udita la narrazione di tanto prodigio, il re costernato esclama esser falsa l'accusa, perchè suo padre Polibo ancor vive, ed egli è lontano dalla sua madre Merope. Quindi sospetta che sia quella una calunnia di Tiresia per torgli lo scettro e darlo a Creonte, cui altresi ca rica di rimproveri e minaccia di morte. Si osservi di passaggio che questo sospetto è ragionato in Sofocle, perchè l'accusa vien dal labbro di un uomo qual è Tiresia: ma in Seneca è stolto, perchè quella rivelazione è fatta dall'ombra stessa di Laio che tutti hanno udita. Intanto Edipo, compreso di cruccio e di terrore, ricomparisce al quarto atto con Giocasta; e chiesti nuovi schiarimenti sulle circostanze della morte di Laio, sovviengli di aver egli ucciso un uomo pria di condursi a Tebe; e mentre alle risposte di lei i suoi timori si accrescono, un vecchio pastore corintio sopraggiugne a dirgli che Polibo avea cessato di vivere, e ch'egli era invitato ad occuparne il trono. A questo annunzio ei si piace che l'oracolo da cui fu minacciato di divenir parri cida, siesi pienamente smentito; ma, temendo egli tuttavia l'incesto, il vecchio lo affida, svelandogli che Merope non era sua madre, e ch'ei, ricevutolo bambino da un pastore di Tebe, lo fe ’ adottare in quella corte. Quest'ultimo è appellato per dichiarar la nascita di Edipo, e tutto alfine si scopre come in Sofocle. Al quinto atto un messo accorre a narrare che il re, dopo aver percorso da furioso la reggia, avea risoluto in prima di uccidersi: ma poi, avendo meglio e più filosoficamente pe sate le cose, erasi contentato di strapparsi gli occhi; e che, fatto cieco, ancor levava in alto la testa per assicurarsi s' ei lo fosse interamente, stracciando una per una le fibre che nelle cavità nude gli rimaneano, per impedir forse che qual che filamento muscolare non si trasformasse in nervo ottico a dar passagio alla luce. Edipo stesso apparisce in questo de plorabile stato; e Giocasta gli è a fianco per convincerlo che i suoi delitti erano sola opra del fato: se non che alle voci di lui, che inorridito cerca di allontanarla da sè, delibera an ch'essa di morire. In qual parte del corpo le conviene intanto ferirsi? Quistione essenziale in tanta circostanza; ond' ella la esamina con logica rigorosa, e si colpisce al ventre, che die ricetto a un figlio divenutole marito. A questo nuovo accidente Edipo riconosce sè stesso doppiamente parricida, avendo la sua disgrazia provocata la morte anche della ma Nell'Ercole all Eta di Seneca, Deianira propone presso a poco a sè stessa le medesime quistioni prima di uccidersi dre: e disperato abbandona la patria, invocando tutti i mali di Tebe a seguirlo nel suo esilio. Se per una di quelle insensate pratiche, usate nelle vec chie scuole di rettorica, un giovine studente fosse stato inca ricato dal suo maestro di fare un'amplificazione a sua guisa della greca tragedia di Edipo, io non credo che il mal senso delle descrizioni estranee all’azion fondamentale avesse po tuto esser spinto più oltre. Era serbato a Seneca il sommini strar compiuti modelli di siffatta specie di mostruosità: nė chiunque ha fior di gusto e di senno esigerà che io m'impacci a provargli un difetto sì aperto con appositi commentari; ba stando la nuda esposizione dell'ordito a convincerne senza più anche i meno veggenti. Un critico francese ha cercato di giu stificarne l'autore, allegando che quelle opere teatrali non erano destinate alla rappresentazione; e che in conseguenza il lusso delle descrizioni eterogenee avea per iscopo di ren derne meno inefficace la lettura in alcun privato crocchio di conoscitori, ove soleano venir declamate. Se non che la tra gedia è un particolar genere di poesia che ha le sue leggi sta bili e determinate: e non mi consente la ragione che queste leggi nella tragedia letta, possano esser diverse da quelle re putate indispensabili nella tragedia rappresentata. Quando uno e fisso è il genere, non può esso andar soggetto a variazioni pel vario ed accidental modo di darne conoscenza altrui. Se il poeta estimava che le ampollose descrizioni, bene o mal coerenti a un tragico tessuto, fosser le sole che avesser potuto fare impressione in un'adunanza di ascoltanti oziosi, potea comporne a suo bell'agio distaccate con titoli convenienti, senza contaminarne un'arte che non è fatta per accoglierle. Sarebbe cosi divenuto il precursore di Stazio, lasciando una collezione di Sylvæ, più o meno sopportabili, in luogo di scene tragiche meravigliosamente insopportabili. Medea. Sin dalle prime scene, sentendosi tradita e derelitta, Medea non respira che sangue ed eccidii: ma gli eccidii e il sangue non le sembrano ancora se non leggeris simo alimento al suo animo inferocito. Vorrebbe ritrovare un' atrocità nuova, sconosciuta, straordinaria, che facesse parlar di lei nella più lontana posterità. Nel vederla si libera ne' suoi spaventevoli disegni, la nutrice, che l'è da presso, non sa immaginare altre vie a calmarla, se non rammentan dole che per menar tutto a termine sicuro ella dee nasconder la sua collera; perocchè, ove questa si mostri di fuori troppo apertamente, ricade le più volte sopra colui che ne e animato, e distrugge i mezzi della vendetta. Massima infernale, ma vera; e posta leggiadramente in pratica da tutti i contempo ranei di Seneca. Il re intanto, che teme le arti e le insidie della irritata maga, vien cruccioso ad ordinarle di sgombrar subito da' suoi stati. Indarno ella fa lungo racconto di tutto il passato per mettere in risalto la iniqua condotta di Giasone e la ricompensa infame onde l'ingrato la rimerita de' tanti be nefizii ricevuti; indarno cerca di muovere in quel principe tutt' i sentimenti capaci di piegarlo a rivocare quella dura ri soluzione; questi si rimane inflessibile; e nel ritrarsi dalla scena consente solo a permettere, com' ella ferventemente chiede, che almeno i due suoi figliuoli continuino a dimorar ivi col padre, e che diesi a lei un giorno di tempo per ab bracciarli, e disporsi ad abbandonar per sempre quelle re gioni: favore di cui ella gode nel suo segreto, giudicando bastarle quello spazio a poter tutta rfversar la sua ira contro i suoi implacabili persecutori. Giasone offresi allora con bizzarro monologo a far com prendere che il re minaccia morte a lui ed a' suoi figli, ov'ei nieghi d'impalmar Creusa: nė vi ha cenno che in parte spie ghi o giustifichi questo mezzo speditissimo di concludere un matrimonio; se già qualche maligno spirito non voglia sup porre che Creusa fosse incinta, onde, a salvarle la fama, si obbligasse il profugo seduttore a scegliere fra il talamo nu ziale e la scure. Medea, che di lui si accorge, gli va incontro scoppiante rabbia e dolore. A' veementi rimproveri di lei egli dice che il re l'avrebbe fatta perire, s' ei non lo avesse in dotto a contentarsi di scacciarla solamente dal regno: la solle cita quindi a sottrarsi tusto allo sdegno di chi ha il potere di opprimerla. A fin di scoprire il lato debole del cuore di lui, ella finge di cedere, ed implora che non le sia vietato di menar seco que’ medesimi figliuoli che pocanzi pregava il re a lasciare in cura del padre; e compiacendosi nell'udire esser sulla scena, per lui impossibile di staccarsi da quei fanciulli, si restringe a chiedergli di poter dar loro l'ultimo addio; grazia che il re le avea di già conceduta. Rimasta sola, medita il disegno di disfarsi della rivale, inviandole in dono una veste avvelenata; e corre a farne confidenza alla sua nutrice. Questa rivien e narra i prodigi operati da Medea per compiere il suo funesto disegno. Con le sue arti magiche avea nelle sue stanze attirati il dragone della Colchide, l'idra uccisa da Ercole, e i più mostruosi rettili della terra; e ne' loro veleni, misti a sangue di uccelli impuri ed a fiamme divoratrici, avea confuso i succhi di quante erbe narcotiche allignano sulla faccia del globo. Dopo questa relazione, che è lunga e minuta più che non bisognerebbe a descrivere anche il laboratorio di un farmacista, la maga ella stessa riapparisce; e invocando Ecate con orribili scongiuramenti a discendere dal cielo per assisterla, si ferisce al braccio per far del suo sangue una libazione alla Dea. Terminato cosi l'incantesimo con un sa lasso, intinge in quel liquore la veste già preparata, e manda i figliuoli a farne presente a Creusa. L'effetto è subito prodotto. Un messo viene a raccontar distintamente che l'incendio si è manifestato nella reggia al solo contatto di quel dono fatale, e che il re e la figliuola vi sono rimasti amendue spenti. Medea, che in udir tale annun zio gioisce di aver colto il primo frutto delle sue trame, si dispone a coronar l'opera, uccidendo i figli, per cosi vendi carsi delle perfidie del marito. Questi era corso con gente d'arme a sorprenderla: ma ella erasi rifuggita co ' due fan ciulli e la nutrice sull'alto della casa. Di là parlando a sè stessa intorno a quel che le conviene di fare, dice che il de litto è compiuto, ma non ancor la vendetta; trucida furi bonda uno di quei disgraziati, e ne gitta il cadavere sangui noso a Giasone che dal basso la mira imprecando e fre mendo: e mentr' egli la scongiura inorridito a conservare almen l'altro in vita, ella lo trafigge sotto i proprii occhi; e chiamandosi dolente di non averne avuti che due soli ad immolare, vuol cercar nel suo seno se vi sia il germe di qualche altro figliuolo per istrapparselo a brani dal fondo delle viscere. Innalzandosi alline sul suo carro magico, Ricevi, dice al marito insultando, ricevi i tuoi nati; io mi slancio al di sopra delle nuvole. Si, quei le risponde, assorto nel raccapriccio e nella disperazione; và per gli alti spazii dell' acre ad attestare all' universo che non esiste al cun Dio: Per alta vade spatia sublimi ætheris Testare nullos esse, qua veheris, deos. Tratto divino !.... esclamava un critico: veramente, ripigliava un altro scherzando sulle parole, non vi è nulla che sia men divino ! Sull'indole di questa ributtante favola drammatica dissi altrove abbastanza: e qual pessimo governo Seneca ne facesse ad ancor più oltre annerirla ed a gonfiarla di vento, ciascuno può giudicarne da se medesimo. Non è intanto superfluo il notare una circostanza che sembra sfuggita costantemente a' dotti illustratori di questo tragico antico. Orazio inculcava severamente a ' poeti di non mai dare a spettacolo una Medea che trucida i figli al cospetto del popolo; poichè un simile atto da far fremere sterilmente la natura, dee riuscir più or rendo che tremendo per chiunque non abbia rinunziato ad ogni sentimento di umanità. Che Seneca infrangesse un cosi savio precetto, chi ben conosce la tempra della sua fantasia ne comprenderà facilmente i motivi. Ma donde Orazio lo trasse? Questo fu per me sempre un enigma. Un precetto che vieta una difformità in poesia, è come una legge che vieta un delitto in politica: suppongono amendue che un dis ordine abbia esistito per lo passato, e mirano ad imporre un freno affinché non si riproduca nell'avvenire: e non vi ha esempio in cui la giurisprudenza civile fulmini un'azione che non ha mai avuto luogo nella condotta degli uomini, come non vi ha esempio in cui la critica letteraria basimi un difetto di gusto del quale non vi è traccia nella storia delle arti. L'in duzione a trarsi da questo principio è semplicissima. Orazio non potea certamente aver letta la sconcezza, ch' ei riprova con si grave dettato intorno a Medea, nè in Euripide il quale avea saputo evitarla, nè in Seneca il quale fioriva quando egli era già spento. In conseguenza è a dirsi, ch ' ei la scor caso, gesse in qualcuno de' poeti latini suoi predecessori o contem poranei, le cui opere sono a noi sconosciute. E in questo che io lascio agli eruditi di verificare, non possiamo nel precettor di Nerone ravvisar nè anche l'esistenza di una facoltà, disgraziatamente assai comune; quella cioè di saper ritrovare da sè stesso una turpitudine. La predilezione de' Latini per la favola di Medea costi tuisce inoltre un fenomeno che merita ugualmente di esser notato. In Grecia non imprese a trattarla che il solo Euri pide; e dopo di lui una tragedia sopra il medesimo soggetto, che non è pervenuta alla posterità, fu scritta da un tal Neo frone, di cui non ho mai saputo novella. In Francia non è da citarsi che la Medea del Corneille; poichè i tentativi di Pe louse, di Longepierre e di Clement sono ormai obbliati. Nella sola polvere degli archivii se ne additano due in Italia, una del Torelli, l ' altra del Gozzi: e parlo fino al 1820; perchè, se altre ne sieno apparse dopo, lo ignoro, e non ho mai cu rato d'informarmene. Non ne apparvero, a quanto io creda, fra gli Alemanni e fra gli Spagnuoli; e può dirsi nè anche fra gl' Inglesi; poichè quella del Glower non è calcata sulle memorie antiche. Questo poeta, in ciò di squisito senso, benchè non di alta sfera nel resto, osò con fermo proposito guastar piuttosto la tradizione ricevuta, che denigrare con una esagerazione si assurda il prezioso carattere di madre: ei suppose che Medea uccidesse i figli in un eccesso di frene tico delirio che le impediva di riconoscerli. E ritornata in sė stessa, la dipinse preda alla disperazione per l'involontario attentato, anzi che lieta e trionfante di aver dato opera a una vendetta che innanzi ad ogni essere ben costituito dalla na tura dovea necessariamente colpir di preferenza il di lei pro prio cuore. In Roma per l'opposto par che non vi fosse poeta tragico il quale non avesse tentata una Medea. Vi si segnalarono Ennio, Pacuvio, Accio, Ovidio, Seneca, Materno ed altri: e Tertulliano parla di un Osidio Geta, che nel primo secolo dell'era cristiana compose tutta di versi di Virgilio una nuova Medea, di cui lo Scriverio si è dato l'inutile pena di raccogliere alcuni frammenti. Con queste tendenze di ferocia ne' drammatici latini, vi è poi tanto a stupire che ivi la sana tragedia non mai prosperasse con la dignità richiesta? Tieste. La scena è nella reggia di Micene; e l'azione si apre con l'Ombra di Tantalo, la quale, tratta sulla terra da una delle Furie infernali, è da essa spinta a metter odio e furore nell'animo de'due fratelli Tieste ed Atreo, suoi discen denti, onde seguano fra loro i più orribili misfatti. Al solo aggirarsi dello spettro in quelle mura fatali, Atreo, che vi tenea scettro, è subitamente invaso da fieri desiderii di ven detta contra Tieste, che gli ebbe un tempo pervertita la sposa ed involate le ricchezze, e che állor viveasi profugo in terre straniere nella più estrema miseria. Memore de' torti rice vuti, ei non più spira che minacce di esterminio: e trattiensi a parlar con uno schiavo suo conſidente intorno al modo più sicuro da immolar l'abborrito fratello all'ira che lo investe. Il ferro per lui è arma di tiranni volgari: ei vuol supplizii e non morte; poichè nel suo regno la morte debb' esser consi derata come una grazia. Meditando un eccesso che possa spa ventar gli uomini e la natura, ei risolve di richiamar Tieste dall'esilio con finte proteste di pace e di obblio del passato; ed attiratolo cosi nella reggia, trucidargli a tradimento i figli, e preparargliene pasto neſando in una cena notturna. Ei va gheggia lungamente il suo infernale disegno; e già ordina i mezzi da eseguirlo. Tieste, sollecitato da iniqui messaggi, cade nella rete insidiosa; e, costretto dall'indigenza, presen tasi con tre suoi figli in Micene, non senza terribili presenti menti di ciò che possa ivi essergli ordito di atroce. Atreo, che ne è subito avvertito, affrettasi ad incontrarli ebbro di esultanza nella certezza di aver finalmente le vittime fra i suoi artigli; e coprendo il suo empio pensiero, avanzasi con benevolo sembiante ad abbracciar Tieste ed a chiedergli il bacio fraterno. A udirlo, era quello per lui un vero momento di felicità; onde bisognava deporre gli antichi rancori, e non più ascoltar che la voce della pietà, della concordia e del sangue. Tieste si precipita a' suoi piedi, implora il suo per dono, e tra le lagrime della tenerezza e del pentimento lo prega di accogliere sotto la sua mano protettrice quegl' inno centi giovinetti. Da prima ei ricusa di accettar la metà del regno che il re gli offre con simulati affetti: si terrebbe felice di vivere suo suddito, e di poter espiare i suoi falli co' suoi fedeli servigi: ma cede alfine alle iterate insistenze del per fido Atreo, il quale, invitandolo a cingere sul suo capo vene rando il diadema reale, annunzia con espressioni di doppio senso che, a suggellar la pace tra loro, ei va intanto a disporre un sagrifizio. Questo inviluppo in sè occupa i tre primi atti della tragedia. Al quarto un messo appare sbigottito, e con le più rac capriccianti particolarità narra il già consumato eccidio al coro. Innanzi tutto ei descrive la parte remota del palazzo ove so leano soggiornare i principi di quella contrada, ed a lungo enumera gli straordinari ed incredibili portenti di cui quel sito sembra essere il magico ricettacolo. Ivi Atreo erasi con dotto in segreto con suoi fidati sgherri, trascinandosi dietro i figliuoli del fratello, ch'egli stesso avea già carichi di catene, ed a foggia di vittime inghirlandati di fiori e di bende. Or rendi altari vengono al momento eretti, arde l'incenso, le libazioni versate spumeggiano, la scure tocca il capo di que' mi seri, e tutte le formalità di un ordinario sacrifizio son diligen temente osservate. A tal sacrilego apparato, ed a'cupi urli di Atreo, che pronunciando funebri preghiere intuona l'inno della morte, la vicina selva trema: la reggia sembra crollar dalle fondamenta, il vino effuso cangiasi tosto in sangue, il dia dema cade tre volte dal fronte del re, il quale pari a fame lica tigre avventasi su i tre indifesi nipoti, e l'un dopo l'altro trafiggendoli, spande il terrore ne' circostanti satelliti. Ciò compiuto, egli strappa loro le viscere per leggervi entro i presagi del destino; mette finalmente in pezzi le loro membra ancor palpitanti, ne prepara col fuoco l'infame cena, e la fa recare a Tieste, che ignaro degli eventi, lo attendea nelle sale dell'ordinario convito: e cosi quel padre infelice, che in abito festivo crede per la prima volta gustar la voluttà della con cordia con lo snaturato fratello, divora le carni de' propri figliuoli. A questa immonda narrazione, che può star leggia dramente a fianco delle additate nelle due precedenti trage die, il coro prorompe in esclamazioni analoghe allo spavento di cui si trova compreso. Il quinto atto ci rappresenta il ritorno di Atreo, il quale, dopo aver pasciuto i suoi sguardi in quella mensa infernale, vien fuori gridando con frenetica ed orribile compiacenza: Æqualis astris gradior, et cunctos super Altum superbo vertice attingens polum, Nunc decora regni teneo, nunc solium patris. Dimitto superos: summa votorum attigi. e Ma il fatto atroce non ancora lo