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Thursday, May 24, 2012

Legrenzi e bella compagnia: Edipodia operistica (A. Gabrieli 1585)

Speranza CINQUECENTO 1585. Andrea Gabrieli: "Edipo re" SEICENTO -- SECONDO SEICENTO 1659. Luli. 1675. Legrenzi, "Eteocle e Polinice" (Festeggia mio core, 1680, Napoli). 1678. Purcell -- "Edipo". 1696. Wilderer. "Edipo" SETTECENTO primo Settecento 1729. Torri. "Edipo". secondo Settecento 1786. Sacchini -- "Edipo". Lainez, tenore, Polinice. 1791. Mereaux. "Edipo". --- OTTOCENTO primo ottocento 1802. Zingarelli. "Edipo" (La Fenice). 1836. Huettenbrenner. "Edipo a Colono" secondo Ottocento 1893. Vanzo. "Edipo" --- NOVECENTO primo novecento 1919. Leoncavallo. "Edipo re". --- --- 1696. "Edipo e Giocasta" -- Wilderer. Il primo compositore a dedicare un’opera ad Edipo fu Johann Hugo von Wilderer (1670-1724), allievo di Giovanni Legrenzi, figura importantissima nell’ambiente musicale di Heidelberg, e nella creazione della famosa orchestra di Mannheim. La prima delle sue undici opere è appunto "Edipo e Giocasta", tre atti su libretto di Giovanni Andrea Moniglia rielaborato da Stefano Benedetto Pallavicini, opera che rimanda agli stilemi del melodramma veneziano del tardo Seicento, priva di grandi contrasti drammatici, fatta di recitativi e arie raccordati tra loro molto liberamente. Fu accolta con grande favore al suo debutto, nel 1696 per l’inaugurazione dell’Hoftheater di Düsseldorf, e valse al compositore, appena ventiseienne, il titolo di vice Kapellmeister (Wilderer fu poi nominato Kapellmeister nel 1703). Fu invece all’Hoftheater di Monaco che, il 22 ottobre 1729, andò in scena l’Edippo di Pietro Torri (1650-1737), allievo di Agostino Steffani, celebre organista, anch’egli attivo in Germania alla corte di Baviera, dove mise in scena molte delle sue trenta opere. La tragedia per musica Edippo scritta su libretto di Domenico Lalli, sintetizza i caratteri musicali del suo stile maturo, nella semplicità dell’accompagnamento strumentale, nella ricercatezza vocale, ereditata da Steffani, nel gusto per la declamazione di impronta francese. Dall’"Edipo a Colono" di Sofocle Nicolas-François Guillard (1752-1814) trasse nel 1785 un libretto in tre atti, utilizzato prima da André Grétry, per una tragédie-lyrique rimasta però incompiuta (al primo atto) e mai rappresentata, poi da Antonio Sacchini (1730-1786), che con "Edipo a Colono" concluse la sua carriera di operista in Francia, con un grande successo. Ma si trattò di un successo postumo perché dopo una prima rappresentazione a corte, a Versailles il 4 gennaio 1786 (di fronte al re e alla regina di Francia di cui Sacchini era un protetto), l’opera fu ostacolata da gelosie ed invidie, ed ebbe il suo primo allestimento pubblico all’Opéra di Parigi solo il 1 febbraio 1787, quando il compositore era ormai morto da quattro mesi. Ma si trattò di un’edizione sontuosa, diretta da Jean-Baptiste Rey, con i più grandi interpreti dell’epoca - il baritono Auguste Chéron (OEdipe), il soprano Anne Chéron (Chimène), il tenore Étienne Lainez (Polynice), il baritono Louis Chardin (Thésée) - e OEdipe à Colone rimase in cartellone all’Opéra per decenni (si contano ben 583 recite dal 1787 al 1844). Il libretto di Guillard si ispira con molta libertà alla tragedia di Sofocle, senza rispettare i canoni della tragédie-lyrique. Innanzitutto perché l’intreccio amoroso è soppiantato da altri temi, come la pietà filiale, il rimorso e il perdono, la sacralità del potere, ma anche perché la dimensione più cupa della tragedia si manifesta solo nei fantasmi del passato, e ciò che muove i personaggi è l’aspirazione alla pace, alla riconciliazione con gli dei. Nel dramma tutto è in pratica già avvenuto e l’azione, povera di accadimenti, è tutta incentrata sulla figura di Polinice, figlio di Edipo ed erede al trono di Tebe che chiede a Teseo, re di Colono e di Atene, un aiuto militare contro il fratello usurpatore. Insieme si recano al tempio per invocare la protezione degli dei che si mostrano però risentiti verso