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Friday, March 8, 2024

GRICE ITALICO -- A -- Z

 

IN PLICATVRVM -- impiegato -- H. P. Grice, St. John’s Oxford -- Compiled by Grice’s Playgroup, The Bodleian -- For The Anglo-Italian Society, Bologna -- Dedicated to A. M. G. – Luigi Speranza, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. – NAMES. GRICE ITALICVS: an alphabetical approach to Italian philosophy under Grice’s implicature. Have you noticed how little Grice says about Italian philosophy? It’s all *implicated*!

 

Grice ed Abano – peripatetici a Padova – filosofia italiana – Luigi Speranza (Abano). Filosofo italiano. Grice: “I like Abano; he is from my wife’s favourite part of Italy – Veneto – actually provincial di Padova – which has a little bit on the water – Strawson says he is more of a physician than a philosopher – but I say, “Both start with aspirated p!” – Grice: “My favourite Abano is the logician or philosopher of the lingo -- Abano  Pietro d'Abano. Se stai cercando l'opera lirica, vedi Pietro d'Abano (opera).  Pietro d'Abano Pietro d'Abano, latinizzato in Petrus de Abano o Petrus Patavinus è stato un filosofo, medico e astrologo italiano, insegnante di medicina, filosofia e astrologia all'Università di Parigi e dal 1306 all'Università di Padova; inoltre è considerato il primo rappresentante dell'aristotelismo padovano. Amico di Marco Polo, visse a lungo a Costantinopoli per imparare il greco e l'arabo, studiando in originale i testi di Galeno, Avicenna e Averroè. Fu autore anche di varie traduzioni di testi scientifici greci e arabi in latino: i Problemata di Aristotele (ai quali aggiunse un commentario, l'Expositio Problematum Aristotelis), i Problemata di Alessandro di Afrodisia[3], vari scritti di Galeno e Dioscoride. Rivide inoltre la traduzione delle opere di Abraham ibn ‛Ezra. Si guadagnò una grande fama come autore Conciliator Differentiarum, quæ inter Philosophos et Medicos Versantur.  Probabilmente Pietro d'Abano ispirò a Giotto il complesso – e per molti versi misterioso – ciclo pittorico che ornava il Palazzo della Ragione di Padova, andato perso in un incendio e rifatto da alcuni pittori minori seguendo lo stesso schema iconografico. Il ciclo di affreschi è suddiviso in 333 riquadri, si svolge su tre fasce sovrapposte, ed è uno dei rarissimi cicli astrologici medievali giunti fino ai nostri giorni. D'Abano è considerato uno dei più colti ingegni del suo tempo, la sua dottrina lo fece passare per un negromante.  Accusato tre volte dal Tribunale dell'Inquisizione di magia, eresia e ateismo fu prosciolto le prime due volte. L'ultima volta morì in prigione a causa delle torture subite, un anno prima della fine del processo. A seguito della condanna il suo cadavere fu dissotterrato per essere arso sul rogo.  A Pietro d'Abano esplicitamente si rifarà, per alcuni argomenti, come l'embriologia, il celebre medico Iacopo da Forlì. Citazioni famose Nel Conciliator Differentiarum, quæ inter Philosophos et Medicos Versantur D'Abano riferisce di avere parlato con Marco Polo di quello che aveva osservato nella volta celeste durante i suoi viaggi. Marco raccontò che durante il suo viaggio di ritorno nel Mar Cinese Meridionale, aveva avvistato quella che descrive in un disegno come una stella "a forma di sacco" (ut sacco) con una grande coda (magna habet caudam). Pietro d'Abano interpretò questa informazione come una conferma della sua teoria secondo cui nell'emisfero sud si potesse osservare una stella analoga alla stella polare, ma si trattava con ogni probabilità di una cometa. Gli astronomi sono concordi nell'affermare che non ci furono comete avvistate in Europa alla fine del 1200, ma ci sono testimonianze che una cometa venne avvistata in Cina e in Indonesia nel 1293. Questa circostanza non compare nel Milione. Abano conservò il disegno nel suo volume Conciliator Differentiarum, quæ inter Philosophos et Medicos Versantur. Sempre nello stesso documento, si riporta la descrizione di un animale di grossa stazza con un corno sul muso, identificato oggi con il rinoceronte di Sumatra; Pietro d'Albano non riferisce un nome particolare assegnato da Marco a questo animale; si pensa invece che fu Rustichello a identificarlo con l'unicorno nel Milione. Questa testimonianza è stata ripresa da Jensen, quando venne messa pesantemente in dubbio la veridicità del Milione di Marco Polo.  Sempre nel Conciliator Differentiarum (Diss. 67), Abano menziona la spedizione di Ugolino e Vadino Vivaldi genovesi verso le Indie Orientali per via mare.  "Parum ante ista tempora Januenses duas paravere omnibus necessariis munitas galeas, qui per Gades Herculis in fine Hispamia situatas transiere. Quid autem illis contigerit, jam spatio fère trigesimo ignoratur anno. Transitus tamen nunc patens est per magnos Tartaros eundo versus aquilonem, deinde se in orientem et meridiem congirando". Riconoscimenti Il Teatro Congressi di Abano Terme (già "Cinema Teatro delle Terme") è a lui dedicato, come pure l'IPSSAR "Pietro d'Abano (Istituto Professionale di Stato per i Servizi Alberghieri e della Ristorazione) poco distante, e altrettanto il Centro Studi Termali Pietro d'Abano, ente di ricerca del territorio Euganeo. È rappresentato a Padova in una delle 78 statue di Prato della Valle e nell'altorilievo al di sopra di una delle quattro porte d'entrata di Palazzo della Ragione. Ad Abano Terme a lui sono dedicati una statua nell'omonima piazza e il bassorilievo sul lato Est dello gnomone della meridiana monumentale in piazza del Sole e della Pace. Dizionario di filosofia. M. Guidi, Caratteri e modi della cultura araba, Real Accademia d'Italia. A Padova, specialmente, ferve lo studio degli Arabi, poiché Pietro d'Abano – il quale si era servito non solo del greco, ma anche dell'arabo che era andato a studiare a Costantinopoli per poter rettificare gli inevitabili errori delle versioni del tempo – aveva fatto della sua scuola di medicina il centro di quello che fu poi detto l'«Arabismo medico».». Iolanda Ventura, Translating, commenting, re-translating: some considerations on the Latin translations of the Pseudo-Aristotelian Problemata and their readers, in M. Goyens, P. Leemans e A. Smets, Science Translated: Latin and Vernacular Translations of Scientific Treatises in Medieval Europe, Leuven University Press, Pietro d'Abano, su galenolatino.com.  R. Martorelli Vico, Per una storia dell'embriologia, Guerini e Associati, Napoli, J. Jensen, The World's most diligent observer, in Asiatische Studien, F. Bottin, Pietro d'Abano, Marco Polo e Giovanni da Montecorvino, in Medicina nei Secoli, Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana:  fino all'anno MCCC, Firenze, presso Molini, Landi e C. Bibliografia  Conciliator differentiarum philosophorum et precipue medicorum Adalberto Pazzini, Pietro d'Abano, in Dizionario Letterario Bompiani. Autori, III, Milano, Bompiani, Joan Cadden, "Sciences/silences: the nature and languages of "sodomy" in Peter of Abano's Problemata Commentary". In: K. Lochrie & P. McCracken & James Schultz, Constructing medieval sexualities, University of Minnesota press, Minneapolis & London, Médicine, astrologie et magie entre Moyen Âge et Renaissance: autour de Pietro d'Abano. Textes réunis par Jean-Patrice Boudet, Franck Collard et Nicolas Weill-Parot, Firenze, Sismel - Edizioni del Galluzzo, (Società internazionale per lo studio del Medioevo latino) Pietro de Sclavione d'Abano, Trattati di Astronomia, Lucidator dubitabilium astronomiae, De motu octavae sphaerae e altre opere a cura di Graziella Federici Vescovini, Padova: Editoriale Programma, Loris Premuda, «Pietro d'Abano». In:  Dizionario critico della letteratura italiana, Torino: POMBA L. Norpoth, Zur Bio-Bibliographie und Wissenschaftslehre des Pietro d'Abano, Mediziners, Philosophen und Astronomen in Padua, Kyklos, Lynn Thorndike, A history of magic and experimental science, Vol. II: During the first thirteen centuries of our era. New York: Columbia university press, Sante Ferrari, I tempi, la vita, le dottrine di Pietro D'Abano: saggio storico-filosofico, Genova: Tipografia R. Istituto Sordomuti, Pietro d'Abano, Conciliator differentiarum philosophorum et precipue medicorum, Gregorio Piaia, Pietro d'Abano. Filosofo medico e astrologo europeo, Milano, FrancoAngeli, Francesco Aldo Barcaro, L'eretico Pietro d'Abano (medico o mago?), Nuova Grafica, Vigorovea (Sant'Angelo di Piove di Sacco, PD), Voci correlate Storia della scienza Aristotelismo Taddeo Alderotti Mondino dei Liuzzi Sefer Raziel HaMalakh. Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Guido Calogero, Pietro d'Abano, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Pietro d'Abano, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.Iolanda Ventura, Pietro d'Abano, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Opere di Pietro d'Abano, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.(FR) Bibliografia su Pietro d'Abano, su Les Archives de littérature du Moyen Âge.Marta Cristiani, Pietro d'Abano, in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Pietro d'Abano, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. He is possibly the first alphabetical philosopher. But there are more! Important Italian philosopher. From Abano-Terme. “If Occam is called Occam, I should be called Harborne.”Grice. “He was an exacting editor, if ever there was onebut he failed at one thing, “Problemata physica” was never written by Aristotle!”Grice. Pietro d'Abano-Terme, conosciuto anche come Petrus de Apono, Petrus Aponensis o Pietro d'Abano italiano a Padova. -- Abano era nato nella città italiana da cui prende il nome, ora Abano Terme. Abano-Terme guadagnato la fama scrivendo "Conciliatore Differentiarum, quae tra Philosophos et Medicos Versantur." Finalmente Abano-Terme è stato accusato di eresia e l'ateismo, ed è venuto prima della Inquisizione. Abano e morto in carcere prima della fine del suo processo.  Abano-Terme Ha vissuto in Grecia per un periodo di tempo prima che si è trasferito e ha iniziato i suoi studi a lungo a Costantinopoli. Si trasferisce a Parigi, dove è stato promosso ai gradi di dottore in filosofia e medicina, nella pratica di cui era un grande successo, ma i suoi costi erano notevolmente alta. A Parigi divenne noto come "il Grande lombarda". Abano-Terme si stabilì a Padova. Abano-Terme è stato accusato di praticare la magia: le accuse specifiche è che è tornato, con l'aiuto del diavolo, tutti i soldi che ha pagato di distanza, e che possedeva la pietra filosofale. Gabriel Naudé, nel suo "antiquitate scholae Medicae Parisiensis," dà il seguente resoconto di lui. "Cerchiamo di prossima produciamo Peter de Apona, o Pietro da Abano, chiamato il riconciliatore, a causa del famoso libro che ha pubblicato durante il suo soggiorno nella vostra università. E 'certo che fisica laici sepolto in Italia, scarsa noto a nessuno, incolto e disadorno, fino alla sua genio tutelare, un abitante del villaggio di Apona-Terme, destinata a liberare l'Italia dalla sua barbarie e l'ignoranza, come Camillo volta liberato Roma dall'assedio del Galli, ha fatto un'indagine diligente in quale parte del mondo della letteratura cortese è stato felicemente coltivata, la filosofia più astuzia gestito, e fisico ha insegnato con la massima solidità e la purezza; e di essere certi che sola Parigi rivendicò questo onore, là vola attualmente; dando se stesso interamente alla sua tutela, si applicò con diligenza per i misteri della filosofia e della medicina; ottenuto un grado e l'alloro in entrambi; e poi entrambi insegnato con grande applauso: e dopo un soggiorno di molti anni, loaden con la ricchezza acquisita in mezzo a voi, e, dopo essere stato il più famoso filosofo del suo tempo, torna al suo paese, dove, a giudizio del giudizioso Scardeon, è stato il primo restauratore della vera filosofia. Gratitudine, quindi, invita a riconoscere i vostri obblighi a causa di Michael Angelus Blondus,  di Roma, che nell'ultimo impegno secolo di pubblicare il Conciliationes Physiognomicæ del proprio Aponensian, e trovando erano state composte a Parigi, e nella vostra università, ha scelto di pubblicarli nel nome, e con il patrocinio, della vostra società.  Portava le sue indagini finora nelle scienze occulte della natura astruso e nascosta, che, dopo aver dato più ampie prove, dai suoi scritti in materia di fisionomia, geomanzia, e chiromanzia, si è trasferito sulla allo studio della filosofia; che studi hanno dimostrato in modo vantaggioso per lui, che, per non parlare dei due prima, che lo presentò a tutti i papi del suo tempo, e lo ha acquisito una reputazione tra i dotti, è certo che era un grande maestro in quest'ultimo, che appare non solo dalle cifre astronomiche che aveva dipinto nella grande sala del palazzo di Padova, e le traduzioni fece dei libri del rabbino dottissimo Abraham Aben Ezra, aggiunto a quelli che si ricompose nei giorni critici, e il miglioramento di astronomia, ma dalla testimonianza del celebre matematico Regiomontano, che ha fatto un bel panegirico su di lui, in qualità di un astrologo, nell'orazione ha pronunciato pubblicamente a Padova quando ha spiegato c'è il libro di Alfragano. Steepto  scritti  Conciliatore differentiarum philosophorum et precipue medicorum Nei suoi scritti egli espone e difende i sistemi medici e filosofici di Averroè, Avicenna, ed altri scrittori. Le sue opere più note sono il Conciliatore differentiarum quae tra philosophos et medicos versantur e De venenis eorumque remediis, entrambi i quali sono ancora esistente in decine di manoscritti e varie edizioni a stampa dalla fine del Quattrocento attraverso Cinquecento. Il primo tentativo di riconciliare apparenti contraddizioni tra teoria medica e la filosofia naturale aristotelica, ed è stato considerato autorevole in ritardo quanto XVI secolo. E 'stato affermato che Abano-Terme ha anche scritto un libro di magia chiamato "Heptameron," un libro conciso di riti magici rituali che si occupano di evocare gli angeli specifici per i sette giorni della settimana (da qui il titolo). Egli è anche accreditato con la scrittura De venenis eorumque remediis, che ha esposto sulle teorie arabi in materia di superstizioni, veleni e contagi.  l'Inquisizione  Generico ritratto di Petr [noi] da Abano conciliatore, <la rovesciata 'c' è un'abbreviazione corrente latina per il prefisso 'con -'> xilografia dalla Cronaca di Norimberga, E 'stato due volte portato in giudizio da parte dell'Inquisizione; per la prima volta è stato assolto, e morì prima che il secondo processo è stato completato. E 'stato trovato colpevole, però, e il suo corpo è stato ordinato di essere riesumato e bruciato; ma un amico aveva segretamente rimosso, e l'Inquisizione doveva quindi accontentarsi con la proclamazione pubblica della sua frase e la combustione di Abano in effigie.  Secondo Naude:  L'opinione generale di quasi tutti gli autori è, che era il più grande mago del suo tempo; che per mezzo di sette spiriti, familiari, che teneva chiuso dell'articolo in chrystal, aveva acquisito la conoscenza delle sette arti liberali, e che aveva l'arte di causare il denaro che aveva fatto uso di tornare ancora in tasca. È stato accusato di magia nel ottantesimo anno della sua età, e che morire prima che il suo processo era finito, è stato condannato (come riporta Castellan) al fuoco; e che un fascio di paglia o vimini, che rappresenta la sua persona, è stata pubblicamente bruciato a Padova; che così rigoroso un esempio, e dalla paura di incorrere in una sanzione, come, potrebbero sopprimere la lettura dei tre libri che aveva composto su questo argomento: il primo dei quali è la nota Heptameron, o elementi magici di Peter de Abano, filosofo, ora esistente, e stampato alla fine di Agrippa opere s'; il secondo, quello che Trithemius chiama Elucidarium Necromanticum Petri da Abano; e un terzo, chiamato dallo stesso autore Liber experimentorum mirabilium de Annulis secundem, 28 Mansiom Lunae. Abside con il suo sarcofago. Barrett si riferisce al parere che non era sul punteggio di magia che l'Inquisizione ha condannato Pietro d'Abano-Terme a morte, ma perché ha cercato di spiegare i meravigliosi effetti nella natura dalle influenze dei corpi celesti, non attribuendole agli angeli o demoni; in modo che l'eresia, piuttosto che la magia, sotto forma di opposizione alla dottrina degli esseri spirituali, sembra aver portato alla sua persecuzione. Per citare Barrett: Il suo corpo, prese privatamente dalla sua tomba dai suoi amici, sfuggito alla vigilanza degli inquisitori, che avrebbero condannato a essere bruciato. E 'stato rimosso da un luogo all'altro, e finalmente depositato nella Chiesa di St. Augustin, senza epitaffio, o qualsiasi altro segno di onore. I suoi accusatori attribuiti opinioni incoerenti a lui; lo accusato di essere un mago, e tuttavia con negare l'esistenza degli spiriti. Aveva una tale antipatia per il latte, che vedendo chiunque prendere lo faceva vomitare.Altro lettura Francis Barrett, The Magus, J. Cadden, "Scienze / silenzi: la natura e le lingue di" sodomia "in Pietro d'Abano Problemata Commento". In: K. Lochrie e McCracken & J. Schultz, Costruire sessualità medievali, University of Minnesota Press, Minneapolis & London; L. Premuda, Dizionario della biografia scientifica. New York: Charles Scribner Sons. L’Heptameron. Refs.: Luigi Speranza, “The reception of pseudo-Aristotle via Abano’s edition”. Abano. Keywords: filosofia del linguaggio. Refs.: Luigi Speranza, "Grice ed Abano," per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Grice ed Abano #Abano 

 

Grice ed Abbà – teoria del segno – filosofia italiana – Luigi Speranza (Farigliano). Filosofo. Grice: “Abbà is a genius – an Italian Lockino, as he calls himself in “Elementae logicae” – But he is actually better than Locke – England’s and Oxford’s greatest philosopher – for a couple of reasons: Locke uses barbarisms – anglo-saxonisms, Abba, who could be philosophising in his Cuneo vernacular, uses Cicero’s tongue! And the good thing is that he is fluent at it and his prose is flowing – It is difficult for a Locke to write in Latin – witness the roughness of Occam’s prose in Latin – but for Abba, he is obviousl THINKING in Italian and expressing his thoughts in ‘palaeo-Italian,’ as he calls ‘Latin.’ “Thinking in Italian may be preoponderant, but it need not be true!” Grice” “Of course I enjoyed most his philosophising on the ‘signum naturale’ – on which I drew for my Oxford seminars!” -- He is a great interpreter of Locke; in a country that needs that!” iFilosofo allievo di Benone, gli succedette nella cattedra di  metafisica a Torino.  Partendo dalla filosofia di Locke, ritiene che i dati empirici forniti dall'esperienza siano alla base della conoscenza umana, ma che le idee si formino attraverso un'elaborazione di questi elementi empirici da parte dell'anima umana, che utilizza categorie logiche indipendenti dall'esperienza. Abbà entrò in polemica con Rosmini a proposito del suo “Saggio sull'origine delle idee” mettendo in dubbio la veridicità del suo sistema. Rosmini controbatté alle critiche nel Diario filosofico di Adolfo, VII, G.A.A.(pubblicato in Riv. Rosminiana). Elementa logices et metaphysices, Taurini, Stamperia reale, Delle cognizioni umane: trattato del teol.o coll.o Abbà, Torino, Canfari. Lettere a Filomato sulle credenze primitive e sulla filosofia sino a Socrate scritte dal teologo coll.o Abbà, Torino, Canfari. G. Capone Braga, La filosofia fitaliana del Settecento, Padova,Francesco Corvino, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Filosofia. De idearum signis 38. Sunt autem signa vel naturalia, quibus sen sus nostros significamus ex effectibus;vel artificialia. Maistrii sententia est, nihil arbitrarii esse in sermone. Sicuti per vocabula ideas;ita per scripturam vocabula quo dam modo pingimus ad ideas abscntibus permanenter manifestan das.Quibusdampermanentibussignisideas,cogitationesque suas communi consensu exprimere vel homines in barbarie positi con sueverunt.Cultiores populi remotis temporibus scripturâ,usi sunt, cuius auctor, tempus, originislocus, omnia incerta. Quidam Cadmo, alii Phoeniciis, alii Ægyptiis eam acceptam referunt.Putarem ego Divinae originis.Ab Asia in Europam immigravit. Quidam putant spiritum in hac re progressum fuisse a scriptura Ideographica, seu figurativa, ad Hyerogliphicam seu symbolicam, a qua ad syllabicam  inde ad alphabeticam. V. Degerando de l'éducation des sourds-muets,  tom. quae cum re significata consociationem habent ex hominum arbitrio, et institutione. Hisce signis con stat idioma. Dicitur autem idioma signorum com plexio, quibus ideae significantur. Est idioma tran siens, et permanens.Illud actionis, et pronunciationis, hoc scriptionis appellatur. Omisso scriptionis idiomate, de duobus reliquis dicemus. Idioma actionis coalescit ex gestibus repetitis ad sensus animi aperiendos. Hisce gestibus consulto adhibitis, et observatis ad quaedam sensa manife standa, orta est huius idiomatis ars. Formae rerum externarum gestibus pictae mirum in modum istud idiomatis amplificarunt. Hoc praesertim constať ani versalis quaedam hominum lingua, et sermo panto mimicus. sed omnem linguam enasci, et enutriri ex ruinis aliarum; hasce vero ruinas esse formidanda divinae iustitiaemonumenta.Itaque inimi cus et omnis Neologismi. Bonald super linguarum originem suum systema Phylosophicum struxit. Pronuncialus autem hic sermo constat ex voci bus articulatis. Voces sunt soni ex ore animantis emissi: Articulatio est vocalis, et consonantis per vocis emissionem coniunctio.Ex hac coniunctione or tae sunt syllabae, ex his vocabula, quae sunt sonį articulata voce prolati, quibus ideas mente conceptas significanus.Quum autem omnis idea in mente existens determinata sit, quodlibet vocabulum ideam quamdam determinatam denotat, ac veluti determinat. Unde vocabula termini etiam dicti sunt: quum etiam ideae res repraesentent; termini,quoque res ipsas median tibus ideis denotant. Ex vocabulis,seu terminis ortus sermo. Quae di sciplinà generales sermonis regulas tradit, grammatica generalis, seu philosophica dicitur; quia hae regulae in natura cogitationis fundantur, suntque in omni lingua servandae.Quae regulas docent singulis nationum lin guis proprias grammaticae particulares appellantur. Singulae linguae sua syntaxi, et inflexionibus moderantur. Licet possint homines actionis idiomate sua sensa manifestare; aliquando tamen id magna cum difficultate fit; aliquando etiam id fieri omnino nequit, ut in magnis distantiis, et interpositis obstaculis. Ut id incommodi averteret Deus, qui hominem ad societatem condidit,non solum eum facultate loquendi, organisque ad sermonem aptissimis donavit; rerum etiam ad serinonem ipsum pronunciatum instituit, ut ex sacris litteris edocemur,qui postmodum hominum arte, urgentibus necessitatibus auctus quoque fuit. coloribusque donantur, qui nationis indolem, culturam, et in genium exprimerent, ac fata: suis singulae divitiis florentes sunt pro varia coeli temperie, naturae facie, aspectibus, forma regiminis, opinionum, religionis, educationis, morum, studiorumquc diversitate. Hinc variae apud varios populos idearum complexiones, ex quibus est interpretationis difficultas. Hinc etiam linguae histo ria una refert gentis suae historiam philosophicam, et civilizzationem. Huiusce picturae exemplaria sunt ideae, quas proinde pictura ist haec imitari debet. Idea vero est vivax,  rapida, clara. Ad hanc imitationem perficiendam spectarc Grammatica debet. Cum etiam omnes idcae exhibeant obiecta, et relationes; hinc duo verborum species existere debent, quarum aliae pingant obiecta, aliae rela tiones eorum. Quare Plato, Apollonius, aliique ex veteribus duo tantum sermonis elementa admittebant, nomen, et verbum. Nos putamus, lot esse debere elementa, quot colores sunt necessarii ad cogitationis tabulam exhibendam, huiusmodi sunt nomen, quasi notamen exhibens obiecta; hoc porro proprium, vel commune substantiarum, modorum: articulus obiecta determinans: pronomen ad vitandam satictatern: verbum relationem exhibens inter obiecta, et istud substantivum, quod semper inest ceteris, quae adiectiva dicuntur. Eidem convenit notio temporis, et variis modis inflectitur. Verbum est aliquando iterum modificandum, idque fit per adverbium, quasi comes verbi; in qua modificatione sunt gradus positivus, comparativus, superlativus: sunt quaedam ideae temporis, passionis, actionis, quae mistae veluti sunt ex nomine, et verbo, hae particivis exhibentur: sunt innumerae aliae relatìoncs obiectorumrepraesentandae,puta loci,proclivitatis,directionis aliaque id genus, quae praepositionibus significantur. In tabula. Grammatica dici potest ars ideas pingendi per verba, est enim a graeco vocabulo gramma pictura, seu a verbo graphein describere, et pingere; vocabulis namque cogitationis nostrae veluti tabulam pingimus. Hinc tot sunt vocabulorum,et terminorum species, quot idearum. Sunt praeterea termini positivi, qui aliquam reipsa ideam denotant, ut homo, arbor, etc. negativi qui absentiam alicuius ideae SIGNI-FICANT, ut nihil, ignorantia, tenebrae. Terminus positivus,qui eam dem ideam constanter denotat,fixus dicitur, qui vel proprius est,si uni,eidemque rei significandae sem per inservit, ut Plato, Aristoteles; vel univocus si pluribus rebus sub eadem significatione tribuatur, ut sunt omnia vocabula generum, et specierum. Qui modo hanc, modo illam ideam exhibet dicitur v a gus, vel aequivocus. Potest autem aequivocus esse vel casu, nempe hominum arbitrio; vel consilio, quum res diversae, quae eodem termino significantur, ali quam habent similitudinem, et analogiam, unde ter minus analogus, seu metaphoricus dicitur, ut termi nus leo, quo etiam homo fortis significari consuevit ob analogiam fortitudinis, qua homo cum leone con venit. Tandem termini dicuntur etiam synonimi, cum variis vocabulis eamdem ideam significamus. denique cogitationis, omnia sunt coniungenda, quod coniunctio. nes efficiunt.Haec duo postrema,una cum adverbiis elyptica di cuntur, quia brevitati inserviunt. Non solum idearum, sed affe ctuum etiam, et sensationum pictura quaedam esse debet, huic officio addictas interiectiones, quarum imitationes sunt a c centus, quidam veluti cantus, qui vocabula vivificant, animâque donant, unde spiritus à Graecis, sapores ab Hebraeis dicti sunt. Putat Tracyus (qui sermonis analysim in sua grammatica philosophica, et universali dedit) interiectionem alias sermonis partes ordine praecessisse quemadmodum sensationes praecedunt ideas ipsamque esse quoddam propositionis genus. Vocabula vere synonima, si existerent, linguae perfectioni. Quum vocabulis ideas mente conceptas signia ficemus, iam sequitur, ipsa non esse signa idearum, quae in audientium animis sunt', sed earum solum, quas loquens in mente habet.Hinc quum pro varia h o minum cognitione, variae in diversis hominibus de eadem re ideae esse possint, necesse est, ut idem v o cabulum a diversis pronunciatum,diversnm etiam sen sum continere possit. Unde si verum vocabuli sensum determinare velis, ut aliorum sensa assequaris, non ex propriis ideis tuis, sed e scribentis, vel loquen tis mente ipsum interpreteris oportet. Quare d u m alio rum scripta legis, vel sermones audis, cave ne tuae ideae, quae latenter subrepunt, efficiant, ut aliorum sensa in tuam sententiam quandoque iniquissime d e torqueas, et eas vocabulis ideas subiicias. Ex eo quod vocabula sint idearum nostrarum signa, patet ideas et vocabula ita esse eadem esse debeat utrarumque oeconomia,'et quae de illis praedicantur, de istis aeque possint usurpari. Hinc maxima est vocabulorum vis in scientiis, quae quantum iis perficiantur intelliges, si teneas eiusdem esse vis in scientiis vocabula, ac in arithmetica numeri, in algebra litterae, in geometria figurae. In ideas vero ipsas, et operationes mentis n o  quas auctorem ipsum in mente habuisse, expensis omnibus, verisimillimum non est. connexa ut oílicere viderentur. Sunt autem quaedam impropries ynonima,quae nempe repraesentant quidem eamdem ideam principalem sed non casdem accessorias, ut verba amo, et diligo. strae tantus est vocabulorum influxus, ut sine illis ne tacita quidem mentis cogitatione vix aliquid mente revolvere posse videamur. Iisdem ideae complexae usque, et usque resolvuntur; resolutae autem uno vocabulo iterum comprehenduntur, unde attentio, et memoria mirum in modum iuvatur; sicut eorum sono, accentu, melodia, imaginationi succurrimus. Comparate ad alios communicationi inserviunt, et in SERMOVE CIVILI, aesthetico, et philosophico,qui caeteris accuratior esse debet, culturam, humanitatemque augent. Sed quantum mentem, scientiasque perficit rectus vocabulorum usus; tantum obest eorumdem abusus. Errat enim semper qui bene non utitur lin gua. Hi autem abusus ortum habent. ex naturali vocabulorum imperfectione; cum enim comparate ad ideas exiguus admodum sit vocabulorum numerus, fit saepe ut uno vocabulo plures quandoque etiam discrepantes ideas, aut admodum complexas exprimere cogamur. Nihil magis ostendit huiusce sermonis utilitatem, quam surdi-muti nondum instructi, pueri, etsylvestres. Quoad surdos mutos praesertim,'censet Bonald, ipsos nihil cogitare. Quanta igitur gratia est habenda D. Ponce, Andres, De-l'Epée, Sicard, Assaroti, aliisque. Ex hominum vel socordia, vel malitia. Abulimur nimirum vocabulis cum iis vel obscuram, vel confusam, vel nullam ideam afligimus; quod vi tium ex eo est, quod a pueris prius vocabulum. Hos autem abusus praecavebimus Si vite mus voces ambiguas, obscuras, aequivocas, sine sensu, antiquatas, barbaras, nimium translatas, nimium e m phaticas. Si prius ideam in mente concipiamus, tum de signo,quo eadem exprimatur solliciti simus; ab ideis enim ad vocabula progredi nos oportet,non vicissim. Si vocabulorum sensus in eodem sermo nis filo constanter idem relineatur; vel si necessitas contrarium expostulet, auditor, aut lector praemo neatur, nisi ex adiunctis id manifeste colligi possit. Si utamur vocabulis usitatis, quae ab iis desu menda sunt auctoribus, qui studio, et labore per rum sermonibus, aut scriptis accuratior vocabulorum usus communi doetorum suffragio elucet. Licebit ta men aliquando nova condere vocabula pro novis ideis exprimendis, dummodo id prudenter fiat. Si fixum  quam ideas mente informare consueverimus; vel ex eo quod velimus aliquando pertinaciter desperatam sententiam nostram defendere. Abulimur quum in sermonis decursu eamdem vocem in diversa signific. catione usurpamus quin auditorem, aut lectorem m o neamus. Quum obscuritatem sublimioris cuiusdam doctrinae famam captemus. Hinc vocabula barbara peregrina obsoleta usurpamus, vel usitatis novam significationem ad privatum arbitrium confictam affigimus. Quum vocabula pro rebus ipsis accipimus, ac per eadem reales rerum essentias ex primi arbitramur, quo vitio praesertim laborant ter mini abstracti. affectamus ut inde pararunt,et in quo sit menti tantum per vocabula de rebus ipsis signi ficari, quantum loquens de iis cognoscit. Si vocabula obscura, vel dubia, vel aequivoca, accuratâ definitione declaremus; quae autem confusa sunt rite factâ divisione distinguamus. Andrea Abba. Keywords: teoria del segno, segnare, segnato. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Abba,” The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Grice ed Abbà #Abbà.

 

Grice ed Abbagnano – filosofia romana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Salerno). Filosofo. Grice: “There are TWO Abbagnani: the Paris Abbagnano, who to be different, dubbed his ‘existenzialismo’ ‘esistenizalismo positivo’ (later illuminismo), and MY Abbagnano, the one who explored that infamous Greek embassy that arrived in Rome in 189 a. u. c., bringing the sophistries for the fascination of the Scipioni of Rome!” -- Salerno, filosofo. Essential, idealist Italian philosopher, famouos for his “Dizionario di filosofia,”“which alas, has no entry fro ‘implicatura.’”Grice. Abbagnano also wrote an interesting history of philosophy, and is regarded as an idealist, alla Oxonian-favoured Croce.  Nicola Abbagnano (n. Salerno), filosofo. Laureatosi in filosofia a Napoli con Antonio Aliotta, insegna dapprima al Liceo Umberto I ed all'Istituto Superiore di Magistero "Suor Orsola Benincasa" del capoluogo campano, per poi trasferirsi all'Torino dove è Professore di Storia della filosofia prima presso la Facoltà di Magistero, poi presso quella di Lettere e Filosofia; è condirettore, a fianco di Norberto Bobbio, della Rivista di filosofia; è stato ispiratore del gruppo di intellettuali e filosofi, comprendente, tra gli altri, lo stesso Bobbio e Ludovico Geymonat, che prende il nome di "neoilluminismo italiano", organizzando una serie di convegni rivolti alla costruzione di una filosofia "laica", aperta ai principali orientamenti del pensiero filosofico internazionale. Collabora con il quotidiano La Stampa; si trasferisce poi a Milano dove collabora con Il Giornale di Indro Montanelli e dove viene eletto consigliere comunale nelle liste del Partito Liberale Italiano e assume per circa un anno la carica di assessore comunale alla Cultura.  Divenne socio dell'Accademia delle scienze di Torino. È stato uno dei promotori del Centro di studi metodologici di Torino. Come studioso di filosofia, è tra i primi a diffondere in Italia, negli anni trenta e quaranta, la conoscenza delle correnti esistenzialistiche francesi e tedesche, in particolare Heidegger, Jaspers e Sartre. Nell'opera "Le sorgenti irrazionali del pensiero," Abbagnano esalta l'azione creativa, la volontà e l'esperienza, attribuendo ad esse il compito di condurre alla verità. Erano elementi che egli ritrova soprattutto nella filosofia di Giovanni Gentile.  Fondamentale nell'evoluzione della sua filosofia  è il saggio "La struttura dell'esistenza," pubblicata a Torino, nella quale propose una terza alternativa alle due correnti appartenenti all'esistenzialismo, quella di Heidegger e quella di Jaspers.  Abbagnano definisce la propria visione filosofica come esistenzialismo positive. Esso, pur non esplicitamente formulato in veste sistematica, individua la centralità dell'esistenza come momento ontologicamente fondativo, considerando la razionalità dell'uomo come lo strumento principe in grado di garantire a questo fondamento un valore positivo contro ogni possibile nichilismo.  Diversamente rispetto all'impostazione di Heidegger e di Jaspers, Abbagnano evidenzia l'importanza della libertà e della indeterminazione e quindi l'ineluttabilità del loro perseguimento. Oltre a porre la ragione come unico mezzo per creare un legame tra l'uomo e il mondo che lo circonda il pensiero di Abbagnano insiste molto su un chiarimento dell'orizzonte categoriale della possibilità, in contrasto con quello della necessità, tipico proprio dell'idealismo romantico e dell'esistenzialismo, fatto che spiega la sua forte critica nei confronti queste due scuole filosofiche. Nello saggio "Possibilità e libertà," l'autore chiarì il senso della sua filosofia, non incline né alla visione pessimistica dell'uomo imbrigliato e impedito in ogni suo progetto vitale, ma neppure ottimista al punto da concedere all'essere una realizzazione certa. In quegli stessi anni prende vita il movimento filosofico da lui nominato "neo-illuminismo", nel quale precisa il senso dell'esistenzialismo positivo in termini di empirismo radicale e di filosofia applicata alla realtà del mondo sociale. Il movimento, che ha avuto sin dal principio una configurazione culturalmente e politicamente molto composita, avrebbe dovuto favorire l'elaborazione di una visione e di un uso della ragione filosofica alternativi tanto al marxismo che al pensiero cattolico. Abbagnano aveva del resto ripetutamente criticato all'idealismo e al neoidealismo la tendenza a sottostimare il valore della scienza, da lui invece considerata una disciplina indispensabile per la ricerca della conoscenza, oltreché per l'utilizzo delle sue applicazioni. Quindi una disciplina alternativa alla filosofia, ma di pari valore e ad essa complementare.  Abbagnano insistette nei suoi lavori sui concetti di libertà e di ragione; la prima intesa come la possibilità di scegliere, la seconda come facoltà necessaria per regolare le azioni dell'uomo. Anche il positivismo di stampo ottocentesco fu oggetto di critica tramite la contrapposizione con le filosofie di Immanuel Kant e Søren Kierkegaard. Nel suo "esistenzialismo positivo," Abbagnano insiste molto sulla finitudine dell'uomo e sulla problematicità dell'esistenza, destinata per sua costituzione a operare nell'orizzonte del possibile. Egli vede kantianamente nel limite una caratteristica di fondo del nostro esistere e del nostro sapere. Negli ultimi anni questo lucido senso del limite e della problematicità esistenziale si è accompagnato a un lucido senso del mistero ultimo delle cose, inteso come un aspetto insopprimibile della nostra esperienza del reale. Ed è proprio questo senso del limite e del mistero, insieme alla rinuncia ad ogni (illusoria) infinitizzazione o divinizzazione dell'umano, a fondaresecondo l'ultimo Abbagnanola possibilità di un incontro genuino fra credenti e non credenti. E ciò all'insegna di quella ”umiltà del pensiero” (come la chiamava il filosofo) che rappresenta la condizione indispensabile di ogni etica del dialogo e del reciproco rispetto». Oltre che autore di saggi su singoli filosofi (Aristotele, Ockham, Meyerson, ecc.), Abbagnano è stato anche l'autore di una celebre Storia della filosofia su cui si sono formate intere generazioni di studenti e di docenti. Egli ha realizzato anche un "Dizionario di filosofia," considerato tra i migliori a livello internazionale. La Storia della filosofia (sia nella versione scolastica pubblicata dall'editore Paravia, sia nella versione universitaria pubblicata dalla Pomba) è stata poi aggiornata dal suo allievo Giovanni Fornero, in collaborazione con Dario Antiseri e Franco Restaino, in due volumi sulla filosofia contemporanea. Lo stesso Fornero, insieme a un'équipe di noti studiosi, ha curato anche l'aggiornamento e l'ampliamento del "Dizionario di filosofia." Opere: Le sorgenti irrazionali del pensiero, Genova-Napoli, Perrella. Il problema dell'arte, Genova-Napoli, Perrella. Il nuovo idealismo, Genova-Napoli, Perrella. La filosofia di E. Meyerson e la logica dell'identità, Napoli-Città di Castello; La vita di Ockham, Gubbio, Oderisi. Guglielmo di Ockham, Lanciano. La nozione del tempo secondo Aristotele, Lanciano, Carabba. La fisica nuova. Fondamenti di una teoria della scienza, Napoli. Il principio della metafisica, Napoli. La struttura dell'esistenza, Torino, Paravia. Introduzione all'esistenzialismo, Milano, Bompiani, 1Storia della filosofia I, Filosofia antica. Filosofia patristica. Filosofia scolastica, Torino, POMBA, II.1, Filosofia moderna sino alla fine del secolo XVIII, Torino, POMBA, 1II.2, Filosofia del romanticismo. Filosofia contemporanea, Torino, POMBA,  II, Filosofia del Rinascimento, la filosofia moderna dei secoli XVII e XVIII, Torino, POMBA, La filosofia del Romanticismo. La filosofia tra il secolo XIX e XX, Torino, POMBA,  4ª ed. aggiorn. e riv. voll. I, II, III, con aggiunta del  IV (La filosofia contemporanea): tomo 1 di G. Fornero, L. Lentini, F. Restaino; tomo  di G. Fornero, D. Antiseri, F. Restaino. POMBA, Torino,  Filosofia religione scienza, Torino, L'esistenzialismo positivo, Torino, Possibilità e libertà, Torino, Dizionario di filosofia, Torino, POMBA, (aggiornato e ampliato da Giovanni Fornero). Per o contro l'uomo, Milano, 1Fra il tutto e il nulla, Milano,  con Aldo Visalberghi, Linee di storia della pedagogia, 3Torino: Paravia, Questa pazza filosofia ovvero l'Io prigioniero, Milano, La saggezza della vita, Milano, La saggezza della filosofia. I problemi della nostra vita, Milano, Scritti esistenzialisti, B. Maiorca, Torino, Ricordi di un filosofo, Marcello Staglieno, Milano,  Protagonisti e testi della filosofia, Milano, L'esercizio della libertà. Scritti scelti, B. Maiorca, ed. riv. agg. e integrata, Boni, Bologna, 1Esistenza e metafisica, B. Maiorca, Milella, Lecce, Scritti neoilluministici, B. Maiorca, introduzione diRossi e C. A. Viano, POMBA, Torino. Accademia delle scienze. La frase è tratta da G. Fornero, Abbagnano tra limite e mistero, «Avvenire», 28 settembr.  La prima edizione della storia della filosofia di Abbagnano, che  aveva già pubblicato un Sommario di filosofia per i licei risale (per il manuale scolastico) (per il manuale universitario). Attraverso successive edizioni e aggiornamenti (per opera di Giovanni Fornero) tale storia continua a essere la più diffusa nelle nostre scuole.  N. Bobbio, Discorso su Nicola Abbagnano, in: N. Abbagnano, Scritti scelti, Taylor, Torino, N. Bobbio, La filosofia dell'esistenza in Italia, in "Rivista di Filosofia", Luigi Pareyson, Il pensiero di Nicola Abbagnano e i suoi sviluppi recenti in Id., Esistenza e persona, Taylor, Torino, Antonio Aliotta, L'esistenzialismo positivo di N. Abbagnano, in Id., Critica dell'esistenzialismo, Perrella, Roma; G. Giannini, L'esistenzialismo positivo di Abbagnano, Morcelliana, Brescia, P. Chiodi, L'esistenzialismo, Loescher, Torino); F. Lombardi, L'esistenzialismo in Italia, in Id., La filosofia italiana negli ultimi cento anni, Arethusa, Asti, Antonio Santucci, Esistenzialismo e filosofia italiana, Bologna, Il Mulino, Norberto Bobbio, Discorso su Abbagnano, in N. Abbagnano, Scritti scelti (Giovanni De Crescenzo e Pietro Laveglia), Taylor, Torino); Giuseppe Semerari, Il neoilluminismo filosofico italiano, in Id., Esperienze del pensiero moderno, Argalia, Urbino, La cultura filosofica italiana nelle sue relazioni con altri campi del sapere, Atti del Convegno di Anacaprigiugno, Guida, Napoli, 1988. Giuseppe Semerari, Genesi e formazione dell'esistenzialismo positivo, in Id., Novecento filosofico italiano, Guida, Napoli. Mirella Pasini, Daniele Rolando, Il neoilluminismo italiano. Cronache di filosofia, Il Saggiatore, Milano, Nino Langiulli, Possibility, Necessity, and Existence. Abbagnano and His Predecessors, Temple University Press, Philadelphia. G. Cacciatore, G. Cantillo, Una filosofia dell'uomo, Atti del Convegno in memoria di N. Abbagnano (Salerno), Comune di Salerno. Marco Delpino, Paolo Riceputi, L'uomo e il filosofo, Atti del Convegno di studi (S. Margherita Ligure), coordinamento di G. Fornero, Edizioni Tigullio-Bacherontius, S. Margherita Ligure. Silvio Paolini Merlo, Consuntivo storico e filosofico sul "Centro di Studi Metodologici" di Torino, Pantograf (Cnr), Genova, Bruno Maiorca, Seam, Roma, Bruno Miglio, Nicola Abbagnano. Un itinerario filosofico, Atti del Convegno per il centenario della nascita (Torino,), Il Mulino, Bologna); Aniello Montano, Il prisma a specchio. Percorsi di filosofia italiana tra Ottocento e Novecento, Soveria Mannelli, Rubbettino Editore, Bruno Maiorca, Nicola Abbagnano. Esistenza, ricerca, saggezza, Ferv, Roma. Rosanna Panelli Marvulli, 'Tributo ad Abbagnano', in abbagnanofilosofo.,. Rosanna Panelli Marvulli, Abbagnano. Una vita per la filosofia, con un saggio di Giovanni Fornero, POMBA, Torino,. Silvio Paolini Merlo, Abbagnano a Napoli. Gli anni della formazione e le radici dell'esistenzialismo positivo, Guida, Napoli, C. Viano, Stagioni filosofiche. La filosofia del Novecento fra Torino e l'Italia, Il Mulino, Bologna, Pietro Rossi, Avventure e disavventure della filosofia. Saggi sul pensiero italiano del Novecento, Il Mulino, Bologna, Giorgio Primerano, La prospettiva pedagogica, Aracne Editrice, Roma, Silvio Paolini Merlo, L'esistenza come struttura: Abbagnano e l'esistenzialismo, Editoriale Scientifica, Napoli, Silvio Paolini Merlo, Mito e ragione mitica. Corollari sull'estetica di Nicola Abbagnano, in Id., Estetica esistenziale, Mimesis, Milano,. Franco Ferrarotti, Un greco in via Po. Passeggiate silenziose con Nicola Abbagnano, Edb, Bologna. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Opere di N. Abbagnano, Sito dedicato, su abbagnanofilosofo. Filosofia Filosofo del XX secoloStorici della filosofia italianiAccademici italiani Professore Salerno MilanoEsistenzialistiStudenti dell'Università degli Studi di Napoli Federico IIProfessori dell'Università degli Studi Suor Orsola Benincasa Professori dell'Università degli Studi di Torino Membri dell'Accademia delle Scienze di ToriRefs.: Grice, “Implicature in Philosophical Dictionaries. I don’t give a hoot care what the dictionary saysAnd that’s where you make your big mistake. – Niccola Abbagnano. Abbagnano. Keywords: filosofia latina, filosofia romana, filosofia italiana, impiegare, implicare, dizionario filosofico. Luigi Speranza, "Grice ed Abbagnano," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. #abbagnano #griceedabbagnano

 

Grice ed Abbri – i quattro elementi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Agliana). Filosofo. Grice: “I like Abbri; he is the equivalent of what *I* would be if I present myself as “The Philosopher of Staffordshire” – for Abbri is obsessed with Toscana – “Toscana e la scienza nuova,” “Filosofia e scienza nella Toscana del Seicento,” – he has also studied the philosophies (particelle) of Santi and Volta -- Filosofo. Sii è laureato in filosofia con Rossi a Firenze con una tesi su Filosofia, chimica e linguaggio; è stato borsista della Domus Galilaeana di Pisa e successivamente ricercatore confermato presso il Dipartimento di filosofia dell'Firenze. Dal 1976 collabora con l'Istituto e Museo di storia della scienza di Firenze, oggi Museo Galileo, come membro del Comitato scientifico dell'Istituto e, dal 1986, anche come membro dell'editorial board della rivista Nuncius. Inoltre, negli stessi anni, è entrato a far parte del comitato editoriale delle riviste Prospettiva EP e Arkete; è nominato professore straordinario di storia della filosofia moderna e contemporanea presso la Facoltà di lettere e filosofia dell'Università della Calabria, Cosenza, dove ha anche insegnato storia della filosofia medievale. Dal 1990 ha diretto, con Franco Crispini, la collana Storia delle idee della casa editrice Rubbettino. Professore di storia della filosofia e professore supplente di storia della musica moderna e contemporanea presso la Facoltà di lettere e filosofia di Arezzo, Siena; della Facoltà aretina è stato inoltre preside, nnonché direttore del Dipartimento di studi storico-sociali e filosofici. Ha ricoperto la carica di segretario della Società Italiana di storia della scienza. È stato in più occasioni visiting scholar all'Uppsala e al Centro di storia della scienza dell'Accademia reale svedese delle scienze di Stoccolma e membro dello steering committee di un progetto europeo sulla storia della chimica moderna e contemporanea finanziato dalla Fondazione europea per la scienza di Strasburgo.  Attualmente insegna storia della filosofia ad Arezzo nel Dipartimento di scienze della formazione, scienze umane e della comunicazione interculturale, e storia della filosofia e filosofia morale nel Dipartimento di scienze storiche e dei beni culturali a Siena. È Presidente del Comitato della didattica della LM interclasse di storia e filosofia di Siena-Arezzo.  I suoi studi riguardano la storia delle idee filosofiche e scientifiche, con una particolare attenzione per la storia dell'alchimia dal Medioevo al Seicento, della prima chimica, da Paracelso a Lavoisier, della magia e della cultura filosofico-scientifica europea, dal Rinascimento all'Età dei Lumi, dei rapporti tra religione e scienza e tra musica e filosofia nell'Età moderna. Si interessa inoltre della filosofia e della cultura britannica del Novecento, di storia della storiografia filosofica e scientifica, del rapporto tra femminismo e scienza e tra storia antica e narrazione cinematografica.  I suoi numerosi studi hanno portato alla pubblicazione di varie opere uscite in Italia e all'estero; i suoi saggi sono apparsi in riviste italiane e straniere e in volumi editi in Francia, Paesi Bassi, Svezia, Germania e USA.  Si è interessato alla cultura scandinava e in particolare alle relazioni tra Italia e Svezia nel secolo XVIII e ha curato la pubblicazione di carteggi inediti di scienziati toscani con scienziati svedesi e russi.  Vari lavori riguardano la letteratura, la filosofia e la musica nell'Inghilterra del Novecento, con particolare riferimento a McTaggart, Moore, Bloomsbury Group; il suo libro più recente riguarda la filosofia della musica nell'800 britannico. Alcuni lavori riguardano la metafisica e la filosofia della religione di Linneo, Priestley e la tradizione sociniana e unitariana. In previsione di un lavoro monografico su Priestley e l'apologetica del cristianesimo, le sue indagini considerano le radici teologiche e filosofiche dell'unitarismo del chimico e filosofo inglese, soprattutto la sua lettura delle opere di Fausto Sozzini e della Catechesis Racoviensis.  In altri scritti analizza le vicende delle tradizioni storiografiche, filosofiche e scientifiche in Italia, con particolare attenzione all'opera di Aldo Mieli che fu uno dei promotori della moderna storia della scienza nel contesto internazionale.  I suoi lavori più recenti vertono sui dibattiti contemporanei, nell'ambito delle varie tradizioni cristiane, relativi ai problemi connessi al gender e gli sviluppi della tradizione sociniana nell'Età dei Lumi. OPAC del Museo Galileo, su opac.museogalileo.  Bernardette Bensaude-Vincent, Ferdinando Abbri, Lavoisier in European context: negotiating a new language for chemistry, Canton, Science history publications, Ferdinando Abbri, Un dialogo dimenticato: mondo nordico e cultura toscana nel Settecento, Milano, Franco Angeli, Un altro paesaggio: studi sulla musica britannica del Novecento, Firenze, Edifir, Miti, sogni e storie: filosofia e musica nel Novecento britannico, Milano, Franco Angeli, F. Abbri, Un paese musicale: filosofie della musica nell'Ottocento britannico, Milano, Prometheus,, Ferdinando Abbri, Professore, Siena, su segreteriaonline.unisi.  Dipartimento di scienze della formazione, scienze umane e della comunicazione interculturale, Università degli studi di Siena, su dsfuci.unisi.  Museo Galileo, su museogalileo.  Nuncius: Journal of the material and visual history of science, su museogalileo.  Filosofi italiani del XXI secoloStorici della scienza italiani Agliana. socinianesimo Dottrina teologico-morale elaborata e sistematizzata da Lelio e Fausto Socini. Del s. (i seguaci di questa dottrina si davano il nome di unitarii o di Fratres Poloni, perdurante fino alla metà del Seicento; mentre la qualifica di sociniani appare solo sul finire del 17° sec., durante l’esilio olandese) sono più comunemente noti il razionalismo religioso (nella Scrittura non ci può essere nulla contro la ragione, anche se ci può essere molto sopra la ragione; nella deduzione della dottrina cristiana dalla Scrittura si deve procedere solo secondo ragione, poiché ciò che nella Scrittura è detto sopra la ragione non può esser commentato; dal che deriva che nessun dogma tradizionale, e tanto meno quello trinitario, e nessuna istituzione, come i sacramenti, possono essere accettati, in quanto appaiono irrazionali e non esplicitamente ed evidentemente dichiarati nella Scrittura), il principio della tolleranza religiosa (purché la vita da loro praticata corrisponda in pieno ai precetti evangelici, fra i quali anche la non-violenza, tutte le Chiese o tutti i gruppi che riconoscono come norma di vita i precetti di Cristo vanno riconosciuti come cristiani, quindi non vanno perseguitati). Questi motivi sono fondati sulla concezione della religione cristiana come metodo (via) per raggiungere la salvezza, rivelatoci con i suoi precetti dall’uomo divino, ma mero uomo, Gesù Cristo, per volere di Dio che l’aveva ispirato, e quindi sulla riduzione della religione a eticità fondata sul complesso di norme del Vangelo. Concepita la religione in funzione esclusivamente etica, essa non poteva essere interpretata che razionalmente e le divergenze teologiche, dogmatiche, non potevano, di fronte alla preminenza delle norme etiche, non apparire fantasie speculative. Tali principi furono elaborati e argomentati con una esegesi sottilissima da F. Socini, che aveva cominciato con il dimostrare razionalmente, con uno dei primi esempi di critica filologica in grande stile applicata ai problemi religiosi, l’autenticità della Sacra Scrittura e la preminenza della religione cristiana; ma raccolgono nella formulazione estrema motivi diffusi già nel Rinascimento italiano e negli ambienti ereticali del Cinquecento. I motivi schiettamente religiosi furono il rinnovamento della pietà proposto da G. Contarini e da I. Sadoleto, l’ideale della imitatio Christi raccolto in ambiente italiano da C.S. Curione e S. Castellione; altri motivi, connessi e derivati dai primi, furono l’indifferenza valdesiana per le questioni dogmatiche e la semplificazione dei dogmi condotta all’estremo da Aconcio sulle orme di Erasmo. Agirono inoltre anche elementi di origine filosofica, come la coscienza universalistica e irenica tratta dal neoplatonismo toscano, l’estensione della critica filologica di Valla, l’uso di argomentazioni familiari all’aristotelismo padovano. In Polonia il movimento sociniano ebbe la sua capitale nel centro culturale di Raków; il periodo più fiorente fu quello degli ultimi decenni del 16° sec. e dei primi del 17°. Dura la persecuzione in Polonia, culminata con l’espulsione. Gli esuli andarono parte presso gli unitari transilvani, dei quali condivisero la sorte di Chiesa a mala pena tollerata sotto la preponderanza calvinista e poi perseguitata dagli Asburgo cattolici; in parte, attraverso Holstein, in Olanda, dove già erano conosciuti e condannati; ma furono accolti nelle riconosciute comunità dei rimostranti, e poi dei collegianti, e poterono esercitare una vasta attività culturale: i loro principi furono discussi da Spinoza e da Leibniz, e permearono la cultura religiosa olandese. Dall’Olanda il s. si diffuse, per mezzo della stampa, in Inghilterra, dove il terreno era stato preparato da Aconcio e dove, se da un lato unì in gran parte la sua storia a quella della Chiesa unitaria, dall’altro penetrò anche, attraverso le università, tra il clero anglicano e nella società colta inglese: sociniani, benché non unitari, furono W. Chillingworth, R. Baxter, J. Milton, Newton, W. Penn. La ‘controversia antitrinitaria’ costituì lo sfondo storico della Lettera sulla tolleranza di Locke. Così il s. cooperò alla preparazione del deismo e della libertà religiosa, e assieme a essi fu combattuto dal metodismo. In America, dove il s. assunse definitivamente il nome di unitarianismo, il razionalismo etico di questa corrente religiosa alimentò figure come T. Parker. Ferdinando Abbri. Abbri. Keywords: socianesimo, Socini, Sozzini, Fausto Sozzini, catechesis racoviensis, socini -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Abri” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Abrotele – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano Pythagorean, according to Gimlico.

 

Grice ed Accetto – DELLA DISIMVLATIONE HONESTA – filosofia italiana – Luigi Speranza (Trani). Filosofo. Grice: “I learned so much about Accetto, and I hope it showed in my talk at Brighton on ‘meaning, revisited.’ For Accetto, unlike Strawson, there is ‘disimulazione onesta’ and ‘simulazione disonesta.’ Accetto notes that there is an implicature to the effect that ‘disimulazione’ is disonesta per se and hence he tried to provoke the duchess of Malfi by his little treatise on ‘Della simulazione onesta’ – “An oxymoron, if ever there was one --,’ the duchess told the duke --.” Filosofo. Nativo di Trani, visse ad Andria e fu in relazione con la cerchia del marchese Giovanni Battista Manso, il mecenate napoletano che fu biografo di Torquato Tasso nonché fondatore dell'Accademia degli Oziosi.  Scrisse varie rime, nelle quali evidenziò la sua delicata coscienza morale e il breve trattato Della dissimulazione onesta: nato nel contesto della dominazione spagnola in Italia, fu pubblicato a Napoli e rapidamente dimenticato. Il libello fu poi riscoperto da Benedetto Croce all'inizio Professoree ripubblicato da Salvatore S. Nigro. La "dissimulazione", tematica al centro dei dibattiti all'epoca, non è, per Accetto, sinonimo di menzogna, ma invito al raccoglimento e alla cautela. L'analisi di Accetto pone la questione, da un piano di politica spicciola, su un piano di accurata indagine morale: l'autore, alquanto speciosamente, differenzia la simulazione, moralmente riprovevole perché viziata da intenzioni cattive, dalla dissimulazione, che invece pareva all'Accetto l'unico rimedio per difendersi da una società pullulante di simulatori e per trionfare delle proprie passioni. La ricetta però per risultare vincente richiede una onestà di animo e un buon equilibrio.  Opere Edizioni originali:  Rime di Torquato Accetto, Napoli: nella stampa degli heredi di Tarquinio Longo, Rime del signor Accetto, divise in amorose, lugubri, morali, sacre, et varie, Napoli: nella stampa di Giacomo Gaffaro, Della dissimulazione onesta, Napoli, Edizioni moderne:  Rime amorose, edizione critica Salvatore S. Nigro, Torino: Einaudi, Della dissimulazione onesta, edizione critica Salvatore S. Nigro; presentazione di Giorgio Manganelli, Genova: Costa & Nolan, nuova edizione Torino: Einaudi, Della dissimulazione onesta Rime, E. Ripari, Milano: BURRizzoli,. Note  "Le Muse", De Agostini, Novara, B. Croce, Storia dell'età barocca in Italia, Bari, Eugenio Garin, Storia della filosofia italiana, Torino, 1966 Rosario Villari, Breve riflessione sulla Dissimulazione onesta di Torquato Accetto, R. Villari, Elogio della dissimulazione. La lotta politica nel Seicento, RomaBari, Laterza, sapere, De Agostini.  Torquato Accetto, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Torquato Accetto, su Liber Liber.  Opere di Torquato Accetto, su openMLOL, Horizons U. La simulazione non facilmente riceve quel senso onesto che si accompagna con la dissimulazione Io tratterei pur della simulazione, e spiegherei appie- no l'arte del fingere in cose che per necessità par che la ricerchino; ma tanto è di mal nome, che stimo maggior necessità il farne di meno; e benché molti dicano: “Qui nescit fingere nescit vivere”, anche da molti altri si af- ferma che sia meglio morire, che viver con questa con- dizione. In breve corso di giorni o d'ore o di momenti, com'è la vita mortale, non so perché la medesima vita si abbia da occupar a piú distrugger se stessa, aggiungendo il falso delle operationi dove l'esser quasi non è; poiché la vera essenzia, come disse Platone, è delle cose che non han corpo, chiamando imaginaria l'essenzia di ciò ch'è corporeo. Basterà dunque il discorrer della dissimu- lazione, in modo che sia appresa nel suo sincero signifi- cato, non essendo altro il dissimulare, che un velo com- posto di tenebre oneste e di rispetti violenti: da che non si forma il falso, ma si dà qualche riposo al vero, per di- mostrarlo a tempo; e come la natura ha voluto che nel- l'ordine dell'universo sia il giorno e la notte, cosí con- vien che nel giro delle opere umane sia la luce 16  e l'ombra, dico il proceder manifesto e nascosto, con- forme al corso della ra- gione, ch'è regola della vita e degli accidenti che in quella oc- corrono. Alcuna volta è necessaria la dissimulazione, e fin a che termine La frode è proprio mal dell'uomo, essendo la ragione il suo bene, di che quella è abuso; onde nasce ch'è im- possibile di trovar arte alcuna, che la riduca a segno di poter meritar lode: pur si concede talor il mutar manto, per vestir conforme alla stagion della fortuna, non con intenzion di fare, ma di non patir danno, ch'è quel solo interesse col quale si può tollerar chi si suol valere della dissimulazione, che però non è frode; ed anche in senso tanto moderato, non vi si dee poner mano se non per grave rispetto, in modo che si elegga per minor male, anzi con oggetto di bene. Sono alcuni che si trasforma- no, con mala piega di non lasciarsi mai intendere; e spendendo questa moneta con prodiga mano in ogni pic- ciola occorrenza, se ne trovano scarsi dove piú bisogna, perché scoperti ed additati per fallaci, non è chi loro cre- da. Questo è per avventura il piú difficile in tal indu- stria; perché, se in ogni altra cosa giova l'uso continuo, nella dissimulazione si esperimenta il contrario, poiché il dissimular sempre mi par che non si possa metter in pratica di buona riuscita. È dunque dura impresa il far con arte perfetta quello che non si può essercitar in ogni occasione, e però non è da dir che Tiberio fosse molto accorto in questo mestiero, ancorché da molti si affermi; e ciò considero perché, dicendo Cornelio Tacito: “Tiberioque etiam in rebus quas non occuleret, seu natura seu adsuetudine, suspensa semper et obscura verba”; non solo disse prima: “plus in oratione tali dignitatis quam fidei erat”, ma conchiude: “At patres, quibus unus me- tus, si intelligere viderentur”, ecc.; ecco che si accorgea- no chiaramente della sua intenzion in quelli continui ar- tifici. In sostanza il dissimular è una professione della qual non si può far professione, se non nella scola del proprio pensiero. Se alcuno portasse la ma- schera ogni giorno, sarebbe piú noto di ogni altro, per la curiosità di tutti; ma degli eccellenti dissimulatori, che sono stati e sono, non si ha notizia alcuna. 1Della disposizione naturale a poter dissimulare Quelli in chi prevale il sangue o la malinconia o la flemma o l'umor collerico, è molto indisposto a dissimu- lare. Dove abbonda il sangue, concorre l'allegrezza, la qual non sa facilmente celare, essendo troppo aperta per sua propria qualità. L'umor malinconico, quando è fuor di modo, si fa tante impressioni, che difficilmente le na- sconde. Il soverchio flemmatico, perché non fa gran conto de' dispiaceri, è pronto ad una manifesta tolleran- zia; e la collera, che è fuor di misura, è troppo chiara fiamma, da dimostrar i proprii sensi. Il temperato dun- que è molto abile a questo effetto di prudenza, perché ha da esser, nelle tempeste del cuore, tutta serena la faccia; o, quando è tranquillo l'animo, parer turbato il viso, come anderà richiedendo l'occasione; e ciò non è facile, se non al temperamento che dico. Non voglio contradir all'opinione di que' che sogliono attribuir a certi popoli la disposizione del dissimulare e, ad altri, stimarla quasi impossibile; ma ben posso dire che, in ogni paese, son di quelli che l'hanno e di que' che non vi si sanno ac- commodare; ma piú è certo che gli uomini non nascono con gli animi legati a necessità alcuna, onde libera la volontà si gira all'elezzione; e ciò leggiadramente fu espresso da Dante in que' versi: Voi che vivete ogni cagion recate pur suso al cielo, sí come se tutto movesse seco di necessitate. Se cosí fosse, in voi fora distrutto libero arbitrio, e non fora giustizia per ben letizia, e per mal aver lutto. Il cielo i vostri movimenti inizia; non dico tutti, ma, posto che 'l dica, lume v'è dato a bene e a malizia, e libero voler; che, se fatica ne le prime battaglie del ciel dura, poi vince tutto, se ben si nutrica. A maggior forza e a miglior natura liberi soggiacete; <e> quella cria la mente in voi, che 'l ciel non ha in sua cura. Dell'esercizio che rende pronto il dissimulare Da chi ha per non plus ultra le porte delle natie con- trade, o che da' libri non apprende il lungo e 'l lato del mondo, e' suoi vari costumi, con difficultà si viene al consiglio della dissimulazione; perché in persona cosí molle e poco intendente, riesce molto dura questa prati- ca, la qual contiene l'esser d'assai e talora parer da poco: è dunque conforme a questo abito chi non s'è tanto ri- stretto, poiché dal conoscer gli altri nasce quella piena autorità che l'uomo ha sopra se stesso quando tace a tempo, e riserba pur a tempo, quelle deliberazioni che domane per avventura saranno buone, ed oggi sono per- niziose. Chiaro è che 'l viaggio per diversi paesi, come Omero cantò di Ulisse, “qui mores hominum multorum vidit et urbes”, o l'aver letto ed osservati molti accidenti, è cagion potente a produrre una gentil disposizione di metter freno agli affetti, acciò che non come tiranni, ma come soggetti alla ragione, ed a guisa di ubbidienti citta- dini, si contentino ad accommodarsi alla necessità, della quale disse Orazio: Durum, sed levius fit patientia quicquid corrigere est nefas. Sí che tant'altezza di spirito si accresce per mezzo della vita occupata negli affari del mondo, e nella considerazione del tempo passato, per non contradir al pre- sente e poter far giudicio dell'avvenire. Stando la mente cosí sodisfatta, non le parrà nuova qual si sia mutazio- ne che le si vada rappresen- tando, ed in conseguenza dipenderà da lei, e non dal precipizio del senso, l'espres- sion di quan- to le succede. Che cosa è la dissimulazione Da poi che ho conchiuso quanto conviene il dissimu- lare, dirò piú distinto il suo significato. La dissimulazio- ne è una industria di non far veder le cose come sono. Si simula quello che non è, si dissimula quello ch'è. Disse Virgilio di Enea: Spem vultu simulat, premit altum corde dolorem. Questo verso contiene la simulazion de la speranza e la dissimulazione del dolore. Quella non era in Enea, e di questo avea pieno il petto; ma non volea palesar il senso de' suoi affanni: ricordava però a' compagni l'aver sofferti piú gravi mali, e nominando la rabbia di Scilla e lo strepito degli scogli ed i sassi de' Ciclopi, se ne valse come per sepellir tra que' mostri, e tra quelle passate rui- ne, tutte le rie venture che lor già davan noia; e col dol- cissimo “meminisse iuvabit”, conchiude: Per varios casus, per tot discrimina rerum tendimus in Latium, sedes ubi fata quietas ostendunt; illic fas regna resurgere Troiae. Durate, et vosmet rebus servate secundis. Ma in ogni modo l'animo era ferito, e troppo dolente, perché  “Talia voce refert curisque ingentibus aeger.” Si vede in questi versi l'arte di nasconder l'acerbità della fortuna, e prima fu espresso da Omero come da Ulisse si dissimulava il dolore, quando in altra figura dava di se stesso nuova alla sua Penelope; della qual disse: Hac autem iam audiente fluebant lacrymae, liquefiebat autem corpus sicut autem nix liquefit in altis montibus, quam Eurus liquefecit, postquam Zephyrus defusus est liquefacta autem igitur hac, fluvii implentur fluentes: sic huius liquefiebant pulchrae genae lachrymantis flentis suum virum assidentem. At Ulysses animo quidem lugentem suam miserabatur uxorem. Oculi autem tanquam cornua stabant vel ferrum. Tacite in palpebris dolo autem hic lachrymas occultabat. Ecco la prudenza con che Ulisse mettea freno alle la- grime, quando era tempo di nasconderle; e la compara- zion di liquefarsi Penelope, come la neve, mi dà occa- sione di soggiunger quello che sia l'umido e 'l secco, di- cendo Aristotile: “humidum est quod suo ipsius termino contineri non potest; facile autem termino continetur alieno. Siccum est quod facile suo, difficulter autem ter- mino terminatur alieno”. Da che si può apprender che il dissimular ha del secco, perché si ritien nel proprio ter- mine; e questi son gli occhi di Ulisse rassomiliati, in tempo di dolore, alla fermezza del corno e del ferro, quando que' di Penelope eran molli e non avean termine 25  prescritto, conforme a quelle ch'eran versate nell'animo di Ulisse, tenendo il ciglio asciutto, ed a questo par che corrisponda quella sentenza di Eraclito: “Lux sicca, anima sapientissi- ma”. 26  IX. Del bene che si produce dalla dissimulazione Presupposto che nella condizion della vita mortale possano succeder molti difetti, segue che gravi disordini siano al mondo quando, non riuscendo di emendarli, non si ricorre allo spediente di nasconder le cose che non han merito di lasciarsi vedere, o perché son brutte o perché portan pericolo di produrre brutti accidenti. Ed oltre a quanto avviene agli uomini, se pur si considera la natura per tante altre opere di qua giú, si conosce che tutto il bello non è altro che una gentil dissimulazione. Dico il bello de' corpi che stanno soggetti alla mutazio- ne, e veggansi tra questi i fiori, e tra' fiori la lor reina; e si troverà che la rosa par bella, perché a prima vista dis- simula di esser cosa tanto caduca, e quasi con una sem- plice superficie di vermiglio, fa restar gli occhi in un certo modo persuasi ch'ella sia porpora immortale; ma in breve, come disse Torquato Tasso: quella non par che disiata avanti fu da mille donzelle e mille amanti; perché la dissimulazione in lei non può durare. E tanto si può dir di un volto di rose, anzi di quanto per la terra riluce tra le piú belle schiere d'Amore; e benché della bellezza mortale sia solito dirsi di non parer cosa terrena, quando poi si considera il vero, già non è altro che un cadavero dissimulato dal favor dell'età, che ancor si sostiene nel riscontro di quelle parti e di que' colori che han da dividersi e cedere alla forza del tempo e della morte. Giova dunque una certa dissimulazion della natu- ra, per quanto si contiene tra lo spazio degli elementi, dov'è molto vera quella proposizione che afferma di non esser tutt'oro quello che luce; ma ciò che luce nel Cielo ben corrisponde sempre, perché ivi tutte le cose son bel- le dentro e fuori. Or, passando all'utile che nasce dalla dissimulazione ne' termini morali, comincio dalle cose che piú bisognano, dico dall'arte della buona creanza, la qual si riduce nella destrezza di questa medesima diligenza. E leggendosi quanto ne scrisse monsignor della Casa, si vede che tutta quella nobilissima dottrina inse- gna cosí di ristringer i soverchi di- siderii, che son cagion di atti noiosi, come il mo- strar di non veder gli errori altrui, ac- ciò che la con- versazione riesca di buon gusto. Onesta ed util è la dissimulazione, e di piú, ripiena di piacere; perché se la vittoria è sempre soave, e come disse Ludovico Ariosto, Fu il vincer sempre mai lodabil cosa, vincasi per fortuna o per ingegno, è chiaro che 'l vincer per sola forza d'ingegno succede con maggior allegrezza, e molto piú nel vincer se stesso, ch'è la piú gloriosa vittoria che possa riportarsi. Que- st'avviene nel dissimulare, con che, dalla ragione supe- rato il senso, si riceve intiera quiete; ed ancorché si sen- ta non poco dolor quando si tace quello che si vorrebbe dire, o si lascia di far quanto vien rappresentato dall'af- fetto, nondimeno piace poi grandemente d'aver usata so- brietà di parole e di fatti. A questa conseguenza di sodi- sfazzione, ha da rivolger il pensiero chi disidera di viver con riposo; e ciascun, che vuol ben accorgersene per gl'interessi suoi, vegga sopra di ciò gli altrui falli, e cosí ben conosca che tanto è nostro quanto è in noi medesi- mi. Non dico che non si han da fidar nel seno dell'amico i segreti, ma che sia veramente amico; ed è degno di gran considerazione, in quell'epigramma di Marziale, dove parla a se stesso della vita beata, che nominando a questo fine dicisette cose, fa che stia nel mezzo “prudens simplicitas”, dicendo: Vitam quae faciunt beatiorem, iucundissime Martialis, haec sunt: res non parta labore, sed relicta; non ingratus ager, focus perennis; lis nunquam, toga rara, mens quieta; vires ingenuae, salubre corpus, prudens simplicitas, pares amici, convictus facilis, sine arte mensa; nox non ebria, sed soluta curis; non tristis torus, attamen pudicus; somnus qui faciat breves tenebras; quod sis esse velis nihilque malis, summum nec metuas diem nec optes. Il prudente candor dell'animo è dunque il centro della tranquillità. “Hoc opus, hic labor”. Quelli che si applicano al piacer della parte ch'è in noi soggett'alla morte, sprezzando l'uso della ragione, si mutano in abito di fiere; perché tali son da riputarsi, come fu espresso da Epicteto stoico, dicendo: “Certe misellus homuncio, et caro infoelix, et revera misera. At melius etiam quiddam habes carne; quare, misso illo et neglecto, carni duntaxat es deditus? Ob huius societa- tem declinantes a meliore natura quidam, lupis similes efficimur, dum sumus perfidi et insidiosi et ad nocen- dum parati: alii leonibus, quia feri, immanes ac trucu- lenti: maxima vero pars vulpeculae sumus”. Da che si può considerar un de' duri impedimenti nel dissimulare; poiché il guardarsi da lupi e da leoni è cosa piú pronta per la notizia che si ha della lor violenza, e perché poche volte si riscontrano; ma le volpi son tra noi molte e non sempre conosciute, e quando si cono- scono, è pur malagevole usar l'arte contra l'arte, ed in tal caso riuscirà piú accorto chi piú saprà tener apparenza di sciocco, perché, mostrando di creder a chi vuol in- gannarci, può esser cagion ch'egli creda a nostro modo; ed è parte di grand'intelligenza che si dia 31  a veder di non vedere, quando piú si vede, già che cosí 'l giuoco è con occhi che pa- ion chiusi e stan- no in se stessi aperti. Del dissimulare con se stesso Mi par che l'ordine di questo artificio metta prima la mano nella persona propria; ma si richiede prudenzia in estremo, quando l'uomo ha da celarsi a se medesimo, e questo non piú che per qualche picciolo intervallo e con licenza del “nosce te ipsum”, per pigliar una certa ri- creazione passeggiando quasi fuor di se stesso. Prima dunque ciascun dee procurar non solo di aver nuova di sé e delle cose sue, ma piena notizia, ed abitar non nella superficie dell'opinione, che spesse volte è fallace, ma nel profondo de' suoi pensieri, ed aver la misura del suo talento e la vera diffinizione di ciò ch'egli vale, essendo di maraviglia che ogni uno attend'a saper il prezzo della roba sua e che pochi abbian cura o curiosità d'intender il vero valor dell'esser loro. Or, presupposto che si sia fat- to il possibile di saperne il vero, conviene che in qual- che giorno colui ch'è misero si scordi della sua disav- ventura, e cerchi di viver con qualche imagine almeno di sodisfazzione, sí che sempre non abbia presente l'og- getto delle sue miserie. Quando ciò sia ben usato, è un inganno c'ha dell'onesto; poiché è una moderata oblivio- ne, che serve di riposo agl'infelici: e benché sia scarsa e pericolosa consolazione, pur non se ne può far di meno, per respirar in questo modo; e sarà come un sonno de' pensieri stanchi, tenendo un poco chiusi gli occhi della cognizion della propria fortuna, per meglio a- prirli dopo cosí breve risto- ro: dico breve, perché fa- cilmente si muterebbe in letargo, se troppo si praticasse que- sta negligenza. Quando considero che il vino fu trovato dopo il dilu- vio, conosco che non bisognava minor quantità d'acqua per temperarlo; e qui son da veder due cose: una di Noè, che ne restò ignudo, e ciò ne dimostra che 'l vino è mol- to contrario alla dissimulazione, e quanto questa s'im- piega a coprire, tanto quello attende a scoprire; l'altra della pietà delli due figli, che con la faccia indietro rico- prirono il padre, dissimulando di vederlo a tal termine, quando dal lor fratello, già alienato da ogni legge di umanità, era schernito ignudo colui che l'avea vestito delle proprie carni. Oh quanti son al mondo che imitano questa mostruosa ingratitudine, facendo materia da ride- re chi loro doverebber'esser oggetto d'amore e di reve- renza! Pochi son gl'imitatori di que' due che seppero tro- var il modo di volger le spalle, per pietà, al padre, non come molti fanno, che si lascian la paterna necessità dietro le spalle. Non solo que' pietosi figli si occuparono a ricoprir il padre, ma vollero mostrar di non averlo ve- duto in tal condizione. Cosí ciascuno dee corrisponder a scusar i disordini, ed in particolare que' de' superiori, ogni volta che alcuno di loro v'incorre. Altri pietosi uffi- ci mi si rappresentano nell'istoria di Giuseppe che, ven- duto da' fratelli, mostrò poi di non conoscerli, a fine di 35  piú riconoscerli per mezzo de' benefici; e, con esempio di rada mansuetudine, dissimulava il dono di quegli ele- menti che lor in apparenza vendeva, perché i medesimi sacchi ne riportavano i danari a casa; finché, fatto venir anche l'ultimo de' fratelli, e usati tutt'i modi di manife- star a tempo la sua benignità, “non se poterat ultra cohi- bere Joseph multis coram adstantibus”. In questo ebbe fine quella sincera ed innocente dissimulazione; e segue nel Genesi a narrarsi la sua pietà: “unde praecepit ut egrederentur cuncti foras, et nullus interesset alienus agnitioni mutuae. Elevavitque vocem cum fletu, quam audierunt Aegyptii, omnisque domus Pharaonis, et dixit fratribus suis: - Ego sum Joseph -”. Era egli nell'Egitto con suprema gloria, e già chiamato salvator del mondo; con tutto ciò, non tenendo conto dell'offese, dissimulò d'esser fratello, per dimostrarsi piú che fratello. Io non so chi possa ritener le lagrime, leggendo quella pietosa istoria, dalla qual si può apprender la dolcezza del per- dono e del dissimular l'ingiurie, e massimamente quan- do vengon da persone tanto care quanto son i fratelli. Come quest'arte può star tra gli amanti Amor, che non vede, si fa troppo vedere. Egli è pic- ciolo, e come disse Torquato Tasso: Picciola è l'ape, e fa col picciol morso pur gravi e pur moleste le ferite; ma qual cosa è piú picciola d'Amore, se in ogni breve spazio entra, e s'asconde?. Nondimeno è pur tanto grande, che non ha luogo da potersi in tutto nasconder, è quando è giunto al suo cen- tro, ch'è il cuore, se non si mostra per altra via, accende quella febre amorosa della qual era infermo Antioco e di che il Petrarca fe' che dicesse Seleuco: E se non fosse la discreta aita del fisico gentil, che ben s'accorse, l'età sua in sul fiorir era fornita. Tacendo, amando, quasi a morte corse; e l'amar forza, e 'l tacer fu virtute; la mia, vera pietà, ch'a lui soccorse. Quindi si può considerar come, mettendosi fuoco a tutta la casa, le faville, anzi le fiamme, ne fan publica pompa per le finestre e dal tetto. Tanto avviene, e peggio, quando amor prende stanza ne' petti umani, accen- dendogli da dovero, perché i sospiri, le lagrime, la palli- dezza, gli sguardi, le parole, e quanto si pensa e si fa, tutto va vestito con abito d'amore. Cosí dunque di Antio- co, nell'amor verso Stratonica sua matrigna, ancorch'egli tacesse, si palesò l'incendio nelle vene e ne' polsi. Non avea consentito di chiamarsi amante Didone, mentre Amor in figura di Ascanio trattava con lei; ma niuna cosa mancava, perché già si vedesse accesa, come Virgi- lio va significando: Praecipue infelix pesti devota futurae expleri mentem nequit, ardescitque tuendo Phenissa et puero pariter donisque movetur. Ed ancorché andasse velando gli stimoli della piaga interna, nel progresso del suo affetto, At regina gravi iamdudum saucia cura vulnus alit venis at caeco carpitur igni, pur, quello che la lingua non avea publicato, fu espresso nelle strida della piaga ch'ella stessa disperata si fe', conchiudendo Virgilio: Illa, graves oculos conata attollere, rursus deficit: infixum stridet sub pectore vulnus. Di Erminia si ha, da Torquato Tasso, che avea dissi- mulato il suo pensiero, e ch'ella poi disse a Vafrino: Male amor si nasconde. A te sovente desiosa i' chiedea del mio signore. Vedendo i segni tu d'inferma mente: - Erminia - mi dicesti - ardi d'amore. - Io te 'l negai, ma un mio sospiro ardente fu piú verace testimon del core; e 'n vece forse della lingua, il guardo manifestava il foco onde tutt'ardo. Il medesimo dolor che tormenta gli amanti, se non ba- st'a far che dicano i loro affetti, si muta in ambizione amorosa di dimostrarli; e se gli animi onesti si contenta- no di non manifestarsi, con gran fatica si riducono a portar intiero il manto che ha da coprir tanti affanni. L'ira è nimica della dissimulazione Il maggior naufragio della dissimulazione è nell'ira, che tra gli affetti è 'l piú manifesto, essendo un baleno che, acceso nel cuore, porta le fiamme nel viso, e con orribil luce fulmina dagli occhi; e di piú fa precipitar le parole, quasi con aborto de' concetti che, di forma non intieri e di materia troppo grossa, manifestano quanto è nell'animo. Molta prudenza si richiede, per rinchiuder cosí gagliarda alterazione; e di chi è trascorso a tanto impeto, disse Platone: “tanquam canis a pastore, ita de- nique revocatus ab ea quae in ipso est ratione mitescat.” Era Achille in questa passione contra Agamennone, quando “truculento intuens aspectu: - O vir - inquit - ex dolo totus atque imprudentia factus ac genitus, et quis tibi Graecorum posthac libens pareat? Ma l'ufficio della ragione, significata per Minerva scesa dal cielo, va temperando: “ - Non venit - inquit - a caelo, Achilles, ut te iratum in ultionem iniuriae acceptae erumpere vi- deam, sed ut ira<cundia>m tuam compescam - Sí che Omero, in questa occasione di Achille, spiega insieme quanto importi la dissimulazione. Da due potenti stimoli procede tanta licenza di parole nell'ira, cioè dal dispia- cere e dal piacere, perché ella è appetito, con dolore, di far vendetta che si dimostri vendetta, per dispregio che crediamo fatto di noi, o d'alcuno de' nostri, indegnamen- te, come disse Aristotile; ed a questo dolor segue il di- letto, che nasce dalla speranza di vendicarsi, e perché l'animo è in atto di vendetta: e però Aristotele soggiun- se: “recte illud de ira dictum est quod, defluente melle dulcior, in virorum pectoribus gliscit”. Dunque, da cosí fatto misto di amaro e di dolce, dee guardarsi chi non si vuol mostrar facilmente turbato, come sogliono parer gl'infermi, i poveri e gli amanti, e tutti quelli che si fan vincer dal disiderio. Importa il prevenir con la conside- razione di quanto è maggior diletto vincer se stesso, in aspettar che passi la procella degli affetti, e per non deli- berare nella confusione della propria tempesta; ma nel sere- no dell'animo che, ritirato ogni pensiero nell'altissi- ma parte della mente, potrà sprezzar molte cose, o non curar di vederle. Chi ha soverchio concetto di se stesso ha gran difficultà di dissimulare L'error che si può far nel compasso, il qual si gira nel- l'opinion di noi stessi, suol esser cagion che trabocchi ciò che si dee ritener ne' termini del petto; perché, chi si stima piú di quello che in effetto è, si riduce a parlar come maestro, e parendogli che ogni altri sia da men di lui, fa pompa del sapere, e dice molte cose che sarebbe sua buona sorte aver taciuto. Pitagora, sapendo parlare, insegnò di tacere; ed in questo esercizio è maggior fati- ca, ancorché paia d'esser ozio. I concetti che risuonano nelle parole, non solo portano l'imagine di quelli che stanno nell'animo, ma son fratelli mentali (già che non posso dir carnali) del concetto che l'uomo ha del suo sa- pere. Questo è il concetto primogenito (per dir cosí), al qual succedono gli altri; e se non è con misura, ne procedono molti e vari ragionamenti, e di necessità però si scopre quanto è nel pensiero; ma chi di sé fa quella sti- ma che di ragion conviene, non commette alla lingua maggior giuridizzione di quanto è il lume dell'intelligen- zia che la dee muovere. 42  XVII. Nella considerazione della divina giustizia si facilita il tollerar, e però il dissimular le cose che in altri ci dispiacciono Convien di trattar di alcune cose piú in particolare, che ricercano d'esser tollerate, ch'è lo stesso a dir dissi- mulate, poiché sono molt'i dispiaceri dell'uomo ch'è spettator in questo gran teatro del mondo, nel qual si rappresentano ogni dí comedie e tragedie; ed or non dico di quelle che son invenzioni de' poeti antichi o mo- derni, ma delle vere mutazioni del mondo stesso, che da tempo in tempo, in quanto agli accidenti umani, prende altra faccia ed altro costume. L'ordine è forma che fa il tutto simigliante a Dio, che lo creò e lo serba col dono della sua providenza, la qual per lo gran mar dell'essere ogni cosa conduce con prospero viaggio; e disponendo la medesima regola sopra il merito o demerito delle ope- re umane, si vieta nondimeno alla debolezza de' nostri pensieri il passar negli abissi de' consigli divini, alli qua- li si dee infinita riverenza, avendosi da ricever per giu- sto quanto consòna alla volontà di Dio. E se pur sempre non vediamo nelle cose mortali quell'ordine infallibile che si manifesta nel moto del sole, della luna e dell'altre stelle, anz'in molta confusione spesse volte si truovano i negozii di qua giú, non manca però la certezza dell'eter- na legge, che tutto sa applicar ad ottimo fine; e 'l premio e la pena, che non sempre vien pronta, si aspetti come decreto inseparabile dal giudizio divino, che per tutto va penetrando con la sua non mai limitata potenzia. A que- sta verità, ch'è via di quiete, per dissimular le sinistre apparenze, soggiungerò piú distinto il modo di accom- modarsi a quelle. Gran tormento è di chi ha valore, il veder il favor del- la fortuna, in alcuni del tutto ignoranti; che senz'altra occupazione, che di attender a star disoccupati, e senza sa- per che cosa è la terra che han sotto i piedi, son talora padroni di non picciola parte di quella. Veramente chi si mette a considerar questa miseria, è in pericolo di perder la quiete, se insieme non s'accorge che la medesima for- tuna, che talora fa qualche piacere alla turba degli scioc- chi, suol abbandonar l'impresa, e quando piú luce, si rompe, lasciando scherniti que' che non son degni della sua grazia; e di piú la gente di questa qualità, non ha che pretender per l'acquisto di quella gloria, che solamente appartiene a chi sa da dovero; e se qualche uomo di ec- cellente virtú, alcuna volta sta quasi sepellito vivo, in ogni modo si ha da udir il grido del suo merito; e non solo la voce ne dee risonar tra quelli che vivono nel me- desimo tempo, ma se ne va passando da un secolo all'al- tro; perché il vero valor è che fa per fama gli uomini immortali, come disse il Petrarca; e prima di lui Dante:  vedi se far si dee l'uomo eccellente sí ch'altra vita la prima relinqua. Di questa maniera si libera il nome dalle mani della morte, ed un'anima piena di cosí alta speranza, non sente noia che a qualche indegno e da poco, per poco tempo, si faccia applauso, es- sendo un salto di fortuna che se ne passa senza lasciar ve- stigio, come il fumo nell'aria. Del dissimular all'incontro dell'ingiusta potenzia Orrendi mostri son que' potenti, che divorano la so- stanza di chi lor soggiace; onde ciascuno, che sia in pe- ricolo di tanta disaventura, non ha miglior mezzo di ri- mediar, che l'astenersi dalla pompa nella prosperità, e dalle lagrime e da' sospiri nella miseria; e non solo dico del nasconder i beni esterni, ma que' dell'animo; onde la virtú, che si nasconde a tempo, vince se stessa, assicu- rando le sue ricchezze, poiché il tesoro della mente non ha men bisogno talora di star sepolto, che il tesoro delle cose mortali. Il capo che porta non meritate corone, ha sospetto d'ogni capo dove abita la sapienzia; e però spesso è virtú sopra virtú, il dissimular la virtú, non col velo del vizio, ma in non dimostrarne tutt'i raggi, per non offender la vista inferma dell'invidia e dell'altrui ti- more. Anche lo splendor della fortuna ha da esser cauto nel palesarsi, già che, passando a dimostrazioni di soverchi arnesi e di oziosi ornamenti, oltre al distrugger il capital nelle spese, suol accender gran fuoco nella pro- pria casa, destando gli occhi degl'ingordi a pretenderne parte, e forse il tutto. Ma piú dura è la fatica di dover pi- gliare abito allegro nella presenza de' tiranni, che so- glion metter in nota gli altrui sospiri, come di Domiziano disse Tacito: “Praecipua sub Domitiano miseriarum pars erat videre et aspici, cum suspiria nostra subscribe- rentur, cum denotandis tot hominum palloribus sufficeret saevus ille vultus et rubor, a quo se contra pudore muniebat”. Sí che non è permesso di sospirare, quando il tiranno non lascia respirare, e non è lecito di mostrarsi pallido, mentre il ferro va facendo vermiglia la terra con sangue innocente, e si niegano le lagrime che dalla benignità della natu- ra son date a' miseri come propria dote, per formar l'onda che in cosí picciole stille suol portar via ogni grave noia e la- sciar il cuor, se non sano, al- men non tanto oppresso. Del dissimular l'ingiurie L'ingiuria, che si può dissimulare, e nondimeno si manifesta nel disiderio della vendetta, è fatta piú da colui che la riceve che dal suo nimico. Non tutti sanno ben conoscer il decoro dell'onesta tolleranzia, in che si accordano tutt'i filosofi, che per altre opinioni, in varie set- te, non son di conforme parere, dicendo Tertulliano: “tantum illi subsignant, ut cum inter sese variis sectarum libidinibus et sententiarum aemulationibus discor- dent, solius tamen patientiae in com<m>une memores, huic uni studiorum suorum commiserint pacem: in eam conspirant, in eam foederantur, illi in adfect<at>ione virtutis unanimiter student, omnem sapientiae ostenta- tionem de patientia praeferunt. Alcuni, non distinguen- do la forteza dal temerario ardire, son pronti ad ogni qualità di vendetta, e per un cenno che non sia fatto a lor modo, vogliono penetrar negli altrui pensieri e dolersene come di offese publiche. I sensi cosí fieri son vicini ad estremi mali, e l'esperienza dimostra che le picciole in- giurie, se non si lascian passar sotto qualche destrezza, sogliono diventar grandi; ed a tutti color che son potenti, molto piú convien di ritirar la vista da simili occasioni: perché ogni un che possa poco, è buon maestro a' suoi pensieri, per accommodarsi a tollerare; ma chi ha forza di risentirsi, sente stimolo di correr a precipizio, e molti di questi che stanno in alta fortuna, scordati non solamente di usar perdono, ma della proporzion della pena, prendono mezzi violenti per l'altrui ruina; da che avviene ch'essi pur rimangono in tanta turbazione de' fatti loro che, oltre all'odio publico, son anche in odio a se medesimi, per la perdita della quiete interna, ch'è bene inestimabile ed appartiene all'innocenzia. Del cuor che sta nascosto Gran diligenza ha posta la natura per nasconder il cuore, in poter del quale è collocata, non solo la vita, ma la tranquillità del vivere: perché nello star chiuso, per l'ordine naturale si mantiene; e quando gli occorre di star nascosto, conforme alla condizion morale, serba la salute delle operazioni esterne. E pur in questo modo, non a tutti si dee nasconder; onde, nell'elezzione, si con- sideri quello che fu detto da Euripide Sapienti diffidentia non alia res utilior est mortalibus. L'esperienza, che si suol doler degl'inganni, potrà far luce in questa materia, ch'è una selva oscura per l'incertezza del ben eleggere; e però ogni ingegno accorto va- gliasi degli abissi del cuore, ch'essendo breve giro, è capace d'ogni cosa; anz'il mondo intiero non lo riempie, poiché solo il Creator del mondo può saziarlo. Si ammira, come grandezza degli uomini di alto stato, lo starsi ne' termini de' palagi, ed ivi nelle camere segrete, cinte di ferro e di uomini a guardia delle loro persone e de' loro interessi; e nondimeno è chiaro che, senza tanta spesa, può ogni uomo, ancorch'esposto alla vista di tutti, nasconder i suoi affari nella vasta ed insieme segreta casa del suo cuore, perché ivi soglion esser quei templi sereni, de' quali cantò Lucrezio: sed nihil dulcius est, bene quam munita tenere edita doctrina sapientium templa serena, despicere unde queas alios passimque videre errare atque viam palantes quaerere vitae. Applicando io però questi versi al senso che conviene a significar un'altezza d'animo, ed una quiete, che con- duce al piacer ed alla gloria immortale, e non al diletto fallace. La dissimulazione è rimedio che previene a rimuover ogni male Era tanto stimata da Giob la dissimulazione onesta che, non avendo lasciato di valersene nel suo regno, poi che si vide privo di prosperità, parendogli di aver fatto assai dalla parte sua perché non gli fosse caduta dalle mani, disse: Nonne dissimulavi? nonne silui? nonne quievi? et venit super me indignatio. Egli con tranquillità governò il suo stato, e sempre che potette dissimular, lo fe' volentieri; e però s'era per- suaso che non avesse da seguir mutazione nelle cose sue, ben assicurate dalla prudenzia, che in sé raccoglie- va dissimulazione, silenzio e quiete. Ma se con tutto ciò cadde in miseria, fu voler di Dio, che si compiacque di far vedere nella persona di quel santo una invitta costan- za e 'l trionfo della pazienzia, che nel carro della vera gloria si menò appresso come catenati tutt'i mali, fin ch'egli ebbe la prístina felicità con duplicate sodisfazzioni; e quella sua giustizia, che nel termine della sem- plice natura si dimostrò al mondo, sarà esempio in tutt'i secoli per affermare che i servi di Dio, in ogni condizio- ne, son sempre beati. Dunque Giob era tale, anche nel tempo de' suoi tormenti; ma per non uscir dalla materia 53  di che vo trattando, dico ch'egli, facendo il conto con la sua conscienzia, dicea: “Nonne dissimulavi? nonne si- lui? nonne quievi?”, volendo significar che a questa dili- genza non suol mancar piacer alcuno; e quando succede qualche accidente che perturbi tanto sereno, vuol il cielo che, dopo l'avversità, si accresca splendor agli animi che son alieni dagli affetti della terra. In un giorno solo non bisognerà la dissimulazione È tanta la necessità di usar questo velo, che solamente nell'ultimo giorno ha da mancare. Allora saran finiti gl'interessi umani, i cuori piú manifesti che le fronti, gli animi esposti alla publica notizia, ed i pensieri esaminati di numero e di peso. Non averà che far la dissimulazio- ne tra gli uomini, in qualunque modo si sia, quando Id- dio, che oggi “est dissimulans peccata hominum”, non dissimulerà piú; ma poste le mani al premio ed alla pena, metterà termine all'industria de' mortali, e que' sa- gaci intelletti, che hanno abusato il proprio lume, si accorgeranno come allora non gioverà l'arte del cucir la pelle della volpe dove non arriva quella del leone, che fu consiglio di un re spartano: perché l'onnipotente Leo- ne, facendo ruggir il mondo dagli abissi fin alle stelle, chiamerà tutti; e ciascuno dee saper e dire circumdabor pelle mea, come disse Giob. Quell'aurora porterà un giorno tutt'occupato dalla giustizia, e nel mostrar i conti, non vi sarà arte da far vedere il bianco per lo nero. S'udirà il decreto, che sarà l'ultimo delle leggi, e darà legge eterna alle stelle ed alle tenebre, al piacer ed alla pena, alla pace ed alla guerra. Sarà forz'alla dissimulazione di fuggirsene in tutto, quando la verità stessa aprirà le finestre del cielo e, con la spada accesa, troncherà il filo d'ogni vano pensiero. Come nel cielo ogni cosa è chiara Se per questa vita in un giorno solo non bisognerà la dissimulazione, nell'altra non occorre mai; e lasciando di trattar delle anime infelici che, con la luce del fuoco eterno, anzi nelle tenebre, mostrano gli orribili mostri de' peccati, dirò dello stato delle anime eternamente felici. Ivi hanno lo specchio, ch'è Iddio, il qual vede tutto, e ben nella lingua greca il suo nome, come osserva Gregorio Nisseno, dimostra efficacia di vedere, perché theós viene a theáome, ch'è mirare e contemplare. Veggono i beati colui che vede, sí che nel cielo non occorre che alcuno si celi. Ivi tutto è manifesto, perché tutto è buono, tutto è chiaro, tutto è caro. Quanti piú sono a possedere il sommo bene, tanto piú son ricchi. Dov'è tanto amor, non può succedere occasion di custodire in- teresse alcuno. Ma qui, dove siamo vestiti di corruzzio- ne, si procura con ogni sforzo il manto, con che si dissi- mula per rimedio di molti mali; ed ancorché ciò sia one- sto, pur è travaglio; onde si dee aspirar al termine di questa necessità, e spesso, rimovendo lo sguardo dagli oggetti terreni, vagheggiar le stelle come segni del vero lume che, anche per mezzo d'esse, c'invita alla propria stanza della verità. Ivi, nella divina essenza, i beati go- dono della chiara vista, ch'è l'ultima beatitudine dell'uomo, essendo la piú alta operazione dell'intelletto, per mezzo del lume della gloria che lo conforta; perch'essendo la divina essenza sopra la condizione dell'intellet- to creato, può questi vederla, non per forze naturali, ma per grazia; e come uno ha maggior lume di gloria del- l'altro, cosí può meglio conoscerla, ancorché sia impos- sibile vederla quanto è visibile, perché il medesimo lume della gloria, in quanto è dato a tal intelletto, non è infinito. Or, considerando cosí sodisfatti, cosí felici, ed in eterno sicuri, gli abitatori del Paradi- so, si vede come non han da nasconder di- fetto alcuno; e per conseguenza la dissimulazio- ne rimane in ter- ra, dove ha tutti i suoi ne- gozii. The first stage X produces a screech volunaarity so that the rest of the world should think that x he is in the state wwhich the NON-voluntary production would SIGNIFY. Stage 2,  produce X is now supposed not only TO SIMULATE pain-behaviour but also to be recognised as simulating pain-behaviour. Stage three  X screes so that Y not only recotgnises that the behaviour is voluntary but also recognises that X intends Y to recognise his behaviour as voluntary. We have underminded that this is a straightforward piece of DECEPTION. DECIEVING consists in trying to get a creature to accept certain things as SIGNS of something or other wihout knowing that this is a FAKED case. Were would weuld have a sort of PERVERSE faked case in which something is faked but at the same time a CLEAR thindictation is put in that the faking has been done.Y can be thought of as initially BAFFLED by this conflicting performance. There is this creature simulating pain but ANNOUNCING, that this what he is doing. What on earth can it be up to me. If Y does raise the question of why X should be doing this, Y might first come up with the idea that X is engagnen in some form of make believe – a game to which Y is expected to make some appropriate contribution. This is stage 4. But we may suppose, tthere might be cases which coud NOT be handled in this way. If Y is to be expected to be a participant whith X in some form of play, it ought to be possible for Y to recognise what kind of contribution Y is supposed to make. And we can envisage the possibility that Y has NO CLUE on which to base such recognition, or again that though some form of contribution seems to be suggested, when Y obliged by coming up with it, X instead of producing further play-behaviour geets corss and perhaps repeats its original and now problematic performance. This is stage 5, at which U supposes thanot that X is engaged in play that buta what I is doing is trying to get Y to believe or accept that X is in pain. In relation to the particular example which I have been using, to reach the position ascribed to in in stage five, Y would have to solve, bypass, or IGNORE, a possible problem presented by X/s behaviour. Why SHOULD X produce what is NOT a genuine but a FAKED expression of pain if what X is trying to get Y to believe is that X IS in pain? Wy not just let out a natural bellow? Possible answers are not too hard to come by. For example, it would be UNMANLY, or otherwise uncreaturely, for X to produce NATURALLY a natural expression of pain, or that X’s NON-NATURAL faked production of an expression of sincere pain is NOT to be supposed to INDICATE EVERY feature which WOULD be indicated by a NATURAL production. The non-natural production or emission, for example, of a LOUD BELLOW might properly be taken to indicate pain, not that THAT degree of pain wich would correspond with the DECIBELS of the particular emission. This problem would not, however, arise if X’s performance, instead of being something which, in the NATURAL INVOLUNTARY case, woud be an EXPRESSION of the STATE of X which (in the non-natural faked case) is is intended to get Y to believe in, were rather something MORE LOOSELY connecterd with the state of affairs (NOT NECESSARILY A STATE OF X) which it is intended to conveye to Y. X’s performance, that is, would be SUGGESTIVE, IMPLICATURAL, in some recognizable way, OF THE STATE of affairs WITHOUT being a NAUTRAL involuntary response of X to THAT state of affairs. We reach then stage 6. Where the correlation is meant to be something other than inconic. A stage in which the communication vehiles do not ave to be, initially A NATURAL SIGN of what which it is used to communicate. Provided a bit of behaviour could be expected to be seen by the receiving creature as having a discernible connection with a particular piece of information, that bit of bheaviour will be usable by the transmitting creature, provided that the creature can place a fiar bet on the cconnetion being made by the receiving creature. Any link will do, proided it is detectable by the receiver, and the ooser the links creatures are in a position to use, the greater the freedom they will have as communicators, since they will be less and less restricted by the need to rely on a proor natural connection. The widest possible range is given where creatures use for these purposes a ANGE of communication devices which or gamut of communication devices which have NO ANTECEDENT connection at all with the things that they communicate or represent, and the connection is simply made ofbecause the sassupmtion of such an artificial connection is prearranged and foreknown. Here creatures can simply cash in on the stock of information built into them. In some cases, the devices might have other features above the one of being artividial. They might infolve a finite number of roto devices and a FINITE set of fmodes or forms of combination – combinaroty operations, which are cableble of being used over and over again. The creatures whihcll have what some have thought to be characteristic of a language, a communication system with a finite set of initial devices, together with semantic provisions for them, and an understanding of what the functions of those modes of comination are. As a result, they can generate an infinite set of complex communication devices, together with a correspondingly infinite set of things to be communicated. This gives a rationale ro communiationThe muth exhibits the conceptual link Torquato Accetto. Keywords: dissimulazione onesta, dissimulazione disonesta nell’animali – mimesis – camuffare, camouflage, laboratorio di mascheramento – vegetato: camuffamento uffiziale dell’esercito italiano. vegetato: camuffamento uffiziale dell’esercito italiano, simulation as the key concept to unify the only sense of ‘sign’ x consequentia y, y seq-uitur x, segno naturale divenne segno artificiale – segno di una proposizione p – un gesto segna la proposizione p, la correlazione e iconica – ma se intenzionale, it cannot be ‘natural’. Passage in ‘Meaning revisited’ --. -- Giulio Cesare, Medici – grigio – esercito, bande nere.-- Accetto. Refs. Luigi Speranza, “Grice ed Accetto” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria. #accetto 

 

Grice ed Acilio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Gaio Acilio Gaius Acilius was a philosopher specialized in political philosophy. He happened to be pretty fluent in Greek, and served as interpreted for Carneades of Cyrene, Diogenes of Seleucia, and Critolaus, when they came to Rome to represent Athens before the Senate. Senatore e storico. Grazie alla sua posizione politica, anche se non di primo piano, e soprattutto alla sua conoscenza del greco, introduce al senato romano i tre filosofi Carneade dall’Accademia, Diogene del Lizio e Critolao dalla Scesi, venuti come ambasciatori di Atene, e funge da interprete. Seguendo l'esempio di Quinto Fabio Pittore, a cui si attribuisce il merito di aver iniziato la storiografia latina, scrive una storia di Roma, di impostazione annalistica, che anda dai primi tempi, secondo Dionigi di Alicarnasso e Livio. La storia e commentata da altro annalista, Gaio Claudio Quadrigario. A giudicare dagli VIII frammenti conservati, sembra di potersi notare che, come l'opera di Fabio Pittore, anche la storia di Acilio dedica molto spazio al racconto delle origini. E accostabile al suo predecessore anche dalle discussioni eziologiche per cerimonie e istituzioni cultuali, che egli vede come indice del fatto che Roma e una città di origine greca. Macrobio, Saturnalia. Periochae. Livio. In F. Gr. Hist.  Jacoby. H. Peter, “Historicorum Romanorum Reliquiae” (Leipzig, Teubner), Altheim, “Untersuchungen zur römischen Geschichte” (Frankfurt), Cornell & Bispham, “The fragments of the Roman historians” (Oxford) -- discussione su vita, opere e frammenti. Voci correlate modifica Gens Acilia. Portale Antica Roma  Portale Biografie  Portale Letteratura. Quinto Fabio Pittore politico e storico romano Annales (Cincio Alimento) opera dello storiografo romano Lucio Cincio Alimento Gaio Asinio Quadrato storico e politico romano.

 

Grice ed Achillini – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo italiano. Grice: “It is from Achillini that I draw the idea that ‘mean’ is essentially a ‘consequentia’ relation – he speaks of the sillogismo fisiognomico (those spots do not mean measles, YOU mean that you have measles, since you painted them yourself!” – but then he was ‘of’ Bologna, and thus a physician, more than a philosopher! Bless his little heart!” Grice: “The fact that the Loeb Classical Library has Aristotle’s Physiognomica helped!” -- Grice: “I like Achillini; he is my type of logician.” “Possibly, his most generalised implicature is his little philosophical tract on ‘de prima potestate syloogismi,’ translated during the second world war as “la prima potesta del sillogismo.’ His example: “all men are mortal, Garibaldi!” -- Filosofo. Essential Italian philosopher. Grice: “What fascinates me about Achillini is, first, that he belonged to a varsity older than mine, Bologna; second, that he was a Renaissance occamist, as Matsen has shown.” Alessandro Achillini (Latina Alexander Achillinus) filosofo. Achillini è nato a Bologna e ha vissuto la maggior parte della sua vita. Era il figlio di Claudio Achillini, membro di un'antica famiglia di Bologna. E 'stato celebrato come docente in filosofia presso Bologna e Padova, ed è stato designato "il secondo Aristotele." Lui era di natura molto semplicistico. E 'stato qualificato nelle arti di adulazione e di doppio gioco a tal punto che i suoi studenti più argute e imprudenti spesso lo consideravano come un oggetto di ridicolo, anche se lo hanno onorato come insegnante. Egli possedeva anche un bel carattere vivace. Secondo la descrizione di un collega, che era bello, alto ma ben proporzionato, allegro, felice, spesso sorridente, e affabile. Achillini mai sposato. La sua reputazione tra i suoi colleghi era ammirevole ed era molto rispettato. E anche se era ben Achillini lettura e formidabile in un dibattito, è stato detto di essere un po 'rigida e rigido nella sua docenza. Dopo la sua morte, molte persone sono state estremamente devastati.  Le sue opere filosofiche sono state stampate in un volume in folio, a Venezia, e ristampato con notevoli aggiunte. E 'morto a Bologna e fu sepolto nella chiesa di San Martino. Tra le sue scoperte notevoli, è conosciuto come il primo anatomico per descrivere le due ossa tympanal dell'orecchio, chiamato martello e incudine. Ha mostrato che il tarso (parte centrale del piede) è costituito da sette ossa, ha riscoperto il fornice e l'infundibolo del cervello. Inoltre ha descritto i condotti delle ghiandole salivari sottomascellari.  Suo fratello è stato l'autore Giovanni Filoteo Achillini, e il suo pronipote, Claudio Achillini, era un avvocato.  Fu costretto a lasciare Bologna a causa della espulsione della potente famiglia Bentivoglio di cui era un partigiano. Poi anda a Padova dove è nominato professore di filosofia. Iniziò ad insegnare quando aveva 21 anni. -- è stato professore di filosofia a Bologna. Achillini era un professore presso Padova. Achillini insegna a Bologna per ventotto anni, che è più lungo di chiunque abbia mai insegnato a Bologna in la filosofia. Padova ha uno statuto, che se un professore è riuscito a leggere in qualsiasi giorno assegnato, o non è riuscito ad avere un certo numero di studenti che sarebbe essere documentati e poi ci sarebbe stata una diminuzione di stipendio per evento. Achillini non soddisface il requisito per la lettura, a cui è stato penalizzato 351 lire bolognesi. Anche riceve due lettere fortemente formulate dal Comune di Bologna, affermando che la sua assenza non era autorizzata, e se avesse continuato avrebbe penalizzato severamente (500 ducati d'oro per la prima infrazione). Partecipa molti comitati di dottorato come membro per l'esame e l'approvazione dei candidati. Ci sono registrazioni di lui che frequentano almeno novanta volte al presente procedimento. I procedimenti sono esami di dottorato o di elezioni dei nuovi membri della compagnia di collegiali medici.  Inoltre, e ben versato in teologia. I suoi disegni iniziali indicano un interesse ad entrare al sacerdozio. Egli sembra aver iniziato gli studi al seminario. L'anno in cui è entrata la tonsura nella Cattedrale di Bologna. E anche se poi sposta la sua attenzione al mondo accademico, rimanne un filosofo attivo per tutta la sua vita e ha contribuito a due Congressi Generali dell'Ordine Francescano; uno a Bologna e un altro terrà a Roma.. Mentre in residenza a Bologna, è accreditato come strumentale nel generare interesse per Guglielmo di Ockham. L'estensione del riconoscimento alcuno di Achillini è difficile da discernere, ma si ritiene che i suoi contemporanei e all'università istigato una breve rinascita Ockhamistica, come evidenziato dagli ultimi lavori dei suoi studenti.  pubblicazioni Le “Note anatomiche del grande Alexander Achillinus di Bologna” dimostrano una descrizione dettagliata del corpo umano. Paragona ciò che trov durante i suoi dissezioni a ciò che altri come Galeno e Avicenna trovano e note le loro somiglianze e differenze. Afferma ci sono sette caratteristiche in sede di esame del corpo al posto del credeva sei data nel libro di Galeno sulle sette. Queste caratteristiche sono sette dimensioni: il numero, la posizione, la forma, la sostanza come in sottili o spessi, sostanza in polposo o ossea, e carnagione. In questo saggio, dà anche indicazioni come come procedere con alcune dissezioni e le procedure, come la castrazione, l'estrazione della pietra, e la rimozione della gabbia toracica di esaminare ulteriormente il cuore ei polmoni.  E 'stato anche distinto come un anatomista, tra i suoi saggi che sono De humani corporis anatomia (Venezia), e Expliciunt Annotationes anatomicae in Mundinum Magni Alex. Achilini Boron. Editae per euius fratrem Philoteum (Bologna) – Achillini Bononiensis opera lima ejusce actoris repollita et extersa ac denuo maxima cura ac diligentia impressa (Venezia). Di Achillini Annotationes anatomicae è stato pubblicato da suo fratello, Giovanni Filoteo,  E 'stato pubblicato in un piccolo formato di diciotto fogli con un paio di poesie di sei e due righe ciascuna. Ulteriore lettura Franceschini, Pietro Dizionario della biografia scientifica   Herbert Stanley Matsen -- la sua dottrina di "universali" e "trascendentali": uno studio in rinascimentale Ockhamism. Bucknell University Press. Gallerie online, storia della scienza collezioni, University of Oklahoma Biblioteche immagini ad alta risoluzione delle opere di e / o ritratti di Alessandro Achillini in e il formato.tiff. finiti vigoris fit Deus telligat. Vtrum prima forma quæ estvi tor. Virum quodamordinerecedant intelligentiæ mediæ àpri. ma. Virum intellectus possibilissubijciatur accidentibus. Verum incelle&uspossibilis sit formadansesschominé. In libro dc.Orbibus. Cælum eftingenerabile. Cælum non est calidumnifivirtualiter Cælum nonindiget Athlante,ncq; animacogente. Cælum eft naturæncutræ, Dubium secundum. Vtrum specizdifferant stella, & o r Stella est continuasuoorbi. Stella eftdextrumcæli, Noucm gradus felicitatis secundum Aristotelem & Commé Intercælosnoncft corpus replensvacuum. rarorem, ibidem. Quid siccopulatio. Quomodo intelligitur propositio dicens recipiens debetelle Verum quaruncung; intelligentiarum perfe& ioattendatur ibidem Vtruntalis sit proportiomoventiú, qualiseftrefiftentiarī. ibi. Omnes diversitas stellarum pene proportionabilem habet Nonetfellaterræ aliquando propinqua,& aliquandoree Tantum motu diurno cælum stellarum mouctur. Puncto velocissimo diurni motus non describitur æquino Aialis. Sufficit Afrologis imaginarium esseorbem, quem putant Infra Solem sunt Venus& Mercurius. Vtrumtalisfit proportio motus ad motum in velocitate, Regularis.cftmotuscæli. ibidem Verum apud Thcologá independentia inferat infinitate. ibid. Dubium quartum. Vtrum intelligentia sit. Solius naturalis est subftantiaabftra & áelledernóftrare. Dubium sextum.Verum intelle&usmoucatur. Deus non est condensabilis, ncq;rarcfa&ibilis. Deus noncftintentionaliter variabilis. Intelligentiæ mediæ sunt ingenerabiles & incorruptibiles. Incelligentiæ mediæ sunt nonaugmentabiles & non diminuibiles. Intelligentiæ mediæ non sunt rarefa&ibilcs, autcondensa Intd qualis cf desidcrijad desiderium. An homo cognoscar infinitatem Dei. Quid per infinitatem intelligendum sit. ibidem ibidem per se entiores. Vtrum possibile sit imaginare Deum esse potentiale. ibid. Vtrum Deus conservar intelligentias. ibidem Vtrum ex maiore de necessario sequatur conclusio de necella ibidem Ve rum 1. de generatione, tex.com.13. probetur ab Aristotele materiam esse æternam. ibidem rio in figura prima.  -- penes appropinquationem summo. VBIVM primum.Vtrum in Vtrum tantum Deum Deus in VTRVM in calofirmateria. Cælum est necessarium & æternum. Vtrum possibile fitcs homo antequam moriatur intelligat substantias separatas. Dubiumtertium. Vtrůcccentrici, & epiciclis intponendi. Cælinon sunt perforati. Virum quanto naturæ lune viciniores materiæ, cantosingim timus finis, sit primus mo Vtrum Deus, liberomoucatcæ Cælum non est rarefa &ibilcncquecondensabile. Cælum non est senescibileneque fatigabile. ibidem Dubium quintum.Vtrum Dæmon sit. ibidem Deus non est alecrabilis. Primus orbis mouet alios. Maxima sphærarum est stellata. Cælum est incorruptibile. Cælum non est alterabile nisi intentionaliter Aggregatum omnium cælorum est quasi vnum animal.Vtrum ponenda sir creatio. Vtrum intelligemtiæmcdiæsint Cælum est cancumadiuum. productz. % Cælum est corpus spirituale & divinum. Cælum est grave aut leve. 30 Cælum non est augmentabilencg; diminuibile. Cælum non est sensibile nisi visu. Stellamoucturad motum sui orbis. Vnum est centrum mundi. in Sole.In libro de Intelligentijs. Vtrum Deus fic intelle&usagens. Quid intellectus adeptus. stanci. primum mobile. ncq; per accidens. denudatum à natura recepti. ibidem. mota. tumpot eft. aliquomodo. Vtrum intelligentiæ inferiores intelligant superioram.VIRUM intellecus sit VIRTUS materialis. Virum intellectum possibilem habeat omnis HOMO. Vtrum intellectus possibilis sit pure pocentialis. bis cius. Vtrum felicitas sit Deus.  Nullo motum ouentur corpora cælestia nisi circulari. Virum latitudo intelle&u ũlitvni formiter difformis. 33 Vtrum sequatur, Deus est infiniti vigoris, ergo mouetinin Verum valcat hoc naturalicer mouct: ergo ipsum movet quan Vtrum infinitum sit cognoscibile. Virum in substantia ponendus sit gradus. ibidem Verum aliquis sit appetitus inclinationi naturali conformis Deus est ingenerabilis & incorruptibilis. Deus non est augmentabilis nec diminuibilis. non bonus. Vtrum intelligentiæ se conservent. Verum intelligentiæ dependcantam phancasmatibus. ibid. Vorum Plato ponat formam quæ nonc idea. ibidem. biles. Intelligentiz mediz non sunt alecrabilcs. lum. ibidem Non est intelle&usagens in Deo, nisi identice nec possibilis Deus non est localicer mobilis neq; persc, ncq; per partem,  Vtrum vniversales itnotius SINGULARI. Intelligentiæ mediæ non sunt intentionaliter variabiles. Vtrum species prius apprehendatur quam genus. Inintelligentijs medijs est aliquo modo intellectus agens, & Vtrum formæ intentionales educantur deporencia materiæ. inrelle& us possibilis. Intellectus possibilis est generabilis, & corruptibilis. Dubium septimum. Vtrum cælum recipiat else ab intelligencia. Vtrum vniversale sit innarum intelle&ui possibili, Vtrum scientia sit ipsum scitum. Vtrum corpus subratione qua mouetur sit subiectum. Vtrum omnium sensibilium corporum formas philosophus naturalis quidditatiue consideret. An cælum philosophus naturalis quidditatiuc consideret. An naturalis scientia pcedat ordinedo&rinæ metaphysicam. Quare in mathematica non possumus a posteriori demon II2 Quomodo movens primum consideratur a metaphysico. Dubium uerit. o&auum Vtrum cælum mutationem termina vndecimum.Vtrum cælum sit sphæricut. 92 duodecimumVcrum cælum sit luminofum dese. Non est lumen lunæ reflexum tantum. Dubium Dubium Vtrum morus cæli fuerit æternus. Cælum movetur sine fatigatione & pæna. thematicam, naturalem, & metaphysicam. VBIVM primum.Vtrum vniversalia ex i Intellectus agens deus. fant inintelle&u. Vtrum vniversale sit nomen tantum. ios Verum vniuersales it ens rationis. Vtrum vniversale sit respc&iuum. Vtrum vniversale sit extra animam in re abstractum. Vtrum vniversalia sint extra animam. Vtrum vniversalia substantiarum sint substantia. Vtrum vniuersale sit corporale. Vorum vniuersale sit corruptibile. Vtrum vniversale existat nullo Singulari illius existente. An felicitas considerat in scientia speculatiua. An felicitas sit vita. An felicitas sit sempiterna vita. An tanta sit æquiuocatio dicatur de vivo & lapideo. Vtrum ad felicitatem requiratur scientia moralis. Quomodo exdi&o speculatiuos equatur practicum. IIS Quid demonstratio SIGNI, causæ tantum,& causæ & eltc. De quibus causis considerat naturalis, mathematicus, & dini Verum cuiusq; causati scientia sit per omnes cius causas.  Intelligentiæ mediæ sunt localiter mobiles per accidens ab alio nonå se. sensatum sit in intellectu. Intellectus possibilis est augmentabilis & diminuibilis. Vtrum vniuersalia sine obic&uni intelle&us. Vtrum vniuersalia ina&usinr in intelle&u. Intelle & us est realiter alterabilis, terminatiue, non subiectiua Intelle&tus possibilis eft localiter mobilis per accidens, Intellectus possibilis est intentionaliter variabilis. Vtrum forma inintelle&u habeatesse singulare. Verum vniuersale verius habeat dscinintelle&uquàm ex Cælum est intelle&iuum, & appetitivum. bie &tum neq; tali mutationem ut ab ir ura d non esse. Vtrum coelum sit sub ic & um principale naturalium. Vtrum fubic&um attributionis in naturalibus sit cælum. Non concederet Aristoteles cælum fuisse creatum neq annihilabitur. Apud Aristo.non incipit mundus esse neq;desincr. Ad omnes operationes iniftis inferioribus cælum concurrit. Cælum iftis inferioribus non imponit necessitatem. naturali neq causæ finalis. Efficiens duplex. Non est influentia cæli instrumentum diftin&um a motu & primum efficiens à naturali consideratur. Quomodo corpora cælesia sunt in loco. extra. Vtrum vniuersale fit idem vel diuersum á singulari. Vtrum vniuersale fit causa fingularis. Quomodo, materiaà mathematico consideratur. Quomodo naturalis quatuor causas considerat. Vtrum melius sitponereinrationeformali subiedimobile 1Virum ex nihilo aliquidfiat. quàm moueri. sophianaturali. Vnde Quid ficmoueri localiter,fecundum forinam,& fecundum materiam. Quæ intelligibilia cósideranturà mathematico, qàmetaphy. Dubium cercium decimum.Verum quiescente cæloparient Vtrumvnum& idemfitcaulasubie&i& accidentis. contenta, Vtrum vniuerfale fic in singulari. Cælum quatuorcausashaber. Vt rumvniuersalia declarent quidditatem fingularium. Error Galeni de certitudinc Medicinæpra&ticæ. Vtrum vniuersaliaprædicenturdesingularibus. ftrare. Quomodo ccelum alteratur.  In intellectu possibilieftintellc&tusagens. Ratio formalis subie& I naturalis philosophiæ. Cælum estcffc &iúum habentiumnacurani in inferioribus. Nontotumgenuscausæformaliscósideraturà philosopho Cælum eft conferuatiuumhorum inferiorum luminc.nus. Coelumestcompofitumexmateria& forma. Cælum cftviuens,& non eftnegativum, Cælum eftaniinal, & noneftsensibile. TRTM naturatum sitfubic&um inphilo Cælum eft finaliter, formaliter, & materialitercausatum. Cælum est esse Aiue conservatum. Vtrum subiectum contincat omnes veritates ad scientiam pertinentes. Non est mutatum cælum adellemutationenonhabentelu Vtrum aliquid quod nonmoucturexsc, sitsubic&uminna turaliphilosophia Non fuit mundus generatus,neq;corrumpetur.' Vtrum subiectum philosophiæ sit ampliusquàmcorpus. Dubiumnonum. Vtrum cælunifitfinitæmagnitudinisin Quidsitordocorporum inphilosophianaturali. adu. Quid fitordo perfectioniscorporum naturæ. Dubium decimum.Vtrum coeluitiilicvnum. Virum motus coelifit naturalis. In intellectum humanum nondire&eagiccælum. In Tractatúde Vniuerfalibus. Vtrum moralis scientiafitexcludeda àtrinaphilolophiæ di uisionc pofira ab Arift. metaphysicæ tex.com.2.in m a Vtrùm vniuersaliasinescientiarci. Vtrumvniuersaliafinirforniæ Vtrum vniucrsaleànaturadenominatadifferat: Vtrum morssequaturadnaturammaterie philosophia naturalis prima ordine doctrinæ præparans intelle&umad Verum vniuersale quantum eftdescnoneftinintelle&u, nec felicitem. Medicinam subalternarinaturaliphilosophiæ. Vtrumvniuersalesensibilium,cuiusnulluinsingularefucrit Quidmateriaprimaquidfecunda,&quidformasimplex, tra. In Libro de Physico auditu. Vtrum natura fitfubic&tumlibri phyficorum, Naturalisnonhabetde cælo perfectissimam cognitionem. Ante sensum ellevegetationem. An homo sit æquivocum. Vcrumfinitiadinfinitumnullasit proportio. IVnde do &rinaordinaria. Vtruinmagis vniuersalefit primo cognitum. Vtrum philosophi naturalis sit probaresuaprincipia. Quæ principiapolsintinscientiaprobari.Virum formaappetatmateriam Vtrūpriuatio fit causa appetitus materiæ definitiomateriz Quid materia secunda. Duplex generalissimum substanciae. Deaccidencibuscælinorandum. Vt rūformaantcquageneretur præcxiftarin materia. Vtrum infinitumfitignotum. Vtruminductiofitbonaconsequentia. Vtrum principiasintcadem. Priuatio,quarcprincipiumperaccidens. Quid generatio fimpliciter & secundumquid. Sperma propria esse masculi et non feminæ. Et quiddeopi altcrumfcilicet performamnionc Galeni. Opinio Alexandri de intelle& u possibili. Dubium verummateriahabcataliquamformasub Materiacæli,nunquam fincpriuationc. Principium perquodindiuiduuinefthoceftforma. Trinitasprincipiorumplatonica. Intelle&us possibilis corruptibilis & generabilis. Quarein conceptudifferentiænoincluditurgenuscuiusest Metaphysicæ,triplex subicctum. Differentia. Quid fit realiter distingui. Vtrum materiasinequantitatefirdiuisibilis. Vtrum tresdimensiones fintpassiones quantitatis. Vtrum compofitum ex materia & formacllcfitacceptum a Vtrum materiafitprodu&aàDco Vtrum mareria fic forma Propositiones per se notæin philosophia naturali. Vcrum polsibilesitrotocontinuoquiescentepartemillius Diuisioformæ, & naturæ. De principiomotus augmentationis, & alterationis. In libris de Elementis TRVM materiaexistat. Quid sittransmutatio substantialisquidac Quomodo ipsaestmediuminterens& nonens. Dubiumfecundúan SortenonexistenteSortessitho. Dubium tercium quid cftmateria. Uam. Materia non ch operatiua nisi paciendo. Materia non perfccxistit sedinaliofcilicetcomposito Sper  Quómodo logica considerat de ente reali. Quæ ressintprimaprincipia. Terminigenerationis& corruptionis. quid. Quomodo materiaeftcns Cogitatiuavlcimatapræparatioadintelle&um. Andemonstrationesin mathematica procedant per causam. Quomodomateriamediumdiciturinternihil & ago. Vtrum eadem sintnobisnota & naturæ. Appetitus duplex materialis & cumfenfu Quomodo materiæ acciditq fit potentia. Melius eft dicere causas esse notiores natura quàm naturæ. Quæ diffinitio descriptiua. Demonftrationes in philosophia naturali, quæ a priori. Quomodo aliquideßin prædicamento ad aliquid. Quomodo homo cognoscitin cognitionenaturæ. Virum materiasir suapotentia. Quomodo artificinorioreftcaula. Verum materiasit potentiaomncsformæ. Formal apidisextraintelle&tumestvniuersaleintentio, aliud Vtrumtria principiaexæquoprincipient motum à fubicéto. Vtrum vniuersalia sint realia. Quomodo consuctudo alteranatura. Verum fingulare fit per se intelligibile. Vtrum vniuersalia sint prius nota singularibus. Primum cognitumà nobis fingulare,& secundocognitum Quomodo exnonenteperaccidensfitaliquid. Vtrúm cadem proportion materiæ sit potétiæ oésformæ, Vtrum intelligentiæhabcantmarcriam. Vtrum materiafitminusperfe&aaccidente. el vniveriale. A b intelle& uagente non datur definitio. Quomodo intelligentiæ sunt mobiles. Vtrum quantitas realiter diftinguatur à materia. metaphysico. Vniuerfalia ratione intelle&usinquofunthabent aliquid Vtrum matcria fit Deus æterni. Quid maximum fit & quid minimum non. Termini accidentales ex quibus fitaliquid. Quomodo conucniuntq,uomodo differüt. Quid generatio simpliciter, quid secundum Quomodo ipsacftinprædicamento. Vtrum transmutatioficripofsitdeindiuidnovniusspeciei Quomodo materia civnumcumpriuatione ad indiuiduum ciusdem specici. Quomodo priuatio fub forma comprchenditur. Dubium quartum vtrum materia sit substantia. Virum insubstantial sit contrarictas. Vtrù philosophu snaturalisdebcatprobaremateriäсssc Quarcmagispriuatiocftidem materiæquàmformæ Materiahabct differentiam, circunscriptiuam,nonconficuti Vtrum tantum criafint principiarerum naturalium Vtrum generatio fit subita. Auicennae opinio de forma corporcitatis. Materia prima consideratur à philosopho naturali. Matcriacftinduobus prædicamentis. Dubiumquintumvtrummateriafitforma Materiam nonestina& umotiuo intellectus torum. Dubium vtrum materiapossitexisteresincforma Opiniones tres de præ existentia forma in materia. Philofophi naturalis eft Quarcformasubstantialiscontrarium probarematcriamesse,formameffe, non habet. compositum effc. An frigiditas aquæ minorsit frigidicas terræ. moucri localiter. Vtrum principia sint contraria. Vtrum generatio accidentalis sequitur alterationcm Sex positionis differentia. Materianonestcompositum,ncq;aliquodquatuorclemen Vniuersale triplex Conceptü fpecificădat intellectus agens, & nó gencricũ. Vtrum incælosirmateria. Vtrum materia possitellesinc priuatione. Quid requiritur ad hoc vtaliquafintideinfimpliciter. Concretum principaliterfignificatqualitate,& quare. Vtrummateria Auat. A Muliere duplicem exire humiditatem. Vtrum priuatio fit principium Quomodo priuatioprincipiumperaccidens Quomodo cælumvariarlocum secundumformam. Differentia materiæ eft poccntia, &nona&us nisi negatiuc. Matcria nonhabetformamabipsainseparabilem, fedquam Scientiæ naturalis duplicia sunt principia. Virumens ficvniuocum, Vtrùm quanrirastermineturterminisproprijgeneris. Virum totum fitsuæpartes. Viruni forma fitab agente. Vtrūmctaphysicisit probare substantia abstractus esse Virum ficdarçminimum. Verum priuatio fit principium per se. Materia libet perdere poteft. Virum materiaapperat. Materiatertia,& quarta. stancialem fibi propriam cidentalis Dubium o&auum, vtrum materia prima sit una numero omnium generabilium,& corruptibilium. nat sint summa. Verum aërficfrigidus. Remotæ potentiæ numerantur numerarione specierum. Materia est potentia Cubic&iua ntelle&ui. Dubium vtrum materialitquantitas. Dubium vtrum quantitatisuccederepossitaliaquantitas Dubium vtrum quantitas præueniat formam subftantia leminmateria. In Quæstione de subiecto Physionomiæ. VID princpium cognitionis tantum, & co Principiorum in complexorum proprietates Principiorum complexorum quærit metaphysicus proprietates corruptibilitatis Verum ambæ qualitates quasynum elementumsibidetermi Mareria non cftvnumesseina&u. Potentia describit materiam. Potciitiæ propinquæ materiæ sunt quatuor. Dubium vtrum essentia sit esse. Subic&um,quomodopersenotuminscientia Physionomia,& chiromantiascientiæ. SiestElementum, præsupponitur, quiaipsumeftfubic&um Physionomia &chiromantia naturalisubalternantur considerationi Artic. Tertio princinalitercósiderandüeltcirca mixta Quomodo intelle&usfitpra&icus. Quæ operationespraxesdicuntur. Eidem scientiæ subalternaripra&icam& speculativam. Artic.Quarto principaliter considerandum circa animatave getaciva, aut sensitiua. Vtrum deturminimum innaturalibus. Vtrum calidicas, frigiditas, ficcicas,& humiditas, sint qualita- Cor esse primam fenfusredicem secundum Arist. 264 Quæstio de priina syllogismi potestace. nobis. Vtrum terrasitvbiq; habitabiles. Cogitativam virtutem componere. Materia non eftspecies. Dubium nonum vtrum possit elleqrinco de supposito sint Condensare & rarefacere non perscsequuntur qualitatespri multæ materiæ mas. Dubium vtrum materia sit per se intelligibilis. Materia non potest esse &iue neque formaliter mouereintcl uitare. Materianonestdeseina&uenticaciuo. Dubium vtrummateriasitsua potentia. Vtrum terrarespe& ucælifitvtpun &um. Vtrumterrasiessetlucida,& existeret in cælo videretur á Dubium 18.vtrum quantitas in terminata fit quantitaster minata nomia. Dubium verum materia primasır causa generabilitatis & Homo secundum quod natura bonus subiectum in physio Contra Scotum de subiecti continentia. Materia non eå quidditas nisi improprie. Ens et esse sunt idem. Essentia et existentia sunt idem. Forma estesseactu. In demostratione simpliciter passio de subiecto concluditur. Quid subiectum primum per attributionem. Quarc substantiain metaphysica subiectum eftper attribu Dubium.vtrum totum sit suæ partes. Dubium vtrum forma ante generationem habeat este principalitatis. reale in materia. Dubium vtrum privatio sit res Contra Galenum de numero complexionum. An in compofito substantiali pluressubltantialesformarepe De via in physionomia & chiromantia. riantur. Scicntiaalterumduorummodorumdiciturpra&ica. Vtrum cælum componatur ex quiditatibus, & videturelit, Quomodo theologiatora pra&ica. quialubente continetur, & sub corpore Prudentia circa quæ. Artic. Quinto principaliter considerandum de homine. anip Experientia quid. fo animam intellectivam expectet sensitiva. Vrrum aliquidmoucat se. te. Vtrum figuram aliquam sibi determinet elementum. Vtrum vnum elementum sit locus naturalis alterius. Vtrum vnum elementum in alterum immediateta an(mura Vtrum ignis sit primo calidus Vtrum elementa media æquáliter habeantde grauitatc& lc Homo in quantum lanabileå naturali consideratur. Ta, & tamen propositioestignora, Quid requiriturad hoc vt subie&um fit adæquätum Quid requiritur ad hoc vtfubic&um sit primum primitate Aegrotabile in ratione formalisubie&imedicinæcaderenon Genita ex putrefactione alterius sunt rationis a generare Dubiū 12.vtrú materia fir generabilis& corruptibilis Vtrum terrasit frigidior aqua. fitnul. Dubium Is.vtrü materia fine quantitate habcat partes Dubiumzz.verummateria Solum ponenda sunt prædicamentorum Quantitasestquod passiocftnota.& idquod est ciuscau sit. pars quidditatis. & quo aliquid est Quomodo aliquando genera logicalia. nationis primæ sub antiæ. Dubium vtrum priuatio principium. potest. In in materia. quæruntur in naturalibus. resprima Quæstio de subiecto medicina, Materia efteffepotentia. rionem, Dubium vtrum formasubstantialis Quid bonum animi. sitprincipium indiui Rario formalis subie&i,quid Latitudines in elementis compleri per contraria. Non cft potentia dc effentiali diffinitione materiz. Compositum est vtroque participans. ripossit. Subic&ũnon debet prædicari de principijsfubie&i,& quare. Materia inférior aliquomodo præfcindipoteft. Quare qualitates elementorum di&tæfunt effc elementisfub Verum qualitatessymbolæ elementorumsinteiufdemfpe Itantiales  ciel Quo mod o intelligiturpriuationem per secorrumpi. Materia apud philosophumestintelle&a Vtrumterrasitcentrummundi. Maceriacælinonpoteftpræscindiàforma. Lectum. Dubium. vtrummateriasitgenus Anaërfitprimohumidus. Dubium vtrum materia appetat formam. Dubium vtrum appetitus fit naturalismateriæ Arric. Secundo principaliter considerandum est composicum Quomodo medicina partim practica, & partim theorica, lic militer & theologia, similiter & logica. generabile. Verum tantum quatuor sint elementa. Virum prima qualitates sint formæ substantiales elemento genitis per propagationem contra Scotum. Run gnitionis & cffc. Propriumnonageneresolumfluit,sedådifferentia,& gene Genita per putrefa & ionem non esse eiusdem rationis cuna De elleanabellentia distinguatur. Caput secundum devno. Error Auer. de necessarij SIGNIFICATIO nci Caput tertium,de vero Caput quartum, de bono, Ens tripliciter eft quid. Quidditatiuum de quibus dicitur. Capursextum, dere, pagina. Caput septimum, decodem subiecto. Quomodo pars formæ fluit. ElTeidemin forma quatuor habet gradus. Caput nonum, decodem secundum materiam. de eodem difinitione. Quomodo Deus eftf elicitas modo intelligitur dediftin&ione ex natura rei Verum distinctio ex natura rei sit accepta ab Arist. Vtrum diffinitio& definitum ex natura rei distinguatur ra rei non realiter An communicabile, & prædicabile differant Differentia individualis est ipsa forma in composita ex materia An Deo accributa propriamhabeant infinitatem. Accidens non realiter distinguia substantia reis ubic&a Materiam & formam realiter distinguivult Scotus, & Thomas oppositum, similiter& Aver. rant. liter ili. Vtrum diftin&tioperdiffinitionemfitdiftin&iopersolum Anomnia quæ sunt idem realiteralicui, fintilli formaliter de eodem habilitate. Dedifferentiainterpositionemquæeftprædicamentum,& positioncm quæ estdifferentiaquanti. idem. ter. An fialiqua fintidem essentialiter, illasint idem realiserant.. Quomodointelle&uspossibilis & agens sunt vnum, & quo- Ansiali qua sint idem se totis subiective, illa sint essentiali modo duo. differant. De subiecto & propria passione, quomodo suntidem. An fiali quasetotisfubic&iuc differant, illafccotisobie&tiuc differant. Vtrum a&us intellctus possibilis collatiuusfitin primaope Ansi aliqua fecoisfubic& iuc differant,illafctotisobic&i dedistin&ionc rationis ratione intellectus. Vtrum fit aliquis conceptusfi&us. ue idem. obie Aiue. Vtrum omnis diftin&iofitrcalis aut rationis. Verum conceptus a rebus quarum sunt conceptus, sint ratio Verum omnis distinctio sit aliquid positiuum. ne distinAi. . In libro de Distinctionibus. Intellectus & voluntas sunt idem Quid eftaliquidsynonyma. decncis SIGNIFICATIONIBVS pagina. Quomodo speciesre intelligibilis, a&usintelligendi,&habi tuis intellectus sunt idem. Cogitatiua,& intellectus idem materialiter Igncitas, leuitasest simpliciter,& forma ignis substantialis. Differentia inter hominem metaphysicum, &hominemna Vtrum prædicatio specicide genere fit pe rse. Anista propofitiofitpersc, homo albus est homo albus. De sensu communiquid Auer. & Vtrum CONCRETVM & abftractum formaliterdifferant. Quomodophantalinatasuntintelle&tus speculatiuimate Vtrum humanitas sit animalitas. Ria de distinctionercali. Caputo & auumdecodem secundum formam. Aninierdistin&ionesdatasàScoristisfitordo. Vtrum diftin&io secundum modum differtàdiftin&tionele Vtrum omnis distinctio ex natuta reisit distinctio ratio cundum esse. Memorativam in medio ventriculo cerebrimanifeftari. Potentia substantialis prior est accidentali.& de prædicamento substantiæ. Vtrum fialiquaessentialiterdifferant,realiterdifferant. Vtrum fiali quarealiter differant, illa essentialiter diffe verum ex coq essentialiter dicitur aliquidcaliquo dicatur Vtrum sialiquas et otisfubic&tiue differant, illaeffentiali rerdifferant. vniversaliter de codem & femper. decodemacuvelpotentia An fialiquaessentialiterdifferant, illa secotisfubic&iucdif Quæ sit maxima identitas. Vtrum seclula operationc intelle&us possibilis resrationc differant. An si aliquas intsetotis obicctiucidem, illasintsctotissub ie&iueidem. Qữo genus & differentia ratione distinguantur,& nonrc. Vtrum prædicamentarcalitedrifferant. An relation differatà fundamento. De diftin &ione caloris naturalis ab artificiali. Verumcum Sortesnoneaipsesitens Materiam & formam non distinguise cundumesse,quomon Entis diuisio de distinctione modali. Duo modi realis distinctionis. Vtrum fialiqua realiter differant.illa formaliter differant An si aliqua sint essentialiter idem, illa sint sctotisfubic&tiuc Quomodo dequo Vtrumintelle&usagens& possibilisdistinguanturexnatu  teria& forma. Ens,res,autsubatantiagenerasuntanalogicedi&tadeDeo dediftin&ione formali. Turalem secundum Scorum Intellctum appetere contra Scotum.& secundum Thomam appetitivam cognoscere Quomodo intelligitur secundam intelligentiam esse vnam decodem secundum dispositionem. San&tum An diversitas & differentia coincidant in idem. Vtrum omnia formaliter diftin &ta realiterdifferant. ter idem Caput de distinctione essentiali. de'eodem secundummodum dedistin&ionesetorissubie&iue. Vtrum distinctios ecûdumessesiesufficicnsadhocvt contra dictoria verificentur de aliquo. formaminsubie&o, &multaindiffinitione. Vtrum omnia quæsuntidem formaliteralicui, fincidemrca Vtrum elle diffinitione idem, sit esse  idem secundum esse. nis. Vtrum omnia formaliter distincta ex natura rei diffe de codem secundum else de distin &ioneserorisobic & iuc. opus intelle& us. Vtrum quælibetconceptus ftinguatur. abalioconceptu, solaratione di Vtrum omnis diftin &iofitde genere relationis: decodem inredemonstrata. decodem effentialiter. Vtrum ex comparatione intelle&uspossibilis, fiantrespe&us, Ansialiquasiti demserotisfubic&iua, illasintidemsetotis qui sunt genus aut species. rant. ter. Caput1s. decodem secundum positionem Vtrum sialiqua sintidem rcaliter, illafint idem essentiali Vtrum distinctio fitrcfpc&iuum fitiones habere possint. Melius est non videre quædam, quàm videre,quomodo in Proportio maior est, quæ maiorem habet denominationem. telligitur. Regulæ tres proportionum secundum Ari  Quomodo sensus in prædicamento qualitatis, actionis, palo An deus cognofcatchimeramantaligidfi um.An incelle&tusina&u, vtintellc&us intelligentiarum propo Proportionis divisio Vtrum veritas differatàpropofitionevera. Inintellc&tuardo. pliciterabftra&arum aliquam veritatem videat persuam ftotclem. Q &uplaquare duplael quadruplz.  In quæstione demotuum propor Voluit Arif.deum cognoscere hæc inferiora, Motys (equitùr dominium. Alessandro Achillini. Achillini. Keywords: corpo umano, singulare, individuo.  Refs.: Grice, “Achillini’s problem with transcendentals and universals,”  Luigi Speranza, "Grice ed Achillini," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Grice ed Acito – implicatura corporativa – filosofia fascista – filosofia italiana – Luigi Speranza  (Pozzuoli). Filosofo italiano. Grice: “Acito, who would have thought it, made me read Cuoco’s brilliant novel on Plato based on an epigram by Cicero (“You know, Plato was there, in Taranto!” – Acito has also written on corporations – whatever they are (the mob) – and on Macchiavele -- Filosofo. Del periodo fascista e attivista del regime. Studiato a Torino. Iscritto all'Albo degli Avvocati di Milano, divenne direttore della rivista “Tempo di Mussolini”. Selezionato al Premio San Remo per libro “Machiavelli contro l'anti-Roma.” Partecipa come rappresentante italiano al Congresso dell'Unione Europea degli Scrittori a Weimar.  Insegna diritto, storia e dottrina del fascismo a Genova. “Il Popolo d'Italia,” “L'Oriente arabo”. “Odierne questioni politiche della Siria, Libano, Palestina, Irak; “Popolo d'Italia”; “Corporazioni e sindacati nello stato, nella storia, nei partiti politici” (Milano, Trasi); “Il volto della rivoluzione”; “Storia della rivoluzione”; “La dottrina dello stato”; “Realtà nazionali”; “Il Fascio e la Verga” (Milano, Morreale); “L'idea unitaria dello stato” (Milano, Sonzogno); “La idea romana dello stato unitario nell’antitesi delle dottrine politiche scaturite da diritto naturale”; “La dottrina dello stato in Cuoco”; “Contributo allo studio del pensiero politico del secolo XVIII” (Milano, Sonzogno); “La corporazione e lo stato nella storia e nelle dottrine politiche dall'epoca di Roma all'epoca di Mussolini: introduzione allo studio del diritto corporativo” (Milano, Pirrola); “Catalogo della mostra di sculture e disegni di Vincenzo Gemito” (Milano Castello Sforzesco Milano, Orsa; “Il trattato di ben governare: opera inedita di Tommaso da Ferrara del 1500”; “Tempo di Mussolini”; “L'ordinamento dello stato corporativo nel pensiero di Mussolini e nelle decisioni del Gran Consiglio del Fascismo” (Tempo di Mussolini); “Le origini del potere politico: "Omnis potestas a Deo" nelle discussioni degli scrittori politici del Trecento” (Tempo di Mussolini); “Machiavelli contro l'Antiroma, Tempo di Mussolini. “Il concetto di popolo” Tempo di Mussolini, “Il problema morale della rivoluzione” Tempo di Mussolini”, “La crociata anti-materialistica dell'asse”; “Tempo di Mussolini”; “Storia e dottrina del Fascismo”, “parte generale: Nozioni fondamentali” (Milano, Guf). Onorificenze Medaglia di Benemerenza per i Volontari della Guerra Italo-Austriaca nastrino per uniforme ordinariaMedaglia di Benemerenza per i Volontari della Guerra Italo-Austriaca (19Medaglia commemorativa dell'Unità d'Italianastrino per uniforme ordinariaMedaglia commemorativa dell'Unità d'Italia Medaglia commemorativa delle campagne d'Africa (1882-1935)nastrino per uniforme ordinariaMedaglia commemorativa delle campagne d'Africa, Cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia nastrino per uniforme ordinaria Cavaliere dell'Ordine della Corona d'Italia Croce al merito di guerranastrino per uniforme ordinariaCroce al merito di guerra. Frank-Rutger Hausmann, Annuario ufficiale delle forze armate del Regno d'Italia, Istituto poligrafico dello Stato, I professori dell'Pavia, Amedeo Bianchi, Professore all’Università Bocconi: Notizie sulla famiglia Acìto Filosofia Filosofo Professore Pozzuoli MilanoStudenti dell'Università degli Studi di Torino Avvocati italiani del XX secoloProfessori dell'Università degli Studi di GenovaProfessori dell'Università degli Studi di Pavia Decorati di sciarpa littoria Personalità dell'Italia fascistaCavalieri dell'Ordine della Corona d'Italia.. È con Roma che nasce il diritto e nasce lo stato, perciò lo stato romano è lo stato giuridico. Infatti, il fondamento giuridico della società e dello stato, impide che a Roma si sviluppa la demagogia. Persino la repubblica a Roma è  aristocratica. Il senato, che impersona lo stato, è un corpo eminentemente aristocratico e il popolo stesso, inquadrato negli ordini della milizia, non degenera. Lo stato presso i romani afferma la potenza del suo carattere unitario, sintesi delle prime gentes rurali e militari. Questa qualità fa nascere il SENSO DI DIRITO che il genio romano applica nella formidabile organizzazione politica e sociale dello stato. Questa organizzazione statale che si reassume nel genio di Giulio Cesare e che detta l’impalcatura all’impero, altro non è se no la crezione dello stato unitario, che è una gerarchia di AUTORITÀ, FONDATA SUL DIRITTO, tutelata dalla forza militare, al quale [diritto] il CIVIS resta subordinato, ma nel quale [diritto] trovoa la regolazione giuridicamente definita e GARANTITA DEI SUOI RAPPORTI PRIVATI. SUBORDINAZIONE perciò incondizionata DEL CITTADINO ALLO STATO. IL PRINCIPIO DI AUTORITÀ domino tutta la COSTITUZIONE POLITICA dello stato romano e ne regge la potente struttura. Il cittadino romano non conosce l’antitesi ed ha una morale sua PROPRIA. IL MOS MAJORUM ANIMA I COSTUMI di Roma. Il successive consolidarsi del capitaismo, se pure di capitalism puo parlarsi nell’epoca antica, o meglio l’avidita delle richezze, CORRUPPE quello STATO DI PRIMITIVITA. Mentre il mondo dell’economia a schiavi si estendeva, il paganesimo non agi come MODERATORE DEGL’ISTINTI INDIVIDUALI. Optimates and Populares, (Latin: respectively, “Best Ones,” or “Aristocrats”, and “Demagogues,” or “Populists”), two principal patrician political groups during the later Roman Republic. The members of both groups belonged to the wealthier classes.  Skip  in 1s FAST FACTS Facts & Related Content Areas Of Involvement: Patrician Related People: Lucius Domitius AhenobarbusQuintus Caecilius Metellus Celer Marcus Porcius Cato Marcus Aemilius Scaurus Titus Annius Milo...(Show more) See all facts and data The Optimates were the dominant group in the Senate. They blocked the wishes of the others, who were thus forced to seek tribunician support for their measures in the tribal assembly and hence were labeled Populares, “demagogues,” by their opponents. The two groups differed, therefore, chiefly in their methods: the Optimates tried to uphold the oligarchy; the Populares sought popular support against the dominant oligarchy, either in the interests of the people themselves or in furtherance of their own personal ambitions. Finally, it is well to remember that the Senate’s authority was based on custom and consent rather than upon law. It had no legal control over the people or magistrates: it gave, but could not enforce, advice. Any challenge to its authority was little more than a pinprick, but thereafter more deadly blows were struck, first by such Populares as Tiberius and Gaius Gracchus, then by Gaius Marius, and finally by the army commanders from the provinces.  Gli Ottimati (in latino: Optimates, cioè i migliori) erano i componenti della fazione aristocraticaconservatrice della tarda Repubblica romana.  Nascita della fazione Modifica In origine influenzavano la vita politica romana, essendo la gestione della Res Publica appannaggio soltanto di quella ristretta cerchia di nobili che avevano le possibilità e la cultura per dedicarsi alla politica. In seguito alla Secessione dell'Aventino, però, le classi popolari e piccolo e medio borghesiriuscirono a ritagliarsi una fetta di potere, da esercitare mediante loro rappresentanti: i tribuni della plebe, magistrati dotati di potere legislativo (per esempio il diritto di veto su qualsiasi legge o decreto del Senato), nonché di auctoritas, ovvero l'autorità morale. Inoltre erano conferiti della sanctitas, ossia la sacra inviolabilità della loro persona, che rendeva ogni atto sovversivo, finalizzato a danneggiarli materialmente o fisicamente, un delitto gravissimo. Per rispondere a questa organizzazione politica del popolo, anche i patrizi romani si allearono tra di loro nel movimento politico degli "optimates" (it. "ottimi", "nobili"), cioè il partito aristocratico.  Organizzazione del movimento. Modifica In effetti la fazione aristocratica non era un vero e proprio partito politico secondo l'accezione moderna del termine (nonostante sia a volte chiamata Partito Aristocratico). Era bensì una confederazione di nobili, ciascuno dei quali era politicamente indipendente (o quasi) dagli altri, grazie ad una diffusa rete di clientele e di alleanze che ciascun nobile gestiva in modo autonomo. L'appartenenza ad un'unica fazione era resa però evidente dall'alleanza di tutti i nobili "optimates" con il Senato, dal comune interesse a conservare tutti i privilegi nobiliari, nonché dalla comune avversione nei confronti dei "Populares" (l'organizzazione politica dei ceti popolari e borghesi) e dei "Tribuni della Plebe". Gli Ottimati, infatti, desideravano limitare il potere delle Assemblee della plebe ed estendere il potere del Senato romano, che era considerato più stabile e più dedicato al benessere di Roma. Si opponevano anche all'ascesa degli uomini nuovi (plebei, di solito provinciali, la cui la famiglia non aveva avuto esperienza politica precedente) nella politica romana. L'ironia era che uno dei principali campioni degli ottimati, Marco Tullio Cicerone, era egli stesso un uomo nuovo.  Oltre ai loro obiettivi politici, gli ottimati si opposero all'estensione della cittadinanza romana fuori dall'Italia (e si opposero perfino ad assegnare la cittadinanza alla maggior parte degli Italici). Favorirono generalmente alti tassi di interesse, si opposero all'espansione della cultura ellenisticanella società romana e lavorarono duramente per fornire la terra ai soldati congedati (erano convinti che soldati felici erano probabilmente meno disposti a sostenere generali in rivolta).  La causa degli ottimati raggiunse l'apice con la dittatura di Lucio Cornelio Silla. Sotto il suo potere, le Assemblee furono private di quasi tutto il loro potere, il totale dei membri del Senato fu portato da 300 a 600, migliaia di soldati si stabilirono nell'Italia del Nord e un numero ugualmente grande di popolari fu giustiziato con le liste di proscrizione. Limitò i poteri dei tribuni della plebe, ridusse i consoli e i pretori ai compiti cittadini della direzione politica e dell'amministrazione della giustizia e vietò di ricoprire una medesima carica prima che fossero trascorsi dieci anni. Tuttavia, dopo le dimissioni e la successiva morte di Silla, molti dei suoi provvedimenti politici furono gradualmente ritirati, ma furono più durature le innovazioni nel campo del diritto e del processo penale.  Appartenevano agli "optimates" importanti uomini politici quali Lucio Cornelio Silla, Marco Licinio Crasso, Marco Porcio Catone detto Il Censore e Catone Uticense, il già citato Marco Tullio Cicerone, Tito Annio Milone, Marco Giunio Bruto e, a parte il periodo del Triumvirato, Gneo Pompeo.  Voci correlate. Modifica Repubblica romana Plebe Patriziato Romano Lucio Cornelio Silla Marco Tullio Cicerone Gneo Pompeo Marco Licinio Crasso Tito Annio Milone Collegamenti esterni. Modifica (EN ) Ottimati, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Antica Roma Portale Antica Roma Diritto Portale Diritto. Alfredo Acito. Acito. Keywords: sindacato, stato unitario, idea unitaria del stato, Cuoco, storia di Roma, popolo d’Italia, materia e spirito, anti-materialistico, anti-materialistica, popolo, popolazione, Peacocke – sistema di comunicazione per una popolazione – idioletto – procedimento idiosincratico – idioletto, dia-letto – comunita, immunita.. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Acito,” The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Acmonida – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Acmonidas of Tarentum, according to Iamblichus of Chalcis, was a Pythagorean. Vita di Pitagora – Reale.

 

Grice ed Aconzio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Trento). Filosofo italiano. Grice: “I like Aconzio way of LISTING the devil’s strategies – and naming tdhem after abstract nouns represented by females: superbia, … etc. – He says he philosophised on ‘dialettiica’ but only for his fellow Italians, and writing to Russell (Lord Bedford) he adds, ‘it would be fastidious to present them to you!” – When Elizabeth received his copy of ‘Il timore di Dio,’ she asked, alla Hardie, ‘And what, Mr. Aconzio, is the meaning of ‘of’?” -- Grice: “I like Aconzio, and so did my mother – a High Anglican! Aconzio’s claim to fame is twofold: his “Stratagemata” which resembles Speranza’s study of Apel – only that Aconzio is ‘stratagemata satanae’ – and his “De method” which inspired Feyerabend, an American professor at the newish varsity of Berkeley in the New World, to philosophise ‘Contro il metodo.’” – Grice: “There is a small passage in “Del metodo” – and an even smaller in “Stratagemata” – where Aconzio seems to have invented (but soon disinvented) the idea of a conversational implicature!” --  Filosofo. essential Italian philosopher. Grice: “What I like about my fellow Brit, Aconzio, is that unlike Feyerabend with his ‘Anything goes,’ Aconzio cared to write about ‘method.’ Ora è noto per il suo contributo alla storia di tolleranza religiosa. E 'stato tradizionalmente pensato per essere nato a Trento, anche se era probabilmente Ossana. E 'stato uno degli italiani, come Pietro Martire e Bernardino Ochino, che ha ripudiato la dottrina papale e, infine, ha trovato rifugio in Inghilterra. Come loro, la sua rivolta contro romanità ha preso una forma più estrema di luteranesimo, e dopo un soggiorno temporaneo in Svizzera ed a Strasburgo arriva in Inghilterra subito dopo Elizabeth adesione s'. Studia legge e teologia, ma la sua professione era quella di un ingegnere, e in questa veste trovalavoro con il governo inglese.  Al suo arrivo a Londra si une alla Chiesa riformata olandese a Austin Frati, ma è stato infettato con ana-baptistical e pareri Arian" ed è stato escluso dal sacramento da Edmund Grindal, vescovo di Londra. Gli fu concessa la naturalizzazione. E 'stato per qualche tempo occupati con drenaggio Plumstead paludi, per i quali si oppongono i vari atti del Parlamento sono stati passati in questo momento. E inviato a riferire in merito alle fortificazioni di Berwick e sembra che era conosciuto in Inghilterra sia per il lavoro come ingegnere e di un riformatore religioso e sostenitore della tolleranza durante l'inizio della Riforma. Prima di raggiungere l'Inghilterra pubblica un trattato sui metodi di indagine, "De Methodo, hoc est, de recte investigandarum tradendarumque scientiarum ratione" (Basilea). Il suo spirito critico lo pone al di fuori tutte le società religiose riconosciute del suo tempo. La sua eterodossia si rivela nella sua "Stratagematum Satanae libri octo," talvolta abbreviata in Stratagemata Satanae. Gli stratagemmi di Satana sono i credi dogmatiche che affittano la chiesa cristiana. Aconzio cerca di trovare il comune denominatore dei vari credi. Questa è la dottrina essenziale, il resto e irrilevante. Per arrivare a questa base comune, dove ridurre il dogma a un livello basso, e il suo risultato è in generale ripudiato.  "Stratagemata Satanae" non è stato tradotto in inglese fino al 1647, ma in seguito è diventato molto influente tra i teologi liberali inglesi.  John Selden applicata alla Aconzio l'osservazione, "bene ubi, nil melius; ubi maschio, nemo pejus" -- "Dove buono, nessuno meglio. Dove male, nessuno peggio." La dedica di un tale lavoro alla regina Elisabetta illustra la tolleranza o lassismo religiosa durante i primi anni del suo regno. Aconzio poi trova un altro patrono in Robert Dudley, primo conte di Leicester. Saggi: Stratagematum Satanae libri octo, De methodo sive recta investigandarum tradendariumque artium ac scientarum ratione libello, De methodo e Opuscoli Religiosi, opuscoli filosofici, Giorgio Radetti, Firenze: Vallecchi) Somma brevissima della Dottrina Cristiana Una esortazione al timor di Dio; Delle Osservazioni et avvertimenti che haver si debbono nel legger delle historie Traduzione in inglese, Tenebre Scoperto (Satana stratagemmi), London  (facsimile ed., Scholars' Facsimiles & ristampe. Trattato Sulle Fortificazioni, Paola Giacomoni, Giovanni Maria Fara, Renato Giacomelli, e O. Khalaf (Firenze: LS Olschki). Riferimenti Attribuzione   Chisholm, Hugh, ed. " Aconcio, Giacomo ". Enciclopedia Britannica, Note finali: Di Gough Index a Parker Soc. Publ. Di Strype Grindal,  Dictionnaire di Bayle G. Tiraboschi, Storia della letteratua italiana (Firenze, Smith, Elder & Co. link esterno Allgemeine Deutsche Biographieversione online a Wikisource Opere di Jacob Acontius a Post-Riforma Digital Library. Molti riformati italiani vedremo cercarvi rifugio.Colà erasi ricoverato Jacobo Aconzio, valoroso giureconsulto di Trento, il quale nel 'opera “De Methodo, sive recta investigandarum tradendarumque scientiarum ratione (Basilea) aveva ripudiata ladialettica ordinaria, propo nendo un nuovo metodo di giungere al vero collo scomporre e ricomporre più volte la cosa,ed esaminarla sotto aspetti diversi, passando dal noto al l'ignoto. Alla divina Elisabetta regina d'Inghilterra, da cui ebbe ripetute attestazioni di stima, dedicò "Gli Stratagemmi di Satana in fatto di religione (Basilea), libro allora molto acclamato, e tradotto in varie lingue, ov'egli studia di ridurre a pochissimi idogmi essenziali del cristiane simo, nello scopo d'indurre le sêtte a vicendevole tolleranza. Aveva avuto per compagno Francesco Betti romano,che al mar   In Chap. 3, Caravale investigates the long publishing success of Acontius’s Satan’s Stratagems in seventeenth-century England. After reconstructing the popularity of Acontius among the Dutch Arminians in the 1610s and 1620s, the chapter focuses first on the religious debates that involved Catholics, Arminians and Latitudinarians in England and then on the heated controversies which characterized the English Civil War in the 1640s. Particular attention is given to debates at the Westminster Assembly of Divines, where the Presbyterian Francis Cheynell suggested forming a Committee to examine Acontius’s book, which had just been (partially) translated into English and published by John Goodwin. The condemnation of the book issued by Cheynell’s Committee did not stop Acontius’s supporters from circulating his book widely. Indeed, new editions of Satan’s Stratagems were published in the early 1650s. This chapter follows this exciting publishing story as a significant part of the cultural and intellectual history of Revolutionary England. What was hidden behind the intriguing title exalting Satan’s Stratagems? This chapter aims to answer this question in an attempt to understand the extraordinary success of Jacob Acontius’s masterpiece and contextualize its line of thinking. The reader will find a careful reconstruction of the author’s intellectual biography from his early career as a notary in Trent, Italy to his conversion to Lutheranism in the mid-sixteenth century, his escape from the peninsula and his sojourn in England as an engineer. Acontius soon became involved in religious controversies in England, which is when he wrote his major work, Satan’s Stratagems, arguing consistently for an extremely broad and tolerant vision of Christianity. The book is analyzed in detail and comparisons are made with his previous publications and other major contemporary books on similar topics. Satanæ Stratagemata libri octo, J. Acontio authore, accessit eruditissima epistola de ratione edendorum librorum ad Johannem Vuolfium Tigurinum eodem authore. Jacobi Acontii tridentini de Stratagematibus Satanæ in religionis negotio per superstitionem, errorem, hæresim, odium, calumniam, schisma, etc. libri octo. "Satan's Stratagems, or the Devil's Cabinet-Council discovered,... together with an epistle written by Mr. John Goodwin and Mr. Durie's letter concerning the same." London. J. Macock. Sold by J. Hancock. 4to. British Museum. George Thomason's copy, now in the British Museum, contains his correction of the date, and records its purchase.  The translation contains three dedications, one to the Parliament, one to Fairfax and Cromwell, and one to John Warner, lord mayor. The translator announces that if his work was well received he would complete it, but only four of the eight books were published. The stock was then sold apparently to W. Ley, who reissued it, with a new title, "Darkness Discovered; or, The Devil's Secret Stratagems laid", London. J. M.  4to. With a doubtfully authentic etching of the Italian author, ‘James Acontius, a Reverend Diuine.' This translation is an English version of Jacopo Aconcio's celebrated work, "Satanæ Stratagemata libri octo, J. Acontio authore, accessit eruditissima epistola de ratione edendorum librorum ad Johannem Vuolfium Tigurinum eodem authore. Basileæ, ap. P. Pernam. The Dictionary of National Biography says that this is the genuine first edition, of extreme rarity.  Brunet records an octavo edition of the same year, place, and publisher, but with a variant title: Jacobi Acontii tridentini de Stratagematibus Satanæ in religionis negotio per superstitionem, errorem, hæresim, odium, calumniam, schisma, etc. libri octo.  Basilea.P. Perna. 8vo. Reprinted, Basileæ, and 'curante Jac. Grassero,' ib.,, 8vo; ib., ap.Waldkirchium; Amsterdam, Oxon., G.Webb, 1631, sm. 8vo; London, 4to; Oxon., Amsterdam, Jo. Ravenstein, sm. 8vo; ib.,sm.8vo; Neomagi, A. ab. Hoogenhuyse, sm.8vo. The Dedication of the first edition, to Queen Elizabeth, begins,with grandiloquent flattery, Divæ Elisabethæ, etc. Les Ruzes de Satan receuillies et comprinses en huit liures. Basle. P. Perne. Also, Delft, Further, Bâle. 1647. sm. 8vo (German translation), and Amsterdam, 12mo (Dutch translation). The Satanæ Stratagemata is a book which had a considerable influence in the development of opinion. In all, I record twenty-one editions of it, five of them of English imprint, and all of them publications of about one century, the era of the Reformation. Aconcio's argument was the simplification of dogmatic theology. In general, he reduces the doctrines of Christianity to a strictly Scriptural basis. He argues that the numerous confessions of faith of different de nominations are simply the ruses of the Evil One, the 'Stratagems of Satan,' to tempt men from the truth. He protests against capital punishment for heresy, and favours toleration among all Christian sects. Such liberal theology is distasteful alike to Calvinists, who accused Aconzio of Arianism, and to Catholics, who index his essay. The Tridentine Index Libb. Prohibb. places "Satanæ Stratagemata" among anonymous books, but the Roman Index of 1877 describes the essay accurately. Acontius (Jacobus) -- Jacobi Acontii tridentini de stratagematibus Satanæ in religionis negotio per superstitionem, errorem, hæresim, odium, calumniam, schisma, etc., libri octo. Basileæ, P. Perna, Première édition d'un ouvrage singulier qui jadis a fait beaucoup de bruit parmi les théologiens protestants, mais qu'on ne lit plus guère aujourd'hui. Il doit se trouver dans ce volume un traité du même auteur, intituli: "De ratione edendorum librorum," qui a paru égalementent et qui aétéréim primé dans l'édition des "Stratagemata Satanis", donnée par Jacq. Grasser, à Basle, chez Conr.Waldhirche, in-8, sous un titre qui diffère de celui de la première édition. Les autres éditions de ce livre n'ont pas de valeur. La plus répandue parmi nous est celle d'Amsterd., Jo. Rawestein, pet.in-12; celles d'Oxford, in-12, ne le sont guère moins. LES RUSES de Satan, recueillies et comprinses en huit livres, p pet. in-4. Cette traduction a été reproduite à Delft, de l'impr. de B. Schinckel, in-8.; ce pendant les exemplaires n'en sont pas communs; celui del'édit., qui était rebé en mar:., n'a été vendu que 6 fr. chez La Valliere, mais il serait plus cher aujourd'hui. L'ouvrage est traduit en Namand, en allemand et aussi en anglais. L'auteur, nommé Jacobus Acontius sur le titre de ce livre, avait pour nom italien Giacomo Concio. M. Graesse cite à l'article Acontiues l'ouvrage suivant, qu'il dit très-rare. UNA essortazione al timor di Dio, con alcune rime italiane, nuov, messe in luce (da G. B. Castiglione). Londra (senz'anno), in-8. Aconce.De stratagematibus Satanæ in religionis negotio, per superstitionem, errorem, hæresim, odium, calumniam, schisma, etc. LibriVIII. auctore Jacobo Aconcio. Basileæ, in-8. et Amstelodami, in-8. Cet ouvrage impie a été dédié à Elisabeth, reine d'Angleterre. Il en aparu une traduction française à Basle.; à Delft, L'auteur s'est proposé, dans cet ouvrage, de réduire, à un très-petit nombre, les dogmes de la religion chrétienne, et d'établir une tolérance réciproque entre toutes les sectes qui divisent le christianisme: c'était le vrai moyen de déplaire à toutes. Un singolarissimo saggio in favore della tolleranza apparve per opera del giureconsulto trentino Giacomo Aconzio o Aconcio, saggio che fu posto erroneamente fra i libri di magia per il suo strano titolo, "De stratagematis Satane in religionis negotio, per superstitionem, errorem, hæresim, odium, calumniam, schisma, etc." (Basil.). Esso per contro è il primo libro, al dire dell'Hallam, in cui, secondo la tendenza sociniana, si sia cercato di ridurre gli articoli fondamentali della religione cristiana al più piccolo numero possibile, escludendo, per esempio, quello della trinità e tutti gli altri non razionali. E ciò allo scopo di trovare un punto di appoggio comune e di universale consenso per tutte quante le sette, in cui è scisso il cristianesimo, e quindi una base sicura per la tolleranza reciproca di tutte le credenze. L'Aconcio si leva vivissimamente non solamente contro la pena di morte, ma contro qualunque pena inflitta ai pretesi eretici, ed esce in questa esclamazione. Se il sacerdozio riesce a prendere il disopra, se gli si concede questo punto, che non appena un uomo avrà aperto la bocca il carnefice dovrà venire a troncare tutti i nodi col suo coltello, che cosa di venterà lo studio della Scrittura? Si penserà che essa non vale guari la pena che altri se ne occupi; e, se mi è permesso di dirlo, si daranno come verità i sogni dell'immaginazione. O tempi infelici! o infelice posterità, se noi abbandoniamo le armi con le quali soltanto possiamo vincere il nostro avversario!  (CANTÙ).  Il saggio ebbe subito gran voga e fu tradotto in francese, in inglese, in tedesco ed in olandese. Anzi esso godette nel secolo seguente in Olanda di una immensa popolarità ed autorità. Aconcio intanto viene citato fra molti altri scrittori del suo secolo d'autori della tolleranza nel libro di Mino Celso senese, sotto il cui nome si ritenne per un pezzo si celasse o Lelio Socino od altri, ma di cui invece consta che fuggì da Siena nel 1559, vagò tra i Grigioni tre anni, e quindi si ridusse a Basilea, ove cercò sempre di mettere concordia fra i dissidenti (1). L'opera si intitola: "In haereticis coercendis quatenus progredi liceat, Celsi Mini Senensis disputatio. Ubi nominatim eos ultimo supplicio afici non debere, aperte demonstratur, Cristling. Fu ristampata senza indicazione di luogo, con due lettere di Beza e Dudicio in senso opposto; e inoltre ad Amsterdam col titolo, "Henoticum Christianorum, seu Disputatio Mini Celsi, etc. Lemmata potissima recensa a D. 2. (Dom.Zwickero). È una lunga dissertazione accurata, ove tra l'altro si sostiene bastare abbondantemente contro gli eretici le ammende e l'esiglio. Loscritto di Gioacchino Cluten: De Haereticisan sint comburendi? Argent., contiene, oltre alla prefazione del Castellion alla sua Bibbia latina, una raccolta di passi di più scrittori in favore della tolleranza. Una difesa, piena di giustizia e di moderazione, della causa della tolleranza è pure quella del teologo sociniano tedesco Giovanni Crell, intitolata, "Vindiciae pro religionis libertate. Essa fu tradotta poi dal Le Cene in francese, e riveduta dal Naigeon, sotto il titolo, "De la tolérance dans la religion. Al dire dell'Hallam, l'Holbach l'avrebbe tradotta e ripubblicata. Il SENKENBERG nelle aggiunte alla Bibliotheca realis iuridica del Lipenius,Lips., ricorda una edizione, Non ho potuto vedere il saggio; ma tale indicazione andrebbe poco d'accordo con quanto altri riferiscono, cioè che Mino Celso citi già l'ACONZIO.Giacomo Aconzio. Aconzio. Keywords: satana, diavolo, implicatura di satana – stratagemmi -- negozio – religione, per superstizione, errore, eresia, odio, calunnia, scisma, ecc.  Refs.: Luigi Speranza, "Grice ed Aconzio," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Grice ed Acquisto – filosofia italiana – Luigi Speranza (Monreale). Filosofo italiano. Grice: “I like Acquisto; he was a priest, but you’d hardly notice it; but then he was jailed and few priests get that! They must be real bad boys!  But blame it on the mess that the Capri area found itself at that time – In any case, he reminds me of Manser, the Waynflete professor of metaphysics – Acquisot was very systematic –I would think his semiotics, strictly, is exposed in a chapter in the second part to his masterpiece, the ideologia – the first is psicologia, and the third is logica – in Ideologia, he is a Lockeian – words stand for ideas – and ‘linguaggio’ is the most effective ‘means of communication’ to transmit them – native or natural signs, like a ‘grido’ do communicate, but that’s it – ‘I’m in pain,’ but not ‘The cat sat on the mat.’’ – He is hardly original but then neither is Leibniz, or Locke or Kant, for that matter – His emphasis is on the atural versus artificial and pours scorns on those philosophers who tried to improve on the Latin language – created by the Umbrians, he claims --.which is artificial enough!” “raffaele d'acquisto – n. Monreale -- arcivescovo della Chiesa cattolica Incarichi ricopertiArcivescovo di Monreale   Nato a Monreale Ordinato presbitero Nominato arcivescovo23 dicembre 1858 da papa Pio IX Consacrato arcivescovo dal cardinale Antonio Maria Cagiano de Azevedo Deceduto a Palermo   Filosofo.  Fu uno dei principali esponenti della storia del pensiero filosofico in Sicilia nell'800, fautore di quella linea ontologista che vide, allora, moltissimi seguaci in Sicilia e che mise in collegamento la riflessione filosofica siciliana con quella presente nel resto d'Italia, in particolare con la dottrina ed il pensiero di Vincenzo Gioberti. Il suo pensiero risulta una sintesi fra la psicologia cartesiana ed il dinamismo di Leibniz a cui si aggiunge la tradizione teologica e filosofica cristiana che prende come punti di riferimento sant'Agostino e san Bonaventura da Bagnoregio.  Pubblicò numerose opere i cui contenuti spaziavano dal pensiero intorno a Dio al creazionismo, dall'onnicentrismo all'analisi dell'uomo come essere vitale che è insieme Potenza, Sapienza ed Amore.   Indice 1L'età giovanile 2L'età adulta, l'insegnamento universitario e le opere 3La carica di arcivescovo ed i moti insurrezionali Genealogia episcopaleL'età giovanile Benedetto D'acquisto nacque come Raffaele D'Acquisto a Monreale il 1º febbraio 1790 da Niccolò D'Acquisto di professione calzolaio e da Maria Di Meo. Sin da giovanissimo manifestò uno spiccato interesse verso lo studio e per questo motivo fu iscritto dai genitori alla scuola del seminario di Monreale. All'interno del seminario il sacerdote Benedetto Signorelli rimase favorevolmente colpito dalle grandi doti e dall'ingegno di Raffaele D'Acquisto e decise di fornirgli i mezzi economici necessari per continuare gli studi in quanto i genitori non potevano garantirgli l'accesso all'istruzione superiore. Fu in segno di riconoscenza nei confronti di questo sacerdote che Raffaele decise di cambiare il suo nome in Benedetto. Da quel momento in poi verrà, infatti, ricordato come Benedetto D'Acquisto.  Nel 1806 all'età di 16 anni entrò a far parte dell'Ordine dei Frati minori riformati a Palermo dove prima compì gli studi superiori in filosofia e teologia e poi divenne insegnante nello stesso convento. Successivamente otterrà anche la laurea in filosofia presso l'Università degli Studi di Palermo; insegnerà tale disciplina anche in corsi universitari presso il collegio San Rocco di Palermo sito in via Maqueda nel centro della città.  L'età adulta, l'insegnamento universitario e le opere. Concorse alla cattedra di filosofia all'Palermo, ma la scelta della commissione esaminatrice cadde su un altro candidato ed allora anda ad insegnare filosofia presso il seminario arcivescovile di Palermo. Vinse il concorso per la cattedra di etica e diritto naturale all'Palermo e venne eletto arcivescovo, vi dedica le sue energie intellettuali migliori che gli valsero anche la carica alla vicepresidenza dell'Accademia di scienze, lettere ed arti di Palermo. Questo è anche il periodo in cui pubblica le sue opere principali ed in cui il suo pensiero raggiunge una grande fama. Tra gli saggi più importanti di questo periodo si possono ricordare “Elementi di filosofia fondamentale”, il “Sistema della scienza universale”; la “Genesi e natura del diritto di proprietà” (Palermo --  lodata persino da Napoleone III); “Trattato delle idee o Ideologia” in cui porta a compimento la costruzione della sua filosofia teoretica e lo studio sulla “Necessità dell'autorità e della legge” in cui tratta tematiche inerenti al diritto. Pubblica una delle sue opere più importanti intitolata la “Cognizione della verità” che rappresenta una sintesi armonica fra la filosofia e la teologia. In quest'opera sottolinea gli stretti rapporti tra il Creatore e le sue creature pur nella loro sostanziale ed infinita distinzione e differenza e presenta un'antropologia filosofico-teologica che concepisce l'uomo sotto un triplice aspetto (puro, trascendentale, fenomenico), caduto per sua libera scelta nell'errore e nel male, ma che pure ha in sé la condizione necessaria ma non sufficiente per la sua elevazione verso la verità e verso il bene, condizione che soltanto grazie ad una rivelazione esterna diventa sufficiente ed attuabile. Questo saggio rappresenta il punto massimo del pensiero del filosofo monrealese.  Oltre a questi scritti D'Acquisto ci ha lasciato anche un trattato di logica dal titolo “Organo dello scibile umano”, pubblicato postumo a Palermo ed un manoscritto inedito e privo di titolo attualmente conservato presso la Biblioteca comunale di Palermo.  La carica di arcivescovo ed i moti insurrezionali Benedetto D'Acquisto fu nominato arcivescovo di Monreale da papa Pio IX. Appena entrato nell'arcidiocesi dovette confrontarsi con un periodo turbolento caratterizzato dalla rivolta di Monreale, dall'arrivo delle truppe garibaldine e dal conseguente tramonto del regime borbonico.  Con la costituzione del Regno d'Italia versò una cospicua somma di denaro per equipaggiare la neonata Guardia Civica. Questo gesto gli meritò l'attenzione e la gratitudine di re Vittorio Emanuele II che in occasione della sua visita al duomo di Monreale volle premiare Benedetto D'Acquisto con la commenda all'Ordine Mauriziano con la motivazione di essersi distinto egregiamente nel campo della filosofia. Tuttavia scoppiò a Palermo la Rivolta del sette e mezzo, una violenta insurrezione antigovernativa che in breve tempo si estese anche ai territori limitrofi in particolare Monreale e Misilmeri. In questo contesto Acquisto fu nominato presidente del Comitato insurrezionale di Monreale con l'obiettivo di mantenere l'ordine pubblico nella cittadina normanna, ma non poté fare molto, perché di lì a poco la situazione degenerò ed i rivoltosi misero a ferro e fuoco la provincia di Palermo, causando la morte di 21 carabinieri e 10 guardie di pubblica sicurezza.  Dopo sette giorni l'insurrezione fu domata dalle truppe governative ma Benedetto D'Acquisto fu arrestato. Il generale Raffaele Cadorna, inviato dal governo come regio commissario con il compito di reprimere la rivolta siciliana, nella sua relazione al Consiglio dei ministri accusò D'Acquisto di avere incoraggiato il moto rivoluzionario e lo qualificò come "notissimo e pericoloso reazionario". Fu rinchiuso in prigione prima a Monreale e poi in altre località per circa un mese insieme ad altri uomini illustri come Giuseppe de Spuches, famoso letterato, poeta ed archeologo.  Rimesso in libertà provvisoria, ngodette del provvedimento di amnistia e ritornò a Monreale per continuare la sua missione pastorale.  Gli ultimi anni Ritornato nel suo luogo natìo, si dedicò, dopo la diffusione del colera, all'assistenza di coloro che avevano contratto tale malattia. Tuttavia si ammalò anche lui e morì a Palermo. Fu tumulato nella chiesa di Santa Rosalia, una piccola parrocchia in campagna alla periferia di Monreale, ma dopo una solenne cerimonia le sue spoglie furono traslate nel duomo di Monreale.  Il suo pensiero filosofico, nell'ambito teoretico e delle relazioni logiche e dialettiche, si avvicina molto a quello platonico ed agostiniano con vistose influenze anche del pensiero di Fidanza. Nell'ambito dell'ontologia si rifà alla scuola metafisica di Monreale, il cui più importante esponente fu Miceli, di cui Acquisto rappresenta il naturale seguace e studioso. Il nucleo centrale della sua filosofia consiste nella sintesi fra psicologia ed ontologia.  Egli colloca nella coscienza il fondamento teoretico della conoscenza scientifica e divide le idee in tre categorie: l’idea sensibile che riguarda il mondo materiale, l’idea intellettuale concernenti il proprio essere e l’ideea necessaria relative a Dio. Questi tre tipi di idee co-esistono contemporaneamente nello spirito umano. A queste tre categorie ne aggiunge una quarta definita come idee "di rapporto" che permettono all'individuo di esprimere giudizi e formulare ragionamenti.  Nell'analisi del processo conoscitivo crea la sua nozione di onni-centrismo in cui riesce a trovare un equilibrio fra due poli apparentemente all'opposto: l'individualità e l'universalità.  Nella sua concezione onni-centrista riesce a far coesistere l'io individuale con l'io trascendentale sviluppando così un'unità reale fra intuizione sensibile ed intelletto.  Dall'unità tra intuizione ed intelletto si crea l'intuito intelligente che contiene in un nesso ontologico tutta l'umana vitalità e che mette in relazione l'individuo con l'intuito dell'azione creatrice dell'essere assoluto. Questa visione avvicina molto Acquisto a Rosmini e Gioberti. Il filosofo monrealese tratta anche delle relazioni fra morale e diritto. L'azione derivante dall'attività dello spirito può rimanere all'interno dello spirito stesso senza manifestarsi all'esterno e trasformandosi così in un atto giuridico. Questo atto giuridico costituirà la legge morale che conduce l'individuo a conformarsi alla natura, alla ragione ed a Dio. Tutto ciò rappresenta la sintesi perfetta fra l'essere naturale e l'essere spirituale.  Infine nella sua opera Corso di diritto naturale afferma che il diritto di proprietà è presente in ogni individuo che lo utilizza per raggiungere il suo scopo naturale.  Il diritto, dunque, nella vita dell'individuo tende essenzialmente alla conservazione, allo sviluppo e al perfezionamento della natura umana. Il diritto POSITIVO, invece, ha l'obiettivo di far prendere coscienza all'individuo delle proprie azioni e di creare una perfetta armonia fra il diritto stesso e la moralità. Ma soltanto l'onnipotenza di Dio puo portare alla coesistenza perfetta e senza contrasti fra fede e scienza.  Opere: “Elementi di filosofia fondamentale”; “Saggio sulla legge fondamentale del commercio fra l'anima ed il corpo e su di altre verità che vi hanno rapporto”; “Prolusione alle lezioni di diritto naturale a Palermo); “Discorso preliminare alle lezioni di diritto naturale ed etica”; “Memoria estemporanea sul diritto e dovere del proprio perfezionamento”; “Sistema della scienza universal”; “Corso di filosofia morale”; “Corso di diritto naturale e filosofia del diritto”; “Cognizione della verità”; “Trattato delle idee o Ideologia”; “Genesi e natura del diritto di proprietà”; “Necessità dell'autorità e della legge”; “Teologia dogmatica e razionale; Ragionamento sulla resurrezione dei corpi”; “Organo dello scibile umano”. Genealogia episcopale Cardinale Scipione Rebiba Cardinale Giulio Antonio Santori Cardinale Girolamo Bernerio, O.P. Arcivescovo Galeazzo Sanvitale Cardinale Ludovico Ludovisi Cardinale Luigi Caetani Cardinale Ulderico Carpegna Cardinale Paluzzo Paluzzi Altieri degli Albertoni Papa Benedetto XIII Papa Benedetto XIV Papa Clemente XIII Cardinale Giovanni Carlo Boschi Cardinale Bartolomeo Pacca Papa Gregorio XVI Cardinale Antonio Maria Cagiano de Azevedo Arcivescovo Benedetto D'Acquisto  V. Di Giovanni, D'Acquisto e la filosofia della creazione in Sicilia, Firenze V. Mangano, Benedetto D'Acquisto filosofo monrealese, Palermo. G. Millunzi, Storia del seminario arcivescovile di Monreale, Siena F. Lorico, Vita di Benedetto D'Acquisto, Palermo V. Mangano, La filosofia sociale di monsignor Benedetto D'Acquisto, Palermo G. M. Puglia, L'arresto di mons. Benedetto D'Acquisto arcivescovo di Monreale, Palermo; Dizionario dei siciliani illustri, Palermo Monreale Duomo di Monreale Rivolta del sette e mezzo Sant'Agostino San Bonaventura da Bagnoregio Antonio Rosmini  Benedetto D'Acquisto, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Benedetto D'Acquisto,. David M. Cheney, Benedetto D'Acquisto, in Catholic Hierarchy.  L'ontologismo rivoluzionario nella Logica di Benedetto D'Acquisto di Antonio Fundarò, dal sito dell'Istituto siciliano di studi politici ed economici ISSPE. Predecessore Arcivescovo di Monreale Successore Archbishop Pallium PioM. svg Pier Francesco Brunaccini, Giuseppe Maria Papardo del Pacco, Arcivescovi di Monreale Fino al 1500Caro Giovanni Boccamazza Pietro Gerra Ausias Despuig Juan de Borgia Llançol de Romaní XVI secoloJuan Castellar y de Borja Enrique de Cardona Alessandro Farnese Ludovico de Torres I Ludovico de Torres II XVII secolo Arcangelo Gualtieri Jerónimo Venero Leyva Cosimo de Torres Giovanni Torresiglia Francesco Peretti di Montalto Ludovico Alfonso de Los Cameros Vitaliano Visconti Giovanni Roano e Corrionero XVIII secolo Francesco del Giudice Juan Álvaro Cienfuegos Villazón Troiano Acquaviva d'Aragona Giacomo Bonanno Francesco Testa Francesco Ferdinando Sanseverino Filippo Lopez y Royo XIX secolo Mercurio Maria Teresi Domenico Benedetto Balsamo Pier Francesco Brunaccini Benedetto D'Acquisto Giuseppe Maria Papardo del Pacco Domenico Gaspare Lancia di Brolo XX secolo Antonio Augusto Intreccialagli Ernesto Eugenio Filippi Francesco Carpino Corrado Mingo Salvatore Cassisa Pio Vittorio Vigo XXI secolo Cataldo Naro Salvatore Di Cristina Michele Pennisi. DELLA NATURA DEL LINGUAGGIO, E DELLA SUA INFLUENZA NELLA FORMAZIONE DELLE IDEE. Per estensione della idea generale s'intende la sua capacità di applicarsi al numero degli individui; la comprensione è riposta nel pumero delleideesemplicidellequaliessa sicompone;perció quanto è maggiore lacomprensione tanto minore è l'estensione,ed all'inverso. Ritrovare l'origineprimitivadellinguaggio,dopo infinite vicissitudini ed incalcolabili trasformazioni, oltre di essere fuori del nostro assunto, sarebbe la cosa più difficile. I fenomeni quanto sono più ovvi e generali altrettanto la loro radice è sepolta nelle te nebre. Moltissime e svariate sono state le opinioni dei   filosofi intorno all'origine del linguaggio, e forse an cora la lite non è stata decisa. Varie lingue si sono parlate,dalla corruzione e dalle trasformazioni di que ste ne sono risorte delle altre,e da queste ancor del l'altre. Se cosa di certo potrà trovarsi, la speranza di tal trovamento si deve porre nel fatto, cioè nella co stituzione dell'uomo e nella natura dello stesso linguaggio. L'uomo è dotato di sensibilità e di facoltà attive e libere: égli prova sensazioni, è affetto da piacere e da dolore; in ciò è passivo: egli reagisce sopra le stesse sensazioni, ed a suo piacere analizza, ricompone, e n e forma de nuovi prodotti,ed in ciò è attivo e libero; egli ha dunque delle sensazioni e delle idee e forma giudizi; tutto ciò è effetto del lavoro interno dello spirito umano, e non v’interviene convenzione per conto alcuno. Dall'altra parte avvi nel linguaggio ciò che nell'uomo ha anche costituito la natura,evisitrovasempre lo stesso, propagato in tutle le lingue senza alcun can giamento o alterazione, e che dovrà per necessità tro varsi in tuttelelingue possibili.L'uomo èstato for nito degli organi vocali; egli mette per essi natural mente de' suoni;questi sono o semplici emissioni di fiato, tali sono i suoni detti vocali; altri sono delle intonazioni che dipendono dall'azione libera di alcuni organi vocali, tali sono icosi detti suoni consonanti, e questi stessi suoni non possono prescindere dai suoni vocali perchè o li precedono, o li seguono, non po tendosi dare esercizio di organi subordinati senza l'esercizio degli organi subordinanti. I suoni vocali sono la manifestazione de' sentimenti, e le intona zioni,oconsonantileespressionidelleidee,quelli ac cennano allapassività,questiall'attività;quellisono comuni all'uomo ed alle bestie, questi all'uomo sola mente,e mettono la gran differenza fra le une e l'al tro. Tutto ciò è ancor opera della natura; bisogna in fine riconoscere un legame ancor formato dalla stessa natura: questo legame è il rapporto fra lo spirito e gli organi corporali, e fra questi e gli oggetti;la con dizione, che stringe sempre più e muove questo le game, è il principio d'imitazione che eminentemente possiede l'uomo; egli per parlare ha un modello n a turale da imitare,cioè la natura e le idee. Tutto ciò adunque che si ricercava alla perfezione del linguag gio era stato dato dalla natura;che altro mancava alla esistenza di una lingua, se non la combinazione vo lontaria dei suoni vocali e delle intonazioni per for mare la pittura e l'espressionedelleidee.Ma questa pittura, questa espressione nel linguaggio primitivo [Gli organi che concorrono alla formazione de'suoni articolati sono la trachea o canna della gola per la quale passa l'aria, e ri passa ne pulmoni; la laringe che è un canale cilindrico corto alla tesla della trachea; la glotta che consiste in una piccola fissura fra due membrane circolari dove si forma il suono e la diversità ed intensilà de'tuoni; la cavità della bocca e delle narici in cui il suono vieneriflessoerisuona;questiorganisonodestinatiallapro duzione de' suoni vocali; la lingua colle suc vibrazioni,identi, le labbra coi loro movimenti sono gli stromenti delle intonazioni,le quali combinate con i suoni rocali danno in risullalo la voce ar licolala. dovean essere da una parte corrispondenti ai bisogni ed allo sviluppo dell'uomo, perciò i suoni articolati, prodotti dalle funzioni naturali degli organie dall'esercizio libero dei poteri interni moventi gli organi m e desimi,e che esprimeano isentimenti e leidee,do veano essere in poco numero, che sono le radieali di tutte le lingue, restando in arbitrio dell'uomo l'in fletterli e modificarli a sua volontà secondo che cre scevano i bisogni della vita, e s'estendevano i rap porti e cogli oggetti della natura e cogli altri uomini. Dall'altra parte, come il tutto era preparato alla per sezione dell'uomo, cioè l'intelligenza, e gli organi di rapporto col mondo; questi riceveano naturalmente l'azione degli oggetti esterni e produceano i senti menti, quella trasformava i sentimenti in idee per effettodeirapporti naturali onde erano connessi;egual mente erano preparati gli organi onde pingere ed espri mere coi suoni le idee; era quindi necessario, che la stessanatura,secondo gl'intimirapporti di questior gani, producesse i suoni in corrispondenza alle prime idee necessario risultato dell'esercizio delle facoltà. Ciò che ela ha realizzato per un procedimento naturale. È un fatto costantissimo nella natura dell'uomo cioè che egli per la sua suscettività prova sentimenti, per la sua intelligenza li trasforma in idee, e per la sua attività ne determina i movimenti muscolari nel corpo, iquali sonodirettisopral'oggettorappresentatodalle idee; cosi la stessa attività mette in funzione im u scoli degli organi vocali per significare agli altricon i suoni l'idea che gli è presente nello spirito, que  L'oggetto esterno ha una costituzione tutta propria, che forma la sua specifica natura; dalla specificità di questa natura origina il modo e la legge dalla sua azione sopra l'organo del corpo umano; quest'organo, per lo stimolo impressovi dall'azione esterna entra in movimento, il quale, sebbene fosse la continua zione dell'azione esterna, tuttavia è modificato e spe cificato dalla legge fisiologica risultante dalla costituzione dell'organo medesimo: questo movimento or ganico cosi specificato modifica realmente lo spirito, eviproduceprimamenteunsentimento,ilqualeper l'azione delle facoltà è seguito da una idea. Questa idea per l'attività intelligente diviene una norma della sua determinazione e direzione verso l'oggetto rap presentato dalla idea, onde prenderlo e mettersene in possesso. La stessa attività sotto la scorta della stessa idea, mette in esercizio i muscoli degli organi vocali per esprimere colla voce la idea, e per essa il suo oggetto. La volontà,nello eccitare i movimenti orga nici del corpo, può avere un doppio motivo prodotto da un diverso interesse,cioè o immediato, o mediato: è immediato quello per cui eccita il movimento nei muscoli,per esempio della mano,per prendere l'og getto rappresentato dalla idea;è mediato quello,per cui mette in azione gli organi vocali per significare o far nascere negli altri l'idea che è presente al suo spirito, col fine, sia di simpatizzare con essi,sia per determinare la loro volontà a proprio vantaggio, e per  sto procedimento si effettua nell'uomo sotto l'influenza delleleggifisiologiche e psicologiche.Eccone ilmodo:   avere da costoro o un'azione, o l'oggetto che desi dera, sia perchè non gli noceia. La causa dunque del doppio movimento è lastessa,cioè lamedesima idea, i motivi solamente differiscono, essendo uno il possesso dell'oggetto rappresentato dall'idea,e l'altro la premura di manifestarla aglialtri;onde lo stesso èilprocedimentodelmovimentodellamano,ede gli organi vocali eseguito sotto l'impero delle stesse leggi fisiologichee psicologiche, sebbene perun di verso riguardo. Perciò se naturale è la presa dell'og gettosignificatodalleidee,naturale è purelavoceche esteriormente la esprime:ciò ha bisogno di ulteriore sviluppo. Nella esterna espressione delle idee dello spirito, cioè nel linguaggio parlato, avvi un processo inverso aquellocolqualeegliacquistaleidee,ma collastessa legge di continuità. Il processo, pel quale nello spi rito si forma l'idea,ha il suo principio nella azione dell'oggetto esterno:questa azione è sempre conforme alla naturale costituzione dell'oggetto, alla sua rela tiva posizione e stato in rispetto agli organi esterni; quindi di tante diverse specie e di tante gradazioni nella stessa specie sono le azioni che gli oggetti esterni esercitano sopra gli organi. L'azione dell'oggetto, ar rivando all'apparecchioesternodell'organo,lo stimola e vi produce un movimento rispondente all'indole ed alla forza dell'azione dell'oggetto agente, ed allo stato di organizzazionedellostessoapparecchio:questomo vimento cosi modificato si comunica alla struttura ed al processo nervoso dello stesso organo, nel quale il   movimento riceve un'altra modificazione e qualificazione; il movimento cosi modificato e qualificato interessa e modifica lo spirito, e produce in esso il s e n timento,che per l'azione delle facoltà diviene idea, la quale nello spirito è il segno della esistenza del l'oggetto esterno e della sua qualità: l'idea devesi considerare come la interna parola, per la quale lo spirito sente, conosce ed è assicurato dalla esterna realtà e dei suoi modi per la modificazione reale che egli riceve dalla forza reale del di fuori attuata nel movimento, e dalla indole dello stesso movimento de terminata e dalla natura dell'azione dell'oggetto ester no,e dalla struttura dell'apparecchio esternoedella costituzione interna dell'organo e del cerebro. Dal l'oggetto esterno fino allo spirito avvi una continua zione di movimento, modifiealo però in diverse guise una connessa coll'altra fino all'ultima modificazione che riceve dall'organo centrale del cerebro. Il movimento nella sua essenza non è che la forza materiale attuata e manifestata sensibilmente per le due forme primitive del tempo e dello spazio;e per ciò esso è nell'azione dell'oggetto esterno, nelle at tuosità dell'apparecchio, e nella costituzione del tes suto nervoso del cerebro: riceve le diverse modifica zioni e specificazioni della natura dell'oggetto in pri ma, indi dalla organizzazione dell'apparecchio esterno dell'organo e della tessitura interna dei nervi ed in ultimodel sensoriocomune; queste modificazioni e specificazioni diverse del movimento si possono con siderare come tante articolazioni dello stesso movimento, che costituiscono, per cosi dire, la parola fi siologica cheintendelospirito,perlaqualeconosce e la realtà dell'oggetto esterno nella forza attuata nel movimento, che è l'elemento generico, e la qualità dello stesso oggetto nella modificazione e specificazione dello stesso movimento,che formano l'elemento spe cifico delle idee; questo è il processo naturale nella formazione delle idee. Volendo poi lo spirito manifestare al di fuori i suoi sentimenti e le sue idee, si serve dello stesso elemento generico cioè del movimento, che esso eccita agendo soprailcerebro: questomovimento eccitatonelce rebro, e da questo propagato ai tessuti nervosi riceve le peculiari modificazioni dall'esercizio delle facoltà dello spirito in conformità al sentimento ed alle idee che vuole egli esprimere, per le quali si mette in azione il sistema dei muscoli e muove gli organi vo cali, e gli apparecchi degli stessi organi, cioè il pulmone e la trachea per la emissione dell'aria; la glotta dove l'aria diviene sonora, che è ilmezzo di espres sione del sentimento; il palato, la lingua, i denti e le labbra, dalla funzione dei quali il suono riceve le diverse modificazioni, le quali formano le intonazioni o i suoni consonanti, che servono a manifestare le forme del sentimento cioè le idee e le loro qualità; quindi nell'aria emessa divenuta suono che in fondo è m o vimento, si ha l'elemento generico, il quale forma la base del linguaggio, e l'elemento specifico che consi stenelle modificazioni che ricevelostessosuono. Onde i suoni vocali sono le prime modificazioni del suono generale, indi le intonazioni o le articolazioni dello stesso suono,le quali si combinano in guise diversis sime con isuoni vocali,edaqueste combinazioniri sulta il linguaggio articolato; queste intonazioni sono sempre precedute o seguite da suoni vocali; poiché l'elemento specifico del linguaggio non può sussistere senza il generico che ne è la base, di cui le intona zioni sono modificazioni prodotte dall'esercizio delle facoltà.Isuoni, che esprimono le circostanze e le po sizioni necessarie dell'oggetto che si vuole significa re, formano le parti elementari che si trovano in ogni lingua delle parti del discorso:lecombinazioni poi dei suoni vocali con i consonanti per esprimere l'oggetto e le sue qualità dipendono dalle esterne circostanze in cui possono trovarsi gli uomini,come sonoilcli ma,ilgeneredi vita,lareligione,ed altro,lequali come influiscono sopra lo sviluppo della facoltà, cosi determinano lacombinazione de'suoni vocali con icon sonanti. Nella formazione delle idee vi sono due estremi,il primo è l'oggetto esterno allo spirito, ed il secondo è lo stesso spirito che dà esistenza alla idea. L'agente esterno nelle stesse circostanze sempre agisce allo stesso modo, é cosi gli organi essendo nello stesso stato, per cui l'idea è sempre la stessa; laddove nella espres sione esterna della stessa idea, cioè nel linguaggio, essendolospirito,ilprimo estremoche suscitailmo vimento, secondo le disposizioni da cui egliè affetto per la influenza delle esterne circostanze, muove gli organi vocali in modi diversi e combina in diverse  guise isuoni vocali con i consonanti, per cui lo stesso oggettop.e.l'astrodelgiornonelle diverse lingue ha diversi nomi,come sole,sol,soleil,yacos eco. Perchè poi potesse rendersi stabile la esterna m a nifestazione dei sentimenti e delle idee, che è fugi tiva nel linguaggio parlato, lo spirito si serve delle figure; ad alcune delle quali associa ed attacca in prima i suoni vocali, ad altre i consonanti, quali figure di vengono SEGNI dei suoni, come leparole lo sono delle idee, e le idee degli oggetti; e come il punto e le linee possono combinarsi di diverse maniere; quindi la diversità e la moltiplicità delle figure ossia delle letlere. Dunque l'elemento di base oggettivo alla for mazione delle idee, della parola, della scrittura è lo stesso, cioè il movimento: lo specifico, nella formazione della idea, è il modo di agire dell'oggetto esterno sull'organo e dell'organo sullo spirito; nella formazione della parola è pure la costituzione degli organi e l'articolazione dell'aria che si porta al senso degli altri; nella formazione della scrittura è ancora la costi tuzione degli organi e la loro azione sopra una m a teria esterna che viene specificata. Lo stesso spirito è il fine del processo fisico e fisiologico nell'acquisto della idea, ed il principio dello stesso processo nella espressione esterna della idea;ilegami hanno lastessa connessione e la medesima continuità si nell'uno che nell'altro processo:lo spirito nella espressione delle sue idee imita il modo naturale della loroacquisi zione. In tutti i segni adunque degli oggetti, cioè nelle idee,nelleparole,nellascrittura vi ha l'elemento generico e lo specifico: il generico in fondo è lo stesso, cioè il movimento, il quale non è che laesterna m a nifestazione della forza intrinseca a tutti i corpi, l'e lemento specifico è riposto nella trasformazione dello stesso movimento secondo la struttura degli organi che sono in funzione, e la natura dell'oggetto che ve la determina; perciò i movimenti possono diversificare di tanti modi, quante sono le esterne impressioni, il loro grado di forza, e la costituzione degli oggetti che le cagionano, la struttura e lo stato degli organi in ternied esterni. Nell'essereassicuratolo spirito della esistenza di un oggetto per mezzo della idea vi sono perciò due condizioni della diversità de' movimenti; una esteriore, che deriva dal modo di agire dell'og getto esterno allo spirito; e l'altra interna, che nasce dalla naturale struttura e dallo stato degli organi, i quali modificano e trasformano ilmovimento ricevuto dall'esterno. Cosi nel manifestare lo spirito le sue idee, é per esse la cognizione degli oggetti vi hanno due condi zioni, una è la reazione dello spirito, la quale è da esso determinata giusta la informazione che egli ha della idea; e l'altra è riposta nel movimento degli organi interni e nella funzione degli organi vocali che produconoilsuono,ilqualepuò modificarsiindi versissimi modi ed in tanti suoni articolati, quante sono le idee e le loro qualità, come è chiaro, della moltiplicità e delle parole, e delle diverse lingue. Il suono nel linguaggio risponde ed esprime il sentimento che è la base della idea, e l'articolazione del suono alle forme del sentimento cioè alle idee ed alle loro proprietà; come il sentimento nello spirito ri sponde al movimento organico che ve lo cagiona, e la idea all'indole peculiare dell'armonia del movimento sotto la quale è prodotto. Questi fatti sono connessi e legati l'uno all'altro in un processo di continuità tanto nella formazione della idea,quanto nella produ zione del linguaggio, ma in un ordine inverso ed al terno. Lo spirito legge nelle sue idee le esistenze degli o g getti col processo che comincia dalla loro azione, e per un processo inverso, che ha principio dall'azione dello stesso spirito, egli esterna e manifesta le stesse idee fino alla scrittura, alla pittura, alla scoltura ec. Uno è il movimento, ed indefinite le modificazioni chelodiversificano;unoèilsentimento ed indefinito il numero delle idee nelle quali si trasforma; uno ė il suono, ed indefinito il numero delle parole 'nelle quali è articolato;unico è ilpunto del flusso dal quale nasce la linea,ed indefinito il numero delle figure, e le combinazioni che di essi possono farsi, d'onde le diversità delle lettere nelle diverse lingue: tratti g e nerali hanno le idee, le parole, le figure. L'unione del pensiero col linguaggio, e di questo colla scrit tura ha ilcentro e la base nello spirito, il quale,per il movimento modificato delle leggi fisiche ed orga niche riceve leimpressioni nellasuaunità,eda que sta riversa il prodotto e lo propaga al di fuori per mezzo delle stesse leggi.Se le condizioni che formano l'elemento specificodellinguaggiofosserosemplificate e ridotte a principi non sarebbe difficile la formazione di una lingua universale. È bensi da osservare che la totalità dell'armonia della costituzione del corpo umano, ed in essa la spe cialità degli organi che la compongono, è modificata ed informata negli individui da talune cause esterne ed interne, le quali, agendo sopra di esso potente mente e perennemente vi determinano un tempera mento costante ilquale poi,come modifica di un modo speciale i sentimenti e le idee,cosi modifica diversa mente il movimento degli organi vocali nella produ zione delle intonazioni, le quali commiste ai suoni vocali producono una diversa articolazione, e quindi la diversità delle parole che significano presso diversi individui la stessa idea ed il medesimo oggetto.Qui si trova la ragione del linguaggio diverso presso le diverse nazioni,lequali,secondo lediverseposizioni e circostanze morali, politiche, fisiche e topografiche, parlano diverso linguaggio come hanno diversi costu mi.La nazione greca,che fucolta,civile e voluttuosa, parlava u n linguaggio ornato, polito e splendido; Roma, che parve nata a comandare,ebbe un linguag gio nobile, robusto, magnifico. Le lingue che ebbero nascita da questa madre portano tratti differenti non solo della loro madre, ma ancora fradi esse.La spa gnuola porta il carattere di gravità, di pomposità e di alterezza: la francese è vivace, spiritosa ed animata: l'italiana molle, gentile ed amena; l'inglese sobria, sentenziosa e concisa:quelle delsettentrione aspre,  Il linguaggio convenzionale è uno dei più potenti mezzi che contribuiscono al soddisfacimento di questi bisogni; e mentre il linguaggio si accresce per lo svi luppo delle facoltà, tende a sempre più perfezionare le facoltà. Ma i segni convenzionali, che compongono il linguaggio, non possono aversi senza i segni natu rali;poichènonpuòdarsifragliuomini convenzione alcuna senza che prima s'intendano, nè possono in tendersi senza i segni naturali, i quali sono a tutti comuni, perchè prodotti spontaneamente dalla loro n a tura,eperciòperquestituttigliuomini s'intendono; devono per tanto ammettersi prima i segni naturali per iquali eglipo s'intendono,ed intendendosi sopra gli stessi segni naturali fondano il linguaggio con venzionale, il quale è di quelli una estensione. I segni naturali sono le grida, ed i gesti, i qua li sono varii come lo sono le grida. Questi segni sono generalmente da tutti intesi, perchè esprimono in tutti le medesime idee ed i medesimi sentimenti. Che se al grido si unisce ilgesto, il segno di espres sione diviene più indicativo e sicuro: infatti questo linguaggio siparla nella vivacità dellepassioni,quando non ha luogo l'esercizio delle facoltà intellettive. Ora dure ed austere.La lingua e l'eco del costume, come il costume lo è della natura e carattere delle idee, le quali sono più o meno perfette, in maggiore o m i nor numero secondo il maggiore o minor grado di sviluppo e di perfezionamento delle facollà, ed il maggiore o minor numero dei bisogni che si suscitano nell'uomo. se il gesto si unisce al grido, ed il movimento de'm u scoli corporei al movimento de muscoli degli organi vocali per rendere più sicura ed espressa la manife stazione dell'interno sentimento e della idea,non su difficile mettere in movimento imuscoli degli organi della lingua de' denti e delle labbra per rendere più completo e più perfetto il suono per la manifestazione più esalta più commoda e più espressiva della idea, e surrogare alle gesla le intonazioni che suppliscono alla loro imperfezione. Si osservi infatti, quali sono le risorse della natura che ruole esprimere gli interni sentimenti e le idee. Mentre il bambino ha soli sentimenti e non ha for mato idee degli oggelli che lo modificano, egli si espri me per ilmezzo delle grida, iquali diversamente m o difica secondo la diversità de'sentimenti che egli prova; quando le sue facoltà cominciano a svilupparsi, ed a formare idee, egli comincia a dare una certa preci sione alle sue gesta, ed insieme una certa articola  suoni vocalileintonazioni, le sue idee, sebbene noi, con che intende esprimere non sono tura, e per e per opera della l'istinto della imitazione na uso delle parole comincia a far non l'intendiamo convenzionali; indi, perchè che ascolta, e che gesto diretto sopra, per il mezzo del attacca l'oggetto presente al suo allo stesso oggetto sguardo, mente: tutto ciò succede nel bambino. Questo natural procedimento naturale che si fa per gradi essere pergradi perfetti imperfettinel bambino, dovelte ed istantanei nell'uomo primiero, il qualenacque adulto, colpieno sviluppo delle sue facoltà: egli conobbe i suoi poteri naturali, co nobbe la natura degli oggetti che lo circondavano, ebbe nette e precise le sue idee, perciò fu facilissimo per la manifestazione delle sue idee accoppiare le in tonazionisempliciaisuoni vocaliancorasemplici,d'on de risultò la voce articolala anche semplice,al prof ferimento della quale uni anche il gesto, e fu compreso. Questa voce divenne il segno radicale che si attaccò alla idea,ilquale per l'abitudine divenne per-, manente.Formata questa lingua primitiva;divenne essa il tipo della formazione di tutte le altre. Quesla teoriaèconformeaciòchesi legge nel Genesi -- Formatis igitur, Dominus Deus, de humo conctis animantibus terrae, et universis volatilibus coeli, adduxiteaadAdam,utvideretquidvocaretea:omne enim quod vocavit Adam animae viventis, ipsum est nomen ejus. Appellavitque Adam nominibus suis cuncta animantia et universa volatilia coeli, et omnes bestias terrae. Cosi anch e impose il nome ad Eva, haec vocabitur virago, perchè,quoniam deviro sumpta est,e ciò perchè egli conobbe che ella era, os ex ossibus meis, et caro de carne med. La Divinità in fine dovea dare l'ultimo complemento a tutti gli elementi della sua opera, ed attualizzare tutti irapporti necessari fra questi elementi.Ilprimo uomo adunque, come naturalmente provò sentimenti, come per l'eserciziodellasua intelligenzalitrasformó in idee, come naturalmente per i primi mise fuori suoni yocali, per la seconda produsse le intonazioni; così dovette combinare le intonazioni colle vocali e produrre la parola articolata, imagine e pittura della idea, allo stesso modo come trasformò in idea il sen timento coll'esercizio delle facoltà della sua intelli genza. Questo lavoro delle facoltà non fu che istan taneo nell'uomo che nacque sviluppato,ed istantaneo su il linguaggio. Fu opera della Divinità l'esistenza, e la perfezione dell'uomo primiero mediante la per fezione e lo sviluppo delle sue facoltà, cosi fu opera della stessa Divinità l'esistenza del linguaggio m e diante l'esercizio degli organi vocali dati all'uomo per questo fine. Fuvvi dunque nella lingua primitiva la base posta dalla natura, e questa base devesi trovare in tutte le lingue; fuvvi l'opera e l'esercizio delle facoltà, e questo sirinviene in tutte lelingue;ilprimo elemento è in variabile,esitrasfonde da generazioneingenerazione senza mutamento o alterazione; il secondo è varia bile,e cangia coi tempi, secondo i climi, i bisogni, il genere di vita, ed il progresso dei lumi, ed esso è la causa della moltiplicità delle lingue e della loro varietà. Dietro tali considerazioni chiaramente si scorge, che il linguaggio articolato è il segno in fatto della grande differenza che distingue l'uomo da tutti gli altri viventi, a cui mancano le intonazioni, perchè manca l'esercizio libero delle facollà della intelligenza, e mancano in conseguenza la precisione e la perfe zione delle idee,e sono perciò limitati ai semplici suoni vocali, perchè limitati alle sole sensazioni. Nell'uomo   però in cui sonvi non solo le sensazioni, ma ancora interviene l'esercizio libero delle facoltà, sonyi e le vocali,e le intonazioni,e la combinazione,ed il con certo delle une e delle altre, per la espressione delle idee.Ibruti naturalmente,peresprimereleloro sen sazioni, si servono de'suoni vocali diversamente m o dificati ed espressi, e tale espressione è intesa dagli individui della stessa specie. Non potrebbe l'uomo anche fare lo stesso,essendovi in esso gli stessi a p parecchi e le stesse condizioni? certamente che si, ma l'uomo ha pure idee, ed h a il mezzo onde esprimerl, cioè le intonazioni; chi impedisce d'impiegarle e c o m binarle per la espressione delle idee come per le vo caliesprimeisentimenti.Era forsedifficileilframet tere le intonazioni necessarie alle vocali spontanee? come non era e non è difficile il combinare il sen timento coll'esercizio delle sue facoltà ed averne in risultato l'idea, cosi non gli fu difficile combinare e modificare le vocali necessarie all'espressione del sen timento colle intonazioni,che potevano contornarle e. precisarle alla esatta pittura della idea. Si forma un nuovooggetto,unamacchina,p.e.mancailnome, l'espressione; che sifa, si combinano due o più ter mini che esprimono gli elementi, e se ne forma un solo. Questo esempio èsensibile,ma infinitiesempi simili si osservano, sebbene poco considerati in tutte le lingue come nella greca, nella latina ed in tutte le altre; come dunque in tutte le lingue per l’unione delle voci radicalisiformarono le derivate;cosi nella lingua primitiva dalla unione delle vocali e delle intonazioni analoghe si formarono le radicali. Ma come avrebbero potuto trattenersi a memoria tante voci? come si trattengono a memoria ed ilvocabolo nuova mente composto, e le voci derivate. L'oggetto che è presenteallo spirito, gli elementi ed i loro nomi particolari, che si conservano nella memoria, sono il mezzo di ricordare il vocabolo nuovamente coniato; cosi le vocali che esprimonoi sentimenti dell'animoiquali sono presenti allo spirito, le intonazioni corrispon denti all'operazione delle facoltà,che ancor è presente allo spirito, sono il mezzo di ricordare la voce i m piegata alla espressione di quel sentimento precisato, di quella idea; si risovvenga che il linguaggio pri mitivo, per ipochissimi bisogni dell'uomo,per ipochi rapporti cogli altri uomini, non si componeva che delle sole radicali, e che le voci composte comincia rono ad accrescersi secondo crescevano e s'intreccia vano ibisogni ed irapporti. Quindiper dimenticare il suono, che era un prodotto naturale, bisognava di menticare l'idea;ciò che succede ad ogn'uomo oggi. giorno. S'aggiunga a ciò, che quanto èpiù forle l'impres sione, quanto è più vivo il sentimento, tanto è più energicà e pronunziata l'espressione ed il suono vo cale; quanto più marcata è l'azione dello spirito sul sentimento,tantoèpiùdecisa l'espressione delle in tonazioniedelleconsonanti,equantoèpiù interes sante e distinta l'idea, tanto più viva è l'espressione e la parola. Ciò è chiaro e ne ' selvaggi, ed in tutti coloro che sono nell'impegno di trasmettere colle parole le loro idee ardenti e staccale. La parola è la pit tura e l'immagine della idea; l'idea è l'immagine dell'oggelto e l'espressione dello spirito; l'oggetto e lo spirito sono l'espressione dell'assoluto; tanto è chiaro a sé lo spirito,e tanto luminoso allo spirito l'ogget to, quant'è il grado di luce che comunica l'assoluto allo spirito ed all'oggello: tanto è vivo il sentimento e distinta l'idea, quanto è più chiaro a sé lo spirito e luminoso allo spirito l'oggello; tanto forte è il suono vocale,ed energica l'intonazione, e precisa la parola quanto più vivo è il sentimento e distinta l'idea. I sentimenti dell'uomo primiero, che nacque adulto e non bambino, e tale dovea nascere, i prodotti del l'azione degli oggetti esterni, la percezione del pro prio spirito,ed indi le sue idee furono vivissimi, di stintissimi, ed al massimo grado di precisione, tanto per la novità,quanto pel grado di luce, che la Divinità diffuse e nello spirito dell'uomo di recente for mato e nella natura, che la prima volta espose al suo sguardo; perciò forte, marcalo,ed espressivo dovette essere,ma semplice, e concise il suolinguaggio,ciò si rende chiaro dalle indole della stessa lingua, la quale,a giudizio de'più dotti filologi,può conside rarsi come l'esemplare di tutte le altre: Schlegel in fatti la chiama la più sublime e la più energica, e per la sua vibrata concisione, e per le vive e frequenti aspirazioni delle voci, e lo stesso Audisio la dice di vina.Questa è la lingua ebraica, la quale fu parlata da Adamo e Gli elementi dunque del linguaggio, che formano il suo tipo originale,furono tutti dati all'uomo dalla natura, e l'uomo,che trovò in se preparati e pronti questi ele menti, non fece altro che metterli in opera, ed ebbe immediatamente il prodotto. Per questo tipo il lin guaggio è mezzo di comunicazione e centro di rap porti fra tutti gli uomini; perchè in tutti questo tipo è identico,tutti comunicano e fra loro s'intendono, restando sempre separati per l'arbitrario: infatti il tipo naturale delle lingue è insegnato es'impara dalla ragione, perchè in tutti gli uomini ella è uguale e la stessa:e perchè tale, è in tutti gli uomini centro di unità e condizione identica di comunicazione,per il mezzo degli apparecchi vocali, che sono uguali e gli stessi in tutti; laddove l'arbitrario s'apprende per l'uso e per abitudine, perchè introdotto dall'uso e dall'abitudine. Tuttociò come da lume,e ci rende facilelaco noscenza della natura del linguaggio,cosi riceverà m a g dai suoi discendenti, ed ebbe questo nome da Eber nella famiglia del quale si conservò dietro la confusione delle lingue. Ciò fa conoscere l'errore che si commelle nell'apprendimento delle lingue specialmente antiche,pel quale si daono tante svariate e moltiplici regole e precetti di che si compongono le grammatiche specialmente moderne, le quali, gravando la mente non fanno ap prendere con facilità e perfezione la lingua. In qualunque lingua devesi imparare colla ragione,cioè colle regole,ciò che è opera della natura e della ragione, vale a dire,ilfondamento della lingua: la costruzione perd,ilgenio,iterminidellalingua,leloro inflessioni, e la sua eleganza, essendo un prodotto dello sviluppo ed esercizie delle facoltà, debboosi imparare coll'uso.  Occupa nel linguaggio il primo luogo quella voce che esprime l'oggetto dell'idea che o è principio di azione o ne è il termine, o pure qualche proprietà del medesimo oggetto; questa voce è stata detta nome; che gior luce, e sarà confermato dall'analisi che ne fa remo. Il linguaggio è un fatto il più noto ed il più generale;analizzandoquestofattosiconoscerà distin tamente ciò che vi ha posto la natura, e ciò che vi è introdotto dalla volontàdegli uomini. Tuttigliuo mini sono dotati di sensi pei quali ricevono impres sioni dagli oggetti esterni e provano sensazioni; tutti hanno una intelligenza dotata di facoltà, perlequali e possono trasformare i sentimenti in idee, parago narle, e formare giudizi sopra le idee e gli oggetti corrispondenti,e preparare in un giudizio la maleria di un altro,e da ciò che ha conosciuto avanzarsi ad ulteriori conoscenze. Tutti possono cacciar fuori una massa d'ariadaipulmoni,emettereinazioneglialtri organi vocali che servono a modificarla, e come non per propria industria ha avuto l'uomo queste facoltà, cosi non perpropria arte ha conseguito di poter par lare. Infatti prima di formarsi o la grammatica, o la logica, ciascuna nazione ha ricevuto dalla natura l'uso della favella e gli elementi necessari e presso tutti si mili.Chiunquevuoleesprimerelesueidee,emani festare gl’interni giudizi in qualunque siasiluogo,in qualunque lempo,di tante parti naturalmente fa uso, quante sono necessarie ad esprimere le idee, ed i giu dizi con tutte le circostanze, le particolarità, e la gra dazione di colorito e di luce. se esprime l'oggetto si dice sostantivo, se indica la proprietà si chiama aggettivo, se però si considerano in astratto, e come separate dai loro soggetti, rien trano nella classe de'sostantivi come bianchezza, tar ghezza,solidità,ecc.È però da riflettere,chegliog getticheagiscono sopraisensi,edicuilospiritopuò formarsi idee sono di un numero incalcolabile;ildare ad ognuno di essi un nome sarebbe stata una impresa non che difficilissima, ma si bene impossibile;l'uomo ha superato tale difficoltà,con applicare lo stesso nome a tutti quegli oggetti che presentano le medesime pro prietà; si è dato il nome di albero a ciò che hanno d'identico quegli oggelti che sorgono da una radice, che son nutriti dalla terra, che hanno tronco, rami, foglie ecc., quindi tutti i nomi esprimono idee gene rali di classe, di genere, dispecie,tranne quei nomi che disegnano un solo individuo come Pietro, Paolo ecc., i quali si dicono nomi propri a differenza dei primi che si chiamano appellativi. Ma dicendosialbero, uomo, non si saprebbe di qual albero,di qual uomo volesse parlarsi;la natura ha suggerito un altro mezzo onde togliersi questa per plessità, qual'è ilpronome, il quale è una parola che rappresenta determinatamente il nome dell'oggetto, ed ha nello stesso tempo il vantaggio di escludere le frequenti ripetizioni dello stesso nome.Il pronome ė anch'esso generalissimo, potendosi applicare ad oggetti diversissimi e ad ognuno di essi secondo le circo stanze.Indica in prima la persona che parla io;la persona a cui si parla, tu; e quella di cui si parla  quello, questo, colui ecc.; attribuisce ancora la pro prietà alla cosa designata, come tuo, nostro; indica similmente le relazioni degli oggetti con altri di cui si:forma giudizio, come, il quale, le quali,e nota in fine la presenza, la vicinanza o la lontananza dell'oggetto designato, come questo, quello, colui. Vi sono altre circostanze ed altre relazioni che pos sono avere gli oggetti, e che il linguaggio con precisione esprime; quindi il nome tanto sostantivo c h e aggettivo ha numeri, generi, e casi. Il numero indica se l’oggetto è uno, o più di uno; il genere propriamente determina i sessi, o l'analogia che hanno coi sessi; i casi esprimono le diverse relazioni che un oggetto ha con altri, designate con certe particelle che si premettono ai nomi,tali sono isegnacasi come il, del, al ecc. come nelle lingue moderne;o da certe infles sioninellesillabefinalidello stessonome,comepater, patris, patriecc.,yxws,4x8,qxw ecc.,nellelingue an tiche per la più parte. Il nominativo indica o semplicemente la cosa che è, o pure che agisce. Il genitivo esprime il possessore; il dativo la persona o la cosa a cui si reca utile,danno,o qualunque altra attribuzione; l'accusativo la cosa su cui passa o cade l'azione; il vocativo mostra l'oggetto a cui si diri gono le parole; l'ablativo finalmente che si trova in molte lingue, serve ad esprimere tutte quelle altre p o sizioni che non si potevano commodamente espressare cogli altri casi. Un oggetto può solamente esistere,può essere in azione, e può ricevere in sè l'azione di un altro; era perciò necessaria una voce che esprimesse questi stali;questa voce è detta particolarmente verbo, il quale esprime ciò che è di più essenziale nel discorso, cioè o l'esistenza, o l'azione, o la passione coi progressi del tempo, e le circostanze delle cose, e contiene in sè un completo giudizio intorno alla natura delle cose medesime.Essoindicailtempo dell'esistenza,del l'azione e della passione e le sue gradazioni, cioè il presente,ilpassatoel'avvenire;ammette anche imodi, l'indicativo che esprime lacosa assolutamente; l'imperativo che chiede o comanda, il soggiuntivo che esprime il giudizio sotto la condizione o la subordinazione di qualche cosa a cui si riferisce. Esso finalmente ha numeri e persone. È prossimol'avverbiochesiuniscetantoainomi quanto ai verbi, e serve a determinare il particolar luogo,modo,e grado o ad una cosa,oall'esistenza, o all'azione, o alla passione; esso ha una vastissima estensione sul riguardo che può modificare le circo stanze della cosa o esistente o in azione,ed è una maniera abbreviata di espressione come hic qui vale in questo luogo ecc.  Il verbo in ogni lingua genera un'altra voce, che vien detto participio, in quanto serba la significazione del verbo da cui ha origine, ed acquista insieme la forma del nome,con che un giudizio viene incluso in un altro, e richiama con un sol segno alla m e moriaciòcheèstatodetto,osisuppone conosciuto, con designare nello stesso mentre la persona, il n u mero, l'azione ed il tempo,come amans amante, co luicheama,amava,oamando.  Sebbene sembra che queste parti avessero potuto bastare ad esprimere inostri pensieri, purnondimeno affinchè il linguaggio riuscisse a copiare perfettamente i nostri interni sentimenti con supplire all'espressione degli accidenti e de'siti lasciati e non indicati dalle parti antecedenti, si sono aggiunte altre voci di gran dissimo uso,che si dicono preposizioni come super so pra, circum intorno; alcune altre che servissero a se parare o a congiungere le idee secondo il bisogno, tali sono le congiuntive e le disgiuntive come et e, aut o,ecc. Altreinfine,chesebbenenon abbiano segnatamente attaccata alcuna idea,indicano però i movimenti del nostro animo, che le facoltà non hanno potuto, a causa della loro istantaneità analizzare e sviluppare in idee, e che possono considerarsi come l'espressioni naturali dell'uomo affetto di dolore o di piacere, o di qualunque altra forte e subitanea affezione heu, oimè ecc.Quindi colla frequente ricorrenza, e colla combinazione di otto voci riusciamo ad immettere nel l'animo altrui le nostre idee, i nostri giudizi, e le nostre affezioni con tutte le loro particolarità, cioè l'oggetto del nostropensiero,lesue proprietà,igradi delle medesime proprietà,tuttigliaggiunti, l'esisten za, l'azione, la passione con i loro rispetlivi tempi, modi e numero degli agenti o pazienti; gli ordini delle cose adiacenti nella natura, la loro successione nell'animo, il graduato calore degli affetti.Di queste parti alcune sono invariabili e sempre le stesse nella loro espressione; altre sono soggette a certi cambia    menti, tuttavia però nello stesso cambiamento serbano una certa costanza, la quale forma il principio e la natura della grammatica delle lingue. Tutte queste parti,che devono riguardarsi come il fondamento del linguaggio, si trovano in tutte le lingue si antiche che moderne;in esse si scorge l'o pera della natura sempre stabile e costante in mezzo alle incalcolabili varietà che subiscono le lingue;tutto ciò che cangia è opera dell'uomo, ciò che è costante èl'effettodiuna causa superiore,laqualecomeman tiene costantemente nell'uomo gli organi e le facoltà, conserva egualmente le parti essenziali del linguaggio. Non è però lo stesso nelle lingue ciò che è opera del l’uomo; questa viene modificata da varie circostanze, tali sono il genere di vita, i temperamenti diversi, la religione, il costume, la temperatura dell'aere, la qualità de' luoghi, le gradazioni di sviluppo e tante altre,che,come influiscono sopra la maniera di pen sare, influiscono nella maniera di esprimersi, da ciò ladiversitàdellelingue.Sidissepiùsopra cheisuoni vocali sono l'espressione della sensibilità,e le into nazioni,e i consonanti il prodotto delle facoltà dello spirito; la sensibilità ed i prodotti diessa sono quasi simili in tutti gli uomini, perchè in tutti esistono gli stessi sensietutti sono capaci di piacereedidolore; iprodotti però delle facoltà libere dello spirito variano esimodificano diversamenteintuttigliuomini;onde è che possono darsi alla stessa voce varie intonazioni, cioè possono i suoni vocali essere combinati con di verse e varie intonazioni, d'onde risulta la diversità delle voci articolate e la moltiplicità delle parole. Ma la stessa temperatura dell'aria, la medesima educa zione, la religione, lo stesso suolo, i medesimi co stumi come influiscono nell'esercizio e sviluppo delle facoltà,influiscono cosi nello stesso modo d'intonare, perciò la stessa lingua presso lo stesso popolo,ed in questo più o meno perfetta, più o meno elegante,più o meno estesa a seconda lo sviluppo e la collura degli individui dello stesso popolo,della medesima nazione. Oltrediqueste cagioni intrinseche,avvene un'altra estrinseca che produce la varietà delle lingue, vale a dire la mistione di altre lingue, e da questa mistione hanno origine altre lingue che sorgono nuove. Tale sappiamo l'origine di tutte quelle lingue, e di quei popoli fin dove si estende l'istruzione dataci dalla sto ria, e con particolarità di quelle a noi più vicine e le piùfamose,come lagreca,elalatina;tanto l'una che l'altraebbero origine frai pirati e masnadieri, e crebbero sotto ibarbari. i Fenici, i Frigi, i Macedoni, gli Illirici, i Galati, gli Sciti,e l'eventuale concorso degli errabondi, e degli esuli diedero origine alla greca nazione,e furono i primi legislatoridella lingua.Gli Umbri, i Galli, gli Etruschi, i Sabini, i Campani, i Sanniti diedero origine alla LOQUELA DEL LAZIO O LATINA, ognuno de' quali da parte sua,introducendoi propri termini,elapro pria maniera d'inflettere, concorse alla formazione di una nuova lingua non prima parlata, che fu il pro dotto di vari e diversi dialetti, quale indi,le vicende delle nazioni,ilprogresso nelle arti,nellescienze,e nella civilizzazione portarono a quello stato di perfe zione che tanto in esse ammiriamo.  L'opera dell'uomo non è mai stabile,come l'uomo stesso; ha egli la sua nascita, la puerizia, l'adolo scenza,lavirilità,la decrepitezza,efinalmente muore per rinascere la materia sua corporea sotto di altre forme; cosi è delle lingue: infatti dalla Greca nacquero altre lingue;e di sotto le rovine dell'impero e della lingua del Lazio sorsero l'italiana, la francese, e la spagnuola.Ma perquantigradivisipervenne?quante mutazioni,e quante vicissitudini non bisognarono su bire prima di arrivare al grado di perfezione in cui sonoalpresente?Variecauseviconcorseroesicom binarono; gli improvisi eventi degli affari politici, il sito, l'amenità de' luoghi, l'asprezza delle contrade, l'aspetto più o meno ridente di un altro cielo,la lem peratura diversa dell'aria, lalontananzaolavicinanza de'mari,delle selve,de'monti, la diversa indole degli uomini che si unirono, le forme diverse di governo e di religione, la coltura delle arti, e delle scienze, egualmente che i vari dialetti che si resero familiari per lafrequenza de'negozi diedero all'antico linguag gio forme affatto diverse. Cacciati gli Ismaeliti da tutta l'Europa,ove aveano per qualchetempofattodimora,restòl'articoloarabo, checominciòaprefiggersiainomi;quindinonsicu rarono le desinenze de'suoni finali, l'introduzione di questo articolo fu la cagione primaria del mutamento dellalingua liberaepittricedelLazio nellelinguem o derne servili. Abbandonando gli Arabi la Gallia m e ridionale, la Spagna, le coste di Salerno e della Italia meridionale, lasciarono tuttavia la desinenza de'versi   puerile,senon vogliam dire,sonante.Non possiam però negare che dobbiamo loro le brevissime note dei numeri, i calcoli algebrici, vari nomi di astronomia e stromenti di gnomonica, con alcune notizie di bo tanica e di medicina. Vari nomi di fioried erbe, in cogniti ai nostri, furono recati dall'oriente dai cro cigeri; intanto le arti e le scienze che 'mano mano siavanzavano,lenuove scoperlechesifacevano,ap portavano nuovi soccorsi e nuovi nomi alle lingue. Varie maniere di costruire addussero prre gli inglesi ed i francesi nell'italiano linguaggio,e varie pure di questoneintrodusseronelloro;cosisiaggiunse sem pre novità a novità, varie leggi di costruire, diverse maniere d'inflettere, originate in prima dalla negli genza della pronunzia, anche molto spesso tronca vansi non che le lettere, ma ben anco le intere sillabe: dal che ne avvenne che gli uomini domiciliati nello stesso suolo, degenti sotto lo stesso cielo,e sotto la stessa forma di governo cominciarono per effetto d'imitazione a adottare comunemente tal forma di pronunziare, che coll'andar del tempo divenneunuso, una legge. La natura ha sempre prodotto degli uomini di genio, i quali e per la finezza del giudizio, e per la vivacità della immaginazione si sollevarono sopra degli altri; ciò che dal volgo era enunciato di una maniera bassa e triviale, da quelli profferivasi con scelta, con dignità ed eleganza;furonoessiimitati perchè piace vano, e cosi discesero e si propagarono nel volgo le maniere più dignitose e più culte di espressioni,  gli ornamenti della lingua cominciarono a mostrarsi in tutto il loro splendore; si cercò d'imitare ipoeti, gli oratori, e si seguirono ne' loro vari stili. Questa fatica e questo diletto che prima s'ignorava in mezzo al fragore ed allo strepito delle armi, e fra gli in commodi de viaggi e delle emigrazioni, cominciò a seguirsi, a perfezionarsi dai filosofi nel libero ozio delle lettere, nel calmo silenzio della meditazione, nella tranquilla diligenza di scrivere. Cosi il linguaggio dapprima rozzo ed incolto per la tanta confluenza delle discordi locuzioni, cominciò a tingersi dello stesso colore,a vestirsi della stessa for ma,amostrarsiunasolalingua,chesottolalima degli uomini di genio e degli eruditi apparve finita e perfetta; ove isuoni sembravano aspri,furono con sultate le orecchie, si adottarono sillabe più scorre voli e sonanti; ciò che pareva meno adatto ad espri mere una cosa si corresse e si rese più preciso. Da ciò chiaro appare che ogni lingua ha le sue parti essenziali esprimenti le idee ed i giudizi del nostro spirito, cioè i suoni articolati secondo idiversi offici che ognuna,nella espressione de'nostri pensieri,deve adempiere, edinciòconsisteil fondamento della lin gua che è opera della natura. Avvi un modo parti colare di costruzione e di combinazione di queste parti, una diversità di suoni e d'inflessioni che costituisce la differenza delle lingue, ed il diverso loro genio, e ciò dipende dall'opera degli uomini e dalle circostanze nelle quali si trovano.Ha finalmente ciascuna lingua de celebri scrittori,de'grandi parlatori,che altri  Il primo carattere della lingua, cioè il fondamento, forma l'oggettodioccupazione della filosofia,laquale ricerca ciò che avvi di naturale nelle lingue; il se condo appartiene ai grammalici, che si occupano delle forme e della proprietà delle stesselingue; il terzo si tratta dai retori che ne considerano l'eleganza, lo stile e gli ornamenti. La prima svolge gli elementi naturali e sempre costanti del linguaggio,la loro unione relativa all'ordine, alla successione, ai tempi,ed alle circostanze delle idee e de' pensieri che si succedono nel nostro spirito, ed a questo riguardo illinguaggio è una pittura fedele delle nostre idee;questi elementi, che sogliono chiamarsi parti del discorso,si ritrovano identici in ogni lingua.La seconda riguarda la varia desinenza de' suoni, la loro inflessione, il modo di verso di costruire i medesimi suoni; questa varia se condo le diverse lingue, o piuttosto forma la varietà delle lingue, perchè essa è opera dell'uomo non mica della natura. La terza rintraccia l'ornamento delle lingue,l'uso dellefigure,ele maniere vezzose,eper cosi dire voluttuose delle medesime; essa è il risul tato della coltura e del genio. Egli è verocheunuomo,ilqualeèdotatodi organi sani che funzionano normalmente,e di un'anima ragionevole, può formarsi idee degli oggetti che agi scono sopraimedesimi organi, può imprimere lei dee nella memoria, può richiamarle quando l'esige il bi  proccurano e si studiano d'imitare; in essi trovasi e deve ricercarsilaproprietàdellalingua,perchèessila recarono allo stato di perfezione e di pulitezza.  sogno,può riflettereedastrarre,tuttaviasenzaillin guaggio la nostra condizione sarebbe troppo degradata; e quantunque i bisogni comuni ed i vantaggi della vita avvicinassero gli uomini e li mantenessero fra loro uniti, purnondimeno, senza la facoltà di manifestarci scambievolmente gli interni sentimenti e le idee, le società reslerebbero stazionarie'ó molto imperfette. Potrebbero i gesti in certo modo esserci utili,essendo l'espressione energica della natura:ma di qual aiuto sarebbero in distanza o nelle tenebre? come potreb bero indicare le cose passate ed a lungo intervallo da noi? in qual maniera esprimerebbero tante varie m o dificazioni si dell'animo nostro, quanto degli esseri fuori di noi con tutte le gradazioni delle varie loro tinte e colori, con quella esattezza e precisione con cui sono espressedaisuoni articolati?igestinon po trebbero mai indicare inostri interni sentimenti,iloro gradi d'intensità, e certe oscure e delicate affezioni di cui l'animo è affetto. È opera del linguaggio ar ticolato il delineare e pingere con esattezza,con precisione e nella sua totale adequatezza tutto ciò che sentiamo,che sperimentiamo e che vogliamo trasmet tere nell'altrui animo;esso analizza e scompone nelle sue parti i sentimenti, e dà ad ognuna di esse un segno preciso. Egli è vero che noi possiamo avere idee sensibili degl’oggetti esterni,elepossiamo trattenere a memoria senza l'uso de' segni, che anzi non può prodursi un segno prima di averne formato l'idea che deve attacarsi a questo segno.Ma tante idee sono di tal carattere, che tosto formate sparirebbero senza al taccarle al segno che le rende permanenti, e noi sa remmo nella dura fatica di sempre formarle di nuovo, talisono per la più parte le idee complesse necessarie, intellettuali, e tutte le nozioni astralte di virtù,vizio, giustizia, bellezza, deformità, differenza, uguaglianza. Senza l'uso delle parole le scienze non avrebbero p o tulo avere esistenza;poichè non avvi scienza pura mente empirica,cioè,che non abbia principi generali: l'individuale,essendo mutabile,non avendo necessità, non può esser base e fondamento di scienza; or le nozionigenerali,iprincipi necessari non avrebbero potuto aver permanenza nello spirito senza i segni; i segni li rendono stabili e pronti all'uso,ed isegni hanno servito d'occasione alla loro formazione, a tanti ritrovati,a tante ricerche:leparoleperchè?come? onde?da chi?quando?essenza,relazione,causa,at tributo sono fonti fecondi onde lo spirito possa met tersi in movimento e scoprire delle nuove vedute. Tutte le scienze sono nate,si sono accresciute ed hanno acquistato quel grado di estensioneediperfezione in cui le troviamo per aver ricercato ilperchè ed ilcome di un effetto, e tutti i passi e le idee, cominciando dal perchè e dal come sino all'ultimo risultato,sono state segnate dalle parole e permanentemente registrate nel linguaggio. Tante riflessioni potrebbero addursi intorno all'in fluenza del linguaggio sopra le idee ed il perfeziona mento delle nostre facoltà; ma non volendo esagerare nė deprimere i vantaggi dello stesso linguaggio ci li mitiamo a ciò che è della massima importanza. Quasi tutte le operazioni riflesse del nostro spirito sonocomplesseerisultanodavarielementi;ma questi elementi sono cosi connessi nella unità del sentimento, che sembranoessereunsoloesempliceelemento;vero è che l'altività dell'analisi,penetrando nel seno dello stesso sentimento,ne distingue glielementi confusi;ma questa distinzionenon sarebbe permanente,durevole, e lucida senza il linguaggio e le parole, ognuna delle quali disegna ciascuno degli elementi distinti,non che i rapporti che si scovrono fra essi elementi. Un sol fatto sembra la sensazione, il giudizio, il raziocinio: l'analisi li decompone, ed il linguaggio nola e dise gna ciascuna parte della decomposizione, e presenta successivamente e distintamente il tutto;onde volen dosi replicare e riconoscere l'operazione, basta repli care e ripetere le parole. Il linguaggio in generale deve considerarsi come il più possente aiuto della memoria, anzi esso costituisce una memoria artificiale. In vero, lo sviluppo e la coltura dell'uomo non con siste precisamente nella prontezza ed esaltezza del giu dicare, nella sola faciltà di ragionare,ma nella pron tezza di aver nuovamente le idee, le operazioni pas sate che possono servire al bisogno presente;per ri produrre con prontezza le idee è necessario che fos sero nette e scolpite, e tali si rendono per il linguag gio;illinguaggio,agevolando lamemoria,contribuisce moltissimo allo sviluppo ed alla coltura dell'uomo; infatti sono in ragione direttalacivilizzazionede'po poli, e la perfezione del linguaggio.  Le paroledelle quali si compone illinguaggio non  sono che suoni articolati: esse per questo riguardo sono oggetto proprio ad agire sopra il senso dell'u dito, e produrre modificazioni ed idee nello spirito, i suoni articolati considerati in se stessi nulla espri mono, sollanto producono sensazioni, modificano a loro modo lo spirito, e tante sono le modificazioni quanti sono i suoni articolati che agiscono sopra l'u dito: di tutte queste modificazioni e di queste idee lo spirito ne ha coscienza, e ne ha memoria.Noi sap piamo che l'esperienza diviene più tenace,più solida, più infallibile quando è comparata: infatti acquistiamo le idee precise ed esatte delle distanze, quando si c o m bina l'esperienza della vista con quella del tatto. Or ogni idea di qualunque natura ella sia, a qualunque classe essa appartenga è una esperienza, è un sentimento distinto che si deposita nella memoria;intanto questa idea,questa interna esperienza non riceve l’ul tima perfezione, l'ultima mano d'opera, siccome non si figge nella memoria onde possa a piacere richia marsi, che allorquando si combina colla esperienza dell'udito, colsuono articolato,quando all'idea, che abbiamo attualmente nello spirito e nella coscienza, si attacca la modificazione che produce il suono articolato; questo suono tanto per essere giudicato iden tico alla idea a cui si attacca, quanto per essere si multaneamente presente allo spirito, diviene rappre sentativo dell'idea,come l'idealodiviene del suono, e fa sì che l'idea sia compresa tulta e ristretta dentro la capacità e la periferia del suono,ed acquista m a g giore sensibilità per la sensibilità del suono in cui è   ristretta ed a cui è attaccata, e cosi riceve l'ultimo contornamento, l'ultima precisione e finitura. Cosi le parole cielo, mare, monte, temperanza,giustizia ecc. Questo vantaggio è comune a tutte le idee ed in questo influisce più potentemente il linguaggio sopra le idee. Ciò è chiaro non solo nelle idee sensibili, ma ancora nelle intellettuali, nelle necessarie, siano sem plici,siano complesse,e con particolarità nelle idee de' numeri, e nelle idee universali. Il numero non è che l'aggregato di molte unità omogenee; esso si forma col ripetere ed aggiungere l'unità a sè stessa. Noi non possiamo, sotto il m e desimo atto di conoscenza,abbracciare più di quattro ocinqueunità insieme;ma illimitede'numeri non si arresta al quattro o al cinque, esso è indefinito. Supponghiamo di avere coll'idea il termine dell'unità ed il segno dell'addizione, cioè uno e più, e proce dendo progressivamente uno più uno più uno più uno, ciascuna di queste addizioni, ed indi il numero che ne risulterebbe sarebbe cosi confuso che noi non po tremmo affallo determinarlo,e molto meno potremmo formarne idea onde poterla distinguere da un'altra; come infattipotremmo senza isegni avere l'idea 2000 e distinguerla da 1999? in questi numeri come ogni parola si affigge ad ogni passo della progressione,la parola ne determina e precisa il numero e l'idea, e per mezzo de' segni noi distinguiamo l'una dall'al tra, e le mettiamo in combinazione ed in rapporto, ene formiamo la scienza; queste scienze dunque, la necessità e l'utile che ne deriva si devono al linguaggio. Le idee generali nonhannoalcunmodellonellana tura a cui corrispondano, ma sono il prodotto della azione dello spirito sopra le idee individue. Noi non possiamo numerare tutti gli oggetti della natura, che sono o possono essere in rapporto con noi, perchè non possiamo tutti colle loro differenze e proprietà trattenerli nella memoria, e riprodurli distintamente quando vogliamo, per la stessa ragione non possiamo dare ad ognuno un nome proprio, essendo essi di un numero indefinito; questa impresa è superiore alle nostre forze. Ma lo spirito dell'uomo, che ha nella sua attivitàdellepotentirisorse,paragonandogliog getti, ed interponendo fra essi la identica sua cogni zione, conosce ciò che l'uno è all'altro, e questi ad un altro,ecosidiseguito,evedendolesomiglianzee le analogie da una parte, e le differenze e dissomi glianze dall'altra, per effetto della sua identica ve duta ed indivisa interposizione fra questi oggetti e le loro qualità, riunisce quanto in essi trova d'identico, l'astrae da ciò che li diversifica, ne forma una concezione di tal natura che tutti gli contiene e li rappresenta; tale concezione non è che una veduta reale dellospirito,ma chenonhaalcunarealtànellanatura; essa è più o meno estesa nellasua compreensione, d'on de nascono le idee generali di specie, generi, classi, ordini, famiglie. Or tali idee, non avendo originale nella natura, perchè semplici vedute dello spirito,senza un segno che le rappresenta svanirebbero, nè potreb bero aversipresenti al bisogno; laddove laparola rende permanente l'idea generale, tutta, per cosi dire, la chjude nel suo ambito, e rappresentando tutta l'idea generale, rappresenta tuttele idee identiche contratle in un solo gruppo, ed identificate in una sola idea, a questo riguardo ogni termine generale è l'espres sione concisa di un completo e perfelto metodo; poiché contiene ed esprime confronti, giudizi, astrazioni e maniere di generalizzare; e siccome il termine gene rale si considera come unico e semplice in sè stesso, cosi circoscrive e fissa i limiti della idea,eledà l'ul timo grado di precisione. Le parole adunque non solo associano le idee in dividuali in un modo indipendente dall'ordine di acquisizione, onde poterleconfaciltàrichiamare,ma sono ancora necessarie per fissare irapportide'con fronti, i termini de' giudizi, per dividere gli oggelti della natura e le loro proprietà, per astrarre, per g e neralizzare,e per rendere facile in fine le scienze tutte. Ogni idea dunque ha bisogno di una parola che la rappresenti; se è concreta per renderla indipendente dalla sua sensazione,e per tenere raccolte in una m a niera permanente tutte le idee semplici di cui si compone, e per richiamarla tosto alla memoria: se è astratta per tenere riunite in un solo gruppo le idee astratte di cui è composta, e formarne un modello distinto e durevole nella memoria. Il vantaggio però più generale e proprio del lin guaggio si è quello, per cui tutti gli uomini mettono in comunicazione tutteleloro idee,iloro sentimenti, ilorobisogni ed imutui soccorsi;poichè essendo co muni i segni che l'indicano, ne segue che colui che ascolta esegue le stesse operazioni interne di colui che parla,cioèeccitainsè,edunisce successivamente nel suo spirito quelle idee che si sono eccitate successi vamente in colui che parla,con questa sola differenza, che questi analizza il proprio pensiero ed attacca ad ogni elementoun termine,laddovequello sintesizza, riunendo cioè le idee con quell'ordine con cui ven gono indicatedalleparole.Questo vantaggioperònon ha egualmente in tuttiilsuo pieno effetto, perchè le parole presso tutti non hanno lo stesso grado di pro prietà, di precisione e di analogia, quindi variano i modi d'intendersi come variano i mezzi di comuni carsi. L'influenza del linguaggio su questo rapporto è di una utilità indefinita,poichè,colla comunicazione delle idee e de sentimenti, lega fra loro gli uomini, e consolidà le basi della umana società. Coltivato e diretto dall'arte, applicato ai vari oggetti si trasforma e veste vario stile;ma ciòmerita l'attenzionede're tori, e degli oratori.  Sebbene igeroglifici,lecifrealgebriche,isegni te legrafici, gli emblemi ed altri segni convenzionali pos sano rappresentare le nostre idee,tuttavia il sistema de' suoni articolati è da preferirsi a qualunque altro mezzo di espressione, tanto per la facilità, pel numero, quanto perché può adattarsi a tutti i luoghi, a tutti i tempi, ed a tutte le circostanze per la portentosa varietà dell'articolazione ed inflessione de' suoni. La scrittura èunaespressionedellinguaggiocome questo laèdelleidee;essaperciòèsempre relativaedinra gione diretta del linguaggio, talchè la perfezione di quella dipende dalla perfezione di questo; poiché,come laparolarappresental'idea,lascrillurarappresenta le parole. l'autore non ebbe più tempo a pubblicarla, sì che restò inedita con l'altro trattato teologico su'sacramenti. La dottrina intanto di que st'altra opera che titolava Organo dello scibile umano o Lo gica, scritta forse più che quindici anni fa, è sempre con forme al sistema dell'autore, e benchè sembri non uscir dalle vie segnate alla logica da Aristotile e dagli scolastici, trovi tuttavia nell'Introduzione quanto oggi si richiede da un trat tato di logica che non voglia la nota di logica formale, sic come si dice. La logica, vi è scritto, ha la sua derivazione dal greco “lógos” che in latino si traduce “verbum,” cioè parola, discorso, perchè essa nella sua essenza non è che l'atto vivo che prorompe dalla virtù ragionevole « dello spirito umano, che colla sua unità abbraccia e trascorre dalla potenza dalla quale emana all'obbietto che lo fa nascere; essa primamente distingue ed unisce questi « due termini, i quali possono considerarsi come due sil « labe fondamentali che connette l'atto logico, e risulta la parola feconda è che senza dividersi in sè si protende, abbraccia, e s'interpone fra tutti gli esseri che esistono e « che possono esistere; ne conosce i rapporti e le relazioni, li distingue e li riunisce in un sistema vastissimo e comprensivo. Questa forza logica ripassa sopra la fecondità a dell'atto creatore e conservatore della Causa prima, il quale senza scindersi produce la immensa varietà degli esseri e li coordina in un sistema portentoso; lo riflette e lo riverbera in sè, e per le relazioni che tra essi scorge li rias ime in unico sistema cosmico. Questa forza che si annunzia nella parola vivente ed operosa, con la penetrante Questo m s. porta il titolo: Elementi di Filosofia fondamentale. Organodelloscibileumano, o Logicadel P.Benedetto D'Acquisto da Monreale professore di Diritto Naturale e di Etica nella R. Università degli studj di Palermo.Consta di quaderni 6,tutto di mano dell'autore,e disposto per la stampa: oggi è presso i fratelli Matteo e Filippo L o rico di Monreale,nipoti del D'Acquisto,insieme all'altro ms. su’Sacramenti, di carte, e contenente 18 capitoli. sua luce scorta e dirige le operazioni delle altre facoltà dello spirito al trovamento del vero che è l'obbietto natu « rale della intelligenza dello spirito; e trovatolo dà il modo onde poterlo convenientemente mostrarlo agli altri ». Così il nostro filosofo dà a fondamento della logica formale una logica che oggi è detta reale, e all'arte logicale prepone la scienza del pensiero.Ilquale appunto secondo che congiunge diversi estremi piglia nell'esercizio logico diversi stati o gradi progressivi come son detti dall'autore. Chè, « il primo grado « si trova, ci dice il nostro, nella nascita dell'atto logico e « nel primo è radicale, nel quale esiste la potenza, l'oggetto e l'atto, il quale separando nel primo istante la potenza « dall'oggetto, congiunge indi l'uno all'altra ed emerge l'è, a prima parola logica che esprime la nascita dell'individuo « umano; il quale è ciò ch'egli è,ma sebbene è ciò che è, non dice però sono; allora dice sono, quando intende il SIGNIFICATO (SEGNATO) della parola vivente è: e ciò succede in virtù del « secondo atto, il quale comprende ed abbraccia il primo, che coll'interporsi distingue la potenza e l'oggetto contenuti « cell’atto,e dice sono;ciò che costituisce il secondo sviluppo « logico; il quale forma il piano generale in cui la potenza « conoscendo ed affermando sè stessa, conosce in sè ed af « ferma tutte le modificazioni ed in esse tutti gli oggetti m o « dificanti, pe'quali la potenza si manifesta in diverse guise. « L'atto logico adunque s'interpone tra le sostanze degli oggetti, le distingue e le congiunge, ed il risultato è l'idea generale dell' essere; terzosviluppo. L'atto logicos'interpone tra l’essere ed il suo modo, li distingue e li congiunge; ed il resultato è l'oggetto qualificato. L'atto logico s'interpone tra la qualità di un oggetto e quella di un altro, le di stingue e le congiunge, ed il resultato è l'idea specifica « della qualità. L'atto logico s'interpone tra l'azione di un essere e quella di un altro, le distingue e le congiunge, e il resultato è l'idea di causalità.Infine, l'atto logico s'interpone tra tutti questi resultati dello sviluppo graduato dello stesso atto logico,ed il resultato è l'idea comprensiva del sistema. L'alto logico adunque ha una capacità univer- « sale ed una forza comprensiva che si estende ed abbraccia tuttociò che è. L'atto di ogni facoltà si limita alla individualità; l'atto logico trapassa la individualità, e si eleva alla massima generalità. Ho voluto riferire, o Signori, questo lungo passo, si perchè è già di un'opera inedita, e sì perchè si abbia come il nostro appuntava nelle altissime ra gioni della scienza quella che comunemente si crede non e s sere che solo disciplina pratica, e spesso vanamente sottile, del discorso umano. È sempre, intanto, la stessa dottrina che va ripetuta per più capi, e che si ha spiegata poi in tutta la sua sintesi stupenda nel Sistema della Scienza Universale. Nella quale opera il D'Acquisto ha lasciato un bel monumento,come al trove ebbi a dire, della filosofia in Sicilia a metà del secolo XIX. Questo sistema della scienza universale ha il suo perno nell'atto infinito che sostiene come creativo, conserva tore e imperativo, l'universale ordine delle cose, in cui l'au tore trova che tutto è vita, tutto forza e movimento di un'immensa armonia ($ 544);tanto che esso sistema è lo specchio di tanta universale armonia, metafisica, fisica, m o rale,naturale esovrannaturale,laquale ha principio nelDio che concepisce, produce e accorda il concetto e il prodotto della creazione primaria e secondaria, e ha termine nel Dio della rivelazione, della grazia e della redenzione. Vero è che il nostro filosofo, fedele al suo metodo, non va sulle prime alle alte regioni della ontologia; ma è vero eziandio che non si chiude mai, secondo l'uso de'psicologi, negli stretti limiti della psicologia e della ideologia: e però il suo libro dà un vero sistema comprensivo delle universali ragioni della Ved. il nostro libretto Sullo stato attuale e su'bisogni degli studi filosofici in Sicilia, p. 52 e segg. Palermo. Saprà bene il lettore che il Contı, nella sua lettera al pro fessorNaville sulla filosofia contemporanea in Italia (ved.Appendice alla Storia della Filosof.), poneilD'Acquistotra’seguaci del metodo comprensivo scienza, esposto seccamente e quasi con metodo geometrico, ma sempre con la medesima profondità di speculazione e logico rigore. Che se poi quest'opera del nostro senta forse più che altra dell'odore delle dottrine del Miceli, basta ri cordare l'occasione sopra notata ond'essa nacque, perchè si abbia pronta spiegazione delle molte reminiscenze miceliane che occorrono frequenti al lettore. In quanto adunque a n a tura della nostra cognizione e a quel che in essa si accolga e scopra la riflessione, il sistema ripete le dottrine stesse e l'analisi minuta che si hanno nella Psicologia, nel Saggio sulla legge fondamentale del commercio tra l'anima e il corpo dell'uomo, e nella Ideologia; m a per quel che concerne la ontologia, qui si ha tutta la teorica compiutadella creazione e dell'ordinamento idealo e reale, metafisico, fisico e morale delle cose, con le « investigazioni altissime dell'umano sa pere »: tanto da chiamare appunto per questa ragione Si stema della Scienza Universale il sistema di cui l'autore non tirava, a suo dire, che brevi linee, ma cosiffatte « da som « ministrare dal punto supremo della sua altezza le vedute « anticipate indicanti i nessi essenziali e le vere tendenze « della scienza,che poi illavoro dello spirito umano potrebbe “condurre ad effetto.” L'ideale e il reale vanno iBenedetto D’Acquisto. D’Acquisto. Acquisto. Refs: Luigi Speranza, “Grice ed Acquisto” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.

 

Grice ed Acri – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catanzaro). Filosofo italiano. Grice: “Acri has explored quite a few topics – all in the good Lit. Hum. Oxon. tradition – and since he tutored at an even older varsity, kudos! He has explored ‘Amore’ and he expands on the Athenian dialettica – he in fact distinguishes between turbo and sereno – He left his notes on sereno as an unpublication, but a tutee cared to publish them ‘Unpublication’ – There is turbo, and there is turbato – as applied to ‘colloquenza’ qua conversational dyad,  Acri speaks of the colloquenza itself as being ‘turbata’ – he relishes on that – if there is no ardimento, and the Romans loved one – what’s the good to argue? The second phase of the dialettica is ‘serena’ – I find the distinction genial and in a way corresponds to my epagoge/diagoge distinction – the ‘turbo’ is dyadic – say A wants to influence B (turbo 1), B gets influenced and expresses it in a second conversational move (turbo 2). – Dialettica turbata – they reach the principle of conversational helpfulness and they arrive at the ‘sereno’ – dialettica serena’ – until the next turbo arises, that is1” - Grice: “I like Acri – he is a platonist, and he is explicitly against the positivists, whom he contrasts to the ‘filosofi sobri.’ His own theory of ideas is hardly platonic, but finds its base on Vico, which is nice – since, if an Italian does not understand Vico, no one will! –Acri explores the connection between ‘idea’ and ‘expression,’ and considers the ‘radice’ (root or stem) of expressions – he has commented extensively on ‘Cratilo.’ In any case, he is a sensualist, so at the root of it all is what he calls, after Aristotle (“De Interpretatione”) ‘il fantasma’  and the ‘imagine.’ Italian philosopher, author of an essay on Plato’s and Vico’s theory of ideas. “Abbozzo” essential Italian philosopher. Grice: “I love Acri’s rendition of the Cratilo into the vernacular!”  Filosofo. Opere: “Del sistema in genere”; “Prose;  “Abbozzo d'una teorica delle idee” (Palermo: Stab. tip. Lao, -- In memoria di Alfonso della Valle di Casanova); “Sulla natura della storia della filosofia” (Bologna: Nicola Zanichelli successore alli Mrsigli e Rocchi); “Cratilo – Menone – Apologia di Socrate, Critone -- Dizionario Biografico degli Italiani. IL CRATILO. Due solenni questioni intorno all'origine della lingua toglie ad esaminare Platone in questo dialogo; se cioè i vocaboli o i nomi abbiano in sè da natura lor propria ragione, o vera mente se retto sia il nome che da chiunque a cosa qualunque vien posto. Cratilo segue la prima sentenza: Ermogene la seconda. Platone ammette alcun che di vero in amendue, sebben apertamente nol dica e le confuti anzi tuttadue. Pertanto facendo capo dalla seconda, in per sona di Socrate, così contro di Ermogene la argomenta. Il nome parte è del discorso. Or potendosi tenere discorso vero e falso, chiaro è che sia possibil dir anco un nome vero ed un falso. Se dunque la sentenza di Ermogene stesse vera, che ogni nome da chiunque posto Due solenni questioni intorno all'origine della lingua toglie ad esaminare Platone in questo dialogo; se cioè i vocaboli o i nomi abbiano in sè da natura lor propria ragione, o vera mente se retto sia il nome che da chiunque a cosa qualunque vien posto. Cratilo segue la prima sentenza: Ermogene la seconda. Platone ammette alcun che di vero in amendue, sebben apertamente nol dica e le confuti anzi tuttadue. Pertanto facendo capo dalla seconda, in per sona di Socrate, così contro di Ermogene la argomenta. Il nome parte è del discorso. Or potendosi tenere discorso vero e falso, chiaro è che sia possibil dir anco un nome vero ed un falso. Se dunque la sentenza di Ermogene stesse vera, che ogni nome da chiunque posto a qualunque cosa sia retto, deriverebbe che tutti i nomi, sì veri che falsi, sarebbono del pari retti, e che la cosa medesima potrebbe aver nomi altrettanti, quanti individualmente dagli uomini le fossimo posti, e che tosto anzi gli avesse, che quel sopressa li pronunciassero. Inoltre, se le cose non han già sol esse una stabilità lor propria da natura (contro il dir di Protagora, esser elle a mo' ch'a noi paiono; giacchè se così fosse, non potrebb'esser uno più sapiente di un altro); ma stabilità pari ad esse han pure le azioni loro, per modo che, se unoe ha da tagliare una cosa, per ret tamente ciò fare, ei non la dee tagliare a ca priccio suo, ma nel modo che la natura della medesima richiede di tagliarla e che taglisi e con quello con che debbe tagliarsi; così pur segue che il nominare le cose, send'un'azione, noi non le dobbiamo nominare a libito nostro, ma nel modo che la lor natura richiede di nominarle e che nomininosi e con che deb bonsi nominare. Arroge, che se il giudicare poi di quello con che fassi una cosa, cioè del suo stromento, se sia ben fatto, non pertiene al l'artefice che lo fa, ma a colui che ne usa a modo (giacchè il giudicar di un pettine se sia ben fatto e acconcio al tessere, non per tiene a falegname, ma a tessitore, e il giu dicar di una nave, di una cetra, se sian ben ſatte, non pertiene ai loro fabbricatori, ma a piloto e a citarista); così pur segue, che il giudicare del nome di cosa qualunque, se sia ben fatto, cioè se la indichi ed insegni vera mente, non pertenga a chiunque nè a chi lo pone, ma a colui che a modo ne usa, al dia lettico; e per conseguenza rimane chiaro che il porlo non è opra di chiunque, ma di solo colui, che ragguardando al nome che in ispezie a ciascuna cosa da natura conviene, colle let tere e colle sillabe è in grado di render l'idea del medesimo. A questo discorso non sapendo Ermogene che rispondere, prega Socrate, che voglia spie gargli e fargli conoscere cotesta ragione, che il nome ha in sè da propria natura; e quindi soggiugnendogli ch'ei non ammettendo la sen tenza di Protagora, esser le cose come paiono a ciascuno, non poteva tener vero quello che in virtù di tal opinione Protagora affermava dei nomi, Socrate allora il conforta a ricorrere ad Omero, il quale distingue nelle cose stesse i nomi ad esse dati dagli Dei da quelli dati dagli uomini; avvegnachè gli Dei chiamino le cose con nomi, che ad esse rettamente convengono. E così movendosi a spiegare Socrate, secondo Omero, come ad Astianatte, Ettore, Oreste, Agamemnone, Atreo, Pelope e Tantalo bene stieno que nomi ch'hanno, dalla menzione di quest'ultimo naturalmente viene condotto a spiegar la ragione del nome pur del suo padre, cioè di Giove, e quindi sale a quello di Saturno e di Urano. Intanto rispetto ai nomi che sono posti agli uomini ed agli eroi, egli avverte di non doversene troppo fidare, perchè molti di essi, dicegli, sono stati presi da que de pro pri progenitori, o sono stati posti secondo gli auspici e voti per loro, come Eutichide, for tunato, Sosia, salvato, ecc., e per ciò dando l'addio a tali nomi, passa a spiegare quelli delle cose che sono sempre nello stesso modo ed immutabili, vale a dire ai nomi Dii, demoni, eroi, uomini, ed al nome corpo ed anima, dai quali l'uomo è composto. Ma desideroso Ermogene, nel modo che aveva inteso la ra gione del nome di Giove, di saper anche quella del nome degli altri Dei, Socrate, dopo aver formalmente protestato, che per riguardo agli Dei, affatto nulla di loro ei sapeva nè con quai nomi tra loro si chiamassero, nondimeno dice, che si accingeva a dar la spiegazione di tai nomi, secondo l'opinione ch'ei credeva avere avuto gli uomini nel porre i nomi ai medesimi; e così fra questi pel primo comincia da quello di Vesta.Il nome per esser retto, come si disse, bi sogna ch'esso abbia una certa natural conve nevolezza con quello ch'ei nomina; per dunque conoscere se un nome sia retto e stia bene colla cosa da esso nominata, bisogna pur conoscere l'essere della cosa medesima. Or intorno all'es tempi di Socrate e di Platone; l'una degli Eraclitiani, che credevano le cose esser sempre in moto; l'altra degli Eleatici, i quali opinavano, che fossero sempre in riposo. Secondo il proprio sistema ciascuno spiegava pure i nomi; onde Socrate, nel dar l'etimologia del nome Vesta, riferisce anche la sentenza di queste due scuole filosofiche dicendo, che gli Eleatici il nome di Vesta, Eatix (Hestia), perchè, second'essi, in antico in vece di obaix (ousia), essenza, en tezza, si diceva anche aix, esia, il derivavano da siva (einai), essere, mentre gli Eraclitiani, prendendolo per sinonimo di oaix, osia, il de rivavano da 33siv (othein), cacciare, spingere. Dopo questo passa ai nomi degli altri Dei, e quindi a quello del sole, della luna, delle stelle, della terra, dell'aria, delle stagioni e dell'anno; e quantunque la maggior parte di questi paia spiegarli secondo il sistema di Eraclito; tuttavia havvene alcuno, la cui spiegazione può anche convenire al sistema degli Eleatici; finchè ve nendo ai nomi della prudenza, scienza, sa pienza, giustizia, fortezza, virtù, vizio, ecc., e a quelli della tristezza, del diletto e a tanti altri, quasi tutti ei li spiega un po' lepidamente ed ironicamente, ridendosi degli Eraclitiani, col riferire tutto al loro modo, come se le cose fossero sempre in moto. Ma questo modo di dichiarar la ragione del nomi, come facevano gli Eraclitiani, semplice mente per mezzo di una superficiale e succes siva decomposizione del medesimi in altri nomi, non appagava intieramente Socrate. Impercioc chè, dice egli, se uno interroga intorno alle parole, da cui è composto un nome, e poi di nuovo intorno a quelle, da cui sono composte queste medesime, e così continua sempre oltre ad interrogare, è necessario venire alla fine ad una parola, la quale non si può più decom porre, e di cui nulla più sappia quegli che ha a rispondere. D'altra parte però se uno non sa dar la ragione dei primi nomi, non sa certo darla del derivati, che si debbono spiegare per mezzo del primi. Per la qual cosa a rintracciar la ragione del primi nomi ei si fa nel seguente modo. I nomi tutti, sì primi che derivati, deb bon dichiarare come veramente ciascuna cosa è. Ora se noi non avessimo nè voce nè lingua, e dovessimo indicare le cose, certo, come i muti, colle mani e col capo e con tutto l'altro del corpo noi tenteremmo di significarle, elevando le mani verso del cielo per indicar quel che è alto e leggiero, e per l'opposito abbassandole verso terra per indicar quel che è basso e grave. Dal che rettamente ei conchiude che il nome per esser retto, cioè per poter indicare come vera mente una cosa è, dee pur anco essere un'imi tazione, che la voce fa di quella cosa, ch'uno per mezzo della voce toglie ad imitare onde fi gura e il color delle cose, la musica il loro suono, così l'arte del nominare imita la loro es senza per mezzo di sillabe e lettere. E per di mostrare poi come per mezzo di sillabe e let tere uno possa ciò fare, oltre al distinguere egli le lettere in consonanti e vocali e semi vocali ecc., ei fa pur osservare in molte di esse un valor loro proprio, facendo avvertire nel l'elemento r il valore d'indicare il moto e ciò che è aspro e duro, nell'elemento l quello d'in dicar ciò ch'è liscio e molle, e così un proprio valore dà egli a molte altre lettere. E di que sta cognizione pertanto intorno al valor delle lettere, come anche della cognizione della na tura delle cose fornito lo istitutore dei nomi, afferma Socrate, che in quel modo, che i pit tori per render l'immagine che vogliono effi giare, or adoprano un colore or un altro ed or ne mescolano molti insieme, così egli nel far ciascun nome per ciascuna cosa, adope rando l'elemento or di una lettera or di un'al tra ed or mescolandone più insieme, secondo che l'immagine della cosa ch'ei voleva nominare pareva richiedere, abbia formato i primi nomi; e quindi da questi primi, sempre coll'imita zione per mezzo di sillabe e lettere, abbia pur composti tutti gli altri, e che questa sia la vera ragion de nomi. Secondo un tale ragionamento pare che Socrate, che è quanto dir Platone, propenda per la sentenza di Cratilo, il quale affermava, avere gli esseri in sè da natura la ragion del loro nome. Nondimeno non esser tutti i nomi retta mente posti conforme alla natura delle cose, che nominano, il dimostra poi nel seguente modo. Il nome, dice egli, è uno stromento, il qual si fa per indicar e insegnar le cose come veracemente sono. Or ogni stromento sup pone un artefice; e buono essendo quello che è fatto da un buon artefice, e cattivo quel che è fatto da un cattivo, ne segue che anche i nomi saranno altri bene, altri mal fatti. Cratilo pretende che tutti i nomi, come tali, cioè in quanto son nomi, son tutti ben fatti e retti; per modo che se uno dà a qualcuno il nome che non gli conviene, costui parrà sì ben averlo, ma esso appartiene propriamente a colui, la cui natura viene dichiarata dal nome. Dun que se tutti i nomi sono retti, ripiglia Socrate, non più anco si potrà dire il falso. No, non si può dire il falso, soggiugne Cratilo, perchè dire il falso è dir quel che non è; or quel che non è, non si può pensare nè dire. E che dunque, replica Socrate, fa colui che ti chia masse o ti salutasse col nome di Ermogene, mentre che tu sei Cratilo? costui non chiame rebbe, non saluterebbe te, ma un altro? di rebbe egli qualche cosa o direbbe nulla? Costui, risponde Cratilo, non farebbe altro, ch'un van un'altra prova. Il nome, dice egli, secondo quel che da noi si è ammesso, è una imitazione, la quale si fa per mezzo delle lettere e delle sillabe, come la pittura imita coi colori; e per ciò in quel modo che la pittura, se, nello effigiare le cose, vi adatta i convenienti colori, effettua bene e belle le loro immagini; così pure l'arte del nominare, se per mezzo delle lettere e delle sillabe imitando l'essenza delle cose, saprà ad esse adattare tutto quello che conviene e che loro è simile, bella ne effettuerà l'immagine; che se no, effettuerà sì bene un'immagine, ma non già bella, per conseguenza i nomi ch'essa fa, gli uni saranno ben fatti, e gli altri no. Cratilo a questo energicamente si oppone, di cendo che se in un nome si muta, si traspone, o si toglie o si aggiugne una lettera, non so lamente non iscriviam bene tal nome, ma non lo scriviamo affatto, anzi esso diventa subito un'altra cosa che il nome. Socrate concede ciò aver luogo ne numeri, a quali se uno toglie od aggiugne un'unità, subito diventan essi un altro numero da quel che eran prima, ma non già nelle qualità e nelle immagini delle cose; poichè se le immagini dovesser aver tutto quello che ha la cosa di cui son immagini, non sa rebbero più immagini, ma rimarrebbero la cosa stessa di cui elle appunto sono le immagini; e per ciò neanco i nomi debbono aver tutto quel che ha la cosa di cui sono nomi, nè es serle in tutto e per tutto simili; perchè, se così fosse, ne avverrebbe, che gli esseri sarebbero tutti doppi, e non si saprebbe più dire qual fosse proprio la cosa e qual solo il nome. Per la qual cosa a giudicare se un nome sia ben fatto, basta che in esso si trovi il tipo della cosa di cui esso è nome; e quantunque si debba concedere, che più retti e belli sian que nomi, che per la gran parte son composti di lettere convenienti; tuttavia non si può sostenere, che un nome, il quale non abbia le lettere simili alla cosa che nomina, non possa indicare la medesima. Ed in conferma di questo Socrate adduce il nome azXood:ng (sclerotes), durezza, nella cui composizione in vece di entrarvi ilr, il cui valore è appunto d'indicare ciò che è duro e aspro, v'entra anzi il X, l, che indica tutto il contrario, ciò che è molle e liscio; nondimeno quand'uno il pronuncia, tutti sanno quello ch'ei vuole dire e quello ch'egli ha in mente; così che fa pur d'uopo conchiudere, che le cose s'indicano non solo per mezzo dell'imi tazione delle medesime, che si fa colle lettere e colle sillabe, ma ancora per mezzo dell'uso e della convenzione. Che se dunque tutti i nomi non son posti convenientemente secondo la natura della cosa che nominano, ei si vede quanto senza fonda somi glianza tra essi e quelle, che chi conosce i nomi conosce anche le cose. Del resto, anche dato, continua Socrate, che per mezzo del nomi si possano conoscere le cose; tuttavia essendo essi, anche quelli che rettamente conforme la natura delle cose sono posti, solamente imma gini delle medesime, il miglior modo di cono scerle sarà investigarle per esse, una per l'altra a vicenda, se a sorte cognate sono, e ciasche duna per sè, e così venirle a contemplare nella verità loro, e non solo nelle loro immagini. Intanto come questa verità, questa cognizione si possa conseguire lasciando ad investigare un'altra volta, pel presente ei si contenta di far vedere, che qualcosa di stabile e fermo è nelle cose, e che oltre ad esservie un viso bello, ei v'ha poi un bello in sè, che non è passeggiero nè soggetto a movimento o flusso, ma immu tabile e sempre lo stesso; pel che rettamente conchiude dicendo, che non retta gli pareva la sentenza di Eraclito, il quale voleva che tutto fosse in centinuo flusso. Cratilo però alle ra gioni di lui non si acqueta, onde Socrate il prega, che più attentamente volesse ancora esaminare la cosa, e, quando gli venisse fatto di trovare la verità, si piacesse di fargliene partecipe.Così termina il dialogo, dal quale si vede, come già in principio di questo argomento dicevamo, che Socrate, e nella sua persona Pla tone, quantunque confuti la sentenza di Ermo gene e quella di Cratilo, nondimeno, ancorchè espressamente nol dica, molto di vero ei rico nosce in amendue, anzi le rettifica. In fatti, se concede a Ermogene esser lecito agli uomini porre nomi alle cose; non gli concede però ciò essere lecito a tutti, com'ei pretendeva, ed afº ferma non potersi porre a capriccio, se hanno ad essere ben posti, ma richiedersi un'arte, e per ciò esser opra di solo colui, che è in istato di rendere per mezzo del nome l'idea della cosa che vuol nominare; come dall'altra parte, se ammette con Cratilo avere i nomi da natura lor ragione, non conviene però che tutti sieno rettamente posti e stieno a capello; e se pur gli concede migliori essere i nomi che per mezzo di lettere e di sillabe esprimono la na tura delle cose che nominano; tuttavia non gli consente, che assolutamente non abbiansi a chiamare nomi quelli che non sono così for mati; giacchè l'esperienza ci dimostra esservi nomi, i quali, senza che abbiano alcuna lettera simile o corrispondente alla natura della cosa da lor nominata, per via del solo uso noi ve niamo posti in grado di ottimamente intenderli e riferirli a cose, che non hanno punto di si mile col medesimi. Chi è versato nella lettura delle opere di Pla tone facilmente si persuaderà, che questo divino oltre all'addurre le prove dell'immortalità dell'anima umana, scopo suo fu pur anco di rappresen tarci il quadro del filosofo morente; nel Gorgia, oltre lo scopo di far vedere i difetti dell'oratoria politica e sofistica, ebbe pur anco quello di far la difesa di se stesso, perchè non si fosse dato alla vita pubblica; noi dunque ora nel Cratilo dobbiamo pure investigare, se egli oltre al di mostrare, che la vera origine e ragion de nomi non si dee derivare nè dalla stessa natura sola nè dal solo arbitrio umano, abbia pur avuto intenzione di dimostrare ancora qualch'altra cosa pratica. Erano ai tempi di Platone intorno allo essere delle cose, come abbiam già detto, due sentenze, l'una degli Eraclitiani, i quai credevano ch'esse fossero in un continuo flusso o moto; e l'altra degli Eleatici, i quali opina vano, che fossero sempre in riposo. Ciascuna di queste due scuole (come tutti in ogni tempo, e come anche vediamo aver fatto il nostro Vico), per confermare le loro dottrine, i loro sistemi, ricorrevano all'etimologie delle parole, credendo in queste trovare la ragione di quelli. Ma, quantunque lo studio delle etimologie talora conduca alla cognizione delle cose, Platone tut tavia non vi aveva molta fede, sì perchè ne nomi stabiliti a sorte dall'uso e dalla consue tudine, di rado e forse quasi mai è possibile trovar la loro ragione e la verità di quello che nominano; sì perchè nemmanco sulla strada più vera e più sicura ci mettono quelli, che dall'in gegno e dalla potenza umana fur posti. Imper ciocchè chi pose i primi nomi alle cose, com'egli dice, li pose, quali credeva che queste fossero; or sei non aveva una retta opinione delle cose, e ad esse pose i nomi secondo l'opinione ch'ei n'aveva, noi rimarremo ingannati, se il se guiremo. Per far vedere adunque in che vano e fragile fondamento si appoggiassero le scuole filosofiche che così facevano, e metter in chiaro l'insufficienza di questo loro metodo per venire alla cognizione delle cose, Platone in questo dialogo facendo una lunga esposizione di etimologie, sebben acute ma strane, di cui molte forse raccolse da vari libri, mise in ridi colo l'abuso di tale studio, validamente dimo strando, che le cose debbonsi piuttosto cono scere per mezzo d'esse medesime, che per mezzo de' nomi, che sono soltanto una loro adombra zione; e così, come metodo a ciò acconcio ed efficace, colloca poi egli alla fine del dialogo, come opposta diametralmente alle opinioni degli l'iraclitiani, la sua dottrina delle idee. Che se a questo avessero badato certi eru diti (!), non mai avrebbero creduto che Platone (1) Proclo spezialmente fra gli antichi, e fra i moderni il Menagio, ad Diogen. Laert., pag. 149, e il Tiedemann, Argum. dialogg. Plat., e seguente. etimologie, che espone in questo dialogo. E nel vero, an corchè sia difficile il distinguere dappertutto quello ch'ei dice per gioco e quello che dice da senno; tuttavia al veder, che nello spiegar la ragione de nomi di Teti, di Poseidone (Nettuno), di Demetra (Cerere) e d'altri, ei lascia le etimologie prossime e ovvie, e in vece ne arreca delle rimote, anzi talvolta ne inventa delle strane e bizzarre, spezialmente quando adduce quella oltremodo ridicola di Dioniso (Bacco), niun certo può disconoscere ch'ei non ischerzi. Arroge, che il protestaregli, per bocca di Socrate, che quello che per riguardo all'eti mologia de nomi dichiarava, il diceva non come cosa sua propria e che sapesse, ma come cosa che teneva per ispirazione della musa di Euti frone, ognuno avrebbe dovuto accorgersi o al men sospettare, che Platone non poteva far buono tutto quello che per ispirazione della musa di questo sciocco e superstizioso fanatico ei diceva. Per la qual cosa lo Schleiermacher è di parere che Platone avesse in mira di bef farsi in questo dialogo di Antistene; ma, oltre che molte cose in esso occorrono che mala mente si potrebbero attribuire a questo filosofo Socratico, come rettamente osserva lo Stallbaum, ei si dee ancora avvertire che gli studi di An tistene erano piuttosto dialettici e retorici, che grammatici, e non si trova documento veruno, il qual ne accerti ch'ei si occupasse anche della ragione de nomi. E se poi non si può assolu tamente negare, che nelle sue giocose etimologie abbia pur egli avuto in mira Prodico, perchè questi nel dar la ragione della differenza de nomi, di necessità spesso doveva anche spie garne le etimologie; scopo suo però fu piut tosto di beffarsi di tutti quel filosofi, che, come abbiam detto, nelle etimologie de nomi cre devan trovar confermati i loro sistemi, e spe zialmente di mettere in canzone i sofisti, che in coteste arguzie ponevano molto studio e tanto si dilettavano, i quali appunto egli dileggia, quando ironicamente spiegando il loro nome, afferma che significa eroi. E in fatti che Protagora molto attendesse anche all'interpretazione degli scrit tori spezialmente poeti, abbiam già veduto nel dialogo del Protagora, intitolato dal suo nome, nel quale insieme con Prodico ed Ippia ed altri espone a Socrate il suo sentimento intorno ad un passo oscuro d una canzone di Simonide. E che, oltre all'aver lasciato precetti intorno alla retorica, come ci attesta Cicerone nel Bruto. scriptae fuerunt et paratae a Protagora rerum illustrium disputationes, quae nunc com munes appellantur loci, º molto pure si occu passe intorno alla proprietà dei nomi e della collocazione delle parole per rendere bella l'elo cuzione, lo aſſerma lo stesso Platone nel Fedro, ed Aristotele nclla Retorica, lib, ini, ori gine e ragione de nomi abbia pure disputato. Questo pare chiaramente indicato nel Cratilo, alla pag. 295 (Stef 391. C), anzi da quel, che ivi dice Ermogene, sembra che tal questione facesse parte del suo libro della Verità, reo A), 3sizg, come vedremo. I seguaci di cotesto sofista adunque sono quelli, contro dei quali è diretta spezialmente l'ironia e lo scherzo di que sto dialogo, poichè cotesti sono quelli, che, come il loro maestro Protagora, approvando la sentenza di Eraclito, il quale stabiliva, che tutte le cose perpetuamente scorressero, come un fiume, avevano ad essa accoppiata la loro, cioè che l'uomo fosse la misura di tutto e che le cose fossero come a lui appariscono; e per ciò credendo che tutto continuamente fluisse e che i nostri sensi a questa mutazione delle cose si accomodassero in guisa, che sempre esse fos sero come a loro apparivano, venivano pur a credere tali essere i nomi delle cose, quali dal senso e dall'intelligenza di ciascheduno venivano percepiti, cioè naturali. Da questo si vede che in cotesti Eraclitiani-Protagoristi non si deb bono comprendere, gli antichi e veri seguaci di Eraclito, ma solo i posteriori, che, material mente intendendo Eraclito, facevano una cattiva e falsa applicazione dei suoi principii. E se dum que di tutte le sette filosofiche, come sappiamo, era anticamente costume di riferire i loro sistemi ai sapienti più antichi e spezialmente ad Omero, non dee dunque far maraviglia, se i detti nuovi Eraclitiani-Protagoristi, chiamati appunto Omeriani da Platone nel Teeteto (pag. 179. E), tentassero pur di derivare le loro spie gazioni e interpretazioni de nomi da Omero ed anche da Esiodo, e se in questo dialogo conforti poi Socrate Ermogene, se non ammet teva la verità di Protagora, a ricorrere ad Omero, e se quindi egli pure, secondo questo poeta, gli faccia parecchie spiegazioni del nomi. Il Cratilo, interlocutore di questo dialogo e da cui anzi lo stesso dialogo s'intitola, Aristotele (Metaph. 1, 6), Apuleio (de dogm. Plat.2), e Diogene Laerzio (III, 6), narrano essere stato, prima di Socrate, maestro di Platone, e che gli abbia insegnato le opinioni e dottrine di Eraclito. L'Ast però (Platons Leben und Schri ſten, pag. 19) opina, che il Cratilo interlocu tore del presente dialogo sia diverso dal Cratilo che fu maestro di Platone, affermando non altro potersi raccogliere dallo stesso dialogo, se non che il Cratilo, ivi interlocutore, era se guace di Eraclito, e non già che sia stato mae stro di filosofia e che abbia avuto Platone per discepolo; e per ciò pretende non esser pro babile, se così fosse, che Platone l'avesse messo così in canzone senza riguardo veruno. Questa sentenza a noi non pare di gran momento; poichè hoi non abbiamo sufficienti argomenti Cratili, amendue filosofi e della scuola di Eraclito, onde poter dubitare qual di loro sia stato maestro di Platone. D'altra parte, Aristotele, Apuleio e Diogene Laerzio avevan certo notizia e del Cratilo maestro di Platone, e del Cratilo inter locutore di questo dialogo; non avendogli essi di stinti, rimane chiaro che sì quello che questo sono il medesimo Cratilo. Per riguardo poi a quello, ch'ei dice non esser probabile, che Platone abbia messo in canzone così ingratamente il suo maestro, noi facciamo osservare, che Pla tone non gli fa dire da Socrate alcuna cosa dura, anzi l'ironia, che regna nella esposizione delle etimologie, è pur così coperta, che può anche sfuggire a non mediocri ingegni. Volendo Platone render conto, perchè si fosse scostato dalle opinioni eraclitiane del suo primo mae stro Cratilo, ed avesse poi seguito quelle di Socrate, ei non poteva più giurare in verbo del suo primo maestro Cratilo, nè rappresen tarcelo superiore a Socrate nelle ricerche e di scussioni didattiche, ma sì bene rappresentar celo, come veramente egli era, e cercar, per quanto poteva, di farci conoscere il modo di verso dell'esposizione scientifica d'amendue, come anche intieramente il loro carattere. Per questo appunto Platone non si contenta già di far abbattere da Socrate in questo dialogo le opinioni, che Cratilo aveva intorno alla ragion de nomi, ma il fa udire ancora una lunga ſi lastrocca di spinose etimologie, che Socrate espone ad Ermogene, la quale se par essere un dileggio verso coloro a cui viene fatta, non è però fuor di proposito, perchè Cratilo era così dato alle dottrine di Eraclito, che tutto contento ed incantato beccava qualunque cosa gli fosse detta in confermazione di quelle, e tanta era la sua ostinatezza in quel che soste neva, che dicendogli Socrate alla fine del dia logo migliore essere il metodo di conoscere le cose per mezzo di esse stesse nella verità loro, che solamente per mezzo delle loro immagini, cioè per mezzo dei loro nomi, a tal patente ragione ei non si arrende ancora. L'altro interlocutore del dialogo, anzi il primo che entra in discorso con Socrate, è Ermogene, figliuolo d'Ipponico e fratello di Callia. Anche questo afferma Diogene Laerzio (nel luogo ci tato) essere stato maestro di Platone nelle dot trine della scuola di Elea. Ma questa asser zione viene rigettata dall'Ast (nell'opera citata, pag. 2o), e dal Groen Van Prinsterer (Pro sopographia Platonica, pag. 225), il qual ul timo crede, e con lui concorda lo Stallbaum, che il testo di Diogene Laerzio sia stato cor rotto da un ignorante, il quale abbia intruso il nome di Ermogene dopo quello di Cratilo, nell'opinione, che siccome dei due rappresen Platone, così il fosse anche stato quello dell'Eleatica, Ermogene. A questo aggiungasi ancora, che Aristotele ed Apuleio, i quali affermano essere stato Cratilo istitutor di Platone, ciò non di cono più di Ermogene. Altro è che questi fosse seguace delle dottrine degli Eleatici, altro è che in esse abbia pure istruito Platone; giacchè trattandosi di un fatto, sì per istabilire la sua verità, come per abbatterla, è del tutto neces saria una prova positiva, la quale, quando manca, è nullo tutto ciò, che pro o contrada qualunque si dice. Per la qual cosa, se l'unica e dubbia autorità di Diogene Laerzio non si dee tenere da tanto per farci credere vero tal fatto, neanco per negarlo pare a noi esser suf ficiente la prova negativa dello Stallbaum e del Groen Van Prinsterer, i quai dicono, il poco ingegno e la poca dottrina di Ermogene essere un argomento bastante a far sì, che niuno il possa creder essere stato maestro di Platone. Imperciocchè come veramente stesse di dottrina Ermogene, non è poi cosa facile a dichiarare, stante che il merito scientifico degl'interlocu tori, che Platone mette ne suoi dialoghi in iscena, non si dee giudicare dal grado, in cui egli ce li rappresenta e ce li fa parlare; giac chè quando si tratta di coloro ch'ei vuol con futare, ei fa da loro anche dire cose strane ed assurde, le quali essi mai non sognarono, ma ch'egli però dalle loro dottrine deduce, per sempre far maggiormente spiccare il contrasto della verità, ch'ei difende. D'altra parte poi, se si dovesse giudicare da questo dialogo, pare che per niuna parte Ermogene la ceda a Cra tilo. E nel vero, per non dire che la discus sione, fatta in principio tra Ermogene e So crate, è sottile anzi che no, e suppone in Ermogene un non mediocre ingegno, bisogna avvertire che la lunga esposizione delle etimo logie secondo il sistema di Eraclito, è diretta a mettere in canzone non altri, che coloro che tal sistema seguivano; e per ciò pare anzi che d'in gegno un po' tardo ben si potrebbe tacciare Cratilo, che non mai in udirle di tal corbelleria s'accorga, ma non Ermogene, il quale, udendole, scorgendo per mezzo di esse beffarsi Socrate dei seguaci delle dottrine di Eraclito, veniva sempre più confermato in quelle contrarie degli Eleatici, ch'ei sosteneva. Del resto ch'Ermogene non pigliasse tutte per vere le etimologie di Socrate, non solo si vede da quello, che in udirle non mai egli fa alcun segno d'ammira zione o di contentezza, come se fosse giunto alla cognizione di qualcosa grande e nuova, ma nemmanco di piena approvazione; giacchè, appena che ha udito l'etimologia di un nome, senza più, quasi sempre passa subito a inter rogar Socrate di quella di un altro, e se talor mostra d'averne per buona alcuna, la sua con a Socrate, Pare che un po' ci tocchi o ci cogli ecc., daivet, xtvòvvsústg o doxsig rt Xéyetv. Ma, che ancora? Che Ermogene più per curiosità e diletto che per altro, se ne stesse ad ascoltar l'espo sizione delle etimologie di Socrate, argomento certo n'è, ch'ei pure celia collo stesso Socrate, come (per non citar altri luoghi) quando udita l'etimologia del nome ivtavróg, anno, ironica mente gli dice, che aveva già fatto molti passi nella sapienza, e spezialmente quando Socrate, nello spiegare il vocabolo 3) aſºspdv (blaberon), nocevole, dicendogli che propriamente si do vrebbe chiamare 3ov) arrrepoijv, boulapteroun, ei gli soggiugne che all'udirlo pronunziar così bel nome, gli pareva veramente che zufolasse il preludio dell'aria di Minerva. Il timore e la superstizione, che dà a dive dere Socrate in questo dialogo, nel protestare che per riguardo agli Dei e ai loro nomi, ei punto non ne sapeva, ma che solo diceva quello che ebbero in opinione gli uomini in porre loro i nomi, indicano manifestamente, che l'Euti frone, per ispirazione della cui musa, ei dice tenere le spiegazioni, che dà dei nomi, è quello, da cui è pure intitolato un dialogo di Platone. Così appunto opinano l'Ast e lo Stallbaum. Quest'uomo è il tipo della leggerezza e della superstizione; ei si vantava di saper meglio che alcun altro le cose divine, e tanto era il suo entusiasmo, come dice egli stesso (!), quando di esse parlava e mandava fuori i suoi oracoli, che eccitava il riso e pareva maniaco. Verisimil mente dunque nell'interpretare la mitologia degli antichi poeti e spezialmente di Omero, e nel cercar la ragion de nomi degli Dei e nel darne la spiegazione, vi poneva molto studio e vi met teva pur lo stesso entusiasmo e furore, come nel mandar fuori gli oracoli. Forse sarà anche stato della scuola di Eraclito. Onde piacevole e grazioso pare lo scherzo di Platone, in far per bocca di Socrate dar l'etimologia de nomi a Cratilo, il qual non era men entusiasta e maniaco in beccar ciò, che parevagli confer mare le sue dottrine eraclitiane (giacchè, quanto a Ermogene, egli stava, come abbiam veduto, a udirle più per curiosità e diletto, che per altro); mentre così facendo Platone, a chi era di perspicace ingegno dava, per mezzo dell'ironia, a divedere, che a lui non andava a grado, anzi disapprovava il poco ragionevol modo degli Eraclitiani, nello spiegare i nomi e nel pretendere di trovare quasi in ciascun verso di Omero qualche cosa di oscuro e mi sterioso, togliendovi quel suo proprio colore, semplice e naturale. In qual tempo sia stato composto questo dia logo da Platone, e qual loco gli si debba as ri mane ancora a vedere. Lo Schleiermacher il pone dopo il Teeteto, il Menone e l'Eutidemo, e pretende che debba servire di compimento a quel primo; ma ognun vede che l'argomento della scienza, che trattasi nel Teeteto, non viene ampliato nè discusso nel Cratilo; anzi tutto il contrario, quel che affatto alla fine del Cra tilo è appena indicato, viene poi diffusamente discusso nel Teeteto; chiaro dunque egli è, che questo il dee seguire e non precedere. L'Ast il colloca non solo dopo il Teeteto, ma anche dopo il Sofista, il Politico e il Parmenide; anzi crede che il Cratilo faccia parte ed appartenga ad una trilogia o tetralogia, che non fu da Platone compiuta; e per prova ne adduce le prime parole del dialogo: Brami tu dunque che in cotesta questione anche qui Socrate c'entri' le quali ei dice essere del tutto nude, secche e immotivate. Inoltre che quest'opera non sia un lavoro compiuto, seguita egli, si vede da quello, che nell'ultima sua parte i passaggi da una cosa all'altra sono scuciti e duri, e molto, che non ista in immediata relazione con quel che precede, vien posto senza alcuno appa recchio e introduzione, mentre le ricerche, che si connettono coll'argomento principale e che eccitano un grande interesse, vengono al l'improvviso abbandonate. Ma checchè ne voglia dire l'Ast, quantunque le prime parole del dialogo indichino a precedente discussione tra Er mogene e Cratilo, tuttavia di questa trilogia o tetralogia incompiuta, ch'ei pretende, non s'in contra indizio veruno nelle opere di Platone, nè si trova che l'argomento del Cratilo venga da lui trattato in qualche altro suo dialogo. Questo scritto può stare da sè, ed io non veggo la ragione, perchè l'Ast il voglia far seguire al Sofista, al Politico e al Parmenide, e non anzi a tutti questi precedere. E nel vero, per non dire, che l'irrisione, che domina nell'espo sizione delle etimologie nel Cratilo, non troppo acconciamente può stare vicina alle gravità e serietà, con cui sono trattati il Sofista, il Po litico e il Parmenide, l'argomento del Cratilo non ha che fare con quello di questi; nè si ravvisano ancor in esso vestigia della scuola pitagorica, come nel Parmenide, ma appena si fa menzione in un suo luogo dell'armonia de corpi celesti; nè appare ch'ei segua il me todo dell'investigazione tenuto dai filosofi Me garici, i quali erano versatissimi in trattare le quistioni di questo genere, come lo segue nel Sofista, nel Politico e nel Parmenide; nè fi nalmente si vede ch'egli molto insista sulla sua dottrina delle idee, ma appena ne fa cenno alla fine del dialogo, e la dà soltanto ancora come un suo sogno. Per l'opposito, niuno può disconoscere, che tra il Protagora, l'Eu tidemo e il Cratilo vi regni un'affinità quasi irri sione drammaticamente ci rappresenta Platone il vano fasto di Protagora e di tutti que sofisti che si millantavano essere maestri di virtù, e se nell'Eutidemo poi egli si beffa delle meschi nità delle arguzie e de lacciuoli dialettici pur de' seguaci di Protagora, anche nel Cratilo, come abbiam veduto, con ischerzo e con ironia viene egli a dimostrare l'inutile sforzo de' Protagoristi-Eraclitiani, che per mezzo dell'inter pretazione del vocaboli tentavano di venire alla cognizione delle cose e di stabilire i loro sistemi. Per la qual cosa, sebben l'autore in quest'opera sia lungi dal comico che domina nel Protagora e nell'Ippia Maggiore, l'andamento però e la condotta della medesima, come anche la molti plicità degli esempi e le minutezze, con cui, secondo il metodo di Socrate, procede Platone in principio di essa, e finalmente ancora lo scherzo e l'ironia che si scorge nell'esposizione delle etimologie, danno a bastanza a divedere, ch'ella moltissimo si approssima ai dialoghi po polari Socratici, ch'egli scrisse i primi, e che da lui sia stata composta in una età, in cui egli non era ancora del tutto scevro da pro tervia e petulanza giovanile. Non pertanto, quan tunque da solo quello, che si fa menzione in questo dialogo delle vocali a ed o, le quali furono introdotte in Atene, sotto l'arcontato di Euclide (l'anno 2 della 94 olimpiade, 4o3 prima dell'era volgare, e 26 dell'età di Platone), non si possa di certo conchiudere, che dopo tal anno sia stato questo scritto composto, per la ra gione, come ottimamente osserva lo Stallbaum, che queste vocali potevano già essere in vigore in uso privato, prima che pubblicamente fos sero sancite e passate ne' monumenti pubblici (ved. il Matthiae Gramm. Ampl.; tuttavia non si può dubitare, che questo dialogo da Platone sia stato disteso in quel tempo, in cui egli aveva già concepito i principii della sua dottrina delle idee e deter minato con essa di confutare i Protagorei e gli Eraclitiani. Or tanto le cognizioni richiedentisi per poter ciò ben fare, quanto le sottili inve stigazioni circa la ragion de nomi, che in que st'opera si ravvisano, paiono indicare esserelle un lavoro di Platone non così giovane, ma sì bene di lui d'alquanto già più maturo. Che se poi tra il Protagora e il Cratilo, che hanno tra di loro un'affinità che non si può disconoscere, noi abbiamo inserito l'Ippia Maggiore ed il Gorgia, non è già che crediamo il Gorgia essere anteriore al Cratilo (anzi la di fesa che nel Gorgia fa Platone di se stesso, perchè non si fosse dato alla vita pubblica, ma alla filosofica, indica chiaramente che tale scritto è un lavoro di un uomo più che maturo), ma non per altro così ci parve di fare, se non perchè abbiam voluto far seguire l'un dopo celebri sofisti della Grecia, Protagora, Ippia e Gorgia, ne quali Platone graziosamente smaschera il loro vano sapere ed acremente li frusta. Però se uno bada, che i Protagoristi-Eraclitiani, che Platone dileggia in questo dialogo canzonando le loro etimologie, questi medesimi poi con con cludenti ragioni validamente egli confuta nel Teeteto, facilmente ei si persuaderà, che il Cratilo a questo dee stare unito e precederlo, anzi che susseguirlo; e per conseguenza che noi, nell'assegnargli il posto che gli assegniamo, nel suo vero l'abbiam collocato. Three sections on Plato in Acri’s essay on ideas: Plato’s Parmenide, Plato’s Sofista, Plato ed Anselmo. Gl’Intelligibili e il Parmenide di Platone. L'uno quale Platone lo disamina nel principio della seconda parte del Parmenide è un intelligi bile, e la contraddizione in cui lo involge è tale per colui che lo considera come idea contro l'in tenzione di Platone medesimo.Ecco,se tu fissi l'uno nel nome suo,se tu appunti l'occhio nell'uno come uno, esso non è più uno, cioè non è idea. Impe rocchè all'uno fissato nell'uno,contratto in sé,sen za espansion di sorta, non compete relazione alle idee di parte e di tutto, di principio, mezzo, fine, cioè all'idea di quantità, e neanco all'idea di quan tità parvente come a dire la figura, e neppure al l'idea di luogo nè a quelle di moto o di stato,nè a quella di qualità,né a quella di relazione di si miglianza, di egualità,di medesimezza e dell'idee contrarie,nè a quella di tempo,nè a quella di es sere o divenire,né da ultimo all'idea di senso,di opinione, di scienza. Adunque l'uno irrelativo non è quanto,nè quale,né in luogo,nè in tempo,non ė medesimo, nè simile, né eguale a sè e neanco il contrario, non è, non diventa, non si sente, non s'opina, non si sa. Dunque l'uno irrelativo non é uno: cioè a dire l'uno elemento dell'idea uno non è l'idea uno che si componë e di quello elemento e di molti altri. Gl'intelligibili e il Sofista di Platone. Nel Sofista Platone tratta della comunione delle specie, come se le specie precedessero la comu nione,pigliandoa esempio l'essere,ilmoto,lostato, il medesimo e il diverso. Ma la comunione precede le specie; imperocchè l'essere non è tale senza pri ma comunicare col medesimo, nè ilmedesimo è tale senza prima comunicare con l'essere, nè il medesimo è ciò ch'è senza il diverso,nè questo è ciò ch'è senza quello. Alla mente di Platone certo la comunione delle specie si mostra come necessa ria; tuttavia le si pasconde che le specie prima di essere specie sono elementi le une delle altre, e la comunione è per lei esteriore e di specie già in tiere e fatte. Più giusto sarebbe stato lo affermare ed esaminare la comunione degl'intelligibili, cioè di quei semi che pe'loro congiugnimenti diventa no specie o speciose o spettabili se cosi dire si vo glia. Aosta nel capitolo primo del Monologio or meggiando i passi di s.Agostino per provare Dio dice: tutti beni son beni per una qualche cosa ch'è bene per se stessa; e nel secondo dice: tutte quelle cose che sono grandi per alcun che sono gran di, il quale è grande per se stesso; e nel terzo a g giugne che tuttociò che è, per un qualcosa pare che sia, la quale è per se stessa; e nel quarto aggiugne: se le nature delle cose si distinguono per disuguaglianza di gradi,e alcune nature si re putano migliori di altre conviene che ci sia alcuna    tra quelle cosi eminente da non averne altra a sė superiore. Imperocchè,se,tale distinzione di gradi è cosi infinita che non sia alcun grado superiore di cui altro superiore non si rinvenga; la ragione conduce a questo, che la moltitudine di esse n a tare non sia chiusa da alcun termine.Ma ciò diuno reputa non assurdo se non chi è affatto privo di r a gione. È dunque di necessità alcuna natura,la quale é talmente superiore ad alcuna od alcune,che al tra non ve n'abbia, a cui sia ordinata come inferiore. Queste argomen tazioni si posson paragonare a quelle che fa Platone per provare le specie per sé. Egli dice: Ne' sen sibili c'è meschianza e confusione di contrarie no te; imperocchè una cosa è bella e brutta, giusta e ingiusta, grande e piccola, e via via; bella, giusta, grande per un rispetto,e per un altro brutta, iugiu sta,piccola;dunque ci dev'essere un bello che per nessun rispetto sia brutto, un giusto per nessun rispetto ingiusto, un grande per nessun rispetto piccolo,e viceversa;delle quali specie contrarie par tecipa il sensibile. La differenza è in ciò, che Pla tone si fonda più su la contrarietà delle note che apparisce ne'sensibili,e Anselmo più su la grada zione di esse note;e dovechéPlatone a filodilo gica è necessitato a dare a tutte il valore m e d e simo di specie, Anselmo lo dà ad alcune, come alla grandezza e non già alla picciolezza, all'essere e non già al non essere,al bene e non già al male; e da ultimo Platone vuol provare una moltitudine inconfondibile di enti per sè,e Anselmo di un solo. Ma di quest'argomento suo che ci conviene pen sare? Ecco, premettiamo che al tempo dei Dottori si vedeva nelle idee una certa costituzione già fer ma; esse aveavo fatto presa;e che poi per istinto dubitativo generato dalla riforma o meglio gene ratore di essa parve che si disciogliessero,e si cer cò rifare la loro sostanza medesima. E l'argomen tazione propria alla filosofia medievale è nell'espli care ciò ch'è implicato; e dimostrare un'idea vale dischiuderla da un'altra dove giaceva intiera e for mata, da un'altra della quale non si dubita. E, stando a questa filosofia, il contenuto di un'idea è quasi indipendente da quello delle altre, e ai sil. logismi come esplicativi si dee assegnare un gran valore anche pigliati singolarmente. Ma non c'è, si può dire, componimento e accordo e universa lità mirabile nella Somma di Aquino? Si, ma l'universalità dalla religione è data alla filosofia, la quale assume l'ufficio di sconnetterla,scomporla e verificarla a parte a parte. E il contrapposto dell'u niversalità della materia con la singularità e la di. visione e lo spezzamento della forma è notabilissima nel libro mentovato, che recapitola maravigliosa mente il pensiero del suo tempo. Per un'altra filoso fia al contrario l'argomentazione non sta ne' sillo gismi netti,che anzi li ha a sdegno,ma nella gene razione dialettica e necessaria,in guisa che tanto vale per essa dimostrare un'idea quanto farla con cepire nelle viscere d'un'altra e poi evocarla alla luce. Però avvertisco io che il suo generare, la sciando da parte le frasi nuove,è in fatti un porre una serie di equazioni facendo si che l'ultimo ter mine che si vuol generare appaja eguale al primo termine che si risguarda come generatore,in virtù di molti medii che celano graduatamente la reale dissagguaglianza. Ecco uno schema dell'argomen tare suo:a è vicino a m,perchè vicino a b,e o vicino a C, e c vicino a d, e d vicino a e, cd e vicino a f; col divario che dov'io dico vicino essa dice eguale.Da ultimo c'è un'altra filosofia,non ne mica a quella dei Dottori, anzi benevola,anzi re verente come a madre figligola, la quale non sup pone l'idea intera e formata, e neanco vuol rifarla da capo o generarla come dice l'altra,a cui è ni micissima perchè quella é superba, m a la costi tuisce di principii che già preesistono,la compo ne.In breve una è esplicativa ovvero resolutiva,l'al tra generativa, almeno di nome e in apparenza, e l’nltima è costitutiva o compositiva. E inoltre questa il contenuto di un'idea costituisce per modo che si colleghi a quello di tutte l'altre,ond'essa è deside rosa d'universaleggiare e procedere alla larga c01 tra la prima che singulareggia e procede per or dini distinti, minuti, sottili; e, contro alla seconda che vuol generar le idee una dall'altra, ella crede che vivano insieme ciascuna della vita dell'altre, e risplendano insieme ciascuna dello splendore del l'altre. E la sua argomentazione sta non già nello esplicare o nel generare, bensi nel bene allogare; inguisachè un'idea è dimostrata quando posta in mezzo alle altre con esse fa buon accordo. Onde il sillogismo, non già come esplicativo o come e guagliativo, sibbene come dispositivo è l'argomento suo, e non ha valore da solo ma insieme ai mol tissini altri per efficacia reciproca. Ma tornando ora lá d'onde ci siamo mossi di ciamo che si può dir buono, grande, giusto tutto ciò che partecipa alla grandezza, alla bontà, alla giustizia, e che altresi pare si possa dire che la grandezza, la giustizia, la bontà c'è perchè ci sono cose grandi,giuste,buone;esenza dir quale delle apparenze risponda al vero, affermiamo che ricorre qua la questione de'generi,cioè se son reali fuori noi o son concezioni astratte, e che l'argomento di sant'Anselino come quello che presuppone un intricatissimo viluppo di ragionamenti da solo non può avere piena evidenza. Acri. Keywords: la colloquenza turbata di Socrate e Cratilo, l’enigma del numero in Platone, abbozzo d’una teorica delle idee. Refs: Platone in Italia. Luigi Speranza, "Grice ed Acri," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Grice ed Acusilada – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. According to Iamblichus of Chalcis (“Vita di Pitagora”), Acusilada was a Pythagorean.

 

Grice ed Addiego – filosofia italiana – Luigi Speranza (Turi). Filosofo italiano. Grice: “I like Addiego; his obituary looks fine, ‘amateeur mathematician and professional philosopher;’ of course he was a priest and priests tend to get the nicest obituaries written by members of their respective orders!  Henry VIII once said, “I shall follow Occam and not multiply religious orders beyond necessity!’ Some say he went a bit too further! My St. John’s used to be a Cistercian monastery!” “One good thing about Addiego is that instead of trying to prove the immortality of the soul, or the existence of God – “These are Strawsonian presuppositions,’ he would say – he rather played with Platonic numbers and geometries! His mathematical explorations caught the attention of the Pope who invited him to Rome, thus leaving his ‘paese,’ the lovely Bari – and beyond!” -- Vincenzo maria d’addiego (n. Turi), filosofo italiano, nominato Preposto Generale dei Padri Scolopi.  Entra giovanissimo nell'ordine degli scolopi.  Papa Leone XII lo chiama a Roma e con un Breve apostolico lo nomina preposto generale dei padri scolopi.  Alla sua morte il Pio VIII gli rese l'estremo saluto nella casa professa di S Pantaleo. D. Resta, Turi. La perdita del loro Preposi to Generale P. Vincenzo Maria D'Addiego, rapito ai vivi in pochi istanti nella notte dei 31 del p.sp.. marzo, ha immerso in grandissima costernazione I Religiosi delle Scuole Pie. Nativo egli di Turi nella Puglia, vesti giovinetto le divise del Calasanzio, e fatti con somma lode isuoi studj nel Collegio Reale di Napoli, diretto dai religio si suddetti ivi professa per lo spazio di quaranta e più anni prima le belle lettere, e poscia la Filosofia e le Matematiche, nell'insegnamento d'entrambi accoppið sempre la pietà, lo studio l'amorevolezza el'industria alla precisione de'metodi. Fu due vol te Provinciale; e dopo lepassate luttuose vicende nominato Delegato Generale pel riordinainento delle Scuole Pie nel regno delle due Sicilie, ebbe la consolazione di veder coronate le sue fatiche da un esito felicissimo. Chiamato Breve di Leone XII, di gloriosa ricordanza,  al Governo Hi tiftta la sua Religione, la regole con dolcezza e prudenza, si mostrò padre con tutti, e a tutti su specchio einodello di quelle rel giose virtù, che più belle appariscono in chi tiene l'altrui direzione Vicino al termine del suo ogorevole incarico, stavaeliane Tando alla tranquillità della vita privala, dalla quale la sola Defienza aveva pniuto cayarlo; quando piacque all'Eterno di premiare (come speriaino) con franquillità ben maggiore imeritiche si aveva procacciati nella crislis na e religiosa carrier. Domani sicelebrerà la Stazio De rrella Chiesa di S. Giovanni in Laterano. TRATTENIMENTO PEL NEL LETTORE Che D. D. D. NECESSITA DEGLI SU LA MIGLIORAMENTO MACCHINE pubblicamente SIGNORI I Giuseppe GIUSEPPE DE GIOVANNI Studenti di COLLEGIO Filosofia e DELLE SCUOLE PIE SOTTO LA VINCENZO D'ADDIEGO. FRANCIONI Rivera Cesare D. PASCALE REALE DIREZIONE DEL MARIA MARTINO BATISTA SPERIMENTI DELLE sperimentano CONVITTORI Matematica FISICO ZNALED COLLONES /1000 NAPOLI 1810. COL PERMESSO DEL GENERALE, NELLA STAMPERIA MINISTRO FLAUTINA. DELLA POLIZIA. S u m a t quisque, quod suum credit, nihil mihi vindico, Sgravesand in Prafat, Mihi satis fuerit, suum cuique habuisse honorem, Dalham in Præfat. I chierici regolari poveri della Madre di Dio delle scuole pie (in latino Ordo Clericorum Regularium Pauperum Matris Dei Scholarum Piarum) sono un istituto religioso maschile di diritto pontificio: i membri di questo ordine, detti comunemente scolopi o piaristi, pospongono al loro nome le sigle S.P. o Sch. P. Lo stemma dell'ordine reca il monogramma coronato di Maria e le lettere greche MP e ΘY, abbreviazioni per μήτηρ θεοῦ (madre di dio) Le origini dell'ordine risalgono alle scuole popolari gratuite (scuole pie) fondate da san Giuseppe Calasanzio a Roma. Calasanzio e i suoi compagni diedero inizio a una congregazione di religiosi per l'insegnamento: papa Gregorio XV elevò la compagnia a ordine regolare con breve. Gli scolopi si dedicano principalmente all'istruzione e all'educazione cristiana di giovani e fanciulli.[2] Il fondatore dell'ordine, Giuseppe Calasanzio, giunse a Roma e venne nominato Teologo e precettore dei nipoti del cardinale Marco Antonio Colonna.  Si iscrisse alla Confraternita dei Santi Apostoli. Nel mese di maggio cominciò le visite ai rioni di Roma, portando aiuto ai poveri. Un giorno, mentre passava in una piazza, fu colpito in modo insolito dallo spettacolo di una turba di sudici e malvestiti ragazzi che giocavano tra grida scomposte, atti sconci, litigi e bestemmie. Di colpo comprese qual era la missione per la quale era giunto a Roma dalla sua patria lontana: la scuola. Così, in un ambiente di ristrettezze e povertà, in due povere stanze attigue alla sagrestia e messegli a disposizione dal parroco Don Brendani della chiesa di Santa Dorotea in Trastevere, aprì "la prima scuola popolare gratuita in Europa", come riconobbe anche Ludwig von Pastor, che nella sua monumentale opera Storia dei Papi scrisse ebbe origine la prima scuola popolare gratuita d'Europa. E lì, in tempi in cui l'istruzione era privilegio delle classi più abbienti, sviluppò il suo progetto della scuola come strumento di promozione umana e salvezza educativa per i ragazzi di strada (metodo preventivo, attinto da san Filippo Neri). Nel 1602 fondò la "Congregazione secolare delle Scuole Pie". Vincenzo Maria d’Addiego. Addiego. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Addiego” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Adelfio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Adelfio was a gnostic who taught in Rome and attracted a number of followers. He seems to have been a critic of the Accademia, and was one of those Plotino had in mind when he made his attack on gnosticism.