appaga: gli bisogna compiere il lutto di un padre, rivelandogli il tremendo mistero, a fin di saziarsi di vendetta in veder gl' impeti del suo disperato dolore. All'appressarsi quivi di Tieste, ei da prima si cela per udirne il solitario linguaggio: indi si mostra; ed invi tando il fratello a finir seco di celebrar quel giorno di letizia, gli offre una tazza di vino in cui è misto il sangue de' prin cipi uccisi. Questi, contento in parte della riacquistata pace, e in parte agitato da oscuri perturbamenti di animo, chiede affannoso che gli sia concesso di porre il colmo al suo giubilo abbracciando i figliuoli. Atreo lo tien sospeso con espressioni equivoche, e lo sollecita sempre più a bere in quella tazza: se non che a quel misero, nel riceverla, sembra veder fuggire il sole, scuotersi la terra, sconvolgersi gli elementi; e rinno vando le istanze di rivedere i figliuoli, il mostro si scopre, glie ne gitta a ' piedi le teste sanguinose, dicendo: gnatos ecquid agnoscis tuos? Qui Seneca ritrova uno di quei felici motti, per la cui vibrata energia è solamente notabile: peroc chè Tieste ansante a cosi nero attentato, non richiama in se gli accenti smarriti, se non per esclamare, agnosco fra trem !.... e cade in delirio smanioso. Credendoli solamente uccisi, ei domanda con fremito di poterne almeno seppellire i cadaveri; allor che l'empio gli svela ch ' ei li avea già divo rati, e gli narra tutto lo scempio che si era studiato di farne. Le furie di Tieste e le insultanti risposte di Atreo, che gode a quello spettacolo di orrore, chiudono la scena. Vi ha certa memoria che una tragedia di Tieste fosse anche stata scritta da Euripide, la quale va fra le tante di quel teatro che si sono sventuratamente perdute: e Seneca forse l'ebbe sott'occhio, ad attingerne per lui, non foss' altro, la stomachevole idea. Quali forme particolari di dramma tica esecuzione il Greco poi avesse adottate con destrezza per temperar l'orribile del soggetto fondamentale, non vi ha sto rico indizio da poterne rettamente decidere. Altrove si è però notato, che non ostanti le tendenze di quel poeta per la di pintura degli eccessi dolosamente criminosi, tendenze che fra le sue mani pervertirono si bruttamente l'arte, il popolo di Atene gli era pur tuttavia di costante freno a non lasciarsi precipitare in troppo aperte mostruosità; ed ei più volte ne avea fatto a suo danno e scorno il crudele esperimento. Può in conseguenza tenersi ch' ei procurasse di velare in gran parte le incredibili atrocità onde le vecchie tradizioni aveano corredato a' posteri quel famoso avvenimento de' tempi eroici della Grecia; e che Seneca s ' industriasse al suo solito di anne rirlo oltre misura, frastagliandolo a modo proprio con quella sua fantasia pregna dello spettacolo reale di tutte le più turpi enormezze. Alcuni han creduto infatti, che la descrizione di quella parte della reggia di Micene ove si finge che Atreo spegnesse i nipoti, fosse fedelmente ritratta da quella parte del palazzo de' Cesari in Roma, che Nerone avea destinata alle sue laide passioni e crudeltà segrete. È possibile ancora che Seneca traesse altre ispirazioni alla sua opera dalla tra gedia latina, che, siccome Ovidio narra, Vario e Gracco com posero insieme su i casi di Tieste, e che probabilmente è la stessa in seguito divulgata sotto il solo nome di Vario, di cui la storia di quel secolo ci ha serbata rimembranza. A ogni modo, il fatto vero o non vero su cui si fonda questo tragico lavoro, non meritava esser cosi rilevato in tutta l'asprezza delle sue giunture e l'abbominevole nudità delle sue forme, che in un secolo in cui i più esecrandi at tentati e le più truci e inudite vendette facean parte integra e special delizia della vita pubblica e privata di ogni uomo. Col sicuro presentimento che a' suoi contemporanei non ne sarebbe incresciuta la dipintnra, Seneca lo tratto senza velo: e i suoi sforzi nel dare alcun contrasto di luce a quelle tene bre infernali, restarono inefficaci. I tre giovinetti sacrificati all'ira dello scettrato cannibale di Micene, non muovono che una pietà volgare e ſuggevole, poiché cadono pari a mutoli agnelli che il famelico lupo divora mugolando nelle sue grotte di sangue. Nè alcuna di più eminente ne muove pure lo sten tato ritorno di Tieste sulle vie della virtù e della giustizia, si perchè un tal ritorno può sospettarsi dettato dalla pienezza delle sue miserie, e si perchè il suo violento e consumato in cesto con la sposa del germano, è un fatto di sua essenza ir reparabile, e non si cancella o ripurga per pentimenti per lacrime. L'orror cupo e nefando che spira il carattere di Atreo, è l'unico affetto che domina e inviluppa ferocemente l'azione: se non che, soffocando a un tratto tutte le potenze dell'anima, le addormenta in uno stupor convulsivo, che di strugge ogni vitalità di sentimento negli spettatori, ed abban dona il personaggio alla sola compagnia di sè medesimo. E conviene saper grado all'autore di aver nell'ordito messa giù ogni maschera d'ipocrisia. Conscio che il suo Atreo è un mo stro fuor di natura, ei lo allontana diligentemente da ogni specie di contatto con la natura. In lui, niuno di quei palpiti precursori che si associano al concepimento di un grave e spaventevole delitto; niuno di quei terrori salutari che arre stano involontariamente la mano armata di un pugnale omi cida; niuno di quei rimorsi che la rea coscienza genera a un tempo e ritorce contro a sè stessa innanzi allo spettacolo di una già eseguita scelleratezza. A che infatti porre in mostra gli ordinari fenomeni del cuore umano per attaccarli a un essere al cui tipo la tempra dell'umanità rimansi compiuta mente estranea? Ma usciamo alfine di questo pattume: i comentari sono superflui dove i fatti parlano da sè in guisa, che ad ogni uomo di mente sana e di cuor non guasto è facil cosa il valu tarli. Ne mi rimane intorno a questo autore se non a preve nir brevemente qualche obbiezione che molti per avventura saran tentati di oppormi. Alcuni, per esempio, col bel romanzo del Diderot alla mano, diranno che io in questo esame ho troppo annerito il carattere morale di Seneca; ed a costoro, senza inutili contese, lascio piena libertà di alimentare la loro passione pe' romanzi, e di farsene un idolo: l’umana viltà sovente ha deificato tanti mostri, che aggiugnervi anche quello il quale, giusta la grave testimonianza di un Tacito, diede apertamente opera, se non a concepire, a consumare almeno un matricidio, non dee poter cagionare alcun nuovo scan dalo. Altri, con l'autorità di Marziale e di Sidonio Apolli nare, diranno, dall'altro canto, che vi ebbero tre fratelli conosciuti sotto il nome di Seneca; e che il teatro venne ascritto sempre, non al primo che fu precettore di Nerone, ma bensì ad Annio Novato, ch'era il secondo. Potrei rispon dere che uomini dottissimi in fatto di latina erudizione, quali sono un Giusto Lipsio, Erasmo, Einsio, i due Scaligeri, ed altri non pochi, attribuirono al filosofo gran parte di quelle trage die, senza lasciarsi punto illudere dalla circostanza ch'esse fos sero state pubblicate col nome del fratello: e ch'egli real mente vi abbia cooperato, lo attesta Quintiliano, il quale net tamente lo addita come autore della Medea. Potrei soggiu gnere che, ove quelle tragedie si paragonino attentamente con le prose del filosofo, basta la più leggera critica per rav visar nelle une e nelle altre le medesime tendenze di spirito, le medesime pretensioni di dottrina, spesso il medesimo fondo di pensieri, più spesso ancora le medesime stentate forme di lingua e di stile. Se non che tutte queste discettazioni erudite sono di niuna importanza per me. Quando anche mi si dimostri con matematica evidenza che le persone eran diverse, niuno potrà luminosamente provarmi che la tempra delle anime non fosse la stessa. Nelle mie investigazioni è stato in me principal di segno di apprendermi, non all'individuo materiale, che in teressa la storia degli uomini più che la.critica de' tempi, ma bensì all' individuo astratto, che vien come lucido specchio in cui fedelmente si riflettono le sembianze di un secolo con tutte le caratteristiche impronte, e tenaci abitudini, e maniere sue proprie di sentire, di pensare e di vivere. Se infatti biz zarria taluno volesse attribuir quel teatro ad altro poeta con temporaneo, a Lucano, per esempio, ch'era figlio del terzo fratello di Seneca il filosofo, cangerebbe egli mai lo stato della quistione? Il famoso cantore della Farsalia non fe' onta all' egregio zio: prese parte attiva in una congiura celebre, che mise Roma tutta in commozione; e, scoperto appena, tentò fuggir morte, denunziando vilmente i suoi complici, tra per i quali era sua madre: condannato indi a perire, perchè non era facile il placar Nerone per simil genere di meriti, affetto eroica fermezza; e ne’momenti supremi declamò versi allu sivi al suo stato; e del sangue che gli usciva dalle segate vene fe ' generosa libazione a Giove liberatore. A che andar più oltre mendicando prove, fatti e ravvicinamenti? Eran tutti cosi: ed il mio scopo essenziale si fu di chiarire, che ingegni educati disgraziatamente in mezzo a realità prosaiche e ributtanti, non poteano produrre che opere drammatiche ributtanti e prosaiche. Le ingenue ispirazioni della natura esigono am piezza di spazii congiunta a splendore di analoghe circostanze; e le grandi fantasie non si sviluppano al certo nelle piazze de' patiboli. La morale di questa filosofia escritta da un altro napoletano esiliato per i moti politici; che merita anche lui almeno un breve ricordo in questa storia: B.. La sua vita ha molti punti di contatto con quella dello scrittore del quale abbiamo ora finito di parlare; e meriterebbe uno studio speciale. B. nacque in Manfredonia. Era a Napoli a studiar leggi sotto Michele Terracina e Nicola Valletta. Si laureò avvocato; ma presto abbandonò la car riera forense, essendo stato nominato per concorso Uditore del Consiglio di Stato. Ispettore generale della Sopraintendenza generale di salute; e l'anno seguente per lo zelo e l'operosità dimostrata in occasione della peste di Noia, pro mosso Segretario generale della stessa Sopraintendenza e nominato cavaliere. Presentato dal Parlamento in una terna per Consigliere di Stato; ed ebbe infatti questo alto ufficio nel di cembre di quell'anno. Nel successivo fu nominato Commissa rio civile per l'approvvigionamento delle truppe in Abruzzo. Ma, caduta la libertà, dovette anch'egli cadere; e fu imprigionato, quindi proscritto. Si rifugia a Parigi; donde passò a Londra, per tornarvi. E a Parigi quindi Traggo le notizie biografiche di lui da un clogio funebre, scritto su informazioni fornitedalnipoteomonimo di B.: Sulferetrodelcav. B. i, paroledette nella Congrega dei ss. Anna e Luca dei professori di belle arti, dal l'architetto CASAZZA. Napoli, Cons,;opuscolo di 8 pp.in-4.°posseduto dalla Società napoletana di Storia patria. Diluinon sidicenulla nell'opuscolo, del resto per tanti rispetti deficientissimo, di FONTANAROSA, I Parlam.nas. napol. mem.edoc., Roma, Soc.D. Alighieri, nel qual anno gli fu dato finalmente di ri tornare a Napoli. Dove riprese la carriera forense,e rimase tutto il resto di sua vita. Per sospetto di cospirazione, e arrestato e tradotto nel forte di S. Eramo; ma riottenne subito la libertà, anzi acquisto la fiducia di Ferdinando II. Il quale lo n o mino socio ordinario della R. Accademia delle scienze morali e più tardi Presidente perpetuo dell'intera Società Borbonica, ora Reale; e lo chiamò a far parte del Ministero, come ministro del l'interno. E d egli redasse lo statuto. Si ritirò nell'aprile e fu n o minato un'altra volta Consigliere di Stato.Ma nel maggio tornò al potere e condusse la reazione che seguì all'infausto 15 di quel mese. E ministro resto, da ultimo col portafogli dell'Istruzione. Quindi si ritrasse a vita privata,in una villa della collina di Posillipo, dove fini i suoi giorni. Come scrittore è particolarmente noto per le sue ricerche Della imitazione tragica presso gli antichi e i moderni, dove in tese a combattere la tesi difesa dallo Schlegel nel suo Corso di lette ratura drammatica.Ma eglifuanche poeta non mediocre, eau tore di parecchie altre soritture di estetica; fra le quali meritano speciale menzione le seguenti: De l'esprit de la comédie et de l'in suffisance du ridicule pour corriger les travers et les caractères, pubblicata a Parigi; Cenni estetici sulle origini e le vicende della poesia ebraica, nonchè due memorie lette al l'Accademia di Napoli: Cenni cstetici sulle origini e le doti del teatro indiano; In quale dei cinque sensi a noi conosciuti è da scorgere il proprio ed efficace organo della bellezza. Il solo titolo di questa memoria basta, mi pare,a farci intendere che razza di estetica fosse quella di B.. Annunzia un trattato di estetica, pubblicandone l'introduzione in una rivista La 1.a ediz, fu fatta a Lugano. L'edizione corrente è quella del Le Monnier. Ma fral'anael'altracen' è una seconda corretta e daccresciuta di un capitolo sul teatro, Napoli, Vaglio, in quella Biblioteca italiana pubblicata per cura di B. Fabbricatore, che accolso anche la Storia generale della poesia del Rosenkranz, tradotta dal De Sanctis. E l'editore annunziava che all'Imitazione avrebbe fatto seguire altri 2 voll.contenenti scritti del tutto inediti di B. Sull'Imitazione, v. ULLOA,Vedilesuo Poesievarie, Napoli, De Bonis; e intorno ad esse ULLOA, e l'articolo di V. IMBRIANI nel Giorn. napol. della domenica. Milano, Vodi il suo art. Filosofia dell'estetica nel Progresso ma disgraziatamente il manoscritto gli fu involato, come ci dice un biografo, nella prigione di S. Eramo. Anonimo uscì un suo Esquisse politique sur l'action des forces sociales dans les différentes espèces de gouvernement, che egli aveva mandato m a noscritto da Londra a un suo amico di Brusselle, e fu da questo pubblicato a sua insaputa. Fu lodato dal Tracy e il nome dell'autore scoperto in una recensione che ne fece con lode il Daunou nel Journal des Savans; onde valse a prolungare l'esilio del Boz zelli, non potendo le idee liberali sostenute in quel libro essere approvate dal governo di Napoli. E molti brevi scritti inseri in riviste straniere, durante l'esilio,e negli Atti dell'Accademia a Napoli, che non giova qui ricordare; essendoci qui proposti soltanto di dare una notizia d'una sua più notevole opera: Essais sur les rapports primitifs qui lient ensemble la philosophie et la morale,stampata a Parigi e ristampata col ti tolo più breve De l'union de la philosophie avec la morale; la quale rappresenta davvero un tentativo storicamente considerevole. B. si prefigge in essa lo scopo di dare alla scienza della morale quell'ordine rigoroso, quell'unità sistematica, che erano stati raggiunti, secondo lui,dalla filosofia speculativa dopo Bacone, ossia da quando essa cominciò a fondarsi sull'esperienza: di fare perciò della morale, che si trattava ancora sotto la forma vaga d'una raccolta di osservazioni staccate, una vera scienza filosofica. Perchè, egli dice,« la philosophie n'est pas seulement (1) Una sessantina di saggi dice il Casazza, che ne dovette avere innanzi l'elenco. Ma noi non no conosciamo cho pochi: e menzioneremo solo il Disegno di una storia delle scienze fllosofiche in Italia dal risorgimento delle lettere sin oggi (ostr. dagli Atti dell'Ac cademia di sc.mor.e pol.di Napoli); dove sono alcune considerazioni superfi ciali intorno alle tendenze spiccatamente filosofiche delle menti del mezzogiorno d'Italia e a quel giusto mezzo che,quasi per il loro vivo senso artistico, gli Italiani in generale avrebbero, secondo l'A., mantenuto tra le dottrine estreme del materialismo e dello spi ritualismo astratto. Noi non conosciamo che questa 2." odiz. di Paris, Grimbert et Dorez. Anche in questa ediz.,del resto,il titolo ripetuto dopo un Discours prélimi naire è Essais sur les rapports ecc.E a quest'edizione si riferiscono le nostre citazioni.Il PICAVET (Lesidéologues, Paris, Alcan), dandouna brevissimanotiziadellibro, che cita Essaisecc.,dà la data del 1828. Ma dev'essere una svista. La data è data dal Casazza e dal cenno che su B. si trova nella Grande encyclopédie. Sul libro, si cita una recensione del Lanjuinais nella Revue encyclopédique, vol.26.o Il Casazza infine dice che il nipoto omonimo già ricordato « con rispettosa ossequenza al nomo dello zio,or ora porrà allo stampe la traduzione dell'opera Saggio sui rapporti,ecc.>, la clef de la morale,elle en est l'essence même ».Non disconosco che importanti concezioni rigorose della morale c'erano già state in Germania après les ramifications de la doctrine de Kant. M a non erano che concezioni di unitari, com'egli chiama gl'idealisti; di unitari o teisti, o assoluti. E ormai è chiaro di quale filosofia l'autore intendesse parlare, volendo filosofica la morale. Egli insomma voleva per questa qualche cosa che potesse paragonarsi agli scritti concernenti la teorica della conoscenza (philosophie egli dice) di Locke, di Condillac, di Destutt de Tracy: ces trois écrivains qui semblent se succéder exprès pour ajouter l'un à l'autre, pour serrer de plus en plus l'analyse et l'enchaînement des faits, pour que l'erreur echappée à la pour suite de l'un soit atteinte par l'autre jusque dans ses derniers retranchemens; ces penseurs enfin qui brillent comme trois points lumineux dans l'histoire de l'esprit humain, et qui éclairent la route de la vérité,pour empêcher que personne ne puisse plus s'égarer dans le vague des hypothèses. Le azioni umane, la cui direzione costituisce l'oggetto della morale, non sono apprezzabili se non a patto che si riferiscano alle affezioni che le determinano. La scienza della morale, per tanto, si fonda sulla conoscenza delle cause per cui tali affezioni si generano, si succedono, si coordinano: si fonda, oggi si direbbe, sulla psicologia. E come il principio d'ogni fatto spirituale è nella sensazione, bisogna cominciare da questa. La sensazione è un fenomeno del nostro essere,che avviene internamente,dentro di noi. Questa è una verità intuitiva,at testataci dalla coscienza. Il numero delle sensazioni è infinito; ma esse entrano fra di loro in certi rapporti; il che non sarebbe possibile senza un sostegno, un centro, un principio generale e permanente di tutte queste affezioni.