Polinice, reo di avere esiliato il padre dalla città. Edipo, giunto a Colono con la figlia Antigone, viene difeso da Teseo di fronte al popolo che cerca nuovamente di cacciarlo. E il vecchio re alla fine perdona Polinice, convinto del suo pentimento e acconsente alle sue nozze con Erifile, figlia di Teseo. Opera dalla «fluidità mozartiana» (St.Foix), "Edipo a Colono" fu ammirata per la morbida cantabilità, per il grande equilibrio della scrittura armonica, per alcune pagine di grande intensità emotiva (come il duetto tra Edipo e Antigone), per le sontuose scene corali che rappresentano anche una importante tappa verso il grand-opéra di Spontini. Prima della fine del secolo appare sulle scene francesi un’altra opera ispirata a Sofocle, ma incentrata, a differenza di quella di Sacchini, sul dramma dell’incesto. Si tratta di OEdipe et Jocaste di Nicolas-Jean Le Froid de Méreaux (1745-1797) basata su un libretto del conte Duprat de la Touloubre, e messa in scena a Parigi nel 1791. In Italia la fortuna operistica di Edipo passa attraverso la musica di Nicola Antonio Zingarelli (1752-1837), con la tragedia per musica in due atti Edipo a Colono, scritta su libretto di Antonio Simeone Sografi (1759-1818), rappresentata alla Fenice di Venezia il 26 dicembre 1802. Il compositore napoletano che fu compagno di studi di Cimarosa al Conservatorio di Santa Maria di Loreto, poi maestro di Bellini e Mercadante, erede di Paisiello come maestro di cappella della Cattedrale di Napoli, offre in questa partitura un saggio del suo grande mestiere unito ad un gusto un po’ calligrafico, del suo rispetto per la sintassi operistica ereditata dalla tradizione dell’opera napoletana (tanto da essere spesso considerato un epigono). Ma l’Ottocento offre poi poche versioni operistiche della tragedia di Edipo (mentre, come vedremo più avanti si assisterà ad una grande fioritura nel genere delle musiche di scena), spesso dominate dal tema del fato crudele e implacabile, elemento caro alle letture romantiche. Sulla traduzione tedesca dello stesso libretto usato da Sacchini, nel 1836 andò in scena un imponente "Oedip zu Colonos" in tre atti composto dall’austriaco Anselm Hüttenbrenner (1794-1868), che fu allievo a Vienna di Salieri e intimo amico di Schubert e di Beethoven. Del 1893 è "Edipo re", opera in tre atti del padovano Vittorio Maria Vanzo (1862-1945), compositore, pianista e direttore d’orchestra di fede wagneriana (nel 1883 ha diretto il Lohengrin a Parma, nel 1891 la prima italiana della Valchiria, nel 1897 la prima scaligera del Crepuscolo degli Dei), l’unica completata delle sue tre opere, ma mai messa in scena. Stessa sorte per un’opera di Karel Kovafiovic (1862-1920) compositore, arpista e direttore d’orchestra nato a Praga, che compose nel 1894 un Edip král (Edipo re) su libretto di Antonín Nev˘símal, l’unica sua opera non rappresentata. Incompiuto è invece rimasto l’"Edipo re" di Ruggero Leoncavallo, composto su un libretto di Gioacchino Forzano che segue fedelmente la vicenda sofoclea. Leoncavallo cominciò a scriverla nel 1919 per il baritono Titta Ruffo, ma morì prima di averla portata a termine (mentre già progettava Tormenta, un’opera ispirata alla cronaca nera sarda), e la partitura fu poi completata da Giovanni Pennacchio. L’atto unico, messo in scena alla Chicago Opera il 13 dicembre 1920, è un tipico esempio di opera scritta su misura per un interprete, per sfruttare le straordinarie doti di cantante e attore di Ruffo (ad esempio nell’impegnativo e toccante monologo conclusivo) che fu molto elogiato dalla critica americana (si scrisse che la sua immedesimazione nel personaggio di Edipo era tale che non si distingueva l’attore dall’uomo). L’opera fu riproposta subito a New York, mentre dovette aspettare il 1958 per avere la sua prima europea, in un allestimento dell’Accademia Chigiana diretto da Bruno Rigacci, con la regia di Forzano. Alla fine degli anni Venti, in Francia, videro la luce due importanti drammi ispirati al mito di Edipo, quello di Jean Cocteau e quello di André