 

Grice ed Adorno – il gusto degl’antici per gl’antici – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Siracusa). Filosofo. Grice: “I like Adorno; he more than anyobody else I know UNDERSTANDS the change of mind set from the Hellenic embassy at Rome and the ‘gravitas’ of the Romans who found that relativistic talk on justice ‘sophistical’! Scipione and the Roman aristocracy – just to be different – enjoyed it and embraced it – and it turned out that, as antiquities became more popular with the Romans, they recovered the many schools of philosophy that have thrived in the provinces: Velia, Crotone, Girgenti.” Filosofo. Laureato in Filosofia a Firenze e professore a Bari, Bologna e Firenze, è stato presidente dell'Accademia Toscana di Scienze e Lettere "La Colombaria", del Museo e istituto fiorentino di preistoria e dell'Accademia delle Arti del Disegno. Ha diretto la pubblicazione del Corpus dei papiri filosofici greci e latini.  Ha studiato il rapporto tra l'insegnamento socratico e la sofistica, estendendo i suoi interessi a Platone, allo stoicismo e all'epicureismo; inoltre ha approfondito aspetti della cultura greco-latina e cristiana tra il primo secolo a.C. e il sesto secolo d.C., nonché del pensiero tardomedievale e umanistico. Utilizza il metodo filologico per la descrizione degli autori del pensiero antico della scuola ionica, di Socrate, di Platone, della prima Accademia, delle scuole ellenistiche, di Epicuro, di Seneca, ecc.  La sua formazione culturale affonda le radici negli ambienti intellettuali e politici fiorentini e in particolare risente dell'influenza crociana nell'interpretazione della filosofia come riflessione teorica mai disgiunta dalla situazione storica reale. In nome di questa concretezza antimetafisica e della necessità di una descrizione storica del pensiero filosofico, aderisce al metodo marxista e alla filosofia del linguaggio facendo sì che i testi classici vengano interpretati nel loro autentico e concreto sottofondo politico e culturale.  Opere: “I sofisti e Socrate”; “La filosofia antica”; “Studi sul pensiero greco”; “Socrate”; “Dialettica e politica in Platone”; “Platone”; “I sofisti e la sofistica nel 5°-4° sec. a.C.”; “Pensare storicamente”.  Pitagora di Samo. I suoi viaggi, la permanenza in Magna Grecia. Le suggestioni e la polymathia  di Pitagora”. Esigenze e problemi in Magna Grecia e ad Velia dal VI secolo all'inizio del V l.  su RAIEnciclopedia multimediale delle scienze filosofiche. Adórno, Francesco, in TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche alla voce corrispondente.  Maria Serena Funghi, Hodoi dizēsios. Le vie della ricerca: studi in onore di Francesco Adorno, Firenze, Olschki,  Francesco Adorno, su Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Francesco Adorno, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Adorno, su open MLOL, Horizons  Unlimited srl. Filosofia Filosofo del XX secolo Filosofi italiani del XXI secolo Storici della filosofia italiani Accademici italiani del XX secolo Accademici italiani Professore  Siracusa Firenze Studenti dell'Università degli Studi di Firenze Professori Bari Professori dell'Bologna Professori dell'Università degli Studi di Firenze. E interessante sottolineare che Pitagora di Samo, isola ionica vicina alle coste dell'Asia Minore, emigra in Crotone, Italia (Magna Grecia) dopo aver fatti molti viaggi in Egitto e in Oriente, viaggi non impossibili, anche se poi le piu tarde scuole pitagoriche hanno voluto vedere in essi ben altro. Samo, dopo alterne vicende simili a quelle delle altre città e isole ioniche, dopo lunghi contrasti tra la classe dei nobili e la democrazia, e dominata dal tiranno Policrate, che favod il popolo contro i nobili, che si circonda di una fastosa corte, che e amico di Amasi re di Egitto. E per contrasti sorti con Policrate che Pitagora abbandona la Ionia per recarsi a Crotone nell'Italia meridionale, accompagnato là da una fama già leggendaria. Eraclito ed Erodoto, parlando di Pitagora, testimoniano appunto la fama di lui nel mondo ionico. Eraclito (Diogene Laerzio, IX, l) sprezzantemente parla della multiscienza o polymathia di Pitagora. Evidentemente il disprezzo nasce in Eraclito da una fama, o leggenda che fosse, ormai acquisita. Erodoto, riferendo dubitosamente la leggenda di Zalmosside, un tracio vissuto a Samo, in qualità di schiavo e di allievo di Pitagora e che, poi, liberato e arricchito torna in Tracia, dove sale in fama di mago e dove insegna l'immortalità dell'anima, provata con un trucco, afferma che questo gli era stato narrato dagl’abitanti l'Ellesponto e il Ponto (cfr. Erodoto). La vita e la figura di Pitagora le troviamo avvolte nella leggenda dai tempi piu antichi. Con una certa sicurezza si può dire che Pitagora nacque a Samo, da Mnesarco. Emigra da Samo nella Magna Grecia per un dissidio sorto con Policrate tiranno di Samo. Possono non essere leggendari i suoi molti viaggi, in particolare quelli in Tracia, in Asia Minore, in Egitto] a Creta. Risale probabilmente a Pitagora in Crotone la fondazione di una setta, ove si svolge una vita pitagorica. Fama di dotto e di enciclopedico e fama di uomo superiore, Pitagora dove, dunque, avere già prima del suo ultimo viaggio che lo trasporta a Crotone. Per quanto scarse, fondamentali sono le testimonianze di Eraclito, Senofane ed Erodoto, che confermano l'esistenza reale di Pitagora. Pitagora a Crotone, fondatore di una setta, di quella vita pitagorica di cui parla anche Platone (Repubblica), scienziato e sacerdote a un tempo, sacerdote e medico di anime, si perde nella leggenda, o meglio nelle ricostruzioni dei tardi filosofi neo-plato­nici e neo-pitagorici. “La Vita di Pitagora,” di Porfirio e la “Vita pitagorica” di Giamblico ricavano gran parte delle notizie dai pitagorici Apollonio di Tiana, Moderato di Gada, e Nicomaco di Gerasa. Solo che il pitagorismo puo sorgere, interpretandola a modo suo e per nuove esigenze, da una lunga e continua tradizione che si scandisce in tempi diversi, ogni volta tornando alla leggenda e proiettando in essa ciò che rispondeva a un certo tempo e a una certa situazione, onde, piu che di pitagorismo parlamo di pitagorismi. Di tappa in tappa, a ritroso, attraverso un attento smontaggio delle varie stratificazioni, si può risalire sino a Filolao, di cui possediamo alcuni frammenti. Risalire oltre è estremamente difficile e pericoloso. Gli stessi scritti andati sotto il nome di Pitagora – i versi d'oro, i tre saggi su educazione, politica, e fisica -- sono composti da filosofi che rivivano il sacro verbo del divino filosofo. Lo stesso Aristotele, cosi propenso ad interpretare posizioni diverse in funzione del proprio pensiero, non cita mai direttamente Pitagora, ma parla sempre di coloro che vengono detti PITAGOR-ici (Metaf.). – cf. Speranza non cita direttamente Grice, ma parla sempre di coloro che vengono ditti GRICE-iani. O Giuliano non parla di Cristo ma dei Galilei! D'altra parte di quello che può essere stato il Pitagora storico, anche il nome ha destato sospetto, ché il nome ‘Pitagora’ significa “l'annunciatore di Pizio,” e la leggenda vuole che Pitagora fosse figlio del dio Apollo pizio o del dio Mercurio - non sappiamo altro dalle fonti piu antiche se non che Pitagora, figlio di Mnesarco, nativo di Samo, si sarebbe occupato di una quantità di studi," (Lct&I Lct't'ct -- Eraclito) - e che quindi sarebbe stato spinto da un largo desiderio di sapere. Forse di qui la fama di Pitagora, “l’annunciatore dell’apollo pizio,” che per primo usa il termine ‘filo-sofo’, desideroso, “filos,” appunto, “di sapienza,” sofia – o sapiente dell’amore? -- che sostenne l'immortalità dell'anima e forse la tras-migrazione delle anime, che, giunto a Crotone, fonda una conventicola politico-religiosa. Obbiettivamente non basta l'accenno di Eraclito ai molti mathemata per indurre che Pitagora interpreta il tutto in termini numerici, che per Pitagora le cose sono numeri, né può bastare per far risalire a Pitagora una teoria fisica. Si pensi, comunque, anche al fatto che il termine “~&-rj(.Lot”, che c'è in Eraclito (fr. 41), significa solo studio, apprendimento, e che nelle fonti antiche, riferentisi a Pitagora, mai troviamo il termine “numero” (&.pL&(.L6t;). Il termine “numero” lo si trova, invece, in alcuni frammenti di Filolao. Orbene, una tradizione riferisce che e Filolao a divulgare la sapienza di Pitagora, tradendo quello che è stato detto il "silenzio pitagorico,” cioè, l'assunto che la setta doveva mantenere il segreto sull’inziazione. Solo che altra tradizione riferisce anche che il silenzio sarebbe stato rotto da Ippaso, filosofo piu antico di Filolao, da Archippo, da Liside, e cosi via. E costruita nei questi circoli la leggenda di Pitagora uomo divino, già Eraclide elabora la leggenda delle re-incarnazioni di Pitagora; e ben si conosce l'austerità dei filosofi pitagorici, austerità che ci è testimoniata da Isocrate. Dunque l'interesse accresciuto per la scuola di Crotone (o Crotona) suscita il desiderio di conoscere quale era stata la storia di Pitagora. Si scoprono nomi, si conoscono accadimenti, ma non si scoprono saggi di filosofi pitagorici anteriori a Filolao. La leggenda del silenzio pitagorico nasce cosi, e -cosi nasce l'accusa mossa a Filolao e poi ad altri di aver violato il segreto pitagorico (Maddalena, “I pitagorici,” Bari). Aristotele, poi, sostiene che al tempo degli atomisti, quelli che sono chiamati pitagorici si dedicano allo studio delle matematiche e lo fecero progredire. I scolastici di Crotone, dunque, nutriti nello studio delle matematiche, credeno che i principii delle matematiche sono i principii delle cose (Metaf.). Evidentemente, qui Aristotele si riferisce proprio a Filolao e all’italiano Archita, della famosa colomba mecanica. Dunque la scuola di Crotone, fondato sulla scienza dei numeri e della geometria, dei numeri interi prima, degl'irrazionali poi, attraverso l'influenza di Teeteto e di Teodoro, e in effetto posteriore a Pitagora e ai primi immediati suoi discepoli. Ma forse un altro passo di Aristotele può chiarire il complesso problema. Aristotele, accanto ai pitagorici aritmetici, ne pone altri. Altri pitagorici però dicono che dieci sono i principii, ordinati in serie: limite/illimitato, dispari/pari, uno/molteplice, destroy/sinistro, maschio/femmina, in-quiete/in-movimento, diritto/ricurvo, luce/tenebra, bene/male, quadrato/rettangolo. In modo simile pare che pensasse anche Alcmeone di Crotone, sia che apprese questo da loro, sia ch'essi l'abbiano appreso da lui (Metaf., I, 5, 986a-986b). ALCMEONE, medico della scuola di Crotone, vive circa al tempo in cui a Crotone e Pitagora. A Pitagora, dunque, si puo far risalire il motivo delle opposizioni, delle cose vedute come determinantisi e quindi opponentisi. Forse di qui è nata la fama di Pitagora discepolo, nell’lonia, di Anassimandro e di Anassimene. Discepolo o meno, certo nell’Ionia Pitagora conosce gli studi (!Lot&~!Lot't'cx) di Anassimandro e la sua visione geometrica della realtà scandentesi nel ritmo dei limiti e delle compensazioni entro la linea dell'indeterminato illimitato. Dalla materia indefinita, pura quantità, incomprensibile se non determinata, limitata e qualificata, cioè numerata, onde dal numerare si costituiscono le cose stesse, il passo e breve, come facile è l'affermazione che, dunque, le cose sono numeri. Probabilmente tale e la tesi dei primi discepoli di Pitagora, anche se non cosi esplicita. Piu tardi, sia da Parmenide di Velia sia, per altro verso, d’Eraclito, tale tesi della realtà scandentesi nei contrari, e aspramente criticata, soprattutto per l'implicita opposizione contraddittoria di ciascuna unità (uno per sé) alle altre unità (molti per sé). In Filolao si trova la tesi famosa dell'armonia dei contrari, del pari e del dispari che si costituiscono dall'uno-parimpari e, sottesa, una discussione serrata nei confronti di Parmenide, ed è probabilmente con Filolao che l'oggetto dei “!LCX~!LCX't'cx” pitagorici divenneno il numero, “cìp~&!Lo(“, mentre nei primi pitagorici e ancora il contorni di una cose, il di-segno, costituito di punti. Si venne cosi a delineare già nella scuola di Crotona due momenti storicamente determinabili. Uno originario, del tempo di Pitagora, in cui il tipo di indagine è vicino a quello di Anassimandro e di Anassimene. Un secondo che, dopo Parmenide di Velia, si delinea in un senso piu strettamente matematico e musicale, che però spiega come i suoi sostenitori (Filolao ed ARCHITA DI TARANTO) puossono proclamarsi “pitagorici,” recuperando certi “!L«&~!LCX't'CX” di Pitagora. Piu complicato ancora è stabilire storicamente l'aspetto religioso-magico di Pitagora, l'effettiva consistenza della setta d'iniziati che fonda a Crotone, i suoi rapporti da una lato con gli sciamani e il leggendario Abari, sciamano venuto dal nord (Dodds, “I greci e l'irrazionale”, Firenze, pp. 171 sgg.), dall'altro lato con ALCMEONE e la scuola medica di Crotone. Ancora durante il suo soggiorno in l’Ionia, Pitagora e famoso per la sua multi-scienza, ma anche per il suo atteggiamento di uomo attraverso cui parla il divino, per il suo atteggiamento magico-religioso. Si dice che tale suo fascino suscita nell’Ionia meraviglia e forse anche diffidenza (M. Timpanaro-Cardini, “Pitagorici; test. e framm.,” I, Firenze, p. 4) ed si sostenne che Pitagora e un aristocratico che si trova in contrasto con il mondo ionico e milesio, razionalista e teso ormai a spiegare i fenomeni coi fenomeni (O. Gigon, “Der Ursprung d. griechischen Philos. von Hesiod bis Parmenides”, Basilea). È questa un'ipotesi plausibile, che da un lato spiega il contrasto con Policrate di Samo, tiranno, democratico, circondato da una corte lussuosa, e dall'altro l'accoglienza data a Pitagora in Crotone, governata aristocraticamente, in lotta contro Sibari liberale e democratica. Sempre in via ipotetica, si puo dire allora che certi atteggiamenti religiosi e magici Pitagora benissimo accolta durante i suoi viaggi in Egitto e poi a Creta. Cosi il motivo dell'immortalità dell'anima l’accolta dal dionisismo trace e cretese, dal demetrismo di Creta, trasformando quelle che erano credenze agrarie, e che oramai avevano assunto nelle città dell’Italia forme politico-religiose, in una incantagione di tipo medico quali trova tra i medici incantatori e sacerdoti egiziani e soprattutto tra i medici della scuola di Crotone. Di qui, forse, e nata poi la fama di Pitagora discepolo del cosiddetto orfico Ferecide di Siro, e la leggenda che Pitagora, giunto a Creta, scese nell'antro dell'ida, apprenne nei misteri le cose riguardanti gli dèi. Parte poi per Crotone (Pap. Herc., 1788, VIII, fr. 4). Cosi non sembra un caso che la'leggenda già nota a Platone (“Carmide”, 156d-e) abbia fatto di Zalmosside, presunto discepolo di Pitagora, un medico che, accanto alla pozione o all'erba curativa, pronuncia un discorso incantatore, ch'era tipica pratica dei medici della scuola di Crotone, tra cui non va dimenticato che v'e ALCMEONE che e pitagorico, o, forse, viceversa, influenza i primi pitagorici. Ora, la. tesi ionica dei contrari, dei limiti e della compensazione, può essere propria anche di Pitagora, può spiegare, rifacendoci in particolare al motivo dell'aria o respiro di Anassimene, la testimonianza di Aristotele, secondo cui certi pitagorici ritennero che esiste il vuoto e che il vuoto entra nell'universo, in quanto l'universo respira dall'infinito, o “apeiron”, il respiro e il vuoto. Il vuoto, si dice, distingue le nature, essendo una specie di separazione e di distinzione delle cose consecutive (“Fisica”). Poiché la tesi dell'universo che respira ed è respiro è criticata in un frammento di Senofane (fr. 7: cfr. Diogene Laerzio, IX, 19), non del tutto aleatoria è l'ipotesi che il respiro dell'universo sia proprio del primissimo pitagorismo. La vita del tutto si scandisce, dunque, nel ritmo dei contrari per la forza della respirazione, di due moti contrari, emissione ed immissione, costituenti l'armonia del tutto, d'onde quella che e la cosmologia della scuola di Pitagora. La vita risulta quindi dall'equilibrio della respirazione, dal soffio vitale (anima). L'anima è, quindi, presente a tutto e per ciò, nell'uomo, il venir meno dell'equilibrio, della compensazione è malattia e poi morte dei singoli, non del respiro che ri-vive in chi vive. Per questo, l’uomo muoe,  perché non puo ricongiungere il principio con la fine, si legge in un frammento di Alcmeone di Crotone (fr. 4). Qui, forse, anche il motivo pitagorico dell'immortalità dell'anima e della trasmigrazione, è terapeuticamente la cura del corpo che non può non essere accompagnata dalla cura dell'anima. E come il corpo si cura ristabilendo l'equilibrio, cosi l'anima si cura ristabilendo l'equilibrio, purgandola, purificandola mediante un apprendimento, mediante un’incantagione. E se l’insegnamento consiste nell'iniziazione alla visione dei contrari e del respirante cosmo, l’incantagione si dove a un discorso e alla musica. Il sodalizio di Pitagora a Crotone si delinea come una specie di scuola medica, in cui se da un lato il maestro inizia ai “mathemata” putificatori, dall'atro, mediante una dieta, a prescrizione di cibi (fave, carni, ecc.), austerità di vita, tende alla cura dell'anima, a far si che l'uomo scande la propria vita all'unisono con la vita del cosmo. Senza dubbio vecchie credenze popolari, certi aspetti del dionisismo e dei misteri cretesi, certi tabu, ricongiungendosi a tradizioni apollinee, sirveno benissimo a costituire questa vita pitagorica che in altri tempi, per altre esigenze assume ben diversi significati. Si venne cosi a costituire, probabilmente fin dal tempo di Pitagora, tutto un complesso di norme dietetico-religiose, un sodalizio purificatorio, in cui, secondo il racconto di Dicearco (Porfirio, Vita di P., 18-19), che fossero ammessi ad ascoltare il verbo del maestro, la verità (“autòs épha”, “ipse dixit”) e a far parte del sodalizio uomini e ove, fin dai primi tempi si ha la celebre distinzione tra acusmatici o acustici -- coloro che dovevano solo ascoltare -- e matematici, coloro che si iniziavano agli studi veri e propri e che furono probabilmente i continuatori dell'insegnamento scientifico del maestro. A Pitagora, dunque, si possa far risalire la visione del cosmo scandentesi nei dieci contrari (da cui poi prese le mosse la concezione aritmo-geometrica e musicale) e vivente del respiro (da cui la cosmologia); la concezione dell'immortalità dell'anima e della presenza dell'anima là dove sono esseri (e forse a questo allude il celebre frammento di Senofane, per cui l'immortalità dell'anima e la tra-smigrazione si è fatta risalire ai primi pitagorici. Si narra che una volta, passando per dove maltrattavano un cagnolino, Pitagora impietosito pronunziasse, ‘Smetti di battere, poiché è certo l'anima di un mio amico: l'ho riconosciuto udendone la voce!’ (fr. 7); la cura medico-incantatrice dell'anima, ove sono presenti tradizioni magiche antiche, vive soprattutto in l'Italia, e tradizioni agrarie e mistiche che probabilmente proprio allora si costituisce in quelle associazioni che avranno poi il nome di orfiche e che giuocano in senso politico nelle ultime lotte dall’aristocrazia. Ed è qui che sia pure in via ipotetica - s'in- serisc~ il fatto che a Crotone, in un primo tempo, e accolto con entusiasmo l'insegnamento morale, equilibratore e GERARCHICO, di Pitagora dai circoli aristocratici che hanno in mano il potere quando Pitagora giunse a Crotone. Secondo la tradizione, la setta pitagorica e poi ostacolata e combattuta sia dagli aristocratici - essa, in fondo, dovette rivelarsi piu vicina alla latta condotta dai democratici in nome di una misura e di una legge che non fosse obbligatoria solo perché data dagli antichi signori che unici hanno in mano il potere. E non è forse un caso che si dice che a Pitagora si siano ispirati i legislatori Zaleuco di Locri e CARONDA DI CATANI, sia dai primi movimenti democratici che videro forse nella setta pitagorica un'eccessiva chiusura aristocratico-sacerdotale. La leggenda narra che l'aristocratico CILONE DI CROTONE, fattosi interprete dei malcontenti contro il sodalizio di Crotone, che ha sede nella casa di Milone, assalta, insieme a molti altri, la casa, ov'erano riuniti i pitagorici, e l’incendia. Si dice che sfuggirono alla morte Archippo e Liside. Liside si rifugia a Tebe dove sembra fonda un circolo pitagorico. Certo a Tebe fiorirono piu tardi Filolao e poi Simmia e Cebete, i famosi interlocutori pitagorici del “Fedone” di Platone. Archippo si rifugia a Taranto, ove prosegue l'opera del maestro. Di Taranto e il pitagorico ARCHITA, amico di Platone. Quanto a Pitagora vi sono due versioni, l'una risalente a Dicearco (fr. 34 Wehrli), l'altra ad Aristosseno. Secondo la versione di Dicearco, prima dell'esplosione violenta dei Ciloniani che porta all'incendio della casa di Milone, Cilone fa allontanare Pitagora da Crotone. Pitagora si recato a Metaponto dove e morto ancor prima dell'incendio. Secondo la versione di Aristosseno (fr. 18 Wehrli), Pitagora sarebbe sfuggito al massacro, perché non era presente. Fuggito a Locri poi passa a TARANTO per andare, infine, a Metaponto dove e morto, probabilmente (cfr. Porfirio, Vita Pit., 56). Data l'indefinitezza della figura storica di Pitagora e del suo insegnamento, e opportuno delineare solo certe suggestioni la cui origine si possa effettivamente far risalire a Pitagora, suggestioni che hanno dato luogo a motivi molteplici e a interpretazioni che si son delineate su vie diverse (la via della legislazione, dell'aritmetica, della mistica, del SIMBOLO, della medicina), e che hanno profondamente inciso, per un verso o per l'altro, a seconda di certe esigenze o di altre, sulla cultura italica. costituendo, nella circolazione delle idee, componenti molteplici, sia nel mondo italico. Si può dire che i primi pitagorici, quelli che Aristotele avvicina ad ALCMEONE DI CROTONE, sono quei pitagorici che stabiliseno le dieci serie di opposti. Sono gli scolari di Pitagora o i discepoli piu vicini al maestro i quali pensano si al numero come rapporto e armonia, ma tra i componenti dell'armonia poneno oltre tutti gli opposti, anche l'uno e il molteplice. Ma come potevano accordarsi l'uno e il molteplice? (E. Paci, St. d. pensiero presocratico, Torino). Proprio questo disaccordo o opposizione, tra l'uno da un lato e il molteplice dall'altro, impegna la discussione d’Eraclito, mentre, per altro verso, imposta la polemica di Parmenide di Velia. Certo di numeri nel *senso* matematico della parola non troviamo accenno nei primi pitagorici, se non piu tardi con Filolao. Nei primi pitagorici si tratta nell'esigenza di definire la quantità indefinite, il contorno di una cose, di un di-segno, costituito di punti. In altri termini, i pitagorici scoprono, attraverso quanto, mediante Pitagora, e pervenuto dalla geometrizzazione di Anassimandro, che “intendere” significa “misurare”, e “de-finire, appunto di-segnare. E poiché il ‘di-segno’, lo schema, sotto questo aspetto la forma, la de-limitazione è linea. Un piano e un insieme di line. Un solido e un insieme di piani. Una linea e un insieme di punti. Si puo dire che ciò, senza di cui nulla è, e il punto, e che, dunque, la qualificazione, l'intelligenza delle cose è dovuta al punto stesso e alla variazioni spaziali dei punti, onde una figura e una schema, la cosa, e pure, numeri. Ciò che rende conto della realtà stessa, delle cose, e la misura. Ora, se l'unità è il *punto*, si capisce come l'unità sia unita accanto ad altre unità. Di qui l'opposizione uno/molti, e, nella configurazione della cosa-punti, le opposizioni pari/dispari, limitato/illimitato, destroy/sinistro, maschio/femmina, quiete/movimento, diritto/ricurvo, quadrato/rettangolo. E poiché il dis-pari è in-divisibile, e cioè riferibile all'unità, il dispari e anche bene e luce, mentre, all'opposto, poiché il pari è divisibile, riferibile alla molteplicità, il pari r anche *male* e tenebre. Nella tavola pitagorica delle opposizioni, abbiamo cosi una figura-punti dispari e una figura-punti pari, che, se vengono ra-ffigurati, come sembra facessero i primi pitagorici, con una squadra (gnomone), si de-terminano in modo che i lati della squadra resultino uguali nei dispari, mentre nei pari i lati resultano disuguali, e quindi mentre i primi sono sempre rapportabili all'unità, i secondi sono rapportabili alla molteplicità. Il quadrato a costituito di gnomoni dispari, il rettangolo di gnomoni pari, per cui il *quadrato è unità*, il rettangolo molteplicità, e via di seguito. Si puo cosi parlare di un numero quadrato e di un numeri oblungo, ed è probabilmente entro questi termini che assume significato la famosa uaternaria pitagorica, sulla quale, si è detto poi, i pitagorici giurano, dato il suo valore sacro. Il suo valore sacro deriva dal fatto che la rappresentazione geometrica della quaternaria è costituita da 10 punti messi in forma di triangolo avente quattro punti per lato, la cui somma 1 + 2 + 3 + 4 è uguale a 10. La quaternaria costitusce il numero perfetto, poiché racchiude in sé i numeri delle TRE proporzioni musicali (proporzione ottava 2:l, proporzione quinta 3:2, proporzione quarta 4:3), delle quattro specie di enti geometrici -- punto = l; linea = 2; superfice = 3; solido = 4) cioè di ogni cosa (cfr. Mondolfo-Zeller, “La filosofia dei greci nel suo sviluppo storico” Firenze, p. 676). E questa un'interpretazione piu tarda. Unità-molteplicità resta, dunque, l'opposizione fondamentale. Compresa l'unità, la misura, l'armonia, rimane incompresa la molteplicità, la dis-armonia: il calcolabile (razionale) e l'incalcolabile (irrazionale, incommensurabile). Oppure gli uni rimaneno accanto agli uni e, dunque, ai molti dell'indefinito spazio (quantità), che fu forse il respiro di cui, sembra, parla Pitagora, o il vuoto cui accenna Aristotele. Solo che l'indefinito, de-finendosi, è un insieme di punti, è il contorno di cose che tuttavia si scandisce come pari e dispari, come infinito e finito, come comprensibile e incomprensibile, il tutto vivente dell'infinito (respiro), e quindi esso stesso, perché indefinito, incomprensibile, irrazionale. Di qui prende le mosse la critica di Parmenide di Velia, che, senza dubbio, ha rapporti coi primi pitagorici, anche se può essere leggendario ch'egli sia stato avviato alla filosofia, come dice Diogene Laerzio, da Aminia, figlio di Diocete, pitagorico (IX, 21). Ma di qui, crediamo, anche le due facce dello stesso Pitagora, da un lato volto ai “mathémata”, alla geometrizzazione, alle tecniche, e dall'altro al silenzio, alla via sacerdotale, come si dirà piu tardi, che coglie, come in un'iniziazione, di là dall'opposizione del finito e dell'infinito, del pari e del dispari, il divino respiro del tutto, la suprema armonia. Da questo, comunque, discende anche il significato medico dell'insegnamento di Pitagora e dei primi pitagorici, come particolarmente si rileva in ALCMEONE DI CROTONE, che se anche si accosta a Pitagora avendo già una sua certa formazione di origine milesia, poteva sopratutto attraverso il motivo dei contrari e dell'equilibrio, lui medico, accettare parte dell'insegnamento pitagorico. Come alla fisica ionica si ricollega probabilmente la primitiva dualità pitagorica apeiron/péras, cosi da quella stessa fisica trae verosimilmente Alcmeone alcune opposizioni: umido/asciutto, caldo/freddo, amaro/dolce, le cui potenze constata nella pratica della medicina, e che introduce in questa corrente pitagorica (M. Timpanaro-Cardini, pp. 119- 20). Dice cosi Alcmeone che la salute si mantenne dall'equilibrio delle forze, dell'umido, del freddo, del caldo, dell'amaro, del dolce e cosi via, mentre il dominio di un solo provoca la malattia (fr. 4), onde l’uomo muoie perché non puo ricongiungere il principio con la fine (fr. 2). E cosi non è un caso che medici e pitagorici siano stati anche CALLIFONTE e DEMODENE DI CROTONE, e poi di Taranto, medico e maestro di GINNASTICA.  Ed è probabilmente entro questa cerchia di interessi e di problemi, anche se discussa n'è la datazione, che rientra l'anonimo trattatello cosmologico-medico “Sul numero sette” (m:pl ~~3otJ.Ii3(1)v), i cui primi undici capitoli (forse piu antichi) descrivono il dominio del numero sette nell'universo, mentre i capitoli ultimi (XII-LIII) discutono le malattie partendo dalla premessa che gli animali e le piante che vivono sulla terra hanno una natura simile a quella del cosmo, i piu piccoli come i piu grandi (c. VI). A parte Pitagora, maestro e medico, nei primi pitagorici sembra abbiano prevalso, entro la visione totale di Pitagora, interessi piu particolari e tecnici, o per la medicina, o per la traduzione di una cosa in punto-figura, dai quali  si venne poi formando quella che sarà la cosmologia pitagorica (come può darsi sia il caso di Petrone d'Imera che ha una visione del cosmo in forma triangolare; o di Cercope, o di Brotino, o di Xuto, di cui in effetto non sappiamo quasi niente); o per la mnemotecnica (Parone) o la botanica (Menestore). Esclusi dalla scienza segreta, gli acusmatici con a capo Ippaso di Metaponto si ribellano contro i matematici, divenendo tali essi stessi, o meglio Ippaso, uno dei maggiori matematici del primo pitagorismo, egli che divulga il dodecaedro, iniziando le ricerche sugl'irrazionali.o incommensurabili,  poi proseguite da Teodoro e da Teeteto. Di fatto, le testimonianze su di lui sono molto discordanti e in discussione è anche il periodo storico in cui sarebbe vissuto. Ssecondo E. Frank, Plato u. die sogenannten Pyth., Halle, e quasi contemporaneo di Archita. Per quanto possiamo ricavare su Ippaso dalle testimonianze (tutte molto tarde, aristoteliche, post-aristoteliche e neo-platoniche) sappiamo ch'egli trova gl'irrazionali in geometria, il medio armonico in aritmetica (di qui l'avvicinamento ad Archita), gl'intervalli sin-foni in musica, la tesi dei periodi cosmici e del tutto costituito dal fuoco, per cui già in antico è stato avvicinato ad Eraclito (cfr. Waerden, in "Hermes,"; M. Timpanaro). La circolazione delle idee Epicarmo, commediografo, vissuto tra il 550 e il 460, nato forse a Cos, nell'Ionia, o a Megara Sicula, vissuto fin da bambino nella Isola di SCILIA e particolarmente a SIRACUSA, alla corte di Gelone e di Gerone, ove, sembra, conosceSenofane, ha, per i frammenti che di lui ci sono rimasti, pochi purtroppo, mportanza notevole come fonte. C'è chi in EPICARNO ha rintracciato motivi eraclitei, chi ha individuato motivi del primo pitagorismo (l'opposizione di pari e dispari: particolarmente interessante il fatto che, parlando di tale opposizione, per dire cosa siano le unità e il cangiamento delle cose, Epicarmo, sosteenne che si tratta di aggiungere o togliere pietruzze - fr. 2, - ossia i punti), chi ancora parladi chiari influssi senofanei. Originario di Cos, nell'Ionia, o di Megara Sicula, vissuto a Siracusa, fin da bambino, alla corte di Gelone e di Gerone, Epicarmo e il primo grande poeta della commedia dorico-siciliana. Si son conservati di lui un trecento frammenti e molti titoli, da cui si ricava che nelle sue commedie mette in parodia la mitologia (“Ulisse disertore”, Ciclope, Sirene, Ulisse naufrago), o si diletta di rappresentare figurine umane, tipizzandone i caratteri (Il contadino, Il megarese]. Isolando l'uno o l'altro motivo si cerca di delineare ora uno ora altro sistema filosofico di Epicarmo. Piuttosto che andar rintracdando una filosofia di Epicarmo, ciò che sembra importante è, da un lato, sottolineare il significato che hanno i suoi frammenti per stailire certi motivi propri del primo pitagorismo, ma soprattutto, dall'altro lato, per rendersi conto di come circolasno le idee e di come tali idee dovessero far presa ed essere discusse non in un certo ristretto mondo di intellettualima in piu vasti strati, costituendo una vera e propria atmosfera culturale. Non va scordato, a questo proposito, che Epicarmo e un commediografo, probabilmente uno dei primissimi. Sappiamo che la commedia (il canto del xé;l!Lot;, della festa orgiastica) come la tragedia (il canto dei <tpciy(l)v, dei capri) hanno origine da feste e riti collegati con il culto di Dioniso, e che il dionisismo e all'inizio, religione essenzialmente agraria, poi popolare nelle p6leis, e che via via s'imposne con la caduta dell’aristocrazie. La commedia sempre mantene il suo carattere popolare e, almeno piu tardi, popolare e politico, tanto che in effetto non poté mantenersi che in Atene democratica, ivi compreso il caso limite del conservatore Aristofane che, appunto, liberamente pone sulla scena la sua polemica politica contro gli uomini nuovi e i filosofi rivoluzionari. Probabilmente Epicarmo è il primo. Non senza interesse è che Platone (“Teeteto”) dica che nel genere della commedia Epicarmo è degno di stare a pari con Omero ad avere collegato e ahicolato in commedia vera e propria quelli che originariamente sono canti fallici e parodie popolari di miti distaccati gli uni dagli altri. Ora, proprio il fatto che Epicarmo scrive commedie e che, dunque, si rivolge a un certo pubblico, usando una certa tecnica di discorso, porta a pensare che quelli che distaccati dai contesti (che non abbiamo piu) sembrano possibili "sistemi " autonomi, dovevano essere in effetto motivi comprensibili a tutti, rispondenti anche se presi in giro a esigenze e problemi diffusi in un piu largo mondo. Sotto questo aspetto e per quel poco che di lui ci è rimasto, Epicarmo non fu né pitagorico né eracliteo né senofaneo. In lu,  pitagorismo, motivi eraclitei e senofanei stanno a denunciare un intrecciarsi di problemi e di interessi, in una riflessione consapevole, da un lato sulle tecniche per rendersi conto di fenomeni su cui operare, indipendentemente da ogni racconto della realtà, dall'altro lato sui metodi con cui intendere quella realtà stessa entro cui l'uomo vive, l'uomo stesso realtà, in città politicamente agitate e in via di assestamento, ove la misura, frutto di faticosa riflessione, la misura senofanea o lo misura eraclitea o quella pitagorica, la comprensione della natura e del metodo che può rivelare quella stessa natura ordinate (“cosmica”) puo dar luogo a misura cittadina, onde cosmo politico e politica cosmica finino con l'identificarsi, e dare un significato all'opera dei legislatori, di contro alla legge di prima la cui obbligatorietà riposa sulla antichità della legge dettata dai primi conquistatori, assurti a demoni, i cui discendenti, discendenti di dèi, hanno in mano i poteri politici, formando l’aristocrazia. Di qui la polemica di Senofane contro l'antropomorfismo degli dèi di Omero e contro le genealogie di Esiodo, di qui l'esclamazione di Eraclito che demone all'uomo e il logos a tutti comune, che è poi il logos che il tutto governa. Non sembra cosi senza interesse ricordare che le nuove esigenze culturali, il fervore di queste ricerche, le indagini tecniche, i tentativi di spiegarsi i fenomeni, l'esigenza di rintracciare quale sia la via (636t;) esatta per queste ricerche stesse, si siano avute nelle colonie ioniche e in quelle della Màgna Grecia nell’Italia meridionale, ove si intrecciàno anche con certe conclusioni dei culti dionisiaci, prima che nella propria Grecia. Qui assumono significato e sono oggetto di discussione pio tardi e in Atene democratica, al tempo di Pericle, quando oramai le città della lonia asiatica erano state assorbite dall'impero persiano e nelle città della Magna Grecia nell’Italia meridionale e in Sicilia i legislatori o i primi signori si erano trasformati in tiranni. Non sembra, dunque, senza importanza che a Epicarmo si puo accostare Senofane e Pitagora ed Eraclito. E ciò non tanto per Senofane, Pitagora, Eraclito presi in sé, in quella che e la loro coerenza (è vero anche che dei motivi eraclitei in Epicarmo si può a ragione dubitare), quanto per il fatto che sia nella lonia sia nelle colonie d'Occidente si rivele una comune situazione storica e politica che implica una comune e diffusa esigenza volta, dicevamo, al ritrovamento di tecniche e alla comprensione della realtà, di quello che è l'ordine del tutto. Particolarmente indicativo e in questo senso ricordare che quasi in questi stessi anni, in Atene in crisi, ed in via di rinnovamento dopo le guerre persiane, Eschilo, nel “Prometeo”, fa dire a Prometeo, che ha trovato cosi preziose invenzioni (!L1Jl«v/jfL«T«) in vantaggio dei mortali (v. 469). Gli uomini sono inetti prima che la chiarezza di spirito e dominio della mente a loro desi. Gli uomini in passato, pur vedendo, invano vedeno, e udendo udeno, ma simili a fantasmi di sogno nella loro lunga vita confusamente e a caso ogni azione compiano. Non conoscevano un sicuro SEGNO per presagir l'inverno o la fiorente primavera, ma senza conoscenza (')'VW!L1)) alcuna regolavano ogni azione. Ma finalmente a loro il sorgere degli astri rivelai e il tramonto si difficile a scernere. Inoltre il numero, somma di ogni invenzione (l~o:x,ov aocpLa!LiiT(I)V), trova  per essi, e le combinazioni delle lettere, costruttrice memoria di ogni cosa, madre dele Muse (vv. 442-461, trad. Untersteiner) Naturalmente qui non interessano per ora quali potevano essere le conclusioni, anche su di un piano politico, di tali ricerche, ma interessa sottolineare tutti questi motivi che rendono conto di come storicamente, in certi ambienti e in certe situazioni, si delineano certi problemi che dettero luogo a certe concezioni della realtà e della vita. Ed è appunto entro questi termini che sembra assumere il suo valore, nella polemica contro i pitagorici, e forse anche contro Eraclito, la ricerca della via, dell'unica via (636ç), o metodo di Parmenide di VELIA. Può darsi che Parmenide, cittadino di Elea, colonia focese sulla costa della Campania, vissuto tra il 520 e il 440 (tali date sono pura- [2 Platone, all'inizio del “Parmenide” (127b), narra che una volta durante le grandi Panatcnee, Parmenide e Zenone vennero ad Atene e si incontrarono con Socrate, allora giovanissimo, mentre Parmenide era già molto innanzi negli anni. Aveva circa sessantacinque anni. Calcolando sulle indicazioni di Platone si potrebbe dire che Socrate giovanissimo poteva avere allora sui diciotto anni, e poiché sappiamo che Socrate nacque nel 470i69, l'incontro tra Parmenide e Socratc potrebbe essere avvenuto nel 452 circa, per cui Parmenide dovrebbe essere nato nel 517 o anche nel 520 o 522, ché in effetto Platone non precisa esattamente i sessantacinque anni (cfr. anche Teeteto e Sofista). Secondo Diogene Lacrzio (lX, 1), invece, Parmenide sarebbe nato nel 544/400. Probabilmente Diogene Laerzio desumeva la sua cronologia d’Apollodoro e dalla tradizione che s'era sforzata di far coincidere le date di Parmenide con quelle di Eraclito e di Senofane (Diogene). Della sua vita sappiamo pochissimo. Sembra che si occupa di politica e che ordina la propria patria, Velia, con ottime leggi (Plutarco, Adv. Colot., 32). Anche il poema di Parmenide va sotto il titolo “Intorno alla Natura” (sembra si dividesse in due nette parti, la prima intitolata la vmta, la seconda l'opinione). Ne sono rimasti in tutto !58 versi. 41    mente indicative), abbia risentito e discusso il motivo senofaneo dell'uno che tutto comprende, ch'è tutto mente, o viceversa che sia Senofane ad aver fatto tesoro dell'unica via di Parmenide. Può darsi che Parmenide discuta Eraclito e polemizzi contro le opposizioni di lui, o, piu facilmente, con l'opposizione unità-molteplicità, che implica nell'opposizione stessa di piu esseri il non essere, dei primi pitagorici. Può darsi infine che proprio dall'insegnamento e dalla problematica dei pitagorici -- si dice che Parmenide fosse stato iniziato alla ricerca e al sapere da Aminia pitagorico -- sia sorto in Parmenide il problema di quale sia la via che rende possibile il sapere e comprensibile il reale. Certo le testimonianze sono molto incerte e, a seconda della presa di posizione dell'uno o dell'altro testimone, si è puntato su uno o altro dei motivi parmenidei, facendo risalire a una o altra fonte, colorendo quindi di una o altra tinta quello che fu il pensiero di Parmenide. Proprio questo, tuttavia, può essere indice di come Parmenide, piu che sviluppare o portare a estreme conseguenze un certo "sistema," in effetto cerca, nella molteplice e diffusa discussione intorno alle possibilità del sapere, nella diffusa esigenza di come rendersi conto di quelle che sono le strutture che rendono intelligibile e comprensibile la realtà, d'inserire il proprio punto di vista, sçaturito dal discutere e l'una e l'altra delle posizioni. Alcuni frammenti che possediamo del suo poema (in tutto 158 versi, inseriti e citati in testi piu tardi) conforta questa ipotesi di un Parmenide calato in un preciso ambiente ove si dibatte, appunto, la questione dell'intelligibilità del reale. Cosi in tal senso, sembrano suonare le seguenti parole. Col solo pensierò esamina e decidi la molto dibattuta questione (fr. 7, v. 5); ma ora devi imparare ogni cosa e il cuore che non trema della ben rotonda verità e le opinioni dei mortali, in cui non è vera certezza (fr. l, vv. 29-30). La molto dibattuta questione e "ora devi imparare - cioè renderti conto - di come siano possibili le opinioni dei mortali," sono due espressioni molto precise che sembrano indicare da un lato come il problema di Parmenide nasca da un dibattito su questioni che stano a cuore e rispondevano a esigenze diffuse, e, dall'altro lato, come sia possibile, giunti a trovar la via che rende possibile il sapere, comprendere come sorgano le opinioni, ché, infine, di opinione (36~ac) si può parlare, finché non si sappia la verità (&>..of)&tLcc). Sembra lecito allora supporre che la sentenza di Parmenide (pare che il poema fosse piuttosto breve) venga alla fine di un lungo dibattito, di una ricerca che, scartando via via tutte le possibili vie, perché contraddittorie, trova l'unica via, unica perché non contraddittoria, su cui, dunque, si fonda l'unico sapere e di conseguenza la verità, "ben rotonda," appunto, e che non "trema," perché non contraddittoria, e, per ciò, essa stessa unica. 'Col solo pensiero esamina e decidi la molto dibattuta questione (fr. 7, v. 5). Abbiamo qui il punto su cui Parmenide impernia l'impostazione che rende valida la ricerca senza di cui non è possibile fondare un sapere verace e, a sua volta, la verosimiglianza delle opinioni (cfr. fr. l, vv. 31-32) intorno alla natura. Ora, può essere interessante sottolineare che il proemio (ne sono rimasti 32 versi e forse è intero) del poema, che a sua volta nettamente si divide in due parti (la verità, di cui leggiamo abbastanza; l’opinione, di cui non leggiamo che pochi frammenti), piu che con un volo poetico che rivelerebbe, com'è stato detto, l'entusiasmo dello scopritore, si apra con una serie di luoghi, di tapoi, lasciti di un comune modo di parlare, anche popolare, che evocano l'intento di Parmenide. LE CAVALLE CHE MI PORTANO fin dove vuole il mio cuore, anche ora mi condussero via, dopo che le dee mi ebbero [guidato sulla via molto famosa, che per ogni città porta l'uomo che [possiede il sapere (fr. l, vv. 1-3). Basti qui ricordare che, secondo Aezio (Plac., IV, 5, 5), per Parmenide sede della ragione (dell'egemonico, dice Aezio), come atto in cui si raccoglie il molteplice, è il petto, il cuore, e che il cavallo rappresenta, fin dai tempi piu remoti, la forza dell'intelligenza e la capacità dell'apprendere, perché sia facile riconoscere un motivo popolare-evocatore in quest'attacco del proemio. In altri termini Parmenide dice che la sua naturale capacità intellettiva - naturale e dunque divina - lo ha condotto fino alla distinzione Notte e Giorno (ivi guidato dalle vergini Eliadi, le figlie del sole, ed ecco un altro topo popolare, che affrettavano il corso verso la luce, liberando il capo dai veli (fr. l, vv. 9-10), lo ha condotto cioè fino al punto primo delle tradizionali distinzioni (da Esiodo ai misteri), all'origine verbale delle contraddizioni oltre cui è la non contraddittorietà, cioè l’alterità. lvi è la porta che mette ai sentieri della Notte e del Giorno, e ai due estremi la chiudono l'architrave e la soglia di pietra c la riempiono, in alto nell'etere, grandi battenti di cui la Giustizia, che molto punisce, tiene le chiavi dall'alterno uso (fr. l, vv. 11-14). La PORTA ROSSA DI VELIA si apre e benigna la dea accoghe Parmenide, perché ivi è giunto condotto dalle cavalle (cioè dal retto pensare), onde, appunto, la dea dice: Non fu un avverso destino a mandarti per questa via (che~ invero lontana dall'orma [dell'uomo), ma la legge divina, “thémis”, e la giustizia, “dike” (fr. l, vv. 26-28), cioè il giusto pensare, che è via lontana dall'uomo comune (tanto è vero che Parmenide usa il termine “anthropos” e non “aner”). Ma ora - prosegue la dea - devi imparare ogni cosa c il cuore che non trema della ben rotonda verità c le opinioni dei mortali, in cui non ~ vera certezza. Ma tuttavia anche questo imparerai, come l'apparenza debba configurarsi perché possa veramente apparir verosimile, penetrando il tutto in tutti i sensi (fr. l, vv. 28-32). L'accettare i dati dell'esperienza, di ciò che appare all'immediatezza dei sensi, implica molteplicità e dispersione, contraddizione; la definizione dell'indefinito implica il frantumarsi del reale in unità opposte fra loro, onde accanto alle cose che sono bisogna porre un non essere. Il pensiero, invece, coglie sé come discorso (logos), ma discorso che è unitd (mente, nas) ove ogni singolo membro del discorso si articola all'altro in una continuità che costituisce e presuppone il tutt'uno, compatto, che è la stessa realtà. Infatti a seconda di come in ognuno è avvenuta la fusione delle molto erranti membra, cosi la mente accompagna l'uomo. Poiché lo stesso ~ ciò che pensa - l'intima struttura delle membra - negli uomini, in tutti e in ognuno. Ché il pensiero ~ ciò che prevale (fr. 16). E allora quella stessa realtà, che nell'immediatezza sensibile e nella definizione puntuale appare molteplice e disarticolata, onde si pongono esseri accanto a esseri e quindi essere accanto a non essere, non appena si colga il pensiero, che è discorso e unità comprensiva (mente), quella realtà molteplice è essa stessa unità, cioè pensiero; e illusione il molteplice, il nascere e il perire, l'opposizione. Ma guarda tuttavia come le cose tra loro distanti sono invece per opera della mente saldamente unite. Infatti non scinderai l'essere dalla sua connessione con l'essere, né disgregandolo completamente in ogni sua parte, seguendo un certo ordine, né concentrandolo in se stesso (fr. 4). Parmenide punta subito sul pensiero, cioè sul discorso che è mente, ossia unità, o meglio comprensione totale e compiuta, per cui l'essere non è né un punto, ove tutto si concentra, né una serie disgregata di punti accanto a punti, ma totalità. In Parmenide, dunque, non si tratta tanto di un essere che è e di un non essere che non è, ma di due nostri modi di atteggiarsi di fronte a un'unica realtà: o si accettano le cose cosi come appaiono all'occhio, ai sensi, le une accanto alle altre, ritagliate e disarticolate, contraddittorie, nascenti e morenti; o, di là dall'apparenza fisica, si coglie, mediante la ragione, la ragion d'essere del tutto, che non è nessuno degli aspetti, ma è tutti insieme, simultaneamente: e non è mai stato e non sarà mai, perché è Qra (vuv) tutto insieme, nella sua compiutezza, uno, continuo (“lv auv~:x'<”) (fr. 8, vv. 5-6) o soltanto nella sua natura un tutto (faTL 3~ 11ouvov oÒÀoq~ué<;), come ha corretto l'Untersteiner. Le due famose vie di Parmenide (" orsu, io dirò... quali sono le vie di ricerca che sole son da pensare ": fr. 2, vv. 1-2) si risolvono in effetto in una sola via legittima, quella del pensiero, che è l'unica che svela il reale. Pensare implica sempre pensare qualcosa, cosi come dire implica sempre dire qualcosa, ché pensare il nulla è non pensare cosi come DIRE IL NULLA è NON DIRE. Ora se pensare è pensare l'essere (perché il non-essere non puoi né conoscerlo -.è infatti impossibile, -né esprimerlo ": fr. 2, vv. 7-8), e se il pensare dunque implica l'essere, lo stesso è pensare (voc!v) ed essere (fr. 3). Per la parola e il pensiero (vo&:!v) bisogna che l'essere sia: solo esso infatti è possibile che sia e il nulla non è " (fr. 6); e poiché il pensiero è n~s(vou<;), mente comprensiva, e 16gw.(},6yo<;), discorso, cioè articolazione della molte- plicità in una sola unità, e l'essere e il pensare sono la stessa cosa, l'es- sere è mente, è cioè unità totale, compiuta (finita), circolare. Per me," dice la dea, "è uguale da qualunque punto cominci: poiché là tornerò di nuovo" (fr. 5). Pensare, dunque, e dire non si può che l'essere, per cui la via che è e che non è possibile che non sia (fr. 2, v. 3) è la via che, non essendo contraddittoria, è l'unica che persuade, ed è perciò la via della Verità ("questa è la via della persuasione, poiché segue la verità (fr. 2, v. 4); mentre l'altro modo di atteggiarsi di fronte alla realtà, quello della sensibilità, è una via che non è e che è necessario che non sia, e questo è un sentiero inaccessibile a ogni ricerca (fr. l, vv. 5-6). La conclusione cui la prima via conduce, e non può non condurre ("e, come era necessario, il nostro giuizio fu quindi di abbandonare una delle vie, perché impensabile e innominabile, e infatti non è la strada della verità, e che l'altra è ed è vera (fr. 8, vv. 16- 18), è che l'essere è e che solo dell'essere si può dire che è, solo è è è. Pensare l'essere, e non si può non pensare che l'essere, implica che l'essere è finito, cioè compiuto - ché a lui nulla può mancare, onde l'essere è totalità, ché, se fosse due o piu di due, tra l'uno e l'altro essere dovremmo ammettere un qualcosa che distingue e che dunque è diverso dall'essere, cioè il non essere che non è, per cui l'essere è tutto, ed è simultaneo (" è ora tutto insieme "), senza origine e senza termine, ché dovrebbe o scaturire dal non-essere o risolversi nel non-essere (per questo né il nascere né il perire gli concesse Dike allentando i legami, ma lo tiene ben fermo": fr. 8, vv. 13-14). L'Essere in quanto essere non ha né passato né futuro, ed è indivisibile, e poiché ogni parte dell'essere è essere e non può non essere, l'essere è identico tutto a se stesso. L'essere, dunque, è immobile ché,. se si muovesse dovrebbe muoversi in un luogo altro dall'essere, cioè nel non essere che non è (cfr. fr. 8, vv. 1-35). Totale unità, perfetto e quindi finito, indivisibile, immobile e immutabile, identico a sé, tutto presente sempre e, dunque, atemporale e aspaziale, tale l'Essere, quale necessariamente il pensiero può pensarlo senza contraddizione; o, meglio, QUESTI I SEGNI, crljji4TCX (fr. 8, v. 2), non contraddittori, tanto è vero che si possono ridurre a uno solo (a è), e quindi persuasivi, con cui si può IN-DICARE (SEGNARE) l'Essere. L'Essere, dunque, non si può umanamente che IN-DICARE, tanto è vero che, alla fine, Parmenide non può non pensare l'Essere che come sfericità compatta. Esso è compiuto tutto intorno, uguale alla massa di una rotonda sfera, che dal centro preme in ogni parte con ugual forza giacché· è necessario che non sia in questo o in quel punto di poco piu grande o piu piccolo. Da ogni parte identico a se stesso, urta in ugual maniera nei suoi confini (fr. 8, vv. 42-45, 49). Parmenide crede cosi di risolvere nell'unità totale dell'Essere la contradditoria opposizione unità-molteplicità, definito-indefinito dei pitagorici. Non a caso egli dice. Ti tengo lontano da quella via su cui errano i mortali che niente sanno, uomini a due teste... gente indecisa per cui l'essere e il non essere è lo stesso e non è lo stesso, e per cui di ogni cosa v'è una strada, che può esser percorsa in due sensi (fr. 6, vv. 3-5, 7-9). Si può in questi versi scorgere una critica ai primi pitagorici e, forse, ai motivi piu diffusi e facili di Eraclito. Risolta, dunque, nell'Unità totale dell'Essere la molteplicità, il nascere e il perire, quella stessa molteplicità, quello stesso nascere e perire si rivelano contraddittori e quindi non veri. Il che significa che la contraddizione sta nel porre e nel definire le cose come enti o esseri accanto a enti o a esseri, cose che per sé nascono e per sé periscono, nel definire le cose come cose. Cosi facendo si ritiene, si opina di aver colto l'essenza, le forme delle cose, mentre in effetto si sono distaccati gli aspetti dell'è, si sono contraddette le cose, cioè l'essere stesso, onde opiniamo vero ciò che in effetto non è che puro nome. Perciò non sono che puri nomi quelli che i mortali hanno posto, convinti che fossero veri: divenire e perire, essere e non-essere e cambiar di luogo e mutare lo splendeQte colore (fr. 8, vv. 38-41). E qui va sottolineato che Parmenide non dice come Eraclito essere - non essere, nascere - morire, unica cosa. Ma dice essere e non essere, divenire e perire. Nell'e disgiuntivo sta la contraddizione e, dunque, il non vero, nella denominazione e definizione (nel contornare la cosa in senso pitagorico). E questo è tanto piu chiaro all'inizio ·della seconda parte (l'Opinione) del poema, ove Parmenide dice. I mortali nelle loro dottrine hanno dato nome a due forme, di cui una è di troppo- e in questo è il loro errore- e apponendole ne distinsero la figura, e vi apposero segni assolutamente diversi l'uno dall'altro. Qui la fiamma del fuoco etereo, dolce, e lieve al piu alto grado, e dappertutto uguale a se stesso,  ma non uguale all'altro; ed anche quello per sé, come suo contrario: la notte senza luce, massa densa e pesante (fr. 8, vv. 53-59). Nella molto dibattuta questione Parmenide sembra che chiaramente e consapevolmente, indicando la via da seguire, batta l'accento su ciò che è fondamentale per ogni ricerca, che, cioè, bisogna innanzi- tutto rendersi conto del campo e dell'orizzonte del proprio lavoro, ri-chiamando al principio che non è affatto afferrare e comprendere le cose il definirle, il raffigurarle, il nominarle: questa è, appunto, opi-nione, illusione. Il che non significa che, resisi conto di questo - che la realtà definita e SEGNATA con piu nomi diversi è un'illusione, è non vera, mentre l'Essere in quanto tale, il solo pensabile, si risolve nell'Unità totale, per cui il vero è l'Essere tutto, immobile e compatto, - il definire e il numerare, il distinguere e il nominare non siano, emro questi stessi limiti, un lavoro valido e utile. Appresa la verità, anche questo imparerai, come l'apparenza debba configurarsi, perché possa veramente apparir verisimile, penetrando il tutto in tutti i sensi (fr. l, vv. 28-32). Si chiarifica cosf il motivo della Notte e del Giorno del proemio che ora ritroviamo all'inizio della parte dedicata all'Opinione. L'unica via, che è quella del pensiero e sulla quale conducono le vergini Eliadi, porta oltre le distinzioni originarie di Giorno e di Notte (oltre quelle distinzioni che son servite all'uomo per definire e intendere il reale) annullando ogni distinzione nell'unicità dell'essere che è. Solo ora, solo quando si sia consapevoli di ciò, possono sussistere i due mondi, il mondo della verità e quello dell'opinione, come due modi diversi di cogliere l'unica realtà: sentita e tradotta in parole da un lato (opinione), e, dall'altro lato, còlta col pensiero e tradotta in una sola parola, la parola per eccellenza, è. Quando si sia consapevoli di questo, si coglie il valore ipotetico delle opinioni, che possono determinare e ritagliare una certa realtà verosimile. Di qui - crediamo - tra le opinioni, si pone l'opinione di Parmenide su come sia costituito il cosmo, di cui, pur- troppo, non abbiamo che oscuri accenni in Aezio. Quella di Parmenide sembra fosse una visione dell'universo concepito come un complesso di cerchi concentrici, costituenti tutti una sola circolarità, che, forse, era l'immagine verosimile dell'Unità del Tutto, della Sfera, e, sotto altro aspetto, giustificazione delle opinioni dei pitagorici. Avendo cosi risposto Parmenide alla dibattuta questione, avendo risolto l'essere, per non contraddizione, in una massiccia unicità, portando ad estrema conseguenza il tema parmenideo si poteva giungere alla considerazione che, in effetto, l'unico piano che resta all'uomo in quanto uomo è il mondo della opinione e delle parole, sulle quali parole si configura la realtà stessa e non viceversa. Sarà questa clusione di Gorgia; o ~ rovesciata la questione - si poteva giungere alla possibilità, sul piano delle parole, di infinite contraddittorie, che, in altro ambiente, e per interessi diversi - verso le discussioni e le antilogie dei sofisti e la confutazione di -potranno essere le conclusioni eleatiche dei Megarici. Senza le premesse di tale discussione e problematica si precisano chiaramente nei finissimi argomenti di Zenone di Velia, diseepolo e difensore di Parmenide, in cui si vede bene il taglio netto tra l'essere che è e in cui tutto si annulla, e il mondo umano costruito dall'uomo stesso. All'inizio del “Parmenide” Platone narra che una volta, durante le grandi Panatenee, Parmenide e Zenone vennero ad Atene. Parmenide era allora molto innanzi negli anni, tutto bianco, ma d'aspetto bello e nobile, e aveva circa sessantacinque anni. Zenone si avvicinava allora ai quaranta anni, di grande statura e bell'uomo (Parmenide). Platone dice, poi, che in quell'occasione Zenone lesse un saggio che scrive per difendere la tesi di Parmenide, ma k:he quel libro egli compose per amor di polemica e che per giunta un tale glielo aveva sottratto, per cui, Platone fa dire a Zenone. Nnon ebbi neppure il ternpo di pensare se fosse o no il caso di darlo alla luce (128a). Platone, forse, per dare avvio alla sua discussione, probabil-mente nei confronti dell'eleatismo megarico, si riallaccia di proposito a Zenone e a Parmenide mettendoli in rapporto con Socrate, allora giovanissimo, quel Socrate di cui poi i megarici furono discepoli. Può darsi, dunque, che Platone forza la notizia di Zenone ad Atene insieme a Parmenide, in un'epoca, il 455-450, in cui sembra difficile, per ragioni cronologiche, che Parmenide sia potuto venire ad Atene, o avesse circa sessantacinque anni. Nulla vieta, invece, di pensare che Zenone sia stato effettivamente ad Atene, anche se in epoca diversa. Discepolo di Parmenide, Zenone nacque ad Elea nel 500/490. ·Platone (Parmenide, 127b) narra che nel 452 circa Zenone, venuto con Parmenide ad Atene, aveva circa quaranta anni. Tutte le fonti lo presentano come uomo prestante e altamente intelligente, che prese attiva parte alla vita politica della sua città, dove sarebbe eroicamente morto combattendo il tiranno Ncarco, quando, preso da Nearco e torturato, per non parlare si spezza la lingua con i denti, sputandola addosso al tiranno. Sembra che la struttura originaria del saggio di Zenone (o dei suoi saggi) fosse antinomica, e che [Altro punto sospetto è che Platone dice che il saggio che Zenone scrive e stato fatto circolare senza il permesso dell'autore. Potrebbe questo essere indice che Platone, in effetto, non espone la tesi vera di Zenone, anche se, nella finzione del dialogo, Zenone stesso approvi, con qualche riserva, il sunto che dei punti salienti dà Socrate. Platone, nel Parmenide tende a dimostrare l'impossibilità di pensare l'essere di Parmenide che porta dietro di sé l'altrettanta impossibilità di pensare i molti, onde, postici sul piano di Parmenide, risulta impossibile il discorso, un qual- sivoglia giudizio. Non interessa ora la soluzione di Platone e il suo tentativo di poter pensare l'Essere come dialetticità corrispondente alla dialetticità del pensiero, per cui si rendeva possibile porre un tutto oggettivo. come ordine dialettico e misura su cui scandire, attraverso la conoscenza di sé, lo stesso ordine politico. È tuttavia importante sottolineare che nei confronti dell'uno di Parmenide e delle opere di Zenone (che accettando l'ipotesi di Parmenide e anche accettando che l'uno di Parmenide si può, all'estremo, ritenere assurdo, vuoi dimostrare che altrettanto assurdo è porre unità accanto a unità, come i pitagorici, quando si ritenga che queste siano realtà per sé e non puri nomi), la polemica di Platone chiarifica quella che storicamente dev'essere stata l'aporia fondamentale in cui doveva trovarsi il lettore del saggio di Zenone. In verità - abbietta Zenone nel Parmenide di Platone - questo mio saggio vuol essere in certo modo una difesa della dottrina di Parmenidc contro quelli che cercano di metterla in ridicolo sostenendo che la tesi dell'esistenza dell'uno va incontro a molte conseguenze ridiwlc c contraddittorie. Vuole confutare perciò questo mio saggio quelli che asseriscono l'esistenza dei molti c render loro la pariglia e anche di piu, cercando di mostrare che la loro ipotesi dell'esistenza dei. molti va incontro a conseguenze ancor piu ridicole di quella dell'uno se si vuole andare in fondo alla ricerca (l28c-d). In effetto qui Platone corregge la sua prima affermazione che Zenone e Parmenide avessero detto la stessa cosa ("dite su per giu la cosa medesima ": 128b}, e per i suoi intenti lascia cadere la precisazione di Zenone. Ma ciò è fondamentale, perché, in genere, è con questi abili accenni che Platone distingue quello che a lui importa da quello che accantona, ma che corrisponde, quasi sempre, alla verità storica. Zenone, quaranta fossero gli argomenti contro la tesi che sostiene il molteplice e il moto. Platone che vede in Zenone il difensore dell"Uno di Parmenide, lo chiamò il "PALAMEDE eleatico" (Fedro). ] dunque, sarebbe parmenideo alla rovescia. Egli accetterebbe che l'Uno tutto di Parmenide porti alla finale contraddizione dell'impensabilità - proprio sulla via del pensiero - dell'Uno stesso. Solo che la facile critica dell'annullarsi dell'Uno deve tener presente che, ammessa la esistenza dei molti, di punti accanto a punti, come enti reali, si cade nelle stesse contraddizioni di chi pone l'uno. Zenone non dice mai cosa sia l'Essere. Zenone nega che posti i molti come esistenti, sul piano logico i molti esistano, confermando cosi la tesi parmenidea che i molti in quanto tali, in quanto definizioni, non sono che puri nomi. Ammessa, dunque, pitagoricamente, l'esistenza di punti reali costituenti le cose, bisogna necessariamente ammettere che ciascuna di tali unità in quanto punto ha una grandezza, anche se minima, onde in ogni punto vi sono infiniti punti e quindi ogni punto-unità sarà infinitamente grande; se il punto poi non ha gradezza, poiché le cose si costituiscono come aventi grandezza per l'unione dei punti, come sarà mai possibile che punti senza grandezza diano luogo a grandezze? n punto dunque, se non ha grandezza, non è (fr. l, 2). Ancora: ammesse piu cose costituite di punti, esse saranno ad un tempo in numero finito e infi.t;lito, il che è contraddittorio: saranno in numero finito, perché non possono essere piu o meno di quante sono; infinito perché tra l'una e l'altra ve ne sarà un'altra ancora, e tra questa e l'altra un'altra ancora all'infinito (fr. 3). Ancora: ammessa la molteplicità di cose reali per sé, bisogna ammettere o che sono continue, onde la molteplicità si annulla nella continuità, che, essendo divisibile all'infinito, è costituita di infiniti punti a loro volta divisibili all'infinito, fino al nulla; oppure che ogni cosa, limitando l'altra, occupa uno spazio e si distingue dal- l'altra per uno spazio: ma allora ogni spazio in quanto luogo implica un altro luogo e cosi all'infinito, sino all'unico luogo cioè l'uno, cioè il nulla (Aristotele, Fisica, 209a-210b; Simplicio, Fisica, 140, 34, 562, 1). Entro questa linea rientra anche il cosiddetto argomento del grano di miglio. Un grano o la decimillesima parte di un grano di miglio fa rumore: ora se fra un grano di miglio e un medimmo c'è proporzione, vi sarà proporzione anche tra i suoni, per cui se un medimmo di miglio fa rumore lo farà anche un solo grano (Aristotele, Fisica, 250a~ 19; Simplicio, Fisica, 1108, 18), ma ciò non avviene. Evidentemente quest'ultimo argomento rientra nei termini dei primi. Se l'uno, o la totalità, è impensabile irrelativamente, altrettanto impensabili sono i molti qualora si pongano quali realtà accanto a realtà. Nessuna parte del molteplice costituirà il limite ultimo e nessuna sarà senza una relazione con un'altra" (fr. 1). Poiché i molti sono impensaolli, se non. determinati come variazione di quantità di un CONTINUO, e poiché IL CONTINUO si può rappresentare come retta all'infinito, fino al nulla, i molti, se posti come realtà per sé, non sono. Cosi nell'ipotetica retta (nulla è pensabile se non in quanto estensione ed estensione che si qualifica) altrettanto inconcepibile è il moto, o meglio la possibilità dello spostamento e del passaggio da punto a punto, ché, dato, ad esempio, un segmento AB, tra A e B posta una metà A', necessariamente tra A e A', vi sarà una metà A" e cosi vita all'infinito – eis apeiron -- (argomento della dicotomia, cioè della divisione in due: Aristotele, Fisica, 233a, 239b, 263a; Simplido, Fisica, 1013; 4). Evidentemente non vi è allora passaggio tra un ipotetico primo punto A e il punto della linea accanto ad A, onde si può dire che Achille piè veloce" (in A) non raggiungerà mai la tartarugà che sia un passo avanti (in A"), ché, in effetto, logicamente, né l'uno né l'altra si muovono (argomento dell'Achille: cfr. Aristotele, Fisica; Simplicio), tanto piu che la linea, essendo costituita d'infiniti punti, è divisibile all'infinito, e quindi, all'infinito, si annulla. Analogamente LA FRECCIA non raggiungerà mai il bersaglio, dovendo percorrere l'infinito e rimanendo sempre ferma al punto di partenza (argomento della freccia: cfr. Aristotele, Fisica, 239b; Simplicio, Fisica, 1015, 19; Filopono, Fisica, 816, 30; Temistio, Fisica, 199, 4). Infine, dei presunti quaranta argomenti con i quali Zenone avrebbe dimostrato la contraddittorietà in cui pone o l'esperienza sensibile o la definizione dei dati che implicano la molteplicità o il movimento, abbiamo l'argomento detto dello stadio. Considerando in uno stadio un punto mobile che va ad una certa velocità, se lo si considera rispetto ad un punto fermo andrà, ad esempio, a dieci chilometri l'ora, se lo si considera invece rispetto a un altro punto mobile che vada alla sua stessa velocità in senso opposto, quello stesso mobile va a venti chilometri all'ora. Il quarto argomento - dice Aristotele - è quello delle due serie di masse uguali che si muovono in senso contrario nello stadio, lungo altre masse uguali, le une cioè a partire dalla fine dello stadio, le altre dalla metà, con velocità uguale; la conseguenza è, secondo Zenone, che la metà del tempo è uguale al doppio (Fisica, 239b; cfr. anche Simplicio, Fisica, 1016, 9 sgg). I celebri argomenti sul movimento, con cui, accettata la premessa che esiste il moto, con ferrea consequenzialità, di deduzione in deduzione, si dimostra come-sul piano logico, contraddicendosi, non si possa se non negare il moto (onde, appunto, Aristotele, secondo Diogene Laerzio, VIII, 57, nel “Sofista” andato perduto - ha potuto dire che Zenone fu padre della DIALETTICA, come arte del confutare), ci sono rimasti attraverso le discussioni e le critiche di Aristotele. Non sappiamo, in effetto, se tali argomenti fossero proprii del saggio di Zenone, ché le fonti precedenti, ivi compreso Platone (che fa intravedere solo gli argomenti contro l'esistenza della molteplicità), ne tacciono. Certo gli argomenti sul movimento potevano essere conseguenza di quelli sulla pluralità, che, portando a dimostrare l'intraducibilità della fisica in termini logico-matematici, per l'impensabilità del CONTINUO SPAZIALE, portavano anche a rendere impensabile il continuo temporale-spaziale su cui si determinano, definendoli, i punti-geometrici, i cui rapporti di movimento divenivano rapporti spaziali e, quindi, ancora una volta impensabili o contraddittori. La polemica di Zenone sembra quindi rivolta sia contro i punti- cose dei primi pitagorici (o se si vuole contro la riduzione a numeri interi delle cose da parte dei primi pitagorici), supponendo i numeri irrazionali, sia contro l'impossibilità di ridurre le esperienze della vita, della mutevolezza, alla sfera della ragione e dei numeri, senza perdere in puri nomi quella stessa vitalità. Le conseguenze della discussione di Zenone, tenendo presenti certe posizioni a lui contemporanee o immediatamente posteriori - lasciando da parte le implicazioni che vi hanno veduto certi storici, riferendo le tesi di Zenone ad alcune delle concezioni della matematica e della fisica moderna, - sembrano potersi indicare nei seguenti punti: l. impossibilità di ridurre la fisica in termini matematici; 2. conseguente impossibilità di pensare, e quindi di definire, sia l'Essere come totalità, sia la molteplicità; 3. consapevolezza che ogni ricostruzione matematica è valida, in quanto ipotetica e che altrettanto ipotetica è ogni ricostruzione fisica. Sul piano storico si determinano cosi: posizioni diverse, a seconda di quale aspetto della problematica, impostata da Zenone, veniva approfondito. O si insistito sul continuo giungendo a risolvere e ad an- nullare i molti (che restano come determinazioni valide su di un piano puramente linguistico) nel continuo stesso, cioè nell'infinita unità (Me- lisso); o si è risolto l'uno su di un piano puramente matematico, per cui l'uno non è nessuno dei punti della serie, né il pari né il dispari, ma la possibilità dell'uno e dell'altro, e che nell'opposizione-armonia dà luogo a un'ipotesi logica che spiega un'ipotesi fisica (Filolao e piu tardi Archita); o si è assunta l'ipotesi fisica del continuo divisibile al- l'infinito in infiniti punti ognuno dei quali, infinito, ha in sé tutte le infinite possibilità, gl'infiniti semi vitali, onde in ogni punto tutto è tutto (Anassagora); o si è fatta l'ipotesi che gli infiniti punti, proprio perché infiniti e quindi escludenti un passaggio dall'uno all'altro all'infinito costituiscono infiniti limiti, d'onde una infinita serie di limiti, d'indivisibili (atomi) implicanti nel limite una separazione, cioè un altro limite come vuoto (Leucippo, che fu discepolo di Zenone, e Democrito). Infine, se da un lato la problcmatica di Zenone portava a impo- stare l'intelligibilità del reale non come afferrante la struttura in sé del reale stesso, ma come ipotesi o fisica o matematica, dall'altro lato portava, nella consapevolezza dell'impossibilità logica dell'Essere o del divenire, della Verità, a rimanere sul piano dell'opinione c del discorso umani, entro i termini dello stesso mondo dègli uomini e dei loro rapporti (Protagora, Gorgia). Da quelli che sembrano essere i frammenti autentici del poema di Empedocle di Girgenti, che va sotto il tradizionale titolo “Sulla natura”, ciò che pare potersi ricavare è la seguente concezione. La realtà tutta è costituita di quattro elementi o radici (p~~6ljL«T«): fuoco (Zeus lucente), aria (Era donatrice di vita), terra (Edoneo), acqua (Nesti, le cui lacrime son fonte di vita per i mortali); Tali radici non hanno nascita (&yhot-r«). Ciò che vico detto nascere e perire non è altro che il mischiarsi in uno o altro modo degli elementi di fondo. Vi sono due forze, l'una che unifica (amor~, cpLÀEot), l'altra che separa e distingue (discordia o odio, ve!xoc;), mediante cui la realtà tutta si scandisce in un ritmo, ovc a un primo momento, in cui predomina la forza unificatrice (amore) e in cui le quattro radici (tutte uguali c tutte aventi la stessa dignità: fr. 17, vv. 27-30) sono mescolate insieme come in uno sfero (si è parlato di ricordi parmenidei), succede un momento in cui nella lotta di Odio e di Amore - non ancora del tutto disgiunte le radici [Nato ad Girgenti nel 492 circa, sembra che Empedocle sia morto nel 432. Le notizie sulla sua vita e sulla sua morte sono leggendarie. Si dice che abbia avuto rap- porti coi pitagorici (cfr. Diogene Laerzio, VIII, 54-55) e con Parmenide, durante un suo viaggio a Velia (Teofrasto, Pllys., fr. 3, Dids, DorograpA; G., p. 477). Fu di parte democratica e politicamente attivo. Sembra che Empedocle abbia scritto piu opere; di una parte di esse non ci son tramandati che i titoli (Politica, Della med;cina, Proemo ad Apollo); d d poema Sulla Natura (ficp\ ~)leggiamo I l i frammenti, del poema Puri#- caz;o,; (l{d«pJLOl) pochi frammenti. 62    sorge la vita vera e propria, che è amore e contesa a un témpo, unità e distinzione, finché per il predominiò di Odio le quattro radici si di- stinguono totalmente restando masse accanto a masse. In effetto il ciclo cosmico è sempre tutto insieme uno, ché l'Essere consiste appunto in questo scorrere e trapassare dall'unità dello sfero alla distinzione delle radici, dall'uno all'altro polo, ove l'essenza delle radici resta sem- pre quella che è, mutandosi le cose per la tensione delle due forze op- poste: le due forze che reggono il mondo sono state ieri e saranno domani, e mai l'infinito tempo di questa coppia sarà vuoto (fr. 16). D'altra parte la massa dell'acqua, o quella del fuoco, o della terra, o dell'aria, è costituita, ciascuna, d'infinite particelle d'acqua, di terra, di fuoco, di aria, onde nel momento d'Amore sono tutte fuse e confuse insieme, mentre nel momento di Odio si distinguono separandosi e tutte le particelle di acqua si unificano nell'acqua, quelle di fuoco nel fuoco, quelle di terra nella terra, quelle di aria nell'aria. Aristotele poteva cos(sostenere che Empedocle cadeva in contraddizione perché, alla fine, Amore separa e Odio unisce: quando, infatti, per opera di Discordia, il tutto si disgiunge negli elementi, allora il fuoco si.raccoglie in una unica massa, e cosi ciascuno degli altri de- menti; quando, al contrario, per azione di Amore, essi si raccolgono nell'Uno, è necessario che di nuovo le parti di ciascun elemento si separino fra loro (Metaf.). A parte l'abbiezione di Aristotele, ciò che resta proprio di Empe- docle è che la realtà è costituita di infinite particelle di acqua, di terra, di fuoco, di aria, che, distinte per qualità, sono, come sfondo originario su cui tutto si ritaglia, una unità indistinta, ove le distinzioni avvengono per la tensione delle due forze. E allora, per Empedocle, la vita, l'esistenza, è appunto il momento intermedio, che non è né pieno amore né pieno odio, ma, appunto, la tensione i cui momenti estremi sono come termini ideali di un ciclo, che in quanto ciclo è sempre quello che è, cioè la tensione stessa. I dati dell'esperienza, portata all'estremo, dànno che tutto ciò che è, è riducibile a quattro elementi: solidi (terra), liquidi (acqua), aeri- formi (aria e fuoco). Tali elementi sono irriducibili ad altro, se non all'essere che è i quattro elementi stessi nella loro unità, donde l'ipotesi di un'unità ongmaria e di una distinzione ultima, entro·cui, come arco di un pendolo, oscilla il costituirsi di tutte le cose, in virtu delle forze di attrazione e di repulsione, cui si giunge, sempre per esperienza, in quanto forze che ciascuno vive quotidianamente. Questo sembrano significare i versi del secondo frammento. Angusti poteri sono diffusi per le membra. Gli uomini vedono solo una piccola parte di una vita che non è vita. Condannati a pronta morte, sono rapiti e si dileguano come fumo. Ognuno di essi è persuaso solo di ciò in cui a caso s'imbatte. E sospinto in tutte le direzioni si vanta di scoprire il tutto. Tanto è difficile che queste cose siano viste o udite dagli uomini e abbracdate dalla loro mente. Tu, dunque, poi che sei qui giunto, saprai non piu di quanto la mente umana possa (fr. 2). L'uomo in quanto uomo, in quanto amore e odio a un tempo, in quanto fusione ancora e distinzione dei quattro elementi, se da un lato non può cogliere il momento originario della totale fusione nello ~fero (fr. 27-28) d'amore, ché in quel momento, questa attuale realtà, l'uoniò, non è piu (a lui, all'essere, è impossibile accostarci s1 da raggiungerlo con gli occhi e afferrarlo con le mani, che è la via di persuasione maggiore che arrivi al cuore dell'uomo (fr. 193), dall'altrv lato tuttavia può rendersi conto, proprio perché la realtà quale appare all'uomv è unione e distinzione degli elementi, che i due termini estremi sona unità totale e fusione delle radici e distinzione delle quattro radici in masse accanto a masse. Ipotesi l'una e l'altra (tu dunque saprai solo questo cui poté assurgere la mente umana -- fr. 2), fondata sull'esperienza di ciò che all'uomo, momento della realtà tutta, è dato sentire, vedere, toccare, vivere, in quanto esperienza di vita, cioè di forze vitali nella loro opposizione. E te vergine Musa dalle candide braccia, supplico, di ciò che è giusto udire agli uomini che hanno la vita di un giorno. Tu, dunque, uomo, con ogni tuo potere scorgi, in quanto è palese, non piu fidando all'occhio che all'orecchio, non all'orecchio sonoro oltre la chiara fede del gusto, e a nessuna delle altre membra, per quante è una via di conoscenza, nega fede, ma conosci ogni cosa in quanto è palese (fr. 4). E poiché, appunto, la via di persuasione maggiore che arrivi al cuore dell'uomo è la via dell'esperienza diretta (fr. 193), è questa che pone l'uomo di fronte alla realtà costituita di terra, di fuoco, di acqua, di aria, e a questa Empedocle richiama. Su via! Vedi un po' se nelle testimonianze che ti ho dato ho commesso qualche errore, parlando della forma ((Lopq~~) degli elementi. Guarda, dunque, il bianco sole il cui calore ovunque si spande, e tutte le costellazioni infuse di vaporosa chiarezza, e la pioggia che reca freddo e nuvole ovunque, e la terra donde scaturisce tutto ciò che è saldo e compatto. Non solo, dunque, si dimostra l'esistenza del fuoco, dell'acqua e della terra per via puramente sperimentale, ma anche l'esistenza dell'aria, cioè dello spazio come pienezza corporea, escludente il vuoto che è non essere inconcepibile, mediante la prova famosa della clessidra. Empedocle descrivendo il processo respiratorio, dimostra l'esistenza dell'aria come corpo, immergendo una clessidra nell'acqua. Quando una fanciulla, giuocando con una clessidra di lucente rame, ne copre il foro con la sua mano ben modellata, e la immerge nella cedevole argentea pozza, il volume dell'aria che preme dall'interno dell'orifizio impedisce all'acqua di entrare, finché la fanciulla non libera la corrente d'aria compressa. Allora, non appena l'aria ne esce, l'acqua vi entra in quantità uguale. E, cosi, sperimentabili sono le due forze (amore e odio) dalla cui tensione nascono e muoiono tutte le cose, senza che gli elementi subi- scano variazione. E manifesta è la lotta tra Amore e Odio anche nell'insieme del corpo umano. Quando sotto l'azione di Amore, gli elementi si riuniscono in una sola massa, allora i corpi fioriscono di crescente vita; quando sono disgiunti dalla funesta Discordia, allora le membra errano separatamente verso le prode estreme della vita (fr. 20). L'uomo, dunque, in quanto momento intermedio dell'oscillazione pendolare del tutto, trovandosi come al momento culminante della tensione su cui la realtà tutta si scandisce, avendo in sé gli elementi e le forze su cui si struttura la realtà, può conoscere la realtà stessa in quanto le sue strutture coincidono con le stesse strutture costitutive della realtà. Di qui l'affermazione di Empedocle che il simile conosce il simile, che fra le parti vi è un'attrazione simpatetica. Si pone cosi in maniera consapevole il problema del conoscere, possibile in quanto le strutture della realtà coincidono con le strutture del soggetto, in una identificazione delle parti del soggetto alle parti dell'oggetto (con la terra vediamo la terra, con l'acqua l'acqua, con l'etere l'etere divino, e  col fuoco il fuoco distruttore, con l'Amore l'Amore e con la funesta Discordia la Discordia (fr. 109), ch'entrano in comunicazione mediante effluvi emananti dalle cose e che penetrano nei sensi per mezzo di pori. t evidente in Empedocle una forte preoccupazione metodologica, per spiegare il ritmo della realtà tutta, una e, nell'unità, molteplice. Fondandosi sui dati di un'esperienza totale, si rende verosimile l'ipotesi fisica del tutto i cui termini opposti, idealmente dati (la fusione di tutti gli elementi, la separazione degli elementi accanto agli elementi), diano conto di quella che è in atto la presenza della realtà. Ipoteticamente son cosi concepibili i due estremi dell'unica oscillazione e. la formazione e la disgiunzione della situazione attuale. Dalla fusione del tutto, poi, via via, si costituirono le cose: dapprima, ad esempio, sulla terra spuntarono teste senza colli, ed erravano le braccia nude prive di spalle, vagavano occhi soli sprovvisti di fronti (fr. 57). Molti esseri nacquero con doppie facce e petti, e buoi con facce d'uomini, o sorsero busti umani con teste bovine, e forme miste di maschi e di femmine, provviste di membra villose (fr. 61). Per giungere infine, attraverso il punto intermedio della parziale unificazione e disgiunzione, alla totale disgiunzione degli elementi. Una, dunque, la realtà, e molteplice a un tempo. Immobile nell'essere dei suoi elementi, mobile nello svariare dellè congiunzioni e disgiunzioni, entro il ritmo delle due forze opposte che governa il tutto, il tutto che sempre è, pur nelle sue facce molteplici. Si capisce cosi come anche Empedocle {leghi ogni antropomorfismo, come egli canti l'essere uno vitalità, “cpp-l)v”, ineffabile, che per tutto il mondo si slancia con veloci pensieri (fr. 134), come l'appello alla natura sia- un appello polemico, di contro a certe credenze popolari, un appello all'indagine scientifica. Gli uomini vedono solo una piccola parte di una vita che non è vita. Condanna~ a pronta morte, sono rapiti e si dileguano come fumo. Ognuno di essi è persuaso solo di ciò in cui a caso s'imbatte. E sospinto in tutte le direzioni si vanta di scoprire il tutto. Tanto è difficile che queste cose siano viste o udite dagli uomini o abbracciate dalla loro mente. Tu dunque, poi che sei qui giunto, saprai non piu di quanto la mente umana possa (fr. 2). L'appello di Empedocle all'esperienza è chiaro. Egli distoglie l'amico Pausania, cui il poema è dedicato, dal disperdersi dietro ciò che appare nell'immediatezza, dall'aver brama di ciò cui tendòno gli uomini volgari, per richiamarlo ad ascoltare e a meditare sul suo insegnamento: Se nella trama serrata del tuo pensiero comprendi con chiarezza le mie lezioni, se con spirito puro ti lasci iniziare, le mie tesi tutte e per sempre ti saranno presenti e molte altre ancora ne acquisterai, perché per sé si QCcrescono nell'uomo, ciascuna secondo la sua natura (fr. 110). Attraverso l'indagine della natura, di esperienza in esperienza, in un collegarsi intelligente delle esperienze stesse, l'uomo, egli stesso natura, si fa davvero partecipe della natura, modificandola in un unico processo. L'indicazione evidente del metodo costituisce una tecnica con cui operare, e adeguarsi alla realtà stessa: Conoscerai cosi quanti rimedi vi sono dei mali e riparo della vecchiaia. Placherai. L’mpeto degli infaticati venti, che, balzando sulla terra, con il loro soffiare inaridiscono i coltivati, e, se tu vuoi, potrai richiamarli quando possano servire. Dopo la pioggia darai all'uomo la siccità propizia, e dopo l'arida estate la feconda acqua che nutre l'albero e le messi future (fr. 111). Di qui, probabilmente, e da altri testi simili a questi è nata piu tardi la leggenda di un. Empedocle mago e taumaturgo, nell'epoca in cui sono nate anche le leggende su Pitagora, che non a caso è stato piu volte avvicinato a Empedocle. Si narra che Empedocle fa sbarrare una gola montana da cui soffiava, greve e pestilenziale, il vento di mezzogiorno sulla pianura (Plutarco, De curios., 515c); che arresta la pioggia, che salva gli agrigentini da una pestilenza e cosi via. Potremmo moltiplicare gli esempi. Evidentemente, in un'epoca che anda rintracciando, a sostegno di proprie tesi, dati miracolosi, si son ritagliati certi aspetti e certi testi di Empedocle, che potevano servire. In effetto, ricollocando Empedocle nel suo tempo (nacque nel 492 circa e muore nel 432), nella sua città, Girgenti, in un'epoca di grande attività economica e politica, in una Sicilia in cui sappiamo che circolano le idee di Senofane, di Pitagora, della scuola medica di Crotone, di Parmenide, di Eraclito, la figura e la personalità di Empedocle non hanno nulla di straordinario. Egli e uno scienziato, che, atraverso una serie di esperienze, formula, tenendo presenti i risultati di Parmenide, di Eraclito e la polemica di Senofane, l'ipotesi del tutto che costituito di quattro elementi, fusi e confusi in una sola unità come sostrato, si distinguono ed. esistono per virtu di due forze opposte. Ora, se il metodo di Parmenide e uno metodo strettamente logico, quello di Empedocle è un metodo empuiStlco e razionale, che imposta, a sua volta, il problema del rapporto fra natura e uomo che; parte della natura, può, in quanto sappia il ritmo della natura stessa e la sua costituzione, modificare sé e la natura. Sotto questo aspetto la fisica di Empedocle è, ad un tempo, la sua morale, tesa, attraverso l'indicazione del metodo e delle vie dd conoscere, a purificare gli altri, la maggioranza dei cittadini ignoranti, legati a tradizioni, a riti, a concezioni che Empedocle, conscio di una piu ardita cultura, sente come estremamente invecchiati e falsi. Cosi, leggendo i pochi frammenti che sono rimasti dell'altro suo carme, “Le purificazioni” {xot&otp!Lo(), si ha la consapevolezza precisa di trovarci di fronte a un uomo vissuto in un certo ambiente, che ha la coscienza di respirare una nuova atmosfera culturale, effettivamente civile, e in questo senso purificatoria, di avere. contribuito a fare avanzare la scienza, che non può essere solo patrimonio di alcuni, ma che diviene davvero operante in quanto si divulghi, formi una diversa coscienza critica, un diverso equilibrio e rapporto umano che diviene, dunque, azione politica, naturalmente entro i termini di una certa situazione storica. In quanto rivolta ai piu, ai concittadini di Agrigento popolosa e arretrata, la sua lezione può apparire come profetica. Ma come storicamente, per non equivocare, non diremmo Empedocle taumaturgo, cosi neppure lo diremmo profeta o mistico. Il suo discorso ai piu, il carme pun"'ficatorio, è, in effetto, molto chiaro nella sua genesi, quando lo si riconduce a quello che probabilmente ha voluto essere. Il discorso di un saggio che rivolgendosi a un pubblico, a una massa, senza dubbio arretrata, usa un linguaggio comprensivo per quel pubblico, al quale egli appare, appunto perché sapiente, come un dio e un sacerdote di una nuova religione. Sotto questo aspetto la sua parola vuoi essere incantatrice, indicando ai piu.la via da seguire, indicando, pur nella necessaria discordia, la strada dell'equilibrio e dell'amore, facendosi dunque parola medica e politica. Amici, che abitate la grande città che declina al biondo Acragante, sul sommo della cittadella, uomini usi a fare buone opere, fidi porti di ospiti, che non conoscono la perfidia, a voi salute. Io al vostro cospetto non piu· mortale, ma un dio, mi aggiro, fra tutti onorato come ne sono degno, coro- nato di bende e di fiorenti serti. Uomini e donne mi venerano e mi seguono in grandissimo numero, chiedendo la risposta mia che guida a salute. Gli uni vogliono oracoli, altri di malattie innumeri domandano la parola che sana, lungamente da aspre doglie trafitti (fr. 112). La via che guida a salute, la parola che sana. Aristotele dice (secondo Diogene Laerzio, VIII, 57, nel “Sofista” perduto) che come Zenone di Velia inventa LA DIALETTICA, Empedocle inventa LA RETORICA, l'arte del dire. E cosi si dice anche che Gorgia, fratello di un medico, e discepolo di Empedocle, e che Empedocle scrive anche un trattato di medicina, e che ha contatti con i medici di Crotone, con i medici pitagorici e con i medici agrigentini Pausania e Acrone. Non possiamo giurare sull'esattezza di queste notizie, ma sono sintomatiche di un certo indirizzo. Senza dubbio il Carme Purificatorio (ch'ebbe grande successo anche quando fu letto ad Olimpia) è una specie di discorso medico-oratorio (iatrosofistico), probabilmente sulla linea dei discorsi medico-incantatori dei primi pitagorici e della scuola medica di Crotone (anche se diverso n'è l'insegnamento), che venivano, d'altra parte, a coincidere, data una precisa concezione del tutto, con il movimento politico delle democrazie sicule. E democratico e politicamente attivo sappiamo che e Empedocle. Ora, se in Empedocle abbiamo una concezione fisica che puo, nel suo insistere sull'uomo come parte del tutto e partecipe della vicenda cosmica, coincidere con.certe visioni dionisiaco-popolari, d'altra parte egli, giuocando su quelle, tende a purificarle di ciò ch'esse, sul piano rituale, avevano di torbido e d'irrazionale; e, rifacendosi appunto alla concezione del ciclo cosmico, ove nella vicenda del tutto nulla va perduto, per cui su di un piano mitico si puo sostenere la trasmigrazione delle anime, tenta di allontanare il volgo dall'uso dei sacrifici umani e dall'antropofagia, lascito d'antichi riti. Empedocle, cosi:, sottolinea che l'uomo, in quanto parte della natura, è divino, onde compito dell'uomo è uniformarsi al ritmo stesso su cui si scandisce il tutto, tendendo all'equilibrio delle forze, di Amore e di Discordia, senza far prevalere Discordia, la cui mancanza tuttavia annullerebbe l'uomo stesso, per cui, anche se l'aspirazione è all'unità totale e divina, tuttavia l'uomo, proprio perché uomo è anche discordia e lotta, senza di cui neppure si renderebbe conto di Amore, senza di cui non sarebbe sapiente, senza di cui non istituirebbe quell'equilibrio chç è la salute dell'uomo e del tutto, onde Empedocle e cantato da LUCREZIO (1, 710 sgg.). Cosi se nel carme “Sulla Natura” leggiamo: poiché Contesa, nelle membra, grande s'accrebbe, e al suo onore insorse, compiutosi il tempo che ad Amore e a Contesa è prefisso, in alterna vicenda per ampio giuramento (fr. 30); nel Carme purificatorio éos1 suona il frammento 115. V'è un oracolo del fato, antico decreto degli dèi, suggellato di larghi piuramenti: se mai alcuno dei dèmoni che ebbero in sorte una lunga vita, macchi le sue membra di sangue, o seguendo la Discordia empio spergiuri, vada errando tre volte diecimila anni lungi dai beati, nascendo nel corso del tempo sotto tutte le forme mortali, permutando i penosi pensieri della vita. Perché la forza dell'aria li tuffa nel mare, e il mare li sputa nell'arida terra, la terra nelle fiamme del sole fulgente, che li lancia nei vortici dell'aria, l'uno li riceve dall'altro e tutti li respingono. Uno di essi anch'io sono, fuggiasco dagli dèi ed errante, perché fidai nella folle Discordia. Ma l'uomo è anche amore, amore che si pone, mediante la discordia, come termine di realizzazione, onde se da un. lato a questo porta l'indagine sperimentale e metodologica, dall'altro a questo è possibile aniare i piu·mediante certe tecniche di discorsi, LA RETORICA, che viene ad essere a un tempo medicina e politica. Gran parte ddle leggende su Empedocle, miracoloso guaritore e resuscitatore di morti, uomo divino e profeta, derivano da certi passi del Carme Purificatorio, che sono poi serviti, in tarda epoca, a far di Empedocle unà specie di santone, accomunandolo non senza perché àlla leggenda di Pitagora, e, per altro verso, a Orfeo, allorché si parlerà dell'aurea catena della verità divina rivelatasi attraverso la catena degli iniziati. Cosi anche la morte di Empedocle è rimasta avvolta nella leggenda. La piu fàmosa è quella secondo cui Empedocle, per disfarsi dell’estranea tunica di carne (fr. 126) che lo riveste, per tornare (ed è evidente, in Plutarco e in Porfirio da cui è tratto il frammento, l'interpretazione orfico-pitagorica) alla patria celeste, si sarebbe gettato nel cratere dell'Etna, che avrebbe poi eruttato uno dei calzari di bronzo del filosofo (cfr. Strabone, VI, 274; Diogene Laerzio, VIII, 70; Suda, s.v.). Ma altrettanto sintomatica è l'altra leggenda secondo cui Empedocle, dopo aver resuscitato una donna, durante la notte, dopo un banchetto, chiamato da una gran voce, in mezzo a un immane bagliore, sarebbe scomparso in un'apoteosi, tornando, egli divino, tra i numi del cielo (cfr. Eraclide Pontico, in Diogene Laerzio, VIII, 67 sgg.). Qui, d'altra parte, s'innesta LA RETORICA DI GORGIA e se ne chiarifica la portata. Non preoccupiamoci - egli dice - dell'Essere e del Non-essere, tanto l'uno e l'altro sono la stessa cosa. Che ci sia o non ci sia quel mondo è lo stesso, perché non è conoscibile (Del non ente o della natura). Se ci crediamo, accettiamolo. Ma esso non incide affatto su questo nostro mondo umano, che è il mondo dell'illusione e dell'opinione su cui si agisce facendolo e ordinandolo mediante la parola e l'arte della parola (RETORICA). L'Elogio di Elena di Gorgia sarà anche una pura esercitazione o uno scherzo, ma è senza dubbio uno scherzo assai serio, che proprio, in quanto esercitazione, mette chiaramente a nudo cosa Gorgia intendesse con RETORICA, indipendentemente (come Protagora) da ogni preoccupazione d'ordine logico-gnoseologico. La parola domina tutta quanta la vita affettiva. Con la parola discipliniamo gli affetti. La retorica, dunque, è fondamentale nella formazione degli uomini, meglio nella istituzione della vita sociale. È appunto giuocando passione con passione, sentimento con sentimento, che possiamo costruire una società umana. E poiché la passione di una folla non è la passione di un individuo e quella di uno non è la passione di un altro, di qui l'importanza del sapere usare le parole, volta a volta, l'importanza delle tecniche dei discorsi, fino a giungere allo studio del come accentuare parole, o porre parole accanto a parole. Cosi non.1 caso Gorgia nell'Elogio di Elena vede subito la relazione che corre tra la retorica e la poesia. Le parole della poesia riescono a suscitare nell'anima nuove e particolari esperienze. L'anima attraverso i discorsi uditi si modifica. Il discorso cosi è visto come espressione da una parte e dall'altra come capacità di modificare il modo dei rapporti umani, e poiché l'uomo è sentimento e opinione. E sentimento e opinione sono parole. E la parola che trasforma e costruisce il mondo umano, istituisce volta a volta quelle che possono essere le virtu, indi- [Figlio di Carmantida, fratello del medico Erodico, nacque a Leontini, in Sicilia, probabilmente tra il 485 c il 480. Sembra sia stato discepolo di Empedocle ed abbia risentito gl'influssi della scuola di Velia e di quella pitagorica. Con sicurezza sappiamo che nel 427 venne ad Atene, ambasciatore di Leontini, per chiedere aiuti contro Siracusa. Ad Atene ha molto successo e determina un notevole influsso sulla letteratura oratoria. Itinera poi in Tessaglia, in Beozia, ad Argo. E certo a Delfi e a Olimpia ove tenne orazioni. Senza dubbio e altre volte ad Atene e qui tenne un famoso epitafio. Muore vecchissimo - quasi tutte le antiche testimonianze dicono a 109 anni - in Tessaglia presso Giasone, tiranno di Fere. Suoi discepoli furono: Menonc tessalo, Licofrone, Isocrate, Crizia, Alcibiade, Tucidide, Prosscno di Beozia, Polo di Girgenti, Licimnio, Protarco, Alcidamante di Velia. Le sue opere piu famose sono: “Intorno al non ente o intorno alla Natura”, “L'elogio d’Elena”; “L'apologia di Palamede”; “ “Discorso pizio”. Forse è di Gorgia anche un trattato su L'arte oratoria.pendentemente da cosa sia la Virtu con il V grande. Sotto questo aspetto estremamente importante, proprio per rendersi conto dell'appello al concreto dei primi sofisti, appare il fatto che Gorgia, ad esem-pio, non intende ricercare cosa sia la Virtu, ma, a chi gli chiedeva cosa è Virtu, risponde. La virtu di chi? Del bambino, dell’uomo virile, o del vecchio? della donna o dell'uomo? (cfr. Platone, Menone, 71e; Aristotele, Politica, I, 1260a, 17). La seconda fase dei pitagorici secondi. Le indagini matematiche. Ippocrate di Chio Secondo la leggenda, dalla distruzione della casa dei pitagorici a Crotone si salvarono Liside e Archippo. Liside si sarebbe rifugiato a Tebe, ove, sembra, avrebbe fondato un circolo Epitafio”; “Discorso olimpico”; pitagorico di cui un prosecutore sarebbe stato Filolao, fiorito nella seconda metà del V se- colo, che sul finire del 400 sarebbe andato in Italia. Archippo si sa- rebbe, invece, rifugiato in Taranto, ove avrebbe proseguito l'opera di Pitagora, proseguita a sua volta da Archita di Taranto, uomo politico di vaglia, contemporaneo e amico di Platone. In realtà di Filolao e di Archita sappiamo molto poco.1 Non senza una qualche ragione, anzi, particolarmente per quel che riguarda Fi- lolao, si è giunti a dubitare che gli stessi frammenti che si ritengono proprii dell'opera (Sulla natura) di lui, siano in effetto rielaborazione, se non falsificazione, di Speusippo, il nipote di Platone e suo succes- sore nella direzione dell'Accademia, che avrebbe composto un libretto Sui numeri dei Pitagorici (cfr. Throlog. Arithm., p. 82, 10 De Falco). Platone nel “Fedon” pur discutendo alcune tesi pitagoriche, rivela un suo pitagorismo, soprattutto per quel che riguarda il motivo dell'armonia dei contrari, e cosi:, in piu passi degli altri dialoghi e in particolare nel “Filebo” e nel “Timeo” sembra riallacciarsi a certi motivi che paiono tipici di Filolao (armonia del limite e del non limitato, armonia cosmica), e di Archita (armonie musicali). Ad ogni modo l'accenno che nel “Fedone” Platone fa direttamente a Filolao è molto sospetto. O come,.Cebète, non avete, tu e Simmia, udito parlare di questi argomenti, voi che siete stati discepoli di Filolao? Si, ma niente di preciso, Socrate. Anch'io, veramente, solo per averne udito parlare di queste cose (“Fedone”, 61tl). Chi abbia un po' di pratic~ dei testi platonici sa che generalmente Platone usa questi giri di frase allorché vuoi mettere sugli attenti intorno a certe dottrine. Nel caso preciso, Platone avverte che la tesi che sta per esporre, appunto quella dell'armonia del tutto cui si giunge attraverso l'analisi di se stessi (ché le nostre strutture corrispondono alla ragion d'essere del tutto) non è né tesi di Socrate né di Filolao, ma interpretazione personale, volta a certi scopi precisi e diversi. Talvolta, effettivamente, dietro alcune tesi platoniche si nascondono motivi esistenti, ma che in realtà avevano storicamente tutt'altro signifi- [Scarsissime sono le notizie sicure su Filolao e su Acchita. Di Filolao sappiamo che fu contemporaneo di Socrate (dr. Feàone, ove Socrate parla di Simmia e Cebete di Tebe che avevano ascoltato Filolao). "Demetrio negli Omonimi dice che Filolao e il primo a pubblicare i libri dei Pitagorici, col titolo Della natura " (Diogene L., VIII, 84-85). Su questo e sull'esistenza di un'opera di Filolao si è molto discusso e la questione è ancora aperta. Di Acchita di Taranto, sappiamo che visse a cavallo tra il V e il IV secolo, che fu uomo politico di vaglia, signore di Taranto, amico di Platone (cfr. VII lettera, 338b, 339a) che riusci a far partire Platone da Siracusa, quando Platone si trova in quella città semi-prigioniero del tiranno Dionisio (VII lettera, 350a). Secondo Aristosseno (fr. 48 Wehrli) Acchita, quando e stratega, non emai sconfita~: ritiratosi dal comando, cedendo all'invidia, la città subi subito uoa sconfittacato. Questo, con tutte le cautele possibili, può essere il caso di Filolao e, sotto un certo aspetto, di Archita. Platone avrebbe, probabilmente in polemica con le conclusioni dell'uno massiccio di Parmenide, ri-elaborato un pitagorismo a modo suo, purrifacendosi a certi motivi che potevano scaturire dalla discussione di Filolao nei confronti dell'Essere di Parmenide. E questo particolarmente appare da certe pagine del Parmeide e del Filebo, ove sono alcune espressioni che sembrano coinci- dere con alcuni frammenti di Filolao, ma che in effetto vanno molto oltre ciò che di fatto possiamo ricavare dai frammenti di Filolao. Es- sendo, dunque, possibile una distinzione tra Platone e Filolao, senza arrivare a sostenere una troppo raffinata falsificazione da parte di sco- lari di Platone, che avrebbero costruito i testi di ·Filolao a bella posta, la cosa piu probabile sembra sia la seguente:- del secondo pitagorismo ciò che appare di piu altamente metafisica, in un'aspirazione all'ordine supremo del tutto, è in effetto rielaborazione platonica in primo luogo, poi rielaborazione di Aristotele. Piu probanti, per tentare di avvicinarsi alle tesi storiche del se- condo pitagorismo, sembrano certe pagine di Platone in cui si pole- mizza contro coloro che si occupano di geometria, di aritmetica, di astronomia, di teoria musicale: loro difetto sarebbe, secondo Platone, di non essersi elevati al primo principio, alle strutture dialettiche dell'essere, per ri~anere sul piano delle ipotesi e della traduzione del visibile in termini geometrici e aritmetici (cfr., in particolare, Repubblica, 510c sgg.). L'abbiezione di Platone, che implica tutt'altro problema, il problema della ragion d'essere del tutto, è la stessa abbiezione - anche se diversa nel suo contenuto - che ai pitagorici muoverà Aristotele. Sotto questo aspetto, rifacendoci a certi frammenti di Filolao e di Archita e alla distinzione fatta da Aristotele tra i pitagorici del tempo di Alcmeone di Crotone e i pitagorici del tempo degli atomisti, sembra che si possa realmente parlare di un secondo pitagorismo, facente capo a Filolao e poi ad Archita, i quali, in quanto matematici o per lo meno in quanto sono partiti da osservazioni o da scoperte di carattere aritmetìco e geometrico, sarebbero stati accomunati al pitagorismo - nome generico, - entro cui per antonomasia si son fatti rientrare, tutti coloro che si sono occupati di matematica e di armonia. Tale il significato della testimonianza di Aristotele, che, parlando dei pensatori del tempo degli atomisti, afferma: vi furono i cosiddetti pitagorici, i quali, applicatisi alle scienze matematiche, le fecero per i primi progredire: cresciuti poi nello studio di esse, vennero nell'opinione che i principii delle matematiche fossero i principii di tutti gli esseri. E poiché i principii della matematica sono, naturalmente, i numeri, parve loro di vedere nei numeri, piu che nel fuoco, nella terra e nell'aria, molte somiglianze con le cose che sono o che divengono (Metaf., 958b). Aristotele, dunque, non solo distingue tra i pitagorici del tempo di Pi~agora, cui sarebbe attribuibile la tavola delle dieci opposizioni e i cosiddetti pitagorici di un tempo piu tardo, ma è a questi ultimi ch'egli, in particolare, attribuisce il progresso delle scienze matematiche, in- tese come scienze del numero, e la tesi che il reale è pensabile qualora sia riducibile a numero, cioè a quantità. Ed è, infine, a questi ultimi ch'egli attribuisce la tesi che elementi del numero sono il pari e il dispari: il primo, infinito: il secondo, finito; e l'unità, essendo pari e dispari insieme, la fanno costituita di entrambi gli elementi; e dal- l'unità sarebbe formato il numero (Metaf., 986a). Mentre nei primi pitagorici trovammo unità accanto a unità, donde vedemmo la critica di Parmenide, qui sembra invece si trovi il tentativo di risolvere sul piano matematico le aporie di Parmenide e di Zenone. In altri termini con Filolao e poi con ARCHITA DI TARANTO pare che certe scoperte aritmetiche e àltre musicali abbiano -portato a impostare il problema della pensabilità del reale sul piano del discorso, possibile qua- lora si riduca a quantità il pensabile stesso, ponendo quindi l'ipotesi della numerabilità e misurabilità resa possibile dall'unità come discorso, onde l'unità non è piu uno o altro punto della serie, ma il discorso stesso come armonia di punti (finiti e infiniti), cioè come condizione di quelli e quindi come " parimpari," per cui ogni aspetto comprensibile del reale è pari e dispari, è unità (monade) e diade. L'unità e la molteplicità si conciliano cosi in una serie infinita di numeri, che si ritmano nell'unità del discorso, come armonia, e come armonia dei contrari: l'armonia nasce solo dai contrari: perché l'armonia è unificazione di molti termini mescolati, e accordo di elementi discordanti (Filolao, fr. 10). Il che non significa èhe per Filolao l'uomo colga l'essenza ultima della realtà: la causa o le cause prime - saranno questi i problemi di Platone e di Aristotele. Egli pone semplicemente e concretamente la possibilità di pensare il reale: la sostanza delle cose, che è eterna, e la natura stessa richiedono conoscenza divina, non umana; solo che nessuna delle cose che sono e noi conosciamo 106    sarebbe potuta esistere, se non ci fosse la sostanza delle cose che compòngono il cosmo, delle limitanti e delle illimitate (fr. 6). Ora, poiché le cose appaiono come aventi qualità infinite, esse non sarebbero pensabili, se non si potesse trascorrere tra esse, cioè se non si potessero ridurre tutte a quantità, a un indefinito definibile me- diante la numerabilità e la misurabilità: perciò le cose stesse sono nu- meri, divisipili (pari) e indivisibili (dispari), limitanti e limitate, fra cui corrono rapporti di misura, proporzioni, che ne costituiscono l'armonia, cioè quell'unità che è condizione e presenza in ogni cosa: tutte le cose che si conoscono- dice Filolao -hanno numero: senza il nu- mero non sarebbe possibile pensare né conoscere alcunché (fr. 4). Il numero ha due specie sue proprie, il dispari e il pari: e la terza è il parimpari, for· mato da queste due mescolate. Molte forme ci sono dell'una e dell'altra, e ogni cosa per se stessa le rivela (fr. 5). Sembra, dunque, evidente che per Filolao non si tratta di conosce- re o di cogliere quella che è la realtà in sé, ma di determinare quale sia la condizione che rende pensabile la realtà, cioè che rende possi- bile la scienza: è la natura del numero che fa conoscere ed è guida e insegna ad ognuno tutto ciò che è dubbio e ignoto. Nulla sarebbe comprensibile, né le singole cose né le loro relazioni, se non. ci fossero il numero e la sua sostanza. Ma questo, armonizzando nell'anima tutte le cose con la percezione, rende co- noscibili esse e le loro relazioni secondo la natura dello gnomone, col dar corpo e distinguere le determinazioni delle cose, di quelle illimitate e di quelle limitanti (fr. 11). E allora se pensare è armonizzare nell'anima tutte le cose con la percezione, è riferire e misurare, la verità consiste nell'armonia, nel numerare e misurare, che è articolare e discorrere: nessuna menzogna accolgono in sé la natura del numero e l'armonia: non è cosa loro la menzogna. La menzogna e l'invidia partecipano della natura dell'illimitati? e dell'inintelligibile e dell'irrazionale. La verità è connaturata e propria della specie dei numeri (fr. 11). Di qui l'importanza del discorso matematico, per cui ciò che nel- l'immediatezza sensibile appare come continuo e indefinito, illimitato, diviene intelligibile in quanto si numera, in quanto ciò che si defi- nisce non è piu né acqua, né terra, né fuoco, né altra qualità, ma è traducibile in figure, in forme (mediante lo gnomone), costituite di piani, di linee, di punti; e i piani, le linee, i punti (gli originari punti, o ciottoli dei primi pitagorici), i numeri interi della serie (tutti uguali l'uno all'altro), si articolano fra di loro, in una unità discorsiva, che dunque non è nessuno dei punti, ma la loro stessa condizione, che è quindi ad un tempo pari e dispari, una e due, illimitata e limitante. Tutte le cose sono necessariamente o limitanti e illimitate o illimita- te o limitanti e illimitate. Soltanto cose illimitate non ci potrebbero essere (fr. 2). E in Giamblico si legge. Secondo Filolao è assolutamente impos- sibile che ci sia oggetto conoscibile, se tutti gli elementi sono illimi- tati" (fr. 3); cosi. come non ci sarebbe conoscenza se tutto fosse li- mitante. Dalla constatazione che nulla è pensabile se non è numerabile e misurabile, se non si colgono le figure ddle cose, se non si riduce tutto a un determinatore comune, viene l'affermazione di Filolao che la natura nel cosmo è composta di elementi illimitati e di elementi limitanti: sia il cosmo nel suo insieme che tutte le sue parti (fr. 1). Ora, se è vero, come sembra ritenessero i pitagorici, che le figure, le forme, “idee”, delle cose si costituiscono di numeri, è altret- tanto vero che ogni cosa ha un suo numero, e che, reciprocamente i numeri si determinano come figure: punti, linee, triangoli, quadran- goli, poligoni, cubi e cosi via. Nascevano di qui i problemi grossi dei rapporti tra le figure, che tradotti in numeri ponevano il problema delle proporzioni, a loro volta fondamento delle tecniche, ad esempio ar- chitettoniche, statuarie, e musicali. La natura del numero e la sua grande potenza - dice Filolao - le si vedono... anche in tutte le attività e in tutte le parole degli uomini, sia nelle attività tecniche che nella musica (fr. Il). E Archita: la scoperta del calcolo ha fatto cessare le discordie e ha accresciuto la concordia. Non è possibile che ci sia sopraffazione da che esso è stato trrntc: c'è invece parità. Per esso infatti ci accordiamo nelle relazioni di affari. Per mezzo suo i poveri ricevono dai ricchi e i ricchi dànno ai poveri, avendo fiducia e gli uni e gli altri di avere la loro parte. Il calcolo è strumento di giudizio e impedisce i torti. Quanto al cosiddetto sistema filolaico relativo alla concezione del- l'universo ed alla sua formazione, bisogna andare molto cauti. Se da un lato può darsi che Filolao abbia sfruttato tesi di pitagorici piu an- tichi e forse risalenti allo stesso Pitagora (come, ad esempio, il motivo della sfericità della terra, del moto dei punti, costituenti le figure, del moto inteso come respiro dell'universo), dall'altro lato il tentativo di tradurre in figure piane e solide, gli elementi come il fuoco, la terra e cosi via, può essere sospetto, soprattutto per quel che riguarda le figure solide e i loro rapporti, “sterometria”, perché la stereometria, come appare chiaramente da Platone, che ne fa un solo accenno nella Repubblica, mentre la conosce piu a fondo nel Timeo, fu studiata da Teeteto - discepolo di Teodoro che è senza dubbio alquanto posteriore a Filolao. Può cosi essei:e giustificato il sospetto di una rico- struzione a posteriori, formata anche di tesi proprie del pitagorisnìo primo e secondo (l'accentuazione dell'armonia musicale, il tentativo di matematizzare l'astronomia rifacendosi all'aritmetica e alla musica), in cui sono presenti anche ipotesi platoniche, democritee, eudossiane. In effetti i frammenti che si dicono propri di Filolao o i frammenti di altri pitagorici del tempo o anche anteriori, sono troppo pochi, brevi, e inseriti in testi troppo posteriori per giustificare sia una concezione cosmologico-cosmogonica propria di Filolao, sia una concezione cosmo- logico-cosmogonica dei pitagorici tout court. Non solo, ma non va scordato che possiamo ricostruire tale concezione pitagorica solo attraverso testimonianze di Aristotele che non cita Filolao, di Simplicio che non cita Filolao, ma· che, su sua stessa confessione, riprende da Aristotele, e da Aezio che cita Filolao. Al centro del cosmo è posto il fuoco, intorno al quale ruotano dieci corpi celesti (probabile ricordo del valore dato alla decade, alla tetraetys, dai primi pitagorici), ivi compresa la terra, che non ha dunque posi- zione centrale e che è sferica. Il cosmo si sarebbe generato da un primo alito caldo (il respiro di Pitagora), da un fuoco centrale (che sembra risalire a Ippaso di Metaponto), che armonicamente determina un in- determinato spazio vuoto. Il cosmo è uno, e cominciò a formarsi dal mezzo, con distanze uguali dal mezzo all'alto e dal mezzo al basso. Le parti che si trovano sopra la 109    parte centrale sono dalla parte opposta rispetto a quelle che si trovano sotto. Le une e le altre si trovano insomma, rispetto alla parte centrale, nello stesso rapporto: se non che sono da parti opposte (Filolao, fr. 17). Dal fuoco centrale, chiamato la madre degli dèi, perché da esso si generano i corpi celesti, o Estia, il focolare della patria, o il trono o la torre di Zeus, il fulcro cioè della vitalità del tutto (il primo armonizzato, l'uno, è nel mezzo della sfera, e si chiama focolare -- Filo- lao, fr. 7), si determina l'illimitato, costituendo cosi a poco a poco l'or- dine di tutta la realtà, formata alla fine dei dieci corpi celesti ruotanti armonicamente intorno al focolare dell'universo. Dal centro (fuoco) alla periferia abbiamo: la terra e, ad essa opposta, l'antiterra, invisi- bile per l'uomo perché ruotante insieme alla terra dalla parte opposta al fuoco; i cinque pianeti (Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno); il sole C' il pitagorico Filolao dice che il sole è come un cristallo, perché accoglie il riflesso del fuoco che è nel centro e rimanda a noi la luce e il calore (Aezio, II, 20, 12); la luna e, infine, circondante il tutto, il cielo delle stelle fisse. Filolao, poi, sempre secondo la testimonianza di Aezio (II, 7, 7) avrebbe chiamato Olimpo la parte estrema di ciò che sta intorno, nella quale sono gli elementi nella loro purezza, mentre Cosmo avrebbe chiamato la zona che si trova sotto l'Olimpo e in cui si muovono i cinque pianeti, il sole e la luna, e Urano la zona sub- lunare dove ancora è disordine e indeterminatezza. Sembrerebbe, dun- que, che secondo Filolao l'universo sia una sfera entro cui si muovono armonicamente i corpi celesti, aventi come perno e centro di irradia- zione il fuoco centrale (la dimora di Zeus), che in quanto è fonte di tutto è anche ovunque, tanto piu là dove di piu il tutto è definito, il cielo delle stelle fisse, o Olimpo (la tradizionale sede di Zeus), per cui, forse simbolicamente, il fuoco è quell'unità che non è nessuno dei numeri, ma è tutti nella loro armonia, trovandosi cosi al centro e alla periferia come involucro di tutto (cfr. Aristotele, De coe.lo, Il, 13, 293), unità di finito e d'infinito. Sembra, infine, che a questa concezione vada riallacciata la celebre dottrina dell'armonia delle sfere di cui parla Aristotele. Certo Aristotele non cita direttamente i pitagorici ed è probabile che anche questa teoria sia una posteriore interpreta- zione e rielaborazione. Alcuni dicono che dal movimento degli astri nasce armonia, in quanto dal movimento sono prodotti dei suoni e questi sono consonanti. C'è in- fatti chi crede che, muovendosi corpi cosi grandi, ne nasca un suono perché suono è prodotto dal movimento dei corpi che sono quaggiu, i quali pure sono meno grandi e meno veloci di quelli. Non può, dicono, non nascere un suono straordinariamente grande dal movimento del sole e della luna e degli astri, che sono tanti e tanto grandi e procedono con tanta velocità. Cos{ essi credono che i rapporti della velocità degli astri in relazione alle distanze siano i medesimi degli accordi musicali; e perciò dicono armonico il suono degli astri ruotanti. Poi, a giustificare il fatto che questo suono non lo udiamo, dicono che la causa sta in ciò, che esso c'è sempre dal nostro nascere; manca per questo, dicono, ogni contrasto col silenzio, e quindi non possiamo distinguerlo, ché suono e silenzio si discernono appunto perché sono in contrasto. Insomma accade, per tal suono, agli uomini quello che accade ai fabbri, che per l'abitudine fatta al rumore non lo distinguono piu (De coelo, II, 9, 290b). Ora, come nella cosmologia l'alito caldo, il fuoco, che è al centro ed alla periferia, si costituisce come armonia vivente del tutto, cosi: sembra-che per i pitagorici l'anima fosse armonia e accordo musicale. L'anima, in quanto p~euma, soffio vitale, sta all'essere vivente come l'uno centrale, il focolare dell'universo, sta al tutto costituendo armonia tra gli elementi contrari. L'anima, dunque, sarebbe l'armonia che costituisce, essendone la condizione, la mescolanza ordinata degli de- menti corporei. Sotto questo aspetto, venendo meno gli elementi corpo· rei non viene meno l'anima, ché l'anima come armonia non è il risul- tato di una somma di parti, ma la condizione dell'ordine stesso, per cui l'anima resta sempre armonia di ciò che è vivente. Questa sembra fosse la tesi di Simmia, discepolo di Filolao, anche se Platone, nel Pedone, obbietta che, dissolvendosi gli elementi corporei, dovrebbe venir meno anche l'anima. Queste, nelle loro linee generali, le dottrine cosmogonica-cosmolo- gica e dell'anima-armonia che la tradizione ha fatto risalire ai pitago- rici. Senza dubbio alcuni motivi sono certamente del primo e del se- condo pitagorismo, altri sono dovuti a interpretazioni e sistemazioni posteriori, e, innanzi tutto, a Platone. Cosi, per esempio, certe conce- zioni proprie di Platone, che, nel Timeo in particolare, le mutuava da Teeteto (cfr. la tesi dei cinque elementi: terra uguale cubo, acqua uguale icosaedro, aria uguale ottaedro, fuoco uguale tetraedro, etere uguale dodecaedro), sono state piu tardi (da Aezio, in II, 6, 5) attribuite a Filolao (cfr. E. Sachs, Die fiinf plat. Korpcr, Berlino, 1917). Molte tesi cosiddette pitagoriche sono in realtà di Platone o posteriori ai pitagorici, o sono interpretazioni che, comunque, rispondono;~ problemi e ad esi- genze di altri pensatori in altre situazioni storiche. Ciò che invece sembra proprio dei secondi pitagorici, o almeno dei matematici è il valore dat~ all'i(lotesi, intesa etimologicamente come il presupposto che permette un. certo ragionamento; ipotesi matematiche che permettono appunto di pensare e che hanno estrema importanza per le tecniche, come sottolinea Fi- lolao. Di qui la critica di Platone a coloro che si sono occupati di geo- metria, di aritmetica, di astronomia: essi hanno formulato i(lotesi, ma da queste non sono giunti ai fondamenti primi, o meglio, al contrario, a queste.non son giunti dalla suprema ragion d'essere (cfr. Ref1., 510c); e la critica di Aristotele secondo cui i pitagorici sarebbero rimasti sospesi fra il sensibile e l'intelligibile (Metaf., I, 987a). Ha cosi ragione Abel Rey (La science dans l'antiquité, Parigi) quando sostiene che i pita- gorici hanno insistito sui " primi principii della scienza che non sono però i primi principii in se stessi assolutamente parlando." Entro questi termini può essere opportuno ricordare che a Filolao sembra si debba la scoperta e lo studio della proporzione o medietà ar- monica (di quarta, di quinta, di ottava), accanto alla proporzione arilm~­ tica (le cui proprietà furono formulate da.Archita) e a quella geometrica. Queste ricerche e studi appaiono come l'aspetto piu saliente del secondo pitagorismo, insieme a un altro problema che si presentava loro, e che, forse, entrava in contrasto con la teoria dei punti-unità dei primi pi- tagorici, il problema degli incommensurabili o numeri irrazionali (detti prima indicibili, 4ppYjTat; poi irrazionali, 4>-oyo'), che tuttavia po- neva le basi di nuovi rapporti e misure, la possibilità del passaggio dalle figure piane (geometria), alle solide (stereometria). Di qui da un lato il problema della duplicazione del quadrato e dall'altro il problema della duplicazione del cubo, che vennero spostando il problema da un'inda- gine piu strettamente aritmetica a una indagine che divenne sempre piu strettamente geometrica. Non sappiamo con precisione a chi risalga la teoria delle grandezze irrazionali. Probabilmente si scoprirono gli irrazionali, quando, volendo applicare il teorema detto di Pitagora (la duplicazione del quadrato) al triangolo rettangolo isoscele, ci si accorse ch'era impossibile misurare e indicare con un numero la diagonale del quadrato di lato l. Senza dubbio il motivo degli irrazionali fu poi approfondito da Teodoro di Cirene e quindi da Teeteto, come risulta chiaramente da Platone. Quanto alla duplicazione del cubo, o problema di Delo (cosi detto perché secondo la leggenda, conservataci da Eutocio, l'oracolo di Odo avrebbe richiesto agli abitanti di Delo di duplicare uno degli al- tari del tempio, clie aveva forma cubica), sembra che per primo vi si sia dedicato il matematico Ippocrate di Chio, che venuto ad Atene per ragioni di commercio vi si stabill insegnando matematica tra il 450 e il 430, scrivendo i primi elementi di geometria ed entrando in rap- porto coi maggiori esponenti della cùltura ateniese. lppocrate applicò alla duplicazione del cubo il metodo, da lui stesso scoperto, detto apagogico, che consiste nel ridurre un problema a un altro problema, di modo che, se il secondo è risolto, o dimostrato, lo è ugualmente il primo. Egli stabilisce cosi che il problema della duplicazione del cubo era di trovare due medie proporzionali fra due numeri dati e non una sola media come per la duplicazione del quadrato (cfr. P. H. Michel, La science hellène, in Hist. génér. des Sciences, Parigi, l, p. 236). Sempre a Ippocrate di Chio sembra si debba l'impostazioné del problema della quadratura del circolo, cui credette di poter giungere mediante lo stu- dio dell'area delle lunule, che, se non risolse la quadratura del circolo, servi a formulare nuovi teoremi. In questa epoca il problema della quadratura del circolo fu ripreso e discusso anche da lppia di Elide, che mediante la curva  la lui detta di Ippia o quadratrice, se non risolse la quadratura del circolo, formulò il teorema della trisezione dell'angolo; da Antifonte 'che tentò la soluzione raddoppiando indefinitamente il numero dei lati di un poligono regolare iscritto in un cerchio; e da Brisone, un sofista fiorito sulla fine del V e l'inizio del IV secolo, che oltre al poligono iscritto considerò anche quello circoscritto. Non a caso ci siamo soffermati un momento su questo tipo di in- dagini volte a questioni precise e concrete. Accantonato il problema del- l'Essere quale si era formulato con Parmenide ed Eraclito, rivelatosi quel problema come inesistente, ché nell'uno e nell'altro caso si finiva nel silenzio, questo tipo di ricerche (volte all'indagine delle condizioni che rendono pensabile la realtà, o delle condizioni che rendono possibile il rapporto umano, o di quelle che esplicano il 'fatto' natura) ap- pare come il piu significativo e tale da costituire una ben precisa si- tuazione culturale. E se per filosofia s'intende ciò che allora s'intendeva, non una specifica disciplina avente un suo oggetto (come avverrà con Platone e con Aristotele), ma ricerca, desiderio di sapere in senso gene- rale, diremmo che la filosofia della seconda metà del V secolo, fu la matematica, la fisica, lo studio di quello che è il modo umano di pen- sare e di parlare, la retorica, l'indagine di come gli uomini istituiscono rapporti, di come l'uomo è religioso. Entro questi termini culturali ed entro questo tipo di ricerche rientrano esattamente anche le indagini di Democrito.'A tal proposito sembra, anzi, interessante ricordare che già sulla metà circa del II secolo si venga sempre piu definendo il campo pro- prio della dialettica e particolarmente della retorica come scienze a sé, approfondendone il significato educativo. Da un lato ciò si rivela da quel poco che sappiamo della Retorica dello stoico Diogene di Babilonia, che insieme a Carneade si reca a ROMA per l'AMBASCERIA, il quale vedeva nella retorica l'arte con cui si formano uomini politici utili alla città (cfr. Filodemo, De rhet., I, p. 333. Sudh.); o dall'altro lato attraverso la sistemazione della retorica del celebre Ermagora di Temno. Egli, oltre a determinare le tecniche dei discorsi relative alle questioni di dispute particolari da parte di singole persone (ipoten), delineò la pos- sibilità di discutere sul piano retorico argomenti di carattere generale (ten), vedendone il pro e il contro, come in tribunale, e che possono essere utiii sia per la parte deliberativa della retorica, sia per quella giudiziaria, sia per quella encomiastica, in uno sviluppo di quelli che in Aristotele erano i luoghi comuni (tesi) e i luoghi propri (ipotesi). Si capisce come poi di qui si potranno assumere, per esercitazione retorica nelle scuole, o per utilità di discussione in tribunale o in wli- tica, le tesi dalle tesi stoiche di morale, dalle tesi platoniche, da quelle aristoteliche, indipendentemente dai contesti e dal loro significato in quei contesti. Ma qui il discorso si fa diverso, anche se era necessario questo accenno per prospettare quelli che saranno certi aspetti della cultura quale troveremo dalla seconda metà del II secolo a. C. in poi a Roma, nel costituirsi di un ambiente, di una tematica, di un com- plesso di esigenze, che prendendo mosse e strumenti dal pensiero e dalla problematica della cultura greca si delinea in modi diversi, risol- vendosi alla fine in una diversa strutturazione, ove altre sono le do- mande e le richieste. Ad ogni modo, posta la formalità della logica crisippea e la sua soluzione in termini di grammatica e di sintassi, in un'analisi del lin- guaggio, ammesso pure che l'assenso venga dato a ciò che piu fortemente. impressiona, onde assumiamo fede nella esistenza di ciò che si vien oresentando ('tUrx«vov )su cui poi si costituisce il discorso, posta l'analisi rivelante i vari tipi di discorso, la loro verità o falsità, e posti con ciò i sillogism! ipotetici, i ragionamenti anapodittici, ciò che sem- bra difficile spiegare è come Crisippo sia poi potuto passare, sul fon- damento di quella logica, a determinare la ragion d'essere, la logica di tutto, il cui esito è una teologia, una fisica, una concezione del di- ritto naturàle simili a quelle di Cleante. Qui non vengono in aiuto né le testimonianze, né i pochi e sospetti frammenti. Se da un lato tro- viamo un certo insieme di testimonianze, che, riferendosi particolar- mehte a Crisippo, permettono di ricostruire la sua logica e la sua dia- lettica, il suo studio dei significanti e dei significati, e certi termini tecnici, nel senso che sopra abbiamo detto; dall'altro lato, dall'esposizione che gli antichi dettero dello stoicismo parlando insieme di Zenone, di Cleante e di Crisippo, vengono fuori, soprattutto comuni a Cleante e a Crisippo, la stessa teologia, la stessa fisica, la stessa etica. Possiamo cos1 solo sospettare o che la dimostrazione del tutto (fatalmente ordinantesi in una catena, manifestazione della Legge con cui Dio si realizza) è tratta per analogia dal modo con cui si costituisce il discorso, per cui lo stesso tutto e la sua ragion d'essere e concatena-. zione fatale è, alla fine, un possibile discorso ipotetico, che viene ac- cettato o respinto solo per opzione, per un atto di volontà, in un ripie- gamento, dal punto di vista ontologico, sul probabile o credibile; op- pure che Crisippo abbia nettamente distinto dalla logica (dialettica e retorica) come unica scienza umana, valida per provare uno o altro tipo di discorso, la fisica e la teologia valide a spiegare in quanto basate su di un ragionamento, che può essere formalmente vero, e al quale diamo quindi l'assenso, una certa condotta morale. L'uomo, cos1, razionalmente ricostruendo un ipotetico tutto razionale, ove tutto è determinato, nella consapevolezza critica delle proprie determinazioni e limitazioni, da esse si libera accettandole e, in un giuoco ove le pedi- ne sono date e date sono le mosse, ha possibilità - tale sembra l'affer- mazione crisippea che fato e volontà umana possono coesistere - di determinare tra le possibili mosse date una mossa piuttosto che un'altra. Dice Crisippo: a quel modo che chi ha dato la spinta a un cilindr~ gli ha dato l'inizio del movimento, ma non la capacità di girare, cosf la rappresentazione imprime, si, l'oggetto, ma l'assenso sarà in nostro potere... Cosi l'ordine e la ragione e la necessità del fato muovon gli stessi gelliO"i e priiÌcipii delle cause, ma l'impeto delle risoluzioni e delle menti nostre e le azioni stesse le governa la volontà propria di ciascuno e l'indole degli animi (Cicerone, De fato; Gellio, Notti Attiche). Altro di Crisippo non possiamo dire, ché gran parte delle piu duttili discussioni sugli indifferenti, sul rapporto tra utile e onesto, probabilmente certi sviluppi relativi alla giustizia, all'unica ragione per cui tutti gli uomini sono uguali e, idealmente almeno, hanno quindi  tutti gli stessi diritti da natura (il giusto è per natura e non per convenzione, come anche la legge e la retta ragione, secondo dice Crisippo ": Diogene), le interpretazioni allegoriche degli dèi, alcune affermazioni paradossali, sono certo posteriori a Crisippo, e se prestiamo fede alle ricostruzioni di Cicerone, furono proprii della Scuo- la e in particolare di Diogene di Seleucia o di Babilonia e di Antipa- tro di T arso, che, dopo Zenone di T arso, successero nello scolarcato della Stoà durante il II secolo. Secondo Antipatro si deve rivelare ogni cosa, perché il compratore non ignori nulla di ciò che conosce il venditore: e per Diogene il venditore deve dire i difetti di ciò che vende, fin quanto vuole la legge; per il resto agisca senza inganno e, poiché vendè, venda nel modo migliore... E mentre Antipatro dice: “Ma come? Mentre devi provvedere agli uomini e renderti utile al consorzio umano, a tale scopo sei nato, e riconosci il princi- pio naturale, per cui l'utile tuo è inseparabile dall'utile comune e viceversa, terrai nascosto agli uomini quel vantaggio che può favorirli? Diogene risponderà. Altro è nascondere, altro è tacere. (Cicerone, “De officiis”). In effetto sembra che se da un lato molte delle discussioni di etica1 sorte nella Scuola, hanno un sapore di esercitazioni dialettiche e retoriche, dall'altro lato proprio tali esercitazioni ponevano il problema della eticità su di un piano casistico, che venne, non poco, spostando la rigi- dità dell'originario stoicismo, permettendo una maggiore duttilità nei confronti delle singole situazioni politiche, mentre il motivo dell'ugua- glianza di tutti gli uomini in nome dell'unica ragione naturale assu- meva significato polemico di fronte alle sempre piu gravi sperequa- zioni sociali, anche se, alla fine, entro l'ambito di una realtà ove tutto si dispone in ben precisi gradi, rispecchianti la Legge di Dio, poteva giustificare proprio quelle stesse sperequazioni sociali. L'atteggiamento polemico, invece, tanto meglio si vede in alcune posizioni di Cinici del III secolo (Bione di Boristene, Menippo di Gà- dara, Cercida di Megalopoli, Telete), che, mantenendo il tipico aspetto cinico, di ribellione ad ogni tipo di società, nelle loro satire e diatribe e meliambi, forme letterarie propriamente popolari e rivolte al popolo, vennero puntando l'accento sulla sperequazione tra ricchi e poveri: Perché mai il cielo - scriveva Cercida - non toglie ai ricchi la loro maialesca ricchezza? A quali signori, dunque, a quali celesti dovremo rivolgerei, per avere il giusto compenso, quando il Cronide, che tutti ci ha generati, che anche a noi ha dato la vita, degli uni si mostra padre dei ricchi, degli altri patrigno dei poveri? (Meliambo). Alla morte di Crisippo, avvenuta ad Atene tra il 208 e il 204, sco- larca dell'Accademia era Telecle, successo a Lacide di Cirene, ch'era stato a capo della Scuola dalla morte di Arcesilao. Di Lacide, ch'ebbe notevole fama di maestro, che fu circondato da molti discepoli venuti ad Atene da· tutte le parti del mondo greco, sappiamo solo che espose per scritto il pensiero del maestro. COs1, poco o niente sappiamo di Telecle, e meno ancora del suo successore Evandro, che lasciò la direzione dell'Accademia a Ege- sino di Pergamo, al quale successe il discepolo Carneade. Di altri Ac- cademici di questo periodo sappiamo solo i nomi, Aristippo di Cirene e Pitodoro, che dedicò i suoi scritti all'esposizione delle argomentazio- ni di Arcesilao (si cfr. Diogene L., IV, 51; Il, 83; lndex Herc., XXVII, 9; Cicerone, Lucullus, VI, 16; Suda, s. v. Aotxu31Jc;). La loro importanza sembra, dunque, soprattutto dovuta all'avere costituito una tradizione arcesilea, prendendo le mosse dalla quale Car- neade,1 in un approfondimento delle argomentazioni di Arcesilao, serratamente discusse gli scrhti di Crisippo (" Se Crisippo non fosse sta- to, neppure io sarei: Diog.) e le tesi stoiche elaborate dai discepoli di Crisippo, Diogene di Babilonia, alla cui scuola fu Car- neade (Cicerone, Lucullus, XXX, 98), e Antipatro di Tarso, contempo- raneo di Carneade, del quale si dice che mai osò attaccare Carneade nella scuola o in piazza, preferendo difendere lo stoicismo attraverso gli scritti (Numenio). Nato a Cirene, in una città ricca di tradizioni scientifiche e culturali - da dove erano venuti ad Atene anche [Nato a Cirene Carnéade venne ad Atene in un'epoca che non è dato precisare. Ad Atene si preoccupò soprattutto di rendersi conto delle varie com- ponenti culturali: ascoltò Egcsino di Pergamo, scolarca dell'Accademia, Diogene di Babilonia, scolarca della Stoà e discepolo di Crisippo. Fu uomo di vastissima cultura, dia- lettico sottile, buon parlatore. Successe nello scolarcato dell'Accademia a Egesino di Per- gamo. Probabilmente fu proprio la sua fama di dialettico e di buon parlatore che fece decidere gli ateniesi ad inviare a Roma Carneade insieme allo scolarca della Stoà Diogene di Babilonia, e allo scolarca del Peripato, Critolao, in qualità di·ambasciatore presso il senato romano. Gli ateniesi, condannati da Roma a pagare una·forte multa per avere saccheggiato Oropo, inviano Carneade, Diogene di Babilonia e Critolao, a Roma perché cercano di far ritirare il provvedimento. Giunti a Roma e non ascoltati subito dal senato, i tre ambasciatori presero contatto coi romani, discutendo con loro di filosofia. Chi fece la massima impressione, per la sua arte dialettica, per avere un giorno esaltato la giustizia e il giorno dopo, con altrettanti argomenti convincenti, sostenuto che la giustizia è stoltezza, fu Carneade.  gli accademici Aristippo e Lacide, - Carnel).de, ad Atene, ascolta le lezioni e le discussioni dei maggiori maestri, dallo scolarca dell'Accademia Egesino di Pergamo a Diogene di Babilonia, scolarca del Portico (Cicerone, “Lucullus”). Studioso e lettore attento di scritti filosofici di ogni provenienza, dice Cicerone che Carneade conosce a fondo ogni parte della filosofia: Va"o, XII, 46, - ottimo parlatore e sottile dialettico, sembra che per queste sue doti e scelto da Egesino a succedergli nello scolarcato dell'Accademia. Che Carneade, come Arcesilao, non scrive snulla, indica chiaramente una netta presa di posizione e l'assunzione della filosofia come sempre attenta e aperta consapevolezza critica. Di qui, non tanto un atteggiamento polemico nei confronti dello stoicismo, quanto un continuo richiamo alle ingiustificate evasioni dai limiti delle possibilità umane verso cui lo stoicismo veniva scivolando. Non a caso, anzi, tutta la discussione di Carneade si svolge al di dentro della stessa logica dello stoicismo. Carneade non oppone allo stoicismo altra concezione, sia pur rovesciata, ché sempre si sarebbe trattato di una “filosofia,” ma egli, riconoscendo con lo stoicismo, o meglio con Crisippo, che i fondamenti del discorso umano sono da un lato i dati dell'impressione sensibile e dall'altro lato l'attività del soggetto che ordina e unisce in nessi e implicazioni quei dati stessi, proprio per questo, non po- tendo la ragione umana uscire da se stessa e dal proprio discorso, sottolinea l'illeceità del passaggio dal discorso umano ad un presunto discorso della realtà. E, soprattutto, usando il metodo delle anti- Carneade visse. Vecchio e ammalato, lascia la direzione dell'Accademia, che passa al discepolo Carneade di Polemarco che prem.ori al maesto. Lo scolarcato dell'Accademia e quindi tenuto da Cratete di Tarso, al quale succede Clitomaco di Cartagine. Carneade non lascia scritti. Su di lui e sul suo modo di pensare scrive Clitomaco, che, probabilmente, fu la maggior fonte di Cicerone. Per utilità ricordiamo che dopo Platone scolarchi dell'Accademia furono: Speusippo, Senocrate, Polemone, Cratete di Atene, Arcesilao, Lacide, Tclecle, Evandro, Egesino di Pergamo, Carneade. Di Diogene di Babilonia e di Critolao, che accompagnarono Carneade a Roma, sappiamo molto poco. Diogene di Babilonia, discepolo di Crisippo, succede nello scolarcato della Stoà a Zenone di Tarso. Soprattutto Diogene di Babilonia si occupa di dialettica e di retorica. Fu il quarto scolarca della Stoà dopo Zenone: Cleante, Crisippo, Zenone di Tarso, Diogene di Babilonia. Pochi i frammenti di Critolao, nativo di Faselide, nella Licia, e scarse le notizie su di lui. Succede nello scolarcato del Liceo ad Aristone di Ceo che scrive una “Storia del Peripato”, in cui sono inseriti i testamenti degli scolarchi suoi predecessori. Critolao fu il quinto scolarca del Liceo, dopo Aristotele: Teofrasto, Stratone di Lampsaco, Licone di Troade, Aristone di Ceo, Critoli10. A Critalao successe Diodoro di Tiro. 274    logie, egli tende a chiarire l'impossibilità di affidarsi a una qual- siasi dottrina che presuma d'essere l'unica vera o la possibilità che una dottrina abbia di dimostrarsi vera razionalmente. Di qui, di contro ad ogni tipo di teologia o di dimostrazione dell'esistenza degli dèi o del divino, l'appello di Carneade a rendersi conto dei propri limiti e delle proprie possibilità è, si, da un lato, la dichiarazione di morte di un certo tipo di filosofia, ma dall'altro lato è anche il piu alto riconoscimento della serietà dell'indagine che, negando alla filosofia la sua presunta funzione di scienza delle scienze, dà alla filosofia la funzione di determinare volta per volta il limite e la validità di que- sta o di quella ricerca, la consapevolezza dell'umana responsabilità, della responsabilità del pensiero. Carneade, certo, non si spiega senza Crisippo (soprattutto per ciò che riguarda i limiti della logica e della dialettica), senza la tesi stoica del fato e della Legge, e senza i conseguenti problemi sulla pos- sibilità o meno della libertà e della umana capacità di azione. Sotto questo aspetto, l'appello di Carneade alla consapevolezza critica, alla responsabilità del pensiero, al significato e alla funzione che ha il filosofare, non è un vuoto appello, ma una concretissima presa di posizione, nei confronti di tesi che finivano per alienare- l'uomo, in una situazione storica particolarmente favorevole a simili evasioni ed evi- tate responsabilità in astratte pacificazioni. Cosi, accanto alla discus- sione svolta da Carneade nei confronti della fantasia catalettica, della veracità o meno dell'impressione sensibile, della dialettica come capacità di discernere i ragionamenti veri dai falsi, dell'assenso, della necessità della epoché (discussione, del resto, anche se piu approfondita, molto simile a quella svolta da Arcesilao), sembra di non poco conto ricordare la precisa problematica posta da Carneade nei confronti del- l'impossibilità di porre da un lato una realtà fatalmente ordinantesi in nessi, ove tutto è là dove dev'essere necessariamente, momento del necessario realizzarsi di una legge universale, e, dall'altro lato, l'uomo avente la capacità di volere, per cui almeno alcune cose sono in suo potere. Carneade, ed è naturale, non si decide né per l'una né per l'altra tesi. Ciò ch'egli vuole è giungere a porre l'inconciliabilità tra libertà e necessità, tra possibilità umana di costruire il proprio mondo e d'esserne responsabile, e la visione di un tutto ove Dio è legge. Ma nel sottolineare tale aporia, Carneade portava ad estrema conseguenza ed a consapevolezza quella ch'era stata la problematica propria di gran parte del pensiero greco. E qui pensiamo particolarmente ad Aristotele nel quale si vede bene il conflitto tra un tutto che sillogisticamente si scandisce e la volontà come capacità di realizzare in armonia dei fini che dipendono dall'attività propria dell'uomo e alla soluzione di una parte almeno della scuola aristotelica, che svincolando il filosofare dalla ricerca delle cause prime e dei fini ultimi, aveva posto la funzione del filosofare nell'indagine delle condizioni che permettono la costruzione delle singole scienze, o, per altra via, del come è che si pensa, del come è che si parla. Ma pensiamo anche ad Epicuro, alla sua polemica contro l'astrologia e la dialettica di Platone, contro il sillogismo di Aristotele, contro la matematicizza:z;ione dell'universo. Ed infine pensiamo agli stessi Stoici, in particolar modo a Zenone e a Crisippo, e cioè ai loro sillogismi ipotetici, alla loro logica proposizionale, che, invece di un esito religioso-teologico - non va dimenticato che gran parte degli stoici provenivano da zone orientali, particolarmente semitiche, ove giovani si erano formati - poteva aver quell'esito, che, in effetto, ebbe proprio in Carneade. Posto cioè che ogni discorso si costituisce di implicazioni dovute al ricordo di impressioni ricevute, ognuna delle quali non è, presa in sé, né falsa né vera (non abbiamo alcun criterio per poter affermare che l'impressione vera è quella che corrisponde all'oggetto impressionante, perché dovremmo già prima conoscere l'oggetto), e posta quindi l'ipoteticità del discorso, si deve avere il coraggio di mostrare che proprio perché ogni discorso è ipotetico, per cui l'uno si può opporre all'altro (antilogia), ogni discorso è valido sul piano umano, e la sua stessa verità - la coerenza o meno delle implicazioni - può cangiare, se diverse sono le impressioni e i relativi ricordi, per cui la stessa dialettica, intesa come scienza che dovrebbe distinguere il vero dal falso nei discorsi, non ha alcun criterio assoluto e quindi è vana, sf come vano sul piano ontologico si rivela il criterio dell'analogia con cui gli Stoici hanno costruito la loro cosmologia, la loro concezione del divino, della Provvidenza, con cui provano l'esistenza di Dio, e pongono la tesi del diritto naturale. Co- struzione umana, gli umani discorsi e le umane verità, le une e gli altri validi entro i termini della mobile storia degli uomini e delle loro esperienze, la stessa giustizia è storica e non naturale. Gli uomini sancirono il diritto per proprio utile, dal momento che spesso esso venne cangiato a seconda dei costumi e, nell'ambito di una medesima società, a seconda dei tempi: non esiste pertanto alcun diritto naturale; tutti, uomini ed esseri viventi, sono portati all'utile proprio, sotto la guida della propria natura; di conseguenza o non esiste affatto la giu- stizia o, se esiste in qualche modo, è il colmo della stoltezza, perché in servizio del vantaggio a ltrui nuocerebbe a se stessa (Lattanzio, Div. inst.). C'è, dunque, un diritto civile, non un diritto naturale (Cicerone, Rep., III, 7 sgg.). Distinta la giustizia in due parti, chiamando l'una sociale e l'altra naturale, Carneade le capovolge ambedue, dal momento che la prima è civile saggezza, ma non vera giustizia, e la seconda è 1..erto naturale giustizia, ma non saggezza (Cicerone, Rep.). Il che, ancora una volta, non significa affatto negare la giusuz1a o opporre alla tesi stoica un altro concetto di giustizia, ma dimostrare l'impossibilità di cogliere la giustizia in sé, di cogliere, di là dall'umano discorso e dalle situazioni umane, la ragion d'essere del tutto, la legge come recta ratio su cui tutto si fonda. Carneade, testimonia Cicerone, confutò la giustizia, non già perché pensasse che essa dovesse essere ingiuriata, ma per dimostrare che i suoi difensori discutevano intorno alla giustizia, senza avere alcun fondamento certo e solido (Rep.). Lo stesso potremmo ripetere per ciò che riguarda gli dèi, la cosmologia, la provvidenza, la divinazione (artificiale e naturale) e cosi via, tutte tesi stoiche, che Carneade discute senza uscire fuori dalle stesse argomentazioni stoiche, dimostrandone la contraddittorietà sia ricorrendo alle antilogie sia ai vecchi sofismi megarici, come i soriti, sia all"' ironia" socratica (si cfr., anche per ciò che sopra è stato esposto, Cicerone, Lucullus; De natura deorum; De divinatione; De fato; De finibus; Sesto Empirico, Adv. math.). D'altra parte, infine, poiché, almeno in Crisippo, la dimostrazione del tutto e di quelle che sono le leggi del tutto è tratta per analogia dal mondo con cui si costituisce il discorso, per cui di implicazione in implicazione si giunge a porre la condizione prima nel principio attivo e in quello passivo, lo stesso tutto e la sua ragion d'essere e concate- nazione fatale sono, alla fine, un possibile discorso ipotetico, che viene accettato o respinto per opzione. Sembra chiaro, allora, come di qui Carneade potesse trarre che, dunque, l'esito non· contraddittorio della logica stoica doveva essere non la certezza in un sapere assoluto, che accantona ogni altra opinione, ma il ripiegamento sul probabile o cre- dibile (7tr.&«vov- pithan6n ). Molto si è discusso sul significato che ha in Carneade la tesi del credibile. " È invalso l'uso," scrive il Dal Pra (Grande Antologia filosofica, Milano, l, pp. 515-16}, di considerare del tutto a parte la dottrina carneadiana del pithan6n, che darebbe fondamenmente si scandisce e la volontà come capacità di realizzare in armonia dei fini che dipendono dall'attività propria dell'uomo e alla soluzione di una parte almeno della scuola aristotelica, che svincolando il filosofare dalla ricerca delle cause prime e dei fini ultimi, aveva posto la funzione del filosofare nell'indagine delle condizioni che permettono la costruzione delle singole scienze, o, per altra via, del come è che si pensa, del come è che si parla. Ma pensiamo anche ad Epicuro, alla sua polemica contro l'astrologia e la dialettica di Platone, contro il sillogismo di Aristotele, contro la matematicizzaione dell'universo. Ed infine pensiamo agli stessi stoici, in particolar modo a Zenone e a Crisippo, e cioè ai loro sillogismi ipotetici, alla loro logica proposizionale, che, invece di un esito religioso-teologico - non va dimenticato che gran parte degli stoici provenivano da zone orientali, particolarmente semitiche, ove giovani si formano - poteva aver quell'esito, che, in effetto, ebbe proprio in Carneade. Posto cioè che ogni discorso si costituisce di IMPLICAZIONI dovute al ricordo di impressioni ricevute, ognuna delle quali non è, presa in sé1 né falsa né vera (non abbiamo alcun criterio per poter affermare che l'impressione vera è quella che corrisponde all'oggetto impressionante, perché dovremmo già prima conoscere l'oggetto), e posta quindi l'ipoteticità del discorso, si deve avere il coraggio di mostrare che proprio perché ogni discorso è ipotetico, per cui l'uno si può opporre all'altro (antilogia), ogni discorso è valido sul piano umano, e la sua stessa verità - la coerenza o meno delle implicazioni - può cangiare, se diverse sono le impressioni e i relativi ricordi, per cui la stessa DIALETTICA, intesa come scienza che dovrebbe distinguere il vero dal falso nel discorso o dialogo, non ha alcun criterio assoluto e quindi è vana, si come vano sul piano ontologico si rivela il criterio dell'analogia con cui gli stoici hanno costruito la loro cosmologia, la loro concezione del divino, della provvidenza, con cui provano l'esistenza di Dio, e pongono la tesi del diritto naturale. Cotruzione umana, le umani discorsi e l’umane verità, le une e gli altri validi entro i termini della mobile storia degli uomini e delle loro esperienze, la stessa giustizia è storica e non naturale. Gli uomini sancirono il diritto per proprio utile, dal momento che spesso esso venne cangiato a seconda dei costumi e, nell'ambito di una medesima società, a seconda dei tempi: non esiste pertanto alcun diritto naturale; tutti, uomini ed esseri viventi, sono portati all'utile proprio, sotto la guida della propria natura; di conseguenza o non esiste affatto la giu- stizia o, se esiste in qualche modo, è il colmo della stoltezza, perché in servizio del vantaggio altrui nuocerebbe a se stessa (Lattanzio, Div. inst., V, 276    16, 2-3). C'è, dunque, un diritto *civile*, non un diritto naturale (Cicerone, Rep., III, 7 sgg.). Distinta la giustizia in due parti, chiamando l'una sociale e l'altra naturale, Carneade le capovolge ambedue, dal momento che la prima è civile saggezza, ma non vera giustizia, e la seconda è terto naturale giustizia, ma non saggezza (Cicerone, Rep., III, 20, 31). Il che, ancora una volta, non significa affatto negare la giustiza o opporre alla tesi stoica un altro concetto di giustizia, ma dimostrare l'impossibilità di cogliere la giustizia in sé, di cogliere, di là dall'umano discorso e dalle situazioni umane, la ragion d'essere del tutto, la legge come “recta ratio” su cui tutto si fonda. Carneade, testimonia Cicerone, confuta la giustizia, non già perché pensasse che essa dovesse essere ingiuriata, ma per dimostrare che i suoi difensori discutevano intorno alla giustizia, senza avere alcun fondamento certo e solido (Rep.). Lo stesso potremmo ripetere per ciò che riguarda gli dèi, la cosmologia, la provvidenza, la divinazione (artificiale e naturale) e cosi via, tutte tesi stoiche, che Carneade discute senza uscire fuori dalle stesse argomentazioni stoiche, dimostrandone la contraddittorietà sia ricorrendo alle anti-logie sia ai vecchi sofismi megarici, come i soriti, sia all'ironia socratica (si cfr., anche per ciò che sopra è stato esposto, Cicerone, Lucullus; De natura deorum, III; De divinatione, II; De fato, VII, XIV; De finibus, II, 35-41; Sesto Empirico, Adv. math., IX e VII passim). D'altra parte, infine, poiché, almeno in Crisippo, la dimostrazione del tutto e di quelle che sono le leggi del tutto è tratta per analogia dal mondo con cui si costituisce il discorso, per cui di implicazione in implicazione si giunge a porre la condizione prima nel principio attivo e in quello passivo, lo stesso tutto e la sua ragion d'essere e concatenazione fatale sono, alla fine, un possibile discorso ipotetico, che viene accettato o respinto per opzione. Sembra chiaro, allora, come di qui Carneade potesse trarre che, dunque, l'esito non-contraddittorio della logica stoica doveva essere non la certezza in un sapere assoluto, che accantona ogni altra opinione, ma il ripiegamento sul probabile o credibile (7tt&otv6v- pithanon). Molto si è discusso sul significato che ha in Carneade la tesi del credibile. "È invalso l'uso," scrive il Dal Pra (Grande Antologia filosofica, Milano) di considerare del tutto a parte la dottrina carneadiana del pithanon, che darebbe fondamento al suo probabilismo, come anche di considerare il probabilismo del tutto a parte rispetto allo scetticismo vero e proprio. Per contro, un attento esame della questione porta a concludere che, anche a proposito del problema dell'azione e del motivo della probabilità, Carneade non ha fatto che attenersi al classico metodo della ritorsione polemica nei confronti dello stoicismo. Crisippo sostenne che il probabile conduce all'assenso, ma non certo all'assenso della rappresentazione comprensiva; mentre tale assenso infatti è criterio di verità, la probabilità è causa permanente di errore. Ci si potrà difendere da esso percorrendo interamente ogni enunciazione, evitando che il conflitto delle ragioni in pro ed in contro ci distolga dalla rappresentazione comprensiva, evitando soprattutto che l'indebolimento dell'assenso ci porti a lasciarci sfuggire la rappresentazione comprensiva. Ebbene, Carneade risponde all'incirca nei termini seguenti. Il vostro criterio, o stoici, della rappresentazione comprensiva non è in fondo che un pithanon, ossia una di quelle probabilità che voi considerate come perenne fonte di errori. La vostra dialettica, che è tutta la vostra scienza, fondata sulla persuasione e sulla probabilità diviene una pura e semplice arte di persuadere, una retorica. La vostra pretesa di costituire, partendo dalla sensibilità, una scienza del vero e del falso, è vana; per l'azione è sufficiente la persuasione, come mostra lo stesso sapiente stoico; e la persuasione rende inutile la conoscenza compren- siva; la vostra teoria della conoscenza non ha dunque oggetto; pro- prio e solo alla persuasione voi siete costretti a ridurvi. Il pithanon è l'unico punto che vi resta di tutta la vostra filosofia." La rappresentazione ha due aspetti, uno relativo all'oggetto, l'altro al soggetto. Rispetto all'oggetto essa vera o falsa. Rispetto al soggetto appare vera o falsa: e quella che appare vera si chiama persuasiva, “pithane”. Ora, quella rappresentazione che appare vera, e in modo abbastanza chiaro, è per Carneade criterio di verità per la condotta della vita e l'acquisto della felicità. Talvolta accade anche che una tal rappresentazione sia falsa. Ma siccome questo capita di rado, si pu prestar fede a quella che per lo piu è vera, poiché noi non possiamo regolare giudizi e azioni che in conformità di ci che è il piu consueto (Sesto Empirico, Adv. math.). Il criterio primo e comune secondo Carneade è dato dalla rappresentazione persuasiva. Ma poiché le rappresentazioni non sono mai isolate,.ma formano come una catena nella quale ciascuna è collegata con le altre, il secondo criterio sarà la rappresentazione persuasiva e insieme non contraddetta, “aperispastos”. Come alcuni medici comprendono chi ha davvero la febbre non da un solo SINTOMO, ma dal concorso di tutti, cosi l'accademico dal concorso delle rappresentazioni giudica la verità; e se nessuna delle rappresentazioni concomitanti la contraddica come falsa, dice che è vera quella che gli appare. Ma ancor piu della rappresentazione non contraddetta è persuasiva e perfetta generatrice di giudizio quella che aggiunga al non esser contraddetta anche l'esser esaminata in ogni parte ("diexodeuméne"), per esempio, per quel che riguarda il giudicante, il giudicato, il mezzo attraverso cui si giudica, la distanza e l'intervallo, il luogo, il tempo, la disposizione, l'attività, e cosi via. Nelle contingenze comuni, dice Carneade, usiamo per criterio la sola rappresentazione persuasiva. In quelle un po' importanti la non contraddetta; in quelle poi che influiscono sulla felicità, quella esamimta in ogni parte (Sesto Empirico, Adv. math.). Cicerone e Sesto sono le uniche fonti per avvicinarsi alla posizione di Carneade. Cicerone sembra attingesse - ma personalmente li rielabora, agli scritti di un discepolo di Carneade, Clitomaco di Cartagine, che fedelmente espose il pensiero del maestro. Ad ogni modo, comunque s'intenda o s'interpreti la tesi del pithanon, sia pur attraverso la ricostruzione che dell'atteggiamento di Carnede dà Cicerone e l'esposizione che del cosiddetto scetticismo di Carneade dà Sesto Empirico, ciò che chiaramente emerge è il continuo appello di Carneade a non uscire fuori dal proprio mondo umano, ad assumere di fronte ad ogni opinione o concezione, per venerata o venerabile che sia, una consapevolezza critica che, chiarendo le nostre idee, rende conto di ciò che siamo e di ciò che possiamo plausibilmente fare, in un accantonamento delle supreme verità, quali che siano, oggetto di fede, ma distruggitrici di quell'umano dovere che è il ragionare. Sotto questo profilo ed entro i termini delle discussioni antilogiche di Carneade, ci rendiamo conto dell'impressione che fa in Roma il suo celebre discorso sulla giustizia, in cui, dopo aver sostenuto il valore della giustizia con argomenti convincenti, con altrettanti convincenti argomenti ne dimostra l'assurdità. Ma ci rendiamo conto anche delle preoccupazioni di un CATONE di fronte a uomini come Carneade, e il suo darsi da fare, perché gli ambasciatori (Carneade accademico, Diogene di Babilonia stoico, Critolao peripatetico), inviati da Atene a ROMA per convincere il senato a ritirare il decreto con cui Atene e condannata a pagare una forte multa per aver saccheggiato Oropo, vennneno subito ricevuti e se ne andassero al piu presto. L'ambasceria di Carneade a ROMA è un episodio, ma è un episodio che è pure un SINTOMO e che, anche se con cautela, può indicare un termine bi-fronte: la conclusione di quella ch'ela problematica propria del pensiero greco, e l'inizio di tutta una problematica rispondente a situazioni diverse, a diverse richieste ed esigenze, nell'incontro tra due culture diverse di origini diverse, in un sempre maggiore allargamento anche a culture orientali, non piu filtrate solo dai greci, ma ritornanti al mondo greco attraverso Roma. Certo non fu all'indomani che tutto divenne diverso. Ma è sicuro che, già coi primi discepoli di Carneade (dei quali peraltro sappiamo pochissimo: Carneade di Polemarco, premorto al vecchio Carneade, che venne meno, Cratete di Tarso, Clitomaco che fedelmente espose il pensiero del maestro), e particolarmente con Carmada e Metrodoro dai quali deriva Filone di Larissa, che fu a Roma e del quale Cicerone ascolta le lezioni, e Antioco di Ascalona, si puo determinare una problematica diversa, rispondente, appunto, a situazioni diverse e a diverse richieste. E cosi troviamo entro la scuola stoica modificazioni e compromessi che dettero luogo alla cosiddetta media stoa, indicativi anch'essi di situazioni diverse e di diversi controlli umani e politici, ove in nome dell'ordine e della razionalità del tutto, del diritto naturale e della legge universale, si puo riconoscere Roma la capitale del mondo, caput mundi), recuperando gia vecchie concezioni astrali e cosmologiche dei caldei, sia certi aspetti piu mistici e religiosi di Platone. Non solo, ma non è un caso che proprio in questi tempi, vi sia un rifiorire dell'epicureismo e si diffonda un epicureismo romano che già condannato dal senato romano, con l'espulsione degli epicurei Alceo e Filisco, per avere introdotto costumi licenziosi (Ateneo, XII, 547a), è indicativo di una opposizione nuova, di un appello alla plebe, fino all'esplosivo canto di LUCREZIO, il quale vide in Epicuro piu che una dottrina un'arma politica e culturale. Né certo possiamo comprendere LUCREZIO e l'epicureismo romano se non si tengono presenti proprio quelle situazioni di cui parlavamo, e senza di cui è difficile rendersi conto del delinearsi di una nuova civiltà, frutto di un incontro, di uno scontro e di un dialogo, diversi da quelli da cui si genera il complesso delle componenti della cultura greca: la quale, a sua volta, offri i suoi elaborati strumenti, ma in una modificazione dei suoi contenuti. Roma si assicura il dominio dell'Egeo, colla pace di Apamea conquista l'Asia Minore fino al Tauro, con la battaglia di Pidna, la Macedonia edefinitivamente sconfitta, e, con la seconda battaglia di Pidna, divenne PROVINCIA ROMANA. A causa di un'ultima rivolta della lega greca, Roma, dopo avere distrutto Corinto, rese tributarie tutte le città greche, trann~ Atene e Sparta. Il poeta Antipatro di Sidone cosi canta la distruzione di Corinto. Dov'è, dorica Corinto, la tua ammirata bellezza, dove le tue corone di torri e le ricchezze antiche? Dove i templi degli immortali e le case? Dove le spose sisifee e le miriadi di folla? Nessun VESTIGIO è rimasto, infelice, di te. Tutto ha rapito, tutto ha divorato la guerra. Noi sole, le alcioni, immortali Nereidi oceanine. Restiamo a testimoniare il tuo dolore (Ant. Pal., VII, 87). Sono versi come tanti ve ne potevano essere, si come tante erano state le guerre e le distruzioni durante la lunga e tormentata storia della Grecia, ma sono versi che possono avere, ora, un loro significato simbolico, come significativo è il fatto che Antipatro di Sidone fu il primo poeta greco volontariamente anda a Roma. Cosi altrettanto indicativa è la vicenda di Polibio, che, nemico di Roma, difensore della Macedonia, e, dopo la battaglia di Pidna tra i mille ostaggi inviati a Roma da Emilio Paolo. A Roma entra in dimestichezza con Scipione Emiliano e col suo circolo, descrivendo, infine, la grandezza di Roma, con chiara consapevolezza che tutto un mondo culturale e civile s'era compiuto e che, con Roma, altro si richiedeva, altre sono le esigenze, altra divenne la cultura. Oso avanzare l'ipotesi che quanto il resto dell'umanità [i greci] deride è il fondamento della grandezza romana, cioè la superstizione. Questo elemento è stato introdotto in ogni aspetto della loro vita pubblica e privata con ogni artificio per impressionare l'immaginazione a un grado tale, che non se ne potrebbe concepire uno piu alto. Molti probabilmente si stupiranno nell'apprendere ciò; la mia opinione è che ciò fu fatto per impressionare le masse. Se fosse possibile fondare uno Stato in cui tutti i citta- dini fossero filosofi, potremmo forse far a meno di questo genere di cose; ma in ogni Stato le masse sono instabili, piene di desideri illeciti, di violente passioni. Tutto quel che si può fare è quindi tenerle a freno col timore dell'invisibile e con altri inganni di tal genere. Non a caso, ma a ragion.veduta, gli antichi insi.nuavano nelle masse idee sugli dèi e pensieri su~la v1ta. ultrate~re~a. La folha. ~ la.incapacità sono nostre [dei greci] poi- che cerchtamo dt dtsperdere tah liluswni (VI, 56). E non è, forse, senza interesse ricordare che proprio IL CIRCOLO DEGLI SCIPIONI ha accolto ostilmente la celebre opera (Scritto sacro) di Evemero di Messana, in cui Evemero, rifacendosi a certe tesi sofistìche sull'origine storica della nascita degli dèi, sosteneva che gli dèi non sòno altro che uomini celebri e famosi in vita, che, per i loro meriti verso il genere umano, furono divinizzati dopo la morte.compimento del pensiero greco e Roma. La cultura e tradizioni greche a Roma sono forti. Chi si ponga a studiare la situazione culturale tra l'ambasceria dei tre filosofi a Roma e la morte di Cicerone, si trova di fronte a un insieme di questioni assai complesse e difficilmente districabili, che certo non si possono risolvere con quella specie di categoria che è divenuto il termine “eclettismo”, per la prima volta usato da Diogene Laerzio (Proem.) nei confronti di Potamone di Alessandria, ma ripreso dal Brucker (Historia critica philosophiae, Lipsia) e da allora adottato da tutta la storiografia filosofica per indicare l'indirizzo proprio del secolo di cui Cicerone sarebbe il maggior rappresentante. Si è cosi parlato di “eclettismo” per lo stoico Boeto di Sidone, per gli stoici Panezio e Posidonio, per Mnesarco, successo nello scolarcato della Stoà a Panezio; per gli accademici Filone di Larissa e Antioco di Ascalona, successi nello scolarcato dell'Accademia a Clitomaco, per l'aristotelico Andronico di Rodi. Al di fuori dell'”eclettismo” e, invece, rimasta la corrente epicurea con Zenone di Sidone, Fedro, Filodemo, Patrone, culminante in Roma con Tito LUCREZIO Caro, mentre con Enesidemo si avrebbe un ritorno all'originario scetticismo di Pirrone e di Timone. La prima difficoltà oggettiva è la mancanza di testi e di una documentazione precisa che permettano una ricostruzione storicamente esatta di singole posizioni, soprattutto per Boeto di Sidone, per Panezio e Posidonio, che pur ebbero un'influenza grandissima, per Filone è Antioco di Ascalona, con i quali sembra che l'insegnamento dell'Accademia abbia assunto un diverso significato rispetto a quello di Carneade. Ciò che sappiamo di loro, lo dobbiamo soprattutto Cicerone, o, meglio, alla rielaborazione che Cicerone nel corso della sua meditazione e nella sua precisazione del significato della retorica per la costituzione di una vita associata (entro i termini de! mondo romano, della sua cultura e della sua storia, in un momento drammatico per la salvezza della repubblica) ha operato di quei dibattiti, di quegli atteggiamenti fluidi e duttili, a loro volta influenzati dalle nuove richieste, dai nuovi problemi impostati dalla tradizione e dalle esigenze di Roma, da una Roma che da “città-stato”, avente una sua cultura ed una sua formazione, si veniva trasformando in “impero”, in mezzo a lotte e a dolori, a guerre, a cozzi di partiti, nell'incontro con altre e diverse concezioni e culture. D'altra parte, una seconda difficoltà sta nell'impossibilità di accertare con esattezza l'esistenza di UNA LINEA ORIGINARIA E ORIGINALE DELLA TRADIZIONE ROMANA, prima dell'incontro piu vasto con il mondo greco ed il mondo orientale, a parte le sicure reciproche influenze dovute a quel ponte di passaggio che furono Cuma e L’ETRURIA prima, TARANTO, la MAGNA GRECIA – Crotone, Velia --; la SICILIA poi. A tal proposito Cicerone è piuttosto preciso nel dichiarare l'imprecisione e la fluidità della cosiddetta corrente pitagorica romana, che avrebbe costituito lo sfondo e il tessuto della cultura di Roma fino al tempo della conquista della Grecia. Cicerone stesso in quel pitagorismo piu che una determinata concezione, piu che una filosofia, vede una tradizione, un modo di vita, o meglio una visione di un ordine trascendente e teleologicamente determinato su cui si vengono armonicamente scandendo le leggi della città e un tipo di éthos, in una struttura di stato ARISTOCRATICO e contadino-MIITARE, dove trovano posto esigenze religiose estremamente semplici e povere e pratiche terapeutico-cultuali, che se da un lato, trasmesse dalla Magna Grecia – Crotone, Velia --, potevano andare sotto il nome generico di "pitagorismo," dall'altro lato s'incontravano con la situazione ARISTOCRATICO-contadina del popolo di Roma. Per molti rispetti - scrive Cicerone - sono un ammiratore dell'ingegno e della virtu dei nostri connazionali, ma soprattutto per quegli studi a cui si dedicarono molto tardi, trasferendoli dalla Grecia nella nostra città. È vero che fin dalle prime origini di Roma, durante il periodo regio, gli ordinamenti, e in parte anche le leggi, regolarono a perfezione gli auspici, le cerimonie religiose, le assemblee popolari, gli appelli al popolo. Il consesso dei senatori, la ripartizione dei cavalieri e dei fanti e tutta l'organizzazione militare. Però, quando lo stato lazio o romano e liberato dal regime monarchico, si verifica un progresso meraviglioso e uno slancio incredibile verso ogni specie di primato. Non è certo questo il luogo per parlare dei costumi e degli ordinamenti dei nostri ante-nati né della costituzione e del governo dello stato lazio o stato romano. Esaminando in questa sede le attività culturali e filosofiche, molti fatti mi fan credere che esse pure siano state desunte dal di fuori e siano state non solo ricercate, ma anche mantenute e coltivate. I nostri ante-nati avevano infatti quasi sotto gli occhi un uomo di straordinaria sapienza e rinomanza, Pitagora, che visse in Italia al tempo in cui libera la patria Lucio BRUTO. Poiché la dottrina di Pitagora ebbe larga diffusione, a mio parere penetra anche nella nostra città, e questa congettura non è soltanto probabile, ma è anche confermata da alcuni INDIZI. Infatti le grandi e potenti città dell'Italia meridionale – Crotone, Taranto, Velia --, che appunto fu chiamata Magna Grecia, sono al culmine del loro splendore ed ivi ha grande risonanza il nome di Pitagora prima, e piu dei “pitagorici”. Chi può pensare che i nostri connazionali siano stati sordi a quei richiami di alta dottrina? Anzi ritengo che per ammirazione verso i pitagorici anche IL RE NUMA che regna molto prima del tempo di Pitagora, e stimato dai posteri un pitagorico. Essi infatti conoscevano le teorie e le massime di Pitagora, e dai loro pro-genitori avevano avuto notizia della equità e della saggezza di quel re. Ma, facendo una confusione cronologica sull'età di quegli uomini, perché si perde nella lontananza del tempo, credeno che colui che primeggia per sapienza e un alunno di Pitagora. E questo basti per la congettura. Quanto agl'INDIZI sui Pitagorici, benché se ne possano raccogliere molii, ci limiteremo a pochi, perché non è questo l'argomento della presente discussione, Si dice che essi solevano esporre in poesia certi insegnamenti piu segreti e rilassare nella tranquillità le loro menti affaticate dalle meditazioni con il canto e la musica. E CATONE, scrittore autorevolissimo, dice nelle sue “Origini” che presso i nostri ante-nati vige nei banchetti l'usanza che i convitati l'uno dopo l'altro cantassero, accompagnandosi al flauto, le glorie e le virtu degli uomini illustri. Risulta da ciò evidente che a quel tempo esiste il canto applicato ai suoni musicali e la poesia. Per quanto anche le dodici tavole rivelano che già allora si coltivava la poesia. Una legge (tab. VIII) sance che non e lecita la diffamazione mediante la poesia. Un'altra prova della cultura di quei tempi è che i festini religiosi e i banchetti dei magistrati si svolgevano al suono della lira. E questa era appunto una caratteristica di quella scuola filosofica di cui sto parlando. Per mio conto anche il carme di APPIO CIECO, console, che Panezio loda vivamente in una lettera a Quinto Tuberone, di cui Scipione l'Emiliano era zio e L. Emilio Paolo il nonno, discepolo di Panezio, forte oratore avversario dei Gracchi,  è d'ispirazione pitagorica. Nelle nostre istituzioni vi sono ancora molti particolari che risalgono ai pitagorici. Ma li tralascio, affinché non appaia che abbiamo appreso da altri ciò che abbiamo fama di avere appreso da noi. Lo studio della sapienza, ovvero filosofia, è certamente antico presso di noi, però non riesco a trovare nomi da citare per il periodo anteriore a LELIO, detto sapiens, oratore, stoico, console, e SCIPIONE EMILIANO. Quando questi erano giovani, mi risulta che furono mandati dagl’Ateniesi come ambasciatori presso il senato lo stoico Diogene e l'accademico Carneade (Cicerone, Tusculanae disp.). Sembra, questa, una pagina abbastanza indicativa. Dietro la leggendaria figura di Pitagora è chiaramente mostrata l'UNILATERITà della cultura romana. Non sappiamo fino a che punto vi sia qui un giuoco ciceroniano, volto da un lato a mostrare il quadro di una antica AUSTERITà romana, cui puo servire il topos della vita pitagorica, e dall'altro lato a dimostrare la necessità di una consapevole riflessione che serva da fondamento, in una piu ampia concezione, a certi modi di vita, senza di cui la stessa attività dell'oratore non è, in effetto, realmente e concretamente politica e che Cicerone riconosce dovuta alla complessa problematica della cultura, che, tuttavia, ha da innestarsi sul tronco delle nuove esigenze e dei problemi, che, politicamente, socialmente, economicamente, militarmente, si presentano a Roma. Cicerone, naturalmente, ha presente la situazione di Roma al suo tempo, e sarebbe ozioso ricordarne i conflitti e i cozzi di ideologie e di interessi di classe e personali, i tentativi economici, le resistenze, le aperture (dai conflitti dei Gracchi a Mario e Silla, a Cesare e Pompeo), in un mondo, senza dubbio, in gravissima crisi e in trasformazione. Ma Cicerone sa anche che l'uomo politico, l'oratore (e si badi che Cicerone nettamente distingue il retore, il tecnico dei discorsi, il professore o precettista di retorica, dall'atore, che pur deve conoscere quelle tecniche e quei manuali, com'è chiaramente dimostrato dal “De inventione”, un manuale di retorica, al “De Oratore”), non può concretamente agire, determinare una certa condotta piuttosto che un'altra, se non inserendosi nella situazione presente, se non avendo coscienza della propria responsabilità, che tuttavia scaturisce dal riflettere sulla struttura culturale del proprio tempo, e a cui si giunge rendendosi conto del come e del perché si è pervenuti a quella struttura stessa. Sotto questo profilo Cicerone è una fonte preziosa, soprattutto quando le sue opere vengano studiate in ordine cronologico e non in astratto, e si tenga conto delle varie situazioni storiche per ricostruire, piu che un insieme di sistemi, il complesso delle molteplici linee attraverso cui si venne determinando l'incontro tra il mondo orientale e il mondo romano, e la trasformazione dell'uno e dell'altro, nel giro di un secolo circa, in una nuova atmosfera culturale. Il pensiero di Cicerone è incomprensibile, quando non lo si veda scaturire da certe precise situazioni storiche, quando non se ne colga la genesi dal di dentro di ciascun'opera, da quelle piu strettamente retoriche e giuridiche a quelle in cui si tenta di delineare il significato del “vir bonus”, dell'orator che, mediante il suo sapere, la sua “virtus”, sa inserirsi in una certa società, duttilmente, sapendo usare le tecniche, avviando quella società a una certa ritenuta convenienza e a una certa ritenuta “honestas”. Si capisce perciò come Cicerone, pur puntando a un certo ideale di uomo e di società, si preoccupa dei mezzi pratici per realizzarlo, e si capisce altresl come esponga via via i piani diversi con cui si sono storicamente presentati i vari aspetti della retorica e i vari tipi di oratoria, diversi a seconda delle concezioni e dei caratteri, delle situazioni in cui si sono venuti a trovare gl’uomini politici. Di qui, ed entro questi termini, i vari tipi di oratoria esposti da Cicerone da quella di SULPICIO e di SCEVOLA, a quella di COTTA, di CRASSO e di MARC’ANTONIO, a quella dei GRACCHI e di ORTENSIO, di BRUTO - e i fondamenti filosofici che hanno mosso quegli oratori, cioè quegli uomini politici. Cosi, attraverso questo lavoro, Cicerone, dal “De inventione” al “De Oratore”, all'Orator, e cosi via, si è reso sempre meglio conto che la retorica ha da trasformarsi in ORATORIA, cioè in filosofia, nel senso che la verace persuasione si ottiene ben pensando (virtu), che è ben parlare (ELOQUENZA) istituendo misurato e onesto costume. L'oratore, perciò, deve possedere un complesso di cognizioni che vanno dalla psicologia allo studio dei caratteri, di ciò che ragionevolmente anche dell'ordine del tutto e della realtà e del divino può essere accettato (“consensus gentium”), donde, nel conflitto tra "filosofia" e "retorica," il significato dato da Cicerone alla psicagogia del Fedro platonico e alla retorica di Aristotele, e, ad un tempo, accanto alle ipotesi (discussione giuridica di casi particolari), alle tesi (discussione di problemi generali), e quindi a certi aspetti della virtu e delle concezioni degli stoici la cui casistica e discussione scolastica, offre larga mèsse per le tesi" -, ma anche alla duttilità discussiva di un Arcesilao o di un Carneade, determinando il pro e il contro di ogni concezione e tesi, in un abile inserirsi e modificare che nega ogni sistema chiuso, per cui, appunto, Cicerone verrà criticando e escludendo sia il fato sia la divinazione. Cicerone, in effetto, non è mai stato né un "brillante espositore di dottrine altrui," come si è detto, né un uomo che abbia cucito insieme dottrine talvolta anche in contrasto tra loro, se non in quanto con- trasto e conflitto furono propri dello stesso Cicerone. Pensi pure ciascuno come vuole: vi deve essere libertà di giudizio. Noi ci atterremo sempre ai nostri principi; ricercheremo cioè sempre in ogni questione quello che abbia maggiore carattere di probabilità, senza essere vincolati a regole di nessuna scuola, alle quali ubbidire di necessità. (Tusc. disp., IV, 4). Vi è piuttosto, in Cicerone, una sottile noia nei contronti delle dispute di scuola, l'esigenza di ricondurre sul piano di un concreto agire umano sia il ragionamento sia la problematica morale sia la problematica relativa all'ordine del tutto, nell'ideale di usare le tecniche retoriche e le tecniche dialettiche, o una o altra concezione etica o religiosa, al fine di persuadere a un certo modo di vita che sia salvazione della libertà romana, della concordia di Roma, lacerata nei conflitti. Tale consapevolezza porta Cicerone a sostenere ch'egli, pur facendo tesoro della cultura greca, pur usando le tecniche ricavate dai manuali greci di retorica, pur rifacendosi ai grandi oratori latini, pur usando concetti e motivi elaborati dai greci, cerca di dare una consapevolezza critica (filosofica) al popolo romano, una cultura, che anche nel linguaggio, non fosse piu né greca né meramente precettistica e scolastica. Magnifica e gloriosa cosa è per i Romani non avere piu bisogno del greco per la filosofia: che, per certo, adempirò, se porterò a fine l'opera iniziata (De divinatione; Il, 1). Stando cosi le cose, sembra estremamente difficile potere, attraverso Cicerone, ricostruire precise posizioni di pensatori precedenti (Panezio, Posidonio, Filone di Larissa, Antioco di Ascalona, e cosivia), ché, sempre, anche quando Cicerone cita direttamente, anche quando dice di avere in mano le opere di quegli autori, egli usa quelle fonti in funzione di un suo fine, in funzione del pro e del contro, delle tesi, in funzione di certe situazioni politiche e, nei confronti di quelle, della sua politica. Ciò che, invece, è possibile, attraverso Cicerone, attraverso la mediazione da lui attuata, da un lato è ricostruire un'abbastanza precisa atmosfera culturale, ed entro questa la stessa evoluzione ed originalità del pensiero ciceroniano, fino a cogliere il senso e il perché di una posizione che è l'indice della trasformazione di una problematica, ben diversa da quella delle fonti stesse di Cicerone; e, dall'altro lato, tenendo presente tutto questo, ricostruire certe linee e correnti, certe componenti e certi materiali, che hanno dato luogo alla composizione ciceroniana. Ora, attraverso Cicerone ed altre non molte fonti sicure, appaiono evidenti quattro punti fondamentali. La cultura greca penetra in Roma sotto forma di insegnamento scolastico impartito dagli schiavi e dai liberti greci, soprattutto per ciò che riguarda la retorica. Quella stessa retorica e con essa aspetti e concezioni propriamente recierano richiesti dai romani delle classi superiori, in quanto strumento per una formazione culturale che sirve alla vita politica. Anche i maestri piu noti e i capi- scuola di Atene, o di Rodi; che, per la sua relativa libertà, divenne notevole centro culturale, se da un lato assunsero sempre piu aspetto professorale, dall'altro lato entrarono in rapporto con personalità romane, furono a Roma, insegnarono a romani, furono consiglieri di uomini politici di Roma, viaggiarono in oriente e in occidente. Nessun romano, discepolo di piu di un tutore greco e attento a correnti diverse, e, filosofo di professione, o "saggio," ma uomo politico, uomo di governo, oratore, finché proprio in questo, in questo saper governare, consisterà per essi il "sapere," il filosofare, in un tutt'uno di otium e negotium, ove l'otium serve al negoiium e il negotium è illuminato e reso intelligente dall'otium; il che non ha ancora nulla a che fare con l'ideale della vita contemplativa, o con un rifugio nell'otium per liberarsi da un ingrato negotium, ma è l'approfondita consapevolezza dell'antica "pratica" romana, che si trasforma in "cultura," in "humanitas," attraverso l'influenza della meditazione greca. Altri e diversi diverranno i problemi e gli ideali di vita con l'avvento del principato e dell'Impero. Sembra ora non poco suggestivo riportare un testo del “De Oratore,” in cui Cicerone riferendosi ai tempi immediatamente posteriori alla conquista della Grecia, scrive: Allorché la durata della pace - avendo Roma stabilito il suo dominio su tutte le genti - assicura un certo otium, non vi fu giovinetto posseduto da un qualche amore di gloria, che non volgesse i suoi sguardi e i suoi sforzi all'arte del dire. Dapprima ignoravano tutto delle ragioni interne della retorica e neppure lontanamente pensavano che vi fosse un metodo o un qualche precetto dell'arte, si che pervenivano solo fin dove potevano giungere col talento naturale e la riflessione. Piu tardi, dopo che si ascoltarono gli oratori greci, si studiarono i loro modelli, si seguirono le lezioni dei tutori greci, e veramente con incredibile studio che i romani s'infiammano per l'eloquenza (De Oratore). I romani delle classi aperte al governo si resero conto dell'efficacia che per la carriera (cursus honorum) ha la retorica, e poiché incontrano presso i tutori greci e le scuole greche la piu ampia discussione e precisazione di quell'arte, si servirono dei tutori greci, trovando numeroso personale insegnante tra i molti. schiavi che procuravano le conquiste. Ciò era già avvenuto al tempo della conquista di Taranto, quando da Taranto e condotto come schiavo. a Roma Livio Andronico, che venne poi liberato dal padrone, al quale Andronico aveva educato i figli (Hieron., Chron.). Con Andronico ha inizio l'insegnamento pubblico del greco: domi forisque insegna Andronico (Svetonio, Gram., 1, 1). Ma con Andronico - e questo inì:eres~ qui ricordare - ha anche inizio, in Roma, sul calco della scuola d’Atene, l'insegnamento *secondario*. L'insegnamento primario, cioè l'insegnamento. dello scrivere, risale molto piu indietro, probabilmente al periodo etrusco della Roma dei re, quando i latini adottarono l'alfabeto degl’etruschi e il metodo di insegnamento della scrittura, derivato agli etruschi dai greci (cfr. I. Marrou, Storia dell'èducazione nell'antichità, Roma). L'insegnamento *secondario* latino appare molto piu tardi. Questo ritardo non deve meravigliare. L’insegnamento *secondario* classico si basa in Atene sulla spiegazione prima di tutto su Omero. Come avrebbe potuto Roma conoscere l'equivalente d'un tale studio dal momento che non possedeva una letteratura NAZIONALE? Di qui il paradosso, che non è forse stato abbastanza messo in rilievo, che la poesia è stata precisamente creata per fornire una materia d'esegesi all'insegnamento, e certamente per rispondere all'esigenza del nazionalismo romano, che non sarebbe stato a lungo soddisfatto di un'educazione unicamente greco. Il primo poeta IN LINGUA LATINA, che anche il primo professore di letteratura IN LINGUA LATINA, è quello stesso Livio Andronico di TARANTO, segnalato come il primo in data dei tutori di greco che hanno insegnato in Roma. Andronico traduce IN LOQUELA DEL LAZIO o loquela lazia o la loquela dei lazini l'Odissea, servendosi del vecchio metro indigeno, il saturnio. Tale traduzione e per Andronico un testo che egli spiega, praelegehat, parallelamente ai classici nella ‘loquela graii’  (Svet., Gram., 1, 1). Naturalmente non fu questa l'unica fonte della poesia nella loquella dei lazii, ma per molto tempo conserva il carattere, per noi strano, d'essere intimamente vincolata alla necessità d'alimentare i programmi dell'insegnamento secondario. Due generazioni dopo, Ennio, anch'egli mezzo greco, accanto ad autori greci, continua a spiegare i suoi poemi promossi, fin dalla loro apparizione, al rango di.classici (Marrou). Quando Roma conquista la Grecia, i romani delle classi superiori conosceno benissimo il greco e già lo usano come lingua diplomatica, per cui non ebbero piu bisogno di traduzioni, tanto è vero che la retorica fu studiata e insegnata in greco. Ma il discorso, sul piano del contenuto, è lo stesso di quello fatto per l'insegnamento secondario. La retorica, che costitu1 l'aspetto fondamentale dell'insegnamento superiore, servi ai romani, che hanno possibilità di fare carriera politica, come strumento di cultura, come esercizio e preparazione,.s1 come per l'insegnamento secondario sirve la grammatica e l'esegesi dei testi poetici. E perciò essi, almeno in principio, si rifecero, indiscriminatamente, ai retori greci e ai manuali di retorica, indipendentemente dai possibili contenuti di pensiero che pur erano dietro quelle tecniche. Questo spiega come l'insegnamento della retorica si svolgesse mediante esercitazioni, mediante svolgimenti di discorsi fittizi, che toccano o le tecniche persuasive, rientranti nella deliberativa, o le tecniche proprie della controversia, ove si discute il pro e il contro di casi particolari in relazione a testi di legge, in modo astratto e precettistico. Ma questo spiega anche come il contenuto soprattutto delle questioni generali (''tesi"; anche se già si ritrovano in Aristotele come luoghi comuni, e come "tesi" in Teofrasto, esse vennero poste in primo piano da Ermagora di Temno) si potesse assumere, indifferentemente, a seconda della "tesi" messa in discussione, sia dalle questioni di etica impostate dagli stoici, sia dalla dialettica e dai pro e dai contra sottilmente posti dagli accademici. L'entusiasmo che a Roma suscita Carneade presso la classe colta, col suo doppio discorso sulla giustizia ri-entra in questo quadro, sL come l'adesione che in quella stessa occasione ottenne, da parte di molti, lo stoico Diogene di Babilonia, maestro di dialettica. Lo studio della retorica, dunque, non presenta soltanto l'insegnamento di una precettistica, ma implicava un piu vasto sapere: discussioni sulla dialettica e sulle fonti del sapere, su problemi morali, giuridici, di psicologia, e, quindi, alla fine, discussioni su una o su altra concezione del tutto, ove il materiale poteva essere assunto dalle piu diverse tesi, offerte dalle filosofie greche, e usato, poi, a seconda dell'una o dell'altra causa politica o giuridica, deliberativa o relativa a controversie. Proprio questa neutralità della retorica, nei confronti dei possibili contenuti, nel senso della prima grande sofistica, dovette, in principio, preoccupare i conservatori romani. Polibio testimonia che era in Roma grandissimo numero di tutori greci. Di questo tempo è il Senato consulto che proibisce la residenza in Roma ai retori e ai filosofi greci. Si capisce cosi come, per politica, un conservatore DELLA RAZZA DEL CELEBRE CATONE il Censore si preoccupasse del- 1 [Nato nella Sabina, a Tuscolo, Marco Porcio Catone, di una famiglia]  l'introduzione in Roma delle tecniche retoriche greche e dèlle dispute delle scuole filosofiche e scientifiche greche. In effetto Catone, piu che della elaborazione della cultura greca, si preoccupa dei Greci e probabilmente dei Greci del suo tempo, ch'egli considera dei “degenerati”. t sf bene - scrive nei celebri “Praecepta ad filium” avere notizia delle lettere greche, ma non studiarle a fondo. RAZZA CATTIVISSIMA e indocile (nequissimum et indocile genus) è quella dei greci, e fa' conto che sia un profeta che ti dice questo. Se, quando che sia, codesta gente ci darà la sua scienza, manda tutto in rovina; e peggio ancora, se verranno qua i suoi medici. Congiurano di ammazzare con la loro medicina tutti i barbari; e si faranno pagare per questo, affinché si abbia fiducia in loro e possano facilmente compiere l'opera di distruzione. Chiamano barbari anche noi, anzi avviliscono noi piu degli altri con il chiamarci Opici (in Plinio, Natur. hist.). Ad ogni modo lo stesso Catone e grande oratore e si rese tanto conto della funzione politica della retorica, ch'egli, appunto, ne teme le possibili applicazioni. I conservatori romani paventano, ora, certi di agricoltori, legato alla sua terra, contadino rimase )><'r tutta la sua lunga. vita. Vita parca, dura, laboriosa, dice Catone stesso, vissi sin da principio, coltivando il mio campo tra i dirupi della Sabina, dissodando, seminando le selci (p. 69, Maleovari). Gretto, duro, di pocbe idee ben fisse, contadino-soldato egli fu )><'r tutta la vih. Questore in Sardegna di Publio Scipione Africano, edile, pretore, console e comandante di eserciti in Spagna, e nominato censore e soprattutto il suo nome fu legato alla durezza della sua censura, tanto che fu detto, per distinguerlo da altri Catoni, Catone il Censore. Inviato a Cartagine, in qualità di ambasciatore, ne torna con la convinzione che gl'interessi di Roma esigessero la distruzione di Cartagine: "Delenda Carthago" divenne il suo slogan. Plutarco riferisce un epigramma su Catone, che in due versi sintetizza la figura fisica e morale di Catone. Tutto denti, mordace, occhi verdi, rossigno è Catone, e Persèfone teme ancora d'accoglierlo nell'Ade. Se una specie di enciclopedia dove essere il suo “Praecepta ad filium” (vi si trattava di medicina, di agricoltura, di retorica, di giurisprudenza e di arte militare), un vero e proprio trattato di arte agraria è il “De agricoltura”, il primo libro in prosa nella locuzione dei lazini giunto fino a noi (dalla classe degli agricoltori provengono gli uomini migliori e i piu valorosi soldati. Meno in balla di cattivi pensieri sono coloro che attendono al lavoro dei campi. Non altro che pochi frammenti possediamo della sua grande opera storica in 7 libri, le “Origines” (I libro: storia di Roma sotto i re; II e III libro: storia delle primitive città. italiche; IV e V libro: storia della prima e della seconda guerra punica; VI e VII libro: storia degli avvenimenti). Orazioni Catone scrisse (ben quarantaquattro volte dovette difendere se stesso) durante tutta la sua vita (delle 150 che compose, di un'ottantina leggiamo oggi scarsi frammenti). Celebri sono rimaste certe sue lapidarie sentenze. “Orator est, Marce fili, VIR BONUS DICENDI PERITUS” “Rem tene, verba sequentur" (dai Praecepta ad filium). Tutto cose, fatti, conti, come risulta dalle biografie antiche (Livio; Cornelio Nepote; Plutarco), la sua durezza, il suo talento, il suo buon senso da contadino, il suo utilitarismo, il suo ideale d'uomo forte, non ozioso, la sua stessa dirittura, hanno servito a creare la figura del ROMANO O LAZINO per eccellenza (a parte la sua ambizione, e il non troppo bello episodio del suo essersi dato all'usura)] aspetti della cultura greca, si come nel v-Iv secolo i conservatori ateniesi dello stampo di un Aristofane e di un Senofonte, o del piu grande Platone, temettero la sofistica. Non a caso, anzi, Catone s'ispira piu volte a Senofonte e si senti vicino al Socrate, moralista e predicatpre, presentato da Senofonte nei “Detti memorabilia” e nel “Convito” (il principio delle Origines di Catone, è una traduzione del principio del “Convito” di Senofonte). Non solo, ma è interessante a tal proposito ricordare che le opere di Senofonte, che Cicerone testimonia essere sempre state in mano di Scipione Emiliano (in particolare i Memorabili e la Ciropedia) e lette da Catone (cfr. Tusc.; Ad Quint. frat.; Cato maior), fano parte della biblioteca dei re di Macedonia, messa insieme dallo stoico Perseo, discepolo di Zenone di Cizio, e che Paolo Emilio ha trasferito a Roma, come proprietà privata, in casa sua, e posta a disposizione dei propri figli e degli amici loro. Il Socrate senofonteo, filtrato attraverso testi stoici che formano il.grosso della biblioteca dei re di Macedonia - non si scordi l'aneddoto secondo cui Zenone di Cizio si.sarebbe convertito alla filosofia leggendo il Socrate di Senofonte e ritrovandone un esempio nel cinico Cratete -- apparve certo a Catone rispondente al suo ideale di vita, come anche risulta dalla biografia che di Catone compose Plutarco (cfr. F. Della Corte in Studi di fil. greca, Bari). Ad ogni modo, accanto ai retori e ai maestri greci, cominciarono a circolare a Roma i testi di pensiero, che offreno quel materiale e quei contenuti, quella necessaria cultura di cui parlavamo, e che, a seconda della situazione politica, delle cause in questione, puo servire all'oratore. D'altra parte, per rendersi conto delle scelte, per cui di volta in volta puo essere assunti passi o·tesi di Platone o di Aristotele, di Zenone o di Crisippo, e, piu tardi, di Panezio e di Posidonio, di Carmada e di Filone e di Antioco, o i loro modi di intendere Socrate o Platone o Aristotele, va tenuta presente la classe cui appartennero via via gli oratori e i politici ROMANI O LAZINI, da P. Cornelio Scipione Emiliano (l'Africano minore) ai Gracchi, a Pompeo, a Mario e Silla, a Cicerone. Non va, intanto, scordato che si comincia a circolare la grande sistemazione della retorica dovuta a Ermagora di Temno. Il manuale di Ermagora duo essere, per quel che ne sappiamo, una specie di summa e di ordinamento dei vari aspetti in cui si era discusso il problema della retorica dai sofisti agli stoici, dai quali ultimi deriva Ermagora stesso, in una teorizzazione della retorica. Ermagora, dopo avere insistito sulla distinzione tra ipotesi e tesi, dando particolar valore alla tui -- due sono i generi delle 'questioni'," scrive Cicerone. L'uno è il genus infinitum, l'altro il genus definitum. Definito è quello che i greci chiamano ipotesi, e noi nella loquela lazia, causa. Infinito quello ch'essi dicono tesi e noi possiamo chiamare proposito (Cic. Top.), imposta la distinzione dei discorsi retorici sullo stato della causa. Ermagora divide a sua volta lo stato della causa in due grandi aspetti, l'aspetto razionale (yévot; Àoytx6v, genus rationale) e l'aspetto legale (yévot; VO(J.tx6v, genus legale) (cfr. in Hermagoras Fragmenta, ed. D. Matthes, Lipsia, i fragmm. 6-23). Ermagora cosi teorizza da un lato una retorica razionalistica e filosofica, dall'altro invece una retorica spiccatamente giuridica, una interpretatio iuris sorgente dalla stessa pratica giuridica. Da un lato, quindi, la retorica ermagorea mira al vero, dall'altro al GIUSTO: ai due massimi valori, cioè, della filosofia stessa, nella sua parte teoretica e nella sua parte morale (A. Plebe, Breve storia della retorica antica, Milàno). Accanto alle altre conoscenze, offerte dai testi del pensiero greco, e dai maestri greci che venivano a Roma o alle cui scuole (Rodi, Atene) ci si recava, prese sempre piu piede l'esigenza di una sistemazione e razionalizzazione del DIRITTO, tanto che, anche per l'impulso dato da Cicerone, sorsero, accanto alle scuole di retorica, scuole vere e proprie di DIRITTO in cui insegnano magistri iuris, iuris periti. La conoscenza della legge romano e del complesso della legge romana, come insegna Ermagora di Temno, sirve non poco alla retorica ed all'azione politica. Materiale per tale sistemazione, soprattutto quando si pensi che il significato della legge romana giusta e universale e discusso e studiato in particolare da uomini che tendeno al potere politico e che per nascita e censo ne hanno la possibilità, e offerto dalle varie elaborazioni e approfondimenti che della Legge romana e del diritto romano hanno dato e davano gli Stoici, risalendo poi, attraverso essi, alle testimonianze di Platone, di Aristotele, di Dicearco. Quasi tutte le nozioni, scrive Cicerone, le cui parti sono riunite ora in corpi dottrinali, costituenti questa o quell'arte, un tempo erano disperse e non formano un insieme. Cosi, in musica, il ritmo, i toni, la melodia; in geometria, le linee, le figure, le dimensioni, le grandezze; in astronomia, le rivoluzioni del cielo, il sorgere e il tramontare, i movimenti degli astri; in grammatica, la spiegazione dei poeti, la conoscenza della storia, il significato delle parole, la pronuncia. Nella stessa retorica, l'invenzione, l'elocuzione, la disposizione, la memoria, l'azione. Il rapporto di questi elementi fra loro e ignoto. Sembra senza legami, disarticolati. Si è coscer- cato al di fuori, in un altro campo, di cui il filosofo si attribuisce l'intiera proprietà, un metodo che in qualche maniera cementa questi materiali sparsi e li costringesse a entrare in un sistema razionale. Poniamo dunque l'oggetto del diritto romano civile. Mantenere, sulla base della legge romana e dei costumi, il principio di giustizia che regola gli interessi dei cittadini nelle loro reciproche relazioni. Distinguemo, quindi, i generi, riducendoli a un certo numero, il piu piceolo possibile. Il genere è ciò che racchiude due specie o piu, simili tra loro per un carattere comune, ma separate per una differenza propria. Le specie consistono nelle suddivisioni che si raccolgono sotto il genere di cui sono formate. E tutto termino che serve a designare generi o specie, abbiamo cura di definirli con il loro esatto valore. La definizione, infatti, è una spiegazione breve e precisa dei caratteri che sono propri dell'oggetto che vogliamo definire. Si tratta, insomma, di ricondurre il complesso del diritto romano civile a un piccolissimo numero di generi, dividere poi ciascuno di questi generi in diversi membri o specie, far vedere infine, con una definizione, il valore proprio di ogni termine. Abbiamo cosi una teoria completa del diritto romano civile, ed una scienza stesa e feconda invece che difficile e oscura (“De Oratore”). Se cos{, per il yhoç ÀO')"x6v, il genere razionale, e per le "tesi" si cerca il materiale negli aspetti piu vari del pensiero e nei modi con cui esso puo essere usato - retoricamente si puo benissimo accostare tesi diverse, e, soprattutto, frasi diverse, sganciate dai loro contesti, - per il yhoç VOIL'x6v, il genere legale, il materiale e offerto, formalmente, dalla logica, dalla dialettica, e, per il contenuto, dal rapporto v6jLoç-Myoç, o meglio v6oç-v6jLot;, che impostato da Platone (cfr.. Leggi, 957c), puo essere interpretato secondo il "diritto naturale" approfondito da alcune posizioni stoiche. L'esegesi del diritto romano e della legge romana, l'esegesi delle tecniche retoriche, la loro funzionalità a seconda di certe situazioni ed esigenze politiche, implicano una piu vasta cultura, la richiesta di conoscenze e sistemazioni, come chiaramente si vede attraverso Cicerone, atte ad essere usate di volta in volta. Cicerone verrà a costituire come il nodo di questo processo, svoltosi dall'età di Scipione alla morte di Cesare, nel consapevole tentativo, egli homo novus, di conciliare l'oratoria usata dagl’ARISTOCRATICI con l'oratoria dei "populares" (o, meglio, di certi ARISTOCRATICI che mossero il popolo), mediante, appunto, una piu alta e vasta cultura, che e terreno comune, comune parentela, con cui determinare la persuasione alla pace, non solo entro il campo dell'aristocrazia, ma anche del popolo e tra aristocrazia e popolo. Naturalmente attraverso l'oratoria di un uomo capace di questo, attraverso un PRINCEPS fori, cioè sempre dall'alto. Di qui, per Cicerone, l'importanza ch'egli da all'insegnamento della retorica in la lingua degl’abitanti del Lazio, perché e possibile costituire nel mondo romano e del Lazio una consapevolezza critica (filosofia), che dove,  nell’ideale di Cicerone, determinare upa misura e un rapporto tra le classi, che fa davvero del mero stato romano una res publica. Tale prospettiva vede bene chi riperc'Qrra l'evoluzione dell'oratoria romana dei lazini nei suoi rapporti con la vita politica, da Scipione Emiliano ai Gracchi a Silla. Le tecniche retoriche sono assunte per presentare un certo tipo di politica e, quindi, persuadere a una certa concezione di vita che, in alcuni almeno, come nell'Emiliano, trova la sua espressione, il suo linguaggio, nello stesso modo di vita dell'uomo, creando un personaggio, un modello. E fu il modello aristocratico del “vir bonus,” del salvatore della patria, dell'uomo misurato, che si sacrifica per lo stato romano e la sua unità, e la cui eloquenza riflette, appunto, tale modo di vita. Si pensi a Scipione, a Lelio, a Marc’Antonio, a Crasso, a Rutilio Rufo, a Scevola pontefice, a Cotta. Oppure si tratta di muovere e commuovere il popolo vero e proprio, il popolo lazino, e allora altro è il tipo di eloquenza usata, altra la concezione cui si fa ricorso. Si pensi all'oratoria dei Gracchi, di Mario, di Sulpicio. Sotto questo aspetto, sembra chiaro perché Crasso, censore, abbia ~;mdannato e sciolto la scuola di retorica in la loquela dei lazini, creata da Plozio Gallo, su ispirazione di Mario. I rappresentanti del partito senatoriale e aristocratico, come ora Crasso, studiano a lungo la retorica e attraverso essa e per essa si e formata una vasta cultura, mediante cui tendeno a persuadere della propria concezione non solo la propria classe, bens(tutto IL POPOLO ROMANO o il popolo del LAZIO. Ma, pur dotti di greco e sostenitori della funzione che per l'oratoria ha la cultura greca, IN PUBBLICO OSTENTANO DISPREZZO per la cultura greca (cfr. Cicerone, “De Oratore”, Il, l, 4), consapevoli del pericolo che l'oratoria viene insegnata in la loquela del Lazio. Non è un caso che la fondazione di una scuola di retorica in la loquela del Lazio e ispirata da Mario, un "popolare," che Cicerone dice essere né eloquente né colto (Cic., Pro Fonteio). L'arte del ben dire, in quanto insegnata in quello ch’Ovidio chiama la ‘loquela graia’, accompagnata da lunghi studi, divenne patrimonio delle classi ricche e dell'aristocrazia. Plozio Gallo, attraverso la sua scuola, minaccia quel monopolio, dando le stesse armi piu che ai populares allo stesso popolo. S'irrisce qui la questione della “Retorica ad Erennio”. Questo saggio e un trattato di retorica in la loquela dei lazini, il primo giuntoci integrale. Alcuni recente, si l'hanno ritenuta di ispirazione ploziana (Marrou), rispecchiando un insegnamento di tipo molto moderno, nettamente opposto alla retorica classica delle scuole della loquela ‘graii’, anche se nutrito di questa, e specialmente di Ermagora, in cui si reagisce all'ingombro delle regole, alle astratte esercitazioni, per avvicinare l'insegnamento alla pratica e alla. vita mediante soggetti attinti dalla reale vita romana dei lazini (“exempla latina” – essempi dei lazini) e dibattiti agitanti la politica contemporanea (Marrou, Storia dell'educazione nell'antichità, I, p. 336). Il questore Cepione deve condannarsi per essersi opposto alla legge frumentaria del tribuno saturnino (Ret. ad Er., l, 21)? Si può assolvere l'uccisore del tribuno Sulpicio, ucciso per ordine di Silla (Ret. ad Er.)? Il Senato delibera, durante la guerra sociale, sulla questione di accordare il diritto di cittadinanza agli ITALICI chi non sono lazini (Ret. ad Er., III, 2). Morte tragica di Tiberio Gracco (Ret. ad Er.). Naturalmente, non tutti i soggetti sono tratti da un'attualità cosi scottante. L’argomentazione non è sistematicamente orientata nel senso favorevole ai populares - un buon retore deve sapere parlare pro e contro. Tuttavia, non c'è dubbio che l'atmosfera generale della scuola risente della posizione politica del fondatore (Marrou, cit., p. 336). Altri (Michel, Rhétorique et Philosophie chez Cicéron, Parigi), invece, ritengono che non bastino le citazioni dei Gracchi, gli elogi dei populares, gli “exempla latina” – essempi dei lazini -- per accertare che la Retorica ad Erennio sia opera ispirata ai retori latini o lazini. Già Marc’Antonio, che, secondo Cicerone (De Oratore, I, 21, 94), compone un trattato di retorica, e favorevole agli “exempla latina” (cfr. Cicerone, De Oratore, Il, 24, 199 sgg.). Non sempre l'autore della Retorica ad Erennio mette in primo piano i populares. Se è vero che, anche senza nominarlo, elogia Mario, è altrettanto vero che tesse l'elogio di Silla (Ret ad Er., IV, 54, 68), spesso evoca la politica aristocratica e cita ed elogia la figura di Scipione Emiliano (Ret. ad Er., IV, 13, 19; 32, 43), non solo ma in certi casi, come nella lotta contro Saturnino, approva il consensus bonorum (Ret. ad Er., l, 12, 21), e non pochi sono, infine, gli esempi in la ‘loquela Graii’ (Ret. ad Er., l, 10, 17; 15, 25; 16, 26). Il Michel (p. 72) trae di qui la conclusione che l'autore della “Retorica ad Erennio” vuole stabilire una specie di equilibrio tra populares e OPTIMATES e ravvicinare i precetti dei retori greci alla storia politica di Roma. In effetto la “Retorica ad Erennio”, che chiaramente si ispira ad Aristotele, a Crisippo e ad Ermagora, è un trattato in cui si tenta, sull'esempio, appunto, di Ermagora, di presentare una summa dell'arte del dire, in una sistemazione dei vari aspetti della retorica in un tutt'uno coerente, facendo uso nelle esemplificazioni, non solo degl’esempi oratori greci, ma, SCRITTA DA UN ROMANO, nel LAZIO, PER romani, anche dei maggiori esempi dell'oratoria romana. Si vedono cosi, chiaramente, i due aspetti della Retorica ad Erennio. La teoria dell'arte del dire è ricavata dalle fonti greche, INDIPENDENTEMENTE dai contenuti filosofici ch'erano sottesi dietro quelle fonti. Essa consiste nella classificazione dei tre generi oratori aristotelici, giudiziario, dimostrativo, deliberativo. Nella divisione delle tecniche retoriche, di origine crisippea, in invenzione, elocuzione, disposizione, recitazione, cui è aggiunta, invece dell'argomentazione della causa, come in altri trattati stoici, la memoria, che, forse, risale a Zenone di Cizio. Nella divisione in sei parti del discorso: exordium, narratio, divisio, confutatio, confirmatio, CONCLUSIO. Per la casuistica e l'esemplificazione sono usate le fonti romane, cioè i tipi di orazione dei grandi oratori latini o lazini del lazio, tanto del grande Marc’Antonio, quanto dei Gracchi. Non va, d'altra parte, scordato che la Retorica ad Ermnio è il primo trattato romano di retorica, giuntoci integrale di cui, in realtà, le fonti romane ci sono ignote, se non siano ricostruite attraverso Cicerone, il quale nel suo tentativo fin dal “De inventione”, molto vicino alla Retorica ad Erennio, di dare una base meno precettistica e piu culturale-filosofica alla retorica, discutendo poi della funzione e della cultura necessaria all'orator, che deve svincolarsi dall'assumere unilateralmente una o altra precisa concezione, dall'accettare una o altra posizione, classifica e oppone tipi di retorica, cui corrispondeno tipi di concezioni. La Retorica ad Erennio è, da un lato, l'indice chiaro dell'esigenza, ormai maturatasi, da parte romana, dai lazini del Lazio di una sistemazione e di un ordinamento in un complesso dottrinario del sapere retorico, si come, sempre in funzione della retorica e del CON-VIVERE civile, si verrà poi sistemando e ordinando il sapere giuridico, e, dall'altro lato, è l'indice chiaro delle mutate condizioni politiche. L'oligarchia senatoriale nella quale si sviluppa l'ideale del “vir bonus” subisce la concorrenza delle altre classi. Nelle quaestiones uno spirito nuovo, piu democratico, penetra le istituzioni. I giudici sono tribuni, cavalieri. Di qui il nuovo aspetto politico e concreto dei problemi oratori. L’avvocato che perora per un magistrato dinanzi ai giudici cavalieri si trova a dover difendere un grande dinanzi a chi pretende d'essere del popolo. Rutilio Rufo, console, risponde alle accuse dei pubblicani. Il grande Crasso stesso, in un'arringa defensionale che scandalizza Marc’Antonio, si dichiara, lui senatore, schiavo del popolo (Cic., De Oratore). L'eloquenza non è piu la nobile arte dei dibattiti aristocratici. t 10 strumento ambiguo di queste lotte in cui s'ignora sempre se l'oratore aduli il popolo o l'istruisca. Talvolta lo istruisce adulandolo (Michel). La retorica assume cosi una sempre piu larga funzione, oltrepassando i meri schemi precettistici, divenendo chiaro e necessario strumento politico, mediante cui inserirsi in una certa società per ordinaria a un certo fine, onde, appunto, il problema diviene il problema dei fini, dei termini entro cui è razionalmente valida l'azione umana socialmente e, entro questa, del fine proprio dell'uomo. S'innesta qui la problematica di Cicerone, homo novus, cavaliere, che sa benissimo come la sua carriera non la può dovere che alla propria cultura e all'abilità con cui usarla, in una con-temperanza dell'antico ideale del “vir bonus” senatoriale, il cui modello e la figura di Scipione l'Emiliano, dottrinariamente, forse, delineato da Panezio, con il raggiungimento di quell'ideale, indipendentemente dalla propria nobiltà di origine, attraverso la cultura e la propria "prudentia." Sotto questo aspetto, Cicerone non fu né un popolare né un aristocratico, ma un uomo di centro politicamente impegnato, sensibilissimo alle esigenze della classe nuova, in una moralizzazione della res-publica, di cui deve pur sempre rimanere guida il Senato. In Cicerone, cavaliere, uomo di cultura, avvocato e politico, hanno senza dubbio giuocato motivi diversi, concezioni e dottrine diverse, che, se prese nel loro insieme e nella loro coerenza, sono in contrasto l'una con l'altra, assumono tuttavia un significato, qualora vengano ricondotte entro i contesti ciceroniani. Cicerone non espone dottrine altrui, ma usa tesi e aspetti di dottrine, a seconda o della situazione politica per la quale parla, o della sua personale situazione, in mezzo ad avvenimenti mutevoli e talvolta drammatici, dando a filosofia non tanto il significato di una certa filosofia, quanto quello di consapevole riflessione su esperienze umane, riflessione che renda conto razionalmente, ragionevolmente (prudentia), di quelle stesse umane esperienze. L'uomo, poiché è dotato di ragione e per mezzo di essa vede la concatenazione dei fatti, le cause efficienti di questi e le cause occasionali, e ne conosce quasi i precedenti, confronta le cose simili e congiunge intimamente le cose future alle presenti, può facilmente vedere tutto il corso della vita e preparare le cose necessarie per viverla. E questo stesso istinto naturale, mediante la forza della ragione unisce l'uomo agli altri uomini, crea una corrispondenza che si manifesta nel linguaggio e nella socievolezza (Cic., De officiis). Cosi, sul piano della discussione, della dialettica, potevano servire gli’accademici, e sul piano della logica certe posizioni stoiche - si pensi all'uso fatto da Cicerone dei sillogismi ipotetici e dell'analogia e alcuni aspetti dell'analisi aristotelica per la formalità delle definizioni. Sul piano della condotta forense e politica, accanto a quelle tesi sia accademiche, sia aristoteliche, sia stoiche, puossono servire le tecniche retoriche elaborate da Aristotele, da Crisippo, da Ermagora. Sul piano piu strettamente umano, della possibile comunione umana, puo servire la delineazione di una humanitas il cui incontro è la comune ragione e la comune cultura, in un comune linguaggio, che sembra e l'aspetto piu saliente della tesi stoico-aristotelica di Panezio, in cui, certo, hanno giuocato il motivo della filosofia umana di Aristotele e il motivo accentuato della vita attiva di Dicearco; su di un piu alto piano politico si ricercava una legge romana universale, un diritto naturale che giustificasse un certo ordine sociale, una certa legalità romana, per cui potevano servire altre tesi stoiche. Ma, oltre a tutto questo, l'aspirazione umana ad una quiete ultra mondana, soprattutto dovuta a situazioni immediate e tristi della vita, poteva benissimo far usare a Cicerone tesi di Platone sull'immortalità dell'anima o alcuni aspetti del Protrettico e dell'Eudemo di Aristotele, accanto a una visione del divino la cui fonte può essere Cleante, insieme al topos della filosofia intesa come consolatio. Ora, se tagliamo via Cicerone e poche testimonianze posteriori, di cui alcune sono di derivazione ciceroniana, poco o nulla resta delle opere dei questi filosofi. Di qui, per le ragioni dette sopra, la difficoltà di ricostruire, attingendo a Cicerone, dottrine e posizioni compiute, storicamente esatte. Si pensi, ad esempio, al caso di Platone. Se le opere di Platone sono andate perdute e si dovesse ricostruire Platone mediante Cicerone, non avremmo certo Platone ma Cicerone stesso, che usa frasi e motivi di Platone. Lo stesso dobbiamo dire per gl’accademici da Clitomaco a Filone di Larissa ad Antioco d’Ascalona, gli ultimi due direttamente ascoltati da Cicerone e per gli stoici Boeto di Sidone, Antipatro, Panezio, Posidonio, anch'esso ascoltato da Cicerone, e per tutti gli altri cui si riferisce Cicerone. Non è, evidentemente, possibile ricostruire, ad esempio, la dottrina e una compiuta e sistematica filosofia di Panezio attraverso Cicerone, per poi, con un Panezio cosi ricostruito, spiegare Cicerone. Ciò che possiamo è, invece, renderei conto delle questioni suscitate in Cicerone, in funzione della sua problematica, dai pensatori greci da lui citati e discussi, i quali, a loro volta, hanno senza dubbio, almeno per ciò che ne sappiamo, risposto alle esigenze, ai problemi, alle richieste che provenivano da Roma, fin dal tempo di Carneade e di Polibio, in un complesso e Ìn un ampiamento di orizzonti, anche geografici, per cui se è vero che il mondo romano si grecizzò, è altrettanto vero che il cosiddetto mondo ellenico si romanizza, o meglio si venne determinando tutta una nuova e diversa atmosfera culturale, in cui anche certe parole, pur rimanendo le stesse, vennero ad assumere altro significato. Il celebre DOPPIO DISCORSO SULLA GIUSTIZIA, che Carneade tenne a Roma e ancora riportato e discusso da Cicerone. Con l'andar del tempo se n'era lorse ingrandita la fama e l'importanza, ma, certo, ciò sta a testimoniare che uno dei punti fondamentali della rifflessioni romana s'era venuto a imperniare sul motivo delle condizioni che rendono possibile l'umano rapporto. E per questo non vanno dimenticate da un lato la storia di Roma e delle sue conquiste e dall'altro lato la problematica che veniva a sorgere sulle condizioni e le capacità del potere. A parte l'aspetto dialettico del DOPPIO DISCORSO DI CARNEADE, la sua forza filosofica di rimettere sempre tutto in dubbio, ci.J che di quel discorso rimaneva piu crudo e scottante e, non solo la sottile negazione della dottrina stoica dello IUS NATURALE e la conclusione che la giustizia non va ricercata né in Dio né nella natura, intese come ordine e bene universale, ma l'esito di quel discorso stesso, per cui Carneade non negando l'esistenza della giustizia nel senso comune sottolinea che il giusto è sempre, soprattutto nei rapporti tra stato e stato, una forma di ‘ingiustizia’ nel senso comune della parola. Se Roma avesse voluto essere veramente giusta avrebbe dovuto restituire ciò che, con le sue conquiste, aveva tolto agli altri. Roma si è comportata prudentemente e utilmente, non con giustizia. In conclusione, dunque, non è possibile vivere giustamente, ché significherebbe ridursi ad un assoluta inazione. Se lo stoico vuoi vivere, cioè agire, deve negare il suo concetto di giustizia. Lo stesso va ripetuto per i romani. Quello di Carneade puo suonare come un richiamo, preciso e severo, nei confronti dei romani, alla lealtà, alla consapevolezza critica di ciò che si fa, un richiamo alla riflessione sulla verità della propria azione, e, nel caso specifico, all'azione dei romani, le cui conquiste e le cui forme di governo giuste dal punto di vista dell'utile romano e dell'utile di una certa classe dirigente vieni ammantate dell'orpello del concetto di giustizia. Se tutto ciò indigna Catone, particolarmente per la verità pericolosa ch'e implicita nel discorso di Carneade non va scordato che Polibio scrive che la grandezza romana sta nell'avere imposto un certo ordine e una certa legge giuocando sulla superstizione, tenendo a freno le masse mediante il timore dell'invisibile: Polibio, tutto questo impone, d'altra parte, una piu approfondita discussione e giustificazione. Carneade non condanna l'impero romano. Carneade mette solo in rilievo il fatto che quest’impero non ha base etica; e questo stimola altri a cercarne una (T. A. Sinclair, Il pensiero politico classico, Bari). Non solo, ma va aggiunto che se al tempo di Carneade il concetto di “impero” non esiste, se non nella sua figura giuridica, e proprio la riflessione sulla giustificazione del *commando* di un singolo o di un gruppo in Roma, nella delineazione di un modello d’uomo giusto, e del potere di Roma sugli stati e le città conquistate, che venne a costruire, appunto, il concetto di “principato” o d’impero. Entro questa linea, nei termini di questa esigenza di rendere giustificabile e, per ciò stesso, razionale e, dunque, convincente, l'azione della classe, che ha possibilità politiche, e l'azione di Roma, sembrano chiarirsi molti degli atteggiamenti assunti e dagli Stoici, e dagli stessi Accademici, i quali tutti ebbero contatti diretti e di clientela con i maggiori esponenti della classe dirigente romana, a cominciare da Polibio e da Panezio. Mentre, per altro verso, la de-lineazione di un ordine razionale e universale cui adeguarsi, fondamento e giustificazione dell'azione svolta da Roma, almeno da quando certe possibilità di carriera si allargarono dalla classe senatoriale alla classe dei nuovi ricchi o dei cavalieri, mise in crisi il mono-polio del potere dei nobili, giustificando, appunto, in nome della comune ragione, le possibilità dell'inserimento politico da parte delle nuove classi. E cosi, alla concezione universalistica e imperialistica di Roma, e alla concezione di un ordine politico basato su quella razionale universalità, di cui il "princeps" - l'"orinor" in principio - è il depositario e il propagandista, non poco poteva servire la tesi del gius-naturalismo stoico, qualora se ne giustificasse la possibilità, risolvendo il problema impostato da Carneade, che cioè il concetto stoico di giustizia e di diritto assoluto veniva a negare l'azione e gl’atti giusti. Ora tale giustificazione impone una revisione, entro i termini dello stoicismo, della originaria soluzione stoica, che e tentata da Panezio di Rodi, amico e consigliere, insieme a Polibio, di Scipione Africano, s1 come da parte degl’Accademici (da Carmada e Metrodoro a Filone di Larissa e Antioco d’Ascalona), perché fosse possibile la stessa dia- lettica e la discussione, perché si potesse giustificare l'azione, si imponeno delle modìficazioni che, rispondendo alle nuove esigenze, non ebbero poi piu niente a che fare con l'originaria posizione di un Carneade: né, d'altra parte, va scordato che già Clitomaco, successore di Carneade, dedica la sua opera intorno alla gnoseologia del maestro al console Lucio Censorino, e che, piu tardi, Antioco fu amico di Lucullo e che a Roma vive e scrive Filone di Larissa. Chi tenti, dunque, una ricostruzione, storicamente valida, delle varie fasi del pensiero non può non tener conto della storia interna di Roma, soffermandosi in primo luogo dapprima sull'esigenza da parte senatoriale di giustificare il proprio operato e la propria virtuosità fino a giungere a costruirsi con Scipione Emiliano minore l'ideale modello del “vir bonus”, salvatore della patria, che assomma in sé I'auctoritas, il cui consiglio è dato alla potestas (all'esecutivo), piu che con la parola, con la propria figura morale e la propria condotta, divenendo princeps della città. In secondo luogo, tenendo presente il conflitto tra la classe senatoriale e l'impoverita borghesia italica rurale, culminante nel conflitto tra lo stesso Scipione e Tiberio Gracco (dell'uccisione di Tiberio, Scipione dirà: iure caesum) e poi tra Scipione e C. Papirio Carbone, fino a che, morto Scipione, improvvisamente la notte precedente il giorno in cui egli dove pronunciare un discorso in senato contro le proposte di legge sulla questione agraria (fu chi disse che Scipione venne fatto uccidere da Papirio Carbone), sembra potersi attuare la rivoluzione in virtu di Gaio Gracco, rivoluzione però stroncata dalla oligarchia senatoriale. In terzo luogo, tenendo presente il celebre conflitto tra Mario e Silla, fino a giungere a Pompeo e al primo triumvirato. Entro questi termini sembra chiarirsi perché il problema fondamentale: quali che di volta in volta ne siano state le soluzioni - fosse il problema delle condizioni che permettono la vita politica: o in una negazione delle tecniche retoriche - particolarmente da parte senatoriale, - puntando sul retorico modello di una figura esemplare, e, per la sua esemplarità, convincente; oppure, via via negata la retorica come arte a sé, neutra, in un'affermazione della retorica filosofica, psicagogica, onde piu volte l'uso di Platone e di Aristotele, che, ricorrendo a tecniche diverse, caso per caso, seducesse ad una razionalità, istituente ordine e misura, entro i termini della legge, specchio di quella medesima comune razionalità. Di qui, anche, la sempre piu accentuata importanza data alla conoscenza del diritto romano e alla sua sistemazione. Il riflesso di tali polemiche sulla retorica, il conflitto dapprima tra contenuti e retorica e poi tra retorica degl’affetti e retorica filosofica, la problematica tra il porre una virtuosità in assoluto, che alla fine nega ogni possibilità di azione, e, quindi, anche ogni possibilità di convin- cere a quella virtuosità stessa, e il porre una possibilità di rapporto umano, fondato solo di volta in volta sul giuoco degli affetti, il riflesso di tutto ciò, anche nella sua aderenza, caso per caso, a precise esigenze politiche, è molto chiaro in Cicerone. A tal proposito, anzi, sembrano particolarmente illuminanti certi passi di Cicerone, in cui egli condanna l'insegnamento retorico di Cleante e di Crisippo. È vero che Cleante scrive un trattato di retorica e anche Crisippo, ma in modo tale che se uno desidera diventar muto, non deve leggere niente altro (De fin.). Troppo rigida ed esclusiva la loro logica per divenire eloquentia (“De Oratore”), essi non hanno possibilità di discutere altri argomenti, ché uno solo è il loro, onde mancano di inventio (Topici). Essi perciò non possono convincere alla virtu, per alta e pura che sia la virtu da essi proclamata (cohlc, sottolinea Cicerone, fu il caso dello stoico romano Rutilio Rufo, che per non adulare le passioni del popolo, per non scendere dinanzi ai giudici ad usare la tecnica del pathos, non fu capace di difendersi: De Oratore). Sotto questo aspetto sembrerebbe aver ragione Carneade, dimostrando che, sul piano umano, lo stoico non può che contraddirsi, ripiegando sul probabile e sul convenevole, negando con ciò stesso la propria tesi, tanto è vero che gli stoici non pongono alcun passaggio tra il saggio e virtuoso e il non saggio e malvagio (di qui, per Cicerone i paradossi degli stoici: cfr. Paradoxa stoicorum), giungendo alla fine a sostenere che nessun uomo è saggio, tranne pochissimi, che, d'altra parte, non hanno possibilità di convincere gli altri per lo stesso fatto che gl’altri sono non saggi, per cui il saggio stoico resta in conclusione assolutamente avulso da ogni tipo di vita politica, rinnegando con questo lo stesso proprio concetto di giustizia e di razionalità. In realtà vi sono negli stoici cose troppo incompatibili con l'oratore quale noi formiamo. Questa, ad esempio: ad ascoltarli, tutti coloro che non sono saggi sono schiavi, nemici pubblici, folli; d'altra parte non v'è uomo che sia saggio. Sarebbe, dunque, una grande assurdità affidare la cura di guidare il popolo, il senato, qualsivoglia assemblea a chi fosse persuaso che tra i suoi ascoltatori non vi è uomo sensato, non un cittadino, non un uomo libero (“De Oratore”). Tale impossibilità di guidare la vita politica, sottolinea Cicerone, non ha permesso agli Stoici di scrivere intorno allo stato (De legibus, III, 5-6, 13-14). Solo Dione stoico, aggiunge, se n'è occupato. Chi sia Dione stoico non sappiamo a meno che non si tratti di Diogene di Babilonia, che secondo Ateneo, scrisse “De legibus”, e, insieme a lui, Panezio di Rodi. Su questo argomento dei magistrati, alcune questioni furono studiate molto sottilmente prima da Teofrasto, poi dallo stoico Dione. Tu dici? Anche dagli stoici fu trattato questo? Non proprio, salvo da colui che ho ricordato, e poi da quel grande e coltissimo uomo di Panezio. Gli stoici antichi soltanto astrattamente e pur con acutezza hanno trattato dello Stato romano, ma non in questa maniera pratica per l'utilità del popolo e dello stato romano (De legibus). È vero. Lo stato romano che potremmo delineare attraverso i frammenti di Cleante e dì Crisippo sarebbe lino stato romano universale, fondato sul motivo del diritto naturale, razionalmente ordinato, ove la legge sarebbe specchio della legge del tutto, del logos, ma dove anche, data la distinzione stoica tra saggio e non sagg e ola incomunicabilità tra gli uni e gli altri, si avrebbe un solo saggio ché tutti i saggi si identificherebbero in uno e molti uomini, i non saggi, i quali soli, alla fine, si dimostrerebbero capaci di azione e di vita sociale, che sarebbe però in-giusta, a-sociale, a-politica, dove non potrebbe non avere il sopravvento che la retorica degli affetti e delle passioni. L'abbiezione di Cicerone avrebbe potuto essere e in fondp lo e l'abbiezione sottesa di Carneade nei confronti degli stoici, ma con scopo rovesciato, ché Cicerone tende a rendere convincente sul piano umano proprio alcune tesi stoiche, in quanto utili a un certo fine politico. Certo a Carneade, per quel poco che di lui sappiamo, non seppe rispondere il capo della stoà del tempo, Antipatro di Tarso. Si dice che Antipatro di Tarso non ha mai il coraggio di scendere in discussione con Carneade direttamente e ch'egli tentasse di difendere le posizioni dello stoicismo ortodosso per scritto (cfr. Numenio, in Eusebio, Praep. ev.), limitandosi ad approfondire gl'indifferenti tra cui avrebbe posto il dovere e la fama validi entro l'ambito umano (cfr. Cicerone, De fin.; anche Seneca, Ad Lucil., 92, 5; 87, 38), mentre Diogene di Babilonia, il collega di Carneade al tempo dell'ambasceria a Roma, discepolo di Crisippo, ha particolarmente approfondito alcuni aspetti della dottrina stoica, in forma precettistica e tecnica (la dialettica, la retorica, la musica), ma in modo tale che, ponendosi su di un piano piu logico che ontologico, nel senso di Zenone di Cizio, puo rinnovare i contenuti stessi dello stoicismo. Panezio poi tenta il recupero di tutte quelle tesi stoiche che, utili per un tipo di politica e di giustificazione di una certa azione, avrebbero potuto assumere, entro una precisa visione del tutto, una loro forza sul piano umano. In realtà, dietro l'atteggiamento piu pratico - come sottolinea Cicerone - piu umanistico di Panezio, che puo esattamente servire ai fini dell'azione di Scipione Emiliano, v'e la possibilità di sviluppare la logica e la dialettica di Crisippo, indipendentemente da corrispondenti strutture ontiche, battendo l'accento sull'aspetto ipotetico del discorso e sulla retorica nel modo in cui, attraverso Zenone e poi Crisippo, s'e delineata in Diogene di Babilonia. Studi recenti (cfr. A. Plebe, La retorica di Diogene di Babilonia, Filosofia) hanno messo in chiaro la stretta relazione posta da Diogene di Babilonia tra filosofia e retorica. Se la filosofia viene ad essere stoicamente 2 [Di Diogene di Babilonia, o di Seleucia, sappiamo molto poco. Discepolo di Crisippo, succede nello scolarcato della Stoà a Zenone di Tarso. E il quarto scolarca della Stoà dopo Zenone: Cleante, Crisippo, Zenone di Tarso, Diogene di Babilonia. A Diogene di Babilonia succede nella direzione della scuola Antipatro di Tarso e ad Antipatro, Panezio, la scienza del ben pensare, attraverso cui si determinano le condizioni senza le quali non v'è discorso cioè i dati e l'implicarsi dei dati stessi in nessi necessari, in un discorso sintattico e proposizionale, che è costituito dall'esperienza, in cui anzi consiste l'esperienza si capisce come l'arte del dire, in quanto espressione dell'arte del pensare, possa avviare gli altri a ben pensare, costituendo un ordine. sintattico e armonico, sociale, specchio appunto dell'ordine razionale cui si giunge attraverso lo stesso pensare e il rivelarsi del pensiero a se medesimo. Ipotetiche le premesse, an-apodittici i sillogismi, formalmente il discorso è necessario e può costituire, sul piano umano, un ordine altrettanto necessario e perciò stesso razionale, a cui serve la retorica, valida qualora, appunto, sia introduzione e avviamento al ben pensare e per ciò al ben vivere, insignificante, anzi da respingere, qualora resti su di un piano neutro di contenuti (cfr. framm. 95, III Arnim). Di qui il contrasto tra retorica pura e retorica filosofica, sospesa tra arte e scienza, e il parallelo, posto da Diogene di Babilonia o Seleucia, tra retorica e medicina (fr. 91, III Arnim), per cui la vera retorica è terapeutica ed è “psica-gogica”. Di qui, formalmente e per la sua funzione terapeutica e stimolante, il rapporto posto da Diogene tra retorica e musica (fr. 92, III Arnim). La funzione della retorica, che, in quanto seducente in vista del fine cui mira, cioè l'ordine e la misura razionali, si fonda su tecniche precise che potevano essere benissimo riprese dalle analisi sulla retorica e dai topici di Aristotele, sulla conoscenza dei caratteri umani (Gorgia, Platone, Aristotele, Teofrasto}, assumendo anche l'accorgimento dell'inganno o dell'illusione seducente (cfr. fr. 105, III Arnim), sapendo con opportunità (eùx.cxtp(cx, cukairla) usare i discorsi (fr. 122, III Arnim), prende un suo carattere preciso in quanto serva a porre ordine e composizione (croveaL(i, syncsis) nelle città e buona condotta (eòotyroy(ot, cuagoghia) politica, cioè sociale (fr. 102, III Arnim). Retorica e politica venneno, in tal modo, a coincidere in funzione della costituzione di un rapporto umano che fosse rapporto razionale, simile all'ordinarsi necessario di un discorso, in una misura per cui ciascuno si ponga là dove è bene che sia, come lè parole in una struttura grammaticale e sintattica. Non a caso, cosi, sembra che tra i pensatori greci, suoi contemporanei, Catone il Censore avesse, accanto all'ideale del Socrate senofonteo, una qualche simpatia per Diogene di Babilonia, che, d'altra parte, e anche questo sembra opportuno sottolineare, era stato a Roma già prima della CELEBRE AMBASCIATA  (cfr. Cicerone, De senectute). Le lodi che Cicerone fa di Panezio si fondano sul riconoscimento che Panezio ha reso realizzabile, politicamente funzionale, l'ideale della virtu e della giustizia stoiche. Ciò che di Panezio sappiamo è, in realtà, molto poco. Sappiamo ch'egli nacque a Rodi, città in quel tempo culturalmente attiva, politicamente legata a Roma. Uomo aperto e curioso, non vincolato fin dal principio a una precisa scuola, non formatosi ad Atene, sappiamo che Panezio vive a Roma parecchi anni, ch'entra in dimestichezza con Scipione Emiliano, che ne e consigliere ed amico, che e con lui ad Alessandria e durante le campagne d'Africa,e che divenne, in Atene, scolarca della stoà, succedendo ad Antipatro di Tarso, proprio all'indomani della morte di Scipione. Può darsi sia un caso, ma è un caso che può far pensare. Panezio lascia lo scolarcato. Panezio non e uno stoico di scuola, né, d'altra parte, si può sapere l'influenza che avrebbe potuto giuocare su di lui il pensiero dello stoico eretico [Nato circa a Rodi, Panezio, amico e discepolo di Diogene di Babilonia, vive a Roma parecchi anni, entrando in dimestichezza con P. Scipione Emiliano, di cui fu consigliere. Lo segui in Africa e in Asia. Nominato scolarca della Stoà, succed ad Antipatro di Tarso. Lascia lo scolarcato  e sembra sia morto in quello stesso anno. Delle sue opere, andate perdute, si ricordano soprattutto una “Sul dovere” (ITcpl wii x~o~), che sarebbe stata scritta al tempo del suo soggiorno a Roma, ed una “Sulla provvidenza” (ITcplnpov61cxç), che sarebbe la fonte del De officiis di Cicerone. Si conoscono inoltre i seguenti titoli: “Sulla tranquillità dell’animo” (ITcpl IÒ&u!l-(«ç); Sul,Oflt!Nio (ITcpl no>.l-n:!cxç); Sulle sct!l~ (ITcpl atlp~m:(J)'\1); “Di Socrate dei socratici” (ITcpl Ec,xp«wu Xlll TW'II E(J)xpcmxwv); Lettera a Q. Elio Tuberone. Nello scolarcato della Stoà, a Panezio succede Mnesarco, del quale non sappiamo nulla se non che segui pedissequamente il maestro. A parte Posidonio (dr. oltre) e i romani che seguirono Panezio, un altro discepolo di Panezio, del quale occorre fare almeno il nome, fu Ecatone di Rodi, che si occupa in particolare di problemi morali e i cui manuali divulgativi hanno larga diffusione. In questi manuali Ecatone discute soprattutto il problema dei conflitti dei doveri, in una delineazione della piu rigida morale stoica e in una distinzione tra virtu teoretiche e virtu non teoretiche, riportando lo Stoicismo ad una rigidezza che non era stata certo quella di Panezio. Scrive in tal senso Diogene Laerzio: "Secondo gli Stoici, non v'è alcun grado intermedio tra la virtu e il vizio. Come un legno deve essere diritto o storto, cosi un uomo è o giusto o ingiusto. Ecatone, nel secondo libro Sui beni, sostiene che la virtu è sufficiente alla felicità, non dando alcun valore a tutto ciò che si crede possa turbarla. Panezio e Posidonio invece sostengono che la virtu non è sufficiente, ma occorrono anche buona salute, abbondanza di mezzi di vita, e forza" (Diogene L.). Per il resto cfr. sempre Diogene Laerzio, VII, passim. Ci sono stati tramandati i titoli delle seguenti opere di Ecatone: “Sui fini” (ITcpl T&ÀW'IIi; “Sui beni” (ITcprciyat.&wv); “Sulla virtu” (ITepl cip&:Twv); “Sul dovere” (ITcpl xat&ljxo~; “Sulle passioni” (ITcpl ncx&ciiv); “Sui para-dossi” (ITcpl natpct36~(J)'II); “Sentenze” (xpc't«'). Boeto di Sidone, del quale, di fatto, non sappiamo niènte (cfr. J. F. Dobson, Boethus of Sidon, "Classica! Quarterly," pp. 88-90), se non che fa un commento ai Fenomeni di Arato (su Boeto cfr. Diogene Laerzio, VII, 54, 143, 148, 149). Anche se indirettamente, cioè al di fuori e indipendentemente dalle dispute scolastiche e professorali di Atene, Panezio risponde a Carneade, rendendo positivo e non puramente negativo lo stesso "probabilismo" di Carneade, che, valido sul piano umano, suppone a suo contenuto - se non vi fosse una presunta verità, neppure si potrebbe parlare di probabilità, di capacità d'assumerne fede, nr.&Clv6v- pithan6n, dietro a sé o innanzi a sé, la visione di un tutto ordinato, un dover-essere cui ciascuno, a seconda della propria natura deve adeguarsi. Qui, forse, il senso del cosiddetto platonismo di Panezio, in questo suo porre l'ordine e la legge del tutto - niente affatto contrastante con certe tesi stoiche - come termine di realizzazione, come dovere, cui l'uomo conoscendo sé, entro i limiti della propria natura, deve avvicinarsi, realizando con ciò, di volta in volta, la piu genuina natura umana, l'istinto proprio dell'uomo. Di qui i due aspetti che Cicerone sembrano ispirati a Panezio particolarmente il “De natura deorum” e il “De offiiciis”) e anche altre testimonianze. (sia pur assai frammentarie) sottolineano come i piu appariscenti di Panezio. Da un lato un rigoroso immanentismo naturalistico, dall'altro lato, entl'Ò i termini di quella che è la natura nella sua totalità - il dovere dà parte dell'uomo di adeguarsi a quella natura stessa, ciascuno a seconda della propria natura. Sembra cos' interessante ricordare che Diogene Laerzio, su testimonianza di Fania, scolaro di Posidonio, sottolinea che, mentre Zenone e Crisippo poneno per prima la logica e per seconda la fisica e Diogene di Babilonia l'etica, Panezio e Posidonio cominciano dalla fisica: TIClvClhLot; 3~ XCll Tioaet36>vtot; cinò -.C>v rpuatxwv clpxov-.ClL. Approssimativamente possiamo renderei conto della concezione della fisica di Panezio per via negativa, cioè attraverso quello che le testimonianze sottolineano avere Panezio negato rispetto alle posizioni degli stoici precedenti. Panezio sostiene che il cosmo non muore e non invecchia, che questo cosmo è uno ed eterno nella sua totalità, e; che, dunque, non ha né un principio né una fine, né v'è conflagrazione (bcn6pc.>att;, ek_pirosis) periodica, e che per ciò stesso nessun dio lo regge, per cui è sciocchezza (rp>.-f)votrpov, flénafon) tutto ciò che si dice, intorno al divino: l>.eye yà:p rp>.-f)votrpov elvotL -.òv nept.&eou Myov (Epifanio, De fide, 9, 45. Per il resto cfr.: Cicerone, De nat. deor., Il, 46, 118; Filone, De aet. mundi, 76; Diogene L., VII, 142; Arnobio, Adv. nat., Il, 9; Stobeo, Ecl., I, 20 e Il, 7). Sembrerebbe cos' potersi riferire a Panezio, anche se non direttamente citato, la concezione riportata da Cicerone nel “De natura deorum” secondo cui natura e divinità coincidono nel senso che il divino è la stessa ragion d'essere (logos) del tutto, forza vitale e organizzatrice (egemonica), non separata dagl’esseri individuali, esistente anzi nel costituirsi di quegl’esseri, che quanto piu realizzano e conservano se stessi (la propria natura), tanto piu realizzano e conservano l'universo medesimo, ché diversi tra loro per gradi, non lo sono affatto per natura. L'ordine, quindi, e i rapporti tra le cose non sono dovuti a una "simpatia" delle cose tra loro né alla necessità del fato, bensi ad una razionalità che rende pensabile e giustificabile la realtà stessa e i suoi molteplici aspetti, e che esclude da sé sia il motivo della divinazione sia il motivo dell'anima immortale, separata dal corpo (cfr. Cicerone, Lucullus, XXXIII·, 107; De divinatione, l, 3, 6,. 7, 12; Il, 42, 87-47, 97; Tusc. diss., l, 32, 79-33, 80; Diogene L., VII, 149). Piu di questo non possiamo dire della fisica di Panezio. D'altra parte, sia il fatto che alcuni interpreti antichi hanno veduto nella concezione fisica di Panezio una diretta influenza della concezione platonica (va sottolineato che il riferimento è al Timeo ed è dovuto all'interpretazione che del Timeo dà Proclo, In Plat. Timaeum, 50b), sia i continui riferimenti delle testimonianze all'aristotelismo di Panezio, al suo essere non solo filo-platone ma anche filo-aristotele (Stoic.lnder Herc., col. 61, Comparetti 534), avendo Panezio sostenuto l'eternità del cosmo, sempre tutto in atto, l'unità di anima e corpo, portano a pensare che per Panezio la realtà, tutta in atto sempre, nei suoi aspetti molteplici, sia quella che è, in sé né buona né cattiva, comprensibile in quanto ricondotta ad una sua universale razionalità, rasserenante qualora appunto se ne comprenda da un lato la sua necessaria razionalità, dall'altro lato che, entro quella stessa razionalità, ogni cosa è là dove è bene che sia, ogni cosa attua se stessa pienamente in quanto attui la propria natura, cioè la propria ragione, secondo le risorse che la natura ha dato. Poiché, d'altra parte, è un fatto che all'uomo è dato rendersi conto di ciò (tra l'uomo e la bestia vi è grandissima differenza. La bestia, solo in quanto è stimolata dal senso, conforma le sue abitudini a ciò che è vicino e presente, non curandosi affatto del passato e del future. L’uomo, invece, poiché è dotato di ragione e per mezzo di quella vede la concatenazione dei fatti, le cause efficienti di esse e le cause occasionali, e ne conosce quasi i precedenti, confronta le cose simili e congiunge intimamente le cose future alle presenti, può facilmente vedere tutto il corso della vita -- Cic., De off.), tale consapevolezza e comprensione è ciò che Panezio chiama ragione di contro all'istinto e agli impulsi degli animali e alla natura propria di ciascuna cosa, ché, sotto altro aspetto, essi stessi impulsi e natura, sono razionali. "Due sono gli elementi naturali dell'animo. L’uno è posto nell'istinto,  35 detto dai Greci op!J.i) (hormè: impulso), che trascina l'uomo qua e là; l'altro è posto nella ragione, che insegna e rivela all'uomo cosa si debba fare ed evitare. È quindi vero che la ragione deve comandare e l'istinto obbedire. I movimenti dell'animò sono di due specie e consistono nel pensiero e nell'appetito. Il pensiero si applica soprattutto alla ricerca del vero. L’appetito spinge all'azione. Faremo in modo dunque di rivolgere il pensiero alle cose piu grandi e di far sentire all'appetito il peso della ragione" (Cic., De off., I, 28, 101; l, 36, 132). Di qui, evidentemente, l'affermazione di Diogene Laerzio che, secondo Panezio, due sono le virtu: virtu teoretica e virtu pratica. In altri termini, insomma, l'istinto, l'impulso sono tali in quanto non compresi; compresi, l'istinto e l'impulso cessano di essere irrazionali, onde la razionalità  e ciò è dato all'uomo consiste nello stesso impulso qualora sia ordinato nella consapevolezza di quelle che sono, appunto, le risorse che la natura ci ha dato (•.. Ticxvat(-rLot; -rò l;;ijv xat-riX-rà;t;8e8o(dvrxt;~!Li"!x!pUae(a)ç&.!pop~t;-ri>.ot; d.m:!pi)vat-ro: Clemente Alessandrino, Strom., II, 21). Ciascuno deve conservare le proprie tendenze. Perché si possa pm facilmente conseguire quel decoro, che si cerca. E ciò avverrà se non contrasteremo per nulla con la natura dell'uomo in generale ("siamo tutti partecipi della ragione e di quella superiorità per la quale ci distinguiamo dalle bestie, da cui deriva l'onesto e il decoro ed alla quale risale la conoscenza del dovere": Cic., De off., l, 30, 107); ma, conservata questa, seguiremo la nostra propria natura ("come nei corpi ci sono grandi diffrenze cosi negli animi vi sono varietà anche maggiori": Cic., De off.), cosi che anche se le altre ci sembrano migliori e piu importanti, misuriamo alla sua regola le nostre attitudini; non ~ opportuno infatti andare contro la natura e cercare di ottenere quello che non si può. Da ciò risulta chiaro che cosa sia il decoro, perché non lecito far nulla, ~e comunemente si dice, a dispetto di Minerva, ci~ quando la natura ~ contraria. Ma non v'è cosa piu decente della coerenza e di tutta la vita e delle singole azioni, e non si può conservarla se, per imitare l'altrui, trascuriamo la nostra natura. Tanta questa differenza fra le nature umane, che talvolta per gli stessi motivi uno è costretto a darsi la morte ~ un altro no. (Cicerone, De off.). Concepita la realtà come razionalmente.strutturata, strutturato razionalmente l'uomo, parte della realtà, posto che, appunto, la natura è ciò per cui tutto è là dove è bene che sia, s1 che ciascuno realizzandc il proprio impulso, conservando sé conserva il tutto (si come nell'organismo quanto piu ogni organo è sé e realizza la propria funzione tanto piu l'organismo vive in atto nei suoi organi), ne consegue che l'uomo scoprendo sé come ragione, quanto piu vive secondo ragione, cioè secondo l'impulso proprio dell'uomo, che ordina e si fa guida degli altri impulsi, armonicamente, a seconda delle proprie possibilità, tanto piu ciascuno vive secondo "natura," secondo la propria natura, e quindi coerentemente. Sia pur nell'interpretazione che ne dà Cicerone, sembra che l'aspetto saliente di Panezio sia stato quello di insistere sul fatto che nell'ordine razionale del tutto ciascuno ha il suo giusto posto, in una specie di ordine gerarchico, per cui da un lato ne deriva che ciascuno deve realizzare sé razionalmente, cioè misuratamente, entro i propri limiti e le proprie possibilità, dall'altro lato ne deriva anche che ciascuno deve rimanere al suo posto, al posto che natura gli ha dato. Non a caso Cicerone, in funzione del suo ideale politico, riallacciandosi alla idealizzata figura di Scipione, sviluppa particolarmente proprio questo motivo, fino a giungere a far rientrare entro questo quadro la difesa della proprietà privata. Se è vero che formalmente gli uomini sono tutti uguali, perché partecipi di ragione (cfr. Leggi, l, 7-21 sgg.) e che per ciò, formalmente, non esistono cose private per natura, è altrettanto vero che, in concreto, come ciascuna cosa e ciascuno nell'ordine del tutto è distribuito al suo posto, cosi ciascuno ha il diritto a ciò che gli è toccato in sorte. Come il primo dovere della giustizia è di non offendere alcuno, se non si è provocati da ingiuria, cosf dovere della giustizia è di usare delle cose comuni e delle cose private come proprie. Non vi sono però cose private per natura, ma per antico possesso. Tuttavia, poiché quei beni comuni per natura diventano di proprietà privata, ognuno si tenga ciò che ebbe in sorte; se poi qualcuno desidererà per sé l'altrui, violerà il diritto ddl'umana società (Cicerone, De officiis). L'uomo di Stato dovrà soprattutto badare che ciascuno conservi il suo e che la proprietà privata non sia diminuita da parte dello Stato romano. L'eguagliamento delle fortune è la' peggiore delle pesti. Lo stato romano e costituito e la comunità cittadina e ordinata appunto perché ciascuno mantenesse la sua proprietà. Gli uomini infatti, sebbene siano spinti per istinto naturale ad unirsi fra di loro, cercano la difesa delle città nella speranza di conservare i loro beni (Cic., De off.). Certo, nel motivo di "ciascuno al suo posto," sia entro l'ordine del tutto sia entro le società specchio della politéia cosmica (l'argomento platonico anche se con frase stoica è particolarmente presente in Cicerone nelle Leggi: "Questo mondo intero è da considerare come un'unica città comune agli dèi ed agli uomii": Leggi) si veniva delineando lo scioglimento del rigido motivo stoico dell'ordine dato: a seconda dd posto che ciascuno ha, nel tutto e nella società di cui fa parte, ciascuno ha da realizzare per essere sé, un proprio dovere, che se formalmente è uguale per tutti (vivere secondo la comune ragione) ed è uno - onde l'ideale del saggio stoico, - in concreto si pone da un lato come realizzazione della ragione propria di ciascuno e, dall'altro lato, in ciascuno, come ordinamento armonico dei propri impulsi, sf che ciascuno sia se stesso, in armonia con sé e con gli altri, costituendo un ordine sociale. L'istinto naturale, mediante la forza della ragione, unisce gli uomini agli altri uomini, crea una corrispondenza che si manifesta nel linguaggio e nella socicvolczza, ispira soprattutto uno straordinario amore verso la prole, induce a desiderare adunanze c riunioni: per questi stessi motivi gli uomini cercano di procurarsi quelle cose che sono necessarie alla vita e alle sue comodità, e non solo per se stessi, ma per la moglie, per i figli, c per tutti gli altri che essi amano e debbono proteggere. Né invero è piccolo privilegio della ragione umana che soltanto l'uomo possa conoscere cosa sia l'ordine, il decoro c la misura nei fatti e nelle parole. E cosi non v'è altro animale che conosca la bellezza, l'armonia, l'ordine delle cose visibili; e la ragione naturale trasportando per analogia queste pro- prietà dagli occhi all'animo, tanto pio egli ritiene che si debbano osservare la bellezza, l'armonia c l'ordine nei detti e nei fatti, che non si commettano atti indccorosi cd effeminati, e che in ogni pensiero cd azione nulla si faccia o si pensi a capriccio... (De off.). Di qui il concetto, sviluppato da Cicerone, del dovere medio e del conveniente e i concetti della società come ordine gerarchico e armonico e del rapporto tra gli Stati come rapporto di interdipendcnza armonica sotto l'egemonia di una città guida, realizzante la universale razionalità. Certo, secondo le tesi piu rigide dello Stoicismo, il virtuoso in assoluto è solo il sapiente, per cui solo il sapiente attua il dovere asso- luto (xcx-r6p&6lfL«, kat&rthoma); d'altra parte, se nell'ordine del tutto ogni essere ha il suo posto, e nella società, che idealmente dovrebbe rispecchiare l'ordine supremo, ciascun uomo ha il suo posto, per cui, per natura, non tutti possono essere sapienti, attuando quindi il dovere perfetto, ne deriva che, tuttavia, a ciascuno, per ciò che gli compete e che gli è proprio, spetta attuare il suo dovere, detto, rispetto a quello perfetto, dovere medio (xcx&;jxov, kathèkon), nella cui attuazione con- siste l'onestà. Si parla di un dovere relativo e di uno assoluto. lo penso che si possa chiamare retto il dovere assoluto, poiché i Greci.lo chiamano xcx'r6p&6lJL« (dovere perfetto), c l'altro, comune, perché lo chiamano xcx&;jxov. E cosf 38    definiscono questi doveri, in modo da stabilire come dovere perfetto quello che è retto; chiamano invece dovere comune.quello del quale si può dare una ragione plausibile. Tre, secondo Panezio, sono i casi che si presentano, quando si deve prendere una deliberazione. Riflettere cioè se si deve prendere una deliberazione: nella quale considerazione spesso gli animi ondeggiano in opposti pensieri. Ricercare poi ed esaminare se l'ar- gomento preso in considerazione possa arrecare o no le comodità e le gio- condità della vita, gli averi, il benessere, il credito e il potere, con i quali portiamo giovamento a noi stessi e ai nostri; la quale deliberazione rientra nell'utile. Si è, infine, incerti nel deliberare, quando ciò che sembra utile contrasta con l'onesto: mentre infatti l'utilità ci trascina verso di sé e l'onestà anche ci chiama a sé, avviçne che il nostro animo vacilli nel pren- dere una decisione e rimanga perplesso fra opposti pensieri... (Cic., De off., I, 3, 8-9). Ciascuno, dunque, in quanto viva seeondo ragione, cioè bene, ha il dovere di far bene il proprio singolo mestiere di uomo, il proprio ufficio, nei proprì limiti, conoscendo sé1 (cognitio), di agire secondo misura (actio), secondo convenienza (7tprnov, prépon), decorosamente (decus). Cos~ accanto alla virtu teoretica, era possibile, nella realiz- zazione pratica della ragion d'essere, che è lo stesso ordine del tutto, posto dinanzi agli occhi come dovere, porre ilcomplesso ·delle virtu pratiche (giustizia, beneficenza, temperanza: cfr. De ofJ., 1), in cui consiste l'onesto, che se formalmente sta, apJ?unto, nella giusta misura, di volta in volta realizzata secondo le circostanze, costituendo un abito civile, che va dai rapporti sociali 1 (De of J., I, 7-34) all’educazione, dal modo di vestire e di incedere (De off., l, 35-36) al modo di parlare (1, 37), al decoro delle abitazioni (1, 39)  e cosi via; dall'altro lato rispecchia quéll'arnionia razionale del tutto, quel supremo bene che, dunque, non nega i singoli beni, quei singoli benessere, estetica- mente valutabili, buoni perché belli, cioè compiuti con ordine e mi- sura. "Nella padronanza dell'animo e nella giusta misura di ogni cosa consiste il decoro, che i n greco si dice 7tpé7tov, pré p o n " (D e off., l, 27, 93). La virtu pratica per eccellenza, dunque, è quel giusto mezzo,, di sapore aristotelico, che sta a fondamento sia dell'agire giustamente, sia dell'agire benevolmente, sia dell'agire con temperanza, in un rap- porto di equilibrio e di rispetto, in cui sta l'humanitas e la charitas generis humani: charitas, cioè rapporto di decoro, che, in quanto armo- nico, si riflette come rapporto di grazia, di eleganza. Il decoro per natura non può mai esser disgiunto dall'onesto; ciò che è infatti decoroso è anche onesto, e ciò che è onesto è anche decoroso, e quale sia la differenza tra loro è piu facile immaginare che spiegare. Qualunque  39   cosa infatti appare decorosa, quando ha per fondamento l'onestà. Il decoro [si manifesta non solo nella temperanza, ma è il fondamento di tutte le virtu che costituiscono l'onestà]. È decoroso infatti ragionare con assen- natezza e prudenza, agire consideratamente, vedere ed osservare in ogni cosa il vero... La stessa cosa si può dire della fo,rtezza. Le azioni generose e magnanime sembrano decorose e degne dell'uomo... Il decoro, dunque, riguarda tutte le parti dell'onestà e le riguarda in modo che non si vede solo per via di astrazione, ma si manifesta chiaramente. Vi è un qualche cosa di decoroso che si presuppone in ogni virtu; ma questo può essere separato dalla virtu piu in teoria che in pratica... Due sono poi le specie del decoro: vi è infatti un decoro generale, che si ritrova in ogni genere di onesto, e un decoro, a questo subordinato, che riguarda le singole parti di esso. Il primo è di solito cosi definito: "Decoro è ciò che è consentaneo alla superiorità dell'uomo, in quanto la sua natura si differenzia dagli altri esseri animati." Cosi, invece, si definisce quella parte che è subordinata al genere: "Ciò che è consentaneo alla natura umana, in modo che in esso appaiano moderazione e temperanza ed una certa nobiltà... A noi la na- tura stessa ha assegnato una parte, dotandoci di superiorità e preminenza sugli altri esseri animati... e perciò, dalla natura stessa essendo state asse- gnate le parti della costanza, della moderazione, della temperanza e della verecondia e insegnandoci essa il modo di comportarci verso i nostri simili, possiamo conoscere quanto sia l'estensione del decoro generale e quali parti contempli il decoro particolare. Come infatti là bellezza del corpo per l'armonica disposizione delle:.membra attira gli sguardi e ci diletta in quanto tutte le parti sono tra loro unite in leggiadra armonia, cosi quel decoro che risplende nella vita eccita l'ammirazione di quelli con i quali si vive con l'ordine, la coerenza, la moderazione degli atti e dei fatti. Si deve avere dunque un certo rispetto non solo per gli uomini migliori, ma anche per tutti gli altri... Il dovere poi, che deriva dal decoro, deve prima di tutto seguire quella via che conduce alla convenienza ed alla conservazione delle leggi di natura; e se noi la seguiremo come guida, non potremo mai sbagliare e conseguiremo la sapienza, la giustizia e la fortezza... (Cic., De off., l, 27-28). La concezione stoicheggiante di un tutto ordinato, di una realtà razionalmente articolata, ove, come in un discorso o in un organismo vivente, ogni parte implica l'altra in una sola armonia - accantonate e non piu discusse le ragioni e i motivi che avevano mosso i primi stoici nei confronti di Platone e di Aristotele, - poteva benissimo, soprattutto in quanto volta a costituire il fondamento di un certo ordine politico e l'ideale modello, inserire nel proprio corpo dottrinario antichi testi platonici, particolarmente, per ciò che riguarda appunto l'ordine costituito, i testi del Platone ultimo, dal Timeo alle Leggi all'Epinomide, oltre alcune parti della Repubblica. Cosi, una volta posto l'ordine del tutto piu che come conclusione 40    di un'argomentazione scientifica, come dato e come termine di realiz- zazione, e sottolineata quin6i la possibilità di Ùn ayviamento a quel- l'ideale nella capacità di compiere ciascuno, per ciò che gli compete, il proprio dovere, entro i termini del mondo umano, la rigidezza mo- rale di certo stoicismo poteva risolversi nel compromesso del dovere comune e del conveniente, salvando i cosiddetti "indifferenti," che assumevano un loro valore in quanto strumenti di quella misura (chi è ricco, se lo sia con temperanza e prudenza, può attuare meglio l'ideale del sapiente di chi è povero). Non solo, ma è chiaro come per ciò si potessero recuperare da un lato i motivi platonici del cittadino cellula e organo della propria classe e delle classi strumenti in funzione del tutto ordinato che è lo Stato, e della temperanza di ciascuno che ha da rivelarsi non solo nella misura interna, ma anche negli atteggiamenti esterni (dal vestire all'incedere, dall'accogliere le sventure con fortezza al rispetto per i vecchi e cosfvia), e dall'altro lato si potessero sfruttare- le indagini aristoteliche sul_ giusto mezzo, sulle virtu etiche e sui caratteri. Entro questo quadro poi, che poteva servire come un'enciclo- pedia e un sistema del sapere, e la cui funzione, appunto, fu tale negli ambienti romani nei quali venne formandosi, assumeva un particolar significato, una volta interpretato nel senso platonico, l'antico motivo stoico· del diritto naturale. Una la ragione del tutto, una la legge su cui tutto si scandisce: la legge, almeno formalmente, pone tutti su di un piano di uguaglianza, ove per natura tutti hanno gli stessi diritti, in quanto dovere di cia- scuno è di seguire quell'unica ragione e quell'unica legge diffusa in tutto e in ciascuno. Secondo ragione o giustizia, perciò, non vi sono patrie o classi diverse, uomini superiori e inferiori, schiavi e liberi, ma una sola Città, una sola patria, l'umanità nel tutto (cosmopolitismo). Certo, l'interpretazione della legge e della giustizia come adeguazione all'ordine e alla legge universali, in nome della comune umanità razio- nale, per cui tutti gli uomini sono uguali, quando si era venuta formu- lando e!ltrO l'àmbito della prima Stoà, in Grecia, rispondeva a precise esigenze, ed assumeva un carattere politicamente rivoluzionario nei confronti delle strutture politico-sociali delle Città-Stato, quali in par- ticolare si erano venute determinando dopo la morte di Alessandro; si come, in altra situazione, la stessa vis polemica aveva avuto l'appello alla convenzionalità della legge, ed allo Stato valido in quanto costru- zione degli uomini, non soffocati nella libera esplicazione della loro natura, che è di non aver natura ma di costruirsela (appello formulato da alcuni dei primi solisti e dagli epicurei). Entro i termini, invece, in cui viene ora prospettato il concetto di natura e di ragione universale, che non esistono a sé, ma nel co-  41   stituirsi stesso del tutto, per cui tutto è là dove è bene che sia, tutto ha il suo giustò posto, lo stesso appello al diritto naturale assume una venatura ed un'accezione diversa. Se formalmente, infatti, per natura tutti gli uomini sono uguali, sempre per natura ciascuno è diverso dall'altro, ed entro l'ordine del tutto, in cui ogni parte è organo, di- verso dall'altro, in funzione del tutto, ognuno ha da essere là dove è posto da natura, in un'armonia si delle classi e degli uomini tra loro, ma dove ognuno non può non restare se non dove è. D'altra parte, proprio perché ciascuno è là dove deve essere, po- tendo entro i suoi limiti esplicare il proprio diritto, nel rispetto, appunto, dei limiti e delle possibilità altrui, cioè nel rispetto dell'ordine costi- tuito, non tutti possono aver la coscienza, o meglio la conoscenza di quello che è l'ordine supremo, da cui deriva l'ordine umano. A tale ordine, dunque, gli uomini vanno avviati da chi ne sia capace, dal saggio, dal vir bonus, incarnazione della Legge, e, sia pur gradual- mente, da quella Città in cui la classe dirigente, l'auctoritas, in nome del popolo, costituendo, volendo un'armonia di Senato e di Popolo, ordini in armonia le altre città e gli altri stati avvicinandosi con ciò all'ideale dell'unico Stato. Non possiamo certo dire quanto Panezio abbia influenzato la concezione politica di Scipione e del suo circolo, o, viceversa, quanto certe tesi paneziane abbiano subito l'influenza della politica di Scipione. Ad ogni modo nella situazione storica di Roma, la costituzione romana deve essere apparsa, sia pur con tutti i suoi difetti, sia pur sfruttando miti e superstizioni religiose (come malinconica- mente sottolinea il greco Polibio), rispetto alle singole situazioni poli- tiche delle città greche, condizione della possibile realizzazione dell'ar- monia delle genti ed internamente ad ogni stato dell'armonia tra le classi. Non sembra cosi un caso che tanto Polibio quanto Panezio abbiano esal- tato la costituzione romana (Cic., Rep., I, 21, 34), e che Polibio, rifa- cendosi al motivo dicearchiano della "politèia" mista, ne abbia visto la possibile realizzazione attraverso la Respublica romana, mentre Panezio ha dato un contenuto teorico alla politica perseguit~ da Sci- pione, il quale ha presentato se stesso come il salvatore della Patria e della Respublica. Polibio,4 l'uomo che aveva combattuto contro Roma, in nome della f Nato a Megalopoli nd 208 circa, Polibio fu, come ilpadre Licona (uno dei capi della Lega Achea), avversario dei Romani. Vinti i Greci a Pidna nd 168, Polibio venne inviato come ostaggio a Roma. A Roma divenne intimo della casa degli Scipioni e, soprattutto, del giovane Scipione Emiliano. Maestro e consigliere di lui, Polibio accom- pagnò Scipione l'Emiliano nelle sue varie spedizioni: sia in quella che si concluse con la distruzione di Cartagine (146), sia in quella contro Numanzio (134). Morl a 82 anni, nel 126, sembra per una caduta da cavallo. Solo cinque libri restano dei quaranta della sua Storilt, che vuole essere un'indagine documentata e obbieniva degli eventi (UI, 5, 58), libertà della Grecia, che, come il padre Licorta, aveva avuto cospicua parte nella storia della Lega Achea, che, dopo la vittoria romana del 168, fu in.viato quale ostaggio a Roma, entrato in dimestichezza con la gente degli Scipioni, e divenuto maestro e consigliere di Scipione Emiliano, al principio della sua Storia (che vuoi essere una storia basata tutta sulle reali vicende umane e sui fatti, •pragma- tica," l, 2), scrive: Chi può essere tanto stolto o pigro da non sentire il desiderio di sapere come e sotto quale forma di governo i Romani, in meno di cinquantatré anni [dal 221 al 169], fatto senza precedenti ndla storia, abbiano conqui- stato quasi tutta la terra abitata? (I, l). Il carattere peculiare della nostra opera dipende da quello che è il fatto piu straordinario dc:i nostri tempi [la conquista romana]: poiché la sorte rivolse in un'unica direzione le vicende di quasi tutta la terra abitata, e tutte le costrinse a piegare a un solo e unico fine, bisogna che lo storico raccolga per i lettori in una uni- taria visione d'insieme il vario operato con cui la fortuna portò a compimento le cose dd mondo (I, 4). E nel VI libro si legge: Chi ritiene impresa piu bella e piu grandiosa non solo guidare, ma sottomettere e controllare altre. nazioni, cosi che tutti guardino a lui e si inchinino ai suoi ordini, allora bisogna ammetta che la costituzione degli Spartani è inadeguata e inferiore a qudla dei Romani. I fatti stessi ba- stano a provare la maggiore efficienza della costituzione di Roma (VI, 50). Tre erano [al tempo ddla battaglia di Canne] gli organi ddlo Stato che si spartivano l'autorità. Il loro potere era cosi ben diviso e distri- buito, che neppure i Romani avrebbero potuto dire con sicurezza se il loro governo fosse nd complesso aristocratico, democratico, o monarchico. Né c'è da meravigliarsene, perché considerando il potere dc:i consoli, si sarebbe detto lo stato romano di forma monarchica, valutando quello del Senato lo si sarebbe detto aristocratico; se qualcuno inqne avesse consi- derato l'autorità dd popolo, senz'altro avrebbe definito lo Stato romano democratico. Le prerogative di ciascuno di questi organi ai tempi della guerra annibalica e, tranne qualche piccola eccezione, ancora.ai nOstri giorni, sono le stesse (VI, 11). Il rapporto tra le diverse autorità è cosi ben congegnato, che non è possibile trovare una costituzione migliore di quella romana. Quando infatti un pericolo comune sovrasti dall'esterno e costringa i Romani a una concorde collaborazione, lo Stato acquista tale e tanto. potere, che nulla viene trascurato, anzi tutti compiono quanto è ricercandone principi, cause e pretesti (III, 6, 7) nel tempo e nello spazio, in una spie· gazione razionale e scientifica del reale succedersi dei fatti (pragmaJica), che renda conto di come Roma abbia potuto divenire il centro della storia.  43   necessario e i provvedimenti non risultano mai presi in ritardo, poiché ogni cittadino singolarmente e collettivamente collabora alla sua attuazione. Ne segue che i Romani sono insuperabili e che la. loro costituzione è per- fetta sotto tutti i riguardi. Quando poi, liberati dai timori esterni, essi go- dono del benessere seguito ai loro fortunati successi e vivono in pace, se nell'ozio e nella tranquillità, come suole accadere, qualcuno si abbandona alla prepotenza e alla superbia, subito la costituzione interviene a difendere l'autorità dello Stato. Se difatti uno degli organi che lo costituiscono diventa troppo potente in confronto agli altri e agisce con tracotanza, non essendo esso indipendente come abbiamo detto, ma essendo i singoli organi legati l'uno all'altro e controllati nella loro azione, nessuno di essi può agire con violenza e di propria iniziativa... (VI, 18). Non va ora scordato che questi testi del VI libro, sulla costituzione romana, seguono ad alcune pagine dedicate da Polibio alla nascita degli Stati, alle loro varie fasi, alla loro decadenza e ricominciamento dal punto di partenza, in un andamento ciclico (VI, 1-10). Polibio, rifacendosi, in parte, a Platone e ad Aristotele, per la teoria della naturale trasformazione delle forme di governo, divenuta oramai un t6pos ("essa è stata esposta con particolare acume da Platone e da altri filosofi," VI, 5), sottolinea che la prima forma di governo è la monarchia la cui degenerazione è la tirannide, in contrasto alla quale sorge l'aristocrazia la cui degenerazione è l'oligarchia, contro la quale si fa avanti l'ordinato potere del popolo (democrazia), che tuttavia degenera nella oclocrazia (potere della plebe). La moltitudine, abituata a consumare i beni altrui e a vivere alle spalle del prossimo, quando ha un capo magnanimo e ardito, che non può aspirare alle cariche pubbliche per la sua povertà, usa la violenza e concordemente ricorre a uccisioni, esili, divisioni di terre, fino a quando, ritornata allo stato selvaggio, ritrova un padrone e un monarca" (VI, 9). Questa la rotazione delle forme di governo (1toÀ~-n:~6>v dV«XOXÀwatç, politeiòn anak.Yklosis), processo naturale per il quale esse si trasformano, deca- dono, ritornano al tipo originario (VI, 9). A prima vista sembra che la costituzione romana, descritta subito dopo (VI, 11-18), non rientri in nessuna delle tre succedentesi forme di governo. In effetti Polibio vede in essa la piu alta forma di demo- crazia, la possibilità di salvare la libertà nell'ordine dello stato costi- tuito come armonia dei poteri e come armonia tra gii Stati, sotto la guida di Roma, e in Scipione l'Emiliano (se ne veda l'esaltazione in XXXII, 8-16) l'uomo virtuoso, il princeps che può, almeno per un certo tempo, salvare lo Stato e l'universale Stato dal disordine, dovuto a gruppi faziosi e popolari - non è un caso l'accenno alla divisione delle terre, ove, forse, è presente in Polibio la lotta condotta da Scipione contro Tiberio Gracco, - con il conseguente ritorno a forme monarchiche e tiranniche, attraverso l'ocloaalria. La posizione di Polibio e di Panezio (il loro avere recuperato certe linee di una certa tradizione greca, in una sistemazione che rispondeva alle esigenze politiche di una precisa classe romana) giustificava la giusta azione di Roma, di fronte al discorso di Carneade sulla giustizia. La repubblica (res-publica) fa dire Cicerone a Scipione è cosa del popolo (res-popul1), ed il popolo poi non è qualsivoglia agglomerato di uomini riunito in qualunque modo, ma una riunione di gente asse> ciata per accordo nell'osservare la giustizia e per comunanza di interessi. La prima causa poi di siffatto riunirsi non è tanto la debolezza, quanto una specie di istinto associativo naturale; l'umano genere non è infatti isolato né vagantQ nella solitudine, ma generato con carattere tale che, nemmeno in ogni sorta di abbondanza... [e facilità di vita, l'individuo po- trebbe rimanere isolato1. Motivo dell'associarsi non furono gli sbranamenti delle fiere, ma la stessa natura ume.na, e il fatto che gli uomini si riunirono tra loro perché rifuggivano naturalmente dalla solitudine e appetivano la comunione e la società... Tutta la popolazione, che è costituita da un rag- gruppamento di gente, tutta la città, che è l'ordinamento della popolazione, tutto lo Stato che, come dissi, è cosa del popolo, deve esser retto da un governo cosciente, onde essere duraturo. Ora delle tre tipiche forme di governo, la pio pericolosa è quella che sorge dalla smodata libertà delle plebi.1Da questa suole sorgere il potere degli ottimati o quello fazioso dei tiranni, o il regio o quello popolare, e da esso suoi germogliare una qualche specie di regime di quelle che già dissi, ed impressionanti sono i ritorni e quasi i cicli dei mutamenti e delle vicissitudini negli ordina- menti politici; è proprio del filosofo conoscerli, mentre il prevederli nel momento in cui incombono quando si è al governo dello Stato, moderan- done il corso e mantenendolo in propria potestà, questo è pregio solo di un grande cittadino e di un uomo quasi dit~ino. Sento pertanto che la pio degna di approvazione è una quarta specie di ordinamento, moderata e frammista di questi tre [monarchia-aristocrazia-democrazia1che ho men- zionati per primi (Cic., De rep.). Il circolo sembra cosr chiudersi. Da un lato abbiamo formulata e sistemata, attraverso il recupero di motivi stoici, platonici, aristotelici (distaccati dai loro contesti), la visione di un tutto razionalmente ordi- nato, ove ogni cosa è là dove deve essere, dove è giusto che sia; dall'altro lato abbiamo, in funzione di un'azione politica, il tentativo di un ordi- namento dello Stato, che trova il suo fondamento e la sua giustifica- zione, la sua legalità, nello stesso ordine universale, nell'ordine natu- rale, che, in quanto a tutti comune, per la comune razionalità, se for- malmente dichiara tutti uguali e fratelli di fatto, in nome del diritto naturale, del vinculum iuris e della giustizia, pone ciascuno a un certo posto, dove i posti sono già dati per natura e, dunque, per legge. Entro questi termini si vede bene; da parte romana, il tentativo di dare un fondamento giuridico allo Stato di Roma, s! che il diritto positivo, quale si era venuto determinando storicamente, trovasse la sua conferma in un diritto comune a tutti, nel diritto, appunto, di natura, di modo che il vinculum iuris e il vincolo su cui si articola il tutto coincidesse. Rompere q!Jel vincolo avrebbe significato spezzare l'ordine costituito, rovesciare la respublica, venendo meno alla giusti· zia e al diritto stesso, su cui si poteva basare la "propaganda" di Roma e della sua classe dirigente in funzione dello ius gentium. "Il consolidamento del territorio o della giurisdizione di una na- zione, specialmente quando comprende tribu o distretti confinanti, non può non far sorgere contemporaneamente la questione dei rapporti tra legge nazionale e legge delle tribu o dei distretti: e la risposta non può essere rimandata a lungo. Un qualsivoglia sistema 'comune' deve sorgere per rispondere a questa pratica necessità, e il contenuto effet- tuale di questo sistema dipenderà in ogni caso dalle condizioni in atto quando la necessità compare... Roma incontrò questo problema nei primi tempi, relativamente, della sua storia giuridica, quando l'in- fluenza della filosofia politica greca era forte e il diritto romano ancora malleabile, e anzi piu suScettibile di influenze esterne di quanto non divenne piu tardi, dopo che le sue leggi si furono sviluppate e fissate in una tecnica tanto esigente da richiedere uno studio che escludeva necessariamente gli altri rami del sapere. Avvenne cosi che i primi giuristi romani poterono - e lo fecero, in effetti - fondere i principi filosofici greci con le leggi locali della penisola italica, per formare il loro nascente sistema giuridico; e per alcuni di essi questa fusione può avere gradualmente ·preso la forma di una identificazione piu o meno completa dello ius gentium - un sistema 'comune' distillato in pratica dalle varie leggi locali di Roma.e delle vicine tribu da ultime assogget- tate - con lo ius naturale che la filosofia stoica aveva insegnato a consi- derare come un sistema 'comune' a tutta l'umanità" (C. H. McLlwain, Il pensiero politico occidentale dai Greci al tardo Medioevo, Venezia). Il motivo del diritto naturale, dunque, poté servire in Roma, da fondamento e da giustificazione per l'azione politica della classe diri- gente senatoriale e, piu tardi, attraverso l'idealizzazione della figura di Scipione Emiliano (quale si rivela anche nel Somnium Scipionis di Cicerone), soprattutto al tempo di Cicerone, quale giustificazione della posizione assunta dalla classe degli uomini nuovi, e, ad un tempo, in nome della 1egge (espressione della legge razionale su cui si scan-    disce il tutto) a giustificare la conservazione dell'ordine dato, d'i contro a coloro che tendevano a rompere quell'ordine, fossero i popolari o un Cesare. Tale, nel suo fondo, la politica di Cicerone. Se, ora, la visione di Cicerone, la sua interpretazione della concezione paneziana, retori- camente espressa volta a volta a seconda di certe situazioni, spiega quella ch'egli dichiara difesa della "res-publica," essa spiega anche, oltre la ripresa di motivi platonici, aristotelici e stoici, l'avversione di Cicerone per i popolari e per Cesare e la sua avversione per gli epi- curei, la cui filosofia, egli arriva a dire, dovrebbe essere condannata non con ragionamenti, ma con un decreto legge (De finibus, II, lO, 30). Basti qui ricordare la formulazione che del diritto aveva dato Epicuro, coerentemente alla sua concezione che socialmente implicava non un ordine dato, scandentesi su di un ordine universale e razionale, ma un ordine e un equilibrio frutti dell'attività umana, per cui la razio- nalità è conquista e azione, e la formulazione che, attraverso una rie- laborazione del concetto di giustizia, di ordine, di legge-intelletto di Platone, mediante il motivo della legge e della ragione propria di certe posizioni stoiche (Cleante, Crisippo, Panezio) vien data del di- ritto naturale da Cicerone: lucidissima formulazione di un concetto che s'era venuto elaborando in un secolo circa di discussioni politiche, nell'àmbito di Roma, e che sta a fondamento di una precisa presa di posizione. Diceva, dunque, Epicuro: Per tutti gli animali che non poterono stringere patti per non ricevere né recarsi danno reciprocamente, non esiste né il giusto né l'ingiusto, altrettanto per tutti quei popoli che non vollero e non poterono porre patti per non ricevere e non recare danno (Massime Capitali, XXXII). Non è la giustizia qualcosa che esiste di per sé, ma solo nei rapporti reciproci e sempre a seconda dei luoghi dove si stringe un accordo di non recare né di ricevere danno (Mass.). L'ingiustizia non è di per sé un male, ma lo è per il timore che sorge dal sospetto di non poter sfuggire a coloro che sono preposti alla punizione di tali azioni (Mass. Cap., XXXIV). Da un punto di vista generale il diritto è uguale per tutti, poiché rap- presenta l'utile nei rapporti reciproci, ma dal punto di vista delle parti- colarità dei vari luoghi e di ogni genere di principt causali segue che una medesima cosa non è per tutti giusta (Mass. Cap., XXXVI). Cicerone, invece, proprio di contro alla tesi contrattualistica e con- venzionalistica di Epicuro e di contro all'altrettanto contrattualistica e storicistica tesi di Carneade, ambedue estremamente pericolose per uno Stato costituito, che, d'altra parte, cercava giustificazione e fondamento alla propria politica universalistica, dice. Vi è certo una vera legge, la retta ragione conforme a natura, diffusa tra tutti, costante, eterna, che col suo comando invita al dovere, e col suo divieto distoglie dalla frode; ma essa non comanda o vieta inutilmente agli onesti né muove i disonesti col comandare o col vietare. A questa legge non è lecito apportare modifiche né togliere alcunché né annullarla in blocco, e non possiamo esserne esonerati né dal senato né dal popolo...; essa non sarà diversa da Roma ad Atene o dall'oggi al domani, ma come unica, eterna, immutabile legge governerà tutti i popoli ed in ogni tempo, e un solo dio sarà comune guida e capo di tutti: quegli cioè che ritrovò, elaborò e sanzionò questa legge; e chi non gli ubbidirà, fuggirà se stesso e, per aver rinnegato la stessa natura umana, sconterà le piu gravi pene, anche se sarà riuscito a sfuggire a quegli altri che solitamente sono con- siderati supplizi (Cic., De rep., III, 33). Ancora una volta, sia pur nell'affermata uguaglianza di tutti gli uomini, si rivela una precisa presa di posizione da parte di un preciso partito politico. Assumono anzi un valore non poco indicativo certe battute iniziali de)T,'! Leggi, in cui chiaramente si dice: Riallacciamoci, dunque, nello stabilire la definizione del diritto, a quella legge suprema che è nata tutti i secoli prima che alcuna legge sia mai stata scritta o che un qualche Stato sia mai stato costituito... Dal momento, dunque, che dobbiamo mantenere e conservare inalterate le condizioni di quello Stato, la cui forma Scipione ci insegnò essere la migliore... e poiché tutte le leggi dovranno essere adattate a quel genere di costituzione, occor- rendo anche inserirvi i principi morali senza sancire ogni cosa.per scritto, trarrò fuori la radice del diritto dalla natura, sotto la cui guida dobbiamo svolgere tutta questa discussione... (Leggi, l, 19-20). Non solo, ma altrettanto indicativo è che alla tesi postulata da Cicerone ("tutto l'universo è governato dalla potenza, dalla ragione, dalla potestà, dall'intelletto, dal volere, o con qualsiasi altro termine che indichi ciò che pensiamo": ib., 21), donde discende che il tutto è come legalmente costituito, Cicerone stesso contrapponga la tesi epi- curea, secondo la quale il "dio di nullà si cura né delle cose proprie né delle altrui," e faccia dire ad Attico epicureo: "Te lo concedo, se me lo chiedi: tanto per questo concerto di uccelli e risonare di acque" - il dialogo si finge svolto in campagna - "non temo che mi senta al- cuno dei miei condiscepoli" (ib., 21). In effetto l'uguaglianza di tutti gli uomini - si dirà pio tardi di tutti gli animali, onde la giustizia è vincolo universale degli esseri viventi - è un'uguaglianza relativa, ché già in partenza sono date le disuguaglianze. L'uguaglianza è dovuta alla comune ragione di cui ognuno partecipa, ma in gradi diversi. Entro il motivo stoico, infatti,    la comune ragione è la Ragione universale che realizza se stessa me- diante gl'individui, onde ciascuno nel tutto e nella società deve man- tenere il posto che gli è dato da natura, per cui il bene è conoscenza e sta nel mantenere l'ordine dato. D'altra parte, entro i termini di questa visione legale del tutto, se da un lato si giustificava l'azione politica e la funzione cosmica (ordi- natrice) della classe senatoriale, dall'altro lato si delineava la possibilità formale di un rispetto umano, che si concretava in quel decoro, in quel dot1ere medio, in quella charitas humana, in quel vivere conveniente- mente alla propria natura, di cui sembra abbia parlato Panezio, e che sul piano pubblico diveniva, di contro ad altre posizioni politiche, ri- spetto della res-publica e dovere di lavorare per essa. Di qui, anche, entro quest'àmbito politico, l'importanza dello studio del diritto, della formulazione della parola"della legge e della sua interpretazione, in quanto rispecchiamento dell'ordine universale, della universale giusti- zia, o, meglio, in quanto quell'ordine esiste appunto nella formulazione stessa della legge. Sotto questo aspetto, in questo convergere fra giu- stizia formale e giustizia sostanziale, il sapere giuridico diviene il fon- damento medesimo della ricerca scientifica, diviene iuris prudentia, e, per·altro verso, studio delle tecniche oratorie. Non sembra cosi un caso che fin dal principio le persone che ruo- tarono intorno a Scipione Emiliano e che ebbero rapporti con Polibio e con Panezio, si siano proclamate tutte vicine allo " stoicismo" e siano state soprattutto personalità politiche, militari, oratori e giuristi, a co- minciare da C. Lelio (nato nel 190 a. C. circa), avversario dei Gracchi, detto sapiens, per la sua prudentia politica, amico di Panezio; C. Fan- Dio, genero di Lelio, console nel 122, anch'egli amico di Panezio, autore di Annales, contrario alla proposta di C. Gracco di concedete la piena cittadinanza ai Latini e i diritti dei Latini agli ltalici; Blossio di Cuma discepolo di Antipatro di Tarso, Quinto Mucio Scevola l'Au- gure (174 circa-87), Q. Elio Tuberone, avversario di Scipione Emiliano e di C. Gracco, Spurio Mummio, vicino a Scipione e a Panezio, P. Rutilio Rufo (118-75), Q. Elio Stilone (154-dopo il 90), maestro di Varrone e di Cicerone; per giungere a Q. Mucio Scevola Pontefice, nato nel 140 circa, morto nell'87, vittima delle lotte civili, celebre per la sua giu- stizia, giurista di grande valore, autore di libri XV/Il iuris civilis, in cui cercò di dare un fondamento al diritto, e di un'opera intitolata "Opo~ (H6rot) in cui dava definizioni (!Spo~) di concetti giuridici e di rapporti giuridici, a L. Lucilio Balbo, anch'egli giurista, discepolo di Q. Mucio Scevola, il Pontefice, a Q. Lucilio Balbo, al quale Cice- rone assegna nel De natura deorum il compito di esporre le conce- zioni stoiche sul divino; a M. Favonio (nato circa nel 90 a. C.), parti-    giano di Pompeo, ucciso dopo Filippi; a Cornificio Lung0, a Q. Vale- rio Sorano; al celebre Catone Uticense, ch'ebbe a maestri gli stoici Atenodoro Cordilione (da Pergamo, segui Catone, a Roma, ove rimase suo ospite) e Antipatro di Tiro. Cicerone definl Catone stoico com- piuto, soprattutto per la sua dirittura e constantia sapientis. Avversario di Cesare, in cui vedeva l'attentatore alla libertas romana, a Utica, assediata da Cesare, nel 46 a. C., si tolse la vita. II suo suicidio è rima- sto un topos della letteratura stoica e della teorizzazione del suicidio politico sul quale, poco prima di uccidersi, sembra abbia discusso con Io stoico Apollonide (cfr. Plutarco, Catone, 55 sgg.). 4. Posidonio. Le sctenze. Ipparco di Nicea È stato detto che il gran merito di Posidonio di Apamea,'1 scolaro di Panezio, vissuto tra il 135 e il 51 a. C., "fu di raggruppare, in modo piu completo di chiunque altro, la massa di credenze che dominavano lo spirito degli uomini, dando ad esse una forma singolare ed elo-.quente. II vasto insieme dei suoi scritti esprime con una.pienezza unica Io spirito generale del mondo greco all'inizio dell'èra cristiana: egli concentrò questo. spirito e lo rese consapevole. È per questa ragione che, in seguito, gli scrittori che si occuparono di teologia, di filosofia, ·di geografia o di scienze naturali, considerarono Posidonio come la fonte piu abbondante e piu facilmente accessibile a cui attingere. Egli li Posidonio, nato sul 135 a. C. ad Apamea, in Siria, a circa venti anni lasciò la patria, dilaniata da lotte intestine, disprezzando, inoltre, la molle vita delle città greco- siriache. Giunto ad Atene nel 115, entrò nella Stoà, allora diretta da Panezio. Ritiratosi Panezio dall'insegnamento nel 110/109, Posidonio lasciò Atene. Si mise in viaggio: fu in Africa settentrionale, in Gallia, altrove. Dal 95 a.C. circa fissò la sua dimora in Rodi, ove,·divenuto celebre per la sua cultura, il suo insegnamento, le sue ricerche scien- tifiche e storiche, fu fatto cittadino onorario della città, occupandone anche la pritania. Ambasciatore a Roma sostenne gli interessi di Rodi. In Rodi venne visitato dalle mag- giori personalità del tempo. Tra gli altri lo fu da Pompeo, e Cicerone si recò apposita- mente a Rodi per ascoltarlo. Morl nel 51 circa. Delle moltissime opere di Posidonio, andate perdute, riferiamo qui i titoli traman- dati: Fisica {~cnxòç ).6yoçl; Sull'universo (IIe:pt x6CJ!'OUl; Sugli dèi (IIe:pt &t:wvl; Sugli eroi e sui dèmoni (IIcpt ijpc!!Cil\1 X(Xl à(XLI'6116l\ll; Sul fato (IIt:pl &:(I'(XPI'évtJçl; “Sulla divinazione” (IIt:pl I'(XVTLlrijc;;l; “Sull’anima” (IIcpl ~U)('ijt;l; Introduzione al lin- guaggio (E!a(XyCilyi) ncpl >Jl;t:Cilç l; Contro Ermagora {Upòt; 'Epi'(Xy6p(X11 l; Srtl cri- terio (IIcpl TOU xpLTCptou l; Sulle passioni (IIcpl 7rot&wv l; Dottrina del carattere (:Eu\IT(Xy- V.CC mpt 6py'ijçl; “Sulle virtu” (IIa:pl~~'lipCTW\1l; Etica ('Hihxòc;;~·Myoc;l; Protrepttci (IIpOTpmTLXot); Sul dovere (IIr:pl wu xcx&Tjxo\ITOc;l; Esege# del Timeo di Platone ('E~iJY1JaLç TOU IIM.TCil\10<;; TLI'(X(ou l; Sulle meteore (IIe:pl !.I.ETC6lp6l11 l; Strlla gran- dezza del Sole {Ilcpl TOU 'H).(ou l'cyi&ouc;l; Su Zmone (IIpòt; ZijiiCil\I(Xl; Sujl'oceano (Ilepl cllXC«VVul;Oltre Polibio (TIZ I'CTii Ilo).(~L0\1l; Tattica (Téxll'll T(XXTLxij l; Lettere ('E7rLCJTOì.r&t l- 50    univa i vantaggi di uno stile attraente e colorito a quelli di una enci- clopedia" (E. Bevan, Stoics and Sceptics, Oxford, 1913}. D'altra parte, si è anche detto, il fatto che il nucleo degli scritti di Posidonio fosse tratto dalla filosofia corrente delle scuole e dalle credenze popolari accresce la difficoltà che sorge quando si cerca di attribuirgli con sicu- rezza molte idee che ritroviamo presso scrittori a lui posteriori. "Que- ste idee possono infatti essere giunte a questi scrittori attraverso la mediazione di altri" (Bevan, cit.). Senza dubbio dietro molte cogni- zioni di Cicerone, che ascoltò Posidonio a Rodi, di Filone l'Ebreo, di Strabone, di Seneca e cosi via, c'è Posidonio, ma ci sono anche quei molti manualetti di filosofia popolare, per lo piu di tipo stoico, che sappiamo circolare nel 1 secolo a. C., e che erano compilazioni di luo- ghi comuni, di sentenze correnti, di detti popolari. Impossibile rico- struire attraverso le fonti una posizione, storicamente attendibile, di Posidonio, ché a seconda delle fonti usate potremmo avere piu Posi- doni l'uno diverso dall'altro; tuttavia mediante quelle fonti stesse, cri- ticamente vagliate, è possibile cogliere un Posidonio volto, piu che a costruzioni astratte, a raccogliere dati, descrivere e catalogare fenomeni, a rendersi conto e a rendere conto di quei dati e di quei· fenomeni stessi, dai normali agli anormali all'osservazione, si tratti di fenomeni fisici o di fenomeni cosiddetti psichici, o di fatti storici, in un tenta- tivo, sembra, di dare una spiegazione integrale dell'universo o, com'è stato detto, di "rendere l'universo familiare agli uomini." Già un primo sguardo ai testi da cui si traggono le testimonianze su Posidonio o entro cui si trovano citazioni da Posidonio, rivela non solo la molteplicità degli interessi di lui in campi molteplici, ma anche, e soprattutto, il fatto che Posidonio servi da fonte e da informazione a uomini di culture diverse e mossi da interessi diversi. Chi si limi- tasse a Cicerone o a Seneca avrebbe un Posidonio studioso di questioni morali e sociali; chi si limitasse a Galeno avrebbe un Posidonio stu- dioso di fenomeni psichici; chi si limitasse a Strabone o a Simplicio o a Stobeo o ad Ateneo, avrebbe un Posidonio descrittore di fenomeni naturali, geometrici, astronomici, astrologici, geografici, storici; chi si limitasse a Cicerone e a Diogene Laerzio avrebbe un Posidonio assai vicino a un Cleante e a un Crisippo, particolarmente in fisica. Abbiamo citato solo alcuni nomi di autori dalle cui opere è possi- bile trarre informazioni su Posidonio, ma già questi sono assai indi- cativi per mostrare da un lato gli aspetti diversi dell'opera posidoniana e, dall'altro lato, l'impossibilità di ridurre il pensiero di Posidonio a una o ad altra precisa dottrina. Cosi v'è chi, unilateralmente puntando su certe fonti, da cui sem- bra apparire una qualche insistenza di Posidonio sulla lotta tra un  51   principio positivo e attivo e un principio negativo e passivo, tra forza attiva e materia, tenendo presente l'origine orientale, siriaca di Posi- donio, ha fatto di Posidonio un mistico, legato.a concezioni dualistico- religiose "orientalizzanti," che di contro al razionalismo unificante proprio dello stoicismo greco, avrebbe inserito entro la concezione stoica il motivo di forze irrazionali, come starebbe a dimostrare la polemica di Posidonio contro Crisippo e il primo stoicismo che, ridu- cevano, invece, l'errore e il male a sbaglio logico, negando l'esistenza di un'anima irrazionale, e sostenendo che le passioni non sono che errori di giudizio. E cosi v'è chi - sempre escludendo quelli che sono stati gli aspetti diciamo scientifici dell'indagine posidoniana, appunto perché "scienti- fici" e non "filosofici" - ha cercato, spuntando precise testimonianze, avulse dai loro contesti, di fondare tutta la concezione di Posidonio sul motivo stoicheggiante della "simpatia" universale, dimostrando come proprio in questo Posidonio si allontanasse dal maestro Panezio, riallacciandosi allo stoicismo di Crisippo (diceva Crisippo che il pneuma diffondendosi e penetrando ovunque, au!J.ftot&ét; ~nLV ot1Y.(j).ro niv cfr. Arnim, II, fr. 473). Posidonio, ancm:a di contro a Panezio, avrebbe ripreso la tesi della ciclicità del tutto i cui termini estremi, toccantisi, sono dovuti alla conflagrazione (ecpirosis) del cosmo, in cui l'universo, che si scandisce per degradazione nelle due zone del razionale e del- l'irrazionale (aristotelicamente del sopralunare o celeste e del sublu- nare o terrestre e mortale e corruttibile), si riassorbe tutto - ivi com- prese le anime umane - nel l6gos universale. Entro questi termini (dovuti alle ricostruzioni dello Schmekel e del Reinhardt, mentre molto piu cauto, usando tutte le fonti, appare l'Edelstein) si è delineato un ben preciso sistema di Posidonio, in cui mentre da un lato.sarebbero penetrati motivi mistici e irrazionali di provenienza orientale, dall'altro lato tali motivi sarebbero stati spie- gati da Posidonio, al di là delle tesi propriamente stoiche, mediante la concezione aristotelica dell'universo distinto nelle due zone, celeste e sublunare, e la concezione platonica dei due aspetti dell'anima, la razionale e l'irrazionale, in una conseguente ripresa del dualismo pla- tonico, proprio del Timeo (sembra che Posidonio abbia scritto un commento ·al Timeo) nella tensione tra Intelligenza e Necessità. Posido- nio, dunque, avrebbe posto a fondamento del tutto due principi attivo l'uno (~ò noLouv, tò poiun), passivo l'altro (~ò n«oxov, tò paschon), in quanto materia sostanziale non avente alcuna qualità (Diogene L., VII, 134). "La materia e sostanza di tutto, Posidonio disse che è senza qualità e senza forma, non avente né una forma distinta per sé né una qualità in sé" (Doxographi Graeci, p. 458, 811). L'altro principio, il principio attivo o divino, è alito caldo, pneuf!Ja e fuoco, forza vitale che, pur senza forma, si diffonde e dà forma alla materia informe, esso l6gos dando a tutti una ragione, una propria ragion d'essere. "Dice Posidonio:.&&6c; la-rL 7tV&:U(.Lot vo&:pòv 8L~xov 8L' &:7tl%<71jc; oòatotc;: dio è alito razionale diffuso per tutta la materia" (Commenta Lucani, ed. H. Husener, ad. v. 578, p. 305). Ne discende che la realtà qual è scaturisCe nelle sue qualificazioni, cominciando dagli elementi (fuoco, aria, acqua, terra), dalla tensione tra il principio attivo e quello pas- sivo in una gradazione che va dal superorganico (l'originario fuoco, l'originaria forza, il l6gos divino, inesistente in sé quale realtà tra- scendente) all'organico e all'inorganico, dal razionale (di cui parteci- pano dèi e uomini) all'irrazionale, al limite, al corpo, come termine estremo e affievolito dal diffondersi del pneuma. Di qui la distinzione tra un mondo celeste e divino ed un mondo sublunare e corporeo, cor- ruttibile, già oltre la natura e sottoposto al fato. "Dice Posidonio che il fato è terzo dopo Zeus. Primo è Zeus, seconda la natura, terzo il fato" (Doxographi graeci, 234a, 4). L'irrazionalità, dunque, in quanto mancanza di organicità, di razionalità, di ordine collegante ("sim- patia") è propria del mondo corporeo e, perciò, anche dell'uomo in quanto corpo, impulsività (primo aspetto dell'anima irrazionale) e desiderio (secondo aspetto dell'anima irrazionale). Le passioni non sono, quindi, dovute ad un errore di giudizio, ma hanno una loro realtà, accanto all'altro aspetto altrettanto reale dell'uomo, che è, in lui, la forza egemonica, la razionalità (anima razionale), mediante la quale l'uomo può coordinare le passioni, con ciò facendosi specchio di quell'ordine che è costituito dal divino 16gos o pneuma che si dif- fonde e si realizza nell'ordine con cui appare il tutto. Animato il tutto per la razionalità o forza vitale e organica che gradatamente per il tutto si diffonde sino al limite del corporeo e dell'irrazionale, posto l'uomo come nesso tra l'irrazionale e il razionale, oltre l'uomo, tra l'uomo e il principio divino, vi è tutta una serie di anime, di demoni e di eroi intermediari. Secondo certi stoici, scrive Alessandro Polii- store, "l'aria è tutta piena di anime, venerate come demoni ed eroi; sono esse che mandano agli uomini sogni e presagi" (in Diogene L., VIII, 32). E tale tesi è da Cicerone (De divinatione, l, 64) attribuita a Posidonio. Di qui, sembra, il motivo posidoniano della divinazione e, sul piano della "simpatia," il significato che vengono ad avere le congiunzioni stellari e i loro influssi, attraverso le graduazioni demo- niche, sulle cose e sugli uoplÌni (cfr. Ario Didimo, f. 32 in Doxographi Graeci, p. 466, 18; Achille Tazio, lsagoge in Arati Phaenomena, c. 10), ché, appunto, le stelle e gli astri sono divinità. Senza dubbio stoica, nel suo complesso, la concezione di Posidonio,  53   si capisce d'altra parte com'essa sia stata detta eretica e platonizzante nei confronti dello stoicismo primo, e non solo per ciò che riguarda la "fisica" - secondo Diogene Laerzio, VII, 41, Posidonio poneva, nell'ordine degli studi, innanzi tutto la fisica, - ma anche, paralle- lamente, per ciò che riguarda l'"etica," soprattutto per la minuziosa indagine posidoniana delle passioni, dell'irrazionale e del male, del fato, che sono propri della natura umana, ad essa radicati e che si risolvono solo, platonicamente, in un controllo delle passioni, in una sapiente misura, per cui è possibile da parte di chi sa, di chi ha com- preso e studiato le umane passioni e gli umani caratteri, un'educazione dell'anima, mediante l'indicazione di un ordinamento delle passioni stesse, in cui consiste la razionalità, in un amore di sé come armonia, specchio dell'armonia del tutto, che diviene ad un tempo amore degli altri, in quanto tutti, cose e uomini, sono come organi di un solo orga- nismo (dr. in particolare, per l'analisi delle passioni e per la loro terapia, Galeno, De plac. Hipp. 6t Plat., libri IV e V). Sotto questo aspetto, la funzione del filosofo, in quanto saggio, è d'essere educatore e, per ciò stesso, socialmente e politicamente impegnato. Molti piu frammenti e testimonianze abbiamo relativamente alle ricerche ed alle scoperte scientifiche di Posidonio. Innanzi tutto sap- piamo che gran parte delle sue descrizioni di fenomeni, dei suoi cal- coli, delle sue dottrine, sono dovuti a osservazioni dirette, a minuziose raccolte di dati, opportunamente vagliati e non solo catalogati. Sap- piamo altres1 che Posidonio, nato in Siria, ad Apamea (città greca sull'Oronte, fondata un secolo e mezzo circa prima della sua nascita), abbandonò ancora giovane la patria, dilaniata da lotte intestine, da guerre tra città e città, nella corsa al potere dell'uno o dell'altro prin- cipe della oramai distrutta casa seleucida. Due frammenti di Posidonio parlano, anzi, del suo disprezzo per la vita molle delle città grcco- siriache e per la "miserabile farsa delle loro operazioni militari" (cfr. Bevan, cit.). Da Apamea Posidonio venne ad Atene, ove entrò nella scuola di Panezio circa nel 115 a. C. Dopo la morte di Panézio (110/09) viaggiò molto: fu in Africa settentrionale fino alle colonne d'Ercole (Strabone testimonia ch'egli vide coi proprt occhi calare il sole di là dei limiti del mondo sconosciuto: III, l, 5, 138; che vide alberi popolati di scimmie: XVIII, 3, 4, 827). Visita l'entroterra di Marsiglia e in quei villaggi barbari vide teste umane appese alle porte delle capanne (Strabone, IV, 5, 198); e, sempre spinto dalla sua curio- sità e dall'esigenza delle sue ricerche,· fu ovunque nel mondo occiden- tale conquistato e ordinato da Roma. Da circa il 95 a. C. in poi fissò la sua dimora in Rodi, la patria di Panezio, ove scrisse le sue opere, insegnò, divenne celebre, cittadino onorario di Rodi, di cui occupò 54    anche la pritania, e per cui andò ambasciatore a Roma, visitato dai romani che passavano per Rodi (come fu il caso di Pompeo) o che da lui veniv,ano appositamente per studiare, come fu il caso di Cicerone. Sono tutti dati molto indicativi. Discepolo di Panezio, quando Panezio era scolarca della Stoà ad Atene, Posidonio, in effetto, non fu stoico di professione, non fu scolarca della Stoà, legato cioè a certe regole. Viaggiò molto, raccolse u n notevole materiale di osservazioni. non s'impegnò mai con un partito, né fu cliente, tanto che fissò la sua dimora a Rodi, la città rimasta piu libera del mondo dominato da Roma. Il complesso delle sue ricerche e delle sue osservazioni lo portarono non solo a raccogliere e a descrivere un materiale di prim'ordine in tutti i campi delle scienze naturali (astronomia, meteorologia, geo- grafia), ma anche a formulare teorie che furono fondamentali per ulteriori ricerche e che chiaramente dimostrano la precisione del me- todo proprio dei precedenti grandi ricercatori di Alessandria. In astro- nomia, Posidonio, riallacciandosi alla misurazione del diametro del sole ottenuta da Aristarco e migliorata da lpparco di Nicea e rifacendosi a un calcolo di Archimede, giunse a dare la misura del diametro del sole e della distanza di esso dalla terra che piu si approssima alle misure calcolate oggi, spiegando anche perché il sole appare piu grande sul filo dell'orizzonte che non nel cielo aperto (cfr. Plinio, Nat. ·hist., II, 85; VI, 57), mentre descriveva il fenomeno della rifrazione atmo- sferica (cfr. Cleomede, Sul moto circolare dei corpi celesti), Posidonio poi, rifacendosi all'analisi che delle maree avevano dato Eratostene e Seleuco di Seleucia, mediante osservazioni proprie, fatte dalle coste della Spagna atlantica, sostenne che le maree sono dovute agli sposta- menti della luna, descrivendo, per primo, i tre periodi delle maree: alta e bassa marea quotidiana; alta e bassa marea mensile; alta e bassa marea annuale. Il fenomeno è, secondo Posidonio, dovuto all'influenza della luna e degli altri astri sulla terra, entro l'ambito della simpatia universale. Celebri furono anche le descrizioni e catalogazioni, meto- dicamente effettuate da Posidonio, dei fenomeni sismici, ch'egli, con Aristotele, spiegava mediante l'ipotesi che i movimenti terrestri fos- sero dovuti all'aria circolante nelle cavità sotterranee, e la descrizione della formazione delle comete. Si è detto, infine, che Posidonio è stato il fondatore dell'"etnologia." In effetto, Posidonio, rifacendosi a de- scrizioni di popoli date da Erodoto e da Polibio, alle analisi dei carat- teri umani e dei popoli di certi testi ippocratici, mediante osservazioni proprie, ha cercato di determinare i caratteri fisici e i tratti psicologici di ciascun popolo, spiegando tale rapporto psico-fisico con l'influenza dei climi. Egli ha cosi nettamente distinto ·i popoli europei del nord  55   dai popoli europei del bacino mediterraneo. Ha sottolineato che i popoli del nord e quelli delle zone tropicali, gli uni per il troppo freddo, gli altri per il troppo caldo, hanno intelligenza ottusa, mentre i popoli che vivono in clima temperato hanno intelligenza vivace, e in loro prende il sopravvento il l6gos, la razionalità, fonte di civiltà e di equilibrio. Ogni natura (piante, animali, uomini) si determina qual è nel suo luogo naturale, ma quando viene trasportata in altra regione si adatta poco a poco ai caratteri del nuovo ambiente, finché ne assume la natura propria. Abbiamo, non a caso, citato il nome di Archimede (cfr. sopra, I vol.) e il nome di Ipparco. Ipparco di Nicea, in Bitinia, nacque intorno al 180, mori nel 125, visse ad Alessandria e a Rodi, dove compf la maggior parte delle sue osservazioni. Non è qui il luogo per descri- vere le scoperte di Ipparco e i suoi calcoli. Basti ricordare ch'egli ottenne la possibilità di determinare la posizione delle stelle (calcolò la posizione di circa 800 stelle) e di farne un catalogo, appurandone la grandezza a seconda della loro luminosità, calcolando la loro longi- tudine e latitudine, mediante processi matematici, per i quali, usando pratiche babilonesi, determinò i fondamenti della trigonometria. Posto un circolo, egli lo divise in 36 gradi, ogni grado in 60 minuti e cia- scun minuto in sessanta secondi. " Dividendo poi il diametro in 120 parti, Ipparco cercò di calcolare, con procedimenti teorici, di cui troviamo l'applicazione in Tolomeo, e non con semplici approssima- zioni pratiche, il valore delle corde in rapporto a queste parti del diametro. Non solo, ma per rendere piu comodi e piu rapidi i calcoli astronomici nei quali dovevano essere utilizzati i diversi valori delle corde, ne stabiH una vera 'tavola' cominciando da un angolo di una metà dì grado e successivamente procedendo per metà di grado. Si vede di quale aiuto poteva essere una tale tavola, e quale ·precisione un simile procedimento trigonometrico dava alla espressione matema- tica delle osservazioni astronomiche" (P. Brunet, La science dans l'an- tiquité, in Histoire de la Science, a cura di M. Daumas, Parigi, p. 266). Su questa base scaturisce il tentativo di Ipparco di applicare le costruzioni geometriche alla realtà concreta dei fenomeni osservati. Solo dopo la piu attenta.osservazione del movimento di ciascun astro, delle sue eccezioni, della sua grandezza e periodo, per cui Ipparco, oltre la tavola trigonometrica, si costruf degli strumenti nuovi (per la misura del diametro apparente del sole e della luna, costruf uno stru- mento migliore di quello che s'era fatto Archimede, in quanto munito oltre che di un punto visivo mobile, di un punto visivo fisso con cui con esattezza si otteneva il dia~etro angolare dell'astro), è possibile passare alla costruzione geometrica che renda ragione delle apparenze. 56    Ipparco cosi, studiando il sole, dimostrò per via di misurazione la ine- guaglianza delle stagioni, mediante gli eccentrici e gli epicicli, deter- minando la posizione del sole per ogni giorno dell'anno, giungendo quindi a formulare la celebre teoria della "precessione degli equinozi." Ipparco, infine, sempre sul piano del calcolo e della misurazione con- tinuò l'opera geografico-matematica di Eratostene, sviluppando l'uso delle coordinate geografiche, cioè introducendo paralleli e meridiani, indicando cosi le regole geometriche mediante cui è possibile disegnare carte piane del cielo e della terra. Sembra che per la rappresentazione del cielo abbia proposto una proiezione stereografica e per quella della terra una proiezione ortografica (cfr. Brunet, cit., p. 273). A parte i risulçati di Ipparco, ciò che soprattutto interessa sotto- lineare qui è il tipo della sua ricerca, che, sul piano di un Archimede, di un Eratostene, sul piano di quella ch'era divenuta la ricerca propria dei "filosofi" di Alessandria"', indipendentemente da pregiudiziali teo- logiche, da costruzioni già date "a priori," si fonda sull'osservazione sperimentale, e, attraverso questa, senza rimanere preso dalla pura enumerazione dei fenomeni, vien determinando una teoria, che serva a rendere ragione dei fenomeni osservati, attraverso il calcolo e la misura- zione matematica (che assumono il valore di strumento, si come gli strumenti veri e propri che servono per quelle misurazioni e calcoli me- desimi, come n'è esempio il nuovo astrolabio inventato da Ipparco). D'altra parte, ciò che, come abbiamo detto, colpisce particolarmente chi studia come si sono costituite le scienze dei primi "filosofi" di Alessandria, fino a un Eratostene, un Archimede, un lpparco, se da un lato è la prevalenza data all'osservazione diretta e allo studio delle condizioni che permettono l'una e l'altra ricerca, che diviene scienza, appunto, a seconda dell'uso corretto delle sue stesse limitazioni, dal- l'altro lato, ed entro lo studio di quelle condizioni medesime, è l'allon- tanamento dalla prima impostazione dovuta agl'immediati discepoli di Aristotele, che, in un'accentuazione dell'ultimo Aristotele, per il peri- colo sempre implicito in Aristotele che per il suo legame con Platone si era mantenuto sul piano delle "forme" e quindi sempre della filosofia intesa come teologia, avevano decisamente puntato sulla mèra raccolta di dati, sull'enumerazione, che in quanto tale, rende alla fine impossibile il sapere. Molto bene ciò si nota quando chiaramente si vede (si cfr. particolarmente Archimede) da un lato l'importanza data all'esperienza, all'osservazione, alla catalogazione dei fenomeni nor- mali e anormali, ma dall'altro lato, attraverso la stessa analisi dei feno- meni, alla invenzione di ipotesi che riescano concretamente a spiegare in unità una molteplicità di fatti. Tutto ciò, naturalmente, era pio facile finché si trattava, entro l'ambito di ciascuna scienza di trovare  57   le condizioni dell'una e dell'altra. Piu difficile lo fu per ·la fisica e particolarmente per l'astronomia. L'astronomia, e per altro verso la fisica, dopo Platone - si pensi in special modo alla soluzione del Timeo, delle Leggi e dell'Epinomide, e all'importanza politica ch'ebbe per Platone quella soluzione - andò ·a cozzare contro il motivo (d'altra parte ripreso da Aristotele) del movimento circolare e uni- forme dei cieli. Con esso, che, in quanto movimento perfetto e razio- nale, veniva identificato con la divinità, entrava in contrasto il rispetto dei fatti e diveniva estremamente astratta la riduzione della fisica e dell'astronomia a teologia, ché la soluzione geometrico-matematica dei fenomeni (la "salvazione dei fenomeni") correva il rischio di passare da strumento esplicativo a costruzione per sé stante entro cui, poi, dovevano essere costretti i fenomeni. I termini del contrasto si vedono bene quando si pensi all'accanto- namento della teologia operato in Alessandria dagli "istorici" e poi, andando oltre essi, dai "filosofi" che usarono la matematica e la geo- metria come strumenti esplicativi dei dati Bsservati e sperimentati, finché alla loro volta in altri ambienti (sempre per sottintese esigenze politiche) quelle ipotesi geometrico-matematiche tornarono ad avere la funzione che avevano assunto in Platone e in Aristotele, definitiva- mente teologizzando la filosofia. Per altro verso, tale contrasto si vede bene allorché si dia il debito peso alla polemica di Epicuro e all'ipotesi della struttura dell'universo costituito di atomi e di semi vitali, e al "casuale" incontro di quegli atomi, ove la razionalità non è piu un dato, una forma per sé, ma una conquista. Sia pur giungendo a solu- zioni diverse - a parte la componente del primo scetticismo.e della seconda Accademia, - anche l'ipotesi del primo stoicismo (Zenone) e il motivo della "simpatia" (Crisippo}, potevano servire alla costi- tuzione di una fisica autonoma, o, per lo meno, alla giustificazione di certe esperienze religiose, non razionali, che s'erano delineate sem- pre di piu in ambienti popolari, lasciti di antiche credenze, di antichi miti e riti. · Ora, una piuttosto ampia documentazione mostra un Posidonio assai vicino al metodo d'indagine proprio di Ipparco di Nicea: analisi minuta e diretta di fenomeni, uso.di certi ritrovati matematici e geo- metrici in funzione della spiegazione dei dati stessi; ma anche studio minuto e diretto di fenomeni psichici (forze irrazionali, caratteri di- versi, e cos{ via); registrazione di fenomeni fuori dell'usuale. Di qui, da parte di Posidonio, nella sua palese esigenza di rendere "familiare l'universo agli uomini," il recupero del motivo stoico della "simpatia" e della ipotesi stoica, mediante cui è possibile pensare la realtà, per cui a fondamento del tutto stanno due principi non qualitativamente determinati, non aventi cioè "forma": da un lato urra quantità assolutamente indefinita, dall'altro lato una forza. Dalla tensione dei due termini si costituiscono e si qualificano le cose, onde l'ordine e la razionalità non son presupposti, "forme," ma si costituiscono nella stessa tensione dei due termini, in un conflitto ove la misura e la razionalità sono un'operazione, ove operativa è la stessa scienza e la saggezza, e dove la religiosità consiste da un lato nel sentirsi dipendere dalle forze irrazionali (documentate dall'esperienza, testimoniate dalle tradizioni religiose popolari, dai misteri) dall'altro lato nell'operare, mediante il l6gos, su quelle forze, costituendo un'armonia che è la stessa razio- nalità. Giuoco di forze l'universo, giuoco di forze l'uomo; il l6gos, che è soffio vitale (pneuma), scaturisce dall'equilibrio di quelle forze nella con-passione (simpatia) dell'una e dell'altra forza, e perciò nel- l'organarsi dell'una e dell'altra cosa, dell'una e dell'altra forza vitale (anima), onde le reciproche influenze e simpatie, ivi comprese le influenze stellari, come, ad esempio, le maree dovute alla Luna, e i rapporti tra le anime incorporate e le anime (pnéumata) che per gradi si trovano tra il l6gos e i corpi. Sembra, cosi, chiaro come per Posidonio, curioso di ogni aspetto della realtà, dei fatti della natura e dei fatti umani, la "filosofia" sia scienza in quanto consapevolezza dell'operatività del sapere, mediante cui se da una parte è possibile rendere "familiare l'universo," dall'altra parte, entro un tale universo familiarizzato, è possibile rendere docile la natura, dare all'uomo, operando sulla natura, una vita civile. Vi è a tal proposito una testimonianza preziosa di Seneca (Lettere a Lucilio, XIV, 90). Seneca discute e critica la tesi posidoniana, sostenendo che pur riconoscendo a Posidonio d'aver "portato un gran contributo alla filosofia" (Lett. a Luc., 90, 6-7), non può ammettere oon Posidonio che la filosofia sia tecnica, sia operatività, che mediante la filosofia si siano costituite e abbiano progredito le tecniche, che naturalmente modifi- cano e trasformano la natura in funzione del benessere umano: dalle tecniche per costruire case alle tecniche per fare il pane, alle tecniche per coltivare (agricoltura), alle tecniche per avere le case riscaldate, comode, a quelle per costruire tavole, e cosi via. "Non posso concedere a Posidonio che la filosofia abbia trovato le arti di uso comune, né saprei darle la gloria dei mestieri fabbrili. La sapienza sta piu in alto, non delle mani maestra, ma delle anime (sapientia altius sedet nec manus edocet, animorum magistra est)" (Lett. a Luc., 90, 7, 25-26). Nella polemica di Seneca - e si vedranno le ragioni per cui Seneca dà àlla filosofia un compito liberatore, il compito di purificare l'anima, di curarla, per condurla alla contemplazione del divino, in un'evasione da questo mondo - sembra chiarirsi l'atteggiamento proprio di Posi-  59   donio, anche nel campo piu strettamente politico, ché, appunto, anche la politica è saggezza, e, in quanto tale, è operativa, cioè capacità da parte del saggio di costituire, di creare un ordine tra le passioni, in un equilibrio che è conquista, e che, in quanto equilibrio, è, ad un tempo, giustizia. Sappiamo, ora, che Cicerone, il quale aveva ascoltato Posidonio a Rodi e che con Posidonio era entrato in dimestichezza, tanto da inviar- gli la Storia del proprio consolato, perché il grande storico la usasse per la sua opera (può essere abbastanza sintomatico che la richiesta di Cicerone sia rimasta senza risposta), fece largo uso delle notizie, dei dati, delle singole dottrine scientifiche di Posidonio, e soprattutto della tesi posidoniana relativa all'unificazione delle scienze nella filosofia, ma in funzione della cultura enciclopedica propugnata da Cicerone, utile per la formazione dell'oratore (cfr. particolarmente, De Oratore, III, 55 sgg., 57, 61, 87 sgg.). Anche; tale deviazione ciceroniana è piuttosto indicativa, come lo è il fattiféhe, appunto, il successo che ebbe Posi- donio nel futuro della cultura fu dovuto essenzialmente alla mèsse di notizie, di dati, di istorie, che si sono ritrovate in lui, usato soprat- tutto come una specie di enciclopedia del sapere. Sembra, infine, che Posidonio, sottolineando i rapporti intercorrenti degli oggetti che scaturiscono dalla tensione tra i due principi nell'or- ganarsi delle cose sotto la spinta del l6gos, del pneuma, abbia da un lato giustificato sul piano di un'ipotesi le possibili influenze dell'una stella sull'altra e delle stelle e degli astri sulla terra e sulle cose della terra, ivi compreso l'uomo (astrologia); dall'altro lato, posto che per gradi di affievolimento, non giungendo il 16gos a tutto, vi è una zona che rimane come abbandonata a sé, pura quanticl, abbia con ciò giu- stificato non solo le passioni e il caso, ma anche indicato la possibilicl di operare, mediante.il 16gos umano, su quella zona, qualificando certe cose, cioè trasformando il loro primigenio aspetto in altro. Posi- donio, pare, giustificava cosf tutta una serie di esperienze che aveva determinato la tradizione astrologica (di provenienza caldaica) e tutta un'altra serie di esperienze che, pur rifacendosi all'astrologia, si era delineata per un verso nella fiducia di costituire delle tecniche mediante cui con la natura trasformare la natura (alchimia, magia), e per altro verso operando su certe cose, in rapporto diretto con una o altra influenza stellare, influire sulle stelle stesse e perciò sugli uomini e sugli dèi (magia astrologica). Anche se, indirettamente, alcune testimonianze hanno fatto pen- sare che Posidonio abbia raccolto del materiale intorno alla storia della magia e abbia descritto esperienze magiche, e abbia inoltre composto una specie di storia dell'astrologia- che, si badi, nell'antichità non era affatto 60    distinta dall'astronomia - il silenzio di Cicerone, il quale, cÒmunque, sostiene che tra gli stoici il solo Panezio avrebbe rifiutato gli "astro- logorum praedicta" (De divinat., II, 88), e il silenzio, in merito, di fonti piu tarde, non permettono un piu lungo discorso. Ha, invece, una sua importanza l'accostamento tra Posidonio e Democrito fatto da Seneca nella citata Lettera a Luci/io. Dopo avere negato che le tecniche e le invenzioni siano frutto della filosofia e della saggezza come avrebbe voluto Posidonio, Seneca cita Democrito: il medesimo Democrito trovò come si leviga l'avorio, come un sassolino sottoposto a cottura si trasforma in uno smeraldo, come anche oggi, cuo- cendoli, si colorano certi sassi adatti a essere cosf colorati. Ora, anche se un saggio ha fatto queste scoperte, non le ha fatte perché era un saggio (Seneca, Lettere a Lucilio, 90, 33). Cultura e politica nell'ultima fase della Repubblica. Cicerone. Lucrezio. L'avvento di Augusto l. La Nuova Accademia: da Clitomaco, Carmada e Metrodoro di Stratonica a Filone di Larissa e Antioco di Ascalona. Cicerone È noto come, ancora una volta, bisogna rifarsi a Cicerone per rico- struire, molto approssimativamente, quello che fu il pensiero di Filone di Larissa e di Antioco di Ascalona, l'uno e l'altro per un certo periodo della loro vita scolarchi dell'Accademia (Filone dal 110 all'88 a. C. circa; Antioco sembra dall'87 al 68); e come, in effetto, sia la posizione di Filone sia quella di Antioco, e il conflitto tra di loro, si possano comprendere solo attraverso il filtro di Cicerone e le sue intenzioni. Secondo l'Academicorum index herculanensis (XXV, l, 36; XXIV, 28; XXIX, 39.; XXX, 5), a Carneade, ritiratosi per vecchiaia e malattia nel 137, successero nello scolarcato dell'Accademia, prima Carneade di Polemarco, morto nel131, poi Cratete di Tarso, al quale, morto nel 129, successe un altro discepolo di Carneade, Clitomaco, detto Asdrubale, nato a Cartagine riel 187 circa. Carneade di Polemarco e Cratete di Tarso non sono piu che dei nomi.1 Dello stesso Clitomaco" sappiamo pochissimo. Venuto ad Atene 1 Per la vita di Carneade cfr. I volume. Dci primi successori di Carneade sappiamo pochissimo, in realtà solo i nomi: Carneade d i Polcmarco, scolarca dal 137 al 131; Cratctc di Tarso, scolarca dal 131 al 129; Clitomaco Asdrubale di Cartagine, scolarca dal 129 al 11o. Sembra che Clitomaco, per un qualche disguido con Carneade, nel 140 - nato nel 187 circa a Cartagine, aveva allora 47 anni - abbia aperto una scuola per conto suo. Ciò renderebbe conto del perché Carneade ritiratosi dall'insegnamento nel 137, piuttosto che Clitomaco abbia designato alla sua successione, prima Carneade di Polemarco, poi Cra- tcte di Tarso. Solo dopo la morte di Carneade e di Cratcte, Clitomaco, ritenuto il piu fedele interprete del pensiero di Carneade, poté essere nominato scolarca dell'Accademia. Delle sue molte opere (400 secondo Diogene Laerzio, IV, 67) non abbiamo che notizie. La piu celebre è una storia della dottrina sulla sospensione dell'assenso, in 4 lihr'i. Si ricorda anche uno scritto sulle sètte. Per il resto si veda sopra, s{ come a veda sopra ciò che riguarda le varie correnti determinatesi in seno all'Accademia al tempo di Clitomaco.  95   su1 ventiquattro anni (cosi secondo l'lndex herculanensis, XXIV, 2; mentre secondo Diogene Laerzio, IV, 67, sui quaranta), aperto alle discussioni piu vive del suo tempo - egli discusse e approfondi le tesi dei peripatetici, degli stoici, degli accademici: cfr. Diogene L., IV, 67 - Clitomaco fu noto soprattutto per i suoi scritti con i quali divulgò il pensiero di Carneade, da lui frequentato per una ventina d'anni, dandone evidentemente una sua interpretazione (si ricordi che Carneade non aveva scritto nulla). Non sembra un caso, anzi, che con- temporaneamente a Clitomaco, di contro a lui, altri discepoli di Car- neade abbiano sostenuto che diversamente andava interpretato Carneade. Delle moltissime opere di Clitomaco (circa quattrocento, sostiene Diogene Laerzio, IV, 67), quasi tutte relative all'esplicazione del pen- siero di Carneade (Diogene L., Il, 92, cita anche un suo scritto su Le scuole filosofiche e Cicerone, Tusc. disp., III, 22, 54, un suo scritto consolatorio inviato ai Cartaginesi in occasione della distruzione della città), Cicerone apertamente dichiara di conoscerne e usarne, per esporre la tesi di Carneade sulla "sospensione del giudizio," tre, di cui due dedicate al poeta Caio Lucio e al console L. Censorino, ed una, piu Si veda sopra anche per Callide, Carmada, Metrodoro di Stratonica e i loro relativi disce- poli. A Clitomaco successe nel 110/109 Filone di Larissa. Nato a Larissa, in Tessaglia, nel 160/159 circa, Filone fin da giovane potE _ascol- tare l'insegnamento dell'accademico Callide che a Larissa dirigeva una diramazione dell'Accademia. Sui ventiquattro anni, nel 136 circa, passò ad Atene, entrando nell'Acca- demia, sotto la direzione di Clitomaco. A Clitomaco, mono nel 110 a.C. circa, suc· cesse quale scolarca dell'Accademia. Filone resse l'Accademia fino all'88. Nell'88, allo scoppio della guerra mitridatica, si recò a Roma, dove prosegui il suo insegnamento, e dove, sembra, mori intorno al 79. Nulla·~ rimasto dell'opera di Filone se non scarsi frammenti e testimonianze di un suo scritto Sulla filosofia e la notizia di un. suo lavoro, composto a Roma, che si sarebbe non poco spostato dallà linea Carneade-Clitomaco-Carmada seguita da Filone finchE sog· giornò ad Atene. Antioco nacque ad Ascalona, in Palestina, tra il 140 e il 130 a. C.:Venuto ad Atene da giovane, segui per molti anni l'insegnamento di Filone. Nell'88 quando Filone si trasferl a Roma, Antioco si recò ad Alessandria, passando prima per Roma dove conobbe Lucullo. Nell'86 era sicuramente ad Alessandria con Lucullo. Nel 79 era ceno ad Atene, scolarca dell'Accademia. Segui poi Lucullo nella spedizione di Siria, durante la seconda guerra mitridatica, assistendo alla battaglia di Tigranocerta (69 a. C.). Mori nel 68 circa. Delle molte opere di Antioco.non possediamo nulla se non ciò che riferisce Cicerone, in panicolare di una, il Sosus. Il Sosus fu composto da Antioco, al tempo del suo sog· giorno ad Alessandria, per controbattere e confutare lo scritto dell'antico maestro Filone giuntagli da Roma e che lo aveva indignato. Si veda nel testo i termini e il significato della polemica Filone-Antioco. Se già Filone.aveva dato un nuovo indirizzo all'Accade- mia, per cui si disse ch'egli era stato il fondatore di una quana Accademia; piu deciso ancora verso un aspetto piu dogmatico fu l'indirizzo dato da Antioco per ciò detto il fondatore della quinta Accademia ("Di Accademie, come dicono i piu, ce ne sono state tre: la prima e piu antica fu quella di Platone, la seconda, o media, quella di Areesilao, uditore di Polemone, la terza e nuova quella di Carneade e Clitomaco. Alcuni ne aggiun· gono una quarta, quella di Filone e Carmada, e altri ne contano una quinta, quella di Antioco": Sesto Empirico, Pyrr. hypoth., l, 220). 96    ampia intitolata, appunto, Sospmsione del giudizio, in quattro libri, nei quali venivano esposte e discusse le tesi di Arcesilao e di Carneade. Non dirò nulla - sottolinea Cicerone - di cui si possa sospettare che sia una mia invenzione: riprenderò tutto da Clitomaco, vissuto con Car- neade fino alla vecchiaia, uomo di acutezza veramente cartaginese, c so- prattutto accurato e zelante. Abbiamo di lui quattro libri sulla sospensione dell'assenso (de sustinendis.assensionibus)... Ho esposto sopra, sull'autorità di Clitomaco, come Carneade spiegasse il suo probabilismo. Ascoltate ora come tale problema sia presentato da Clitomaco stesso, nel libro da lui dedicato al poeta Lucilio, dopo averne dedicato un altro, sullo stesso argo- mento, a L. Ccnsorino, che fu console con M. Manilio (Cic., Lucullus, XXXI, 98; XXXI1, 102). A quanto sembra Cicerone riteneva che Clitomaco fosse stato un espositore accurato e fedele di Carneade (del suo zelo analitico e della sua prolissità parla anche Sesto Empirico, Adv. math., IX, l, che, d'altra parte, accomuna sempre il nome di Clitomaco a quello di Carneade, Pyrrh. hypot., l, 220, 230), soprattutto per ciò che riguarda quello che dovètte essere il motivo piu discusso nella scuola, in polemica con i fondamenti della logica stoica, e cioè il motivo dell'assenso cui si accom- pagnava la possibilità o meno del criterio del probabile, che a sua volta coinvolgeva la possibilità o meno della fiducia nell'azione. In due modi, aggiunge Clitomaco, si può intendere l'affermazione: il sapiente sospende l'assenso; l) che il sapiente non dà il proprio assenso a nulla; 2) che si trattiene dal rispondere, senza dichiarare se approva o no, senza negare, senza affermare. Clitomaco ammette la prima inter- pretazione, c non dà mai il suo assenso: adotta anche la seconda c, tenendo ferma la sola probabilità, risponde si o no, a seconda che ciò che si presenta sia piu o meno probabile..., ma solo per quelle appercezioni che spingono all'azione, e per quelle, mediante cui possiamo, quando si venga inte~ro­ gati, rispondere in uno o altro senso, non seguendo che le apparenze, dato, tuttavia, che non diamo il nostro assenso (Cic., Lucullus, XXXII, 104). Sembrerebbe, dunque, che la interpretazione data da Clitomaco della posizione di Carneade - sulla scia di Carneade egli mostrava anche come tutte le tesi che sostengono la possibilità di un sapere assoluto siano controvertibili: cfr. Sesto Empirico, Adv. math., IX, l - s i risol- vesse sul piano della totale sospensione, allorché si tratta del vero in assoluto, onde il sapiente non solo non può proclamare alcuna verità, ma, conseguentemente, neppure accettare una qualsiasi opinione: se tutto è opinione, nulla è opinione, ché assumendo una qualsiasi opi-  97   nione già si distinguerebbe tra vero e opinabile. Solo che allora, pro- seguendo coerentemente su questa via, sarebbe impossibile il criterio del "probabile," sia pur sul piano dell'azione (dice Sesto che "gli Acca- demici assentiscono a qualcosa con predilezione e, per cosi dire, con simpatia, accompagnata da un forte volere": Pyrrh. hypot., l, 230). Se l'una rapppresentazione vale l'altra, non si capisce come l'una, sul piano del volere, sia da preferire all'altra, sia piu probabile dell'altra. E per ciò verrebbe a cadere anche la retorica propugnata da Clitomaco (cfr. Sesto, Adv. math., II, 20 sgg.), che di contro alla dannosità della retorica comune, basata sofisticamente sulla possibilità di muovere gli affetti, sosteneva che la vera retorica consisterebbe nell'avviare a ben pensare, attraverso lo studio e la discussione delle varie opinioni dei filosofi. Ma se l'una opinione vale l'altra, l'un giudizio vale l'altro, nep- pure è possibile pensare bene o pensare male, ed altro non resterebbe che il silenzio. Tali, sembra, le obbiezioni che in seno alla scuola furono mosse a Clitomaco da altri discepoli di Carneade, i quali tesero a dare del mae- stro un'interpretazione piu temperata e meno esclusiva. Su questa linea, per quel poco che ne sappiamo, si mossero particolarmente Carmada e Metrodoro di Stratonica. Certo, delle molte discussioni che fiorirono intorno al modo di interpretare il genuino pensiero di Carneade poco o nulla sappiamo, se non, appunto, che l'Accademia sembrò un "uni- verso coro" (Sesto Emp., Adv. math., IX, 1). Cosi, di Callide che diresse una diramazione dell'Accademia a Larissa, di Zenodoro di Tiro che ne diresse una ad Alessandria, di Hagnone di Tarso che scrisse un'opera Contro i retori, di Melanzio di Rodi e di Eschine di Napoli, non abbiamo che notizie esteriori (cfr., per Callide e Zenodoro, lndex herc., XXXV, 36; XXXIII, 8; XXIII, 2; per Hagnone, Quintiliano, lnst. or., II, 17, 15; per Melanzio ed Eschine, Cicerone, Lucullus, VI, 16; De Oratore, l, 45; Diogene Laerzio, II, 64). Tutti, comunque, appaiono impegnati intorno alla questione della "sospensione dell'assenso" e sulla sua portata pratica, da un lato di contro a certa verità assoluta colta dagli stoici, di là dalla loro stessa impostazione logico-empiristica, che non poteva non condurre al silenzio, dall'altro lato di contro al peri- colo, portando ad estrema conseguenza la "sospensione del giudizio" sul piano teoretico, di rimanere in silenzio, cioè nell'assoluta impossi- bilità di pensare e di agire. Entro i termini di tali discussioni si mossero Carmada e Metrodoro di Stratonica. Di Carmada si dice che fosse bravissimo oratore, che celebre fosse la sua memoria (cfr. Cicerone, Tusc. disp., l, 24, 59; De Oratore, II, 88, 360; Lucullus, VI, 16), che, fedelissimo di Carneade (ne imitava perfino la voce: Cicerone, Orator, XVI, 51), ne seguisse    il metodo (cfr. Cicerone, De Oratore, I, 18, 84), discutendo le varie opi- nioni, non tanto per far prevalere l'una o l'altra, quanto per richiamare sempre chiunque ad un controllato atteggiamento critico, in cui, d'altra parte, consisteva per Carneade, come già per Clitomaco, la retorica da opporre alla cosiddetta "retorica comune." Ma proprio perché fosse possibile la riduzione dell'atteggiamento carneadiano a tecnica retorica, mediante cui, dalla discussione di tutte le opinioni, escludendo ogni passaggio dall'opinione al vero in assoluto, si potesse assumere, sul piano pratico, una certa opinione che servisse piu di un'altra, sia nel discorso sia nellfl spinta all'azione, era necessario scostarsi dalla sospen- sione assoluta propugnata da Clitomaco. Ugualmente sembra che Me- trodoro di Stratonica - sottolinea il Dal Pra - " sia stato del parere che conveniva senz'altro riconoscere l'inevitabil~tà dell'assunzione di qualche opinione e di qualche posizione; lo scettico stesso non è pertanto che non abbia alcuna opinione ed alcuna posizione; piuttosto egli attri- buisce alla sua opinione o posizione un valore ben diverso da quello che gli stoici attribuivano alla loro verità. Per mantenersi nello scetti- cismo basterebbe pertanto riconoscere la differenza tra verità ed opi- nione e convenire che non si può dare se non opinione, ossia una persuasione pragmatica, una certezza che è d'altra parte sufficiente per la condotta della vita" (Lo scetticismo greco, Milano, 1950, pp. 227-28). In effetto la discussione si manteneva qui - entro l'àmbito delle scuole di Atene - sul piano della piu acuta tradizione greca relativa alla problematica logica, scaturita dalla questione dell'aderenza o meno dei termini del discorso alla cosa significata. Se si ritiene che il discorso verace sia quel discorso che corrisponde nel rapporto soggetto-predicato a reali rapporti di inerem:a propri delle cose, onde, pur usando nomi, i nomi sono tuttavia simboli significanti realmente le cose e il discorso è tale in quanto riflette il discorso del reale (in senso aristotelico); allora, posto che rimane sempre in dubbio che la rappresentazione, l'immagine o il nome, corrisponda a ciò che è, alla cosa, e che, quindi, lo stesso discorso. sia arbitrario, ne deriva che si debba sospendere ogni giudizio, cioè che non si debba né affermare né negare qualcosa di qualche altra cosa, perché ciò implicherebbe sempre l'affermazione o la negazione di un'inerenza di cui non potremmo dir niente; su questo piano, probabilmente essendo inadeguato ogni giudizio, si elimina la possibilità del discorso verace e, per ciò, altro non resta che il silenzio, un pieno ritorno all'afasia di Pirrone. Oppure, se si ritiene (riallaccian- dosi al tipo di logica scaturita dalle discussioni intorno all'analitica e all'inerenza necessaria di Aristotele, e delineatasi attraverso la tema- tica dei sillogismi ipotetici di Teofrasto e l'implicazione di Diodoro Crono e di Filone Megarico),,che il discorso si fondi su rappresenta-  99   zioni (già esse giudizi e proposizioni, e non soggetti e predicati), non perciò analizzabili, sulla cui veracità ed esistenzialità assumiamo fede in quanto afferrano piu fortemente di altre, ne deriva che il discorso si costituisce di rapporti tra rapprèsentazioni-giudizi, la cui implica- zione è dovuta al ricordo e, dunque, all'anticipazione. Perciò verace o no è il discorso, se corretta o meno è la implicazione, indipendente- mente dall'adeguazione o meno, nel giudizio, alla reale ineremea (di qui i sillogismi ipotetici, e ipoteticamente il porsi delle possibili strutture della realtà); se si ritiene E:iÒ, si può benissimo, sul piano della verità in sé e della esatta corrispondenza tra rappresentazione e cosa rappre- sentata, parlare di sospensione del giudizio e di non assenso, mentre sul piano del discorso si può parlare di probabilità relativamente a ciò che esso significa, assumendo quel discorso che appare come il meno con- traddittorio, cioè il piu probabile, il piu credibile (nr.kv6v, pithanòn). In altri termini, se sul piano del vero non c'è nessun "criterio" che permette di sostenere che le cose sono comprensibili (per cui può anche darsi che lo siano), onde non si può parlare né di vero né di falso, sul piano, invece, delle rappresentazioni, quali si presentano alla mente, indipendentemente dal loro corrispondere o meno alla cosa, si può par- Jare, relativamente a ciò che appare, di verità e di falsità. Il remo che nell'acqua appare spezzato e fuori dell'acqua diritto, può darsi che in sé sia spezzato o diritto: perciò su questo sospendiamo il giudizio; solo che è vero che ai sensi appare··spezzato ed è vero che ai sensi appare diritto, ma anche che, se piu evidente è attraverso l'impres- sione stessa, ch'è diritto, è vero, nel giudizio, che è diritto ed è falso che è spezzato, e perciò l'assenso è di probabilità (per l'esempio del remo, o per quello del colore cangiante delle piume del collo della colomba, cfr. Cicerone, Lucullus, XXV-XXVI). Tale, sembra, la posizione di Fi- lone di Larissa che, discepolo diretto di Clitomaco, al quale successe nella direzione dell'Accademia, alla morte di Clitomaco, avvenuta nel 110/109 a. C., fu piu vicino alla interpretazione che di Carneade ave- vano dato Carmada (di cui furono scolari Diodoro e Metrodoro di Scepsi, ma dei quali non abbiamo che i nomi: cfr. lndex herc., XXXV, 39; Cicerone, De Oratore, II, 88, 360; Plinio, Nat. hist., VII, 24, 89) e Metrodoro di Stratonica (di cui furono scolari Metrodoro di Pitane e Metrodoro di Cizico, e anche dei quali non sappiamo che i nomi: cfr. lndex herc., XXXVI, 11 e XXXV, 33). Cosi: Sesto Empirico (Pyrrh. hyp., I, 235), brevemente esponendo la tesi di Filone di Larissa, scrive: "Filone afferma che relativamente al criterio stoico, cioè la rappresentazione catalettica, le. cose sono in- comprensibili; ma relativamente alla natura delle cose, esse sono com- prensibili." Il criterio stoico non garantirebbe cioè se le cose siano o no 100    comprensibili. Ma proprio questo, appunto perché non si· può dire quando una cosa sia o non sia compresa, non esclude che le cose in quanto tali siano comprensibili. "Noi," sottolinea Cicerone, che in questo passo, su sua testimonianza, si riferisce a Filone, "non neghiamo quello che ·si presenta chiaro come la luce, ma diciamo che quelle stesse cose che voi stoicamente dite di percepire e di comprendere, a noi sembrano probabili" (Le~cullus, XXXII, 105). Di qui deriverebbe la sottile distinzione posta da Filone tra evidenza e ' percezione: evi- denti o incerte le cose in quanto presenti alla mente in modo piu o meno forte, ciò non significa ch'esse siano di per sé percepite e non percepite (cfr. Cicerone, Lucullus, X, 32; Xl, 34). E cosi, all'abbiezione che Antioco di Ascalona - discepolo dapprima di Filone, ma poi deci- samente volto a uno stoicismo del tipo di quello di Cleante - avrebbe mosso a Filone: se assumiamo la proposizione alcune rappresentazioni sono false, e quindi affermiamo esse non differiscono in nulla dalle vere, si cade in contraddizione, perché, accordata la prima e riconosciuta dunque una qualche differenza tra le rappresentazioni, la prima viene negata dalla seconda che dichiara le rappresentazioni false simili alle vere; Filone avrebbe risposto: "l'abbiezione sarebbe giusta se toglies- simo del tutto la verità: ma non lo facciamo; noi discerniamo tanto il vero quanto il falso, solo ch'essi si presentano sotto l'aspetto della probabilità, poiché non abbiamo alcun segno che indichi la perce- zione" (Cicerone, Lucullus, XXXIV, 111). Sembra, dunque, che Filone svolgesse la propria discussione su due piani diversi. Da un lato, egli, riallacciandosi ad una certa tradizione (da Democrito a Carneade), negava la possibilità (sia coi sensi, sia con la ragione) di cogliere quelle che sono le strutture proprie della realtà, che resta di là dalle possibilità umane, e intorno a cui si sospende ogni giudizio o si parla per via di ipotesi; dall'altro lato, perciò, entro l'arco del discorso umano, Filone poneva la possibilità di costituire discorsi piu o meno probabili. Di qui la funzione della esperienza e della ragionata esperienza e della ragione che, se rimane sospesa sul piano dell'essere, è valida, con i suoi sillogismi, la sua dial~ca, la discussione delle opinioni, dei pro e dei contra, sul piano umano: " p e r navigare, seminare, sposarsi, avere figli, fare infinite altre cose, per le quali la sola probabilità può essere di guida" (Cicerone, Lucul- lus, XXXIV, 109). • Si capisce in tal modo perché Filone, andando a ritroso nella storia del pensiero greco, abbia ritenuto che la genuina tradizione filosofica si dovesse rintracciare in quei pensatori che avevano messo in discus- sione la possibilità di cogliere le strutture della realtà, avanzando ipo- tesi e prospettando ragioni non contraddittorie, che permette~sero la  101   pensabilità del reale, onde la possibilità di molteplici spiegazioni, ed entro la discussione di queste l'opzione per quelle che possano servire di piu, che siano utili alla vita, o, per lo meno, ad una presunta utilità, un presunto bene della vita. E per ciò Filone poteva sostenere che egli, in effetto, rappresentava il piu intimo platonismo e, dunque, l'Ac- cademia, interpretando il platonismo da un: lato sul piano dei dialoghi socratici, dall'altro lato sottolineando dei dialoghi della maturità di Platone l'aspetto dialettico e problematico, insistendo sul mito e sul verosimile, compresi come ipotesi di spiegazione, in funzione della vita pratica e associata, per cui poteva sostenere che in realtà non v'era stata una prima e una seconda Accademia, ma che unico n'era stato sempre l'intento. Filone ha sostenuto nelle sue opere - e l'abbiamo ascoltato dalla sua stessa bocca - che non vi sono affatto due Accademie, e dimostrava in modo irrefutabile ch'erano in errore coloro che cosi pensavano... Chiamano nuova quest'Accademia, se nell'antica si deve collocare Platone. Comunque, Platone, nei suoi scritti, non afferma nulla, discute spesso il pro e il contro, interroga su ogni argomento, senza mai giungere a qualcosa di certo. Tuttavia, si chiami pure, se si vuole, antica Accademia· quella di cui ho parlato ora, e nuova quella che si è continuata fino a Carneade, quarto successore di Arcesilao, e che non si discostò dai principr del suo fon- datore... Arcesilao diresse i propd.attacchi contro Zenone, non per per- tinacia, o per ambizione di vincere, ma a causa dell'oscurità di quelle questioni che avevano condotto Socrate a confessare la propria ignoranza, e, prima dì Socrate, Democrito, Anassagora, Empedocle e quasi tutti gli antichi. Sostennero che nulla si può conoscere, nulla comprendere, nulla sapere; che limitati sono i sensi, deboli gli intelletti, breve la vita, e la verità, come diceva Democrito, immersa nel profondo; che tutto dipende dalle opinioni e dalle convenzioni; che nulla può esser lasciato alla verità; e che, infine, tutto è circonfuso di tenebre. Arcesilao, cosi, affermava che nulla si può sapere, neppure ciò che Socrate s'era mantenuto (Cicerone, Va"o, IV, 13; XII, 46 e 44; si cfr. anche Lucullus, XXIII, dove sono an- cora citati Anassagora, Democrito, Empedocle, Socrate, Platone, e accanto a loro Metrodorò di Chio, Stilpone, Diodoro Crono, Alexino, i Cirenaici). Di qui, dunque, il valore dato all'opinione, alle discussioni dèlle opinioni, mediantt cui determinare ipotesi piu probabili di altre, in una continua apertura della ricerca, s1 che la ricerca stessa si costituisca come regola con cui individuare ciò che serve (bene) o non serve (male) alla vita, al convivere. Non sembra, perciò, un caso, secondo la testimonianza di Stobeo (Ecl., Il, 40), che Filone, in un suo libro sulla funzione della filosofia, paragonasse la filosofia alla medicina e il filosofo al medico, che sostenesse che la f).Inzione della filosofia consiste nell'av- 102    viare a purgarsi dalle opinioni unilaterali e perciò stesso false (I libro), determinando quindi i beni e i mali (II libro), quale possa essere il fine - cioè la felicità - cui l'uomo deve tendere (III libro), quali le varie forme di vita - per chi, in senso particolare; e come, entro i termini della convivenza politica, in senso generale, - quali, per l'uomo comune - per chi non è sapiente - i precetti e le regole da seguire (IV libro). Pur- troppo il rapido sunto dato da Stobeo e la frammentarietà degli Accademici di Cicerone - nei quali, sembra, si doveva trattare anche l'aspetto dell'etica di Filone - non permettono di renderei conto se sul piano pratico e accettando una verosimile ipotesi, che potesse inter- pretarsi in chiave platonica, Filone abbia proposto l'ipotesi stoica del- l'ordine entro cui tutto si scandisce ed entro cui ciascuno deve assu- mere il posto che gli spetta. Tale sembra l'interpretazione di Numenio (in Eusebio, Praep. ev., XIV, 9, l) e di Agostino (Contra Ac., III, 18, 41), i quali sostengono che Filone dapprima nemico giurato degli stoici, sarebbe poi passato allo stoicismo (Numenio), riducendo lo stoicismo a platonismo (Agostino). Senza dubbio Cicerone (Varro e Lucullus), discorrendo dell'aspro conflitto che sarebbe scoppiato tra Filone e An- tioco di Ascalona, fa intravedere questo passaggio di Filone. Ad ogni modo, interessante sembra la notizia (Cicerone) che Filone avrebbe particolarmente sottolineato l'utilità pratica della piu generale tési stoica dell'ordine, quando da Atene (nell'88. circa, all'epoca della prima guerra Mitrìdatica) passò a Roma (da dove non si sarebbe piu mosso, e dove forse mori nel 79 circa), entrando in diretto. contatto con gli uomini che in quel tempo conducevano la politica romana. Secondo Cicerone, Filone, dopo essere giunto a Roma, scrisse un'opera in due libri, che pervenuta nelle mani del suo ex scolaro Antioco di Ascalona che, allora, si trovava ad Alessandria, ne suscitò grande indignazione. Mentre ero proquestore ·ad Alessandria - fa dire Cicerone a Lucullo, che fu appunto ad Alessandria come proquestore nell'87, - con me era Antioco, egià prima di noi era giunto ad Alessandria Eraclito di Tiro, amico di Antioco, che per parecchi anni aveva studiato sotto Clitomaco e Filone: egli fu uomo di valore e celebre in questa filosofia, che, quasi abbandonata, torna oggi alla ribalta. Spesso ho ascoltato Antioco discutere con lui, ma, sempre, dall'una e dall'altra parte con dolcezza. Fu proprio allora che i due libri di Filone, recentemente portati ad Alessandria, per- vennero per la prima volta, tra le mani di Antioco. Quest'uomo, per na- tura dolcissimo (nulla avrebbe potuto essere piu mite di lui), violentemente si arrabbiò. Me ne sorpresi, ché fino ad allora non l'avevo mai visto in quelle condizioni. Appellandosi alla memoria di Eraclito, gli domandava se quei libri gli sembrassero di Filone, o se ma:i avesse ascoltato aualcosa di simile, sia da Filone, sia da qualche altro accademico. Eraclito diceva di no, ma riconosceva lo stile di Filone, né era possibile dubitarne. Erano presenti anche gli amici miei P. e C. Selio e Tetrilio Rogo, uomini dotti, i quali assicuravano di avere ascoltato a Roma sostenere quegli stessi prin- cipi da Filone, e che avevano copiato i due libri dal manoscritto dell'autore. Antioco trattò allora Filone ancora peggio e alla fine non poté tenersi dal pubblicare contro il suo maestro un libro intitolato Sosus (Cicerone, Lucullus, IV, 11-12). Antioco, nato ad Ascalona in Palestina (cfr. Strabone, XVI, 2, 29), tra il 140 e il 130 (di circa venticinque anni piu giovane di Filone), venuto ad Atene in gioventu, segu(per molti anni l'insegnamento di Filone, facendo parte dell'Accademia di cui difese con zelo le tesi fondamentali, discutendo particolarmente contro la posizione stoica di Mnesarco (successo nel 110 a Panezio nella direzione della Stoà) e di Dardano. Circa al tempo in cui Filone lasciò Atene (88 a. C.) per andare a Roma, Antioco lasciò Atene per recarsi ad Alessandria. Forse era passato prima per Roma. Certo si legò di amicizia con Lucullo. Nel 79 Antioco era ad Atene, scolarca dell'Accademia, e là lo ascoltll Cicerone, recatosi ad Atene al tempo della dittatura di Silla. Nel 74, quando Lucullo fu nominato console e condusse le truppe durante la seconda guerra mitridatica, che vittoriosamente per Roma si concluse con la battaglia di Tigranocerta (69 a. C.), Antioco segu(Lucullo in Siria. Mod nel 68 a. C. Senza dubbio Antioco, come risulta dal Lucullus di Cicerone - in cui da un lato per bocca di Lucullo si espone la tesi di Antioco, IV-XIX; e dall'altro lato si difende, per bocca di Cicerone stesso, la posizione di Filone e dell'Accademia in genere, XX-XLVII, - era passato da un atteggiamento piu strettamente critico, da una posizione vicina a quella di Carneade, di Clitomaco e di Filone (del Filone almeno del periodo di Atene) ad una posizione piu dogmatica, avvici- nandosi decisamente a tesi stoiche: anch'egli, sembra, al tempo in cui entrò in piu stretti contatti con l'ambiente romano e particolarmente con un uomo come Lucullo. La malignità di Cicerone, secondo cui alcuni avrebbero sostenuto che Antioco aveva abbandonati i suoi an- tichi amori e le tesi di Filone, quando anche lui ebbe scolari e sperll ch'essi in futuro sarebbero stati detti "antiocheni," è una malignità assai indicativa quando si pensi che i discepoli di Antioco erano soprat- tutto romani (cfr. Lucullus, XXII, 69-70). Curiosa sembra allora la rot- tura tra Antioco e Filone, se essa è dovuta, come pare, all'irritazione che Antioco provò per il passaggio da parte di Filone allo stoicismo, passaggio documentato dall'opera di Filone, scritta a Roma, giunta ad Antioco che si trO\'llva ad Alessandria. Antioco scrisse allora 11 ~osus, in cui, soprUtutto, secondo quanto riferisce Cicerone, cerca di demo- lire il motivo del "probabilismo" e della"sospensione." Gli argomenti contro la tesi del "probabile" e contro la "sospensione" ricalcano la linea con cui Zenone, Cleante, Crisippo, Antipatro di Tarso sostenevano la "fantasia catalettica" e l'"assenso" e con cui Platone, nel T~~teto, affermava che l'atto del giudizio è dovuto all'anima (Cicerone, Lucullus, VII, 19-22); ma ciò che piu colpisce è il fatto che secondo Antioco, il "probabile," l"'evidenza," non bastano per assicurare un certo fonda- mento a un certo tipo di vita, per convincere e persuadere a vivere secondo l'ordine del tutto. Ma è la conoscenza delle virtU che innanzi tutto ci assicura che molte cose possono essere percepite e comprese. In esse sole, diciamo, è la scienza: la scienza, secondo noi, è non solo comprensione degli oggetti, ma comprensione stabile e immutabile; lo stesso è per la saggezza, per l'arte di vivere, che ha in se medesima la propria invariabilità. Se tale invariabilità non implica alcuna percezione e conoscenza, io domando donde viene e come è nata... Perché l'uomo onesto s'imporrebbe (egole, anche severe, perché non tradirebbe il suo dovere o la sua fede, se non possiede alcuna comprensione, percezione, conoscenza, nulla che fondi le ragioni della sua azione? Sarebbe impossibile che si stimassero l'equità e la fede date ad un prezzo tale da non indietreggiare dinanzi ad alcun supplizio per osservarle, se non vi fosse assenso a realtà che possono essere false. Se la saggezza stessa ignora se è o no saggezza, come, prima di tutto, assumerà il nome di saggezza? E poi come oserà fare qualsiasi cosa, o agire con fiducia se non avrà nessuna idea certa da seguire? Poiché avrà dubbi sul termine e il fine dei beni, non sapendo a cosa riferirli, come potrà essere saggezza? È chiaro anche che bisogna stabilire un principio che la saggezza deve seguire, quando comincia ad agire, e che tale prin- cipio dev'essere conforme a natura. Se no, la tendenza (traduco cosf horml), mediante cui siamo mossi ad agire ed a cercare ciò che ci è sem- brato bene, non potrebbe esser messa in movimento. Ma la rappresentazione che la mette in moto deve dapprima apparire ed essere creduta vera, il che sarebbe impossibile se una rappresentazione vera non potesse esser distinta da una rappresentazione falsa. Come l'anima potrebbe essere spmta a ricercare un oggetto se non percepisse se l'oggetto che le appare è con- forme o estraneo alla natura?... Se la tesi di Filone fosse vera sopprime- rebbe interamente la ragione che è luce e fiaccola della vita. In ogni ri- cerca, è la ragione che offre il principio e che conduce la virtU al proprio bene, poiché la virtU non è che la ragione stessa fortificata da questa ri- cerca. Desiderio di conoscenza è la ricerca e scoperta è il fine della ricerca. Ma non si scoprono cose false; anche gli oggetti incerti non possono essere scoperti; si parla di scoperta quando certi oggetti ch'erano come racchiusi vengono messi in chiaro. Si comincia cos{ dalla ricerca e si finisce con la  105   percezione e la comprensione. La dimostrazione (in greco apoàèizis) è defin,ita "un ragionamento che conduce da oggetti percepiti ad oggetti che non lo erano" (Cicerone, Lucullus, VIII, 23-26). Su questa base, in effetto, si svolge tutta ·la critica di Antioco nei confronti degli ultimi Accademici e di ·Filone, per cui sembrerebbe che, alla fine, la ragione della rottura tra Antioco e Filone debba es- sere rintracciata nei due diversi modi di assumere la tesi dell'ordine: in Filone, come ipotesi probabile; in Antioco, come autentico fondamento, scientificamente determinabile, attrayer~ il procedimento conoscitivo impostato dagli Stoici. Secondo Antioco, perciò, non solo Filone; aveva tradito il suo primitivo atteggiamento, scostandosi dalla linea di Car- neade, di Clitomaco, dello stesso Carmada e di Metrodoro di Strato- Dica (ecco perché Antioco poteva dire che nel nuovo scritto di Filone,. giuntagli da Roma, non riconosceva piu il vecchio maestro), ma, assu- mendo la tesi stoico-platonica in forma ipotetica e probabilistica, distrug- geva quella stessa tesi, ché, potendo essere altrettanto probabile un'altra, tutte divenivano indifferenti, né piu, o l'una o l'altra, potevano spin- gere all'azione. Arcesilao aveva messo in discussione particolarmente lo stoicismo di Cleante (cfr. I vol.), cercando di mostrare la contradditorietà implicita nell'~ssumere la rappresentazione catalettica ad un tempo come rap- presentazione adeguata dell'oggetto che impressiona e come assenso, cioè giudizio. Posto, appunto, che la rappresentazione è di oggetti, la rappresentazione stessa non può essere giudizio, ché il giudizio si ha solo nella proposizione, e se la rappresentazione la poniamo nel senso di Cleante, evidentemente essa non è una proposizione, se mai un termine della proposizione. Impossibile l'assenso relativamente a ogni rappresentazione, ogni rappresentazione (non giudizio) si presenta vera tanto quanto ogni altra rappresentazione, per cui lo stesso giudizio che si determinerà nel costituire i nessi e le implicazioni tra le rappresen- tazioni (non a ca$0 Arcesilao fu avvicinato a Diodoro Crono e ai megarici), non potrà mai esser volto alle strutture e ai nessi in sé dd reale. Sul piano della verità, dunque, lo stesso stoico, se non vuol ca· dere in contraddizione è costretto a sospendere il giudizio, o a rima· nere in silenzio, e perciò stesso a ripiegare, nel campo morale, sul conveniente, sull'eulogon, o a rimanere inattivo. Se Arcesilao e, poi, Carneade (polemizzando con Crisippo) avevano svolto le loro discus- sioni sull'epoché per mettere in contraddizione i fondamenti della tesi stoica, senza di contro avanzare una loro propria posizione, con Metro- doro di Stratonica c con Filone si cercò di dare un valore positivo e non piu solo critico nei confronti dello stoicismo, al "probabile" carnea- 106    diano, assumendo, perché sia possibile l'azione una probabile ipotesi. E qui Antioco aveva buon giuoco: la tesi del "probabile," divenuta po- sitiva e non piu critica, poteva esser ricondotta alla prima tesi della sospensione del giudizio e perciò all'indifferenza di tutte le rappresen- tazioni, per cui si poteva ritorcere l'accusa fatta agli stoici, che cioè come gli stoici dovevano rimanere in silenzio e inattivi, cosi in silenzio e inattivi dovevano rimanere gli Accademici. Per venir meno all'una e all'altra accusa, Antioco, riallacciandosi all'interpretazione che della fantasia catalettica di Zenone aveva dato Cleante, e cioè che la rap- presentazione coincide esattamente con il rappresentato e che perciò i nessi tra le rappresentazioni ripercorrono i nessi tra le cose, giungeva, sia pur con altra terminologia (con terminologia stoica), a rifar sua la logica di tipo aristotelico, e, non rendendosi conto che, in effetto, la logica degli stoici era una logica "proposizionale" (di cui, invece, s'era reso conto benissimo Arcesilao criticando creante), riduceva il discorso stoico sulla realtà in discorso di tipo aristotelico che, a sua volta, gli faceva interpretare Platone in chiave aristotelico-stoica. Quali sono le qualità che diciamo percepite dai sensi, tali, di conseguenza, e cose di cui non si dice che sono direttamente percepite dai sensi, ma:he in un certo qual modo lo sono: "questa cosa è bianca, quella dolce, ~uesta emette suoni, un'altra è odorosa, altra ancora è aspra": tutto ciò lo afierriamo con un atto di comprensione dell'anima, non mediante i sensi. E poi: "è un cavallo, è un cane." Poi si passa, per il resto, ad una serie ~he collega insieme i caratteri piu salienti, come quelle proposizioni che abbracciano una percezione completa di realtà: "se è uomo, è animale mor- tale partecipe di ragione." Di questo genere sono le nozioni delle realtà impresse in noi e senza di cui ogni intelligenza, ogni discussione, ogni problema sono impossibili. Se tali nozioni (in greco ennoiaz) fossero false o impresse in noi in rappresentazioni tali che le vere non potessero essere distinte dalle false, come potremmo usarne? Come potremmo vedere quel che si accorda e quel che non si accorda con una cosa? E alcun luogo sarebbe lasciato alla memoria, che tuttavia è di fondamento, a un tempo, non solo della filosofia, ma di tutta la vita e di tutte le arti..Come potrebbe esserci, infatti, memoria di cose false? Ci si ricorda di ciò che non si è \'eracemente afferrato con l'anima?... (Cicerone, Lucullus, VII, 21-22). Antioco cosi, poiché il criterio stoico dimostrava, secondo lui, la coincidenza tra strutture della ragione e strutture della realtà, cui si giunge mediante le percezioni, sosteneva che, in effetto, gli stoici ave- vano servito, approfondendo la genesi del processo conoscitivo, a dar conto della tesi platonica, secondo cui l'ordine del tutto è razìonale e coincidente con le strutture del pensiero, onde l'indirizzo dato all'Ac-  107   cademia da Arcesilao prima (media Accademia), aveva cosutulto un vero e proprio tradimento del piu genuino pensiero di Platone, che, ora, Antioco, attraverso gli stoici e i peripatetici, voleva restaurare in funzione anche della vita associata e della moralità, non a caso rial- lacciandosi a Senocrate, Crantore, Polemone. Sembra allora chiaro, di qui, come Antioco interpretasse le tesi platoniche del tutto ordinato e dell'"anima mundi" (Timeo) e la tesi aristotelica della realtà tutta in atto, nel suo scandirsi in atto-potenza- atto, sulla linea di Zenone-Cleante, accantonando, d'altra parte, in questa, a sua volta, interpretazione dello stoicismo in chiave platonico-aristo- telica, certe tesi piu propriamente stoiche, come quella della confliJgra- zione, probabilmente anche per influenza degli stoici Boeto di Sidone, Zenone di Tarso, Diogene di Babilonia (la stessa attività divina che farebbe dopo la conflagrazione? E ammessa la conflagrazione, non ammetteremmo corruttibile l'incorruttibile divinità?: cfr. Filone l'Ebreo, De aeternitate mundi, 54), ma derivandone, attraverso le conces- sioni fatte proprio dagli ultimi stoici al rigidismo morale primo, una propria interpretazione dell'imperativo stoico: "vivi secondo natura." E ora, entro il quadro che siamo venuti delineando, assume un suo particolare significato l'esposizione che per bocca di Varrone, Cicerone (Varro) fa della posizione di Antioco, che scaturisce dall'interpreta- zione che ·Antioco dava della vecchia Accademia, di Aristotele e degli Stoici. Per influenza di Platone, vasto, diverso, ricco, si costitu{ una forma di filosofia una e identica sotto una doppia denominazione, cioè la filosofia degli accademici e quella dei peripatetici. Essi, d'accordo sul fondo delle cose, non differiscono che per il nome. Infatti, se Platone lasciò, per cos{ dire, l'eredità della sua filosofia a Speusippo, figlio di sua sorella, i suoi discepoli piu brillanti per il sapere e per la dottrina furono Senocrate di Calcedonia e Aristotele di Stagira... Gli uni e gli altri, completi della fe- condità di Platone, formarono un sistema ben determinato, ricco e com- piuto ad un tempo. Accantonarono il socratico dubbio esteso a tutte le cOse e la consuetudine di Socrate di discutere senza nulla affermare. Cosf av- venne ciò che Socrate non approvava affatto, che cioè la filosofia si costituf in un'ane, in un ordine delle cose (ordo rerum), in una dottrina (descrip#o disdplinae). In principio tale filosofia fu unica, anche se sotto due nomi, ché non vi era alcuna differenza tra i peripatetici e l'antica Accademia... Stabilivano la stessa distinzione tra ciò che si deve ricercare e ciò che si deve sfuggire. Triplice fu la ragione del filosofare ricevuta da Platone: la prima trattava della vita e dei costumi; la seconda della natura e delle cose occulte; la terza del ragionamento e del giudizio che discerne il vero dal falso, i termini giusti da quelli che non lo sono, l'accordo e la repu- gnanza dei termini. Nella prima parte, per apprendere a ben vivere, ci si rivolgeva alla natura, ci si raccomandava di obbedirle: in nessun'altra cosa, se non nella natura, va ricercato quel sommo bene, cui debbono riferirsi tutte le nostre azioni~ Stabilivano che l'estremo termine delle cose da desiderare, il fine dei beni, consiste nell'aver ricevuto dalla natura tutto ciò che è necessario all'anima, al corpo, alla vita. Dei beni del corpo, poi, ponevano gli uni nel complesso, gli altri nelle parti: nel complesso la salute, la forza, la bellezza; nelle parti l'integrità dei sensi e i vantaggi collegaù a ciascuna delle parti del corpo, come l'agilità per i piedi, la forza per le mani, la chiarezza per la voce, e per la lingua chiara scansione dei suoni. Dicevano beni dell'anima tutto ciò che serve a far penetrare la virtu nell'ingegno, e riferivano gli uni alla natura gli altri ai costumi. Della natura ritenevano proprie la prontezza nell'apprendere e la memoria, ambedue dipendenù dall'attività della mente e dell'ingegno. Ai costumi attribuivano i nostri interessi, e, per cos{ dire, le nostre consuetudini, le quali in parte si for- mano con un assiduo esercizio, in parte con la ragione... Tali sono, dunque, i beni dell'anima. Quelli della vita (terza specie) consistono in certe ag- giunte che possono facilitare la praùca della virtu. Infatti la virtu (del- l'anima e del corpo) si mostra anche ill" alcuni vantaggi che non dipendono tanto dalla natura, quanto da una vita felice. Affermavano perciò che l'uomo è membro della città e del genere umano, è cioè unito ai suoi simili mediante il vincolo dell'umanità. Ecco ciò che pensavano del sommo e naturale bene, cui riferivano tutti gli altri beni che servono ad accrescerlo o a conservarlo, sf come le ricchezze, la potenza, la gloria, la grazia. In tal modo ponevano tre specie di beni... Questa teoria comprendeva l'ob- bligQ di condurre una vita attiva e la fonte del dovere stesso: in altri ter- mini, raccomandava di obbedire ai precetti della natura... Della natura poi (questo seguiva) dicevano ch'essa va ricondotta a due principi: l'uno efficiente, l'altro, per cosi dire, che si offre all'azione modifi- catrice del primo. Nella causa efficiente, vedevano una forza; l'oggetto sot- tomesso alla sua azione era una specie di materia. Ad ogni modo non concepivano l'una senza l'altra, ché le parti della materia non sarebbero coerenù se non fossero trattenute da una qualche forza, e la forza non può trovarsi fuori della materia, poiché tutto ciò che è deve essere in qualche parte. Tale unione dei due principi la chiamavano corpo, o qua- lità. Di queste qualità le une sono primarie, le altre derivate da queste. Le qualità primarie sono uniformi e semplici; quelle che ne derivano varie e, diciamo, multiformi. Cosi l'aria..., il fuoco, l'acqua e la terra sono qualità primarie;. da esse sono scaturite le forme degli animali e di tutte le cose che la terra produce. Per ciò si chiamano principi e, per tradurre il termine greco, elementi. Ve ne sono due, l'aria e il fuoco, che hanno in sé forza motrice ed efficiente; le altre, cioè l'acqua e la terra, ricevono e patiscono in un certo qual modo l'azione di questa forza. Aristotele poneva un quinto elemento di cui erano formati gli astri e le anime, avente una sua essenza e che differisce dalle quattro di cui sopra. Ma subietta a tutte le modificazioni suppongono una certa materia non  109   avente alcuna specie e sprovvista di qualità, di cui tutte le cose sono espres- sione, di cui tutte sono fatte, sostanza di tutti i fenomeni, che può essere modificata in tutti i modi e in tutte le sue parti: donde segue che, per essa, perire non è affatto annièntarsi, ma scomporsi nelle sue parti, che possono essere tagliate e divise all'infinito, poiché nulla v'è in natura di s{ piceòlo che non possa essere diviso. Aggiungono che i corpi che sono mossi percor- rono intervalli ugualmente divisibili all'infinito. Da tal moto e dalla materia sorgono i fenomeni che abbiamo chiamati qualità], che, nella natura giustapposta e continua, hanno formato il mondo con le sue diverse parti. Fuori del mondo non v'è alcuna particella di materia, nessun corpo. Chia- mano parti del mondo tutti gli esseri di cui si compone e che sono tenuti insieme dalla natura senziente, in cui risiede la ragione, che eternamente dura, poiché nulla vi è di pio forte che possa distruggerla. Dicono che questa forza è l'anima del mondo, essa stessa mente e sapienza perfetta: questo chiamano Dio, questa specie di prudenza che veglia su tutte le cose sottoposte al suo comando, che ha particolar cura del cielo e che, sulla terra, si occupa anche delle faccende umane. Talvolta chiamano questa forza necessità, perché nulla può essere altrimenti da ciò che mediante essa si è costituito, nella catena, per cos{ dire fatale e immutabile dell'ordine eterno. Altre volte, invece, la chiamano fortuna, poiché produce quell'in- sieme di effetti inattesi, che l'oscurità delle cause e la nostra ignoranza impediscono di prevedere. Peripatetici e accademici trattano quindi la terza parte della filosofia, la parte che ha per oggetto la ragione e la dialettica. Benché sorga dai sensi, il giudizio di verità non risiede nei sensi. Ritenevano che la mente fosse giudice delle cose: la consideravano come la sola degna d'essere creduta, perché solo essa contempla ciò che, sempre, è semplice, uniforme e tale quale è. Questa essi chiamavano idea, sull'esempio di Platone (e tale termine noi postiamo esattamente tradurlo con spedes) La scienza, secondo questi filosofi, non riposa che sulle nozioni dell'anima e sui ragio- namenti. L'opinione sulle sensazioni non illuminate dalle nozioni]. Per questo approvavano le definizioni delle cose, e le usavano in tutte le que- stioni controverse. Approvavano anche le spiegazioni delle parole, cioè le ragioni per cui un certo termine era stato applicato a un certo oggetto,. il che chiamavano etimologia. Infine, prendendo per guida gli argomenti, quasi segni infallibili delle cose, giungevano alla prova e alla conclusione di ciò che volevano chiarire. In questo consisteva tutta l'arte della dialettica, l'arte in virtU della quale la ragione deduce conseguenze. Insieme alla dia- lettica, quasi frontalménte ad essa, facevano progredire l'arte oratoria, che consiste nello sviluppare tutto il seguito di un discorso composto in modo da persuadere..• [Chiarite le modifiche apportate da Aristotele e da Zenone di Cizio, si conclude, affermando]: penso come il nostro amico Antioco, che cioè nella fil~fia di Zenone va veduta una leggera riforma della vec- chia accademia piùttosto che una nuova dottrina (Cicerone, Van-o, IV-XII). Varrone, Cicerone e la funzione della cultura A parte Antioco, o chi per lui, il testo di Cicerone sopra riportato non ha tanto importanza se considerato a sé, quanto perché in esso è chiaramente delineata una concezione che sembra oramai divenuta comune, e che, indipendentemente dalle singole discussioni delle scuole. su singoli argomenti ed aspetti, assume significato in quanto viene a costituire un sistema di sfondo, una visione abbastanza generale e ge- nerica (divinità, ordine.dei cieli, mondo nella sua totalità, uomo e uomo che in quell'ordine del tutto trova i principl, la regola della vita) che serva da prima ed elementare cultura. Si capisce come qui giuo- cassero, di là dai loro contesti, testi singoli di Platone (dal Sofista al Timeo), dell'Epinomide, del primo Aristotele, gli aspetti pio generici della fisica stoica, in un tutt'uno abbastanzà· coerente che costituiva questa specie di religione cosmica entro cui dare forma all'ideale di un certo tipo di vita, proprio della classe colta e' dirigente. È stato giustamente detto che tale religione del Mondo trascende ormai le dottrine di scuola per ~ivenire il bene comune di ogni per- sona che abbia partecipato della b "paideia" greca: "oggi, diremmo, che abbia seguito il suo bravo corso scolastico" (Festugière, La révélation d'Hermès Trismegiste, II, p. 343). Non solo, ma non poco in- dicativo sembra il fatto che tali sintesi (di cui già in Cicerone si riflette l'esposizione manualistica da un lato, dall'altro lato la presentazione per argomenti) siano state compilate dai loro autori quando, usciti dai propri diretti impegni nelle loro singole scuole, sono entrati in contatto con la classe colta e dirigente del mondo romano, rispondendo evidentemente a ben precise richieste e.dando ad esse. chiarificazione e consapevolezza, in un arco che va da Polibio a Panezio ad Antioco e Filone. Per altro verso, invece, in seno alle scuole (particolarmente di Atene: Accademia, Stoà), si discutevano singoli problemi, donde il nascere, poi, ad uso delle scuole stesse, di manuali in cui - ad esempio per la scuola stoica - si elencavano questioni di morale, modi diversi di vita a seconda delle singole situazioni, sistemazioni delle ricerche della scuola sul linguaggio e sulle tecniche del dire (cfr. Diogene di Babilonia, Antipatro di Tarso, Cratete di Mallo, che insegnò a Per- gamo), introduzioni generali alla. stessa dottrina (cfr. Apollodoro di Sdeucia); oppure - per l'Accademia e ad uso delle discussioni - si elencavano le opinioni diverse intorno alle piu varie questioni, le ptolte sentenze da sottoporre a problemae cos1 via (si cfr., ad esempio, il sopracitato Clitomaco). Tutto ciò, fuori dalle singole scuole, fuori da precise problematiche che rispondevano a specifica preparaziOne, as- "sunse entro l'àmbito della cultura romana, la funzione da un lato di  lll   introduzioni generali, dall'altro di manuali utili alla preparazione sulle singole materie. E quando si pensa alla classe che in Roma aveva in mano le redini del governo e al modo di funzionare della politica romana (non si scordi l'importanza che ebbero anche i processi), ci rendiamo conto del perché la maggioranza di questi manuali, di cui è rimasta me- moria, o siano manuali d'introduzione (dacxyoylj, eisagoghè} alla filosofia (intesa come concezione culturale generale) o manuali di retorica, di dialettica, o esposizioni di una certa· serie di opinioni o sentenze su singoli problemi (non a caso in quest'epoca, 1 a.C., si formarono i cosiddetti Vetusta Placita, una epitome in sei libri delle Opinioni dei fisici di Teofrasto, che sembra siano usciti dalla scuola di Posidonio), o manuali di morale e di casistica morale (si vedano sopra i titoli delle opere di Ecatone di Rodi) cui vanno aggiunti, entro i termini di una preparazione generale, manuali divulgativi intorno alle singole scienze (particolarmente di astronomia, di agricolt_ura, di storia naturale), cui potevano servire i clo~ti acquisiti e le si~gole ricerche dei grandi scien- ziati del m e del u secolo. E se è vero che tali Introduzioni e Manuali servivano già per i giovani greci, che venendo alle scuole di Atene, di Alessandria o di Pergamo, non aspiravano certo a loro volta alla professione dei loro maestri, ma a formarsi, appunto, una cultura ge- nerale che servisse poi loro ad aprirsi l'accesso ai posti che offriva l'amministrazione dei singoli regni, ciò è tanto piu vero per i giovani romani avviati alla carriera politica, nel disfacimento di quei regni stessi. Le discussioni svoltesi in seno all'Accademia e alla Stoà, partico- larmente in quest'ultima, per ciò che riguarda i modi di vita, le posi- zioni di Panezio, di Posidonio, di Filone e di Antioco, le introduzioni e i manuali, le dossografie e le esposizioni di singole questioni, si ri- flettono in Cicerone.2 Chiaramente, anzi, attraverso gli aspetti piu 2 Di antica famiglia di possidenti, appartenente all'ordine dci cavalieri, Marco Tullio Cicerone nacque ad Arpino, in un'antica villa dci suoi antenati, il 3 gennaio dd 106 a. C. Giovanissimo, insieme al fratello Quinto, Marco Tullio Cicerone fu condotto dal padre a Roma pcrch~ vi avesse la migliore istruzione. Sotto la guida dell'oratore Lucio Licinio Crasso ebbe a insegnanti i maggiori maestri greci allora in Roma. Avuta nel 90 la toga virile, CiccJ:one prese pane alla guerra Marsica, comandata da Pompeo Strabone. Tor- nato a Roma prosegui i suoi studi sotto la guida di Filone di Larissa, scolarca dell'Acca- demia in Atene fino all'88, stabilitosi a Roma dopo 1'88, c sotto la guida del retore Molonc di Rodi, mentre, in casa, aveva come precettore lo stoico Diodoto, che in casa di Cicerone moti nel 49 a. C. Ristabilitosi con Silla dittatore un relativo ordine, Ciocrone si dette alla carriera oratoria, trattando cause civili c subito dopo penali. Dell'SI ~ l'ora- zione a favore di Publio Quinzio, dell'SO l'orazione a favore di Sesto Roscio accusato di parricidio. Preoccupato per avere difeso Sesto, contro le accuse di Crisogono potente libcrto di Silla, Cicerone si allontanò da Roma, per un viaggio di "perfezionamento" 112    problematici deil'opera di Cicerone, si delineano alcune grandi conce- zioni, entro il quadro di quelle visioni d'insieme, di cui parlavamo, e che, appunto mediante le discussioni delle Scuole, i manuali, le in- in Grecia. In Atene ascoltò lo scolarca dell'Accademia, Antioco di Ascalona, successo a Filone di Larissa, il retore Demetrio Siro, gli epicurei Fedro e Zenone. Lasciata Atene, visitò le scuole di retorica in Asia e fu, quindi, a Rodi dove s'incontrò di nuovo con Molone di Rodi e dove conobbe Posidonio. Nel 77 era di nuovo a Roma, "non solo piu esercitato, ma quasi mutato" (Brutus, 89 sgg.). Cicerone, che nel frattempo aveva spo· sato Tercnzia, tornò alla carriera oratoria. Nominato questore nel 75, ebbe la provincia Lilybacum in Sicilia, che tenne con molta abilità e moderazione. Ritornato a Roma, nel 71 intentò il celebre processo contro Verre che nei suoi tre anni di pretura siciliana (73-71) 11veva saccheggiata la provincia. Nel1.69 fu eletto edile curule, nel 66 pretore urbano. Disse allora la sua prima orazione politica (D~ imperio Gnaei Pomp~i). Nd 63, insieme a Gaio Antonio fu eletto console, con l'aiuto degli ottimati, difendendo poi il partito degli oligarchi contro quello dei popolari e di Cesare, con quattro orazioni contro il disegno di legge agraria proposto dal tribuno della plebe Rucio Servilio Rullo. Fu poi la lotta contro Catilina e la lotta a favore di Murena. Se è vero che durante il suo con- solato Cicerone aveva reso grandi servigi al partito degli ottimati, è altrettanto vero, come è stato detto, ch'egli aveva abusato del potere mandando a morte cittadini romani senza regolare giudizio. Avvenuto l'accordo di Pompeo con Cesare e Crasso (80), Cice- rone si trovò isolato, sotto l'accusa di Publio Clodio, che passato ai plebei, nella sua qualità di tribuna della plebe, nel 59 promosse una legge contro coloro che avevano fatto uccidere un cittadino romano senza regolare condanna. Cicerone allora (marzo 58) si allontanò da Roma,. mentre Clodio faceva decretare l'esilio di Cicerone e l'ordine di distruzione della sua casa di Roma e delle ville di Tuscolo e di Formia. Cicerone si recò a Brindisi, a Tessalonica e quindi a Dirrachio. Nel 57, il console dell'anno, su proposta di Pompeo, revocò l'esilio di Cicerone, sostenendo ch'egli aveva agito per il bene della Repubblica. Cicerone tornò a Roma in trionfo, pronunciò ~razioni di ringraziamento dinanzi al Senato e al popolo e riusd a farsi ricostruire a spese pubbliche le sue case. Legato a Pompeo, Cicerone che non era piu appoggiato dal Senato, cercò da ora in poi, appoggi e forza presso i potenti dell'ora, difendendo amici e fautori, accusando nemici c gente che potevano metterlo in pericolo. Con molta intelligenza e moderazione resse il proconsolato in Cilicia nel 51. Tornato nel 50 a Roma si trovò in piena lotta tra Pompeo c Cesare. Titubante dapprima, si decise poi a seguire Pompeo c fu con lui in Oriente. Malato, non combatté a Farsaglia (48) e, dopo la fuga di Pompeo, rifiutato il comando della flotta, si recò a Brindisi, dove attese Cesare. Appena Cesare sbarcò (47), Cicerone gli andò incontro. Cesare smontato da cavallo si accompagnò a Cicerone. Tornato a Roma si ritirò dalla vita politica. Ucciso Cesare nel 44, Cicerone pronunciò in Senato un'orazione in favore di una pacificazione c di un'amnistia generale. Marco Antonio invece eccitò il popolo contro i congiurati. Anche Cicerone fu costretto a fug- gire d" Roma. La sua lotta contro Antonio è affidata alle celebri Filippiche. Giunto a Roma Ottavio, che assunse, in qualità di crede di Cesare, il nome di Cesare Ottaviano, Cicerone tornò a Roma sperando che Ottaviano salvasse la Repubblica, mantenendo la sua linea politica di difesa del Senato e degli Ottimati. Ma Ottaviano si accordò con Antonio e Lepido, proclamandosi triumviri uipublicae costituendae per cinque anni, riserbandosi ciascuno il diritto di proscrivere i propri avversari. Cicerone fu proscritto da Ant<.onio. Fuggito da Rom.., si rifugiò nella sua villa di Astura presso Gaeta, ovc raggiunto da sicari di Antonio, venne ucciso il 7 dicembre del 43. Se le orazioni di Cicerone, seguite cronologicamente segnano le tappe della sua attività politica, le altre opere di lui segnano l'arco su cui si venne scandendo il suo pensiero, i momenti diversi della sua problcmatica e dei suoi fini, di cui specchio sono le stesse tecniche oratorie di volta in volta usate. In realtà impossibile è una divisione  113   traduzioni, si c9stituiscono in funzione di certe esigenze proprie del mondo romano. E quando diciamo mondo romano, non intendiamo qualcosa di compatto. Tutt'altro: un mondo culturalmente in fieri, delle opere di Cicerone in retoriche, filosofiche, storiche. Diamo qui, per utilità, l'elenco cronologico delle opere fisolofico-retoriche e delle orazioni. IOpt!re retorico-filosofiche Traduzione dell'Economico di Senofonte (85 a.C.: ne restano alcuni frammenti); traduzione dei Fenomeni di Arato (84 circa: ne restano alcuni frammenti); De inven- tione rhetorica (80: in 2 libri; tentativo di sistemazione delle tecniche retoriche); De Oratore libri 111 (55: si dà, oltre alle tecniche, valore alla cultura in un solo nesso di filosofia e di eloquenza); De Republica (in 6 libri, composto tra il 54 e il 51: doveva includere 9 libri. Il dialogo si suppone avvenuto nel 129 ed ha per principali interlo- cutori Scipione Emiliano e C. Ldio. Resta una parte del VI libro, andata sotto il nome di Somnium Scipionis; possediamo inoltre citazioni e riassunti di Lattanzio e di S. Ago- stino, alcuni frammenti scoperti da A. Mai in un palinsesto vaticano. Nel l libro dopo avere discusso della natura dello Stato e della sua origine, e dopo aver passato in rassegna le tre forme di reggimenti politici tradizionali, monarchia, oligarchia, democrazia, e delle loro degenerazioni, si sostiene che ottima è la costituzione romana; nel n libro si fa vedere come si è realizzata la costituzione di Roma; nel III libro si dimostra che non c'è Stato senza giustizia; nel IV libro si chiariscono i fondamenti istituzionali senza di cui non vi sarebbe vita morale; nel. V libro si delinea quale debba essere la figura dd reggitore, del rector rerum publicarum; nel VI libro si doveva· definire il princeps: ne è un saggio il somnium Scipionis); De Legibus (composto tra il 53 e il 51, fu pubbli- cato, sembra, nel 46; doveva essere in 5 o 6 libri; ne restano 3. Il dialogo si finge tenuto ad Arpino, nel 52, presso il fiume Fibreno e il fiume Liri; principali interlocu- tori sonò lo stesso Cicerone, il fratello Quinto e Attico. Nel I ·libro si discute e si defi· nisce il diritto naturale e il significato da dare alla legge; nel Il libro si dichiara che le leggi civili debbono avere a loro fondamento le leggi naturali; si discutono poi le leggi religiose; nel III libro si discutono le leggi dei magistrati; il IV e il V libro dove- vano trattare dei giudizi e dell'educazione); Brutus o De claris oratoribus in un libro (composto nel 46: il dialogo, che ha per principali interlocutori Cicerone stesso, Bruto e Attico, è una specie di storia dell'eloquenza romana, culminante in Antonio, Crasso e Ortensio); Orator (del 46: vi si delinea il ritratto dell'oratore perfetto secondo Cicerone, filosofo ed oratore ad un tempo); De optimo gent!re oratorum (del 46: è un'introdu- zione alle traduzioni latine, andate perse, che Cicerone fece dell'Orazione di Eschine contro Ctesifonte e dell'Orazione di Demostene per la Corona); Paradoza Stoicorum (del 46: elenco di tesi retoriche tratte da tesi stoiche in funzione di discussioni sulla morale); Hortensius (perduto, ma noto fino all'xi secolo: ne restano frammenti e testi· monianze. Doveva essere una specie di grande introduzione alla filosofia inspirantesi al Protrettico di Aristotele. Servi nelle scuole eome introduzione alla filosofia. Fu composto, sembra, tra il 46 e il 45); De partitione oratoria (45 circa: opera a carattere tecnico e istituzionale); Consolatio (perduta: ne abbiamo qualche frammento citato da Cicerone stesso e da Lattanzio. Fu sc:Ìitta nel 45 per consolarsi della morte della figlia Tullia); Academici libri (Cicerone ne stese due redazioni: gli Academica priora in 2 libri e gli Academica posteriora in 4 libri; degli Academica priora il l libro, o Catulus, è per- duto, il n libro, o Lucullus, si è salvato; degli Acllliemica posteriora si è salvato il l libro, o Varro; abbiamo alcuni frammenti e testimonianze degli altri libri. Furono scritti nel 45. Vi si espone criticamente la storia del pensiero degli Accademici e in pa'licolare il pensiero di Filone di Larissa e di Antioco di Ascalona); De finibus bonorum et malorum libri V (dd 45; in tre dialoghi - il primo dialogo abbraccia il l e il n libro; il secondo dialogo il III e IV libro; il terzo dialogo il V libro. Nel l libro C. L. M. Torquato espone la tesi epicurea secondo cui il bene sta nel piacere; nel n libro Cicerone confuta la tesi epicurea; nel III libro Catone espone la tesi stoica secondo cui il bene consiste nella virtU e tutti gli altri cosiddetti beni sono indifferenti; nel IV libro 114    ove la grande espansione e le conquiste presentano problemi nuovi, economici e sociali, per cui lo stesso modo antico di governo entra in crisi, in cui la classe senatoriale e, ormai, quella degli uomini nuovi Cicerone confuta la tesi stoica sostenendo che nulla di nuovo se non nelle espressioni. hanno detto gli Stoici, rispetto ai platonici e agli aristotelici; nel V libro si espone la dottrina degli· Accademici, o meglio quella di Antioco); Tusculanae Disputationes libri V (del 45; sono una prosecuzione del De finibus; si rivolgono ad un pubblico piu esteso che non il De finibus, e, questo, forse, spiega il maggior peso dato all'ideale dd saggio stoico: nel I libro si dimostra che il saggio non teme la morte, nel II che non teme i dolori del corpo, nel III e nel IV che è alieno da ogni passione, nel V che uno è il bene, la virtu, in senso strettamente stoico); traduzioni del Protagora e del Timeo di Platone (45 circa); De natura deorum libri Ili (composto tra il 45 e il 44: nel I libro Velleio epicureo espone la tesi di Epicuro sulla divinità, confutando le tesi di Platone e degli Stoici ed esponendo le varie teorie sugli dèi da Talete a Diogene di Babilonia; Vdleio viene quindi confutato da Cotta; nel II libro Balbo espone la tesi stoica sul divino; nel III libro, di cui sono andate perdute alcune parti, Cotta confuta la tesi stoica sia relativamente alla natura degli dèi, sia al loro governo sul mondo, sia al loro inte- ressamento per gli uomini. Cicerone, infine, sostiene ch'egli attraverso la sua posizione accademica, ritiene opportuno optare per la tesi di Balbo); De senectute o Cato maior (composto tra il 45 e il 44, probabilmente finito prima del De natura deor., del De divinazione e del De fato; il dialogo si finge tenuto nel 150 tra Catone il Censore, ottantaquattrenne, Scipione Emiliano e C. Lelio, ed ha per oggetto la difesa della vecchiaia; la prima ispirazione è probabilmente dovuta al I libro della Rep. di Pla- tone); De divinazione libri Il (del 44; si riallaccia al De nat. deorum, per confutare la tesi stoica della divinazione. Il dialogo si svolge tra Cicerone e il fratello Quinto. Nel I libro si espone la storia e la critica della divinazione, implicante una ferrea ne- cessità. Quinto si dichiara favorevole alla tesi stoica; nel II libro Cicerone confuta la tesi stoica); De fato (scritto dopo la morte di Cesare, 44, nel De fato si discute a fondo la questione del rapporto necessità-libertà, rifiutando sia la tesi epicurea che quella stoica); Laelius de amicitia (del 44; il dialogo si finge avvenuto nel 129 in casa di Lelio all'indomani della morte dell'amico di Lelio, Scipione Emiliano); Topica (scritti nel 44, durante un viaggio per mare da Velia a Reggio; è un'opera di logica formale e di tecnica retorica); De officiis libri Ili (composti sulla fine del 44; vi si tratta dei doveri medi, in una rielaborazione dell'opera di Panezio intitolata IItpl "tOÙ Xct&-l)xov-ro~. Nel I libro si delinea in che consiste l'honestum, nel II in che consista l'utile, nel III si chiariscono i conflitti tra honestum e utile); perduti sono andati, oltre I'Hortensius, il De gloria e il De virtutibus, ambedue del 44. II. - Orazioni Pro Quinctio (81); Pro Seztio Roscio (80); Pro Q. Roscio (76); Pro M. Tullio (72-71: non completa); Verrine (70; dalla Divinatio in C. Verrem al Proemium actionis in Verrem alle 5 accusat. in C. Verrem); Pro M. Fonteio, Pro.Aula Caecina (tra il 69 e il 67); Pro lege Manilia o De imperio Gn. Pompei (66); Pro.A. Cluentio (66); De lege agraria contra P. Servilium, De lege agraria ad. pop. Romanum contra Rullum (63); Pro C. Rabirio (63); In Catilinam (63); Pro L. Murena, Pro L. Fiacco, Pro P. Sulla, Pro.A. Licinio.A.rchia poeta (63-62);.Ad Quirites post reditum suum (57); Post reditum in Senatu (57); Pro domo sua a d Pontifices (57); De haruspicum responsis in Senatu (56); Pro Cn. Plancia, Pro P. Seztio, In P. Vatinium, Pro M. Coelio, Pro Lucio Corn. Balbo, Oratio de provinciis consularibus (56); In L. Calpurnillm Pisonem (55); Pro T. Anneo Milone (52), Pro C. Rabirio postumo, Pro M. Marcello, Pro Q. Ligario ad Caesarem, Pro rege Deiotaro (50-45), Filippiche (14 orazioni in M. Antonium, del 44). ·si ricordano, infine,. gli epistolari ciceroniani, raccolti, probabilmente, fin dal 46, dal dotto liberto di Cicerone, Tirone (Epistolarum libri XVI ad familiares, Ep. libri XVI ad Atticum, Ep. libri Ili ad Cicer. fratrem, Ep. ad Brutum) ed alcune opere storiche e poetiche andate perdute, ma, sembra, di nessun valore.] tentano di mantenere il proprio potere o di rinnovarsi - non senza grossi contrasti interni - senza perdere le proprie prerogative, cer- cando anche, per la propria opera o la propria azione, giustifica- zioni ideali. La prima concezione, d'ordine· generale (trascendendo le singole scuole e le loro piu profonde differenze), quale appare attraverso l'opera di Cicerone, è quella delineata come di Antioco: visione di un tutto ordinato, gerarchicamente scandentesi, ove il divino è la stessa ragion d'essere che fa s(che ogni cosa si articoli all'altra, in una sola unità vivente e razionale che su tutto si diffonde (anima mundt) e per cui ciascuna cosa ha la sua ragione (l6gos). Entro questi termini, in cui si fondevano aspetti platonici (doH'ultimo Platone) e stoici (particolar- mente la dottrina del principio attivo e del principio passivo, del l6gos e dei l6goi, della provvidenza, della legge, e la possibile interpre- tazione di tali dottrine, il cui esito era una concezione legale del cosmo), e il cui arco va da Panezio ad Antioco di Ascalona, si vede bene il costituirsi di una concezione, la quale ideologicamente serv(a giustifi- care un certo modo di intendere la politica e il mos, quali vennero attuati sull'esempio di Scipione, dalla corrente senatoriale, che prese, appunto, le mosse da Scipione Emiliano. Non solo, ma tale concezione, sotto l'aspetto dell'armonia del tutto e della legalità del tutto, giustifi- cava da parte ~enatoriale l'istituzione di un certo "diritto" a diritto universale e la teorizzazione di un costume e di una libertà che veni- vano perciò assunti a costume, a bene, a libertà per tutti. Non poi molto lontana da questa, è un'altra dottrina che traspare da Cicerone, e che sembra sia stata messa a fuoco da Filone di Larissa. Identico lo sfondo e la strutturazione stoico-platonica, essa tuttavia sembra rispondere a una diversa esigenza, che rivela, di contro alla oramai sclerotizzatasi visione di certi conservatori piu rigidi, la possi- bilità di una maggiore duttilità di una discussione e convinzione che si realizzi retoricamente. Essa rivela cioè l'esistenza di gente che, pur legata alla carriera politica e alla corrente senatoriale conservatrice, si rende conto dei mutamenti avvenuti, che piu vivi sono i contrasti entro la stessa classe dirigente, nel venire alla ribalta di uomini nuovi e in una carriera politica alla quaie non si accede piu solo per nascita, ma anche da parte di chi ha rivelato le proprie capacità nei tribunali e nei processi. Pur optando per la visione di un tutto ordinato, tale strutturazione tuttavia viene assunta non come verità assoluta. Tale accettazione dogmatica, utile finché unica era la voce, diveniva estre- mamente debole, quando, in una discussione piu aperta si poteva di- mostrare che, portata alle estreme conseguenze, giungeva alla nega- zione proprio dell'azione (s(come avveniva in certe posizioni dello stoicismo) e, alla fine, all'impossibilità del discorso e, perciò, ad esau- rire la propria forza di convinzione. Di qui, invece, l'assunzione di quella tesi, e oramai comune concezione, come ipotesi, come verità pro- babile: era cosr possibile la discussione, la contrapposizione di opinioni diverse, il muovere a quella piuttosto che ad altra posizione e azione, mediante le tecniche della convinzione, fino a porre quella struttura- zione del tutto e la relativa acquisita saggezza e modo di vita piu che come essere, come dover essere, come impegno di realizzazione. E allora accanto al recupero di certo platonismo, stoicismo, aristotelismo, si chiarisce il recupero di altri aspetti del platonismo, di quel plato- nismo che poteva essere interpretato, invece che come essere, proprio come dover essere, insieme al paradossale ideale del saggio stoico, anch'esso posto come dovere, onde la possibilità di una morale medi~. di una misura e di una convenienza tutte umane, che, in chi n'è ca- pace, possono servire come termini medi per raggiungere l'impossibile virtu perfetta, posta non come principio, ma come termine di realiz- zazione. Tale la via presa da Cicerone e tale il suo rifarsi a Filone di Larissa e all'Accademia, piuttosto che al rigido dogmatismo in cui era venuto sfociando Antioco di Ascalona. Se avessi abbracciato la filosofia dell'Accademia per ostentazione o per puro gusto di critica, penso che andrebbe condannata non solo la mia stol- tezza, ma anche il mio costume e il mio carattere. Ché se nelle piccole cose si biasima la pertinacia e si reprime lo spirito cavilloso, vorrei, allorché si tratta del fondamento e del fine della mia intera vita, entrare in conflitto con gli altri, o frustrare gli altri tanto quanto me stesso? Perciò, se non pensassi essere inconveniente in una tale discussione, fare quello che tal- volta si· fa quando si discutono le questioni dello Stato, giurerei per Giove e per gli dèi penati che brucio per scoprire la verità e che penso come parlo. E come non potrei desiderare di scoprire il vero, dal momento che provo gradimento se, su di un qualche punto, scopro il verosimile? Ma proprio perché giudico essere cosa bellissima contemplare la verità, ritengo vergognosissimo affermare il falso come se fosse una verità. Personalmente, certo, sono incapace di non affermare mai il falso, di non dare mai il mio assenso, di non avere mai un'opinione, ma qui si tratta del saggio. Quanto a me, faccio molte congetture (io non sono un saggio), e non mi volgo a quella piccola Cinosura [Orsa minore] "guida notturna cui si affidano i Fenici in alto mare," come dice Arato [Cic., Arat. frg. 7; cfr. Nat. deorum, 2, 106], i quali, tanto piu esattamente si dirigono, quanto piU, per la sua vicinanza al polo, "ha una breve rivoluzione," ma dirigo i miei pensieri verso I'Orsa maggiore e le chiarissime stelle di settentrione, cioè verso ragionamenti in forma larga e non minuziosamente limati. E per ciò mi capita di andare errando e di navigare nel vago. Ma, come ho detto, non si tratta di me, ma del sapiente. Quando, infatti, ciò che mi rappresento ha fortemente  scosso la mente e i sensi, lo accetto e talvolta anche gli do il mio assenso; tuttavia non lo percepisco; ché nulla ritengo si possa percepire. lo non sono un sapiente; per questo cedo alle rappresentazioni e non posso resistere loro. Arcesilao è d'accordo con Zenone, quando pensa che la piu alta forza del sapiente è di stare attento a non essere afferrato e a non essere ingan- nato. Nulla è infatti. piu lungi dell'idea che abbiamo della gravità· del sapiente che l'errore, la leggerezza, l'avventatezza (Cicerone, Lucullus, xx, 65-66). Quando scrisse gli Accademici (nel 45 a. C.) Cicerone aveva ses- santun anni. In essi, per quel che n'è rimasto (Acad. post. lib" l, Varro; Acad. prior. lib. Il, Lucullus), alla posizione piu rigida e pio dogma- tica di Antioco di Ascalona, quale, d'altra parte, si rifletteva.nella posizione di Varrone reatino e di Lucullo, si contrappone nell'inter- pretazione del probabilismo di Filone di Larissa (cfr. sopra: si veda anche: "ci sono molte cose probabili, le quali, per quanto non colte in sé, tuttavia, dandoci una rappresentazione chiara e distinta, servono a regolare la vita del saggio": De nat. deorum, l, 12; anche Tusc. disp., V, 33, 82), una piu duttile concezione, passibile d'essere assunta in funzione retorica, avente per fine un certo tipo di politica. Cicerone era oramai giunto al pieno della sua maturità. Se considerati non a sé o come semplice fonte, ma nel complesso degli scritti di Cicerone, gli Accademici hanno un particolare interesse, in quanto chiariscono il doppio aspetto di tutto il pensiero ciceroniano: da un lato l'esigenza di una concezione filosofica, di una riflessione critica che renda conto, diciamo cosr, di una "saggezza teorica"; dall'altro lato, anche mediante quella saggezza, la capacità d'inserirsi nel mondo umano, per mezzo del- l'arte del dire, sr che quello stesso mondo umano si muova, scendendo, se si vuole, a compromessi, usando tutte le tecniche della piu scaltrita retorica. Può darsi che in Cicerone non vi sia una "filosofia," com'è stato detto, che in lui coabitino piu concezioni, non poche volte in contraddizione tra di loro, ch'esse siano state desunte, volta a volta, superficialmente, dai manuali e dalle sillogi, ma è anche certo che in Cicerone si riflette la problematica di un'epoca, o meglio di una certa classe di uomini, fluida e in lotta, in una certa epoca, nel suo tenta- tivo di determinare un modo di vita, che andando oltre l'assunzione della cultura come mezzo, facesse della cultura il fine, in una sintesi di scienza e retorica, in un pensiero che è davvero tale se è azione. Non è cosr un caso l'abile ripresa del motivo aristotelico ("e cosr - esclama Cicerone, - l'uomo, secondo Aristotele, è nato per due fini, comprendere e agire, come un dio mortale -- De finibus, II, 13, 40) di una ragione teoretica, di una ragione pratica e di una ragione poietica (cfr. I vol.), ove, relativamente alla retorica, essa, avendo per campo il mondo del possibile e non del necessario, fa tutt'uno con la dialettica. Certo, per intendere la-funzione mediatrice di Cicerone, il tipo ideale di vita da lui affrescato, il significato da lui dato alla cultura e perciò al rapporto filosofia-retorica, cioè la prospettiva di una poli- tica illuminata, capace di inserirsi volta per volta nel contrasto degli avvenimenti, vanno tenuti presenti i momenti estremamente gravi della storia e della politica di Roma durante l'arco della vita di Cice- rone, dal 106 al 43 a. C. È storia troppo nota per farne cenno qui. Non vanno comunque scordate le alleanze e le rotture tra uomini in lotta, i conflitti tra i "populares" e gli aristocratici, e in seno agli aristocra- tici le lotte in nome del popolo o del senato che gli stessi aristocratici e i cavalieri ebbero tra loro, pur di assurgere al potere. Entro questi termini si vede bene il tentativo di Cicerone di ostacolare l'affermazione singolare dell'uno o dell'altro personaggio - non a caso Cice- rone fu in contrasto con Pompeo e con Cesare, - in nome di un ordine e di una legalità che conservasse quella res-publica quale si era deli- neata attraverso Scipione Emiliano, ch'era poi il tentativo di mante- nere un ordine in cui si determinasse la libertà d'azione piu che degli aristocratici o dei popolari, degli optimates. "Tutti sanno," ha scritto giustamente La Penna, "di qual largo favore godette nell'ultimo se- colo della repubblica romana lo slogan della libertas: uno slogan usato da parti opposte, con contenuto diverso e indefinito, uno slogan pluri- valente quasi quanto la libertà e la democrazia di oggi. Tutti por- tiamo dalla scuola, che spesso campa di sostrati remoti di cultura, l'immagine di Catone e di Bruto morenti per la libertà, benché a quasi tutti gli storici sia ormai chiaro che quella libertà era, in fondo, la facoltà per alcune cricche nobiliari di manipolare elezioni e magi- strature, grazie alla ineducazione politica e alla fame della plebaglia urbana, le cui esigenze vere o si manifestavano in esplosioni cieche e inefficaci o influivano in misura scarsa sulla legislazione. Ma è meno noto... che lo slogan della libertas non mor1, anzi continuò a prospe- rare sotto l'impero. Augusto attribuiva a suo merito di vindicare in libertatem rem publicam e gli imperatori successivi si proclameranno spesso vindici della libertà; nelle contese per l'impero non vi sarà contendente che non si proclami campione della libertà del popolo romano contro il tiranno. Tutto ciò è di scarsissimo interesse; piu interessante è che nel corso dell'impero lo slogan della libertas, in iscrizioni di monete e anche in qualche testo letterario, vada sempre piu accostandosi e quasi fondendosi con quello della securitas; e se- curitas è la tranqu~llità nel godimento dei propri beni, senza paura di nemici esterni, senza paura di rivolte di schiavi o di agitazioni della plebaglia rerum novarum cupida, senza preoccupazioni per la cosa pubblica, che è in alto, in buone mani. Questo processo ideologico era naturale e già chiaro nell'età augustea..." (Libertas e Securitas, "Belfagor," p. 'Zll). In effetto tutto questo era già presente in Cicerone. E ciò si chiarisce tenendo presente la situazione storica, l'autorità degli optimates messa in forse sia da certi aristocratici e cavalieri che agivano avendo per scopo un potere personale, sia dalle rivolte popolari, in una struttura sociale in cui il popolo non c'era; ma anche si chiarisce cosi la funzione data da Cicerone alla cultura, la tensione a porre, sia pur come dover essere, un ordine e una misura ideali, per muovere i quali divenivano di grande importanza tutte le tecniche retoriche, onde la retorica venne pian piano a perdere per Cicerone il significato di mèra precettistica (come ancora era nel giovanile De inventione), per assumere la funzione di costituire e di "inventare" un certo ideale e di convincere ad esso. Se non vanno dimenticati i massacri di Mario, le molte guerre civili, le proscrizioni di Silla, la politica di Pompeo, di Crasso e di Cesare, i molti processi, neppure vanno dimenticati, anche in funzione di questi stessi conflitti, della lotta fra aristocratici e popolari, i due schemi retorici che n'erano scaturiti: l'uno fondato sulla pura virtus romana, legato alla sola tradizione del "forte" popolo romano, indi- pendentemente da ogni cultura, o meglio sganciato dall'ideale di un ordine costituito, la cui visione è propria del saggio; l'altro fondato invece sulla concezione del saggio di tipo stoico, in cui alla fine la virtu si distacca nettamente dalla politica. Di qui, ora, rifacendosi a quello che col tempo era divenuto un ideale, cioè la figura di Scipione Emiliano, virtuoso perché saggio, ma saggio perché uomo d'illuminata cultura, mediante cui ordinare lo Stato verso il bene, sorge l'esigenza di delineare l~ figura dell'oratore quale uomo politico, che può indicare quello che deve essere l'ordine e il fine da realizzare, in quanto abbia una vasta cultura generale e tecnica, e perciò stesso, perché ro- mano, non solo volta a quella greca, ma anche allo studio della tra- dizione di Roma, dei suoi costumi, della sua lingua, del suo diritto. Tale, sembra, l'esigenza messa in chiaro da Cicerone. Da un lato, quindi, l'importanza di una cultura enciclopedica, ed ecco di nuovo, oltre all'interesse per ascoltare e conoscere i vari maestri delle varie scuole, recandosi anche nei centri di maggior cultura, Rodi, Alessan- dria, Atene, il significato dato ai manuali, alle introduzioni, alla discussione delle questioni, mediante cui formare la propria personalità, cioè la propria humanitas o cultura; dall'altro lato il valore che assumono le ricerche dedicate alla tradizione romana, alla sua lingua, alla sua cultura. Assume qui un preciso significato storico - di cui già ci si rendeva conto nel tempo- l'opera cosiddetta erudita di Varrone8 reatino, vissuto tra il 116 e il 27 a. C. A tale proposito, anzi, sembra avere un particolare interesse la delineazione che Cicerone fa della figura di Varrone e soprattutto della sua importanza per aver fatto conoscere ai romani la loro storia, le loro antichità, contrapponendo tuttavia a lui la propria funzione di rendere latino un aspetto della paidèia greca, costituendo i cardini di una nuova cultura.... Che Varrone ci dica quello che fa, poiché le sue Muse tacciono piu a lungo del solito. Non credo che abbia smesso di lavorare, ma penso che nasconda le cose che scrive. "Niente a~o," rispose Varrone, "secondo mc, anzi, è follia scrivere ciò che poi si 'Vuole nascondere. Ho, invece, tra le mani una grossa opera, di cui da tempo mi propongo di dedicare una 3 Nato nel 116 circa a. C. a Rieti, nella Sabina, da una illustre famiglia plebea, Marco Terenzio Varrone fu soprattutto uomo di lettere e di vastissima cultura, anche se per un certo periodo si oc:cupò di politica. Questore nell'86, legato, propretore di Pompeo nella guerra contro Sertorio (76 e seguenti), uibuno della plebe, pretore nel 68, legato di Pompeo nella guerra contro i pirati (67), Varrone vedeva in Pompeo il salvatore delle antiche tradizioni repubblicane. Addolorato per l'alleanza di Pompeo con Cesare e Crasso, segui di nuovo Pompeo contro Cesare nella Spagna ulteriore (49). Dopo Fàrsalo si ritirò definitivamente dalla vita politica attiva per darsi tutto agli studi, ma sempre in funzione di Roma. Sia pur avendo combattuto contro Cesare, sia pur avendo scritto l'elogio di Porcia, la moglie di·Catone Uticense avversario di Cesare, Cesare, al quale Varrone aveva dedicato nel 47 le Antìquitates rerum divi,..,m, gli diede l'incarico di organizzare un complesso di pubbliche biblioteche latine e greche (cfr. Svetonio, Caes., 44). Morto Cesare nel 44, Varrone rientrò tra i proscritti di An· tonio. La sua casa e la sua ricchissima biblioteca furono saccheggiate e fu in quell'oc· casione che molte delle opere di Varrone andarono perdute. Varrone si dette alla macchia e fu nascosto da amici fidati, tra cui Fufio Caleno. Amnistiato poté tornare ai suoi studi. Morl nel 27 a. C., l'anno stesso in cui Ottaviano prese il nome di Augusto. Varrone stesso, secondo Gellio, III, IO, I7, nel I libro delle Ebdomadi, scrivèva che a 84 anni aveva composto 490 libri: il Ritschl, OfJUJt:., III, 525, riprendendo l'in· terrotto catalogo dei titoli delle opere di Varrone olfertoci da S. Gerolamo e aggiun· gendo scritti citati da autori antichi· che non si trovavano nel catalogo di S. Gerolamo, arriva a citare 70 opere per un complesso di 620 libri. Di tale sconfinata opera di Varrone resta pochissimo: Libri tres rerum rustìt:iiTUm (scritti a 80 anni); sei libri dei venticinque De linpa latina; un migliaio di frammenti delle altre opere. Diamo qui un elenco dei titoli delle opere piu celebri di Varrone: Antiquitates rerum humanarum et divinarum (41 libri); Annalium libri tres; De vita populi Romani; De gente populi Romani; De Pompeio (3 libri); Legationum libri 1I1; De iure civili (15 libri); DiscipliniiTflm libri IX (1. De grammatica; 2. De dialectica; 3. De rheto- rica; 4. De geometria; 5. De arithmetìca; 6. De astrologia; 7. De musica; 8. De me· dicina; 9. De architectura); Libri tres rerum rustit:iiTflm; De lingua latina (25 libri); De poematis (3 libri); De poetis; De Jt:aenicis originibus (3 libri); De actionibus scae- nicis (3 libri); Quaestìonum Plautinarum libri V; De lectionibus (3 libri); Suationes (3 libri); Orationes (22 libri); De proprietate scriptorum (3 libri); De bibliothecis (3 libri); De similitudine verborum (3 libri); Liber de philosophia; De forma philo· sophiae libri' IIT; De principiis numerorum libri IX; Logistorici (76 libri); Saturae menippeae (4 libri); Pseudo-tragoetiiar11m (6 libri: tragedie da leggere, non da rap· presentare); Poemata (I O libri).  121   parte al nostro amico (parlava di me Cicerone); è un lavoro di una certa importanza, che sto limando e rifinendo. Varrone,  dissi io, benché da tempo aspetù questo tuo lavoro, non oso reclamarlo, ché il nostro Libone, di cui ti è noto l'affetto, mi ha detto (certe cose non si possono nascondere), che, !ungi dall'interrompere quest'opera, tu la rimaneggi con grande cura né mai l'abbandoni. C'è però una domanda che fino ad ora non mi era venuto in mente di farti; ma ora, che mi son dato all'impresa di trasmet- tere gli argomenti dei nostri comuni studi, e di illustrare in lingua laùna quell'antica filosofia che è cominciata con Socrate, dimmi, ù prego, perché tu, che scrivi tante cose, accantoni questo genere, dal momento poi che in esso eccelli, e che tale studio e tali quesùoni sono assolutamente superiori ad ogni altro studio e ad ogni altra arte?" Varrone rispose: "Tu mi parli di un progetto cui ho spesso pensato, che spesso ho agitato... Vedendo la filo- sofia trattata con una cura. particolare negli seritti dei Greci, ho ritenuto che quelli dei nostri concittadini che si sentono attratti da tali studi, se sono erudiù nelle dottrine greche, leggerebbero le opere dei Greci piuttosto che le mie; mentre quelli che non hanno gusto per le arù e le discipline greche, non si curerebbero affatto di un lavoro che non si può comprendere senza conoscere l'erudizione greca. Per questo non ho voluto scrivere opere che gl'ignoranù non potrebbero comprendere, e che i dotti sdegnerebbero di leggere. Noi poi, che rispettiamo come altrettante leggi i precetù della retorica e della dialettica (due scienze che la nostra scuola mette nel numero delle virtu), siamo costretti ad impiegare, nonostante la loro novità, alcuni termini che i dotù preferiscono cercare tra i greci, e che gl'ignoranti non vorrebbero neppure ricevere da noi. Sarebbe, dunque, un lavoro inutile. Non solo, ma tu, Cicerone, conosci la nostra fisica: essa abbraccia la forza efficiente e la materia che questa forza plasma e modifica: abbiamo dun- que bisogno anche della geometria. Infine, mediante quali termini ·si potrà esprimere e far capire i principi che concernono la vita, i costumi, ciò che si deve fuggire e ciò che si deve cercare?... (In questo campo], noi ci riallac- ciamo alla vecchia Accademia...: quanta sottigliezza ci vorrà per esplicarne le dottrinel Quale spirito e oscurità nelle nostre discussioni contro gli stoici! Tengo, dunque, per me solo i miei studi filosofici, e ne faccio, per quanto mi è possibile, la regola della mia condotta e il diletto dell'animo, d'accordo con Platone che la filosofia è il piu grande e il piu bel dono che l'uomo abbia ricevuto dagli dèi. Ma quelli dei miei amici che s'interes- sano di questi studi, li mando in Grecia, consiglio loro di andare ad attin- gere alla fonte piuttosto che ai rivi che ne derivano. Quanto alle cose che nessuno aveva ancora insegnato, e che gli studiosi non potevano trovare in nessuna parte, ho cercato, per quel che ho potuto (non ammiro granché le mie cos<:), di farle conoscere ai miei concittadini. Sono ricerche che non si potevano chiedere ai Greci, né, dopo la morte del nostro L. Elio, ai Latini. Ad ogni modo, le opere della mia giovinezza, in cui imitatore, non traduttore, di Menippo, ho diffuso qualche gaiezza, contengono certo cose riprese dal fondo stesso della filosofia e non poco dalla dialettica; non solo, ma perché i meno dotù, invitati a leggere dall'interesse dell'argomento, comprendessero piu facilmente tali questioni filosofiche, mi sono proposto di trattarle nei miei Elogi e nei proemt delle mie Antichità, se, comunque V l sono ClUSCltO. "SI," risposi, "ci sei riuscito, Varrone; stranieri nella nostra città, errànti come viaggiatori, le tue opere ci hanno, per cosi dire, ricondotti a casa, e, grazie a te, possiamo finalmente conoscere chi siamo e dove viviamo. Sei tu che ci hai rivelato l'età della nostra patria, la successione dei tempi, i diritti della religione e del sacerdozio; tu che hai esposto l'amministrazione interna, la disciplina militare, la disposizione dei quartieri e dei luoghi, tu che ci hai svelato i nomi di tutte le cose divine e umane, le specie, le fun. zioni e le cause. Tu hai diffuso luce sui nostri poeti, sulla nostra letteratura, sulla nostra grammatica. Tu hai composto un poema vario, elegante, quasi perfetto; tu, certo, hai in piu parti toccato questioni filosofiche, abbastanza per dare l'impulso, non sufficientemente per istruire..." (Cicerone, Va"o, I-III, 2-10). Varrone, per quel che ne sappiamo, fu soprattutto un uomo di studio. Forte di una certa concezione filosofica generale, senza dubbio sulla scia del suo maestro Antioco di Ascalona (cfr. Cicerone, Va"o, III, 12), applicò alle proprie ricerche sul mondo antico, greco e romano, il metodo istorico proprio della scuola peripatetica, cercando d'illumi- nare le sue ricerche intorno ai costumi, alle leggi, alla religiosità, alla poesia e alla letteratura, mediante la visione della vita e della virtu propria degli stoici, dei cinici, e, pare, in particolare di Posidonio. Ad ogni modo sembra che le molte letture, la sua curiosità di co- noscere le cose umane, attraverso i monumenti e i documenti, lo ab- biano portato, nei suoi scritti, oltre alla descrizione e alla schedatura di tutto ciò che aveva ritrovato Varrone servf agli antichi sf come un'enciclopedia - a determinare come è che l'uomo, in certe condi- zioni politiche, geografiche, sociali, culturali, costituisce certi tipi di costume, di religione, di condotta politica. Sotto questo aspetto si chia- risce come Varrone distingua, senza porre l'uno superiore o inferiore all'altro, tre tipi di teologia, corrispondenti a tre modi diversi di spie- garsi da parte dell'uomo la propria esigenza religiosa. Il discorso su dio in forma di favola (teologia favolosa o poetica) risponde all'esi~ genza del divino propria degli uomini ignoranti o incolti; il discorso sul divino interpretato come ragion d'essere del tutto o causa, natura naturans (teologia naturale), è il discorso proprio degli uomini di cul- tura (filosofi), che identificano il divino con la stessa ragion d'essere o con le possibili condizioni che rendono pensabile la realtà, quali che poi ognuno ritenga siano le strutture del tutto (Varrone accettava la tesi accademico-stoica del divino come anima mund1); il discorso sulla divinità, rispondente all'esigenza dell'uomo in soCietà (teologia civile) di trovare un criterio all'obbligatorietà della legge, può essere in con- trasto, per ragioni politiche, con la t~ologia naturale (ove molte sono le soluzioni e le interpretazioni), per cui, proprio in funzione della vita associata, secondo Varrone, i discorsi della. filosofia intorno al divino e alla natura debbono rimanere privati o chiusi in seno alle scuole, a meno ch'essi non coincidano con le strutture legali di una certa comunità, servendo anzi a rendere conto di tale legalità. Il che, per altra via, sembra spiegare il successo di certo stoicismo e di certa Acca- demia nell'àmbito della classe romana, dirigente la vita politica (cfr. per la testimonianza sulle tre teologie, Sant'Agostino, De Civitate Dei, VI, 2-5). Gli studi storico-eruditi di Yarrone su come è che l'uomo è uomo, lo portavano, d'altra parte, a sostenere che già gli studi e le dimostra- zioni dei piu grandi pensatori dimostrano che l'aspirazione naturale dell'uomo consiste nel realizzare pienamente se stesso (felicità), e che perciò l'uomo è felice, allorché attua se medesimo sia come anima sia come corpo, ché l'uomo è un tutt'uno d'anima e di corpo. Vita beata, perciò, si avrà quando "virtu" (capacità di realizzare sé eccellente- mente) e "naturalità" (ciò che è bene compiere, che è primo per natura, prima naturae) coincidono, vita piu beata (beatior) allorché si abbiano anche quei beni di cui potremmo fare a meno, b~atissima quando non manca nulla. Di qui anche si capisce perché Varrone, dei due generi di vita (contemplativa e attiva), ormai luoghi comuni della tradizione, non ritenga compiuto né l'uno né l'altro, se presi a sé, ma ritenga perfetto il genere di vita misto, la vita cioè che sia ad un tempo contemplativa e attiva, in cui l'azione scaturisca dalla rifles- sione e la riflessione sia consapevolezza critica della propria posizione nel mondo e nel mondo degli uomini. Varrone, da un lato, con la sua sistemazione del sapere, e, dall'altro lato, attraverso l'ordinamento delle sue ricerche per discipline, ebbe un'enorme influenza su tutta la cultura posteriore e sull'organizzazione degli studi. Purtroppo della sua immensa produzione - sembra abbia scritto oltre 490 libri - si sono salvati Libri tres rerum rusticarum (che scrisse a 80 anni), sei libri dei 25 De lingua latina, pochi fram- menti e non poche tracce del suo insegnamento e dei resultati delle sue ricerche in quasi tutti gli autori posteriori. Cos{ sembra che tra le opere piu lette e sfruttate siano state le Antiquitates rerum huma- narum et divinarum (in 41 libri) e gli Anna/es (in 3 libri) - certo anche il De poematis, il De poetis, il De scaenicis originibus, il De actio- nibus scaenicis, i Quaestionum Plautinarum libri V, il De jure civili, i Logistorici - mentre notevole influenza, rispetto all'organizzazione degli studi e degli insegnamenti, mediante cui costituire il curriculum che formi l'uomo, che lo liberi con una cultura fondata appunto sulle discipline liberali, hanno avuto i· Dùciplinarum libri IX, cosi suddivisi: de grammatica, de dialectica, de rhetorica, de geometria, de arithmetica, de astrologia, de musica, de medicina, de architectura. Varrone era convinto, si come il suo amico Cicerone, della impor· tanza della cultura per la formazione dei "cittadini." Solo che Cice- rone fu piu preso nel giuoco politico che non Varrone. Varrone ebbe, certo, uffici importanti (fu triumviro capitale, questore nell'86, propretore di Pompeo nel 76, tribuno della plebe, pretore nel 68, partecipò alla guerra civile dalla parte di Pompeo), ma, piu portato agli studi e alle ricerche, pacificatosi con Cesare, al quale nel 47 dedicò. le Antiquitates, abbandonò ogni velleità politica, proponendosi soprat- tutto l'organizzazione degli studi (Cesare lo incaricò di mettere in- sieme una pubblica biblioteca). Riusd a sfuggire alla proscrizione di Antonio. Purtroppo le sue biblioteche andarono completa- mente distrutte. Altro il temperamento di Cicerone. Senza dubbio piu ambizioso, egli, fin da giovane, fu attratto dalla carriera politica. Fu, anzi, in funzione di questa che Cicerone venne elaborando una concezione, che, riprendendo motivi circolanti nella cultura contemporanea, servisse a mantenere un ordine e una misura che fossero salvaguardia, nei gravi conflitti, nella lotta per il potere di singoli individui (popolari o aristocratici) - quando si tenga poi presente che in effetto non esi- steva un "popolo" - della libertas della res-publica. Studioso fin da ragazzo di retorica, in funzione di una possibile carriera politica, e degli aspetti diversi della cultura propria del suo tempo (egli ascoltò in Roma lo stoico Diodoto, l'epicureo Zenone, fu particolarmente attratto da Filone di Larissa e dal retore Apollonia Molone), preso dagli esempi di grandi oratori come Sulpicio, di giu- risti come Scevola, di uomini politici corne Cotta, della funzione, dive- nuta oramai ideale, di Scipione Emiliano, Cicerone tese per suo conto a trasformare la figura del retòre, divenuto oramai solo maestro di retorica, precettista, nell'antica figura del retore uomo politico, del- l'orator, nel senso di un Demostene, che, tuttavia, deve inserirsi in una situazione politica e sociale assai diversa, per la quale perciò si dove- vano far funzionare altri ideali, costituire una diversa concezione, alla quale potevano servire certi recuperi di Platone e degli Stoici, assunti entro i termini di una discussione dialettico-retorica delle diverse ipo- tesi elaborate nelle scuole, mediante la tecnica dei pro e dei contra, optando per quella tesi che piu sostenibile di altre (piu probabile) servisse a convincere della validità e della superiorità di un certo or- dine politico e giuridico. Per questo Cicerqne, non accettando la tesi  125   varroniana che le questioni piu strettamente filosofiche si debbano discutere in privato o nelle scuole, affermava· anzi ch'è necessario co- noscere e vagliare tutte le ipotesi, farle conoscere, latinizzarle, sf che poi, caso per caso, a seconda del conflitto politico in cui ci si trovi, mediante le arti del dire si possa convincere (duttilmente assumendo di volta in volta sia il tipo di eloquenza detta atticistica sia il tipo di eloquenza detta asianica) a quel certo ideale politico, in funzione se- natoriale, che salvi il "cittadino," la "res-publica," fondata sulla mi- sura della ragione, per cui ciascuno abbia il posto che gli compete. Di qui la paura continua di Cicerone (e il compromesso) nei__confronti di chi potesse assumere, o a nome del Senato o in nome del popolo, potere personale. - Cicerone fu pompeiana finché Pompeo si dimostrò difensore del Senato, ancora pompeiana durante la guerra civile, ché in Cesare egli vedeva il possibile tiranno e non il princeps tipo Scipione Emiliano; riti- ratosi dalla vita politica durante il periodo in cui Cesare ebbe in mano il potere, Cicerone riprese la sua attività politica alla morte di Cesare (15 marzo 44), in appoggio di Ottaviano, che gli sembrò il piu moderato, il difensore dei diritti del Senato, moderatore della "res-publica," contro Antonio. Incluso nelle liste di proscrizione allorché Antonio, Ottaviano e Lepido si trovarono d'accordo (secondo triumvirato), Cicerone fu ucciso dai sicari di Antonio nella.sua villa di Formia il 7 dicembre 43. Cicerone se da un lato appare come un conservatore, un senatoriale, dall'altro lato, certo, mediante la sua visione platonico-stoicheggiante di un tutto ordi- nato, ove tutto ha il suo giusto posto, in una ragionevale misura, ove lo stesso universo si costituisce legalmente ed ove lo stesso uomo politico per eccellenza (cfr. Somnium Scipionis) è colui che rappresentando il l6gos del tutto diviene una specie di anima mundi del mondo politico, Cicerone attraverso le sue opere,- da quelle retoriche a quelle dette filosofiche e giuridiche, ha preparato il fondamento giuridico e filoso- fico di quella che sarà la concezione imperiale-repubblicana di Ottaviano Augusto. Entro questi termini si vede bene la linea - anche cronologica - del pensiero ciceroniano, dal De inventione (85-80) al De officiis (44-43), che passando attraverso il De Oratore (55), il De republica (54), il De Legibus (52), le Partitiones oratoriae e il Brutus (46), si compie nel senso di un affinamento delle tecniche di persuasione e dello studio di quelle tecniche stesse, mediante l'Orator (46), i Paradoxa stoicorum (46), i Topica cui convincere, ponendo in discussione le varie ipotesi, per avviare - tale è per Cicerone la funzione protrettica della filosofia, e sembra che questo fosse il contenuto del perduto Hor- tensius (46) - a certi presupposti valori, dialetticamente enunciati e 126    retoricamente discussi che siano a fondamento della condotta civile quale veniva affrescata nella Repubblica e nelle Leggi (Academica, De finibus, Tusculanae disputationes, De natura deorum, Cato maior de senectute, De divinatione, De fato, De gloria, Laelius de amicitia, De otficiis: opere da Cicerone composte tutte al tempo della sua forzata inazione politica. Inutile ripetere, ora, quanto ab- biamo detto cercando di ricostruire quelle che fuorono le componenti culturali del II-I secolo a. C., e che per necessità di documentazione abbiamo rintracciato attraverso Cicerone stesso (per la concezione ci- ceroniana della legge, della r.es-publica, del decoro, dei doveri medi, del- l'honestum, dell'humanitas, del consensus gentium, cfr. sopra). Certo, con Cicerone, attraverso la dialettica (in senso soprattutto accademico-filoniano e tecnicamente stoico: "la dialettica è l'arte che insegna a distribuire una cosa intera nelle sue parti, a,spiegare una cosa nascosta con una definizione, a chiarire una cosa oscura con una interpretazione, a scorgere prima, poi a distinguere ciò che è ambiguo e da ultimo a ottenere una regola con la quale si giudichi il vero e il falso e se le conseguenze derivino dalle assunte premesse": Brutus, 41, 152), si determina il t6pos della filosofia intesa come discorso reto- rico-protrettico in funzione di una certa forma di vita civile e legale, in una opzione dell'ideale platonico-stoicheggiante di un tutto ragio- nevolmente (piu che razionalmente) costituito. Filosofia, condottiera dell'esistenza! indagatrice della virtu! vittoriosa avversaria deì vizi! Senza di te che ne sarebbe non dico della mia vita, ma di quella del genere umano? Tu hai fatto nascere le città; hai chiamato a raccolta gli uomini che vegetavano dispersi; li hai uniti nella convivenza sociale, ottenendo il reciproco rispetto tra vicini ed insegnando alle fami- glie a federarsi con patti nuziali; tu. hai rivelato agli uomini le possibilità comunicative del linguaggio e della scrittura. Hai inventato le leggi, hai suscitato le comunanze, hai dettato i doveri... Meglio vivere un giorno a norma di filosofia, che tutta un'immortalità da dissennato. E chi saprebbe aiutarci meglio di te? A te sola dobbiamo la tranquillità del vivere; tu ci hai salvato dal terrore della morte... (Tusculanae, V, 2, 5-6). E che si tratti di opzione, di un ordine posto piu che come essere coine dover essere, di un fine cui convincere e convincersi mediante la dialettica e il discorso mitico, sembra si chiarisca bene quando si tenga presente la polemica di Cicerone nei confronti della divinazione, del fato e della simpatia universale, nei termini in cui derivavano da una massiccia e naturalistico-razionale interpretazione dello stoicismo teologico. Sotto questo aspetto Cicerone sembra che rovesci la visione del tutto ordinato e necessariamente articolato in una simpatia uni-  127   versale, per cui tutto ciò che avviene, avviene come è bene che sia (Provvidenza), necessariamente (fato), onde si rende possibile la divi- nazione, ch'era visione propria di certe posizioni stoiche. La questione di come allora si possa sostenere la possibilità del libero atto umano, era questione su cui già gli stessi stoici avevano a lungo discusso (in particolare Crisippo), e su cui gli avversari avevano dato risposte opposte: e si era assolutamente negato - almeno su di un piano logico - la conciliabilità tra destino e libertà (si ricordi l’argomento principe di Diodoro Crono, che, contro Aristotele, giungeva a negare, accettato che tutta la realtà è in atto, il contingente e il possibile); oppure, negata la possibilità della conoscenza della strutturazione del tutto (Carneade) o negato che il tutto sia razionalmente costituito, sca- turendo anzi da un incontro casuale di atomi (Epicuro), si giungeva ad accantonare la questione dell'ordine in sé, per sostenere che l'or- dine e la misura sono dovuti alla stessa attività e alle iniziative umane, mediante cui si sfuggiva al cosiddetto "argomento pigro" (ignava ratio), ch'era la conclusione cui secondo i megarici (probabilmente i seguaci di Diodoro Crono) doveva giungere chi sosteneva che il tutto è provvidenzialmente e fatalmente ordinato. Se per te è destino di gua- rire da questa malattia, guarirai; sia se ricorrerai a un medico sia se non ricorrerai. Egualmente se per te è destino non guarire da questa malattia, non guarirai, sia se ricorrerai a un medico sia se non ricor- rerai. Ora il tuo destino è l'una o l'altra di queste cose, dunque non serve a niente ricorrere al medico" (Cicerone, De fato, 12, 28). Non a caso Cicerone, particolarmente nel D e fato (cfr. anche D e divina- tione), ripropone la lunga discussione sul destino e sulla libertà, pro- spettando sia le concezioni antologiche (da Crisippo a Epicuro), sia quelle logiche che negando il possibile e la libertà sul piano.logico (Diodoro), non escludono su altro piano (allorché si dimostri con Car- neade che strutture della ragione e strutture della realtà possono non coincidere) che sia possibile da parte umana volere quell'ordine che, col criterio della probabilità, si pone come termine di realizzazione, solo miticamente e idealmente posto dietro le spalle, lasciando all'uomo la possibilità di costituire quell'ordine idealmente presupposto, a cui con- vincere mediante le tecniche della persuasione. Tale sembrò allora a Cicerone - nel periodo di pace fredda con Cesare e di inazione politica diretta - la sua funzione politica ("la filosofia rimase trascurata fino ad ora, né mai brillò nella letteratura latina; dobbiamo noi darle vita e splendore, e, se nella mia attività politica io fui utile ai miei concittadini, lo sia, per quanto è possibile, anche ora che mi sono ritirato a vita privata": Tusc. disp., l, 3, 5). Nella Repubblica e nelle Leggi egli aveva delineato quale doveva essere lo stato nella sua fondazione e nella sua costituzione giuridica, tenendo presente l'ideale figura di Scipione, non imperator, non rex, ma princeps, moderatore e reggitore dell'ordine ragionevole della res- publica, si come la divinità lo è del cosmo. Ora, a quell'ordine e a quella misura si doveva convincere per altra via. Non assunta dogma- ticamente alcuna posizione o concezione già data - ad ogni posizione come tale si può opporre altra posizione, - si determina il metodo del- l'opzione per una qual certa ipotesi, a seconda della sua probabilità e del suo possibile successo in funzione di una certa concezione che serva alla vita politica e associata (Accademici). Tale atteggiamento scettico, rispetto alla struttura della realtà, portava Cicerone in una, volta a volta, rigorosa discussione ed esposizione delle tesi opposte, ad assu- mere quella certa tesi che servisse a quel certo scopo, attraverso una retorica convinzione (De fìnibus, Tusculanae disp., De natura deorum), si che l'ordine e la misura prospettati (ch'erano poi l'ordine e la misura genericamente stoici e platonici) divenissero termini di volontà, azione per combattere chi volesse rompere quell'ordine politicamente e giuri- dicamente costituitosi, in un equilibrio sociale, che, d'altra parte, esclu- deva l'accettazione supina di un ordine necessario che, alla fine, poteva portare all'indifferenza per tutto ciò che avvenisse, appunto alla pigra ragione (De divinatione, De fato, De otficiis). In effetto l'opera di Cicerone presenta costantemente due aspetti: un Cicerone piu intimo, che, in fondo, non crede in nulla, angosciato - in un'epoca in cui morire era facile, in cui le vecchie tavole dei valori erano travolte - dall'idea della morte, che attraverso il successo e l'azione e l'opera personale spera nella gloria, unica eternità ("breve è la vita che da natura abbiamo ricevuto; ma se nobilmente la ren- diamo, essa lascia sempiterna memoria. Se tale memoria non durasse piu della stessa vita, chi sarebbe tanto folle da cercare, al prezzo delle piu grandi fatiche e dei piu grandi pericoli, di raggiungere la lode e la gloria- supreme?... E cosi, in cambio della. vostra condizione mortale avete ottenuto l'immortalità": Filippiche, XIV, 12, 32: e sono le ultime parole di Cicerone), che delinea per sé e per gli altri del suo gruppo, della sua classe, una specie di modus vivendi, un'etica che si risolve in un giusto mezzo di tipo aristotelico, e per cui, appunto, la virtu sta, di volta in volta, in un saper dominare se stessi e le cose con misura, con distacco, in una convenienza che si rivela fin nel tratto, nella voce, nel modo di vestire e di parlare, in un vivere civile, che si delinea alla fine in un tipo di morale da "signori," e, perciò, per cosi dire, in un "galateo"; e un Cicerone pubblico, uomo politico, orator, che, in fun- zione della classe degli optimates, tende a difendere un tipo di res- publica, e per cui, su di un piano retorico vale la pena di ricorrere  129   anche ai piu consunti t6poi dell'ordine e della misura del tutto, del- l'armonia dei cieli, delle leggi stellari, dell'influenza degli astri (non si scordi che Cicerone aveva. tradbtto parte del Timeo e i Fenomeni di Arato),.della funzione civile degli àuguri, onde per il popolo servono la teologia poetica e la teologia civile delineate da Varrone. Non a caso cosi Cicerone che, per altro verso (e perché fosse possibile l'azione da parte di chi aveva le capacità di governo, di con~ro al pericolo del tiranno o di chi assumesse potere personale), negava la divinazione il fato, ponendo l'ordine e la misura come termini di realizzazione, poteva sostenere invece nelle Leggi: Credo che effettivamente esista la divinazione, che i Greci chiamano mantica (II, 13, 32). Lo Stato e il popolo hanno sempre bisogno del con- siglio e dell'autorità degli ottimati... La istituzione e l'autorità degli àuguri è di vitale importanza per lo Stato, e dico ciò non perché io sia uno di loro, ma perché è di vitale importanza mantenere questa· opinione... C'è un privilegio maggiore della possibilità di interrompere una impresa d'interesse pubblico solo che l'àugure dica: "Un altro giorno?" C'è cosa piu meravigliosa che potere imporre le dimissioni di un console? Cosa vi è di piu religioso che poter dare o rifiutare il diritto di presentarsi al popolo o alla plebe, che potere abolire una legge ingiusta? (II, 12, 30-31). "Con Cicerone, come con Platone,".commenta il Farrington, "biso- gna sempre porsi la domanda: queste sono le parole del legislatore o del filosofo?" (Scienza e· politica nel mondo antico, trad. it., p. 217, n. 33, Milano, 1960); e prosegue: "questa era l'attività delle due piu rilevanti figure di letterati (Varrone e Cicerone) nella Roma degli anni immediatamente precedenti e seguenti alla morte di Lucrezio. Inoltre la loro elaborata teoria sul problema di salvare la società conservando e inculcando la superstizione non è un fenomeno isolato, ma è in armonia con la pratica del governo romano testimoniata da Polibio e con la teoria politica formulata dai maestri stoici della classe dirigente romana, dopo che Polibio e Panezio ebbero aperto allo stoicismo il nuovo mondo d'Occidente" (cit., p. 187). 3. L'Epicureismo a Roma. Epicurei romam. Filodemo di Gadara. Lucrezio Entro i termini della problematica ciceroniana, sembra chiaro l'at- teggiamento costantemente polemico di Cicerone nei confronti dell'epi- cureismo. Cicerone non combatte tanto l'ipotesi epicurea quale possi- bile ipotesi con cui spiegare la pensabilità del reale, quanto gli esiti a 130    cui quell'ipotesi conduce sul piano politico-sociale, particolarmente per quel che riguarda la tesi dell'ordine razionale e unico del tutto, e la tesi della religiosità della legge naturale, messe iri forse dalla filosofia di Epicuro, donde derivava anche la polemica di lui contro la cultura ufficiale, contro la superstizione usata come strumento politico, ma soprattutto la conclusione che l'uomo, ciascuno, è responsabile del pro- prio mondo, della costruzione del rapporto umano, indipendentemente da elaborate discussioni sul divino, sui processi conoscitivi, sulla dialet- tica e sulla retorica, che sembravano finire in esercitazioni puramente scolastiche. Va, dunque, ora, tenuta presente la forza rivoluzionaria dei mo- tivi dell'epicureismo e cioè il deciso sganciamento dell'uomo da un ordine precostituit.o e razionale per sé; il mondo umano costituito storicamente dagli stessi uomini entro l'arco della vita umana (e non si scordi il motivo della convenzionalità del diritto e della giustizia); la liberazione degli uomini da preconcetti e pregiudizi religiosi e teologico-politici (da cui la polemica di Epicuro contro un tipo di cultura e di politica); l'appello di Epicuro ad intendere la natura per quello che la natura è, ascoltando la "voce delle cose"; la raziona- lità dovuta alla stessa attività della ragione nella costruzione del pro- prio mondo in un equilibrio e in una misura che sono conquista e non dati; il risolversi della realtà, umanamente, nel linguaggio (per cui, poi, in effetto, semanti.camente la logica epicurea poteva coincidere, escluso che il segno evochi la cosa coincidendo con la cosa stessa, con la logica stoica del tipo di quella di Zenone di Cizio). Non solo, ma di qui anche, per i non addottrinati (Epicuro si rivolgeva a tutti, uomini e donne, non barbari e barbari), l'appello di Epicuro alla semplicità del- l'insegnamento, a dare quelle poche nozioni non contraddittorie e intui- tive sulla costituzione della realtà che rendano capace l'uomo di pen- sare con la propria testa, liberandosi da pregiudizi e paura, dal mistero della natura, di cui solo pochi eletti possono parlare (altro aspetto della polemica di Epicuro contro la cultura), e l'appello di Epicuro all'ami- cizia, all'isolarsi da un certo mondo politico, in un rapporto di uomini, che, comprendendosi, trovino nel con-vivere (amicizia) il significato di un mondo costruito dagli uomini stessi,. in equilibrio e serena armonia (cfr. per quanto sopra, vol. 1).4 4 Degli Epicurei di Atene e scolarchi del giardino dopo Epicuro sappiamo, in realtà, solo i nomi, e che seguirono e diffusero il pensiero del maestro. Ne abbiamo l'elenco dal primo scolarca dopo Epicuro al 51 a. C., anno in cui, sembra, l'Areopago di Atene concesse al romano Memmio di edificare sull'area occupata dalla Scuola di Epicuro. Essi sono: Ermarco, Polistrato, Basilide, Demetrio di Laconia, Apollodoro Tiranno del Giardino, Zenone di Sidone (morto nel 79-78, ascoltato da Cicerone),  131   Gli esiti, dunque, dell'ipotesi epicurea e ~ella propaganda epicurea preoccupano Cicerone. Egli è preoccupato perché, spezzato il pregiu- dizio (politicamente utile) di un ordine già dato, di una divinità che è legge e dell'immortalità dell'anima, mediante un insegnamento fon- dato su poche e semplici nozioni - possibili di essere comprese da tutti, - si poteva liberare il popolo dalla catena del divino e dalla paura dell'aldilà, donde ne sarebbe derivata, disancorata da una razio- nalità costituita, un'irrazionalità pericolosissima per quella res-publica difesa da Cicerone: non a caso Cicerone insiste contro gl'indifferenti dèi di Epicuro, messi "a riposo" (cfr. De nat. deorum, I, 44, 123), non pio elementi perturbatori dell'operare umano, e contro l'ipotesi dell'incontro fortuito degli atomi e del clinamen (cfr. De nat. deorum, I, 25, 69-70; De finibus, I, 6, 19), da cui secondo Cicerone deriverebbe la stessa irrazionalità del mondo umano: "Come non dovrei meravi- gliarmi," esclama Cicerone, "che vi sia un uomo capace di credere che elementi solidi e indivisibili, movendosi di propria forza e aggregan- dosi a caso fra di loro, diano origine a questo nostro mondo, pieno di tanta armoniosa bellezza? Chi crede possibile questo, non capisco perché non creda possibile ançhe che, seminando alla rinfusa una certa quantità di lettere dell'alfabeto, impresse in oro o in qualsiasi altro Fedro (ascoltato da Cicerone), Patrone (scolarca dal 70 al 51 a. C.). Cfr. oltre nel testo. Cosl, poco o nulla sappiamo della prima diffusion~:~ dell'epicureismo in Roma, sicura da prima del 173 a. C., se di quell'anno è l'espulsione da parte del Senato di due epicurei venuti dalla Grecia Alceo e Filisco (cfr. Ateneo, XII, 68, 547a; Eliano, V.v. hist., IX, 12) e dei primi epicurei romani, che avrebbero diffuso la dottrina di Epicuro in latino. Essi sono: Amafinio, Rabirio e Cazio, di cui non altro sappiamo se non ciò che riferisce Cicerone. Cfr. oltre nel testo. Durante il 1 secolo a.C. furono in Roma e nel circolo epicureo, formatosi a Napoli e a Ercolano, Filodemo di Gàdara e Silone. Nato a Gàdara, in Silia, nel 110 a.C. cilca, morto dopo il 40, non oltre il 30 (Strabone, XVI, 754), discepolo di Zenone di Sidone, venuto a Roma, Filodemo entrò in dimestichezza di Pisone e con lui, nella villa di Pisone ad Ercolano, fondò un vero e proprio eilcolo epicureo. Tra i molti libri epicurei ritrovati in papili nella casa di Pisone ad Ercolano, molti sono frammenti e testi dello stesso Filodemo. Sono pubblicati: L'ordinamento dei filosofi (andato sotto il nome di Intlez Herculanensis, comprendente un Indice degli Accademici, uno degli Stoici, uno dei Socrtllia); Su Epicwo (llcpl 'Emxoòpou) i Sulla morte (llcpl &«v<iwu) i Sugli tln (llcpl &c6iv) i Sulla religio- sitìj (llcpl ~lccç) i Sulla musica (llcpl IJ.O~) i Sugli Stoici (llcpl -r6iv:E-rtn- x6iv); Sui segni (llcpl cnJILII(c,)" X4l cnJILII~");.Atluersus Sophisttu. Molto poco sappiamo di Silone, se non che avrebbe fondato, in Napoli, un vero e proprio cilcolo epicureo, assai vivo durante la metl del 1 secolo a. C. Di lui parlano Cicerone che lo dice uir optimus et tloctissimus e Vilgilio che lo avrebbe avuto maestro a Napoli. Su di lui si cfr. Papiro Ercolanmse 312 pubblicato dal Cronert in Colotes unti Menetlemos, Lipsia, 1906. Il Papiro ercolanense l 044 dA poi alcune notizie biografiche di ·Filonide epicureo, vissuto nella prima metl del 1 secolo a.C., morto a Laodicea, e, perciò, detto di Laodicea, il quale avrebbe diffuso in Oriente l'epicurei~mo, convertendo ad esso, me- diante il peso di ben 125 ofiUScoli (~T«) il re Antioco Epifane. ] metallo, queste si disporrebbero in terra in modo da comporre lcggi- bilmcnte il testo degli Annali di Ennio. Non so davvero se il caso riu- scirebbe a tanto da formare un solo verso. Ma se il concorso degli atomi è da tanto, che dà origine a un mondo, perché non dovrebbe dare ori- gine anche a tante altre produzioni meno faticose c meno complicate, come un portico, un tempio, una casa, una città? Mi pare insomma che chi tanto infondatamente sragiona sul mondo, non abbia mai get- tato un'occhiata alla meravigliosa bellezza dci cieli. Per me io rinuncio ad ogni altro troppo elaborato tentativo di spiegazione; mi basta con- templare con gli occhi la bellezza di tutto ciò che noi affermiamo sta- bilito dalla divina provvidenza" (De_nat. deorum, Il, 37-38, 93-94, 98: ove va ricordato che è Balbo a parl~re, esponendo la tesi stoica sostc- nua da Posidonio nel Ilept.&e&v- Sugli dèi, - in contrapposizione alla tesi ecipurea sugli dèi, esposta da C. Velleio sulla linea del IIept.&e&v - Sugli dèi - dell'epicureo Fedro di Atene, nel I libro del De natura deorum). Non solo, ma Cicerone era preoccupato anche perché il motivo epi- cureo dell'ordine c della misura dovuti alla stessa attività umana, indi- pendentemente da ogni legge già data e naturale, poteva portare alla rottura della legge costituita da parte di uomini, che, avendone la capacità, tendessero ad assumere potere personale (forse anche di qui la fama di Cesare epicureo), ed infine perché l'epicureismo poteva dive- nire presso chi s'era nauseato della vita politica quale si svolgeva in Roma, evasione da quella stessa politica, in conventicole di amici, che sembravano tradire l'azione civile cui si appellava Cicerone, ma che, per altro verso, potevano essere d'accordo con Cicerone, contro la tiran- nide (come fu il caso dell'epicureo Cassio, che uccise Cesare). Sembra, in tal senso, molto indicativo che Cicerone sostenga di non avere mai letto un rigo degli epicurei latini che avevano diffuso la dot- trina epicurea tra il popolo, affermando che sono troppo facili, rozzi, plebei (cfr. Va"o, 2; Tusc. disp., l, 3, 6; Il, 3, 7-8; IV, 3, 5-7); ch'egli non discuta·mai a fondo le tesi di Epicuro, apponendogli altre tesi (ad esempio l'immortalità dell'anima, supinamentc accettata dal Pedone, il motivo dell'ordine e della legge del tutto, dell'ordine e della perfe- zione dei moti stellari, rivelanti la divinità che tutti accettano, consensus gentium: cfr. Tusc. disp., I, 11 sgg.; De natura deorum, Il, 37 sgg.); ch'egli pur ammiri la personalità e l'esempio della virtu di Epicuro ("e chi nega ch'Epicuro sia stato un uomo buono, gentile, ben edu- cato? in queste discussioni l'indagine verte sulle sue idee, non sulla sua condotta; lasciamo alla frivolezza dei Greci codesta moda bizzarra di far della maldicenza sul conto di quelli da cui dissentono nella ricerca del vero...; non solo, ma molti Epicurei furono e sono al presente fedeli  133   nelle amtctzte, equilibrati e sen m tutta la vita... ma...": D~ finibus); e che, infine, decisamente affermi che le posizioni epi- curee e il loro linguaggio "dovrebbero essere proibiti da un c~nsor~ piuttosto che rifiutate da un filosofo" (D~ finibus, II, 10, 30). Le stesse ragioni che muovevano Cicerone a condannare le tesi epi- curee, aveva mosso nel 173 o nel 154 (a. seconda che il console ricordato, L. Postumio, sia quello del 173 o quello del 154 a. C.) il Senato romano a espellere da Roma due epicurei venuti dalla Grecia, Alceo e Filisco (cfr. Ateneo, XII, 68, 547a; Eliano, Var. hist., IX, 12). "Per avere introdotto costumi licenziosi," si legge in Ateneo: cioè dottrine che, rispetto al costume romano, sembravano immorali. Entro questi termini può essere significativo ricordare un testo della Bibbia, cioè un passo del Lib~r sapientiae, composto circa in questa stessa età in am- biente ebraico-alessandrino, in cui sono espressi gli stessi timori nei confronti dell'epicureismo - o comunque di posizioni che con l'epicu- reismo potevano essere affini per la loro inton~zione mondana - rela- tivamente, anche se per altra via, al pericolo che per i costumi comporta la negazione dell'immortalità dell'anima e l'annullamento del pregiu- dizio che Dio sia signore e legge del tutto. Gli empi con i fatti e con le parole chiamarono a sé la morte, e cre- dendola amica si consumarono e contrassero con lei alleanza: perché sono degni di appartenerle. Essi, infatti, non giudicando rettamente, dissero fra di loro: breve e noioso è il tempo della nostra vita e non v'è refrigerio alla fine dell'uomo, e non si sa che alcuno sia tornato dall'inferno. Perché noi siamo nati dal nulla e poi saremo come se non fossimo stati, perché il fiato delle nostre radici è un fumo: e la parola è una scintilla che viene dal movimento del nostro cuore. Spenta questa, il nostro corpo sarà cenere, e lo spirito si disperderà come aura leggera e la nostra vita passerà come la traccia di una nuvola, e si scioglierà come la nebbia battuta dai raggi del sole e sopraffatta dal suo calore. E il nostro nome sarà dimenticato col tempo, e nessuno avrà memoria delle nostre opere. Perché il nostro tempo è un'ombra che passa, e finiti come siamo non si torna a capo, si mette il sigillo, e nessuno torna indietro. Venite dunque e godiamo dei beni pre- senti, e profittiamo delle creature, come della gioventU con sollecitudine. Empiamoci di vino squisito e di unguenti: e non si lasci sfuggire il fior(della stagione. Coroniamoci di rose prima che appassiscano: non vi sia pratò, per cui non passi la nostra cupidità. Nessuno di noi sia escluso dai nostri sollazzi: lasciamo in ogni luogo i segni della nostra allegria, perché questa è la nostra parte e la nostra sorte (Libro della sapienza). In tal senso verrà sempre interpretato, dagli avversari dell'epicurei- smo, il "piacere" epicureo e in tal modo verranno giudicate le lorc riunioni amichevoli e conviviali, i loro sodalizi di amici che, sappiamo 134    si diffusero in Oriente e in Occidente. E cosr sembra assumere un significato ancora maggiore la lotta degli ebrei di Palestina contro Antioco Epifane, quando si pensa che probabilmente la diffusione del- l'ellenismo in quel paese ad opera di Antioco, la sua lotta contro. la superstizione ebraica (cfr. Maccabei, I) fu, in effetto, dovuta all'epi- cureismo cui si era convertito il re Seleucida, se diamo valore ad un frammento in cui si dice che Filonide di Laodicea, epicureo, era riuscito a piegare, in Antiochia, il re Antioco all'epicureismo: "piegato dall'aggre~sione di·almeno centoventicinque opuscoli, Antioco dovette soccombere" (cfr. V. E. R. Bevan, The house of Seleucos, II, pp. 276-7; anche B. Farrington, cit., p. 147). Ad ogni modo sappiamo, attraverso Cicerone, che circa nella se- conda metà del 11 secolo a. C., l'epicureismo, ad opera dei latini Amafinio, Rabirio, Cazio, si era diffuso in Roma e in Italia, soprattutto presso il popolo (plebs, dice Cicerone, che è termine preciso e che ha un suo significato giuridico). Sono, appunto, i testi di questo epicu- reismo facile, plebeo, che evade da discussioni tecniche, che non si preoccupa di dialettica e di retorica, sono questi i testi che Cicerone finge di non aver mai letti, e nei quali ci si sarebbe impegnati, attra- verso un'esposizione della fisica epicurea, a liberare gli uomini dalla superstizione. Lo studio della sapienza, ovvero filosofia, è certamente antico presso di noi [romani}, però non riesco a trovare nomi da citare per il periodo ante- riore a Lelio e Scipione Emiliano. Quando questi erano giovani, mi ri- sulta che furono mandati dagli Ateniesi, come ambasciatori presso il senato, lo stoico Diogene e l'accademico Carneade; essi non si erano mai occupati di politica, uno era di Cirene e l'altro babilonese: certamente non sarebbero stati tolti al loro insegnamento e scelti per quell'incarico, se in quei tempi certi nostri personaggi in vista non avessero dimostrato interesse per la cul- tura filosofica. Essi però affidavano allo scritto gli altri loro studi, chi il diritto civile, chi i propri discorsi, chi le memorie degli antenati: ma pre- ferirono attendere a questa dottrina, che insegna a vivere bene ed è la piu nobile di tutte le arti, con la loro vita piu che cori i loro scritti. Pertanto quella vera e otti~a filosofia che, iniziata da Socrate, trovò finora i suoi continuatori nei P~ripatetici ed anche negli Stoici che sostenevano le stesse idee in modo diveJ1So, mentre gli Accademici facevano da arbitri nelle loro controversie, non è rappresentata da quasi nessuna o da ben poche opere in latino, sia perché l'impresa era grande e gli uomini troppo affaccendati, sia anche perché pensavano che tali studi non potevano essere apprezzati da gente del tutto profana. Frattanto, mentre quelli tacevano, prese la parola Gaio Amafinio, e la plebs sotto l'influsso dei libri da lui pubblicati si rivolse soprattutto a quella dottrina, sia perché era molto facile da capire, sia perché le dolci attrattive del piacere erano invitanti, sia anche perché, -non essen-  135   dosi prodotto nulla di meglio tenevano quel che c'era. Dopo Amafinio molti seguaci della medesima dottrina lo imitarono scrivendo molte opere, e inva- sero tutta l'Italia; e mentre la miglior prova della grossolanità di quelle idee sta nel fatto che sono cosi facilmente apprese e approvate dagli igno- ranti, essi credono che questo confermi la verità della loro dottrina (Tusc. disp.). C'è una categoria di persone che vogliono essere chiamate filosofi, e si dice abbian scritto davvero molti libri in latino: io non li disprezzo· in quanto non li ho mai letti, ma poiché·quegli stessi che li scrivono dichia- rano apertamente di scrivere senza conveniente determinazione e ordinata disposizione della materia e senza alcuna accuratezza né eleganza di stile, io trascuro una lettura che non offre alcun diletto. Nessuno infatti, sia pur di modesta cultura, ignora che cosa dicono e pensano i seguaci di quella tale scuola. Perciò, poiché no!Y'si preoccupano essi stessi della maniera di esprimersi, non capisco perché" debbano essere !ehi se non fra di loro che hanno le medesime idee. In realtà, tutti leggono Platone e gli altri della scuola socratica e tutta la serie dei filosofi che da questi derivarono, li leg- gono anche. coloro che non accettano o. non si entusiasmano per quelle teorie; ma quasi nessuno prende in mano Epicuro e Metrodoro, tranne i loro seguaci. Allo stesso modo leggono questi Latini soltanto quelli che ritengono giuste tali teorie (Tusc. disp., Il, 3, 7-8). Pertanto quei tali leg- gono i loro libri con quelli del loro ambiente, e nessun altro li prende in mano se non coloro che pretendono la libertà di scrivere allo stesso modo (Tusc. disp., I, 3, 6). Amafinio e Rabirio, non seguendo alcuna tecnica, trattano con stile volgare (vulgari sermone) di ciò che cade sotto gli occhi di tutti. Non sanno definire nulla, nulla dividere, nulla concludere con retta interrogazione: ritengono, infine, che non vi sia alcun'arte, né per la parola, né per il ragio- namento... In fisica, se approvassi Epicuro, cioè Democrito, potrei espri- mermi con piu facilità di Amafinio. È, difatti, cosa grande, respinte le cause efficienti, parlare del concorso fortuito dei corpuscoli (cosi chiamano gli atomi)?... (Varra, Il, S-6). Ogni volta che ci penso, mi fa spesso mera- viglia la stranezza di alcuni filosofi [Epicurei J che ammirano la conoscenza della natura ed esultando ringraziano chi per primo la scopri e lo vene- rano come un dio; si proclamano infatti liberati per merito suo da gravi padroni, cioè da un terrore continuo ed eterno e da un timore che giorno e notte li tormenta. Da quale terrore? da quale timore? Quale vecchierella è tanto pazza da temere codeste fole, che voi evidentemente temereste se non aveste studiato la scienza della natura, e cioè i "templi acherontei nel profondo dell'Orco, luoghi pallidi di morte, oscurati da tenebre?'' (Tusc. disp., I, 21, 48). Su testimonianza dello stesso Cicerone, l'Epicureismo, nelle sue linee di fondo, nella sua polemica contro un certo tipo di cultura ("lo studio della natura non forma un tipo d'uomo bravo a van- 136    tarsi e a straparlare e a sc10nnare quella cultura che è tanto ricer- cata dai piu": Gnom. Vat., 45), nella sua semplicità d'interpreta- zione della natura, opposta alla complessa interpretazione platonico- stoica, si diffuse, nonostante la censura senatoriale del 173, in Roma e in Italia, particolarmente presso il popolo; tuttavia non abbiamo suf- ficienti testimonianze e documenti per potere affermare il successo politico che avrebbe avuto l'epicureismo presso quel popolo medesimo in contrapposizione alla classe senatoriale e degli ottimati, in una ribel- lione contro la superstizione e il timor degli dèi, imposto da chi aveva in mano il potere, in un'interpretazione di tesi platoniche, aristoteliche e stoiche. In effetto, a Roma, c'era un popolo (plehs), ma non esisteva un popolo organizzato, cioè non esisteva un'educazione popolare, tale da dare al popolo una certa ideologia. Si capisce perciò perché, in Roma e nel mondo latino, piuttosto che l'epicureismo abbia avuto>Ìn ambienti popolari, piu successo l'Orfismo, il Pitagorismo (che anzi proprio ora si sarebbero costituiti a dottrine della salvazione dell'anima, mediante certe pratiche e riti), alcuni aspetti mistico-irrazionali del platonismo di origine orientale. Tanto piu chiaro si fa, allora, in Roma, al prin- cipio del 1 secolo a. C., sia di fronte alla cultura ufficiale, sia di contro alle superstizioni proprie di certo Orfismo e Pitagorismo, l'appello appas- sionato di Lucrezio (99-95/55-51 circa), la ·sua interpretazione latina del "libro" epicureo (De rerum natura, ·in 6 libri). A tal proposito sembra, anzi, interessante ricordare che Cicerone, il quale pare sia stato l'editore dell'opera di Lucrezio (o per lo meno rivide alcune parti del poema, forse su invito del fratello Quinto e su proposta di Pomponio Attico, il primo editore di Roma, cognato di Quinto), che del valore della sua poesia parla al fratello in una sua lettera privata del 54, forse quando mori Lucrezio (Il, 9: Lucreti poemata, ut scribis, ita sunt: multis luminibus ingeni, multae tamen artis"), mai, in tutta la sua produzione, faccia direttamente cenno a Lucrezio (anche se per sottinteso piu di una volta), da un lato fingendo di non avere mai letto i piu antichi epicurei latini (il che poi non è adatto vero, se in una lettera a Cassio, Ad. fam., XV, 16, l, 19, l, poteva scher- zosamente discutere dei termini tecnici usati da quegli scrittori: e la lettera a Cassio è proprio dello stesso anno in cui Cicerone scriveva le Tusculanae, in cui è detto, appunto, della sua ignoranza di quei testi); dall'altro lato, cercando di minimizzare l'opera di Lucrezio, non solo tacendone, ma cercando di ridurla a un lavoro scritto per igno- ranti, non degno d'essere letto da uOmini di cultura e inutile per il popolo, per il quale invece è necessaria la "costante guida e l'autorità degli ottimati" (non sembra un caso che proprio là dove Cicerone cerca di minimizzare il significato della fisica epicurea, sostenendo che  137   è tesi sragionevole e assurda, tenga presente, mediante citazione indi- retta o chiaramente allusiva, proprio certi passi dell'opera di Lucrezio). Tutto questo, in effetto, rovescia la prospettiva dell'attività cicero- niana. Cicerone, in privato, poteva benissimo condannare la super- stitio e la religio, che, tuttavia, ritiene utilissime per ordinare lo Stato verso un certo modello; ma tende a ridurre la carica rivoluzionaria del libro di Lucrezio, ad annullarne l'efficacia e il pericolo, relegan- dolo tra le concezioni oramai superate, inconsistenti e da ignoranti, insistendo sulla popolarità dell'epicureismo, sull'irrazionalità dell'ipotesi fisica degli epicurei, sul fatto che pnì: essendosi diffuso in ambienti plebei non ha avuto alcun successo politico. A ben guardare, qui ci troviamo di fronte ad altro: al pericolo rappresentato da alcuni gruppi di seguaci dell'epicureismo, scaturiti non dal popolo, ma da certi aristocratici, in contrasto con la politica di Roma, che trovando nell'epicureismo una valvola di sicurezza e costruendosi, insieme agli amici, mondi a parte e certo piu sereni e meno drammatici del quotidiano mondo che si viveva in Roma, lontani da Roma, nelle proprie ville, potevano destare il sospetto di congiurare, in quelle loro riunioni, contro la res-publica, contro la morale ufficiale, in una vita - era l'accusa - dedita al "piacere" e depravata, una volta che s'erano sganciati dall'ordine del tutto (cfr. in particolare l'In Pisonem di Cicerone). Entro questo tes- suto prende voce Lucrezio, cercando di ·rendere davvero popolare - e perciò stesso pericolosissimo - quel verbo di Epicuro, che poteva vera- mente diventare il principio di un'educazione del popolo, in maniera assolutamente opposta a quella prospettata da Cicerone in funzione del- l'equilibrio e dell'armonia legale della res-publica. Di sicuro sappiamo che sulla fine delu e il principio del 1 secolo a. C. furono presso grandi signori romani alcuni epicurei (Sirone, Filodemo di Gàdara), che altri furono ascoltati dai ricchi giovani romani, che si formavano alla carriera, ad Atene. Ad Atene capiscuola del "giardino" erano stati, dopo Epicuro, Ermarco, Polistrato, Basilide, Demetrio di Laconia, Apollodoro (detto il "tiranno del giardino": x~p«Wo~, kepotirannos), dei quali non sappiamo quasi nulla. Ad Apollodoro suc- cessero Zenone di Sidcine (morto sul 79J78, ascoltato da Cicerone, maestro di Filodemo di Gàdara), Fedro (anch'egli ascoltato da Cicerone, e da cui Cicerone riprende la tesi epicurea sugli dèi, svolta nel I libro del De na- tura deorum ), Patrone, capo del giardino tra il 70 e il 51 a. C., e dopo il quale non abbiamo piu notizie di scolarchi epicurei ad Atene. Può essere a tale proposito interessante ricordare che Cicerone proprio nel 51 scriveva a un certo C. Memmio - lo stesso a cui Lucrezio aveva dedicato il De rerum natura? - per pregarlo, a nome di Attico e a ricordo di Fedro e dell'amico Patrone ("cum Patrone epicureo mihi omnia sunt, nisi quod in philosophia vehementer ab eo dissentio"), appellandosi anche al fatto che per diritto il "giardino" apparteneva alla scuola di Epicuro (cosi suonava il testamento di Epicuro), di non fare speculazioni edilizie sul terreno del "giardino" da Memmio stesso comperato, anche se l'Aeropago gli aveva dato il permesso (Ad. fam., XIII, 1). Evidentemente la Scuola epicurea di Atene andò dispersa, dopo il 51. Cicerone sostiene ch'egli aveva conosciuto Epicuro di cui cita libri e massime, attraverso Zenone di Sidone, "corifeo" di Epicuro secondo Filone di Larissa (Cic., De nat. deorum, I, 21, 59) e Fedro, anch'egli ripetitore del verbo epicureo ("di Fedro e di Zenone ho seguito le lezioni, benché null'altro riuscissero a dimostrarmi tranne il loro zelo e tutte le opinioni di Epicuro mi sono sufficientemente note": De fin., l, 5, 16. Quando ero ad Atene ero assiduo alle lezioni di Zenone che il nostro Filone soleva chiamare corifeo degli Epicurei e lo facevo per suggerimento dello stesso Filone...": De nat. deor., I, 21, 59). Non sap- piamo quanto di nuovo, rispetto all'originario epicureismo, abbiano detto gli epicurei di questo tempo. Senza dubbio Zenone, per quel che possiamo ricavare da alcuni frammenti del suo discepolo Filodemo di Gàdara, approfondi e chiari la genesi della conoscenza, secondo la linea epicurea, sottolineando il significato ipotetico della condizione della pensabilità della realtà, in quanto che a porre gli atomi si giunge per analogia prendendo le mosse dall'analisi sperimentale delle cose stesse (cfr. Filodemo, Sugl'indizi e sul modo di servirsene: 7te:pt a"rj(.LE:(Cùv xcxt 01)(.LE:~~ae:Cùv). Del ragionamento per analogia, fondamento dell'indu- zione, cosi diceva Filodemo: "Quando giudichiamo: 'poiché gli uomini che sono a nostra portata sono mortali, tutti gli uomini sono mortali,' il metodo dell'analogia sarà valido solo se assumiamo che gli uomini che non sono in condizione.di esserci manifesti sono, sotto tutti i ti- spetti, simili a quelli che sono alla nostra portata, sicché si deve assu- mere che anch'essi siano mortali. Senza questo presupposto il metodo dell'analogia non è v.alido" (Degli indizi, Il, 25). Di qui, forse, induttivamente e per analogia, l'ipotesi che l'incontro fortuito degli atomi, donde nascono i possibili mondi e il mondo degli uomini (gratuitamente, per cui allo stesso uomo è data la libertà di costruire il proprio mondo umano), sia dovuto al clinamen.(sulla que- stione del "clinamen," di cui non v'è traccia in ciò che oggi leggiamo di Epicuro, cfr. I vol.). Certo, Cicerone, subito dopo avere citato Zenone e Fedro, discute e critica come un'assurdità il motivo del "clinamen," affermando che tale motivo è l'aspetto piu nuovo - e se ci poniamo dal punto di vista stoico-platonico, piu contraddittorio - dell'epicurei- smo, che per il resto Cicerone - si come fa per l'epicureismo romano che riporta a tempi piu antichi in cui ancora non era conosciuta a Roma la tesi stoico-platonica - tende a riportare al piu antico demo- critismo (cfr. in particolare De finibus, I, 5, 18-20). Senza dubbio l'insistenza di Cicerone sul termine "fato," l'insi- stenza di Lucrezio sulla "catena necessaria," a cui si contrappone il "clinamen," fa sospettare un'interpretazione del testo epicureo dovuta alla polemica nei confronti del "fato" stoico, che, tuttavia, era posi- zione già implicita nell'antiteleologismo di Epicuro (cfr. I vol.). Nulla vieta, perciò, di pensare. che il motivo del "clinamen," nei termini in cui lo conosciamo attraverso Lucrezio, Cicerone (piu tardi Diogene di Enoanda), sia stato formulato, in una coerente interpretazione di Epi- curo, proprio all'epoca di Zenone, Fedro, Filodemo di Gàdara, tutti e tre in polemica contro il sistema stoico e particolarmente contro la fata- lità che da esso derivava. Se i moti tutti - dice Lucrezio - fossero concatenati, se il nuovo sem- pre con ordine fisso sorgesse dal vecchio, e non si desse dai primordia, col deviare, principio a nessun moto che rompa le leggi imposte dal fato, s{ che, all'infinito, non segua una causa dall'altra, donde, io domando, qui in terra, donde verrebbe mai ai viventi questo libero potere, sciolto dal fato, per cui andiamo ognuno là dove ci conduce la nostra propria volontà? (Il, 253 sgg.). E Cicerone, dopo avere esposto il tema del "fato," proprio degli stoici, oppone ad esso, anche se polemicamente, il tema· del "clinamen" epicureo: Ma Epicuro pensa di evitare la necessità del fato mediante la declina- zione dell'atomo: oltre il peso e l'urto, vi è dunque un terzo movimento [e qui è chiara la citazione da Luc:rezio: "Bisogna ammettere che esiste negli atomi oltre la spinta e il peso, un'altra causa del moto e che di qui, dal clinamen, ci derivi...": Lucrezio, II, 286 sgg.], allorch~ l'atomo devia dalla verticale dello spazio il meno possibile (eltJchiston, dice): tale declinazione, se non in termini propri, almeno in realtà, egli è costretto ad ammet- terla senza causa, poich~ l'atomo non devia sotto l'urto di un altro. Come potrebbe infatti urtare un altro, se sono tutti trasportati in linea retta dal peso, come vuole Epicuro? E se l'uno non è mai spinto dall'altro, ne segue ch'essi neppure si toccano. D'onde risulta, se l'atomo esiste e se declina, che declina senza causa. Epicuro ha prospettato questa dottrina, temendo, se l'atomo fosse sempre trasportato da un peso necessario e naturale, che non vi fosse alcuna libertà in noi, eh~ la nostra anima sarebbe mossa solo perch~ costretta dal moto degli atomi. Democrito, l'inventore degli atomi, ha preferito ammettere che tutto avviene necessariamente, piuttosto che togliere agli atomi i loro movimenti naturali (Cic., De fato, X, 22 sgg.). 140    Certo il piu noto degli epicurei vissuti m Italia fu Filodemo di Gàdara, che, se anche in circoli ristretti, fece conoscere direttamente Epicuro, ne propagandò le idee, costitu1 una· vera e propria comunità di amici di Epicuro, intorno al suo protettore Pisone (il console del 58, nemico di Cicerone: cfr. In Pisonem), nella celebre villa di Ercolano, ove raccolse una non indifferente biblioteca di libri epicurei. Filodemo, nato nel 110 a.C., a Gàdara, in Siria (ove sappiamo che mediante Filonide di Laodicea, che aveva convertito Antioco Epifane all'epicureismo, s'era diffusa una forte corrente epicurea), proba- bilmente venuto a Roma nel 78, alla morte del suo maestro Zenone di Sidone, visse fin dopo il 40 a. C., non oltre il 30 (cfr. Strabone, XVI, 754). Il Comparetti, da quando furono ritrovati i papiri della villa ercolanense dei Pisoni, ha sostenuto che quei papiri dovevano costi- tuire la biblioteca di Filodemo: gran parte sono opere dello stesso Filo- demo, di cui molti testi sembrano, piuttosto che lavori destinati· al pub- blico, veri e proprii appunti, schede (cfr. D. Comparetti, La villa erco- lanense dei Pisoni, i suoi Monumenti e la sua biblioteca, Torino, 1883; Ch. Jensen, Die Bibliothek von Herculanum, in "Bonner Jahrb.," pp. 49, 61; R. Philippson, s. v. Philodemos, in Pauly-Wissowa, XIX, 2, col. 2444-2449). Nella villa dei Pisoni, oltre la biblioteca epicurea fu ritrovata una serie di statue e tra esse quattro busti con iscritto il nome: Demo- stene, Epicuro, Ermarco epicureo, Zenone di Sidone. Anche questo è indicativo, ed è. indice della presenza di una vera e propria comunità epicurea. Intorno a Calpurnio Pisone, illustre nobile romano, la cui figlia fu la moglie di Cesare, s'era formato, pernio Filodemo, un cir- colo epicureo. Ed epicureismo significava, tenendo presenti i fondamenti della dottrina, vivere umanamente, liberarsi dai pregiudizi, trovare, eva- dendo dalla quotidiana vita politica e dagli affari, sereni rapporti di amicizia. Dolce è guardare da terra - esclama Lucrezio - quando i venti scon- volgono l'ampia distesa del mare, l'altrui gravoso travaglio; non perché faccia piacere che qualcuno si trovi in sofferenze, ma perché è dolce scor- gere i mali di cui siamo liberi. E dolce è assistere, senza che tu partecipi al pericolo, agli aspri scontri di guerra in campo aperto. Ma nulla è pio dolce dello starsene nei ben muniti luoghi, edificati dalla serena dottrina dei saggi, donde è concesso guardare gli altri dall'alto, e vederli qua e là vagare, e sbandati cercare la via della vita e manovrare con l'ingegno e far valere la propria nascita e faticando sforzarsi a gara il giorno e la notte di giungere alla ricchezza e di acquistarsi il potere. Oh tristi menti degli uomini, oh ciechi petti1... Pure assai vivo diletto... è ristorar la persona alle· gramente tra amici, con una spesa non grande, stesi su di un soflice prato,  141   lungo un ruscello corrente, sotto le fronde di un alto albero specie se il tempo è bello e primavera cosparge le verdeggianti erbe di fiori (II, 1-14, 29-34). E Filodemo, indirizzandosi al suo Pisone, nella festa delle [cadi, dedicata a Epicuro, nel ventesimo giornò di ogni mese, lo invitava nella sua modesta casa: Domani, nella sua modesta casetta, canss1mo Pisone, all'ora nona ti invita l'amico amante delle Muse, per il banchetto dell'annuale vigesima: se perderai manicaretti e brindisi col vino di Chio, troverai in cambio amici sinceri e ascolterai discorsi molto piu belli di quelli sulla terra dei Feaci (in Antol. palatina, Xl, 44). Sappiamo- fin dal tempo del primo epicureismo - di queste riu- nioni tra amici, di come, non solo ad Atene, ma a Lampsaco, a Miti- lene, in Siria, si fossero formate delle comunità epicuree (veri e propri tian), di come in esse si trovasse un rifugio dalla quotidiana vita poli- tica e dalla cultura ufficiale, intorno al nome di Epicuro, considerato l'umano dio della liberazione umana,· la divina umanità che sostituiva i vecchi dèi paurosi o il fato divino l6gos, in una umanizzazione della ragione e· della scienza (donde il prevalere della fisica sulla aritmetica e la geometria). Di qui, entro queste comunità, il culto di Epicuro. "Un dio, fu un dio...": dirà nel suo poema Lucrezio. E lo stesso Epi- curo aveva affermato: "Agisci sempre come se Epicuro ti vedesse"; e nel testamento aveva lasciato scritto: "Sia festeggiato secondo il con- sueto il mio genetliaco ogni anno il decimo giorno del mese di Game- lione e l'adunanza dei discepoli il ventesimo giorno di ogni mese [la cosiddetta festa delle lcadi], stabilita in memoria mia e di Metro- doro" (Diogene Laerzio, X, 18 sgg.). E su testimonianza di Plinio il Vecchio (Nat. hist., XXXV, 5) sap- piamo che ancora nel 11 secolo d. C., in Roma, si celebravano queste feste: "Epicurei vultus per cubicula gestant et circumfei:unt secum. Natali eius sacrificant, feriasque omni mense custodiunt vicesima luna quas icadas vocant" (sul culto di Epicuro cfr. A. J. Festugière, Epicure et ses dieux, Parigi, 1946; anche P. Boyancé, L'épicurisme dans la société et la littérature romaines, in "Bulletin Ass. Budé," Suppl. Lettres d'Humanité, 4, 1960). E già Epicuro aveva scritto a Meneceo: "Tutti i miei insegnamenti e tutti quelli della stessa natura, meditali giorno e notte ed anche con un compagno simile a te" (Lett. a Menec., 134); e aveva detto: "l'uomo sereno procura serenità a sé e agli altri" (Gnom. Vat., 79). Con il commento dei Libri di Epicuro, con tl suo approfondi-  142   mento di certi aspetti della dottrina epicurea, particolarmente per ciò che riguarda le passioni e le condizioni della conoscenza, Filo- demo istitui in Roma e ad Ercolano, appoggiato da Pisone, un con- tubernium epicureo (come dirà Seneca: piu che la dottrina di Epicuro, fu il suo contubernium a educare gli epicurei: Ep., I, 6), una comunità di amici il "cui accordo tra loro," sosterrà Numenio, "era simile a quello che deve regnare in una repubblica ben ordinata" (in Eusebio, Praep. ev., XIV, 5). Secondo il De Witt (Organisation and procedure in Epicurean groups, in "Class. philology," 1936; Epicu- rean contubernium, in "Trans. and Proc. of the Philol. Assoc.," 1936), seguito dal Boyancé (cit.), anzi, il llepl. 7t«pplJa(«ç (Sul libero parlare) di Filodemo chiaramente indicherebbe l'attività di Filodemo volta a organizzare la scuola in forma conventuale, costituendo un modello d'ideale vita politica, di libera vita associata, da opporre alla politica imperante in Roma, sia pur come esigenza di crearsi mondi a parte, rifugi, appunto, dalla tragica sorte, dall'inutile e assurdo morire, che ogni giorno poteva colpire chi si dibatteva nelle lotte politiche della Roma del tempo. Non a caso si deve a Filodemo (Herc. vol., 1005, 4) la coniazione del termine "quadrifarmaco" (-re-rp«<pcXp(.L«Xov: tetrafdrma- con) - la medicina composta di quattro elementi - con cui egli indicava la funzione liberatrice della filosofia epicurea, mediante la quale l'uomo si cura dal timore della divinità (1. non si tema la divinità, che la divinità non si occupa dell'uomo), dal tiinore della morte (2. non si tema la morte, ché quando v'è l'uomo non v'è la morte, quando c'è la morte non c'è l'uomo), sapendo che facile è il piacere (3. tieni presente la facilità del piacere), e che breve è il dolore (4. tieni presente la brevità del dolore). Tutti e quattro gli elementi si trovano approfonditi in Epicuro (cfr. in particolare Ep. a Menec., 123, 124, 183), ma è senza dubbio assai indi- cativa la formulazione in massima da parte di Filodemo, il puntare, ora, soprattutto, sull'aspetto terapeutico della concezione epicurea della natura e sul rifugio ch'essa offre: sia nei convivi, sia nelle libere discus- sioni fra amici, sia mediante poesia, con cui ci creiamo dilettevoli mondi a parte. Tale il significato dato alla poesia da Filodemo e tale l'epicu- reismo - non dottrinario - di Orazio, che sappiamo aver frequen- tato il gruppo intorno a Pisone, e, se vogliamo, di Catullo e di tutto il complesso dei poeti muovi. Sembra facile ora capire cosa inten- ·desse Filodemo quando sosteneva il valore edonistico della poesia e della musica, si come, per altro verso, di contro a Diogene di Babilonia (cfr. sopra), la capacità mediante la retorica di costruire mondi umani, ché non scienza è la retorica, ma un'arte pratica, cioè l'arte di agire (prasst) in un mondo che non è già dato, ma è dovuto alla stessa atti- vità dell'uomo, rivelantesi attraverso il linguaggio che ha, sempre, una  143   realtà storica, si come la stessa giustizia e il diritto (ch'era, poi, tesi squisitamente epicurea: cfr. I vol.). Entro questi termini sembra,' cosi, assumere non poco significato l'ultima parte del V libro del De rerum natura di Lucrezio,6 in cui, mediante Epicuro, riprendendo l'antica linea che risale a Empedocle, ad Anassagora, a Democrito, a Protagora, a certe posizioni sofistiche e socratiche, teofrastee, si sottolinea con forza la storicità della natura e del mondo umano, di una natura che scaturita dall'accozzo fortuito di infi- niti atomi, - sottolineiamo che Lucrezio mai usò il termine "atomo," - s1 come ha dato luogo ad infiniti possibili mondi, ha dato luogo al mondo degli uomini. E s1 come non v'è perché al sorgere delle cose, se non gli ipotetici atomi-spérmata e il vuoto, il peso e il "clinamen," cui si giunge attraverso l'analisi delle cose, condizioni non contraddit- torie che rendono pensabile la molteplice e viva realtà, senza ricorrere ad allotri e superiori principi razionali, proiezioni a posteriori (si come gli dèi o il divino l6gos) delia umana razionalità, anch'essa, in effetto, Il Poco sappiamo della vita di Tito LucrC7.io Caro. Non sappiamo a che famiglia appartenesse, dove sia nato, quali le date esatte della sua nascita e della sua morte. Seoondo San Gerolamo, che probmilmente deriva dal perduto De viris illuslribtu di Svctonio, Lucri!Zio sarebbe nato nel 95 a. C.; impazzito per avere bevuto un filtro amatorio, nei' momenti di lucidi~ avrebbe scritto il,suo poema; si sarebbe suicidato all'~ di 44 anni. Donato, invece, nella Viu di Virgilio, anch'egli derivando da Sv~­ tonio, afferma che Virgilio, nato nel 70, prese la toga virile a sedici anni ncllo stesso anno in cui Lucrezio mori. Seoondo S. Gerolamo, dunque, Lucrezio sarebbe nato nel 95 e morto nel 51; secondo Donato sarebbe nato nel 98 c morto nel 54. Ad ogni modo, in una lettera di Cicerone al fratello, Quinto (11, 93}, che ~ senza dubbio del febbraio del 54, si legge un giudizio su Lucrezio relativo alla pubblicazione del De rerum IIIIIUI'a che sappiamo essere avvenuta dopo la morte di Lucrczio, ad opera di Cicerone stesso. C'~ chi ha sostenuto che Lucrczio sia di Roma c chi della Cam· pania (un circolo epicureo era allora fiorente in Napoli): in rea!~ non sappiamo, cosf come non si può dire se Lucrczio appartenesse a nobile o a plebea famiglia. La gente Luac2:ia era allora assai dillusa in tutte le classi, in tutta Italia. Senza dubbio il poema di Lucrezio ~ incompiuto c ciò dovuto probabilmente alla•sua morte. Sulla notizia di San, Gerolamo che Lucrczio sarebbe impazzito per un filtro amatorio (certo tali pozioni erano molto in uso nella Roma del tempo), che avrebbe scritto il poema nei momenti di lucidi~ alternati da momenti di cupa' depressione c angoscia (alcuni testi del poema rivelano depressione, incubi visionari,, allucinazioni, d'altra parte pre· senti anche in Epicuro: cfr. IV, 1125 sgg.; lll, 1055 sgg.; l, 127; IV, 35 sgg.}, che si sarebbe suicidato, si ~ molto discusso c fanwticato. Il De rerum n/llura, in sci libri, formalmente incompiuto, fu dedicato da Lucrczio a Mcmmio. Sembra che il Mcmmio di Lucrczio sia Gaio Mcmmio, questore nel 77, pretore nel 58, che amante della letteratura greca, non di quella romana, colto, intel- ligente, piacevole conversatore, pigro c impaziente di lavoro intellettuale (cfr. Cice- rone, Brutus, 247}, oondussc con sé (57-56) quando fu proprctorc della Bitinia alcuni poeti, tra i quali Catullo. E sarebbe quello stesso Mcmmio che quattro anni piu wdi, esiliato da Roma per brogli elettorali, ad Atene, ottenuto il diritto dall'Areopago di costruire sull'arca ovc sorgeva la casa c il giardino di Epicuro, rifiutò a Pauonc, allora scolarca del Giardino, il favore di non profanare quel luogo sacro agli Epicurei (cfr. Cicerone, Ad fam., XIII, 1)] scaturita nel tempo, cosi, di fatto, ci sono gli uomini. E se ipotetica- mente gli uomini scaturiscono da incontri e particolari disposi~ioni di "semina," per cui dapprima si può mitizzare una certa genesi del- l'uomo ancora non uomo, finché in una qualche organizzazione dei "semi," come sono nati certi mondi e certi animali, nella lotta per la vita oggi estinti, ed altri tipi di bestie, rimaste bestie (cfr. V, 773-924), nasce il primo mondo 1egli uomini, piu che di uomini ancora di "be- stioni," viventi in istatc ferino, alla fine, sempre per una qualche for- tuita aggregazione dei semi vitali, scaturisce la razionalità e, ad un tempo, il linguaggio, e attraverso il linguaggio, questo o quel lin- guaggio, l'uomo reale, e solo da allora la sua storia, il processo me- diante cui è l'uomo che r;~.zionalizza la realtà. Perché cosi e non altri- menti? Non sappiamo, risponde Lucrezio: "non è possibile sapere ciò che avvenne prima, se non per quel tanto che il raziocinio ne scopre" (V, 1445). L'unica ipotesi è l'ipotesi epicurea, sostiene Lucrezio, me- diante la quale ci rendiamo conto non solo del costituirsi sdrammatiz- zato della realtà, ma anche di come l'uomo è uomo entro i termini della sua stessa realtà umana (ché prima del nascere e di là dalla soglia del morire, è umanamente il nulla, è altra realtà) tutt'uno di anima e di corpo, di come per rispondere alle proprie esigenze sono nate le verità degli uomini, dalle verità dell'uomo· primitivo e ferino, vivente nelle selve, alle verità dell'uomo razionale e sociale, che ha proiettato tali verità oltre sé in cielo, perdendo alla fine se stesso (donde poi la superstizione del divino signore, del divino che come padrone si occupa delle cose umane, la superstizione dell'anima immortale, che avrà premi o castighi nell'aldilà). Al modo erratico delle fiere, volgendosi il sole per molti lustri nd cielo, menavano lunga vita... Stavano nei boschi, ndle caverne dei monti, nelle foreste... Non conoscevano l'uso di costumanze e di leggi: ciascuno pren- deva di proprio istinto la preda messagli innanzi dal caso, assuefattosi a vivere e a campare da sé solo. Entro le selve all'amplesso Venere univa gli amanti... Si procurarono in seguito capanne e pelli e fuoco e si ridusse la donna, congiunta all'uomo, ad u·n solo connubio, e i padri videro nascere i propri figlioli... Poi, con gesti e suoni inarticolati fecero capire il [loro] giusto... Ma chi spinse gli uomini a foggiare con vari suoni il linguaggio fu la natura, e il vantaggio produsse i nomi delle cose. Quasi allo stesso modo in cui l'impotenza evidente a formulare la parola induce i bambini a gestire, come fanno quando col dito segnano le cose evidenti: perché ciascuno capisce di che si possa servire... Pensare che qualcuno abbia asse- gnato alle cose i loro nomi e che di H gli uomini abbiano appreso i primi vocaboli, questo è un uscir di cervello [cfr. in particolare il Cratilo di Platonel· Come poteva costui indicare tutto con le voci, e modulare vari suoni, se, nel contempo, nessun altro era in grado di farlo? E poi, da dove a costui venne l'idea del vantaggio, da dove ebbe, sin dall'origine la facoltà di sapere ciò che voleva e di scorgerlo perfettamente distinto, se fino allora nessuno aveva usato il linguaggio? E non poteva, uno solo, piegare i molti e costringerli, vinti, a imparare di buon animo i nomi posti alle cose; non si istruiscono i sordi né si convincono con la logica a fare quanto debbono: e poi non lo soffrirebbero, né lascerebbero mai che troppo a lungo ed invano voci dal suono inaudito rintronino loro le orecchie. Infine, è proprio cosi strano che l'uomo, in cui voce e lingua erano in piena efficienza, usasse per indicare le cose, varie secondo le percezioni, la voce?... Se le diverse impressioni fan che le bestie, che pur non hanno la parola, emettano voci diverse, quanto è piu ovvio che l'uomo abbia cosi, con le varie voci, potuto iÌidicare la varietà delle cose! (V, 930, 956, 960, 1011, 1020, 1028-1034, 1041-1059, 1089-1090). Lascia che lottando lungo lo stretto sentiero dell'ambizione, si logorino a vuoto e sudino sangue, essi che parlano per bocca d'altri, ed apprendono le cose piuttosto da ciò che sentono, che dalla propria esperienza, oggi non meno di ieri, non meno d'oggi, domani... Piu facile ora è capire come l'idea degli dèi si sia diffusa tra i grandi popoli, e abbia stipato delle are sue le città, ed abbia indotto a introdurre i sacri riti del culto, solenni, quelli che ancora oggi sono in auge fra tanto progresso e in centri si grandi, onde ancora oggi negli uomini è insito quello spavento che erige in tutta la terra nuovi delubri agli dèi, e vi fa correre nelle festività tutti quanti. Sin da quei tempi, in effetti~ gli uomini vedevano da svegli, ma piu nei sogni, col corpo mirabilmente ingrandito numi d'aspetto stupendo. E poi che, a quanto appariva, essi movevan le membra ed emettevano terribili voci, ap- propriate alla enorme forza e allo splendido aspetto, a loro, dunque, per questo, attribuivano il senso e li facevano eterni, giacché se ne rinnovava sempre la vista, e la forma restava sempre immutata, e poi perché giu,di- cavano che, tanto forti com'erano, nessuna forza potesse agevolmente sop- primerli. E giudicavano che avessero ben piu propizia la sorte, perché il timore di morire non li affliggeva, e compivano - cosi vedevano in sogno - molte e mirabili imprese senza che mai li prendesse stanchezza alcuna. Scorgevano inoltre che i movimenti del cielo e le diverse stagioni si avvicendavano con successione uniforme, e non potevano conoscere per quali cause. Ne uscivano dunque affidando agli dèi tutto, e facendo che tutto fosse guidato dal cenno divino. E posero in cielo le sedi e i templi dei numi, perché si vedono evolv,ere la notte, in cielo, e la luna: la luna, il giorno e la notte, ed i severi notturni segni, e le erranti notturne faci del cielo, e i volanti fuochi, le nubi, le piogge, la neve, il sole, la grandine, i venti, i fulmini, i rapidi fremiti e i minaccevoli vasti fragori. Ah, da quando fece dipendere dagli dèi tali fatti, e vi aggiunse il fiero sdegno, infelice umanitàl Da quel tempo quanti lamenti a lei stessa, quante ferite a noi, quali lacrime ai nostri nipoti, essi non hanno partorito! Ed ostentar di girare, velato, intorno ad un sasso, ed accostarsi agli altari tutti, e cader faccia a terra davanti ai templi dei numi,.e alzar le palme, e del sangue di 146    numerosi quadrupedi sparger le are ed appendere voti su voti, codesto pro- prio non è religione: ma religione è saper penetrare a cuore tranquillo i fenomeni. Quando, in effetto, osserviamo i doni del firmamento immenso, e l'etere immobile sopra le stelle che brillano, e ripensiamo al cammino che fanno il sole e la luna, comincia allora a destarsi e a levare la testa nel cuore oppresso dagli altri mali anche quella inquietudine, se per noi forse non sia l'onnipotenza dei numi quella che volge con vario moto le candide stelle: perché ci rende perplessi l'oscurità del problema, se ci sia stato un principio generatore del mondo e sino a quando potranno durare le mura del cielo a questa loro fatica del movimento affannoso: o se, per caso, non possano, scorrendo con l'infinito volo del tempo, dotate d'eternità dagli dèi, sfidare invece le salde forze del tempo infinito. D'altronde a chi non si agghiaccia l'animo per la paura dei numi?... Sino a tal punto una occulta forza cal- pesta le umane cose, e si vede che vilipende e beffeggia per proprio conto gli splendidi fasci e le terribili scuri (V, 1130-1135, 1161-1235). Ma, prima assai che potesse foggiare col suono politi canti e dar gioia agli orec- chi, l'uomo imitò con la voce il limpido gorgheggiar degli uccelli, e il vento che sibila nei vuoti calami apprese ai campagnoli per primo come soffiare nelle vuote canne. Impararono in seguito poco per volta i soavi lamenti ch'escono dal flauto quando lo toccano con le dita, sonando, dal flauto che si trovò dai pastori per i boschi impervi e le selve, e i monti e i luoghi deserti durante gli ozi beati. Cos{ pian piano col tempo si manifesta ogni singola cosa e il raziocinio la poeta al lume del giorno. Accarezzavano lo spirito quei suoni e lo dilettavano...: hanno anche appreso a tenere distinti i ritmi... Ma non è possibile sapere ciò che avvenne prima, se non per quel tanto che il raziocinio ne scopre. L'uso ed insieme i continui sforzi dell'alacre ingegno all'uomo che progrediva passo per passo insegnarono a poco a poco la nau- tica, l'agricoltura, il diritto, l'arte di fare le fortezze, le strade, le armi, e cose simili, gli agi e i conforti, quanti ve n'è della vita, la poesia, la pittura e la ingegnosa scultura. Grandemente, in tal modo, il tempo svela ogni cosa singola e il raziocinio la porta al lume del giorno. Perché scoprivano che un vero prendeva luce dall'altro, finché con le arti non ebbero raggiunto l'ultimo vertice (V, 1377-1389, 1406-1407, 1445-1456). Questo, sembra, il motivo chiave dell'epicureismo di Lucrezio, questo suo appello, di contro alla filosofia teologica ed ai pericoli insiti in essa per il libero farsi degli uomini, per la stessa comprensione della natura (vera religione è "saper penetrare a cuore tranquillo i fenomeni": V, 1203), il suo appello all'esperienza e alla ragione, all'umanizzazione della scienza, mediante cui l'uomo può creare il suo mondo, conside- rare la natura per quello che la natura è, operando su di essa, diremmo in una libera "inter-azione," per un fine che non è dato, ma che è di volta in volta dovuto alla stessa razionalizzazione umana, operante, con le tecniche, su di una realtà non già preordinata, ma spontanea e feconda di tutte le possibilità. Questo il sentimento dell'epicureismo di Lucrezio, e perciò la sua venerazione per Epicuro che "purgò gli animi con i suoi precetti veridici, e al desiderio e al timore prescrisse un limite e fece chiaro qual fosse il supremo bene a cui tutti tendiamo e additò per quale via vi si può giungere diritti, con poca strada, onde è neces- sario che non i raggi del sole, non le lucide frecce del giorno spazzino via questo terrore dell'universo con le sue tenebre, ma la conosunza razion.ale della natura: sed naturae species ratioque" (VI, 24 sgg.: ove va notato che gli ultimi tre ·versi tornano nei proemi ai libri l, Il, III, oltre che nel VI). E qualora si tenga presente il modo con cui, da Varrone a Cicerone, si venivano recuperando certi aspetti di Platone, di Aristotele, dello stoicismo, nella costruzione di una religio, in funzione di una certa classe politica - anche se in efletto, e Cicerone n;è testi- monianza, i loro autori credevano in altro, - in un'epoca drammatica, in un'epoca in cui la morte eta davvero.sempre gratuitamente presente, si capisce bene da un lato l'appello ad Epicuro salvatore (" mentre l'umanità conduceva sulla temi una vita infame e abietta a vedersi, op- pressa dal peso di una religione il cui volto mostrandosi dall'alto delle regioni del cielo, minacciava i mortali con il suo orribile aspetto, per primo un uomo greco [Epicuro] osò levare il suo sguardo mortale contro di essa e per primo contro di essa insorgere: né lo trattenne ciò che si diceva degli dèi, né i fulmini né il cielo con il suo rombo minac- cioso ": l, 62-69); dall'altro lato l'esigenza e il dovere di far conoscere a tutti il libro di Epicuro: Venere, stringiti a Marte, mentre giace, con l'intatto tuo corpo, implo- rando, inclita, per i romani una pacifica tregua; che con la patria turbata, né noi con cuore tranquillo potremmo attendere all'opera, né per seguir tali cose, l'illustre germe di Memmio [cui il poema è dedicato], negar potrebbe se stesso alla salt~ezza di tutti (1, 37-44)... Né mi nascondo ch'è opera estremamente difficile esporre in versi latini le ardue scoperte dei Greci, specie perché dovrò spesso usare vocaboli nuovi - tanto il nostro lessico è povero, e cosi nuovo è il soggetto. Eppure l'animo tuo e il gaudio, che mi prometto, di una soave amicizia mi persuade che non debbo badare a fatiche di sorta, e che le notti serene io vegli cercando con quale canto, con quali parole, ti faccia splendere nella mente h vivida fiaccola, onde tu penetri a fondo i piu reconditi veri. E veramente bisogna che non i raggi del sole, che non le lucide frecce del giorno spazzino via questo terrore dell'animo con le sue tenebre, ma la razionale conoscenza della natura: sed naturae species ratioque (l, 136-148). E cosr non vanno scordati del De rerum natura due altri punti fon- damentali. Bisogna tener presente, innanzi tutto, l'insistenza ancora 148    maggiore che non in Epicuro, sull'atomo, condizione perché sia pensa- bile la realtl, non come atomo geometrico o.matematico, ma come centro di vita, come seme vitale, onde in ogni cosa è insito uno speciale potere: il che, non solo spiega meglio l'affermazione prima che "nulla si genera dal nulla," cioè da una pura quantità che all'infinito è zero, ma anche il fatto che le qualità si costituiscono dal modo in cui le po- tenze seminali si organizzano e si dispongono mediante gl'incontri. Viene da questo la paura che opprime gli uomini tutti: scorgono in cielo ed in terra prodursi vari fenomeni, fatti, dei quali non possono scor- gere punto le cause, e che riportano quindi alla potenza di un dio. Ma se tocchiamo con mano che non può naseere nulla dal nulla, allora piu chia- ramente sapremo comprendere quello che andiamo indagando: donde: ogni cosa si generi e come ognuna si generi, senza l'intervento di un dio... Se non vi fosse per ogni singola specie il suo germe, come si avrebbe un'origine certa e distinta per gli esseri? Ma poiché viene ciascuno d'essi da un germe specifico si forman là, di là balzano fuori alla luce del giorno dove sono insiti i primi corpi e la loro materia, né può ciascuno prodursi da ciascun seme, per questo: ché in ogni cosa è insito uno speciale potere. Perché vedremmo prodursi di primavera la rosa-, d'estate il grano... se non perché cofluendo, al tempo giusto, certi semi, erompe quanto si fa... dal fecondante connubio... A poco a poco crescono gli esseri tutti, da un germe specifico... (1, 151 sgg.). In secondo luogo, bisogna tener presente la distinzione, nell•uomo, tra la forza vitale (anima), che unisce le membra e ovunque è diffusa, e la sua organizzazione in quella che diciamo razionalitl (animus), o mente (III, 94 sgg.), che, insieme, costituiscono l'Anima, ch'era il modo d'interpretare epicureamente il motivo di un tutto vitale e fe.. condo implicito nel motivo dell•anima mundi di origine stoico-platonica. Come, negli esseri vivi, in ogni viscere suole trovarsi un succo, un odore, un colore speciale; ma dall'insieme di tutti si forma un solo organismo, si forma una sola essenza, cosf,_ commisti, il calore, l'aria e la occulta potenza del vento, aggiuntavi quella nobile forza che a loro compane il moto d'ini- zio, donde dapprima negli organi si desta il moto del senso, che si cela riposta nelle tenebre dell'essere, e di cui nulla piu addentro nel corpo a noi non s'immilla, diremmo, che è l'anima stessa dell'anima tutta. E come, occulta, è.commista nel nostro corpo e negli arti tutti la forza dell'animo e la potenza dell'anima perché risulta composta d'atomi piccoli e rari, cosi, formata di minimi, ti si nasconde questa energia senza nome, l'anima stessa di tutta l'anima, quasi, che domina nel corpo intero. In tal guisa il vento e l'aria e il calore debbono, mischiati negli arti, darsi reciproco slancio, e soggiacer gli uni agli altri, e sovrastarsi a vicenda, cosf però che risulti di tutti un unico tutto, onde il calore ed il vento e la potenza dell'aria, cia- scuno per sé, non distruggano il senso e non.lo disgreghino, cos{ distaccati (III, 267-289). L'insistenza di Lucrezio sulla seminalità specifica degli atomi, sulla ricchezza potenziale di ogni seme e sulla vitalità feconda d'onde si generano sempre infiniti mondi, questi mondi, e tra essi il mondo degli uomini dà il metro di come Lucrezio ha interpretato Epicuro. Il ragio- namento è lo stesso di Democrito fino a porre a condizione della pensa- bilità della realtà gli atomi e il vuoto (cfr. I vol.): dalle cose visibili, divisibili, agli atomi invisibili, elementi primi non piu divisibili, ma, appunto perché tali (altrimenti giungeremmo allo zero, al nulla incon- cepibile), si postula la condizione epicurea degli atomi-semi (libro I); per il resto, dal rapporto atomi vuoto, dalla spontaneità del movimento degli atomi, precisato come "clinamen," al concetto del peso e del costi- tuirsi delle cose e delle qualità, dei mondi e del mondo dell'uomo (libro Il), da cui comincia - perché è un fatto - la razionalità e l'opera dell'uomo, che è natura, nella natura, in un unico processo, dalla concezione dell'anima, costituita di atomi leggeri, tutt'uno con il corpo alla dottrina della sensazione e degli éidola (libri III e IV), alla conce- zione della mortalità dei mondi creati e della caducità del mondo, alle possibili molte ipotesi su ciascun fenomeno celeste e al sorgere della vita sulla terra (donde poi la storia del mondo umano, dall'uomo ferino all'uomo razionale e padrone delle arti) (libro V), alla spiegazione dei fenomeni meteorologici e dei morbi e delle epidemie (libro VI), Lu- crezio segue la traccia del De natura di Epicuro (di cui, ricordiamo, s'è trovata una copia in 37 libri, ad Ercolano, nella ~iblioteca della villa dei Pisoni). Ma, dietro, sempre, rimane in Lucrezio la meraviglia della scoperta, che dovrebbe essere chiara a tutti, che dovrebbe definitivamente scacciare ogni alambiccata costruzione metafisico-teologica, ogni timore in una suprema legge, negli dèi o in un astratto l6gos. Allorché si tenga questo per verità, si fa chiaro che la natura, da sola, in tutto priva di despoti superbi e libera in tutto, agisce in ogni sua cosa d'iniziativa propria, senza interventi di dio (II, 1094 sgg.). Scientificamente, cioè razionalmente, possibile l'ipotesi di Epicuro, ne vien fuori da un lato che il fondamento della natura - natura na- turans - non è sottoposto ad alcuna legge, ad alcuna necessità razio- nale a priori, a nessun proiettato rapporto di causa ed effetto, ivi impli- cita la necessità di porre cause prime (efficiente, formale, materiale, fi- nale), ma che l'ipotetico fondamento, cui si giunge induttivamente per analogia, è una infinita ricchezza, una fluidissima spontaneità; e, dal- l'altro lato, che la realtà quale è, quale si costituisce (natura naturata), è ad un tempo la stessa natura naturans sempre possibile di cangia- mento e di modificazioni qualitative (di qui il motivo del farsi con- tinuo: II, 293-336), su cui è possibile operare (di qui l'inno a V enere ge- nitrice, che apre il poema), ché, in effetto, atomi-semi, vuoto, peso, clinamen, sono postulati, sono i fondamenti, ma non esistono: esiste la natura; esistono gli infiniti mondi, le loro genesi, le loro storie, la genesi degli animali, la loro evoluzione, la loro lotta per la vita, la loro estinzione o la loro sopravvivenza, la genesi e l'evoluzione dell'uomo, e poi la storia dell'uomo, da quando l'uomo è uomo, quest'organizzazione di semi che ha dato luogo alla ragione; e ad un tempo, insieme, esi- stono i semi e le loro connessioni e organizzazioni. Da un lato, come dietro le cose e i mondi quali sono nelle loro organizzazioni, si vede mentalmente questo pullulare vitale, instabile, di semi (atomi), il cui complesso. è ciò che Lucrezio chiama "materia," i loro incontri spon- tanei e infiniti (" clinamen "), il loro organarsi, donde questo o quel mondo, questa o quella cosa, questa o quella specie e qualità; dall'altro lato si vedono nascere le cose stesse e i mondi, la spiegazione naturale e razionale delle cose, dei mondi, dell'esserci naturale dell'uomo - in- dipendentemente da ogni miracolistico intervento, - e da quella stessa vitalità (anima), nell'uomo, la mente, !'animo, la razionalità che è un modo con cui si è venuta organando quella vitalità. La razionalità stessa, perciò, è "storica," positiva, si come i linguaggi e i costumi, le tecniche, mediante cui l'uomo istituisce il proprio mondo, costituisce quell'equi- librio di anima e corpo, quell'equilibrio tra uomini, che non ha nulla di già dato dietro le spalle, ma è dovuto all'attività dell'uomo. La feli- cità dell'uomo non sta, dunque, nell'adeguarsi a un ordine già dato, ma nel volere, di volta in volta, quell'equilibrio e quella misura (il "piacere"), che è una sua conquista, in una prosecuzione razionalizzata dell'opera della natura, che è serenità, in una comprensione e in un rispetto della natura ("religio"), per cui, alla fine, la virtu sta proprio in questo comprendere la natura, in questa critica della religione co- smica e dei miti, in questa umanizzazione e razionalizzazione della scienza, mediante cui nella costruzione della propria società, si effettua un'armonia, un giusto mezzo tra anima e corpo; e in tale armonia con- siste il "piacere," di là da ogni estetizzante "eroismo," oltre ogni edu- cazione basata sul culto della virtus, degli exempla, dei mores maiorum. Si vede bene, cosi, come il piacere e la misura lucreziano-epicurea non siano né la virtu eroica dello stoico, né il "conveniente," il decoro, la "signorilità" prospettate da Cicerone; Cicerone per il popolo, per la plebs voleva la superstitio, l'ordine imposto dagli ottimati, m nome del divino e delle leggi, o l'equilibrio dovuto alla ca- pacità di un uomo, di un princeps, di cui si potesse dire che è l'incar- nazione della legge suprema, della legge cosmica, e perciò stesso salvatore, correttore" dello Stato, mentre per un verso la filosofia si risolve in retorica e, per altro verso, in forme consolatorie o di edifi- cante conforto sacerdotale-religioso. Proprio di qui il conflitto tra ciceronianesimo e lucrezismo, tra due concezioni che, alla fine, non ammettono alcun discorso comune, si di- verso e opposto è il fondamento, l'ipotesi da cui prendono le mosse l'uno e l'altro, ~ non in un punto, nella comune consapevolezza di una disperata e drammatica situazione·storica, in un terror della morte, che rende tutto vano, nell'un discorso risolta in u n coraggioso appello all'uomo e alla sua razionalità, in un appello alla scienza, in un risolversi dell'uomo entro il suo stesso mondo umano; nell'altro discorso, nella speranza di un ordine proiettato retoricamente nei cieli, che si delineerà, poi, in una salvazione che non dipenderà neppure dalla capacità umana di adeguarsi all'eterno ordine della legge divina, ma sarà dovuta o a forze magiche e irrazionali (certo neopitagorismo, gnosticismo, certo neoplatonismo e ermetismo del 1-n sec. d. C.), o ad un gratuito inter- vento dello stesso dio, della persona di Dio (primo cristianesimo). Per secoli, certo, si è taciuto di Lucrezio, e perduto è andato, anche, il De rerum natura di Egnazio, che, sembra, fosse un seguace di lui. Non va dimenticato, comunque, che ciò che noi ancora leggiamo è quello che la stessa censura della storia ha salvato. Ad ogni modo, a parte ii· rigo di Cicerone nella citata lettera al fratello Quinto, gli ac- cenni di Cornelio Nepote (Biografia di Attico, 12), di Vitruvio (IX, Proemio, 41), di Ovidio (Am., l, 15, 23-24; Trist., Il, 425-26) e di Papinio Stazio (Silv., Il, 776: "docti furor arduus Lucreti"), l'unica fonte bio- grafica è quella celebre.di San Girolamo, in cui si dice che Lucrezio sarebbe morto suicida per pazzia a causa di un filtro amoroso, e che avrebbe composto alcuni libri del poema durante gl'intervalli della sua follia: "Titus Lucretius poeta nascitur: qui postea amatorio poculo in furorem versus, cum aliquot libros per intervalla insaniae conscripsisset, quos postea Cicero emendavit, propria se manu interfecit anno ae- tatis XLIV" (Chron. Euseb., VII, 1). Non altro sappiamo della vita di lui, e incerte sono anche le date della nascita (99-95) e della morte (55-51) (cfr. sopra, Vita). Sembra che Girolamo abbia usato per tali notizie il De viris illustribus di Svetonio, il che darebbe attendibilità alla notizia. Certo i cristiani conoscevano bene il De rerum natura (cfr. Arnobio, Lattanzio) e di esso discutevano in forma polemica, sf come - in fondo per le stesse ragioni - il poema lucreziano era stato discusso e minimizzato da Cicerone, il quale non poche volte afferma che gli epicurei sragionano. Di qui a sostenere, ricostruendo la vita del poeta all'uso dei biografi antichi, che Lucrezio era folle, il passo è breve. Non si è forse detto (Vita Vergi/ii di Donato), ad esempio, che Virgilio, il cantore dei campi, nacque in un maggese? (ed anche questa notizia di Donato non è forse ricavata dal serissimo Svetonio?). In effetto, Lucrezio sembra che non abbia avuto, sul piano della for- mazione di una paidèia popolare, alcun successo, anche se certamente Lucrezio fu in polemica con il suo tempo e cercò di operare almeno attraverso certi uomini (forse Memmio, Attico) che, per la loro posi- zione, ne avrebbero avuto la possibilità. E proprio sotto questo aspetto non va sottovalutata la polemica di Cicerone nei confronti dell'epicureismo, e, ancora una volta, l'affermazione ciceroniana che gli argo- menti degli epicurei non vanno discussi filosoficamente, ma eliminati con un decreto legge. È stato detto - Farrington, cit., p. 194 - che "nel caso di Lucrezio, il fatto essenziale è che in un'età in cui lo scrittore piu colto (Varrone) e lo statista piu eloquente (Cicerone) erano d'accordo sulla utilità d'ingannare il popolo in fatto di religione, egli rivolge le forze della sua cultura e della sua eloquenza a sostenere l'opinione contraria. Manifestò apertamente l'intenzione di fare quanto è possibile a un uomo per liberare la mente umana dai vincoli della religione, e scongiurare i suoi compagni di non macchiare la loro anima con quell'abominio." Eppure, non va sottovalutato, accanto al Cicerone uomo politico e legislatore, la cui opzione per un certo mo- dello filosofico e_ culturale assume un significato preciso quando lo si veda in funzione di una certa politica e di una certa difesa, l'altro aspetto di Cicerone, problematico e scettico, la funzione da lui data alla filosofia come possibilità di proporre un ordine che è dover essere, e, alla fine, sia pur per altra via, un rifugio dalla tristezza della vana vita quotidiana. Lucrezio moriva tra il 55 e il 51; Cicerone verrà ucciso nel 43. Quella decina d'anni fu ancora peggiore di quella in cui Lucrezio scrisse il suo poema, ancora piu pericolosa. Si chiarisce allora come l'influenza lucreziana, insieme a quella di Sirone e di Filodemo di Gàdara, si sia piuttosto sviluppata in senso negativo, cioè in una giustifi- cazione dell'abbandono dalla vita politica attiva, in un rifugio in con- venticole di amici, o nel crearsi mondi a parte mediante la poesia. Sembra, perciò, di non poco interesse il fatto che proprio coloro che sappiamo essere stati i maggiori epicurei romani sono morti vittime delle lotte civili, o, a poco a poco, si sono tutti ritirati dalla politica attiva. Poco o nulla sappiamo- dopo Amafinio, Rabirio, Cazio - dei primi: T. Albucio, ritenuto un grecomane, che per un certo periodo fu propretore per la provincia di Sardegna, e che, condannato per estor- sioni, si rifugiò ad Atene, abbandonando ogni velleità politica, detto da Cicerone "perfectus epicureus," (Brutus) e autore di scritti a carattere epicureo; C. Velleio, senatore e tribuna della plebe nel 91, a cui Cicerone nel De natura deorum fa difendere la tesi epi- curea; Tito Pomponio Attico (nato nel 109 a.C.), di nobilissima fa- miglia, compagno di studi di Cicerone'e, poi, sempre, suo amico (ad Attico Cicerone dedicò il De amicitia e il De senectute, e a lui scrisse moltissime lettere, raccolte in 16 libri), evitò la vita politica: per sfug- gire anzi alle lotte interne, dall'87 al 65 visse ad Atene e, tornato in Roma, rimase neutrale durante le guerre civili, facendosi editore, il primo editore romano. E cosi, lontano da Roma, ad Atene, dedito agli studi, visse un altro epicureo, Lucio Saufeio (nato nel 110 circa), cdsf L. Calpurnio Pisone - intorno a cui, presso la sua villa di Ercolano, s'era formato il notissimo circolo epicureo, avversatissimo da Cicerone (cfr. In Pisonem), il quale a fosche tinte dipinge il suo gregge epicureo, il suo porcino circolo, ma anche la sua semplicità di vita - che console nel 58, censore nel 50, s'era adoperato per impedire la guerra tra Cesare e Pompeo, e nel 43 rinnovò i suoi sforzi per impedire nuove guerre civili, dopo il 43 definitivamente abbandonò ogni azione, rifugiandosi nella sua villa di Ercolano, insieme agli amici epicurei. Vibio Pansa, amico di Cicerone, tribuna e console, mori nel 43, a Modena, combat- tendo contro Antonio; L. Manlio Torquato, pretore, console, procon- sole, senatore, pompeiana, si uccise nel 46; Statilio mori a Filippi, nel 42 a. C.; Cassio, che insieme a Bruto, stoico, uccise Cesare, si suicidò a Filippi; Egnazio, seguace di Lucrezio, che tenne in Roma una scuola di retorica e di grammatica, abbandonò Roma e, insieme a Rutilio Rufo, si recò a Smirne. Papirio Peto è posto da Cicerone (Pro Sestio, 20-23) tra i combibones epicurei. "Ad uomini tormentati dalle miserie di guerre civili atroci," ha scritto il Boyancé, L'épicurisme, cit., p. 514, "dal crollo delle tradizioni ancestrali, la vita epicurea offriva una specie di porticciolo e di rifugio. L'ambizione scatenata faceva l'infelicità ad un tempo di coloro che n'erano presi e di coloro ch'erano condannati a servire loro da stru- menti. Tale ambizione era gravida di scacchi e di rischi mortali. Quanti pochi tra gli uomini illustri di questo tempo sono in effetto pacifica- mente morti nel loro letto! Nessuno dei triumviri del primo triumvirato, né Crasso ucciso in una guerra lontana, ove l'aveva trascinato la sua ambizione, né Pompeo assassinato a Farsalo da un re satellite, né Cesare crivellato di colpi in pieno Senato. Dei due piu grandi avversari dei triumviri, l'uno, Catone, si era suicidato a Utica, l'altro, Cicerone, do- veva esser messo a morte dai sicari di Antonio. Si comprende che la vita non era mai apparsa piu minacciata nelseno stesso della città e mai l'insegnamento di Epicuro sul timore della morte non era apparso 154    piu attuale. Né tanto piu, anche, era sembrato, in presenza delle incoe- renze e dei crimini della storia, che gli dèi si disinteressassero degli uo- mini. O se ci s'immaginava che intervenissero nei loro affari, quali mai dèi sarebbero stati! Quali dèi crudeli e gelosi! Il messaggio di Epicuro si fece ascoltare in tale atmosfera, in virtu di filosofi greci come Filo- demo o Sirone, in virtu anche di Lucrezio." Non solo, ma se Lucrezio aveva sottolineato con forza l'aspetto rivoluzionario dell'epicureismo, aveva anche tracciato il modello di una "vita" epicurea, che, a parte i fondamenti dottrinari, si avvicinava non poco al modello di "vita" stoico, sganciato anch'esso dai suoi fondamenti dottrinari e rispondente, piu tardi, quando dopo Ottaviano Augusto e Tiberio il principato si trasformò davvero in impero e in dispotismo, all'esigenza di fuga dal mondo, per cui un Seneca potrà essere stoico accettando in gran parte certi aspetti del modello di vita epicureo, mentre i circoli epicurei, in Roma, assumeranno sempre di piu il carattere di chiese, di isole, di rifugi. Aveva, dunque, cantato Lucrezio: E tu potresti, talora, dire anche questo a te stesso: "O miserabile, chiuse gli occhi persino il buon Anco, che fu migliore di te per tanti aspetti; e in gran numero di poi morirono re, principi, gente potente che in mano ebbe le sorti di grandi popoli. Ed anche colui [Serse] che un giorno apri per l'ampio mare una strada, e sull'acqua fece passar le legioni... E il fulmine di guerra, lo Scipionide che fu il terror di Cartagine, rimise l'ossa alla terra, come il piu vile dei servi. Aggiungici i pensatori, gli artisti e quanti han seguito le Muse... Finito il lume mortale, mori lo stesso Epicuro... Saresti dunque tu ch'esiti e che ti crucci al morire?... Quando potessero gli uomini, al modo come nell'animo sentono il peso che con la propria gravezza li opprime, cosi sapere da che causa ciò avvenga, e donde la macina, direi, si grande del male ci sta sul petto, vivrebbero non come i piu vivono oggi, che ignorano quello che vogliono e non domandano di meglio che mutar sempre di luogo, come se fosse possibile, cosi, deporre il fardello. Questi, venutogli a noia lo stare in casa, esce fuori dai sontuosi palazzi e torna subito indietro, perché non trova affatto che si stia meglio fuori. Quello, sferzando i puledri, corre di furia alla villa come dovesse salvare il fabbricato che brucia, e già sbadiglia che ancora non ne ha toccato la soglia, o casca morto dal sonno e cerca a letto il riposo, oppure volta e rientra di gran carriera in città. A se stesso cosi ciascuno sfugge; ma, contro voglia, a se stesso ciascuno resta legato, al sé cui non si sfugge; e, com'è logico, lo odia, perché non vede il malato qual è la causa del male. Se la vedesse, ciascuno, lasciata ogni altra faccenda, si sforzerebbe anzitutto di penetrare la natura, perché v'è in giuoco lo stato del tempo· eterno, non quello di un'ora sola, e la sorte in cui dovranno trovarsi, per il tempo eterno che avanza dopo la morte, i mortali (III, 1028-1074). E proprio per questo, al principio del.secondo libro, Lucrezio aveva detto, delineando la possibile vita del saggio epicureo: Dolce è guardar dalla riva, quando i venti sconvolgono l'ampia distesa del mare, l'altrui gravoso travaglio, non perché faccia piacere che uno si trovi a soffrire, ma perché scorgere i mali di cui siamo liberi è dolce: e dolce è assistere, senza che si partecipi al rischio, agli aspri scontri di guerra in campo aperto: ma nulla è dolce piu dello starsene nei ben muniti luo- ghi che edificò la serena speculazione dei saggi, donde è concesso guardare gli altri dall'alto... (Il, 1-9). Tale, anche per le sempre piu gravi vicende politiche, fu, dopo Lu- crezio, la linea su cui si posero i gruppi degli epicurei della nuova generazione. A parte Orazio, particolarmente interessante e indicativa sembra la doppia faccia di Virgilio (70-19 a. C.), che, epicureo da gio- vane (almeno come atteggiamento), vicino al circolo napoletano di Si- rone e di Filodemo, si venne poi indirizzando a una visione del mondo e delle vicende umane (anche se non dottrinariamente) di carattere stoi- cheggiante. Nel V componimento del Cataleptqn, Virgilio, giunto a Napoli, dopo il suo soggiorno a Roma, dove s'era iniziato agli studi di retorica, ed entrato in contatto con Sirone e con quella scuola, di- chiara di avere volto le spalle alle "ampullae rhetorum" (v. 1), a quella cultura che, in Roma, doveva avviarlo alla carriera politica (inanis cymbalon iuventutis: v. 5), per abbracciare, contro la "natio scholasticorum" (v. 4), gl'insegnamenti di Sirone: nos ad beatos vela mittimus portus, magni petentes docta dieta Sironis, vitamaue ab omni vindicabimus cura (8-10). Si era nel 45 a. C. Le Bw;oliche, composte tra il 41 e il 39, se da un lato indicano ancora l'influenza epicurea nell'ideale di una pacificante natura, in cui rifugiarsi ("Tityre, tu patulae recubans sub tegmine fagi, silvestrem tenui meditaris musam avena..:": l, l sgg.), dall'altro lato mostrano (cfr. IV, V, VI), di contro alla possibile disperazione epicurea (il mondo umano lasciato a se stesso), la speranza nell'immortalità çlel- l'anima, che porterà all'uomo una serenità piu alta, l'esigenza di com- prendere la natura come un tutt'uno con l'uomo (con accenti molto vicini all'anima mund; di Lucrezio, alla sua umanizzata e vi- vente natura, ma già reinterpretata in senso stoico), onde nelle Geor- giche (composte tra il 37 e il 30, e su invito di Mecenate e di Augusto), e tanto piu, poi, nell'Eneide, riappare il motivo della Provvidenza, della pietas, della purificazione dell'anima immortale attraverso il do- lore e la morte, della speranza in un al di là in cui saranno premi o pene (la descrizione dell'Ade orfico è in genere ricavata dal VI del- l'Eneide), del destino di Roma, dell'imperium di Roma che, mediante il suo princeps (il simbolico pio Enea), porterà pace, ordine e civiltà nel mondo, compiendo la ragion d'essere, la legge del tutto: tu regere imperio populos, romane, memento - hae tibi erunt artes - pacique imponere morem, parcere subiectis et debellare superbos (Aen., VI, 851-53). Se è, senza dubbio, vero, com'è stato detto e si ripete che "il poeta partito da posizioni epicuree, attraverso la meditazione del dolore come retaggio comune all'umanità, è giunto ad intendere provvidenzialmente il destino e a ravvisare nel mondo la legge di una superiore giustizia che è legge di superiore bontà" (L. Alfonsi, s. v. in Enciclopedia filosofica), è altrettanto vero che non va scordata l'ascesa al potere di Au- gusto, di quell'Ottaviano del quale già nelle Bucoliche Virgilio aveva detto: "un dio, oggi, a noi dette questi ozt" (1, 6). Se il modello di vita, assunto da Orazio, entro i termini dei rifugi epicurei, si scoloriva in un atteggiamento di pacato intimismo e di sor- ridente umiltà (forse la celebre dichiarazione di Orazio d'essere un "porco del gregge di Epicuro," Epist., l, 4, 16, va veduta nel significato che gli antichi davano a porco, l'animale che si contenta di poco: cfr. Pla- tone, Repubblica, 372d; ma non va scordato peraltro il Carmen saecu- lare), il modello di vita virgiliano finiva in unl.accettazione del supremo ordine, dell'equilibrio nuovo, della rinnovata pietas, della religio, voluti da Augusto, e identificantisi in lui - in un compimento del cicero- niano ideale scipionico - correttore e salvatore della patria, princeps della res-publica, pater patriae. 4. Politica e cultura all'avvento di Augusto Cesare fu ucciso il 14 marzo del 44 a. C. Dopo quattordici anni di nuove lotte terribili, di proscrizioni e di gratuite morti, di alleanze e rotture, nel 30 a. C., dopo la battaglia di Azio, Ottaviano rimase arbitro della situazione. Sembrò, certo, che solo attraverso lui e la sua abile e privata politica fosse possibile ricostituire l'equilibrio e l'armonia, avere la pace. Egli apparve cosi come un patrono, protettore dei sudditi e, perciò, moderatore e princeps. Si sarà veduta, in lui, non solo la possi- bilità di salvar(' la res-publica, ma, dando ad Augusto il patronato uni-  157   versale, l'unica possibilità di una pax e di una libertas, anche se relati- vissime, che pur erano molto, rispetto al terrore di prima. Paolo Frezza, commentando come Augusto presenta il suo potere nelle Res gestae: (l l, Annos undeviginti natus exercitum privato èonsilio et privata i m pensa comparavi, pel" quem rem publicam [ a do ]minatione factionis oppressam in libertatem vindica[vi]. - XXV 2. Iuravit in mea verba tota Italia sponte sua et me he[lli], quo vici ad Actium, ducem depoposcit. Iuraverunt in eadem ver(ba provi]nciae Galliae Hispaniae Africa Sicilia Sardinia. - XXXIV l. In consulatu sexto et septimo, p[ostquam bella civil]ia extinxeram, per consensum universorum (potitus rerum omni]um, rem publicam ex mea potestate in senat[ us] populique Romani arbitrium transtuli); e richiamando la cosiddetta lex de imperio Vespasiani: ("la legge ricorda ad uno a uno i poteri straordinari conferiti da senato e dal popolo a Vespasiano: ciascuno di questi poteri o facoltà eran stati esercitati anche da Augusto: e il documento si riferisce a questo fan. come precedente della concessione attuale"); ha finemente sottolineato il duplice aspetto con cui si determina potere di Augusto e il possibile conflitto tra il principe e le magistr ture della Città Stato, donde l'esigenza da parte del legislatore di dete minare la "costituzionalità del potere del principe: la sua commensur bilità con la conformazione dei poteri costituiti ed attribuiti in ser all'ordinamento della città-stato" (Frezza, Per una qualificazione is; tuzionale del potere di Augusto, in" Atti e Memorie dell'Accad. Tosca.t di Scienze e Lettere la 'Colombaria'," XXI, Firenze, 19: pp. 112-3). Da un lato Augusto, privatamente salvatore della res-publica, del Stato-Città (e, dunque, di tutte le sue magistrature), perciò stesso p· essere acclamato patrono protettore, onde i cittadini si assoggettano lui come clienti; dall'altro lato Augusto ritrasferisce le potestà su di assunte, con un atto di sua volontà, all'arbitrio del senato e del popolo romano. Solo che Augusto, proprio perché acclamato universalmeJ princeps e patrono (non particolarmente, come nel caso del rappo cliente patrono) e ritrasferendo al Senato e al Popolo, con un atto propria volontà, la potestà assunta, rimaneva arbitro dello Stato proc mandosi ragion d'essere (heghemonikon, princeps) dello stesso Stato, svincolava da ogni legame giuridico-istituzionale, e assumeva cosi in tutto il potere, essendo egli cioè l'istituzionalità medesima, egli al 158 là del Senato e del Popolo, con il suo potere esplicantesi attraverso il Se-. nato e il Popolo, egli, appunto, princeps rei publicae. Con ciò, evidente- mente, la Città-Stato cessava d'essere tale, mentre i cittadini cesseranno d'essere cittadini per divenire sudditi e i magistrati magistrati pèr dive- nire via via funzionari dell'impero e del sovrano. " La necessità che il principio polarizzatore delle istituzioni dello Stato-Città, e il principio regolatore delle istituzioni del principato, rima- nessero l'uno all'altro opposti, ed insieme la necessità di ottenere da una sintesi dei due opposti principi, le soluzioni dei problemi in cui si pre- sentava il contenuto della nuova esperienza dello Stato: questa è, se non m'inganno, l'antinomia da cui si genera l'evoluzione storica del principato, ed in cui si puntualizza il limite- della consapevolezza che gli artefici dell'ordinamento nuovo ebbero dell'esperienza di cui essi stessi erano i modellatori. Del quale ordinamento il carattere fonda- mentale è dunque la duplicità. Da una parte il primordiale sistema istituzionale del potere del principe, che si riassume nella elementare affermazione di un sol soggetto di tutto il potere di fronte ad una totalità di sudditi, nella quale tende a scomparire la differenza fra il suddito e il civis. Da un'altra parte il raffinato. ma non piu autonomo, sistema istituzionale dello Stato-Città, in cui, come in un prisma, il totale e totalitario potere del principe si scompone in una molteplicità di settori di azione, di competenze, di limiti istituzionali all'esercizio del potere medesimo... Lo sviluppo della storia del principato, di cui la storia giuridica è un aspetto, si incarica di dimostrarci che, a misura che il potere del principe si va consolidando come ordinamento, ossia come sistema di rapporti costanti, lo Stato-Città, come soggetto com- presente nella formula dell'equilibrio dinamico della costituzione del principato... tende a scomparire. L'allontanamento dei cittadini dal- l'esercito, e dei senatori dai comandi militari, l'accesso dei provinciali al trono imperiale, e l'immissione sempre piu massiccia di provinciali nelle file della classe dirigente, la formazione di una nuova solida gerar- chia di alti ufficiali dell'impero, ai quali soltanto incombe la funzione di governo, agli ordini del sovrano, sono, com'è noto, i fenomeni com- plementari del progressivo scomparire del senato e della magistratura di Roma dalla direzione politica dell'Impero" (Frezza). Ci siamo un momento soffermati, da un lato sulla situazione psi- cologica che ha potuto determinare l'accettazione del potere di Augusto, e, dall'altro lato, sulla stessa determinazione della qualificazione istituzionale-giuridica del suo potere, perché sembra che tutto questo possa servire a spiegare - attraverso le componenti culturali, di cui si è veduto il confluire e l'intrecciarsi tra il I I e il r secolo a. C., - il prevalere in quest'ultimo scorcio di secolo, e ancora nel primo quaran-  159   tennio circa del 1 d.C., di posizioni stoico-platoniche, entro la linea che abbiamo visto svilupparsi con Cicerone, e che esattamente rispon- devano e servivano a ben precise situazioni politiche, particolarmente quali si erano venute determinando con il prevalere di Augusto e con la sua linea tattica. Non sembra cosi un caso che Augusto riprendesse il termine di princeps, che si proclamasse primus inter pares, proprio per il motivo, che sopra abbiamo visto, di porre sé al di sopra (donde il titolo di augustus) e al di là del Senato e del Popolo, assumendo in tal modo un potere extra res-publica, per cui davvero si costituiva un'egemonia dei due termini e delle magistrature, dei quali Augusto rimaneva l'egemone, il princ~tJs. Il termine heghemonik_6n, già da Ci- cerone reso in latino con principatum, stava a indicare, nelle posizioni stoiche di questo periodo, la ragione universale, non come principio a ~ ma come atto unificante una molteplicità, secondo un ordine, ed esplicantesi mediante diverse funzioni, onde si poteva dire che la ragione del tutto (il 16gos) veniva a porsi prima inter pares, in sé riassumendo le parti e dando alle parti. il loro giusto posto nell'or- dine del tutto. E tale, si come Cicerone aveva fatto apparire l'Emi- liano, Augusto, anche se con abile sottinteso, voleva fare apparire sé, ragion d'essere dello Stato, principio d'ordine e di equilibrio, non uomo del senato e del popolo (cui rende la res--publica), ma di ambedue cor- rettore e principe. E si badi - anche questo è indicativo - che nei paesi ellenistici (non in Roma) Augusto veniva chiamato basiléus, re, e ciò tanto piu si chiarisce quando si pensa al significato che al re si era venuti dando nelle monarchie ellenistiche (cfr. sopra). E cosi non è, forse, solo un caso che il filosofo di corte, assunto da Augusto, suo consigliere e consigliere (una specie di confessore) della moglie di Augusto, sia stato uno stoico, Ario Didimo di Alessandria (vissuto tra il 69 a. C. e il primo decennio del 1 secolo d. C.: cfr. Diels, Dox., 80). E qui è forse interessante riferire un estratto dell'Epitome di Ario Didimo, riportato da Eusebio (Praep. ev., XV, ·15, 1-9), in cui Ario Didimo, in sintesi, delinea la concezione generica dello stoicismo: Chiamano dio l'intero cosmo con le sue parti. E dicono che il cosmo è unico, limitato, vivente, eterno e divino. In esso infatti sono contenuti tutti i corpi, e nessun vuoto esiste in esso. ~ chiamato cosmo non 5olo il qt~ale costituito da tutta la sostanza esistente; ma anche ciò che secondo un'ordinata disposizione ha una struttura di tal genere. Perciò, secondo la prima definizione, dicono che il cosmo è eterno; secondo l'ordinata dispo- sizione, lo definiscono generato e mutevole secondo infiniti periodi, passati e futuri. E la qualità costituita da tutta la sostanza esistente è il cosmo eterno e divino. Ma è detto cosmo anche l'insieme costituito di cielo, aria, 160    terra, mare e delle nature che sono in ciascuno di questi elementi. t detto cosmo anche il domicilio degli dèi e degli uomini, ovvero l'insieme costi- tuito (dagli dèi e dagli uomini), e dalle cose che sono nate in vista di quelli. Infatti, a quel modo che diciamo città in due sensi, come domicilio e come insieme degli abitanti e dei cittadini, cosf anche il cosmo è come una città costituita di dèi e uomini, in cui gli dèi hanno il governo e gli uomini sono i sudditi. Tra gli uni e gli altri v'è comunione, perché partecipano della ragione, che è legge di natura. Tutte le altre cose sono nate in vista di quelli. E in accordo con tutto ciò bisogna ritenere che degli uomini si prenda cura dio che governa l'universo [si confronti anche Platoae, Leggi,. 