È un'induzione questa asso lutamente necessaria, perchè unica. Noi non conosciamo diret tamente questo qualche cosa che è la base delle sensazioni; m a lo scopriamo per i suoi effetti, come la prima condizione di essi, come una potenza particolare,che sipotrà indifferentemente chia mare essere senziente, anima, spirito, intelligenza, sensibilità. Ma non pare conoscesse le opero oticho di Kant o de'suoi epigoni. Di Kant cita solo le Considerazioni sul sentimento del bello e del sublime; e, salvo errore,nella tradu zionefrancesedol Koratry.L'accennochesifa a p.464eseg. allamorale disinteressata di Kant non prova una cognizione diretta delle opere kantiane. Ma la sensazione rappresenta sempre qualche cosa di estra neo all'essere che sente: non si potrebbe concepire in noi la pre senza d'una sensazione, spogliata da ogni rapporto con oggetti dif ferenti da noi.Sicchè bisogna convenire,che vi sono realmente causc esteriori che noi conosciamo soltanto dai loro effetti su noi, e che sono la seconda condizione, non meno indispensabile della prima, per lo sviluppo della sensazione: e il loro insieme si dirà natura, mondo, universo, o, più semplicemente, esistenze che ci sono estranee. Per ammettere queste esistenze l'argomento più luminoso, secondo B., è che quando mancano certe date sensazioni, non accade mai d'imbattersi negli oggetti che possono produrle. Ognun vede che l'argomento è molto debole, per non dir nullo: ma infine « tous ceux qui se tiennent dans les bornes d'une espèce de doctrine pratique et de simple sens commun, en sont pleinement d'accord ». E questo è verissimo. Contentiamoci, ad ogni modo, per la scienza dell'anima e dell'universo,diqueste semplici verità d'induzione: e rinunziamo alle ricerche metafisiche sull'essenza dell'anima e sul principio generatore dell'universo. L'impossibilità d'una soluzione scienti fica dei problemi metafisici è dimostrata dal fatto che non ci sono due pensatori che abbiano dato una stessa soluzione: quot capita totsententiae.Se oggi, dice B., sisaqualche cosa dichiaro in questa materia, si deve piuttosto ai lumi della religione po sitiva che ha tagliato i nodi con la sua autorità. La sensazione non importa semplicemente la rappresentazione di cause esterne,l'appercezione delle qualità dell'oggetto, ma an che una immancabile alternativa di dolore o di piacere. Una sen sazione che non s'accompagni con un'emozione gradevole o in cresciosa,è un'astrazione senza realtà. La sensazione è tutta la sensazione: ossia fatto rappresentativo oggettivo e fatto emotive. Del resto, B. ammette la oggettività della cosa, ma non ammette quella dello qualità: « Dans la réalité, une sensation ne représonte rien en elle-même, parce qu'ellen'estriendesemblableàl'objetquilaproduit -- chia come fisica; e i positivisti d'oggi e gli altri agnostici non hanno nessuna la nuova conclusione È la vec de 'critici negativi di ogni m e t a della sottomissione rità religiosa. È la conseguenza ragione di scandalizzarsi forze della ragione. di B. logica e fatale all'auto della sfiducia nellesoggettivo. Donde la vera classificazione delle facoltà dell'anima inintuitiveeattive;leunestrumento dellaconoscenza,lealtre dell'azione.Le forme rappresentative sono icaratterifilosoficidella sensazione; i fenomeni di piacere e di dolore, i caratteri morali. Il piacere e il dolore ci sono noti immediatamente, perchè li proviamo: m a la ragione del loro accadere è impenetrabile. In compenso,la loro conoscenza è nettae distintaper modo che a nessuno è possibile confondere l'uno con l'altro; anzi ognuno sente il piacere come un'affezione di natura diametralmente op posta al dolore. Ora, l'idea di sensazione è inseparabile da quella di m o vimento. Già essa, consistendo in fondo in un cangiamento di stato, ossia in un passaggio da uno stato ad un altro, non può avvenire senza movimento ! Ma essa stessa poi genera un m o vimento; e come essa ha un doppio carattere morale, secondo che è piacevole o dolorosa,è chiaro che determinerà una doppia specie di movimenti. Quei fenomeni esteriori e visibili che si osservano nell'uomo investito dalla gioia o dalla tristezza, non sono che una conseguenza organica d'un primo movimento che si determina per tali sentimenti nell'anima. E per analogia con i movimenti che si vedono nel corpo, noi possiamo dire,che ilm o vimento correlativo dell'anima ora è espansivo,ora è coercitivo: espansivo quando si tratta di piacere, coercitivo quando sitratta di dolore. B. combatte la vecchia dottrina edonistica epicu rea, rinnovata da VERRI (si veda) nel suo Discorso sull'indole del piacere e del dolore, che il piacere con sista nella cessazione del dolore.Che significa che ildolore cessa? Il dolore,come il piacere,è un carattere della sensazione: sicchè può cessare se cessa la sensazione dolorosa. E se cessa la sen sazione, non può esserci nè anche il piacere; perchè anche il piacere è carattere della sensazione, e non può esser prodotto da niente. E poi: contro la dottrina del Verri sta l'esperienza comune degli oggetti, parte noti come causa diretta di sensa (1) Ecco perchè e in che senso B. distingue la scienza della morale dalla filosofia. Vedi LOSACCO, Le dottrine edonistiche italiane, Napoli, Atti della R. Acc. di Sc. mor. e pol. di Napoli, dove appunto sarebbe stato opportuno ricordare le osservazioni fatte al Verri da B. zioni gradevoli, e parte, di sensazioni dolorose: gli uni e gli altri come forniti di caratteri dipendenti dalle loro qualità par ticolari ed intrinseche. Se il piacere fosse generato dalla cessa zione del dolore, delle due l'una: si dovrebbe ammettere cioè, o che in natura non esistono oggetti piacevoli di nessuna specie, e che tutto l'universo non è che una causa unica e continua di dolore; o che, se alcun oggetto piacevole esiste, esso dev'essere considerato come una creazione inutile o come un'aberrazione e una mostruosità fuori dell'ordine normale delle cose. E in verità non si può concepire niente di più strano e di più assurdo.Certo, bisogna riconoscere che il piacere attinge un maggior o minor grado d'intensità secondo che succeda a un dolore più o meno vivo,o più o meno rapidamente cessato. Ma il piacere è uno stato positivo, come il dolore. Nè vale ricorrere come fa il Verri a quei dolori oscuri, equi voci, quasi inconsci, che egli dice dolori innominati, per ren der ragione di quei piaceri che l'esperienza non ci mostra come successivi a un dolore. L'affermazione di siffatti dolori è asserzione vaga, dice B., epocodegna dellaseverità dell'analisi: contraddetta dal fatto delle serie di sensazioni associate, tutte piacevoli. Ma torniamo ai gradi dello sviluppo dell'anima. Il primo è dunque quello attestatoci dal sentire:ossia l'attitudine dell’a nima a sentire, o sensibilità propriamente detta. Questa facoltà, come ogni altra, è attiva, checchè ne dica il Laromiguière. In fatti, dire facoltà passiva è una contradictio in adiecto: perchè fa coltà viene da facere, sinonimo di agere; ed è perciò lo stesso che attività. La sensibilità si dice passiva, perchè le sensazioni sono necessarie e come imposte: non essendo in poter nostro di evi tare l'eccitamento degli stimoli esterni, nè, una volta eccitati, di non provarne le impressioni sensibili. M a il senso non è semplice recettività; ei non ha niente di simile a un corpo fisico in riposo che riceva un urto meccanico da un altro corpo che è in movimento. L'anima nell'atto che riceve quel dato stimolo, risponde all'impressione esterna, facendo nascere la sensazione, cioè « B. ha ragione di notare al Verri che oltre e meglio di Platone, Montai gne, Cardano e Magalotti, avrebbe potuto citare tra coloro che avevano sostenuto la sua dottrina, Epicuro: pel quale il vero piacere era appunto oneExipeous Tavtos toj a d yoovtos (DIOG. L.). Vediunmio articolonellarivistaLa Criticadir. da CROCE,In questa facoltà del senso tutte le altre trovano il prin cipiodellorosvolgimento.Datoilcarattereespansivo delpiacere, bisogna ammettere nell'anima una specie di attività differente da quella del senso. L'essere senziente pel piacere « ne sent pas simplement; il s'élance dans sa propre modification, et s'efforce à tout prix de s'y attacher ». C'è qui uno sdoppiamento d'atti vità:un'attivitàsente, eun'altrasisforzadiconservareuno stato.. L’una e l'altra sono facoltà elementari;e la seconda dicesi volontà. Di qui si vede che lo sviluppo della volontà comincia dalla prima sensazione piacevole; poichè il dolore è coercitivo. M a il dolore ha un'altra funzione. Il piacere sviluppa la doppia attività dell'anima sensitivo -v o litiva; il dolore la sola attività sensitiva. Sicchè ilsuccedere del dolore al piacere non può riuscire indifferente all'anima; la quale non può non raffrontare i due stati, e sentire la loro diversità. Ora, sentire questa disparità tra isuoi modi di essere,non è sen tire gli stessi modi di essere separatamente, e ciascuno per sè. Questo nuovo sentire è quindi l'effetto d'una terza facoltà, ele mentare anch'essa, dell'anima;è ciò che dicesi propriamente un giudizio. 14. Queste del senso, del volere e del giudizio sono le tre fa coltàprimitivedellospirito;le leggi,perdirlacon Dugald Ste art, della nostra costituzione mentale. Esse non sono distinte per modo che ciascuna di esse sorga a misura che condizioni particolari del suo sviluppo vengano sucessivamente a verificarsi; perchè l'essere sensitivo è uno; e fin dalla sua prima risposta aglistimoliesterni,eglisielevaintuttalapienezzadellesue potenze, come me che sente, me che vuole, e me che giudica. Pure, come l'esperienza umana non si occupa affatto delle esistenze in quanto indipendenti da ogni rapporto con noi (non le afferma, nè nega), cosi per la nostra esperienza non importa che le fa coltà primitive dell'anima siano tutte e tre originarie: essa non fenomeno sui generis, che si riferisce all'oggetto esterno, senza però rassomigliargli e senz'aver nulla di comune con esso » (1).Il cheèattivitàenonpassività.– Sicché quest'argomento del La romiguière per togliere la sensazione dal seggio in cui il sensi smo, fino a quella che il Picavet chiama la seconda generazione di ideologi, l'aveva collocata, come fonte e base di ogni prodotto dello spirito, non ha alcun valore.) tien conto nel me che sente,del me che vuole,nè del me che giu dica:questi me non ancora sirivelano; sono,ma per noi come non fossero. Per tenerne conto,sì da non ammettere nessuna gra duazione,nessuno sviluppo nella formazione dell'anima, la filoso fia dovrebbe spingere l'analisi al di là di ciò che si è manifestato alla nostraanimainun modo positivoereale. Insomma, B. afferma, come sa e come può,la necessità razionale di conci-. liare il concetto dell’a-priori dell'anima col concetto dello sviluppo di essa. In questo sviluppo la volontà ha una parte importantis sima,come s’è visto. Senza la volontà l'anima non potrebbe che sentire, e non si eleverebbe mai all'altezza del giudizio. E poichè volontà senza piacere è impossibile, il piacere è il cardine e il centro della vita dello spirito. Esso è l'unico motivo del volere: e B. non accetta nulla della dottrina del Locke che il volere sia determinato da un'inquietudine attuale. Il dolore non cimuove,macimortifica. Il dolore ci muove quandofuoridi noi ci sia qualche cosa di piacevole il cui acquisto ci prometta un sollievo. Ma allora non è propriamente il dolore il vero motivo, anzi quella sensazione piacevole che l'oggetto esterno ci fa pregustare. Il dolore come tale è assolutamente quietivo: nessuno può volervisi sottrarre senza l'esperienza d'uno stato diverso, che sarà quindi il reale motivo del voler suo. Non ci sono desiderii vaghi di liberarsi da dolori attuali senza saper nulla dello stato in cui si cangerebbero. Si ha sempre un'idea dello stato diverso che si desidera. Condillac disse bene. Les besoin ne trouble notre repos, ou ne produit l'inquiétude, que parce qu'il déter mine les facultés du corps et de l'âme sur les objets, dont la privation nous fait souffrir. Nous nous retraçons le plaisir qu'ils nous ont fait: la réflexion nous fait juger de celui qu'ils peuvent nous faire encore; l'imagination l'esagere; et, pour jouir, nous nous donnons tous les mouvemens dont nous sommes capables. Toutes nos facultés se dirigent donc sur les objets dont nous sentons le besoin ». Or questo,osserva B., non è che un commento di Locke; il quale, indicando il dolore come causa delle nostre determinazioni,esige che v’abbia nello stesso teinpo fuori di noi quel tale oggetto piacevole che ci promette un sol lievo. Ma in questo modo è un aperto tradirsi, è ammettere di fatto ciò che con tanta fatica si combatte in teoria. Si, è « pour jouir, come dice Condillac, que nous nous donnons tous les m o u vemens dont nous sommes capables ». Il vero motivo dunque delle determinazioni volitive è quel l'oggetto volibile posto fuori di noi,di cui parla lo stesso Locke. Ma come s'ha da intendere questo fuori di noi? Non certo nel senso spaziale: perchè in questo senso l'oggetto resta sempre fuori del soggetto che lo sente. Qui si tratta invece di posizione nel tempo; vale a dire, l'oggetto è fuori di noi in quanto non è ancora, può in avvenire esser posseduto da noi: in quanto rispetto a noi è un oggetto futuro, laddove l'oggetto goduto può dirsi presente e attuale. Di qui il principio, su cui B. insiste a lungo e difende da ogni possibile obbiezione, che il motivo di tutte le azioni umane sia la sensazione piacevole dell'avvenire. Or donde, dato un unico motivo possibile, tanta varietà nelle azioni umane? Egli è che l'anima, a cominciare dalla sensa zione,non è,come fu già osservato,uno strumento passivo.Un'af fezione poi, com'è data dalla sensazione, non resta immobile e inerte nell'anima,che la elabora e la spiritualizza, decomponen done gli elementi costitutivi (un oggetto nelle sue varie qualità di cui non è che l'insieme) per distinguere questi l'uno dall'altro, e d'ognuno farne un centro d'associazione d'altre affezioni o m o genee che concorrono a fissarvisi. Quindi un intreccio di vincoli per cui le rappresentazioni sono fra di loro legate; e quindi una maggiore o minor forza in ognuna a seconda del più o meno stretto collegamentocon altre;ecorrelativamente,una maggioreominor facilità in ciascuna di esser ricordata e come d'esser proiettata pel futuro.Ora questa forza intrinseca dell'anima,elaboratrice dei materiali dell'esperienza sensibile,non pervenendo a uno stesso grado in tutti gl'individui e in tutte le età, è chiaro che confe rirà un contenuto diverso al motivo del volere,e produrrà quindi la varietà delle azioni. Insomma, essendo identica in tutti la natura dell'anima e identici gli organi esterni che le porgono alimento, si genera ne'diversi individui un diverso contenuto psi cologico, da cui dipendono le determinazioni del motivo in so unico dell'umano volere. « Certo, dice con enfasi B., quell'inflessibile Bruto che condanna a morte i suoi figli, e che con occhio fermo assiste all'ese cuzione della sua terribile sentenza,sarà un essere inconcepibile ma [Essai troisième, chap. I e II. fuori del primitivo concetto della grandezza romana. Egli si slan cia attraverso la notte dell'avvenire, e vede per quell'esempio di giustizia spiegarsi sotto isuoi occhi,in una successione magnifica, cinque secoli di gloria e di prosperità; vede la nazione più colos sale uscirne tutta intera e coprire della sua potenza la faccia della terra; e concezioni che spaventano le anime comuni, rien trano per le anime straordinarie nei rapporti immutabili del l'esistenza dell'universo ». Il principio delle azioni umane, dunque, è la sensazione piacevole di un oggetto futuro: o con termine più semplice, il piacere. E la storia ce ne fornisce una conferma evidente. L'ori gine della società non è che l'effetto di tale principio. Esso conduce il selvaggio dalla caccia alla pastorizia, quando l'esperienza gl'insegni che le intemperie o le malattie potranno impedirgli un giorno di procacciarsi la preda necessaria al vitto: ed egli provvede all'avvenire impadronendosi, quando può, di gran numero di animali pacifici, per esempio di cervi, e li conserva vivi, per potersene nutrire al bisogno. Esso fa sorgere accanto alla pastorizia l'agricoltura, quando l'uomo conducendo gli armenti alla pastura, acquistata la conoscenza degli alberi e delle piante, comincia a sperimentarne l'uso, e a poco a poco a calco larne ivantaggi che ne può ricavare con la coltivazione.Esso mena il pastore e l'agricoltore a scambiarsi i prodotti superflui della loro diversa operosità,segnando quindi la data della più potente rivo luzione nell'insieme dei loro bisogni e delle loro facoltà. Quindi, dividendosi sempre più il lavoro e moltiplicandosi gli scambii, sempre quell'identico motivo aduna insieme ad abitare in un sol luogo consumatori e produttori, e crea le città. Poscia perfe ziona le arti, regola le industrie, e fa nascere perfino le scienze. È questa la molla segreta di tutto l'umano progresso. 18. E che è la proprietà se non un sostegno dell'avvenire? E a che si ricerca e si stabilisce, se non per assicurarsi il piacere futuro? La proprietà è necessaria appunto perchè è necessario cotesto sostegno dell'avvenire. E coloro che declamano contro la proprietà, esaltando la comunanza dei beni, non sanno che si di cono, e si stenta a credere che parlino in buona fede. E che? La comunanza dei beni esclude forse la proprietà? Una massa di mezzi di sussistenza appartenente a una colonia intera senza appartenere agl'individui che la compongono,è inconcepibile.La proprietà individuale ci sarà sempre, sebbene ridotta al libero uso che ciascuno può fare dei beni comuni; perchè in quest'uso è assicurato appunto a ciascuno il sostegno dell'avvenire; che è la vera sostanza del concetto di proprietà. Ma cogliendo il frutto, non s'è padroni di tagliare l'albero che lo produce. Ma l'albero non è per ciò sempre una proprietà,alla quale ognuno ha diritto di ricorrere, quando vuol soddisfare la fame? Ma questo diritto appartiene egualmente a tutti gl'individui della colonia. Ma da quando in qua la solidarietà del possesso ha distrutto il diritto di proprietà, che ciascun solidale ha sullo stesso fondo? E tanto è vero questo modo di vedere che,quando questa massa di beni comuni cessi, per dissensi o usurpazioni, di soddisfare ai bisogni di tutti gli individui della comunanza, cessa anche di essere una proprietà, pel solo fatto che nessuno più vi riconosce l'appoggio del suo avvenire;e allora ognuno per sussistere fa assegnamento sul suo lavoro personale, e si crea una proprietà a sè, di cui gli altri non partecipano punto il godi mento. Declamare, dunque, conchiude il nostro scrittore, contro la proprietà è pigliarsela colle affezioni costitutive del n o stro essere. Pretendere la proprietà con la comunanza dei beni, è giuocar di parole, é appigliarsi a una differenza, che rispetto alla nostra natura sensitiva è nulla. E che è la legge se non una garenzia dell'avvenire? Tutte le definizioni diverse date da CICERONE (si veda), da Montesquieu, da Grozio, da Rousseau contengono forse ciascuna una verità,ma par ziale e incompleta. La legge non è una semplice volontà, nè un pensiero generale, nè un'astrazione filosofica: ma « una potenza sempre attuale, sempre formidabile,che nasce dal bisogno di con servare inviolabili le affezioni più generose dell'anima. La pro prietà basterebbe come sostegno dell'avvenire;ma questo soste gno è ad ora ad ora scosso dalla violenza e della mala fede, con tro le quali urge appunto la garanzia delle leggi. Certo la legge provvede a un vizio della convivenza civile; e Tacito ha ragione: corruptissima republica,plurimae leges! 