Gide. L’OEdipe di Gide, del 1930, è una tragedia scopertamente autobiografica, sulla rinuncia, la fine delle certezze, il fallimento della libertà; una versione cristiana della tragedia antica, dove Edipo non teme gli dei e rivendica l’affermazione di sé, Tiresia lo scongiura di pentirsi affinché Dio possa perdonarlo, Giocasta insiste perché la faccenda si taccia. E alla fine Edipo si acceca, ma per orgoglio, in segno di sfida. La Machine Infernale di Cocteau è invece un grande gioco letterario nel quale solo il quarto atto corrisponde alla tragedia di Sofocle: vi è descritta infatti tutta la vicenda di Edipo, dal fantasma di Laio che tenta invano di avvertire Giocasta (atto I), all’ingresso trionfale di Edipo a Tebe (atto II), al matrimonio di Edipo e Giocasta (atto III) fino all’atto IV nel quale viene accentuata l’ironia tragica della vicenda, palesando il ‘meccanismo infernale’ del destino che si accanisce su una famiglia, e mettendo in gioco una serie di anacronismi che imprimono un segno di grande modernità alla pièce. Oltre alla Machine Infernale, scritta nel 1927 e andata in scena nel 1934 alla Comédie des Champs-Élysées, Cocteau trasse dalla tragedia di Sofocle anche il libretto (tradotto in latino dal dotto prelato Jean Daniélou) per l’Oedipus Rex di Stravinskij. Quest’opera-oratorio in due atti fu diretta per la prima volta dallo stesso autore, in forma di concerto, al Théâtre Sarah Bernhardt di Parigi, il 30 maggio 1927, e successivamente presentata in forma scenica, il 23 febbraio 1928, alla Staatsoper di Vienna, con Otto Klemperer sul podio. Opera caratterizzata da un tono epico e antirappresentativo, piena di arcaismi (a partire dalla lingua latina, una lingua rituale, «materia non morta, ma pietrificata, diventata monumentale e immunizzata contro ogni trivializzazione »), nata dalla volontà di separare il mito dal pubblico moderno: attraverso la presenza di un narratore che appare sulla scena, secondo le intenzioni di Cocteau, spiegando l’azione all’inizio di ogni scena, in francese e con un tono compassato; uno stile musicale asciutto e solenne; una struttura drammaturgica fatta di pezzi chiusi, ma montati secondo chiare simmetrie; una scenografia priva di profondità, con i personaggi vestiti in modo tale da muovere liberamente solo testa e braccia; una sorta di ricercata ‘disumanizzazione’ dei personaggi, che non dialogano realmente tra loro, ma cantano le loro parti con distacco. Sul testo di Cocteau nel 1940 ha composto un’opera anche Maurice Thiriet (1906-1972) compositore francese allievo di Koechlin e di Roland-Manuel, noto come autore di musiche per il cinema (Les visiteurs du soir, Les enfants du paradis, Fanfan la Tulipe); l’opera, intitolata OEdipe Roi, è andata in scena a Lione nel 1962, ma nel frattempo Thiriet aveva scritto altri lavori sui testi di Cocteau ispirati a Edipo: le musiche di scena per il dramma di Cocteau, nel 1941, e un oratorio, eseguito l’11 gennaio 1942 da Charles Münch a Parigi con lo stesso Jean Cocteau come voce recitante. Le due tragedie di Sofocle sono state riunite da Edmond Fleg nel libretto che è servito a George Enescu per il suo OEdipe: tragédie-lyrique in quattro atti e sei quadri, frutto di una lunga gestazione durata dal 1910 (i primi schizzi) al 1931 (stesura dell’orchestrazione), rappresentata per la prima volta il 13 marzo 1936 all’Opéra di Parigi, sotto la direzione di Philippe Gaubert. Il progetto iniziale di Fleg (1874- 1963), illustre rappresentante della tradizione ebraica di lingua francese, era quello di creare un dittico formato da OEdipe Roi e OEdipe à Colone. Ma poi l’intera vicenda è stata compattata in un’unica opera in quattro atti che descrive la parabola di Edipo dalla sua nascita nel palazzo di Laio, oscurata dalla profezia di Tiresia (atto I), fino al suo arrivo da vegliardo ad Atene (atto IV). Ma ci sono anche alcuni rilevanti cambiamenti rispetto alla vicenda narrata da Sofocle (ad esempio l’uccisione di Laio per legittima difesa, la vista riacquistata da Edipo nel momento della