899d sgg., 903b sgg.], che è benefico, buono, amante degli uomini, giusto,, e che ha tutte le virtu. Perciò il cosmo è detto anche Zeus, essendo per noi l'autore della vita (z~n). In quanto dio fin dall'eternità governa tutte le cose ineluttabilmente con una ragione concatenata, è detto Fato. t detto Adrastea,. poiché niente può sfuggirgli [apodidrtiskein]. t detto Provvidenza, perché ha cura di ciascuna cosa secondo i singoli interessi. Cleante credeva che· parte dominante [egemonica] del cosmo fosse il sole, perché è il piu grande· degli astri e quello che massimamente contribuisce al governo dell'universo,. dando origine al giorno, all'anno e alle altre divisioni di tempo... Crisippo· identificò questa parte con l'etere purissimo e semplicissimo, perché è il piu mobile di tutti gli elementi e trascina in giro l'intera traslazione del' cosmo (Dossografi greci, a cura di L. Torraca, Padova, 1961, pp. 249-50).. Certo bisogna tener presente che quando si dice stoicismo o plato- nismo, o stoicismo platonico, o anche aristotelismo stoicheggiante o· platonizzante, in effetto diciamo qualcosa di molto vago, se non inten-· diamo una vaga visione d'insieme, uno sfondo culturale, ormai cristal-· lizzatosi ed estremamente diffuso sia nelle scuole, sia in manualetti di. massime, sul tutto e sulla vita pratica, circolanti presso il popolo, com'è· largamente testimoniato. Tale visione d'insieme e legale di un universo• vivente, poteva poi servire, sia sul piano del diritto e del potere poli- tico, sia sul piano dei singoli insegnamenti e dell'avviamento nelle scuole, da un lato ad una morale comune e religiosa, dall'altro lato alle tecniche formali del dire (grammatica, retorica e dialettica) e alle sin- gole tecniche pratiche (le cosiddette singole scienze); essa risulta compen- diata in manuali che, usando cognizioni e notizie acquisite, assumono l'aspetto di repertori e di centoni. Se ciò si vede bene, nel suo aspetto particolare, ad esempio nel tipo di geografia descrittiva e umana di Strabone (63-25 a. C.), a carattere enciclopedico e informativo, ove non v'è piu nulla degli interessi mate- matico-scientifici che avevano mosso un Eratostene e piu tardi Cratete di Pergamo e Agatarchide di Cnido, altr.ettanto bene ci rendiamo conto di tutto questo anche dalle testimonianze e dai pochi frammenti che poS5ediamo di Eudoro di Alessandria e di Ario Didimo. Vissuti nella seconda metà del 1 secolo a. C., il primo piu vicino a forme platoniz- zanti tipo Antioco di Ascalona (ad Antioco successero nello scolar- cato dell'Accademia, mantenendosi sulla stessa sua linea, Aristone di Ascalona, dal 68 al 51, ascoltato da Bruto e da Cicerone, e Teomnesto di Naucrati), il secondo a forme stoicheggianti (sembra che lo stoi- cismo ufficiale della scuola di Atene si sia mantenuto, con gli scolarchi successi a Panezio, Mnesarco, Apollodoro di Atene, Dionisio, Anti- patro di Tiro, sulla linea di Panezio), l'uno e l'altro hanno scritto dossografie, opere filosofiche a carattere enciclopedico, commenti al Timeo, di Platone, alle Categorie e ad alcune parti della Metafisica di Aristotele (Eudoro: cfr. Simplicio, Schol. in Arist., 6la, 25; Plutarco, De anim. procr. in Tim., III, 2; Alessandro, Metaph., 44, 23), epitomi (Ario Didimo: cfr. Doxographi del Diels). Entro, appunto, questa concezione comune platonico-stoica, con ve- nature proprie alla scepsi della nuova Accademia, in senso ciceroniano (cfr. sopra: e Ario Didimo in Stobeo, Ecl.; Diels, Dox.), si determinava un tipo di cultura enciclopedica, per cui poteva servire Aristotele (partico- larmente i libri di logica, usati come introduzione all'arte del retto ragionare, e i libri naturalistici, biologici, zoologici, meteorologici), sr come Panezio o Posidonio, e, in specie, i commenti scolastici ai grandi testi, e, insieme, le dossografie, le epitomi, le raccolte di questioni trat- tate per problemi e divise per scuole, secondo un capostipite nella cui linea si facevano rientrare i successori (tale metodo s'era diffuso, sul- l'esempio di Teofrasto, tra il 111 e il u secolo a. C., mediante la Successione dei filosofi: dtcx3o:x,~ -rClv cpr.ì.oaO<p(J)V, del peripatetico Sozione originario di Alessandria, che aveva distinto due scuole, l'ionica e l'italica, e che fu una delle fonti maggiori cui attinsero i compilatori posteriori, fino a Diogene Laerzio). Un esempio di tali motivi è rappresentato dall'edizione che delle opere scolastiche di Aristotele, ritrovate nel 133 a.C., a Scepsi (cfr. sopra, I vol.), consegnate dagli eredi di Neleo al libraio Apellico (che dal 100 circa, portatele ad Atene, le offrf in pubblica lettura) requisite da Silla nell'86 a. C., fece, insieme al grammatico Tirannione, Andro- nico di Rodi (scolarca dal 70 al 50 a. C.: dopo Critolao erano stati scolarchi Diodoro di Tiro ed Erimneo, dei quali poco o nulla sappiamo). Basti, nel sen~ di cui sopra parlavamo, ricordare quel che Porfirio dice del criterio usato da Andronico: "Egli divise le opere di Aristotele e di Teofrasto in argomenti (1tpor:yjL«u(~), mettendo insieme sotto titolo comune le specula~ioni che trattavano argomento affine (-r~Ì4; o!x&tcxç 01to-&éaetç etç -rcxù-ròv auvcxycxyci>v) (Vita di Plotino, 24, 138); e basti pensare all'ordine con cui si venne a costituire il corpus aristote- lico (Organon, Fisica, De coelo, De genesi et corruptione, Meteorolo- gica, De anima, Parva naturalia, libri sugli Animali, Metafisica, Etica Nicomachea, Magna moralia, Etica Eudemea, Politica, Retorica, Poe- tica). Se da un lato è chiaro l'intento di volere istituire il libro della scuola peripatetica (altrettanto sintomatico è che proprio in quest'epoca venga edita, a cura di Attico e di Dercillide, sulla linea dell'edizione di Aristofane di Bisanzio, l'opera di Platone, divisa in tetralogie, da cui riprese poi Trasillo, vissuto sotto l'imperatore Tiberio, il cui Corpus platonicum sarebbe poi quello giunto fino a noi), dall'altro lato è chiaro l'intento di offrire una enciclop.edia delle scienze unificate, in un unico sistema. E ciò non significava affatto che, a cornice del quadro aristo- telico, della divisione della filosofia (come cultura di fondo) in logica, fisica, etica, non potesse servire la struttura generale dell'universo, entro i termini teologico-ontici e del tutto vivente, dell'ultimo Platone, di certi stoici e dell'Aristotele di alcune parti della Metafisica, oltre quello ch'era stato il platonismo, il primo stoicismo, l'aristotelismo. Di qui, anche, l'importanza delle introduzioni alle visioni totali di un cosmo ordinato e, perciò, all'astronomia; e le relative sinopsi sco- lastiche. Edizioni di testi, dunque, introduzioni generali, sillogi. Certo quel che colpisce, e che rivela tutto un modo di pensare rispondente a certe precise esigenze, è ciò che si pubblica, sono i testi che circolano e si commentano: Platone, Aristotele; il complesso della visione stoica quale si era venuto conformando nel tempo; per altra via si costrui- scono testi pitagorico-matematici, testi religiosi che vanno sotto l'eti- chetta di testi orfici, particolarmente si commenta, e non è poco indi- cativo, il Timeo di Platone, le Categorie di Aristotele, testi di astro- nomia; mentre si vanno perdendo, o si accantonano, almeno ufficial- mente, le altre linee che avevano costituito altre filosofie e concezioni. Non è forse senza interes_se ricordare a tale proposito il nome di Boeto di Sidone (detto " peripatetico, " per non confonderlo con Boeto di Sidone stoico), discepolo di Andronico di Rodi, amico di Strabone, successo, sembra, alla morte di Andronico nello scolarcato del Peri- pato di Atene. Egli avrebbe scritto una serie di commenti, a carattere interpretativo e divulgativo, alle opere di Aristotele, con particolare riguardo alle Categorie (cfr. Ammonio, In Cat., 5). Fondamentàli testimonianze di tutto questo sono tre opere, di non alto valore scien- tifico, L'introduzione ai fenomeni (Eta«y(J)yYJ et<; -.a ql«tV6fUV«), composta tra il 70 e il 63 a. C., di Gemino di Rodi, la Teoria circolare dei corpi celesti (Kux).~x1J.3-e:(J)pt« (l&-r&6:ip(J)v) di Cleomede (1 a.C.), e, infine, il De mundo (Ilept x6a(lOU), che andato sotto il nome di Ari- stotele e inserito nel Corpus aristotelico, venne compilato tra la seconda metà del I secolo a.C. (certo dopo l'edizione di Aristotele da parte di Andronico, e dunque, dopo il 40 a. C.) e il I secolo d. C. (ri- sulta già noto nella Dialexeis di Massimo di Tiro, la cui attività si svolse tra il 180 e il 190 d. C., ma già contro di esso avevano polemiz- zato Taziano, morto nel 172 e Atenagora, morto nel 177, mentre nel De mundo si rilevano chiare influenze di alcuni testi di Filone l'Ebreo, vissuto tra il 25 avanti e il 40 dopo Cristo: ma su tutto questo, e sulle varie tesi cfr. Festugière, cit., vol. Il, pp. 477 sgg.). I primi due testi sono vere e proprie introduzioni scolastiche al- l'astronomia, ove, in effetto, non v'è nulla di nuovo, ma dove colpisce il tentativo di inquadrare le descrizioni dei fenomeni celesti (si badi che si resta sempre sul piano descrittivo) entro una piu ampia conce- zione dell'universo, che è, poi, quella stoico-aristotelica, con non pochi spunti ripresi dalla tradizione che proveniva dal Timeo platonico, dal- l'Epinomide e, probabihnente, da alcune ricerche di Posidonio, ch'era pur sempre un tentativo di razionalizzazione dell'Universo. Il De mundo ha maggiori velleità, e si presenta come delineazione compiuta e sistematica dell'ordine del tutto, una specie di libro sapienzale, in cui se da un lato si sfruttano le conclusioni aristoteliche sul piano fisico-meteorologico (mondo superiore, immobile e ordinato, regione sublunare corruttibile e disordinata, etere quinto elemento, eternità del mondo), dall'altro lato si sfruttano certe tesi stoiche (il pneuma, la Prov- videnza, Dio legge dell'universo, l'universo come l'insieme del cielo e della terra con tutti gli esseri ivi contenuti), e certe tesi platoniche (Dio principio, mezzo e fine), in funzione di una unità sistematica, mediante cui si po~eva - sul piano di un Antioco - vedere in Ari- stotele e nello stoi~ismo un compimento del platonismo. Sotto questo aspetto, il De mundo, che si apre con un elogio della sapienza (I), per passare quindi a descrivere la struttura dell'universo, i suoi elementi, le regioni di tali elementi, i fenomeni propri a ciascuna regione (11-IV), sostenendo l'unità ed eternità del Cosmo, il suo ordine, la sua unica ragion d'essere (V), che è la stessa divinità, trascendente (l'altis- simo) e immanente a un tempo, che tutto governa e donde provengono tutti gli effetti, Dio, platonicamente principio, mezzo e fine del tutto (VI-VII), poteva assumere, davvero, la funzione di libro di scuola, ov'era, in linee chiare e facili, esposta quella cultura di fondo di cui abbia,mo parlato. Altri punti del De mundo, ha sottolineato il Festu- gière (cit., pp. 513-14), avranno un gran posto nella letteratura teolo- gica dei due primi secoli dell'Impero, e particolarmente nell'ermetismo, e cioè: l'eminente dignità di Dio; l'unicità di Dio; la polionimia di Dio. Dirà Seneca. Gli Etruschi, antenati dei romani, hanno riconosciuto lo stesso Giove, come noi, moderatore e guardiano dell'universo, anima e soffio vitale del mondo, signore e architetto di tale produzione, colui al quale ogni nome si addice. Vuoi chiamarlo Destino? Non t'in- gannerai: da lui tutto dipende, egli causa delle cause. Vuoi chiamarlo Provvidenza? Sarà detto bene: per suo consiglio si è provveduto ai bisogni di questo mondo, s1 che nulla ne turba il cammino ed egli senza ostacolo svolge il corso delle proprie azioni. Vuoi chiamarlo Natura? Non è errato: da lui tutto è nato, il soffio di lui ci anima. Vuoi chiamarlo Mondo? Non avrai torto: egli è questo Tutto che vedi, che penetra ciascuna delle sue parti, che è a fondamento di sé e di tutto ciò che è in lui" (Naturales quaest., Il, 45). Aveva detto Varrone: "Bisogna tener presente che tutti gli dèi e le dèe sono il solo Giove, o che, come vogliono alcuni, tutte queste cose siano parti di Dio, o che siano potenze di Dio, secondo l'opinione di coloro che fanno di Dio l'anima del mondo. Tutta la vita universale è la vita d'uno stesso Essere vivente, che contiene tutti gli dèi che sono po- tenze, membri, o parti" (fr. 15 b Agahd). Il De mundo si colloca, anche cronologicamente, tra questi testi di Varrone e di Seneca, rispecchiando assai chiaramente la koinè cultu- rale-politica quale si venne configurando tra la fine del 1 secolo a. C. e la prima metà del I secolo d. C., e l'importanza, piu che scientifica teologi~politica, assunta dagli studi di astronomia e di questioni na- turali, che, per il resto, usando notizie acquisite, si delineano in ma- nuali di volgarizzazione e in repertori scolasticamente utili, in summe di un sapere ormai istituzionalizzato. E cosi sembra di non poco inte- resse il termine architetto usato da Seneca per indicare la divinità, che se da un lato richiama la moralità come architettura di aristotelica memoria, dall'altro lato dà il significato esatto di questa visione misu- rata e normativa dell'universo, cui ha da adeguarsi l'uomo e la società e l'opera stessa dell'uomo, indipendentemente ormai, in una certa atmosfera culturale acquisita, da dimostrazioni e da prove, valida, invece, come dato di fondo su cui poi ciascuno deve svolgere il proprio mestiere, mettere a frutto le proprie particolari cognizioni. E qui, in ispecie, pensiamo alla prima scuola filosofica che si apri in Roma, proprio tra la fine del I secolo a.C. e i primi anr1i del I d. C., fondata da Quinto Sestio (nato circa nel 70 a. C.), cui successe, nella direzione, il figlio Sesto (forse Sertius Niger, indicato da Plinio quale fonte dei libri dodici, tredici, ventuno-trenta, trentadue-trenta- quattro, della su.a Storia naturale) e, perciò, detta poi la "Scuola dei Sestii." Breve fu la durata della Scuola. Per quel poco che sappiamo di essa, attraverso Seneca, che, nel 18-20 d. C., fu discepolo di Sozione di Alessandria, aderente alla Scuola dei Sestii; e di Fabiano Papirio, anch'egli della Scuola, e di cui Seneca dice che non fu "filosofo cattedratico, ma vero filosofo all'antica" (De brevitate vitae, X, l) e per qualche testimonianza di Stobeo, possiamo -indicare la Scuola come configurantesi entro i termini del piu generico stoicismo, che soprat- tutto doveva servire da fondamento all'insegnamento etico, alla forma- zione del cittadino, e da fondamento all'insegnamento di materie par- ticolari: questioni naturali, politiche, retoriche, di medicina (ricor- diamo di Fabiano i titoli pervenutici di alcune sue opere: Libri cau- sarum naturalium, De animalibus, Libri t:ivilium), di cui abbiamo un esempio nell'opera di Aulo Cor~elio Celso della Scuola dei Sestii. Celso, vissuto tra Augusto e Tiberio, scrisse una grande enciclopedia, di cui non è rimasto che il volume De re medica, già esso estremamente indicativo di un metodo e di un tipo di richlesta (gli altri volumi erano dedicati all'agricoltura, all'arte militare, alla retorica, alla filosofia e al diritto). Il De re medica (in otto libri) non è affatto opera origi- nale - si pensa anche che sia la traduzione di un'opera medica in greco, torse, secondo Max Wellmann, Celsus, in "Philol. Untersuch.," Berlino, 1913, di un certo Cassio, andata persa - ma, a parte il suo valore come fonte per la storia della medicina e delle scuole medi- che (1), è una preziosa opera divulgativa e descrittiva, che poteva servire non poco ad una preparazione specifica, soprattutto per la sua precisione nella descrizione dei sintomi delle malattie e dei mezzi di guarigione (11-IV), tanto dietetici che farmaceutici (V-VI: veri e propri trattati di farmacologia), degli interventi chirurgici (VIi: è per la prima volta descritta l'operazione della cateratta) e delle malattie delle ossa (VIII). D'altra parte non va qui scordato il medico Asclepiade (vissuto circa tra il 124 e il 45 a. C.), di Prusa, in Bitinia, che nella prima metà del I secolo a. C., fbndò in Roma la prima, privata, scuola di medicina (pubblicamente una Schola medicorum venne eretta in Roma solo nel 14 d. C.). Asclepiade, che aveva studiato ed esercitato. in molte città di Oriente e in Alessandria, che aveva risentito le influenze delle teorie di Erasistrato (cfr. I vol.), ritenne, ed è ciò che qui interessa, che la dottrina epicurea degli atomi (da Asclepiade detti 6nco1) e della formazione delle cose e loro costi- tuzione a seconda della disposizione e organizzazione degli atomi stessi, fosse l'unica dottrina che poteva permettere al medico di ope- rare sulla natura del corpo umano, ristabilendo, di volta in volta, certi equilibri, o determinandone, mediante un'intelligente esperienza, altri migliori, curando, appunto, "mediante la stessa natura," soprat- tutto per mezzo della dieta, s(da ricostituire la simmetria degli atomi mediante mezzi sicuri, rapidi, _piacevoli (cfr. Plinio il Vecchio, Nat. hist. XXVI, 7, 3 sgg.). Non è un caso, tuttavia, che Asclepiade, in epoca piu tarda, al tempo in cui anche in medicina prevalse la teoria 166    pneumatica, di chiara ispirazione stoica, sia stato detto un ciarlatano (Plinio, Galeno), e accomunato al suo discepolo Temisone di Laodicea, che abbandonata ogni teoria generale, dette avvio alla cosiddetta scuola dei metodisti, assumendo come metodo (donde il nome della scuola) l'osservazione, mediante cui determinare i caratteri propri a ciascuna malattia, e fondandosi sulla "tensione" dell'organismo rivelantesi at- traverso il battito del polso. Certo egli cercò soprattutto di compiacere alla sua ricca clientela, mentre i medici piu seri, da Eraclide di Taranto (principio del I a. C.) ad Apollonia di Cizio (metà del I a. C.), appar- tenuti ambedue alla scuola empirica, cercarono soprattutto di descri- vere le acquisizioni da essi fatte mediante la pratica e la somma delle loro esperienze, sottoposte a verifica, finché proprio al principio del I secolo d. C., poco dopo la pubblicazione dell'opera di Celso, avremo che anche la medicina si ispirerà, per lo stesso fondamento teorico dell'arte, per il fondamento della fisiologia e della patologia, al sistema stoico (la scuola pneumatica, rifacentesi ad uno scritto del Corpus hip- pocraticum, il De flatibus, fu fondata cla Ateneo di Attalia). Ad ogni modo, se, come pare, gli altri volumi dell'enciclopedia di Celso avevano gli stessi caratteri del volume dedicato alla medicina, seml:>ra esattamente confermato quanto sopra dicevamo. E ciò tanto piu risulta vero, quando pensiamo alla stessa attività degli scienziati tra il I a. C. e il principio del I d. C., che, sempre meno teorici, o meglio usando teorie già acquisite, appaiono soprattutto come dei tecnici, dei meccanici, degli ingegneri, dei pratici, che perfezionano strumenti e operano, a cominciare dai tecnici. di Alessandria (Ctesibio, Filone di Bisanzio) a finire ai tecnici romani, costruttori di strade militari, di monumenti, di porti, di fognature, di macchine belliche (cfr. l'Archi- tettura di Vitruvio), rispondenti alle esigenze politiche, militari, urba- nistiche di Roma (cfr. Prefazione di Vitruvio), al grande alessandrino Erone (vissuto nella seconda metà del I secolo d. C.), anche se man- tenendo quella visione d'insieme, quello sfondo culturale, quella cre- denza in un tutto ordinato e architettonico, quale anche si rivela nel celebre De architectura (del 25-23 a.C.) del grande tecnico e archi- tetto Vitruvio Pollione, vissuto tra il tempo di Cesare e di Augusto e a loro legato. Vitruvio era convinto che la misura delle costruzioni umane ("l'architettura è costituita: dall'ordinamento, che in greco si dice -r&~r.ç, e dalla disposizione che i greci dicono 8t&.&eatc;; e dal- l'euritmia, la simmetria, il decoro, la distribuzione detta in greco o[xovo!J.(ot, l'ordine"; l, 2, l), deve essere adeguata alla misura del tutto, espressione di una certa umana cultura e civiltà, di cui l'espres- sione è l'architettura (cfr. Prefazione e I libro cap. 1), d'onde, anche per Vitruvio, l'importanza di una cultura enciclopedica, non solo  167   perché l'architetto possa realizzare tecnicamente le proprie opere (per cui l'architetto deve avere cognizioni di geometria, di prospettiva, di disegno, di meccanica, dei materiali, dei climi, delle situazioni delle città, di storia, delle acque, e cosf via), ma perché tale cultura sta a fondamento di ogni scienza, s1 come di ogni consapevole opera umana. La scienza dell'architetto si accompagna a molteplici conoscenze e a istruzioni varie... Essa nasce dalla pratica e dal ragionamento (e.r fabrica et ratiocinatione). La pratica: è una continua e minuziosa meditazione dd- l'uso, che si ottiene mediante le mani, con l'aiuto di un q1,1alche genere di materia buona per essere plasmata. Quanto al ragionamento: è ciò che può dimostrare ed esplicare, mediante la penetrazione della ragione, le cose che si eseguiscono... Né l'ingegno senza la scienza, né la scienza senza l'inge- gno può fare un compiuto artefice. L'architetto deve essere letterato, abile nel disegno, istruito in geometria; deve conoscere le leggende, deve avere con zelo ascoltato i filosofi, sapere di musica, non essere ignorante di medicina, sapere le decisioni dei giureconsulti, conoscere l'astrologia e le leggi dd cielo... Potrà, forse, sembrare curioso agli inesperti che la natura possa approfondire e contenere nella memoria si gran numero di scienze. Ma quando si saranno resi conto che tutte le scienze hanno tra loro una connessione e uno scambio di contenuti, capiranno come ciò possa facil- mente avvenire. La scienza universale (encyclios disciplina), infatti come un sol corpo ~composta di queste membra. Cosi coloro che fin dalla tenera età vengono avviati a conoscenze molteplici, riconoscono in tutte le branche delle lettere gli stessi caratteri e le mutue relazioni di tutte le scienze, donde giungono piu facilmente alla nozione di tutte le cose (1, l, 1-2, 9, 44-45). Di Enesidemo sappiamo molto poco. Sappiamo che nacque a Cnosso, nell'isola di Creta (cfr. Diogene Laerzio, IX, 116) - secondo Fozio, Myriobiblon o Bibliotheca, 170a, sarebbe nato ad Egea;- che per un certo periodo insegnò ad Alessandria (Aristocle, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 18, 22) - il che può essere abbastanza interessante relativa- mente alla conoscenza che Filone di Alessandria poteva avere del- l'opera di Enesidemo; - che dapprima seguace dell'Accademia se ne sarebbe poi distaccato, ritenendo che in effetto i nuovi accademici piu che accademici fossero degli stoici (Fozio, cit.): il che fa pensare che, secondo anche la testimonianza di Sesto, Pyrrh. hipot., l, 235, il quale sostiene che Antioco di Ascalona aveva ridotto l'istanza scettica del- l'Accademia a un neo-stoicismo, la polemica di Enesidemo e il suo polemico prodamarsi pirroniano, per cui dette alla sua opera princi- pale il titolo Discorsi pi"oniani, fossero rivolti proprio contro l'equi- voca posizione di Antioco e la diffusione afilosofica del suo insegna- mento nella cultura romana. Secondo Fozio, Enesidemo avrebbe dedi- cato i Discorsi pirroniani "a un certo suo collega accademico, di nome Tuberone, romano di nascita, di famiglia illustre, che aveva avuto ma- gistrature civili non volgari" (Fozio, Myr., 169b). A parte un Tu- 2 Di Enesidemo sappiamo che nacque a Cnosso, nell'isola di Creta, che insegnò ad Alessandria, e che scrisse un'opera intitolata Discorsi pi"oniani, di cui abbiamo un sunto nel Myriobiblon (o Bibliotheca,Bt(3Àto~~x-~) di Fozio (Fozio dice Enesidemo na- tivo d.i Egea). Fozio dice anche che Enesidemo dedicò la sua opera a un certo Tuberone, uomo noto per famiglia e per cariche. Sulla questione dell'epoca in ctJi sarebbe vissuto Enesidemo (il 1 sec. a. C. o il 1 sec. d. C.) cfr. sopra nel testo. Altri titoli di opere perdute di Enesidemo sono: Contro la saggezza, Intorno alla ricerca, Schizzo introduttivo al pir- ronismo, Elementi, Prima introduzione. Si veda nel testo anche la questione dei disce- poli di Enesidemo (Zeucsippo di Poli, Zeucsis, Antioco di Laodicea, Apelle), insieme al problema della loro cronologia ed a quella di Agrippa, di cui non abbiamo alcuna notizia biografica.  179   berone piu antico, della illustre famiglia conosciamo Lucio Elio Tu- berone, amico di Cicerone, legato di Q. Cicerone (proconsole in Asia nel 61-58), culturalmente vicino all'ambiente ciceroniano, e il figlio di Lucio, Quinto Elio Tuberone, che,' insieme con il padre, fu pompeiano e avversario di Cesare, ma che, riconciliatosì con Cesare, abbandonata la diretta vita politica, visse in Roma, occupandosi di studi storici, fin verso la fine del 1 secolo. Nulla vieta di pensare che il Tuberone cui fa cenno Fozio sia Quinto Elio, che, vissuto nel- l'ambiente ciceroniano, poteva benissimo essere considerato accademico, ma che poi, anche per influenza di Enesidemo, avrebbe potuto libe- rarsi dall'Accademia stessa, divenuta eccessivamente dogmatica e stoi- cheggiante. In effetto, dal lucido sunto che Fozio dà degli otto libri dei Discorsi pirroniani appare con chiarezza che la polemica di Enesi- demo è soprattutto volta contro i qeo-accademici, "stoici contro altri stoici" (Pozio, cit.), in un appello al pirronismo, quale termine ideale di un piu serio e consapevole modo di ~osofare, volto non tanto alla costruzione di una qualsivoglia concezione della realtà, ma alla com- prensione critica delle capacità e delle possibilità umane, in uno studio dei modi mediante cui l'uomo, ciascun uomo, a seconda della sua situazione (fisica e sociale), costituisce una certa concezione che viene poi spacciata per unica e vera. E di tale atteggiamento che, attraverso la polemica nei confronti della Nuova~Accademia, va oltre la Nuova- Accademia, in una radicale e sistematica discussione di ogni cultura conformisticamente cristallizzatasi, è testimonio anche Sesto Empirico, sulla fine del I I secolo d. C. (" Antioco introdusse la Stoà nell'Acca- demia, talché si disse di lui che nell'Accademia trattava la filosofia stoica": Pyrrh. hypot., l, 235). Sesto Empirico, per altro, distinguendo tra scettici "piu antichi" e scettici "piu recenti" (Pyrrh. hypot., I, 36, 164), sostiene che spetta ai piu antichi di avere classificato dieci modi (tropi) mediante cui non si può nòn giungere alla "sospensione del giudizio" (cit., I, 36), mentre spetta ai piu recenti di averne clas- sificati cinque (cit., l, 164). E siccome altrove Sesto afferma (Adv. math., I, 345) di avere esposto nelle lpotiposi pirroniane i dieci tropi "secondo Enesidemo," si è di qui arguito che Sesto ponga Enesidemo tra gli scettici piu antichi. Una testimonianza di Aristocle (n sec. d. C.) pone, invece, Enesidemo tra i pensatori "recenti" (in Eusebio, Praep. ev., XIV, 18, 22). Questo e la constatazione che Cicerone non citi Enesidemo (un testo del Lucullus, X, 32, tuttavia, è sembrato al Couissin, Le stoicisme de la nouvelle Académie, p. 263, un accenno, anche ·se sprezzante, alla posizione di Enesidemo) hanno messo in dubbio l'epoca in cui Enesidemo sarebbe vissuto (primo secolo avanti 180    o primo secolo d. C.?). Che Cicerone non citi Enesidemo è sembrato grave allo Zeller, il.quale sottolinea che Cicerone, molto vicino ai neoaccademici Filone di Larissa, Antioco di Ascalona e a Lucio Elio Tuberone, cui Enesidemo dedica i Discorsi, avrebbe dovuto discutere il pirronismo di Enesidemo, mentre invece afferma che il pirronismo era da tempo passato (De Oratore, III, 62). Si può, d'altra parte, far l'ipotesi che Cicerone, come non cita Lucrezio riducendolo al piu an- tico epicureismo, cosi si sgombri il terreno da Enesidemo che discute la validità scientifica del "probabilismo," mediante cui Cicerone ri- prendeva la concezione generale dello stoicismo, riducendo Enesidemo ai piu antichi pirroniani. Non solo, ma bisognerebbe essere sicuri che il Tuberone di cui parla Fozio sia Lucio Elio e non, invece, il figlio Quinto Elio (Fozio non precisa), perché in tal caso i Discorsi pirro- niani potrebbero essere stati scritti dopo la morte di Cicerone. Quanto, infine, al "recente" di Aristocle e all'"antico" di Sesto (ma, in fondo, quel "piu antichi" è molto generico e sta ad indicare la conclusione di un processo di sistemazione dei tropi scettici, rispetto ad altre piu recenti sistemazioni, tanto è vero che Sesto non fa nessun nome, mentre cita, Pyrrh. hypot., I, 180-181, Enesidemo per dire che suoi sono gli otto tropi mediante cui sovvertire i ragionamenti intesi a spie- gare le cause, su cui si fonda la superbia dei dogmatici), si è giusta· mente pensato che Enesidemo "avrebbe potuto apparire recente ad Aristocle che lo raffrontava con Pirrone e antico a Sesto che lo raf- frontava con filosofi a lui posteriori" (M. Dal Pra, Lo scetticismo greco, Milano, p. 278). I Discorsi pirroniani sembra, dunque, che siano stati scritti nella seconda metà del 1 secolo a. C. Essi rinnovano, in un'atmosfera cul- turale, adagiatasi, attraverso Antioco e Cicerone, in una generica con- cezione stoico-platonica, accettata dogmaticamente come sfondo di una cultura comune e conformisticamente scolastica, anche se posta da al- cuni come verità "probabile," una corrente scettica (come atteggia- mento critico che " a ogni ragione oppone una ragione di egual valore": Sesto, Pyrrh. hypot., l, 8, "senza dogmatizzare, nel significato che altri dànno alla parola dogma, cioè assentire a qualcuna delle cose che sono oscure e formano oggetto di ricerca da parte delle scienze": Sesto, cit., I, 13), che non si sarebbe mai spenta é che, secondo Diogene Laerzio (IX, 115-116), dopo Timone di Fliunte, avrebbe avuto i suoi maggiori rappresentanti in Tolomeo di Cirene, Sarpedonte, Eraclide, dei quali in realtà non sappiamo nulla (Eraclide sarebbe stato maestro di Enesi- demo: ma quale Eraclide, il medico Eraclide di Taranto, il medico Eraclide di Eritrea?). Ad ogni modo, ammesso ch'Enesidemo sia vissuto piu tardi, biso- gnerebbe allora sostenere che prima di Filone l'Ebreo già vi fosse stato un pensatore che ha ripreso e diffuso gli antichi argomenti di Pirrone e di Timone, in polemica contro i neoaccademici e lo stoicismo gene- rico, contro il diffuso dogmatismo scolastico. Egli,.tuttavia, traspor- tando questi elementi su di un piano gnoseologico e logico, piu vicino a Carneade e ad Arcesilao che non a Pirrone, avrebbe criticamente ordi- nato i tropi (dei cosiddetti tropi di Enesidemo in Filone ne rintrac- ciamo almeno otto), mediante cui mostrare la necessità della "sospen- sione del giudizio" (epochè), anche nei confronti del "probabilismo," forse praticamente e politicamente utile, ma teoreticamente e scienti- ficamente un compromesso, al servizio dello stesso stoicismo, tropi, che come furono ripresi da Filone l'Ebreo, sarebbero stati ripresi e organicamente sistemati da Enesidemo, anche se con un fine assai diverso. In effetto, sia attraverso Filone l'Ebreo, sia attraverso il sunto che degli otto libri dei Discorsi pirroniani dà Fozio, sia attraverso ciò che di Enesidemo dice Sesto Empirico (anche Diogene Laerzio), ricaviamo che sulla fine del I secolo a. C. e sul principio del I d. C., come da un lato si venivano compilando le "summe" del sapere stoico, platonico, aristotelico, o piu generici manuali ove si delineavano concezioni d'in- sieme, cosi, dall'altro lato, si vennero ordinando in un complesso orga- nico gli argomenti propri alla tradizione scettica, che, appunto, di con- tro alle evasioni ed alle acritiche costruzioni di certo stoicismo plato- nizzante e aristotelizzante, dimentico dei piu complessi e scientifici problemi di logica e di gnoseologia, rappresenta l'aspetto piu scientifico e validamente filosofico di quest'età. "In origine, lo Scetticismo mirava," ha scritto il Robin, "alla salute nella saggezza; ma ·a poco a poco la sua dialettica assunse un signi- ficato prevalentemente metodologico... Analisi rigorosa e infaticabil- mente esauriente di tutti gli aspetti di un problema; abilità dialettica senza pari; probità intrattabile di uno spirito ché rifiuta d'ingannarsi da sé; risoluta ostilità contro la teoria e gli apriorismi di qualsiasi genere; rispetto del fatto puro, insieme con la sollecitudine di notarne scrupolosamente le relazioni e di utilizzarlo per la pràtica... In origine il suo metodo era una discipìina morale, il cui fine era la tranquillità dell'animo; in seguito, fu anche, e soprattutto, una disciplina dello spi- rito scientifico. Mai si atteggiò a ribelle, né cercò lo scandalo; l'umiltà del suo quietismo gli fece accettare la vita qual è; il suo rispetto del fatto lo condusse a trattare i fatti collettivi, costumanze e leggi, alla stregua di fatti naturali. Di fronte all'intolleranza dottrinale ed alla 182    tirannide dei pregiudizi di scuola, il suo atteggiamento critico espresse uno sforzo audace per rendere autonoma la scienza, chiedendole di applicarsi soltanto a detèrminare con rigore i suoi procedimenti tecnici, in vista della pratica utile" (Robin, La pensée grecque et les origines de l'esprit scientifique, trad. it. Storia del pensiero greco, Milano, pp. 553, 554-55). Tale il nerbo delle argomentazioni di Enesidemo, che, di contro all'atteggiamento platonico-stoico, cui con Antioco di Ascalona si era risolta l'Accademia di Arcesilao e di Carneade, si appella al primo scetticismo pirroniano, anche se, in effetto, la sua istanza critica assume un ben diverso colorito svolgendosi sul piano dell'indagine critica delle condizioni che permettono il giudizio, in un'analisi del linguaggio filosofico e in una discussione della liceità del passaggio dal discorso umano (che può essere molteplice e di volta in volta diverso) al discorso dd tutto. Non a caso Enesidemo ripercorre criticamente le tappe su cui si fonda il "criterio" stoico. Innanzi tutto, pur ammesso che i dati del giudizio siano la presenza alla coscienza delle impressioni, proprio perché nulla giustifica l'affer- mazione che l'impressione, l'apparire (fenomeno) alla coscienza di qual- cosa corrisponda ad una presunta cosa in sé quale è in sé, né che l'una impressione sia piu vera dell'altra - ogni animale, ogni uomo può avere impressioni diverse, anche a seconda della sua costituzione fi- sica, -'- nulla giustifica che il giudizio, o come affermazione o nega- zione di una rappresentazione - tenendo presente che ogni rappre~ sentazione presa a sé non è un giudizio, per cui ciascuna non è né vera né falsa, - o come discorso fra le rappresentazioni, corrisponda all'oggetto che ci rappresentiamo o allo strutturarsi della realtà in rap- porti di inerenza. Di qui scaturisce la critica sia alla logica propo- sizionale di tipo stoico (in cui l'uso predicativo dell'essere sarebbe dovuto ad un rapporto di identità) sia all'analitica di tipo aristotelico (in cui l'uso predicativo dell'essere sarebbe dovuto;~ un rapporto di inerenza). I celebri dieci. tropi, che sembrano elaborati da Enesidemo, sono diretti, appunto, a determinare che le impressioni in quanto tali non sono giudizi, che è dubbio corrispondano all'oggetto rappresentato, e che, pertanto, neppure servono come dati del discorso, né in senso aristotelico, perché dovremmo prima ammettere un rapporto di ine- renza reale tra il soggetto e il predicato, rispondenti a oggetti per sé, né in senso stoico perché dovremmo prima ammettere che, almeno nel· l'uomo, in tutti gli uomini, la rappresentazione a richiama sempre la rappresentazione b e cos1 via. Dagli scettici piu antichi - scrive Sesto Empirico - sono comunemente tramandati i dieci modi [tropi], per mezzo <{ei quali pare effettuarsi la sospensione del giudizio [epochè], che chiamano anche, con vocaboli sino- nimi, regole [16goi] e figure [t6poi]. E si riferiscono: l) alla varietà che si nota negli animali; 2) alle differenze che si riscontrano negli uomini; 3) alle diverse costituzioni dei sensi; 4) alle circostanze; 5) alle posizioni, agl'intervalli, ai luoghi; 6) alle mescolanze; 7) alle quantità e composizioni degli oggetti; 8) alla relazione; 9) al verificarsi continuamente o di rado; IO) alle istituzioni, costumanze, leggi, credenze favolose e opinioni dogma- tiche. Accettiamo questa serie dandole un.valore convenzionale... Dicevamo essere la prima regola quella secondo la quale le stesse cose non producono le medesime rappresentazioni sensibili, in conseguenza della differenza degli animali. Questo lo deduciamo dal modo differente del loro generarsi e dalla differente costituzione dei loro corpi... Se le medesime cose appaiono dif- ferenti ai differenti animali, potremo, sf, dire quale noi percepiamo l'og- getto; ma quale esso sia in realà, ci asterremo dal giudicare (Pyrrh. hypot., I, 36-78; cfr. anche Filone l'Ebreo, De ebrietate, 170-171; Diogene Laerzio, IX, 79-80)... Il secondo modo, come dicevamo, riguarda le differenze che si riscontrano negli uomini. Infatti, anche se, per ipotesi, si ammette che gli uomini sono piu degni di fede degli anÌir'..ali, troveremo che si arriva alla sospensione del giudizio pure per quanto si riferisce alle differenze che sono tra di noi. Delle due parti di cui si dice che consta l'uomo, anima e corpo, per l'una e per l'altra· noi differiamo l'una dall'altro... Pertanto è necessario, anche in forza delle differenze che sono tra gli uomini, arrivare alla sospensione del giudizio (Pyrrh. hypot., l, 79-89; cfr. anche Filone l'Ebreo, De ebrietate, 175 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 80-81). Terzo modo è quello che dicevamo riferirsi alla diversità delle sensazioni. Che le sensa- zioni differiscano tra loro è manifesto... Ciascuno dei fenomeni sensibili impressiona variamente. i nostri sensi; cosi la mela ci si mostra liscia, profu- mata, dolce, gialla. t oscuto; pertanto, se essa possieda, effettivamente, que- ste sole qualità, o se possieda una qualità unica e.ci appaia differentemente in conformità della differente costituzione degli organi del senso, oppure se possiede piu qualità di quelle che app~ono, e alcune non cadano sotto i nostri sensi (Py"h. hypot., I, 9I-95; anche Diogene Laerzio, IX, 81)•.. Il quarto modo è quello che si denomina dalle circostanze (chiamiamo cir- costanze i diversi modi di essere). E diciamo ch'esso va considerato nel fatto di trovarci in uno stato naturale o innaturale, nell'essere svegli o addor- mentati, in rapporto all'età, all'essere in moto o in quiete, all'odiare o amare, al versare nell'indigenza o esser sazi, all'essere ubriachi o sobri, alle predisposizioni, all'essere coraggiosi o paurosi, addolorati o contenti... Noi assentiamo maggiormente a ciò che ci sta davanti e c'impressiona nel pre- sente, che a ciò che non ci sta davanti... t impossibile dirimere questa discre- panza di rappresentazioni. E invero, chi preferisce una rappresentazione a un'altra, una circostanza a un'altra, o lo fa senza giudicare e dimostrare, o giudicando e dimostrando. Ma non lo può fare n~ con l'intervento né senza l'intervento di un giudizio o di una dimostrazione: in questo secondo caso non sarebbe degno di fede. Se recherà un giudizio sulle rappresenta- zioni, lo farà, indubbiamente, sulla base di un criterio. Ora questo criterio egli dir~ che è vero o falso; se falso, egli non meriterà fede; se, invece, dirà che è vero, o affermerà che il criterio è vero senza recare una dimostra- zione, oppure lo sosterrà in base ad una dimostrazione. Se lo affermerà senza recare dimostrazione, non meriterà fede; se in base a una dimostra- zione, sar~ assoll'tamente necessario che anche la dimostrazione sia vera, se no, non meriter~ feè~. Ora dirà egli la vera dimostrazione assunta per la conferma del criterio, in seguito a un giudizio o senza di questo? Se senza, non meriterà fede; se in seguito a un giudizio, è manifesto ch'egli dir~ di aver giudicato in base ad un criterio, del quale criterio cercheremo la dimostrazione e il criterio di questa, poiché sempre la dimostrazione, per essere confermata, avrà bisogno di un criterio, e il criterio avrà bisogno di una dimostrazione, per essere dimostrato vero; né la dimostrazione può essere vera, se non è preceduta da un criterio vero, né il criterio può essere vero, se la dimostrazione non è riuscita, prima, a convincere. Cosi, criterio e dimostrazione cadono nel diallele, in cui si scopre che né l'uno né l'altra meritano fede: l'uno, infatti, attendendo conferma dall'altra, e questa da quello, resta che entrambi non meritino, ugualmente, fede. Se, pertanto, né senza dimostrazione e criterio, né in base a questi può uno preferire rap- presentazione a rappresentazione, non sarà possibile decidere tra le rappre- sentazioni sensibili, che sono differenti secondo le differenti disposizioni. Talché, anche per quanto si riferisce a questo modo, si arriva alla sospen- sione del giudizio sulla natura degli oggetti esteriori (Pyrrh. hypot., l, 100-117; anche Filone l'Ebreo, De ebrietate, 178 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 82). Il quinto modo è quello che si riferisce alle posizioni, agl'intervalli e ai luoghi; e invero, secondo ciascuno di questi, le stesse cose appaiono differenti... Ora, poiché tutti i fenomeni si percepiscono in un dato luogo, a una tale distanza, in data posizione, onde deriva una grande differenza nelle rispettive rappresentazioni sensibili..., necessariamente, anche per questo modo, riusciremo alla sospensione del giudizio (Pyrrh. hypot., l, 118 sgg.; anche Filone l'Ebreo, De ebriet., 181 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 85-86, che dà questo tropo come settimo)... Il sesto modo è quello che si riferisce alle mescolanze, per il quale si conclude che, poiché nessuno degli oggetti cade sotto i nostri sensi di per sé solo, ma insieme con qualche altra cosa, forse è possibile dire quale sia la mescolanza formata dall'oggetto esteriore e dall'altra cosa insieme a cui viene percepito, ma non potremo dire quale sia l'oggetto esteriore nella sua realtà pura... A causa delle mescolanz_e, i sensi non percepiscono quali siano, esattamente, gli oggetti esteriori. E nemmeno l'intelletto, perché i sensi, sue guide, lo ingannano. Ma forse lo stesso intelletto effettua una sua propria mescolanza nell'intendere ciò che viene annunziato dai sensi (Pyrrh. hypot., l, 124-127; cfr. Diogene Laerzio, IX, 84-85, che dà questo tropo come sesto)... Il settimo modo è quello che si riferisce alla quantità e costituzione degli oggetti, intendendo comunemente per costituzione, la composizione. Che anche per questo modo si sia co- stretti a sospendere il giudizio intorno alla natura reale delle cose, è manifesto. Per esempio, la raschiatura di corno caprino, guardata cosi sem- plicemente, fuori del composto, appare bianca, guardata, invece, nel com- posto del corno appare nera... Il rapporto quantitativo e costitutivo confonde la percezione della realtà esteriore (Pyrrh. hY,pot., l, 129 sgg.; anche Filone l'Ebreo, De ebrietate, 189 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 86, che dà questo tropo come ottavo)... L'ottavo modo è quello della relazione, e per esso in- feriamo che, tutto essendo relativo, noi dovremo sospendere il giudizio sulla reale natura delle cose. Bisogna notare che anche qui, come altrove, noi adoperiamo la voce "è," in luogo di "appare," intendendo dire, appunto: "tutto appare in maniera relativa." Ora questa relatività si afferma in due modi: in un primo modo rìspetto al giudicante (poiché l'oggetto esterno e giuditato appare relativamente al giudicante), in un secondo modo rispetto a quello che si percepisce insieme con l'oggetto, come ciò che è a destra rispetto a ciò che è a sinistra. Come tutto sia relativo, ab- biamo discorso anche precedentemente; cosi, rispetto al giudicante, ab- biamo detto che ogni cosa appare cosi o cosi, relativamente a questo ani- male e a quest'uomo e a questo senso e· a quella tale circostanza. Rispetto a quello che si percepisce insieme con l'oggetto, abbiamo detto che ogni cosa appare cosi o cosi relativamente a questa mescolanza, a questo luogo, a questa composizione, a questa quantità e posizione. Ma anche con ragio- namento proprio si può concludere che tutto è relativo, in questa maniera. Ciò che è assoluto differisce da ciò che è relativo, oppure no? Se non differisce è anch'esso relativo; se differisce, poiché tutto ciò che differisce è relativo (si dice, infatti, che differisce relativamente a ciò da cui diffe- risce), anche l'assoluto è relativo... Tutto appare relativamente a qualche cosa. Ne segue che dobbiamo sospendere il giudizio intorno alla natura delle cose (Py"h. hypot., l, 135-140; Filone l'Ebreo, De ebrietate, 186 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 87-88, che dà questo tropo come decimo)... Il nono modo è quello che concerne gli incontri continui o rari di una cosa... Le cose rare paiono preziose, quelle abituali e abbondanti nient'affatto (Pyrrh. hypot., I, 141, 144; cfr. anche Diogene Laerzio, IX, 87, che dà questo tropo come nono)... Il decimo modo, che ha attinenza, specialmente, con i fatti morali, è quello che si riferisce agl'indirizzi, ai costumi, alle leggi, alle credenze favolose e alle opinioni dogmatiche... Opponiamo ciascuna di queste cose, ora a se stessa, ora a ciascuna delle altre. Per esempio, oppo- niamo costume a costume: alcuni Egiziani tatuano i bambini, noi, invece no... Opponiamo legge a legge: presso i Romani chi ha rinunciato alla sostanza paterna, non paga i debiti del padre, invèce presso i Rodiesi li deve assolutamente pagare... Opponiamo indirizzo a indirizzo (per indi- rizzo s'intende una scelta di vita o di altro) quando l'indirizzo di Diogene contrapponiamo a quello di Aristippo, o quello dei Laconi a quello degli ltalici. Opponiamo credenza favolosa a credenza favolosa, quando diciamo che talora è Zeus che è denominato il padre degli dèi e degli uomini, talora, invece, Oceano... Le opinioni dogmatiche (accoglimento di qualche cosa, che sembra essere confermata da un ragionamento o da una dimo- strazione) opponiamo le une alle altre, quando diciamo che, secondo alcuni, 186    uno solo è l'elemento delle cose, secondo altri, invece, infiniti sono gli ele- menti; che per gli uni l'anima è mortale, per gli altri immortale; ché per gli uni le cose umane sono governate dalla pro-. v1denza degli dèi, per gli altri questa provvidenza non esiste. [Si opp~ngono poi costumi a leggi; leggi a condotta; costumi a credenze favolose; costumi a opinioni dogma- tiche, e cosi via]... Se tanta discordanza v'è nelle cose, non potremo affer- mare quale sia nella su:~ rc::altà l'oggetto, ma solo quale esso appaia in rap- porto a questo indirizzo, a questa legge, a questo costume, e in rapporto a ciascuno degli altri fatti. Anche per questo è per noi necessario sospen- dere il giudizio... (Pyrrh. hypot., I, 145-163; anche Filone l'Ebreo, D~ ~bri~­ tate, 193 sgg.; Diogene Laerzio, IX, 83-84, che dà questo tropo come quinto). Secondo Sesto Empirico i dieci tropi possono, in effetto, ridursi a tre ("ci sono tre modi che comprendono tutti questi: quello che di- pende dal giudicante - i primi quattro, poiché ciò che giudica è ani- male o uomo o sensazione o si trova in una qualche circostanza - quello che dipende dal giudicato - il settimo e il decimo, - e un terzo che dipende da entrambi- il quinto, il sesto, l'ottavo e il nono"), e, in ultima analisi, ad uno solo: "a loro volta questi tre si riducono a quello della relazione, talché questo sarebbe il piu generico: gli altri tre, invece, e i dieci, in questi compresi, specifici" (Pyrrh. hipot., I, 38-39). I tropi di Enesidemo non hanno alcuna pretesa positiva. "Abbiamo opposto ai dogmatici ragionamenti che paiono persuasivi, non per assi- curare che siano veri..., ma per condurre alla sospensione, col fare appa- rire l'uguale forza persuasiva di questi discorsi e di quelli dei dogma- tici" (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il, 79). Attraverso essi Enesidemo constata che ogni costruzione e ogni discorso che presumono d'essere "veri" e, perciò, unici, basandosi su rappresentazioni, sempre relative e cangianti, e che, dunque, non sono giudizi, ma puri enunciati, non sono in sé né veri né falsi. Sono sempre costruzioni e discorsi, validi "storicamente," insignificanti e senza senso teoreticamente, donde l'im- possibilità di un sapere assoluto. Tutta la difficoltà - insormontabile - sta nel dubbio che la rappresentazione, o idea, che è tale in quanto sia "parola" significante un'affezione, corrisponda a ciò di cui è rappre- sentazione e parola, per cui, poi, lo stesso discorso, in quanto articola- zione di rappresentazioni, è dubbio che corrisponda al discorso della realtà, tanto piu che sia il "senso," fonte delle rappresentazioni, sia la "ragione" (l6gos), intesa come attività unificatrice e giudicatrice del complesso dei "veri" (enunciati), afferrante la "verità," dovrebbero prima giustificare se stessi, trovare cioè in sé il criterio per cui si può essere certi del "vero" e della "verità." E qui va tenuto presente che la polemica si rivolge al concetto che di "vero" era stato sostenuto dagli stoici, cioè nei confronti del Vi!'ro inteso come munciato (incor- poreo), distinto dalla verità, intesa come scienza avente in sé il com- plesso dei veri, e dovuta all'attività egemonica (razionale), che è cor- porea (cfr. Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il, 80-84). Resta, perciò, dubbia qualsiasi tesi sulla struttura della realtà, e, pur a.ttunessa una qualsivoglia realtà, resta in dubbio sia il vero sia la verità. L'uomo non ha altro mediante cui giudicare... se non il senso e l'intel- letto...: solo che i sensi non comprendono gli oggetti esterni, ma, se mai, solo le proprie af!ezioni, e la rappresentazione dunque sarà dell'af!ezione del senso, che differisce dall'oggetto. E poi i sensi sono impressionati i n modi opposti dagli oggetti: ora, ciò che è discorde e contrastante non è criterio, ma ha bisogno esso di un giudice... (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., II, 48, 73-74; Adv. math., VII, 346). E quanto all'intelletto: donde saprà se le af!ezioni del senso siano simili agli oggetti sentiti, non imbattendosi mai con oggetti esterni né rivelandogliene i sensi la natura, ma solo le proprie af!ezioni?... Non solo, ma se neppure vede se stesso esattamente, ma è in divergenza sulla propria essenza, il modo della generazione, il luogo in cui è, come potrebbe comprendere con esattezza alcun che d'altro?... Essendoci tante divergenze sull'intelletto..., se osiamo giudicare con u n intelletto... togliamo via l'oggetto·della ricerca: se con altro, non è piu vero che con l'intelletto s'abbiano a giudicare le cose (Pyrrh. hypot., II, 73-74, 57-60). Enesidemo, poi, propone anche le seguenti aporie. Se vi è qualcosa di vero o è sensibile (atla31yt6v) o intelligibile (vo'l)'t'6v), o intelligibile e sensibile, oppure né sensibile né intelligibile, né l'una cosa e l'altra ad un tempo... Che non vi sia il sensibile cosi lo argomentiamo: dei, sensibili alcune cose sono generi, altre, invece, aspetti singoli (c(3Tj); i generi sono qualità comuni inerenti ai singoli oggetti, si come certe qualità deij'uomo ineriscono ai singoli uomini e certe qualità del cavallo ai singoli cavalli; gli aspetti sono proprietà dei singoli, come di Dione, di Teone, di altri. Se, dunque, il sensibile è vero, ciò sarà af!atto comune ai molti, o insito in ciò che è proprio,dei singoli; solo che non può essere né comune né inerente alla proprietà, per cui il vero non è sc;nsibile. Inoltre, come ciò che è visibile può essere compreso con la visione, e l'udibile è conosciuto con l'udito, l'odorabile con l'odorato, cosi anche il sensibile si conosce con il senso. Il vero non si conosce comunemente con il senso: il senso è infatti arazionale (~Àoyo<;), e il vero non si conosce senza la ragione, onde il vero non è sensibile. Ma neppure è intelligibile, ché nulla sarà vero dei sensibili, il che è, di nuovo, un assurdo. Infatti, o l'intelligi- bile potrà essere percepito comunemente da tutti o individualmente da alcuni. Ma non può accadere che il vero sia percepito intelligibilmente da tutti in forma comune, né da alcuni individualmente: non può essere in nessun modo compreso da tutti comunemente e se compreso individual- mente da uno o da altri, ciò non è degno di fede ed è oggetto di contestazione. Il vero, dunque, non è intelligibile. Ma neppure è, ad un tempo, sensibile e intelligibile: il vero è o affatto sensibile e affatto intelligibile, o in parte sensibile e in parte intelligibile. Ma dire che il vero è affatto sen- sibile e affatto intelligibile, è cosa che non può avvenire: i sensibili sono, infatti, in contrasto con i sensibili, gl'intelligibili con gl'intelligibili, e, vice- versa, i sensibili con gl'intelligibili e gl'intelligibili con i sensibili, e sarà necessario se tutte le cose sono vere, che ogni cosa sia e non sia, sia vera e sia falsa, per cui, di nuovo, bisognerà ritenere che sia un'aporia affermare che parte del sensibile sia vero e che vero sia parte dell'intelligibile. Ci si domanda, infatti, se sia non contraddittorio dire che tutte le cose vere o tutte le cose false siano sensibili: sono ugualmente sensibili e non una di piu l'altra di meno. E, cosi, ugualmente intelligibili sono gl'intelligibili, e non uno piu l'altro di meno. Non solo, ma non tutti i sensibili possono essere detti veri, né tutti falsi. Non vi è, dunque, il vero... (Sesto Empi- rico, Adv. math., VIII, 40, 48). In altri termini, ogni definizione (enunciato) e ogni discorso, che presumano significare l'essenza e il discorso della realtà, sono, in e.ffetto, insignificanti, senza senso, sono cioè non giudizi (di qui la "sospen- sione," l'epochè). Da questa serie di argomentazioni (i dieci tropi, le aporie sul "vero"), che Fozio (cit.), nel suo sunto dei Discorsi pi"oniani, dice facevano parte dei primi tre libri, si vede bene come Enesidemo passi ad altre due serie di argomentazioni: le prime volte a mostrare l'im- possibilità di giungere alle cause per via indiretta, ossia mediante i segni, giungendo cioè a porre le cause attraverso i fenomeni significanti quelle cause stesse, ché non v'è criterio per cogliere la coincidenza tra significante e significato, ch'era, com'è noto (cfr. I vol.), un grosso pro- blema a lungo discusso nella scuola stoica ("nel quarto libro Enesi- demo mette in discussione i segni delle cose oscure...": Fozio, cit.); le seconde (che Sesto Empirico raccoglie in otto trop•) volte a sovvertire i ragionamenti intesi a spiegare le cause per via diretta ("nel quinto libro... propone argomenti per dubitare delle cause, dicendo che nes- suna cosa è causa dell'altra...": Fozio, cit.). Nell'una e nell'altra serie di argomentazioni è evidente la critica non solo al passaggio proprio degli stoici dal logico all'antico, ma anche il passaggio dal visibile all'invisibile proprio dell'ipotesi atomistica dell'epicureismo. Già in Crisippo la dottrina dei segni si prestava a una doppia inter- pretazione (cfr. I vol.). Posto che l'impressione non è un puro calco che direttamente stampa nell'anima l'immagine della cosa, ma che ogni rappresentazione è una modificazione, che ci a.fferra a seconda della sua evidenza, e a cui diamo l'assenso, non tanto perché corrisponde o meno all'oggetto (che già dovremmo conoscere per sapere se corrisponda o no all'impressione). ma in quanto fortemente presente, ogni rappresentazione è un segno, da un lato "rammemorante" una impres- sione, dall'altro lato "rammemorante," data quella rappresentazione, altra rappresentazione, che si lega alla prima (" rammemorativo è quel segno che, osservato già insieme con il significato, per esserci dato insieme con tutta evidenza... ci conduce al ricordo della cosa osservata insieme, che ora non ci si dia con evidenza, com'è del fumo e del fuoco, vedendo una ferita si dice che c'è stata una ferita": Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il, 97-102). Sotto questo aspetto, la dottrina del segno poteva sfociare in una chiara " logica proposizionale" e scientificamente in una ricerca fondata, appunto, sui segni rammemorativi (come av- venne per l'indirizzo medico ~mpirico e metodico, ai quali, piu tardi, si rifecero proprio gli scettici), ove la veracità o meno del discorso non presume affatto significare il discorso stesso della realtà. Non possiamo dire se già in Crisippo (cfr. I vol.), ma; certo, subito dopo di lui, nella scuola stoica la rappresentazione venne interpretata in quanto segno indicativo dell'oggetto stesso, rispecchiante l'oggetto che ha provocato l'impressione; non solo, perciò, lo stesso discorso significherebbe il di- scorso della realtà, ma una impressione-rappresentazione verrebbe a significare, per analogia, una verità nascosta di cui non si è avuta im- pressione, una cosa oscura per natura, da cui, gradatamente si giunge a porre cause e principi primi ("indicativo, invece, dicono il segno non osservato insieme con la cosa designata in maniera evidente, ma che per la propria natura e costituzione segnala ciò di cui è segno: cos~, per esempio, i movimenti del corpo sono segni dell'anima": Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., Il, 101). È chiaro che la critica degli scettici piuttosto che all'interpretazione del "segno" come rammemorante, si rivolgesse al segno interpretato come indicativo e significante da un lato la cosa per sé, dall'altro lato la causa e la causa dèlla causa. Noi ~ dirà Sesto Empirico - non parliamo contro ogni segno, ma solo contro l'indicativo, come quello che sembra essere state inventato dai dogmatici (Pyrrh. hypot., Il, 102)... Il segno indicativo è inconcepibile, poiché dicono che è relativo al significato e-mdatore di esso. Se è rela- tivo deve assolutamente esser compreso insieme con il significato, come il sinistro con il destro, il sopra con il sotto, ecc. Se invece è rivelatore del significato, deve assolutamente esser compreso prima di esso, perché, conosciuto prima, possa poi condurci alla conoscenza della cosa resa nota da lui. Ma è impossibile conoscere una cosa, che non può essere conosciuta prima di quella, per mezzo della quale dovrebbe invece essere compresa: impossibile quindi concepire un relativo, che sia anche rivelatore della cosa relativamente alla quale si concepisce... Impossibile dunque concepire il segno indicativo... (Pyrrh. hypot., II, 118-120).. Sembra che questa già fosse stata la critica di Enesidemo, se Sesto Empirico (cfr. Adv. math., VIII, 49 sgg.) può sostenere che Enesidemo a coloro che affermavano che la causa si coglie non attraverso i sensi immediatamente, ma per analogia attraverso i segni indicativi, rispon- deva che ciò è contraddittorio, posto che la rappresentazione è dall'im- pressione, ché mai si può avere rappresentazione di ciò di cui non vi è impressione; poiché, d'altra parte, questa o quell'impressione non modifica tutti allo stesso modo, pur dando valore al segno rammemo- rativo, resta in dubbio la sua universalità, su cui si fonda la pretesa ch'esso segno indichi e significhi l'universalità oggettiva delle conse- cuzioni. In realtà - obbietta lo scettico - il segno è solo un fatto che ne ricorda un altro di cui è stato in passato il concomitante (passato) o ce ne fa aspettare un altro (futuro) (cfr. L. Robin, cit., p. 553), senza pretendere ad alcuna verità. Enesidemo, nel IV libro dei Discorsi pirroniani cosi dice: se le rappre- sentazioni delle cose [fenomeni] ugualmente appaiono a tutti coloro che sono stati ugualmente modificati e i segni indicano quelle attuali rappre- sentazioni, è necessario che anche i segni appaiano a tutti coloro che sono ugualmente modificati. Ma i segni non appaiono ugualmente a tutti coloro ugualmente modificati, per cui i segni non sono segni delle rappresenta- zioni (Sesto Empirico, A d v. math., VIII, 215 sgg.). La critica scettica si rivolge cosi all'illusione che l'argomentazione per analogia abbia validità scientifica sul piano della verità oggettiva, si rivolge cioè alla gratuita trasformazione di una constatata "conse- cuzione" in una concatenazione causale risalente a ipotetiche cause prime per sé, agenti e costituenti la realtà. Di qui gli otto tropi di Enesidemo mediante cui mettere in dubbio la possibilità di passare dai dati dell'esperienza alla loro causa di cui non si ha affatto espe- rienza, per, poi, viceversa dimostrare i dati mediante quelle cause. Come enunciamo i modi della SO)ipensione del giudizio, cosi, anche, alcuni espongono i · modi, per i quali, dubitando delle spiegazioni delle cause particolari, si arresta la superbia dei dogmatici, dovuta, particolar- mente, a queste spiegazioni. Enesidemo insegna a tal proposito otto modi, per i quali, confutando qualunque dogmatica spiegazione di cause, egli crede di farla apparire difettosa. E sono, secondo lui: l) quello per il quale il genere della spiegazione della causa, aggirandosi tra le cose che non cadono sotto i sensi, non ha una conferma palese dalle cose che cadono sotto i sensi; 2) quello per il quale, essendo largamente consentito di spie- gare in molte maniere la causa cercata, alcuni la spiegano in una maniera sola; 3) quello per il quale di fatti che accadono ~on un ordine, adducono cause che non ammettono ordine alcuno; 4) quello per il quale, percependo come accadono le cose sensibili, credono di aver percepito, anche, come accadano quelle che non cadono sotto i sensi, mentre le cose che non cadono sotto i sensi, forse, si compiono in modo uguale alle cose sensibili, e, forse, in modo non uguale, ma proprio e distinto; 5) quello per cui tutti, per cosf dire, spiegano le cause seguendo ce~e loro proprie ipotesi intorno agli elementi primi, piuttosto che una via comunemente ammessa e accettata; 6) quello per cui spesso accolgono quello che si spiega con le loro proprie ipotesi, tralasciando quello che è contrario ed ha la medesima forza di persuasione; 7) quello per cui spesso adducono delle cause che contrastano, non solo con i fenomeni, ma anche con le loro proprie ipotesi; 8) quello per cui spesso, essendo ugualmente incerto e quello che sembra· apparire in un dato modo e quello che è oggetto dell'indagine, sulla base di nozioni incerte costruiscono le loro dottrine ugualmente incerte. Soggiunge, poi, che non è impossibile che alcuni, nel rendere ·ragione delle cause, falliscano secondo altri modi misti, dipendenti da quelli che abbiamo enumerali (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., l, 180-184). Se mediante gli otto tropi, riferiti da Sesto come propri di Enesi- demo, è messa in discussione la possibilità dell'inferenza dall'effetto alla causa - ed è evidente qui la polemica non solo contro gli Stoici, ma anche contro l'epicureismo e l'induzione aristotelica, - per cui si giunge alla sospensione del giudizio anche relativamente alle cause, tanto piu semplice diveniva ora la discussione che <;onduce al dubbio sulla possibilità di spiegare gli effetti, partendo da cause che pur si sono dimostrate puramente ipoteùche, di dimostrare che l'una causa possa pro- durre un effetto e che, alla fine, il rapporto di causa ed effetto sia proprio della stessa struttura della realtà e non dovuto ai rapporti ram- memorativi tra le impressioni ricevute. Anche queste sembrano argo- mentazioni svolte da Enesidemo, che Sesto Empirico, il quale appunto cita Enesidemo, approfondisce (Adv. math., IX, 218-266), insieme a tutta una serie di argomentazioni contro la sillogistica aristotelica e la dia- lettica stoica (cfr. Pyrrh. hypot., II, 113-118, 134-166, 199-197; Adv. math., VIII, 300-315, 367. sgg., 391-395; anche Dal Pra, op. cit., pp. 308-312). Veniva di qui, infine, entro i termini della sistemazione in un sol corpo delle argomentazioni degli scettici, la problematica delineata da Enesidemo sulla possibilità di definire l'essenza del Bene e delle con- dizioni che permettono una vita virtuosa (secondo Fozio, cit., del bene e delle virtu Enesidemo parlava negli ultimi libri, VI, VII e VIII, dei suoi Discorsi pirroniani). Secondo Sesto Empirico (Adv. math., X, 42) 192    Enesidemo avrebbe escluso l'esistenza del Bene, almeno nel senso di un bene per sé quale veniva definito dai dogmatici, sostenendo - come risulta da Diogene Laerzio, IX, 107, e da Aristocle, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 19, 4 - che il bene, non avendo una sua essenzialità, consiste in uno stato d'animo dovuto alla sospensione del giudizio (Diogene Laer- zio, cit.), che determina un certo piacere (Aristocle, cit.). Ipoteticamente possibile ogni discorso sull'essenza della realtà (tanto è possibile dire che il fondo della realtà è costituito di atomi, quanto dire che, al limite, sono da porre una materia passiva e un principio attivo), ipoteticamente possibile ogni discorso sull'essenza dd Bene, teoreticamente è da sospendere ogni giudizio sulla realtà e sul bene, cercando, piu umilmente, di non ingannare se stessi e gli altri, ricon- ducendo l'indagine sul piano umano, entro i limiti del mondo e del linguaggio umani. Le conclusioni di Enesidemo tendono a mostrare non tanto che l'una o l'altra concezione filosofica è falsa, ché, allora, si sarebbe dovuto delineare quale fosse la "verità,• ma che tutte le concezioni si dimostrano alla fine indimostrabili, cioè non giudicabili e perciò stesso senza senso, assurde, contraddittorie, qualora pretendano d'imporsi, l'una o l'altra, come "verità," e, quindi, su questo piano, inutili. Certo, entro questo quadro, è difficile vedere come Enesidemo abbia potuto affermare che l"'indirizzo scettico è una via che conduce alla filosofia eraclitea, in quanto," commenta Sesto, "l'apparire dei fatti con- trari circa lo stesso oggetto precede l'esistere di fatti contrari circa lo stesso oggetto, e gli Scettici dicono, appunto, che fatti contrari appaiono intorno allo stesso oggetto, mentre gli Eraclitei, partendo dall'appru;:ire, arrivano anche alloro esistere" (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., l, 210). Sesto, e si capisce, vede in questo una contraddizione da parte di Ene- sidemo ed esclude assolutamente che una posizione scettica p<)ssa sfo- ciare in una posizione di tipo eracliteo, che, proprio perché pone a fondamento dell'essere il divenire e i contrari, è anch'essa una posi- zione definitoria di una realtà non fenomenica e perciò è una posizione dogmatica. Né Fozio, che riassume i Discorsi pirroniani, né Diogene Laerzio, né Aristocle accennano a una fase eraclitea del pensiero di Enesidemo. Di una posizione dogmatica di Enesidemo (l'anima sepa- rata dal corpo e in esso infusa dopo la nascita, in senso stoico) parla Tertulliano (De anima, 25). Certo un riflesso dell'eraclitismo scettico si trova in Filone l'Ebreo, che sfrutta l'argomento dell'eraclitismo in funzione scettica, ricavandolo, sembra, da Enesidemo. In realtà, di un presunto eraclitismo di Enesidemo parla solo Sesto, che, nel testo sopra citato, dice solo che secondo Enesidemo l'indirizzo scettico poteva ribal- tarsi in una posizione dogmatica di tipo eracliteo, trovandovi un proprio fondamento ontico, e questo sembrerebbe avvenuto piu che in Enesidemo nei seguaci di Enesidemo ("se arrivassero all'asserzione che intorno allo stesso oggetto esistono fatti contrari, partendo da qualcuna delle espressioni scettiche, per esempio 'nessuna cosa si può compren- dere,' oppure, 'niente do per certo,' potrebbe essere vera la conclusione dei seguaci di Enesidemo. Solo che...": Sesto Emp., Py"h. hyp., l, 211). Tuttavia Sesto, in altri testi, anche se. per incidenza, dice come propria di Enesidemo una o altra tesi eraclitea (si veda, ad esempio, A.dv. math., V, 349-50: "segaendo Eraclito, Enesidemo affermava che la dianoia è fuori del corpo"; A.dv. math., X, 216-217: "seguendo Eraclito Enesi- demo disse che il tempo è corpo... Cosi nella Prima Introduzione..."; A.dv. math., X, 233: "Enesidemo dice che per Eraclito l'essere è aria"; cfr. anche IX, 337; VIII, 8), alcune delle quali risultano però piu vicine allo stoicismo·che all'eraclitismo, altre come piu proprie dei seguaci di Enesidemo. D'altra parte lo stesso Sesto non discute quelle tesi eraclitee come facenti parte dì un sol corpo di pensiero, ma, dicevamo, inciden- talmente, come testimonianze di quello che poteva essere l'eraclitismo di Enesidemo. Non solo, ma Sesto non dice mai che quelle tesi eraclitee fossero svolte da Enesidemo nei Discorsi pi"oniani, mentre una volta accenna a un'altra opera di Enesidemo, per noi perduta, la Prima Introduzione. Tutto ciò ha dato l'avviò a una lunga discussione sull'eraclitismo eli Enesidemo e a una molteplicità di ipotesi. C'è chi ha sostenuto che lo scetticismo di Enesidemo sarebbe sfociato in una posizione dogmatica di tipo eracliteo, o ch'egli avrebbe trovato nell'eraclitismo il fonda- mento dello scetticismo, e c'è chi ha sostenuto che Enesidemo sia pas- sato da una prima fase eraclitea, anch'essa rivelataglisi dogmatica a. una seconda fase accademica, per giungere infine a un accentuatC] scettici- smo, alla "sospensione" definitiva, riallacciandosi alla posizione car- neadiana. Certo, quest'ultima ipotesi (Sesto nelle lpotiposi pi"oniane, l, 210, non dice affatto che Enesidemo sia passato dallo scetticismo all'eraclitismo: cfr. sopra), sostenuta dal Dal Pra (op. cit., pp. 314-330, al quale rimandiamo anche per la minuta esposizione e discussione delle varie ipotesi sostenute: dal Saisset, allo Zeller, al Diels, al Pap- penheim, all'Arnim, allo Hirzel, al Natorp, al Patrick, al Goedeckemeyer, al Brochard, al Capone-Braga), è, forse, la piu probante. In effetto nulla vieta di pensare che certe tesi eraclitee siano state accettate da Enesidemo non nei Discorsi pi"oniani, ma in altra opera, come appare da Sesto, la quale potrebbe essere stata composta da Enesidemo in età giovanile. A parte l'episodio dell'eraclitismo, sembra; in realtà, ch'Enesidemo, nella sua polemica nei confronti dei "dogmatici," abbia raccolto e siste- 194    mato gli argomenti e i tròpi già delineatisi attraverso l'esposizione che della "sospensione del giudizio" aveva offerto Clitomaco, il discepolo di Carneade, andando sino in fondo, cioè evitando - per non cadere nel possibile dogmatismo della nuova Accademia - il "probabile" e l'"ipotesi"; o l'opzione, per rendere possibile l'azione e il discorso, di una qualche opinione, fondata sul criterio della "probabilità" (dr. s<r pra), Enesidemo cosi poteva dichiarare fallita ogni presunzione della filosofia, costretto, in effetto, a rimanere su tutto in silenzio (afasia), in un ritorno, davvero, all'originaria posizione di Pirrone, che, in realtà, veniva ad essere una critica ed un'analisi del linguaggio. Duplice è- l'interesse che presenta, storicamente, la posizione di Enesidemo: da un lato, sulla fine del 1 secolo a. C., egli, pienamente innestandosi nell'atmosfera_ culturale di quel tempo, viene sistemando in un corpo unico il complesso dei tropi, delle aporie, dei problemi, propri delle posizioni scettiche, che probabilmente s'erano'già venuti delineando con Tolomeo di Cirene, che avrebbe ripreso le-fila della posizione scettica rifacendosi ad Arcesilao (Diogene Laerziò, IX, 115); dall'altro lato, entro i termini di una certa cultura, oramai, cristallizza- tasi, divenuta patrimonio comune, comune concezione, dogmaticamente accettata, Enesidemo mette in crisi, proprio attraverso la sua stessa sistemazione, quella cultura, quella coni:ezione di fondo. Preso a sé Enesidemo non ha l'importanza che viene ad avere, se considerato entro i termini della cultura quale si er,a venut:t determinando tra la fine del 1 secolo a. C. e il principio del 1 d. C. E ciò tanto piu sembra esàtto. quando si tenga presente che Enesidemo non fu un fenomeno isolato. Innanzi ttttto sappiamo ch'egli ebbe dei seguaci (ai seguaci di Ene- sidemo, senza farne il nome, accenna anche Sesto Empirico). Di essi fa il nome Diogene Laerzio (Zeucsippo di Poli, Zeucsis, Antioco di Laodicea: IX, 106, 116): non piu che il nome, perché per il resto Dio- gene li allinea tutti sul piano della posizione di Enesidemo, volti tutti, cioè, alla sistemazione dei tropi mediante cui giungere alla sospensione del giudizio, alla constatazione che ogni proposizione che presuma indicare un'essenza o un ne~so di essenze è un non-giudizio, basandosi soltanto sull'esperienza, o meglio sul fenomeno. ' Di Zeucsippo di Poli, nella Locride, non sappiamo nulla. Di Zeucsis, suo seguace, che avrebbe conosciuto l'opera di Enesidemo, Diogene Laerzio (IX, 106) dice che' scrisse un'opera intitolata Duplici discorsi (titolo significativo, già usato, non a caso, da un sofista del v secolo a.C.}, che testimonierebbe un'attività simile a quella di Enesidemo, in una raccolta di ragioni pro e contro questioni molteplici, mediante cui eli- mina~e ogni pretesa di giungere all'affermazione di un'unica verità, e che richiama la definizione data da Sesto Empirico dello scetticismo:  195   Lo scetticismo esplica il suo valore nd contrapporre i fenomeni c le percezioni intellettive in qualsiasi maniera, per cui, in seguito all'ugual forza dei fatti e delle ragioni contrapposte, arriviamo, anzitutto, alla sospen- sione del giudizio, quindi, all'imperturbabilità (Py"h: hypot., I, 8). Di Zeucsis fu, a sua volta, seguace Antioco di Laodicea e di lui un certo Apelle che avrebbe composto un libro, intitolato Agrippa ("Apdle, nd suo Agrippa, e Antioco di Laodicea, pongono solo i feno- meni": Diogene Laerzio, IX, 106). Sappiamo inoltre che la fonte da cui attinge Diogene Laerzio, per ricostruire il pensiero di Timone di Fliunte, fu il grammatico Apollonide di Nicea (dr. Diogene L., IX, 109), che compose un commento ai SiUi di Timone dedicato all'imperatore Tiberio. Anche questa è una notizia interessante, che dimostra la dif- fusione del rinnovato scetticismo sul principio dd I secolo d.C. e che può essere indicativa dd periodo in cui vissero e operarono i seguaci di Enesidemo. Come sembra (dr. A. Goedeckemeyer, Die Geschichte des griechischen S!(eptizismus, Lipsia, p. 137; anche Dal Pra, op. at., p. 333), Zeucsis e Antioco di Laodicea furono contemporanei di Apollonide di Nicea; infatti, da un lato, Diogene Laerzio (IX, 116) subito dopo Antioco cita Apelle autore di un'opera su Agrippa, e dice che seguace di Antioco di Laodicea fu Menodoto di Nicomedia, che, medico, rifacendosi allo scetticismo dette un fondamento scientifico e metodico alla medicina, in un atteggiamento strettamente empirico, riallacciandosi ai medici della tradizione empirica, vissuti, appunto, nel I secolo d. C., e dall'altro lato sappiamo anche che Menodoto visse tra 1'80 d.C. e il 150 circa. Cosi, evidentemente, Apelle dovrebbe avere scritto la sua opera entro queste date, per cui dovremmo, anche se approssimativa- mente, collocare l'attività di Agrippa (già noto e che deve avere avuto un'importanza di primo piano sul rinnovato scetticismo, se Apelle de- dicò al suo pensiero un'opera) sulla metà del I secolo d. C. Sesto Empirico non cita mai il nome di Agrippa, anche se ne rife- risce i cinque tropi, che sappiamo essere stati da lui formulati attraverso quanto ne dice Diogene Laerzio (IX, 88-89), che, per altro, attinge nel- l'esposizione dei cinque tropi, a Sesto Empirico. In realtà Agrippa - ddla cui vita, nascita, luogo di origine, insegnamento, nulla sap- piamo - non avrebbe aggiunto niente di nuovo alle linee fondamen- tali dell'atteggiamento scettico che tra Enesidemo e Agrippa si venne ordinando e, soprattutto, si venne costituendo in un appello alla criticità della ricerca, in un netto rifiuto della filosofia intesa come concezione universale, in una programmatica indagine mediante cui la filosofia viene intesa come metodologia delle condizioni che permettono un pos- sibile sapere. Sotto questo aspetto si capisce perché Sesto, pur esponendo i cinque modi di Agrippa, o meglio delineando i momenti mediante cui si sono venuti istituendo gli argomenti principali della posizione metodologica, non faccia il nome di Agrippa, e parli, invece, di scettici piu "recenti" rispetto ai "piu antichi," delineando l'arco entro il quale, da Enesidemo ad Agrippa, lo scetticismo ha assunto la sua fisionomia di empirismo critico-logico. I. cinque tropi di Agrippa prendono, in tal senso, un particolare rilievo, ché, con estrema chiarezza, riassumono e sistemano tutto il lavorio di precisazione dei modi con cui rimettere in discussione le conclusioni di una concezione, frutto di tutta una cultura e di una tradizione, con cui rimettere in discussione ogni soluzione metafisica. "Tali modi gli Scettici piu recenti espongono, non già perché respin- gano i dieci, ma per confutare, con maggior verità, con questi e con quelli, la temerità dei dogmatici" (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., 1,177). Gli Scettici piu recenti tramandano questi cinque modi della sospen- sione del giudizio: l) quello che dipende dalla discordanza; 2) quello che rimanda all'infinito; 3) quello che dipende dalla relazione; 4) l'ipotetico; 5) il diallele. · Il modo che dipende dalla discordanza è quello per cui troviamo che intorno a una cosa proposta esiste una discordia insolubile, nella vita e nei filosofi; onde, non essendo in grado né di preferire né di resping::re nessuna opinione, finiamo col sospendere il giudizio. Il modo per il quale si cade nell'infinito, è quello in cui ciò che si reca a prova della cosa pro- posta, noi diciamo che ha bisogno, a sua volta, di prova, e questo~ a sua volta, di un'altra prova, all'infinito; si che non avendo noi da dove comin- ciare un'argomentazione, ne consegue la sospensione del giudizio. Il modo che dipende dalla relazione è quello in cui diciamo che l'oggetto ci appare cosi o cosi, in rapporto al giudicante e al resto che insieme con esso oggetto viene. percepito, e ci asteniamo dal giudicare quale esso sia real- mente. Si ha il modo ipotetico, quando i dogrp.atici, rimandati all'infinito, cominciano da qualche cosa che essi non concludono per via di argomen- tazione, ma pretendono di assumere, cosi semplicemente, senza dimostra- zione, per una concessione. Nasce il diallele, quando ciò che deve con- fermare la cosa cercata, ha bisogno, a sua volta, di essere provato dalla cosa cercata: allora, non potendo assumere nessuno dei due per concludere l'altro, sospendiamo il giudizio intorno ad ambedue (Sesto J!.mpirico, Py"h. hypot., I, 164-169). Il commento piu pertinente sui cinque tropi di Agrippa è quello di Sesto Empirico, che merita il conto di riportare, insieme ai due tropi che Sesto dice elaborazione ultima dovuta sempre agli ~cettici piu recenti. Dice, dunque, il testo relativamente ai cinque tropi:  197   Che ogni ricerca si possa ricondUrre a questi tropi, lo dimostreremo brevemente cosi. La cosa proposta o è sensibile o è intelligibile: qualunque essa sia, v'è intorno ad essa discordanza. Infatti alcuni afferJBjllO che solo il sensibile è vero, altri, solo l'intelligibile, altri, in parte il sensibile, in parte l'intelligibile. Ora che si dice? che questa discordanza è solubile o insolubile? Se insolubile, affermiamo che bisogna sospendere il giudizio, ché intorno a ciò in cui v'è insolubile dissenso, è impossibile pronunciarsi. Se solubile, domandiamo sulla bl!se di che si risolverà. Cosi, per esempio, il sensibile... si giudicherà sulla base di un sensibile o di un intelligibile? Se sulla base di un sensibile, poiché appunto la nostra ricercà verte sui sensibili, anche questo avrà bisogno di altra cosa che lo comprovi. Se anche questa è seJ:lSibile, a sua volta, essa pure avrà bisogno di un'altra cosa che la comprovi, e cosi all'infinito. Che se il sensibile dovrà essere giudicato sulla base di un intelligibile, poiché anche sugl'intelligibili vi è discordanza, anche questo intelligibile avrà bisogno di giudiziQ e Ji prova. E sulla base di che sarà provato? Se sulla base di un intelligibile, si ricadrà, ugualmente, nell'infinito; se sulla base di un sensibile, poiché a prova di un sensibile è stato assunto un intelligibile, e a prova di Wl intelligibile è stato assunto un sensibile, si induce il diallele. Se, poi, colui che con noi disputa, per fuggire questa difficoltà, credesse di assumere, per concessione, e senza dimostrazione, qualche cosa, a dimostrazione di ciò che segue, farà capo al modo ipotetico, che non può dare risultato. E invero, se colui che suppone merita fede, noi, anche, supponendo il contrario, non saremo meno degni di fede. Se, poi, colui che suppone, suppone qualche cosa di vero, lo renderà sospetto assumendolo per ipotesi, senza accompagnarlo con una argomentazione; se qualche cosa di falso, il pun- tello dell'argomentazione sarà marcio. Che se il supporre giova in qualche modo per provare, supponga egli senz'altro ciò che è oggetto dell'indagine, e nòn qualche altra cosa, per mezzo della quale··argomenti quello su cui vette il discorso. Se; invece, è assurdo supporre quello che è oggetto d'in· dagine, sarà assurdo supporre, anche, ciò che lo trascende. Che poi tutti i sensibili siano, anche, relativi, è chiaro: sono, infatti, relativi al senziente. Dunque, è manifesto che qualunque cosa sensibile ci sia proposta, è facile ricondurla ai cinque modi. Alla stessa maniera si ragiona per l'intelligibile. Se si dice che la discordanza è irrisolvibile, ci si concederà che bisogna sospendere su di essa il giudizio. Se si tenterà di risolverla, e lo si farà in base a un intelligibile, spingeremo il ragionamento all'infinito; se in base a t:n sensibile, al diallele: poiché essendo, a sua volta, il sensibile oggetto di discordanza, né potendo esso in base· a un sensibile venir giu- dicato (ché, per tal modo, si cadrebbe nell'infinito), avrà bisogno di un intelligibile, come l'intelligibile di un sensibile. Chi, poi, in conseguenza di ciò, assumesse qualche cosa per ipotesi, metterà, nuovamente, capo all'as- surdo. Ma anche relativi sono gl'intelligibili: ché si dicono intelligibili relativamente all'intelligenza, e se fossero, in realtà, tali, quali si dicono, non ci sarebbe discordanza di opinioni. Dunque anche l'intelligibile è 198    stato ricondotto ai cinque modi. Perciò è necessario che assolutamente si sospenda il giudizio intorno alla cosa proposta... Tramandano anche due altri modi di sospensione. Perché, tutto ciò che si comprende, o pare essere compreso di per sé, o si comprende in base ad altro... Ora, che nulla si comprenda di per sé, dicono evidente dal disaccordo tra i fisici su tutte le cose sensibili e intelligibili: disaccordo indirimibile, non potendo noi valerci di criterio, né sensibile né intelli- gibile, per essere ciascuno, quale che pigliamo, non degno di fede, perché controverso. Perciò neppure da altro ammettono che si possa comprendere alcunché. Ché se l'altro, da cui si comprenda, abbisognerà sempre d'essere compreso da altro, si mette capo al diallele o all'infinito; se invece si volesse assumere alcunché come compreso di ·per sé, e da esso comprendere un altro, s'oppone il non poter nulla comprendersi di per sé, per le ragioni già dette (Sesto Empirico, Pyrrh. hypot., l, 169-179). "Agrippa," scrive il Dal Pra, "nei confronti di Enesidemo, presta meno attenzione agli aspetti analitici della discordanza ed ha una mag- giore preoccupazione sistematica; egli è mosso principalmente da un intendimento di sintesi e, si direbbe, di deduzione. Muove dalla ricerca delle maniere tipiche fondamentali in cui può tentarsi la fondazione di un sistema dogmatico, nel tentativo non soltanto di abbracciare nella sua critica il maggior numero possibile di posizioni dogmatiche stori- camente definite, ma anche di includere quelle future e possibili. La sistematica della sospensione insomma obbedisce in Agrippa a criteri molto piu rigorosi e universali che non in Enesidemo. Agrippa ha anche conservato qualche cosa dei tropi di Enesidemo; ha infatti con- siderato la questione della discordanza esistente sia nella filosofia che nella vita (tropo primo da raffrontare col secondo di Enesidemo) come anche la questione della relatività (tropo terzo da raffrontare con l'ot- tavo di Enesidemo); già nella formulazione di questi tropi appare la maggiore vigoria di Agrippa, la maggiore incisività e comprensività della sua delineazione; entrambi i motivi conservati sono tali che di fronte ad essi si può essere già indotti alla sospensione; ma siamo qui soltanto ad un primo passo della considerazione sistematica della sospensione; bisogna vedere come i dogmatici, superando questo punto, si accingano alla costruzione dei loro sistemi e quali tipi di giustifica- zione essi siano soliti addurre di essi; bisogna vedere, anzi, in quante diverse maniere sia possibile a un dogmatico tentare la giustificazione del suo sistema. Ora queste maniere, secondo Agrippa, sono tre: o una giustificazione che risultando apparentemente autonoma, finisce per svolgersi in due direzioni: o verso un processo all'infinito o verso una ipotesi iniziale; oppure una giustificazione che, rinunciando all'auto- nomia, ricorre alla eteronomia, aprendosi inesorabilmente verso_ il dial-  199   lde. Se pertanto il dogmatico non vorrà accogliere il rilievo degli infi- niti contrasti che si verificano nella filosofia e ndla vita, e vorrà pro- cedere oltre, si troverà nella necessità di avviarsi per una di queste tre strade: processo all'infinito, ipotesi gratuita, diallde; ed ognuna di queste tre strade conduce alla sospensione dd giudizio. In tal modo Agrippa ha abbozzato una sistemazione delle condizioni formali del dogmatismo, in termini non empirici, ma universali. La paJ;"te forse piu importante dd suo discorso è quella che mostra il dogmatico, di- remo cosi, in azione, alla ricerca della strada su cui fondare il suo sistema: la pri!Da tappa è costituita dal riconoscimento eventuale che il contrasto, da cui si muove, non è dirimibile; la seconda tappa è costi- tuita dal tentativo di fondare il sensibile sul sensibile e l'intelligibile sull'intelligibile (processo all'infinito per la sostanziale omogeneità dei termini su cui si vorrebbe costruire la prova); la terza tappa è data dal tentativo di fondare il sensibile sull'intelligibile e l'intelligibile sul sensibile (diallele ed eterogeneità dei termini su ~ui si vorrebbe gio- care per la prova); la quarta tappa finalmente è data dal tentativo di uscire sia dal processo di rinvio omogeneo, sia da quello a. diallele, mediante l'assunzione, senza dimostrazione di una ipotesi; e questa quarta tappa si ricongiunge alla prima, in un circolo dal ·quale il dog- matico non ha via di uscita. Agrippa ha pertanto articolato la sua sfi- ducia nella costruzione dogmatica, prospettando tutte le forme fonda- mentali in cui essa poteva organiizarsi; tale sfiducia si è venuta cosi differenziando ed è diventata rispettivamente: affermazione del con- trasto, vanità dell'allargamento su terreno omogeneo a sfere sempre piu larghe d'un'affermazione che, allargandosi, non perde la sua arbi- trarietà; vanità del cosiddetto processo logico o dimostrativo, con la persuasione che esso non è mai altro che un circolo, senza alcun pro- gresso possibile; vanìtà dell'evidenza e sua relatività. L'istanza critica espressa in questi termini da.Agrippa risulta dunque piu ampia, pi6 forte, pi6.organica e precisa di quella espressa da Enesidemo; Agrippa è riuscito a staccarsi con maggior sicurezza dalla considerazione con- tingente; di questa o quella posizione dogmatica, per inv.::stire pi6 diret- tamente il dogmatismo nella sua generalità" (op. cit., pp.. 339-41). Di non poca importanza è poi ricordare che, entro i termini Enesi- demo-Agrippa (seconda metà del I secolo a. C., prima metà del I d. C.), 1'indirizzo scettico che si viene costituendo in metodo, si incontra con l'indirizzo della medicina empirica. Certamente separati in principio (l'indirizzo medico teorico e l'indirizzo medico empirico, in contrasto tra di loro, risalgono a Ippocrate: sappiamo già il significato filosofico e metodologico che la medicina assunse proprio dai tempi di lppocrate: cfr. I vol.). Probabilmente la denominazione • medici teorici" (loghil(6t), 200    risale a un'opera in sei libri del medico Eraclide di Taranto, del I se- colo a. C., intitolata La scuola empirica. Eraclide di Taranto, che fu discepolo di Tolomeo di Cirene, con il quale, sembra, si sia, di contro all'Accademia, restaurato l'originario pirronismo, avrebbe metodologi- camente fondato l'indirizzo empirico della medicina, rifacendosi a Filino di Cos (metà del I I I sec. a. C.), Serapione di Alessandria (fine del III, inizio del n a. C.), Glaucia di Taranto e Apollonio il Vecchio (n sec. a. C.) (dr. I vol.). Serapione - scrive Celso - primo fra tutti professò che la medicina non ha nulla a che fare con la scienza razionale, ponendola soltanto nella pratica e nelle scienze sperimentali... Coloro che prendono il nome di em- pirici, a motivo dell'esperienza, tengono conto delle cagioni manifeste, come necessarie; e però sostengono essere ozioso disputare intorno alle cause occulte e alle funzioni •naturali, essendo la natUra incomprensibile. Non potersi poi comprendere è chiaro per le discordi opinioni di coloro che ne hanno discorso, non avendosi potuto ottenere consenso in tale que- stione, né tra filosofi, né tra gli stessi medici. Se si considerano le ragioni, tutte possono sembrare probabili; se si considera la cura, ciascuno vanta le sue guarigioni: non è perciò possibile negar fede alla disputa o all'au- torità di alcuno (Celso, De re medica, l, proemio). Anche se non possiamo dire se l'Eraclide, maestro di Enesidemo, di cui parla Diogene Laerzio (IX, 116), sia Eraclide di Taranto, certo è che dopo Eraclide ed Enesidemo l'indirizzo scettico e l'indirizzo della medicina empirica s'influenzarono vicendevolmente, finché con Meno- doto i due indirizzi confluirono in un unico metodo di ricerca scienti- fica. Sappiamo che dopo Eraclide di Taranto, proseguirono sulla sua linea, durante la prima metà del 1 secolo d. C., Diodoro che compose un'opera intitolata Questioni empiriche, Lico di Napoli, Zopyro di Alessandria, Archibio, Apollonio di Cizio e un certo Zeucsis. Il Robin (Pyrrhon et le scepticisme grec, Parigi, p. 188; anche Dal Pra, op. cit., pp. 354 sgg.), tenendo presente il sunto che dell'opera intito- lata Dictyaca di Dionigi di Egea, vissuto sulla fine del 1 secolo d. C., offre Fozio (Myriobiblion, 211, 168b, sgg.), in cui "dialetticamente," d4:e Fozio; su di una stessa: questione di medicina si avanzano cin- quanta argomenti pro e contra, e ricordando che Diogene Laerzio nel- l'elenco dei seguaci di Enesidemo (IX, 106, 116) pone uno Zeucsis, detto dai "piedi a squadra" (goni6pus), dicendolo autore di un'opera inti- tolata Duplici discorsi, in cui evidentemente si mettevano in discus- sione varie opinioni con il metodo dei pro e dei contra, suppone che lo Zeucsis medico sia da identificare con lo Zeucsis scettico. Non sa- premmo certo dire. Certo è che la vicinanza tra medici empirici e indi-  201   rizzo scettico, senza dubbio chiarissima in Menodoto, è indicativa dell'atteggiamento metodologico assunto nel I secolo d. C. dallo scet- ticismo, di contro alla filosofia verbosa, in una precisazione di quelli che sono i limiti e le possibilità della ricerca, che non può non svol- gersi, per essere utile e scientificamente valida, sç non sul piano umano, nella determinazione di nessi e rapporti che si possono cogliere solo entro i termini dei "segni rammemorativi," ragionando sui dati del- l'esperienza, donde i tre punti fondamentali del metodo empirico della medicina, del resto già presenti nel tripode empirico di Serapione di Alessandria: autopsia (osservazioni e ricerche del medico fatte in per- sona), historie (raccolta sistematica delle osservazioni fatte ~a altri medici), mimesi o, se vogliamo, semiotica (dall'un segno di una ma- lattia, simile ad altro segno, determinare volta per volta il quadro cli- nico della malattia e il rimedio pratico da adottare), indipendente- mente dallà ricerca di cause fondate sù concezioni generali e filosofiche (su cui si fondavano i medici dogmatici), per cui poteva servire la polemica e l'appello all'autonomia del discorso scientifico, mai chiuso in una dottrina definitiva, sempre aperto a nuova ricerca (sképsis), de- lineati dall'indirizzo del neo-scetticismo, che, pur per polemica rifa- cendosi al primo scetticismo di Pirrone e di Timone, assume di fronte alla cultura quale si era venuta configurando tra la fine del I secolo a. C. e il principio del I d. C~ ben altro atteggiamento piu strettamente logico-metodologico. La conclusione sull'insignificanza e l'illogicità di qualsiasi discorso, che voglia significare il discorso del reale (quale ch'esso si creda dimostrare che sia), poneva in·crisi tutta una cultura acquisita, la fiducia nei risultati di certe scienze (fisica, astronomia) e perciò stesso i fondamenti di un'educazione enciclopedica; si rivelav, inoltre, la presunzione di poter stabilire quella stessa educazione su basi precostituite, in un passaggio gratuito dal logico all'ontico, richiamando ad una consapevolezza critica che spezzasse ogni istitu- zionalizzazione del sapere. Certo, pur discusse criticamente le possibilità umane di cogliere (di là da ciò che si presenta nella rappresentazione dei sensi e della ragione e in ciò che mediante l'attività soggettiva si viene costruendo) l'essenza delle cose e la ragion d'essere del tutto, il discorso della realtà, negato che sul piano ontologico si possa dire il "vero," che perciò non esistono né il vero né la verità, proprio nella negazione di un qualsiasi passaggio dal logico all'ontico, restava fissata e presupposta l'esistenza di una realtà, ignota e oscura, oltre le possibilità dell'umano discorso e dell'umana comprensione, ma senza dubbio essa, in quanto realtà, se. afferrabile, fondamento della verità e della condotta della vita. Si sarebbe potuto, sul piano scettico, andare piu in là: una cosa è giun- 202    gere a negare la possibile conoscenza della realtà (il· che presuppone già una realtà: materia, anima, Dio), altra cosa, non presupponendo alcuna realtà, vedere come si pongono, discorrendo, le realtà. In altri termini, giunti alla sospensione del giudizio sulla realtà, si sarebbe po- tuto, rovesciando il discorso, fermi restando gli argomenti scettici nei confronti del dogmatismo, vedere come si costituisce la realtà attra- verso il giudizio stesso, come, attraverso il giudizio, e la storia dd giu- dizio, si costituisce questa o quella fisica, questa o quella matematica, questa o quella condotta di vita: non vere se si presuppone una realtà - sia pur ignota e acatalettica, -vere se si possono vedere, nel tempo, come costruzioni, in cui si annulla la dualità soggetto-oggetto. Di fatto ciò non avvenne. Di. fatto il richiamo, fondamentale, dello scet- ticismo a una piu approfondita consapevolezza critica, si risolveva, nelle sue conclusioni estreme, da un lato in un'esatta dimostrazione che ogni pretesa filosofica a significare la realtà è un non-giudizio, una proposizione senza senso, dall'altro lato in una assoluta "sospen- sio~e dd giudizio," ché, accantonando la realtà (e perciò presuppo- nendola) e negando verità e significanza a ogni giud,izio - proprio perché ritenuto sul piano della realtà, - portava alla negazione di qualsivoglia "fisica" o di qualsivoglia ipotesi che potesse rendere pen- sabile e costruibile la realtà (donde.anche la critica al cosiddetto dogmatismo dell'ipotesi epicurea),.e; per le stesse ragioni, l'accanto- namento, nell'imperturbabilità, raggiunta appunto con la "sospensione del giudizio," di ogni tipo dì condotta morale, onde l'accettazione, in una rinnovatasi pigra ratio, di qualsiasi costume storicamente de- terminatosi ("lo scettico, senza preconcetti dogmatici si attiene all'os- servanza della vita comune, e, perciò, nelle cose opinabili si mantiene impassibile, e in quelle che sono di necessità mediocremente patisce": Sesto Empirico, Py"h. hypot., III, 235). Tutto ciò non solo dimostra l'influenza del neoscetticismo, ma sembra anche spiegare in che senso, accantonata appunto la pretesa di cogliere mediante i sensi o la ragione l'essenza della realtà e la verità, ma sempre presupposta la realtà, si tentino altre vie che possano giustifi- care la presenza di quella realtà umanamente ignota e nascosta, che permettano, anche se su altro piano, di cogliere quella realtà, o di es- serne còlti; la realtà allora, sciolta da ogni razionalità, poteva benissimo essere intesa come assoluta trascendenza, oltre i sensi e la ragione, essa stessa fonte di razionalità, o come assoluta libertà e perciò assoluta persona, e su essa e per essa conformare la propria condotta· di vita (di qui il prevalere dell'esperienza detta religiosa). D'altra parte, le possibili vie imboccate, a cominciare da quella assunta da Filone l'Ebreo, che ebbe poi grandissi1,11a influenza, non si possono vedere bene, se non si tenga presente anche la storia di Roma e dei paesi assog- gettati a Roma, particolarmente dalla morte di Tiberio (!/ d.C.) ìn poi, soprattutto per ciò che riguarda la pOlitica individuale e assoluti- stica dei singoli imperatori e la situazione sociale, o, gia prima con Filone l'Ebreo, la situazione storica in cui, con l'avvento dell'Impero, s'era trovato; in Alessandria, n·"popolo ebreo.•l. Cultura e crisi politica al principio del l secolo d. C. Il corso dd 1 secolo d.C. presenta, evidente, una crisi morale, che, ad un tempo, risponde ad una piu profonda crisi politica e sociale. Se le strutture e la potenza dello Stato romano rimangono forti, se la sua cultura istituzionalizzatasi apparentemente risponde ai fini dd- l'Impero quale si era costituito con Augusto, in effetto, da Tiberio in poi, i contrasti interni si fecero sempre piu drammatici. Alcuni impe- ratori giustificarono il proprio potere assoluto mediante la propria pro- clamazione a divinità (onde la loro simpatia per certi culti e misteri orientali, dalle religioni di Iside e &rapide, a quelle di Cibele, di Attis, di Sabazia e di Mitra) ed il loro contrasto, in particolare, con lo Stoi- cismo, in cui si vedeva la concezione di uno Stato universale e di.un diritto, l'opzione per una condotta di vita e per una cultura che pote- vano minare la politica stessa dei singoli imperatori. Sono dati precisi. Già con Tiberio fu bandito da Roma lo stoico Attalo e messo a morte, perché repubblicano, Cremuzio Cordo ("egli lodava Bruto e diceva C. Cassio l'ultimo dei romani": Tacito, Annali, IV, 34 sgg.), mentre Caligola fece uccidere Giulio Cano, e Seneca, perseguitato da Claudio, fin! poi per uccidersi sotto Nerone, mentre venivano mandati a morte Trasea Peto, anch'egli ritenuto emulo di Bruto (Tacito, Ann., XVI, 22) e Rubellio Plauto, accusato, come riferisce Tacito, d'esser seguace della "arrogante setta degli Stoici, che rende turbolenti e desi- derosi di disordini." Musonio Rufo e Cornuto vennero esiliati. Nel 71, sotto Vespasiano, tutti i filosofi vennero espulsi da Roma, mentre Dione Crisostomo, ancora insegnante di retorica, scriveva il Discorso con- tro i filosofi, "peste della città e dei governi," e, nel 93, Domiziano espulse di nuovo da Roma i cultori di filosofia preoccupato per gli effetti della retorica, qualora questa non rimanesse sul piano pura- mente scolastico, di esercitazione. Il potere, d'altra parte, si restringeva sempre piu nelle mani di pochi, cultura e retorica dovevano servire ai funzionari dello Stato (e appunto per essi si apriranno in Roma e nei suoi domini le scuole, che verranno poi sempre in for~pa maggiore controllate dall'imperatore), le popolazioni divennero sempre piu povere e la schiavitu strumento economico, mentre in tutto l'Impero schiavi e militari circolano, provenienti dai paesi piu diversi, recando con sé esperienze, culti e culture, religioni diverse. Cosf, entro tale atmo- sfera generale, entro i diversi sostrati sociali in cui ci si muove, a seconda anche dell'imperatore e della sua corte entro la quale per sorte si vive, si capisce come la filosofia potesse soprattutto esser coltivata, da un lato come guida alla vita, rifugio, consolazione, dall'altro lato come rifles- sione su esperienze religiose, quale indice di salvazione, di liberazione dal guaio di esser nati uomini. Di qui, sempre, entro l'ambiente greco romano, fin dal principio del 1 secolo d. C., la ripresa di certi asP-C=tti dello stoicismo, del pitagorismo, del platonismo stoicheggiante, e, in altri sostrati sociali, il recupero di suggestioni magiche, teurgiche, oracolari, di certe posizioni che si configurano nel cosiddetto gnosticismo, il costituirsi, accanto al commento dei libri del passato (Platone, Aristotele), dei testi ermetici, orfici, il riapparire dei misteri, e, infine, non ultima, la suggestione del Cristianesimo. Sotto questo aspetto, la critica scettica, fin da Enesidemo, sembra abbia avuto una notevole influenza e funzione. Ad esempio, proprio rifacendosi a Enesidemo (o almeno ad argomentazioni scettiche che furono poi sostenute da Enesidemo), dando a lui ragione nei confronti dei superbi ed atei dogmatici, un Filone l'Ebreo poteva rimettere in discus-- sione il problema della verità, ma inserendosi, sotto tutt'altro aspetto, in tutt'altra esperienza e tradizione, delineando il motivo della "rivela- zione," mediante cui, poi, recuperare certi motivi della vecchia cultura. Per altra via, un Seneca, in una situazione politica cangiata, entro i ter- mini di una crisi di una cultilra, poteva, proprio riallacciandosi alla pole- mica scettica, trovare i fondamenti della condotta della vita in uno stoi- cismo, che, in realtà, non ha piu nulla a che fare con lo stoicismo della scuola. In certe esperienze religiose di origine orientale si cercò, di là dalla ricerca razionale, di fronte al suo fallimento, di trovare il fonda~ mento della vita e della propria salvazione. Pur accettando l'istanza scet- tica, pur convinti che inafferrabile è l'essenza e la struttura della realtà, si accantonava anche la via dell'ipotesi probabile, utile a determinare di volta in volta, non solo una possibile fisica, ma una possibile condotta di vita, cui convincere (com'era stato il caso di Filone di Larissa e di Cicerone), e per cui era necessaria una retorica in senso ciceroniano. Essa avrebbe avuto bisogno però di un foro, di una piazza, di un'assem- blea, Ove fosse stato possibile discutere e convincere, foro e piazza che 230    non esistevano piu (non si scordi che molti filosofi, un Seneca, ad esem- pio, sotto Caligola, un Giunio Rustico, sotto Domiziano, furono perseguitati o condannati a morte, per certi loro discorsi pubblici). La retorica perciò si venne trasformando di nuovo in esercitazione o in tipo di inse- gnamento scolastico, come si vedrà bene in Quintiliano, il cui ciceronia- nesimo sarà estremamente istituzionale (non a caso l'autore del Dialogo degli oratori, attribuito a Tacito, ma certo contemporaneo di Quinti- liano, poteva sostenere che la verace efficacia della retorica si era venuta perdendo con il prevalere del dispotismo). E cos{ si capisce ché insieme alla retorica, entro l'ambito scolastico,.si sviluppassero discussioni di grammatica e di dialettica; da qui, soprattutto, il commento dei libri logici di. Aristotele, la cui applicazione poteva, poi, essere ben lontana dai contenuti aristotelici, tanto che il commento ai libri della logica aristotelica poteva incontrarsi, formalmente, con certi aspetti della logica stoica. Per altro verso, invece, si poteva far di nuovo viva l'istanza cinica e l'ultima retorica rimasta: la presentazione·di esempi, di modelli di vita. 2. Astronomia e astrologia al principio del l secolo d. C.: loro esiti. Manilio Particolare interesse assume ora, entro questi termini, il delinearsi della interpretazione, in chiave stoico-platonica, dei molti aspetti con cui erano penetrate nel mondo occidentale - fin da Platone con certezza - le concezioni astronomico-teologiche di origine orientale, ove non vanno scordati i nomi di Beroso, di Asclepiade Mirleano, l'opera dello pseudo Nechepso-Petosiride, attraverso i cui scritti sappiamo che circolarono già dal secondo secolo a. C., in ambiente alessandrino molti dei piu impres- sicmanti motivi magico-astrologici. Sul piano delle concezioni astrono- miche, è abbastanza facile scorgere, fino a:l principio del I secolo d. C., due grandi linee, che, por, nel corso del I secolo, vennero fondendosi, dando luogo a esiti piu strettamente magici. Da un lato vediamo Ia linea, scaturita dall'interpretazione dei movimenti, dei significati e fini delle stelle, che risale ai secondi pitagorici, al Timeo e all'Epinomide (in cui chiara appare la sostituzione del vecchio culto degli dèi olimpici con il nuovo culto degli astri, manifestazione dell'ordine e delle leggi della suprema ragione divina) e che prosegue con l'interpretazione clean- tea del logos spermatikos, che, fuoco supremo, si realizza attraverso i fuochi e le luci stellari (Inno a Zeus), con i Fenomeni di Arato e poi con i manuali di origine stoica sui segni celesti e sulle influenze delle stelle sulla terra. Dall'altro.lato vediamo la linea scaturita dallo sforzo di rendersi conto dei movimenti stellari in ter~ini razionali, "salvando i fenomeni," e che, se anche d'origine pitagorico-platonica, venne svolgen- dosi su di un altro piano, su di un piano fisico in traduzione geometrico- matematica, perché fossero possibili calcoli e misure, e in ipotesi che rendessero conto degli apparenti errori, indipendentemente dal ricercare supreme ed allotrie ragioni (e pensiamo qui ad Eudosso di Cnido, Era- clide Pontico, e poi ai grandi astronomi di Alessandria, fino a.Ipparco di Nicea e, almeno parzialmente, a Posidonio, nel suo tentativo di "fami- liarizzare l'universo"). Si capisce bene, d'altra parte, come a quella che dicevamo la linea platonico-stoica potessero servire i calcoli e le misure deil'altra linea, che determinando, appunto mediante i calcoli, la neces- sità dei movimenti, le risultanti dei loro rapporti e cosi via, razionaliz- zava e rendeva possibile la divinazione, giustificando la necessità entro cui si scandiscono il ritmo e l'ordine divini. Anche se indirettamente ed in forma alquanto sospetta, sappiamo che Posidonio (cfr. sopra) cercò di inquadrare certi risultati fisici e matema- tici entro i termini dell'ipotesi fisica dello stoicismo. Secondo Simplicio (In Phys Arist., Il, 2, p. 291, 34 sgg. Diels), che riprende un testo di Ge- mino (Epitome dei Meteorolog•), riportato da Alessandro Filopono, Posi- donio, occupandosi del sole e degli astri, ne avrebbe determinato il movi- mento, valendosi del metodo geometrico e matematico. Egli cioè avrebbe considerato pesi, grandezze e tempi di movimento, per formulare ipotesi che servissero a spiegare i fenomeni del cielo, ad esempio l'irregolarità del movimento del sole (cfr. Simplicio, Fisica di Arist., cit.). Sembra, anzi, che Posidonio per spiegare ed illustrare i moti degli astri abbia costruito una sfera. (cfr. Cicerone, De natura deorum, Il, 34, 88: "La sfera, che re- centemente ha costruito il nostro caro amico Posidonio, riproduce in ogni sua rivoluzione gli stessi fenomeni relativi al sole, alla luna e ai cinque pianeti che avvengono ogni giorno e notte in cielo: chi dubiterà, ve- dendo tale sfera, ch'essa è dotata di una ragione perfetta?"). D'altra parte, se la sfera rendeva conto delle apparenze e permetteva calcoli e misure, non permetteva di rendere ragione dei movimenti stessi. Biso- gnava per ciò, sostiene sempre Simplicio, rifacendosi a Posidonio, "muo- vere dai principt generali delle qualità del movimento, dal principio della 7tOL'Jj'rLX1j 8uvcx(Lr.t;, determinando l'essenza del cielo e degli astri" (Sìm- plicio, Fisic. Arist., cit.). Ora, accanto all'ipotesi stoica, probabilmente formulata da Cleante, secondo cui la ragion d'essere del tutto è un prin- cipio attivo, un fuoco vitale, ragione seminate che ovunque si diffonde, costituendo un tutto necessariaemnte ordinato, "ragione, unica di tutti, che si svolge e vive per l'eternità," "comune ragione che in tutti pene- tra, ugualmente toccando il grande [sole] e i minori lumi" (Inno a Zeus, 21 sgg., 16 sgg.), non vanno scordate le ipotesi aristotelica ed epi- 232    curea. Se da un lato Aristotele, nella sua sistemazione cosmologica, era ricorso all'ipotesi di un primo motore immobile, dall'altro lato Epicuro, di contro al teleologismo platonico-aristotelico, aveva sostenuto l'impos- sibilità, sul piano sperimentale, di formulare qualsiasi ipotesi generale, sottolineando, di contro all"'unica spiegazione," il valore delle "molte- plici spiegazioni." "I segni dei fenomeni celesti ce li forniscono i feno- meni che accadono presso di noi e che si vede bene come e dove acca- dono, e non i fenomeni celesti stessi, che possono avvenire in molte maniere" (Epicuro, Lettera a Pitocle, 86, 8; 87, 8). Entro i termini di un meccanicismo casuale si eliminava ogni necessaria determinazione, ci si liberava dal concetto della provvidenza divina. "E non si chiami in causa la natura divina... Se non si farà cosi, ogni indagine sulle cause dei fenomeni celesti sarà vana, come è avvenuto a certuni che ignorando il metodo delle possibili spiegazioni caddero in vuote argomentazioni, perché credevano al metodo dell'unica spiegazione" (Epicuro, Lettera a Pitocle, 97, 4, 12). Proprio di contro alla tesi epicurea - di cui sappiamo le preoccu- •pazioni che suscitò per i suoi esiti politici, sganciando l'uomo e le cose da ordini precostituiti, da una ragion d'essere universale, per cui e cieli e mondi e uomini apparivano scaturiti a caso, onde si accusò Epi- curo di sragionevolezza e di empietà di contro a Epicuro, dunque, sembra che Posidonio abbia avanzato l'ipotesi del tutto animato e vi- vente, secondo la tesi della "simpatia universale." Egli si sarebbe cosi riallacciato, · relativamente agli ordini e ai movimenti stellari, a certi testi del Timeo e dell'Epinomide, interpretati mediante la concezione fisico-animistica di Cleante e di Arato, in una visione cosmologica in cui poteva rientrare anche la sistemazione aristotelica, una volta che il motore immobile, Dio, non fosse piu concepito come un concetto, una condizione logica, ma come forza attiva, l6gos spermatik6s, che non esiste se non nel suo manifestarsi, e di cui, fin dalle stelle, cominciando dal sole, tutte le cose sono aspetti e determinazioni. Si vede bene cosi come Achille Tazio, discutendo il significato dei Fenomeni di Arato, interpretasse la tesi posidoniana come l'unica ipo- tesi valida da potersi sostenere contro l'ipotesi degli Epicurei, secondo cui gli astri non sono affatto animati ("Posidonio polemizza con gli Epicurei, i quali negano che gli astri siano animati, perché racchiusi nei corpi. Secondo Posidonio non sono i corpi a racchi.udere le anime, ma le anime i corpi, ché le anime son come la colla che tiene unita se stessa e le cose di fuori": Achille Tazio, Isagoge in Phaen. Arati, 13, ed. Maas). Sotto questo aspetto, dando ad anima il significato di forza, di calore vitale, organizzante, sembra chiaro in che senso si potesse, sia pur analogicamente, spiegare il movimento in sé ponendo, al limite, un  233   princip10 di vita, una forza attiva, non a caso.detta fuoco, inesistente in sé se non appunto nella sua stessa estrinsecazione. I movimenti de~li astri costituiscono perciò ·gli stessi moti d,ell'intelligenza divina, e gli astri sono essi stessi fuoco (secondo Stolieo Posidonio scriveva che gli "astri sono a&JL«.&ei:ov, corpo divino, fatti di etere splendente e infuo- cato, mai in.quiete, ma sempre in movimento circolare": Stobeo, Ecl., I, 24, 5 W.), corpi divini, come fuoco è Dro, onde tutte le cose, avendo ciascuna la propria ragione seminale, il proprio fuoco, la propria luce, la propria anima, sono, sia pur ìn gradi sempre piu affievoliti, riper- cussioni e riflessioni dei fuochi, delle luci siderali. Già qui si saldano le due linee di cui sopra parlavamo, e..se da un lato ·si ren<;leva possibile lq sfruttamento. dei risultati geometrico-mate- matici, dall'altro lato si potevano rendere razionali le suggestioni di certa magia astrologica, di origine sacerdotale, che si era venuta dif- fondendo attraverso i cosiddetti Caldei, per cui, in fine, al vecchio impe- rativo "vivi secondo natura," si poteva sostituire l'imperativo "vivi secondo le stelle," secondo la tua stella, ché ciascuno, ·concepito' sotto il riflesso di un certo fuoco stellare, in una certa situazione e congiun- zione di stelle, assume per riflesso quel fuoco, quella figura siderale, ha il suo destino che è destino divino, comprensibile da parte di chi conosce l'ora (oroscopo) delta ct>ncezione e.Ja posizione delle stelle, e sa, seguendo il moto delle stelle, fare i giusti calcoli, prendere le giuste misure, ché l'istante della nascita determina quello della morte: "Na- scentes morimur, finisque ab origine pendet";. "Fata regunt orbem, certa stant omnia lege" (Manilio, Astronomicon, IV, 16, 14; cfr. F. Cu- mont, Les religions orienta/es, Parigi, pp. 196 sgg.). Da un lato, dunque, di contro alla libertà di Epicuro che fa l'uomo responsabile del suo morido, lanciato in una infinità·di mondi, si tende, "familiarizzando" l'universo, di ricondurre l'universo a una sola unità e a una sola legge, di cui, "microcosmo" nel "cosmo," l'uomo è parte in una cospirazione di parti in funzione del tutto ("simpatia"); dal- l'altro lato, entro i termini di questa concezione, si tende, recuperando calcoli e misure dell'astronomia, recuperando la simbolica dei numeri e la geometria dei pitagorici, a· razionalizzare il costituirsi e il destino di tutte le cose, compreso l'uomo. Si veniva cosi:· a delineare la possibi- lità di uria scienza della. natura e di una teologia scientifica, che risol- veva in sé l'aspetto pragmatico-magico di molte credenze astrologiche diffuse dai cosiddetti Caldei, ed ove si poteva considerare la stessa divi- nazione e predizione del futuro non solo rispetto all'universo, ma all'uomo, come frutto di una serie di conoscenze e' come vero e proprio possesso di un complesso di tecniche. Abbiamo di proposito lasciato nel vago l'apporto delle. credenze 234    astrologiche, delle pratiche magiche, delle superstizioni religiose, di certe concezioni e misteri, provenienti dall'Oriente, proprio perché tutto questo è estremamente vago, e perché, in realtà, non possediamo docu- mentazioni precise. Possiamo dire solo questo, che con il termine Caldei, sia in Roma sia in Grecia (in Grecia fin dal tempo di Platone) si sole- vano indicare quei sapienti, indipendentemente ormai dalla loro ori- gine, che soprattutto sfruttarono sul piano del sapere da un lato, almeno in principio, concezioni astronomiche di origine babilonese, dall'altro lato gli esiti che tali concezioni potevano avere sul piano della divina- zione e della previsione basate sui fenomeni celesti (cfr. Diodoro Siculo, Il, 29 sgg.). Che naturalmente molti di costoro, giuocando sulle superstizioni popolari, fossero rimasti quei tali mendicanti, sacerdoti imbroglioni e indovini di cui parla Platone (cfr. Repubblica, 364b), è certo, come risulta da non poche testimonianze. D'altra parte è senza dubbio vero che notevole, entro l'àmbito di tali ricerche astrologiche, fu l'influsso di certe religioni (pensiamo qui particolarmente al maz- deismo e al mitracismo) e di certe raccolte relative alle influenze delle piante, delle pietre, degli astri, di provenienza orientale (da Ostane, da Zarathustra), diffuse in Egitto da Petosiride (sembra di lui un'opera di astrologia del n secolo a. C.: cfr. Catai. codd. astrologorum graec., VII, 129-151) e da Beroso, sacerdote babilonese di Bel, autore di Babi- lonicà, dedicati ad Antioco I Sotèr (tra il 280 e il 260 a. C.), ad un tempo interprete di antiche teorie babilonesi. Ricordiamo qui, per la sua vicinanza con certe concezioni stoiche (e perché è un chiaro indice di come sia difficile distinguere provenienze e separazioni precise) la dottrina, di origine siriaca, dei grandi cicli annui che si scandiscono sulle rivoluzioni celesti dando luogo al concetto dell'eternità divina che, operando mediante le stelle e le loro influenze, è onnipotente su cose, uomini, popoli (cfr. Catai. codd. astro/. graec., V, l, p. 210). "Il primo postulato dell'astrologia caldea è che tutti i fenomeni e gli avve- nimenti di questo mondo sono necessariamente determinati dalle in- fluenze siderali. I cangiamenti della natura come le disposizioni degli uomini sono fatalmente soggetti alle energie divine che risiedono nel cielo. In altri termini, gli dèi sono onnipotenti; sono i padroni del Destino che sovranamente governa l'universo. Tale nozione della loro onnipotenza appare come lo sviluppo dell'antica autocrazia che si rico- nosceva ai Baal. Costoro erano concepiti ad immagine di un monarca asiatico, e la terminologia religiosa si compiaceva di sottolineare l'umiltà dei loro servitori rispetto ad essi. Non Si trova in Siria nulla d'analogo a ciò che esisteva in Egitto, ove il prete riteneva di poter costringere i suoi dèi ad agire ed osava perfino minacciarli" (F. Cumont, Les reli- gions orienta/es dans le paganisme romain, p. 155). Sotto questo aspetto,  non vanno dimenticate le suggestioni di certi rituali egiziani, che me- diante la precisione delle parole sacre incantano ed obbligano le potenze superiori, donde il valore dato alle parole evocatrici e a certi gesti dd rituante, di cui non pochi lasciti ritroviamo in quei testi che poi riflui- rono nel Jilorpo ermetico (cfr. Boll, Sphaera, p. 372; Cumont, cit., pp. 114 sgg.; Festugière, cit., vol. I), mentre per altra via si poté intra- vedere la possibilità d'inventare tecniche mediante cui operare su quella stessa fatalità astrologica, spezzandone la catena (donde, poi, nel n se- colo d. C., la teurgia e la magia scientifica). E cosi, entro quest'àmbito della astrologia, va ora sottolineata l'importanza che vengono assu- mendo, non pìu in senso mnemonico, non piu solo lasciti di totem e dì primordiali magie amuletiche, le figure delle stelle (la vergine, i gemelli e cosi via) e le figure delle stelle di provenienza persiana, in un insieme di animali fantastici (la cosiddetta "sfera barbarica"),-donde, poi, l'aspetto mimetico della magia, l'imitazione della figura e della ragione del proprio astro. Tutti questi aspetti, in principio senza dubbio separati, di prove- nienze diverse, operanti in ambienti sacerdotali, sulla fine del I se- colo a. C. vengono diffondendosi - non sembra un caso la polemica di Filone l'Ebreo nei confronti dei Caldei che riducono il divino al complesso delle stelle, s(come non è un.caso l'ironia degli scettici, già fin da Carneade, nei confronti delle pretese dell'oroscopia, - vengono laicizzandosi e, interpretati in chiave stoica, si risolvono in una vera e propria teologia razionale, scientifica, nel tentativo di una spiegazione della fatalità. Sotto questo aspetto si vede bene come l'astrologia sul principio del 1 secolo d. C. potesse penetrare e fosse accettata in Roma nell'ambiente stoicheggiante di Augusto e di Tiberio. Testimonianza precisa di questo incontro di tradizioni diverse astro- logiche, interpretate e sistemate entro i termini dello stoicismo, sembra essere il poema in cinque libri (Astronomicon) di Manilio,l composto l Nulla ~ stato tramandato della vita di M. Manilio. Ch'egli sia vissuto ed abbia composto il suo poema A.stronomicon, in 5 libri, tra Augusto e Tiberio lo si oonget- tusa da alcuni accenni che si ritrovano nella sua stessa opera. Nel proemio vi ~ un chiaro accenno ad Augusto, si come di Augusto anoora vivo Manilio parla nel libro II, 509, affermando che il Capricorno rifulse nel giorno in cui Augusto uaoque. t ricordata la disfatta di Varo, avvenuta nel 9 d. C., come avvenimento recente. Nel IV libro si accenna chiaramente a Tiberio come da poco succeduto ad Augusto (Au- gusto mori nel 14 d. C.). Nel V libro, infine, sembra si accenni all'incendio del teatro di Pompei, avvenuto nel 22 d. C. Poich~ il V libro appare chiaramente interrotto si ~supposto che Manilio sia morto, appunto, nel 22. A proposito degli interessi per un certo tipo di questioni astronomiche occorre qui fare il nome di C. Giulio Cesare Germanico, nato nel 15 a. C. da Nerone Claudio Druso ~anico e da Antonia Minore, adottato nel 4 d. C. da Tiberio contemporaneamente, a sua volta, adottato da Augusto, morto nel 19 d. C. Uomo di ampia cultusa, autore di contra il 9 e il 22 d. C., a Roma, in un riconoscimento, talvolta commosso e pieno di stupore di fronte alla fatalità del tutto, dell'architettura del- l'Universo e della sua razionalità (del cui scandirsi fatale incarnazione è l'imperatore: si vedano gli accenni ad Augusto, e a Tiberio), in una netta contrapposizione allo sconcertante e libero costituirsi degli infi- niti mondi epicurei, alla libera mater, feconda e libera materia da cui tutto liberamente si genera, di lucreziana memoria (non a caso alla struttura esterna del poema di Lucrezio si avvicina in antistrofe il poema di Manilio). Sorge ogni astro secondo la propria luce e osserva un ordine preciso nel suo nascere e nel suo tramontare. Nulla v'è di piu meraviglioso, in s1 gran massa, che questo razionale ordine e il fatto che ogni cosa obbedisce a leggi fisse... Chi potrebbe credere che tutto questo avvenga senza· uo nume e che il mondo sia stato creato da minime particelle [gli atomi], unite alla cieca? Non è opera del caso, questa, ma ordine che proviene da un nume possente (Manilio, I, 476-479, 492 sgg.). Difficile è dire, relativamente alla costruzione che dell'Universo offre Manilio, sia per l'aspetto piu propriamente geografico, sia per quello piu strettamente astronomico, quanto egli si sia servito delle opere di Posidonio - in par.ticolare, si è detto, delle Meteore, del Protreptico, dell'Oceano. - Certo, abbastanza evidentemente si rintraccia la linea che va dal Timeo, all'Epinomide, ai Fenomeni di Arato, in una inter- pretazione genericamente stoica, in chiave teologica. Ma v'è di piu: in Manilio è indubbia una traccia di motivi astrologici di origine orien- tale. In un codice Angelico (grec. 29, sec. xv, c. 120: cfr. Cumont, Cat. cod. astrol., VI, p. 188; F. Boll, Sphaera, p. 53), è esposta una dot- trina di Asclepiade Mirleano (del 1 sec. a.C.: cfr. B.A. Miiller, De Asclepiade Myrleano, p. 22) sulle costellazioni della sfera barbarica e sull'influsso che tali costellazioni hanno sugli uomini nati sotto di esse, dottrina che ritroviamo in Manilio (V, 262 sgg.); non solo, ma, se- condo Firmico Materno (Proemio, III libro, 4), alcuni motivi Manilio li avrebbe ripresi dagli scritti di Nechepso e Petosiride; in realtà in un frammento di Nechepso e Petosiride (Riess, 363) ritroviamo proprio gli stessi motivi trattati da Manilio (III, 190 sgg.) sulla Fortuna e l'oro- scopo, risolti mediante la disposizione dei segni siderali, i dodekate- moria, le sorti dei dodici luoghi. Ma ciò che piu colpisce è la sistema- medie in greco e di epi8fammi in latino e in 8fCCO, ottimo oratore, Germanico libera- mente rielaborò iJIOeDli di Arato: abbiamo 700 versi del rifacimento dei Fenomeni, modifi· c:ati in funzione delle nuove scoperte in campo astronomico; e circa 200 versi di un'oJ)era sempre di argomento astronomico, probabilmente un rifacimento di Prognostica da inclu- dere nei Fenomeni, a loro completamento.  237   zione del tutto entro i termini di un ordine razionale, di cui appunto tutto - dai cieli, alle influenze stellari, ai conflitti tra le costellazioni - è rivelazione, manifestazione di una unica ratio gubernans. In tal senso, già notevole come indicazione, è una pur breve traccia della struttura e del contenuto del poema, che, per la morte dell'autore (22 circa d. C.), rimase interrotto (il V libro è incompiuto): I libro: forma e origine del mondo, i quattro elementi (fuoco, aria, acqua, terra), posizione della terra nel cosmo; cielo, zodiaco, asse del mondo, stelle artiche, natura delle costellazioni, distanza tra lo zodiaco e la terra, grandezza delle dodici parti dell'eclittica, circoli paralleli, meridiani, oriz- zonte, eclittica, via lattea. - Il libro: dodici segni zodiacali (~cf>3tot) loro na- tura, loro posizione, loro subordinazione ai dodici dèi (Minerva, Venere, Apollo, Mercurio, Giove, Cerere, Vulcano, Marte, Diana, Vesta, Giunone, Nettuno), loro dominio sulle membra umane, rapporti reciproci tra di loro, amicizia e discordia nelle costellazioni, simile a quella che v'è sulla terra, influssi dei sidera cognata su chi è nato sotto di essi, dodel{atemoria, gli otto luoghi. - III libro: le dodici sorti, tra cui la Fortuna che determina le loro combinazioni coi dodici segni, oroscopia, i segni tropici (Cancro, Capricorno, Ariete, Leone). - IV libro: figurazioni dei segni zodiacali, a seconda delle quali si determinano i costumi, la condotta, il destino degli uomini, sistema geometrico dei decani, in una ripartizione ternaria dei segni zodiacali; sorgere dei segni, località ordinate sotto il potere dei do- dici segni (geografia astrologica), conflagrazione universale, cosmo e micro- cosmo (l'uomo). - V libro: sistema del sorgere degli astri (paranatéllonta), visione ordinata del tutto, anche nel conflitto degli astri, ché su tutto do- mina una piu profonda ragione, in un solo scandirsi, in cui l'universo appare fatto sul modello dello Stato augusteo. "Non è opera del caso, questo, ma ordine che proviene da un nume possente" (1, 492); "questo dico e questa ragione, che tutto governa, trae dalle eterne stelle gli esseri animati della terra" (Il, 82-83). E l'uomo, microcosmo nel cosmo, poiché l'anima umana emana dagli astri, essi stessi fuoco del divino fuoco, principio di vita del tutto, attra- verso la contemplazione dell'universo e delle sue leggi, dispiegamento del divino e della sua fatalità, l'uomo può, ripercorrendo le ragioni del tutto, accettare il proprio fato, serenamente. "Soltanto nell'uomo di- scende Dio e vi alita e vi ricerca se stesso. Chi potrebbe conoscere il cielo se non per dono del cielo? Chi potrebbe trovare Dio, se non chi è parte lui stesso, di Dio?" (II, 108 sgg.). Lo sforzo di Manilio appare consapevolmente rivolto a risolvere su di un piano razionale la fatalità, a far rientrare tutto nell'ordine, siste- mando in unità e ragione, in un unico impero, i diversi aspetti con cui era penetrata in Roma l'asttologia e l'oroscopia, ch'egli svuot~ del 238    suo mordente magico e operativo. Sotto questo aspetto non sembra un caso che il discorso intorno alle stelle e alla loro fatale influenza (se vo- gliamo astrologia) si risolva entro i termini di una descrizione delle "leggi" degli astri (astronomia), manifestazione del divino ordine e della divina ragione, non "nascosti," non "volontari," e sui quali per- ciò non v'è alcuna possibilità di operare, nessuna possibilità mediante evocazioni di modificarne la volontà, ché la divina ragione è tutta rive- lata a chi sappia contemplarla: Lo stesso Dio non vieta al mondo il volto del cielo e i suoi aspetti e il corpo svela, e sempre volgendosi s'imprime e si offre perché possa essere ben conosciuto, perché a chi contempla insegni come si muova e lo costringa ad osservare le sue leggi. Lo stesso mondo gli animi nostri chiama alle stelle, né soffre che i suoi legami rimangano nascosti, poiché svelati essi sono. Chi mai potrà credere ch'empio sia conoscere quello che ci è concesso di contemplare? Non disprezzare le tue forze perché sono in un piccolo corpo: ciò che vale è immenso. Sf come poche quantità d'oro valgono piu di molti cumuli di bronzo, sf come il diamante, un punto di pietra, è ancor piu prezioso dell'oro, sf come la piccola pupilla ha la capacità di abbracciare il cielo tutto, e minimo è ciò che gli occhi vedono, mentre guardano le massime cose; cosi la sede dell'animo, posta sotto il tenue cuore, domina per tutto il corpo da un angusto limite. Non chiedere la quantità della materia, ma considera le potenze che la ragione domina, non il peso: tutto la ragione vince - ratio omnia vincit (IV, 920-32). Fata regunt orbem, certa stant omnia lege (IV, 14). Divinità svelata il Tutto, il discorso sugli astri, incarnazioni delle leggi, diviene $Cienza, studio dellç. rifrazioni e riflessioni dei lumi stel- lari: la stessa oroscopia e divinazione divengono calcolo, studio di rapporti geometrici e matematici. Di qui il recupero di molti aspetti della sistemazione della cosmologia di origine pitagorica (con particolare rife- rimento al fuoco), che si vien componendo con la cosmologia della fisica stoica, in una strutturazione dell'universo che poteva essere benissimo quella offerta dal sistema aristotelico. In Manilio, effettivamente, c'è in forma quanto mai massiccia, l'esito di uno degli aspetti della fisica e della teologia stoiche, in una sistema- zione, manualistica, dei momenti con cui si erano venute determi- nando, in linee diverse, le ricerche astronomico-astrologiche. E tale esito è la matematizzazione del fatalismo in una coraggiosa consequenzialità - che sembra essere la novità che Manilio si gloria di introdurre in Roma, - che se toglieva ogni possibilità sia alle cose che agli uomini, senza alcuna preoccupazione per i problemi impliciti nella soluzione di una universale casualità, cosi presenti e acuti· in Crisippo e ancora in Cicerone (cfr. De divinatione), giustificava,' per altro verso, il signi- ficato dell'impero di Augusto e di Tiberio, di quell'impero che appa- riva realizzazione della ragion d'essere del tutto, di quella ragione che il tutto ordina, fatalmente governando. Sotto questo aspetto di non poco momento sembrano i versi con cui si apre il poema maniliano: Mi accingo, in poesia, a derivare dal cosmo le divine arti e lç stelle consapevoli del fato che rendono diversi i casi degli uomini, secondo celeste ragione: e, primo, con nuovi carmi, commuovo l'Elicona e le selve che ondeggiano pei verdeggianti vertici, recando inconsueti sacri- fici da nessuno mai prima ricordati. Ma tu, Cesare, principe e padre della patria, che reggi questo mondo obbediente ad auguste leggi e che assumi la dignità di Dio in una terra che ti si è affidata come a un padre, dammi animo, dammi forze per cantare tema sf alto (1, 1-10). E, sempre sotto questo aspetto, altrettanto indicativi sembrano i versi, sottolineati dal Farrington (Scienza e politica nel mondo antico, cit., trad. it., pp. 200-201), che si trovano sulla fine del V libro, con cui s'interrompe il poema, ché, appunto, conclusasi la sistemazione del- l'universo in un ordine fatale, in cui ai gradi e alle gerarchie stellari corrispondono i gradi, le gerarchie, i privilegi della società terrena, Manilio esclama: Ma se fosse stata concessa al popolo che costttutsce la maggioranza, una forza proporzionata al suo numero, tutto l'universo sarebbe andato in fiamme (V, 742 sgg.). Entro i termini di tale necessità, di tale ferrea causalità, l'astrologia e la teologia scientifica, potevano da un lato risolvere io ìina disperata accettazione consapevole l'inesorabile situazione umana, in un'adeguazione, da parte di ciascuno, al giuoco delle proprie sorti; dall'altro lato esse sembravano, dal punto prospettico di chi aveva io mario il potere - essendo nato in una felice congiunzione stellare - giustificare agli occhi dei piu quel potere stesso, rompendo il quale si sarebbe rotto con- tro la medesima ragione divina. E non era, questo, argomento di per- suasione politica da scartare, mentre era ancora da scartare l'esito opposto alla fatalità, cioè la possibilità, presupposta una volonta nelle stdle e perciò stesso nella divinità, di operare mediante culti e simboli, rituali e tecniche su queste volontà, modificandole. Se, dunque, ancora al tempo di Augusto e di Tiberio si videro di malocchio, da parte della classe al potere, certi riti e culti d'origine egiziana, si capisce, invece, l'importanza data all'astrologia caldea, in- terpretata in chiave stoico-platonica, l'importanza data alla divinazione, l'introduzione nelle corti degli astrologi, di chi, sapendo fare i calcoli, poteva giustificare certe azioni, anche una cèrta politica. È stato finemente sottolineato (Cumont, op. cit., pp. 217-18) che se un Destino irrevocabile s'impone, nessuna supplica può cangiarne la volontà; il culto è inefficace e le preghiere non sono altro, per riprendere un'espres- sione di Seneca, che le "consolazioni di un animo ammalato, ché irre- vocabilmente il fato consuma il proprio diritto [ius suum, ove assume un suo particolare significato il termine diritto], né può essere smosso da alcuna preghiera" (Nat. quaest., II, 35). "E, senza dubbio, alcuni adepti dell'astrologia, come l'imperatore Tiberio, accantonano le prà- tiche religiose, persuasi che la Fatalità governa tutte le cose ('circa deos ac religiones neglegentior, quippe addictus mathematicae plenu- sque persuasionis cuncta fato agi': Svetonio, Tiberio, 66)...Si erige a dovere morale l'assoluta sottomissione alla sorte onnipotente, la gioiosa rassegnazione all'inevitabile, e ci si accontenta di venerare, senza chie- derle nulla, la superiore potenza che regge l'universo... Le masse, tut- tavia, non s'elevarono a quest'altezza di rinuncia" (Cumont, cit., p. 218). È vero, ma non bisogna schematizzare. In realtà qui si pone un problema meno semplice. L'altro aspetto dell'astrologia, la possibilità di operare sul destino e sulle cose, sugli dèi, anche se già da tempo presente in certi culti d'origine egiziana o in sistemazioni fisiche che, recuperando suggestioni magiche sul potere di piante, di pietre, di colori~ si muovevano sul piano dell'atomismo seminale (vedi sopra, Bolo di Mende), si viene diffondendo in forma laicizzata in epoca pio tarda, dalla seconda metà circa del n secolo d. C. in poi; e, sempre in epoca pio tarda (seconda metà del 1 secolo d. C.) si diffondono, di con- tro all'accettazione di un inesorabile fato, anche quei culti e riti egi- ziani, quei culti mitriaco-solari, che spezzavano la razionalità e la cau- salità, propagati proprio da certi imperatori (la cui politica e il cui fondamento di potere erano ben diversi da quelli di Augusto e ancora di Tiberio). E allora duplice diviene la questione, considerata storica- mènte. La magia e il suo diffondersi in ambienti popolari se dapprima può essere indicazione di una sia pur inconsapevole rivolta alla impo- sizione di un inesorabile fatalismo, viene poi accolta da certi imperatori proprio in contrasto con quella visione causale e necessaria di un tutto che limitava, e non poco, il loro assoluto ed arbitrario potere, onde certi ritorni ad un naturalismo razionalistico-teologico hanno il sapore di una ribellione a precise situazioni storiche, in un appello ad un tipo di moralità in contrapposizione ad altri, ove l'opzione per una certa concezione (la stoica, come sarà per Seneca) ripropone la possi-  241   bilità di una scelta entro un complesso di condizioni date, di mosse date, ma pur sempre possibili; mentre, per· altro verso, la razionalizza- zione di certe forme teurgiche, mimetiche, alchimistiche, la cui linea si vede bene da Plotino a Proclo, assume un significato in un tentativo scientifico di risolvere il rapporto uomo-necessità e fatalità del tutto, in un serio accantonamento della teurgia magica e irrazionale. Infine, se teniamo presente l'aspetto piu strettamente matematico-logico del- l'astrologia, in uno sforzo di risolvere in calcoli e misure i rapporti tra le stelle e delle stelle con la terra, donde la possibilità della divina- zione e dell'oroscopia in termini scientifici, per cui, liberata dal suo alone sacerdotale, l'astrologia assume il carattere di un'ipotesi fisico- matematica in termini causali, ci rendiamo conto del perché Vettio Valente (n sec. d. C.) dicesse che "l'astrologia è la regina delle scienze" (Anthologiarum libri, ed. Kroll, Berlino, p. 241), e perché, ancora una volta, astrologia e astronomia potessero risolversi in unità con Claudio Tolomeo (u sec. d. C.), il grande sistematore dei risultati del- l'astronomia (Almagesto) e dell'astrologia (Tetrabiblos). A tal proposito, anzi, come indicazione del significato scientifico dato allo studio degli astri, per determinarne le leggi e la loro influenza necessaria sul mondo e sugli uomini, mediante calcoli geometrico-mate- matici, sembra interessante riferire le seguenti parole del Cumont: "Se i teorici [da Carneade in poi, i cui argomenti furono ripresi, ripro- dotti e sviluppati sotto mille forme dai polemisti posteriori: gli uomini che muoiono insieme in una battaglia o in un naufragio sono tutti nati in uno stesso momento avendo avuto la stessa sorte?...] non giun- sero a dimostrare la falsità dottrinale dell'apostelesmatica, !~esperienza doveva provarne il vano sforzo. Senza dubbio numerosi hanno dovuto essere gli errori e provocare crudeli disillusioni. Avendo perduto un bambino di quattro anni, al quale era stato predetto un brillante de- stino, i ~uoi genitori "stigmatizzano nel suo epitaffio il 'matematico mentitore la cui gran fama ha preso in giro ambedue' (Corp. iscr. lat., VI, 27.140). Ma nessuno pensava di negare la possibilità di tali errori. Abbiamo dei testi in cui gli stessi facitori di oroscopi spiegano candi- damente e dottamente come si sono ingannati, per non aver tenuto conto di un dato del problema (cfr. Palco in Cat. codd. astr., I, 106-7), e, nel u secolo, Vettio Valente amaramente si lamenta dei detestabili imbroglioni, che, erigendosi a profeti senza una lunga preparazione necessaria, rendono odiosa o ridicola l'astrologia che osano invocare (Vettio Valente, V, 9: Cat. codd. astr., V, 2, p. 32, ed. Kroll). Bisogna ricordarsi che l'astrologia non era solo una scienza (~LO"t'ijtJ.TJ), ma anche una tecnica(~), come la medicina" (Cumont, cit., pp. 203-4). La figura di Demetrio «cinico" Giunti a questo punto sembra difficile parlare in termini esatti di stoicismo, di platonismo, di pitagorismo, ché ognuna di queste conce- zioni, in effetto, serve oramai non piu che ad evocare certi principt isti- tuzionalizzati, certe scelte e opzioni in favore di problematiche e di esi- genze assai diverse, per cui veniamo ad avere, sia pur sotto il nome di Pitagora, di Platone, o di alcuni Stoici (anche se certi testi sono real- mente ricalcati da testi platonici o stoici) posizioni che, se davvero vo- gliamo rendercene conto, meglio sarebbe spogliare di quelle etichette, riferendoci volta a volta a questo o a quel Platone, a questo o a quello stoico (sottolineando quali testi di Platone o di stoici o di Aristotele o della tradizione pitagorica sono sfruttati) filtrati attraverso questa o quella figurazione storica. Non solo, ma ancora piu difficili appaiono tali schematizzazioni quando si pensa che in realtà, almeno dal prin- cipio del 1 secolo d. C., le stesse scuole (l'Accademia, il Liceo, la Stoà) sono venute meno, o sussistono per inerzia. Di scolarchi della Stoà, dopo Antipatro di Tiro (morto nel 45 a. C. circa) non abbiamo piu notizia, se non, sotto Adriano e Antonino Pio, di un certo Coponio Massimo; nel I I secolo d. C., di Aurelio Eraclide Euripide e di Giulio Zosimiano; nel m secolo di Ateneo, Miwnio, Calliete. Poi basta. Lo stoicismo con tutto il suo complesso dottrinario costituitosi nei secoli è divenuto altro. E cosi, dopo Teomnesto di Naucrati, fiorito nel 44 circa a. C., poco o nulla sappiamo di scolarchi veri e propri dell'Accademia (Ammonio di Egitto, vissuto sotto Nerone, maestro di Plutarco di Cheronea; Cal- visio Tauro, vissuto al tempo di Adriano e di Antonino Pio; Attico, vissuto sotto Marco Aurelio: il discorso si farà diverso per la scuola Alessandrino-romana, per quella Siriaca e di Pergamo, e per la scuola di Atene e di Alessandria). E lo stesso va ripetuto per il Peripato. Di non poca importanza è sotto questo aspetto la testimonianza dello stesso Seneca,2 che se da un lato denuncia il fatto che piu non 2 Nato a Corduba, in Spagna, nel 4-3 a. C., da Anneo Seneca, letterato di fama, retore, storico dell'eloquenza, e da Elvia, donna di cultura, particolarmente interessata di studi filosofici, Lucio Anneo Seneca, fu condotto a Roma, ancora bambino, da una zia materna, moglie di Vitrasio Pollione, che fu in seguito prefetto d'Egitto per sedici anni, dove soggiornò anche Seneca. Dei due fratelli di Seneca, il maggiore, Marco Anneo Novate, che adottato dal retore Giunio Gallione, ne prese il nome, percorse la carriera consolare e fu console e proconsole deii'Acaia (dopo la mone del fratello Lucio, al quale era legato da profondo affetto, si uccise: a lui Seneca aveva dedicato il De ira, il De vita beata e il perduto De remediis fortuitorum); il fratello minore, Mela, di cui Seneca parla poco, ebbe per figlio il poeta Lucano. Da giovinetto Lucio Anneo Seneca ebbe a soffrire non poco per la cagionevole salute, minacciata anche  243   esistono le vecchie scuole, dall'altro lato - sia pur riprendendo un motivo ciceroniano, ma per altro fine - confessa che egli, in realtà, non è né stoico, né platonico, né altro, in senso stretto. dalla sua continua applicazione negli studi. In Roma ascoltò dapprima Sozione di Alessandria e Sestio il Giovane, poi Attalo, Papirio Fabiano ~ il cinico Demetrio. Su consiglio del padre che temeva per la salute del figlio, che preso dagl'insegnamenti di Sozione si era dato ad una "vita pitagorica" eccessiva, e che temeva che il figlio fosse accusato di pratiche occulte, Lucio Ann~ Seneca si dedicò alla carriera oratoria ed a quella politica. Nominato questore nel 31 o 32 d. C., anche per aiuto della zia, Seneca entrò in Senato ove fu ammirato per la sua eloquenza e sapienza. Nel 39, una sua troppo libera orazione in Senato irritò l'imperatore Caligola, che avrebbe voluto sopprimerlo. Seneca · si salvò per intercessione di una favorita dell1mperatore, la quale sostenne eh'era inutile uccidere un uomo già vicino alla morte per malattia. Ritiratasi dalla vita politica attiva, Seneca rimase in contatto con la corte imperiale, godendo, come egli stesso confessa (Cons. aJ Hellliam, V, 4), di potenza, di onori, di denaro. Si legò allora di amicizia con Giulia Livilla, figlia minore di Germanico, sorella di Caligola. Fu proprio la sua amicizia per la dignitosa principessa, che mai volle adulare l'imperatrice Messalina, moglie dell'imperatore Claudio, che, nel 41, rovinò Seneca. Messalina, gelosa di Giulia, per l'influenza ch'ella aveva sull'imperatore Claudio, riuscl a far sospettare Giulia di adulterio, tanto da farla cacciare da corte e, poco dopo, da farla uccidere. Seneca fu coinvolto in ·questa losca faccenda. Forse si disse di lui ch'era stato amante di Giulia. Seneca fu da Claudio condannato al- l'esilio e relegato in Corsica. Nove anni durò l'esilio di Seneca. Egli ne fu richiamato nel 49, dopo la morte di Messalina, da Agrippina, figlia di Germanico, nuova impe- ratrice. Tornato a Roma, Seneca fu assunto da Agrippina in qualiti di precettore e, poi, di consigliere del figlio Domizio che Agrippina aveva avuto da un suo precedente matrimonio con Gn. Enobarbo. Domizio, fatto sposare ad Ottavia, figlia di Claudio c di Messalina, e adottato dall'imperatore Claudio, fu contrapposto dalla madre Agrip- pina, per la successione al trono, a Britannico, figlio legittimo di Claudio c di Messa- lina. Morto Claudio nel 54, avvelenato, a quanto sembra, da Agrippina, Domizio, col nome di Nerone, sal! al trono imperiale (nel 55 Nerone fece uccidere Britannico). Seneca, insieme a Burro, prefetto del pretorio, si sforzò, e in parte riusc!, d'indirizzare, su di un piano di onesti e di dirittura morale e politica, l'azione del giovane impe- ratore, sottraendolo all'infausto potere della madre. In effetto Seneca, tra il 55 e il 60, fu la reale guida della politica imperiale. Dopo la tragica fine di Agrippina, fatta uccidere dal figlio (59 d. C.), Nerone si sottrasse sempre di piu alla benefica influenza di Scneca, nel suo desiderio di un potere assoluto. Lo stesso Senato, d'altra parte, si oppose a molte delle propOste di riforma, tra cui una finanziaria a favore del popolo, avanzate da Seneca. G~ nel 58 Seneca era stato attaccato dai suoi nemici, attraverso Suillio che lo accusava di avere accumulato in quattro anni esose ricchezze, di essersi incamerate erediti estorte a vecchi incapaci, di avere usato usura sulle province c sull'intera Italia. Seneca riuscl a far esiliare Suillio nelle isole Baleari. Una chiara risposta a tali accuse l'abbiamo nel De vita beata. Dopo la morte di Burro, avvenuta nel 62 - c'è chi ha sospettato per veleno propinatogll da Nerone, - Scneca, avendo compreso che ogni suo tentativo sarebbe ormai fallito, che la sua stessa vita era in pericolo, offerte le sue ricchezze all'imperatore, gli chiese, ad un tempo, di abbandonare la corte. Nerone rifiutll sia le ricchezze sia le dimissioni di Seneca, che, ruttavia, si ritirò a vita·allatto privata, accantonando ogni lusso e fasto e vivendo, soprattutto in campagna, dedito solo agli srudi e a scri- vere. Dopo la morte di Burro e l'allontanamento di Seneca, sempre piu scellerato c terribile divenne il governo di Nerone'. Si ordi allora una congiura, di cui a capo fu il nobile Calpurnio Pisone. Vi aderirono cavalieri, senatori, soldati, donne, tra cui l'eroica liberta Epicari. Sembra che Seneca, sia pur conoscendo la cosa, non abbia avuto alcuna parte attiva nella congiura. I congiurati avevano intenzione di liberani di Nerone e di nominare in sua vece Pisone. Ci fu anche chi pensò a Scneca come 244    I rami della grande famiglia filosofica si appassiscono per mancanza di polloni. Le due Accademie, l'antica e la nuova, non hanno piu pontefice che le continui. In chi ritrovare la·tradizione e la dottrina pirroniane? L'illustre, possibile imperatore. Scoperta la congiura, molti dei suoi aderenti furono condannati a morte: tra essi Calpurnio Pisone e Plauzio Laterano. Anche Sencca accusato di segreti accordi con Pisone - fu condannato a morte. La sua morte fu esempio di grandezza morale, l'ultimo appello di Sencca. Era l'anno 65 d. C. Anche se molte, non tutte le opere di Sencca sono pervenute. Alcune sono andate perse (Ad Gallionem fratrem de remediis fortuitorum, ricordato da Tertulliano, di cui, nel Medioevo, si fece una rielaborazione dallo stesso titolo; De matrimomo, di cui si serv{ San Girolamo 'per comporre l'epistola Ad /ouinianum; Villl paJris; Edortationes e De officiis di cui fece uso nel VI secolo Martino di Brancara per la sua Formula honestae vitae o De quattuor virtutibus); di altre abbiamo frammenti o parti (orazioni fatte in lode di Messalina, per Plauzio Laterano; discorsi composti per Nerone ai pretoriani, al Senato, in onore di Claudio, forse anche quello al Senato per giustificare la morte di Agrippina; poesie, epigrammi; De immtllura morte, Quomodo amicitia continenda sit, De superstitione dialogus; probabilmente i Mora/es libri philosophiae non sono un'opera a si: andata persa, ma una citazione per indicare il complesso delle opere morali; De motu terrarum, De situ lndiae, De situ et sacris Aegyptiorum, ' De forma mundi). Nel Medioevo andarono sotto il nome di Seneca florilegi e raceoolte di sentenze (De copia verborum, ricavato dal De officiis e dalle Lettere a Lucilio; Monita Senecae, Liber de moribus, Proverbia Senecae, ricavati dalle opere morali di Sencca; in reald i Proverbia, costituiti di 149 sentenze in ordine alfabetico da N a Q, derivano dal Liber de moribus, e furono redatte per proseguire le Sentenze, in ordine alfabetico· da A a N, di Publio Siro). Quintiliano divide le opere di Seneca in Orationes, Poemllla, Epistulae, Dialogi. Nei Oialogi Quintiliano faceva rientrare tutte le opere filosofiche, anche quelle non a carat- tere dialogico, tranne le Epistulae ad Lucilium. La tradizione manoscritta, invece, ha raccolto sotto il titolo di Dialogi i seguenti scritti: De prouidentia, De constantia sapientis, De ira libri tres, A d Marciam de consolatione, D e uitll bealll, De otio, De tranquillitllle animi, De brevitllle uitae, Ad Polybir<m de consolatione, Ad Helviam matrem de consollllione. Conosciuta gi~ da San Girolamo e da S. Agostino, senza dubbio apocrifa ~ la corrispondenza tra Seneca e San Paolo, composta da un cristiano; come apocrife sono le Notae Senecae. ln ordine approssimativamente cronologico le opere di Seneca pervenute sono: Consolatio ad Marciam (certo posteriore ·all'avvento al trono di Caligola, sembra. sia stata composta tra il 37 e il 40; 'è scritta per consolare Marcia, figlia dello stoico Cremuzio Cocdo, che, accusato da Sciano di lesa maesd per avere parlato nei suoi Annali con troppa libem, per sfuggire alla condanna, si suicidò; Marcia ottenne da Caligola di pubblicare gli Annali del padre, epurati delle parti pericolose; madre di due figlie e di due figli, Marcia restò profondamente depressa per la morte dei due maschi, particolarmente del secondo, Metilio; la Consolatio è composta, appunto, per dare conforto a Marcia colpita dalla sventura della morte di Metilio); De ira (com- posto certo sotto Caligola, sembra che lo serino, in tre libri, mutilo dell'inizio del primo, dedicato al fratello Anneo Novato, sia stato pubblicato subito dopo la morte di Cali- gola, verso il 41; è un'analisi minuta e precisa delle umane passioni, di cui la piu funesta è l'ira); Comolatio ad Helviam (probabilmente del 42 o 43, per consolare la madre, rimasta vedova, dal dolore per l'esilio del figlio in Corsica); Consolatio ad Polybium (mutila del principio, composta tra il 43 e il 44, in Corsica, per conso- lare il potente liberto di Claudio, Polibio, che avrebbe potuto farlo tornare dall'esilio, del dolore per la morte di un fratello); Epigrammi (alcuni scritti durante l'esilio in Corsica); De bretJitate vitae (sembra del 49, al ritorno dall'esilio; dedicato a Paolino, prefetto dell'annona, forse il padre di Pomponia Paolina che sar~ la seconda moglie di Seneca;· il tema fondamentale dello serino è la "tesi che a torto gli uonini si ma impopolare, scuola di Pitagora non ha ti'Ovato rappresentante alcuno. Quella.dei Sesti, che la rinnovava con un vigore tutto romano, seguita alla sua nascita con entusiasmo, è già morta. Di contro, quale cura, quali sforzi perché il nome di un sia pur minimo pantomimo non vada per- duto! (Nat. quaest., VII, 32). Chi ci ha preceduto non dev'essere nostro padrone, ma nostra guida. La verità è aperta a tutti e non è possesso di nessuno: molto n'è rimasto ancora per i futuri (Epist., 33, 11). Che male c'è a utilizzare· i filosofi lagnano della brevità della vita, perch~ sono essi che la rendono tale sciupandola con una prodigalità insensata in occupazioni vuote e inutili, ivi comprese per alcuni le ricerche erudite, e nel compiacere alle loro passioni e ai loro vizi"); De elementi~~ (indi- rizzato a Nerone da poco imperatore, sembra sia stato scritto tra il 55 e il 56; secondo il Pr~c, poco coovincentemente, sarebbe stato composto nel 54-55: l'opera è stata divisa in 2 libri; nella prima parte si discute il valore della clemenza, particolar- mente opportuna per un sovrano; nella seconda parte - pervenuta mutila - si defi- nisce la clemenza, distinguendola dalla misericordia, compassione, e dalla venia, per- dono); De constantia sapientis (dedicato ad Anneo Sereno, prefetto tligilum; non si sa esattamente quando sia stato scritto, certo tra il 55 e il 58; vi si dimostra che il saggio non può ricevere n~ in;,.;a n~ eontumeli{l); De beata t1ita (sembra del 58, perché nella risposta ali"accusa che i filosofi non conformano la propria vita alle teorie sostenute, si è veduta una risposta alle accuse rivolte da Suillio contro Seneca; è giunto mutilo dell'ultima parte; vi si disegna il ritratto del saggio ideale ed il conflitto mocale, proprio del saggio reale); De otio (scritto nel 62 circa, è giunto mutilo della prima e dell'ultima parte; vi si difende la tesi dell'opportunità di riti- rarsi dalla vita politica attiva, qualora i casi lo.rendano necessario); De wanquillitate animi (dedicato a Sereno, fu composto nel 62 o nel 63; è una precisa disamina dell'uomo conBitto morale, e del conflitto tra vita attiva e vita contemplativa, tra otium e negotium); De twotlidentia (certo ·dell'ultimo periodo, fu forse scritto nel 62 o nel 63; è dedicato a Lucilio, scrittore, probabilmente autore del poemetto Aetna; Seneca, abbandonàta la questione che il mondo non sottostà al caso ma è retto dalla Provvidenza, qui tenta dimostrare che il corso del tutto è retto da una legge eterna, per rispondere meglio alla domanda di Lucilio perché se il mondo è retto dalla Prov- videnza, tanti guai càpitano agli uomini buoni; il centro dello scritto s'impernia sulla tesi che non vi sarebbe vita morale senza conBitto e senza ostacoli); De bene/ieiis (dedicato ad Ebuzio Liberale, in 7 libri, è dell'ultimo periodo della vita di Seneca, probabilmente del 62 i libri I-IV, del 63-64 i libri V-VI e il VII, che è chiaramente un completamento; vi si discute a fondo, attrave~so l'esame di chi davvero sia bene- ficante e chi beneficiato, il rapporto servo-padrone); Natfll'ales ()uaestiones (ne sono rimasti 7 libri degli 8 che doveva contenere; sono dedicate a Lucilio e furQno com- poste tra il 62 e il 64, il libro VI certo dopo il 63 perché vi si ricorda il terremO(o di Pompei avvenuto in quell'anno; accanto a una descrizione dei fenomeni naturali non poche volte Seneca cerca d'inquadrare l'opera mediante riflessioni morali); Epi- stulae morales ad Lueilium (sono 124 lettere, divise ora in 20 libri, scritte all'amico Lucilio tra il 60-62 e il 65; rappresentano forse la piu alta opera di filosofia morale del pensiero romano). Notissime sono le tragedie· di Seneca: Hercules, Troades (o Hecuba), Phoenissae (o Thebais), Medea, Phaedra (o Hippolytus), Oedipus, Agamennon, Thyestes, Her- cules Oetaeus. Citiamo infine il Ludus de morte Claudii, da Dione chiamato Apol(oloeynthosis, l'inzueeamento di Claudio, ossia la consacrazione della zucca (alla deificazione, apo- theosis, di Claudio, decretata dal Senato, Seneca, in questa sua satira· menippea, com-. posta in prosa e· in versi, rispondeva che, in effetti, era quella la deificazione di una zucca: lo scritto è del 54 circa). delle altre scuole nella misura in cui sono nostri? (De ira, l, 65). - Non mi lego ~ nessuno dei maestri stoici: ho anch'io diritto di giudicare (De vita beata, III, 2). - Non mi sono dato la legge di non far nulla contro il detto di Zenone o di Crisippo..., ed eco possiamo farci dei comandi di Epicuro in mezzo al campo di Zenone (De otio, III, l; I, 4).- Possiamo discutere con Socrate, dubitare con Carneade; riposarci con Epicuro, vin- cere l'umana natura con gli Stoici, oltrepassarla con i Cinici (De brev. vit., XIV, 2). - Non mi sono alienato nessuno: di nessuno io porto il nome (Epist., 45, 4). - Non parlo con te la lingua stoica...; permettimi di usare parole comuni (Ep., 13, 4; 59, 1). - Le anime piu celebri costituiscono una vera e propria famiglia; scegli quella in cui vuoi entrare (De brev. vit., XV, 3). In realtà l'opzione di Seneca per certi aspetti dello Stoicismo, il suo gusto per commosse rievocazioni di esempi di uomini, vissuti e morti da uomini, per la delineazione di certe figure di pensatori, le cui con- cezioni siano state coerentemente vissute (Epicuro, Demetrio cinico), assumono un senso ed un significato di validità, qualora se ne veda la genesi in certe situazioni precise entro i termini della tormentata vita di Seneca, che ha vissuto e operato in un periodo e in un ambiente estremamente tormentato e drammatico. Sembra cosi di potersi rendere contò del significato dato da Seneca alla "filosofia," intesa non come "concezione" o scienza per sé, ma come cultura, come riflessione cri- cica, formatrice, attraverso la stessa attività del pensiero, della persona umana - diremmo non come "filosofia teoretica" né come "filosofia della morale," ma essa stessa filosofia come moralità - educatrice e, perciò, liberatrice, consolatoria. "La filosofia non sta nelle parole, sta negli atti: forma e plasma l'anima, dispone la vita, regola le azio9i;... senza di lei nessuno pu~ vivere intrepidamente, nessuno senz'affanni" (Ep. a Luc., 16, 3). "Pur concedendo a Posidonio d'aver portato un gran contributo alla filosofia, non posso ammettergli che la filosofia abbia trovato le arti di uso co- mune, né saprei darle la gloria dei mestieri fabbrili... La sapienza sta piu in alto, non delle mani maestra, ma delle anime" (Ep. a Luc., 90, 7, 25-26). Il pensiero di Seneca e, in conclusione, il suo àppello a una vita ra- gionevole (non eroica - gli eroi si ammirano e si presentano come esempi, - non puramente passionale, cioè non riflessa) non è scaturito né da un'esercitazione scolastica anche in filosofia ci perdiamo in cose inutili, impariamo per la scuola anzi che per la vita (Ep. a Luc., 106, 12) - né dal gusto per una costruzione non contraddittoria, o perfettamente corrispondente ad analisi logiche e linguistiche, ma da  una continua riflessione su esperienze di vita: dalla presenza, nella vita, del dolore, della paura, da una o da altra precisa situazione umana, in un certo ambiente, in una certa ora, dalla riflessione sulla propria vi- gliaccheria, dall'esperienza - vivissima in Seneca - che l'uomo è non un tutt'uno, ma un insieme di linee spezzate, contraddittorie. Di qui l'impossibilità di presentare la concezione di Seneca sul tutto e sulla realtà come rispondente o meno a una precostituita • filosofia>" estraendo dalle opere di lui - ognuna delle quali risponde a situazioni precise e individuabili nel tempo, onde andrebbero lette cronologicamente - una specie di sentenziario morale, unico e valido sempre. Tutta questa folla che litiga nel foro - scriveva Seneca in una delle sue prime opere, la Consolazione a Marcia, - che si (diverte] nei teatri e prega nei templi, cammina verso la morte a passi piu o meno· rapidi: un solo cenere eguaglierà le cose che ami e che veneri e quelle che disprezzi. Questo significa il famoso detto che figura tra gli oracoli pitici: "Conosci te stesso." Che cosa è l'uomo? Un fragjle vaso che si può rompere a qual- siasi scossa, a qualsiasi colpo: non è necessaria una grave tempesta per distruggerti: dovunque andrai a sbattere ti infrangerai. Che cosa è l'uomo? Un corpo debole, fragile, nudo, senza difese naturali, bisognoso del soc- corso altrui, esposto a tutte le ingiurie della sorte... Da quando vediamo la prima volta la luce, entriamo nel cammino della morte e ci andiamo avvicinando alla mèta fatale... Niente è piu fallace della vita umana, niente è piu insidioso: nessuno sarebbe disposto ad accettarla, se non gli venisse data quando non è ancora in grado di capire... (Cons. a Marcia, 11, 2-3; 21, 6; 22, 3). E che? Pretendo di essere un saggio - esclama Seneca in un'altra delle sue prime opere, la Consolazione alla madre Elvia;- nient'af- fatto. Se avessi il diritto di professarmi tale direi che non sono infelice... (5, 2). Io non sono un saggio - dirà ancora Seneca ne La vita felice, venti anni dopo circa - e non lo sarò. Esigi dunque da me non che stia alla pari con i migliori, ma che sia il migliore dei malvagi: a me basta togliere qual- cosa ogni giorno dai miei vizi e rimprover~rmi i miei errori. Non sono giunto alla perfetta sanità morale e neppure vi giungerò...: io vivo spro- fondato in difetti di ogni genere (De vita beata, 17, 3-4). La riflessione di Seneca si muove, sempre, da si.tuazioni singolari e precise, da fatti di esperienza o da determinate impressioni e condizioni psicologiche: dal tentativo di consolare una madre per la perdita del suo bambino (Ctmsolatio ati Marciam, composta tra il 37 e il 41 circa) a quello di consolare sua madre Elvia per il dolore ch'essa prova per l'esilio cui, per avvenimenti politici, è stato costretto, lui, Seneca (Ctm- solatio ad Helviam, del 42 o 43); dal compromesso di aecattivarsi Po- libio - liberto di Claudio - che può farlo rientrare dall'esilio in Cor- 248    sica, consolandolo per la morte di un suo fratello (Ccmsolatio ad Po- lybium, del 43 o 44); alla riflessione sull'assurdità dell'ira (De ira, com- posta, contro Caligola, certo dopo la morte di lui, 41, in cui Seneca, denunciando la disumanità dell'ira, vede in essa gran parte dei mali della storia, il velen~ che spezza i rapporti umani e scioglie la società: "finché viviamo tra gli uomini rispettiamo l'umanità!": III, 43, 5); alla riflessione sulla brevità della vita {De brevitate vitae, del 49 circa, dopo il ritorno a Roma dall'esilio) e su quella che può essere una vita compiuta (De vita beata, posteriore all'esilio, quando ancora Seneca esercitava la sua funzione di consigliere di Nerone, del 58 circa); al tentativo di delineare per Nerone lo schema di una ideale condotta di vita politica in nome della società umana (De clementia, del 55, poco dopo l'avvento di Nerone); alla riflessione sul proprio fallimento poli- tico che lo ha costretto a ritirarsi dalla vita politica attiva {De constantia sapientis, De otio, De tranquillitate animi, De beneficiis, De provvi- dentia, opere scritte tutte tra il 59 e il 61); all'ultima meditazione sulla natura e sul divino (Natura/es quaesticmes, in VII o VIII libri, composti tra il 62 e il 64); in un continuo approfondimento e colloquio di sé con sé che diviene educazione, costruzione di sé, liberazione e perciò stesso discorso con altre anime, educazione e liberazione degli altri: insieme; ogni volta ricominciando da capo, discendendo ogni volta agli inferi della propria coscienza, in un ·sempre aperto conflitto morale (di qui la stessa forma dialogica di alcune opere di Seneca - Ccmsolatio ad Marciam, Ccmsolatio ad Polybium, Consolatio ad Helviam, De provi- dentia, De constantia sapientis, De vita beata, De otio, De tranquillitate animae, De brevitate vitae, De ira, - che non è solo artificio retorico, e che assume il suo significato piu alto, di ragionamento insieme e di avviamento, nelle bellissime Lettere a Lucilio, composte tra il 63 e il 65, l'anno della morte di Seneca). Seneca, certo, non fu un predicatore. L'opera sua è l'opera di un ~orno tormentato e tormentante, vissuto in un'epoca tormentata, in mezzo a gente (la corte di Caligola e di Claudio prima, di Nerone poi) estre- mamente complicata, di là dal bene e dal male, almeno secondo i vecchi parametri. Sotto questo aspetto Seneca rappresenta davvero la coscienza di una certa situazione storica, la crisi di un certo complesso di valori, dando voce, appunto, e senso a tutta un'epoca, anche se, di volta in volta, egli ha preso le mosse da particolari situazioni, da singolari com- promessi e dubbi. Parlando in termini di retorica, diremmo che le "tesi" di Seneca sono la conclusione delle "ipotesi" ch'egli, di volta in volta, ha posto in discussione. Non va intanto scordato che Lucio Anneo Seneca era  249   figlio di un celebre uomo di lettere, oratore, storico dell'oratoria, Anneo Seneca di Cordova. Oratore era anche un suo fratello, Marco Anneo Novato,(adottato dal senatore Giunio Gallione, ne assunse il nome), che fu console e proconsole dell'Acaia (a lui Seneca dedicò il De ira, il De vita beata, il De remediis fortuitorum, perso, citato da Tertulliano, Apol., 50). La madre di Seneca, Elvia, fu donna di cultura, particolar- mente interessata alla filosofia. Ella avviò il figlio a tali studi. Seneca, da bambino, giunto a Roma dalla Spagna - dov'era nato nel 34 a. C., a Cordova - insieme a una zia materna, moglie di Vitrasio Pollione - prefetto per sedici anni dell'Egitto, dove per un certo periodo fu anche Seneca, - se da un lato s'interessò vivamente per gl'insegnamenti prima di Sozione di Alessandrja e di Sestio il giovane e poi di Attalo, di Papirio Fabiano e di Demetrio cinico, dall'altro lato, spintovi soprat- tutto dal padre - che temeva per·la salute cagionevole del figlio, il quale preso dagl'insegnamenti del pitagorico Sozione conduceva un'ec- cessiva morigerata "vita pitagorica," e per i pericoli che in quel tempo correvano i pitagorici, sospetti di pratiche occulte, - si dedicò alla car- riera oratoria ed a quella politica. Nominato questore, nel 31 o 32, anche per aiuto della zia ("dalle -sue braccia fui condotto a Roma, per le sue affettuose e materne cure ritornai alla salutè dopo una lunga malattia, per la mia elezione a questore ella usò la sua influenza, e lei, che non trovava neanche l'ardire di· parlare e salutare ad alta voce, per amor mio vinse la sua timidezza; né la sua vita ritirata, né il suo riserbo campagnolo in mezzo a tanta sfrontatezza femminil!!, né l'indole sua pacifica e solitaria, l'arrestarono: e per me essa divenne ambitiosa": Cons. ad Helv., 19, 2), Seneca entrò in Senato, ove fu ammirato per le sue capacità oratorie. "Narra Dione Cassio che nell'anno 39 d. C. Seneca, 'uomo che i romani tutti del suo tempo ed altri molti superava per sapienza,' corse pericolo di morte non per alcuna sua colpa, ma perché in Senato, al cospetto di Cesare (Gaio, detto Caligola), aveva pronunziato una bella orazione. Ma il principe, pur avendone decisa la morte, lo risparmiò cedendo ai consigli di una favorita la quale assicurava che Seneca, preso da consunzione, sarebbe morto fra poco (cfr. Dione Cassio, LIX, 19, 7). L'aneddoto di Dione è oscuro: ma esso nasconde una qualche dignitosa azione del giovane senatore, che invano chiederemmo quale sia stata alla meschina e acri- moniosa testimonianza di quello storico. [La principale testimonianza sulla vita di Seneca è quella di Tacito: Tacito parla di Seneca con piu avveduto criterio, senza predilezione, con un certo studioso riguardo delle fonti piu ostili e con la sospettosità propria della sua indole. La narrazione di Dione è inquinata dalla palese avversione che egli nutre per Seneca e dalla meditata ed infida malignità delle fonti cui attinge. Perdute sono le Storie civili di Plinio, nemicissimo a Seneca, ed è per- duta l'opera di Fabio Rustico, che Tacito ricorda come lo storico a Seneca piu favorevole, Annali, XIII, 20; poche notizie si ricavano da Svetonio]. Sarebbe infantile credere che una condanna a morte fosse solo dovuta al malumore invidioso di Gaio per una bella orazione di Seneca; un imperatore di Roma, fosse anche Caligola, non può condan- nare a morte un senatore per un successo oratorio, quando questo non sia pure un successo politico; e Seneca dovette allora parlare molto, anzi troppo liberamente in quel consesso a cui invano piu tardi cercò di restituire la perduta e mai piu ripresa dignità. Seneca si vendicò inesorabilmente di Caligola che in tutte le opere ci presenta come il tipo del piu miserabile e bestiale tiranno (cfr. De ira, I, 20; III, 18-20; Ad Helv., 10, 4; Ad Polyb., 17, 3; De tranq. an., XIV; De brev. tlitae, XVIII; De const. sap., XVIII; De benef., IV, 31; Nat. quaest., IV, pref., 17)" (C. Marchesi, Seneca, Messina, pp. 10-12, 3). Seneca, allora, abbandonò l'azione diretta, mediante l'avvocatura, e abbandonò la pubblica carriera politica, sia per il pericolo corso, sia perché si rese conto che molto piu efficace sarebbe stata in quella certa si- tuazione politica la sua azione, mediante altro tipo di convinzione. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che.senso si possa dire, che, in realtà, Seneca non abbandonò né la vita politica né l'oratoria. Ogni sua opera, anzi, fu un'intelligentissima e abilissima orazione, in un'ana- lisi minuta e concreta delle passioni umane, nel tentativo di indirizzare, entro i termini di una precisa concezione dell'uomo e della natura umana, coloro cui si rivolgeva, fosse pure se stesso, ad essere uomini sul serio tra uomini, sapendo, d'altra parte, sia per esperienza personale sia conoscendo a fondo uomini e cose del suo tempo, quanto complicato, difficile, non umano ---conflitto di passioni, spezzato, non tutto un blocco - sia l'uomo. Vicinissimo a Cicerone, soprattutto nell'intenzione di operare mediante la parola su di un certo gruppo di uomini in fun- zione di un certo ideale politico e di un certo ideale di uomo, nel ri- tenere la filosofia cultura con cui formare l'uomo, liberarlo dalle sue paure, dal timor della morte, renderlo uomo (si veda, ad esempio, il topos della filosofia salvatrice, della filosofia senza di cui nessuno può vivere da uomo, senza affanni, senza il terrore della morte: Cicerone, Tusculanae disp., V, 2, 5-6; Seneca, Ep. a Luc., 16, 3; da cui anche il topos della consolatio), in uno sforzo e in una fatica con cui l'uomo costituisce sé razionalmente, volta a volta, in una conquista personale (donde l'avvicinamento di Seneca ad Epicuro); Seneca è da Cicerone lontanissimo nel modo di intendere la funzione retorica dena filosofia,  ché altra è venuta ad essere la situazione.politica, l'ambiente, gli uo- mini su cui operare, altro l'impegno. Sottilissimo studioso delle passioni umane, Seneca che, su sua con- fessione, aveva sentito profondamente la lezione di Sestio il Giovane, di Sozione, di Fabiano Papirio, di Demetrio, che vide attraverso Cali- gola e Claudio far lentamente naufragio quella respublica, delineata da Cicerone, apparentemente realizzata da Augusto, per ciò che gli fu possibile, tentò di formare sé e gli altri come uomini: uomini che po- tessero, in un reciproco rispetto costituire una verace res-publica, in una misura ed armonia, poste come dover essere. Di qui i due motivi su cui s'intreccia tutta la meditazione di Seneca: da un lato una descri- zione dell'uomo - triste, infelice, combattuto, impaurito degli altri, e perciò desideroso di prevalere sugli altri, ma che anche fugge da se stesso; - dall'altro lato l'uomo quale dovrebbe essere, vincitore di ~ in quanto conflitto di passioni, "con-vinzione" di passioni, in una mi- sura che dovrebbe essere la stessa razionalità, in ciò eguale agli altri uomini, ciascuno a suo modo, in un'armonia e ordine che ci trascende dal di dentro, che si pone come dovere da realizzare, e che trova il suo fondamento in una ideale razionalità del tutto. Già in tal senso si ve- dano le prime due opere di Seneca, la Consolatio ad Marciam, del 39, e il De ira del 41 circa, dedicata al fratello Novato. Scrive Seneca nella Consolatio ad Marciam (XXXI, 6): "A ciascuno viene dato ciò che gli era stato promesso: i fati seguono il loro corso e non aggiungono né tolgono mai nulla a quanto una volta per tutte hanno stabilito... Da quando vediamo per la prima volta la luce, entriamo nel cam1nino della morte. I destini compiono la loro opera"; e nel De ira (III, 43, l, 5): "Perché non mettere ordine in codesta tua breve vita e renderla tranquilla per te e per gli altri? [L'uomo irato è un folle, chi non sa porre ordine in sé, chi non scopre sé in quanto ragione, cioè misura, è uomo rotto nelle passioni, è in realtà non uonto]...Fin tanto che respiriamo, finché viviamo tra gli uomini, rispettiamo l'umanità." Di qui, anche, due altri motivi dell'atteggiamento senechiano. Una qual certa contraddizione tra l'ordine del tutto stoicamente scandentesi in una necessità fatale, che fa si che ogni aspetto della realtà sia là dove è bene che sia, in un'adeguazione della ragion d'essere di cia- scuna cosa alla ragione d'essere, all'egemonico del tutto, e la possibi- lità da parte umana di adeguarsi volontariamente a quell'ordine. Posto che tutto è fatale, che tutto è come deve essere, anche le passioni, anche l'uomo disarticolato e spezzato nella sua molteplicità, non possono es- sere, nell'ordine, se non come sono. Non si vede bene perciò come l'uomo possa - se già nell'ordine non è scritto - da folle, da sragio- 252    nevole, da groviglio di passioni, passare all'ordine, rendersi conto, rea- lizzarsi secondo ragione, come cioè possa passare dal male al bene; e anche come, la società rotta, ove predominano queste o quelle passioni, dove predominano questi o quegli uomini, possa trasformarsi in società, come riconoscimento dell'eguale per tutti ordine sociale, fatto a mo- dello del presunto ordine sociale del tutto. 2) Un conflitto sempre presente in Seneca, tra quel mondo assoluto e come posto dietro le spalle, tra un dovere assoluto, per cui è esclusa ogni possibilità d'azione onde il "saggio" stoico resta avulso da ogni società umana, fuori di qualsiasi sfera d'azione, - è esclusa ogni possibilità di convinzione, di educazione, è escluso lo stesso conflitto morale; e quello stesso ordine e misura, quella uguaglianza, cui si giunge, non in quanto data, e in quanto ad essa ci si adegui per via puramente conoscitiva, ma in quanto essa si scopre, si pone attraverso lo stesso conflitto morale, nell'atto in cui ciascuno oltrepassa _la lotta delle passioni, componendo le pas: si~ni stesse, in un ordine che non c'era prima, ma che, appunto, si troya "nuovo," attraverso la stessa riflessione. La filosofia perciò non è filosofia della morale, ma filosofia morale, che prospetta, non piu dietro le spalle, ma dinanzi agli occhi, termine di realizzazione, l'ordine e la razionalità della stessa natura. Tale razionalità, dunque, non è piu un dato, ma una "invenzione," che permette sia la comprensiòne delle oscillazioni e dei conflitti, sia, attraverso il dialogo e la riflessione comune, la composizione della plu- ralità delle ragioni, l'avviamento, la possibilità della convinzione, in una sempre rinnovantesi apertura. Entro un certo tipo di cultura - l a koiné culturale stoico-platonica, di cui abbiamo parlato, ancora vi- vissima in Roma al tempo della giovinezza di Seneca, tra Augusto e Tiberio, - entro i termini di una precisa situazione sociale,· quale si era determinata tra la fine dell'impero di Tiberio e il periodo in cui ebbero in mano le sorti di Roma Caligola, Claudio e quella terribile donna che fu Agrippina, in tale conflitto stanno il mordente e il signi- ficato della morale senechiana. Non solo, ma anche sembrano emergere di qui molte delle oscilla- zioni di Seneca, sia entro i limiti della sua concezione, sia, per altro verso, relativamente all'ambiente e agli uomini per i quali Seneca ha scritto, fino, pare, a giungere, talvolta, ai piu gravi compromessi in funzione, certo, del tentativo di modificare se stesso e gli altri. E quando si dice altri, bisogna pensare non ad astratti altri, ma a questo o quel- l'amico, in questa o quella situazione: al fratello Novato, cui sono dedicati i l D e ira, i l D e vita beata; a Sereno, cui sono dedicati i l De constantia sapientis, il De otio, il De tranquillitate animi; a Paolino,  cui è dedicato il De brevitate vitae; a Ebuzio Liberale, cui è dedicato il De beneficiis; a Lucilio, cui sono dedicati gli Epistolarum moralium libri e le Natura/es quaestiones; e, per altro verso, soprattutto quando Seneca fu maestro e consigliere di Nerone, a Nerone per il quale Seneca scrisse il De clementia, l'anno dopo l'avvento di Nerone al potere, dal quale dipendevano quegli altri. Non a caso nel Proemio del De Clementia (1,2), Seneca fa dire a Nerone: "Sono io che decido della vita e della morte delle genti; il destino e la condi- zione di tutti sono nelle mie mani; quel che la. Fortuna spartisce a ciascun mortale, lo fa conoscere per, bocca mia; al mio responso è subordinata la letizia delle città e dei popoli; nessuna regione è prospera se non per mia volontà, se non per mio favore... Caduta e nascita delle città si decidono nel mio tribunale." Sapendo usare certe tecniche, co- noscendo la psicologia di Nerone, si tentava di realizzare in altro modo quello Stato e quella società entro la quale e per la quale Seneca operava. Certo, ogni situazione implica dei compromessi e delle tecniche d'azione diverse, pur di realizzare, anche approssimativamente, certi fini. Di qui, nel tentativo di educare all'ideale "saggio" stoico, il trasfor- marsi del rigidismo della morale stoica, posta, appunto, non piu come dato, ma come "inventio," dovuta alla stessa capacità (propria del- l'uomo) di costituirsi come ordine razionale, per cui ciascuno può, co· gliendo i propri limiti, le proprie condizioni, senza dubbio dati, entro questi, realizzare se stesso, conoscendo la propria natura, volta a volta scegliere le proprie mosse, anche se esseJ nelle loro possibilità, sono date. Se chi latra contro la filosofia, dirà come il solito: "Perché parli da forte piu di quanto da forte tu non viva? Perché fai la voce sommessa davanti al piu potente e stimi il denaro uno strumento necessario o ti turbi per un danno ricevuto e piangi alla notizia che ti è morta la moglie o l'amico, e ti preoccupi del tuo buon nome e ti offendi delle chiacchiere malevole? Perché i tuoi fondi sono coltivati piu di quanto non richiedano le necessità naturali? Perché non ceni conforme alle regole che predichi? Perché le tue suppellettili sono cosi eleganti? Perché in casa tua si beve del vino che ha piu anni di te?... Perché hai fatto piantare alberi che da- ranno solo ombra? Perché tua moglie porta alle orecchie il reddito di un ricco casato? Perché i tuoi giovani servi sono vestiti di abiti preziosi? Per- ché in casa tua è un'arte quella di servire a tavola e l'argenteria non è disposta come viene a caso, ma il servizio è cos{ accurato, e ha persino uno scalco specializzato?..." Se vuoi rincarerò la dose dei rimproveri e mi muoverò piu rimbrotti di quel che immagini: ma per ora ti rispondo: "lo non sono un.saggio e non lo sarò. Esigi dunque da me non che stia alla pari con i migliori, ma che sia migliore dei malvagi: a me basta togliere qualcosa ogni giorno dai miei vizi e rimproverarmi i miei errori..." "Però," tu dirai, "in un modo parli e in un altro vivi." Questo rimprovero, o mali- gni, o nemici dei piu virtuosi, fu già mosso a Platone, a Epicuro, a Zenone: tutti quelli predicavano di vivere non come essi stessi vivevano, ma come avrebbero dovuto vivere. Parlo della virtU, non di me, e quando mi scaglio contro i vizi, comincio dai miei: quando potrò, vivrò come dovrei. Continuerò a lodare non la vita che conduco, ma quella che so che bisognerebbe condurre; continuerò ad adorare la virtU e a seguirla, se pure arrancando a una bella distanza... (De vita beata, XVII-XVIII). Di qui anche un'altra apparente oscillazione di Seneca: da un lato l'esigenza propria del "saggio" stoico di ritirarsi dalla.,vita mondana, dall'altro lato l'esigenza, anche a costo di venir meno alla rigidezza del- l'unica virtu stoica, di operare nel mondo, di modificare, attraverso la parola, l'esempio, anche il compromesso, la societa di fatto. Nella sua altezza, nella sua comprensione che tutto è come deve essere, che tutto è bene e che perciò non vi è nulla da fare, il "saggio" da tutto mona- sticamente si ritira, non piu uomo tra uomini. Solo che cosi: egli viene, alla fine, a disprezzare tutti, nell'orgogliosa affermazione che, tranne il saggio, il resto dell'umanità è folle, sragionevole. In un'evasione da questo mondo, per il "saggio" tutto' è indifferente. Ma era qui implicita una grave contraddizione, di cui Seneca chiaramente si rende conto. Il pericolo della "vita stoica" è ch'essa: si risolve in una "pigra ratio," e che nel riconoscimento che tutto è indifferente, che il solo saggio è razionale, di là dalle passioni, in realta, alla fine, non si com- prende piu che tutto, proprio perché è come deve essere, perché è na- tura, è bene (o meglio, in sé né bene né male), e, perciò, che nulla è disprezzabile, nulla indifferente. Se Tizio o Caio, io stesso, siamo piu presi dall'una cosa che dall'altra, patiamo (amiamo o odiamo) una per- sona piu di un'altra, spezzati in tante ragioni o passioni, ché le pas- ~ioni sono, per cosi dire, ragioni in libertà - saremo avari o eccessiva- mente generosi,.irosi, violenti, vili, ecc. - in modi esclusivi ed univoci;:erto, su di un piano polemico, possiamo dire a Tizio o a Caio, a me >tesso, che quelli che si ritengono beni, quell'esclusiva ricchezza, quel- l'esclusivo amore o odio, sono indifferenti. Eppure quei beni che in sé non sono né beni né mali, neppure sono indifferenti se considerati sul piano del conflitto morale. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso Seneca possa dire che il bene e il male stanno in noi e tocchi a ciascuno di comporre se stesso in unità. Non solo, ma un altro peri- colo, proprio dello stoicismo è che il richiamo a vivere secondo la ra- gione universale, venga, in conclusione, ad annullare l'affermazione, sempre stoica, che; ciascuno viva secondo la sua ragione, cioè secondo ciò che, sia pur nell'ordine totale, a ciascuno compete. L'annullamento della propria ragione nella ragione universale porta a non vivere piu secondo una ragione, a non comprendere piu alcuna ragione, e, perciò, al di- sprezzo per cose e uomini, in un atteggiamentò piu cinico che stoico. In realtà, per Seneca, comprendere cose e uomini, comprendere che ciaseun uomo nasce in una certa condizione e situazione che non dipen- dono da noi, comprendere che l'uomo è non unità, ma molteplicità, implica non una mèra contemplazione di un ordine astratto, ma la volontà di un ordine che si scopre attraverso la stessa riflessione, at- traverso il faticoso tentativo di porre in sé misura, di volta in volta, cogliendo la propria misura entro i nostri limiti e le nostre condizioni, per cui quell'ordine si rifà nuovo ogni volta come termine di realizza- zione, per ciascuno, entro le proprie condizioni e limiti, diverso. Di qui l'esigenza senechiana di agire, di inserirsi, almeno finché ciò è possibile, è utile, non controproducente, in una certa situazione umana, scegliendo di volta in volta i propri mezzi di azione, per avvicinare sé e gli altri, ciascuno per ciò che gli compete, a quell'armonia sociale, specchio della ragion d'essere del tutto, entro cui, una volta rovesciati i terriùni, ognuno non perde se stesso, in un ideale reciproco rispetto, in cui consiste la virtU, cioè l'eccellente realizzazione di ciascuno in quanto uomo, e perciò la piu genuina tranquillitas, onde, appunto, la virtu, insiste Seneca, è premio a se stessa (recte facti fecisse merces est: Ep. a L., 81, 19; cfr. anche De clementia, I, 1). L'appello di Seneca ad essere se stesso, a non essere presi dalle sin- gole passionì univocamente, a costituire sé e a scoprire sé razionalità, implica l'allontanamento dalla folla, dalla massa degli uomini, ché vi- vere la vita degli altri, della folla, significa perdere se medesimi, vivere ancora una volta secondo passione, in un annullamento nell'anonimo, entro i termini di un'abitudine, significa non vivere socialmente (e folla può anche voler dire un ristretto gruppo di gente). Il che non significa affatto ritirarsi nel deserto: significa anzi, per quel che è possibile, per quel che le circostanze e il destino concedono, tentare di sciogliere gli altri in persone, essere utili agli altri, quando gli altri ne abbiano bi- sogno, senza di cui, in realtà,· non c'è verace società, poiché fin quando v'è folla, v'è solitudine assoluta. Non solo, ma l'appello ad essere se stessi significa anche tentare di realizzare un'autèntica vita associata, nel reciproco rispetto, ché ogni uomo, pur diverso dall'altro, quanto piu è se stesso, è uguale all'altro in quanto uomo (per cui, sotto questo aspetto, non vi sono né servi né padroni); significa, finché è possibile, agire e modificare, attraverso il consiglio e la parola, su ·chi abbia in mano il potere per avviare lo Stato terreno ad uniformarsi alla Città celeste (De otio, IV). Altrimenti, quando tale azione può diventare inutile e controproducente, lo stesso ritirarsi da:lla vita politica in atto insieme agli amici può essere l'indicazione del modello di un'auten- tica vita politica. Ritirati in te stesso quanto puoi l - esclama Seneca, scrivendo a Lucilio, negli anni del suo costretto abbandono della vita politica diretta. - Tratta coloro che ti potranno fare migliore, accogli coloro che tu puoi fare migliori; sono vantaggi reciproci codesti, e gli uomini mentre insegnano, imparano. Il desiderio vanitoso di fare brillare il tuo ingegno non ti porti in mezzo al pubblico per leggere e dissertare. Ti consiglierei di farlo se tu avessi merce degna di codesta gente; non vi è nessuno che ti possa intendere: uno, forse, o due. Ma, dirai, per chi allora ho imparate tante cose? Non temere, non hai perduto l'opera tua se le hai imparate per te stesso '(Ep. a Luc., 7, 8-9). Chi non ha sollecitudine per alcuna cosa, sa vivere per se tesso. Ma chi ha fuggito gli uomini e gli affari, che le delusioni hanno allontanato dal mondo, chi non ha saputo resistere alla vista degli altri pio felici, chi come animale timido e inerte si è nascosto per paura, costui non vive per sé, ma, turpitudine suprema, per il ventre, il sonno, la libidine: non vivere per nessuno è non vivere neppure per sé (Ep. a Luc., 55, 4-5). E quando Seneca sperava, forse, ancora di potere attwamente agire, cos{ scriveva nel De tranquillitate animi: Ecco quale deve essere la condotta del saggio: quando la fortuna pre- vale e gli toglie la possibilità di agire, non volga subito le spalle e non fugga senza le armi cercando un nascondiglio, quasi ci fosse un luogo in cui la fortuna n~tn·possa raggiungerlo, ma si dia ai pubblici affari con maggior misura e scelga un'occupazione nella quale possa ancora essere utile alla città. Non può fare il soldato: aspiri alle cariche civili. Deve vivere da privato: faccia l'oratore. Gli è stato imposto il silenzio: giovi ai cittadini con la muta assistenza. È pericoloso persino entrare nel foro: in casa, agli spettacoli, nei banchetti, si comporti da buon compagno, da fedele amico, da convitato temperante. Gli sono inibiti i doveri del cittadino: adempia quelli dell'uomo. Per questo, noi [stoici], con animo grande, non ci siamo rinchiusi dentro le mura di una sola città, ma uscimmo al con- tatto dell'orbe intero, e dichiarammo nostra patria il mondo, per potere dare alla virto uri can:tpo pio vasto d'azione. Ti è stato precluso il tribu- nale e ti si interdicono i rostri e i comizi? Volgiti a guardare quale distesa di ampi spazi si allarghi dietro di te, e quanta folla di popoli: per grande che sia la porzione che ti precluderanno, te ne rimarrà sempre una pio grande... Combatti con la voce, con l'incitamento, con l'esempio, con l'anima. Anche con le mani tagliate trova modo di soccorrere i suoi chi 1 ~siste e aiuta con il grido. Tu fai qualcosa di simile: se la sorte ti ha allont-.'lato dalle prime posizioni della vita pubblica, tieni duro lo stesso e aiuta cvn  la tua voce, e se qualcuno ti comprime la gola, resisti ancora e aiuta col silenzio. Non è mai inutile l'opera di un buon cittadino. Lo si ode, lo si vede. Con lo sguardo, con il cenno, con la costanza silenziosa, con l'ince- dere stesso egli serve... Credi poco utile anche l'esempio di colui che vive bene nel proprio ritiro? La cosa di gran lunga migliore è, anzi, alternare il riposo con gli affari, ogniqualvolta la vita attiva sia preclusa o da circo- stanze fortuite o dalle condizioni della città. Tutte le vie non saranno mai sbarrate al punto che non vi sia spazio per un'azione onesta. Puoi forse trovare una città piu misera di Atene quando i Trenta Tiranni la stra- ziavano?... Eppure là, tra il popolo, c'era Socrate, e consolava i padri pian- genti ed esortava coloro che disperavano della repubblica e minacciava ai ricchi, timorosi per i loro beni, il lontano castigo della loro perniciosa ava- rizia, e offriva un grande esempio a· quanti lo volevano imitare, cammi- nando libero tra i trenta despoti. Tuttavia Atene stessa uecise in carcere quell'uomo, e la libertà non seppe sopportare la libertà di colui che aveva impunemente sfidato una schiera di tiranni. ·Questo perché tu sappia che, anche quando lo Stato è oppresso, l'uomo saggio ha occasione di mostrarsi, ma anche quando è prospero e felice poiché regnano la crudeltà, l'invidia e mille altri vizi. A seconda dunque della situazione politica, nel modo che la fortuna lo consentirà, o ci espanderemo o ci raccoglieremo in noi stessi, ma comunque ci muoverc;mo, e non ci intorpidiremo, paralizzati dal timore. ·Anzi, sarà vero uomo colui che, quando i pericoli lo minacciano da ogdi parte, e le armi e le catene gli risuonano d'intorno, non lascerà spezzare dall'urto la sua virtU e non la celerà: seppellirsi non è salvarsi. Diceva bene, mi sembra, Curio Dentato, quando affermava che preferiva essere morto che vivere da morto: il peggio dei mali è togliersi dal numero dei vivi prima di morire. Ma, se ti imbatterai in un momento della vita pubblica meno facile, dovrai fare in modo di rivendicare piu tempo al ritiro e agli studi e, come durante una navigazione pericolosa, ti dirigerai subito a un porto, e, senza aspettare che gli affari ti congedino, te ne staccherai spon- taneamente. Dovremmo poi esaminare anzitutto noi stessi, quindi i compiti cui stiamo per accingerci, infine le persone per le quali e con le quali li svolgeremo. Per prima cosa è necessario valutare noi stessi, perché quasi sempre ci sembra di potere piu di quello che in realtà possiamo (De tran- quillitate animi, IV, 2 sgg., V, VI, 1-2). Non a caso, di qui, quando davvero fu preclusa a Seneca l'azione diretta negli affari ddlo Stato, l'avvicinamento ad Epicuro, l'appello di Epicuro all'amicizia, di contro alla falsa politica in atto, a quell'Epi- curo di cui Seneca dice (Ep. a Luc., 6, 6) che piu che la dottrina fu il suo contubernium a educare gli epicurei, in una comunità di amici il "cui acooi:do tra loro era simile a quello che deve regnare in una repubblica bene ordinata" (Numenio, in Eusebio, Praep. ev., XIV, 5, 4); e va sottolineato che sempre piu spesso ritorna il nome di Epicuro nelle opere scritte, appunto, al tempo del suo forzato ritiro (De oiio; De bre- vitate vitae, Epistole a Lucilio). Ancora da. vecchio, Sen;:ca ricordava i suoi primi maestri, confes- _sando l'enornit: impressione che i loro discorsi, la loro vita, il loro esempio, avevano fatto su di lui fanciullo e giovinetto. Quando udivo Attalo parlare.:ontro i vizi, contro gli errori, contro i mali della vita, spesso sentivo compassione dell'umano genere e stimavo sublime quel filosofo, piu alto di ogni altez~a umana. Egli si proclamava re, ma piu che re egli mi sembrava:! Egli che poteva chiamare i re a dar conto della loro condotta. Quando poi cominciava a raccomandare la po- vertà, e·a dimostrare che, tutto quello che va oltre il nostro bisogno, è un peso inutile a portarsi, spesso avrei voluto uscire povero dalla scuola. Quando cominciava a schernire i piaceri, a lodare la castità, la sobrietà, la purezza.della mente che si astiene non solo dagli illeciti, ma anche dagli inutili piaceri, veniva la voglia di mettere un limite alle esigenze della gola e del ventre. In me, caro Lucilio, qualcosa è rimasta, poiché a tutti quegli inse- gnamenti ero andato con grande entusiasmo; senonché, tornato alla vita cittadina, poco rimase di tanti bei propositi... Poiché ho cominciato a dirti con quanto maggiore entusiasmo comin- ciai da giovane lo studio della filosofia che non lo continuai da vecchio, non mi'vergognerò di confes5àrti quale amore mi abbia ispirato Pitagora. Sozione diceva per quale ragione Pitagora si astenesse dalle carni e per quale ragione poi se ne astenne ·Sestio. I motivi di tale astensione sono diversi per l'uno e per l'altro, ma per l'uno e per !;altro degni di ammira- zione. Sestio credeva che per alimentarci ne abbiamo abbastanza, anche senza ricorrere a versare sangue e che l'uccisione delle bestie volta alla sod- disfazione dei nostri gusti, diventa una scuola di crudeltà.'.. Pitagora, invece, parlava ·di una parentela esistente tra tutte le cose e dei rapporti delle anime trasmigranti da una in un'altra forma. Secondo lui, nessun'anima si an- nienta... Sozione, dopo aver esposto queste dottrine con ampiezza di argo- menti, "non credi," soggiungeva, "che le a~ime sono distribuite in diversi corpi, e che quella da noi chiamata morte altro non è che un'emigrazione? Non credi che in questi animali domestici o selvaggi o abitanti nelle acque viva un'anima, che altra volta appartenne a un uomo? Non credi che nulla va distrutto in questo mondo e che si tratta solo di un cambiamento di luogo? e che non solo i corpi celesti si volgono per determinate orbite, ma anche gli animali vanno soggetti alle loro vicende, e che le anime sono spinte per i loro cieli? Questa fede l'hanno avuta uomini grandi. Pertanto sospendi il tuo giudizio e lascia indeciso tutto il problema. Se le cose dette sono vere, astenendoti dalle carni ti sarai serbato innocente, se false, sarai stato un uomo frugale. Che ci perdi a prestarvi fede? Ti avrò tolto il cibo dei leoni e degli avvoltoi?". Spinto da questi discorsi, incominciai ad aste- nermi dalle carni e dopo un anno non solo non trovavo difficolt~ in. questa oratica, ma Ci sentivo gusto. Mi pareva di ave!e la mente piu svelta, sebbene oggi non saprei dirti se tale fosse realmente. Vuoi sapere come fu ch'io smisi quest'uso? la mia gioventu cadde nei primi anni dell'impero di Tiberio, quando i culti stranieri erano oggetto di persecuzione e l'astinenza dalle carni di alcuni animali era considerata come indizio di partecipazione a quelle superstizioni (Ep. a Luc., 108, 13-15, 17-22). Di Fabiano Papirio, oratore e giurista, vissuto sotto Augusto e Tiberio, sempre attraverso Seneca sappiamo che dalla retorica passò alla filosofia pitagorica, interpretata in chiave stoica (Ep. a Luc.; 58, 6; 100, 8 sgg.), che famoso per vita et scientia (Ep. a Luc., 40, 12), condusse una vita da vero "stoico," ritenendo che piu alta di ogni erudizione (De brevi- tale vitae, XIII, 9) fosse l'educazione dell'anima, cui serve da un lato l'esempio della propria vita, dall'altrouna sobria eloquenza (Ep. a Luc., 100, 10-11), cht non deve trasformarsi in insegnamento di tipo profes- sorale, ma determinarsi in una persuasione psicologica e morale. Egli non fu, esclama Seneca (De brevit. vie., X, l) "f;losofo cattedratico, ma vero filosofo all'antica." Attraverso la figurazione che ne dà Seneca - non abbiamo altre fonti, - di Fabiano Papirio, di Sozione di Alessandria, di Attalo è dif. ficile dire se siano stati pitagorici o stoici. In realtà, ora, il termine stoico sta ad indicare piu un atteggiamento di vita che non una dot- trina; atteggiamento di vita che si fonda su di una concezione generale che assume pochi principi, facili a raggiungere analogicamente, e che potevano essere desunti da certe volgarizzate posizioni, ch'erano state effettivamente ela~rate entro la scuola stoica: un principio attivo e pas- sivo (Dio e la materia), dalla cui tensione scaturisce l'articolarsi e il co- stituirsi in ordine di tutta la realtà, di cui ogni aspetto è un momento dd divino IOgos (si confronti sopra la silloge di Ario Didimo). In tal senso, comunque, potevano essere interpretate anche certe pagine di Platone e di Aristotde (cfr. in tal senso Ep. a Luc., 58 e 65). Non solo, ma entro questi termini, poco importava essere platonici, o aristotelici, o stoici in senso stretto; o meglio, lo si era, per quel che il termine stoicismo, pitagorismo, platonismo evoca in funzione di un tipo di vita da contrapporre al comune modo di vivere irriflesso. Tipico esempio di tale atteggiamento fu l'amico di Seneca, Demetrio, del quale Seneca non poco senti l'influenza. Demetrio, vissuto nd 1 sec. d. C., contemporaneo di Seneca, fu detto • Cinico." ~ stato soste- nuto ch'egli piu che cinico sarebbe stato stoico, per la sua fede in un or- dine provvìdenziale, a cui, abbandonando le cose di questo mondo (indifferenti tutte), l'uomo ha da adeguarsi, in una lieta sopportazione del dolore e delle avversità. Per ciò che in realtà si può ricostruire del pensiero di Demetrio, attraverso le uniche fonti che abbiamo su di lui, cioè Seneca (De beneficiis, VII, l, 3; 8, Ì; 11; Epi.rt. a Luc., 20, 9; 67, 14; 91, 19; De providentia, 3, 3; 5, 5) ed Epitteto (Dissert., I, 25, 22), possiamo dire che Demetrio fu "cinico" nel senso in cui, portando alle conseguenze estreme la logica di Zenone di Cizio, "cinico" era stato Aristone di Chio (cfr. I vol.). In altri termini, Demetrio, proprio attraverso lo studio della logica stoica, si rese conto dell'impossibilità del passaggio dal discorso umano ad un presunto discors~della realtà, per cui la realtà, presa in sé, resta sempre al di fuori di. noi, e per cui unica realtà è quella umana, o meglio quell'ordine che scaturisce dall'egemonia delle passioni e per mezzo di cui l'uomo si libera dalle passioni stesse; egli, perciò, poteva, ma.solo su di un piano indicativo, postulare, simile all'ordine che la ragione stessa costituisce, un ordine supremo é provvidenziale, presen- tando se stesso, di volta in volta, come esempio di saggio, di uomo libero, appunto, dalle passioni, dalle adulazioni di quella ch'era la quo- tidiana vita della Roma._di Caligola, di Claudio e di Nerone. La natura ha fatto nascere Demetrio in questi nostri· tempi per dimo- strare ch'egli non può essere corrotto da noi, mentre noi non possiamo essere educati da lui, uomo perfetto nella sua saggezza, anche s'egli per primo lo nega, assolutamente coerente nel suo modo d'agire, di un'elo- quenza adeguata ai piu forti pensieri, senza ornamenti, senza faticosa ricerca d'espressione, ma che con superba fieqezza, nella foga della ispirazione, persegue l'esposizione di idee personali. Se a Demetrio la Provvidenza ha dato simile costume e talento, lo ha fatto perché alla nostra generazione non mancassero: il modello né rudi lezioni. Se un qualche dio offrisse a Demetrio i nostri beni in assoluta proprietà, ma a condizioni che non ne potesse far dono, egli, certo, li ripudierebbe, dicendo: "No, non mi lego ad un simile peso, di;c.."ui non potrei sbarazzarmi, né l;lscio che il mio essere, da tutto s~a'nciato, affondi nel profondo pantano delle ricchezze. Perché offrirmi il male di tutti? Che neppure accetterei per farne dono, ché molte cose vedo le quali sarebbe ingiusto dare... Lasciami libero, lascia ch'io prenda queste altre ricchezze,' le mie •vere ricchezze: il regno ch'io conQsco è il regno della sapienza, grande, sicuro; io, cosf tutto posseggo, tutto ciò che anche gli altri possono avere..." (De benefieiis, VII, 8, 2-9; 10, 6). Quando C. Cesare gli volle far dono di 200.000 sesterzi, li rifiutò ridendo... In tale occasione Demetrio ebbe una parola· di sublime grandezza, parola dettata dalla sorpresà allorché vide Gaio [Caligola] abbastanza pazzo da credere di potere a tal ·pre~zo cambiare un'anitna come la sua. "Se era deciso a provarmi," disse, "non sarebbe stato affatto di troppo per simile esperienza, l'offerta dell'impero" (De benefieiis, VII, 11). Demetrio, i l migliore degli uomini, si accompagna sempre a me, ed io, trascurando la compagnia dei grandi porporati, converso pieno di ammirazione per quel seminudo. E come non ammirarlo? Mi sono accorto che nulla gli manca. Qualcuno può disprezzare tutto; invece ad avere tutto nessuno ci riesce.  261   La via piu breve per arrivare alla ricchezza è quella di disprezzarla. Quanto al nostro Demetrio, egli vive, non come chi disprezza ogni cosa, ma come chi ne lascia ad altri il possesso (Epist. a L., 63, 3). Non a caso, sotto questo aspetto, furono ritenuti "stoici;" e tali si proclamarono, uomini come Trasea Peto ed Elvidio Prisco, difensori del Senato, assertori della libertas della Res-publica, tantò che l'uno, Trasea Peto, sotto Nerone, l'altro, Elvidio Prisco, sotto Vespasiano, ci rimisero la vita. L'accusa contro Trasea Peto fu ch'egli faceva parte di "quella setta che ha generato un tempo i Tuberone e i Favonio, nomi odiosi anche all'antica repubblica; essi vogliono la libertà per sovver- tire gli ordinamenti dell'impero. Invano avrai tolto di mezzo Cassio, se sopporterai di vedere crescere in potenza gli emuli dei Bruti... Egli non ha mai fatto sacrifici propiziatori per la salute del principe o per la sua divina voce; da tre anni non ha piu posto piede nella Curia... Egli non attende ormai che agli affari dei suoi clienti... Un tale atteg- giamento è già un'opposizione nel nome di un partito: secessio iam id et pars est (Tacito, Annali, XVI, 22). E Tacito, narrando il momento della morte di Trasea, alla presenza di Demetrio, cosi dice: Trasea, allora, esortò i presenti, che si abbandonavano a pianti e a lamenti, a ritirarsi in gran fretta per non correre il pericolo di compro- mettere la propria sorte con quella d'un condannato... Come il sangue sprizzò fuori, Trasea, spargendolo sul terreno, fece avvicinare il questore e "libiamo," disse, "a Giove liberatore. Tu, o giovane, guarda e fai che gli dèi tengano lontano da te l'infausto presagio. Sei, per altro, nato. in tempi l).ei quali è pur necessario rinvigorire lo spirito con esempi di fermo corag- gio." Dette queste parole, poiché la lentezza della morte gli recava atroci tormenti, volse gli occhi a Demetrio... (Annali, XVI, 34-35). Da Attalo a Fabiano Papirio, da Demetrio a Trasea Peto, si vede bene l'arco del significato assunto dal termine "stoicismo": esempio di vita ordinata e misurata, adeguantesi ad una postulata ragio!l d'essere, ad un postulato ordine del tutto, ancora al principio dell'Impero, oppo- sizione politica, esempio di una vita libera, da Caligola in poi. Entro i termini estremi di quest'arco si muove lo "stoicismo epicureo" di Seneca. Se egli, appunto, da un lato attraverso Sozione, Attalo, Fabiano Papirio, e per altro verso attraverso Demetrio poteva delineare quella che avrebbe dovuto essere la vita ideale dell'uomo, in una particolare accezione (non teoretica) dello stoicismo, dall'altro lato, rendendosi conto che ogni concezione vale per quello che essa ha di successo, in certe ben precise situazioni, cercò, finché gli fu possibile, di convincçre a quell'ideale, operando su amici, e, soprattutto, ripetiamo, su Nerone. Formatosi entro i termini di un generico "stoicismo" di sfondo, Seneca si servi di tale concezione per formulare quello che avrebbe do- vuto essere l'"uomo ideale" e, per altra via, lo Stato e la società ideali, indipendentemente dai piu gravi problemi teoretici, impliciti nei vari aspetti assunti dalla posizione stoica. Se altra fosse stata la prima edu- cazione di Seneca, egli avrebbe potuto benissimo accogliere, in funzione della sua polemica morale, anche l'ipotesi epicurea. In realtà Seneca non si preoccupa affatto di quella che sia la struttura in sé della realtà, rendendosi conto anzi - vicinissimo in questo a Demetrio - di come tale questione, dibattuta nelle scuole, sia divenuta una questione logico- grammaticale, e come proprio le analisi logiche, in gran parte condotte proprio dagli stoici e dagli scettici, abbiano portato a dimostrare l'im- possibilità di ogni passaggio dalle parole alle cose. Ora, puntando sulla scolastica distinzione della filosofia in fisica, logica, etica, Seneca taglia via la fisica come scienza a sé - su questo piano egli si riduce a una pura descrizione dei fenomeni fisici e delle opinioni: cfr. N aturales quaestiones - assumendo quella "fisica" che poteva apparire meno contraddittoria quale fondamento di una certa etica, fondandosi su di una logica che rendesse conto che lo stesso ben pensare è ben vivere, per cui vita etica è ad un tempo vita logica. Seneca rifiutava cosi quella logica che tutto risolvendo in sé, in una mèra realtà di parole, si pre- cludeva ad ogni significato e senso delle cose, sofisticamente. Di qui, sembra, la polemica di Seneca nei confronti del diffuso neo-pirronismo e dello stesso stoicismo logico, che davvero potevano finire nel silenzio e nell'inazione, anche se, su di un piano conoscitivo, egli accettava la sospensione del giudizio sui fondamenti primi (decreta) della realtà, se non quando questi potevano servire alla formazione di una vita misu- rata. e razionale, a determinare certi modi di vivere (praecepta). Sia pur detto fra parentesi, non sembra senza interesse che Seneca, con linguag- gio giuridico, chiami decreta i principi stessi su cui legalmente si costi- tuisce la realtà, e praecepta, appunto, le norme del vivere, i cui limiti sono determinati dai decreta (cfr. Ep. a L., 95). Cosi, ad esempio, dopo avere a lungo discusso, molto acutamente e con molta precisione, sul significato di -rò ISv, tradotto in latino con essentia e con quod est, e su come si debbono assumere i termini genere e specie, e dopo aver fatto vedere il significato di genere, specie, quod est, idea, idos, in Platone, in Aristotele, in alcuni Stoici (cfr. Ep. a Luc., 58), cosi esclama Seneca, rivolgendosi a Lucilio: Dirai: "A cosa possono giovarmi codeste sottigliezze?" Se lo chiedi a me, nulla. Ma come un cesellatore distrae e solleva gli occhi a lungo intenti e affaticati, e, come si suole dire, li ristora, cosf noi dobbiamo di quando in  263   quando concedere riposo al nostro animo e dargli nuove. forze con 't!ualche.divertimento. Ma pur questi divertimenti non siano ozio: anch'essi, se saprai profittarne, potranno offrirti qualche utilid... çhe còsa meno con- tribuisce alla trasformazione dei costumi,.::be i problemi avanti trattati? Come mi possono rendere migliore le idee platoniche?.Che posso cavare da esse, per infrenare le mie passioni? Eppure basta anche questo,. che Pla- tone nega la realt~ di tutto ciò che ·è soggetto ai nostri sensi, e ci infiamma e ci attira. Dunque noi abbiamo da fare con fantasmi, che solo per qualche tempo offrono una certa apearenza, ma non hanno né stabilita né solidiù... Rivolgiamo l'animo a auello che è ~erno..; (Ep. a Lue., 58, 25 sgg.). E ancora, nella lettera 65 a Lucilio, dopo avere discusso il motivo delle cause, esponendo la tesi degli Stoici,· Seneca afferma: • Dicono gli Stoici che nella natura due sono gli elementi, da cUi nascono tutte le cose, la causa e la materia; la materia è inerte, pronta a tutto ciò che se ne '-:uol fare, immobile se nessuno la muove: la causa, invece, cioè la ragione, dà forma alla materia, la elabora a suo piacere e ne trae le opere sue; bisogna, dunque; che vi sia· il principio onde una cosa è fatta e il principio che la fa, questo è la. causà, quello la materia;... le cose tutte sono il risultato dell'elemento.paziente e della forza ·agente; per gli Stoici l'uniça causa è la. forza agente" (Ep... U4C., 65, 2-4); discutendo Aristotele dichiara che quattro sono le cause per Aristo- tele: la materiale, l'efficiente, la formale, la finale (id., 65, 4-7); di Pla- tone, poi, dtce che: • aDe quattro cause Platone ne aggiunge una quinta, che chiama idea, ed il modello che l'artefice ha tenuto di fronte a sé nell'eseguire l'opera, che aveva deliberato di fare; non ha importànza poi se questo modello egli l'abbia avuto sotto gli occhi fuori. di sé, oppure concepito nella suà immaginazione e tenuto cos{ presente: que- sti esemplari di tutte le cose Dio li ha in se.stesso, e di tutte le cote che deve fare abbraccia il numero e la misura: egli è pieno di tutte queste misure, da Platone chiamate idee, iJlUilOitali~ immutabili, instan- cabili; cinque sono dunque, come dice Platone, le ç.ause: quella di che, quella da che, quella in che, quella su che, queU::"pr.r· che; fi.òalmente quella che da tutte queste deriva" (id., f5, t-.ill). Seneca, dopo aver concluso che pio semplice è ridurre tutta la folla -delle cause ad t-..na sola, a ciò senza di cui nulla è, causa prima pc:l ciò ed oi>erante, Dio, • poiché quelle che avete messo innanzi non sono molte e singole caUse, ma dipendono insieme da una sola, da quella che opera" (id., 65, 12), cosi, alla fine dice: Ed ora pronuncia la tua sentenza, o, co~'è piu comodo in simili. pro- blemi, di' pure che non ci vedi chiaro e rimandaci a nuove indagini. Mi dirai: "Che gusto è il tuo ·a perdere il tempo in siffatli problemi, che no ti liberano da nessuna passione, che non scacciano dal tuo animo nessuna cupidigia?• lo, in verità, dò la preferenza a quei problemi che rendono tranquillo l'animo e all'esame di me stesso e soltanto dopo mi occupo di questo Universo. Neppur ora io sciupo, come credi, il mio tempo; poiché tutte le discussioni di tal genere, se non sono spezzettate, se non si disper- dono in queste vane sottigliezze, innalzano e sollevano l'animo... E la filo- sofia conforta l'anima con la contemplazione della natura, innalzandola dalla terra alle regioni celesti... Tale contemplazione non poco contribuisce a liberare l'animo: sicuramente l'Universo consta della materia e di Dio, il quale stando in mezzo ad esso lo governa come signore e come guida.•. Quel posto che tiene Dio nel mondo, lo tiene nell'uomo l'anima... Siamo perciò forti contro i casi della sorte... Che è la morte? O la fine o un paS- saggio. Di non esistere piu non temo, perché è lo stesso che non aver comin- ciato ad esistere; né di passare altrove, perché in nessun luogo potrò stare cos(a disagio (Ep. a Lue., 65, 15 sgg.). Le Lettere a Ludlio sono tarde, di quando già Seneca era stato cO- stretto ad abbandonare la vita politica e sempre pi6 profonda in lui s'era fatta, è stato detto, la "nausea dd secolo,• ma, certo, ancora qui, l'opzione per una divinità reggitrice del tutto, l'ipotesi che tutto pro- venga daii'Uno (Dio), uno Che non è se non nel suo realizzarsi in atto nell'ordine dell'Universo, in una interpretazione stoica del Timeo di Platone ("Dio è la mente dell'Universo, è tutto ciò che vediamo e tutto ciò che non vediamo: egli solo è tutte le cose•: Natur. quaest., l, praef., 13), per cui Dio non è nessuna cosa, ma essendo la ragion d'es- sere di tutte, tutte le trascende, avendo in sé tutte le forme, unità e molteplicità ad un tempo, Uno e intelletto e anima (sotto questo aspetto si può parlare, accanto a uno stoicismo epicureo di Seneca, di un suo stoicismo neoplatonico); ancora nelle tarde Lettere a Ludlio e nelle tarde Questioni naturali, tale ipotesi resta consapevolmente tale, ipotesi: cioè. credibile in quanto utile a vivere da uomini, speranza e non con- clusione scientifica, ché su tale piano, in realtà, l'analisi della logica e del linguaggio, dovrebbero anzi portare a SQSpendere ogni giudizio. Anche gli uomini piu grandi ci lasciarono opinioni, non soluzioni defi- nitive, ma problemi da risolvere... Certo perdettero molto tempo in chiacchiere e cavilli e in sottigliezze sofistiche, inutili esercizi dell'ingegno. Noi facciamo dei nodi, intrecciamo parole a doppio significato per darne poi la soluzione. Abbiamo poi tanto tempo da impiegare? Sappiamo morire? Bisogna attendere con tutte le forze della nostra mente a guardarci dalle insidie non delle parole, ma delle cose. Che mi vai facendo distinzione tra vocaboli affini, che possono trarre in inganno soltanto in una disputa? Il nostro errore è intorno alle cose e su queste mi devi illuminare (Ep. a L., 45, 5). Non filologia è la filosofia (Ep. a Luc., 108, 24), non cavilli di parole,  265   capziose dispute, di cui se arrivo a scoprire il segreto del giuoco, non mi ci diverto piu (Ep. a Luc., 45, 8). Nessuno pnò vivere felice, se guarda solo a se stesso, se tutto fa convergere al proprio vantaggio: bisogna tu viva per il tuo vicino, se vuoi vivere per te. Questo vincolo sociale, che unisce gli uomini tra di loro e che attesta esservi una legge che abbraccia tutto il genere umano, se è osservato con diligenza scrupolosa, giova mol- tissi~o anche a mantenere quella piu stretta società, che è l'amicizia, e della quale ti parlavo. Colui che sente di avere molte cose in comune con un altro, solo perché questi è un uomo, avrà tutto in comune con l'amico. Questo, ottimo Lucilio, vorrei che sapessero insegnarti codesti cavillatori: quali sono i miei doveri verso un amico, quali verso un uomo qualunque, anziché in quanti modi possa esprimersi il concetto di amico e quanti signi- ficati abbia la parola uomo... Invece mi si storce il senso delle parole e mi si dànno delle sillabe staccate. Ah sf, se non avrò costruiti arguti sillogismi e raccolto entro una falsa conclusione una menzogna scaturente da una premessa vera, non potrò distinguere quello che devo seguire da. quello.che devo sfuggire. Mi vergogno, a questa età, di divertirmi a scherzare in ma- teria cosf grave! Mus (topo) è una sillaba; il topo (mus) rode il formaggio; dunque la sillaba rode il formaggio. Ammettiamo ch'io non riesca a scio- gliere questo nodo: qual pericolo mi sovrasta da simile ignoranza? Senza dubbio c'è da temere che qualche volta prenda due sillabe nella trappola o che, se sarò trascurato, un libro mi mangi il formaggio, a meno che non sia piu ingegnoso quest'altro sillogismo: mus (il topo) è una sillaba: la sillaba non mangia il formaggio: dunque il topo (mus) non mangia li formaggio (Ep. a Luc., 48, 2~. Si può, certo, dire per il I secolo ciò che, acutamente è stato detto per il xv secolo - senza dubbio, per alcuni aspetti e situazioni storiche vicino al I d. C. - essere falso che la filosofia vada cercata nelle opere dei suoi maestri ufficiali, ossia nei commenti di Aristotele e non nei dialoghi morali, nei trattati politici, nelle discussioni sulla poesia e cosi di seguito. In realtà, "la ricerca filosofica delle scuole era giunta al limite di un tecnicismo esasperante, ·che attraverso una raffinatezza estrema arrivava si a un culmine, ma senza possibilità di sortl!. La per- fezione di una logica che sostituiva i suoi calcoli e i suoi segni alla realtà dell'esperienza si esauriva in una conclusione. E quando la via è chiusa, il ritorno alle origini, ai principt, e la ricerca di altre dire- zioni, si impongono... Il rivolgersi a campi diversi da quello logico e fisico, ossia al mondo dell'esperienza morale e artistica; il ritorno dalle esasperazioni teologiche - di una teologia ridotta a dialettica - alla ricchezza della carità, dell'amore come diretto contatto con Dio: ecco le caratteristiche di un momento culturale ben definito" (E. Garin, Cultura filosofica toscana e veneta del secolo X V, "Rinascimento," Seconda Serie Vol. Il, Firenze, p. 65). Tale, mutando quel che è da mutare, l'esperienza di Seneca, assai vicino, per altra via, di fronte alle chiusure del diffuso scetticismo, nella ricerca di nuove direzioni, che premevano, alla problematica di Filone l'Ebreo, e a quella che, già dal tempo di Seneca, si delinea in una ripresa di certi motivi platonici, pitagorici e stoici, anche se diverse furono le conclusioni di Seneca. <:;ondannato, fin dalla nascita, alla morte, disperso nei suoi fantasmi, che sono, nell'immediatezza, le cose e le passioni, preso da questo o da quel fantasma, s1 come un folle che si fissa su una o altra delle infinite immagini che lo costituiscono, sempre perciò deluso, sempre nel terrore d'essere sopravanzato da altri, chiuso nelle sue stesse parole, dolore, disperato, determinato dalla nascita a una o ad altra situazione, schiavo dei propr~ fantasmi, re o servo che sia, tutti schiavi, illusione tutto, l'uomo, per chi appunto si sia reso conto ch'egli è nulla di fronte al tutto ("chiunque esso sia, o dio possente tra tutti o ragione incor- porea, artefice di tante meraviglie, o divino spirito diffuso con uguale intensità per tutte le cose, le piu grandi come le piu piccole, o infine fato e immutabile concatenazione di cause tra loro connesse": Conso- latio ad Helviam, VIII, 3), l'uomo desta un'infinita pietà. Ma proprio questa uguaglianza universale degli uomini, molteplici e diversi, per quanto molteplici, diverse, disarticolate sono le umane passioni e gli umani fantasmi, è il fondamento comune· per cui, attraverso l'educa- zione di sé (la filosofia in senso senechiano, che non è sapienza), sco- prendo sé come ragione, cioè come capacità di con-vincere la passione, l'uomo si libera da sé, costruendo se stesso uomo ("difendi il posto che ti ha assegnato la natura; quale chiederai: quello di uomo": De constantia sapientis, XIX, 4), in un rapporto articolato con gli altri uomini, costituendo una societas, che rivela e postula ad un tempo l'or- dine razionale del tutto, in una comune razionalità, che rende tutti - quanto piu ciascuno è se stesso, quanto piu misuratamente, cioè razionalmente, compie ciò che gli è proprio - uguali, per cui alla pietà si sostituisce il rispetto, che è rispetto dell'altro, non tanto per ciò che egli è, ma per quello che può essere. Cosa sacra è l'uomo all'uomo. Come comportarci con gli uomini? Quali precetti daremo? Di non spargere il sangue umano? quanto poco è non nuocere a chi dovresti giovare! porgere la mano al naufrago, mostrare la via allo sperduto, dividere il pane con l'affamato? Per dire tutto ciò che va fatto ed evitato..., eccoti una formula del compito dell'uomo: tutto quel che vedi, che contiene il divino e l'umano, è tutt'uno; noi siamo tutti mem- bra di un grande corpo. La natura ci generò parenti, dandoci una stessa origine e uno stesso fine. Essa ci ingenerò un mutuo amore e ci fece socie- voli... E quel verso: "Son uomo, nulla di umano ritengo estraneo a me"  26i   (Terenzio, Heautantimorumenus, l, 54], ci sia nel cuore e sul labbro. Abbia- molo in comune: siamo tutti nati. La nostra società è tale quale una volta di pietre, che cadrà, se le pietre non si appoggiano a vicenda e cosf si sosten- gano (Ep. a L., 95, 33, 51-53}. La riflessione su se stesso, sul proprio dolore,. sull'uomo conflitto di passioni, disperso in una molteplicità di se stessi e di fantasmi, se da un lato porta alla pietà, dall'altro lato, attravero questa, porta a com- prendere che l'uomo, mediante se stesso, in quanto capacità di realiz- zarsi secondo ragione - cioè in una misura che è conquista e libera- zione, - si libera da sé essendo davvero sé. Tra i molti magnifici detti del nostro Demetrio, questo... mi risuona e vibra tuttora nell'orecchio: niente -dice -m i pare piu infelice, che colui cui nessuna avversità mai sia capitata; poiché non ebbe modo di provare se stesso (De provitlmlia, III, 3). Hai passato la vita senza lotta: nessuno saprà mai quel che avresti potuto. Neppure tu stesso. Occorre la prova per conoscersi (De prov., IV, 3-7). Per non adirarti con i singoli individui, a tutti devi perdonare, all'intero genere umano concedere indulgenza... n saggio sa che nessuno nasce saggio, ma tale diventa... Pertanto il saggio, sereno ed equo verso gli errori, non è nemico, ma correttore dei colpevoli... Non è da uomo di senno odiare chi erra, altrimenti odierebbe se stesso... Quanto è piu vasta la norma morale che q11ella giuridica? Quante cose non esigono la pietà, l'umanità, la liberalità, la giustizia, la fede, che restano tutte fuori della legge?... Piu misurati ci farà il guardare dentro di noi, se ci chiederemo: non ho forse io stesso fatto alcun che di simile? Non ho mai peceato? Posso io condannare codeste colpe? (De ira, II, 10, 14, ~8). Solo attraverso il peceato si giunge all'innocenza (De clemmlia, l, 6). Chi è passato attraverso questa esperienza, chi ha coscienza che l'uomo può realizzare sé non piu in forma dispersa, ma coerentemente, sa che il suo ufficio, il suo dovere è di consolare, attraverso la medita- zione sul dolore, sulle passioni, sulle sitlgole esperienze, sulle illusioni, l'uomo disperato (cfr. le Consolaziont) e di avviare sé e gli altri, pro- spettando quale dovrebbe essere il saggio, a tale saggezza, agendo, entro i limiti delle proprie possibilità, perché si realizzi quella societtu che libera e fa dell'uomo un uomo rispettoso ~ell'altro, della comune ragione, specchio della postulata universale ragione di essere, mediante cui si costituisce la res-puhlica cosmica, il cosmico Impero. Di qui la distinzione senechiana tra sapienza e filosofia: la sapienza è un ideale, la filosofia uno strumento, riflessione sulle proprie espe- rienze di vita e, ad un tempo, per ciò, liberazione dalle proprie unila- teralità, convinzione e persuasione, retorica verace e consolazione, imVC- 268    gno sociale, da distinguere nettamente dalle arti dette liberali, utili, ma nella loro unilateralita, non tali da formare l'uomo virtuoso (cfr. Ep. a L., 88). Sembra chiaro, ora, in che senso da un lato Seneca descriva l'uomo qual è di fatto, in questo mondo, in questa situazione politica, e, dal- l'altro lato, accanto alle indicazioni mediante cui l'uomo può liberarsi da questo suo attuale non essere uomo, prospetti l'uomo quale dovrebbe essere, di volta in volta disegni il ritratto del saggio, del sapiente, dd- l'uomo consapevole di sé, misura, coerenza di sé con sé (constantia tra- duce Seneca l'homologhla zenoniana), e prospetti l'ideale rod~, l'ideale impero universale, che, a sua volta, si scopre adeguato alla postulata ragion d'essere del tutto, per cui, infine, accanto all'uomo quale dovrebbe essere, si pone la divinita qual è, in quanto termine di realizzazione, dovere e impegno. In ogni suo scritto Seneca, o per accenni o rievocando l'esempio di celebri figure o di proposito, disegna e prospetta il ritratto di quello che deve essere l'uomo, il "saggio" - anche nelle Tragedie, in cui il personaggio di Ercole assume la funzione dell'eroe stoico (cfr. R. Che- vallier, Le milieu.rtoiden à Rome au r siècle après J.-Ch., in "Bulletin de l'Association Budé," Suppl. Lettres d'humanité, XIX, 1960, p. 547). Basti qui ricordare alcuni passi del De con.rtantia sapientir ed una pagina della Lettera 66 che sembra riepilogare i peculiari tratti del sapiente. Gli Stoici, che hanno scelto la via piu degna per un uomo, non si curano che essa sembri piacevole a coloro che la iniziano, ma che al piu presto li liberi e li conduca sull'alta vetta, che si innàlza al di sopra di qualsiasi tiro d'arco e domina persino la fortuna... Libertà è sollevare l'animo al di sopra delle ingiurie, rendersi capaci di ricavare solo da noi stessi le nostre gioie, e staccarsi dalle cose esteriori, per non passare la vita nell'inquietudine come fa l'uomo che teme il riso e la lingua di tutti (De constantia sap., l, l; XIX, 3). Tale il saggio: un animo, che vede il vero, esperto nd conoscere quello che si deve fuggire e quello che si deve cercare, che delle cose fa stima non secondo l'opinione generale, ma secondo il loro valore intrinseco, che osserva tutto l'Universo e ne fa oggetto delle sue meditazioni, sentinella vigile dei propri pensieri e dei propri atti, grande e impetuoso nella giu- stizia, sordo ugualmente alle minacce e alle adulazioni, inconcusso nella buona come nell'avversa fortuna, superiore a tutte le contingenze e a tutti gli accidenti, ~issimo e ben regolato nella sua compostezza e nella sua forza, sano e semplice, imperturbato e intrepido, che non si piega per vio- lenza, che non si inorgoglisce e non si abbassa per vicende di fortuna: un tale animo è la virtU in persona; questo sarebbe il suo volto, se si presen- tasse sotto un'unica forma e in un insieme tutta intera si mostrasse. Del resto essa offre molti aspetti, che si manifestano secondo i diversi casi della vita e le diverse attività. Il som,mo bene non può decrescere, né alla virtu è concesso andare indietro; ma assume qualità' diverse secondo la natura degli atti che sta per compiere (Ep. a L., 66, 6). E non dire, come dici di solito, che questo nostro sapiente non lo si trova in nessun luogo. Noi non ci foggiamo una gloria vana per l'ingegno_ umano e neanche vagheg- giamo il fantasma ideale di un essere inesistente: come lo descriviamo, cosf l'abbiamo prodotto e lo produrremo, di rado forse e uno solo a lunghi "inter- valli di tempo: del resto io mi domando se Marco Catone [uticense]... non superi addirittura il nostro modello... (De constantia sap., VII, 1). Ora, come Seneca delinea due uomini, l'uomo qual è e l'uomo quale dovrebbe essere (donde, per altro verso, si costituisce il conflitto della vita umana), cosi egli, per la prima volta chiaramente, parla di due Stati, di due res publicae, la Città degli uomini quali sono e la Città degli uomini quali dovrebbero essere, in una prospettiva dello Stato universale, specchio, appunto, dello Stato cosmico, per il quale il saggio deve lavorare, in nome del diritto naturale c che può costituire un saggio e giusto cosmo statale. Convinciamoci che esistono due res publicae: l'una grande e veramente publica, che comprende gli dèi e gli uomini, e nella quale non siamo con- finati in questo o in quell'angolo, ma misuriamo con il sole i confini della nostra città; l'altra è la res publica a cui ci ha iscritto la condizione della nostra nascita (potrà essere quella di Atene o di Cartagine o di qualsiasi altra città) e non abbraccia tutti gli uomini, ma solo determinati uomini. Taluni lavorano contemporaneamente per ambedue gli Stati, il grande e il piccolo, altri solo per il piccolo, altri infine solo per il grande. Questo Stato piu grande possiamo servirlo anche vivendo ritirati, e forse anche meglio, ricercando che cosa sia la virtu; se una sola o parecchie; se siano la natura o lo studio a rendere buoni gli uomini; se questo insieme di terre, di mari e di tutto ciò che sta tra i mari e le terre, sia unico, o se la divinità ne abbia disseminati altri del genere nell'Universo; se la materia da cui nascono tutte le cose, sia una sola e compatta, oppure diffusa e con parti di vuoto mescolate alle solide; dove risieda la divinità; se contempli inerte o muova la sua opera; se l'avvolga dal di fuori o sia immanente al tutto; se il mondo sia immortale o da considerare tra le cose caduche e nate solo per un certo tempo. Chi riflette su questi problemi, quale servizio rende alla divinità? Evita che la sua opera rimanga senza testimoni. Noi siamo soliti dire che il sommo bene consiste nel vivere secondo natura. La natura ci ha generati per ambedue i compiti: per contemplare e per agire,. (De otio, IV, 1-2). Senza l'azione non esiste contemplazione (De otio, V, 8). Di qui, per una via pio universale e meno legata all'esistenza di una certa classe che non quella di Cicerone, di coptro alla tirannide, di contro al conformismo dettato dalla paura, il richiamo di Seneca al motivo del cosmopolitismo stoico e al diritto naturale, fondamenti di una res publica umana, e, nei confronti dell 'imperatore, alla concezione stoico-platonica del monarca filantropo, per cui l'essere imperatore è un dovere. Ma di qui anche il delinearsi del motivo del tirannicidio; con il conseguente richiamo a Cassio, e del suicidio politico, donde la sempre maggiore esaltazione della figura di Catone Uticense, e su di un piano di diritto naturale, se non di diritto positivo, la proclamazione dell'abolizione della schiavitu. Poche righe prima del testo del De otio sulle due Repubbliche - ricordiamo che il De otio, insieme al De constantia sapientis e al ·De tranquillitate animi, è dedicato ad Anneo Sereno, che dalle Lettère a Luci/io, composte tra il 62 e il 64, sappiamo essere morto da non moltissimo tempo, Lettera 63, per cui si pensa che le tre operette siano del 61-62 circa: degli anni in cui Seneca fu costretto ad abbandonare la sua diretta influenza su Nerone, - Seneca scriveva: Epicuro dice: "il saggio non si accosterà alla vita pubblica a meno che non intervenga una situazione particolare." Zenone dice: "egli si accosterà allaita pubblica se non interverrà qualcosa ad impedirglielo." - Qui seguirò il parere degli stoici... perché la questione di per se stessa vuole che io segua la loro opinione: seguire sempre il parere di uno solo è proprio della fazione, non del Senato [nel momento in cui Seneca scriveva il De otio è questa una frecciata abbastanza indicativa]. - Epicuro, dunque, vuole l'otium di proposito, Zenone, se interviene un motivo [è anche questo un richiamo assai significativo alla posizione di Seneca]. E i motivi possono essere molti: se lo Stato è troppo corrotto perché ci si possa trovare rimedio, o se è oppresso dai mali, il sapiente non si sforzerà inutilmente e non spre- cherà se stesso senza poter servire a nulla. Se avrà poca autorità e poca forza e lo Stato lo respingerà, se la salute gli sarà di ostacolo, come non metterebbe in mare una nave in avaria, come non si arruolerebbe essendo infermo, cosi non intraprenderà un cammino che sa già impraticabile. Cosi anche colui che è ancora nuovo di esperienza e non si è ancora esposto alle tempeste, può rimanere al riparo e darsi subito allo studio... In realtà ciò che si esige dall'uomo è che serva agli uomini: se è possibile a molti, altri- menti a pochi, altrimenti ancora a se stesso. Infatti, rendendosi utile agli altri, egli agisce nell'interesse comune: come chi si rende peggiore non nuoce solo a sé, ma anche a tutti coloro che avrebbe potuto giovare essendo mi- gliore, cosi chiunque fa del bene a se stesso giova per ciò solo anche agli altri, perché viene costruendo un essere che potrà riuscir loro di giovamento (De otio, III, 2, l, 3-5). È questo un testo piuttosto importante, perché chiarisce ancora una volta il senso con cui Seneca assume certe posizioni stoiche, il  significato dato da Seneca alla filosofia come riflessione sulle proprie esperienze, attraverso cui ci modifichiamo e ci costruiamo uomini, pro- spettando Ja possibilità di realizzare l'uomo quale dovrebbe essere in rapporto con gli altri uomini, in funzione di una res publica hominum, cui giovano, a seconda delle istituzioni e per esse, modi diversi di azione, sia pure il ritiro dall'azione, o la presentazione di certi esempi di vita; ma anche perché in esso è molto chiaramente indicata la vita morale come problematica, come conflitto, COII}e dilacerazione della coe- renza stessa, ché talvolta la coerenza sta nell'incoerenza, e perché qui, molto chiaramente, Seneca presenta il proprio caso, la sua stessa espe- rienza e problematica, come la problematica dell'uomo, quale che sia la situazione in cui ciascuno, sempre, viene· a trovarsi: ciascuno, sempre, in una sua certa situazione storica diversa. Già dal tempo della questura e dei suoi primi discorsi in Senato, Seneca fu tenuto in conto di pensatore e di parlatore di razza, il maggior uomo di cultura che avesse Roma in quel tempo. Dopo il pericolo corso per la sua libera orazione in Senato, salvatosi per intervento di una favo- rita di Caligola, Seneca dovette certo comportarsi con molta prudenza e tatto (dirà piu tardi nel De constantia sapientis: "Talvolta anche, per sdegno contro i potenti, sveliamo i nostri sentimenti con eccesso di libertà! Ma non è libertà il non tollerare nulla: questo anzi è un errore": XIX, 3), se riusc{ a mantenere un posto di non poca importanza presso la corte, particolarmente legato di amicizia con Giulia Livilla, figlia minore di Germanico, sorella di Caligola. Egli allora godette, senza dubbio, come lui stesso confessa nella Consolatio.alla madre Elvia (V, 4), di potenza, di onori, di danaro. Ma fu proprio la sua amicizia per la dignitosa principessa, che mai volle adulare l'imperatrice Messa- lina, che, nel41, rovinò Seneca. Messalina, gelosa della bellezza di Giulia, e dell'influenza che Giulia aveva sull'imperatore Claudio, riusc{ a fare sospettare di adulterio Giulia, tanto da farla cacciare da corte, e, poco dopo, da farla condannare a morte. Seneca fu coinvolto in questa losca montatura: forse si disse di lui ch'era stato amante di Giulia. Certo è.-:he Seneca, a causa di Messalina, fu condannato all'esilio e venne rele- gato in Corsica (•Non frutti di autunno né spighe d'estate né ulivo d'inverno; mai di primavera l'ombroso ristoro di un ramo: non pane né un sorso d'acqua né il fuoco per l'ultimo ufficio. Due cose sole son qui: l'esilio e l'esule": Epigramma, II, Haase). Fu durante l'esilio che Seneca scrisse la Consolatio alla madre Elvia, che è, ad un tempo una consolatio a se stesso, e la Consolatio a Polibio, in cui Seneca, con molta dignità, fa il tentativo di farsi richiamare. Uccisa Messalina, nel 48, assurse a potenza Agrippina, figlia di Germanico, che da un suo matri- monio con Gn. Enobarbo aveva avuto un figlio, Domizio. Agrippina, mediante sporche trame, riusd, morta Messalina, a farsi sposare, nel 49, dall'imperatore Claudio, suo zio. Agrippina, allora, fece revocare l'esilio di Seneca, per farlo tornare a Roma, in qualità di precettore del figlio Domizio.:t storia nota. Agrippina riusd, dopo loschi delitti, a far spo- sare il figlio Domizio con Ottavia figlia di Claudio e di Messalina, e, quindi, a fare adottare da Claudio Domizio, divenuto suo genero, con- trapponendo, per la successione al trono, Domizio a Britannico, figlio legittimo di Claudio e di Messalina. Con il nome di Nerone, Domizio passava a far parte della gente Claudia. Nel 51, fu data a Nerone, che non aveva ancora compiuti quattordici anni, la toga virile. Agrippina aveva richiamato Seneca dall'esilio, in parte per fare cosa grata al pub- blico che riteneva ingiustamente condannato da Messalina un uomo di gran valore, in parte perché sperava, legandolo a sé, di averlo consigliere delle sue trame politiche e perché educasse il figlio a seconda dei suoi intenti. Nota è la fine di Claudio, fatto, forse, avvelenare in segreto da Agrippina e note la proclamazione di Nerone a imperatore (nel 54, a 17 anni) e la fine di Britannico, nel 55, fatto uccidere da Nerone. ~Seneca fu lontano da tali intrighi. Tacito che non si arresta, non che dinanzi alle colpe, dinanzi <?-i sospetti delle colpe, non ne fa menzione: ed egli attinge con preferenza alle fonti storiche piu ostili a Seneca. Seneca, che Agrippina revocò dall'esilio per averlo consigliere delle sue trame poli- tiche e maestro di Nerone, restò maestro di Nerone; consigliere di Agrippina era un uomo in tutto degno di lei, il liberto Pallante. Quale fosse in quelle circostanze il contegno di Seneca non sappiamo. Sappiamo però che piu tardi, morto Claudio e proclamato Nerone imperatore, Agrippina, che già si credeva sovrana assoluta dell'Impero, dovette su- bito accorgersi che il suo ambizioso edificio era crollato: chi l'aveva abbattuto era Seneca" (Marchesi, cit., p. 30). Non pare si possa essere cosf ottimisti come il Marchesi, ma certo è che furono quelli, gli anni in cui Seneca, godendo di un certo ascendente sull'animo del giovanis- simo Nerone (d'altra parte invidioso dello strapotere della madre), avendo cosf, insieme ad Anneo Burro, prefetto del pretorio, uomo misu- rato ed essenzialmente onesto, in mano la possibilità di dirigere in un certo senso lo Stato, si adoperò a migliorarne le condizioni, ad avviare Nerone ad essere principe nel senso stoico di moderatore, di guida, di egemonico di una res puhlica hominum. Sotto questo aspetto assumono un loro preciso significato le pagine violentissime di Seneca contro il tiranno (particolarmente Caligola, già chiaramente discusso nel De ira) e l'operetta, morto Claudio, contro il principe inetto, burattino, strumento di macchinazioni (Claudio, ap- punto, cosf sarcasticamente e comicamente descritto nel Ludus de morte Claudii, da Dione chiamato Apokolocynthosis, l'inzuccamento di Claudio, cioè la consacrazione della Zucca: alla deificazione, apotheosis, di Claudio, decretata dal Senato, Seneca rispondeva che, in effetto, era quella la deificazione di una zucca). Se le pagine, sparse in tutta l'opera di Seneca, contro Caligola e lo scritto contro lo sciocco e inetto Claudio, tendono a dimostrare quello che un imperatore non deve essere, il De cle- mentia, scritto per Nerone, l'anno dopo la sua assunzione all'Impero, quando era consigliere politico e ministro, rappresenta da un lato il tentativo di delineare quello che l'imperatore deve essere, dall'altro lato, com'è stato detto (Marchesi, cit., p. 59), "il programma postivo di un vero uomo di Stato." Ben consapevole di precise situazioni, di non trascurabili ostacoli, di condizioni, in cui "si fanno cose che ottengono approvazione e che poi vengono punite" (De clementia, l, 4}, in cui "una persona non può andare a un pranzo con animo lieto, sapendo che persino nel brindare ha bisogno di controllare ogni parola" (De clem., l, 36}, nel De clementia Seneca opera con estrema cautela, ma sempre in funzione di realizzare, entro i limiti del possibile, uno Stato armonico, ove vada salvo il rispetto umano, la possibilità di costituire una res-publica hominum, mediante l'opera politica e riformatrice, interna ed estera, di Nerone ("Un saggio non farà l'elemosina s1 come la maggior parte di coloro che vogliono passare per compassionevoli; ma tutto ciò che darà lo darà come uomo che fa parte agli altri di beni comuni a tutti": De clementia, II, 4, 2). Ciò che piu ha colpito del De clementia è stato in genere il suo aspetto formale, l'apparente adulazione di Seneca che presenta un Nerone potentissimo autocrate che, consapevole della sua enorme potenza, sa usarla a fin di bene, per costituire una società ordinata, e che consapevole della sua funzione di principe - in senso augusteo - in cui si assomma la nostra comune umanità, opera secondo il principio del monarca filan- tropo (cfr. sopra), con demenza, che Seneca chiaramerite distingue dalla misericordia (compassione) e dalla venia (perdono}, identificandola con la giustizia sociale. In realtà bisogna tener presente che il De clementia fu scritto quando Nerone aveva diciotto anni appena e che molti dei delitti, fino allora avvenuti, erano stati opera di Agrippina. Presentare Nerone sotto la veste del principe giusto e filantropo clemente (quando ancora vivissimo era il ricordo in Roma della ip.clemenza di Caligola e di Claudio, e il timore per Agrippina), dell'uomo consapevole del suo dovere di sovrano in funzione di una giustizia sociale, fu, proprio nei confronti del giovane e ambizioso Nerone, una mossa politico-retorica estremamente abile, un impegnare Nerone ad un'azione che fosse in contrasto con la pericolosissima linea seguita da Agrippina. In effetto Nerone, nei primi cinque anni del suo regno, si dimostrò clemente, moderatore degli abusi, accortissimo in politica finanziaria, nel tentativo di sollevare le classi meno ricche limitando gli abusi fiscali, fino a giungere alla proposta dell'abolizione di tutte le imposte dirette (proposta che fu bocciata dal Senato: una delle poche volte che il Senato seppe opporsi, rivendicando, per timore di perdere le proprie ricchezze, la sua libertà). Non solo, ma Nerone si dimostrò rispettoso delle pre- rogative del Senato e delle procedure giudiziarie, mentre cercò di risol- vere, in favore dei libecci, il problema della schiavitu. "Intorno a quel tempo (56), si discusse in Senato"- scrive Tacito- "circa l'arroganza dei libecci e si insistette nel chiedere che fosse data ai patroni la facoltà di revocare la libertà a coloro che si erano resi colpevoli di ingratitudine. Non mancavano i fautori di questo provvedimento, ma i consoli non osarono prenderne l'iniziativa all'insaputa del principe, al quale, tut- tavia, notificarono il consensodel Senato a tale disposizione. Nerone era incerto se dovesse farsi promotore di questa proposta, poiché discordi erano i pareri dei pochi intorno a lui; alcuni si indignavano perché l'irriverenza accresciuta con la libertà si era scatenata a tal punto che ormai i liberti godevano gli stessi diritti dei patroni, ne discutevano da pari a pari le opinioni... [Ci fu chi fece la proposta di revocare a tutti i liberti la libertà]... Altri, invece, pensavano che la colpa dei pochi dovesse esser di rovina soltanto a loro e che non era il caso di meno- mare i diritti di tutti, poiché era evidente che la classe dei liberti era ormai diffusissima. Da essa in gran parte venivano le tribu urbane, le decurie, i dipendenti delle magistrature e dei sacerdozi, ed anche le coorti arruolate in Roma; non diversa origine avevano moltissimi cava- lieri e parecchi senatori, tanto che, se si fossero posti a parte i liberti, sarebbe stata manifesta la scarsezza di uomini liberi. Ben a ragione gli antichi, pur ponendo una gerarchia di ordini sociali, avevano conside- rato la libertà come un bene di tutti... Poiché prevalsero tali opinioni, Cesare rispose per scritto al Senato, ordinando di dar corso ai processi contro i liberti caso per caso..., ma che non si prendesse alcun provvedi- mento generale di deroga..." (Tacito, Annali, XIII, 26-ll). Tacito non fa il nome di chi sostenne di rispettare la libertà dei libecci, sottintendendo che per natura siamo tutti schiavi e tutti liberi. Certamente il consigliere che decise Nerone a favore dei liberti fu Seneca, ché alcune espressioni riferite da Tacito sono molto vicine a quelle sene- chiane, che leggiamo sia nel De beneficiis sia nella Lettera 47 a Lucilio. Ho provato molto piacere a sentire da quelli che vengono di costf che tu tratti i tuoi schiavi molto familiarmente, e ciò conviene alla tua saggezza e alla tua educazione. Sono schiavi? Uomini sono. Schiavi? Sono compagni di tetto. Schiavi? Umili amici. Schiavi? Compagni di servitu, se consideri che la Fortuna ha ubTUale potere su di essi e su di noi... Quanti di questi schiavi non hanno alla loro mercé il padrone di una volta... Va ora a disprezzare un uomo di tale fortuna, quando.tu stesso potresti cadere in quello stato, nel momento stesso che lo disprezzi! Non voglio cacciarmi in un argomento troppo vasto e venire a ragionare intorno ~ modo come si debbono trattare gli schiavi, verso cui ci mostriamo tanto superbi, crudeli, arroganti, Tuttavia in poche parole ti dico: "Comportati verso gli umili come vorresti che si comportassero i grandi verso di te..." Ti sbagli, se credi che io sia per respingere alcuni perché sono a piu vile opera addetti, come per esempio quel mulattiere o quel bifolco: non li giudicherò dal loro mestiere, ma dai loro costumi. I costumi ognuno se li dà egli stesso, i mestieri li distribuisce il caso... Quel che di servile può aver loro attaccato il commercio con persone volgari, sarà corretto con la compagnia di persone piu educate. L'amico, caro Lucilìo, non cercarlo solo nel foro o nel senato... Ma è uno schiavo! Che importa, forse è libera l'anima sua._ Mostrami chi non sia schiavo: uno lo è della libidine, l'altro dell'avarizia, l'altro dell'am- bizione, tutti della paura... Nessuna schiavit6 è piu spregevole di quella che si abbraccia volontariamente... Qualcuno dirà ora che eccito gli schiavi alla rivolta e tento d'intl~bolire l'autorità dei padroni per aver detto: nutrano per i padroni piu reverenza che paura... (Ep. a Luc., 47). In queste ultime parole sembra di rintracciare l'eco del ricordo della seduta del 56. Senza dubbio piu preciso è il ricordo di quella seduta e l'approfondimento della questione nel De benefiçiis. Nel De beneficiis, scritto nel 56 circa, l'anno, appunto, in cui Seneca nel Consiglio di Corte difese i liberti di contro agli interessi del Senato e di contro a chi soste- neva che lo schiavo essendo tale per natura non pu~ acquistare alcun diritto verso il padrone né alcun titolo di benemerenza, Seneca dice: Sostenere che uno schiavo non può in nessun caso esser benefattore del padrone, significa ignorare il diritto umano. Ciò che importa è il senti- mento, non la condizione giuridica di colui che dà. A nessuno è preclusa la virtU: a tutti è accessibile, tutti ammette, tutti invita, liberi, liberti, schiavi, re, esiliati: essa non ha preferenze né per case né per censi, si contenta dell'uomo nella sua nudità... t un errore credere che la servit6 penetri in tutto l'uomo: la parte migliore ne è intatta. L'anima è interamente libera. La fortuna ha consegnato al padrone solo il corpo (De beneficii$., III, 19-20). Noi abbiamo tutti la stessa ~rigine. Nessuno è piu nobile di un altro, se non chi abbia ingegno piu retto e piu adatto alle buone arti. Coloro che espongono nel vestibolo le immagini degli antenati e gli alberi genealogici sono piuttosto noti che nobili. Per gradini, o splendidi o oscuri, ciascuno di noi risale a una sola origine... Chi oserà chiamare schiavo qualcuno quando egli stesso è schiavo della libidine o della gola, anzi servo comune di tutte le femmine adultere?... (De beneficiis, III, 28). [E nella lettera 31, 11, ancora Seneca scriverà: "Esser virtuoso è possibile tanto ad un cava- liere romano, quanto a un liberto, quanto a uno schiavo." "Ma che signi- 276    fica cavaliere, liberto, schiavo? Sono parole nate o dall'ambizione o dal- l'ingiustizia. Da ogni angolo della terra è possibile slanciarsi verso il cielo" j. L'appello di Seneca al sovrano, finché gli fu possibile, e la sua influenza diretta - entro i termini di un'abile convinzione, per riuscire ad un qualche successo - si mossero nel tentativo di determinare una· giustizia civile- obbedienza formale alle leggi. stabilite nel tempo dalle città terrene, - valida nella misura in cui sia capace di far proprio il contenuto di fraterna uguaglianza e di comunione umana che è proprio della giustizia naturale (cfr. E. Garin, Giustizia, in "Revue internati~ naie de philosophie," 41, 1957, pp. 282-283). A parte le reali intenzioni di Nerone.e i compromessi, cui, volta a volta, possa essere addivenuto Seneca, certo è che il motivo fondamen; tale di Seneca è stato quello di rendere gli uomini consapevoli di sé, esseri razionali, ove per "ragione" si intende non un dato, ma la capa- cità comune a tutti, che ci fa tutti uguali, di riflettere sulle proprie esperienze umane, attraverso cui essere ciascuno se stesso in rapporto agli altri, non piu passioni unilaterali, ma articolazione e società, ché tale è l'uomo in quanto razionalità. E questo, per Seneca, deve essere l'impegno dell'uomo, di ciascuno per quanto a ciascuno compete, cia- scuno consapevole dei propd limiti e perciò, entro questi, delle proprie possibilità. Se sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso Seneca interpreti l'affermazione stoica, che la virtU consiste nel vivere secondo ragione" e coerentemente, altrettanto chiara appare la dialettica senechiana tra la tesi che l'uomo è tale in quanto viva socialmente e la tesi che l'uomo è tale in quanto fugga la folla, donde, per altro aspetto, deriva la dialettica tra l'affermazione che siamo tutti schiavi e l'affermazione che sianlo tutti liberi; in conseguenza, se da un lato, sia pure come· estrema ratio politica, come esempio, quando non sia piu possibile vivere da uomini, né avviare - anche attraverso i pio gravi compr~ messi, sacrificando se stesso, ad essere liberi - è valido il suicidio, dall'altro lato suprema forma di viltà è il suicidio in quanto fuga dal proprio impegno umano, dal proprio essere sociale, atto unilaterale, e, ·perciò, irrazionale. Infelice, sei schiavo degli uomini, schiavo delle cose, schiavo della vita: una servitU è la vita, se manca la virtU del morire (Ep. a Luc., 77, 15). Pensare alla morte: chi dice questo, comanda di pensare alla libertà. Chi ha imparato a morire ha disimparato a servire: è al di sopra di ogni potere, certo al di fuori. Quale carcere, guardia o catenaccio c'è piu per lui? ha libera la porta (Ep. a Luc., 26, 10). Chiedi quale sia la via alla libertà? Qualsiasi vena del tuo corpo (De ira, V, 15).  277   Ma anche quando la ragione induca a farla finita, non si deve prendere la spinta all'impazzata e di corsa. L'uomo forte e saggio non deve fuggir... dalla vita, ma uscirne. E soprattutto eviterà quella passione troppo comune..., l'inconsulta inclinazione a morire, che spesso prende anche uomini generosi e di fiera indole, spesso gl'ignavi e gli abbattuti; gli uni disprezzano la vita, gli altri non ne reggono il peso (Ep. a Luc., 24, 24-25). Talora, anche se vi siano cause incalzanti, bisogna, sia pur con tormento, richiamarsi alla vita per amore degli altri... È grandezza d'animo riattaccarsi alla vita per amore degli altri, e spesso i magnanimi l'hanno fatto... Chi non tenga conto della moglie o dell'amico, per restare ancora in vita..., non è un forte (Ep. a Luc., 104, 3-4). Alcune delle proposte di riforma sociale, suggerite da Seneca, ebbero successo, altre no. Non sappiamo esattamente quale sia stata la parteci- pazione di Seneca nella drammatica lotta per il potere tra Agrippina e Nerone, culminata, com'è noto, con l'uccisione, ordinata da Nerone, di Agrippina (59). Certo è che dopo la morte di Agrippina, Nerone ascoltò sempre di meno Seneca, e dopo la morte di Burro - fatto avvelenare, sembra, da Nerone,- sostituito con l'inetto Fenio Rufo e con il terri- bile Tigellino, Seneca non ebbe piu alcuna voce e fu costretto a ritirarsi, anche se ufficialmente Nerone respinse le sue dimissioni e non volle che Seneca gli facesse dono delle sue ricchezze (si confronti il colloquio tra Seneca e Nerone riferito da Tacito: Annali, XIV, 53-56). "La morte di Burro rese vano ogni influsso di Seneca, perché i piu saggi consigli non avevano piu lo stesso potere, ora ch'era venuta meno, per cosi dire, l'altra guida del principe e Nerone era spinto dalla sua inclinazione verso i peggiori elementi. Costoro cominciarono subito ad attaccare con varie accuse Seneca, affermando che voleva aumentare ancora le sue ricchezze, che aveva già accumulato in modo eccessivo per un privato, e dicendo che faceva di tutto per attirare a sé le sim- patie dei concittadini, osando quasi primeggiare di fronte al principe... e sostenendo che le cose buone dell'lmpero.erano dovute a lui..." (Tacito, Annali, XIV, 52). "Seneca si allontanò dalla vita politica, facendo rare apparizioni in città, come se fosse trattenuto in casa a causa della salute cagionevole, o perché occupato negli studi di filosofia" (Tacito, Ann., XIV, 56). Furono questi gli anni del De otio, del D~ tranquillitate animi, del De prQtlidentia, del De beneficiis, delle Naturales quaestiones, e delle Epistulae mora/es ad Lucilium. In realtà Seneca, attraverso la sua opera, proponendo se.stesso come esempio di problematica morale e di dubbio (conloquor tecum, unQ scrutabimur: Ep. a L., 67, 2), proponendo la vita come conflitto e dia· lettica, sia pur per altra via proseguiva nel suo insegnamento. "Anche quando lo Stato è oppresso, l'uomo saggio ha occasione di mostrarsi. A seconda della situazione politica, nel modo che la fortuna lo consen- tirà, o ci espanderemo o ci raccoglieremo in noi stessi, ma comunque ci muoveremo e non c'intorpidiremo, paralizzati dal timore" (De tran- quillitate animi, V, 3-4). Ciò che si esige dall'uomo è che serva agli uomini: se è possibile a molti, altrimenti a pochi, altrimenti ancora a se stesso" (De otio, III, 2, l, 4). Particolare interesse assumono ora, anche relativamente alla situa- zione e allo stato d'animo di Seneca in quest'epoca, le Naturales quae- stiones. Chi vada ripercorrendo i vari motivi della riflessione senechiana, senza volere costruire un ben ordinato sistema di Seneca, si rende sem- pre meglio conto che la ricerca di lui si muove tutta entro l'àmbito del mondo degli uomini: da un lato nel riconoscimento che l'uomo è limite, dolore, disperazione, groviglio di unilaterali passioni, molteplicità; dal- l'altro lato nel riconoscimento che l'uomo si rivela a se stesso, attraverso la riflessione sulle passioni, sui propd fantasmi, su se medesimo, capa- cità di rendersi consapevole di sé, di costituire sé come ragione, cioè come possibilità di con-vinzione delle passioni, in un ordine che è misura e coerenza, di volta in volta, misura e coerenza sociali, per cui la rifles- sione medesima (filosofia) costituisce l'uomo come misura, istituisce un costume (mos) che è, ad un tempo, costume sociale, come rispetto e dovere, consapevolezza del proprio compito, entro i propd limiti (mora- lità). Sotto questo aspetto si vede bene perché, in fondo, a Seneca non interessasse chiudersi in una o altra sistemazione apparentemente scien- tifica, in una o altra ben definita e definitiva concezione dell'Universo e della Natura- una avrebbe potuto essere l'ipotesi epicurea,- se non perciò che l'uno o l'altro aspetto di una o di altra concezione potevano servire a rendere conto della formazione morale e sociale dell'uomo. Cosi, l'opzione di Seneca per l'aspetto piu semplice di certo stoicismo di scuola - tutta la realtà scaturisce quale deve essere dalla tensione del principio attivo e di quello passivo, costituendosi in un ordine, per cui ciascuna cosa assume un suo perché, una sua ragione entro i termini della ragion d'essere universale, la natura naturante- si determina non come dato a priori, ma come scoperta, attraverSQ la stessa scoperta (mediante la riflessione su se stessi) dell'uomo come razionalità. In tal senso la ragion d'essere del tutto si pone piu come ipotesi che come dato, come termine che si coglie attraverso noi stessi e che, perciò, ci trascende dal di dentro. E qui, in realtà, il discorso si fa diverso da quello stoico - se mai piu vicino, forse, a quello di Panezio e di Posidonio, - anche se ven- gono riprese certe argomentazioni, certi t6poi stoici, che, poi, non solo sono degli stoici (ad esempio, accanto alla riflessione su se stessi, la riflessione sul tutto che si rivela ordinato e scandito in leggi, da cui l'ipotesi di una suprema legge che provvede a tutto); e il discorso si fa quello di alcuni stoici, nel senso che quell'ordine, quella legge del tutto, quella stessa provvidenza non sono posti su di un piano antico, ma, ripetiamo, su di un piano etico, cioè si rivelano e si scoprono attraverso la stessa riflessione etica, divenendo termini di speranza, non di dimo- strazione scientifica. Altro è perciò il piano della fisica, altro quello della logica. E se da un lato la riflessione etica prospetta l'uomo come razionalità, mediante cui l'uomo si libera da se stesso passioni, frantumi e fantasmi; dall'altro lato rende consapevole l'uomo dei suoi stessi limiti, della sua condizione estremamente infelice e determinata, consapevo- lezza senza di cui, comunque, non vi sarebbe moralità, ma ancora una volta passione e tracotanza. Compromettere la realtà ad un ordine già dato e necessario, sostenere che tutto è già fatalmente costituito, sarebbe stato negare la stessa possibilità della vita morale, la possibilità di ren- dersi consapevoli di sé, di educarsi e di correggersi; si come sarebbe stato un negare la moralità, la stessa esperienza umana, sostenere la libertà, la mancanza di un qualsivoglia limite, di una qualsivoglia con- dizione. Non a caso su di un piano ontico e fisico, anche relativamente all'immortalità o no dell'anima, Seneca non conclude mai, sospende il giudizio, ponendo le varie tesi come ipotesi; mentre sul piano di una quotidiana esperienza chiarisce che Jòuomo è limite, è chiusura, è nulla di fronte all'immensità dell'infinito Universo; solo che, appunto, tale sentirsi nulla, tale riflessione sulla propria miseria, sulla infinita natura che circonda e schiaccia l'uomo, fa sorgere nell'uomo - e anche questa è un'esperienza- la consapevolezza di sé come capacità, entro i propri limiti, di costituirsi razionalmente, cioè moralmente. Se da un lato, dunque, poteva scrivere in una delle sue prime opere (Consolatio ad Marciam, 19, 5): '"Liberazione di ogni ambascia è la morte: piu in là non si estende l'umano dolore. Essa ci ripone in quella pace nella quale fummo prima di nascere_, La morte non è né bene né male: quello può esser bene o male che è qualche cosa; ciò che per se stesso è nulla e ogni cosa riduce in nulla non ci rimette a fortuna: non può esser misero chi è nulla"; se ancora molto dopo scriveva: '"Non v'è differenza alcuna tra il non nascere e il morire; ché uno è l'effetto: non essere" (lAt. a Luc., 54, 5); '"l'anima lascia questa vita per una vita migliore, destinata a rimanere nella calma luminosa delle cose divine; oppure esente da ogni incomodo, si ricongiungerà alla sua natura e ritor- nerà nel gran tutto" (lAt. a Luc., 61, 16); dall'altro lato, posto che la realtà della vita umana ha i suoi termini tra la nascita e la morte, giunto alla fine della sua vita, Seneca scrive: '"Mi compiacevo l'altro giorno di pensare, anzi di cr~d"~ all'immortalità dell'anima, e credevo volentieri alla opinione dei grandi uomini che di una cosa tanto consolatrice ci danno piuttosto la promessa che non la prova: e mi abbandonavo a tanta speranza, dabam me spei tantam" (Lett. a Luc., 102, 1-2). Entro questi stessi termini, l'indagine sulla natura non ~ per Seneca un'indagine mediante cui determinare principi che rendono pensabile, cioè scientificamente conoscibile, la realtà, ma è meditazione sulla natura; mediante cui liberarsi dalle umane distrazioni e dispersioni, mediante c;UÌ rendersi conto di quanto misero, nullo, piccolo, sia l'uomo quoti- diano, tutto preso dalle sue passioni, dai suoi fantasmi. E, ancora una volta, tale visione della natura, infinita, ordinata nelle sue leggi, che smaga l'animo dell'uomo, avvia l'uomo a scoprire sé come ragione, a postulare che tutto sia retto da un'infinita ragione, passando analogi- camente dal noto all'ignoto. Se ti vuoi persuadere che la natura ha voluto essere contemplata e non solo guardata, pensa al luogo che ci ha assegnato: ci ha posti nel suo centro, offrendoci la visione completa dell'universo; e, per rendergli agevole la contemplazione, non solo ha creato l'uomo eretto, ma perché potesse seguire gli astri dal loro sorgere al loro tramontare ·e volgere il suo viso a seconda del moto dell'universo, gli ha dato un capo rivolto verso il cielo e un collo flessibile. Poi, facendo ruotare i segni zodiacali (sei durante il giorno e sei durante la notte), ha dispiegato dinanzi all'uomo tutta se stessa, per ispi- rargli, attraverso la visione delle cose che gli offre, il desiderio di contem- plare anche le altre. Infatti noi non scorgiamo tutte le cose né le vediamo nella loro giusta grandezza, ma il nostro sguardo si apre la via all'investi- gazione e· riesce a gettare le fondamenta del vero, cos{ che la ricerca può passare dal noto all'ignoto e concepire qualcosa di piu antico ancora del mondo... (De otio, V, 4-5). E anche questa è una spertmza e un'esperienza. Una speranza in quanto l'ordine e la razionalità si pongono come un bene da realizzare; una esperienza in quanto la scoperta della presenza in sé della propria razionalità, la capacità di porre in sé misura e armonia ~ tanto lontano dall'essere un fatto umano, che si rivela come presenza di un valore super umano. Tale il Dio di Seneca: da un lato la ragion d'essere del tutto, del tutto nella sua totalità razionale e ordinata, in senso stoico; dall'altro lato, la possibilità nell'uomo di costituirsi razionalmente, lo stesso sorgere della coscienza come consapevolezza di sé, dei propri limiti ed entro questi del proprio impegno. Di qui, da una parte, U rifiuto dell'ipotel!i fisica di Epicuro, che smarrisce l'uomo nel caso, dal- l'altro lato l'appello epicureo ad un annullamento dell'uomo nell'eterno riposo del nulla. Certo, a tale concezione di Dio, immanente e trascendente a un tempo, Seneca chiaramente giunse nell'ultimo periodo della sua medi- tazione, anche se fin dal principio poneva come ipotesi la tesi stoica di un tutto frutto della tensione del Logos (Dio), principio attivo, e della materia (quantità, principio passivo). Nelle ultime opere, dal De bene- ficii.r alle Lettere a Lucilio alle Questioni naturali, sempre piu Seneca insiste sull'esperienza del divino in noi, inteso come la stessa coscienza, e sulla meditazione intorno ai fenomeni della natura (donde le Quae-.rtione.r natura/es, che per il resto sono una descrizione di fenomeni) che, di là dalla nullità dell'uomo, rivelano la presenza di una suprema e provvidente divinità. ~ sembrato cosi che in Seneca vi sia un'oscillazione tra due conce- zioni di Dio: un Dio inteso come natura naturan.r, mente dell'Universo, tutto ciò che si vede e non si vede, rettore e custode dell'Universo, signore e artefice di quest'opera, al quale ogni nome conviene (cfr. Nat. quae.rt., l, praef. 13, 14; Il, 45), sempre in atto ed entro cui si svolgono in pro- cesso circolare tutte le vicende delle cose, il nascere e il perire, neces- sariamente; e un Dio trascendente, esigenza e speranza, posto oltre la natura. Certo è che la meditazione su Dio di Seneca non è una teologia, né una rivelazione da.parte di Dio come lo sarà nel çristia- nesimo. Si capisce, comunque, in che senso Seneca abbia avuto un'enorme influenza sui pensatori cristiani, tanto che di lui essi potranno dire, Seneca.raepe no.rter; mentre, per altra via, si scrisse, tra il IV e il v secolo, una serie di lettere che si finse essere un epistolario tra Seneca e San Paolo. "Tra la filosofia di Seneca e la religione di S. Paolo," ha scritto il Marchesi, "è un abisso; per Seneca l'uomo redime se stesso con l'opera della ragione, per San Paolo si lascia redimere da Dio nell'abbandono della fede; nel Cristianesimo Dio è il salvatore degli uomini, nella dot- trina di Seneca l'uomo è il salvatore di se stesso... Per Seneca è la.rapientia che distrugge ogni culto positivo, vale a dire ogni supersti- zione, con lo spietato· esercizio della ragione. Dicono che Seneca sia tanto vicino al Cristianesimo coloro che, dimenticando del Cristianesimo l'essenza positivamente religiosa, giudicano soltanto attraverso alcune formule vaghe di moralità e di umanità... [Chi sa quale sarebbe stato] il giudizio di Seneca, se accanto al seggio di suo fratello Gallione in Corinto [che doveva giudicare Paolo] avesse sentito annunciare da San Paolo che Gesu era il Cristo morto e risuscitato per affrancare gli uomini dalla legge del peccato e della morte" (Marchesi, cit., p. 420). In realtà la problematica senechiana sul divino è un altro aspetto della meditazione di Seneca sull'esperienza morale dell'uomo. Su questa linea sembrano particolarmente interessanti e indicativi due testi di Seneca: l'uno relativo all'indagine scientifica, in cui chia- ramente appare come Seneca, nettamente distingua il tipo della ricerca scientifica dal tipo della: ricerca filosofica (il tipo della ricerca scientifica.si fonda sull'ipotesi e sulla descrizione del fenomeno, lasciando aperta la possibilità di altre ipotesi, di altre ulteriori ricerche; la ricerca filo- Sofica, invece, si fonda sulla meditazione di se stessi, ed è strumento per costruire se stessi, attraverso la meditazione stessa, per cui, appunto, la filosofia non è né la fisica né la logica, né la matematica, ma è da un lato moralità e dall'altro lato consolatio, o, sotto questo aspetto, con- vinzione, cioè retorica e politica); l'altro testo relativo alla meditazione sulla natura come capace di liberare l'uomo dalle sue ostinate illusioni, in una rivelazione a sé del divino come esigenza e presenza di una mancanza, che è la scoperta della stessa consapevolezza e della razio- nalità, della possibilità umana della constantia. Nel primo testo, che si trova nelle Naturales quaestiones, discu- tendo sulla natura delle comete, dopo aver esposto l'ipotesi di Epigene, seguace di Aristotele, secondo il quale le comete si formano come una specie di fuoco trascinato in alto da un vortice, e l'ipotesi di Apollonio di Mindo, suo contemporaneo, secondo cui le comete sono astri sepa- rati come il sole e la luna, e dopo aver rifiutato l'ipotesi di certi stoici secondo i quali le comete son fiamme improvvise, Seneca, che in parte propende per l'ipotesi di Apollonio di Mindo, cosi conclude: Perché dovremmo sorprenderei se un fenomeno cosmico tanto raro come quello delle comete non può venire inquadrato nell'àmbito di leggi regolari, e se non ne possiamo conoscere né l'inizio né la fine, poiché esse compaiono a intervalli di tempo tanto grandi?... Giorno verrà che le cose ancor celate a noi trarrà alla luce il tempo e la diligenza di piu lungo corso di secoli; a cosf grande ricerca non basta una sola età... Molte cose ignote a noi sapranno le genti delle età future... (Nat. quaest., VII, 25, 30-31). Nel secondo testo, cui àlludevamo, dice, invece, Seneca: Quando ci saremo sollevati alla vera grandezza [la grandezza della natura], quante volte vedremo marciare degli eserciti a vessilli spiegati, e la cavalleria, come fosse gran cosa, ora lanciarsi in esplorazione all'avan- guardia, ora riversarsi alle ali, potremo ripetere volentieri: "Va il nero sciame pei campi" [Virgilio, Eneide, IV, 404]; evoluzioni di formiche sono le nostre: nessuna differenza è fra esse e noi, tolta l'estrema esiguità del loro corpo. Su di un solo punto noi navighiamo e combattiamo e stabiliamo i nostri imperi, minimi imperi, anche se avessero per limite i due oceani; sopra di noi sono gli spazi grandi, che l'anima solo può possedere. t tanto l'errore dei mortali che alcuni di essi guardano il mondo, questo miracolo di bellezza, di armonia e di bontà, come un prodotto fortuito, in balla del caso, e perciò tumultuoso in mezzo ai fulmini, alle nubi, alle tempeste e a tutti gli sconvolgimenti della terra e dell'atmosfera: e non è solo pazzia  283   dd volgo codesta, ma di uomini che hanno professato la sapienza. Alcuni, pure ammettendo l'esistenZa di un'anima umana previdente e moderatrice, credono che questo grande tutto, del quale anche noi siamo parte, è privo di intdligenza ed è mosso dal caso o dalla natura ignara di· quello che fa [ove è evidente i l rifiuto ddl'ipotesi fisica dell'epicureismo]... Osservare queste cose [se vi sia un dio che abbia fatta la materia o se l'abbia soltanto adoperata, se l'idea preceda la materia o la materia l'idea, se Dio fa tutto ciò che vuole, oppure no, se dalle nubi del grande artefice escano opere difettose non per difetto dell'arte ma della materia ribelle all'arte e cos{ via], osservare. queste cose, studiarle, vegliare su di esse, è oltrepassare i limiti della mortalità e trasferirsi a pi6 alto destino; e se nessun altro frutto rica· veremo da codesti studi, ci basterà soltanto sapere che tutto è angusto allor- ché avremo misurato Dio (Natura/es quaest., I, praef., 10-17). E cos{ Seneca esclama in una Lettera a Luci/io (41, 1-2): Non c'è bisogno d'innalzare le mani al cielo, né pregare il custode dd tempio che ci lasci accostare alle orecchie del simulacro, perché meglio ci esaudisca: vicino a te è Dio, con te, dentro di te... Un sacro spirito risiede entro di noi, osservatore e custode della nostra malvagità e bontà; e nella Lettera 73, 16: Ti meravigli che un uomo vada verso gli dèi?.Dio va verso gli uomini, anzi, pi6 propriamente, viene negli uomini: nessun'anima senza Dio è vir- tuosa. Semi divini sono diffusi negli umani corpi (Miraris hominem ad deos ire? Deus ad homines venit, immo quod est propius, in homines ve- nit: nulla sine deo mens bona est. Semina in corporibus humanis divina dispersa sunt...). Dopo la morte di Burro (62 d. C.) e l'allontanamento di Seneca, sempre piu scellerato e terribile divenne il governo di Nerone. Le ucci- sioni e i delitti si susseguirono alle uccisioni e ai delitti. Si ordf allora una congiura. Capo di essa ne fu Calpurnio Pisone. Vi aderirono "a gara senatori, cavalieri, soldati e anche donne, tanto accesi da odio contro Nerone, quanto da simpatia per C. Pisone" (Tacito, Ann., XV, 48). La delazione di un liberto e la debolezza di due congiurati che non seppero resistere allo spavento delle torture - mentre la liberta Epicari, torturata, eroicamente si uccise piuttosto che parlare - fece scoprire la congiura. Ci fu chi rivelò che capo della congiura era Pisone - si pensava anzi, se la cosa fosse andata, di proclamare Pisone impe- ratore - e si aggiunse anche il nome di Seneca, "forse per procurarsi il favore di Nerone che odiava Seneca e che cercava ogni mezzo per sopprimerlo" (Tacito, Ann., l.c.). Sembra, comunque, che una parte dei congiurati avesse realmente pensato a Seneca piuttosto che a Pisone come possibile imperatore. Non sappiamo niente di un'azione diretta di Seneca. Di fatto sappiamo che Seneca, accusato di accordi con Pisone, fu condannato a morte, come a morte furono condannati Calpurnio Pisone e Plauzio Laterano. Era l'anno 65 d. C. Nerone comandò di andare da Seneca con l'ordine di morire... Seneca, impavido, chiese che gli portassero le tavole del testamento e, poiché il centurione rifiutò, si volse agli amici dichiarando che, dal momento che gli si impediva di dimostrare la sua gratudine, lasciava a loro la sola cosa che possedeva e la piu bella, l'esempio della sua vita. Se avessero di questa con- servato ricordo, avrebbero conseguito la gloria della virtU come compenso di amicizia fedele. Frenava, intanto, le lacrime dei presenti ora col sem- plice ragionamento, ora parlando con maggior energia e, richiaD'laJI.dO gli amici alla fortezza dell'animo, chiedeva loro dove fossero i precetti della saggezza, e dove quelle meditazioni che la ragione aveva dettato per tanti anni contro la fatalità della sorte. A chi mai, infatti, era stata ignota la ferocia di Nerone? Non gli rimaneva ormai piu, dopo avere ucciso madre e fratello, che aggiungere l'assassinio del suo educatore e maestro. Come ebbe rivolto a tutti queste parole ed altre dello stesso tenore, abbracciò la moglie e, un po' commosso dinanzi alla sorte che in quel momento si com- piva, la pregò e la scongiurò di placare il suo dolore e di non lasciarsi per l'avvenire abbattere da esso, ma di trovare nel ricordo della sua vita vir- tuosa dignitoso aiuto a sopportare l'accorato rimpianto del marito perduto. La moglie dichiarò, invece, che anche a lei era stata destinata la morte, e chiese la mano del carnefice. Allora Seneca, sia che non volesse opporsi alla gloria della moglie, sia che,fosse mosso dal timore di lasciare esposta alle offese di Nerone colei che era unicamente diletta al suo cuore: "Io ti avevo mostrato," disse, "come alleviare il dolore della tua vita, tu, invece, hai preferito l'onore della morte: non sarò io a distoglierti dall'offrire un tale esempio. Il coraggio di questa fine intrepida sarà uguale per me e per te, ma lo splendore della fama sarà maggiore nella tua morte." Dette queste parole, da un solo colpo ebbero recise le vene del braccio. Seneca, poiché il suo corpo vecchio e indebolito dal poco cibo offriva una lenta uscita del sangue, si recise anche le vene delle gambe e delle ginocchia, e abbattuto da crudeli sofferenze, per non fiaccare il coraggio della moglie e per non essere trascinato egli stesso a cedere di fronte ai tormenti di lei, la indusse a passare in un'altra stanza. Anche negli estremi momenti non essendogli venuta meno l'eloquenza, chiamati gli scrivani, dettò molte pagine, che testualmente divulgate tralascio di riferire con altre parole. Pertanto Nerone, non avendo alcun rancore personale contro Paolina, moglie di Seneca, dette l'ordine d'impedirne la morte perché non si accre- scesse l'odiosità della sua ferocia. All'imposizione dei soldati, i servi e i liberti legando le braccia trattennero il sangue a lei che non sappiamo se di tutto ciò avesse o no la sensibilità... Visse ancora pochi anni, conservando  sacra memoria del marito, nel volto e nel corpo bianco di quel pallore che era segno palese della vitalità perduta. Seneca, frattanto, protraendosi la morte lenta, pregò Anneo Stazio da lungo tempo amico suo e famoso per l'arte medica, di propinargli quel veleno [cicuta] già da tempo provveduto, col quale si facevano morire gli Ateniesi condannati i~ pubblico giudizio. Avutolo, lo trangugiò invano perché il gelo aveva già invaso le membra e il corpo era ormai refrattario all'azione del veleno. Alla fine, entrò in una vasca piena d'acqua, spruzzandone i servi piu vicini a lui\~ dicendo di fare con quel liquido libazione a Giove liberatore. Fu portato poi in un bagno a vapore dove mori soffocato. Fu cremato senza alcuna solenne cerimonia funebre, come aveva prescritto nel suo testamento, quando ancora nel pieno della ricchezza e della potenza aveva dato disposizioni intorno alle sue ultime volontà (Tacito, Annali, XV, 61-64). E non molto tempo prima della sua condanna, certo dopo la sua caduta in disgrazia, quando si era ritirato da quella vita politica che non era piu politica e per la quale non c'era piu nulla da fare, se non con l'esempio di una verace vita ragionevole e perciò stesso, per altro verso, di una verace vita politica, cosi scriveva Seneca a Lucilio (Lett. 26), quasi concludendo il suo discorso, la sua riflessione in cui consiste la stessa moralità: Vicino al momento della prova, vtcmo a quell'ultimo giorno che deci- derà di tutti i miei anni, cosf veglio su me stesso e mi parlo. Fino a oggi, dico, non ho fatto nulla di sicuro né con gli atti né con le parole, indizi lievi e ingannevoli dell'animo. Alla morte affiderò il mio profitto. Pertanto io mi preparo coraggiosamente a quel giorno in cui, messo da parte ogni artificio, giudicherò di me stesso, e farò vedere se il mio coraggio era nel cuore o sulle labbra, se fu simulazione o commedia la mia sfida gettata alla fortuna. Non conta nulla la stima degli uomini: essa è sempre dubbiosa ed è accordata tanto al vizio quanto alla virtu; non contano gli studi di tutta la vita: la morte sola è il giudice nostro. Le dispute filosofiche, le dotte conversazioni, i precetti della sapienza non dimostrano la vera forza dell'animo: anche gli uomini piu vili hanno linguaggio da ero~. Le opere tue appariranno solo all'ultimo tuo sospiro. Accetto questa condizione: non temo il tribunale della morte (Lett., 26, 4-7).  Per chi non si affidi a semplicistiche e nette distinzioni manuali- stiche nel delineare la formazione della cultura nell'arco di tempo che va dalla seconda metà del I secolo agli inizi del m secolo d. C., sembra difficile insistere su precise posizioni, diverse le une dalle altre, chiara- mente distinguibili per èaratteristiche proprie. Parlare di "neopitago- rismo, " di platonismo medio, di stoicismo cinicheggiante, di gnosticismo, di ermetismo e cosi via, come di blocchi avulsi da un comune terreno e da comuni reciproche influenze, che non si scandi- scono nel tempo e non rispondono a comuni esigenze, è falsare il signi- ficato di una viva cultura, di problemi concreti, niente affatto cristallizzati, quali, invece, appaiono a noi nella noia di una tradizione scola- sticizzatasi. Non solo, ma altrettanto fuorvianti sono le stesse denomi- nazioni indicative: platonismo, stoicismo, pitagorismo. Tali denominazioni non indicano nulla: se mai possono evocare uno o altro aspetto di uno o altro platonismo o stoicismo o pitagorismo determina- tisi storicamente. Sappiamo che se già in Platone vi sono molti Platone, se già in Aristotele vi sono molti Aristotele, molti sono stati poi, dopo Platone e dopo Aristotele, i platonismi e gli aristotelismi, s1 come molti, nel tempo, sono stati gli stoicismi, per non parlare dei modi diversi con cui ha giuocato la leggenda di Pitagora. Dopo Platone e dopo Aristotele, di Platone e di Aristotele si sono andati riprendendo, volta a volta, quegli aspetti che piu rispondevano a certe esigenze e problematiche, in funzione di concezioni che con Platone e Aristotele, considerati sto- ricamente, non avevano piu nulla di comune. Abbiamo veduto quale Platone e quale Aristotele abbiano potuto tener presenti certi stoici e come quegli stessi aspetti di Platone o di Aristotele si siano potuti trasfigurare, in interpretazioni che a loro volta  sono venute trasfigurando le originarie posizioni stoiche (si ricordi, ad esempio, la storia dell'Accademia profilata da Filone di Larissa ·e la storia dell'Accademia profilata invece da Antioco di Ascalona: cfr. sopra). Abbiamo cos1 veduto come sul piano del tentativo - d'altra parte già implicito nell'ultimo Platone - di rendere pensabile l'Essere, costitUito dal mondo delle idee, si sia sciolto l'Essere stesso in quantità misurabile e traducibile in termini numerici: di qui, pio tardi, si è potuto rico- struire tutta la realtà scandendola in numeri e figure geometriche. E se questo, per un verso, è stato detto • pitagorismo," per altro.verso quello stesSo pitagorismo, nel suo tradurre le leggi del tutto in numeri, ha potuto servire sia all'astronomia di. tipo stoico sia allo stesso stoicismo, nella sua interpretazione fisico-matematica del Timeo di Platone (si cfr., per esempio, già èicerone, Rep,ubblica, I, 15). Per altra via, la critica acuta e inesorabile delle condizioni, che rendono possibile il ragionare umano, portava a mettere in dubbio l'adeguazione dell'intelletto e della cosa - condizione prima perché sia possibile la conoscenza delle strut- ture ddla realtà in quello che la realtà è, e ch'era stata, sia pur in via ipotetica, la tesi prima di Platone, - in una precisa dimostrazione che ogni concezione del tutto è opinabile e controvertibile. Non si scordi, qui, la linea che va da Arcesilao a Carneade, i quali, non a caso, inter- pretano il platonismo nel suo aspetto problematico e aporetico, socrauco; e piu ancora la linea che va da Enesidemo ad Agrippa tra il I a. C. e il I d. C. Poiché, in fondo, gli stessi scettici presuppongono l'esistenza di una realtà per sé, oltre le possibilità umane, si vede bene di qui, in oppo- sizione al neo-pirronismo che finiva con l'estraneare l'uomo dalla realtà, involgendolo in un puro giuoco di parole, dove tutto è giuoco di parole, la ripresa di certi motivi platonici, pitagorici, aristotelici. Cos(, renden- dosi conto della validità ddla critica scettica, si accetta quella realtà presupposta, giungendovi, per analogia, in termini logici, cioè optando per quelle concezioni che appaiono meno contraddittorie e piu capaci di dare una forma e un senso alla vita (da Antioèo di Ascalona ad Ario Didimo a Seneca, che hanno potuto essere a un sempò stoici e platonici). Oppure, sempre entro i termini di un platonismo e di uno stoicismo di sfondo, che accetta la concezione di un tutto ordinato e scandentesi in ben fisse e precise leggi, la v~sione degli astri e dei mondi regolati da leggi e cos1 via, che è oramai un t&pos, cui poteva servire certo primo Aristotele ç> certo Aristotele fisico, interpretato in chiave stoica (si ricordi lo pseudo aristotelico De mundo, composto appunto nel I secolo d.C.), si poteva sostenere che, proprio perché l'uomo è incapace e limite, proprio perché l'umana ragione resta sul piano umano, è quella stessa verità trascendente che scende all'uomo, che all'uomo si rivela (si pensi a Filone l'Ebreo e, per altro verso, ancora a Seneca). Oppure, ancora - certo in ambienti piu popolari, meno intellettual- mente scaltriti - abbiamo il recupero di Pitagora mago e taumaturgo, di quello che il Dodds ha detto il Pitagora sciamano, egli stesso consi- derato piu che anima in senso greco (forza vitale e unifiéatrice), anima divina, personale, trascendente, che si incarna di volta in volta in uo- mini che, esprimendo perciò il verbo di Pitagora, essi medesimi novelli Pitagora, si presentano come salvatori, facitori di miracoli, profeti. D'altra parte va sottolineato che entro questi termini, entro questa esigenza comune, non è neppure un solo aspetto dell'interpretazione di Platone né un solo aspetto dell'interpretazione del pitagorismo né di Aristotele che vengono assunti. A seconda delle difficoltà, nel tenta- tivo di spiegarsi la realtà e il suo significato in funzione dell'umano vi- vere e della umana condizione, a seconda degli stessi ambienti nei quali e per i quali si cerca di operare, delle tradizioni, delle polemiche in ari ci si viene a trovare, ci si appella a uno o altro aspetto delle inter- pretazioni di Pitagora, o di Platone o di Aristotele. O ci si rifà all'ul- timo Platone dialettico (Teeteto, Parmmide, Sofista, Filebo), puntando su di una certa interpretazione dell'Essere Uno che si costituisce in una molteplicità; o al Plat~me interpretabile come avente posto una relazione con l'Uno, con il divino in termini intuitiv~, mistici. O ci si appella al pitagorismo pi6 strettamente matematico,· capace di rendere conto in ter- mini numerici e di misure (in ciò razionali) della stessa visione plato- nico-stoica di un universo uno e inolteplice a un tempo, sia esso poi do- vuto all'atto proprio di un Dio trascendente e che tale resta o di un Dio che tale si costituisce e si riconosce nello stesso costituirsi della realtà tutta; oppure ci si rifà a un pitagorismo interpretabile come spiegazione della stessa "platonica" unione mistica mediante il motivo della purifi- cazione delle anime divine, distinte e altre dai corpi, dalla materia, in un conflitto fra.i due principi del Bene e del Male, dal quale si sfugge se, ele.tti dal dio, si compiono certi esercizi (ascen), si· conduce una certa vita ("vita pitagorica"), cos1 che non poco suggestivi divengono certi misteri orientali e l'interpretazione in questa chiave dei misteri greci (dionisismo e orfismo) e di quelli egiziani, insieme agli aspetti cultuali operativi dell'astrologia. Di qui la presentazione di esempi di "vita pi- tagorica," di esempi di vita ascetica, oppure di uomini che sostengono di essert Pitagora reincarnato, che compiono miracoli e cos{ via. Ma anche, di qui, in ambienti a pi6 alti livelli, attraverso la ripresa del pita- gorismo matematico-geometrico, del platonismo dialettico, dell'Aristo- tele protrettico e di certe parti piu platoniche della Fisica e della Meta- fisica, ma anche degli aspetti piu formali della logica (Categorie, Topici, Primi tmaliticr), che, innestandosi ad alcune parti della logica stoica, po- tevano servire da esercizio e introduzione, da avviamento alla visione platonico-stoica, insieme agli aspetti piu teologici e ontici della fisica stoica, si fa il tentativo di oltrepassare il mondo umano, per giustificare proprio quel mondo umano che le correnti critico-scettiche ed epicuree abbandonavano a se stesso: le une chiudendo l'uomo nelle sue stesse parole, negandogli ogni contatto e senso della realtà e della vita; le altre dando all'uomo una responsabilità paurosa, in una rivolta al di- vino ch'era, pur sempre, una rivolta alle autorità costituite, in un am- biente, in cui, di fatto, non v'era un popolo, in quanto mancava il concetto e la coscienza della sua realtà, o meglio altra n'era la coscienza. Sono, questi, motivi assai diffusi, tra il I e il 11 secolo d. C., che si intrecciano e si trovano talvolta giustapposti in uno stesso autore. Non solo, ma di essi già chiara traccia si ha, come abbiamo veduto, in Filone l'Ebreo, che certo sfruttava una tradizione interpretativa ormai cristal- lizzatasi; in certi testi magico-astrologici e magico-alchimistici di ori- gine egiziana; in testi che costituiranno poi il corpus ermetico; nell'in- segnamento della Scuola romana dei Sestii (tra pitagorica e stoica); nel diffuso metodo allegorico, nella diffusissima simbolica dei numeri e nelle molte pratiche magico-terapeutiche (cfr. sopra). In altra sede sarebbe ora il caso di riportare tutta una serie di testi (da Cicerone, da Ario Didimo, da Manilio,. da Filone, da Seneca, da passi astrologici e chimici certamente del I a. C.) per confrontarli con tutta un'altra serie di testi ripresi da Moderato di Gade (I d. C.), da Nicomaco di Gerasa (I d. C.), dall'autore dei Theologumma (I d. C.), dalla Tavola di Cebete (I d. C.: opera attribuita al pitagorico Cebete di Tebe, scolaro di Socrate, in cui si dà un'interpretazione allegorico- simbolica di tono pitagorico-stoico delle raffigurazioni dipmte in un quadro), da Apuleio (n d. C.), da Plutarco (n d. C.), da Numenio di Apamea (11 d.C.). Vedremmo coincidenze impressionanti, ma soprat- tutto ci renderemmo conto di come una certa tradizione culturale, par- ticolarmente formatasi tra il 11 e il I secolo a. C. (vedi sopra), sfruttando e ritagliando testi pio antichi (Platone, Aristotele, il •pitagorismo" pla- tonico-matematico, lo stoicismo di tipo Cleante - si veda in tal senso Antioco di Ascalona), giuochi ora, tra il I e il 11 secolo d. C., in fun- zione di una comune esigenza, ma in un approfondimento e sviluppo dell'uno e dell'altro motivo, a seconda non solo dei livelli sociali, ma anche della formazione culturale dell'uno o dell'altro autore e dell'am- biente in cui ciascuno si _è venuto a muovere. Entro questi limiti si possono, forse, riprendere i termini pitagorismo e stoicism in senso molto lato,- qualora con l'uno e l'altro termine ci si riferisca a pio motivi, confluenti, ad ogni modo, in una comune concezione, diversificantesi relativamente ai modi di intendere lo strutturarsi della realtà. Cos(possiamo anche dire pitagori••anli e 290    platonizzanti quelle posizioni che, nel tentativ(\ di rendere pensabile la intuita ragion d'essere del tutto, sulla scia della antica interpretazione di Speusippo e di Senocrate, traducono il discorso del reale in termini numerici e geometrici, donde tutta una simbolica di numeri. Solo che in tal caso, ed è molto indicativo, in realtà non ci si riferisce diretta- mente alla figura di Pitagora, ma al Pitagora quale avrebbe risuonato in Filolao ed Archita, da cui avrebbe, a sua volta, ripreso Platone (par- ticolarmente il Platone del Timeo) e da Platone poi certe posizioni stoiche e lo stesso Aristotele. Non a caso già dal 1 secolo a. C., a parte la notevole diffusione ch'ebbe il Timeo, erano circolati testi sotto il nome di Archita di Taranto (De mundo, De principio, De ente, De intel- lectu et sensu, De sapientia: cfr. framm. in Stobeo, Ecl., I, 41,2 e 5, 48,6; Il, 2, 4 W.; Giamblico, Protr., 3), di Onato di Crotone (De deo et divino: cfr. fr. in Stobeo, Bel., l, l, 39 W.), e un opuscolo Sull'anima del mondo, attribuito a Timeo di Locri, che è, senza dubbio, un'inter- pretazione stoica del Timeo di Platone, e molte altre opere andate sotto il nome di Pitagorici antichi, che vennero raccolte dal re Giuba II di Numidia (50 a. C.-23 d. C.) (si confronti Cicerone, Rep., l, 15 e la sintesi di Antioco di Ascalona). Si vede bene come, in questa direzione "pitagorismo," "platonismo," "stoicismo," potevano servire a rendere conto di una visione ordinata e armonica della realtà, tale, appunto, in quanto possibile d'essere mi- surata (razionalizzata) e per cui. i numeri divenivano i simboli stessi delle cose, la ragion d'essere della realtà, e dove assumeva un suo si- gnificato scientifico l'astrologia e la divinazione, lo studio delle rifrazioni dei lumi stellari (da cui anche gli studi di ottica e di diottrica), lo studio di tecniche, mediante cui operare su quei numeri stessi, sulle anime- n!Jmeri, sui dèmoni-numeri, interpretati come leggi intermedie tra la suprema ragion d'essere (la monade) e il costituirsi delle cose sensibili, in un ordinamento (di diade in diade) della informe materia (appunto perché informe, essa non numero, non ragione, non essenza). E qui si ripresentava il grosso problema dell'eternità del mondo uno nell'unità di Dio sempre in atto, ove i cangiamenti sono interni a ciascuna realtà nell'ordine del tutto -per cui in effetto nulla cangia, - o del mondo le cui qualità si scandiscono nel tempo attraverso la·tensione qualificante del principio primo, che agisce, mediante il realizzarsi dei modelli in atto in lui, sulla informe materia, da cui il processo del mondo e una degradazione del mondo fino al limite materia, l'ostacolo che resta e su cui, perciò, si può operare. Entro questi termini ci si rende conto della polemica tra coloro che sostengono l'interpretazione del tutto in chiave stoico-aristotelica (ove forse giuocava ancora una certa tesi di Panezin) e coloro che sostengono la tesi del mondo che ha una realtà  291   temporale, in un conflitto tra il principio attivo e la materia informe e pura quantità dalla cui tensione si costituiscono in gradi le qualità, pensabili in quanto numerabili, numeri che divengono le stesse leggi dell'esserci fisico, geometrico delle cose, oppure in quanto costituirsi di cose, rifrazioni del principio divino, anime divine, in una graduazione fino al limite materia (stoicismo interpretato in chiave platonico-pitago- rica: forse con influenze di Posidonio). Sotto questo secondo aspetto sembrano evidenti il significato e l'im- portanza dati alla magia operativa da un lato e, dall'altro lato, interme- diario il filosofo, che in sé rivive l'anima di Pitagora, egli dèmone, l'im- portanza data all'insegnamento purificatorio, incantatorio, terapeutico, in funzione degli incolti, sui quali piu facile è, mediante certe tecniche, operare una purificazione, sapendo giuocare sulle forze occulte, nervose (demoniache e divine), o sulle diete e abitudini di vita, sulle incanta- gioni musicali, danzatorie, e cultuali. E si badi che in questo secondo caso, invece di rifarsi al pitagorismo razionale, a un modo d'interpretare il Timeo, risalendo ad Archita e a Filolao, ci si rifà direttamente a Pitagora, o meglio al Pitagora della leggenda (che sembra già risalire alla perduta Vita di Pitagora di Aristotele), alla "Vita di Pitagora," di Pitagora "sciamano," anima personale che s'incarna di volta in volta, che si allontana per certi periodi dai oorpi, che compie miracoli, di Pitagora, in realtà, medico e iatrosofista, sr come lo fu Empedocle, a cui, appunto, ora, Pitagora viene avvicinato (cfr. I vol.). Non a caso - sotto questo secondo aspetto - fino dal I secolo a. C. erano circolati un De Pythagora, un De IIÌrtute e un De pietate attribuiti a Theano (d. SudoJ, Stobeo), la leggendaria sc6lara di Pitagora/ mentre si scri- vevano versi, sostenendo ch'erano dello stesso Pitagora. Basti, qui, rileg- gere i 71 versi dei Detti aurei (Xpua« ~).: Onora anzitutto gli dèi, come vuole la legge e rispetta il giuramento. Onora quindi gli eroi gloriosi e i geni terrestri, agendo in conformità delle leggi. Abbi rispetto per i tuoi genitori e per quanti maggiormente ti sono legati da parentela. Fatti amico di chi è migliore di te per virt6... La Potenza abita vicino alla Necessità. Sappi ciò e abituati a dominare le seguenti pas- sioni: il ventre, il sonno, la lussuria, l'ira... Sii giusto nell'agire e nel par- lare... Non ti comportare sconsideratamente. Sappi che è destino di tutti 1 Ricordiamo qui anche un De virtulibus del 1 sec. d. C.,. scritto sotto l'inftucnza di Antioco di Ascalona, attribuito a Theagcs (cfr. in Stobco, Ecl., III, l, 117, W.); un De pnulenlia et felicilllte (cfr. in Stobeo, D, 8, 24), attribuito a Critone; un De animi lrtmquillilllte attribuito a lpparco (Stobco, Ed., IV, 44, 81); un De virtute, attribuito a Mctopo di Sibari (Stobeo, Ed., III, l, 115); un De re publica c un De felicitate (Stobeo, Ecl., IV, 39, 26; IV, l, 93-95; IV, 34, 71) attribuiti a Ippodamo di Turii; un De vita (Stobeo, Ecl., IV, 39, 27) attribuito a Eurifamo.] morire. Le riccb,ezze sappi ora acquistarle, ora perderle••• Non si deve tra- scurare la salute del corpo, ma bisogna essere moderati nel bere, nel man- giare, negli esercizi. Chiama misura quella che non ti nuocer~. Abituati a una vita semplice... Ottima è la moderazione... [Attraverso una vita ordi- nata e misurata ci si colloca] sulle orme della divina vimi: sf, per colui che alla nostra anima rivelò la tetraJc.tys, fonte dell'eterna natura... Cono- scerai che in tutto c'è una uguale natura, s{ che nulla tu speri d'impossibile e nulla ti sfugga... Saprai che gli uomini soffrono per mali ch'essi stessi si procurano: infelici, che avendo vicini i beni, non li vedono e non li odono. e pochi sanno come liberarsi dai mali... Oh padre Zeus, ceno tu potresti libe- rare tutti da molti mali, se a tutti mostrassi qual è il loro Dèmone [la pro- pria condizione]. Ma tu stai di buon animo, perché divina è la stirpe degli uomini, ai quali la natura, svelando i suoi misteri, mostra ogni cosa. E se tu in pane apprenderai queste cose, conseguirai ciò che io ti prescrivo, e guarirai e libererai l'anima da questi travagli. Astienti dai cibi di cui -ti parlai; nelle purificazioni e nella liberazione dell'anima agendo con giwti- zia, e considera ogni cosa ponendo in alto la ragione, ottima guida. Che se, lasciato il corpo; giungerai al libero etere, sarai ·un dio immonale e incorruttibile, non piu un mortale. Cosi, d'altra parte, apriva il suo Commmto ai D~ti aurei Ierocle di Alessandria (metà del v secolo): "La filosofia è purificazione e perfe- zione della vita umana; purificazione dalle affezioni della bruta ma- teria e del corpo monale; perfezione in quanto restituisce all'uomo la beatitudine propria della vita e lo riconduce a farsi simile alla divinità (7tpbç ~v.k(«V 6tJ.o(6>atV~" Sembra, infine, interessante ricordare che questo secondo aspetto della ripresa pitagorica, in funzione educativa e precettistica, a cui poteva servire anche la CII vita platonica" e CII stoica" - interpretata in senso purificatorio-terapeutico, - soprattutto lo troviamo nelle aree, di- remmo, culturalmente depresse, piu che nella vecchia Grecia, in quei paesi ove la cultura si manteneva ai livelli delle classi superiori. 2. Tra platonismo e pitagorismo. Da Alessandro Poliistore allo pseudo- OC'ello. Moderato di Gades e NiC'oma&o di Gerasa Rintracciamo, cosi, una netta linea che risale al I secolo a. C. circa, a carattere piu strettamente razionalistico-matematico, in una inter- pretazione di motivi platonico-stoici, in funzione di una comprensione logica del tutto, dell'unica divinità. Tale linea - a parte il fiorire dd complesso di trattatelli pseudo pitagorici cui abbiamo fatto cenno - si scandisce dal pitagorico Alessandro Poliistore di Mileto, vissuto nel  293   I secolo a. C., che compose un'opera sui Simboli pitagorici é una Successione dei filosofi (sfruttata da Diogene Laerzio), al trattatello Sulla natura del Tutto (mpl Tijç -rou 1tor.vròç cpoaewc;); opera senza dubbio di scuola, certo composta nel I secolo d. C., attribuita al pitagorico Ocello lucano, i cui scritti sarebbero stati conosciuti da Platone attraverso Acchita (è dimostrato che le lettere che Platone e Acchita si sarebbero scambiate e da _cui si rileva la notizia dell'interesse di Pla- tone per Ocello, furono messe in circolazione proprio tra il I a. C. e il I d. C.; e che non senza significato è il voluto accostamento tra Pla- tone e i pitagorici Archita e Ocello). L'operetta dello pseudo-Ocello si può, per altro verso, avvicinare al De mundo dello pseudo-Aristotele. In ambedue le opere troviamo lo stesso sforzo di risolvere in ter- mini razionali l'unità e molteplicità dell'Universo in una sola unità in cui giuocano - come abbiamo già veduto per il De mundo - motivi stoici, aristotelici, platonici. Opera divulgativa, il trattatello Sulla natura del Tutto riproponeva in termini drastici la questione dell'Uno tutto, tutto in atto, aristotelicamente, o l'altra questione dell'Universo tempo e gradualità. Entro questi termini si svolgerà la linea del "pita- gorismo platonico" e del "pitagorismo aristotelico," in realtà tra di loro molto piu vicini, nel comune sfondo stoico, di quanto possa sem- brare a prima vista, anche se talvolta di contro all'unità che tutto risolve in sé si opporrà una realtà ribelle, una materia, che spieghi di contro al razionale e al comprensibile, e per ciò stesso Bene, l'irra- zionale, l'incomprensibile, cioè l'assurdo, il Male, portando ad estreme conseguenze il rapporto Intelligenza-Necessità del Timeo platonico e la morale tensione stoica tra azione e passione, in cui consiste la virtu come fatica e pena, ed ove è senza dubbio presente una certa ispira- zione del dualismo iranico (cfr. poi Plutarco). Dice, dunque, Alessandro Poliistore, secondo quanto riferisce Dio- gene Laerzio: Alessandro, nelle Successioni dei filosofi afferma di aver trovato anche queste cose nelle Memorie pitagoriche. Principio di tutte le cose è la mo- nade: dalla monade nasce la diade infinita, che sottostà come materia alla monade che è causa; dalla monade e dalla diade infinita nascono i numeri; dai numeri i punti; da questi le linee, da cui le figure piane; dalle figure piane le figure solide; da queste i corpi sensibili, i cui elementi sono quat- tro: fuoco, acqua, terra, aria che mutano e si svolgono per il tutto, e da questi risulta il cosmo animato, intelligente, rotondo che contiene al centro la terra anch'essa rotonda e abitata... Nel cosmo v'è luce e tenebra in parti uguali, e caldo e freddo, e secco e umido; quando prevale il caldo v'è l'estate, quando il freddo l'inverno (quando il seeco la primavera e quando l'umido l'autunno); se il freddo e il caldo sono in equilibrio si hanno le 294    parti piu belle dell'anno... L'aria che è intorno alla terra è immobile e mal- sana e tutto quanto è in essa è mortale; ma l'aria altissima è in eterno moto e pura e salubre e tutto quanto è in essa è immortale e perciò divino. n sole e la luna e gli altri astri sono divinità, ché in essi prevale il caldo che è causa di vita. Vi è affinità tra uomini e dèi, per il fatto che l'uomo partecipa del caldo; ed è questa la ragione per cui la divinità è nostra provvidenza. Il fato governa il tutto e le parti... Tutta l'aria è piena di anime, ritenute dèmoni ed eroi, da cui sono mandati agli uomini i sogni e i segni di malat- tia e di salute e non solo agli uomini, ma anche alle greggi e a tutte le altre bestie. E per essi si fanno le purificaziorii e i sacrifici apotropaici e ogni specie di divinazione e vaticini e simili... La virtu, la sanità fisica, ogni bene e la divinità sono armonia; perciò anche l'universo è costituito secondo armonia. Anche l'amicizia è uguaglianza armonica... La purità si consegue con i riti della purificazione (Diogene Laerzio, VIII, 24-33). Nell'opuscolo Sulla natura del Tutto dello pseudo-Ocello si pone che il tutto è sempre in atto e che il nascere e il perire delle cose è interno all'ingenerato ordine dell'Universo, in una trasmutazione degli elementi. Tutto è perciò calcolabile e riducibile a leggi che co- stituiscono la stessa espressione in atto della Legge suprema, in una tensione tra principio attivo e passivo, che molto chiaramente indica l'ispirazione stoica di origine paneziano-aristoi:elica, risolta in termini pitagorici: A me sembra che il tutto non sia stato prodotto e che sia ingenerato... Chiamo complesso (6Àov) ciò che viene detto tutto ('rò 1tiv). l'ordine nella sua totalicl (-rò x6cr(J.OV). Esso è l'insieme compiuto e perfetto della na- tura e di tutte le essenze. Nulla è al di fuori di lui. Se qualcosa esiste, esiste in lui· e con lui. Comprende tutti gli esseri diversi, gli uni come parti, gli altri come produzioni accidentali. Ne segue che le cose contenute nel mondo hanno afli.nicl e accordo con lui. Il mondo, invece, non ha alcuna aflinità e alcun accordo con se stesso; tutte le altre cose sussistono, avendo una natura non perfetta in sé, avendo ancora bisogno di legame con le cose che esistono fuori di loro, come gli animali con la respirazione, la vista con la luce... t nel tutto o nell'universo che ha luogo la generazione e la causa della generazione... [Entro l'Uno tutto, monade, si distinguono le diaài, le quali si risolvono neWuno stesso, costituendo comunque le parti dell'uni- verso e la loro opposizioneJ•.. Tutto ciò che è, sarà, ché la natura è sempre da un lato attiva e in moto, e, sempre, dall'altro lato, passiva e in riposo; sempre da un lato governa, sempre, dall'altro, è governata... [Entro tale universoJl'uomo, in ciò che lo riguarda, deve essere considerato come avente un rapporto diretto con la struttura dell'Universo stesso, sf ch'essendo parte di una famiglia, di una città, e soprattutto del mondo, deve supplire a ciò che sta per venire meno, se vuole adeguarsi alla società, alla politica  295   e alla divinità... [Di qui, in tale adeguazione alla politèia cosmica, ove tutto è armonia e misura, la virtU intesa come rapporto sociale, misura e armonia] (Ocello, I, 2 sgg., ed. Harder). Entro questi termini assumono un particolare inteiesse le pagine di Sesto Empirico (Adv. math., X, 260-284) sul significato del numero, ove, certo, Sesto si riferisce alla corrente platonico-pitagorica di que- st'epoca, tesa a interpretare in termini numerici (razionali) i termini componenti la realtà e la ragion d'essere del tutto, per cui era neces- sario postulare l'identità tra quelli che sono i modi di funzionare della ragione umana (anima) e le leggi (traducibili in numeri), ragion d'essere delle cose, a loro volta risolventisi nella ragion d'essere dd tutto (l'uno o divinità), per cui l'uomo, avendo in sé il divino numero dell'anima, può ricostruire e percorrere il discorso matematico della realtà, fino a identificarsi, intuitivamente, con quell'uno tutto che è il divino, divenendo appunto simile a Dio, nel suo tendere all'ugua- glianza divina (7tpÒç ~v &&tcxv 6!Lo(waLv). Tale sembra, attraverso i frammenti che possediamo dei suoi Com- menti pit;agorici (ITu&otyopLxotl axoÀot(), in undici libri (in Porfirio, Vita Pythagorae, 48-51; in Simplicio, In Phys; Arist., p. 230, 41-231, 25 Diels; in Stobeo, Ecl., l, 49, 32 W.), la posizione di Moderato,2 nato a Gades (Cadice), vissuto nel 1 secolo d. C., parente di Giunio Moderato Columella, il celebre autore del De rustica. Molto finemente Moderato di Gades pot~va rendere pensabile il rapporto stoico, principio attivo (spirito) e principio passivo (materia), risolvendo i due principt fisici (forze) in principi aritmetico-geometrici. Egli cosr interpretava la ma- teria (certo aveva presente il Timeo di Platone) non come realtà per sé, ma come spazio,.cioè come indefinita estensione logica, condizione perché sia pensabile ogni possibile costruzione, la cui altra condizione è la qualificazione, la misurabilità, ci~ la numerabilità. Si vede bene cosr come per Moderato sia possibile il discorso intorno all'ineffabile Uno tutto, solo se esso viene simbolicamente indicato come un· numero, matrice di tutto il numerabile, esso di là dall'essere e dall'essenza, per cui esso è potenzialmente tutto. Tale, anche secondo Moderato di Gades che raccolse in undici libri i plaeita dei Pitagorici, il significato della dottrina dei numeri... Poiché, con li Iberico, nato a Gades (Cadice}, vissuto nel 1 secolo d.C., Moderato, parente di Giunio Modetato Columella, autore del De re rustica, visse a Roma. Scrisse in greco un'opera in undici libri, intitolata Commenti Pitagorid (Ilu&cxyopucotl axo>.cd), di cui sono rimasti alcuni frammenti in Porfirio (Vita Pytllag.}, Simplicio (In Pllyt.}, Stobeo (Ed.).] il discorso, è impossibile spiegare con chiarezza i principi primi, difficilissimi sia ad essere compresi sia ad essere espressi, ci si rifugiò nei numeri per rendere piu esplicita la tesi pitagorica. Si imitarono cosi gli studiosi di geo- metria e i grammatici. I grammatici, infatti; per esprimere gli elementi e le loro possibilità ricorrono ai segni e sostengono che questi sono i primi elementi dell'apprendere. Eppure essi dicono, poi, che quei segni non sono gli elementi, ma che mediante quei segni si possono conoscere i veri ele- menti. Lo stesso fanno gli studiosi di geometria: incapaci di esprimere con parole le forme incorporee, si valgono delle figure disegnate. Essi dicono, ad esempio, che questo che disegnano è un triangolo, solo che non intendono questo triangolo qui, che si vede con l'occhio fisico, ma quello espresso da questa figura, concepibile mediante essa, e mediante cui la mente può rap-. presentarsi il concetto del triangolo. IIl medesimo esempio si trova nella pagina sopra citata di Sesto Empirico, Adv. Math., X, 249, 259-260.] Lo stesso fecero i Pitagorici in relazione alle forme prime... Non potendo espri- mere in parole le forme incorporee e i principi primi, fecero appello alla dimostrazione mediante i numeri. Essi cosi chiamarono uno il concetto di unità, identità, uguaglianza, causa della cospirazione delle cose, della loro simpatia e conservazione dell'universo, che si comporta sempre nel mede- simo modo, secondo ·una stessa legge. Uno è, difatti, ciò che si trova nei particolari e che esiste in quanto unità e cospirazione delle parti, parteci- pando della causa prima (Porfirio, Vita di Pitagora, 48 sgg.). D'altra parte, l'unità o identità o uguaglianza (simbolicamente in- dicate con uno), senza di cui non potremmo parlare di nulla (ciascuna cosa è tale in quanto è una), non sarebbero senza l'alterità, la differenza, la distinzione (simbolicamente indicate con due), per cui ciascuna cosa è una (non potremmo dirla una, se non la opponessimo ad altra). Chiamiamo, invece, due i l dualistico concetto di diversità, disugua- glianza, divisibilità, mutabilità, cangiamento. E tale è, appunto, la natura della dualità nelle cose particolari... Infine, poiché esiste in natura qualcosa che è fornito di principio, di mezzo e di fine, che è uno e due, a tali forme e nature attribuirono il numero tre, per cui qualsiasi cosa avesse un ter- mine medio veniva detto triforme, tre, ovverossia perfetto (Porfirio, Vita di Pitagora, 50-51). Poiché, dunque, l'uno non è senza il due, e la dialettica dei due termini è il tre, l'Unità (Monade), proprio in quanto potenzialmente tutto, non è se non in atto, cioè se non si pone come altro da sé, di fronte a sé (diade), per cui entro l'Unità si pone - in immagine sotto l'Unità che la contiene- la monade seconda, l'Unità della molteplicità, il mondo delle forme intelligibili, delle Idee. In sé non reali né l'uno né il due, le due Monadi sono in quanto presenti all'anima, terza  297   unità che logicamente segue dalla prima e dalla seconda monade, e che, perciò, partecipa della Unità prima e della unità-molteplicità (intelli- gibili). Termine medio l'Anima, iQ essa s'incentra l'Universo: volta da un lato verso le specie e attraverso queste verso l'Uno tutto, dal- l'altro lato, davvero coglie l'Unità prima, in quanto m'Scorre l'Uno mediante le forme, cioè in quanto si volge alla molteplicità che, co- stituendo il discorso delle forme, è la sensibilità, la figurazione, la cui condizione è lo spazio informe, l'estensione pura, la materia, essa stessa dunque essenziale in quanto nell'intelligibile, esistente non per sé, ma come riflesso (ombra) della materia che è ndl'intelligibile. Anche se filtrata attraverso Porfirio, sembra ora di notevole inte- resse la testimonianza di Simplicio sul motivo dell'Uno-Intelletto-Anima- Materia, secondo Moderato di Gades. Moderato, seguendo i Pitagorici, dichiara che l'Unità (1tpé;)-rov lv) è al di sopra dell'Essere (-rò c!vatt) e di ogni essenza (1t«aatV oùatatV), mentre il secondo uno (-rò 3è 3e:U-rcpov lv), in cui consiste ciò che è [che è in quanto è definito] e l'intelligibile (&tep l<JTt -rò ~V't'c.>ç ~v xatl VO'Yj't'6v), dice essere la specie (-ra ct3YJ); il terzo uno, infine, egli sostiene consistere nel principio vitale (-rò ljiuxtx6v), che partecipa dell'uno e della specie, mentre la natura che viene dopo questa, costituita dai sensibili non parte- cipa piu dell'uno e degli intelligibili, ma, per dire cos{, di essi si adorna, ombra riflessa della materia che è negli intelligibili, materia ch'essendo del primo non essere è solo quantità, per cui si trova ancora pi6 in basso (~a xat-r' l!Lql«atv ixctv(J)v xcxoa!Llja&ott, Tljt; lv atÙ't'o'Lç GÀYJt; -rou IL~ ~not; 7tp6>-r(J)t; lv -réj) 1toaéj) ~not; oGaY)t; axtata!L« xatl frt ~ov ~(X­ ~YJxutatt; xatl ci1tò -roU-rou). Anche Porfirio, nel secondo libro de La materia, riproponendo la tesi di Moderato, ha scritto che "volendo la ragione mona- dica (6 b.ltati:ot; Myot;), come dice Platone, costituire da se stessa la genera- zione degli esseri, stabiH la quantità di tutte le cose (-rljv 1tOa6't'YJ't'at 1tM(J)V), come privazione di se stessa, privandola appunto della sua razionalità e intelligibilità. Moderato ha chiamato ciò quantità amorfa, indistinta, senza figura, atta a ricevere forma, distinzione, qualità, e cos{ via. Sembra, egli dice, che Platone abbia dato piu nomi a questa quantità, dicendola ricetta- colo informe e invisibile e 'riluttante al massimo a partecipare dell'intelli- gibile,' afferrabile a stento 'con un regionamento bastardo' e cos{ di se- guito. Tale quantità, dice Moderato, e tale specie (c!3ot;), intuite come pri- vazione della ragione monadica, di ciò che abbraccia in sé tutte le ragioni degli esseri che sono, è,esempio della materia dei corpi, che, diceva Mode- rato, i Pitagorici e Platone chiamavano quantità, ma che in effetto non va intesa come quantità intelligibile (-rò 6>t; c!3ot; 1toa6v), ma come privazione, dispersione, estensione e cos(via, come deviazione dell'essere e, perciò, male, in quanto fugge dal bene..." (Simplicio, In Phys., p. 230, 41-231, 25, Diels). In realtà tutto sempre in atto, logicamente l'Unità vivente è affer- rabile entro i termini di una Unità-alterità in cui ripercorrere i mo- menti logici, che si possono scambiare in simboli numerico-geometrici: unità (uno), alterità (due), unità dell'alterità, anima (tre), numerabilità che implica l'indefinita quantità, l'idea dell'estensione non definita (ir- razionale), perché sia possibile la misurazmne (materia-spazio), cioè i termini geometrici, costituenti, mediante i loro rapporti, figure piane e solide, i corpi, che possono dunque cangiare, comporsi e ricomporsi, ma le cui essenze restano sempre i numeri. \ Sembra ora opportuno sottolineare il significato di due motivi, che si ricavano da Moderato, il cui sviluppo avrà grande importanza nella storia dell'interpretazione da un lato del rapporto Essere-Uno e Intel- ligibili, dall'altro.Jato della materia. Posto che l'Essere, in quanto fon- damento e ragione (causa) di tutto non può non essere che Uno, l'Uno in quanto tale è al di là dell'esistere e delle essenze, egli causa delle essenze e delle esistenze. L'Uno perciò ha in sé tutte le possibilità. Entro questi termini, riprendendo il concetto della monade pitagorica e il discorso delle idee-numeri di Speusippo e di Senocrate, sembrava potersi risolvere l'aporia del Parmenide di Platone. Certo, dopo il Parmenide e il Teeteto, anche Platone (Sofista, Filebo) suggerisce la possibilità di interpretare l'Essere non piu come una massiccia realtà, ma come unità dialettica, cm:Ìle pensiero uno che è tale in quanto discorso esplicantesi, per cui le stesse idee tutte potenzialmente nel- l'uno-pensiero, sono in quanto guise (e proprio per questo non piu idee nel senso, ad esempio, del Pedone), leggi - traducibili perciò in numeri - della esplicazione stessa del Pensiero. Una simile interpreta- zione del Parmenide - Teeteto - Sofista - Filebo, filtrata attraverso il motivo della monade-diade, sviluppato dai pitagorici del I secolo a. C., e il motivo del l&gos spermatik6s stoico, rendeva pensabile la ragion d'essere del tutto, il divino uno che ha potenzialmente in sé, se cosr vogliamo dire, il mondo intelligibile (mondo delle idee, perciò non piu inteso come a sé, idee qualità accanto a idee qualità, indiscorribili). Le idee, dunque, appunto perché tutte nell'Uno, nell'Uno-pensiero, nel- l'Uno-pensiero sono- qualora si assuma logicamente l'Uno come a sé, condizione prima - indiscernibili. Proprio perché capacità di dare forma, sono, nell'Uno, informi. Esse sono solo in quanto esplicazione dell'Uno, che non è se non in quanto esplicazione, se non in quanto alterità. Sotto questo aspetto sembra esatta la tesi del Dodds secondo cui con Moderato di Gades si avrebbe una prima interpretazione neo- pitagorica del Parmenide. di Platone, della quale vi sarebbero tracce in una correzione che Eudoro di Alessandria (fine del I secolo a.C.: cfr. sopra) fece di un passo di Aristotele (Metafisica, l, 988a, 10-11) discutendo delle cause di Platone. Dice Aristotele: "le specie sono cause delle altre cose,. s1 come delle specie è causa l'uno" (-rcì: ycì:p d31) 't'OU -n m'" othr.ot 't'O~ ~or.ç, 't'O~ 3'et3ea'v 't'Ò l.v). Secondo Alessandro di Afrodisia (In Metaphis., ed. Hayduck), Eu- doro avrebbe corretto cos1: "delle specie e della materia cau,sa è l'Uilo" ('ro~ 3'e:t3eaLv -rò lv X«l 't'7j 6>..n). Il Dodds, concludendo, vede nel- l'Uno di Moderato di Gades l'origine dell'"Uno" neoplatonico (Dodds, The Parmenides of Plato and the. origin of the Neoplatonic ((One, in "Class. Quart.). Bisogna qui aggiungere che una volta risolto l'Uno platonico nell'assoluta monade che ha in sé tutte le possibilità (il mondo intelligibile), la stessa interpretazione della ma- teria quale si trova nel Timeo, si imposta su di un piano diverso: anche la materia cioè poteva non piu essere considerata come realtà a sé informe, ma come uno degli intelligibili dell'Uno. L'essenza materia si poteva considerare come l'idea estensione, la forma dell'informe, condizione della realizzabilità delle forme, la cui esistenza diviene l'om- bra riflessa dell'idea materia. Che tale interpretazione del rapporto Uno-mondo delle idee di Pla- tone fosse interpretazione diffusa, o almeno una delle possibili inter- pretazioni che circolavano nel 1 secolo d. C., è testimoniato, oltre che da Filone l'Ebreo, da Seneca, che, proprio perché la riferisce con un. semplice accenno, accanto ad altre interpretazioni, la fa intendere come tesi abbastanza nota. Dice Seneca: il mondo delle idee è "il modello che ha avuto l'artefice davanti a sé nell'eseguire l'opera, che aveva deliberato di fare. Non ha importanza poi se egli questo mo- dello l'abbia avuto sotto gli occhi fuori di sé, oppure concepito nella sua immaginazione e tenuto cosi presente. Questi esemplari di tutte le cose Dio li ha in se stesso, e di tutte le cose che deve fare abbraccia il numero e.la misura: egli è pieno di tutte queste figure, da Platone chiamate idee, immortali, immutabili, instancabili" (Lett. a Ludlio, 65, 7). Non solo, ma sempre in Seneca troviamo anche la possibile in- terpretazione della materia intesa non come realtà a sé, bens1 come realtà dovuta allo stesso Dio (cfr. Natura/es quaestion~s, l, Praej., 16) motivo, d'altra parte, presente in Filone l'Ebreo, come già abbiamc veduto, anche se in Filone sia il mondo intelligiliile sia la materia sonc dovuti ad un atto di volontà di Dio persona. E allora, la testimonianu di Simplicio, che riferisce la testimonianza di Porfirio sulla materia quale è intesa da Moderato di Gades, assume una sua prospettiva sto- rica abbastanza notevole e sembra chiaro in che senso Moderato possa dire che la materia esistente non è realtà per sé, non partecipa in quanto assunta per sé né dell'uno né degli intelligibili, ma è ombra ri- flessa della materia che è negli inteUigibili, e in che senso Eudoro cor-  300   regga la frase aristotelica, affermando che l'uno è causa degli intelli- gibili e della materia. Entro questi termini si trasforma qui sia il concetto platonico di materia amorfa, di puro ricettacolo a sé, di madre che accoglie in sé tutte le cose (cfr. Timeo, 50 b-à), sia il concetto aristotelico di materia intesa come soggetto (u7toXE((Uvov) (Fisica, l, 9, 192 a, 31; Metaf., VIII, l, 1042a, Zl), o anche come potenza (dr. Platone, Timeo, 50 b; Aristotele, Metaf., VII, 7, 1032a, 20), sia il concetto stoico di materia sostanza prima (dr. Diogene Laerzio, VII, 150) intesa come quantità passiva (Diogene L., VII, 134) su cui si esplica l'azione qualificatrice del principio attivo;. o meglio, pur mantenendosi il concetto di materia soggetto, potenza, quantità, essa in quanto pensabile (non con un ragionamento bastardo), cioè in quanto avente essere, non può non essere che risolta nell'uno stesso, divenendo materia intelligibile, idea di estensione, condizione, insieme agli altri intelligibili, dell'uno, che non è tale se non nella sua stessa esplicazione e discorso (Uno--Intelletto- Anima-Materia), per cui non c'è piu bisogno di prendere la materia come realtà per sé, come ente irrazionale opposto all'ente razionale. Vera e propria introduzione a una teoria dei numeri, nei termini di quelli che erano stati i risultati della matematica greca è l'Introdu- zione aritmetica, •ApL&(L7JTLX~ &taqwylj, dell'arabo Nicomaco di Ge- rasa,8 vissuto a cavallo del I-II secolo d. c. (Nicomaco nel suo Ma- nuale di armonia cita Trasillo, scrittore di cose musicali vissuto sotto Tibcrio, mentre Cassiodoro nel De artibus ac disciplinis liberalium lil- terarum, c. IV, Migne Patr. lat., vol. 70, p. 1208, afferma che Apuleio di Madaura, vissuto nel n secolo, tradusse in latino la diligente espo- sizione della disciplina aritmetica di Nicomaco di Gerasa). L'intento di Nicomaco di Gerasa è volto a determinare su di un piano logico le condizioni che permettono l'arte di combinare i numeri (non a caso il titolo della sua opera fondamentale, di cui pos- sediamo due libri, è intitolata •ApL&(L7JTLX~ Elacxywylj, cioè lntrodu-?:ione alfarte dei numen). Come Euclide definisce il punto, quale con- dizione e termine di qualsivoglia costruzione geometrica, cos1, indipen- dentemente da ogni raffigurazione geometrica (sensibile), Nicomaco, definito il numero, deduce tutte le ·possibili combinazioni dei numeri da quell'unica definizione di numero ("numero è molteplicità rac- BDiNicomaco,v~nellas econda metà del1secolo, nato a Gerasa, sappiamo molto poco. Della sua lntroduaio arithmetic11 sono rimasti due libri; intero è perve- nuto il MtmUIIle di amioni11; delle sue altre opere (Theologi11 arithmetic11, lntrodUt:tio lfeometl'i~~e, lntrodUt:tio 111tronomi~~e) non sono rimasti che frammenti. Nicomaco scrisse anche una Vitti di PiiiiKor•, una Vitti di Apollonia di TilltJII e un trattatello Sui riti egisitmi.  301   chiusa entro term1ru, o un ms1eme di unità, o un flusso, X,U!J.«, di quantità, costituito di unità; la prima divisione del numero è il pari e il dispari": lntr. an"tm., l, VII). Tale deduzione, o meglio ex-plica- zione della molteplicità implicita nell'unità si determina in un perfetto giuoco di combinazioni e separazioni di numeri, di rapporti e propor- zioni, per giungere, infine, attraverso tale costruzione, risultante dd discorso logico tradotto in simboli numerici, a ricostruire la realtà entro questi stessi termini, ove i principt, impliciti nell'unico principio (unità), divengono, appunto, gli stessi principi logici, simbolicamente assunti come numeri. L'importanza storica di Nicomaco di Gerasa consiste da un lato nella sistemazione, in un sol corpo dottrinario, dei risultati, sparsi nel tempo, del sapere aritmetico - di qui lo sfruttamento deÌle sco- perte matematiche da Archita a Filolao e via di seguito, entro la linea dei cosiddetti pitagorici, per essi intendendosi, in fondo, i matematici;- dall'altro lato nel non indifferente sforzo di presentare un possibile tipo di ragionamento, un tipa di logica (matematica) che poteva, in via ipotetica e simbolica spiegare - indipendentemente dal ricorrere alle figurazioni geometriche - le essenze non corporee, cioè le leggi su cui si scandisce il ritmo della realtà. Nicomaco risolveva in tal modo le aporie implicite nell'Unità posta dal Parmenide di Platone, in un discorso aritmologico che spiegava, per altro, ·1o stesso snodarsi dal- l'Uno del discorso del tutto in termini geometrici (sensibili), svelando cosi il mito del Timeo (1, 2, l; II, 18, 4), puntando sul significato dato al numero nell'Epinomide (1, 3, 5; dove si cita Epinomide 991d: "ogni figura, ogni sistema numerico, ogni composizione armonica, sf come l'accordo di tutte le rivoluzioni astrali, necessariamente rivelano, a chi apprende tutto questo seguendo il vero metodo, la loro unità, e tale unità si manifesterà quando rettamente si apprenda, mai per- dendo di vista l'unità medesima: a chi rifletta apparirà, infatti, che un solo naturale vincolo articola tutti i fenomeni; chi altrimenti intra- prende tali studi dovrà invocare la fortuna..."). Non solo, ma per altra via, posta la possibilità della predicazione qualora appunto si risol- vano in numeri le condizioni stesse del pensare, Nicomaco poteva, come chiaramente risulta dal primo paragrafo del I libro della Intro- duzione aritmetica (I, l, 3, ove gli elementi immutabili si avvicinano non poco, nell'esser presentati come una lista di categorie, alle categorie di Aristotele), interpretare numericamente le categorie di Aristotele, identificandole con le stesse condizioni del discorso aritmetico dd tutto. E ciò tanto pio è chiaro quando.si tenga conto che le dieci categorie si potevano assumere come l'interpretazione logico-discorsiva della de- cade o tetrakt'Ys (quaternaria) pitagorica (cfr. I volume), in un giuoco 302    di proporzioni, mediante cui riannodare le dieci condizioni su cm s1 svolge l'universo (cfr. II, 22 e 1-22). La tetrak.t'Ys veniva rappresentata in una figura avente 10 punti messi in forma di triangolo che ha quattro punti per lato.-:\, la cui somma l + 2 + 3 + 4 è uguale a 10. La tetrak_t'Ys cosf, racchiudendo in sé i numeri delle tre propor- zioni musicali (ottava 2: l; quinta 3: 2; quarta 4: 3) e delle quattro specie di enti geometrici (punto =l; linea= 2; superficie= 3; solido= 4), veniva ad essere la condizione di tutte le cose (non si scordi che in questo periodo circolava un libro sulle categorie che si diceva scritto da Archita. Su tutto questo si veda F. E. Robbins e L. Ch. Karpinski, in Nicomachus of Gerasa, Introduction to Arithmetic, Nuova York, 1926, pp. 94-5). L'aspetto della traduzione in termini sensibili-formali delle essenze numeriche-incorporee dei loro rapporti e combinazioni, sembra, per quel poco che ne sappiamo, che Nicomaco l'abbia studiato nella sua Introduzione geometrica (cosf almeno appare da una citazione dello stesso Nicomaco, in Intr. aritmetica, Il, 6, 1). Se da un lato, dunque, Nicomaco di Gerasa, nell'Introduzion~ aritmetica, ha determinato le condizioni di un discorso della realtà in termini di essenze puramente intelligibili, nell'Introduzione geometrica avrebbe determinato le condi- zioni perché ·sia possibile il discorso della realtà sensibile. Ci rendiamo conto in tal modo di come Nicomaco di Gerasa potesse identificare {sin dalla prefazione alla Introduzione aritmetica, I, cc. 1-6) il divino - per Dio s'intende ciò senza di cui nulla è - con il numero. Se nel numero, in quanto unità (monade) sono implicite tutte le possi- bilità (forme), l'uno è suprema ricchezza, onnipotenza, da cui tutto si dispiega (cfr. l, 16, 8; Il, 8, 3; 9, 2), esso fondamento e causa di tutte le forme della realtà, dei loro rapporti e proporzioni. In tale senso, dunque, Dio e numero-unità coincidono, sf come coincidono l'unità del pensiero che si dispiega nel suo discorso matematico-numerico e l'unità divina che si dispiega nel discorso della realtà. D'altra parte, in un testo dei Theologumena arithmeticae se non è di Nicomaco, sembra almeno derivare da lui, si sostiene che Dio è come un "seme che ha in sé la possibilità di tutte le cose" (xatl 6·n "t'Òv 3e6v q>Y)aLV 6 N'XO!LatXoç.qj ~~oov<XS'!q>otp!J.O~e,v, mtep!Lat"t'U (Wçmt<XpxoV"t'atn<XVTat"t'eXh .qjq>6ae'6V"t'at (Theol. arithm., ed. Ast, p. 4), sf come la monade, l'uno o seme di tutta la possibile costruzione logica della realtà. Sembra, cos{, che se da un lato mediante il discorso aritmologico e il discorso geometrico, Nico- maco tendeva a risolvere su di un piano puramente logico l'Uno del Parmenide e il mito del Timeo, dall'altro lato poteva rientrare entro la medesima spiegazione la tesi stoica del “logos spermatikos”. Il divino principio attivo, da cui tutto deriva, poteva benissimo assumere il signi- ficato dell'unità potenza, perdendo, certo, nella traduzione in numero- unità, il suo valore di forza (spirito) fisica e spontanea (donde, poi, da parte di alcuni interpreti di Platone la polemica contro il materialismo degli stoici, con il conseguente problema della materia, principio oppo- sto, dunque, all'immateriale Uno divino). In realtà, platonismo (Parmenide, Timeo, Epinomide), pitagorismo (aritmologia e geometria), stoicismo (il principio che ha in sé tutte le possibilità che portava a interpretare il mondo delle idee platoniche come forme potenzialmente tutte presenti in Dio, in quanto ragion d'essere), si venivano ad incon- trare in unico sistema, nella possibilità di una teologia logico-aritmo- logica (Theologumma arithmeticae) cui servivano da introduzione, ma anche da dimostrazione, la teoria aritmetico-geometrica, la teoria musi- cale (abbiamo un Manuale di armonia di Nicomaco), lo studio dei rapporti delle leggi stellari (possediamo di Nicomaco alcuni frammenti di una Introduzione alrAstronomia). In altri termini, le vecchie disci- pline platoniche in funzione dell'educazione del filosofo: geometria (piana e solida), aritmetica, teoria musicale, astronomia, venivano siste- mate, dando la precedenza all'aritmetica, entro cui sono implicite la teoria musicale, la geometria e l'astronomia, quale avviamento alla comprensione scientifica del divino, cui, per altro, potevano servire, sul piano pratico, dei rapporti umarii, della propaganda e convinzione, la grammatica, ·la dialettica e la retorica. Pitagora- scrive Nicomaco nella prefazione all'Introduzione aritmetica- definisce la sapienza conoscenza e scienza della verità implicita nella realtà, concependo la scienza, sicura e immutabile comprensione di ciò che sta a fondamento (,moxe;(!U'/OV) e di ciò che nell'Universo permane sempre identico a sé e non cessa mai d'essere, neppure per poco. Tali sarebbero gli immateriali (!u>.at), quelli cioè per la cui partecipazione ciascuna cosa omo- nima, e perciò nominabile, è detta, assumendo per questo una sua realtà (-r63c n) (l, 1-2)... Poich~, dunque, della quantità (7t6aov) un aspetto è veduto in se stesso, non avendo alcuna relazione ad altro, come pari, dispari, numero perfetto·e cosf via, e un altro aspetto è concepibile in fun- zione di altro e in relazione ad altro, come doppio, maggiore, minore, uno e mezzo, uno e un terzo e cosf via, evidentemente due dovranno essere i metodi scientifici mediante cui esaminare a fondo la quantità: il metodo aritmetico che ha per oggetto la quantità in se stessa, e la teoria musicale che ha per oggetto la quantità relativa. Ancora: quanto alla grandezza (7tYJÀ(xov), poiché l'una è in quiete e immobile e l'altra in un movimento di translazione, di conseguenza due sono le scienze che studieranno con esattezza la grandezza: la geometria ciò che è immobile e quieto; l'astro- nomia (atpa.LpLx-lj, sfairiché), ciò che si muove circolarmente. Senza queste 304    è impossibile trattare con esattezza le forme dell'essere o scoprire la verità nelle cose, nella cui conoscenza consiste la sapienza. Senza di queste, insomma, è impossibile filosofare rettamente. "Come il disegno contribuisce con la tecnica alla retta teoria, cosi le linee, i numeri, ·gli intervalli armonici e le rivoluzioni dei cieli, coadiuvano l'apprendimento del ragionamento scien- tifico (A6yov aocp6v)," come dice il pitagorico Androcide [autore di uno scritto Sui simboli, come risulta dai Theologumena arithm., ed. Ast, p. 40. Sono quindi citati Archita, Sull'Armonia, in Diels, I, 330 sgg.; e 1'Epino- mide, 991 d sgg.]. Tali studi [geometria, aritmetica. astronomia, teoria musicale] è chiaro che assomigliano a scale e a ponti che consentono alla mente umana il passaggio dai sensibili e dagli opinabili agli intelligibili e agli scibili, e da quelli che sono i primi consueti nutrimenti infantili, fisici e sensoriali, ci permettono il passaggio aWinconsueto e a ciò che è estraneo ai sensi (1, 3, 1-6). Orbene, quale delle quattro discipline metodologiche è necessario apprendere per prima? Quella che per natura precede le altre, evidentemente è per diritto principio e fondamento e ha, rispetto alle altre, la funzione di madre. E questa è l'arte dei numeri [aritmetica], e non solo perché... preesisteva nella mente del Dio archetipo come ordine cosmico ed esemplare, mirando al quale, come a un disegno e a un archetipo, il demiurgo dell'universo ordina le opere materiali e fa in modo ch'esse realizzino i propri fini; ma anche perché è prima per natura in quanto implica in sé le altre discipline, senza esserne implicata (I, 4, 1-2). Pitagorismo, educazione e retorica. Apollonio di Tiana nella rico- struzione di Filostrato di Lemno e il trattato su "Il Sublime" Gia entro questi termini, se passiamo all'aspetto predicatorio-tera- peutico, usato piu che in funzione scolastica in funzione educativa, si vede bene l'importanza data alle figure e alle leggendarie vite di Pita- gora e di Platone, e alla presentazione di esempi di vita (non a caso lo stesso Nicomaco di Gerasa scrisse una Vita di Pitagora e una Vita di Apollonio di Tiana, insieme ad un trattato sui Riti egiziam). In realtà, e ce n'è buon testimonio Seneca, già con Nigidio Figulo (cfr. sopra) e poi, soprattutto, con la Scuola dei Sestii (cfr. sopra), certe suggestioni pitagoriche - almeno in Roma - erano usate in funzione educativa. Basti ricordare che Sozione di Alessandria, della Scuola dei Sestii, dopo avere cercato di mostrare, per incitare alla frugalità e a una vita misurata, che l'anima è immortale, che essa imparenta tutti, uomini e animali, per cui nulla va distrutto, che non si tratta che di cambiamento di luogo, riprendendo i vecchi t&poi pitagorici della trasmigrazione delle anime e quelli platonico- stoici, per cui non solo i corpi celesti si volgono per determinate orbite,  305   ma anche gli animali vanno soggetti alle loro vicende e che le anime sono spinte per i loro cieli, concludeva: "Se le cose dette sono vere, astenendoti dalle carni ti sarai serbato innocente, se false, sarai stato un uomo frugale. Che ci perdi a prestarvi fede?" (Seneca, Lett. a Luc., 108). E qui viene spontaneo il richiamo ai Versì aurei dello pseudo-Pitagora (cfr. sopra), o ai Sacri discorsi (r a. C.), o all'Inno al numero (anch'esso del I a. C.). Assunta una certa dottrina - e particolarmente suggestiva per la sua sacralità e misteriosità poteva essere l'ipotesi pitagorica della po- tenza del numero, chiara agli iniziati, cioè a chi vi si era introdotto mediante la geometria, l'aritmetica, ·la musica, l'astronomia, - essa serviva, mediante appunto suggestioni, sacri discorsi, tecniche terapeu- tiche, sapientemente usate (magiche agli occhi dei piu) ad avviare i piu ad una certa condotta di vita, cui potevano servire certi riti e certa liturgia.~ in tal senso assai indicativa la difesa che Apuleio (n sec. d. C.) fece di se stesso contro l'accusa d'essere un mago. Mago si:, egli dirà, se per mago si intende sacerdote, chi abbia studiato, chi, conoscendo le leggi e la ragion d'essere degli avvenimenti, sappia a fondo le leggi del rito, le regole dei sacrifici, le teorie del culto. Mago no, se per mago si intende "in senso volgare (more vulgan) chi abbia commer- cio con gli dèi immortali, e mediante l'incredibile forza dei suoi incan- tesimi sappia fare tutto ciò che vuole" (Apuleio, Apologia, 26). Certo, agli occhi del volgo, un uomo che, conoscendo certe tecniche, riesca, ad esempio, a far ri.tornare in sé chi sia caduto in catalessi, evidente- mente viene preso per un uomo soprannaturale, per risuscitatore di morti. Entro questi termini va considerata, almeno nel I e ancora al principio del n secolo d. C., la linea di coloro che si appellano al nome e alla figura di Pitagora, come è il caso di Apollonio di Tiana. Ma in funzione educativa, nel tentativo di curare le anime, di dare una forma e un senso alla disperata vita degli uomini, tutti uguali per natura, ci si poteva anche appellare ad altre concezioni - la stoica, ad esempio, in modo assai generico, - prospettando, difronte all'impossi- bilità umana di oltrepassare i limiti e le costruzioni della propria ra- gione, la fede nell'imperscrutabile mistero di una divinità che tutto ordina per il bene. E qui, come di fatto fu, potevano incontrarsi sia pitagorici come Apollonia di Tiana, sia cinici come Demetrio (non a caso Demetrio, oltre che di Seneca, fu amico di Apollonia), sia stoici come Musonio Rufo ed Epitteto (di cui è celebre la vena cinica, ravvi- cinabile al cinismo stoico di un Aristone di Chio), in una comune oppo- sizione sia nei confronti della quotidiana vita unilaterale e passionale del volgo, sia nei confronti del modo di vita delle classi superiori e degli imperatori, che concepiscono il potere in modo personale e indi~ 306    viduale. Il discorso si farà diverso da Nerva (imperatore dal 96 al 98) a Marco Aurelio (imperatore dal 161 al 180), con il quale sembrò realizzarsi l'antico ideale stoico del re filosofo. La presentazione della vita di Apollonia • vissuto nel I secolo d. C., nato a Tiana, in Cappadocia, educato a Tarso, scolaro, sembra, di Eutidemo di Fenicia e di Eusseno di Eraclea, la dobbiamo alla Vita, in otto libri, che di lui scrisse, nel m secolo d. C., Flavio Filostrato di Lemno, su invito dell'imperatrice Giulia Domna, moglie di Set- timio Severo, alla cui corte Filostrato, dopo avere insegnato ad Atene sulla linea neo-sofistica, venne accolto. Non va scordato che Filostrato di Lemno, su sua stessa confessione, si pone tra i neo-sofisti - si deve anzi a lui la distinzione tra sofistica antica e "nuova sofistica," che Filostrato, autore di una Vita dei Sofisti, fa cominciare nel I secolo d. C. con Dione di Prusa. - Filostrato per "sofistica" intendeva la capacità di suscitare, attraverso la conoscenza delle tecniche retoriche e del pub- blico cui si doveva parlare, certi affetti e di sopirne altri, indipenden- temente da qualsiasi contenuto, in una precisa coscienza del valore tera- peutico della parola e della sapiente descrizione della vita di certi per- sonaggi, che possano incantare e meravigliare, e servano da avviamento, rispondendo a esigenze proprie di certe mentalità, ambienti, situazioni. Se, come è oramai chiaro, la Vita di Apollonia rientra nel genere del romanzo biografico ellenistico, essa, d'altra parte, mutando quel che è da mutare, cioè la mentalità dei possibili lettori, le loro mutate esi- genze, vuol essere un saggio di alta retorica, un encomio del tipo del- l'Encamio di Elena di gorgiana memoria. Filostrato insiste con forza nel sostenere che Apollonia non fu un mago, nel senso volgare, che le sue doti taumaturgiche, i suoi miracoli, l'avere egli guarito e resusci- tato, le sue previsioni e cosi via, perfino il suo essere riapparso dopo morto a un tale, in sogno, per dimostrargli che l'anima è immortale, non sono frutto di magia operativa, ma della sua "sapienza," si come di sapienza e· non di magia furono frutto le azioni miracolose com- piute da Pitagora, da Anassagora, da Democrito, da Empedocle, sa- pienza che rivela il divino, o meglio la possibilità dell'uomo che vivendo puro fa si che la propria anima, scintilla divina, appunto perché divina, conosca le leggi e le ragioni della divinità. Apollonio - scrive Filostrato - entrò nella via battuta da Pitagora, ma nella sua ricerca della sapienza vi è un carattere ancora piu divino, ed egli si 4 La Suda attribuisce ad Apollonia di Tiana una Vita di Pitagora (dr. anche Porfirio e Giainblico: cfr. "Rhein. Mus.," 1879, p. 554; 1880, p. 23), un Inno a Mnemosine, un Testamento, lni•iazioni, Sacrifici (cfr. Eusebio, Praep. ev., IV, 12·13), Oracoli, Lettere. è sollevato ben al di sopra dei re del suo tempo [non si scordi che anche Se- neca, parlando di Attalo, sottolineava - Lett. a Luc., 108, 13 sgg. - ch'egli era al di sopra di qualsiasi re, e cosf, sempre parlando di cinici, dirà Epitteto - Diatribe, III, 22, 53]. Nonostante egli sia vissuto in un'epoca né troppo lontana né troppo vicina alla nostra, in realtà non si conosce ancora quale sia stata la stia filosofia... Alcuni, avendo egli avuto rapporti con i maghi di Babilonia, i Brahamani dell'India e i Gimnosofisti dell'Egitto, pensano che sia stato un mago, e che la sua saggezza non sarebbe stata che una forma di violenza.:a. una calunnia che deriva dal fatto ch'egli è mal conosciuto. Empedocle, Pitagora stesso, Democrito, hanno frequentato i maghi, hanno detto molte cose divine, eppure non se n'è fatto ancora degli adepti della magia. Platone fece un viaggio in Egitto, riprese molto dai sacerdoti e dagli indovini di quel paese, se ne servi come un pittore che dopo aver preso un abbozzo vi mette di suo ricchi colori, é tuttavia non si è fatto di Platone un mago, sebbene nessun uomo sia stato come lui, a causa della sua sapienza, oggetto d'invidia. Anche se Apollonia ha presentito e previsto piu di un avvenimento, non lo si può accusare d'essersi dato alla magia, altrimenti bisogna rivolgere la stessa accusa a Socrate, al quale il suo dèmone ha fatto spesso prevedere l'avvenire, ad Anassagora di cui si rife- riscono parecchie predizioni... Tutto ciò che ha fatto Anassagora non v'è difficoltà ad attribuirlo alla sua alta sapienza. Per Apollonia, invece, non si vuole che le sue predizioni siano effetto della sua sapienza, e si sostiene.-:be tutto quello che ha fatto, l'ha fatto per magia. Non posso sopportare tale errore, divenuto volgare. Ecco perché mi sono proposto di dare qui dettagli precisi sull'uomo, sui momenti in cui ha pronunciato certe parole o ha fatto certe azioni, infine sul genere di vita che ha valso a questo sapiente la famadi un essere al di sopra dell'umanità, di un essere divino (Vita tli Apollonio, I, 2). Vivrò da pitagorico, disse Apollonia, ancora giovinetto al suo maestro Eusseno. "Grande impresa," rispose Eusseno, "ma da dove comincerai? ". "Farò come i medici," disse Apollonia, "la loro prima cura è di purgare: prevengono cosf le malattie o le guariscono." A partire da quel momento non si nutri piu con carni..., si nutrf di verdure e·di frutta, dicendo che tutto qò che dà la terra è puro... Camminò a piedi nudi, non si vesti che con abiti di lino..., si lasciò crescere i capelli e divenne assiste-nte dd medico Esculapio... (Vita tli Ap., I, 7-8). Filostrato di Lemno ha certo tenuti presenti alcuni dati reali della vita di Apollonio: la sua educazione a Tarso, il suo soggiorno a Ege presso il tempio di Esculapio, la sua vita e il suo insegnamento itine- ranti. Apollonio avrebbe soggiornato in Babilonia, poi in India presso i Brahamani, quindi in Ionia, in Grecia, a Roma, al tempo delle per- secuzioni di Nerone contro i filosofi, poi in Spagna, ancora in Grecia, in Egitto, dove si sarebbe incontrato con l'imperatore Vespasiano, in Etiopia, dove avrebbe conosciuto i gimnosofisti. Allontanato da Roma per ordine di Tigellino, perseguitato da Domiziano, sarebbe sparito sotto Nerva. Abilmente giuocando su questi dati, sui racconti dei miracoli operati da Apollonia, sulle sue previsioni, sulle conoscenze ch'egli avrebbe avuto dei vari tipi di religione orientali e occidentali, sui suoi presunti contatti con tutti i re dei paesi visitati - in Babilonia con il re Vardano; in India con il re Fraote; presso i Brahamani con il loro supremo sacerdote !arca; in occidente, sotto Nerone, con Tigel- lino e con Domiziano il tiranno da cui venne perseguitato: assai indi- cativo sembra che, invece, con Vespasiano e con Tito sarebbe entrato in relazione di maestro e di iniziatore, - Filostrato ha costruito la vita semplice di un saggio, di un curatore e guaritore di anime, di un uomo a contatto col divino per la sua purezza di vita. "Egli ha voluto," cosf Filostrato conclude la Vita di Apollonia, "che, conoscendo la nostra natura, lietamente si vada verso il fine che ci hanno fissato le Parche" (VIII, 31). Non va per altro scordato che la Vita è stata scritta da un retore del m secolo, preoccupato di far colpo su di un certo ambiente, su cui Filostrato sapeva quanto poteva giuocare il meraviglioso e il sublime. Entro i termini delle discussioni sulle tec- niche retoriche tra la fine del I secolo a. C. e il I secolo d. C. si era avuto uno spostamento dalla retorica intesa come dimostrazione e fondata soltanto sui fatti e sulle argomentazioni credibili (n(a-rEtt;), come fu il caso della retorica oSOstenuta da Apollodoro di Pergamo (ancora con Cecilio di Calatte e il suo contemporaneo Dionigi di Alicarnasso, si proclamava soprattutto l'importanza della disposizione e dell'armonia délle parole, della metafora, in stretta osservanza e imi- tazione dei classici), alla retorica affettiva, per cui si sa giuocare sulle passioni, convincendo non mediante argomentazioni razionali, ma con l'entusiasmo, la passione, l'emozione, suscitando la meraviglia, come fu il caso.della retorica proclamata dall'avversario di Apollodoro di Pergamo, Teodoro di Gadara. Entro l'àmbito culturale e sociale, entro i termini di diffuse esigenze morali e religiose, proprie del I e del n secolo, si capisce come al di fuori delle scuole e dell'insegnamento ufficiale della retorica (rappresentato in forma istituzionalizzata e scle- rotizzata da Quintiliano) abbia prevalso l'insegnamento e la tesi di Teodoro di Gadara. Di un discepolo di Teodoro, Ermagora di Temno, sembra che sia il trattatello Sul sublime (nepl G~J~ouç), un tempo attri- buito a Cassio Longino (retore del m secolo d. C.) e a Dionigi di Alicarnasso (in un codice vaticano si scoprf che già gli antichi non sapevano se fosse di Dionigi o di Longino: mentre prima si era letto che Il sublime era di Dionisio Longino, nel codice vaticano si legge di Dionisio o di Longino; sulla vessata questione dell'attribuzione si veda ora anche D. A. Russell, Introd. a Loginus, On the sublime, Oxford). Contro la tradizione della retorica in senso aristotelico (rappresentata ancora da Cecilia di Calatte) il Sublime insiste sul pathos, si come, di contro alla retorica intesa come avviamento all'ordine sociale e poli- tico in senso stoico (si pensi a Diogene di Babilonia), all'utile morale, il Sublime insiste sullo straordinario, il meraviglioso, il sublime ap- punto. "Veramente ammirevole è.rempre, per gli uomini, lo straordi- nario" (35, 5). "Il fine della fantasia poetica è la sorpresa, mentre quello dell'oratoria è l'evidenza: entrambe comunque ricercano il pate- tico e il concitato" (15, 2), insieme alla grandezza del discorso. E l'evidenza, in campo oratorio, la si ottiene non "a capriccio, procedendo anzi con metodo (2,.2), usando certe tecniche da cui far scaturire il sublime (già definito da Teofrasto come uno dei possibili stili retorici). Bisogna su~citare grandi pensieri, facendo innamorare di ciò di cui si vuol persuadere. Di qui l'importanza data alla passirme e all'entusia- smo. Grandi pensieri e passioni si suscitano mediante certe appropriate figure del pensiero e dell'espressione, mediante l'altezza dell'elocu- zirme e la scelta di un argomento tale da costituire una composizirme (crov&eatt.;), che, ispirando i piu alti pensieri, vada oltre il quoti- diano vivere, creando mondi di superiore grandezza (sublimi), velando cosi gli artifici retorici. Se il Sublime dello pseudo-Longino rispose all'esigenza di certi retori posti· difronte a un certo pubblico, la Vita di Apollrmio di Filo- strato risponde esattamente all'esigenza di altri argomenti mediante cui, suscitando il meraviglioso e il sublime, trasportare il lettore in una vita sublime, sospesa tra la realtà e il mistero. E qui bisogna ricordare che Filostrato scrisse anche gli Eroici, un dialogo sui geni e le ombre della guerra di Troia, in cui ancora piu scoperto è il gusto per lo "straordinario," e dove, per altro verso, si presentano gli eroi del passato, si come nella Vita di Apollonia si presenta la figura di Apollonia. Non solo, ma è altrettanto interessante sottolineare che l'autore del Sublime, nel 1 secolo, d'accordo con l'autore del Dialogus de oratorihus (forse Tacito) e con Seneca, sostiene che la decadenza della oratoria.e della letteratura, il prevalere in certi ambienti della pura imitazione, l'aver ridotto l'eloquenza all'applicazione di fredde regole, è frutto della situazione politica attuale, della perdita della libertà, del conformismo generale e della mancanza di alti e nobili ideali per ·i quali battersi. "Allo stesso modo che - se è vero quel che si dice - le gabbie in cui si allevano i Pigmei, chiamati nani, non solo impediscono ai rinchiusi la crescita, ma anche contraggòno loro la lingua per la museruola posta intorno alla bocca, cosi anche la ~chiavitu, sia pur la piu legit- tima, potrebbe qualificarsi gabbia dell'anima e comune prigione di tutti" (44, 5). Di qui, non solo l'importanza data al "sublime" come stile, ma all'arte come capacità di chi altamente senta, di suscitare mediante immagini, di là da argomentazioni logico-matematiche, rap- presentazioni di cose e di persone che riescano a convincere pio di ogni ragionamento. Se entro quest'àmbito si vede bene nel giro di un secolo e mezzo, in mutate condizioni d'animo, la funzione assunta dalla retorica di certi neosofisti, intesa al "sublime,".rompendo contro la vita quotidiana, mediante il miracoloso e il meraviglioso, si capiscono gli intenti della esercitazione retorica e romanzesca della Vita di Apollonio scritta nel III secolo da Filostrato di Lemno. Non a caso, perciò, Filostrato di Lemno deve avere scelto la vita di Apol- lonio di Tiana. Anche se molte cose sono state da lui inventate, certo una qualche tradizione popolare, giuocando sui dati reali e sulle reali azioni di Apollonio, doveva avere trasmesso, idealizzata, la figura reale del Tianeo. In effetto, un'attenta lettura della Vita di Apollonio ci presenta un Apollonio non tanto filosofo di professione, quanto maestro di vìta, maestro itinerante, che, assunto a modello Pitagora, del quale sembra che abbia scritto una Vita, ed Empedocle - iatrosofisti e medici - esperto di tecniche mediche e incantatorie, di certi tipi di religioni orientali, con le sue parole, con i suoi atti " sublimi," presenta se stesso in "stile sublime," dando agli altri, ai piu che vivono o entro i ter- mini di una conformistica morale corrente o entro i termini di una religiosità fatta di superstizioni, di sacrifici, la "purga" adatta, per prevenire o curare i pio dalla loro malattia morale-religiosa. Sotto que- sto aspetto sembrano non poco interessanti da un ·Iato i continui rap- porti che, si dice, Apollonio avrebbe avuto con re e signori dì paesi, fino allo scontro con Nerone e Domiziano, e, dall'altro lato, l'acco- stamento con figure come quella di un Demetrio cinico, e il'suo insi- st~re, come risulta anche da fonti diverse da quelle di Filostrato, con- tro la superstizione, contro la religiosità ridotta a sacrifici e a puri rituali, il che, d'altra parte, era stato, nella stessa epoca circa, uno dei maggiori punti d'impegno dell'insegnamento di Seneca. Secondo Euse- bio, Apollonio di Tiana cosf scriveva in una sua opera tramandata sotto il titolo Sui sacrifici: lo credo che si osservi il culto conveniente alla divinità, e che solo cos{ all'uomo è concesso averla propizia e benevola in qualsiasi circostanza, se al Dio che diciamo Primo e che è Uno e separato da tutte le cose e che dobbiamo riconoscere superiore a tutti gli aii.ri, non si immolino vittime, non si accendano lampade, non si consacri alcuna delle cose sensibili. Dio non ha bisogno di alcuna.cosa... Con lui adopera solo la parola migliore, cioè quella che non esce dalle labbra, e da lui, che è il migliore degli esseri, invoca i beni mediante ciò che in noi v'è di migliore: l'intelletto, che non ha bisogno di nessun organo... (Eusebio, Praep. evan., IV, 13).  311   E in una lettera, che, tra le molte apocrife, sembra proprio di Apol- lonia, si legge: Se gli dèi non hanno bisogno di vittime, cosa si dovrà fare per avere i loro favori? Credo si debba avere l'animo ben disposto a beneficare gli uomini, per quanto è possibile, secondo i loro meriti... (Ep., 26).. Su piani diversi, ma in situazioni simili, Seneca, Demetrio, Musonio Rufo, Apollonia di Tiana (il nuovo Pitagora) potevano "benissimo incontrarsi. E cosi non è un caso che piu tardi, quando la figura del Cristo si era oramai cristallizzata, nel IV secolo, !erode Sossiano di Biti- nia potesse sostenere che Filostrato, nella sua Vita di Apoll~nio, aveva voluto mostrare come accanto ai Vangeli era possibile fare l'encomio della tradizione che aveva costruito la figura di Apollonio, e come accanto all'encomio di Cristo si poteva scrivere l'encomio di Apollonio (il Cristo pagano), l'uno e l'altro vicini nelle stesse intenzioni puri- ficatorie popolari · (Porfirio, anzi, giunse, nella sua opera Contro i Cristiani, ad opporre la figura di Apollonio a quella di Cristo, soste- nendo che Apollonio rappresentava il vero Salvatore), mentre altri, i cristiani, potevano tentare di recuperare Seneca - arrivando a co- struire un epistolario tra lui e San Paolo,. - ed Epitteto, di cui non poche volte fu detto ch'era cristiano. 4. Lo Stoicismo a Roma nel l secolo d. C. Lucio Anneo Cornuto. Musonio Rufo. Epitteto Interessantissima è la narrazione, da parte di Filostrato, dell'am- biente e dell'atmosfera politica, della corruzione morale e religiosa, in Roma, al tempo di Nerone, quando, si dice, vi fu anche Apollonia (libro IV, 35-47). D~ questa narrazione viene fuori un Apollonia moderatore di co- stumi, che propone se stesso quale esempio di vita misurata e saggia, simile alla figura e all'atteggiamento di Demetrio, quale risulta anche da Seneca. E ne viene fuori pure una delineazione della "filosofia" intesa come riflessione morale, come avviamento a restituire l'uomo a se stesso, alla propria dignità e libertà, alla propria razionalità, cJoè al divino, in opposizione alla corruzione imperante, in gran parte dovuta all'atteggiamento dell'imperatore. Entro questi termini, anzi, lo stesso Filostrato spiega la paura che l'imperatore e i suoi accoliti sentivano nei confronti della "filosofia": un controllo coraggioso del loro ope- 312    rato, un'azione seducente sul Senato da un lato e sul popolo dall'altro lato, e quindi un'attività antipolitica, antistatale, antireligiosa. A parte Seneca, abbiamo già accennato a illustri vittime della poli- tica imperiale, e alla preoccupazione da parte del governo romano nei confronti di certe prese di posizione, ritenute, a torto o a ragione, frutto di tesi filosofiche interpretate o come magico-demoniache e distruggitrici dei culti religiosi correnti, o, nel richiamo, particolar- mente da parte stoica, all'antico concetto della res-publica romana in senso scipionico-ciceroniano, come estremamente pericolose per la isti- tuzione imperiale, a carattere assolutistico-personale. Entro questi ter- mini, in una ancor forte oscillazione sul concetto d'impero, al suo fondamento giuridico, e al fondamento giuridico-istituzionale del po- tere - se l'imperatore debba essere tale per discendenza o per elezione, se il potere sia sempre del Senato e del Popolo romano facenti capo all'Augusto, o se l'Augusto è egli lo Stato, il re divino in senso orien- tale - si vede bene lo scontro tra il lento e faticoso costituirsi della istituzione imperiale e, di volta in volta, anche a seconda dell'impera- tore, del ·suo contrasto con il Senato, certe nette prese di posizione, rappresentate da certe concezioni, o cinico-popolari o stoico-senatoriali. E se con "filosofi" s'intese indicare maghi e indovini e cinici, con "filosofi" s'intese anche indicare coloro che per un verso o per l'altro si opposero alla politica imperiale, soprattutto con il loro atteggia- mento, con l'esempio della loro condotta; e questi, lo fossero o no, vennero indicati con il nome di stoici, e furono soprattutto personalità romane, uomini politici, gente di governo. Ricordiamo qui, ancora una volta, i casi clamorosi di Trasea Peto (condannato a morte da Nerone nel 67 d. C.; cfr. sopra) e di Elvidio Prisco, genero di Trasea Peto: Elvidio Prisco, questore dell'Acaia nel 51, tribuno della plebe nel 56, per il suo atteggiamento apertamente antimperiale, fu bandito da Roma nel 66; rientrato in Roma sotto Gaiba, accusò il delatore di Trasea Peto; fatto pretore nel 70, fortemente si oppose alla politica di Vespasiano, per cui venne di nuovo esiliato e, poi, condannato a morte nel 70. Ma, entro questa linea, non vanno scordati i casi di Rubellio Plauto (33 circa-62 d. C.), che, per la sua opposizione al governo di Nerone, venne condannato a morte, accusato da Tigellino "di far parte dell'arrogante setta degli stoici, che rende turbolenti e desiderosi di disordini" (Tacito, A nn., XIV, 57); di Borea Sorano (console designato nel 52, proconsole d'Asia prima del 63), che venne accusato presso Nerone perché amico di Rubellio Plauto, e che fu condannato a morte insieme alla figlia Servilia accusata di pratiche magiche; di Egnazio Celere, condannato a morte nel 69, da Vespa- siano. E cosf non è poco indicativo che Vespasiano, dopo la condanna  313   di Elvidio Prisco, abbia nel 71 bandito da Roma tutti i filosofi, tranne Musonio Rufo, a suo tempo cacciato da Nerone, insieme a Cornuto, fatto rientrare da Gaiba; e che nell'85 Domiziano abbia fatto uccidere Materno per le sue coraggiose parole contro i tiranni, Giunio Rustico perché aveva composto un elogio di Trasea Peto da lui ritenuto un santo (t&p6v) e di Elvidio Prisco, e lo stesso figlio di Elvidio, allonta- nando di nuovo da Roma tutti i filosofi, mentre nel 93 circa mandava a morte Erennio Senecione, perché aveva scritto una vita di Elvidio Prisco. Fu, anzi, dopo tali avvenimenti - ed anche questo è indica- tivo - che il retore Dione di l>rusa (30-117), detto Crisostomo (dal- l'aurea bocca), che pur aveva detto i filosofi "peste della città e dei governi," si converti alla filosofia, con particolar propensione per la tesi stoico-platonica e cinica, mentre Plinio il giovane riconosceva il valore della opposizione da parte dei filosofi, ammirandone il coraggio (cfr. Epist., l, 10; III, 11, 3). Tale sembra, in effetto, la funzione assunta dalla "filosofia" nel 1 secolo d.C., particolarmente a Roma e nel mondo dominato da Roma, soprattutto dal tempo di Nerone a quello di Domiziano, quale che poi fosse la dottrina di 'Sfondo scelta a fondazione di una certa attività moralizzatrice: la stoica, la platonica, la pitagorica, la cinica; o meglio, nessuna delle quattro come tali, ma l'una o l'altra entro l'accezione che abbiamo visto sopra, indipendentemente da scuole e tradizioni precise. Sembra chiaro, allora, l'appello di tutti, da Seneca ad Apollonio, da Demetrio a Musonio Rufo a Epitteto, alla fraternità, alla benevolenza, l'appello all'abbandono della vita dispersa e di ciò che era divenuta la vita politica, il richiamo a conoscere se stessi, il continuo ricordo di Socrate (si veda,' ad esempio, Seneca, De tranquilli- late animi, VI, 1-2). Entro questa atmosfera a'Ssumono un loro particolare significato l'insegnamento di Musonio Rufo, tutto volto - sul piano di un gene- rico stoicismo di sfondo - a formare l'uomo virtuoso, e la robusta, coraggiosa personalità e la problematica morale di Epitteto. A tale proposito, per meglio intendere quella che fu una conce- zione stoica di sfondo, merita il conto ricordare Lucio Anneo Cornuto, nato a Leptis, vissuto a Roma, contemporaneo e amico di Musonio, maestro di Persio Fiacco (34-62), dopo la morte del quale si fece edi- tore delle Satire di lui, e di M. Anneo Lucano, nipote di Seneca, nato nel 39 (fatto uccidere da Nerone nel 65), che, nella Farsalia, non poche volte rivela motivi stoici. Cornuto, insieme a Musonio, fu esi- liato da Nerone nel 65. Sappiamo ch'egli fu uomo di cultura, che scrisse in greco e in latino opere letterarie, tra cui famose alcune sue interpretazioni di Virgilio, insieme a un De figuris sententiarum e 314    a un De enuntiati011e vel de ortographia, e opere di retorica precetti- stica, tra cui una dal titolo Arti retoriche (TéxvocL pYJ-rOptxoc(). Egli scrisse anche un'opera contro le categorie di Aristotele e un Escurso di teologia greca {'E7tt8po!J.1J -rwv xoc-rclt ~v 'EJJ..'I)vtx~v 8-eoÀoylocv 7totpoc8e:8o(Lévwv), l'unica opera di lui conservatasi. Nel suo complesso assai prolissa, monotona e, certo, di non aÌto significato, l'Epidramè ha un suo particolare valore come documento, da un lato, proprio nel suo essere un manuale divulgativo e un com- pendio di opere precedenti sulle divinità del pantheon greco - allego- ricamente interpretate entro i termini della teologia fisica stoica, - della diffusione di quella che dicevamo la generica concezione stoica di sfondo (certa terminologia cristallizzata è molto indicativa); dal- l'altro lato, del modo in cui venivano recuperate le antiche divinità m funzione della ratio physica stoica. Basti un esempio: Il cielo tutto intorno avvolge la terra e il mare e tutto quel che si trova sulla terra e nel mare... Come noi siamo governati dall'anima, cosi lo è l'Universo; anche l'Universo ha un'anima che lo avvolge, e questa viene detta Zeus, soprattutto perché egli vive nel tutto, ed è causa di vita ai viventi; per questo si dice anche che Zeus su tutto regna, sf come si po- trebbe dire che pure in noi l'anima e la natura ci governano... (Epidromè, l, 1-3; 2, 1-7, ed. Lang). Da quel poco che conosciamo di Musonio Rufo,5 ricaviamo ch'egli soprattutto si volse all'insegnamento, inteso come preparazione al ben vivere, come cura per i malati dell'anima, come formazione dell'uomo G Discendente di una famiglia equestre, ongtnaria di Volsini (Bolsena), C. Mu- sonio Rufo nacque intorno al 30 d. C. Nel 60 circa lo troviamo in Asia Minore, dove aveva seguito Rubellio Plauto, ch'egli assisté quando Rubellio Plauto fu eostretto a togliersi la vita per ordine- dell'imperatore. Rientrato in Roma, nel 65-66, fu, in seguito alla congiura di Pisone, condannato all'esilio, insieme al suo amico Cornuto, c confinato nell'isola di Gyaros (Cicladi). Richiamato a Roma da Gaiba, visse abbastanza serenamente sotto Vespasiano. Espulso anche da Vespasiano, che pur lo aveva risparmiato da una precedente espulsione, avvenuta nel 71, Tito lo richiamò in Roma dove sembra che sia morto non piu tardi del 102. Soprattutto dedito all'insegnamento, pare che Musonio non abbia lasciato alcuno scritto. Del suo insegnamento orale restano appunti e frammenti: apoftegmi, brevi trattazioni filosofiche (cfr. Plutarco, Aulo Gellio, Epitteto in Arriano, Stobeo); lezioni vere e proprie (Stobeo) (si vedano ora raccolte da Hense, M: Rufi Reliquiae). Sembra che la fonte comune da cui sono state tratte le citazioni da Musonio, sia un volume di lezioni di lui, composto da un certo Lucio, e le citazioni che di Musonio fece nel suo insegnamento orale, il discepolo di Musonio, Epitteto (Arriano raccolse l'insegnamento di Epitteto). Di un'opera intitolata Memorabili tli Musonio, composta, a quanto pare da Valerio Pollione di Alessandria, del tempo di Adriano, non resta alcuna traccia. Falsa è ritenuta una lettera di Musonio indirizzata a Pancratide.  onesto (k.alol(agathos), la cui cultura e riflessione morale lo rende misurato e rispettoso di se stesso e degli altri: "in realtà, pratica di virtuosità è la filosofia, e non altro" (tpù.oaotp(cx xatÀox&:ycx3-~ 4CM"tv bt~'t"')3euatç xcxt oòa~ l'"pov) (M. Rufi Reliquiae, IV, 10, ed. Hense). Dedito al solo insegnamento, sembra che Musoruo non abbia scritto niente. Di lui possediamo apoftegmi, brevi trattazioni filosofiche, brevi lezioni: alcuni apoftegmi sono riportati da Arriano che li avrebbe ripresi dalle parole di Epitteto; altri, insieme a vere lezioni, si tro- vano in Aulo Gellio, in Plutarco, in Stobeo. La fonte principale di tali citazioni - particolarmente lunghe quelle. riferite da Stobeo - sembra sia uno scritto di un certo Lucio, fiorito sotto Adriano, seguace di Musonio, che ne avrebbe ripreso e sistemato le lezioni. Nessun ricordo resta di un libro intitolato Memorabili di Musonio, scritto da un certo Pollione, dell'età di Adriano. Grande fu l'influenza dell'insegnamento di Musonio Rufo sui con- temporanei, particolarmente su alcuni uomini della classe superiore di Roma, cui lo stesso Rufo apparteneva, che, dall'insegnamento di Musonio, traevano il fondamento ideologico alla loro opposizione poli- tica, come fu per Rubellio Plauto (Musonio fu presente alla sua morte nel 60), Borea Sorano, Minucio Fundano. E se per l'aspetto etico- sociale molto risenti lo schiavo Epitteto dell'insegnamento di Musonio, per la concezione del sovrano ideale, da opporre al sovrano attuale, quale, ad esempio, Domiziano, molto risenti dell'insegnamento di Musonio l'oratore Dione di Prusa, mentre profonda fu l'influenza di Musonio nel tratteggiare l'ideale del saggio (uomo o donna), misu- rato, di buone maniere, dal tratto signorile, in un sapiente distacco, come almeno ci è presentato da Plinio il giovane, che descrive il saggio atteggiamento del suo maestro Artemidoro, genero di Musonio, e dello stoico Eufrate di Tiro (cfr. Plinio, Epist., III, ·u; l, 10). Tante sono - scrive Plinio - le qualità che primeggiano e rifulgono in Eufrate, da essere notate e ammirate anche da gente mediocremente colta. Egli discute con sottigliezza, solidità, bella forma e sovente raggiunge quell'elevatezza e pienezza di espressione che sono proprie di Platone. Ricco, vario, soprattutto persuasivo, è· il suo parlare: si aggiunga un'alta persona, un nobile aspetto, capelli abbondanti, una candida barba fluente, le quali cose se possono essere considl."rate casuali e di poco conto, gli conciliano tuttavia grande venerazione. Nessuna rozzezza nel modo di vestire, nessuna durezza nel tratto, una grande serietà; trattare con lui ispira rispetto, non timore. Una grande purezza di vita e pari affabilità: egli persegue i difetti, non gli uomini, e coloro che sbagliano non li punisce, ma cerca di correg- gerli... (I, 10). Senza dubbio ritrattino di maniera - divenuto oramai un t&pos - esso sembra, comunque, riflettere abbastanza bene quale fosse l'ideale dell'uomo per bene, per una società per bene, in un mondo piuttosto per male. Musonio Rufo, cavaliere romano, discendente da una famiglia equestre di Volsini (Bolsena), nacque nel 30 circa. Nel 65-66, all'indo- mani della congiura di Pisone, venn!! da Nerone mandato in esilio a Gyaros (piccola e impervia isola delle Cicladi). Tacito annota: "Lo splendore del nome fu la ragione perché fossero banditi Verginio Flavo e Musonio Rufo, l'uno perché affascinava i giovani con l'elo- quenza, l'altro con i precetti della filosofia" (Ann., XV, 71). La breve annotazione di Tacito è assai indicativa. Essa conferma che l'insegna- mento di Musonio, per quanto dato con molta misura, in particolare ai giovani, poteva da un lato apparire, nella sua concezione di quello che ha da essere l'uomo, un rimprovero continuo all'imperatore, e dall'altro lato nella delineazione di quello che deve essere il sovrano, non tale se non è a un tempo uomo sul serio, cioè filosofo, una ripresa del vecchio ideale stoico dello Stato, da opporre allo Stato attualt;. L'estremo conservatorismo e i precetti di Musonio, ispirantisi, come dicevamo, a un originario e vago stoicismo di sfondo (uno l'universo, manifestazione della divina ragion d'essere," per cui tutto si trova là dove è bene che sia in una necessaria catena, fatalmente scandentesi), il suo continuo invito alla purezza della vita, all'amore reciproco, per- fino al rispetto di norme igieniche (in tal senso vanno · presi certi suoi inviti alla frugalità, all'astensione dalle carni e cosi: via, che· hanno fatto parlare di un suo pitagorismo, o, per certa sua rigidità, di ci- nismo), assumono un loro mordente e una loro portata di rivolta, qua- lora si consideri l'ambiente e gli uomini in mezzo ai quali e per i quali Musonio ha operato. Posto che "filosofia" è cultura e consapevolezza di sé, dei propri limiti e perciò stesso delle proprie possibilità entro quei limiti, e che dunque essere filosofo significa attuare pienamente la propria nai;Ura di uomo, in forma eccellente, esser filosofo vuol dire essere virtuoso, per cui tutti, in quanto tutti siamo uomini, siamo cioè esseri che hanno la capacità di essere ragionevoli, tutti abbiamo per natura, cia- scuno per ciò che gli compete, la possibilità di essere virtuosi, il seme della virtu, O"ltép!J.ot &.pe:rijt; (II, 7-8, Hense). Dovere dell'uomo è, quindi, ragionare, cioè sviluppare tale.~eme, che a tutti è ugalmente comune, onde tutti hanno il dovere d'essere "filosofi," gli uomini come le donne (III), i poveri come i ricchi, i sudditi come i sovrani (VIII). Avviare gli altri a filosofare, tale il dovere del saggio, di fronte a chi, preso dall'immediatezza sensibile, preso dall'una o dall'altra cosa, vive nella passione, è disperso, non è se stesso. E per questo, per avviare gli altri a pensare, a rendersi chiare le prPPrie idee, Musonio riteneva non necessari né molti discorsi né molte dottrine, ma, soprattutto, l'esempio da un lato, e, dall'altro lato, l'esercizio (VI), cioè l'insegnare e l'imparare a ragionare (logica), mediante cui ci si forma uomini (I e II). Di qui la tesi fondamentale di Musonio, che venne poi sviluppata e approfondita, in un richiamo all'antico stoicismo, tipo quello di Ze- none di Cizio e di Aristone di Chio, da Epitteto. Posto che, entro i termini della tradizione stoica - in un'accettazione piu dommatica che riflessa - in natura tutto è bene, ché tutto è momento necessario del realizzarsi dell'unica ragione, il problema grosso consiste, allora, nel risolvere il rapporto necessità universale e capacità, nell'uomo, in quanto ha in sé un seme di ragione, di adeguarsi o meno, liberamente, a quell'ordine e a quella necessità. Ancora una volta si ripresentava il vecchio problema implicito in una coerente posizione stoica: il pro- blema del fato e, quindi, di conseguenza, il problema ·se all'uomo è dato, almeno entro certi limiti, il potere di agire, se v'è una zona su cui potere operare, anche se tale possibilità, rendendosene consapevoli (e sarebbe già questa un'attività propria), consiste nell'accettare lieta- mente l'ordine stesso del tutto, tutto ciò che avviene. La virtu (bene) consisterebbe, dunque, nel sapere usare. la ragione, il vizio (male) nell'esser preso dalle cose, nel dare alle cose e ai sentimenti un valore unilaterale, disordinato, nello sragionare, per cui tutte le cose sono indifferenti, considerate dal punto prospettico della ragione, in rela- zione a ciò che nel vizio è detto bene, che nel vizio fa piacere. Ne deriverebbe perciò, entro i termini del piu antico stoicismo, che ogni azione essendo positiva, la differenza tra virtu e vizio sta non in ciò che facciamo, ma nel come agiamo, o meglio nel come accettiamo, nell'intenzione (vedi I vol.: Zenone, Cleante, Crisippo). Si ammetta che tutta la realtà si costituisce mediante la ragion d'essere del tutto secondo una necessità, e che, perciò, tutto è bene, o meglio come deve essere, in sé né bene né male e che tale è la natura; si ammetta anche, come dato di esperienza, che l'uomo da un lato è passione, cioè è di volta in volta preso da questa o da quella rappresentazione, che si accavallano in lui, trascinandolo indifferentemente, in opposte dire- zioni, per cui l'uomo è incoerente, e non da lui dipendono le cose, e che dall'altro lato, invece, ha la capacità di coordinare quelle passioni, di non essere piu preso da questa o da quella, ma di costituire sé in unità e coerenza, valutando le stesse rappresentazioni in un ordine per cui ciascuna nel discorso si colloca dove è bene che sia; ne segue che non incoerentemente si può concludere che la libertà umana con- siste, appunto, in questa sperimentata capacità di vivere secondo ra- 318    gione, o meglio in questa esperienza di una capacità di scelta tra l'essere preso da questa o quella rappresentazione, e l'agire, pur sempre entro i medesimi dati, rendendosi conto, attraverso il discorso e un retto ragionare, delle stesse passioni, che, in quanto comprese, ricollo- cate nel loro giusto posto, cessano di essere passioni, in un'unica vita secondo ragione. In tale direzione sembra si debba interpretare l'ap- pello alla r~gione e al vivere filosoficamente da parte di Musonio, e, soprattutto, un frammento - va detto che è un testo ricavato da un'opera Sull'amicizia di Epitteto, andata perduta, - in cui Musonio sostiene che bisogna saper distinguere tra ciò che è in potere nostro (~q/ ~fL'i:v) e ciò che non lo è (oùx ~q:/ ~fL'ì:v)(cfr. XXXVIII, Hense). In nostro potere è il sapere usare le rappresentazioni, da cui la giusta valutazione delle cose, e perciò la liberazione dalle passioni, dalla vita dispersa, dall'amore unilaterale per questa o per quella cosa, che, in questo senso, rimanendo incomprese e, dunque, altre da noi, restano non in nostro potere. Sembra cosf chiaro perché per Musonio, onori cariche e cosf via non siano beni, perché non siano beni i piaceri immediati, tutto ciò che è dovuto alla vita dispersa, esteriorizzata, ma che l'unico bene in cui consiste l'unica libertà possibile, e perciò l'unica virtu e felicità, stia in ciò che dipende da noi, cioè nel saper pensare, nel vivere secondo ragione, nel nostro modo di atteggiarsi nei con- fronti della realtà, nel cui atteggiamento consiste l'esperienza della volontà come-intenzione. Se in tale interiorizzazione della realtà e degli avvenimenti, se in tale capacità di valutare rettamente cose e avvenimenti, consiste la comprensione, il vivere filosoficamente, virtuosamente, l'insegnare agli altri a sviluppare la razionalità, quel seme di virtu che è proprio a tutti per natura, è dovere del saggio, dell'uomo. In questo senso Musonio indirizzò tutta la sua vita, in questo sentire l'insegnamento come dovere, sia nei confronti dei giovani, sia degli adulti, che in quanto presi dalle passioni, in realtà sono non uomini, sono come ammalati che hanno bisogno di cure. E in un mondo quale fu quello di Roma tra Caligola, Nerone e Domiziano, si capisce che Musonio vedesse ovunque amma- lati gravi, per i quali erano necessarie drastiche medicine, per avviarli ad essere razionali. Di qui il suo appello al bene comune, al rispetto per l'uomo in quanto possibilità d'essere razionale. Per ciò egli sotto- linea l'importanza che gli ·schiavi siano trattati non come cose ma come uomini, che come cose e strumenti di piacere non siano considerate le donne, bensf come "uomini," e·che quindi il matrimonio non sia solo un contratto, ma anche un valore (XIIIh-XIV), da cui la condanna dell'uso di abbandonare i figli non desiderati ("meglio tanti fratelli che tanto denaro," esclama una volta). Se tali debbono essere gli uo-  319   mini, se non v'è società senza reciproco rispetto, fondato sul ricono- scimento di una.possibile comune razionalità, tanto piu dovrà essere virtuoso, cioè "filosofo," chi ha in mano il governo dello Stato, l"'uomo regio" (~cxaLÀLxÒç &vl)p), sosteneva Musonio, come appare da una sua lezione andata sotto il titolo Anche i re debbono studiare filo- sofia (VIII). Per Musonio non si tratta tanto di delineare quale debba essere il sapere proprio dei sovrani, nel senso in cui tale questione è trattata nel Politico di Platone, quanto di mostrare che il sovrano giusto è il sovrano che sia "filosofo," cioè.virtuoso sf come tutti gli altri uomini. "Ammesso che funzione dell'uomo regale è di sapere reggere bene le nazioni o le città e d'essere degno di governare gli uomini, chi, chiediamo, piu del filosofo saprebbe reggere bene una città, o chi piu di lui sarebbe degno di governare gli uomini? Poiché, se veramente è filosofo, sarà saggio, misurato, magnanimo, capace di rendersi conto di ciò che è giusto e di ciò che conviene, di effettuare le sue decisioni e di reggere a dure fatiche" (VIII). Dopo la morte di Nerone (68 d. C.), Musonio, che anche durante l'esilio nell'isola di Gyaros aveva continuato il suo insegnamento rivolto a tutti coloro (e furono molti), che attirati dalla sua fama erano andati a trovarlo, fu richiamato a Roma dall'imperatore Gaiba. Dopo gli effimeri governi di Gaiba, Otone, Vitellio (68-69 d. C.), è noto che Vespasiano (70-79), nel tentativo di riportare l'impero alla pace, s'ispirò a un governo simile a quello di Augusto. Se cosf dapprima non vide di malocchio soprattutto certe posizioni stoiche, di cui sembra che par- ticolarmente apprezzasse quella di Musonio, in un secondo momento, allorché l'opposizione di Elvidio Prisco, che pur sempre vedeva nel- l'Imperatore non il princeps, ma il tiranno, un governo personale, parve ispirarsi proprio a tesi stoiche e ciniche, Vespasiano, ritenendo estrema- mente pericolosi gl'insegnamenti stoici per l'unità dell'Impero, nel 71 bandf tutti i filosofi tranne Musonio, che, tuttavia, allontanò pi6 tardi, nel 75. Sotto Tito (79-81), che riprese la politica pacificatrice del padre, cercando di dare all'Impero anche un fondamento ideologico, Musonio venne richiamato a Roma. Altre notizie di lui non si hanno. Proba- bilmente morf prima del bando dei filosofi, ordinato nel 94 dal fratello e successore di Tito, Domiziano (81-96), che deCisamente si volse ad un ~ccentramento di tutto il potere nelle proprie mani. Tra i pensatori e i maestri che nel 94 furono costretti ad abbandonare Roma, vi fu il piu intelligente e solido discepolo di Musonio, Epitteto.., il Diflicile è precisare le date della vita di Epitteto. Se nella Suda si legge che Epitteto visse lino all'avvento di Marco Aurelio (161 d.C.), la aonologia del suo editore Arriano porterebbe a spostarne la nascita in epoca un po' piu antica. Nato nel 320    Egli non si spostò molto né dalla concezione né dal tipo di insegna- mento di Musonio. Epitteto, come Musonio, non pretese mai di dare ).m'esposizione sistematico-scolastica di una certa dottrina. Di volta in volta, prendendo spunto da domande di discepoli o da quesiti posti da chi si recava da lui, dal saggio, per averne consigli, si intratteneva in discussioni brevi e serrate, ove ogni volta, sia pur da punti di vista diversi, si ripresentano gli stessi motivi - alcuni àei quali riprendono, portati alle estreme conseguenze, quelli prospettati da Musonio - approfonditi nelle loro varie facce, in un atteggiamento rocratico, al quale non poche volte Epitteto si richiama. Specchio fedele delle con- versazioni di Epitteto, di questo suo modo di insegnare attraverso la rappresentazione viva della formazione di un certo ragionamento, at- traverso il dialogo e la discussione, in situazioni precise, in un concreto e vivo rapporto di uomini vivi tra uomini vivi, è il complesso degli appunti che un seguace di Epitteto, il ·generale romano Arriano di Nicomedia, ha raccolto e, poi, pubblicato (sembra che Arriano abbia, di volta in volta, stenografato le conversazioni del maestro). Dice lo stesso Arriano nella lettera prefatoria alla sua raccolta, dedicata a Lucio Gellio: Non ho redatto i discorsi (Myo') di Epitteto come si potrebbe redigere materia di tal genere e neppure li· ho pubblicati, io che dico di non averli redatti. Ma tutto quello che ho sentito dire da lui, trascrivendolo, per quanto fosse possibile con le stesse parole, ho cercato di serbarmelo per il futuro a ricordo (~o!Lvi)!L«-rct) del suo pensiero e dd suo libero parlare. Quindi, com'è naturale, tali note hanno l'andamento di quel che uno dice all'altro per bisogno spontaneo e non di quel che si potrebbe redigere per destinarlo in futuro a lettori. In tale forma, dunque, io non so come, contro la mia volontà e a mia insaputa, capitarono in pubblico. Per me, certo, non ha im- 50 circa, a Jerapoli, nella Frigia meridionale, schiavo, forse figlio di schiavi, giovane fu condotto a Roma, dove fu servo di Epa&odito, liberto di Nerone. Ancor prima d'essere liberato da Epa&odito, Epitteto ebbe il permesso di ascoltare le lezioni di Musonio Rufo, probabilmente dopo il secondo ritorno di Musonio dall'esilio, al tempo dell'imperatore Tito. Epitteto ricordò sempre Musonio come suo unico maestro. Sembra che dall'SO in poi Epitteto, ormai libero, abbia tenuto in Roma le sue lezioni, finché nel 94 fu espulso da Roma su decreto di Domiziano, insieme a tutti i filosofi, matematici e astrologi. Epitteto si ritirò a Nicopoli, in Epiro, dove prosegui il suo insegnameuto, fino alla morte, avvenuta tra il 125 e il 130. Epitteto non scrisse nulla. Le sue lezioni, dialoghi, discorsi, consigli, commenti di testi, trascritti da Arriano di Nicomedia, suo discepolo, al tempo di Nicopoli, furono poi pubblicati da Arriano subito dopo la morte di Epitteto, in un complesso di libri andati sotto il nome di Diatrib~. Arriano compone anche una specie di summa delle massime capitali di Epitteto, andata sotto il nome di Enchiridion o Manuale. Frammenti ci sono pervenuti per opera di Auto Gellio (2), di Marco Aurelio (3), di Arnobio (1), di Stobeo (23). Sulla questione delle Diatribe sulle altre possibili raccolt e dilezioni di Epitteto confronta sopra il testo. ] portanza se apparirò un redattore incapace; per Epitteto, poi, ancora meno, se taluno avrà a disdegno il suo linguaggio, giacché si vedeva chiaramente che, anche parlando, niente altro cercava se non di eccitare al meglio i suoi ascoltatori. Se, quindi, per lo meno a tal fine riuscissero questi discorsi (>.Oyo~), otterrebbero, io penso, quel che debbono ottenere i discorsi dei filo- sofi: altrimenti, sappiano quelli, nelle cui mani essi giungono, che, quando Epitteto li profferiva, l'uditore di necessità provava i sentimenti ch'egli voleva fargli provare. Se poi da sé non riescono a tal fine, forse ne sono io la causa, forse è destino che sia cosf. Addio. Non sappiamo quale titolo abbia dato Arriano alla sua raccolta. Egli nella lettera citata usa due termini: Discorsi (l6got) e Memorie (Hypamnimata). La tradizione ha dato all'opera il titolo di Diatribe (à~or.-rp~~or.(). Solo che molti autori antichi che parlano di Diatribe di Epitteto, parlano anche di Dissertationes (dialécseis), di Hypam- némata, di Omilie, di Apomnemoneuta, di Scholai (cfr. Aulo Gd- lio, l, 2, 17, 19; Marco Aurelio, Ricordi, l, 7; Fozio, Bibl., in Comm. Enchiridion, ed. Schenkl, test. VI; Simplicio, Comm. Enchir., ed. Scenkl, test. III; Damascio, ed. Schenkl, test. IV). Fozio sostiene, inoltre, che Arriano avrebbe scritto otto libri di Diatribe di Epitteto e dodici libri di Omilie (conversazioni). Senza dubbio la raccolta di Arriano (dia- tribe) quale è giunta (in 4 libri) è mutila. Aulo Gellio (XIX, l, 14-15) parla di un quinto libro; l'Enchiridion o il Manuale (l'altra opera di Arriano, che è una specie di summa dei motivi fondamentali delle Diatribe) contiene molti passi e motivi che non hanno riscontro nei quattro libri che leggiamo, cos{ come un frammento di Stobeo (fr. l, in Stobeo, Ecl., Il, l, 31 W.), testo certamente estratto dalle Diatribe, non corrisponde a nessun passo dei nostri quattro libri. Posto, dunque, che l'opera originaria di Arriano fosse in piu di quattro libri (otto o do- dici), ci si è chiesti se gli autori antichi indicassero con gli altri titoli (Omilie, Hypomnimata, Apomnemoneuta, ecc.) altre opere o redazioni diverse, o le stesse Diatribe. Non abbiamo una documentazione tale da poter essere certi. Si resta sempre nel campo delle ipotesi (per le varie discussioni e ipotesi, cfr. J. Souilhé, Introduzione a Epict~te, Entretiens, coli. "Belles Lettres," Parigi). L'opinione, oggi, maggiormente diffusa - già sostenuta nel 1741 da J. Upton, Epicteti quae supersunt Dissertationes, II, Londra, p. 4, - è che sotto i numerosi titoli riferiti dalla tradizione ~i indicas- sero non opere diverse di Arriano, ma sempre la raccolta che ha poi assunto il titolo di Diatribe. "Se si pensa alla libertà con cui gli antichi citavano le loro fonti, non ci stupiremo che una sola raccolta sia stata indicata in tanti modi, tenendo inoltre presente che molte copie erano 322    già circolate prima che l'autore ne consentisse lui stesso la pub- blicazione... D'altra parte, i termini 8Lcx-tpL~-Ij, ax_oì..1j,.8L<Xì..e!;Lt;, O(LLÀ(cx hanno significati molto prossimi e sono spesso usati come sinonimi" (Souilhé, cit., p. XVIII). Il dubbio resta, se mai, per i dodici libri delle Omilie, citati da Fozio, accanto agli otto libri delle Diatribe e all'En- chiridion. Certo i frammenti che troviamo in Stobeo dovevano far parte dei libri perduti delle Diatribe. Ad ogni modo è molto indica- tivo, in quanto è già un'interpretazione del significato del pensiero di Epitteto, del suo modo e del fine d'insegnare, che abbia prevalso il titolo Diatribe. Il termine diatriba, che in origine era sinonimo di dialogo o di discorso, in senso educativo (cfr. già in Platone il termine usato per indicare i discorsi di Socrate ai suoi concittadini: Apologia, 37d; Clitofonte, 406a), si allargò poi a significare tanto dialogo, trat- tato morale non dialogico, lezione, dissertazione su argomenti diversi (di retorica, di musica,.di matematica, di fisica), quanto predica e soprattutto predica di tipo popolare (in questo senso, con i cinici, il termine assume un significato tecnico). Ad ogni modo, sia che con diatriba s'intendesse la discussione e il dialogo in senso socratico, sia la dissertazione e la lezione su argomenti diversi, sia la predica popo- lare, la diatriba ha sempre indicato un rapporto diretto e concreto tra maestro e discepoli, indipendentemente da qualsiasi forma di insegna- mento professorale, sistematico, in organizzazione scolastica. In altre parole con diatriba s'intendevano le riunioni - e quindi, poi, anche il luogo di tali riunioni, in questo senso detto schola- presso un qualche pensatore dal quale ci si recava come da maestro e consigliere, capace di dirigere il dibattito, di far pensare, di formare la personalità, in un libero rapporto, anche se, naturalmente, il maestro indirizzava a una sua certa concezione, ma non appunto esponendo in forma sistema- tica e dogmatica una precisa dottrina. Sotto questo aspetto, relativa- mente alla raccolta degli insegnamenti di Epitteto, riferiti da Arriano (anche la divisione in libri è accidentale, estrinseca, ché in ogni libro, anche se da punti di vista diversi, ritornano gli stessi motivi, facenti tutti perno su due fondamentali: quel che dipende e quel che non di- pende da noi; e la problematica della libertà), il titolo che ha prevalso, Diatribe, è esatto. Esso sta già ad indicare ciò che, in effetto, Epitteto intendeva con filosofia: capacità, attraverso un retto insegnamento, di sviluppare in forma corretta la comune ragione, mediante cui l'uomo forma se stesso uomo, per cui sapiente è chi sa pensare, e poiché saper pensare significa ad un tempo saper vivere, la filosofia non è tanto descrizione della realtà, o scienza, ma moralità; la filosofia perciò non è normativa, ma formatrice nel suo determinarsi come appello, che non dà contenuti, ma si richiama al vivere secondo ragione, mediante certe tecniche retoriche che 5<: da un lato si rifanno ·ai dialogo socr~ tico, ·dall'altro lato si determinano in una dis'cussione che finge il dibat- tito giudiziario o conflitti di idee tra personaggi di un dramma (il che era proprio della diatriba popolare). Quando nel 94, costretto ad allontanarsi da Roma per decreto di Domiziano, che bandiva tutti i filosofi, matematici astrologi, giunse a Nicopoli (la città della vittoria,. in Epiro, fondata da Augusto in ricordo della vittoriosa battaglia di Azio), ove apri una nuova scuola, divenuta presto un centro di discussioni ("diatriba"), dove moltissimi si recavano per avere consigli o sciogliere dubbi morali (le Diatribe e il Manuale rispecchiano questo periodo del suo insegnamento), Epit- teto aveva quarantaquattro anni circa. Già uomo nel pieno della ma- turità, portava con sé sia l'esperienza del mondo di Roma tra Nerone e Domiziano ("non è troppo sicura l'occupazione del filosofo, special- mente ora, a Roma": Diatribe, Il, 12, 17), sia l'approfondimento e il ripensamento dell'insegnamento del suo maestro Musonio Rufo. Epit- teto era nato intorno al 50, ad Jerapoli, la città santa, centro della religione di Cibele, nella Frigia meridionale. Schiavo - c'è chi ha sostenuto che il s~o stesso nome, epitteto, indicasse la sua condizione di schiavo, - figlio di schiavi, almeno secondo un'antica iscrizione (in Schenkl, Epict. Diss., p. VII, test. XIX), Epitteto fu condotto a Roma ancora giovanetto e comperato da Epafrodito, liberto di Nerone, che faceva parte delle guardie del corpo dell'Imperatore, e che aiutò Nerone a suicidarsi (Svetonio, Nerone, 49, 5; Domiziano, 14, 2). Rimaniamo incerti sulle diverse notizie trasmesseci intorno ai rapporti tra Epitteto ed Epafrodito. Prepotente nei confronti dei propri schiavi, Epafrodito si sarebbe divertito a tormentare anche Epitteto. Si narra (Celso, Ori- gene, Gregorio Nazianzeno) che giunse un giorno a spezzargli una gamba. "Questa gamba si spezzerà," avrebbe commentato Epitteto, mentre Epafrodito lo tormentava: " T e l'avevo detto che si sarebbe spezzata," avrebbe concluso Epitteto, còme se non si trattasse del proprio arto, ma di urta dimostrazione sulla causa e l'effetto (cfr. Celso, in Origene, Contro Celso, VII, 53). Troppo stoico-cinico è questo aneddoto per non avere il sapore di ricostruzione a posteriori, per delineare la figura di Epitteto stoico, che si sapeva zoppo fin dalla gioventu (cfr. Simplicio, in Schenkl, cit., p. VII, test. XLVII). La Suda, invece, molto meno pittorescamente, riferisce che l'infermità di Epitteto era dovuta ai reumatismi. Certa resta, invece, l'importanza ch'ebbe per Epitteto l'esperienza del rapporto servo-padrone, in un'ap- profondita meditazione sul significato della libertà e su ciò che dipende o no dall'uomo. Entro questi termini va veduto il rapporto Epitteto- Epafrodito. E, forse, anche l'aneddoto della gamba spezzata e della impassibilità di Epitteto tende ad interpretare tale rapporto, non su di un piano personale, ma, prendendo le mosse da un'esperienza con- creta (il fatto d'essere schiavo), su di un piano etico-metafisico. In effetto, sul rapporto necessità-libertà, realtà.che è quella che è, ineso- rabile, da cui dipendiamo - e che per ciò ci è estranea e, qualora la si comprenda, indifferente - e riflessione sulla umana capacità, nella consapevolezza dei nostri limiti e della nostra non libertà, di poter determinare un nostro modo di vita che dipende da noi, qualora si sappia ragionare, non facendosi prendere dai fantasmi, onde tutti siamo ad un tempo servi e padroni, a seconda dell'atteggiamento che assumiamo nei confronti delle cose, su tale rapporto si è svolto e approfondito il pensiero di Epitteto. E, probabilmente, proprio queste prime discussioni, che Epitteto ebbe con Epafrodito (e traccia di esse è, appunto, l'aneddoto della gamba), spinsero Epafrodito a permettere ad Epitteto, ancor prima di concedergli la libertà, di frequentare Mu- sonio Rufo. Senza dubbio, nell'insegnamento di Musonio, Epitteto trovò chiarita gran parte della sua problematica umana. "Quando Musonio parlava - dirà ancora a distanza di tempo Epitteto, - noi, seduti accanto a lui, credevamo davvero, ognuno per sé, che qual- cuno gli avesse parlato· dei nostri difetti: cosf fortemente egli era legato alla realtà, cosf vividamente poneva davanti agli occhi di ciascuno le sue debolezze. ~ una clinica, uomini, la scuola di un filosofo: non si deve uscirne gioiosi, ma pieni di dolori..." (Diatrib~, III, 23, 29-30). E fu a Musonio ch'egli dovette l'impostazione stoica della sua medita- zione, tenendo soprattutto conto da un lato di Zenone di Cizio (l'indagine sul retto pensare che è, ad un tempo, retto vivere), e, dall'altro lato, di Crisippo (il problema del rapporto fato-libertà), che lo ripor- tavano all'altro aspetto del problema logico e del problema della li- bertà (essere se stesso), impostato dai cinico-socratici (Antistene, Ari- stone di Chio, ove.di Aristone non va dimenticata la tesi del giuoco delle parti). Basta scorrere le Diatrib~ per rendersi conto che tra gli au- tori pio citati sono Zenone di Cizio e Crisippo, che di Cleante si citano i versi sul Fato, che non si accenna affatto a Boeto, a Panezio, a Posidonio, che si sorvola su Archedemo e Antipatro, mentre non poche volte è citato Diogene di Sinope, Socrate, Antistene, Platone socratico, Senofonte. Sembra, anzi, che accanto alle discussioni, ai con- sigli, ai dialoghi con i.suoi uditori, suscitati di volta in volta da singole domande, da singole questioni poste sul tappeto (Diatrib~), Epitteto svolgesse nella sua scuola, a Nicopoli, vere e proprie "lezioni," ch'egli cioè leggesse e commentasse testi, di Zenone e particolarmente di Cri- sippo (dice il BonhOffer, Di~ Ethik d~s Stoikers Epicta, p. 2, che il •libro sacro," heiliger Kod~:c, di Epitteto era l'opera di Crisippo,  325   mentre il Bruns, De schola Epicteti, pp. 3 sgg., finemente sottolinea contro la tesi dello Zahn, Der Stoìk_er Epik_tet u. sein V erhaltnis zum Christentum, p. 37, secondo cui Epitteto avrebbe tenuto solo conferenze e dialoghi, che i termini OCVotyLyv6laxe:LV e OCv<iyvCliO"!J.ot, piu volte usati nelle Diatribe per indicare un modo di insegnamento, non sono sinonimi di 3~a3otL, ma significano, mantenendo il loro valore originario, la lezione, la lettura o prelezione e l'esplicazione dei testi). Sulla linea, dunque, dello soicismo cinico piu che su quella dello soicismo in chiave platonica, Epitteto svolse il suo insegnamento in un impegno essenzialmente educativo. Probabilmente sviluppo di un motivo proprio di Musonio, è l'insi- stere di Epitteto sull'educazione come formazione dell'uomo, me- diante l'educazione a sapere correttamente pensare, che lo riporta, appunto, a Zenone di Cizio e a Crisippo. Tutti gli uomini, in quanto animali razionali, hanno una comune ragione, hanno le stesse guise, gli stessi modi, che, formalmente, sono condizioni del comune pen- sare. Tali modi, tali guise o principi, su cui si fondano i discorsi, tali prenozioni {7tpoÀ~IjieLç, prolép,seis) o idee prime, proprie di tutti, e su cui tutti siamo d'accordo, e sulle quali non siamo in contraddizione, sono, in quanto non contraddittorie, rappresentazioni sempre vere. La contraddizione, il falso, e perciò il disaccordo, nascono nell'applica- zione delle "prenozioni" ai casi particolari. Le prenozidni sono comuni a tutti gli uomini, e prenozione non con- traddice a prenozione. Chi di noi in realtà non ammette che il bene è utile, e anche desiderabile, e che in ogni circostanza si deve ricercarlo e seguirlo? Chi di noi non ammette che il giusto è bello e conveniente? Allora, quando sorge la contraddizione? Nell'applicare le prenozioni ai casi particolari: quando uno dice: "Ha agito bene, è valoroso" e l'altro "No, ma è dissennato. Ecco in che modo gli uomini si contraddicono tra loro. Certo Giudei, Siri, Egiziani e Romani, non si contraddicono sul fatto che la santid va sti- mata sopra tutto e perseguita in ogni occasione, ma sulla questione se è conforme a santid o no cibarsi di carne suina... L'educazione filosofica con- siste nell'apprendere ad applicare le prenozioni naturali ai casi particolari in maniera congruente a natura e, per il resto, nel distinguere tra le cose, quelle che dipendono da noi e quelle che non dipendono da noi (Diatr. l, 22, 1-4, 9-10): Né vere né false le rappresentazioni prese a sé (ogni oggetto si determina e assume realtà nella rappresentazione, e, perciò, nel suo esser detto, donde l'importanza di tener sempre conto dei nomi, s{ che l'un nome non evochi altra rappresentazione, e non derivino al discorso la contraddizione, l'equivoco e il paralogismo sofistico), rappresentazioni anche le nozioni morali, il vero e il falso stanno nel discorso, cioè nel giudizio. D'accordo, sotto questo aspetto, con i cinici (Antistene) e con gli scettici, ma entro i termini della soluzione della logica di Zenone di Cizio (che permette la predicazione: logica pro- posizionate), Epitteto può sostenere che la "ragione" è un "sistema di rappresentazioni diverse" (Diatr., l, 20, 5-6). "Per questo," aggiunge Epitteto, "compito del filosofo, il piu importante e il primo, è sag- giare le rappresentazioni e distinguerle e nessuna accogliere che non sia stata saggiata" (Diatr., l, 20, 7). "Cominciamo con la logica allo stesso modo che, per misurare il grano, cominciamo con l'esaminare la misura. Se, infatti, non determiniamo dapprima che cosa è il moggio, se non determiniamo dapprima che cosa è la bilancia, come potremo piu misurare o pesare qualcosa? E nel nostro caso, se non conosciamo con esattezza e precisione il criterio delle altre cose, criterio grazie al quale le conosciamo, ne potremo conoscere qualcuna con esattezza e precisione? Com'è possibile?... Compito della logica è discernere ed esaminare il resto, e, si potrebbe dire, il misurarlo e pesarlo. Chi l'afferma? Solo Crisippo, Zenone e Cleante? E Antistene non l'afferma? Chi ha scritto che l'osservazione dei termini è l'inizio dell'educazione filosofica? [cfr. Diogene L., VI, 3] E Socrate non l'afferma? Di chi scrive Senofonte [Mem., IV, 6, l] che incominciava dall'osservazione dei termini, quale fosse il significato di ognuno?" (Diatr., l, 17, 6-12). Irragionevole e folle, e, dunque, passionale, schiavo, è chi vien preso, di volta in volta, da questa o da quella r!lppresentazione, chi non sa connetterle, rendendosi conto delle proprie rappresentazioni, e obbiet- tivarle in un discorso vero, dominando cosf le rappresentazioni stesse. Su questa linea, perciò, si capisce come Epitteto ritenga incoerenti anche gli scettici, i quali per negare valore di obbiettività a qualsiasi ragio- namento (tutti, sul piano del vero, possibili perché arbitrari, nessuno piu vero dell'altro, oò3~ (LWOV: Il, 11, 15), ricorrono ad un ragionamento che può convincere della loro tesi in quanto non viene meno alle co- muni condizioni che rendono verace un ragionamento, e gli epicurei, relativamente alla loro tesi che l'uomo è felice qualora viva non so- cialmente, ché, anche essi, per sostenere questo si servono di ciò che vogliono togliere (la socialità, cioè il discorso stesso) (cfr. Il, 20). Le proposizioni vere ed evidenti, sottolinea Epitteto, le adoperano di necessità anche quelli che le contraddicono: anzi la prova piu grande dell'evidenza di un'affermazione.è, si può dire, il fatto che sia trovata necessaria e utilizzata da quello stesso che la contraddice" (Diatr., II, 20, 1). Se formalmente, dunque, vi sono delle condizioni comuni e neces- sarie (prenoziom) che permettono il discorso, il discorso verace e quel discorso che, trovando il suo contenuto nelle rappresental:ioni, connette l'una all'altra le rappresentazioni in un sistema, ove le une e le altre rappresentazioni si articolano in 11:on contraddizione con le condizioni stesse. Sapere pensare, dunque~ e a questo deve avviare l'educazione filosofica, consiste da un lato nel ricercare e sistemare le prenozioni, dall'altro lato nel sapere usare le proprie rappresen- tazioni (xpljar.<; cpcxvrcxat&v ), mediante cui ci liberiamo dalla pas- sione e dalla unilateralità, in una obbiettivazione che ci dà la misura e il valore delle cose, indipendentemente da come esse apparivano nella prima immediata rappresentazione (opinione). La particolare struttura dell'intelletto ci mette.in grado di non ricevere le impronte delle cose, soggiacendo ai sensibili, ma anche di fare una scelta di esse, di sottrarre, di aggiungere, di comporne altre da noi, di passare dalle une alle altre che in qualche modo sono affini (Diatr., I, 6, 10). E se tutti gli animali hanno rappresentazioni, la differenza tra l'animale irrazionale e l'animale razionale (l'uomo) è che mentre l'ani- male irrazionale usa le rappresentazioni che lo attraggono e lo spin- gono ad agire (mangiare, bere, riposare, accoppiarsi, compiere ciascuno quante altre cose rientrano nell'ambito del proprio agire: Diatr., I, 6, 13-14), l'uomo non solo usa le rappresentazioni, ma ha anche la capa- cità di rendersene conto, di comprenderne l'uso, liberandosene e, perciò, sapendo agire razionalmente. Il che non significa, che, dunque, l'uomo non deve mangiare, bere, riposarsi, accoppiarsi e cosi via, ma che deve rendersene conto, collocando ogni rappresentazione e affezione al suo giusto posto, sapendo quello che ciascuna vale. E se l'animale irrazio- nale realizza pienamente sé in quanto vive secondo le sue rappresen- tazioni-passioni, l'uomo realizza sé, vive secondo natura, in quanto comprendendo l'uso delle rappresentazioni, costituisce sé razionalmente e, perciò, comprende sé e gli altri, ponendo sé e gli altri e le cose al loro giusto posto, nòn facendosi prendere piu dall'una che dall'altra cosa, piu dall'uno istinto che dall'altro. Questa è quella ch'Epitteto chiama contemplazione (8-Ec.>p(cx), che consiste, appunto, nella com- prensione, in una visione (&ec.>p(cx) obbiettiv.a di un sistema di rap- presentazioni, che è "intelligenza (1tcxpcxxoÀoò&eau;) e tenore di vita conforme a natura: badate dunque a non morire senza aver contem- plato queste realtà" (Diatr., l, 6, 21-22). ("Filosofare consiste nell'esa- minare e nel considerare le norme" che permettono il pensare verace e per ciò necessario e universale, ·comune a tutti gli esseri razionali: "usare tali norme, una volta conosciute, è dovere dell'uomo dabbene": Diatr., II, 11, 24.) Certo, il modo come si costituiscono le rappresentazioni, com'esse vengono sussunte dalle "prenozioni," se le prenozioni, sia pur for- malmente, siano vere e proprie idee innate, quali siano i modi con cui si articolano correttamente tra di loro le rappresentazioni, tutto questo è appena accennato da Epitteto. Probabilmente, per quel che sappiamo, tali questioni egli le doveva approfondire ed esporre nelle "lezioni," e poiché, per sua stessa testimonianza, sappiamo che leggeva testi di Zenone e di Crisippo, diremmo che tecnicamente Epitteto doveva esporre la logica entro i termini di Antistene-Zenone-Crisippo. D'altra parte ciò che piu interessava Epitteto era, mediante la logica, avviare gli altri ad essere uomini, a non vivere unilateralmente e pas- sionalmente. E questo fu soprattutto il compito delle diatribe. E cos(dalle diatribe non riusciamo a sapere quale fosse la concezione epitte- tiana dell'Universo, se non ch'egli analogicamente, tenendo presente il fatto che la ragione è attività unificatrice che costituisce il tutto in un unico discorso, riprendendo l'ipotesi dello stoicismo antico - ancora qui Zenone e Crisippo - sosteneva che il tutto è come un unico di- scorso, retto da un'unica ragione, s(come fosse una "città sola." Questo mondo è una città sola, come pure la sostanza di cui è stato composto, e cosi una sola è la necessità di un movimento periodico e di un ritirarsi di alcune cose dinanzi alle altre: queste si disperdono, quelle spuntano, queste rimangono nello stesso posto, quelle si muovono. Tutte le cose sono piene di amici, in primo luogo di dèi, poi di uomini intima- mente uniti per natura tra loro: e bisogna che alcuni rimangano insieme tra loro, che altri se ne vadano, che alcuni godano di chi rimane con essi, che gli altri non si addolorino di chi se ne va (Diatr., III, 24, 9-11). Tutte le cose formano un'unità... (Diatr., I, 14, 2). Uomo sono, parte del tutto, come l'ora è parte della giornata. Debbo giungere come l'ora, e, come l'ora, scomparire (Diatr., II, 5, 13). In questo senso Epitteto è molto preciso: uno l'universo nella sua totalità, una la ragion d'essere del tutto e la sua sostanza, il cangia- mento, il nascere e il morire, avvengono entro la stessa unità del tutto. Mietere le spighe significa la distruzione delle spighe, non dell'Universo, si come il cader delle foglie, o il seccarsi del fico e l'appassirsi dell'uva. Si tratta, in tutti questi casi, di mutamenti da uno stato precedente in uno diverso: non distruzione ma ordinata disposizione e amministrazione. Quale è l'andar via dal proprio paese, un piccolo mutamento, tale è la morte, un mutamento piu grande, ma non da ciò che è al presente, verso il nulla, ma verso ciò che al presente non è. "Non sarò piu allora?" No: ma sarai una cosa diversa da quella di cui al presente il mondo ha bisogno. Perché anche tu nascesti non quando hai voluto, ma quando il mondo ebbe bi-  329   sogno (Ditur., III, 24, 91-94). "Vai!" dove? Non in luoghi terrificanti, ma là donde sei venuto, verso amici e parenti, verso gli dementi naturali. Quanto fuoco era in te, ritornerà in fuoco, quanto era terra in terra, quanto aria in aria, quanto acqua in acqua. Non c'è Ade, non Acheronte, non Cocito, non Piriflegetonte, ma tutto è pieno di dèi e di potenze divine. E chi è in grado di riflettere su ciò e guardare il sole, la luna, gli astri e prendere diletto dalla terra e dal mare non è abbandonato piu di quaDJ:o sia senza aiuto... (Diatr., III, 13, 14-16). Dalla constatazione che la ragione è attività unificatrice e sistema di rappresentazioni-oggetti, Epittéto passa a poter sostenere che, dunque, la stessa struttura su cui si titma la realtà è attività unificatrice, me- diante cui tutto ha un suo posto, tutto avviene come deve avvenire, fatalmente, ma, perciò stesso, provvidenzialmente ("di ogni cosa che accade nel mondo è facile lodare la provvidenza, purché si abbiano queste due qualità, la capacità di vedere nel loro insieme i singoli av- venimenti e il sentimento della riconoscenza... Dalla struttura dei ~ari prodotti siamo soliti riconoscere che sono indubbiamente opere di un artista, e non costruite a caso e gli oggetti visibili, e la visione e la ·luce non lo rivelano(... E la particolare struttura dell'universo che ci mette in grado di non ricevere semplicemente le impronte delle cose soggiacendo ai sensibili, ma anche di fare una scelta tra esse... Tutto questo non fa pensare ad un supremo artista?": Diatr., l, 6, 7-11). Tutto, dÙnque, nel suo esserci, nel suo nascere e perire, nella sua sostanza, è come parte di un organismo vivente, ha una sua funzione e una sua ragione. Si capisce, cosi, come Epitteto possa identificare la divinità (ancora una volta intesa come ciò senza di cui nulla è, la condizione del tutto) con la ragione, dandone la stessa definizione: quale è la natura di Dio? è intelligenza, scienza, retta ragione. Solo qua, dunque, assolutamente, èerca l'essenza del bene" (Diatr., II, 8, 2-3). Ora, se la ragione era stata definita "sistema di rappresentazioni diverse," e se le rappresentazioni sono impressioni che in quanto com- prese si costituiscono come abbietti, non in una semplice recezione delle impronte, ma mediante l'intelletto in una scelta, sottrazione, somma, composizione di esse, Dio, in quanto ragione e intelligenza, si costituisce come "sistema di oggetti diversi," e perciò come attività unificatrice che sceglie, somma, sottrae, compone, per cui tutto deriva da lui, tutto in lui ha la sua funzione, e tanto piu l'uomo che scopre sé come ragione, come capacità non solo di usare le rappresentazioni, ma di saperle usare ("ti abbiamo dato una parte di noi," fa dire Epitteto a Zeus, "questa facoltà impulsiva e repulsiva, desiderativa e avversativa, in una parola la facoltà che sa usare le rappresentazioni... 330    Solo quel che è piu importante di tutto, e che domina il resto, gli dèi l'hanno fatto dipendere da noi, e, cioè, il retto uso delle rappresenta- zioni:. le altre cose non le hanno fatte dipendere da noi": Diatr., l, l, 12 e 6-8). Qui, sembra, la chiave per intendere, relativamente all'uomo, da un lato la concezione di Epitteto su ciò che non dipende e su ciò che dipende da noi (dr. particolarmente Diatribe, I, l e Manuale, 1), dal- l'altro lato sul fato, sul tutto, che è quello che è, e sulla libertà; sul non comprendere, sull'essere presi dai dati, dalle impressioni, asistemati- camente (irrazionalmente), per cui siamo schiavi, soggetti, e, non in- tendendo, non sapendo usare, scegliere le rappresentazioni, applicare correttamente le prenozioni, siamo scelti; e sulla comprensione che è libertà, liberazione dall'errore, accantonamento di ciò che non di- pende da noi, avvicinamento a Dio, scelta. E se pur tutto resta quello che è, se pur ciascuno resta quello che è, l'uomo, almeno, per sua natura, in quanto •ragione," pur rimanendo quello che è, può essere scelto o scegliere, può essere padrone o schiavo: "quel che è piu importante di tutto, e che domina il resto, gli dèi l'hanno fatto dipendere da· noi, e, cioè, il retto uso delle rappresentazioni" (Diatr., I, l, 6-8); e tale è il fine dell'uomo: l'uomo deve terminare là dove termina nei nostri riguardi la natura, ed essa termina nella teoria e nell'intelligenza e in un tenore divita conforme alla natura" (Diatr., 1; 6, 20-21}. Bada, dunque, alle rappresentazioni, vigila su di esse. Non è poco ciò che va custodito: si tratta del rispetto, della lealtà, della tranquillità, d'una condizione d'animo scevra da passioni, da dolori, da timori, da turbamenti, in breve, della libertà... Sono libero e amico di Dio, s{ che gli obbedisco spontaneamente. Niente di tutto il resto devo acquistare, non il corpo, non gli averi, non le cariche, non la reputazione, in una parola, niente. E Dio, poi, neppure vuole che io l'acquisti. Se voleva, quei beni li avrebbe fatti per me: ora, invece, non li ha fatti... Custodisci il bene che è tuo in ogni occasione: il bene di tutto il resto, secondo quanto t'è concesso, nei limiti voluti dalla ragione, e di questo solo contèntati. Se no, sarai infelice, di- sgraziato, soggetto a impedimenti e a ostacoli... (Diatr., IV, 3, 7-12). Epitteto prende le mosse da una constatazione: se da un lato è vero che l'uomo è un complesso di rapprc.sentazioni, dall'altro lato è altrettanto vero che l'uomo ragionando scopre sé come ràgione, che ha in se stesso, nel suo stesso svolgersi, il criterio della propria vali- dità - "la sola facoltà raziocinante, prendendo se stessa a oggetto di studio, comprende se stessa, la natura, la potenza, il valore che ha venendo in noi": Diatr., I, l, 3-4, - e scopre sé come capacità di ob- biettivare e articolare e sistemare le sue stesse rappresentazioni; finché è solo un insieme disordinato di rappresentazioni-impressioni, l'uomo è passivo e dominato; allorché, ragionando, ordina e sistema è egli a dominare, rendendosi conto del valore di ogni cosa, che tutto ha nel discorso un suo posto, che alcune cose sono in nostro dominio e altre no. Le cose sono di due maniere; alcune in poter nostro, altre no. Sono in poter nostro l'opinione, il movimento dell'animo, l'appetizione, l'avver- sione, in breve tutte quelle cose che sono nostri propri atti. Non sono in poter nostro il corpo, gli averi, la riputazione, i magistrati, e in breve quelle cose che non sono nostri atti. Le cose poste in nostro potere sono di natura libere, non possono essere impedite né attraversate. Quelle altre sono deboli, schiave, sottoposte a ricevere impedimento, e per ultimo sono cose altrui. Ricordati che se tu reputerai per libere quelle cose eh sono di natura schiave, e per proprie quelle che sono altrui, t'interverrà di trovare quando un osta- colo quando un altro, essere affiitto, turbato, dolerti degli uomini e degli dèi... Per tanto, a ciascuna apparenza che ti occorrerà nella vita, innanzi a ogni altra cosa avvezzati a dire: questa è un'apparenza, e non è punto quello che mostra di essere. Di poi togli· ad esaminarla e farne saggio con quegli espedienti chè tu sai, e prima e massimamente vedere se appartiene alle cose che sono in nostra facoltà, ovvero a quelle che non sono... (Manuale, 1). Gli uomini sono agitati e turbati non dalle cose, ma dalle opinioni ch'essi hanno delle cose... t da uomo, non addottrinato nella filo- sofia l'addossare agli altri la colpa dei travagli suoi e propri, da mezzo addottrinato l'addossarla a se stesso, da addottrinato non darla né a se stesso né agli altri (Manuale, IV). Evidente è, per Epitteto, che tale duplice modo d'essere dell'uomo, irrazionale e razionale, dominato e dominante, che tale situazione tragica dell'uomo - "cosa altro sono le tragedie se non la narrazione in verso epico di quel che provano uomini affascinati dagli oggetti esterni? Diatr., I, 4, 26- è dovuta, per natura- ed è un'esperienza- alla possibilità stessa dell'uomo di voler ragionare oppure no, ad un'opzione dell'uomo, possibile certo solo allorché l'uomo si rende conto ch'egli è ragione, cioè giudizio (ma è, appunto, in tale rendersi conto, che non è una deduzione, che consiste la libertà; di qui per Epitteto l'importanza dell'insegnamento della logica e della dialettica e la·sua repugnanza contro coloro che imparano filosofia per ornamento o per professione). In altri termini, ogni uomo, in quanto scopre sé come ragione, può scegliere tra l'essere schiavo o l'essere padrone, tra vivere passionalmente (contro natura) o vivere secondo ragione, in un'armonia e giudizio delle passioni stesse (secondo natura). In tale senso Epitteto sostiene che la stessa ragione, in quanto discorso è or- dine, è scelta, o, se vogliamo, volontà (7tpo1X(p&atc;, proairesis), si come, analogicamente posto Dio come ragione del tutto, Dio è volontà in 332    quanto ragione, cwe m quanto giudizio, e non come persona (libertà assoluta) in senso cristiano, si come talvolta si è voluta interpretare la divinità epittetiana. È il tuo giudizio che ti determina necessariamente, e cioè la scelta (pro- airest) che forza la proairesi. Se Dio avesse assoggettato a impedimento o necessità, o da parte sua o da parte di altri, il frammento del suo essere che ha staccato da sé per dare a noi, non sarebbe piu Dio né piu si prenderebbe cura di noi, come deve... Se vuoi sei libero; se vuoi, non bia- simerai alcuno, non accuserai alcuno, tutto accadrà secondo la volontà tua e, insieme, di Dio (Diatr., l, 17, 26-28). Nessuno può credere che una cosa gli sia utile senza sceglierla? No. E com'è che [Medea] dice: "SI, bene intendo quali mali sto per fare, ma il mio corruccio supera la mia ragione"? (Euripide, Medea, 1078-79]. Perché proprio indulgere al suo corruccio e vendicarsi dello sposo ella ritiene piu utile che salvare i figli. Ma si è in- gannata! Mostrale chiaramente che si è ingannata e non lo farà: ma fino a quando non glielo mostri, che cosa può seguire se non le apparenze? Niente. Perché allora irritarti con lei, se si è sviata, l'infelice... (Diatr., I, 28, 6-8). L'essenza del bene ["nell'intelligenza, nella scienza, nella retta ragione... cerca l'essenza del bene": Diatr., II, 8, 2-3] consiste in una qual certa proairesi [in un certo qual modo di atteggiarsi], il male in una qual certa proairesi. Che sono, allora, le cose esterne? Oggetti coi quali venendo a contatto la persona morale realizzerà il proprio bene o il ·proprio male. Come realizzerà il bene? Se non dà importanza agli oggetti. Perché, se i giudizi sugli oggetti sono retti, fanno la persona morale buona, se storti e stravolti, cattiva (Diatr., l, 29, 1-3). La libertà e la scelta o volontà di Epitteto non è né arbitrio né li- bertà in senso assoluto, ma atto razionale che in quanto tale, in quanto giudizio e obbiettivamente, è, appunto, proairesis. D'altra parte, proprio il fatto che l'uomo può scoprire sé come ragione, che, a sua volta, tale si scopre e si giudica ragionando (cfr. Diatr., l, l, 3-4), fa si che si possa porre come in atto una ragione che ci trascende dal di dentro, sempre in atto compiuta in se stessa (Dio). Perfetto dunque Dio in quanto ragione, la ragione umana, aspetto o frammento di quella divina, non è perfetta come la divina, per cui mentre tutto è in possesso di Dio, non tutto è 'in possesso dell'uomo, se non il rendersi ragione, il comprendere ("si deve organizzare il meglio possibile quel che dipende da noi e di tutte le altre cose usare come esige la loro natura; come esige la loro natura? come Dio vuole": Diatr., l, l, 17), che, distaccando l'uomo dalle sue stesse rappresentazioni immediate e unilaterali, gli fa intendere e valutare da un lato ciò che è in suo possesso (il pensare che è ad un tempo scelta e volontà) e, dall'altro lato, ciò che non è in suo possesso (il nascere e il morire, avere questo o quel corpo, esser nato maschio o femmina, da questi o da quei genitori, servo o libero, storpio o diritto, in questo secolo o in altro, ricco o povero e cos(via). E allora, quelle ste~se cose che non sono in nostro possesso, a cui tendiamo finché re- stano rappresentazioni asistemate, in libertà (alogiéhe), onde appaiono beni, per cui le desideriamo o da esse rifuggiamo (passioni), nell'atto che le intendiamo divengono mali se desiderate, ma, in quanto com- prese per ciò che sono, né beni né mali (indifferentt). Questo, sembra, il significato, riallacciandosi a Zenone, a Crisippo, ad Aristone di Chio, dell'aspetto "cinico" dello "stoicismo" di Epit- teto. Va qui, d'altra parte, tenuta presente l'affermazione di Giovenale, secondo cui la diffidenza, in quest'epoca, tra cinicj e stoici, consiste in una differenza di classe sociale, in una distinzione di "tunica" piu che di modo di atteggiarsi: "Stoica dogmata... a Cynicis tunica distantia" (Satire, XIII, 121-122); e va tenuto presente un capitolo (22) del III libro delle Diatribe, in cui si delinea quella che dev'essere la figura ideale del saggio, del cinico (dell'uomo che per nascita non ha nessuna posizione sociale o che riconosce che la sua unica posizic;>ne è appunto quella del "saggio"), ma non interpretato secondo il clichl del cinico giullare, di quelle molte figurine di filosofi popolari di cui parla efficacemente Dione Crisostomo ("dei cosiddetti Cinici v'è gran numero nella città;... ai crocevia, negli angiporti, all'ingresso dei templi, questi uomini radunano e traviano schiavi e marinai ed altra simile gente, snocciolando scherzi e grande varietà di pettegolezzi e di arguzie volgari: in realtà essi non fanno alcun bene, ma gran male•: Dione, Oraz., 32, 10). In effetto, il "cinico" che ha presente Epitteto (forse Demetrio: dr. sopra) è lo stoico di stretta osservanza, l'uomo che, consapevole di non avere una sua qual certa. posizione sociale - come, ad esempio, fu il caso di Epitteto, - realizza veramente se stesso, ché altro egli non possiede, in quanto mostra agli altri, anche col suo modo esteriore di vivere, che è un simbolo (privo di tutti quelli che si dicono beni: casa, famiglia, affetti), cosa significa essere libero, ai ricchi e ai poveri, ai potenti e ai deboli, indicando a tutti, e in ciò consiste la sua parte - il che non significa che ~utti debbano assumere la·sua parte,- che tutti, essendo ciascuno a suo modo, possono essere liberi in quanto accettino, comprendendola, la propria parte. Nella comprensione razionale che tutto - uomini e c~e - è quale dev'essere, ciascuno al suo posto, il cinico non propende piu per una cosa o una persona piu di un'altra, onde, sotto tale prospettiva, tutto è per il cinico indifferente, tutto e tutti vanno né condannati né esaltati, ma compresi. Sotto questa prospettiva si vede bene come Epitteto potesse dire. Abbi cura di ricordare a te medesimo il vero essere di ciascheduna cosa che ti diletta o che tu ami o che ti serve ad alcun uso, incominciando dalle piu piccole. Se tu ami una pentola, dirai a te stesso: io amo una pentola; perciocché se ella si spezzerà, tu non avrai però l'animo alterato. Se tu bacerai per avventura un tuo figliuolino o la moglie, dirai teco stesso: io bacio un mortale; acciocché morendoti quella donna o· quel fanciullino, tu non abbi però a turbarti (Man., III). Chiunque avverte in maniera evi- dente che per l'uomo misura di ogni azione è l'apparenza... non si adirerà con nessuno, non si irriterà con nessuno, non ingiurierà.nessuno, non bià- simerà nessuno, non odierà né offenderà nessuno (Diatr., I, 28, 10). Chi 'vuole divenire cinico non basta si metta la "divisa" del cinico (mantello corto, bisaccia e mazza), ma deve "purificare la parte ege- monica dell'anima e disporre una tale linea di condotta: ora la ma- teria con cui ho da fare è la mia mente, come il falegname ha il legno, come il calzolaio ha il cuoio: mio compito è il retto uso delle rappresentazioni. Il povero corpo non ha nessun rapporto con me: le sue parti neppure. La morte? Venga quando vuole, sia di tutto il corpo, sia di una parte. L'esilio? E dove mi possono cacciare? Fuori del mondo, no davvero. E dovunque andrò H c'è il sole, H la luna, H le stelle, i sogni, i presagi, i colloqui con gli dèi. Però, pur avendo raggiunto tale perfezione, il vero cinico non se ne può con- tentare, ma deve sapere d'essere stato inviato da Dio, in qualità di messaggero, _per mostrare agli uomini, che, in rapporto al bene e al male si ingannano e cercano l'essenza del bene e del male là dove non è, e non badano dove è... In realtà il cinico è esploratore di cosa è amico agli uomini, di cosa nemico, e, quindi, condotta un'esplorazione accurata, deve venire ad annunciare la veri~, senza essere sbigottito dalla paura... Perciò, all'occorrenza, egli deve potersi levare in piedi e, salito sulla scena tragica, pronunciare le parole di Socrate [Platone, Clitofonte, 407 a-h]: 'Ohimé, uomini, dove vi lasciate trascinare?'; che fate, disgraziati? V'aggirate, come ciechi, di su e di giu; v'incam- minate per un'altra strada dopo avere abbandonato la vera, cercate altrove ciò che rasserena e rende felici, dove non esiste, e non prestate fede a un altro che ve lo mostra. Perché cercarlo nelle cose esterne? Dov'è che siamo liberi? Nel giudizio. Coltivate allora questa cosa, prendetevi cura di essa, cercate qui il bene. E come è possibile che viva sereno chi non possiede niente, chi è nudo, senza casa, senza focolare, sordido, senza schiavi, senza città? Ecco, Dio vi ha mandato uno che, a fatti, ve ne dimostri la possibilità. 'Guardatemi: sono senza casa, senza città, senza beni, senza schiavi: il mio giaciglio è la terra: non ho moglie, non figli, non una casetta, ma la terra soltanto e il cielo e un solo mantelletto. Eppure, che mi manca? Non sono senza dolori? non sono senza timori? Non sono libero? Quando uno di voi mi ha visto fallire nei miei desideri, quando cadere nelle mie avver- sioni? Quando ho biasimato Dio o uomo, quando ho rimproverato qualcuno? Forse uno di voi mi ha visto accigliato? Come tratto quelli che vi mettono paura o meraviglia? Non come schiavi? Chi, veden- domi, non ritiene di vedere il suo re e il suo padrone?' Ecco le parole degne di un cinico, eccone il carattere, eccone il proposito (Diatr., III, 22, 19-49). Se la delineazione dell'atteggiamento del cinico è la delineazione di una figura ideale di uomo, che giuoca la sua parte, compiendo il suo dovere, ciascuno, ·ognuno rimanendo al posto che natura gli ha dato, può, entro i suoi limiti, attuare se stesso, compiere il suo dovere, non unilateralmente (nell'esclusiva, ad esempio, maniera cinica), per cui su di un piano piu largo, l'aspetto cinico di Epitteto si risolve di nuovo entro i termini della morale e della misura stoiche. Deriva di qui un altro motivo fondamentale del pensiero di Epitteto, quello della libertà, su cui, accanto al motivo del saper usare le rappresenta- zioni e al motivo della conseguente distinzione tra ciò che dipende da noi e ciò che non dipende, Epitteto ha piu insistito (nelle Diatribe il termine "libero" e il termine "libertà" sono usati ben 130 volte: cfr. Oldfather, Epiktctus, I, p. XVII), in una precisa determinazione della libertà come libertà da e non COII)e libertà di. Mediante la logica e l'appello ad esercitarsi nello studio di come funziona la ragione ("ai piu sfugge che Io studio dei ragionamenti amfibologici e ipotetici, e ancora di quelli che procedono mediante in- terrogazione, e, in una parola, di tutti i ragionamenti ·di questa ma- niera, è in relazione al dovere": Diatr., I, 7, 1), da un lato la raziona- lità scopre il tutto come un ordinamento e un sistema di rappresenta- zioni e, dall'altro lato, la razionalità, in quanto ci trascende dal di dentro, si pone come ordine e sistema del tutto, onde tutto è come deve essere, tutto è parte in funzione di un fine che è la stessa razio- nalità (la divinità). Posto, dunque, che in questo tutto l'uomo, sco- prendo sé come razionalità, e, perciò, come figlio di Dio, avente sempre in sé un aspetto della divinità, può scegliere tra il vivere preso dalle sue rappresentazioni e passioni, indiscriminatamente, e il vivere se- condo la sua stessa natura (che è, dunque, un dovere), cioè razional- mente, ne deriva la doppia considerazione epittetiana della realtà e della condizione umana. Se uno riuscisse a compenetrarsi in modo convenìente di questo pensiero, che veniamo da Dio tutti, e tra i primi, e che Dio ~ padre degli uomini e degli dèi, credo che nulla di ignobile o di meschino sarà desiderato da lui... Ma poiché al momento della generazione sono mescolati insieme questi due elementi, il corpo comune con gli animali, la ragione e conoscenza comune con gli dèi, altri inclinano a quella parentela infelice e mortale, pochi a questa divina e beata... Che sono, infine? Un misero omuncolo e miserabile è il mio corpo. Ma pur essendo miserabile hai un elemento superiore al miserabile corpo. Perché, dunque, allontanando tal cosa ti at- tacchi a questo? (Diatr., I, 3, l, 3-6). Non sai che piccola parte sei rispetto al tutto? Questo secondo il corpo; mentre secondo la ragione non sei peg- giore né migliore degli dèi: che la grandezza della ragione non si misura in lunghezza né in profondità, ma in pensieri. Non vuoi, dunque, dove sei uguale agli dèi, ivi porre il bene? (Diatr., I, 12, 26). Guarda chi sei. Innanzi tutto un uomo, cioè· un uomo che non possiede niente piu impor- tante della proairesi, ma a lei subordina il resto, e tale volontà possiede libera da schiavitU e da soggezione. Osserva, dunque, da chi ti distingui per la ragione.·Ti distingui dalle bestie selvagge, ti distingui dalle pecore. Non solo, ma sei cittadino del mondo e parte di questo mondo, non delle ultime ma delle prime, perché puoi comprendere il governo divino e riflettere sulle conseguenze. Quale allora è la funzione del cittadino? Di non avere nessun interesse personale, di non prendere decisioni su nessuna cosa quasi fosse isolato, bensf di agire come la mano o il piede, che se ragionassero e com- prendessero l'ordine naturale, giammai altrimenti si muoverebbero o desi- dererebbero o si contrapporrebbero al tutto. Per ciò ben dicono i filosofi che se l'uo~o virtuoso prevedesse il futuro, coopererebbe alle malattie, alla morte, alle mutilazioni, perché si renderebbe conto che tutto questo gli è stato asse- gnato dall'ordinamento universale e che è piu importante il tutto della parte, la città del cittadino... (Diatr., II, 10, 1-5). Di fatto l'uomo, come tutte le cose, come ogni avvenimento è quello che è, né buono né cattivo; ognuno, come ogni cosa, nell'economia dell'Universo, nel giudizio divino, riceve una sua parte, piccola o grande che sia, è passivo, è apparentemente un'isola abbandonata a se stessa, tirato di qua e di là dalle passioni, per cui tutto è vano, tutto, sotto questa prospettiva, disprezzabile (in tale rappresentazione della realtà e dell'uomo il linguaggio di Epitteto è senza dubbio quello cinico; tutto è già dato, nulla è da fare, onde cade ogni speranza, la capacità di sperare che le cose possano essere diverse da quello che sono, libere; mondo senza poesia, donde la tristitia stoica). Solo che, per altro verso, se attraverso la ragione, la cui scoperta è non una deduzione, ma un'esperienza viva che si rivela mediante lo stesso ragionare, l'uomo ha la capacità di giudicare, cioè di scegliere, ordi- nando e obbiettivando, cogliendo ogni rappresentazione-oggetto per quella che è, l'uomo si libera dalle passioni, dall'errore, dall'assumere una rappresentazione per quello ch'essa non è. Sotto quest'altra prospettiva, quella stessa realtà che fino a che resta estranea, incompresa, è male, disordinata, irrazionale, si trasfigura in una realtà buona, desiderabile, amata, in un amore ordinato, nell'unico amore per l'unità di Dio, rimanendo perciò indifferenti tutte quelle rappresentazioni" che condurrebbero ad una vita unilaterale, dominata da questa o da quella rappresentazione (interessi esclusivi per gli onori, per la salute, il corpo, per la vita dei nostri cari e degli altri uomini, dimenticando ch'essi sono mortali, sf come rompibile è una pentola di coccio, e cosf via), che, appunto, per ciò, seguitano a non dipendere da noi. In realtà, per Epitteto non si tratta tanto di due modi di essere, ma di due modi prospettici di considerare la stessa realtà. Nel primo caso, pur facendo e considerando le stesse cose siamo determinati, agiamo fatalmente, siamo agiti (irrazionalità); nel secondo caso, pur facendo e considerando le stesse cose, siamo, non subiamo. Nel primo caso non ci solleviamo dalla vita di cose tra cose, nel secondo caso, obbiettando e scegliendo, giudicando, ci solleviamo alla vita razionale, alla vita divina. Da un lato tutto è necessario, dall'altro lato, pur rimanendo tutto necessario abbiamo la possibilità (e in questa possibilità consiste la libertà) di valutare quella. stessa necessità, per cui non la subiamo, ma riconoscendola la vogliamo. "Tu non devi cercare che le cose pro- cedano a modo tuo, ma volere che vadano cosf come fanno, e bene starà" (Manuale, VIII). "Se vuoi, sei libero; se vuoi non biasimerai alcuno, non accuserai alcuno, tutto accadrà secondo la volontà tua e, insieme, di Dio" (Diatr., l, 17, 29). Si capisce allora come, sotto que- sto aspetto, per Epitteto ragionare sia volere, libera accettazione di una realtà che è quella che è, voluta dalla stessa razionalità in cui consiste la divinità (sulla libertà in particolare si confronti la piu lunga delle diatribe, la prima del IV libro). Gli uomini sono agitati e turbati non dalle cose, ma dalle.opinioni che hanno delle cose (Man., IV). L'essere zoppo s{ è impaccio della gamba, ma non della disposizione dell'animo (Man., IX). Quando tu vedi qualcuno che pianga o per la morte di alcun suo congiunto o per la lontananza di un figliuolo o perdita della roba, guarda che l'apparenza non ti trasporti in guisa che tu pensi che questo tale, a cagione delle cose estrinseche, patisca alcun male vero. Ma tu distinguerai teco stesso subitamente e dirai: questo è tribolato e afflitto, non dall'accaduto, poiché questo medesimo non dà niuna tribolazione a un altro, ma dal concetto ch'egli ha dell'accaduto (Man., XVI). Ricordati che colui che rampogna o percuote, non offende esso, ma l'opinione che si ha che ·questi cotali offendano. Sicché quando tu ti senti montare la collera contro uno, pensa che la tua propria immagi- nazione è quella che ti sprona all'ira, e non altri (Man., XX). Sopporta e astienti (framm. X, in Aulo Gellio, Noct. Att., XVII, 19). Si chiarisce cosi la dottrina epittetiana dell’apparenza (fantasia) (cfr. Man., 1), mediante cui Epitteto sottolinea cosa significhi la distin- zione tra ciò che dipende e ciò che non dipende da noi. In altri ter- mini, la nostra lnancanza di libertà dipende da una comprensione inadeguata delle cose, da ricondursi ad una nostra comprensione imprecisa. Possiamo avere una cognizione delle cose che è una cognizione fantastica, apparente. Se, per esempio, si stabilisce un errato rapporto causale, la nostra stessa attività, tesa a ottenere certe risonanze, in rela- zione a quell'apparenza si svolgerà in maniera errata e infelice (cfr., ad esempio, Diatribe, IV, l, 43-50), per un errore che è un errore pro- spettico. Si vede bene, di qui, come la distinzione tra esteriorità (ciò che non dipende da noi) è interiorità (pensiero, volontà e cosi via) consiste nel non comprendere e nel comprendere. Se, come sostiene Epitteto, il vero sta nel giudizio, in una scelta per cui tutto si costi- tuisce in un sistema di rappresentazioni, l'essere delle cose, l'essere di tutto è nel giudizio, e quindi nello stesso discorso, in noi, e, qui, esten- sivamente e per analogia, in Dio. L'esteriorità, ciò che non dipende da noi, sta nell'incomprensione, in qualcosa che resta per sé, sganciato, no~ giudicato (irrazionale) e che, dunque, ci domina. Non si tratta di due realtà, ma: di due nostri modi diversi di atteggiarsi nei confronti della stessa realtà. Le cose comprese, proprio in quanto com- prese, divengono nostre, anche se, appunto perché comprese, ci ren- diamo conto che non dipendono da noi (l'avere questo o quel corpo, l'essere bello o brutto, maschio o femmina, ecc.). E allora, compren- dendo, sappiamo anche quale, nella grande commedia del tutto il cui supremo regista è Dio, è la nostra parte (grande o piccola), realiz- zando bene la quale, tutti, ciascuno per ciò che gli compete (ed in questo consiste la nostra libertà: cfr. Diatr., IV, 1), siamo uguali, schiavi o re, uomini o donne, grandi o piccoli uomini, socraticamente, rendendoci con ciò davvero utili agli altri e a sé. E cosi quanto piu si ama se stessi, cioè la razionalità, tanto piu si amano gli altri, si vuole sé e gli altri come fini. Sovvengati che tu non sei qui altro che attore di un dramma, il quale sarà breve o lungo, secondo la volontà del poeta. E se a costui piace che tu rappresenti la persona di un medico, studia di rappresentarla acconcia- mente. Il simile se ti è assegnata la persona di uno zoppo, di un magistrato, di un uomo comune. Atteso che a te si aspetta solamente di rappresentare bene quella qual si sia persona che ti è destinata: lo eleggerla si appartiene ad un altro (Man., XVII). Se il pilota ti chiama, corri tosto alla nave senza voltarti, lasciata stare ogni cosa (Man., VII). Questi i motivi fondamentali del pensiero di Epitteto (e questi sono i motivi che in breve, in forma gnomica, Arriano ha riepilogato e sistemato nel Manuale, riprendendoli dall'opera maggiore, le Dia- tribe). Di qui, d'altra parte, l'importanza data da Epitteto all'insegna- mento, inteso come insegnamento a· saper ragionare, mediante cui liberare gli uomini dal loro vivere da schiavi, delineando, infine, un vero e proprio processo attraverso il quale, dallo studio della logica e dalla scoperta del modo di funzionare della ragione, si giunga con essa - in cui, dunque sta il bene - a quella misura e dominio delle passioni in cui consiste l'uomo verace, simile a Dio (cfr. Diatr., Il, 17, 29-34; III, 2; 12; 26, 14; IV, 10, 13; l, 12, 24 sgg.). Innanzi tutto, per Epitteto, la funzione della ragione è di calcolare i nostr.i desideri, s(da distinguere quelli che davvero lo sono, in quanto dipendono da noi, da quelli che ci attirano in quanto abbiamo calco- lato male, scambiando ciò che non dipende da noi per ciò che dipende da noi (in realtà, questi ultimi, compresi, cessano di essere desideri, divenendo i loro oggetti indifferenti, ché nessuna cosa la quale non dipenda da noi, che sia, cl1tpoadpnov - aproaireton, - può essere de- siderata). In secondo luogo, obbiettivati i desideri, che consistono nel- l'esigenza di realizzare ciò che dipende da noi, la ragione, mediante l'educazione filosofica, ordinando e scegliendo, determina quale delle nostre inclinazioni (6p!L-IJ), o delle nostre repulsioni '(clfOP!LiJ) è con- veniente o meno; indicando di volta in volta ciò che conviene, quali sono perciò i nostri doveri (xoc.&;;xov), onde sappiamo come agire, come realizzare bene la nostra parte, sia nei confronti degli altri che di se stessi ("da uomo pio, da figlio, da fratello, da padre, da citta- dino": Diatr., III, 2, 4). In terzo luogo, infine, la ragione sarà capace, dominati i desideri o le avversioni, le inclinazioni o le repulsioni, indi- rizzando s{ che ciascuno giuochi come deve la propria parte, di vedere sé come sistema di "rappresentazioni," in una comprensione del tutto, che è visione (teoria) pacata del tutto; in una accettazione in cui con- siste la piu profonda religiosità (in tale tripartizione della filosofia il maggiore storico di Epitteto, il Bonhoffer, ha veduto l'aspetto piu originale di lui, che non si trova né negli stoici antecedenti, né in Musonio, né nei cinici: Epictet u. die Stoa, p. 27; cfr. anche Souilhé cit., pp. LII sgg.). Non dovremmo, mèntre vanghiamo, o ariamo, o JÌlangiamo, cantare l'inno a Dio? "Grande è Dio, percM ci ha largito strumenti adatti a lavo- rare la terra: grande è Dio, perché ci ha dato le mani, la gola, il '\lentre, perché ci fa crescere senza che ce ne accorgiamo, perché ci fa respirare mentre dormiamo." Questo bisognerebbe cantare in ogni occasione e can- 340    tare l'inno piu sublime e piu divino che, cioè, egli ci ha dato la facoltà di comprendere tali cose e la via retta per usarle. Ebbene? Poiché la maggior parte di voi è cieca, non era necessario che ci fosse chi tenesse questo posto e in nome di tutti cantasse l'inno a Dio? E che cos'altro posso io, vecchio storpio, se non inneggiare a Dio?· se fossi un usignolo, compirei la mia parte di usignolo, se cigno, quella di cigno. E invece sono un essere ragionevole: devo inneggiare a Dio. Ecco la mia parte: io la compio e non diserto il mio posto, per quanto mi è concesso, e anche voi esorto a cantare questo stesso canto (Diatr., I, 16, 16-21). - Mi basta poter levare le mani a Dio e dirgli: "le facoltà che ho ricevuto da te per comprendere il tuo governo e seguirlo non le ho trascurate: non ti ho disonorato, per parte mia. Guarda come ho usato i sensi, come le prenozioni. Ti ho mai biasimato? sono stato scontento di qualche avvenimento o l'ho desiderato altrimenti? ho mancato alle mie relazioni con gli altri? Ti ringrazio di avermi fatto na- scere, ti ringrazio di quanto mi hai dato: il tempo che ho usato le tue cose mi basta. Riprendile e assegnami il posto che vuoi: perché erano tutte tue. tu me le hai date" (Diatr., IV, 10, 14-16). Epitteto mori nel 125-130 circa, a Nicopoli, da cui non si era piu mosso dal giorno del suo arrivo, esiliato da Roma (94). A Nicopoli, ove visse_ solo, tutto dedito all'insegnamento, egli godette di gran fama, rispettato e onorato da tutti. Solamente da vecchio avrebbe preso con sé una donna, perché lo aiutasse ad all~vare un orfano che aveva adot- tato (Simplicio, In Epicteti Enchiridion, Schenkl, test. LII). Che il suo insegnamento sia stato un insegnamento di vita - basato, certo, su di una precisa concezione - e non un insegnamento strettamente scolastico, è dimostrato anche dal fatto che dei suoi moltissimi disce- poli e ascoltatori - a parte Arriano che fu con lui per molti anni a Nicopoli, e che probabilmente pubblicò le Diatribe e il Manuale subito dopo la morte di Epitteto - nessuno fece professione di filosofo, se non un certo Jerocle stoico, autore di un'Etica e di Filosofumena (se ne vedano i frammenti in Stobeo, Ed.). Va, d'altra parte, osservato che dopo l'uccisione (96 d.C.) di Domiziano, la politica dei principi, relativa al fondamento del potere dell'Impero, venne cangiando, tanto che si delineò la possibilità di assumere a fondamento ideologico la tesi politica dello stoicismo, sia sul piano politico sia sul piano piu strettamente giuridico. Già questo vediamo con l'imperatore Cocceio Nerva (96-98), il quale cercò di riaccattivarsi il Senato e con i suoi successori Traiano (98-117) e Adriano (117-136), che con l'istituzione ufficiale del Consilium principis svuotò gran parte del potere del Senato, avviando l'Impero ad una vera e propria unità statale, non piu esclusivamente personale. Sembra perciò non un caso che anche l'imperatore Adriano si sia recato a Nicopoli a chiedere consigli al celebre "saggio" Epitteto (cfr. Spartiano, Vita Hadriani, 16, 10).Difficile è dire se Dione di Prusa 1 in Bitinia, detto dall"' aurea bocca" (crisostomo), nato nel 40 circa, morto poco dopo il 114, sia stato uno stoico, un cinico, un platonico. Egli fu, senza dubbio, un grande retore, il primo e, forse, il maggior rappresentante di quella corrente che Filostrato di Lemno definirà neo-sofistica. Uomo di cul- tura, aggiornato nelle varie correnti di pensiero del suo tempo, seppe, di volta in volta, sfruttare i motivi piu vari e le piu varie tesi, in fun- zione di un suo principio, che chiaramente traspare da tutte le sue Orazioni: la cultura come elevazione morale, attraverso cui in un con- sapevole distacco dalle "verità," -in una misura faticosamente raggiunta, e perciò in una comprensione delle "ragioni" umane, determinare nella vita sociale e nella stessa pratica di governo le norme riconosciute come virtu nella vita privata: quella misura, appunto, che, di volta l Nato a Prosa, in Bitinia, nel 40 d. C., ricco e intelligente, colto in filosofia e in retorica, Dione, detto per la sua eloquenza "crisostomo" (dall'aurea bocca), venne presto a Roma. Esiliato da Roma, su decreto di Domiziano, nell'82, proibitogli anche il sog· giorno in Bitinia, condusse fino al 97, morte di Domiziano, vita oscura e peregrina. Reintegrato nei suoi diritti, Dione dapprima soggiornò nella sua patria, poi tornò in Roma. Fu in rappono e contatto diretto con Traiano e con gli uomini della sua eone, servendo come meglio poté gl'interessi di Prosa, ove piu e piu volte si recò. Nel 110-111, come risulta da una lettera di Plinio il Giovane a Traiano (ad Traian., 81), Dione era a Prosa. Poi ne sappiamo piu niente. Mori, probaoilmente, cittadino romano, con il cognome di Cocceiano, nel 114. Tutta la sua opera è raccolta in un insieme di 80 orazioni (l.6yoL), comprendente discorsi realmente pronunziati, trattati morali, filosofici, politici, in forma di discorsi. Fuori della raccolta rimangono un'opera Sui Geti, una In favore di Omero contro Plalone, e due scritti di critica: Contro i filosofi e A Musonio. Particolarmente interes- santi sono le cosiddette orazioni diogeniche (VIII-X), le quattro Sul regno (I-IV), la XXXII (Agli Alessandrim), le due Tarsiche (XXXIII, XXXIV), l'Olimpica (XII), la Boristmica (XXXVI) e l'Euboica {Vll). 7    in volta, si concreta come cortesia e generosità, benevolenza e perdono, rispetto per la verità e l'onestà (cfr. Sinclair, cit., p. 420). Discendente da una famiglia di elevata condizione, Dione, quando ancora viveva a Prusa, partecipò alla vita politica del suo paese, usando la sua eloquenza e la sua arte in aiuto dei propri amici (cfr. Oraz., 46, 8).. A Roma, dove giunse ancora giovane, si legò di amicizia con gli uomini piu in vista della città e, sembra, anche con l'imperatore Tito. Dato il suo modo di intendere la cultura e il conseguente modo di intendere la politica e la vita sociale come misura e intelligente equi- librio, si capisce, in principio, il disprezzo di Dione, in Roma, per i "filosofi" cinici e stoici in particolare, per il loro atteggiamento di opposizione nei confronti del governo, ch'egli doveva vedere come rottura di quell'ideale vita sociale, libera e spregiudicata, ch'egli, nella sua posizione ellenistica, riteneva di potere attuare entro i termini delle antiche poleis greche. In realtà, Dione non poteva sopportare, com'egli stesso dice, i cosiddetti cinici, quei perdigiorno della filosofia, che si trovano ovunque nella Città ("ai crocevia, negli angiporti, all'in- gresso dei templi, questi. uomini radunano e traviano schiavi e marinai e altra simile gente, snocciolando scherzi e grande varietà di pettegolezzi e di volgari arguzie. In tal modo essi non fanno alcunché di bene, anzi un gran male": Oraz., 32, 9). Ma quando, su decreto di Domiziano, fu colpito, come tanti altri filosofi, accu- sati di complotto contro lo Stato, dalla relegatio in perpetuum, e per quindici anni (dall'82 al 96, morte di Domiziano) dovette, in esilio, girovagare, senza potere neppure mettere piede nella natia Bitinia (il p'restigio da lui goduto in Bitinia avrebbe potuto essere pericoloso per Domiziano), travestendosi, assumendo falsi nomi, pur di proseguire nel suo insegnamento e di tentare la pacificazione tra le città in lotta tra di loro, e venne scambiato per quei tali "filosofi" ch'egli aveva di- sprezzato e nei quali aveva veduto la peste per l'armonia delle città, Dione nella sua lotta contro il tiranno, comprese il significato sia del- l'opposizione cinica sia dell'opposizione stoica al governo, rendendosi sempre meglio conto che proprio il sistema di governo tipo quello di Domiziano, da Dione accomunato a quello di Nerone e·di Caligola, spezzava ogni possibilità di vita politica e sociale. È stato detto che Dione si converti: allora alla filosofia. In effetto Dione rimase quel grande avvocato ch'egli era. Approfondile proprie idee circa le condizioni che possono permettere una vita comune, sia tra privati cittadini, sia tra città e città, sia tra città e città e il governo centrale - e in tal senso, entro i termini della nuova situazione politico-sociale, Dione è davvero ravvicinabile ai sofisti antichi, - cercando di determinare il significato 8    di cosa voglia dire vivere bene (il bene) e cosa vivere male (il male), proponendosi conseguentemente il vecchio problema se l'esilio sia dav- vero un male o se il male consista nel non saper vivere razionalmente. E cosi egli si trovò sulla linea, sullo axii!J.IX,delle discussioni proprie degli stoici e dei cinici suoi contemporanei (cfr. Oraz., 13). Nella tormentosa strutturazione e costituzionalizzazione dell'Im- pero, che soffriva, relativamente alla fondazione del suo potere di fronte al Senato e al popolo di Roma, dell'equivoco con cui, con Augusto, era nato, la grave esperienza di Domiziano portò i suoi successori, già con Cocceio Nerva (96-98), piu sensibilmente con Traiano (98-117) e con Adriano (117-136), in maniera ancora piu approfondita con An- tonino Pio (138-161) e Marco Aurelio (161-180), a definire - se non il grosso problema dell'ereditarietà o dell'elezione; in questo periodo risoltosi con l'adozione, che fu, in fondo, un compromesso - la fun- zione del principe e la funzione stessa dello Stato, in un assolutismo in cui l'imperatore non è né un tiranno né un padrone, né un monarca di tipo orientale, ma il supremo magistrato dell'imper9. Di qui, sia pure per ragioni politiche, la sempre piu ampia provincializzazione, lo slargamento della cittadinanza, l'apertura del Senato, che perde sempre di piu il suo potere di classe di una Città-Stato, a uomini di origini diverse - per cui il Senato assume sempre piu la forma di un organo consultivo, - fino alla logica conseguenza della constitutio anto- niniana (con Caracalla nel 212). È stato detto che "la provincializza- zione - e quel che è stato spesso chiamato 'imbarbarimento' dell'im- pero - non sono conseguenze di una poco avveduta politica di Adriano e dei suoi successori, ma piuttosto il necessario effetto dell'inclusione in uno stato unitario, sotto il governo dell'Urbs, di genti di varia cul- tura. Nel vasto organismo dell'impero si è svolto uno scambio di ele- menti etnici e culturali, nel quale le civiltà superiori hanno assimilato forme diverse di cultura e nello stesso tempo si sono trapiantate in altre sedi, arricchendosi e rinvigorendosi di nuove energie. Il processo iniziatosi nell'età ellenistica prosegue su scala maggiore, favorito dal- l'unità politica e amministrativa. E diventa quindi sempre meno soste- nibile il principio augusteo della preminenza dell'Italia sulle provincie: già Cesare aveva decisamente impostato una politica intesa· ad assimi- lare i sudditi ai cittadini. Piu conservatore - per principio o per pru- denza politica - e meno aperto allo spirito cosmopolitico ellenistico, Augusto ha svolto una politica contraria al livellamento; ma ha pure avvertito che un ampliamento dell'impero avrebbe di necessità compro- messo il sistema gerarchico da lui fondato. Non solo le vicende mili- tari, ma già le esigenze della vita economica suggeriscono ai suoi suecessori una diversa politica, qual era del resto segnata dagli ideali filosofici del tempo e dai sempre piu intensi scambi culturali nell'àrn- bito dell'impero" (G. Pugliese-Carratelli, La crisi dell'impero nell'età di Galliena, in "La Parola del Passato," IV, 1947, pp. 52-3). Sotto questo aspetto, già con Traiano, sembra chiaro in che senso gli imperatori del n secolo abbiano ascolato soprattutto le voci dell'op- posizione stoica, che potevano dare loro le condizioni che ne giustifi- cassero il potere. "La maggioranza di ·coloro che avevano avversato il governo dei Flavii non erano ostili al principato in sé, ma il loro atteggiamento nei riguardi di esso corrispondeva piuttosto a quello di Tacito. Essi lo accettavano, ma desideravano che fosse il piu pos-sibil- mente vicino alla ~atarJ..e:(at stoica e il piu possibilmente diverso dalla tirannide, identificata con la tirannide militare di Caligola e di Nerone in particolare e con quella di Domiziano. Con l'ascensione di Nerva e di Traiano si concluse la pace tra la massa della popolazione dell'im- pero, e specialmente le classi colte della borghesia cittadina, e il potere imperiale... Ciò che avvenne fu un nuovo adattamento del potere im- periale alle condizioni reali, non una riduzione di esso" (M. Rostovzev, Storia economica e sociale dell'Impero romano, Firenze, pp. 140-141). Non fu, perciò, un caso che, poco dopo la morte violenta di Do- miziano, Dione di Prusa sia stato reintegrato nei suoi diritti civili e che, dopo aver soggiornato qualche tempo nella sua città, ove par- tecipò attivamente alla vita politica di quella municipalità, sia rientrato in Roma chiamatovi dall'imperatore Traiano, divenendo alla fine cit- tadino romano e consigliere e propagandista delle idee politiche del- l'imperatore, soprattutto nei paesi greco-orientali, dividendosi tra Roma e Prusa (100-110). Dione, attentissimo alla situazione politica del suo tempo, si rese conto che per rendere possibile la convivenza (d'altra parte necessaria) tra le esigenze di libertà e di autonomia delle antiche "p6leis" greche (che Dione sempre difese: cfr. le Orazicmi bitiniche) e la città di Roma, bisognava che da un lato le città greche accettassero il potere di Roma e che, dall'altro lato, Roma fondasse il suo impero, non sul potere personale e tirannico di una città sulle altre, ma su di un potere capace di rendere uno lo Stato, in un'armonia di "nazioni," mediante cui ciascuna si articoli all'altra, a somiglianza dell'ordine co- smico, retto in unità per sua stessa natura da un unico principio, ragion d'essere del tutto (e tale avrebbe dovuto essere, sia pure per analogia, l'imperatore). Di qui il passo a prospettare come possibile Stato, rispondente alla natura, e perciò vero e divino, la "politèia regale" di tipo stoico, eia- 10    baratasi tra la fine del 1 secolo a. C. e il 1 d. C., era breve e tale che poteva servire ai nuovi intenti politici e giuridici di.Traiano. Padre e benefattore (1tcx-rljp xcxt e:ùe:pyé't"rjt; ), non padrone (8e:m6't"rjt; ) dei suoi governati, l'imperatore, scelto in quanto uomo di ragione e perciò non dio, ma simile al dio supremo, ragione d'essere del tutto, egli opera in accordo col Dio, assumendo il suo potere come un dovere, in un'attività che è fatica (7tovot;) e non piacere (~8ov-lj), realizzando in armonia i diversi compiti cui ciascuna città, ciascuna classe, ciascun cittadino - che non va perciò ritenuto schiavo, ma libero - sono chiamati, circondato da amici e consiglieri (il Senato), da uomini virtuosi, che partecipino alla cura degli affari dello Stato (cfr. Sul regno, orazz. 1-3). Un "sapiens," un "filosofo" dovrebbe essere il vero uomo di governo, personificazione della ragione vivente del tutto, ma poiché ciò accade di rado, un sapiens sia almeno chi consiglia il principe (cfr. Oraz., 49, 4), a meno che - e sa- rebbe ideale - il principe non si circondi, per legge e non a suo ar- bitrio, di un organismo permanente di filosofi, costituenti un consiglio del principe (cfr. Or'az., 49, 7-9). Senza dubbio Dione riprese il motivo del re filantropo, e non solo certe tesi stoiche, che nella delineazione di uno Stato ideale egli poteva sostenere ispirarsi al discorso platonico (l'unica costituzione perfetta, ove ragione e legge sono tutt'uno, è la politèia degli dèi del cielo, in cui ciascuno fa bene Ciò che gli compete e a modo suo, senza interferire nell'attività àltrui in una reciproca collaborazione in funzione del tutto: cfr. Oraz., 36, Boristenica, ma anche la concezione di sfondo, genericamente stoica, di cui abbiamo par- lato, quale, ad esempio, appare dallo pseudo-aristotelico De mundo che Dione sembra abbia avuto presente (cfr. Sinclair, cit., p. 422): un dio unico, ragion d'essere o natura che ha la potenza (86vcxJ.Lr.ç) di costituire il tutto in un cosmo, in un ordine, avendo nell'una mano sole, luna, stelle, e, nell'altra, aria, acqua, terra e fuoco, ponerìdo equilibrio tra le forze contrastanti, si che ciascuna cosa attui ciò che le è proprio, in una equa distribuzione delle parti (laoJ.LoLpt~), e, per ciò stesso, in un equo governo (6J.L6voL~), specchio di quello che, dunque, ha da essere un impero universale, retto da un'unica potenza razionale. Tale, per analogia - e che di analogia si tratti lo dichiara lo stesso Dione: cfr. Oraz., 36, - deve essere lo Stato degli uomini ov~ ~imile sia l'im- peratore a quella che nell'universo è la divinità, e ove ciascuno - e in ciò tutti sono uguali - sia libero di attuare pienamente ciò che gli compete, in una reciproca collaborazione, in funzione del tutto, che non sarebbe senza la giusta distribuzione. delle parti, s{ che appunto l'impero somigli al cosmo, sia un'eucosmia. •Questa," racconta ai suoi concittadini Dione, riferendo un suo discorso ai Boristeni, abitanti 11    presso il Mar Morto, "questa è la teoria dei filosofi. Essa indica una buona e amichevole comunità di dèi e di uomini; essa chiama a partecipare alla legislazione e alla cittadinanza non tutte indiscriminata- mente le creature viventi, ma coloro che posseggono ragione e intel- letto. Essa offre un'organizzazione sociale di gran lunga migliore e piu giusta di quella stabilita dagli Spartani, secondo la quale non è permesso agli Iloti diventare cittadini di Sparta: naturale motivo per cui essi sono sempre pronti a ribellarsi" (Oraz., 36, 38). Tutto ciò non è nuovo. La novità è che tutto ciò divenga ora la base su cui si viene fondando ideologicamente l'impero da Traiano a Marco Aurelio, e che ciò abbia voluto e approva.to Traiano. E questo risulta non solo dalle Orazioni l e 11 di Dione (non a caso egli scri- vendo intorno al104, pur non nominando Traiano, dice: "Della divina e benedetta costituzione che ora vige, conviene che io parli con il mas- simo rispetto"), ma anche dal fatto che queste orazioni, dette dinanzi a Traiano, sembra che per ordine di Traiano siano state piu volte ripetute da Dione nelle maggiori città dell'Oriente, e che in gran parte esse coincidano con il Panegirico di Traiano scritto da Plinio; in quegli stessi anni circa. Nel mutamento di indirizw governativo, da parte imperiale, in un'adeguazione alle reali esigenze soprattutto delle ZQOe greco-orien- tali, e in un venire incontro all'opposizione, ch'era poi un rafforza- mento del potere imperiale, nella trasformazione dell'Impero in Stato unitaiio e in una sempre maggiore esautorazione del Senato, che non è piu il Senato-classe, quale poteva essere ancora al tempo di Augusto, Dione Crisostomo ebbe, certo, non poca importanza. 'E la sua impor- tanza sta soprattutto nell'avere, riprendendo motivi sparsi, coordinato quei motivi e delineato il tipo di Stato upitario e universale, che se da un lato poteva servire alla politica di Roma, dall'altro lato salvava certe autonomie e libertà dei paesi soggetti, dando, ad un tempo, un significato e un fondamento giuridico al potere e alla figura dell'Impe- ratore. Come il divino regge il tutto in unità, secondo legge, per cui re è stato detto il tutto (lo si personifichi in Zeus, o sia chia- mato Uno), ché tutto, secondo ragione e per sua stessa natura, distri- buisce come è bene che sia, cosi uno è l'imperatore, reggitore, che tutto distribuisce, secondo legge, come è bene che sia, non despota privato, ma, egli incarnazione della stessa ragion d'essere dell'impero, non uomo privato, ma egli stesso Io Stato, per il quale deve sacrificare i propri interessi individuali, per cui la vita dell'imperatore ed ogni sua azione è fatica e dovere. Tutto questo, certo, può suonare assai retorico, ma fu questa, senza dubbio, la linea su cui si posero gli imperatori da Traiano ad Adriano, da Antonino Pio a Marco Aurelio. E ciò risulta non solo dal Pan~girico di Plinio, ma anche, sulla via indicata da Dione, dalla celebre Orazion~ ai Romani di Elio Aristide (originario della Misia, nato nel 117, morto nel 190 circa), che, due ger.erazioni piu t:r'rdi, non scrive piu dell'imperatore regnante, ma abilmente cerca di mostrare il valore di tutto il sistema politico di Roma, oramai affer- matosi, che concilia il prinCipio della Città-Stato classica con il prin- cipio dell'imperialismo. "Vostra scoperta (~~pov dlp1J(J.Ct) è stato il sistema politico dell'impero" (A Roma, 51); "Tutti coloro che vivono sotto il vostro impero, e con ciò io intendo l'intero mondo ('quello che era noto come il confine della terra, quello stesso è ora semplicemente il muro del vostro giardino': 26), voi li avete divisi in due gruppi: i governanti e i governati. Tutti coloro, in qualsiasi località, che sono piu colti, di migliore famiglia, piu influenti, voi li avete fatti vostri pari per cittadinanza e perfino per parentela, e gli altri li avete assog- gettati a loro. Né.il mare né alcuna vasta distesa di terra possono impe- dire a uno di diventare cittadino romano; nessuna distinzione c'è in questo tra Europa e Asia; tutto è alla portata di tutti. Nessuno che sia idoneo a una carica e in cui si possa avere fiducia è straniero. Si è stabilita una universale democrazia mondiale sotto un unico e ottimo dominatore e organizzatore, e tutti confluiscono come a un comune luogo di raduno cittadino nel venire a ottenere soddisfazione alle loro varie richieste" (A Roma, 59-60). Tutto ciò proveniva da parte imperiale e rappresentava la propa- ganda dell'Impero, in una trasformazione dello Stato delineatosi con Augusto, in uno Stato imperialistico. E non pochi, certo, furono coloro che seguitarono a vedere in Roma la conquistatrice (fa dire Tacito a Galcaco, nella Vita di Agricola, 30: questi romani, questi "raptores orbis," dove fanno piazza pulita, "ubi solitudinem faciunt," questa chiamano pace, "pacem appellant") e molti furono gli stessi romani che pur riconoscendo la "missione del loro impero nella diffusione del buon ordine, sentivano duramente quanto profondo fosse il divario tra quanto proclamavano di fare ~ quanto facevano in realtà" (H. Fuchs, Der geistig~ Widerstand g~g~n Rom, Berlino, 1938, p. 18; cfr. anche Sinclair, rit., pp. 434-36). Ciò non toglie che la nuova politica impe- riale, abilmente propagandata, se da un lato ha subito l'influenza di una certa concezione, anche nel modo di vita e di condotta degli impe- ratori, che - per politica· o per intima convinzione - hanno saputo giuocare la propria parte (pensiamo ad Adriano, a Antonino Pio e in particolare a Marco Aurelio), abbia, dall'altro lato, fortemente influen- zato alcuni aspetti della stessa cultura quale" si viene configurando nel u secolo. Entro quest'àmbito, se ci rendiamo conto del significato politico della cessazione da parte degli imperatori delle persecuzioni.nei con- fronti dei filosofi, sembra anche chiaro perché gli imperatori si siano adoperati per aprire, sia in Roma sia nei maggiori centri culturali del- l'Impero, scuole pubbliche, ove i maestri erano stipendiati dallo Stato. Già Vespasiano aveva, per primo, istituito, in Roma, due cattedre "ufficiali, una di retorica latina [il cui primo titolare fu Quintiliano], l'altra di retorica greca, alle quali era annesso uno stipendio annuale di centomila sesterzi, prelevati dal fisco imperiale" (Svetonio, Vesp., 18); Adriano, su consiglio della madre Plotina, che sembra avesse simpatie per l'epicureismo, dette facilitazioni legali alla comunità epicurea di Atene (lscr. Gr., 2, 11, 1099); Marco Aurelio, infine, istitu(ad Atene con sovvenzioni prelevate dal fisco imperiale, cinque cattedre: una di retorica, una di filosofia platonica, una di filosofia stoica, una di filo- sofia aristotelica e una di filosofia epicurea (lo stipendio dei filosofi era di sessantamila sesterzi all'anno, quello del retore di quaranta- mila). Dal terzo secolo in poi, ·il controllo da parte imperiale sulle scuole, non solo su quelle istituite dallo Stato, ma anche su quelle municipali, si fece sempre piu pressante. Con Giuliano "questo inter- vento fin(col divenire regola generale; egli decide che nessuno potrà insegnare, se non dopo essere stato approvato da un decreto emesso dal consiglio municipale e debitamente ratificato dall'autorità dell'impera- tore (Cod. Theodos., 13, 3, 11); il quale si assumeva cos(un diritto di vigilanza sull'insegnamento in tutto l'Impero... La decisione si colle- gava a tutta una politica religiosa; ma, privata del suo spirito anti- cristiano, conservò il suo vigore sotto i successori di Giuliano, come testimonia la sua inserzione nel Codice Teodosiano; soltanto con Giu- stiniano sarà soppressa, come inutile, l'esigenza della sanzione impe- riale - Cod. Just., 10, 537" (Marrou, cit., p. 403). - Intanto, tra la fine del 1 e il 11 secolo, anche per la maggiore possi- bilità concessa alle varie tendenze, sia pure nell'istituzione di cattedre che avevano il compito di preparare, mediante la diffusione della cul- tura sia in Occidente che in Oriente, i futuri funzionari dell'Impero, in una comune concezione e fede in un ordine universale - comunque poi si ritenesse che a quella visione si potesse giungere, - si è cercato, per un verso o per l'altro, recuperando certe tradizioni piuttosto che altre - ove non vanno dimenticati i luoghi di origine e la formazione dei singoli autori, - di sistemare in unità motivi molteplici e diversi, esperienze e concezioni e culture. greche, orientali, romane, in funzione di una cultura, anch'essa davvero imperiale. Plutarco di Cheronea Un'analisi delle opere di Plutarco di Cheronea,2 in Beozia, vissuto tra il 46 circa e il 125 d. C., volte contro gli stoici (Le contraddizioni degli stoici, Sulle nozioni comuni: contro gli stoici, Gli stoici si espri- 2 Nato a Cheronea, in Beozia, nel 46 circa, da una facoltosa e severa famiglia, Plutarco, compiuti i primi studi in patria, si recò ad Atene dove ebbe a maestro Ammonio di Alessandria, vissuto sotto Nerone e Vespasiano, che lo avviò al plato- nismo, all'aristotelismo e, sembra, all'interesse per i misteri egiziani e greci. Nella sua piena maturità Plutarco farà di Ammonio l'interlocutore principale della E di Delfi, riferendo una conversazione avvenuta nel 67, l'anno in cui Nerone venne in Grecia (E di Del/i, 385b). Dopo il suo soggiorno ad Atene, Plutarco fu ad Alessandria, in Asia, certo piu volte a Roma, dove entrò in contatto con le maggiori personalità della poli- tica e della cultura (tra il 75 e il 90) e dove fu particolarmente benvoluto dall'impe- ratore Vespasiano. A lui si legarono di amicizia e in parte ne seguirono la concezione, Q. Soccio Senecione, console nel 99 e nel 107, che molto contribui alla vittoria di Traiano sui Daci (a lui Plutarco dedicò le Vite parallele, il De profectibus in virtute, le Quaestiones conviviales); C. Minucio Fundano, senatore, console nel 107, proconsole d'Asia al tempo di Adriano (124-25), uomo di cultura, con particolari simpatie per il platonismo e il pitagorismo (Piutarco ne fece il maggiore interlocutore del De cohibenda ira); Favorino d'Arles (cfr. dopo), a cui P1utarco dedicò il De primo frigido, facendolo inoltre interlocutore delle Quaestiones conviviales. Come suo scolaro Plutarco ricorda anche un certo Lucio Tirreno pitagorico. Rientrato presto in patria visse tra Cheronea e Delfi. Ebbe missioni politiche, fu arconte di Cheronea, e dal 95 in poi sacerdote delfico. Fu nominato cittadino onorario di Atene. Celebre, Plutarco mori nel 125 circa. Il catalogo di Lamprias (detto cosi perché attribuito al figlio di Plutarco, il cui nome, come quello del nonno era Lamprias; in realtà il catalogo ~ del m-rv secolo) enumera 200 opere di lui: molte di esse non sono autentiche, mentre altre, riconosciute auten- tiche non vi sono comprese. Con il tempo le opere di Plutarco sono state divise in due gruppi: Le Vite parallele (46 biografie accoppiate di un greco e di un romano, piu 4 isolate); Opere morali (vi ~ raccolto, impropriamente, tutto il resto della produzione di Plutarco, dagli scritti a carattere filosofico morale a quelli filosofico religiosi, pole- mici, critici, filologici, pedagogici). Essendo impossibile enumerare gli scritti contenuti nelle Opere morali in ordine cronologico, seguiamo qui l'ordine tradizionale, mettendo tra parentesi le opere di cui si discute l'autenticità o che sono certamente apocrife e che vanno oggi sotto la denominazione di scritti dello Pseudo Plutarco: De educatione puerorum libellus, De audiendis poetis, De recta audienda ratione, De adulatore et amico, De profectibus in virtute, De inimicorum utilitate, De amicorum multitudine, De fortuna, De virtute et vitio, Consolatio ad Apol/onium, De sanitate praecepta, Coniugalia praecepta, Septem sapientium convivium, De superstitione, Regum et imperatorum apophthegmata, Apophthegmata laconica, Antiqua instituta laconica, Lacaenarum apophthegmata, De mulierum virtutibus, Quaestiones romanae, Quaestiones graecae, (Collecta parallela graeca et romana), De fortuna Romanorum, De Ale:randri Magni fortuna aut virtute, De gloria Atheniensium, De lside et Osiride, De E delphico, De Pythiae oracu/is, De defectu oraculorum, Virtutem noceri poue, De virtute morali, De cohibenda ira, De tranquillitate animi, De fraterno amore, De amore probis, Animine an corporis affectiones sint peiores, An vitiositas ad infelieitatem, sulficiat, De garrulitate, De curiositate, De cupiditate divitiarum, De vitioso pudore, De invidia et odio, De se ipsum citra invidiam laudando, De sera numinis vindit'ta, De fato, De genio SOt"ratis, De e:rilio, Consolatio ad u:rorem, Convivalium disputationum libri not'em, Amatorius liber, Amatoriae narrationes, Cum principibus philosophandum esse, A d prineipem ineru- ditt~m, Anseni Res pub lit ' agerenda sit, Pra e u p t agerenda e Rei publicae, De u n i 1 1 s in Repubblit'a dominatione, populari statu et paut"orum imperio, De vitando aere alieno, (Deum oratorum vitae), De comparatione Aristophanis et Menandri Epitome, De 15    mono in maniera piu assurda dei poat) e contro gli epicurei (Contro Colote, Non potersi t1it1ere gioiosamente secondo Epicuro, Del t1it1ere nascosto), chiarisce, meglio di una lettura diretta e isolata delle sue opere piu celebri, il significato del platonismo e del pitagorismo di Plutarco, la sua interpretazione di un aspetto di Platone, formatasi entro i termini di una precisa atmosfera culturale. Troppo spesso una lettura isolata, e ritagliata da tutto un contesto, delle opere piu note di Plutarco ha dato luogo a retoriche ricostruzioni di un Plutarco che rivive in un ultimo canto del cigno il significato piu profondo del misti- cismo e della teologia dell'antica Grecia, in una consapevole malinconia per la sua prossima fine e per cui non a caso ci si sofferma sulla famosa narrazione plutarchea ove viene drammaticamente annunciato: Il gran dio Pan è morto! (De dt:fectu oraculorum, 419a-c). I due gruppi di opere polemiche di Plutarco nei confronti dello stoicismo e dell'epicureismo sembra siano state composte al tempo della prima formazione di lui ad Atene, sotto la guida di Ammonio di Ales- sandria, maestro all'Accademia, al tempo di ~erone (di Ammonio non altro sappiamo se non ciò che dice lo stesso Plutarco, cioè ch'egli dava di Platone un'interpretazione molto "plutarchea,"· in funzione di una coerente costruzione religiosa). È già questo un dato assai indicativo e i due gruppi di opere vanno storicamente esaminati non solo per ricavarne una serie di preziòsissime testimonianze sul pensiero stoico e su testi e concezioni di singoli stoici, s{ come sul pensiero epicureo, ma anche perché, attraverso esse, da un lato si rileva un metodo di indagine e di discussione e, dall'altro lato, quale fosse l'intenzione e quali fossero alcune soluzioni di Plutarco. A tali soluzioni, anzi, egli giunse attraverso la di~ussione delle varie testi stoiche cd epicuree, di cui, volta a volta, cerca mostrare la contraddittorietà interna c perciò stesso la non vcracità c la necessità di assumere altra posizione, vera perché non contraddittoria, che è per lui quella platonico-pitagorica. Il che, per altro, non 'gl'impedisce di recuperare qùci motivi stoici cd epicurei cd aristotelici che non sembrano in contraddizione nell'àmbito di un platonismo, interpretato in chiave religiosa c tale da spiegare esperienze c credenze religiose di origine orientale (egiziana e iranica), Herodoli mtdipilale, Quaestiones tlllhlrales, De facie in orbe lutu~e, De primo frigido, Aqu " " ipis sit ulilior, De solenia ammalium, Brwu ralione fili, De carnium esu, Plt#onicae quaesliones, De animae procrealiotte in Timaeo Plt#onis, De re/1f'BfUUIIÌU stoicorum, Stoicos absurdiora poni~ dicere, De commumbw notims advvnu Stoicos, Non posse suviter vivi secundum Epiewri decreta, Advernu Colotna, De lt#enta vivendo, De musica. Alquanti frammenti di opere perdute sono pervenuti (cfr. in vol. Vll Moralia, ed. Bernardakis, Lipsia, 1896). Certamente apocrifi sono l'lruiÌif4tio Traiam, il De fluviis, il De vita et poesia Homm e il De placitis philosophorum libri quinque. riconducendole ad una VISione unitaria, nei termini della patria religione delfica, della paidèia greca, per riprendere le parole dell'Epino- mide platonica, a proposito dell'assunzione nel sistema platonico delle scoperte in campo astronomico degli studiosi di oriente. Senza dubbio Plutarco ignora le posizioni stoiche piu recenti e il loro significato politico, mentre nella sua polemica si serve particolar- mente delle piu note tesi stoiche ed epicuree, divenute, ormai, entro l'àmbito delle scuole di Atene, t6poi di esercitazioni, discussi secondo il metodo proprio della media e della nuova Accademia (sappiamo, per altro, che nell'Accademia si erano compilate antologie di passi stoici, raccolti come testi di discussioni: ma, certo, come risulta da altre opere di lui, Plutarco conosceva direttamente i testi dei grandi Stoici'). Si tralascino pure le piu minute discussioni attraverso cui Plutarco vuoi dimostrare che ogni tesi stoica è in contraddizione con se stessa e che perçiò è.assurda, contro il senso comune, pur se pronunciata in nome delle "comuni nozioni," che assurda, ad esempio, è la tesi stoica che una è la realtà e ad un tempo molteplice, che l'Uno dio, spirito vivente, è ad un tempo ciò che dà individualità e qualità a tutte le cose, per cui il divino non è ed è tutte le cose, onde dio è ad un tempo immor- tale in quanto dio e mortale in quanto cose, che tutte si distrugge- ranno nella conflagrazione universale e cosi via; si tralasci anche la discussione antiepicurea, che si fonda sul vecchio luogo comune che inaccettabile è la tesi epicurea perché spiega la nascita della realtà da un atto assolutamente libero, cioè non razionale e perciò inspiegabile; ad ogni modo ciò che piu colpisce della confutazione plutarchea, in particolar modo nei confronti degli stoici, è ch'egli, accantonando l'aspetto piu fine dello stoicismo, cioè il motivo del t6nos che su di un piano strettamente logico risolve in unità la dialetticità della natura - e, per ciò stesso, non tenendo conto che su di un piano altrettanto razionale, l'altra soluzione possibile era l'ipotesi epicurea - vede come contraddittorio il tentativo stoico di mediare nell'unità della natura gli aspetti molteplici della natura stessa, là risolvendo il bene e il male, che io realtà non sono che errori di prospettiva, gli istinti e la ragione, come ragion d'essere degli istinti stessi. Ciò che Plutarco viene accan- tonando, e che gli scettici mettono, invece, in primo piano, è che le due concezioni, l'epicurea (effettivamente antiplatonica, antiaristotelica e antistoica) e la stoica (non a caso, dopo l'ipotesi di Cleante, passibile d'essere interpretata come un'interpretazione naturalistica della conce- zione platonica, o come un approfondimento dd!'Aristotele interprete di Platone) si potevano considerare, in realtà, come le due tesi piu convincenti, l'una e l'altra razionali, anche se su due piani diversi. Di qui si poteva giuocare tra le due posizioni (la platonico-aristotelico-stoica e la epicurea) contrapponendole tra di loro, contrapponendo -come dirà Sesto Empirico: Ipotiposi Pirr., I, 8..:.... ragioni a ragioni, o in una sospensione del giudizio sul piano metafisico, o in una assunzione del probabile in funzione retorico-politica. Plutarco, invece, punta sulla presunta contraddittorietà di mediare i due piani, senza con ciò annullare la divinità una nella molteplicità, e senza fare della molteplicità altrettanti momenti- dell'unica forza divina, riducendosi cosf il divino a fisicità e a tempo, e risolvendo con ciò il male nel bene, o facendo sf che il male altro non sia che un errore logico e che tutto avvenga e sia come deve avvenire e come deve essere. Egli cosf ritiene di poter risolvere la questione, mantenendo la dualità, in una interpretazione - attraverso il mistero egiziano di Osiride-lside-Tifone e il dualismo zoroastriano, intesi allegoricamente di certi testi di Platone, non a caso i piu equivoci del Timeo e alcuni delle Leggi su l'anima buona e l'anima malvagia, che ancora oggi sono stati avvici- nati al dualismo iranico. Sincero o meno, certo si è che Plutarco ha teso ad assumere entro i termini dell'antica paidèia religiosa dell'ari- stocratico Apollo Delfico i motivi e le esperienze religiose orientali (egi- ziane e iraniche), rimaste, se non ignote (tutt'altro!), non risolte in una concezione pacificante. Plutarco, cosf, sfruttando le prime pagin_e del Timeo sull'antica sacerdotale sapienza egiziana, delle Leggi sulla dualità tra principio del bene e principio del male, dell'Epinomide sulla ripresa delle scoperte astronomiche dei barbari, ìn funzione della reli- gione delfica, riprende e lancia la leggenda del Platone egiziano e del Platone orientale, che avrebbe risolto in termini razionali gli aspetti piu oscuri della religiosità, donde, per altro, attraverso Platone, l'in- terpretazione simbolico-allegorica dei riti e dei culti dei misteri egi- ziani, in un continuo riferimento ai misteri e alla mitologia dei greci (cfr. particolarmente De Iside), per cui potev~ servire anche gràn parte della simbolica dei numeri di origine pitagorico-alessandrina, e, nel- l'interpretazione del significato degli dèi e dei loro nomi, l'allegorismo di origine stoica. Bastino alcuni esempi: Gli stoici asseriscono che lo spirito che feconda e alimenta è Dioniso, quello che percuote e distrugge è Heracles, quello che riceve è Ammon, quello che pervade la terra e i suoi frutti è Demetra e Kore, quello che pervade il mare è Posidone. Gli Egizi, combinando con queste interpreta- zioni naturalistiche taluni elementi dottrinali derivati dall'astronomia, cre- dono che Tifone significhi il mondo solare, e Osiride quello lunare... Al diciassette del mese cade la morte di Osiride, secondo il mito egi- ziano, cioè quando il plenilunio si rivela nella massima compiutezza. Perciò i Pitagorici chiamano questo giorno "barriera" e, in generale, hanno un 18    aborrimento estremo per questo numero, perché il numero diciassette si frappone tra il sedici, quadrato, e il diciotto, rettangolo, oblungo non equi- latero - alle quali figure soltanto accade di avere i perimetri uguali in valore numerico alle superfici ~ pone una barriera tra l'uno e l'altro, e li distingue tra loro e, precisamente, rompe la proporzione di uno e un ottavo, diviso come è in disuguali intervalli... I Pitagorici esprimono le loro cate- gorie con una grande varietà di termini: per essi il Bene è l'Uno, il De- terminato, il Costante, il Diritto, l'Impari, il Quadrato, l'Uguale, il Destro, il Luminoso; il cattivo invecè è la Diade, l'Indefinito, il Movimento, il Curvo, il Pari, l'Oblungo, il Disuguale, il Sinistro, l'Oscuro. - Inoltre i Pitagorici adornarono anche numeri e figure con denominazioni di dèi. Chiamarono, i~fatti, il triangolo equilatero col nome di Atena, nata dal vertice [capo di Zeus], e Tritogenia, poiché esso è diviso da tre perpendicolari tirate dai suoi angoli. Il numero uno lo chiamano Apollo... Il due lo chiamano contesa e audacia; il tre giustizia... La cosiddetta "tetraktys," cioè il trentasei, costi- tuisce, com'è fama diffusa, il "piu alto giuramento" e ha ricevuto il nome di "mondo," poiché è formato dai primi quattro numeri pari e dai primi quattro numeri dispari sommati insieme... (De lside, 367 c, e-f; 370 e, 381 f-382 a). Sotto questo aspetto, nel tentativo di conciliare in una sola reli- gione delfico--apollinea la religione ellenica con certi aspetti delle reli- gioni di oriente (non va, per altro, scordato che Plutarco dal 95 circa in poi fu, in Cheronea, sacerdote a vita del tempio dell'Apollo delfico e che certi tentativi di pacificazioni religiose in una coinè potevano, tra l'altro, essere anche un servizio reso al nuovo indirizzo della poli- tica imperiale: indicativo è che Plutarco sia stato onorato da impera- tori quali Traiano e Adriano), sembra che Plutarco abbia, in funzione di tale accordo, ricostruito e allegoricamente interpretato da un lato la religione egiziana di lside e Osiride (De lside), dall'altro lato abbia cercato di mostrare il significato riposto dell'Apollo delfico (De E apud Delphos), degli oracoli (De Pythiae oraculis; De d4ectu oraculorum), ed abbia, in tale chiave, interpretato, come dicevamo, certi testi del Timeo (De animae procreatione in Timaeo) e delle Leggi, accanto alla ricostruzione di un Platone sacerdote-filosofo della religione delfica. Sembra ora non poco indicativo, a testimonianza di quanto sopra abbiamo detto, sottolineare il ·seguente passo del De lside: "Questo nostro trattato è inteso a conciliare appunto la credenza religiosa degli Egizi con questa nostra filosofia." (37la). Plutarco ha ricostruito il mito egiziano di Osiride-Iside-Tifone, insistendo nell'affermazione che il mito egizio va assunto in maniera allegorico-simbolica, si come gli aspetti cultuali e rituali in cui sono impegnati i suoi sacerdoti. 19    Iside è dea eletta per sapienza e davvero amante di sapienza - filosofa, - come il nome stesso vuole perfino indicare, dea alla quale intelligenza e conoscenza si addicono nel piu alto grado. A dir vero, lside è parola ellenica e parimente Tifone; costui è nemico alla dea, gonfio e borioso, come il ·suo nome stesso esprime, per ignoranza e illwione; riduce a brandelli e disperde la sacra scrittura, che la dea invece raccoglie e ricompone e affida agli ini- ziati, poiché il processo di divinizzazione, che avviene mediante un tenore di vita costantemente saggio... avvezza a sopportare gli inflessibili rigori dei riti liturgici nel tempio. Finalità di tali liturgie è la conoscenza di Colui che è Primo, è signore, è realtà intelligibile, di colui che la dea ci invita a cercare, poiché egli è accanto a lei, in intima comunione. Il nome stesso del tempio promette apertamente conoscenza e intelligenza dell'essere; ri· sponde al nome di Iseion, a indicare che noi sapremo la verità dell'essere allorché ci accosteremo, con atteggiamento di ragione e di pietà, ai riti sacri della dea... (351 f-352 a). Allorché, dunque, ascolterai i miti che gli Egizi narrano sugli dèi - vagabondaggi, smembramenti e tante altre vi· cende del genere - tu, o Clea [sacerdotessa a Delfi, cui Plutarco dedica il De lside; a Clea è dedicato anche il Mulierum virtutes], devi ricordare quanto siamo venuti dicendo e non credere che il fatto cos{ raccontato sia realmente avvenuto nella maniera in cui viene tramandato. Tali, a un di presso, sono i punti capitali del mito... Ecco, qui c'è qualcosa che non ho bisogno di menzionarti: se gli Egiziani hannò tali opinioni e rife- riscono tali racconti su ciò che per natura è bea~o e incorruttibile (in accordo con il quale dev'essere conformato il nostro concetto del divino), nella con· vinzione che si tratti di fatti e di eventi realmente accaduti, oh, allora "bisognerebbe davvero sputare e tergersi la bocca" [in Trag. graec. fragm., 354], per usare la parola di Eschilo. E, in verità, tu stessa detesti tali per· sone che serbano ancora opinioni cosi abnormi e barbariche sugli dèi. Che però tali miti non somiglino affatto a quelle vaghe fantasticherie e.a quelle vane favole, quali gli scrittori di versi e di prosa traggono da se stessi a guisa di ragni, tessendo e stendendo le loro malferme primizie letterarie, e che al contrario serrino in sé esposizione di dubbi e di esperienze,.tu lo capirai da te stessa. Proprio come gli scienziati dicono che l'iride risulta dal fenomeno di riBessione del sole e deve le sue varie gradazioni di colore al nostro sguardo, che si ritira dal sole e si volge alla nube, cos{, parimenti, il mito, per noi di quaggiu, non è altro che riBesso di una verità superiore, che torce il pensiero umano in una direzione sensibile. Tanto accennano velatamente i loro sacrifici (358 f-359 a). Il mito egizio, perciò, va compreso come contrapposizione tra il divino principio dell'ordine e del bene (nella coppia Osiride-lside), l'Apollo delfico, e il principio del male e del disordine (Tifone), l'ele- mento titanico, e in una salvazione dell'anima allorché essa, vincendo il male, e conoscendo il divino, come Iside raccoglie in sé e conserva l'unità dispersa del Dio, in un'aspirazione da parte del sacerdote d'Iside 20    (il filosofo) alla sapienza di Iside e al suo amor femminile ad essere posseduta dal Dio (Osiride) e al suo desiderio di raccogliere in unità Osiride spezzato e frantumato dal male. Plutarco, quindi, dopo avere avvicinato tale significato del mito egiziano alla mitologia iranico- caldea e a certi testi - distaccati dai loro contesti - della filosofia greca, particolarmente si rifà a due passi di Platone, la pagina 35 a del Timeo e la pagina 896d delle Leggi: Platone, in piu luoghi, quasi nascondendo e velando il suo pensiero, chiama i due principi antagonistici "Identità" e "Alterità" [Timeo, 35a]; ma nelle Leggi [896 d], allorché era già molto avanti negli anni, si espresse non piu per enimmi e per simboli, ma concretamente, con termini precisi, affermando che il mondo non è mosso in virtu di una sola anima, ma, pro- babilmente, ad opera di piu anime e, in tutti i casi, da non meno di due: delle quali una è quella che produce il bene, e l'altra, antagonista alla prima, è artefice di tutto ciò che è t:ontrario; egli lascia, altresf, sussistere anche una terza, che è una natura in certo senso intermedia, la quale non è priva di anima, di ragione, di moto spontaneo, come alcuni credono, ma dipende ed è sospesa ad entrambe, e aspira all'anima migliore, perennemente, e la brama e la persegue. Dimostrerà tutto questo il seguito del nostro trattato, inteso a conciliare appunto la credenza religiosa (teologia) degli Egizi con questa nostra filosofia. t un fatto che il divenire e la composizione di questo nostro universo risultano dalla mescolanza di forze antagonistiéhe, che non sono, però, equi- librate esattamente,· perché la prevalenza appartiene alla forza del bene; non è, tuttavia, ammissibile che la torza del male perisca del tutto, dal momento che essa è, in gran parte, innata nel corpo del mondo, e, pure in gran parte, nell'anima dell'universo, in un duello perenne con la potenza del bene. Ebbene, nell'anima intelligenza e ragione, vale a dire ciò che fa da guida e signoreggia su tutto quanto si ha di meglio, si identifica con Osiride. Cosf nella terra, nel vento, nell'acqua, nel cielo, negli astri, ciò che è ordinato, stabilito, sano, come si rivela attraverso le stagioni, le temperature, e i cieli, tutto questo è emanazione di Osiride e immagine riBessa di lui. Tifone, per contro, è la parte dell'anima soggetta a passioni, è l'elemento titanico, e irra- zionale e volubile; ed è la parte dell'elemento corporeo che è mortale e mor- bosa e torbida, come si rivela attraverso le cattive stagioni e le intemperie e gli oscuramenti di sole e le scomparse di luna; cos{ si manifestano le esplo- sioni e le turbolenti rivolte di Tifone. Tutto ciò è espresso altres{ dal nome con cui chiamano Tifone: Seth, che significa: ciò che tiranneggia, ciò che violenta (370 f-371 b). Se, dunque, secondo Plutarco t. ripugnante alla ragione risolvere tutta la molteplicità nell'unità del principio attivo che implica una pas- sività su cui operare, la quale passività deve perciò essere senza forma (materia), per cui, alla fine, si nega sia il divino principio sia la realtà 21    molteplice, ché, pres1 m sé, vengono a non essere piu né il pnnc1p10 attivo e qualificante né l'informe pura quantità; e se altrettanto ripu- gnante è l'ipotesi epicurea che spiega la nascita degli infiniti mondi, l'esistere, mediante un principio inspiegabile, irrazionale; l'unica pos- sibilità è porre a fondamento del tutto da un lato si un principio attivo, l'essere uno, come condizione della pensabilità del reale, ma dall'altro lato anche una materia che non sia senza forma, poiché altrimenti essa sarebbe nulla e lo stesso dio sarebbe perciò causa di nulla, oppure dando egli forma e qualità alle cose che sono, tra cui è anche il male, dio, per definizione essere e perfezione, sarebbe causa del male. In verità, le origini dell'universo non vanno poste nei C<?rpi inanimati, come vogliono Democrito ed Epicuro. E neppure fanno da artefice di una materia non qualificata e non differenziata, come vogliono gli stoici, un'unica ragione e un'unica provvidenza superna, esercitante il dominio su tutte le creature. Fatto sta che è impossibile che qualcosa cattiva, per piccola che sia, entri nell'esistenza, là dove Dio è causa di tutto; ed è ugualmente impossibile che qualcosa di buono, là dove Dio è causa di nulla... Di qui, ancora, questa antichissima sentenza, che da teologi e legislatori trapassa in poeti e filosofi, senza che se ne sappia la prima fonte; essa ha con sé una fede ferma e indelebile e non solo nella storia e nelle tradizioni, si anche nei riti e nei sacrifici, diffusa dappertutto tra i b:rrbari e tra i Greci: che, cioè, l'universo non è già librato, per sola virtU meccanica, di per se stesso, senza un intel- letto, senza una ragione, senza un pilota; né poi v'è una sola ragione che domina e regge, per cosi dire, con timone e con docili redini. No. Al con- trario, la natura ci offre tante esperienze, e tutte miste di mali e di beni, o, meglio, essa in una parola, non ci dà nulla, quaggiu, che sia "puro"; né, d'altra parte, c'è un custode di due grandi vasi che, alla maniera di una dispensiera, distribuisca a noi i nostri scacchi e i nostri successi in mistura; ma è accaduto - quasi risultato di due opposti principi e di due forze antagonistiche, una delle quali ci guida lungo un diritto cammino a destra, mentre l'altra ci fa girare alla rovescia e indietro - che la nostra vita. sia complessa, e cosi pure l'universo... Perché quèsta è la legge di natura, che nulla entri nell'esistenza senza una causa, e, se il bene non può fornire una causa per il male, allora segue che la natura debba avere in se stessa la fonte e l'origine particolare, distinta, del male, proprio come ne ha una, tutta sua, del bene. Tale è il pensiero dell'umanità e dei suoi piu nobili sa- pienti. Questi, infatti, credono che vi siano due principi divini, quasi rivali tra loro: l'uno artefice dei beni, l'altro dei mali. E c'.è chi chiama il primo, migliore, dio; e l'altro, dèmone; cosi per esempio, il mago ZOroastro, di cui si narra che vivesse cinquemila anni prima della guerra di Troia. Ebbene, questi chiamava il primo Horomazes, l'altro Arimanios; e spiegava, poi, che l'uno rassomigliava, nel campo sensibile, alla luce piu che ad altro elemento; e l'altro, per contro, alle tenebre e all'ignoranza; e che tra l'uno e l'altro, intermedio, era Mitra, chiamato perciò dai Persiani "Mediatore" I Persiani poi moltiplicano racconti favolosi sui loro dèi... I Caldei dichia- rano che, tra i pianeti ch'essi chiamano dèi tutelari della stirpe, due sono benefici, due malefici, e gli altri tre, intermedi, sono buoni e cattivi ad un tempo. Le credenze dei Greci in proposito sono ben note a tutti (De Iside, 369 a-370 d). Le citazioni e le pezze di appoggio di Plutarco sono molto indica- tive, molto ben collocate e fatte al momento opportuno. Si capisce cosi come, per altro verso, egli, nel suo tentativo di far rientrare le religioni egiziana e persiana - in un'interpretazione simbolico-allegorica dei loro miti e delle loro credenze, simile sotto parecchi aspetti a quella operata sui testi ebraici da Filone l'Ebreo - entro i termini della reli- gione delfica, puntasse, si come Filone, su Platone interpretato in chiave teologico-religiosa. Non solo, ma nella chiara esigenza di Plu- tarco di costituire una possibile pace culturale nella convinzione di un'unica sacerdotale pia philosophia, di contro al naturalismo stoico e di contro a quella che sembra, per chi assuma a fondamento della realtà un principio razionale e intelligente, l'irreligiosità e l'assurdità degli epicurei (simili, alla fine, nel loro ateismo, o meglio nel loro credere gli dèi indifferenti, a coloro che, per ignoranza, in una loro volgare religiosità, temono il divino e i dèmoni, ove va sottolineato che il ter- mine tradotto con "superstizione" è in greco timore della divinità, 3etat30tt!Lov(cx: cfr. Plutarco, De superstitione), si capisce anche come egli si riferisse da un lato al concetto piu generale ed elastico del divino di Platone e dall'altro lato, invece, a certi singoli testi di Platone tratti dal Filebo, dal Timeo, dalle Leggi. Tali testi, interpretati a ritroso, cioè entro· una linea costituitasi dopo Platone, potevano servire, ap- punto, all'intento di Plutarco, dando un fondamento filosofico, cioè convincente in quanto razionale, a quello che Io stesso Plutarco dice il buon senso, il comune senso religioso di tutti gli uomini, che, se non educato, degenera o nell'ateismo o nella superstizione (cfr. De superstitione). Non dobbiamo pensare che gli dèi siano diversi tra loro, da popolo a' popolo; che siano, cioè, dèi barbari e dèi greci o dèi australi e dèi settentrio- nali. No, ma come il sole e la luna e il cielo e il mare· sono comuni a tutti, mentre sono chiamati da chi in un modo e da chi in un altro; cosf, pari- menti, le fhrme del culto e le denominazioni, diverse le une dalle altre, a seconda delle varie costumanze, sono, pur sempre, espressione di un'unica razionalità, che le ha tutte nobilmente ordinate, e di un'unica Provvidenza, che veglia su di esse, e di potenze ancillari preordinate su tutte. Di piu, gli uomini si avvalgono di simboli consacrati- e chi ricorre a simboli oscuri e chi ricorre a simboli piu trasparenti - guidando il pensiero sulla strada 23    pcrigliosa che conduce al divino. Alcuni, infatti, vanno completamente fuori strada c s'ingolfano nella superstizione (3etat30ttjLOV(at); altri sfuggono, per cosf dire, da quel pantano che ~ la superstizione, ma.piombano, d'altro canto, come in un dirupo scosceso: l'ateismo. Ecco pcrch~, in questa ma- teria, occorre soprattutto che noi adottiamo, come guida sacra in tali misteri, le ragioni che derivano dalla filosofia c consideriamo santamente, ad una ad una, le tradizioni c le liturgie; sf che... non erriamo interpretando in un differente spirito quel che i costumi religiosi stabilirono nobilmente sui sacrifici e le feste. [Tutti, comunque, ammettono che bisogna far risalire ogni cosa a una ragione] (De /siJe, 337/-378 b). Solo che, rifiutata l'interpretazione stoica della materia, Plutarco si ritrova di fronte alla difficoltà di opporre' all'essere che è, un essere che in quanto opposto all'essere o è essere come l'essere, uno con esso, o è non essere, cioè non è. A meno che, di nuovo, non si ricorra, in un'interpretazione del Timeo, a porre come condizioni logiche, da un lato il divino, principio ordinatore, e, dall'altro lato, una quantità neu- tra (materia) come possibilità di assumere tutte le forme, non logica- mente deducibile e di cui, per riprendere l'espressione platonica, non si può discorrere se non con un "ragionamento bastardo." ·Plutarco cosi viene accostando testi platonici assai equivoci, in cui Platone sa benissimo di avanzare delle ipotesi, tanto è vero ch'egli imposta la questione su di un piano "'descrittivo," cioè mediante il mito, e in Pla- tone rispondenti a momenti diversi e a p~oblematiche diverse, e li risolve in una sola interpretazione. Si delinea cosi l'interpretazione di Platone da parte di Plutarco e la sua costruzione: l. Il divino principio, l'essere che è, il bene (l'Apollo delfico, luce e armonia, corrispondente all'Osiride egiziano e all'Horomazes zoroastriano): Errano i nostri sensi, per ignoranza dell'essere reale, a· dar essere a ciò che appare soltanto. Ma allora che ~ l'essere reale? L'eterno. Ciò che non nasce. Ciò che non muore. Ciò in cui neppure un attimo di tempo può introdurre cambiamento. Qualcosa che si muove e che appare simultaneo con la materia in movimento, qualcosa che scorre perpetuamente c irresistibil- mente come un vaso di nascita c di morte: ceco il tempo! Persino le parole consuete, il "poi," il "prima," il "sarà," l'"accadc" sono la spontanea con- fessione del suo non-essere. Infatti, ~ ingenuo e assurdo dire "~" di qualcosa che non ~ entrato ancora nell'essere, o di qualcosa che ha già cessato di essere... Di contro, dire dell'Essere che ~. "Esso fu" o "Esso sarà" ~ quasi un sacrilegio. Tali determinazioni, invero, SQno flessioni e alterazioni di ciò che non nacque per durare nell'essere. Ma il dio -occorre dirlo? - "~"; ~. dico, non già secondo il ritmo del tempo, ma nell'eterno, che ~ senza moto, senza tempo, senza vicenda; e non ammette ~~ prima n~ dopo, né futuro né passato, né età di vecchiezza o di giovinezza. Egli è uno e nell'unità del presente riempie il "sempre": ciò che in questo senso esiste realmente, quello "è" unicamente: non avvenne, non sarà, non cominciò, non finirà. Occorre, allora, che nel modo ora spiegato i fedeli rivolgano al dio il saluto e l'invocazione: Tu sei (d,e~), o anche, per Zeus, Ct>me alcuni antichi dicevano: "Sei Uno" [Tu sei,. ei: tale l'interpretazione che Plu- tarco dà dell'epsilon, della "e," iscritta sul frontone del tempio delfico, dopo avere, d'altra parte, sottolineato le possibili interpretazioni che, giuocando in chiave platonico-pitagorica si possono dare di epsilon, inteso come la lettera, indicante in greco, il numero cinque: i cinque accordi dell'armonia; i cinque intervalli melodici; i cinque mondi - terra, acqua, aria, fuoco, etere; - la pentade - punto, linea, superficie, altezza = tetrade o solido, piu anima = pentade o essere vivente; - i cinque generi del Sofista: l'ente l'identico, l'altro, il movimento e la stabilità: "Taluno, a quanto sembra, precorse Platone nello scrutare tali cose e quindi consacrò al dio la ~:;, segno e simbolo del numero che esprime la. realtà. Del resto, Platone aveva ben compreso che persino il Bene si rivelava in cinque forme (nel Filebo): prima è la moderazione; seconda, la proporzione; terza, l'intelligenza; quarta, le conoscenze, le arti, le opinioni vere sull'anima; quinta, il piacere, ove mai esista, puro e immune da ogni mescolanza con il dolore." Sintesi di tutto ciò, la E sembra simbolizzare per Plutarco l'Essere Uno del dio; il solo dio è, tu sei: cfr. De E Delph., 389 c-392 a]. "Sei Uno," poiché la divinità non è moltitudine, come ognuno di noi, congerie svariata e intruglio di infinite ibride passioni. Al contrario, l'Ente vuoi essere uno, come l'Uno vuoi essere ente. Se l'es~re ammettesse un altro, questi, naturalmente, differirebbe dal primo, e pertanto entrerebbe nel divenire, cioè nel non essere: perciò sta bene al dio il primo dei nomi e éosl pure il secondo e il terzo: Apollo, in- fatti, per cosi dire, rifiuta la pluralità e nega la molteplicità; leios vuoi dire.che è uno e solo; quanto a Febo, è certo che cosi gli antichi chiamavano tutto ciò che fosse puro e casto... (De E Delph., 392 e-393 c). - Ma Osiride, il dio, in se stesso, è lontanissimo dalla terra, incontaminato, incorruttibile, puro da ogni materia che soggiaccia alla distruzione e alla morte. Alle anime umane, fino a che, quaggiu, sono imprigionate dai corpi e dalle pas- sioni, non è dato partecipare del dio, se non rispettando quel limite in cui sia dato loro giungere a un'oscura visione di lui,.per via di pensiero, attraverso la filosofia (De lside, 382 f); 2. La materia, neutra in quanto potenza (la nutrice platonica; l'Iside egiziana). Il principio attivo come disordine (non materia, in sé né buona né cattiva), bens1 attiva (l'anima malvagia delle Leggi di Pla- tone; Tifone egizio; l'Arimanios wroastriano): Iside, in verità, è il principio femminile della natura ed è suscettibile di ricevere ogni forma di generazione, in quanto è chiamata da Platone "nutrice 25    e ricettacolo comune" [Timeo, 49e-5la], e da molti altri è chiamata con una infinità di nomi, per il fatto ch'essa, in virtu della ragione,' volge e rivolge se stessa, accogliendo ogni tipo di forma e di idea. Essa ha un innato Eros verso colui che è il primo e supremo signore di tutte le cose, il quale si identifica con il Bene, e lo brama e lo persegue [Osiride]. Fugge, invece, e respinge la porzione che deriva dal male, perché essa, serve, si, a entrambi qualç spazio e materia, ma inclina sempre piu facilmente verso l'essere mi- gliore e offre a lui la possibilità di generare da lei stessa, e di impregnarla di effiuvi e di somiglianze, di cui ella gioisce e si rallegra, fecondata com'è e fatta pregna di tali generazioni. Generazione, infatti, non è altro che l'im- magine dell'essere nella materia; e il divenire è un'imitazione dell'essere. Ecco perché il loro mito non è fuori strada, allorché narra che l'anima di Osiride è eterna e che il suo corpo fu molte volte smembrato e annientato a opera di Tifone, e che lside andò errando e ne fece ricerca e riuscf,di nuovo a ricomporlo... (De lside, 372e-373a). Platone chiama la materia con il nome di Penuria, bisognosa com'è, di per se stessa, del bene e pregna di lui ed eternamente bramosa e partecipe di lui... Allorché, dunque, diciamo "materia," non dobbiamo essere tratti dalle opinioni di alcuni filosofi [gli stoici] e pensare a un certo corpo inanimato e indifferenziato, inerte e inattivo di per se stesso. Fatto sta che noi chiamiamo l'olio "materia del pro- fumo," l'oro "materia della statua"; e questi non sono privi di ogni difie- renziazione. Persino riferendoci all'anima e al pensiero dell'uomo, noi Ii consegniamo, quale materia di conoscenza e di virt6, alla ragione affinché li.adorni e li armonizzi; e taluni hanno dichiarato che l'intelletto è la sede delle idee [cfr. Aristotele, De anima, 429a, 27] e, quasi, la massa, in cui si esprime una immagine•della realtà intelligibile [cfr. sopra Moderato di Gades; oltre, Albino, Epitomè: "L'idea è in rapporto a Dio il suo atto intel- lettivo," IX, 1]... lside gode di una eterna partecipazione del dio primor- diale e gli è vincolata nell'amore di tutto ciò che in lui è buono e bello, e che, pertanto, non gli resiste..., e perciò essa è sempre attaccata strettamente a lui e sta costantemente intorno a lui, piena e pregna delle sue parti piu nobili e pure (De lside, 374d-375a). Le vesti di lside son di colore screziato, perché la potenza di lei riguarda la materia, la quale si trasforma in ogni cosa e tutto accoglie, luce e oscurità, giorno e notte, fuoco e acqua, vita e morte, principio e fine. La veste di Osiride, invece, non ha sfumatura di ombre, né screziatura di colori, ma solamente un llllico fondo, tutto sem- plice, la pura luminosità. Infatti il principio non ronosce combinazione; e il primordiale e l'intelligibile sono privi di mescolanze (De Iside, 382c). Il principio, l'Essere, che è, dunque, nella sua iafinita ricchezza e pienezza tutta in atto, non si depaupera né si risolve nella realtà ordinata e qualificata che da lui si genera, si come, secondo Plutarco, avviene per il dio stoico. Plutarco, perciò - e di qui deriva la sua interpretazione del Timeo, - doveva sostenere che la materia non ~ pura quantità, assolutamente passiva, ma è esistenza, potenzialità di 26    assumere forme e qualita, e in tal senso è povertà e desiderio, essa come la donna che si trasforma nelle sue generazioni, nelle quali tut- tavia non si esaurisce né si risolve il "padre," che, preso in sé, resta altrettanto ricco e fecondo, privo di mescolanze. Dio da un lato (Padre), materia dall'altro (Madre), il mondo e i mondi (Plutarco sostiene che possono essere cinque: cfr. De defectu oraculorum, 423c-424h, 428f-43la; De E Delph:, 389f-390a) sono il figlio. "La migliore e piu divina natura consiste di tre parti: l'intelligibile, la materia e il risultato di entrambi, che gli Elleni chiamano cosmo. Orbene, Platone fu solito chiamare la parte intelligibile con il nome di idea o modello esemplare o anche 'padre'; la parte materiale con il nome di 'madre' e 'nutrice,' e anche 'sede' e 'posto' di generazione; e il risultato di entrambi 'prole' e generazione [Timeo, 50c-d]" (De lside, 373f). Solo che, posta cosi la questione, e spiegati certi miti religiosi con altri miti e immagini; desctittivamente posti il divino essere e accanto, ab aeterno, la corporeità, il materiale su cui si opera la generazione; ammesso pure che i due termini siano aristotelicamente le condizioni della nascita del mondo che è generazione (tempo); posto che il divino, in quanto per- fezione è bene e che la materia in quanto mancanza e neutralità non è né bene né male; o si ammette che tutto in quanto generazione dovuta al principio divino è bene, che pur non risolvendosi nelle cose, essendo le cose simiglianti a lui, resta.il termine cui tutto aspira, in un unico amore;·oppure, poiché la presenza del male è inspiegabile (ché nel momento in cui si spiega il male, trovandone la ragione è anch'esso bene), va posto, accanto alla pura intelligibilità e alla pura corporeità, un terzo principio, un'attività inspiegabile e perciò irrazio- nale, fonte appunto del male. È meglio dire con Platone che la sostanza, la materia di cui il mondo è composto, non è stata prodotta, ma era da ~mpre sottoposta al Demiurgo affinché questi la disponesse e ordinasse a propria simiglianza entro i limiti che alla materia sono possibili... Dio non ha generato né la tangibilità e la resistenza dei corpi, né la façoltà immaginativa e motrice delle anime, ma, avendo trovato i due principt, quello oscuro e tenebroso (materia) e quello agitato e i"azionale, ambedue indeterminati e privi della perfezione con- veniente, li ordinò, li regolò, li armonizzò, producendo il piu bello e il piu perfetto degli esseri viventi... Coloro che attribuiscono alla.materia e non all'anima quella "necessità" di cui si parla nel Timeo [48a, 56c, 68e] e quella "infinitezza" e "incommensurabilità" di piu e di meno, di difetto e di eccesso, di cui si parla nel Filebo [24a], come intenderanno poi ciò che Platone asserisce, cioè che la·materia è senza forma e senza figura, priva di ogni qualità e di potenza propria, simile a quegli olt inodori che i profumieri adoperano per le· tinture? È impossibile che Platone postuli 27    come causa e principio del male ciò che in se stesso è inqualificato, inerte, indeterminato e che lo chiami "infinitezza brutta e malefica" e anche "ne- cessità spesso ribelle e riluttante a Dio..." Si tratta bensf di un principio disordinato e infinito che si muove da sé e muove e che Platone in molte occasioni ha chiamato "necessità" e nelle Leggi [X, 896 e-897 d] decisa- mente, "anima sregolata e malvagia (De animae procreatione in Timaeo, 1014 b-1015 a)... Bisogna dunque rendersi conto che l'una anima non è stata fatta da Dio e non è l'anima del mondo, ma una potenza di movimento spontaneo e perpetuo di cui l'impulso e lo slancio, senza proporzione né regola, sono sottomessi all'immaginazione e all'opinione; e che la s~conda Dio stesso l'ha armonizzata mediante i numeri e le proporzioni convenienti e, una volta costituita, l'ha elevata al grado di reggente del mondo generato... (1017a-b). L'anima, dunque, non è tutta opera di Dio, ma porta in sé, innata, la parte del male... (1027a). Là dove Tifone piomba ad impadronirsi delle piaghe estreme, ivi dobbiamo figurarci lside in atteggiamento di suprema tristezza e in espressione luttuosa, alla ricerca dei resti e delle membra sbranate di Osiridi:: ella li compone e serra al petto e nasconde tali reliquie, dalle quali essa porta alla luce di nuovo le cose nasciture e le fa sorgere da se stessa (De lside, 375a-b). Il timore di Plutarco a risolvere stoicamente la divinità nel costi- tuirsi dello stesso universo, lo porta, interpretando certi passi plato- nici, a porre la divinità come il complesso in atto e compiuto (perfetto), e perciò senza divenire e mancanze (incorporeo) di tutto ciò che ha essere, cioè che ha forma, per cui, appunto, il divino è essere: il divino, dunque, pura intelligibilità, è in atto tutte le forme (idee), in quanto la sua intellezione - egli intellezione in atto - è tutte le passibili forme. Se tale è l'essere che è, esso, in quanto eterno e perfetto, è oltre l'esistere ("Pure si va cianciando di emanazioni del dio e di trasfor- mazioni tali che il dio si risolverebbe in fuoco con l'universo intero e poi, di nuovo, si contrarrebbe, quaggiu, e si distenderebbe via via in terra e mare e vento e animali ed entrerebbe nelle forme paurose di viventi e delle piante; tutto questo, anche a udirlo, è empietà!"- chiara è l'allusione agli stoici -: "Al contrario, di ciò che entrò, comunque, nell'esistenza cosmica Dio serra insieme la compagine e domina la naturale debolezza corporea, che è volta, di per sé, all;l distruzione... Per dio non si dà mai scardinamento dall'essere e trapasso": De E Delph., 393e-394a). L'esistenza è, accanto all'essere (coeterna dell'es- sere, in quanto come l'essere condizione del reale) la materia - la éor- poreità come indefinita potenzialità, - che, tuttavia, non assume essere, non assume forme, se non si definisce, se non presuppone l'essere, se non ha, quindi, per sua natura desiderio di ciò che le manca; essa perciò tende all'essere, ad assumere forme, per cui il divino, egli rima- 28    nendo esso stesso immobile e in atto, è ad un tempo presupposto e termine dell'aspirazione del tutto. Evidentemente, dunque, rifiutando la tesi stoica della materia pura passività e ·senza qualità, bisognava porre, accanto all'essere - principio e fine - e all'esistere - materia- potenza - una terza condizione, un principio vitale, senza di cui la materia sarebbe restata pura passività. L'anima come vitalità è, dun- que, una terza condizione, che se da un lato spiega la tendenza del- l'esistere ad assumere essere, costituendosi come anima del mondo in quanto si modella sull'intellegibile (razionalità), dall'altro lato può ren- dere conto dell'affermazione di sé come individualità, che aspirando a sé e non all'essere uno, che serra insieme il tutto intelligibile al divino, si determina come non-essere, come ribellione a Dio, come frantumazione dello stesso Essere che è uno, ordine e bene, si deter- mina cioè come irrazionalità (male). Il divino, dunque, come pura intelligibilità e come essere è, ad un tempo, principio e fine, mentre la materia, esistente e vivente, è da un lato tendenza all'essere, al bene, e, dall'altro lato, nella stessa affermazione di sé, negazione dell'essere, conflitto, male, in una serie di gradi viventi, che, posto appunto il divino come termine ultimo di aspirazione, vanno all'infinito in una serie che si scandisce da una minor somiglianza al dio (mondo ter- restre e sublunare) a una sempre maggior somiglianza a lui (mondo celeste, dèmoni buoni), per approssimazione e in un perenne conflitto.· È un fatto che il divenire e la composizione di questo nostro universo risultano dalla mescolanza di forze antagonistiche, che non sono, però, equi- librate esattamente, perché la prevalenza appartiene alla forza del bene; non è, tuttavia, ammissibile che la forza del male perisca del tutto, dal momento che essa è, in gran parte, innata nel corpo del mondo, e, pure in gran parte, nell'anima dell'universo, in un duello perenne con la potenza del bene. Ebbene, nell'anima, intelligenza e ragione, vale a dire ciò che fa da guida e signoreggia tutto quanto vi ha di meglio, s'identifica con Osiride [il divino)... Tifone, per contro, è la parte dell'anima soggetta a passioni, è l'elemento titanico, e irrazionale e volubile... (De lside, 37Ia-b). Certa- mente, H, nel cielo e negli astri perseverarono immobili le ragioni supreme delle cose e le forme e tutto ciò che proviene dal dio; per contro, quaggiu, quel che è disseminato tra gli elementi soggetti alle leggi fenomeniche - terra, mare, piante, viventi in generale - si dissolve, si corrompe, va perfino sotterra... (De ]side, 375b). Il principio della fecondità e della con- servazione della natura è attratto verso di lui e verso l'essere, mentre il principio dell'annientamento e della distruzione è dissolto da lui, verso il non essere. Perciò, essi chiamano lside con un nome che deriva da "slan- ciarsi" (hlestaz) con sapienza e dall"'essere mosso," appunto perché essa consiste in un movimento animato e sapiente... (De lside, 375c). È bene esigere che nessuna cosa inanimata si:t superiore a ciò che è animato e 29    nessuna cosa priva di sensibilità sia superiore al senziente... Non nei colori, né nelle forDie esteriori, né in levigati pannelli è presente il divino: tutto ciò che non partecipa né può, di sua natura, partecipare alla vita ha una porzione di onore, inferiore a quella dei morti. Per contro, la natura, che vive e vede e ha da se stessa la sorgente del movimento e una conoscenza tale da saper distinguere quel che è suo e quel che le è estraneo, ha saputo attrarre su di sé un etBuvio e una poézione di bellezza da parte di colui che è saggezza, "in virtU del quale è governato l'universo," secondo l'espres- sione di Eraclito (De lside, 382b). Entro questi termini sembra chiaro come Plutarco - nel suo ten- tativo di giustificare sotto il segno di un'unica concezione religioso- filosofica gli aspetti diversi delle credenze religiose' ellenistiche ed orien- tali, le quali ultime. egli vede sintetizzate da un lato nei misteri egizi di Osiride-lside, dall'altro lato nella teologia zoroastriana - possa riprendere e giustificare, nel quadro della sua teologia e cosmologia, le credenze nei dèmoni, nelle capacità divinatrici e profetiche delle anime, in una, infine, descrizione di quella che è, nell'universo, la posizione dell'uomo, e di quale ha da essere il suo fine. Uno l'universo nella sua totalità, posti come ter~ni estremi l'Essere e la materia e tra l'uno e l'altro, nell'aspirazione della materia all'essere, la genera- zione - unica realtà effettuale, la cui durata costituisce il tempo - dalle forme piu basse - all'infinito - e inanimate, alle forme piu alte - al- l'infinito, verso l'Essere, termine ultimo - ve animate, nel perenne conflitto della vitalità, che in quanto tale è tensione ad essere e nel suo determinarsi e affermarsi è negazione dell'essere; entro l'universo uno, si.viene ad avere un'infinita scala di generazioni, di forme viventi, di anime, per un lato volte al limite, all'oscurità, alla corporeità, per l'al- tro lato volte all'essere, alla luminosità, al divino. Di qui l'afferma~ zione plutarchea che entro l'Uno universo, piu di uno possono essere i mondi, piu di una le condizioni delle anime, da anime-limiti, oscure - corporei~à, tra cui l'uomo nella sua condizione terrestre - ad anime piu luminose, meno limitate, ma non per questo meno reali, viventi, operanti, i cosiddetti dèmoni, ad esempio, e oltre ancora gli dèi, fino alla purezza assoluta del divino. Coloro che sostengono che Platone, avendo ammesso un elemento come substrato delle qualità sensibili che noi chiamiamo materia o natura, ha liberato i filosofi da molte e gravi difficoltà, dicono una cosa giusta: allo stesso modo mi sembra che difficoltà ancora piu numerose e gravi siano state superate da coloro che pongono tra dèi e uomini, la specie dei dèmoni, ritrovando cosi in certo modo un legame che ci congiunga e ci unisca a Dio. E poco importa che questa dottrina provenga dai Magi della setta di 30    Zoroastro, o con Orfeo dalla Tracia, o dall'Egitto, o dalla Frigia (De defectu oraculorum, 414f-415a). C'è chi ammette il trapasso, sia da corpo a corpo, sia da anima a anima: cosi, per esempio, la terra diventa acqua; l'acqua aria; e l'aria, nell'ascen- sione propria della sua natura, si tramuta in fuoco; allo stesso modo, nel.:ampo delle anime elette, è ammesso il passaggio da uomini a eroi; da eroi a dèmoni. Tuttavia, solo poche anime appartenenti al grado demo- nico, purificate dopo lungo volgere di tempo, mediante la virtu, riescono a partecipare completamente della divinità. Al contrario, talune, non riu- scendo a dominare se stesse, scendono dal grado superiore e indossano di nuovo corpi mortali e traggono una vita senza luce e fievole come un'esa- lazione... In realtà, piu lungo o piu corto che sia il tempo determinato o non, in tutti i casi si avrà sempre la dimostrazione voluta, attraverso testi- monianze sapienti e antiche, che esistono, cioè, alcuni esseri, quasi al con- fine tra gli dèi e gli uomini, i quali sono soggetti alle passioni mortali e alle mutazioni fatali. È giusto, secondo il costume dei padri, che noi con- sideriamo costoro dèmoni e li veneriamo con questo nome. Senocrate, amico di Platone, propose a simboli di questa concezione le figure dei triangoli. Al divino confrontò, per immagine, l'equilatero; al mortale lo scaleno; l'iso- sede, infine, al demoniaco. Il primo è uguale in tutto e per tutto; il secondo, del tutto disuguale; l'ultimo, uguale per un verso, disuguale per l'altro: proprio come la natura dei dèmoni, che partecipa a un tempo della passione del mortale e della virtu del dio. Ma la natura stessa offerse immagtru e simiglianze visibili: cioè degli dèi, con il sole e con gli astri; dei mortali, con le meteore, le comete e le stelle cadenti...; natura mista e figura di dèmone è essenzialmente la luna, la cui rivoluzione concorda con questo genere demoniaco, in quanto essa si mostra ora calante, ora crescente, ora cangiante... Figuratevi, ora, di sottrarre e portar via l'aria ch'è in mezzo tra la terra e la luna: naturalmente l'unità e la coesione del tutto risulte- rebbe spezzata dal fatto che ci sarebbe, nell'intervallo, uno spazio vuoto e slegato. Allo stesso modo, chi non ammette la categoria demonica toglie ogni continuità e relazione tra il mondo degli dèi e quello degli uomini, elimina gli esseri che, al dire di Platone, esercitano una funzione di inter- preti e di ministri; ovvero essi ci co~ringeranno a sconvolgere e a turbare ogni cosa, facendo entrare il dio nelle passioni e nelle cose umane e traen- dolo alle loro necessità... Noi, invece, non vogliamo dar retta per nulla a coloro che negano la divina ispirazione agli oracoli e la divina compia- cenza.per le cerimonie e i riti; ma neppure vogliamo credere che, in tali cose, il dio si giri e rigiri e si presenti direttamente e si affaccendi lui stesso. Piuttosto, facciamo risalire tali riti oracolari a coloro ai quali giustamente la cosa compete, voglio dire ai ministri degli dèi, che sono, per cosf dire, i loro famuli e segretari; noi crediamo che il mondo tutto sia percorso da dèmoni, alcuni volti a sorvegliare i sacrifici agli dèi e i riti misterici, altri in funzione di vendicatori di tracotanze e di crimini [ed è su questo motivo che si svolge, di contro alla provvidenza stoica, la provvidenza plutarchea: cfr. De sera numinis vindicta]•.. Certo, come tra gli uomini, anche tra i dèmoni esistono differenze di valore, perché in alcuni l'elemento passio- nale e irrazionale ha lasciato, come un residuo, un avanzo ancora fievole e indistinto, in altri invece persiste in dose considerevole e inconsumabile (De defectu oraculorum, 415b-416c, 417b). Se da un lato la soluzione del significato da dare ai dèmoni chia- risce quanto sopra dicevamo, e cioè la concezione plutarchea di una realtà vivente, che, in un conflitto di forze, si scandisce in gradi, fino a ordinarsi, sempre pio razionalmente, a imitazione dell'Essere su-,premo, puro intelligibile, presupposto e fine; dall'altro lato, i testi sui dèmoni e sulla loro funzione, hanno un notevole interesse storico. Sono una testimonianza precisa non s~lo della presenza di credenze oracolari, astrologiche, magiche, quali si erano venute diffondendo, in particolare dall'Egitto, fin!