20. E se si riflette, la stessa religione rispecchia quel fonda mentale motivo di tutte le umane produzioni. Non è religione quella del selvaggio, che, atterrito dal rimbombo del tuono nel mezzo della tempesta,si prosterna innanzi al corruccio d'un Dio che ei si rappresenta posto sulla cima delle nubi; o del selvaggio che all'apparire del sole vedendo sorridere la natura, adora in ginocchio l'astro luminoso, ond'egli fa la dimora sacra d'un Dio benefattore: perchè il vero sentimento religioso è ben altrimenti profondo. Religioso è l'uomo la cui anima si espande a tutto ciò che v'è di più tenero e di più simpatico nei rapporti della natura vivente, e sdegnando fieramente i limiti d'una tomba fredda e silenziosa, innalza le sue più nobili aspirazioni oltre il confine del tempo e dello spazio: l'uomo virtuoso che l'ingiustizia dei suoi simili ha gettato nelle tribolazioni dellavita,eche,non vedendo se non nella morte il termine delle proprie miserie,apre l'anima alle illusioni lusinghiere d’un'altra vita imperitura,e sospira la calma che si ripromette di trovarvi.Negli uomini diquesta tem pra conchiude il Bozzelli s'eleva il santuario della reli gione, dond'essa apparisce raggiante delle speranze più consola trici. La religione nasce pertanto come l'infinito dell'avvenire(1). Disse lo Shaftesbury, che il primo ateo dovette essere certamente un uomo triste e malinconico. Il contrario anzi è vero, secondo il nostro romantico scrittore. Le reveries seducenti della tristezza malinconica fecero nascere la religione; e l'ateo è un 21. Tutta l'umanità dell'uomo,dunque,cidice,che ogni deter minazione dello spirito procede dal bisogno d'un piacevole avve nire. E in questo bisogno perciò occorre cercare il reale fonda mento di quel fatto umano,che è a sua volta la morale. L'etica di B. è,come ognun vede,schiettamente edo nistica. E come ogni edonista, B. concepisce la morale come un fatto naturale,ed è risoluto avversario del concetto normativo di essa. « L'homme, egli dice, ne doit être que ce qu'il est: la règle de sa conduite ne répose que sur les lois de sa constitution fondamentale... Dire que l'homme doit être par choix une cose tout-à-fait différente,de ce qu'il est par essence, c'estprétendre qu'unarbrefait pour produiredespommes,pro duise des poulets ou des poissons. E direbbe invero benissimo se questa concezione realistica della morale egli non riattaccasse alla veduta metafisica dell'antico edo nista,che honeste vivere est secundum naturam vivere; e se ricer cui cuore freddo e gretto è incapace di allargarsi deliziose d'un'anima alle espansioni tenera e gentile. La réligion et l'irréligion ne constituent en dernière analyse qu'une simple sibilité question de sen essere il cando nell'uomo stessoilfondamento effettivo dellamoralità,egli non si mettesse innanzi l'uomo nella sua nudità primitiva. L'uomo ancor nudo, il bestione di cui parla Vico, non ha ancora moralità, è ancora natura: e bisogna aspettare, per dir così, che si vesta, perchè diventi quell'essere nella cui costituzione una concezione realistica della morale possa trovare il fondamento di fatto di questa.Ad ogni modo,vediamo come quest'uomo ancor nudo acquisti col solo motivo del piacere la moralità, secondo B.. 22. La morale non è che una continuazione, o, se si vuole, un'applicazione dell'analisi fin qui fatta delle forze operanti nello spirito, Si rifletta. Se tutti gli oggetti circostanti fossero uni formemente piacevoli,per obbedire alla propria natura, ed essere quindi completamente felice, l'uomo non dovrebbe che abbando narsi agl'impulsi della sua volontà spontanea. Ma, pur troppo, questa età dell'oro non è che nell'immaginazione di Esiodo e de gli altri poeti antichi che la descrissero. Purtroppo, le cose e gli stati sono ora piacevoli e ora dolorosi; e l'uomo, che non ab bia accumulato una sufficiente esperienza, spesse volte s'inganna: crede di seguire il piacere, e si trova innanzi il dolore: e procede sempre nella vita come naviglio in mezzo all'Oceano,ora favorito dal bel tempo, ora sbattuto dalla tempesta. Ma i disinganni e i dolori lo rendono riflessivo, distruggono in lui quel naturale abbandono agl’impulsi ciechi del volere; lo rendono sempre più prudente, e più difficile nelle determinazioni future. Gli farebbero contrarre l'abito della perplessità e della irresoluzione, se non soccorresse il giudizio,che solo ha il po tere di leggere nell'avvenire fondandosi sul passato,ed è in grado perciò di fornire una garanzia all'anima che vuole, mostrandole il bene verace, incoraggiandola, rassicurandola. Il giudizio, ricercando sempre i rapporti del mondo esterno con l'uomo a fine di garentire il volere per il futuro, accumula via via un gran tesoro di fatti positivi; che non restano patri monio esclusivo dell'individuo che ne fa esperienza,ma si comu nicano nelle famiglie, e si ereditano di generazione in genera zione; moltiplicandosi col tempo per l'esperienza degli altri in dividui;permodo cheinfinel'uomo sitrova riccodituttiimezzi che occorrono ai suoi vasti bisogni. L'analyse de la pensée a dissipé les romans,a désenchanté les osprits,a montré l'homme dans sa nudité primitive >Se non che questo fardello di esperienza che cresce sempre, non può crescere indefinitamente: perchè finisce con essere in sopportabile alla memoria. E che avviene? Una parte di esso va lentamente perdendosi nell'oblio.È vero che intanto nuove espe rienze aggiunge di proprio l'individuo; m a è tutto un versar acqua nella botte delle Danaidi.almeno sarebbe,se In queste massime, in questi apoftegmi, in tutte queste gene ralizzazioni è la morale, una morale pratica, che diventa scienti fica quando tutti i precetti, tutte le massime sono coordinate e messe d'accordo tra loro,ridotte a sistema e subordinate a un'idea unica e centrale. La morale, insomma, si riduce a una precet tisticadiprudenza;ogni imperativo,potremmo direcon Kant,è ipotetico. Come accade che la morale apparisca qualche cosa di di verso? B. spiega anche la psicogenia del concetto corrente della morale, come di un insieme di obblighi superiori, imposti alla nostra natura sensibile e non derivati affatto da questa. Una volta formate le massime generali, è naturale che, invece di fare ai figli delle lezioni pratiche richiamando o narrando tutte le singole esperienze, si preferisca d'imprimere nella loro memoria quelle regole determinate che essi potranno poi applicare nel loro interesse secondo i casi della vita; giacchè in tal modo siri sparmierà tempo e fatica,e sarà tanto di guadagnato per l'inse gnamento che si vuol dare. M a come fare accettare tali regole ai figli? La loro vera giustificazione sta nell'insieme dei casi par ticolari, da cui sono estratte. E rifare la storia di quei casi è impossibile; tanto varrebbe continuare nel vecchio sistema, e la sciar da banda le regole. Si pensa ad imporle incutendo per esse un rispetto stabile e profondo, col dare ai fanciulli un'idea m i steriosa della loro natura ed origine. Non si presenta la verità tutta nuda: si crede anzi di ren CAPITOLO V tervenisse di genio, che, fatta una cernita non in l'opera degli uomini dotati d'una gran mobilità sieme tutti i catenano e fondono masse di quelle esperienze simili e quindi generalizzando con finezza e profondità carico di fatti individuali, in caratteri coloriti e sfumati casi particolari intere di tali esperienze, e le rendono al pubblico cui originariamente mero di parole partenevano,secondo lafineosservazione in piccol n u ap del La Bruyère, coniate, chiare e precise, in apoftegmi per dir cosi, in massime ed eleganti, in pensieri ingegnosi semplici: con cui si sostituisce e minuziosi. da tutti il pesante e forza, messi in, in derla più bella vestendola e abbigliandola in costume da teatro. Si dice che quelle regole hanno un'origine soprannaturale, che sono innate in noi; che ognuno le porta impresse nel cuore. E vera mente come figure rettoriche queste espressioni, dice B., potrebbero correre. Si può dire, infatti, che Dio ci abbia dato queste regole nel senso che egli ci ha fornito i mezzi di scoprirle e constatarle; si può dire che siano innate in noi, nel senso che noi siamo dotati delle facoltà adatte a farcele scoprire. Ma così potrebbe dirsi egualmente,che Dio ci ha comunicate le leggi del moto,e che esse sono impresse nelnostrocuore,per ciò solo che ci ha così fatti da apprenderle mercè l'esperienza e la rifles sione. 24. Non già che le leggi morali sieno convenzionali e arbi trarie. Esse sono fisse e invariabili nell'ordine eterno delle cose; dipendono dalla nostra natura sensibile; come le leggi fisiche ap partengono intrinsecamente ai corpi.Noi non possiamo cangiarle, nè sottrarci ad esse. Ma l'origine loro nel nostro spirito non è differente in nulla dall'origine dei concetti che pure abbiamo delle leggi fisiche. Certo, nel mondo fisico, sarebbe meglio limitarsi a insegnare a un contadino come, coltivando e curando erbe ed alberi sel vatici,i nostri padri pervennero col lavoro a sostituire alla fine, per la nutrizione, frutti più dolci e più succulenti alle ghiande e alle radici. Ma in pratica,è indifferente che gli si dica al con trario,che tutto si deve al solo dono degli Dei; e che a Minerva dobbiamo l'ulivo, a Cerere le biade e a Bacco la vite.Il sistema è diventato falso,perchè si è esagerato; e a forza di voler cavare tutto dai cieli,s'è finito col farne scendere perfino il delitto e la corruzione. Ma oggimai, pare a B. che meglio si farebbe dicendo il vero ai giovani; mostrando loro come quelle regole di morale che, si additano ad essi, non sono altro che la quintessenza del l'umana esperienza accumulata a prezzo di infiniti dolori; e che seguirle è fare il proprio interesse, perchè esse insegnano i mezzi di sfuggire al dolore. La morale di B. è per questo essenzialmente intellet tualistica come quella di Socrate. Esser virtuoso è sapere: sa (2) Ma la fonte diretta è HELVELTIUS; il quale già aveva detto che bisogna « décou vrir aux nations les vrais principes de la morale; leur apprendre qu'insensiblement en per veramente. E come Hobbes scrisse un libro De computatione seu logica, bisognerebbe scriverne un altro: De computatione seu ethica: perchè non si tratta anche in morale che di un calcolo. Ma a questo punto B. prevede un'obbiezione: la vostra morale è impossibile, perchè, incatenando la volontà al piacere, voi avete distrutta la libertà che è la condizione sine qua non della morale. Intendiamoci: bisogna distinguere libertà da libertà. Io ammetto, egli dice accordandosi pienamente col Borrelli, lalibertà,ma comepotenza d'agiresecondole determinazioni (lella volontà, senza che alcuna forza estranea Questa libertà d'agire esiste, ed è assoluta; perchè non vi sono ostacoli estranei di nessuna natura che le si possano opporre.Non ve ne sono fisici; perchè, p.es., l'impossibilità di saltare un fiume dipende dalla limitazione naturale delle nostre facoltà muscolari, ossia da condizioni del nostro essere. Non ve ne sono morali, a maggior ragione: perchè il non poter derubare, il non poter as sassinare la gente, è un ostacolo alla determinazione del volere, più che all'azione; del volere, che trova il proprio interess e nel non determinarsi mai per ciò che può distruggere la sua felicità.Non ve ne sono,infine,sociali;perchè lostato sociale,checchè ne dica Rousseau, non importa la menoma limitazione della libertà natu rale; perchè chi consideri le leggi civili secondo il fine per cui sono istituite, esse non possono che essere d'accordo coi motivi della volontà di tutti gl'individui per le quali sono dettate. E se in pratica, scrive il liberale del '20, si osserva il contrario, la colpa non è del principio:ora si parla della società, non delle società Qui il Nostro ha un'osservazione preziosa, che avrebbe vivificata tutta la sua etica, se egli se ne fosse ricordato a tempo, e che ci fa desiderare il suo Esquisse politique, che non ci è riu scito di vedere.Il concetto dello stato di natura in cui ogni uomo èlupoall'altrouomo,pare a B. un romanaffreur;esime raviglia che sia mai potuto entrare nella testa di un essere ragio traînées vers le bonheur apparent ou réel la douleur et le plaisir sont les seuls moteurs do l'univers moral; et quo lo sentiment de l'amour de soi est la seule base sur laquelle on puissojeterlesfondements d'une moraleutile» (Del'esprit). Anche per Helveltius la virtù era un calcolo, e il vizio un effetto dell'ignoranza. Senza opponga ostacoli. questa libertà la felicitàsarebbe impossibile; e sarebbe quindi anche impossibile la morale) nevole. Il vero stato di natura, egli dice, non è che lo stato so ciale: e ciò è così semplice, cosi chiaro, così intuitivo che non è mestieri dimostrarlo. Ma l'osservazione è quasi guastata dal commento:che sarebbe stata un'inconseguenza quella della natura di aver fatto l'uomo per la felicità e per la società che ne è la condizione fondamentale, e avergli conferito insieme tali diritti (ipretesi dirittidinatura,abbandonati,secondo Rousseau, perla sicurezza di altri diritti acquistata con lo stato sociale) da esser egli obbligato a disfarsene tosto per compiere il suo vero destino. Tutte le limitazioni, insomma, sono limitazioni del volere, o del corpo stesso dell'agente: non sono mai estranee ad esso; e. non si può dire mai, quindi, che importino una restrizione della libertà di agire. Quanto questo agente, considerato non solo come volere,ma anche come organismo corporeo,sappia di crudo m a terialismo, non occorre spiegare. Era la tendenza intrinseca di tutto il pensiero bozzelliano, che dalla sola sensibilità si proponeva di cavare anche ciò che ha natura essenzialmente superiore. Dunque, libertà di agire, si: ma se si pretende anche li bertà di volere, il Nostro non dubita di affermare che un tal concetto è parto d'immaginazione indelirio. La libertà presup poneilvolere;enonpuòquindi esser presupposta da essa, perchè, per esser libero, bisogna prima volere; laddove la libertà del volere importerebbe che si fosse liberi prima di volere. L'argo mentazione qui è evidentemente viziosa, avvolgendosi in un cir colo: giacchè si vuol dimostrare che l'unica libertà è quella di agire, e contro quella di volere si toglie una ragione dalla li bertà di agire. Giacchè solo rispetto all'agire la volontà precede la libertà. Ma B. domanda che significhi la frase libertà di vo lere. Se si crede, egli dice, che si possa volere senza motivi, ciò è assurdo. Si vuole perchè si sente; mancando la sensazione pia cevole, la facoltà di volere resta inattiva, demeure en silence.Non si può volere, senza voler qualche cosa, senza un fine: voler nulla è non volere. E non è possibile nessuna distinzione tra fine e motivo. Se poi s'intendesse per volere libero un volere non impedito da ostacoli, non si direbbe nulla di positivo; perchè gli ostacoli possono opporsi ai movimenti comandati dal volere, non al volere. Il volere è come il pensiero: nessuno e nulla può comprimere la libertà del pensiero in se stesso, che non è suscettibile di nessuna opposizione diretta.Impedire si può la mani festazione del pensiero, con la parola o con gli atti. Il concetto d'una possibile determinazione contraria a quella effettivamente datasi, è assolutamente arbitrario: perchè la v o lontà indipendente dalle sue reali ed effettive determinazioni, qual'è quella cui tale possibilità si riferisce,è un'astrazione senza nessun fondamento di realtà. La volontà è volta per volta determinata in maniera neces saria. « L'uomo non può volere che il piacere: non è padrone di volere il dolore, perchè dolore e volontà s'escludono a vicenda. Questa risposta è perentoria. Questa necessità del volere però, lungi dal contrastare la morale, è la sola che possa salvarla. Data la libertà del volere, ogniideadimoralesar ebbeannientata. E laragioneèovvia. Questa libertà importa che la volontà sia indifferente al piacere e al dolore; epperò, che quelli che si dicono oggetti piacevoli, e quelli che si dicono oggetti dolorosi producano di fatto impres sioni analoghe. In verità, non si potrebbe volere il dolore senza ammettere insieme che questo possa produrre sull'anima un'im pressione simile a quella prodotta dal piacere. M a questo sarebbe distruggere ogni differenza, e quindi ogni distinzione di male e di bene, e ogni ragione di merito o di demerito delle nostre azioni, ogni fondamento insomma della morale.Importerebbe inoltre, con la possibilità di scegliere il male, una certa relazione invariabile tra i bisogni umani ed il male, come ve n'ha di certo tra i bi sogni e il bene: onde non sarebbe una colpa l'abbandonarsi al male. Ne inganni il fatto che, malgrado la ripugnanza naturale,il vo lere si determini talvolta pel male; ciò accade perchè il male si presenta allora sotto l'apparenza di bene, e il dolore riveste non di rado a'nostri occhi le forme seducenti del piacere. La stessa morte al suicida stanco di soffrire apparisce come una liberazione o un sollievo,e perciò appunto un piacere. Rousseau, ostinato libe rista, in un momento di felice ispirazione esce in un'affermazione importantissima e tanto più preziosa, in quanto è fatta da lui: « Non, egli dice,je ne suis pas libre de ne pas vouloir mon propre bien,je ne suis pas libre de vouloir mon mal: mais la liberté con siste en cela même que je ne puis vouloir que ce qui m'est con venable,ou que j'estime tel.S'ensuit-ilque je ne suis pas mon maître,parce que je ne suis pas le maître d'être un autre que moi?» Ora, si può modificare ilpuntodivista:maquestoè verissimo: che libertà vuol dire e deve voler dire esser se stesso, non già poter esser altro che sè. B. insiste molto nel combattere tutte le astrazioni, tutte le creazioni,come direbbe Hegel, dell'intelletto astratto nel campo dell'etica. Perciò egli richiama l'attenzione sul parallelo sviluppo dei bisogni e delle conoscenze umane corrispettive, per cui è possibile che i bisogni sieno soddisfatti, attraverso i secoli. I bisogni crescono sempre e si complicano; crescono e s'affinano insieme le conoscenze relative; anzi il desiderio di nuovi piaceri stimola a nuove conoscenze, e le nuove conoscenze suscitano e creano nuovi desiderii e nuovi bisogni. I bisogni sono oggi infi nitamente di più e maggiori che una volta; e la loro soddisfazione è certamente più difficile; e quindi più difficile la felicità. La vita d'una volta era un navigare su un lago tranquillo,donde si discopra con uno