morte), che tratteggiano l’immagine di un Edipo molto umano, che si oppone alla sorte crudele e che ribadisce fino alla fine la sua innocenza. Nella musica di Enescu si mescolano echi di Fauré, spunti neoclassici, elementi folklorici (nelle melodie del pastore, nel ricorso ai quarti di tono, nelle eterofonie di tradizione bizantina), una scrittura vocale che passa dal canto allo Sprechgesang, in una solida struttura portante tenuta insieme da alcuni Leitmotiven. Nello stesso anno della prima dell’OEdipe di Enescu a Rouen e a Strasburgo andava in scena l’OEdipe Roi di Paul Adrien Bastide (1879-1962), prolifico operista che utilizzò per quest’opera un libretto di Marie-Joseph de Chénier (sempre da Sofocle), e le impresse un colore vocale scuro per la presenza di cinque voci di basso in altrettanti ruoli principali (a parte quello di Giocasta, affidato a un mezzosoprano, quello di Edipo affidato a un tenore, mentre Antigone ha un ruolo parlato e Ismene è un personaggio muto). Una delle chiavi di lettura più ricorrenti nelle rivisitazioni moderne dei miti antichi è stata quella psicanalitica, soprattutto per la tragedia di Edipo. Ma è una chiave che Carl Orff rigettò nettamente nella composizione dell’opera Oedypus der Tyrann. Si rivolse anzi ad un insigne grecista, Wolfgang Schadewalt, che aveva stigmatizzato le false interpretazioni dell’Edipo re, sottolineando come non si trattasse di un dramma del destino, perché non era esclusa la libertà di agire. Oedypus divenne quindi per Orff, che mirava a penetrare lo spirito classico della tragedia di Sofocle, un personaggio inconsapevole della colpa originaria, un eroe intellettuale che ricerca la verità e la ricostruisce con logica implacabile, macchiandosi così di una colpa peggiore, quella dell’orgoglio (hybris). A questo Trauerspiel Orff lavorò per sette anni, basandosi su un autentico capolavoro letterario, la traduzione in versi dell’Edipo re di Sofocle fatta da Friedrich Hölderlin nel 1804. L’opera andò in scena l’11 dicembre 1959 al Württembergisches Staatstheater di Stoccarda. con la direzione di Ferdinand Leitner, la regia di Günther Rennert e un cast d’eccezione: Astrid Varnay (Giocasta), Fritz Wunderlich (Tiresia), Gerhard Stolze (Edipo), Will Domgraf-Fassbaender (sacerdote). Orff (che si era basato sulla traduzione di Hölderlin anche per l’opera Antigonae del 1949). La musica scarna, essenziale, priva di residui operistici tradizionali, corrispondeva perfettamente all’assunto drammaturgico: imperniata intorno a un centro tonale fisso (di do maggiore), ma con frequenti stratificazioni politonali, dominata dalla forza plastica del ritmo, dalla melodia della lingua, dal declamato di Edipo che trascolora nell’arioso, nel melologo parlato, nello Sprechgesang, nella Sprecharie. Anche il coro appare quasi afasico, scarnificato, ridotto o a un lento salmodiare a cappella (che rimanda ai misteri medievali del Mysterienspiel al quale il compositore lavorava nello stesso periodo), o a nudi intervalli cantati dai singoli coristi. La centralità della parola è messa in risalto anche dall’accompagnamento strumentale (affidato a un organico che comprende sei tromboni, celesta, organo e numerosi strumenti a percussione, anche esotici) che si riduce a terrei pedali armonici, a zone nebulose (che accompagnano soprattutto le parole di Tiresia), o a sezioni dai ritmi secchi e scanditi. Del tutto diverso l’idioma musicale di un altro Oedipus in lingua tedesca, scritto dall’austriaco Helmut Eder (1916) che fu allievo proprio di Orff, oltre che di Hindemith e di Johann Nepomuk David, e autore di sei opere per il teatro. Questo Oedipus, che mescola insieme modi antichi e tecniche seriali, fu composto tra il 1958 e il 1959, su un libretto di Heinrich Weinstock tratto da Sofocle, e andò in scena a Linz nel 1960. La versione metrica di Hölderlin dell’Edipo fu nuovamente utilizzata per un’opera da Wolfgang Rihm (1952), nel suo Oedipus messo in scena il 4 ottobre 1987 alla Deutsche Oper di Berlino, con la regia di Götz Friedrich. Il