> dal 11-1 secolo a. C., e alle quali abbiamo già sopra accennato, ma anche del tentativo che ora si fa di rendere conto delle stesse esperienze vitali che stanno a fondamento di quelle credenze. La teoria plutarchea dei dèmoni non è nuova: già ne tro- viamo tracce in Alessandro Poliistore, nei Physik,à kài Mystikà dello pseudo-Democrito, nelle Rivelazioni di Nechepso e Petosiride (cfr. so- pra), in alcuni testi alchimistici che rifluiscono nei testi del corpo erme- tico (certo su Plutarco, come testimonia anche il suo interesse per Osiride-Iside, ha avuto una forte influenza il motivo ermetico di Thot-Ermes, lo scriba e interprete di Osiride: non a caso Plutarco si fa interprete del significato riposto dei sacri riti e miti egiziani e persiani). Ciò che, tuttavia, interessa sottolineare è l'interpretazione di Plutarco, il suo risolvere le forze occulte in forze naturali, reali, in conflitto, ponendo il divino (la razionalità) come termine ultimo di aspirazione. E allora, come da quel conflitto si determina la scala degli esistenti, dalle prime qualificazioni oscure (corporeità) alle meno oscure (corpi viventi, animati, di cui l'uomo è il piu alto)., agli astri, alle piu luminose anime incorporee, maggiormente vicine al divino (i dèmoni: reali, tanto quanto reali sono il corpo, l'anima umana e via di seguito); cosi si giunge all'uomo, aspetto della realtà, in cui si sperimenta la presenza dello stesso conflitto, l'urto delle stesse forze vitali, lo stesSo determinarsi e costituirsi da un lato in corpo e vitalità (anima) e dal- l'altro lato in razionalità, in aspirazione all'ordine e.al divino (perciò l'anima non muore con il corpo, perché la morte può essere interpre- tata come eliminazione dell'oscurità). E allora il conflitto e la capacità di equilibrare il conflitto medesimo, se da un lato spiegano la divi- nazione, i sogni profetici ela possibilità, mediante certi riti (tecniche), di entrare in rapporto con gli spiriti, con le anime che sono i dèmoni, dall'altro lato spiegano come quei dèmoni stessi siano presenti, com'essi 32    operino, come servano di mediazione tra l'uomo e la divinità. Non solo, ma, per altro verso, v'è in Plutarco, di contro al fatalismo stoico, per il quale diviene impossibile da parte umana operare sui dèmoni, e di contro a certe forme magico-popolari secondo cui si può diretta- mente operare sulle divinità, indicata, sia pur in un solo accenno, la via, che verrà sviluppata in ambiente neoplatonico e nel commento agli oracoli caldaici, la quale rende possibile, attraverso il conflitto delle forze, la tensione tra le anime, la razionalizzazione di se stessi. Di qui anche, in un rapporto tra le anime, simili tra loro, l'azione sulle forze demoniache, e, mediante certi riti e tecniche, che Plutarco non a caso lascia ai competenti ("facciamo risalire tali riti oracolari a coloro ai quali giustamente la cosa compete": De def. orac., 417b), l'evocazione degli spiriti, e, quindi, l'avvicinamento al divino, in una salvazione che consiste nella "conoscenza" ed in cui sta per Plutarco la religiosità che non sia "superstizione" (e qui sono senza dubbio presenti, accanto a motivi ermetici, motivi che possiamo dire gnostici, se è vero che si può parlare, ad esempio per Filone l'Ebreo, di gnosti- Cismo giudaico). La nostra natura morale inaridisce e invecchia nell'attività dell'igno- ranza. Un riposo muto, una vita inerte dedicata all'ozio consumano non soltanto i corpi, ma anche le anime... Le facoltà naturali degli· uomini che ntm si muovono... appassiscono e invecchiano innanzi tempo... Credo che gli antichi abbiano dato all'uomo il nome di "phos" (luce), poiché è insito in ciascuno di noi, per analogia alla !uce, un intenso desiderio di conoscere e di essere conosciuto. Alcuni filosofi sostengono che la luce abbia una sostanza identica a quella dell'anima [Filone l'Ebreo?: cfr. sopra], e tra le altre argomentazioni adducono che niente l'anima rifugge piu dell'igno- ranza, e che essa respinge tutto ciò che è oscuro e che rimane turbata dalle tenebre, in cui trova timore e inquietudine, ma che la luce è per lei cos{ dolce e desiderabile, che di nessuna cosa ch'essa naturalmente ama può godere quando sia nell'oscurità, lontana dalla luce... (De latenter vivendo, 1129d-1130a). L'accenno alla sostanza dell'anima come luce, è, purtroppo, un solo accenno, che, se piu ampio avrebbe potuto chiarire molte questioni sull'origine della metafisica della luce e sulla conseguente discussione relativa all'influenza delle luci stellari, a loro volta riflessi della lumi- nosità divina. Ad ogni modo, entro l'àmbito di una ricostruzione del pensiero di Plutarco, l'accenno alla luce è interessante in quanto serve a meglio comprendere la posizione che viene ad assumere l'uomo, nei gradi in cui si scandisce la realtà nella sua aspirazione all'Essere, non a caso detto, con un'immagine, pura luminosità: "Le vesti di lside sono di colore screziato, perché la potenza di lei riguarda la materia, la quale si trasforma in ogni cosa e tutto accoglie, luce e oscurità... La veste di Osiride [del divino], invece, non ha sfumature di ombre, né screziature di colori, ma solamente un unico fondo, tutto semplice, la pura luminosità" (Dc lsidc, 382c). La divinità, dunque, è rappresen- tata come pura luminosità senza ombre e colori, mentre la realtà è tale, esistente, visibile, in quanto non è né pura tenebra (il nulla) né pura luminosità (altrettanto invisibile, accecante), ma ombra e luce, in una serie di gradi che vanno al limite dalla tenebra e dall'oscurità (corporeità) alla luminosità pura (divinità), scandendosi in un com- plesso di oscurità (corporeità) e di luce (anima). E perciò l'uomo, di fatto corpo e vitalità (anima), da un lato affermazione di sé per esi- stere, ma, dall'altro lato, nel suo stesso affermarsi, negazione dell'essere, l'uomo, in tale sua tensione e, perciò, in tale sua aspirazione all'essere come pienezza, alla luce, viene ad essere come lo specchio - in pic- colo - dell'universo stesso. Si ripete cosi: in lui il conflitto tra luce e oscurità, tra sé come corporeità e animalità (anima) e sé come capacità di ordinarsi, di porre equilibrio, di costituirsi come razionalità. Anzi, è proprio nell'atto in cui l'uomo scopre sé come razionalità, che si rivela e si coglie, intuitivamente, la razionalità divina, la pura lumi- nosità. Aspirazione al divino, la capacità intellettiva e razionale si sco- pre in noi - oltre l'anima - come la presenza del divino, e, perciò, da un lato come possibilità di ordinare e.guidare le nostre forze vitali e, dall'altro lato, come esigenza di perdersi nella sua unità, in un amore per Dio (entusiasmo), che scaccia da sé ogni timore per lui (superstizione) o ogni indifferenza nel rimanere chiusi nella propria individualità (ateismo, epicureismo): "Quando l'anima crede e pre- sume che il dio sia presente, respinge via da sé dolori, timori, inquie- tudini e con la gioia si eleva sino all'ebbrezza, al riso e all'esaltazione" (Non pom: suaviter vivi..., llOlc-f; si confronti anche il motivo del- l'cbbrictà di Filone l'Ebreo: Dc cbrictatc). Molti sostengono giustamente che l'uomo è un essere composto, ma hanno torto quando pensano che sia composto soltanto di due principi: difatti quando considerano l'intelletto (vouc;) come una parte dell'anima, errano non meno di coloro che ritengono l'anima una parte del corpo. Di quanto l'anima è superiore al corpo, di tanto l'intelletto è migliore e piu divino dell'anima. L'unione dell'anima e del corpo produce la facoltà irra- zionale e passionale, quella dell'intelletto e dell'anima produce la ragione; la facoltà irrazionale e passionale è principio di piacere e di dolore, quella dell'intelletto e dell'anima di virtU e di vizio. Di queste tre parti, la terra forma il corpo, la luna forma l'anima, il sole dà origine all'intelletto (Dc 34    facie in orbe lunae, 943a). Le anime posseggono sempre i loro poteri, ma li posseggono piu deboli quando sono mescolate ai corpi...; tuttavia alcune anime talora fioriscono e riacquistano quella loro potenza nei sogni e al momento della morte, sia perché allora il corpo si purifica o subisce una modificazione favorevole, sia perché l'anima, essendo la parte razionale e meditativa liberata e svincolata dalle cose presenti, si dirige con la parte irrazionale e immaginativa verso le cose future... (De defectu oraculorum, 43lf-432c). Anche se molte sono le oscillazioni del pensiero di Plutarco, se molte volte egli è equivoco relativamente al concetto del divino e sul rapporto tra il divino e la realtà, vivente nel conflitto tra le due forze, nella tensione tra la forza disgregatrice, individualizzante e la forza organizzatrice e ordinatrice, certo l'aspetto piu appariscente del suo pensiero, accanto a quello di conciliare in una sola religiosità razionale (delfica) le molte esperienze religiose, vive e operanti al suo tempo, è il suo rovesciamento dello stoicismo, che spiega anche il significato e il limite della trascendenza del divino plutarcheo. Posto, di contro allo stoicismo, che il divino non si risolve nella molteplicità del reale, ma che il divino si pone come il presupposto dell'ordine e della razio- nalità co.ndizione dunque dell'essere delle cose, esso metaforicamente è il "padre"; e posto, perciò, che la materia e la corporeità, viventi per la tensione di forze vitali (anime), tendono all'essere, Plutarco poteva - ed in questo. consiste il rovesciamento dello stoicismo e il suo ap- pello a Platone - da un lato prospettare il divino come termine di realizzazione (in tal senso trascendente) di tutta la realtà, non annul- lando l'essere nella esistenza, dall'altro lato poteva sostenere che dalla tensione tra le _due forze si realizza, o può realizzarsi, un ordine, in cui si rivela per imitazione la presenza del divino. Plutarco cos(, di contro al fatalismo stoico e al casualismo epicureo, poteva sostenere, sul piano umano, un qual certo volontarismo e dinamismo, fonda- mento della vita morale, che non avrebbe luogo senza conflitto e se l'uomo e il resto non fossero altro che momenti della necessaria manifestazione della divinità. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso Plutarco ponga l'intelletto non come una parte dell'anima, ma come rivelazione della presenza del divino in quanto razionalità, cioè in quanto capacità ordinatrice e unificatrice, che si pone come dovere e come bene, che si coglie,- attraverso il conflitto stesso. Tale la ragione per cui Plutarco, interpretando un passo della Vll lettera di Platone (344b), afferma che l'intelligibile si coglie attraverso il con- flitto, nell'atto in cui scoprendo sé come razionalità, si scopre sé come pensiero, cioè come unità di discorso e come dominio in unità di noi stessi, m quanto molteplicità di passioni. "L'intuizione di ciò che è intelligibile, luminoso e puro è come un lampo che brilla, e l'anima può coglierlo e vederlo una volta sola. Perciò Platone [Convito, 210a] e Aristotele [Alex., VII, 668a] chiamano con il nome di epoptica questa parte della filosofia, poiché coloro che mediante la ragione hanno oltrepassato le varie_opinioni di ogni specie, si elevano di colpo a quel Principio primo, semplice e immateriale _e toccando direttamente la verità pura che irraggia da esso raggiungono, come in una iniziazione, il fine della filosofia" (De lside, 382e). L'unità del discorso in cui si scandisce il ritmo della realtà, che assume essere in quanto si adegua all'unità dell'Essere, per cui l'Essere trascende la realtà, appunto perché ragion d'essere in atto del tutto, unità in atto del tutto, unità in atto delle forme - metaforicamente luminosità senza ombre, non discorribile - si coglie intuitivamente e, perciò, subito si perde - non a caso Plutarco dice che è come un lampo e che si vede una volta sola; - esso, dunque, resta da un lato.:ome ricordo, e, dall'altro lato, come desiderio, come termine cui si aspira, oggetto d'intelletto, pura intelligibilità. E allora, non risolta la realtà nella manifestazione dell'essere, l'essere si pone come condizione dell'esserci e come dover esser, per cui, colto l'essere, attra- verso l'educazione e l'esercitazione del pensiero, esso diviene il bene, e poiché la realtà, e l'uomo, momenti dell'aspirazione all'essere, nel conflitto tra la forza organizzatrice e la forza disgregatrice, sono sgan- ciati dall'essere stesso, nell'uomo, in quanto centro del conflitto, nel- l'atto che intuitivamente coglie l'essere, si postula la possibilità di rea- lizzarsi da un lato come capacità (virtu) di vedere la ragion d'essere delle cose, cogliendole in ciò che esse sono nel loro ordinarsi secondo il modello divino, indipendentemente dalla relazione ch'esse hanno con l'uomo stesso (l6gos teoretico, la cui corrispondente virtu è la "sapienza," sofia), dall'altro lato come capacità di realizzarsi, tenendo presente il modello divino, armonizzando e ordinando in unità (ragio- nevolmente) le passioni e gli istinti (ragione pratica, la cui virtu è la "prudenza," fr6nesis). L'uomo, cioè, in quanto intuizione di sè come ragione, che lo trascende dal di dentro e che si pone come valore da rea- lizzare, da un lato coglie sé come capacità di contemplare (vita teoretica, scienza), dall'altro lato come capacità, mediante la ragione, di ordinare e di indirizzare la propria animalità (anima vegetatìva e anima sen- sitiva, corrispondenti all'anima "concupiscibile" di Platone; anima irascibile), il proprio aspetto irrazionale (se stesso cioè come conflitto e frantumazione) di volta in volta sapendo comportarsi giustamente, secondo una giusta misura (giusto mezzo), in un'armonia e medietà di passioni, non in una negaziDne delle passioni, in cui consistono le virtu etiche (vita pratica). "La virtu morale differisce dalla virtu con- templativa in questo: ch'essa ha per materia le affezioni dell'anima e per forma la ragione" (De virtute morali, 1). Anche sul piano etico, coerentemente, la posizione di Plutarco e il suo rifarsi da un lato a Platone e dall'altro lato ad Aristotele, è in funzione antistoica, o meglio in funzione di una interpretazione di Platone e di Arsitotele, diversa da quella stoica, e tale che gli permetta di mostrare che la virtu è insegnabile (cfr. Virtutem doceri posse) e che la moralità non consiste solo in un corretto uso della ragione. Vi sono alcuni filosofi [Zenone di Cizio, Crisippo] che si trovano d'ac- cordo nel considerare la virtu come un'affezione, come un abito della parte superiore dell'anima, prodotto dalla ragione, o piuttosto come la ragione stessa, invariabilmente fissa ai suoi retti principi. Essi non credono che in noi sia una facoltà sensitiva e irrazionale, diversa per natura dalla ragione. Questa parte dell'anima, ch'essi chiamano egemonica e intelligenza, diviene, dicono, vizio o virtu, a Seconda delle modificazioni che prova nelle sue affe- zioni ed abiti. Essa non ha nulla di irrazionale... Essi sostengono che la passione stessa sia ragione, ma corrotta e depravata dai giudizi falsi e per- versi che la trascinano fuori di sé. Questi filosofi sembrano aver tutti igno- rato che ciascuno di noi è in realtà un essere doppio e composto. O meglio essi parlano di una sola duplicità, di una sola composizione; quella che risulta dall'unione dell'anima con il corpo; ma non si sono accorti che la stessa anima è in qualche modo composta di due nature diverse; che la sua parte irrazionale è come un secondo corpo unito alla ragione, da intimi e necessari legami. Pitagora, invece, sembra aver conosciuto questa seconda composizione... Platone ha veduto con la massima evidenza che l'anima del mondo non è un essere semplice, uno per natura, senza composizione; ma ch'essa è un mescolarsi del principio dell'identico e di quello dell'altro [in un conflitto tra l'anima buona e l'anima malvagia]. L'anima umana che altro non è che una porzione di quella del mondo, formata su numeri e propor- zioni uguali a quelli dell'anima cosmica, non è né semplice né senza affe- zioni. Essa ha due facoltà: una che si adegua al ragionevole ed all'intelli- genza, per sua natura atta a dominare l'uomo ed a governarlo; l'altra, irr'azionale, sregolata, sede delle passioni e degli errori, ha bisogno d'essere retta da una facoltà superiore. [La parte irrazionale si divide in concupi- scibile e irascibile]... Aristotele ha fano un grande uso di questi principi, soprattutto della distinzione tra razionale e irrazionale... Orbene, i costumi, per darne qui un'idea, sono una qualità della parte irrazionale; e si chiamano cosi perché questa qualità, impressa dalla ragione in questa parte dell'anima, è dovuta· all'abitudine. La ragione non vuole distruggere interamente le passioni, il che non sarebbe né possibile né utile, ma solo infrenarle entro giusti limiti, dando cosf luogo alle virtu morali, che non operano affatto l'annientamento totale delle passioni (apatia) ma le regolano e le moderano. Tali virtu sono il frutto della prudenza (jr6- nesis), che riconduce ad una disposizione equilibrata e giustamente misu- rata l'attività naturale delle passioni (De virtute morali, 3, 4). L'appello di Plutarco all'aspetto formale dell'etica aristotelica, il suo puntare sulla moralità come conflitto, sul bene e sul male come capacità di sapere o meno, di volta in volta, costituirsi secondo misura oppure no, nettamente respingendo sia l'accettazione passiva di ciò che avviene, riconducendo ogni avvenimento ad una superiore ragione da cui tutto dipende (fatalismo stoico), sia l'esigenza, in un mondo ove tutto avviene a caso, di ritirarsi in conventicole di amici (epicurei- smo: cfr. De latenter vivendo), sembra rendere esattamente conto del modo con cui Plutarco si è rifatto a Platone, dandone un'interpreta- zione dinamica, sottolineando, appunto, tutti quei motivi da cui pare che Platone intenda il mondo dell'Essere non come un dato, ma come un dovere essere. Si capisce cos(perché Plutarco perfino sul piano cosmologico - non a caso egli punta sulla natura come potenzialità - interpreti il Timeo in termini rovesciati rispetto all'interpretazione stoica, sottolineando che, sia pur posto il divino quale condizione dell'essere del tutto, delle forme delle cose, non è il divino che si tra- duce ed è nell'esistenza del mondo, ma è il mondo che, vivente di forze opposte, si adegua e tende, ascende, dai gradi piu oscuri ai piu luminosi, al divino, pura intelligibilità, pura luminosità. In tale stoicismo rovesciato, indipendentemente dal divino, che resta a sé, termine di realizzazione e di amore, e in tale insistenza sulla vita- lità della natura e sull'esigenza dell'uomo (la quale, per l'uomo, intuito il divino, diviene un dovere) di dominare se stesso, di costituirsi come ordine e misura, a simiglianza di Dip, molti dei motivi relativi alla natura restano quelli stoici (il motivo della simpatia, il motivo della tensione tra un principio attivo e un principio passivo, donde si genera e si costituisce il ritmo in cui si scandisce la realtà). Sul piano umano resta, particolarmente, il motivo della filantropia e, conseguentemente, i motivi del piu recente stoicismo, come da parte del saggio l'impegno a operare sempre in funzione di una pacificazione politica, in nome di una superiore armonia, di un superiore equilibrio delle "ragioni" mediante cui le società si adeguano alla misura divina, e l'aspirazione plutarchea a che gli stessi governanti e sovrani siano consigliati e ammaestrati dai saggi (cfr. Mu.sonio, Anche i re debbono studiare filosofia). Di qui anche l'importanza data alla cultura mediante cui sviluppare quei semi.di virtu che sono propri di ogni anima (cfr. sopra Musonio; Plutarco, De educatione puerorum), cultura che, entro i limiti del possibile e delle varie condizioni economiche, Plutarco vorrebbe fosse data a tutti ("Tutti i genitori debbono sforzarsi di dare ai propri figliuoli la piu perfetta educazione; coloro che non sono sufficientemente liberi si limiteranno a ciò che la loro fortuna permet- terà di fare. De educ. puer., 11). Cos(, anche sul piano politico, l'ap- pello di Plutarco è un appello a una possibile pacificazione, mediante la cultura e la conoscenza, simile alla pacificazione da lui sostenuta relativamente alle religioni, una possibilità d'incontro tra le tradizioni delle antiche p6leis e la realtà di fatto che è l'Impero di Roma. Entro quest'àmbito Plutarco si muove con molta cautela. Egli riconosce la supremazia di Roma ("in questi tempi moderni, ogni guerra ellenica, ogni guerra esterna è fuggita e svanita di mezzo a noi; le nazioni hanno solo tanta indipendenza quanta ne concedono i nostri padroni": Precetti politici, 824c) e come estremamente limitata sia oramai la pos- sibilità di usare l'arte politica per i cittadini delle provincie elleniche ("ai nostri giorni, quando non è piu compito delle città condurre guerre o abbattere tiranni o negoziare alleanze, quali funzioni politiche restano e quali modi di eccellere nello Stato? Id., 850a). Entro questi limiti, tuttavia, Plutarco tende a mostrare la funzione che può ancora avere, sul piano di una socialità ed eticità intesa ari- stotelicamente, e che perfettamente s'inquadra nei termini della sua concezione religiosa e della sua interpretazione di Platone, una doppia azione politica, mediante cui attuare ·la natura umana (sembra chiaro in che senso Plutarco sottolinei l'antico ideale dell'uomo, tale non in quanto individuo, ma in quanto animale politico: cfr. Se un vecchio debba governare lo Stato, 791c), da un lato in modo tale che ciascuno attui, per ~iò che gli compete, il suo dovere politico entro i limiti della propria Città e, dall'altro lato, in relazione con il governo di Roma, salvaguardando nell'armonia dell'Impero le libertà delle proprie p61eis. "Quali funzioni politiche restano, dungue, nei nostri Stati? Restano gli affari civili da istruire nei tribunali, le missioni presso l'imperatore, tutte cose che richiedono un uomo attivo e ad un tempo fermo e pru- dente; in una città vi sono poi molte istituzioni utili, ma obliate, che conviene rimettere in piedi; e poi si possono suggerire e attuare riforme (Precetti politici, 805a). N o n solo, ma, anche, attraverso il proprio esempio,.si deve mostrare cosa voglia dire essere uomo dav- vero, oltrepassando i singoli nazionalismi, per indicare come in r.-altà si tratti non di istituzioni o di regimi politici, ma di uomini ("Bene- volenza e collaborazione: sono questi i principi che Plutarco apprez- zava di piu. Lo stesso ordinamento a coppie dato da lui alle sue Vite parallele, ponendo accanto quella di un Greco e quella di un Romano, mostra ch'egli voleva che i due popoli fossero considerati comple- mentari l'uno dell'altro, non avversi, e che teneva a sottolineare come entrambi avessero prodotto uomini famosi nella storia": Sinclair, op. cit., p. 431). Non di istituzioni o di regimi politici si tratta, appunto, ma di volgere l'uomo, attraverso l'educazione e la filosofia, a farsi simile a Dio, s1 che l'uomo salvandosi mediante la conoscenza, si pre- pari a ritrovare la propria patria, sollevandosi dalla terra al cielo, fin da questa terra che è, in effetto, terra d'esilio: •esiliato sulla terra, io stesso vado errando in questo luogo di miseria; quando Empedocle parla cos1, non è per sé solo, ma per nòi tutti che afferma essere noi esiliati e stranieri nel mondo" (De ezilio, 17). Retorica e scetticismo. Favorino di Arles e Licinio Sura. La « scepsi" e le scienze. Le •questioni." Medicina e metodo da Menodoto f l Sesto Empzrico Già con Dione Crisostomo si vede bene il significato del delinearsi di una corrente sofistico-retorica che, avendo centro in Roma, politica- mente si irradia nei paesi greco-orientali dell'Impero. Sia pur ora in una situazione politica mutata, rispetto a quella che sta a.cavallo tra la seconda metà del I secolo a. C. e il principio del I secolo d. C., ma sempre tesa a una giustificazione dell'Impero, ci rendiamo conto di come s; po- tesse, su di un piano scettico, assumeado·posizioni pirroniane, rifarsi al significato politico di posizioni simili a quella di Cicerone, o, meglio, di un Filone di Larissa, in una dialettica discussione dei pro e dei contra, onde, discutendo ogni posizione, giungere ad optare per quella meno incoerente, piu verosimile, politicamente piu utile e adatta alla vita. Sulla linea di Dione Crisostomo, del quale sembra sia stato discepolo, tale atteggiamento fu particolarmente assunto da Favorino Arletano (nato ad Arles, nell'S0-90 circa, morto tra il 143 e il 1.76).8 A Roma fin dal principio del n secolo, dove fu iscrittò all'ordine equestre, in rela- zione con i maggiori centri di cultura (fu ad Atene, a Corinto, in Asia Minore, dove tenne discorsi e conferenze), amico di Plutarco, che gli. dedicò il De primo frigido e lo fece interlocutore delle Quaestiones con- viviales, am;co di Frontone e di Aulo Gellio, Favorino si preoccupò soprattutto di rimettere in discussione la coerenza dei vari sistemi filo- sofici, da un lato chiarendone il significato, dall'altro ponendoli l'uno all'altro di fronte in dialettica opposizione. Egli, cos1, sembra - dei suoi moltissimi scritti, tutti in greco, non rimangono che alcune ora- zioni e diatribe, e pochi frammenti, di cui uno, recentemente scoperto, 8 Sulla vita di Favorino di Arles, vissuto tra 1'80-90 e il 143-176, non abbiamo altre notizie se non quelle date sopra nel testo. Si confronti oltre la Bibliofl'afia. 40    abbastanza esteso sull'Esilio, - nelle sue opere si proponeva di esporre gli aspetti piu salienti delle varie tesi filosofiche, in forma divulgativa, dando, inoltre, gli strumenti perché fosse possibile, difesa l'una e l'altra posizione, dimostrarne la contraddittorietà interna.·Di qui, accanto ai Memorabili, in 5 libri, alla Storia varia, in 24 libri (come appare dai frammenti che ne possediamo, nei Memorabili, da cui ha ripreso anche Diogene Laerzio, Favorino riferiva gli aneddoti fioriti, nel tempo, sui principali filosofi del VI-IV secolo a. C.; nella Storia varia gli aspetti piu appariscenti delle tradizioni culturali: il titolo di due frammenti con- servati è già abbastanza indicativo: I. filosofi che hanno fatto qualche scoperta importante per la storia della cultura; Gli accusatori dei filo- sofz), ed accanto ad alcuni scritti divulgativi e polemici (Sulle idee, La filosofia di Omero, Su Platone, Su Socrate e la sua arte erotica, Sul modo di vivere dei filosofi, Su Plutarco e lo stato d'animo delfAcca- demico, Alcibiade, Contro Epitteto) ed eruditi (Un compendio di Pam- file: compendio di uno scritto grammaticale, composto da una certa Pamfile), le opere fondamentali di Favorino: una in 10 libri, su l tropi pirroniani (in cui, appunto, si davano gli strumenti, i modi o tropi me- diante i quali dimostrare l'incoerenza delle varie filosofie, in una ri- presa dei tropi di Enesidemo), l'altra in 3 libri su la La fantasia cata- lettica, in cui si rimetteva ancora una volta in discussione. la possibilità, sostenuta dagli stoici e su cui si fondava la loro gnoseologia, del pas- saggio dalle strutture della ragione alle strutture della realtà, ed in cui Favorino sosteneva che nulla è afférrabile (xa."fCXÀ'1)m6v) in sé, ma che ogni rappresentazione è sempre una nostra rappresentazione. Pirroniano dunque, Favorino accoglieva, su di un piano retorico la tesi neo-acca- demica di Cicerone, mediante cui, discutendo i pro e i contra, determi- nare alla scelta della tesi piu verosimile, piu probabile, praticamente utile, che, sembra, consisteva, secondo Favorino, nell'ipotesi aristotelica sul piano fisico e logico (scientifico) e in quella stoico-platonica sul piano etico-politico. Che la posizione scettica, presa come metodo, potesse assumere un suo particolare significato sul piano retorico, in funzione politica, me- diante cui convincere a una certa concezione, sia pur assunta come ipo- tesi, è chiaro. Ma è altrettanto chiaro in che sen:so lo scetticismo meto- dologico abbia avuto una funzione preponderante, durante il u secolo, nel processo dell'indagine scientifica. Se da un lato, entro i termini della retorica, la discussione di· tutte le concezioni di sfondo poteva ser- vire per determinare una certa visione (sia essa la stoica, la platonica, l'aristotelica, o meglio nessuna di esse presa in sé) e a quella convin- cere in un abile uso delle tecniche retoriche; dall'altro lato, entro i ter- mini di un effettivo sapere (e tale è il significato di scienza, già molto bene indicato da Seneca: cfr. sopra), la scepsi, intesa come ricerca cri- tica, costituiva le basi delle possibili ipotesi, non contraddittorie e perciò veraci, mediante cui spiegare i fenomeni naturali. In altri termini, anche in questo campo, si presentano innanzi tutto descrittivamente le varie ipotesi che sui fenomeni naturali si sono avute nel tempo, insieme a una descrizione dei fenomeni stessi, per poi, contrapponendo l'una ipo- tesi all'altra, vedendo di ciascuna i pro e i contra, dare la soluzione piu probabile, determinandone le ragioni (cause) non contraddittorie. C'è, a tale proposito, una testimonianza assai indicativa di Plinio il Giovane in due sue lettere a Licinio Sura. Di Licinio Sura sappiamo che nacque in Spagna nel 56 circa e che mori non molto dopo il 110, che fu amico di Marziale, che fu tre volte console, vicinissimo all'imperatore Traiano, per il quale scrisse discorsi e che ebbe grande autorità. Sappiamo, inoltre, che, uomo di notevole cultura, interessato ai piu vari movimenti cultu- rali del suo tempo si preoccupò, da un lato di rendere conto di quei movimenti nella loro funzione politica, dall'altro lato, in uno studio comparativo delle varie ipotesi sui fenomeni naturali, di discutere i pro e i contra di ciascuna soluzione. Plinio, appunto, scrivendo a Licinio Sura, nella prima lettera (Lettere familiari, IV, 30), gli descrive il feno- meno dell'abbassamento e dell'alzamento dell'acqua che tre volte al giorno regolarmente avviene nel corso di una corrente che si getta, dalla parte della sponda orientale, nel ramo comasco del Lario.("ti porto dalla mia terra natale, a mo' di regaluccio, un problema degno della tua ben nota, profonda erudizione") e dopo avere avanzato cinque ipo- tesi che servono a spiegare il fenomeno, ne lascia a Licinio Sura la di- scussione e la possibile soluzione ("esamina tu le cause, tu lo puoi, che producono un effetto cosi strano"). Nella seconda lettera (Lett. fam., VII, 27), Plinio chiede all'amico Licinio Sura se ritiene che i fantasmi esistano oppure no ("vorrei sapere se gli spettri esistano e se tu ritenga abbiano una propria fattezza e una potenza divina, oppure siano senza consistenza e realtà e ricevano apparenza solo dalla nostra paura") e gli riferisce una serie di racconti intorno a storie di fantasmi. Partico- larmente interessante - anche come testimonianza su di un certo tipo di credenze e come indicazione di fatti che su altri piani si tentava di spiegare - è l'aneddoto sulla bella e comoda casa di Atene nella quale nessuno voleva piu abitare perché la notte ci si sentiva - "nel mezzo del silenzio della notte si udiva un suon di ferraglia e... uno strepito di catene da lontano prima, poi piu da vicino, quindi appariva uno spettro..." - e sulla quale il proprietario mise un affittasi in cui si offriva la casa a modico prezzo, nel caso "qualcuno, ignorando cosi gran guaio, volesse affittarla o acquistarla";.la casa fu presa dal filosofo Atenodoro, che, messo in avviso dal modico prezzo, informatosi, aveva saputo del fantasma; Atenodoro, pur cercando di distrarsi, assorbendosi tutto nello studio, senti ugualmente il rumor di catene e vide lo spettro, ma, senza farsi prendere dal terrore, gli andò dietro finché, nel cortile, il fantasma improvvisamente svani; segnato il punto, Atenodoro il giorno dopo fece scavare, su ordine dei magistrati, nel luogo ove il fantasma era sparito: là trovarono ossa e catene: raccolte le ossa e sepolte a spese della città, "la casa non fu piu visitata dai Mani, sepolti, secondo i riti." Plinio cosi conclude la lettera: "Ti prego perciò di volere aguzzare l'ingegno. L'ar- gomento è degno che a lungo e a fondo tu l'esamini: e neppure sono io indegno che tu mi apra i tesori della tua scienza. E anche se tu,.come sci solito, esaminerai il pro c il contro, vedi però di giungere a una conclusione piu decisiva, per nop lasciarmi in sospeso e nell'incertezza, poiché la ragione del mio consulto fu il desiderio che cessasse ogni dubbio." Le due lettere di Plinio hanno un valore documentario di non poca importanza. Molto chiaramente mostrano le due facce di un unico me- todo di lavoro: a) descrizione di fenomeni quali si sono registrati ed esposizione delle varie ipotesi esplicative, indipendentemente da discus- sioni: a tale esigenza di aggiornamento e di conoscer.za delle varie ipo- tesi, base da un lato per una preparazione culturale generale e, dal- l'altro lato, per una discussione che portasse oltre e proponesse ulteriori e piu convincenti ipotesi, hanno risposto, in quest'epoca, le molte storie e oucstioni naturali, in cui è raccolto di tutto, e anche le storie delle v2.rie concezioni, insieme alle isagogc, alle vite dei filosofi, agli aneddoti fioriti su di loro, in un ordinamento per questioni, per scuole, per di: scendenze (lavori tutti, sotto questo aspetto, estremamente oggettivi, la cui funzione storiografica è chiarissima e il cui maggior monumento sono Le vite,.le opinioni, gli apoftegmi dci filosofi celebri di Diogene Laerzio, che scrisse sul principio del m secolo); b) sulla base dei dati reperiti - sia mediante il lavoro storiografico sia per nuove esperienze dirette e personali - confronti e discussioni delle varie ipotesi, da cui si determinano nuove ipotesi. Entro quest'àmbito, entro i termini di tale ricerca metodologica, che ha le sue piu lontane origini nel tipo di ricerca proprio della scuola di Aristotele, si assumono a contenuto di indagine i diversi piani di feno- meni: dai fenomeni naturali e dalla possibilità di una loro calcolabilità (fisica, astronomia, astrologia, matematica) ai fenomeni piu strettamente appartenenti alla natura umana (esperienza religiosa, ivi compresi i fatti extralogici, miracolosi e straordinari; psicologia; e via di seguito). E poiché sia per l'una ricerca che per l'altra, sul piano della discussione delle varie ipotesi avanzate, nella determinazione dei pro e dei contra, si trattava di precisare le condizioni che permettono una discriminazione e perciò la possibilità o meno di un giudizio, l'indagine stessa di- viene, innanzi tutto, studio del giudizio, cioè ·"logica." Di qui, sul piano scientifico, si vennero chiaramente determinando due vie, a seconda che l'indagine sulla capacità del giudizio sfociasse o nell'impossibilità di qualsivoglia giudizio - si pensi alla corrente della medicina empirica, che trovò il suo fondamento nella tesi piu stret- tamente scettico-pirroniana da Menodoto a Sesto Empirico, - oppure, rifacendosi alla scuola peripatetica, fiorita in Alessandria, assumesse come veraci quei principi che per la loro non contraddittorietà permet- tessero un discorso non contraddittorio, entro cui sistemare e ordinare tutto il sapere relativo a certi contenuti (si pensi all'opera medica di Galeno e all'astronomia e astrologia di Tolomeo). Ma di qui anche, su di un piano piu strettamente scolastico e culturale, la discussione delle tesi e delle soluzioni presentatesi nel tempo sulle singole questioni, rag- gruppate in questioni di logica (dialettica e retorica), di fisica, di etica, e in questioni relative al fondamento del tutto (teologia), accettate o re- spinte a seconda se ritenute logicamente giustificabili. Si vede bene, cosi:, come i maestri si volgessero, in tale presentazione delle varie tesi e so- luzioni al commento e all'interpretazione di testi di Platone, di Aristo- tele, degli Stoici, degli Epicurei e usassero in funzione dell'una e del- l'altra interpretazione, nella discussione dei pro e dei contra, nel deter- minare venice l'una ipotesi piuttosto che l'altra, soluzioni e strumenti non poche volte accolti dalle stesse posizioni che vengono criticate e re- spinte, cercando di spiegare entro questi termini anche esperienze nuove, visioni e concezioni che provenivano non dalla tradizione greco-romana, ma dalle esperienze religiose dei paesi orientali, in particolare dal- l'Egitto, dagli ebrei come dai cristiani, dalla Siria. Entro questi termini sembra chiaro anche come si sia formata da un lato quella soluzione che va sotto il nome di gnosi e dall'altro lato si sia venuto costituendo il complesso dei libri ermetici, insieme, per altro verso, alle sintesi che pro- vengono dai commentatori di Platone, e alle interpretazioni di una certa logica intesa come strumento e introduzione, che proviene da al- cuni commentatori della logica di Aristotele e degli Stoici, il piu delle volte usata come introduzione a intendere il fondamento ultimo del tutto interpretato in termini platonici (e qui ha principio la formazione del medievale "Platone teologo" e "Aristotele logico"). Giova, d'altra parte, ricordare ora che già dalla fine del 1 secolo a. C.,.con Enesidemo, lo scetticismo si era delineato, di contro ad ogni assun- zione dogmatica, come atteggiamento critico-metodologico, in un'analisi precisa, da un lato dei modi o tropi argomentativi, dall'altro lato delle condizioni e dei limiti del discorso, e che nell'arco di tempo che va da Enesidemo ad Agrippa, l'indirizzo scettico si era venuto incontrando con l'indirizzo della medicina empirica, finché con Menodoto di Nicomedia, vissuto tra 1'80 e ir 160 d. C., i due indirizzi confluirono in un unico metodo di ricerca scientifica (da Enesidemo ad Agrippa e Zeucsis; per essi e per i tre momenti fondamentali del me- todo della medicina empirica, autopsia, historie, mimesis, che ebbero non poca influenza sul modo della ricerca in generale, si confronti sopra). È noto che nel campo della medicina si sono determinati tre indi- rizzi fondamentali: l) l'indirizzo dei medici teorici (Xoyutot), fin dal m secolo a. C., tra cui con Ateneo di Attalia, vissuto sotto Ner0ne, e i suoi discepoli Agatino di Sparta e Archigene di Apamea, vanno posti i cosiddetti "pneumatici" (cfr. sopra); 2) l'indirizzo dei me- dici "metodici," che, iniziatosi con Temisone di Laodicea e il celebre Asclepiade di Prusa (o di Bitinia), è proseguito con Tessalo di Tralle (vissuto sotto Nerone), e Sorano di Efeso (vissuto nel n secolo, sotto Traiano e Adriano); 3) l'indirizzo dei medici empirici, che, ufficialmente iniziatosi con Filino di Cos, prosegui, in una sempre maggiore precisazione dell'in- dagine metodologica, con Serapione di Alessandria (n sec. a. C.), Apol- lonia il Vecchio, Glaucia di Taranto, Eraélide di Taranto e nel I sec. d. C., con il celebre oculista Demostene Filalete, con Diodoro, Lico di Napoli, Zopyro di Alessandria, Archibio, Apollonia di Cizio, Zeucsis, Dionigi di Egea, Antioco di Laodicea, e tra il I e il u secolo, con Menodoto di Nico- media. I "teorici" fondavano la loro filosofia e patologia entro il quadro della concezione stoica, rifacendosi al "pneuma"; i "metodici", invece, pur rifacendosi all'esperienza, sostenevano esser necessario, per non trovarsi di fronte a una infinita serie di dati muti, collegare quei dati stessi ragionevolmente: tale tesi fu sostenuta da Asclepiade di Prusa e da Sorano di Efeso, il piu grande ginecologo dell'antichità, autore di un trattato Sulle malattie delle donne e sulle malattie acute e croniche, insieme agli altri due medici piu famosi prima di Galeno, Rufo d'Efeso, specialista in anatomia - Sui nomi delle parti del corpo umano -, studioso della circolazione sul sangue - Sul polso -, della patologia delle vie urinarie - Malattie dei reni e della vescica - e Areteo di Cappadocia, sintomatologo e patologo - Sulle cause e i segni delle malattie acute e croniche. Nella polemica contro i "teorici" e contro i "metodici," con Menodoto la medicina empirica trovò nella meto- dologia scettica il suo fondamento teorico. Senza dubbio l'atteggia- mento di Menodoto fu soprattutto polemico nei confronti degli altr: due indirizzi medici, forse anche per ragioni di supremazia profes· sionale, come malignamente fa intravedere Galeno (De subf. emp., 63-64, in Deichgraeber, Die griechische Empirill_erschule) parlando di lui e della sua fama. E fu, appunto, per dimostrare che i "dogmatici" erano nel falso e che nel falso erano anche i "metodici," il cui atteggiamento nei confronti della pura empiria, sostenuta dagli "empirici," era effettivamente assai convincente (la raccolta dei soli dati, se non ragionati e connessi e perciò discriminati, implica l'inutilità e il silenzio dei dati stessi), che Menodoto assunse le argo- mentazioni degli scettici, respingendo di essi la soluzione "probabi- lista," ch'era in fondo la soluzione dei "metodici," mediante cui far vedere che relativamente ad ogni ipotesi di spiegazione generale è necessario sospendere ogni giudizio, anche sulle possibili ipotesi che i metodici traggono dall'analisi dei dati, costituendo dei quadri clinici entro cui determinare volta a volta le cause delle malattie. In realtà la polemica di Menodoto è volta a dimostrare l'illecità, sul piano scientifico, del passaggio dai dati e dall'analisi e. confronti di essi (o direttamente osservati dal medico, ciascuno in sé e in relazione ad altri dati e feno- meni, in cui consiste l'autopsia; o, data l'impossibilità che un solo me- dico possa osservare da sé un gran numero di dati, normali e eccezio- nali, raccolti dalle osservazioni di altri medici, quali si sono svolte nel tempo, in cui consiste l'historie) alle ·ragioni, cui, oltrepassando i dati, si giunge, per via analogica, usando poi le ragioni per spiegare i dati. Menodoto si rendeva finemente conto che cosi si vengono ad avere due piani, distinti e non interdipen<)enti, il piano delle esperienze e il piano delle ragioni, per cui le stesse "ipote~i" dei metodici divengono alla fine simili a quelle dei "teorici," e altrettanto aprioristiche. Il fervore polemico di Menodoto contro le posizioni dei "teorici" - c h e trovano il loro fondamento oltre l'esperienza nelle concezioni del tutto di tipo platonico, stoico, aristotelico - e contro le posizioni dei "metodici" - che si fondavano sul motivo del "probabile," in maniera altrettanto dogmatica, - sembra abbia condotto Menodoto fino alla di- struzione della medicina come scienza (paradossalmente, ma coerente- mente, egli giungeva fino a negare che il medico abbia un fine, anche quello che Ippocrate e Diocle di Caristo sostenevano essere il movente del vero medico, l'amore per l'uomo, la filantropia) (cfr. in K. Deich- graeber, Die griechische Empirikerschule: eine Sammlung der Fragmente und Darstellung der Lehre, Berlino, 1930, n. 293). In effetto Me- nodoto, rifacendosi alle istanze della scepsi pirroniano-enesidemiana, e rifiutando ogni teorizzazione, riconduceva con chiarezza l'indagine umana entro i suoi limiti leciti, l'esperienza, senza con questo, come ri- sulta dallo stesso Galeno - che pur non aveva grandi simpatie per Me- nodoto, ma che lo usa per riferire sul metodo della medicina empirica: cfr. Galeno, Sulle sette, De subfiguratione empirièa; anche Deichgraeber, op.cit., n. 10 b, p. 72-90,- rimaner fermo a una mèra enumerazione di fatti o di casi. Se da un lato lavoro serio e proficuo è non uscir fuori dal- l'esperienza, non ricorrere all'analogia, dall'altro lato esperienza significa non raccolta di dati accanto a dati, non enumerazione all'infinito, ma confronto di dati, osservazione del loro ripetersi, secondo una certa co- stanza, oppure no, si che sulla base di dati-rappresentazioni, segni "ram- memorativi" e non "indicativi" di strutture in sé o di cause segrete (accanto all'autopsia e all'historie, si pone in tal modo la cosiddetta mimesis), si possa, in un calcolo dei dati, in ricordi di simiglianze e dissimiglianze, determinare una certa sintomatologia, in una "descri- zione" (schizzo, ipotiposi) di un complesso di fenomeni, che non pre- sume affatto di essere una definizione. Che tale sia stato il metodo della medicina empirica e che il problema grosso sia stato quello di giustifi- care la validità dell'esperienza, di contro a chi sosteneva che l'esperienza si annulla in se stessa, in un ammasso di fatti che non dicono nulla, per cui lo stesso empirismo finisce in dogmatismo, è testimoniato da Cassio - da non identificare con il Cassio medico di Tiberio, - scettico, particolarmente antistoico, contemporaneo di Menodoto, il quale si rife- risce a Menodoto nella critica al principio dell'" analogia" (cfr. Diogene Laerzio, VII, 32-34; Galeno, De subfigur. emp., 40, 13), e da un con- discepolo di Menodoto, Teoda di Laodicea (Diogene Laerzio, IX, 116). Teoda ràccolse le Tesi capitali della medicina empirica, scrivendo inoltre un libro su Le sei parti della medicina e una Introduzione alla medicina, sostenendo che l'esperienza non è affatto una mèra raccolta di dati, ma è un metodo, che non implica affato l'oltrepassamento dell'esperienza stessa, né un pàssaggio, per analogia, dal noto all'ignoto, ma un pas- saggio, nel ricordo, dal simile al simile, ché i fatti stessi non sono noti in sé, presi ciascuno per sé, ma si fan noti mediante il ricordo di altri fatti-impressioni, in un discorso coerente per sé, ma che non presume affatto alla verità (cfr. Galeno, De subfig. empir., 40, 15). In tal senso, evidentemente, l'indirizzo della medicina metodica si poteva identificare con l'indirizzo della medicina empirica, rimanendo valida l'abbiezione dei "metodici" nei confronti dei puri empirici, e· definitivamente assu- mendo l'indirizzo "metodico-empirico" l'istanza metodologica e logico- linguistica dello scetticismo, come ben si vede attraverso Sesto Empi- rico, vissuto tra la fine del II e il principio del m· secolo, discepolo del medico Erodoto di Tarso, che, secondo Diogene Laerzio (IX, 116), era successo a Menodoto, ed era stato in rapporto con Teoda e Teodosio, autore, sembra, di un Commento alle Tesi Capita/t' di Teoda e di Capitoli scettici, del quale non sappiamo altro se non che fu medico empirico e di poco piu giovane di Teoda (cfr. Diogene L., IX, 70; Suda, s. v.). Scrive, dunque, Sesto: Poiché alcuni affermano che la setta dei medici empirici s'identifica con la filosofia scettica, è bene sapere che, se quella setta empirica afferma reci- samente la incomprennbilità dei fatti oscuri [~ questo un dogma] né è identica allo Scetticismo, né sarebbe consentaneo per lo Scettico accogliere quell'indirizzo. Piuttosto, secondo me, potrebbe seguire quello che si chiama metodico: quest'unico, infatti, tra gli indirizzi medici, sembra non affermi nulla temerariamente intorno ai fatti oscuri, ma, senza presumere di dire se siano o non siano compensibili, segue i fenomeni, e da questi prende ciò che sembra giovare, conformandosi alla maniera degli Scenici... Tutto ciò, credo, che viene detto dai metodici si può ridurre alla necessità delle affezioni, quelle che sono secondo natura e quelle che sono contro natura. (Diciamo che lo scettico non dogmatizza, non nel senso in cui prendono ·questa parola alcuni, per i quali, comunemente, è dogma il consentire a una cosa qualunque, poiché alle affezioni che conseguono necessariamente alle rappresentazioni sensibili assente lo scettico: lpolip, Pi"·• l, 13). Si aggiunga che comune ai due indirizzi è anche la mancanza di dogmi e l'in- differenza nell'uso delle parole (diciamo, ad esempio, "valore" senza annet- tere a questa parola nessun sottile significato, nel suo senso semplice in rapporto al verbo "valere": l, 9; e cosi lo scenico non dice "tutte le cose sono false" perché insieme con la falsità di tutto il resto affermerebbe che falsa è anche la propria affermazione... Nelle sue espressioni, lo scettico esprime quello che a lui appare, e rivela la propria affezione senza osser- vazioni dogmatiche, nulla categoricamente affermando circa le cose che sono fuori di lui: l, 14-15). E invero, come lo Scenico adopera, senza pre- sunzione dogmatica, la espressione "nulla.dò per certo," e l'altra "nulla comprendo," come ·si è detto, cosi anche il "metodico" dice • comunanza," "si riferisce" e simili, cosi semplicemente. Cosi, anche, assume la parola "indicazione," senza presunzione dogmatica, in luogo di "guida," verso quelli che sembrano essere i provvedimenti consentanei, sulla base di quelle che appaiono essere affezioni secondo o contro natura... Congetturando da questi e altri fatti simili, si deve dire che l'indirizzo medico metodico ha, piu che gli altri indirizzi medici, una certa affinità con lo Scetticismo, s'in- tende, comparativamente agli altri, non in modo assoluto (lpotip. Pi"·• l, 236-241). 4. Inurpretazioni di Platone e di Aristotele nel II secolo a) Platonismo, pitagorismo e aristotelismo. Gaio, Albino, Apuleio. Attraverso Plutarco si delinea abbastanza bene una certa esigenza e uno dei possibili modi di interpretare alcuni testi di Platone, anche per dare una forma e un fine all'azione dell'uomo, che, nel conflitto delle forze che lo agitano, una volta sganciato dall'Essere, il quale si pone teoreticamente come condizione dell'esistere, praticamente come modello da realizzare, è libero di adeguarsi all'Essere, o, rimanendo dilacerato 48    nel conflitto, di restare nella molteplicità, frantumato nelle proprie pas- sioni, succubo dell'anima malvagia. Plutarco, certo, ha ritagliato dai molti e complessi testi di Platone, un aspetto preciso, senza dubbio pos- sibile, qualora quegli stessi testi vengano isolati da altri, e cioè quel- l'aspetto che può appunto interpretarsi in senso etico-religioso, nel senso che l'Essere, ciò che dà forma, ragione e significato alla realtà, si pone come dover essere, come termine di realizzazione della realtà tutta. Se l'appello a Platone si delinea nella confutazione contro l'aspetto natu- ralistico e fatalistico dello stoicismo e contro l'aspetto rinunciatario del- l'epicureismo, certi motivi aristotelici potevano, invece, essere ripresi come una approfondita interpretazione, sul piano logico-metodologico, dello stesso Platone (il mondo delle idee tutto in atto in Dio, forma delle forme, condizione e principio, causa prima e, ad un tempo, fine ul- timo, motore immobile, donde l'affermazione che, in realtà, per Platone il mondo delle idee è tutto presente nell'intellezione sempre in atto di Dio; oppure i due aspetti della realtà fisica, il mondo celeste e intelligente:: il mondo sublunare, che si potevano interpretare come i due termini in tensione dell'ascesa al divino; oppure ancora l'aspetto formale del- l'etica aristotelica; o, infine, la teoria delle sostanze seconde senza di cui non sarebbero gl'individui, che in realtà si risolvono e si perdono in =tuelle forme universali). D'altra parte, poiché, come sappiamo, Aristotele non si esaurisce in questo, e poiché, p\,lntando su una o altra opera di lui, si poteva interpretare Aristotele come il filosofo che nega la prov- •idenza, lo stesso dio, pura condizione logica, l'immortalità dell'anima e ma sua sostanzialità, e, conseguentemente, i dèmoni e gli oracoli, il 3losofo che risolve il fine dell'uomo entro i termini della stessa uma- lità, che.al filosofare come impegno etico-religioso, mediante cui dare una forma alla propria vita, sostituisce il filosofare come studio delle:ondizioni che permettono di pensare la realtà e le possibili forme di vita, in una raccolta di dati (historle); l'appello a Platone, entro i ter- mini che abbiamo veduto, portava a confutare e a rifiutare questi ul- timi aspetti dell'aristotelismo. Se l'appello a Platone e all'uomo socratico, impegnato nella ricerca di sé e perciò nel fare i conti con l'essere, risponde, nella crisi di una cultura, all'esigenza di prospettare un complesso di valori (in quanto valori, non dati di natura) per i quali merita vivere, la rilettura di Pla- tone, il commento, nelle scuole, dei suoi testi, portava da un lato, a seconda della confutazione nei confronti dello stoicismo e dell'epicu- reismo, a sottolineare certi aspetti delle opere di Platone piuttosto che altri, respingendo ad un tempo quei motivi di Aristotele a cui abbiamo sopra fatto cenno; dall'altro lato, all'esigenza scolastica di presentare in un sistema compiuto e coerente il pensiero di Platone, suddiviso nei 49    capitoli divenuti oramai canonici: teologia, fisica, -logica, etica, politica. Di tali lavori scolastici d'insieme (introduzione a una lettura di Pla- tone ed esposizione del suo sistema ricavato da un sapiente ritaglio di testi dei dialoghi, ove maggiormente viene usato il Timeo, che appa- riva come il piu sistematico e l'opera di Platone in cui Platone aveva risolto le aporie del Parmenide e del Teeteto, attraverso il Sofista e il Filebo) non restano che poche tracce, se non per l'Epitomè o Didasca- lico di Albino di Smirne, per l'anonimo commentario del Teeteto e per la Dottrina di Platone di Apuleio di Madaura. L'Epitomè di Albino e la Dottrina di Platone di Apuleio + sono due 4 Albino, vissuto nel 11 secolo, fu scolaro, a Pergamo, del platonico Gaio. Di Gaio, che pur dovette avere una notevole autorità, sappiamo pochissimo, se non le scarse notizie trasmesseci dai suoi discepoli Albino, Apuleio, e l'autore del Commento al Teeteto. Le lezioni platoniche di Gaio sembra che siano state pubblicate da Albino, in nove libri, sotto il titolo Schizzi della dottrina di Platone. Tornato a Smirne, sua patria, Albino vi tenne scuola dal 151-152 in poi. Autore di un Prologo a Platone (E~yc.>~ ctç TOU I!MTc.>YOç f)lf)Àov: cfr. il testo a cura del Freudenthal, in "Hel- lenist. Studien," III) e di una Epitom~ o Didascalico della filosofia platonica, Albino ebbe grande influenza nell'interpretazione del Platonismo. L'Epitomè fu attribuita ad un certo Alkinoo. In realtà ciò fu dovuto ad un errore di lettura paleografica, a causa della confusione che in scrittura minuscola v'~ tra {3 e x. Si è oramai convinti che Albino e Alkinoo siano la stessa persona. L'Epitomè si divide in tre parti: Introduzione (cc. I-lll); La dialettica (cc. IV-VI); Teoria e contemplazione dell'Essere, fisica (cc. VII- XXVI); Morale (cc. XXVII-XXXIV); Conclusione (cc. XXXV-XXXVI). Diverso per famiglia, formazione, carriera (non maestro di scuola) fu l'altro disce- polo di Gaio, Apuleio. Apuleio, di cui ~ incerto il prenome Lucio, nacque a Madaura, nel dipartimento di Costantina, nel 125 d. C. circa. Compiuti i primi studi a Madaura, Apuleio si ·recò a Cartagine ove frequentò le scuole di grammatica e di retorica. Venne -quindi ad Atene dove coltivò le scienze filosofiche. Forse a Pergamo ascoltò Gaio. Certo sub{ l'influenza di Albino (molte sono le concordanze tra il suo De Platone eiusque dogmate e l'Epitomè di Albino). Durante il suo soggiorno in Grecia si fece iniziare a molte religioni di mistero, studiando a un tempo poesia, musica, astronomia, scienze naturali. Per queste ultime, in particolare, tenne presente le relative opere di Aristotele e della scuola aristotelica, che non a caso rielaborò in l:itino. Dopo avere a lungo viag- giato in Asia Minore, Apuleio si recò a Roma dove svolse attività di avvocato, difen- dendo, con successo, molte cause. Tornato in patria, durante un viaggio da Madaura ad Alessandria, si ammalò ad Oea (Tripoli), dove fu costretto a trattenersi. Ad Oea entrò in dimestichezza con Lolliano Avito, proconsole d'Africa e là ritrovò un giovane amico conosciuto ad Atene, Sicinio Ponziano. Sicinio Ponziano era il figlio maggiore di Pudentilla, vedova da molti anni di Sicinio Amico. Secondo lo stesso Apuleio, Sicinio Ponziano lo convinse a sposare la madre, che desiderava rifarsi una famiglia. La donna era di una diecina di anni piu anziana di Apuleio, di circa quaranta anni, non 6ella, ma assai ricca. Ebbe allora nemici i parenti del primo marito· di Pudentilla, i quali avevano pensato di spartirsi i beni della vedova. Dimostratasi falsa l'accusa che Apuleio avesse ucciso Ponziano, ch'era nel frattempo morto a Cartagine, i parenti del secondo figlio giovinetto di Pudentilla, Sicinio Pudente, accusarono Apuleio di avere costretto la donna al matrimonio usando filtri e incantesimi magici. Apuleio, trascinato in tri- bunale, davanti al proconsole romano Claudio Massimo, energicamente si difese, con successo, dall'accusa di magia. La difesa, pronunciata, nel 158 circa, ~ giunta a noi - certo dallo stesso Apuleio rielaborata e sviluppata - sotto il titolo Apologia ossia Pro se de magia liber. Prosciolto da ogni aceusa di magia, Apuleio si ritirò a Cartagine, dove, per la sua eloquenza, per le sue brillanti conferenze, per la sua capacità di parlare 50    opere di grande importanza per una ricostruzione storica del plato- nismo nel u secolo: se da un lato indicano un preciso modo di inter- pretare Platone, dall'altro lato chiariscono non solo un metodo di la- voro, ma spiegano anche come per presentare un pensiero di Platone - nel suo complesso interiormente coerente - che abbraccia tutti i rami del sapere (filòsofìa), si sia potuto, per alcune parti (la logica in parti- colare) ricorrere a certi aspetti della logica di Aristotele, reinterpretata attraverso l'elaborazione formale-linguistica della logica del primo stoi- cismo, in un recupero di Aristotele in funzione platonica. Scrive Albino, aprendo la sua Epitomè: Ecco quale potrebbe essere l'esposizione delle principali dottrine di Platone (rc";)v xup~Cù't'CXTCùV ll:>..IX't'Cùvoc; 30"(!J.tX't'CùV 't'OL«U't"7j 't'~ &v 3~ataxotÀ(« yivo~'t'o). La filosofia è un'aspirazione [cfr. Platone, Definizioni, 414b; Buti- demo, 275a] alla sàpienza (l>pEç~ aocp(atc;), o, se si vuole, lo scioglimento dell'anima che si allontana dal corpo, quando ci volgiamo all'intelligibile e alla verità [cfr. Pedone, 67d, BOe; Rep., 521c]; la sapienza (O'ocp(«) è la scienza (br~OTf)!Ll))delle divine e delle umane cose... (Epitomè, l, l). E cosf conclude l'opera Albino: Queste nostre delineazioni bastano per servire di introduzione (daatyeù"'{'fj) allo studio della dottrina di Platone (dc;· TY)v llM't'Cùvoc; 30"(!J.«'t'01toLL«V e:tp-i'ja.&at~)Alcune si presentano, forse, bene articolate, altre invece mancano di ordine c di articolazione logica; ad ·ogni modo questa nostra esposizione permetterà di esaminare le altre dottrine di Platone e di trovarne la spie- gazione (Epitomè, XXXVI). E dopo avere delineato la vita di Platone e la sua formazione, scrive Apuleio: In questo nostro trattato cerchiamo di far conoscere le meditazioni, o, come si direbbe in greco, i dogmi formulati da questo grande filosofo, per indifferentemente in latino c in greco, saÌl in grandissima fama, tanto che ancora vivente gli furono erette statue, c fu nominato oratore ufficiale della città. Mori a Cartagine nel 180 circa. Delle molte opere di Apuleio sono rimaste: i Florida (un'antologia di discorsi, (XIm- posta di ventitré pezzi), l'Apolo6ia (Pro se de ma6ia), il De deo Socratis, il De Platone eituque dogmatis (in tre libri), il De mundo (riclaborazione del De mundo dello pscudo- Aristotclc), le Metamorphoses l. XI (il capolavoro di Apulcio: un romanzo in cui si narrano le avventure di un giovane, un ceno Lucio, greco, che trasformato in asino per magia, ritorna uomo con l'aiuto della dèa Isidc). Degli scritti perduti si ricordano i seguenti titoli: De arboribus, De re rustica, Medicinalia, Astronomica, De arithmetica, De musica, Quaestionn conviviales, De Republica, Eroticos, Epitome historitlrum, Herma- goras. Sembra, infine, che Apuleio abbia tradotto in latino il Pedone cd alcune opere di Aristotele. utilità del genere umano, in fisica, in morale, in dialettica. Cosf, com'egli giunse per primo a coordinare tra di loro le tre parti costitutive della filo- sofia, anche noi parleremo separatamente di ciascuna di esse, cominciando da quella parte della filosofia che ha per oggetto la natura (Apuleio, La Dot- trina di Platon~, I, 5, 190). Se l'intento estrinseco di Albino e di Apuleio è evidente (presenta- zione in un ordine sistematico delle fondamentali dottrine di Platone, che serva da introduzione, isagoge, allo studio del pensiero platonico), altrettanto evidente è il loro intento intrinseco nello scrivere una "mono- grafia" su Platone: avviamento, attraverso Platone, ad una filosofia si- stematica, tale che non contraddittoriamente renda conto, in un solo sapere, dei limiti e dei fini dell'uomo, in funzione di un'unica visione pacificante, ove ciascuno, consapevole di sé, socraticamente, attuando se stesso, realizzando sé si possa salvare facendosi simile al divino. "La vi- sione contemplativa (.&ewp(at)è l'attività della mente (!vtpyeLOt -rou vou)," dice Albino con termini aristotelici, "che concepisce gl'intelligibili; l'azione è l'atto di un'anima ragionevole (>.oyLxlj) che agisce, interme- diario il corpo. L'anima contemplante (&wpouaat) il divino e le nozioni a lui relative si dice essere un'anima ben disposta, e tale modo d'essere dell'anima è quel che si è chiamato pensiero (q~p6V1Jau;), che, si potrebbe dire, non in altro -consiste se non nel farsi ·simile al divino (oòx ~upov et7toL &.v TL<;; e!vat~ njç 7tpÒç TÒ &L"ov Ò!J.oL6>a&:wç)" (Epitom~,II, 2). Ed Apuleio scrive: "La filosofia fino. al tempo di Platone divisa in tre sezioni, fu da lui riunita in un sol corpo. Egli dimostrò che queste di- verse parti erano mutualmente indispensabili l'una all'altra; e che non solo esse non erano in contrasto, ma che, anzi, l'una serviva all'altra. Infatti, benché avesse attinto a diverse scuole questi elementi della scienza filosofica, e cioè: quel che riguarda la natura ad Eraclito, la logica a Pitagora, là morale a Socrate; di tutti questi membri distaccati egli seppe tuttavia fare un sol corpo, ed appunto in questo consiste la sua originalità... Orbene, tale visione sistematica ha una grande utilitl per il genere umano (1, 3, 187). Vogliate scuotere e agitare Platone: ciascuno, onorandosi di appli- carlo a se stesso, lo trae dalla parte che vuole" (Montaigne, II, 12). Nelle parole di Montaigne è implicita un'osservazione storica di primo piano, e cioè che, appunto, non esiste un "platonismo," ma tanti "platonismi," ciascuno, almeno in parte, effettivamente platonico, ciascuno avendo assunto a Platone, uno o altro aspetto, a seconda della propria esigenza. Ad ogni modo, entro i termini di una comune problematica, l'impostazione delle opere platoniche di Albino e di Apuleio, serve non poco ad illuminare le tracce che abbiamo delle altre opere su Platone, degli 52    altri commenti ai dialoghi platonici che fiorirono lungo il II secolo, e, ad un tempo, a chiarire, per altro verso, il significato dei commenti a certe opere precise di Arislotele,·da parte dei peripatetici del I secolo d. C. fino ad Alessandro di Afrodisia (seconda metà del II secolo). Innanzi tutto sembra chiaro che, quali che siano le interpretazioni del pensiero platonico e, di volta in volta, la funzione data all'esposi~ zione e sistemazione in un unico corpo dottrinario della filosofia di lui, il primo lavoro sul complesso dei dialoghi platonici e sulle "filosofie" scaturite dalle molteplici interpretazioni del pensiero platonico (da quelle di Speusippo e Senocrate a quella di Aristotele, da quella di Arcesilao e di Carneade a quelle di certi stoici, di Antioco di Ascalona, di Cice- rone e di Eudoro) sia stato, appunto, un lavoro di sistemazione e di enucleazione, simile al lavoro che si svolgeva per le altre filosofie, per presentare dell'una o dell'~ltra un corpo dottrinario coerente e compiuto. Come durante il I e il n secolo d.C., vediamo, ad esempio, una serie di lavori che raccolgono insieme, in un sol corpo, le argomenta- zioni degli scettici, culminanti nella grande opera di Sesto Empirico, le Ipotiposi pi"()fliane, e come c'incontriamo in una serie di sillogi del pensiero stoico, particolarment-e difficili, dati i tanti tipi di.stoicismo da Zenone in poi, per cui tali sillogi del pensiero stoico il piu delle volte presentano un corpo dottrinario stoico che non ha piu nulla a che fare col pensiero dell'uno o dell'altro stoico, come si vede bene nella presentazione che dello stoicismo farà Diogene Laerzio nel VII libro delle Vite; cosi avviene per Platone, per il corpo platonico e per il com- plesso delle interpretazioni di. lui, ove, puntando su di uno piuttosto che su di un altro dei molti aspetti del platonismo, ciascuno dei quali poteva rispondere ad una piuttosto che ad altra esigenza, si poteva cavarne un tipo di filosofia piuttosto che un altro, pur usando, ritagliati, testi tratti da tutti i dialoghi, in una ripresa o in un rifiuto dell'interpretazione che di Platone avevano dato Aristotele o gli stoici. Se ricordiamo ora il significato che, ad esempio, nel campo medico avevano assunto le raccolte delle ipotesi e delle tesi, in un tutt'uno che costituisse il com- plesso del sapere medico, ed a cui, nella descrizione di un certo com- plesso di fenome~i, raccolti sotto un sol quadro clinico, si dava il nome di ipotiposi, schema di un qualche sapere (il che presuppone un corpo di dottrine sparse, un insieme di libri, ove è depositato un certo sapere, dal cui commento e dalla cui discussione, trarre il "libro"), sembra chiaro non solo l'intento scolastico di queste opere e commenti plato- nici, ma anche il loro intento filosofico, l'importanza da essi data al- l'auctoritas. E ciò, ad esempio, è denunciato non solo dalle opere di Al- bino e di Apuleio, ma anche dal titolo che fu dato a un corso di lezioni su Platone (opera·, andata perdut~), tenuto da Gaio a Pergamo, che, raccolto e pubblicato in 9 libri da Albino, che di Gaio fu discepolo, ebbe appunto il titolo di lpotiposi delle dottrine platoniche (l'1to-ru1twaeLc; 7tÀ«'r6>VLx&v 3oy(.UX-r6>v; ove va sottolineato che non è forse un caso che si dica platoniche e non di Platone). Gaio, vissuto nella prima metà del I I secolo, insegnò a Pergamo, dove ebbe scolari Albino (metà n secolo), Apuleio (nato nel 125 circa, morto nel 180) e l'anonimo autore del Commentario al Teeteto. Attraverso il Prologo a Platone (probabilmente un estratto di un'opera maggiore: cfr. J. Freudenthal, Hell. Stud., 3, Berlino, 1879) e l'Epitomè o Didascalico di Albino (l'Epitomè fu ritenuta un tempo opera di un certo Alkinoo: si è oggi dimostrato che Alkinoo non è mai esistito, e che al posto di Alkinoo va letto Albino; l'equivoco fu dovuto a un errore materiale, alla confusione in scrittura minuscola tra ~ e x, risalente al IX secolo: cfr. Freudenthal, op. cit.; P: Louis, lntroduction à l'Epitomè di Albino, Parigi, 1945, p. xm), ed attraverso La dottrina di Platone di Apuleio sembra si possa precisare, facendolo risalire a Gaio, un certo tipo di interpretazione e di sistemazione di Platone. A parte la riduzione del pensiero platonico ai tre aspetti divenuti canonici della filosofia: teoria (contemplazione dell'essere: della. teoria, la parte che si occupa delle cause prime e immobili, di tutte le cose divine si chiama teologia; quella che studia il movimento degli astri, le loro rivoluzioni e ritorni periodici, e il costituirsi del cosmo, è la fisica; quella che utilizza la geometria e le altre scienze analoghe è la matematica: cfr. Albino, Epìt., III, 4); pratica (studio di quali debbano essere le regole dei costumi, l'amministrazione di una casa, il modo di governare e sal- vare lo Stato: la prima di queste attività si chiama etica, la seconda economica, la terza politica: cfr. Albino, Epit., III, 3); logica (analisi dei ragionamenti, detta dialettica, in quanto studio di come è che si deve ragionare; cfr. Albino, Epit., III, l); ciò che piu colpisce, nell'in- terpretazione del pensiero di Platone sulla linea indicata da Gaio è lo sforzo continuo di rendere non contraddittorie, cioè dimostrabili, e per- ciò razionalmente accettabili, con metodo aristotelico (l'Aristotele dei Topici, dei Secondi Analitici e del De lnterpretatione: cfr. sopra I volume) le tesi platoniche esposte in funzione di una visione uni- taria del tutto (il piu delle volte mettendo in forma, sillogizzando, testi effettivamente di Platone, ricavate, ad un tempo, in un sapiente montaggio, da dialoghi diversi). Sembra chiaro cosi perché l'esposi~ zione di quella parte della filosofia platonica il cui oggetto è lo studio di quale debba essere un corretto pensare, venga strutturata con il linguaggio e nei termini di alcuni dei libri logici di Aristotele. Per Albino, anzi, lo studio del retto pensare (ch'egli ricava da Aristotele) sarebbe stato il punto di partenza di Platone, per avviare a comprendere da un lato i principi e le cause prime del tutto, dall'altro lato il posto che nell'ordine del tutto ha da assumere l'uomo, nei confronti di quel tutto e nei confronti degli altri uomini. E per altro verso Apuleio, dopo avere esposto nel I libro della sua Dottrina di Platone la "filosofia naturale" e nel II la "filosofia morale," dedica il III alla logica ricavando tutto ciò che dice- perfino gli esempi- dal De lnter- pretatione di Aristotele, tanto che si è dubitato che il libro III sia davvero di Apuleio. La questione, forse, si fa piu chiara quando si pensa a quello che fu il lavoro di Aristotele nei confronti dell'ultimo Platone. Quali che siano state le soluzioni di Aristotele, certo è che quella di Aristotele fu, almeno in principio, una delle possibili inter- pretazioni della tematica platonica, che - prendendo le mosse dal- l'interpretazione metodologica del Platone del Teeteto, del Parmenide e del Sofista - tendeva a risolvere le aporie platoniche - essere uno e idee, idee separate, rapporto tra l'uno e i molti, tra l'impossibilità di pensare le forme senza contenuti, e i contenuti senza forme - in uno studio sistematico di quelle che sono le condizioni logiche che permet- tendo un tipo di discorso non contraddittorio risolvessero quelle aporie stesse, assumendo come vera quell'ipotesi che non fosse piu oppugna- bile. Aristotele giunse dove giunse, ma intanto il suo metodo d'inter- pretazione e di discussione dialettica delle ipotesi, per determinare i principi non piu discutibili da cui trarre discorsivamente ciò che in essi è implicato, poteva servire all'analisi delle tesi platoniche per ren- dere giustificabile, cioè razionalmente deducibile, e per ciò stesso con- vincente, quello che sembrava l'intento fondamentale di Platone ed in particolare il punto cruciale e piu equivoco del pensiero platonico, il rapporto essere-idee, unità-molteplicità, che, assunto in termini aristo- telici, si poteva ritener risolto da Platone nel Timeo. b) l commentatori di Aristotele: Alessandro di Ege, Aspasia, Adra- sto di Afrodisia, So'Sigene, Ermino, Aristocle di Messene. A tale propo- sito, anzi, non va dimenticata qui l'influenza che tra il I e il 11 secolo, aveva avuto l'edizione del corpus aristotelicum dovuta ad Andronico di Rodi,6 che dette luogo, in un progressivo accantonamento delle prime opere di Aristotele, ad una serie di commenti e di. introduzioni ad una lettura di Aristotele. Purtroppo dei commentatori del 1 secolo e di alcuni 6 Su Andronico di Rodi si veda sopra. Ad Andronico di Rodi, che, successo a Erimneo, fu scolarca del Liceo, in Atene, tra il 70 e il 60 a. C., successero: sul 45 circa, Cratippo di Pergamo; sotto Augusto, Xenarco di Seleucia, che insegnò anche ad Ales- sandria e a Roma; nel 1 secolo d. C., Menefilo; tra il 120 e il 160 circa d. C., Aspasio, Ermino, Alessandro di Damasco, Aristocle di Messene, Sosigene. Della loro vita non sappiamo niente di preciso. del n non sono rimaste che testimonianze e la precisazione di quali opere di Aristotele hanno commentato. Ma sono già indicazioni assai interessanti. Di Alessandro di Ege, vissuto nel I secolo, che sembra sia stato tra i precettori di Nerone (cfr. Suda, s.v.), sappiamo che compose un commento alle Categorie di Aristotele, in cui ne sosteneva il signi- ficato formale linguistico, assumendole quali condizioni di possibili giudizi e fondamenti logici della po~sibilità del reale, determinando la struttura dell'universo (e in tal senso sembra abbia commentato il De coelo). Di Aspasio - vissuto presumibilmente nella seconda metà del I secolo sappiamo che commenta le Categorie, il De lnterpretatione, il De coelo, parti della Metafisica e l'Etica Nicomachea (di quest'ultimo commento è rimasto un frammento: in Commenl. in Arin. graeca, XXIX, I, Berlino, 1889). Di Adrasto di Afrodisia, fiorito, come sembra, nella prima metà del n secolo,. ritenuto dagli antichi uno dei maggiori interpreti di Aristotele, sappiamo che scrisse un'opera per delineare quale doveva essere l'Ordine degli scritti di Arinotele (cfr. Galeno, XIX, 42 sgg. in Gercke, Pauly-Wissowa, R.E.) e che sosteneva doversi porre al principio di tali scritti, a mo' di introduzione e quale condizione me- diante cui comprendere la via metodologico-logica attraverso cui Aristo- tele giunge a determinare la propria posizione, le Categorie e i Topici, mentre, per altro verso, usando il metodo di Aristotele commentava il Timeo di Platone (cfr. Porfirio, In Ptol. harm., ed. Wallis, Opera malh., III, 270) e dava un quadro generale, entro questi termini, del sapere astro- nomico fino a Ipparco di Nicea (cfr. Teone di Smirne, Conoscenze mate- matiche utili a una lettura di Platone, III). Di Sosigene, vissuto nel II secolo, sappiazpo che commentò la logica di Aristotele, cercando, a quanto pare, di renderne conto in termini matematico-formali, risolvendo quindi in termini geometrici la teoria delle sfere e della visione. Anche Erminio, vissuto nel u secolo, discepolo di Aspasio, com- mentò particolarmente i libri logici (Categorie, De lnterpretatione, Analitici primi, Topia), sostenendone il valore formale. Cosi, sembra, sottolineando la contraddizione che v'è nel porre Dio motore immo- bile e il movimento dato da esso al tutto, Erminio interpretava, nel suo commento alla Fisica, il dio aristotelico come condizione logica, l'atto primo cui tutto aspira, per cui bisogna supporre non Dio che muove, ma la realtà tutta che si muove, in quanto ha in sé un'anima: ed Erminio sosteneva che tale era il significato dell'anima mundi del Timeo di Platone. 56    Su questa linea non sembra perciò un caso che il siciliano Aristocle di Messane (u secolo) potesse sostenere, come appare dai frammenti (in Eusebio, Praep. ev., Xl, 2,6; XIV, 17-19; XV, 1,13 e 14, l sgg.) rima- stici dalla sua Storia della filos_qfia, che tra Platone e Aristotele v'era un perfetto accordo (cfr. Alessandro di Afrodisia, De anima, Il, 110, 5-113 ed. Bruns), e che l'aristotelismo si poteva delineare come l'in- terpretazione logica del platonismo (del resto, pare, tesi già soste- nuta fin dal I secolo a.C. sulla scia di Antioco di Ascalona, e in chiave stoica, da Eudoro, da Ario Didimo, da Aristone di Aless;m- dria, che commentò gli Analitici e le Categorie e da Alessandro di Ege, del I secolo d. C., anch'egli commentatore delle Categorie). Cos{, anche gli aristotelici del 1 e della prima metà del II secolo tendono a una interpretazione e familiarizzazione dell'universo, in una visione unica del tutto, a cui doveva servire la filosofia, intesa, ora, come scienza delle scienze, avente il suo criterio nell'analisi dei discorsi, per cui non a caso al complesso dei libri logici di Aristotele fu dato il nome di "stru- mento" (6rganon). E ciò, per quel che ne sappiamo, è denundato dall'in- teresse per certi libri logici (Topici, Categorie, Secondi analitiet) e per la Fisica e il De coelo di Aristotele, messi accanto al 'fimeo dì Platone. At- traverso lo studio dei "luoghi" argomentativi si cercava di determinare le possibilità del discorso scientifico - indipendentemente da uno o altro contenuto - che poteva dar luogo a deduzioni, linguisticamente cor- rette (donde la ripresa della genesi del discorso qual'era stata formu- lata dai primi stoici, per rendere possibile la predicazione), sulla strut- tura e l'ordinamento del tutto, che si poteva, perciò, interpretare in chiave stoica (vedi De mundo dello pseudo:Aristotele) e in chiave pla- tonica, risolvendo il mondo delle idee - il punto piu problematico di Platone - in intellezioni in atto della stessa sostanza una, cioè del divino, il quale non è in quanto sia qualcosa, ma in quanto ragion d'essere in atto del tutto, cui tutto per esistere deve conformarsi, per cui l'essere è presente nelle cose in quanto forme e tutte le trascende m quanto forma delle forme (ed è perciò incorporeo). c) Il «platonismo11 di Albino. Teone di Smirne. Entro questi ter- mini si fa chiara la soluzione dell'aporia platonic~ uno-idee, idee-cose molteplici, di cui già troviamo traccia fin dal I secolo a.C., ma che nell'Epitomè di Albino6 ha la sua formulazione piu esatta, e nella maniera che diverrà poi tipica di una certa tradizione platonica. Dopo avere discusso gli elementi e le funzioni della dialettica, distinguendone le varie parti (divisione, definizione, analisi, induzione e sillogismo, 6 Sulla vita di Albino vedi sopra.  57   significato del linguaggio), e, dopo aver determinato attraverso essa le condizioni delle singole scienze (aritmetica, geo~etria, stereometria, astronomia, musica) mediante cui giungere ai primi principi e cause, condizioni non piu dialetticamente oppugnabili, da cui dedurre tutta la struttura e il costituirsi dell'universo, dice, dunque, Albino: Dopo di che, seguendo il nostro piano, bisogna parlare dei principi e dei precetti della Teologia. Prendendo le mosse da questi primi problemi, passeremo ad esaminare l'origine del mondo e di qui giungeremo all'origine e alla natura dell'uomo. Parliamo innanzi tutto della materia [{));'): il ter- mine è ripreso chiaramente da Aristotele]. Platone le dà i nomi di "porta- impressioni" (èx!l4yei:ov), "ricettacolo universale," "nutrice," "madre;· "spazio," (xwpat), sostrato incapace di sentire e che non è afferrabile se non con un ragionamento bastardo [cfr. Timeo, 50c, 5Ia, 49a, 52d, 88d, 50d, 5Ia, 52a-d]. La sua funzione propria è di ricevere i frutti di ogni nascimento e di avere il compito di una nutrice che tutti li accoglie nel suo seno e ne prende tutte le forme, nonostante essa, per sua natura, sia senza figura, senza qualità e senza forma... [appunto per poter ricevere tutte le forme]. La materia perciò non è né corporea né incorporea: essa è un corpo solo virtualmente, sf come si può dire del bronzo che è virtualmente una statua, poiché non ha che da ricevere una certa forma per essere una statua [evidente riferimento ad Aristotele: Metafis., IV, 2; Fisica, Il, 3] (Epitomè, VIII). Oltre alla materia, che costituisce un primo· principio, Platone ne ammette altri: uno consiste nei paradigmi, cioè nelle idee, l'altro nel padre e causa di tutte le cose, cioè Dio. L'idea, in rapporto a Dio, è l'intellezione di lui stesso (la·n 8è ~ t8éat 6>c; (Ùv 7tpÒç.8-eòv v61jatc; otÙ-rou); in rapporto a noi è il primo intelligibile; in rapporto alla materia, la misura; al mondo sensibile, il paradigma; relativamente a se medesima, allorché si esamina, è l'essenza (oùa(ot)....Le Idee sono le operazioni eterne e perfette in sé della intellezione divina. E che le idee siano lo si può stabilire cosi: posto che Dio è una mente o un essere pensante, egli l}a dei pensieri e tali pensieri sono eterni e immutabili: se còsf è, le Idee sono. D'altra parte, se la materia non può misurarsi da sé, è necessario ch'essa trovi tale misura altrove, in qualcosa di piu eccellente, e di non materiale: ammesso l'antecedente ha da esserci il conseguente: le idee dunque esistono e sono misure immateriali. Non solo, ma se il mondo quale è non esiste in virtu di una causa fortuita, è stato fatto non solo di un qualcosa, ma anche da qualcosa e mediante qualcosa. E ciò mediante cui è stato fatto, cosa è se non l'Idea? Le Idee dunque esistono.... Di qui anche il terzo principio che Platone considera come quasi inesprimibile. Noi possiamo tuttavia afferrarlo grazie al seguente ragionamento: se gli intelligibili sono e se non cadono sotto i sensi né par- tecipano del mondo sensibile, ma ai primi intelligibili, i primi intelligibili sono in senso assolutlo, sf come sono i prirlli sensibili. Ammesso questo, si deve ammettere anche tutto ciò che ne consegue. Dato che gli uomini sono un complesso di impressioni sensibili tanto che perfino quando si propon- 58    gono di concepire l'intelligibile, vi mescolano qualche apparenza sensibile, come l'idea di grandezza, di figura o di colore che essi spesso vi aggiun- gono, è loro impossibile concepire con purezza l'intelligibile: gli dèi invece si liberano dal sensibile e concepiscono l'intelligibile in forma pura e sem- plice. D'altra parte, poiché l'intelletto è superiore all'anima e al di sopra dell'intelletto in potenza (!v 3uvoc(Ut) si trova l'intelletto in atto (xcx-r' hépy&Lotv) ed è sempre in attività, poiché piu grande ancora è la bellezza di ciò che ne è la causa e che è superiore a tutto il resto, ecco il primo dio, il motore che fa agire senza interruzione l'intelletto del cielo intero. Tale primo intelletto deve, dunque, concepire sempre se stesso ad un tempo concependo i propd pensieri, ed è in tale attività dell'intelletto che con- siste l'Idea. Il primo Dio, dunque, è eterno, indicibile, perfetto in sé, cioè sertza bisogni, sempre in sé compiuto, cioè perfetto in tutti i tempi, ovunque perfetto, cioè perfetto in tutti i luoghi. Esso è la divinità, la sostanzialità, la verità, la proporzione, il bene. E non dico q'lesti termini per separarli, ma per far concepire, mediante la loro unione ch'esso è un tutto unico... Dio è indici- bile ed afferrabile solo con l'intelletto, come abbiamo detto, poiché egli non è né genere, né specie, né differenza specifica e neppure può subire acci- denti... Egli non è qualità, perché è estraneo ad una qualità e la sua perfe- zione non è dovuta a una qualificazione; non è assenza di qualità, poiché non manca delle qualità che possono essergli proprie; non è parte di qual- cosa né un tutto che abbia parti, non è identico a una o ad altra cosa... esso infine non dà né riceve movimento. Attraverso queste successive costruzioni si avrà una prima idea di Dio, come si giunge a concepire il punto facendo astrazione dal sensibile, muovendo dall'idea di superficie, poi da quella di linea, per giungere infine al punto. Ancora:. ci possiamo fare un'idea di Dio procedendo per analogia...: come il sole non è la vista, ma permette alla vista di vedere e agli oggetti d'esser veduti, cosi il primo intelletto non è l'intelletto dell'anima, ma dà all'intelletto dell'anima la facoltà di conce- pire e agli oggetti intelligibili d'essere concepiti, illuminando la verità ch'essi contengono. Esiste un terzo modo di farsi un'idea di Dio: [dalla contem- plazione del bello che risiede nei corpi, passare alla bellezza dell'anima e di qui al bello che è nei costumi e nelle leggi, per risalire infine al vasto oceano del bello... ] (Epitomè, VIII- X). Il testo di Albino è certo molto chiaro per renderei conto di un tipo di interpretazione della problematica di Platone relativa al rap- porto Uno-idee, idee-cose, problematica che si risolve attraverso uno degli aspetti della logica aristotelica. Eliminando via via le contrad- dizioni si giunge a porre come· condizioni non contraddittorie della pensabilità del reale da un lato l'informe, dall'altro l'intelligibile in atto, l'essere come pensiero in atto; il cui discorso è la stessa realtà, ripercorrendo la quale si arriva a cogliere l'atto pensante, appunto in sé indicibile, perché sempre in atto discorso intiero, ma da cui si ridi- scende a tUtti i nf'ssi che costituiscono la trama e il ritmo su cui si 59    scandisce la realtà, sempre in atto allorché s'intende l'Uno pensiero, e perciò eterna, processo e tempo, in quanto se ne ripercorrono le trame su cui appunto la realtà si costituisce. In tal senso Dio, la prima essenza, il ciò senza di cui nulla è (causa, per cui grammaticalmente il verbo, l'è, la sostanza è la condizione della predicabilità), viene a porsi, in chiave aristotelica, come la condizione logica che rende pen- sabile la realtà, e, appunto perciò, pensiero di pensiero, intellezione in atto e, dunque, sempre in atto aggettivazione (e, per questo, idee sono dette le aggettivazioni dell'intelletto in atto, del primo intelletto), onde incorporeo, cioè non cosa è Dio, non forza fisica, ma pura intel- ligibilità. Assume qui un suo particolare significato l'opera di Teone di Smirne,T vissuto nella prima metà del n secolo (egli cita a lungo Adra- sto, si serve del suo commentario al Timeo e delle sue teorie astro- nomiche, ma non cita Claudio Tolomeo), intitolata TC>v xct-r« -ro !J4&1liJ4-rLxllv lP7JcniL(a)V dc; -rljv llM-r(a)voc; clvtiyv(a)aLv (Conoscenze matematiche utili alla lettura di Platone). L'opera di Teone di Smirne, giuntaci quasi intera, si muove, per l'intento e per i risultati, entro l'àmbito del pensiero di Gaio e di Albino. È anch'essa una introdu- zione a Platone, per giungere, attraverso un certo modo di leggere Platone, a farsi simili alla divinità (npllc; -rllv &ellv 61Lo((a)aLt;), sapendo rendersi familiari a sé e al mondo, come già Gaio diceva, riprendendo u n termine stoico (otxe((a)ar.t;, oichéiosis). Sotto quest'angolo visuale, Teone, rifacendosi alle cinque scienze da Platone indicate come fon- damentali per la formazione del filosofo (ma si veda anche Nicomaco di Gerasa), fa un'ampia esposizione in forma sistematica delle varie teorie svoltesi nel tempo, costituenti, insieme, l'aritmetica, la geome- tria piana, la stereometria (geometria solida), l'astronomia e la teo- ria musicale. Nel timore che coloro, che non hanno avuto la possibilità di coltivare le matematiche e che tuttavia desiderano conoscere gli scritti di Platone, non siano costretti a rinunciarvi, daremo qui un sommario e un riassunto delle conoscenze necessarie e la tradizione dei teoremi matematici piu utili sul- l'aritmetica, la musica, la geometria, la stereometria e l'astronomia, scienze senza le quali è impossibile essere perfettamente felici, come Platone dice [Epinomide, 992a], dopo avere a lungo dimostrato che non si debbono tra- scurare le matematiche (l). L'opera di Teone, preziosissima per una ricostruzione della storia delle singole scienze trattate, particolarmente per l'astronomia, è pre- T Quasi nulla sappiamo ddla vita di Teone di Smirne 60    ziosissima anche come indicazione della traduzione sul piano scientifico della teoria platonica in termini aristotelici, in una sistemazione del- l'universo che permetta calcoli e misure, e che, riprendendo e ordi- nando in un unico sapere le varie tesi, susseguitesi nel tempo, da Ari- stotele a Ipparco di Nicea e Adrasto, è l'indice di quello che sarà poco tempo dopo il grande lavoro di Claudio Tolomeo. Ad ogni modo, entro la linea di questi platonici (Gaio. Albino, Teone), sembra chiara la loro opposizione alla riduzione stoica del divino a forza egemonica, annullante il divino nello stesso processo del mondo, anche se sul piano del mondo e della organizzazione e qualificazione del reale, della funzione dinamica dell'"anima mundi," del tutto vivente, il discorso poteva essere talvolta simile a quello di certi stoici e del loro modo di interpretare il Tim~o (cfr. Ario Didimo, ad esempio, che fu tenuto presente da Albino: si veda il principio del XII capitolo dell'Epitome?· ricalcato da Ario Didimo, in Eusebio, Pra~p. ~v., XI, 23; e, per altro, il D~ mundo di Apuleio, ricalcato sul De mundo dello pseudo-Aristotele). d) Il « platonismo" antiaristotelico di Calvisio Tauro e di Attico. Nicostrato. Arpocrazione. Oltre all'opposizione nei confronti dello stoi- cismo ontologico, da quanto è stato sopra detto si delinea anche l'oppo- sizione ad un certo Aristotele, che chiaramente possiamo notare in un altro gruppo di commentatori di Platone,8 facente capo a Calvisio Tauro (il quale resse, in Atene, l'Accademia al tempo di Adriano e di Antonino), e proseguitosi con Attico - fiorito nella seconda metà del II secolo, autore di un commento al Fedro e al Timeo: Proclo, In Tim., 315a,- successo, pare, a Calvisio Tauro, ç con Nicostrato- fio- rito tra il 160 e il 170. - Se il fenicio Calvisio Tauro, nato a Berita, sembra che abbia, per quelle poche testimonianze che abbiamo su di lui, non solo opposto Platone agli Stoici (Discrepanze della Stoà ri- spetto a Platone: cfr. Aulo Gellio, XII, 5, 5), ma anche Platone ad Aristotele, in una sua opera (perduta) intitolata ·TratttftO sulla diffe- renza delle scuole di Platone e di Aristotele (Aulo Gellio, XII, 5, 5), tale opposizione risulta certa dai frammenti che Eusebio (Praep. ev., XI, 1-2; XV, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 12, 13) ci ha conservati delle opere di Attico. Anche se troppo frammentari sono i testi riportati da Eusebio per poter ricostruire il pensiero di Attico, senza dubbio essi indicano, tuttavia,. che l'opposizione di questi platonici ad Aristotele si svolgeva sull'inter- 8 Poco o nulla sappiamo della vita dei platonici di Atene, Calvisio Tauro, Attico, Arpocrazione, cui ~ legato N"~eostrato. Calvisio Tauro e Attico, di cui fu discepolo Arpocrazione, furono scolarchi dell'Accademia, ad Atene, tra Adriano e Marco Aurelio. 61    pretazione ch'essi davano da un lato delle categorie e dall'altro lato dei libri fisici di Aristotele, entro i termini dell'ultimo Aristotele. Se invece di puntare sulle Categorie in senso formale e grammaticale, si punta sulle Categorie, supponendo la teoria della sostanza in senso aristotelico (come fece Nicostrato, che, sembra, seguendo l'opera di un certo Lucio suo contemporaneo, violento critico delle categorie ari- stoteliche, vedeva nelle categorie di Aristotele la negazione del trascen- dente platonico: cfr. Simplicio, In Categ., I, 19 sgg. 73, 15 sgg. 76, 14 sgg.), si capisce come si potessero interpretare certe conclusioni aristoteliche quali negatrici di una provvidenza, di una distinzione tra intelligibile e sensibile, dell'immortalità dell'anima, di una divinità autrice del mondo, per cui si poteva sostenere, di contro alla religiosità platonica, che Aristotele è ateo sf come lo sono gli Epicurei, o che Aristotele risolve il divino nell'attualità del tutto, facendo di Dio un termine puramente logico. "Platone," esclama Attico, "per non privare il mondo della Provvidenza, dichiarò che questo mondo non è ingene- rato. Ora, noi esortiamo quei platonici che sostengono che il mondo, secondo l'insegnamento di Platone, non è stato generato, a non met- terei nelle difficoltà... A tale tesi li ha indotti Aristotele..., per il quale il mondo è ingenerato [e· quindi uno in Dio], e pér cui è neces- sario che ciò che ha avuto un'origine perisca e che imperituro è solo ciò che non è stato generato, ond'egli non concede a Dio neppure il potere di fare il bene..." (in Eusebio, Praep. ev., XV, 6). "Aristotele cosi annulla la speranza dell'anima e distrugge anche la pietà verso gli esseri superiori... e la fede nella Provvidenza, guida per la vita umana... e supponendo quindi che per l'uomo dopo la sua morte U.:':to sarà morto con lui, eccita gli uomini a soddisfare i proprt appetiti... Se egli, dunque, non ammette nulla al di fuori del mondo, ed esclude gli dèi da ogni relazione con gli avvenimenti della terra, è necessario che si professi decisamente ateo o che difenda la sincerità del suo atei- smo relegando gli dèi dove li ha posti. Epicuro, da parte sua, quando nega la provvidenza degli dèi dicendo che non hanno rapporti con il mondo, sembra voler giustificare con questo il suo ateismo..." (in Euse- bio, Praep. ev., XV, 5, 3 sgg.). Di qui, secondo le testimonianze di Proclo (In Tim., 41d), la tesi di Attico, per il quale Platone avrebbe da un lato posto una materia informe, agitata e resa viva da una potenza irrazionale e, dall'altro lato, il Bene, il divino tutto in atto nel Demiurgo, che dà ordine e misura alla materia. Termini intermedt tra il divino, causa e principio primo (padre) e la corporeità, intesa come limite e dispersione e perciò come radice 62    del male, avrebbe posto Arpocrazione di Argo - commentatore del Timeo, del Pedone, dell'Alcibiade Maggiore, e autore di un'antologia di massime di Platone, - discepolo di Attico (Proclo, In Tim., 93c). Egli, cioè, tra il Padre, causa prima e immobile, e il corpo (informità e limite), avrebbe posto una seconda divinità, il facitore, il poietès, mediante cui si realizza nell'ordine il k6smos; ordine che egli - volto da un lato al Padre, dall'altro alla materia - dà alla corporeità, riflet- tendovi le idee. Il cosmo cosi viene ad essere un terzo ente divino, in quanto idea di mondo presente alla mente del poietès (cfr. Proclo, In Tim., 93b; Giamblico, De anima, in Stobeo, Ecl., I, 49, 37: ed. Wach., I, p. 375,15, e 380, 14). Anche se solo in forma indicativa, è sembrato opportuno sottoli- neare le molte venature con cui si presenta nel corso del n secolo ·il cosiddetto "platonismo medio." Emerge cosi l'opposizione tra due in- terpretazioni del pensiero platonico. L'una, determinandone la non contraddittorietà, punta, mediante il metodo aristotelico, sul dio di Aristotele, inteso come attualità in atto di tutta la realtà, condizione logica (e in tal senso trascendente e incorporeo) e finalità, cui tutta la realtà, che·presuppone l'altra condizione logica della materia come potenzialità, tende (onde immobile e motore è la divinità), realizzando in sé gl'intelligibili, le forme; l'altra, viceversa, vede nèlla possibile tesi aristotelica, anche se in termini diversi, un'interpretazione di tipo stoico, annullante, appunto, il divino nelle stesse categorie, e, perciò, nello stesso ritmo in cui si scandisce la realtà. Tale contrasto, se da un lato sembra chiarire il significato dell'appello a Platone e dell'interesse per la logica aristotelica, dall'altro lato è fondamentale per capire sia gli sviluppi di un certo approfondimento nell'interpretazione di Ari- stotele (Alessandro di Afrodisia), sia gli sviluppì, sul piano dei com- menti a Platone e ad Aristotele, di una certa interpretazione di Platone (da Numenio di Apamea a Platino), ove fin da ora va detto che viva rimase la questione del come interpretare le categorie di Aristotele (ricordiamo, su tale piano, la discussione tra Platino e il suo discepolo Porfirio; Platino, VI, Enn., l sgg., nega il valore delle Categorie, dei generi sommi, di Aristotele, annullando l'Uno platonico; Porfirio le riprenderà dando ad esse un valore formale linguistico e non antico), proponendo, per altro, il platonismo come l'unica ipotesi non contrad- dittoria per spiegare la realtà in tutto il suo complesso (non a caso Platino, in nome della tradizione razionalistica greca, scriverà finis- sime pagine Contro gli gnostici, in Enn., 2, 9, respingendo ogni tipo di "rivelazioni speciali"). 63    e) Alessandro di Afrodisia, il "secondo Aristotele.» Nel conflitto dell'interpretazione di Aristotele sembra.essersi posto Alessandro di Afrodisia,8 vissuto nel 11 secolo, discepolo di· Sosigene, di Ermino e di Aristocle di Messene (cfr. sopra), che tennero lo scolarcato del Liceo, in Atene, tra il 150 e il 190, e a cui nel 190 circa successe Alessandro. Alessandro commentò tutti i libri logici di Aristotele (sono rimasti i commentari agli Analitici primi, ai Topici, agli Elenchi sofistici: in "Commentaria in Arist. graeca," II, Berlino, 1883-98), la Metafisica, il De coelo, il De generatione, la Meteorologia e il De sensu (sono rimasti i commentari alla Metafisica, in "Comm. graec.," l, 1891; al De sensu e al Meteor., in "Comm. grae'c.," III, 1899-1901), e, oltre che nei commenti, chiari la propria interpretuione in un Trattato sulfanima (in 2 libri) (De anima liber cum mantissa), nel De fato, nel De mixtione e nei quattro libri delle Questioni controverse e solu- zioni sulla fisica e sulla morale (in "Supplementum arist.," Il, 1892). L'interpretazione che Alessandro dà di Aristotele è netta e precisa; sempre fondandosi sui testi, muovendo dalla tesi basilare di Aristo- tele, che discorso scientifico è possibile solo muovendo da principi" posti non contraddittoriamente, Alessandro respinge ogni soluzione che nello spiegare la ragion d'essere, il perché delle cose, ricorra a salti, o a inter- venti extrarazionali. Sotto questo aspetto egli respinge l'interpretazione aristotelica in chiave platonica, per sottolineare dell'aristotelismo da un lato l'aspetto piu strettamente metodologico della ricerca in una chiara determina- zione del retto uso dei termini (essenziali~, causa, forma, materia, sinolo, potenza, atto: cfr. sopra I vol.), e attraverso tale retto uso, dal- l'altro lato, l'aspetto piu decisamente - se cosi vogliamo dire - • natu- ralistico logico" dell'ultimo Aristotele (cfr. I vol.), pu~1tando sul motivo della "essenzialità" come "sinolo," delle forme che sono tali in quanto "forme di," ove, perciò, l'attualità è.posta come presupposto logico, e fine ultimo, ma per ciascuna essenzialità nella sua specie, onde reali sono gli individui, in senso aristotelico (cfr. I vol.), e le forme, in' quanto separate, sono reali per sé solo come termini mentali, cioè come astrazioni presenti al pensiero, sf come, presa a sé lo è la "materia," e, alla fine, lo stesso Dio, condizione logica dell'attualità in atto di tutta la realtà (cfr. I vol.). Entro questi termini, appare chiaro il filo seguito da Alessandro nella lettura dei testi aristotelici. Per esso, e per non ripeterei, rimandiamo a una parte dell'esposizione già fatta di Aristo- tele (cfr. vol. I), mentre va detto come al lume di questa interpreta- 8 Alessandro nacque ad A&odisia, in Caria, sulla prima metl del n secolo. Visse ad Atene, dove entrò al Liceo, di cui divenne scolarca alla morte di Sosigene. 64    zione, sembra abbastanza chiara la celebre soluzione data da Ales- sandro alla questione del rapporto intelletto agente e intelletto passivo. Posto, con Aristotele, che l'anima è "entelechia prima di un corpo naturale che ha la vita in potenza, cioè di un corpo chè- sia organico," per cui l'anima, nelle sue tre funzioni (vegetat~va, sensitiva, intellet- tiva} non è separabile dal corpo, e ripercorso con Aristotele il processo per cui dal sentire si passa all'intendere, e posto il fatto che l'uomo è attività intellettiva, Alessandro puntando sull'intelletto come funzione, per cui si può sostenere che non è mescolato al corpo, ma è condizione, possibilità naturale dell'intendere, afferma che l'intelletto, appunto in quanto possibilità e dunque materia di tutte le forme, potenzialmente, è intelletto "naturale" o "materiale" (fisico o ilico, ÙÀLx6c;) (cfr. De anima, I, pp. 81~84, ed. Bruns). D'altra parte, sempre in termini aristo- telici, la facoltà d'intendere se da un lato si pone come condizione o materià dell'intellezione, dall'altro lato implica, attraverso una serie di atti intellettivi, non solo la potenzialità naturale d'intendere (tutti gli uomini, ad esempio, in quanto tali possono imparare a scrivere, per cui la scrittura in questo senso è una capacità naturale, materiale dell'uomo}, ma l'abito d'intendere, per cui, accanto all'intelletto "ilico," Alessandro pone l'intelletto in abito, o acquisito (xcr:r'!~Lv, ~1t(xu-toc;) (chi non ha imparato a scrivere resta capace di scrivere in potenza, ma chi ha imparato e ora non scrive ha, tuttavia, l'abito dello scrivere, è capacità di scrivere per abito o per acquisizione). Se l'intelletto ilico e l'intelletto epittetico sono due aspetti·dell'unico intelletto umano, il suo realizzarsi nelle intellezioni, in questa o quella intellezione, di que- sto o quell'uomo, implica un'altra condizione, e cioè l'intelletto agente (vouc; 7tOL1)'t'Lx6c;), la forma dell'intendere, ciò che fa sf che l'intelletto (ilico-epittetico) divenga gl'intelligibili. Potenziale l'intelletto, potenziali gl'intelligibili, l'intellezione, implica l'attualità dell'intendere, che, ap- punto, in quanto tale (non essendo né questa né quella intellezione dovuta a questo o a quell'individuo, ma la forma dell'intendere) è sepa- rata, nel senso che " separato," in quanto attualità degli atti, è Dio per cui, Alessandro, seguendo il testo di Aristotele del De generatione animalium (II, 736b, 27-28), in cui Aristotele sostiene che l'intelletto attivo viene dal di fuori (&Upor.3&V) e che esso solo è divino, sostiene che l'intelletto poietico è divino. Si capisce cosf come sia da parte platonica sia da parte stoica si è affermato che Alessandro non solo ha negato la realtà di Dio, posto solo come condizione logica, ma anche la realtà dell'anima non solo di quella individuale e dell'intelletto ilico ed epittetico, dipendenti dalla sensibilità, ma anche dell'intelletto agente che non essendo affatto proprio dell'uomo si annulla nell'attualità di Dio, pensiero di pensiero, anch'esso a sua volta riducentesi a una pura astrazione mentale, in una definitiva negazione della realtà dell'anima. Ma proprio questo rende chiaro il senso della polemica di Alessandro sia nei confronti dei plato- nici sia nei confronti degli stoici, i quali, dogmaticamente, cioè se_nza una deduzione da principi veraci perché non contraddittori, rifacendosi gli uni e gli altri al pitagorismo, sostengono la realtà di una sostanza spirituale e di essa un aspetto negli individui (realtà delle anime). In tal senso assume un particolare interesse la polemica di Alessandro contro coloro che ritengono esservi la sostanz~ dell'anima. Di qui anche la pole- mica di Alessandro contro la Provvidenza degli stoici e dei platonici, che ammettendo un continuo intervento del divino, non solo sostanzia- lizzano e antropomorfizzano dio, il che è logicamente contraddittorio, ché Dio, attualità degli atti, e forma delle forme, in atto tutte le possi- bilità, è al di là del bene e del male, è termine ideale dell'attuarsi in ciascuna specie della propria perfezione, onde esso è indifferente rispetto a ciascuna realtà, ma anche negano quella stessa spontaneità e vitalità che sul piano del mondo animale, nel fenomeno umano indica alla fine l'azione non determinata e, quindi, la deliberazione. Quella che i plato- nici chiamano Provvidenza e azione diretta di Dio, sottolinea Alessan- dro, è non altro, in realtà (sia sul piano dei cieli e dei movimenti per- fetti, sia sul piano del mondo sublunare) se non un rapporto di causa ed effetto. f) Severo, Apuleio, Albino, Celso, Numenio di Apamea. Se in Arpo- crazione si vede bene il tentativo di mediare l'antiaristotelismo dei plato- nici tipo Calvisio Tauro e Attico (in polemica forse nei confronti dell'ari- stotelismo tipo Alessandro di Afrodisia) con il platonismo aristotelico tipo Albino (forse quei tali "platonici" che Attico dice sedotti da Aristotele), tanto meglio tale tentativo si fa chiaro, da un lato con l'interpretazione' data da Severo delle categorie stoiche, dall'altro lato, con il significato, in uno sviluppo della simbolica pitagorica in termini di logica (e rifa- cendosi a Moderato di Cadice), dato ai tre aspetti con cui si presenta la realtà (Dio, Demiurgo, Mondo), da Numenio di Apamea. Di Severo, della cui vita non abbiamo alcuna notizia, ma che sembra vissuto sulla metà del n secolo, sappiamo che avrebbe composto un commento del Timeo (Proclo, In Tim., 63a-h), e che soprattutto si sarebbe occupato del problema dell'anima (cfr. Stobeo, Ecl., l, 49, 32 W.; un lungo frammento di un'opera intitolata Dell'anima è riportato da Eusebio, Praep. ev., XIII, 17; si è pensato anche che sia una parte del commento al Timeo). Dalle scarse testimonianze che abbiamo su Severo è impossibile ricostruirne con.certezza il pensiero. Possiamo tuttavia dire con una qualche sicurezza che Severo ritenne di poter risolvere in senso plato- nico la categoria della sostanza aristotelica, condizione della pensabi- 66    lità e perciò della predicabilità del reale, ricorrendo alla categoria stoica del "qualcosa" (t(, tf), inteso come "il tutto" ('rò 1tiiv, tò p4n). Se è vero che non possiamo pensare e perciò predicare; niente senza l'essere, la con- dizione stessa del pensare è l'essere, che, in quanto possibilità di tutte le predicazioni, è indefinibile, e in tal senso è un qualcosa, un T(, donde si definisce l'essere e il divenire, esso né essere né non essere, bens{ l'uno e l'altro, unità e alterità, corporeità e incorporeità, indivisibilità (il punto) e divisibilità (estensione alterità). Di qui, di deduzione in deduzione, si rintraccia da un lato l'esserci dell'indivisibile, dell'identico e incorporeo, geometricamente definibile come punto, e del divisibile, del corporeo, la cui condizione geometrica è la estensione, ove termine medio tra l'uno e l'~ltro aspetto opposti della realtà, una nel Tutto, è l'anima cosmica. Severo, interpretando cos{ il celebre ~asso del Timeo sulla funzione del- l'anima del mondo ("Dell'essenza indivisibile, e che è sempre identica a se stessa e di ciò che è divisibile, e che si genera nei corpi, di tutte e due formò,.mescolandole insieme, una terza specie di essenza inter- media, che partecipa della natura del medesimo e di quella dell'altro e cos{ la pose in mezzo tra l'essenza indivisibile e quella divisibile in corpi... E l'anima, diffusa dal centro in tutte le direzioni, dal centro fino al- l'estremo cielo, il cielo stesso, esternamente avvolse tutto intorno, e, in se medesima rivolgendosi, dette luogo ad un divino principio d'inces- sante e intelligente vita per tutta la durata dei tempi...": Timeo, 35a, 36e), poteva sostenere da un lato che l'anima, in quanto misura del tutto in cui il tutto s'incentra è numero, e, dall'altro lato, in quanto termine medio tra l'essere e il divenire, l'unità e l'alterità, essa, nesso del tutto, è immagine di Dio, del T(, trascendente e immanente ad un tempo. Uno, dunque, il mondo, nel T(, nel tutto che lo trascende e che n'è condizione, nel suo scandirsi in opposti, in una serie di gradi, incentran- tisi nell'anima termine medio e unificante, il mondo è per un verso eterno nell'Uno tutto, nel T(, e, per altro verso, in quanto considerato nel suo scandirsi ed opporsi nel T(, è processo e divenire. Una l'anima umana e non distinta - sottolinea Severo - come avrebbe voluto Platone in parti, ma piuttosto aristotelicamente in aspetti, l'anima umana, specchio dell'anima cosmica, in quanto razionalità, l6gos, unificando in unità dialettica i due momenti in cui si distingue il tutto, identità e alte- rità, unità-dualità, afferra in sé il T(intuitivamente, cogliendo sé cerniera tra il mondo intelligibile e il mondo sensibile (cfr. Eusebio, Praep. ev., XIII, 17). Non poco indicativo sembra adesso, per renderei conto del signifi- cato che si dà ora al termine "pitagorismo," il passo di Apuleio10 in 10 Sulla vita e le opere di Apuleio vedi sopra. cui si afferma che Platone avrebbe ripreso dai pitagorici la scienza • in- tellettuale" (" nam quamvis de diversis officiis haec ei essent philosophiae membra suscepta,... intdlectualis a Pythagoreis": De dogm. Plat., l, 3, 187). In altri termini, come chiaro risulta da tutti i testi (si confronti ancora Moderato di Cadice, Nicomaco di Gerasa, Teone di Smirne), se per "pitagorismo" si intendeva lo studio della teoria matematica (e quindi non solo dell'aritmetica e della geometria, ma anche dell'astro- nomia e della musica), quale si era venuto determinando nei vari tempi, "pitagorismo" stava anche ad indicare uno dei possibili esiti del- l'interpretazione di Platone in chiave logico-matematica, per cui non a caso il Platone di cui ora particolarmente si discute è il Platone ultimo. In realtà, come già abbiamo detto (cfr. I vol.), nel Sofista sembra che si precisi il significato delle idee che non sono Essere, ma, appunto, forme, o meglio generi dell'Essere, che non è nessuno dei generi, ma ciò per cui l'uno o l'altro sono e sono comunicabili e ad un tempo limitati, cioè numerabili, onde la dialettica è capacità di ripercorrere i nessi e le ar- ticolazioni del tutto, che si esprime nel discorso verace in quanto con- nessione (symploch!), cioè in quanto grammatica e sintassi, di cui i nomi sono simboli dell'articolarsi grammaticale e sintattico dell'Essere (non si scordi l'importanza data al Sòfista e al Cratilo da Albino). Si vede cosl come uno e molti possano mescolarsi, soprattutto quando si tenga presente l'ulteriore passo fatto nel Filebo, che, riprendendo il tema del Sofista, chiarifica il rapporto uno-molti con i nuovi concetti di illimitato (indefinito) e limitato (ciò che ordina e definisce) per cui la realtà ap- pare come un'infinitudine (quantità, ciò che è suscettibile di piu e di meno) e come finitudine. (misurabilità e dunque numerabilità), cioè come proporzione, convenienza e misura, per cui di ogni cosa si coglie l'essenza quando se ne sia colta la forma (id~), o meglio il numero, la sua definizione in rapporto ad altra definizione. Evidentemente i due termini illimitato (quantità) e limitato (numerabilità e qualificazione) sono i due termini astratti di una realtà che è in quanto si costituisce come limite dell'illimitato, cioè come proporzione e misura, per cui ogni cosa assume il suo perché, il suo essere, ossia la sua intelligenza, che è la causa stessa della mescolanza. Lo stesso Bene, allora, diviene misura e convenienza, e misura e proporzione il Bello e il Vero. Si capisce, dunque, come su questo piano (donde la concezione fisico-geometrica dell'universo quale si delinea nel Timeo), posto l'Essere come pensiero e dialetticità (e perciò non corporeo), esso sia visibile, cioè intelligibile (colto dall'occhio dell'intelletto), solo in quanto tradotto in termini ma- tematici. L6gos ed Essere, dunque, in quanto intelligenza e attività ar- ticolante, unità e molteplicità ad un tempo, sono incorporei. La realtà, invece, quale appare alla sensibilità, si manifesta molteplice, disarticolata, divisibile e perciò corporea e indefinita, nel suo substrato informe. I due termini, allora, in quanto distinti restano impensabili, che lo stesso essere in quanto discorso e ordinamento e misura non è tale se non è discorso, ordinamento, misura di qualcosa, s1 come la quantità in sé, divisi- bile e indefinibile, senza forma è impensabile se non in relazione alla mi- sura e alla' qualificazione, se non per quel tanto che sfuggendo alla pos- sibilità della misura resta al di fuori come appunto impensabile, e, dunque, irrazionale, casuale, fortuito, forza ribelle e malvagia. Sotto questo aspetto è chiaro in che senso- sulla linea di Albino suo condiscepolo - Apuleio potesse interpretare ed esporre, in forma piu de- scrittiva che non Albino, la concezione "platonica," entro cui, per altri rispetti, far rientrare le piu varie esperienze filosofiche e religiose ("io," esclama Apuleio nella sua Apologia, scritta per difendersi dalla accusa pubblica di magia, "ho conosciuto per amore della verità e per pietà verso gli dèi, in Grecia, culti di ogni specie e riti numerosi e cerimonie varie": Ap., 55}, e potesse sostenere the per Platone esistono tre princip~ (" initia rerum esse tria arbitrabatur Plato": D~ dogm. Pl., I, 5, 190): Dio, la materia e le forme delle cose. Presi a sé essi sono indefinibili: non a caso di Dio dice che è incorporeo, incommensurabile (aperlm~tros), indicibile (arretos}; che la materia non è né fuoco· né acqua né altro demento semplice, ma è informe, infinita, in sé né corporea né incor- porea; che le stesse idee o forme sono non in atto - inabsolutas, in- formes, nulla specie nec qualitatis significatione distinctas: l, 5, 190; - mentre un po' piu sotto, considerando che la realtà scaturisce dalla tensione tra Dio e la corporeità, intermediarie le idee, realizzazione di Dio, che in sé resta oltre, dice che le idee sono i modelli di tutte le cose, s~mplici, eterne, incorporee, appunto in quanto guise del discorso divino, in sé uno come il pensiero (cfr. De dogm. Pl., l, 6, 192). Si capisce cosi come Apuleio potesse sostenere isoltre che secondo Platone due sono le essenze, le oòaEctL, dalla cui unione si genera il mondo: la prima è la condizione logica che permette di pensare la realtà, e che, perciò, dice Apuleio, è intelligibile, visibile solo all'occhio dell'intel- letto, e come tale, in quanto principio, è sempre identica a sé, e senza di cui nulla sarebbe (perciò essa è costituita da Dio, dalla materia, dalle forme delle cose o idee e dall'anima: "et primae quidem substantiae ve! essentiae primum Deum est et materiem, formasque rerum et animam": D~ dogm. Pl., l, 6, 193); la seconda, condizione della corporeità è l'estensione, intesa come il ciò che è definibile, che. trae il suo esistere da uno dei principi, la materia, e a cui crediamo perché sensibile ("la seconda sostanza non è in qualche modo che l'ombra e l'immagine della precedente," la visione fisica dell'intelli- gibile). In effetto, perciò, pur rimanendo Dio, in quanto causa delle 69    cause, princ1p10 e fine, logicamente trascendente, la realtà è ciò che scaturisce dai due termini, il limitarsi dell'illimitato, l'ordine, possi- bile a comprendersi in quanto tràducibile in termini numerici e geo- metrici. Per il resto il discorso di Apuleio conseguentemente si svolge, nella ricostruzione dell'universo e nella posizione che nell'universo ha l'uomo, sulla linea di Albino, in un commento del Timeo. Certo, la ricostruzione matematico-geometrica dell'Universo, non esclude entro i termini logici di tale ricostruzione (si veda sopra Moderato di Gades e Nicomaco di Gerasa), che, su altro piano, l'Universo, considerato nella sua esistenza, appaia come un complesso di forze, come vivente organismo tendente alla sua perfezione, al modello divino che lo tra- scende, in senso stoico-aristotelico.(donde il De mundo di Apuleio), dalla corporeità oscura, limitante, dispersione e male, al divino Uno, in una infinita serie di gradi intermed1, sempre piu puri e incorporei, anime demoniche. Esistono certe divine potenze intermedie che abitano gli aerei spazi fra la suprema volta del cielo e le infime regioni della terra, e per loro mezzo i nostri desideri e i nostri meriti arrivano sino agli dèi. I Greci li chiamano dèmoni... Essi, come dice Platone nel Convito, presiedono a tutte le rivela- zioni, ai diversi miracoli dei maghi e ai ·presagi di ogni specie... Non è fun- zione dei numi altissimi scendere in basso tra noi. Ciò spetta in sorte alle divinità. intermedie che abitano nelle aeree regioni contigue e alla terra e al cielo (De deo Socratis, 6). Io credo, sulla fede di Platone, che tra gli dèi e gli uomini si trovino certe potenze divine, intermediarie per loro natura e per loro posizione, e che mediante loro vengano operate tutte le divinazioni e i miracoli della magia. Dico inoltre che l'anima umana, specialmente quella semplice di un fanciullo, può, sotto l'azione di certi canti o di delicati pro- fumi, cadere assopita ed uscire da sé a tal punto da dimenticare la realtà presente, perdere per un momento la memoria del proprio corpo ed essere ricondotta alla propria natura, che è immortale e divina, e in questa con- dizione, come in una specie di sonno, predire il futuro... (Apologia, 43). La credenza nei dèmoni, entro i termini di una ormai lunga tra- dizione, l'interpretazione del motivo del dèmone s~ratico (si ricordi in tal senso anche il D~mone di Socrate di Plutarco), la fede nell'anima sostanza divina per sé, nel senso del Pitagora "sciamano," che tende a tornare alla patria celeste donde è venuta, quando, attraverso l'ini- ziazione si purifica dal suo imbestiamento nei corpi (cfr. Metamorfosi o Asino d'oro), sono tutti aspetti della faccia retorico-divulgativa di Apuleio. Il discorso di Apuleio si svolge in realtà, a due diversi livelli di discorso: uno piu strettamente filosofico, mediante cui egli delinea una sua certa concezione, seguendc il platonismo di Gaio, di Albino, 70    di Teone di Smirne (cfr. De Platone et eius dogmate; De mundo); l'altro retorico, entro i termini di quella concezione (cfr. Pro se de magia liber o Apologia; Metamorphoseon libri XI; Florida). Su questo secondo piano, Apuleio, che, dopo una profonda formazione retorica, ricevuta a Cartagine, ascoltato ad Atene Gaio, assunse quale propria concezione di sfondo il "platonismo," curioso di ogni aspetto culturale, scientifico e religioso del suo tempo, di ogni tipo di civiltà, ch'egli cercò sempre di ricondurre a quella sua concezione e fede, facendo uso di miti, di credenze, descrivendo riti e culti, in funzione simbo- lica, sottolineando che la magia, di cui lo si accusò, è una filosofia sacerdotale, ricorrendo ai misteri, forme religiose di purificazione; Apu- leio si mosse costantemente entro l'àmbito di quel suo "platonismo," di quella sua visione di sfondo, valida a spiegare un'unica esigenza religiosa, dispiegantesi in tempi diversi, in regioni diverse, in parti- colari credenze, riti, culti, misteri. Senza dubbio, la stessa polemica tra i platonici del n secolo, rela- tiva all'interpretazione del divino di Platone, l'interpretazione in chiave aristotelica, o quella in chiave "pitagorica," l'accettazione di certi aspetti dello stoicismo sul piano del mondo concreto, e la negazione dello stoicismo sul piano di Dio, rivelano un'esigenza comune: la pos- sibilità, o meno, appoggiandosi a Platone, di determinare la trascen- denza del divino, in forma convincente, cioè razionale, senza ricorrere a "rivelazioni speciali." Ora, relativamente a Dio, un punto appare chiaro in tutti. Tutti hanno presente da un lato il celebre testo della Repubblica (VI, 509 b, 8) in cui si sostiene che il Bene, il divino non è idea accanto alle altre idee, ma la ragion d'essere delle idee, non è un'essenza, ma qualcosa oltre l'essenza, condizione delle essenze e perciÒ superessente per maestà e potenza (oòx. oòa(~ l>V1'oc; -rou aycx&ou, ~'l-rt héx.e:tvcx njc; oua(~ 7tpe:a~E:Ltf x.od 8uvci!J.e:L u7te:péx.ov-roc;); e, dal- l'altro lato, i testi platonici in cui si dice che, perciò, quell'essenza è indicibile (&pp'r)-roc;: cfr. V I I lettera, 341), indiscorribile (n.oyoc;: cfr. T eeteto, 202 b, 6) e inconoscibile (&yvwa-roc;: cfr. T eeteto, 202 b, 6}, nel senso del conoscere proprio delle altre scienze (cfr. VII lettera, 341 c); e quei testi in cui l'uno appare non come una unità massiccia, ma unità vivente, si come il pensiero, il cui discorso, traducibile in termini mate- matico-geometrici, è lo stesso discorso della realtà, per cui quell'unità è trascendente il discorso stesso (l6gos, >..6yoc;), ma, attraverso il di- scorso, afferrabile intuitivamente, con un atto intellettivo (nus,vouc;)(cfr. Repubblica, Sofista, Filebo, Timeo, VII lettera). Sostiene Albino, e, insieme ad Albino, Apuleio di Madaura, che tre sono i principi: Dio, la materia e le idee; e tanto Albino quanto Apuleio proseguono affermando che Dio, in atto tutti gli intelligibili, è indicibile (ilpptroç), inconunensurabile (cioè indefinibile: Apuleio), e perciò perfetto (atÙ't'o-rù•IJç, autotelès; e cULUÀ~ç, aeitelès) e tutto in sé compiuto (nar.vrù..~ç, pantelès), Padre, in quanto causa di tutte le cose, incorporeo e immobile. E Severo afferma che il divino, in quanto condizione che rende pensabile tutta la realtà e tutti gli aspetti della realtà, ed è perciò non questo o quello, _ma un 't'((ti), un quid, è il tutto ('t'Ò n«v, tò pan). E cos{ ripete Massimo di Tiro (XI, 9, ed. Hobein), Arpocrazione (vedi sopra), Celso (VI, 62-66). A parte le polemiche, i· contrasti, le venature diverse, ciò che sembra comune a tutti i "platonici" del n secolo (oltre l'avversità allo stoi- cismo, relativa alla concezione del divino, non a quella del mondo), è da un lato l'aver posto che la condizione, perché sia possibile pen- sare la realtà, appunto perché tale (la si dica Dio, uno, essere, superes- senza, "ti," Bene), è di là da ogni determinazione, definizione, proprio in quanto renda possibile determinare il genere prossimo e la diffe- renza specifica, e che tale condizione è, dunque, ciò mediante cui si può dire è e non è; e che, dall'altro lato, postulato il divino come con- dizione di tutte le possibilità, come il prius logico, ad esso gnoseologica- mente si giunge passando dalla molteplicità, passando dalle molte im- pressioni sensibili, all'unità di quelle mediante il discorso, unità che è tale nell'anima, nel pensiero, per, alla ·fine, cogliere che quell'unità è lo stesso pensiero in atto, che è in quanto discorso (>.Oyoç, l&gos) ma discorso che è uno, onde l'unità è a fondamento del discorso mede- simo, e, metaforicamente, lo trascende, per cui lo si coglie intuitiva- mente, con l'intelletto (vouç, nus), come unità vivente. In altri termini, il prius logico senza di cui neppure si può pensare la molteplicità, l'unità del tutto, si coglie gnoseologicamente poi, attraverso il discorso, avendo incentrato nel pensiero la moltepliçità della immediata espe- rienza, oltrepassando il discorso, ed afferrando, mediante il nus (vouç) la postulata unità, per questo indiscorribile, indicibile, non conoscibile come conoscibili sono gli altri aspetti della realtà, incommensurabile, non afferrabile mediante ill6gos, ma, attraverso esso, con il nus, l'intelletto. In tale senso Albino è molto chiaro. Egli dice: ilpp'rj't'oç 3'la·rl xar.l véj) (LOVCjl ÀYj1t't'Ot;, ml olSn yévoç lO"t'lV om e:taot; om 3Lat~op«... ("esso è indicibile e afferrabile solo mediante l'intelletto, poiché non è né genere né specie né differenza specifica: Epit()mè, X, 4). E altrettanto chiaro è un seguace di Albino, Celso,11 vissuto nel 1 1 Della vita di Celso, vissuto, sembra, i n Egitto, nel u secolo, non sappiamo nulla. Conosciamo di lui larghi estratti di una sua opera intitolata Il vero discorso ('A>.c&ij~;).6-yoç), conservatici da Origene (185 circa-253-54), in un'opera (COtJtrtJ 72    II secolo, noto attraverso alcuni testi di lui riportati da Origene (Contra Celsum ), e, soprattutto, per la sua polemica contro I"' assurdit~" della concezione cristiana di Dio e del suo rapporto con l'uomo (cfr. sopra). Tale polemica è, per altro verso, un indice senza dubbio evidente del modo in cui, appunto, sulla linea Gaio, Albino, Severo, va inteso il "platonismo" di Celso. Dice, dunque, Celso: Dio non ha né bocca, né voce, né alcuna delle qualità da noi conosciute. Dio non ha fatto l'uomo a sua immagine, ché egli non è quale l'uomo, né assomiglia ad alcun'altra forma. Dio non partecipa né alla figura, né al colore, né al movimento, né all'essenza. E se, in realtà, tutte le cose seguono da lui, egli, evidentemente, non seJP!e se non da se stesso. Di lui non si può.dire nulla, egli non ha nome toù8è ì..6ycp Èqmc:r6t; Ècnw o.:h:6c; où8' bvO!J.ot<n6c;), poiché non riceve alcuno degli accidenti che si afferrano e si fissano con un nome (bv6!J.ot't"L xcx-r!XÀ7j7t't6v). In effetto Dio è al di fuori di ogni accidente... Come, dunque, conoscere Dio? Come apprendere la via che conduce a lui, tanto in alto? Ché, per ora almeno, è tenebra che mi getti dinanzi agli occhi, e nulla vedo distintamente. - Bisogna rispondere: Chi dalle tenebre viene condotto alla luce non può resistere al fulgore dei raggi [cfr. Repubblica di Platone, VII, 515c sgg.]... Solo quando si sia chiusa la porta dei sensi, solo quando si sia dato le spalle alla carne, e abbiate guardato in alto media~te l'intelletto (&vcx~À~~"rj'n: vcj)), solo allora vedrete Dio (in Origene, Il vero discorso, VI, 62-66, ed. Glokner)... Egli Celsum), in cui si viene sistematicamente confutalldo il Vero disc-orso. Nel Vero disc-orso, composto, sembra, tra il 178 e il 180, al tempo in cui Marco Aurelio aveva preso misure anticristiane, vedendo nei cristiani un pericolo per l'unità dello Stato (non a ca.so il Vero discorso si chiude con l'affermazione che i Cristiani verraDJlo tollerati se si deci- deranno a venire in aiuto dell'Impero). Celso mette in discussione il Cristianesimo; egli sostiene ch'esso non ha nulla a che fare con la filosofia, dimostrando, per altro, che, se mai, sul piano religioso molto piu convincente c filosofica ~ la tesi platonica, mentre illogica ed assurda ~ quella cristiana, in particolar modo la fede in un Dio che s'incarna nell'uomo e in una visione che pretende d'essere l'unica vera. Estremamente fini sono gli argomenti di Celso nel confutare le tesi cristiane. Egli dimostra una buona conosc:enza del vecchio e del nuovo Testamento e, senza dubbio, i primi tentativi di una formulazione filosofica dell'espe- rienza cristiana (primi apologisti), filosofia ch'egli decisamente nega essere tale. Che Celso stesso sia stato un platonico, non sappiamo. Certo, egli vuoi dimostrare, come dicevamo, che tra le filosofie religiose la piu convincente ·e razionalmente (non per superstizione) accettabile ~ la platonica (nell'accezione che il platonismo aveva assunto nella corrente Gaio-Albino). Niente vieta, quindi, di supporre, su testimonianza dello stesso Origene (Contra Celsum, I, 8, IO, 21; II, 60; IV, 54, 75; V, 3), che personal- mente Celso fosse un epicureo, e che al Celso del Vero discorso fosse indirizzata la dedica (a Celso epicureo) dell'.dlessandro o i l falso profeta d i Luciano, che ~ del 181 circa, e in cui Luciano, come già ne La morte di Pellrgrino, violentemente critica il Cristianesimo. Per atteggiamenti critici nei confronti del Cristianesimo, in forma retorica e non in termini filosofici e logici come ~ il ca.so di Celso, vaDJlo ricordati, oltre Luciano, Frontone (Contro i Cristiani) e Crescente (cfr. Giustino,.dpol. Il, 3; Taziano, Contra Graecos, 19). non è né intelletto, né intellezione, né scienza, ma la causa per la quale l'intelletto conosce e l'intellezione si compie, la scienza si forma e tutti gli intelligibili e la verità stessa e la stessa sostanza hanno l'essere loro: eppure egli è al di là di tutte queste cose ed è intelligibile in maniera ineffabile (ik., VII, 45). Se teniamo presente il concetto base del Dio cnsuano (unico, persona, volontà, creatore ex nihilo, che s'incarna in Cristo, in un uomo, venuto a salvare non il mondo, ma l'uomo nella sua interezza, la cui anima non è né mortale né immortale, ma immortale perché cosi vuole Dio, che tutto è dovuto ad un atto gratuito di Dio, non riducibìle a razionalità) si vede bene in che senso Celso vedesse nella concezione cristiana una concezione assurda, irrazionale, seducente uomini ignoranti e incolti, ma, in realtà, niente affatto convincente, anzi irreligiosa e atea. Per altro verso, comunque, l'idea di un Dio trascendente e Padre, per- fetto e oltre l'essere, spogliato da quelli che sembravano essere attributi antropomorfici, usati popolarmente in funzione simbolica, poteva essere ripresa entro i termini del linguaggio "platonico," insieme ad altre con- cezioni del divino, egiziane, ebraiche, siriache, in funzione di una teo- logia razionale, e, perciò, universale, che trovava i suoi termini nell'àm- bito della rielaborazione in sistema dovuta ai platonici e ai pitagorici del n secolo. Non a caso, sotto questo aspetto, Numenio,12 di Apamea, in Siria, vissuto nella seconda metà del n secolo, di origine semitica, forse ebreo, poteva da un lato sostenere che, sia pur in termini diversi, v'era un perfetto accordo tra la concezione di Platone - il Mosè che parla in attico, com'egli lo chiamò: cfr. Suda, s.v.; anche Clemente 12 Di Apamca, in Siria, Numcnio visse nella seconda mctl del n secolo. Pochis- sime c discutibili le notizie intorno a lui. Si è detto che, semita di origine, egli fosse ebreo. ~ un'ipotesi basata sul fatto che Numenio cita testi biblici e che conosce Filone l'Ebreo. Ciò non vuoi dir nulla: in questa stessa epoca la cultura ebraica, i testi biblici, ccc., erano largamente noti e citati. E poi bisogna non scordare che Numenio era di Apamea c che là testi gnostici, ebraici, della gnosi ebraica circolavano, e non solo là (cfr. Dodds, Numenius and Ammonius, in "'Enuetiens" V della Fondazione Hardt, Ginevra, 1960, p. 6).·Le testimonianze piu antiche, puntando sull'aspetto gno- seologico di Numenio, indicano Nurnenio come "pitagorico" (Clemente Alessandrino, Origene, Porfirio), le piu recenti lo indicano come "platonico" (Giamblico, Proclo). La maggior parte delle testimonianze e dei frammenti del ITcpl Tciyel&o\i (De bono) di Numenio provengono da Eusebio (Praep. ev., XI, 10, 18, 22; Xlll, 5; XIV,. 4, 5; XV, 17). Fondamentali sono anche le testimonianze di Proclo (in Tim., I, p. 303, 304; 11, p. 103). Nella sua ediZione dei.frammenti c delle testimonianze di Numcnio, il Lecmans ha cercato di ricostruire il piano del De bono, disponendo i frammenti secondo il posto che probabilmente essi avevano nei 6 libri in cui si divideva l'opera (E. A. Lec- mans, Numeniur van Apamea met Uitgave der Fragmenten, in "Mémoircs dc l'Acad. roy. dc Bclgique," classe cles lcttres, XXXVII, 2, 1937; si veda inoltre bibliografia). Oltre il De bono, Numenio avrebbe scritto: Del dissenso degli Accademici da Platone, Delle dottrine segrete in Pltllone, Del luogo, Dell'incorruttibilità dell'anima, Upupa, Sui numeri. Alessandrino, Str., l, 22 - e la sapienza mosaica - senza dubbio Nu- menio teneva presente Filone l'Ebreo,- e, dall'altro lato, che alla stessa concezione ebraico-platonica era possibile riportare - come aveva fatto Plutarco - sia la simbolica dei pitagorici, usata in funzione logico-ma- tematica, sia i riti, i culti, i misteri delle religioni egiziane e dei Brachmani, sia certi aspetti del Cristianesimo (sembra che nella vita di Cristo vedesse un simbolo del rapporto uno-mondo, cfr. Origene, Contra Celsum, IV, 51), come certi motivi dello gnosticismo e del- l'ermetismo. Occorrerà che chi ha trattato di questo argomento [del Bene] e si è espresso con le testimonianze di Platone, rimonti indietro e si ricolleghi ai 'l6goi di Pitagora; faccia inoltre appello ai popoli che salirono in fama, ripor- tandone le cerimonie, le leggi, i sacrifici culturali, compiuti in conformità con Platone, quali stabilirono Brachmani, Giudei, Magi, Egizi (De bono, in Eusebio, Praep. 'ev., IX, 7, l; fr. 9 ed. Leemans, Bruxelles, 1937). Delle molte opere di Numenio (Del dissenso degli Accademici da Platone, Delle dottrine segrete di Platone, Del Bene, Del luogo, Del- l'inco"uttibilità delfanima, Upupa, Dei numen) sono rimasti alcuni frammenti del De bono (in Eusebio, Praep. ev., XI e XV) ed alcune testimonianze e brevi testi interpretati.da Prodo, da Calcidio, da Por- firio, da Giamblico, da Macrobio (per la ricostruzione del De bono, ne:pl T4yot&ou, e pèr la raccolta delle testimonianze e dei frammenti si veda l'edizione di E. A. Leemans, in "Méin. de l'Acad. roy. de Belgique," classe cles lettres, XXXVII, 2, Bruxelles, 1937). Ciò va tenuto presente, perché condiziona il ~odo con cui è possibile ricostruire il pensiero di Numenio, relativo, appunto, alla discussione di lui sul Bene. Numenio teneva presente, come risulta dai frammenti, da un lato il testo di Pla- tone (Repubblica, 509 b) in ·cui si dice che il Bene non è idea accanto alle altre idee, ma la condizione delle essenze, dall'altro lato la tesi pla- tonica del costituirsi dell'universo per opera del Demiurgo (Timeo). Riallacciandosi al Platone e al Pitagora quali si erano venuti configu- rando nel corso del I-II secolo, in contrapposizione al Platone proble- matico e scettico qual era stato interpretato dalla media Accademia (da Arcesilao a Filone di Larissa), Numenio fa tesoro dell'impostazione teologico-allegorica di Filone l'Ebreo, e reinterpreta in questa chiave le "religioni dei popoli che salirono in fama," Brachmani, Giudei, Magi, Egizi, e motivi gnostici e ermetici (in realtà, poi, il metodo argomen- tativo di Numenio è. quello proprio dei platonici razionalisti del 11 se- colo). Numenio particolarmente si travaglia intorno al problema del rapporto tra l'uno, condizione della pensabilità del reale, condizione dell'esserci delle cose, esso Uno ed Ente e Monade perciò di là da ogni determinazione, e, dunque, ineffabile, indiscorribile, invisibile al pen- siero e in tal senso incorporeo, immobile, "inattivo" (argos, «pyoc;: fr. 21 L), increato e increante, e il mondo della generazione che, a sua volta, implica un facitore (un poièta), un principio che dia movimento e che perciò non può piu essere lo stesso primo essere perfetto che, se si muove, e tende a realizzare qualcosa, vorrebbe dire che è mancante, imperfetto. A tale concetto del Bene, ad un tempo ragion d'essere del tutto, per cui esso non è nessuna delle singole essenze, delle idee, nessuna delle cose (e in tale senso Numenio, sulla scia della tradizione plato- nica, rifacendosi al Timeo, lo chiama "padre," il "primo dio"), Nu- menio sostiene che non si giunge attraverso un salto rivelazionistico, ma di grado in grado, dall'immediata esperienza sensibile, per via ne- gativa. Non a caso cosi Numenio, alla domanda: che cosa è ciò che è ('r(8-1) lcr·n -rò !Sv: fr. 12 L)? risponde che l'è, l'ente (!Sv) non può essere nessuno dei quattro elementi, ma neppure la comune stoffa di cui gli elementi son fatti, la materia (fr. 12), ché la materia in quanto inde- finibile (!Àoyoc;) e, perciò, inconoscibile (&yv(J)cr"t"oc;), non la si può sup- porre che come un fluire, un disordine, in ciò opposta all'essere, in realtà un non-essere, che assume essere in quanto definita {ordinata) dal- l'essere. L'essere, perciò, non è né materia definita (corpo) né materia indefinita. Né corpo, né materia l'essere: senza l'essere non sarebbero né la materia, né i corpi, ché gli stessi corpi non sarebbero se non ve- nissero definiti, se di essi cioè non si dicesse che sono, se non subissero l'essere. L'essere perciò è l'incorporeo (-rò «cr&~!J4-rov), ciò mediante cui i corpi si determinano, assumono forma, cioè esistono. Poiché dunque i corpi per esserci hanno bisogno di un principio che li determini (-roti xiX&~oV't"oc; IXÙ-ro~c; l8e:t: fr. 13), tale principio non può essere corpo, altrimenti avrebbe esso stesso bisogno di un qualcosa che lo determina (di un xot-rix.ov). L'essere, dunque, è incorporeo, immobile, non si accresce né diminuisce {fr. 13), è eterno, stabile, identico a se stesso («&t XIX't"CÌ 't"IXÙ-ro) (fr. 14). Condizione perché la realtà sia, l'essere è perciò da un lato la categoria delle categorie, dall'altro lato principio assoluto, assolutamente ricco, come punto luminoso che ha in sé tutte le possibilità, come fuoco che dà fuoco senza esaurirsi nei nuovi fuochi ("un lume, acceso da altro lume, ha luce senza toglierla al precedente, ché dal fuoco di quello è accesa la materia che è in esso": Eusebio, Praep ev., XI, 18), assolutamente perfetto e perciò non avente biso- gno di nulla, immobile, "inattivo" (cfr. frr. 14-15, 21). Indiscorribile, dunque, l'Essere, esso non è visibile se non all'occhio dell'intelletto, onde di lui si può dire che è intelligibile (vol)-r6v, noetòn) (fr. 16-17). lntelligibile perché condizione degli stessi intelligibili e dei visibili, esso è, appunto, come l'intelletto, condizione del discorso e unità del discorso, trascendente il discorso medesimo e afferrabile attraverso il discorso, intuitivamente. Se dell'Essere, dunque, si può dire - sia pur per analogia - che è Intelletto e Intelligibile (il primo Intelletto e il primo Intelligibile), si può anche affermare, sulla scia di Albino, ch'esso è in atto tutte le intellezioni, ciò che dà essere, forma, a tutta la realtà, o meglio ciò per cui tutta la realtà esiste (e in tal senso esso è Bene, fonte di Bene), onde l'Essere è oltre il discorso, oltre tutto, ma avente in sé tutto. E ha in sé tutto, a cominciare dal primo sdoppiamento di sé in intel- letto e intelligibile, ove tale secondo intelletto è, metaforicamente, da un lato volto all'uno-intelletto, dall'altro lato all'obbiettivazione di sé come intelligibili determinantisi, che dànno cioè essere, forme alle cose, in una obbiettivazione.visibile, figurata, presupponente perciò l'idea estensione, la materia intelligibile. Di qui, sempre nell'Essere - pur non essendo l'Essere, che in sé, intelligibilmente, resta immobile e tutto in atto, - un terzo intelligibile, il mondo nel suo esserci, che, in quanto proiezione del secondo intelletto, intermedio tra l'intelletto in atto e tutto in sé comp~uto e la materia come fluidità, è da Numenio detto "intelletto pensato" (vouç 3totVOOO(J.€VOç, nus dianooumenos: Proclo, In Tim., 268 a-b; fr. 25 L.). In una interpolazione di testi platonici (Repubblica, Parmenide, Timeo) e in una ricostruzione del platonismo in sistema, sulla linea Gaio-Albino, veniamo cosf ad avere: l) L'intelletto in atto, luogo metafisica di tutte le idee, l'essere as- soluto e tutto in sé compiuto (Padre o Primo Dio), in cui, nella sua perfezione, non si distingue pensante e pensato, esso condizione prima del discorso, della distinzione in pensante e pensato (la superessenza della Repubblica}, afferrabile solo come principio intelligibile, come il ciò senza di cui, al quale si giunge, passando attraverso il discorso (>.6yoç), con un atto puramente mentale (vouç). "In verità non facile, ma divina via occorre per esso, e la migliore è disprezzare le sose sensibili, volgersi con vigore alle scienze, considerare i numeri, e cosf meditare questa nozione: che cosa è l'uno" (in Eusebio, Praep. ev., Xl, 22: fr. 11 L.); "gli esseri che partecipano al primo Dio, al Bene, non vi par- tecipano in nessun altro modo che con l'atto del pensare: lv (L6Vc,>.-rlj) tppovci:v " (fr. 28 L.); 2) L'intelletto secondo, ossia, entro l'inteiletto in atto, la distin- zione pensante (uno)-pensato (intelligibili), ove, appunto, gli intelligibili sono le ohbiettivazioni del pensiero, l~ forme che d~nno essere alla fluidità della materia idea opposta (il "secondo Dio," il Demiurgo buono e attivo del Timeo, nell'interpretazione del Timeo); 3) Il "pensato," ossia il mondo quale appare nel suo ordine e nelle sue leggi, obbiettivazioni dell'intelletto secondo, frutto del Demiurgo, del secondo Dio, presente alla mente, appunto, come pensato: anch'esso, dunque, terzo Dio, nell'intelletto secondo, a sua volta nell'intelletto primo. "Averndo affermato che vi sono tre dèi, Numenio chiama il primo Padre, il secondo Poieta, il terzo Poema: poiché il mondo, secondo lui, è il terzo dio. Nella sua dottrina vi sono dunque due Demiurghi, il primo dio e il secondo, e il terzo dio. è il mondo frutto dell'attività demiurgica (-rò 3l)!L~oupyoo(UVOV). È meglio infatti esprimersi cosi, che parlare come lui, in un esagerato stile tragico, di nonno(1tchrnov), di figlio (~yyovov) e di nipote (&.n6yovov)" (Proclo, In Tim., 93 a-b). Proclo, quindi, andando avanti nell'esporre le varie interpretazioni (di Numenio, di Arpocrazione, di Attico) della pagina 28c del Timeo ("noi diciamo che tutto ciò che è nato è necessariamente nato in quanto frutto di una certa causa; ma questo è difficile, trovare chi sia padre e poieta di questo universo, e quando si sia trovato è difficile esprimerlo a tutti": Timeo, 28c), sostiene che, per quanto almeno riguarda il Timeo, è ingiustificata la distinzioné fatta da Numenio tra Padre e Poieta. Proclo ha ragione, solo che, senza dubbio, Numenio, accanto al testo del Timeo teneva presente l'altro della Repubblica sopra citato, tanto è vero che proprio alludendo a 28c del Timeo, nel De bono, afferma: "Platone dice che il primo Dio è inconoscibile, e questo dice perché sa che gli uomini conoscono solo il Demiurgo, e che, di contro, il primo Intelletto, che è chiamato l'Essere stesso è a loro totalmente ignoto. ~ come se si dicesse: 'Uomini, colui che ritenete essere un Intelletto non è il primo, ma un altro ne esiste, prima di lui, piu augu-. sto e divino"' (in Eusebio, Praep. ev., XI, 18, 10-11, fr. 26L.). In effetto, per Numenio, uno solo è il mondo, il mondo nella sua realtà concreta (non a caso in un frammento, accanto ai tre dèi, Dio- Demiurgo-Mondo pensato, egli pone il mondo visibile: in Eusebio, Praep. ev., Xl, 22). Tale mondo, per chi rimane preso nell'immedia- tezza sensibile appare molteplice e disordinato. Invece, attraverso lo studio del pensiero e di come funziona il pensiero (di qui l'importanza data agli studi sul numero), il mondo appare, nel suo esserci, come dovuto all'esplicazione dell'intelletto, in cui la molteplicità si raccoglie nell'unità del discorso, e dove ciò che rimane al margine, che non è determinabile entro.i termini dell'intelligibilità, e che perciò appare irrazionale, è detto il male, l'anima malvagia, l'indefinibile materia causa del male (fr. 30 L.). In tal modo, le condizioni dell'esserci del mondo sono da un lato la materia fluida, dall'altro lato l'essere avente 78    in sé tutte le forme e termine medio l'intelletto demiurgico, uno e molteplice a un tempo, che è pensiero in quanto pensa, o~de i suoi pensieri sono l'obbiettivarsi della sua unità nella molteplicità delle idee, che si costituiscono secondo un ordine e tornano all'unità in quanto presenti all'intelletto stesso, e, perciò, in fine, allo stesso Dio primo. Esso, dunque, nella sua totalità è natura ingenerata e ingenerante, entro cui si scandisce il ritmo della natura che è generata e che genera (Intelletto secondo; pensiero-pensato) e la natura che è generata e che non genera (il mondo pensato) e la stessa materia che rimane come lo sfondo su cui si disegnano le forme intelligibili, dando luogo ai corpi, traducibili in termini di figure geometriche, mentre per quel tanto che sfugge alla determinazione e definizione non piu riferibile all'intel- letto, per cui non è obbietto pensato, diviene causa di disordine, e, dunque, male. "Dio, come anche sembra a Platone, è principio e causa dei beni, la silva [materia] dei mali" (Calcidio, In Tim., 296: test. 30 L.). Tale sembra anche il significato da dare a quei pochi frammenti della lncorruttibilità delfanima rimastici, in cui Numenio sottolinea che non vi sono, nell'uomo, due parti dell'anima o tre, ma che due sono le anime, una razionale (di origine divina), l'altra irrazionale e che perciò l'uomo nell'ordine del tutto ha una posizione mediana, riflesso di quella che è la posizione dell'Intelletto secondo, per cui all'uomo è dato, in quanto intelletto, risolvere in sé la molteplicità del mondo che nell'intellètto s'incentra e attraverso questo risalire alla con- templazione mistica del primo Intelletto, dell'Uno (cfr. Calcidio, In Tim., 197 sgg.; Porfirio in Stobeo, Ecl., l, 49, 25 a W.; Giamblico in Stobeo, l, 49, 37; l, 49, 40 W.; Proclo, In Rep., vol. Il, p. 128, ed. Kroll). In questa processione dall'Uno ai molti entro l'Uno stesso nella sua totalità, che perciò trascende i momenti stessi del suo scandirsi, per cui, ad un tempo, v'è la molteplicità, il limite, il divenire, il mondo concreto, la dualità, la razionalità e l'oscurità, l'irrazionalità, e l'unità condizione prima e termine ultimo, già gli antichi avevano veduto una delle piu ampie fonti della concezione di Plotino, tanto è vero che non poche volte Plotino fu accusato di avere plagiato Numenio (cfr. Porfirio, Vita Platini, 17). Comunque sia, Numenio insieme ad Albino (detto da Proclo, In Rep., II, 96 K., uno dei "corifei" del pla- tonismo) ebbero, com'è testimoniato dalle posteriori citazioni, una note- vole influenza nelle ulteriori sistemazioni del sapere in chiave platonica e pitagorica, e l'uno e l'altro furono ritenuti autorità incontestabili nel campo dell'esegesi platonica e pitagorica (per Albino cfr. Galeno, Sulle proprie opere, II; Tertulliano, De anima, 28, 19; Stobeo, Ecl., I, 49,37 W.; Eusebio, Hist. eccl., VI, 19, 8; per Numenio, cfr. sopra le testimo- nianze citate).    S. li Gnosi," li Scritti ermetici" e "Oracoli caldaici" a) La "gnosi." Su Numenio di Apamea si è molto discusso, non:rolo come fonte di Plotino, ma anche sul suo "orientalismo," sulla que- stione se egli fosse in realtà uno "gnostico" e sull'influenza ch'egli avrebbe avuto sulla composizione degli Oracoli caldaici. Senza dubbio lo stato assai frammentario dei testi da.lui trasmessici e, in particolar modo, certo suo linguaggio, le sue metafore, immagini, allegorie, il suo stile "tragico," come dice Proclo (In Tim., 93a sgg.), lasciano lo storico in non poche difficoltà. La questione dell'" orientalismo" di Numenio fu soprattutto impostata dal Norden (Agnostos Theos, Lipsia, 1913), il quale, puntando sul testo di Numenio, in cui si dice che Dio è totalmente inconoscibile (7tetV't'tX7tctow &yvoou!Wioç), sosteneva che Numenio fu un saggio "fortemente penetrato di orientalismo" (Agn. Th., p. 72), che si sarebbe appoggiato su appelli soteriologici di profeti orientali ambulanti al servizio della propagazione della vera gnosi di Dio, attestati anche presso gli Gnostici (Norden, cit.). Studi piu appro- fonditi sia sul piano della tradizione platonico-razionalista (Gaio-Albino- Apuleio), sia sul piano della gnosi, dell'ermetismo, degli oracoli caldaici, hanno chiarito come, almenò per quest'epoca, sia difficile operare un taglio netto tra motivi cosiddetti occidentali e motivi cosiddetti orientali (comunque riferibili solo al mondo egiziano, ebraico, persiano). In effetto ci troviamo di fronte ad una reciprocità di scambi, che costi- tuisce alla fine una sola e comune base culturale, ove le differenze stanno piuttosto nell'un modo o nell'altro di risolvere il rapporto tra il divino e il mondo, nella capacità, o meno, di cogliere l'Essere supremo. In tal senso sembra che lo gnosticismo sia pit,l diffuso di quel che si riteneva allorché si parlava di uno gnosticismo cristiano, eretico nei con- fronti del cristianesimo autentico, anch'esso, in realtà, un tipo di gnosti- cismo, diverso, certo, da altri gnosticismi, si come lo gnosticismo di Numenio è diverso da quello di Platino, a sua volta critico di un tipo di gnosi. Sotto questo aspetto sembra esatta la polemica del Festugière contro gli "orieotalisti." "Non vedo nulla qui che confermi l'opinione di Norden, secondo il quale la nozione 'orientale' del Dio totalmente inconoscibile degli gnostici, di Numenio, e piu tardi di Proclo, si oppor- rebbe alla nozione platonica di un Dio !pplj't'ot; xcxt v<;> (.L6VCf> >.1)'7t'T6cx (afferrabile solo con l'intelletto) secondo la formula di Albino (Epi- tomè, 10). Nessuna differenza, secondo me, su questo punto, tra Albino e Numeoio. Albino insegna, per giungere a Dio, il metodo d' &q>«Epca~ ('Il primo modo di concepire il punto astraendolo dal sensibile, avendo prima concepito la superficie, poi la linea, infine il punto': Albino, Epi- tomè, 10). Questo stesso metodo è implicito nel tema dell' lP"J(.L(ç 80    (eremla: solitudine) in Numenio: Dio è lpl)!J.Oc; (éremos) nel senso che sfugge ad ogni determinazione, che nessun concetto finito per- mette di avvicinarlo: non vi è nulla che gli somigli o gli si avvicini: egli abita il deserto dello spirito. E allora, poiché non lo si può né definire, né nominare, Dio sfugge alla conoscenza razionale [discor- siva]. Ma al di sopra del Myoc; (l6gos) vi è il vouc; (nus), che, preci- samente, in tutta la tradizione platonica, è una facoltà soprarazionale che permette di vedere, di toccare il divino" (Festugière, La révélation d'Hermès Trismégiste, IV, pp. 132-133, Parigi, 1954). Se il Festugière ha ragione - e sulla sua stessa via si è posto il Dodds: N umenius, in Les sources de Plotin, "Entretiens sur l'antiquité classique," t. V, 1957, Ginevra, 1960, pp. l sgg. - nel riportare Numenio sulla linea di Albino, può essere altrettanto pericoloso, storicamente, sostenere la non influenza di certi motivi orientali, perché si viene cosi ad opporre sem- pre la concezione orientale (come se esistesse in blocco una concezione orientale) a quella platonica, come se davvero l'interpretazione di Antioco di Ascalona e poi quella di Gaio, di Albino, e cosi via, sia l'unica e vera interpretazione di Platone, e non si dia il caso che quelle interpretazioni di Platone siano dovute a precise esigenze, precisabili storicamente, simili, almeno entro una diversa atmosfera culturale, alle esigenze che hanno dato luogo alle soluzioni gnostiche, ermetiche, ora- colari, magiche, cristiane. Il Dodds ha ora, nella sua magistrale rela- zione su Numenio, tenuta agli ~Entretiens sur l'antiquité classique" del 1957, chiarito molto acutamente tutte le difficoltà e le possibili solu- zioni relative a Numenio, riproponendosi anche il problema dei rap- porti di Numenio con lo gnosticismo e della sua possibile influenza sul- l'autore degli Oracoli Caldaici. Il Puech, storico dello gnosticismo, e che un tempo, nel 1934 (Mélanges Bidez), sulla scia del Norden, soste- neva l'orientalismo di Numenio, ha finemente detto, nel corso della discussione sulla relazione. del Dodds: "Quanto a Numenio, bisogna dire, credo, che vi è in lui, in partenza, uno sforzo di sistemazione del pla.tonismo, come, del resto, già indicavo nel mio articolo delle Mllan- ges Bidez... Senza dubbio parlai allora, nel 1934, impressionato dal- I'Agnostos Theos del Norden, di influenze orientali: non si sfugge al proprio tempo. Oggi mi sembra questione piu delicata definire ciò che esattamente ricoprono, nell'epoca considerata, i termini 'Oriente' e 'Occidente.' Eppure bisogna porsi il problema: cosa ha condotto Nume- nio a distinguere un primo e un secondo Dio? ~questo che differenzia il suo atteggiamento da quello del platonismo medio? Il primo Dio, per il platonismo è un Demiurgo. Si può derivare l'opposizione tra il Demiurgo e il Bene da una interpretazione sistematica del platonismo,  riallacciare esclusivamente l'una all'altra mediante una specie di conti- nuità dialettica? Si sottolinei che simile opposizione può prendere, e prende, nello gnosticismo, forme varie, distinte da quelle che ha in Marcione... Ad ogni modo, non v'è negli gnostici e in Numenio un problema analogo? Problema, d'altra parte, legato a quello della Mate- ria come male assoluto e a quello della condizione umana: si tratta di scaricare Dio dalla responsabilità del Male. Conseguentemente si imma- ginano degli intermediari tra il Bene supremo, o il Dio sommamente buono, e la Materia, o il mondo: delle ipostasi, degli arconti, degli angeli il cui capo sarà alla fine assimilato a Yavè, il dio della Genesi e della Legge. Quali erano, infatti, le entità suscettibili di assumere la responsabilità della creazione? Necessariamente, o il Dio della Bib- bia ebraica (ad un tempo de~iurgo e iegislatore), o il demiurgo del Timeo. In Numenio e negli gnostici v'è la stessa concatenazione di pro- blemi. Plotino, attaccando gli gnostici, attacca, sembra, ad un tempo Numenio. Al principio del trattato II 9, al capitolo l, se la prende~.come ha mostrato Dodds, con il vou~ lv i)aux_(qr: (l'intelletto in quiete), con il vou~ o con il.&eb~ &pyo~ (l'intelletto, o il dio inattivo, o 'pigro') di Numenio, ma la sua critica è volta anche, e insieme, contro gli gno- stici... Evidentemente, il problema dell'influenza che la gnosi ha potuto esercitare su Numenio è, come quello dello gnosticismo stesso, piu facile a trattare fenomenologicamente che storicamente" (Puech, in Les Sour- ces de Plotin, Entretiens, cit., pp. 36-38). Il Puech si rifà qui alla tesi oggi particolarmente sostenuta sullo "gnosticismo" e da lui stesso chiaramente espressa (cfr. H. Cb. Puech, La Gnose et les temps, "Eranos-Jahrbuch," 1951, B. XX, Mensch u. Zeit, Zurigo, 1952). Gli studiosi si sono oggi resi conto che lo "gno- sticismo" non può piu essere compreso solo,come un'eresia del cristia- nesimo (posteriore e interna al cristianesimo), come si riteneva basan- dosi sui testi gnostici trasmessici dai cristiani (Clemente di Alessandria, Origene, lreneo per gli gnostici Basilide e Valentino; Tertulliano per Marcione), in polemica con l'interpretazione gnostica del cristianesimo, ma che esso fu un movimento, un fenomeno religioso, molto piu com- plesso ed esteso, certo anteriore al cristianesimo, un modo di intendere, un tipo di esperienza religiosa che investf di sé sia tradizioni, misteri, miti greci, sia certe filosofie ellenistiche (in particolare il "platonismo"), sia la religione ebraica e poi la cristiana, sia miti e religioni di Oriente, diversificandosi a seconda, appunto, di quale fu l'ambiente e la cultura in cui venne operando. Oggi, dunque, non si vede piu nello "gnosti- cismo" né una "ellenizzazione del cristianesimo" (cfr. Harnack, Lehr- buch d. Dogmengeschichte, 1886; Buonaiuti, Lo gnosticismo, Roma, 82    1907; De Faye, Gnostiques et gnosticisme, Parigi, 1925; Burkitt, Cliurch and Gnosis, Cambridge, 1932), né, di contro, un'assoluta derivazione dalla religione egiziana, da quella iraniana e dai miti babilonesi (cfr. W. Bousset, Hauptprobleme der Gnosis, che ritiene il complesso delle figure gnostiche, Dio ignoto, arconti subordinati, il mondo male, e cosi via, di origine persiano-babilonese; Reitzenstein, che nel Piman- dro, Lipsia, 1904, ritiene lo gnosticismo di origine egiziana, rintrac- ciando forti affinità con l'ermetismo, e che nel Das iranische Erlosungs- mysterium, Bonn, 1921, sostiene la derivazione iraniana dello gnosti- cismo). Ma neppure, infine, si vede nello gnosticismo un mèro sincre- tismo, come hanno sostenuto W. Hohler (Die Gnosis, Berlino, 1911) e H. Leisegang (Die Gnosis, Lipsia), aspramente combattuti da Jonas (Gnosis und Spatantiker Geist, Gottinga). Il termine gnosticismo è usato in senso molto piu lato, e il problema gnostico si pone oggi in un modo nuovo. Lo gnosticismo appare ormai come un fenomeno generale della storia delle religioni la cui larghezza oltrepassa infinitamente i limiti e il terreno del cristianesimo, queste non sono eresie immanenti al cristianesimo, ma i risultati di un incontro e di un congiungimento tra la nuova reli- gione e uno gnosticismo che esisteva prima.di essa, che era inizialmente ad essa estraneo. Lo gnosticismo ha rivestito in alcuni casi forme cri- stiane o forme che, con il trascorrere del tempo, si sono sempre piu profondamente cristianizzate, al modo stesso che in altri casi ha preso forme pagane adattandosi alle mitologie orientali, ai culti dei misteri, alla filosofia greca, o alle scienze e arti occulte. Per quanto queste forme nelle quali si è manifestato storicamente lo gnosticismo siano state di- verse, esso dev'essere considerato un fenomeno specifico, una categoria o un tipo distinto del pensiero filosofico religioso: si tratta di un atteg- giamento che ha un andamento, una struttura, leggi proprie che l'ana- lisi, pervenuta· alla comparazione, può ritrovare sostanzialmente iden- tiche e con le medesime articolazioni alla base di tutti i diversi sistemi che noi possiamo, proprio in ragione di questo fondamento o 'stile' comune, raggruppare sotto una stessa etichet1:a chiamandoli sistemi gnostici" (Puech, La Gnose et le temps, cii:., p. 79). Si è cercato cosi di vedere lo "gnosticismo" come un tipo di espe- rienza religiosa, mediante cui, di volta in volta, a seconda degli ambienti, delle religioni o delle filosofie, si sarebbero riportati quei miti, quelle religioni,- quelle filosofie a quell'unico tipo di "gnosi" (conoscenza), in una trasformazione di quelle stesse filosofie, religioni, miti: fossero questi ultimi originari del mondo greco-orientale (misteri) o propri dell'Egitto o dell'Iran. Presi da queste considerazioni bisogna; per altro, non vedere, ovunque, influenze gnostiche - o, per lo meno, di un certo gnosticismo - tenendo presente che, nonostante le scoperte piU, recenti di alcuni testi gnostici (lo gnosticismo prima era conosciuto solo attraverso i testi riportati dagli autori cristiani in polemica), le posizioni gnostiche da noi conosciute sono piuttosto tarde e risalenti al solo periodo del primo cristianesimo (1-n sec. d. C.) ed in relazione con esso. In realtà, sia i manoscritti manichei scoperti a Medinet Madi (Egitto), nel 1930, sia i tredici papiri contenenti 48 libri gnostici tra- dotti in copto dal greco, scoperti a Nag Hammadi (Egitto), nel 1946, piu che allargare nel tempo le nostre conoscenze sullo gnosticismo, hanno da un lato confermato l'esattezza delle citazioni di testi gnostici da· parte dei cristiani, dall'altro lato (in particolare gli scritti di Nag Hammadi che appartengono alla setta dei Setiani) lo stretto rapporto tra i Setiani e la Palestina e i Setiani e certi aspetti dell'ermetismo di Alessandria. Non solo, ma ritrovati tra questi ultimi testi tre dei libri ricordati da Porfirio contro i quali Plotino scrisse il suo trattato contro lo gnosticismo (Il, 9), meglio si vedono le ragioni che mossero sia un platonico-razionalista tipo Plotino, sia una posizione come quella cri- stiana a respingere la concezione gnostica come assurda, l'uno vedendo nello gnosticismo l'assoluta impossibilità di una deduzione logica del- l'universo - che per altro verso lo portò anche a polemizzare contro la concezione cristiana di Dio -, l'altra vedendo nello gnosticismo e nella sua interpretazione della figura del Cristo, un'ellenizzazione della pro- pria visione, riduttrice dd nuovo a vecchie posizioni, annullanti la storicità di Gesu. Per meglio intendere come si venne delineando nel I I - I I I secolo da un lato la "filosofia cristiana" in senso stretto, dall'altro lato il movi- mento neoplatonico, interessa ora brevemente e schematicamente - con ciò perdendo le molte sfumature - esporre la posizione degli gnostici. Innanzi tutto va precisato il significato assunto dal termine "gnosi" (conoscenza), entro l'àmbito delle sette gnostiche fiorite nel II secolo. Pur mantenendosi il significato originario e comune di "conoscenza," il termine è usato per indicare un particolare tipo di conoscenza. Non si tratta né di una conoscenza cui si giunge mediante il discorso, le normali vie della ragione, né di un atto intuitivo della mente, che rivela un principio discorsivamente analizzabile, bens(di un'improvvisa illu- minazione con cui ciò che si crede per fede viene, appunto, conosciuto e mediante cui si salvano l'uomo e le cose, per loro natura, in quanto esistenti, radicalmente ammalati, in preda al male. Si tratta, dunque, di una conoscenza soterica (salvificante), assolutamente gratuita, riser- vata ai soli eletti, agli iniziati, a chi abbia avuto, appunto, rivelata la 84    "gnosi," agli "gnostici," ai "pneumatikòi" (spirituali: in chi t: passato il "soffio," lo pneuma divino), come dirà Valentino, per natura supe- riori agli "psichici" (coloro che hanno SI un'anima, ma non lo spirito, per i quali è valido il co~flitto morale e la "fede") e agli "hylici" (i materiali: coloro che sono per natura presi dal corpo e dalla materia, dal male). Solo tale tipo di "gnosi," salvando, risolvendo in sé la fede, svela "chi fummo, che cosa siamo diventati, dove eravamo, da che cosa siamo riscattati, cosa ela rigenerazione" (in Clemente Alessandrino, Excerpta Theodoti, 78, 2, ed. Sagnard, 1947). In secondo luogo va detto che tale significato dato alla "gnosi" fun- ziona quando si tenga presente il radicale pessimismo che emerge da tutti i testi gnostici da noi conosciuti. Se solo l'Essere (Dio) in quanto Essere è perfetto e tutto in sé compiuto e perciò Bene, il mondo, tutto ciò che esiste non può essere l'Essere, ché altrimenti si identificherebbe con lui; il mondo, d'altra parte cosi pieno di mali ("avendo assistito a cose cosi orribili, cominciai a domandarmi quale ne fosse la causa, quale il principio, chi in tal modo tramasse contro gli uomini... No, certo, Dio": Valentino, in Contra Marcionitas, in Patrol. graeca, VII), non può essere frutto di Dio né sua emanazione, ma la manifestazione di un altro principio, ·di un principio decaduto da Dio, ribelle a Dio, e perciò opposto a Dio e che, dunque, è il Male. Esso, in quanto si rivela, plasma il mondo, il quale mondo è perciò male. Dio, dunque, è al di là del mondo, non ha prodotto il mondo, non è il reggitore del mondo, e, dunque, non può essere conosciuto né dal mondo, né attra- verso il mondo. Attraverso il mondo, opera del male, si coglie piuttosto il male che Dio, il facitore del mondo, il principe delle tenebre, che imprigiona nel suo costituirsi tutta la realtà in leggi meccaniche e neces- sarie, da quelle che regolano il firmamento e i corpi celesti, a quelle stesse che, a loro volta, determinano i destini terreni, i fati umani. "La regolarità appare allo gnostico come una ripetizione monotona e opprimente; l'ordine e la legge (il n6mos fisico e morale) come un giogo insopportabile... Il firmamento, i corpi celesti, in particolare i pianeti che presiedono al Destino, alla fatalità, sono esseri malvagi, sono la sede di entità inferiori, come il Demiurgo e gli angeli creatori o di dominatori demoniaci dalle forme bestiali: gli 'Arconti.' In una parola l'universo visibile, da divino che era, diviene diabolico. L'uomo vi soffoca come in una prigione, e, lungi dall'essere la manifestazione del vero Dio, porta il marchio della sua infermità e della sua perversa origine" (Puech, cit., p. 85). Si vede bene, allora, come solo la "gnosi" spezzi la.catena della necessità e del fato, liberi, salvi dal male, affranchi da ogni legge (morale e fisica), congiungendo l'uomo a Dio, e come solo gli "gno- stici," coloro che sono stati eletti, possano essere maestri di conoscenza e siano la "potenza di Dio," il quale Dio, dunque, resta di là da ogni normale conoscenza, è "ignoto," "nascosto," "straniero," "abisso," "statico," "ozioso" (non nel senso che è indiscorribile e inattivo il Dio di certi platonici); solo gli gnostici, dunque, lo vedono, di una visione che è rivelazione (gnosi). Essi, dunque, potranno insegnare agli altri come si è strutturato il mondo, in che consista il male, quali pos- sano essere le pratiche per salvarsi, come l'anima possa riaffiorare a Dio. Entro i termini di una concezione religiosa, nella ricostruzione del tutto, si poteva benissimo, sia pur in un rovesciamento del concetto di ordine e del mondo, rivelazione del divino, usare, rotti dai loro contesti, frasi e passi di Platone, degli stoici, dei misteri, dei pitagorici, delle tradizioni magico astrologiche di origine iranica, degli allegorismi ebraici, di certe interpretazioni ermetiche dell'universo, reinterpretati in funzione di tale concezione. Si veniva a costituire, cosi, insieme a quella visione religiosa, a quella "gnosi," una religione, un complesso di riti e di culti, mediante cui gli eletti, gli gnostici, i pneumatici, si fanno salvatori, hanno capacità di agire sugli dèi e sui dèmoni, sugli spiriti del male, sugli astri demoniaci che stringono gli uomini nei loro destini (magia e teurgia), che dominano il mondo, per asservirli a se stessi, rompendo la catena del mondo. Fenomeno assai diffuso, certo la "gnosi" non si riduce a questo; dal n secolo in poi, veniamo ad avere una serie di sette, di forme diverse di "gnosi," difficilissime ad individuarsi e che soprattutto inte- ressano lo storico delle religioni. Ma, ancora, _va sottolineato un aspetto, quale chiaramente risulta dai documenti che abbiamo, e cioè come, almeno in principio, il Cristianesimo nel suo incontrarsi con gente che gnosticamente sentiva sé come portatrice della "potenza di Dio," po- tesse benissimo essere assunto come una delle posizioni gnostiche e potesse essere interpretato in chiave gnostica, si come, per altra via, poteva essere interpretato entro i termini della concezione di Filone l'Ebreo. E qui pensiamo allo sviluppo di una corrente del pensiero gno- stico, quale si rivela chiaramente attraverso ciò che ci è detto di Simon Mago, di Menandro e di Saturnilo di Antiochia, e dei loro presumibili successori, Basilide, Valentino, Marcione, forse Bardesane, da cui, pro- seguendo fin verso il vn secolo, si vennero costituendo gruppi diversi e molteplici (Ofiti o Naasseni, ossia "serpentini" in greco e in ebraico, "gnostici" veri e propri, Setiani, Arcontici, Audiani, e Basilidiani, Va- lentiniani, Marcioniti, Bardesaniti e cosi via). Particolarmente interessante è a questo proposito il racconto di 86    Simon Mago/3 riferito dagli Atti degli Apostoli. Il diacono Filippo "arrivato alla città di Samaria predicava loro Cristo. E la moltitudine concordemente prestava attenzione a quello che diceva Filippo, ascol- tandolo e vedendo i miracoli che faceva, poiché da molti, che avevano spiriti immondi, questi uscivano, gridando ad alta voce. E molti para- litici e zoppi furono sanati. Per la qual cosa fu grande allegrezza in quella città. Ma un certo uomo chiamato Simone stava già da tempo in quella città, esercitando la magia, e seduceva la gente di Samaria, spac- ciandosi per qualche cosa di grande: e tutti gli davano retta, dal piu piccolo al piu grande, e dicevano: questo uomo è la potenza di Dio [non va qui scordato che nel Vangelo di Luca l'angelo dice a Maria: 'Lo spirito santo scenderà sopra di te e la potenza dell'Altissimo ti coprirà con la sua ombra': Luca, l, 35],·la potenza di Dio che si chiama grande. E lo ubbidivano perché da molto tempo li aveva ammaliati con le sue magie. Ma quando ebbero creduto a Filippo, che evangelizzava loro il regno di Dio, uomini e donne si battezzarono nel nome di Gesu Cristo. Allora anche Simone credette, e battezzatosi divenne intimo di Filippo. E osservando i segni e i miracoli grandi che seguivano, usciva fuori di sé per lo stupore" (Atti degli Apostoli, VIII, 5-13). Venuti, poi, da Gerusalemme a Samaria Pietro e Giovanni, inviati dagli Apostoli a far discendere in quei di Samaria lo Spirito Santo con l'imposizione delle mani, Simone offerse agli Apostoli denaro dicendo: "Date anche a me questo potere, che a chiunque imporrò le mani riceva lo Spirito Santo." Pietro gli disse: "Il tuo denaro perisca con te, poiché hai giu- dicato che si acquisti con il denaro il dono di Dio" (Atti Apostr, id.). 13 Di Simone,. detto Mago, nato a Gitton, in Samaria, vissuto nel 1 secolo d. C., non sappiamo se non ciò che dicono i primi scrittori cristiani. Secondo le Omelie pseudo clementine Simone avrebbe studiato in Alessandria, dove anche avrebbe appreso le arti della magia e si sarebbe accostato alle interpretazioni di Filone l'Ebreo ("la menzione di Alessandria, il centro della scienza e della filosofia greche di quest'epoca, vtiol certo sottolineare le intime relazioni con la saggezza greca e con la scienza giudeo-ellenistica": Leisegang, cit., p. 49). Secondo le Ricognizioni, Simone, tornato in Samaria, avrebbe aderito alla setta che Dositea vi aveva fondato dopo l'esecuzione di Giovanni Battista, setta costituita di trenta discepoli (uno per ogni giorno del mese) e di una donna, chia- mata Luna o Elena; su tutti presiedeva Dositea, detto l'hestòs, il supremo, rappresentante• di Dio. Secondo Giustino (Apol. l, 26), Simone si sarebbe recato a Roma al tempo del- l'imperatore Claudio: "Aiutato dai dèmoni, fece prodigi di magia. Fu preso per un Dio e, come a un Dio, gli fu eretta una statua, nell'isola tiberina, tra i due ponti con la seguente iscrizione latina: Simoni deo sancto; quasi tutti i Samaritani e alcuni di altre nazioni lo riconoscono e lo adorano come loro prima divinià; una certa Elena, che lo accompagnava in tutti i suoi viaggi, e ch'era prima vissuta in un postribolo, passa per essere la sua prima Ennoia..." Di una sua opera, La grande rivelazione, lppolito ha con- servato alcuni testi (lppolito, Philosoph., VI, 7 sgg.). Poco o nulla sappiamo dei due discepoli diretti di Simone, Menandro della Samaria (cfr. Giustino, Apol. l, 26; Ireneo, Haeres., I, 23, 5) e Saturnilo (cfr. Ireneo, Haeres., 24, 1-2; Ippolito, Philos., VII, 28; Epifanio, Panar., 23, 1-2; Tertulli"ano, De anima, 23; Filastrici, Haeres., 31). Dopo il pentimento di Simone, gli Apostoli tornarono a Gerusalemme. Il racconto è molto indicativo. Simone è un uomo, che, prima dell'in- contro con i Cristiani, ha già in sé la "potènza di Dio," che incen- tratosi con gli "inviati" del Signore, si sente loro vicino, anche se da essi respinto, e si fa cristiano. ~ stato detto che questo "racconto riflette in piccolo la storia della gnosi eretica. Essa esisteva prima del Cristia- nesimo, si è fatta cristiana, i cristiani l'hanno respinta, ma essa pretende rimanere cristiana e passare per tale" (H: Leisegang, La gnose, trad. frane., Parigi, 1951, p. 49). E ciò, si può aggiungere, era possibile per il fatto che lo stesso Cristianesimo appariva come un tipo di "gnosi," par- ticolarmente negli ambienti della "gnosi" ebraica e dell'ebraismo elle- nizzato di Alessandria (si veda sempre Simon Mago e la sua vicinanza, nell'interpretazione allegorica del Vecchio Testamento, a Filone l'Ebreo). Simon Mago e, sulla sua scia, Menandro e Saturnilo, vedono nella rive- lazione del Cristo la "gnosi," per cui cercano di innestare il Cristo, ve- nuto a salvare l'uomo, entro i limiti della visione "gnostica" dell'Uni- verso, ove la redenzione umana di Cristo si trasforma in redenzione cosmica, e dove accanto agli elementi dell'interpretazione allegorica della Bibbia, giuocano non pochi elementi tratti dalle filosofie elleni- stiche (platonismo, pitagorismo), dai misteri greci, egizi, iranici, anche se, come abbiamo visto, se ne rovescia il significato, per ciò che riguarda il rapporto Dio-mondo, Dio-anima, particolarmente impostato dalle filo- sofie e dai misteri greci. Per Simon Mago la radice del grande albero dell'Essere, veduto in sogno da Nabuccodonosor (Daniele, IV, 7 sgg.), è il "divorante fuoco" del Deuteronomio, "tesoro del visibile e dell'intelligibile," esso Dio Padre, Yavè. Da tale "fuoco," uno e in sé conchiuso, si genera una serie di coppie. Essendo esso pensiero e parola, le prime coppie, enti a Dio coeterni (eom), sono Intelletto (N'iis) e Riflessione (eplnoia), e, quindi, voce e nome, ragienamento (loghism&s) ed esigenza (enthy- mesis). Da essi scaturisce il pensiero buono (èunoia) del padre, che, a sua volta, produce gli Angeli che dànno realtà a tutte le cose. Solo che gli Angeli, affermandosi, si distaccano dall'Uno padre, facendo, allegoricamente, prigioniera tunoia, la quale si determina in un corpo di donna, subendo una serie di trasformazioni (è stata Elena di Sparta e infine una prostituta siriana). Il corpo, dunque, la materia sono il frutto dell'orgoglio degli Angeli, del pensiero distaccatosi dalla radice prima. Il Padre, allora, per recuperare e liberare tunoia si manifesta in nuove forme, in Gesu, nello Spirito Santo e in Simone stesso, me- diante cui si salvano coloro che il Padre ha scelto (gli eletti), indipen- dentemente dalle opere e dalle azioni umane, tutte in sé malvage e ribelli. Dio, attraverso Gesu, lo Spirito Santo e Simone, è venuto a salvare il Pensiero, non l'uomo, la realtà molteplice, che ritorna una nel pensiero uno di Dio, nell'unità del fuoco primo e ultimo (per lo scritto, La grande rivelazione, attribuito a Simone, e per i frammenti da cui si è ricavato quanto sopra cfr. Ippolito, Philosophumena, VI, 9 sgg.; lreneo, Adv. haeres.; Ricognizioni, Il, 7 sgg.; Omelie pseudo Clementine, II, 22 sgg.; San Giustino, Apologia prima, 26). Cosi, anche per Menandro e Saturnilo di Antiochia, seguaci di Simone, non del Dio ignoto e tutto in sé compiuto (donde sono scaturiti gli angeli, gli arcangeli, le potenze e le. dominazioni) sono frutto il mondo e gli uomini, ma degli angeli che, oramai lontani da Dio e dalla sua imma- gine, hanno, affermando se stessi e quindi ribellandosi a Dio, costituito malamente le cose e gli uomini, che sono quindi in parte buoni e in parte cattivi e demoniaci, e che non si salverebbero senza la gnosi dovuta al Cr!sto, il quale, ingenerato e incorporeo non si è manife- stato.come un uomo, ma come il /Ogos. "Gli angeli hanno fatto due specie di uomini, i buoni e i cattivi: poiché i dèmoni aiutano i malvagi, il Salvatore si è manifestato per annientare cattivi e dèmoni e salvare i buoni. Il matrimonio e la generazione [cioè la moltiplicazione degli uomini] sono opera del diavolo..., il quale, l'ultimo degli angeli, è il nemico incarnato dei precedenti- angeli e del Dio degli Ebrei" (Ireneo, Adv. haereses, I, 24, 2). Piu a un dramma cosmico, che non di persone, come era per Satur- nilo, tornano Basilide e il piu notevole dei cosiddetti gnostici eretici del n secolo, Valentino. Basilide di Alessandria,14 morto nel 138 circa (avrebbe scritto 23 o 24 libri di Esegesi al Vangelo, Incantagioni, un proprio Vangelo), invocate le rivelazioni di ignoti profeti, come Ham e Barcabba, rifacendosi a Pitagora e al mitico Ferecide, pone al principio un Dio ignoto, unico, invisibile, incomprensibile e innominabile, che ha in sé tutte le possi- bilità, i semi di tutto (lo Yavè degli ebrei, il Crono degli Orfici). Pura luminosità Dio, da lui in principio prolificano tre figli: il primo figlio, che, come raggio di luce che si riflette nella fonte luminosa da cui proviene, rimane in Dio; i l secondo figlio, che illumina le altre H Forse discepolo di Menandro (vedi sopra), Basilide insegnò ad Alessandria tra il 120 e il 138 circa, sotto Adriano e Antonino Pio. Secondo i basilidiani egli avrebbe rice- vuto la sua dottrina da un certo Glaucia, interprete di San Pietro. L'insegnamento di Basilide fu proseguito dal figlio lsidoro. Di un Vangelo di Basilide e dei suoi Commen- tari (in 23 o 24 libri) restano alcune citazioni; avrebbe composto delle Odi. Per i fram- menti di Basilide dr. Acta Arche/ai et Manetis, c. 55; Clemente Alessandrino, Stromala, IV, 12, 83, 88; III, l, 1-3; cfr. anche l'esposizione del pensiero di Basilide ad opera di lppolito, Philor., VII, 20 sgg.; Ireheo, Han-er., I, 24, 6. 89    semenze, ritornando quindi in Dio; il terzo figlio.che rimane a fof\damento delle semenze. Dio e le sue tre filiazioni costituiscono un tutt'uno, la potenza di tutto, rimanendo Dio sempre tutto in atto, per cui tra Dio e il resto della realtà vi è come un limite, un passaggio proibito, un orizzonte invalicabile, detto da Basilide "sfera solida" (steréoma). L'universo non è Cf?Stituito da Dio, ma da un nuovo essere 'scaturito da uno degli infiniti semi di Dio, il "grande Arconte," inferiore ai tre primi figli, ma simile al Padre per potenza, onde egli diviene principio di una serie di filiazioni intermedie tra la "sfera solida" e la sfera della luna; l'ultima di queste divinità è il Dio degli Ebrei che ha sede, appunto, nella lulfa. Egli quindi, avendo in sé il riflesso della potenza divina, trovandosi al limite della materia caotica, al di sotto della luna, ha costituito questo mondo e l'uomo. L'orgoglio del primo Arconte, che, separato da Dio a causa della "sfera solida," afferma se stesso, opponendosi a Dio, si riflette su tutta la sua filiazione fino al Dio degli Ebrei, che proclama sé unico e vero Dio. Il primo figlio di Dio, allora, l'unico che ha la conoscenza ("gnosis") autentica di Dio, si rivela al primo Arconte, che, convinto dell'errore, in cui era caduto per ignoranza, conoscendo il vero Dio, riflette a tutti i cieli e alla sua filiazione tale rivelazione, e tutti rientrano nell'ordine, finché un nuovo figlio di Dio, parola di Dio, come Dio eterno (eone), il Cristo, riscatta, rivelando la vera "gnosi" alla terra e all'uomo, l'opera del Dio degli Ebrei, abrogando la vecchia legge, e mediante sé e la "gnosi," condu- cendo l'uomo al Dio primo. Tale, sembra - le fonti, polemiche e in gran parte discordi, non permettono, in realtà, una ricostruzione esatta -, la visione di Basilide. Valentino/5 originario dell'Egitto, formatosi nell'ambiente religioso 15 Originario dell'Egitto, Valentino stesso sostiene d'esSere stato discepolo di un certo Teoda, diretto ascoltatore di San Paolo. Dopo aver predicato in Egitto, sappiamo che Valentino fu in Roma, prima sotto il vescovo Igino, poi sotto il vescovo Aniceto (dal 135 al 160 circa). Dopo aver rotto con la Chiesa, dalla quale fu cacciato, Valentino si ritirò in Cipro dove fondò una propria scuola. Di lui si citano lettere, omelie, salmi, e due opere Le tre tlature e il Vangelo della verità. Sulle fonti per ricostruire il sistema di Valentino, cfr. sopra, il testo. Dopo Valentino la sua scuola si sparse in tutto l'im- pero.. Tra i valentiniani orientali si citano: Marco, che insegnava in Asia Minore verso il 180, e di cui sappiamo qualcosa attraverso Ireneo; Teodoto, di cui abbiamo riferiti alcuni testi in Clemente Alessandrino, Excerpta ex scriptis Theodoti; Bardesane, nato ad Edessa nel !54, dove morl nel 222 circa, autore, sembra, di centocinquanta salmi con relative melodie, e di un libro Sul.destino (ritrovato in siriaco: cfr. ediz. F. Nau, in Patrologia syriaca), che, in realtà, fu composto da un suo discepolo, Filippo, in cui si vuoi dimostrare che gli astri non negano affatto la libertà degli uomini; Armonio, figlio di Bardesane. Tra i valentiniani che avrebbero predicato in occidente, si citano: Secondo, Eracleone (il miglior discepolo di Valentino, fiorito tra il 155 e il 180, e di cui si con- servano una quarantina di frammenti, estratti da un suo commentario a San Giovanni), 90    di Alessandria al tempo dell'imperatore Adriano (117-138 d. C.), cri· stiano dapprima, dopo il suo soggiorno a Roma (136-166), ruppe con la Chiesa. Visse, quindi, in Oriente e fondò a Cipro una propria scuola. A parte pochi frammenti, tratti da sue omelie, inni, lettere e i titoli di due sue opere, Le tre nature e il Vangelo della verità, nulla resta che si possa con certezza attribuire a Valentino. Una rielaborazione, forse, della concezione di Valentino, piu tarda (del m secolo circa), assai oscura, composta di testi diversi, con elementi propri di altre sette gnostiche ("ofitiche"), è la Pistis Sophia, un'opera gnostica, in copto, scoperta in Egitto sulla fine del xvm secolo dallo Askew e pubblicata dal Petermann nel 1851, il cui perno è la nar~azione della caduta e della liberazione dell'eone detto, appunto, pistis sophia, mediante cui si vuoi dimostrare che la fede ha da risolversi in conoscenza. Nonostante che a seconda.delle fonti usate (Ireneo, Adv. haeres., I, l; Ippolito, P.hilos., VI, 29) si possano ricostruire vari sistemi valen- tiniani, nel suo insieme abbastanza chiara risulta, nelle linee generali, la costruzione di Valentino. In quanto principio, il fondamento del tutto è in sé perfetto e uno, ingenerato, padre dei padri, Propadre (Propator), indicibile e invisibile, senza fondo, e perciò Abisso (Bythòs), perfetto in eterno (téleios aiòn), perfetto eone, tutto in sé compiuto, da nulla turbato ("negli sconfinati spazi sta_ in pace e solitudine immensa": lreneo, Adv. haeres., I, l, sgg.). Monade; dice Ippolito, è il Dio di Valen- tino, in quanto tutto è in sé solitario, unico, senza consorte e senza compagna (&~•Jyot; xcxt il.&-tjÀut;: Ippolito, Refut., VI, 29); pensiero tutto compiuto e perciò facente un tutt'uno con énnoia, mente, dice Ireneo, per cui énnoia è silenzio (sighè) e grazia (charis). L'unione, in eterno, di Pensiero e Mente (la prima delle coppie, delle syzyghiat) genera Intelletto (Nous), simile ed uguale a colui che l'ha emesso e solo capace di abbracciare la grandezza del padre. Questo intelletto - prosegue Ireneo nella sua espos1z1one del sistema valentiniano - ~ detto anche Unigenito (Monoghen~s) e Padre e Principio (Arch~) del tutto. Con lui fu emessa pure Verità (Al~theia). Questa ~ la tetrade pitagorica prima e originaria che chiamano anche Radice del Tutto: e ci~ Bythòs e Sigh~, quindi Nous e Al~theia. Ora Monoghès, resosi conto del perch~ era stato emesso, emise a sua volta Ragione (Logos) e Vita (Zoe) in quanto padre di tutti coloro che avrebbero dovuto essere dopo di lui, e principio e forma di tutto il Pléroma [il complesso, il "plenum" di tutte le filiazioni e coppie di eoni], quindi: da L6gos e Z~ furono emessi per Tolomeo (di lui, conservata da Epifanio, Ha~u., 33, 3-7, abbiamo una Lt!IUra a Flora, in cui si inizia alla gnosi una donn•). Altri valentiniani d'occidente sono: Fiorino, Teo· timo, Alessandro. 91    accoppiamento (sizighfa) Uomo (Ànthropos) e chiesa (ecclesia). Questa è l'ogdoade originaria, radice e sostanza del tutto, designata da loro con quat- tro nomi: Byth6s, Nous, L6gos e Anthropos. Ciascuno di essi è maschio e femmina: cosf il Pre-padre si è unito per sizighla alla.sua propria Mente (Ennoia), Monoghenito, cioè Nous, ad Alètheia, L6gos a Zoè, Anthropos a Ecclesfa. Ora questi Eoni emessi a gloria del Padre, volendo anch'essi glorificare il Padre da parte loro, dopo l'emanazione di Anthropos ed Eccle- sfa, emisero altri dieci eoni, i cui nomi sono... [Profondo e Unione, Senza vecchiaia e unità, Spontaneo e Voluttà, Immoto e Commistione, Unigenito e Beatitudine]. Ànthropos, a sua volta, con Ecclesfa emise dodici eoni a cui sono dati i nomi seguenti: lntercessore e Fede, Paterno e Speranza, Materno e Amorevolezza (Agàpe), Intelletto eterno e lntellezione, Ecclesiastico e Beatitudine, Desiderato e Sapienza (Sophfa). Questi sono i trenta Eoni... taciuti e non conosciuti: questo il loro Plèroma invisibile e spirituale, diviso in tre parti, ogdoade, decade e dodecade. Affermano che quel loro Pre-padre (Propator) è conosciuto dal loro Monogenito nato da lui, cioè da Nous, mentre è invisibile e irrangiungibile per tutti gli altri. Non solo, di contro ad essi, si beava contemplando il Padre e gioiva meditandone l'incommensu- rabile grandezza... Tutti gli altri eoni, pur restando immoti, bramavano vedere Colui che aveva emesso il loro seme e riconoscere quella radice senza principio. Ma l'ultimo e piu recente degli Eoni della dodecade, emesso da Anthropos e Ecclesfa, cioè Sophla, spiccò un balzo immenso e fu.scossa da passione senza l'amplesso del suo compagno Théletos (Desiderato). Questa passione è la ricerca del Padre; voleva, dicono, abbracciarne la grandezza. Ma non avendo potuto abbracciarla, poiché la cosa era impossibile, fu colta da immensa angoscia, di fronte alla grandezza dell'abisso, all'impossibilità di proseguire verso il Padre ed alla tenerezza per Lui: protesa com'era sem- pre innanzi, sarebbe stata totalmente inghiottita dalla dolcezza di Lui e si sarebbe dissolta nell'essere totale, se non si fosse scontrata in una Potenza solidamente costituita che, stando al di fuori della Grandezza ineffabile, era di guardia al tutto. Questa Potenza è detta...-Confine (Horos): fu essa a trattenere [Sophla], fermarla e, a fatica, ritorcerla indietro, convincendola che il Padre è irraggiungibile. La prima Passione (Enthùmesis), con l'Ango. scia che ad essa era sopravvenuta, si distolse (cosl) da quel rapimento con- templativo. Questo Confine (Horos) si chiama anche Croce (Stauròs) e Redentore (Lutrotés) e Affrancatore (Karpistés)... Per mezzo suo la Sophia fu purifi- cata e consolidata e restituita all'amplesso (sigizìa). Separatasi da lei Enthù- mesis con l'Angoscia sopraggiunta, essa... rimane entro il Pléroma, mentre Enthùmesis, insieme all'Angoscia, fu segregata e rimase fuori di questo: essa è sostanza spirituale (pneumatica), in quanto è un certo istinto naturale dell'eone, ma senza forma, poiché nulla afferra: per questo la chiamano frutto cattivo e principio femminile.... In seguito Monogenito emise un'altra coppia (sigizìa) per riguardo al Padre, cioè Cristo e Spirito Santo, e mentre il Cristo insegna [agli eonil 92    la natura della sigizìa... lo Spirito Santo insegnò ad essi, resi tutti eguali, a rendere grazie ed apprese loro la vera pace totale. E per questo beneficio, con una sola volontà ed un solo intendimento, tutto il Pléroma degli e011Ì, uniti il Cristo e lo Spirito Santo al coro comune,... raccogliendo insieme cia- scuno degli eoni ciò che v'era di piu bello e splendente... emisero, ad onore e gloria di Byth6s, una emissione suprema, quasi la bellezza e l'astro stesso del Pléroma, Gesu frutto perfetto, soprannominato anche Salvatore, Cristo, Logos e "il Tutto," poiché da tutti egli proveniva...: ed insieme con lui furono emessi gli angioli, sua scorta e, per [suo] onore, generati simili a lui.... Quanto poi a ciò che è fuori del Pléroma... la passione (enthùmesis) della sophia superiore, detta Achamoth [dall'ebraico Hokmah, "Sapienza," conoscenza divina], esclusa dal Pléroma insieme all'Angoscia, rigettata nel- l'ombra e nel vuoto... come aborto... andava alla ricerca della Luce che l'aveva abbandonata, ma non poteva raggiungerla, impedita com'era da Horos:... sopravvenne allora in essa un altro intento, quello che spinge a creare cose vive... Achamoth poi generò frutti a somiglianza [degli angeli], generazione spirituale a somiglianza della scorta del Salvatore... Già tre sostanze preesistevano di per sé: una dall'angoscia, cioè la mate ria, un'altra dal movimento di ritorno all'indietro, cioè l'elemento psichico una terza ciò che essa [Achamoth] aveva generato, cioè l'elemento spirituale [Achamoth] si volse allora a dare ad essa una forma... E dalla sostanza psi- chica formò il padre e re di quanto è fuori dall'eone, crèatore ·a sua volta di quanto è animato e materiale...; [quest'ultimo] creò le cose celesti e ter- rene,... foggiò sette cieli, al disopra dei quali è lui, ·il Demiurgo... Creato il mondo, quest'[ultimo] creò anche l'uomo materiale, non da questa terra arida, ma dall'essenza invisibile della materia disciolta e fluida; ed in esso insufBò l'elemento psichico... Ma quanto invece fu generato dalla Madre Achamoth è spirituale. L'uomo spirituale, che era nato dalla Sophfa, semi- nato quando avvenne l'insufBazione, rimase celato al Demiurgo... che come non aveva conosciuto la Madre, cosf non ne conobbe il seme... Questo uomo è il loro uomo ed essi vengono cos{ ad avere l'anima fatta dal Demiurgo, il corpo fatto di terra, la carne derivata dalla materia, ma l'uomo spirituale deriva dalla Madre Achamoth. Sono dunque tre realtà: ciò che è materiale... fatalmente destinato a rovina, essendo incapace di accogliere qualunque soffio di immortalità; ciò che è fornito di anima... posto a metà fra ciò che è spirituale e ciò che è materiale, che sta là dove terminerà di volgersi; quello che è spirituale... e questo... è il "sale" e la "luce del mondo" (Mt., 5, 13-14), che è stato emesso perché qui, unito a ciò che è psichico, si formi e sia elevato con esso nel movimento di ritorno. Il compimento supremo si avrà quando tutto ciò che è spirituale (cioè gli uomini pneumatici che posseggono la perfetta cono- scenza - gnosi - di Dio e di Achamoth) sia stato formato e reso perfetto con la gnosi. Gli "iniziati ai misteri" sono loro stessi (lreneo, Adv. haeres., I, l, l sgg.: dalla traduzione di F. Bolgiani, in La filosofia medievale, anto- logia di testi a cura di N. Abbagnano, Bari, 1963). 93    Sarebbe ozioso soffermarci sulle infinite sfumature, distinzioni, vena- ture diverse con cui si presenta la "gnosi" ·nei molti aspetti che prese sia con i prosecutori di Valentino in Egitto e in Siria (Axionico, Marco, Teodato, Bardesane: Bardesane, originario della Mesopotamia, predicò ad Edessa, ritenendosi il vero interprete del Cristo, ch'egli sosteneva non essere nato da donna, né, in quanto 16gos di Dio, avere preso forma umana: di contro a Dio, il diavolo e il male hanno una realtà per sé e non sono quindi eoni fuorusciti o decaduti dal pléroma; di qui l'eterna lotta tra il bene e il male, tra la luce e le tenebre); sia in occidente con Secondo, Eracleone, Tolomeo (di Tolomeo, conservataci da Epifane, nel suo Panarion, abbiamo una Lettera a Flora, in cui Tolomeo inizia una donna colta, Flora, all'idelogia della "gnosi"; esponendo la medita- zione valentiniana sugli eoni e sulla loro traduzione in termini pitagorici, costituendo essi una ottava, una decade e una dodecade). Accanto- nate inoltre le molte sett~ gnostiche a carattere popolare, cui fu dato genericamente il nome di sette "serpentine" (ofiti o naassem), per la funzione data da tutte al serpe (venga esso inteso come il circolo vitale che regge il tutto in unità, stringendo il mondo nella necessità, nel male, o venga inteso come il principio vitale, l'anima, che sfugge dal corpo, o che ha la capacità di rinnovarsi, per.cui il serpente rappresenta anche il simbolo della generazione, a seconda di vecchi miti e misteri), e, accantonata la setta risalente al mitico Carpocrate e quella detta dei Barbelognostici,16 non si possono qui, per la diffusione e l'influenza che ebbero, lasciare da parte da un lato il Marcionismo e, dall'altro lato, il Mandeismo e il Manicheismo. Marcione,11 nato a Sinope, nel Ponto, nell'85 d.C. circa, dapprima 16 Accanto a Basilide e a Valentino, Carpocrate è ritenuto il fondatore della terza grande "gnosi" alessandrina. Contemporaneo di Basilide e di Valentino la sua figura e · personalità sono leggendarie. Secondo Clemente Alessandrino (Strom., m, 2), il figlio di Carpocrate, Epifania, morto a f7 anni, avrebbe scritto un trattato Sulla Giustizia. "Barbelognostiche" son dette quelle sette il cui culto e la cui dottrina s'incentrano sulla figura del Barb~lo, "in quattro è Dio," in ebraico Barbhé Eliha (la tetrade costituita dal Padre, Fi~lio, Pneuma femminile, Cristo}: si son fatti rientrare sotto questa etichetta i Nicolaiti, i Fibioniti, gli Straziotici, i Levitici, i Barboriti, i Coddiani, gli Zacheeni e i Barbeliti. Si confronti particolarmente, Epifania, Panarion. l T Di Marcione sappiamo che nacque a Sinope, nel Ponto, nell'85 d. C., e che mori a Roma nel 160 circa. Per il resto vedi sopra, il testo. Della sua opera, Antitesi, abbiamo notizie attraverso S. Giustino, Sant'Ireneo, e particolarmente attraverso Tertulliano (De fJI'~scriptione, Adv~sus Mare. libri.V, D~ carne Christi). Per una ricostruzione del testo dell'opera di Marcione, cfr. A. von Harnack, Mart:ion, Lipsia 1921, il quale sostiene che Marcione non è da considerare affatto entro l'àmbito della gnosi (vedi, ora, di contro, A. C. Blackmann, Mart:ion and his lnflu~nce, Londra, 1949). Discepolo di Marctone fu un certo Apelle, che dopo avere ascoltato Marcione a Roma, predicò in Alessandria. Tor- nato a Roma vi mori nel 180 circa. Scrisse un libro sui Sillo6ismi (citato da Sant'Am· 94    aderente alla Chiesa cnsuana, se ne distaccò per fondare una nuova Chiesa, la "Vera Chiesa di Cristo." Egli visse, predicò e costitu1 la sua Chiesa in Roma circa negli anni in cui visse a Roma anche Valentino. Figlio di un vescovo cristiano, la sua interpretazione del cristianesimo gli valse fin dal principio l'esclusione dalla Chiesa di Sinope, ad opera di suo padre. A Roma, entrato in quella Chiesa, in silenzio lavorò intorno ad un'interpretazione del Nuovo Testamento e al rapporto in cui porre il Vecchio con il Nuovo (di qui la sua opera intitolata Antitesi). "Terminato il suo lavoro, Marcione si presentò dinanzi alla comunità cristiana ed invitò i presbiteri a prendere posizione sulla sua opera e la sua dottrina. Le discussioni si conchiusero con un categorico rifiuto della tesi di Marcione e con la sua esclusione dalla Chiesa romana. Marcione, convinto della verità del suo Vangelo ne trae le conseguenze. Sarà il riformatore del Cristianesimo primitivo. Non è una setta, ma una Chiesa sempre piu numerosa, composta di comunità particolari soli- damente organizzate, la vera Chiesa del Cristo, ch'egli erige di fronte alla Chiesa cattolica, assolutamente convinto di agire da autentico suc- cessore dell'Apostolo Paolo. Verso il150, Giustino annota che il Vangelo di Marcione si estende su tutta l'umanità. Tertulliano conferma la testi- monianza di Giustino: 'La tradizione eretica di Marcione' - scrive - 'ha riempito l'universo.' Intorno al 400 si trovano ancora dei marcioniti a Roma, in Egitto, in Palestina, in Arabia, in Siria, e a Cipro. Marcione è divenuto eretico, perché, di tutti i cristiani del suo tempo, è stato il solo filologo, il solo a non interpretare le Scritture.del Vecchio Testa- mento e del nascente cristianesimo per via di allegorie, cercando invece di intendere le scritture in senso proprio e letterale..." (Leisegang, cit., p. 186). In realtà Marcione, muovendo da un attento studio delle lettere di Paolo (ai Romani e ai Galati), rileva la netta distinzione tra il Dio proclamato dal Cristo, Dio ignoto, perché persona e libertà, Dio di bontà e di amore, e il Dio del Vecchio Testamento, Dio degli eserciti, di un popolo, Dio vendicativo e giusto, Dio di punizione. Cristo, dun- que, figlio di Dio, non può essere figlio del Dio degli Ebrei. Cristo, perciò, non rivela il Dio degli Ebrei, il facitore del mondo, e dell'uomo, ma un Dio fino ad ora ignoto, l'ignoto Dio del discorso dell'Areopago di Paolo. Ques~o mondo, perciò, intessuto di male e di dolore, questi uomini, caduti con il peccato di Adamo, sono il frutto del Dio "giusto" e puni- tivo, del Dio della Legge e del Vecchio Testamento. Col Cristo, invece, brogio, De Paradiso, 28), in cui dimostrava che i libri di Mos~ sono pieni- di errori, e un libro intitolato Rivelazioni (cpczvcp6!acLt;) in cui narrava le rivelazioni cha avrebbe avuto una certa Filomena, apparte,nente alla setta marcionita. 95    figlio del Dio buono, si rivela un nuovo Djo, un Dio fino adesso ignoto. I profeti prima di Cristo hanno predicato il primo Dio, il Dio della Legge. L'albero del male, che non può dare che cattivi frutti e \ii cui parla il Cristo - interpreta Marcione - è il Dio del Vecchio Testa- mento; l'albero del bene, che non può produrre che frutti buoni, è il Padre di Cristo, il nuovo Dio, il Dio dell'amore. Il Dio di Cristo non è perciò l'autore di questo mondo, ·egli anzi è estraneo a tutto il mondo, e se interviene per salvare l'uomo e il mondo, il suo intervento è asso- lutamente gratuito. Libero dal mondo, oltre il mondo, Dio, mediante il proprio atto, viene a salvare l'uomo dal vecchio Dio e dalla Legge, con un atto di suprema grazia e di miseri<;ordia, proprio perch~ il Dio finora ignoto non ha nulla a che fare con il mondo quale è. Di qui, nell'interpretazione che Marcione dà del Vangelo - egli assume a prototipo il Vangelo di Luca - e delle lettere di Paolo - egli sostiene che gran parte delle lettere paoline sono apocrife, o fin dal principio sono state intese in chiave giudaica, vedendovi un rapporto col Vecchio Testamento, contraddittorio con il piu intimo significato della buona novella - la netta opposizione tra il Vecchio e il Nuovo Testamento, che diviene opposizione tra il mondo malvagio e opera di un Dio, di un demiurgo cattivo, e il dio· buono e "straniero," ignoto, che salva. l'uomo mediante il figlio suo, Cristo, da nulla preparato, assoluto e nuovissimo atto di rivelazione, per cui l'uomo può "conoscere" (gnosi), attraverso il figlio, il Dio buono. Questa la buona nuova, il Vangelo di Marcione, onde la necessità di epurare gli altri Vangeli, le Lettere di Paolo, gli Atti degli Apostoli dalle interpretazioni ebraiche, che sottil- mente distruggono il significato piu vero del Vangelo. Di qui, in nome di Cristo, di contro alla Chiesa di Roma, l'esigenza di erigere la vera Chiesa di Cristo. Fede per fede, il Vangelo di Marcione poteva valere, sul piano del- l'interpretazione del Cristo e della funzione nella storia del mondo e della salvazione dell'uomo, tanto quanto i Vangeli, posti dalla Chiesa come autentici. Sotto questo aspetto, storicamente, l'opposizione a Mar- cione della Chiesa ufficiale, già costituitasi e avente già, anche se ancora estremamente fluttuante, un suo primo corpo dottrinario, è un'opposi- zione che va considerata non sul piano del vero e del falso, della eresia o meno, ma su quello di due modi diversi d'interpcetare la rivelazione di Dio mediante il Cristo. Senza dubbio, come già dicevamo, vanno, entro l'àmbito della "gnosi," tenuti presenti certi dati e, particolarmente, la formazione cul- turale, la tradizione religiosa, l'ambiente entro cui si sono venute svi- luppando le varie interpretazioni del Cristo. Cos1, la· "gnosi,. fiorita in 96    ambiente ebraico-alessandrino, sulla linea di Filone l'Ebreo, in cui si innestano tradizioni platoniche e stoiche, sia pur rovesciate, ha dato risultati e costruzioni assai diverse dalla "gnosi" che ha dovuto fare i conti con altre tradizioni e religioni, mantenendole anche se trasfigu- rate (il che, d'altra parte, è pur testimoniato, dal successo che ebbero in quegli ambienti in cui si formarono). E qui particolarmente pen- siamo al Mandeismo e al Manicheismo, il quale ultimo aYeva dietro di sé una propria Bibbia, l'Avesta. Ancora vivente oggi in una zona della Babilonia meridionale, il "mandeismo" (da manda, che è l'equivalente in aramaico del greco gnosis) si venne formando nel 1 secolo d. C. nella bassa Mesopotamia, indipendentemente dal Cristo, che viene, anzi, respinto, una volta cono- sCiuto dalla setta mandea come falso profeta. Dal regno della luce, costi- tuente nella sua unità il divino (detto la Prima mente, la Prima vita, Re della luce), provengono, in una serie di determinazioni, le anime, che, tuttavia, nel loro determinarsi ed esserci si allontanano da Dio, assumendo, in quanto.limiti estremi, figura e perciò corporeità che pre- suppone, quindi, una materia eterna e informe. Questo mondo, dunque, è limite e male, e limiti e mali sono le sue leggi. A liberare le anime Dio invi~ sulla terra la gnosi della vita, personificata nel.profeta, che i Mandei vedono in Giovanni Battista; egli, appunto, attraverso il bat- tesimo lava, salvandole, le anime, che cosf si liberano dal male. E in un testo, certamente scritto in epoca piu tarda (la letteratura mandea fu raccolta in un corpus di scritti sacri nel vn secolo circa: le opere fon- damentali sono Il tesoro- Ginzii- e il Libro di Giovanni- Sidra d'Yahya), allorché si ebbe conoscenza del· Cristo, si legge: Quando Giovanni vivrÌi. al tempo di Gerusalemme, prender~ l'acqua del Giordano e compirà il battesimo, allora verr~ Gesu Cristo, andr~ girando in umilt~, ricever~ il battesimo da Giovanni e diverr~ saggio attraverso la saggezza di Giovanni. Ma poi falserà la parola di Giovanni, cambier~ il battesimo nel Giordano e predicher~ sacrilegio e menzogna nel mondo. Cristo divider~ i popoli, i dodici corruttori [apostoli] se ne andranno girando per il mon'do. In quel tempo guardatevi, voi che siete nel. vero... (in H. v. Gla- senapp, Le religioni non cristiane, trad. it., Milano, 1962, pp. 220-1). Entro questa atmosfera, ma in un approfondimento estremamente intellettuale e colto di un'altra tradizione, di una religione storicamente delineatasi da secoli in Persia, lo Zoroastrismo e il Mitracismo, che viene ora sistemata e interpretata nei termini propri della "gnosi," si muove, nel delineare i motivi fondamentali della sua religione, Mani, di origine persiana, formatosi in una setta battista della bassa Babilonia, 97    ma da essa distaccatosi fin da giovane, e vissuto, poi, in Persia nel corso del m secolo. Abbiamo accennato ora a Mani/8 perché, insieme al "man- deismo," il "manicheismo" - tenuto conto della sua enorme diffusione in tutte le direzioni: dalla Persia al Turchestan cinese, ove a Tlirfan e nelle grotte di Tun-huang vennero al principio del xx secolo ritrovati testi manichei in lingua persiana, partica, sogdi, uighurica o antico turco, cinese, all'Africa settentrionale, ove a Tebessa, in Algeria, furono scoperti nel 1918 testi manichei in lingua latina, e dove in Egitto nel 1931 furono trovati papiri manichei in copto, a Cartagine, a Roma, in Gallia, in Spagna - il "manicheismo" chiarisce bene cosa si vuoi dire quando si sostiene che lo "gnosticismo" non è stato soltanto una "eresia" sorta da un'interpretazione diversa da quella ormai stabilita dalla figura del Cristo, ma un atteggiamento storicamente determina- bile, fondato sul concetto di rivelazione, i cui esiti sono stati diversi a seconda, ripetiamo, delle tradizioni, dei culti religiosi, degli ambienti culturali in cui ci si è mossi. b) Il corpo degli "scritti ermetici." Sembra ora chiaro in che senso (piuttosto limitato rispetto alla "gnosi" pessimistica) si possa parlare di "gnosi" anche per il gruppo dei testi, probabilmente composti tra il n secolo a. C. e il 1 d. C., ma raccolti e ordinati nel corso del II se- colo d. C., che, andato sotto il nome di Ermes Trismegisto, costituisce il cosiddetto "corpus hermeticum " (diciotto trattati, di cui il primo fu intitolato Pimandro "pastore di uomini" - che Marsilio Ficino estese a tutta la raccolta -, piu un dialogo, Asclepius, traduzione latina, forse di Apuleio, di un testo greco dal titolo Aoyor:, 'téM~or:,, Discorso per- fetto, perduto; piu ventidue citazioni estratte da Stobeo, e altri quattro lunghi frammenti di un'opera intitolata K6p1) xoa!Lou, Pupilla del mondo). Abbiamo già detto sopra, discorrendo della prima tradizione ermetica, dello stretto rapporto che corre tra certi testi alchimistico- magici della tradizione che fa capo a Bolo-Democrito e a Bolo-Ostane, certi testi astrologici, e la parola di Ermes Trismegisto (sin dai tempi piu antichi Ermes greco, dio della parola, interprete e messaggero di Zeus, viene identificato con Thot egiziano, dio dellà parola e della scrit- 18 Mani, nato nel 216 d. C., a Mardinu (presso Seleucia Ctesifonte), da Patek, per- siano, emigrato in Babilonia, ove avèva aderito a una setta battista, affine a quella mandea, ricevette fin da giovane un insegnamento fortemente religioso. Vissuto per un certo periodo in India (Belucistan), 240-242, recatosi in Persia ebbe dal sovrano Sapore I (nel 244 circa) il permesso di propagare i suoi insegnamenti. Protetto anche dal successore di Sapore, Hormizd, Mani fece lunghi viaggi. Asceso al trono, nel 274, il re Bahram l, dedito allo zoroastrismo ortodosso, Mani fu accusato di eresia. Incarcerato a Gundeshahpur, sul prin- cipio del.277, mori nel 277 stesso. Secondo la leggenda fu crocefisso dopo essere stato scorttcato 98    tura, lo scriba di Osiride, del libro che mantiene), rivelatrice non solo della ragion d'essere della realtà, ma perciò stesso della sua struttura per cui, mediante la rivelazione dovuta alla parola di Ermes, si pos- sono ripercorrere i modi con cui la natura si è costituita, afferrando nessi e simiglianze, fino a ritrovare l'unità della realtà entro noi stessi e, attraverso noi, sopra noi in Dio, vincendo la natura con la natura. Ora, ciò che piu colpisce nei vari testi del "corpo ermetico" è che lo studio delle forze occulte della natura, della seminalità della natura (onde si potrebbe, cogliendo le simpatie tra gli elementi naturali, me- diante cui si costituiscono le cose, adeguarsi a quelle simpatie stesse, trovando nell'ordine della natura il proprio posto, e con ciò salvandosi, in un giuoco con la natura e in un'operazione sulla natura stessa) e la ricerca della verità trovano il proprio fondamento in una intuizione originaria, in un'illuminazione, condizione della ricerca stessa, che, pro- prio per questo, non la si raggiunge mediante la ricerca. Simbolica- mente, perciò, si 'può dire che tale intuizione è dovuta, appunto, a una rivelazione, a un messaggero della divinità, a un intervento extraumano. Una volta, avendo cominciato a riflettere sugli enti (ne:pl -r:6lv 1Sv-r:6lv), mentre il mio pensiero spaziava nelle altitudini celesti e i miei sensi cor- porei erano impastoiati si come avviene a· chi sia accasciato da un pesante sonno o per eccessivo nutrimento o per una grande fatica fisica, mi sembrò che mi si presentasse un essere di gigantesche proporzioni, al di là di ogni misura definibile, che mi chiamò per nome e mi dissi!: "Cosa vuoi ascoltare e vedere, cosa mediante il pensiero apprendere e conoscere?" Ed io: "Ma tu, chi sei?" "Io," rispose, "io sono Pimandro, il Niis della sovranità asso- luta. So quello che vuoi, ed ovunque io sono con te." Ed io allora: "Voglio avere la scienza degli enti, comprendere la natura, conoscere il divino. Quanto!" esclamai, "desidero ascoltare." Mi rispose: "Tieni ben ferino nel tuo intelletto tutto quel che vuoi apprendere, ed io ti insegnerò" (Corp. Herm., I - Pimandro -,I, 3). Ora, sia pur tenendo conto della diversità tra i vari scritti del Corpus, sia pur riconoscendo che in.alcuni vi è un dualismo tra il divino ignoto e indicibile e il mondo e che in altri, invece, è accentuato un monismo animistico oel tipo stoico, in realtà l'impostazione generale di tutti gli scritti scopre che il motivo della rivelazione si riallaccia al piu antico motivo della divinazione, della intuizione profetica di origine pitago- rica da un lato e religioso poetica dall'altro lato. Cosf, evidentemente, obnubilati i sensi, dopo aver cercato attraverso tecniche, che sappiamo antichissime (sicuramente usate nei culti dionisiaci) di eliminare ogni distrazione, ogni dispersione, giunti ad una incantata concentrazione, 99    in una specie di sogno, l'atto intuitivo della mente, la visione puramente intellettuale, da cui può cominciare il discorso, viene assunta come rive- lazione, come la presenza di una forza, di una voce, dell'intervento di un'anima, di uno spirito, condizione dell'analisi, del discorso, a cui solo esseri eccezionali (in tal senso gli eletti) possono giungere. Ciò che vien dopo sono ipotesi perfettamente razionali, possibili ricostruzioni del- l'ordine del tutto nell'Unità divina, sia che ci si ispiri a certe pagine platoniche, sia che ci si Ispiri alla visione ontico-teologica e animistica di origine stoica, ove dalla dispersione dell'immediatezza sensibile, posta la divinità una come condizione della pensabilità del reale, si torna all'Uno, comprendendo come tutto in Dio ·riposi ed abbia la sua ra- gione. E tale comprensione è quella "conoscenza," la gnosi che salva, mediante cui, alla fine, è dato all'uomo, essere bifronte, da un lato volto alla sensibilità e perciò al molteplice, dall'altro all'unità - per cui in questo senso nell'uomo che attua in sé conoscenza s'incentra l'universo - è dato all'uomo d'indiarsi, di cogliere in sé l'universo e Dio, divenendo uno in Dio. Tale - si conclude il Pimandro - è la fine felice per coloro che pos- seggono la conoscenza (la gnos•): divenire Dio. Ebbene, cosa tardi allora? Non vai adesso, che hai da me ereditato tUtta la dottrina, a farti guida di coloro che ne sono degni, sf che il genere umano, grazie a te, sia salvato da Dio? (Corp. Herm., I - Pimandro -, 26). E nell'Asclepio, ove si punta sull'Uno Tutto e sul tutto Uno, e sull'uomo che, in quanto capacità - sia pur per via intuitiva - di cogliere che l'Unità è molteplicità e la molteplicità è Unità, per cui l'uomo può ripercorrere la via all'in giu e- la via all'in su, facendosi centro dell'Universo, simile a Dio, si esclama: Gran meraviglia è l'uomo, o Asclepio, animale degno di venerazione e di onore, che prende la natura di un dio come se fosse egli stesso un dio (Asclepio, 6)•.. Solo tra i viventi, l'uomo è duplice. Semplice è una delle parti che lo compongono, quella che i Greci chiamano "essenziale" (oòat6>81jc;} e noi "formata a simiglianza del divino." Quadruplice è l'altra parte, quella che i Greci chiamano " materiale "(~ÀLx6v) e noi "mondana," di cui è fano il corpo, che racchiude la parte dell'uomo che abbiamo detto divina... (Asclepio, 7). Mediatore tra la divinità e gli uomini, Ermes Trismegisto, è la parola del dio, che simbolicamente, per via di segni, oscuri - ermetici - per chi sia preso dai sensi e volto verso il basso, rivela agli iniziati la 100    struttura dell'Universo scaturito dall'Unità del divino, esso stesso Uni- verso nell'unità divina, e la posizione che nel Tutto e in Dio ha l'uomo. Si capisce cos(come in molti scritti del corpus ·si sostenga che il dio uno è inconoscibile e indicibile (nel senso che abbiamo visto per Albino, Apuleio, Numenio), ch'esso da un lato possa esser detto lo stesso cosmo e dall'altro lato il Padre, il Bene, ilPoieta; che si possa sostenere che il primo Dio, il Padre indicibile, il primo Niis, sia ad un tempo il figlio, il secondo dio, il Niis, donde derivano gli dèi e le,anime; che la materia considerata a sé sia il limite, la dispersione, l'insieme del male, il plèroma del male (7tÀ/jpea>(.Lot nj~ xor.x~: VI, 4); che l'uomo, in quanto anima e corpo, abbia una posizione centrale, per cui nell'uomo si riu- nisCe in unità l'universo tutto, onde l'uomo è simile a Dio; che senza bisogno di alcun salvatore, l'uomo possa, attraverso il suo stesso pen- siero (rivelazione della divinità), liberandosi dalla corporeità, o meglio comprendendo la corporeità, risalire, conoscendo, alla divinità, sempre tutta in atto, una in principio e una in fine. Taie la liberazione, che si attua attraverso la "gnosi" (evidentemente ben diversa dalla • gnosi" cosiddetta eretica). La pura filosofia, quella che non dipende che dalla pietà verso Dio, non deve interessarsi delle altre scienze, se non per ammirare come il ritorno degli astri alla loro prima posizione, le loro soste predeterminate e il corso delle loro rivoluzioni obbediscano alla legge del numero, e per giungere, mediante' la conoscenza delle dimensioni, qualità, quantità del mondo terre-· stre, delle profondità del mare, della forza del fuoco, delle operazioni e della natura di tutte le cose, condotta ad ammirare, ad adorare e benedire l'arte e l'intelligenza di Dio. Essere musico non in altro consiste se non nel sapere come si ordina l'insieme tutto dell'universo e quale ne sia la divina ragione, poiché quest'ordine, in cui tutte-le cose particolari sono state riunite in un tutto unico da una ragione artefice, produrrà una specie di concerto infinitamente dolce e vero, in una divina musica... La pura e santa filosofia consiste nell'adorare la divinità con anima semplice, con semplice cuore, riverire le opere di Dio, render grazie infine alla divina volontà, che, sola, è infinitamente piena di bene: tale la filosofia che non sia toccata da alcuna malvagia curiosità (Asclepio, 13-14). Questo l'oracolo di Erme$ Trismegisto, questa la religiosità - pio che la filosofia - degli scritti del corpus ermetico: una intuizione della realtà come vita, come· ordine, come bellezza, in cui si risolve anche il male.e il limite, qualora esso sia visto come un momento dell'ordine divino. E tale visione non è, naturalinente, esprimibile se non per sim- boli, per immagini, per figure. • Quando la nostra mente" - scrive il Garin discorrendo di Marsilio Ficino traduttore del Pimandro e degli 101    altri opuscoli teologici - "si rende conto che l'oggetto sentito non è che un segno, e l'oltrepassa, non raggiunge perciò il vero nella ridu- zione logica, che sarebbe al contrario un impòverimento, e quindi un allontanamento estremo. La verità si coglie afferrando con una visione mentale il numero e il ritmo, e cioè quell'anima degli esseri che l'ar- tista raggiunge nelle sue creazioni, ove non fa che tradurre l'atto stesso con cui il divino artista viene creando il tutto. Conoscere è vedere diret- tamente l'atto costitutivo di ogni ente reale, quella vita nascente che è la fonte onde ogni cosa scaturisce; perché in ogni cosa è la vita e l'anima, ossia il prolungarsi estremo di un raggio divino" (Immagini e simboli in M. Ficino, in Medioevo e Rinascimento, Bari, 1961 2, p. 302), entro cui è posto l'uomo, nella cui struttura "antologica va cercato il segno incancellabile di una dignità che lo distacca dalla fatale necessità del mondo materiale, dalla necessità terribile della morte: solo che la sua nobiltà è in fondo una nobiltà di nascita, non una conquista delle opere e un premio della virtu" (ib., p. 299). E cosi, rifacendosi al Festu- gière, ha con molta precisione sottolineato ancora il Garin: "Per quanto sia lecito, ed anzi opportuno, porre una chiara distinzione tra il Piman- dro e l'Asclepio e gli scritti teologici pa una parte, e gli innumerevoli trattati magico-alchimistici dall'altra, è pur vero che non si deve dimen- ticare la sottile e profonda parentela sotterranea che unisce i primi alla tradizione occultistica, astrologica, alchimistica dei secondi. E l'accordo è proprio nell'idea di un universo tutto vivo, tutto fatto di nascoste corrispondenze, di occulte simpatie, tutto pervaso di spiriti; che è tutto un rifrangersi di segni dotati di un senso riposto; dove ogni cosa, ogni ente, ogni forza, è quasi una voce non ancora intesa, una parola sospesa nell'aria; dove ogni parola ha echi e risonanze innumerevoli; dove gli astri accennano a noi e si accennano fra loro. E si guardano e ci guar- dano, e si ascoltano e ci-ascoltano; dove tutto l'universo è un immenso, molteplice, vario colloquio, ora sommesso e ora alto, ora in toni segreti, ora in linguaggio scoperto; - e in mezzo v'è l'uomo, mirabile essere cangiante, che può dire ogni parola, riplasmare ogni cosa, disegnare ogni carattere, rispondere a ogni invocazione, invocare ogni dio (com'è noto i termini di cui mi servo sono della tecnica astrologica: cfr. Tolomeo, Tetrab., I, 15-16; Firmico Materno, VIII, 2) (Garin, Magia e astrologia nel Rinascimento, in op. cit., p. 154). c) Sotto questo aspetto, entro i termini di questa visione vitale è simpatetica dell'Universo da un lato e, dall'altro lato, della visione di un Universo malefico, retto da dèmoni decaduti e malvagi che stringono in leggi fatali (astrali) il mondo ("gnosi," propriamente detta), assumono un loro particolare significato gli Oracoli caldaici (XocÀ8ocLxi MyLoc), composti, sembra, da un certo Giuliano, vissuto sotto Marco Aurelio, che fu per primo definito teurgo (&e:oupy6c). Secondo il Bidez (Vie de Julien, p. 369, n. 8) fu lo stesso Giuliano a farsi chiamare teurgo per chiarire che egli "agiva sugli dèi," li "faceva" (nell'Asclepio si legge che "deorum fictor est homo"), e che non era un semplice teologo, non parlava cioè solo degli dèi. La Suda riferisce che egli era figlio di un "filosofo caldeo," dallo stesso nome, che aveva scritto un'opera sui dèmoni, e che lo stesso Giuliano aveva scritto 0e:oupynX (Theurghika = Libri teurgici), Te:Àe:cr·nxX (Telestika = Perfezioni ecc.), A6yLoc 8' È1twv (L6ghia d' epòn = Oracolt). "Che questi oracoli in esametri fossero (secondo una congettura del Lobeck) appunto gli Oracula Chaldaica, sui quali Proclo scrisse iln ampio com- mento (Marino, Vita Procli, 26) è dimostrato, senza alcun dubbio, dal riferimento che si trova presso uno scoliasta di Luciano aa -.e:Àe:cr-.Lxi 'IouÀLocvou & llp6XÀoc; U7tOfLVY)fLOC"(~e:L, o!c; o llpox6moc; civ-.Lq~& éyye:-.ocL ('le Perfezioni di Giuliano, che Proclo commenta e contro cui polemizza Procopio': Luciano, Ad Philos., 12, IV, 224, Jacobitz) e dall'affermazione di Psello secondo la quale Proclo 'si innamorò degli l~(verst) chiamati MyLoc (oracolt) dai loro ammiratori, in cui Giuliano espose le dottrine caldaiche' (Script. Min., I, 241, 25 sgg.): &e:o7tocpX8o-.oc ('doni degli dèi': Marino, Vita Procli, 26). Da dove li abbia davvero ottenuti, non lo sappiamo... Naturalmente, è possibile che Giuliano li abbia falsificati, ma il loro linguaggio è talmente biz- zarro e gonfio, il loro pensiero talmente oscuro ed incoerente da sugge- rire l'idea dei discorsi pronunciati in stato di trance dagli spiriti guide dei medium moderni, piuttosto che l'opera meditata di un falsificatore. Anzi non sembra affatto impossibile, alla luce di quanto sappiamo della teurgia posteriore, che essi abbiano avuto origine dalle 'rivelazioni' di qualche visionario o di qualche medium estatico e che tutto il com- pito di Giuliano si sia ridotto a metterli in versi come afferma Psello (Script. Min., I, 241, 29), o la sua fonte Proclo. Il che corrisponderebbe alla prassi degli oracoli ufficiali, cosi come noi la conosciamo, e la tra- sposizione in esametri offrirebbe la possibilità di introdurre nella fila- strocca una parvenza di significato e di sistema filosofico. Nondimeno il pio lettore avrebbe avuto ancora molto bisogno di qualche spiega- zione o commento in prosa, e sembra che Giuliano abbia fornito anche questo (cfr. Proclo, In Tim., 246 f, 277 d; Marino, Vita Procli, 26; Damascio, II, 203, 27)" (Dodds, Theurg., "Journal of Roman Stu- dies," 37, 1947, ora in l Greci e l'i"azionale, trad. it., Firenze, 1959, pp. 337-8). Anche se difficile. è ricostruire la struttura degli Oracoli cal- 103    daici, liberandoli dai commenti di Porfirio, di Giuliano, di Proclo, sem- bra ch'essi si distinguessero in due parti. Innanzi tutto gli Oracoli (cfr. in Kroll; De oraculis chaldaicis, "Breslauer Philol. Abhand.," 1894) presentano una visione dell'Universo assai simile a quella di Numenio di Apamea, del Pimandro, in realtà di tutta la letteratura religioso-filosofica in chiave platonico-stoica, in forma molto vaga e contraddittoria nell'uso dei termini, piu che nell'intimo significato. Si pone una triade divina, costituita di tre intelletti - Or. Ch., pp. 12-22 Kroll, - di cui il primo è chiamato anche Padre, o Intelletto del Padre, mentre il secondo è intelletto in quanto determinazione dell'Intelletto primo, il quale intelletto primo perciò è e non è intelletto, e il terzo è tale in quanto dialetticamente risolve in sé il primo e il secondo intel- letto, costituendo l'unità vivente della realtà tutta (anima mundi), tutta proveniente dal primo Intelletto, il Dio inconoscibile in sé, che inteso come forza vitale (non a caso si dice che la sua essenzialità è fuoco), si manifesta negli intelligibili e quindi nelle cose. Il Padre ha in sé in forma compiuta tutte le cose e le ha date al secondo intelletto (p. 14 K.), [per cui] il primo fuoco non fa discendere la sua potenza fino alla materia con una diretta azione, ma mediante l'intelletto [secondo]: è un Intelletto, scaturito dall'Intelletto, che è l'artefice delmondo fatto di fuoco (p. 13 K.). Monade il Dio, diade è detto l'Intelletto secondo, perché possiede i "due caratteri, di avere in sé gl'intelligibili e di costituire sensibilmente i mondi" (p. 14 K.). Tutto il mondo dell'intelligibile, pensante-pensato, è perciò in Dio e in tal senso oltre l'intelletto secondo, per cui in Dio, in atto, forza vitale, si risolvono anche le cose, per cui, alla fine, il primo Dio è indefinibile. Esiste un certo intelligibile (TL V01j-r6V), che ti è necessario intuire con l'acutezza dell'intelletto, poiché se tu propendi il tuo intelletto verso questo intelligibile cercando di apprenderlo come un oggetto determinato, non riu- scirai a concepirlo. Esso è come forza di potente spada" che tutta brilla e irraggia ferendo gli occhi col suo intelligibile fulgore. Non è dunque con un violento sforzo che si deve concepire tale intelligibile, né tendendo allo estremo la fiamma dell'Intelletto, che tutto misura, tranne quell'Intelligibile. Bisogna tentare di afferrarlo non per diretta visione, ma, dirigendo su di lui il puro sguardo del tuo intelletto che ha volto le spalle ai sensibili, tendere verso l'Intelligibile un intelletto vuoto di ogni pensiero, finché tu giunga a conoscerlo, poiché esso sfugge alla determinazione dell'intelletto (p. 11 K.). Sf come un torrente che scorre, l'Intelletto del Padre (il primo Intelletto), nel suo infaticabile consiglio (~ouÀji: boulè), emetteva le idee del suo pen- siero che assumevano tutte le forme: ed esse scaturivano tutte dalla stessa unica fonte. Dal Padre, infatti, veniva il consiglio e il compimento di tale consiglio. Le idee, cosi, mediante il Fuoco intelligente furono distribuite e distinte in altre idee intelligenti. SI, perché il supremo signore (&vot~) ha fatto preesistere al mondo dalle mille forme un immortale sigillo (-rUno~) intellet- tuale. E via via che il nostro mondo, nel suo disordinato cammino, cerca di seguire la traccia del sigillo, è apparso un ordine informato di bellezza, ornato delle idee di ogni specie. Unica ne è la fonte, e da essa le idee sca- turiscono rombando, pensieri intelligenti scaturiti dalla paterna fonte... La prima fonte, in sé perfetta, del Padre ha fatto scaturire queste primigenie idee (&.px_ey6vouç l8éotç) (pp. 23-4 K.). Nell'unità del primo Intelletto, dunque, si costituisce la dualità del secondo intelletto, ed in esso, termine medio, che articola (auvéx_et) i due primi intelletti, scaturisce il terzo intelletto, mediante cui il tutto si ricollega all'unità vivente, in una tensione (anima mund•) tra i due termini, per cui, non a caso, negli Oracoli si legge che l'anima è da un lato intelletto e dall'altro lato soffio divino, e perciò amore (lp(l)ç ), consistente appunto nella tensione, nella ricerca della propria imma- gine rintracciabile ovunque, e mediante cui l'anima torna a identifi- carsi col tutto, cioè con il Dio vivente, fuoco luminoso e seminale, da cui scaturisce tutta la luce, i semi di tutte le cose ("Quanto alla scin- tilla dell'Anima, avendola formata mescolando due elementi accordati, l'Intelletto e il soffio divino, il Primo Intelletto vi aggiunse il casto amore, augusto legame che unifica tutte le cose e le sorpassa": p. 26 K.). La suggestione degli Oracoli caldaici non sta tanto nel tentativo di una ricostruzione logico-antologica del tutto, quanto nella visione finale di un tutto vivente e animato dal Dio primo, logicamente ignoto, ma ovunque presente nei suoi infiniti raggi, egli punto luminoso, esistente nella totalità della luce, e di cui tutte le cose sono fatte, limiti, se prese a sé, ma che si sciolgono nel primo fuoco, qualora vengano ricon- dotte alla loro unità dalle anime che in ogni cosa possono ritrovare la propria immagine. Si vede bene cos(il significato dell'altro aspetto degli Oracoli, la strutturazione di un culto del sole e del fuoco (cfr. pp. 53 sgg. K.), accanto all'evocazione magica, per via di amore, degli dèi (le luci), mediante cui, per simpatie, operare sugli dèi stessi e sugli spiriti (teurgia), in una riproduzione della magia della natura, tutta vivente di segreti accordi e. simpatie, dalla cui scoperta dipende la comprensione del tutto, e, quindi, di Dio. Di qui, anche, il tema fon- damentale di tutta la sapienza magica, che verrà discussa a lungo dai commentatori neoplatonici degli Oracoli caldaici (da Porfirio a Giam- blico, a Prodo) e cioè la possibilità, entro i termini della simpatetica 105    universale, poste precise relazioni mimetiche tra,tutte le cose, di far convergere su noi le potenze divine, le luci supreme, mediante la ras- somiglianza. Di qui l'importanza di saper costruire cose, o statue, imma- gini di dèi, che, se davvero si riesce a far simili alle potenze evocate, alle anime desiderate, richiamano, sempre entro i termini della cognatio e della simpatia universale, quelle potenze stesse. Sotto questo aspetto sc;mbra evidente in che senso si può parlare di due magie, una quella naturale, fondata sul motivo dell'unità vivente del tutto e consistente in un rintraccio dei nessi, delle simpatie, dei segni, dei simboli, dei rap- porti correnti tra le cose, tra le luci, tra gli astri, nell'unità di un tutto il cui fondamento è la seminalità; l'altra, fondata sempre sulla stessa concezione, ma, diciamo, artificiale, operativa, cioè volta a costruire.. immagini, fare dèi (l'efficere deos dell'Asclepio), statuette e cos{ via, mediante certe precise tecniche (ricavate da antichi rituali egiziani della tradizione magico-alchimistica) con cui evocare l'anima, le potenze di- vine, rispecchiarle (di qui anche la suggestione degli specchi e perciò stesso degli astri: cfr. anche Apuleio, De magia, 13 sgg.), per dominarle essendo da esse dominati. Dirà Proclo: I maestri dell'arte ieratica hanno scoperto in base a quello che avevano sott'occhio, il modo di onorare le potenze superiori, mescolanl;lo taluni ele- menti ed altri togliendone in misura appropriata. Se mescolano, è perch~ hanno osservato che ognuno degli elementi separati possiede qualche pro- prietà del dio, ma non basta per evocarlo; cosf mescolando un gran numero di elementi diversi, uniscono le influenze ricordate sopra, e con tale somma di elementi compongono un corpo unico simile all'unità precedente la disper- sione dei termini. Cos(fabbricano spesso, con tali mescolanze, delle imma- gini e degli aromi, impastando in un medesimo corpo i simboli prima divisi, e producendo artificialmente tutto quello che la divinità comprende in s~ per essenza, riunendo la molteplicità delle potonze che, separate, perdono ognuna la propria efficacia, e che, invece, riunite, si combinano per ripro- durre la forma del modello" (da Festugière, La révél., anche Garin, Elezioni e problema dell'Astrologia, V Conv. Int. St. Uman). Sotto questo aspetto assai vasta fu l'influenza degli Oracoli caldaici, insieme a quella esercitata dal corpo degli scritti· ermetici, soprattutto nell'àmbito degli interpreti del pensiero di Plotino. Diremmo, anzi, che, se Plotino, nella sua polemica da un lato contro la visione di un dio trascendente e ignoto, difficilmente riconducibile alla sua funzione di fonte e causa di tutta la realtà (certo gnosticismo e certo rarefatto platonismo tipo Attico) e dall'altro lato contro la concezione di un dio persona, libertà, e volontà (altrettanto assurdo), decisamente accolse 106    l'aspetto della magia che dicevamo naturale o razionale, pur respin- gendo l'altro aspetto della magia, quello teurgico, non determinabile scientificamente e irrazionale, il peso dato, nell'interpretazione che det- tero di Plotino già Porfirio ma piu decisamente Giamblico, alle sirni- glianze, ai vincoli, alle simpatie, può essere l'indice della possibilità di vedere in Plotino una precisa concezione logico-naturalistica, piu che logico-matematica, che punta su di una comprensione del tutto in termini platonico-stoici, in una esatta deduzione logica. Gli avvenimenti dell'Universo si svolgono non già in virtu di ragioni seminali, ma in virtu di potenze formali che abbracciano in sé persino quelle pot~nze che stanno al di sopra di ciò che si regola sulle ragioni seminali; perché nelle ragioni seminali non è inerente nulla di quanto esorbita dalle ragioni seminali stesse né del contributo che la materia apporta al tutto, né delle vicendevoli influenze esercitate tra cosa e cosa... Quanto ai segni, essi non hanno il fine prefisso e diretto di preannunciare; no, ma poiché le cose avvengono nel modo descritto, l'una trae dall'altra il suo presagio; poiché, siccome l'universo è uno e appartiene all'Uno, cosi una cosa può ben essere conosciuta dall'altra; dal causato la causa, e il conseguente dall'antecedente e il composto da una delle sue parti costitutive... Ora, se è esatto questo nostro argomentare, i dubbi, oramai, potrebbero cadere - persino quello che si riferiva alle pretese influenze maligne originate dagli dèi, per le seguenti ragioni: non sono "decisioni" le fonti degli influssi, ma tutto che viene di lassu - nel mutuo cozzo tra lè parti, conseguenza dell'unica vita universale - sorge per necessità di natura; le.cose, di per se stesse, aggiun- gono un contributo non scarso agli accadimenti; e mentre gl'influssi, presi ad uno ad uno, non sono maligni, in quel loro mescolarsi generano qual- cosa di nuovo; il vivere, inoltre, esiste non già per amore di un· singolo ma in funzione del tutto e, infine, la natura sottostante esperimenta qualcosa di diverso da quel che aveva ricevuto e non riesce a dominare la influenza ricevuta. Ma le influenze magiche, come spiegar/e? Con la simpatia: re- gnano, nativamente, un accordo tra le cose affini e un contrasto tra le estra- nee; inoltre, pur nella loro variopinta ricchezza, le potenze diffuse contri- buiscono tuttavia all'unità del vivente universale. E, difatti, pur senza alcun ordigno magico, quante cose sori come tratte per incantamento! Ond'è che vera magia, in seno all'universo, sono da un carito l'Amore e dall'altro la Contesa. Incantatore primordiale e stregone, egli è colui che gli uomini conoscono proprio bene onde ricorrono, per avvalersene, gli uni con gli altri, ai suoi filtri ed ai suoi incantesimi. E, per certo, poiché essi natural- mente amano e gli ingredienti che eccitano amore hanno una forza d'attra- zione tra di loro cos{ è venuto fuori l'aiuto dell'arte amatoria per mag{a, applicando, cioè, per contatti, a differenti persone ingredienti differenti, che hanno il potere di trarle insieme e contengono la bramosia erotica nella loro composizione; e cod essa annoda un'anima con l'altra come chi legasse tra di loro piante staccate. E si avvalgono, per di piu, di figure efficaci, anzi atteggiandosi in una determinata posizione attirano su se stessi, senza ru- more, inBuenze, appunto perché stando all'unità universale, agiscono su di un unico centro; in realtà a voler supporre un mago siffatto fuori dell'uni- verso, egli allora non potrebbe esercitare né'le sue suggestioni né i suoi scongiuri per quanti incantesimi o esorcisttli. egli faccia; ora però, poiché non lavora, per cosf dire, in un luogo diverso dal mondo, ~ in grado di attrarre, sapendo per qual via una cosa si trasporti verso l'altra in seno al vivente... In realtà si attuano quei suoi esaudimenti solo perché tra parte e parte dell'Universo segua la simpatia, come in una corda tesa: questa, infatti, scossa dal basso, ha una vibrazione anche in cima; anzi, tante volte, mentre vibra l'una, l'altra ne ha, per cosf dire, il senso, per legge di con- sonanza, in quanto, ci~, ~ accordata anch'essa a un'unica intonazione; che se, da una lira, la vibrazione si propaga finanche in un'altra - sino a tal punto giunge la virt6 della simpatia! -, ebbene, anche nell'Universo, do- ttli.na un'armonia unica, pur se risulti da contrari, vero ~ ch'essa nasce tanto dai simili quanto dai contrari onde in tutto regna l'affinità... (Plotino, Enn~adi, IV, 4, 39-41). La consapevolezza profonda e meditata che la realtà è quella che è, che tutto avviene come deve avvenire, che l'uomo, momento di questa realtà, è tale entro l'arco della sua vita, per cui, umanamente, prima di nascere e dopo la morte, è il nulla, portava un cinico come Demonatte a sostenere che l'unica via di salvezza è per l'uomo, abbandonati ogni timore e speranza, risolvere se stesso esclusivamente sul piano umano, realizzando una misura, che non è data, ma che è frutto, volta a volta, del nostro stesso medi- tare. La stessa consapevolezza portava, nella stessa epoca, un uomo come Marco Aurelio (121-180),27 imperatore romano (dal161), cinicamente, ad 27 Nato a Roma, sul Celio, il 26 aprile 121 d. C., da M. Annio Vero, originario della Spagna, appartenente a una nobile famiglia, che aveva ricoperto alti uffici, e da Domizia Lucilla, gli furono imposti i nomi dei due nonni, M. Annio Catilio Severo. A ~i anni Adriano lo designò a far parte dell'ordine equestre, a otto del collegio dei salt. Rimasto a nove anni orfano del padre, adottato dal nonno paterno, che si occupò, insieme al bisnonno materno, della sua educazione e che gli dette il nome di M. Annio Vero, fu avviato agli studi di filosofia da Diogneto. Esaltatosi per la filosofia, come costume di ·vita, si sottopose a privazioni, vivendo in forma austera e rigidissima. Adriano, che aveva per il giovinetto una viva simpatia e che molto apprezzava le sue doti, giuocando sul suo nome (M. Annio Vero), lo chiamava "verissimo." Nel 136 si fidanzò con la figlia di L. Ceonio Commodo, designato dall'imperatore Adriano a suo successore. Alla mprte di Ceonio (138), Adriano adottò Antonino, zio di Marco Annio Vero, a patto che Antonino adottasse a sua volta il figlio e il nipote di Ceonio. Morto Adriano nel luglio del 138, Antonino Pio non solo adottò il figlio e il nipote di Ceonio, ma anche Marco, che assunse il nome di Marco Elio Aurelio Vero; cosi venne presto indicato dall'impera- tore come suo successore. Marco ebbe il titolo di Cesare, fu nominato questore nel 138-139, console nel 140. Nel 145 sposò Faustina, figlia di Antonino Pio. Marco Aurelio si preparò allora con coscienza e serietà di studioso al suo "mestiere" di imperatore. Con il celebre Frontone studiò retorica latina, con Erode Attico retorica greca. Se da Diogneto, com'egli stesso dice (Ricordi, 1, 6), fin da giovane aveva sentito avversione a perseguire cose stupide e vuote, una gran diffidenza per le chiacchiere di fattucchieri e di maghi, per incantamenti e scongiuri, e aveva.preso familiarità con la filosofia, l'amore per le parole libere e franche; in questo periodo, frequentando lo stoico Apollonio, aveva appreso la capacità di non affidarsi al caso,. il suo sguardo rivolto soltanto e incessan- temente a vie razionali, la capacità di non impazientirsi dovendo dare direttive a qual- cuno (Ric., I, 8). E se da Frontone aveva appreso di quanta invidia, di quanta malizia, di quanta ipocrisia sia formata la tirannide, e che i patrizi sono persone degne di poca considerazione (Ric., I, Il), dallo stoico Giunio Rustico (figlio o nipote di Giunio Rustico Aruleno, due volte console, collega nel 119 di Adriano nel suo terzo consolato, una volta praef~ctus urbis) aveva appreso a non sentire piu inclinazione dannosa per le ambizioni dei solisti, l'avversione a comporre trattati su problemi astratti, a declamare pretenziosi discorsi per esortare alla filosofia (chiare frecciate contro Frontone), l'avversione alla retorica, alla poesia, al parlare forbito, l'abitudine a leggere con molta attenzione, a non accontentarsi di capire press'a poco, l'essersi incontrato con i ricordi di Epitteto, che gli furono donati da Giunio (Ric., l, 7). In questo stesso periodo Marco Aurelio frequentò il platonico Alessandro, il peripatetico Claudio Severo (console nel 146), il giurista L. Volu- sio Meciano, gli stoici Claudio Massimo (console, legato, procuratore imperiale) e Cinna Catulo, il platonico Sesto di Cheronea, nipote di Plutarco (cfr. Ric., I, pauim). - Morto Antonino, Marco, il 7 marzo 161, sali al trono col nome di Marco Aurelio Antonino. Egli si associò al trono il fratello adottivo, che prese il nome di Lucio Annio Vero. Dopo gli anni pacifici di Antonino, gli anni in cui governò Marco Aurelio furono estre- mamente gravi per l'unità dell'Impero. t storia nota. Marco Aurelio dovette combattere in Oriente contro i Parti, mentre, sotto la spinta dei Goti, popolazioni sarmatiche e ger· maniche sfondarono le difese romane e penetrarono in Rezia, nel Norico, in Pannonia, in Mesia. I Quadi e i Marcomanni, varcate le Alpi, assediarono Aquileia e sconfissero l'esercito romano. Marco Aurelio e Lucio Vero mossero contro i barbari. Lucio mori nel 169; nel 175 Marco riusd a respingere gl'invasori oltre la sinistra del Da.nubio. Marco Aurelio fu quindi costretto a ristabilire ordine in Oriente, mentre di nuovo Marcomanni e Quadi insorgevano. Accorso contro di loro, Marco Aurelio mori, presso Vindobona (Vienna) nel 180. A lui successe il figlio Commodo. Di Marco Aurelio davvero si può 148    accantonare qualsiasi dottrina sulla struttura e il senso della realtà, tutta, in sé, né buona né cattiva, fluida e mutevole, senza significato. Le cose sono avvolte in un certo cotale velo, da sembrare a filosofi non pochi e non certo volgari del tutto incomprensibili. E persino gli stoici le ritengono ben difficilmente comprensibili. Ogni ipotesi del resto è passibile di modificazione. Dove, infatti, è colui che non debba mutare qualche conclusione? Passa in rivista dunque cose ed oggetti: ben piccola la loro durata; ben piccolo il loro valore... Passa quindi in rivista le abitudini dei cuoi contemporanei: modi di vivere che a fatica si riuscirebbe a tollerare pure in chi è piu gentile e educato, per non dire che anche costoro riescono appena a sopportare se stessi. In tenebra si grande, in tanto sozza condizione, in si grande flusso di cose e di tempi, del moto e delle cose trascinate al moto, quale realtà può venir pregiata o può in qualche modo incontrare il nostro entusiasmo? Non lo so immaginare (Ricordi, V, 10). Tutto è opinione: chiaro è a qu~sto proposito il detto del cinico M6nimo... (Il, 15). Il tempo dell'umana vita è un punto; la sua materiale sostanza un perenne fluire; la sensazione tenebra; la compagine di tutto l'organismo, immanca- bile corruzione; il principio vitale, l'aggirarsi di una trottola; la fortuna non si può indagare; la gloria, cieca. In breve, le funzioni dell'organismo sono un fiume; quelle dell'anima, sogno e vanità; ed è guerra la vita, viaggio di un pellegrino; oblio la voce dei posteri. E, adesso, a che cosa ti puoi affidare? (Il, 17). Tutto dura un giorno, e chi ricorda e chi è ricordato (IV, 35; cfr. anche IV, 33). Tutto avviene per alterna mutazione... Ogni cosa è in un certo qual modo seme di un'altra che da quella dovrà prove- nire... (IV, 36). La totalità dei tempi è quasi un fiume, formato dagli eventi; corrente che a forza travolge. Non vedi? Le singole cose, appena venute, già sono trasportate via; un'altra cosa viene trasportata. E anche questa sarà portata via (IV, 43; anche VI, 15). Volgi lo sguardo sulle umane vicende, conscio della loro precarietà, del loro scarso valore: ieri, tanta boria; domani, mummia o cenere... (IV, 48; anche V, 33). Quanto poi alle cose della vita, quelle che appaiono tanto degne d'onore, sono vacuità, mar- ciume, piccolezze, cagnolini che si mordono l'un l'altro; ragazzini che rissano e che si divertono a rissare, poi ridono e subito finiscono col pian- gere... (V, 33). Nulla di nuovo: ogni cosa, sempre quella; e insieme ogni cosa rapidamente trapassa (VII, 1). Per altro verso, invece, quella stessa consapevolezza porta Marco Aurelio a rendersi sempre piu conto che un qualche significato da dare dire che governò filosofando, e filosofò go\'ernando, cercando di attuare quello ch'era stato l'ideale politico di molti pensatori stoici. Oltre ad alcune lettere in latino, a Frontone e ad Erode Attico, di Marco Aurelio restano frammenti di suoi discorsi, e 12 libri di sue riflessioni, in greco: T« c!<; éotuT6 (Tà ~is h~aut6n}, A se st~sso, andati sotto vari titoli: Colloqui con s~ st~sso, IUcordi, P~nsi"i, Note p"sonali. Furono scritti tra il 166 circa c il 180. 149    alla vita non proviene dal di fuori, né dalla contemplazione di un ordine dato e che solo sia da conoscere, ma da un continuo approfon- dimento di se stessi, da un continuo scavare·dentro ("Scava nella tua interiorità; dentro di te sta la fonte del bene": lv8ov axoc1t"t'e:' !v8ov ~ 7t'l)~ -rou à.yot-3-ou: VII, 59), mediante cui sapere, volta a volta, come comportarsi, e rivelante nell'uomo una capacità di misura che dimostra la sua libertà, anche in un mondo che è quello che è, in cui illusione e fanatismo è credere di poterlo modificare. E adesso, a che cosa ti puoi affidare? A una sola, a un'unica cosa: la filosofia. E questa ti permetterà di conservare l'interiore dèmone senza violenza e danno: signore dei piaceri; capace di agire senza intraprendere nulla a caso; immune da menzogna e da simulazione; libero dal bisogno che altri faccia o no qualche cosa. Ancora, questo dèmone dovrà accettare gli eventi e tutto quello che gli càpita, convinto che tutto viene di là, da un luogo misterioso da cui egli pure un giorno è venuto... (II, 17). Il nostro reggere con intellettuale luce d'azione... è l'esperienza del divino e dell'umano (III, 1). [Indagando se stessi, scavando nella nostra interiorità, scopriamo noi stessi quale attività egemonica] e l'egemonico è ciò che eccita se stesso e si rivolge e si rende quale vuole... (V, 8), [per cui] unicamente buone o cattive sono le cose che dipendo_no da noi... (VI, 41). In tale senso vicinissimo a Epitteto, da Marco Aurelio a lungo medi- tato e piu volte citato (cfr. l, 7, 8; IV, 41; VII, 19, 2; XI, 34, 36), Marco Aurelio poteva trasformare il primo atteggiamento di abbandono, di disprezzo e di nausea per le cose, vane tutte, in un atteggiamento oppo- sto - che non modifica nulla se non se stessi -, in un amore per tutte le cose ("l'unica cosa che rimane a chi è buono, come propria caratte- ristica, è l'amore, l'atteggiamento di un'anima serena e tranquilla che accolga gli eventi a lei destinati"; III, 16), in un rispetto per ogni· uomo, che in quanto tale ha la capacità di trasfigurarsi da cosa accanto a cosa, da mezzo in fine, di assumere entro i termini dei rapporti umani, di volta in volta, il proprio posto, costruendo se stesso ("ogni uomo è mio affine, non certo per identità di sangue o di seme, ma in quanto partecipe di una mente e d'una funzione che è divina..., la funzione, !"egemonico,' cui spetta il sovrano dominio": Il, l, 2; "ama, dunque, ma davvero, gli uomini cui la sorte ti ha posto accanto": VI, 39). E se ciò, ripetiamo, non modifica la realtà, modifica il nostro modo di atteggiarsi verso gli altri, in una continua consapevolezza del nostro dovere (formale), che, in conclusione, può, di volta in volta, modificare lo stesso umano rapporto, ogni volta nuovo. Vane e senza significato le cose, vani e senza significato gli uomini (se presi a sé, finché restano presi dalle cose, dispersi e molteplici, le stesse cose e gli uomini - iden- tici, finché esteriorità - assumono un senso quando, attraverso se stessi, scoprendo sé come razionalità, cioè come capacità ordinatrice (egemo- nico) e come misura, si comprende delle cose e degli uomini la vanità e l'insignificanza, per cui tutto, insignificante in quan•o esteriorità, assume un suo posto, un suo senso, in quanto interiorità, entro i termini della nostra opinione. In nessun luogo piu che nell'anima, con maggior tranquillità, con piu facilità, un uomo può ritirarsi... [e troverà pace]. E con questa pace voglio intendere disposizione di ordine perfetto (IV, 3). Di tutte le cose devi scor- gere la volgarità e quella loro magnificenza, per cui appaiono tanto impor- tanti, la devi togliere via... (VI, 13). Bisogna sapetsi valere di chi è signore della propria anima [l'egemonico o il divino che è in noi], per opera del quale l'uomo non può essere toccato dal piacere, non può essere vulnerato da nessun dolore, né colpito da nessuna violenza...; pronto ad accogliere amoroso, con l'anima tutta quanta, quello che accade e quello che gli viene assegnato, tutto... Quest'uomo sa che in suo potere è soltanto la propria interiorità e pensa senza interruzione alle cose proprie, quelle che l'uni- versale connessione degli eventi gli arreca... In realtà il destino a ciascuno attribuito viene portato a uguale mèta dal destino universale, e parimenti a uguale destino procede. Tiene ancora presente nel ricordo che quanto pos- siede razionalità gode di natura profondamente affine; che è proprio del- l'uomo prendersi cura di ogni uomo... (III, 4). Togli il giudizio della tua mente e sarà tolto il "sono stato offeso"; togli il "sono stato offeso" e sarà tolta l'offesa (IV, 7). Se provi dolore per qualche offesa che è fuori di te, non questo fatto singolo precisamente ti turba, bensf il giudizio che tu vieni facendo su quello (VIII, 47). O meglio, in sé non esistono né un'interiorità né un'esteriorità, ma interiorità ed esteriorità sono due modi diversi di atteggiarsi di fronte alla stessa realtà: irrazionalmente (e allora siamo presi dalle cose, deter- minati, passivi, dispersi); razionalmente (e allora tutto dipende da noi, nella consapevolezza che ragionevolmente il tutto si organizza razional- mente; ha una sua ragion d'essere). E a ciò si giunge non dal di fuori, non accettando supinamente, scolasticamente, una o altra dottrina, ma indagando, scavando se stessi, pensando - e tale è stato l'insegnamento piu alto di un Seneca e di un Epitteto -, non attraverso una sapienza già data, o librescamente assunta (dice Marco Aurelio a se stesso: "lascia andare i libri, non è piu tempo di simile cura": II, 2; " scaccia quella sete di libri, se non vuoi giungere a morte mormorando, ma vera- mente sereno e grato agli dèi dal profondo del cuore": II, 3; "Da Rustico ho imparato l'avversion~ a comporre trattati su problemi astratti, a declamare pretenziosi discorsi per esortare alla filosofia, a farmi vedere uomo intellettuale e studioso, benefico solo per colpire le menti altrui; l'avversione alla retorica, alla poesia, al parlare forbito": I, 7); ma attra- verso una sapienza frutto di quello stesso meditare ("da Apollonia ho imparato il tono libero del mio carattere... quel mio sguardo rivolto soltanto e incessantemente a vie razionali": l, 8), che scopre all'uomo come l'uomo è pensiero, razionalità che è tale in quanto esercizio, che costruisce sé mediante lo stesso pensare. Di qui, anche la forma letteraria dell'opera di Marco Aurelio, che non è affatto un trattato, né una doxografia, né un'esposizione logico- dottrinaria, né un insegnamento ("se da: Rustico ho imparato l'avver- sione a comporre trattati su problemi astratti..., se da Sesto ho impa- rato ad esser ricco di dottrina senza farne continua mostra": I, 7, 9), ma la presentazione - unica forma d'insegnamento - del proprio ripensamento, del proprio meditare, del continuo discorso a se stesso (èis heautòn). Marco Aurelio, cosi, nei termini del dovere formale del- l'uomo (ciascuno, meditando su se stesso, assume il posto che gli com- pete nell'ordine sociale, costituendo quell'ordine), cerca di determinare il proprio posto che natura e sorte gli hanno dato, rendendosi conto del proprio dovere di imperator~ e della funzione che nell'ordine sociale gli compete, per il bene della comunità: e ciò è dovere di ogni uomo, per quella comune ragione che ci fa tutti fratelli ("a Severo, mio fratello, debbo anche l'aver potuto conoscere per mezzo suo Tdsea, Elvidio, Catone, Diane, Bruto, e l'aver potuto far sorgere in me il desiderio di un governo, in cui la legge abbia vigore per tutti; informato, questo governo, a uguaglianza e a libertà di parola, un regno capace di rispet- tare per suprema ragione la libertà dei sudditi": I, 14}, giorno per giorno. E.un diario è, appunto, il libro di Marco Aurelio, non a caso intitolato -ra e:tç lotu-r6v (tà èis heaut&n), cioè a se stesso, in genere tradotto con Colloqui con se stesso, o con Ricordi e Pensieri, o Note personali. L'opera, che si divide in 121ibri, non fu scritta tutta insieme, né secon4o l'ordine dei libri quali noi leggiamo (sembra che il I sia stato composto per ultimo, mentre i libri II, III e XII siano stati scritti per primi: certo, l'insieme, tra il 169 e il 180; Marco Aurelio era stato nominato imperatore nel 161, mori nel 180, e gli anni tra il 169 e il 180 furono i piu gravi del suo regno, in guerre continue, in cui egli dovette assu- mc;rsi le piu alte responsabilità per sé e per l'impero, di cui si sentiva il servitore). Il filo conduttore dei Ricordi di Marco Aurelio sta proprio in questo suo sforzo continuo di chiarire sé a se stesso, attraverso cui cogliere, di volta in volta, ciò che a se stesso compete, imparare a essere uomo, a compiere il proprio ufficio consapevolmente ("non agire mai contro il tuo volere; e nemmeno senza proporti quale mèta un comune bene, senza opportuna ponderazione; né, d'altra parte, dubitoso e in- certo... Quel Dio che dimora dentro, in te, sia il tutore di un uomo virile, venerabile per gli anni, conscio di una sua naturale politicità, romano, imperatore, già pronto per il suo posto...": III, 5). D'altra parte, se, stoicamente (epitettianamente}, saper pensare è realizzazione piena della verace natura dell'uomo (per cui primo dovere dell'uomo è imparare a pensare} e saper pensare è costituire in armonia e ordinatamente le proprie impressioni, per cui quello stesso mondo che appare nell'immediatezza sensibile e dispersa disordinato, indivi- dualmente insignificante e senza senso (o, per altro verso, prendendoci unilateralmente, ci determina dispersivamente, per cui patiamo la realtà quale appare, molteplice e senza senso, dandole un significato, un valore che non ha), si risolve, invece, in quanto razionalmente ordinato e non piu visto individualmente, unilateralmente, come unità, ove tutto ·ha un suo giusto posto, che, dunque, dipende da noi, dal nostro modo d'essere ragionevoli o meno. Ogni natura basta a se stessa, quando procede sulla retta via. E una natura razionale procede sulla retta via quando non dà il suo assenso a immaginazioni menzognere e oscure; quando dirige i propri impulsi alle sole opere che hanno quale mèta il bene comune; quando ricerca o evita quelle cose sole che sono in nostro potere; quando ama tutto quello che le viene assegnato dalla comune natura. Ogni singola natura è parte di quella comune a quella guisa che natura di foglia partecipa alla natura della pianta; con la sola differenza che in questo caso natura di foglia è parte di una natura insensibile, irrazionale, e che può subire coercizione; invece natura d'uomo è parte di una natura che non ammette coercizione, intelli- gente e giusta, dato che distribuisce ai singoli, con uguale criterio e secondo il merito, parte di tempi, di sostanza, di causa, di attività, di vicende. E devi compiere la tua osservazione non isolando per ogni fatto un singolo parti- colare, rispetto ad un altro particolare uguale, ma considerando nel loro complesso particolari di un singolo fatto e in relazione a quelli d'un altro, pur nel loro complesso. Non solo, ma poiché l'uomo, attraverso il suo stesso pensare, scopre sé come attività unificatrice, come ragione che è tale non in sé, ma in quanto organizzazione di sé, come attività egemonica di un se stesso, molteplicità e passioni - non a caso Marco Aurelio riprende il vecchio termine stoico "egemonico" per intendere la razionalità - realizza- zione del proprio soffio vitale (pnéuma) in un ordine e in una misura delle passioni, in cui, appunto, consiste la razionalità, nulla vieta di fare l'ipotesi che la stessa essenza del tutto, la sua natura, il divino, sia questa stessa forza vitale che si realizza ordinando il tutto in unità, socievolmente ("la Mente dell'universo ha carattere socievole": 6 -rou 15ì-.ou vou~ xotvwvtx6~: V, 30), e di cui, dunque, il nostro "ege- monico" è un momento, un aspetto, mediante cui non solo si è capaci di porre ordine in sé scoprendo attraverso sé l'ordine e, perciò, la provvidenza del tutto ("o una cosa o l'altra: confusione, accozzamento e dispersione, oppure unità, ordine, provvidenza": VI, 10), ma anche, accettando consapevolmente il proprio posto - e ciò spetta a ciascuno - di rispettare gli altri, riconoscendo negli altri se stesso, la propria razio- nalità, in un amore di sé che è amore degli altri (socialità), in un amore del tutto che è amore di Dio. L'umanità steS&a, dunque, in quanto razionalità, esiste in quanto ordine e unità consapevole, in cui ciascuno ha il suo posto e in cui ciascuno è uguale all'altro in quanto capacità razionale, in quanto in tutti, come razionalità, è una scintilla dell'unica razionalità divina che ci fa tutti parenti. Quell'uomo è mio affine, non certo per identità di sangue o di seme, bens{ in quanto partecipe di una mente e di una funzione che è divina (Il, 1). In un organismo unificato le membra del corpo hanno una determinata funzione; ebbene, la stessa funzione, pur separati l'uno dall'altro, hanno i viventi razionali, congegnati in vista di un'unica profonda collaborazione. Anzi, nconcetto di questo fatto ti sarà piu chiaro qualora tu ripetessi piu volte a te stesso: "Io sono membro di una schiera, schiera ordinata di creature razionali." Al contrario, se tu dici che ne sci soltanto una parte, non ancora con tutto il tuo cuore ami gli uomini; non ancora il far bene a qualcuno ti dà gioia completa. Parimenti, compi questo beneficio soltanto come cosa dovuta, non sci ancora convinto di far bene a te stesso (VII, 13). Ci sono due verità alle quali potrai volgere intento sguardo. La prima è questa: le cose non arrivano a toccare l'anima;. bensf rimangono fuori come sono; il turbamento proviene solo dall'interiore valutazione. La seconda: tutte queste cose che vedi, quanto rapidamente si mutano e piu non sono!... Se la facoltà intellettiva è comune per tutti; se la ragione, in quanto siamo razionali, è pure comune; se cosf è, la ragione, in quanto imperativa delle cose che si debbono fare o meno, è anch'essa comune; quindi anche la legge è comune; quindi siamo anche·cittadini, partecipi di wi'organizzazione statale, quasi una Città, uno Stato, insomma. In realtà nessuno potrà dire che tutto il genere umano partecipi a qualche altra città in tal modo comune a tutti. E di qui, da questa città universale, vengono a noi intelligenza, razio- nalità, legalità... (IV, 3, 4). Solo va sottolineato che ciò Marco Aurelio non pone come dogma, ma vi giunge attraverso la stessa riflessione morale, che, scoprendo l'es- senza dell'uomo, la sua natura come attività razionale, può far porre 154    come ipotesi che, appunto, lo stesso principio e fine del tutto è la razio- nalità, intesa come ordine e socialità. L'opzione di Marco Aurelio per la tesi di fondo dello stoicismo riflette chiaramente il significato della morale di Marco Aurelio intesa come conflitto, se vogliamo, tra il momento cinico e il momento stoico che si scioglie dalla sua rigidità antologica per divenire postulato e dovere morale, cui si giunge mediante la stessa riflessione sul nostro essere uomini, che costituisce e costruisce la nostra persona. E l'uomo resta, sempre, dilacerato tra una realtà che è quella che è, indifferente, insignificante, inutile, tra cui vi sono gli uomini, che sono quello che sono, ove tutto è monotono, noioso, ove si nasce e si muore, ove tutto non merita nulla; e una realtà che rivis- suta razionalmente appare ordinata e costituita secondo una piu profonda ragion d'essere, per cui quellà stessa realtà, quegli stessi uomini, pur rimanendo quali sono, un nulla, foglie che vanno, foglie che vengono ("fragili foglie anche i bimbi tuoi, fragili foglie anche questa gente che ulula..., fragili foglie per non differente condizione anche le stirpi desti- nate a ricever la fama dei giorni venturi...; ma poi vento le getta per terra e, successivamente, la selva altre, invece di quelle, ne genera; e fugacità di un istante a tutti è comune; ma intanto tutte queste cose tu vai perseguendo oppure fuggendo, proprio convinto che.la durata ne sia eterna; ancora un poco e chiuderai gli occhi, e per colui che ti accompagnerà al rogo, altri farà il lamento funebre": X, 34), li com- prendiamo come a noi vincolati, li vogUamo per quel che sono, li accet- tiamo volontariamente sapendo ciascuno giuocare la propria parte (Marco Aurelio la sua parte di Imperatore), in un rispetto delle varie parti, che è rispetto della comune ragione, che ci fa tutti fratelli. L'uomo, dunque, che è uomo in quanto ragione, cioè in quanto capacità di portare ordine e misura in sé,·di volta in volta obbietti- vando il valore delle cose, sapendo ciò che valgono - né molto né poco - non facendosi prendere dalle cose stesse, è ·tale in quanto è già in se stesso armonia di una molteplicità, è società, ove non una parte vale piu dell'altra,.ma sono tutte uguali nell'unica ragione ("egemonico") che le articola. Sotto questo aspetto anche gli altri (tali finché si resta sul piano del sensibile, dell'immediatezza, della passione, del dare piu valore ad una piuttosto che ad altra cosa) sono noi stessi, per cui in essi vogliamo noi; cioè, appunto, la comune razionalità che ci fa sociali, membri di un'unica città ("d'altra parte, tu sei uomo proteso a compiere, comunque sia, il bene dell'umana comunità": XI, 13; "o uomo, fosti cittadino di questa grande città; qual differenza per te, se per tre o cinque anni?": XII, 36; "siamo nel mondo per reci- proco aiuto, come piedi, come mani, come palpebre, come i denti di  sopra e di sotto in fila; in conseguenza è contro natura ogni azione di reciproco contrasto": Il, 1). L'amore per gli altri- amore per noi- non è, dunque, un amore in funzione di un aldilà, di un premio, di un Dio che cosi vuole, di averne indietro riconoscenza o che sia (cfr. VII, 73), ma è un amore che si risolve tutto entro i termini dello stesso orizzont~ umano, in un desiderio e in una volontà di costruire un mondo umano quale dovreb- b'essere per natura, cioè razionalmente ("sempre si ricordino le ragioni con le quali fu dimostrato che l'universo è come una città": IV, 3). Nulla individualmente eterno, ché tutto, l'uomo compreso, sia come corpo, sia come forza vitale (nei suoi tre aspetti: facoltà egemonica e coscienza di sé, il dèmone proprio, soffio vitale e anima: cfr. Il, 2), si trasforma, riemerge, ritorna al tutto, unico.eterno; in tale consapevo- lezza- lunga o breve che sia la vita: un nulla; sempre uguali le cose: vanità - dobbiamo essere noi stessi, simili "ad un promontorio contro il quale incessantemente si infrangono le onde e quello sta saldo, e si abbonacci intorno a lui la gonfia protervia del flutto" (IV, 49), sempre, nell'istante, nel presente ("solo l'istante presente è quello di cui l'uomo dovrà sentire privazione; effettivamente questo solo egli ha, e ciò che non/si ha non si può perdere": Il, 14). Iri. effetto il passato non è piu e il futuro non c'è, e la vita autentica è fuori del tempo, nell'a~timo in cui siamo noi stessi. Se ogni cosa assume un senso nella nostra con- sapevolezza, nella retta ragione, non c'è un prima e un poi, ma, ap- punto, ogni volta, l'attimo, e la virtuosità è tale in ogni istante, né v'è passaggio da una minore ad una superiore virtu e viceversa. Noi siamo, dunque, impegnati tutti in ogni istante, siamo in ogni attimo chiamati a decidere di quello che siamo, e, appunto, in ciò si abolisce il timore e la speranza che sono sempre immagini, rappresentazioni passionali. In ogni momento, essendo noi figli del nostro meditare, che ci costruisce e ci genera quali siamo, risolviamo nel presente il nostro passato. Vi- viamo, perciò, insieme, nel tempo (i momenti del processo in cui si scandisce il ritmo della realtà) e nell'eterno (il presente) in cui la realtà tutta si risolve nella consapevolezza che ne abbiamo (tale l'in'terpre- tazione del motivo stoico dell'" eterno ritorno," che da temporale diviene atto della consapevolezza morale). Né buona né cattiva la realtà, essa è sempre quella che è, onde rimaniamo imperturbati, o, pur soffren- done o gioendone, sappiamo in che consistono tali sofferenze e gioie, per cui non siamo piu presi da esse, non le patiamo piu. E perciò, morti anche in questa vita, vivi solo in quanto razionalità, che ci perde o nel tutto o negli altri, piu non temiamo la morte, ché in ogni momento monamo. 156    Anche nell'ipotesi che tu debba vivere anni tremila e altrettanti anni diecimila, in ogni modo ricòrdati d'una cosa: ne~suno perde una vita diversa da quella che in quell'istante egli ha; né altra vita vive se non quella che in quell'istante egli perde. A egual punto, dunque, perviene una vita lun- ghissima e una vita del tutto breve. Vedi che il presente è per tutti uguale, ciò che via via si· allontana non è piu nostro, e il tempo che via via tra- scorre è istante brevissimo. Infatti, non si può perdere il tempo trascorso e nemmeno il tempo futuro; come sarebbe possibile che ci venisse tolto ciò che non si ha? Insomma di questi due fatti bisogna tener vivo il ricordo: il primo, che tutto perennemente è sempre d'un solo aspetto e che si aggira quasi in un cerchio e che non fa differenza in nulla se si dovranno vedere le medesime cose per cento, per duecento anni oppure per un tempo che sia senza limiti. Secondo fatto: chi muore carico di anni e chi muore subito perde una stessa cosa. Vedi bene che solo l'istante presente è quello di cui l'uomo dovrà sentir privazione; effettivamente, questo solo egli ha e ciò che non si ha non si può perdere (Il, 14). Se un uomo considera unico bene l'istante; se giudica'egual cosa aver compiuto azioni conformi a retta ragione in grande numero o in numero piu esiguo; se non fa differenza alcuna, questo uomo, del poter contemplare il mondo per un tempo piu lungo o piu breve; a costui certo la morte non costituisce motivo di paura (XII, 35). O uomo, fatti cittadino di questa grande città: qual differenza per te, se per tre o cinque anni?... È la medesima cosa che se il·capocomico che l'aveva chiamato, congedasse poi l'attore dal teatro. "Ma non sono arri- vato a rappr~sentare tutti i cinque atti: soltanto tre." Hai ragione; ma nella vita anche tre anni soltanto costituiscono l'intero dramma (XII, 36). Cia-· scuno vive questo istante ch'è presente: tutto il resto è vita trascorsa o incerta (III, 10). Cerca di mettere a profitto l'attimo presente con giusta ragione e con giustizia (IV, 26) (cfr. anche IV, 48]. Sono formato di fra- gile corpo e di anima. Per quanto riguarda il corpo, tutto riesce indifferente; del resto, neppure gli è concesso di far differenza alcuna. Alla mente, invece, sono indifferenti quelle cose che non siano sue operazioni. Quante cose invece dipendono dalla sua attività dipendono tutte dal suo poterei anzi, fra queste, a dir la verità, la mente si preoccupa solo di quante si riferi- scono al presente; le future e le trascorse sono operazioni sue già compiute e ormai indifferénti (VI, 32). Sotto questo aspetto Marco Aurelio è assai vtcmo non solo a certi motivi cinici, ma anche, indipendentemente dai presupposti fisici del- l'epicureismo, a certe conclusioni dell'etica epicurea. Ma forse il turbamento tuo proviene dal considerare la sorte a te asse- gnata nell'universale destino? In tal caso devi ricordare il dilemma famoso: o provvidenza oppure atomi... (IV, 3). O una cosa o l'altra: confusione, accozzamento e dispersione, oppure unità, ordine, provvidenza. Se ha valore la prima opinione, perché tanto desiderio di indugiare in una mescolanza dovuta al caso?... Oh! verrà certo anche per me il momento della disso- luzione, qualunque cosa io cerchi di fare. Se invece ha valore la seconda ipotesi, adoro, me ne sto tranquillo, nutro fiducia in colui che governa (VI, 10). Morte: o si tratta di dispersione, se vi sono gli atomi; o annienta- mento; o anche cambio di dimora, se ci attende un'altra unione (Sul piano umano uguali sono le conclusioni]. O necessità di prefissato destino, o posto dal quale non si può sfuggire; oppure provvidenza che può essere placata; oppure, infine, confusione senza guida alcuna, un regno del caso. Se si tratta di una necessità dalla quale non si può sfuggire, perché tanto ti occupi? Se invece c'è una provvidenza che può essere placata, rendi in tale caso te stesso degno dell'aiuto che dalla divinità può provenire. Da ultimo, se regna confusione senza nessuno che governi, stai contento perché in tem- pesta cosi grande per conto tuo hai in te stesso mente capace di guidare e condurre (XII, 14)... E che cosa c'è di diverso, allora, in certo senso, se ci fossero veramente gli atomi e le singole parti della materia? Insomma, se vi è un Dio, tutto procede bene; se un caso, ebbene non procedere tu pure a caso (IX, 28). Sembra chiaro, cosi, in che senso Marco Aurelio, tra epicureismo nei suoi fondamenti fisici -, e stoicismo - nel suo motivo della divinità intesa come razionalità, che nel suo costituirsi pone tutto come è bene che sia, in un ordine sociale - abbia optato per lo stoicismo, in cui la realtà, tutte le cose, nella loro necessità, nel loro inesorabile esserci, portano a postulare un principio razionale e provvidenziale e perciò stesso un fine, che diviene, umanamente, un dover essere, che, per altro verso, s'incentra, come vedevamo, nella nostra stessa interio- rità, nello stesso amore per noi e per gli altri, che è, appunto, amore per la razionalità comune, per il bene, per Dio, principio e fine. Tale la religiosità di Marco Aurelio: certo lontanissima dalla fede, dalla speranza, dall'amore dei Cristiani, e dal loro concetto di uomo, che, attraverso il Cristo si salverà e risorgerà personalmente, in eterno, in quanto uomo; tutto questo per Marco Aurelio è irrazionalità, antro- pomorfismo, orgoglio, disumanità, immoralità, prepotenza, asocialità, rottura contro lo Stato costituito a somiglianza della politèia cosmica. Entro i termini dello "stoicismo" si delinea bene, ora, il significato dato all'Impero da Marco Aurelio, e la funzione che nell'Impero deve assumere il sùo capo, che, in un'accettazione consapevole del suo posto, datogli dalla stessa ragion d'essere del tutto, deve tradurre in termini legali quella che è la stessa socialità dell'universo, la sua giustizia, in un'armonia che sia rispetto della funzione e del posto di ciascun citta- dino. Sotto questo aspetto si compie con M::rco Aurelio quella linea politica che, in una giustificazione dell'Impero di Roma, aveva preso le sue mosse, come abbiamo veduto, con Diane Crisostomo, e che si venne realizzando da Vespasiano a Marco Aurelio (cfr. sopra), in una ripresa, appunto, assai duttile di certi motivi stoici - la legge univer- sale, l'imperatore incarnazione della ragione sociale del tutto, il re filàntropo, ciascuno al suo posto, ciascuno in funzione dell'unico Stato -, usando anche certi aspetti delle Leggi di Platone e il motivo della giusta misura (i doveri medt), di Aristotele, dove, infine, non poche volte si sente la presenza dell'ideale "res-publica" di Cicerone. Particolarmente indicativi sono, su questa linea, i nomi fatti da Marco Aurelio, cioè Trasea, Elvidio, Catone, Bruto, dai quali egli avrebbe tratto ispirazione per il proprio concetto di Stato e di governo, dove l'imperatore non è un desposta, ma un pater e un correttore: "attraverso essi ho potuto far sorgere in me il desiderio di un governo in cui la legge abbia vigore per tutti; informato, questo governo, a uguaglianlZa e a libertà di parola, un regno capace di rispettare per suprema ragione la libertà dei sud- diti" (1, 14). "Relitto di città, chi stacca l'anima propria dall'anima comune degli esseri razionali, anima che è una sola" (IV, 29). Di qui, entro i termini della propria posizione di imperatore, la filantropia di Marco Aurelio, la sua clemenza, la sua misura nel governo, il suo tratto e il suo sentirsi "pater" dell'umana famiglia, in una, in fondo, vis- suta e sofferta pietà per gli uomini tutti e per se stesso: "causa ultima dell'universo è un torrente che tutto spazza via. Di che poco conto sono queste creature sociali e politiche, questi minuscoli e piagnucolosi esseri umani, che immaginano di praticare una vita di filosofi" (IX, 29).La preparazione culturale. Diogene Laerzio. Entro questa atmo- sfera, se Marco Aurelio poteva, sul piano di una possibilità etica, optare per un certo "stoicismo," che nelle sue serissime conclusioni aveva la possibilità, sul filo dell'orizzonte umano, di incontrarsi con l'epicurei- smo, la consapevolezza di Marco Aurelio,.del resto, come abbiamo veduto, estremamente diffusa, dell'impossibilità teoretica di oltrepassare la stessa ragione, conduceva, sul piano di un'indagine piu strettamente scientifica, nell'àmbito delle scuole, a discutere quali fossero le ipotesi, non contraddittorie, cioè non piu possibili d'essere dialetticamente con- futate, che permettessero una deduzione, una spiegazione del reale. Abbiamo già visto quali: dal "pitagorismo," inteso come logica mate- matica mediante cui si poteva rendere pensabile la realtà, e con cui si poteva, assUmendo l'aspetto piu formale dell'analitJca aristotelica e certi motivi della logica proposizionale e del sillogismo ipotetico del primo stoicismo, trovare una ragione della costruzione platonica del Timeo; a un tipo di platonismo stoicheggiante e vitalistico a cui si avvicinano certi testi del corpo ermetico, in una conclusiva visione di sfondo entro cui fossero riprese e giustificate le varie esperienze ed ipotesi storica- mente delineatesi. Nei termini di tale piu vasta silloge, in un tentativo di deduzione logica, che non oltrepassasse, contraddittoriamente, i limiti della razionalità, ed entro cui, appunto, si potesse rendere conto anche delle varie esperienze religiose, si venne a muovere, nel corso del m se- colo d. C., il pensiero di Plotino. Peraltro si capisce cos!, sempre entro l'àmbito delle scuole e della piu generale preparazione culturale dei cit- tadini dell'Impero, da un lato il fiorire di sillogi, di epitomi, isagogi, di raccolte di questioni su singoli problemi (dossografie) su cui discutere, dall'altro lato di opere ove vengono messi in discussione gli argomenti piu svariati, anche senza ordine, in una delineazione chiara di quelli che furono i vivi e molteplici interessi di una certa epoca. E qui, per ciò che riguarda l'aspetto piu largo e divulgativo, rispon- dente alle esigenze diffuse di un pubblico piu vasto, particolarmente pensiamo all'opera del latino Aulo Gellio (nato sotto Adriano, morto sotto Marco Aurelio, discepolo di Calvisio Tauro e di Peregrino, amico di Attico, di Frontone, di Favorino, viss.uto tra Roma ed Atene), le Notti attiche, e a quella dell'egiziano Ateneo (originario di Naucrati, vissuto tra la seconda metà del n secolo e la prima del m), l sofisti a convito (Deipnosofistt), che, preziosissime come fonti (evidentemente se assunte criticamente), vanno soprattutto considerate in quanto indici precisi di una molteplicità di interessi, di tutta un'atmosfera culturale~ Per il primo aspetto, invece, sembra di particolare inter~sse ricor- dare i Placita di Aezio, vissuto tra la fine del I secolo d. C. e la prima metà del II. Il Diels (Doxographi, Prol., pp. 99-102), nella sua rico- struzione dei Dossografi greci, ha mostrato che Aezio è autore di una dossografia intitolata l:uvatyCùy1} 'CblV &.pcaxoV'f:CùV (Raccolta dei pa- reri, o Placita), perduta, di cui ritroviamo traccia nei P/acita philoso- phorum (del 177 circa), attribuiti a Plutarco, in Teodoreto - Iv-v se- colo -, in Nemesio - Iv-v secolo - e nelle Ecloghe di Stobeo (v secolo d. C.). I Placita di Aezio deriverebbero a loro volta dai Vetusta Placita, un'epitome in 6 libri delle Opinioni dei fisici di Teofrasto, composta entro l'àmbito della scuola di Posidonio, nella prima metà del I secolo a. C., alla quale non poco avrebbe attinto Cicerone. Ma accanto al filone dossografico, facente capo ad Aezio e allo pseudo- Plutarco, non va scordato un secondo filone che risalendo a un'altra epitome in 2 libri delle Opinioni dei fisici di Teofrasto, composta nell'àmbito della prima scuola teofrastea, si arricchi poi di nuovi testi e frammenti, particolarmente stoici (da tale epitome attinsero, per le loro discussioni e ricostruzioni, Sozione, Cicerone, Ario Didimo, l'au- tore della Stromateon Ecloga, andata sotto il nome di Plutarco, Ippo- 160    lito, Diogene Laerzio). Ora, a parte l'interesse che hanno questi fram- menti dossografici come fonti e testimonianze di opere antiche andate perdute, ciò che qui va sottolineato è da un lato la loro funzione di materiale per le discussioni,. dall'altro lato la loro impostazione dovuta a Teofrasto, che venne determinando non solo una certa delineazione di problemi, ma anche, di volta in volta, a seconda di interessi diversi, la struttura stessa della discussione in senso dialettico, cioè secondo il metodo aristotelico di presentare le varie soluzioni di certi problemi, si che fosse possibile il confronto dialettico, e, attraverso questo, il rintraccio di quelle ipotesi non piu dialettizzabili (in questo senso è chiaro perché Aezio sia stato detto "peripatetico"); ciò poteva por- tare, in un àmbito metodologico, o ad accettare una o altra ipotesi, cavata dalla discussione di testi platonici, aristotelici, stoici, senza con questo negare in pieno l'una o l'altra ipotesi; dell'una o dell'altra con-.cezione, se negate dialetticamente, si potranno sempre dialetticamente recuperare altri. aspetti, e cosi via. Di qui, anche, entro i termini di una discussione scientifica delle condizioni del sapere, accanto alle "introduzioni" per una lettura delle opere di Platone o di Aristotele, ai commenti di certe opere di Platone o di Aristotele, scaturisce l'interesse per le sillogi di certi filoni di problemi e di soluzioni comuni di certi problemi, per le quali ci si venne servendo delle prime distinzioni in scuole della storia del pensiero, ove soprattutto si tenne presente il criterio delle "successioni" (8tat8oxatt: diadochàt), sempre ordinate dialetticamente. Tale filone ebbe il suo primo rappresentante in Sozione, vissuto nel II secolo a. C., autore appunto di un'opera intitolata Successioni, e proseguitosi tra il II e il I secolo a. C. con Eraclide Lembo, Sosicrate, Nicia di Nicea. Per altro verso, invece, in particolare tenendo conto, via via, del- l'ideale di vita, che trova il suo fondamento in una o altra conce- zione, e dell'importanza che per avviare alla virtu assume in campo stoico l'esempio, si comprende come si sia venuto formando l'interesse per la ricostruzione della vita dei filosofi, che risalendo alle Vite di Ermippo e di Antigono di Caristo del m secolo. a. C., e alle Vite di Satiro, di Neante di Cizicci e di Diocle di Magnesia, tra il 11 e il I secolo a. C., ha dato luogo, tra il I e il 11 secolo d. C., ad un largo fiorire di Vite degli uomini illustri. Entro questa prospettiva, tali raccolte, manuali, sillogi, successioni, antologie, assumono un non indifferente valore storico, non solo come fonti per la conoscenza di opere perdute - sotto questo aspetto, evi- dentemente, da prendere tenendo conto del tempo in cui sono state composte, e della loro strutturazione prospettica -, ma sopratt\Jtto come indicazioni del materiale posto in discussione, e, quindi, degli interessi culturali di certe epoche, e, perciò, sembra, non si può dire che siano dei mèri centoni, o ope~a di eclettici privi di un pensiero originale. Non questa, certo, fu la loro funzione. È in questa delineazione che va considerata, proprio sulla prima metà del m secolo l'opera di Diogene Laerzio,28 Le vit~ d~i filosofi, che, nel tentativo di presentare, sempre documentatamente, gli aspetti molteplici con cui si è venuto formando il pensiero greco, si è valso, ad un tempo, delle succe-ssioni, delle vite, delle dossografie e delle cronografie, in una fusione di vari filoni storiografici, e in una rico- struzione del pensiero greco su grandi direttrici dialettiche. "Le Vit~ di Diogene Laerzio," è stato detto, "sono una esposizione della filo- sofia greca quasi divulgativa, anche superficiale, se si vuole, ma senza il difetto di sintetizzare in facili schemi l'enorme materiale, un'amo- 2 8 Diogene Laerzio visse, proba~mente, nella prima metà del III secolo. Nel IV secolo, Sopatro di Apamea, discepolo di Giamblico riportava nelle sue 'Ex).oyetl 3Leicpopo1 (Eglogh~ divn-s~) testi di Diogene; Diogene, per altro, in IX, 116, cita Sesto Empirico e Saturnino discepolo di Sesto, sottolineando che Sesto era stato discepolo di Erodoto, a sua volta discepolo di Menodoto; poiché Galeno, che non cita Sesto, cita Erodoto, e sappiamo che Galeno visse fin circa il 200, si è sostenuto che, dunque, Sesto avrebbe scritto tra il 200 e il 220, e che Diogene avrebbe, perciò, dovuto scrivere la sua opera tra il 220 e il 250 circa. Non sappiamo dove nacque e molto si è discusso anche sull'appellativo Lan-aio. Secondo il Wilamowitz (Epin. Gd MIIIUs., "Philol. Unters.," 111, 1880) AOtépTIO~ è un signum dedotto dall'omerico 81oycvèç AetcpTLet3'1) (dioghenès Laerti4de) (cfr. 'E. Schwartz, Rea/ Enr., V, l, col. 738; anche M. Gigante, in trad. it. delle Vite dei filosofi, Bari). Da Diogene stesso sappiamo (1, 63; VII, 31; VIII, 75; IX, 43; I, 120; IV, 65; VI, 79; VII, 164) ch'egli scrisse un libro di epigrammi intitolato Pijmmetros (Libro di m~tri di ogni tipo), intorno a tutti gli illustri estinti (1, 63), che usò poi, per quel che riguarda i filosofi, nella stesura della sua opera maggiore pervenutaci. L'opera maggiore di Dio- gene nei codici piu ant!<h; è andata sotto il titolo ~I.Àoa6cpC1111 ~LCIIII xetl 3oy!JoliTCilll auvetyCilylj~... (Vite di ll•'JJ?fi e raccolta di opinioni!. Le Vite, dedicate a un'ammiratrice di Platone (DI, 47), si dividono in dieci libri e si aprono con un Proemio di notevole importanza poiché vi si determina il criterio dell'opera. Nel primo libro si espongono vita e pensiero di: Talete, Solone, Chitone, Pittaco, Biante, Cleobulo, Periandro, Anacarsi lo Scita, Mùone, Epimenide, Ferecide. Nel s~condo libro ai tratta di: Anassima.ndro, Anassimene, Anassagora, Archelao, Socrate, Senofonte, Eschine, Aristippo, Pedone, Euclide, Stilpone, Critone, Simone, Glaucone, Simmia, Cebete, Menedemo. Il terso libro è dedi- cato a Platone: biografia, opere, dottrina, dossografia. Il qu~o libro tratta di: Speu- sippo, Senocrate, Polemone, Cratete platonico, Crantore, Arcesilao, Bione, Lacide, Car- neade, Clitomaco. n quinto libro è dedicato ad Aristotele e alla sua scuola: Aristotele, Teofrasto, Stratone, Licone, Demetrio, Eraclide. Nel libro sesto si tratta di: Antistene, Diogene di Sinope, Monimo, Onesicrito, Cratete, Metrocle, Ipparchia, Menippo, Menedemo. n libro settimo è dedicato allo stoicismo: Zenone, la logica stoica, l'etica stoica, la fisica stoica, Aristone, Erillo, Dionisio, Cleante, Sfero, Crisippo. Il libro ottavo tratta di: Pita- gora, Empedocle, Epicarmo, Archita, Alcmeone, lppaso, Filolao, Eudosso. Nel libro nono si espongono le vite e le opinioni di: Eraclito, Senofane, Parmenide, Melisso, Zenone di Elea, Leucippo, Democrito, Protagora, Diogene di Apollonia, Anassarco, Pirrone, Timone. Il libro decimo è dedicato ad Epicuro. 162    rosa raccolta delle varie notizie sparse in innumerevoli libri, non sem- pre facilmente accessibili. In esse la filosofia non è unicamente l'atti- vità speculativa, è un concetto piu ampio, che investe ogni minimo particolare della vita dell'uomo: una vita che nel filosofo è l'espres- sione sensibile della ricerca interiore. E questo punto di vista caratte- rizza già l'atteggiamento eccezionale di un pubblico, frutto di lunga tradizione, verso i propri filosofi...: è una rappresentazione ideale di una mitica società di saggi e di grandi a colloquio" (Pasquinelli, Intro- duzione a I Presocratici, l, Torino, 1958, p. XXXI). Non possiamo dire a quale delle filosofie esposte particolarmente aderisse Diogene Laerzio (forse, si è detto, all'epicureismo, dato che un libro intero delle Vite, l'ultimo, il X, è dedicato ad Epicuro, di cui riporta le tre celebri lettere e le massime, e a cui Diogene si avvicina con grande simpatia; forse allo scetticismo, le cui tesi, particolarmente l'aspetto dialettico critico, sono esposte con aderenza e precisione; forse al platonismo, si è aggiunto, essendo l'opera dedicata ad un'am- miratrice di Platone: cfr. III, 47). In realtà, ciò che qui preme sotto- lineare, come indice di tutto un atteggiamento culturale, scientifica- mente valido, e rispecchiante un ampio pubblico, è" da un lato la pre- sentazione oggettiva di piu correnti.di ·pensiero e, dall'altro lato, proprio per quella stessa oggettività e chiarimento dell'ideale impegno alla ricerca di ciascun filosofo, 'l'offerta di una discussione dialettica, basata sull'analisi delle possibilità logiche dell'assunzione dell'una o dell'altra ipotesi (di qui, come chiaramente appare, l'insistenza di Diogene Laerzio sull'aspetto dialettico della corrente scettica, con par- ticolar riguardo ad Enesidemo), senza privilegiarne una o altra. d) Le scienze e la logica: lo "scetticismo" di Sesto Empirico. Tolo- meo e Galeno. Abbiamo già detto che nel corso del n secolo, entro i termini della ricerca metodologica sopra discussa e che ha le sue piu lon- tane origini nel tipo di ricerca proprio della scuola di Aristotele, si assu- mono a contenuto di indagine i diversi piani di fenomeni: dai fenomeni naturali e dalla possibilità di una loro calcolabilità ai fenomeni apparte- nenti alla natura umana. E poiché sia per l'una ricerca che per l'altra, sul piano della discussione delle varie ipotesi avanzate, nella deter- minazione dei pro e dei contra si trattava di precisare le condizioni che permettono una discriminazione e perciò la possibilità o meno di un giudizio, l'indagine stessa diviene, innanzi tutto, studio del giu- dizio, cioè logica. Non a caso, abbiamo visto, anche in certe sillogi che sono andate sotto il nome di "platoniche," in altre che sono state dette "pitagoriche," in altre "stoiche" e anche nei commentatori di Platone e dei libri logici di Aristotele, l'aspetto prevalente è l'indagine logica, lo studio delle condizioni che permettono uno o altro discorso. Qui, sembra, s'inserisce - e assume il suo piu alto significato sto- rico - l'appello di Sesto Empirico,29 vissuto tra la fine del II e il principio del m secolo, il suo continuo richiamo entro i termini della ricerca (scepsi) a tener sempre presente, metodologicamente, il peri- colo, nei limiti del giudizio, di extrapolare da quei limiti stessi, di oltrepassare quei divieti. Sotto questo aspetto l'opera di Sesto (sia le /potiposi pi"oniane in- tre libri, sia il proseguimento e l'approfondi- mento delle Ipotiposi, l'Adversus Dogmaticos, in 5 libri, e l'Adversus Mathematicos, in sei libri, titolo abbastanza recente, con cui si è soliti indicare il complesso degli 11 libri) ha un altissimo valore metodo- logico, è l'ultima voce di serietà scientifica, l'ultima "logica" dell'anti- chità. L'opera di Sesto non va considerata solo come una sistemazione Scarsissimc le notizie intorno a ·Sesto, detto Empirico perché sembra sia stato medico (Esculapio dette inizio alla nostra anc: Adv. Math., I, 260) appartenente all'indi- rizzo "empirico," o meglio al nuovo indirizzo metodico-empirico (cfr. Pyrrh. hypot., I, 236; Adv. Math., VIII, 191), scaturito dalla polemica di Mcnodoto. Non sappiamo con esat- tezza quando visse: citato da Diogene Laerzio, che scrisse nella prima metà del 111 secolo, insieme al discepolo di Sesto, Saturnino (cfr. Diogene Lacrzio, IX, 87, 115), di Sesto non fa alcuna menzione Galeno, vissuto tra il 130 c il 200 d. C., che, invece, accenna a Erodoto, discepolo di Menodoto, maestro di Sesto. Poiché, per altro verso, sappiamo che Ippolito, nella sua opera contro gli eretici, composta tra il 220 e il 230, avrebbe usato argomentazioni di Sesto, si è potuto, verisimilmente, sostenere che Sesto sarebbe vissuto tra la fine dd n secolo e il principio del 111 e che avrebbe composto le sue opere tra il 200 e il 220 circa. Non sappiamo dove sia nato. Sesto è nome latino: "nostri," tuttavia, egli dice leggi e costumi greci. Senza dubbio fu ad Atene, ad Alessandria e a Roma (dr. Adv. Math., l, 246; Hypot., Il, 98; III, 221; Adv. Math., 15 e 95; Hyp., I, 149, 152, 156; III, 211; cfr. anche Dal Pra, cit., pp. 375 sgg.). Probabilmente l'opera di Sesto è pcevenuta intera, tranne due scritti intitolati Memorie mediche e Memorie empiriche (forse uno scritto unico), citato dallo stesso Sesto (Adv. Math., l, 61; VII, 202). Di uno scritto, Sull'anima, cui Sesto fa menzione (Aiv. Math., VI, 55), si è pensato (Robin, cit., p. 198) che sia in realtà un rinvio alle pani delle opere pcevenute in cui Sesto tratta dell'anima, si come è il caso di altri accenni a trattazioni che si ritrovano, poi, nd complesso dd corpus dell'opera· di Sesto. Due sono le opere pervenuteci di Sesto: Schizzi pirroniani (o lpotiposi pirroniane) in tre libri (I libro: significato c limiti dello "scetticismo," inteso come metodo; esposizione dei tropi dello scetticismo; Il libro: significato c limiti della logica dogmatica; III libro: critica della fisica c della morale dei dogmatici); un'opera in due parti, intitolate la prima Contro i dogmatici, in cinque libri, la seconda Contro i matematici, in sei libri (si è soliti indicare le due parti con l'unico titolo, desunto dalla seconda parte, Contro i matematici). I primi due libri Contro i dogmatici sono dedicati ad una precisa critica della logica, mediante cui Sesto può, nei libri terzo c quano, mettere in discussione la fisica dogmatica, e, nel quinto, le posizioni morali. l sei libri Contro i matematici, cioè contro coloro che dànno un valore assoluto al sapere (màthema) sono dedicati ai grammatici, ai rctori, agli aritmeti.:i, ai geometri, agJi astronomi, ai musici. Discepolo di Sesto fu, secondo Diogene Lacrzio (IX, 116), un ceno Saturnino, che Diogene indica come 6 xu&rjviiç (kythenas), che non sappiamo cosa significhi (il Bro- chard, Les sceptiques grecs, Parigi, 1887, p. 327, n. l, correggendo 6 xu&ljviit; in 6 xot6'-f)(liit;, l(ath'hemàs, legge il "nostro contemporaneo").] organica da un lato della topica e dei tropi, delle argomentazioni, susse- guitesi nel tempo da parte dei cosiddetti scettici, che· dimostri, in parti- colare per certi accademici, l'illegittimità logica del passaggio da una posizione arcesilao-carneadiana a una tesi stoico-platonica, dall'altro lato delle tesi dogmatiche, sia in fisica sia in etica, sia nelle singole scienze, professoralmente insegnate, mediante cui, all'interno di ciascuna, e dia- letticamente nei confronti dell'una con l'altra, dimostrare la contraddit- torietà di ogni ipotesi se assunta come assoluta. Ma è proprio in questa dialetticità che consiste il nocciolo dell'appello di Sesto: egli non nega l'una o l'altra ipotesi, in quanto tale e in quanto logicamente possibile, bensl nega la legittimità di assumere come esclusiva, come vera, l'una o l'altra ipotesi, anche se assunta, sia pur per la dichiarata incompren- sibilità della realtà in sé, come probabile, optando, attraverso la discus- sione dei pro e dei contra, per quella ipotesi che può esser piu utile per una certa condotta di-vita, la cui validità è perciò stesso presunta, niente affatto scientificamente fondata, e, dunque, disonestamente imposta. Di qui appunto, nei confronti del " sapere " in generale, il riferirsi da parte di Sesto, che fu, come egli stesso dichiara, medico, al metodo della ricerca medica, quale si era delineato nelu secolo, particolarmente attra- verso Menodoto (cfr. sopra), nella nuova accezione che aveva preso l'in- dirizzo empirico (cfr. sopra) (questa sembra la ragione per cui Sesto fu detto empirico), per·cui la ricerca scientifica, non presupponendo di giungete alla verità - onde non, si può dire che la verità è afferrabile né che non è afferrabile - rimane, di volta in volta entro i termini delle possibili esperienze, determinazione di un'ipotesi che spiega un certo complesso di fenomeni, ma che può di volta in volta cangiare, a seconda dei "segni rammemorativi," lasciando sempre aperta la ricerca (scepst). Chi intraprende una qualsiasi ricerca, conviene che metta capo o alla scoperta di ciò che cercava, o alla negazione di esservi riuscito e alla confes- sione che la cosa è incomprensibile, o alla persistenza nella ricerca stessa. Cosi, anche, di coloro che le loro ricerche volsero alla filosofia, alcuni avreb- bero affermato di aver trovata la verità, altri avrebbero dichiarato trattarsi di cosa incomprensibile, altri persisterebbero tuttora a cercare. Ritengono di averla trovata coloro che, con denominazione particolare, sono chiamati "dogmatici" ("coloro che assentono a qualcuna ddle cose che sono oscure e formano oggetto di ricerca da parte delle scienze": I, 13), come gli aristo- telici, gli epicurei, gli stoici e altri. Ne dichiarano l'incomprensibilità i ·seguaci di Clitomaco c di Carneade e altri act:ademici. Continuano a cercare gli Scet- tici (Py"h. hyp., l, 1). Lo scetticismo esplica il suo valore (diciamo "valore" senza annettere a questa parola nessun sottile significato, nel senso suo semplice in rapporto al verbo "valere") nel contrapporre i fenomeni e le percezioni intellettive in qualsiasi maniera, per cui, in seguito all'ugual forza dei fatti e delle ragioni contrapposte, arriviamo anzi tutto alla sospensione del giudizio... (l, 8). Di qui, dunque, la preliminare e fondamentale discussione sul "giu- dizio " e sul "criterio." Mediante una ripresa sistematica dei tropi, da Enesidemo ad Agrippa, si pone in forse la validità di ogni giudizio che si fondi sulla "analisi" (implicante che i termini del giudizio siano "inerenti" l'uno all'altro, donde i termini, anche se parole significanti, debbono pur sempre indicare una presunta realtà per sé}, si come per altro verso di ogni giudizio che pur implicando che i suoi termini sono rappresentazioni, dovute alle impressioni sensibili, e che il discorso è perciò non tra termini, ma tra proposizioni, arresti infine la propria ricerca, passando dal possibile discorso, fondato sui segni rammemora- tivi, alle cause prime per via analogica. Se di qui risulta chiara la critica di Sesto alla "causa," alla "deduzione" e alla "induzione," al "procedi- mento sillogistico" e alla "analogia," ai "segni indicativi," altrettanto evidente è in che senso Sesto, senza extrapolare dalle possibilità umane, accantonato sia il tipo di logica aristotelica sia quello di tipo cleanteo- stoico sia, infine, sul piano scientifico, l'illecita assunzione di una ipotesi perché piu probabile e utile alla vita, sostenga, riallacciandosi in ciò alla logica del primo stoicismo - si veda sopra, I vol., Zenone -, la positività di una logica fondata sui "segni rammemorativi." Sesto, cosi, ne deriva da un lato la necessità di sospendere il giudizio sulla realtà in sé (da qui il rovinare di tutte quelle scienze che fondano la loro costru- zione su di un "sapere," màthemti, che scambi l'ipotesi temporale, dovuta cioè a un complesso di segni rammemorativi con la verità, e di tutte quelle "morali" che trovino il loro fondamento su quei principi, quali ch'essi siano, dogmaticamente sostenuti}; dall'altro lato entro i termini di come si formano i giudizi, entro i termini di un discorso temporale, fondato sulle implicazioni rammemorative delle impressioni, la possibilità di un discorso orizzontalmente verace e capace di cangiare a seconda delle impressioni stesse e delle esperienze, per cui appunto, la ricerca resta sempre aperta: una la formazione e la validità del discorso, molte, nel costituirsi "storico" (empirico) del discorso, le possibili verità, tra cui anche quelle, probabili, se cosi ridimensionate, dei dogmatici. L'appello di Sesto Empirico e la sua indagine portavano, sul piano della ricerca scientifica, razionale; a prospettare una metodologia gene- rale, formalmente valida per ogni tipo di ricerca, in campi ben deter- minati di fenomeni. Il discorso di Sesto e il suo prmpettare limiti e validità dei giudizi derivava dal lungo dibattito sul significato della 166    ricerca medica, quale si era delineato, nelle conclusioni cui si era giunti, particolarmente nel caso dell'ultima scuola empirica derivata da Meno- doto (cfr. sopra). Nell'ambito dell'indagine medica, di contro ai dot- trinari (fossero "pneumatici" o "metodici" analogisti), dopo la pole- mica violenta di Menodoto, ch'era giunto a negare sul piano della pura empiria qualsiasi possibilità di "giudizio," si venne sostenendo con Teoda di Laodicea, riconosciuta la validità sul piano polemico del- l'appello all'empirismo di Menodoto, che l'esperienza non si riduce a una mèra raccolta di dati, ma è un metodo che non implica affatto l'oltrepassamento dell'esperienza stessa, né un passaggio, per analogia, dal noto all'ignoto, ma un passaggio, nel ricordo, dal simile al simile, ché i fatti stessi non sono noti in sé, presi ciàscuno per sé, ma si fan noti mediante il ricordo di altri fatti-impressioni, in un discorso coe- rente per sé, ma che non presume affatto alla verità. Se da uii lato lavoro serio e proficuo è non uscir fuori dall'esperienza, non ricorrere all'analogia, dall'altro lato esperienza significa non raccÒlta di dati accanto a dati, non enumerazione all'infinito, ma confronto di dati, osservazione del loro ripetersi, secondo una certa costanza, oppure no, si che alla base di dati-rappresentativi, segni "rammemorativi" e non "indicativi" di strutture in sé o di cause prime (accanto all'autopsia, diretta e personale raccolta di dati, e all'historfe, raccolta di dati osser- vati nel tempo da altri, si pone in tal modo la cosiddetta mfmesis), si possa, in un calcolo dei dati, in ricordi di dissimiglianze e simiglianze, determinare ima certa sintomatclogia, in una descrizione (schizzo, ipo- tipost) di un complesso di fenomeni, che non presume affatto di essere una definizione valida per sempre. Entro questo complesso di indagini e di ricerche, nella sistemazione in un sol corpo coerente (tale da spiegare certi complessi di fenomeni, senza far violenza ai dati sperimentali) del sapere matematico, geogra- fico, astronomico e astrologico per un lato, e del sapere medico e opera- tivo della medicina per un altro lato, si collocano le opere di Claudio Tolomeo (fiorito tra il120 e il151) e di Galeno (130-200). Esse, appunto, attraverso l'autopsia e l'historie, attraverso le dossografie, non presen- tano solo, l'uno nel campo dell'astronomia, dell'ottica, della matematica, l'altro in quello della medicina e delle ipotesi filosofiche atte a spiegare situazioni e condizioni del corpo e dell'animo umano, un insieme di scoperte o di dati raccolti nel processo del tempo. Esse, anche, in una rielaborazione di quei dati, di quelle scoperte, in un accantonamento di quelle ipotesi che cadevano in contraddizione con i dati dell'espe- rienza usando i materiali offerti, nell'uno o nell'altro campo, dalle varie istorie, dai risultati conseguiti da questo o quello scienziato o filosofo, presentano un quadro coerente e complesso, basato su ipotesi proba- bili, veraci in quanto capaci di spiegare. entro i termini di quelle esp(- rienze e di quelle situazioni tecniche, un insieme di fenomeni, e capaci di rendere possibili calcoli e misure. "L'astronomo," scrive Tolomeo, "deve sforzarsi per quanto è possi- bile di far concordare le ipotesi piu semplici con i movimenti celesti; ma se ciò non riesce, deve assumere quelle ipotesi che possono conve- nire" (Almagesto). Tolomeo 80 è, in realtà, l'ultimo epigono della grande tradizione della scuola scientifica (astronomica) di Alessandria. Non a caso- entro l'àmbito ora veduto- Tolomeo, che visse ed operò ad Ales- sandria, si riallacciò ad lpparco di Nicea (cfr. sopra), non solo racco- gliendone le osservazioni e le scoperte, i calcoli e le misurazioni, ser- vendosi anche delle esperienze e delle scoperte posteriori ad Ipparco, rimaste tuttavia puntuali e disarticolate da un unico "sapere," ma appli- cando di lpparco il metodo indipendentemente da superiori ragioni, sulla linea del "peripato " di Alessandria. Tolomeo, cosi, opera sp due piani. l) Riprende tutto il materiale osservativo offerto dagli astronomi precedenti, ne rivede critiqunente la rielaborazione, ne controlla i risul- tati, fa osservazioni proprie!, si rende conto dei movimenti e dei rapporti tia i mondi in rappresent<(zioni geometriche; di qui l'approfondimento della teoria geometrica degli epicicli e degli eccentrici, in particolar modo per ciò che riguard:). la luna e la dislocazione dei piccoli pianeti, e l'approfondimento in (jttica, cui Tolomeo ha dedicato un'opera a parte, della teoria della rifrazione, sottolineando l'esistenza della rifra- zione atmosferica dal cui studio geometrico si possono calcolare gli errori cui la rifrazione atmosferica può condurre nelle oservazioni dei movi- menti stellari. T ali rappresentazioni geometriche permettono poi calcoli numerici mediante cui (postulata per quei calcoli stessi là terra al centro dell'universo in un punto sferico di riferimento) misurare le distanze e i movimenti concordanti con le osservazioni che cosi vengono spiegate (di qui l'approfondimento della geometria sferica delineata di contro 80 Scarsissime sono le notizie sulla vita di Claudio Tolomeo. Sappiamo ch'egli lavorò, in Alessandria, in cui fece le proprie osservazioni sui cieli, dal 127 circa al 151. Accanto alla sua opera piu celebre la Mcx&tJ!U'-nxiJ ~r.ç -rijç mpovo~!czç (SinlllSsi mtlle- mlllica dell'astronomia), detta anche la grande (~1}, megille), per distinguerla da una rielaborazione minore, e poi, per ammirazione, la grandissima (I'CYI.a-nj, meglliste), donde, infine, da una trascrizione araba (La grandissima,.Al maghesm}, il titolo di.Alrruwesto, vanno ric:ordate le seguenti opere j,ervenuteci: Ipotesi sui pianeti, Fasi delle nelle fisse, La pida geografica (in otto libri: alcune parti si dubita siano di Tolomeo; in altre parti sembra che Tolomeo abbia ricaleato l'opera del suo predecessore Marino di Tiro), l'Ottica, l'.Acustica, il Tetrabiblion (o Opus quadrip•titum, eanone, com'è stato detto, dell'astrologia elleriistiea), Del criterio ! dell'egemonico. 168    ad Euclide dal matematico Menelao di Alessandria, autore di un'opera perduta sul Calcolo delle corde e di un trattato in tre libri, conserva- toci dalla tradizione araba, gli Sferici, in cui è fondata la trigonometria: cfr. Almagesto, l, 9 e 11). 2) Tolomeo sistema il tutto, sintatticamente in un solo ordine, s1 che senza violentare i dati osservati - molteplici e separatamence presi in opposizione tra di loro -, quei dati vengono spiegati l'uno in rela- zione all'altro, offrendo un tutto organicamente articolato e possibile d'essere tradotto, appunto, in termini geometrici e risolto in formule di calcolo. Quello ch'era stato il lavoro di Euclide per il sapere geometrico, è ora il lavoro di Tolomeo per l'astronomia. Di qui, anche, il titolo dell'opera sua (M«&1J!J.«:nx~ a\lv-rcx~~c;: Mathematikè s<Yntaxis), ch'ebbe maggior successo e che, com'è noto, ha determinato per secoli tutto il sapere relativo alla costruzione dell'universo, una volta assunto, non criticamente, come sistema definitivo e non come ipotesi (la Sintassi matematica, detta anche la grande - f.LEYrXÀl): megàle -, per distin- guerla da una rielaborazione minore, e, poi, per ammirazione, la gran- dissima - f.LEYLOTrJ meghiste -, è rimasta nota col nome di Alma- gesto, trascrizione araba dell'articolo - in arabo al - e magesto - trascrizione araba dal greco meghiste). Di qui, non contraddittoriamente, anzi come l'ipotesi che meglio poteva permettere la spiegazione dei movimenti e delle leggi regolanti l'universo, la ripresa e piu compiuta dimostrazione della validità della ipotesi geocentrica, che, entro lé possibili conoscenze di allora, meglio della ipotesi eliocentrica, sostenuta da Aristarco, permetteva non tanto la "salvazione" dei fenomeni in senso platonico, quanto la misurazione e la spiegazione dell'ordinamento e delle leggi regolanti il movimento del tutto, facente perno sulla terra, al centro, e scandentesi in una serie di movimenti entro la sfera contenente tutto l'universo (la prima sfera motrice). Sempre entro l'àmbito dell'astronomia - e per gli stessi interessi- va veduto il tentativo di Tolomeo di rendere misurabile e perciò calcolabile il complesso delle influenz.e stell;ari nelle cose e, particolar- mente, sugli uomini, cerc;mdo di rendere conto sul piano geometrico - con il metodo lineare e non trigonometrico còme nell'Almagesto - delle incidenze e rifrazioni, dell'insieme delle credenze astrologiche. Se Vettio Valente sosteneva che l'astrologia è la regina delle scienze, Tolomeo, nel Tetrabiblion (Opus quadripartitum, in 4 libri), fece il tentativo di renderne ragione. Egli, peraltro, se da un lato si riallacciava, su di un piano sperimentale, ai suoi studi di ottica (cfr. Ottica), dal- l'altro lato, facendo tesoro degli studi di acustica (gli Armonici di Tolo- meo, in tre libri, sono una approfondita e sistematica esposizione delle 169    diverse teorie musicali), che culminano con interessanti· considerazioni sull'influenza della musica sull'animo e sul rapporto dei suoni con l'ar- monia delle sfere (riprendendo teorie pitagoriche, platoniche e aristo- teliche), poteva, su di un piano ipotetico, approfondire i motivi delle influenze stellari e la tesi delle "simpatie," mediante certi risultati del- l'Ottù:a e della Armonia. Galeno,81 nato a Pergamo nel 129 circa, fu uno dei medici piu colti 31 Nato a Pergamo nel 129-130, Galeno ricevefte fin da ragazzo una buona edu- cazione particolarmente nelle matematiche e nelle varie concezioni filosofiche. Poi, per volontà del padre, che aveva avuto in sogno il consiglio, da parte di Asclepio, dio della medicina, di avviare il figlio agli studi medici, molto coltivati in Pergamo, dove sorgeva un celebre "ospedale" (tempio di Asclepio), Galeno, a diciassette anni, entrò a far parte dei "figli di Asclepio." Galeno, che abbondantemente parla di se stesso nelle sue opere, dice che fu avviato alla medicina da un "anatomista," da un "ippocratico" e da un "empirista." Dopo la morte del padre, visitò le maggiori scuole mediche del tempo: Smirne, Corinto ed Alessandria: si specializza in anatomia, ma, ad un tempo, cerca di rendersi conto del significato scientifico della medicina; ciò lo porta non solo ad ascoltare i "metodisti," ma a preoccuparsi sempre di piu delle ipotesi filosofiche, per cui frequenta anche le grandi scuole di filosofia (non è senza interesse ricordare che a Smirne ascolta Albino: cfr. sopra). Verso il 158, tornato a Pergamo, viene nominato medico della scuola dei gladiatori, specializzandosi in chirurgia e in dietetica. Tra il 161 e il 166 è a Roma, clinico di fama, maestro e conferenziere ascoltato. Nel 166 torna, improvvisamente, in Oriente: si è detto a causa di un'epidemia scoppiata a Roma (in realtà.sappiamo che in. Oriente l'epidemia fu ancora piu grave); si è detto perch~ profondamente odiato e ostacolato da certi circoli romani. Fu in Cipro, in Palestina, in Siria, sempre attento osservatore, sempre alla ricerca di rimedi terapeutici. Tornato a Pergamo, vi riprende la sua funzione di medico dei gladiatori, finch~ viene chiamato da Marco Aurelio ad Aquileia, dove l'imperatore stava per muoversi contro i Sarmatici e i Germanici. Dopo la morte di Lucio Vero (169), Galeno, insieme a Marco Aurelio, tornò a Roma. Fu medico personale di Marco Aurelio e di suo figlio Commodo. A Roma rimase piu di vent'anni. Nel 192, in un incendio, andarono persi molti suoi trattati. Sembra che dopo, lasciata Roma, sia tornato a Pergamo, dove mori nel 200 circa, a settanta anni. Il pre- nome Claudio, non documentato prima del Rinascimento, è forse dovuto a un'errata decifrazione del C/. Galenus dei codici latini: C/. stava, probabilmente, per C/4rissimus. Della vastissima opera di Galeno sono giunti oltre una cinquantina di. scritti. Sull'ordine dei propri libri  ~ -rwv !a(c.)v ~1{3ÀL<o>Y); Dei propri libr. (De: pl -rwv !8(6lv ~L~À(c.)v); (Depl L'ottimo medico è anche filosofo (0 - r L 6 clptcrt"O<; lct-rpòç xcxl cpLÀ6aocpot,;); Le sette: a coloro che vi si iniziano (De:p(Gt~Y -roit; claatyo!dvott;); La migliore dottrina {De:pl Tijt,; ~(cn"l)t,; 3t3czaxrùJatt;); Avviamento alle arti (Dp~Òt,; iKl -Mt,;~);lcostumidell'animoseponoitHnperamentidelcorpo(0-rt-rat!t;-roii a&lj.Lat-rot,; xpciaccnv atl Tijt; M iit; 3uv~!J.CLt; brovrcxL); DÙiposi e cura delle pas- sioni e dei vizi di ciascuno (ficp{ -rwv 13L6lv hccicrt"q> ncx6wv Xatl ci(JGtp'n'I!Ui-r6lY Tijt; 3tcxyY&lac6lt;}; Medicina empirica (D c p l Tij<; lcx-rptxij<; l:rmtpLcxt,;); lpotiposi empirica ('Tmmm<o>att,; l:~mtptx-1)); Le parti della medicina (De:p -rwv Tijt; lat-rpr.xijt; ~wv); Introduzione dialettica o lnstitutio logica (Elacxy6lyij 3LCXÀI:X-nxf)); Sulla dimostrazione (De:pl ~no3c~); Intorno ai sofismi linguistici {De:pl -rwv natpti -ri)v Ài~LY croq~ta!Ui­ -r<o>v); Le qualita incorporee (•Qn atl noL~ cia&lj.LGt'ratL); Commenti sulla natura dell'uomo, a Ippocrate (Dcpl cpUac6lt; Mp&lnou); Commenti alla dinll, a lpprocrate (Dcpl 3tatLn')c; 61;t<o>v); Sulla dieta di lppocrate nelle malattie acute (Dcpl Tijt; 'I=xpci-rout; 3tat(n'jt; l:nl -rwv 61;é<o>v YOa'IJ!Ui'r6lY); Commento al Prorretico di Ippocrate (Elt,; 'rÒ npopp'l)-rtxòv 'I=xpci-rout;); Del coma in lppocrate (Dcpl -roii TtGtp' 170    dell'antichità. Il suo nome viene sempre avv1cmato a quello di Ippo- crate (i due punti estremi dell'arco della medicina antica) e a quello di Tolomeo (i due grandi sistematori della propria scienza, che per secoli ne diverranno gli autori). Dal suo lavoro, sul piano piu stret- tamente sperimentale, derivarono a Galeno scoperte di somma impor- tanza (in anatomia: descrizione delle ossa, dei muscoli, dei nervi, distin- zione dei nervi in nervi motòrii e nervi sensòrii, particolar riguardo della cassa cranica; in fisiologia: descrizione del funzionamento del sistema circolatorio, ove si sostiene, di contro ad Erasistrato, che il sangue circola sia nelle arterie che nelle vene, funzione del midollo spinale con relative ripercussioni sui nervi cranici e cervicali, mediante cui si spiegano le localizzazioni delle paralisi; in patologia: ogni disor- dine funzionale deriva da una lesione organica; in psichiatria: studio accurato delle passioni dell'animo). Dalle sue riflessioni, invece, sul piano piu vagamente teorico, non poche volte gli derivarono cantonate pericolose per piu approfondite ricerche (particolarmente in fisiologia, dove, per spiegare certe funzioni, Galeno è ricorso alla teoria finali- stica e a quella delle cause di origine aristotelica, alla teoria del soffio vitale dei "pneumatici," e a quella stoica che ogni nostro organo è per provvidenza dell'unica ragion d'essere del tutto, Dio, sistemato là dove è bene che sia; la teoria dei quattro umori, secondo· cui, preva- lendo l'uno o l'altro si ha uno o altro dei temperamenti: sanguigno, flemmatico, collerico, malinconico). Ora, per capire, entro l'arco della 'l1rnoxpci-;cL x&!(J4'n11;); Sulle prognosi di lppocrate (Eli; -ronpO)'VCa)O'TI.XW 'I=xpci- -rouç); Sulle articolazioni (IIcpl ap&pc.>v); L'officina del medico (Ktlt-r' !ot-rpciov); “Le settimane” (Ilcpl i()3o!Lii8c.>v); “Sull'uso delle parti del corpo umlltJo (IIcpl XPC!«ç 'riiiv lv liY&p&lnou a&I(J4TL IJ.Op!c.>v); “Indagini anatomiche” (IIcpl -rC..V ciwl-ro~J.~.Xél)v ·iyxcLpijacc.>v); Placita di lppocrate e di Platone (IIcpl -rél)v XCI&' '17rn0xpci'n)V XDil Dl.ciTc.>VGt 3oyiJ.ci-r6>11}; Gli elementi secondo lppocrate (IIcpl -rél)v XCI&' 'l=xpci'n)v a-roLxc!c.>v); “Sui temperamenti” (IIcpl xpciO'C6>v); Sulle facol~ naturali (IIcpl q~UO'U(él)v 3u~v}; L'uso dd respiro (ttcpl xpc!otç ciwlnvoijç}; Se per natura v'è sangue nelle arterie (El XGtri. q10cn11 lv &p'n)p!«Lt; citi(J4 ncpLixCTl&L}; [Se l'animille sia qual è nel- l'utero: El ~él)ov -ro xa:ri. yataTp6t;]; Igiene ('Tywvci); L'ottima costituflione del corpo (IIcpl clp!O'T"I)t; XGtTatO'XICUi'jt; ToU a&!IJ.GtTOt;); Sulla buona costitut:ione (IIcpl. cù~(ocç}; Sugli abiti morali (IIcpll&uç); Se llll'igiene serve di piu la medicina o la ginnastial (IIpbrcpov !ot-rpurijç f) yu1J.IIGtO'Turijt; lo-n -ro òyl.cLv6v); Sull'eserciflio della piccol11 palÌa (Ocpl -rou 3L« Tijç O'IJ.(xpatt; a~atLp~ 'Y'IJ.Vata!ou); Sinopsi sui polsi (~6volj/Lt; m:pl O'qiUY~"); Sugli alimenti liquidi (IIcpl Àe7mlll06cnjç); Sulle facolta degli alimenti (IIcpl -rpoq~él)v 3uvci1J.Cc.>t;}; Sui· temperamenti e le facol~ dei medicamenti semplici (IIcpl xpciacc.>t; xa:l 8uvci~J.Cc.>t; -rél)v cin).él)v qlatpjl.cixc.>v); “Sulla compotiflione dei farmaci” (IIcpl auY&ém:c.>ç qlatp~v); La teriaca (IIcpl Tijç &JjpL«Xijc; l); Sui rimedi da pre- 'flarare (IIcpl clv-;c!'{3atllo~v); Sulla conct#enaflione delle cause (IIcpl -rél)v auvcx-nxél)v etl-r!c.>v); Sulla diffit:oltlJ della respirat:ione (IIcpl 8uanvo~l; I tumori contro natura (IIcpl -rél)v natp« qiUcnV ISyxc.>v} La cura per flebotomia (IIcpl q~>4o-roiJ.!«ç.&cpat- ncu-nx6vl; L'arte medica (TtrnJ !ot-rpudjl; [Uso dei farmaci e dei clisteri: forse di Severo, vissuto nel v-VJ secolo); [Come ti possono riconoscere i simulatori di malattie]. vastissima opera di Galeno, le oscillazioni e le contraddizioni derivate dall'innesto dei due piani, da un lato va tenuta presente la sua forma- zione e l'epoca in cui scrisse questo o quel trattato (piu teorici quelli scritti in gioventu, piu sperimentali quelli scritti in vecchiaia), dall'altro lato, soprattutto, la grossa discussione sorta in medicina, nel corso del II secolo, tra "dogmatici," "metodici" ed "empiristi" puri. Di Galeno, attraverso Galeno stesso, sappiamo molto. Uomo senza dubbio di eccezione, di temperamento inquieto, estremamente ambi- zioso (in un certo momento della sua vita, clinico di moda che affa- scina non solo per la sua bravura tecnica, per le sue diagnosi e per il suo specifico sapere medico, ma anche per le sue teorie), Galeno fu educato da un padre intellettuale, l'architetto Nicone, che lo avviò fin da ragazzo ai piu rigorosi studi della matematica e del sapere in generale (filosofia), ai quali, sempre per volontà del padre, si aggiunsero fin da quando aveva diciassette anni gli studi di medicina. Allievo, in Pergamo, dov'era una celebre scuola medica, di un anatomico, di un ippocratico e di un empirista, Galeno, morto il padre, visitò, nel giro di nove anni i piu famosi centri di medicina - Smirne, Corinto, Ales- sandria-, frequentando, ad un tempo, anche le maggiori scuole filosofiche. Nel 158, a Pergamo, diviene medico dei gladiatori, specializzan- dosi in chirurgia. Nel 162 è a Roma, dove acquista grande fama. Nel 166, forse a causa di un'epidemia, lascia Roma. Viaggia in Oriente; è a Cipro, in Palestina, in Siria; ovunque prosegue le sue osservazioni, raccoglie cartelle cliniche, cerca di rendersi conto delle varie concezioni che possano servire a comprendere il funzionamento del corpo umano. Poco dopo essere tornato a Pergamo, dove riprende il suo pòsto di chi- rurgo presso la scuola dei gladiatori, viene. richiamato in Italia, ad Aquileia, dall'imperatore Marco Aurelio, di cui divenne medico di fiducia. Morto Marco Aurelio, lo fu di Commodo. Rimase a Roma, medico celebre, dedito alla pratica medica e alla redazione definitiva delle sue opere, fin verso il 199. Tornato a Pergamo vi mori nel 200 circa. E qui vanno sottolineate due cose: Galeno cominciò a scrivere fin da quando aveva diciotto anni e non fu solo formato nell'arte medica e nelle varie teorie mediche in discussione; egli, fin da giova- nissimo, venne anche formato dagli studi matematici e dagli studi rela- tivi al "sapere" in generale, dibattutissimi nelle scuole filosofiche. E cosi va ricordato che prima del 165 sembra ch'egli avesse già composto le sue maggiori opere teoriche, insieme a quelle di anatomia e di fisio- logia, mentre i grandi trattati di terapia e di patologia, le opere piu strettamente tecniche e frutto della sua lunga opera di sperimentatore, sarebbero state composte durante i suoi soggiorni romani. Non è questo che un accenno, ma ciò va tenuto presente da chi voglia ricostruire la personalità e la concezione medica di Galeno, senza ricorrere alla facile etichetta del "Galeno eclettico." In realtà, l'opera di Galeno è estremamente problematica, e sorge da un continuo dibattito tra la tesi estrema dell'empirismo di un Menodoto, che, sia pure per polemica, giungeva, dimostrando il pericolo che nella ricerca medica è rappresentato da qualsivoglia teoria in astratto, a negare la possibilità di fondare una scienza medica, e l'esigenza - propria, del resto, alla discussione delle scuole filosofiche - di cogliere, attraverso l'esperienza stessa (che altri- menti rimarrebbe come non fatta, se si limitasse ad una pura enume- razione), le condizioni che permettono di dare un senso, cioè di domi- nare e ordinare i dati dell'esperienza. Gli stessi "segni rammemora- tivi" - fondamentali in medicina - hanno un'utilità, solo quando ci si renda conto di come, costituendosi insieme, l'uno implichi necessa- riamente l'altro; la stessa esperienza perciò funziona solo quando si giunga da un lato a determinare come è che si pensa, come cioè si costituiscono i giudizi (logica: cfr. Institutio logica), e dall'altro lato, quando, in quanto si giudica, implicando ciò la definizione e, perciò, il genere prossimo e la differenza specifica, si determinano le cause di un certo gruppo di fenomeni. Per gli dèi, per quanto riguarda i miei maestri, anch'io sarei caduto nell'aporia dei Pirroniani, se non avessi posseduto gli elementi della geome- tria aritmetica e logistica (ÀoyLG't'LX~), in cui fin dall'inizio avevo fatto pro- gressi, istruito per molto tempo da mio padre, il quale aveva ereditato la teoria dal nonno e dal bisnonno. Vedendo; dunque, che non solo mi appa- rivano chiaramente vere le questioni relative alle previsioni delle eclissi [...lacuna], ritenni fosse meglio valersi del tipo delle dimostrazioni geome- triche; e infatti riscontravo che gli stessi dialettici piu esperti e i filosofi, pur essendo discordi non solo tra di loro, ma anche con se stessi, tutti, nello stesso modo, esaltano comunque le dimostrazioni geometriche (Galeno, De propriis libris, XI). Tale fu lo sforzo continuo di Galeno, nel suo tentativo di delineare, proprio perché sia possibile la diagnostica, e.perciò stesso non solo la terapia, ma un'azione preventiva, un complesso di principi teorici, di quadri clinici, di cause entro cui ordinare un certo insieme di fenomeni o provederne altri, insieme al rintraccio di quelle che sono le condizioni formali che permettono una deduzione. Se da un lato, cosi, Galeno riprendeva certi aspetti della logica for- male di Aristotele (in particolare la costruzione dei sillogismi, quale appare negli Analitici Primi: cfr. lnstitutio logica; secondo Averroè a Galeno risalirebbe la quarta figura del sillogismo), si capisce come, dall'altro lato, Galeno per spiegare, particolarmente in fisiologia, le funzioni dell'organismo, volte al mantenimepto ed equilibrio del tutto in una specie di finalità naturale, assumesse, ·sia pure per ipotesi, il finalismo biologico di origine aristotelica; e che, per spiegare il fatto vita- lità, ricorresse all'ipotesi stoica (propria della corrente stoico-vitalistica, risalente forse a Posidonio, che non poche volte Galeno cita) delle forze, degli "spiriti" vitali, per cui il "pneuma" si realizza come "spi- rito cerebrale" (pneuma psichico), · come "spirito vitale," o animale, vero e proprio, che dà vita e che dalla sua fonte, che è il cuore; muove il sangue nelle arterie, e come "spirito naturale," che dalla sua fonte, che è il fegato, mette in movimento il sangue nelle vene. Di qui, nell'àmbito di questa concezione dell'uomo che in piccolo (micro) ripete il grande (macro) cosmo, la teoria - di chiara origine ippocra- tica - dei temperamenti (i quattro elementi, fuoco, aria, acqua, terra, le cui potenze o qualità sono il caldo, il freddo, l'umido e il secco, si ritrovano nell'organismo umano come sangue, forza vitale vera e propria, come flegma, bile gialla e bile nera; dal sangue, che ha in sé in circolo i quattro umori; si determina o l'equilibrio degli umori o il prevalere dell'uno o dell'altro, donde i temperamenti: sanguigno, flemmatico, collerico e malinconico). Non è qui il caso di soffermarci sulla patologia e sulla terapeutica di Galeno. Basti· ricordare che esse si fondano sulla sua biologia: si sostiene che la salute consiste in un'ar- monica ed equilibrata resultante delle forze operanti nell'organismo, e la malattia in una rottura dell'equilibrio, in un eccesso o difetto delle forze vitali, e che compito del medico è, attraverso una conoscenza pre- cisa dell'anatomia e della fisiologia, ed un'analisi minuta e ampia dei sintomi, operare sulla natura, si che la natura ritrovi il suo equilibrio.A seconda dei testi di Plotiilo sui quali si verrà puntando - chi direttamente lo ascoltò profondamente fu colpito dalla sua forza intel- lettiva e dalla dirittura ascetica della sua vita: cfr. la Vita scritta da Porfirio - si potranno reinterpretare in termini simbolico-allegorici certe precedenti effettive credenze nei misteri, nella funzione della magia e nelle pratiche teurgiche, sostenendone l'assurdità, se prese in forma non allegorica, assumendo dai vecchi riti, culti, misteri, l'orfico.in particolare, tutto ciò che poteva servire a indicare plotinianamente il ritorno dell'anima a se stessa e al divino, in termini etico-religiosi (ciò specialmente si vede in Porfirio, quando si tengano presenti le due fasi del pensiero porfiriano: prima e dopo l'incontro con Plotino); oppure si potrà, mettendo in evidenza certe espressioni religi<>so-miste- riche e l'indiscorribilità del contatto con runo, o del farsi uno nel- l'anima di ciò che vien compreso, entro i termini della concezione del- l'universo di Plotino, riprendere il motivo secondo cui tutte le cose sono anime, dèi, aventi perciò una loro potenza e il motivo della libe- razione dell'anima, che rifacendo propria tutta la realtà, si salva dive- nendo simile al dio e con ciò stesso divenendo assoluta potenza e libertà. Entro questo quadro, cosi, si giustificavano non solo certi misteri, ma anche certe pratiche teurgiche (ciò si vede bene in Giamblico, disce- polo di Porfirio, e piu tardi in Proclo, i quali cercheranno di mostrare quali siano le tecniche mediante cui, comprese certe potenze, certe anime, si afferra l'anima, che può essere anche uno o altro elemento, uno o altro simbolo, e si mette nelle cose, per poi dominare altre cose, altri dèi: di qui, attraverso la magia imitativa, si cercava di determinare le possibilità di una magia operativa). Lo stesso Porfì.rio/ nato forse a Batanea, in Siria, nel 233-34, detto anche di Tiro, avendovi vissuto per un certo periodo, narrando il suo primo incontro con Plotino, avvenuto in Roma, nel 263 circa, scrive: "Nelle adunanze, Plotino sembrava uno che conversasse e nessuno vi l Nacque forse a Batanea, in Siria, nel 233-234 (fu detto anche di Tiro, avendovi vissuto j)<'r un certo periodo). "Io, Porfirio, avevo inoltre anche il nome Basilio, essendo chiamato nell'idioma patrio, Maleo - tale pure era il nome di mio padre. Ora Maleo significa re: cioè Basileus [Basilio], se si vuoi renderlo in lingua greca" (Vita Plot., 17). A Cesarea di Palestina conobbe Origene ed entrò in dimestichezza con lui. Ebbe qui i primi contatti con la scuola cristiana. Ad Atene ascoltò Longino Cassio, che, insieme a Plotino, era stato, in Alessandria, discepolo di Ammonio Sacca. Longino Cassio, di cui Plotino diceva: "filologo si, ma filosofo no, affatto!" (Porfirio, Vita Plot., 14), iniziò Porfirio alla filosofia platonica e, particolarmente, alla retorica, in cui Longino fu celebre (di Longino si hanno frammenti di un Trattato di retorica; perduti sono andati i libri Sul Fine e Sui principi; si è oggi convinti che il trattato Sul sublime non sia di Longino}. A trenta anni circa Porfirio andò a Roma, dove, conosciuto Plotino, ne divenne, insieme ad Amelio, uno dei piu fedeli discepoli e collaboratori. "Nel decimo anno del regno di Gallieno [263], io, Porfirio, giunsi dalla Grecia in compagnia di Antonio Rodio. E appresi che Amelio, pur frequentando la scuola di Plotino da diciotto anni, non aveva osato ancora scrivere altro che gli Sco/ii, i quali peraltro non avevano ancora raggiunto il centinaio. Platino, nel decimo anno del regno di Gallieno, aveva, all'incirca, cinquantanove anni, ed io, Porfirio, allorché m'incontrai la prima volta con lui, avevo trent'anni" (Vita Plot., 4). Alla scuola di Plotino, Porfirio abbandonò molte delle sue vecchie opinioni, o meglio le riordinò entro i termini della concezione plotinica. Collaboratore e amico di Plotino, visse intensamente la vita della scuola j)<'r cinque anni, finché ammalatosi di esaurimento nervoso, su consiglio dello stesso Plotino, si recò in Sicilia (nel 268 circa) per rimettersi in salute. In Sicilia (al Lilibeo) soggiornò due anni. Platino era morto nel 2 7 0 · - tornò a Roma, dove riprese la sua attività di maestro proseguendo l'insegnamento di Plotino e dedicandosi all'edizione degli scritti di Plotino, che pubblicò tra il 300 e il 304. Porfirio mori a Roma nel 305. Porfirio scrisse molto. Per una ricostruzione del P<'nsiero di Porfirio, vanno tenuti presenti i j)<'riodi in cui si suddivide la sua produzione: l. Prima dell'incontro con Plotino; 2. Durante il soggiorno romano alla Scuola di Plotino; 3. Durante il soggiorno in Sicilia e il secondo a Roma dopo la morte di Plotino. Appartengono al primo j)<'riodo: La filosofia desunta dagli oracoli (frammenti); Questioni americhe (framm.); Storia della filosofia in 4 libri, di cui resta solo il l, La t•ita di Pitagora (il II era dedicato a Empedocle, il III a Socrate, il IV a Platone: ne restano una ventina di frammenti); Introduzione all'astrologia di Tolomeo; Commento agli Armonici di Tolomeo (framm.); Sulle immagini (framm.). Appartengono al secondo j)<'riodo, frutto dell'attività scolastica, Commenti a opere di Platone (al Crati/o, al Sofista, al Parmenide, al Timeo, al Filebo, al Convito, al Fedone, alla Repubblica); una Discussione con Amdio; una discussione sullo scritto di Eubulo, scolai-ca dell'Accademia di Atene, Ricerche platoniche (di questi scritti abbiamo solo notizia); un Commento a L'affermazione e negazione di Teofrasto (J><'rduto); Commenti alle Categorie di Aristotele (framm.), al De interpretatione di Aristotele (framm.), alla Fisica di Aristotele, al XII libro della Metafisica di Aristotele, all'Etica di Aristotele e ad alcuni passi del De anima di Aristotele (di questi commenti son rimasti pochi fram- menti e notizie); lntroduzion~ o lsagoge alle Categorie; lsagoge ai Sillogismi categorici. Appartengono al terzo j)<'riodo: Contro i Cristiani in 15 libri (framm.); Lettera al sacer- dote Anebo (framm.); Cronografia (framm.); Sul ritorno dell'anima (framm.); Sull'asti- nenza (framm.); Sul dio sole (framm.); Commenti agli Oracoli Caldaici (citati nel Ritorno dell'anima); Lettera a Marcel/a (framm.; Porfirio sposò in vecchiaia la vedova Maccella j)<'r aiutarla ad allevare i figli); L'antro delle Ninfe (framm.); Sul "conosci te stesso" (notizie); Gli slanci dell'anima verso l'intelligibile o Sentenze; Vita di Plotino, premessa all'edizione delle Enneadi, e Commentari ad alcuni trattati delle Enneadi. 2,35    vedeva affiorare, a tutta prima, la forza della costn,1zione logica rac- chiusa nel suo ragionamento. Io stesso, Porfirio, ebbì quindi a subire una s,imile impressione, quando lo udii la prima volta. Mi spinsi perciò a presentargli un saggio critico, in cui tentavo di dimostrare, contro la sua tesi, che gli intelligibili hanno esistenza fuori dell'Intelletto. Egli se lo fece leggere da Amelio e, a lettura finita, con un sorriso: 'è fac- cenda tua,' disse, 'o Amelio sciogliere i dubbi, nei quali, per mancata conòscenza della nostra dottrina, Porfirio è caduto.' Amelio scrisse un libro, tutt'altro che breve, Contro le aporie di Porfirio. lo scrissi di bel nuovo in risposta al suo scritto. Amelio vi replicò ancora. Alla terza volta, sia pure con un po' di fatica, io, Porfirio, compresi il loro pen- siero e mi convertii. Stesi una Palinodia che lessi in seno alla riunione. D'allora in poi, anche in rapporto ai libri di Plotino, fui considerato l'uomo di fiducia. E fui io a destare nel maestro stesso l'ambizione di articolare e di sviluppare, per iscritto, i suoi pensieri" (Vita Plot., XVIII, 90-93). Prima di conoscere Plotino, Porfirio, che a Cesarea aveva conosciuto Origene, che ad Atene aveva ascoltato il retore e platonico Longino Cassio, e ch'era stato ad Alessandria, aveva fortemente subito l'influenza delle dottrine religioso-misteriche, diffusissime, che senza dubbio erano state presenti anche a Plotino, ma che Porfirio non aveva criticamente discusso, né risolto in una costruzione logica. È certo che Porfirio fu da giovane attratto dalle suggestioni dei maghi e dei teurghi, dando un particolare significato a ciò che si poteva desumere dalle sedute in cui si evocavano gli spiriti, in una interpretazione simbolica di ciò che.quegli spiriti evocati dicevano (oracolt). Di qui l'opera di Porfirio, dal significativo titolo Sulla filosofia tratta dagli oracoli (ne:pt njç ~x Àoy(Cùv qnì..oao'P(otç), pubblicata prima che Porfirio en- trasse in contatto con Plotino, e dai cui frammenti si ricava, appunto, che Porfirio si serviva di oracoli dovuti, com'è stato detto, a "medium" durante sedute spiritiche, e che l'opera era una specie di trattato di teurgia, da cui si potevano ricavare tecniche e pratiche rituali mediante le quali ricondurre l'anima alla propria divinità. In questo stesso pe· riodo preromano, Porfirio scrisse un'opera in quattro libri dedicata alla ricostruzione piu che del pensiero, del modo di vita di filosofi, o, meglio, di vite ispirate, demoniache, indicazioni mediante cui salvare l'anima, e in cui egli, riallacciandosi a una certa tradizione platonica (partiro larmente a Moderato di Gades), vedeva il piu profondo significate della filosofia: non a caso, cosi, i quattro libri erano dedicati il prime a Pitagora, il secondo a Empedocle, il terzo a Socrate, il quarto a Pla· tone. Di essi è giunto solo il primo, la Vita di Pitagora; degli altri non sono rimasti che una ventina di frammenti. Già indicativa di un certe modo di intendere il filosofare è l'architettura dell'opera; la Vita d1 236    Pitagora, poi, dà il metro esatto dei termini entro cui Porfirio, nel rico- struire il significato del pitagorismo, vedeva la funzione ascetica della filosofia nell'evocazione del proprio dèmone, e nella traduzione in ter- mini simbolico-numerici di tutta la realtà, che Pitagora avrebbe desunto dagli Egizi, dai Caldei, dai Fenici e dai Magi (cfr_ Vita Pit., 6; interessante è ricordare che Porfirio ricostruisce la vita di Pitagora met- tendo insieme i testi piu diversi, tratti da Cleante, Apollonio, Davide di Samo, Lico, Eudosso, Dionisofane, Dicearco, Nicomaco, Antonio Diogene, Moderato). E cosi è altrettanto indicativo che Porfirio abbia scritto, sempre in questo primo periodo, un'Introduzione all'astrolo- gia di Tolomec. (EtaatywyYj etc; -r~v <Ì.7ton:ÀEafJ.Ot'rtx~v -rou IhwÀEfJ.Ot(ou) e un trattato Sulle immagini. Senza dubbio l'incontro con Plotino pro- vocò in Porfirio una crisi, ma piu teoretica che morale. Egli, evidente- mente, rivide le. proprie credenze al lume del rigoroso metodo ploti- niano, scoprendo il significato delle proprie esigenze etico-religiose, e dando ad esse, entro i termini della concezione di Plotino, una sistema- zione logico-ontologica, mediante cui segnare le tappe di un itinerario dell'anima a Dio, entro cui potevano rientrare anche i vecchi misteri, le vecchie credenze, i vecchi miti, intesi però simbolicamente, assunti per ciò ch'essi potevano servire a convertire l'anima a se stessa, a libe- rarla dalla dispersione sensibile: insignificanti, anzi assurdi, se presi unilateralmente per sé. I frutti di tale "conversione" al plotinismo, come dice lo stesso Porfirio, e del suo atteggiamento nuovo nei con- fronti della elevazione morale e religiosa si vedono bene nelle opere che Porfirio cominciò a comporre dal 269 in poi, dal tempo del suo soggiorno in Sicilia, dopo che vissuto in Roma per sei anni, fianco a fianco con Plotino, in un intenso lavoro di scuola, tra lezioni, discus~ sioni, seminari, rielaborazione e trascrizione degli scritti e delle lezioni del maestro, colpito da una grave forma di esaurimento, che lo con- dusse sulla soglia del suicidio (cfr. Vita Plot., 11), si allontanò dalla scuola, su consiglio dello stesso Plotino (cfr. ib.), per prendersi in Sici- lia un periodo di riposo. 'Porfirio soggiornò in Sicilia due anni circa (dal 268-69 al 271); tornò a Roma dopo la morte di Plotino (270), e a Roma, divenuto il continuatore ideale dell'insegnamento di Plotino, intensamente lavorò alla divulgazione e alla sistemazione del pensiero del maestro, fino alla mortè, avvenuta nel 305. Se il nuovo atteggiamento nei confronti della magia e della teurgia popolari si vede bene nella Lettera ad Anebo, sacerdote egizio, in cui criticamente si mette in discussione, appunto, la funzione della teurgia, dimostrando la confusione e l'irrazionalità di molti e torbidi riti, mi- steri, pratiche, la contraddizione di distinguere le divinità in buone e malefiche, prestando alla divinità passioni, esigenze, volontà umane ("autentiche invenzioni di uomini e finzioni della natura umana": Lett. a Anebo, 49); nella Lettera a Marcel/a, sÙa moglie, si vede bene il significato dato da Porfirio all'elevazione morale-religiosa, dovuta ad una purificazione dell'anima, in un ritorno dell'anima a se stessa, in un dominio di se stessi, che è il dominio che l'anima, in quanto con- sapevole, ha di tutte le cose, ché tutto dipende da noi stessi, e perciò dall'anima e quindi dall'Intelletto e da Dio. Sotto questo aspetto Por- lirio reinterpretava, in termini plotiniani, il motivo stoico (Cornuto, Epitteto), secondo cui libera è ranima che dipende da se stessa, onde la virtu consiste nell'adeguarsi alla legge di natura ("l'intelletto segua Dio, e ne contempli in sé l'immagine; l'anima segua l'intelletto; alla anima serva {>er quanto è possibile il corpo, fatto puro a lei pura": A Marcel/a, 13; "Facciamo conto solo delle cose che dipendono da noi": ib., 5; "l'intelletto è maestro, salvatore, nutrimento, custode e guida: esso intende la verità nel silenzio e discoprendo la legge divina con la contemplazione di se stesso riconosce nel suo intimo la legge impressa sin dall'eternità nell'anima; devi considerare anzitutto la legge naturale, da questa devi risalire alla legge divina, che è fondamento di quella naturale; ancorata a queste leggi, non temerai nessuna legge scritta": ib., 26-27). La concezione di Plotino giustificava, cosi, in termini logico-intel- lettuali, l'esigenza etico-religiosa di Porfirio, che particolarmente fu col- pito dalle discussioni di Plotino sull'anima, intesa come consapevolezza di sé, come capacità di cJndurre a sé se stessa spersa fuori di sé, fino a giungere a vivere, indiandosi, la vita del tutto. Non a caso Porfirio punta sempre sull'anima, sulla "conversione" dell'anima, sull'anima entro cui è la verità, che ci trascende dal di dentro, qualora si sappia ascoltare l'anima stessa, il nostro piu vero ed intimo "maestro" ("tu hai in te un maestro": A Marcel/a, 9). "Raccoglierai e unificherai le tue intime facoltà, se cercherai di articolarle quando sono ottenebrate: anche il divino Platone partendo di là ha richiamato dalle cose sen- sibili alle intelligibili" (A Mareella, 10). D i qui, sembra, lo stesso modo con cui Porfirio, raccogliendo e pubblicando i vari scritti di Plotino, pur conoscendone l'ordine cronologico (cfr. Vita Plot., 4-6), ha ordinato, nel costituire il "libro" del neoplatonismo, i trattati plo- tiniani, cominciando appunto dall'individuo e dal sensibile. L'ordina- mento delle Enneadi rispecchia senza dubbio l'interpretazione di Porfirio, il quale, per altro, vede, con Plotino, nell'anima il punto in cui si incentra l'universo tutto; se l'Anima da un lato è unità trascendente se stessa nell'unità vivente dell'Intelletto-intelligibili (l'au- tovivente, l'IXÒ't'o~<;iov del Timeo), che trova il suo fondamento nel- l'Uno, dall'altro lato, l'Anima, in quanto affermazione di sé, riproduce la molteplicità dell'Intelletto, dando luogo alle cose (l'anima demiurgo), e prende coscienza di sé in quanto, limitazione di se stessa (anime singole ed empiriche), per cui l'anima dapprima dispersa, rotta nelle cose, passiva, facendosi cosciente di ciò, oltrepassa il limite, ricondu- cendo a sé le cose stesse. Di qui proviene la distinzione porfiriana delle funzioni dell'anima singola: l'anima è puramente spermatica finché, inconscia, è essa stessa le cose; eidolica, immagine, allorché si rappre- senta i corpi come altro da sé, e come limiti; logica, quando coglie se stessa come discorso unificante, articolando il molteplice; noetica, quando dalla dispersione sensibile, dalla coscienza del limite, dall'unità del molteplice fuori di sé, intuitivamente coglie il tutto Uno in sé, solle- vandosi all'intelletto; anoetica, quando perde se stessa facendosi una nell'Uno. Le anime particolari, dunque, sono nell'Anima del mondo, e da essa emergono senza che essa sia divisa, si come tutte le cose, cieli, stelle e cosi via fino alla terra, sono nell'Anima del mondo e da essa emergono, in limiti sempre maggiori, sempre piu corposi, onde appunto sono i corpi ad essere nelle anime; tutto perciò può essere interpretato in un rapporto di "simpatia," di reciproche influenze, di imitazioni, in una gradualità di anime che vanno dalle superiori anime celesti (gli astri) alle inferiori anime singole, ciascuna delle quali è, dunque, legata alla sua stella, mediante una serie di anime intermediarie (dèmoni). La realtà tutta è, perciò, sotto questo aspetto buona, divina; e il male non ha alcuna realtà, alcun principio, se non nell'anima stessa, nella sua capacità di rimanere nel limite, o di guardare in sé. Appunto in questo primo guardare in sé dell'anima, nel momento dell'imma- gine, in cui la realtà appare come altra dall'anima, avente un suo limite e una sua figura, una sua corporeità, essa si rappresenta le anime stesse come figure, come corpi, provenienti dall'Anima dell'Universo, condotte da un soffio vitale eterno (il pneuma, veicolo o ochema del- l'anima) passato attraverso le sfere dei pianeti, di cui assume l'aspetto, determinando quindi il nostro carattere, e quello dei dèmoni. Partico- larmente interessante sembra questo aspetto della dottrina di Porfirio, esposta nel De regressu animae (fr. 3 Bidez), da cui chiaramente appare che l'universo costituito di anime, di astri, di dèmoni, J;).on è tanto una realtà data, ma la visione del primo momento del ritorno del pensiero a se stesso, appunto il momento dovuto all'anima nella sua attività eide- tico-immaginativa. Proprio entro questo momento funzionano epos- sono essere ripresi, per chi non sia filosofo, per chi non sappia elevarsi al momento logico e noetico, i riti, le pratiche magiche e teurgiche, in quanto servono a purificare l'animà, a dare a tutti la coscienza che ciascuno è divino, che tutto è divino, che infiniti, nell'Unità del divino, sono gli dèi. E ~ i riti, i culti, le credenze, non hanno piu significato per chi sia filosofo - una élite, - essi hanno una funzione terapeutica e ordinatrice per la massa. È sull'anima "pneumatica," e mediante essa sull'immaginazione - scrive il Bidez - che le cerimonie liturgiche agiscono. "Esse presentavano all'anima pneumatica simboli di natura tale da suggerire una reminiscenza e un vago scorcio della verità. I riti placano i cattivi dèmoni che assediano il 'veicolo.' Con visioni mera- vigliose, fanno vivere lo 'spirito' nella società degli angeli e degli dèi. Rendono capaci di ricevere la loro visita - cfr. De regressu animae, 2, 6. - Senza dubbio in virtu della legge di assimilazione, a forza di contemplare questi esseri puri, l'uomo si libera dalle influenze per- niciose e si sbarazza di ogni effluvio malsano. La purificazione progre- disce via via che l'animo fa sf che in sé si produca l'effetto della pro- pria devozione, e la pratica della continenza, che a rigore potrebbe bastare - cfr. De regr. an., 7; anche De abstinentia - renderà la sua liberazione ancora piu sicura. Il successo definitivo non è tuttavia sicuro. Benché sia essenzialmente diversa dalla magia volgare, la teurgia è sempre aleatoria, fallace, e pericolosa" (Bidez, Vie de Porphyre, Gand- Lipsia). Se è vero - sottolinea Porfirio - che le pra- tiche teurgiche sono capaci di purificare la "anima pneumatica," esse tuttavia non possono operare il completo ritorno dell'anima a Dio, e possono essere pericolosissime in mano a ciarlatani (cfr. De regressu anim·ae). "Perciò l'uomo saggio e prudente si asterrà dal servirsi di sif- fatti sacrifici, mediante cui attirerà a sé cosi fatti dèmoni malvagi; si studierà invece con ogni mezzo di purificare l'anima, poiché quelli all'anima pura non si attaccano per la dissimiglianza da loro" (De absti- nentia, Il, 38). E dirà Sant'Agostino, commentando il De regressu animae; "Porfirio promette quasi una purificazione dell'anima, per mezzo della teurgia, ma con esitazione e con discussione in certo modo pudibonda. D'altra parte nega che tale arte offra a chi che sia la con- versione a Dio, sicché lo vedi... fluttuare fra alterne opinioni" (De civitate Dei, X, 9, 415). E qui non va scordato che Porfirio si era in gioventu formato in Siria, a Cesarea, ad Atene, ad Alessandria. Fu quella un'epoca in cui diffusissime erano le religioni misteriche, e, entro queste, le pratiche rituali magiche e teurgiche, particolarmente provenienti dall'ambiente siriaco, ma che si venivano incontrando e fondendo con le religioni della tradizione occidentale, in una trasformazione vicendevole, in una spiegazione dell'universo e del destino umano in termini diversi dai soliti, rispondente, per altro, alla nota, profonda crisi, traversata dal- l'Impero dal tempo di Commodo, successore di Marco Aurelio. E qui va ricordata l'importanza data da Settimio Severo a Serapide egizia, ma ancor piu va ricordata la diffusione che in tutto 240    l'Impero, per un certo periodo dominato da imperatori di provenienza siriaca, per via materna, ebbe il culto del siriaco dio Sole (pensiamo a Caracalla, e in particolar modo a Eliogabalo,  che vittorioso su Macrino, per aiuto della madre Mesa, siriaca, sacerdotessa del Sole, come lo era stata Giulia Domna, moglie di Set- timio, impose in Roma il culto solare, con tutti i riti, i culti, le mera- viglie ad esso connesse). Sono, questi, dati che vanno tenuti presenti per rendersi conto da un lato della complessità di questo periodo e della difficoltà eh'esso presenta per intenderne le molte sfumature, richiami, allusioni, dall'altro lato per comprendere, tra il terzo e il quinto secolo, lo strutturarsi e il cristallizzarsi di piu correnti in scontri e incontri, determinanti alla fine una comune atmosfera culturale, ove già chiare sono le linee della cultura propria del Medioevo. Il notevole tentativo di Porfirio fu, dunque, entro la concezione di Plotino, di coordinare e dare un senso alle pratiche teurgiche e magiche, di rendere conto della funzione dei riti, dei culti, delle stesse credenze religiose, valide da un lato come avviamento per gli uomini comuni, dall'altro lato come avviamento alla filosofia. Entro questi termini, sem- bra, vanno considerate le ultime opere di Porfirio: il Commento agli Oracoli caldaici (gli Oracoli sono da lui piu volte citati e usati nel De regressu animae), uno scritto su Il Dio Sole (di cui si leggono vasti brani nel primo libro dei Saturnali di Macrobio), in cui, appunto, il siriaco Sole viene ad essere posto come il simbolo dell'unità vivente, sulla linea della tradizione del sole platonico e stoico, emergente dal- l'Uno, dall'Uno Dio Bene; e quella specie di breviario che è Gli slanci dell'anima verso l'intelligibile ('AcpopfLOCL 7tpÒc; -rli: V01)'t"OC) (una summa di regole plotiniane per ritornare dal sensibile all'Anima, all'Intelletto, a Dio, dapprima mediante una condotta di vita ascetica, poi mediante una sempre piu approfondita meditazione dell'anima su se stessa). Gli Slanci dell'anima furono scritti per gli addottrinati, per chi, attraverso la scuola, riceve la capacità di inserirsi nella catena degli eletti ispirati, per chi, purificatosi, ha la capacità di "conoscere se stesso" (non a caso Porfirio scrisse anche un'opera sul Conosci te stesso), di passare in un convertimento dell'anima a se tessa ad essere filosofo. E qui ha un particolare interesse la classificazione porfiriana delle virtu (il capitolo 32 degli Slanci, attraverso Macrobio, che ne dette un sunto nel Somnium Scipionis, ebbe non poca influenza sulla classificazione delle virtu, nel Medioevo): virtu civili ("fondate sulla moderazione delle paso;ioni esse consistono nel seguire ed obbedire alla ragione nei doveri attinenti alle azioni; sono dette l · Oli, perché riguardano la sicurezza del prossimo nella società; la saggezza si riferisce alla parte razionale, la fortezza all'irascibile, la temperanza consiste nell'accordo e nell'armonia della parte concupiscibile con la ragione, la giustizia nel dovere di ciascuna parte nel comandare e nell'ubbidire"); virtu catartiche ("proprie del- l'uomo contemplativo..., sono le virtu dell'anima che si eleva, purifi- candosi, all'essere realissimo, e a cui si giunge mediante le civili; la prudenza, perciò, nelle virtu catartiche, consiste nel non opinare con- forme al corpo, ma nell'agire puro, cioè nel pensare con purezza; la temperanza consiste nel non aderire alle passioni; la fortezza nel non temere il distacco dal corpo, quasi sia un cadere nel vuoto e nel nulla; la giustizia si ha quando la ragione e l'intelligenza comandano senza trovare resistenza"); virtu intellettuali (''sono le virtu proprie del- l'anima intellettualmente attiva; in questo caso, la sapienza e la pru- denza consistono nella contemplazione di ciò che la mente possiede; la giustizia è il compimento della propria funzione, in quanto segue l'intelletto e opera conforme ad esso, la temperanza è una conversione interiore, verso l'intelligenza; la fortezza è impassibilità che si adegua a ciò che contempla e che ha natura impassibile"); virtu esemplari o paradigmatiche ("sono le virtu che esistono nella mente e sono supe- riori alle virtu dell'anima, delle quali sono gli esemplari, cosi come di questi le virtu dell'anima sono somiglianze...: qui la scienza è pru- denza, la sapienza è intelletto che conosce, la temperanza è conver- sione verso la propria interiorità, la giustizia è compimento del pro- prio dovere e la fortezza consiste nell'identità con se stesso, nel rima- nere sempre in interiore purezza mediante le proprie forze"). Scopo delle virtu civili è di imporre una misura alle passioni per agire conforme alle leggi di natura; delle catartiche è di svincolarsi completamente dalle passioni; delle altre è di agire secondo l'intelletto senza avere neppure il pensiero di separarsi dalle passioni; delle ultime infine non è piu quello di rivolgere il proprio atto verso l'intelletto, ma di toccare la mèta cun la propria essenza. Perciò chi agisce conforme alle virtu civili è uomo onesto; chi conforme alle virtu catartiche è uomo demonico o dèmone buono; chi conforme alle sole intellettuali è dio; chi conforme alle paradigmatiche è dio padre. Per questo dobbiamo occuparèi soprattutto delle catartiche cer- cando di possederle in questa vita e salire poi, attraverso queste, alle piu pregevoli... Anzitutto, base e fondamento della purificazione è conoscere se stessi... (Slanci, 32). Duplice è la morte: l'una, la piu nota, si ha quando l'anima si scioglie da~AArpo: non sempre l'una segue l'altra...; e l'anima si lega al corpo quando si volge alle passioni che derivano da esso; da esso si libera allorché non è piu toccata da quelle (Slanci, 9 e 7). Probabilmente composti al tempo in cui Porfirio frequentò Plotino in Roma, certamente frutto dell'attività scolastica, entro l'àmbito della discussione e del metodo plotiniani, sono i commenti di Porfirio ad 242   .alcuni testi di opere di Platone (Crati/o, Sofista, Parmenide, Timeo, Filebo, Convito, Pedone, Repubblica), ad uno scritto di Eubulo (Ricer- èhe platoniche), ad uno scritto di Teofrasto (Sulla affermazione e la negazione) d ad alcuni libri di Aristotele (Categorie, ivi compresa l'Introduzione o lsagoge alle Categorie; De interpretatione, ivi com- presa l'Isagoge ai Sillogismi categorici; Fisica; libro XII della Meta- fisica; Etica; alcuni passi dell'Anima relativi all'entelechia). Se non poco indicativi sono i dialoghi platonici presi in discussione, altrettanto indicativa della funzione assunta dalla filosofia di Aristotele nell'àm- bito del platonismo di Plotino e di Porfirio, è la scelta dei libri di Aristotele. La Fisica e il XII libro della Metafisica (il libro su Dio: cfr. sopra, I vol.) potevano benissimo servire da introduzione a inten- dere lo strutturarsi della realtà dall'Uno platonico, l'Etica da introdu- zione a intendere le virtu civili, catartiche e intellettive, mentre le Categorie e il De interpretatione, se assunti nel loro aspetto formale- grammaticale - e qui Porfirio, riprendendo le fila della lunga discus- sione e del conflitto sulle categorie aristoteliche nel campo del plato- nismo nel n secolo, polemizza con Plotino che, interpretando le cate- gorie contenutisticamente, le negava, sostenendo di contro la validità dei cinque generi del Sofista platonico- servivano come introduzione al "saper pensare," come condizioni che permettono il ragionamento entro l'àmbito dell'Intelletto-intelligibile, donde poi, platonicamente, dedurre le strutture logiche che rendono pensabile la realtà (non a caso Porfirio, riprendendo l'uso logit:o, non ontologico, dei predicabili o categorumeni di Aristotele - genere, specie, differenza, proprio, acci- dente, - interpretati come possibili predicati della sostanza, insiste sul valore verbale - vox - di queste cinque voci, pénte phonai, soste- nendo che esse riguardano il discorso, non le cose, ché il genere, la specie e cosi via sono appunto categorumeni e non cose: cfr. lsagoge, I). Di qui il celebre passo dell'lsagoge (Prefazione), in cui si dice: "lo non dirò circa i generi e le specie se esistano in sé, ovvero se siano semplici pensieri; se siano corporei o incorporei, se separati dai sensibili o posti in essi." I generi e le specie servono come condizioni verbali che per- meaono il discorso ed entro esso la deduzione, l'analisi, per cui, pren- dendo come punto di partenza l'essere (nulla è definibile senza· il verbo essere, e perciò a fondamento di ogni definizione si pone il genere sommo, generalissimo che è la "sostanza"), si può da esso dico- tomicamente discendere (fu su questo testo porfiriano, in lsagoge, 4, 20, che venne ordinato lo schema di definizione per dicotomie suc- cessive, andato sotto il nome di albero di Porfirio. Sostanza: corporea- incorporea; sostanza corporea: corpo animato-corpo inanimato; corpo animato: sensibile-insensibile; corpo animato sensibile; ragionevole-irragionevole; animale ragionevole: mortale-immortale;,animale ragione- vole mortale: Tizio, Caio, Sempronio e cosi via). ' Lo sforzo di Porfirio, il suo intento, e la sua risposta, attraverso Plotino, alla piu viva problematica del stili tempo - Porfirio fu sensi- bilissimo alle piu varie influenze e correnti, cercando sempre di render- sene conto - fu quello di dare un ordinamento ad ogni aspetto del sap~re: da quello pratico-civile, risolventesi nelle religioni, nei culti, nei riti, nelle pratiche magico-teurgiche (se bene intese), nelle leggi scritte, a quello logico-filosofico (certi aspetti dell'aristotelismo) e morale (Platone, certo stoicismo), facendo centro sul motivo piu schiettamente plotiniano dell'anima-consapevolezza, e sul ritorno dell'anima all'Uno, da cui tutto ha luogo, prospettando una filosofia universale, in una universale pacificazione. Si capisce cosi da un lato la sua simpatia umana per la figura del Cristo (almeno prima del suo incontro con Plotino, al tempo in cui conobbe e frequentò Origene a Cesarea: cfr. Bidez, cit., p. 13), dall'altro lato la sua polemica contro i Cristiani (Contro i Cristiani, in 15 libri, composta, sembra, dopo il 270, al tempo dell'imperatore Aureliano), sia teoretica (sul piano di Celso, ove particolarmente si discute l'assurdo di un Dio persona e volontà, creatore, che può fare tutto quello che vuole, l'assurdo dell'uomo per sé centro e valore nella sua individualità, l'assurdo della resurrezione.dei corpi), sia filologica (sostiene l'inautenticità dei libri di Daniele, le contraddizioni storiche tra i Vangelt), sia morale (contro l'intol- leranza, l'unilateralità del Cristianesimo e il suo fanatismo, contro la sua negazione della cultura e della filosofia: il Cristianesimo, come le altre religioni, gli altri riti, le altre pratiche magiche e teurgiche, fun- zionerebbe per la massa, per i poveri di spirito, come momento del- l'ascesa dell'anima alla filosofia e all'Uno), sia politica (il Cristianesimo spezza l'unità culturale e religiosa, la possibilità di raccogliere, in vista dell'Uno tutto, le varie religioni e culture'di provenienze diverse, orientali e occidentali, che potrebbero costituire l'unità pacifica del- l'Impero, in funzione di quella filosofia universale di cui si parlava). Nell'intricata storia della cultura e della formazione di idee e di ideologie di questo tempo non si può non tenere nel debito conto l'altrettanto intricata e complessa storia politica dell'Impero nel I I I se- colo. Il tentativo di Porfirio, sulla fine del III secolo di articolare in unità, in funzione di un'unica filosofia, religioni, culti, concezioni diverse, in nome di un'unità trascendente all'interno, che fosse ad un tempo di base all'unità religiosa e all'unità politica, è un tentativo non poco indicativo. In realtà egli rispondeva a quella stessa esigenza di salvazione dell'Impero che muove un imperatore, come Aureliano, a proclamarsi dio assoluto, riprendendo i motivi dell'elioteismo. La crisi dell'Impero non fu soltanto militare-politica ed economica, ma anche, ad un tempo, e per le stesse ragioni, ideologico-culturale. Dopo Marco Aurelio, particolarmente (sia sotto la dinastia dei Severi: Settimio Severo, Caracalla, Macrino, Eliogabalo, Severo Alessandro, ucciso nel 235 vittima di una congiura militare capeggiata da Massimino che divenne imperatore per due anni; sia nel periodo della cosiddetta anarchia militare: Gordiano, Filippo l'Arabo, Decio, Valeriano, Gal- lieno, ucciso nel 268; sia sotto i cosiddetti imperatori illirici, tesi alla restaurazione dell'unità dell'Impero: Claudio Il, Aureliano, Claudio:racito, Aurelio Caro, Carino e Numeziano; sia durante il periodo che va da Diocleziano a Costantino), si vede bene che il conflitto non fu ta.nto tra Roma e i barbari· (che premevano sia al nord sia in oriente) quanto di Roma con se stessa, sia a causa della trasformazione della città-Stato di. Roma in un complesso di popoli diversi, sia a causa di un non ancora precisatosi concetto di Stato (donde il persistente conflitto tra imperatore e senato), sia a causa della stessa civilizzazione e romanizzazione dei barbari. Il conflitto fu in effetto un con- flitto tra il vecchio mondo, la vecchia concezione e una realtà di fatto, nuova, dovuta a quello stesso mondo che aveva costituito l'Impero, e che nell'incontro di civiltà diverse, di religioni e culture diverse, ten- deva ora (la provincializzazione dell'Impero - ricordiamo la Consti- tutio Antoniniana, di Caracalla -, con la conseguente esau· torazione dell'Italia e del Senato, è un indice) a trasformarsi, sia pure a prezzo di un imbarbarimento, com'è stato detto, accogliendo in sé, appunto, e in sé risolvendo gli aspetti piu vari, in una "nuova Roma." Di qui il conflitto tra momenti in cui si è voluto restaurare la "roma- nità" (sempre allorché vi sia stato un accordo tra imperatore, anche se l'imperatore non era italico, e Senato, o l'imperatore sia stato senato- dale o dell'aristocrazia romana)t e momenti in cui (allorché gli impe- ratori, soprattutto gli imperatori scaturiti dall'esercito, o "barbari," abbiano teso ad eliminare il Senato dal giuoco politico-militare) si è voluto determinare la possibilità di un impero universale. Per tale impero universale, dal punto di vista legale, valeva pur sempre la concezione stoico-ciceroniana del diritto natura~e (cfr. sopra), come si vede nei grandi giutisperi~i del III secolo, entrati in conflitto con il potere assoluto e personale del sovrano: il siriano Papiniano, Ulpiano di Tiro, Giulio Paolo, Erennio Modestino. E di tale Impero, l'impe- ratore doveva essere l'espressione che ne garantisse l'unità, accogliendo in sé tutti i possibili aspetti e le possibili esigenze. Si capisce, in tal senso, che se piu dure furono le persecuzioni contro i Cristiani (Decio; Valeriano), allorché ebbe il sopravvento la politica 245    di alleanza tréll imperatore e Senato, merio dure, talvolta inesistenti furono le persecuzioni contro i Cristiani, allorché prevalse la politica, per cosi dire, interbarbarica (si pensi, ad esempio, alla politica di un Filippo l'Arabo e di un Gallieno), almeno fin quando si credette di poter riassorbire il Cristianesimo entro i termini della funzione data alle altre religioni (teosofiche, magico-teurgiche, solari); altrimenti i Cristiani furono perseguitati, non tanto per le loro dottrine, per la loro fede, una tra le tante, fosse essa la tesi neoplatonica, o gnostica, o manichea, o quelle soteriologiche teurgiche e magiche, solari, prove- nienti dalla Siria, quanto perché la loro concezione, il loro concetto del rapporto tra gli uomini e dell'autorità dell'unica Chiesa (Stato nello Stato), la loro pervicacia mettevano in pericolo l'unità dello Stato stesso (si ricordino le persecuzioni avvenute sotto Aureliano, e l'ultima sotto Diocleziano, 285-305). D'altra parte, soprattutto nelle province orientali e quando lo stesso imperatore persegui la politica della "nuova Roma," il contrasto tra Cristianesimo e cultura classica si svolse soprattutto sul piano teoretico, sul piano delle scuole, in una opposizione tra "filosofie." In tali periodi, anzi, dalla fine del n secolo al Concilio di Nicea (325), notiamo in seno alle stesse scuole cristiane conflitti teoretici, discussioni sul rapporto Dio-mondo, sull'unità-trinità di Dio (il problema trinitario), sulla vera natura del Cristo (il pro- blema cristologico) in un incontro e in una discussione con le tesi platonico-neoplatoniche e stoiche e, spesso, in una rottura interna tra comunità e comunità cristiane e in passaggi di pensatori dal Cristiane· simo alle soluzioni razionalistico-platoniche o irrazionalistico-teurgiche neoplatoniche, e di platonici alla soluzione volontaristico-personalistica del Cristianesimo. Un Origene, ad esempio, vissuto a cavallo tra il n e il m secolo, discepolo, in Alessandria, di Clemente, suo prosecu- tore nella scuola catechetica di Alessandria, maestro poi in Cesarea, poteva benissimo ascoltare, ad un tempo, le lezioni di Ammonio Sacca, discutere il platonismo, interpretare quel platonismo al lume della tesi cristiana; mentre un Longino, filologo, rètore, platonico, poteva da Atene recarsi, insieme al vescovo Paolo di Samosata, presso la corte della regina Zenobia di Palmira, vedova di Odenato, che, al tempo dell'imperatore Gallieno, aveva costituito un principato al confine orien- tale con Roma, ch'ella cercava di organizzare entro i termini di una cultura che rispondesse alle piu vive esigenze (e non solo il vescovo Paolo, ma anche Longino caddero vittime della restaurazione romana in Palmira, riconquistata. da Aureliano). E non a caso Porfirio, ricor- dando il suo giovanile incontro con Origene, poteva sostenere che, se diversi erano i punti di partenza, le soluzioni relative alle condizioni che permettono di pensare la realtà, e, perciò anche, le conclusioni, in 246    realtà tutti, nelle scuole di Siria e d'Egitto - fossero essi cnst1ani, o platonici, o gnostici - erano mossi dalle stesse esigenze, discutevano e leggevano gli stessi testi: "Origene viveva leggendo Platone; le opere di Numenio, Cronio, Apollofane, Longino, Moderato, Nicomaco, e quelle dei pitagorici illustri gli erano familiari; egli si serviva anche dei libri dello stoico Cheremone [attraverso cui lo stesso Porfirio aveva appreso i misteri egizianiJe di Cornuto; attraverso essi egli si iniziò a questa interpretazione allegorica dei misteri dei Greci, di cui applicò il metodo alle Scritture degli Ebrei" (in Eusebio, Hist. ecci., VI, 19, 7). Di qui, anche, in seno alle comunità delle varie province, un rompersi dell'unità delle varie chiese, il contrasto con la Chiesa ufficiale, gli scismi, che mettevano in pericolo l'universalismo, il cattolicesimo della Chiesa, la sua pretesa d'essere l'unica religione, l'unica via alla salvezza dell'uomo - donde da parte della Chiesa, di nuovo, il contrasto con lo Stato, il tentativo della riorganizzazione gerarchica della Chiesa (ad esempio Cipriano2), e dell'assorbimento da parte del Cristianesimo della cultura classica, da risolvere appunto entro i termini della nuova "concezione." Di fatto, intanto, particolarmente nel III secolo, la fede cristiana si estendeva sia tra i semplici, sia tra ì signori e gl'intellet- tuali, e all'esigenza universalistica e pacificatrice, in mezzo a lotre, ron- trasti, al rovesciamento dei vecchi valori, poteva sembrare che rispon- 2 Cecilia Cipriano, •oprannominato Tascio, nacque a Cartagine, nel 210 circa. Dopo aver seguito un accurato e completo corso di retorica, insegnò retorica e fu valente e celebre avvocato. Per influenza del venerabile prete Ceciliano, nel 245 si converti al Cristianesimo. Ancora noefita, alla morte del vescovo Donato, fu eletto vescovo di Cartagine. Nel 25u, al principio della persecuzione di Decio, Cipriano abbandonò Cartagine, rifugiandosi nei pressi della città. Rientrato in Cartagine nel 251, il vescovo dovette affrontare la questione dei lapsi, che, con molto equilibrio e tatto, riusd a risol- vere; nel 255 un lungo dibattito sulla questione del valore del battesimo dato dagli eretici, divise Cipriano dal Papa Stefano. Nel 257, a causa della persecuzione di Valeriano, Cipriano venne esiliato a Curubis. Richiamato, Cipriano si presentò alle autorità e avendo dichiarato d'essere cristiano e di rifiatarsi di sacrificare, venne condannato a - morte per decapitazione. "Lapsi" furono detti quei Cristiani che per sfuggire alla perse- cuzione, dinanzi alle autorità che chiedevano loro se fossero cristiani rinnegavano la loro fede, facendosi rilasciare un libretto di attestazione, onde furono detti anche Jibeilatici. Pas- sata la persecuzione, molti lapsisti chiesero di essere riammessi nella wmunità. Ne sorse una grave controversia. Novato e Felicissimo, aderenti allo scisma di Novaziano, propu- gnavano, di contro agli intransigenti, una assoluta tolleranza. Cipriano, in nome dell'unità della Chiesa, lottò per una moderata intransigenza. Intransigente, invecl!, egli fu nella questione se fosse valido o no il battesimo impartito dagli eretici. Cipriano lo ritenne invalido e la sua tesi fu approvata da tre sinodi tenuti a Cartagine nel 255 e nel 256.. La maggiore opera di Cipriano, composta nel 251, contro Felicissimo e il partito dei lapsisti è il De Catholicae ecclesiae unitate. Di Cipriano si conservano inoltre: Ad Donatum (opuscolo sul valore della fede cristiana); De habittl virginum; Testimoniorum lrbri tres ad Quirinum; De lapsis; De zelo et livore; De mortalitate; Ad Demetrianum;.4d Fortu- natum de exhortatione martyrii; De opere et elemosynis_; De dominica oratione; De bono patientiae. Importante per la storia religiosa è l'Epistolario di Cipriano (sessantacinque let- tere scritte da Cipriano e sedici lettere dirette a lui). 247    desse il Cristianesimo nel suo aspetto piu semplice e fideistico, nella sua capacità di non servire solo a una élite culturale e di filosofi, molto meglio che non l'universalismo filosofico, stoico o neoplatonico che fosse, o certe religioni di mistero, teosofie, e via di seguito. Di tale situazione storica, di fatto, ben si rese conto Costantino, che, com'è noto, credette di poter risolvere quell'unità universale dell'Impero di cui parlavamo, non piu mediante la tesi stoica (Marco Aurelio), o neoplatonica (Porfirio), o elioteistica (Aureliano), ma attraverso la con- cezione cristiana, facendo divenire cristiano l'Impero, ch'era in effetto la fine dell'Impero romano e la concreta premessa dei futuri conflitti politico-giuridici tra Stato e Chiesa. La Chiesa, per la sua stessa strut- tura, non poteva non divenire Stato (e Costantino credette di poterne essere lui l'imperatore, il sacerdote). Non potevano essere questi che accenni, ma necessari per rendersi conto dell'esigenza di considerare il formarsi della cultura sia della cosiddetta pagana, sia della cristiana, non per filoni separati, sempli- cisticamente opposti e indipendenti, ma in un ben piu complesso qua- dro, anche se assai fluido e difficile. È noto che Plotino, con l'aiuto dell'imperatore Gallieno e di sua moglie Salonina - essi, dice Porfirio, lo veneravano ed erano a lui molto affezionati - avrebbe voluto restaurare una città della Cam- pania, andata in rovina, in cui, datole il nome di Platonopoli, avrebbe voluto ritirarsi con i suoi compagni e discepoli, osservando le leggi platoniche (cfr. Porfirio, Vita Plotini, XII). "Questo progetto," seguita Porfirio, "sarebbe anche facilmente riuscito al filosofo, se taluni corti- giani, per invidia, avversione o altro indegno motivo, non vi avessero frapposto ostacolo." Si è molto discusso su questo breve testo porfi- riano; si è parlato di un preciso ideale politico di Plotino, e di una sua influenza diretta sulla politica di Gallieno. In realtà nulla docu- menta ciò, neppure il testo di Porfirio, il quale, in fondo, parla di affetto, di stima da parte di Gallieno e di Salonina per Plotino, si come per Plotino avevano stima e ne riconoscevano l'alto valore intel- lettuale e l'integerrima vita molti altri membri dell'aristocrazia e del Senato romani; non solo, ma Porfirio dice che in Platonopoli si sarebbe vissuto secondo le leggi platoniche, cioè, nel linguaggio porfiriano, seguendo una "vita platonica," una vita filosofica. "La città di filosofi, nel senso platonico," scrive il Pugliese-Carratelli, "che Plotino ha ideato, è concepita non come pratica attuazione di uno schema poli~ tico..., ma come una synoikesis di quelli che, veramente filosofi, si sono fatti cittadini della rt6Àtç ~v Myotç xe:t(.LtvYj. Il progetto plotinico acqui- sta cosf un altro significato e può trovare una piu soddisfacente solu- zione il discusso problema dell'atteggiamento di Plotino verso la polica. In dissenso dal Rudberg (Neuplatonismus und Politik, "Symbolae \rctoe,"), l'Alfoldi (Vorherrschaft der Pannonier, in Funfundzwanzig fahre rom.-german. Kommission, Berlino, pp. 23 sgg.) ha recisamente affermato che nelle Enneadi ricorrono pro- posizioni circa la vita politica che sono in insanabile contrasto tra loro. Queste pretese contraddizioni si dissolvono, invece, quando si avverta, come si deve, che lo spirito di Plotino è orientato in senso perfetta- mente platonico e distingue quindi nettamente quanto attiene al sof6s e quanto agli altri uomini, lontani e non profondamente animati da quella 'v~::ra filosofia' che sola, come insegna Platone, conduce alla 6e:wp(oc (teoria)" (Pugliese-Carratelli, La crisi dell'Impero nell'età di Galliena, "Parola del Passato," 1947, p. 67). Egli [lo a1tou8oc"Loç] sa bene che duplice è la vita di quaggiu: l'una per i saggi, l'altra per il volgo; protesa, nei saggi, ad altezze di vette supreme, mentre negli uomini abituali è suscettibile, ancora, alla sua volta, di distin- zione: l'una fi?.emore della virtu, partecipa a un qualche bene; ma la turba degli sciocchi esiste solo, per cosi -dire, come -artigiana manuale di ciò che serve al bisogno dei superiori (È7tte:txéa-re:pm) (Enn. II, 9, 9, 77). Platonopoli, in realtà, resta un ideale, un rifugio, una città di saggi in conversazione, volti, per dirla con Porfirio, alle virtu intellettuali attraverso quelle "catartiche." Per le virtu civili e politiche resta que- st'altro mondo, il mondo, appunto, dello Stato, dell'Impero, che potrà salvarsi solo se sarà capace di divenire base, fondamento a quella supe- riore unità, alla città dei filosofi. Sotto quest'aspetto sembra esatta, rela- tivamente a Plotino e a Porfirio, l'affermazione di un tardo platonico, Olimpiodoro, indicante le due vie as~unte dal platonismo: "Alcuni hanno innanzi tutto onorato h filosofia, come Porfirio e Plotino...; altri, invece, l'arte ieratica [teurgia], come Giamblico, Siriano, Proclo e tutti gli ieratici" (Olimpiodoro, In Phaed., 123, 3 Norvin). Se Porfirio, nel suo plotinismo, si è particolarmente preoccupato dell'aspetto etico e purificatorio, con accenti, anche se in chiave plo- tiniana, schiettamente stoici, l'altro noto discepolo di Plotino, Amelio Gentiliano,3 sembra maggiormente volto ad approfondire l'aspetto teo- 3 Amelio, o Amerio Gentiliano ("il suo nome era propriamente Gentiliano, ma egli preferiva chiamarsi Amerio con la r sostenendo che gli conveniva trarre il nome da amèria [indivisibilità], anziché da amèlia [negligenza)": Porfirio, Vita Plot., 7), originario dell'Etruria, discepolo prima di un certo Lisimaco stoico, conosciuto poi Plotino, nel 246 circa, rimase con lui in stretti rapporti di discepolo e di collaboratore nella scuola, fino al 270 (poco prima della morte di Platino), quando si recò ad Apamea, in Siria, dove, probabilmente rimase a lungo, se fu detto poi Amelio di Apamea. "Amelio si 249    retico del maestro. Amelio, ongmario dell'Etruria, dopo essere stato discepolo di un certo Lisimaco (uno stoico), conosciuto Plotino, nel 246, rimase con lui in stretti rapporti di discepolo e di collaboratore nella scuola, fino al 270, quando si recò ad Apamea, in Siria, dove, probabil- mente, rimase a lungo, se fu detto poi Amelio di Apamea. Forse ad uso della scuola, egli, giorno per giorno, prese appunti delle lezioni di Plotino, commentandole e chiarendone il significato: raccolse cosi un complesso di sco/ii, divisi in cento libri (purtroppo perduti: sarebbero stati preziosissimi, insieme alla perduta edizione degli scritti di Plotino curata da Eustochio, per confrontarli con l'edizione degli scritti di Plotino a cura di Porfirio: avremmo meglio compreso il rapporto Uno-molti in Plotino). In un'opera dedicata a Porfirio, Amelio difese Plotino accusato di avere plagiato Numenio, chiarendo le differenze che, relativamente ai tre dèi, correvano tra i due, mentre, in due riprese, cercò di mostrare a Porfirio che secondo Plotino le Idee non esistono al di fuori dell'Intelletto. Certo, l'attenzione di Amelio, sotto l'influenza di Numenio, di cui egli ricopiò e ordinò i vari scritti, che conosceva a memoria, si volse, come chiaramente appare anche da Porfirio (Vita Plot., 3, 17, 18), a interpretare e a chiarire il rapporto Intelletto-intelligi- bili, il problema dell'Essere come unità vivente nella dialettica Intelletto- Idee. Egli cosi, secondo Proclo (In Tim., 93d), avrebbe, entro l'àmbito della seconda ipostasi (Intelletto), distinto, sotto l'influenza di Nume- nio, tre ipostasi: l'Essere che è (-tòv èlv-tot, tòn 6nta), che per essere dà essere a sé fuori di sé, le idee (-tòv ~xov-tot, tòn èchonta), che assumono essere, in quanto, contemplando l'essere, la propria fonte, si ricongiun- gono ad esso (-tòv.opwv-tot, tòn horònta), costituendo cosi il primo esserci dell'Uno, ipostasi del tutto, in una dialettica triadica. Di qui, rifacendosi a Numenio, Amelio chiariva il significato dato all'uno che è in quanto è due, o meglio che non è né uno né due, ma è tre, cir- colarmente, in una triadicità, che, poi, internamente all'uno, si molti- avvicinò a Platino durante il terzo anno della sua dimora romana, allorché Filippo era al suo terzo anno di regno, e vi si trattenne fino al primo anno del regno di Claudio: e furono cosl, in tutto, ventiquattro anni. Al suo primo giungere, serbava ancora l'atteg- giame&to mentale di Lisimaco; però superava tutti i suoi contemporanei per la laboriosità di cui dette prova, sia esponendo per iscritto quasi tutte le dottrine di Numenio, sia sunteggiandole, sia mandandone quasi a memoria la maggior parte. Compose, inoltre, gli Sco/ii dalle lezioni, e li coordinò in·cento libri circa, dedicati poi al suo figlio adot· tivo Ostiliano Esichio di Apamea" (Porfirio, Vita Plot., 3). Oltre i Gemo libri di Sco/ii alle lezioni di Platino (perduti), Amelio curò l'edizione degli Scritti di Numenio, scrisse un'opera Sulla differenza delle dottrine di Plotino eldi Numenio (per difendere Platino dall'accusa di avere plagiato Numenio: cfr. Porfirio, Vita Plot., 17: l'opera è perduta), un libro Contro le aporie di Porfirio (cfr. Vita Plot., 18), e quaranta libri Contro il libro di Zostriano. Perdute tutte le opere di Amelio, di lui non abbiamo che qualche frammento e testimonianza (cfr. Eusebio, Praep. ev., XI, 19; Proclo, In Timaeum, 205c, 93d, 226b, 249a; Stobeo, I, 49, 32 sgg.).] plica all'infinito, per ogni aspetto della realtà. Di triade in triade, per- ciò, in una deduzione numerica, si venivano ricostruendo tutte le strut-.ture della realtà in una moltiplicazione di ipostasi, intermediarie tra l'Uno e l'estremo limite della materia, simbolicamente dette divinità, e a cui, via via, si potevan6 in una interpretazione allegorica far corri- spondere le deità del pàntheon greco-romano e asiatico. Phanès, Oura- nòs e Cr6nos, riferiti all'Orfismo, vengono, ad esempio, interpretati come l'Uno, l'Intellett-O e l'Anima plotiniani, scoprendo cosi una teo- logia orfica, un senso riposto negli orfici, nei pitagorici, in Platone. E cosi, posta l'Anima del mondo come divinità, altrettanti dèi sono le anime che pullulano al di dentro dell'Anima universale, corrispondenti e tispecchianti·quegli dèi che sono nell'Intelletto, nel Cielo (gli astri). E se il tutto è, perciò, un essere vivente, articolantesi simpateticamente, e il tutto si ricostituisce di triade in triade, numericamente, tutto è retto dai numeri, si come ogni cosa è una divinità, anche i corpi, cri- stallizzazioni delle anime, momenti dell'Anima universale, momento dell'lntelletto, o L6gos, dio nell'unico Dio. Certamente l'autore di tutte le cose che esistono è stato il L6gos, che è eterno, come avrebbe detto Eraclito, il L6gos, che secondo il barbaro [Gio- vanni Evangelista] occupa presso Dio il posto e la dignità di principio, Dio esso stesso, per il quale tutte le cose sono state fatte e nel quale è stato creato ogni essere vivente:e la Vita stessa. Esso può anche unirsi a un corpo, rivestirsi di carne, prendere le sembianze umane, senza svelare tuttavia la grandezza della sua natura. E quando questa unione è disciolta, esso riac- quista tutti i caratteri della dignità e ridiventa Dio com'era prima di unirsi al corpo, alla carne, alla natura umana (Amelio, in Eusebio, Praep. evang., Xl, 19). Amelio, dal 270, si stabili ad Apamea, la patria di Numenio, in un ambiente, forse, piu consono alla ricostruzione e interpretazione ch'egli aveva dato di Plotino. Quando Amelio giunse ad Apamea, Giamblico,4 siriaco, nato a Calcide, aveva diciannove anni circa. Non sappiamo se, in Apamea, 4 Nato nel 251 circa, a Calcide, in Celesiria, Giamblico fu a Roma, alla Scuola di Porfirio (a Giamblico Porfirio dedicò il suo Intorno al "conosci te stesso," e per lui compose il !Utorno dell'anima). Giamblico, forse, conobbe, ad Apamea, Amelio, di cui, certo, subii l'influenza. Tornato in Siria, Giamblico, per lunghi anni, fino alla morte, avvenuta nel 325-326, insegnò ad Apamea, dove ebbe molti discepoli e seguaci. Seguitarono l'insegnamento di Giamblico, in Siria: Sopatro di Apamea di cui sappiamo che, divulgatore di Giamblico, scrisse un'opera Sulla provvidenza e m coloro che hanno fortuna o sfortuna oltre il merito, e che fu fatto condannare a morte da Costantino (nel 336 circa) e Dexippo (di lui resta un prezioso Commento alle Categorie di Aristotele): 251    Giamblico abbia incontrato Amelio, al quale, per altro, piu che a Porfirio (di cui sappiamo che Giamblico fu per ·.un qualche tempo discepolo in Roma - a Giamblico Porfirio dedicò il suo Intorno al "conosci te steuo," e per Giamblico compose il De regreuu animae) sembra che Giamblico si avvicini, particolarmente per la sua molti- plicazione degli intermediari tra l'Uno, l'Anima e la materia. Sap- piamo che Giamblico, tornato in Siria, per lunghi anni, fino alla morte (325-26) insegnò ad Apamea, ove ebbe non pochi seguaci, si che si è poi parlato di una scuola neoplatonica siriaca, di cui Giam- blico sarebbe stato il fondatore. Per Giamblico, come per Amelio, la realtà tutta, interiormente all'Uno, si costituisce, dall'Vno, di triade in triade: unità, dualità e un terzo termine medio che dialettizza l'uno e l'altro in una dinamica unità. Come da un punto centrale,- veniamo cosi ad avere una serie infinita di circoli concentrici, tutti nell'unico circolo che li raccoglie in una sola unità, in un solo centro, l'Uno, per ciò stesso ineffabile, che è e vive nel suo scandirsi nelle triadi. L'Uno, dunque, assoluto, oltre l'essere, oltre il bene, oltre tutto, si costituisce ed è in quanto Intelletto, termine medio tra l'Uno e la pluralità, emergente dall'In- telletto stesso, a sua volta uno in quanto unità delle idee in atto, mol- teplicità di idee (potenze, intelligenze), che in realtà, comprese, sono a Pergamo: Edcsio, discepolo di Giamblico, seguito poi da Eusebio di Mindo (alcune sue sentenze sono conservate da Stobco), Massimo di Efeso (morto nel 372: autore, secondo Simplicio, In Catcg., I, 15, di un Commefllo alle Categorie di Aristotele, amico di Giuliano Imperatore), Crisanzio, Prisco (poco piu che nomi), Eunapio (la maggior fonte per l'a biografia dci ncoplatonici: di lui si conserva la preziosa Vita dci sofisti, in cui tratta della vita di 23 pensatori, c una Cronaca che va dal 270 ai primi anni del V secolo). Scolarca della scuola neoplatonica di Cappadocia fu Eustazio, discepolo di Giamblico. Altro noto discepolo di Giamblico, che, in Roma, aveva ascoltato anche Porfirio c che ebbe, poi, notevole influenza sulla formazione delle scuole ncoplatoniche di Alessandria e di Atene nel V-VI secolo, fu Teodoro di Asine, detto, da Proclo (In Tim., 341d), il "grande." Teodoro, su testimoniaaza di Proclo (In Tim., e in Rcmp.) e di Olimpiodoro (In Phaed.), avrebbe commentato testi platonici (Timco, Repub- blica, Pedone), e aristotelici (gli Analitict). Di Giamblico si sono conservate le seguenti opere: Vita pitagorica (è il I libro di un'opera intitolata Sillogc delle dottrine pitagorichc); Protrcttko alla filosofia (è il II libro della Sillogc: nel capitolo 20 del Protrcttico Giamblico riporta un lungo passo di un autore ignoto, forse un sofista scettico del v-IV sec. a.C.; il passo è andato sotto il nome L'anonimo di Giamblico); La comune scienza matematica (attribuito a Giam- blico, avrebbe costituito il III libro della Sillogc); Introduzione all'aritmetica di Nicomaco (attribuito a Giamblioo, avrebbe costituito il IV libro della Sillogc); Thcologumcna arith- mctièac (attribuito a Giamblico, avrebbe costituito il VII libro della Sillogc) (perduti sono i libri V, VI, VIII-X della Sillogc); Dc mystcriis Acgyptiorum (si discute se sia di Giam- blico o opera della sua scuola). Giamblico avrebbe inoltre scritto (di queste opere sono giunti solo frammenti e notizie): Commento agli Oracoli Caldaici (framm.); Dc diis (fonte dell'Inno al Sole di Giuliano e degli Dèi di Sallustio: cfr. Macrobio, Saturn., I, 17-23); Dc anima (framm. in Stobeo); Dc imaginibus (Fozio, Bibl., 215); Dc dcsccnsu animac (framm.); Commento aii'Aicibiadc I di Platone. 252    molteplici nell'unità dell'Uno intelletto (l'Intelletto è perciò: Padre, Potenza, Intelletto). I tre fondamenti (ipostast) dell'intelligibile sono, dunque, lo stesso Intelletto nella sua unità (mondo delle idee: x6a!J.OI; V01J-r6~;, k6smos noetòs), le intelligenze o potenze (x6a!J.OI; V01Jp6ç, k6smos noeròs), idee rappresentazioni dell'intelletto, e l'Intelletto in quanto intellezione dell'unità-molteplicità dell'Intelletto. Il terzo ter- mine delhi triade intelligibile, l'Intelletto, in quanto consapevolezza della Unità vivente intelletto-intelligenze, racchiude in sé la vitalità intellettuale, l'Anima del tutto, a sua volta una-molte-una. Veniamo cosi ad avere un mondo intelligibile (x6a!J.OI; V01J-r6~;) ed entro questo, da esso distinto, un mondo intellettuale (x6a!J.OI; V01Jp6ç), che ritrova la sua unità vivente nell'Anima dell'universo, che nella sua unità-molte- plicità-unità si distingue in infinite anime (dèi), costituenti i modelli, le forze, le leggi del cosmo sensibile, uno e molteplice, fino alla natura una e molteplice. Giamblico determina cosi, entro l'Unità tutta, due mondi: il mondo. ideale, posto come condizione, in sé tutto in atto nel suo scandirsi, e relativamente ai limiti, alle definizioni, posto come termine ultimo; e il mondo della natura, procedente dall'altro e a sua somiglianza. Tra l'uno e l'altro mondo - in effetto un sol mondo - si pongono, termini medi, la triade dell'Intelletto e da essa una seconda triade, dal cui terzo termine emerge il mondo degli dèi intelligenze, da cui si costituisce una terza triade, da cui di seguito, scaturiscono, sempre dal terzo termine (unità-sintesi) di ciascuna, tre nuove triadi e da ultimo un'ebdomade (sette termini che raccolgono in sé gli dèi modelli dei sette pianeti) e cosi via; invisibili gli dèi del mondo ideale, essi divengono visibili nel mondo del sensibile e della natura, rispec- chiandosi, in immagine, negli astri luminosi, e di qui negli altri inter- mediari (angeli o messaggeri, dèmoni, eroi), fino alle anime degli uomini. Potremmo seguitare e vedere come Giamblico moltiplichi, sul piano del mondo visibile, gli dèi celesti (ad esempio i dodici dèi zodia- cali, che, costituitisi triadicamente, dànno luogo a •trentasei dèi, a loro volta moltiplicati per dieci, realizzantisi in trecentosessanta dèi), gli dèi interni al eielo, gli dèi delle nazioni e ·delle città, fino a divinità sempre piu limitate, affermazioni di' sé, che rompono l'unità sinfonica e concatenata (fatale) del tutto (sono questi i dèmoni malvagi, i cattivi geni, le anime disperse, decadute, che piu non somigliano al divino astro da cui pur discendono). Porfirianamente nella complessa costruzione di Giamblico venivano a trovar posto tutte le divinità di tutte le religioni, in un incontro che si risolve in una sola teologia, ed ove in realtà, gli dèi e i loro nomi hanno un valore simbolico, evocante i momenti, le leggi, gli ordini, le potenze in cui si scandisce il tutto. Plotinianamente perciò, il male (donde i dèmoni malvagi) è mancanza d'essere, definizione e limita- zione dell'aniii1a, che, con questo, per cosi di-re, si sgancia dall'ordine, rompendo la catena, per cui quell'anima è come presa dal dèmone malvagio, c sempre piu si allontana dal proprio buon dèmone, dalla propria stella, non somigliando piu alla propria potenza. In altre parole, nella visione di un tutto, di un universo vivente, ove ogni termine richiama l'altro, l'uno risponde all'altro, l'uno scaturisce dal- l'altro e concresce sull'altro, in infiniti aspetti esistenti tutti nell'Unità compiuta dell'Uno, l'esistenza del male, il dèmone è, appunto, il rima- nere nel limite, il non morire a questa vita per rivivere nella piu vera vita che è la vita del tutto, perdendosi in essa. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso, entro i termini dell'ordine tutto, della eterna armonia, Giamblico, rifacendosi a Nicomaco e a una certa tra- dizione pitagorica, possa sostenere che tutto ha il suo numero, che ciò senza di cui le cose non sono (ossia le leggi) sono numeri (e perciò le essenze, incorporee invisibili indivisibili incorruttibili, sono numeri). Di qui, in una interpretazione del Timeo platonico e delle pagine della Fisica aristotelica ove si discute dei luoghi e del tempo, si delinea la dottrina giamblichea del luogo divino (l'Uno che in sé raccoglie il tutto) e dei luoghi intesi come i limiti interni all'Uno, ove nell'ordine del tutto ciascuna cosa deve collocarsi, si che ciascuna cosa va al posto che le compete, attua la propria unità nell'Unità del tutto aspazide. E cosi, atemporale l'Universo tutto, atemporale l'Uno, il tempo con- siste nello scandirsi nell'Uno di tutti i suoi momenti, onde il tempo è, appunto, la misura del tutto (Anima del mondo), per cui, se ogni cosa, presa a sé, distinta, è nel tempo, ha il suo tempo, si come ha il suo luogo e il suo. numero, tutte le cose, colte nell'unità del tutto (il tempo dell'Universo, che sta al luogo divino) sono la temporalità, specchio e misura dell'atemporale Uno. E allora, come in un infinito unico specchio, ciascun punto dello specchio rispecchia da punti prospettici diversi se stesso, e ciascun punto prospettico, preso a sé, deforma la visione complessiva di tutto lo specchio, cosi le singole anime, le singole cose, se prese a sé, sono come visioni deformi di se stesse, specchianti il proprio specchio, nel- l'unità dello specchio. In un tutto articolato, e rispecchiante se stesso all'infinito, ogni aspetto richiama, seduce l'altro, anche se ogni aspetto non è l'altro, anche se i punti prospettici piu lontani rispecchiano depo- tenziatamente, in quanto v'è come una dispersione delle potenze, per cosi dire, invece, contratte al centro. Simbolicamente, dunque, tutto è costituito,. nell'Uno infinito, di dèi, che sono i momenti, le leggi, i numeri, le potenze del ritmo mediante cui necessariamente l'Uno esiste, mediante cui l'Uno in sé discorre, rispecchiandosi in ciascun numero, in ciascun dio, dagli dèi intelligenze agli dèi astri, alle anime specchi di quegli astri e cosi via, in un depotenziamento che è tale prospetti- camente, ma che nell'Uno-tutto è concentrazione di assoluta potenza. Filosoficamente, allora, si può, traducendo il tutto in termini matema- tici e geometrici, ricostruire da un lato mediante linee e figure, dal- l'altro lato mediante proporzioni i necessari rapporti, la fatale catena che il tutto lega necessariamente. Sotto questo aspetto, magia e astrologia, se condotte su di un piano matematico-geometrico, sia pure nella difficoltà dei calcoli e nei possibili errori, sono scienze esatte. Solo che al calcolo, alla ricostruzione delle proporzioni, sfuggirà sempre da un lato l'unità vivente, la sintesi costituente l'unità dialettica di ogni triade, dall'altro lato sfuggirà la molteplicità della vita, la dispersione delle potenze nel fluire della materia, il segno divino, sia pur depotenziato, che si specchia in questa o quella cosa dispersa. Se, relativamente all'Uno, i limiti, le determinazioni sono via ·via, entro l'Uno, un allontaiJ-amento e una separazione delle potenze, in un conseguente rispecchiarsi e riflettere sempre piu opaco, sino alla fluidità della materia, il ritorno all'Uno delle anime sarà possibile ricomponendo quella dispersione, rifacendola una nell'Anima. Da un lato, dunque, il ritorno all'unità lo si può avere in una ricomposizione della molteplicità nell'unità, rintracciando l'unità-molteplicità per via geometrico-numerica, in una sistemazione che, tuttavia, pur cogliendo le proporzioni e i legami che articolano il tutto nell'Uno, rimane sem- pre un sistema, diciamo cosi, esterno, disegnato; dall'altro lato, invece, il ritorno all'unità, cogliendone la vita, cioè l'unità vivente non piu solo esteriormente ma interiormente, si ottiene per altra via, che non è quella logico-matematica, che, se coglie il sistema esteriormente, non ne afferra la vita né salva l'anima una nell'unità divina. Per questa seconda via, cui pur si giunge attraverso la prima, l'anima rifà proprie le potenze disperse e rintraccia i segni opachi, operando sulle cose, riconducendole a sé, e con ciò riconducendo sé sotto il segno di una potenza superiore; immedesimandosi in essa, l'anima torna all'Uno e in esso e con esso diviene libera per la stessa necessità dell'Uno onni- potente. Sotto questo aspetto sembra chiaro in che senso Giamblico ponga la ricerca su due piani integrantisi: il piano della ricerca geometrico- aritmetica che coglie la struttura estrinseca e intellettuale della realtà, e che ha una sua funzione protrettica e necessaria per avviare ad oltre- passare il sistema, a rifare propria la vita e il senso della realtà; in ogni cosa rintracciando il suo segno, in una concentrazione di potenze evocanti, per imitazione, la relativa superiore potenza. Ed è questo il piano della magia e della teurgia, della "filosofia," intesa appunto come scienza che coglie il mistero della vita, e come dominio, nella comprensione del tutto vivente, di tutte le cose. In tale senso Giam~ blico rovescia il rapporto magia-teurgia-riti'e filosofia di Porfirio; il rapporto viene ad essere l'opposto: l'aritmetica, la geometria, la filo- sofia come rintraccio del discorso della realtà (logica) sono il presup- posto della piu vera "filosofia" che è la teurgia e la magia astrologica. "Non è il pensiero," si legge nel De mysteriis, andato sotto il nome di Abbamone, ma attribuito da Proclo e da Damascio a Giamblico, "non è il pensiero che congiunge i teurgi agli dèi; perché allora che cosa impedirebbe ai filosofi contemplativi il godimento dell'unione teurgica con gli dèi? Le cose non stanno cosf: l'unione teurgica si raggiunge soltanto grazie all'efficacia degli atti ineffabili, compiuti nel modo adatto, atti che superano ogni comprensiQne e grazie alla potenza dei simboli indicibili, compresi unicamente dagli dèi... Senza nessuno sforzo intellettuale, da parte nostra, i simboli (auv&/j!J.OtT«, synthèmata), per virtu loro compiono l'opera che è loro propria" (De myst., 96, 13 Parthey). Che, d'altra parte, la teurgia di Giamblico non consista nella volgare credenza nelle oscure capacità del mago di costringere gli dèi e le forze occulte al proprio volere, ma rientri nell'àmbito della magia plotiniana, per cui è l'anima che ritornando in se stessa domina sé fuori di sé, in sé e nelle cose concentrando le potenze disperse, per cui rintraccia la superiore potenza; rifacendosi ad essa simile, onde piuttosto - attraverso le tecniche teurgiche - l'anima viene chiamata dal proprio dio, ciò è chiaro nel seguente testo del De mysteriis. A Por- firio, il quale aveva sostenuto che le XÀ~ae:tç (klèseis, invocazioni) dei teurgi, le preghiere con cui si attira su di sé la luce divina (De myst., 40, 17) sono atti di costrizione che implicano che gli dèi 'siano passibili (t!L7tat&dç, empathèis) come i dèmoni, Giamblico risponde che non è vero. Gli dèi non si lasciano affatto violentare, ma è l'anima che puri- ficandosi, che rientrando in sé domina sé malvagia, dispersa, il dèmone, e che facendosi simile al proprio dio è, in effetto, da lui chiamata: Che ciò di cui ora parliamo sia salutare all'anima, lo dimostrano i fatti stessi, con evidenza. L'anima, infatti, quando contempla i felici spettacoli, acquisisce una nuova vita e opera in virtu di un'arcana forza, si che nep- pure piu sembra, giustamente, un uomo. Spesso anche, avendo respinto la propria vita, l'anima ha ricevuto in cambio la infinitamente beatifica forza degli dèi. Se, dunque, l'ascesa ottenuta con le nostre preghiere procura ai sacerdoti la purifìcazione dalle passioni, la liberazione da questo mondo. l'unione alla fonte divina, come dire che tutto questo implica una passività degli dèi? Non è vero che queste specie di invocazioni attraggano con la forza gli dèi impassibili e puri nel passivo e impuro mondo; al contrario, tale ascesa fa di noi, che a causa della generazione siamo nati passivi, esseri 256    puri ed immobili (De myst., I,:12, 41, lO sgg.: cfr. in Festugière, La Révc· lation, cit., III, pp. 173-4). Aveva detto Plotino: Io credo che gli antichi saggi [ot 7tilÀocL (J6(jlOL: gli esperti dell'arte sacra], che, nel desiderio di avere tra loro presenti gli dèi, drizzarono templi e statue, mirando alla natura dell'universo, intuirono nel loro spirito che l'Anima si lascia facilmente attrarre dappertutto, ma che sarebbe stata la piu facile di tutte le cose trattenerla addirittura, qualora l'uomo avesse costruito qualcosa di affine e impressionabile, atto ad accogliere una qualche parte di anima. Ma impressionabile è, appunto, l'imitazione - comunque riuscita - la quale, proprio come uno specchio, sa rapire almeno un po' di figura (Enn. IV, 3, 11). Dirà Proclo: Gli antichi saggi, riferendo una cosa di quaggiu a un essere celeste, un'altra a un altro, portavano le potenze divine fino alla nostra dimora mor- tale, attirandole mediante la somiglianza, perché la somiglianza è abbastanza potente da collegare gli esseri gli uni agli altri... I maestri dell'arte ieratica [teurgi] hanno scoperto, in base a quello che avevano sott'occhio, il modo di onorare le potenze superiori, mescolando taluni elementi, e altri togliendone in misura appropriata. Se mescolano è P<:rché hanno osservato che ognuno degli elementi separati possiede qualche proprietà del dio, ma non basta per evocarlo; cosi, mescolando un gran numero di elementi diversi, uniscono le forze ricordate sopra, e con tale somma di elementi compongono un corpo unico simile all'unità precedente la dispersione dei termini. Cosi fabbricano spesso, con tali mescolanze, delle immagini e degli aromi, impastando in un medesimo corpo i simboli prima divisi, e producendo artificialmente tutto quello che la divinità comprende in sé per essenza, riunendo la molteplicità delle potenze che, separate, perdono ognuna la propria efficacia, e che, invece, riunite, si combinano per riprodurre le forma del modello (in Bidez, Catalogues des manuscrits a/chimiques grecs, VI, Bruxelles, 1928, p. 139: cfr. Festugière, lA Rével., cit., I, Parigi, 1944, pp. 134 sgg.; anche Garin, Le elez. e il probl. dell'astr., cit., pp. 19 sgg.). Tra Plotino e Proclo v'era stata l'opera e l'insegnamento di Giam- blico, la sua interpretazione degli oracoli caldaici (commento agli Oracolt) e il significato da lui dato alle tecniche e alle pratiche teur- giche, alla filosofia'Come mistero (De mysteriis), con cui si compie, in senso plotiniano e porfiriano, quella "conversione" dell'anima su se stessa (si confronti anche di Giamblico il trattato sulle varie conce- zioni intorno all'anima: De anima) con cui avviene, oltre la ragione, I"unione mistica, e a cui per altro si giunge attraverso una prima sistemazione dei rapporti mediante i quali il tutto si articola in unità, e che consiste in una traduzione del tutto in termini geometrici e nume- rici, in un cogliere la numerabilità dei numeri delle cose. Giamblico proclamò se stesso pitagorico e teurgo sostenendo che, appunto, la divina dottrina di Pitagora serve da introduzione alla filosofia, che la filosofia deve usare lo stesso metodo della matematica, attraverso i cui simboli si arriverà a cogliere, oltre la ragione, il mistero della vita (cfr. in tal senso il De vita pythagorica, il Protrepticus ad Philosophiam, e le tre opere matematiche attribuite a Giamblico: De cotnmuni mathe- matica scientia, In Nicomachi arithmeticam introductionem, Theolo- gumena arithmeticae). Plotino, Porfirio, Amelio (non si scordi ch'era etrusco e che in Etruria sviluppatissime erano le tecniche vaticinatorie) hanno costituito tre linee (Plotino, Porfirio, Amelio-Giamblico) interpretative del tutto, che, ora intrecciandosi ora separandosi, a seconda che si sia puntato di piu o di meno sul momento mistico-irrazionalistico e operativo (Amelio-Giamblico), o sul momento dell'anima come "coscienza" (Porfirio), hanno dato luogo a problematiche e a soluzioni diverse sia sul piano teoretico (visivo-contemplativo, relativamente al rapporto Uno-Intelletto), sia in funzione di questa o di quella "visione," sul piano dell'interpretazione.di certi testi di Platone, considerato in fun- zione di questa o di quella interpretazione del platonismo. Troppo scarsi sono i frammenti che possediamo delle opere degli immediati discepoli di Giamblico e dei seguaci di questi ultimi per potere determinare correnti precise, precise delineazioni di quelli che furono i "neoplatonismi" tra Giamblico ("neoplatonismo" siriaco, proseguitosi, "dopo Giamblico, con Sopatro di· Apamea e Dexippo; di Pergamo di cui fu caposcuola Edesio, discepolo di Giamblico; di Cap- padocia, con Eustazio), e il neoplatonismo rinnovatosi nella scuola di Atene con Plutarco di Atene {Iv-v sec.) e, attraverso Siriano e Dom- nino, culminato con Proclo (v sec.), e rinnovatosi nella scuola di Ales- sandria con Ierocle di Alessandria, discepolo di Plutarco. Certo, Eunapio (Iv-v sec.), autore di una serie di Vite di 23 sofisti e filosofi (Vita sophistarum), la maggior fonte per le biografie dei neoplatonici, pur propendendo per l'aspetto magico-teurgico di origine giamblichea, sot- tolinea che già tra i primi discepoli di Giamblico e di Edesio, alcuni ne avrebbero criticato il preponderante motivo della teurgia, divenuto in alcuni vera e propria ciarlataneria, trucco, teatralità. Eunapio, for- matosi nell'ambiente neoplatonico dei discepoli di ·Edesio, che, seguace di Giamblico, apri una scuola a Pergamo, dice appunto che secondo Eusebio di Mindo - vissuto nel IV secolo e del quale sappiamo che e discepolo di Edesio in Pergamo - la magia praticata da certi suoi condiscepoli è, in realtà, cosa da "squilibrati, che pervertitamente stu- diano certi poteri, che derivàno dalla materian e che in particolare bisogna tenersi alla larga - e cosi consiglia il futuro imperatore Giu-.liano - da quel "teatrale taumaturgo,n che è il teurgo Massimo di Efeso (cfr. Eunapio, Vit. soph., 474 sgg. Boissonade). Massimo, vissuto nel rv secolo, fu discepolo di Edesio, a Pergamo, insieme a Eusebio di Mindo, a Crisanzio - celebre P<:r la sua vita ascetico-mistica, - a Prisco, poco piu di un nome (per tutti cfr. Eunapio, Vit. soph.). Giu- liano non ascoltò Eusebio di Mindo e si rivolse, invece, proprio a Massimo di Efeso (cfr. Giuliano, Epist., 26), chiedendo a un tempo a Prisco di procurargli un Commento agli Oracoli caldaici di Giam- blico: "Sono avido di Giamblico," scrive Giuliano, "per la filosofia e del mio omonimo [cioè Giuliano, autore degli Oracoli caldaici] per la teosofia: gli altri, in confronto, non li considero affatto n (Epist., 12 Bidez). Sappiamo, per altro, che, quando Giuliano divenne Imperatore (361-363), e, com'è noto, tentò, di contro al prevalere della Chiesa cri- stiana, ufficialmente riconosciuta, di opporre alla religione cristiana una ideologia universalistica imperiale che salvasse l'Impero dall'essere assorbito dalla Chiesa, Giuliano nominò Crisanzio supremo sacerdote della Libia e fece di Massimo il proprio consigliere teurgico. Alla morte di Giuliano, Massimo fu perseguitato dalla reazione cristiana, tanto che si riusd a farlo condannare a morte sotto l'imputazione di avere cospirato nei confronti degli Imperatori (371). Se Crisanzio, Prisco e particolarmente Massimo hanno portato, come sembra, ad estreme conseguenze la funzione della teurgia e della demonologia, approfondendo, come risulta anche da Proclo, lo studio delle tecniche e delle pratiche teurgiche, i modi con cui evocare le divinità, e con cui operare sulla natura, i modi con cui richiamare nelle cose e negli uomini le potenze divine, suscitando nell'uomo l'esperienza di convertire sé nell'unità vivente del tutto, di sdoppiarsi e ricomporsi negli "spiriti,n nulla di preciso possiamo dire del loro maestro Edesio di Cappadocia, di cui sappiamo solo che fu discepolo di Giamblico ad Apamea e che poi insegnò a Pergamo (di qui la cosiddetta scuola neo- platonica di Pergamo). Demonologo e teurgo fu un altro discepolo di Giamblico, Eustazio di Cappadocia, che, dopo avere ascoltato ad Apa- mea Giamblico, tornò ìn Cappadocia ove apri una scuola (egli fu invi- tato da Giuliano imperatore alla propria corte: Epist., 76). Continua- tore diretto di Giamblico fu Sopatro di Apamea. Di lui poco o nulla sappiamo, se non che fu divulgatore di Giamblico, che scrisse un'opera Sulla provvidenza e su coloro che hanno fortuna o sfortuna oltre il merito, e che dapprima in rapporti con l'imperatore Costantino fu poi 259    fatto condannare a morte da Costantino, in Costantinopoli (Sopatro dovette quindi morire prima del 337). Tra i primi discepoli di Giam- blico fu Teodoro di Asine, che, in Roma, aveva ascoltato anche Porfirio. Del "grande Teodoro" (Proclo, In Tim., 341 d) Proclo riferisce che fu soprattutto un interprete e un commentatore di testi platonici (Timeo, Repubblica, Pedone: cfr. Proclo In Tim., In Remp.; Olim- piodoro in Phaedon; secondo Ammonio di Ermia, Teodoro avrebbe commentato anche gli Analitici di Aristotele: Ol4npiodoro, Sugli Ana- litict), considerati al lume della ricostruzione triadica di Amelio e di Giamblico, nel tentativo di offrire, per via allegorica, un tutto com- piuto ove trovassero posto le piu diverse esperienze religiose, nei ter- mini già illustrati da Porfirio. Per la discussione,. interna alle scuole sul numero dei demiurghi, da Amelio a Porfirio a Giamblico e a Teodoro, discussione che indica l'approfondimento dialettico della que- stione relativa al porsi dell'Uno e delle ipostasi, e che ebbe una forte influenza sull'analoga questione discussa in seno al Cristianesimo sul- l'unità-e trinità di Dio e sul rapporto tra Dio e le tre persone (non a caso dette, ad esempio, da Basilio il Grande ipostast), si confronti Proclo In Timaeum, 333-334. Particolarmente interessante, invece, per la storia delle interpretazioni delle Categorie aristoteliche il Com- mento alle Categorie di Dexippo, vissuto nel IV secolo, discepolo di Giamblico, in cui Dexippo, spiega dialogicamente a un certo Selemco il significato delle categorie, sostenendo, di contro a Platino e seguendo Porfirio, che le categorie hanno un valore formale e servono per intro- dursi a cogliere la dialetticità dell'Essere in senso plotiniano.Arnobio e LAttanzio. Costantino. Seguito o combattuto, inter- pretato sotto un certo angolo visuale (la questione del rapporto tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo) o sotto altro aspetto (particolar- mente quello della grazia e della redenzione), condannato per certe sue dottrine, considerate poi "eretiche" (l'apocatastasi, la subordina- zione del Figlio al Padre, l'Evangelo Eterno, o la esasperata interpreta- zione allegorica delle Sacre Scritture), o seguita la sua autorità in una interpretazione del Cristianesimo itt chiave neoplatonica, certo è che l'opera di Origene ha costituito uno dei perni su cui verranno ruotando le ulteriori elaborazioni, discussioni, sistemazioni della conce- zione cristiana. Senza dubbio, per altro, Origene, sia per la sua grande cultura nel campo classico come nel campo dell'esegesi biblica, ~ia per la sua capacità di avvertire i problemi, ha messo in chiaro quelli che erano i dubbi, le aporie, le difficoltà del Cristianesimo nel suo piu maturo incontro con le piu mature concezioni greche, mostrando ad un tempo i punti in cui l'accordo poteva precisarsi e i punti in cui il Cristianesimo si presentava come un'esperienza e una concezione irri- ducibili al metro della concezione classica. Sotto questo aspetto l'op..:ra di Origene, morto a Tiro in seguito alle torture sofferte durante la persecuzione di Decio, serve anche a comprendere la pro- blematica, le aporie, le discussioni sul significato del Cristianesimo, che rintracciamo in opere, maturatesi al di fuori della diretta influenza di lui, ma non certo del neoplatonismo diffusosi nel mondo latino, non solo per la permanenza di Plotino in Roma, ma anche attraverso i diretti discepoli latini di Plotino. E qui pensiamo agli scritti degli afri- cani Arnobio e Lucio Cecilio Firmiano, soprannominato Lattanzio. Sotto questo aspetto, la curiosa opera di Arnobio/1 nato nel 255-260, il Nato a Sicca, nella Numidia (Africa proconsolare) tra il 255 e il 260, Arnobio fu maestro di retorica a Sicca per lunghi anni. Oratore famoso per la sua avversione al Cristianesimo, non poco stupl gli ambienti cristiani d'Africa la sua improvvisa con- [a Sicca, nell'Africa romana, I'Adversus Nationes (in sette libri, "lucu- lentissimi libri adversus pristinam religionem," composti dopo il 297), ha un notevole significato storico, pur nella sua tortuosità, nel suo faticoso andamento, nella sua mancanza di idee chiare sul piano dot- trinale-teologico, ebraico e cristiano. Arnobio, di famiglia non cristiana, rètore di fama e professore di retorica a Sicca, noto, in campo cri- stiano, per la sua ·dichiarata avversione nei confronti del Cristiane- simo, sembra, secondo il racconto di San Gerolamo (De viris ili., 79), che sia improvvisamente passato alla nuova religione. La conversione - si dice - fu dovuta a un/ sogno che lo illuminò sul significato della nuova concezione. Anche se il sogno è un aneddoto ed è simbolico, rivela che la tesi esplicata da Arnobio nella sua opera, cosi violenta, sino a divenire ingiusta, contro la filosofia e le religioni "antiche," su cui, d'altra parte, Arnobio dimostra di essere preparatissimo, ignorando, in- vece, le Sacre Scritture, è che la "conversione" non è frutto di insegna- mento, non è dimostrazione di una certa verità che convinca di errore, ma è dovuta ad un atto gratuito, miracoloso, extraumano. Arnobio scrisse I'Adversus Nationes per convincere il vescovo di Sicca che, diffidando della sincerità della sua conversione, era in dubbio se accoglierlo o no nella Chiesa. Ciò, evidentemente, indusse Arnobio a respingere con vio- lenza, in blocco, tutta la cultura classica, le antiche concezioni, senza uscire fuori da quella cultura e da quelle concezioni, usando anzi - egli rètore e dotto delle varie ipotesi e tesi della filosofia classica e delle varie forme religiose, ignorante della tradizione ebraico-cristiana - quelle stesse tesi e ipotesi in senso fiegativo per mostrarne la contradditto- rietà, l'insufficienza a dare un senso alla vita, l'illusione che all'uomo sia concessa una funzione nell'ordinamento del tutto. E qui s'innesta il significato piu profondo dell'opera di Arnobio: il suo pessimismo sull'uomo, "questa cosa infelice e misera, che si duole di essere, che detesta e piange la sua condizione e non intende di essere stato creato per altro, se non per diffondere il male e perpetuare la sua miseria" (Il, 46). Se anche l'uomo non ci fosse, il mondo resterebbe ugual- mente quello che è: Gli uomini in che cosa giovano al mondo e perché mai sono indispen- sabili?... Aggiungono qualche parte alla formazione della pienezza di questa mole e, se non fossero stati aggiunti, l'universo sarebbe forse zoppicante e versione (avvenuta nel 295-296 circa, a causa eli un sogno). Il vescovo di Sicca, per pru- denza, temendo una finzione, resistendo alle preghiere del convertito, non volle sulle prime ammetterlo tra i catecumeni. Arnobio, allora, a prova della sua sincerità, scrisse i sette libri dell'Adversus Nationes, compiuti nei primi anni del JV secolo, che prende le moS>e dalla critica a un recente libro del neoplatonico Cornelio Labeone, sostenitore dell'antica religione. Secondo San Gerolamo, Arnobio sarebbe morto nel 327. 273    imperfetto? E che,.forse se non ci fossero gli uomini il mondo verrebbe meno ai suoi doveri e le stelle non compirc;bbero il loro corso, non vi sarebbero piu estati e inverni, cesserebbero i soffi dei venti, né dalle nubi conden- sate e sovrastanti cadrebbero le pioggie per portare refrigerio alle aridità? (Il, 37). Ontologicamente inutile, l'uomo è anzi una scheggia nella econo· mia dell'Universo, un essere orgoglioso, malefico e maligno, dedito solo a violenze e a delitti (Il, 38). Se tale è l'uomo, non solo è empio rite- nere che l'uomo sia stato creato da Dio, quel Dio che tutti ammet- tono essere il fondamento dell'ordine e della perfezione del tutto (l'uomo piuttosto dovremmo dire ch'è statQ creato da divinità infe- riori, impotenti), e illusione è credere con Platone che l'anima umana sia dello stesso genere della divinità, onde neppure si può dire che immortale per natura sia l'anima, per cui non è dato certo all'uomo ricostruire, attraverso se stesso, riconoscendo sé divino ("reminiscenza"), le strutture su cui si scandisce il ritmo della realtà. Se davvero l'uomo fosse di natura divina, se l'essenza dell'uomo fosse un aspetto dell'essenza divina, l'uomo si annullereboe nell'umanità e l'umanità in Dio, l'uomo sarebbe, ma non esisterebbe. In realtà, certe filosofie greche (Platone, Aristotele, gli Stoici) risolvendo. tutto in Diq negano l'esi- stenza dell'uomo. Di fatto l'uomo esiste.e la sua esistenza implica ch'egli è limite, male, e che il suo esistere si risolve tutto, come vuole Epicuro, entro l'arco dello stesso esistere umano, e perciò, sotto questo aspetto, la vita umana non ha alcun senso, nessun fine, non serve a nulla, ogni costruzione filosofica dell'uomo si risolve in una ipotesi puramente umana. Limite e determinazione, corporeità, l'uomo non può essere che coscienza del limite; egli è perciò sensazione ed ogni sua cono- scenza non può non basarsi perciò che sulle sensazioni (II, 20), per cui all'uomo non è dato oltrepassare le proprie costruzioni, rimanendo sempre come distaccato dal tutto, costituendo un mondo a parte, un mondo di limiti, di chiusure, di affermazioni, un mondo senza spe- ranza. Inesistente l'uomo nelle concezioni platonico-neoplatoniche; senza senso, mortale, annullato nel suo stesso apparire, l'uomo nelle conce- zioni epicuree; illusioni e costruzioni umane gli dèi, le credenze delle religioni; ben disperate, tristi, si rivelano, attraverso le stesse filosofie e religioni, la situazione e la condizione umane. Volete deporre la vostra connaturata superbia, voi che presumete di avere quale padre Dio e che sostenete di dividere con esso l'immortalità? Volete indagare che cosa mai siete voi, da chi siete nati, cosa fate nel mondo, perché mai siete venuti alla vita?... Non siamo simili agli altri animali? Siamo anche noi formati di ossa e di nervi, respiriamo con le narici l'aria, siamo distinti in sessi, come gli animali veniamo fuori dall'alveo materno. Ci sosteniamo con cibi, ed emettiamo il superfluo dalle parti inferiori, andiamo incontro a malattie e a morte! (II, 16). Se gli uomini avessero conosciuto intimamente se stessi, mai avrebbero presunto di possedere una natura immortale e divina,... mai, sollevati dalla superbia e dall'arroganza, si sarebbero creduti primarie divinità uguali a Dio, solo perché hanno escogitato la grammatica, la musica, l'oratoria e le formule geornetriche (II, 19); noi che nasciamo dai genitali femminili, che emettiamo senza posa inutili vagiti, che succhiamo poppando mammelle, che ci copriamo e c'insoz.z:iamo delle proprie sporcizie... (II, 39). L'insistenza di Arnobio sull'uomo nullità, bruttura, limite, è dovuta al senso tragico della vita, proprio del pensiero greco, del cosiddetto pessimismo greco, per il quale, almeno in certe posizioni di fondo, c'è Dio, c'è l'ordine, il tutto è razionalmente costituito, ma in realtà non c'è l'uomo. E quell'uomo dipinto in si fosche, deprimenti tinte da Arnobio, entro i termini della sua formazione non cristiana, è la con- clusione tragica del pensiero greco sull'uomo, di quell'aporia sull'uomo, che se è tutto è nulla e se esiste è ugualmente nulla, limite, male, non essere. Proprio tale rivelazione, tale consapevolezza.della sciagurata posizione dell'uomo, dà a un uomo di cultura greca come Arnobio il significato nuovo dato all'uomo dal Cristianesimo, in cui, se mai, non c'è Dio - Dio si pone come fede e speranza, e la sua presenza è rive- lazione, da parte sua, della sua mancanza -, ma c'è l'uomo, nella sua situazione tragica, ma anche, ad un tempo, nella sua possibilità, attra- verso il Cristo, d'essere uomo reale e concreto, persona. È appunto tale rivelazione di quello che l'uomo è per natura, sganciato dal tutto nel suo esistere - non a caso le cupe e orripilanti parole sull'uomo che nasce nel sangue e negli escrementi, che è bruttura e malattia, ritorne-:anno sempre qualora si punti sull'uomo sganciato dalla grazia e dalla ·ivelazione, dimentico di Cristo: e qui pensiamo, ad esempio, al De:ontemptu mundi di Innocenzo III, di cui alcune pagine sembrano ·icalcate da Arnobio - è tale consapevolezza che dà· un senso alla fede:ristiana. Ecco perché dicevamo che per comprendere Arnobio (e non 1olo Arnobio, ma la piu profonda ragione del passaggio di molti al:ristianesimo, in cui si salva l'uomo; "la novità ch'esso portava con;é era la liberazione della personalità," è stato detto, "incatenata:lalla religione e dalla morale dello Stato, che in sé riassorbiva e per-:leva l'uomo": cfr. Kovaliov, Storia di Roma, Il, trad. it., Roma, L9SS, p. 236) bisognava tener presente la rielaborazione origeniana sulla paradossale situazione umana. L'uomo non è natura: l'esistenza umana, ~on cui l'uomo assume una sua natura è frutto di un atto di volontà, ~ determinazione dovuta a un atto di libertà, che chiude l'uomo a qual- >iasi altra possibilità, rendendolo quello che è: male e limite, insignifi- 275    cante, inutile, scheggia e rottura del perfetto ordine del tutto in Dio; egli uomo male e limite, e non l'Universo, natura una in Dio, in sé buona. Rompere contro il male, dunque, è rompere contro la propria natura. Solo che tale consapevolezza, essendo essa stessa contro natura, non è piu umana, è dovuta a un atto innaturale e perciò extraumano, divino, a un atto della volontà divina che vuole salvare l'uqmo. Tale la forza del messaggio cristiano, tale la rivelazione del Cristo, venuto a salvare l'uomo, o meglio a restituire l'uomo a se stesso. Entro questi termini sembra chiaro in che consista il senso da un lato del pessi- mismo di Arnobio, l'accusa di Arnobio nei confronti di tutta la con- cezione greco-romana, dall'altro lato, indipendentemente da ogni impal- catura teologico-cristiana, della sua conversione al Cristianesimo,.che offriva la salvazione dell'uomo non come concetto, ma nel suo esserci reale, nella sua responsabilità morale. Non a caso cosi, riprendendo un motivo proprio della polemica cristiana (cfr. San Giustino), Arnobio sostiene che l'anima non è né immortale (come vorrebbe Platone: cfr. Il, 14), né mortale (come vorrebbe Epicuro: cfr. Il, 30), ché nel- l'uno e nell'altro modo negheremmo l'uomo. La mortalità e l'immor- talità sono dovute a Dio, a seconda se l'uomo, una volta riscattato dal Cristo, abbia saputo o no essere responsabile di se stesso. Opposta alla posizione di Arnobio sembra la posizione di Lucio Cecilio Firmiano,7 detto Lattanzio, africano della Numidia, ch'ebbe, a Sicca, Arnobio, maestro di retorica, soprattutto per la sua esaltazione dell'uomo, centro dell'universo, microcosmo, che non poco risente degli scritti ermetici, particolarmente dell'Asclepio, citato e discusso da Lat- tanzio sotto il titolo L6gos telèios (Sermo perfectus). In Arnobio ciò che piu colpisce è la negazione della concezione classica, che nelle sue conclusioni porta l'uomo alla disperazione, donde il passaggio alla tesi del Cristianesimo sull'uomo nulla, male, limite, in quanto esistenza che 7 Lucio Cecilia Firmiano, detto Lattanzio, nacque in Numidia,. presso Sirta, o Mascula, nel 260 circa. Compiuti gli studi retorici a Sicca sotto Arnobio, divenuto oratore di grido, insegnò prima retorica in Africa, poi, chiamatovi da Diocleziano, a Nicomedia (dal 300 circa). Convertitosi al Cristianesimo nel 302, quando nel 303 ebbe inizio la persecuzione contro i Cristiani, Lattanzio abbandonò la cattedra di eloquenza, ritirandosi a vita privata e dal 305 (in tale anno appare ancora a Nicomedia) sparendo dalla circolazione.  Lattanzio scrisse il De opificio Dn (opera assai prudente), tra il 305 e il 311 compose i sette libri delle lnstieutiones dit~intU, dedicate, quando furono compiute, all'Imperatore Costantino, del cui figlio, Crispo, Lattanzio divenne precettore dopo il 313, in Gallia, a Treviri, dove soggiornò certo fino al 320 (ogni traccia di lui si perde dopo questa data). Posteriori alla persecuzione, composti, sembra, tra il 311 e il 317, sono il De ira Dei, il De mortibus persecutorum e una Epitome delle Istituzioni. A Lattanzio è, infine, attribuito (si dubita che sia di lui) un breve poema Sulla Fenice (De fltle Phoenice).] è peccato; tutto, centro morale, responsabilità, possibilità di volersi mor- tale o immortale in quanto redenzione. In Lattanzio, nel suo tentativo di offrire, da quel buon professore di retorica ch'era stato, il manuale della concezione cristiana nel suo insieme - non a caso·l'opera sua maggiore va sotto il titolo di lnstitutiones divinae, - ciò che piu col- pisce è la sistemazione in unità dei piu vari motivi, 3:nche opposti e in contrasto, che separati, in fermento, s'erano venuti maturando tra platonici e cristiani nel corso del II e del m secolo, e dove il signifi- cato e la funzione dell'uomo vengono veduti in rapporto all'economia dell'universo e di Dio, interpretando la soluzione neoplatonica, in chiave cristiana. Le ragioni della conversione di Lattanzio sono molto piu semplici e piane che non quelle drammatiche di Arnobio. Le ragioni delle filosofie - in realtà del neoplatonismo e di Platone, quest'ultimo filtrato attraverso Cicerone - trovano il loro fondamento e criterio nelle ragioni della fede cristiana. Le religioni del passato non hanno alcun fondamento logico; la sapienza, basandosi su se stessa, non può non sfociare se non in una posizione di problematicità, nel "proba- bile" ciceroniano. Il conflitto tra i due termini si risolve nell'accetta- zione di una tesi in cui le "ragioni" dei filosofi trovano il loro fon- damento nella ragione rivelata da Dio, in cui, per altro, consiste la vera religione. "A nessuna religione si giunge senza sapienza, solo che nessuna sapienza è tale se non si fonda sulla religione" (lnst. div., I, 1). "La religione consiste perciò nella sapienza e la sapienza nella reli- gione" (IV, 3). La religione, in quanto sentimento di dipendenza da un essere supe- riore, cui ci sentiamo legati, implica, come appare dalla religione cri- stiana, come, per bocca dei suoi profeti, e degli oracoli sibillini, ha rivelato lo stesso Dio, un Signore unico da cui tutto dipende, che a tutto provvede (basta alzare gli occhi al cielo, dice Lattanzio, I, 2, secondo il vecchio luogo comune, per rendersi conto che tutto è prov- videnzialmente ordinato). E uno solo ha da essere tale Dio e Signore, mette in evidenza Lattanzio, sottolineando che perciò false religioni sono quelle politeistiche (cfr. I: De falsa religione), ché altrimenti, ammettendo piu Signori o dèi dovrerpmo ammettere che tale Dio non è autentico Signore, non ha la potenza di reggere tutto; non solo, ma piu dèi verrebbero in contrasto tra di loro, mentre già la funzione che in ciascuno di noi ha l'anima di reggere in unità la molteplicità delle nostre membra e i vari aspetti delle nostre funzioni, dimostra che Dio, ciò da cui tutto dipende e che il tutto guida, non può non essere che uno (I, 3). Se tale è la religione, la sapienza che ritenga fondarsi sulle proprie forze, rinnegando giustamente le insipienti fantasie delle religioni, rimarrà oscillante, porrà ipotesi, tutte possibili, in quanto, appunto, resta sganciata dal suo stesso fondamento, che è la fede, la rivelazione di Dio (cfr. II, De falsa sapientia, e III, De origine erroris). E allora, se unica è la fonte della religione e della sapienza, cioè l'unico Signore c padrone (religione, per cui dobbiamo dirci servt), da cui tutto di- pende, che, rivelatosi, rende conto delle sue stesse ragioni (sapienza, per cui dobbiamo dirci figli, simili alla ragione di Dio, che è il suo stesso figlio e l6gos), si capisce come Lattanzio sostenga che la sapienza ha da fondarsi sulla religione e la religione ha da essere illuminata dalla sapienza, e che, perciò, religione e sapienza, separatesi nel tempo, con la caduta, debbono ricongiungersi, e tale è il messaggio del Cri- stianesimo, la verità cristiana, per cui il Cristianesimo è una religione filosofica: o una "pia filosofia" (cfr. IV, De vera sapientia). Da tutto questo chiaramente appare che sapienza e religione debbono essere congiunte tra di loro. La sapienza riguarda i figli, ed esige l'amore; la religione i servi, ed esige il timore. Come quelli, infatti, debbono amare ed onorare il padre; cosi questi debbono curare e temere il padre. Dio, quindi, che è uno, poiché ha in sé l'una e l'altra persona, quella del padre e quella del figlio, lo dobbiamo amare poiché siamo figli e temere poiché siamo servi. La religione, dunque, non può essere separata dalla sapienza, né la sapienza può essere distinta dalla religione, perché unica cosa è Dio, il quale dev'essere compreso, il che appartiene alla sapienza, ed onorato, il che appartiene alla religione. La sapienza_vien prima, la religione segue: in primo luogo si deve conoscere Dio, in secondo luogo onorario. E cosi una sola pPtenza è in due nomi, sebbene sembrino diverse. L'una, infatti, è posta nel senso, l'altra nell'azione; in realtà sono simili a due fiumi, scaturienti da una sola fonte. Fonte della sapienza e della religione è Dio, al quale questi due fiumi, se si sono divaricati, è necessario ritornino; coloro che ignorano Dio, non possono essere né sapienti né religiosi. E cosi avviene che i filosofi e coloro che venerano gli dèi sono simili o ai figli dissidenti, o ai servi ·fug- gitivi, poiché né quelli cercano il padre, né questi il padrone... (IV, 4). La tesi apologetica di Lattanzio è molto precisa. Egli da buon retore ciceroniano sa a chi si rivolge, conosce le esigenze di un certo pubblico, particolarmente angosciato dal problema del destino del- l'uomo, deluso dalle risposte della filosofia, e che, invece, poteva tro- vare risposta nella tesi cristiana: l'essenziale, esclama non a caso Lat- tanzio, non sta tanto nelle dimostrazioni dialettiche, ma nel sapere in che modo ci convenga vivere, nel saper dare una risposta alla do- manda: perché nasciamo, perché viviamo? (cfr. III, 7, 1-2; III, 12, 1). Le ragioni della ragione trovano il loro fondamento nella fede. La scienza in quanto conoscenza dell'essere, mediante cui dare un senso alla nostra vita, non sarebbe tale, "scienza," se non trovasse un suo 278    criterio. L'uomo, per sua natura, in quanto esistente, è limite, è anima e corpo, chiusura. All'uomo in quanto tale, non resta, sf come è dimo- strato da Platone e da Cicerone (il Platone di Lattanzio è il Platone filtrato attraverso Cicerone), se non un'aspirazione all'essere, l'esigenza di porre l'Essere come uno; all'uomo in quanto tale non è dato oltre- passare se stesso. E allora, la coscienza che l'uomo ha di sé come con- flitto e limite, la sua stessa esigenza di oltrepassare il limite, che già lo pone oltre il limite, non può essere dovuta all'uomo naturale, ma ad un intervento di Dio. Tale la risposta ebraica (Filone l'Ebreo e la sua interpretazione di certi testi biblici, ove ancora una volta va tenuto pre- sente il ribaltamento del concetto di "sapienza" secondo il testo del- l'Ecclesiastico) e quella cristiana (il rivelarsi ultimo di Dio all'uomo mediante il Cristo, il L6gos di Dio, fattosi uomo, mediante cui l'uomo da anima-corpo, limite, può tornare, se vuole, a farsi simile alla ragione di Dio, ridando un senso al proprio esserci, al proprio conflitto, senza di cui non ci sarebbe ~irtt!). Gran miracolo è l'uomo, dice Lattanzio, riprendendo dall'Asclepio, citando piu volte i libri ermetici ed Ermete Trismegisto, ch'egli pone afianco dei profeti e degli Oracoli Sibillini; grande è l'uomo, perché l'uomo è specchio dell'universo, a sua volta immagine di Dio, unità vivente, in cui tutto si raccoglie in unità, perché l'uomo è simile a Dio, o meglio al figlio di Dio, al L6gos, termine medio tra l'Uno Dio ineffabile e le infinite possibilità di Dio, mediante cui assume realtà, ha un fondamento la molteplicità, una nel-· l'unità vivente di Dio. Solo che tale coscienza, per cui nell'uomo s'in- centra l'universo, tornando con ciò l'uomo simile a Dio, onde l'uomo - termine medio tra la spiritualità, tra il figlio di Dio e l'anima, limite, e il corpo, limite piu opaco - può scegliere tra l'essere simile a Dio, riconoscendo a propria guida il Cristo, o divenire ancora piu limite, sempre meno amico del re dell'Universo, tra voler essere immortale o mortale; tale coscienza, tale possibilità di rompere contro la natura, tale conflitto tra bene e male, in cui consiste la virtuosità - non vi sarebbe virtu se non vi fosse il vizio, dice Lattanzio - non sarebbe possibile senza la rivelazione di Dio, esplicitatasi mediante il L6gos di Dio, fattosi uomo (Cristo), con il quale l'uomo può reintegrare se stesso. Il sentimento di dipendenza da un solo e unico Signore e padrone (religione), rivelato da Dio, mediante i suoi profeti, e poi da Cristo, riconduce l'uomo a ritrovare nella sapienza di Dio (in senso ebraico- filoniano) il fondamento della sapienza umana, ridando all'uomo da un lato la capacità di essere virtuoso (cioè di proporsi come conflitto tra sé natura, unità di anima e corpo, limite, e sé simile al L6gos e a Dio, rompendola contro la natura, per cui l'essere immortale o mortale diviene una scelta), dall'altro lato di ricomprendere in sé l'universo tutto, scoprendo in sé Dio, termine ultimo; fine del proprio destino, in una celebrazione dello stesso Dio. "Il mondo è stato fatto perché noi nascessimo; noi nasciamo per riconoscere l'autore del mondo e noi stessi, Dio; lo conosciamo per rendergli un culto; gli rendiamo un culto per ricevere l'immortalità, in ricompensa dei nostri sforzi; ecco perché in ricompensa ricevia~o l'immortalità, s(che, divenuti simili agli angeli, perpetuamente si serva il padre nostro Signore, e si costi- tuisca l'eterno regno di Dio. Tale il significato piu profondo del tutto, tale l'arcano di Dio, tale il mistero del mondo" (VII, 6). Proposta come unica soluzione alla condiziçme tragica dell'uomo concreto - disperso e abbandonato a se stesso, quale risultava, dalle concezioni greco-romane - la fede nella tesi ebraico-cristiana (del- l'uomo che si salva mediante la rivelazione di Dio, e che, per mezzo della venuta del Cristo, può ritornare, lavato dal peccato, con le sue forze, a celebrare quel Dio per il quale è stato fatto e dal quale è decaduto), Lattanzio poteva sfruttare, sul piano teoretico-teologico, i motivi del rapporto Uno-molti, Intelletto-intelligibili (L6gos), propri del neoplatonismo, particolarmente di certi testi ermetici e, per altro verso, di Filone l'Ebreo, filtrati attraverso certe interpretazioni del- l'apologetica greca. Molto abilmente c~s(Lattanzio tende a convincere, a persuadere, che l'unica verità è quella del Cristianesimo e che solo attraverso di essa si dà un senso e un perché alla vita degli uomini; senza per altro rinnegare i motivi teologico-filosofici della cultura greco- romana, che, preparatoria della rivelazione ultima, deve essere riassor- bita nel Cristianesimo, in quanto, appunto, illuminata e resa vera dalla rivelazione di Dio. Anzi, i testi ermetici, i testi neoplatonici servono ora a illuminare, a render conto della fede cristiana, rappresentano il momento filosofico della religione. Il "semidivino" ·Ermete Trismegi- sto, esclama Lattanzio, "non so in che modo ha quasi investigato la verità tutta" (IV, 9). Ermete chiarisce certi aspetti della teologia cri- stiana, il significato del Dio uno e ineffabile, anonimo, solitario, (ausa sui (che "ex se et per se ipse est": cfr. Epitome, 4), che tutto trae da sé, anche la materia, mediante il proprio L6gos, su cui si fonda la creazione di Dio, anche quella dell'uomo, fatto. a sua immagine e somiglianza, costituito di anima e corpo, e che liberandosi da se stesso, limite e deficenza, può, attraverso il L6gos, incentrare in sé l'Universo, ritornando a Dio (cfr. lnst. div., I, 6; IV, 6; Il, 8, IO; VI, 25; VII, 13, 18; per le citazioni dal corpo ermetico e dagli Oracoli Sibillini, cfr. l'edizione del Brandt, Ilb, p. 254 e pp. 258 sgg.). E cos(, ad esempio, nella spiegazione del rapporto Dio Padre e Dio Figlio, forte si sente, anche nelle immagini, l'influenza del "neoplatonismo." Uno Dio, il logos non è un due rispetto al Padre, non divide l'unità sua, ché l'unità divina è vita nel suo L6gos, per cui il L6gos, conoscenza del- l'unità vivente di Dio, è la stessa sostanza di Dio, che per sovrabbon- danza emana da sé il Figlio, unico con l'unica fonte, simile a raggio che proviene dal sole, e che,' pur distinguendosi dal sole, è della stessa essenza di esso, si come la luminosità del sole è tale in quanto una con la luce che emana dal sole. Ci può, forse, chiedere qualcuno perché noi che diciamo di venerare un solo Dio, sosteniamo tuttavia due dèi, Dio padre e Dio figlio... Quando diciamo Dio padre e Dio figlio, non diciamo che siano diversi, né li distin- guiamo l'uno dall'altro. Il padre non può esser distinto dal figlio, né il figlio dal padre; né il padre può esser detto tale senza il figlio, né il figlio può essere generato senza il padre. Il padre, dunque, fa tale il figlio, e il figlio il padre. Una in ambedue la mente, uno lo spirito, una è la sostanza. Ma quegli è come una fonte esuberante, questo si come un fiume defluente dalla fonte. Dio è come il sole, il figlio è simile a un raggio scaturito dal sole; e poiché è fedele e caro al sommo padre non se ne separa, si come il rivo dalla fonte, il raggio dal sole (anche l'acqua della fonte, infatti, è nel rivo, e la luce del sole è nel raggio)... (IV, 29). In realtà, l'elaborazione teologica di Lattanzio riconduce il Cristia- nesimo al "platonismo," sia pur in una forma accessibile ai piu, ove, in conclusione, l'interpretazione del Cristo, sul piano di quel "plato- nismo," viene a togliere ogni significato alla "grazia" e alla "reden- zione," ed in cui il Cristo è, perciò, presentato piuttosto come guida e maestro che non come redentore, sanando nell'uomo piuttosto la sua capacità conoscitiva, mediante cui, ricongiungendo sapienza e religione, sarà di nuovo possibile all'uomo essere virtuoso. "Noi," afferma Lat- tanzio, aprendo le sue Istituzioni divine, "che abbiamo ricevuto il sacro mistero della vera religione, poiché la verità ci è stata rivelata da Dio, per cui lo seguiamo come dottore della saggezza e come guida verso il vero, invitiamo tutti a questo celeste convivio, senza distinzione né di età né di sesso, ché nessun altro alimento è piu dolce all'anima della conoscenza della verità" (1, l). Non poco indicativo è, cosi, da parte del rètor.e Lattanzio l'avere preso a modello del suo persuasivo discorso sulla "vera religione," tale in quanto è "vera sapienza," ornate copioseque, Cicerone. Lat- tanzio punta continuamente sull'aspetto morale del Cristianesimo, piu che su quello teologico, sulla posizione dell'uomo centro della stessa vicenda del tutto, per cui l'uomo è restituito a se stesso, è responsabile del suo destino, nella fede insegnata dal Cristo in un ordine e in una giustizia, che costituiranno nell'unità morale dei Cristiani il regno di Dio, in un diritto naturale che si trasfigura in "diritto divino," in un'obbligatorietà al Signore supremo che diviene perciò volontaria; ciò indica con chiarezza da un lato che Lattanzio si era reso conto della piu profonda esigenza degli uomini del suo tempo, nella crisi dell'Impero, dall'altro lato che il fondamento stesso dell'Impero, la sua forza, il suo universalismo, erano oramai depositati nella concezione cristiana. Sotto questo aspetto sembra esatta la definizione data dagli umanisti di Lattanzio: "Cicerone cristiano." Come Cicerone aveva dato una filosofia ai Romani dell'ultima Repubblica, discutendo le varie ipotesi, i pro e i contra, s1 da persuadere (donde l'importanza data alle tecniche retoriche) a quell'ipotesi che secondo Cicerone sarebbe ser- vita a dare un fondamento alla res-publica, in.un rapporto umano fon- dato su di un diritto unico e universale, sp,ecchio della legge su cui si ordina il tutto, cosi ora Lattanzio, proprio rifacendosi a Cicerone (qui non tantum perfectus orator, sed etiam philosophus fuit: l, 15) ritiene di dover porre le proprie tecniche oratorie al servizio della concezione cristiana, in un copioso e ornato discorso, cbe razionalmente convinca di quella verità rivelata dallo stesso Dio, che sola dà all'uomo, a tutti gli uomini la possibilità di salvarsi. Si 'può costituire cosi, già in terra, una città cristiana, di cui il regno di Dio, che pur tuttavia non· sarà mai di questa terra, è posto come termine ultimo, ed ove Dio, Signore supremo, a sua volta vien posto come lo stesso criterio di Obbligato- rietà, il sùpremo re, che premia e che punisce. Non a caso cosi, sotto l'aspetto teologico, Lattanzio nel delineare l'unità di Dio, Padre e Signore, si rifà alle tesi ".neoplatoniche," mediante cui piu facile era convincere alla tesi cristiana dell'uomo creato da D1o a sua sorp.iglianza (già in una sua operetta, il De opificio Dei, scritta nei primi tempi della sua conversione, durante i primi anni della persecuzione di Diocleziano, Lattanzio aveva sostenuto, di contro ad Epicuro, ch'egli conosceva attraverso Lucrezio, riprendendo argomenti di Cicerone, che la considerazione sia della costituzione ·fisica, anatomica e fisiologica, sia dell'anima dell'uomo, ove tutto è 'miracolosamente volto all'unità, in cui ogni parte è in funzione del tutto, rivela la presenza di un crea- tore uno, sommamente saggio e provvidente). Mediante ciò era piu facile convincere alla tesi cristiana dell'uomo simile a Dio, che, deca- duto, ritrovando in sé il L6gos di Dio, attraverso il L6gos fattosi uomo può, se vuole, ritornare ad essere simile a Dio. Lattanzio, invece, sotto l'aspetto piu strettamente morale, di contro alla tesi sia neoplatonica sia epicurea della divinità indifferente, impassibile, nella sua perfe- zione e necessità, si rifà alla concezione ebraico-cristiana del Dio per- sona e signore, volontà, di un Dio cui tutto è possibile, anche l'ira 282    (si confronti in tal senso il De ira Dei, composto dopo il 313), il quale solo "scire potest et revelare secreta" (De ira Dei, l). E qui vanno ora ricordate alcune date fondamentali, relative alla vita e all'opera di Lattanzio. Lattanzio, nato nel 260 circa, rètore di fama, allorché Diocleziano apri a Nicomedia una scuola, fu chiamato dall'imperatore a insegnarvi retorica, verso il 300. Convertitosi verso il 302 al Cristianesimo, quando nel 303 ebbe inizio la persecuzione dei Cristiani, Lattanzio abbandonò 'la cattedra di eloquenza, ritirandosi a vita privata e, dal 305 circa (anno in cui ancora appare a Nicomedia), sparendo dalla circolazione. Lattanzio scrisse il De opificio Dei, tra il 305 e il 311 compose i sette libri delle lnstitutiones divinae, non a caso dedicate, quando furono compiute, all'imperatore Costan- tino, del cui figlio, Crispo, Lattanzio divenne precettore dopo il 313, in Gallia, a Treviri, dove soggiornò certo fino al 320 (ogni traccia di lui si perde dopo questa data). Posteriori alla persecuzione, composti, sembra, tra il 311 e il 317, sono il De ira Dei, il De mortibus perse- cutorum, e una Epitome delle lnstitutiones. Le ragioni della conver- sione di Lattanzio furono le ragioni della sua opera di rètore tesa a persuadere, senza rotture violente, senza scandali, al significato del Cristianesimo, per altro già estremamente diffuso, e che, impostato da un lato come inveramento e soluzione delle filosofie piu ampliamente accettate e costituenti un generico fondamento culturale e dall'altro lato come l'unica religione filosofica che potesse ridare un senso all'uomo, facendolo a un tempo responsapile della umana città in funzione della città divina, si mostrava essere l'unica soluzione anche per l'unità e l'universalità dell'Impero. Sotto questo aspetto assume un particolare interesse il V libro delle Institutiones dedicato alla "vera giustizia." Molto sottilmente Lattanzio, rifacendosi in gran parte ai concetti di giustizia, "summa virtus," e di diritto naturale delineati da Cicerone e rielaborati da grandi giuristi romani - è noto che la maggioranza dei frammenti con cui si ricostruisce la Repubblica di Cicerone si ricava dalle lnstitutiones di Lattanzio, - riprospetta di contro alla tirannide, all'indiscriminato potere personale - e chiara è la lotta contro Dio- cleziano, - una concezione della giuStizia e del diritto assai simile a quella su cui ci si era fondati con Cicerone e poi con certi stoici del 1 e del 11 secolo (non a caso con Cicerone Lattanzio riprende la pole- mica contro Carneade e contro Epicuro: V, 14; III, 17). La giustizia si fonda sulla legge del tutto, legg~ tuttavia non naturale, ma voluta dallo stesso Dio, onde tanto piu obbligatorio diviene l'ordine dello Stato terreno, attraverso cui, se in esso ciascuno - in ciò uguale all'altro - fa ciò che gli compete e si pone al suo giusto posto in nome di Dio, si salva, costituendo il futuro regno di Dio. Solo che il regno di Dio, 283    dopo la caduta, con cui ha avuto principio l'affermazione di sé, la pro- prietà, il prevalere dell'uno sull'altro, l'ingiustizia, nella separazione della sapienza dalla religione, non sarà mai di questa terra. In questa terra rimarrà sempre aperta la lotta, il conflitto tra male e bene, tra ingiu- stizia e giustizia, senza di cui non vi sarebbe la virtu ("virtutem aut cerni ~on posse, nisi habeat vitia contraria; aut non esse perfectam, nisi exerceatur adversis; hanc enim Deus bonorum ac malorum voluit esse distantiam, ut qualitatem boni ex malo sciamus, item mali ex bono: nec alterius ratio intelligi, sublato altero, potest; Deus ergo non exclusit malum, ut ratio virtutis constare posset": V, 7). Entro i suoi limiti, dunque, ciascuno può volere o non volere, dopo la rivelazione di Dio, esser virtuoso e perciò giusto, facendosi responsabile del pro- prio destino, liberandosi da se stesso in Dio, che premia o punisce chi abbia voluto o non voluto riconoscere Dio. Di qui, ancora una volta, il significato dato da Lattanzio alla santa ira di Dio; non a caso Lattanzio, finita la persecuzione da parte di Diocleziano, riconosciuto da Costan- tino il Cristianesimo (313), scrive pagine di fuoco sulla tragica fine che hanno subito tutti i persecutori dei Cristiani (Nerone, Domiziano, Decio, Valeriano, Aureliano, Diocleziano, Massimiano Ercole, Valeria figlia di Diocleziano e moglie di Galeiio): "sic omnes impii vero et i~sto iudicio Dei eadem quae fecerant receperunt." Con queste parole si chiude (L, 7) il De mortibus persecutorum. In tale senso perciò, la tesi cristiana, se da un lato implica il sen- tirsi servi di Dio, dall'altro lato implica, attraverso la rivelazione, che la libertà dell'uomo consiste in questo stesso voler essere servi di Dio, che liberando l'uomo da se stesso, caduto da Dio, lo rende capace d'es- sere virtuoso e giusto. Solo, dunque, istituendo uno Stato cristiano, volto, mediante coloro che abbiano ricevuto da Dio la grazia di com- prenderlo e perciò di essere giusti, a realizzare·la giustizia del regno di Dio, o meglio a far sf che, in una ben ordinata gerarchia, in cui ciascuno sia al suo giusto posto, si rispecchi l'ideale unità di un mondo di spiriti contemplanti il Dio, nel quale e per il quale siamo tutti uguali, e dal quale derivano le due virtu fondamentali della unica virtu, che è la giustizia, la pietà ("altro non è che la conoscenza di Dio, come verosimilmente la definf Trismegisto [Pimandro, 9]": V, 15) e l'uguaglianza (il sentirsi uguali agli altri in Dio: "nessuno presso di lui è schiavo, nessuno padrone: se egli è a tutti ugualmente padre, a uguale diritto siamo tutti ugualmente figli; nessuno è povero davanti a Dio, se non chi manca della giustizia; nessuno è ricco, se non chi è pieno di virtu": V, 15), solo cosf lo Stato civile potrà salvarsi e non incorrerà nell'ira di Dio. Si vede bene in tal modo come Lattanzio potesse riprendere, in chiave cristiana, trasformando cioè il diritto naturale in diritto divino, relativamente alla giustizia terrena, i temi fondamentali di Cicerone e di certi stoici. " L a giustizia civile, obbedienza formale alle leggi stabilite nel tempo dalle città terrene," è stato detto, discutendo della giustizia presso gli stoici, "ha valore nella misura in cui fa proprio il contenuto di fraterna uguaglianza e di comunione umana che è proprio della giustizia naturale. Il Cristianesimo, se accentuò il tema della fraternità (il prossimo che deve essere amato come noi stessi), non spostò i ter- mini del problema, ed anzi, approfondendo il distacco tra le due città come conseguenza della colpa, rovesciò di continuo in radicale diver- genza quella che lo stoicismo e il diritto romano avevano concepito come convergenza. Lattanzio, nel quinto libro delle Divinae lnstitu- tiones, dedicato appunto alla giustizia, la presenterà come summa virtus anche presso i pagani, e andrà dipingendo la città giusta di Saturno come regno di perfetta uguaglianza... Nella dttà giusta le terre e le messi non erano cintate... e tutto era in comune. Quando la cupidigia e l'avidità divisero gli uomini, la giustizia fuggi dalla terra, e scom- parve l'umana comunione (V, 5). Le leggi divennero inique; la giustizia fu termine equivoco che indicò disuguaglianza e oppres- sione... Dio, è vero, ebbe alla fine pietà dei suoi figli, e rinviò la giu- stizia in terra, ma la concesse graziosamente soltanto a pochi: 'rediit... sed paucis assignata iustitia est' (V, 7). La frattura tra le due città si presenta come insanabile; lo squilibrio è radicale. S. Agostino, che pur accoglie certi aspetti della tematka ciceroniana..., si àncora all'idea di un vincolo statutario che fonda la civitas corrotta sul comune godi- mento di un bene. La giustizia è l'ordine, nel suo aspetto meramente formale, che si realizza anche in una societas sostanzialmente ingiusta, solo che sia mantenuta una certa reciproca coordinazione. La fraternità umana è rimandata di là, o è in qualche modo raffigurata in gruppi ristretti di santi uomini; la città giusta è fuori del mondo, ove poi la divina giustizia è grazia... Cosi mentre la convergenza fra la giustizia nel suo aspetto formale e la giustizia nel suo valore sostanziale avevano caratterizzato lo sforzo proprio dei giuristi e dei grandi oratori romani, la divergenza fra mondo del peccato e Gerusalemme celeste riportò all'idea di.una giustizia terrena come mantenimento di un ordine impo- sto da un'autorità, di un'? Stato gerarchicamente scandito" (Garin, Giustizia, "Revue internationale de philosophie," 1957, pp. 282-4). Duplice è l'interesse dell'opera di Lattanzio: se da un lato egli ha chiarito, mediante un vero e proprio breviario delle istituzioni cri- stiane - in cui si riprendono e si dimostrano inverati dalla rivela- zione molt.i dei motivi teologico-filosofici piu diffusi. che vanno dun- 285    que accolti come preparazione alla buona novella - le esigenze e la problematica di certe classi di uomini, facendole emergere alla co- scienza, dando loro un fondamento ideologico; dall'altro lato, l'opera di Lattanzio indica assai bene le ragioni che spinsero Costantino ad accettare il Cristianesimo - e le ragioni dell'accostamento di Lattanzio a Costantino -, rendendosi conto che, oramai, solo in esso avrebbe trovato la base sociale ch'era venuta meno a Diocleziano, peréhé fosse possibile - proseguendo la politica di Aureliano e di Diocleziano - salvare l'unità politico-economica dell'Impero, trasformandolo sempre di piu in monarchia. In tale senso è molto indicativa la tesi sulla giu- stizia e sulla ricchezza e povertà sostenuta da Lattanzio. Tutti uguali in Dio, né ricchi né poveri nel regno di Dio: in questa terra conflitto tra vizi e virtu, tra ricchi e poveri, ma possibilità di una società giusta, qualora tutti, in nome di Dio, rimanendo ricchi e poveri, si sentano ciascuno al suo posto, uniti in una fratellanza che -è pietà, in una giu- stizia che è carità, in una società che ha da essere specchio dell'unità di Dio, della monarchia divina, del giusto scandirsi delle classi, ove il sacerdote, il vescovo, è, per gi'azia di Dio, il giusto, il rappresentante del monarca divino, di Cristo re. "Se anche è diversa la condizione dei corpi, gli schiavi non sono schiavi per noi; quanto allo spirito noi li teniamo in conto di fratelli, e sul piano religioso li chiamiamo com- pagni di servitu. Le ricchezze non sono motivo di distinzione per noi, se ·non in quanto possono renderei illustri di buone opere... E coloro che sono poveri, sono almeno ricchi di questo, che non sentono alcun bisogno e non hanno desideri. Pur essendo pertanto tutti uguali in umiltà, i ricchi e i poveri, i liberi e i servi, tuttavia presso Dio siamo distinti secondo la nostra virtu" (V, 16). Impossibile e ingiusto - so- stiene altrove Lattanzio - è dire con Platone che non si deve possedere nulla in privato e in proprio - famiglia, donne, ricchezze, - ché nelle disuguaglianze, nel come ciascuno sa usare il proprio si rivela la capa- cità o meno d'esser virtuosi, il riconoscimento d'essere tutti uguali nel regno di Dio, di lui tutti servi e figli, uguali per la virtu (cfr. III, 21-22). Lattanzio con questa sua tesi rispecchiava esattamente la situazione propria di molti cristiani e la struttura economico-schiavistica dell'Im- pero, la situazione della Chiesa ufficiale al principio del IV secolo. "Verso il IV secolo," è stato detto in efficace sintesi, "la Chiesa cri- stiana si era trasformata in una organizzazione molto forte, in una specie di Stato nello Stato, che abbracciava quasi tutto l'Impero. Essa possedeva enormi ricchezze, contava nelle sue file un gran numero di alti f~nzionari, di militari, grandi proprietari terrieri, e la schiacciante massa di popolazione artigiano-commerciale delle città. Possedeva un potente apparato direttivo che non aveva nulla da invidiare alla burocrazia imperiale. In'queste condizioni riconoscere la Chiesa significava per lo Stato trovare una nuova base sociale. E ciò era particolarmente importante per il dominatus che tendeva a creare un potere solido... Costantino poté piu saggiamente ed obbiettivamente, che non Diocle- ziano, avvicinarsi al Cristianesimo" (Kovaliov, cit., Il, p. 235). Entro questi termini assumono un particolare significato le parole di Costantino (306-337), riportate da Eusebio di Cesarea (Vita Constantini), ai vescovi con lui riuniti a mensa: "Certo, voi potreste essere vescovi interiormente alla Chiesa (È1tlaxo1toL -rwv etaCù n j ç bocÀYjalcxç), io sarei invece vescovo, costituito da Dio, esteriormente (-rwv ÈxT6ç). " Si è molto discusso sul peso preciso da dare a queste parole (cfr. S. Calderone, Costantino e il Cattolicesimo, Firenze, 1962). Certo sembrerebbe in esse implicito, da un lato il riconoscimento della Chiesa costituitasi gerarchicamente, fondamento del regno di Dio, di cui, appunto, i vescovj sono i depositari, coloro che reggono lo Stato dal di dentro (la Chiesa, anima dello Stato?); dall'altro lato, accettato che lo Stato non può non essere che cristiano cioè che lo Stato è la Chiesa, che l'imperatore, per grazia divina ("costituito da Dio"), è il reggitore del corpo della Chiesa, cioè dello Stato, nella sua realizza- zione fisica, storica; l'imperatore dunque vescovo dal di fuori (del corpo dello Stato?). Senza dubbio, comunque, le ragioni che nel I I I secolo avevano spinto alcuni imperatori ad abbracciare, di con- tro alla "romanità" dell'Impero, l'"interbarbarismo" dell'Impero stesso; trovandone il fondamento ideologico nell'elioteismo, nella monarchia solare, determinano ora Costantino, che non a caso aveva avuto forti simpatie per l'elioteismo, a volgersi al Cristianesimo, che, sia per la sua base economico-sociale, sia per la sua ideologia - entro cui, assunta simbolicamente poteva essere riassorbita la tesi elioteistica - sembrava dare allo Stato l'unità e la forza perdute, qualora di quello Stato dive- nisse episcopo l'imperatore. I simboli della luce propri del Cristia- nesimo, dell'Ebraismo, e di certe immagini neoplatoniche ed ermetiche (il Padre Sole e il Figlio raggio del Sole, uno nella luminosità di Dio) e delle tenebre (dai figli della luce e delle tenebre, a Lucifero che diviene, con la caduta, il dèmone, il principe delle tenebre, alla materia e al corpo, ombre e tenebre), potevano benissimo coincidere con la concezione elioteistica, con il motivo della monarchia solare, reinter- pretata e inverata al lume della verità cristiana e in essa assorbita. Documenti di ciò sono, oltre alcune testimonianze di Lattanzio e, particolarmente di Eusebio, l'amico cristiano di Costantino, che non poco si adoperò a propagandare e a rendere efficace l'operazione di riassorbimento nel Cristianesimo della cultura ellenistica, anche i mo- numenti, le monete del tempo di Costantino, in cui l'imperatore cristiano viene presentato come il Sole di Dio, in raffigurazioni ove appare nella veste dell'Elios persiano (e non si scordi che le insegne di Costantino avevano un sole irradiante, che piu tardi, in una visione, divenne facilmente la Croce irradiante luce: per i rapporti tra Costan- tino e la ideologia elioteistica, cfr. anche F. Altheim, Il dio invitto. Cristianesimo e culti solari, trad. it., Milano). b) La corrente origeniana ad Alessandria e a Cesarea Le "eresie." ~'arianesimo, la Chiesa di Roma e il Concilio di Nicea. Se lo studio delle "eresie" e degli "scismi," di come essi si sono formati, rende conto di come, per altro verso, si è venuta for- mando l'altra scelta che, divenuta poi ufficiale, ha costituito la "verità" cristiana, la "retta opinione" (ortodossia) sulla verità rivelata, tale stu- dio rende anche conto che gran parte delle eresie (pur. discutendo di questioni teologiche, pur nascendo dalla problematica sulla vera inter- pretazione del messaggio del Cristo, della sua natura, del suo rapporto con il Padre) sono nate sul terreno etico-politico ed economico. Qu3;nto piu la Chiesa di Roma si arricchiva, si ordinava gerarchicamente e burocraticamente, veniva a compromessi con lo Stato, anche durante le persecuzioni - non si scordino le grosse polemiche sui lapsi e l'atti- vità di San Cipriano, - quanto piu ci si avvicinava al possibile con- nubio tra Stato e Chiesa - sia che la Chiesa fosse assorbita dallo Stato sia che lo Stato fosse assorbito dalla Chiesa, - nella costituzione di un Impero cristiano, tanto piu negli strati meno abbienti, piu poveri, che avevano trovato nel Cristianesimo l'appello all'uomo libero, la salva- zione della propria individualità, il diretto rapporto da uomo a uomo con Dio, sembrò che la Chiesa avesse tradito l'antico messaggio del Cristo. "Verso il quarto secolo, nel seno della Chiesa, esisteva 'un forte fermento. L'affermarsi degli elementi abbienti, il consolidamento dell'apparato ecclesiastico, l'aristocratizzazione di tutta l'ideologia del Cri- stianesimo erano inevitabilmente destinati a determinare una vivace opposizione da parte degli strati non privilegiati. Per quanto si ten- tasse di soffocare il primitivo spirito plebeo del Cristianesimo, l'abisso tra quanto veniva predicato dal pulpito e la realtà e':'a troppo grande: da una parte vi erano infatti il clero e i fratelli dell'aristocrazia, sazi e contenti, dall'altra gli stessi 'fratelli di Cristo' della plebe cittadina e 295    rurale, poveri e semiaffamati... La grande crisi rivoluzionaria del m se- colo non potrà non rispecchiarsi anche nel Cristianesimo. Il riacutiz- zarsi dei contrasti sociali, manifestatosi nell'Impero a cominciare dalla fine del 11 secolo, si rivelò anche nel Cristianesimo, dove il processo fu accelerato appunto dalla aristocratizzazione della Chiesa, che ne aveva determinato i contrasti interni. In tale situazione nacquero le cosiddette 'eresie,' correnti contrarie ai circoli dirigenti della Chiesa e ai punti di vista dominanti. Esse rispecchiavano anzitutto l'ideologia dei cristiani piu poveri: schiavi, coloni, plebe cittadina e, in parte, anche il pensiero degli strati medi della città. In alcuni casi le eresie erano dovute alla lotta per il potere fra i vari gruppi della gerarchia ecclesiastica" (Kovaliov, cit., pp. 336-7). Abbiamo già veduto come fin dalla prima meditazione sull'espe- rienza cristiana si determinassero interpretazioni molteplici e diverse, a seconda anche delle tradizioni e degli ambienti culturali, da quelli giudaico-palestinesi a quelli giudaico-akssandrini, da quelli classici nell'area orientale a quelli classici nell'area occidentale: da principio "eresie" tutte, poi "eresie" quelle che ad una delle interpretazioni con- solidatasi e divenuta tradizionale, della comunità piu forte (che fondò poi il suo diritto sul motivo della "cattedra di Pietro"), sembrarono non aderenti alla propria interpretazione, ritenuta quella "retta" (orto- dossa), e tali da mettere in pericolo la propria forza e la propria catto- licità. Naturalmente finché non fu possibile determinare ufficialmente la "regula fidei" (fu Tertulliano a definire l'eresia "scelta, dal greco or:tp&:a~<; = hairesis, arbitraria, in quanto non tien conto della regula {idei, cioè della regola determinata dalla Chiesa": in De praescriptione haereticorum, 6) e finché quella stessa "regula fidei" non si determinò sto- ricamente attraverso un lungo dibattito, un lungo conflitto tra l'una e l'altra interpretazione (sull'unità e trinità di Dio, sulla posizione. e l'essenza del Figlio nei riguardi del Padre, sulla funzione del Cristo, sulla sua realtà di Dio-Uomo, e sull'autorità dei vescovi, sul loro essere apostoli degli apostoli e cosi via) erano impossibili condanne ufficiali (se non sul piano, chiarendo ciascuno a sé il significato del Cristia- nesimo e la funzione della Chiesa, dell'apologetica: e qui ricordiamo particolarmente S. Giustino, S. Ireneo, S. Ippolito, Tertulliano e la loro polemica nei confronti dello gnosticismo, e, per altro verso, Marcione e il marcionismo da un lato e, dall'altro lato, nella discussione sulla unità e il monismo di Dio il monarchismo, il modalismo, il docetismo,. il sahellismo). Ciò fu possibile quando la Chiesa di Roma, riconosciuta ufficialmente dal potere politico come la depositaria della autentica "regula fidei," poi:é ufficialmente far dichiarare la propria "regula" e il proprio "credo" (Concilio di Nicea, del 325). (E qui va tenuto pre- 296    sente che di "eresia" in senso stretto si parla non quando sia una per- sonale deviazione dall'insegnamento della Chiesa ufficiale, ma quando tale deviazione diviene sciente contrapposizione di un, diciamo cosi, pensiero o insegnamento che si deve contrapporre a quello della Chiesa). Naturalmente, sotto il profilo della rivolta etico-politica con- tro una Chiesa che per i suoi compromessi, per la sua, anche se lenta, trasformazione in Stato gerarchizzato, sembrò tradire il significato popolare dell'insegnamento etico del Cristo, vediamo sorgere certe ere- sie abbastanza tardi, alla fine del n secolo, per divenire sempre piu forti e polemiche durante il m secolo e il principio del IV. E qui pen- siamo, innanzi tutto, al montanismo. Il montanisrno, cosiddetto da Montano che ne fu il capo, ebbe principio verso il 170, e, di contro all'infiacchimento della Chiesa, di contro alle proprietà della Chiesa, di contro al perdono per le colpe compiute dopo il battesimo, di contro alla autorità dei vescovi, di contro alla "universalità" della Chiesa, pro- clamò l'individualità della esperienza cristiana e della fede, in un rigi- dismo morale-religioso, in personali esperienze ascetico-mistiche, in un rifiuto delle ricchezze terrene nell'attesa della vicinissima restaurazione - per il vicinissimo ritorno del Cristo - del regno di Dio. Se tale infiacchimento della Chiesa, l'evidente opportunismo di molti conver- titi al Cristianesimo, furono le ragioni dell'adesione di Tertulliano al montanismo, si capisce come, nel 111 secolo, al tempo delle persecu- zioni di Decio, di contro al diffuso lapsismo, si siano ingrossate le file del montanismo. E qui pensiamo, in secondo luogo, al donatismo. Nel III e IV secolo nuova forza e significato politico assunse il montanismo, particolarmente in Africa settentrionale, dove andò sotto il nome di donatismo dal nome del vescovo Donato, che si fece capo degli intran- sigenti, finché di contro alla Chiesa ortodossa si costitul la Chiesa di Donato (non a caso alla Chiesa di Donato aderirono nel IV secolo i movimenti rivoluzionari degli schiavi e dei coloni d'Africa che vede- vano nel donatismo il fondamento ideologico della loro lotta contro la proprietà, contro i ricchi, contro l'economia schiavistica: fu questo il mo- vimento degli " agonisti," i combattenti per la vera fede: cosi essi pro- clamarono se medesimi, mentre "circumcellioni," vagabondi, furono detti dalla parte avversa). Minore importanza ha il novazianismo (dal nome di Novaziano fiorito tra il 250 e il 258). Novaziano ruppe con la Chiesa di Roma per ragioni personali, per la delusione di non essere stato eletto vescovo di Roma (il novazianismo, del resto, in certe conseguenze, è assai vicino al rigidismo morale del donatismo). Un particolare significato assume, invece, l'arianesimo, sia perché fu la prima eresia condannata con l'appoggio del potere politico (Concilio di Nicea, 325), in una 297    precisazione da parte della Chiesa ufficiale della propria "regula fidei," che assume cosi un valore giuridico, sia proprio in conseguenza di ciò - per la storia della formazione della "verità" ufficiale cristiana, sia per le ulteriori precisazioni filosofico-teologiche, sia per le ripercus- sioni politiche che ebbe. Nato, sembra, in Libia, verso il 265, Ario,8 dopo avere studiato ad Antiochia sotto il platonico Luciano di Antiochia, ebbe nel 313 la dire- zione di una Chiesa di Alessandria, e fu qui che nel 318 circa espresse la sua interpretazione sulla natura del Verbo. Con molta probabilità Ario fu direttamente ispirato dagli insegnamenti che sulla vecchia que- stione della natura una di Dio e del suo rapporto con il Verbo e la realtà, aveva ricevuto ad Antiochia da Luciano, fondatore della scuola esegetica di Antiochia, martire nel 311, e dall'influsso che in Antiochia avevano ancora al tempo in cui vi fu Ario le idee di Paolo di Samo- sata, vescovo di Antiochia (260-268), condannato per eresia tre volte ed infine costretto a dimettersi, convinto di errore dal prete Malchione. Ario, con molta intelligenza e acutezza, lucidamente ripropone e definisce la grossa questione, sul tappeto dal tempo di Filone l'Ebreo, dei "monarchisti, " " unitaristi," " docetisti," " sabelliani," di T ertul- liano, e, per altro verso, di Plotino.e dei neoplatonici, di Origene. Posta l'unità e perfezione.assoluta di Dio e posto che, secondo il solito rove- sciamento ebraico-cristiano del concetto di "sapienza," la sapienza è di Dio ed è prima dei secoli e va avanti a tutte le cose (cfr. Ecclesiastico, l, 1-4), e che tale sapienza è il Verbo (L6gos) di Dio, l'interpretazione del celebre testo dei Proverbi (VIII, 22), in cui la sapienza, cioè il 8 Nato, forse in Libia, nel 256 circa, Ario, dopo avere studiato ad Antiochia, sotto Luciano, nel 313 ebbe l'incarico di dirigere la Chiesa di Bocali ad Alessandria. Nel 318 divulgò le proprie tesi sul rapporto Padre-Figlio. Condannato da un Concilio di Alessandria, promosso dal vescovo di Alessandria Alessandro, teoreticamente sostenuto dal suo diacono Atanasio, nel 320 o 321, Aiio fu costretto ad abbandonare il paese. Fu dapprima in Palestina, poi a Nicomedia presso il vescovo Eusebio, suo vecchio amico. Condannato nel Concilio di Nicea (325), fu dall'Imperatore esiliato nell'Illirico. Nel 336, Costantino, volendo riporre equilibrio tra le due fedi, in nome dell'unità dell'Impero, richiamò Ario, che a Costantinopoli improvvisamente mor(nel 336. Perduta è l'opera piu importante di Ario, la Tàlia (E>ciÀe:lcc:banchetto), ch'egli compose a Nicomedia tra il 321 e il 325. Se ne conservano solo alcune ·citazioni nel Contra arianos di Atanasio (1, 5, 6, 9; cfr. anche De synodis, 15). Sono pervenute, invece, due lettere di Ario: una ad Eusebio di Nicodemia, del 321 circa (in Epifania, Haer., 79, 6), l'altra ad Alessandro di Alessandria, scritta non molto prima del Concilio di Nicea (cfr. Atanasio, De syn.odis, 16; Epifania, Haer., 69, 7, 8). Socrate (storico della Chiesa; nato a Costantinopoli nel 408 circa, autore di una Historia ecclesiastica, in sette libri, che prosegue quella di Eusebio dal 323 al 439) e Sozomeno (altro storico della Chiesa, originario di Gaza, a~vocato in Costantinopoli, autore di una Historia ecclesiastica, in nove'libri, dal 323 al 433, compiuta nel 444, e che in piu parti ricopia quella di Socrate) riportano la professione di fede inviata da Ariq a Costantino nel 330-331 (cfr. Socrate, Hist ecci., I, 26; Sozomeno, Hist ecci., 2, 27). 298    L6gos dice Dominus creavit me, porta dietro a sé la negazione della tesi che Dio sia ad un tempo uno e trino e che il suo Verbo, in quanto creato da Dio, sia della stessa sostanza di Dio e sia un secondo Dio. La tesi che Dio sia ad un tempo trino in eterno implica la nega- zione di Dio uno e solo, e l'affermazione non cristiana di piu dèi. Posto che una è la sostanza di Dio e perciò ch'egli è indivisibile e ingene- rato, infinito e assoluto, e dunque indiscorribile (&ppl)-roç =àrretos), proprio il suo essere ingenerato (&.ykvvl)-roç = aghènnetos) e senza prin- cipio (&vocpxoç = ànarchos) implica che non si può ammettere ch'egli comunichi ad altri la propria essenza: Dio cosf si limiterebbe e si risol- verebbe negli stessi aspetti da lui provenienti. In altri termini, ammet- tere che Dio per essere, per comprendere se stesso, si distingua in due, sign.ificherebbe dire che Dio è non piu persona, essere nella sua asso- lutezza solo, ma unità dialettica. Ciò, in realtà, vorrebbe dire negare il Dio persona e volontà, il Dio creatore. Posto, per altro, in senso ebraico- cristiano, che Dio non è un concetto, non è unità dialettica di pensante- pensato (L6gos), ma volontà, se ne deve dedurre che la creazione non è da intendere nel senso che Dio - avente in sé tutto in potenza - tragga all'esistere da se stesso, mediante il proprio esserci come pen- sante-pensato (L6gos), tutta la realtà, ma che egli, volontà onnipo- tente, di là da ogni ragione dà realtà a un mondo davvero ex nihilo, che, in quanto da lui voluto, una volta che c'è, è altro da lui, non ha la sua stessa essenza. E allora, proprio per non confondere il L6gos di Dio, la sua parola e ragione, con il N ùs plotiniano, che si perde nel- l'Uno, sf come l'Uno si perde nel Nùs, conseguentemente alla tesi del Dio trascendente, indiscorribile, persona e creatore, si deve dire, se- guendo alla lettera i Proverbi (ricordiamo che la scuola esegetica di Antiochia, in cui si formò Ario, si tenne sempre, di contro alla scuola esegetica di Alessandria, all'interpretazione letterale-storica dei sacri testi), che anche il L6gos, in quanto sua creatura ("creatura perfetta di Dio": in Atanasio, De synodis, 16, 2) è realtà altra da quella di Dio, è esistente, è, anch'egli, generato dal nulla (è!; oùx l>v't'CùV yéyov<. = ex ouk ònton ghègone: in Atanasio, Oratio l, Contra Arianos, 5). Il Verbo dunque, non può avere lo stesso genere del Padre, è dissimile dal Padre (è &ll6't'ptoç -allòtrios e &.v6(l.otoç-anòmoios) ed è solo di nome che viene detto Dio. Uno solo Dio, il Verbo non è un "secondo Dio" che per analogia, e pur essendo per decisione di Dio lo strumento con cui Dio crea il mondo, non si può dire ch'egli abbia la stessa sostanza dì Dio, che sia a Dio consustanziale, mentre, in quanto è dopo Dio (che ri- mane, perché crea.tore, uno e solo nella sua perfezione, trascendente e immobile e perfetto, e dunque irrelativo, indiscorribile, ignoto), il L6gos è limite, mutevole, (-rpen-r6ç-trept6s), sf come tutte le creature, buono finché vuole restare tale, ché, se lo volesse, potrebbe, come noi, mutarsi" (in Atanasio, Oratio l, 5). E come Dio ha voluto creare il L6gos ex nihilo e attraverso lui ha voluto che il mondo assumesse realtà, cosi poi, essendo il L6gos rimasto buono, e avendolo adottato come figlio (adozionismo), ha voluto dargli la funzione di redentore. Altro da Dio il L6gos, non a lui consustanziale, poiché tutto ciò che ha avuto realtà è provenuto per un atto di libera volontà da Dio, attra- verso il L6gos, anche lo Spirito Santo, il soffio vivificante di Dio pro- viene dal L6gos ed è perciò altro dal L6gos e da Dio. Senza dubbio la tesi di Ario precisa in una certa direzione la vec- chia questione del rapporto tra Dio e il suo Verbo. Egli, avvicinan- dosi ai monarchisti, nega, nelle conclusioni, la divinità del Figlio e con ciò stesso quella del Cristo, scostandosi cosi dalla interpretazione delineatasi nella Chiesa, e da quella della scuola di Alessandria che non poco si era servita della tesi neoplatonica sul rapporto Uno-Nùs-Anima. Certo, la immediata presa di posizione contro Ario da parte del ve- scovo di Alessandria, Alessandro, che fece espellere Ario dalla Chiesa di Alessandria nel 320 (Ario si recò allora in Palestina, poi a Nico- media presso Eusebio vescovo di quella città), dette luogo all'esigenza di definire e precisare la tesi opposta, che con il Concilio di Nicea (325), ove fu sostenuta da Alessandro, con l'aiuto del suo diacono Ata- nasio, divenne la tesi ufficiale e giuridica della Chiesa. Elaborata e pre- cisata da Atanasio,9 nato sembra ad Alessandria nel 295 circa, già dia- 9 Atanasio, nato ad Alessandria nel 295 circa, da genitori non cristiani, si converti presto. Nel 318-320 era già diacono di Alessandro vescovd di Alessandria_ Fin dal prin- cipio Atanasio coadiuvò nella polemica contro Ario il suo vescovo, e oon lui assistette al Concilio di Nicea (325). Morto Alessandro (328), Atanasio fu nominato vescovo di Alessandria. Tutta la sua vita fu consacrata alla lotta contro l'arianesimo. Quando Co- stantino cercò di riconciliarsi con Ario (335-336), l'Imperatore lo mandò in esilio a Treviri; morto Costantino, Atanasio nel 337 tornò ad Al~ssandria. Poco dopo, nel 340, dovette di nuovo esulare per volontà dell'imperatore Costanzo, istigato da Gregorio di Cappadocia. Tornò ad Alessandria alla morte di Gregorio nel 346. La politica filoariana di Costanzo lo costrinse a fuggire ancora una volta da Alessandria nel 356. Solo alla morte di Costanzo e all'avvento di Giuliano (362), che rimise nelle loro sedi tutti coloro ch'erano stati esiliati, per questioni religiose, Atanasio poté tornare ad Alessandria. Ma la foga di Atanasio preoccupò anche Giuliano, che lo fece allontanare ancora una volta. Morto Giuliano (363), avuto il sopravvento il Cristianesimo di Roma, Atanasio poté rientrare nella sua Sede, tranne la breve parentesi del 364-366, in cui, per ordine di Valente, ariano, Atanasio si allontanò per la quinta volta da Alessandria: dal 366 al 373, anno della sua morte, Atanasio visse tranquillamente ad Alessandria. Tra le prime opere di Atanasio si ricor<)ano Il discorso contro i Grui e il Discorso dell'incarnazione (bJa:v6p(l)7rljGE(I)~ = enantrop~seos) del Verbo, composti tra il 318 e il 320. L'opera piu importante contro gli ariani è costituita dai Discorsi contro gli Ariani (sono quattro discorsi, di cui i primi tre autentici). Si dubita che siano di Atanasio (si è pensato di qualche suo seguace) il Dell'incarnazione e contro gli Ariani, e il trattatello Sul testo: tutte le cose mi furono rivelate. Ispirati da Atanasio e, certo, della sua scuola sono gli scritti De Trinitate et Spiritu Sancto; Ddl'incarnazione contro Apollinare; L'incono di Alessandria nel 318, successo ad Alessandro, in qualità di ve- scovo di Alessandria nel 328, la tesi dell'unità e trinità di Dio, della consustanzialità del Padre e del Figlio, riconosciuta ortodossa nel sim- bolo niceno, venne mantenuta e difesa ad oltranza da Atanasio, nei successivi grossi conflitti avvenuti dopo Nicea, a favore della tesi ata- nasiana o di quella ariana, quest'ultima seguita particolarmente da tutti gli elementi scontenti dell'ordinamento della Chiesa, e non solo Cri- stiani, ma anche pagani. Molti pagani anzi si convertirono al cristia- nesimo ariano vedendo in esso quella salvazione dell'uomo promessa da un Cristo non divino, ma uomo tra uomini, che nella aristocratiz- zazione, burocratizzazione, stabilizza.zione della Chiesa, veniva ad essere negata. Entro questi termini si vede bene come una discus- sione esegetica e teologico-filosofica implicasse, a sua volta, una grossa problematica politica. Non a casolo stesso Costantino, che, nèlla pole- mica tra la Chiesa e Ario, vedeva la possibilità di un indebolimento dell'autorità della Chiesa, per cui a Nicea appoggiò la tesi ufficiale, piU tardi, allorché si rese conto del mordente che in taluni ambienti ebbe l'arianesimo, manifestò, forse a ciò spinto anche da Eusebio di Cesarea, che sosteneva, sulla scia di Origene, che il L6gos è subordi- nato al Padre, una viva simpatia per gli ariani, tanto che, per evitare agitazioni, fece esiliare Atanasio a Treviri (335-336). Morto Costantino (337), le alterne e tragiche vicende successorie, portarono a seconda di chi ebbe di volta in volta il potere e a seconda della zona in cui piu forte era l'appoggio che poteva venire dalla cor- rente ortodosso-romana o dalla corrente ariana, a dare ora il soprav- vento ai sostenitori della tesi nicena ora ai sostenitori dell'arianesimo. Costanzo, uno dei tre figli di Costantino, impegnato in Mesopotamia nella lotta contro i Persiani, appena conosciuta la morte del padre accorse a Costantinopoli, dove fece uccidere i fratelli di Costantino e sette suoi nipoti, e assunse il potere in tutto l'Oriente; in Occidente dopo una guerra tra i due figli di Costantino, Costante e Costantino Il, morto Costantino II, ebl:ie, nel 340, il sopravvento Costante. Avuto il sopravvento in Occidente, Costante, legato ai circoli della Chiesa orto- dossa e favorevole perciò alle decisioni del Concilio di Nicea, mise al bando l'arianesimo. Atanasio, cosi, che all'indomani della morte di carna11ione di Dio; Uno è Cristo; Il discorso maggiore sulla f"de. Certamente di Atanasio invece sono le seguenti opere storico-polemiche: Apologia contro gli Ariani (del 348); Apologia all'lmp.,ratorc Costanzo (del 357); Apolugia dt:lla fuga; Della dottrina di Dionigi; Sui dur.,ti d"l sinodo niceno; Dci sinodi di Rimini e di Se/cucia (del 359) (una delle opc:re piu importanti di Atanasio, in cui fa la storia di questi due Concili). lncom· pleta è giunta la Storia degli Ariani, non piu che citata (Gerolamo, Dc vir. ili., 17) uno scritto Contro Valente e Ursacio. Opere di morale e d i edifu:azione sono: Vita di Sant'Antonio, Della Verginità (se ne dubita l'autenticità). Molte le lettere di Atanasio. Costantino era tornato ad Alessandria, ma che, su decreto di Costan- zo, imperatore in Oriente, ove l'arianesimo si era non poco diffuso, era stato costretto nel 340 a ritornare in esilio, poté, col favore del- l'imperatore di Occidente, Costante, ritornare in Alessandria nel 346. Morto Costante nel 350, vittima in Gallia di un complotto organiz- zato dal generale Magnenzio, le Gallie proclamarono imperatore Ma- gnenzio. Di contro, gli veniva opposto a Roma Augusto Nepoziano, nipote di Costantino l. Magnenzio accorse a Roma e Augusto Nepo- ziano venne ucciso. Le truppe dell'Illiria eleggevano intanto impera- tore il generale Vetranione, favorevole agli ariani (Ario, dopo il Con- cilio di Nicea era andato in esilio in Illiria). Dall'Oriente intervenne Costanzo, che, alleatosi con Vetranione, il quale rinunciò al potere (351), sconfitto Magnenzio, rimase unico imperatore. Costanzo evi- dentemente ritenne piu opportuno appoggiarsi alle forze cristiane ariane, particolarmente diffuse in Oriente e nell'Illiria, tanto che in un con- cilio della Chiesa tenuto a Milano fece condannare Atanasio che fu di nuovo cacciato da Alessandria (356). Solo alla morte di Costanzo, avvenuta nel 362, Atanasio poté tornare ad Alessandria. Costretto di nuovo ad abbandonare Alessandria sulla fine del 362 per ordine del nuovo ed unico imperatore Giuliano, in funzione della sua battaglia contro la Chiesa cristiana e contro, particolarmente·, l'assorbimento dello Stato nella Chiesa, Atanasio tornò ad Alessandria alla morte di Giuliano (363) e vi rimase fino al 365, quando venne anc9ra una volta esiliato dall'imperatore Valente, che, tuttavi·a, ben presto - resosi conto che oramai in Occidente la Chiesa piu forte era quella di Roma - lo reintegrò vescovo di Alessandria, ove rimase fino alla morte, avvenuta nel 373. Ario era morto nel 336, improvvisamente a Costantinopoli, mentre, su pressione di Costantino, stava per riconciliarsi solennemente con la Chiesa. Dopo il Concilio di Nicea ricordiamo che Aria era stato esi- liato nell'Illiria. Dopo Ario, oltre Asteria di Cappadocia, vecchio disce- polo di Luciano di Antiochia, che a favore della tesi di Ario aveva rac- colto una serie di testi (auv-rrxy!_J.oc-rtov-syntagmation) che dovevano ser- vire a provare che il Verbo è creato (cfr. Atanasio, Or. I, 30-34; Or. Il, 37; Or. III, 2, 60; De decretis, V, 28-31; De synodis, 18, 20), il vero e proprio capo politico della corrente ariana, come dice il Tixeront (Patrologia, cit., p. 147), fu Eusebio vescovo di Nicomedia (presso cui Ario si era rifugiato durante il suo primo esilio avanti Nicea), vis- suto fino al 342. L'arianesimo assunse poi piu facce, in una sempre piu sottile discussione sull'autentico significato da dare ai termini sostanza e simiglianza relativi a Dio e al Verbo, senza dubbio,. talvolta, in un'esigenza di riconciliazione con la tesi nicena. Entro i termini della discussione ariana si distinsero cosi tre cor- renti. La prima è quella degli ariani intransigenti, secondo cui il L6gos non è dissimile (ocv6tJ.OLO~-anòm.oios) dal Padre. Capo di tale corrente - detta degli anomci -, ricollegandosi a Paolo di Samosata, fu Potino, vescovo di Sirmio in Pannonia e quindi Ezio, originario di Antiochia, particolarmente preparato in dialettica aristotelica, che aveva studiato ad Alessandria. Ezio, elevato al diaconato nel 350, sostenne la tesi di Ario, usando la dialettica aristotelica, in una serrata dimostra- zione della contraddittorietà di porre due divinità, per cui il Verbo non può logicamente dirsi della stessa sostanza del Padre. Il Figlio perciò non si può porre che come una creatura inferiore, anche se la piu perfetta, e diversa dal Padre, ché, ragionevolmente, ciò che è gene- rato non può essere Dio (cfr.' Di Dio ingcncrato c del generato: qua- rantasette brevi ragionamenti in forma sillogistica, conservati da Epi- fanio in Hacrcs., 76, 11). Discepolo di Ezio fu Eunomio, originario della Cappadocia, diacono di Antiochia, infine vescovo di Cizico nel 361. Dal poo che è rimasto di lui, morto sotto Teodosio, si deduce ch'egli fu, come Ezio, un forte sostenitore dell'anomcismo, si corne lo furono Eudossio,' vescovo prima di Antiochia e poi di Costantinopoli (360- 369) e Giorgio vescovo di Laodicea (331-335). La seconda corrente è quella dei cosiddetti scmiariani, i quali p4r respingendo. la consustanzialità, cioè che il Figlio abbia la stessa so- stanza (otJ.oouaLo~-homousios) del Padre, sostengono che tra la sostanza del Padre e quella del Figlio vi è una certa somiglianza OtJ.OLOUaLoç - homoiusios). Capo dei semiariani fu Basilio vescovo di Ancira, morto nel 356 (scrisse due lunghe memorie teologiche, conservate da Epifanio, Hacrcs., 70, 3, 2-11 e 12-22), seguito poi da Eustazio, vescovo di Sebaste dal 357, il quale fu particolarmente un asceta, fondatore del monachesimo nell'Asia Minore e maestro di Basilio il grande. Poco o nulla sappiamo di Euzoio, vescovo di Cesarea nel 376, anche egli, sembra, seguace della corrente semiariana. Tesi molto piu equivoca, passibile di essere accettata dall'una e dall'altra parte, fu quella, secondo cui, senza approfondire la questione della sostanza, si diceva vagamente che il Verbo è simile (l5tJ.oLOIO- hòmoios) al Padre. Tale tesi, detta degli omèi,, fu sostenuta dal suc- cessore di Eusebio di Cesarea, Acacie (340-346), legato all'origenismo e elle prosegui ad arricchire la biblioteca di Cesarea, e dai vescovi Teodoro di Eraclea (325-355) ed Eusebio di Emesa (341-359), quest'ul- timo, secondo San Gerolamo (Vir. ili., 91), raffinato rètore ed esegeta seguace della scuola di Antiochia (cfr. sopra). Per altro verso la lunga discussione da parte ariana della tesi nicena dette luogo, a· sua volta, da parte dei difensori della consustanzialità c 303    della divinità del L6gos ad un approfondimento della tesi nicena, che se da un lato portò a migliori ed acute precisazioni, e, in funzione di quelle, a nuove interpretazioni della tesi plotiniana e origeniana, anche sul piano filologico (non a caso Gregorio di Nissa distinse il signifi- cato di sostanza da quello di persona), dall'altro lato dette luogo a una serie di grossi problemi intorno alla natura del Cristo, Dio e, ad un tempo, uomo. Per il primo aspetto, piu che al pedissequo seguace della tesi nicena, Didimo Cieco (vissuto dal 313 al 398), assai vicino, per altro, ad Origene, salito in fama di dotto maestro (per cui ad Ales- sandria andarono ad ascoltarlo Sant'Antonio, Palladio, Evagrio Pon- tico, San Gerolamo, Rufino), pensiamo qui ai celebri "luminari" di Cappadocia, San Basilio, San Gregorio di Nazianzo, San Gregorio di Nissa, i tre "padri" della Chiesa di Oriente; e per il secondo aspetto, ad Apollinare il giovane, nato nel 310 circa, amico di Atanasio, soste- nitore dell'unità e trinità di Dio, secondo il simbolo niceno, che per primo apri la discussione sulla natura divina o umana del Cristo, e la cui tesi venne condannata nel Concilio del 381, negando egli che il Cristo in quanto Verbo fattosi corpo potesse avere anima umana, ché l'anima è, origenianamente, il limite, il raffreddamento dello spirito, dovuto al peccato, alla ribellione a Dio e al L6gos che resta sempre peccato. Tutte queste discussioni, relative da un lato, ripetiamo, al come intendere il concetto di sostanza e di persona, dall'altro lato, posto che il Verbo è Dio, al significato da dare, allora, alla natura umana del Cristo, meglio si comprendono tenendo presente, ora, la formulazione dello stesso simbolo niceno, che, come ha sostenuto il Gilson (cit., pp. 59-60), delimita "il quadro all'interno del quale il pensiero cri- stiano dovrà oramai mantenersi" - avendo, aggiungiamo, avuto poi la Chiesa di Roma il sopravvento. Crediamo in un solo Dio, padre onnipotente, fattore delle cose tutte, delle visibili e delle invisibili. E crediamo in un sol nostro Signore Gesu Cristo, figlio di Dio, nato unigenito dal Padre, cioè dalla sostanza del Padre (èx -t~ç oòa(ocç -tou 'ltot-tp6ç ), Dio da Dio (0r:òv èx 0r:ou ), luce da luce, Dio vero da vero Dio, generato non fatto (yevv'rj6~not où 'ltOL'rj6énot), della stessa sostanza (OfLOUaLov - homusion) del Padre (consustanziale al Padre), mediante cui tutte le cose sono nate, quelle che sono in cielo come quelle che sono in terra; il quale, per noi e per la nostra salvezza, è disceso, si è incarnato, ha sofferto, è resuscitato il terzo giorno, è risalito nei cieli, e verrà a giudicare i vivi e i morti. E crediamo nello Spirito Santo. Quanto a coloro [ariani] che dicono: tempo vi fu in cui egli non era, o che non era prima d'esser statà generato, o è nato dal nulla, o è di un'altra ipostasi o di un'altra sostanza, o che il Figlio di Dio è creato (x-tLa't6v ), o mutevole, 304    o sottomesso al cangiamento, tutti costoro la Chiesa cattolica e apostolica di Dio li anatemizza. d) Dalla religione di Stato di Giuliano imperatore al Cristiane- simo religione di Stato. Il "neoplatonismo" di Giuliano e la funzione del mito. Sa/lustio. L'Impero d'Occidente tra il IV e il V secolo. Alla morte di Costanzo, avvenuta nell'ottobre del 361, in Asia Minore, unico imperatore fu riconosciuto il cugino di Costanzo, Flavio Claudio Giuliano/0 nato nel 331, figlio di Giulio Costanzo, fratello di Costan- tino l. Il padre e i fratelli di Giuliano, tranne Gallo, erano tutti caduti vittime delle stragi familiari perpetrate da Costanzo. Anche Gallo, scampato alle prime stragi, insieme a Giuliano, verrà condannato a morte da Costanzo al tempo in cui l'imperatore, per venire a com- battere Magnenzio (cfr. sopra), aveva nominato Gallo, Cesare per l'Oriente. Gallo, sospettato da Costanzo d~ volersi impadronire del trono in Oriente, fu fatto uccidere nel 354. Costanzo, allora, tornato in Oriente, fu costretto a nominare Cesare Giuliano, mandandolo nelle Gallie (355) ad ostacolare le pressioni dei Franchi e degli Alemanni. Alla morte del padre e degli altri fratelli (337), Giuliano aveva sei anni. Insieme al fratello Gallo fu dal sospettoso Costanzo tenuto semi- prigioniero ed affidato ad Eusebio vescovo di Nicomedia che lo allevò nella piu ferrea disciplina cristiano-ariana e nell'odio contro le religioni e le culture non cristiane. Morto Eusebio (342), i due fratelli vennero relegati in una villa della Cappadocia, ove ebbero per maestri ferventi cristiano-ariani, ligi agli ordini impartiti da Costanzo, che non voleva che i due giovani conoscessero e leggessero i grandi autori dell'anti- chità. Uno dei maestri di corte, tuttavia, un certo Mardonio, in segreto fece leggere a Giuliano alcune opere di poeti e di filosofi greci.:t: facile rendersi conto di come tutto un mondo nuovo (e proibito) si aprisse in tal modo a Giuliano, oppresso dall'insegnamento cristiano voluto dall'alto e proveniente da uomini ch'erano suoi nemici. Nel 10 Sulla vita di Giuliano (Flavio Claudio), nato a Costantinopoli nel 311, morto, in battaglia, il 26 luglio del 363, per ciò che qui interessa, confronta sopra, il testo. Di Giuliano si sono conservate le seguenti opere: Orazioni, I-VIII: particolarmente importanti sono l'Orazione IV al rt: Elios, l'Orazione V alla Dt:a maàrt:, l'Orazione VI Contro i cinici ignoranti, in cui si difendono gli antichi cinici, l'Orazione VII Contro il cinico Eraclio, l'Orazione VIII Consolatoria pt:r la partt:nza di Sallustio, l'Orazione II Sul sovrano idt:alt: (furono scritte in epoche diverse: le Orazioni I e III, panegirici di Costanzo Il e di Eusebia, nelle Gallie, tra il 355 e il 356; l'Orazione II, nell'inverno 358-359; l'Orazione VIII nel 361; le Orazioni V! e VII nel 362; le Orazioni IV' e V sulla fine del 362); Lettt:rt:: agli Att:nit:si (in numero di 4, scritte nell'autunno del 361) e al filosofo Tt:mistio (del 362); l Cuari; Misopogon; numerose lt:ggi. Tra i molti fram- menti di opere perdute particolarmente interessanti quelli dello scritto Contro i Cristiani e di una lettera ad un sacerdote. Sono andati perduti un libro Sulla battaglia di Strasburgo e le Lt:ttt:rt: ai Corinti, ai Laet:dt:moni, al St:nato di Roma. 305    Cristianesimo, da allora, Giuliano vide da un lato una religione fana- tica, torbida, chiusa in discussioni teologiche assurde, oppressive, dal- l'altro lato lo strumento di un potere politico che nella sua intolleranza - di questi anni, tra l'altro, è l'opera di Firmico Materno, in cui si chiede all'imperatore Costanzo la distruzione e la persecuzione dei pagani - avrebbe annullato la possibilità di una religione universale, ove trovassero il loro posto le varie religioni e culti, espressioni tutte di un unico e naturale sentimento religioso. Nominato Gallo Cesare, Giuliano era stato chiamato da Costanzo a Costantinopoli perché vi compisse gli studi superiori, ma sotto la guida del rètore cristiano Ecebolio, noto come il "dispregiatore degli dèi." A Nicomedia, dove, poco tempo dopo, Costanzo volle che Giuliano tornasse, Giuliano, in segreto - ufficialmente si finse fervido cristiano, entrando perfino nel clero di Nicomedia - prese contatto con il celebre rètore Libanio (di Antiochia, vissuto dal 314 al 393 circa), del quale leggeva le lezioni, passategli da un uomo ch'egli aveva prezzolato a tale scopo. Attra- verso Libanio - il quale dirà poi che Giuliano aveva compreso meglio di coloro che lo avevano ascoltato il significato del suo insegnamento, del platonismo, della religiosità greca - e attraverso l'insegnamento dd neoplatonico Massimo di Efeso (cfr. sopra), che, in segreto, andò a trovare ad Efeso, Giuliano si approfondi nella lettura dei poeti, dei filosofi, nella scienza magica e teurgica· (per i rapporti tra Giuliano e i filosofi della scuola neoplatonica di Pergamo e di Siria, cfr. sopra), nei segreti degli Oracoli Caldaici (cfr. sopra). Morto Gallo, nominato_Cesare e inviato nelìe Gallie, Giuliano sgo- mento dapprima di dovere affrontare la vita pratica, militare, politica ("non è affar mio," esclamò, "hanno messo la sella su di una vacca"), si dimostrò abile condottiero (nel 35.7 sconfisse ad Argentorati gli Ale- manni), e diplomatico (riusd ad accordarsi con i Franchi), mentre si adoperava a sanare contrasti politici e ideologici, sostenendo il valore di un'unica intesa nella coscienza di un'unica cultura e tradizione, messa in discussione dall'unilateralità e dall'esclusivismo dei Cristiani. Costan- zo nel 359, preoccupato per l'attacco ai territori romani da parte di Sapore II di Persia ch'era riuscito a passare in forze il Tigri, chiese a Giuliano aiuti. Giuliano, intanto, aveva promesso ai barbari incamerati nel suo esercito che non avrebbe mosso dalla Gallia i Galli. Costanzo premette. In Gallia scoppiò una rivolta contro Costanzo e Giuliano fu acclamato Augusto. Giuliano chiese a Costanzo di riconoscerlo Augusto. Costanzo tacque. Giuliano si mosse verso l'Illiria. Costanzo decise allora di andargli incontro, ma durante il viaggio, nell'ottobre del 361 morL Giuliano fu riconosciuto allora unico Imperatore. È sembrato opportuno, sia pur brevemente, discorrere della vita e 306    della prima formazione di Giuliano perché ciò spiega, in parte almeno, l'atteggiamento non cristiano del cristiano Giuliano, e le sue piu pro- fonde ragioni. Non sembra cosi errato dire che la religiosità di Giu- liano, la sua esigenza di una pacificazione cattolica, l'esigenza di certo cristianesimo stesso, nel quale non a caso Giuliano fu allevato, sta nella conversione di Giuliano, nella cosiddetta apostasia di lui, nel suo negare il Cristianesimo come unica e vera religione. In Plotino, invece, mediato attraverso Giamblico, Giuliano vedeva la possibilità di un'au- tentica religione universale razionalmente fondata, capace di accogliere in sé i miti e le religioni della tradizione greco-romana, anche il Cri- stianesimo, in quello ch'era l'aspetto piu plotinico (non ariano) del Cristianesimo, pur sapendo che tali religioni sono in realtà miti, ma simbolicamente validi ad avviare alla comprensione degli dèi e delle divinità, momenti, estrinsecazioni dell'unica legge divina (di qui, an- cora una volta, entro l'àmbito del neoplatonismo, il significato dato da Giuliano all'elioteismo e all'antico culto della Dea madre: cfr. in par- ticolare le Orazioni IV, al re Elios e V alla Dea Madre degli Dèi; sul significato dei miti cfr. in particolare l'Orazione VII, contro Eraclio). Entro questa visione di un tutto ordinato, si scandiscono dall'Uno tutti gli aspetti della realtà. Oltre tutto l'Uno, ragion d'essr:re del tutto, esso è il sovraintelligibile, l'Idea degli esseri, il Bene: "questo invero, sia che dobbiamo designarlo come ciò che sta oltre l'Intelletto, oppure come l'Idea dell'Essere, intenderrdo cosi tutto il mondo intelligibile, o chiamiamolo anche l'Uno, per il motivo che l'Uno sembra in qual- che modo anteriore a tutte le cose, oppure per usare il termine solito di Platone, il Bene, appunto questa causa uniforme di tutte le cose è fonte per tutti gli esseri di bellezza, di perfezione, di unità e di po- tenza irresistibile" (Al re Elios, 132d). La prima distinzione dell'Uno è l'Intelletto, nei suoi due momenti dialettici, in senso giamblicheo, di mondo intelligibile - mondo delle idee - e di mondo intellettuale - le attività pensanti, - donde gli dèi intelligibili, di cui primo, figlio del Bene, secondo il mito platonico, è il Sole, e da questi gli dèi intel- lettuali, al di sotto dei quali si scandiscono il mondo sensibile, le divi- nità visibili, gli astri, il tutto tenuto in unità, simbolicamente dal Sole, riflesso dalla luminosità dell'Uno, che dà essere, vita e intelligi- bilità a tutto, onde il dio Sole è termine medio· tra il mondo intelli- gibile e il mondo sensibile, mediante cui la luminosità dell'Uno si viene, per cosi dire, materiando nella luce di cui tutto è costituito. La luce alla sua volta è una forma di questa per cosf dire materia, che.è sostrato e segue l'estensione dei corpi luminosi. E della luce stessa che è incorporea i raggi sarebbero in certo qual modo il vertice e come il fiore. 307    E appunto secondo l'opinione dei Fenici che sono sapienti e informati nelle cose divine:, lo splendore luminoso ovunque diffuso è la incontaminata estrin- secazione attiva del puro Intelletto... Il mondo intelligibile forma assolutamente un'unità, preesiste dall'eterno a ogni cosa e tutto abbraccia insieme nella sua unità. E non è forse anche l'intero universo un solo organismo vivente, tutto ripieno d'anima e di spirito, un tutto perfetto costituito di parti perfette? [cfr. Timeo, 33a]. Vi è dunque una duplice perfezione unificatrice, cioè quella unità che comprende nell'uno tutto ciò che esiste nel mondo intelligibile e quella che intorno al mondo visibile si concentra in una sola e medesima perfetta natura. Nel mezzo sta la perfezione unificatrice di Elios Re, la quale risiede tra gli dèi dotati di intelletto. E successivamente nel mondo degli dèi intelligibili vi è una specie di forza avvincente che tutte le cose coordina verso l'unità. La sostanza del quinto elemento che si muove nella propria orbita tiene riunite tutte le parti e le stringe tra loro... Queste due sostanze che cooperano alla connessione, delle quali l'una appare nel mondo intelligibile, l'altra nel sensibile, Elios Re le congiunge in una sola... (A Elios, 134a-139b-c). Entro questa visione di un tutto ordinato, dall'Uno ai molti, limiti e ombre nell'unità luminosa del tutto, ove, indipendentemente da qual- sivoglia intervento miracoloso, l'anima, per limitata che sia, per presa che sia dalle cose, per dimentica che sia della sua origine, ha pur sempre in sé una scintilla divina, è un seme dell'unico Dio, di tutti padre ("certo io invidio pure la sorte fortunata di ~olui che poté avere dalla divinità un corpo costituito da un seme divino e profetico,... ma so anche che di tutti gli uomini Elios è il padre comune": A Elios, 131b-c), ricordandosi del quale può, con le sue forze, purificarsi, tor- nare da dove è venuta. Di qui l'appello di Giuliano a una serietà di vita, da un lato intesa come mestiere e dovere, in. una ideale vita stoico- cinica (non a caso Giuliano ne I C~sari si sofferma con simpatia sulla vita e sull'opera di Marco Aurelio, ch'egli prende a modello del suo mestiere di imperatore, mentre si compiace di ·ricordare i cinici del tempo antico: cfr. Oraz. VII Contro il cinico Eraclio e Oraz. VI Contro i cinici ignoranti, in difesa dell'antico cinismo), dall'altro lato come purificazione, mediante cui liberarsi dai limiti terreni, riscoprire l'anima, riconducendola, anche attraverso pratiche magico-teurgiche (cfr. sopra il significato piu profondo é nient'affatto torbido della magia e della teurgia), alla patria celeste donde è venuta. Il che non signifi- cava per Giuliano negare il Cristianesimo, particolarmente il çristia- nesimo non ariano, in quanto religione, ma si in quanto unica e vera religione, non mitica come le altre, nella sua pretesa d'essere l'unica verità rivelata da Dio (si vedano i frammenti dello scritto Contro i Cristiani, ove riprendendo gli argomenti di Celso e di Porfirio con molta acutezza Giuliano, confrontando il Vecchio e il Nuovo Testa- mento con la teologia greca, cerca di mostrare da un lato le contrad- dizioni del Vecchio e del Nuovo Testamento, e il loro significato se assunti anch'essi come miti popolari, dall'altro lato data la loro parzia- lità, la loro intolleranza esclusivistica, l'impossibilità che sul Cristiane- simo si fondi una religione universale, tale da pacificare e moraliz- zare, in unità, gli aspetti molteplici in cui si presenta la vita religiosa nei suoi culti diversi). Di qui sul piano politico di una organizzazione religiosa, di contro all'intolleranza cristiana, la tolleranza di Giuliano, anche nei confronti della religione cristiana; Giuliano, sotto questo aspetto, non condannò né perseguitò i Cristiani, mantenendo validità legale all'Editto di Milano (313). Volle solo, proprio in nome di quel- l'Editto, che anche i Cristiani rientrassero nell'ordine, si adeguassero ad essere considerati come facenti parte di una certa religione, posta, al pari delle altre, entro i termini dell'unica organizzazione politica delle varie religioni, nell'istituzione - a imitazione dell'organizzazione ecclesiastica cristiana - di un vero clero professionale e di una gerar- chia religiosa, ignota ptima di allora alle religioni greco-romane. Si capisce cosi come una delle prime misure prese da Giuliano sia stata quella di far tornare nelle loro sedi tutti coloro che per motivi reli- giosi erano stati esiliati da Costanzo (tra questi vi fu, in principio, anche Atanasio) e che fossero restituiti ai legittimi proprietari i beni confiscati per motivi religiosi (di ciò godettero particolarmente i templi pagani ai quali erano stati tolti tesori, terre, edifici, passati a comunità cristiane). Giuliano, infine, decretò la chiusura delle scuole rette da grammatici, rètori, filosofi cristiani (Editto del 362), sostenendo che il loro unilaterale insegnamento, il loro escludere poeti e filosofi antichi era un danno per l'insegnamento stesso, per la libera ricerca. Naturalmente tutto ciò apparve da parte cristiana una persecu- zione, mentre molti che in precedenza erano stati danneggiati dai cri- stiani, sentendosi appoggiati dall'Imperatore, si dettero a vendette che portarono anche all'uccisione di non pochi cristiani (ad Alessandria la folla uccise il vescovo Giorgio). In realtà, l'intento di Giuliano non fu un mero ritorno al pas- sato, come troppo superficialmente è stato detto, giudicando solo dal punto di vista della reazione cristiana, non fu un'accademica restaura- zione di culti e religioni morti da tempo. Esso fu piuttosto - anche se in termini eccessivamente scolastici,...... dettato dall'esigenza profonda, com- prensiva di una situazione storico-culturale ben precisa, di una pacifica- zione di ideologie, fomite di lotte e di conflitti, in una comune religione di Stato, entro cui potessero convivere in armonia culti e riti diversi, ri- spondenti tutti ad un'unica naturale religione, che Giuliano, sulla scia dei 309    suoi amici neoplatonici di Pergamo e di Siria, vedeva realizzabile entro i termini della filosofia plotinico-giamblichea, corposamente e mitica- mente traducibile nei termini della religione solare. Non solo, ma un'at- tenta lettura delle opere di Giuliano, se da un lato rivela il suo intento politico, di instaurare una religione di Stato, in nome della tolleranza, riportando con ciò anche il Cristianesimo entro i termini legali (tale il significato del mantenimento dell'Editto di Milano), dall'altro lato rivela come Giuliano si sia mos-so entro l'àmbito di quella koinè cultu- rale di cui parlavamo e per cui non poche volte è difficile - e non solo per Giuliano - distinguere tra testi che poi nelle loro conclu- sioni sono nettamente cristiani, da testi che nelle loro conclusioni sono irriducibili alla visione ed alla concezione cristiana. E ciò particolar- mente vale sia quando si tratta di immagini (in special modo quelle tratte dalla luce), sia quando si tratta della superessenzialità dell'Uno Dio. E cosi, che gli dèi di Giuliano, sulla linea stoica e neoplatonica, siano intesi come simboli e che i culti e le descrizioni delle religioni siano intesi come miti, senza di cui in realtà le religioni stesse non sarebbero, e che dèi e miti vadano interpretati allegoricamente, risulta non solo dallo stesso Giuliano, ma, piu chiaramente· ancora, da una breve opera, Sugli dèi e sul mondo, di un intimo amico di Giuliano, Sallustio,11 che con molta finezza discute il significato del mito, entro l'àmbito di una precisa concezione neoplatonica e solare. Gli dèi (en- cosmici e ipercosmicz) sono considerati come emanazioni e "forze" visibili che derivano dall'invisibile Unico Dio, causa delle cause, super- essenziale, potenza assoluta, entro cui si scandisce in eterno il ritmo di tutta la realtà (coeterno a Dio e in Dio è decisamente detto il mondo), unico mondo, molteplice e uno nell'Uno, e dove il "male," 11 Si è per secoli molto discusso sull'autore del breve trattato D~gli dèi ~ del mondo. Si è sostenuto che fosse opera di un cinico sofista del v-vi secolo (Sallustio di Emesa); il Naudé pensò si trattasse di un tardo autore stoico; il Wilamowitz di un Sallustio grammatico, autore di argomenti sulle tragedie di Sofocle; infine, da Orelli a Mullach, a Cumont, a Tillemont, si è sostenuto trattarsi di un Sallustio, alto funzionario dell'Im- pero e amico intimo di Giuliano Imperatore. Poiché intorno a Giuliano ruotarono due Sallusti, Flavio Sallustio e Secondo Sallustio, il primo prefetto delle Gallie, il secondo pre- fetto d'Oriente, si è trattato di accertare a quale dei due debba darsi la paternità Degli d~ e del mondo. Se il Cumont propendeva per il primo, spiegando l'epiteto di filosofo riportato da tutta la tradizione manoscritta del trattatello con una cattiva lettura dell'ab- breviazione ~À = ~Àa:~(ou per ~~Àocr6cpou; dopo che la pubblicazione della raccolta delle Iscrizioni dell’Hermann Dessau (“lnscriptiones latinae selectee”, I, Berlino, p. 276) ha permesso una ricostruzione esatta della carriera e delle mansioni presso Giuliano dell'uno e dell'altro Sallustio, ci si è convinti che il Sallustio autore del trattato Degli dèi e del mondo, è Secondo Sallustio ch'ebbe molti piu contatti con Giuliano, il cui scritto è senza dubbio ispirato alle opere filosofiche di Giuliano, tanto che si è fatto l'ipotesi che il Degli dèi e del mondo sia stato composto nel 362 (si confronti in particolare G. Rochefort, ln- troduction à Saloustios: Des di~u:r et du m'ar:de, texte établi et traduit par G. R., "Les Belles Lettres," Parigi)] si come la materia, non ha alcuna realtà positiva, ma è dovuto all'in- comprensione umana, all'ignoranza, all'unilaterale visione del tutto esteriorizzata ("non esiste alcun male positivo, si come non v'è alcuna oscurità positiva, ma solo mancanza di luce": Sallustio, XII, l) (Per l'importanza storica e per il significato anche politico, in funzione della politica di Giuliano, di questo libro di Sallustio, che il Murray ha definito una "sorta di credo ragionato, per fissare in modo convin- cente le linee generali della... religione ellenica," rimandiamo allo stesso Murray, Five Stages of Greek Religion, New York, 1955, e a G. Roche- fort, lntroduction à Saloustios, Des dieux et du monde, texte établi et traduit par G.R., Parigi) Il tentativo di Giuliano non rimase un mero episodio, anche se alla sua morte, avvenuta in battaglia, nel 363, nella guerra contro i Persiani, con la nomina a imperatore, nel 364, di Gioviano, cristiano, crollò subito l'edificio da lui creato di un sacerdozio professionale del- l'unica religione di Stato. Sia pure in termini rovesciati, cioè nel soprav- vento della religione cristiana, si giunse, necessariamente, alla procla- mazione dell'unica religione dell'Impero (sotto Teodosio l, trent'anni circa dopo la morte di Giuliano). In realtà, la stessa concezione reli- giosa di Giuliano, la sua comprensione della necessità politica di una religione universale, che egli vedeva compromessa dall'intolleranza del Cristianesimo, erano piu vicine di quel che possa apparire a prima vist~ alle esigenze ed alla situazione politico-sociale cui, almeno in Occidente, rispondeva la forza interna - morale, organizzativa, economica - del Cristianesimo. E cosi fu. La nota decadenza politico-militare implicò una sempre piu drammatica tragedia economica. Basti ricordare che proprio in questo tempo si venne formando un sistema di rapporti fondato sull'economia chiusa e sul servaggio. Gli stipendi, i tributi e cosi via cominciarono ad essere pagati in natura (moneta l'ebbero solo funzionari e militari d'alto grado). In un sempre maggiore aggravio fiscale per venire incontro alle spese militari, per evitare che le popo- lazioni non pagassero le imposte, si venne via via costringendo cia- scuno a non trasferirsi piu dalle terre sulle quali lavorava. Il commer- cio si venne estinguendo, o riducendo in prevalenza al solo mercato urbano. Naturalmente le poche forze economic~e rimaste si vennero raccogliendo nelle mani dei grossi proprietari terrieri, che vennero costi- tuendo come tanti piccoli stati nello Stato che di fronte a loro ·non aveva piu potere. In tale tipo di economia, già feudale, il potere dello Stato venne sempre piu spezzandosi nelle mani di ciascun singolo proprietario. Fuggire via dall'Impero, presso i barbari, o, se possibile, raccogliersi sotto la protezione dei proprietari, sembrò il mezzo mi- gliore per evitare lo Stato, che, in effetto, non esisteva piu. E intanto - scrive Salviano nel v secolo - i poveri, le vedove e gli orfani, spogliati e oppressi erano giunti a un punto di disperazione tale che molti, pur appartenendo a famiglie note e avendo ricevuto una buona educazione, erano costretti a cercare rifugio presso i nemici del popolo romano per non rimanere vittime di· ingiuste persecuzioni. Essi si recavano presso i barbari in cerca dell'umanità romana, poiché non potevano sopportare presso i Romani l'inumanità barbara. Sebbene essi fossero estranei, per costumi, per lingua, ai barbari presso i quali fuggivano, sebbene fossero colpiti dal loro basso livello di vita, nonostante tutto risultava loro piu facile abituarsi ai costumi barbari che sopportare la ingiusta crudeltà dei Romani. Essi si mette- vano al servizio dei Goti o dei Bagaudi [coloro che in Gallia, particolarmente contadini e schiavi, avevano costituito un forte e autonomo movimento anti-romano: in celtico “bagaudi” significa "combattenti," "lottatori"], e non se ne pentivano, preferendo vivere liberamente con il nome di schiavi, piuttosto che essere schiavi mantenendo soltanto il nome di liberi (De gubernatione Dei, V). Chi non poteva andar via prefer1 rifugiarsi presso i grandi proprie- tari terrieri. Tale decadenza e tale crisi portarono dietro a sé la sempre piu sentita esigenza di un potere gerarchicamente costituito. La chiesa, almeno in Occidente, sia per la sua organizzazione e gerarchizzazione, sia per essere divenuta tra i proprietari uno dei piu grandi, sembrò offrire l'unica possibilità di salvazione, da un lato accogliendo nel suo seno (clero), dall'altro lato proteggendo il popolo cristiano (laici), sosti- tuendosi cosi al potere centrale, oramai in realtà inesistente. Non a caso, alla fine, Teodosio I (378-395) proclamò nel 380, con un editto, che l'unica religione dell'Impero doveva essere "quella che il divino apostolo Pietro aveva trasmesso ai Romani," decretando perciò illegali tutte le altre religioni, che vennero perseguitate e i cui beni vennero confiscati, mentre i templi venivano distrutti. Dopo Teodosio, con il definitivo rompersi dell'Impero in due, con l'effettivo esaurirsi del po- tere politico in Occidente e con il lento prevalere dei barbari, con la caduta di Roma (410), tanto piu evidente sembra la linea attraverso cui. l'Impero di Roma si trasformò nell'Impero cristiano-barbarico, fino ad una sua qual sistemazione con Teodorico. Dopo la morte di Giuliano, intanto, ripreso il sopravvento il Cri- stianesimo, in seno alla Chiesa piu violenti si fecero i contrasti tra ariani e ortodossi, in un conflitto che mise a repentaglio l'unità della Chiesa. Non a caso, proprio per il pericolo che l'unità della Chiesa si rompesse, determinando piu religioni, piu fedi, esaurendo cosf le sue forze politiche, Ottato di Milevi, cattolico africano, sia pure in forma paradossale, combattendo contro la tesi donatista, sostenuta da Parme- niano, vescovo donatista di Cartagine, in un suo libro contro i catto- [    !ici, secondo cui la religione cristiana nulla deve concedere allo Stato, rimanendo esperienza di pochi eletti, profondamente personale e indi- viduale, poteva esclamare che, invece, la Chiesa doveva divenire lo Stato, anche a costo di subordinarsi allo Stato (De schismate Dona- tistarum, III, 3: il De schismate fu composto nel 365 circa). Ancora una volta, conflitti teologici rispecchiano piu profondi e aspri conflitti politici. Entro questi termini, nella polemica tra atanasiani e ariani, assunse un suo particolare significato il rifarsi o meno alla concezione neoplatonica-plotinica, mediante cui si venne delineando una piu pre- cisa koinè culturale. Di qui l'interesse di vedere ora, sia pur nelle sue linee essenziali, l'ultima formazione di tale koinè culturale, le sue com- ponenti, il conflitto tra ortodossi e ariani, la diffusione di un certo "neoplatonismo" in Occidente, il costituirsi del neoplatonismo di Ales- sandria e di Atene, insieme alla funzione data ai repertori e alle sil- logi, e particolarmente a certi ben precisi testi di Aristotele e della logica del primo stoicismo. Caio Mario Vittorino. Firmico Materno. Teone di Alessandria. \.ltrettanto fondamentali, relativamente all'area di lingua latina, furono, ntro i termini della preparazione culturale e per la circolazione di:lee e di testi in Occidente, gli scritti di Mario Vittorino. E qui va:nuto presente che Mario Vittorino 8 - nato in Africa, nel 300 circa, 8 Caio Mario Vittorino, nato nell'Africa proconsolare verso il 300, muore a Roma lal 362 circa si perdono le sue tracce). Maestro di grammatica e di retorica prima in Erica, a Roma poi, dove godette di notevole fama (gli fu eretta una statua nel foro 1iano: cfr. Agostino, Confessioni), nel 355 si conveni al Cristianesimo (sulla sua cun- rsione cfr. la celebre pagina delle Confessioni di Agostino: VIII, 4). Nel 362, per il creto di Giuliano, che proibiva ai Cristiani d"insegnare retorica, fu costretto a chiudere sua scuola. Di lui restano: “Ars grammatical”; Commento al "De inventione" di Cicerone; De] e formatosi in quelle celebri scuole di retorica - fu innanzi tutto maestro di retorica, prima in Africa, poi, al tempo di Costanzo in Roma, dove ebbe numerosi discepoli di alto lignaggio, dove sali in grande fama; tanto che, in suo onore, fu eretta una statua nel foro traiano (cfr. S. Agostino, Confessioni, VIII, 2, 3). In parte all'epoca dell'insegnamento in Africa e in parte all'epoca del primo insegnamento a Roma, risalgono le opere di Vittorino a carattere grammaticale, retorico, logico-retorico. Tali opere, anzi, vanno vedute entro l'àmbito dell'insegnamento della retorica e in funzione di quello, ed è entro i termini dell'insegnamento delle scuole grammatico-retorico-logiche latine, entro il loro aspetto scolastico formale che assumono un loro particolare significato. Se cosi da un lato Mario Vittorino, inteso a formare uomini di cultura, compone un'”Ars grammatical” e commenta il “De inventione” e i “Topici” di Cicerone, dall'altro lato traduce il “De interpretation” e le “Categorie di Aristotele”, di cui fece anche un commento, componendo inoltre due scritti di logica, il “De definitionibus” e il “De syllogismis hypotheticis”, mentre traduce I'“Isagoge” di Porfirio. Tutti questi scritti e le traduzioni delle opere piu grammatico-formali della logica aristotelica, rivelano molto chiaramente che lo studio e l'insegnamento di Vittorino sono volti a determinare i quadri dei possibili discorsi, le condizioni su cui fondare, mediante le definizioni, sulle quali si basa l'accordo, un tipo di discorso, coerente in sé, e perciò verace, mediante cui convincere. Di qui l'importanza data da Vittorino da un lato al metodo retorico-filosofico di Cicerone e, dall'altro lato, al sillogismo ipotetico di origine teofrasteo-stoica, e, perciò, in quanto studio delle forme grammatico-linguistiche che permettono i giudizi, alle “Categorie” e al “De interpretation” di Aristotele, che non a caso Vittorino considera secondo l'aspetto formale a cui da l'avvio I'Isagoge di Porfirio, interpretata in chiave ciceroniana. Sotto questo aspetto, le tecniche dei discorsi, le loro strutture, intrinsecamente necessarie, costituentesi, attraverso le definizioni, in quadri (topoi), e in sillogismi, sono neutre, indipendenti da quelle che possono essere le strutture della realtà. Negli anni del suo insegnamento, in Africa, e nei primi a Roma, sembra che Vittorino apertamente ·si opponesse al gratuito passaggio definitionibus; la cosiddetta Enneade di Vittorino, composta di nove opere teologiche: tre trattati contro gli ariani (Contro Ario; Della generazione del Verbo divino; De homoousio recipiendo); tre inni sulla Trinità (del 360); tre commenti alle Epistole di Paolo ai Galati, agli Efesini e ai Filippesi (dopo il 360). Perdute sono andate le seguenti opere: il Commento ai Topici di Cicerone, la traduzione delle Categorie e del De interpretatione di Aristotele, la versione dell'Isagoge di Porfirio (ricostruibile attraverso la discussione che ne fece BOEZIO), la versione di parte almeno delle Enneadi di Plotino, il De syllogismis hypotheticis] del Cristianesimo dal piano logico al piano della FONDAZIONE DEL DISCORSO su di un atto volontario e irrazionale. Solo che la lettura dei testi biblici; fatta da Vittorino, testimonia Sant'Agostino (Confessioni, VIII, 2 sgg.), per dimostrare la contraddittorietà della tesi ebraico-cristiana e per altro verso l'incontro, in Roma, con i libri dei neo-platonici (sembra che Vittorino abbia tradotto alcuni testi di Platone e, forse, le Enneadi di Platino, su cui si sarebbe poi formato Sant'Agostino), lo avrebbero condotto a questa triplice considerazione. La retorica, valida appunto finché è neutra, se tale resta risolvendo tutta la realtà in parole, si taglia dietro ogni possibilità di comprensione del vero, di contatto con il senso della realtà. Nell'insegnamento neo-platonico si trova che LA CONDIZIONE STESSA DEL DISCORSO si coglie in una conversione dell'anima su se stessa rivelante alla fine che quella condizione è la fondazione stessa del tutto che trascende dal di dentro. Si riconosce alla fine, che la possibilità della conversione, dell'anima che ritrova se stessa, la capacità del riscatto dal limite, è dovuta alla rivelazione, all'intervento del Cristo. Vittorino si fece cristiano, pubblicamente smentendo il se stesso dei primi anni, in Roma (cfr. S. Agostino, cit.). Dopo di allora, obbligato, poi, a chiudere la sua scuola dalla legge di Giuliano, nel 362, si apparta dalla vita pubblica, dedicandosi esclusivamente da un lato a commentare le Lettere di Paolo ai Galati, agli Efesini e ai Filippesi, dall'altro lato a giustificare, usando le tesi neo-platoniche sull'Uno, il dogma della Trinità e della consustanzialità, di contro alla tesi, logicamente sostenuta, dell'ariano Candido. Di qui le ultime opere di Vittorino: “Della generazione del Verba divino”, in risposta alla Generazione divina di Candido (lucida operetta in cui, sulla scia di Eunomio, si sostiene, ammesso Dio assoluto e perfetto, ingenerato e immobile, che impossibile, logicamente contraddittorio è ammettere che il Verba di lui sia ad un tempo generato e ingenerato, e quindi ad un tempo sia e non sia della stessa sostanza del Padre, sia e non sia essere); quattro libri Contro Aria (358); un breve trattatello De homoousio re- cipiendo (360). La risposta a Candido di Mario Vittorino, si fonda, rifacendosi al concetto di Uno di Platino, su di un paralogismo e conseguentemente, posta una certa definizione (non sostanziale, ma verbale), su di un sillogismo ipotetico.  Se Dio è l'Essere, la ragion d'essere del tutto, Dio è di là dallo stesso essere, indefinibile in sé, in quanto ha in sé tutte le possibili definizioni, e, perciò tutte le possibili esistenze, anche l'esistenza di se stesso. Prima di ogni essere, prima di ogni esistenza, unità in cui tutto è indistinto, uno nell'uno (hoc enim unum ante on, supra omnem existentiam, supra omnem vitam, supra omnem conoscentiam, super omne on et pantòn 6nt6n ònta"), di Dio neppure si può dire che sia ingenerato, o meglio ch'egli abbia una certa sostanza, un certo intelletto, neppure che è essere, anzi, rispettiva- mente agli esseri, si può dire, forse, meglio ch'egli è non essere (Gene- razione del Verbo divino, 12), cioè il suo essere sta nella sua potenza di trarre fuori da sé l'essere di riconoscersi nell'essere, tutto potenzial- mente in lui. La potenza di Dio è, allora, la sua essenza, la sua crea- zione, onde l'essere che scaturisce dalla potenza di Dio, che è oltre l'essere, non-essere, si genera dal non essere, da Dio, è creazione ex nihilo. Il Verbo di Dio, dunque, il suo stesso riconoscersi, è ad un tempo generato da Dio, figlio di Dio, ed è Dio esso stesso, in quanto esserci di Dio (Deus enim prima causa est, non solum aliorwn omnia causa, sed sui ipsius est causa. Deus ergo a semetipso et Deus est": 18). Come poi il Figlio sia nel Padre e il Padre nel Figlio, e l'uno e l'altro non siano l'uno accanto all'altro, ma uno ("neque solum simul ambo, sed unwn solum et simplex") non è, dice Vittorino, necessario ricercare. "Sed hoc non oportet qu:rrere, sufficit enim credere" (cfr. Gilson, op. cit., pp. 124-25). Sembra ora chiaro in che senso l'aspetto formale della retorica e della logica, la dialettic~ usata in senso ciceroniano e stoico, la contrapposizione accademica delle ipotesi, utile per tutti, sul piano della formazione culturale dei futuri dirigenti, potesse ad un tempo servire a convincere della validità dell'ipotesi cristiana, oltrepas- sando in una convinzione del fondamento non razionale della ragione, la neutralità sofistica della retorica, senza, con questo, togliere nulla allo studio di come funzionano i discorsi umani, di quali sono le defi- nizioni e cosi via (e per ciò potevano servire certi scritti di Aristo- tele, si come certi altri degli stoici). Tutto questo dovrà tener presente lo studioso di Sant'Agostino, il cui itinerario si avvicina non poco a quello di Vittorino, dal quale Sant'Agostino stesso confessa di aver molto ripreso, e per mezzo del quale conobbe gli scritti di Plotino, ma anche chi vada studiando da un lato la formazione del curricolo degli studi al principio del Medioevo (e qui pensiamo in particolare a Boe- zio), dall'altro lato la teologia negativa nei suoi rapporti col neoplato- nismo, in special modo entro i termini di Plotino e di Proclo, usati in funzione cristiana, e la questione relativa del dio essere oltre l'es- sere, non essere che da sé crea se stesso e il tutto (interpretazione neoplatonica della "creatio ex nihilo": e qui pensiamo agli scritti dello pseudo Dionigi, a Massimo il Confessore, per giungere fino a Giovanni Scoto Eriugena). Ad ogni modo, Mario Vittorino ebbe nel mondo di lingua latina una notevole influenza relativamente alla formazione di quella koinè culturale di cui parlavamo, nel delineare, insieme a Macrobio e a Cal- cidio, un complesso di discussioni indirizzate su certi testi di Aristo- tele, su di un certo modo di interpretare Cicerone (già Lattanzio) e     Virgilio (cfr. particolarmente i Saturnali di Macrobio), sulla possibi- lità di riprendere Aristotele (relativamente ai problemi del mondo sensibile e dell'anima. nei suoi aspetti vegetativo e sensitivo), interpre- tandolo, poi, come inverantesi mediante il nooplatonismo. Di qui, ancora una volta, sul piano dell'insegnamento scolastico e della prepa- razione culturale, la funzione data ai repertori, alle sillogi, a certe sistemazioni scientifiche del sapere antico. A tal proposito, per ciò che riguarda la diffusione di certi problemi nel mondo di lingua latina e la lettura determinante di certi testi è opportuno ricordare la traduzione in latino della Parafrasi degli Analitici di Aristotele di Temistio, dovuta al neoplatonico Nettio Agorio retestato, alto funzionario (fu senatore, questore, pretore, governa- ore della Tuscia e dell'Umbria, consolare della Lusitania, proconsole:lell'Ocaia, prefetto pretorio dell'Italia e dell'Illirico, designato console per il 385, ma morto nel 384), amico dell'Imperatore Giuliano, non troppo tenero verso l'irrazionalismo del Cristianesimo. E accanto al nome di Pretestato va ricordato il nome di Firmico Materno. L'importanza di Giulio Firmico Materno piu che nell'opera da lui scritta dopo la sua conversione al Cristianesimo, il De errore profanarum religionum (una violenta diatriba contro il politeismo, con cui iden- tifica tutte le posizioni non cristiane e per cui chiede agli imperatori Costanzo e Costante di perseguitare e distruggere chi non è cristiano), sta nell'opera pubblicata tra il 334 e il 337 dedicata a Lalliano Mavorzio, governatore della Campaflia prima, proconsole d'Africa poi, che gli aveva chiesto un manuale di astrologia. L'opera di Firmico, in otto libri, intitolata Mathesis, è il trattato piu ampio di astrologia traman- dato dall'antichità, in una sistemazione del sapere astrologico in termini neo-platonici. Vi si difende, contro le critiche di Carneade e degli scettici, la possibilità dell'astrologia come scienza. Se è vero che, data la limitatezza dell'uomo, legato al corpo e alle illusioni sensibili, difficili sono i calcoli e le predizioni, è altrettanto vero che, l'uomo, libe- randosi dalla sua sensibilità, in una conversione dell'anima su di sé, può ritrovando l'anima simile alla ragion d'essere del tutto, ripercor- rere le trame su cui tutto si scandisce, e può, perciò, ricostruendo l'or- dine e la necessità in cui tutto, dai cieli, alle stelle, alla terra, alle cose Giulio Firmico Materno, di origine siciliana, avvocato, vir consularis, senatore, tra il 334 e il 337, per mantenere la promessa che aveva fatto a Lalliano Mavorzio, che lo aveva accolto con favore e amicizia al tempo del suo governatorato in Campania, pubblica un'opera in otto libri, sull'astrologia, intitolata “Mathesis”, dedicata, appunto, a Lalliano, allora pro-console d'Africa (nel primo libro si difende l'astrologia dalle critiche dei neo-accademici e di Carneade. I libri II-VIII sono dedicati alla vera e propria astrologia. Convertitosi al Cristianesimo, scrive il “De errore profanarum religionum] si è costituito, determinare i rapporti e le influenze stellari, in calcoli e previsioni, matematicamente esatti, mediante' cui, nell'ascesa del- l'anima fino alla divinità, ci si può liberare dai vincoli fatali, dalle influenze stellari che provocano le nostre passioni e i nostri impulsi malvagi (libro 1). Infine, sempre sul piano della preparazione culturale e della diffusione delle idee, merita il conto ricordare, entro la linea della grande tradizione matematico-astronomica di Alessandria, il Commento alla Sintassi di Tolomeo e l'edizione delle opere di Euclide a cura di Teone di Alessandria, vissuto ad Alessandria tra il 335 e il 400, padre dell'altrettanto celebre Ipazia, una delle maggiori rappresentanti del neo-platonismo logico di Alessandria, maestra di Sinesio, morta vittima della reazione cristiana, nel 415, su istigazione del vescovo Cirillo. Francesco Adorno. Keywords: Filosofia italica, scuola di Crotone, scuola di Velia, Girgenti, Parmenide, Zenone. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Adorno” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Adriano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Epistle of Adrian1916 in behalf of the Christians.  I have received the letter addressed to me by your predecessor Serenius Granianus, a most illustrious man; and this communication I am unwilling to pass over in silence, lest innocent persons be disturbed, and occasion be given to the informers for practising villany. Accordingly, if the inhabitants of your province will so far sustain this petition of theirs as to accuse the Christians in some court of law, I do not prohibit them from doing so. But I will not suffer them to make use of mere entreaties and outcries. For it is far more just, if any one desires to make an accusation, that you give judgment upon it. If, therefore, any one makes the accusation, and furnishes proof that the said men do anything contrary to the laws, you shall adjudge punishments in proportion to the offences. And this, by Hercules, you shall give special heed to, that if any man shall, through mere calumny, bring an accusation against any of these persons, you shall award to him more severe punishments in proportion to his wickedness.Addressed to Minucius Fundanus. [Generally credited as genuine.] Adriano was proud of reminding his frineds that the infamous philosopher, Apollonius, a member of the Accademia, had predicted his ascendancy to power on the mere basis of a mere oracle.  However, Adriano’s successor shed doubts about his historicity – Apollonius’s, not Adriano’s!