sguardo la ridente e pittoresca riviera; la vita d'oggi è un traversare un oceano tempestoso e pieno di scogli,i cui confini si confondano con l'immensità dello spazio. Ma non pertanto quei moralisti che, per assicurare agli uomini la felicità, vorrebbero farli risalire, a ritroso degli anni, verso lo stato di semplicità primitiva in cui li pose la natura, rassomigliano al medico che chiamato a curare un'indisposizione, visto che è s e m plice effetto di vecchiaia, imputasse al malato la decadenza da quella prima età in cui questi mali sono ignoti,e gli consigliasse per tutto rimedio di tornare agli anni fiorenti della giovinezza. V’ha una successione di età come per l'uomo fisico così pel morale;come per l'individuo, così per l'umanità.L'uomo col suc cedersi dei secoli passa di condizione in condizione, si trasforma naturalmente; e tornare indietro è impossibile; concepire il ritorno è sogno seducente dell'uomo dabbene, che crede possibile tutto ciò che l'immaginazione gli presenta come desiderabile. Nello stesso errore cadono stoici ed epicurei,dimezzando l'uomo e creando un essere fittizio non corrispondente punto alla realtà. Gli uni credono di poter assicurare la felicità all'uomo, spogliandolo di tutti i bisogni, e facendolo impassibile a tutti i piaceri, intento unicamente a non so quale virtù selvaggia, posta non come d'ordinario in un luogo alto e difficile,ma addirittura in una regione eterea al di là della na ra umana, e appena accessibile agli slanci d'una immaginazione ardita e malinconica. Gli altri vorrebbero sottrarre anch'essi l'uomo alla inquietudine dei bisogni suggerendogli il carpe diem, il partito di appigliarsi ai piaceri più prossimi per procurarsi la voluttà del corpo e l'in dolenza dell'anima.I Cinici e i Cirenaici,precorrendo queste dot trine, le avevano di già screditate esagerandole. L'uomo di Z e none è un'astrazione; perchè l'uomo come essere sensibile non esiste che pel mondo esterno, al quale deve lo sviluppo della sua sensibilità; e non può chiudersi in se stesso e rinunciare a tutte lesensazioni,come dovrebbe,persottrarsiatuttiibisogni.L'uomo segregato dall'universo e divenuto come una statua, è l'uomo sna turato, l'uomo distrutto. Così l'uomo di Epicuro, che rinunzia alle più alte soddisfazioni per pascersi dei piaceri più facili, con trasta con ogni idea di progresso, di attività umana: è mezzo uomo ancheesso; èsimileall'aquila,che,dotatadialiper slan ciarsi verso la luce fiammeggiante del sole, preferisse di sbaraz zarsene per somigliare ad un rettile. M a già queste opposte dottrine ci dicono che oggetto unico della morale è per tutti il piacere; principio unico da cui partono e a cui tendono tutte le azioni umane. La virtù selvaggia degli stoici non è che il pegno simulato d'un piacere infinito; « e il torto di Epicuro non è.di aver fondato la morale sulla voluttà, per chè la voluttà è certo il sinonimo del piacere; ma di averne pro stituito l'idea,e tagliato lepiù splendide ramificazioni. Lo si combatte grossolanamente, laddove si tratta di rifiutare il senso stretto che egli vi lega: perchè infine la pratica della virtù è essa stessa una voluttà (4); e come dice con molto acume Montaigne: pour être plus gaillarde, nerveuse,virile, robuste,elle n'en est que plus sérieusement voluptueuse. L'uomo,insomma, è tutto l'uomo,e il piacere, motivo delle sue azioni, non esclude nessuna forma di piacere. Di qui è chiaro che tante saranno le forme di piaceri, quante sono le attività o gli stati dell'uomo; perchè altrettanti saranno i suoi bisogni. B.distingue nell'uomo la sua esi stenza animale e la sua esistenza sociale: le due condizioni, egli Non occorre qui notare la inesattezza storica di questa interpretazione del pensiero di Epicuro.E già nell'inesattezza il Bozzelli è in buona compagnia;perchè anche Kant pensava lo stesso) dice, che lo comprendono e costituiscono tutto intero. Quindi i piaceri sono classificabili in piaceri animali e piaceri sociali.La de duzione degli uni risulta dal già detto. Donde gli altri? Anche B. accetta la teoria della simpatia morale:il piacere degli al tri è nostro piacere,per l'identità di natura tra noi e i nostri simili. M a questi piaceri animali e sociali sono in relazione fra loro. Quali naturalmente prevalgono? E qui il Bozzelli rifà la solita critica dei piaceri egoistici,animali. Questi piaceri si riferi scono ai bisogni fisici, che non hanno nessuna latitudine, nè spa ziale nè temporale. Le condizioni della materia ne fissano i limiti. Portano sempre con sè sazietà e disgusto.Il godimento ne dissipa tutta l'attrattiva.Non hanno successione,nè continuità:si gene rano e svaniscono come fenomeni effimeri e staccati. Nascono col bisogno, e finiscono col bisogno:saziata la fame, la vista sola dei resti del pasto è importuna e sgradevole.Il letto, sollievo all'uomo stanco,diviene tormentoso a chi vi debba restare a lungo senza interruzione. Il fasto viene a noia, e dopo averne lungamente goduto,si cerca la campagna e idisagi.Questi piaceri insomma sono, per dirla con Plutarco, come aurette di venti graziosi che spirano le une su una estremità, le altre sull'altra estremità del corpo, e passano e svaniscono incontanente: così breve ne è la durata; simili alle stelle che si vedono la notte cadere dal cielo, o traversarlo da un punto all'altro, essi si accendono e si spengono sulla nostra carne in un istante. Dipingete un quadro con le tinte contrarie; e avrete la rap presentazione dei piaceri sociali.Di qui ilmaggior pregio (edoni stico, s'intende) e la naturale prevalenza dei piaceri sociali sugli. Nell'espressione di piaceri sociali, questa designazione ha però un senso molto largo: altri direbbe sentimenti spirituali. L'autore infatti li contrappone ai piaceri animali, dicendo questi jouissances directes du corps, e quelli jouissances directes de l'ame. Gli o g getti dei primi « consistent dans tout ce qui & rapport à l'entretien matériel de la vie et auxagrémensimmédiatsdessons»; glioggettideglialtriconsistonoinvecein «toutce qui a rapport à cette correspondanco, harmonique des sensibilités, en vertu de laquelle noussympathisonsavec les jouissances aussi bien qu'avec les sauffrances de nos semblables; etnousnous tentons poussésàaugmenter lesunes, àsoulagerlesautres,ànousréjouir du bonheur,à nous afsiger du malheur de notre prochain. Il quale, come il Nostro, non s'accorge combattendo L’ORTO, che ancheL’ORTO cosi critica i piaceri sensuali. Vedi l'opuscolo di Plutarco, (he non si potrebbe ri vere felicemente secondo la dotlrina di Epicuro.)animali. Di qui la superiorità della morale sopra le fisiche incli nazioni ad essa contrarie. 34. Tutti i piaceri sociali si risolvono in quelli della giustizia e della beneficenza. La giustizia è il riconoscimento della invio labilità della proprietà, di cui s'è già parlato. La beneficenza è la sodddisfazione degli altrui bisogni, sentiti come nostri per effetto della simpatia. I due fatti si suppongono e quindi s'in tegrano a vicenda. La beneficenza è una conseguenza della giu stizia; che ha luogo quando uno o più individui dell'aggregato sociale a cui apparteniamo, non abbiano quel sostegno dell'avve nire, che è la proprietà. E del pari la giustizia è una conseguenza della beneficenza, poichè se siamo benèfici per non soffrire con altri, non possiamo violare quella giustizia che è la condizione della proprietà. Questi due fatti sono la base della società,di ogni ocietà, vuoi domestica,vuoi civile,vuoi politica: sono la pratica della virtù. Ma che è propriamente virtù, e che è vizio? Il Bozzelli richiama un principio notissismo di psicologia: che l'abitudine at tenua la coscienza e quindi il grado di piacere e di dolore pro dottoci dalle impressioni; e osserva che non si può perciò fuggire il dolore abbandonandosi al piacere, se non si vuol fare come il medico che per guarire la malattia uccide l'ammalato. Bisogna lottare contro il dolore, per disarmarne la violenza, acquistando l'abito di soffrirlo, e quindi affrontando il dolore, anzi che vol gergli le spalle o accasciarsi sotto il suo peso: m a occorre i n sieme lottare contro i piaceri per impedire che l'abitudine digo derne non ne distrugga ilbeneficio,usandone quindi con prudente moderazione. Epperò occorre dare all'anima tal forza di carattere che le permetta di padroneggiare la tempesta delle passioni. E quella tempra acquisita, che rende l'anima capace di soggiogare con successo tutti i dolori, e restare ferma contro le seduzioni dei piaceri che tentano di snervarla, è quel che B. dice propriamente virtù; e il contrario,vizio. Insomma, la virtù è l'arte di godere. Fermezza nei dolori,moderazione nei piaceri, sono i suoi caratteri; come debolezza nei dolori, intemperanza nei piaceri,sono i caratteri del vizio. Quindi il grande uffizio della pedagogia: che imprima alla fibra animale, quand'è ancor tenera e flessibile, e all'anima, quand'è ancor nuova e accessibile a tutte) le affezioni, una serie di abitudini che le rendano atte a quella fermezza e moderazione,che crea insomma la virtù. La quale, secondo il B., è unica e indivisibile, se si distingue dagli atti virtuosi,in cui può manifestarsi.Per la povertà naturale del linguaggio o pel desiderio di nobilitare cose ordinarie e comuni,si decora sovente del nome di virtù ogni qualità ac quisita a forza di fatica e di studi e perfezionata dall'abitudine di un lavoro continuo e ostinato. E in questo senso,per esempio, in Italia si dice che un pittore,un musico,un ricamatore, un fa legname e perfino un muratore ha della virtù; e qualche volta si aggiunge, ed è un'espressione più felice, che ha questa virtù nelle mani. M a tale virtù non si può confondere con la virtù morale: la quale non è indirizzata*a vincere ostacoli che si oppongano alle mani: ma è solamente quell'energia abituale dell'anima che signoreggia dolori e piaceri, schermendosi dai primi per non re starne vittima, e tenendosi lontana dai secondi per serbarne la freschezza. Ogni altra accezione del termine virtù è falsa, o equi voca,od esagerata. Queste le linee principali della concezione etica bozzel liana: alla quale non si possono per certo negare ipregi della coe renza, del rigore e dell'acume filosofico. È vero che l'originalità si riduce a ben poco, quando si pensi alla dottrina di Adamo Smith (Teoria di sentimenti morali) e a quella di Helvetius (Trattato dello spirito): delle quali è come una contaminazione. Dal l'una è tolta di peso la teorica della simpatia; dall'altra il pretto edonismo e lo spiccato intellettualismo: e questi tre sono i tre ele menti principali e costitutivi dell'etica che abbiamo esposta.Ma è innegabile tuttavia,che B. ha saputo fondere insieme que sti elementi e imprimervi uno stampo proprio, formandone un si stema ben organato e compiuto: tale che la letteratura contempo ranea francese e italiana non ha nulla da mettervi accanto.Con ciò, s'intende, non si dice che è tutto vero quello che B. crede tale.Ma farne la critica sarebbe inutile ormai che quella po sizione è di lungo tratto oltrepassata. Era stata,anzi,oltrepassata prima che B. pensasse a scrivere: ma in una parte della storia delle idee, che non entrò nella sua cultura di ideologo. È noto quale importante parte all'educazione attribuisce l'Helvetius.Cfr.A Piazzi, Helvetius nel Dizionario illustr, di pedagogia dei proff. Martinazzoli e Credaro; e l'arti colo dello stesso, Le idee filosofiche e pedagogiche di U. Adr. Helvetius, nella Rivista di filosofia scientifica. The grand exception to this generally bleak depiction of characters is CATONE (si veda), who stands as a Stoic ideal in the face of a world gone mad (he alone, for example, refuses to consult oracles to know the future). Pompey also seems transformed after Pharsalus, becoming a kind of stoic martyr; calm in the face of certain death upon arrival in Egypt, he receives virtual canonization from Lucan. This elevation of IL PORTICO and Republican principles is in sharp contrast to the ambitious and imperial Caesar, who becomes an even greater monster after the decisive battle. Even though Caesar wins in the end, Lucan makes his sentiments known in the famous line Victrix causa deis placuit sed Victa Catoni. The victorious cause pleased the gods, but the vanquished [cause] pleased Cato. CATO A TRAGEDY. ADDISON. IL CATONE TRAGEDIA DEL SIGNORE ADDISON.Addison. Salvini CATONE: TRAGEDIA ADDISON. CATONE TRAGEDIA. ADDISON. SALVINI. FIRENZE, Neftenus. Con \UM Stftr. A iattanza di Scaletti. Catoni autem quum ìncredibilem trihuijjet Na* tura gravitatevi , eamque ipfe perpetua con* [tanna roboravìjjet , femperquc in propth Jtto fufceptoqut confili permanfijfet, tnoriutidum potim , quam tyranni vultus afpiciendui fuit. Cic.de Officlib. x.cap.jn ALL' ILLUSTRISSIMO SIGNORE &c. Enrico Mylord Colerane. iBajtrifàm Signore E molte bbbligazioni , che io protetto alla gentilez- za di VS. Illuftriflìma , e la fperienza avuta da' primi Letterati di emetta Città del suo profondo sapere, già predicato dalla Fama, ed ammirato da i etti elfi per mezzo della fua dotta con- venzione, mi fpirano un umile ar- dire di dedicarle la celebre Traduzione della infìgne Inglese tragedia del Catone, che addio efee di nuovo col fuo fteflò Originale alla luce; ficuro che Ella 1’accetterà di buon animo, come fuole , eftimatore giuftiifimo, doverofamente incontrare tutte le buone e belle opere degl' in- gegni più follevati , e come proveniente da chi fi pregia d* effere Di VS. Illuftrifsima Ewotiffino e Obbligai iffmo Servitù?* Scaletti . La presente Tragedia del Catone , parto felici/fimo del nobile fpirito delSig. Ad- m V di fon, efendo per comune eftimazione de* dotti de IT Inglefe Idioma , sì per la fublimita àe % concetti , che per la finiffima leggiadrìa dello ftile, uno de' più rari poetici componimenti, che in fimil genere abbia mai riportato il gra- dimento e l’applauso universale ; non e maraviglia , che f ralle Nazioni più eulte ella abbia incontrato il genio di alcuni ingegni più folle- vati y i quali di buona voglia abbiano impiega- to tutte le forze del loro talento per trafportarla ciafeuno nel proprio nativo linguaggio. llSig.Hul- Un , per foddisfare al dejiderio impaziente del Pubblico, che bramava di vederla renduta più univerfale per mezzo di una traduzione Fran- zefe , s' impegno a intraprenderla in ver fi ; ma non ebbe terminata la prima Scena dell’Atto primo , che modeflamente fe ne ritiro , allegan- do per fua difefa , che egli non fi ftntiva di forze cosi gagliarde per profeguire una fatica così nfpra e [pino fa. Ed in fatti, come offerva giudiziofamente Boyer , il quale , tutta in- ! fera in profa la traduffe „ può il Traduttore 1 „ f* ^ro/à girel* , r he ha detto Addison ; ma non può dirlo in verji, e spezialmente in lingua Franzefe, ove necef- „ fastamente fa di meflieri il mutare, iltroncare, e t aggiugnere. La lingua Inglese, come egli dice, Nativo effondo di Francia , emula della Greca e della latina , non foffre qualunque benché minima fuggezione, nata per se medesima fertile, calzarne, ed efprimentifftma nel colorire i caratteri di quei foggetti , de' quali ella prende ad efprimere i fentimenti ; laddove per lo contrario la lingua Franzese, raffinata continuamente da nuove regole, e da nuovi coflumignon ammettendo alcuna di quelle temerità, giuflamente chiamate felici, reputa come difet* ti le vive immagini delle efpreffioni , e fe figure un poco gagliarde e fublimi fono appreffo di queU la Nazione in iftima di ftravaganze e d’errori. Oltre di che il numero e P armonia , per cui leggiadramente rifuonano gP Inglefi poetici componimenti , non poffono così di leggieri efere trasportati nel ver/o Franzefe , a cagione della fchiavitù della rima , da cui non mai fi fan potuti liberar qué* Poeti : e di quel gran verfo di dodici e di più /illabe % che chiamano Alefandrino: il qual verfo conviene, particolarmente alla Tragedia sì poco % quanto poco fe le conviene P Efa- metro , cui Ariftotile in qucfto genere di Poesia fortemente condanna* Ufano gP Inglefi una spezie di verfi, appellati verfi bianchi , cioè puri e netti di rima , i quali coflando di cinque piedi, corrijpondono appunto al verfo Jambico degli Antichi y che fecondo Ariffotile fembra e fere fia- to dettato dalla natura medefima per frammi- fchiarfi più facilmente nella conv erf azione y e nel ragionamento famigliare , che ì il proprio ca- rattere del Dialogo, in cui fi rapprefentano le Tragedie. Così privo del forte foffegno e della tfprejftone e del verso > difperando il SigMuUin di poter venire felicemente a capo nella intra- prefa verfione , lafcio Ubero il campo ad altro fpirito 9 o più ardito o più attivo del fm > cui più agevolmente potejfe fot tire quefta nobile impre- fa . Frattanto pero > perche il Tubblico non re- ftajfe a fatto privo della lettura di qucfto inge- gnofiffimo componimento , il fiprannominato Sig. Boyer fi contento di pubblicare la fua verfione in in profa , impreffa Londra per Air. Giacomo Toh fon : della quale , quantunque fedele, perocché priva della sua naturale armonio/a bellezza, poffiamo dir giallamente , cta e/- /# è mancante del fuo più chiaro spleudore. Quefle d'ufi citila pero di non esprimere felicemente i [entimemi più vivaci e gagliardi degli fr ameri liuguàggi, in qualunque maniera fi fieno rapprefentati, non le pruova certamente il no (irò toscano idioma, il quale > giù a la f rafie del noftro celebraùjftmo DATI (si veda) di dolcezza e di eleganza non cede al ftcuro ad alcuna delle lingue vive, e colle morte più cele- „ tri contende di parità, e forsè aspira alla 5 > maggioranza: se pure non vogliamo dire affilatamente con SALVI SALVIATI (si veda) ati$ che siccome la lingua latina ha dolcezza minore che la greca non ha; così nella nojlra, non ritrovando fi quella pronunzia difficultofa efpiacevole, che nella greca si trova, accagionatagli dagli accoppiamenti multiplici delle confonanti, j quali comunemente rendono a/prezza ; n£ no* Siri vocaboli , come in quella addiviene , quefta durezza non e che rade volte 0 non mai . Ala non efendo, queffo. luogo qppropofito per difcorrere difufamente delle lodi del noftro volgare Idioma , e particolarmente per effere (lata que- fi a materia trattata con tanta aggiuflatezza, con tanto gufto e di fornimento non folo dà* fo- pr -accennati chiarirmi autori , ma inoltre cora da Varchi, da Buorti watt ci , e da altri, che niente più ; mi riftrignerò a dir brevemente quanto appartiene a quefla prefente Tragedia: cui fe non ha goduto la bella forte di e fere (la- ta trapiantata felicemente nel? Idioma Franze- fe> renduto per altro oramai qua fi che neceffa- rio air wtiverfale letteratura ; la ha ben ritrovata nel no Uro linguaggio per la fu a maravi- glia efpreffione y fecondità , e dolcezza. Vin* figne w flro e non mai abbaflanza lodato