compositore di Karlsruhe, autore di importanti opere nel repertorio contemporaneo, a partire dal celeberrimo Jakob Lenz, ha creato il libretto intrecciando i versi di Hölderlin con altri due testi (l’Oedipus: Reden des letzten Philosophen mit sich selbst di Friedrich Nietzsche, e l’Ödipuskommentar di Heiner Müller), trasformando quello di Edipo in un mito del nostro tempo, interpretando la vicenda non in forma lineare e narrativa, ma come un processo di coscienza, come una forma di rappresentazione a più strati. Fedele all’idea di una musica «impenetrabile, chiara, confusa e appassionata, precisa e stupefatta come è anche l’esistenza umana», sempre alla ricerca di un impulso vitale nella musica, basato non sulla sua struttura, ma sul suo potenziale espressivo, sulla sua molteplicità di significati, e anche sulla sua illogicità - Rihm, che era stato allievo di Wolfgang Fortner, Humphrey Searle, Karlheinz Stockhausen, Klaus Huber, negli anni Settanta fu l’esponente di punta della Neue Einfachkeit (nuova semplicità), movimento che nasceva come reazione al dogmatismo e al razionalismo della Neue Musik - Rihm anche in quest’opera gioca su una vasta gamma di espressioni, sfruttando l’impatto sonoro di un organico formato da fiati (quattro trombe e quattro tromboni), percussioni (alcune suonate anche da Edipo e Giocasta sulla scena) e da diversi gruppi corali, di uomini, di donne, di bambini, e anche da un coro parlato. Gli sfoghi degli ottoni e il respiro affannoso dei legni diventano così un’immagine sonora vividissima dei tormenti di Edipo e sono un chiaro esempio della natura eloquente e drammatica di questo Musiktheater nel quale Rihm cerca anche una texture assai densa, sovrapponendo l’azione cantata con le parti corali registrate e le parti parlate, fino alla conclusiva incursione di due violini che aprono uno squarcio sonoro del tutto inatteso. Nel Novecento operistico il mito di Edipo è approdato anche in Spagna, sulle coste della Catalogna, con Edipo y Yocasta di Josep Soler (1935), opera dodecafonica basata sull’Oedipus di Lucio Anneo Seneca (da Seneca è tratta anche la prima opera di Soler, Agamemnon del 1961) e messa in scena al Teatro Liceu di Barcellona in 30 ottobre 1974 (con la parte di Giocasta affidata a Martha Mödl). Il compositore spagnolo, allievo a Parigi di Leibowitz, e molto influenzato dalla musica di Schönberg e di Berg, utilizza in quest’opera un’unica serie dodecafonica, ma senza ricorrere a complessi artifici contrappuntistici e lasciando spesso emergere elementi tonali. L’elettronica fa invece la sua comparsa nell’opera in un prologo e due atti (su testo poetico di Hèlene Cixous) Le nom d’OEdipe composta nel 1977 da André Boucourechliev eseguita prima in forma oratoriale il 27 maggio 1978 alla Maison de Radio-France (che aveva commissionato il lavoro), poi messa in scena il 26 luglio dello stesso anno nel cortile d’onore del Palazzo dei Papi di Avignone. L’opera, che presenta il dramma di Edipo attraverso gli occhi di Giocasta, e che richiede un organico particolare, con coro misto a dodici voci, ensemble strumentale e dispositivo elettroacustico, appare tutta giocata sullo sdoppiamento tra canto e recitazione dei vari personaggi, su due livelli che interagiscono continuamente tra loro grazie anche all’elettronica (Giocasta I: soprano drammatico; Giocasta II: voce recitante; Edipo I: baritono; Edipo II: voce recitante; Tiresia I: voce recitante; Tiresia II: ruolo quasi muto). Dieci anni dopo, il 17 giugno 1988, veniva applaudita con una standing ovation alla Carl-Orff Saal di Monaco l’opera Greek di Mark-Anthony Turnage, una provocatoria trasposizione della storia di Edipo ambientata in un crudo Eas End londinese, capace di toccare temi di scottante attualità come il razzismo e la piaga della disoccupazione nell’Inghilterra thatcheriana. L’opera, basata su un libretto dello stesso Turnage e di Jonathan Moore, tratto dall’omonimo dramma di Steven Berkoff (a sua volta basato sul romanzo Oedipus-in-the-east-end), ha per protagonista uno skinhead