 

Grice ed Agamben – nudi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “Agamben is a terribly complex philosopher, and a fascinating one – he has philosophised on things I did: ‘fantasma,’ as used by Aristotle in ‘Interpretatione,’ the unsaid and the unsayable (indicible), that Aganbem might apply to ‘il ragazzo’ – or ‘fanciullino’ – he has philosophhised on ‘love’ (amore – eros – idea dell’amore – and semiology of the sphynx, imagine, and imagine perverse – the use of bodies (uso dei corpi) and ‘silence’ (il silenzio nel linguaggio): lingua, iinguaggio, dialetto – verita – the sacred dimension of language in swearing – ‘sacramgneto del linguaggio – the logic of commands and the commandmets – the power and the glory – he obviously enjoys in word play! Flosofo. D’antica famiglia veneziana di origine armena, si laureò in Giurisprudenza nel 1965 con una tesi su Simone Weil. Ha scritto diverse opere, che spaziano dall'estetica alla biopolitica. A Roma, sempre negli anni sessanta, frequenta con intensità Elsa Morante, Pier Paolo Pasolini (interpreta l'apostolo Filippo nel film Il Vangelo secondo Matteo), Ingeborg Bachmann. Partecipa ai seminari promossi da Martin Heidegger su Eraclito e Hegel a Le Thor. Si trasfere a Parigi, dove frequenta Pierre Klossowski, Guy Debord, Italo Calvino e altri intellettuali, mentre insegna all'Università Haute-Bretagne. L'anno seguente ha lavorato a Londra, mentre dal 1986 al 1993 ha diretto il Collegio internazionale di filosofia a Parigi, frequentando, tra gli altri, Jean-Luc Nancy, Jacques Derrida e Jean-François Lyotard. Dal 1988 al 2003 ha insegnato alle Università degli Studi di Macerata e di Verona. Insegnato presso l'Istituto Universitario di Architettura di Venezia.  Abbandona per protesta contro i nuovi dispositivi di controllo imposti dal governo statunitense ai cittadini stranieri che si recano negli Stati Uniti d'America, cioè lasciare le proprie impronte digitali ed essere schedatil'incarico di professore illustre all'New York. In precedenza era stato professore invitato in altre istituzioni, tra cui l'Università Northwestern, l'Università Heinrich Heine di Düsseldorf e la European Graduate School di Saas-Fee. In seguito "si è dimesso dall'insegnamento nell'università italiana". Oggi dirige la collana Quarta prosa presso l'editore Neri Pozza e organizza un seminario annuale presso l'Parigi Saint-Denis.  Tra gli autori che ha studiato e proposto: Walter Benjamin, Jacob Taubes, Alexandre Kojève, Michel Foucault, Carl Schmitt, Aby Warburg, Paolo di Tarso, ma anche Furio Jesi, Enzo Melandri e in genere trattando temi di filosofia politica, biopolitica (in particolare i concetti di stato di emergenza, esilio e autorità), mistica cristiana ed ebraica, angelologia, storia dell'arte e letteratura. Collabora con "aut-aut", "Cultura tedesca" e con diverse altre riviste di filosofia. In occasione della laurea honoris causa in teologia presso l'Friburgo il 13 novembre  ha pronunciato la conferenza Mysterium iniquitatis, poi tradotta in Il mistero del male. H ricevuto il Premio europeo Charles Veillon per la saggistica e nel  il Premio Nonino "Maestro del nostro tempo".  Il pensiero di Giorgio Agamben, benché caratterizzato da una omogeneità che copre tutto l'arco evolutivo delle sue opere, può essere per comodità suddiviso in due momenti distinti. A fare da spartiacque è un testo fondamentale: Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, il quale si inscrive nelle tematiche e nel dibattito sollevati dalle ricerche di Foucault attorno al biopotere, indagando il rapporto fra diritto e vita e sulle dinamiche dei modelli di sovranità.  La prima riflessione agambeniana predilige tematiche estetiche, in particolar modo letterarie, nel contesto di un grande confronto con il pensiero di Martin Heideggerche ha conosciuto personalmente partecipando ai seminari estivi tenuti in Provenza ncon quello di un altro filosofo a lui caro: Walter Benjamin, autore del quale curò la prima edizione italiana delle opere complete per Einaudi, ritrovando anche un discreto numero di testi inediti (tra cui quelli nascosti e conservati da Georges Bataille alla Biblioteca nazionale di Francia e riscoperti da Agamben nel 1981 tra le carte di Bataille presenti nella biblioteca); la collaborazione con Einaudi si interruppe per sopravvenute incomprensioni con l'editore.  All'inizio degli anni novanta alcuni suoi allievi hanno fondato la casa editrice Quodlibet. I suoi studi hanno riguardato varie tematiche, dal linguaggio alla metafisica, approfondendo il significato dell'esistenza del linguaggio e dei suoi limiti referenziali esogeni ed endogeni., dall'estetica nella quale indaga sulle relazioni intercorrenti fra filosofia ed arte chiedendosi se quest'ultima permetta una differente espressione del linguaggio rispetto alla prima, all'etica che approfondisce le tematiche e gli aspetti emergenti dal contesto dei lager nazisti.  A sostegno del pensiero di Agamben riguardo alla sua concezione della "nuda vita" vale infine quanto scritto in un articolo pubblicato in data 17 marzo  intitolato Chiarimenti:  «È evidente che gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vitae la paura di perderlanon è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa.»  Homo sacer A partire dal concetto latino di homo sacer, la sua ricerca principale si svolge nei seguenti volumi (ripresi nell'edizione definitiva: Homo Sacer. Edizione integrale.  I. Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, II,1. Stato d'eccezione, 2003 II,2. Stasis. La guerra civile come paradigma politico,  Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento,  Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell'economia e del governo, II,5. Opus Dei. Archeologia dell'ufficio,  Quel che resta di Auschwitz. L'archivio e il testimone, Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita,  IV,2. L'uso dei corpi,  Al cinema Ha interpretato il ruolo di Filippo nel film del 1964 Il Vangelo secondo Matteo di Pier Paolo Pasolini.  Opere: “Jarry o la divinità del riso”,  in Alfred Jarry, Il supermaschio, trad. G. Agamben, Milano: Bompiani (poi Milano: SE,) André Breton e Paul Éluard, L'immacolata concezione, trad. G. Agamben, Milano: Forum, (poi Milano: ES). L'uomo senza contenuto, Milano: Rizzoli, 1970 (poi Macerata: Quodlibet) (contiene: «La cosa più inquietante», «Frenhofer e il suo doppio», «L'uomo di gusto e la dialettica della lacerazione», «La camera delle meraviglie», «Les jugements sur la poésie ont plus de valeur que la poésie», «Un nulla che annienta se stesso», «La privazione è come un volto», «Poiesis e praxis», «La struttura originale dell'opera d'arte», «L'angelo malinconico») José Bergamin, in José Bergamín, Decadenza dell'analfabetismo, trad. Lucio D'Arcangelo, Milano: Rusconi,  (n.ed. Milano: Bompiani) La notte oscura di Juan de la Cruz, in Juan de la Cruz, Poesie, trad. G. Agamben, Torino: Einaudi, Stanze. La parola e il fantasma nella cultura occidentale, Torino: Einaudi (ristampato Einaudi) (contiene: «Prefazione», «I fantasmi di Eros», «Nel mondo di Odradek. L'opera d'arte di fronte alla merce», «La parola e il fantasma. La teoria del fantasma nella poesia d'amore del '200», «L'immagine perversa. La semiologia dal punto di vista della Sfinge») Marcel Griaule, Dio d'acqua, trad. G. Agamben, Milano: Bompiani, Infanzia e storia. Distruzione dell'esperienza e origine della storia, Torino: Einaudi. Contiene: «Infanzia e storia. Saggio sulla distruzione dell'esperienza», «Il paese dei balocchi. Riflessioni sulla storia e sul gioco», «Tempo e storia. Critica dell'istante e del continuo», «Il principe e il ranocchio. Il problema del metodo in Adorno e in Benjamin», «Fiaba e storia. Considerazioni sul presepe», «Programma per una rivista») Gusto, in Ruggiero Romano, Enciclopedia Einaudi, Torino: Einaudi,  L'io, l'occhio, la voce, in Paul Valéry, Monsieur Teste, trad. Libero Salaroli, Milano: Il Saggiatore, nuova ed. Milano: SE; poi in La potenza del pensiero,  Il linguaggio e la morte. Un seminario sul luogo della negatività, Torino: Einaudi (ristampato Einaudi,) La fine del pensiero, Paris: Le Nouveau Commerce, Un importante ritrovamento di manoscritti di Walter Benjamin, in «aut-aut», (numero intitolato «Paesaggi benjaminiani»), Firenze: La Nuova Italia, La trasparenza della lingua, in «Alfabeta», Milano: Coop. Intrapresa, Il viso e il silenzio, in Ruggero Savinio, Opere 1983, Milano: Philippe Daverio, Il silenzio del linguaggio, in Paolo Bettiolo, Margaritae, Venezia: Arsenale, Idea della prosa, Milano: Feltrinelli, (poi Macerata: Quodlibet) (contiene: «Soglia», «I: Idea della materia, Idea della prosa, Idea della censura, Idea della vocazione, Idea dell'Unica, Idea del dettato, Idea della verità, Idea della Musa, Idea dell'amore, Idea dell'immemorabile», «II: Idea del potere, Idea del comunismo, Idea della giustizia, Idea della pace, Idea della vergogna, Idea dell'epoca, Idea della musica, Idea della felicità, Idea dell'infanzia, Idea del giudizio universale», «III: Idea del pensiero, Idea del nome, Idea dell'enigma, Idea del silenzio, Idea del linguaggio, Idea della luce, Idea dell'apparenza, Idea della gloria, Idea della morte, Idea del risveglio», «Soglia. Kafka difeso contro i suoi interpreti») Quattro glosse a Kafka, in «Rivista di estetica», Torino: Rosenberg & Sellier, La passione dell'indifferenza, in Marcel Proust, L'indifferente, trad. Mariolina Bongiovanni Bertini, Torino: Einaudi,  Il silenzio delle parole, in Ingeborg Bachmann, In cerca di frasi vere, trad. Cinzia Romani, Bari: Laterza, Sur Robert Walser, in «Détail», Paris: Pierre Alféri et Suzanne Doppelt (l'Atelier Cosmopolite de la Fondation Royaumont), autunno La comunità che viene, Torino: Einaudi, (n.ed. Torino: Bollati Boringhieri) (contiene: «La comunità che viene: Qualunque, Dal Limbo, Esempio, Aver luogo, Principium individuationis, Agio, Maneries, Demonico, Bartebly, Irreparabile, Etica, Collants Dim, Aureole, Pseudonimo, Senza classi, Fuori, Omonimi, Schechina, Tienanmen», «L'irreparabile») Disappropriata maniera, in Giorgio Caproni, Res amissa, G. Agamben, Milano: Garzanti (poi in Categorie italiane) Kommerell o del gesto, in Max Kommerell, Il poeta e l'indicibile, Genova: Marietti, VII-XV (poi in La potenza del pensiero,  Bartleby, la formula della creazione, Macerata: Quodlibet. Contiene: Gilles Deleuze, Bartebly o la formula trad. Stefano Verdicchio; G. Agamben, Bartebly o della contingenza: Lo scriba o della creazione, La formula o della potenza, L'esperimento o della decreazione») Nota introduttiva a: René, Il testamento della ragazza morta, trad. Daniela Salvatico Estense, Macerata: Quodlibet,  Maniere del nulla, in Robert Walser, Pezzi in prosa, trad. Gino Giometti, Macerata: Quodlibet,  Il dettato della poesia, in Antonio Delfini, Poesie della fine del mondo e poesie escluse, Daniele Garbuglia, Macerata: Quodlibet,  VII-XX (poi in Categorie italiane) Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, Torino: Einaudi, -- contiene: «Introduzione», «Logica della sovranità», «Homo sacer», «Il campo come paradigma biopolitico del moderno», «») Il talismano di Furio Jesi, in Furio Jesi, Lettura del Bateau ivre di Rimbaud, Macerata: Quodlibet, Mezzi senza fine. Note sulla politica, Torino: Bollati Boringhieri,  (contiene: «Avvertenza», «I: Forma-di vita, Al di là dei diritti dell'uomo, Che cos'è un popolo?, Che cos'è un campo?», «II: Note sul gesto, Le lingue e i popoli, Glosse in margine ai Commentari sulla società dello spettacolo, Il volto», «III: Polizia sovrana, Note sulla politica, In questo esilio. Diario italiano») Per una filosofia dell'infanzia, in Franco La Cecla, Perfetti e indivisibili, Milano: Skira, 1996,  233–40 Categorie italiane. Studi di poetica, Venezia: Marsilio, 1996 (contiene: «Premessa», «Comedia», «Corn. Dall'anatomia alla poetica», «Il sogno e della lingua», «Pascoli e il pensiero della voce», «Il dettato della poesia», «Disappropriata maniera», «La festa del tesoro nascosto», «La fine del poema», «Un enigma della Basca», «La caccia della lingua», «I giusti non si nutrono di luce», «Il congedo della tragedia»). Nuova edizione (Roma-Bari: Laterza, ), accresciuta di otto testi e con un nuovo sottotitolo: Studi di poetica e di letteratura. Verità come erranza, in «Paradosso»,  (numero intitolato «Sulla verità», Massimo Dona), Padova: Il Poligrafo, Image et mémoire, Paris: Hoëbeke, contiene: «Aby Warburg et la science sans nom», «L'origine et l'oubli. Parole du mythe et parole de la littérature», «Le cinéma de Guy Debord», «L'image immémoriale») Quel che resta di Auschwitz. L'archivio e il testimone. Homo sacer. III, Torino: Bollati Boringhieri, 1998 (contiene: «Avvertenza», «Il testimone», «Il musulmano», «La vergogna o del soggetto», «L'archivio e la testimonianza», «») Introduzione, in Giorgio Manganelli, Contributo critico allo studio delle dottrine politiche del '600 italiano, Macerata: Quodlibet, La guerra e il dominio, in «aut-aut», Firenze: La Nuova Italia, settembre-dicembre poi anche in: Paolo Perticari, Biopolitica minore, Roma: Manifestolibri  Il tempo che resta. Un commento alla «Lettera ai romani», Torino: Bollati Boringhieri, 2000 (contiene: «Prima giornata. Paulos doulos christoú Iësoú», «Seconda giornata. Klëtós», «Terza giornata. Aphörisménos», «Quarta giornata. Apóstolos», «Quinta giornata. Eis auaggélion theoú», «Sesta giornata», «Soglia o tornada», «Appendice. Riferimenti testuali paolini», «») Araldica e politica, in Viola Papetti, Le foglie messaggere. Scritti in onore di Giorgio Manganelli, Roma: Editori Riuniti Un possibile autoritratto di Gianni Carchia, in «Il manifesto» (supplemento «Alias»), Roma, Le pire des régimes, in «Le monde», Paris, The Time That Is Left, in «Epoché», VII, 1, Villanova: Villanova University,  1–14 L'aperto. L'uomo e l'animale, Torino: Bollati Boringhieri,  (contiene «Teromorfo, Acefalo, Snob, Mysterium disiunctionis, Fisiologia dei beati, Cognitio experimentalis, Tassonomie, Senza rango, Macchina antropologica, Umwelt, Zecca, Povertà di mondo, L'aperto, Noia profonda, Mondo e terra, Animalizzazione, Antropogenesi, Tra, Desoeuvrement, Fuori dall'essere», «») Nota, in Ingebor Bachmann, Quel che ho visto e udito a Roma, Macerata: Quodlibet, 2002 (con Valeria Piazza) L'ombre de l'amour, Paris: Rivages, Stato di Eccezione. Homo sacer II, 1, Torino: Bollati Boringhieri,  (contiene: «Lo stato di eccezione come paradigma di governo», «Forza di legge», «Iustitium», «Gigantomachia intorno a un vuoto», «Festa lutto anomia», «Auctoritas e potestas», «Riferimenti bibliografici») Intervista a Giorgio Agamben (sullo Stato di eccezione) in Antasofia 1, Mimesis, Milano Genius, Roma: Nottetempo, 2004 (poi in Profanazioni,  7–18) Il giorno del giudizio, Roma: Nottetempo, 2004 (poi in Profanazioni) La potenza del pensiero. Saggi e conferenze, Vicenza: Neri Pozza, (contiene: «La cosa stessa», «L'idea del linguaggio», «Lingua e storia», «Filosofia e linguistica», «Vocazione e voce», «L'io, l'occhio, la voce», «Sull'impossibilità di dire io», «Aby Warburg e la scienza senza nome», «Tradizione dell'immemorabile», «*Se. L'assoluto e l'Ereignis», «L'origine e l'oblio», «Walter Benjamin e il demonico», «Kommerell o del gesto», «Il Messia e il sovrano», «La potenza del pensiero», «La passione della fatticità», «Heidegger e il nazismo», «L'immagine immemoriale», «Pardes», «L'opera dell'uomo», «L'immanenza assoluta») Profanazioni, Roma: Nottetempo (contiene: «Genius», «Magia e felicità», «Il Giorno del Giudizio», «Gli aiutanti», «Parodia», «Desiderare», «L'essere speciale», «L'autore come gesto», «Elogio della profanazione», «I sei minuti più belli della storia del cinema») Introduzione, in Emanuele Coccia, La trasparenza delle immagini. Averroè e l'averroismo, Milano: Bruno Mondadori, Che cos'è un dispositivo?, Roma: Nottetempo, L'amico, Roma: Nottetempo, 2007 Ninfe, Torino: Bollati Boringhieri, Il regno e la gloria. Per una genealogia teologica dell'economia e del governo. Homo sacer II, 2, Vicenza: Neri Pozza, 2007 (nuova ed. Torino: Bollati Boringhieri, contiene: «Premessa», «I due paradigmi», «Il mistero dell'economia», «Essere e agire», «Il regno e il governo», «La macchina provvidenziale», «Angelologia e burocrazia», «Il potere e la gloria», «Archeologia della gloria» preceduti, intervallati e seguiti da Soglie, «Appendice: L'economia dei moderni», «») Che cos'è il contemporaneo?, Roma: Nottetempo, 2008 Signatura rerum. Sul Metodo, Torino: Bollati Boringhieri, 2008 (contiene: «Avvertenza», «Che cos'è un paradigma?», «Teoria delle segnature», «Archeologia filosofica», «») Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento. Homo sacer II, 3, Roma-Bari: Laterza, Nudità, Roma: Nottetempo(contiene: «Creazione e salvezza», «Che cos'è il contemporaneo?», «K.», «Dell'utilità e degli inconvenienti del vivere fra spettri», «Su ciò che possiamo non fare», «Identità senza persona», «Nudità», «Il corpo glorioso», «Una fame da bue», «L'ultimo capitolo della storia del mondo») (con Emanuele Coccia) Angeli. Ebraismo, Cristianesimo, Islam, Vicenza: Neri Pozza,  La Chiesa e il Regno, Roma: Nottetempo,  (con Monica Ferrando) La ragazza indicibile. Mito e mistero di Kore, Milano: Electa Mondadori,  Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita. Homo sacer IV, 1, Vicenza: Neri Pozza,  Opus Dei. Archeologia dell'ufficio. Homo sacer II, Torino: Bollati Boringhieri,  Il mistero del male. Benedetto XVI e la fine dei tempi, Roma-Bari: Laterza,  Pilato e Gesù, Roma: Nottetempo,  Qu'est-ce que le commandement?, Parigi: Bibliothèque Rivages,  Il fuoco e il racconto, Roma: Nottetempo,  L'uso dei corpi. Homo sacer IV, 2, Vicenza: Neri Pozza,  To Whom Is Poetry Addressed?, in "New Observations", Stasis La guerra civile come paradigma politico. Homo sacer, Torino: Bollati Boringhieri,  L'avventura, Roma: nottetempo,  Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi, Roma: nottetempo,  Che cos'è la filosofia?, Macerata: Quodlibet,  Che cos'è reale? La scomparsa di Majorana, Vicenza: Neri Pozza,  Autoritratto nello studio, Milano: Nottetempo,  Karman. Breve trattato sull'azione, la colpa, il gesto, Torino: Bollati Boringhieri,  Creazione e anarchia. L'opera nell'età della religione capitalista, Vicenza: Neri Pozza,  Homo Sacer. Edizione integrale (1995-), Macerata, Quodlibet,  Il Regno e il Giardino, Vicenza: Neri Pozza,  Lo studiolo, Collana Saggi, Torino, Einaudi,. A che punto siamo? L'epidemia come politica, Macerata, Quodlibet,  Note  Giulia Farina, Enciclopedia della letteratura, Garzanti, 1997 p.9  Con il quale progetta una rivista. Cfr. l'ultimo capitolo di Infanzia e storia, Einaudi, Torino. Giorgio Agamben  Al quale si rivolge con L'amico, Nottetempo, Roma. Cfr. la lettera di solidarietà di Carla Benedetti dell'11 gennaio 2004 su "Nazione indiana":  la pagina sul sito della scuola.  Del quale ha diretto per qualche tempo le edizioni complete presso Einaudi, prima di abbandonare il progetto per contrasti con la casa editrice. cfr. la lettera a "la Repubblica" Tra l'altro ha lavorato per il Warburg Institute negli anni,grazie alla cortesia di Frances Yates . Altri autori di cui si è occupato sono Charles Baudelaire, Robert Walser, Paul Valéry, Antonio Delfini, Giorgio Manganelli, Max Kommerell, Elsa Morante, Giovanni Pascoli, Victor Segalen, Giorgio Caproni, Patrizia Cavalli, Marcel Proust, Arnaut Daniel ecc.  Paolo Vernaglione, TEOLOGIAIl «Mistero del male» di Giorgio Agamben. Fuga dal tempo del dominio [collegamento interrotto], in il manifesto, Lettera ad H. Arendt (The Hannah Arendt Papers at the Library of Congress)   Roberto Gilodi, BenjaminUno «straccivendolo» alla ricerca capillare dei rifiuti di Baudelaire, in Alias, Roma, il manifesto,   cite web url=http://iep.utm.edu/a/agamben.htm  G.Agamben, Chiarimenti  Andrea Cavalletti, "La guerra civile, paradigma della politica" Archiviato il 4 marzo  in., il manifesto Prima della pubblicazione di Stasis, questo volume era numerato II,2. Thomas Carl Wall, Radical Passivity: Levinas, Blanchot and Agamben, postfazione di William Flesch, Albany: State University of New York Press, 1999  Philippe Mesnard e Claudine Kahan, Giorgio Agamben à l'epreuve d'Auschwitz: temoignages, interpretations, Paris: Éditions Kimé, Eva Geulen, Giorgio Agamben zur Einführung, Hamburg: Junius,Alfonso Galindo Hervas, Politica y mesianismo: Giorgio Agamben, Madrid: Biblioteca nueva, Asselin e Jean-Francois Bourgeault, La littérature en puissance autour de Giorgio Agamben, Montréal: VLB, Calarco e Steven DeCaroli, Giorgio Agamben. Sovereignty and Life, Stanford: Stanford University Press, 2007 Francesco Valerio Tommasi, Homo sacer e i dispositivi. Sulla semantica del sacrificio in Giorgio Agamben, «Archivio di filosofia », Justin Clemens, Nicholas Heron e Alex Murray, The Work of Giorgio Agamben. Law, Literature, Life, Edinburgh: Edinburgh University Press, 2008Greg Bird. Containing Community: From Political Economy to Ontology in Agamben, Esposito, and Nancy. Albany: State University of New York Press, Leland de la Durantaye, Giorgio Agamben: A Critical Introduction, Stanford: Stanford University Press Alex Murray, Giorgio Agamben, London-New York: Routledge, Thanos Zartaloudis, Giorgio Agamben. Power, Law and the Uses of Criticism, London-New York: Routledge,  (DE) Oliver Marchart, Die politische Differenz zum Denken des Politischen bei Nancy, Lefort, Badiou, Laclau und Agamben, Berlin: Suhrkamp, William Watkin, Literary Agamben: Adventures in Logopoiesis, London-New York: Continuum, Vittoria Borsò et alii, BenjaminAgamben, Wurzburg:, Konigshausen & Neumann,  Lucia Dell'Aia, Studi su Agamben, Milano: Ledizioni,  (con saggi di Witte, Liska, Dell'Aia, Talamo, Miranda, Recchia Luciani) Francesco Valerio Tommasi, "L'analogia in Carl Schmitt e Giorgio Agamben. Un contributo al chiarimento della teologia politica", in L'ircocervo, /1.Jacopo D'Alonzo, "El origen de la nuda vida: política y lenguaje en el pensamiento de Giorgio Agamben", in Revista Pléyade, C. Salzani, Introduzione a Giorgio Agamben, Il Nuovo Melangolo,  (HR) Mario Kopić, Giorgio Agamben, «Tvrđa», Flavio Luzi, Quodlibet. Il problema della presupposizione nell'ontologia politica di Giorgio Agamben, Stamen, Roma. E. Castano, Agamben e l'animale. La politica dalla norma all'eccezione, Novalogos,  Carlo Crosato, Critica della sovranità. Foucault e Agamben. Tra il superamento della teoria moderna della sovranità e il suo ripensamento in chiave ontologica, Orthotes,  V. Bonacci, Giorgio Agamben. Ontologia e politica, Quodlibet  Lucia Dell'Aia e Jacopo D'Alonzo, Lo scrigno delle segnature. Lingua e poesia in Giorgio Agamben, Istituto Italiano di Cultura, Amsterdam. Con uno scritto inedito di G. Agamben (Porta e soglia) e contributi di: L. Dell'Aia, R. Talamo, C. Salzani, J. D'Alonzo, V. BorsòColilli.  Bios (filosofia) Zoé (filosofia) Homo sacer Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Giorgio Agamben Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Giorgio Agamben Opere di Giorgio Agamben,. Opere riguardanti Giorgio Agamben,. Giorgio Agamben, su Goodreads.   italiana di Giorgio Agamben, su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com. Giorgio Agamben, su Internet Movie Database, IMDb.com.  Catherine Mills, Giorgio Agamben, su Internet Encyclopedia of Philosophy. L'aperto. L'uomo e l'animale. Recensione da LiberCensor.net. Agambeniana.  delle opere di Giorgio Agamben, ferma al gennaio 2004, su agamben.web.fc2.com. Jacopo D'Alonzo,  di Giorgio Agamben (aggiornata al dicembre ), su filosofia-italiana). "Il frutto maturo della redenzione", Toni Negri su Agamben Altissima povertà. Regole monastiche e forma di vita recensione da Sitosophia Il mistero del male Traduzione Spagnola in "Fractal".  Agamben. Keywords: nudi, Ereignis, eye, occhio, occhi, polifemo, argo, i marziani di Grice – la etimologia accettata – ‘porre davanti agli occhi” – binocularismo – monocularismo – algarotti, il sacramento del linguaggio – Fjeld -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Agamben” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Agazzi – Apollo febo, ovvero, l’impegno della ragione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo italiano. Grice: “I like [Emilio] Agazzi; his tutees thought he was into the ‘impegno della ragione,’ but then MY tutees thought that I was into the philosophical grounds (as in coffee) of rationality: intentions, categories, ends – I go by “H. P. Grice,” so surely I can find an acronym that would NOT leave the essential “H” out – as in Speranza’s GHP – a highly powerful or hopefully plausible version of Myro’s system G – “in gratitude to Paul Grice.” Grice: “Agazzi is a marxist – cf. my ontological Marxism, I am one, too – so his ‘ragione’ is Hegelian – he has also philosophised on Croce, and idealism, but the idea that there is ‘impegno’ behind reason is tutorial – surely reason is a natural faculty that does- not require much of an ‘impegno’ – the more impegno, the less rational you will be counted – if he means that!” -- Filosofo. Agazzi nacque a Genova. Qui conseguì la maturità classica a la laurea in lettere e filosofia con una tesi su Il pensiero filosofico di Piero Martinetti presso l'Università Statale. Fu assistente volontario di storia della filosofia dapprima a Genova dove fu in particolare influenzato dal pensiero di Adelchi Baratono, ordinario di filosofia teoretica, e successivamente a Pavia (ove in particolare collaborò con Ludovico Geymonat e Vittorio Enzo Alfieri); contemporaneamente, insegnò filosofia nei licei di Genova, Voghera e Pavia. Conseguì la libera docenza in storia della filosofia moderna e contemporanea; insegnò filosofia della religione nella facoltà di Lettere e filosofia a Milano, in particolare riprendendo il suo interesse per Piero Martinetti; mentre nella stessa facoltà insegnò filosofia della storia, ottenendo un incarico stabile.  Dalla seconda metà degli anni Settanta si dedicò in particolare allo studio della filosofia tedesca moderna contemporanea, accentrando la sua attenzione sulla Scuola di Francoforte, città in cui svolse ricerche approfondite ed ebbe contatti con docenti universitari; negli stessi anni frequentò ripetutamente università tedesche, polacche e jugoslave.  Impegno politico Da sempre attento agli sviluppi del pensiero marxista in Italia e in Europa, accompagnò la sua intensa attività di ricerca scientifica ad un attivo impegno politico: esponente del Partito Socialista Italiano negli anni Cinquanta, nei decenni successivi aderì dapprima al PSIUP, quindi al PDUP e a Democrazia Proletaria. Collaborò in varie forme a molte riviste e quotidiani della sinistra (tra gli altri Il Lavoro Nuovo, l'Avanti!, Mondoperaio, Quaderni Rossi, Passato e Presente, Classe); fondò la rivista di teoria politica Marx centouno. Gravemente ammalato, dovette rinunciare ai suoi studi, lasciando l'insegnamento. Morì a Pavia. Archivio L'archivio di Emilio Agazzi e gran parte della sua biblioteca sono stati do dagli eredi alla Fondazione Turati, dove è tutt'ora conservato presso l'archivio della Fondazione; il fondo contiene quaderni di appunti, manoscritti e materiali di lavoro per il periodo dagli anni Quaranta agli anni Ottanta del Novecento. Opere: “Croce e il marxismo” (Einaudi); “Linee fondamentali della ricezione della teoria critica in Italia”; “L'impegno della ragione” (Cingoli, Calloni, Ferraro, Milano, Unicopli); Filosofia della natura. Scienza e cosmologia, Piemme, Casale Monferrato); “La filosofia di Piero Martinetti, Sandro Mancini, Amedeo Vigorelli e Marzio Zanantoni, Edizioni Unicopli, Milano,. Traduzioni Jürgen Habermas, “Etica del discorso” Laterza, Bari-Roma  Note  Agazzi Emilio, su SIUSA Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche. Fondo Agazzi Emilio, su SIUSA Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.  Collezione Emilio Agazzi  su Fondazione di studi storici "Filippo Turati".  E. Capannelli ed E. Insabato, Guida agli Archivi delle personalità della cultura in Toscana. L'area fiorentina, Firenze, Olschki, Scuola di Milano  Emilio Agazzi, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.Collezione Emilio Agazzi su Fondazione di studi storici "Filippo Turati". Filosofia Filosofo Professore  Genova Pavia. Emilio Agazzi. Agazzi. Keywords: Apollo febo, ovvero, l’impegno della ragione; etica del discorso. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Agazzi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Agazzi – dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bergamo). Filosofo italiano. Grice: “[Evandro] Agazzi has all the best intentions, but perhaps he lacks a Lit. Hum. background – he basically approaches my topic of “logica filosofica” which he contrasts with ‘logica matematica,’ and he has a special tract on my pont about ‘formalismo’,’ which I later called ‘modernism’ – “ragioni e limiti del formalismo” – his essay on ‘mondo incerto’ reminds me of my ‘intention and uncertainty’!” – Filosofo. Figlio di Agazzi, ordinario di pedagogia presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Università Cattolica di Milano e preside della Facoltà di Magistero, fu allievo di Gustavo Bontadini e amico di Ludovico Geymonat, con cui a lungo collaborò, durante gli studi di filosofia presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e di fisica presso l'Università Statale di Milano. In seguito si è perfezionato all'Oxford, a quella di Marburg ed a quella di Münster; dal 1963 è libero docente in Filosofia della scienza e dal 1966 in Logica matematica.  Evandro Agazzi ha inizialmente insegnato Geometria superiore, Logica matematica e Matematiche complementari presso la facoltà di Scienze dell'Genova; ha insegnato altresì Logica simbolica presso la Scuola Normale Superiore di Pisa, Filosofia della scienza e Logica matematica presso l'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.  Dal 1970 è Professore di Filosofia della scienza presso l'Genova e dal 1979 detiene la cattedra di Antropologia filosofica, Filosofia della scienza e Filosofia della natura presso l'Friburgo in Svizzera. È stato professore invitato nelle Berna, Ginevra, Düsseldorf, Pittsburgh ed anche all'Stanford; è dottore honoris causa dell'Córdoba (Argentina).  Ha presieduto numerose associazioni filosofiche nazionali e internazionali: Società Filosofica Italiana, Società Italiana di Logica e Filosofia delle scienze, Società svizzera di Logica e Filosofia delle scienze, Federazione internazionale delle Società filosofiche; è stato membro del Comitato Nazionale per la Bioetica. Attualmente è presidente della Académie Internationale de Philosophie des Sciences e dell'Institut International de Philosophie.  Pensiero I settori ai quali Evandro Agazzi ha rivolto prevalentemente i suoi interessi sono stati: la filosofia generale della scienza, la filosofia di alcune scienze particolari (matematica, fisica, scienze sociali, psicologia), logica, teoria dei sistemi, etica della scienza, bioetica, storia della scienza, filosofia del linguaggio, metafisica antropologia filosofica, pedagogia.  Attualmente le sue ricerche riguardano per un verso la caratterizzazione dell'oggettività scientifica e la difesa di un realismo scientifico basato su un approfondimento delle nozioni di riferimento e di verità, con le relative implicazioni di tipo ontologico, per un altro l'approfondimento del concetto di persona e delle varie conseguenze che ne derivano, in particolare nel campo della bioetica.  Filosofia della scienza La riflessione di Agazzi assume come punto di partenza la necessità gnoseologica di stabilire nella conoscenza scientifica «la più perfetta forma di conoscenza oggi a disposizione dell'uomo». Su questa base, anche i metafisici devono necessariamente passare per l'epistemologia, intesa come fondazione delle «strutture metodologichedella scienza». L'epistemologia, come la intende Agazzi, assume la scienza come un sapere oggettivamente rigoroso: tuttavia l'oggettività in questione non è quella metafisica delle essenze o quella fisica delle qualità, bensì un'oggettualità e intersoggettività.  Sulla base di questi due punti, come Agazzi specifica nel suo celebre libro intitolato Temi e problemi di filosofia della fisica, l'oggetto di una disciplina scientifica è la cosa, esaminata da un punto di vista tale per cui il ricercatore si pone grazie a una precisissima impostazione metodologica, tramite la quale ritaglia su una cosa un aspetto (oggettività), condiviso dai ricercatori che accettano gli stessi criteri di oggettivazione (intersoggettività). Il rigore scientifico cessa di essere inteso in senso dialettico e confutatorio o in senso matematico e quantitativo: è piuttosto inteso nel senso di dar ragione tramite l'immediato empirico o il mediato logico.  In questa prospettiva, la scienza assume la forma di un linguaggio che parla di un universo di oggetti. La configurazione della scienza è caratterizzata da quattro peculiarità:  è realistica, giacché fa costante riferimento alla realtà; è relativa, giacché costituisce il proprio oggetto; è rigorosa, giacché ha una valenza che è sia logica sia linguistica; è responsabile, giacché si pone il problema etico delle conseguenze che da essa scaturiscono. Per Agazzi, la filosofia non deve però limitarsi a fare queste riflessioni sulla scienza: deve anche operare un'incessante ricerca del fondamento, sia attraverso la critica dello scientismo e dell'ideologismo, sia attraverso la proposta di quello che Agazzi chiama, in I compiti della ragione, un «uso costruttivo della ragione: quello che si avvale dell'argomentazione, quello che cerca di comprendere e, al massimo, di persuadere».  Opere: “Lógica Simbólica”; “Temi e problemi di filosofia della fisica”; “Il bene, il male e la scienza”; “Introduzione ai problemi dell’assiomatica”; “Le geometrie non euclidee e i fondamenti della geometria”; “I sistemi fra scienza e filosofia”; “Studi sul problema del significato”; “Scienzia e fede. Nuove prospettive su un vecchio problema”; “Storia delle scienze La filosofia della scienza in Italia nel '900”; “Filosofia, scienza e verità”; “Logica filosofica e logica matematica”; “Quale etica per la Bioetica?” “Bioetica e persona”; “Cultura scientifica e interdisciplinarità  Interpretazioni attuali dell’uomo: filosofia, scienza, religione Il tempo nella scienza e nella filosofia; “Filosofia della natura, Scienza e cosmologia”; Prefazione di F. Minazzi. “Novecento e Novecenti”; “Paidéia, verità, educazione”; “Valore e limiti del senso comune”; “Scienza”; “Le rivoluzioni scientifiche e il mondo moderno”; “Ragioni e limiti del formalismo”. Note  Cfr. l'articolo ”Don Carlì, una vita al Seminario. Un libro per l'uomo cuore di Città Alta“, in L'eco di Bergamo, Storia dell'Università Cattolica del Sacro Cuore. Le fonti, Volume 1, Alberto Cova, Vita e Pensiero, Milano, Scuola di Milano Epistemologia Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Evandro Agazzi. Evandro Agazzi, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Evandro Agazzi, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.  Opere di Evandro Agazzi, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.  Pagina personale di Evandro Agazzi sul sito dell'Genova. Valori e limiti del senso comune, Evandro Agazzi, Milano, FrancoAngeli. Evandro Agazzi. Agazzi. Keywords: dialettica, significato, segno, segnato, segnante, seminarone a Genova ‘studi sul problema del significato’ – Grice, Peirce, segno, segno e comunicazione, segno per comunicare, comunicazione che lascia segno, tiro al segno – segno naturale --.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Agazzi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Agela – Roma – filosofia italiana –Luigi Speranza (Crotona). Filosofo italiano. According to Iamblichus of Chalcis (“Vita di Pitagora”), a Pythagorean.