Salvini , quegli „ che d' alto fapere il petto pregno „ Scorre a fua voglia il dotto e bel paefe „ Dell' alma Grecia , e cui fon lievi imprefe ^Spogliarla d' ogni fuo più caro pegno; ( come di lui con aurea Tofana eloquenza can- to P inclito Segretario della Reale %A ce ad ernia di Frància , P cibate Regnier Des-31arais , ) tratto dalla fama di queflo nobiHfimo componi- vi eutO) e dejiderofo di contemplarne neff Origi+ 1 t naie naie le fue rare bel Uzze , (limo lene rivoltare tutto il fuo (ìndio a riajjumere P Inglefe Idioma, da e/lo può a quel tempo traforato : lo che nel breve giro di foli due mefi , non tanto per la fua pertinace fatica , quanto per lo metodo eti- mologico , fuo famigli ariffimo e quaft che naturale , in tal maniera gli venne fatto , che francamente P attività penetrandone , poti con mae* jlofa franchezza tutte le difficuìta fuperare , che nel tradurre queir Opera altrui fi erano at* tr aver fate. Vedeva egli , come pratichi/fimo del tradurre [ avendo arricchito delle fue {limati^ lifjime traduzioni la noSlra favella di tutte le foavi , leggiadre , fièli mi, ed eleganti maniere, che negli immenfi tefori de' Greci Toeti fi /lavano chiufe , e per così dire nafcofe] quanto a tal fatto ella fia capaci fflma ; maneggevole per fe medefima e fendo , e atta qual molle cera a rapprefentar fedelmente i concetti , le parole, e le ftefe efprefioni ; anzi , ciò che ì più malagevole , Paria ftejfa , il colore , e 7 carattere di tutte quelle fembianze , che dagli Autori, che fi prendono a tradurre , furono impreffe nette loro compofizioni . Contribuigli a queflo inoltre non poco la finora dolcezza del noftro maggior verfi Tofcanó, il quale , oltre al non ejfere in fimili componimenti inceppato , per così dire , e riftretto dalP orpellato vincolo delle rime, rifponde il più delle volte in certo modo per la fua mi fura a una fpezie degli Jambici degli Anti- chi , i quali , come fi e detto di [opra , /limati furono tanto proprj della dramatica, che di niuno altro mai non fi fervirono più facilmente tutti gli antichi Greci t latini poeti . Impegnatoli adunque il no/Ir o Salvini nella verfione di quefta eccellente Tragedia: e sì per la pafto- ftta della lingua y da effo tante volte in fimili congiunture fperimentata : e sì pel maeflofo con- certo de % ver fi , in cui la traduceva , a lei pro- priijfimi , quanto altri mai , felicemente venutone a capo , vemie nelle mani degl’accademici Compatiti della Citta di Livorno, da' quali nel Carnovale recitata con bella maniera , e con maeflofo apparato ; per la viva- ce efprejfione , e per la fedeltà fmcerijftma fu tanto ammirata da i Sig. Inglefi dimoranti in quel Torto , che (limolarono il medeftmo a per- metterne la pubblicazione , fuc ceduta /' anno appreso in Firenze per mezzo delle Stampe de 9 Guidacci e Franchi, con applaufo univerfale de t * gli 3( sii )fr £/' Intendenti deW uno e dell' altro linguaggio, mot* //* atteflano i Sig. Giornalifti di Venezia nel loro Tomo XXll.pag.^/^. Ma per non derogare all’ingenua modeflia del no/Iro chiarij/t- ino Traduttore non ini pare fuor di propofito il ripetere in queflo luogo , e colle fue flejje parole, /' obbligazioni che egli profeta ad alcuni nobili /piriti Inglefi , che non poco gli conferirono a perfezionare quefta verfione ; primizia , come egli la chiama , del fuo fiudio in queW Idioma: „ E perche ( dice egli nella Prefazione al Lettore » appo Sia alla prima edizione ) fecondo il famoso detto di PLINIO (si veda) eft plenum ingenui pudoris, fateri per quos profeceris ; non debbo „ non confeflare, molto dovere al già Inviato J9 noftro d Inghilterra , genero fo ed ornato Ca- yy valsere y Sig. Giovanni Moles-Worth , fitto i „ cui aufpicj quefta mia traduzione nacque , e „ al dotto Sigi Lochart , ambedue delle finezze „ della noftra Lingua intendentifsimi . Da quefta Verfione ne efcì toffo in Venezia un altra , ftampata peH Coletti , della quale non fa di meftieri il parlarne , per effere in efta in più parti travi fata la prima , troncando mol- to del r e cit amento , sì per fervire, come dice il fuo Imprefario , al gufto moderno del Teatro Ita- li ano , ricucendola a foli tre Atti ; dovecch},come fono tutte le antiche , ella è compofla di cinque: sì ancora per lo continuo fnervamcnto della for- za e della energia , cagionatole dalla mutazione delle parole e de' ver fi , folo per piacere all' orecchio del comun Topolo , che pago e contento di quel femplice titillamento e prurito , non penetra addentro nel midollo e nella foftanza del- la materia . Ma per ritornare alla nojlra , appena ella fu e f cita felicemente alla luce, che divenuta ra- rifjìma non fu poffibile ritrovarne ne pure m filo efemplare per foddisfare alle continue in- ftanze , che giornalmente da tutte le parti ne erano fatte ; onde conofcendo io da gran tempo quanto gli amatori delle lettere fojjero defide- rofi di vederne una nuova impresone , finalmente mi fon rifoluto di farla comparire di nuo- vo alla luce , arricchita dello (lejfo fuo Originale lnglefe. Ne perocché fieno molti filmi quegli, che alla cognizione di quel nobil linguaggio non fi fono per anco affacciati , giudico io , che fia per efjere alt univerfale difaggradevole quei/o mio penfamento , potendolo almeno ciafcuno riputar- *3( xiv )fr /<? utili fsimo a chi di ejjo procura adornar fene, mentre , m/ /» giw occhi può contemplare come le maeflofe maniere dell' uno e delP altro linguaggio maraviglio/amente fi corrifpondano : lo che certamente fenza il con- fronto o fenza l } oftinata fatica di uno Studio indefejlo non fi può confeguire giammai . Per lo che fe quefta intr apre fa riftampa farà accolta benignamente dagli amatori delle lettere y ficco- me io lo fpero , mi darà animo a dar fuori al* tre cofe di ftmil genere , dallo (lefjo celebre Tra- duttore [ cui altro non e a cuore che il giovare e il far cortefia a que* nobili ingegni , che fi ftu- diano di apprender le lingue , e trame da ejfe il meglio ed il fiore per arricchirne la propria ] lavorate dico da ejfo con non minor fedeltà e fe* licita di quefta pr e finte , e le quali per anco non fono alla luce . ATTORI Del Dramma. CATONE. LUCIO Senatore . SEMPRONIO Senatore. GIUBA Principe di Numidia . SIFACE Generale de' Numidi. PORZIO ) r . ,. ~ . MARCO ) Fl g lluoh dl Catone • DECIO Ambafciator di Cefare. MARZIA Figliuola di Catone. LUCIA Figliuola di Lucio. Ammutinati, e Guardie. La Scena fi rapprefenta in una gran Sala nel Palazzo del Governatore di Urica . <3( * )8» p5 0 u>/7^ the So»l by tender Strokes of Arp y fig| f;i r*//S? /Zrr G*///**, W /<? mendthe Heart > 7o Mankindtn cotifctous Virtue bold , Liwe oer eacb Scene , and Be isohat tbey he bold: Tot thts the Tragic>Mnfe firfi trod the Stage, Commanding Tears to Jlream thro euery Age ; Tyrants no more the ir Savage Nature kept , And Foes to V trtue monderà how tbey ivcft . Our Atttbor shunt by *vulgjtr Springs to mwc The Heros Glory, or the Virgin s Love; In ptytng Love ive but our JVeaknefs show , And -wild Ambttton isoell deferves tts ÌVoe. Here Tears shall flo-w from a more genrons Caufe y Sucb Tears as Tatrtots shed f or dying Lawsi He bidsyour Breafts witb Ancient Ardor rife > And Del Sig. POPE Alma fvegliar con madri tocchi d'arte, Erger Jo fpirto, ed emendare il cuore, Far l'uomo in fua virtù franco ed ardito, Ch'ogni feena fi a norma di Aia vita , E s' ingegni effer ciò eh' ivi fi mira ì Qucfto, quando da prima entrò in Teatro, Fu di Tragica Mufa il fin fublime; Per quefto comandò, che in ciafeun tempo Le lagrime a diluvj ne correderò. I Tiranni, non più fieri e felvaggi : E ; nimici a virtù ftupiano, come Contra lor voglia disfaceanfi in pianto. Sdegna V Autor per volgar modi muovere Nelle femmine amor, gloria negli uomini. In donare all'amor la pietà nottra , Non facciam che moftrar noftra fiacchezza : E fiera ambizion metta fuoi guai . Da più nobil cagion qui feorreranno Le lagrime: tai lagrime, quai fpargono Di Patria amanti fu fpiranti leggi. Rcfpirin voftri petti antico ardore « Ai E flit And calli forth Roman Drops from Brtthb Eyet. Vtrtue conferà in human Sbape be drawt, What Plato Tbougbt, and GodMe Caio Wat: No common Objetl to your Sigbt dtfplayt , Bnt wbat wttb Pleafure Heavn tt felf furueys > A brame Man ftrttggling tn the Stormi of Fate y And greatly falltng wttb a falli ng State ! li bile Caio giva bit little Settate Laws , IVbat Bojom beati not in bis Country i Caufe ? li bo feet btm aft , bnt crrviet enjry Deed t Wbobeart bim groan y and doei not witb to bleedt E*vn when proud Cafar 'midft triumpbal Cari , The Spaili of Nat ioni , and the Pomp of Wars , . Ignobly Vain , and impotently Great , Òbowd Rome ber Cato t Figure drawn in State 5 Ai ber dead Fatbert revrend Image paft y The Pomp wat darkend, and tbe Day oercaft , The Trinmpb ceatd Teart gmb % d from enfry Eye ; Tbe M r orl£t great Viclor paft unbeeded by ; Her Latt good Man de] e eie d Rome adord , And bonottrd C&fart Ufi tban Catat Sword, Britaìnt attend : Be Wortb Itke tbif approdi d, And ibow yon bave tbe Virine to be mcwd. Wttb bonejl Scorn the firft favi d Cato miewi Rome £ ftillln Roman pianto occhi Britanni. In forma umana è qui Virtù ritratta : Quel che Platon pensò, fu il divin Cato. Non oggetto comun fi fpiega in vifta ; Ma ciò che il Gel con fuo piacer rimira . Un uom prode, che lotta del dettino Traile temperie, c grandemente cade Mifto a ruine di cadente Stato. Mentre dà leggi al fuo picciol Senato Catone , e qual mai fcn non batte allora Nella gran caufa della Patria fua ? Chi oprar lo mira, e non invidia l'opra? Chi miralo fpirar, nè morir brama ? Pure allora , che Cefarc fuperbo Tra i carri trionfali, e tra le fpoglie Delle nazioni, e pompa della guerra , Ignobil vano , e fattamente grande Moftrò a Roma del fuo Caton V imago j Del Padre fuo la reverenda imago, Mentre ch'ella pattava, era feurata La pompa , e'1 dì rannuvolato, e bruno: Il Trionfo ceflava :da ciafeuno Occhio fcn gian le lagrime fgorgando; Ed il sì grande Vincitor del Mondo Pattava fenza pur etter guardato : L* ultimo fuo prod' uom Roma adorava Abbattuta , dolente , e più la fpada Di Caton , che di Cefare onorava. Britanni, a un merto tal donate plaufo, E moftratevi d'efferne commoffi, Se tanto di valore ancor ci retta . Con bello sdegno il primo Cato vide ìearning Arti from G ree ce , wbom $he fubdnd Our Scene frecarionfly fubjtfts too lovg On Frencb Transattoti y and Italtan Song . Dare to bave Senfe your fehes', AJfert tbe Stage \ Be jnttly ivartrìd isottb your ow» Native Kage . Sue b Plays alone sbonld pleafe a Brtttsb Ear , As Catos felf bad not dtjdaind to bear . CATO Roma da Grecia vinca apparar l'Arti. Troppo lunga ftagion la noftra Scena Di Francia da i teatri, e dell 1 Italia Ha mendicato V umil fuo foftegno . Voftre forze provate, ed al Teatro Voftro la fua ragion ne richiamate. Accefi fiate del nativo foco. A Britannico orecchio , folo quelle Opre deggion piacere, che Io (ledo Catone d'afcolcar non sdegnerebbe. AT. «3C 8 )S» Portius, Marcus. He Dawn isover-cafl 5 tbe Mornìng ìovSrs\ And bcavily in Clouds brings on tbe Day Tbe grcatjb* import ant Day\big r witb tbe Fate Of tato and of Rome. Our Fatbefs Deatb Wouldfill tip ali tbe Gtuìt ofCivil ÌVar , And clofe tbe Scene of Flood . Already C&far Has ravaged more tban balf ebe Globe 9 and fees Mankind grown tbin by bit definiti tue Sbordi Sbottld he go furtber > Humbcrs isoould be wanting To form new Battelt , and fupport bis Crimet . Te Gods , wbat Hawock does Ambition make Among your Works ! Marc. Tby fteddyTemper, Portiate Can look on Guilt , Rebellion, Fraud, and Gufar , In tbe cairn Ligbts of mild Fbìlofopby ; Tm tortured^ e<vn to Madnefs , we* I tb/nk On tbe prottd Vtchr : evry i Porzio, e Marco. Scura è V Alba , ed il mattino è fofco , E lento in nubi fuor fen* efce il giorno , Il grande e forte dì , pregno del Fato Di Cato e Roma ; la morte del noftro Padre, la reità della civile Guerra ornai tutta porteria al colmo , E chiuderla la fanguinofa fcena . Già Cefar più della metà del Mondo Ha faccheggiato : e fcorge Y uman genere Scemato dalla Tua micidial fpada . S'egli oltre andafsc , mancheria alle nuove Battaglie gente a (ottener Tue colpe. Dei ! qual ruina Ambizion cagiona Tra le voftre opre ! Marc. Porzio , la tua fredda Immobi! tempra a rimirar pur vale Retà , Ribellione, Frode, e Cefare Di mite fapienza a queto lume? Crucciato io fon , e mi fmarrifeo , quando Io penfo a quel fuperbo vincitore. B To- «K io )* ti) ry ttme bis named Thci*falìa rifcs to my Vttw — / fee Tb Infnlting Tyrant frane tng oer the Fìelà Stro isSJ-wttb Romcs Cttt^ens , anddrencb'dinSlangbter, Hts Horfe's Hoofs wet wtth Vatrtctan Blood. Oh Fortms , // (bere not fome cbofen Curfe y Some btdden Tbunder in the Stores of Heaifit) lied isotib uncommon Wratb , to blaft tbe Man Wbo o-wcs bis Greatncfs to bis Country s Rum ? Por. Beli eie me , Marcus , '/// an tmplous Greatnefs , And mtxt vjttb too mucb Horrour to be enmyd : How does tbe Lufire of our Fatbers Atltons , Jbwgb tbe dark Cloud of Ills tbat coDer htm , Break out , and bum witb more triumfbant Brigbtnefs I His Suff nngs fbtne y and fpread a Glory round htm > Greatìy unfortunate , he figbts the Caufe Of Honour , Virine , Liberty , and Rome. Hts Sword nc"er fili but oh tbeGutlty Head} Oppreffton , Tyranny , and Fowr tifar fi , Draw ali tbe Vengeanee of bis Àrm mponem . Marc. Wbo kn<rws not tbis ? Bue wbat can Cato do Agatnfl a World, a bafe degenerate World , Tbat coarti tbe Toke , and bows tbe Neek to Cafar t Peni up in Ut tea be mainly forms A foor Epitome of Roman Greatnefs , . And , eowerd wttb Numidìan Guardi , diretti A fiable Army, and an emfty Senatc , Remnants <(».»> * Tofto che *J nome luo gìugne al mio orecchio 3 Farfalla al'a mia villa fi prcfenta : Veggio calcar V infultator tiranno II laitricato campo di Romani Cadaveri , e inzuppato in civil ftrage, E di fangue patrizio bagnate Degli orgogliofi fuoi cavalli V unghie. Scelta maledizion non avvi, o Porzio, Nelle armerie del CicI fulmin riporto Di non comune ira di Dio vermiglio, Ad abbattere, a ilruggere queir uomo, Che della Patria fua lui le ruine, Erge ( oh beati Iddii ! ) la fua grandezza? Por£ Certo , Marco , eh' è quefta empia grandezza, E ha troppo ortor per effere invidiata. Quanto del noftro Padre i fatti illuftri , De i mali , che *J circondan , tra le nubi, Spuntan brillanti di più chiara luce/ Di gloria 1* incorona il Tuo (offrire . Sfortunato, maggior di fua feiagura, Ei combatte collante per la caufa D 1 Onor, Virtute , Libertate , e Roma. Sovra rea teda foi cadde fua fpada: L* oppreffion , la tirannia fol traforo Sopra lor , del fuo braccio la vendetta. Marc. E chi noi *i fa ? ma che può far Catone Contr' ad un Mondo, un vile e guado Mondo , Che a Cefar piega il collo , e corre al giogo? Di Romana grandezza ei forma indarno Pover compendio in Urica rifpinto: E da guardie Numidiche attorniato Una ficvol Armata , ed un Senato B 2 Voto Remnants of mìgbty Battei: fongbt tn matti . By Heavns , /ivi Virtues ,jo/nd witb fucb Sttccefs } Diflratl wy very Soul : Our Fatber s Fontine Wond almoft tempt ut to renounce bis Frecepts. Por. Remember -wbat our Fatber oft bas told us : Tbe Ways of Heavn are dark and intricate ^ Fu^led in Ma^es , and perplext ivttb Errors Our Under si andtv.g traces 'em in wain y Lofi and brwtlderd in tbe fruttlefs Searcb 5 Nor fees ikutb bow mucb Art tbe Wtnitngs run , Nor wbere tbe reguìar Confufion ends . Marc. Tbefe are Suggeftions of a Mind at Eafe: Ob r erti us , dtdft tbott tafle b«t balf tbe Griefs Tbat wrtng wy Soul , tbou coudfl not talk tbus coldly . Fajjìon unpttyd , and fuccefslefs Love , Flant Dagpers tn my Heart , and aggravate My otber Grtefs . Were but wy Lucia hnd! — Por. Tbou feeft not tbat tby Brotber is tby Rivai: Bnt I wufl bidè ìt .for I know tby Tewper . [ afide Novj , Marcus y »0u>, tby Vtrtues on tbe Froof: Fut fortb tby tttwofl Strengtb , >work evry Nerve , And cali up ali thy Fatber tn tby Soul: To quell tbe Tyrant Love , and guard tby Heart On tbts iveak Side , nvbere moft our Nature fails , Would he a Conqucft isoortby Catos Son . Marc. Fort ìris , tbe Council wbicb I cannot taie y Ioftead of beali ng , but npbraids wy Weaknefs . Btd me for Honour pi unge into a iVar Of tbtchft Foety and *3( '3 )S» Voto dirige , riraafuglio e avanzo D'afpre battaglie combattute invano. Oh Ciel ! tali virtù con tai fucceflì Confondon V Alma : la maligna forte Del noftro Padre , a' begli fuoi precetti Quafi di rinunziarci tenterebbe. For%. Del noftro Padre ti rammenta quello Ch' ei ci dicea fovente: che del Cielo Sono feure le vie, ed intrigate: Noftro intelletto le rintraccia indarno, Perfo e fmarrito nella vana inchiefta . Nè vede con quant'arte i giri vanno, Nè dell* ordin confufo il termin feorge . Marc. Pender fon quefti d' oziofa mente . Porzio, fe la metà guftato avefli Di quei dolor, che V alma mi trafiggono, Freddamente così non parlerefti . Paftìon non compatita, amor fgradito PafTanmi il cuore, e gli altri duoli aggravano . Oh fe a me fuffe Lucia pietofa ! Tor%. Non vede che '1 fratello è fuo rivale : Uopo è eh' io il celi : il genio tuo conofeo . a parte Or, Marco, ora al cimento è tua virtude. Prova tutta tua forza , opra ogn' ingegno , Spira nell* alma tua tutto il tuo Padre . Vincer Y amor tiranno, e *1 cuor guardare Da quella debol parte , ov* uom più manca , Conquida fia da figlio di Catone . Marc. Porzio , il configlio , eh' io prender non poffò , Non fana , nò , rinfaccia mia fiacchezza . Fa che Y onor comandi di cacciarmi In guerra tra foltiflìmi nemici, E cor- W r*/& ou certa/ n Dcatb } Then fbalt tbou fee that Marcus is not JIo jj To follali) Glory f and confefs bts Fathcr . Love is not to he reafond down y or lofi In htpb Amhttton , and a Tbtrfl of Greatnefs > 'Tss ficond Ltfc , tt grows into the Soni , Warms evry Vein y and beati in evry Fulfe y I feel it bere : My Refolutton meltt Por. Beboldyoung ]uba , the Numidi an Vrinceì Wtth bow mucb Care be forni s bimfelf to Glory , And breaks the Fiercenefs of bts Native Temper To copy out our Fatber s brigbt Examplt . He loves our Stfter Marcia , greatly lovet ber , Hts Eyes , bis Looks , bis Acltons ali betray it : But fidi the fmotherd Fondnefs burns wttbtn bìm y When moti tt fwells and lahours for a Veni , The Senfe of Honour and Dejire of Fame Drive the big FaJJìcn back into htt Heart , Wbat ì fball an Afrtcan , fiali Jubas Ueir Eeproacbgreat CatosSon, and fbo-jj the World A Virttte voantivg in a Roman Sotti f Ma re. Fortius , no more ìyonr Words leave Stings befana* em. lVben-e % rc did Juba , or dtd Fort in s , fhow A V ir tue that bat caji me at a Dtftance , And tbrown me out in the Furfnitt of Honoar ì Por. Marcus , I know tby generous Temper weli ; Fling but tV Appe arance of Dtfbonour on it , Itftrait takes