di nome Eddy Rex che, stanco della sua vita tra pub e famiglia, approfitta della predizione di una chiromante (avrebbe ucciso suo padre e sposato sua madre) per andarsene mentre in paese dilaga la peste. Qui comincia la sua parabola: entra in un bar dove si azzuffa con il proprietario e lo uccide a calci, poi si innamora della moglie di lui (che rivede in Eddy le sembianze del figlio perso in una località balneare) e la sposa. Dieci anni dopo lo ritroviamogestire il bar e fare ottimi affari. La pace è interrotta dall’arrivo dei suoi genitori, mentre la peste imperversa e si crede che la causa siano due sfingi fuori delle mura della città. Eddy le affronta, risponde ai loro enigmi e le uccide. Quando viene a sapere che i suoi genitori lo hanno trovato nell’acqua vicino al molo di Southend, si dispera, vorrebbe cavarsi gli occhi ma, mentre risuona una marcia funebre, cambia idea e accetta la sua vita incestuosa e tuttavia felice e piena di amore. Intorno a questa vicenda dal linguaggio spesso brutale (prima di essere incisa dalla Decca, Greek era uscita in un cd della Argo con l’avvertenza sulla copertina «This opera contains bad language») Turnage crea una musica aggressiva e piena di colori, urbana, drammatica, teatralmente efficacissima, che mostra l’impronta jazz e rock tipica del compositore inglese (che è stato allievo di Knussen e Lambert al Royal College), mescolata con echi di Kurt Weill, di Britten (delle Church Parables), di Stravinskij (modificato però con un lirismo berghiano). L’ultimo Edipo in versione operistica lo troviamo il 7 marzo 2003 al Théâtre de la Monnaie di Bruxelles: si tratta di OEdipe sur la route di Pierre Bartholomée, opera in quattro atti, commissionata dallo stesso teatro e derivata dall’omonimo romanzo di Henry Bachau, scrittore, poeta, psicoterapeuta belga nato nel 1913. Bachau ha ripreso il mito ma lasciando ampio spazio al piacere della narrazione, intrecciandolo con altri miti della tradizione occidentale, aggiungendovi altri personaggi nati dalla sua immaginazione. Edipo, giocattolo degli dei, dopo che la tragedia si è compiuta, lascia Tebe. Cieco, bendato, sopraffatto dal peso della sua colpa, parte con la figlia (sorella) Antigone in un viaggio che lo condurrà a Colono. Percorso interiore, catartico, che porta alla chiaroveggenza, ma anche un’avventura che si snoda tra grotte, laghi sotterranei, incontri misteriosi (con il bandito Clios, con Diotima, incarnazione della saggezza e della compassione, con la Sibilla), duelli e agguati, e che si intreccia in continuazione con il canto, la danza, i sogni. La lettura del romanzo aveva profondamente colpito il compositore, attratto non solo dalle sue potenzialità drammatiche, ma anche dalla musicalità della lingua, dalla fitta rete di simboli e di temi («Questo romanzo è talmente ricco che offre materia a dieci opere: ci sono così tanti punti di vista, di storie nelle storie, un racconto dal quale nascono altri racconti […] tutti questi elementi tematici si intrecciano e poco a poco devono convergere verso la luce, l’armonia»). Sul libretto, scritto dallo stesso Bachau come una parafrasi poetico-drammatica del romanzo, Bartholomée (nato a Bruxelles nel 1937, celebre pianista, fondatore dell’Ensemble Musiques Nouvelles, professore di analisi musicale al Conservatorio di Bruxelles e poi all’Università di Louvain, direttore stabile dell’Orchestre Philharmonique de Liège) ha creato una partitura intessuta non di leitmotive, ma di timbri conduttori (come la tuba associata di Edipo), sfruttando anche una vasta sezione di percussioni, e inserendo numerosi interludi orchestrali tra le scene. Ha affidato al coro pochi interventi, senza farlo mai apparire sulla scena, mentre per i personaggi principali ha scelto dei ruoli vocali molto classici (quella di Edipo è una parte di basso-baritono, scritta su misura per José van Dam, Antigone è un soprano lirico, spesso spinto verso il registro acuto, Clios un tenore, Diotime un mezzosoprano).

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