 

Grice ed Agesarco – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Agesarchus -- According to Iamblichus of Chalcis, a Pythagorean.

 

Grice ed Agesidamo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), a Pythagorean.

 

Grice ed Agilo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotona). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), a Pythagorian.

 

Grice ed Agostino – GIVSTIZIA – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like Agostino; he has philosophised exactly about what I did: identita personale; libero albitrio; and some of the topics that I philosophised with H. L. A. Hart, notably ‘parole di giustizia,’ and ‘bias’: ‘violenza e giustizia’ -- Filosofo.  Consegue la laurea in giurisprudenza nel 1968. Ha insegnato nelle Lecce, Urbino e Catania. Ordinario è professore di Filosofia del diritto e di Teoria generale del diritto presso l'Università degli studi di Roma Tor Vergata, in cui ha diretto il Dipartimento di "Storia e Teoria del Diritto". Insegna altresì alla LUMSA e alla Pontificia Università Lateranense ed è professore visitatore in diverse università straniere.  Tra i maestri che hanno influenzato il suo pensiero figurano Sergio Cotta e Vittorio Mathieu. Particolare attenzione è dedicata nella sua produzione scientifica alla teoria della giustizia, alle tematiche della bioetica, e quindi alle problematiche della tutela del diritto alla vita, alla teoria della famiglia.  Nel suo scritto La sanzione nell'esperienza giuridica, del 1989, sostiene e riattualizza la teoria retributiva della pena.  Già membro del Consiglio Scientifico dell'Istituto dell'Enciclopedia Italiana, attualmente è Presidente onorario del Comitato nazionale per la bioetica, di cui è membro fondatore e di cui è stato presidente. Ricopre inoltre la carica di Presidente dell'Unione Giuristi Cattolici Italiani. È membro della Pontificia Accademia per la Vita.  È stato direttore di Iustitia e Nuovi Studi Politici; attualmente è condirettore della Rivista Internazionale di Filosofia del Diritto. Dirige per l'editore Giappichelli la collana Recta Ratio. Testi e studi di Filosofia del diritto, nella quale sono apparsi più di cento volumi. È inoltre editorialista del quotidiano Avvenire. Grazie a queste cariche e alle sue pubblicazioni, oggi D'Agostino è considerato uno degli intellettuali di riferimento del movimento teocon italiano.  Ha coordinato la sessione "I cattolici, la politica e le istituzioni" nell'ambito dei lavori del X Forum del Progetto culturale della Conferenza Episcopale Italiana sui 150 anni dell'Unità d'Italia.  Polemiche sul tema dell'omosessualità Ha suscitato polemiche la constatazione di D'Agostino per cui le unioni omosessuali sono «costitutivamente sterili»: la constatazione fu ripresa dal ministro Mara Carfagna che affermava che «non c'è nessuna ragione per la quale lo Stato debba riconoscere le coppie omosessuali, visto che costituzionalmente sono sterili» e che «per volersi bene il requisito fondamentale è poter procreare».  Opere: “La sanzione nell'esperienza giuridica”; “Una filosofia della famiglia”; “Diritto e Giustizia”; “Filosofia del diritto, Parole di Bioetica, Parole di Giustizia, Lezioni di filosofia del diritto”; “Lezioni di teoria generale del diritto, Bioetica, nozioni fondamentali, Il peso politico della Chiesa, Un Magistero per i giuristi. Riflessioni sugli insegnamenti di Benedetto XVI,  Bioetica e Biopolitica. Ventuno voci fondamentali  Corso breve di filosofia del diritto,  Jus quia justum. Lezioni di filosofia del diritto e della religione  Famiglia, matrimonio, sessualità. Nuovi temi e nuovi problemi. Carfagna: "Gay costituzionalmente sterili" da La Repubblica. Francesco D’Agostino. Francesco D’Agostino. D’Agostino. Agostino. Keywords: giustizia, ius quia iustum non ius quia iussum – iussum – iubeo, perh. ‘jus habere’ to regard as right. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Agostino” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Grice ed Agresta – filosofia italiana – Luigi Speranza (Mammola). Filosofo italiano. Grice: “I would hardly call Agresta a philosopher, but then my working site was formerly a Cisterian monastery and bore the name of San Giovanni il Battista, so who am I to judge?! In any case, I always wondered why Loeb (in the Macmillan edition) cared to publish the four volumes of letters of Basil (of Blackwell fame) – now I know – Agresta dedicated his life to this saint – In a way I drew from him in my netasteousia, i. e. transubstantatio – how a pirot-1 becomes a pirot-2 – a human becomes a person. Pater used to say that at Oxford it’s all about Hellenism, no Ebraismo! Yet Agresta, an Italian, of sorts --  he was half-Greek! – is a good example, alla Basil, of how troublesome those with a classical – i. e. Graeco-Roman – education found all those ‘heresies’ of the Christian dogma! Three persons in one – and the rest of them. Hardie used to tell me, ‘Lay the blame on the Christian doctrine, not on Aristotle’s theory of the substdance!” --  Filosofo. Abate Generale dei Basiliani d'Italia è ritenuto tra i più illustri dell'ordine Basiliano. Nato a Mammola (RC) il 10 gennaio 1621, morì a Messina il 23 Dicembre 1695. Al battesimo fu chiamato Domenico, figlio di Giovanni Michele Agresta e di Dianora Scarfò. Inizia i primi studi alla Grancia Basiliana di Mammola, continua al seminario di Gerace, a 16 anni frequenta gli studi superiori a Napoli, ma viene colto da febbre maligna e miracolosamente come egli afferma recupera la guarigione ritornando a Mammola. Dopo due anni il 23 luglio 1639 veste l'abito di San Basilio Magno nel monastero del San Salvatore di Messina. Abbandonando il nome Domenico prende quello di Paolo; l'anno successivo viene consacrato sacerdote nella basilica di Sant'Apollinare di Ravenna, ricevendo il nome di Apollinare e inizia la professione monastica.  Don Apollinare Agresta dotto teologo, filosofo, studioso, storico e scrittore. Nel 1669 fu insignito del titolo di Maestro di sacra teologia. Negli anni successivi il 24 luglio 1675, viene nominato Abate Generale dell'Ordine dei Basiliani d'Italia da Papa Clemente X, con l'incarico di riorganizzare l'ordine dei Basiliani; nel 1680 veniva ancora confermato, poi riconfermato da Papa Innocenzo XI, ed ancora un'altra volta nel 1692 da Papa Alessandro VIII. Conservò la carica fino alla morte.  Ha rivestito incarichi prestigiosi. Giovanissimo viene insignito di numerose cariche: è responsabile di diversi monasteri della Provincia di Calabria e d'Italia, introduce nuovi metodi di studio per gli studenti, procurandosi fama e onore dalle comunità locali e religiose. Ricopre la carica di Abate al monastero di S. Onofrio, presso Monteleone oggi Vibo Valentia, regge successivamente la Grangia di San Biagio del monastero basiliano di San Nicodemo di Mammola (RC); ma anche fu inviato al monastero italo-greco di San Giovanni Theresti di Stilo (RC), a reggere il monastero di Mater Domini in Nocera de' Pagani nella Campania, e dopo viene nominato Procuratore Generale della Badia di Grottaferrata, oggi Monastero di Santa Maria di Grottaferrata, meglio conosciuto come Monastero di San Nilo.   RomaChiesa di San Basilio (Stemma visibile sugli archi della Chiesa)  RomaChiesa di San Basilio (Lapide a conferma della edificazione voluta da Don Apollinare Agresta) L'Agresta ebbe sempre a cuore il decoro nel culto e delle costruzioni ed arredamenti degli edifici religiosi. Fu edificata la Chiesa di San Basilio agli Orti Sallustiani a Roma, che si trova in Via San Basilio vicino a Piazza Barberini, come conferma una lapide marmorea in latino dentro la chiesa. Nella Grancia Basiliana di Mammola edificò una cappella in onore di San Nicodemo Abate Basiliano e affidatala alla sorella Vittoria vi fece collocare le reliquie del santo (in seguito al terremoto le reliquie sono conservate nella cappella di San Nicodemo nella Chiesa Matrice di Mammola). Si adoperò per la costruzione del Collegio di San Basilio a Roma. Nel monastero di Rosarno restaurò la cappella della Madonna. Acquistò campi e case e restaurò numerosi monasteri permettendo ai monaci di vivere una vita più comoda. Donò indumenti liturgici in tutti i monasteri basiliani.  I Monaci Basiliani del Monastero di Grottaferrata (Roma) devotamente ricordano il loro Generale conservandone, con cura gelosa, un guanto pontificale. Marco Petta eFrancesco Russo, studiosi e storici del Monastero di Grottaferrata, sono state le ultime due personalità religiose che hanno scritto in ricordo dell'Abate Generale Don Apollinare Agresta, consultando all'interno del monastero la vasta biblioteca che conserva scritti di grande valore e importanza.  Nel Museo Diocesano di Reggio Calabria, si può ammirare un reliquario a braccio, che conserva le reliquie di San Giovanni Thereste, donate dall'Agresta quando ricopriva la carica di Abate del Monastero italo-greco di Stilo.  Un ritratto in giovane età del monaco è pubblicata nel libro "Mammola" di Don Vincenzo Zavaglia. Autore di numerose pubblicazioni, i libri di Don Apollinare Agresta, a distanza di secoli, ancora oggi vengono consultati e citati da numerosi ricercatori e studiosi, tra le sue opere più importanti ricordiamo: “Vita di San Basilio Magno” (Roma) -- ancor oggi pregevole per le molte notizie che ci dà dei monasteri basiliani delle Calabrie e d'Italia --; “Vita di S. Giovanni Theristi” (Roma); “Vita di San Nicodemo A.B. (Roma Privilegi e concessioni fatti dal Gran Conte Ruggero al sacro archimandritale Monastero di Giov. Theristi (Roma); Constitutiones Monachorum Ordinis S. Basilii Magni Congregationis Italiae (Roma) Compendio delle Regole o vero Costitutioni monastiche di S. Basilio raccolto dal Bessarione (Roma). Sono rimaste inedite alcune biografie riguardanti San Luca di Tauriano, il beato Stefano di Rossano, San Proclo di Bisignano, la beata Teodora Vergine, San Onofrio di Belloforte e San Fantino di Tauriana.  D. Vincenzo Zavaglia, Mammola, Frama Sud, Chiaravalle C. Marco Petta, Apollinare Agresta Abate Generale Basiliano, Tipogr. Italo-Orientale S. Nilo Grottaferrata 1981. Apollinare Agresta, in Enciclopedia Treccani, 1929 Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Monastero di Santa Maria di Grottaferrata o Monastero di San Nilo, su abbaziagreca. Santuario di San Nicodemo, su sannicodemodimammola. Foto di Don Apollinare Agresta alla giovane età di 24 anni, su flickr.com.  Apollinaire Agresta. Agresta. Keywords: stato laico. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Agresta” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.

 

Grice ed Agricola – Roma – filosofia antica – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Cnaeus Julius Agricola – Cneo Giulio Agricola. Agricola made his name as a politician and a philosopher expert in political philosophy. He was the governor of Britannia – Bretagna – His son-in-law, Tacito, writes a biography of him, claiming that Agricola has a great passion for philosophy – and that it was his mother who hated it (“doing her best for his son to get rid of it”). She was largely unsuccessful, since Agricola claimed to have acquired and retained a sense of proportion (proportio, proporzione) from his philosophical study.

 

Grice ed Agrippa – Roma --  filosofia antica – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Diversi rappresentanti romani trova la scepsi iniziato  e forse tra essi può collocarsi anche\ uno «dei più notevoli pensatori di quel. l'indirizzo, quéll’Agrippa, di cui, per la vita e la cronologia, può dirsi soltanto che è vissuto tra Enesidemo e Sesto Empirigo. I dieci tropi o argomenti di Enesidemo in favore della sospensione del giudizio, riguardavano la conoscenza sensibile e la valutazione morale e si potevano ridurre ai due della divergenza fra le credenze degli uomini e fra le opinioni dei filosofi e alla relatività delle conoscenze. Agrippa ne presentò cinque che avevano un carattere più generale, perchè si riferivano a ogni forma del conoscere, sensibile e intelligibile, e includevano, oltre i due ora ricordati (il 10 e il 3°), altri tre riguardanti, piuttosto che il contenuto, la forma della conoscenza. Propriamente, essi hanno per oggetto il tentativo di giustificare qualche tesi. Questi argomenti sono : 20 del processo all'infinito, perchè ciò che è in questione deve essere provato con altro e così via illimitata- mente; 4° delle premesse ingiustificate : se si vuole sfuggire al 2° argomento occorre partire da ipotesi che non si impongono più delle conseguenze ; 5° del circolo, perchò a deve provarsi con d e è con a, altrimenti si ricade nei due casi precedenti. Agrippa was a sceptic whose name is often linked with a set of five ‘modes,’ or reasons for enteraining doubt, although his actual connection with them is unclear. The first says that there are many issues on which people disagree, and it is impossible to know who is right and who is rong. The seonc says that every claim needs justification, but that each justification needs further justification, and so on ad infinitum. The third says that the appearance of a things is relative to the perceiver and the context in which the perception takes place. The fourth says that claims are frequently based on unproven assumptions. The fifth says that arguments are frequently circular. Together the modes amount to grounds for questioning any claim to certainty. Barnes, The toils of scepticism, Cambirdge.

 

Grice ed Agrippa – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. All that is known of THIS Agripps is that Iamblichus of Chalcis dedicated a book to him, and he is assumed to have been a follower.

 

Grice ed Agrippino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano Quinto Paconio Agrippino – He was a member of the opposition from the Porch to the prince Nero. As a result, Agrippino was banished from the whole territory of Italy.

 

Grice ed Aigon – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), Aigon was a Pythagorian.

 