Fire , and mounts iato a Bla^e. Marc. A Brothers Suff rtngs clatm a Brothers Fity. Por. jitized E correr frettolofo a certa morte y Vedrefti alior , che Marco non è pigro A feguir gloria, ed a ritrar dal Padre. Amor non cede , nè a ragion , nè ad aita Ambizion , nè a fete di grandezza . Alma novella egli è della ftefs* Alma : Scalda ogni vena , e batte in ciafcun pollo. II Tento io qui : disfatto è il mio coraggio . for^. Mira il Giovine Giuba, di Numiviia Il Principe, con quanta cura ci forma Se medefmoalla gloria, e la natia Fierezza frena, a far vedere in lui Del noftro Padre il vivo illuftre efempio. La noftra fuora Marzia egli ama , e molto L* ama : il dicon fuoi fguardi, atti, e fembianti j Ma chiufo il fuoco pur gli arde nel petto. Quand* ei più crefce , ed a sfogarfi a (pira , Sentimento d' onor, defio di fama Spingon la fiamma a ritornare al cuore. Che! un Affricano, ed un di Giuba erede Rinfaccerà del gran Catone al figlio, E potrà al Mondo tutto ancor moftrare Una Virtù, che in cuor Romano manca ? Marc. Porzio , non più : voflre parole lafciano Puntura dietro a lor : quando mai Giuba , O Porzio ancor , mi trapaflaro tanto Nella virtudc , e dell' onor nel corfo ? Tor^ Marco, la gencrofa indole tua Io ben ravvifo> che fe pur sù quella , Di difonor la minima favilla Cada, ella prende fuoco , e forge in fiamma . Marc. Vuol fraterno foffrir pietà fraterna. Por^. Il Digitized by Google <8( ><* )& Por. Hfdi; n faows I psty tbee : Beboìd my Eyes ESn wbilfl I (peak Do t bey not faim in Te ars ? Il ere bttt my Heart as naked to thy Vieiv y Marcus isùonld fee it bleed in bis Babai f . Marc. Why tbendcft treat me uriti Rcbukes, inftead Of k/ud condoliti^ Cares and friendly Sorrow ? Por. 0 Marcus , did I know tbe ÌVay so e afe Tby troubled Heart , and mitigate thy Tatns , Marcus y belic<ve me 7 / couìd die to do it . Marc. Tbou beft of Brothers, and tbou befl of Fiìends ! Pardon a weak diftemperd Soul , tbat fwells JVitb fudden Gufls , and finis as foon in Cahns, Tbe Sport of Paffions But Sempronitts comes : He muli not find tbts Softnefs bangi ug on me . Sempronius folus. COnfpiracies no fooner fboud b: forni d Tban executed . JVbat means Portius bere ì I IHe not tbat cold Toutb. I muft dtjìemble , And [peak a Language foreign to my Heart . Sempronins, Portius. Semp. Good Morroiu Porttus ! Ut us once embrace , Once more embrace ; "ubtlfl yet we botb are free. To Morrou) fboud noe tbus exprefs our Fr/endfbip , Eacb mtght recede a Slave into bis Arms : Tbis Sun perbaps, tbts Morntng Suns tbe lafl Tbat ere f ball rife on Roman Liberty . Por. My Fasber bas tbts Morntng calN togetber To Por^. II Gel lo si', s' io n 1 ho pietade. Mira Or gli occhi miei: non nuotan' effi in pianto? Ah fe il mio cuor nudo a tua vifta fufle, Marco il vedria in fua metà piagato. Marc. Or perchè sì trattarmi con rimprocci, Di blande cure , e duol compagno in vece ? Tor%. O Marco , s' io poteffi V affannato Tuo cuor calmare, et addolcir le pene, Marco, credilo a me , per ciò morrei. Marc. Ottimo tu fratello, ottimo amico! A un turbato perdona e fiacco cuore , Tofto gonfio in tempefta, e tofto in calma , Delle paflìoni fcherzo... Ah ! vien Sempronio : Che in quefto mal decoro ei non mi nuove . parte. Sempronio folo* Scmpr. Z*^ Ongiure non più tofto handa formarO, 1 Che efeguirfi. Che vuol mai qui Porzio ? Di quello giovan la flemma m' è noja . Diflìmular m' è d' uopo , e ragionare In (tran linguaggio , e dal mio cuor diverfo. Sempronio y e Forato. Sempr. Buon giorno , caro Porzio : ora abbracciamoci : Un' altra volta ancor, mentre fiam liberi: Forfè avrfa , fe doman noi ci abbracciaffimo, Uno fchiavo ciafeun tra le fue braccia . Qyeft' Alba forfè, e quefto Sol fia il fezzo , Che forgerà fu libertà Romana . Tor^ In q 11 ^* hi* povera mio Padre C Que- To poor Hall bit little Roman Settate , ( T£f Lcanings of Pharfalta ) to confale Ifyet he can oppofa the migbty Torrent Tbat bear s down Rome, and ali ber Gods, ècfore />, Or muti at lengthgvvc up the World to Cafar. Sempr. Noi ali the Pomp and Majefly of Rome Can rat fa ber Senate more tban Catos f re fame % Hit Vtrtues render our Affcmbly awful , Tbey ftrike ntsth fometbmg Itke religioni Fear And make enfn Cafar trcmble at the Head OfArmies fin fa d witb Conqaeft : 0 my Portiti, Could I but cali tbat ivondrous Man my Fatber y Woùd but t'by Sifter Marcia he propitiont To tby Friend / Vowt : I migbt he blefad indeedi Por. Alas ! Sempronio , woud/i tbou talk of home To Marcia, wbitti ber Fatbert Lifes in Danger ? Tbou migbift at ivell court the pale trembling Veftal , Wben fbe beboldt the boly Fiume expiring . Sempr. The more Ifae the Wonders ofthy Race The more Tm charm d . Tbou maft takcòeed y my Portimi Tbe World bai ali its Eyet on Catos Som. Tby Fatbert Merit fan tbe* up to View , And fbowt tbee in tbe f aere ft poi ut of Ltgbt , To make tby Virenti ir tby Fomiti confatemi . Por. Welldoft tbou feem to check my Lìngring bere On tbit importuni Hour FU Jlruit avuay , And -nobile tbe Fatbert of the Semate meet In Quefta mattina il picciol fuo Senato [ Avanzi di Farfalia ] adunar vuole , A confuicar fe ancora ei puote opporfi Al torrente , che in giù precipitofo Roma porta e i fuoi Dei : o pure al fine Cedere il Mondo a Cefare . Sempr. Di Cato La prefenza fol può Roman Senato Erger non men , che maeftà di Roma . Noltra affemblea fan reverenda Tue Virtudi, e infpiran un devoto orrore. E fanno ancora Cefare tremare Alla tefta d' altiere vincitrici Armate: Porzio mio, oh s' io potetti Padre appellar qucnV uom maravigliofo , E propizia la tua Sorella Marzia A i voti fu (Te dell* amico tuo ; Veracemente io mi faria beato . ?or£. Ah Sempronio , vuoi tu parlar d' amore A Marzia , or che la vita di fuo Padre Sta in periglio ? tu puoi carezzar anco Una Veftale pallida tremante, Che già miri fpirar la fanta fiamma . Semfr. Quanto le meraviglie di tua ftirpe 10 feorgo , tanto più ne fon rapito . Prenditi guardia , Porzio : il Mondo tutto Tien gli occhi fuoi fui figlio di Catone. 11 merito paterno ponti in vifta , E ti moftra di luce al più bel punto, A far più chiari tuoi vizj o virtudi . Por%. Incolpi con ragion la mia lentezza Su queft* ora importante ... Or ora io parto : E mentre i Padri del Senato fono Ci In clofe Belate , to iveigb tV Eventi ofJFar, TU ammcte the Soldtcrs drooptng Courage, Wttb Lowe of Freedom, and Contempt of Life. TU tbunder tn thetr Ears their Country s Caufe ? And try to rouje up ali tbais "Roman tn *cm. not tu Mori ah to command Succefs , But veli do more y Scmprontus noe II deferve it . [ Exit • Sempronius folus . Cnrfe on the Stripling ! bow be Ape's bis Sire ? Rmbitioufly fententious ! — But I wonder Old Sypbax comes not j bis Numidtan Genius Is weli dtfpofed to Mtftbtef, were be prompt And eager on it > but be muft be fpurrd, And ciìry Moment qutckr.ed to the Courfe. Cato bas ufed me 111 : He bas refufed Hts Daugbter Marcia to my ardent Vorws. Befides , bis baffled Arms and rutned Caufe Are Barrs to my Ambition. Cafars Favour, Tbat fboisSrs down Greatneff on bis Friends , wsll raife me To Kome's firft Honours . If 1 give up Cato, I clatm in my Reward bis Captine Daugbter . Bnt Sypbax comes ! Syphax, Sempronius. Syph. Q Empronius , ali it ready , O l v w founded my Numidi ans , Man ly Man , Ami In ferrato contratto a bilanciare Gli eventi della guerra j V abbattuto E fcorrente coraggio de* foldati Ergerò coir amor di lìbertade, Col difprezzo di vita : al loro orecchio Intonerò lacaufa della Patria , Ciò eh 1 è Romano in lor , dettar tentando . Non è dell* uomo i) comandar fortuna 3 Ma quel eh* è più, Sempronio, è il meritarlo, parte Sempronio filo . Maledetto Garzon ! come fuo Padre Contraf fa egli , c 'I fentenziofo affetta ! Stupifco , che Siface ancor non viene . Il fuo genio Numidico è ben atto Alla cattività; fufs* egli pronto; Ma d' uopo a ogni momento egli ha dì fprone . Meco non ben Caton s* è diportato. Rifiutato ha la fua figliuola Marzia A gli ardenti miei voti : in oltre V armi Sue abbattute e rumata caufa Oftacol ranno all' ambizione mia . Il favore di Cefare , ed il fuo Piover grandezza fu gli amici fuoi Alzerà me di Roma a i primi onori. S* io tradifeo Caton , la figlia fua Sarà mio premio. Ma Siface viene. SCENA Ut Siface , e Sempronio* Sif. Q Empronio , tutto è prefto : ho io tentati O Tutti i Numidi miei ad uno ad uno : In And fini Vw ripe for a Remoli : Tbcy ali Complatn aloud of Catos Dtfcipltne , And watt but the Communi to clange their Majler . Sempr. Believe me , Sypbax , tberes no Time to wafie $ £<v'« wbilfi uh* [peak , wr Conqneror comes on y And gatbers Ground upon us evry Moment . Alasi tbou knowft not Csfars attive Soni y Wttb r what 0 dreadful Courfe he rufbes on From IVar to War : In vatn has Nasute forni à Mounsains and Oceans to oppofe bis Pajfage ; He Bornia^ s oer ali , vittortous in bis March , Tbe Alpes and Pyreneans feuk before bim ; Tbrottgb JVindSyand IVaves , and Ssorms y be works bis way, Impattentfor tbe Battei: One Day more Wtllfet tbe Vtttor tbnndring at our Gates. But teli me y ba/ì tbou yet draivn oer young Juba ? Tbat jltll ivoui recommend tbee more to C&far y And challenge bette? Terms Siph. Alas ! bes loft , He"s loft , Sempronius ; ali bis Tbougbts are full Of Catos Vtrtues But TU try once more ( For e<vry Inflant l expeil bim bere ) Ifyet I can fubdste tbofe ftubborn Principici Of Faitb , of Honour , and I know not isobat , Tbat bave corrupted bis Numtdiau Temper , And ftruck tb* Infetti on into ali bis Sotti. Sempr. Be fure to prefs upon bim evry Motive. Juhas Surrender , finse bis Fatbcrs Deatb , IVould give up Afrtck into Csfars Hands , Ani In punto ci fono già d ammutinarti . Dell* auftera di Caco difciplina Fan tutti alti lamenti : ed a cambiare Padron , non altro attendono , che il cenno. Scmpr. Siface, tempo quì non è da perdere. Mentre eh* uom parla > il vincitor s* accoda , £ campo fopra noi prende a momenti . L* attività di Celar non conofe? , Che con tremendo corfo Io precipita Di guerra in guerra : invan formò natura Montagne e mari a opporli a fuo paffaggio : Ei formonca in Tua marcia, e varca tutto; SpiananG avanti a lui Pirene ed Alpi : Per entro a i venti , e V onde , e le tempefte La via fi fa bramofo di battaglia . Un giorno più , porrallo a noftre porte. Ma dimmi; hai guadagnato il giovin Giuba? A Cefar ciò si ti farà più grato , E ti farà più vantaggiofo. Stf. Ohimè ! E* perduto, Sempronio, egli è perduto. Son tutti i fuoi pender delle virtuti Pieni di Caro ... Ma io vo provare Anco una volta [ perciocch' io V attendo Qui a momenti ] s' ancor vincer poffo Quelle m aflìme dure ed infleflibili Di fe , d* onore , e di non so qu ai cofe , Che r indole Numidica hangli guada , E tutta 1* alma fua tinta ed infetta. Scmpr. Imprimigli ben ben ciafeun motivo . Se Giuba fi rcndeffe, poicrf è morto Il Padre fuo ; darebbe nelle mani A Cefar Y Affrica, c farebbel Sire Della Digitized by Google And mah btm Lord of balf tbe buruing Zone . Syph. Bup is it trae, Sempronius , tbat your Settate Is calfd togetber ? Gods ! Tbou musi b'e cauttous ! Cato bas piercing Eyes, andivill dtfcern Oitr Brands , unles (bey re cover d tbtck isoitb Art . Scmpr. Let me alone , good Sypbax , TU conceal My Tbougbts in Fajjton ( *$$$ tbefureft *way > ) TU bello w cut for Rome and f or my Country , And moutb at Cafar ttll I fbake tbe Settate . Tour cold Hypocrtjjc's a ti ale Dewice y A wotm out Trick: Wonldsl tbou betbougbt in Farne ftì Cloatb tbyfetgnd Zeal in Rage, in Ftre , in Fury ! Syph. In trotb y tbotirt ablc to inftrutl Grey bairs , And teacb tbe wily African Deceit ! Scmpr Once more , Le fare to try tby Skill on Jnba. Mean *wbi!e FU baslcn to my Roman Soldiers , Infame tbe Muttny , and under band BlocJ »p tbeir Dijcontentt , tilt tbey break out Unlocìid for , and dtf ebarge tbemfehes on Cato. Remembcr, Sypbax , we muft work in Hafle : O thrà wbat anxious Moment s pafs betwen Tbe Btrtb of Flots 3 and tbeir laft fatai Periods . Obi *tts a dreadful Internai of Time, Ftltd up isottb Horror ali , and big witb Deatb ! Deftrutlton bangs on c*vry Word we fpeak , On evry Tbougbt , *till tbe concludi ng Stroke Determtncs ali , and clofes our Dcfign . ( Exit • Syphaxfolus TU try ifyst I can reduce to Reafon Thit «3( Della metà dell'infocata Zona. Stf. E' egli ver, Sempronio, che 'J Senato Vollro s* adunerà ? Sii ben guardingo : Cato ha occhi sì acuti e penetranti, Ch' egli fi accorgerà di noli re frodi , Se ben non fi ricuoprono con arte. Sempr. Lafciami far , Siface : afeonder voglio Dentro la paffione i miei penfieri . Quefla è la via la più ficura : io voglio Aito gridar per Roma e per mia Patria Contra Cefar , Anch' io fcuota il Senato . Le fredde ipocrifie fon moda antica , E ufato giuoco . Eflfer tu vuoi creduto Sincero ? vedi il fimulato zelo E di rabbia, e di fuoco, e di furore. Stf Inver tu puoi infimi r vecchi anco fcaltri, E infegnar frode all'Affocano ifteffo . Sempr, A Giuba guadagnar tue arti impiega , Mentre al Romano efercito m' affretto A incoraggiar gli ammutinati , e loro Odii infiammar , foffiando fottomano, Finché impenfati rompan fopra Cato , Vuolfi , Siface, qui celeritade. Quanto angofeiofi padano i momenti Fra '1 nafeer di Congiure , e '1 fin fatale ! Oh qua 1 dubbio intervallo, afpro, e tremendo, Colmo tutto d' orror , pregno di morte ! Da ogni voce pende la ruina , Da ogni penfier , finché P ultimo colpo Termine ponga a perigliofa imprefa . farte . Siface foìo. Tentar vo* , s' anco pofso alla ragione D Rad- Digitized by Google TWj beadìlrong Youtb, andmake bìm fpurn at Cato. Tbe Ttme a Jbort , Csfar comes rufbtng on ut Bnt boldl young Julafeet me y and approdi bes . SCENE IV. » > Juba, Syphax. Jub. O Tpbax , / joy to meet tbee thus alone . O ì ha*V* objemed of late tby Looks are falYn y Cfcrcaft "ysottb gloomy Cares 5 and Dtfcontent > 77>f » /f // wrf , Sypbax , / coniare tbee , w , Wbat are tbe T bonghi tbat hit tby Brow in Frownt y And turn tbtne Eye tbus coldly on tby Prènce ? Syph. Tèi not my Talent to conceal my Tbougbtt, • Nor carry Smtlet and Sun-fbtne in my Face , Wben Dtfcontent fits beany at my He art . I baue not yet fo mucb the Roman in me . Jub. Wby doji tbou caft ont facb ungenrout Termi Againft tbe Lordi and Swreigm of tbe World ? Doft tbou not fee Mankind fall down he f or e W, And <rwn tbe Force of tbetr Superior Vtrtue t li tbere a Nation in tbe Wtldi of Africk , Amtdft our barren Rocki and burning Sandi , Tbat doet not tremile at tbe Roman Name ì Syph. Codi l uberei tbe Wortb tbat feti tbit People tip Aboi)e your own Numtdidt tawny Som ! Do tbey noitb tottgber Sinewi bend tbe Bow ? Orfltei tbe Jarveltn fwtfter to iti Mark , Larvici) d from tbe Vsgour of a Roman Arm ? W ho Itke our atl/ve African infiruiìt Tbe Digitized by Google Raddurrc quello giovane ottinato, E fargli in fine difpregiar Catone. 11 tempo è breve : Celare ne viene . Ma ferma! Ecco Giuba. Egli s'accoda. Giuba, e Siface. Giti. Q Iface , io godo d' incontrarti folo . O Toflervai poco fa turbato in vifta , Di nuvolofe cure ofcuro il volto . Dimmi, Siface, io ti fcongiuro, dimmi, Quai penfier ti contristano la fronte, E gir fan freddo fui tuo Prence il guardo ? Sif. Non fon atto a celare i miei pontieri . Non può fplendere il rifo in mio fembiante , Quando affifo è nel cuor grave fconforto : Non ho ancor tanto del Romano apprefo. Gtub. Perchè cai voci ingiuriofe vibri Contra i Sovrani Signori del Mondo? L'uman gener non vedi avanti a loro Proftrato confettar l'alto valore ? Evvi Nazione infra i deferri d'Affrica, Fra no fi re rupi ignude e a r ficee arene, Che non paventi e tremi a) Roman nome? Sif. O Dei ! qual meno è quel , che quello popolo Solleva fopra i figli di Numidia? Con maggior forza tendon eflì Parco, O vola più velocemente al fegno Dardo lanciato da Romano braccio? Chi come l'agile Affricano , forma «8( )fr B T£<? fiery Stecdy and tratnt bim to bit Hand ? Or guide s in Troops $V embattled Elepbant , Loaden ujitb IVar ? Tbefe, tbefe are Arts , my Pance, In nsAich your Zama does not ftoop to Rome . Jub. Tbeje ali are Vtrtues of a meaner Rank , Ftrfstttons tbat are flaced tn Bones and Nerva . A Roman Soni ts bent on bigbet Vtews : To avi li ^e tbe rude unpoltfb % d World , Ani lay it under tbe Reftratnt of Laws j To make Man mtld andfoctable to Mani To cultivate tbe wild licenttous Savage Witb Wtfdom , Dtjapltne , and ItVral Artt ; TV Embelltfiments of Ltfe : Virtuet Uìe tbefe Make Human Nature fbtne , reform tbe So*l y And break our fierce Barbarìans tnto Men . Syph.Patieuce ktndHeavml—Excufe an old Mans wamtb JVbat are tbefe -wond* rous civili ^ing Artt , Tbts Roman Poltfb , and tbis fmootb Behaviour , Tbat render Man tbus tratlable and tame t Are tbey not only to dtfgmfe our Pafftons , To fet our Looks at vartance vottb ottr Thougbtt , To deck tbe Starts and Salita of tbe Sotti , And break off ali itt Commerce wttb tbe Tongue ; In fhort , to ebange ut into otber Creatura Tbau isohat our Nature and tbe Gods dejignd ut ì Jub. To Vtrtke tbee Dumb: Turn up tby Eya to£atoì Tbere mayft thott fee to ivbat a Godltke Heigbt Tbe Roman Vtrtues lift up mortai Man . Wbile good , and jufi , and anxious for bis Frìends y He % s fttll feverely bent agatnft bimfelf ; Renouncing Sleepb, and Refi , and Food, and Eafe , He Digitized by Google *3( >9 )» Il feroce deftriero, e Jo maneggia ? Chi meglio in truppe guida gli Elefanti A ramaelt rati, carichi di guerra? Quefte fon, Prence mio, quelle fon Farti, Per cui non cede Zama vofìra a Roma . Gtnb. Arti d'inferior ordine fon quefte , Forza e perfezion d' o da e di nervi . Più alto mira un'anima Romana ; A formar rozzo e mal polito Mondo , E fottoporlo al freno delle leggi, E render l'uomo all'uom mite ed amico; Con fenno e difciplina e nobili arti Domefticar felvaggi, e ornar la vita. Tali arti fplender fan natura umana , Riforman l'alma, e i barbari fann' uomini. S/f. O Cieli , fofferenza / d' un uom vecchio Sia feufato il calor: quali fon quefte Mirabili arti, e Romana vernice, E pulito contegno, che cotanto Fan domeftico l'uomo, e civilizzalo? Buone non fon , che a mafeherar gli affetti, E dal volto feordar fare i penfieri, E frenar la natia voga dell'alma , E romper Aio commercio colla lingua, E in altre creature trasformarci Contra il difegno di Natura e Dio. Ciuk Perchè tu taccia , volgi gli occhi a Cato. In lui rimira, quanto predo a Dio Virtù Romana innalza un uom mortale. Per gl’amici follecito, indulgente, A fe fteftb fevero, il sonno niega, Il riposo, ed il comodo, ed il Col- He ftriues witb TbnJI and Hungcr, Toil and Heat; And wb:n bts Fortune fets before btm ali • Tbe Bomps and Bleafures tbat bis Sortì can wifb y Hts rtgtd Vtrtne wtll accept of none. Syph. Bcltcvc ine, Prtnce , theres not an African Tbat tra'verfes our wafi Numtdtan Dejarts In