Grice ed Ajello – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Grice: “I love Ajello; bevause he was a Plathegelian, while I’m an Ariskantian; I always found Plathegel very HARD to understand, Ajello doesn’t; there’s something in an Italian that makes Hegel’s Dutchiness very comprehensible, even more so than to the Dutch themselves!” Filosofo -- discepolo di Puoti, aprì uno studio privato come maestro ma ebbe vita stentata fino a quando ottenne un posto al ministero dell'Istruzione.  Partecipa ai moti e per questo fu licenziato in tronco. E arrestato e gli e  vietato l'insegnamento pubblico e «di far uso anche moderatissimo della stampa», per cui dove tornare all'insegnamento privato della filosofia e della letteratura.  Seguace convinto della filosofia hegeliana, che contribuì a diffondere in Italia, basa la sua filosofia soprattutto sull'Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. Opere: “Della muliebrità della volgar letteratura dei tempi di mezzo”; “Napoli e i luoghi celebri delle sue vicinanze”; “Discorsi di storia e letteratura” -- Enciclopedia Italiana Treccani alla voce corrispondente  Opere di Giambattista Ajello, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.  CONSIDERAZIONI SULLA MULIEBRITA DELLA VOLGAR LETTERATURA DEI TEMPI DI MEZZO DI GIAMBATTISTA AJELLO. Di questa operetta del signor Ajello, della quale han già tenuto parola vari giornali del regno, sorge in ul timo luogo a dar contezza ilProgresso. Nè ciò senza ra gione, perocchè, essendo l'Ajello uno de'collaboratori de' quali il nostro giornale si pregia, il nostro qualsiasi.giu dizio sarebbe forse paruto sospetto, e noi, diffidandone a ragione, abbiamo aspettato che ci avesse preceduto quello di altri non ligati a lui collo stesso. vincolo di amicizia. Per la qual cosa avendomi io in particolare, senza dissi- ' mulare a me stesso la malagevolezza di giudicar l'opera di uno amico, tolto l'incarico di qui ragionarne mi converrà avvertire che riassumerò le idee dell'Ajello non dal solo libretto di cui è qui sopra rapportato il titolo, m a da un suo lungo articolo ancora inserito nella Rivista Napolitana, nel quale, rispondendo l’Ajello alle o b biezioni del culto giovine Stanislao Gatti (2), ha meglio 69 (1) Anno.3.° fasc.IV. Museo di letteratura e filosofia, vol.I.° opera periodica compilata per cura di Stanislao Gatti, alla quale auguriamotuttoquel successo đi che l'ingegno del Direttore ci è larga guarentigia. CONSIDERAZIONI SULLA MULIEBRITA' sviluppato le sue idee e dileguato quei dubbi che per a v ventura avrebbono potuto far nascere. Dall'uno e l'altro lavoro cercherò cogliere il pensiero dell'autore qual si c o n viene a chiunque prenda a disaminare un'opera nell'in teresse solo del progresso del pensiero, non già per m i serabili e grette vedute individuali, per le quali cercasi trovare una contraddizione in ogni pagina e far la guerra non ai principi, m a agl'individui, privilegio di separazione alla repubblica letteraria solo concesso. Ecco dunque la serie delle ragioni principali dall'A jello discorse e rapportate, quanto più per m e si potrà, colle sue stesse parole. Ogni qualvolta si porti la nostra attenzione sui versi ed opere di arte che ci ha tramandato l'antichità ed a quelle che nel medio evo ebber vita, non sipuò non re star colpito dalla capital differenza che le separa. Nelle prime nate in mezzo alle culte e pulite società di Grecia e di Roma, vediamo farsi della donna quel conto che d'ogni cosa si farebbe da cui ci provvenisser soltanto vo luttuose dolcezze 'e vivaci e corporali diletti: laddove nelle séconde, comunque nate in mezzo a feroci e brutali pas sioni e lotte continue di elementi tra loro pugnanti e d i scordi, son le donne reputate quasi di superiore e più n o bil natura e fattevi obbietto d'uno entusiastico culto e d'un devoto e mistico amore. Vediamo la passione espressa nei versi degli antichi esser meglio ardenza di voglie ed e b brezza di sensual godimento che puro e indefinito desio ed abbandonevole affetto ed obblio di se stesso e del mondo nell'amata persona, come ne'poeti del medio evo si o s serva. E però campeggiar ne'primi la gelosia,la quale in sostanza (come bellamente si esprime l’Ajello) è amor proprio, è poca o niuna stima dell'oggetto amato, spa rire interamente dalle opere dei secondi, cantori di una passione più dell'antica disinteressata e gentile. Questo puro e spirituale amore, questa stima ecces siva, questo universale e presso che religioso culto fatto nel medio evo alle donne, è ciò che si chiama dall’Ajello muliebrità della moderna letteratura con vocabolo di cui non starò affatto a disaminar la convenienza, bastandomi aver significato ilpensiero che ad esso congiunge l'autore. É di questo singolare e non mai più veduto fatto, il quale, se costituisce ladifferenza del Tibullo dal Petrarca in quanto ai lor pensieri ed affetti amorosi, forma un nuovo ed i m portante elemento della nostra letteratura, che rende r a gione il suo libro,cercando principalmente dare al fatto un fondamento, come l'autor dice, nella natura umana, avvalorando in tal modo e psicologicamente spiegando quei fatti, c h e, storicamente affermati, son mutabili e troppo speciali ed angusti perchè la Scienza della Storia debba farne un gran caso. La qual trattazione spero non sem brerà inutile ad alcuno o di mero passatempo, imperoc chè se la letteratura forma parte integrante della vita di un popolo e quindi della sua storia, nè si può senza colpa per trattar l'una trascurar l'altra, 'e se la patria nostra si è fatta felicemente studiosa delle sue memorie del medio evo le quali, se non sono le più liete,sono certo lepiù gloriose, il saggio dell'Ajelo non giunge certamente inopportuno, ed egli riscuoterà senza dubbio il plauso di tutti coloro che rettamente sentono e pensano.Ilche assaibe ne, nè poteva altrimenti accadere, intese lo stesso Ajello il quale, mostrando nella sua introduzione esser quella tal muliebrità principal differenza della moderna letteratura dal l'antica, massime considerandola ne'suoi lontani effetti sulla vita ed il pensar delle nazioni, ed i nuovi e signoreggianti elementi delle moderne lettere star nell'amore e la morte; assai logicamente concludeva doversi il lavorare intorno ad uno di questi elementi reputare opera per la moderna critica importantissima. N o n voglio con ciò dire essere egli stato il primo ad investigar le cagioni di questa che con lui chiamerà volontieri muliebrità della moderna lettera tura, chè già, comunque per lo più senza prove e quasi dommaticamente assunte, varie opinioni eran corse sul l'oggetto e di reputati scrittori tutte e dallo stesso Ajello a quattro ridotte nel seguente modo. Che il Cristianesimo in 'ispezialtà sia stato cagione del devoto e più puro amor per le donne.  Parole del Conte Cesare Balbo nella sua lodatissima vita di Dante. Ch'ei sidebba alle invasioni degl’arabi, massime alla vicinanza dei mori di Spagna. Che soprattutto ei sia necessario e natu ralissimo effetto delle sociali e locali condizioni in cui f u ron posti gl'invasori, poichè presero più ferma stanza sul territorio romano, e che ilfeudale ordinamento ebbe aqui stato alquanto di consistenza e di stabilità. Che sieci stato recato dalle genti germaniche con tutti gli altri lor costumi statici narrati e descritti da C e sare, Tacito ed Ammiano Marcellino. Or, movendo dalla prima opinione sostenuta precipua mente da scrittori Tedeschi per una certa loro inehinevo lezza all'astratto e più per reazione alla miscredenza del secolo passato, ecco le ragioni che ad essa oppone l'a u tore. Essere il fatto di cui è parola apparso al secolo undecimo e però aver dovuto la cagione aver prima ope rato. Or in quella sorta di tempi potea forse la Chiesa aver qualche possanza, m a ogni buono effetto il qual d e rivasse proprio dall'indole della religion cristiana, dovea esser contrastato e depresso fra la grossa ignoranza e lo scompiglio e il grido di bestiali e matte passioni. Con che non s'intende dire il Cristianesimo non avere avuto potere a quei giorni, m a che la sua spirituale e gentil n a tura non potea avere in tanta barbarie e in si profonda ignoranza pieno e libero effetto, ma scarso e poverissimo. In fatti la vera e nobil sua natura troviamo sconosciuta, e praticato solo ciò che avea di più esteriore e formale, e di Concilie di Papi contro i tornei, il duello e di giudizi di Dio gridar vanamente. Aver senza dubbio il Cristianesimoconferito potentemente a migliorar la condi zionefemminile,ma nonperciòpotersidireche,eman cipando la donna, producesse poi quel puro amore e reli gioso culto che nel medio evo si ottenne, essendo questi due fatti non pur diversi, ma sino ad un certo segno in dipendenti e slegati, di sorta che sonosi appresso scompagnati sempre e fuggiti. Esser l'amore cantato ne' tempi di mezzo gentile e purissimo, m a si profano e quasi idolatra. Or se si rifletterà che il Cristianesimo immoto e fisamente stretto cogli occhi al Cielo e all'altra vita, come al solo vero scopo dell'uomo, tenga la terra un esilio e transitoria stanza di sperimento, ed abbia sempre temuto che avesse pregio e bellezza; si vedrà che cosa dovesse pensar delle donne, di queste possenti allettatrici de'cuori umani, delle quali non ci ha cosa che più grande e general potere abbia sull'uomo, che meglio e con più forza il discosti e distolga dai celesti e santipensieri. Ecco perchè il Cristianesimo, qual si mostrò nel decimo ed u n decimo secolo, promosse il celibato, popolò di anacoreti i deserti della Tebaide e, riferendo ogni nostra mise ria al malaugurato potere ed alle lusinghe della donna (di che tristi e multiplici esempi glie ne fornivano le s a cre carte-) vide in costeimen la compagna che la se duttrice é quasi la principal nemica di lui, ed, anzi che confortarci ad amarla, non ha fatto, nè fa tuttavia, che distorci dal porvi affetto grande e terreno, come dal più tenace e periglioso laccio del nostro animo. Nel Romano impero di Levante, ove più liberamente ed ef ficacemente la Religione Cristiana operò, quel che era suo effetto averlo avuto, migliorar cioè la condizion delle donne, come si può veder nelle leggi pubblicate da Giu stiniano; m a nessuna ombra trovarsi nelle opere di quel tempo della muliebrità occidentale, niente d' amore che almen puro fosse e gentile. La quale ultima cosa non es sendo giunto a produrvi dopo ben dieci secoli di non contrastato impero,tanto meno si potrebbe tener come cagione della muliebrità della letteratura d'Occidente quando anche si volesse concedere che qui campo m a g giore egli si avesse.ottenuto. Il che tanto più sembrerà vero in quanto si osserverà quel grande ed universale amore, che nei cristiani poeti de'mezzi tempi vediamo, trovarsi a un di presso in quei paesi ed in mezzo a quei popoli che usaron di avere più mogli e chiuse le ten nero e schiave; e più nel mezzodi della Francia che in Italia, ove il Cristianesimo dominò maggiormente; ed es serne rimase le tracce più nella classe cavalleresca e g e n tile che nella media e popolana, sulla quale sempre di L'influenza degli Arabi sulla muliebrità dell'occiden tal letteratura vien rigettata dall'Ajello sull'appoggio delle seguenti ragioni 1.o Perchè non ci si poteva da essi r e care ciò che non avevano, essendo la loro letteratura, come tutta quella delle genti orientali', obbiettiva e sensia  gior potere il Cristianesimo fa prova. magbile, e priva interamente ed ignara di quel profondo ed in definibil desio, di quel levarsi dell'animo oltre ai confini del finito e del presente in una sfera più pura e beata che pur cosi spesso accade trovar nella nostra. La qual dif ferenza dell'araba dalla nostra letteratura trova una giu stificazione a priori nel clima, stantechè, secondo l'Ajello, un clima nordico o temperato farà le donne più caste e restie, quindi più stimate e libere, e l'amore più disip teressato e gentile che sensuale ed ardente, ed esprimente anzi il grido e il lamento d'un principal bisogno del cuore che un corporale appetito; dovechè sotto meridionale e caldissimo cielo, gli uomini poligami ed, invece di dolci e sole compagne, chiuse le donne e soggette, l'amore non rivestirà la stessa fisonomia. Essere il fatto di cui è parola della natura di quelli che non si possono comunicare da un popolo all'altro, nè procedere da altro che da intrin seca e spontanea cagione. E ciò per non essere l'amore cantato nel medio evo artifizioso o bugiardo, m a sì bene profondamente sentito e spontaneo, e gli usi galanti e c a vallereschi ingenerati e tenuti da universali bisogni e da affetti veraci e potenti tanto che vediamo il culto per le donne penetrato sino nelle leggi barbare, le quali provveg gono sempre a certi e già provati bisogni e non a quelli eziandio che si possono temere. Oltrechè le usanze d'un p o polo possono derivare da'suoibisogni ed affetti, non questi da quelle, massime in popoli giovani e rozzi e però di altera e disdegnosa natura, ne'quali le usanze non sono mai recate e tenute da capriccioso impero di moda o da servile imitazion degli stranieri, come in più colti e vanitosi tempi interviene, ma siderivanodaalcunbisognooopinionicheessiabbiano. 3.° Perchè la storia mostra esser la gaia scienza passata in Ispagna,sededegliArabi-mori,dallaProvenza,checo storo (dappoichè non se ne trova traccia in Oriente, ne le sociali condizioni il concedevano ) ricevettero dai C r i stiani le costumanze cavalleresche, e queste, invece di a p parir prima in Ispagna,poi nella Francia, in Alemagna e finalmente nella remota e divisa Inghilterra, vedonsi apparir prima in Provenza e in Alemagna e in Inghilterra ed assai più tardi nella Spagna che,per la vicinanza dei Mori, avrebbe dovuto prima averle. Perchè infine, se i costume dei Mori non furono indarno pei lor vicini, 'non è da credere che grandi eprofondi ne fossero stati gli ef fetti a cagione delle sterminatrici guerre religiose, e della differenza di culto e di lingua. Al che si aggiunga esser tale la diversità del genio orientale da quel d'Occidente che quel che di arabo si trovi nelle spagnuole scritture e dicristiano nelle arabe si possa agevolmente scorgere. Escluse in questo modo le due prime opinioniche al Cristianesimo ed agli Arabi riferiscono la muliebrità della occidental letteratura, viene l'autore a fermar la sua opi nione, la quale si compone in parte dalla unione delle ultime due", di quella, cioè che ai Germani attribuisce il nuovo culto che ebber le donne, citando Tacito e gli altri romani storici che di loro scrissero; e dell'altra che, negandolo, il fa singolarmente nascere dalla vita feudale; opinioni che, cosi sole e divise come sono, paiono al l'autore assai ristrettive ed anguste, e per giunta inelte a spiegar tutto il fatto. Il che, volendosi fare, soggiunge con assai d'accorgimento, è mestieri cercarne la cagione pro prio in grembo e nell'indole dell'età che lo accolse e m o strò; e però bisogna con ogni studio possibile e partita mente'esaminar quello che costituisce il medio evo, in somma quei generalissimi fatti che mutaron la faccia di Europa,e rovesciando ilRomano Imperio,nascerfecero é detter forma e colore alle nuove società d'Occidente. >> Or principali elementi della nuova civiltà essere il roma no'; il cristiano e il germanico, nè trovandosi il nuovo amor del medioevo nel primo elemento, nè derivar po tendo dal secondo, resta che in ispecie almeno e sopra tutto dall'ultimo derivi. La venuta infatti d'un giovine é poetico fatto non potersi altramente spiegare che per mezzo di coloro che ristorarono la nostra vecchiezza con la robustezza e gioventù loro, e ci affrettarono per la via di progresso e di moral perfezione. E poichè i Germani stanziatisi nelle terre romane eran venuti sotto il doppio ed efficace potere della civiltà antica e della religioncrie stiana, doversi perciò esaminar questo fatto e questo scon tro, considerando i Germani 1.o come genti uscite di tra  1   montana: come uomini barbari, pur non selvaggi: come bellicosissimi: come stanziatisi isolati e di visi per le campagne, indi costituitisi in feudale ordina mento: 5.0 come popoli giovani e vigorosi accostati al potere di una civiltà antica e grande e d’una religione mansueta e gentile. Questo quintuplice modo di copșide rare i Germani, bello senza dubbio e fecondo d'impor tanti applicazioni, produce la suddivisione di questa se conda parte del libro dell'Ajello in cinque capitoletti che riassunti contengono: 1.° Ilfreddo e duro clima, sepa rando e concentrando le famiglie, e impedendo la poli gamia, dar naturalmente preminenza e crescer stima alle donne; e facendole più schive e pudiche, e di maggior verginal compostezza e matronal decoro dotate, render p e r ciò l'amore assai più puro e devoto, anzi quasi estatico e contemplativo. Con che l'autore non intende dire essere di questa natura stato l'amore delle rozze e selvatiche genti venute sul territorio romano, ma solo che in esse, come abitanti di settentrionali contrade,esser ne dovea la natural disposizione e quasi il germe, il quale, ingenti litisi gli animi, n o n potea rimanersi luogamente ascoso, ed infecondo. Essere i Germani venuti in Occidente genti barbare si m a non già selvagge e, per lo contatto col Cristianesimo e la romana civiltà, nel secolo undeci mo pervenute a quel giovine stato di coltura che è il primo uscir della barbarie e che eroico o poetico si chia merebbe, in cui l'amore ha più generale e grande effi cacia, a differenza dei tempi selvaggi ove la sola parte brutale e sensibile predomina, e degl'inciviliti ne'quali la civiltà, aguzzando la facoltà riflessiva e scolorando l'im maginazione, toglie ogni prestigio e possanza all'amore. Essere genti bellicosissime, presso le quali sogliono tenersi in molto pregio le donne; la qual cosa pruova l'autore con l'esaminare in che mai psicologicamente con sista l'amore, e mostrando ch'è ilcompimento dell'umana natura; che perciò congiunge proprietà opposte, m a leo gandole armonicamente; che tutte le qualità virili pos sonsi ridurrre alla fortezza, le femminili alla debolezza; e che in conseguenza chi daddovero è uomo ed ha in se uso e coscienza di moral fortezza, più inclinar deve ad amare, e a stringersi allato il timido e debil sesso; tap topiù che i forti son più magnanimi e di più aperto e gen tilcuore,eperòpiùproclivi all'amore. Che, natalaca valleria, questa alla sua volta avere assai conferito a cre scere stima edonore alle donne, le quali la storia stessa, in conferma di queste teoriche,mostra stimate più in Isparta che nelle altre parti di Grecia, ed in Italia più tra gl'indo mabili Sanniti ed i bellicosi Romani che altrove.Aggiugnersi a ciò la feudalità la quale, per lasciar spesso alle donne e fino in seno alla domestica vita un alto e quasi so vrano posto, dovette grandemente aiutare il loro svolgimento morale, e perciò di molto conferire a farle generalmente v e nire in considerazione ed opore, non già come causa unica, non essendo nè cosi generale nè efficace di tanto che possa pressochè sola bastare a rendere ragione del fatto. Nel quinto capitolo finalmente, annodando tutte le sparse fila del suo lavoro, ecco,coine l'autore formola la sua opinione, la quale, per essere stata assai ben rias sunta da lui stesso nell'indicata risposta al Gatti, mi per metterò qui trascriverla. » lo stimo, egli dice, che nel giovanile elemento della società di quel t e m p o, così per la natural disposizione che ne recarono i vincitori per effetto dello stato eroico a cui dopo la conquista per vennero, dell'indole forte e guerresca che maggiormente si svolse tra noi, e della vita feudale nata dalla conquista, fosse il fomite, il germe, e un'inchinevolezza grande ad amare e a stimar molto le femmine. D'altra parte, nel Cristianesimo e nella civiltà romana era 1.o un pensiero é un principio opposto; 2.° molta gentilezza e moral col tura. Il pensiero e il principio opposto non avea potere di contraddire a quella gagliarda e natural disposizione di giovane società: conciossiache, quanto all'elemento r o m a no, per esser vecchio e stanco, eoltracciò in alcun modo corretto e purificato dalla religion cristiana, se non era in esso l'amor puro e devoto,neppure era l'amor bru tale e la disistima delle età antiche e pagane; e quanto al Cristianesimo, sanno i miei leggitori quanto poco in quella sorta di tempi valgan gl'insegnamenti, e le caute e fredde ragioni in mezzo al grido e alla forza di caldi e giovani affetti, sempre più avvalorati da tante cagio che  ni,e poi dalla presaepiaciut ausanza. Rimaneanell'ele mento romano e nel cristiano la gentilezza e la moral col tura; e perocchè queste non contraddicevapo, alla detta natural propensione, anzi, ingentilendo gli animi e i m o di, aiutavanla e snodavano, furono subito accolte da quelle genti rozze; chè è nota la spontanea proclività nostra al vero ed al bello, massime quando paion nuovi ed ignoti. In s o m m a, a dirla breve, ciò che nel Cristianesimo e nella civiltà romana era contrario all'amore eccessivo e devo to, fu da giovine e gagliarda forza vinto e depresso;e ciò che non lo impediva e vietava, m a aiutava e svol geva, fu spontaneamente accolto é voluto. Questa parte io fo all'elemento romano e al cristiano; nė mi spiace rebbe di farla anche agli Arabi in alcuna mapiera, pur chè in sostanza mi sia conceduto ch'eglino, ingentilendo inostri,aiutarono ilfatto,nongiàcomunicandoneilger me, o dandolo già bello e formato,che è la sola cosa da me contraddetta.» E più sopra lo stesso Ajello dice « Feci vedere che il fatto che io m'ingegdava di spiegare,mostrava chiaro uno scontro di nuovo e di antico,di gioventù e dim a turità e quasi una doppia e biforme natura: e che però dovea esser nato da opposti e contrari elementi, o dallo scontro e fusione che io dissi del mondo romano e cri stiano col barbáro'o germanico. Difatto, quanto alla parte giovanile, primitiva e poetica, in Achille è quello a p punto che è nel Tancredi del Tasso; v'è tutto il verde è la rude e virginal gagliardia di un giovine mondo. Se da Tancredi è diverso, mancagli il:sentir delicato e gentile, e quella fina cortesia, e quella sociale e m o ral raffinatezza'; mancagli insomma l'elemento romano e'l cristiano che soli di tutto questo potevano esser cagione. Ed io nel saggio il conferma i colla storia, mostrand o: 1.o che se ci ha luogo in Occidente, dove con quasi pari forza si scontrarono l'elemento romano e il germanico, questo luogo è il mezzodi della Francia, vero anello e temperamento fra la preminenza romana d'Italia e il si gooreggiante spirito franco del settentrione; e che quivi udironsi i primi canti d'amore, quivi la cavalleria prima apparve: 2.o che a tutti gli altri grandi ed universali i Germani, o certo tanto inferiore a quello delle nostre genti che ne soffrirono l'invasione  fatti di quella età è comune il doppio e biforme aspetto del nostro, e quanto alle lettere tolsi ad esempio le cro nache e il poema di Dante, provando in tal modo che questa è la propria rappresentativa sembianza del medioevo, e che però è necessario che ogni grave e universale fatto dei mezzi tempi abbia la stessa impronta e natura. Ecco, se non andiamo errati, la esposizione fedele delle cose dall' Ajello discorse con uno stile, del quale non potrò certamente essere io quello che porterà giudi zio; m a che alla universalità dei leggitori ha lasciato d e siderare concisione maggiore, e minori proposte e promesse, massime in un libro, comunque di molta sostanza, picciola fare che si vcol dal dei nostri, nacque e vive sotto lo stesso Sole naturalmente all' astratto, costretti, in non dovrà tenermi, che o pullo esso mole pur sempre. Volendo poi dir qualche cosa della questione brevi osservazioni sul merito alcune l'Ajello esercitato sulla nostra letteratura da quei lurchi barbari, i quali mi pesano sull'anima peggio, nè mi par vero ai verso la terra ladizione da loro tanto beneficio. E primamente che, per amor belli ridenti Tedeschi natale, si piacciono gli antichi costumi di che i poeti fan sempre descrivercene l'aurea semplicità di tutta itempi antenati sia venuta pretensione la riforma rimotissimi, condonando che dai loro rozzi e feroci ad essi la strana costumi; non posso comportarmi nellostessomodo con chi, la Dio mercè di Virgilio e diDante.Inclinati, mi permetterò contro il potere anzitratto d'una m a che siavi chi possa riconoscere, perdonando non mai riprovevole i primi che irradiò la cuna difetto di campo, a vagare tra le nuvole, non è maraviglia migliore si sforzino dipingerci vaghi colori.Chiunque esser preoccupato che di quella egualmente riguarda il presente lavoro alla donna, non temerò di affermare, il rispetto, cioè zialmente mostravasi presso i Germani, il loro tempo non si trova nella stessa posizione che antico adorno di tanti. E, per non parte sola de'costumi trat che più spe di da non potersi affatto indicare quale aiuto o incitamento avesse potuto riceverne. Già ormai tutti convengono a non prestar moltissima fede all'opuscoletto sui costumi dei Germani, che Tacito si piacque comporre mosso da profonda indegnazione per i pervertiti costumi de'suoi concittadini. Le memorie dell'antica Roma sono sempre presenti al pensiero di questo venerando scrittore, che, trasportandole là dove crede trovare ancora energia,comunque selvaggia, di vita e mancanza di mollezza e di servitù, sperava puter far vergognare i suoi compatriotti della perdita di quelle virtù cheu n tempo formarono la loro gloria e potenza, ed eran passate ad abbellire la vita di u n popolo ta nto ad essi per intellettual coltura inferiore. O che iom'iną ganno, o certo quanto di buono attribuisce Tacito, ai Germani s'appartiene ai primi tempi della romana virtù. Dimostrarlo importerebbe oltrepassare ilimitidel presente articolo, nè per fermo varrebbe molto alla soluzione della questionecheho peroratralemani.Pure,ammessoche i Germani pensassero essere nelle donne qualche divinità re e provvedenza e che tenessero conto de loro consigli e sponsi, non saprei facilmente comprendere come possa ciò aver contribuito, per quanto sivoglia menoma parte, a quello spiritualismo d'amore che nel medio evo ebbe vita. Quella stessa opinione che Tacito attribuisce aiGer mani la storia ha segnalato ne'selvaggi dell'America e n e gli antichi Galli e nei Romani stessi, presso i quali le Sibille e le maghe e le facitrici di sortilegi, femine tulle e credute inspirate, dimostrano la generalità della stessa credenza figlia, come par sia chiaro,del Paganesimo.Ne questa credenza stette meno in compagnia d'uno amor tutto materiale, anzi presso di alcuni popoli colla disistima delle donne, come massimamente presso i Germani,.i quali, staudo allo stesso testimonio di Tacito, in nes suna considerazione civile le aveano. Ma di questo così lontano ed Oscuro tempo sarebbe inutile cosa occupar ci, potendo gli stessi Germani essere considerati più da vicino, quando, cioè, si son fatli vedere in mezzo di noi, fuori delle loro selve natie: tanto più che lo stesso Ajello conviene esser quell'asserzione priva d'ogni psico logico e scientifico fondamento, nè bastare fermarsi a' soli Germani, ma esser necessario venirli seguitando noi conquistati paesi, e vedere e notare come vi simutino e sfigurino per il poter della romana civiltà ed anche della religione che vi trovano già stabilita e potente. Nella qual trattazione progredendo,l’Ajello ba poi,come bo disopra fatto vedere, lasciato una parte molto importante ai Germani sul mutato aspetto d'amore, poggiandosi a ragioni le quali non mi sembrano tali da non poter meritare ós servazione alcuna in contrario.Esse infatti si presentano a prima vista sfornite di qualsiasi appoggio storico, e ri vestono un carattere a priori, di che l'autore stesso pare si compiaccia e faccia pompa a disegno. Il suolo romano, egli dice, era occupato da genti venute di tramontana, barbare non selvagge, bellicosissime e giovini accostate al potere d'una civiltà antica e grande, e d'una religione mansueta e gentile, stanziatesi iso late e divise per le campagne e poi costituitesi in feudale ordinamento. Or se in mezzo ad esse poste in tali con dizioni muta sembianza l'amore e di passionato e caldo si fa più puro e quasi contemplativo, fa d'uopo ad esse genti in quel m o d o considerate recarne la cagione. Conciossiacchè gli uomini del settentrione, ove le donne sono naturalmente più che altrove libere e stimate, amano d'uno amore più modesto e divoto, benchè non irrequieto e torbido,,e giunti sul territorio nostro si trovarono non solo in uno stato di eroismo in cui l'amore ha più generale e grande efficacia, m a forti abbastanza di tutta quella fortezza che è madre di generosità e magnanimità, produttrici esse sole di vero e nobile amore. Queste ragioni, comunque con tanto ingegno e forza di ragionamento dall'autore discorse, non m i sembrano gran fatto ammessibili. Ed in vero parmi che dopo aver con inolta giustezza l'autore osservato non doversi pene trare nelle selve dei Germani per ispiegare i costumi che essi mostrarono in tempi a noi più vicini, siasi poi di questa verità dimenticato nel corso del suo ragionamen to. Or se la nuova letteratura cominciò dopo più secoli da che i barbari si erano stanziati sul nostro territorio dopo che l'invasione era da lunga pezza compiuta, ed il medio evo si andava già luminosamente svolgeodo, non so che abbiano a fare con noi gli usi, anche dati per veri, della Scandinavia o della Pannonia, le abitudini di po poli nomadi e feroci con quelle di società costituite e ci vili. Già molto tempo prima che venissero a stabilirsi tra di noi, i barbari aveano subito tutto il potere della nostra civiltà, e quando poi lo stabilimento fu fermato e cessò l'opera delle arsioni e delle rapine, essa li dominò c o m piutamente e di quel che era proprio dell'antica vita nulla potevano più ritenere, nè ritennero. Che si dirà dopo più secoli passati in tale nuovo e tutto opposto ordinamento e condizione di vivere, il quale delle loro selve restar non dovea nemmeno la reminiscenza? So che l'Ajello vorrebbe solo gli si concedesse essere ne'Barbari la natural dispo sizione e quasi il germe il quale, collo ingentilirsi degli animi, produsse poi il suo frutto. Ma per i primi venuti quella disposizione, anche concedendosi, dovea restare bene annullata e sparire nel caldo dei combattimenti e delle stragi e d'una conquista assai fresca. I loro figli doveano nascere,e naquero infatti, romani, nè quindi poteva passare in loro una disposizione tutta propria dello stato selvaggio di cui non aveano cognizione, massimamente che quel rispetto della donna non era in essi la conse guenza del sagro principio dell'uguaglianza dei dritti trai due sessi, e che, non avendo una tradizione a custodi re, poco dovea restare o nulla si conservò tra di loro delle antiche memorie.  Nella quale opinione sempre più mi vado confermando quando contemplo più da vicino icostumi di colesta gente. Chi non conosce la poca pudicizia di Basina madre di Clodoveo, di Fredegonda moglie di Chilperico, e di Brunebaut regina di Austrasia? « Basterebbero, dice il chia rissimo e dotto Cesare Balbo, i fatti di Rosmunda e di Romilda amostrare lanativaferociade'Longobardi,come quelli di Gundeberga e di Teodora ad accennare tal b a r barie alquanto ingentilita e dalla principiante cavalleria e forse anche dal loro conversare cogľ Italiani. non sa che nel più antico poema dell'Allemagna, quello dei Niebelungen,» l'amore vi prenda poca parte nelle azio. Vita di Dante. Chị ni, i guerrieri s'interessino a passioni diverse dalla g a lanteria, le femine poco compariscono, non sono l'og getto di culto veruno e gli uomini dalla unione con loro non sono nè inciviliti, nè resi più mansueti, che gli antichi Germani vi compariscono furbisfrontatamente, mancatori di fede e bugiardi? Chi sa in somm a quanto erano pessimi i costumi di queste genti,o che si consi derino sul loro suolo, o nel primo contatto con noi, potrà dire se mai poteva essere in loro disposizione alcuna al culto della donna, ed ad uno spirituale e puro amore. Al qual proposito mi si permetta appoggiarmi all'autorità, di uno storico riputato di nazione Tedesca, e pero poco sospetto, il quale, cominciando dal riconoscere che la sola trasmigrazione operi un rivolgimento in tutta la maniera di essere, rompe quasi tutti i legami della vita domestica, nè a riparare questi mali offre il m e n o m o rimedio, onde l'anarchia ed il mal costume si dilatino per ogni dove e da per tutto recano il disordine e la devastazione; finisce col mostrare lo sfrenato e terribile disordine in che, quan do posero stanza in Italia, si trovarono i Longobardi, miscuglio di generazioni racimolate da tutte le parti del mondo, popolo di rotti costumi e stato però di pernicioso impero sui suoi disgraziati vicini. E questo che il Leo dice dei Longobardi dicasi pure dei Franchi, la discesa de'quali in Italia fu per questo bel paese, come sempre, la più terribile sventura che la provvidenza nell'abisso del suo consiglio gli abbia giammai preparato. Dopo le quali osservazionituttenon si potrà non conchiudere che semai in quelle genti originariamente germane si mostrò qual che cosa che sentisse di rispetto alla donna o di spiritua- lismo d'amore, fu perchè la nostra civiltà le investi c o m piutamente, perchè sispogliarono del primo uomo, e non più Germani,ma RomanioItalianituttidiventarono.Chè lo spiritualismo non si alimenta nell'amore se non collo sviluppo dell'intelligenza, e spirituali,e mistici veramente non furono nel medio evo che Petrarca e Dante, i più grandi uomini di quei tempi e de'posteriori. Si vegga dunque se in quei petti di bronzo dei barbari poteva mai Leo, Storia d'Italia. conservarsi nascosa e risplender poi una fiamma che sola a cor gentile si apprende, e da rozzi e disleali uomini maravigliosamente rifugge. Posso però dispensarmi dal con futare quella generosità e magnanimità che loro l'Ajello attribuisce, poichè se mai possono dirsi quei barbari forti di quella specie di fortezza che è di generosi sentimenti produttrice, lascioal lettore pensarlo. E qui parmi il luogo di far notare il poco conto te nuto dall' Ajello degli effetti prodotti sui barbari dalle loro trasmigrazioni, errore essenziale, perchè la società ger mana, come è stato ben detto, fu modificata, spaturata, disciolta dall'invasione, ed il suo organizzamento so ciale peri come quello dei popoli invasi, gli uni e gli altri non mettendone in comune che gli avanzi. Oltrechè (colla profondità sua solita osserva ilTroya ) « la grande trasmigrazione di genti dovè necessariamente nel corso di più secoli trasmutare la faccia ed i parlari della Germania di Tacito. Negli ultimi anni di Attila gli ottimati degli Unni eran divenuti Romani pel lusso, e l'intera nazione in Europa godeva di stabili sedi che le facevano aver men caro il suo antico viver da pomade. Le antiche razze celtiche della Pannonia si eran confuse da lunga stagione coi Romani, e quella provincia feconda sempre d'impe ralori avea fin dai tempi di Diocleziano pressochè rimu tata la popolazione con le moltitudini sempre crescenti de'nuovi barbari sopravvenutivi. La lingua tuttavia e le discipline romane prevalsero per molte età nella Pannonia, e quando i Longobardi vi entrarono, già molti discen depti di quei nuovi barbari eran divenuti romani. Pur non credo che gli Unni ed alcuni altripopoli, de'quali ho toccato fin qui, avessero perduto l'interaloro natura dopo Attila, sebbene abitassero nell'imperio. Ma il tempo ed il vivere sul suolo romano cancellarono finalmente anche in tali barbari l'impronta della loro indole natia. Storia d'Italia. Uno dei più profondi e coscienziosi layori usciti alla luce in questo secolo.  Dopo le quali osservazioni non riusciranno molto ef ficaci tutte le ragioni desunte dal clima c h e l'Ajello p r o duce in sostegno della sua opinione. Volere infatti assumere che nei paesi meridionali sieno più bramose e sfac ciate le donne, e sotto freddo cielo più schive e pudiche, non mi sembra possa essere appoggiato dai fatti. Chè l'ot timo autore non potrebbe certo asserire più delle fioren tine e milanesi donne essere schive e,pudiche le tede sche, più delle napolitane o greche giovinette le donne di Francia, o d'Inghilterra; la pudicizia non dipendendo totalmente dal clima, m a nella massima parte dall'edu cazione, dal principio morale e buon senso più o meno sviluppato di ciascheduna nazione. Naturalmente le genti di un clima meridionale sono dotate di una sensibilità m a g giore di quelle che vivono a settentrione, m a la posizione de'due sessi è relativamente uguale nelle due contrade. Se le donne del nord sono poco sensibili, per far sentire i maschi bisogna scorticarli. Quindi la diversità del clima importerà a spiegare la maggiore o minore ardenza del l'amore; ma in quanto a quel misticismo o, mi si la sci pur dire, platonismo dell'amore, pon saprei ben v e dere in che ilclima vi possa contribuire, essendo una cosa tanto poco del corpo che tutta nella regione dello spirito risiede. È in questo senso che io trovo giustissima l'interrogazione del Gatti.- Come può un fatto che ha per condizione naturale le nebbie ed i ghiacci del nord trasportarsi e fruttificare ugualmente sotto il sole del m e z zogiorno? Alla quale interrogazione non è certo adequata risposta dire che il fatto non era indigeno dei Germani, m a che questi ne portarono con loro il germe, il quale sbucciò poi per opera dello scontro e della fusione dei vin citori coi vinti. Questo germe portato da un clima lon tano e freddo in uno meridionale, e che aspetta quisilen ziosamente per più secoli per poi finalmente, cessati gli urti dei barbaricon uomini civili e compiuta la fusione, uscir fuori come la ranocchia dopo la tempesta, io m'inganno, o è troppo malagevole cosa a comprendersi.  Nè posso ancora convenire coll’Ajello che il freddo e duro clima faccia di sua natura libere e più stimate le donne, quindi più divoto e rimesso l'amore, parendomi la storiacontraddir del pari a tale asserzione tanto che non mi sarebbe difficile mostrare la miglior condizione delle donde essere stata in ogni tempo in ragione inversa della. Non inviderunt, è la bella espressione di Livio,laudessuasmu lieribus viri romani, adeo sine obtrectatione gloriae alienue vivebatur; monumento quoque quod esset, tcmptum Fortunue muliebri aedificatum dedicatumque est. freddezza del clima. E per non dilungarmi di troppo, io non so se mi si possa negare l'importanza da esse olte nuta presso il popolo Ebreo, e la continua bella mostra che vi fanno, e se possano mai obbliarsi ibei caratteri di Debora e di Giuditta, della profetessa Olda, di Rut, di Sara, di Rachele, della moglie di Tobia é d'innumere voli altre, e la venerazione di che gli Ebrei le circonda vano, ed il purissimo amore di che furono l'obbietto, e tutta finalmente la legislazione Ebrea che in tanta con siderazione, a preferenza delle altre genti,le avea. Chiaro argomento che n o n le nebbie ed i ghiacci, non la fero cia brutale delle orde vaganti producono stima alle donne e danno purità all'amore, cose poste naturalmente nella ragion diretta dello sviluppo del pensiero e dell'incivili mento, e della migliore organizzazione individuale d'un po polo. Ecco perchè la donna fu sempre in Italia più che altrove, avuta in pregio e stimata. Senza parlare della scuola antica italiana o pitagorica, che dir si voglia, e degli antichissimi costumi Etruschi, presso i quali le donne aveano molta importanza, ENEA fonda una città e dal nome di sua moglie la chiama “Lavinia”. Son le donne Sabineche s'interpongono frai combattimenti del Capitolino e riducono gl'inferociti guerrieri a concordia, ed il nome di esse è imposto alle curie di Roma. Fra il duello degli Orazii e de'Curiazii comparisce lagrimosa la sorella de'primi, e basta la morte di lei a sospendere il gaudio pubblico della città. In tutti gl'intrighisuccessivi del regno (come sem pre in Italia )le donne figurano. La libertà di Roma è consolidata col sangue di Lucrezia, come più tardicon quello di Virginia, e l'ardire e magnanimità di Clelia viene eternato con una statua equestre. Veturia respinge le armi parricide di Coriolano, è cosi tanti e tanti altri racconti che conservatici dal canto delle tradizioni mostra no potentemente la verità di ciò che assumemmo di sopra. Fu a Roma innalzato un tempio alla Fortuna muliebre (1), e fu dato il primo esempio di onori pubblici alle donne, le quali vi sentivano in tanto alto grado la propria dignità e tanto vi aveano d'importanza che spesso si dovettero le pubbliche assemblee occupar di loro che vi si presentavano con petizioni e di tumulti l'empirono. In R o m a aveano le donne il passo per le vie, non si poteva fare o dir cosa disonesta in loro presenza, i giudici capitali non potevano citarle e coloro che le citavano in giudizio non potevano toccarle, ut, dice bellamente Valerio Massimo, inviolata manus alienae tactu stola relinqueretur. Chi non conosce le sorprendenti prerogative delle Vestali? Camminavano pre cedute da u n littore; incontrandosi con loro i consoli ed i pretori abbassavano, in segno di riverenza, i fasci; andavano in cocchio anche quando gli altri per legge nol potevano; avevano distinto sedile negli spettacoli; la loro dichiarazione in giudizio avea forza di giuramento, ed un reo di morte, che avea la fortuna d'incontrarsi con lo ro, rimaneva assoluto. Tanto la verginità era in onore ! Ecco perchè quelle che eransi rimase contente d'un sol matrimonio, corona pudicitiae honorabantur, e Spurio Carvilio, comunque per tolerabile cagione, dice Valerio Massimo, avesseripudiato sua moglie, non fu meno segnato di reprensione come colui che avea la fede coniugale al desiderio di figli posposta. Il matrimonio era la comunione di tutt'i dritti divini ed umani, ed era veramente bella l'istituzione della Dea Viriplaca, nel cui tempio i coniugi in discordia concorrevano. Dea, dice lo stesso autore, coși chiamata perchè placava i mariti, degna veramente di essere onorata e riverita anzi adorala quanto altro I d  dio, utpote quotidianae ac domesticae pacis custos, in pari iugo charitatis ipsa sui appellatione virorum maiestati debi tum ac feminis reddens honorem. Tralascio di ricordare co m e usciti dell'infanzia i fanciulli eran dati in educazione ad una donna rispettabile del parentado, e come sino alla età di quattordici anni aveano essi comuni colle fanciulle gli studi della puerizia, e la esțesa coltura delle donne romane, massime negli ultimi tempi, come di cosa ormai troppo vulgare. Si che possiam dire col Michelet che par v tendo pressogl'Indianidall'amormistico,l'idealedella o donna riveste presso i Germani i tratti d'una verginità selvaggia ed'una forza gigantesca, presso i Greci quelli della grazia e della scaltrezza, per giungere presso i Romani alla più alta moralità pagana, alla dignità virgi ne nale e coniugale. Ma, per venire a tempi più vicini in mezzo allo universal degradamento, dice uno storico, ilcui nome sarà pronunziato sempre con riverenza, le dame romane non aveado perduto l'avvenenza e l'in gegno delle antiche matrone,e d erano perciò assai p o tenti. Anzi non ebber mai le donne tanto credito presso alcun governo, quanto n'ebbero le romane nel decimo secolo. Sarebbesi detto che la bellezza aveasi usurpato i drittidell'impero »E qualèilpaese,esclamailLeo,ol tre l'Italia, dove la bellezza delle donne non dirò che accese, ma solafecerisolvereipopoliallaguerra?dovele donne hanno più lungo tempo dominato, non pur ne'negozi temporali, m a in quelli che appartengono alla coscienza? Nè questa tradizione è stata,o potràessermai interrotta, chè vive e spira ancora nelle donne d'Italia tutto ilsor riso di questo cielo d'incanto, tutta la maestosa dignità di chi sentesi nato a grandi cose, ed esse inspireranno per sempre l'ingegno dei poeti e degli artisti,e saran nostra guida e consiglio nel periglioso progresso della vita. Esclusa cosi qualunque specie di potere dei Germani sulla mutata sembianza di amore, penso doversi dire al. Histoire Romaine. Cito con tanto più di piacere questo scrittore in quanto che egli è uno de'pochissimi serittori di Francia i quali dotati di molto ingeguo e buon gusto si giovano delle cose degl'Italiani rendendo loro giustizia. Si vegga dopo di ciò se ilf reddoe duro clima renda più stimate e libere le donne, e quindi rimesso e più di voto l'amore. Al mio modo di vedere, se l'amore può essere ardente e bramoso senza che perciò abbia nulla di spirituale e di contemplativo, quest'ultima qualità non può star però senza la prima. Petrarca e Alighieri non avreb bero sublimato a tanta spirituale altezza i loro amori se 'amato non avessero ardentissimamente. È la storia di tutti gli amori nel medioevo. Come dunque il fatto in parola o la muliebrità potea venirci dai freddi amori dei fred dissimi uomini del nord?  trettanto della feudalità, opinione sostenuta da uno scril tore di Francia troppo sventuratamente conosciuto, e dal l’Ajello modificata con quel buon senso a lui proprio, e sull'appoggio di ragioni che a m e sembrano sufficienti per escluderla del tutto. Non solo (son parole sensalissime dello stesso Ajello) perchè a și grande effetto ella è trop po scarsa e lieve cagione, ma e perchè non è cosi ge nerale, nè efficace di tanto che possa pressocchè sola b a stare a render ragione del fatto.” È di vero (è lo stesso Ajello che ripete queste già conosciute ed indubitabili verità ) in Italia non è stata mai o pressocchè nulla, per chè le città conservarono l'antica preminenza sulle c a m pagne, e gli uomini vissero anzi raccolti nelle prime che divisi e sparsi per il paese, per non dir che proprio in quelle parti, dove pria vigorosa ed ardita levò il volo l'italiana poesia, furon tosto i signori o invogliati o co stretti a lasciar le castella e a venirne ad abitar le città. Anche in Ispagpa (per la subita invasione, o per non essere stato mai quel paese fuor che in picciola parte s o g getto a Carlomagno) o non furono feudi, o almeno in quel modo che in Alemagna in Francia e inInghilterra. Eppure non si potrebbe dire che le donne italiane o spa gpuole fosser molto meno stimate che le francesi, nè che la poesia in quelle due meridionali contrade mostrasse uno amor manco devoto e gentile » Ciò posto,trovo chiaro che non si debba sul fatto in parola attribuir potere alcuno alla feudalità, conciossiacchè, per potersi un fatto chia mar legittimamente causa dell'altro, è mestieri che siasi mostrata trai due una connessione necessaria e continua, e, dove apparisca o manchi l'uno, l'altro apparisca o manchi delpari. E questi requisiti abbiam veduto non convenire alla feudalità, perchè non stata in quei luoghi ove la letteratura ebbe più notevolmente quel che l’Ajello chiama muliebrità. Si perdoni quindi a chi, con un modo di giudicar tutto francese, crede spiegare ogni cosa con una causa sola, comunque non apparsa d a d dovero che sul territorio di Francia, e che, non v e dendo al di là della Senna, cerca con quella miseria di fatti che gli colpiscono lo sguardo metter fondo a tutto l'universo. Il buon senso d'un Italiano non poteva m o    strarsi impacciato ugualmente, massime in riguardo alla feudalità, la quale tra noi o non fu mai, o certo non vi si mantenne che come una eccezione, in guerra continua col nostro modo di pensare e di sentire, senza importan tanza, senza metter mai radice nei costumi. ciò che in ogni tempo ha segnalato il carattere degl'Italiani, o maggio non all'uomoma aiprincipi,battersinonperun'in dividuo ma per una idea e che è stata la causa della loro grandezza intellettuale e debolezza politica. Pure nel viver disgregato e locale dei barbari con stituiti in feudale ordinamento crede l’Ajello essersi svolte e rafforzate le domestiche affezioni ed aiutato lo svolgi mento morale delle femmine, ed aver quindi molto contri buito a dar loro pregio e riverenza. Alla quale opinione io non posso soscrivermi,perchè non mi pare che nella vita isolata dei castelli e di continua guerra possano raf forzarsi le dome stiche affezioni, e molto meno aquistarvi pregio le donne, ed avere impero sull'animo d' un signore assoluto e brutale e costretto a trattar continuamente le armi, nè d'altro bramoso o sciente. Chè in una vita tutta di sospetto e di disgregazione fisica e morale, la donna lontana dal consorzio delle genti, nè conosciuta che dal solo feroce obbligato compagno della sua vita, non è altro d'un fiore che non olezza, o a cui non giungano gli sguardi delle innammorate giovinette. Ora dicasi se ne'costumi feudali poteva rattrovarsi in uno stato tale da trarre i caldi sospiri degli amanti e i teneri passionati versi degli erranti trovatori. Certo la privazione eccita il desiderio e il fa più che mai bramoso ed irrequieto, m a egli è pur vero che n o n si desidera l'ignoto, e le donne racchiuse nei feudali castelli erano appunto uno ignoto che non può desiderarsi. Quindi, se ci ha luogo dove le donne potevano aquistar pregio, erano per fermo le città italiane o i castelli de'Signori nel modo come stavano in Italia,  ne' quali le donne erano si custodite, ma non sottratte agli sguardi degli amanti. A ciò si aggiunga l'estrema ruzione dei costumi feudali cor nella lettera tura di quel tempo le tracce più capaci di fare arrossire la gente; la violenza e le rapine che essi concedevano largamente si più a lungo durarono in Germania, e pochis, che lasciarono  simo, come è chiaro, in Italia. Nè si potrà fare a meno di conchiudere che la feudalità nè per se stessa, nè in concorrenza di altre cause poteva dar gentilezza all'amore, nė vi contribui in realtà, perchè l'amore fu veramente gentile e purissimo in Italia, dove la feudalità non ebbe vita, o almeno fu preminenza della vita cittadina che p o g giava sopra principi di opposta natura. Oltrechè non do vrebbe dimenticarsi che il principio della esclusione delle femmine dalla successione dei loro congiunti,almeno in con correnza coi maschi, fu un principio tutto feudale e ri messo in vigore tra di noi dai Germani, poichè già nella legislazione giustinianea era per opera, come par Ed a questo luogo mi si permetta osservare quanto poco al vero s'appongono coloro i quali sostengono averci i barbari trasfuso il sentimento della indipendenza personale, e la feudalità aver fatto valere in Europa ildritto della personale resistenza. Chè non so se quelsentimento si trasfonda mai negl' individui distruggendoli o rendendoli schiavi, e se ottimo mezzo possa essere la scimitarra dei barbari per coloro che sventuratamente ne sentivano il peso, ed erano in quel modo conci che tutti sanno, sostituendo alla maestà dell'imperio la forza brutale ed il governo ditantipicciolitirannotti.Nè sosequalsentimento e dritto possa svolgersi in tale sorta di tempi, ne' quali l'uomo era considerato come proprietà dell'altro uomo, e l'uno dominava sull'altro, non in forza d'idee comuni ad entrambi, ma per se stesso ed il suo compagno, il capriccio. Certo ove mi si dirà coll'Ajello che i barbari » ri storaron la nostra vecchiezza con la robustezza e gioventù loro, che ci fecer quasi nuovamente bollire e correre per le vene il sangue, che a colpi di aste e di spade ci scos sero e ci affrettarono per la via del progresso e di moral perfezione, è questo un linguaggio che intendo, ma quando si dirà che gli stessi barbari ci trasfusero il sen timento della indipendenza individuale, non mi verrà fatto d'intenderlo ugualmente. Conciossiacchè l'indipendenza non si sostiene che in forza d'una idea,ed ibarbari non ci portarono alcuna idea puova. Al che mi pare avere splendidamente supplito il Cristianesimo ed in particolarità . ro, del Cristianesimo, all'intutto scomparso. sia chia e  la chiesa cattolica – cosidetta “Romana”. Fu questa che sola in quei tempi si oppose al soprastanteimperio della forza bruta con tutta l'energia della sua gioventù, cheproclamò altamente l'in dipendenza del pensiero e dell'opinione, e svegliò quindi negli animi quel nobile sentimento di dignità personale che i barbari avrebbero suffocato chi sa per quanto tempo e stette in quel mar burrascoso del medio evo come ter ribile e continua protesta contro le usurpazioni della for za. Fu ne'municipi d'Italia che il dritto di resistenza si svolse ed, attulito solo per poco tempo, primamente ri surse con più forza a vita novella. Cosi è a questa Niobe delle nazioni che l'umanità dovrà esser grata della sua civiltà presente, a questa veneranda vestale che non ha cessato mai di vegliare per mantener sempre vivo il fuo. co sagro dell'incivilimento. Ecco come un uomo di cui il nostro paese si onora, Luigi Blanclı, s'espriineva nell'antecedente fascicolo di questo giornale a proposito dello stabilimento dei Normanni in Inghilterra. Or la conquista e lo stabili iento dei Normanni inInghilterra, non ostante che ilCristianesimo avea proclamalo il rispetto dell'uomo indipendentemente dalla sua condizione o dellesuecircostanze accidentali,ma perchè dotato d'intelligenza,di li bero arbitrio e di risponsabilità, non tenne conto di questo alto e salutare principio, e considerò l'uomo vinto come cosa e non come persona, fatto peresser posseduto e non governato. Dicasilostessodei Franchi, dei longobardi, in riguardo ai quali l'opera su cennata del dottissimo Troya ha p o r tato una luce immensa. Ogni buono italiano farà voti che lunga basli li vita a questo nostro concittadino onde possa menare a fine il suo cosi bene incominciato lavoro. DELLE VICENDE DELLA STORIA DELLA DIVERSA FORMA CH'ELLA TOGLIE IN TUTTO IL SUO SVOLGIMENTO. Gli uomini prima sentono senz'avvertire. Primachè l'io cominci a distinguersi dal non -me e dall'assoluto,e a governare e correggerela sensibilità,e secondo sua volontà far uso della ragione, ci ha un tempo ch'egli pressochè ignoto a sè stesso se ne sta avviluppato e come un ascoso e tacito osservatore dei fatti sensitivi e razionali, che indistinti e confusi gli si vengon mostrando nella coscienza. Abbagliato e vinto dalla sensibilità e d o minatodallaragione, egliama, afferma, crede,enon sadiamare, dicredere,diaffermare:permodo chesi direbbe ch'ei sia tutto passivo, se in lui non fosse una spontanea attività, certo involontaria, ma ad ognimodo un'attività, una forza insomma che in sè stessa ha la ragione e 'l principio del suo movimento. Ma a questo primo periodo della vita intellettuale, secondo che noi dicevamo, un altro succede di veramente opposta e contraria natura. Perciocchè, svoltasi a poco a poco la volontà, in che pro priamente è posta la personalità nostra, cominciamo a scorgere che ci ha alcuna cosa che lecontraddice,e però che non deriva o dipende da lei; che infinein mezzo a tanta successione e mutabilità di fenomeni (che sono i volontari e i sensitivi ) ce ne ha di così fatti, che non m u tan viso come gli altri fanno, che in mezzo a quel ma   Ma perchè siavi riflessione (e si ponga ben mente a questo, chè molto ce ne gioveremo) è mestieri che osservando d'una in altra cosa si passi, che prima un lato se ne consideri, indi un altro, e cosi sempre segui tando; è mestieri, a dir breve, della successione degli atli,non sipotendo ben disaminare un obbietto,senza che gli altri si lascin da un canto', e si dimentichino al menoperunmomento.Il perchè tra la spontaneità e la riflessione tra l'altro è questa differenza, che la prima ha un veder largo, istantaneo e complessivo, e la seconda un guardar lento, e uno scrutar succedevole e parziale. E peròse riflettendo non abbiam tutte ad una ad una con siderato le parti dell'obbietto, se giunti non siamo a quel supremo gradodellascienza, che possonsi allaperfinerag gruppare e riunire le parti slegate e divise, e ricostruirne quel tutto stato già scomposto e notomizzato, non cene viene che scienza incompiuta, e l'erroreeziandio,sete ner vorremo per l'intero quello che sia parte soltanto. E difatto pressochè sempre avviene che la riflessione tulta quanta in un obbietto affisandosi, cosi trascurane e di mentica gli altri, che anzi tempo si tiene in possesso di quella verità di cui non ha contemplato e conosciuto che un solo e povero lato. Per il che nella riflessione (e il dichiareremo innanzi più largamente), come in quella che per isvolgersituta ha bisogno della successione degli aui e però del tempo, possonsi determinare tre periodi o momenti che sivoglian dire. Nel primo il “me” e il “non-me” e i loro rapporti son quelli che meglio fanno invito esolletico alla nostra attenzione. Nel secondo, sviluppatici dal contingente, tro viamo l'assoluta nelle eterneverità che sonoci rivelate reggiare, a quel continuo trasformarsi, stan saldi: ed allora finalmente asceverar cominciamo e distinguere dal per sonale l'impersonale, dal me ilnon-me e un certo che d’im mutabile e costante, che è quanto dire l'assoluto. E pe rocchè sceverare, distinguere, recar l'osservazione d'una in altra cosa è propriamente analizzare e un far uso della riflessione; questo periodo ben è stato dai filosofi ad dimandato di riflessione e di analisi in contrapposizione del primo che han chiamato della sintesi e della spontaneità dalla ragione, e ne scopriamo la indipendenza dal me e dalla natura. Nel terzo finalmente, che è il supremo grado della scienza, attraverso a quelle idee assolute traguar diamo l'assoluta Sostanza, di cui quelle non sono che m a nifestazioniedapparenzealcortoe debolesguardodella specie umana. Dalle quali cose è manifesto che la rifles sione, come quella che è molto lenta nelsuo lavoro, e che per l'intera cognizione di un obbietto è necessitata di guardarne ciascun lato partitamento, terrà un periodo i m mensamente più lungo della spontaneità, la quale di sua natura ha un'assai corta vita e fuggitiva. Spontaneità e riflessione, questi dunque sono idue necessari periodi e le inevitabiliforme del nostro pensiero. Nel primo ci son rivelate dalla ragione, comunque al quanto confusamente, tutte le verità prime. Nel secondo null'altro in sostanza aggiungiamo al giànoto;ma, per ciocchè entra in giuoco la riflessione, distinguiamo, analizziamo, scopriamo i rapporti e la generazion delle cose, e dove che prima tenevamo il vero soltanto, poscia abbiamo la scienza: e, per dar alcun che di sensibile alle espressioni, nella spontaneità la ragione svolgesi come in linea retta; nella riflessione ella si rifà su propri passi e conosciutasi alla perfine, sopra sé stessa si torce e si ri piega. Ancora, se nella vita spontanea,tutto è congiunto nel pensiero inuna inviolata e vergine unità, ed avvi vatoevestitodaglisplendidicolorid'una giovaneevi gorosa immaginativa, cuiquellas minuzzatriceelentadella riflessione non è ancor giunta a sturbare ed agghiaccia re; se in quel tempo trascuriamo e quasi ignoriamo noi stessi, e ciecamente credendo alla ragione, ci diamo a tut to che ci paja bello, vero o buono e ilseguitiamo abban donatamente nel caldo d'un amore vivissimo;èmanifesto che quello è tempo di poesia, di canto, d'ispirazione, come il periodo che gli tien dietro è tempo di fredda e severa analisi, di riflessione, che è quanto dire di filosofia: la qual cosa bene fu antiveduta ed espressa dal Vico quando scrisse che tanto è più robusta la fantasia,quanto è più debole il raziocinio. Però siccome nel primo periodo per quel potere che dicemmo dei sensi e della fantasia, non chiediamo e non adoriamo che il bello, o il bene  e'l vero in tanto che belli; nell'altro, fatti più rigidi é spassionati, al solo e nudo vero spezialmente ci inchiniamo, avvegna che non potessimo mai più intutto distorci dalla bellezza. Del rimanente ognun intende che questi due pe riodi, spontaneo e riflessivo, non si limitano in maniera chequandol'unovengaamancare allorasolamente l'altro cominci. Non ci ha mai in natura un limite e un taglio cosi netto tra le cose succedentisi, che non ci sia nel digradare un cotal innesto,in cui lo spirar della pri ma e'lnascer dell'altra vadansi percosidire sfumando, in quel modo che nell'iride quei vaghi primitivi colori. E sul proposito notisi la bellezza delluogo del Vico che abbiam voluto mettere innanzi a questo lavoro: nel qua le oltre che in due righe è detto quel che altri han poi stemperato in tante parole, scolpitamente è indicato quel l'inpestarsi che dicevamo dei due periodi. Perciocchè tra l'etàdelsentireodellaspontaneità, equella del riset tere, u n ' altra è frapposta dell' avvertire perturbato e c o m mosso, che è il primo apparir della riflessione quando an cora in noi è grande ilpotere dei sensi e della fantasia. Tutte queste cose (le quali verremo di mano in mano applicando)volevano esserdettealquantopiùdistesamente e tratto tratto avvalorate e dimostrate con una esatta e scrupolosa osservazione dei fatti di coscienza; ma le son cosìnote oggidi, che sarebbe stata operavana e fastidio sa; spezialmente dopo che quello stupendo ingegno del Cousin le ha esposte con tanta efficacia e chiarezza in più d'una sua scrittura.Ilperchèabbiamsolovolutotoccarle, per mostrar quali sieno in fatto di filosofia le nostre opi nioni, per fermare almen brevemente le teoriche da cui intendiamo dipartirci, e procedere in questo nostro ragio namento il più che sapevamo ordinati e seguiti. PERIODO SPONTANEO Poemi o storie artistiche. Or che abbiamo esposto brevemente e fermato quelle teoriche onde avevamo biso gno, accostandoci e stringendoci al nostro 'subbietto, di ciamo che il primo apparir della Storia è veramente nel poema, e nata che sia la prosa, nella storia paramente  ammirazion delle genti quel grandioso spettacolo ch'ei oon sa bastevolmentea m mirare e magnificare. E qui è da notare che se la Storia nasce poetica, questo avviene pel subbietto e per l'obbietto, vale a dire che non pure avviene per lo stato dell'intel ligenza degli scrittori, chein quei primi egiovani tempi ètutta spontanea e immaginosa, ma eziandio per le con dizioni sociali di quella età; essendochè le antiche società, quanto alle moderne, eran semplicissime, siccome quelle in cui non era contrasto di opposti elementi o principi, ed un solo, come il teocratico nell' Indie e nell'Egitto, tutti gli altri arsorbiva e signoreggiava:la qual cosa non è a dire quanto più armoniche e poetiche lefacesse.Sen zachè sebensièintesochesiaspontaneità,echevalga quell'involontario e irriflessivo svolgersidel pensiero;è chiaro che l'amore, il disinteresse, la gloria, il patriottismo, e tanti altri affetti tuttiespansivi,generosi e gran di, sono a quei tempi le cause e gli stimoli e le occa sioni alla più parte degli avvenimenti, e molti altri v a gamente adornano e illegiadriscono; dovechè nei tempi posteriori è un venir su di tanti piccioli e privati interessi, di tante passioni misere e vili, di tante cupe frodi e in fami tristizie, che è uno sconforto. Onde assai andrebbe lungi dal vero chi pensasse che Erodoto, per esempio, o Tucidide, sceverassero e scartassero dalla narrazione tutti quegli avvenimenti che prosaici lor pareano e indegni delle loro nobilissime istorie.Di prosaico poco o nulla vera nelle prime società, e quel poco eziandio facea su quelle vive e immaginose menti dei Greci assai diversa impressione che sulle nostre non farebbe. Quegli storici adunque non sceglievano fatti da fatti, come ultimamente è stato scrit to, e che sarebbe opera da Boileau, ma abbracciavano, od almeno credevano di abbracciar l'intero, il quale alle lor menti si porgeva tutto fulgidamente colorato ed in vaga  artistica, o vogliam dire che altro più diretto scopo non abbia che la bellezza. Percosso vivamente l'uomo dai fatti maravigliosi e grandiche glisuccedonointorno, olicanta e li celebra nel primo impeto della sua maraviglia, o li narra agli avvenire, non gli soffrendo il cuore che se ne porti iltempo si care e belle ricordanze, e che abbia a toglier per sempre alle lodie alle nobilissima mostra. Se non che costoro tutti intenti come sono alla bellezza delle loro istorie, saran poco solleciti dispogliarla verità delle tante favole statevi aggiunte dalla immaginazione e dall'ignoranza della gente,e per chè il racconto se ne faccia più maraviglioso e attratti vo, assai ve ne introdurranno. Ed infatti seessile narra no, nondimeno il più delle volte non mostrano di aggiu starvi fede, secondo che fanno i nostri creduli e semplici cronisti. Manna, di acuta e squisita intelligenza e carissimo amico nostro, scrivendo non ha guari delle vicende, non della Storia moderna ma della Storia in idea, ha detto che la Cronaca e la Ştoria filosofica son da tenere idue punti estremi di tutto il suo svolgimento. In questo, a dirla schietta, non pos siamo affatto affatto accordarci con lui,e poichèquicade in acconcio, vogliam fare un po'di contrasto a questa sua opinione, e, cel creda, per solo amore alla verità, edancheperfermarquiunpensiero,chenoncièin contrato finora di trovar sostenuto da alcuno. Che la Storia filosofica sia l'ultimo estremo da un canto, il pensiamo e diciamo ancor noi, nè potremmo a l tramenti;ma chelaCronacal'altrosia,questorisoluta mente neghiamo. E qui preghiamo il lettore che non si è stancato di venirci seguitando, che voglia alquanto cre scere la sua attenzione; dappoichè dovendo farci da alto ed in fretta toccar di molte cose, forse che il postro pen siero non si mostrerà così chiaro come noi vorremmo; e temiamo non si annebbi la verità col dir disordinato ed Oscuro. Comunque le società dei tempi di mezzo, per le in vasioni e leoccupazioni dei popoligermanici,che per cosi dire le rinnovarono e rinvigorirono, una sembianza aves sero di freschezza e di gioventù; nompertanto si grande era in loro la parte antica della caduta società,o vogliam dire l'elemento romano, che molto dal vero si scosterebbe chi le stimasse società semplici e primitive, e quei fattie quella sembianza ch 'ei vi trova, volesse recare a ciasc un tempo di nascente coltura: per non dire che all'elemento romano e al germanico si aggiungeva l'ecclesiastico di. Or se noi troviamo la Cronaca nel Medio Evo, non per questo dobbiam credere ch'ella sia d'ogni tempo di nascentecoltura,echeaquelmodolaStorianascaosi risvegli. No certo, ch'ella nasce poetica, tutto chè disordinata e incolta. Nasce neipoemi del Niebelungen, del Cid  lla, e ardita mente poetica; e se quella ci dà epistole,sermoni, eglo ghe, cronicacce ed altra merce cosi fatta; questa ci of fre e novelle e poemi senza fine,e versidiamore eprose di romanzi. niente inferiore, e cresceva la contrapposizione e la guerra. Questo fece che accanto ad una cotalbarbara selvatichezza stesse una cortesia e una gentilezza di tempi assai colti e politi; ad un soverchiar della forza e ad una sfrenatezza senza confine, un'austera virtù ed un'idea assai svolta della moralità e della giustizia, e al volo amoroso e spontaneo d'una giovane e bella poesia, lo strisciar lento è vile di tanti scritti insipidi e senza vita. Di contraddizione c'era dappertutto,finotraifattieleopinioni;ma inniente meglio si manifesta che nella letteratura,spezialmente per quell'uso contemporaneo delle due lingue, volgare e la tina, ch'eran come rappresentanti di due letterature, e che valsero a meglio tenerle disgiunte e distinte. La la tina non era propriamente che un po'di luce trasmessa, un povero barlume riflesso da tutto ľ antico splendore,che non si era potuto interamente spegnere per quel soprav vivere e durar della Chiesa dopo il misero cader dell' I m perio. Pertanto ell'era tutta vecchia, squallida e scompa gnata dalla vita; e dovea essere: perchè gli scrittori la tini (oltre ch'erano frati la più parte, viventisi,a quei giorni assai ritirati e divisi dal mondo )per quel loroim. maturo e sciocco legger negli antichi,ebber della barba rieilmaleenon ilbene;n'ebberoadirbreve,lagrossa ignoranza senza il verde, la vita, la spontanea vigoria. Dal che provenne ch'eglino desser poi fuori di quelle smorte eanfibie scritture, barbare a un tempo,e fredde e scolorate; le quali solo il Medio Evo poteaci dare, e di cui per mala ventura ci ha fatto si ricco e grazioso pre sente. Con due lingue adunque nel Medio evo son due let terature d'indole e di forma differenti: una tutta smorta, scarna e prosaica, l'altra tutta fresca e bella,   La Cronaca dunque è merce da mezzi tempi, per ciocch'ella nacque dalle condizioni di quell'età, è veduta in altro tempo d'incivilimento che spunti e ger mogli. Onde il signor Manna, per la troppafretta forse, si è lasciato andare in un errore simigliantissimo a quello del Vico, che pensò la Cavalleria potersi trovare in ogni tempo primitivo, e sconobbe ch'ella fu ingenerața  tra i crociati in Levante, cosicchèvideroco'propri lor oc edellaTavola Rotonda;ecompostasi'escaltritasilaprosa, nasce in Villehardouined in Joinville che certo cronache non sono; od almeno in Guglielmo di Tiro, in Alberto d'Aix, inRaimondod'Agiles, inRauldiCaen, enegli altri entusiastici e vivaci storici delle Crociate. E non si dica che tra costoro parecchi eran frati, e che questo fatto in certo modo contraddica al nostro pensiero; dappoichè anzi il riferma assai bene, mostrando che tostochè essi usci ron di quelle condizioni che dicevamo, altramenti scrissero le istorie loro. Basti dire che di quei monaci altri furon ehi quei mirabili fatti che ci han narrato; ed altri furon sospinti in mezzo al mondo dall'improvviso turbinė che a quei giorni sconvolse l'Europa, e dal vivissimo entusias mo che vi accese tutte le menti Imperò vivendo eglino meno divisi dalla società, dettero finalmente alle lor nar razioni quel colore e quella rappresentazion della vita e dei costumi del tempo, che nelle cronache indarno cercherem mo, e che sarebbero affatto perduti per noi, se non ci fosser rimase della volgar letteratura tante opere bene rap presentevoli ed esprimenti, come sono, sebbene alquanto posteriori, le novelle del Boccaccio e del Sacchetti, e le istorie del Villani, del Compagni e del Malespini. enonsi tali cagioni, che son tutte proprie del Medio Evo, e che in altre età indarno si cercherebbero. Ci mostri il sig. na non dico una Cronaca Man,maunsolframmentodiCro naca prima d'Erodoto.Quanto a noi,fermamente pensiamo che se potessimo avere tutto quel che in Grecia si scrisse nanzi a costui,non troveremmo ip mente che storiemaravigliosa poetiche, comechè ordinate con manco d'arte, e quel che è più sicuro, poemi, e canti guerreschi polari. Veramente ci fa maraviglia e po ingegno del Manna che quell'avveduto non abbia scorto,che avendo eglidi  viso tutto lo svolgimento storico in artistico e filosofico, era necessità che quanto più si ascendesse ai primi tem pi,piùdipoesiaed'artevisitrovasse.Orcome può trovarvi egli quelle insipide ed agghiacciate cronache m o nacali? In esse, se ne togliete l'ignoranza che è vera mente degna d'una cultura bambina, ilresto ci sa più d'avanzo dispenta e grave letteratura,che di comincia mento d'una nuova e leggiadra;e a dirla in due parole, non ci vediamo che elemento romano ed ecclesiastico. E quando si pon mente che per lo più furon monaci i lor compilatori, quasi intutto, come dicemmo, segregati dal mondo, e quel che è più, non d'altro conoscitori che d'al cun latinoscrittore;quando sipon mente a questo,non sappiamo chi possa far lungo contrasto e non accostarsi alla nostra opinione. Manna adunque, scambiando un fatto con lo svolgimento dell'idea,'equel che accade con quelcheé, ha creduto logico un antecedente meramente storico efor tuito.E sipotrebbedirech'eglicredaalricorsodellena zioni, se per divinare un fattoprimitivo ha toltoesempio non da nascente, ma da rinascente coltura.Perciocchè vo lendo egli parlare dei napolitani storici, e non trovando nei primi tempi che i cronisti longobardi, se n'è lasciato ingannare,ed ha stimato che la Storia a quel modo na scesse;eche inquellesueteoricheeipotessefermareche la Cronaca e la Storia filosofica fossero gli estremi di tutto lo storicosvolgimento.Sei volevatrovare nellanapolitana letteratura ilprimo apparir della Storia, almeno cercar lo dovea in Guglielmo di Puglia, e in quel poema che serisse, allorchè le ardite e fortunate imprese dei Nor manni fecer maravigliare questa estrema parte d'Italia. Per lequali cose,conchiudendo diciamo,cheleprime istorie sono i poemi,indi le narrazioni puramente artisti che; che questo avviene pel subbietto e per l' obbietto vale a dire, per lo stato dell'intelligenza dello spetta tore, e per quello della società ch' ei ritraenei suoi rac conti: infine che la Cronaca è scrittura propria dei mezzi tempi, e quanto alla Storia moderna, ella è storico e non logico antecedente. PERIODO DI RIFLESSIONE. Ilme, il non-me e I loro rapportic hiaman dunque i primi e sforzano la nostra attenzione: e se questo è vero  Storia morale o Secondo che detto abbiamo, corta durata ha S. Momento del MB e NON-MB. politica. quel periodo di spontaneità, e tosto nasce e si educa la riflessione per aver vita assai più lunga e meglio svolta.Ve ramente ch'ella con quel suo analizzare e sminuzzare ogni cosa,con quel suo lento e sospettoso procedere, or in questoorainquell'obbiettopartitamente affisandosi,to glie ardire allaimmaginativa, ed or ne soffocaeimpedi sce, or ne scolora ed agghiaccia ogni spontanea creazione: nompertanto induce lo spirito umano, non certo in più belle,ma inpiùgraviesodecontemplazioni,cheapoco a poco e come per mano il trarranno a quella compiuta e ordinata scienza, che è l'ultimo obbietto, e insieme la pace e 'l riposo della sua irrequieta intelligenza. Or noi dicemmo che la riflessione di sua natura è parziale e suc cessiva, e che tutto ilsuo svolgimento potrebbesi distin guere intre parti o momenti, onde il primo è quello del meedelnon-me. E difatto,chivogliaun trattoprofon darsi nella coscienza, vedrà che se ci son fatti che più chiamino e sforzino l'attenzione, certo sono i sensibili, indiivolontario personali.Isensibilicomequellicheson manco intimi e profondi,e quasi esterioriall'animo,sono i più vivi ed appariscenti, e imeglio osservabili;eivo lontari o personali vengonsi lor mostrando allato tenace mente, perciocchè l'impersonalità della sensazione indica subitamente e rivela la personalità nostra, e quell' assi duo tramutarsi e succedersi dell'obbietto ci reca al senti mento d'alcuna cosa che duri attraverso a quella indefi nita varietà delle sensazioni, che è l'identità delsubbietto. Quanto aifattirazionali,questiinverosono imenoap parenti, perchè non simostrando che in mezzo allamu tabilità e alla determinazione dei sensitivi e dei volontari, tolgon sembianza mutabile e determinata, e ci ha mestieri diaccorta e ben ammaestrata osservazione per poterneli sceverare, e svestire di quella falsa e mendace apparenza.  (come vero è), ecco qual nuova faccią prenda la n o stra intelligenza, e di quanto questo primo momento della riflessione si discosti dalla spontaneità. In questa ilme non si scorgendo ancoradistinto da quel che lo inviluppa e nasconde, e lasciandosi intutto andare a seconda della ra gione e della sensibilità, senza mai volgersi indietro e por menteasèstesso,èchiarocheseogniattoalloraèfe de, amor vivo e caldissimo, ed estatica contemplazione ha da essere altresi pieno e bello di nobile disinteresse; doveché nel primo momento dellariflessione,per quel ne cessario mostrarsi e dintornarsi della persona, per quel considerar la natura solo in tanto che ne dia pena o di letto, come pressochè tutto è dubbio, amor proprio, e sospettosa e lenta osservazione, cosi pure le opere nostre la più parte generate da personali e interessate cagioni; e se prima moveaci il bello,e il bene e ilvero intanto che belli, muoveci dappoi l'utilità. Dicevamo che la Storia si farà a cercar l'utile; poi con un tal rude passaggio alla moralità sola il riduceva m o, come se niente altro esser ci potesse d'utilită, quivi tutta si raccogliesse. Per voler soddisfare a questo dubbio, e farci incontro a parecchie altre objezioni che ci sipotrebberofare,dichiareremoalquantomeglio ilno stro pensiero, e il rafforzeremo in fretta almen tanto che basti. Tolto via l'utilità fisica, che in verun modo non ci potrebbe venire dal racconto dei fatti delle nazioni,l'uti Jità non può veramente esser posta, che nel giovare al l'uomo o come agente morale, o come creatura intelli gente; perocchè non si potendo allettare la sensibilità, alla Storia non resta che correggere la volontà, o svolgere e  saran per Però la Storia, dopo che si è mostrata puramente artistica, vorrà avere uno scopo che le paja manco vano, e che dia più pronti e certi frutti; vorrà insomma esser utile, ed eccovi apparir la Storia morale, la quale, se più non guarderà la bellezza siccome unico ed immediato suo scopo, se ne gioverà nondimeno per ornare ed avvivare i suoi racconti, essendochè l'uomo, come dicemmo, po scia che l'ha un tratto conosciuta, mai più non si di stoglie dalla bellezza. costantes generi, contumax etiam adversus tormenta servo rum fides. Ond'iomi maraviglio che ilsignorMannaabbiapo tuto sconoscere questo si manifesto intendimento di Tacito, dandogli uno scopo meramente artistico, com'ei si da rebbead Erodoto. E mi pare che in questosbaglioeisia caduto, per aver troppo semplicemente diviso tutta la vita storica inartistica e filosofica, nonbadando che seconla riflessione si può dir che cominci l'amor del sapere ola filosofia, non per questo ella è filosofia, intesaintuttala determinazion della parola, cioè la scienza già ordinala formata; e per dir più chiaramente, che innanzi all'ul tima forma sua ben può la Storia esser riflessiva, e non esser pertanto ancor filosofica. Il perchè non potendoegli di buona fedetrovare in Tacito la sua Storia filosofica ha dovuto di necessità trovarvi l'artistica,quantunquela Storia avesse in lui cangiato natura, essendochè l'artedi primo scopo e signora ch'ella era, è divenuta istrumento ed ancella. SMomentodelleveritàassolute.- Storia positive. Per affisarsi che faccia la riflessione al subbietto e all'ob bietto e ai lor rapporti, verrà tempo alla perfine ch'ela sarà percossa da quella strana immutabilità e indipendenza dei concetti della ragione; che anzi quello stesso atten dere ed osservare i fenomeni sensibili e volontari sarà ca gione che le si dimostri l'assoluto; essendochè di due o più cose non pur dissimiglianti ma opposte sieme e confuse; più pensando ed osservando ne distrigate e dintornate l'una", più l'altra vi si porgerà chiara edi stinta. L'osservare che sopra una sorta di fenomeni non ha potere la volontà, e che lo stesso non-me non sipuò sottrarre a certe.leggi immutabilissime e salde, fa chesi vadano sempreppiùdistinguendo e sceverando ifatirazio pali, e apertamente se ne vegga la indipendenza dalsub bietto e dall'obbietto. Oltre diche,inquellaguisachela impersonalità dei fati sensibili rivela e determina la per sonalità dei volontari, cosi la mutabilità, la contingenza, la naturafinita e dipendente dell'animonostroe delana tura,distintamente cisvelal'immutabile,l'infinito,l'as soluto; l'essere, in una parola, il quale non che dipen  e strette in   dere da altre cose, a tutte anzi è sostegno e fondamento. In questo secondo suo momento adunque la rifles sione,disviluppatasidal contingente,separaepone l'asso luto,o vogliam direl'eterneveritàrivelatecidallaragio ne. E però ch'ella suole, dimenticando gli antichi, tutta a'nuovi obbietti abbandonarsi, e massimamente dopo che ha scorto, che ilme e ilnon-me non son poi gli ultimi termini della scienza, e che ci ha alcun più degno e nobile obbietto intutto indipendente da quelli,e che anzi abbrac cialiecomprende,e pon loroelimitieleggi,da'quali, tramutinsi pure a lor posta, mai uscir non possono, o sottrarsene.E megliovedràl'importanzae ladignitàdel l'assoluto, quando si sarà avveduta che non ostante la caducità e l'impersetta natura del contingente, le verità nondimeno stanno e sopravvivono.Di questo procederà che alle personali vedute del primo momento altresuccederanno impersonali e disinteressate, e seprima chiedevasi l'utile, il vero poi soprattutto si chiederà. Eosi la Storia che abbiam veduto correr dietro al l'utile,volgerassi a più nobile scopo escientifico,enon vorrà che il vero; e purchè il trovi e narri, le parràdi aggiungere l'ultimo e naturale suo scopo. Vero è, che non si essendo anco giunto a tale con la scienza, che basti e valga a ricongiungere e riferire alla prima Sostanza quelle assolute verità, e a considerare il vero come rive lazione dell'infinita Intelligenza. Vorrà la Storia il vero, ma senza sapere iltrovarlo infine che importi;e conside randolo partitamente nei fatti in tanto che esistenti e a v venuti, scambierà il reale col vero, e solo vedrà negli avvenimenti la vicina dipendenza di cause ed effetti, non si elevando mai a più larga e lontana connessione. Per tanto degli Storici di questa età, sola e prima cura sarà trovare i fatti e accertarli, mostrarne le immediate o poco lontane cagioni, o almeno le occasioni e i rapporti, e solo che dieno una tal quale narrazione di importanti e certi fatti, nissun pensiero si prendono del rimanente, e par loro adempiuto ogni ufizio eche laStoriasiafatta.E non pen sate ch'ei sipiglino affanno di virtù e di vizi,di giusto edingiusto,diquestaoquellacredenza;evidanno a divedere una freddezza e un'indifferenza, che c'è da sconsolarsene, per modo che vi sembra non abbian cuore,o senso morale, e sien tutto pensiero e intelligenza. Il qual morale indifferentismo stimiamo sia tra l'altro ingenerato dai costume di quelle età ch'esser sogliono assai guastie dissoluti:onde avviene che disperato si del miglioramento, appoco appoco l'animo vi si adusa, e dopo di averli con siderato come un necessario male e durissima legge del l'umana natura,finirà colvenire in quella tristae scon solante indifferenza, di che non è stato che sia peggiore. Anche questa maniera di Storia vediamo adunque inrap porto manifesto con l'obbietto e col subbietto, con lo svol gimento progressivo dell'intelligenza, e con le sociali c o n dizioni dell'età in cui suole apparire. Se non che, acció che non ci si dia non meritato biasimo, vogliam qui fare avvertire che se noi riferiamo la Storia al subbietto e al l'obbietto, questo facciamo per guardar la cosa da più lati, e non perchè ci sembri che quelli in sostanza sien diversi rapporti. Conciossiache limitando noi l'obbiettività al solo mondo civile, il quale, come ha detto il Vico, è fatto dall'uomo, ci avvediamo che il riferirvi la forma che vien prendendo la Storia,egli è come riferirla un'al tra volta allo svolgimento della nostra intelligenza. Questi sono gli storici, che abbiam chiamato positivi. E molti potremmo indicarne che più o meno van com presi in quel numero; ma ci piace di nominar soltanto il Davila e il Macchiavelli, come assai vivi esempi di que stageneraziondinarratori.Solovogliamo quiricordare che se in molti di questi storici alcun che ci ha di arti stico, morale o politico, non per questo non son da te nere per positivi, quando loro intendimento sia stato il narrare ifatti che veri stimavano senz'altra briga.Dap poichè se nell'ideale e nella scienza tutto è ben distinto e determinato, nella realtà per contrario tutto intrecciasi e confonde, e mai non si ha il fatto cosi nudo e segre gato dagli altri che gli stan dallato, o che lo han pre ceduto o seguiranno, secondo che la scienza lo ha de scritto. Cosi questa famiglia di Storici è a parer nostro assai numerosa e comprensiva; e risolutamente vi chiu diamo e 'l Guicciardini e l'Hume e'l Gibbon e 'l Giannone e 'l Robertson, avvegnachè di costoro, chi voglia solo un lato considerarne, alcuno dirà artistico, un altro forse chiamerà morale o politico, e in quegli ultimi per avventura gli parrà già di vedere l'ultima forma della Storia, che è la filosofica, e di cui or passeremo a ragio nare. Per ilche,quando perassaisecolisièveduto un sorgere e fiorire, e un cader d'imperi e di nazioni, una catena lunghissima di successi grandi; quando in somma il dramma storico dell'umanità di tanto è cre sciuto,che sene può avereun'assai larga e svariata esperienza;èforzacheavedersicominci allaperfine e un tal ritorno di avvenimenti al tornar delle stesse ca gioni, e certi costanti rapporti e lontanissime dipendenze, e una certa comune natura delle nazioni sotto alle dissi miglianze grandi che son tra loro. Oltre di che al rovinare e mancar di tanti regni potentissimi, di tanti vasti e splendidi imperi, che pare a non on d o vermi finire', e  Storia filosofica. S.III. Momento delle verità assolute come manifestazione La riflessione di sua natura, quanto più va innanzi nel suo lavoro, della prima Sostanza. Tanto più visi addestra, ed acquista di acume e di profondità, e noi tratto tratto più incontentabili ci facciamo e vogliosi di sapere. Dopo di aver separato e distinto il meeilnon-me,siamocielevatialquantopiùsu,edat traverso alla vicenda ed alle permutazioni del contingente, abbiamo intraveduto e scorto l'assoluto in quelle immu tabili verità, che son come le leggi del pensiero e della natura. Ma giunti che siamo a questo punto di conoscenza, veggendo che quelle assolute verità non derivano o dipendono di sorta dal subbietto e dall'obbietto; qual sia dimandiamo la lor sorgente e derivazione, di qual sostanza essi fenomeni sieno manifestazione nella nostra intelligenza. E questa interrogazione torna inevitabile e necessaria per quei due principi disostanzae dicausalità, che non ci lascian mai, eche ad ogni fenomeno,ad ogni cosa che cominci,a trovare o pensar ci sforzano una so stanza e unacagione.Le veritàassolute adunque noi ri feriamo e leghiamo all'assoluta Sostanza,all'Essere crea tore e intelligente, e quivi soffermasi la riflessione niente altro chiedend, vi si appaga e riposa. e  tutto in loro accogliere e stringere il futuro destino dei p o poli; non può la disingannata intelligenza non distorsi da quell'angusto e caduco spettacolo, e non elevarsi a più larghe esublimi considerazioni. E scorgerà che iregnie gl'imperi non son poi che apparenze peculiari e fuggenti, è che fra tanta vicenda e permutazion di fortuna,duran nompertanto le umane generazioni e governate da costan tissime leggi;e da tanti sanguinosi elacrimevolicasi,da tanti mali e miserie incredibili, risorgon sempreppiù a m maestrate e possenti,come se cavasser benedalmale,e a simiglianza d'un nobilissimo fiume, il quale non che scemare e impaludarsi tra la rena e i sassi e i dirupi, sempre crescendolesue acque,alteramenteprocedeverso l'infinito mare che l'attende. Pertanto a quel modo che riferiamo le leggi del pensiero alla prima Intelligenza, e le abbiamo per un suo apparire e rivelarsi nella ragione; così pure quelle discoperte ed osservate leggi dellaStoria riferiamo al primo Essere, e le consideriamo come forma visibile dellamente e del disegno di lui sopra il destino degli uomini, che è quanto dire come la stessa Provvi denza divina. Quando adunque dalla mutabilità, dall'incostanza e dalla contraddizione del reale, elevar ci sappiamo insino all'idealeeilconsideriamocome espressionedellamente di Dio; quando più non vediamo nella Storia una for tuita o capricciosa successionediavvenimenti,ma losvol gimento di un'idea nel tempo, e l'adempimento sopradi noidel provvidodisegno del Creatore. Sorgerà quella Storia che detto abbiamo filosofica; e, conciossiachè la riflessione non vada più oltre, questo è l'ultimo e più n o bile grado a cui possa ella giungere. Or questo supremo pensiero,questo provvido disegno di Dio sulle umane generazioni, certo in niente meglio si dimostra che nella Storia della religione; e se aggiun gete che solo il Cristiano incivilimento pote acidare una cosi fatta Storia; che, dalla nostra infuori, niun'altra religione non ha avuto un si chiaro e non interrotto cam mino attraverso a tutte le età; che la scienza infine non avea a cominciar da capo e far tutto di per sé, percioc ehè ella potea lavorare per un sentiero ch'or silascia in travedere, or profondamente è segnato nei Libri Santi; non è dubbio che dei cinque elementi della Storia, che sono l'industria, lo stato, l'arte, la filosofia e la religione, dovea quest'ultima prima costringer l'attenzione dei nostri scrittori, e, lasciatisi da un canto gli altri quat tro, informare a suo modo la Storia,e invadere a prima giunta e assorbire tutta la vita delle nazioni. Di qui av verrà che questa prima e incompiuta Storia apparirà anzi teologica che filosofica. E tale infatti è quella del Bossuet, per essersi quel dottissimo Vescovo tutto chiuso e raccolto nel Cristianesimo, e fattolo centro, scopo e m i sura a tutta la Storia dell'umanità. Ad ognimodo quello è il primo passo verso la Storia filosofica, e il primo n a scere e incarnarsi di quella idea, che dopo meno di un secolo vedemmo tanto allargarsi nell'Herder, che in quel suo stupendo lavoro tutti abbracciò ed avvinse gli elementi della vita delle nazioni. Se non che la Storia dell'umanità non si sarebbe per avventura a tanto alto grado elevata nell' Herder, se QUEL MARAVIGLIOSO E POTENTISSIMO INGEGNO DI GIAMBATTISTAVICO non avesse prima, con lo scriver la Scienza nuova, fondata ne la filosofia. Di quest'opera straordinaria assai volentieri parleremmo, ch'ella è primo vanto e gloria nostra, e Dio sa quantoci gode il cuore in pensare che abbiam noipure il nostro Dante; m a sarebbe un varcar quei limiti che ci siampostiinquestolavoro:dappoichènon abbiam voluto intrattenerci intorno alla scienza della Storia, m a solo indicare una opinione che avevamo del suo progressivo svolgimento,cavandolo daquellodelpensieroumano.Non però di meno vogliam mostrare che quell'idea che d'una vera e compiuta Storia filosofica osservando e ragionando ci siam fatta, quella stessa aver partorito e fecondato la Scienza nuova.Infatti, poichè il Vico dallo studio psico logico dell'uomo ebbecavato quella sua comune natura delle nazioni, vale a dire le leggi universalissime della Sto ria, andò fino a riferirle alla prima Cagione, e le tenne espressione visibile del Consiglio divino; ond'ei medesimo scrisse,l'opera sua doversi riputare una Teologia sociale e una storica dimostrazione della Provvidenza. E concios siache per potersi elevare, sccondo che dicempo, dal  reale all'ideale, ei bisogna che il primo ci sia noto, as sai giovossi il Vico della FILOLOGIA DELLA LOQUELA DEL LAZIO, che al dir del Michelet, è la scienza del reale, o dei fatti storicie delle lingue; e sull'ale poi della filosofia cacciossi in quella potente e lontana astrazione. La filologia adunque e la filo sofia, cioè le scienze del reale e del vero (ch'è l'idea le ), son le due fecondissime sorgenti a cui ha attinto la Scienza nuova; e una storica dimostrazione della Provvi denza è l'ultimo e proprio suo obbietto. Ma se grande nella Scienza Nuova è la parte del l'uomo e di Dio che fuungran passo do poche il Bossuet in Dio solo s'era affisato ), la parte del non-me o della Natura è nulla, o incerta e poverissima; la qual cosa poi tanto crebbe e ingigantissi nell'Herder per sual filosofia di quel tempo,che l'uomo ne venne presso cheschiavoallaNatura,ev'ebbeaperdereilsuoli bero arbitrio. Perciò questo elemento tra l'altro devesi aggiungere alla Scienza Nuova;essendochè l’Uomo,Dio e la Natura sono i tre obbietti alla filosofia, e questi stessi entrar debbono,e in bell'armonia legarsi nella Storia, sesivorràch'ellasiacompiutae perfetta,echearrivi a quell'idealesupremo cheil progresso della scienza ci promette,e cheledotteedoperosefaticheditantichiari uomini del nostro vivente ci fanno sperare non lontano Raccogliendo ora tutte le coseche inquesto secondo periodo abbiam toccato,diciamo che la Storia dopo di es ser nata artistica vuol esser utile, indi vera, ed ultima mente filosofica; che questoavvieneper l'obbiettoepelsub bielto, secondochè abbiamo or detto espressamente, or sol tanto lasciato intravedere. Quanto alle vicende e al progressivo cammino della Storia,questo è il nostro pensiero. E qui porremmo fine al nostro lavoro se tutti i lettori così fossero, li vorremmo. Ma ci ha di tali uomini, che non san ve dere nei fatti che dissimiglianze e contraddizioni, e non si elevando più che tanto, stringer non sanno più di due cose insieme, e non diciamo porre un po' d'ordine e d'armonia in quel caos d'avvenimenti, ma nemmanco innalzarsi a un sol pensiero, a un qualche men che vi la sen gran fatto. come noi cino rapporto. Costoro certamente vorranno che tutta la Storia vadasi per cosi dire a adagiare nel disegno che in fino a qui siam venuti delineando, e che d'ogni Storico subito e chiaramente si possa diffinir la natura e 'l tempo del suo venire; e perocchè questo, non potendo essere non viene lor fatto, eccoveli gridar tostoall'errore e al sistema: come se i casi valessero a romper le regole, e come se negli uomini non fosse libero arbitrio, ed oltre alla ragione non fosse la personalità del volere, la quale di quanto conturbi, e modifichi, e arresti e affretti al l'idea il naturale e logico suo svolgimento, non è chi non vegga. Per non dire che in alcuni storici la stima e l'imi tazion dell'antico, in altri l'indole o le false opinioni o la povertà del sapere son cause che sovente essi dienci parti fuori tempo; e che ifatti talvolta sembri che vadano a ritroso con le idee. E valga l'esempio delBotta venuto troppo tardi per esser, com ' egli è, storico morale e p o litico. Oltre di che alcuni, venuti nella intersezione di due periodi, e però accogliendo quel che cade e quel che sor ge, hanno in quei loro scritti alcun che d'indeterminato, il quale cosi n e asconde e sforma la vera faccia, che non sapreste a quale specie di storici li dobbiate propriamente riferire. Cosi in Livio vediamo a un tempo l'artistico e'l patriottico o politico e anche un po' del morale, ed era mestieri per i tempi in che scrisse; in Sallustio ancora l'artistico, ma il morale più determinatamente; in Sveto nio quasi intutto il positivo. Del rimanente il reale o quel che accade può ben rifermare, ma non ha potere di con trastar l'ideale o quel che è: laonde se la nostra osser vazione psicolologica è stata accurata,esatta e compiuta non ci si avrà a contraddire, e le vicende della Storia quelle saranno, che abbiamo fuggevolmente descritto.Giambattista Ajello. Ajello. Keywords: Roma antica nella filosofia di Hegel. Refs: Luigi Speranza, “Grice ed Ajello” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Albergamo – Crotone– filosofia italiana – Luigi Speranza (Favara). Filosofo italiano. Grice: “Albergamo is a fascinating author – a very Italian philosopher who can teach Lucrezio and the classics at the ‘gym,’ as they call it, and yet survey the ‘storia delle scienze essate’ and the ‘storia delle scienze empiriche.’ Alla Bridgman, he is into ‘the logic of the science.’ But he can also define the ‘spirit’ in terms of ‘freedom.’ He has also analysed, vis-à-vis- his interest in Galieleo and science, the very Italian idea (already in Cicerone) of ‘super-stitio’ and magic – his approach to these matters is phenomenological, which coming from Favara as he does, is understandable!” --  Filosofo. e un pioniere della filosofia della scienza in Italia. Nato a Favara, in provincia di Agrigento, da Giacomo e Giuseppina Butticé. Suo nonno era un ricco proprietario di una rinomata pasticceria di Favara. Il padre, ferroviere, fu trasferito prima a Messina e poi a Palermo, portando con sé la famiglia. A causa di questi trasferimenti, svolge gli studi liceali da autodidatta, conseguendo poi la laurea in filosofia presso l'Palermo.  Nel 1931, vinto il concorso a cattedra di storia e filosofia, si trasferisce a Trapani, dove insegna al liceo classico Ximenes, e dove sposa Maria Carmela Rizzo, da cui avrà quattro figli. Insegna poi a Benevento ed infine a Napoli presso il Liceo classico statale Vittorio Emanuele II, dal 1936 al 1967.  Pressoché tutta l'attività filosofica e didattica di Francesco Albergamo si svolge a Napoli, ed è caratterizzata dal clima culturale molto vivo nella città di Benedetto Croce. Come filosofo, si dedica a due principali linee di attività. La prima è dedicata all'insegnamento ed alla didattica della filosofia, l'altra allo studio del rapporto tra filosofia e scienza. In entrambe le linee, il suo lavoro ha avuto una grande caratura culturale, e la sua personalità fu considerata, nella città di Napoli, di grande spessore etico, per la generosità e l'impegno che hanno contraddistinto la sua vita.  Circa la prima linea, il ricordo della sua attività didattica è rimasto a lungo nei tantissimi giovani che hanno ricevuto una solida formazione filosofica di cultura laica, razionale, liberale. Vero è che a Benevento, dove aveva insegnato per soli due anni, gli è stata dedicata una strada che, significativamente, parte da Piazzale Benedetto Croce per poi ricollegarsi a Via Francesco de Sanctis.  Al Liceo Classico Vittorio Emanuele tra i diversi allievi che si sono distinti nel campo della filosofia e della cultura ricordiamo in particolare due delle figlie di Benedetto Croce. Il suo nome è ricordato in una lapide dedicata alle più illustri personalità che vi hanno insegnato, tra cui Giovanni Gentile. Oltre all'insegnamento nei licei, è stato libero docente di filosofia teoretica presso l'Napoli, dove ha svolto una intensa attività di corsi e conferenze.  Con i suoi manuali di storia della filosofia, e con numerose pubblicazioni dedicate ai licei, FA costituisce un importante punto di riferimento nella didattica della filosofia a livello nazionale, prima per il classico e poi anche per lo scientifico. Una notevole attività è anche dedicata alla formazione dei docenti di filosofia, con numerosi articoli, pubblicazioni, corsi e conferenze.  L'altra linea di attività, quella dedicata allo studio del rapporto tra filosofia e scienza, si snoda lungo un arco di tempo molto vasto, che va dall'inizio degli anni '30 fino alla sua scomparsa. I risultati sono confluiti nella pubblicazione di importanti saggi filosofici. Di formazione idealistica e kantiana, appena trasferitosi a Napoli, nel 1936, instaura un rapporto stretto con Benedetto Croce, con frequenti visite e colloqui nella sua abitazione a Palazzo Filomarino, guardata a vista dalla polizia.  Dalle sue lettere a Croce si evince un chiaro riconoscimento di Croce come suo Maestro, oltre a forti sentimenti di devozione e di sincera amicizia.  In particolare, alla caduta del fascismo, esprime al Maestro la sua "profonda gioia" perché "finalmente l'Italia comincia a incamminarsi per la via maestra che le avevate additato", e prosegue poi: "Gioiamo della gioia vostra e dei vostri cari: della gioia che ora, dopo tutto quello che voi, giusto, avete sofferto, aleggia sulla vostra casa. Questo rapporto si affievolisce a partire dai primi anni '50, quando più che la filosofia fu la politica a provocare un allontanamento di Francesco Albergamo dall'ambito crociano, per aderire progressivamente agli orientamenti ed alle ideologie della sinistra e del marxismo. Già agli inizi degli anni '50, aderisce al movimento dei "Partigiani della Pace", nato a Parigi nel 1949 sotto il simbolo della colomba della pace, appositamente dipinta da Picasso,stringendo una forte amicizia con Lucio Lombardo Radice, Maurizio Valenzi, Renato Caccioppoli, Ambrogio Donini e altri.  Nell'estate del 1952 partecipò ad una delegazione in visita alla repubblica democratica tedesca, assieme a Pajetta, Guttuso, Flora. La visita era, naturalmente, finalizzata a diffondere ed esaltare le "conquiste del socialismo". Di ritorno dal viaggio, il Ministero dell'Interno dispose il ritiro del passaporto, e quello della Pubblica Istruzione gli comminò una ammonizione, come se avesse abbandonato il servizio senza autorizzazione, mentre il viaggio era stato fatto nel periodo di chiusura estiva delle scuole. Fu forse questo episodio, che Francesco Albergamo considerò una manifesta soperchieria di stampo scelbiano, che lo indusse l'anno successivo ad iscriversi al PCI, salutato da Togliatti con un cordiale telegramma di benvenuto.  Nel corso di tutti gli anni '50, partecipò attivamente alla vita culturale e politica della città di Napoli, che in quel periodo era in grande effervescenza. Il movimento culturale della sinistra napoletana non si riconosceva pienamente in una ideologia, come afferma Gerardo Marotta, "ma si fondava su un dibattito filosofico che traeva i suoi succhi da un corale sforzo di comprensione del proprio tempo. Il dibattito raccoglieva e valorizzava l'eredità culturale degli illuministi e degli hegeliani napoletani del secolo precedente, attingendo alla lezione storicistica meridionale che va da Vico a Croce, passando per F. De Sanctis e G. Salvemini, e collegandosi poi al pensiero di Antonio Gramsci.  L'Albergamo partecipa con conferenze che venivano organizzate dalle associazioni culturali napoletane tra cui "Cultura Nuova" ed il "Gruppo Gramsci", ed accetta, sia pure a malincuore, una candidatura del PCI alle elezioni comunali di Napoli.  Il problema del rapporto tra filosofia e scienza viene visto in termini di nuovi modi e nuovi contenuti per la didattica delle scienze e della filosofia. Tra i primi in Italia, ed in aperta polemica con la scuola crociana ed il clima dominante, Francesco Albergamo avverte i rischi, per lo sviluppo della società italiana, di una cultura prevalentemente classica: Con la seconda rivoluzione industriale che è in atto in tutto il mondo, noi italiani non ci possiamo permettere il lusso di rimanercene ancorati ad una cultura prevalentemente classica ed umanistica."  L'Albergamo lavorò con la passione di una intera vita, fino a pochi giorni dalla sua morte. L'ultimo suo scritto uscì postumo su "Critica" marxista. In seguito alla sua scomparsa il quotidiano comunista L'Unità dette notizia della sua scomparsa con un lungo saggio. Possiamo, per semplicità di esposizione, dividere l'opera dell'A in tre periodi. Nel primo periodo, il pensiero dell'Albergamo si muove nel quadro di una concezione filosofica di tipo idealistica, dominata in Italia da Croce e Gentile. Tuttavia, più che alle tematiche tipiche dell'idealismo, è interessato ai problemi nuovi che si pongono al pensiero filosofico a causa dello sviluppo impetuoso della scienza nel novecento, in particolare nei settori della fisica relativistica e quantistica, della matematica, e della biologia. Albergamo precorre, in una prospettiva idealistica, la necessità di un dialogo costruttivo, osmotico, della filosofia con le particolari discipline scientifiche ed empiriche.  Nel primo lavoro scientifico (1), richiamandosi all'insegnamento di Kant, sostiene che la scienza, come esperienza dell'attività dello spirito, è resa possibile dalle forme trascendentali. Tuttavia, sostiene l'Albergamo, gli sviluppi più recenti della matematica (geometrie non euclidee, matematiche non archimedee, gli iperspazi, ecc.) e della fisica (teoria della relatività di Einstein, meccanica quantistica, principio di indeterminazione di Heisenberg) provano la contingenza di tali forme trascendentali,. Affronta anche il problema, fortemente dibattuto, dell'alternativa tra determinismo ed indeterminismo, e perviene alla conclusione che anche l'alternativa indeterministica sia egualmente legittima: la conoscenza scientifica può essere costruita anche se si ignora il principio di casualità e si finge che i fenomeni si succedano a caso, secondo le leggi matematiche della probabilità. Queste tesi originali furono apprezzate e commentate, all'epoca, da diversi filosofi italiani, tra cui C.Ottaviano, Aliotta, ed altri, fino a pervenire ad una ampia esposizione della problematica filosofica connessa alla scienza del novecento. Il saggio La critica della scienza nel novecento", pubblicato in prima edizione nel 1942 e poi più volte ristampato fu giudicato "assai pregevole" da Croce. Di questa opera, Guido De Ruggero scrisse che essa "offre una delle più efficaci sistemazioni speculative che io conosca delle vedute pragmatistiche della scienza, compresa quella del Croce alla quale più strettamente si connette. L'ambizione dell'Albergamo, che traspare chiaramente nei diversi spunti critici nei confronti dei limiti dell'idealismo nell'affrontare il problema della logica della scienza, è quella di "costituire una confutazione dell'idealismo per via dell'idealismo stesso. In altre parole, vuole in qualche modo superare la concezione che relegava la scienza nel limbo degli "pseudoconcetti", per dare piena legittimità ai processi conoscitivi, sia delle scienze esatte che delle scienze empiriche, restando comunque ancorato all'idealismo.  Benedetto Croce in qualche modo accetta e favorisce la ricerca di A, giudica "assai ben pensato e ragionato" il suo lavoro, ma rimane rigido nell'accogliere la storia della scienza come parte integrante della storia della filosofia. Finito il periodo bellico, l'attività dell'A si sviluppa poi in una serie di opere in cui sistematicamente, ed in un quadro storico, vengono trattati i problemi della logica delle scienze esatte e della scienze empiriche. In questo periodo A, dirigendo per l'editore Laterza una collana di scrittori di teoria delle scienze, propone alla cultura italiana la conoscenza di importanti pensatori d'oltralpe, come Poincarè, Bergson, Bachelard, ed altri.  Il secondo periodo dell'attività di Francesco Albergamo può datarsi attorno ai primi anni '50, ed è caratterizzato da un progressivo allontanamento da Croce e dalla sua scuola, dovute alle difficoltà dell'Albergamo a trovare un pieno accoglimento delle sue tesi sulla scienza, ed anche, in qualche misura, a diverse valutazioni politiche.  L'esigenza di Francesco Albergamo era quella di dare piena legittimità filosofica alla logica del pensiero scientifico. Per raggiungere questo obiettivo, era necessario operare un "capovolgimento" dialettico nel rapporto Natura-Spirito della filosofia crociana, allo stesso modo in cui Marx aveva operato nei confronti di Hegel. Per Albergamo infatti "spiritualismo e materialismo costituiscono in realtà una opposizione dialettica, nella quale di continuo ognuno dei due deve vincere la resistenza opposta dall'altro... come già nella dottrina hegeliana, così anche quella del Croce esige… un "capovolgimento", in maniera che il suo oggetto…trovi proprio nel suo opposto la condizione per vivere e svolgersi. Nel terzo periodo di attività, a partire dal 1967, quello della massima maturità ed originalità, affronta una analisi sistematica delle forme di "pensiero prelogico", inteso come "pensiero che, spontaneamente, senza alcuna riflessione logica, veniamo indotti a formulare per una suggestione tanto irresistibile quanto inconscia che inibisce la nostra intelligenza. Analizza con grande attenzione tali forme di pensiero, sulla base dei risultati e delle osservazioni di etnologi ed antropologi (da Frazer a Levy-Bruhl, Levy-Strauss, H. Kelsen, ed altri), oltre che dei risultati della scuola psico-analitica, da Freud a Cesare Musatti.  Analizzando questa poderosa base di osservazioni sperimentali, perviene ad individuare i principali meccanismi della prelogica: automatismo associativo, intuizione animistica, inibizione dell'intelligenza ad opera del sentimento.  Vengono così portati alla luce della consapevolezza quei processi inconsci ove si generano mito e magia.  Le molteplici e diverse credenze mitiche e magiche, con la loro uniformità di struttura e le loro coincidenze spesso sorprendenti, sono interpretate come il risultato di un automatismo psichico inconscio, che persiste pur attraverso le situazioni storiche più diverse.  La tesi dell'Albergamo è che tali forme prelogiche, che sono alla base dei miti, dei riti, e delle pratiche magiche dei popoli primitivi, lungi dall'essersi esaurite con il progredire del pensiero scientifico e filosofico, sono presenti in maniera diversa, non solo in età infantile ed in alcuni soggetti psicopatici, ma anche nelle stesse persone colte, nonché in alcuni ambiti dello stesso pensiero scientifico e filosofico. Accanto a questo nuovo ed affascinante filone di ricerca, si intensifica l'opera di educatore, con decine di opere destinate alla scuola, manuali, antologie, trattati, nonché da studi e pubblicazioni sulla didattica delle scienze e della filosofia degli scritti di Albergamo. Opere:  “Saggio di una concezione filosofica della scienza” (Napoli, Loffredo); “Disegno storico della filosofia ad uso dei licei classici e degli istituti magistrali” (Milano, Sig.); “La tesi finitista contro l'infinito attuale e potenziale” in Atti della Società Italiana per il Progresso delle Scienze; “La filosofia di Spir”, in Annuario Liceo Vittorio Emanuele di Napoli); “Critica del concetto di infinito”, in Annuario Liceo Vittorio Emanuele di Napoli, “L'Italia di Augusto e l'Italia oggi” in Augusto. Celebrazione nel bimillenario augusteo, a cura del R. Provveditorato agli studi di Trapani, Trapani); Cura di I. Kant, Prolegomeni ad ogni metafisica futura che vorrà presentarsi come scienza” (Bari, Laterza); “Il criticismo kantiano e la scienza moderna” (in Atti della Società Italiana per il Progresso delle Scienze); “Kant e la scienza moderna, in Archivio della Cultura Italiana, “Le basi teoretiche della fisica nuova” (Padova, Milani); “Filosofia e biologia, in Sophìa; Recensione di A.V. Geremicca, Spiritualità della natura, Bari, Laterza, «Sophia»,  “La critica della scienza del Novecento” (Firenze, La Nuova Italia editrice); “Lo spirito come attività creatrice” (Firenze, La Nuova Italia editrice); “Il concetto di realtà e le scienze empiriche”, in Ricerche filosofiche. Rivista di filosofia, storia e letteratura, n. unico; “Vitalismo e meccanicismo nel secolo XX”; in Rivista di Fisica, Matematica e Scienze naturali; Versione, studio introduttivo e note di G. Berkeley, Trattato sui principi della conoscenza umana” (Verona, La Scaligera); “La matematica nella critica della scienza contemporanea, in Sophia, L'ordine nel mondo degli oggetti, in Logos, Recensione di A. Marzorati, Spiritualismo, Milano, Bocca, Sophia», La natura: Saggi filosofici, Verona, La Scaligera); “Croce critico della matematica, in Rassegna d'Italia; “Storia della logica delle scienze estate” (Bari. Laterza); “Traduzione, studio introduttivo e note di H. Poincaré, Il valore della scienza” (Firenze, La Nuova Italia); “La scienza nell'antichità classica, in A. Padovani (a c. di), Antologia filosofica, Milano, Marzorati); “Traduzione, introduzione e note di H. Poincaré, La scienza e l'ipotesi, Firenze, La Nuova Italia, Cura di La scienza nell'antichità classica. Antologia filosofica, Como, Marzorati); “La scienza nel Rinascimento, in Grande antologia filosofica, XI Scienza, natura e storia in Gramsci, in Società; Introduzione a S. Laplace, Saggio filosofico sulla probabilità, Bari); “Cura e introduzione di G. Bachelard, Il nuovo spirito scientifico, Bari, Laterza (Nuova ed. riv, L. Geimonat eRedondi, Bari, Laterza). Storia della logica delle scienze empiriche, Bari, Laterza); Le scienze naturali nella filosofia di Croce, Bari, Laterza Il pensiero scientifico contemporaneo. Antologia storica; Le scienze esatte e le scienze fisiche; Le scienze naturali, Firenze, La Nuova Italia); Il pensiero scientifico nell' 800 e nel Questioni di storia contemporanea); “Il millesimo anniversario della morte di Avicenna, in Rinascita, Il valore teoretico della matematica, in Atti del Congresso di studi metodologici, Torino, Torino, Introduzione a J. W. Goethe, Scienza e natura. Scritti vari, Bari, Laterza); “presentazione di A.V. Geremicca. Prefazione a A.M. Frankel, Le scienze naturali nella filosofia di Benedetto Croce, Bari, Laterza); “Cura di E. Bergson, L'evoluzione creatrice, s. i. t., Mazara (Trapani)  Le scienze nella dottrina crociana delle categorie, in E FLORA (a c. di), Benedetto Croce, Milano, Malfasi Editore, La critica della scienza oggi in Italia, Roma, Perrella); “Il dogmatismo religioso contro la libertà e l'autonomia della scienza, in Il Calendario del popolo, La vita nella dialettica della natura, in Società,  Recensione di S. Timpanaro, Scritti di storia e critica della scienza, con una avvertenza di Sebastiano Timpanaro jr. (Firenze, Sansoni  «Belfagor»); Recensione di C. Luporini, La mente di Leonardo, «Belfagor», La geometria di Euclide non è la sola possibile, in Il Calendario del popolo, Scienza e filosofia di Einstein, in Rinascita, Recensione di H. Reichenbach, I fondamenti filosofici della meccanica quantistica, «Società», Introduzione alla logica della scienza” (Firenze, La Nuova Italia); “I rapporti tra la filosofia e le scienze nel liceo scientifico, in Convegno nazionale di studio sulla didattica della filosofia I Licei e i loro problemi, Intuizione e ragionamento nella matematica, in Atti del Convegno Nazionale "La didattica della matematica nella scuola primaria", Roma,  Matematica e realtà, in Società,  “La teoria dei quanti nelle interpretazioni fenomenistica: del Reichenbach”; in VIII Congrès International d'histoire des sciences, Florence Milan, I, Paris, Direzione della sezione ‘Scienze’ del Dizionario Bompiani degli autori di tutti i tempi e di tutte le letterature e redazione delle voci: Albert Einstein, Luigi Galvani, Hendrik Anton Lorentz, Edme Mariotte, Carlo Matteucci, Emile Meyerson, Hermann Walther Nernst, Julius Robert von Mayer Storia della filosofia per i licei scientifici, voll. 3, Padova, Milani, Sopravvivenza della prelogica nel pensiero scientifico e filosofico, Stabilimento Tipografico G. Genovese, Napoli, estr. da «Atti dell'Accademia di Scienze morali e politiche della Società Nazionale di Scienze, Lettere ed Arti in Napoli»,  Cura di A. Einstein, Filosofia e relatività, Palermo, Palumbo, Pensiero e attività educativa nel loro corso storico, va. Palermo. Palumbo; La natura: Saggi filosofici, Bologna, Patron); Fenomenologia della superstizione, Roma, Editori Riuniti); Mito e magia, Napoli, Guida); L'educazione scientifica, Milano, Vallardi, estr. da La pedagogia. Storia e problemi, maestri e metodi, sociologia e psicologia dell'educazione e dell'insegnamento, diretta dal Prof. Luigi Volpicelli, La ricerca umana. Storia della filosofia, Palermo, Palumbo  Problemi del pensiero. Guida interdisciplinare per lo studio della storia della filosofia, Palermo, Palumbo, La teoria dello sviluppo in Marx ed Engels, Napoli, Guida, Lo strutturalismo di Claude Lévi-Strauss, in Critica marxista; Lo sviluppo dell'Antropologia culturale, in Genus, La "Storia del pensiero filosofico e scientifico" di Ludovico Geymonat, in Critica marxista, Il pensiero filosofico e scientifico nell'antichità e nel medioevo, Napoli, La Città del Sole (rist. del testo del 1963, con aggiunte di A. Gargano). Il pensiero filosofico e scientifico in età moderna, Napoli, La Città del Sole (rist. A. Gargano). Il pensiero filosofico e scientifico nell'età contemporanea, Napoli, La Città del Sole (rist. A. Gargano). Fonti Fondazione Croce, Napoli Lettere tra Croce e Francesco Albergamo e di Albergamo a Codignola, Gentile, Ottaviano e Sciacca, In Giornale critico della filosofia Italiana, gen. Apr.  Due lettere inedite di Croce a Francesco Albergamo,in Rassegna Storica Salentina, La Veglia ed. Carmelo Ottaviano, Recensione al Saggio di una concezione filosofica della scienza, in Sophia, A. Aliotta, Recensione al Saggio di una concezione filosofica della scienza, in Logos, R. Mck, Recensione al Saggio di una concezione filosofica della scienza, in Journal of Philosophy,  3Profondo cordoglio per la scomparsa del compagno Albergamo, L'Unità, G. Marotta, Renato Caccioppoli, la Napoli del suo tempo e la matematica del XX secolo, Napoli, la città del sole, Lettera di F.Albergamo a M.F. Sciacca, 2 Centro Internazionale i Studi Rosminiani, Stresa, citat. Francesco Albergamo. Albergamo. Keywords: Crotone, il finito e l’infinito, idea de la scienza, scientia, la scienza italica, la scuola di Velia, la scuola di Crotone – la scuola di Girgentu – scienza naturale – scienza fisica – fisica – fisica filosofica – scienza umana – scienza esatta – scienza empirica – anti-finalismo – meccanicismo, galelei, il liceo classico, prmenide, zenone – la scuola di crotone – girgentu – empedocle e i fenomeni – l’entita matematica alla scuola di Crotone, disegno della storia della filosofia ad uso dei licei classici – liceo classico – liceo scientifico – Benedetto Croce – carteggio Croce/Albergamo – la logica della scienza – la non-sicenza, mito – superstizione – animismo – l’italia nei tempi di Augusto ed oggi – la critica della scienza in Italia oggi – lo spirito – lo spirito come liberta creatrice – meccanicismo e vitalismo – il kantismo – la filosofia della scienza – la metafisica – la filosofia nell’eta fascista – saggio filosofico sulla scienza – la natura – saggi filosofici  -- saggio su una concezione filosofica della scienza – scienza della natura – pitagora e la scienza della natura – fisicismo – naturalismo -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Albergamo” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Alberti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Bologna). Filosofo italiano Grice: “I like [Leandro] Alberti; his “Tutta Italia” is a must; his claim to fame is to translate from Roman to Tuscan (no big deal there) what is deemed the first ‘daemonological’ tract – Mirandola used ‘ludificatio,’ which was vastly translated as ‘inganno’ or by Leandro as ‘illusioni’ – which has echoes with Descartes’s malignant demon hypothesis and my “Some remarks about the senses”!” – ‘Filosofo. Nato da Francesco Alberti, di origine fiorentina, fu condotto agli studi umanistici dal noto medico e umanista Giovanni Garzoni. Entrato nell'Ordine domenicano nel 1493, studiò teologia e filosofia con Silvestro Mazzolini da Prierio continuando tuttavia a coltivare con il Garzoni i propri interessi umanistici e storici.   De viris illustribus, Bologna. Il primo risultato dei suoi studi fu il contributo che egli diede, in soli 18 giorni, alla stesura dei De viris illustribus Ordinis Praedicatorum libri sex in unum congesti, opera collettivacon il Garzoni, il Castiglioni, il Flaminio e altridi biografie di domenicani, stampata a Bologna. Traduce dal latino in volgare la Vita della Beata Colomba da Rieto  Tenuto al dovere della predicazione, fu «provinciale di Terra Santa»cioè compagno nelle predicazioni itinerantidel maestro generale dell'Ordine, Tommaso De Vio e del successivo maestro Francesco Silvestri: con quest'ultimo percorse tutta l'Italianell'ottobre del 1525 era a Palermo e la Francia dove, a Rennes, il 19 settembre 1528 morì il Silvestri. È poi attestato, a Roma, prendere parte al capitolo generale nel giugno del 1530.  Negli immediati anni successivi rimase nel convento di Bologna, dove commissionò a fra' Damiano Zambelli le decorazioni da eseguirsi nella cappella dell'Arca di san Domenico e i bassorilievi eseguiti da Alfonso Lombardi, questi ultimi pagati dalla città dopo la richiesta in tal senso avanzata dall'Alberti. In quest'occasione scrisse un opuscolo sulla morte e la sepoltura del Santo, il De divi Dominici Calaguritani obitu et sepultura, pubblicata nel 1535. Un'altra sua operetta, la Chronichetta della gloriosa Madonna di San Luca, fu pubblicata nel 1539 ed ebbe altre edizioni accresciute dal contributo di altri autori anonimi.  Il 20 gennaio 1536 fu nominato vicario del convento romano di Santa Sabina, un incarico che non dovette prorogarsi per più di due anni, giacché dal 1538 è sempre documentato a Bologna. Fu anche inquisitore di Bologna.  L'opera più importante dell'Alberti, dedicata ai sovrani francesi Enrico II e Caterina de' Medici, è senz'altro la Descrittione di tutta Italia, pubblicata a Bologna nel 1550. Ad essa seguirono in ottanta anni altre dieci edizioni a Venezia e due traduzioni latine a Colonia: nell'edizione veneziana del 1561 si aggiungono per la prima volta le Isole pertinenti ad essa, mentre quella del 1568 è arricchita dalle incisioni di sette carte geografiche. Opera di geografia e di storia, ricalca in gran parte la Italia illustrata di Flavio Biondo, ampliandola e migliorandola nell'esposizione e nella citazione delle fonti, ma mostrando scarso spirito critico, attenendosi egli «ai dati dei geografi antichi o, per la parte storico-antiquaria, ad autori moderni di dubbia attendibilità come Raffaele Volterrano o Annio da Viterbo: e solo quando vengono a mancare testi precedenti ricorre a elementi di più diretta esperienza [...] parimenti nella critica storica preferisce riferire insieme le differenti versioni, anche di tempi e di valore molto diversi, senza prendere posizione».  Opere:  “De viris illustribus ordinis praedicatorum libri sex in unum congesti” (Bologna); “De divi dominici calaguritani obitu et sepulture” (Bologna); “Historie di Bologna”; “Libro detto Strega o delle illusioni del demonio”; “Descrittione di tutta Italia, nella quale si contiene il sito di essa, l'origine et le Signorie delle Città et delle Castella” (Bologna); “De incrementis dominii veneti et ducibus eiusdem” (Lugano); “De claris viris reipublicae venetae” (Lugano). Universal Short Title Catalogue, Scheda delle opere di Leandro Alberti. Così scrive egli stesso: De viris, c.A. L. Redigonda, “Liber consiliorum conventus Bononiensis, Archivio del convento di San Domenico, Bologna. A. Battistella, Il Santo Officio e la Riforma religiosa in Bologna, Bologna, G. Roletto, Le cognizioni geografiche di Leandro Alberti, in Bollettino della Reale Società geografica italiana, Abele L. Redigonda,Dizionario biografico degli italiani,  1, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Descrittione di tutta Italia in Il Genio Vagante, Bergamo, Leading Edizioni,  Massimo Donattini, Il territorio emiliano e romagnolo nella descrittione di Leandro Alberti, Bergamo, Leading Edizioni, Michele Orlando, La Puglia nell'odeporica domenicana di fra Leandro Alberti, in Rivista di Studi italiani, ora al sito rivistadistudiitaliani La Puglia, introduzione e note al testo dalla Descrittione di tutta Italia, Michele Orlando, UNI Service, Trento, Liber Liber. Opere di Leandro Alberti, su open MLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Leandro Alberti, Leandro Alberti, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Descrittione di tutta l'Italia su culturitalia.uibk. ac.at. LA STREGA; OSSIA, DELLE ILLVSIONI DEL DEMONIO. Dialogo composto dall’illustre e molto dotco Prencipe Segnore Giovanfrancesco Pico della Miradola, segnore e conte della Concordia, volgarizzato dal Ven. P. F. Leandro dell’Alberti, Bolognese, dell’ordine de predicatori. LE PERSONE PARLANO. APISTIO -- FRONIMO -- DICASTO -- STREGA. APISTIO. FRONIMO. Dimmi do juevacola cosi infreta caminando per la piazza ove vendon sil herbe tanta moltitudine di popolo. FRONIMO. No loro, ma andiamo anche noi un puoco, accio intedia mola cagione di tanto concorso, conciolia che puoco di no potra esserela perduta di puochi passi. APISTIO. Noi   in ver un luogo. FRONIMO. Di quale augello ragioni tu en. APISTIO. Della strega. FRONIMO. Tu giuog h i he Apistio. APISTIO. Pensa purche quello ho detto I ho detto no per givo con e periscrizzo, ma da dovero  Conciosia che debbia esser molto aggrado a ciascun huomo, ma maggiormete alli gentili e curiosispiriti, di conoscerequello, loqualeno hamaicon osciutolaantiquita. FRONIMO. Dunque tuteaffas tichi diuuolerintendere quello chenon ha inteseuerunos APISTIO. Dunque il timitacheiovogliammi persuadere diconoscerequello che non mai hanno volute conseffarede haue r e intero li huom n i gradi e molto litterati, e pur se l’ha a veranno inteso non appareinuer un luogo. FRONIM. Chi co far. APISTIO. L.oaugello Strega. Béchegiahabbia lettot CollaliinfamelanotturnaStrega.E coficonfeffadino sapere, di qualeger neratione de ucceglistala stregha. FRONIMO. Affaimi meraueglio chefendo tu molto dotto nelli Poeti, ficomea mepare cunonhai lettocomeeraconsuetudinenellitem pianti chi di esserscacciatofuoridelleporte & uscile ftreghe cosa che seraanoi aggradeuole, perche sepuotra comput: tare in uecediuiuandenel pranso,quandoritornaremo. E forsi anchora ser amolto piu utile cosa chenon sapiamo, intendendo qualche nuouo secreto. Conciolia che am e pa te,etragioneuolmére istimo,fiapresa una Strega etiuieffer douecorre peruederla tantamoltitudinedipopolo.mesco T a t o c o n li fanciulli. APISTIO. Habitano in questi luoghi le streghe? O cercamente non mi serebbe grave di caminare diecemiglia, peruederle. FRONIMO. Hor su, sea dunque non m a i uedeftiueruna, forfihora fara satisfacco alla tua cu. riosauoglia. APISTO. sepur accadesse cheiopoteffi ci trovare coteftoaugellodam e contantodesiderio cerco, eno giamai citrouato Meftitia augurio infaufto edanno efpresso Peggio chel bubo annontia porge, etlega. Anchorpurhouedutonellantichemaledittionifusknomi nalala Strega. Machecofasiaquella ediqual naturanon ficouiene. EtiftimaPliniochesiaunafauola,quello cheers scritto deltelitreghecioe che asciuccaueno collelabbra le p o p e delli fanciulli   Da uiciaticorpiaforzaegreffo. Er egliecoteftoluto offeruato pinsino dalli Heroici tempi.' Quellecosemimoueno che sono venuti nellithalamieca. mere delli Proci, o siano delli lascivi e molto libidino f i buo, m e n i cosidicendo Ouidio. Procàildimostraqualesiaqueftoangue Chere-laceratoda questoanimale, Aforbe il sanguela ftrega in felice, Delle Streghe gia preda fortelangue, Puoco iluagitofanciullefcouale, Et chi ederspello agiuto allanodrice. bb ii conuna uergadispinobianco, ecome hannoqueda natu. ra, chesonobråminosiucceglicon ilcapo grandeliocchi fermi,ilbeccotoruo,epartedellepennecanute.colunghie rampinate,eperciocolisuolenoefferechiamatepercheha n o confuetudine di Atridere nella spauenteuole norte. Hor tu uedi il nome la cagione diello,lanaturadiquella &ancho talafigura comeegliestaraifcrittadalliantichi. APISTIO. Ben intendo quelloturaccolima forsi sonodidiuersemanie re e generationi cotefte ftreghe,edi differente natura,c o n cioliachefedice,comenon fucciano colle labralepope di fanciullini, ma ch beueno ilsangue.Ilpche cofidiffe Ovidio Di notte ai fanciulliniuola spesso Empiendo il petto dellionoffiosangue Siprefto conlalinguainfatiabile, Chelsoccorso opportuno effernon lice: N o paionoatecoteftiofficiifrafedellestreghe, tanto diuer Se nontidimoftranouaria & anchorcontrarianaturaecó ditioner Erano ragioneuolmente da efferiftimatiquelliaus gel li misericordiofi, liquali faceuano Ifficiodellanudrice, ma quefti sono da esserreputatigrandemêtenoceuoliema kegni dalli quali sono occisi li fanciullini havendoli bevuto il sangue.FRONIMO. Iotediro'ilueroaniipaionopiupre ftociascunadiquestecosefauolė,che altro. Mapurseuisiri trouaqualchecosadiueronellafauola iopenso chenosias nonatiquelliaugelline anchor che se ritrouano nell’inerf. Chalquinto giorno depuo fuo natale Perche quelli fallititolieuerfi figuranola uecchianelliuc.. celli. Mabenpensofuflifattoquesto conloagiutodelliDe. moniiiniquiemalederti cio echeliancidentiaugellihora appareuono in una forma della nodrice ethora dellainlidia trice E. questomaggiorméte am e lofa credere percheildi monio insegno il gioueuolerimedio contro delleincantas tioniemaleficii,perliqualieranoligatelementi delli huo. mincio n inganni,econ bugie,dicédofeefferGiano,uuole uachetreuoltetoccaffilioconlarburafrödaleporteetuscii cioeconlafrondade unoalberosimilealcitrono &treuol tesegnandocon dettafronda le pietre chesono sottolain trata delluscio, bago ando la intrata con l’acq ua, e com i m a d a gaanchorsefaceslino dell’altre cose che non erano sagre, ma anzi a b omine uoli sacrileg i i e p o rtéri, Bé che anchor de quelle confedica. Se poil infanti per la nocte oscura Vesla ecilsangue elucca con l’esperti  Labrila Strega,etintalmodo leindura. Cosine tempinoftrihanno consuetudinedifare le streghe, quando se narra che sono portare al giuoco di Diana. Guaftas no nellecune lifanciullininuouamente natiche piangono, dipoiincontinentiledanoligioueuolirimedi. Liquali, co m e ainepare, fonoinloro arbitrio e poßianza di doucrlida re. Imperhomeritamenteegliederiuatoquestonome.Ca ciofia che queste crudeli e bestiali femine lequali cometter no tanta scelerita,anchorda noi cosicome dalliantichi có. uenientemente sono chiainate streghe. APISTIO. Hammi parccute inganni Fronimo pariméte inlieme con moltialtri,cte dendo efferuero,quello chescioccamentediceiluolgo,cio eche fononoloche feminuzze, lequaliuolanonellamezza notte alliconuiti, et alli delette uoli piaceri carnali delle L e muriofianodellispiritidellaoscuranottee che coteftefer minuzze guastino con incantili fanciulli. FRON.Meglio potreste parlare Apiftio.Conciosia che non mai fe debbe di re checoloroerrano, liqualiapertamenteracontano quello che hanno con locchio dellaragionechiaro e manifeftono puochihuomeniben docci, & amaeftraticólacõținua prati 1 caet.   sa etanchorfonoomatidebuonicoftumieuertuti. APISTIO. Io ti prometto cheno'e-maiftatopossibiledieffermiper fuafo queftoche tu di percoralm o d o che lhabbia creduto. FRON. Per qleragione,no teha poffuropsuadeiuecuno A PIST. Per que f t ca, i n e che pare una cosa da ridere, come fiapoffibicleh e fattoun cerchio et unto il corpo conno fo che unguento,in un'certo m o d o er dettepoicecce parole coun no fochemormorio fecógiúganodettefemenuzze incontinéte colli demonii infernali e che caualcanodinot. te souradiunolegnodetto Gramitaconilqualesifuolecal fecrareillino,elacanoua oyerosaliscanosouradiunacaura o diuno beccoo diunomoncone,esiano portateper aria, eche trapallino li Spatji delli'uenti e ricrouanfe alli cantie ballidi Diana, ediHerodiade, E cheiui giocano, mangio no beueno,epiglianolasciui piaceri- Puruoglioanchorago giungere un altra cosa cioe che non seaccozzanonel parla. re, ficomeho inteso conciofiache alcune dicono efferpors tate moltoinalcoperaria, eraltrediconoappo diterraalcu ne confeffanodiandaruifolamente con la imaginatione e noncon ilcorpo, epoifermarsisouradellagodi Benacoo Hadi Garda, nellialtiffimimonti, vero e chemolto m i m e raueglio che nondicanodiefferefermatefoura della cima delmõte Micalainsiemecon Thalete overo sula cima del Mimante siano poste a caminare con Anaslagora, Ilquale c -u n non t e n o n guar i discosto d a Colophon e da continue neui affediato, dacuife conoscelatempeftadebbe venire. Altrecacótano de esser portate allo albero di Benevento det tolanuce,rebême arricordo.Ma qualee la cagionenosi fermano piu presto nelterritoriodi Arpino piu vicino (fico/ me io penso) alla nostra regione coueroportate alla Quer zadi Mario,etanchorfeno leparefaticadiandarepiudiß costo perchenon sono portate per infino nella Cheronea alla Querza di Alessandro Dicesianchorache hannoamo rosipiacerecolli demonii che non sono congiunti colli corpirei on oerro. Ma dimmi un puoco Apistio, che toccame ci possono esser cotefti? Chepiacerisouerinche modo poffo no hauece amorosi solazzi conqueftauana, efintaimagine, efeminedicarne. Ho letto come le larve oʻsianolenuo's ceuoliombre dellanorię e dellinferno pigliano piaceri colli' morti etche combatteno con effi, e no con liuiui. FRONIMO. Dimmi Apistio, seiosciorco tutteletue ragioni, fico me spero consentirai. APISTIO. Io ti prometto di cosenti re. FRONIMO. Egli e certamente cosa da huomo ragioneuole, e di sano intelletto, dilaffarsi muouere 'e guidare dalle ragio ni effcnipij,etdalleauthoritatidelli antichi,lequaligia sono con cómun sentimento confermate,edipoi quiuifermarsi ma molto maggiornéte- eropera di coluicheedigradeinna gegno,echeha lógo temporiuoltolilibridellidoctihuome ni. Donqueseiocolletueragioniticonduceroa cosentirea quello de cui hora tenemenibeffe, chefaraipoi? APIST. Che faro: Vimetterolemani. FRON.Pensocheancho, sauiinetteraiipiedi. APISTIO. Ma nongianelliceppi. FRONIMO. Deh non hogiamaicercaměte pensato co testo. Vero-e. chebengrandemece desiderocuintédique. fto,accione uenghinellamia oppenione, collipiedi, e cole mani, ficomedire sisuole. APISTIO.lononfifiutoquello chesperi, e desideri,sefaraiquelloche tudietprometti. FRON. A me pare perilragionarehauemofattocaminan do, chetuseimoltodottonellipoeti delli Gentili,etanchora affai siaornato de Philofophia. APISTIO.Il mio Fronimo diquestohoranomiuogliodareiluanto cioeche beninte dali Poeti et fia dotto nelli parlari. Con c i o fia che egli e molto maggiore lacognitioneadouereintéderequelliper co ialmodo chesouerchia le forze decoluiloqualearrogáte? mente alcunauoltaselauoglia attribuire, hauendopuoco ftudiatoinesli, ethauédolipuocapratica. Ilpercheegliegra demente necessarioa coluiauoleintendereefli poeti e philosophi, diconoscereetintenderenon triuialmenree grossa, mente la l i n g u a greca e latina. Et anchore gli e bisogno d i hauere ben intese lifecreti,esentimenti extratti fuori delle crerario della philosophia. Delliqualisonoornatiebenue ftitili poeti emaggiormente Homero. De cui,ho udito che fuillustratoetaddobbatocon grandi CómétariidaAristo. tileetanchora dallialtri Philofophidelladotta schuola. Anchor   c h o r ho inteso che se sforzo il Plutarcho con uno molto grande libro di attribuire ogni scientia, ogni arte, e finalmente ognicosadiuinaethumana, aquellocieco Homero.Ilperá cheionegoeffereinme quellacognitione perfetta, sicome tudi,m a no nego pechoesfermiessercitatoalcuna'uolta per piaceredellanimomio inleggere quelli,licomeiocercaffi lacognitionedellelingue econquasileggermētebeuendo qualchi amaeftramétigioueuoliallicostumi,etanchora ac c i o n o n fufli riputato ignorante, fra li amici e compagni, o c curendola occafione.Cosi senóho beutalargamétela philosophia, de cui se dice che -e nascosta in detti author i a l m a c o (l i come di r e si suole). I h o t o c c a t a e gustat a con l a l o m i t a dellelabra. FRONIMO. Io credochetusiaconduttonon dalla arrogantia ne anchor dalla fimulatione,m a solamen tedallauerita.Laqualeuertu ecollocatadaAriftotelenel m e z z o fra ğiti uitii. Imphoche dimostri di n ó effer ignorare ne anchortutiuátidisapereognicosa. Ecosiquellecosehaj dettodella notitia ecognitióedellipoeti nó fon discoftodal lauerita. Cóciosiache Platoneet Aristorelesonopieniditer ftimoniidiHomero, diHefiodo di Simonide, Pindaro,E u ripide,edellialtriPoeti.Ilpercheiodubbiro affaichetu lia molto dottonella philosophia decui pare non molto inte diedimoftridinonsapere.E cosiho istimationeche dis mostrarai molte cose chesonodategiamolto tempo con gregateinfiemenelfinedenoftriragionamenti, le qualidi. mostrihoradino sapere. APISTIO. Io te diro, come sono alcune cose che qualche uolraci sonofuto donare dalla natura leaza uer uno studio o fiano uertuti, ouero altre cose,fi come prencipiidelleuertude. FRONIMO. Non per que, Atosonomacatodallamia oppenionem a anzi hai tu posto inme maggiore dubitatione con corefta tua risposta.APII STIO. Chehaicudetcos 'FRONIMO.Iohodetto,e dir Co cbe ragionocon uno Philosopho.Vero eiche meglio allhoramicauaro questafantafia,pigliando prencipio imi perho da quiui,cioe se uuoi promettere di responde -- re a quellecose,dellęqualiho desideriode interrogarti, perlequalihauemo comenciatodiparlare. ĄPISTIO.Io  DELLE STREGHE 8   to matrimonio  prometto de responderti liberamente. Horlu addimanda. FRONIMO. Dimm i il mio Apistio, hai tu giamai letto in Omero che anda li e V l y f f e alli Cime r i i s. APISTIO. Si. Et anchora ho letto in chemodo andodaquella gére chefa ua nellaariacaliginofa.cioe che erasenzauiada poceruien trarei raggi del sole.FRON.Dimmeseltepiace,checol lafeces. APIST. Hoaffaicole.FRON.Nó leggiamoquel le parolediessoingreco, le quali horaledicoinnoftrouolga' re cosi.lo fu quello che cauai fuora allhora allhora ilcoltello dellacosciase cominciaidicauareconilscarpellounafofla, allamisuradiun gomito,indiequindiincerchioetancho rainfundeililibamini,cioelifacrificii,colleumbres APIS. Tu hai molto egreggianiétedechiarato il sentimento,eno manco ageuolmente isposteleparole. FRONIMO. Credo habe bilettono una uoltam a louéte ligiuochidiDiana,eliballi collecompagne Nymphe.APIST.Eglieuero,etu non re inganniapunto.FRON.Anchoriopensochetuhabbiri, uoltoquelli libri douesonoscrittiliamorosi ragionamenti, erlafciuisembiatide Anchiseconlaimpudica Venere eco 1 ·me fufferogenerati molti Baroninellitempiantichidicote Atifallacietingánatori Dei. APIST.Etanchoraquestosper seuolueholetto. FRONIMO. Tu debbisapercome queftimal uagi Dimonii ingannaueno con merauigliosi huominicheerano deditialle opererufticaliepastoralisico me eracommunamente lauitadi quelliliqualifurono rie trouati nelli tempi Heroici.Cosianchorainganno il Demonio Peleo pastore padre de Anchise, conciolia che effo fico me diffecoluilaffolagreggedelli porcielarmentonógus cidiscosto dallemura inuna ombrosa ualle forto laimagin ne della Thetide dea marina.cosiiftimatadalle genti. Et ac ciomancoseaccorgessedelfrodo glifuin SEGNATO dauno altro frodulento demonio uno delli Capitanii Grecichiama to Proteo con il qualepigliarebbe There madre de Achille la qualedimostrauafiincentofigure.Ma benuedieconfi dera uno altrofrodo,con loquale grandemente inganno, cioeche non dimost.raua di uuolere commettere iltupro, n e anche lo adut l e r ' o, ma fi n sed i u g o l e r e contra h e r e i l l e c i. di quelli  to matrimonio, Loquale con suoiuersiegreggiamere carito Hesiodo, ficomeseuede nelle scritture de Greci. Ilpchepra babilméte dicemoeffer da quiui deducto,cioedallo effem. pio diHefiodo, loEpithalamiodi Catullo.Ilche anchorr dimoftra il tenore del verso, chiaramente demostrado quella ancica facilitate questodechiarailcontinuo e sollecito ftu diodi Catullo I seguitare li Greci, pcotalmodo che ispreffe leintegre Elegiedi Callimacho,alcunauoltarendedoilsen timentoetaltreuolteisprimendoleparole. Anchora inganno per co t a l via il demonio facilmente Paride, focto figura di quelle ore Dec. Il quale fi come scriffe Colutho Thebano nellibrodellapresa di Helena, nosolamentepafceualeper corelle del suo padre, ma anchorli Tori, eptal modo feue ftiuadelleueftimente che pareuàun rozzopaftore etigno fantebifolco. Le quali cose, ampiamente con sue scritture quellolerecita. In questo modo fece inuisibile il Demonio quello Lidio paftore regale,con lainuersapaladelloanel lo.cioeconquellapartegiacesottolagemma,epretiofapic tra,ma ciuolta,conlaquale Atupro ecomesseilpeccatocon la Řeina. Il perche pigliauono li Demonii uariee diuerfe fi gure alcunauoltadelle Dee,che erano uolgate, altreuokic leformaucnoin effigia delle terrestre Nymphe efouerere presentauenolefiguredelle Dee marine.Epercheeracredu c o c h e s e nascondessino, con il suo ingegno sotto le unde del e tacqua accio puotessino effer ucdure etpiu fortemente abr bruggiare licuoridellimiserie ciechj huomeni, ftauanoa p po delliprofondiluoghi dellacqua doue dicontinuoper dri uoltare di quella cui si ritroua la candida fpuma et iuipa teuafussero appodellenodrici, doue eranonudrigateda güellet Anchora appareuanocolleimaginifintedi nuvoli, fi c o m e fauolefcaméte raccontano appareffe Giunone ad Tinone, De cuifingononascelliilsuppositi Coéraur. Cofifin gono d i c o s t cu i i o c c ħ I f f i o n e p pieta di Giove fu f f i trasferito ne cieli, e fussi fatto secretariodiqllo,etpõstoufficio hauefli ardireditécare Giunonedelftupro la qualela mentadosicon Giove uimando ad Ilione una nuuolaafimilitudinedi Giu donc. cn la qualegiacedoIrionc, ecredendosi dipigliare co amorosi piaceri con Giunione, ne ebbe li centauri. A l e r i demonii apparecchiaueno prestigiicioefalsedemoftrationi, illusionie incantarioni,collequaliiogannauenolegenci, popoli, etinescaueriocon doppia frodeil Cozzo uolgo, ecan choralidorci huomeni. Ecosinonlaflauauerunocoloreet imagine della diuinita (la quale con diuerse menzogne e bugie sifforciava di usurparlaetafeattribuirla) conlaquas le'noncostringeffeilcozzoetignorantesecolo, afarsiadora re, etanchoraleciïauaconlalasciuia.Cóciosiacheeglie.cee to che anchora eglivergognasse Diana,laquale fugeuadi amare lauerginita accioforfitirassiasesllihaueanoiodio la fozza libidine. I dl e c u i gioco, havemo scoperto in di forccio del demonio. EcosisottoilnomedellaLuna(laquale senza uetun dubbio chiamauefli Diana ) raccótaueno fuffi fuergognata da Endimione, eda Hippolyto licome dimot Atra Firmiano, fotto il nome di Diana il quale pensava per s r e n e s e a quel luogo. E il nome di Virb i o c i o e di tre volte huomo elaleggemolto diligétemente cercata,doue fedo ueffe ponere,elemani medicheuolidi Esculapiocheporr Sino agiuto alle piaghe debbost credere fuffero tutte queke lecose fauole etillusioni delli Demonii, epurfeuifuffe qual che cosache pareffeinuero fuffiftara iltuttofedebbe pene Sareesserefattoperartemagica delDemonio.Vero-e-che Efculapio al fine fupo ipremiato con la mercede e premia delliincantadoriche/elamiserabilemorte. Concioliache eglienarrato da tuttiliantichiauthori,qualmente fuoce ciso dal fulguro, benche fia no uarie oppenioni perqualecat. gione,e per quale sacrilegio, fufficosi crudelmente Occio. I APIST. Dice Vergilio che cosifufliocciso, percherefufciso Hippolyco dalla morte.Nonfajcu cheduolendo Hippolyco fugire dauanti da Theseo suopadre infuriaro loquale cerca uadeucciderlosendelifalsameceaccusatodalla madregna Phedra etsendofalitosouradellacarretta e(pauêtatilicat ualliperlimoftrimarini,f icomenarra Seneca, cadėdofuoci delcarroploimpito, etracciatoemorto, sendoitoneline ferno fu resuscitato, efanato da Esculapio Veroie-chedice Plinioche cosifuflipercoffodalfulgureEfculapioe r cagio nedi CastoreedipolucefigliuolidiTjidare Re di Oebalia   quello che scrive Tertulliano, cioechefur & arfo dal cielo Esculapio, perche biasimeuolmente hauea effercitatolamedicina.E cosiritrouiamomolto maggior us dietanellanarrationedi cotefta cosa chenellamorte di Romolo. Maegliebenvero checiascunodiloro,e-ftatoreferi, 20c computato fra gli Dei, benche coftui fuffe uno ladrone, e quellaltroun mago erincantatore.Vero -e-chemoltopiu mimaraueglio digildo, e cuihorauoglioraccotare,cioe che nó ben péfaflılifattisuoi quelgradehuomo, ilğleerasoftēta toetenatocórâreifperedaun certogrăprencipene giorni d e noftri agoli che le ubrigaua di far. FRONIMO. I n altrom o d o scriffero Panaiaso,Poliantho, Phylaccho, eThelefarcho Anchoraltcidicono p altrecagio nifuffeoccifodalceleftialefulgure Esculapio. APISTIO. Deh no ti siag r a u e d i r a mentare il cutto, i m p e r h o felti piace e tu ti ricordi. FRON. Io son côtéro.Furono alcuni, liqualilcriffe tochecofifpauêteuolmétefuffeucciso percheresuscito Tyn daro eno lifigliuoli,Vero:e-cheStaphylodiceno fuflire fufcitaroueruno da Esculapiom a ben -e-uerochefusanato Hippolypo chefugiuada Troezeneecofip qua caufa, fufli percoffo emorto dalfulgure. Ma Polyantho scriue che cosi fuffiuccisopchelibero lifigliolidi Pretodallasciochezza. E puo le Philarcho esser li cio iter venuto p che a g i u r o li figlio bdi Phineo. Ma fraquelli cħ háno voluto refufcitaffeimorci alcuni di loro dicono cheresuscitomoltidiquelliche furo noucefinella battaglia e guerra di Troia. Et altri scriveno che resuscitaffede qlli chemancarono nella guerra de Tebani. Egliebenuerochenó cimanca Telefarcho, che dice come fusse in tal modo percoflo,perche se fforzaua di riuo careallauita Orione nolorefuscito imperho.Anchoreglie moltomanifefto uedere la guerra etan chor la battagliade Ilio, e di Troia, e tuttilimodi delcome batrer ioisefece.E cosi designado ilcerchio,accio demostra Bidouiandarono, ecobarteronoThelamone e Peleo figlioli di Eaco.c doue Olyffe,collialtri Troiani,fu portato dal De: monio,egiapiunó cóparfe inuerun luogo.APIST.Turac contimarauigliose cose. FRON. Sono certaméte marauia gliose etanchor vere. Dipoiquelloprenicemádo indiuerfi: CC  cuaniluoghie paeli, etanchora'per infino nellaGermania etanchoradiroequefto etdouenonmando épercercare guelhuomo: Horlendopericolatocostui,uêneincoteftono Aroeccellete Caftello uno dellsiuoi discepoli,chelaffoliues ftigiidelle sue malgradeuoli e diabolice opere perinfinoallo noftrigiorni. Concioliachedesignaualaimaginediquella chehaueafattoilfurto,etdimostrauelaa colui,a cuierano Aatorobbarelesuerobbe,nellaincheftaradiacqua,osianel kaamola, cocertifacrilegii. e fuperftitioni, etiujlefaceuauc dere la figura iueftimenti con tuttiim o di erano fucoserua. tiinrobbarequellacosa.Joconobbiunodaluimanifeftato, ilqualehauearobbatoleámolette ciocalcuniremediicon troliueneficii,econtrodealorimali etoccultamere Shauca portatoa casa,efecretamenteferratinelcophinonon lofa pendoueranapersona.Emi ricordodel tempo pelquale la fciodettesoperftitionierinego larte magicaS. e caminaffis mo insiemediecegiorni, pareamenonsarebbonobafteuo bidaisprimeree ramentare quellecose,lequaliho osferuar to enotato dellemanifefteinfidic del Demonioneanchor ferebbono sufficienti dipuorerenarrarelimodi, cheofferus elloperingannarelhuomo.Ilperchemericamenteie chiar mato Saranaffo.Conciofia che sempre fu,e,et fara nemica dellhumanageneratione, cosiincuttelealtre cose,come in quefta, decuihoggi hauemo determinate di ragionare Quanto al modo che dimostra dipigliarecarnalipiaceriio le dico che quello lo vuole negare (si com e contrario a t a n u vidottiefauiihuomeni Jiquaidiconobauerloconosciutoda quellichelhanno isprimentato,etanimosamente teftifica no dihauerloudito) e-riputatoftoltoe pazzodafanto. Agostino il quale scrise con ieftimoniidi coinufa a m a nel quintodecimo libro della CittadiDio,qualméresonostatoritro. HatifouentedelliSelaaniepergersiFauni faftidiofialledon De, chiamatidaluolgoIncucbbiioe chesefforcianodico metterelafozzalibidineinfiemecolledonne etchesonori trouatidiquellichehannohauutoilsuodesiderio,pigliado. ne amorosi piaceri con effe. Et anchor diceche sono alcuni alori demonii chiamati da Galli Dusiili quali di continuoco grande importunita tentano le donne per avere l a f c i u i p i š  ceri, efouêtenedcuenenoalcocento dellilorobrimatid e fiderij, ecotetidanoifonoderij Folleti. APISTIO. Ti priegoo, feguitapur olera, FRONIMO. Horquantopettenne aluiaggiofannoper aria credocheanchor habbia udito (cc c e t o se tu non l’hauer a j letro) come ne vemn e Abb a r e nell’Italia foura diunavolátefaecada Pythagora, perinlinodal lo HyperboreoTempiodiPhebo.APIST.Ne ancheque fto-e dame narcofto cóciosiachelhoritrovatoscrittodaun certo Philosopho Platonico. FRON. Se bentutiramenta taiqueftecole, facilmerecrederaile altri.Ilperchetu debbi Sapere qualmente comenciaffe cutiaquella Necyomátia di Olyffe,dalcerchio,cioequellaartedidiuinaremediãtelicor pi morti.E cosifacilmentepuo conoscerenon efferecosa nuouaqueftifigmenticfittionidifarelicerchi,m a anzifos no antichipreftigii,cfalse delusionilequalianchora hanno cercato di seguitare li Poeti Latini. Cóciosiachesefinga Scipion c c avare con il ferro la cavata terra altre,etutte qucile cose che seguitano,adeffempiodiOlyffe.Quanto alliragio namenticolleombreo sianocollispiritiiotedico chesono molto piuantichi che fufferoritrouatida Homero.Ilchef a cilmente quelli ilpoffon sapere, liqualiconoscono fufferorj trouatiliuersidiOrpheop queftacagione,econosconoco m e Omero ha seguita qt ou e l l o non solamente in nominare Tyresia ma anchora ha imparato essi nomi congranfole lecitudine econnon menore offeruatione.Ilpercheferiue GiustinoMartyre,come furon composti escrigriliprimiuer fidella Iliade ad esempio delli primi uersi di Orpheo, liqua Jiera noi ntitulaci di Cerere. E coliconuarü riti, costumiciof feruationiogniuno desiderayaecercauadihauer compagnia familiarita e ragionamenticollimorti,per cotalmodo,che dipojera detto come quelli scende vanto giu nellinferno. che narrafi interaenefiaPythagora,poilògotempo dopo Orpheo etHomero, edicesicome uedessejuinelloinferno JanimadiHefiodo,ediHomero,cheeran tormentateper quellecosehaueanoscrittodelliDei.E pqueftofediceche fu grădemete honoratoe reueritodalli Croroniati, etancho sa molto piuperche racconto dihauere ueduto efferui gran 1    demente cruciati, e martoriati quelli,che refiutaueno di pigliare amorosi piacericolle sue dolcimogliere. Ma quanto atrapassare per ilfpatio dellaria,ionon fo in che cosa dubiti, ouero p e c che t u li maravegli. Con c i o l i a chea m e parc non importa,febene misuri lepenne delliuenti con una laeta o con uno scanno,ouero con una caura. Non fe dice in qual m o d o fuffi portato Pythagora, o Empedocle, neinluunocarrodaduerote,oda quatro,o dauno alatoPegaflo oda Dragoni,oda Olori, accio seguicaffeVes nere,Medea ouerofulficondottoconduiserpentisottoil giouo comecòduceuano Circe,ocollilioniamodo diCya bele,o.colliLynciadessempiodiBaccho,ouerofuflitcapor tato in altosouraEuropeelaterra Asidafecondo lacoluetų dinedi Triptolemeo,acciochequellofusliportato lauorato redelle fructa, e questo coltore della philofophia, m a inueco furono amenduoiingannati da Pallade cioe dalla astutia e melitia del demonio. APIST. E cio mi ricordo d’avere udito narrare feno me inganno, di Simonemago, ilqualeebbe are diméto diuuolereandareperaria imperhoinsuamalhora. Conciofiache desidetandodi vuolersaliresouralaria.c fina gēdodiuuolereascederenellaltocielo,ecosisendogiapore catomolto inalto dalliDemonii,percomandamétodiSan toPietroapoftolfou laffato uenireconrátaftetagiu interra d a dettimalegni fpiriti,chrópedofi tutte loffa,fu Ioétedella, uita.FRON.Ě forlianchehai udito dinon so che Ethiopili quali haueanoinusanzadiimporeilfrenoe labrigliaalla Dragoni, edipoiseggédosouradellaloro fchinaueneuano inEuropa.Cosisediceeffernarratoda Ruggeri Bacchone. Ma purcrcdaquellouipareilprudente edotrolettoredi questa cosa accio tu no pens voglia ramétare liuoli di Dedalo, liquali se n o sono semplice menzogne, sono al m a c ocre duticomefrodiet inganni del demonio eta nchorajotaci in che modo sparue Apollonio Tyaneo, dalla presentia di Domitiano Cesare. Oltro dicio fetu confeffi fuffero appo, delli antichi lispiritiincubi e succubi,cioe che si dimoftra p e n o i n f o r m a e FIGURA DI MASCHI e di femine donand o amor tofielafciuipiaceriimodo diciascuno feflo allimiseri mor   Y tali    c o n certiunguéti, accio appareffe a led vero alli altri che fufferotraffigurate e c o n uerfeinunaaltra figura diffimile dalla prima. Ebenche, co teftohuomo dotto,fingeffediessere trafinutato,non perho dicefufficóuersoinuno uccello benchehau effeufato quel® lamędeme medicina. Ma bugiardamente narrafufftramu tatoi uno asino. Anchor dicecheebbe gran cordoglioquel Ja femina, dubitandoperloerrorehauea fattoinpiglia: relabuffolettache fufficangiatoLuciano inuno Alino.Il perche dimoftroe non effereuarialaeffentiadella cosa,m a lilaimagine.Etelloconquestochiaramente ilconfermo, econfettoche fendodiuenuto Asino, hauearetenutolame te,elintellettodi Lucio. Etanchotanó edaistimarechegli ueneffeinfantasiatalesopinio cioeditrasmurare la forma f e l non fuffi f u r a c h i a r a fama come c o t e s t e cose erano molto inufanzaappodiquelledonnedi Theffalia,ecome elle molio fe delectaueno letefsercitauenoineffe. Non lo con fermoanchora quefto, quello Platonico Apulegio, chepoi boseguito:fingendo diessereprimaitoin Theffaliaauanti  tali perquale cagione non uoi credere chesiano anchora fimilif piricipe noftri tempi scóciosiachecotestose côferma có tálietátitefti moniicli qualiioglicamétaro, feltipiaceras Quanto allunguento, iocredolosappi,perchediffusamen tenehascrittoil Syro Luciano el africano Apulegio, uno in greco e l’altro in latino, Eco si se ha queste cose i scritte da l u i. Dunque cheuuoledirecofiquellocophinetto,e quelletan te buffelette equellooliodiquelladoma puoca istima nella sua CONVERSAZIONE. Di poi esfo m e d e m e authoreledichiara dicendo. Incontanentefuunta delluny guento,fufattaageuole dauolare. Edipoifoggionge. Dop po puoco spario di tempo non douento altro cheuno cor, u o da norte.E cosi pareua aquelli,liquali guardaueno,00€ tofingeuano diguardare fuflidiuenutouncoruodinotte. Io non mai crederei, che ver uno se potesse tra f f o r m a c e d i una specie dicreatura in una altra osiaper uirtu de alcuno unguento overo per incanto magico. No dimenoy voleuano quelle sreghe effecuedute ungersi decuine fatto fingeffe diefferueftito diuna nuoua forma sendo priuo del laprimar Sedricamenteio referisco le parole diquello cosi diče. pigliaanchoraunpuocopiudellunguentoefatte& c. Et assai alcrecosescrissenelle quali parecotuttiimodiquafi habbia uoluto seguitare il Samosateno. Cóciosia cheha fato tomentionedello Thebalicomormorio dellolio trasforma uadiuna formanellalera edelliremediidellecosecontrodi quegli incatiliqualifaceuanoritornare lhuomo alla prima figura. APIST. Per qual cagione creditusiafattomentione diquellemedicinedicose lequalieranoinagiucorio,econ. traquelliincanti,efrodimagicedFRON. Segliepurcosa uera egioueuolein queste medicine, penso siapreso d’Arisotele. Nelle operedecuiholettcohe e ripostofralemera uigliosecosecomee cosuetudinechemuoionofacilmeteli Aliniperloodoredelle rose. Il che sapendo Luciano e Lucio finseno di mancare dalla formadellalino,de cuiprimaha? ueano fintiesserne figurati. Oueroforse egliequiui nascosta unalcracofa magica. Eglieda saperecome gia grandemente eran o infamate le donne di Thessalia e di Thressa, che fa ceflino delliueneficii e dell’incanti, et anchora era detto che fussi condutta la luna e m e nata secondo le piace u a colli u e r sida quelle, e chiamate lefiffeftelledel cieloilche anchora cracoftume delli Sabini ficomescriuc Oratio, etokro di cio diceuasifuffero inspirate da Baccho eteranochiamateMis mallonecioe seguacidi Baccho porradolecornasicomefa ceua ello,etanchoraeranodecreAdonidee furiauanocollo complicate ferpefrali Thyrliconillusioni magice, etincáti, prestigii Et erano tenute in tanto honore e veneratione che uuolsiintrare nella compagnia di quelle la Reina Olympia madre delgrade Alessandro.loistimo forseche quelle cose paionobugie Quotrebbenohauerpresoprencipiodaquale che fimilitudinee colore deluero.Pare anchor cosa piu pro babileche haueffono qualcheaccrescimentodadertiprodi güemerauiglioseopere de demonii non senza qualcheue rofondaméto dellauerahistoriacoloratoer adombratoco molteuanitatie fitrionichedallifonniilicomee scrittoda. Synelio il qualeuugleua haueffonohauutolefauoleantedit  1 tecCOG    m i ricordo il qualesefforzodidimostrarecon grade ingegno inchemo do haueffonolamaggiore partedellefauolefermo fonda mentodallahistoria etanchorafforzofididimoftrarecome dipoi fufferofuco fouente ampiate in maggiore cose effe fauolefondarefouta diefla verita dalla falra fama del cozzo vuolgo.E coscredo iofcriuefleVergilioquelperso. La dotca carta teftese di Palephato.  1 il Sole confinteparoleeconaflạipersuafioni,dauaad inte.. derealledonne di Thessalia, l equalinointēdeuanosimileco. Sfimilifinteopere,ouero dagrande aftutiae faggacita. Ilper che fu uno greco chiamato Palepharo fe beu teecofilialtii,daeflisonnü. Ecertamentenon sarebbe itaa to alcunäcánto brammoso di uolgare e manifeftare quello cose, chefufsero hauute e uedutenefonnii,licome ueduce fuoridel somnio collequali fuffero tanto tirauefforzatilhuo minidimerauigliarsi. O quátofonoliueneficii,maleficiiec incantationiramércate, iscritte, enátrate coli dalli Greci.co me dalli Latini, Percia da Vergilio e detto di quella antifti tee sacerdotessa della stirpe de Mafsilli, la qualeprometteua disciorelementidellihuomenicolliuerfi,cioedifarlifarefi come lepiaceua, etdifarefermare lacquane fiumi,difareci tornarea dietro li pianeti e dichiamare, etfareuenireafelc notturnemani cioelispiritidellanotte.Anchoraperquesto senarranolemedicineer in canti di Circe,diMedea diCar nidia,equellealtregenerationidiueleni,lequaliconduco. no lhuomenialpazzescoamore chiamate da Theocrito Si ciliano Philtre di Simetha ecofida luiscritte,loquale regui, to Marone ne fuoiuersi. Puo efferche douiamo pensare che fianotuttequestecose finte senza uerun fondamentos Ver toechemiramentodhauerlettonelPlutarcho,quellafauo lacon gradeingenoe segacicaritrouaradiAganice diThef falia, laqualenarracome conduceuaasuauoglia laLuna. Ma cosi era la verita, chequella conoscendo la cagione che la Luna horaeraritondahoracornuta, ethorapiuno seue deua, perlainterpositionedellaonibradellaterrafraeflaet fa come le coduceuain quel tempo la Luna interra ficome: lepiaceua. Eco sidiconohaueffero principio lalorifauoleda Veramente eglie molto chiaro qualmenteochelhuomeni eranotramutatico lliincaptieueneficiiindiuerse figure sig come bugiardamente et anchora scioccamente parlaueno alcuniouerocheappareuonocosi. Ilpercheparenonsepose finegare senzaqualche Atoltitiachealmancoquellinonpa refsonoaleoadaltriefferefimilecofa. Non tiraccordidi quello che tanto chiaramente se dice delle figliuole di Prei t o cioe che impieno con falli m u g i t i e voci di animali li c a m pifet hauer havuto paura dello aratro, eta nchora hauer, cer cole cornanellaleggierefronterCofice-narratacorestafas uola;Come furonotre figliuole di Preto, le quali sendogia. Nel fiore della giouentu e conoscendo seefter bellissimeintras.o nel Tempio di Giunone, spreggiarno la Dea Giunone, cipucandosieffer piu belle diquella perilcheadiratala Dea ai miffe tale folia inesse che le pareua fulsero diuenute in formadiuaccheilperche hauendopauradiportaree con ducereloaratro fuggirononelleselue.CosinarraVergilio, con il testimonio di Homero, ma Ovidio dice in altro modo cioechecosi diuennene nel furore e pazzia,che glipareus dieffer douentate uacche nella Isola di Chea, perche haues no consentitoaquelli haueanofurato alcuni animali dellar) mento d’Ercole. Le qualidi poifuronoreduttease, etui suilluminatalafantasiada Melampo, ficomefu Lucio con la rosa,m a dicono alcuni altri che furono fanatee ritornare allaprimafiguradaEsculapio, siacomesi uoglia, cosiegtie narrato uariamente.Vero e-oche intraffinoin fimilifurie pazzie, o fufli per ira opera del demonio, overo pe t qualche corporale infirmita ritrouolantichita a quelle gios ucuolie diuerfici medii. Ma tu debbe faperecome bebbero li Demonii uariie'diuersi modi, eranchoracótinuideingan nareli uomini, in quelli tempi, nelli quali teneuano loim perio quali ditutto il mondo, e non solamente per lifacerdo dietAntiftitidelliTempii,cperlioracolierefpoftededi Ido lictimagini,m a anchora ingannauenoper mezzodeals çunedonniciuole inspiratedalfalsoPichia,et fraudolente Apollinc.E cosipercotcftimcoodinduceuanoglihuomen afare ftupefattiemaraueglioldellelorooperationi et ins.  uiluppauono   YA ma non gia con quello il quale seguito Varrone nelle Satire. Conciosiache quello Litio e-moltopiu anticodicoteftoálcro Menippo. Ben che so che tu intendi quello SIGNIFICA (SEGNA)  Larva pur anche io i uoglio ramentare, per parere disaperlo, etanchora per raj zentarlo lecosihora horanon te occorrefi:Sono Larue mooceuoliombre dello inferno,ouero ispauenteuole scon bodellanoue ele Lamieeranochiamarealcuneimagini efpiripi moltibrammosidelafciuiamorie fozzipiaceri,es mche grandemente desideraueno dimangiarelhumana arneV.edimo chefauoleeranocotefte.PurdimmiApi nonpaionoatecotestecoseche hauemo narrato s o p r a molto similia quelle delliquali longamente dicesi dellemaluagie Streghe dellanoftra etades APISTIO J n neticaame paionoquasisimili.Iiperchehoraoccorrono a me quelle parole dell’antica fauvola cioe Larva Lamia etIn cubicongutellodiersodi Ausonio.  a l a p p a don o quelli nelle precipitanti rouine delle scclerita, defotto colore della sagrata religione. E perciopigliauono Qaric formeediuersefigure.Colisepuouedere e consider rue Protheo figliuolo dell’Oceano appo de quasituttiipoet p.loquale ledemoftro in formadiuariifimulacri efigure, ficomedice VergilioconloteftinioniodiHomero,cioeche fubitosufatrohorrendoporco efuriosa Tigre, squammolo dragone,et una Lioneffa con lafuluante egialda ceruice molte altre coseramentanodilui,che lafloperbrcuita'. mente appareueno quellieccellentiBaroniche furono oce siliad Ilio alVinicore.Coli anche liramenia in che modo agparessead ApollonioTlaneouna fantasmaouetoappal tente figuradellaEmpusa,cioediunacerta generationedi Larue o fiaspauenteuoleimagine auuotara a Diana,cheua no,licomesefinge,conunopiedee conuertonseinuariefi gure et alcuna uolca incontinéte che si sono rappreferiate fpareno,epiunon feuedeno. Anchora dicesicomehauesse conuerfácioneuna Larua,ofiaLamia, forrocoloredị hono. Kuolematrimonio,conMenippo Cinico dd Dimofte bomio,   Nora e-la stregain cunede fanciulli, con quelladonnescasceleragine. FRONIMO. Hor piuolcre, ramentiamo pur del altre cose, a c c i o f e possa donare egual giudicio e g i u i t o senz pa u n t o di menzogna. Credo chetu fappi,qualmente sonoscrittiiu finitiuersidelliueneficii,et incanci,dellilicquorie beuande delli Pharmachiemedicine,etanchorsonocantate fauole fchedociele Nenie Marsice cioelefauolede Marfi. Matu debbe sapere come sono iscritte e cantar ce o n una certame Laphora e similitudine quelle cose che cosi leleggono,cioè che lhuomeni,liquali remigaueno gcupisceno colliporci, perledonneche lusinghe e chebruggiasseHercole lendo unto con ilsangue di Nesa eche fufferoinstillasili amori col li veleni di Colcho, cóciofiachechiaramenteseconosceful; secosignificateemanifeftatelesceleratecompagnie epros phanimodidellasozza enefanda libidine,collanridetteor seruationiecanti.Vero-e-cheuoglio tuintenda, come non erano  imperhodetci incantine anchora detre representatio nifofficientidispauentare ueruno,m a folamente pigliauei no, epauentaueno quelliche uuoleuano il perche narra Homero qualmente OliffeasfaltoCirce incantatrice non con ildolcebaso,m a siconlagutocoltello.Jlqualecosi comená fu presodal ciecoamore,cosianchor nó fu inuiluppato dalli incantamenti: Li quali non nuocenosenza malegna sottilita delli demonii. Leganoquellicheugoleno et acciocheuuoi leno ufano uariearti, e diuersimodi.Pigliano il rozzo volgo con lafozza libidine,ecolli deletreuoli,etlafciuipiacerie giranoase quellichesonodeditiallauita ciuilecollericchez ze,econladouicia epuranchoraltrinecoduconoasuoiuo“ tibenche puochi con lepromiffioni,econ laesca dellaglo ria; ed ellhonori,cioe quelli chese sono dati allistudi della philofophia. Ma quátopertenealliconuitiattédiben. Sedito, come quelli inpartefonoyerietinparteimaginationiet ilusioni,non perhofarodiscoftonedisconueneuole dalli antichi scrittori. ConcioGache ritrouiamoiscrittoda Herodor." todellamenfa del Sole eda Solino essere-istimata quella unacosadiuina. Cosiritrouiamonellauita di Apollonio Tia teo  neo, il convito della spora di quello, la quale era riputata una dell’antidette Lamie o delle Larve, o delle Lemire, eLeg. giamoiui, coine'sparbinoliyasipareuanodioro,ediariento cheeranofulamenfa. Etincoralmodo appareuanoiDes monii all’huomeni sottouarieimagini e figure chiamate da PhiloftraroEmpuse eLamie eMormolichie,ofianoLate ue.Gia puocoavantihauemodechiarato checosasianocos teftifpiriti,etombre.Ma quanto alleLamieritroviamoin Esaia dicono.co m e raprefentanouna certa beftialefigura: AlcuniHebreial trimentescriueno,dicendo come seintendeper leLamie alcune ombre e fpiriti furiosi,benche siafattamêtione nelli Treni di Geremia propheca dellem a m m e ouero p o p e della Lamia. Ma altriistimano fia derivato cotefto nome dal lapiaree spaccare etalquantidallaLama cheuuoldirenok sagine,oispauenteuole pronfondita.E dequindicredono sia derivato quel detto di Horatio. Ne traggiil fanciuluiuodepasciuta, Lamia deluentre. AnchornarrafifusserogiaconduttinelspettacolodaProbo Cesare molte Lamie.lu qual modo e figurafufli quella che inganno Menippo,non lipuofacilmentecofidaaltroluogo conoscere quanto da Philostrato. Ilqualenarracomefu ingamnatoeffo Cinicoda quellaLamia,quandoellafinger ua dipigliarloper marito, edipigliare amorosi piaceri con quello. Parimente i o i s t i m o fulfi uccellato e s che r n i r o Apollonio,  quando erapregarodaquellanonseincrodeliffenelli tormenti. Cofiera ingannato,percheiftimauaefferele Lal miemoltofacileadouereamare Hhuomeni,edipoipensaus che grandemente brammasino dehauere amorofi piaceri coneffi,enonmanicodipoicredeuache mangiassimolecat ni humane. Ma il mio Apistioio techiariscoqualmentenon fonotiratii demonii dalle brammofe voglie d eamorosi pia  propheta il luogo delle Lamie, doue famentione del fcontrodelli Demonii incubicioede quellichefedimostra no allhuomeniinfiguradifemine, ecolidanolafciuipiace riallimaschi eriftimano coftoroche siano leLamie dihur mana effigia dal mezzoin fue dal mezzoin giu   c e r i n e condutti da desiderii libidinosi, ma sono codutti dalla malgradeuole invidia adimostrarecoreste cose accio ro uiniiso emandano nelprecipitiodelli peccatilhumanagę.nerationeetalfinelaconducano nella infernale dannatio ne doue efli sonoconfinatiinperpetuo. Etacciobenintens di infiamniano cotestisceleraci spiriti,limiferi mortali, cioc quelliimperhochefilaflinoingannare conunacerrafiam m a occoltam a non sono efiinfiammarida quelli ilche ini teseilpoeta Vergiloquandodiffe.Inspirainelliunooccolto fuogo. Conciosiachemi arricordochefunariatodallaStre ga che quando se appresentata il demonio allisentimenti suoi in diuerse e uarie forme haueainu sanza diconoscerlo e didiscernerlodalliueri animali delliqualiello hauea pigli ato la forma in questomodo.Lepareua che uiintraffenel pettouncertocalore,etuna certafiamma,per laquale era certificatacome quelloerailDemonio.Anchoranarraua qualmenteera apparechiata alla fpreuedura una fiamma đı fuoco, ficomele pareua nelgiuoco, douc conueniuano tuttiauantila Donina, olaaukti del Demonio che seprefen cainformadiornatiffimaReina con la quale fiammadice uache incontinentesecocceuanolecarni femagnono ren dolemoftrateadeflafiamma. NonbrammanoliDemoni ilsanguehumano,neanchordesideranolecarniper managiare, ma il tutto opera d o e p r o c a c c i a n o, a c c i o conduchin o lanimee corpi delli miseri mortali nelli sempiterni tormenti. Laqualcosaiofocheegreggiamente inrenderai,quando udiraiparlareDicafto.Ilqualefebenuedoenonme ingan palocchioperillongospatio,ame pare gia fiaallemani,a combattere con la strega. APISTIO. Benben Fronimo. Tume haigiunto. Bêcheame paressedidisputarecoliuno degnoe nobile caualiere,percheioteuedo vestito coriquel le ciuiliet egreggieueftimente, ecintodiuna moltoornata {pata manon credeuogiadidifputareconuno cheintens deffe tanto eccellentemente linascoffi sentimenti delli P o c tihiftorici,Philofophi etanchora delli ChriftianiTheologi. Ilpercheconoscendoiolatuasufficientia,tipriegouoglitu per talm o d o adaptare in cotefta parte che ciretta  deluia, gio,   gio,chepuoffi seguitareitgia comenciato ragionamento, et anchor puoffi dimostrare dellaltre cose,con ilsecondo dit to,sicomegia hai fattoquelle prime con il prino,ficomese fuoledire.cioe coli tanra facondia fortilica,e dechiaratione chepossonointrareinme bendigefteedechiarateficome f avesse io ben poi mastigare H o r n o perdiamo tempo, ma te priego seguita lagia comeciara disputatione.FRON.Se rebbe bisogno dimolto piu dotro dim e,et anchor sarebbe necessariodino puoco,ebreue viaggio,m ad i longo tiposo in douere fatiffarealletue humaniffime petitioni No dimen o pur mifforzaro disatisfare a tequáto porro .Cerraméte farebbeuilan, eprivodiogniciuilita,feionon efsaudillele gratioseetanchor honefte addimandedicoluide cuihogia conosciutoperlesueresposte che grandemete desideraebrå ma deintéderelauerita. Dunque seguirolagiacomenciata difputatione, eramétaro quelle cose paionosianoaccómo date aquelloauãtidiceuamo,quáto imperhociconcedera ilbreue spatiodel uiaggio.Giahauemodettomolte coseet hora uoglio rispóderea quello tu dicesti cioe che pare nale accozzanole Stregheisiemenelnarrarelecosefatteadeffe dal Demonio, eparenó fecóuieneno inreferire quelle cose delloro sceleratogiuoco,ma cheunadiceinunmodo elal t r a i n altro modo.I o ti rispondo che cotesto  puo intervenire o dalla paura o da mancamento di memoria, perche c o m u n a mēte fonogroffe de ingegno,ecôradinedella uilla.Anchor Sepuo cagionare et in col parlea malitia del demonio il qual inganamano tuttoiunmedemomodo. E questofacilme. te lepuo conoscere nellantichiprestigii,etillusioni. Concio Siacheegliealtrageneratione dejucătationinello Euflino altra nella regione Taurica etaltra maniera nella Italia E fében consideraraj conoscerainon esser fimile totalmen re quella Pharmaceutria di Theocritoaquelladecuipar la Vergilio cioenoii.e-fimilelartede ueneficii et incanta, menti unacon altra. Anchorpareinteruenisseilfimilenel li oracoli e responsioni. Perche altre erano le resposte date per le femine inspirate dalli malegni demonij,etaltre erat n o quelle hauute per le aperture e coragini della terra,    et altreanchoraquellecheeranopigliate dallhuomeniper lifonnii nelli Tempii. HperchealcunidormiuanonelTem piadiPaliphea,elmiedici Calabresianchora essihaucano confuetudine, con& Dauni,diriposarsiappodelsepolcrodi Podalicio,ilqualePodaliciofufigliuolodiEsculapio efueca cellentejnedico.Anchora emanifefto comesoleuanogia Gece affaipersoneneltempio diEsculapio. Ilchenon solas mene fuofferuatonellitenipi Heroicim a anchoraperinsie no allaeta di Antonino. De cuiraccontaHerodiano chean doa Pergamo perlanti decta cagione.Anchoraleggiamo q u a l m e n t e haueuano consuetudine li oracoli di dare responsioni per il mezzo di intier esta r u e, e t a n c h o r a p e r m e z e zestatue,emediante anchoralecolombe,ofufferoquelle neriaugellio fussero femine disimile nome non loro, m a benfoperdetci modireuelaueno lecoseocculte etannon tiaueno quelle doueano uenire. Anchora assai auttori narrano come erano farte simili cose nella India per il mezzo del Jalberi, et in Dodone,ficomeracconto Aleffandro Magno, Erano anchoraaliriliqualisubicamenteintcandolisopraun certo furore narrauano marauigliore cose.Ecosi ritrouauoni ficoteitietaltrimillimodi, ediuerfiJunodallaltroda reuela re lisecret, etannonciare le coseda uenire.E come erano di uersespecie egeneracionidellaugurii,ediuersilimodi del fceleratorico, da manifestare le coseoccoltee da aluontias rele cosedouéano uenire,cosieranodiuerfi i sacrificiicollir quali sagrificaueno,eanchora diuerfi'imodi dieffofcelefto prophano,eteffecrando sagrificio.Anchora erano diuersili incantamenti delli antichi enon manco sonouarii nella10 ftra eta enon manco sonofatticon altri scelerati coftumie modi chesoleuanofarequelliantichi Romani. Sononarra tealcunecosedallantico Cacone nellilibridella agricoltu raditátasciocchezzache retrouansipuochile poffonoleg gere senza gran riso etischerno.Nondimeno furono imper r h o i scritte DA UNO UOMO ROMANO, il quale fu  censore e triomphatore. Ma quanto al moto.cioeinchemodo fiano portatedalDemonio,equanto alluogodoue fono ferma te tunon tidebbi merauegliare. Concioliachequellacosa che   e conåfuoingegno. bugiardafallace, etingannaterigcel i e quellafouentdee piumodi, ediuatianaturainaquellache c-ueracefeaccostaalla semplicita. E corefto efaciledauc derein quelle coseche hauemo ramentare,enon manco anchora se puo conoscerepellifigmenti,e fauole de poeti, comefonola fedariietanchorcótrarii.Etanchefpeffeuol tequelloferitrovanellenarrate historie. Ilperche fouente seritrovauna cosascriccainduoietremodi, eta nchorqual che uoltaipiuan o cótrarioallalto, esepurno seranocorra tii alm a n c o seranno diuerse uarii.lisimile intecujene anche nelleoppenionide philofophi, enellerefponfionidelli(auii (ureconfolti, e doctoridelleleggicosipontificalicome imps riali conciolia che se citrouano varieoppenioni circauna medema cosa, Manon maiimperhoseritrouaquea cofa, nelle (criteurede Theologgi, eccettoche inquelle cosel e quali sono communi coli alliPocci comealli Philofophi. M a inquelle cose, lequalipropriamentepertengonoadeffs TheologgiciocnellicomandamentideIddio ecosinella! He cose, che pertengono alla fedecatholica,etaliicoftumi, chefononeceffariiallafalurenoftranon uifaricrouaucig. na diffenfionem a fonodatutti:narráciedęchiaraticongran deconcordiae consonantia etinunomedesimomodo.Ve to-e- chel Demoniomalegno amicodelladiffenfione,con c o m e -e-bugiardo et ingamatore cufi-e.uario,e uerfipelle. accio dicameglio. Ilquale uocabolo segondoliftudiolid e l la lingua latina e-cauaro kuorida quelle favole delle quali gia auantipädladimo,per ilcuiinganno diceuanli effertraf murai Thuomeni nellilupitcoicomeingamaha Pichau gora,Empedocle,Apollonio ellaleriantichiPhilofophi disi mile generatione con ilcolore della dottrina,(üpercheula "Ha coteftilaciuoli,ecotefti modi,colliqualifacilmenteuili quoreua tenereligari) ecosicomeanchoragia tirauaafe de donneci uole con il mangiar e beuere, imbriagaree con lila sciui e carnalii piaceri.cosi anche hora tira similmente a fe, Thuomiciuoli e donniciuole c o n fimili piaceri,liquai c o m e chiaramente sevede furono sprezzati da moltiPhilofophi. M a quelli Philosophiconduceuaconmoldimodiafarliado es   tare cioeoconilcolore della capientia oucto con lasuperti cionedellafallareligione.Concioliache perhauere e gra. di della cognitione,e per ottenere la doutrina faceuano esto OrationielaudeuoliHinnialli Oracoliquero all Tempo dellifall Dei Per lequali cose gli pareuade impetrare la cognitione dellecose chedoucano uenire,etanchor pareuali diotteniredicflereportatiperariaindiuersi luoghi.E coj fendofatięquestecose con loagiuto delDemonio,quellilo attribuuano ad una certa cosa diuua,che pareua fufli 11€ dettihuomeni.Inchemodo altramentehauerebbonopor furouedeteli discepolidiPichagoraestofuo precettoredif. putarehoranelTaucominiodi Sicilia erhoranelMetaponto in cosi puoco spacio di tempo. Per quale via f e r ebbe camminato per aria Empedocle et anchora in che modo cofi prestosouradellafactaferebbecorsoAbarc,perilchefuchia maco Acrobares Coluigrandementese inganna, chicrede, che Apollonio conosce ffeaffai delle cose doueano uenireet icheluicomidaflealliDemonijetquellilubbedisceno,per paurahauciserodiluiFengeuaiDemonioaftutoemalus gio diessere martoriato da luietanchoradiesseresforzata accioche sendo quello inescato fottocolore della finta diyi nita, dipoipiu forcemente seaccoftafse alalere cose etotal mente rouinalenellipeccati.Ilche facilmente, fel apiace. i puotrai conoscere dal fine che seguicaua.Sforzosi difare uccidereprimicramétePithagoranellaseditione,e dipoidi farlotagliareipezzi.Amazzo Empedocle neluergognolo Iceco loqualehaneacoduttoatantasciocchezza checrede ua dihauereortenuto ladiuinita.Ilperchecidiceuaallícom pagniqualmentefcdoucuanoalegrare,concioliachenon farebbe piu uomo mortale m a douentar ebbe Dio immortale. Im pe r h o c o f i f c c i f f e quello in greco, m a i o l o voglio e mentareinuolgare.Remanetiuiinpace,conciolia che io f o n o a u o i Dio immortale, e non piu mortale. O che morir con questa morte, quero di quella decuiscriffe Democrito Troegenio, quando diceva, qualmenteello pendeouaucto Seeta attaccato ad uno cornale con uno lacciuolo al collo églieda pensare chelipaffalidicoteftauicaperin&igatio ne super persuasionedel Demonio. Anchora non l contenu focdiquello inganno,et illusionem, a anche diceua come gia erapassatalanimafuaperdiuerficorpicon questepar role grecelequale uolgarmente lediro cofi.Gia tofuuna Lanciula etun fanciullo.Ecolialfinefuconducoallamor le colleuocidelli Demonii,econilfpiandore dellefiaccole ficomeraccontaHeraclide.Forsianchorane conduffiApof lonionelTempiternosupplicio con tanima insiemecoilcom p o. La quale morte no parech e ha indegni a alli n j a g h i e t incantatori. Con cio la che variamente egli e narrata la morte di esso, perche sono alcuni che dicono come mori in Efeso ultriscriuenochemoriin Creta, et alquanti alttiuuolero mancale inRhodo.Vero-e-chenon erainpiediilgodose polcrodiquellonerempidi Philoftraco.Benchefuffyadors toereueritaperDiodaalcunistoltiepazzi.ilquale scelera to costume ficomelaltri frodidelDemonio manico etheb befinefrapuoco spatio di tempo.Cofianchoraporloayenimento di messer Giesu Christo pero Imperadore di tutto il modo mancarono tutti li oracoli respofte, edomesticiragio namétideliidolierdelifalfi Dei. Nelliqualierainusluppa. toe strettamente legatoquasi tutto ilmodo.E cofiquello, dquale apercaméte, epublicamentedauaresposteperliora coli per liIdoli,eper lialtrim o d i hora fcioccamente parla perleoscurecauernedesiderandolilasciyiecarnalipiaceri, fiqualihorasono uergognofi cheallhoraallegentierano gloriosi.ltperche fa scritto quelparlares Dignate Anchisa del Paphio coniugio. Ino solamétefuronoquellilasciin piaceri gloriofredigrar de reputatione ne tempi eroici, ma anchor nella era di Alessandro e di Scipione. Alliquali fu attribuito cotefta gloria, che eranoistimatida molti figlioli di Gioue.E questomolto maggiormenteemanifeftoperlehistorieche iopossacon Ognidiligentia raccontare cioe cheera credutoche il D e. monjo chesefaceuachiamareGiouein figuradiferpente hauessehaguto amorosipiacericon lamadre diScipio ne, econOlympiamogliere delRe Philippo.Et eranoin tantaoscuricadiméte checredeuonofulliGioueDio.Eco Gin coteftie fimilimoditicauane peccatiquelli che erano la f c i u i libidinosi e carnali, meschiando li impe r h o anchora ce ii LIBRO PRIMO qualche colore di supexftnione. Anchor cofiinelengaquelli, liqualidefiderauenoebrammauenola gloria,eteccellencia dellihonorimondani,liqualitendofralimortalijeshauédo proirontiatilecosedauenireper la conuerfaçione, familia cicacontinuahaueano hauuto colliDemoni anchora fimile méte dopo lamorce pronosticaueno.Ilperchefauolefcame tenarraflidiOrpheo comesendouiuofu riputaco profeta. et dipoisendo morto fedice comedaua anchor resposte. È dicefle anchorqualmentesendolitagliatoilcapo,dalledon ne Theeffe,ando effocaponelLelbono;etiuihabito in una spauente uole ruppe uaticinando edandarefpoufioni perliIpiracolietaperturedella terra .Portauanoanchora in yoltali oracolidiAmphiarale diAmphilochouanie diuina torifendoanchee gliuiuietil simile fecero doppo la morte, Ilche forsigrandementedefidero Empedocle quidouuol. fiefferciputatoDio immortale.Fauolosamente anchorrac contano comeeffercitayanolamiliciaelaguerraliReggi doppolamorte efaceuano battaglia, ecombatteuanoa cheandauanoacacciarelianimali,e luccellietcayalcauay poficomenarrauanodiRhefoRedi Traciachecaualca, uainRhodope. Oltradiciodiceuano comenosolamente fc eccicauano,etferappresentauenoleanimede quelli con lopradellicerchii,edellisagrificiiramétatida Homero,m a anchora spontaneamente,econalcunipattiinquelmodo, ficomeseriue Philoftrato,leappresentarsiAchillealTianeo, etal Vinicore Protesilao,collaltri Capicanii fecero baccaglia co Priamo.Veroeche lafaccia juoltiicoftumi,eliatti,ege Aidequelli, perchefonodialtra maniera emolto diuerfi,e Yariida quelli chesonoiscrittida Homero eperchesonoan chor diffimilidaquellichenarrano lhistoriediDarete Phri gio edi Ditto Creteseteinsegnanoquantosianolijnganoi delli Demoni elebugiechehannopoftonellacognitione etanchorti dimostrano li noceuoli deliramenitie pazziem e fchiatecollibuonicoftumi. Perilcheseil Demonio hauccel laioebeffato,etingannatoperquestimodi quegliliqualise iftimauerosauiiedotti credendo lecose contrarie e totalmente da l ragione discoste quale ci la cagion ce h e t anto grandemente tuti marauegli diuditezediuedere molte co feuarie, diuerfe collipiedilaconfegratahoftia.E cosiinquestomodo comanda quellofceleratonemico deIddioachiunqueuuo leentrarenellasua profana, maledetta, eperfidecópagnia, che abbandonino, preggino,etischetniscanolanoftra fan: ciffimareligioneChriftiana.Imperhononsipuoaccozzare neconuenireinsiemelabugiaefalsitacon laueritanellete n e b r e et oscurisa c o n la luce n e anchor la fuperftitione c o n lareligione.Io credo ilmio Apistio,chehormaitutifiaaffaj certificato e chiarico cosipian pian caminando di quello decuihauemocóferitoe disputatoetanchordi quellodel qualemi addmandasti. Deh pertuafedeuediuedicola la Strega, che eagrandiragionaméticonildotto Dicafto, nel portico avanti del sagrato tempio. APISTIO. Diovi fa lui. DICASTO. Siatie benuenuti checosa ci e dinuouoil no  sciocchee pazze econtrarielunadellakira nelleStreghedenoftritempirM a anzimaggiormente cu tidebbi merauigliarediquella eccellentesapientiaepoffan zadiChrifto,laqualetalmérehaoperato chequellohauca persuaduto il Demonio malegno eperuerfo inanti lo auek nimento di esso a tantiReggi,Oratorie Philofophi delle genti,ficomecosaeccellente emolto meracigliosa edegna dogni sapientia hora a pena ilpoffa perfuadere ad alcuni huomiciuoli e donniciuolecioeche lo adorano loreuerisco Do Ihonorano,efacjonoquellecosecheglicomandae cos fiperqueftomodotu odebbemacauegliarechequello chegiaerafatropublicamenteintuttoilmondo,etfratutte le generationi sicomecosa honoreuole e gloriosa che hora H a fatta nelli picciolie Atretti canto n i da puochi secretamente, e con ignominia e vergogna. Ma voglio che tu ben consideri una cosa de divina gloria frale altricioeche glie, tanto fodo,fermo,eftabileilfondanientodellatriomphantefede de Chrifto chenon uvole ilDemonio peruerfo emalegno niuadinoallesuefcelerate congregarioni, eradunamenti, neanchorauuole che conuersino con luile Streghe,fepris manop reneganolasantiffimafedediChrifto,e Spreggiar nolisagramemidellasagrosantaRomana Chiesa,econcul cano  Kro Apiftio APISTIO. Loaddimandamo ate. Conciolig che Fronimo noftro erio ftamo venuti quiaccio udiama imperhosettipiace. STREGA.Heime doue fon giuntai DICASTO.Non hauer paura M a ftapurdibaona uoglia e parla senz auerunpauéto. E nodubitaredi meconiciofia che iotiseruaroquátotihopromeffo ciocche'nóseraimar toriata feliberamente manifeftarai iurre letue maluagic opere lequalinonpoffonopioefferpalcofte, perchegia ho liteftimonijcometuseiindettoerroreepeccato etanchot fulhai cófeffato fi comeiográdemenre desiderauo. STREGA. Deh heime. Gia lho detto. Per qualecagionedonque m itormentatidiuolerloanchoraunaltrauolrahora inten; dere? DICASTO,Perche e bisognodiritornarlo a confef faren o n solamente inantidi duoiu e r ditre teftimoniim s anchoraauantidipiu etalfineanchedavantidituttoilpo polo fedesideridiIchifare la pena tassata dalle leggi e a voi che setidi questa'maledetta compagnia,per tantifacrilegii, et ā r e f c e l e r a t e o p e r e c h e uoi facte. Vero e che gia h i a m e promessodi faretuttoquellocheticomandaro,et10teho promesso seruandotulepromiffioniantidectedinon confo gnartinellemani delGiudice il quale in contanentetifareb b e brugiare cosi sendoli c o m a n d a t o dalle leggie.Hor a noir tic o m a n d o altro eccetro che tu ramêti unálıca uolta quelle c o s e c h e t u h a i f a t rco o l i demonii nel giuoco o s t a nel corso come fedice uolgarmente. STREGA. O maladerco giuo co, O giuocoin felicepme, mala fortemia. DICASTO. Nonbisognanohoralagrime,non piantine anche gridi. STREGA.Deh perquellahumanitaetgentilezzachein uoi leritroua,priegouinon mi uogliateperhora piu darmi faftidio.M a fiaticontentidi concedermiun puoco fpatio di tempo,etun puoco diriposo  narta tanto chemiramentiiltutto ecolidipoiuinarraroognicosa chehofatto:DICASTO. Piacédouigli cöcedero,quellochele piace,etaddimanda. Conciosia chepoiraccotarajl tuttoconmegliore animo, conpiuageuoleuoce,seespettaremoadintrarenelliragia namenti perinfinoadomanc.Doue haueromolto Alberti (Bologna). Grice: “I like [Leandro] Alberti; his “Tutta Italia” is a must; his claim to fame is to translate from Roman to Tuscan (no big deal there) what is deemed the first ‘daemonological’ tract – Mirandola used ‘ludificatio,’ which was vastly translated as ‘inganno’ or by Leandro as ‘illusioni’ – which has echoes with Descartes’s malignant demon hypothesis and my “Some remarks about the senses”!” – ‘Filosofo. Nato da Francesco Alberti, di origine fiorentina, fu condotto agli studi umanistici dal noto medico e umanista Giovanni Garzoni. Entrato nell'Ordine domenicano nel 1493, studiò teologia e filosofia con Silvestro Mazzolini da Prierio continuando tuttavia a coltivare con il Garzoni i propri interessi umanistici e storici.   De viris illustribus, Bologna. Il primo risultato dei suoi studi fu il contributo che egli diede, in soli 18 giorni, alla stesura dei De viris illustribus Ordinis Praedicatorum libri sex in unum congesti, opera collettivacon il Garzoni, il Castiglioni, il Flaminio e altridi biografie di domenicani, stampata a Bologna. Nel 1521 tradusse dal latino in volgare la Vita della Beata Colomba da Rieto  Tenuto al dovere della predicazione, fu «provinciale di Terra Santa»cioè compagno nelle predicazioni itinerantidel maestro generale dell'Ordine, Tommaso De Vio e del successivo maestro Francesco Silvestri: con quest'ultimo percorse tutta l'Italianell'ottobre del 1525 era a Palermo e la Francia dove, a Rennes, il 19 settembre 1528 morì il Silvestri. È poi attestato, a Roma, prendere parte al capitolo generale nel giugno del 1530.  Negli immediati anni successivi rimase nel convento di Bologna, dove commissionò a fra' Damiano Zambelli le decorazioni da eseguirsi nella cappella dell'Arca di san Domenico e i bassorilievi eseguiti da Alfonso Lombardi, questi ultimi pagati dalla città dopo la richiesta in tal senso avanzata dall'Alberti. In quest'occasione scrisse un opuscolo sulla morte e la sepoltura del Santo, il De divi Dominici Calaguritani obitu et sepultura, pubblicata nel 1535. Un'altra sua operetta, la Chronichetta della gloriosa Madonna di San Luca, fu pubblicata ed ebbe altre edizioni accresciute dal contributo di altri autori anonimi.  Il 20 gennaio 1536 fu nominato vicario del convento romano di Santa Sabina, un incarico che non dovette prorogarsi per più di due anni, giacché  è sempre documentato a Bologna. Fu anche inquisitore di Bologna probabilmente all’anno della sua morte.  L'opera più importante dell'Alberti, dedicata ai sovrani francesi Enrico II e Caterina de' Medici, è senz'altro la Descrittione di tutta Italia, pubblicata a Bologna. Ad essa seguirono in ottanta anni altre dieci edizioni a Venezia e due traduzioni latine a Colonia: nell'edizione veneziana del 1561 si aggiungono per la prima volta le Isole pertinenti ad essa, mentre quella è arricchita dalle incisioni di sette carte geografiche. Opera di geografia e di storia, ricalca in gran parte la Italia illustrata di Flavio Biondo, ampliandola e migliorandola nell'esposizione e nella citazione delle fonti, ma mostrando scarso spirito critico, attenendosi egli «ai dati dei geografi antichi o, per la parte storico-antiquaria, ad autori moderni di dubbia attendibilità come Raffaele Volterrano o Annio da Viterbo: e solo quando vengono a mancare testi precedenti ricorre a elementi di più diretta esperienza [...] parimenti nella critica storica preferisce riferire insieme le differenti versioni, anche di tempi e di valore molto diversi, senza prendere posizione».  Opere:  “De viris illustribus ordinis praedicatorum libri sex in unum congesti” (Bologna); “De divi dominici calaguritani obitu et sepulture” (Bologna); “Historie di Bologna”; “Libro detto Strega o delle illusioni del demonio”; “Descrittione di tutta Italia, nella quale si contiene il sito di essa, l'origine et le Signorie delle Città et delle Castella” (Bologna); “De incrementis dominii veneti et ducibus eiusdem” (Lugano); “De claris viris reipublicae venetae” (Lugano). Universal Short Title Catalogue, Scheda delle opere di Leandro Alberti. Così scrive egli stesso: De viris, c.A. L. Redigonda, “Liber consiliorum conventus Bononiensis, Archivio del convento di San Domenico, Bologna. A. Battistella, Il Santo Officio e la Riforma religiosa in Bologna, Bologna, G. Roletto, Le cognizioni geografiche di Leandro Alberti, in Bollettino della Reale Società geografica italiana, Abele L. Redigonda,Dizionario biografico degli italiani,  1, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Descrittione di tutta Italia in Il Genio Vagante, Bergamo, Leading Edizioni,  Massimo Donattini, Il territorio emiliano e romagnolo nella descrittione di Leandro Alberti, Bergamo, Leading Edizioni, Michele Orlando, La Puglia nell'odeporica domenicana di fra Leandro Alberti, in Rivista di Studi italiani, ora al sito rivistadistudiitaliani La Puglia, introduzione e note al testo dalla Descrittione di tutta Italia, Michele Orlando, UNI Service, Trento, Liber Liber. Opere di Leandro Alberti, su open MLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Leandro Alberti, Leandro Alberti, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. Descrittione di tutta l'Italia su culturitalia.uibk. ac.at. LA STREGA; OSSIA, DELLE ILLVSIONI DEL DEMONIO. Dialogo composto dall’illustre e molto dotco Prencipe Segnore Giovanfrancesco Pico della Miradola, segnore e conte della Concordia, volgarizzato dal Ven. P. F. Leandro dell’Alberti, Bolognese, dell’ordine de predicatori. LE PERSONE PARLANO. APISTIO -- FRONIMO -- DICASTO -- STREGA. APISTIO. FRONIMO. Dimmi do juevacola cosi infreta caminando per la piazza ove vendon sil herbe tanta moltitudine di popolo. FRONIMO. No loro, ma andiamo anche noi un puoco, accio intedia mola cagione di tanto concorso, conciolia che puoco di no potra esserela perduta di puochi passi. APISTIO. Noi   in ver un luogo. FRONIMO. Di quale augello ragioni tu en. APISTIO. Della strega. FRONIMO. Tu giuog h i he Apistio. APISTIO. Pensa purche quello ho detto I ho detto no per givo con e periscrizzo, ma da dovero  Conciosia che debbia esser molto aggrado a ciascun huomo, ma maggiormete alli gentili e curiosispiriti, di conoscerequello, loqualeno hamaicon osciutolaantiquita. FRONIMO. Dunque tuteaffas tichi diuuolerintendere quello chenon ha inteseuerunos APISTIO. Dunque il timitacheiovogliammi persuadere diconoscerequello che non mai hanno volute conseffarede haue r e intero li huom n i gradi e molto litterati, e pur se l’ha a veranno inteso non appareinuer un luogo. FRONIM. Chi co far. APISTIO. L.oaugello Strega. Béchegiahabbia lettot CollaliinfamelanotturnaStrega.E coficonfeffadino sapere, di qualeger nerationedeucceglistalastregha. FRONIMO. Affaimi meraueglio chefendo tu molto dotto nelli Poeti, ficomea mepare cunonhai letto comeera consuetudine nellitem pianti chi di esserscacciatofuoridelleporte & uscileftreghe cosa che seraanoi aggradeuole, perche sepuotra comput: tare in uecediuiuandenel pranso,quandoritornaremo. E forsi anchora ser amolto piu utile cosa chenon sapiamo, intendendo qualche nuouo secreto. Conciolia che am e pa te,etragioneuolmére istimo,fiapresa una Strega etiuieffer douecorre peruederla tantamoltitudinedipopolo.mesco T a t o c o n li fanciulli. APISTIO. Habitano in questi luoghi le streghe? O cercamente non mi serebbe grave di caminare diecemiglia, peruederle. FRONIMO. Hor su, sea dunque non m a i uedeftiuer una, forfihora fara satisfacco alla tua cu. riosauoglia. APISTO. sepur accadesse cheiopoteffi ci trovare coteftoaugellodam e contantodesiderio cerco,eno giamai citrouato Meftitia augurio infaufto edanno efpresso Peggio chel bubo annontia porge, etlega. Anchorpurhouedutonellantichemaledittionifusknomi nalalaStrega.Machecofasiaquella ediqual naturanon ficouiene. EtiftimaPliniochesiaunafauola,quello cheers scritto deltelitreghecioe che asciuccaueno collelabbra le p o p e delli fanciulli   Da uiciaticorpiaforzaegreffo. Er egliecoteftoluto offeruato pinsino dalli Heroici tempi. Quellecosemimoueno che sono venuti nellithalamieca. mere delli Proci, o siano delli lascivi e molto libidino f i buo, m e n i cosidicendo Ouidio. Procàildimostraqualesiaqueftoangue Chere-laceratoda questoanimale, Aforbeilsanguelaftregainfelice, Delle Streghe gia preda fortelangue, Puoco iluagitofanciullefcouale, Et chi ederspello agiuto allanodrice. bb ii conuna uergadispinobianco,ecome hannoqueda natura,chesonobråminosiucceglicon ilcapo grandeliocchi fermi,ilbeccotoruo,epartedellepennecanute.colunghie rampinate, eperciocolisuolenoefferechiamatepercheha n o confuetudine di Atridere nella spauenteuole norte. Hor tu uediilnomela cagione diello,lanaturadiquella &ancho talafigura comeegliestaraifcrittadalliantichi. APISTIO. Ben intendo quelloturaccolima forsi sonodidiuersemanie re e generationi cotefte ftreghe,edi differente natura,c o n cioliachefedice,comenon fuccianocollelabralepopedi fanciullini, ma ch beueno ilsangue.Ilpche cofidiffe Ovidio Di notte ai fanciulliniuola spesso Empiendo il petto dellionoffiosangue Siprefto conlalinguainfatiabile, Chelsoccorso opportuno effernon lice: N o paionoatecoteftiofficiifrafedellestreghe, tanto diuer Se nontidimoftranouaria& anchorcontrarianaturaecó ditioner Erano ragioneuolmente da efferiftimatiquelliaus gel li misericordiofi, liquali faceuano Ifficiodellanudrice, ma quefti sonodaesserreputatigrandemêtenoceuoliema kegni dalli quali sono occisi li fanciullini havendoli bevuto il sangue. FRONIMO. Iotediro'ilueroaniipaionopiupre ftociascunadiquestecosefauolė,che altro.Mapurseuisiri trouaqualchecosadiueronellafauola iopenso chenosias nonatiquelliaugelline anchor che se ritrouano nell’inerf. Chalquinto giorno depuo fuo natale Perche quelli fallititolieuerfifiguranola uecchianelliuc.. celli.Mabenpensofuflifattoquesto conloagiutodelliDe. moniiiniquiemalederti cio echeliancidentiaugellihora appareuono in una forma della nodrice ethora dellainlidia triceE. questomaggiorméte am e lofa credere percheildi monio insegno il gioueuolerimedio contro delleincantas tioniemaleficii, perliqualieranoligatelementi delli huo. mincio n inganni,econ bugie,dicédofeeffer Giano,uuole uachetreuoltetoccaffilioconlarburafrödale porteetuscii cioeconlafrondadeunoalberosimilealcitrono &treuol tesegnandocon dettafronda le pietre chesono sottolain trata delluscio, bago ando la intrata con l’acq ua, e com i m a d a gaanchorsefaceslino dell’altre cose che non erano sagre, ma anzi a b omine uoli sacrileg i i e p o rtéri, Bé che anchor de quelle confedica. Se poil infanti per la nocte oscura Vesla ecilsangue elucca con l’esperti  Labrila Strega, etintalmodo leindura. Cosine tempinoftri hanno consuetudinedifare le streghe, quando se narra che sono portare al giuoco di Diana. Guaftas no nellecune li fanciullininuouamente natiche piangono, dipoiincontinentiledanoligioueuoliri medi. Liquali, co m e ainepare, fonoinloroarbitrioepoßianzadi doucrlida re. Im perhomeritamenteegliederiuato questo nome. Ca ciofia che queste crudeli e bestiali femine lequali cometter no tanta scelerita,anchorda noi cosicome dalliantichi có. uenientemente sono chiainate streghe. APISTIO. Hammi parccute inganni Fronimo pariméte inlieme con moltialtri,cte dendo efferuero, quello chescioccamentediceiluolgo,cio eche fononoloche feminuzze, lequaliuolanonellamezza notte alliconuiti, et alli delette uoli piaceri carnali delle L e muriofianodellispiritidellaoscuranottee che coteftefer minuzze guastinocon incantilifanciulli. FRON. Meglio potreste parlare Apiftio. Conciosia che non mai fe debbe di re checoloroerrano, liqualiapertamenteracontano quello che hanno con locchio dellaragionechiaro e manifeftono puochihuomeniben docci, & amaeftraticólacõținuaprati 1 caet.   sa etanchorfonoomatidebuonicoftumieuertuti. APISTIO. Io ti prometto cheno'e-maiftatopossibiledieffermiper fuafo queftoche tu di percoralm o d o che lhabbia creduto. FRON.Per qleragione, no teha poffuropsuadeiuecuno A PIST. Per que f t ca, i n e che pare una cosa da ridere, come fiapoffibicleh e fattoun cerchio et unto il corpo conno fo che unguento,in un'certo m o d o erdettepoicecceparole coun no fochemormorio fecógiúganodettefemenuzze incontinéte colli demonii infernali e che caualcanodinot. te souradiunolegnodettoGramitaconilqualesifuolecal fecrareillino,elacanoua oyerosaliscanosouradiunacaura o diuno beccoo diunomoncone,esiano portateper aria, eche trapallino li Spatji delli'uenti e ricrouanfe alli cantie ballidi Diana,ediHerodiade, E cheiui giocano,mangio no beueno, epiglianolasciui piaceri- Puruoglioanchorago giungere un altra cosa cioechenonseaccozzanonelparla. re,ficomeho inteso conciofiache alcune dicono efferpors tate moltoinalcoperaria, eraltrediconoappo diterraalcu ne confeffanodiandaruifolamente con la imaginatione e noncon ilcorpo,epoifermarsisouradellagodi Benacoo Hadi Garda, nellialtiffimimonti, vero e chemolto m i m e raueglio chenondicanodiefferefermatefouradellacima delmõte Micalainsiemecon Thalete overo sula cima del Mimante siano poste a caminare con Anaslagora, Ilquale c un n o n t e n o n guar i dis c o s t o d a Colophon e da continue neui affediato, dacuife conoscelatempeftadebbe venire. Altrecacótano de esser portate allo albero di Benevento det tolanuce,rebême arricordo.Ma qualee la cagionenosi fermano piu presto nelterritoriodi Arpino piu vicino (fico/ me io penso) alla nostra regione coueroportate alla Quer zadi Mario,etanchorfeno leparefaticadiandarepiudiß costo perchenon sono portate per infino nella Cheronea alla Querza di Alessandro Dicesianchorache hannoamo rosipiacerecolli demonii che non sono congiunti colli corpirei on oerro. Ma dimmi un puoco Apistio, che toccame ci possono esser cotefti? Chepiacerisouerinche modo poffo no haueceamorosisolazziconqueftauana, efintaimagine, efeminedicarne. Ho letto come le larve oʻsianolenuo's ceuoliombre dellanorię e dellinferno pigliano piaceri colli' morti etche combatteno con effi, e no con liuiui. FRONIMO. Dimmi Apistio, seiosciorco tutteletue ragioni, fico me spero consentirai. APISTIO. Io ti prometto di cosenti re. FRONIMO. Egli e certamente cosa da huomo ragioneuole, e di sano intelletto, dilaffarsi muouere 'e guidare dalle ragio ni effcnipij,etdalleauthoritatidelli antichi,lequaligia sono con cómun sentimento confermate,edipoi quiuifermarsi ma moltomaggiornéte-eropera di coluicheedigradeinna gegno,echeha lógo temporiuoltolilibridellidoctihuome ni. Donqueseiocolletueragioniticonduceroa cosentirea quello decuihoratenemenibeffe,chefaraipoi? APIST. Che faro: Vimetterolemani. FRON.Pensocheancho, sauiinetteraiipiedi. APISTIO. Ma nongianelliceppi. FRONIMO. Deh non hogiamaicercaměte pensato co testo. Vero-e. chebengrandemece desiderocuintédique. fto,accione uenghinellamia oppenione, collipiedi, e cole mani, ficomedire sisuole. APISTIO.lononfifiutoquello chesperi, e desideri, sefaraiquelloche tudietprometti. FRON. A me pare perilragionarehauemofattocaminan do,chetuseimoltodottonellipoetidelliGentili,etanchora affai siaornato dePhilofophia. APISTIO.Il mio Fronimo diquestohoranomiuogliodareiluanto cioeche beninte dali Poeti et fia dotto nelli parlari. C o n c i o f i a c h e e g l i e m o l tomaggiorelacognitioneadouereintéderequelliper co ialmodo chesouerchia le forze decoluiloqualearrogáte? mente alcunauoltaselauoglia attribuire, hauendopuoco ftudiatoinesli, ethauédolipuocapratica. Ilpercheegliegra demente necessarioa coluiauoleintendereefli poeti e philosophi, diconoscereetintenderenon triuialmenree grossa, mente la l i n g u a greca e latina. Et anchore gli e bisogno d i hauere ben intese lifecreti,esentimenti extratti fuori delle crerario della philosophia. Delliqualisonoornatiebenue ftitili poeti emaggiormente Homero. De cui,ho udito che fuillustratoetaddobbatocon grandiCómétariidaAristo. tileetanchora dallialtriPhilofophidelladottaschuola. Anchor   c h o r h o inte s o che s e sforzo il Plutarcho con uno molto grande libro di attribuire ogni scientia, ogni arte, e finalmente ognicosadiuinaethumana,aquellociecoHomero.Ilperá che io nego effereinme quellacognitione perfetta,sicome tudi,m a no nego pechoesfermiessercitato alcuna'uolta per piaceredellanimomio inleggere quelli,licomeiocercaffi lacognitionedellelingue econquasileggermētebeuendo qualchi amaeftramétigioueuoliallicostumi,etanchora ac c i o n o n fufli riputato ignorante, fra li amici e compagni, o c curendola occafione.Cosi senóho beutalargamétela philosophia, de cui se dice che -e nascosta in detti author i a l m a c o (l i come di r e si suole). I h o t o c c a t a e gustat a con l a l o m i t a dellelabra. FRONIMO. Io credo che tusiaconduttonon dalla arrogantia ne anchor dalla fimulatione,m a solamen tedallauerita. Laqualeuertu ecollocatadaAriftotelenel m e z z o fra ğiti uitii.Imphoche dimostri di n ó effer ignorare ne anchortutiuátidisapereognicosa. Ecosiquellecosehaj dettodellanotitia ecognitióedellipoeti nó fon discoftodal lauerita. CóciosiachePlatoneet Aristorelesonopieniditer ftimoniidi Homero, di Hefiodo di Simonide, Pindaro ,E u ripide,edellialtriPoeti.Ilpercheiodubbiro affaichetu lia molto dottonella philosophia decui pare non molto inte diedimoftridinonsapere.E cosiho istimationeche dis mostrarai molte cose chesonodategiamolto tempo con gregateinfiemenelfinedenoftriragionamenti,lequalidi. mostrihoradino sapere. APISTIO. Io te diro, come sono alcune cose che qualche uolraci sonofuto donare dalla natura leaza uer uno studio o fiano uertuti, ouero altre cose,fi come prencipiidelleuertude. FRONIMO. Non per que, Atosonomacatodallamia oppenionem a anzi hai tu posto inme maggiore dubitatione con corefta tua risposta.APII STIO. Chehaicudetcos 'FRONIMO.Iohodetto,e dir Co cbe ragionocon uno Philosopho.Vero eiche meglio allhoramicauaro questafantafia,pigliando prencipio imi perho da quiui,cioe se uuoi promettere di responde -- re a quellecose,dellęqualiho desideriode interrogarti, perlequalihauemo comenciatodiparlare. ĄPISTIO.Io  DELLE STREGHE 8   to matrimonio  prometto de responderti liberamente. Horlu addimanda. FRONIMO. Dimm i il mio Apistio, hai tu giamai letto in Omero che anda li e V l y f f e alli Cime r i i s. APISTIO. Si. Et anchora ho letto in chemodo andodaquella gére chefa ua nellaariacaliginofa.cioe che erasenzauiada poceruien trare i raggi del sole. FRON.Dimmeseltepiace,checol lafeces. APIST. Hoaffaicole.FRON.Nó leggiamoquel le parole diessoin greco, le quali hora ledicoinnoftro uolga' re cosi. lo fu quello che cauai fuora allhora allhora il coltello dellacosciasecominciaidicauareconilscarpellounafofla, allamisuradiun gomito, indiequindiincerchioetancho rainfundeililibamini,cioelifacrificii,colleumbresAPIS. Tu hai molto egreggianiétedechiarato il sentimento,eno manco ageuolmente isposteleparole. FRONIMO. Credo habe bilettono una uoltam a louéte ligiuochi di Diana,eliballi collecompagne Nymphe.APIST.Eglieuero,etu non re inganniapunto.FRON.Anchoriopensochetuhabbiri, uoltoquelli libri douesonoscrittiliamorosi ragionamenti, erlafciuisembiatide Anchiseconlaimpudica Venere eco 1 ·me fufferogeneratimolti Baroninellitempiantichidicote Atifallacietingánatori Dei. APIST.Etanchoraquestosper seuolueholetto. FRONIMO. Tu debbisapercome queftimal uagi Dimonii ingannaueno con merauigliosi huominicheerano deditialle opera ruftica liepastoralisico me eracommunamente lauitadi quelliliqualifurono rie trouati nelli tempi Heroici. Cosi anchoraingannoilD e m o nioPeleo pastorepadrede Anchise,conciolia che effo fico me diffecoluilaffolagreggedelli porcielarmentonógus cidiscosto dallemura inuna ombrosa ualle forto laimagin ne dellaThetide dea marina.cosiiftimatadalle genti.Et ac ciomancoseaccorgessedelfrodo glifuin SEGNATO dauno altro frodulento demonio uno delli Capitanii Grecichiama to Proteo con il qualepigliarebbe There madre de Achille la qualedimostrauafiincentofigure.Ma benuedieconfi dera uno altrofrodo,con loquale grandemente inganno, cioeche non dimost.raua di uuolere commettere iltupro, n e anche lo a d u t l e r ' o, ma fi n s e di u g o l e r e contra h e r e i l l e c i. di quelli  to matrimonio, Loquale con suoiuersiegreggiamere carito Hesiodo, ficomeseuedenellescritturede Greci.Ilpchepra babilméte dicemoeffer da quiui deducto,cioedallo effem. pio diHefiodo,loEpithalamiodi Catullo.Ilche anchorr dimoftrailtenoredelverso, chiaraméte demostrado quella ancica facilitaetquestodechiarailcontinuo e sollecito ftu diodi CatulloiseguitareliGreci,pcotalmodo che ispreffe leintegreElegiediCallimacho,alcunauoltarendedoilsen timentoetaltreuolteisprimendoleparole.Anchora inganno per co t a l via il demonio facilmente Paride, focto figura di quelle ore Dec. Il quale fi come scriffe Colutho Thebano nellibrodellapresadi Helena, nosolamentepafceualeper corelle del suo padre, ma anchorli Tori, eptal modo feue ftiuadelleueftimente che pareuàun rozzopaftore etigno fantebifolco. Le quali cose, ampiamente con sue scritture quellolerecita. In questo modo fece inuisibile il Demonio quello Lidio paftore regale,con lainuersapaladelloanel lo.cioeconquella partegiacesottolagemma,epretiofapic tra,ma ciuolta,conlaquale Atupro ecomesseilpeccatocon la Řeina.Il perche pigliauono li Demonii uariee diuerfe fi gure alcunauoltadelle Dee,che erano uolgate,altreuokic leformaucnoineffigiadelleterrestre Nymphe efouerere presentauenolefiguredelle Dee marine. Epercheeracredu c o c h e s e nascondessino, con il suo ingegno sotto le unde del e tacqua accio puotessino effer ucdure etpiu fortemente abr bruggiare licuoridellimiserie ciechj huomeni, ftauanoa p po delliprofondiluoghi dellacqua doue dicontinuoper driuoltaredi quellacuisiritroualacandidafpumaet iuipa teuafussero appodellenodrici,doue eranonudrigateda güellet Anchora appareuanocolleimaginifintedi nuvoli, fi c o m e fauolefcaméte raccontano appareffe Giunone ad Tinone, De cuifingononascelliilsuppositi Coéraur. Cofifin gono d i c o s t cu i i o c c ħ I f f i o n e p pieta di Giove fu f f i trasferito ne cieli, e fussi fatto secretariodiqllo, etpõstoufficio hauefli ardireditécareGiunonedelftupro la qualela mentadosicon Giove uimando ad Ilione una nuuolaafimilitudinedi Giu donc. cn la qualegiacedoIrionc, ecredendosi dipigliare co amorosi piaceri con Giunione, ne ebbe li centauri. A l e r i demonii apparecchiaueno prestigiicioefalsedemoftrationi, illusionie incantarioni,collequaliiogannauenolegenci, popoli, etinescaueriocondoppiafrodeilcozzouolgo,ecan choralidorcihuomeni.Ecosinonlaflauauerunocoloreet imagine della diuinita (la quale con diuerse menzogne e bugie sifforciava di usurparlaetafeattribuirla) conlaquas le'noncostringeffeilcozzoetignorantesecolo,afarsiadora re,etanchoraleciïauaconlalasciuia.Cóciosiacheeglie.cee to che anchora egli vergognasse Diana,laquale fugeuadi amare lauerginita accioforfitirassiasesllihaueanoiodio la fozza libidine. I dl e c u i gioco, havemo scoperto in di forccio del demonio. EcosisottoilnomedellaLuna(laquale senza uetun dubbio chiamauefli Diana )raccótaueno fuffi fuergognata da Endimione,eda Hippolyto licome dimot Atra Firmiano, fotto il nome di Diana ilqualepensava pers r e n e s e a quel luogo. E il nome di Virb i o c i o e di tre volte huomo elaleggemolto diligétemente cercata,doue fedo ueffe ponere,elemani medicheuolidiEsculapiocheporr Sino agiuto alle piaghe debbost credere fuffero tutte queke lecose fauole etillusionidelli Demonii, epurfeuifuffe qual che cosache pareffeinuero fuffiftara iltuttofedebbe pene Sareesserefattoperartemagica delDemonio.Vero-e-che Efculapioalfinefupoipremiatoconlamercede epremia delliincantadoriche/elamiserabilemorte. Concioliache eglienarrato da tuttiliantichiauthori,qualmente fuoce cisodal fulguro,benchefianouarieoppenioniperqualecat. gione,e per quale sacrilegio, fufficosi crudelmente Occio. I APIST. Dice Vergilio che cosifufliocciso, percherefufciso Hippolyco dalla morte. Nonfajcu cheduolendoHippolyco fugire dauanti da Theseo suopadre infuriaro loquale cerca uadeucciderlosendelifalsameceaccusatodallamadregna Phedraetsendofalitosouradellacarretta e(pauêtatilicat ualliperlimoftrimarini,f icomenarra Seneca, cadėdofuoci delcarroploimpito, etracciatoemorto,sendoitoneline ferno fu resuscitato,efanato da Esculapio Veroie-chedice Plinioche cosifuflipercoffodalfulgureEfculapioe r cagio nediCastoreedipolucefigliuolidiTjidareRe di Oebalia   quello che scrive Tertulliano, cioechefur & arfo dal cielo Esculapio, perche biasimeuolmente hauea effercitatolamedicina.E cosiritrouiamomolto maggior us dietanellanarrationedicotefta cosa chenellamorte diR o molo.Maegliebenvero checiascunodiloro,e-ftatoreferi, 20c computato fra gli Dei,benche coftui fuffe uno ladrone, e quellaltroun mago erincantatore.Vero -e-chemoltopiu mimaraueglio digildo, e cuihorauoglioraccotare,cioe che nó ben péfaflılifattisuoiquelgradehuomo,ilğleerasoftēta toetenatocórâreifperedaun certogrăprencipene giorni d e noftri agoli che le ubrigaua di far. FRONIMO. I n altrom o d o scriffero Panaiaso, Poliantho, Phylaccho,eThelefarcho Anchoraltcidicono p altrecagio nifuffeoccifodalceleftialefulgure Esculapio. APISTIO. Deh no ti siag r a u e d i r a mentare il cutto, i m p e r h o felti piace e tu ti ricordi. FRON. Io son côtéro.Furono alcuni,liqualilcriffe tochecofifpauêteuolmétefuffeucciso percheresuscitoTyn daro eno lifigliuoli,Vero:e-cheStaphylodiceno fuflire fufcitaroueruno da Esculapiom a ben -e-uerochefusanato Hippolypo chefugiuada Troezeneecofipquacaufa, fufli percoffo emorto dalfulgure. Ma Polyanthoscriue che cosi fuffiuccisopchelibero lifigliolidi Pretodallasciochezza. E puo le Philarcho esser li cio iter venuto p che a g i u r o li figlio bdi Phineo. Ma fraquelli cħ háno voluto refufcitaffeimorci alcunidilorodicono cheresuscitomoltidiquelliche furo noucefinella battaglia e guerra di Troia. Et altri scriveno che resuscitaffede qlli chemancarono nella guerra de Tebani. Egliebenuerochenó cimanca Telefarcho, che dice come fusse in tal modo percoflo,perche se fforzaua di riuo careallauita Orione nolorefuscito imperho.Anchoreglie moltomanifefto uedere la guerra etan chor la battagliade Ilio, e di Troia, e tuttilimodi delcome batrer ioisefece.E cosi designado ilcerchio,accio demostra Bidouiandarono,ecobarteronoThelamone e Peleo figlioli di Eaco.c doue Olyffe,collialtri Troiani,fu portato dal De: monio,egiapiunó cóparfe inuerun luogo.APIST.Turac contimarauigliose cose.FRON.Sono certaméte marauia gliose etanchor vere. Dipoiquelloprenicemádo indiuerfi: CC  cuaniluoghie paeli, etanchora'per infino nellaGermania etanchoradiroequefto etdouenonmandoépercercare guelhuomo:Horlendopericolatocostui,uêneincoteftono Aroeccellete Caftello uno dellsiuoi discepoli, chelaffoliues ftigiidelle sue malgradeuoli e diabolice opere perinfinoallo noftrigiorni. Concioliachedesignauala imaginediquella chehaueafattoilfurto,etdimostrauelaa colui,a cuierano Aatorobbarelesuerobbe, nellaincheftaradi acqua, osianel kaamola,cocertifacrilegii.e fuperftitioni,etiujlefaceuauc dere la figura iueftimenti con tuttiim o di erano fucoserua. tiinrobbarequellacosa. Joconobbiunodaluimanifeftato, il quale hauearobbatoleámolette ciocalcuniremediicon troliueneficii,econtrodealorimali etoccultamere Shauca portatoa casa,efecretamenteferratinelcophinonon lofa pendoueranapersona.Emi ricordodel tempo pelquale la fciodettesoperftitionierinego lartemagicaS. e caminaffis mo insiemediecegiorni,pareamenonsarebbonobafteuo bidaisprimeree ramentare quellecose,lequaliho osferuar to enotato dellemanifefteinfidic del Demonioneanchor ferebbonosufficientidi puorerenarrareli modi,cheofferus elloperingannarelhuomo.Ilperchemericamenteie chiar mato Saranaffo.Conciofia che sempre fu, e,et fara nemica dellhumanageneratione,cosiincuttelealtre cose,come in quefta, decuihoggi hauemo determinate di ragionare Quanto al modo che dimostra dipigliarecarnalipiaceriio le dico che quello lo vuole negare (si com e contrario a t a n u vidottiefauiihuomeni Jiquaidiconobauerloconosciutoda quellichelhanno isprimentato,etanimosamente teftifica no dihauerloudito)e-riputato ftolto epazzodafanto. Ago itino il qualescrise con ieftimoniidi coinufa a m a nel quintodecimo libro della CittadiDio,qualméresonostatoritro. Hatifouentedelli Selaaniepergersi Fauni faftidiofialledon De,chiamatidaluolgoIncucbbiioe chesefforcianodico metterelafozzalibidineinfiemecolledonne etchesonori trouati diquelli chehannohauutoilsuodesiderio,pigliado. ne amorosi piaceri con effe. Et anchor diceche sono alcuni alori demonii chiamati da Galli Dusiili quali di continuoco grande importunita tentano le donne per avere l a f c i u i p i š  ceri, efouêtenedcuenenoal cocento dellilorobrimatid e fiderij, ecotetidanoifonoderij Folleti. APISTIO. Ti priegoo, feguitapur olera, FRONIMO. Horquantopettenne aluiaggiofannoper aria credocheanchor habbia udito (cc c e t o se tu non l’hauer a j letro) come ne vemn e Ab b a r e n e l l a Italiafouradiunavolátefaecada Pythagora, perinlinodal lo HyperboreoTempiodi Phebo. APIST. Ne ancheque fto-e dame narcofto cóciosiachelhoritrovatoscrittodaun certo Philosopho Platonico. FRON. Se bentutiramenta taiqueftecole, facilmerecrederaile altri.Ilperchetu debbi Sapere qualmente comenciaffe cutiaquella Necyomátia di Olyffe,dalcerchio,cioequellaartedidiuinaremediãtelicor pi morti.E cosifacilmentepuo conoscerenon efferecosa nuoua quefti figmenticfittionidi farelicerchi,m a anzifos no antichipreftigii,cfalse delusionilequalianchora hanno cercato di seguitare li Poeti Latini. Cóciosiachesefinga Scipion c c avare con il ferro la cavata terra altre,etutte qucile cose che seguitano,adeffempiodiOlyffe.Quanto alliragio namenticolleombreo sianocollispiritiiotedico chesono molto piuantichi che fufferoritrouatida Homero.Ilchef a cilmente quelli ilpoffon sapere, liqualiconoscono fufferorj trouatiliuersidiOrpheop queftacagione,econosconoco m e Omero ha seguita qt ou e l l o non solamente in nominare Tyresia ma anchora ha imparato essi nomi congranfole lecitudine econnon menore offeruatione.Ilpercheferiue GiustinoMartyre,come furon composti escrigriliprimiuer fidella Iliade ad esempio delli primi uersi di Orpheo, liqua Jiera noi ntitulaci di Cerere. E coliconuarü riti, costumiciof feruationiogniuno desiderayaecercauadihauer compagnia familiarita e ragionamenticollimorti,per cotalmodo,che dipojera detto come quelli scende vanto giu nellinferno. che narrafi interaenefiaPythagora,poilògotempo dopo Orpheo etHomero,edicesicome uedessejuinelloinferno JanimadiHefiodo,ediHomero,cheeran tormentateper quellecosehaueanoscrittodelliDei.E pqueftofediceche fu grădemete honoratoe reueritodalli Croroniati, etancho sa molto piuperche racconto dihauere ueduto efferui gran 1    demente cruciati, e martoriati quelli,che refiutaueno di pigliare amorosi piacericolle sue dolcimogliere. Ma quanto atrapassare per ilfpatio dellaria,ionon fo in che cosa dubiti, ouero p e c c h e t u li maravegli. Con c i o l i a c h e a m e parc non importa,febene misuri lepenne delliuenti con una laeta o con uno scanno,ouero con una caura. Non fe dice in qual m o d o fuffi portato Pythagora, o Empedocle, ne in luunocarrodaduerote, oda quatro,o dauno alatoPegaflo oda Dragoni, oda Olori,accio seguicaffeVes nere,Medea ouero fulfi condotto conduiserpentisottoil giouo comecòduceuano Circe, ocollilioniamodo diCya bele,o.colliLynciadessempiodiBaccho,ouerofuflitcapor tato in altosoura Europeelaterra Asidafecondo lacoluetų dinedi Triptolemeo,acciochequellofusliportato lauorato redelle fructa, e questo coltore della philofophia, m a inueco furono amenduoiingannati da Pallade cioe dalla astutia e melitia del demonio. APIST. E cio mi ricordo d’avere udito narrare feno me inganno, di Simonemago, ilqualeebbe are diméto diuuolereandareperaria imperhoinsuamalhora. Conciofiache desidetandodi vuolersaliresouralaria.c fina gēdodiu uolereascederenellaltocielo, ecosisendogiapore catomolto inalto dalli Demonii, percomandamétodiSan toPietroapoftolfou laffato uenireconrátaftetagiu interra d a dettimalegni fpiriti,chrópedofi tutte loffa,fu Ioétedella, uita.FRON.Ě forlianchehai udito dinon so che Ethiopili quali haueanoinusanzadiimporeilfrenoe labrigliaalla Dragoni, edipoiseggédosouradellaloro fchinaueneuano in Europa. Cosisediceeffernarratoda Ruggeri Bacchone. Ma purcrcdaquellouipareilprudente edotrolettoredi questa cosa accio tu no pens voglia ramétare liuoli di Dedalo, liquali se n o s o n o semplice menzogne, sono al m a c ocre duticomefrodiet inganni del demonio eta nchorajotaci in che modo sparue Apollonio Tyaneo, dalla presentia di Domitiano Cesare. Oltro dicio fetu confeffi fuffero appo, delli antichi lispiritiincubi e succubi,cioe che si d i m o f t r a p e n o i n f o r m a e FIGURA DI MASCHI e di femine donand o amor tofielafciuipiaceriimodo diciascuno feflo allimiseri mor   Y tali    c o n certiunguéti, accio appareffe a led vero alli altri che fufferotraffigurate e c o n uerfeinunaaltrafiguradiffimile dallaprima. Ebenche,co teftohuomo dotto,fingeffediessere trafinutato, non perho dicefufficóuersoinuno uccello benchehaueffeufato quel® lamędememedicina. Ma bugiardamente narrafufftramu tatoi uno asino. Anchor dicecheebbe gran cordoglioquel Ja femina, dubitandoperloerrorehauea fattoinpiglia: relabuffolettache fufficangiatoLuciano inunoAlino.Il perche dimoftroe non effereuarialaeffentiadella cosa,m a lilaimagine.Etelloconquestochiaramente ilconfermo, econfetto che fendodiuenuto Asino, hauearetenutolame te,elintellettodi Lucio. Etanchotanó edaistimarechegli ueneffeinfantasiatalesopinio cioeditrasmurare la forma f e l non fuffi f u r a c h i a r a fama come c o t e s t e cose erano molto inufanzaappodiquelledonnedi Theffalia,ecome elle molio fe delectaueno letefsercitauenoin effe. Non lo con fermoanchora quefto, quello Platonico Apulegio, che poi boseguito:fingendo diessere primaitoin Theffaliaauanti  tali perquale cagione non uoi credere chesiano anchora fimilif piricipe noftritempiscóciosiachecotestose côferma có tálietátiteftimoniicli qualiioglicamétaro,feltipiaceras Quanto allunguento,iocredolosappi,perchediffusamen tenehascrittoil Syro Luciano el africano Apulegio, uno in greco e l’altro in latino, Eco si se ha queste cose i scritte da l u i. Dunque cheuuoledirecofiquellocophinetto,e quelletan te buffelette equellooliodiquelladoma puoca istima nella sua CONVERSAZIONE. Di poi esfo m e d e m e authoreledichiara dicendo.Incontanentefuunta delluny guento,fufattaageuole dauolare.Edipoifoggionge. Dop po puoco spario di tempo non douento altro cheuno cor, u o da norte.E cosi pareua aquelli,liquali guardaueno,00€ tofingeuano diguardare fuflidiuenutouncoruodinotte. Io non mai crederei, che ver uno se potesse t r a f f o r m a c e d i una specie dicreatura in una altra osiaper uirtu de alcuno unguento overo per incanto magico. No dimenoy voleuano quelle sreghe effecuedute ungersi decuine fatto fingeffe diefferueftito diuna nuoua forma sendo priuo del laprimar Sedricamenteio referisco le parole di quello cosi diče.pigliaanchoraunpuocopiudellunguentoefatte& c. Et assai alcrecosescrissenelle quali parecotuttiimodiquafi habbia uoluto seguitare ilSamosateno. Cóciosia cheha fato tomentionedello Thebalicomormorio dellolio trasforma uadiunaformanellalera edelliremediidellecose controdi quegli incatiliqualifaceuanoritornare lhuomo alla prima figura. APIST. Perqualcagionecreditusiafattomentione diquellemedicinedicose lequalieranoinagiucorio,econ. traquelliincanti, efrodimagicedFRON. Segliepurcosa uera egioueuolein queste medicine,penso siapreso d’Arisotele. Nelle operedecuiholettcohe e ripostofralemera uigliosecosecomee cosuetudinechemuoionofacilmeteli Aliniperloodore delle rose.IlchesapendoLucianoeLucio finseno di mancare dallaformadellalino,de cuiprimaha? ueano fintiessernefigurati.Oueroforse egliequiui nascosta unalcracofa magica. Eglieda saperecome gia grandemente eran o infamate le donne di Thessalia e di Thressa, che fa ceflino delliueneficii e dell’incanti, et anchora era detto che fussi condutta la luna e m e nata secondo le piace u a colli u e r sida quelle, e chiamatelefiffeftelledelcieloilche anchora cracoftume delli Sabini ficomescriuc Oratio, etokro di cio diceuasifuffero inspirate da Baccho eteranochiamateMis mallonecioeseguacidiBacchoporradolecornasicomefa ceua ello, etanchoraeranodecre Adonidee furiauanocollo complicate ferpefrali Thyrliconillusioni magice, etincáti, prestigii Et erano tenute in tanto honore e veneratione che uuolsiintrare nella compagnia di quelle la Reina Olympia madre delgrade Alessandro. loistimo forseche quelle cose paionobugie Quotrebbeno hauerpresoprencipioda quale che fimilitudinee colore deluero.Pare anchor cosa piu pro babileche haueffono qualcheaccrescimentodadertiprodi güemerauiglioseopere de demonii non senza qualcheue rofondaméto dellauerahistoriacoloratoer adombratoco molteuanitatie fitrioniche dallifonniili comee scrittoda. Synelio ilqualeuugleua haueffonohauutolefauoleantedit  1 tecCOG    m i ricordo il qualesefforzodidimostrarecon grade ingegno inchemo do haueffonolamaggiore partedellefauolefermo fonda mentodallahistoria etanchorafforzofidi dimoftrare come dipoi fufferofuco fouente ampiate in maggiore cose effe fauolefondarefouta diefla verita dalla falra fama del cozzo vuolgo.E coscredo iofcriuefle Vergilioquelperso. La dotca carta teftese di Palephato.  1 il Sole confinteparoleeconaflạipersuafioni, dauaad inte.. derealledonne di Thessalia, l equalinointēdeuanosimileco. Sfimilifinteopere,ouero dagrande aftutiae faggacita.Ilper che fu uno greco chiamato Palepharo fe beu teecofilialtii,daeflisonnü. Ecertamentenon sarebbe itaa to alcunäcánto brammoso di uolgare e manifeftare quello cose, chefufsero hauute e uedutenefonnii,licome ueduce fuoridel somnio collequalifufferotantotirauefforzatilhuo minidimerauigliarsi. O quátofonoliueneficii, maleficiiec incantationiramércate,iscritte, enátrate coli dalli Greci.co me dalli Latini, Percia da Vergilio e detto di quella antifti tee sacerdotessa della stirpe de Mafsilli, la qualeprometteua disciorelementidellihuomenicolliuerfi,cioedifarlifarefi come lepiaceua, etdifarefermare lacquane fiumi, difareci tornareadietrolipianetiedi chiamare, etfareuenireafelc notturnemani cioelispiritidellanotte.Anchoraperquesto senarranolemedicineerincantidiCirce,diMedea diCar nidia, equellealtregenerationidiueleni,lequaliconduco. no lhuomenialpazzescoamore chiamate da Theocrito Si cilianoPhiltre di Simetha ecofida luiscritte,loquale regui, to Marone ne fuoiuersi. Puo efferche douiamo pensare che fianotuttequestecose finte senza uerun fondamentos Ver toechemiramentodhauerlettonelPlutarcho,quellafauo lacon gradeingenoe segacicaritrouaradiAganice diThef falia, laqualenarracome conduceuaasuauoglia la Luna. Ma cosi era la verita, chequella conoscendo la cagione che la Luna horaeraritondahoracornuta, ethorapiuno seue deua, perlainter positionedellaonibradellaterrafraeflaet facomelecoduceuainquel tempo la Luna interra ficome: lepiaceua. Eco sidiconohaueffero principio lalorifauoleda Veramente eglie molto chiaro qualmente o chelhuomeni eranotramutaticolliincaptieueneficiiindiuerse figure sig c o m e bugiardamente et anchora scioccamente parlaueno alcuniouerocheappareuonocosi. Ilpercheparenonsepose finegare senza qual che Atoltitiachealmancoquellinonpa refsonoaleo ad altri effere fimile cofa.Non tiraccordidi quello che tanto chiaramente se dice delle figliuole di Prei t o cioe che impieno con falli m u g i t i e voci di animali li c a m pifet hauer havuto paura dello aratro, eta nchora hauer,cer cole cornanellaleggierefronterCofice-narratacorestafas uola;Come furonotre figliuole di Preto, le quali sendogia. Nel fiore della giouentu e conoscendo seefter bellissimeintras.o nel Tempio di Giunone, spreggiarno la Dea Giunone, cipucandosieffer piu belle diquella perilcheadiratala Dea ai miffe tale folia inesse che le pareua fulsero diuenute in formadiuaccheilperche hauendopauradiportaree con ducereloaratro fuggirononelleselue.CosinarraVergilio, con il testimonio di Homero, ma Ovidio dice in altro modo cioechecosi diuennene nel furore e pazzia,che glipareus dieffer douentate uacche nella Isola di Chea, perche haues no consentitoaquelli haueanofurato alcuni animali dellar) mento d’Ercole. Le qualidi poifuronoreduttease, etui suilluminatalafantasiada Melampo, ficomefu Lucio con la rosa,m a dicono alcuni altri che furono fanatee ritornare allaprimafiguradaEsculapio, siacomesi uoglia, cosiegtie narrato uariamente.Vero e-oche intraffinoin fimilifurie pazzie, o fufli per ira opera del demonio, overo pe t qualche corporale infirmita ritrouolantichita a quelle gios ucuolie diuerfici medii. Ma tu debbe faperecome bebbero li Demonii uariie'diuersi modi, eranchoracótinuideingan nareli uomini, in quelli tempi, nelli quali teneuano loim perio quali ditutto il mondo, e non solamente per lifacerdo dietAntiftitidelliTempii,cperlioracolierefpoftededi Ido lictimagini,m a anchora ingannauenoper mezzodeals çunedonniciuole inspiratedalfalso Pichia,et fraudolente Apollinc.E cosipercotcftimcoodinduceuanoglihuomen afare ftupefattiemaraueglioldellelorooperationi et ins.  uiluppauono   YA ma non gia con quello il quale seguito Varrone nelle Satire. Conciosiache quello Litio e-moltopiu anticodicoteftoálcro Menippo. Ben che so che tu intendi quello SIGNIFICA (SEGNA)  Larva pur anche io i uoglio ramentare, per parere disaperlo, etanchora per raj zentarlo lecosihora horanon te occorrefi:Sono Larue mooceuoliombre dello inferno,ouero ispauenteuole scon bodellanoue ele Lamieerano chiamarealcuneimagini efpiripimoltibrammosidelafciuiamorie fozzipiaceri,es mche grandemente desideraueno dimangiarelhumana arneV.edimo chefauoleeranocotefte.PurdimmiApi nonpaionoatecoteste coseche hauemo narrato s o p r a molto similia quelle delliquali longamente dicesi dellemaluagie Streghe dellanoftra etades APISTIO J n neticaame paionoquasi simili. Iiperchehoraoccorrono a me quelle parole dell’antica fauvola cioe Larva Lamia etIn cubicongutellodiersodi Ausonio.  a l a p p a don o quelli nelle precipitanti rouine delle scclerita, defotto colore della sagrata religione.E perciopigliauono Qaric formeediuersefigure. Colisepuouedere e consider rue Protheo figliuolo dell’Oceano appo de quasituttiipoet p.loquale ledemoftro in formadiuarii fimulacri efigure, ficomediceVergilioconloteftinioniodiHomero,cioeche fubitosufatrohorrendoporco efuriosa Tigre, squammolo dragone, et una Lioneffa con lafuluante egialda ceruice molte altre coseramentanodilui,che lafloperbrcuita'. mente appareueno quellieccellentiBaroniche furono oce siliad Ilio alVinicore.Coli anche liramenia in che m o d o agparessead ApollonioTlaneouna fantasmaouetoappal tente figuradellaEmpusa,cioediunacerta generationedi Larue o fiaspauenteuoleimagine auuotara a Diana,cheua no,licomesefinge,conunopiedee conuertonseinuariefi gure et alcuna uolcaincontinétechesisono rappreferiate fpareno,epiunon feuedeno. Anchora dicesicomehauesse conuerfácioneuna Larua,ofiaLamia,forrocoloredị hono. Kuolematrimonio,conMenippo Cinico dd Dimofte bomio,   Nora e-la stregain cunede fanciulli, con quelladonnescasceleragine. FRONIMO. Hor piuolcre, ramentiamo pur del altre cose, a c c i o f e possa donare egual giudicio e g i u i t o senz pa u n t o di menzogna.Credo chetu fappi,qualmente sonoscrittiiu finitiuersidelliueneficii,et incanci,dellilicquorie beuande delli Pharmachiemedicine,etanchorsonocantate fauole fchedociele Nenie Marsice cioelefauolede Marfi. Matu debbe sapere come sono iscritte e cantar ce o n una certame Laphora e similitudine quelle cose che cosi leleggono,cioè che lhuomeni,liquali remigaueno gcupisceno colliporci, perledonneche lusinghe e chebruggiasseHercole lendo unto con ilsangue di Nesa eche fufferoinstillasili amori col li veleni di Colcho, cóciofiachechiaramenteseconosceful; secosignificateemanifeftatelesceleratecompagnie epros phanimodidellasozza enefanda libidine,collanridetteor seruationiecanti.Vero-e-cheuoglio tuintenda,come non erano  imperhodetci incantine anchora detre representatio nifofficientidispauentare ueruno,m a folamente pigliauei no, epauentaueno quelliche uuoleuano il perche narra Homero qualmente OliffeasfaltoCirce incantatrice non con ildolcebaso,m a siconlagutocoltello.Jlqualecosi comená fu presodal ciecoamore,cosianchor nó fu inuiluppato dalli incantamenti: Li quali non nuocenosenza malegna sottilita delli demonii. Leganoquellicheugoleno et acciocheuuoi leno ufano uariearti, e diuersimodi.Pigliano il rozzo volgo con lafozza libidine,ecolli deletreuoli,etlafciuipiacerie giranoasequellichesonodeditiallauita ciuilecollericchez ze,econladouicia epuranchoraltrinecoduconoasuoiuo“ tibenche puochi con lepromiffioni,econ laesca dellaglo ria; ed ellhonori,cioe quelli chese sono dati allistudi della philofophia. Ma quátopertenealliconuitiattédiben. Sedito, come quelli inpartefonoyerietinparteimaginationiet ilusioni,non per hofarodiscoftone disconueneuole dalli antichi scrittori. ConcioGache ritrouiamoiscrittoda Herodor." todellamenfa del Sole eda Solino essere-istimata quella unacosadiuina. Cosiritrouiamonellauitadi Apollonio Tia teo  neo, il convito della spora di quello, la quale era riputata una dell’antidette Lamie o delle Larve, o delle Lemire, eLeg. giamoiui, coine' sparbinoliyasipareuanodioro, ediariento cheeranofulamenfa. Etincoralmodo appareuanoiDes monii all’huomeni sottouarieimagini e figure chiamate da PhiloftraroEmpuse eLamie eMormolichie, ofianoLate ue. Gia puocoavantihauemodechiarato checosasianocos teftifpiriti,etombre.Ma quanto alleLamieritroviamoin Esaia dicono come raprefentanouna certa beftialefigura:AlcuniHebreial trimentescriueno,dicendo come seintendeper leLamie alcune ombre e fpiriti furiosi,benche siafattamêtione nelli Treni di Geremia propheca dellem a m m e ouero p o p e della Lamia. Ma altriistimano fia derivato cotefto nome dal lapiaree spaccare etalquantidalla Lama cheuuoldirenok sagine,oispauenteuole pronfondita.E dequindicredono sia derivato quel detto di Horatio. Ne traggiil fanciuluiuodepasciuta, Lamia deluentre. Anchornarrafifusserogiaconduttinelspettacoloda Probo Cesare molte Lamie.lu qual m o d o e figurafufli quella che inganno Menippo,non lipuofacilmentecofidaaltroluogo conoscere quanto da Philostrato. Ilqualenarracomefu ingamnatoeffo Cinicoda quellaLamia,quandoellafinger ua dipigliarloper marito, edipigliare amorosi piaceri con quello. Parimente i o i s t i m o fulfi uccellato e s c h e r n i r o Apollonio,  quando erapregarodaquellanonseincrodeliffenelli tormenti. Cofiera ingannato,percheiftimauaefferele Lal miemolto facileadouereamare Hhuomeni,edipoipensaus che grandemente brammasino dehauere amorofi piaceri coneffi, enonmanicodipoicredeuache mangiassimolecat ni humane. Ma il mio Apistioio techiariscoqualmentenon fonotiratii demonii dalle brammofe voglie d eamorosi pia  propheta il luogo delle Lamie, doue famentione del fcontrodelliDemonii incubicioede quellichefedimostra no allhuomeniinfiguradifemine, ecolidanolafciuipiace riallimaschi eriftimano coftoroche siano leLamie dihur mana effigia dal mezzoin fue dal mezzoin giu   c e r i n e condutti da desiderii libidinosi, ma sono codutti dalla malgradeuole invidia adimostrarecoreste cose accio ro uiniiso emandano nelprecipitiodelli peccatilhumanagę.nerationeetalfinelaconducano nella infernale dannatio ne doue efli sonoconfinatiinperpetuo.Etacciobenintens di infiamniano cotestisceleraci spiriti,limiferi mortali,cioc quelliimperhochefilaflinoingannare conunacerrafiam m a occoltam a non sono efiinfiammarida quelli ilche ini teseilpoeta Vergiloquandodiffe.Inspirainelliunooccolto fuogo. Conciosiachemi arricordochefunariatodallaStre ga che quando se appresentata il demonio allisentimenti suoi in diuerse e uarie forme haueainu sanza diconoscerlo e didiscernerlodalliueri animali delliqualiello hauea pigli ato la forma in questomodo.Lepareua che uiintraffenel pettouncertocalore,etuna certafiamma,per laquale era certificatacome quelloerail Demonio. Anchoranarraua qualmenteera apparechiata alla fpreuedura una fiamma đı fuoco, ficomele pareua nelgiuoco, douc conueniuano tuttiauantila Donina, olaaukti del Demonio che seprefen cainformadiornatiffimaReina con la quale fiammadice uache incontinentesecocceuanolecarni femagnono ren dolemoftrateadeflafiamma.NonbrammanoliDemoni ilsanguehumano,neanchordesideranolecarniper managiare, ma il tutto opera d o e p r o c a c c i a n o, a c c i o conduchin o lanimee corpi delli miseri mortali nelli sempiterni tormenti. Laqualcosaiofocheegreggiamente inrenderai,quando udiraiparlareDicafto. Ilqualefebenuedoenonme ingan palocchioperillongospatio, ame pare gia fiaallemani,a combattere con la strega. APISTIO. Benben Fronimo. Tume haigiunto. Bêcheame paressedidisputarecoliuno degnoe nobile caualiere,percheioteuedo vestito coriquel le ciuiliet egreggieueftimente,ecintodiuna moltoornata {pata manon credeuogiadidifputareconuno cheintens deffe tanto eccellentemente linascoffi sentimenti delli P o c tihiftorici,Philofophi etanchora delliChriftianiTheologi. Ilpercheconoscendoiolatuasufficientia,tipriegouoglitu per talm o d o adaptare in cotefta parte che ciretta  deluia, gio,   gio, chepuoffi seguitareitgia comenciato ragionamento, et anchor puoffi dimostrare dellaltre cose,con ilsecondo dit to,sicomegia hai fattoquelle prime con il prino,ficomese fuoledire.cioe coli tanra facondia fortilica,e dechiaratione chepossonointrareinme bendigefteedechiarateficome f avesse io ben poi mastigare H o r n o perdiamo tempo, ma te priego seguita lagia comeciara disputatione.FRON.Se rebbe bisogno dimolto piu dotro dim e,et anchor sarebbe necessariodino puoco,ebreue viaggio,m ad i longo tiposo in douere fatiffarealletue humaniffime petitioni No dimen o pur mifforzaro disatisfare a tequáto porro.Cerraméte farebbeuilan, eprivodiogniciuilita, feionon efsaudillele gratioseetanchor honefte addimandedicoluide cuihogia conosciutoperlesueresposte che grandemete desideraebrå ma deintéderelauerita. Dunqueseguirolagiacomenciata difputatione,eramétaro quelle cosepaionosianoaccómo date aquello auãtidiceuamo, quáto imperhociconcedera ilbreue spatiodel uiaggio. Giahauemodettomolte coseet hora uoglio rispóderea quello tu dicesti cioe che pare nale accozzano le Stregheisiemenelnarrarelecosefatteadeffe dal Demonio,eparenó fecóuieneno inreferire quelle cose delloro sceleratogiuoco,ma cheunadiceinunmodo elal tra in altro modo.I o ti rispondoche cotefto  puo intervenire o dalla paura o da mancamento di memoria, perche comuna mēte fonogroffe de ingegno,ecôradinedella uilla.Anchor Sepuo cagionare et in col parlea malitia del demonio il qual inganamano tuttoiunmedemomodo.E questofacilme. te lepuo conoscere nellantichiprestigii,etillusioni. Concio Siacheegliealtrageneratione dejucătationinello Euflino altra nella regione Taurica etaltra maniera nella Italia E fében consideraraj conoscerainon esserfimiletotalmen re quella PharmaceutriadiTheocritoaquelladecuipar la Vergilio cioenoii.e-fimilelartede ueneficii et incanta, menti unacon altra.Anchorpareinteruenisseilfimilenel li oracoli e responsioni. Perche altre erano le resposte date per le femine inspirate dalli malegni demonij,etaltre erat n o quelle hauute per le aperture e coragini della terra, et altreanchoraquellecheeranopigliate dallhuomeniper lifonnii nelli Tempii. HperchealcunidormiuanonelTem piadiPaliphea,elmiedici Calabresianchora essihaucano confuetudine, con& Dauni,diriposarsiappodelsepolcrodi Podalicio,ilqualePodaliciofufigliuolodiEsculapio efueca cellentejnedico.Anchora emanifefto comesoleuanogia Geceaffaipersoneneltempio diEsculapio. Ilchenon solas mene fuofferuatonellitenipi Heroicim a anchoraperinsie no allaeta di Antonino. De cuiracconta Herodiano chean doa Pergamo perlanti decta cagione. Anchoraleggiamo qual mente haueuan o consuetudine li oracoli di dare responsioni per il mezzo di intier esta r u e, e t a n c h o r a per m e z e zestatue,emediante anchoralecolombe, ofufferoquelle neriaugelliofussero femine disimile nome non loro,m a benfoperdetci modireuelaueno lecoseocculte etannon tiaueno quelle doueano uenire. Anchora assai auttori narrano come erano farte simili cose nella India per il mezzo del Jalberi, et in Dodone, ficomeracconto Aleffandro Magno, Erano anchoraaliriliqualisubicamenteintcandolisopraun certo furore narrauano marauigliore cose.Ecosi ritrouauoni ficoteitietaltrimillimodi,ediuerfiJunodallaltroda reuela re lisecret, etannonciare le coseda uenire.E come erano di uersespecie egeneracionidellaugurii,ediuersilimodi del fceleratorico,damanifestarelecoseoccoltee da aluontias rele cosedouéano uenire,cosieranodiuerfi i sacrificiicollir quali sagrificaueno,eanchora diuerfi'imodi dieffofcelefto prophano,eteffecrando sagrificio.Anchora erano diuersili incantamentidelliantichi enon manco sonouarii nella10 ftra eta enon manco sonofatticon altrisceleraticoftumie modi chesoleuanofarequelliantichi Romani.Sononarra tealcunecosedallanticoCacone nellilibridella agricoltu raditátasciocchezzache retrouansipuochile poffonoleg gere senza gran riso etischerno.Nondimeno furono imper r h o i scritte DA UNO UOMO ROMANO, il quale fu  censore e triomphatore. Ma quanto al moto.cioeinchemodo fiano portatedalDemonio,equanto alluogodoue fono ferma te tunon tidebbimerauegliare. Concioliachequellacosa che   e conåfuoingegno.bugiardafallace,etingannaterigcel i e quellafouentdee piumodi,ediuatianaturainaquellache c-ueracefeaccostaallasemplicita.Ecorefto efaciledauc derein quelle coseche hauemo ramentare,enon manco anchora se puo conoscerepellifigmenti,e fauole de poeti, comefonola fedariietanchorcótrarii .Etanchefpeffeuol tequelloferitrovanellenarratehistorie.Ilperche fouente seritrovauna cosascriccainduoietremodi,etanchorqual che uoltaipiuan o cótrarioallalto,esepurno seranocorra tii alm a n c o seranno diuerse uarii.lisimile intecujene anche nelleoppenionide philofophi, enellerefponfionidelli(auii (ureconfolti,edoctoridelleleggicosipontificalicome imps riali conciolia che se citrouano varieoppenioni circauna medema cosa,Manon maiimperhoseritrouaquea cofa, nelle (criteurede Theologgi, eccettoche inquelle cosel e quali sono communi coli alliPocci comealli Philofophi. M a inquelle cose,lequalipropriamentepertengonoadeffs TheologgiciocnellicomandamentideIddio ecosinella! He cose, che pertengonoallafedecatholica,etaliicoftumi, chefononeceffariiallafalurenoftranon uifaricrouaucig. na diffenfionem a fonodatutti:narráciedęchiaraticongran deconcordiae consonantia etinunomedesimomodo.Ve to-e-chelDemoniomalegno amicodelladiffenfione,con come -e-bugiardo et ingamatore cufi-e.uario,e uerfipelle. accio dicameglio.Ilquale uocabolo segondoliftudiolid e l la lingua latina e-cauaro kuorida quelle favole delle quali gia auantipädladimo,per ilcuiinganno diceuanli effertraf murai Thuomeni nellilupitcoicomeingamaha Pichau gora,Empedocle,Apollonio ellaleriantichiPhilofophi disi mile generatione con ilcolore della dottrina,(üpercheula "Ha coteftilaciuoli,ecotefti modi,colliqualifacilmenteuili quoreua tenereligari) ecosicomeanchoragia tirauaafe de donneci uole con il mangiar e beuere, imbriagaree con lila sciui e carnalii piaceri.cosi anche hora tira similmente a fe, Thuomiciuoli e donniciuole c o n fimili piaceri, liquai c o m e chiaramente sevede furono sprezzati da moltiPhilofophi. M a quelli Philosophiconduceuaconmoldi modiafarliado es   tare cioeoconilcolore della capientia oucto con lasuperti cionedellafallareligione.Concioliache perhauere e gra. di della cognitione,e per ottenere la doutrina faceuano esto OrationielaudeuoliHinnialliOracoliquero all Tempo dellifall Dei Per lequali cose gli pareuade impetrare la cognitione dellecose chedoucano uenire,etanchor pareuali diotteniredicflereportatiperariaindiuersi luoghi.E coj fendofatięquestecose con loagiuto delDemonio,quellilo attribuuano ad una certa cosa diuua,che pareua fufli 11€ detti huomeni.Inchemodo altramentehauerebbonopor furouedeteli discepolidiPichagoraestofuo precettoredif. putarehoranelTaucominiodiSicilia erhoranelMetaponto in cosi puoco spacio di tempo. Per quale via f e r e b b e camminato per aria Empedocle et anchora in che modo cofi prestosouradellafactaferebbecorsoAbarc,perilchefuchia maco Acrobares Coluigrandementese inganna, chicrede, che Apollonio conosceffeaffaidellecose doueano uenireet icheluicomidaflealliDemonijetquellilubbedisceno,per paurahauciserodilui Fengeuai Demonio aftutoemalus gio diesseremartoriato da luietanchoradiesseresforzata accioche sendo quello inescato fottocolore della finta diyi nita,dipoipiuforcemente seaccoftafse alalere cose etotal mente rouinalenellipeccati.Ilche facilmente,fel apiace. i puotrai conoscere dal fine che seguicaua.Sforzosi difare uccidereprimicramétePithagoranellaseditione,e dipoidi farlotagliareipezzi.Amazzo Empedocle neluergognolo Iceco loqualehaneacoduttoatantasciocchezza checrede ua dihauereortenuto ladiuinita.Ilperchecidiceuaallícom pagniqualmentefcdoucuanoalegrare,concioliachenon farebbe piu uomo mortale m a douentar ebbe Dio immortale. I m p e r h o c o f i f c c i f f e quello in greco, m a i o l o voglio e mentareinuolgare.Remanetiuiinpace,conciolia che io f o n o a u o i Dio immortale, e non piu mortale. O che morir con questa morte, quero di quella decuiscriffe Democrito Troegenio, quando diceva, qualmenteello pendeouaucto Seeta attaccato ad uno cornale con uno lacciuolo al collo églieda pensare cheli paffalidicoteftauicaperin&igatio ne super persuasionedel Demonio. Anchora non l contenu focdiquello inganno,et illusionem, a anche diceua come gia era passatalanimafuaperdiuerficorpi con questepar role grecelequale uolgarmente lediro cofi.Gia tofuuna Lanciula etun fanciullo. Ecolialfinefuconducoallamor le colleuocidelliDemonii,econilfpiandore dellefiaccole ficomeraccontaHeraclide.Forsianchorane conduffiApof lonionelTempiternosupplicio con tanima insiemecoilcom p o. La quale morte no parech e h a i n d e g n i a alli n j a g h i e t incantatori. Con cio la che variamente egli e narrata la morte di esso, perche sono alcuni che dicono come mori in Efeso ultriscriuenochemoriin Creta, et alquanti alttiuuolero mancale inRhodo.Vero-e-chenon erainpiediilgodose polcrodiquellonerempidi Philoftraco.Benchefuffyadors toereueritaperDiodaalcunistoltiepazzi.ilquale scelera to costume ficomelaltri frodidelDemonio manico etheb befinefrapuoco spatio di tempo.Cofianchoraporloayenimento di messer Giesu Christo pero Imperadore di tutto il modo mancarono tutti li oracoli respofte, edomesticiragio namétideliidolierdelifalfi Dei. Nelliqualierainusluppa. toe strettamente legatoquasi tutto ilmodo.E cofiquello, dquale apercaméte,epublicamentedauaresposteperliora coli per liIdoli,eper lialtrim o d i hora fcioccamente parla perleoscurecauernedesiderandolilasciyiecarnalipiaceri, fiqualihorasono uergognofi cheallhoraallegentierano gloriosi.ltperche fa scritto quelparlares Dignate Anchisa del Paphio coniugio. Ino solamétefuronoquellilasciin piacerigloriofredigrar de reputatione ne tempi eroici, ma anchor nella era di Alessandro e di Scipione. Alliquali fu attribuito cotefta gloria, che eranoistimatida molti figlioli di Gioue.E questomolto maggiormenteemanifeftoperlehistorieche iopossacon Ognidiligentia raccontare cioe cheera credutoche il D e. monjo chesefaceuachiamareGiouein figuradiferpente hauessehaguto amorosipiacericon lamadre diScipio ne, econOlympiamogliere delRe Philippo.Et eranoin tantaoscuricadiméte checredeuonofulliGioueDio.Eco Gin coteftie fimilimoditicauane peccatiquelli che erano la f c i u i libidinosi e carnali, mesch i a n d o l i i mpe r h o a n c h o r a ce ii LIBRO PRIMO qualche colore di supexftnione.Anchor cofiinelengaquelli, liqualidefiderauenoebrammauenola gloria,eteccellencia dellihonorimondani, liqualitendofralimortalijes hauédo proirontiatilecosedauenireper la conuerfaçione, familia cicacontinuahaueano hauuto colliDemoni anchora fimile méte dopo lamorce pronosticaueno.Ilperchefauolefcame tenarraflidi Orpheo comesendouiuofu riputaco profeta. et dipoisendo morto fedice comedauaanchorresposte. È dicefle anchorqualmentesendolitagliatoilcapo,dalledon ne Theeffe,ando effocapone lLelbono;etiuihabito in unaspauenteuoleruppeuaticinando edandarefpoufioni perliIpiracolietaperturedellaterra.Portauanoanchora in yoltali oracolidiAmphiarale diAmphilochouanie diuina torifendoanchee gliuiuietil simile fecero doppo la morte, Ilche forsigrandementedefidero Empedocle quidouuol. fiefferciputatoDio immortale.Fauolosamente anchorrac contano comeeffercitayanolamiliciaelaguerraliReggi doppolamorte efaceuanobattaglia,ecombatteuanoa cheandauanoacacciarelianimali,e luccellietcayalcauay poficomenarrauanodiRhefoRedi Traciachecaualca, uainRhodope. Oltradiciodiceuano comenosolamente fc eccicauano,etferappresentauenoleanimede quelli con lopradellicerchii,edellisagrificiiramétatida Homero,m a anchora spontaneamente,econalcunipattiinquelmodo, ficomeseriue Philoftrato,leappresentarsiAchillealTianeo, etal Vinicore Protesilao,collaltri Capicanii fecero baccaglia co Priamo.Veroeche lafaccia juoltiicoftumi,eliatti,ege Aidequelli,perchefonodialtra maniera emolto diuerfi,e Yariida quelli chesonoiscrittida Homero eperchesonoan chor diffimilidaquellichenarrano lhistoriediDarete Phri gio edi DittoCreteseteinsegnanoquantosianolijnganoi delli Demoni elebugiechehannopoftonellacognitione etanchorti dimostrano li noceuoli deliramenitie pazziem e fchiatecollibuonicoftumi.PerilcheseilDemonio hauccel laioebeffato,etingannatoperquestimodi quegliliqualise iftimauerosauiiedotti credendo lecose contrarie e totalmente da l ragione discoste quale ci la cagion ce h e t anto grandemente tuti marauegli diuditezediuedere molte co feuarie, diuerfe collipiedilaconfegratahoftia.E cosiinquestomodo comanda quellofceleratonemico deIddioachiunqueuuo leentrarenellasua profana,maledetta, eperfidecópagnia, che abbandonino, preggino,etischetniscanolanoftra fan: ciffimareligioneChriftiana.Imperhononsipuoaccozzare neconuenireinsiemelabugiaefalsitacon laueritanellete n e b r e et oscurisa c o n la luce n e anchor la fuperftitione c o n lareligione. Io credo ilmio Apistio,chehormaitutifiaaffaj certificato e chiarico cosipian pian caminando di quello decuihauemocóferitoedisputatoetanchordi quellodel qualemi addmandasti.Deh pertuafedeuediuedicola la Strega, che eagrandiragionaméticonildotto Dicafto, nel portico avanti del sagrato tempio. APISTIO. Diovi fa lui. DICASTO.Siatie benuenuti checosa ci e dinuouoil no  sciocchee pazze econtrarielunadellakira nelleStreghedenoftritempirM a anzimaggiormente cu tidebbi merauigliarediquellaeccellente sapientiaepoffan zadiChrifto, laqualetalmérehaoperato chequellohauca persuaduto ilDemonio malegno eperuerfo inanti lo auek nimento di esso a tanti Reggi, Oratorie Philofophi delle genti,ficomecosaeccellente emolto meracigliosa edegna dogni sapientia hora a pena ilpoffa perfuadere ad alcuni huomiciuoli e donniciuolecioeche lo adorano loreuerisco Do Ihonorano,efacjonoquellecosecheglicomandae cos fiperqueftomodotu odebbemacauegliarechequello chegiaerafatro publicamenteintuttoilmondo,etfratutte le generationi sicomecosa honoreuole e gloriosa che hora H a fatta nelli picciolie Atretti canto n i d a puoch i secretamente, e con ignominia e vergogna. Ma voglio che tu ben consideri una cosa de divina gloria frale altricioeche glie, tanto fodo,fermo,eftabileilfondanientodellatriomphantefede de Chrifto chenon uvole ilDemonio peruerfo emalegno niuadino allesuefcelerate congregarioni,eradunamenti, neanchorauuole che conuersino con luile Streghe,fepris manop reneganolasantiffimafedediChrifto,e Spreggiar nolisagramemidellasagrosantaRomana Chiesa,econcul cano  Kro Apiftio APISTIO. Loaddimandamo ate.Conciolig che Fronimo noftro erio ftamo venuti quiaccio udiama imperhosettipiace. STREGA. Heime doue fon giuntai DICASTO.Non hauerpauraM a ftapurdibaonauoglia eparlasenzauerunpauéto.E nodubitaredi meconiciofia cheiotiseruaroquátotihopromeffo ciocche'nóseraimar toriata feliberamente manifeftarai iurre letue maluagic opere lequalinonpoffonopioefferpalcofte,perchegiaho liteftimonijcometuseiindettoerroreepeccato etanchot fulhai cófeffato fi comeiográdemenre desiderauo. STREGA. Deh heime. Gia lho detto. Per qualecagionedonque m itormentatidiuolerloanchoraunaltrauolrahora inten; dere? DICASTO,Perche e bisognodiritornarlo a confef faren o n solamente inantidi duoiu e r ditre teftimoniim s anchoraauantidipiu etalfineanchedavantidituttoilpo polo fedesideridiIchifare la pena tassata dalle leggi e a voi che setidi questa'maledetta compagnia,per tantifacrilegii, et ā r e f c e l e r a t e o p e r e che uoi facte. Vero e che gia h i a m e promessodi faretuttoquellocheticomandaro,et10teho promesso seruandotule promiffioniantidectedinon confo gnartinellemani del Giudice ilqualeincontanentetifareb b e brugiare cosi sendoli c o m a n d a t o dalle leggie.Hor a noir tic o m a n d o altro eccetro che tu ramêti unálıca uolta quelle cose c h e t u h a i f a t rco o l i demonii nel giuoco o s t a nel corso come fedice uolgarmente. STREGA. O maladerco giuo co, O giuocoinfelicepme, mala fortemia. DICASTO. Non bisognanohoralagrime, non piantineanchegridi. STREGA.Deh perquellahumanitaetgentilezzachein uoi leritroua,priegouinon mi uogliateperhora piu darmi faftidio.M a fiaticontentidi concedermiun puoco fpatio di tempo,etun puoco diriposo  narta tantochemiramentiiltutto ecolidipoiuinarraroognicosa chehofatto:DICASTO. Piacédouigli cöcedero,quellochele piace,etaddimanda. Conciosia chepoiraccotarajl tuttoconmegliore animo, conpiuageuoleuoce,seespettaremoadintrarenelliragia namenti perinfinoadomanc.Doue haueromolto ápiace re,felno uifera graue uiritrouiaci presenti. APISTIO.NO parui   Pauigraueaquellihuomeni desiderosididottrinadiparz cicledesuoipaesia andarperinfinoaGnosocittadiCreta allaspeluncae tempio di Gioue perudire le leggi ualiee di Puiocomomento di Minoffe,ediLicurgo,etferaame dun que faftiddioi caminareunmiglio,accioimparqiuellecose lequalinfeo sonovere, almancopaionouerifimilipladispu tatione di Fronimor FRONIMO. Hora mi callegromolto perchetiucdotantoiftimareiionm e nialauerita, puran choraseben nolhai certa cu faialmaco contodellafupility dinediefi. IIperchenoseraanchorame grauedicitornare quidalnostroCaftelloperessercitiodelcorpo. DICASTO Cofi.dunqucretornareridanoi,etioue aspettaro con gran difio, Andatidunqueinpace,E tu guardianodellacarcere ritorna colala Strega,etu Strega pensa benil turco, accio il polli ordinatamente, efenzauerusiabugianarrare. &c. molgariggiato dal Veń.P.F.Lcadro delli Albert Biologuese. LE PERSONE RAGIONANO. DICASTO, APISTIO, STREGA. FRONIMO, DICASTO. O fiatreeben uenuti.Atempo fecigiúti,con Icioliachehorahoraseracondutto fuoridella pregione laStrega esecamenataauktidinoi. APISTIO. martoriare quel lachegiahacófeffatorAPIST.Deh buonadónano-e-ita to portato quiuerunacosa da sormérarti Vero e cheFroni moetio Gamouenutiquiso lamétcp uedertietudirtietan chor p aiutarti quáto potremo. FRON.In Heritacosi-e c o m e ha detto Apifio.STR,Deh quäto grauemetemi mars torianocotestemanettediferro,ecotefinodiegroppidelle legatureDeh cheioho pauran o mi siendatimaggiori tor menti. F R O N.TipriegoDicafto,comanda chelasciolta. DICAST O. I o son cöteto.O caualiere supresto sciogliela. STREGA Hormai cominciaro'un  SNN DELLE STREGHE Ecco coco che e-menata legata. STREGA. Eime,cime.Inquestomodo ferua sile p r o m i s s i o n i P e r qual cagione u u o l e t i poco diripigliar lispiriti   DICASTO. Sta purdibuonauogliaperchetipromettodi non mancare in ueruna cosa di quello ti ho promesso o u t chetuserualepromiffionididireiluero senzabugia edi narrareognicosaa punto diquelloferaiinterrogara.Siche racconta iltuttointeramente. Vi prometta di feruarequello cheajho promessoliberamétefenzaalcuna menzogna.DICASTO.Dunque comeciadinarrarequel lecoselequalilaltro giorno,etalichorahierifuiltardoam e folo cöfeffaftiscriuendoleilNotaio. STREGA.Seuoilerar mencarete,elereducerete amemoria, colleuoftré intercon gationirefponderocon quelordine, cheuoreti.DICASTO AddimadatiuoiApiftioe Fronimo,concótentolepofsetiin terrogare cóciolia che hoggi farauoltroquestospettacolo, cotesta impresa.Ma eglie be uero che uoglio'effecuipresente acciola ammonisca leusciffefuoridellacarreggiataçlıcome fifuole dire cheritorniallauiadrita. APISTIO.Hor luStrega d i m m i a n d a f t i m a i a l g i u o c o d i Diana o u c r o d i H e r o d i a d e r STREGA. Si sono bene andata al giuoco m a chel fia o diDianao diHerodiadenon il-fo.Conciosia chepia non houditoramentare quelligiuochi. FRONIMO.Gia tedif Si b i e r i Apistio come il Demonio ingannava i uomini in diversi modi. Il perche in queltempo, nelquale era adorata Diana dalle genti, et era molto honorato e glorioso iln o m e d i q u e l l a p e r ilmondo, p a r e u a u n a e c c e l l e n t e c o s a d i p o t e r uiessere annouerato fra le compagne di effa Diana.Benche inpechofufferodetteuergininondimento eranochiamare Nimphe cioespore, eco filepiaceuadieffereaddimandate f p o s e, m a m a g g i o r m ē tele a g gra di valo effetto et opra, ben che non fuffecercatacon legitimorito,ecostume.Concia. siache erano iui continuiftupriet adulterii. Perilche serie ue Homero nellisuoiuerfifouentequella colgata sentens tia, Nella mefchiaraamicitia. Imperho fauolescamentedi cano comely Dei falsioueroquelli antichi Baconi ebbero amorosipiacericonlacompagniadiDiana,ouero diunal traNimpha,odiNapea odiOreade,odiDriadeFengrua noefferleNapeeleDee dellefelue,dellicolliemonticelli, dellifiori, ficomediceuano esserele Orcade Nimphe delli monici  I monni,ele Driade Nimphedelli alberi, Anchora credeuang li Gentili,etilgozzouolgo,chefufferoinamoracęleN i m phe Marineedellifiumi E. Colifouenceleggerai di Cirene Leucotheafintadallantichieffecla Dea Matutacioelauro ta chiamata Dea marina p c h e e r a s o u r a s t ā r c a k c e m p o m a i s mino Et anchor ritrouacaiscrittodiCimgdecene cioediquel laDea,laquale faceua acque care le onde marinesche, secondo le loro fauole, nomanco uederai iscritto molte cose del laltrefinte Dee odelmare,odellifiumi.E percheglipareua efleremolto piu sicuro diconuersareperlim o n i,che som mergersi nellonde delacque etanchorpareuaeffercosa pia aggradeuole.dimitromettersinelle cacciagionidiDiana,che inuilupparfinelliprocellosiflutidi Tritono enelleondema r i n e s c h e, in per ho maggiormente se deleitarono nel giuoco di Diana, ene balliesalci di quella ficome cosepiuaggrade uoli, gioconde,e piaceuoli.Anchora tico dapoi molti altri conlusin ghe uoli modi sottolafiguradi HerodiadeIdumea laqualegrandementesedeletrauanelliColazzeuoliecraftu. Fattamentionedicotefto giuoco di Diana, ouerdiHerodia de belle leggi e decreti de Ponteficidouifiramécanoleleg. gifuronocófermateper ilConcilio.Nelqualfu fatto quel l o f t a t u t o, che si dove f f e r o s cacciare le maghe et incantatrici. FRONIMO.Deh ptoafededimmiDicafto,iltimitueffere cotefto quelmedemo giuocode cuinefattomemoria juic DICASTO. lote dito ilmio Fronimo.Sono uarieoppenio nidiquestacosa, conciosiachesonoalcuni,chedicodnoe 6, etsonoaltriche uuoleno siauna noua heresia. FRONIMO Dirolamiafancasia.Iocredochequelloinparcefiaantico etinpartenuouo, cioenuouo quantoalle nuouefuperftitio niceerimonie iuihorsaesatino, ficometudicefti,parlando da Philosopho, chelfüfliantico quáto allaesseruia,etsiuouq quanto alliaccidenti. DICASTO.Ben ben Fronimo, cerca mente tuhaiiniaginatouna eccelletedistintione;conlaqua keaffaicofefescioråno che hannodependentiada quelluo 8o, dacuihannopigliaioalcunigrandeoccasione dierrore Iftimadochecotestedonnuzzesianosempreportatealgiuo . RAZO. BIBLIOTECA EMANUELE LOORIO ) ff   co solamente con la fantasia enoni con ilcorpo. APISTIO. I D u n q u e ru istimiche le Streghe F a n o sempre strafferrite e portatealgiuococon ilcorpo DICASTO. Nonfongiadi quefta oppenione che sempre fano portate cola al giuoco con il corpo, perche a l c u n a v o l t a f o n o f u s e r i t r o u a t e p c o c a le modo accostato f o u r a di un travo c n tanto profondo sono chenofemiuanocosaalcuna benchefufferofortemērebuf sate, etelle di poi crede uono di effer state portatealgiuoco, é nondimenoeranojui. Anchora altreuoltesonostateuedo tefralegambe de aleurie,efra lecoscie,esserui delle feope feratecon tanta fermezza chen o sepuoreuano cauare fuori rida che fouente sono portare al giuoco e con ilcorpo e con lanima,et altre uolte pur credendo di efferportateinquelmodo,folamentesono iuipresentecon lafaritafiaetimaginatione: DICASTO. Eglie alcunauolr ta preftigiodelDemonio ouerofalsademostrationeetuna aftura delusione etaltreuolte efecondo che uoglionolestre ghe.Imiricordodihauerelettonellilibridifrate Artigo,e difrate GiacoboThodeschiMaeftriinTheologia dellordia ne de frati Predicatori ,qualmenteeglienarraro diunaftee, ga laquale  pensitu occorca questo  quellechedormiuano,collequalecofe credeuanoeffe dieffereportate al giuoco.APISTIO.Per qualcagione pafsaua quellispatiiintuttiduoi e modi fecon. do che le piaceua,cioe con ilcorpo uigilando etanchor (per fe uolte folamēre con lafantasiacioe quâdo le rincresceua i uiaggio.Ilpercheallhorafedendonelletto ethauedodetto alcune diaboliche parole, regli rappresentavano tutte le com e! del giuocoi una uerdanuvola etoscuracome lacqua det mare ficomeuifufferorealmentestatepresente. FRONTIMO. Che cosa responderefti alliaduerfarii. DICASTO. Primieramente cosiglirispondereicheiomi maraueglio come uoglia nomisurare tuttilimodidellisacrileggidelle fuperftitioni edelle magiche uanitadi,con uno folom o d o delviaggio alcunauoltaferuatoinunaregioneepaesedel mondo dauna certafcelefte compagnia didonne profane e rubelledinostrafede ecosivoglianoiftéderequestacosa. atuttelepartidelmodo.Et anchordireiche pěsanoforfidi Capere   scrittore di maggio te autorita dicoluilo racconta.Conciosa che fano aflaicore da Gratiano altrimenteiscritteerivolte, enarraremolto di nerfeda quelle chefuronopublicate nellicöcilii,edallion teficiIperche credoche coteftafussiuna cagione fralaltre perlaqualeironfußlipercoralmodo approuatalacompilaa tione del Decretodaluifatta,dalliVenerabiliPadri della cose cheseucdeano in quella regione,lequale sonod a n nate perilConcilio.Nondimeno se fanno imperho affat core dellequalinonseleggefufferofattejui  I fapere táto che glipäre di potere coftrēģere tampiao f á n za delDemono,laqualehebbedalprincipiodellasuacrea tioneinunomoriario. Dipoianchoradireichecostoronon polionopatire che siaispofto quelcestodellalegge co ilgiu diciode altrui,liqualicertameresonodi maggiore dottrina acciachecauano fuoriquelle egiudicio,dieffi, coselequali pertegono allanatura,da quellechesonopertinentiallafe de catholica.Anchorfefforzatiodi dimoftrarelaperiamente cfenza uergogna chenon siaquellacosa,laqualenó poffor n o negare chenon sipossa fare etanchorache non siafatta qualcheuolta,eccetto senonlauuolenonegarecon suagiá de profomprione,etignominiacioe negando le migliara deteftimonii.Mafotlianchoruno dimaggioranimodime direbbediuuoler uedereun piufedele effempio delle leggi del Concilioche fuffiramentato da un Chiefa, che fullofferuatainuece di leggi e dalla quale non fuffilicitoauerunodiappellare.Horlupuranchoragliuud côcederequelloche diconom a consideraben cheglisiaan choraferratolaboccaad effraduerfarii con la tua ottima di Aintione, ficomeam e pare erinueroegliecos. Perlaquale facilmentefepuo conoscere,qualmente ilcorso ofiailgiuo co dicotefte donniciuole ethuomiciuolineconuienein •parte con quello giuoco,etinparte euarioe diuerfo da quello.Conciosiache nonse dice quichese creda Diana effereDeadelliPagni,neanchoraseuedonoquiui quelle che sono pur impercio communi collealtrifuperftitionidelliGentili Pagani, etanchorafansiaffai schernieuituperiode Dio,c 2 & ola i    bialimeuoliofferuationqi, uariiritiemaladettichefonofino insegnatidallimalignifpiritie Demonii a questimiferih u o miciuolie donniciuole licomenellidannariunguéti da un gerfi,nella deletratione difpargere ilsangue innocente del lifanciullininella offeruationedelcerchio, nellimagichijn cantamentinellaltrimoltidiabolicimaleficii,eneluiaggio) e discorso grande per l a r i a con il corpo. Colui che  e g a l s e, che il Demonio non puotessemaggiormente mouere licor, pi, chenópoffonoruicilhuomeniinsieme, parládoimperho, naturalmente, equantoalliprencipiinaturalidiciascunodia effiiopenso,cheferebbedaefferreprouatoedánatocome Heretico, perchediceilfan&iffimolobbo chenonepoffan, zafouradellaterrada egualare a quella del Demonio. Ants choraritrouianoneluangelioqualmente fu portato Miffera Giesu Christo noftrosignordalDomoniosouradelMonte eranche foura delpinnacolodel Tempio.E tenuto indubin tabilmėteuero dalli Theologgi c o m efonoubbedienti cugi licorpi allefortarize separate o fiano alli spiriti ispogliati del corpo, quáto perteneimperhoalmouereda luogoaluogo, ecoli effifpiritinaturalmentelepuonomouere afuopiacess te purnon sianoimpediti daIddio prima causa di tuttele creature ecosi quefta euna disputationedellalegge natu rale cioefe poffonolispiritiignudie priuidimatermiao u e te licorpilo no,m a chesianoportatida luogoa luogo questihuomenicdonne inucritae senza menzogta,eglie, dispurationedel fatto cioe fecost-e-ueramenteIlperchetu debbisapere chgeuadore-certochelepossafareunacolae chetuuuoiintéderedapoieconoscerelee -fattaofefaci, i nólefacialtrimëreno lopuotraiintendereeccettocheper boccadelliteftimonii,ochelhauerannoeffifatto,oueroIba ueranno veduto coli essere; overo l h a y e r a n o udito d aquelli che l’averano fatto che feranostatoueriet certie fidelihuo meni.E cosihora quanto apertene a noi cioeche siano por: tatialmaledetto giuoco, queftirebelliidnoftra fantiflima fede, Ma ve m o fermoechiaro eper cofa indubitabile peril mezzo de gran numero di testimonii, liqualilhannomolto largamente narrato. FRONIMO. Non /ermaraueglia se  quelli   ghellisciocchezzanoinan tefto,cociofiachecoficompren dono laueritacollialtri. I]perche ficomeilgloriosoIddione wahe ilben dalmale cofilhuomenidimalo animo,edima laopeniojie, sefforzanodicauareilmale dalbene.Écolipa rimente perla malignita dellicatriui huomeni sonoftateca uate tuttele Hereniedallesagre litterenonperdifettoecol pa dieflifagratissimilibri, efantissime littere ,m a per la per uerfamalitiadellhuomeni.APISTIO.Deh peramore de Iddioaipriegononuogliateinterromperelemie interrogazioni. Benche gia abbia deliberato de interrogar u i poi de dettecore purnon parehorailtempo,fiche ui priegonon m i datiadeffo noglia m a laffatimi seguitare. DICASTO. Tu hai ragioneilnostroApiftio,Seguitapur oltreer addis manda aleiquellochetipiace. APISTIO.Su Stregadimy m i, Andavi tua l giuoco con l anima insieme con il corpo, o s pur con uno senza laleros Viandaga e con lanimae con ilcorpoinsieme. APISTIO. Come e chiamato quefto. uoftrogiuocor'Eglie chiamato dallinoftriCom, pagni il  DELLE STREGHE,  giuoco della Donna. APISTI. Inchemodoane d a ui tu col a r Deh c h e nogli andava, ma ben gli era portata. APISTIO. Conchecofa: Con una Gramicadacascetareil Lino. APISTIO. Comefiapoffibi lequesto chesiaportataquella,non la portandoueruno STREGA.Má beneraportatadalmio amoroso. APISTIO. Chi-e-coftui STREGA. Ludovigo. APISTIO. EglieforsiunoqualchehuomocosichiamatoSTREGA.. Nonhuomono,ma ilDemonio,chesepresencauainfor ma dihuomo,loqualecredeuofuffiDia ĀPISTIO. Mima raueglio assai certamenteche il demonio ingannatore del Ihuominihabbipigliato questo n o m e de Chriftiani. FRONIMO.T u si marauegli che colui habbia pigliato quelto nome deriuatodalliGentiliePagani,ilqualefefuoletraffi, gurare nello Angiolo della luce. APISTIO. Tudici molto gagliardamente cheegliederiuatodalliGentili. FRONIMO. Anchoraildicoche ederiuatodalliGentili.Concio wachenonmairetrouaraiinueruno luogone inGrecone ipLatino osiaconefsempio,ocon origine (senonme ingå    noimperho)dondefiaderiuato.Vero e che mi ricordo di avere letto solamente ne Commentarii di Giulio Cesare r Litavico, da cuidipoiun puoco-e.ftatopiegatoerecorto nella lengua franciefaer-e-detto Luilo eriuoltatoanchor poi nella lingua del Lazio, e scritto Lodovico dovi quello se referrisée. APISTIO. Nonuogliopiuoltrediqueftacofadisputare, maggiormeieperhora,percheho deliberatoinqucho tem po divuolerragionare con questanoftra Strega. FRONIMO.IlmioApiftio, hodettoquelloame pare, sempreim) per hoapparecchiatodiudireleoppenionidepiudottiepia prudentidime. APISTIO.Non piu.HorfSutrega.dehnó cisiamolesdtoi scoprire ameinteramentelicuoilasciui pia ceti. STREGA. Dimmi de checosahaitudelideriode ing. Tédereç. APISTIO. Pareuaateunohuomo queftoruoamor roso: STREGA.Sipareuahuomoi tuttelemembrá cecet tochenepiedi.Liqualisemprepareuano piedidiOcchari uoltati a dietro e riuerfatip e r cotal m o d o c h e era riuolto'm dietroquellosuoleesseredauanti. APISTIO.Per quale ca gionecredituDicafto chefinga,ilDemonio tuttelaltrem e bra dahuomo elipiedidaOcchasDICASTO. Setulegt geraituttiliproceflidicotefte Streghefatti dalliInquisito titu ritrouaraiinefliqualmente il Diavolo osia il Demo nio,o periluoglichiamare Saranaqffuo,a n d o secangiain cffigiadi huomo,sempre apparecontuttele membrada huomo,eccetto checollipiedi. Dilche inueritatidico cheso uentemenesonomoltomarauigliato ecoliframe hopen fato che forfi q u e f t a e la ragione. C i o e c h e I d d i o n ó p e r m e s techeelloisprima, e fingatuttalauerafimilitudinedellbuo mo,acciononingannieslohuomo conlaeffigiahumana. E la ragione per che nó hafimiliipiediallaltriniembradel ta finta EFFIGIA de llhuomo credo possaessereperche-e-con fueto diefferelignificatoperipiedinellimisticiparlaridella fcrittura leaffertionie desiderose uoglieet imperho gli pore tariuoltiadietro.cioe cheha lisuoidefideriisemprecontra de Iddio eriuoluicontrodelbenfare.Ma perchecagione p i u p r e f t o h a u uoluto fingere li piedi  de Occa che daltro animale io confesso chiaramente di non sapere,ccettofelnoix  1 ui fuffi ulfuflequalchenascostaproprietanelloccha,la qualsee poi feffe ageuolmente adaptareallamalitia.Ve r o -e-che hora nonm i arricordodihauereuedutoin Ariftotele che siaftai M offeruatafimile cofa da quello,m a anzipiu presto dice; che-e-quella generatione di uccelli molto uergognosa,fe ben miramento. FRONIMO. Diro dua parole Dicafto. Puorrebbeessereanchorachelnoftronimico hauelliuolu to anchoraspargerealcune occoltereliquiedellaantiqua Superftitione delli Genrili.A cuieranogiafagcificateleocche fotroilfallofimulacroe fintaimaginedeInacho ede Ina chide. Jlperchecosileggiamoin Ovidio. se Ne giova il Capiroglio per 'w a Occa - e x f t a t o, $11.Turo,chelfeganon dia Inacho in lance Ma sicomeuuoleno altricofifedebbe dire Inachide ioilfeganon traggiin piattor DicePliniocome eraconsuetudinedipresentareilfigato dellocchaadInachoDiodelloArgiuo fiume.Ilqualeuccel bo dilettaflimolto di praticare perleacque. Ma che fuflifa. grisicatoad Inachide parqueltofacilmenteseproua, cong cioliachefeuedeperlebiftorie di Herodoto comehauea. nouranzaliSacerdotidelliEgipriidimangiarelecarnidel le ocche, et era i ui rece r i c a et adorata con grande superstiztione Isia cioe Diana.Anchora-emoltopiufaggiala Occa. chenon-e il Canericomediceello et chefacilmentecomo pe c o n meravigliosi modi il silentio della n o t t e e conturba il teporo. AllaqualenottecredeuantoefferefourastanteDia na.IlpercheforsipigliailDemonio lafiguradellipiedidi coreftouccello,peruuoler dareadintenderallisuoiprofani esceleratiseruitoridiquestariaemaluagiacompagniache debbianoseguitarequellouccelloin ftareuigilanti,enon dormirecome quellofa ilquale eruigilanteedipuocofone no, e quando,etpigliare piaceri,equel tempo cósumarlo nellisceleratiediabolicigiuochi.Anchor racconta sappodalcuniscrittoricome egliequalcheparte di detto aagello  bisogna farelaguardaemoltopreuifta enon dorme etcofidebbono efferquelliche uanoalgiuococioe essereuigilanti et ftarefuegliati c h e prouocaeteccitalefeminea libidines   Puo essere anchesegnodequalche occolto,epazzescoamo te,conciosia che fernroga iscritto qualnienceb r a m m a r o n g leOcche dipigliarelasciuipiaceri con altragenerationede animali.IlpercheritrouiamoscrittodaPlinio,comeseina? morarono le ocche di Oleno fanciullo di Argo, e di Glauco sonatore di Cetra del Re Ptolomeo.Ma egliebenueroche credo chemalefeacicordaffePlinioinquestoluogo,Cócio fia c h e quello fanciullon ó b ebb e nome Olen o, m a A m p h i locodellapatria Oleno ficomeramienta Theophraftonelli broamatorio.E non fuquellacosacoralmentefuoridiragio ne,perchegiafurono annoueratele palmedellipiedi delle Ocche fraledeletteuolietaggradeuoliuiuandedellameo fa.E penso per quefte de efferesignificatole pretiofiflime ui uáde elaggradeuolicibidella Delia mensa,cioedellamen sadel Sole,cheeranoperlaloroeccellentiadamettere auã tiruttiquellicibicheerano dellamensa delSole di Ethio pia.Nellaquale non se legge;ui fuffero posti soura de effa. auantiliconuitati,lipiedidelleOcche,conciosiacheanchor nonhauea penfatoMeffalino Cocta,didoverliarrostire.Par ionoa m e cotestecosemolto piua proposto che quello dicono alcum i, cio e che le ocche abbiano prudenza perche se narra che domesticamente conversaveno nelli bagnic on Lascido Philosopho, Il perche io istimo chequestomodo dicon uerfationcedibeneuolentia, piupreftofuffifimilea quello, c o n i l q u a l e c o n u e r s a u a Aiace L o cres e c o n il dragone. E c o s i anchora penso non fuffi molto discosto daquesta cosa, quel lafamiliareuoce,laqualeudiua Socrate,etanchora iftimo fuflimolto similequellaltrauoceper laqualediuinaua leca seoccolteetannotiaua quelledauenire Atridea Laomea dontiade,sicomenarranoquelli Versi, fccitcida Orpheo con iltitolo dellepietre,ficome sedice. Non -e-anche total 'mente discostodaogniragioneloproprietadellanaturadi questo uccello,quäto alla uelocita del caminare che fanno nel uiaggio,laquale uelocita e'molto fimile a quella del giuocodelleStreghe.Ilperchenonretrouiamochefulsigia maiuerunoaugello ilquale faceffeapieditantolongouiag gio, quantoleOccheLequali uenerodalli Morini lipopoli ( cioedal   etancho fada Ciceroneilqualenonerauedutodaalcroeccettoche dalai. DICASTO.Nonsolamente qucftointeruieneinuc derelispettacolietfinteimaginidelDemonio m a anchors nelliprodigiietapparitionidiuine,cioeche quellecosesono alcunauoltadapupchịuedute.Et dimoftrate siano acciolas Gli altri solamente ioramentato di quell u m e che era soura delcapodifantoMartinozilquale fuueduto dapuochifico me narraSeueroSulpitio etanchorpurdirbediquelaltro lumecheilluminaua Santo Ambrogiochi padaua, loqualso Jamérévedeua Paulino. Ma chequeltaimaginedel Demonio, solamente l i q u e d u t a dalla strega, i o diro la mia o p p e li popoli Belgicichesonoliultimidellhuomeni,licomedice Plinio,etcaminarono colliproprijpiediperinfinoaR o m a APISTIO.Dimini Strega, Dimoftrauelo mai altrafornia delli piedi,quando ueniua da te,eccetto chedi Occa. NO maidiniostroe alıcamente.APISTIQ. In chemodo ueniualodatesSTREGA. Alcunauoltaaddima datodame etanchefouentedaseisteffo.APISTIO.Neue n i y a m o s e m p r e in FORMA DI UOMO. Si sempre fedimostrayaineffigiadi uomo quando pigliauaamorosi piacecimeco, APISTIO. Q quegliconuna rugosa egia grinzafemina STREGA.Eie me Eime,OimeOime.DICASTO.Dichehaitupaura Chi e quello che cifpaventa Vedetile, uedetile DIGAS. Doui,douirSTREGA. Colti,cofti,almuro alm u to.DICASTO. Informadecui?STREGA,Di Passece. DICASTO. Dehbémicati comehorahapigliatolaeffigia diun molto libidinoso aụgello non contrasio alcagioname codellamiala femina,laquale fouerchja conlasua infaçiabir lecifrenatauogliaturcisimoftridellafozza libidite. APIE STIO.Hoquantomimaraueglio chenonsiaverundinoi, cheuediquestafintaPafferă eccecto,chiella.DICASTO. Ben iopoffomirare,m a gianonlapoffo yedete,e cosipara menon siauérundiuoichelaueda.APISTIO.O certame marauigliolacosa.FRONIMO.Deh uedetiinchemodo semarauegliailnostro Apistio.Matunonsimaraueglidello anellodiGigeLidiopaftore,ramétato daPlatone, che piaceri yuoreuano eßerç gg 0 el 70 CO 21 el al di no del Tagnione, lo penso posla interuenire questofacilmereperlami citia,egrande familiaritahacon quello. E cosioccorre per janridettafamiliaritache-eportataefanellamantocioein quellocherätoamanonsolamente conliocchima anchor confla poffanıza imaginaria. E t anchora ilconosce e distize guedallialtciuccellietanimali,quandoseglirappresenta, ineffigiadiquegli,sicomehoudicoda effa,percheleparë una fiammaardente glijmpinganelpetro,ilcheno leinter nienenelscontrodellialtrianimali. Giafolio tregiorniche raccontotuttaspauentata dihauere uedutolantidettofuo amoroso informadiunatortuofaserpecjuolainmododi un cerchio. FRONIMO.Cosi haitu letto Apiftio,qualmen te apparelli il D e m o n i o alliGentilii n effigia diserpe,et ant chorainfimilitudinediaugelli.Nontiricordidihauerueda tonellilibricome guidarcizoli CoruiAlessandroallo Orae culo e Tempio di Hamone, doui,egliandauas APISTIO. Siholetto etanchorahorixouato,(febenmiricordo)com me fecerolimileufficiopur ancheli Dragoni.FRONI M O, Chenedicudiquestecosemarauigliore? Non istimie f u c h e f u f f e r o q u e l l i li demonii im a l u a g i i,i n f o r m a d i C o r u i t Etanchor non creditu fufferofimilmente liDemonii quel l i d uoi C o r u i a n n o v e r a t i fra le grandi marayeglie da Ariftotele, chestavanoin CariacircailTempio di Gioues D u n g perchetantonimarauegli conciolia cheritrouiamoinPli nio come fufle usanza diuscire fuoridella bocca diAci ftea Proconesiolauaga anima di Hermolimo Glazomeno in fimileeffigiade Corui. De cuisediceua fauolofamence chiquellafullanimadieffo,non datuttiuedutam a Sola: mente daalcunihuomeni. Mamancotutimarauegliaretti se tu fapefliquello che-e-raccontato da Ariftotele et anchor dapiualtriscrittori,diquellohuomo Thalio.APIST.Deb p e r t u a c o r t e s i a r a c o n t a quello g l i i n t e r u e n i f f e. F R O GN l. i interueneuache gliandauainantiedietrolaboccaunalimi le figura,laqualenon era ueduta dallalecihuomeni.APIST. Dunqu e senza leggerezzadianimofepuo crederéaleuna uolta che quelli muoiono, fi comedi conoalcupniorkojjoue derelibuoniereifpiritinelliassumpticorpiliqualinon fon   ueduci   geduti dallaltri& FRONIMO. O fi fi,questa-e-cosacerta. Conciofia che e creduto questo a tanti prodi,et eccellenti huomeni,liqualinarranocotefto etanchoraeglieda molti dotti authori suco scritto.APISTIO. D i m m i b u o n a d o n n a, feļanchora parritala paura,che haueuis STREGA. Si ben feparte.coliperiluoftroragionare,come anchoraperlauo ftraprefentia. APISTIO.pEoflibile chetuhaggicançapau ra del tuo amorosos Qime. Gia non lo temeus, M a dipoiche sono condutta nella prigione,et haggio con: tra suauogliaconfeffato linoftrilasciuipiaceri,grandemen te, etoltrodiquellofiapoffibilediraccontaremi spauéta. E qualche uolca se fermaaquellousciuolodellaprigione,eta quella feneftrella, reprehendomiedimoftrandosi molto for teturbatocomeco. Edipoimiprometteogniagiutorioper cauarmifuoridi quiui,purche ioftiaquerae tacciperloaue nire,epianoconfeffiuerunacosama anzinieghiquelloche gia ho confeffato.APISTIO. T e spauentauelom a i quando tuandauialgiuocor STREGA. No certamente.APIŞTIO Andauicu quiui ogni giorno,o pur inqualche tempo deteira minato:S T R E G A.Viandauanella secondanotredopod giorno dalSabbato,edipoida quindi nellaquarta notte, cioe'nellanottedel Lune e della Zobia. APISTIO.Glian daftimaidigiorno: STREGA. Nomai.FRONIMO. De quindi sipuo anchorconoscere lereliquie dellamica super Aicione,fetutiramentarailj ululatiuoci.egrida,fattiad He cate,altrimentechiamata Diana, e Luna,nellinotturni Teja u i p e r l e C i t t a d e. A c u i f o l e uano fare oratione le donne ficome scriue Pindaro, quando li maschi separati, secondo la lo to usanza soleua no anche egli fare oratione al Sole, per con ikeguire liloroamorosi piaceri. Ijpercheeradedicatolanoki " re a c o r e f t i r a g i o n a m e n t i et a p p a c e n d o il g i o r n o, i n c o n t a. nientierano terminati esiparlamenti.E percio leggiamo quel uerfo. M i h a fiato laspro oriente collieqai anheli. APIS. Forhgiacesottodiquesuton a cosamoltopiuascoffa FRON.Chicosa APIST. QuellochediceilgrecoPoeta Menandro.M a iolodicoinuolgare quelloieringreco cofi.  Com  O nortererbisogno a tedi affaicaénalipiaceri. D I C A S T O. Cerraméte ciascun di uoidotcaméte,m a humanaméte par l a. M a i o u o g l i o r a c c o n t a r e u n a d i u i n a fetentia e n o n c o s a d i paocomomento neanchoraproceduradalloinganneuole o r a c o l o d i A p o l l i n e,m a d a q u e l l a s o p r a n i a u e r i t a d e I d d i o. APISTIO.N o n bisognatanto proemio,fu di presto,selti piace. DICASTO. Ioildiro,nonhauerepauca. Cofidice C h r i f t o n e l u ä g e l i o. C o l u i c h i m a l e o p e r a h a in o dio la luce. FRONIMO. Certamente tuhairamentato quello chi e veriffimo. APISTIO.Horlu dimmio bona Strega chivuol direche non andauati a questi balli e giuochidi Diana,odi Herodiade ouero ficome le chiamatia quellidella D o n n a, nellaltrinortif Maaccio iodica piu chiaraméte, perche non erauativoipresentelealtrinottiallimal gradevoli prestigii, e b j a r m e g o l i i l l a f i o n id e l D e m o n i o r o u e r p e r c h e n ó p a r e u a a teuifuffipresentes STREGA. I nollo fo. APIST.Te appa recchiauicu,ouero loafpetrauicheteportaffe STREGA: C o s i f a c e u a f atto il cerchio m i u n g e u a, e f a l i u a a cauallo d i un fcanno, etincontanenteeraportataperariaper insinoak giuoco. Anchota alcunauolaconculcauacolli piedilah o Atia fagratanelcircolo,conmoki ischerni,etallhoraallhora sepresentavailmioLudouico,con ilqualepigliauaamorosi piacerifecondochemipiaceua. APISTIO. Dichecofare. composto quefto uoftro maladetto unguento:S T R E G A Fra laltticose, epermaggiorparte fattodifanguedefanciul kini.APISTIO IncheparteteungeuitisSTREGA.Eime Mivergognodiraccontarlo. APISTIO. Dsefacciataetim pudica meretrice ,tutiuergognidinarrare quellocheto nonseivergognatodifare? ŠTREGA.E coreftamocofi gran merauigliar APISTIO.Sutielenara ferpe gera fuori I u e l e n o. V i a u i a d i fu i n c h i l u o g o u n g e u i t u r S T R E G A. Gia chefiabisognolodicahor fuildiro.Vngenammiquel lifuoghicolliqualimi pongo asedere. APISTIO.Dehuer deticonquantahoneftaibadetto.M ahograndesideriode intendere inquantofpatioditempoeri túportatada cafa tuaperinfinoalgiuoco. STREGĂ.In puocospatio.API STIO.Quátomo puocor STREGA.Inmanco dimezza: 1   hora. APISTIO. Quanto eritu discostoda terraquando te eriportata?STREGA.Tátoquanco-e-laltezzadiuna gius ftaforre.APIST.Ho pur gran defideriode intendere quello che sifain questo uostro sceleratogiuoco.Iperche o buona Strega se desideriche fa quiuenuro per douertiagiutare, de no tirecrescadi narrare currequelle cose che iuisefanno per cotal modo ficomelerappresentaffitotalmentea noi.Il faro sendo dunque giuntaal fiume Giordano. APISTIO.Aspettaun puocoluSiregama dimme Fronimo;Che cola odiť llfiumeGiordanos FRONIMO, Credo que ftaefferuna bugia del demonio cioechesefacci tanto uiaggioperiosmoalfiume Giordaso in cofipuocofra tjoditempos Perilchepensocheellodica queftinocabuli eccellentiluoghiaquestedonnuzze acciomaggiormente leucceglie leinganniemoltopiu'letegalegalecollilega m i delin o m i d eprimi e magnifici luoghi.. nore da creder t e c h e sia p o r t a t o u n o h u o m o in m e z z a h o r a d e l l a I t a l i a n e l la Alia. Ma forfihapigliato Sathanafloda quindiilcolore della fauolapchehabitauacola Herodiade.Veroc chemol tomimara ueglio non finga chesianporcate nellaScithia alTempiodiDiana. Ilcheforsfiengerebbe quello fraudu tente nemico dellhuomo,fefufficoli domestico e familiare il n o m e d e l l a S c i t h i a, q u a n t o q u e l l o d e l Giordano: L o g u a leconosce ciascunchi ha udito recitareiluangelio nellia grati Tempii. Dipoinon -e-molto conueneuole quefto fute m e a quello fcelerato giuoco,m a fiben ferebbe a propofto quello Taurico,non sagro m a facrilego perle crudeliffime a c c i f i o n i e f p a r g i m e t e d is a n g u e. M a f o r s e l e conduce a d u n altro fiuineiui uicino,efa parere alloro, che siano altroui. Benchesianodella trilequaliconfeffanodinon esserepor tate allacqua ouero alfiumem a fiben foura delle fomitati dellimonti,etiuifermate. DICASTO. Non pareameim possibileche possonoefferportate alGiordanealmanco per fpatiodi due hore,ficome quasituttele streghe fra fecouie neno, edicono.FRONIMO.Iftimitu chequellepoffong misuraretantospatio,quanto/e-fraquestanostra patria ela Siria,elaPheniciaincofipuocotempor DICASTO. Dimmi Fronimo. Non puo il Demonio mouere li corpi afuopia cece FRONIMO. Si. Manon seguita pecho cheglimuor uaincofipuocotempo cioecheleconducaosiasouradella terra,uerloloIlluciohora chiamata SchiauoniaOuero alla finestrauersola Ibracia,quero alladestraper lAfrica odero passandoilmare lonio eloEgeof,ouradiCorcitadelPelo ponesfloo,u r a leCiclade,guardando Rhodo eCipro,ecosi leggendofiano porte foura della rippa del Giordano. D E CASTO. Chi prohibiffecoteita cufarFRONIMO.Lituoj dottori. DICASTO. I n che m o d o ilprohibisconos FRONI M O In quelmodo cheuiera Santo Thomafo. De Acquino come nonpuoeffermoffatuttalagrandezzadellaterradal Demoniodaluogoaluogo,facendoliresistentialagranmae Atranatura.Laqualeuierachefiarouinatoetotalmentegua ftoloimegroordine delle creature e delli elementi.Eglic contro la natura del corpo humano d i e f f e r portato c o n canta celerisa con laquale insiensefe conferui et fi guasti.Ilper che uiueno quellecose cheferebbe neceffario perloimpi todellaria chemancallino, perchenon effendo in ueruna cosamutata lanaturadiquello gliferebbegrandeoftacolo e grande contrariera.M a lepurfimuralie diuentaffipiura do facilmenteseabbruggiarebbeedouentarebbe fuogo,er anchora sedouentaffepiuspeffoefodo,maggiormentei m pedirebbe la uelocita,etageuolozza delcorso.Anchoraiosi uogliodire piu chelecumoueflituttalariacon latuafantam Sia ficomefermoilcielo Ariftotele conla sua etappodelki Greci feceancheilsimulePhilopono,efimilmenteScotoap podelli fuoiseguaci anchora serebbe cotto dite,sendouiin oppositol a intrinsecanatura f i a d o, e d e l l i u č c i, o d e l l a r i a l e c ó s u m a r e b b e p i u t e m p o assai diquellochediconointerporui. APISTIO Vipriego,lagi cötenti,dilasare a dechiararequefte sottilitadead uno altro giorno.HorsuStregaseguitaparoleo. S T R E G A. Sendo dunque cola giuntivediamo federelaDonnadel giuoco  1 d e l l a quätita.Perlaquale bife gnachesiaportatounapartedopo laleradieffo corpoper quelgrandeuacuo dinullaariariempiuto.Iperchedaqui uiin Afiatoleo uiaogni impedimento della resistencia del insieme   12 20.Eglie staro Berno molto conos al la 10 OL ud NI 10 Hal insiemeconilsuoamoroso:APISTIO Chie/coluie STREGA. N o n lo so. M a soben questo che è uno belliffie m o h u o n o d i u n a ricca u e f t e d i o r o molto ben a d d o b a t o. APISTIO. Seguita pur. STREGA. Quiuiporrauamoal. sembianti receuendole,lecomanda chesiano pofte rouradiunoscanno,edipoicicomandalidiamoindi sprégiodeIddio dellipiedifoura,edipoianchoracúole che gliurinamo foura eche lifacia motuttiliuituperii poffemo. APISTIO. O Diobuono,oimeche odidire?Chifu quele Jotantomaluaggio huomo chetidequestesagradehoftie daportarea coteftomaledetto,etiscommunicatogiuocot sciutoinquesto Caftello DICASTO.O scelerato.O inico operuerfohuomo:fouidicoche credosiastatouno delj p i u s c e l e r a t i h u o m e n i c h e m a i fi r i c e o u a f f i n o a l m ó d o. I l p e t che hauendolo ritrouatoimbratato in mille sceleritadelo giudicai fulli primieramente degradato,cioe priuato della compagnia delli miniftri di Chrifto e dipoi ilconsegnai al Podefta,etello incontenente,segondola ordinatione delle leggi,lofecebrugiare.APISTIO.Deh Streganon laffareil comenciato ragionamente. Poimangiamo, be temo,ecidiamo amorofipiaceri.Hormaicheuvoletipia intendere?APISTIO.Voglioche raccontiaparteper par teiltutto.Ma primadimmichecosamangiatic STREĠA. Dellacarne edellialtricibi,chefifuolenousarenellicon uiti.APISTIO.Dondebaueticotefteuiuande:STREGA. Vecidemo dellibuoim a eglieben uero,che dipoi resusciz Tano. APISTIO. De chisono&STREGA. Sono dellinor ftrinemici etanchora cauamo deluino fuoridelle uegge e delliuaffelliacciopossiamobere.Et dipoichehauemomant giatoe benbeuutcoiascun addimanda ilsuoamoroso,cioe Demonio informadihuomo'perfatiffareallasualibidino fa uogliae con huomenichiedeno lesuc amorose, anche el 3 Dimoni i i n e f f i g i a d i b e l l i s s i m e p o l c e l l e, e giovane e in t a l modo ciascunpigliaamorosipiaceriefatiffaallefireffrena, an del Tai pi na 5ell ap Tin adi 60 laDonnadellehostieconsagrate.E quellaconallegrafaca oli cia e gratiofi 36 teuoglie.DICAS.Paiono am e illusioni efauole quelle che diconio dellibuoi.FRO. Sonosimiliaquellecosedellequali  narrafauolescamente colui. APISTIO.Chicola: FRONIMO .Conosco chetuvuoilodicainuolgare,quello che e scriccoin greco,Hor fucosidice. Vápoje caminano e cuoi,ç muggislenolecainidellibuoi. APISTIO. Vetaméte fono simili. Chedifferentiaechicaminafouradellaterrailcuoio del buc,e che moto libra m u g g i f f e n o e ftridano le carni m e z z e cotte, da queftoprestigioefincaimaginatione,cioechepiegatala p e l i e d e l b u e g i a m a n g i a c a, f a l i l c a f o u r a li p i e d i: F R O N I K MO. Gócederonoli antichichemandaffelauocelanauedi taggio di Argo,etanchor diflenoche diuinosu cauallo di Achille.MacoluichinonnjegaparlafsıXanho cioeilca. Hallodi Hettore, iltimamochenegara ilPegaffo, cioeilca uallocollealidePerfeo oilDedalo,ouero coluiloquale ci porto marauigliose fpogliedelmoftrodi Libia,ilqualeAtrac ciaualatenerellaariacolle ftridentialitAPISTIO. Masetu c r e d i c h e u o l i e f f a Strega, Per c h e f o r r i d j e t u n e s a i b e f f e q u a d o c u l e g g i, q u a l m e n t e le Par c h a l i e p e i n e p o r t a r o no Perseo: FRONIM O. N o mirido fe tu ftimichesiano facceque Itecoseconacte del Demonio,mafibenmi rido,etmene fobe ffefecucte di che siano facte per opera etingegno del thuomo lopensochenone /similemoftro,cioe difingere che l’huomo o ilcauallohabbialepenne peruolare, odifins gerecheilcauallo habbiaintalmodo lalenguachelapossa tiuolarlaepiegarlaperproferireleparole.cócioliachemol siaugelletri senza alcunomira coloperopera egradeactifs, ciodellhuominiapuocoapocoimparanodiprofericemol teparoleecofifendouiulaiileproferiscono S.e dunquese inlegna dirivolgerela lengua acoteftiaugеlletiper cotale m r t che proferisconol humane parole,quanto maggiore menteseporradire chelopossanofarelefoftantieseparate osjano buoni oreifpiritiecioe di poter riuolgere la lengua per labocca dellianimalipercotalmodo che proferiscano dritamenteleparolesAPISTIO.Tu dichequestofępuo fare. FRONIMO. Anche ilconfermo conciolia che solo ciascundeeffifpiritidinaturaeguale.APISTIO Ilpuoise ftiprouarecon qualcheeffempio: FRONIMO. Molto ben i pollo prouare, M a h o t a ne baftiano raccontato nel fagta   libro d e i N u m e r i,cioeche la Afina di B a l a a m parloe.E dit conoeTheologgicheparloeperoperadellangiolo concio fiache effanon fapeua c o s i lendoli quelloche dicesse, rivol tae conduta lalenguaadire quello cheera commodo er ageuole per loeffercito delli Hebrei.D e cuine hauea gouee noe curailbuon Angiolo;sicomeraccontalascritturaecosi b o narrato quefto effempio solamente accio io tacci quelle historiegia'narratede quellibuoi delli Gentili,che parlaro 00, APISTIO.DedimmiStrega.Noisapiamocomenon hranno liDemoniicarneneoffadunque come mangiano, b e u e n o, e l u f f u r i a n o r S a respond i prefto. STREGSA i c o n. me ame pare, fonosimiliq,uantoallepartiuergognosealla carne,APISTIO. Patreftidarciuneffempio diqualcheco fa c h e sia f i m i l e a q u e l l i suoi corpi.  STREGA. N o lo so ben Ma purpaionoaffaisimilialla ftoppaouecoalbambagio, quando e-coffrettoinsiemee condeniaio.Cosipaionoquel lineltoccare,miasempre sonoimperho freddi. APISTIO. H o r seguica piu a u a n t i. STREGA. P o i e r a u a m o satiatidelli carnali piaceri erauamo portatiallenoftrecase.APISTIO. N o n tiueneuam a i quiuiaúisitare: STREGA.E fpeffeuola te. Anchor qualche uoltaquando andaua almercato,eritor naua accompagniauammi.E ricordammicome ritornando acasaungiornofuiltardodal Caftello effendoegliinmia compagnia,tre uolte pigliaffimoinsieme amorosi piaceri auantigiongeflia casa. APIS TIO. Quanto -e-discottola tua casadallemura del Castellor STREGA.Circadiun mi gliaro. APISTIO. Danque non emarauegliafelfimoftro effomaluagio Demonio informa dellamolto libidinofa paf feratM a pur Fronimo,iotedicoiluero,anchora non posso capirceon ilmio ingengno cheuoglionosignificarecoretti tantosozzipiacericarnali. FRONIMO. Tidirolamiaopi pênione Iopenso chefaccico testoeslo ingánatoredellhuor menipersatisfacealleffrenateuoglie diqueste facciate et impudichemeretricilequalinonhannoiltimore'de Iddio, Chi e quellofienochefacaminarelhuomosecondoilraa gioneuole appetito egiustodifio.Ilperché remofio tantideta t o f r e n o d e l l a r a g i o n re i m a n e l h u o m o c o m e u n o a n i m a l e hh LIO 10 Eté 11 1 TO    xrationale, efi comeunabeftia, ecosidipoidesidebraram. ma et anchora cerca le cose da bestia,etineffefedeletra. APISTIO. Ne anchepercioeglieposibilechepoffacapite con lanimo donde poffono hauere tanti lasciui piaceri DICASTO:Chehabbianograndipiacericredochelpoffa interuenireperpiu cagioni,dellequalialcuneneraccontato Jarrelaffaropermaggiorehonefta. Conciosiachehauemo a parlare sempre in cotalm o d o,eprencipalmente incolga k cheanchorlapudica orecchiauipoffaftare.Puodunque guestointeruenire, almiogiudiciopercheseglidimostrail Demonio maladettoinunamolto aggradeuole figura,cioc belladifaccia colliladrjocchiecon ilgiocondo uolto con ciofiachepuocoimportaalDemonio difingeree difigura. Re una formadiariaofozzao veramente bella, ecosifigura te formeficomeparepoffonpiacereaquellicheuuoleinga nare Ilperchecofilosinghaetiraquellemeschinelledonni ciuolea fecon effa fintabellezzaecolliocchicosifigurati, et conlafciuifembianti. Et anchora acciochemaggiorment tele ingannano fingonodieffereinamotati di loro.11fimile fannouerfodiquelli sciagurati huomeni,diinoftrandosi in forma di belle damiselle,ecosi uifanno apparerecuttele proporcionidellemembra,etuttelebellezze,etuttililasci. uisembianti che desidarano accio che meglio glipoffono ingannare. Dipoianchorgli fannoparerequellipiaceriche hannoconqueftefinteimaginisianomoltomaggiori che poffonohanerecolli'uerihuomeni,econ leueredonne: Hor pensacome sono inganriati,etuccellati dal Demonio.Ecoh n a r c a u a quello scel e r a t o, e (maledetto incantatore di Don Benedetto auantinominato.IIqualeraccontauaqualmeno tegliparcuadihauerehauutomaggioredelectationecon il Demonjoiqueftafintaimagine chiamatadase Armelina checon tuttelalaifemine,collequalihaueamaihauutolara uipiaceri.Etaccionon pensaftiche con puochefefuffii m pazzatio o tiuogliodireche questafozza bestia,piu presto cofilo chiamaro che huomo anchora hauea hauuto uno fie gliuolodella propria sorella.Ionon dicocosache sia secreta cóciosiachetuttequeftecosecheraccoratosonoiscrittenel   ljgrocelli   U p r o t e f l i fatti di lui. Era tan t o i m paz z i t o d e t mt o i s e r o h uomo in queftodiabolico amore,epercotalmodo beftialme t e brugiaua di cotefta fua Armelina. cioe del Demonio in do ficomefannoduoicompagni insieme benchenonfuffo ucduta dalcunoaltro. Ilperchefendouditocosi ragionare, n o n sendo ueduta quella pensaua chiunque ludiua chefufti doucntatopazzo. Debuditelescelerateopete checostuifa ceuaperamoredicotestasua Armelina nonbattiggjaua fanciulliniquando glierano portati fecondo la conluetudi medeChristianiperdouerebattiggiare, ma hauendo fino de battiggiarliconliremidadaacasasenza battesmno, o n consacrauale hoftic quádo diceualam e s a benche fengeffe diconsegrarleecolligefti,econ un certomormorio,perna fcondere lisuoifrodi,ecosifaceualeadorare alpopolo,non fondoconsegrate.Veco-e-chesepur qualcheuolcadritame t e haueffe consegrate, alzando la sagrada hostia in alto per dimostrarla al popolo ci o e ilcrocifissooaltrafu gura collipiedi riuoltiinsuinuituperioetiscerno de Iddio edallasuafantiffimafede.Dipoileconseruauaperdarlealle fccleratefemine,etallimaluaggihuomeni,accioleportaffe toalmaledettoetiscómunicato giuoco.E coliquellodiabo tico ebeftialeamore era causa dicantipeccati. Anchora -e nellam e d e m epazzia unaltroftoltoe pazzo,chiamato ilPi heao ilqualetantopazzescamente amaunodiauolodetta dalui Fiorinache seglidimoftraiu forma de femina,che fouente hămidettoiftaminandolo piupreftodiuuolerepa. siteognimartorio,che abbandonaretantabelligimafer mina conlaqualehahauutotantiamorosipiaceriquarant taanni. Eper cotalmodo-erdivenutoatantapazzia chenå eredeefferaltroIddicohe quella.Vedetiquantosonoinui, luppati costi meschinelli h u o m e n i nelle reti del dem o n i o. Etanchor non pensati chesolamente commettano cotefti fceleratispreciatori dellafantiffima c triomphacifima fede  1 formdai femina,chesouentelhaueainsuacompagniaspas leggiandoper lapiazza,ecosiandauanoinsiemeragionan f i c o m e sisuolela alząua con lafigura luie-figurataridottaalcontrario 11 1 hh ii f el   di Christo,dellipeccaticircalasagrahoftiaereffagloriofiff m a f e d e f e n d lo e g a t i d a q u e s t o p a z z e s c o a m o r e, m a a n c h o c o m m e t c e n o dellaltri male opere senza numero. C o n c i o Siache cobbano lecose dealiruiimbrattano ogniluogo col lisuoimaleficii esouradelcurto sonosommerli coralmente n e l l i a d u l t e r i i, n e s t u p r i i n c e s t i e fornicationi. Non hanno co spettodicommettere lipeccati con pacenti,sorelle,fratelli et altrepersone.Vccidenoli fanciulliasciugano ilsangue di quellifannouenireedescendece dalcieloacerbiflimetemi p e s t e g u a s t i n o li c a m p i e l e frutta con l a g r á d i n e, e g r a g n u o s la con tanta ruina, che pare se ferebbono portati piu m o d e l Atamente quelliche anticamente incantauano le feutta controdelliqualidipoifufattalaleggeescrittanelledodeci tauole. APISTIO. Dunquenon folamente sefforzano di daredannoallefrutta,etallealtrecose cheproducelaterra ma ancheracercanoperogniuiadinuocereanoicon ilcic loe con laria checi copri: Caccio  so. DICASTO.Addimandalotua dei, APISTIO. Haigiamaicu Stregacommoffolituonice, Catto balenare laria? Sifpeffeuolte. APISTIQ. Hai tu guaftele biade con la grandineouerotempeftas STREGA. Nouna voltamalouentefi. APISTIO. Inchi modorSTREGA, Fatto chehauea ilcerchioeccocheinco t i n e un u ei n i u a i l m i o Ludovigo, ma non informa di bu o m o mainfigura di fuoco. Allhoracomençiquenodiscedere del lariafulgore,efenteuasituoni,ebalenaua il cielo edipoicas Scauala grandineetempeftasouradellicampie prencipal mentesourade quellicheeranonoftrinemici,delliqualide fiderauafufferotouinatie.guafti.APISTIO. Deh dimmi, peramore:decuifaciuicucantarouina: STREGA.llface uaperodio,enon peramore. FRONIMO.Miricordodi hauerlettoneuersi comee Demoniifaceuanoli ftrepiti,co fidicendoloingegnosopoetaOuidioinquestomodo nos minádolisottoilnome delli Dei, oueroquellimaleficiiicuc.. cedella persona dieffo. Perqualagiutoquandouolfaftrenfor: Ifiumiinfoncisuoitornare e mosh Inftabelcofe, ftabelfompreuenfi,   Regietto,euenci echiamo quandopiacemmi. Ma questanoftraSirega,piupotentechMeedeaeccitoan thoralatempeftae grandine elaconduffefouradellebia de. Anchora tirano gli animi dellbuomeni'ne peccati colli fuoilafciuipiaceri,perchelosinghanolisentimenticon effi. Ilperchehomai-e-qualirinouatoquel detto diLucano in queftonoftroCastello cosidicendo, Ārfenoiuecchi dillicitafiamma Netantola bevanda nofsia uale 1. Quanto la modella caua l l a e r e t t o Ri f a t o i n f u c c o, l a m e n t e f e i n f i a m m a: E perisce incantata,né piu fale Deluelen haufto pura del defetto. Eraquelmaluaggio Don Benedetto,decuihauemo ragio nato de annisettanta duoi,quando gliscacciaflimolafiami niadelfceleratoamore con laqualetanto ama quella sua Armelina,o quellofuoDiavolo,informadifemincaon una altra grandiffimafiamma uscitadiuna granftipadi legoed E cosiromaseturcoincenere.E questo-e-ilmodo dascaccia re u n fuogo con laltro.Vine-unalcroin quefto fcelera s a m o te rommerfochibaoltrodisettanciqueanni,etanchoruno altrocheha vedutooccanta folfitü,Liqual andauano aldet toprofanoetifcommunicatogiuoco delDiauoloottouolre m e s e l e c o s t -e f t a t o c o n o s c i u t o pe r t e f t i m o n i o e c o n f e f f i o n fiede molti dieffriniquiemaluaggihuomeni,chenon sono folamenteunao due puero treStreghe,m a sonoingrande moltitudine,ecofiche non sono solamente ute o quatro stre gonierscelecacimaschi,liqualiuannoa questo indiauolato giuoco,ethannoquestiprofanipiaceri colli Demoniiinefli gia difemine,m a egliesutotitrouatopercerto comeuiuar noingrannumero ecin granmoltitudinpeercotalmodo che credono secondo la loro iftimatione che ui si ritroua a quefta maledetta congregatione oltro di due migliaradi persone APISTIO. Oh chefenteio diceslaantiquitasola, mentebalaffatoinscrittoditreouetquarto Maghe digrå  Caccio conlamiavoceilmalfe fpiacemmi Carco dinebbie,enebbiealseren genero  m a ame parechenenoftri fama, giorniseritrouanomolte Medee,no puoche Candie, nó una sola Ericho. FRONIMO. Tu cinaraucgliiche se ritrouano-secento M e d e e con cijoria chetusaibecn h e son inuna Citra della lialiadodece migliaradiCircecioedimeretrici,lequalisonotenuefora lenondimenotunon timeraueglidieffe. APISTIO. Ben bente intendo.I percheperbuon rispetto,no bisognaalati mente cercareouero inueftigareil sentiment dellpaarabo la perlinascostiluogbj. FRONIMO. Diroe anche due pa role.loistimo chehabbiaIddio con sua gran prudemtia uos lutofermareestabilirelasuafanciffimafedenelliapimi del lifideliindiuersimodiperfarecrescerepiu ampiamentein ogni canto la christia n a religione in questo infelice tempo, Helquale pareuadiognicoladimale in peggio. APISTIO, Inchemodo FRONIMO.  Prencipalmėteincemodi.E primaperilfucceffodellecosegiapredetteetannunciate,de poiper limviracolifattidiuinamente epoianchoraperillco prireche ha fattoladiuinaprouidentiadellescelerirade de de corefti indiauolari riti,e maledetteopere dellantidecco molto bialme uole giuoco. Giahauemouedutouenireapun tole sanguinolenti guerre la crudele fame e carifteia lahore tenda peftilentia licomegia auantjerano state annontiate diuinamente permoltjarniHauerebbono forsipoffutocre derealcunifacilimenteper cotalmodo oppreflidallagrans dezza di queste tribulationi che fusseroproceduteo casual menico fatalmentedate calamitadi etribulationifelnon fuffisutonuouamente fuegliaraeteccitatalafedeinquesto noftroCastellocontantimiracolifattidallagloriosaVecgie ne Mariamadre deIddio.Lequalicofeficomedaseconfer m a n o,efortificanolafede Chriftiana,cosianchora per acq denslaconfeffionedicotesteAtregheglida uigoria eforza Per la quale confeffionee per il gran numero delli'teftimos nud i a m e n d u o i li f e f f i c i o e c o s i d e l l i m a s chi com e d e l l e f e y mine,cognoscemoapettamentequalmente liDemonijco donemicietaduerfariidellafedeChriftiana Laquale e di tanta forza chequanto maggiormente e con ognisuafor za,aftutia   p e r fare di poi dello unguentod a ungere di luoghiuergognofiquando uogliameoffereporcati algiuos co. DICASTO. Acciononiftimatieffercoteftefavole eche fano sonniio imaginationiechefianosolamenteillusioni, e non siainverita,erealmentecioèdiandareper lecase di q u e f t o e d i q u e l l o a d u c c i d e r e l i b a m b i n i, u i d i c o q u a l m e n t tefono ftatoritrovatidellifanciullini,ben certamenteinfen ci,cheanchorpigliauanolapopa,etillatte,liqualihaueano ledita forate,elepiagheebucchisottoleunghini. APISTIO. RefpondiStrega.Aflaimimaraueglio chenon greffino,eche cridaslinodetti fanciullini,quando uoili trag tauatitantomale,echelipungeuati.STREGA. Sonoal Ihora per coralm o d o indormentatic h e non feiitino. M a dipoiquando sono fuegliaticridanoad alta uoce e piango no e Aridono,efeinfermano,etanchoraalcunauoltamon teno. APISTIO. Perche non muoiono tutti. Perchelifanamo.Conciosiacheglidiamodelligioueuo / lireniedi,ecofilikberemo.Hiperchenetiramograndiguza dagni. APESTIO. Chi uiha infignato questi cemedii STREGA. E demonii. APISTIO. Questo a meno n p a s teverifimile. FRONIMO. Eperche.Non faitucomeit Demonio conosceleuirtudedelleherbe,lequalianchora  za aftucia,etingannilacercato di rouijare e di ofcurare, tantomaggiormente se alza erefpiandeperognilato. APISTIO. O quáto ben lhai codutto questo tuoragionaméto. M a horfu dimmiobuonaStrega.Vccideftigiamaiuerun fanciullorSTREGA:Non un folo,m a simolti. APISTIO. Conilcoltello oueroconlamazza. STREGA.Con laagus gliaecollelabra.APISTIO fucbimodor STREGA. Ine trauamodinottenellecase denoittinemici,perle porteet usci cheeranoapertia noi,dormeudo e loro padriemadei cpigliauamoi fanciullini,econducendoli appo delfuogo, forauamoconlaaguglialortoleunghi,dipoiponendowic fabraasciugauamotanto sangue,quantone puo tevamote n i r e n e l l a b o c c a. E parte d i quello n e d e g l u t i u o, c i o e ilm a n dayagiùnel Romaco epartene riseruauoinunabuffua o inuno uafetto piaa   comeptatitis hanno conosciuto lhuomenisanchortudebbifaperecome giafuconoscrittemolteregoledamedicare nel Tempioda Esculapio,lequalidipoilecolse Hippocrate,ele Scriffenelli suoi libcisicome citrouiamo.Anchor sono fccicci molti g i o ueuolireinediciosialle piaghe,efedice,come contro delli geleni,nellehistorie che furonoritrouatiperlifonnii. E puf anche leggiamo qualmente soleuano dormire nel tempia diPasipheaenelláltri Tempii delliifimati Deidalli Gentils ficomegiapiu auanti diceflimo,quellichi cercauauo li res mediicontro delliinfirmitade,sapendo chegliserebbono reuelatiperilsonnio.Ilperehetunon tidebbimarauegliaro seanchoranerempipresentiglireuela ilDemonjoliremes diiaquestariaemaluaggia generationedihuomeni,edifc mine lequalifrequêteméreconuerfano con lui,APIS TIO Dichecosauidannospecáza,douiatihauerdaloro:S T R E GA.Longa uita,Grandedoujtiaericchezze,econtinui pia cericarnalilequalihauemo,ene pigliamo delettatione. APISTIO. Deh dimmiperquella fede chenonhai.Ti dok nologia maidelli danaris Gia m e nc donoe ale quanti ucro'e che disparfono.Pur seruai alquanti puochi quatrini.APASTIO.Veramentesonograndiricchezzeco tefte.Dehpensachecosapoi serebbe felteprometteffeli T h e s o r i d i C r e s o q u e r o ci promett e s s e m a g g i o r e d o u i r i a d i quella di Alessandro Magno,cóciosia che era portato lo ora. diquellodaquarantamigliara denuli,five-uero quello che scriueCurtio,quero ficomediceilPlutarchoin Greco,ilqua lecosidicoinuolgarepersatisfarea ciascuno eraportatolo orodieffodadiecemigliaradigiogatiOrichiisulecarrette erdacinquemigliarade Cameli. FRONIMO.Paredicon tentarsicoteftauilee fozza fecedihuomenie di donnesele d o n a t a n t i p i a c e r i q u a n t o n ó h a u e a S a r d a n a p a l l o,n e S m i n dre,ne Stratone.E cosipiuolicanon cercanopurhabbiano, queftipiaceridiabolici. APISTIO. Almáncoquelleerano h u m a n e e u e r e, b e n c h e u e r g o g n o s e e b i a s m e uoli, m a q u e ftedelle Streghesono coseda ridere,eda fars-beffe,esono: menzogne finteeuane. FRONIMO. Tunondirai che quellesianowane,setu ben considerarai questo uocabulo   pi 10 nie lo comentátitieecimaginarie cioe parte finte,epartenuoue. DICASTO.Iftimo chequelle siano inparteuere cioe fon dareinquellacosache-e-erinparcesianofallaciefinte,enó firmate inuerunuerofondamento,emaggiormente circa diquelle coke,dellequalenarranoalcunicomesecangiano in forma diGatteetinaltre figure di animali,Ihuomenic d o n n e di questo maledetto giuoco,etche resuscitano libuci che hånomágiato,sendolipoidatodellauerga dalladonna o dal Signore del giuoco, fouradellapelledouiuisonoposto d r e n t o To f f a d i d e t t o b u o mangiato. I perche f i a t i c e r t i c o m e tutte quefte cose sono imaginacioni illufioni,etcose che cosifaapparere ilDemonio Icelerato,et aftuto chesiano, mainueritanonsononeanchoraessolepuofare.Ma che fianoalcunauokaporcatiperariaetchefouentemangiano beueno,etdianslibidinofipiacericolliDemoniicofiin for madimarchicomeinformadifeminenon e-danegare, neanchordariputarecosa falsanecontrariaallauerita.Puo trebbi narrare afraicose confermate da digniffimi testimo nii fe v o n hauefli paura che poi ui lamencafti di m e,d i c e n do cheuihauefliingannatorobbandouiiltempoconcefloa uoi da douer udire la Strega.APISTIO. Ti priego,fiacona tento di riferuare cotefta curiora disputacione per infino a d o m a n e. DICASTO. G i a -e-diputato quello ad altriragio.namenti,purmolticuriosi.Vero.e-fetu purtanto brammi deintendere questo,fiaticontétodidisinarehoggiconmieco, benche fiamonella uilla non mancarano imperhotandi cibiquantoseránoneceffariida iftinguerelafame. FRONIMO.Non -e-darifutareilconuitodelloamico,douisiritroj u a n o a f f a i d o t t i r a g i o n a m e n t ib, e n c h e p u o c h i c i b i. C o n c i o fiachere-moltopiuaggradeuoleallifpiritigentili,etaquel l i c h e s e d e l e t t a n o d e l l a d o t t r i n a il c o n u i t o o r n a t o d i c u r i o l i parlamenti chede uariera edi moltitudine di uigande. APISTIO. Piacémmi assaiciascunadicorefte cose.Perche c o n u n a si p a s c e il c o r p o e c o n l a l t r a J a n i m o. D I C A S T O, HorchiederipuruoidallaStregaquelloche vipiace,laffal. to coftuiquiVicarioetinmioluogo,perinsinoritornaroda noi.Perche uoglio impore alsopraftäte della mensa,quello   c h e d e b b i a f a r e. APISTIO. S u S t r e g a d i. H a u e a il t u o a m o r roso'uerunsegno,con ilqualeaddimandatodateuenesse n e l c e rchio: STREG A. S i h a u e a in q u e s t o m o d o. c h e o g n i uolta chemi fuffidiscostatadalli altri,ecosi sola due uole Ihauesichiamato incontanenteuiueniua. APISTIO. M a per quale cagione non treouero quatro uolte. Non loso.Coferaammaestratadalui.Maanzimolto for teme ammoniua nólochiamassetreuolte. APISTIO.Chi ne pensitu di questa cosa Fronimos FRONIMO. Questi pattidel demonio daluipendeno,esonoin fua dispositio ne,enon solamentequestipattimanifefti,m a anchor li occulti. D e l l i q u a l i il n o s t r o f a n t o D o t t o r e A g o s t i n o i n s i e m e c ó a l c u n i altri Dottor i n e h a n n o scritto. Non dimeno p u r io c t e do chenon sianaturalecaufainquesto numerodi duoine a n c h e p e n s o c h e u o g l i a dimostra r e c o t e s t o il m i s t e r i o d e l l a Diadeosadelladualita,dimostrato da Zarera Caldeo,per  Pithagora alli Platonici. O liacoftuida chiamare Zareia, frcome diceOrigenenellibrodelliPhilofophimenoni,o fa da scriuereZarata ilcheula PlutarchoCheroneodesignano doilMaestro di Pithagora, dechiarando una parricoladel Dialogodi Timeo oueroanzisiada dire Zaradaconciosia chenellibrodelleleggi,lanominatodaTheodorito Theo logo ZaradonM.ache cosaimportaal Demoniodidisputa rediquestacosaediquestonome loistimochequiuigia ce nascosto qualche inganno,equalche aftuta frode delD e m o n i o m a l u a g i o. O u e r a n c h o r i o p e n s o c h e il f a c c i a c c i o n ó se accordi con lavoce della santiffima Trinita,e cosi uuole pareredinonapprouarequella.LaqualeeDio uiuentein sempiterno.O forsianchorailfaacciotiraetauertiscamag. Giormente Thuomodallaconsuetudinedellecerimonie del la nostra religion e Christiana, A n c h o r a il puo fare per quale che altro ingannoetfro de il quale noi non sapiamo ritrovato dalli antichi Gentilie Pagani sottoilnumero pare.Loqua leuuoleuanofufficonsegratoalliinfericioeallispiritierano giu nel profondo elo dispare allisuperi,cioe allispiritihabir tauano Touradellicieli.APISTIO.Aftaisonfatiffatto.M e dimmi Strega.Conosceuitudiesser ingánatada questotuo amoroso STREGA.Non mai.APISTIO.Come-e-posli!   b i le cotesto: Quando tu vede u i d e s p a r i c e l i d a n a r i, c h e c o s a ittimauitur STREGA. In chemodo de parefsinonon con, Sideraua,Vero-e-cheeglidame ritornaua,etmicompara uaconmolciamorofipiaceri,epercotalmodomi legaua, chenon pensauaaltcochedela.APISTIO.Che cosaaddi mandaua che uuoleflida tequando tiprometteua ianitecol se,quandocidayatantipiacericarnali,echefingeuadiesser t a n t o g r a n d e m e n t e i n a m o r a t o d i t e s STREGA. N o n a d i. mandauaaltrodameeccettocherenegasselafedediChri/ Stoenon uuoleffehauersperanzapiuinello,ma cheme ilu genocchjassealuieloadorasse eloteneffeper Div. FRONIMO. O iniquiilimo,o fpurcissimo,o fceleratiffimofpiri to detto ueramente dalliHebrei Sathanaflo ouero aduerfä rio,edalligreci Diauolo,edalliLatiniCalunniatore.Se puo pensare maggiore calunnia,emaggiore ingiuriacontrade iddio quáto eche faccicanta forza questo fcelefto colle fue maluagie parole diuuolerlirobbareladiuinita,echelauor gliaattribuireasecontantaatroganza,econ tante bugies IlpercheforsihaamatoquestonomediDemonio osiaper dimostrarechehabbiala scientia ouerper daretimorealle creature.Eglie uero cheecosasupremante aluipropria efa miliare ditessere ordinaree comporre le isisidie et ingani, Coliparimenteingannoilprimohuomo,sottoilnomedelli Dei donde-e-uscitoiluocabulo del Calumniatore,ficomedi ceGiuftinophilosophoemartire. APISTIO.Sa Stregadi, Inchemodo erasu discernuraeconosciutafralialuribuoni Christiani:STREGA.Non uierauerunadifferentiaframe elialtri.AndauaallaChiesa,miconfessauaneltempo della QuaresimaauantidelSacerdote decurtiemia peccatieco cerco che diquefto Dipoi andauá collalori a comunicarmi alloálcare.E cosinon eradifferenciaalcunaframe elaltre donne.Non uierauaane coteftecoreilmio amoroso.Sola. mente eglimi comádaua che douessedirealcune cosepian pian,enafcoftamentefacessealcuni arcilequalicosedetree faite altro da nienon uuoleua. APISTIO:Racconta iltur to aparteperparte.Sendo nella Chiesane giorni delle feste,comandauaame cheleggendoilSacerdote lamessa adaltauoce(sicome;Tesuole)diceffeiopianpian ii ii   Hon euero,tunenientpierlagolaequandoleuauaquel lola hostia consagrara soura del suo Capo per dimostrarla atuttoilpopolo acciochesiaadoracae reuericamoleus cheioriuoltafi liocchialtrowe,enon laguadasse, etanchor micomandauarivoltafsilemani dopo lespallee piegaffele deta sottoleueftimente incotestomodo,sicome uoi uedeti io facio.cioecheglifaceffele ficca.Dipoianchoramidiceua. nondouesliscoprireuerunacosadellinoftriamorofipiaceri, al Confeffore n e anchora di quelle cose che pertengono al giuoco.Egli iftimaua poiche non importafle cosa alcuna se ben uuoleffedirealConfefforelealtrecoseoueronon ledi ceffe.Voleuaanchora,chesendoandataa communicarmi, fecondolausanza incontinentisendonimipoftal hoftia consagrata nella bocca, la giraffi fuora fingendo di asciuca r mi la bocca e laconferuaffenelfacciuoloperportarlaalgiuoco, accioilbeffalimo, etischernissimoconquelli fceleratim o di,sicome disopra disse,etanchora perche il conculcassimo collipiedicon quelliuituperiigiaauantiraccontati.Dipoi portauadicontinuo due hoftieconsagratenella miaueste culite,percheellome diceuache uieratālauectuineffefen dole portate in quel m o d o senza riuerentia,m a anzicon uie tuperio,chemainonpuotrebbe confeffarelinoftripiaceri, neanchoraaltracosa delgiaoco,benchefußiancheinterro gata dallo Inquisitore n e con tormenti,ne con altrimodi. N o di meno aftreggendommi imperholo Inquisitore em e pacciandommidiuuolermgirauemente martociarefenon confefauaquestenostrescclerate operemi commando quel demonio maluaggio, legetraßein queluafo,loqualehai uea portato a m e il Guardiano della pregione per farele mie necesitati.APISTIO. Facefti questoiscómunicato.com mandamentos STREGA. O me mischinella, et infelice's bubbidi.Ma non ui rencresca diudire una cosamolto hori rendae pauentosa cheoccorse.Rompendoioinfeliceescia gurata quellesagratissimehoftienelfterco,con unuaerga, vide uscire da quelle il vivo sangu e. FRONIMO. Che odi dire hoggi: Puoesserequesto Credocercamentechemai piuno udiranolemie orecchie finilioperefcelerate etis communicate. DICASTO. Andiamo un puoco nel giardino ecosiforsicaminandoefpasseggiandouiritornara lo a ppetito. H o r f u r a m e n a la strega nella pregione. APISTIO. Inueritauidicochenómaihauerebbecreduto che fe poteffino,non dico fare,m a pur penfare tante fceleritade, tantemaluagioperee tante ifcomunicate cose,quante ho udito hoggidalla Strega.Ilperche avanti facilmenre haverebbe perdonato acoteftagenerationedihuominie didon ne credendo chefufferocondurrida qualche leggierezza o ueroda qualchemancamento diceruello adintrareinque fto errore etanchora iftimaua che fusserocotefteStreghe e Stregoniingannati dalle apparentiuisioni e illusion e fittio nidelDemonio etanchora(iodirolamiaoppenione)non giurarebbichenon sianoingannati, ma hora11comebuono e fedele Chriftiano come sono itato eth o creduto quello, che debbe credereciascunuero Chriftiano, non mai con fentirebbifedouessedare uenia,neperdonareacoresti ini. quifcelerati emaluagginiolatori,efpreciatoridella nostra fantiflimafede. DICASTO. Se tidimostraroche cotestoap pertenne alla Religione Christiana di douer credere che sia noinuerirafattedaqueftifcelerarihuominialcunemaluag gie opere etseiɔti conducero tantiteftimonii, ilperchne o n puottaifaredinon credere efferemolte cosenellantidetro giuoco chesonouere,enonfintene ancho imaginate,m a Li come siamo consue t i d i parlare che siano reali io penso che dipoinon farajostinaraméter efiftentia. APISTIÓ. Ancho ranon sepiegailmio animopiuinunaparte che nellaltra. DICASTO. Dimmifettepiace,Vedeftimairefuscitare  municate.APISTIO.Anchora iosondicoteftaoppenione dinonudiremaipiufimilisacrilegginesimilihorrendeope te. FRONIMO. Dehperamore deIddiopartiamocidi quietandiamoincontrodi Dicafto, feltipiace,cheritorna danoi. APISTIO. Moltomipiace Andianio. DICASTO Hoben comeuafecifatiffattir Vi-e-anchorarimastaalcuna cosa da dovere intendere. FRONIMO. D e h il n o f t r o D i cafto,iotedico chepercotalmodo siamostomacati cheno hauemopiubisognodipranso.Iotesoben direchesiamo per una uolta sariati   uerunmorto. APISTIO. Non maihoueduto tantomira, colo. DICASTO. Creditu che possono resuscitare e mortis FRONIMO. Non lonegara no. Conciosache-e-quefta cofamoltocancataefouente ramentaca dalli Poetietand chora-e-scrittadalli Philosophi, e maggiormente da Platone. Liqualinarrano come resuscitarono limorti,etusciros no dell’inferno. APISTIO. Ne ancho per queste cose m i acqueto,incoteftaoperachi-e-ditantomomento. Ecolino credoalliPoetinealliPhilofophidicioma libenaluange lioDICASTO.Io tiuoglioproporreanchordelliefsempii dialtracosade cuinonlefamentionenella fagrascrittura, Dimmi credi tu siano uscite le naui dalle Gad i cioe da quelle due Isolecheso non elfinedella Bethicanellaetremita della terra noftrauersolooccideniedouife diuide la Euro padallaA fricaretanchorchesianouscirefuoridelportode VlissiponadiLusitaniaosiaPortugalljareche quelleriuolte versiol Zephiro siano stato portate da circauentimigliara di ftaggi,o piuomanco fiacome silioglia,perinsinoa quel larantoampiaterra(lagrandezzadecuianchornon fecor nof c e) e cosi portando le hora il  Zephiro per il mare atlantico siano giunte allo Indico feno. APISTIO. Si lo credo. DIGASTO.Tu locredi. MadimmiacuilocreditAPIST. A tantimercatapti liqualiraccontanoin che modo hanno fattotaluiaggio souradellelarghespaledelmare colle 11o dantinaui. DICASTO. Haicu maiparlatocon quellis. APISTIO. Non ho gia ragionato con quelli ma pur alcunayol ia ragionando di cotesta cosa curiosacon quelli liquali h a uerano udito daquelliche hannonauigato per detti luoghi lo diceuano,etconfermauano che coli era. DICASTO. Il mio Apistio dimmi non ti hauerebbono poffuto ingannare quegli. APISTIO. Deh, no chi serebbecoluichi dubi tal, che l’huo m e n i gravi e gia maturi di conseglio si d e l e tra s s i n o d i favole e di menzogn e s DICASTO. e dunque io producero quiuinelmezzo non menore numero ditestimonii dinon manco grauica:edinon manco.oppenioneet istina tione,de quellituoi liqualihanno cófermato con giuramer to come. Sono portate algiuo cole streghe e li stregoni, come li demonii danno amorosipiaceriállhuomini in effi g i a d i donne et alle donne in figura di huomini, e cotesto Thanno havuto dalla bocca dies li stregoni e streghe conil  20 line old od sagramento costretti chene dirai esera tu poi fatiffatto. FRONIMO. Se potrebbedire ueramenteche coluinon fussiin talmodo satisfatto,fuffioscioccoo pazzoouero oftinato. APISTIO. Deh pertuafede di'per quale cagione. FRONIMO. Percio chequando sono moltidiunamedeme voce, 11on pare c o n u e n i e n t e c h e sia u e r u n la d e b b i a n e g a r e eccettosilnofussida qualchebuonaragioneper cotalm o po costrettolaqualehabbiatåraforzacheportagettareal baffo quellaoppenionecosiconfermata ditantihuomeni. Jlchecredotunon habbi.APISTIO.Questatuaragionc h a puoca forza in quelle cose che paiono louerchiare lefors ze dellanatura,m a ben affaine ha in quelle cose ne ueneno nellulodellhyomo.Ilperche non ho fattodifficultadi crede requelviaggiodellenauidiSpagna nella Indiaetaquella terranuouaecofiaquellialtriluoghima benfogran diffisculta in credere il giuoco di Diana. FRONIMO. Puo' esserre uno molto maggiormente contrario a quelli che raccontano il viaggio della India che aquelli che narrano I givo; codellanotturneHecare cioediDiana.Concioliache dets. touiaggiononfugiamaipiùperuerun modo conosciuto dalla antichita,m a solamente furono ritrovatialcunipuochi segnali con liqualidicono gia giongeffe non soche naui dal JaIndiaal litto di Spagna. M a hora senauigadella Europa per il mare di Ethiopia nella India. Eco si hora gia f o r o s r o gnatiiporti,etilittinellecauoledepinte.Anchoraalpresen Refono ftato ritrouatealcune Isoledi marauigliosa grandez za chemai non furono conosciute dalli antichi.Et anche nonfumai ramentata nescrittaquellaampiaterra,emol to marauigliosa per lasua grandezza retrouaraquesti anie ni paffatiLaquale, fefusiAtataconosciutadalliPhilofophi, liqualiseimaginauanoesserepiuMondi nellordinedella natura,forsicon maggiore ragione hauerebbono dimo, Atratolaloropazzia.Delle qualicofeinouamétecontantefa ticheritrouare'non hanno fattopur uno puoco dimentione   o Strabone,o Ptolomeo,quero anchora quellialtri;che for no suco reputatipiufauolatoridiefli.M a delle Streghe ne fattochiaramentione nellilibridelliantichietanchor delli moderni.APISTIO.Io lento, m a nó foimpechoin chem o do,apuocoapuocomouersilanimomio accioconsentialla quaoppenione.Vero-e-cheuolétieriudireieteftimoniipro mellida Dicasto diconducerliauantidinoinelmezzo,ec a n c h o r a d i s i d e r o d e i n t e n d e r e d e l l e r a g i o n i se ne ha della l e tri,olcro di quelle che ha detto. FRONIMO. Deh il mio Apiftio tu debbefaperecome-e-fegnodipuoca Atabilicadi animodiuacillare,erdipiegarsimoquiidimo riuolgerli indimo fermarsiedipoimouersidalluogodouieraferma, to. Conciosia che quelle cose,dellequaliauanti diceuamo. Senonpareuanoateuerepurpareuano imperhomolte fi milialuero dapoianchoracontradiceuie dicenichemeri tamente era da esserecontradetroda tea similicose, ma ho ta c o n una certa inclinatione di anim o confeffi dieffere tirar toesforzatodidouercósentireallanostrafentétiaetoppeni one. llpercheame pare(perdonamiperho)chemeritame tepuotreffieffernuotato diinstabilita eccetto,setunon ha) ueffiusato iconia,ouero simulatione,e ficcione. E cotefto n o serebbe meraueglia, perchetuseiusatonellifintigiuochide gli Poeti etanchoraseitumoltoeffercitatonelliDialoggidi Socrate.Perilche interujene che lepersone sono usate in der tilibri, onon maio uero con gran difficulta sepossono rimo ueredallidettimodi.APISTTO. Fronimo mio io non fingo in cosa alcunane anche giudico che fiabi sognofra teem e de Ironia ouero simulatione, ma io te dico il vero, che non quorejcofi prorontuosamente credere una cosaditantom o mento.Ilperchepaream echedamegliodidubitare pur che modestamente sefaccietanchoradiscoprireetidi e quindiledubbitationidellanimomio,cioemoa temoa Di cafto,ficomescopreloinfermolesue infiaggionie piaghe. Al Chirurgico,checrederefacilmente senzaragione.Cone ciofacheiersententiadiungrandehuomo(fiben miricor do )come sedebbe andarepian pian,edipaffoin passo in quellecoselequalipaionoche Couerchiano lepoftre forze accioche se inconcanéti fufferosprezzate n o s a m o da nasco ftoinuiluppatinellifrodi, epelcontrario,seincontanétefuf ferocredutedanoi 1100siamopresinelleceticollesuspicior ni delle fcioccheuecchiarelle.In uero'fisonftato dubbioso nell’animo mio, c o s i m i p a r e u a d i d o u e r dubitare N ó h o i m perhomai contraftato conlaninoostinaco.FRONIMO. Secolie-echetusiadiquestobuonanimo cioeche uogli in coresta cosa usarelintellettoenonla uolonta,certaniente possemo havere buona speranza dite. M a t i u o g l i o d a r e u n buonricordocosiinquesta cosa decuihoradisputiamo.co m e n e l l a l t r i c h e p o r t a n o p e ricolo, e sono de importanza (si  o m e si s uole dire) c i o e c h e p e r c o t a l modo fa c c i c h e n o n u a diauantilauolontaallointelletto cosiuogliodire chenon uogliuna cosa seprimanon hauetaibenintesa econosciu ta.M a sono alcunichecaminano pel contrario nellordine delliftudiidelladottrinacioeprima diffiniendo,e concludendo  con l a s u a uolonta, ouero secondo il suo u uolere che cosasiailuero auanriben consideranoconlointelletroeffo vero.APISTIO. Hogran seredintendere che cosa ha da direinqueftonoftro caso Dicasto,Joqualeuedo ritornare d a noi. Certamente non puotrano essere(almio giudicio ) eccettechedegneeteccellenticose,purcheluuoglia ferua tele promisfioni. FRONIMO. Bisogna primeraméte iftin guere lanostra fame edipoisifatiffaraallacuasete. DICASTO. Andiamo perche-e-apparecchiatoilpranso.Dehpec noftrafedenon tardiamo piu conciosia che affailongamen tehqucmohoggidisputatofichenonbisognapiu dimota re.Equando poihaueremoinkaurato ilfarigatocorpo di quelloeglieneceffarioperla continuarouinadelnaturale caloreintraremo poi nel giardino della disputationec h e cirimane.fando fram e fe-e-uero imperho quel lo che ha narrato la strega. DICASTO. P i a c i m m i,a d d o manda lantis dettiuitiiesceleritade,cioeche spesieuoltefacionola penin tentiapelliufernodopo lamorte etiuisianomartoriatigrai uemente.Non ferebbemegliocheleprohibiffeIddio non si faceffino,che dipoi lhauerano fatte didarli la penitentias DIÇASTO.Meglio certainére ferebbe felsereferisceque, Hoa coluichihafattolemaluagieoperepercheselnonhain uefleoperatomale hauerebbe fattoben per fo.APISTIO. DunqueperchenonleprohibiffeIddio.Non ferebbemag giore cosa epiudiuina,lefusserodiuinamente 'uietare& DICASTO. Sono b e n u i e t a t e c o n la l e g g e m a n o n c o n l o p e t e ra CioeIddioļeprohibiscemediantelalegge,m a nowole per forzateniceIhuomo non operia suo piacere.A P L S T I O Perche épermeņa da Iddiolamalgradeuole operatione, et il peccato cioeperchepermettechelhuomo facciopecca to DICASTO.Perchere liberolhuomo,er-e-infuoarbi. trioe volunta elibertadioperare ficome alai piace,oilben oilmale.APISTIO.Nóferebbestatomeglio chenófufli mainatocoluiloqualeconosceuaIddio,chedouea fouina rcin. APISTIO. JIP OICHE HAVEMO SCACCI a t o l a f a m e c o l l i c i b i e u i u a n d e t i p r i e t. g o Dicafto Inquisitore delliHeretici uoglieffer concento,chepossachiede reinantidituttelaltrecele,una certa m i a dubitatione Laquale ha granden mente feditolanimomio,no con uno scrupulo niacon una agura láza,pen pur quelloche tu uuoi.APISTIO.Non guarimi sa tiffanoquellecosechediconoalcuni della pena,chi-edata da Iddioacoteftibiafimeuolihuoineni e donne, 3 e,per   teinquefe grandisceleritadeetiniquitade&DICASTO. Si Terebbestatocertamentemeglio chenon fuffimai apo paruto almondo coluichiperfeuerane peccatiper infinoal f i n e d i s u a u i t a, m a c h e f u f f i m o r t o n e l u e n t r e d i sua madre. APISTIO. Maremainonfuffeftatoperuerunmodo peii fituchelfuffemeglioperquello DICASTO.Perchi: APISTIO.Per luj.DICASTO. Perdonamiilmio Apistio Tu parli moltoscioccamente. E poffibiletunoucoulideri che questaje,unapazzescaquestionesConciofiachetanto ifrasesonocorrarij,elloreniente cheuno-e-rouinatodallalt t r o: N o n f a i t ü c h e n o n p u o i n t e r u e n i r e u e r u n a c o s a o sia p r o fperaouerfineftraa niente chediinaginamorAPISTFO. PerqualcagionedunquehacreatoDio coluiloqualecono fceua douefte andare allieterni fupplitii DICASTO. Per sua fommaetinfinitabönta.APISTIO.Come fiapoffibi. de coteftor DICASTO. Cofve-poffibile.Perche non sia for uerchiata lainfinitabonra di Iddio dellaperuersa malitia dellhuomeni.E cosisenarra cherespondeflesamo Pietro Apoftolo a Simon M a g o,rendointerrogato da quello quali di fimile cofa feben referisceClemente ladisputationefatta f r a ' e f i. D i m m i u n p u o c o A p i s t i o ti p a r erebbe fuffi b e n c h e ceffafliIddiodacantogranbeneficio cioedicreareleante m e pedrespettodellhuomo chel doueffe dapoimale ufarec conciosia chereioperadifomina bontae de infinita poteny tia Anchorasebenconsideraraiconlameitėtuatuttele uercudeetopere dilddiodimostratealmondo tu uederái che secauafuorila Giustitia dasemedeme,folamenteftren gédo quelliliqualipiuprestohanno puolutofuggire fabori t e la benignita di quello che receuerla.N e anchora per questoseiftingue ouero se diminuisce lamisericordia cory cioliachemanco punisce quellicherechiederebbeilrigo redellagiustitia.Efouenteuseissequalche cosa daeflafcelel tagine perpetratapfreie carciuiliuomeni edonne cauata d a I d d i o p e r q u a l c h e m e g l i ore fine. De cui dice farito Agosttino, che etantobuono,chenon permetterebbeueniffe ueruntmale fenonvuoletteda quello trarne maggior ben. Ilche spefeuolte,li1100fempre,elftátoüeduto uscirnede kk ii  la cariftiadellauixuaglia.Etanchot conoscono qualmėteseguicaronoperdettaingiustauendu ta moltiegrandimisterilliqualiramentano con gran ciuerentia. Anchor per i tormenti et occisioni, e crudelta de che feceroi Tiranni contro delli secui de Iddio, cispiandelauercia egloriadicflimartiri.MachepiudirorPerlacrudelemots te e durissimapaflione etuituperofamorte dimiffer Giefu ChristoueroDioethuomo,apparuilainfissigabuontadeId dio riscuotando,eredimendo tutta lhumana generatione dalla eternal morte, etaprendo laportadellamilericordia ec anchordellaGiufticia.APISTIO.Dob quantoben hanno f a t i f f a c t o a m e c o r e ft e tue ragioni. Cos i a n c h e p a r e a m e c h i fiailueroquellochituhadetto. Ma horasendoiofatiffatre da re quanto aquestedubbitationi pregoriuoglifeguicart il giacomenciato ragionamento auanti delpranso,ciodi narrarecomeegliecoreftogiuoco cosavera enon finta ti Titrouatnaelle fauole, sicomeprometteftįdidouer dimotta re.FRONIMO.Vuotucredereatuttelhistorie APG STIO.No.percheseritrouanodellefauolenarrate con co lorede historia,licome equellafauola Samofatenacioe di Luciano.Anchorasonomoltealtrehistoriepercoralmodo incertee scritreinduoimodi,efouenteancheinpiu,tanto uarieediscopueneuolifrafediuna medeme cosache paio n o ellernon guari discosto dallesemplicifauole. FRONIM O. Certamenteturespondibenenonmancobeninten di.Ilperche ficome alcuna uolta rispiande fralletenebreet  maliilben, dallidottihuomeni, feben forsinofiafutócon fiderato dalrozzo uolgo. E per dimostrare che colisia ftato uoglio narrare alcunipuochi effempii,benche sepuotrebi boiioramentareintiniti.Leggiamo qualnientefuflivendu -to ilgiusto Giosepho da frategli,con graue loro peccato.Il rozzo uolgo non pensa piuolaa,m a solamente eglieag, gradevoleihistoriam a lhuomenidottiedigranfpicito,pici tofamenteconsiderandoauertisconoqualmenteperdetta iniqua emaluagiamercantia,interuienechedipoifufatto Iosephoquasisignore,eRe dituttoloEgittoecheliberoil padre efiategli etuccalafameglia dallamorte,che glifey rebibneteruenura per   ofcurita dellefauoleun puoco ditumedellauerita.colifral denarrationidellehistorieche sonofra le contrarie,forfaucie ritroueraiunauera,ecosisendo Jaltce false,eneceffario dian nouerarlefrallefauole.Conciofia chenon fie poflibile,che combarrijlaueritaconlauerita. Mao Dicafto,amepare dintendere quello chiuorebbe Apiitio. DICASTO. Chi cosa s. FRONIMO. Vna historia da molti teftimoniirappro uataa cuinoferitrouaffealtranarrationecontrariadimag gioreouerodiegualeauttorira.APISTIO. Jaueritatuhai dettoquello chedesiderauo.DICASTO.Iuiprometiodi dimostrareche ficomepertenealli Chriftiani didouercrede reche fifacciquestomaladetto e iscómunicatogiuoco.com fianchegliapertene didouerlo iftirpare esuelgere,erouina re. Ecofruipramettodiparcareaffaihiftorienon contrarie frafe, mafjben moltoconcordeuolie fimili.Anchor uoglio farecodacui qui auanti la Strega, elacostregnerocon ilgiu ramentoaccioconfeffiiluero.Suoguardiano della carces tepreftoconducequivilaStrega.Efapiatiqualmére testi monii,che uiproducersoo n o molti,esonopigliatidaquel di che fono ha u u w i dall’huomeni costretti colli giuramenti et anchora sono iscrittipermemoriadequelliseguicaranodie tro anoiet anche per approuarelauerita:APISTIO.Core ifto ho a piacere deintendere. Horfu dunque comenza. DICASTO. Benche uipotrebbimádare a leggere li-libriferic tidiqueste cose congransollecitudineefochecotestonon fpiacerebbe a Fronimo, ilqualemoftra dihatere ftudiatoin tuttelegeneracionide scrittoriperquelladegnadifpurcacio ne che hafacto,purno mi parephoradi farlo perche cono fcoche Apiftio non remanerebbe contento,ilquale dechias facon il suo parlare tanto elegante di hauer gran pracicanel lilibriscritticon ilpolitoetersoftilo,etanchorpacedilettat fi grandemente dequelliscrittoripolitietben accommoda tinelparlare etornatidiun certofaufto,epompadieloqué tia,ecosiparechenonlipiacerebbonoquellialtrilibripriui dedetta policita,edidettaelegátiadidire.APISTIO.Puo effer Dicasto che tu condanni quesse figure di rhetorica  hi uit Ea nico Zio U ouero cheforecilornato parlare cofidellidersi come della prosa o   fia sciolta oratione DICASTO. No. Non maillofatto ne anchorfonperfarlo. APISTIO.E pur imperho usanza de alcuniliqualiquandoharannointeleladoctrina dePaci secioequellachire-scrittaperquestjúcellediuuolerilehet nire,ebeffate lacontinuata oratione,ben ordinata ediftit tamentecomposta collicoloriefigurerechorice,benichean chotapurhoueggiutodellilibriiscrittiaPacifedaeflıBarn bacielegantemente etornatamere compofi. DIGASTO. Vuoreftimai cuchefufliunodiquelliche sono amouerati frallirozzietinelegatirconciosiachefocome colielegante mentefecissecoSanGiovanniGrisostomo,ilmagno Baglio, Tee Gregorii in Greco, et in Latino san Geronimo, Agoftino Ambrogio, Cipriano conmoltialcis APISTIO cioefodaefenzaerroree senza fauple, laela quentia non solamente debbe efferecondemnata eciproua. ta,ma anzidebbeefferdacuctilodataficomeeccelétebud non fralliinortali,chi-e-approvatoconlaragione etauttori tadelliantichiefapientidoctori. APISTIO. Chelibrifono coteftisetinchetempofuronofcrircis. DIGASTO.Sono molti.Veto echealcunidieffifuronoscrittigiafesantaany nifactunoui-e-chifucópoftonellanoftraeta. APISTIO. Chi furonoliauttoride dictilibri. DICASTO.Credo chi f u f f e r o Belgici o e Galli, over Germani e Thodeschi. Ma di que h o ultimo de cui h o det o Furono li scrittori duo i Thodeschi. Liqualilif forzaron odispaccaree rompere limaghi incantatori, e le Siregheconunmaltello, emolto piu'forter menteeconmaggiore giustitia,chenonfece Nicocreonc ciránodi Cipro ad occidere collimaltelliAnaffarco Abdeci de philofopho.APISTIO. De chiftillosono. DICASTO. Di quello chiuolgarmétesechiamaPacifinocioeperque ftiuncelle  Dimmi Scrifferoanche egliikerli: DICASTO.Sialquátidiloco,ac ciolaffanoalcunididire comeeraconuenièrenellantidetti sempidiscriuereinquelmodo,conciosiache anchoracom batteuanocollinemicidellafededi Cbrifto colliuerft.Non mancano anchoranenoftritempidi quelli liqualifacilme tesonoriratiallefagre cosedellasantiffimafedediChrifto, conloelegåteftilo econ loaccomodato parlare.Purchesia calta,e fobria  EN 0 0 1 1 2 lo Y li libri. Et anchor la strega la quale gire appropinqua a n i c i condutra dal Guardiano della prigione forsiramentaradel laltrecofe altro diquellecha racco:ato che nófono anche elleiscritrein uer un libro.DICASTO. Son contéto difare horacome uuojparimpechochiedédoniperdouăzs, ledi toequalche cosa chenon fiaticonfueri diudire. Cosiciofia fiqhcelle,m a fono (crittecon molta sottilira,quanto fiapof fibileascriverediessamateria,decui parlano, ficomeimpe sho h a m m ipareet anchorsonofermati con la verita delle teftimoniidefantihuomeni.E non folamentepareame co teftoma anchoraamolijeccellentiTheologgi.Ilprencipio diquefto ultimo uolume comencia dal Pontefice Maximo, ecil fin-erapprouato con la auttorica di Cesare.Gia ho chiai ramenteefermamenteintefecome landdettolibrofu publicamente approvato dalli dottori di sagra Theologia del Juniuerfita di Colonia Agrippina. APIST10.Vuorej Dicaa ftochetuminarraffiquellecose lequalituhaipromeffodi narrare al propofito noftro ofiano di quelle da quei luoghi cavate, overo de altri luoghi accio le possam o meglio intendere con il cuo parlare concio sia ch e meglio le dechiarara i narrandole tu.Tlperchefendo anchorquiuipresentealladi fputationeilnoftroFronimo credocheanchealuinófera grauediramentare dellalırecosecheforfinonfiritrouano Icricce,ficome p suagétilezza hieriethoggi non liparuigra medinatraremoltecose degue,chenon fonoscritteinquel che de ben h o apparato le littere Grece e Latine, non di meno imperhonionm i fono con menore Audio effercitato fralli Theologgi. Liqualiłassanolapolitiaerornamento dellino caboli etanchora tantatersitudinedi parlare folamente se fforzanodiconoscerelecosecome inueritafono. FRONIMO. Eglie menoredanno quello delleparole che quello delia cognitizione delle cose. Mare-ben neto cheioiftimo, chccoluidebbeellereffaltatoelodato fouradellaltriilqua Jehalornarodelparlarecongiuntocon la cognitionedelle cofe cioefoura di quelli chi hanno solaméte o lungoialtro. Vero echesepurnonliposloviohauereamenduoi, iftima shec'megliodịhauere lacognitionedellecose chelparla  re polito,et ornato,dieloquentia.Benche ficome ho poflur coconoleereperiltuoragionare,pofseuilafare ftacediad. domandare questa uenia eperdono. DICASTO. Io diro latinamente al meglio puoco. Hor sucomenciaro. Auanti diognicosauoidoueresaperecome egliechiaroemanife. fto,chicolui,chinegaffeesserelaDemonii,meritarebbedi eserschacciatofuoridellacatholicaChiefia,licome grádea. meiitecontrarioallasagra scrittura,e maggiormetre aluanı: gelio.APISTIO.Concedo cotefto effer uerissimo sanza ver un dubbio. FRONIMO. Anche meritarebbe di essere Scacciato coftuidisinileoppenione cioeche diceffenó effer iDemonii,fuoridella Accademia edalLiceo.cioe fuoridel JaschuoladiAriftotele.Concioliacheappo diPlatone e di tutiie Platonicie fationon puoca memoria delli Demonii, acuinone-contrarioAristotele,m a anzifouentenefamen tione non solamente nella Ethica, Politica e Rethoricama anchor nell’altri luoghili qualihoranóscrivo. DICASTO. E ben vero che ne faniioricordo, ma sonoimperhoinques Sto differentiate dalli nostri dottori cioechequelliistimano aisianodelliDemonü buoniedellimaluagieperuersi.Ma noi diceno che cutri i demonii sono perversi, iniqui, e malegni. Liquali benche li nominamo sotto dicotetto nome Sat canasio e di diavoli pur piu chiaramente anchora sono SIGNIFICATI per questo nome “demonio”. Il perche dice il Propheta David, tutti li dei delle genti sono demonii e lo Apostolo Paulo anche egli scrive. Non uuoreidouentafticompagni del i demonii e in uno altro luogo dice, Credono e demonii, e tremanodi paura. Non fugia maiuerun huonofa uioche dubitaffe,chequandolimalificiincantadori,eStre gheeStregonirouinanolefruttacollisuoimaluagiincana elegano edipoisciolgono a suopiacerelibeni del cagioni ? matrima nio,cioeche fannopermodo che licôgiugatinel matrimo nionon poffoliohauerehonefti piaceriinsieme,edipoiqui dolepiaceglidanno facultadipuoterli hauere,etche an. chora tormentano lecreaturefuoridelconsuetomodo del lanatura chenonsianofattedettecoseconpattieconuen tionidell Demonii. Boperqueftoetanche permoltealtre cagionisonofateordinatemolte altrecosecontradicotefti teretiniquihuomenje donine dalli Theologgi cosi antichi c o m e moderni etanchora dalla facra scrittura, edalleleggi Canonice della santa Romana Chiesa etanchordalleleg giImperialt.Imperbo cheritroviamoilcomandamentode Iddio nelDeuteronomiocome fedebbonoucciderelima. leficietincantatori_ilfimilecomanda nellLeutico,cioeche SranolapidatiliAriolie, quellichihanno ilfpitico Phitonico, dioe lidiuinatori. E Gratiano radunaaffaicosenella vigesima festa causa de decreti contro dicoteftifcelerati malefici. Anchora sepoffonouederequelle cose chescriue SantoAgostione libridellaCittadiDio;edelladottrina Chriftiana diqueftamaladetragenerationed /perchefepor fon piu p u o c h e cose raccontare oltra di quello, che h a esso fantiffimoe doctissimo huomo scrittoinquejluoghi. Iocacı giolimoderni Theologgi liqualinon puoco hanno scritto contra dellimaleficietincantatori,eparimente anche con trodellimaleficiter incantamenti sono anchora constituce leggi contradieffumaleficiemathematicinelle Ciuilileg.: gicioenel Codigo di Giustiniano Imperadore: FRONIMO. Anchor se vedono affaicolene libride moderni philosophi.colide Platonici come de Peripatetici, cioedilambli co di Proclo, e di Porphinio, lequali poffoneffer'moltoapro pofito. APISTIO. Sicomeiononnegoche siano e demonii e chepoffonfareaffaicofeconlafuaperfidamaliciacosián theio defidecochemifano dechiarate quellecose, chipro, priamentepentengonoa quefte Streghe, cioesedannoal giuoco ouero uisiano portate con ilcorpo enonfolamente con la uolontao con una imaginatione, e finta reprefenta tione. DICASTO.Suole dare gran faftidioquefta queftio. ne ecagionaregrandubioinmoltepersonetragendoneof calionedalleparole del Concilio dell equaline faicoquanti mētione. Lequaliparoleleggonfinellaquintaquestiondel Laurigesimafefa Causa.Ilperchecredonoalcuni noefferui presentialli dettigiuochiqueftedonnuzze ehyomuzzicon il corpo,una solamente con lainagniatione. M a alcuni altri diconoeffercocefto giuocounanuoua fpeciediHereliadi  versa da quella antica superftitione. Anchorà altrinuoletto chelafiatotalmente quellamedememacheiuifiafatiofo lamételaquerellaetimpoftalaperda quellicheistimano essere Diana Dea overo Herodia, ferebbediuerfanaturadelcapro dadiuerfopeco cipiouscita.Vero echesonoportatialliballieconuiti,etal lila fciu i piaceri della norte uuolendo euigilando. Il perchie Fronimo e dame approuata la tua diftin&ione della disputa rionedihieticon laqualeconchiudefticontecoteftogiud codelle streghee malefiche e antico quanto alla essential e oftantiamare nuouo quanto alliaccidenticide quanto - lecerimonie. FRONIMO.Sehoritrouatonellantichefu, pecftilionidej Demonio ilcerchio,lounguento !, lincanto, il caminare de lcl iorpi humani per il spacio dell a r t a, li conviti apparecchiati di piaceri carnali donati all’huomeni e donne dalli demonii in figura de maschi e di femine chi cosa ci manca piu accionoiftimamoessereantico ilcommertiot familiarita dellis piritimaluagie scelerati colliperuerfiet in quihuomini?M a percheseritrovano alcunecofe in questo vituperoso etis communicato spettacolo di demonii hora da moltinarrate; lequalinon fileggono fussero anticamente dimostrate ho detto lacagione, cioecheiltuttoseattribuiffe allagrandiffima afturia emalignita, delsceleratoeperuerfo n e m i c o dellhuomo.ilquale in diuersitempi a diuerfiordim e gradidi huomini haue apparecchia tomoke aru, e modi dingannardi accio che cosicondettiuarii coftumiecondi uecli ingannie piaceritrageffe efli huomeni delle precipito ferovine delli peccati. DICASTO. Per cotefta ragione assai  ouerochicredonochi.fi cangianoe trasformanoe corpi humaninęlicotpidi Gatge ode alorianimali, per opera del demonio e anchoraquel liche affermaucnodiefferforfipentalmodo difcetuto il rapto della mente quando sefachefeipuo bên conoscereic reconoscerepereffofel fia portato il corpoinquelluogodo Disalisselamente consciosiachedicaSanpauloapoftolodi n o n sapere cotesto:M a quefte Streghe q u a n d o sono portál te con ilcorponon sonorapitecom låninocioe ficome G fuoledirenon sono in fpirito, ma purse. Fussero rapite in questo modo ami  al 01 tel do od th que Ich til che ON efto ad LO me ol fal ad cit ced era din hadi ad 20 il a m i e piaciuto quello chehaidetto APISTIO. D u g uoi cerdetechesianoportaticolaconilcorpo DICAS Sicre dochesiano portatialcunauolraconilcorpo etalcuirauol ta che cosi facilmenre posson esser ingannati cioe che rendo naadamente illurae schernitala imaginaria potemiase pene fano, e gli parediessere portati corporalmente oltro di Carr gatacheier nodelli colli del Morite idea, et anchorglipa reditraparfareloAscaniolagodi Frigia,etanchodiandare oltro dello ululatodelloaltiffimoMonte Caucaso dellai n diacollarmi delle Amazoni. E péfano,diuolare colle penne di Dedalo sicome lepare nel sonno. Ma per queste coseno fono perseguitatineprelidalli Inquisitori neanchorefsami nati, ne tormentacinecondentatiouero giudicati.MAPer Questonoicerchiamoconogni diligentiacocesti STREGONI E e Malefic iperche hanno renegato lafede di Chrifto chipigliatononiel fantiffimo battesimo,e promiTonodiferuaria.eranchorperchehanno ischernicoc beffaro Wlagraniéti della santa Chiesa, et hanno sprezzato Christouero dioeuerohuomoredétoredelmodo ethino adorato il nefandissimo e spur i f li mo demonio invece de Iddio,et anchora permoliialtrimaleficii che hannofarro liquali serebbono troppo longhida douerliraccărare. PER Quelle cose Et Altre fimilifatte contro de Iddioe dellasua trionphantillima fede noili perseguitamo,elieffaminamo e facciamo liprocessi e cosidipoiretrouati e conuinri nelle lorofceleritadepertalmodo che non lopofson negare, dia moli nelle mani delli Reggi, Signori, PrencipieBaronio gerodelliloro ufficialiaccioli puniscano egli diano la penitentia secondo che comandano non solamente le leggi an. sichedella Chiesama anchoralenuoue etanchorane no. ftrigiornirinunuate,primeramenteda Papa Innocencio Otrauo, ed a Papa Giulio secondo.Vero-echetiammonia sco che ben auerufle da iftimare,che non sianoporrato al giuoco corporalmente la maggiore parte di coreftirei huomini. FRONIMO. Il nostro Dicasto hieriammoni Apistio egli feci intédere.comne n o doueffe fprezzare e farfi beffe di  I. quellochịe creduto da tutti o uedr’alla maggior parte probabile cioechelepoffa fareintaleeralmodo. Concioliachg ersententiadi Aristotele, come non erin tutto falsoquello chi-e decto da tutti. Il che intendendo quel Glorioso Thomaso Acquistato annouerato frallisanciper lasua bonta e piet ta,&anchor p lasuaegreggia dottrinarepucato frallieccel lenriffimidottoriiftimoefferedelliDemonii,liqualidaua nocarnalipiaceriallhuomeni& alledonne ineffigiadima. fchiedifemine:dertiIncubi esucubi equestomaggiormés teconfermonelsecondo libro delle sententie, percheuiera. No molti saggi, prodi, & anchordorti huomenidicotefta oppenione. I perche o Apiftio,non vuole contradirea quello chive-statorenuroueroconiantapublicafama,& anchorap prouato con ilcosentimientodicanti eccellenidottori.DICASTO.Ben etottimamentelhaiammonito.M a anchor accio se posta haver maggior certezzadicotefta cosa,uien qui dame stregae giura allisantiu angelii de Dio, liq uali ho posto fo r c o l e r u a m a n i come tu vedi, di racontare, e di respondere il vero di quello ferai interrogata. Esappiqualme tefeiubbrigara atalegiuramento chesetune mentiraiedi raipur unam e n o m a bugia,no ritrouaraiperdono,ne remis fione; appo dinoi,& anchorpurpensa dinonritrouarlanel Jaltromodo appo de Iddio. Ho giarato, E cosisia ricerticheno uiingānaco;neanchorm i.DICASTO  Dunn que dimmieratuportara'algiuococonilcorpo,ouerofajn lamente con lanima o sia con la imagination. Con ilcorpoinsiemecon lanima.DIGASTO.Come puotu saperedieffereftataportataperariacola con il corpo congiunto con l’anima Perchejo toccava con que mani il demonio detto Ludovico. DICASTO. Deh, chi co s a t o c c a u i t u r  Il corpo di quello. DICASTO. E m o quel tale, quale e ciascun delli nostri. E porpiumolle. DICASTO.Vieranoquiuidellialtri colli corpi r O l i fi in g r a n moltitudine. DICASTO. E cosi diconotuttilaloricheho giamai essaminato, anchor sanza darlinerunmartorio & il simile anche diconodi Inquisioridelaleriluoghi,cioechieframinando quellidi questamaladetra compagnia comesimilmentehanno di [posti,vo discostandosi da quello cheh a mconfessatoquel liinquesto medememodo. BENCHE SAPÍAMO checo teftanone la cagioneperlaqualedebbianoeffermartoriati e puniti, ma anci per havervi o l a t a e t o t a l a fede promessa nel facto battesimo non dimeno imperho tuttie maschi e le femine di queftafceleratiffimaradunanzae compagnia.co fidiquestoCaftellocomedellaltriluoghidelmondo,coli dellicaliacome fuori di essa dicono inqueftomodo etcone fermano esser il vero di esservi portati corporalmente con quell’altre cose, delle quale ne ha detto la strega. Et a c c i o maggiormente lo poffeti crederevi voglio narrare unahifto siachenó fu favola ne anchorae cosaancicamangoua,Gia puochi mesi paffari eta porcato nelle brazza della madre un faciulito maschio, fi comesifuole aquella fortiffimaroc ca diquesto nostro castello chi'c circodata di larghiffime fosseet incorniata di fortiffimeetanchoraaltiffimemura, hora vedendo detto fanciullinoquello fceleratiflimo Don Benedetto Bernio,ilqualefudipoibrugiaroperle suemale magieopereficomeauanti diceflimo) che parlava all’hora copil Castellano della coccafuo parente, gliuieneincontinente una brammosa e bestiale voglia di asciucarli il sangue. Al perche moltogliparuipiulongoquelgiorno che non pa reaquelliJigualidebbono receuere lamercededellesue Atentarefatichepertantobeftialeappetitoe desiderioham uça diguftare dellinnocente sangue del destofanciullino. Hor sendo pur alfinegiunto laoscura notte dellescelerira. de madref, efeceportarperaria al demonio efermarfinel Ja casa doue giaceua ilmischinello fanciullo nella cuna.Et asciugotantsoangue daquello infelice bambino,cheroma Sefi comeunatrasparente ombra,che preko preftopalla, non hauendoeffigiahumana.Ma nomaiimpo faconosciu itala cagione dellinfirmitadieffone della pallidezza perin finochenon fugiudicatoecondannatoeffomaluagiohuo. m o al fuogo. Perche allhoraelloaddimaudo perdonanza al padre del fanciullino, per il male havea farco. Ecosiandoe ri cornoperariapassandofouradiquellealtemura dellanuje   detta rocca laqualeuedericola. Vadimo auantarfilantiqui cadelli antropophaggicive de quelli popoli di Scithia chi magnaveno le carni dell’huomini, et anchora purmaraue gliatlilanottraetadiquellihuominįhoraritrouatinelle110 de detmare Eoicide orientale che ancheessisecibano colle carnihumaineconcioliachenelmezzo dellaItaliain una regiunemoltohabitataefrequeritatadalli mortali, discolo da ogniferitae bestialica, fi-e ritrovata una gradiliima c o m pagtira d’huomim cosi maschi come femine laquale/e-par sciucapinftigatione del demonio disanguehuinano. M a ritorijateStrega.Che piacerihaueuitunclloprelafciuccó un corpodiaria STREGA. Non soc on chi corpo. Malo ben questo che havea molto maggiori piaceri con lui che con il mio marito: DIGASTO Non faueuiumai paura,et horrore efpauonto conoscendochi quello era il demonio, icon ilquale cu haueui questi iscommunicati e sceleracipira c e r i: No. C o c i o sia che n o u e d e u a a l t r o c h e una figura di huono. cccettochenepiedi,liqualinon pareuano am eficonelafacciailperco, el altre membra. APISTIO. O chi figura o chi aspetto o chi effiggia di finuto animale, er di finta bestia. FRONIMO. Eglie imperho taleche nascon de lacrudeleaetasprezza edimostraunagentileforma,et fuauemolilia con altribeltadedallequalif.noquellidol cemente tiratielusengati.Fingono lantichiche essercitarse Venere lufficio dicacciatrice cercando per le Selve li lasci uti piaceri di Adono, ac c i o n e t r a g g e f f e à fe il cacciatore. H perche dicelo ingenioso poeta. Noda il gignocchio al modo di Diana Cintralauefte,ecaniellanimali. Della predafecuraadhorta, e inganna. Et anchora non alorimére inganno ilpaftore Anchise,eccet t o c h e in q uel modo, che e’aggradevole ad un huomo che habitasse nella villa. Cohanchorcalitafsiinun cerco Hii Hio da Homero inchemodoferapresentopuressaVenereaus tididetto Anchiseineffiggia egrandezzadiAdmeta uergi nie.llpcheiuisiritrouano quelleparole greche lequali hora Jetaccio. DICAS. Dehpertuafedeegentilezza,fiacontéto  di   Simile a Adameta fanciulla pura. DICASTO. Chicora pensi tu uuolefli SIGNIFICARE quellasimi Jitudine del Poeta: FRON.Non puo coildimoftranoquel le coseavanti precedono,& anche quelle che seguitano. Conciofiache addomando coluichi caminaua solo disco Ato dallisuoi buoi eloeccito efuegliocon ilsplendore e con Na gratiae lotiro a douerfi inarauigliare, fingendoff mors  ditrafferricleinbolgaré. APISTIO. Horfudilleinquel modo che face f t i h ieri, quando tu dice f t i q u e l l altri p u t greche nel nostro volgare. FRONIMO. Non semprese accorda talacerra,ficomefisuoledireperdouerefuonarene anche Temipresuccedennapiacevolmenteesecondoildifioleco Yefatte allaf provedurae prefontyofainéte, Cojneltrasferim t ë i patlare greco in latino et in volgare n o n sid e b b e face enzabuonpenserb esageublezzaditempo. DICASTO. Priegoti cheluoglihoratrafferiregiustamente fepuoi,feair choranonpuoifarecome uuoi,faalmegliotifiapoffibile. FRONIMO.Io son contento,pernonparere diefferofti. nato. Cofiuuoledire. Dar Sre Venere nata delconante Gioue. Avanti di Anchifein forma e figura, taleecosidipoihauendoliraccontarolageneratione,esuc ceffionedelli fuoi antichi con longhe fauole,lo conduffe alfineallilasciuipiaceri. APISTIO. Holettocome feciA n chise la meriteuole penitentia per dette cose,conciosia che f u p e r cof f o d al fu l g u r e e cosi ritro o che gli fu a nnonciato qualmente cofiglidouea interuenite.Ilperche ritrouiamo queluerso scritto in greco, loquale hora hora cofi lo dico it? nolgare perchefo uiferamoltoaggrado.LoadicatoGioue fediffecon lardente fulgure.E benche dimostra chiello d o ideaefferpercoffo con talepena epunitione perrefpettodel peccato chi era manifeatato, non dimenoanchora inanji fignifica c o m e colui ferebbe punito dalli dei, il quale d e fideratebbe diuuolerehauere amorofi piaceri elibidinofe deleteationicoeffiDei:Penichecôigegnofee maravigliose fauole fingonolantichiqualmėte per simili cofe fuffjuccisa Semele figliuoladiCadmodallo fulgure.N e anchorasong cótrarioa Callimacho,inquella cosa che se narra di Tiresia at. ce che 710 qui Erg hon havuto figliuoli, conciofiache foué tefe leggi delli figliuoli delli Dei. Anchemi ricordoqual méte giadoidifadicellicomeerapurqualchefondamento delle favole. Pe č i l c h e s e g l i c q u a l c h e fondamento d e c h i Cortijslono.  Thebano cioechisupriuatodesuederedallaDea Giunone perchehaueahauutoamorofipiacericon Pallade,oalman cohauea cercatodihauerlibenchealtramenteloracconi taCuidio.Vero-e-chi Callimacho,finge questa cosacon 'piuhoneftoparlaredicêdochecofigli interueneffe, perche uide Pallade ignuda. FRONIMO. Chicosa ne hauemp per queata facola? APIS IO. Io te lo dico. Havemo questo al mio parere chejopensoo al manco dubitochehanocge te quefte cose efimulateefinite. FRONIMO. Ifimatuche apparefseno li Demonii in quelliantichitempidiquelliB a Toni di Troia e di Grecia Li quali demoniic redoche tufen do Chriftiano sianofermamenteda tetenuti effere una ria emaluagiaschiattae generatione de spiritie APISTIO. O si. fi fermamente lo credo. FRONIMO. De b n o n ti r i n f cresca di rispondere. Da chi procede che pare tu non uogliccedere, chequellimaluagiTpiritidefideraffino,etanchecers cassinodidarelafciuipiacerialledonne informa dihuomi ni & allhuominiineffigia didonnecAPISTI0.Doh cbi e'beni gran cosa questa da doverti rispondere. Io te lo dico. Per ciono locredo, perche non sapiamo qual menrenolonjo i demonii di carnenedioffa, comenoi.Ilperchenon sipossono delentareincoresticarnalipiaceri. FRONIMO. Egliepur una gran cosa Api f t i o che tu n o n ti u u o i r a mentare di quello che f o u e n t e h a u e m o d e ciall perche se tute lo ricordafi, noti maraueglia restine anchor direfti, quello che horadi. Gia fpeffeuokre-e-ftatodetto, comedannoeflimaladeeti nemici de Iddio erdellihuomini coteftifceleratipiacericar naliallihuomeni,er alle donne n o n per delectatione,chi habbianoeflireispiriti ma solamenteperingannaregli huomeni e conducerlinepeccati eralfinehell inferno dove efli sono confinatii n perpetuo. APISTIO. Il mio Frenimo ti pregono t i turbare, Pur anche io ho un dubio, Se l n o fussiperaltroeccettochep qirarelhuomeninellipeccatino se ditebbe che haueffero.   l fono dong figliuoli quelli detti figliuoli delli Dei, pche lispi ricisenza carne &oftanópoffono generare: FRON. Core Atanó epuoca dubitatione, cociolia che facendo Moises, mer moria nel Genesisdelli figlioli didioedellifigliolidell’homi ni furono alcuni che istimarono fuffero SIGNIFICATI peili alli piaceri carnali hauutifralli demoniie le donne, & altci,uno Jenofianosignificatililibidinosipiacerichehaueano lhomj. Nidellagiustagenerationeeftirpedi Sech:collefeminedel laingiuitagenerationedellaschiatadiÇainIlperche seale cunauoltafeleggediqualchuno,chefulle decto figliuoloo di Gioue o di Apolline non perhosedebbecrederechecoftui ueraméte fianato delsangue delliDemonii,cóciohache nó hanno sangue,m a sedebbe iftimare chelsia nato del semç di qualche huomo, dacuilhaueranpigliaro. Serebbonoass Saicosedar accontare delmodo de cuipaiono esse regenerati gli figliuoli dalli demonii che hanno libidinosi piaceri colle donne:m ape c non aggravare le orecchi e del pudico lettore paream etitacerlene parlar volgare. Anchorpuo effe rche qualcheuoltaquellichesono ftaroreputatifigliolidellidei odelleDee:ssanoftatocubbati fendofanciullioidalle loro madre,peri Demonii,sendoanchoressenelparto, etoccul, taméte postisottodiquelledóne.che ingánauano etledaua n o libidinosi piaceri facédole parere cħefli lhaueffono gene ratidiquellee cosico doppia le st mm De 70 li al frode leingånauano,cioe pri mieramenre facendole parere che glicócepiffeno e parcuri scenoedipoifacendolinudrigareinuecede suoifendo de altrui. Ma se p r f u f f i q u a l c h u n o che vuolesse dice che in verita fuffero faci generaci quelli chiamati dalla antichita fi gliuolie figliuoledelliDei,edelleDee,enon efferstarafro deinportarli,ma checosifufferogeneratidalli Dei e dee (ben che credo che sia il falso conci o s i a che conosco come sono alfaicose fauole)direicome furonogeneratidelseme del JiuerihuominiportatodalliDemonii nel tempo della concettione, quando dauano lasciui piaceri aquelle,E cosi in questomodo sedefenderebbedaefliilnascimentodiEnea nellAsia e quello diAchillenella Grecia, li quali furono digniffimi huominine tempi heroici, o siadiquelli eccellenti   Baroni,cosidiTroiacome dellaGrecia: Alichorfepúotreb: bedirequalmentein questo modoconcepilaReinaOlim p i a m o g l i e d i Philippo, Alessandro Magno, nella Macedonia e nella Italia lainadre del grande Scipione Africano. DICASTO. Il nostro Fronimo cercamente paiono corefte cose che tu hai raccorato molte semiglianti a quelle che narra santo Agostino. FRONIMO. Dirotti anchor molto piu quanti come non solamente tirauano a fe li Demoni t i n i q u i e fceleraci le femine collilasciuie carnali piacerim a anchor tentaueno l’huomini del'maladetto uitio della sodomia, colli maschi. Il perche facilmente era persuaso alli mortali cotesto sozzo e uergognoso amore de fanciulli coll’essempio dequel lili quali erano tentati dalli demonii dicendo che pigliaua. no il fioredies li fanciulli. Hebbe questo vergognoso e seele rato uicio di contra natura primieramente origine dell’Asia, e' deindi nella Grecia e nella Italia, e poi i puoco spatio dite po introperinfino nelli Celti popoli della Gallia. Per il che non e dubbio che la captura e presa di Ganimede in Troia non sia antica e non solamente e manifesto lo molto antico incendio e ruina con il fuogo di Sodoma, di Gomorra,edi quelle altreCitade della āfia, appo delli Christiani e delli Giudei,m a anchoreramentatodalliGentili.Fu primo au thore appreffodelliThracicosidi questopuzzulentouitio, come delculto& honoredelliDei, Orpheo sendo andato di Asia nellaThracia,Veroe che sonoalcuni altrichiuuole no fuffiilprimo inuentoredieffofcelerarissimopeccato,np Orpheo,ma Thamira. Fugiapercotalmodouolgatoemãe nifeftatoqueftotantofceleratiffimo uiio,che eracredutb dallireiemaluaggihuominichelfuffilicito. E cosi'pareja appreffo delliCeltichelfuffefatizauerun punto dipeccato, ficome dice Ariftotele.Veroeficomecrediamochesiaistin to eruinatoinquellipaesiperilbeneficiodellafantissimafe de diChristo, cosimaggiormente uie-ftacoinconsuetudine appodelliPerfi, perlagiaanticasceleritae perchenon uie ftarafermalaleggedimefferGiesu Christo perlaquale fan tiffimalegge conoscemo quellochie bono,eche sedebbese guitareeparimêreintédemo quello chiemaloepeccato e chi  fedebbe fugire.E costilDemoniorio eperuersonon sol laniente ritrouo quelli maladetti giuochi e quelli scelerati piacericarnalipertirarealecosimilipiaceri quellefemine erano inclinate alla libidine & anchoriquicandole alla ge. neratione dellifigliuolilanatura,m a anchora ritrouo questa abomizatione dellasozza esporçalibidine contra natura. E non contento anchor di hauerla solamente ritrouatam a facciomaggiormente ne tiraffiIhuomeni,anchorprometre? jua diuersipremii,aquellichesefusserográdemetedelletrati & efferciratiinefa.llperchepromesse adalcunila perpetua vita,cioelaimmortalita,sıcomefeceaGanimede De quira scontano liibri qualmente crederonolantichi,uonmácoim piamentechescioccamétechelfullportatojucielo.Ad al trianchorpromesseloindiuinare,ficomeaBranco pastore, D e cuidiconocolle fue faliole che glifuinspiratoilu perche loistimocheben sipuo suonarelarecolta,(licomecomuna mentefedice quandosehaueratrascorsodallitempi Heroi cicioeda quelli temp iquando furono quelli Baroni e huoi miniriputaci Dei,ecapitaniiforciflimipecinsinoaScipione, perchecredonon hritrouanochesianopiuftatesimilecofe. DIGASTO. Chi cosaditurTudebbe sapere comesonoin teruenuteinognitempo,& inognieta qualchenotabilico ke.APISTIO. Ma perchenon losano DICASTO, Affaibe fonomanifeftemanoimphotutte.APISTIO.Da chipce de chenosianomanifeftate DICASTO. Perhora occorce noa me duaragioni.Vnaeche sendo fcagiato ilDemonio malegno nemico dell’huomo dalla segnoria del mondo p forza del sanguee dell atrjófantemortedimeßer Giesu Christo non cofi importunaméte epublicamétecollesueillusioni ingánalhuomo,Percheficomefcacciatoebaditobabitanel Jiluoghinascostiedeserti,m a anticamente era adorato sot tospeciedidiuinita.Laltraragioneeperche giaistendeuale retidello amore lafciuoatuttele generationi dellbuomini,   Ito 1 di Appolline APISTIO. Io ti priego non parcarepiudicote fecofelequalesicomefonomanifesteam e colifonomnara uigliofe, Ma uoreiintéderedi quellechesonooccorse peral tritëp Ci, óciofiachecredosianopocheroseoccorse Haticinio. 1 te $ mmi  ma horaforzasigrandementedipore lilaciuolifolamente perpigliaredue generationidhuoniinicioeliottimieliper limi. lo ad domando ottimi que gli che se sono dedicati e cosegrati ad Iddio con tutte le sue forze havendo conculcato esprezaroturteledelectationiepiacerianchor boneftidi questo mondo. Efa continuamente a q u e s t i aspera e crudele guerra. M a sendofactaquesta guerra danascostoetoccul tamente nosimanifestauerunacosadiquelle,eccettoche alcuna volta per essempio e per salute delli altri. Poi io chiamo quell’altra generatione pellima, cio e quella delle becer ghe edelli Seregonidelliquali hora parlamo,Ta sai ben quanteminacie,equantitormétifienobisognoper cauatı lifuoridellaboccaquellifuoiindiauolatiamori efceleratiffi mi piaceri.Ilperchenon parlanoliberalmentedi quelli non liraccoranocome fonio,eccettochecollisuoinefandiffi micompagnidelgiuoco. APISTIO. Dung anchor iftéde J a r e t e d e l l a s c i u o amore il demoni o alli f a n t i huomini e t a figura della ingainatrice Venereshauendosi pinto le guan c i e e le l a b r a c o n la c e r u facio e con un bello colore, e c o n il  quellichitotalmentesefonoaugotatiaDior DICASTO. fetu hauefli cognitionedelleuiteedelloperediquelliiscrit tenellilibrinon hauereftipuntodi dubitatione.M a accio tu ne conosciqualchepartesepiunó lhauerai conosciuto,a uogliopurraccontarealcune puoche cofe diquesti ottimi huominie fanti, cioeinchemodo sefforzasse il demonio di doverli pigliare con lareteelaciuolodellalibidineelasciuo amore. Narra Sufpitio Seuero, come fece ogni forza esso nemico dellhuomo per ingánare quello gloriofifsimouescouo santo Martino in figura diGiouedi Mercurio,diPallade,e di Venere,Dimmiilmio Apistio non iftimituchequando fefingeuade esser Giove no gli promettesse delli Reamie dellelignoriere che quando sedimoftrauaineffigiadi Mercurio chegliprometesselaeloquentia eladottrinaecogni tiondei tuttelescientiehumane equandoseappresentaua in sunilitudine diPallade che non glioffereffela fapientia,e laprestancianellartemilitarelaqualegiahaueuasprezzato e renunciaror Chi cosa puo tu pensare gli promettestesottola purpuriffo con lo quale tingono le femine le maffelle con il bomagio, eccetto che diletteuoli elasciui piaceri N o n penso tuchelfingefsediesserueftirodericcherobbe eueftimétidi diuerficolori,ethauesse anche fintoin questa imagine liua ghielusingheuoliocchipertirarlonellasciuo amoreset an chorchel ragionale delasciui & libidinosi piacerisTi dira Athanafiosanto,conquantiuariinodi tentoilmalegno spi ritoquellogloriofoabbate.S.Antonio nel deserto,ilquale Athanafiofcriffelauicaecostumidiquello.Anchore buon teftimoniolafreddaneue diquátofuogodilibidinetentaffe ilserafico Franciefco nella quale accio iltingueffeloincen / dio dieffo,segligeto dentro ignudo.Te inligaara anchor il cespugliodellepungenti spinne quanta delicatezzadiamoro fipiaceri presentaffe auantidellocchidellamente del pudi coe cafto santo Benedetto,collequaleritrouo ilgioueuoleri medio controditanta Cozzacosacruciandolapropria pelle delsuodelicatocorpo. Non crediariimperhochelmanca di punco anchehoradicicarealcunidellaturba emoltirudire nello pazze s c o a m o r e é volgari piaceri carnali, pur che veda di possere, ma anzi di continuo grandemente cerca con milli modi e con mille arti percoducerlinellasuamaluagia eriauoglia. FRONIMO.Vi voglio narrare una cosa intervenuta ne nostri giorni a comfermatione di quelloche ha detto il nostro Dicasto. Ho conosciuto uno huomo molto essere citato nella militia, a piedi il qualehammi dico fovente di haver havuto piaceri libidinosi o n il demonio, *credendo che* lfuffs una vera femina. E fu in cotesto modo sicome egli narrava, chi era huomo semplice e senza malitia. Sendo ello nella Toscana e caminando peralcune sue occurrentie verso Pisa e venendo da un castello pur del Pisano, dovi havea perduto nel giuoco de dadili danari, eco si molto di mala voglia lamentandosi dellifanti& anchor ed Iddio per la per dutadielli, ecco rivede seguitare dopo lui dui a cavallo che parevano mercatanti, e parevano che cavalcaflino molto infretta, doue adietro diunodjeflisedeuaingroppadelcas uallo una femina la quale dimostrando dinon poterepiyol troftarea canalloperlagran fretra che facevano paruiche 3 scendeffe interra. Hor costuiuedendola bella & anche sola pigliandola per la mane caminauano insieme e la inuito allo allogiamente seco quando serebollo a Pisa, e cofi parupi che quella gratiofamemreaccecai se l’invito. Eco si pur oltca caminando insieme e anchor piacevolmente ragionando, canto colui se in siammo di amore di lei, che senza ver un freno della giusta ragione, ec iecamente chiedendola de piaceri dishonnestie quella consentendo linediuiénea quello che tanto pazzescamence bramata. Ma' uditi cosa meravegliosa, come hebbe havuto li suo i s c e l e r a t i d i s u r e  i s c o s t i da ogni ragione di huomo, ecco che incotenenti quasi tramortie diurene tanto manco di animockegiacque nel campo dovi la vea comesso il fozzo peccato dalejhore come mezzo morso.Vero eche foura giungendo e suoi compagni chi ne venevano dopo lui d a longhi e ritrovandolo in coral modo giacere fanza forze corporali, il portarono alla citta e fusei meti infermo, e gli cascarono tutti gli pelli dalla persona e narrava come per tal modo vi fussero brugiate le calze nella soperficie disoura comme selfulfiftatoil fuogo vero l’havesse brugiare. Dipoi diceva comesericor dava che quella femina, ma piu presto quel diavolo in forma di femina l’havea molto pregato cheldevesse getare a terra una haftateneuaiimane douiuieranel Ja cima un ferro in forma di croce, cioe un pedo, li corne noi diciano promettendoli di darli una molto piu bella lanza segliubidiua. APISTIO. Molto mi ritrouo fatisfactoquae toallipiacericarnaliprocuratidalli Demonii dalprincipio dellaniquita. FRONIMO. Hor voglio chetuintèdicome ha ilDemonioquestausanzaperdouerpigliareThuomini, di ufare ogni frodo nel conuerfare collhuomirificome iften desseuna reteperinuilupparli.Ilperchenon solamente usa queftonelli piaceri carnalim a anchor intutte le altre fami: liaritade. Etacciotupoffi conoscerechelfia vervooghioh o racomenzare dalle bataglie di Troia. Che penfitu uuolefle SIGNIFICARE quell Dragone di altezza di fette gomiti canto dia mestico chibeueuacóAiaceLocrese& andaualiauantinel liuiaggi demoftrådoltlauiarecoliftaua tantodimefticame teconlui, ficomefuffiftatouncagnuolo. Che cosauogliono dimostrare le penne diDedalo:e lealidelPegafloretuttel. laltcicose,annouerate frallimoftri delle fauole Et anche quelli tapti prodigii emiracoli delli Philosophi C h e crediçu uuoleffe direquellotantoaceleratouiaggio che fece Pythagora andando e ritornando per u n aviam o l t o longa d a (t a. Jiaperinsino nella Isola de Sicilia in cosi puoco tempo.Cor m e pensi tu puotesse caminare tanto spario di paese cosiuelo cementeri come uno uccello Empedocle inchemodoisti mitucheandaffecon tanta uelocitalicomelaborea Abaro fouradiunafaetadi Appolline a vificare Pythagora. Di che luogo creditu uscisse quella voce, che refiro Socrate, ma non losforzor Ghi vuol dire quel genio e familiare spirito di Plotitro: Che significaquella Occa che habitava tanto dimesticamente con Jacy de philosophore fic ome fono puochie philosophi in comparatione dellaltci huomeni,cosianchor questoperuerfonemico dell’huomo tirauamolto piu delli mortali nella uoragine precipitosa della sporcha libidine che litentaffidi vanagloria. Enonfolamentelitencauaisteriormente e visibilmente, ma anchor f o u e n t e interiormente e invisibilmente. E se tu pensarai che puoco importa siano tentati l’huomin idal demonio dilasciuiaedi. Carnali piaceri o interriormenteo veco isteriormente, te lasaperadire que itadifferentia Santo Geronimo Il quale chiaramente scrisse ledicedi quelli fantiheremite,doujraccontale grandi ten tationipatirononeldesertodalliDemonii,ecoteftofeceper ammonitione di quelli doueano uenire,Atchor 11on m a n coeglifcriffequellegranditentationichelfuftene,dicendo qualmente inuna carne quasi morta solamente bugliua. noliincendii& asperifuoghi della fozza libidine. APISTIO. Dung feaffatico anchor Venere, cio e il demonio di u u o l e r combatare con Santo Geronim o colli dardi del a puzzolente libidine? FRONIMO.E bensefforzo difaretutto quello puote & anche non fece manco cru delleguerra con ilglorioso Pontifice.SantoMartino,sotto questo n o m e di Venere ficome racconta Severo doveder scriue li laciuoli e itele retida quello nemico in effigia di Venere. Ma chelfedimoftrafiea santo Geronimo vi fibilmenteoueroiltentaffe interiormente, non Ihaveto chiaro.Vero echecredotuhabbilettonelliantiquissimiau thoridelliGentili,come hauea consuetudine Venere dim o were lhuomini interiormente & ancoisteriorméte.Ma eglie ben ueroche quando serapresentaalliocchicorporali,efaci lecoladadouer conoscerem a quandosolamentesedimo A t r a nella imaginatione, & e c c i t c a e m u o u e li sentimenti i n t e riorinonsonocosi facilmenteconosciutidaogniunolisecre *titradimentietaftureinsidiediquella.Ilpercheeglie detto pellihinnidiOrpheo Venereuifibileet inuisibile. Et anchora e detto che li amori u s c i f f e n o d i quella f e c i s c o n o l a n i m e colle intellettualisaete. Imperhodice Orpheo in quell altro himo greco coli in volgate noftrohorada me trasferito, aparente e non aparenteo vero paiono e non paiono. E pur ancheinun altrohinnocosiscriueingreco quello che hora diro volgarmente uuolendo dimostrare che sianopercorso lanime colliintellecualidardi,queste fedissenolanime colle intellettualisaete. Anchor feuedonoquelliuersi di Procolo Platoniconellhinnofatto alla licia Venere in Greco uiauia da me co f i i n volgare tra dotti acci o si manifestano le intellettuali nozze. Hauendo INDICIO delle intellettuali nozze edel liincelletcualihymenei, cio e delli intellettuali Dei delle nozze. APISTIO. Dice Apulegio che qlo spirito ilquale couet s a u a t a t o d i m e s t i c a mente con SOCRATE era dio e no il demonio. FRONIMO. Ma pel contrario scrive il Plutarco & a n Co Massimo Tirio chiamadolo il demonio. Decujunodieffi ne hascrittoun libro,elalcrodui. Perqualcagionefedicech unaltro demonio pigliafféilpatrocinioegouernodiplatone o di Zenone ouer di Diogene Perche fu un altro demonio inolto domestico di Plotino s9i veriraui dico che questo fa ceuanope ringanarli. Sono tutte menzogne quellechedie cono alcuni comesonouarielenature del Demonio, cioe che alcuni dieslisedeletranodigouernare le Cittade, ele co sedomeftice, efamiliarieraltriuolentierifeoccupanonelle coferufticaneedella uilla,etalquantiallegramente se in tromettono nellopre della terra,et anchora fono reputati molti che habbino cur adelle cose marinesche. Sono tutte  coteste cose   & aliri ale loeffercitarsi nellarmi della battaglia. Ilperche fauolescame tenarrauano, cheinspirasseperlifomnijlamedicina Esculapio e Podalicio, e che fussero T o u r a f t a n e i a l l e p r o c e l l o s e o n d e etépeste delmare li Dioscuri, cioe Castore e Poluce figliuoli di Gioue, et anchor dicevano che essercitasseno le opere della guerra dopo la morte Rheslo & Achille, & in antichi tempi di Troia, Theseo. ueroecheraccotauanochequelliprimi nascostamenteeffcrcitauanolarme,m a questoultimoaper tamente enellampio campo. Racconialianchor perfama checombatreffenellicampiepianuradi Marathono laeffi giadi Theseoper li Atheniefi contradelli Medi, equeftoan che scriffe il Plurarcho. Deh vedi una gran pazzia. Credeuano foftoro che li demonii fuffero lanime separatedallicorpill., gerche diceuano che Asculapio medicaua, Minone e Rhal damáto giudicaua,Scacciaua le gragnuole etépefteli Dioscurio sia Castore e Polluce, Diuinaua Amphilocho, Mopro, Orpheo, eT rophonio,elebattaglie eguerre trattaua Rhei fo, Achille,e Theseo.Ditutte coteste cose era authore ilD e r monio,Ecacciolifuffero preftatelorecchie edato fede,ecoli maggiormentefusserotiratilhuominieglifaceffinolifagri ficiilicomeallanime delli Baroni signori & eccellenti huomini con una cerca vana speranza f, ing e vano tutte queste cose. Dalle quali superstiitioni e inganni, non furono contrarii Platone et Aristotele, e maggiormente scrivendo li libri delie publice leggie disputando delle institutioni & artici uiliecittadinesche. Anchor e cosa publica,comene noftri giorni son ftato tenuti e portati delli demonii nelle guasta, deo sianoualidiuctro enelle annelli,& inaltrecose, & anie chorcomequellineinici dell’huomini hanno dato resposte perilgérre,perlacosta,&altrimembri dellimortali ficomie dalspiritodi PythiaodiApolline,acciopoffemofacilmente coteste cose elalorisimilisonniidellisciocchiepazziGecilie pagani,propriamente semilia quelli narrati daalchunifa uolescaméte,qualmente alquanti diquellifeeffeccicauano nella medicina,& alirihaueano cura e gouerno delli naui. Gheuolilegnie delli gouernator idieffi, & chealquantierat no sourastantialdiuinare,enon puochialleleggi,   cono s c e r e come il f c e l e r a c o nemco de Dio e dell'humana generatione ha pensato in diuersi tempi diverse vie e modi de ingannare Ibuomofouo specie di familiarita. APISTIO. In uerita cosiancheioistimo, DICASTO. Nó dubitarem a siapurdibuona uoglia,cóciosiacheapuocoapuoco ne ue. rainella nostra ferma oppenione e vera sententia. APISTIO. Ma nongiain questomodo.Maegliebenuerochemilasto coducere dalleragionie dalliteftimonii.  DICASTO. Vieni qui Strega, esappiacome fei coffretracon quelmedeno giurainento cheeriauanniesappia qualmente in brieuisem raipunicaconilnostrofuogo,edipoiincontinenciconquell altro che mani o n mancara: fe tu mentirai in pun to d i q u e k locheteinterrogarodeluoftromaladecco giuoco, I doso,enon houerun dubbioin questa cola. DICASTO. Dimmi. Magirali e beueti cola al giuoco uostro scele ratorVero echequantoallipiacericarnaliaffaisiamofacil fatto.E cosipiu non bisogna diaddimandartine. Simangiauadainquelmedemomodo ebeueua comeera cófueto dimīgiareincasaconilmiomarito,econlimieifir gluoli. FRONIMO. HieritipropofiApistio iefsempio quel lamensadelsole cotanto noininarae iamentara da Heroi doro,edaSolino,& anchordaPomponioMela.Ilperchetu debbe (appere qualmenteil Demonioastuto ne cira affai dellipoueri e delcozza uolgo collipiaceri della gola olico dellasperanza lo chiariffeneanchor dicecheufcisfenoledittecarnifuo kidellaterrane che saliscenosouradicffamesa béchelodi caHerodoco.VeroechePomponioMelae, GaioSotivo dicono cheeranodiuinaméteportatedittecarni.Machies coluidi cosicozzoingegno chinon adaerciscacome fussero quelleuiuandeecibilusingheuoliingamida ingannareil gufto dellaignoranteturba,Et anche chi'e-coluidicofipuo R e promissionidelledelettationicarnali.Che cosa pođemo istimare uyolessunosignificare quelle carni poste souradellapridettamensadel Solerde cuilefameir tione fanto Geronimo fcriuendo a Paulino,ficomedi una cosamolto uolgata,emolto marauegliofarMachicofa fuffe nó co discorso   co discorso, il quale veda Solino contrario ad Herodoto, et il Mela contrario di Solino chenon coilofcacomeuariament tee dimostrata quefta fuperftitioner cóciofiache quello fcri ua qualmente eranoiuiportelecarni nelpratoappo della citadalmagiftratonellaoscura notte,chesemangiauano nelgiorno,echedipoieradetto daquellidel paesfeu,ffero uscitefuoridellaterrasEgliebenuerochediceSolinocome e quellaméfainunluogodellombre,etiersempreapparec chiata abondantemente di lauri,dolei, etaggradeuoli cibi, et uiuande,dellequaline puomágiareciascunchevuole et atuetasuauoglia,ebenchenefianomágiatein grancopia da quellicheneuuoleno,non dimeno imperho non mai mancano, ma sempre iuicresconodiuinamente. Ma Pomponio non dicepurunamejionaparoladoue fifa questa mensa,o apreffodellaCittaouernoellaoscuracarcereeca cetto che dice com e divinamente iui nascono li cibi.  E ben o che cotetti Scrittorinon convienono insiemein ogni cosa, purimperho eglie fermamentedacuttiquellicenuto feno za contrarierac,omeèunamarauegliosacofa,&anzidiuis nalantidetto conuito del sole. Ilchere-molto conueneuol le conquesto di Diana, sorella di Phebo o del Sole sicome egli dicevano. Anchora istimono essere puoco a noftro proposito quello che racconta PomponioMelanelladescricio, niedel Mondo cioeche seritrovaunluogodoni continua mente tilpiandono grandi fuoghinellaoscuranotteetpaio noefferiuiquafieffercitidi soldati chi occupano ampiopa ose eriuifiano fermati suonandocimbalitamburini,fiauti, e trombeche paionomoltomaggioredequelli cheusano Thuomini. Dimoftrauano anchora una fimilitudine diC o n uito lincantamentiemagicheopere deOliffe,sendofpar foilsangueintornointorno. Nelqualeluogo ui ueneuono li demonii, e t f i demostravano in diverse et varie figure. In qual modo diceva il Vinitore, che conuerfaffi l’anima di Olisse cauata da Homero collombre &imaginidi Pro tefilaoedellialcriBaronificomedicePhiloftrato.Ma hora lescelerateemaladetteStreghee Stregonidenoftritempi,  TI ro fir Tiel TOY MU feron ii be KTOV DIO  I cavano il sangue dalli fanciullini, epermaggiorpartelocon servano nelliuafiperfarequelmaladettounguento, E bep che paiono coteftecoseaffaisofficienci, per hauernarrato il detto convito, non dimeno imperhouoglioanchorloggiun gere la mensa di Achille. APISTIO. Che cosa s e c a m o g u e. fta fiammo pucadudire. FRONIMO. Non ti marabigliare E t anchorari pricgonon uoglisprezzare quello,che uoglio nafcare conciosiachenon fingouerunacosa Ipera che senonmivuoicredereaddimadalotua Maflimo Tirio, Il che fe f u f a r a i, te l o raccontara, ma anzi te lo dimostrara colle suecatre scritctei o e iinarrara dimia certecosaiferittapermo lu i secoli, ci o e avant i d i mill e s a n n i c o m e a c f u o i tempi fiz manifefta la Mensa di Achille che eramolto simile a quella delle ftreghedouidicono chehocauiseggiono mangiano'e beueno APISTIO. Il mio Fronimo io creda alle tue parole. FRONIMO. Puc quando anchornonmiuuolesti credere, ioti moftrarebbi il libro dell’antidetro authoree Greco e anche latino cbieapreffodim e. Nelquale anchorvie foritto di unacerta isoladelmare Euffindouie il Tempio di Achille Nella quale Cove n t e e f t a t o u c d u t o d a l u i, esso Achil e ch e ha fatto conuiro a quellihuomini iuiandauano & che ha cono sciutoP atroclo figluolo di Thete e altri demoni (& fico meeglidice) lichoridelliDemonii.cio elemoltitudinidief ft& anchobaneucduto di Dioscurichedannoagiatorioal., lenani chepericolquotio,accioiolascidiramentarequello cheeffofcriffc.comeera confuetudine diefferueduto nello Ili o le forze di Hertore. Ma co r e f t e c o s e n o n p e r t e n g o n o a l conuito delleLemuri.APIST.Nó pareno queftecolemol. todiscosto dalconuito diNereo edelloceano,delliqualine fannomemoria diuerst-poeti.FRONIMO.Réfo I lmaligno Saftuto nemicodellhuomocoreftivelenatiConuiti,accio priuaffeIbuomodelloeccellentifmocouitodiChristo che: ha apparecchiato f o u r a d e l l a mensa s u na e l suo R e a m o. M a h o r a, u r voglio raccontare, non un convito finto e scrito dalli poeti ma w a maraveglosa cosa gia puochi anni passati ha mi narrata da un grande huomo ornato cosi di eccellentedi gnitacome didouitiae di ricchezze. Fuunbuonfacerdote nelle    nelle Alpi Rhetie cioe di Germania gia dodicianni fa ilqua le dovendo portareilfagrosantouiarico del corpo di Messer Giesu Christo adunogravementeinfernio: &efTendolimola to discosto, eaedendo dinon poterlo cosiprefto portare ca minando apiedi,sicomeerailbisogno,falisuilcauallo e le goflralcolloinona affaihonoreuolecaffetta dilegnos fan, tiffimosagramento, e comenzoaffaiinfreta di caminareper f a c i s f a r e a l d e b i t o f u o. H o r s e n d o a l quanto caminato f e g l i f e r ceincontrauno che loinuitoascienderegiu del cauallo, et andare cô luiper uedere uno marauegliofo fpetracolo.Ilche imprudentemente eglifacendo per uedere cotefta curiosa cofacome fufcielo, ecco incontenentisentidiesserportato perariainfiemeconcoliche Thauea inuitato, & in puoco spacio d itempo feue diporre foura la cima diun akiflimo monte dovie rauna molto ampia & ameneuole pianura, in/ c o r n i a r a da altissimi alberi e con pavente voli ruppi se trata. Nel mezzo de coi ui fiue devano diversi e varii balli, & an c h o t u t e le maniere de g i u o c h i c o l l e n i e n s e apparecchiate dilautirdiuecficibi, & ancheseudiwanotutre le generationi de fuoni e di deletteuoli canticono gni dolcezzaetrastullo cbrieuemenite semteuasi & udeuafitutte quellecose, lequali suolenorallegrarelianime dellhuomiui.Dilchenjoliomara uegliandosiilbuonefemplicefacerdotee purnonhauendo ardimento diparlareperlagrannjaraueghia,& sendomez zo fuoridi feifteffo glifuchiedutodal copagno, che lhauea condotto quiuifeuvoleuaadorareefarerinerentiaallaM a donna cheera jui, & ufferitliqualcheduono,fecondo che fa ceuanolaltriEraasederenelmezzo unabellissimaReinari c a m e n t e u e f t i t a f, o u r a d i u n a r e a l e f e g g e, a c u i l e p r e f e n t a u a ciascunaduoiaduoioaquattroaquattro conuarioordine areuerirla & ad adorarla presentandolidiuerfi duoni. Horudendo costuitainentare la Madonna e uedendola ornata ditantofpiandoriedatantisergentiferuita istimochelafus filagloriofamadrediDio eReinadelcieloedellaterra,cô ciofiachenon sapeva checotestecosefufferoinaencioniere trouidelli Demroni ilpercheselohaveffeiftimato,novaise rebbeandato.Horafrafeben pensandochecofaglidouelle  presentareperifdoi non puoterleoffericepiuaggradeuole presenteallamadre che ilcorpo fagratiffimodelluounige n i c o figliuolo, e c o l i a n d o d o u e f e d e u a q u e l l a e t a d o r o l lia n ginocchiadoli alli piedi; edipoileuádolidalcollolacafferra doueerail-fagrauiffimocorpodi Misser Giesu Christo, divotamente u i l pa o f e n e l g r e m i o. O di cosa meravigliora, ecco che incontinenti, come la hebbe poftasoura del gremio di quellaReina,coliprestofparuilafeggedi oro elaReina erauifu con tuttaquella moletudine,etcon ognicosa che pareuaiui,epiunonfuuedutopurun puoco diueftigiodi quellinedelļicóukinedeli giuochi, neapparui quelloche fuffe fatrodelcompagnio. Hor conoscendo ilfemplizzotro p r e t e come full e stata quest caos a opera del demonio tutto smarrito e mezz o fuoridife fteffo comentio di pregare Ido dio che non lo abbandonasse in quellifilueftri luoghipriui diognihabitationedemortali.Ecosigirádohorindiequin dilocchi,eandadomo qui,noliperquelliaspriluoghiper uedere sepuoteuaritrouare qualcheueftigiodihuomini ac cioplotesse intenderedove fuffe, eritrouandofi sempre in maggioriruineeboschie feluealfinpurranto caminoper quelle precipitose ruppi, che dopo molto longa fatica, edoi po longospatioditempo con grauiaffanniritrouo unpaz Atoredacuiintese,comeeradiscostoda quelluogodoue andaua a portare ilcorpo di Christo da circa cento miglia, Poi che fu ritornia:o con gran strache zza alla fuahabitatio ne andodalMagistratodiMassimiliano Imperarore,erae coiolíiltuttoper ordineficome horaio honartaro. Ma che coteste cosepoffoirefferfattedal Demonio telo dirano Hi Theologgiliqualimostrano comelanatura dellicorpieub bediente alla uolonta delle foftantie separate dalla materia quanroimpechó pertene almouere daluogo aluogo.A n chora puotraiintêdereallaiessempiidellicorpihamanipot tatiperaria da luogoaluogo,seryutoraidallilibridiFras teArrigo,etdi FrateGiacopo Thodeschi eccellenti Theo Soggi dellordine'de Frati Predicatori chiamati il maltello, loquale fecero,confirmandolocon affaiteftimoniodimoke cole che effi uideno colliproprii occhi.Loquale maltello puotrai hauere,fetulouuoraiusarecontrodiquellicheso noduri,enon uogliono credereiluero acciochetu lipieghi à douer crederequellochesono abbrigaci ouero lilpacchi in cento migliara de pezzi. APISTIO. Cenamentehoudij tounamarauigliosa cosa, laqualenon puooffuscare la sera nottene anchose puo direche fusseun fomnio nechesalu ta cófeffataper paura,ouero permatrocio,operqualche al trafintacagione.Ma uorebbiintenderedachepuotepros cedere che sparislinotutte quelle cosenel toccare diquella hoftia fagraca, concioliache li demonii, non solamentete m a n o il toccare d i quella ma ancho cercano. e c o m a n da no che siano portate assai di quelle al giuocoe di poi le fa m o gettare in terracon grādi scherni e lifanno dare foucadelli piedi elifan faretuttequelle uergogne siposson fare,fico m e disouraha parrato la Strega. DICASTO. Tunáti deb biper questomarauigliare conciofiachefapiamo come se (pauentanoeDemonii perilsegnodella santissima Croce,e nondimeno anchora qualche uolta apparisconoinfiguradi Chrifto crocifisso accio piu facilmére posson ingånare lhuol. mini.Inueritatidicochetunon timacauegliarestisetu ha. Yefli Jettoleopereelauicadi santo Martino e di. S. Francesco di molti altri santi eseancho. tuhauefliben effaininato come Messer Giesu Christo sendo anchor in questa mortale CarneilqualescariaualiDemonii silasciotétatead esso De monio eglipmeffecheloportafferouradelpinnacolodel Tempio,edeindipoi'sourdaelmonte,& anchepermesle maggiorcosa,cioeche fuffemalerattato da quelliperfidi Giudeiferui del demonio e tormentato, et ultima menrecrocifico. Olcrodecio tupresupponichelaStreghenarrano cheliDemoniiconculcano,ediano dellipiedisoucadelle hostie consegrare, ma non e c o l i, con c i o l i a che non fanno corefto li Demonii m a/elbenverochelofa questo lamay legnita dell’huomini asuggestione dieffiDemonii.Anchos racredochecosicomefalafedeinsiemecon lariuerentia che fanno l’huomi in essa santissima Croce,enella fagrolan (a hostia consagrata che il maladecto demonio se ne fugge: cos ianchor uifaccifaretantiuituperiieffoperlagranmalistia de essi, eper ilricuperio lifanno. Ma quanto al semplice u coprere. Credo chefuflila semplicita diquello cagioneche sparefsinotutti quelli apparecchiamenti, etuttequellalerico fé,emaggiormiére la forzadellafedefecechenon solamente non f u ingannato in suo danno, ma anchor fece c h e f u p e r e serunoacciopuotes le narrare allialorie dechiarare come quella cofa dequihocą parlamehepareua effermoltodu biofa, cioelele streghe e STREGONI vano al giuoco con il cor poouero solamente con la fantasia & imaginatione ouero se vi possono andare punefleruera, & e verae non una imaginatione. Auchar permette alcuna uolta la possanza de id dio,chesiaschernitoilsagramento elaCroce,ellaltricose diuine, &alcunavoltano:segondochealuipare.E perchela fa,sepuosempredarequalcheragioneingenerale,mianon re puo imperhosempre isplicarein particolare, conciolia chi e tanto rozzo e grosso l’occhiodell intelletto poftro, a dovere INVESTIGARE li secreti della divina magiesta. APISTIO. Hormai son satisfattocon queste ragioni, ecitrouomi conten to rendouscitodellenere& ofcurecauernedelledubitatio pi.FRONIMO.Ben uedisetuhaialtrodubbio,efupresto chiedelachiarezzaa Dicasto, perchegia glimolto poffenti euelocicaualliquasi hannotiratoilcarrodelsoleappo del suo SEGNO, quabto al nostro hemispherio, accio non bisognali poi remanere quicoteftanotte, sendo ferate le porte del castello. Il percheftareffimomolto maleagevoli,questanotte delfinuerno,in cotesto Monastero a pena comenzato doui non stritrouaanchor uerun letto. APISTIO. Hamnipare. che non cifiaaltroda chiedere eccetto che delliueneficii o fano incanti. DICASTO. Di che cosa dubith. APISTIO. Se fouofatti veramenteo purchepaionoesserfacti solamente con la imaginatione. Conciona che affai ha manifeftato la forza delladiuinaGiusticiasempregiustaenon sempre co: nosciuta perche Iddio alcuna volta permetta, fepursefallo, & alcuna volta il prohibisca. FRONIMO. Non te ricordi di: Lucio Samofateno, e di Lucio Madautefo. APISTIO. Si ben. Et ancho mi ricordo di hauere alcunauoltaletto dette  5 cose, & anchegiaduoigiornifaleho uditoramentarea te. Ma egli e ben vero che dubito affainon fianofauolee che in ueritanó fufferofattecofiquellecoseche se narrano in quel asino greco et anche latino. FRONIMO. Coli come iono dubito che siano assai cose finte emoltopiudiquellochelo Etanchor sepurcoliuuoi che sianotutte quellecose che for n o ne detti libri fauole et imaginationi, cosi anche credo che dett e favole e f i t c i of n i i a n o c a nate da qual che vero fondamento.Conciosia che il nostro Divo Aurelio Agostino iftir mo chequelle trasformacioni e tramutationiiscritteda Varrone cio edelliaugelli di Diomede, delle bestie di Circee delli lupi di Archadia pigliaffono origine e principio da qual, che cofa uera. Et anchor raccontanel decimo otcauo libro della Citta di Dio, comeerausanzanetepi' suoi difaremol te coseaffaifimilia quellechenarraouerofingea pulegio. Veroe che dice, come gli demonii non possono fare ver una cora con la forza della sua natura se non la permette Iddio. Lioccolti giudici di cui, fono infinitie non uisiritrouaimpe tho verun dieffiingiufto. IIperchesepare che li demoni fa ciono qualche cosa similea quelleche ha creatolomnipo. tente euero Iddio, eche pare chemutano una speciedi uno animaleinunaltra:ouerotramutanouna creatura in unal tan,on euerochecofi, fia,maebenuerochecosifaappare teouero imprimendo dettefpecieefigurefintenellimagi, natione e fantasia, overo mettendo avanti li occh i corporali un altraf inta specie e figura. E cosi  io ile di 5 lui che ha conturbata la fantasia, diesser una cosa in luogo di analera & il simile parera allaltci. non dimeno fera imperho quel medemo, overo gli prepora una similitudine auktiloco chi la quale di continuoglifaraparereefferecofi, ecosicre. deca dieffer veduto anchedall altri.E coteftanon egramel raueglia,percheseun corpo puo ingannarelifeptimeci corporali e farli parere una cosa altrimento di quello che e-fico m e vediamo che failuietro, il quale imprime quell suocolore nellocchio percotalmodoche fa parere tuttelaltrecosefimi leaTenelcolore, benche fianoaltrimentoinsecolorate,quá t o maggior mete i spiriti ignudi da ogni corpo, cio e li demo qualche uolta pareraacoi  nit Quotrano conturbare la fantasia er ingannare l’occhi elal trisentimenti delle creature inferioris E coliin cotéfto modo iftimaraifuffero quelle operediquei Almi, e di quella specie di quello prestance cauallo, chiporcaua li gradi pesi ladispu tatione del philosopho, chdiifpucaua senza corpo le cose di Platone le astute opere delli lupi di Arcadia, e liuerfi di Circe che trafformaronoli compagni di Oliffe. Ecosituttecol tefte cosefedebbono attribuire al spirito imaginario, ouero alla fantasia. che cosi era ingannata a cui pareua essere quel la cosa che non era. Il simile anchor diremo della cerva in uecede Iphigenia, e li augelli i uece delli compagni di Olisse, cioe chefufferoposte simili imaginie figure dalli demonii auktilocchidellhuomini,opur ancheforliuifuffipoftauna uera cerua,etancheueriaugellinóuiapparëdoIphigenia nelicompagnidiOliffe,o sendoiuipresente,oueroportati in aloriluoghi. DICASTO. O quanto ben, e quanto brieueme tehaicuraccontatoquellecosdei santoAgoftino,enóman co uere ficomeio iftimo.Eglie ferma cóclufione tenuta dal li theologgiqualmente sono soggietti naturalmente i sentimenti dell’huomini e la imaginatione e fantasia alla poffanza delli demonii, perche sono essi sentimenti e imaginatione inferiorie manconobili di dettefoftārie separate eprine di ogni corpo eco si sendo piunobili,glisonosoggietrequei Accosemen nobili,Iipercheanchor uoglionarrare alcune verissime coseacoteft opposito per confermare quello che havemo detto Eglietaccotatonelleuitedesati Padri come fuacconciataunagiouenenper incanti incoralinodo ch epare g a u n a sfrenar a cavalla. I perche sendo presentata avanti di santo Machario, perle orationi dieffu fuleuato d avanti l’occhi diciascun quel prestigio, equellaillusione del demonio, eco si pareva in quel modo sicome era in verita. Puote il demonio commovere li interiori sentimenti a molti, alliqua lipareuafufli altrimentequellameschinagiouine di quello che eram a non puote mouere imperhoeffisentimentiinte tioridisanto Machario fortificati principalmene con loadiu torio di Iddio aface parere quello che non era Anchor non aftregnega la finta figura di quel huomo, che paceua uno asino nella Citta di Salamina della Isola di Cipro,liocchi diciascuncheloucdeuadaiftimarecbelfuffeun Alino.eca cetto di quella donna m a g a el incadratrice laquale glih a. uea per talmodo conturbato la fantasia colli suoi maleficii, che anchealuipareyadi esser douentato uno asino, ecosi portaua le legna in vece di giumento.Vero erchefaugiutato per prudentia dialcuni niercatanti Genoueh, liquali ue: la Chiesa perfareriuerétiaetadorare Iddio iftimaronoche quello non fufleuna vera bestia, eco si cercarono di agiutar. e difareportarelamerite uole pena alla incantatrice. In verita ui dico che possono fare li m alegni demonii appare temoltecose altrimente di quello che fono,epossonom o ueremoltecoseerappresentarlenella fantasia,efareparece u n a cosa in altro m o d o di quello chi-e-et anchora fare i li mile nelli corporali senrimenti in un medelimo huomo. Oltro dicio occorre che fono ingannati liocchi di quelli che vedono, et ancho e conturbato l’occhio della mente, fendomoffa la imaginatione. Anchorsıcome,giaauantidi ceffimo,puo esserportatoilcorpo per diuerfiluoghi.Ilger cheinteruiene che quelliliqualinon ben e sollicitamente ellaminanoquestecosea parteaperparte facilmente sono ingannati ecosi non ben chiaramentec onsiderando lilibri delli doreielitterati huomininon possondcitta mente giudicare quanta differentia e fralle cose create, equelle che uscis seno da qualche natura delle creature efra quello chi e intiero, e quello chilerparte,efra iluero,e quello che erfimile aluero,equellochedimostra lasuaimagine,equello che dimoftraquelladaltrui.Enon ben pesanocon la giustabio y lanza la forza di tutta la natura nelaportanza delli demonii Er alfineanchonon confiderano ligiudiciide Iddio,liquali speffe uolte sono occultissimi anoi,ma impho sempresono fatlicolomma giustitia. FRON. Hormaise appropinquala fera egia comencia di apparere la oscura noite il oche l’hora tarda ciinuita di ritornare a casa. Siche Apistio se non seifatis Gattopģīta nostra longa disputatione n ó poflo piu ueder che. Chi inginocchiare e prostrare in terra aukti la porta del coradobbian fareacciopollieffercôtéto.Cöcioliachetuhal poffutoconoscere come queftomaladetto eriscommunica to giuoconon efictionene fauola. coliperli libri dell’antichi, con e per l’opere fatte ne tempi nostri, e come egli e in sostantia antichissimo e nuouo per molte conditionier che e Atato mutaro secondo la maligna e perversa volonta delli demonii, eforsianchorlomutara, percheetantalaasturiaelucili tadieffoiniquo inganrratoredell’huomini che continuamen e cerca nuovi modi daposferingannarenoi. Ho dimoftrato a te li Cerchi li unguenti, le parole magiche et incanti liu i a g o giperligrandifpatidellariali lascivie libidinosi piaceri del li demonii che sisonoritrouaricosi' ne tempi nostri, comene tempi delli Baroni antichi. E tho dimostrato qualmente pen Saronolipecaerfi demoni di douer calonniaree uituperare l’humana generationedallaprimaantiquitacioedalprimo huomo perinfinoadhora.E comehaingannato Ihuomo collesueresposte,colliragionamenti con lafamiliarita edi mestichezza,ecome ha cercatoperogniuiaemodo di ingå nare ognifeffo,etognieracollifimulacri euarie imagini,et che seesforzatodiufurpareladiuinita,e farsiadorarecome Dio,etche ha fatto nuoceuoliconuitiallimortali,etcheliba portatoasimilitudinediun giumento chehabbialeali, eco me hadesideratodihauer lisceleratiffimipiacericarnalicolo lihuomini.M a perche iotiueggiohoramolto Atracco per tantouiaggiochehaifactocon lanimotuoin diuerseregio nie paesi della [calia della Sicilia,etiolcrodel Ionio mare e dello Eulino e tan cho r perche te ho codoico colli mei ragionamenti nell’Africa nell'Asia, e perinsino alli Hiperborei Mode dovi non ci ho condotto. Il perch es e ra h o ma i tempo ne debbicitornaremeco acasa. APISTIO. Tudiiluero, liben hormaiehora.E cositecone uengo,emolto satisfaco. DICASTO. Se i tudung content di quello chehauemodetto: Ec in uericaneuieninellanoftra oppenione. APISTIO. Si certamente son contento, et inueritauidico, che credo quello che e statodetto. DICASTO. Dicupurdado vero o pergivoco. APISTIO. Puo effer quefto Dicasto, che tu iltimiche io dica quello per iscrizo e giuoco che ha creduto tutta l’antiquita e tutta anchor la pofterit ad Io dico quello che ancho confermano colli isperimenti & efsempii, li Poesi, Oratori, Hiftocici leggitti, philosophi,theologgi, Ihuominipruden tili soldati lirufticie contadini, beniche le ritrouano alcuni Sauioli, liqualiripucandosi piu dotiefauiiditurcilaltri,che queftoniegano, DICASTO. Dung ficome io uedo tu hai mutato oppenione. APISTIO. Che bisogna piu affirmarlo, Gia te l’ho detto, Eco sipercheioho uefitolanimomiodi un altrohabitocuesta, epareame dihauerritrouatola verita di quello cheprima non credeuo in questa cosa giacendo nella nera et oscura tenebradella igriorantia e della fallita, desiderograndemetediunutareilnome edipigliarneuna tro conueneuoleaquefto nuovo habito, de cui hora son vefito. DICASTO. Molto mi piace, Eco li per fatiffare alla tu  honesta voglia cidarounnome conuenientesicome addj mandi. Dug perlo auenire serai chiamato. PISTICO. APISTIO.O. quantohammi piace queftonome.Horacoliper ognimodouoglioefferchiamato. FRONIMO. Se piu non cirestacosa alcuna de cuitu habbi desiderio de intendere. egli e hora che ci partiamo con buon al i centia del Reverendo padre Inquisitore e che presto retorniamo al castello, Il perche Vale Reverende padre. DICASTO. Ite tan in pace. Leandro Alberti. Alberti. Keywords: diavolo, satana, mefistofele, angelo caduto, demonio, eudemonico. Refs. Luigi Speranza, “Grice ed Alberti” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria.