qtteft of Prey , and Iwes upon bis Bow , Brtt better praclifes tbefe boafted Virtues. Coarje are bts Meals , tbe Fortune of tbe Cbafe , Amtdft tbe rttnmng Stream be Jlakes bts Tbtrfl , ToiFs ali tbe Day , and at tb' approacb of Ntgbt On tbe firft friendly Bank be tbrows btm down , Or rejìs bts Head upon a Boti "ttll Morn: Tben rifes frefb , pttrfues bis wonted Game , And tf tbe followtng Day be chance to fini A fiew Repafl y or an untafled Sprtng y Bleffes bts Start y and tbtnks tt Luxury . Jub. Tby Prejudices , Sypbax, wont dtf certi Wbat Vtrtues growfrom Ignorance and Cboice y Nor bow tbe Hero dtffers from tbe Brute . But gtant tbat Otbers coti d witb equal Glcry Look do cjn on Pleafuret and tbe Batts of Senfe 5 IV bere fiali we find tbe Man tbat bears Affiitlion , Great and Majefttck in bts Griefs , ìtke Cato ? Heaiins y wttbwbat Strengtb , wbat Steadtnefs ofMind, He Triumpbs in tbe mtdft of ali bts Sujferings ì How does be rife againll a Load of Woes , And tbank tbe Gods tbat tbrow tbe IVetgbt upon btm \ Syph. T## Bnde y tank Bride y and Havgbttnefs of Soul ; / tbink Colla fete combatte, e colla famcj Collo ftento, col caldo : e quando ancora Tutte le pompe ed i piacer del Mondo A contentargli l'alma s' offerì fsero , Sua rigida virtù rigctterebbegli. S/f. Credimi, Prence: non ci è Affricano, Che varchi noftre vafte erme contrade Di preda a inchieda, e di fuo arco viva, Che tai virtù meglio non metta in opra . Rozzo mangiar ciò che gii da la caccia : Nel corrente rufcel traflì la fete; Tutto il dì (tenta , e quando vien la notte Gettali filila prima amica ripa, O fopra rupe la fua tetta pofa Infino a giorno. Pofcia frefeo ci forge A profeguir fuo giuoco: e fe'l vegnente Giorno accade eh' ci trovi un nuovo pafto , O fcaturire un non guftaro fonte, Dio benedice , e crede effer ciò ludo. Ginb. La tua prevenzion quelle virtudi Da non faper prodotte, da queir altre, Che figlie fon d' elezione umana , Nè dal bruto diftinguer fa l'eroe. Ma porto che con egual gloria fprezzi Altri i piaceri e il lufinghevol fenfo , Dove fi troverà mai un Catone Nel fuo dolore maeftofo e grande ? Dei ! con qual fermo e valorofo cuore Nel mezzo a i fuoi fofFriri egli trionfa, Sotto T incarco de* fuoi guai s’innalza, £ di quel pefo ne ringrazia i Numi / Sif. Orgoglio è quefto, e Romana alterigia, / ri/ffl the Romani cali tt Storci/m . Had aot your Royal Fatber tbougbt fi b/ghty Of Roman Virtù* y and of Catos Caufe y He had not fui In by a Slave'; Hand inglorious: Nor would bis slangbterd Army now baue lain On Africk's Sands , dtsfigurd iutth their Wounds, To gorge the IFohes and Vttltures of Numtdta. Jub. IV by doft tboa cali my Sorrows np afrejb ? My Fatber s Name brtngs Tears into my Eyes . Syph. Oh , tbat youd profit by your Fatber s tilt ! Jub. JVbat ivortd(i tbou baie me do? Syph. Abandon tato . Jub. Sypbax , / fiori d be more tban twice art Orpban Byfucb a Lofi. Syph. Ay , tbere's the Tie tbat binds you ! Toh long to cali bim Fatber . Marctas Cbarms Work in your He art unfeen y and pie ad f or Cato . No 'wonderyou are deafto ali I Jay . Jub. Sypbax ,your Zeal becomes importunate ; httherto permitted it to rame , And talk at large 5 but learn to keep it in , Leaft tt fio» Id take more Freedom tban VII gfae it. Syph. Sir , your great Fatber newer ujed me tbus . Alas , he s Dead ì But canyou eer forget The tender Sorrows , and the Pangs of Nature 3 The foud Embraces , and repeated Blvjjìngs , Wbtch you dreisofrom bim in your laìt Fareivel ? Sttll muft I chertfb the dear fad Remembrance , At once to torture and to plcafe my Seul. Tic Chiamata da lor, credo,- Stoicifmo. Non avtfle il reale padre voftro Tanto avuto concetto del Romano Valore, e della caufa di Catone; Non faria fenz'onor così caduto Per man fervile: nè Tarmata Tua Sconfitta giacerla fu gli arenofì Campi d'Affrica, caica di ferite A ingraffar gli avoltoi della Numidia. Giub. Perchè vuoi rinnovar mio cruccio atroce? Chiamami al pianto di mio padre il nome. Sif. Oh profittale delle fue fciagure / Gtub. Che vuoi eh' io faccia? S$f. Abbandonar Catone. Giub. Orfano mi farei più di due volte. Sif. Oh, il vincolo è quefto che vi lega ! D l'aerare di chiamarlo padre. Di Marzia i vezzi opran fui voftro cuore * Quelli fon gli avvocati di Catone, E a tutto quel ch'io dico vi fan fordo. Giub. Siface , voftro zelo efee importuno. Fin qui di vaneggiare io t' ho permeffo , E parlar largo; ora a frenarlo impara, Nè voler franco effer più eh* io non voglio. Sif. Sir; non sì meco usò voftro gran padre. Laflb/ egli è morto: ed obbliar potete I teneri dolori, e le trafitte Di natura , ed i cari abbracciamenti Le replicate benedizioni , Ch'egli vi diede nelf cftremo addio ? E' d' uopo eh* f accarezzi la foave Trifta rammemoranza , onde ne fente Tormento in uno, e compiacenza l'alma. E II . «J(34)ì»> Tbe good old King , at parting , wrung my Hand 9 ( Hts Eyes brim-full of Tears ) tbeu figbtng cryd , Prttbce be careful of my Som ! hts Grtcf Swelfd uf fo htgb be coudnot utter more. Jub. Alas , tby Story mclss away my Soni . Tbat beft of Fatbers ! Ixrw /ball I dtfebarge Tbe G rat nude and Duty , nsJbteb 1 o*we bim ! Syph. By ìaytng up bts Counctìs tn your He art . Jub. Hts Counctìs bade me yteld to tby Dtretltons ; Tben , Sypbax , cbtde me tu jevercjl Terms , Vcnt ali tby Pajfton , and III fland tts fbock , Cairn and unruffled as a Summer-Sea , IV ben not a Breatb of IVtnd fltes oer its Sur face . Syph. Alas , my Prtnce , ld guide you to your Safety . Jub. I do beitele tbou ivoud/i i but teli me bovu ? Syph, Flyfrom tbe Fate tbat follorws Cdjars Foes . Jub. My Fatber feornd to dot . Syph. And tberefore dyd. Jub. Better to die ten tboufand tboufattd Deatbs y Tban isoound my Honour. Syph. Ratber fay your Lame. Jub. Sypbax y l ite promtsd to preferve my Temper . Wby wilt tbon urge me to confefs a Fiume y 1 long bave fitfled , and woud fatn conceal? Syph. Beitele me, Prtnce > 'tts bard to conquer Love y But eafie to drvert and break tts Force : Abjence mtgbt cure tt , or a fecond Mtflrefs Ltpbt up anotber Flame , and fut out tbts . Tbe glowsng Dames of Zamds Royal Court Have Faces flu[bt -witb more exalted Cbarms . Tbe Sun , tbat rolls bis Cbariot oer tbeir Headt, Works up more Ftre ani Colour tn tbetr Cbcckt: Were Digitized by Google Il buon vecchio al partir la man mi ftrinfe [ Gli occhi pieni di pianto ] c fofpirando Di ile ; Deh cura abbi del mio figliuolo . E '1 gonfiato dolor così fe crollo, Ch* egli più non poteo formar parola. Gtub. Latto ! il racconto tuo mi ft r ugge 1* Alma. Ottimo Padre / come potre* io Adempir verfo lui i miei doveri ? Sif. Gli avvifi fuoi nel voftro cuor ferbaee. Gtub. Quefti tur di feguir gì* indrizzi tuoi. Co' termin più feveri adunque bravami, Siface : sfoga pur tutto il tuo sdegno ; AH' impeto di lui ftarommi quieto £ tranquillo , qual mar di (late , in calma \ Quando nè pure un venticcl 1* increfpa. Sif. Prence, mia mira è fol voftra falvezza. Gtub. C redolo j ma qual via ad effer falvo ? Stf. De i nemici di Cefar fuggi il fato . Gtub. Mio Padre ciò sdegnò . Stf. Perciò morio. Gtub. Mille volte morrei , che fare oltraggio Al mi* onor . Stf. Dite pure , al voftro amore . Gtub. Data ho parola già di (tarmi quieto. Perchè forzarmi a palefar la fiamma Chiufa tenuta, e eh* io pur vo* celare? Stf. Prence, amor fuperare è forte cofa; Ma romperlo è leggiera, e divertirlo. Lontananza lo farà , od altro amore Accende un* altra fiamma , e eftingue quella. Le Dame alla Real Corte di Zama Splendono accefe d* un più bel vermiglio . Il Sol , che fu (or tette il cocchio gira , Le guance tinge in più vivace fuoco. E 2 Quc- Were yon ivìtb tbefe , my Prtnce ,youd foonforget The pale unripend Beauttes of the Nortb . Jub. Tts not a Sett of Fatture: , or Compie xio» y The Ttnfiure of a Sktn , tbat I admire . Beauty [oon grows famtltar to the Louer , Fades in h/s Eye y and palls upon the Senfe . The nìtrtuous Marcia towrs abo*ve ber Sex : True y [he is fair , [ Ob 3 bow dtutnely fair ì ] But ftìll the ìcvely Matd improbe s ber Charmi Wilb inward Greatnefs , «naffctled Wtfdom , And Santltty of Manners . Catos Soul Shtnes out tn enery tbtng (he atls or fpeakf , Wbtle isoinning Mtldnefs and attrattive Smilcs Dwell in ber Lookf , and -with becoming Grace Soften the Rigour of ber Fatbers Vtrtues . Syph. How does yottr Tongtte gro-w u)anton in ber Praife § Bnt on my Knees I begyoa isooud confider Enter Marcia , and Lucia . Jub. Bah ! Sypbax 5 f/V not fbe ! — - Sbe mowes tbis Way ; And njttb ber Lucia , Lucius s fair Daughter , My Heart beats tbick • I prttbee Sypbax lea<ve me . Syph. Ten tboufand Cttrfes f alien on % em botb ! Mow wtll tbts W 'iman VMtb a fingle dance UadOy wbat fw been laVrtng ali tbis wbile . [ Exit < Jub», Digitized by Google Quefte, fe con lor fofte , o Prence mio , Farebbonvi obbJiar quelle del Norte Beltà pallide, acerbe, ed immature. Gtfib. Fattezze o colorito io non ammiro . Saziati tofto di beltà 1* amante : Appaffita ed intipida gli viene. La cada Marzia il fedo Aio far monta: E' bella pur , divinamente bella ; Ma V interna grandezza , e fchietto fenno , Santi coftumi crefcono i fuoi vezzi. Spicca Catone in fue parole ed atti , Mentre dolci attrattive, e dolce rifo Albergan n»l Tuo volto , ed avvenenti Grazie ammollifcono il rigor paterno. S/f. Come facil ti (doglie voftra lingua Nelle fue lodi ! Ma protrato a i voftri Piedi vi priego , che contideriate . . . Entra Marcia , e Lucia. « Cinb. Siface, oh ! non è lei ? ella quà viene Colla bella di Lucio figliuola . Palpita forte il cor : Siface , lafciami . Stf Mille maJedizion vengano loro ! Disfarà tutto quel che ho fabbricato Con una fola occhiata or quefta femmina, fatte SCE- Digitized by Google *8( 3 8 » Juba, Marcia, Lucia. Jub. T T AH cbarming Maid y bow does tby Beantby Jmootb X~\ The Face of IV ar , and make ev'n Horror fmtle ! At Sigbt of tbee my He art jbakes off iu Sorro-wt 3 Ifeel a Daw» of Joy break tn npon me y And f or a nobile forget tb % Approacb ofCtfar . Ma r. Ifioud be grteiid ,young Prime y to tbtnk my Prefence Unbent your Tbougbtt y and (lackend Vw to Armt y Wbtle y warm wttb Slaugbter , onr uttloriont Fot , Tbreatens aloud , and calls you to tbe Fteld . Jub. 0 Marcia , let me bope tby kind Concerni Andgentle fVifbes follow me to Battei! The Tbougbt *wtll gìwe new Vigonr to my Arm y Add Strengtb and Weigbt to my defcendtng S-word y And drive it in a Tempeft on tbe Foe. Marc. My Prayers and IVtflet alwayt fiali attend Tbe Friends of Rome , tbe glorious Caufe of Vtrtue , And Men appronjd of by tbe Gods and Cato . Jub. Tbat Juba may deferte tby piont Caret, Mgare for c<vcr on tby Godltke Fatber , Tranfplanttng y one by one , into my Life Hit brigbt Perfecliont , Vi// / flint like bim . Marc. My Fatber ne<ver at a Ttme like tbit Woud lai o*t bts grcat Sotti in Wordt , and wafie Sncb Giuba, Marcia , * Iw/*. G/'^Z-. T 7 Ergin leggiadra , oh come tua beltade V La faccia della guerra ammorbidifee , E lieto rende ancor 1' ifteflo orrore ! Dal mio cuore il dolor fugge a tua villa; Spuntar fento novella alba di gioja , E Ccfare vicino intanto obblio . Mar%. M' increfeeria il penfar, giovane Prence, Che de i voftri penfier Rendette 1* arco La mia prefenza, c gli impigrire air armi; Mente caldo di ftrage il Vincitore Alto minaccia , e sì t* afpetta al campo. Gtub. O Marzia lafcia , eh* io fperi , che tue Cure cortefi , e generofe brame M* accompagnino franco alla battaglia. Quefto pcnfier , nuovo daranne al braccio Vigore e forza , e pefo al mio fendente , Che cadrà fui nimico in gran tempefta. Mar%. Miei prieghi e voti gli amici di Roma Seguiran tempre, di virtù la caufa , E i pregiati da i Dei e da Catone . Gtub. Per meritar le tue pietofe cure, Sempre fido darà Giuba in tuo Padre , Le iltuftri doti fue ad una ad una Trapiantando in fe fteffo, finché giunga A fimile fplcndor. Mar^, Mio Padre mai Non avrebbe in un tempo come quello , Logorato il fuo fpirito in parole, Sucb precious Moment* . Jub. Tby Rtprocfs are imfi s T/tf* wrtuous Matd > *o «yi Troops , «^«(/ /ir* ffo/r langutd Souls witb Catos Vtrtue ; If e' re I Uad tbem io the Fteld y wben ali The lì ar Jball ftanà ranged m tts juft Array , And dreadful Fomp : 1 ben wtll I tbtnk on ti: se l 0 lowely Matd , Tben wtll I tbtnk on Tbee ! And , in tbe Jbock of cbarging Hcfts , remember U'bat glonous Deeds fboud grate tbe man, wbo bopes Ter Marcia s Leve . Lue. Marcia , you re too federe : Hgvd ccud you cbide te young goodnatured Prince, And drt*vc htm f rem you witb fo ftern an Air , A Prtnce tbat Icves and dotet on you to Deatb ? Mar. T/x tberefore , Lucia , tbat 1 cbtde htm front me Hit Air , bts Voice , bis Locks y and bonetl Sotti Speak ali fo mwingly in bis Bebalf, 1 dare not truft my felfto bear btm talk . Lue. IV ly ivi II you fighi agatnft fo fweet a Paffton y And fi rei yeur Heart to fucb a World of Cbarms ? Mar. Hciv , Lucìa , ivoudft tbou baie me fink away In fleajing Drcams , and lofe my felf in Leve y Wen enìry moment Catos Ltfes at Stake ? Cafar comes arnid witb Terror and E^venge, And atms bts Tbunder at my Fatbers Head : Sboud not tbe fad Occafion fwallow up My otber Cares , and draw tbem ali tnto it ? Lue. Wby baie not I tbts Conftancy ofMtnd y Wbo Nè tanti cari momenti perduto. Giub. Sono giudi i rimproveri, Donzella Valorofa : nV invio alle mie truppe Col valor di Catone a infiammar V alme. Se mai ai campo condurrolle , quando La battaglia fchierata fi preferiti In fiera pompa ; in te terrò il penfiero, Vaga Donzella , in te terrò il penfiero: £ nel più forte della dura zuffa Sovverrommi, quai fatti gloriofi Un amante fregiar deggian , che afpira AH* amore di Marzia. fané Lue. Sete,o Marzia , Troppo fevera. Come il cuor fofTrio Di fgridar così buon giovine Prence, E fcacciarlo con aria così torva, Prence, che v' ama più della fua vita ? Marifr Per quello, Lucia, da me lo difeaccio. L' aria, la voce, il guardo , il gentil core Parlan per lui con tal podente incanto, Che d' udirlo parlare io pur non ofo. Lue. Perchè combattere un fi dolce affetto? Perchè indurare a tanti vezzi il core ? Mar^ Come mai , Lucia , vuoi eh* io mi disfaccia In piacevoli fogni e in folli amori, Orche in cimento èognor vita di Cato? Vien di vendetta e di terrore armato Cefare , e di Caton mira alla teda II fulmin fuo : la trifta congiuntura Impiega tutti quanti i miei penfieri, E sì gli unifee e rinconcentra in ella. tue. Se tanti ho io così gravofi affanni , F P<r- <3( 4» )& Wio * fu mavy Grufi to try its Torce ? Sure y Nature fot md me of ber fof tifi Mould y Enfeebled ali my Sotti uoitb tender Paffions y And funi me evn below my own vjeak Sex: Pity and Love , by turns , opprefs my Heart . Mar. Lucia , d sburtben ali tby Cares on me. And let me [bare tby ma Vi re tir ed Diftrefs; Teli me ix'bo raifes up tbis Confiicl in tbee ? Lue. / need not blufb to nawe tbem, isjben I teli tbee T bey re Marcia s Brotbers , and tbe Sons of Cato . Mar. Tbty betb bebold tbee ^ub tbeir Sifters Eyes: And often bave reveal d tbeir Vajfion to me. But teli me , u bofe Addreft thott f amour ft mofl ? Hong to btow , and jet I àrtad to bear it . Lue. ì'/bicb is it Alarci a ^ijòesfor ? Mar. For nei t ber — And y et f or botb — Tbe Tcutbs bave equal Sbare In Marcias Vifbes , and divide tbeir Sifleri But teli meikb'ub of tbtm is Lucia s Cboicet Lue. Marcia, tbey lotb are bipb in my Efleem, But in my Love — li'by wilt tbou make menante hìm ? Tbou intrisi ft it it a blid andfoolfb Paffion y Pleasd at.d difgpfted v'itb it knemos not vubat . Mar. O Lucia, I m ferplex % d 9 O teli me vobtcb I mufl bereafter cali my bafpy Brotber ? Lue. Suppofe 'twere Portins 3 coudyou blame my Cboicet O Tortimi , tbou bafì fioln a^ay my Soul ! IV'ith vi bat a gractfid Tender ne fs be loves ! And breatUs tbe foftefi , tbe fincerefl Voisos ì Complacency , and Trutb , and manly Sweetneft Dj.)fll ever on bis Tofane , and fmootb bis TbotfghtS. Marctts is ovtr-warm > Ih fond Compiami Have Digitized by Google Perchè una tal fermezza non m' è data ? Fcmmi natura di più molle parta , Co' più teneri affetti infievoiimmi , £ caricò Copra il mio debol fedo: Pietà e Amor dittringommi a vicenda. Mar%. Lucia, le cure tue fopra me pofa; Mettimi a parte de* tuoi cupi affanni . Dimmi, chi detta in te quello conflitto? Lue. Non ho da aver rollar di nominare I tuoi fratelli, e figli di Catone. Mar%- Coli' occhio di lor fuora ambi ti mirano, E il loro amor fovente hanmi fvelato . Ma dimmi, qual de i due più favorifei? Bramo faperlo, c pur temo d* udirlo. Lue. Qual 1 è quegli , che Marzia brameria ? Mar^. Niun de due, - e forfè anco amenduni - Di Marzia nelle brame hanno egual parte I giovani , e dividon la forella. Ma dimmi: Lucia qua* di loro elegge? Lue. Marzia, ambo fon nella mia (lima grandi, Ma nel mi* amor . . . perchè vuoi tu eh' io '1 nomini Ben tu fai , come è cieco amore e folle, II qual , ne fa perchè, vuole e difvuole . Mar%. Lucia , io fon perplcffa. O dimmi , quale Appellar deggia il mio fratel felice. Lue. Se foffe Porzio , me 'n da re (le biafmo ? O Porzio , m* hai involata Y alma mia . Con qual leggiadra tenerezza egli ama ! Spira i difii più fchictti , e più gentili . Verità , cortetla , mafehia dolcezza Pulifcon le parole ed i penfieri . Fervido è Marco, e impetuofi troppo F 2 Sono *3( 44 )fr /firw mncb Farr.ejìnefs and PcJJton in tbem\ 1 bcur bim ivitb a /cerei kind of Dread y And tremile at bis Vebemence of Temper Mar. Alas poor Tontb ! low cari fi tbou tbrow bim front the ? Li: :ìa , tbou knormB not balf tbe Love be bears tbee\ H benecr be jpeaks of ti ce , bis Hearfs in Flames, lls fendi ottt ali bis Soul in ewry Word , , 'mi tbixks , and talks , and looks like one tranfportcd. Vnbappy Tontb! boiu v/ill thy CoUnefs raife. i. Francesco Paolo Bozzelli. Keywords: il tragico, il tragico latino, l’implicatura di Lucano, l’edonismo di Bozzelli, capitol su Bozzelli nella storia della filosofia italiana di Gentile – edonismo, morale, etica – costituzione napoletana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Bozzelli” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Bozzetti: la raione conversazionale e l’implicatura conversazionale di Bruno contro I matematici – scuola di Borgoratto – filosofia piemontese -- filosofia italiana – Luigi Speranza, pel Gruppo di Gioco di H. P. Grice, The Swimming-Pool Library (Borgoratto). Filosofo piemontese. Filosofo italiano. Borgoratto, Alessandria, Piemonte. Grice: “If Strawson is a Griceian, Bozzetti is a Rosminian – he philosophised on substance (‘il concetto di sostanza’ from the point of view of ‘gnoseologia,’ and also on ‘dialogue,’ and ‘piety,’ – he also speaks, like I do, of construction, and reconstruction, and indeed, ‘metaphysical reconstruction,’ one of my routines


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