 

Grice ed Alberti – della thoscana senz’autore -- filosofia ligure – filosofia italiana – Luigi Speranza (Genova). Filosofo. Grice: “I like [Leon Battista] Alberti; of course he is from Genova – Liguaria being the heart of my Italy, or the Italy of my heart!” – Grice: “I like Alberti’s ramblings on love to his lawyer friend – a full page without a p.s. – and it’s none of the Kantian conversational maxims or Ovidian tactics, but just a prohibition to mingle with the ladies!” --  Italian philosopher, on ‘aesthetics.’ Cf. Grice on sensation. Grice: “No one can fail to be enchanted by Lusini’s great likeness of Alberti at the loggiato of the uffizi! Ah, if we had the same at Oxford!” -- Genova-born essential Italian philosopherGrice, “I love his “De statua”it’s more philosophical anthropology than aesthetics!” «Ci è un uomo che per la sua universalità parrebbe volesse abbracciarlo tutto, dico Leon Battista Alberti, pittore, architetto, poeta, erudito, filosofo e letterato»  (Francesco de Sanctis, Storia della letteratura italiana). Filosofo. Una delle figure artistiche più poliedriche del Rinascimento. Il suo primo nome si trova spesso, soprattutto in testi stranieri, come Leone.  Alberti fa parte della seconda generazione di umanisti (quella successiva a Vergerio, Bruni, Bracciolini, Francesco Barbaro), di cui fu una figura emblematica per il suo interesse nelle più varie discipline.  Un suo costante interesse era la ricerca delle regole, teoriche o pratiche, in grado di guidare il lavoro degli artisti. Nelle sue opere menzionò alcuni canoni, ad esempio: nel "De statua" espose le proporzioni del corpo umano, nel "De pictura" fornì la prima definizione della prospettiva scientifica e infine nel "De re aedificatoria" (opera cui lavorò fino alla morte, nel 1472), descrisse tutta la casistica relativa all'architettura moderna, sottolineando l'importanza del progetto e le diverse tipologie di edifici a seconda della loro funzione. Tale opera lo renderà immortale nei secoli e motivo di studio a livello internazionale da artisti come Eugène Viollet-le-Duc e John Ruskin. Come architetto, Alberti viene considerato, accanto a Brunelleschi, il fondatore dell'architettura rinascimentale.  L'aspetto innovativo delle sue proposte, soprattutto sia in ambito architettonico che umanistico, consisteva nella rielaborazione moderna dell'antico, cercato come modello da emulare e non semplicemente da replicare.  La classe sociale a cui Alberti faceva riferimento è comunque un'aristocrazia e alta "borghesia" illuminata. Egli lavorò per committenti quali i Gonzaga a Mantova e (per la tribuna della SS. Annunziata) a Firenze, i Malatesta a Rimini, i Rucellai a Firenze. Presunto autoritratto su placchetta, (Parigi, Cabinet des Medailles). Leon Battista nacque a Genova, figlio di Lorenzo Alberti, di una ricca famiglia di mercanti e banchieri fiorentini banditi dalla città toscana a partire dal 1388 per motivi politici, e da Bianca Fieschi, appartenente ad una delle più nobili casate genovesi.  I primi studi furono di tipo letterario, dapprima a Venezia e poi a Padova, alla scuola dell'umanista Gasparino Barzizza, dove apprese il latino e forse anche il greco. Si trasferì poi a Bologna dove studiò diritto, coltivando parallelamente il suo amore per molte altre discipline artistiche quali la musica, la pittura, la scultura, la matematica, la grammatica e la letteratura in generale. Si dedicò all'attività letteraria sin da giovane: a Bologna, infatti, già intorno ai vent'anni scrisse una commedia autobiografica in latino, la Philodoxeos fabula. Compose in latino il Momus, un originalissimo e avvincente romanzo mitologico, e le Intercoenales; in volgare, compose un'importante serie di dialoghi (De familia, Theogenius, Profugiorum ab ærumna libri, Cena familiaris, De iciarchia, dai titoli rigorosamente in latino) e alcuni scritti amatori, tra cui la Deiphira, ove raccoglie i precetti utili a fuggire da un amore mal iniziato.  Dopo la morte del padre, avvenuta nel 1421, l'Alberti trascorse alcuni anni di difficoltà, entrando in forte contrasto con i parenti che non volevano riconoscere i suoi diritti ereditari né favorire i suoi studi. In questi anni coltivò soprattutto gli studi scientifici, astronomici e matematici. Sembra si sia tuttavia concretamente laureato in diritto nel 1428 a Bologna, o forse a Ferrara, nonostante le difficoltà economiche e di salute. Tra Padova e Bologna intrecciò amicizie con molti importanti intellettuali, come Paolo Dal Pozzo Toscanelli, Tommaso Parentuccelli, futuro papa Nicolò V e probabilmente Niccolò Cusano.  Per gli anni 1428-1431 poco si sa, benché debba escludersi che si sia recato a Firenze dopo il ritiro del bandi contro gli Alberti, nel 1428, e sia del pari assai poco probabile che al seguito del cardinal Albergati abbia viaggiato in Francia e nel Nord Europa. Diventò segretario del patriarca di Grado e, trasferitosi a Roma con questi, nel 1432 fu nominato abbreviatore apostolico (il cui ruolo consisteva per l'appunto nel redigere i brevi apostolici). Così entrò nel prestigioso ambiente umanistico della curia di papa Eugenio IV, che lo nominò (1432) titolare della pieve di San Martino a Gangalandi a Lastra a Signa, nei pressi di Firenze, beneficio di cui godette fino alla morte.  Vivendo prevalentemente a Roma ma spostandosi per periodi anche lunghi e per varie incombenze a Ferrara, Bologna, Venezia, Firenze, Mantova, Rimini e Napoli.  Le prime opere letterarie Tra il 1433 e il 1434, scrisse in pochi mesi i primi tre libri de Familia, un dialogo in volgare completato con un quarto libro nel 1437. Il dialogo è ambientato a Padova, nel 1421; vi partecipano vari componenti della famiglia Alberti, personaggi realmente esistiti, scontrandosi su due visioni diverse: da un lato c'è la mentalità moderna e borghese e dall'altro la tradizione, aristocratica e legata al passato. L'analisi che il libro offre è una visione dei principali aspetti e istituzioni della vita sociale dell'epoca, quali il matrimonio, la famiglia, l'educazione, la gestione economica, l'amicizia e in genere i rapporti sociali: l'Alberti esprime qui un punto di vista "filosofico" pienamente umanistico, che ricorre in tutte le sue opere di carattere morale e che consiste nella convinzione che gli uomini siano responsabili della propria sorte e che la virtù sia insita nell'uomo e debba essere realizzata attraverso l'operosità, la volontà e la ragione.  A Firenze  Statua di Leon Battista Alberti, piazza degli Uffizi a Firenze. Alberti visse prevalentemente a Firenze e Ferrara, al seguito della curia papale che fra l'altro partecipò al Concilio, ossia alle sedute ferrarese e fiorentina del concilio ecumenico (1438-39) che dovevano riappacificare la chiesa latina e le chiese cristiano-orientali, in particolare quella greca.  In questo periodo l'Alberti assimila parte della cultura fiorentina, cercando (invero con moderato successo) d'inserirsi nell'ambiente intellettuale e artistico della città; sono verosimilmente gli anni in cui nascono i suoi interessi artistici, che si traducono da subito nella duplice redazione (latina e volgare) del De pictura (1435-36). Nel prologo della versione in volgare, dedica l'opera a Brunelleschi e menziona anche i grandi innovatori delle arti del tempo: Donatello, Masaccio (morto già nel 1428) e i Della Robbia.  Intorno al 1443, al seguito del pontefice Eugenio IV lasciò Firenze, ma con la città continuò ad avere intensi rapporti legati anche ai cantieri dei suoi progetti.  De pictura Magnifying glass icon mgx2.svg  Il De pictura e scritto verosimilmente dapprima in latino e tradotto poi in volgare; se la redazione latina, senza ombra di dubbio la più importante e ricca, sarà dedicata al Gonzaga marchese di Mantova, per quella volgare l'Alberti redasse una dedica al Brunelleschi che, trasmessa da un solo codice strettamente legato al laboratorio personale dell'Alberti, forse non fu mai inviata. Il De pictura rappresenta la prima trattazione di una disciplina artistica non intesa solo come tecnica manuale, ma anche come ricerca intellettuale e culturale, e sarebbe difficile immaginarla fuori dallo straordinario contesto fiorentino e scritta da un autore diverso dall'Alberti, grande intellettuale umanista e artista egli stesso, anche se la sua attività nel campo delle arti figurative—attestata (benché in modi non lusinghieri) già dal Vasari—dovette essere ridotta. Il trattato è organizzato in tre "libri". Il primo contiene la più antica trattazione della prospettiva. Nel secondo libro l'Alberti tratta di “circoscrizione, composizione, e ricezione dei lumi”, cioè dei tre principi che regolano l'arte pittorica:  la circumscriptio consiste nel tracciare il contorno dei corpi; la compositio è il disegno delle linee che uniscono i contorni dei corpi e perciò la disposizione narrativa della scena pittorica, la cui importanza è qui espressa per la prima volta con piena lucidità intellettuale; la receptio luminum tratta dei colori e della luce. Il terzo libro è relativo alla figura del pittore di cui si rivendica il ruolo di vero artista e non, semplicemente, di artigiano. Con questo trattato Alberti influenzerà non solo il Rinascimento ma tutto quanto si sarebbe detto sulla pittura sino ai nostri giorni.  La questione del volgare Pur scrivendo numerosi testi in latino, lingua alla quale riconosceva il valore culturale e le specifiche qualità espressive, l'Alberti fu un fervente sostenitore del volgare. La duplice redazione in latino e in volgare del De pictura manifesta il suo interesse per il dibattito allora in corso tra gli umanisti sulla possibilità di usare il volgare nella trattazione di ogni materia. In un dibattito avvenuto a Firenze tra gli umanisti della curia, Flavio Biondo aveva affermato la diretta discendenza del volgare dal latino e l'Alberti, ne dimostra genialmente la tesi componendo la prima grammatica del volgare, e ne riprende gli argomenti difendendo l'uso del volgare nella dedicatoria del libro III de Familia a Francesco d'Altobianco Alberti (1435-39 circa).  Da qui deriva la significativa esperienza del Certame coronario, una gara di poesia sul tema dell'amicizia, organizzata a Firenze nell'ottobre 1441 dall'Alberti con il più o meno tacito concorso di Piero de' Medici, una gara che doveva servire all'affermazione del volgare, soprattutto in poesia, e alla quale va associata la composizione dei sedici Esametri sull'amicizia da parte dell'AlbertiEsametri ora pubblicati fra le sue Rime, innovative tanto nello stile quanto nella metrica, che costituiscono uno dei primissimi tentativi di adattare i metri greco-latini alla poesia volgare (metrica «barbara»).  Nonostante ciò, l'Alberti continuò a scrivere naturalmente in latino, come fece per gli Apologi centum, una sorta di breviario della sua filosofia di vita. Chiusosi il concilio a Firenze, ritornò con la curia papale a Roma. continuando a ricoprire il ruolo di abbreviatore apostolico per ben 34 anni, fino al 1464, quando il collegio degli abbreviatori fu soppresso. Durante la permanenza a Roma ebbe modo di coltivare i propri interessi propriamente architettonici, che lo indussero a proseguire lo studio delle rovine della Roma classica, come dimostra la stessa Descriptio urbis Romae, risalente al 1450 circa, in cui l'Alberti tentò con successo, per la prima volta nella storia, una ricostruzione della topografia di Roma antica, mediante un sistema di coordinate polari e radiali che permettono di ricostruire il disegno da lui tracciato. I suoi interessi archeologici lo portarono anche a tentare il recupero delle navi romane affondate nel lago di Nemi.  Questi interessi per l'architettura che diventeranno prevalenti negli ultimi due decenni della sua vita, non impedirono una ricchissima produzione letteraria. Compone una delle sue opere più interessanti, il Momus, un romanzo satirico in lingua latina, che tratta in maniera abbastanza amara e disincantata della società umana e degli stessi esseri umani.  Dopo l'elezione di Niccolò V, l'Alberti, come antico conoscente, entrò nella cerchia ristretta del papa, dal quale ricevette anche la carica di priore di Borgo San Lorenzo. Tuttavia i rapporti con il papa sono considerati piuttosto controversi dagli storici, sia per quel che riguarda gli aspetti politici che per l'adesione o la collaborazione dell'Alberti al vasto programma di rinnovamento urbano voluto da Niccolò V. Forse venne impiegato durante il restauro del palazzo papale e dell'acquedotto romano e della fontana dell'Acqua Vergine, disegnata in maniera semplice e lineare, creando la base sulla quale, in età Barocca, sarebbe stata costruita la Fontana di Trevi.  Intorno al 1450 Alberti cominciò ad occuparsi più attivamente di architettura con numerosi progetti da eseguire fuori Roma, a Firenze, Rimini e Mantova, città in cui si recò varie volte durante gli ultimi decenni della sua vita.  In tal modo dopo la metà del secolo l'Alberti fu la figura-guida dell'architettura. Questo riconosciuto primato rende anche difficile distinguere, nella sua opera, l'attività di progettazione dalle tante consulenze e dall'influenza più o meno diretta che dovette avere, per esempio, sulle opere promosse a Roma, sotto Niccolò V, come il restauro di Santa Maria Maggiore e Santo Stefano Rotondo o come la costruzione di Palazzo Venezia, il rinnovamento della basilica di San Pietro, del Borgo e del Campidoglio. Potrebbe forse essere stato il consulente che indica alcune linee-guida o, ma ben più difficilmente, aver avuto un ruolo anche meno indiretto. Sicuramente il prestigio della sua opera e del suo pensiero teorico condizionarono direttamente l'opera di progettisti come Francesco del Borgo e Bernardo Rossellino, influenzando anche Giuliano da Sangallo.  Morì a Roma, all'età di 68 anni.  Il De re aedificatoria  Frontespizio  Matteo de' Pasti, Medaglia di Leon Battista Alberti. Magnifying glass icon mgx2.svg  De re aedificatoria. Le sue riflessioni teoriche trovarono espressione nel De re aedificatoria, un trattato di architettura in latino, scritto prevalentemente a Roma, cui l'Alberti lavorò fino alla morte e che è rivolto anche al pubblico colto di educazione umanistica. Il trattato fu concepito sul modello del De architectura di Vitruvio. L'opera, considerata il trattato architettonico più significativo della cultura umanistica, è divisa anch'essa in dieci libri: nei primi tre si parla della scelta del terreno, dei materiali da utilizzare e delle fondazioni (potrebbero corrispondere alla categoria vitruviana della firmitas); i libri IV e V si soffermano sui vari tipi di edifici in relazione alla loro funzione (utilitas); il libro VI tratta la bellezza architettonica (venustas), intesa come un'armonia esprimibile matematicamente grazie alla scienza delle proporzioni, con l'aggiunta di una trattazione sulle macchine per costruire; i libri VII, VIII e IX parlano della costruzione dei fabbricati, suddividendoli in chiese, edifici pubblici ed edifici privati; il libro X tratta dell'idraulica.  Nel trattato si trova anche uno studio basato sulle misurazioni dei monumenti antichi per proporre nuovi tipi di edifici moderni ispirati all'antico, fra i quali le prigioni, che cercò di rendere più umane, gli ospedali e altri luoghi di pubblica utilità.  Il trattato fu stampato a Firenze nel 1485, con una prefazione del Poliziano a Lorenzo il Magnifico, e poi a Parigi e a Strasburgo. Venne in seguito tradotto in varie lingue e diventò ben presto imprescindibile nella cultura architettonica moderna e contemporanea.  Nel De re aedificatoria, l'Alberti affronta anche il tema delle architetture difensive e intuisce come le armi da fuoco rivoluzioneranno l'aspetto delle fortificazioni. Per aumentare l'efficacia difensiva indica che le difese dovrebbero essere "costruite lungo linee irregolari, come i denti di una sega" anticipando così i principi della fortificazione alla moderna.  L'attività come architetto a Firenze A Firenze lavorò come architetto soprattutto per Giovanni Rucellai, ricchissimo mercante e mecenate, intimo amico suo e della sua famiglia. Le opere fiorentine saranno le sole dell'Alberti a essere compiute prima della sua morte.  Palazzo Rucellai  Facciata di palazzo Rucellai. Forse sin dal 1439-1442 gli venne commissionata la costruzione del palazzo della famiglia Rucellai, da ricavarsi da una serie di case-torri acquistate da Giovanni Rucellai in via della Vigna Nuova. Il suo intervento si concentrò sulla facciata, posta su un basamento che imita l'opus reticulatum romano, realizzata tra il 1450 e il 1460. È formata da tre piani sovrapposti, separati orizzontalmente da cornici marcapiano e ritmati verticalmente da lesene di ordine diverso; la sovrapposizione degli ordini è di origine classica come nel Colosseo o nel Teatro di Marcello, ed è quella teorizzata da Vitruvio: al piano terreno lesene doriche, ioniche al piano nobile e corinzie al secondo. Esse inquadrano porzioni di muro bugnato a conci levigati, in cui si aprono finestre in forma di bifora nel piano nobile e nel secondo piano. Le lesene decrescono progressivamente verso i piani superiori, in modo da creare nell'osservatore l'illusione che il palazzo sia più alto di quanto non sia in realtà. Al di sopra di un forte cornicione aggettante si trova un attico, caratteristicamente arretrato rispetto al piano della facciata. Il palazzo creò un modello per tutte le successive dimore signorili del Rinascimento, venendo addirittura citato pedissequamente da Bernardo Rossellino, suo collaboratore, per il suo palazzo Piccolomini a Pienza (post 1459).  Attribuita all'Alberti è anche l'antistante Loggia Rucellai, o per lo meno il suo disegno. Loggia e palazzo andavano così costituendo una sorta di piazzetta celebrante la casata, che viene riconosciuta come uno dei primi interventi urbanistici rinascimentali.  Facciata di Santa Maria Novella  Facciata di Santa Maria Novella, Firenze. Su commissione del Rucellai, progettò anche il completamento della facciata della basilica di Santa Maria Novella, rimasta incompiuta nel 1365 al primo ordine di arcatelle, caratterizzate dall'alternarsi di fasce di marmo bianco e di marmo verde, secondo la secolare tradizione fiorentina. I lavori iniziarono intorno al 1457. Si presentava il problema di integrare, in un disegno generale e classicheggiante, i nuovi interventi con gli elementi esistenti di epoca precedente: in basso vi erano gli avelli inquadrati da archi a sesto acuto e i portali laterali, sempre a sesto acuto, mentre nella parte superiore era già aperto il rosone, seppur spoglio di ogni decorazione. Alberti inserì al centro della facciata inferiore un  di proporzioni classiche, inquadrato da semicolonne, in cui inserì incrostazioni in marmo rosso per rompere la bicromia. Per terminare la fascia inferiore pose una serie di archetti a tutto sesto a conclusione delle lesene. Poiché la parte superiore della facciata risultava arretrata rispetto al basamento (un tema molto comune nell'architettura albertiana, derivata dai monumenti della romanità) inserì una fascia di separazione a tarsie marmoree che recano una teoria di vele gonfie al vento, l'insegna personale di Giovanni Rucellai; il livello superiore, scandito da un secondo ordine di lesene che non hanno corrispondenza in quella inferiore, sorregge un timpano triangolare. Ai lati, due doppie volute raccordano l'ordine inferiore, più largo, all'ordine superiore più alto e stretto, conferendo alla facciata un moto ascendente conforme alle proporzioni; non mascherano come spesso si è detto erroneamente gli spioventi laterali che risultano più bassi, come si evince osservando la facciata dal lato posteriore. La composizione con incrostazioni a tarsia marmorea ispirate al romanico fiorentino, necessaria in questo caso per armonizzare le nuove parti al già costruito, rimase una costante nelle opere fiorentine dell'Alberti.  Secondo Rudolf Wittkower: "L'intero edificio sta rispetto alle sue parti principali nel rapporto di uno a due, vale a dire nella relazione musicale dell'ottava, e questa proporzione si ripete nel rapporto tra la larghezza del piano superiore e quella dell'inferiore". La facciata si inscrive infatti in un quadrato avente per lato la base della facciata stessa. Dividendo in quattro tale quadrato, si ottengono quattro quadrati minori; la zona inferiore ha una superficie equivalente a due quadrati, quella superiore a un quadrato. Altri rapporti si possono trovare nella facciata tanto da realizzare una perfetta proporzione. Secondo Franco Borsi: "L'esigenza teorica dell'Alberti di mantenere in tutto l'edificio la medesima proporzione è qui stata osservata ed è appunto la stretta applicazione di una serie continua di rapporti che denuncia il carattere non medievale di questa facciata pseudo-protorinascimentale e ne fa il primo grande esempio di eurythmia classica del Rinascimento".  Altre opere  Il tempietto del Santo Sepolcro. Attribuito all'Alberti è il progetto dell'abside della pieve di San Martino a Gangalandi presso Lastra a Signa. L'Alberti fu rettore di San Martino dal 1432 fino alla sua morte. La chiesa, di origine medievale, ha il suo punto focale nell'abside, chiusa in alto da un arco a tutto sesto con decorazione a motivi di candelabro e con lesene in pietra serena sorreggenti un architrave che reca un'iscrizione a lettere capitali dorate, ornata alle due estremità dalle arme degli Alberti. L'abside è ricordata incepta et quasi perfecta nel testamento di Leon Battista Alberti, e fu infatti terminata dopo la sua morte, tra il 1472 e il 1478.  Del 1467 è un'altra opera per i Rucellai, il tempietto del Santo Sepolcro nella chiesa di San Pancrazio a Firenze, costruito secondo un parallelepipedo spartito da paraste corinzie. La decorazione è a tarsie marmoree, con figure geometriche in rapporto aureo; le decorazioni geometriche, come per la facciata di Santa Maria Novella, secondo l'Alberti inducono a meditare sui misteri della fede.  Ferrara  Il campanile del duomo di Ferrara. L'Alberti fu a Ferrara a varie riprese, e sicuramente tra il 1438 e il 1439, stringendo amicizie alla corte estense. Vi ritorna nel 1441 e forse nel 1443, chiamato a giudicare la gara per un monumento equestre a Niccolò III d'Este. In tale occasione forse dette indicazioni per il rinnovo della facciata del Palazzo Municipale, allora residenza degli Estensi.  A lui è stato attribuito da insigni storici dell'arte, ma esclusivamente su basi stilistiche, anche l'incompleto campanile del duomo, dai volumi nitidi e dalla bicromia di marmi rosa e bianchi.  Rimini  Tempio Malatestiano, Rimini. Nel 1450 l'Alberti venne chiamato a Rimini da Sigismondo Pandolfo Malatesta per trasformare la chiesa di San Francesco in un tempio in onore e gloria sua e della sua famiglia. Alla morte del signore (1468) il tempio fu lasciato incompiuto mancando della parte superiore della facciata, della fiancata sinistra e della tribuna. Conosciamo il progetto albertiano attraverso una medaglia incisa da Matteo de' Pasti, l'architetto a cui erano stati affidati gli ampliamenti interni della chiesa e in generale tutto il cantiere.   Tempio malatestiano sulla medaglia di Matteo de' Pasti. L'Alberti ideò un involucro marmoreo che lasciasse intatto l'edificio preesistente. L'opera prevedeva in facciata una tripartizione con archi scanditi da semicolonne corinzie, mentre nella parte superiore era previsto una specie di frontone con arco al centro affiancato da paraste e forse due volute curve. Punto focale era il  centrale, con timpano triangolare e riccamente ornato da lastre marmoree policrome nello stile della Roma imperiale. Ai lati due archi minori avrebbero dovuto inquadrare i sepolcri di Sigismondo e della moglie Isotta, ma furono poi tamponati.  Le fiancate invece sono composte da una sequenza di archi su pilastri, ispirati alla serialità degli acquedotti romani, destid accogliere i sarcofagi dei più alti dignitari di corte. Fianchi e facciata sono unificati da un alto zoccolo che isola la costruzione dallo spazio circostante. Ricorre la ghirlanda circolare, emblema dei Malatesta, qui usata come oculo. Interessante è notare come Alberti traesse spunto dall'architettura classica, ma affidandosi a spunti locali, come l'arco di Augusto, il cui modulo è triplicato in facciata. Una particolarità di questo intervento è che il rivestimento non tiene conto delle precedenti aperture gotiche: infatti, il passo delle arcate laterali non è lo stesso delle finestre ogivali, che risultano posizionate in maniera sempre diversa. Del resto Alberti scrive a Matteo de' Pasti che «queste larghezze et altezze delle Chappelle mi perturbano».  Per l'abside era prevista una grande rotonda coperta da cupola emisferica simile a quella del Pantheon. Se completata, la navata avrebbe allora assunto un ruolo di semplice accesso al maestoso edificio circolare e sarebbe stata molto più evidente la funzione celebrativa dell'edificio, anche in rapporto allo skyline cittadino.  Mantova  Chiesa di San Sebastiano, Mantova.  Basilica di Sant'Andrea, Mantova. Nel 1459 Alberti fu chiamato a Mantova da Ludovico III Gonzaga, nell'ambito dei progetti di abbellimento cittadino per il Concilio di Mantova.  San Sebastiano Il primo intervento mantovano riguardò la chiesa di San Sebastiano, cappella privata dei Gonzaga, iniziata nel 1460. L'edificio fece da fondamento per le riflessioni rinascimentali sugli edifici a croce greca: è infatti diviso in due piani, uno dei quali interrato, con tre bracci absidati attorno ad un corpo cubico con volta a crociera; il braccio anteriore è preceduto da un portico, oggi con cinque aperture.  La parte superiore della facciata, spartita da lesene di ordine gigante, è originale del progetto albertiano e ricorda un'elaborazione del tempio classico, con architrave spezzata, timpano e un arco siriaco, a testimonianza dell'estrema libertà con cui l'architetto disponeva gli elementi. Forse l'ispirazione fu un'opera tardo-antica, come l'arco di Orange. I due scaloni di collegamento che permettono l'accesso al portico non fanno parte del progetto originario, ma furono aggiunte posteriori.  Sant'Andrea Il secondo intervento, sempre su commissione dei Gonzaga, fu la basilica di Sant'Andrea, eretta in sostituzione di un precedente sacrario in cui si venerava una reliquia del sangue di Cristo. L'Alberti creò il suo progetto «... più capace più eterno più degno più lieto...» ispirandosi al modello del tempio etrusco ripreso da Vitruvio e contrapponendosi al precedente progetto di Antonio Manetti. Innanzitutto mutò l'orientamento della chiesa allineandola all'asse viario che collegava Palazzo Ducale al Tè.  La chiesa a croce latina, iniziata nel 1472, è a navata unica coperta a botte con lacunari, con cappelle laterali a base rettangolare con la funzione di reggere e scaricare le spinte della volta, inquadrate negli ingressi da un arco a tutto sesto, inquadrato da un lesene architravate. Il tema è ripreso dall'arco trionfale classico ad un solo fornice come l'arco di Traiano ad Ancona. La grande volta della navata e quelle del transetto e degli atri d'ingresso si ispiravano a modelli romani, come la Basilica di Massenzio.  Per caratterizzare l'importante posizione urbana, venne data particolare importanza alla facciata, dove ritorna il tema dell'arco: l'alta apertura centrale è affiancata da setti murari, con archetti sovrapposti tra lesene corinzie sopra i due portali laterali. Il tutto, coronato da un timpano triangolare a cui si sovrappone, per non lasciare scoperta l'altezza della volta, un nuovo arco. Questa soluzione, che enfatizza la solennità dell'arco di trionfo e il suo moto ascensionale, permetteva anche l'illuminazione della navata. Sotto l'arco venne a formarsi uno spesso atrio, diventato il punto di filtraggio tra interno ed esterno.  La facciata è inscrivibile in un quadrato e tutte le misure della navata, sia in pianta che in alzato, si conformano ad un preciso modulo metrico. La tribuna e la cupola (comunque prevista da Alberti) vennero completate nei secoli successivi, secondo un disegno estraneo all'Alberti.  I caratteri dell'architettura albertiana Le opere più mature di Alberti evidenziano una forte evoluzione verso un classicismo consapevole e maturo in cui, dallo studio dei monumenti antichi romani, l'Alberti ricavò un senso delle masse murarie ben diverso dalla semplicità dello stile brunelleschiano. I modi originali albertiani precorsero l'arte del Bramante. I caratteri innovativi di Alberti furono: La colonna deve sostenere la trabeazione e deve essere usata come ornamento per le fabbriche; l'arco deve essere costruito sopra i pilastri.  Il De statua Il trattato, scritto in latino, è relativo alla teoria della scultura e risale al1450 circa. Nel De statua, l'Alberti rielaborò profondamente le concezioni e le teorie relative alla scultura tenendo conto delle innovazioni artistiche del Rinascimento, attingendo anche ad una rilettura critica delle fonti classiche e riconoscendo, tra i primi dignità intellettuale alla scultura, prima di allora sempre condizionata dal pregiudizio verso un'attività tanto manuale.  Nel trattato che si compone di 19 capitoli, l'Alberti parte, sulla scorta di Plinio, dalla definizione dell'arte plastica tridimensionale distinguendo la scultura o per via di porre o per via di levare, dividendola secondo la tecnica utilizzata:  togliere e aggiungere: sculture con materie molli, terra e cera eseguita dai "modellatori" levare: scultura in pietra, eseguita dagli "scultori" Tale distinzione fu determinante nella concezione artistica di molti scultori come Michelangelo e non era mai stata espressa con tanta chiarezza.   Il definitor, lo strumento inventato da Leon Battista Alberti. Relativamente al metodo da utilizzare per raggiungere il fine ultimo della scultura che è l'imitazione della natura, l'Alberti distingue:  la dimensio (misura) che definisce le proporzioni generali dell'oggetto rappresentato mediante l’exempeda, una riga diritta modulare atta a rilevare le lunghezze e squadre mobili a forma di compassi (normae), con cui misurare spessori, distanze e diametri. la finitio, definizione individuale dei particolari e dei movimenti dell'oggetto rappresentato, per la quale Alberti suggerisce uno strumento da lui ideato: il definitor o finitorium, un disco circolare cui è fissata un'asta graduata rotante, da cui pende un filo a piombo. Con esso si può determinare qualsiasi punto sul modello mediante una combinazione di coordinate polari e assiali, rendendo possibile un trasferimento meccanico dal modello alla scultura. Alberti sembra anticipare i temi relativi alla raffigurazione 'scientifica' della figura umana che è uno dei temi che percorre la cultura figurativa rinascimentale. e addirittura aspetti dell'industrializzazione e addirittura della digitalizzazione, visto che il definitor trasformava i punti rilevati sul modello in dati alfanumerici.  L'opera fu tradotta in volgare nel 1568 da Cosimo Bartoli. Il testo latino originale fu stampato solo alla fine del XIX secolo, mentre solo recentemente sono state pubblicate traduzioni moderne. I sistemi di definizione meccanica dei volumi proposti dall'Alberti, appassionarono Leonardo che approntò, come si può rilevare dai suoi disegni, dei sistemi alternativi, sviluppati a partire dal trattato albertiano e utilizzò le "Tabulae dimensionum hominis" del "De statua" per realizzare il celeberrimo "Uomo vitruviano".  Il Crittografo Alberti fu inoltre un geniale crittografo e inventò un metodo per generare messaggi criptati con l'aiuto di un apparecchio, il disco cifrante. Sua fu infatti l'idea di passare da una crittografia con tecnica "monoalfabetica" (Cifrario di Cesare) ad una con tecnica "polialfabetica", codificata teoricamente parecchi anni dopo da Blaise de Vigenère. In The Codebreakers. The Story of Secret Writing, lo storico della crittologia David Kahn attribuisce all'Alberti il titolo di Father of Western Cryptology (Padre della crittologia occidentale). Kahn ribadisce questa definizione, sottolineando le ragioni che la giustificano, nella prefazione all'edizione italiana del testo albertiano: «Questo volume elegante e sottile riproduce il testo più importante di tutta la storia della crittologia; un primato che il De cifris di Leon Battista Alberti ben si merita per i tre temi cruciali che tratta: l'invenzione della sostituzione polialfabetica, l'uso della crittanalisi, la descrizione di un codice sopracifrato.»  Tra le altre attività di Alberti ci fu anche la musica, per la quale fu considerato uno dei primi organisti della sua epoca. Disegnò anche delle mappe e collaborò con il grande cartografo Paolo Toscanelli.  De iciarchia Iciarco e Iciarchia sono due termini usati dall'Alberti nel dialogo De iciarchia composto nel 1470 circa, pochi anni prima della sua morte (avvenuta nel 1472) e ambientato nella Firenze medicea di quegli anni. Le due parole sono di origine greca ("Pogniàngli nome tolto da' Greci, iciarco: vuol dire supremo omo e primario principe della famiglia sua", libro III), e sono formate da oîkos o oikía "casa, famiglia" e arkhós "capo supremo, principe, principio".  Il nome stesso di iciarco vuole esprimere quello che secondo il parere dell'autore è il governante ideale: colui che sia come un padre di famiglia nei confronti dello Stato. Secondo le parole dell'Alberti, "il suo compito sarà (...) provedere alla salute, quiete, e onestamento di tutta la famiglia, fare sì che amando e benificando è suoi, tutti amino lui, e tutti lo reputino e osservino come padre" (ivi).  Questo ruolo di "padre di famiglia" del governante ideale era finalizzato, nella sua visione politica, ad una stabilità, in definitiva "conservatrice", che permetterebbe di governare senza discordie che, dilaniando lo Stato, nuocerebbero a tutto il corpo sociale ("Inoltre la prima cura sua sarà che la famiglia sia senza niuna discordia unitissima. Non esser unita la famiglia circa le cose (...) che giovano, nuoce sopra modo molto., ivi).  Il termine iciarco, nato coll'Alberti e strettamente legato alla sua visione "paternalistica" del governo dello Stato, non ebbe comunque alcun seguito e non risulta che sia mai più stato impiegato nel lessico politico.  Opere: “Apologi centum”;  “Cena familiaris”; “De amore”; “De equo animante (Il cavallo vivo); “De Iciarchia”; “De componendis cifris”; “Deiphira”; “De picture”; “Porcaria coniuratio”; “De re aedificatoria”; “De statua”; “Descriptio urbis Romae”; “Ecatomphile”; “Elementa picturae”; “Epistola consolatoria”; “Grammatica della lingua toscana” (meglio nota come Grammatichetta vaticana); “Intercoenales”; “De familia libri IV”; “Ex ludis rerum mathematicorum”; “Momus”; “Philodoxeos fabula”; “Profugiorum ab ærumna libri III”; “Sentenze pitagoriche”; “Sophrona”; “Theogenius Villa” -- Opere architettoniche Palazzo Rucellai, Firenze, Via della Vigna Nuova Loggia Rucellai, Firenze, Via della Vigna Nuova Facciata di Santa Maria Novella, Firenze, Santa Maria Novella Abside di San Martino, 1472-1478, Lastra a Signa, Pieve di San Martino a Gangalandi Tempietto del Santo Sepolcro, Firenze, Chiesa di San Pancrazio Tempio Malatestiano (incompiuto), iniziato nel 1450 circa, Rimini, Tempio Malatestiano Chiesa di San Sebastiano, 1460 circa, Mantova, Chiesa di San Sebastiano Basilica di Sant'Andrea, 1472-1732, Mantova, Basilica di Sant'Andrea (Mantova) Palazzo Romei, Vibo Valentia Manoscritti Liber de iure, scriptus Bononiae anno 1437, XV secolo, Milano, Biblioteca Ambrosiana, Fondo manoscritti, Trivia senatoria, XV secolo, Milano, Biblioteca Ambrosiana, Fondo manoscritti. Cecil Grayson, Studi su Leon Battista Alberti, Firenze, Olschki,  L.B. Alberti, De pictura, C. Grayson, Laterza, 1980: versione on line Copia archiviata, su liberliber. Christoph L. Frommel, Architettura e committenza da Alberti a Bramante, Olschki, 2006,  Bernardo Rucellai, De bello italico, Donatella Coppini, Firenze University Press, De re Aedificatoria  In tale occasione manifestò il suo interesse per la morfologia e l'allevamento dei cavalli con il breve trattato De equo animante dedicato a Leonello d'Este.  De Vecchi-Cerchiari, cit.95.  De Vecchi-Cerchiari, cit.104  Rudolf Wittkower, op. cit. 1993  Rudolf Wittkower,op. cit. 1993  Leon Battista Alberti, De statua, M. Collareta, 1998  Mario Carpo, L'architettura dell'età della stampa: oralità, scrittura, libro stampato e riproduzione meccanica dell'immagine nella storia delle teorie architettoniche, Simon Singh, Codici e Segreti45 David Kahn, The Codebreakers, Scribner. Il nome deriva dal fatto che il libello, di appena 16 carte, è conservato in una copia del 1508 in un codice in ottavo della Biblioteca vaticana. Lo scritto non ha epigrafe, pertanto il titolo è stato assegnato in seguito: fu riscoperto infatti nel 1850 e dato alle stampe solo nel 1908.  viviamolacalabria.blogspot.com, viviamolacalabria.blogspot.com//09/esempio-tangibile-di-palazzo-nobiliare.html?m=1. Leon Battista Alberti, De re aedificatoria, Argentorati, excudebat M. Iacobus Cammerlander Moguntinus, 1541.  Leon Battista Alberti, De re aedificatoria, Florentiae, accuratissime impressum opera magistri Nicolai Laurentii Alamani. Leon Battista Alberti, Opere volgari. 1, Firenze, Tipografia Galileiana, Leon Battista Alberti, Opere volgari. 2, Firenze, Tipografia Galileiana, Leon Battista Alberti, Opere volgari. 4, Firenze, Tipografia Galileiana, 1847. Leon Battista Alberti, Opere volgari. 5, Firenze, Tipografia Galileiana, Leon Battista Alberti, Opere, Florentiae, J. C. 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Roberto Rossellini gli ha dedicato un film- documentario per la TV nintitolato "L'età di Cosimo dei Medici" (88').   Architettura rinascimentale Rinascimento fiorentino Rinascimento riminese Rinascimento mantovano Medaglia di Leon Battista Alberti.TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Leon Battista Alberti, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Leon Battista Alberti, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  Leon Battista Alberti, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Leon Battista Alberti, su MacTutor, University of St Andrews, Scotland.  Opere di Leon Battista Alberti, su Liber Liber.  Opere di Leon Battista Alberti, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Leon Battista Alberti,. su Leon Battista Alberti, su Les Archives de littérature du Moyen Âge. 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Qual cosa simile fecero gl'ingegni grandi e studiosi presso a' Greci prima e po' presso de e' Latini, e chiamornoqueste simili ammonizioni, atte a scrivere e favellare senza corruttela, suo nome, grammatica. Questa arte, quale ella sia in la lingua nostra, leggetemi e intenderetela.    I. Ordine delle lettere. i r t d b v  n u m  p q g c e o a x z l s f ç ch gh   concordanze II. Vocali.   Ogni parola e dizione toscana finisce in vocale. Solo alcuni articoli de' nomiin l e alcune preposizioni finiscono in d, n, r.  Le cose in molta parte hanno in lingua toscana que' medesimi nomi che in latino.  Non hanno e' Toscani fra e' nomi altro che masculino e femminino. E' neutrilatini si fanno masculini.  Pigliasi in ogni nome latino lo ablativo singulare, e questo s'usa in ogni casosingulare, così al masculino come al femminino.  A e' nomi masculini l'ultima vocale si converte in i, e questo s'usa in tutti e' casi plurali.  A e' nomi femminini l'ultima vocale si converte in e, e questo s'usa in ogni caso plurale per e' femminini.  Alcuni nomi femminini in plurale non fanno in e: come, la mano fa le mani.  E ogni nome femminino, quale in singulare finisca in e, fa in plurale in i: come la orazione, le orazioni; stagione, stagioni; confusioni, e simili.  E' casi de' nomi si notano co' suoi articoli, dei quali sono vari e' masculini da e' femminini.  Item e' masculini, che cominciano da consonante, hanno certi articoli non fatti come quando e' cominciano da vocale.  Item e' nomi propri sono vari dagli appellativi.  Masculini che cominciano da consonante hanno articoli simili a questo:  1. SINGULARE.   EL cielo DEL cielo AL cielo EL cielo O cielo DAL cielo.  2. PLURALE.   E' cieli DE' cieli A' cieli E' cieli O cieli DA' cieli.  Masculini, che cominciano da vocale, fanno in singulare simile a questo:  3. SINGULARE.   LO orizzonte DELLO orizonte ALLO orizonte LO orizonte O orizonte DALLO orizonte.  PLURALE.   GLI orizonti DEGLI orizonti AGLI orizonti GLI orizonti O orizonti DAGLI orizonti.  E' nomi masculini che cominciano da s preposta a una consonante hanno articoli simili a quei che cominciano da vocale, e dicesi: LO spedo, LO stocco, GLI spedi, e simile.  Questi vedesti che sono vari da quei di sopra nel singulare, el primo articoloe anche el quarto; ma nel plurale variorono tutti gli articoli.  Nomi propri masculini non hanno el primo articolo, né anche el quarto, e fanno simili a questi:  Propri masculini, che cominciano da consonante, in singulare fanno così:  Cesare DI Cesare A Cesare Cesare O Cesare DA Cesare.  Nomi propri, che cominciano da vocale, nulla variano da' consonanti, eccetto che al terzo vi si aggiugne d, e dicesi:  Agrippa DI Agrippa AD Agrippa, ecc.  In plurale non s'adoperano e' nomi propri, e se pur s'adoperassero, tutti fanno come appellativi.  E' nomi femminini, o propri o appellativi, o in vocale o in consonante che e' cominciano, tutti fanno simile a questo:  rdanze 5. SINGULARE.   LA stella DELLA stella ALLA stella LA stella O stella DALLA stella.  LA aura DELLA aura ALLA aura LA aura O aura DALLA aura.  PLURALE.   LE stelle DELLE stelle ALLE stelle LE stelle O stelle DALLE stelle.  LE aure DELLE aure ALLE aure LE aure O aure DALLE aure.  E' nomi delle terre s'usano come propri, e dicesi: Roma superò Cartagine.  E simili a' nomi propri s'usano e' nomi de' numeri: uno, due, tre, e cento e mille, e simili; e dicesi: tre persone, uno Dio, nove cieli, e simili.  E quei nomi che si referiscono a' numeri non determinati come ogni, ciascuno, qualunque, niuno, e simili, e come tutti, parecchi, pochi, molti, e simili, tutti si pronunziano simili a e' nomi propri senza primo e quartoarticolo.  E' nomi che importano seco interrogazione come chi e che e quale e quanto e simili, quei nomi che si riferiscono a questi interrogatori, come tale e tanto e cotale e cotanto, si pronunciano simili a e' propri nomi, pur senza primo e quarto articolo, e dicesi:  Io sono tale quale voresti essere tu; e amai tale che odiava me.   Chi s'usa circa alle persone, e dicesi: Chi scrisse?  Che significa quanto presso a e' Latini Qui e Quid. Significando Quid, s'usa circa alle cose, e dicesi: Che leggi? Significando Qui, s'usa circa alle persone, e dicesi: Io sono colui che scrissi.  Chi di sua natura serve al masculino, ma aggiunto a questo verbo sono, sei, è, serve al masculino e al femminino, e dicesi:  Chi sarà tua sposa? Chi fu el maestro?  Chi sempre si prepone al verbo. Che si prepone e pospone.  Che, preposto al verbo, significa quanto presso a e' Latini Quid e Quantum e Quale, come: Che dice? Che leggi? Che uomo ti paio? Che ti costa?  Che, posposto al verbo, significa quanto apresso e' Latini Ut e Quod, come dicendo: I' voglio che tu mi legga. Scio che tu me amerai.  E' nomi, quando e' dimostrano cosa non certa e diterminata, si pronunziano senza primo e quarto articolo, come dicendo:  Io sono studioso. Invidia lo move. Tu mi porti amore. Ma quando egli importano dimostrazione certa e diterminata, allora si pronunzianocoll'articolo come qui: Io sono lo studioso e tu el dotto.  E' nomi simili a questo: primo, secondo, vigesimo, posti dietro a questo verbo sono, sei, è, non raro si pronunziano senza el primo articolo, e dicesi: Tu fusti terzo e io secondo; e ancora si dice: Costui fu el quarto, elprimo, el secondo, ecc.  Uno, due, tre, e simili, quando e' significano ordine, vi si pone l'articolo, e dicesi: Tu fusti el tre, e io l'uno. Il dua è numero paro, ecc.  Fra tutti gli altri nomi appellativi, questo nome Dio s'usa come proprio, e dicesi: Lodato Dio. Io adoro Dio.  Gli articoli hanno molta convenienza co' pronomi, e ancora e' pronomihanno grande similitudine con questi nomi relativi qui recitati. Adonquesuggiungeremogli.  De' pronomi, e' primitivi sono questi: io tu esso questo quello costui lui colui. Mutasi l'ultima vocale in a e fassi il femminino, e dicesi: questa, quella, essa. Solo io e tu, in una voce, serve al masculino e al femminino.  E' plurali di questi primitivi pronomi sono vari, e anche e' singulari. Declinansi così:  Io e i': di me: a me e mi: me e mi: da me.  Noi: di noi: a noi e ci: noi e ci: da noi.  Tu: di te: a te e ti: te e ti: o tu: da te.  Voi: di voi: a voi e vi: voi e vi: o voi: da voi.  Esso ed e': di se e si: se e si: da se; ed Egli.  Non troverrai in tutta la lingua toscana casi mutati in voce altrove che in questi tre pronomi: io, tu, esso.  Gli altri primitivi se declinano così:  Questo: di questo: a questo: questo: da questo.  Quello: di quello: a quello: quello: da quello. Muta o in i e arai el plurale, e dirai:  Questi: di questi: a questi: questi: da questi.  E il somigliante fa quelli.  E così sarà costui e lui e colui, simili a quegli in singulare; ma in pluralecostui fa costoro, lui fa loro, colui fa coloro, di coloro, a coloro, coloro, da coloro.  Questo e quello mutano o in a e fassi el femminino singulare, e dicesi:questa e quella; e fassi il suo plurale: queste, di quelle, a quelle.  Lui, costui, colui, mutano u in e e fassi el singulare femminino, e dicesi: costei, lei, colei, di colei, ecc. In plurale hanno quella voce che e' masculini, cioè: loro, coloro, costoro, di costoro, a costoro, ecc.  Vedesti come, simile a' nomi propri, questi pronomi primitivi non hanno el primo articolo né anche el quarto. A questa similitudine fanno e' pronomi derivativi, quando e' sono subiunti a e' propri nomi. Ma quando si giungono agli appellativi, si pronunziano co' suoi articoli.  Derivativi pronomi sono questi, e declinansi così:  El mio, del mio, ecc., e plurale: e' miei, de' miei, ecc.  El nostro, del nostro, ecc. E plurale: e' nostri, de' nostri, ecc.  El tuo. Plurale: e' tuoi. El vostro. Plurale: e' vostri.   El suo. E pluraliter: e' suoi, ecc.  Mutasi, come a e' nomi, l'ultima in a, e fassi el singulare femminino: qual a, converso in e, fassi el plurale, e dicesi: mia e mie; vostra, vostre; sua e sue.  In uso s'adropano questi pronomi non tutti a un modo.  E' derivativi, giunti a questi nomi, padre, madre, fratello, zio, e simili, si pronunziano senza articolo, e dicesi: mio padre, nostra madre, e tuo zio, ecc.  Mi e me, ti e te, ci e noi, vi e voi, si e sé sono dativi insieme e accusativi, come di sopra gli vedesti notati. Ma hanno questo uso che, preposti al verbo, si dice mi, ti, ci, ecc.; come qui: e' mi chiama; e' ti vuole; que' vi chieggono; io mi sto; e' si crede.  Posposti al verbo, se a quel verbo sarà inanzi altro pronome o nome, si dirà come qui: io amo te, e voglio voi.  Si al verbo non sarà aggiunto inanzi altro nome o pronome si dirà: -i, come qui: aspettaci, restaci, scrivetemi.  Lui e colui dimostrano persone, come dicendo: lui andò, colei venne.  Questo e quello serve a ogni dimostrazione, e dicesi: Questo essercitopredò quella provincia, e: Questo Scipione superò quello Annibale.  E' ed el, lo e la, le e gli, quali, giunti a' nomi, sono articoli, quando si giungono a e' verbi, diventano pronomi e significano quello, quella, quelle, ecc. E dicesi: Io la amai; Tu le biasimi: Chi gli vuole?  Ma di questi, egli ed e' hanno significato singulare e plurale; e, prepostialla consonante, diremo e', come qui: e' fa bene; e' sono. E, preposti alla vocale, si giugne e' e gli, e dicesi: egli andò; egli udivano.  E quando segue loro s preposta a una consonante, ancora diremo: egli spiega; egli stavano.  Potrei in questi pronomi essere prolisso, investigando più cose quali s'osservano, simili a queste:  Vi preposto a' presenti singulari indicativi, d'una sillaba, si scrive in la prima e terza persona per due v, e simile in la seconda persona presenteimperativa, come stavvi e vavvi; e ne' verbi, d'una e di più sillabe, la prima singulare indicativa del futuro, come amerovvi, leggerovvi, darotti, adoperrocci, e simile. Ma forse di queste cose più particulari diremoaltrove.  III. Seguitano e’ verbi.   Non ha la lingua toscana verbi passivi, in voce; ma, per esprimere elpassivo, compone con questo verbo sono, sei, è, el participio preteritopassivo tolto da e' Latini, in questo modo: Io sono amato; Tu sei pregiato; Colei è odiata. E simile, si giugne a tutti e' numeri e tempi e modi di questo verbo. Adonque lo porremo qui distinto.  1. INDICATIVO.   Sono, sei, è. Plurale: siamo, sete, sono.  Ero, eri, era. Plurale: eravamo e savamo, eravate e savate, erano.   Fui, fusti, fu. Plurale: fumo, fusti, furono.  Ero, eri, era stato. Plurale: eravamo e savamo, eravate e savate, erano stati.  Sarò, sarai, sarà. Plurale: saremo, sarete, saranno.  Hanno e' Toscani, in voce, uno preterito quasi testé, quale, in questo verbo, si dice così:  Sono, sei, è stato. Plurale: siamo, sete, sono stati.  E dicesi: Ieri fui ad Ostia; oggi sono stato a Tibuli.  ndere i link alle concordanze IMPERATIVO.   Sie tu, sia lui. Plurale: siamo, siate, siano.  Sarai tu, sarà lui. Plurale: saremo, ecc. OTTATIVO.   Dio ch 'io fussi, tu fussi, lui fusse. Plurale: fussimo, fussi, fussero.  Dio ch'io sia, sii, sia stato. Plurale: siamo, siate, siano stati.  Dio ch'io fussi, fussi, fusse stato. Plurale: fussimo, fussi, fussero stati.  Dio ch'io sia, sii, sia. Plurale: siamo, siate, siano. SUBIENTIVO.   Bench'io, tu, lui sia. Plurale: siamo, siate, siano.  Bench'io fussi, tu fussi, lui fusse. Plurale: fussimo, fussi, fussero.  Bench'io sia, sii, sia stato. Plurale: siamo, siate, siano stati.  Bench'io fussi, fussi, fusse stato. Plurale: fussimo, fussi, fussero stati.  Bench'io sarò, sarai, sarà stato. Plurale: saremo, sarete, saranno stati.  E usasi tutto l'indicativo di questo e d'ogni altro verbo, quasi come subientivo, prepostovi qualche una di queste dizioni: se, quando, benché, e simili. E dicesi: bench'io fui; se e' sono; quando e' saranno. INFINITO.   Essere, essere stato. GERUNDIO.   Essendo PARTICIPIO.   Essente  Dirassi adonque, per dimostrare el passivo: Io sono stato amato; fui pregiato; e sarò lodato; tu sei reverito.  Hanno e' Toscani certo modo subientivo, in voce, non notato da e' Latini; e parmi da nominarlo asseverativo, come questo: Sarei, saresti, sarebbe. Plurale: saremo, saresti, sarebbero.  E dirassi così: Stu fussi dotto, saresti pregiato. Se fussero amatori dellapatria, e' sarebbero più felici.   IV. Seguitano e’ verbi attivi.   Le coniugazioni de' verbi attivi in lingua toscana si formano dal gerundio latino, levatone le ultime tre lettere ndo, e quel che resta si fa terza persona singulare indicativa e presente. Ecco l'essemplo: amandolevane ndo, resta ama; scrivendo resta scrive.  Sono adonque due coniugazioni: una che finisce in a, l'altra finisce in e.  Alla coniugazione in a, quello a si muta in o, e fassi la prima personasingulare indicativa e presente; e mutasi in i, e fassi la seconda; e così si forma tutto il verbo, come vedrai la similitudine qui, in questo esposto:  INDICATIVO.   Amo, ami, ama. Plurale: amiamo, amate, amano.  Amavo, amavi, amava. Plurale: amavamo, amavate, amavano.   Amai, amasti, amò. Plurale: amamo, amasti, amarono.  Ho, hai, ha amato. Plurale: abbiamo, avete, hanno amato.   Amerò, amerai, amerà. Plurale: ameremo, amerete, ameranno.  In questa lingua ogni verbo finisce in o la prima indicativa presente, e in questa coniugazione prima, finisce ancora in o la terza singulare indicativadel preterito.  Ma ècci differenza, ché quella del preterito fa el suo o longo, e quella del presente lo fa o breve. IMPERATIVO.   Ama tu, ami lui. Plurale: amiamo, amate, amino.  Amerai tu, amerà colui. Plurale: ameremo, ecc. OTTATIVO.   Dio ch'io amassi, tu amassi, lui amasse. Plurale: Dio che noi amassimo, voi amassi, loro amassero.  Dio ch'io abbia, tu abbi, lui abbia amato. Plurale: Dio che noi abbiamo, abbiate, abbino amato.  Dio ch'io avessi, tu avessi, lui avesse amato. Plurale: Dio che noi avessimo, avessi, avessero amato.  Dio ch'io, tu, lui ami. Plurale: amiamo, amiate, amino. SUBIENTIVO.   Bench'io, tu, lui ami. Plurale: amiamo, amiate, amino.   Bench'io, tu amassi, lui amasse. Plurale: amassimo, amassi, amassero.  Bench'io abbia, abbi, abbia amato. Plurale: abbiamo, abbiate, abbino amato.  Bench'io avessi, tu avessi, lui avesse amato. Plurale: avessimo, avessi, avessero amato.  Bench'io arò, arai, arà amato. Plurale: aremo, arete, aranno amato. ASSERTIVO.   Amerei, ameresti, amerebbe. Plurale: ameremo, ameresti, amerebbero.  INFINITO.   Amare, avere amato.  GERUNDIO.   Amando.  8. PARTICIPIO.   Amante.  Vedi come a e' tempi testé perfetti e al futuro del subientivo mancano sue proprie voci, e per questo si composero simile a' verbi passivi: el suo participio co' tempi e voci di questo verbo ho, hai, ha.  Qual verbo, benché e' sia della coniugazione in a, pur non sequita la regola esimilitudine degli altri, però che egli è verbo d'una sillaba, e così tutti e'monosillabi sono anormali.  Né troverrai in tutta la lingua toscana verbi monosillabi altri che questi sei: Do; Fo; Ho; Vo; Sto; Tro. Porremogli adonque qui sotto distinti.  Ma, per esser breve, notiamo che e' sono insieme dissimili ne e' preteritiperfetti indicativi, e ne' singulari degli imperativi, e nel singulare del futuroottativo, ne' quali e' fanno così:  DO: diedi, desti, dette. Plurale: demo, desti, dettero.  FO: feci, facesti, fece. Plurale: facemo, facesti, fecero.  HO: ebbi, avesti, ebbe. Plurale: avemo, avesti, ebbero.  VO: andai, andasti, andò. Plurale: andamo, andasti, andarono.  STO: stetti, stesti, stette. Plurale: stemo, stesti, stettero.  TRO: tretti, traesti, trette. Plurale: traemo, traesti, trettero.  In tutti e' verbi, come fa la seconda persona singulare del preterito, così fa la seconda sua plurale; come amasti, desti, leggesti.  DO: da tu, dia lui.  FO: fa tu, faccia lui.  HO: abbi tu, abbia lui.  VO: va tu, vada lui.  STO: sta tu, stia lui.  TRO: tra tu, tria lui.  DO: Dio ch'io dia, tu dia, lui dia.  FO: faccia, facci, faccia.  HO: abbia, abbi, abbia.  VO: vada, vadi, vada.  STO: stia, stii, stia.  TRO: tragga, tragghi, tragga.  V. Seguita la coniugazione in e.   Questa si forma simile alla coniugazione in a. Mutasi quello e in o, e fassi la prima presente indicativa. Mutasi in i, e fassi la seconda, come qui: leggente e scrivente, levatone nte, resta legge, scrive; onde si fa leggo, leggi, leggeva, leggerò, ecc. Solo varia dalla coniugazione in ain que' luoghi dove variano e' monosillabi. Ma questa coniugazione in e varia in più modi, benché comune faccia e' preteriti perfetti indicativiin -ssi, per due s, come: leggo, lessi; scrivo, scrissi. Ma que' verbi che finiscono in -sco fanno e' preteriti in -ii per due i, come esco, uscii;ardisco, ardii; anighittisco, anighittii. Ma, per più suavità, nella linguatoscana non si pronunziano due iunte vocali. Da questi verbi si eccettuano cresco ed e' suoi compositi, rincresco, accresco, e simili, quali finiscono, a' preteriti perfetti, in -bbi, come crebbi, rincrebbi.  Item, nasco fa nacqui, e conosco fa conobbi. E que' verbi che finiscono in mo fanno e' preteriti in -etti, come premo, premetti; e quei che finiscono in do fanno e' preteriti in -si, per uno s, come ardo, arsi; spargo, sparsi; eccetto vedo fa vidi; odo, udi'; cado, caddi; godo, godei e godetti. E quegli che finiscono in ndo fanno preteriti -si, per uno s: prendo, presi; rispondo, risposi; eccetto vendo fa vendei e vendetti.  Sonci di queste regole forse altre eccezioni, ma per ora basti questo principio di tanta cosa. Chi che sia, a cui diletterà ornare la patrianostra, aggiugnerà qui quello che ci manchi.  Dicemo de' preteriti, resta a dire degli altri. IMPERATIVO.   Leggi tu, legga colui. OTTATIVO.   Futuro singulare: Dio ch'io scriva, tu scriva, lui scriva. E così fanno tutti.  Verbi impersonali si formano della terza persona del verbo attivo in tutti e' modi e tempi, giuntovi si, come: amasi, leggevasi, scrivasi. Ma questo si suole trasporlo innanzi al verbo, giuntovi e', e dicesi: e' si legge; e' si corre; e massime nell'ottativo e subientivo sempre si prepone, e dicesi: Dio che e' s'ami; quando e' si leggera', e simile.  VI. Seguitano le preposizioni. Di queste alcune non caggiono in composizione, e sono queste: oltre, sino, dietro, doppo, presso, verso, 'nanzi, fuori, circa.   Preposizioni che caggiono in composizione e ancora s'adoperano seiunte, sono di una sillaba o di più.  D'una sillaba sono queste:  DE: de' nostri; detrattori.  AD: ad altri; admiratori.  CON: con certi; conservatori.  PER: per tutti; pertinace.  DI: di tanti; diminuti.  IN: in casa; importati.  Di, preposto allo infinito, ha significato quasi come a' Latini ut. E dicono: Io mi sforzo d'essere amato.  Quelle de più sillabe sono queste:  SOTTO sottoposto  SOPRA sopraposto  e dicesi  ENTRO entromesso  CONTRO contraposto  Preposizioni quali s'adoperano solo in composizione:  Re, sub, ob, se, am, tras, ab, dis, ex, pre, circum; onde si dice: trasposi e circumspetto.  VII. Seguitano gli avverbi.   Per e' tempi, si dice: oggi, testé, ora, ieri, crai, tardi, omai, già, allora, prima, poi, mai, sempre, presto, subito.  Per e' luoghi, si dice: costì, colà, altrove, indi, entro, fuori, circa, quinci, costinci, e qui e ci, e ivi e vi. Onde si dice: Io voglio starci, io ci starò, pro qui; e verrovvi e io vi starò, pro ivi.  Pelle cose, si dice: assai, molto, poco, più, meno.  Negando, si dice: nulla, no, niente, né.  Affirmando, si dice: sì, anzi, certo, alla fe'.  Domandando, si dice: perché, onde, quando, come, quanto.  Dubitando: forse.  Narrando, si dice: insieme, pari, come, quasi, così, bene, male, peggio, meglio, ottime, pessime, tale, tanto.  Usa la lingua toscana questi avverbi, in luogo di nomi, giuntovi l'articolo, e dice: el bene, del bene, ecc.; qual cosa ella ancora fa degli infiniti, e dicono: el leggere, del leggere.  Ma a più nomi, pronomi e infiniti giunti insieme, solo in principio della loro coniunzione usa preporre non più che uno articolo, e dicesi: el tuo buono amare mi piace.  Item, a similitudine della lingua gallica, piglia el Toscano e' nomisingulari femminini adiettivi e aggiungevi -mente, e usagli per avverbi, come saviamente, bellamente, magramente.  VIII. Interiezioni.   Sono queste: hen, hei, ha, o, hau, ma, do.  IX. Coniunzioni.   Sono queste: mentre, perché, senza, se, però, benché, certo, adonque, ancora, ma, come, e, né, o, segi (sic).  E congiunge; né disiunge; o divide; senza si lega solo a' nomi e agli infiniti. E dicesi: senza più scrivere; tu e io studieremo; che né lui né lei siano indotti; o piaccia o dispiaccia questa mia invenzione.  E questo ne ha vario significato e vario uso. Se si prepone simplice a' nomi, a' verbi, a' pronomi, significa negazione, come qui: né tu né io meritiamo invidia. E significa in; ma, aggiuntovi l, serve a' singularimasculini e femminini; e senza l, serve a' plurali quali comincino da consonante. A tutti gli altri plurali, masculini e femminini si dice nel-; e quando s sarà preposta alla consonante, pur si dice: nello spazzo, nelle camere, ne' letti, nello essercito di Dario, negli orti.  E questo ne, se sarà subiunto a nome o al pronome, significa di qui, di questo, di quello, secondo che l'altre dizioni vi si adatteranno, come chi dice: Cesare ne va, Pompeio ne viene.  E questo ne, posposto al verbo, sarà o doppo a monosillabi o doppo a quei di più sillabe; e più, o significa interrogazione o affirmazione o precetto. Adonque, doppo l'indicativo monosillabo, la interrogazione si scrive, in la prima e terza persona, per due n, la seconda per uno n, come, interrogando, si dice: vonne io? va' ne tu? vanne colui? Nello imperativo si scrive la seconda per due n, e dicesi: vanne, danne. La terza si scrive per uno, e dicesi: diane lui, traggane. E questi monosillabi, la prima indicativa presente, affirmando, si scrive per due n, e dicono: fonne, vonne, honne.  Se sarà el verbo di più sillabe, la interrogazione e affirmazione si scrive per uno n in tutti e' tempi, eccetto la affirmazione in lo futuro, quale si scrive per due n, come dicendo: portera' ne tu? porteronne. E questo sino qui detto s'intenda per e' singulari, però che a' plurali siscrive quello ne sempre per uno n, come andiamone.  Non mi stendo negli altri simili usi a questi. Basti quinci intendere e' principi d'investigare lo avanzo.  E' vizi del favellare in ogni lingua sono o quando s'introducono alle cose nuovi nomi, o quando gli usitati si adoperano male. Adoperanosimale, discordando persone e tempi, come chi dicesse: tu ieri andaremoalla mercati. E adoperanosi male usandogli in altro significato alieno, come chi dice: processione pro possessione. Introduconsi nuovi nomio in tutto alieni e incogniti o in qualunque parte mutati.  Alieni sono in Toscana più nomi barberi, lasciativi da gente Germana, quale più tempo militò in Italia, come elm, vulasc, sacoman, bandier, e simili. In qualche parte mutati saranno quando alle dizionis'aggiungerà o minuirà qualche lettera, come chi dicesse: paire pro patre, e maire pro matre. E mutati saranno come chi dicesse: replubicapro republica, e occusfato pro offuscato; e quando si ponesse una lettera per un'altra, come chi dicesse: aldisco pro ardisco, inimisi pro inimici.  Molto studia la lingua toscana d'essere breve ed espedita, e per questo scorre non raro in qualche nuova figura, qual sente di vizio. Ma questivizi in alcune dizioni e prolazioni rendono la lingua più atta, come chi, diminuendo, dice spirto pro spirito; e massime l'ultima vocale, e dice papi, e Zanobi pro Zanobio; credon far quel bene. Onde s'usa che a tutti gl'infiniti, quando loro segue alcuno pronome in i, allora si gettal'ultima vocale e dicesi: farti, amarvi, starci, ecc.  E, mutando lettere, dicono mie pro mio e mia, chieggo pro chiedo,paio pro paro, inchiuso pro incluso, chiave pro clave. E, aggiugnendo, dice vuole pro vole, scuola pro scola, cielo pro celo. E, in tuttotroncando le dizioni, dice vi pro quivi, e similiter, stievi pro stia ivi.  Si questo nostro opuscolo sarà tanto grato a chi mi leggerà, quanto fu laborioso a me el congettarlo, certo mi diletterà averlo promulgato, tanto quanto mi dilettava investigare e raccorre queste cose, a mio iudizio, degne e da pregiarle.  Laudo Dio che in la nostra lingua abbiamo omai e' primi principi: di quello ch'io al tutto mi disfidava potere assequire.  Cittadini miei, pregovi, se presso di voi hanno luogo le mie fatighe, abbiate a grado questo animo mio, cupido di onorare la patria nostra. E insieme, piacciavi emendarmi più che biasimarmi, se in parte alcuna ci vedete errore.  Que’ che affermano la lingua latina non essere stata comune a tutti e’ populi latini, ma solo propria di certi dotti scolastici, come oggi la vediamo in pochi, credo deporranno quello errore vedendo questo nostro opuscolo, in quale io raccolsi l’uso della lingua nostra in brevissime annotazioni. Qual cosa simile fecero gl’ingegni grandi e studiosi presso a’ Greci prima e po’ presso de e’ Latini, e chiamorno queste simili ammonizioni, atte a scrivere e favellare senza corruttela, suo nome, grammatica. Questa arte, quale ella sia in la lingua nostra, leggetemi e intenderetela. Ordine delle lettere I r t d b v n u m p q g c e o a x z l s f ç ch gh Vocali a, ę ẻ i o ô u ę è é ę Coniunctio ể Verbum ẻ Articulus el ghiro girò al çio el zembo. e volse pôrci a’ porci quèllo chẻ ể pẻlla pelle. [p. facsimile1]  Tavv. 1-2. Roma, Bibl. Vaticana, Cod. Vat. Reginense Lat. 1370, «Della thoscana senza auttore», cc 1r-v (cfr. p. 361)  [p. 178] Ogni parola e dizione toscana finisce in vocale. Solo alcuni articoli de’ nomi in l e alcune preposizioni finiscono in d, n, r.  Le cose in molta parte hanno in lingua toscana que’ medesimi nomi che in latino.  Non hanno e’ Toscani fra e’ nomi altro che masculino e femminino. E’ neutri latini si fanno masculini.  Pigliasi in ogni nome latino lo ablativo singulare, e questo s’usa in ogni caso singulare, così al masculino come al femminino.  A e’ nomi masculini l’ultima vocale si converte in i, e questo s’usa in tutti e’ casi plurali.  A e’ nomi femminini l’ultima vocale si converte in e, e questo s’usa in ogni caso plurale per e’ femminini.  Alcuni nomi femminini in plurale non fanno in e: come, la mano fa le mani.  E ogni nome femminino, quale in singulare finisca in e, fa in plurale in i: come la orazione, le orazioni; stagione, stagioni; confusioni, e simili.  E’ casi de’ nomi si notano co’ suoi articoli, dei quali sono vari e’ masculini da e’ femminini.  Item e’ masculini, che cominciano da consonante, hanno certi articoli non fatti come quando e’ cominciano da vocale.  Item e’ nomi propri sono vari dagli appellativi.  Masculini che cominciano da consonante hanno articoli simili a questo:    singulare    EL cielo DEL cielo AL cielo EL cielo O cielo DAL cielo Plurale E’ cieli DE’ cieli A’ cieli E’ cieli O cieli DA’ cieli. Masculini, che cominciano da vocale, fanno in singulare simile a questo: Singulare   LO orizzonte DELLO orizonte ALLO orizonteLO orizonte O orizonte DALLO orizonte    Plurale   GLI orizonti DEGLI orizonti AGLI orizontiGLI orizonti O orizonti DAGLI orizonti.  E’ nomi masculini che cominciano da s preposta a una consonante hanno articoli simili a quei che cominciano da vocale, e dicesi: LO spedo, LO stocco, GLI spedi, e simile.  Questi vedesti che sono vari da quei di sopra nel singulare, el primo articolo e anche el quarto; ma nel plurale variorono tutti gli articoli.  Nomi propri masculini non hanno el primo articolo, né anche el quarto, e fanno simili a questi:  Propri masculini, che cominciano da consonante, in singulare fanno così:  Cesare DI Cesare A Cesare Cesare O CesareDA Cesare. Nomi propri, che cominciano da vocale, nulla variano da’ consonanti, eccetto che al terzo vi si aggiugne d, e dicesi:  Agrippa DI Agrippa AD Agrippa, ecc. In plurale non s’adoperano e’ nomi propri, e se pur s’adoperassero, tutti fanno come appellativi.  E’ nomi femminini, o propri o appellativi, o in vocale o in consonante che e’ cominciano, tutti fanno simile a questo:    Singulare    LA stella DELLA stella ALLA stella LA stellaO stella DALLA stella. LA aura DELLA aura ALLA aura LA aura O auraDALLA aura. [p. 180]  Plurale  LE stelle DELLE stelle ALLE stelle LE stelle O stelleDALLE stelle. LE aure DELLE aure ALLE aure LE aure O aureDALLE aure. E’ nomi delle terre s’usano come propri, e dicesi: Roma superò Cartagine.  E simili a’ nomi propri s’usano e’ nomi de’ numeri: uno, due, tre, e cento e mille, e simili; e dicesi: tre persone, uno Dio, nove cieli, e simili.  E quei nomi che si referiscono a’ numeri non determinati come ogni, ciascuno, qualunque, niuno, e simili, e come tutti, parecchi, pochi, molti, e simili, tutti si pronunziano simili a e’ nomi propri senza primo e quarto articolo.  E’ nomi che importano seco interrogazione come chi e che e quale e quanto e simili, quei nomi che si riferiscono a questi interrogatori, come tale e tanto e cotale e cotanto, si pronunciano simili a e’ propri nomi, pur senza primo e quarto articolo, e dicesi:  Io sono tale quale voresti essere tu; e amai tale che odiava me.  Chi s’usa circa alle persone, e dicesi: Chi scrisse?  Che significa quanto presso a e’ Latini Qui e Quid. Significando Quid, s’usa circa alle cose, e dicesi: Che leggi? Significando Qui, s’usa circa alle persone, e dicesi: Io sono colui che scrissi.  Chi di sua natura serve al masculino, ma aggiunto a questo verbo sono, sei, è, serve al masculino e al femminino, e dicesi: Chi sarà tua sposa? Chi fu el maestro?  Chi sempre si prepone al verbo. Che si prepone e pospone.  Che, preposto al verbo, significa quanto presso a e’ Latini Quid e Quantum e Quale, come: Che dice? Che leggi? Che uomo ti paio? Che ti costa?  Che, posposto al verbo, significa quanto apresso e’ Latini Ut e Quod, come dicendo: I’ voglio che tu mi legga. Scio che tu me amerai.  E’ nomi, quando e’ dimostrano cosa non certa e diterminata, [p. 181]si pronunziano senza primo e quarto articolo, come dicendo: Io sono studioso. Invidia lo move. Tu mi porti amore. Ma quando egli importano dimostrazione certa e diterminata, allora si pronunziano coll’articolo come qui: Io sono lo studioso e tu el dotto.  E’ nomi simili a questo: primo, secondo, vigesimo, posti dietro a questo verbo sono, sei, è, non raro si pronunziano senza el primo articolo, e dicesi: Tu fusti terzo e io secondo; e ancora si dice: Costui fu el quarto, el primo, el secondo, ecc.  Uno, due, tre, e simili, quando e’ significano ordine, vi si pone l’articolo, e dicesi: Tu fusti el tre, e io l’uno. Il dua è numero paro, ecc.  Fra tutti gli altri nomi appellativi, questo nome Dio s’usa come proprio, e dicesi: Lodato Dio. Io adoro Dio.  Gli articoli hanno molta convenienza co’ pronomi, e ancora e’ pronomi hanno grande similitudine con questi nomi relativi zs qui recitati. Adonque suggiungeremogli.  De’ pronomi, e’ primitivi sono questi: io tu esso questo quello costui lui colui. Mutasi l’ultima vocale in a e fassi il femminino, e dicesi: questa, quella, essa. Solo io e tu, in una voce, serve al masculino e al femminino.  E’ plurali di questi primitivi pronomi sono vari, e anche e’ singulari. Declinansi così:  Io e i’: di me: a me e mi: me e mi: dame. Noi: di noi: a noi e ci: noi e ci: da noi. Tu: di te: a te e ti: te e ti: o tu: da te. Voi: di voi: a voi e vi: voi e vi: o voi: da voi. Esso ed e’: di se e si: se e si: da se; ed Egli.  Non troverrai in tutta la lingua toscana casi mutati in voce altrove che in questi tre pronomi: io, tu, esso.  Gli altri primitivi se declinano così:   Questo: di questo: a questo: questo: da questo. Quello: di quello: a quello: quello: da quello.  Muta o in i e arai el plurale, e dirai:   Questi: di questi: a questi: questi: da questi. [p. 182]  E il somigliante fa quelli  E così sarà costui e lui e colui, simili a quegli in singulare; ma in plurale costui fa costoro, lui fa loro, colui fa coloro, di coloro, a coloro, coloro, da coloro.  Questo e quello mutano o in a e fassi el femminino singulare, e dicesi: questa e quella; e fassi il suo plurale: queste, di quelle, a quelle.  Lui, costui, colui, mutano u in e e fassi el singulare femminino, e dicesi: costei, lei, colei, di colei, ecc. In plurale hanno quella voce che e’ masculini, cioè: loro, coloro, costoro, di costoro, a costoro, ecc.  Vedesti come, simile a’ nomi propri, questi pronomi primitivi non hanno el primo articolo né anche el quarto. A questa similitudine fanno e’ pronomi derivativi, quando e’ sono subiunti a e’ propri nomi. Ma quando si giungono agli appellativi, si pronunziano co’ suoi articoli.  Derivativi pronomi sono questi, e declinansi così:  El mio, del mio, ecc., e plurale: e’ miei, de’ miei,ecc. El nostro, del nostro, ecc. E plurale: e’ nostri, de’ nostri, ecc. El tuo. Plurale: e’ tuoi. El vostro. Plurale: e’ vostri. El suo. E pluraliter: e’ suoi, ecc.  Mutasi, come a e’ nomi, l’ultima in a, e fassi el singulare femminino: qual a, converso in e, fassi el plurale, e dicesi: mia e mie; vostra, vostre; sua e sue.  In uso s’adropano questi pronomi non tutti a un modo.  E’ derivativi, giunti a questi nomi, padre, madre, fratello, zio, e simili, si pronunziano senza articolo, e dicesi: mio padre, nostra madre, e tuo zio, ecc.  Mi e me, ti e te, ci e noi, vi e voi, si e sé sono dativi insieme e accusativi, come di sopra gli vedesti notati. Ma hanno questo uso che, preposti al verbo, si dice mi, ti, ci, ecc.; come qui: e’ mi chiama; e’ ti vuole; que’ vi chieggono; io mi sto; e’ si crede.  Posposti al verbo, se a quel verbo sarà inanzi altro pronome o nome, si dirà come qui: io amo te, e voglio voi. [p. 183]  Si al verbo non sarà aggiunto inanzi altro nome o pronome, si dirà: -i, come qui: aspettaci, restaci, scrivetemi.  Lui e colui dimostrano persone, come dicendo: lui andò, colei venne.  Questo e quello serve a ogni dimostrazione, e dicesi: Questo essercito predò quella provincia, e: Questo Scipione superò quello Annibale.  E’ ed el, lo e la, le e gli, quali, giunti a’ nomi, sono articoli, quando si giungono a e’ verbi, diventano ·pronomi e significano quello, quella, quelle, ecc. E dicesi: Io la amai; Tu le biasimi; Chi gli vuole?  Ma di questi, egli ed e’ hanno significato singulare e plurale; e, preposti alla consonante, diremo e’, come qui: e’ fa bene; e’ corsono. E, preposti alla vocale, si giugne e’ e gli, e dicesi: egli andò; egli udivano.  E quando segue loro s preposta a una consonante, ancora diremo: egli spiega; egli stavano.  Potrei in questi pronomi essere prolisso, investigando più cose quali s’osservano, simili a queste:  Vi preposto a’ presenti singulari indicativi, d’una sillaba, si scrive in la prima e terza persona per due v, e simile in la seconda persona presente imperativa, come stavvi e vavvi; e ne’ verbi, d’una e di più sillabe, la prima singulare indicativa del futuro, come amerovvi, leggerovvi, darotti, adoperrocci, e simile. Ma forse di queste cose più particulari diremo altrove.    Sequitano e’ Verbi    Non ha la lingua toscana verbi passivi, in voce; ma, per esprimere el passivo, compone con questo verbo sono, sei, è, el participio preterito passivo tolto da e’ Latini, in questo modo: Io sono amato; Tu sei pregiato; Colei è odiata. E simile, si giugne a tutti e’ numeri e tempi e modi di questo verbo. Adonque lo porremo qui distinto. [p. 184]    Indicativo    Sono, sei, è. Plurale: siamo, sete, sono.  Ero, eri, era. Plurale: eravamo e savamo, eravate e savate, erano.  Fui, fusti, fu. Plurale: fumo, fusti, furono.  Ero, eri, era stato. Plurale: eravamo e savamo, eravate e savate, erano stati.  Sarò, sarai, sarà. Plurale: saremo, sarete, saranno.  Hanno e’ Toscani, in voce, uno preterito quasi testé, quale, in questo verbo, si dice cosi:  Sono, sei, è stato. Plurale: siamo, sete, sono stati.  E dicesi: Ieri fui ad Ostia; oggi sono stato a Tibuli.    Imperativo    Sie tu, sia lui. Plurale: siamo, siate, siano.  Sarai tu, sarà lui. Plurale: saremo, ecc.    Ottativo    Dio ch’io fussi, tu fussi, lui fusse. Plurale: fussimo, fussi, fussero.  Dio ch’io sia, sii, sia stato. Plurale: siamo, siate, siano stati.  Dio ch’io fussi, fusse stato. Plurale: fussimo, fussi, fussero stati.   Dio ch’io sia, sii, sia. Plurale: siamo, siate, siano.    Subientivo    Bench’io, tu, lui sia. Plurale: siamo, siate, siano.  Bench’io fussi, tu fussi, lui fusse. Plurale: fussimo, fussi, fussero.  Bench’io sia, sii, sia stato. Plurale: siamo, siate, siano stati. [p. 185]  Bench’io fussi, fussi, fusse stato. Plurale: fussimo, fussi, fussero stati.  Bench’io sarò, sarai, sarà stato. Plurale: saremo, sarete, saranno stati.  E usasi tutto l’indicativo di questo e d’ogni altro verbo, quasi s come subientivo, prepostovi qualche una di queste dizioni: se, quando, benché, e simili. E dicesi: bench’io fui; se e’ sono; quando e’ saranno.    Infinito   Essere, essere stato    Gerundio   Essendo    Participio   Essente  Dirassi adonque, per dimostrare el passivo: Io sono stato amato; fui pregiato; e sarò lodato; tu sei reverito.  Hanno e’ Toscani certo modo subientivo, in voce, non notato da e’ Latini; e parmi da nominarlo asseverativo, come questo: Sarei, saresti, sarebbe. Plurale: saremo, saresti, sarebbero.  E dirassi così: Stu fussi dotto, saresti pregiato. Se fussero amatori della patria, e’ sarebbero più felici.    Sequitano e’ verbi attivi    Le coniugazioni de’ verbi attivi in lingua toscana si formano dal gerundio latino, levatone le ultime tre ·lettere ndo, e quel che resta si fa terza persona singulare indicativa e presente. Ecco l’essemplo: amando, levane ndo, resta ama; scrivendo, resta scrive. [p. 186]  Sono adonque due coniugazioni: una che finisce in a, l’altra finisce in e.  Alla coniugazione in a, quello a si muta in o, e fassi la prima persona singulare indicativa e presente; e mutasi in i, e fassi la seconda; e così si forma tutto il verbo, come vedrai la similitudine qui, in questo esposto:    Indicativo  Amo, ami, ama. Plurale: amiamo, amate, amano.  Amavo, amavi, amava. Plurale: amavamo, amavate, amavano.  Amai, amasti, amò. Plurale: amamo, amasti, amarono.  Ho, hai, ha amato. Plurale: abbiamo, avete, hanno amato.  Amerò, amerai, amerà. Plurale: ameremo, amerete, ameranno.  In questa lingua ogni verbo finisce in o la prima indicativa presente, e in questa coniugazione prima, finisce ancora in o la terza singulare indicativa del preterito.  Ma ècci differenza, ché quella del preterito fa el suo o longo, e quella del presente lo fa o breve.    Imperativo  Ama tu, ami lui. Plurale: amiamo, amate, amino.  Amerai tu, amerà colui. Plurale: ameremo, ecc.    Ottativo  Dio ch’io amassi, tu amassi, lui amasse. Plurale: Dio che noi amassimo, voi amassi, loro amassero.  Dio ch’io abbia, tu abbi, lui abbia amato. Plurale: Dio che noiu abbiamo, abbiate, abbino amato. Dio ch’io avessi, tu avessi, lui avesse amato. Plurale: Dio che noi avessimo, avessi, avessero amato.  Dio ch’io, tu, lui ami. Plurale: amiamo, amiate, amino. [p. 187]    Subientivo  Bench’io, tu, lui ami. Plurale: amiamo, amiate, amino.  Bench’io, tu amassi, lui amasse. Plurale: amassimo, amassi, amassero.  Bench’io abbia, abbi, abbia amato. Plurale: abbiamo, abbiate, abbino amato.  Bench’io avessi, tu avessi, lui avesse amato. Plurale: avessimo, avessi, avessero amato.  Bench’io arò, arai, arà amato. Plurale: aremo, arete, aranno amato.    Assertivo  Amerei, ameresti, amerebbe. Plurale: ameremo, ameresti, amerebbero.  Infinito  amare, avere amato.  Gerundio  Amando.  Indicativo  Amante.   Vedi come a e’ tempi testé perfetti e al futuro del subientivo mancano sue proprie voci, e per questo si composero simile a’ verbi passivi: el suo participio co’ tempi e voci di questo verbo ho, hai, ha.  Qual verbo, benché e’ sia della coniugazione in a, pur non sequita la regola e similitudine degli altri, però che egli è verbo d’una sillaba, e così tutti e’ monosillabi sono anormali. [p. 188]  Né troverrai in tutta la lingua toscana verbi monosillabi altri che questi sei: Do; Fo; Ho; Vo; Sto; Tro. Porremogli adonque qui sotto distinti.  Ma, per esser breve, notiamo che e’ sono insieme dissimili ne e’ preteriti perfetti indicativi, e ne’ singulari degli imperativi, e nel singulare del futuro ottativo, ne’ quali e’ fanno così:  Do: diedi, desti, dette. Plurale: demo, desti, dettero.  Fo: feci, facesti, fece. Plurale: facemo, facesti, fecero.  Ho: ebbi, avesti, ebbe. Plurale: avemo, avesti, ebbero.  Vo: andai, andasti, andò. Plurale: andamo, andasti, andarono.  Sto: stetti, stesti, stette. Plurale: stemo, stesti, stettero.  Tro: tretti, traesti, trette. Plurale: traemo, traesti, trettero.  In tutti e’ verbi, come fa la seconda persona singulare del preterito, così fa la seconda sua plurale; come amasti, desti, leggesti.  Do: da tu, dia lui.  Fo: fa tu, faccia lui.  Ho: abbi tu, abbia lui.  Vo: va tu, vada lui.  Sto: sta tu, stia lui.    Tro: tra tu, tria lui.  Do: Dio ch’io dia, tu dia, lui dia.  Fo: faccia, facci, faccia.  Ho: abbia, abbi, abbia.  Vo: vada, vadi, vada.  Sto: stia, stii, stia.  Tro: tragga, tragghi, tragga.    Sequita la coniugazione in e.  Questa si forma simile alla coniugazione in a. Mutasi quello e in o, e fassi la prima presente indicativa. Mutasi in i, e fassi la [p. 189]seconda, come qui: leggente e scrivente, levatone nte, resta legge, scrive; onde si fa leggo, leggi, leggeva, leggerò, ecc. Solo varia dalla coniugazione in a in que’ luoghi dove variano e’ monosillabi. Ma questa coniugazione in evaria in più modi, benché comune faccia e’ preteriti perfetti indicativi in -ssi, per due s, come: leggo, lessi; scrivo, scrissi. Ma que’ verbi che finiscono in -scofanno e’ preteriti in -ii per due i, come esco, uscii; ardisco, ardii; anighittisco, anighittii. Ma, per più suavità, nella lingua toscana non si pronunziano due iunte vocali. Da questi verbi si eccettuano cresco ed e’ suoi compositi, rincresco, accresco, e simili, quali finiscono, a’ preteriti perfetti, in -bbi, come crebbi, rincrebbi.  Item, nasco fa nacqui, e conosco fa conobbi. E que’ verbi che finiscono in mo fanno e’ preteriti in -etti, come premo, premetti; e quei che finiscono in dofanno e’ preteriti in -si, per uno s, come ardo, arsi; spargo, sparsi; eccetto vedo fa vidi; odo, udi’; cado, caddi; godo, godei e godetti. E quegli che finiscono in ndo fanno preteriti -si, per uno s: prendo, presi; rispondo, risposi; eccetto vendo fa vendei e vendetti.  Sonci di queste regole forse altre eccezioni, ma per ora basti questo principio di tanta cosa. Chi che sia, a cui diletterà ornare la patria nostra, aggiugnerà qui quello che ci manchi.  Dicemo de’ preteriti, resta a dire degli altri.  Imperativo  Leggi tu, legga colui.    Ottativo  Futuro singulare: Dio ch’io scriva, tu scriva, lui scriva. E così fanno tutti. Verbi impersonali si formano della terza persona del verbo attivo in tutti e’ modi e tempi, giuntavi si, come: amasi, leggevasi, scrivasi. Ma questo si suole trasporlo innanzi al verbo, giuntovi e’, e dicesi: e’ si legge; e’ si corre; e massime nell’ottativo e [p. 190]subientivo sempre si prepone, e dicesi: Dio che e’ s’ami; quando e’ si leggerà, e simile.  sequitano le preposizioni    Di queste alcune non caggiono in composizione, e sono queste: oltre, sino, dietro, doppo, presso, verso, ’nanzi, fuori, circa.  Preposizioni che caggiono in composizione e ancora s’adoperano seiunte, sono di una sillaba o di più.  D’una sillaba sono queste:  De: de’ nostri; detrattori. Ad: ad altri; admiratori. Con: con certi; conservatori. Per: per tutti; pertinace. Di: di tanti; diminuti. In: in casa; importati. Di, preposto allo infinito, ha significato quasi come a’ Latini ut. E dicono: Io mi sforzo d’essere amato.  Quelle de più sillabe sono queste:  Sotto sottoposto Sopra sopraposto e dicesi Entro                   entromesso Contro contraposto Preposizioni quali s’adoperano solo in composizione: Re, sub, ob, se, am, tras, ab, dis, ex, pre, circum; onde si dice: trasposi e circumspetto.    Sequitano gli avverbi    Per e’ tempi, si dice: oggi, testé, ora, ieri, crai, tardi, omai, già, allora, prima, poi, mai, sempre, presto, subito. [p. 191]  Per e’ luoghi, si dice: costì, colà, altrove, indi, entro, fuori, circa, quinci, costinci, e qui e ci, e ivi e vi. Onde si dice: Io voglio starci, io ci starò, pro qui; e verrovvi e io vi starò, pro ivi.  Pelle cose, si dice: assai, molto, poco, più, meno.  Negando, si dice: nulla, no, niente, né.  Affirmando, si dice: sì, anzi, certo, alla fe’.  Domandando, si dice: perché, onde, quando, come, quanto.  Dubitando: forse.  Narrando, si dice: insieme, pari, come, quasi, così, bene, male, peggio, meglio, ottime, pessime, tale, tanto.  Usa la lingua toscana questi avverbi, in luogo di nomi, giuntavi l’articolo, e dice: el bene, del bene, ecc.; qual cosa ella ancora fa degli infiniti, e dicono: el leggere, del leggere.  Ma a più nomi, pronomi e infiniti giunti insieme, solo in principio della loro coniunzione usa preporre non più che uno articolo, e dicesi: el tuo buono amare mi piace.  Item, a similitudine della lingua gallica, piglia el Toscano e’ nomi singulari femminini adiettivi e aggiungevi -mente, e usagli per avverbi, come saviamente, bellamente, magramente. Interiezioni    Sono queste: hen, hei, ha, o, hau, ma, do.    Coniunzioni    Sono queste: mentre, perché, senza, se, però, benché, certo, adonque, ancora, ma, come, e, né, o, segi (sic).  E congiunge; né disiunge; o divide; senza si lega solo a’ nomi e agli infiniti. E dicesi: senza più scrivere; tu e io studieremo; che né lui né lei siano indotti; o piaccia o dispiaccia questa mia invenzione.  E questo ne ha vario significato e vario uso. Se si prepone simplice a’ nomi, a’ verbi, a’ pronomi, significa negazione, come [p. 192]qui: né tu né io meritiamo invidia. E significa in; ma, aggiuntovi t, serve a’ singulari masculini e femminini; e senza l, serve a’ plurali quali comincino da consonante. A tutti gli altri plurali, masculini e femminini si dice nel-; e quando s sarà preposta alla consonante, pur si dice: nello spazzo, nelle camere, ne’ letti, nello essercito di Dario, negli orti.  E questo ne, se sarà subiunto a nome o al pronome, significa di qui, di questo, di quello, secondo che l’altre dizioni vi si adatteranno, come chi dice: Cesare ne va, Pompeio ne viene.  E questo ne, posposto al verbo, sarà o doppo a monosillabi o doppo a quei di più sillabe; e più, o significa interrogazione o affirmazione o precetto. Adonque, doppo l’indicativo monosillabo, la interrogazione si scrive, in la prima e terza persona, per due n, la seconda per uno n, come, interrogando, si dice: vonne io? va’ ne tu? vanne colui? Nello imperativo si scrive la seconda per due n, e dicesi: vanne, danne. La terza si scrive per uno, e dicesi: diane lui, traggane. E questi monosillabi, la prima indicativa presente, affirmando, si scrive per due n, e dicono: fonne, vonne, honne.  Se sarà el verbo di più sillabe, la interrogazione e affirmazione si scrive per uno n in tutti e’ tempi, eccetto la affirmazione in lo futuro, quale si scrive per due n, come dicendo: portera’ ne tu? porteronne. E questo sino qui detto s’intenda per e’ singulari, però che a’ plurali si scrive quello ne sempre per uno n, come andiamone.  Non mi stendo negli altri simili usi a questi. Basti quinci intendere e’ principi d’investigare lo avanzo.  E’ vizi del favellare in ogni lingua sono o quando s’introducono alle cose nuovi nomi,o quando gli usitati si adoperano male. Adoperanosi male, discordando persone e tempi, come chi dicesse:  tu ieri andaremo alla mercati. E adoperanosi male usandogli in altro significato alieno, come chi dice: processione pro possessione.  Introduconsi nuovi nomi o in tutto alieni e incogniti o in qualunque parte mutati.  Alieni sono in Toscana più nomi barberi, lasciativi da gente Germana, quale più tempo militò in Italia, come elm, vulasc, [p. 193]sacoman, bandier, e simili. In qualche parte mutati saranno quando alle dizioni s’aggiungerà o minuirà qualche lettera, come chi dicesse: paire pro patre, e maire pro matre. E mutati saranno come chi dicesse: replubica pro republica, e occusfato pro offuscato; e quando si ponesse una lettera per un’altra, come chi dicesse: aldisco pro ardisco, inimisi, pro inimici.  Molto studia la lingua toscana d’essere breve ed espedita, e per questo scorre non raro in qualche nuova figura, qual sente di vizio. Ma questi vizi in alcune dizioni e prolazioni rendono la lingua più atta, come chi, diminuendo, dice spirto pro spirito; e massime l’ultima vocale, e dice papi, e Zanobi pro Zanobio; credon far quel bene. Onde s’usa che a tutti gl’infiniti, quando loro segue alcuno pronome in i, allora si getta l’ultima vocale e dicesi: farti, amarvi, starei, ecc.  E, mutando lettere, dicono mie pro mio e mia, chieggo pro chiedo, paio pro paro, inchiuso pro incluso, chiave pro clave. E, aggiugnendo, dice vuolepro vole, scuola pro scola, cielo pro celo.  E, in tutto troncando le dizioni, dice vi pro quivi, e similiter, stievi pro stia ivi.  Si questo questo nostro opuscolo sarà tanto grato a chi mi leggerà, quanto fu laborioso a me el congettarlo, certo mi diletterà averlo promulgato, tanto quanto mi dilettava investigare e raccorre queste cose, a mio iudizio, degne e da pregiarle.  Laudo Dio che in la nostra lingua abbiamo omai e’ primi principi: di quello ch’io al tutto mi disfidava potere assequire.  Cittadini miei, pregavi, se presso di voi hanno luogo le mie fatighe, abbiate a grado questo animo mio, cupido di onorare la patria nostra. E insieme, piacciavi emendarmi più che biasimarmi, se in parte alcuna ci vedete errore.  Della Thoscana senza auttore; cc. 55r-94v: Ant. Galateus de Sìtu Iapigiae; cc. 95r-104v: Ant. Turcheti Oratio; cc. 105r-108v: Iusti Baldini [Oratio]; cc. 109r-113v: una rassegna delle regioni di Roma antica, attribuita a Paulus Victor. Per la descrizione e la storia del codice vedi l’ed. del 1964, pp. xi-xviii, cit. qui sotto. [p. 362]    Firenze Biblioteca Riccardiana 2. Cod. Moreni 2. Cod. cart. sec. XV, contenente tre opere dell’Alberti precedute da un foglio di guardia in pergamena, ora num. I, al cui verso:figura l’abbozzo autografo dell’Ordine delle Lettere, corrispondente con alcune varianti all’inizio della grammatica nel cod. Vaticano. Per la descrizione del cod. vedi vol. II, pp. 405 sgg. della presente edizione e cfr. C. Colombo, L. B. Alberti e la prima grammatica italiana, in «Studi Linguistici Italiani)), III, 1962, pp. I76-87, e la nostra ed. cit. qui sotto, pp. vi-viii.  edizioni  1. C. Trabalza, Storia della grammatica italiana, Firenze, 1908, pp. 531-48.  2. L. B. Alberti, La prima grammatica della lingua volgare, a cura di C. Grayson, Bologna, Commissione per i Testi di Lingua, 1964.  B) LA PRESENTE EDIZIONE  Il testo della presente edizione è in sostanza quello medesimo da noi pubblicato nel 1964. Ci siamo limitati a correggere alcune sviste ed errori tipografici e ad introdurre qualche lieve emendamento in seguito alle osservazioni fatte in recensioni a quella edizione del 1964, tra cui l’attento esame particolareggiato di Ghino Ghinassi in «Lingua Nostra», XXVI, pp. 31-32. Quanto scrivemmo allora intorno alla data del cod. Vaticano andrebbe ora qualificato seguendo il giudizio del compianto Roberto Weiss, cioè che si tratta di copia fatta più tardi di un manoscritto, ora perduto, copiato nel 15081. Tale precisazione però non incide sulla costituzione del testo né cambia i criteri adottati nella presentazione della grammatica quale figura nel cod. Vaticano. A parte qualche correzione e integrazione, di cui diamo ragione nell’apparato, abbiamo  [p. 363]seguito fedelmente il manoscritto, ritoccando soltanto la grafia nei casi seguenti: distinguendo u da v, togliendo e aggiungendo h secondo i casi, livellando in doppia qualche scempia inerte smentita da doppia corretta (e viceversa). Abbiamo pure rammodernato la punteggiatura irregolare del codice, e modificato gli accenti salvo nello specchio delle Vocali, dove è indispensabile rispettare l’originale. Riguardo a questo specchio, perché il lettore possa apprezzare pienamente le varianti col frammento del cod. Mor. 2, riproduciamo a p. sg. il facsimile dell’Ordine delle lettere pella lingua toschana, che dovette rappresentare una prima stesura dell’inizio della grammatica quale appare nel cod. Vaticano2.  La scoperta di questo frammento autografo, aggiunta alle prove interne, soprattutto di carattere linguistico, da noi esposte minutamente nella edizione citata, hanno reso oramai certa l’attribuzione di questa grammatica all’Alberti. Non occorre qui insistere su un problema già risolto definitivamente; basti rimandare per ogni ulteriore informazione alla introduzione a quella edizione. Né avremmo altri elementi da aggiungere alla ipotesi ivi formulata che l’Alberti abbia steso questa grammatica durante il quinto decennio del sec. XV, o comunque non più tardi del nov. 1454, data in cui scrivendo a Matteo de’ Pasti (vedi pp. 291 sgg. di questo volume) adoperò lo spirito aspro greco per distinguere è verbo da earticolo, proprio come nella grammatica. Per l’importanza di questa innovazione e per la piena illustrazione del testo della grammatica, si veda l’edizione citata. L’opera è priva di titolo nei codici. Le diamo qui quello di Grammatica della lingua toscana, fondandoci suglì accenni interni, nel 1° paragrafo per la «grammatica» e passim per la «lingua toscana».  C) APPARATO CRITICO  p. 177. 14. Alla forma particolare del g per significare il suono gutturale sostituiamo, sull’analogia di ch, gh(cfr. facsimile Cod. Mor. 2) rg. Cod. giro giro alcio(ma cfr. Cod. Mor. 2). p. 179. 6. Il copista avrà saltato per sbaglio il vocativo. p. 180. 25. Cod. sono e sei e serve. [p. 364]  firenze, Bibl. Riccardiana, Cod. Moreni 2. Foglio grammaticale autografo di L. B. Alberti (cfr. p. 177-78). [p. 365] p. 181. 15. Cod. similitudini com 25-26. L'analogia delle altre serie consiglia le integrazioni. p. 183. 2. Cod. aspettoci, che potrebbe anche correggersi in aspettati (come propone il Ghinassi) 16. Accogliamo l'integrazione già proposta dal Trabalza, op. cit., p. 540 19. Cod. quasi s'osservano30. Cod. si giugni. p. 184. 18. Cod. fussimo fussir fussero stati. p. 183. 3. Cod. saremo, sarete, sareste stati 6. Cod. questi. p. 186. 9. Cod. amàvamo, con l'accento sulla terzultima, dopo aver cancel- lato l'accento sulla penultima (sono d'accordo ora col Ghinassi che sarebbe difficile sostenere che l'accento sulla terzultima risalga senza dubbio all'originale) 10. Introduco le forme del preterito, sal- tato dal copista (ma se ne parla subito dopo alle r. 16-17) 28. Cod. Dio ch'io ami tu lui ami (cfr. 187, 3). p. 187. 11. Cod. amerai. p. 188. 2. Nel marg. del cod. il copista ha scritto So, per indicare l'omissione di questo verbo nella serie di verbi monosillabi 4. Cod. notamo, che non può valere come perfetto qui, e perciò va corretto in notiamo 26. Cod. tragga traggi tragga. p. 189 7-8. Cod. anigittisco anigittii 19. Cod. forsi. p. 190. s. Cod. sine 23. Cod. quale. p. 191. 3. Cod. verrovi (ma sarebbe contro la regola già stabilita a p. 183) 6. Cod. affirimando 24. Cod. ne osegi, da cui si deve staccar l’o per quel che si dice subito appresso, lasciando un segi problematico (forse errore di trascrizione per e.g. o per etc.?). p. 192 s. Cod. camemere 10. Cod. preposto, ma, come osserva il Ghinassi, deve essere un errore 17. Cod. lezione incerta tra siane, diane 36. Cod. Vulase saceman; correggiamo il primo in vulasc per conformità con la serie di 'nomi barberi' tutti terminanti in consonante, senza però poterne spiegare il significato; il secondo (p. 193, I) in sacoman anziché supporre una forma sachemanaltrimenti non attestata. p. 193. 11. La lezione papi è chiara nel cod. ma difficile a spiegare (si è pensato a pabbio, papeo, papiro). ↑ Vedi «Italian Studies», XX, 1965, pp. 109-10. ↑ Per la discussione e illustrazione del foglio autografo del cod. Mor. 2 vedi l’art. cit. sopra di C. Colombo.   InFirenze,tragliuomini di studio,educati cioèaglistudi umani,sidistinseroaquestopropositogl'ingegniliberida ogni abito di pedantería,che non s'erano allontantanati con superbo fastidio dalla fonte di quelle vene, soprattutto gli artisti e gliuomini d'azione.E tra questi,chi meglio conobbe ilvalore di questo luminoso mezzo che il suo popolo gli offriva, e insieme intravide il lavoro che la mente e la volontà fanno nella formazione e nell'uso della parola, fu l'antico grande cittadino nato in esilio, l'umanista architetto, l'abbreviatore · moralista della famiglia, il raccoglitore e innovatore della ·F. TORBACA,Rimatori napoletani del secolo X V,in Discus sioni e ricerche letterarie, Livorno, Vigo,1888,pagg.166 e 135 eseguenti.  217   tradizione formatasi a Santa Maria Novella?,cioè Leon Bat: tista Alberti. Egli primo, o più preparato e franco di tutti, si mosse a difesa del « volgare idioma »,che sentiva « degno d'onore » con « vere ragioni », « in diverse maniere » pro vando 2: e una di queste maniere fu probabilmente quella di far riconoscere nella lingua che per lui era paterna, l'ordine grammaticale; che cioè l'uso di quella lingua è ordinato e legittimo non meno del latino,e che si può raccogliere in « ammonizioni atte a scrivere e favellare senza corruttela »; che insomma in quest'uso comune e stabile sono applicate leggi di ragione. Intendo che probabilmente a lui si devono quei Primi principij della grammatica o della lingua toscana, cioè quel geniale « saggio... d'una grammatica dell'uso vivo di Firenze 3 » che i Medici conservarono a noi, e che ora Le prime linee del suo trattato della Famiglia l'Alberti le tolse dall'opuscolo di Giovanni Dominici a Bartolomea Obizzi negli Alberti,noto col titolo Regola del governo di cura famigliare. V.lo nell'ediz. SALVI, Firenze, Garinei, Queste parole sono di Michele del Giogante.V. FR.FLAMINI, La lirica toscana del Rinasciniento anteriore ai tempi del Magni. fico,Pisa,Nistri,Cfr.O. Bacci,op.cit.,pag.86. *L.MORANDI.LorenzoilMagnifico,Leonardoda Vincie la prima grammatica italiana;Leonardo eiprimi vocabolari:ricerche: Città di Castello,Lapi,1900,pag.146. Ma cfr.F. SENSI,Ancora di L. Alberti grammatico, in Rendiconti del R. Ist. lombardo, L'opuscolo è pubblicato in appendice alla Storia della grammatica italiana di C. TRABALZA,Milano, Hoepli, 1908. Propongo qui l'opinione che mi par più probabile,anche dopo che il Morandi ha difeso la sua nell'articolo Per Leonardo da Vinci e per la « Gramatica di Lorenzo de' Medici », nella Nuova Antologia 1° ottobre 1909. Il titolo,che la copia vaticana dell'opu. scolo ha,non esemplato dall'originale,e nel foglio di guardia da altra mano che quella dell’amanuense segnato,DELLA THOSCANA SENZA AUTTORE,mi pare si possa desumere qual era nella mente di questo autore dal ringraziamento finale (c.16a):«LaudoDio che in la nostra lingua habbiamo homai e' primi principij; di  218 1   dimostra in chi l'ha dato l'antico cittadino italiano e il filo logo moderno. Così Leon Battista dette primo alla patria sua,fuori della quale era nato, la corona della lingua: e da lui n'ereditò la difesa ilgiovanetto figlio di Piero dei Medici (cioè del fautore di lui in quest'opera) e di Lucrezia Tornabuoni: il quale, seguendo il suo genio nativo,che lo conduceva all'acquisto della grandezza, cercò esser popolare 1 »; e de'suoi grandi intendimenti,e delle cure che gl'imponeva ilprincipato nella sua città, voluto e mantenuto ad ogni costo, non credeva nu trito », « aggiungendosi... prospero successo ed augumento al fiorentino imperio 2 » si estendesse e diventasse comune ad altre città e province, come Roma avea fatto della quello ch'io al tutto m i disfidaua potere assequire ». Ch'egli poi le ammonitioni » di quest' a arte » anche « in la lingua nostra » chiamasse «suo nome,Grammatica » lo dice espressamente nel proemio; e quest'esempio ci dà facoltà d'argomentare per a n a logia, che anche l'Alberti indicando un suo lavoro con le parole De litteris atque coeteris principiis grammaticae abbia potuto intendere aquesta arte... in la lingua nostra ».Del resto, una annotazione assaisimileadaltradellaGrammatichetta,traquelle del Colocci, nel vatic.4817 (c.68a;sotto iltitolo aLingue de variiBarbari »),mi fa supporre ch'egli conoscesse quell'opuscolo, perluiprezioso,cheeranellaLibreriadeMedici «senzaauttore»; egli che,in Roma,quella libreria frequentava, come prova, se non altro,l'indicazione che sitrova nell'altrosuo ms.,ilvat.3217 (c. 329 b): a Bapta Alberto in libreria de medici de Rythmis ». A proposito della quale opera,altrove, dice che stima facesse dell'autore: «Leon Alberto huomo alli tempi nostri di dottrina et d'ingegno a nullo inferiore ». Questo sia detto col rispetto dovuto all'autorità di Luigi Morandi, nel comune amore del vero. 1 GINO CAPPONI, Storia della repubblica fiorentina, Firenze, Barbèra,  Cfr.0. BACCI,Op.cit.,pag.69. 2 Commento del Mco L. DE M. sopra alcuni de'suoi sonetti, nelle sue Opere,Firenze,Molini,1825,vol.IV. ultima questa, che la lingua « nella quale era nato e  219   220 latina. Allo stesso modo poi il figliuolo suo Giovanni, che venne veramente, come allora si diceva, a capo delle cose del mondo col nome di Leon X, voleva tenuta in onore diffusa la lingua latina serbata nella ecclesiastica e allora restaurata secondo l'esemplare augustèo 1: inter caeteras curas, quas in hac humanarum rerum curatione divinitus nobis concessa, subimus, non in postremis hanc quoque habendam ducimus, ut latina lingua nostro Pontificatu dicatur facta auctior. Così dunque Lorenzo raccolse l'eredità dell'antica lingua fiorentina da Leon Battista e dagli altri generosi custodi e difensori di essa della generazione anteriore, e ne fece la lingua dotta della sua corte popolana, uno strumento di regno. Quanto il suo esempio fosse efficace sui prìncipi con temporanei, lo dice un cortigiano della generazione a lui se guente,Vincenzo Colli oda ColledettoilCalmeta,chedisegnò e difese l'ideale della lingua cortigiana: « La vulgar poesia et arte oratoria, dal Petrarca e Boccaccio in qua quasi adulte. rata, prima da Laurentio Medice e suoi coetanei, poi m e diante la emulatione di questa et altre singularissime donne di nostra etade, su la pristina dignitade essere ritornata se comprehende2».E questadonnaeraBeatriced’Este,lagio vane sposa di Ludovico il Moro, e le principali tra le altre erano la sorella maggiore di lei sposa del marchese Francesco Gonzaga,Isabella,ed Elisabetta Gonzaga sposa di Guidubaldo da Montefeltro duca d'Urbino. Breve a Franc.De Rosis scritto dal Sadoleto,citato dal PASTOR, Storia dei Papi dalla fine del M. evo,vol. IV,p. Nella Vita di Serafino Aquilano in fronte alle Rime di lui, ediz.cit.,  (Leon X),trad.Mercati,Roma,Lefebvre. Keywords: della thoscana senza autore id ny LEONARDO Alberti, no LEONE Alberti. Refs.: Luigi Speranza, "Grice ed Alberti," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Grice ed Albertini – la confederazione di Romolo – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pavia). Filosofo. Grice: “H. L. A. Hart calls Albertini a Proudhonian!” -- Grice: “I like Albertini; like me, he has dedicated his life to ‘fides,’ or ‘una federazione di due,’ “a garden of Eden just meant for two” – fiducia, fedes – what Remo asked from Romolo, but failed!” Filosofo. Insegna a  Pavia. Sostene un progetto di unione federalista per l'Europa alla guida del Movimento Federalista Europeo e della Unione dei Federalisti Europei. Adiere al Movimento federalista europeo. Di idee liberali, lascia tuttavia il Partito Liberale dopo la decisione di quest'ultimo di appoggiare la monarchia nel referendum. Dopo la laurea in filosofia divenne docente di Storia contemporanea, Dottrina dello Stato, Scienza della Politica e Filosofia della politica a Pavia. In seguito alla sconfitta sul progetto di Esercito Europeo, la CED, e alle dimissioni di Spinelli, lo sostitue alla guida del Movimento Federalista Europeo. A Milano con un gruppo di militanti del Movimento federalista europeo fonda Il Federalista che si occupa del dibattito sui temi di fondo del federalismo.  Diresse il Mfe italiano. Presidente dell'Unione dei Federalisti Europei. È poi rimasto come figura di riferimento e d'indirizzo all'interno del Mfe. A livello teorico, fin dalle pagine taglienti e polemiche su Lo Stato nazionale, sostene, sulla scia di Einaudi, che a furia di voler custodire una sterile sovranità, lo stato italiano e ridotto a "polvere senza sostanza". Da lì l'esigenza di guardare all'unificazione europea come alla medicina d'urto indispensabile. Maestro di federalismo, articolo di Arturo Colombo, Corriere della Sera, Archivio storico.  Lo Stato nazionale, La politica, Giuffré, Il federalismo e lo stato federale, Giuffré, Che cos'è il federalismo, L'integrazione europea, Proudhon, Vallecchi, Tutti gli scritti, Nicoletta Mosconi, Il Mulino, Movimento Federalista Europeo Unione dei Federalisti Europei  Centro studi sul federalismo: perspectives on federalism, su on-federalism.eu. Il Federalista: "Mario Albertini teorico e militante" di Nicoletta Mosconi su thefederalist.eu. Centro studi sul federalismo: Opere di Mario Albertini, su csfederalismo. youtube: 1985 Mario Albertini commenta la manifestazione federalista di Piazza Duomo, su youtube.com. V D M Logo MFE.svg Federalismo europeo Flag of Europe.svg. E’ per me un grande onore essere stato invitato a fare una relazione a questo convegno per ricordare Mario Albertini, un uomo che ha fatto tanto per noi federalisti, per l’Europa e per l’umanità intera. Questo onore è particolarmente significativo per me perché egli, come Altiero Spinelli, ha fatto del pensiero della scuola inglese degli anni Trenta e dei primi anni Quaranta, insieme a quello dei Padri fondatori americani, la base del suo pensiero federalista. Albertini spiegò che mentre il pensiero fondato sulla fonte inglese ha dato una risposta alla domanda “perché creare la Federazione europea?”, quello fondato sulla fonte americana ha dato una risposta alla domanda “come crearla?”[1]. Quanto alla domanda “quale forma di federazione?”, la risposta, per Albertini come per gli inglesi, era contenuta nella Costituzione degli Stati Uniti d’America.  Il problema che oggi voglio affrontare riguarda il modo in cui il pensiero di Albertini ha sviluppato queste due tradizioni federaliste. In generale si può dire che egli è stato il massimo esponente del pensiero hamiltoniano della seconda metà del Novecento, oltre che il creatore della scuola federalista italiana. Egli è stato non solo un esponente, ma anche un innovatore, spesso illuminando il pensiero di altre scuole, in altri casi differenziandosi con contributi originali.    Quale forma di federazione.  Per Albertini, come per Spinelli e per la scuola inglese, la questione centrale era la trasformazione di Stati a sovranità assoluta in Stati federati in uno Stato federale. Per loro il federalismo di Althusius o di Proudhon – considerato da Albertini come “una tecnica… per il decentramento del potere politico”[2] – non era di grande rilievo. Albertini sosteneva che Proudhon “era rimasto, quanto alla concezione dello Stato, un anarchico”, benché egli lo abbia definito anche un “grande presbite” che “ha previsto quale sarebbe stato il limite tragico della democrazia nazionale qualora non avesse trovato i suoi correttivi nella democrazia locale e nella democrazia europea”. Albertini affermava inoltre che il federalismo richiede “la creazione di orbite di governo democratico locale ad ogni livello di manifestazione concreta delle relazioni umane”[3]. Ma egli concentrò il suo pensiero sulla creazione di una federazione tra Stati sovrani, essenziale per garantire la pace fra loro.  Mentre gli scrittori della scuola inglese si erano attenuti ad un’esposizione classica della forma di una tale federazione, Albertini ne fece la migliore rielaborazione della seconda metà del Novecento[4]. Sia la scuola inglese, sia Albertini, condividevano la preferenza per il sistema europeo basato su un esecutivo parlamentare piuttosto che quello presidenziale americano, pur accettando per il resto gli elementi principali della Costituzione americana. Albertini riteneva cioè più valido un “governo responsabile di fronte al Parlamento europeo… come istanza di controllo democratico dell’attività dell’Unione”[5].  Egli arricchì il pensiero federalista anche con la sua analisi della relazione tra nazione e Stato[6]. Secondo lui, lo Stato nazionale, con il suo dispotismo, danneggia la vita dei cittadini, ponendo restrizioni allo sviluppo economico e provocando la guerra[7]. I suoi limiti si manifestano anche nella “contraddizione tra l’affermazione della democrazia nel quadro nazionale e la sua negazione nel quadro internazionale”, che pregiudica anche l’affermazione del liberalismo e del socialismo a livello nazionale[8]. Lo Stato nazionale dovrebbe essere sostituito con uno Stato federale plurinazionale; la Federazione europea sarebbe “un popolo di nazioni, un popolo federale”, e non “un popolo nazionale”; il federalismo prevede una struttura di Stati democratici plurinazionali fino al livello mondiale[9]. Il pensiero della scuola inglese su questo tema non era diverso, ma l’analisi di Albertini è più approfondita.  Negli anni Trenta, la scuola inglese indicò nel federalismo la soluzione alproblema della guerra. Dal punto di vista logico, l'obiettivo finale non può che essere una federazione mondiale, ma essa è realizzabile solo nel lungo periodo. Parecchi, quindi, sostenevano la proposta di Clarence Streit per una federazione di quindici democrazie, Stati Uniti inclusi, per impedire una guerra provocata dall’Asse. Ma l’America isolazionista non era disponibile e nel 1939 i leader della scuola inglese si indirizzarono verso l’ipotesi di una federazione delle democrazie europee, in attesa dell’adesione degli Stati allora fascisti dopo il loro ritorno alla democrazia.  Questo fu naturalmente il punto di partenza per Albertini che, dopo il rifiuto del Regno Unito di partecipare alla Comunità europea, prefigurò, per cominciare, “una Federazione europea comprendente almeno i sei paesi che hanno preso la testa del processo di unificazione”, e poi la sua “estensione graduale a tutta l’Europa”[10]. Quando il Regno Unito entrò nella Comunità, egli aggiunse che “bisogna attendere che l’adesione alla Comunità dia i suoi frutti”. Attendiamo ancora questi frutti – e speriamo bene!  Kenneth Wheare indicava “la somiglianza di istituzioni politiche” fra gli Stati membri come una condizione della formazione di una federazione[12]. Albertini fu più preciso, affermando che era necessaria, sia nella federazione che negli Stati membri, “l’attribuzione della sovranità al popolo nel quadro del regime rappresentativo, con la possibilità di sdoppiare la rappresentanza mediante la doppia cittadinanza di ogni elettore”. Questa condizione è divenuta particolarmente rilevante per quanto riguarda le nuove democrazie candidate all’adesione all’Unione, e rimane un problema cruciale per la creazione di una federazione mondiale.    Perché la federazione.  Nel 1937 Lionel Robbins pubblicò il libro Economic Planning and International Order, analizzando le ragioni per le quali il quadro di una federazione internazionale era essenziale per il buon governo di un’economia internazionale. Nel 1939, in The Economic Causes of War, egli spiegò perché la causa della guerra non fosse il capitalismo, bensì la sovranità nazionale, e concluse con un appello appassionato per una Federazione europea. Albertini ha ricordato che questi libri furono le più importanti fonti federalistiche per Spinelli, quando era al confino sull’isola di Ventotene.  Per la scuola inglese del dopoguerra, come per Robbins nel1939, la pace era lo scopo del federalismo. La pace era il “valore centrale” e “l’obiettivo supremo” del federalismo anche per Albertini[16], la complessità del cui pensiero era talvolta nascosta dalla semplicità delle sue formulazioni. Egli ha ricalcato il pensiero di Lord Lothian definendo la pace non come “il semplice fatto che la guerra non è in atto”, ma come “l’organizzazione di potere che trasforma i rapporti di forza fra gli Stati in rapporti giuridici veri e propri”. Albertini riconobbe che “con la lotta per l’unificazione europea si sono ottenute le prime forme di politica europea e la fine della rivalità militare fra i vecchi Stati nazionali dell’Europa occidentale”[18]. Cioè, per quanto riguarda i rapporti reciproci fra questi ultimi, l’obiettivo della pace era già stato raggiunto, mentre per alcuni Stati dell’Europa orientale, e soprattutto per il mondo intero, esso rimaneva l’obiettivo supremo.  Per i cittadini dell’attuale Unione, dunque, altri obiettivi sono diventati più importanti. Albertini ha citato dal Manifesto di Ventotene l’affermazione che la questione di chi controlla la pianificazione economica è la “questione centrale” (lo stesso quesito che Robbins aveva proposto nel 1937), ma ha anche individuato altri valori essenziali del federalismo contemporaneo: la sicurezza ecologica[20], il rifiuto dell’egemonia (vedi le preoccupazioni di Carlo Cattaneo e dei Padri fondatori americani) e la democrazia negli Stati nazionali, che la loro interdipendenza sta indebolendo sempre più[22]. Mi pare che questi costituiscano gli elementi per spiegare i valori federalisti ai cittadini dell’Unione europea di oggi. Per quanto riguarda alcuni Stati dell’Europa centrale e orientale, invece, e soprattutto per il federalismo mondiale, la pace rimane l’obiettivo di maggiore rilievo.    La Federazione mondiale.  Nel suo libro The Price of Peace, pubblicato nel 1945, William Beveridge spiegò che la sovranità nazionale è la causa della guerra, e la rinuncia ad essa in una federazione mondiale il metodo per abolirla[23]. Benché egli riconoscesse che questo obiettivo era lontano e che nel frattempo solo una confederazione sarebbe stata realizzabile, questo libro mi fece avvicinare al federalismo come risposta alla terribile esperienza della guerra. Dopo Hiroshima e Nagasaki, la federazione mondiale sembrava una necessità urgente a milioni di persone, di cui circa mezzo milione comprò Anatomy of Peace di Emery Reves[24].  Nacquero movimenti per la federazione mondiale, soprattutto nei paesi anglosassoni e in Giappone, leader politici come l’ex-primo ministro Clement Attlee ne diventarono sostenitori, e si sviluppò una letteratura mondialista. Ma il clima della Guerra fredda scoraggiò la maggior parte di coloro che caldeggiavano quell’obiettivo e il pensiero federalistico quasi lo abbandonò.  Albertini fu un’eccezione. Egli era più coerente, più tenace, più risoluto di altri nel confrontarsi con i fatti del potere e con le sue conseguenze. Per lui, “il rischio della distruzione del genere umano” legato alla bomba atomica era “assolutamente inaccettabile”. Ma egli riconobbe, come Beveridge, che le condizioni per creare la Federazione mondiale non erano presenti e che la lotta per un’Assemblea costituente, fondamentale per la sua dottrina per quanto riguarda la Federazione europea, non era ancora praticabile. La sua strategia per il federalismo mondiale era dunque simile a quella dei federalisti anglosassoni: “il rafforzamento dell’ONU”, insieme ad altri “obiettivi intermedi” nel “processo di superamento degli Stati nazionali esclusivi”, processo che aveva “già raggiunto uno stadio molto avanzato” nella Comunità europea[26]. Tipica del suo pensiero federalistico era l’enfasi sui militanti federalisti, sulla necessità “di costruire… un’avanguardia politica mondiale” per la creazione di una Federazione mondiale. Come creare la Federazione.  Albertini e la scuola inglese erano generalmente d’accordo sulla forma e sul perché della Federazione. Ma le loro idee erano diverse sul come crearla.  Gli inglesi cercavano di influenzare il loro governo, negli anni Trenta e Quaranta, perché adottasse una politica federalista per dare l’avvio ad una federazione, e in seguito per costruire elementi pre-federali nelle istituzioni e nelle competenze della Comunità. I principi fondamentali di Albertini erano invece l’Assemblea costituente e il fatto che i federalisti dovevano rimanere estranei alla lotta per il potere nazionale.  Spinelli ha scritto che nel periodo che va dal 1947 al 1954, egli aveva “lavorato sull’ipotesi che i principali ministri moderati si sarebbero accinti alla costruzione federale”[28]: un metodo assai simile a quello dei federalisti inglesi. Poi, dopo il fallimento, nel 1954, del progetto per una Comunità politica europea, egli avviò il Congresso del popolo europeo e lanciò la campagna per dar vita a un’Assemblea costituente attraverso “una protesta popolare crescente… diretta contro la legittimità stessa degli Stati nazionali”[29]. Quando diventò evidente a Spinelli che la campagna non aveva il successo da lui sperato, concepì la proposta che i federalisti acquisissero il potere in un numero crescente di municipi importanti, come base per una successiva campagna. Albertini non poteva accettare questa idea, che contraddiceva tutti i fondamentali principi federalisti, e il Movimento federalista europeo fu d’accordo con lui. Spinelli, infastidito, scrisse nel suo diario che per Albertini, “tentare di preparare l’evento (della lotta finale) era sporco opportunismo, occorreva preparare sé stessi all’evento”[30]. Spinelli era un politico geniale, capace di concepire e condurre campagne d’azione culminate nello straordinario successo della sua ultima battaglia, quella per il Progetto di Trattato per l’Unione europea al Parlamento europeo. Ma egli non restava all’interno di regole stabilite, e la sua tendenza ad iniziare successivi “nuovi corsi” e a impostare nuove strategie presentava troppe difficoltà per un Movimento come il MFE. Albertini era assolutamente convinto che bisogna rispettare certi principi fondamentali, che egli seguiva con una coerenza e una tenacia eccezionali. Queste caratteristiche furono cruciali per la sua posizione nella storia del pensiero federalistico, mettendolo in grado non solo di sviluppare la propria opera intellettuale, ma anche di fondare la scuola italiana del federalismo hamiltoniano.  Una differenza fra Albertini e gli inglesi era legata alla sua concezione del pensiero storico, basata sul metodo weberiano secondo il quale, nelle sue parole, “non ci sono conoscenze storiche senza quadri teorici di riferimento specifico per ordinare i fatti e completarne il significato (‘tipi ideali’)”, anche se “l’elaborazione teorica deve esser condotta solo sino al punto nel quale essa rende possibile la conoscenza storica e non oltre, perché al di là di questo punto essa si convertirebbe nella pretesa di sostituire la conoscenza storica… con la conoscenza teorica”[31]. Alla tradizione empirica inglese non manca la capacità di sviluppare teorie. L’evoluzione darwiniana e il liberalismo sono testimonianze di questo. Ma mi pare che nella tradizione weberiana lo sviluppo della teoria precede il suo adattamento ai fatti, e forse questo approccio fu una causa delle differenze fra Albertini e gli inglesi.    Lo sviluppo della Comunità europea e del pensiero di Albertini.  Benché gli inglesi abbiano sviluppato la loro democrazia attraverso un processo riformista, senza un’Assemblea costituente, l’idea di una tale Assemblea era ritenuta accettabile da molti. Nel 1948, Mackay, un importante federalista membro del Parlamento inglese, ottenne il sostegno di un terzo dei membri del Parlamento per una risoluzione che chiedeva un’Assemblea costituente europea[32]. Ma mentre per gli inglesi un processo riformista, a iniziare dalla CECA, sarebbe stato utile, il punto di partenza per Albertini, nel 1961, era soltanto “il conferimento del potere costituente al popolo europeo… o tutto o niente”; bisognava rifiutare “pseudostazioni intermedie… sino a che non si riusciva ad ottenere tutto il potere (ossia quello costituente)”; la soluzione della Comunità “ispirata dal cosiddetto ‘funzionalismo’ (la geniale idea di fare l’Europa a pezzettini…) era sbagliata” e le Comunità economiche erano “parole vuote”[33]. Ma da buon weberiano egli era disposto ad adattare la teoria ai fatti, e nel 1965 scrisse che la CECA aveva stabilito una “unità di fatto… così solida da poter sorreggere l’inizio di un processo vero e proprio di integrazione economica”, la quale “fu un fatto capitale per la vita dell’Europa”[34]. E un anno dopo scrisse che “l’integrazione europea è il processo di superamento della contraddizione tra la dimensione dei problemi e quella degli Stati nazionali”, cioè “i fatti dell’integrazione europea” minano i poteri nazionali esclusivi, “creando nel contempo, con l’unità di fatto, un potere europeo di fatto”, che i federalisti possono sfruttare politicamente[35]. Nello stesso saggio egli individuò il trasferimento del controllo dell’esercito, della moneta e di parte delle entrate dai governi nazionali a un governo europeo come elementi cruciali del trasferimento della sovranità[36]; e nel 1971, considerando la prospettiva delle elezioni dirette del Parlamento europeo, egli scrisse che una tale situazione “può essere considerata pre-costituzionale perché dove si manifesta l’intervento diretto dei partiti e dei cittadini si manifesta anche la tendenza alla formazione di un assetto costituzionale”[37]. E’ interessante, perfino commovente, osservare come, mentre gli inglesi, nella loro situazione diversa, trascuravano l’idea della Costituente, Albertini stava modificando la sua teoria alla luce dei fatti, cioè del successo crescente della Comunità europea. Questo lo ha condotto verso un contributo molto importante al pensiero federalistico: una sintesi dell’approccio di Spinelli e di quello di Monnet.    Verso una sintesi di spinellismo e monnetismo.  Le sue idee sulla moneta forniscono un altro esempio dello sviluppo del suo pensiero. Nel 1968 egli scrisse che “non c’è mercato comune senza moneta comune, e moneta comune senza governo comune, dunque il punto di partenza è il governo comune”[38]. Ma quattro anni più tardi egli affermò che l’Unione monetaria avrebbe potuto “spingere le forze politiche su un piano inclinato” perché, impegnando qualcuno per qualcosa che implica il potere politico, può accadere che finisca “per trovarsi, suo malgrado, nella necessità di crearlo”. Sul terreno monetario, sarebbero stati possibili “dei passi avanti di natura istituzionale, tangibile, europea, ad esempio nella direzione indicata da Triffin”, cioè un sistema europeo di riserve, che sarebbe stato scambiato dalla classe politica “per una tappa sulla via della creazione di una moneta europea”; e si poteva prevedere, dunque, “un punto scivoloso verso una situazione che si potrebbe chiamare di ‘Costituente strisciante’ “[39].  Albertini stava “preparando l’evento”, anche se non nel modo approvato da Spinelli, il cui progetto era allora diverso e che scrisse nel suo diario che Albertini aveva ridotto il MFE in “sciocchi seguaci di Werner”[40], nel cui Rapporto erano indicate le tappe verso l’Unione economico-monetaria. Ma la riconciliazione fra i due non era lontana, grazie alle imminenti elezioni dirette del Parlamento europeo e al grande Progetto di Trattato per l’Unione europea elaborato da Spinelli.  Albertini, nella sua analisi dell’Unione monetaria, aveva individuato le elezioni dirette come punto decisivo “perché riguarda la fonte stessa della formazione della volontà pubblica democratica”[41]. Le elezioni del Parlamento europeo sarebbero state una delle chiavi, dunque, insieme alla moneta e all’esercito, per il trasferimento della sovranità. Nel 1976, il Consiglio europeo decise le elezioni e Spinelli si imbarcò nel suo quinto e ultimo nuovo corso[42]. Albertini osservò che era “iniziata la fase politica – per definizione costituente – del processo di integrazione europea”, e concluse che la Comunità sarebbe stata la base della Federazione europea, attraverso “singoli atti costituenti che rafforzano il grado costituente del processo rendendo possibili ulteriori atti costituenti e così via”, e che “solo con una prima forma di Stato europeo (da istituire con un atto costituente ad hoc) si può avviare il processo di formazione dello Stato europeo per così dire definitivo”: cioè bisogna accettare “il paradosso di ‘fare uno Stato per fare lo Stato’”. Egli rese esplicito il ruolo della Comunità in questo processo, nella “costruzione graduale, e via via pari al grado di unione raggiunto, di un apparato politico e amministrativo europeo”: un processo che “si può in teoria considerare finito solo quando lo Stato iniziale europeo (con sovranità monetaria, ma non in materia di difesa), si sia trasformato nello Stato europeo definitivo, con tutte le competenze necessarie per l’azione di un governo federale normale”[43].  Il cammino weberiano di Albertini conduceva, dunque, verso una sintesi feconda fra lo spinellismo e il monnetismo attraverso “l’idea di sfruttare le possibilità del funzionalismo per giungere al costituzionalismo”, perché “l’unificazione europea è un processo di integrazione… strettamente collegato con un processo di costruzione degli elementi istituzionali a volta a volta indispensabili…” Egli era pronto per spiegare in termini teorici l’ultima opera di Spinelli, cioè il Progetto di Trattato per l’Unione europea del Parlamento europeo.    Dal progetto di Trattato alla Convenzione di Laeken.  Albertini riteneva che il progetto fosse realistico, perché proponeva “il minimo istituzionale indispensabile per fondare le decisioni europee sul consenso dei cittadini”. Il “pregio maggiore del progetto” stava nel fatto che “affidava al Parlamento a) il potere legislativo”, detto oggi codecisione, in modo che “l’attuale Consiglio dei Ministri… per questo rispetto, funzionerebbe come un Senato federale”, e “b) il potere che risulta dal controllo parlamentare della Commissione, che comincerebbe ad assumere la forma di un governo europeo”. Il progetto era “ragionevole”, perché “solo quando l’Unione avrà dimostrato di saper funzionare bene, sarà possibile disporre della grande maggioranza necessaria per attribuire all’Unione la sovranità anche in materia di politica estera e di difesa”[45]. Esso conteneva, dunque, l’idea accennata prima di “fare uno Stato per fare lo Stato”.  Il genio politico di Spinelli, manifestato nel progetto di Trattato, non solo ha favorito la riconciliazione fra lui e Albertini, ma ha anche portato a un esito concreto un elemento molto importante del pensiero federalistico di Albertini, cioè la relazione fra l’azione politica e la filosofia di Monnet e di Spinelli. E’ tragico che Spinelli sia morto credendo che il progetto fosse fallito perché l’Atto unico era un “topolino morto”. Albertini è invece sopravvissuto finché si sono manifestate conseguenze veramente significative. In un documento pubblicato sull’Unità europea del dicembre 1990, egli ha potuto affermare che, “salvo catastrofi”, il potere di fare la politica monetaria sarebbe stato trasferito al livello europeo, e che dunque bisognava adeguare il meccanismo decisionale, “facendo funzionare la Comunità come una federazione nella sfera dove un potere europeo, in prospettiva, c’è già (quello economico-monetario con le sue implicazioni internazionali); e come una confederazione nella sfera nella quale un potere di questo genere non c’è e non ci sarà per un tempo indefinito (difesa)”. Il “Trattato-costituzione” del Parlamento – prosegue il documento – porterà ad una “evoluzione naturale delle istituzioni (il Consiglio europeo come presidente collegiale della Comunità o Unione, il Consiglio dei Ministri come Camera degli Stati, la Commissione come governo responsabile di fronte al Parlamento europeo, il Parlamento europeo come istanza di controllo democratico dell’attività dell’Unione e come detentore, insieme al Consiglio, del potere legislativo)”. Si può registrare un progresso significativo di questa “evoluzione naturale” negli anni Novanta. Il voto a maggioranza qualificata è già applicabile nel Consiglio all’80% degli atti legislativi; il Parlamento ha un diritto di codecisione per più della metà degli atti legislativi e per il bilancio; la responsabilità della Commissione di fronte al Parlamento è stata clamorosamente dimostrata. La Comunità non funziona ancora “come una federazione nella sfera dove un potere europeo c’è già”, cioè in quella economica e monetaria; ma la Convenzione di Laeken apre la porta al compimento del processo.  La questione non è più se ci sarà un documento chiamato costituzione. Questo ora appare accettabile, oltre che per gli altri governi, anche per quello britannico. La questione cruciale è se le istituzioni saranno veramente federali, completando l’evoluzione prevista da Albertini, compresa la codecisione e il voto a maggioranza per tutte le decisioni legislative, insieme alla piena responsabilità della Commissione come governo di fronte al Parlamento.  La lotta federalista non è divenuta meno ardua, perché i sostenitori della dottrina intergovernativa includono, a quanto pare, non solo i governi britannico, danese e svedese, ma anche quello francese, e persino quello italiano. Bisogna persuadere i cittadini, le classi politiche, e infine i governi, che una costituzione basata sul principio della cooperazione intergovernativa sarebbe sia inefficace che antidemocratica. Grazie all’opera di Spinelli e di Albertini, e ai contributi di tanti altri, il MFE è senz’altro pronto a far fronte a questa sfida, in particolare per quanto riguarda i cittadini, la classe politica e soprattutto il governo italiano. Spero di avere dato qualche indicazione del ricco, ampio, profondo e colto contributo di Mario Albertini al pensiero federalista della sua epoca.  Forse è stata la scelta soggettiva di un federalista britannico l’aver sottolineato l’importanza particolare, per la storia di questo pensiero, della sintesi fatta da Albertini degli approcci dei due geniali federalisti della seconda metà del Novecento: Jean Monnet e Altiero Spinelli.  Oltre che con le sue opere, egli ha dato un contributo al pensiero federalista come fondatore della scuola moderna italiana. Al tempo stesso, dopo che Spinelli ha fondato, ispirato e guidato il MFE con un carisma eccezionale, Albertini ha creato e sostenuto il Movimento che è stato capace di organizzare la grande manifestazione di Milano, con la partecipazione di circa mezzo milione di persone, nel giugno del 1984, per chiedere al Consiglio europeo di sostenere il Progetto di Trattato di Spinelli; e, cinque anni dopo, di ottenere il consenso dell’88% dei votanti nel referendum italiano su un mandato costituente per il Parlamento europeo. Come e perché un solo uomo ha fatto tutte queste cose diverse? Forse l’impressione di un osservatore esterno potrebbe interessarvi.  Albertini nei suoi scritti ha messo in evidenza sia la ragione, sia la volontà[47]. Egli era orientato da entrambe e operava sulla base di entrambe, con enfasi sulla ragione per la sua opera intellettuale, e sulla volontà come Presidente del Movimento; e metteva entrambe al servizio della sua fede profonda nel federalismo come priorità essenziale per il benessere e per la sopravvivenza stessa del genere umano. Egli espresse questo atteggiamento in un modo non molto conosciuto fuori del MFE, sottolineando che servono “delle persone che fanno della contraddizione tra i fatti e i valori una questione personale”, in un contesto nel quale “il distacco tra ciò che è, e ciò che deve essere, è enorme”[48].  Albertini dedicò la sua vita all’impegno per risolvere questa contraddizione e aveva la capacità di persuadere altri a fare lo stesso. Egli era un oratore ispirato e, benché i suoi scritti fossero talvolta complicati, era anche capace di formulare concetti in modo semplice e appassionato, come quando ha scritto che “la federazione… ha realizzato istituzioni molto sagge, capaci di trasmettere a molte generazioni una forte esperienza di diversità nell’unità, di libertà, di pace”; che “soltanto la politica e solo nel massimo della sua espressione, può risolvere i problemi delle relazioni internazionali”; e inoltre che serve l’avanguardia mondiale “per il grande compito mondiale della costruzione della pace”[49].  La sua capacità di ispirare gli altri era basata sulla sua fede nel valore di ciascuno, nella fiducia che ogni persona avesse sia la capacità che la responsabilità di dare il proprio contributo[50]. Le sue idee sugli apporti di diverse persone e organizzazioni sono state una parte del suo contributo al pensiero federalista. C’era posto per quelli che accettavano passivamente il federalismo e per i leader occasionali. Ma la sua predilezione era per il nucleo duro dei militanti, la cui opera in particolare era basata sulla percezione della contraddizione tra fatti e valori. Egli trasmise un messaggio speciale agli intellettuali, ai quali ricordò la necessità dell’ “uscita nel campo aperto degli uomini di cultura per completare la politica come arte del possibile – la politica in senso stretto – con la politica in senso largo, cioè l’arte di far diventare possibile ciò che non lo è ancora”[51]. Per questi – per voi – l’enfasi era sulla volontà come sulla ragione.  Nel maggio del 1956 Spinelli scrisse nel suo diario: “Ho lanciato ad Albertini l’idea di costituire un ‘ordine federalista europeo’. Che sia questa una buona idea?”[52]. Spinelli era un grande innovatore, con notevole capacità di intuizione. Albertini aveva le caratteristiche per realizzare quell’idea: sincerità, integrità, coraggio, coerenza, devozione. Mi pare che egli abbia davvero creato una specie di ordine federalista.  La sua opera era un processo continuo di costruzione; e ora voi, i suoi colleghi e amici, avete la responsabilità di proseguirla senza di lui, considerandolo non come un monumento di erudizione e di impegno eccezionale ma come una tradizione vivente che voi dovete continuare a sviluppare.  Quanto a me, benché non sia d’accordo con tutte le sue idee, ho un tale apprezzamento per la sua opera e una tale convinzione della sua importanza che sto lavorando, con l’aiuto dell’Istituto Altiero Spinelli, su un’antologia in lingua inglese dei suoi saggi, perché queste idee siano meglio conosciute dal pubblico dei lettori che leggono, non l’italiano, ma la lingua che Albertini designò, nel primo numero del Federalistapubblicato anche in inglese, come la lingua universale necessaria nella sfera politica[53]. Spero che questa antologia non solo sarà utile per i federalisti non italiani, ma favorirà anche un giusto riconoscimento del contributo di Albertini nella storia del pensiero federalista[54].  E’ con grande piacere, in conclusione, che esprimo la mia ammirazione e gratitudine per la vita di Mario Albertini, e per la sua devozione esemplare alla nostra causa suprema del federalismo. Nelle parole incomparabili di Shakespeare: “He was a man, take him for all in all, (we) shall not look upon his like again”.     * Si tratta dell’intervento al convegno di studi organizzato l’8 aprile 2002 dalle Università di Milano e di Pavia e dal Movimento federalista europeo sulla figura di studioso e di militante di Mario Albertini a cinque anni dalla sua scomparsa.  [1] Cfr. Mario Albertini, L’unificazione europea e il potere costituente (1986), in Nazionalismo e Federalismo, Bologna, Il Mulino, 1999, pp. 302, 304. (Molti degli scritti di Albertini sono stati ripubblicati, con l’indicazione delle rispettive fonti, in due antologie: Nazionalismo e Federalismo e Una rivoluzione pacifica. Dalle nazioni all’Europa, da cui sono state tratte le citazioni. Si è posta tra parentesi, dopo il titolo, la data del saggio originale per aiutare i lettori a valutare il contesto e tracciare cronologicamente lo sviluppo del suo pensiero).  [2] Mario Albertini, Il Risorgimento e l’unità europea (1961), in Lo Stato nazionale, Bologna, Il Mulino, Mario Albertini, La Federazione (1963) e Le radici storiche e culturali del federalismo europeo(1973), in Nazionalismo e Federalismo, cit., pp. 99, 114, 128.  [4] Mario Albertini, La Federazione, ibidem.  [5] Mario Albertini, Moneta europea e unione politica (1990), in Id., Una rivoluzione pacifica. Dalle Nazioni all’Europa, Bologna, Il Mulino, Mario Albertini, Lo Stato nazionale, Bologna, Il Mulino, 1997, ristampa delle edizioni precedenti del 1960 e del 1980.  [Mario Albertini, La nazione, il feticcio ideologico del nostro tempo in Id., Nazionalismo e Federalismo, cAlbertini, Le radici storiche, L’integrazione europea, elementi per un inquadramento storico (1965), in Id., Nazionalismo e Federalismo, op. cit., p. 235; Id., Qu’est-ce que le fédéralisme? Recueil des textes choisis et annotés, Parigi, Société Européenne d’Etudes et d’Informations, 1963, p. 32.  [9] Mario Albertini, Per un uso controllato della terminologia nazionale e supernazionale (1961), in Id., Nazionalismo e Federalismo, Mario Albertini, La strategia della lotta per l’Europa (1966), in Id., Una rivoluzione pacifica, oMario Albertini, Il problema monetario e il problema politico europeo (1973), in Id., Una rivoluzione pacifica, op. cit., p. 185.  [12] Kenneth C. Wheare, Federal Government, Londra, Oxford, in italiano in Kenneth C. Wheare, Del governo federale, Bologna, Il Mulino, Mario Albertini, L’unificazione europea e il potere costituente (1986), in Id., Nazionalismo e Federalismo,  Lionel Robbins, Economic Planning and International Order, Londra, Macmillan, The Economic Causes of War, Londra, Jonathan Cape, 1939; alcuni capitoli di ambedue in italiano in Lionel Robbins, Il federalismo e l’ordine economico internazionale, Bologna, Il Mulino, 1985.  [15] Cfr. Mario Albertini, L’unificazione europea(1986), op. cit., p. 302. Cfr. anche John Pinder (a cura di), Altiero Spinelli and the British Federalists: Writings by Beveridge, Robbins and Spinelli 1937-1943, Londra, Federal Trust, Mario Albertini, Qu’est-ce que le fédéralisme? Cultura della pace e cultura della guerra (1984), in Id., Nazionalismo e Federalismo, Mario Albertini, Le radici storiche (1984), op. cit., p. 114; Lord Lothian, Pacifism is not Enough (1935), ristampato in John Pinder e Andrea Bosco (a cura di), Pacifism is not Enough: Collected Lectures and Speeches of Lord Lothian(Philip Kerr), Londra, Lothian Foundation Press, In italiano: Lord Lothian, Il pacifismo non basta, Bologna, Il Mulino, 1986.  [18] Mario Albetini, La pace come obiettivo supremo della lotta politica (1981), in Id. Nazionalismo e Federalismo, op. cit., p. 185.  [19] Mario Albertini, L’unificazione europea, Albertini, Cultura della pace e cultura della guerra, Albertini, Le radici storiche, Mario Albertini, La strategia, William Beveridge, The Price of Peace, Londra, Pilot. Emery Reves, The Anatomy of Peace, New York, Harper, 1945; in italiano: Anatomia della pace, Bologna, Il Mulino, 1990.  [25] Mario Albertini, La pace come obiettivo supremo. Mario Albertini, Verso un governo mondiale, in Id., Nazionalismo e Federalismo, Mario Albertini, Verso un governo mondiale, Spinelli, Come ho tentato di diventare saggio. La goccia e la roccia, a cura di Edmondo Paolini, Bologna, Il Mulino, Spinelli, Diario europeo, I, 1948-1969, a cura di Edmondo Paolini, Bologna, Il Mulino, Mario Albertini, L’unificazione europea e il potere costituente, Cfr. John Pinder, “Manifesta la verità ai potenti”: i federalisti britannici e l’establishment, in AA.VV., I movimenti per l’unità europea 1945-1954, a cura di Sergio Pistone, Milano, Jaca, Mario Albertini, Quattro banalità e una conclusione sul Vertice europeo in Id., Nazionalismo e federalismo, Mario Albertini, L’integrazione europea, Mario Albertini, La strategia Mario Albertini, Il Parlamento europeo. Profilo storico, giuridico e politico (1971), in Id., Una rivoluzione pacifica, op. cit., p. 216.  [38] Mario Albertini, L’aspetto di potere della programmazione europea (1968), Id., in Nazionalismo e Federalismo, Mario Albertini, Il problema monetario(1973), Spinelli, Diario europeo, Mario Albertini, Il problema monetario(1973), op. cit., p. 192.  [42] Altiero Spinelli, La goccia e la roccia, op. cit., p. 18.  [43] Mario Albertini, Elezione europea, governo europeo e Stato europeo (1976), in Id., Una rivoluzione pacifica, Mario Albertini, L’Europa sulla soglia dell’unione (1985), in Id., Nazionalismo e Federalismo, op. cit., pp. 274, 276.  [45] Moneta europea e unione politica. Un documento del Presidente Albertini in vista del Consiglio europeo di dicembre, in L’Unità europea, Per esempio in Mario Albertini, Verso un governo mondiale, Albertini, La strategia. Le radici storiche Mario Albertini, La federazione, L’integrazione europea, Verso un governo mondiale, Mario Albertini, La strategia, Albertini, Il Parlamento europeo, Spinelli, Diario europeo, Mario Albertini, un governo mondiale. Non ho menzionato finora nessuno fra i federalisti italiani viventi, perché non sarebbe giusto individuare alcuni fra i tanti che hanno fatto cose importanti per il federalismo contemporaneo. Ma in questo contesto sarebbe del tutto ingiusto non menzionare il mio debito nei confronti di un federalista della nuova generazione che ha avanzato la proposta dell’antologia, per cui ha fatto una selezione di saggi (materiale eccellente anche per la preparazione di questo mio articolo), cioè Roberto Castaldi, che ha preso questa iniziativa quando studiava per la sua tesi di master sull’opera di Albertini all’Università di Reading. Mario Albertini. Albertini. Keywords: la confederazione di Romolo, federale, italia federale, politica federalista, filosofia federalista, stato italiano, gli stati uniti d’America sono una repubblica federale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Albertini” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Albino. “Dialettica” – citata da Boezio.  Albino – Luigi Speranza (console). Filosofo italiano Console del Regno Ostrogoto Contitolare Flavio Eusebio Capo di Stato Teodorico il Grande Prefetto del pretorio d'Italia del Regno Ostrogoto Durata mandato Capo di Stato Teodorico il Grande Dati generali Professione Politico Fausto Albino iunior è un filosofo romano. Il nome Fausto è probabile ma non certo; l'appellativo «iunior» è attestato in un'iscrizione. Apparteneva alla Gens Caecina ed era fratello di Flavio AVIENO iunior, console, di Teodoro, console nel  e di Flavio Importuno, console. Loro padre era Cecina Decio Massimo Basilio, console, ed era imparentato con Anicio Probo Fausto, console. Console in Occidente assieme a Flavio Eusebio in Oriente. Fu prefetto del pretorio d'Italiaa, costruì una basilica intitolata a san Pietro al 27º miglio da Roma della via Tiburtina, dove ha delle proprietà, e ottenne che Simmaco la dedica. Venne onorato del titolo di patricius.  Si trovava a corte a Ravenna; quando il padre morì, assieme al fratello si incaricò del patronato dei Verdi, una delle fazioni dell'ippodromo di Roma e scelge un danzatore come pantomimo dei Verdi. Entrò anche nella disputa per la ricomposizione dello scisma tra Roma e Costantinopoli. Vicino alle posizioni di papa Ormisda, cercò di far emergere una distinzione tra coloro che avevano condannato la dottrina calcedonica tramite scritti e quelli che l'avevano fatto solo oralmente.  Nel 522 gli venne mossa l'accusa di aver intrattenuto rapporti configuranti il tradimento nei confronti di Teodorico il Grande con la corte dell'Impero romano d'Oriente, avendo inviato delle lettere all'imperatore Giustino. In difesa d’Albino intervenne Boezio, il quale, però, venne a sua volta accusato di tradimento e poi messo a morte. Il destino di Albino non è noto.  Ebbe degli scambi epistolari con Ennodio. Se uno dei sedili del Colosseo riservati ai senatori di cui è rimasta l'incisione[4] è il suo, si chiamava Cecina Decio Acinazio Albino (Caecina Decius Acinatius Albinus).  Note  CIL XI, 4163 ^ Cassiodoro, Variae, I 20.33. ^ Cassiodoro, Variae, III 5–6.. ^ CIL VI, 32165 Bibliografia (?Faustus) Albinus iunior 9, PLRE II, Cambridge. Paolo Lamma, ALBINO, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 2, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, PredecessoreConsole romano Successore Imperatore Cesare Flavio Anastasio Augusto, Flavio Rufo 493Flavio Turcio Rufio Aproniano Asterio Iunior, Flavio Presidio con Flavio EusebioPortale Antica Roma   Portale Biografie Categorie: Politici romani del VI secoloConsoli medievali romaniDeciiPatricii[altre]

 

Grice ed Albino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Cionio Rufo Albino – Ceionius Rufius Albinus – According to an inscription found in Rome, Albino, who held high public office, was also a philosopher.

 

Grice ed Albucio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Albucio Silo (Albucius Silus) was an orator and a pupil of Papirio Fabiano. He appears to have regularly included philosophical arguments and allusions in the speeches he made on behalf of clients.

 

Grice ed Albucio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). FIlosofo italiano. Tito Albucio. Tito Albucio (in latino: Titus Albucius) è un filosofo italiano.Terminò i suoi studi ad Atene e fu epicureo. Familiarizza bene con la letteratura greca, anzi, secondo Marco Tullio Cicerone, era ormai un Greco. A causa della sua passione per la lingua e la filosofia greche, venne preso in giro dal poeta satirico Gaio Lucilio, i cui versi su di lui sono giunti a noi grazie a Cicerone. Cicerone stesso lo descrive come un uomo frivolo. Albucio accusa, senza successo, Quinto Mucio Scevola l'Augure di malamministrazione (repetundae) della sua provincial. E propretore nella Sardegna, e grazie ad alcuni insignificanti successi che ottene contro i predoni, celebra un trionfo nella provincia.  Quando ritorna a Roma, chiese al senato romano di ottenere l'onore di una supplicatio, ma la sua richiesta venne respinta, e venne accusato di concussione da Gaio Giulio Cesare Strabone, zio di Giulio Cesare, e condannato all'esilio ad Atene. Gneo Pompeo Strabone si era offerto come accusatore, ma la sua richiesta venne respinta, perché era stato questore di Albucio.  In seguito alla sua condanna, si dedicò agli studi filosofici. Scrisse alcune orazioni, che vennero lette da Cicerone. Note: Vedi articolo inglese ^ Cicerone, Brutus 35. ^ Cicerone, de finibus bonorum et malorum 1, 3 ^ Cicerone, Brutus 26. Orator 2, 70. ^ Cicerone, de provinciis consularibus 7. in Pisonem 38. Divinatio in Q. Caecilium 19. de officiis 2, 14. ^ Cicerone, Tusculanae disputationes 5, 37. ^ Cicerone, Brutus 35. Bibliografia (EN) William Smith (a cura di), Dictionary of Greek and Roman Biography and Mythology, 1870. Collegamenti esterni Albùcio, Tito, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata V · D · M Epicureismo Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Filosofia Categorie: Politici romani del I secolo a.C.Filosofi romaniRetori romaniFilosofi del I secolo a.C.Morti nel I secolo a.C.Pretori romaniEpicurei[altre] Grice ed Albucio – Roma – filosofia italiana—Luigi Speranza (Roma). Tito Albucio was a philosopher of what the Italians call ‘L’Orto,’ The Garden. He pursued a political career, but was sent into exile after being found guilty of extortion. Cicerone suggests that Albucio was not a particular good follower of the Garden, and ‘something of a poser.’

 

Grice ed Alcia – Roma – filosofia italiana – Lugi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), Alcia was a Pythagorian.

 

Grice ed Alcimaco – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotona). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), Alcimaco was a pupil of Pythagoras. He was exiled from Crotona when the local population rose against the Pythagoreans, and his subsequent fate is unknown.

 

Grice ed Alcio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Alcius was one of the two philosophers following what the Italians call the “Orto” (the Garden) – the other was Philiscus – expelled from Rome before the infamous embassy.

 

Grice ed Alcmeone – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotona). Filosofo italiano. According to lamblichus of Chalcis, Alcmeone was a pupil of Pythagoras. His main interest was in medicine, and he regarded health as a kind of internal balance. He studied perception and believed that the eye was connected with the brain, which was itself the centre of emotion and thought. According to Diogenes Laertius, he also wrote on physics, arguing that the soul is always in motion and the moon, planets and stars are eternal (Jonathan Barnes, Early Philosophy, Harmondsworth, Penguin) [W.K.C. Guthrie, A History Ancient Philosophy vol. 1, Cambridge, Cambridge University Press; Carl Huffman, 'Alemaeon', The Stanford Encyclopedia of Philosophy (Summer Edition), Edward N. Zalta (ed.).  Alcmeone di Crotone filosofo italiano antico. Alcmeone di Crotone -- Ἀλκμαίων Crotone -- filosofo italiano. Alcmeone di Crotone su una medaglia del 1832 Introduzione modifica Quasi tutte le informazioni superstiti circa lui sono state messe in discussione dagli studiosi: essi si sono chiesti se fosse un medico o un "fisiologo" ("impegnato ad indagare la natura") presocratico, se fosse un pitagorico o in relazione con i pitagorici, se il suo atteggiamento scientifico fosse da qualificare come "empirico", se realmente avesse, primo in Occidente, praticato la dissezione del corpo umano a fini scientifici, se il ruolo centrale da lui attribuito - secondo le fonti dossografiche - al cervello nel coordinare le sensazioni non fosse da ridimensionare. Negli ultimi decenni la revisione critica delle testimonianze e dei frammenti di Alcmeone ha determinato di fatto il superamento di tutti quegli "entusiasmi", certamente prematuri, che vorrebbero il crotoniate "il padre dell'anatomia, della fisiologia, dell'embriologia, della psicologia, della medicinastessa".[2]  Si è aperta, in tal modo, sul piano metodologico, la via per una comprensione autenticamente "storica" della figura di Alcmeone, dimensionata nel tempo ed "in situazione".[3]  Moltissimi frammenti dei testi scomparsi, ma citati particolarmente da Teofrasto, sono stati raccolti da Codellas (1932) e da questi è possibile evincere il suo pensiero. Si può pertanto affermare che Alcmeone è stato il primo filosofo naturalista (Strata). Doty ha ripercorso la storia per quell'epoca straordinaria di Alcmeone, giungendo a concludere che le sue scoperte devono essere considerate rivoluzionarie al pari di quelle di Copernico e di Darwin. Da notare che il grande Aristotele nega i rapporti fra cervello e fenomeni mentali in quanto toccando il cervello, non si hanno sensazioni e il cuore è ultimo a morire, localizzando dunque qui le capacità della mente.  Biografia modifica Dalla vita di Alcmeone non sappiamo molto. Aristotele riferisce che, «quanto all'età», «Alcmeone era giovane quando Pitagora era vecchio». Tuttavia, il passo non è contenuto in tutti i manoscritti né concordemente riferito dai commentatori antichi.  Contemporanei e diretti interlocutori di Alcmeone furono, secondo Diogene Laerzio, Brontino, Leonte e Batillo; personaggi considerati da Giamblico «pitagorici»[6]. La sua patria viene dalle fonti identificata con Crotone,[9] città achea e magnogreca, fondata, secondo Dionigi di Alicarnasso (II, 59, 3), nel terzo anno della XVII Olimpiade. Il padre era, secondo la tradizione dossografica, Períthos (Diog. Laert. VIII 83; Clem. Alex., Strom. I 78)[10].  Indagine sulla natura e medicina modifica Diogene Laerzio (VIII 83) considera Alcmeone «discepolo di Pitagora»: il suo impegno avrebbe riguardato «per lo più» la «medicina». Tra i "fisiologi" viene annoverato da Teofrasto [11]. Secondo il giudizio di Galeno [12], Alcmeone, allo stesso modo di Melisso di Samo, Parmenide, Empedocle, Gorgia, Prodico e degli autori antichi in genere, scrisse un'opera Sulla natura. Per Favorino[13] e Clemente Alessandrino[14] sarebbe stato addirittura il primo a comporre un discorso intitolato Perì physeos. La sola attestazione che fa diretto riferimento ad Alcmeone come medicus è quella di Calcidio[15], risalente al IV secolo d.C.  Per il periodo storico in esame (VI-V secolo a.C.), la distinzione tra fisiologia/filosofia e medicina risultava essere non ancora strutturata: non solo «la linea di demarcazione fra questi due ambiti doveva essere fluida», ma all'interno dell'indagine "perì physeos" confluivano sia lo studio della natura, che del corpo umano e, più in generale, per gli enti tutti, apprezzati e osservati nella loro globalità.[16]  Il primo frammento pervenutoci di Alcmeone contrappone l'onniscienza certa e immutabile degli dei alla scienza mutevole e ipotetica degli uomini che desumono le proprie tesi dai segni visibili nei corpi esaminati:  «Sulle cose invisibili e sulle cose mortali solo gli dei hanno la certezza, ma agli uomini è dato il congetturare.»  (Fr. 1[17])  «Non congetturare a caso delle cose più grandi.»  (Alcmeone di Crotone[17])  Tuttavia, tale sapere non viene ancora associato alla filosofia o alla teologia umane.  La salute come equilibrio tra proprietà opposte modifica Il dossografo greco Aezio, attivo tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., attribuisce ad Alcmeone la teoria medica, divenuta molto comune fra i Greci, della salute come equilibrio (isonomia) tra elementi o proprietà (dynameis) opposte[18]:   «Alcmeone dice che la salute dura fintantoché i vari elementi, umido secco, freddo caldo, amaro dolce, hanno uguali diritti (isonomia), e che le malattie vengono quando uno prevale sugli altri (monarchia). Il prevalere dell'uno o dell'altro elemento, dice, è causa di distruzione. […] La salute è l'armonica mescolanza delle qualità (opposte).»  (A. Maddalena in G. Giannantoni, op. cit., p. 241.)  Simile dottrina ricorre, altresì, nel trattato ippocratico Sull'antica medicina (cap. 14) datato dalla critica agli ultimi decenni del V secolo a.C.:   «V'è infatti nell'uomo il salato, l'amaro, il dolce, l'astringente, l'insipido e mille altre cose dotate di proprietà diversissime sia per quantità sia per forza. Ed esse mescolate e contemperate l'un l'altra né sono evidenti né causano dolori all'uomo; quando però una di esse sia separata e permanga come sostanza a sé stante, allora diviene evidente e causa dolori all'uomo.»  (Opere di Ippocrate, a cura di M. Vegetti, Torino, Utet, 2000, pag. 176.)  Nel riportare la dottrina dei pitagorici, secondo la quale «le contrarietà erano per essi principi delle cose che sono», Aristotele [19], dubita che all'origine vi fosse stato un contributo determinante da parte di Alcmeone. Questi, ad ogni modo, sosteneva che «duplici sono per lo più le cose riguardanti l'uomo». A differenza dei pitagorici – continua Aristotele – egli «non definiva quali fossero le contrarietà, ma nominava quelle che gli capitavano, bianco nero, dolce amaro, buono cattivo, grande piccolo».  La dissezione di animali modifica Nel suo Commento al Timeo di Platone, il filosofo Calcidio riferisce che Alcmeone, «esperto di questioni fisiche», fu «il primo che sezionò animali viventi»: in particolare la sua attenzione si concentrò a «mostrare come è fatto l'occhio». Secondo la testimonianza di Teofrasto[21], Alcmeone ebbe modo di identificare determinati «canali» (poroi) che conducevano le sensazioni dagli organi di senso (orecchie, naso, lingua, occhi) al cervello, descrizione che si riferisce probabilmente ai fori dei nervi cranici.  Dal punto di vista storico, la critica più accorta riconosce come «i canali», cui fa riferimento Teofrasto, fossero, per quel che concerne l'udito e l'olfatto, «grosse strutture, quali i condotti delle narici e il meato uditivo esterno». Nel caso dell'occhio, tuttavia, le «osservazioni», effettuate da Alcmeone, «non riguardavano esclusivamentestrutture esterne o di superficie: molto sarebbe infatti frutto di una conoscenza delle strutture retrostanti l'occhio». Il medico e fisiologo crotoniate si può al riguardo desumere che abbia, in forma assai limitata e circoscritta, praticato su animali «una recisione dell'occhio per mettere allo scoperto le strutture retrostanti, che si dipartono alla volta del cervello».[22] Infatti descrive in maniera inequivocabile le vie ottiche (nervi ottici, chiasma e tratti ottici), come riportato da Calcidio. Solo dopo Aristotele la dissezione cominciò lentamente ad imporsi, per diventare pratica assai diffusa e sistematica in età ellenistica.[24]  Il ruolo "egemonico" del cervello: percezione e comprensione modifica Nel complesso «si può riconoscere che il primo impiego del coltello a vantaggio della ricerca sulla natura risale ad Alcmeone». Questo «rese possibile la scoperta del collegamento nervoso tra l'occhio e il cervello e diede avvio a riflessioni sulla reale sede delle sensazioni in quest'ultimo organo».[26].Di rilievo la testimonianza di Teofrasto (De sensu. 25 sg.):   «Tra quelli che non credono che la percezione nasca da simiglianza è Alcmeone. Il quale prima di tutto definisce la differenza tra uomo ed animali: l'uomo, egli dice, si distingue dagli altri animali perché capisce, mentre gli altri animali percepiscono ma non capiscono; per lui, infatti, percepire e capire sono due attività diverse, e non, come credeva Empedocle, una sola e medesima attività- Poi parla delle singole percezioni. Dice che udiamo con le orecchie perché in esse è il vuoto: questo, dice, vibra, e cioè emette un suono con la cavità, e l'aria ripete la vibrazione. Gli odori li percepiamo col naso, conducendo al cervello l'aria mediante l'inspirazione. Distinguiamo i sapori con la lingua, perché essa. essendo calda e molle, col calore disfa, e mediante la rarefazione dovuta alla sua morbidezza accoglie e distribuisce i sapori. Gli occhi vedono mediante l'umidità che li circonda. L'occhio, dice, contiene fuoco, come è mostrato dal fatto che manda scintille quando è colpito. Vede dunque mediante la parte ignea e la parte trasparente, e tanto meglio vede quanto più è puro. Tutte le percezioni, dice, giungono al cervello e lì s'accordano: ed è appunto per questo che anche s'ottundono quando il cervello si muove e cambia di posto: perché in tal modo ostruisce i canali attraverso i quali passano le sensazioni. Del tatto non dice né come né con che cosa si abbia. Questo dunque disse Alcmeone.»  (A. Maddalena in G. Giannantoni (a cura di), op. cit., pp. 239-240.)  L'anima modifica Secondo Aezio, Alcmeone affermò che le anime sono causa del proprio movimento e di quello del corpo nel quale sono immerse. Poiché il moto proprio delle anime è continuo e ininterrotto, esse possono essere assimilate ai corpi celesti divini e da ciò si può derivare la loro immortalità. Ciò che si muove è vivo e ciò che si muove continuamente è continuamente vivo e quindi immortale. L'argomento di Alcmeone fu ripreso da Platone nel Fedro. I limiti della conoscenza umana modifica Diogene Laerzio[28] conserva l'incipit dell'asserito trattato di Alcmeone “Sulla natura”:  «Alcmeone di Crotone, figlio di Pirito, disse questo a Brontino e a Leonte e a Batillo: delle cose invisibili e delle cose visibili soltanto gli dèi hanno conoscenza certa (sapheneian); gli uomini possono soltanto congetturare (tekmairesthai).»  (A. Maddalena in G. Giannantoni (a cura di), op. cit., p. 243.)  «Il «metodo tipico della conoscenza umana» consiste, per Alcmeone, nel «tekmairesthai», ovvero nel «procedere appunto per indizi, congetture, prove»: egli, in tal modo, «non faceva che teorizzare la sua stessa prassi di medico, abituato a interpretare l'esperienza per ritrovare in essa un significato, un valore di sintomo, e risalire così all'unità della malattia e delle sue cause». Sotto questo profilo, con Alcmeone «si apriva una nuova via verso il sapere, una via che passava pur sempre attraverso l'osservazione»  (M. Vegetti, op. cit., p. 21.)  Perilli, Alcmeone di Crotone tra filosofia e scienza. Per una nuova edizione delle fonti, in «Quaderni Urbinati di Cultura Classica», N. S., Vol. 69, No. 3 (2001), p. 56. ^ G. E. R. Lloyd, Metodi e problemi della scienza greca, trad. it., Laterza, Bari-Roma 1993, pp. 281-332. ^ (EN) Carl Huffman, Alcmaeon, in Edward N. Zalta (a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information (CSLI), Università di Stanford, 2008. ^ Metafisica A 5, 986a 22. ^ Diogene Laerzio, Vite dei filosofi, VIII 83 (A 1, 1) ^ Vita di Pitagora, 132; 194; 267. ^ L. Perilli, G. E. R. Lloyd, op. cit., p. 288. ^ Arist., Metaph. A 5. 986a; Id., Hist. anim. H 1 581a 12; Id., De gen. anim. G 2 752 b 22; Diog. Laert. VIII 83, etc. ^ Per le testimonianze e i frammenti di Alcmeone, vd. H. Diels, W. Kranz, (a cura di), I presocratici. Testo greco a fronte, a cura di Giovanni Reale, Bompiani, Milano, 2006; A. Maddalena in G. Giannantoni (a cura di), I Presocratici. Testimonianze e frammenti, Bari-Roma 1986, Laterza, vol. I, pp. 238-241. ^ De sensu, 25-26 ^ De elem. sec. Hippocr, I, 9. ^ fr. 25 F.H.G. III 581 ^ Strom. I 78 ^ In Tim. c. 237 p. 279 ^ A. Krug, La medicina nel mondo classico, trad. it. Firenze 1990, Giunti, pp. 47 e ss.  Rocco Ronchi, La scrittura della verità: per una genealogia della teoria, Di fronte e attraverso (n. 409), Lo spoglio dell'occidente (n.3), Jaca Book, 1996, p. 33, ISBN 9788816404090, ISSN 2239-5911 (WC · ACNP), OCLC Dox. 442) ^ Metaph., A 5 986 a 22. ^ c. 237, p. 279 Wrob. ^ de sensu. Lloyd,  Chalcid in Tim p279 Wrob in Maria Timpanaro Cardini Pitagorici Antichi p149. ^ H. Von Staden, Herophilus. The Art of Medicine in Early Alexandria, Cambridge University Press, Cambridge 1989, pp. 139 e ss. ^ G. E. R. Lloyd, A. Krug, op. cit., p. 46. ^ Pitagora e i pitagorici: l’anima.  (VIII 83) Bibliografia modifica P. S. Codellas, Alcmaeon of Croton: his life, work and fragments, in Proceedings of the Royal Society of Medicine, vol. 25, 1932, pp. 1041–1046. R. W. Doty, Alkmaion’s discovery that brain creates mind: a revolution in human knowledge comparable to that of Copernicus and of Darwin, in Neuroscience, n. 147, pp. 561–568. Lorenzo Perilli, Alcmeone di Crotone tra filosofia e scienza, in Quaderni Urbinati di Cultura Classica, n. 69, 2001, pp. 55-79. Alcmeóne di Crotone, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata ALCMEONE di Crotone, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1929. Modifica su Wikidata Alcmeone di Crotone, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,  (EN) Alcmaeon, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. (EN) Carl Huffman, Alcmaeon, in Edward N. Zalta (a cura di), Stanford Encyclopedia of Philosophy, Center for the Study of Language and Information (CSLI), Università di Stanford. Portale Biografie  Portale Filosofia  Portale Letteratura  Portale Magna Grecia  Portale Medicina. Eraclito filosofo greco antico Empedocle filosofo e politico greco antico Scuola pitagorica antico movimento esoterico e metafisico basato sugli insegnamenti di Pitagora. Alcmeone.

 

Grice ed Alderotti – filosofia italiana – filosofia toscana – filosofia fiorentina Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “I like Alderotti; but then his favourite treatise was Aristotle’s little thing to his son, Niccomaco – which Hardie instilled on me like a leech!” “Alderotti was what we would call a Florentine-Bologne-oriented Aristotelian; he thought, with Aristotle, that the heart trumps the head --  Grice: “What I like most about lderotti is his archiginnasio – no such thing at Oxford! So, as Speranza says in “Colloquenza all’archiginnasio,” Alderotti knew what he was doing, even if his pupils did not!”Scienziato e filosofo erudito, scrisse per l'amico e protettore Donati, uno dei primi testi di medicina in lingua volgare, il Della conservazione della salute. Il più conosciuto medico del Medioevo, tanto da meritarsi una citazione nel XII canto del Paradiso di Dante, insegna a Bologna, applicando, durante le sue lezioni di medicina, un innovativo metodo scolastico. Iniziava la lezione con una lectio o expositio di un passo tratto da un testo autorevole (di Ippocrate, Galeno, ecc.). Procede poi per quaestiones con riferimento alle quattro cause aristoteliche. La causa materiale (la materia della trattazione), la causa formale (la sua forma espositiva), la causa efficiente (l'autore dell'opera),  lacausa finale (il fine o lo scopo dell'argomento prescelto). A questo punto il maestro formula una serie di dubia, cui facevano seguito i momenti euristici della disputatio ed, infine, della solutio. Alighieri lo cita in modo dispregiativo nel Convivio (I, x 10): “Temendo che 'l volgare non fosse stato posto per alcuno che l'avesse laido fatto parere, come fece quelli che transmuta lo latino de l'etica ciò e Alderotti ipocratista provide. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere. Tra i primi volgarizzatori toscani è maestro Taddeo, il famoso medico fiorentino, pubblico professore di medicina nell'Università di Bologna, uno dei personaggi più notevoli del suo tempo; egli è pure il primo traduttore italico della morale a Nicomaco, che volgarizzata entra oramai a far parte della cultura generale. Di traduzioni della Nicoma chea,c'eran ledue greco-latinedell'Ethica uetus edell'Ethi ca noua,frammentarie,e quella del liber Ethicorum com pletaletterale;ma ilvolgarizzatorenon poteacertamente servirsi di un testo incompleto o di traduzioni letterali che avrebbero evidentemente lasciato Aristotele oscurissimo nel volgare come lo era nell'originale greco e nelle traduzioni latine. C'erano le traduzioni arabe: quella del commentario di Averroe; ma come si sarebbe potuto presentare per la primavoltaa'laici, incapacidicomprendereunvastosi stema filosofico, Aristotele con tutto il bagaglio delle sue dottrine logiche e metafisiche che servono di base all'Etica? Restava il compendio alessandrino-arabo, e questo difatti ammesso alla facile diffusione del volgare divenne il testo morale aristotelico di moda più recente (1). Al principio della seconda metà del decimoterzo secolo maestro Taddeo ridusse in volgare toscano ilcompendio ales sandrino-arabo della morale a Nicomaco; poco più tardi (1)Ho in un lavoro precedente trattato dell'Etica volgare e fran cese; a quel lavoro modesto richiamo il lettore il quale, trattandosi di una questione già molto controversa,voglia con sicurezza accogliere le nostre conclusioni; giacchè ora alle conclusioni sono costretto dalle necessità e dall'economia dell'argomento. (C. MARCHESI, Il Compendio volgare dell'Etica Aristotelica e le fonti del VI libro del Tresor in Giorn. Stor.della lett.it.). Brunetto Latini, nella seconda parte del Tresor accolse il volgare di Taddeo,modificato secondo il testo originale la tino ch'ei conobbe e a cui portò contributo di novissime m e ditazioni. Sicché tra i due compendi è una notevole diffe renza: una differenza che va tutta a favore di ser Bru netto il quale ebbe il vantaggio di lavorar dopo in un secolo in cui, per quella energia naturale delle letterature novelle, si progrediva assai rapidamente nel gusto e nella cultura. La traduzione di Taddeo in gran parte fedele al conte nuto, nella forma è condotta con una notevole indipendenza rispetto alla frase latina, e non di rado si vede la sicurezza ch'è nell'intendimento del traduttore e la buona conoscenza ch'egli ha del linguaggio filosofico: spesso compendia lam a teria, d'altra parte allarga tante volte la frase o ilconcetto e diluisce nel volgare il testo latino per bisogno di ripeti zioni e di esempi o di ampliamenti, servendosi, come fa in principio,di qualche altro rifacimento,e aggiungendo dichia razioni proprie. Taddeo non è un traduttore letterale che si preoccupi dalla frase e voglia mantenersi fedele alla pa- ! rola o al tenore dell'esposizione; egli è solo un interprete occupato del contenuto che pur vuole spesso acconciare dal lato espositivo nella maniera più rispondente,secondo lui,a'bisogni della chiarezza e della semplicità. General mente palesa una certa libertà nel compendiare e nel ren dere il concetto con espressioni diverse dall'originale,come quando per es.traduce uita scientiae et sapientiae con uita contemplatiua; delle parti più confuse e difficili a inten dersi fa una parafrasi invertendo anche l'ordine delle idee e disponendole in maniera più agevole per la intelligenza finale, seguito in questo naturalmente da Brunetto. Ecco un esempio: Rerum quedam sunt co gniteapudnosetquedam sunt cognite apud natu ram.Oportet ergo ut a m a tor scientie ciuilis promtus sit ad res eximias et sciat opiniones rectas. Opinio nes autem recte sunt ut in arte ciuili incipiatur a re bus apud nos cognitis,et in consuetudinibus pulcris et honestis facta sit assuetu do,principium enim estet inceptio a qua res est. Ex manifesto existente suffi cienter quia res est,non indigeturpropterquid res est. Indiget autem homo ad promtitudinem habita tionis veritatis rerum bo narum aut aptitudine bone instrumentalitatis ex qua sciat uerum,aut forma per quam accipiantur princi piarerumabeofacile.Qui za. uero neutram babuerit h a rum aptitudinum audiat sermonem Homeri (corr. Hesiodi) poete ubi dicit: quidem bonus est,hicau tem aptus ut bonus fiat. Qualche volta invece il concetto è più largamente defi nito per l'aggiunta di qualche breve dichiarazione che serve a chiarirne il contenuto e a precisarlo di più rispetto alle considerazioni precedenti; cosi il testo dice che l'uomo ri fugge dai luoghi solitarî o deserti o ermi,e Taddeo aggiunge: «perchè l'uomo naturalmente ama compagnia »; altrove è detto che beatitudine è cosa completa che non abbisogna  Sono cose lequali sono manifeste alla natura,e sono cose lequalisonomani feste a noi; onde in questa scienza si dee cominciare dalle cose lequali sono manifeste a noi.L'uomoloqua lesideestudiarein questa scienza ed apprendere, si dee ausare nelle cose buone e giuste e oneste; onde gli conviene avere l'a nima sua natural mente disposta a quella scienza: m a quello uomo che non hae neuna di queste cose,è inu tile a questa scien Iliachosesquisont connues å nature et sont choses qui sont conneues à nos; par quoinosdevonsence ste science commen cier as choses qui sont conneues à nos,car qui se vuet estudier å savoir ceste science, il doit user des choses justes,droites et bon nes et honestes,où il li covient avoir l'ame natu raument ordenée à ceste science: mais cil qui n'a ne l'un ne l'autre regarde à cequeHomerusdist: Se li premiers est bons,liautresestap pareilliezàestrebons: mais qui de soi ne set neant, et qui n'aprent de ce que hom li en seigne,ilestdoutout mescheanz.  d'altra cosa; e Taddeo chiarisce « di fuori da sè,. Altre aggiunte, come quelle di aggettivi, tendono solo ad accre scere l'efficacia del concetto; d'altra parte ilvolgarizzatore coordina spesso le frasi sciolte e le considerazioni staccate dell'originale latino nella continuata semplicità di un solo periodo. Brunetto riempie le lacune: molte espressioni trascu rate da Taddeo o tralasciate a dirittura per difficoltà d'in tendimento sono supplite nel Tresor; per es. il testo fa una triplice divisione delle arti: « quedam habent se habitu dine generum et quedam habitudine specierum et quedam habitudine individuorum»:Taddeo omette quest'ultima ca tegoria delle arti,notando solo le generali e le particolari; Brunetto, traducendo anche con finezza letterale ed etimo logica,completa «et aucunes sont sanz deuision ». Altrove sono interi brani del tutto omessi nel volgare che Brunetto restituisce alla esposizione del compendio aristotelico. Dia mone un esempio. Arsciuilisnon pertinet La scienza da La science de cité go pueronequeprosecuto- reggerelacittade ridesideriiatqueuicto- non conviene a fantneàhomequivueille rie,eoquodamboigna- garzonenèauo mais Taddeo non vide nel compendio alessandrino il legame tra le due considerazioni,e omise l'ultima;difatti il com pendiatore o il traduttore latino butta giù una frase fuor di senso che non ha rapporto alcuno con l'originale; Aristotele dice:«non è acconcio l'uditore giovane perchè èinesperto delle azioni che riguardano la vita, e i discorsi della nostra verner ne afiert pas à en  1 risuntrerum seculi, mocheseguitile cequeanduisontnonsa neque proficit ipsis. Non son ensuirre sa volonté, por tem. que ilse torne me, enim intenuit ars ista scientiam sed conuersio. nem hominis ad bonita- suevolontadi,pe- chant des choses dou sie rò che non cle: car ceste ars ne qui savi nelle cose del ert pas la science de l'o secolo. à bonté.  scienza da queste si tolgono e intorno a queste si aggirano – “οι λόγοι δ'εκ τούτων και περί τούτων”. Non pero tutte lelacune sono supplite da Brunetto: la omissione di qualche concetto importante nel volgare e nel francese, è giustificata dal fatto ch'esso si trova altre volte particolarmente espresso e dalla facilità di richiamarlo alla mente nei luoghi ov'esso è ripetuto; cosi avviene per il principio più volte enunciato della eccellenza del bene voluto per sé, rispetto al bene voluto per altro. Brunetto elimina pure qualche ridondanza del volgare; cosi « ars directiua ciuitatum, che Taddeo traduce «l'arte civile la quale insegna reggere la cittade » 1 è resa nel Tresor « l'art qui enseigne la cité à governer »; altre volte invece la espressione è più estesa in Brunetto, come quando traduce con «principaus et dame et soverai n e » il semplice « princeps » riferito all'arte civile, mentre più sicuro intendimento dell'espressione: dice il testo che la beatitudine, come l'uomo che dorme, non manifesta al cuna virtù quando l'uomo la possiede in abito e non in atto, e Brunetto aggiunge « ce est à dire quant il porroit bien faire et il ne lefait mie »; e poco prima alla definizione della potenza razionale ch'è più degna quando si è in atto, aggiunge « chè il bene non è bene se non è fatto (car se il ne le fait, il n'est mie bons)».Talune espressioni proprie del traduttore francese vanno oltre i bisogni della chiarezza e la necessità dell'intendimento; laddove il testo latino dice del bene dell'anima ch'è il più degno di tutti, Brunetto inserendo il concetto della divinità mette di suo la ragione « car ci est li biens de Dieu », evidentemente per il bisogno di ribadire il principio che pone in dio il sommo bene e di asservire il trattato aristotelico alle idea  il volgare dice solo « principale e sovrana ». L'aggiunta comunemente è fatta per maggiore precisione e per un  c o n « colui che sta nel travito »; il francese si riconduce all'esatta interpretazione « li sages cham pions et fors.” Nello sfrondare le ridondanze del volgare e nel ridurre la materia alle proporzioni dell'originale latino, Brunetto non sempre riesce a cogliere l'esatto inten dimento della parola, e riducendo smarrisce l'idea che vi èracchiusa;ilt. ha «quemadmodum peritiagonistaeatque « robusti coronantur quidem et accipiunt palmam apud actum agonisetuictorie»;T addeo traduceaėsomigliantedi quello che sta nel travito a combattere; chè solamente quelli che combatte et vince, quelli å la corona della vittoria », e fa vera illustrazione della frase finale «e se alcuno uomo sia più forte di colui che vince, non à perciò la corona, perch'egli sia più forte, s'egli non combatte, avvegna che egli abbia la potenzia di vincere >; Brunetto si ferma alla prima parte « si comme li sages champions et fors qui se combatetvaintemportelacoronedevictoire trascurando il significato particolare dell’apud che qui sta per post. Pure nellaintelligenza della parola latinailtestofran cese è generalmente più fine del volgare (1), nel quale tal volta si trova sconvolto l'ordine delle frasi e delle idee, (1)Un esempio: t. difficile: Tadd. impossibile,Brunet.dure chose; t. in omnibus artificibus, T. nelle cose artificiali, B. choses de mestier et de art.  lità contemporanee della fede. Generalmente Brunetto ha maggiori riguardi per il testo, perciò che riguarda i concetti semplici e le singole espressioni. Cosi egli corregge la frase talvolta malamente resa o ingiustamente compendiata e confusa da Taddeo. Questi si restringe talora a molto s e m plice espressione, impropria, che mal si adatta al concetto latino,come quando traduce « periti agonistae atque ro busti >  per deviazione dal retto intendimento del latino. Riporto un brano. Brun.car il estdure chose que Taddeo traduce la seconda parte del periodo: ut pote. come se fosse esplicazione del concetto già espresso: opera decora exerceat; Brunetto la riferisce invece al precedente: absque materia.Nel volgare italicoetalvoltaanche,inma niera alquanto diversa, nel francese l'espressione latina è modificataquando apparisca troppo cruda.Infinedel compen dio aristotelico si parla di uomini che non si possono correg gere con parole, per cui occorre « assiduatio uerberum t a m quam in bestia »; Taddeo traduce vagamente «pena »; Brunetto è più civile ancora « menaces de torment ». Il volgarizzatore francese tende spesso,più che il medico fiorentino, a modificare quelle che a lui sembrano asperità di giudizio o durezze d'espressione. Così,nello stesso brano, de'delinquenti per natura,di coloro che non possono cor reggersi con parole nė percastighi, diceilt.«tollendisunt de medio», e Taddeo letteralmente «sondatorredimezzo »; Brunetto è meno severo «tel home doivent estre chastié si que il ne demourent avec autres gens ». È un riscontro ca suale; ma sinotiad ogni modo come l'urbanità dell'espres sione francese e la temperanza cortese di giudizio pare si accordi coi principî positivi di un diritto criminale molto recente ! E Brunetto si accorda talvolta con Taddeo nel m o  T. difficile est enim Tadd. perciò che non homini ut opera decora è possibile all'uomo exerceat absque mate ch'egli faccia belle o riautpotequodha pereech'egliabbia beatpartemcompeten arte la quale si con tem rerum bone uite pertinentiumetcopiam eabbondanzad'amici familieetparentumet ediparenti,eprospe prosperitatemfortune. rità di ventura sanza venga a buona vita, li beni di fuori. ne... 5 1 l'on face b e lesoevres, seiln'ia gran part des choses avenables à bono vie et habondance d'avoir etd'amisetdeparenz, et prosperité de fortu  dificare le opinioni del testo, come quando fieri amendue della loro vita comunale, rinnegano il detto d'Aristotele che l'ottimo governo sia nel principato, affermando migliore il governo delle comunità. Un'osservazione finale. Brunetto qualche volta fa dei tagli al testo latino e al volgare, sopprimendone talune espressioninonperamoredibrevità,ma evidentemente perch'ei si rifiuta di accoglierne il giudizio. Ciò risulta chiaro dalla costanza con cui l'espressione è soppressa ogni qualvolta si presenti nell'intendimento voluto dal l'autore. Una prova: al principio del II° libro (ediz. Gaiter) il compendio latino e con esso Taddeo fa una duplice divisione della virtù:virtù intellettuale,come sa pienza scienza e prudenza,e virtù morale come castità lar ghezza umiltà; e poi lo esempio « quando noi volemo lodare un uomo di virtude intellettuale diciamo:questo è un savio uomo intendevile e sottile:quando volemo lodare un altro uomo di virtude morale, diciamo: questo è un casto uomo umile e largo » Nell'uno e nell'altro caso Brunetto sop prime a dirittura l'espressione che racchiude il concetto della umiltà. La prima volta dice della virtù morale,ch'essa è « chastée et largesce »e soggiunge un po'infastiditoe non curante del testo « et autres choses semblables »; nella se conda parte dice semplicemente « ce est uns hom chastes et larges ».Ed è curioso e notevole documento questo d’uno tra ipiù illustri rappresentanti del laicato dotto del tem po, uomo di parte e d'azione tenace e bellicosa e guelfo ardente,che si rifiuta cosi chiaramente di accogliere l'umiltà tra le virtù morali, ribellandosi al giudizio che uomo umile ė uomo virtuoso. C'è qui l'alto sentire del laico e lo spi (1) « ex parte moralium largum uel castum uel humilem. uel modestum eum appellamus».  Rito sdegnoso elaboria cavalleresca del tempo, chesian nidava bensi nella fierezza solitaria e nella severa integritå dell'uom casto, o sorrideva nel magnifico gesto signorile dell'uom largo e cortese, ma non si acconciava a indossare il saio dell'umile curvato.  Quale dei due traduttori abbia merito maggiore non possiam dire. Taddeo ha il merito dellapriorità;ma egli compendia troppo, abbrevia, toglie parte di considera zioni e di esempi al testo latino; Brunetto che lavorò a p presso a lui è più fine e completo, e poi anche il fran cese si prestava allora assai meglio del volgare italico. Taddeo molte volte amplia o riduce la materia, Brunetto traduce con maggiore fedeltà sia nell'evitare le ripetizioni inutili del volgare sia nel colmarne le lacune rispetto all'ori ginale latino, le cui espressioni segue con attenzione e riproduce spesso con esattezza. Siamo nel periododeicom pendi e dell'enciclopedia. Un compendio fatto è fatica ri sparmiata al maestro che deve dire le «chose universali ». Brunetto, che aveva intelligenza fine, trasse il compendio italico alla lingua di Francia e l'incluse nell'opera sua e ne colmò le lacune e ne affinò i contorni e lo ripuli di fronte al testo latino da cui egli pompeggiandosi dicea di aver tratto la parte morale del Tresor. E non fa cenno di T a d deo: egli accoglie, corregge, assimila; d'altra parte è tutta una letteratura e una divulgazione anonima quella che dal l'ultimomedioevovaaltrecento,eidirittidi proprietà letteraria non sono ancor sorti. C'è però da osservare che nel ritocco della materia volgare Brunetto non va oltre qualche singola espressione o frase, trascurata o ridondante. Egli non si attenta mai a rimaneggiare e ad acconciare la materia nel contenuto ideale,per ilmodo con cui le idee furono esposte nel volgare o compendiate o disposte o in  terpretate.Questo dunque testimonia onorevolmente che Taddeo era allora ritenuto autorevole intenditore del trattato ari stotelico anche da un uomo per cultura famoso come ser Brunetto, sebbene al grande discepolo di costui non appa risse ugualmente felice dicitore del volgare.Tuttavia le m o dificazioni introdotte da Taddeo e assai più ancora da Bru netto non sono tali da farci notare la presenza di nuovi elementi etici o l'azione modificatrice diretta del tradut tore spinto da una evoluta coscienza sociale del tempo.Gli scrittori del medio evo accolgono e credono; sono ansiosi di notizie come sono pieni di fede. Si accetta tutto, il vero e il falso, anzi più il falso che il vero; a Taddeo che scrive un sonetto sulla pietra filosofale risponde Brunetto che ragiona sulle virtù delle pietre. È ancora intatto il morto edificio secolare della fede, che più tardi la critica del quat trocento ridurrà nei frantumi donde sorgerà la nuova co scienza degli individui e delle genti. MAGLIABECH.XVI, 7,75;cartac. sec. XV.«Carmina magistri Tadei de florentia super scientiam lapidis philosophorum ex Alberto Magno edita feliciter. «Soluete icorpi inaqua a tuti dico voi che in tendete di far sol et luna delle duo aque poi prendete l'una Qual più vi piace e fate quel chio dico datella a ber a quel uostro inimico senza manzare i dicho cosa alguna Morto larete e riuerso in bruna dentro dal cuore del lion Anticho poi su li fate la sua sepoltura si e in tal modo che tuto si sfacia la polpa e lossa o tuta sua giuntu ra|La pietra aretee da poi questo si facia de terra aqua et daqua terra fare così la pietra uuol multiplicare e qual intendera ben sto sonetto sera signor de quel a chi e suzetto».  Il compendio alessandrino-arabo prestó dunque la ma-: teria etica aristotelica al volgare d'Italia e di Francia; e la morale a Nicomaco potè cosi divenire libro di attualità adoperato e sfruttato, nella valutazione dei principi etici e nella decisione delle finalità umane, dai nuovi scrittori vol gari: tra questi ė Alighieri, a cui Taddeo dié motivo   di presentare in più nobil veste il volgar di Toscana, e Latini avea ad ora ad ora insegnato « c o m e l ' u o m s'eterna ».  IL COMPENDIO VOLGARE LE FONTI DELLIBRO DEL " TRESOR, Il presente lavoro fa parte di un altro più esteso e completo sui rifacimenti aristotelici latini e volgari, il quale spero verrà presto a portare un contributo,non privo d'interesse,alla storia ell'aristotelismo nella pre-rinascita e a colmare qualche lacuna la conoscenza del movimento intellettuale che fu prima del quattrocento:giacchè ne'volgarizzamenti e ne'rifacimenti sta i cultura del trecento; seguendo il volgarizzarsi e il diffondersi della cultura medievale e classica, specialmente, noi troveremo i sentiero ascoso che va da Dante teologo al Petrarca filologo. Ma ora ho fatto opera molto modesta; trattando solo le spi. ese questioni critiche agitate intorno al compendio volgare ell'Etica, ho inteso risolvere taluni dubbî,lungamente mante nūti, ed eliminare molti errori. Il lettore, che attende forse uno studio riassuntivo sulla influenza della morale aristotelica, comprenderà come questo sia possibile solo alla fine dell'opera, quando le ricerche già fatte e i risultati ottenuti ci metteranno in grado di poter volgere uno sguardo sicuro e sereno su quel grande campo dove la tradizione aristotelica alligno rigogliosa e tenace ramificandosi e abbarbicandosi per una serie copiosis. sima di rampolli viziosi e invadenti.  DELL'ETICA ARISTOTELICA C. MARCHESI. 1 E   2 C. MARCHESI Il compendio volgare dell'Elica nicomachea e per la prima volta impresso a Lione a cura dell'editore Tournes, su di un manoscritto appartenente a Corbinelli. Manni stimo inutile, per le moltissime mende, la edizione francese,condotta inoltre su un solo manoscritto,e ristampò il trattato aristotelico valendosi principalmente di due codici Laurenziani,il 19 e il 23 del plut.XLII (2).L'ultima ediz.del 1844 fu condotta da Fr. Berlan su un cod.del sec.XIV e in base a un esemplare dell'ediz. lionese emendato e comple tato da Apostolo Zeno su un ms. Com'è noto,ilcompendio volgare dell'Elica aristotelica è quello stesso che forma il VI libro del Tresor volgarizzato, se condo la comune opinione, da Bono Giamboni; pero si trova anche in tutte le edizioni del Tesoro volgare:Treviso, Gerardo Flandrino (de Lisa), Venezia,Fratelli da Sabbio, Venezia, Marchio Sessa,1533;Venezia, acura di Luigi Carrer il quale nel libro VI seguì anche le due edizioni, Lionese e del Manni;Bologna, 1878,ed.da Luigi Gaiter il quale si valse di tutte le stampe precedenti,de'mss.del Tesoro e di raffronti continui col testo francese. Eppure di questo compendio manca una stampa che ne ripro duca fedelmente e criticamente la lezione;giacchè a tutti gli editori dell'Elica,che eseguirono le loro stampe sulle precedenti o solo col sussidio di qualche ms.,sfuggi quella rigogliosa co munione di codici, che abbiam potuto noi esaminare, da' quali (1) L'Etica d'Aristotile ridotta in compendio da ser Brunetto Latini et altre tradutioni et scritti di quei tempi. Con alcuni dotti Avvertimenti intornoallalingua, Lione,Giov.deTornes. L'Etica d'Aristotile e la Rettorica di M. Tullio aggiuntovi il libro de' Costumi di Catone, Firenze, Dall'edizione lionese trasse la parte riguardante le quattro virtù un tal Luigi Ruozi che la pubblicò modifican dola nell'ortografia e nella lezione: Trattato delle quattro virtù cardinali compendiate da serBrunettoLatini sopra l'Eticad'Aristotile,Verona. Etica d'Aristotile compendiata da ser Brunetto Latini e due leggende di autore anonimo,Venezia, sarà possibile, con un esame complessivo, trarre nella sua veste primitiva l'antico volgarizzamento toscano; d'altra parte gli editori più recenti del Tesoro nel curare la lezione del VI libro, ritenendolo, com'era naturale,volgarizzamento dal francese, come tutti gli altri libri, credettero opportuno acconciarne la lezione anche inbase al testo francese,alterandone laveste originaria e originale. Intorno a questo antico e primo compendio volgare dell'Etica si è agitata una lunga e spinosa questione. Esso fin dalle prime stampe porta il nome di Brunotto Latini, e il fatto stesso poi che si trova inserito nel testo volgare del Tresor, di cui costi tuisce appunto la materia del VI libro, non ha mai fatto dubitare ai critici e agli editori ch'esso non si debba considerare come una parte del Tesoro e quindi,come tutti gli altri libri, volga rizzamento di Bono Giamboni.Solo il Mabillon,ritenendo che Brunetto stesso avesse volgarizzato il suo Tresor, credeva che ciò fosse pure avvenuto dell'Etica. Il primo dubbio intorno al traduttore del compendio francese in toscano fu mosso dal Manni, indotto da una nota del Salviati il quale « trovò in fronte « a un particolar testo dell'Etica: Qui comenza l'Elica di Ari. « stolile volgarizzata per maestro Taddeo medico e philosopho «dignissimo».Ad ogni modo egli si acqueta volentieri all'au. torità della Crusca che cita il Tesoro « tutto » stampato per traduzione di Bono Giamboni (2).Altri che vennero dopo nota rono che qualcuno dei mss. dell'Etica indicava un maestro Taddeo come il volgarizzatore dell'opera; difatti il Lami ritiene che ilvero traduttore sia Taddeo,e il Mebus,seguito dal Maffei, sostieneche la versione di Taddeo,fatta probabil mente assai prima,venisse più tardi inserita nel Tesoro volga. rizzato,in tuttiglialtri libri, da Bono Giamboni. Lo Chabaille, Museum Italicum, Paris.Novelle letterarie,Firenze, Storia della lett. ital., 3a ediz., Firenze. VitaAmbrosii Traversarii, che curò la edizione critica francese del Tresor, dalla perfetta somiglianza ch'è tra l'Elica e il vi libro del Tesoro, deduce che Brunetto avesse tradotto Aristotile in italiano prima ancora di voltarlo in francese, e che quindi il compendio volgare del l'Etica dev'essere a lui attribuito Il Paitoni, che scrisse sopra tale argomento un lungo articolo, finisce col non sapere da che parte decidersi Giov.Battista Zannoni ha spinto in vece la questione molto avanti,servendosi di un passo del Conrito di Dante (Tratt.), dove è fatto cenno di un volgarizzamento dal latino dell'Etica per opera di Maestro Taddeo,ilcui volgare Dante chiama «laido».Lo Zannoni ri tiene « che Brunetto voltasse in francese il volgare di Taddeo « e che il Giamboni a questo desse luogo nella sua versione «delTesoro»(3).QuestacongetturaèancheaccoltadalPuc cinotti,ch'è stato il più accanito difensore di Taddeo. Sundby combatte tutte le opinioni precedenti:quella delloCha. baille e dello Zannoni,opponendo loro le parole stesse di Bru netto che,nella sua introduzione, assevera di aver tradotto dal latino in francese,de latin en romans;quella del Mehus, citando il passo di Dante il quale parla evidentemente di una traduzione dal latino. Egli reputa diversa da quella che abbiamo la traduzione di Taddeo,dicui sifacenno nel Convito; afferma recisamente che Brunetto ha tradotto Aristotile dal latino in francese e che il testo italiano dell'Etica è opera di Bono Giamboni. Gaiter, ch'è il più recente editore delTesoro, seguendo, come pare, la congettura di Chabaille, confonde la Lilivresdou Tresor par Brunetto Latini, Paris, Biblioteca degli autori antichi greci e latini volgarizzati, Venezia, Il Tesoretto e il Favolello di ser Brunetto Latini, Firenze, Prefazione,pp.XXXV sgg. Storia della medicina,Firenze, MARCHESI. Della vita e delle opere di Brunetto Latini, Firenze,1884,pp.139 sgg. La stessa opinione del Sundby aveva esposta prima V. Nannucci,Manuale, Firenze, Nicomachea con ilLibro de'Vizi e delle Virtù e con il VI libro del Tesoro, il quale « fu prima compilato e poscia dall'autore «annestato nella maggior parte del Tesoretto»; e altrove ricorda una nota del Sorio che attribuiva a Brunetto Latini il volgarizzamento dell'Elica d'Aristotile; del resto non fa cenno dellaquestione.IlCecioni,perultimo,trattando delSecretum Secretorum, in una breve digressione sull'Elica volgare, dopo avere riassunto tutte le opinioni,assicura che Taddeo deve averne fatto una traduzione, poichè altrimenti sarebbe inesplicabile il motivo per cui parecchi codici di rispettabile antichità attribui. scono la traduzione aTaddeo;ma delrestoaffermachelaque. stione circa il volgarizzamento dell'Etica, che noi possediamo, rimane indecisa nè si potrà forse in alcun modo risolvere. Cosi scetticamente si chiude la questione, irresoluta. Dopo l'esame dei codici dell'Etica volgare e latina e del Tesoro, non è più lecito dubitare di poter decidere la questione in modo definitivo, e a definirla concorrono parecchi dati positivi e sicuri; il primo, di capitale importanza: la tradizione manoscritta. Il compendio volgare della Nicomachea ci ha una ben larga ed evidente tradizione isolata.Nelle biblioteche di Firenze,ove il latino del testo aristotelico ebbe per la prima volta veste volgare e popolare conoscenza, ben ventidue codici ci attestano della larga diffusione che il volgarizzamento ebbe come opera a sė, indipendente da altre opere più larghe che la integrassero. A'codici fiorentini si aggiungono altri che ho potuto esaminare: due Ambrosiani,tre Marciani,uno della Nazionale di Napoli, uno della Comunale di Nicosia. Pochi altri mss. dell'Etica si trovano sparsi per le biblioteche d'Italia, ma da ragguagli cortesi che ho potuto avere di essi, è lecito dedurre come tutti quanti ade riscano per contenuto e per lezione al nucleo centrale e fonda mentale dei mss.fiorentini.  Ediz.cit.del Tesoro,Prefaz.,p.xv. Propugnatore. Tutti icodici presentano una redazione unica del volgarizzamento,che è quella stessa della edizione Manni, con la quale ho fattolacollazione. Le varianti frequenti nella lezione, le inversioni,le omissioni reciproche, gli scambi, le lacune del testo a stampa sopra tutto, si debbono, oltre che alla bontà maggiore o minore del modello, a sbagli de' trascrittori, e non valgono dinanzi alla somiglianza e conformità dell'assieme.Molte lacune e accorciamenti si possono attribuire soltanto a sbada taggine de'copisti per le gravi difettosità che ne vengono al senso, e sono indubbiamente prodotte dalleespressioni consimili cheapocadistanza han prodotto la facile omissione: giacchè il copista credendo di proseguire saltava d'un tratto il brano. Accanto alle lacune, che dànno qualche volta luogo a strane combinazioni d'idee,va notato un buon numero di ampliamenti, di cui taluni sono ripetizioni di luoghi antecedenti.Qualche volta le parole si trovano collocate in maniera diversa nel periodo o sostituite con altre e mutate con lo scopo di abbreviare o modificare il costrutto (2 ); le molte differenze ortografiche vann ori ferit e al tempo della trascrizione. Fra i codici che più si accostano al testoastampa vanno notati 6.c.g.h.4.2.m.p.e specialmente d ed e,iquali hanno pure comuni con il testo Manni molte particolarità ortografiche.Le maggiori divergenze presentano i codd.7 e 1;in quest'ultimo è notevole un'aggiunta al libro sesto Nel cod. V la lezione presenta spiccate differenze, (1) È da osservare come nel secondo libro (cap.IX del Tesoro) occorrano tre parole greche trascritte con caratteri latini:19)apeyrocaliaoapeiorocalia(4.y.) edanche apeyrochilia (6) eapherocalia (g):in pa recchi codici tale parola è mancante perchè manca il brano che la contiene; 29) eutrapeles (x.y.4.m.p.)o eutrapelos(2.6.7.d.e.f.g.h.)ed anche eutrapelo (6) ed eutrapeleos (8); 3o recoples orechoples(e.g.) ed anche recupes (6) erecopls (2).Inqualchecodice, come nel cod.1, il copista salta il passo dove avrebbe dovuto introdurre le parole greche. (2 ) Come si nota anche particolarmente nell'Ambr. C. 2 1, i n f., ch'è una trascrizione umanistica della seconda metà del '400, (3) Manni, Gaiter,p.115:«in questo cambio era grande brigaet  specialmente nella seconda metà,dalla lezione comune,e risente dell'influenza dell'opera francese di Brunetto e dell'azione diretta modificatrice del trascrittore: l'influenza del francese in questo codice, come nell'Ambros. c. 2 1 i n f., c i è attestata indubbiamente dal fatto ch'essi vanno oltre il limite solito dell'Elica e proseguono con le stesse parole, intorno alla differenza tra la retorica e la scienza di fare le leggi, le quali chiudono il VI. libro del Tresor; ma possiam dire che per quanto la lezione di V sia in molti punti alterata,non presenta tuttavia una redazione diversa dalla comune dei mss.e delle stampe del Manni e del Gaiter, alla quale ultima specialmente aderisce verso la fine.Dall'esame critico della lezione risulta una somiglianza intima tra icodd.1 e 7; tenendo poi conto delle particolarità più comuni, possiamo stabilirediversi gruppi di codici:a) 1.a.y.5.6.7.8.x.r. 9. che ci danno la più autorevole lezione;b) g.C.d.e.f.N.r. 2.s.;c) 4.m.p. Come s'è detto, il compendio volgare dell'Etica si trova pure inserito nel volgarizzamento del Tresor, di cui forma la prima metà della seconda parte, o meglio il VI libro, secondo la indicazione comune.Dei venti codici del Tesoro da me esaminati, dodici solamente contengono il trattato aristotelico: gli altri sono mutili. La lezione dell'Etica ne' codici del Tesoro, tranne le solite Jivergenze omai notate come comuni in questa redazione del l'Etica volgare,è da collegarsi alla stessa famiglia dei codici isolati e de'testi a stampa. C'è da notare nel complesso un numero maggioredivarianti, omissioni, aggiunte, frequentissimi sbagli di trascrizione e qualche breve interpolazione del copista  «pero fue trovata una cosa c'aguagliasse et questa cosa si è il danaio. « percio che l'opera di colui che fa la chasa si aghuaglia ad opere di colui « che fae i calzari col danaio; chè per lo danaio puote l'uomo donare et « prendere le grandi cose e picciole, per cio che 'ldanaio è uno strumento «perloquale ilgiudicepuotefaregiustizia, pero che el danaio èleggie «senz'anima. ma il Giudice è leggi ech'à anima et dio glorioso si è leggie « uniuersale d'ongni cosa »,   stesso,che sidistingue subito permancanza di riscontroinaltri codici. Oltrere P, che servirono di base allastampa fiorentina, uno de'codici più fedeli all'ediz.del Manni è l'Ambros.G. 75 Sup. e Z,dove pur si trova una grande confusione causata dallo spostamento di varie parti.Tra icodd.più scorretti dal lato ortografico e P. In base alle particolarità più comuni icodd.del Tesoro si possonodividere ne'seguenti gruppi:19)d.v.1. 2°)n. λ.π.φ.3ο)λ.μ.γ.Ρ.Ζ.ε.Ambr. Riassumendo, possiam dire: la lezione del testo aristotelico volgare appare generalmente, ne'codd.dell'Etica e del Tesoro, fluttuante,poco sicura.Ma lesolite differenze nella espressione, nella struttura del periodo, le frequenti omissioni e aggiunte di parola,gli spostamenti e le lacune,comuni alla maggior parte dei codici,riguardano più d'ogni cosa la bontà della copia,la correttezza del modello copiato, la esperienza o la libertà del l'amanuense, ma non compromettono in alcun modo l'unità del volgarizzamento. La materia dell'Etica si trova nella maggior parte dei codici ugualmente distribuita.Una grave inversione presentano 1. d. e.s.; in essi il testo dap.6 Manni [Gaiter 25: compimentoe forma di uirtu ] va d'un tratto a p. 18 (Gaiter 57: ciascuno huomo che ingiusto et reo sie] e seguita sino a p.21 (Gait.66: E pero è bestial cosa seguir troppo la dilettazione del tatto] donde torna indietroap.9 [Gait.34: La potenzia uae'innanzi all'acto] e prosegue sino a p. 18 [Gait. 57: dee l'uomo essere punilo];quindi tornadinuovoap.6 (Gait.25:beatitudoècosa ferma et stabile] seguitando sino alla fine del primo libro [p.8 M., 31 G.: Questièun casto huomo, humile et largo).È determi nato cosi uno scambio reciproco, nel principio, de'libri secondo e terzo.  'T 8 G. MARCHESI Un'altra inversione è nei codd.del Tesoro a.T. X. u.In essi iltesto dell'Etica dalla fine del cap.XXIX (pp.M.35,G.101: l'uomo si uiene a fine con grande sottilglianza de li suoi in tendimentine le cose le qualisonbuonema questasottilglianza e cerlezza e sauere ragion diuina e le dilettationi che l'uomo elegge per gratia d'altro.son queste ricchezza etc.... Jez.u] corred'untrattoalcap.XXXVIII (pp.M.41,G.121] e prosegue sino al primo periodo del cap.XXXIX (pp.M. 43,G. 125:per a u e r e lungamente u i n t i li desideri della carne. Lo magnanimo serue bene.....u]; quindi ritorna al cap.XXXIV (pp.M. 37, G.110) eva sino al cap.XXXVIII (pp. M.41, G.120:inman. giare e in bere e in luxuria e tutle dilectationi corporali ne la misura delle quali l'uomo elegge per se medesimo.et quando ella e rea si detta callidita. ne le cose ree si come incanta menti.....u]; dopo itre primi periodi del cap.XXXVIII torna cosi nuovamente al cap.XXIX (pp.M. 35,G. 101). La stessa inversione nell'ordine della materia h a il m s. V i s i a n i. I codici dell'Etica, in gran parte,presentano la solita divisione della materia in dodici libri,che non di rado è limitata alla semplice indicazione numerica,senza alcun accenno all'argomento svolto (h. 4. ); i n p a r e c c h i c o d i c i (y. c. e. h. 4. m. r.) l a materia oltre che in libri è divisa in tanti capitoletti; in altri, soltanto in rubriche le quali sono qualche volta costituite dalle stesse parole del testo,come in 5 e 6.Altri co. dici mancano di qualunque divisione sia in libri che in rubriche (p.8.Amb.166). L'Ambr. C.21inf.,delsec.XV,presentala partizione comune fino al decimo libro;la materia degli ultimi due è divisa in tre capitoli (c.53':tracta di la beatitudine la quale puo hauere in questo mondo: Di po la uirtu diciamo di labeatitudine; c.57 "tracta che se l'huomo ha buona natura la ha da dio: sonno huomini che sonno buoni per pauura; c.57'di Gouernamento dilacittade:lonobilehuomoetbuono regitore di la citta fa nobili et buoni cittadini). In d in luogo di libri è detto fioretti, e cosi pure al principio di v: Fioretti dell'Elicha d Aristotile del primo libro. . Dei codici del Tesoro, taluni (e,u,n) non danno alcuna in dicazione sul modo con cui la materia è distribuita;altri (a,a) hanno un elenco delle rubriche posto in principio alla seconda parte dell'opera, vale a dire il VI libro; in 8 è un rubricario generale posto in principio del Tesoro; le rubriche di t fanno!   parte del testo,e una divisione in capitoli si trova in r (De leuile nominale de le tre potenzie del'anima Come lobene si diuide de la polenzia dell'anima de la uerlude intellectuale di che l'omo desidera tre cose |de le uerlude che ssono inabito comesitroualauerlude comel'omopuo farebene e male de le tre isposizioni in operatione de le cose che conuienefareperforzaetc.). In due codici (Z eAmb.) tutta la materia del VI libro è divisa in cinque capitoli: 1°) « Incipit «libro d'eticha Aristotile; 2) Secondo capitolo d'elicha Ari «stotile:sonooperationi lequali homo fa;39)Terzocapilolo « d'eticha: due sono le specie d'amista; Quarto capitolo de « eticha: la dilectatione è nata e notricata; 5°) Quinto capitolo « de etica: Dopo le uirtù diciamo oggimai della beatitudine ».Altri codici presentano la divisione per libri o per rubriche che si trova nelle stampe. Riferiamo il titolo originario dei dodici libri dell’Etica, traen dolo da'codici più antichi ed autorevoli, del sec.XIV: « Prologo « sopra l'etica d'Aristotile Qui si finisce il prologo di questo « libro d'Aristotile. Qui appresso si comincia il primo libro e « tracta in questo primo libro della felicitade: le uite nominate ve famose.IQui comincia ilsecondo libro dell'Etica d'Aristo « tile e comincia a diterminare delle uirtudi e primieramente « mostra che ongni uirtu che noi abbiamo è per costumanza « d'opere:Concio siacosa che siano due uirtudi.|Qui comincia “il terzo libro dell'etica e tratta dell'operazioni le quali sono “volontarie e che non sono uolontarie: Sono operazioni le quali « l'uomo fae sanza sua uolontade uqi comincia il quarto libro « dell'etica d'Aristotile ove si ditermina di quella uertude la « quale è detta uertude della liberalitade:Larghezza è mezzo in « dare e in riceuere pecunia qui comincia il quinto libro del « l'etica e determina della giustizia la quale è uerti che dee « essere nell'operatione delli huomini: Iustizia si è abilo lau « de u o l e qui comincia il sesto libro dell'Etica e cominc a a d e « terminare delle uertudi intellettuali per ciò che infino a quie «ellisiaediterminatodelleuirtudimorali:Due sonolespezie « delle uirtudi |Qui si comincia il settimo libro dell'etica del « sommo filosofo Aristotile e ditermina della uertude la quale è detta uertude della contenenza: Li uizii de costumi molto « reil Qui comincia l'ottavo libro dell'etica d'Aristotile nel quale «ditermina dell'amistade la quale è cosa necessaria all'uomo: « Amistade si è una delle uertudi dell'uomo IQui comincia il nono libro dell'etica d'Aristotile il quale ditermina della pro «prietade dell'amistade: Lo conueneuole agualliamento si « aguallia le spezie Qui comincia il decimo libro dell'etica « d'Aristotile nel quale tratta della dilettazione e della felicitade « per ciò che pare che queste due cose si sieno fine de la dilet. « tazione et dice qui che la dilectazione si è fine dell'operazione virtuosa:La diletlazionesiènataenotricata|Quicomincia « l'undecimo libro dell'etica d'Aristotile nel quale ditermina della beatitudine la quale puote l'uomo auere in questa uita. Et dice « qui che la beatitudine è cosa perfecta: Dopo le uirtudi di c i a m o oggi mai | Qui comincia il dodecimo libro dell'Etica. E t determina come l'uomo il quale à buona natura si l'ae dalla « grazia di dio, et questi cotali sono disposti ad acquistare uer. « tudi: Sono uomini che sono buoni per natura ». Del rubricario più comune diamo per saggio quello del primo libro:«Perqualescienziașireggelacittade delleuiteet « quale è laudabile |di due modi di bene che è beatitudine «delle potentie naturali dell'anima demeriti delle operationi adi tre spezie del bene Comes'acquistaetconserualabeati. « tudine |Onde uiene la beatitudine e di che à bisognio chi « non puote auere la beatitudine per che /che cose sono aspre « a sofferire |come ae similitudine l'uomo felice con dio onde « procede felicitade in che comunica l'uomo colle piante et colle «bestieetincheno dell'animacom'aecontrarimouimenti « della uertu intellettuale e della morale ».Nel codice Marciano II,141,la materia è diversamente distribuita in dodici «parti»; la prima non è indicata,poi «della forteça: Diciamo omai di « ciascuno habito della liberalità: largheça è meço in dare « del conuersare: dopo questo dobbiamo dire di quelle cose    «dellagiustitia: Justiciasi è habilol audabile dello intellecto « dell'anima: Due sono le specie delle uirtudi |de tre uitii primi: «Vilii e costumi molto rei dell'amistade: Amistade e una «delle uirtude dell'uomo e d'iddio |dello aguagliamento della «amistade: Lo conueneuole ad guagliamento della dilectatione: « La dilectatione si è nata e nutricala della beatitudine:Quando «noiauemodeterminato delcorreggimentodeVitii.depaura. « della pena: La scienzia delle uirtudi si a questa utilitade ». Il compendio volgare del Trattato Aristotelico, come si può desumere dall'incipit e dall'esplicit di ogni codice,veniva più comunementeindicatocoltitolodi Elhica d'Aristotile, ed anche: Etica del sommo phylosofo Aristotile; molto più raramente: Fioretti dell'Elica d'Aristotile. Occorre anche talvolta la indi cazione latina: Elhica Aristotilis, e più sovente quella di Liber Ethicorum. Ne' codici del Tesoro il titolo più comune è pure: l'Etichad'Aristotile,edanche:l'EtichadelgrandesauioAri slotile;in parecchi si trova l'indicazione latina:Ethica Ari stolilis. Nei codici dell'Etica manca ogni notizia intorno alle necessità e a'criteri dell'opera.Fa eccezione ilcod.Marciano II, 134 il quale contiene, solo fra tutti, l'epistola proemiale del volgarizzatore ad un amico,che a quella fatica del tradurre avevalo indotto. « Incipit proemium transductoris huius operis « uulgaris.— Più uolte essendo amicho mio da la tua gintileza « con grande instanzia infestato l'Eticha Iconomicha et politicha de « Aristotile de lingua latina in parlar (moderno] et uulgar ti « transducha. La quale richiesta considerando truouo la mala «sua axeuolezza uincere ogny mia faculta.Et anche hauendo « udito altri circha a questa opera auere insudato non m'è pa «ruto douerse seguire per fugire la riprensione de molti.Ma pure la forza de la tua amicizia è tanta che mi constringie et fami intraprendere quello che mi cognosco impossibile.Onde la gratia superna inuocho al principio di tale faticha doue « mi mecto seguendo el uoler tuo iusta mia possa. Et perche el « dire de Aristotile è scropoloso et stranio molto dal modo del « nostro parlare, pure quanto potro ad esso mi acostero.Alcuna « uolta le sue proprie parole et alcun altra el senso dimostraro «suzinto,seruando la uerità del testo.Ma auanty che questo « cominci alquanto della persona et essere suo toccharo ad cio « che le sue opere pergrate siano da te riceuute ». Il prologo non ci porge alcuna notizia storica,e del resto sulla sua auten ticità ci lascia grandemente perplessi. Il fatto che,tra tanti manoscritti dell'Etica, noi lo troviamo solo in questo,abbastanza tardivo,della fine del sec.XV,può destare grave sospetto,ma non sarebbe ad ogni modo motivo sufficiente per indurci a rin negarlo senz'altro. Ben altri motivi non ci permettono di prestar fede all'autenticità del proemio Marciano. In esso il volgarizza tore dice di aver udito « altri circa a questa opera avere in « sudato »; l'espressione è molto ambigua; giacchè o si riferisce a precedenti volgarizzatori,e ciò non è possibile perchè Taddeo fu il primo a volgarizzar l'Etica, o a traduttori latini; ma per quanto sappiam noi in nessuna delle traduzioni latinedella Ni comachea si leggono accenni alle difficoltà del traduttore; solo Ermanno ilTedesco,nel prologodellasuaversione delCommen. tario d'Averroè alla Poetica d'Aristotele,dice della grande dif ficoltà da lui trovata « propter disconuenientiam modi metrifi «candiingraeco cum modometrificandiinarabo, etpropter auocabulorumobscuritates»(1);ma ci sembrer ebbe affatto inopportuno scorgere nel prologo alla Poetica di Ermanno un rapport col prologo all'Etica diTaddeo. Epoinel1200eneltre. cento è ben difficile trovare la nota individuale,sopratutto nelle traduzioni; furon più tardi gli umanisti che alteri del merito proprio rivelarono a quattro venti le difficoltà del lavoro da essi intrapreso e compiuto; del resto tutta la parte del pro logo, di cui ora parliamo,si connette con la praemunitio tanto comune agli scrittori del quattrocento, i quali nell'introduzione alle opere loro ci ricordano spesso la difficoltà dell'argomento e il timore della critica e la debolezza dell'ingegno e il riguardo Il prologo è pubblicato dal Jourdain (Recherches critiques sur l'age et l'origine des traductions,latines d'Aristote, Paris).   amorevole per l'amico che la vince sulle giuste considerazioni e preoccupazioni dell'autore.È questo,ripeto,un motivo comune agli umanisti,a'quali l'aveva comunicato lo spirito retorico delle composizioni proemiali latine. Lo stile poi del proemio è assai diverso dal volgare di Taddeo, ch'è quale potea rampollare schietto di mezzo all'efflorescenza letteraria dell'ultimo dugento.Lo stile del prologo marciano ri. sente molto invece di quel volgare farneticante da scuola e da sacrestia che pretendea ingentilirsi nel '400 signorilmente, usur pando gli addobbi lessicali delle forme latine.C'è in fine un ultimo argomento decisivo. Nel titolo dell'epistola proemiale è adoperata la parola transductoris,e nel volgare stesso del pro logo si trova adoperato il verbo transducere. Ora nel sec. XIII e XIV la espressione latina traducere non è ancora passata col significato moderno nel latino e nel volgare; il primo, come pare, ad usare il vocabolo traducere con il significato di tradurre, fu il Bruni; d'allora soltanto s'introdusse nel latino e quindi nell'italiano (1). Sicchè possiamo affermare che il prologo Marciano è di avan. zata fattura quattrocentina.Come sia comparso non sappiamo, nè torna conto indagare e congetturare sulle cause e sulle ori gini di tutte lescritturecheapparveroingrande numero,affac cendate e moleste,in quel tempo di continue esercitazioni re toriche e di finzioni letterarie. Stabilita la unità del volgarizzamento contenuto ne'codd.del l'Eticaedel Tesoro,passiamooramai allaindicazionedell'autore. De' ventinove codici dell'Elica, da me esaminati, ventidue sono anonimi;uno,del sec.XIV (5), attribuisce la traduzione a un maestro Giovanni Min.(2); sei codici (4.y.&.g.m.p.) danno il nome del volgarizzatore dell'Elica, traslatata in uulgari a magistro Taddeo. (1) Vedi R. SABBADINI,Del tradurre iclassici antichi in Italia,in Atene e Roma,an.III,no 19-20,col.202. (2)Explicitethica Aristotilis translate amgio iohemin. vulgare. deo gratias. Dei codici del Tesoro,tre del sec.XIV,oltre la solita attri. buzione a Brunetto in principio di tutta l'opera, alla fine del sesto libro ci danno un'indicazione particolare del volgarizzatore, la quale è sfuggita a tutti gli studiosi del Tesoro ed è di molta importanza per la questione agitata intorno all'autore del com pendio volgare. Ecco dunque le soscrizioni.a:Explicit etica Aristotilis a magistro Taddeo in uulgare traslala; T: Explicit hetica Aristotilis a magistro Taddeo in uolgare trasleclata; 1:Explicit Elicha Aristotilis a magistro Tadeo in uulghari traslatlata. Dalla tradizione manoscritta si può dunque ricavare: 1o) che ilcompendio volgare della Nicomachea ebbe una larghissima diffusione come testo particolare, indipendente da altra opera; 2°)ch'esso,quando non correva anonimo,veniva comunemente attribuito a maestro Taddeo. Ma da'codici del Tesoro balza fuori un nuovo cumulo d'in dizi gravi e sicuri, che infirmano seriamente l'unità del vol garizzamento dell'opera di Brunetto,attribuito sempre con cordemente per intero a Bono Giamboni: 19) Parecchi codici del sec. XIV danno, come s'è visto, il nome del volgarizzatore del l'Etica: Maestro Taddeo; la soscrizione finale, perchè non si possa ritenere aggiunta posteriore,è sempre di mano del copista che ha trascritto il codice per intero.Questà attribuzione è l'unicachesitroviintuttoilms.,oltreaquellageneralecon cui va riferito il complesso dell'opera a Brunetto.Ciò è di spe. ciale importanza per noi: difatti, giacchè il copista solo per l'Etica sente il bisogno di riferire il nome del traduttore, vuol dire ch'ei sapeva che solo quella parte del Tesoro rimaneva estranea al volgarizzamento generale dell'opera, e il volgare di Taddeo vi si trovava come inserito. In qualche codice anepigr. e mutilo,come a,l'attribuzione a Taddeo è anzi l'unica indica zione di autore che sitrovi in tutta l'opera.2 ) Di solitoicodici mutili si fermano prima di giungere all'Elica; d'altra parte pa recchi mss.del Tesoro si arrestano alla fine del compendio aristotelico. Ciò dimostra che questo costituiva come un punto    di fermata, era un libro introdotto a parte, si che poteva benis simo arrestare al libro V l'amanuense che fosse sprovvisto del. l'originale, o determinare una pausa nella trascrizione,alla fine del libroVI. Nel cod.r,miscellaneo,l'Elica è preceduta dal VII libro del Tesoro: si può notare dunque il distacco ch'è tra le due parti, non considerate come legate e dipendenti nella stessa opera. In qualche ms.,come ri,precede una tavola della materia che giunge sino a tutto il libro V, escludendo la rimanente, dall'Elica in poi; e ciò dimostra ancora che l'Elica arrestava quasi il corso regolare dell'opera volgarizzata ed era estraneaalvolgarizzamento del Tesoro. Un particolare fon damentale: il cod.d ha questa soscrizione dell'amanuense,al l'Etica: Ecplicit l'Etica Aristotile in questo tanto che io noe trouata; ciò significa chiaramente che il copista, per trascrivere la parte dell'opera che comprendeva il compendio aristotelico, era obbligato a ricorrere ad un altro testo che non era quello unico del Tesoro. Ci resta finalmente da osservare che mentre tutti i codici del Tesoro differiscono quasi sempre e in m a niera notevole nella lezione, mostrano invece una concordanza molto maggiore nell'Etica; vuol dire che si tratta di un testo particolarmente prefisso a'trascrittori.Ciò dimostra ancora la maggiore divulgazione del testodell'Etica lacui lezione più re golare, rispetto alla lezione caotica del Tesoro, era fissata da una più grande diffusione delle copie. Concludiamo questa prima parte. Dall'esame dei codici e della materia manoscritta ci risulta che esisteva nel secolo XIV un compendio volgare della Nicomachea, attribuito a maestro Taddeo, che noi troviamo anche inserito integralmente nel Tresor vol garizzato, di cui costituisce il VI libro. Ma nèicodicidelTesoro,nèquellidell'Eticacidicono da Il Sorio da questo particolare, ch'egli osserva nel cod. Ambr., trasse argomento principale diattaccoallaautenticità delVIIlibrodel Tesoro.La opinione del Sorio fu combattuta dal Gaiter (Propugnatore) con argomenti dubbi ed indecisi: l'uno e l'altro eran difatti fuor di strada.  che volgarizzó Taddeo.La questione è importantissima;data la identità tra l'Elica e il volgare del VI libro del Tresor non resta che una questione di priorità:0 Brunetto si servi di Taddeo, o Taddeo di Brunetto; vale a dire,o maestro Taddeo volgarizzo il VI libro del Tresor, il quale ebbe così tradizione e fortuna isolata da tutto il resto del volgarizzamento, ch'è opera di Bono; o Brunetto si servi per il suo Compendio francese del volgare di Taddeo,che fu introdotto però intatto nel Tesoro, in luogo di un volgarizzamento diretto dal francese. Nel Convito di Dante è unpasso che spinge molto avanti la questione: Tratt.I,cap.10:«La gelosia dell'amico fa l'uomo «sollecito a lunga provvedenza: onde pensando che perlo desiderio di intendere queste Canzoni alcuno inletterato avrebbe «fatto il comento latino trasmutare in volgare,e temendo che 'l volgare non fosse stato posto per alcuno che l'avesse laido « fatto parere, come fece quelli che trasmutò il latino del «l'Etica,ciò fu Taddeo Ippocratista,provvididiponere «lui,fidandomi di me più che d'un altro».IlSundby,che vuole ad ogni costo ritenere di Bono tutto il volgarizzamento del Tresor,se ne sbriga assai piacevolmente: « Nel caso adunque che il passo succitato del Convilo fosse esatto in tutte le sue « parti, la cosa sarebbe chiarissima: la traduzione di Taddeo dovrebbe essere affatto diversa di quella di cui noi ci occu « piamo,e questa si dovrebbe attribuire a Bono Giamboni. E non ci sarebbe niente da dire; resterebbe però fin ora da spiegare,se non altro,la tradizione manoscritta che,laddove non tace,dà il nome del volgarizzatore:Taddeo,accordandosi col passo di Dante; e d'altra parte non sarebbe lecito trascurare quegl'indizi che non danno certamente più come sicura l'unità delvolgarizzamentodiBono.Nedevefareombra l'appellativo di « laido » dato da Dante al volgare di Taddeo, giacchè per C. MARCHESI. certo questo non è il modello migliore di prosa trecentistica, e la opinione del Nannucci (1),di cui si fa forte il Sundby,può ri tenersi giustificata da un sistema di ammirazione proprio della fede e dell'entusiasmo delle generazioni passate per tutti i do cumenti letterarî del nostro trecento. Tutto dunque ci fa credere che il volgarizzatore sia maestro Taddeo: Esiste una sola Etica volgare in tutti i codici; 2 )i codici che portano il nome del volgarizzatore l'attribuiscono a maestro Taddeo; la dichiarazione esplicita di Dante, il quale ha l'aria di parlarne come dell'unico, comunemente noto, volgarizzamento ch'esistesse a suo tempo dell'Etica latina. kesta anche esclusa la prima congettura,che Taddeo volgarizzasse il francese di Brunetto; Dante ce lo dice esplicitamente: « colui « che trasmutó lo latino dell'Etica ». Del resto, a prescinder da altriargomenti principali e decisivi, ch'esporremosubito,ilcom: pendio volgare dell'Etica non può ritenersi come volgarizzamento del VI libro del Tresor per le frequenti differenze, non solo di forma ma di sostanza, che presenta rispetto al testo francese: e sono omissioni o aggiunte di pensieri,di esempi,di considerazioni, ampliamenti o riduzioni di concetti: e tutto questo non può ammettersi nella traduzione di un'opera,a meno che il traduttore non abbia voluto rimaneggiare per conto suo l'originale. Dunque Taddeo volgarizzò e compendio da una delle redazioni latine del testo aristotelico, la quale e nota allora sotto il nome di Liber Ethicorum, nome ch'è anche particolarmente proprio di un'altra redazione latina della Nicomachea, letterale e molto oscura, cui il commento tomistico a v e a spinto allora alla massim a diffusione. Dal testo tomistico difatti il Sundby fa derivare il compendio francese e volgare dell'Elica,e pone iraffronti;ve dremo appresso come il critico danese si sia messo su una falsa (1)Manuale della lett.italiana,vol.I,p.382. IlN. trova anzi l'Etica «adorna di molta purezza e semplicità di stile».  18 C. MARCHESI.   strada.Ad ogni modo che Taddeo abbia tradotto direttamente dal Jatino ci è confermato dal confronto tra l'Etica volgare e il Liber Ethicorum da cui dipende; se avessimo scarsezza di argomenti o mancanza di prove sicure potremmo anche valerci delle soscri zioni di taluni codici dell'Etica e del Tesoro che indicano il nostro volgarizzamento come Elhica Aristotilis e più spesso Liber Ethi corum,facendoci sospettare lasua provenienza dal testo latino. Di maestro Taddeo i codici (4. y.) ci dicono soltanto che su « florentino » e Dante aggiunge ch'ei fu medico, « Ippocratista ». Di un Taddeo, d'Alderotto, fiorentino, « fisico massimo », scrisse, con la solita ingenuità,una breve vita Filippo Villani,il quale ce lo descrive di parenti oscuri, poverissimo, dedito ai mestieri più vili, e col cerebro oppilato e tenebroso fino ai trent'anni (2). Passati gli anni trenta « si consumarono quegli umori grossi; Taddeo divenne un altro uomo e rivelòilsuo ingegno dedicandosi allo studio delle arti liberali,della filosofia e per ultimo della medicina,che insegnò pubblicamente a Bo logna. Dice il Villani: « Fu costui de' primi infra' moderni che adimostrò le segretissime cose dell'arti nascoste sotto i detti « degli autori, e la spinosa terra e inculta solcando all'ottimo « futuro seme apparecchiò. Questi, sprezzati alcun tempo i so pravvegnenti guadagni,cupido di gloria e d'onore,si dette a « commentare gli autori di medicina. Nella qual cosa fu di tanta «autorità,che quello ch'egli scrisse è tenuto per ordinarie achiose,lequali furono postene'principali libridimedicina. E fu in quell'arte di tanta reputazione, quanto nelle civili « leggi fu Accorso, al quale egli fu contemporaneo. Il Villani ci riferisce inoltre un aneddoto molto curioso, riportato poi dal (1) Le Vite d'uomini illustri Fiorentini,colle annotazioni del co.G. M a z zucbelli,Firenze, Biscioni, in una nota sopra Taddeo, inserita nelle Prose di Dante e del Boccaccio, Firenze, 1723, vuol dimostrare che Taddeo era di famiglia cittadinesca,che possedeva effetti stabilieche prese per moglie una de'Ri goletti, il cui padre aveva il titolo di dominus, che in quei tempi si con cedevasoltantoa cavalieri.Cfr. notadelMazzuchelli,Op.cit.,p.98.    20 C. MARCHESI Negri (1) e dal Fabricio (2), intorno agli eccessivi compensi che Taddeo « tenuto come un altro Ippocrate da'Signori d'Italia in « fermi » (3), esigeva per le sue visite giornaliere; e ci narra che chiamato a Roma dal pontefice,Onorio IV,richiese cento ducati d'oro al giorno; invece,dopo la guarigione del pontefice, n'ebbe in compenso diecimila (4).Il Villani non ci dà alcun cenno cronologico;dice solo che fu seppellito a Bologna d'anni ottanta.Giovanni Villani (Storie,seguito dal Fa. bricio, dal Poccianti e dal Cinelli, pone l'anno della morte nel 1303;l'Alidosi sostiene invece che Taddeo morisse,il Biscioni e il Negri (6), per approssimazione, nella fine del sec.XIII.Delle opere di Taddeo ci attesta il Mazzu chelli ch'esiste una raccolta a stampa col titolo « Expositiones «inarduumAphorismorum Hippocratisvolumen. Indivinum « Prognosticorum Hippocratis librum. In praeclarum regi. a minis acutorum Hippocratis opus. In subtilissimum Iohan «nitiiIsagogarum libellumIohan.Bapt.Nicollini Salodiensis a operainluceme missae.Venetis, apud Luc.Antonium Iuntam. Scrisse anche in ci. Galeni Artem parvam commen taria, Neapoli, Mazzuchelli, che attribuisce anch'egli a Taddeo la traduzione in volgare dell'Elica d'Aristotile, aggiunge che nella libreria dei pp.Minori Osservanti in Cesena si con serva un ms.intitolato Magistri Taddei Glossae in Galenum, eiusdem Aphorismata.Di maestro Taddeo si conservano in al cuni codici parecchi trattatelli medicinali e fra questi è par Istoria degli Scrittori Fiorentini, Ferrara, Biblioth. latina mediae etinfimaeaetatis, Patavii, Notissimo anche un distico del Verino (de illustr.urbis Florent., lib.I)su Taddeo: «Est quoque Thadaei celeberrima fama,non alter For « sitan in medica reperitur ditior arte ». A proposito di questo aneddoto vedi la erudita nota del Mazzuchelli, Cfr. Mazzuchelli, Biblioteca Angelica (Roma),Thaddaei de florentia  ticolarmente diffuso un libellus de seruanda sanitate o libellu's conseruandae sanitatis, dedicato a Corso Donati. Fra i m a noscritti che lo comprendono è di speciale importanza l'Ambrosiano J. 108 sup.,del sec.XIII per una nota posta in principio, di mano dello stesso copista che trascrisse tutto il codice: « Iste « libellus scriptus et compositus per probissimum et prudentis « simum uirum dominum magistrum Taddeum de Flor. doctorem « in arte medicine in ciuitate bononie transmissus nobili militi « domino Curso donati de florentia », È notevole anche il proemio del trattato medicinale:« Quoniam passibilis et mutabilis a existit humani corporis conditio, complexionem et consisten « tiam quam a principio sue originis homo habuit non seruando, « necessarium extitit artem et scientiam inuenire,per quam in « sanitate et natura et corpus hominis conseruetur, motus igitur « precibus et amore cuiusdam mei amici,multa mihi dilectionis «teneritate coniuncti nec non pro utilitate aliorum hominum, « more uiuentium bestiarum ad conseruationem sanitatis et uite « in humanis corporibus libellum medicinalem inuenire disposui « de libris et dictis philosophorum breuiter compilatum ». Da queste ultime parole risulta ancor meglio l'identità ch'è tra l'autore del libellus, studioso sfruttatore e compendiatore di m a teria filosofica e l'autore del nostro compendio volgare dell'Etica. Il trattato di Taddeo,molto curioso,contiene quei precetti igienici che bisognerebbe osservare fin dal principio della giornata in torno alle abluzioni del capo,all'igiene della bocca,dello stomaco, libellus medicinalis; Magistri Thaddaei de florentia de r e giminesanitatis; Curacrepotorummagni Tadeiabeocom posita. Riccardiana, Magliabechiana,cl.21,cod.62;141. (2)Membran.a due colonne;contiene:19) Vegetii de re militari libri; Isiderus de bellis; a c.31a segue la notissima epistola de cura et modo rei familiaris di Bernardo,al gratioso militi et felici domino Raimundo domino CastriAmbrosii;a c.32 asegue iltrattatodiTaddeo.Ilcod.consta d icc. 3 5 n. num., l a c. 3 4 * e 3 5 a v u o t e. Questo cod. si trova legato assieme con un altro membr. dello stesso formato, di cc.19 scritte perdisteso,con tenente i Saturnali di Macrobio.    22 C. MARCHESI de'cibi,delle bevande, della digestione,del sonno;sulle condi zioni del corpo umano durante le diverse stagioni e quindi sulla igiene delle stagioni. Segue a dire della efficacia terapeutica, molto larga,dialcune pillole,da prendersi avanti o anche dopo ilcibo,compostedaun«frateRobertodeAlamania»conuna quantità di sostanze vegetali e aromatiche. La parte trascritta nel cod.Ambros. finisce con la ricetta adatta «ad faciendum «cristerepropassioneyliaca». Questo Taddeo famosissimo medico del suotempoedanchepoeta(1), autoredicommentari e di trattati, insegnante l'arte della medicina nell'Accademia di Bologna,fualtresìquellochetradussedallatinoinvolgare il compendio dell'Etica aristotelica. E veniamo al VI libro del Tresor. È noto ed è stato detto da tutti gli editori e gli studiosi del Tresor, ch'esso risulta da m o l teplici e varie compilazioni fatte in diverso tempo da Brunetto, su scrittori specialmente latini; poi riassunte e combinate nel compendio enciclopedico francese del maestro di Dante. Lo C h a baille anzi afferma che Brunetto avea preludiato alla compila zione del Tresor con opuscoli separati in prosa e in verso, fra cui l'Elica d'Aristotile,ch'egli dunque suppone,come parecchi altri,compendiata e volgarizzata da Brunetto Latini,prima della compilazione del Tresor (2). Ma su ciò non vale la pena discu tere,giacchè sarebbe combattere contro imulini a vento. Magliabech. Tadaei magistri de Florentia Carmina. Op. cit., Introd., p. vi.  Riferiamo un passostesso di Brunetto:Liv.I,cap.I:«Il « (cist livres) est autressi comme une bresche de miel cueillie « de diverses flors; car cist livres est compilés seulement de « mervilleus diz des autors qui devant nostre tens ont traitié « de philosophie, chascuns selonc ce qu'il en savoit partie; car « toute ne la pueent savoir home terrien, porce que philosophie « est la racine d'où croissent toutes les sciences que home peut « savoir ». Egli dunque non dice di essersi limitato a raccogliere e tradurre scritti latini soltanto; e si deve intendere anche di volgari. Fra questi è il compendio dell'Etica di maestro Taddeo che Brunetto, valendosi anche di raffronti continui con il testo latino originale,trasporto nel VI libro del suo Tresor. Allo Zannoni, il quale riteneva che Taddeo avesse tradotto Aristotile di latino in italiano e che Brunetto poscia voltasse il testo di Taddeo in francese (1), il Sundby opponeva le parole di Brunetto, che nel Prologo della seconda parte (il VI libro del Tesoro volgare) dichiara di tradurre il libro d'Aristotile de latin en romans. Per venire in aiuto di quanto abbiamo asserito non è necessario ricorrere alla sottile nota del Paitoni, ilquale sosteneva che il volgare italiano si chiamava anche « latino »; giacchè essendosi Brunetto servito non solo del volgare di Taddeo, ma anche,come vedremo,della redazione originale latina,anzi avendo acconciato e rifatto in molti punti il volgare in base al testo latino, è chiaro come abbia potuto dire d'aver tratto il suo compendio dal latino,che del resto è anche l'originale dell'Etica diTaddeo. E poniamo le nostre conclusioni. Il compendio volgare dell'Etica è la traduzione che maestro Taddeo fece di una delle redazioni latine del testoaristotelico,laquale ci è rimasta.La traduzione è in gran parte fedele al contenuto, nella forma è condotta al quanto liberamente: spesso il traduttore compendia la materia, d'altra parte allarga sempre la frase o il concetto e diluisce nel volgare il testo latino per bisogno di ripetizioni o di esempi o di ampliamenti, servendosi, come fa in principio,di qualche altro rifacimento o aggiungendo delle dichiarazioni proprie.Taddeo non è un traduttore letterale che si preoccupi della frase e voglia mantenersi fedele alla parola o al tenore dell'esposizione; egli I codici del Tesoro traducono « di latino in uolgare », ovvero « di « latino in romanzo » o « di gramaticha in uolgare ». è solo un interprete occupato del contenuto che pur vuole p a recchie volte acconciare dal lato espositivo nella maniera più rispondente, secondo lui, a'bisogni della chiarezza e della s e m plicità.È l'originale una traduzione latina, di un compendio alessandrino-arabo della Nicomachea, elementarissimo, semplice e piano, ridotto a una esposizione riassuntiva molto breve, e talvolta anche efficace, nonostante l'incertezza e la poca fedeltà di talune espressioni. Molti luoghi fondamentali, anzi diciam pure tutte le parti più notevoli per gravità e serietà di enunciati, per difficoltà di contenuto critico, vengono senz'altro omesse interamente, o ri dotte alla loro ultima e più semplice espressione. Cosi, per dare qualche esempio, nel 1° libro è saltato il passo importante al principio del cap.3,in cui Aristotile nega la possibilità diotte. nere una precisione assoluta nei giudizi e pone la necessità del giudizio per approssimazione; altra omissione considerevole è quella della prima metà del cap.4,in cui Aristotile passa alla definizione del supremo de beni, alla critica del concetto di fe licità, e si accinge a discutere la dottrina platonica del bene assoluto; è tralasciata pure tutta la confutazione della dottrina platonica delle idee (cap.VI) e l'astrusa enunciazione fondamen tale dell'Eudaluovía aristotelica considerata come bene vero ed assoluto che comprende in sè, unificandoli, tutti gli altri beni necessari all'autarchia della vita; e della seguente trattazione intorno a'principii (cap. VII) non è alcun cenno nel compendio. Dei brani accolti tuttavia è vero e proprio ampliamento. Ad ogni modo il testo si prestava benissimo all'intelligenza comune per l'intendimento più facile e semplice e la forma più piana che non l'oscurissimo Liber Ethicorum del commento tomistico. (1)Questo compendio fu conosciuto prima dal Jourdain in un codice della Sorbona; e più tardi dal Luquet (Hermann l'Allemand, in Revue de l'histoire des Religions, Paris, in due mss. della Biblioteca Nazionale: il n ° 12954, che pone la data della versionenel1244,eilno16581 che è forse lo stesso veduto dal Jourdain.  Come compendio poteva anzi dirsi ben riuscito;giacché per ri durre allora in più brevi proporzioni l'Elica nicomachea, ch'è da per sè una condensazione poderosa delle norme logiche e de principi esposti nell'Organo, bisognava appunto sfrondarla di tutti i luoghi più ardui 'a spiegarsi e a comprendersi senza l'aiuto di richiami e di collegamenti, e semplificarne e chiarirne il contenuto eliminando la rassegna delle opinioni e la parte critica, sopprimendo le divisioni minori, togliendo il carico degli argomenti favorevoli o 'contrarî ad ogni problema e riducendo questo alla sua più semplice ed elementare espressione.Ilcom pendio arabo latinizzato era dunque il testo etico aristotelico di moda piùrecente.Essocièrimasto,sottoilnome diLiber Ethico r u m, i n u n codice Laurenziano, g i à G a d d i a n o (Plut. 8 9 i n f., 4 1 ) membr.in fol.del sec.XIII,a due colonne,di cc.scr.219,miscell. Enon tuttodiunamano; contiene:una Cronicadianonimo; laHistoria troiana di Darete frigio,premessa un'epistola:Cor nelius Nepos Sallustio Crispo suo salutem; Graphia aureae urbisRomaeseuantiquitatesurbisRomae dianonimo;Eu tropii historia romanae Ciuitatis dilatata a Paullo Diacono: Liber Alexandri regis; un'epistola di Alessandro ad Aristo tile intorno alle regioni e alle cose notevoli delle Indie; Liber Sibyllae, di Beda; un'epistola dell'abate Ioachim; un'ora zione di Seneca a Nerone; i LibrideremilitaridiVegezio; 11)ilLiberEthicorum,d'Aristotile:vadac.131ac.142;la materia è distribuita in ventidue capitoli indicati dalla iniziale colorata;manca ognialtradivisione.Com.:Incipitliberprimus Ethicorum. R.;allafine: Incipiamus ergoetdicamus.Explicit prima pars nichomachie Ar.que se habet per modum theo rice et restat secunda pars que se habet per modum pratice. Et est expleta eius translatio ex arabico in latinum. Anno incarnationis uerbi. La soscrizione, importantissima per la storia di questa reda zione,è di mano dello stesso copista,scritta con lo stesso in chiostro e coi medesimi caratteri di tutto il testo aristotelico. Seguono di mano più recente e in carattere minuto alcune cita    zioni dell'andria e dall'Eunuco di Terenzio.La lezione dell'Etica verso la fine è molto incerta e in taluni punti a dirittura insa nabile. Dopo il Liber Elhicorum vengono le orazioni catilinarie e iltrattato de Senectute,l'orazione di Sallustio contro Cicerone, l'invettiva di Cicerone contro Sallustio, le orazioni pro Marcello, pro Ligario,proDeiotaro,ilibride Officiis,iParadoxa,epoi la Catilinaria e il Giugurtino di Sallustio; seguono, di mano del sec.XIV, alcune bolle di papa Bonifacio VIII. La versione dell'Etica, compiuta nel 1243, si deve con molta probabilità attribuire ad Ermanno ilTedesco (Hermannus Alemannus),il quale trovandosi in quel tempo nella Spagna,a Toledo,aveva due anni prima (nel 1241) ridotto in latino il commento di Averroè alla Nicomachea,e più tardi nel 1256 compi la versione di altri due testi arabi di Averroè relativi alla poetica e alla retorica d'Aristotile. La traduzione di Taddeo,che dovette essere di poco,meno di un ventennio, posteriore, corse ed ebbe fortuna e divulgazione; ce lo attesta il buon numero di codici, l'uso che ne fece Brunetto, la dichiarazione di Dante che ne parla come di cosa comune mente nota,egli che molte espressioni del volgare di Taddeo ricorda nella sua Commedia. Brunetto Latini più tardi si accinse a svolgere nella parte morale del suo Tresor la dottrina etica di Aristotile. Egli si servi del volgare di Taddeo,ma prese anche in mano il testo latino: c e l o dimostrano le aggiunte e le modificazioni introdotte, che corrispondono in tutto con il Liber Ethicorum; qualche altra volta ridusse il volgare di Taddeo e quindi con esso anche il latino della redazione araba. Nessuno vorrà certo ancora dubitare che l'Etica di Taddeo sia tratta dal compendio francese di Brunetto, rivendicando a questo la priorità; giacche,pur volendo saltare sul passo di Dante, sulla particolare designazione de'codici,sulla tradizione isolata dell'Elica volgare,rimane sempre una barriera dinanzi a cui bisogna fermarsi:la materia de'due Compendî.La dipendenza diretta dell'Elica dal testo latino ci è fra l'altro attestata dalle numerose espressioni latine trasportate di peso,quando corrispon dano nel lessico volgare, nel compendio di Taddeo; mentre Brunetto è costretto tante volte a tradurre dirersamente,m u tando la dizione, e dall'Elica e dal Liber Ethicorum. D'altra parte poi nell'Etica molte cose ci sono che mancano nel com pendio franceseeche pur dipendono dal testo latino.Un'ultima prova: tutti i codici dell'Elica e del Tesoro si chiudono allo stesso modo, con le stesse parole, e la chiusa non corrisponde al testo francese. Brunetto va più in là di Taddeo: egli include nel suo compendio tutta la fine del rifacimento latino. Se si do. vesse considerar l'Etica come un volgarizzamento del libro VI del Tresor,anzi che come un compendio indipendente,non si spiegherebbe più quella ostinata lacuna e quella costante diver genza alla fine. Solo cinque codici dell'Elica, di trascrizione al quanto tarda, seguono volgarizzando l'opera di Brunetto: i tre codici Marciani e i coddice Ambros. C 2 1. i n f., i quali rivelano molto chiaramente l'influenza del testo francese. In essi il brano finale è volgarizzato in modo del tutto differente; ciò è na turale: giacchè nessun codice dell'Etica e del Tesoro dava quella parte del testo francese, i trascrittori, che tennero l'occhio al Tresor, dovettero pensare, ciascuno per conto proprio, a volgarizzarla.Anzi il Marciano II, 134 contiene tutto quanto ilcompendio di Taddeo,compreso ilbrano finale rias suntivo,che non si trova invece negli altri codici dell'Etica o del Tesoro iquali proseguono col testo francese sino alla fine; e questa nel Marc.II,134 ci appare evidentemente come una sovrapposizione voluta dal trascrittore. Naturalmente tutti i giudizi e i sospetti di ampliamenti, di aggiunte, di mutamenti arbitrarî del volgarizzatore, di sbagli continuati degli amanuensi, agitati dagli editori del Tesoro, ca dono innanzi all'entità e al valore storico diverso dei due com pendi, volgare e francese. E data la priorità del volgare, cadono anche meschinamente tutti i tentativi di emendazione apportati dagli editori alla lezione del VI libro in base al testo francese. Nel Propugnatore Gaiter, che accude allora   Quale dei due traduttori, in fine,abbia merito maggiore non possiam dire.Taddeo ha ilmerito della priorità;Brunetto che lavoròappresso a lui è più fineecompleto,e poi anche ilfran cese si prestava allora molto meglio del volgare italico.Taddeo qualche volta amplia o riduce la materia, Brunetto si richiama al testo.Siamo nel periodo de compendi e dell'enciclopedia. U n compendio fatto è fatica risparmiata al maestro che deve dire le«chose universali».Brunetto,che aveva intelligenza fine, trasse il compendio italico alla lingua di Francia e l'incluse n e l l'opera sua e ne colmo le lacune e ne affino i contorni e lo ripuli di fronte al testo latino,da cui egli pompeggiandosi dicea di aver tratto la parte morale del Tresor. E non fa cenno di Taddeo: egliaccoglie,corregge,assimila;d'altraparteètuttauna let teratura e una divulgazione anonima quella che dall'ultimo m e dievo va al trecento,e i diritti di proprietà letteraria non sonoancor sorti. E poi maestro Taddeo forse non appariva degno di menzione speciale al maestro di Dante; echisa, forse, che in questo non dobbiamo trovare indizio di una lotta accademica, svoltasi di mezzo al laicato dotto della seconda metà del dugento e nel trecento,negli Studi pubblici,tra medici inchinevoli alle lettere e letterati avversi a'medici? C'è però da osservare che nel ritocco della materia volgare,in base al testo latino, Bru netto non va oltre qualche singola espressione o frase, trascurata o ridondante. Egli non si attenta mai a rimaneggiare e ad ac conciare la materia nel contenuto ideale, per il modo con cui le idee furono rese nel volgare o compendiate o disposte o interpretate riguardo all'originale latino.Questo dunque testi monia onorevolmente che Taddeo era allora ritenuto autorevole  28 C. MARCHESI a preparare,con l'aiuto dei mss.e del testo francese,la sua edizione del l'operadi Brunetto, inunsaggiodicorrezioni alVI libro,siscagliasempre, con taluni intendimenti spiritosi,contro l'amanuense che tanto strazio avea fatto del presunto volgare di Bono; e con l'aiuto del testo francese si affanna a correggere gli sbagli e a colmare le lacune lasciate dai trascrittori e da Bono stesso.  ed esperto intenditore del trattato aristotelico anche da un uomo per cultura famoso come ser Brunetto, sebbene al grande di scepolo di costui non apparisse ugualmente felice dicitore del volgare. Dunque Brunetto si valse del volgare di Taddeo (1), ch'ei ri. dusse e acconciò in molti punti in conformità al testo latino, come si vedrà chiaramente dal confronto che faremo. Più tardi gli amanuensi del Tesoro,al posto del VI libro,introdussero il volgare già ben noto dell'Elica, essendo ben chiara e conosciuta la dipendenza del compendio francese dall'altro volgare.Cosi resta anche spiegato il fatto che parecchi codici del Tesoro si fermano all'Etica: Il compendio di Taddeo rimaneva, rispetto al VI libro del Tesoro, originale e fondamentale; in un volgariz zamento italico dell'opera di Brunetto esso dovea necessariamente e naturalmente tenere il posto del francese che da esso proveniva. Già anche loChabaille noto come la seconda parte del Tresor, interamente consacrata alla morale, offre «plus d'ensemble « et plus d'unitė » (2); ed anche noi durante l'esame critico dei codici abbiamo potuto osservare come appunto il VI libro non presenti quella lezione così fluttuante, incerta, caotica degli altri libri;ciò è ben chiaro:icopisti avevano un testo già da lungo tempo fissato. Con questo se abbiamo voluto rilevare la differenza che l'Etica offre, nell'incertezza minore della lezione, rispetto a'libri volga rizzati del Tesoro,non intendiamo affermare che la lezione del compendio di Taddeo siacostante e sicura.La mancanza diuna lezione rigorosamente affine nella maggior parte dei codici si deve al fatto ch'essi servivano non ad uso letterario, nel qual caso la lezione avrebbe dovuto essere molto più rigorosa,ma ad uso morale;per cui itrascrittori,quando non erano affatto (1) Così lo studio accurato della questione e la inconfutabile testimonianza del documento son venuti a confermare in parte la fortunata ipotesi dello Zannoni. (2) Op. cit., p. xv.    30 C. MARCHESI Ho già detto che gli amanuensi introdussero il compendio di Taddeo nel posto del VI libro del Tresor; ho detto gli amanuensi e non il volgarizzatore, giacchè non mancarono alcuni (non oso affermare se Bono od altri) i quali vollero volgarizzare tutta l'opera,compreso il VI libro; ma il nuovo volgare dell'opera francese,di fronte al comunissimo compendio originale di Taddeo, rimase eclissato e restò soltanto in pochi codici quattrocentini, che ho potuto rinvenire.I codici sono due,di valore e di con tenuto diverso. 1°) Magliabechiano 21. 8. 149 cartac.del sec.X V, in 4o,di cc.53 scritte ed 8 bianche,anepigrafo.Ilcod.contiene l'Etica tratta evidentemente dal Tresor, giacchè va oltre il limite del compendio di Taddeo, e comprende la chiusa del libroVI dell'originalefrancese.A c.46'segue,senzaalcuna par ticolare indicazione, il trattato sulla « doctrina di parlare ad Alessandro;infineac.53':ExplicitAristotilisEuthica uul garis Amen. La lezione si mantiene per una buona metà fedele al testo comune dell'Elica; dal cap.47 (1)sino alla fine presenta una grande ed accentuala differenza e mostra evidentemente la Secondo la edizione Gaiter.  ignoranti,semplificavano dove e come volevano,buttando giù il periodo anche ridotto, che sembrasse loro di rendere in ogni modo fedelmente l'idea espressa dall'autore e di significare lo stesso concetto. Nei codici dell'Etica si trovano molte espressioni qualche volta incerte, fluttuanti dalla differenza ortografica al periodo ridotto o allargato o smembrato o dissennato, che ci testimonia da una parte della negligenza o della caparbietà di trascrittori ignorantelli,in un tempo in cui tutti quanti tenevano un crogiolo dove manipolare la pasta morale delle dottrine ari. stoteliche o supposte tali, e dall'altra parte dello stato de' testi donde copiavano,che,data lagrande diffusionedell'opera,doveano a forza portare le tracce di cancellazioni,aggiunte,modifica zioni,lasciatevi dai possessori:filone di muffa questo che ci fa tante volte scivolare il piede lungo il percorso delle trascrizioni trecentistiche di autori ritenuti catechisti o morali.    L'Etica (ediz.Manni, Li Tresors. Liv. II, Magliabech. 21. 8. pp.52sgg.).L'uomo part.I, chap.XLI.Li 149. c.33. ch'è buono si diletta in bons hom se delite en semedesimo abbiendo soimeisme, pensantas allegrezza delle buone bones choses; autressi operazioni, eseegliè sedeliteilavecsonami, buono molto allegrasi cuiiltientautressi com conl'amico suo, lo quale mesoimeismes. Maisli eglitienesiccomeun mauvaishomtozjorsest altrosè; mailreofugge enpaor, ets'esloignedes dallenobiliebuoneope- bonesoevres;etseilest razioni,os'eglièmolto moltmalvais, ils'esloi reo si fugge daseme- gnedesoimeisme;car desimo,peròchequando egli sta solo si è ripreso da ricordamento delle maleopere, ch'egliha fatto, enonamanèse, faites, et blasmesacon. nèaltrui, perciòchela science, etporcehetil natura del bene è tutta mortificata inluinel profondo della sua iniquità; nènon si diletta soiettoz homes; etce avientporcequelara cine de touz biens est ilnepuetseulsdemorer, sanztristesce, porceque illi remember desmau vaisesoevresqueila  influenza continuata del testo francese, si che c'è da pensare a una nuova redazione sovrapposta. Riporto un brano che valga a far notare meglio le differenze e le relazioni dell'Etica di Taddeo col testo francese e il volgare del cod. Magliabechiano. mortefiéeenlui, eten son mal ne se puet de. tutto el bene è mortifi. pienamente nel male ch'eglifa,perciòchela liter plainement, car cata in lui.etnel male natura del male si'l trae toutmaintenant que il non si può dilettare pie. al contrario dellasuadi- sedelite, enune chose namente,percioche lettazione,edèdiviso malfaite,lanaturede quand'eglisidilettadi insemedesimo,eperciò son mal si l'atrait au èinperpetuafatica ed contraire deceluidelit. quellomalesieltrae angoscia, epieno d'ama- Etàcequelimauvais al contrario di quella ritudineedisozzuradi estpartizensoimeisme, dilettatione.percioche perversità. Adunquea siconvientqueilsoitl'uomoreoèdiversoet L'uomo ch'è buono si diletta in se medesimo pensando nelle buone cose, et similmente si diletta coll'amico suo, el quale egli reputa se medesimo. Ma l'uomo ch'è reo sempre sta in paura et fuggie dall'o pere buone; et s'egli ė molto reo fuggie da se medesimo et non può stare solo sanza tristizia, impercioch'egli si ricor da delle sue rie opere, ch'egli à fatte et ripren delo la coscienza sua. Et perciò vuole male a se medesimo et ad ogni altro huomo.Et questo èperchèlaradicedi uno male, la natura di   quello cotale uomo nes- en continuel travail de in se medesimo è m e sunopuoteessereamico, penseret plains demolt stierechesiain continua per ciò che l'amico deve insemedesimo,ecompi. ne se laisse cheoir en a lei. Lo cominciamento lla possa tornare a bene. doit efforcier chamentodellainiquità lettazione,laquale l'huo piglia accrescimento gars; mais li fermes mo ba nelle femmine, per usanza di tempo. liensquitozjorsestavec alqualesiuadinanzi L'officio del confortare l'amistiéetquipointne unodiletteuolesguarda  32 C. MARCHESI sance sensible; et ce confortamento,ma pare cede loconfortamento poonsnosveoirpar.i. essereetsomigliarsia puoteesseredettaami- homequiaimeparamors llui;maelcomincia stade per similitudine, une dame,car tout avant mento dell'amista è di infino atanto ch'ella passe unsdelitablesre scunouomosidee guar- niuno huomo può essere chose quià amer face. amico aquello tale,per dare ch'egli non caggia in questo pelago d'ini- sere et en itele male niuna cosa la quale sia quità,anzi si dee isfor- zare di venire a finedi mecineparcuiilpuisse seria et tale infelicità bontà, perlaqualeabbia Certes, et en itele mi- cioch'egli non ha in se aventuren'aurailjà daamare. Ettalemi. ainz se felicitade. Adunquecia. queiln'aenluinule maliceetdeiniquitéque ch'eglinonsilascica mentononèamistà, ave- l'on ne puet raembre, dereinquestoistraboc gnachè egli si somigli inordinato! Addunque dilettazione e allegrezza àbienvenir:donques nonhamairimedioche chascuns se gart que il chascuns que il viegne et della malicia la quale àlafinde bontépar èsanzarimedio anzisi dell'amistà si è dilettazione sensibileavutadi- quoiilsepuissedeliter del'uomo sforzare ac nanzi,si come l'amista mento d'allegrezza colli tel tresbuchement de suoi amici.Lo conforta. Addunque ciaschuno huomo si de guardare amertume,etyvresde fatichaet pensieroetsia avere in se cosa da a- laidesceetdeperversité, pieno di molta amari mare.E questo cotale etqueilsoitdestortpar tudineetèebbrodisoz hae in se tanta miseria, misere neant ordenée. zura di peruersita, et che non è rimedio niuno Donc nus ne puet estre sia distorto per miseria ch'egli possa venire a amisdetelhome,porce en soi meisme et avec cioch'elli uengha alla d'unafemina,allaquale sonami. Confors n'est finedellabontaper la v'hadinanzidilettevoli pasamistié,jàsoitce qualeeglisipossadi guardamenti,eladiletta- que illesembleàestre: lettareinsemedesimo, zionesièlegamedell'a- mais li commencemens et hauere compimento mistà,eseguitalainse- d'amistiéestunsdeliz didilettationecolsuo parabilemente.Ladispo- rasavorez par conois- amico.L'amistà non è sizione dalla quale pro   Gli huomini rei tardo s'accordano nelle oppi nioni: et sono sanza parte d'amista, et per  se desevre, ce est deliz. si pertiene a colui ch'à insegravezzadicostumi ed esercizio di vertude, unità d'opinione e con cordia di mettere amore, perciò che le discordie dell'openione sono da trarre dalla nobile con. gregazione,acciòch'ella rimanga unita di pace e in concordia di volon tade. Quelle cose che danno altrui vera digni. tade da reggere,sisono le uirtudi e le loro opere e l'unità dell'oppinione; e questo si truova negli uomini buoni, concios sia ch'egli sono fermi e costanti in fra loro, e nelle cose di fuori, perciocch'egli uogliono bene continuamente.Ma rade volte addiviene che gli uomini si accordino in una oppinione,eper cagione di compiere gli loro desideri si soste: gnano molta briga e molta angoscia e molta fatica, ma non per ca. gionedivertude,ehanno moltesottilitadiinseper ingannare colui,con cui hanno a fare, e perciò sempre sono in rissa e in tenzone. C. MAECHESI. 3.Cil habiz dont pre mierementnaistlicon fors puet estre apelez amistié par semblant jusqu'à tant que il croist par longuesce de tens. Et li ofices dou confort affiert au preudome et au ferme que il soit griez en moralité de sa vie et es proesces et es costumes et toutes ver tuz, et plains de science et de bone opinion et de concorde, desirrous d'a. mor; por ce devroient estre ostées toutes des cordes et malvais pen. sers d'entre les nobles compaignies des homes, si que il puissent vivre en pais et en concorde de propre volonté,cele chose qui plus aide à maintenir et governer les dignitez des vertus et ses oevres.Et la con corde des opinions et es bons homes,porcequ'il sont parmenant dedans soi et es choses dehors; car toutes foiz jugent et vuelent bien. mentoellegamechenon si parte e sempre con lei et la dilettazione (sic). L'abito dal quale pro ciede confortamento si può dire amista per si. militudine infino a tanto ch'elli crescie per lungo temporale. L'ufficio del confortatore s'appartie ne a buono huomo et al fermo, el quale è graue di costumi et exercitato nelle uirtu,et essere pie toso di scienza et auere accontamento d'oppinio. ni, et concordia intro ducta d'amore (sic),per. ciò che le discordie delle oppinioni sono per disfa re le diuisioni dell'opere le quali sono nella nobile congregazione in con cordia di uolontà.Quella cosa la quale aiuta reg. giereladignitàelavirtu et l'opere delle uirtu.et concordiadelleoppinioni si truoua negli huomini buoni et costanti intra se et nel desiderio delle cose di fuori, percio che perano bene et uogliono Limauvaishomepo bene. s'acordent à lor opinion; car il n'ont en amistie nulepart, et poracom plir lor desirriers suef questi cotali sempre ado   frentilmaint espoines chagionedicompierele et mainttra va ilconmie le loro conchupiscienzie poramistié; etsontes eglisostengonomolte mauvaishommesmain- faticheetmoltitraua tes mauvaises soutil- gli:. per chagione d'a lancesporengigniercels mista, et molti scaltri quiàel sont à faire, et mentietmoltesottilita. porcesontil touzjors Et sonohuominireiper enpaineeten angoisse. chagione d'ingannare L'altro codice, che ci presenta una redazione affatto nuova e dipendente in tutto direttamente dal testo francese, è il Maglia bechiano II.II.47 (vecch.segn.VIII.1376),cartac.delsec.XV, a due colonne,di cc.scr.160; con le didascalie in rosso e rozzo disegno a colore nella prima iniziale e ne'margini della prima pagina.Contiene il Tesoro;precede un indice della materia:a c.5*:QuestolibrosichiamailTesoroilqualeèchauatoper lo maestro Burneto Latino di firenze di piu libri di filosofia che sono strati per li tempi; a c.59a: Qui comincia l'eticha di Aristotille; finisce l'Etica a c.76*: Qui finisce illibro dell'eticha d'Aristotille. La soscrizione finale a carta 160 4: Qui finisce il libro del Tesoro che fece il maestro bruneto Latino di firenze. dio ne sia lodato.La lezione offertaci dal ms.Mgl.è infelicis sima e costellata di sbagli, di contorcimenti e travisamenti di parola che pare non si possano attribuire tutti quanti al copista: il volgarizzatore in molti punti dà a vedere di essere poco felice conoscitore del volgare come poco esatto intenditore del francese.Molte espressioni francesi o sono adattate malamente all'idioma italico o lasciate intatte a dirittura e trasportate di peso nel volgarizzamento. Ma ciò vedrà il lettore nel con fronto che poniamo tra il testo del Liber Elhicorum e l'Elica di  coloro ch'anno a fare con loro.per cio sempre sono in brigha et in a n goscia.  Taddeo (1) col compendio francese di Brunetto e il volgare del VI libro del Tresor; confronto da cui balza fuori un docu mento largo e complesso,vivo e certo della tradizione morale aristotelica, nel tempo in cui visse e conobbe e compose Dante A lighieri. (1) Dell'Etica di Taddeo do la lezionecritica,quale risulta da'codici più autorevoli dell'Etica e del Tesoro,diversa quindi da quella offertaci dalle stampe che si son succedute fin ora.     Liber Ethicorum. L'Etica d'Aristotile. Omnis ars et omnis incessus et Ogni arte e ogni dottrina e ogni omnis sollicitudo uel propositumet operazioneeognielezionepareado quelibetactionumetomniselectio mandare alcun bene. Adunquebene ad bonum aliquod tendere uidetur. dissero li filosofi, che lo bene si è Optime ergo diffinierunt bonum di. quello lo quale disiderano tutte le centesquodipsumestquodintenditur cose. Secondo diverse arti sono diversi ex modis omnibus. Suntautemin- fini; che sono tali finichesonoope tentaperartes multas diuersa. Que- razionie sono tali finiche non sono da menimsuntactioipsametet que- operazioni, ma seguitansi alle opera damsuntipsumactum. Cumquesint zioni. Conciosiachosache siano molte artes ac ipsarum actiones multe, arti e molte operazioni, ciascuna hae eruntintentaperipsas multa.Ac losuofine.Verbigrazia: la medicina tamenactuminipsis existit melius sihaeunsuofine, cioèfaresanitade, actione. Estigitur intentum per me- el'arte della cavalleria laqualein dicinam sanitaset per artem regiti- segnacombattere, sihaunsuofine uamuelredactiuam exercituumuic- per lo quale ella è trovata, cioèvit toriaetpernauium structiuam naui- toria,elascienzadifarelenavi, si gatio et perdomus rectiuam diuitie; hae un altro fine cio èna vicare; ela etista sunt acta honorabilia. Que- scienza che insegna reggere la casa damaute martium habentse habi- suae la famiglia sua ha e un altro tudinegenerumet quedam habitu- fine, cioèricchezza.Sonoalquante dine specierumet quedam habitudine artile quali sonogeneralie sono indiuiduorum. Ideoque quedam ipsa. Al quante le quali sono specialie con rum sunt sub aliis, ut sub militari factura frenorum et cetere artium instrumentorum militarium, et sub tengonsi sottoquelle.Verbigrazia: la scienzadellacavalleria siègenerale, sotto la quale si contengono altre arte exercitu alicetereomnesbellice scienzeparticolari, siccomeèlascienza siuelitigatorie. Et simpliciter hono- di fare lifrenieleselleelespadee rabilissima omnium atrium est con- tuttel'altre, le quali insegnano fare stitutiuaet instructiua ceterarum. cose, le quali sono mistieriabatta Et quemadmodum quibusque rebus glia; equesteartiuniversalisonopiù anaturaproductisestperfectioquam degneepiùonorevilidiquelle,im. persenaturaintendit,etintellegibi. Perciocchè le particolari sonfatteper libusest perfectio quamintendit per l'universali. Esiccome nelle cose In tutto il principio del compendio di Taddeo, e quindi anche del testo francese, si sente l'influenza diretta dell'altra redazione del Liber Ethicorum, che servì di base al commento d’Aquino. Ecco il latino di quest'altra redazione: « Omnis ars et omnis doctrina, similiter « autem et actus et electio, bonum quoddam appetere uidentur. Ideo bene enunciauerunt bonum,  beržalglio per suo adirizamento,tutto   Tutte arti e tutte opere e tutte in. Tous ars et toutes doctrines et tramesse sono per chiedere alcuno touteseuvresettouztriemenz sont bene.Dunquedissebeneilfilosafo porquerre aucun bien, donquesdis- chequeglichetuttelecosedeside trentbienli philosophequeceque rano è ilbene. Secondo le diuerse touteschosesdesirrentestlebien. arti sono le fini diverse. Chetalifini Selon cdiversars, lesfinssont di. sonoopere, talisonoch'esconodel verses; cartelesfinssonteneuvres, l'opere.Eperciochemoltesonol'arti et teles sont celes quel'onensuitpar el'opereciascuna à suo fine.Che medicina ae una fine cioè a fare lesarsetlesoevres, chascune a sa santade. Ela fine dela batalgli asi fin; carmedicinea une fin,ceest ènetoria, el'artedifarenauià àfairesanté; etbatailleasafin, unaltrofine,cioènauichare. Ela les oevres; et porce que maintes sont porquoielefutrovée, ceest victoire; scienza cheinsengnaagouernarea et les ars de faire neis ont une autre l'uomo sua magione e sua familglia fin, ceestnagier; etlasciencequi àun'altrafinecio è ricchezza. Et sono enseigneàhomeà governersa maison alcune arti che sono gienerali e al et samaisnieauneautrefin,ceest cunechesonospezialli, cioèpersua richesce. Etsontaucunesarsquisont diuisione, eperòsonol'unasottol'al generaus, etaucunesquisontespe- trasi come la scienza di chaualleria ciaus, c'est particuleres, etaucunes ch'ègienerale,edisottoaquella sontsarzdevision; etporcesont sono più altre scienze partichullari, lesunessouzlesautres; sicomme cioè la scienza di fare frenieselle est la science de chevalerie, quiest espadeetuttel'altre cosecheinse generaus,etdesozlisontautres gnanoafarecosecheabattalglia sciencesparticuleres, ceestlascience bisongnano. de faire frains et seles et espées, et E l'arti universalli sono più dengne toutesautresarsquienseignentà epiùonoreuolichel'altre, percio fairechosesquiàbataillebesoignent. Chelle particullarisono trouatteper Et cistartuniversalesontplusdigne leuniversali. E così tutte le chose queliautre, porcequelesparticu. che sono fatte per natura è unadi leressont trovees par les universales. retana cosa per a che la natura in Ettoutaussicommeenchosesqui tendefinalmente. Altre si tutte le cose sont faites par nature est une dar- chesonofatteperartièunafinale reinechoseàquoilanatureentent cosaachesonoordinatetuttelecose finelment,autressieschosesquisont diquellaarte. Esicomecoluiche faites par art est une finel chose à Li Tresors. Magliabech.quoi sont ordenées trestoutes les trae di sua arte a uno sengnio à uno   « quod omnia appetunt. Differentia uero quaedam uidetur finiam. Hi quidem enim sunt opera «tiones; hiueropraeterhasopera quaedam. Quorum autemsuntfinesquidampraeteroperationes, « in his meliora existunt operationibus opera. Multis autem operationibus entibus et artibus et doctrinis,multi sunt et fines.Medicinalis quidem enim sanitas,nanifactiue uero nauigatio, •yconomicae uero diuitiae.Quaecumque autem sunt talium sub una quadam uirtute,quemad «modum sub equestrifrenifactiuaetquaecumque aliaeequestriuminstrumentorumsunt:haec « autem et omnis bellica operatio sub militari; secundum eundem itaque modum aliae sub alteris. • In omnibus itaque architectonicarum fines omnibus sunt desiderabiliores his quae sunt sub ipsis. « Horum enim gratia et illa prosequuntur. (1) Quest'esempio, che manca nella nostra redazione latina, è tratto dal Liber Ethicorum del commentotomistico: Igituretaduitamcognitioeiusmagnum habetincrementum,etquemad modum sagittatores signum habentes seintellectus,eodem modorebusef. fattepernaturaèunoultimointen fectisabarteestperfectioquam per seintenditartificiumhumanum.Hac finalmente,cosìnellecosefatteper autemperfectioestbonumadquod arteèunointendimentofinale,al intenditur, et est optimum eorum que queruntur propter ipsum et di quelle arti; siccome l'uomo che ipsiuscausa.Scientiaigituristiusest saettahalosegnopersuodirizza scientiadiuinamaximiexistensiuua. mento,coşiciascunaartehae menti in uitaetconuersatione hu. unsuofinaleintendimento, loquale mana. Habentesigiturintentionem dirizzalesueoperazioni.Adunqua acpropositumdignum ualdeestut l'artecivile,laqualeinsegnareggere inueniamusinquisitioneremqueest lacittade, éprincipaleesovranadi perfectiouoluntatis.Arsigiturdi. tuttealtrearti,perciocchèsottolei rectiuaciuitatumprincepsestartium, sicontegnonomoltealtrearti,lequali eoquodsubhaccontinenturresho. sonoonorevili,siccomelascienzadi norabilesualideconsistentie;utpote farel'osteedireggerelafamiglia, arsexercitualisetarsfamiliedo- elarettoricaèanchenobile,percio mus dispensatiua ac rethorica,et ch'ellasiordinaedisponetuttel'altre eoquodipsautitarartibusactiuisomni- chesicontegnonosottolei,elosuo busetcomponitetordinatlegesearum compimentoàilfinedituttel'altre. atqueiuditia(sic)etdistinguitinter Adunquelobeneloqualesiseguita laudabilesetillaudabiles.Huius itaque artisperfectioacpropositumadpro- l'uomo,percioch'ellalocostringe priatpropositaomniumartiumreliqua- di fare bene e costringelo di non rum.Bonumigiturusitatumsecundum fare male.La recta dottrina sièche suum modum est bonum humanum; l'uomo si proceda in essa,secondo ipsumnamqueeffectiuumestcetero- chelasuanaturapuotesostenere. rum bonorum omnium artium et Verbigrazia:l'uomocheinsegnageo saluatartificesnequidaganthorridum metriasideeprocedereperargo dimento lo quale la natura intende quale sono ordinate tutte l'operazioni diquestascienza,sièlobene del  chosesdecelart.Etaussicomme altresiciascunaarteaeunafinale cilquitraitdesonarcauseignala cosache'ndirizaquellaopera.Qui celui bersail por son adrescement, parla del gouernamento della citta tout autressi a chascune ars CCXVII.Dunque l'arte che insen finelchosequiadrescesesoevres. gnialacittagouernareèprincipale Donques l'art qui enseigne la cité àgovernerestprincipausetdame etsoverainedetoutesars,porceque desouzlisontcontenuesmaintesho- norablesars,sicomme rectoriqueet lasciencedefaireostetdegoverner e donna di tutte l'arti, peròchedisottoaleisonotuttii maestrionoreuoliecontiensisotto luituttemolteonorabillearti,sicome retoriccha e la scienza di fare oste edigouernaresuamasnada.E an samaisnie;etencoreestelenoble, coraènobileperoch'ellamettein porcequeelemetenordreetadresce toutesarsquisouzlisont,etlisiens compliemensetsafinssiestfinet compliementdesautres.Donquesest ele li biens de l'ome, porce que ele constraintdebienfaireetelecons- traint de non mal faire. Lidroizenseignemenzsiestque onailleselonccequesanaturele ordineeadirizzaartichesonosotto lui,eilsuocompimentodisuafine sièfineecompimentodel'altre. Dunqueilbene(che)diquestascienza uiene si è bene dell'uomo pero che 'l constringniedinonfarelomale. E il diritto insegniamento ch'ell'à inleisecondosuanaturalepuote soferire.Cioèadirechecoluiche puetsofrir;ceestàdirequecilqui insengnagouernaredeeandareper enseignegeometriedoitalerparar- suoiargomentichesonoapellatidi gumensquisontapelésdemonstra- mostrazioni.Erittorichadeeandare cions,etenrectoriquedoitalerpar perargomentieperragioneuedere argumenzetparraisonvoiresembla- senbiabille,eciòauienepercioche ble.Etceavientporcequechaschuns ciascunoartieregiudicabeneedicela artiensjugebienetditlaveritéde ueritàdiciòcheapartienealsuome cequiapartientàsonmestier,eten stiere,ecosiinciòèilsuosennosottile. ce est ses sens soutis.  une e sovrana La scienza di città governare non Lasciencedecitégovernerne sifamichaafanciullonedahuomo afiertpasàenfantneàhomequi chesegualesueuolontadi,percio vueilleensuirresavolenté,porceque che amendue sono non sacenti delle anduisontnonsachantdeschosesdou cossedelseculo,chequestaartenon siecle;carcestearsnequiertpasla chiedelasienzadell'uomo,mach'egli sciencedel'ome,maisqueilsetorne sitorniabontà.Esapiatechein àbonté.Etsachiésqueenfesestde. fateèinduemaniere,chel'uomo ij.manieres;carlihompuetbien puotebeneessereuechioditenpo estrevielsdeaageetenfesdemors; euechioperhonestavita.   autillaudabile.Et saluatioquidem mentifortiliqualisichiamanodimo. uniuslaudabilisexistit,quantomagis strazioni,elorettoricodeeprocedere gentiumacciuitatum.Rectadoctri. nellasuascienzaperargomentie natioestinquirereinunoquoquege- ragioniverisimili;equestosièpercio nerumiuxtamensuramquamsustinet checiascunoarteficegiudichibene naturailliusgeneris;etutexigitur etdicalaveritadediquellocheap. quidemamathematicodemonstratio partieneallasuaarte.Lascienzada et a rethore sufficientia persuasiua. reggere la cittade non conviene a Unusquisque enim artificumrecto garzonenèauomocheseguitilesue iuditio iudicat de eo quod est infra h a cose buone e giuste e oneste; onde Rerumquedamsuntcogniteapud gliconvieneaverel'animasuanatu nos,etquedamsuntcogniteapud ralmentedispostaaquellascienza: naturam.Oportetergoutamator maquellouomochenonhaeneuna scientieciuilispromtussitadres diquestecose,èinutileaquesta eximiasetsciatopinionesrectas.Opi- scienza Questo ci prova chiaramente che Brunetto non ebbe tra mani altro testo latino fuor del compendio alessandrino-arabo; giacché le altre traduzioni greco-latine della Nicomachea gli avrebberodatolagiustaindicazionedel poeta:Esiodo.Maforsepertuttoilriferimento,che  son volontadi,peroche non > bitum suae scientiae,et in hoc est nellecosedel secolo.E notache gar perspicaxipsiusscientia.ludicans zonesidiceinduemodi,quantoal autemdeomnisapiensestomnipe- tempoequantoallicostumi,che ritiaimbutus.Arsciuilisnonpertinet puòtaloral'uomoesserevecchiodi pueronequeprosecutoridesideriiatque tempo e garzone di costumi, e tal uictorie,eoquodamboignarisunt fiatagarzoneditempoevecchiodi rerumseculi,nequeproficitipsis.Non costumi.Adunqueacoluisiconviene enimintenditarsistascientiamsed lascienzadireggerelacittade,lo conuersionemhominisadbonitatem; qualenonègarzonedicostumie nequediffertpueretateautinmo- chenonseguitalesuevolontadi,se ribuspueris,nonenimaduenitquidem nonquandosiconvieneequantosi defectusexpartetemporissedpropter conviene ed ove si conviene. usum uite in moribus puerilis;pueri ergodissolutietdesideriorumprose- cutoresnonproficiuntpenitusexarte ciuili. Qui autem utitur desiderio secundum quodoportetetquando Sono cose le quali sono manifeste allanatura,esonocoselequalisono manifeste a noi; onde in questa scienza si dee cominciare dalle cose, oportet,etquantumoportetetubi oportet,hicplurimumproficitex scientia artis ciuilis. loqualedeestudiareinquestascienza, edapprendere,sideeausarenelle lequalisonomanifesteanoi.L'uomo savi   et puet estre enfes par aage et viel Dunque la sienzia di città ghouer parbonevie.Donqueslasciencede nare è a fare huomo che non sia governer citez n'afiert à home qui fanciulo de cuore molle e che non estenfesensesfaizetquiensuie sesvolentės,selorsnonquantille covient faire et tant comme il co- vient,et là où il se covient,et si comme est covenable. seguasuauolontadi,senoquelliche siconuengonoetantocom'ellesi debono e la dove si conuiene e si come conueneuole. E sono chose che sono chonueneuoli a natura e cose chesonoconueneuolliannui;che Iliachosesquisontconnuesà natureetsontchosesquisontcon- chisivuolestudiareasaperequesta neuesànos;porquoinosdevonsen scienza,eglideeussarecosegiustee cestesciencecommencieraschoses buoneeoneste,ond'egligliconuiene quisontconneuesànos,carquise auerel'arminaturallementeaquesta vuetestudieràsavoircestescience, scienza,macoluichenonanèl'uno ildoituserdeschosesjustes,droites nèl'altroriguardiaciòchedee.Se etbonnesethonestes,oùillicovient 'lprimoèbuonoel'altroèapere avoirl'ame naturaument ordenée à gliato ad essere buono.Ma chi da cestescience;maiscilquin'ane ssenonsanienteenonaprendedi l'onnel'autreregardeàcequeHo- ciòchel'uomogl’insenguia,egliè merusdist:Selipremiersestbons, deltuttomecciante.- Quidicedelle liautresestappareilliezàestrebons; treuieCCXVIII. Dacontaresono maisquidesoinesetneant,etqui.ij.uie.L'unaèuiadichonchupi. n'aprentdecequehomlienseigne, senziaediconuotizia.L'altraèuita ilestdoutoutmescheanz(1).IV.Les cittadina,cioèdisennoediproeza viesnoméesquisontàcontersont ed'onore.Laterzaécontenpratiua..ij.L'uneestviedeconcupiscenceet E più ujuono secondo la uita delle decovoitise;l'autresiestvieciteine, bestie,ch'èapellatauitadichonchu ceestdesensetdeproesceetd'onor; pisenzia,peròch'egliseghonolaloro la tierce est contemplative: et li uolontade e loro diletto. E chatuna plusorviventselonclaviedesbestes, diqueste.ij.uiteàsuapropriafine quiestapeléeviedeconcupiscence, diuersedal'altre,tuttoaltresìcome porcequeilensuientlorvolentezet [lasienzadiconbatteredi]medi lordeliz.Etchascunedeces.ij.vies cina à sua finediuersa dalla scienza asaproprefin,diversedesautres, delconbattere,chèquellabadaafare toutautressicomme medicineasa santà,equellaadauereuetoria.Qui findiversedelasciencedecombatre; diuisadelbeneCCXVIIII.Ubene carelebéeàfairesanté,etcele ėinduemaniere,che'unamaniera autreàvictoire.V.Libiensesten èch'èdisideratapersemedesimo[e ij.manieres;carunemanieredebien l'altra)eun'altramanieradibeneè    niones autem rectae sunt ut in arte Le vite nominate e famose sono ciuiliincipiaturarebusapudnos tre;l'unasièvitadiconcupiscenza, cognitis,etinconsuetudinibuspul- l'altrasièvitacittadina,cioèvita crisethonestisfactasitassuetudo diprodezzaed'onore;laterzasiè principium enim est et inceptio a vita contemplativa: e s o n o molti quaresest.Exmanifestoexistente uominichevivonosecondolavita sufficienterquiaresest,nonindigetur dellebestie,laqualesichiamavita propterquidresest.Indigetautem diconcupiscentia,perciòchesegui. homoadpromtitudinemhabitationis tanotuttelelorovolontadi;ecia leritatisrerumbonarumautaptitudine scunadiquestevitesihasuofine boneinstrumentalitatisexquasciat propriodiversodaglialtri,sicome uerum,autformaperquamaccipian- l'artedellamedicinahadiversofine turprincipiarerumabeofacile.Qui dallascienzadicombattere,chè'l veroneutramhabueritharumaptitu- finedellamedicinasièdifaresani. dinumaudiatsermonemHomeripoete tade,e'lfinedellascienzadifare ubidicit:Illequidem bonusest,hic battagliesièvittoria.Benesièse autem aptus ut bonus fiat. Vite condo due modi, chè è uno bene lo famosetressunt.Uitaconcupiscen- qualeuomovuoleperse,eunaltro tieetuoluptatis,uitaprobitatiset beneloqualel'uomovuoleperaltro. honoris,uitascientieetsapientie; Benepersesìcomelabeatitudine, pluresuerohominumseruisuntuo- beneperaltruisonodettiglionori luptatis uitam bestiarum eligentes elevertudi,perciòcheuomovuole inexecutionedelectationum.Sunt questecoseperaverebeatitudine. autem termini harum uitarum distan. Naturalcosa èall'uomoch'eglisia tesetbonaipsarumbonadiuersificata. cittadino,etconversicongliuomini Sicutergobonum quodestinarte artefici,econtralanaturadell'uomo exercitualiestaliudabonoquodest sièd'abitaresoloneldeserto,elà inartemedicinali,sicabinuicemalia ovenonsianogente,peròchel'uomo sunt bona trium uitarum. Et bonum naturalmente ama compagnia. quidem medicine est sanitas,bonum Beatitudo si è cosa compiuta,la exercitualisestuictoria.Estautem qualenonabbisognaneunacosadi bonumsecundumduosmodos:bonum fuoridase,perlaqualelavitadel per se et bonum propter aliud; et l'uomosièlaudabileegloriosa.Adun. quesitumquidemproptersemelius quelabeatitudinesièlomaggior estquesitopropteraliud.Nosuero beneelapiùsovranacosaelapiù manca nelcompendiodiTaddeo,BranettosivalseanchedelLiberminorum moralium:«.aduertat « intentionem poetae dicentis: Optimus est hominum qui a semet ipso intelligit quod expedit.Qui « autem ab altero hoc intelligit, est in uia directionis. Qui uero nec a semet ipso intelligit nec « ab altero recipit, hic uir est inutilis », est qui est desirrez por lui meisme, et une autre maniere de bien est qui est desirrez por autrui. Biens par lui est beatitude,qui est nostre fin,à quoi nos entendons;bien par autrui sont les honors et les vertuz; car ce desire li hom por avoir beatitude. Naturale cosa è a l'uomo ch'egli sia cittadino e ch'egli conuersi in tra le gienti, cioè intra gli uomini e intra gli artefici. E contra natura sarebe abitare in diserto oue non à persona,però che l'uomo naturale. mente si diletta in conpangnia. Bea tittudine è cosa conpiuta, si che non à niuno bisongnio d'altra cosa fuori di lui, per chui la uita degli uomini ė pregiabile e groliosa:dunque è beatitudine il magiore bene di tutti, e la più sourana cosa e la trasmil gliore di tutti i beni che sieno. Qui diuisa di treposanzie CCXX. Tutte le opere dell'uomo o sono malvagie o [buone.om.]. Colui che lle fa buone l'opere,egli è degno d'auere il compimento della uertu di  L'anima dell'uomoae.ij.posanze. L'una è uegiettative,e questa è co mune ad alberi ed a piante, ch'egli anno annima uigettatiua,altresìco m'àno gli uomini; la seconda è apel latta sensitiua; la terza è apellata r a zionabile,l'èperquestoche l'uomoè ragioneuole e diuisato da tutte le cose, per ciò che niuna altra cosa ae anima razionale se no l'uomo;e questa possanza è alcuna uolta in natura e al cunauoltainpodere.Ma beatittudine è quand'ella è in opera e non miga quand'ella è in podere solamente; chè s ' e g l i n o 'l f a, e g l i n o n è m i c h a b u o n o. Naturel chose est à l'ome que il soit citeiens,etque ilconverseentre les homes et entre les artiens; car contre nature seroit de habiter en desers où il n'a nule gent,porce que li hom naturelmentsedeliteen com paignie. Beatitude est chose complie,si que ele n'a nul besoing d'autre chose fors de li,par quoie la vie des homes est puissanz et glorieuse: donques est beatitude li graindres biens de touz et la plus soveraine chose et la très mieudre de touz biens qui soient. V I. L ' ame del' o m e a j i j. p u i s s a n c e s. L'une est vegetative, et ce est c o m mun asarbresetasplantes,caril ont ame vegetative aussi come li home ont;lasecondeestapeléesen sitive, et est c o m m u n e à toutes bestes, car eles ont ames sensitives; la tierce est apelée rationable,et por ceste est li hom divers de toutes choses,porce que nule autre chose n'a ame ratio. nableselihom non.Etcestepuis sance rationable est aucune foiz en oevre et aucune foiz en pooir; mais beatitude est quant ele est en oevre, et non pas quant ele est en pooir seulement; car se il ne le fait, il n'est mie bons. ch'è disiderata per altrui. Bene per lui è beatitudine, ch'è nostra fine a che noi intendiamo.Bene per altrui sono gli onori e le uertu: chè questo si disidera per auere beatitudine. Toutes les oevres des homes ou   Ogni operazione che l'uomo fae o ellaèbuonaoellaèrea;equello uomo lo quale fa buona la sua ope. razione, si è degno d'avere la perfezione della virtude di quella opera zione.Verbigrazia: lo buono cetera tore,quando egli cetera bene,si è degnacosach'egliabbiailcompimento di quella arte,e lo rio tutto il con. trario. Adunque se la vita dell'uomo è secondo l'operazione della ragione, allora si è laudabile la sua vita, quand'egli la mena secondo la sua propria vertude; ma quando molte vertudi si raunano insieme nell'animo dell'uomo, allora si è la vita dell'uo mo molto ottima e molto onorata,e molto degna,sicchè non puote essere più;perciò che una virtude non puote beatitudinem ultimam propter se uo lumus,cum sitfinisnosteretintentum à nobis; honores autem et uirtutes propter beatitudinem, eo quod per ipsas pertingimus ad illam. Homo naturaliter ciuilis est et con uiuithominibusetsocietatesexercet comel'uomo; lasecondapotenziasi cumartificibusdecenter,nequeap chiamaanimasensibilenellaquale petitsolitudinemnequedesertum participal'uomocontuttelebestie, neque heremum. perciòchetuttelebestiehannoanima Beatitudo es tres completa, nullius sensibile;laterzasichiamapotenza indigens, perquamuitahominislau. razionale, perlaqualel'uomosiè dabilisexistit. Beatitudoigiturexce diversodatuttel'altrecose,perciò lentissimum est eligibilium et opti. che neuna altra cosa hae anima ra mumbonorum,cumsitperfectiore zionale, sicomel'uomo.E questa rumoperabilium.Sicutigiturestin potenziarazionalesiètalorainatto qualibetartiumbonumquodillaars etalorasièinpotenzia;ondela intendit,etsicutestcuilibetmem. beatitudinedell'uomosièquandoella brorumcorporisactuspropriusin vieneinatto,enonquandoellaèin quoeialiudnoncomunicat,sicest homini actus proprius in quo aliud ei non comunicat. Homini autem se cundum animam uegetabilem C O municant terrae nascentia,et secun dum animam sensibilem comunicant ei animalia; actus uero ei proprius, inquo nullum aliud ipsi comunicat, est actus secundum rationem et di scretionem. Ratio uero duplex est: potenzia: ratio uidelicet actualis et ratio poten tialis;dignior autem ad intentionem rationis et magis cognita est ratio actualis,ut pote actus hominis di. scernentis et agentis. Et omnis actio quam agit actor aut est bona aut est mala. Actor autem bene agens in omni arte meretur intentionem uir tutis, ut bene citharizans citharedus bonus; citharizans autem male malus. ottima che l'uomo possa avere. L'a nima dell'uomo si ha tre potenzie; l'una si chiama potenzia vegetabile, nella quale comunica l'uomo cogli arbori e colle piante,perciò che tutte le piante hanno anima vegetabile,si    bonesoumauvaisessont.Etcilqui quell'opera.Chècoluichebeneopera fait lesbonesoevres,ilestdignes èdegnod'auereilcompimentodisuo d'avoirlecomplimentdelavertude mestiere,equeglichemalfanno,il celeoevre;carcilquibiencitoleest contrario. Dunqueselauitadell'uomo dignesd'avoirlecomplimentdeson èsecondol'operadiragione,alora mestier, etciquimallefait,lecon- è da pregiare quand'eglila mena traire;doncselaviedel'omeest secondolapropriauertu. Maquando seloncl'oevrederaison,lorsestele mantieneuertusonogliuominisaui, prisablequantillamaineseloncla esauioebisongniabile,enorevolee propre vertu; mais quant maintes moltodengniosichepiùnonpotrebe vertuzsontenl'ome,savieestbesoi. essere; percidcheunasolauertunon gnableethonoréeetmultdigne,si puotefarel'uomodeltuttobeatone queplusneparroitestre,porceque perfetto.Chèunasolarondineche uneseulevertunepuetfairel'ome uengnianèunosologiornotemperato detoutebeatitudeneparfait;carune nondonaciertanainsengniadelprimo solearondelequivieigneneunsseus tenpo.Eperciòinunopocodiuita jorsatemprésnedonentcertaineen- d'uomoeinunopocoditenpoch'egli seignedouprintens;etporceenpo facciabuoneopere, nonpossiamoperò devied'ome,neenpodetensque direch'eglisiabeato. CCXXI. Qui ilfacebonesoevres,nepoonnosdire diuisa di tre maniere di bene. Il queilsoitbeates.VII. Libiensest beneèdiuisatointremaniere,che devisezen.iij.manieres,carliuns l'unoèilbenedell'anima,el'altro estbiensdel'ame,etliautresest delcorpo. Mailbenedell'animaèil doucors,etlitiersdehorslecors; piùdengniochenullodeglialtri, maislibiensdel'ameestplusdignes peròcheglièilbenedidio,esua quenusdesautres,carceestlibiens formanonèchonosutaseperl'opere de Dieu, etsaformen'espasconneue separlesoevresvertueusesnon.Et sanzfaillebeatitudeestenquerre lesvertuzetenelsuser,maisquant beatitudeestenhabitetaupooir del'ome,etnonensesfaiz,ceest àdirequantilporroitbienfaireet ilnelefaitmie, lorsestvertuous aussicommecilquisedort,carses oevres ne ses vertuz ne se mostrent pas. Maisl'omquiestbeatescovient aussicommeparnecessitéqueilface uertudiose non.E sanza fallo beati tudineèinchiedereleuertuefarle. Maquando beatitudineènell'abitoe inpoteredell'uomononèsenone fatti:questoèadire,quandoeglipuote benefareeno'lfaaloraèegliuer tudiosoaltresìcomecoluichedorme; chèsueopereesueuertunonsimo strano. Ma l'uomoch'èinbeatitudine conuiene altresì come per necissetà ch'eglifacciailbeneinoperaesi comeilsauiochampioneeforteche lebiensenoevre.Etsicommeli sichonbatteuuoleportarelacorona Actusigiturhominisunaestuitarum l'uomo fare beato,nè perfetto,sic famosarum trium prenominatarum, una rondine quando appare uitascilicetrationisetscientieet sola, eunosolodietemperatonon sapientie. Etomnisquidemresbona dànnocertadimostranzachesiave. existitetdecorapropteruirtutemsibi propriam. Vita ergo hominis actus estanimeintellectiueperuirtutem sibipropriam;sedcumuirtutesani- memultesint,eritperoptimam et honoratissimam in fine et dignis- simaminfineperfectionisetcomple- menti. Unanempehyrundononpro- nosticaturuernequediesunicatem- peratiaeris,sicnecuitapaucaet lobenedell'animasièpiùdegno tempusmodicumsignumcertumsunt benedineuno,elaformadiquesto beatitudinis. bene si non si conosce se non nell'o Bonum tripliciter diuiditur; est perazioni, le quali sono con vertudi. bonum anime et bonum corporis et nutalaprimavera;ondeperciò nè. inpicciolavitadell'uomo,nè in pic ciolotempochel'uomofacciabuone operazioni, nonpotemodicereche l'uomosiabeato. Lo bene sidivide in tre parti, chè l'unosièbenedell'anima,l'altrosi èbenedelcorpo,el'altrosièbene difuoredalcorpo. Diquestitrebeni,  come bonum extra corpus. Bonum ergo delle vertudi e nell'uso loro; ma quoddignissimebonumdiciturest quandolabeatitudineènell'uomoin bonum anime, neque apparet forma abito, e non in atto,allora si è vir istiusboni, nisiinactibusquisunt tuosacomel'uomochedorme,lacui auirtute. Et beatitude quidemest operazioneevirtudenonsimani. inacquisitioneuirtutumetinusu festa; mal'uomobuonodinecessità earumsimul.Cumquefueritbeatitudo è bisogno che l'aoperisecondol'atto, in homine tamquam in possessioneet et è somigliante di quello che sta habituet non actu, tuncesttamquam neltravitoa combattere; chè sola uirtuosus dorniiens cu non apparet mente quelli che combatte et vince, actionequeuirtus. Beatusautemactu quellià la coronadellavittoria; e necessarioexercet beatitudinem. Et se alcuno uomosiapiùfortedicolui, quemadmodumperitiagonisteatque chevince, nonàperciòla corona, robusticoronanturquidemetacci. perch'eglisiapiùforte,s'eglinon piuntpalmamapudactumagoniset combatte, avvegnach'egliabbiala uictorie, sicuirtuosielectiboniac potenziadivincere;ecosìlogui. beati laudantur et premia uirtutum derdone della virtude non ha l'uomo suscipiunt dum apparent operationes se non in fino a tanto ch'egliadopera ipsorum secundumueritatem;etisto. lavirtudeattualmente; equestosiè rumuitaestin se ipsa delectabilis. perciòcheloloroguiderdoneela Unusquisque enim hominum delecta- lorobeatitudineèladilettazione,che La beatitudine si è nell'acquistare  della uettoria, tutto altresì l'uomo buono e beato ae il guiderdono e la loda della sua uertu ch'egli fae et mostra ueracemente per queste opere, perciò che il guiderdono delle sue opere e della beatittudine è ildiletto ch'egli n'atantoe com'egli opera la uertu; chè ciascuno si dileta in cid ch'egli ama; il giusto si dileta in giustizie e l'asagia e gli piacciono, e 'l uertudioso nelle uertu. Et tutte l'opere che sono per uertu sono belle e dilettabille in se medesime. Beatitudeestlachoseau monde Beatitudine èl acosa al mondo che quiesttrèsdelitable,maislabeati tudequiestenterreabesoingdes biensdedehors;carilestdurechose quel'onfacebelesoevres,seiln'ia grant part des choses avenables à bonevieethabondanced'avoiret d'amisetdeporenz,etprosperitéde fortune, et por ce la sapience abe. soigned'aucunechosequifaceco perciòlasapienzaàbisongniod'al noistre sa valor et ses honors.Se cuna cosa che faccia conossere suo aucuns done as homes dou monde, ualore e suo onore.Se alcuno dona disglorious et soverainsfaiz,l'en ahuomodelmondodonogroliosoe doitbiencroirequecildonssoitbea. souranofattol'uomodebenecredere titude,porcecequeestlamieudre chequellodonosiabeatitudine,perciò chosequiestrepuisseaumonde;car ch'eglièlamigliorecosachepossa eleestmulthonorablechose,etest esserealmondo;ch'ell'èmoltoono. licompliemensetlaformedevertu; rabilecosa[essere]edèilcompimento neiln'estpasditdouchevalnes elaformadellauertu;nèeglinonè desautresbestes,nedesenfans,que michadettodelcaualloedel'altrebe ilsoient beates,porce qu'il ne font oevres de vertu. Beatitude est chose ferme et estable, tozjors en une fermeté, si que ele ne stie,nè degli fanciulli che sieno beati, perciò ch'egli non fanno opere di uertu. Beatitudo è cosa ferma et stabille. Arrestiamo qui la trascrizione del cod. Magliabech., sembrando ci la parte trascritta suciente ad attestare la propria dipendenza dal testo francese. milglioreepiugioiosaetradiletta bille:mallabeatitudinedeeessere interraebenidifuori.Chègliè dura cosa che l'uomo faccia belle opere e ch'egli abbia parte di cose aueneuolliahuonauitaedabondanza d'auereedabondanzad'amiciedi parenti e prosperita di fortuna, e  F sages champions et fors qui se combat et vaint emporte la corone de victoire, toutautressilihom bonsetbeatesa le guerredon et la loange de la vertu que il fait et mostre veraiement par ses oevres, porce que li guerredons de la beatitude est li deliz que l'om atentcomme iluevrelavertu,car chascuns se delite en ce que il aime: lijustessedeliteenjustise,etlisages en sapience,etlivertueusenvertu; et toute oevre qui est par vertu est bele et delitable en soi meisme. virtude, si è bella e diletteuile in se Beatitudo autem omnium rerum est medesima. Beatitudo si è cosa ot optimaiocundissimaatque delectabi- tima, giocundissimae dilettabilissima. lissima. Beatitudo tamen quest hic La beatitudine, la quale è interra, si bonisexterioribusindiget; difficile abbisognadeglibenidifuori,perciò est enim homini ut opera decora che non è possibile all'uomo ch'egli exerceatabsquemateriautpotequod facciabelleopereech'egliabbia habeatpartemcompetentemrerum artelaqualesiconvengaabuona boneuitepertinentiumet copiam vita, e abbondanza d'amicie dipa familie et parentum et prosperita- renti,eprosperitàdiventura,sanza temfortune.Ethacquidemdecausa libenidifuori; eperquestacagione indigetarssapientiearteregnandi, nonabbisognaalcunacosachefaccia ut apparere faciat honorificentiam manifestare il suo onore e lo suo va suiatqueualorem. Etsialiquarerum lore. Sealcundonoèfattodidome donata est hominibus a deo excelsa nedio glorioso e eccelso agli uomini etgloriosa, dignumestutbeatitudo delmondo, degnacosaè da credere siuefelicitasdonumsitdiuinum se- chequellodonosiabeatitudine,im cundumquodipsaestoptimaomnium perciòch'ellasièlapiùottimacosa rerum humanarum; est igitur de onorevole molto e compimento e rebus prehonorabilibus,cum sit com.  turineoquodestamatumapud eglihanno, infinoatantoch'egliado ipsum; delectetur ergo iustus in perano la virtude; chè il giusto si justitiaetuirtuosusinuirtuteet dilettanellaiustiziae'lsavionella sapiensinsapientia.Etactionesfientes sapienza, elovirtuosonellavirtude; peruirtuteminseipsissuntdelecta. eognioperazione,laqualesifaper biles uenuste ac decore. forma di virtude. E neuna genera plementum uirtutis siue forma et zione d'animali puote avere beatitu fructusipsius— Non diciturautem dine,senonl'uomo,eneunogarzone deequo neque de alio aliquo anima- nonhae beatitudine, perciòcheneuno liumhuiusmodi,nequedepueris,quod animalenèneunogarzonenonado sintbeati,eoquodnequehuiusmodi perasecondovertude. animalia neque pueri agant opera Beatitudo si è cosa ferma e stabile uirtutis.Etbeatitudoestresfirma sempresecondounadisposizione, nella stabilissecundumdispositionemunam, qualenoncadevarietadenèpermu inquamnoncaditalteratioetpermu- tazione alcuna,e non v'ha talora tatio,etnoncomitanturipsameuen: beneetaloramale,matuttaviabene, tusuarii,etnuncbonitasnuncmalitia. equestosièperciòchelabonitade Etenimbonitasetmaliciaestin opere elareitadesi ènella operazione hominis;etcolumpnabeatitudinis dell'uomo.Lacolonnadellabeatitu estoperasecundumuirtutem;co- dinesièl'operazione,chel'uomofae 1   se remue pas,et si n'est mie une foiz bien et autre mal, mais toutes foiz bien,porce que li muemenz de bonté ou de malice n'est pas se es oevres des homes non. Li pilers de beatitude est lesoevres que l'onfait selonc vertu,et la colone dou con traire est les oevres que l'on fait selonc vice; et la vertus ferme et estable est en l'ame de l'ome.Li hom vertueus ne se contorbe ne ne s'es maie por nule temporal chose qui li avieigne; car il n'auroit jà beatitude se il s'esmaioit,car dolor et paor abatent l'oevre de vertu et la joie de beatitude. Felicités est une chose qui vient par vertu de l'ame, non pas dou cors..... Aucunes choses sont mult griez à sostenir;mais quant l'on les a bien sostenues,lors apert et se mostre la hautesce de son corage; et sont au tres choses qui ne sont griez à sos tenir, ne li hom qui les sueffre ne mostre pas que en lui soit force.Et jà soit ce que mort et maladies de filz soient griez à sostenir, ne doivent pas remuer l'ome de sa felicité; car bienetfelicité,ethome felixetDex glorious et benois sont tant digne chose et tant honorable que nulz pris ne nule loenge ne lor sofit pas; et nos devons reverer et magnifier et glorifier Dieu sor toutes choses et si devons croire que en lui sont tuit bien et toutes felicitez.,porce que il est commencemenz et achoisons de touz biens. secondo virtude,e la colonna del con trario suo si è l'operazione, la quale l'uomo faesecondolovizio;equesta operazione si erma e stante nel. l'anima dell'uomo,et l'uomo virtuoso non si muove,e non si turba per cosa contraria temporale che gli possa a v venire, perciò che già non arebbe beatitudine, s'egli si conturbasse, perciò che la tristizia e la paura si toglie altrui l'allegrezza della beati. tudine. Sono cose le quali sono molto forti a sostenere; ma quando l'uomo l'à sostenute pazientemente, si dimostra la grandezza del suo cuore; e sono altre cose le quali sono lievi a sostenere,e perché l'uomo le so. stegna non si mostra grande fortezza in lui,siccome morte di figliuoli e loro malitia.Queste cose,avegnache ellesiano forti,non permutano l'uomo di sua felicitade.La felicitade e l'uomo bene avventurato e domenedio bene detto e glorioso sono tanto degna cosa e tanto da onorare che le loro lodi non si possono dicere,e spezial mente si conviene a noi di reverire e magnificare messere domenedio sopra tutte cose, e dee l'uomo pen sare di lui, che nel suo pensare ha l'uomo tutto bene, e tutta felicitade, perciò ch'egli è cominciamento e ca gione di tutto bene.  lumpna uero contrarii beatitudinis est opera secundum contrarium uirtutis; et optima operationum secundum uir tutem est stabilissima earum in ani ma;et uita beatorum continua est semperperactioneshonorabilesbonas; et uirtuosus perfectus absque ex tollentia speculatur in rebus virtuali bus et substinet irruentia mala et tollerat ea tollerantia decenti et non turbatur cor neque formidat ex ma. gnis calamitatibus ex temporis malitia occurrentibus; nisi enim eas decenter sustinuerit conturbabitur eius felicitas et inducentur super ipsum meror et tristitiaque impedient secundum uir tutes operationes. Quedam autem actionum malitie difficiles sunt ad sufferendum: sed quando acciderint homini et eas sustinuerit,demonstrant eius magnanimitatem.Alie uero que. dam facilepossuntsufferrietheecum inciderint homini et eas sustinuerit, non demonstrant eius magnanimita tem; et mortuis ex bonitate actionum filiorum et ex malitia ipsarum con tigit [modicum aliquid tante, in. quam,quantitatis].transmittetfelices a sua felicitate ad infelicitatem; neque infelices a sua infelicitate ad felici tatem.Bonum etfelicitasatque felices et deus benedictus et excelsus digniora sunt et honoratiora quam ut lau dentur. Immo conuenit quidem uene rari deum et ipsum singulariter m a gnificare et eius intuitu felicitatem etfelicesetbonum,cum sintresdi. uine, et gratia quorum omnia alia aguntur;et creditur de eo quod est Felicitade si è un atto il quale procede da perfetta virtude dell'anima et non del corpo.   Principium bonorum etipsorum causa, quod sit res diuina. Felicitas est quidem actus anime procedens a uirtute perfecta,non cor poris sed anime. Prima di passare al raffronto della parte finale nelle diverse redazioni, non sarà inopportuno riprodurre ancora un brano, del principio del secondo libro, che valga a confermare le diffe renze e le relazioni da noi stabilite tra i due compendi, volgare e francese, e il testo latino. Liber Ethicorum. Litresor,Liv.II,P.I, Virtus ergo duplex est, chap.IX.-Porceapert uidelicetintellectualiset ilque.ij.manieressont moralis;intellectualis, devertuz: l'uneestde utsapientiaetprudentia l'entendementdel'home, etsimilia.Laudantese- ceestsapience,science nim hominem ex parte Et uirtutum quidem tuel,nos disons:ce est  uirium intellectualium eum appellamus. intellectualium genera prisierdevertu intellec uns sages hom etsoutis; par enseignement,et liumestperbonam et porcelicovientexpe honestam conuersatio- rience et lonc tens. La nem;nequesuntinno- vertudemoraliténaist bispernaturam.Res et croistparbonuset enimnaturalesnonegre. honeste;car ele n'est diuntur a natura sua pas en nos par nature; perassuetudinem,utpe- àcequechosenaturele tra,quaesempertendit ne puetestremuéede et sens; l'autre est de sapientem eum dicimus autscientemaut(secun- choses semblables. Et dumaliquidhuiusmodi); cepuetchascunsveoir sed ex parte moralium clerement; car quant largumuelcastumuel un home humilem uel modestum mais quant nos le volons tioetincrementumfit prisierdemoralité,nos inhomineperdoctrinam etdisciplinam;ideoque chastesetlarges.X.La in eius acquisitione ex- vertu de l'entendement perimentoindigetettem- estengendréeetescreue pore longo. Generatio autem uirtutum mora en l'ome par doctrine et moralité,ce est chastée et largesce, et autres disons:ceestunshom nos volons L'Etica.– Due sono le virtudi; l'una si è dettaintellettuale,sicco me lasapienza e scienza e prudenza; l'altra si chiama morale,sicome castitade e larghezza ed umiltade; onde quando noi volemo lodare alcuno uomo divertudeintellet. tuale,diciamo: questi è un saviouomo,intende vile e sottile; e quando noi volemo lodare un altro uomo di virtude morale, cioè de costumi, si diciamo:questi è un uomo umile e largo.- Concio siacosachesiano due vertudi,una intel lettuale e l'altra morale, la intellettuale si si in genera e cresce per dottrina e insegnamento,e la virtude morale si si in. genera e cresce per b u o na usanza;e questa ver tude morale non è in noi per natura,percioc cbè natural cosa non si puote mutare della sua disposizione per contra   riausanza.Verbigrazia: ad centrum naturaliter, lanaturadellapietrasi etignisadcircumferen èl'andareingiuso,onde tia, numquam assue non la potrebbe l'uomo receptionem, et perfi questevirtudinonsono tiunturinnobisexbona in noi per natura,la po. (1) Taddeo amplio e chiarì meccanicamente l'esempio della pietra e del faoco, valendosi del latino del Liber Ethicorum del commento tomistico: «..... puta lapis natura deorsum latus non autiqueassuescitsursumferri, nequesideciesmilliesassuescat quis,eumsursumiaciens»;e sopratutto del Liber minorum moralium: « Lapis enim qui naturaliter deorsam descendit quamvis « quis probiciat ipsum sursum uicibus innumerabilibus, quarum non comprehenditur multitudo, «uolens per hoc assue facere ipsum mouerisursum, numquam habebitpossibilitateminhoc.Et « similiter ignis non est possibile at recipiat per assuetudinem diuersum motionis suae ». nos par usage; por quoijediqueces vertuz ne sont pas dou tout en nos sanz nature ne dou tout selonc nature; mais li commencemenz et la racine de recoivre ces vertuz sont en nos par nature,et le lor c o m pliment est en nos par usage. Et touteschoses  tanto gittare in suso, situm; neque aliarum ch'ellaimprendessead rerumullaassuescetop. Andareinalto ;elana- positumnaturesue(1). turadelfuocosièd'an. Attamen cognationem dareinsuso,ondeno'l aliquamhabetconsue. potrebbe l'uomo tanto tudo cum natura et co trarreingiuso, ch'egli gnationemaliquamcum imparassedivenirein intellectu.Nonsuntita que in nobis uirtutes niunacosanaturalepuo- morales naturaliter,ne tenaturalmente farelo quepreternaturam; sed contrario della sua na- nati sumus ad earum giuso;eduniversalmente tura. Mà avvenga che scunt huiusmodi oppo consuetudine. Item omne puissanced'aprendrela tenziadiriceverleèin quodinnobisestnatura. estennousparnature, noipernatura,elocom- literpreextititinnobis etlicomplemenzesten pimentoèinnoiper potentialiter,deindeap usanza.Ondequestever. paretactualiter.Ethoc tudinonsonoinnoi al manifestumestinsen postuttopernatura;ma sibus. Sensus enim in laradicee'lcomincia. nobisnonfiunteoquod mentodiriceverequeste uideamusuelaudiamus multociens,sed e con trariofitinnobis.Ha bemus enim eos prius naturaliteretpostmo. vertudi si è in noi per natura,e'lcompimento elaperfezionediqueste virtudisièinnoiper usanza. Ognicosala dumexercitamurineis. sonordreparusage con traire.Raison comment: la nature de la pierre est d'aler tozjors aval, ne nus ne la porrait tant giteramont que ele seust sus aler; et la nature doufeuestd'aleramont, ne nus ne leporroit tant avaler que il seust en aval metre la flamme. Et generalment nul na tural chose ne puet par usage aprendre à faire lecontraire de sa nature. Et jà soit ce que ceste vertuz ne soit en nous par nature, certes la   diusinterextremadicta, Etporunemeismechose  et d'oïr, et par celui quellapotenziaodee ethocmodoestinom- pooirvoitetoit,etnus vede, enonvedel'uomo nibus artificibus.Nam nevoitdevantqueilen prima eode, ch'egliab- hedificatores sumus ex ait le pooir. Donques bialapotenziadelve- usuhedificandietcytha. savonsnosquelipooir dereedell'udire. Dunque rediexusucytharizandi; est devant le faire.Mais vedemo già che la po- ex bene quidem facere es choses de moralité tenziavadinanziall'atto. hocbonisumusinbiis, estli contraires;car E nelle cose morali è ex male autem mali. l'uevre et li faiz est de. tutto locontrario, chè vant le pooir. Raison l'operazioneel'attova eadem fituirtusetcor- comment:aucunshom dinanzi alla potenzia. rumpitur.....autem a la vertu de justise, Verbigrazia: l'uomosi similiter sanitates. Et cor mentneleseustlimais. rumpunturexpaucitate tresseiln'eneustovré fatteprimacase, edal- etmultitudine,uttimi- autrefoiz. Autressi se trimenti non potrebbe ditas et procacitas. Ti- vent aucun bien citoler peravereeglimoltevolte averequellaarte, seegli midusenimfugitomnia, Exeisdemergoetper porce que il a devant hae la virtude che si actiones laudabiles cor- fait maintes cevres de chiamagiustiziapera- rumpunturproptersu- jostise; etunsautresa vereegli fattoinnanzi perfluitatemautdiminu- lavertudechastée, porce molteoperazionidigiu. tionem,utexercitia su- que il a devant fait stizia, edhael'uomola per fluaaut diminutaet maintesoevresdecha virtudechesichiama nutrimentisusceptiosu-stée.Toutautressiest castita deperavereope- perfluaautdiminutafor- des choses de mestier rate dinanzi molte ope- m a m sanitatis corrum- et de art.On scet faire razionidicastitade;e punt,equalitasautem maisons,porcequeon cosiadivienedellecose ipsorumsanitatemfacit enamaintesfaitespre artificiali, chè l'uomo et auget et conseruat.Et mierement; car autre hal'artedifarelecase uirtutes morales porce que il en sont non l'avessemoltevolte procax autem omnia in- molt usé. Et li hom est adoperata dinanzi;esi. uadit. Fortitudo autem bons por bien faire,et migliantemente l'arte qualeèinnoiperna- Virtutesautemacqui- quisontennosparna tura, sièprimaepoi rimusexfrequentatione turesontpremierement sivieneinatto,siccome actuumhabitusinducen- enpooiretpuisen fait, avviene de sensi del- tes. Iusti etenim sumus aussi comme li sens de l'uomo,chèprimaha exusuactuumiustitie, l'ome;cartoutavanta l'uomo la potenzia dive. et casti similiter, scilicet li hom pooir de veoir dere e d'udire, e per ex usu actuum castitatis, del ceterare ha l'uomo inhisesthabitusme- mauvaispormal faire.   et inest fortitudo ei qui scit fugere a fugiendis et inuadere inuadenda, ethichabitusacquiritur Per una medesima exconsuetudineuilipen cosasigeneranoinnoi di (sic) terribilia.Sicca levirtudi,esicorrom ponosequellacosasifa indiversimodi;eadi viene della virtude si comedellasanitade,che una medesima cosa in diversi modi fatta fa ella sanitade e corrompela. Verbigrazia: la fatica s'ella è temperata si in. genera sanitade nel corpo dell'uomo,e s'ella è più che non si con. viene o meno che non si conviene,si corrompe lasanitade;esìadiviene della virtude che si cor rompe per poco e per troppo, e conservase per tenere lo mezzo.Verbi. grazia: paura e ardi mento corrompono la prodezzadell'uomo;per cio che l'uomo che ha paura si fugge per tutte le cose, e l'uomo ch'è arditoassalisceognicosa e credelasi menare fine; e nè l'uno nè l'al. tro non èprodezza;ma la prodezza si è tenere lo mezzo intra l'ardi mentoelapaura;edee stitatishabitusacqui. ritur ex consuetudine retrahendiseauolupta tibus,etsimiliterseha betinceterishabitibus laudabilibus. per avere molte volte ceterato; e l'uomo è buono per far bene,e lo rio per far male. naissent en nos et se cor rumpent les vertus,se cele chose est menée en diverses manieres;tout autressi c o m m e la santé; car travailleratempree. ment engendre santé au corsdel'ome;maistra vailler o plus ou mains que mestiers n'est,cor ront la santé; mais meenneté la garde et acroist: autressi est de vertu, car ele corront et gaste par po et par trop,et si se conserve et maintient par la meenneté.Raison com ment: Paors et harde corrumpent la p r o e s c e d e l ' o m e; c a r li hom qui a paor s'enfuit por toutes choses, ne n'ose nule emprendre; et li hardis emprent à faire toutes choses,et les cuide mener å fin. Et sachiez que l'une ne l'autre n'est pas proesce: mais proesce est aler entre hardement et paor. Et doit li hom foïr les choses qui sont à foïr, et envaïr les choses qui sont à envaïr. Et cist habiz est aquis par usage de desprisier les terri bles choses,et habiz de chastée est aquis par u a mens l'altre virtudi,siccome tu hai inteso della pro dezza; chè tutte le virtù s'acquistanoesisalvano per tenere lo mezzo. Col raffronto del devez entendre de toutes vertuz. brano finale mettiamo termine a questo prospetto comparativo, che porta un contributo,non privo d'in teresse, alla conoscenza della fortuna aristotelica, ed è d'impor tanza fondamentale per la storia dei compendî neolatini del l'Elica nicomachea.  che sono da fuggire. E sage de retenir soi contre l'uomo fuggire le cose cosideiintendereintutte ses covoitises. Autressi   Liber Ethicorum. Educatio puerorum secundum no- Dee essere lo notricamento delli bilem legem necessaria est ad indu- garzoni secondo la nobile legge, e cendumeispermodumcastitatiset ausarliadoperazionidivirtù, ein non per modum continentie. Inde- questo dee essere per modo di castità, lectabilisenimest apud plures homi. enon per modo di continenzia, per. numususuirtutumpermodumcon- ciocchèl'usodellacontinenzianonè tinentie.Nequeabstrahendaesteis dilettevolea molti uomini,enonsi manus statim post pueritiam, sed dee ritrarre la mano di gastigare continuanda est eis usque ad con il fanciullo via via dopo la fan sistentiam et robur virilitatis. In ciullezza; anzi dee durare in fino al rectificando quosdam sufficitredar- tempo, chel'uomo è compiuto.Sono gutioetcastigatiosermocinalis,in uominichesipossono correggere aliisautem quibusdam uixsufficitas. per parole e sono altri che non siduatio uerberum tam quam in bestia. si possono correggere per parole, Neutrouerohorummodorumrecti- anziv'èmistieripena. Esonoaltri ficabiles tollendi sunt de medio. No- che non si correggono in niuno di bilisetstrenuusrectorciuitatisciues questiduemodi, equesticotali nobilesefficit, etbonioperatoresha- sono datorredimezzo. Lonobilee'l benteslegemetoperalegisexer- buonoreggitoredellacittafanobili centesaduersantureisquicontraria cittadiniebuoni, li quali servan ola agunt, etsibonaagant. Inpluribus leggeefannol'operachecomanda ciuitatibus iam abiit regimen uite la legge e sono avversari a coloro hominum ideoque dissolute uiuunt che non osservano gli comandamenti et propriassectantur uoluptates.Et dellalegge,avegnach'ellifacciano regimen quidem conuenientius est bene. In molte citta di èitoviailreg. communis prouisio moderata,cuius gimento della vita dellihuomini,però usum obseruare possible est et non che si vivono dissolutamente ese summedificile: etquodcupitquili. guitanolelorovolontadi. Lopiùcon betseruariinseetamicisetfiliiset venevolereggimentoche porresi familia. Etprecipueydoneusadtalis puotenellacittà,sièquellocheè regiminisconstitutionemestillequi temperatoprovedimento, intalmodo sciuerit quod dictum est in hoc libro. che si puoteosservareenonètroppo Scietenimcanonesuniuersalesad grave; equelloloqualedesidera particulariadistrahere. Communis l'uomo che si osservi insèenelli  I codd. 8. v.11:...ce questicotalisono rei perchè sonopartitiintuttodalmezo,et « debbono essery odiati si come sono li lupi et cacciati d'ongne buono luogo. Lo nobile etc. ). L'Etica d'Aristotile.  Li Tresors, Liv. II, P.I, chap. XLIV. Magliabech. Et li norrissemens des enfans doit I nodrimenti da fanciulli debbono estrenoblesentelmanierequeil esserenobili, sichesiabeneapreso soientaprisàfaireetàuserlesbones afareedausodibuoneopereper oevresparchastée non mieparcon- chastitaenomicapercontinuanza. tinance, carcontinancen'estmiecon- Checontinuanzanonemichaconue venablechoseasgens;etl'onne neuollecosaagienti; el'uomo non doitpasostercestusagenecest deemichaleuare questausanzane chastiementmaintenantqueilont questochastighamentoimmantenente enfance passée, mais maintenir la ch'egliàla fanciullezasua, maman jusquesàtantquelidroizaagessoit tenerla insinoa tanto che il diritto acompliz. Iliahomesquipueent estre governé par chastiement de paroles, etautresiaquinepueent mieestrechastiéparparoles,mais par menaces de torment; et autre home sontquel'onnepuet chastier ne parl'unne parl'autre; ettelhome doiventestrechastiésiqueilnede- mourentavecautresgens. XLV.Li chacciatisich'eglinodimorinocon noblesgouverneresdelacitéfaitles l'altrigienti. Quidicedelgouerna citeiensnoblesetlesfaitbienoyrer mentodellacitta CCLXVIII.Ino. etgarderlaloietcontresterasautres biligouernamentidellacittadefanno quinelagardent,jàsoitcequeil icittadininobilieglifabene operare lefacentbien, Maintescitez sontoù eguardarelalegieecontradirea ligouvernementdelaviedel'ome quegliche nollaguardano,concio sontdestruit, etviventdissoluement, siacosach'eglifaccianobene.Molte car chascuns va après sa volenté. città sono oue il gouernatore della Liplusnoblesgovernemensquisoit ụitadell'uomoè distrutaeuiuono enlaviedel'ome, età moinsde disolutamente, chè chattuno poineetdetravail,estcilquel'on apressosuauolonta. Ilpiùconuene consiredemaintenirsoietsamaisnie uolle comandamento egouernamento etsesamis,etcilpuetconvenable- chesianellauitadell'uomoeapena mentmaintenirgensquiaurala dipeneeditraualglioè quellache science de ce livre; porce que il l'uomo considera di mantenere se e saurajoindrelesenseignemensuni. suamasnadaesuoiamici; equeuli verselsaveclesparticulers; carci- puoteconueneuollementemantenere teiennecommuneest diversedela gientecheàconsecolascienzadi particulere,aussicommeentozmes- questolibro; peròch'eglisapragiun agiosiacompiuto. Esonohuomini chepossonoesseregouernatipergha. stigamentodiparole,ealtrisonoche nopossonoesseregastigatiperpa role,maperminacieditormenti; e altrisonochel'uomononpuotees seregastigati nè per l'unonè per l'altro;etallihuominidebbonoessere  uae 1   Taddeo riduce molto sensibilmente il testo latino e ne sopprime a dirittura la fine: forse egli ritenne compiuto a quel punto trattato aristotelico della morale e credette opportuno esclu. dere le parole seguenti; forse a lui melico e maestro fece ombra quell'accenno, in fine, all'arte della medicina. Probabilmente Taddeo rappresentava più da vicino il metodo pratico, e il libellus de servanda sanitate pnò darcene fede: s'è cosi, egli non poteva piacevolmente accogliere l'affer mazione aristotelica.  namqueciuilitasdiffertaparticulari suoifigliuolienegliamicisuoi.E quemadmoduminmedicinaetceteris lobuonoponitoredellaleggesiè potentiisoperatiuis;inhacintentione quegliloqualesaleregoleuniversali, nonmodicaestdifferentia.Inomnibus lequalisonodeterminate in questo ergo huius necessaria cognitio uni. libro,et salle coniungere alle cose uersalium simul et particularium. particulari le quali vegnono altrui Experientiaenimsolanonestsuffi- ciensinhiis,nequescientiauniuer- saliuminipsissecuraestetcerta absque experimento. Multi ergo m e dicorum sola freti experientia in se ipsis,quidem intendunt,bene uidentur operari et in aliis non proficiunt quicquam,eo quod naturam ignorant. Considerandum est itaque qualiter et per que erit quis peritus legis-lator. Erit autem hoc per noticiam rerum ciuilium,que subiectum sunt huius potentie. Quemadmodum se habet in ceteris artibus consimilibus huic, posse experientie in inuentione legis non estmodicum.Quidam putauerunt quod hac ars et rethorica sint unum et idem: in uno etiam putauerunt intralemani,peròcheabeneordi. esse uiliorem hanc rethorica: et leue quid reputarunt scientiam condendi le. ges.Non estautem sic;electionam que in arte qualibet actus nobilis est, et quidem per duo est,siue per scien tiam et experientiam: et per scien. tiam quidem est actus illius inuentio et per experientiam est ipsius directio et certificatio. Et universaliter con nareleleggisièmistieriragionee sperienza.   di uiuere coronpono ibuoni usi di  tiers;carenchascunechoseconvient gniere lo'nsigniamento uniuersale il conoistrelesparticuleresetlesuni. cholparticullare;chèciertauitadi verseleschoses, porcequeseuleespe. comuneèdiuersadallaparticullare, rience n'estmiesoffisansence; et savoir les universels choses n'est pas altresicomeintuttimestieri, chèin ciascuna cosa conuiene conoscere li seurechosesanzl'esperience; ainsi commenosveonsmaintmirequi par particullariequesteuniuersalicose, peroche solla speranza non èmica soficiente in cio; e sapere l'uniuersali cosenon è mica sicuracosasanza seule experience sevent maint bien faireenlormestieretenseignierne les porroientasautres, porcequeil n'ontsciencedesuniversels. Donques l'esperienze; sìcomenoiueggiamo molti mediciche per sola speranza seracilparfaizmaistresdelaloi neseguemoltobenefareinsuome. quiseitlesparticulerschosespar stiere, einsengniareno'lpotrebono experience et qui seit les choses agli altri, però ch'elgli non áno universels. scienza de l'uniuersali cose. Dunque Home furent qui cuidierent que sara quegli perfetto maestro della rectoriqueetla sciencedemaistrie legie chefaele particullari cose deloifussentunemeismechose,et persperienzae che sa le coseuni penserentquecestesciencefustle- uersali. giere; maislaveritén'estpasainsi, Huomini furonochecredottonoche porce que li maistres de la loi doit lla retoriccha e la scienza di m o estresemblablesàsesciteiens, et strarelegiefossonounacosa, epen doitsavoircestart,etquilesaura saronochequestascienzafossele liseraprofitable, etautrementnon; giere; ma llaueritanonècosi,però etseilcommencastà faireloisanz cheimastridellalegiedebbonoes cestescience, ilneporroitdoitrement sere similgliantialoro cittadinie conoistrenejugierlabontédesana- ture, deacomplirladefautedesa science, mais porcequenoscuidons consirertouteshumaineschosespar legiesanzaquestascienzaeglinon guise de philosophie, simetronstout potrebedirittamentegiudicharenė avant lesdizdesancienssages; et conosere dibontàdisuanaturane encepenseronsquelesdes ordenées conpieladifaltadisuascienza. Ma manieres de vivre corrumpentles perochenoiabbiamo d'andarecon bons us des citez, etliconvenable siderandotutteumanecose perguisa les redrescent,etquiestl'achoison diphilosophia,simetonotut'auanti demaleviededanzlacitéetdela idettideliantichisauieciòpen bone,etparquoilaloiestsemblable seremonoicheledisordinatemaniere as costumes. debonosaperequestaarte:chilese guirrasaràprofitabileealtrimenti non.Es'eglicominciasonoafare   ditio legum similatur potentiis ciui libus, nec potest esse conditor legum qui non habuit scientiam istius artis. Qui uero habuit eam proficiet per experientiam et qui non, non. Et cum inceperintimponere legem absque habitu scientiali,non recte discernent. Neque bene iudicabit,nisibonitaset excellentia multa nature suppleat de. fectum scientie. At quantumcumque natura bene disposita sit,est tamen promtior et expeditior est in uere iudi. cando,cum secum habuerit certudinem artificialem.Quoniam itaque proponi mus speculari in rebus humanis modo philosophico, substinemus primitus dictaantiquoruminhoc;deindeconsi derabimus modos uiuendi,qui extant; qui ipsorum corruptiui sintconsortii ciuilis in ciuitatibus quibusdam et rectificatiui in quibusdam, et qui corruptiui in omnibus et qui rectifi. catiui in omnibus, et que est causa bonae uite quarundam ciuitatum et que causa quarundam habentium se e contrario, et quarum leges con suetudinibus similantur. Incipiamus ergo et dicamus.  cittadini,e le conueneuoli la dirizzano, e chi è chagione di malla uita dentro alla città e della buona, e perché la legie è sembiante a costumi. Da questo prospetto risulta chiaro quanto abbiamo prima af fermato,ed insieme con la questione dell'Etica volgare è risoluta quella non meno importante del volgarizzamento del VI libro del Tresor e delle fonti di esso,che il Sundby con molto buona volontà ma con poca fortuna rintracciava nel latino dell'altro Liber Ethicorum, del commento tomistico, e nelle chiose di S. Tommaso (1). È naturale che il critico danese ha qualche volta gridato all'impossibilità di trovare il passo corrispondente nell'originale(2),ch'egli rinveniva del resto molto malconcio e scompigliato nel francese di Brunetto. Nè il Sundby fu il primo a esser tratto in inganno circa le fonti del VI libro del Tresor.Già il Mehus parla di un'Etica latina di cui si valse Brunetto, compilata per incarico dell'im peratore Federico Inell'Università di Napoli,e di una traduzione dalgrecoinlatinodelLibermagnorum Ethicorum,fattasotto gli auspici di Manfredi da maestro Bartolomeo di Messina (3). Il Mehus è senza dubbio fuor di strada; giacchè quest'ultima opera rimane estranea alla tradizione dell'Elica nostra, nè di quella prima imperiale versione d'Aristotile pare che non sia lecito dubitare. De'rifacimenti latini dell'Etica aristotelica dirò compiutamente in un prossimo lavoro; giacchè non è più possibile star paghi alle vecchie notizie,e d'altra parte le buone ricerche del Jourdain non sono affatto compiute e i risultati da lui ottenuti non sono più in buona parte sostenibili(1). Della Nicomachea si conoscono cinque redazioni latine nel 1300; delle quali tre derivano direttamente dal greco: l'Ethica uetus (2) che comprende solo il secondo e il terzo libro,l'Ethica noua (3)che contiene il primo libro, e il Liber Elhicorum che abbraccia tutti i libri e al posto dei primi tre inserisce con frequenti ritocchi e modificazioni il testo dell'Ethica noua e dell'Ethicauetus. IlLiberEthicorum,che fu commentato da Tommaso d'Aquino,ebbe larghissima diffusione,come pare anche dal numero e dalla importanza de'mss. che lo contengono (4), insieme col commento tomistico servi di testo fondamentale per l'instituto filosofico etico del tempo. Per il tramite arabo ci son pervenuti due rifacimenti latini della Nicomachea,d'indole ben diversa:il Liber Ethicorum, volgarizzato da Taddeo,che servi di fonte al VI libro del Tresor, eilLiberMinorum MoraliumoliberNickomachiae(5),tradotto dall'arabo in latino per opera di Ermanno il Tedesco (Herman nus Alemannus)nel 1240. È questa la parafrasi dell'Etica fatta da Averroè; il rifacitore non volle solo tradurre l'opera m a intese altresi chiarirla e spiegarla,accrescendone e sviluppandone idati dimostrativi che nel testo sono ridotti a'risultati de'processi lo gici.Aristotile parve un po'contratto;l'arabo ne distese imuscoli Fin ora ho potuto esaminare ventidue mss.,di cui quattro del sec.XIII (Laurenzian.89,sup.44;XIII Sin.1;79,13;XIII Sin.6),diciassettedelse colo XIV (Ambrosian. F. 141 sup.; A. 204 inf.,di mano di Giovanni Boc caccio; Laurenz. XII Sin.7;XII Sin.9;Nazion.Napoli,VIII G. 11;G. 25; G.27:Riccard. III;Marciana (mss.lat.) cl.VI,39, 41,43,44,122;Uni vers.Padova 679,788; Antoniana XX,456; Capit. Padova G. 54; e uno del sec.XV:Ambros.R. 50. sup.). (5 ) Laurenz. 7 9, 1 8; 8 9, sup. 4 9. Trova si pure impresso in tutte le edizioni di Aristotele con ilcommentario di Averroès (Venezia,Andrea d'Asolo,1483; Giunta, 1550, 1560, 1562, 1574). Laurenz. X I I I, Sin. 1 2; V I I I, Dext. 6. (3) Ashburnham.e ne arrotondo icontorni, stemperandone la fibra. Aristotile, ada giatosi nella mollezza araba un po' adiposa, si presento all'in telligenza un po'incerta, bambina alquanto e stentata,delle nuove genti latine che con più agevolezza poterono,cosi in veste più larga,contemplarlo e comprenderlo; e l'opera aristotelica, accresciuta di quel po' di cemento della parafrasi araba che riempiva gl'interstizî apparenti della sua costruzione ideale,poté intendersi e premere sulle coscienze senza l'aiuto di un com mentario apposito che dissolvendone l'unità finale ne facesse a p parire gli elementi semplici di formazione. Cod.Ashburnhamiano955[= 1]membr.sec.XIV,conlaprimapagina miniata.Tit.: L'Etica del sommo phylosofo Aristotile; la soscrizione finale si legge difficilmente; pare: Explicit liber Ethicorum Aristotelis phylo. sophj in uulgari idioma scriptus: di cc. scr. 48, le cui ultime presentano molte abrasioni. Cod.Magliabechiano 12.8.57 [52]membr.sec.XIV;titolieiniziali color.,di cc.scr.26. Com. Prolago sopra l'etichadel sommo phylosofo Aristotile; in fine: Explicit liber ethicorum Aristotilis. deo gratias. In fondo è ilnome del trascrittore «Sander me scrissit». Cod.MagliabechianoA.2.3.2[= 3]membr.sec.XIV;titolieiniziali in rosso,di cc.scr.22. Com.: Prolago sopra l'etica d'Aristotile; in fine: Qui finisce il libro dell'Etica del sommo filosafoAristotile il quale tratta delle uertudi che ssi conuegnono auere a cchostumi ed a buona vita delli huomini. In fondo « Giouanni di Lapo Arnolfi lo fece scriuere. Compiesi di < scriuere martedi di XXII di Giugno Anno MCCCXXXIX »; più sotto è indicato iltrascrittore«Sanderme scrissit»:è lostessodelcod.precedente.  5 C. MARCHESI.   Cod.Magliabechiano2.4.274[= 4)membr.sec.XIVexc.dicc.scr.44, miscell., contiene il Trattato sulle avversità della fortuna (c.1-16'). L'Etica com.: Incipit Ethica Aristotilis translata in uulgari a magistro Taddeo florentino;infine:ExplicitethicaAristotilistraslatatapermaestro Taddeo. deo grazias. A c.1a « Qui cominciano le robriche di tutto il libro dell'eticha « d'Aristotile traslatata per lo maestro Taddeo ». Cod.Marciano (mss.ital.)II,3 [= M]membr.sec.XIV,225 X 164,di cc.46 non numerate;anepigr.Precede il trattato «de la doctrina di tacere «etdi parlare»diAlbertano da Brescia;finisceac.11a:Quifiniscee libro de la doctrina di tacere et di parlare el quale fece messere Alber tano giudice da brescia nell'anno domini Millesimo CCXL V del mese di dicembre Deogratias Amen.Dopo un foglio vuoto,ac.13a seguono alcune « Sententie Tulij et Senece et aliqua dicta Aristotilis », che vanno sino a c.18a.L'Eticii,anepigrafa,vadac.18'ac.46t;iltestoèmolto guasto e scorretto,senza alcuna divisione in libri; in fine: Finitus est liber deo gratiasAmen. Cod.Palatino634[=5] membr.sec.XIV;rubricheeinizialicolorate: di cc. scr.27, più una bianca. Tit.: Incomincia l'eticha d'Aristotile in uol. gare; in fine: Explicit ethica Aristotilis translata a mgio iohe min. deo gratias. Cod.Riccardiano 1538 [= 6;vecch.segn.S.III.47]membr.sec.XIV inc.,miscell.,con belle iniziali colorate e rabescate e numerose vignette intercalate nel testo,di cc. scr.231. Tit.: Incipit etthica Aristotalis. Segue a l l ' E t i c a il t r a t t a t o delle quattro Virtù, il Segreto de Segreti e da l t r e scrittur e sacre e profane;il cod.,come sivede dalla soscrizione finale,appartenne a un Bertus de Blanchis che ne fu forse anche il trascrittore. Cod.Riccardiano 1651 [= 7;vecch.segn.N. IV.27]membr.sec.XIV, coninizialicolorateerabescate, dicc.scr.50.Tit.:Prolagosopra l'ethica d'Aristotile;infine:explicitliberEthicorum Aristotelis.Contieneinoltre: Egidio Romano, la esposizione della Canzone di Guido Cavalcanti. Cod.Laurenziano89Sup.110[= a]membr.sec.XV,dicc.42.Nella  66 C. MARCHESI Cod. Riccardiano m e m b r. s e c. X I V, m i s c e l l.; presenta t r a c c e di quattro mani diverse;la più antica riempi ifogli dell'Etica (da c.5a a c. 3 0 ). C o m.: Qui comincia l'etica d'Aristotile. Cod. Ambrosiano C.21.inf.[39] membr.del sec.XV, dicc.58,con la prima pagina fregiata e miniata, con lo stemma del possessore e il ri tratto del filosofo; le iniziali di ogni libro colorate e fregiate. Com.: La Prefatione di 'l primo libro di l'Ethica de Aristotele ad Nicomacho suo figliuolo; nessuna soscrizione finale.   prima pagina è lo stemma del possessore con la indicazione « Jacopo di « piero benciuenni ciptadino florentino spetiale a pie'del Ponte Vecchio 1488 ». Tit.:Prolago sopral'eticadelsommo phylosofo Aristotile;infondoporta la data della trascrizione: 1451. Cod. Laurenziano 76. 70 [= r] cartac. sec. X V, di cc. 118. Precede a p. 1 « Insegnamento delle uirtudi e mortificamento de'uitii secondo Aristo « tile e detti e autorità notabili di Santi et di molti saui et filosafi et poeti » cioè,ilVIIlibrodel Tesoro. L'Eticacominciaac.78:Quicomincial'etica d'Aristotile; in fine: Explicit l'etica d'Aristotile. Cod.Magliabechiano2.4.106[= m]cartac.sec.XV,dicc.77,miscell.; contienevolgarizzamentidioperesacre.L'Etica(c.54-72t)com.:Qui co mincia un'opera facta per lo grande sapiente Aristotile detta l'Eticha; in fine: Finita l'eticha d'Aristotile translatata per maestro Taddeo.deo gracias.Sottoèl'indicazionedell'anno Scrittadigennaio1459». Cod.Magliabechiano2.2.72[= p]cartac.sec.XV,miscell.:contiene ladottrinadelparlare(estrattadallaP.I,cap.13del Tesoro), il Segreto de Segreti,ilvolgarizz.daVegezioFlavio,un librodelleAringherieetc. Si trova unito a questo un codicetto dello stesso formato, di cc. 18, conte nente una piccola storia o diario della città di Firenze dal 1300 al 1379. L’Etica va da c. 5 4 a c. 3 6 ', a n epigr. In fine: Compiuta è l'Etica d'Aristotile translatata in uolgare da maestro Taddeo. Cod.Magliabechiano21.9.90(= r]cartac.sec.XV exc.miscell.Con tiene una parte del trattato del Governo della famiglia di L. B. Alberti e dell'Etica solo il libro ottavo e nono; vede bene che il trascrittore ha volutoestrarrelaparte riguardantel'Amicizia;ambedue ilibrisondivisi in XXII capitoletti. A c. 6 1 è l a soscrizione del copista Strozzi », eladata:20maggio1482. Codice Marciano(mss.ital.)I,134(= N)membr.sec.XV,205X 138, cc.64 non numerate,con le iniziali dei libri miniate e dorate. Com.: Incipit proemium transductoris huiusoperisuulgaris; iltestocom.ac.21:Libri Ethicorum siue Moralium Aristotelis qui sunt X in multa capitula diuisi, quia generaliterdemoribussehabet. Nam inprimo librodeterminat de felicitate morali et eius partibus. Segue a c. 47 un semplicissimo ristretto volgare degli Economici,indue libri:Incipiunt libri Ichonomicorum Ari. stotilis duo diuisi in aliqua capitula pertinentis ad gubernationem familie. Nam in primo libro determinat de partibus Iconomiceetde coniugatione mulieris et uiri, quae dicitur nuptialis,de coniugatione parentum ad filios quae dicitur paterna,et dominorum ad seruos quae dicitur dispotica. « La scientia di regiere la casa ha nome Iconomicha et è differente da la scientia di reggiere la cipta la quale ha nome polliticha. Non solamente « perchè una cio e la Iconomica considera el regimento de la casa et la « politica el regimento de la cipta,ma etiandio perché in reggiere la casa «nondieesseresenonuno.».A c.61asegueun Extractum Aristotelis de libro Secreta Secretorum de arte cognoscendi qualitates hominum ad Alexandrum regem. In ultimo è questa soscrizione: « Ex Venetiis primo «IdusIulij MCCCCLXXIII finis». Codice Marciano (mss.ital.)II,141 (= V]cartac.sec.XV inc.,272X200, di cc.48 non numerate,con la iniziale miniata e il titolo rubricato: Hetica d'Aristotile; finisce a c.38 ': Qui finisce il libro detto Ethyca d'Aristotile. Composto per lo nobile phylosapho Aristotile greco Atheniense scritto e compiuto. Nellestinche di firençe nel malleuato di sotto. Seguono due carte bianche, e a c. 41 il libro di sentenze, che si legge pure nel Marciano II, 3. Cod.Mediceo-Palatino43 [= y] membr.sec.XV,di cc.scr.54,più quattrovuote:ititolideilibriedeicapitolicolorati;scrittomolto nitida mente.Per incuriadichirilegòne'due primi quaderni è un'inversione cui pone riparo la opportuna numerazione delle pagine.C o m.: Incipit Ethyca Ari. stotilistranslatainuulgariamagistro Taddeoflorentino;infine:Explicit Ethica Aristotilis traslatata per magistro Taddeo.Deo gratias Amen. Cod.Palatino501 [= X]cartac.sec.XV,dicc.44,miscell.;contiene il libro di ammaestramenti,sentenze,il libro di Catone,il trattato delle quattro virtù, e altri volgarizzamenti di carattere morale. L'Etica (c. 1-224) com.: Questa si è l'etica d'Aristotile; in fine: Explicit etica Aristotilis translata a magistro Taddeo. Cod.Palatino510[= d]cartac.sec.XV inc.,dicc.111,miscell.;con. tiene volgarizzamenti da Boezio,Cicerone etc. L'Etica (c.82--1066)com.: Qui chominciano i fioretti dell'etica d'Aristotile; in fine: Finiti i fioretti dell'etica deo gratias. Cod. Palatino  [ = f] cart a c. s e c. X V, d i c c. 4 5: iniziali colorate e fregiate. Inc. Qui chomincia il proemio sopra l'ettichia di Aristotile Pren. cipe di filosafi; in fine: Finito e libro chiamato l'eticha d'Aristotile a di X X V d'ottobre mille quatrociento quarantacinque per le mani di filippo Adimari da firenze a uso e stanza di se e di suoi amici deo gratias. Cod.Riccardiano1084 [= c]cartac.sec.XV,dicc.49;inizialieru briche colorate. Inc. Comincia il prolago del libro della hetica d'Aristotile; in fine « deo gratias amen ». Cod.Riccardiano1357[= e]cartac.sec.XV,dicc.248,miscell.;con tiene scritture sacre.L'Etica va da c.49a a c.702. Com.: Prolagho sopra l'eticha del somo filosafo Aristotile; in fine: Finiscie l'eticha del sommo filosafo Aristotile deo grazias. Cod.Riccardiano 2323 [= g] sec.XV,di cc.51; rubriche e iniziali grandi colorate.Precede la Introduzione al dittare di «maestro Giouanni « bonandree da Bologna », con questa ottava al principio « Di Bologna natio «questoautore|nellacittastudiandodou'ènato conallegrezzaemaestral «amore di giouani scolar questo trattato brieuementecomposeilcui ti «nore conciedeachi l'aurabeni studiato sopra quelche la epistola a di. manda et sofficientemente in lei si spanda ». L'Etica è compresa da c.20 ac.51;infine: Explicit Eth. Ar.traslatataamagistro Taddeoinuulgare. Scribere qui nescit nullum putat esse laborem. Cod.Riccardiano1610[= h]cartac. sec.XV, dicc.26, miscell.;contiene il trattato delle quattro virtù.Com.: Incipit liber Ethicorum Aristotilis; infine:ExplicitliberEthicorum Aristotilis.Ilcopistafu«lulianusAndree a de Empoli > che lo scrisse « per sè e per i suoi consanguinei ». Cod.Riccardiano1585[= v]cartac.sec.XV,dicc.69:inizialierubriche colorate,con frequenti macchie d'acqua nel margine.Contiene il Segreto de Segreti(1"-44a)el'Etica(441-68a);com.:Fiorettidell'etichad'Aristotile del primo libro; in finc: Qui finiscie el libro dodecimo ed ultimo delle tichacompostoperlonobilefilosofoetsommo Aristotile.Amen. Cod. Ambrosiano J. 166 inf. Cartac., trascriz. rec. Il codice consta di più parti cucite insieme. L'ultimo quaderno contiene l’Etica, il Segreto,e il volgarizzamento dell'orazione pro Marcello. La trascrizione è fatta con molta probabilità su di un codice antico, fedelmente. L'Etica è anepigrafa; in fine: Explicit Eth. Ar.Manca ogni divisione della materia. Cod.Erbitense [Biblioteca Comunale di Nicosia].Cartac.,trascriz.rec. Contiene il volgarizzam. toscano del de Amicitia e il compendio dell'Etica, che manca del primo libro. Cod.Napolitano Nasion.XII.E.35 [= s]:Copia recente d'un ms. quattrocentino posseduto dalla biblioteca di casa Bentivoglio. Contiene il trattato della fisimomia (sic), ch'è aggiunto in fine come tredicesimo libro dell'Etica.Inc.: Dell'Eticha del sommo filosofo AristotilelibriXIII;in fine: Qui son finiti i dodici libri dell'eticha del sommo Aristotile.    I CODICI DEL TESORO Cod.Ambrosiano G.75 Sup.(= Amb.)membr.sec.XIV,aduecolonne, con rubriche fregiate e colorate; di cc. scr. 121. L'Etica va da c.56a « In « cipit libro d'eticha Aristotile » a c.73a « Expicit libro d'eticha Aristotile. « Incipit libro costumantie. L'ultimo capitolo con cui si chiude il codice è: Come ilsignoredeestarearendereragione. Finisce(c.121a)«eprenderai « commiato dal consellio e dal comune de la citta e te ne anderai a gloria dea honore. Finiscelo libro di maestro Brunecto Latini da Fiorenza». Cod.Ashburnhamiano 540 (= a)cartac.sec.XIV;anepigr.e mutilo, dicc. 138. L'Etica finisceac.73t: Explicitelica Aristotilisa Magistro Taddeo in uulgare traslata. Il resto del Tesoro si arresta a cc.88 (lib.VII, cap.27]; a c.90 è un capitolo in terza rima di Dante: lo scrissi già d'amor pii uolte in rime,con una notizia sull'occasione ch'ebbe il poeta di scriver quella poesia;a c.94 è una legienda chome tre monaci andarono nel paradiso di lutiano. il qual e in terra... Seguono altri scritti,tra cui un framm. del Fiore di filosofi. Cod.Gaddiano 83 (= €)cartac.sec.XIV,acef.e mut.; ilprimo foglio è aggiunto di mano diJacopo Gaddi,dicc.147,sciupatodall'acqua.Ilcodice si chiude con l'Etica,ed ha questa soscrizione: Finito el libro fatto e chon pulato per Maestro Brunetto Latino. Il cod.come si vede da un'indicazione sulla guardia,apparteneva a'figliuoli di « Giouanni di ser Andrea di Michele « Benci lanaiolo cittadino fiorentino ». Cod.Laurenziano42.23(= )membr.sec.XIV,contitoliinrossoe le iniziali colorate, e il ritratto del maestro, in principio, dipinto nell'atto che insegna; di cc. 142. Il testo è diviso in tre parti: dopo la prima è un indice della materia precedente; un altro indice di tutta la rimanente m a teria trovasi alla fine del codice. L'Etica va da c. 59! « Cominciamento del « segondo libro del Tesoro lo quale e appella l'eticha che compuose Ari « slotile » a c.774 « Explicit hetica Aristotilis a magistro Taddeo in uol. «gare traslectata».Infinedelcod.:«Explicitlibroloqualefuecomposto per lo maestro Brunetto Latino di fiorenza et poi traslectato di fran ciescho in latino (Bondi pisano mi scrisse dio lo benedisse. Testario sopra nome, dio lo caui di gienoua di prigione. et a llui et a li autri che ui sono e da dio abiano benizione.Amen amen). La soscrizione è di mano dello stesso copista. Cod.Laurenziano 90 Inf.46 (= d)cartac.sec.XIV exc.,aduecolonne; titoli in rosso e iniziali colorate; di cc. 211. L'Etica va da c. 74+ (Qui co. mincia l'ectica d'Aristotile et est la segonda parte del Tesoro) a c. 100a (Explicit l'etica Aristotile in questo tanto che io noe trouata).In fine del codice: Qui fenisce lo sourano libro-Explicit lo libro del Tresoro. Cod. Magliabechiano 2. 8. 36 (vecch. segn. 25. 258] secc. XIII-XIV: acefalo e mutilo di cc.91. Comincia al lib.II, P. I,cap.19 efinisceal lib.III,P.II,cap.21. L'Etica finisceac.19a,senza alcuna soscrizione. Tra il compimento della prima parte e il principio della seconda (cc.44-75)sono della stessa mano alcune tavole planetarie e astrologiche, tavole ad lunam et ad Pascham inveniandas etc. Proven.Strozzi. Cod.Palatino585(= ^)cartac.sec.XIVexc.,dicc.214;miscell.Con tiene,oltre il Tesoro,ilLibro di amaestramenti di costumi,le cinque chiari della sapienza,iltrattatodelle quattro Virtù morali,lo libro di Chato. L'Etica va da c.87+ [Qui chominciano le robriche del secondo libro delTesoro,cioèd'etichad'Aristotile- epoi:Quisichomincialosecondo libro del Tesoro e primamente dell'ecitta d'Aristotile) a c.115a [Explicit Etica Aristotilis a Magistro Tadeo in vulgari traslatta ta deo grazias. Finisce il Tesoro a c.175a.Al recto dell'ultima carta,dimano di poco po. steriore, si legge « Questo libro è di Giuliano di Giouanni Quaratesi: chi llo « achatta, piaccagli renderlo per l'amore di dio, e dalle lucerne e da' fan «ciullilorighuardi».Com.iltestodel Tesoro: «Questo è lo librochessi «chiama Texoro loqualeèchauato dalla bibbiaede'libridifilosofi a che ssono stati per li tempi ». Cod.Riccardiano 2221 (= 2)membr.sec.XIV,di cc.127; iniziali co lorateefregiate.L'Eticavadac.58'«Incipit libbro elichaAristotile» a c.75'«Expicit libbrod'etichaAristotile».A c.1224:Qui finiscielo libro di mastro bruneto Latini da fiorensa. Si nota una grande confusione nella distribuzione della materia dell'Etica,prodotta dallo spostamento di varie parti.   Cod.Laurenziano 42. 19 (= P) membr.sec.XIV, a due colonne,con molte miniature e iniziali colorate; di cc.93. L`Etica va da c.40a « Qui « comincia la seconda parte del Tesoro di Burnetto Latino el quale libro e si chiama la ethica d'Aristotile » a c. 51a « Qui finisce l'Eticha d'Ari a stotile ». = u. membr. Cod.Casanatense1911(= )cart.sec.XV,dicc.130;anepigr.mutilo. L'Etica va da c.33*(Qui chomincia il nobile libro che fecie il sauio Ari.   stotilefilosafocioèl'Eticasua)ac.45 (fincieillibrodel'etica). Inun'av. vertenza apposta al codice stesso è notata la mancanza della parteche ri guarda la Politica (lib.IX); vi si trova la teologia,divisa in due parti; com.: Voiuoresti ch'ioviconfortassi l'animeuostremaio dubito fare ilchontrario.;(in questo trattato si parla di dio,angeli,sacramenti, del l'anima).Nel fl.r.membr.della guardia è un indice della materia che giunge sino alla natura del delfino (V libro). Cod.Magliabechiano2.2.82(= n)cartac.sec.XV,dicc.111,mutilo; siarresta al principio dell'Elica (cap.1): sièinutileinquestascienza. Inc.: Qui comincia lo libro il quale fece ser Benedecto (sic) Latini di firense e parla della nascienza di tutte le chose e ae nome il Tesoro. L'Etica ha questo tit.: Qui comincia il sechondo libro del Tesoro facto per ser Brunetto latini di firenze il quale parla dell'ethica di Aristotile. Si trovano in questo codice altri volgarizzamenti da Seneca, Boezio, G e ronimo etc. Cod.Magliabechiano2.2.48(= v)cartac.sec.XV,dicc.153,mutilo; e x p l. « Q u i d i c i e della Branchacio e d i c h oncrusione ». I n c.: I n c o m i n c i a il Tesoro di ser Brunetto Latini da Firenze conpilato in francescho. L'Etica va da c.60a [Qui parlla il maestro della beatitudine.coe.parlla Aristotile sopra l'eticha] a c.81* [Qui finisce il secondo libro di questo trattato di ser Brunetto Latini oue brieuemente a trattato della beatitudine e delle uirttu sopra l’etica d’Arisstotile. Al mar g. i n f. della prima pagina si legge il nome di un possessore: Concini. I CODICI MUTILI DEL TESORO. Cod.Leopold.Gaddiano IV (= 0) membr.sec.XIV,a due colonne,con la iniziale dorata e dentro essa l'effigie dell'autore; di cc.40. Inc.: Qui in. chomincia el Tesoro di ser burnetto Latino di firenze. E parla del na. scimento e de la natura di tutte le cose. Si arresta alle parole « allora «uegnonolichacciatoriefanno»,cioè al penultimocapitolodellaprima parte (de unicorno).Sul foglio di custodia in fine si legge il nome del possessore « Liber mei Angeli Zenobii de gaddis de florentia ». Cod.Leopold. Gaddiano 26 (= T)cartac.sec.XIV,a due colonne,di cc.88. Inc.: Questo libro si chiama il Tesoro maggiore il quale fece maestro brunetto Latini di firenze, e tratta della bibia e di filosofia e delle uecchie istorie ad amaestramento di choloro che leggierano.Contiene tutta la prima parte e il prologo della seconda (c. 85): « E poi uerra il prolagho apresso a questo dicha de l'eticha del grande sauio Aristotole ». Cod.Laurenziano 42. 22 (= E)cartac.sec.XIV,di cc.165;titoli in rosso e iniziali colorate, con l'effigie dell'autore in principio; mutilo. Inc.: In nomine Domini Amen. Qui comincia lo libro del Thesoro maggiore, lo quale libro fece maestro brunetto Latino di fiorenza. Questo primo libro fauella del nascimento di tutte le cose di filosophia et di sue parti. Prologue de la natura di tutte cose. Si arresta alla prima parte: « per « ragunare la secunda parte di questo thesoro che dia essere da pietre pre «tiosecioecharbonchi perlle diamanti».La lezione di questocodice in moltissimi punti si allontana da quella comune delle stampe e dei codici, non solo per diversità di espressioni,ma anche per copia e qualità di notizie. Cod.Laurenziano 42. 20 (= B)membr.sec.XIV,a due colonne,col ri. tratto dell'autore in principio; titoli in rosso e iniziali colorate, di cc. 112. Inc. « Questo libro e chiamato il tesoro magiore il quale fece ser burnetto. « Latini di firenze il quale tratta de la bibbia et di filosofia et del cho « minciamento del mondo e de l'antichita de le uecchie istorie et de le a nature di tutte chose insomma ad amaestramento e dottrina di molti. «Ed erechato di francescho in uolgare apertamente».Comprende la prima parte e il prologo della seconda: Qui parla alquanto d'eticha d'A ristotile.A c.112a è un elenco de're di Francia. Cod.Laurensinno 42. 21 (= p) cartac.sec.XV,di cc.70. Inc.: Qui comincia il libro del Tesoro il qual fe ser brunetto da fiorença e parla del nascimento di tutte le cose.Contiene fino a tutto il libro V. Molte varianti. Cod.Magliabech.VIII.1375 (= U)membr.sec.XIV.Anepigr.,acef., matilo, dicc.32,aduecolonne,con le iniziali colorate.Proven.Strozzi. Comincia alla fine del cap. 9 ediz.. Romagn., Bologna)ne «elliuengnano. Etperciononaeinloropuntodifermeçça ketuttecose ve tutte creature si muouono e si mutano in alimento percio dico ken « questi tre tempi cioe li passati e li presenti e quelli ke sono a uenire non a sono niente se del pensiero noe a chuelli souiene de le cose passate e in « guarda la presente ed atente quelle ke deono uenire » etc.... sino a c. 41 (p. 94, ed. cit.) « e la reina non uolse aconsentire al matrimonio anzi la « uolea donare ». Da questo punto ch'è evidentemente interrotto, per man. canza di nesso con la pagina seguente,la distribuzione e l'entità della m a teria sembra in gran parte diversa dalla comune del Tesoro. Riferiamo talune rubriche: a c. 5a il cod. seguita « dira qui apresso Lamet frate di    Comelore Manfredi prega il p p c h e li concedess e il ren gno etc. etc. ». Seguita quindi a dire di Manfredi e della battaglia di Benevento e di Carlo d'Angiò e di Gianni da Procida e de'Vespri,lungamente.Vengono appresso altre narrazioni « Come si lamenta il conte Giordano Cod.Palatino 483 (= Q)cartac.sec.XV,dicc.65. Inc.:Quichomincia lo libro il quale fecie ser Benedetto Latini di firenze e parlla della n a scienza di tutte le chose e a'l nome il Tesoro. Comprende la prima parte e il prologo della seconda. Ne resta esclusa dunque l'Etica e il resto del Tesoro. Insieme con questo codice si trova legato un altro, di mano diversa, contenente iframmenti del Buouo d'Antona,in ga rima. Cod.Riccardiano2196(= w)membr.sec.XV,aduecolonne,dicc.67. Si ferma al punto ove parla del « modo di trovare l'acqua e delle cisterne » (lib. I I I?). È da notare che ci troviamo di fronte a una lezione ben diversa dalla più comune. CONCETTO MARCHESI.  «Giosepoe figliuolodiJacobetc.... Come sicominciai agioaltempo «diSaulediJerusalem– Loquintoagiosicominciaquandoigiudei «eranoinpregione Danielf.gesseediSaul ·delgloriosoreSalomone «profetta de elias deloredugidiTebas– dieliseusprofete. de « isaie profette de germie profette etc. etc. ». A c. 9 abbiamo un cata logo di pontefici: segue la storia della chiesa di Roma e di Costantino. Poi « Come franceschi perdero lo 'perio di lo re imperadore di Roma « primo taliano di beringhieri come perdeo la sengnoria e uenne amao «dotto di Sasogna Reame della mangna Arigho della mangna «Comeloredifranciafusconfitto Comelo'peradorepreseliparlati «difrancia Come la chiesauacantidibuonipastoritradivalo'peradore « tinuamente la natura lauora in tutte cose – »; seguono figure astrono miche,della luna,del mappamondo. Finisce a c.32. « Dell'altra citta di uerso nasce lo fiume di rodano e uassene dall'altra parte uerso borghon « Francia diuide in « gnia e per proenza molto correndo e anzi che lli sia a mare si «duepartiellamaggioreparteentrainmare presoadArlil'altrobraccio.». Qui si arresta il codice. Come con KLII,p.1 74.  THADDÆUS FLORENTINUS. qua fortuna. Sunt quivelint ex humili prorsus loco, & infima populi fæce.(6) Sed contra aliisvidetur editus exAiderotta gente,non patricia illa & primaria;duplex enim fuit;sed altera,minus quidem nobili,fedhonefta & liberali. (c) Alderottum certe patrem habuit, (d) & ex gente Alderotta di ctus est a Scriptoribus. Fuere Thaddæi fratres Simon & Bonaguida, homines obfcuri, quorum vix nomen ad nos pervenit. (e) Ac Thaddæum quoque ip sum narrant non minimam ætatis partem non folum inglorie, sed ignominiose etiam transegisse. Adeo enim ftupidum a natura fuiffe tradunt,ut totis triginta annis n e c literas didicerit, nec honetto ulli artificio aprus fit visus. Itaque v i ctitasse ajunt sordido & illiberali quæftu, occupatum præ foribus sacelli S. Mi. chaelis in Horto vendendis minutis candelis, quas ibi religionis causa accendi mos erat. Sed exactis triginta ætatis annis, quafi ex veteri somno experre ctum, & dissipata cerebri caligine, incredibili ardore excitatum ad literas, quarum discendarum ftudio Bononiam, adhuc rudem, & vix in Grammatica eruditum convolasse ajunt. Sed hæc, quæ de Thaddæo memoriæ tradidit Philip pus Villanius, quamquam & Florentinus, & non indiligens scriptor, & ad m o d u m antiquus, aliquis in dubium revocat, quod fabulis fimilia videan. tur; (f) qua de re integrum erit unicuique judicium. IÌ. C u m igitur Bononiam venisset, ut optimarum artium ftudiis animum excoleret, in quo omnes consentiunt, Philosophiæ totum, ac Medicinæ le de dit. Incidit Thaddæi adventus ad fcholas noftras in illud tempus, cum M e d i ca facultas, quæ antea ufu fere & exercitatione peritorum tota continebatur, a Philosophis tractata, nova luce donari cæperat; fi tamen vetus illa Arabum Philosophia, quæ tunc scholas invaserat,n o n ubique tenebras & caliginem offundere poterat. Sed ita persuasum erat hominibus, atque hæc potislima Thaddæi laus fuit, quod primus ex noftris Medicinam cum Philofophia arctissi m o fædere conjunxisse visus sit. (g) Tentaverant id quidem ante Thaddæum alii, (h) & erantin Academia noitra ante illum Phyficæ, five,ut dicere ama bant,Phyficalis ientiædoctores,& professores, quifacem Thaddæo ipfiprætu. lerant; nec dubito, quin eorum aliquem in scholis noftris audierit. Sed ille unus plus operæ contulit inftaurandis Medicina ftudiis ad ejus fæculi guftum, q u a m fuperiores omnes. Extant adhuc ampla ejus commentaria in libros vete rum Magiftrorum artis Medicæ, partim typis edita, partim manu exarata in locupletiorum bibliothecarum pluteis, quæ primum inter docendum in scholis nusprotulitexlibroHH.p.338.Excerpt.Scriptur. (c) Annotaz. del Dot. Ant. M. Biscioni al Conventus S Crucis Flor. Vid. Ci.Mazuccbel,in Conv. di Dante. In Firenze 1723. p. 68.  XVI. "Haddæus Florentiæ natus eft paulo post initium sæculi XIII.,(a) incertum THE, Nnn 2 (a) Obiit anno MCCXCV., ut infra dice- teringum & c. Presentibus Mag. Salveto de tur.Cum igitur,Philippo genarius decesserit, natum oportet Villavio auctore, octo annoMCCXV. Com.Bonon. Ferraria & M a g. Santo de Cesena. Ex Mem. ab (b ) Pbilip. Villan, in lib. de laut.Florent. in Append. N. XII. (e)Ex tabulisanni MCCLI.,quas Biscio.Ci. Mazuccbel. loc.cit. Jul.Mag.Thaddeus professor artis Medicine (g) Vid.Jo.Antr.Vunjted defair.viror. fil. qnd.d n.Alderotti de Florentia fecit Joan. illuftr. p. 312. & c. n e m dn. Anglonis fuum procuratorem ad re Petri Hispani, cipiendam pacem & remifsionem a Loteren. Ro.Pontifexrenunciatus,di&tusifJeannesXXI., go qui dicitur Rigutius & a Bonino fuo fi commentaria babemus in librum Ifaac Medici,quae lio & ab omnibus & fingulis aliis de consan- Jubtilitatibus dialecticis abundant. Ilm in hipo guinitate ipsorum... de omni injuria, & pucratem w Arijtotelem scripufe dicitur; nec du offenfione que dicebatur eise facta per M a g. bito, quin bæc fcripta aliquanto ante Tbs.ddæi Thaddeum vel B.naguidam fuum fratrem commentaria prolierint. Sed quantum bæc illis vel per aliquem de contanguinitate ipforum præjliterint, doctorum hominum judiciun postea vel q u æ diceretur eise facts p e r predictos L o vlendit. Tbadilæo Allerotto,   ab eo tradita, m o x ab auditoribus excepta, incredibilem ei famam concilia runt. Id autem in eo potissimum mirabantur homines, quod ita Medicinam tractaret, ut ejus facultatis canones & præcepta ad severioris Philofophiæ ratio nes exigeret; quod nemo ante illum magno fuccefsu perfecerat. III. In hunc m o d u m recepta eft in scholis noftris vetus illa Medicina Philosophica, fi ita appellare licet, quæ brevi tempore omnes Europæ Acade. mias pervafit, & innumeros Scriptores tulit. Hinc agmen interpretum in Hip pocratem, & Galenum, atque Avicennæ in primis, aliosque veterum Medico rum libros, Thaddæo duce; cui non satis ad laudem fuit interpretem dici,sed plufquum interpres a quibufdam dici amavit, (a) & ut alter Hippocrates apud Italos habitus eft. (b) Ejus autem gloffæ, præcipuis Medicinæ libris adjectæ, in scholis communi suffragio receptæ sunt, & pro ordinariis, ut dicere folebant, longo tempore habitæ eodem loco fuerunt apud Medicinx Itudiofos, atque Ac curtianæ gloffæ legum libris appofitæ apud Juris Civilis professores. Magister etiam Medicorum jure di&us eft, (c) ob excellentium Medicorum copiam, qui ex ejus fchola prodierunt. Tanta denique ejus nominis fama, & inre Medica celebritas fuit, ut perinde esset in usu popularis fermonis Thaddæum fequi, (d) ac Medicinam profiteri. IV. Docere cæpit Thaddæus circiter annum M C C L X., aut non multo fe rius; eodemque tempore scribendo vacabat, neque operam fuam curandis V.Cum igituræquefelixincurandisægrotis,acdoctusinscholareputa retur, non folum in civitate noftra Medicinam fecit, sed paflim vocabatur ad curandos magnates, & viros principes per alias Italiæ civitates. Hinc aliquis de illo magnifice potius, quam verescriptum reliquit, non confuevisse illum aliis, quam principibus, & nobiliflimisviris curandis operam præftare. Sed il lud tamen indubium eft, non fivisse aliò fe abduci ad curandum quemquam, nifi pacta ingenti mercede, quæ non tam efiet pro loci diftantia, aut difficul tate curationis, q u a m pro fui dignitate, & facultatibus eorum, ad quos CU randos vocaretur. Neque far erat de mercede pacisci: nam fibi quoque cau. t u m volebat de itu & reditu, accepta ingentis pecuniæ sponsione pro fecurita: te itineris·Dignæ sunt, quæ legantur, tabulæ an. scriptæ,cum Thaddæus Mutinam iturus esset ad curandum Gerardum Rangonum. In iisRan goni procuratores T h a d d æ o promittunt, fe facturos, ut liberum iter & expedi ium ad eam civitatem habeat, fufcipientes in se omne periculum, & impen sam: quod si pactis minime ftetiffent, promiserunt, fe eidem reftituturoster mille libras bononinorum, quas depofiti loco a Thaddæo ipfo accepisse fate bantur. Similes tabulas habemus anno MCCLXXXVIII.cum Mutinam rurfus ment. in Parad. Dantis C. XII., dou a vellutela. 1189  1 468 MEDICINE ! (a) Ita appellati:r aBenvenuto ImolenfiCum evo. apud Ercard. Corp. Histor. med. ævi col 1 1 lo ibid. Sed qui plusquam Commentator a Pbi. qui revera opus fuum tum inscripsit, is fuit Turrisanus Tbaddæi au ditor;de quo alibifermo erit. plufquam Commen M a per amor della verace manna (6) Hic homo, cum penes Italos, ut al. fundature, Paradisi C. XII, t e r Hipo c r a s h a b e r e t u r. P b i l i p. Villan. d e L a u d. (e ) T b a l i l æ u s a d c a l c e m Commentar. ix A Florentiæ,five de Cl. Florentin. (d) Non per lomondo, percuimo's'afo In picciol tempo gran dortorli feo. Dant.Aligber. de S.Dominico Ord.Prædicator. tis defiderari patiebatur. Docendi tamen, & scribendi laborem intermifit an no,utopinor,MCCLXXIV.cum civilebellum,aLambertacciis,&Jere. miensibusexcitatum, civitatemnoftram miserandum in modum conculit.(e)Sed ipfe quoque fatetur,se aliquando a scribendo ceffasse ob quæstum, quem curan dis ægrotis faciebat. (f) Atque hinc apparet, quæ fides habenda fit Philippo Villanio, cum scribit, Thaddæum, fpreto lucro, fe totum interpretandis vete. rum Magiftrorum libris dedille. (8 ) Fallitur etiam Villanius, cum scribit, Thaddæum ftipendio publice conftituto Bononiæ docuiffe; nondum enim, eo vivente,Medicin æ profefforibus ftipendia attributa fuerant. lippo Villanio, aliisque Scriptoribus dictus et, fanna Diretro all'Ostiense et a Taldea (c!Eo anno Mag.Thaddæus Medicorum magitter moritur. Ricobald. Compilat.Cbronolog. pborismos Hippocrat. (f) bulm. (g ) Pbilip. Villan. loc. cit. ægro   evocaretur ad curandum Guidonem Guidonum. Utrasque in Appendice dabi mus.(a) Sed quis credat, in his contractibus bona fide actum? Ego fraude caruisse non arbitror. Facit, ut ita credam, infignis Odofredi locus, ad fraudes pertinens Advocatorum sui temporis; qui cum immodicasmercedes præterjus falque pro suis advocationibus & patrociniis extorquere vellent a clientibus eos adigebant ad ftipendium, quali deberent ex causa mutui.(b) Eodem artificio usum arbitror Thaddæum, quem ne obulum quidem verisimile eft_deposuisse apud Rangoni, & Guidoni procuratores. Sed ego tamen existimo,Thaddæum, probum hominem & pium, non ita immitem fuiffe, ut tam ingentes pecu-, nias exigeret ab iis, quos curandos aggrederetur. Potius crediderim, hanc cau tionem voluiffe, ne jutta mercede fraudaretur, & damna fibi æquo jure præfta rentur, quæ quacumque ex causa pertulisset. V I. Vocatus aliquando ad curandum R o manum Pontificem, negasse dici tur se iturum, nisi centum aurei nummi in dies fingulos penderentur. Quod cum immodicum videretur iis, quibus negotium datum erat, ut cum Thaddæo transigerent, neque ea de re conveniret; concessit tamen Pontifex, grandem quantumvis pecuniam vitæ & incolumitati fuæ pofthabendam ratus. M o x au. tem, cum arnice Thaddæum argueret, quod tam magno operam suam locaret, ille admirationem fimulans; ego vero, inquit, multo magis obftupesco, cum ceteri fere viri nobiles, & minores Principes quinquaginta & amplius aureos nummos mihi in dies conferre soleant, tibi, qui maximus es Chriftianorum Principum,grave visum esse,quod centum petierim.Sed Pontifex,ubi Thad dæi ftudio optime convaluit, decem millia aureorum eidem rependi juffit, non tam ut tantum virum pro dignitate fua, & ejus meritis remuneraretur, quam ut o m n e m ab se averteret avaritiæ suspicionem. VII.Itanarrat PhilippusVillanius, (c) qui tamen Pontificis nomen filet• Sed hunc fuisse Honorium IV. alii Scriptores tradunt, & in primis Joannes Tortellius in libro de Medicina & Medicis ad Simonem Romanum.(d) Sunt etiam qui hæc tribuant Petro Apono illuftri Medico, de quo alio loco dice mus. Sedcredibilenon videtur,tum quiapotiormihiet auctoritasPhilippi Villanii, & Joannis Tortellii, quam aliorum multo recentiorum, qui hæc de Petro Apono scripserunt;tum quia Honorii IV.ætate Petrus Aponus nondum ad tantam f a m a m pervenire potuerat, ut ad curandum Pontificem accerseretur. Sunt qui immaniter augent pecuniam, q u a m Pontifex recuperata valetudine Thaddæo numerari jusserit; nec desunt qui non minus, quam ducenta millia aureorum accepisse dicant. Sed nimis multa mihi etiam videntur pro iis t e m poribus vel ea decem millia, quæ Villanius omnium modeftiffimus narrat. VIII. Thaddæus certe Medicinam faciens ad ingentes divitias pervenit;nec facile est reperire plures ejus facultatis professores, qui majores fint consecuti. Ejus autem commodis, & utilitatibus consuluit etiam non uno modo Populus Bononiensis. Ei nimirum, & ejus hæredibus concessa eft immunitas a vectiga libus, & remissio ab omni munere publico. Additum eft, ut libere a quovis intra fines Agri Bononienfis prædia, & fundos emere posset, quos vellet; m o d o ne ab exulibus & profcriptis. Itaque eum voluerunt gaudere omnibus civium commodis,neque iis oneribus obnoxium effe,quæ cives reipublicæ causa sustine re debebant. Ejus quoque discipulis eadem. privilegia, & immunitates populi beneficio concessæ sunt,quibus gaudebant ScholaresJuris Civilis & Canonici. Id autem, nominatim pro auditoribus M a g. Thaddæi ftatutum, aliorum Medicina profefforum auditoribus communicatum est. (e) Ita honor additus est Scholæ ad Simonem Romanum Medicum præftantif (b) Dicit advocatus, fi promittis mihi fimum. Ex Cot. Vatican. aput Apostol. Zenun milleaureosnominefalarii,nonteneris.Sed inDissert.Volpian.To.I.p.151. faciasmihiunum inftrumentum,inquo con (e)Ex Stat. Pop. Bon.tineatur, quod tu teneris mihi dare mille ex vel potius in quibus eji Rubri. causamutui. Odofred.inl. Sifubfpecie.C.de cadeprivilegio Mag.Thaddeiductoris Fixi Polulando. (c) Pbilip, Villan, loc. cit. ce & diicipulorum ejus. Vid.,dow (d)Jo.TortelliusdeMedicina& MedicisMedi.   Medicæ,quæ Thaddæi potissimum opera magis aucta, & nobilitata,parigradu deinceps fuit cum scholis Legum, & Canonum. X. Nescio quid molettiæ illi etiam intulisse credo Clarellum quendam,ut opinor, Medicum, five quod ejus doctrinam impugnaret, five quod medendi rationem carperet. Queritur de illo in Commentariis ad Joannicii Ifago gen,(d) X I. Habere consuevit in familia sua Thaddæus Medicos aliquot, quibus adjutoribus uteretur five in scholæ muneribus, five in ægrotantium cura. Eo rum aliqua mentio eft in ejus teftamento, quod in Appendice damus. Dome ftica quoque negotia, ne quid esset, quo a suis ftudiis interpellaretur, per pro curatoresaliquando agere consuevit. Anno certe MCCXCII. procuratorem suum conftituit Octavantem Florentinum, (g) affinitati fibi conjunctum,eum, qui Jus Pontificium exeunte fæculo XIII. in scholis noftris docuit;de quo fuo loco diximus. (c)Vit.Append.Pertinethocadannum tisnominedñeAdelefuefilieipfiMag.Thad dum numero, quo luci altitudő indicatur. dieXV.MajiMag. tia. bus dicitur Regalettus Bunaguide de Floren.Quamdiu vixit priinum dignitatis locum tenuit interMedicinæ profef fores; ac multum ei quoque tribuerunt professores aliarum disciplinarum. (a) Sed gravis offenfionis causa ei aliquando fuit cum Bartholomæo Varignana,qui ex ejus schola, ut verisinile eit,prodierat, & magiftro adhuc vivente ma gnopere celebraricceperat. Receperat ille in Medicina erudiendos quofdam, qui ad Thaddæi fcholam ante accesserant. Id ei magno crimini datum eft a Tnaddæo; ac fortasse erat contra leges scholafticas,vel Academiæ noftræ mo rem. Neque vero aliter to'li diffidium potuit,& sarciri injuria,qua affectum fe credebat Thaddæus, quam ubi Varignana promisisset omnem pænam pora'em, & fpiritualem ultro subiturum, q u a m in e u m ftatuissent Vicarius Ar. chidiaconi Bononienfis, & aliquot doctores ex Collegio Magiftrorum, (b) arbi tri ad tam rem delecti. (c) quæ cum scriberet, nondum, ut arbitror, id auctoritatis consecutus erat, ut hujusmodi obtrectatoris importunitatem fortasse Thaddæus natura suspiciofus, & ad inanes metus comparatus; quod,ni fallor, oftendunt etiam tot capta de securitate itinerum, & ftipendiorum fuo r u m caurelæ, & iterata fæpius testamenta, de quibus diximus. Id porro ex ejus corporis habitu, & temperamento quid fuisse, pro certo habeo. Ipfe enim de se fatetur, fe somnambulum fuil. fe, (e) & interdum ex alio loco dormientem fine fenfu cecidiile. (f) ipfe (a) Vide tabulassocietatisinterMag.Gen Thaddeus doctor Fixice fecitsuum procurato tilemdeCingulo,LouMagGuilielmumdeDeza reminomnibusfuiscaufis&negotiisdn. ra fcriptas in Append. deo matrimonio unite trescentas libras Pifa. (d) Finitus eft tractatus de febribus do norum in forenis de duodecim.Pretereado m i n o Clarello, qui facit nos evigilare, & tran firepermentemnoftramquidquidmalipo. brasejusdemmonete.ErMen.Con.Bonon. test. Tbad. ir Isag. Joannic. c. 32. Fortale ad Otavantem, qui putea canonum pro f e f. eundem pertinent, quæ babetad finem cap.36. Hoc eft, inquit, quod dicit tallidicus, qui fa. tereaque Adelæ fratrem, intelligimus extabulis cit omnia mala trautire per mentem noftram.scriptis inMem.Com.Bon., (e)Dequartoficprocedo:videtur,quod inquibuslegitur: Dn.OctavantedñiGuidalo homo poflitdormiendo fentire, nam dorinien do movetur, ficut patet in furgentibus de no. čte,quorumegofuiunus.Ibid. in. c.10. p.362. Guidalottipater jam indeabannoMCCLXVI. (f) Ibid.Sed locus fortasse mendojus in pe Bunoniæ degebat, ex Mem. Com.Bonon.,inqui a se avertere poffet. Sed erat accidere debebat, in quo insolens ali navit eidem propter nuzias quinquaginta li. for fuit, Guirlalutti Florentini filium fuiffe,propo cti de Florentia scolaris Bonon... emit dige. ftum... pretio lib.L. bon. Regalettusautem tem XII. Thaddæus fere sexagenarius uxorem duxit Ade lam Guidalotti Regaletti filiam,(h) Octavantis, quem ante nominavimus,fo rorem, (i) ex eaque filiam suscepit Minam, quæ adhuc innupta erat, cum (b) Magiftrorum collegium jure tunc dice O &avantem deFlorentiasuumcognatum.Ex Mem, Com. Bonon. batur,nonautemMelicorum;quianonsolumMe (h) XV.Jan.Mag. dicinæ,fed alia,um quoque artium liberalium pro fesjures complectebatur, ut ex ipfis hujus controver Thaddeus artis Fixice professor fil. and. Alde rotti de Florentia fuit confeffus habuiife a dño fæ actisapparet,quæinAppendiceexbibentur. Guidalottoqnd.dňi Regalettide Florentiado.   XIII, Teftamentum fæpius, nec uno in loco Thaddaus fecit. Et quoniam perpetuo domicilium Bononiæ habuit, cum aliò diverteret ad curandos magna tes, itinerum pericula reputans, propterea teftamentum sæpius fecisse videtur. Sed omnium poftremum Bononiæ condidit, quo cete ra omnia revocavit facta Bononiæ, (b) Florentiæ, Ferrariæ, R o m æ, Mediola ni, Venetiis, & alibi. Pro anima fua, & ad pias causas x. mille libras bonon. legavit: quæ immanis summa erat pro ætate illa, & privati hominis facultati bus. Ex his bis mille quingentas libras impendi voluit emendis prædiis pro pauperibus verecundis, quorum administrationem esse voluit penes Fratres de Pocnitentia. Viger ad hanc diem ut cum maxime pium hoc inftitutum,a pru dentissimis civibus adminiftratum in civitate noftra, quo consulitur egettati h o neftorum civium, quibus oitiatim mendicare victum vel natalium, vel ætatis, sexusve conditio fine pudore non finit. (c) Fratribus Minoribus, penes quos sepeliri voluit, ubicumque ejus obitus contigisset, multa legavit. Atque illud viri prudentiam m a x i m e demonftrat, quod præftari voluit in perpetuum ali menta uni ex Fratribus ejus Ordinis qui Parisiis Theologiæ studeret, fupra numerum eorum, qui ibidem facris ftudiis destinati esse solerent. Jisdem Fra. tribus Minoribus Conventum erigi voluit, in quo tresdecim Fratres ali possent. Viginti ex fuis scholaribus magis egentes ex albo panno vestiri in die obitus sui mandavit, itemque familiares suos omnes masculos, qui secum eo tempore futuri essent. Statuit etiam impensam funeris fibi apud Fratres Minores cele brandi,& certam insuper summam, pro die feptimo obitus sui, trigesimo, cen tefimo, & anniversario, erogandam in Fratrum refectionem, ut iis diebus pro anima fua preces ad Deum funderent; qui mos ab antiquissimis temporibus ad eam ætatem pervenerat. (a)Exliteris NicolaiIV. In Codicediplom. quisibisuppetiasferrent,ubieffetopus,tumin docendo, tum in medendo. (b) Etiam Bononiæ anno M C C L X X. for (e) Hanc Biscionius in adnotat. ad Convi. talle, antequan iter aliquod susciperet, teflamen vium Dantis Adolam vocat., sed in testamento tum fecerat, quod indicatum vidinius in Memor. Autograpbo en Adela. mff. Biblioth. publ. Bonon. C o m. Bonon. ejus anni. (f) Quia Fratribus Minoribus quidquam pof (c) Jam inde ab anno M C C L V I. Uher- fidere non licebat, voluit ut medietas predicte tus facerdos Sanctæ Catharinæ de Saragotia contingentis ipfi Opizo perveniat ad Dominas legaverat X. corbes frumenti pauperibus vere cundis, ut ex ejus tejlamerto apud Fraires Mi- cujus dicte Domine nores: ex quo apparet ejus pii inflituti anti pendere pro necessitatibus Fratrum Minorum quitas. infirmorum fenum & forenfium. Vide teftam. (d) Hos duos Medicos in schola fua, uti Thaddæi in Append. credibile efl, eruditos, in sua familia babebat, & Sorores S. Clare civitatis Florentie fructus & Sorores teneantur ex 1 mo N ipse extremum obiit diem. Sed ante illud tempus filium genuerat ex illegiti mo complexu.Hic patrisnomen geflit,& vulgo Thaddæolusdicebatur,cum que Nicolaus IV.anno MCCXC.jure legitimorum nataliumdonavit.(a) XIV.De bibliotheca sua in hunc modum ftatuit.Avicenna opera,quatuor voluminibus contenta, & Galeni item, quæ totidem voluminibus comprehensa erant,Fratribus Minoribus ea conditione legavit,ne ullo umquam tempore alie nari, diftrahive possent, aut e Conventu ipfo exportari. Fratribus B. Marize Servis legavit Metaphysicam Avicenna, Ethicam Aristotelis, & Sextum de N a turalibus Avicenna in majori volumine. Magiftro Nicolao Faventino Glossas fuas omnes, quas scripserat in veterum Medicorum libros, & Almanforem suum, & Magiftro Johanni Affifinati (d) Serapionem suum,& Sextum de N a turalibus Avicennæ in minori volumine, fi quidem uterque in familia sua esset tempore obitus sui. Adelæ (e) uxori fuæ,præter aliquam pecuniæ summam, cu biculi sui supellectilem omnem legavit,& veftes,& gemmas,exceptis dumta. xat valis aureis, & argenteis, & usumfructum domus Florentiæ in via S. Cru cis,& fundosinagroFlorentino.HæredesauteminftituitMinamfiliamsuam Thaddæolum filium naturalem, & Opizum Bonaguidæ fratris sui filium; quibus, fi abfque filiis masculis legitimis decessissent, Fratres Minores, (f) & pauperes verecundos fubftituit. Nupfit hæc Thaddæi filia Dorgo Pulcio Florentino sum   X V. Obiit Thaddæus cum annos octoginta vixisset.(f) Fuit autem ejus mors repentina, ut narrat Benvenutus Imolenlis, Dantis inter pres. Tumulatus eft apud Fratres Minores, quos vivus magnopere dilexerat, & apud quos ægrotus etiam aliquando sub extremum vitæfuæ tempus jacue rat.(g)Sedejusfepulchrimagnifice extructi,& elegantis,quod eratprope januam Ecclefiæ, propter recentiora ædificia ibidem excitata, nulla jam vefti. (d) Manni degli antichi Sigilli To. XII. (b) Nicolaus V.annoMCDLIV.mandavit, pag. 117. utHofpitaleS.AntoniiPatavini,quodFratresTer (e)AnnoMCCXCV.dieXX.Marzii Thad tii Ordinis, five de Penitentia,ex bonis bæredita dæus erat in vivis, ut ex charta societatis in riis Mag.Tbudlæi Bononiæ erexerant,indomum ter Mag.Gentilem Cingulanum, g Mag. Gui. pro Sanétimonialibus Franciscanis, ex Monasterio lielmum Dexarensem, quam in Append. danus. FerrarienfiCorporisCbriflitra.lucendis,convertere. Af eodem annoaddiem XVII.Juliiinvivisef tur.Sed r jijtentibusFratribus,res ita compofita eft de defiderat, ut ex bis tabulis, quas indicavit infequentiannoperBifurionem Bononiæ Legatum, CI.Montius:An.MCCXCV,dieXVII.Jul. ut iratres Ecclefiam S. Antonii, cu aljacentes D. Ugolinus de Montezanico Dn. Novellonus ætes cum molicocenfuad bufpitalitatemexercen Megloris de Florentia Dn. Amadeus Poete damretinerent;fedbonareliqua,quæadeosex Dn.Frater Raynucciusqund. Deotaiuti com bereditate Mag.7budlæi pervenerant, novo Par milfarii & executores testamenti egregii vi tbenoni pro Sanctimonialibus Corporis Christi con ri& discreti Mag. Thaddei and.Alderotti Aruendo attribuerentur:pero qui fuit de Florentia artis Filice profetforis featumest,CatharinaVigria, quamnuncinSan. Fuerunt confeffihabuiffeadñoBartholomeo clarum Virginum album relatam veneramur, cum  472 MEDICINE mo genere nato.(a)Thaddæolus autem fivequod cælibem vitam duxerit,five quod filios non genuerit, aut pofteritatis memoria apud nos diu fuperftites non habuerit, certe nulla ejus superfuit. Sed opulenta M a g. Thaddæi hæreditas non ita humanis cafibus subjecta fuit, ut nobiles ejus reliquis non exiftant. Sanctillimum enim ad hanc diem civitatis noitræ Monasterium Corporis Chrifti, & Collegium Puellarum S. Crucis ex bonis hæreditariis M a g.Thaddæi initium legata insuper alia, q u æ legi poffunt in tefta quali acceperunt. (b ) Mittimus mento ipso, quod in Appendice exhibemus. (c) Unum addimus, quod maxi me memorandum videtur,aureosnempe florenos xv.in annos fingulos legatos Zco Scansalti Pisado, quamdiu futurus effer in Januensium carceribus, ex qui bus ubi eum liberari contigiffet, cc. libras bonon. eidem perfolvi a suis hæredia bus mandavit. Nota est ex eorum tima Pilanorum cum Januensibus rum vires miserandum in modum temporum scriptoribus infelix pugna mari anno MCCLXXXIV. pugnata,qua Pisano XVIII. pax convenit. Tunc bello capri, qui supererant, redditi funt, effæti prope enecti. Diligentissimus Mannius jam, & tam longi carceris incommodis proftratæ funt. Magna corum cædes fuit, abductus præfertim ex nobilioribus. N e atque ingens numerus in captivitatem que ullis conditionibus adduci potuere victores, ut captivos redderent. Ita enim confilium fuit sobolem invifæ primariis civibus detentis, ne procreandis liberis dare operam poffent, fuccide. civitatis impedire, totque fortissimis viris, ac re nervos civitatis, usque in illud tempus potentissimæ. Itaque non ante annos Sigillum Universitatis Carceratorum Januæ detentorum illustrat. Ex eorum numero erat Zeus Scanfalti, amicus, ut opinor, Thaddæi; qui quam pronus effet ad ferendam miseris opem, cum ex hoc, tum ex fingulis fere teftamenti sui capitibus liquet.Dn.Mina quondam Mag.Thaddei Corporis Cbrisi, W Puellarum S. Crucis, quæ AlderottiuxorDorgiquondamDorgidePula vidit,lowindicavitCi.Montius. cis.Ex tabulisan.MCCCI.inarcbiv.publ.Flo vent. Inilicavit Cl. Biscion. loc. cit. (c ) Vide Append. gia > pauci supererant, Ecclefiam S. Antonii, d adja centes æles, bonaque omnia ad eum locum perti deus confeffus eft quod ipse emit quandam pe. tiam terre... Actum in loco Fratr. Minor, ! Blanchi Cofe for. auri cccc, depofitos ab ipfo aliquot aliis Monialibus ex Ferrariensi Monaste. Mag.Thaddeo & c.Ex Mem.Com.Bonon. rio in nouum buc noftrum commigrantibus. Anno autem MDXCII. Fratres sertii Ordinis,qui Pbilippus Villan. loc. cit. An. MCCXCIII.die... Mag.Thad nentia,erigendoPuellarumpericlitantium domici in camara Ministri ubi Mag.Thaddeus ja lio libere tradiderunt, quod in via S. M a m æ a cebat infirmus prefentibus M a g. Bertolaccio, mæniffimo civitatis locu, non longe a Monasterio Fratris Venture M a g Nicolao de Faventia CorporisCbrijli,conjtructumest,a S.Crucisti. &c.ExMem.Com.Bonon. tulo infignitum. H æ c ex monumentis Monialium   gia supersunt. Minime igitur audiendus eft Joannes Villanius, qui Thaddæi ob i t u m prot r a h i t a, aut fi q u i s est alius, qui in aliud tempus referat. Paulo poft ejus mortem dillidium ortum est inter Fratres Ter tii Ordinis, five de Pænitentia, & Priorem fratrum Prædicatorum, ac G u a r dianum Fratrum Minorum in eligendis pauperibus ad præfcriptum teftamenti ip fius M a g. Thaddæi. Sed litem o m n e m fuftulit Dinus Mugellanus, clarus legum interpres, qui per illud tempus Bononiæ docebat, cui utraque pars arbitrium dederat. X V. Possem hic plura Scriptorum teftimonia de Thaddæo admodum ho norifica afferre; possem & Scriptores multos emendare, multos supplere,qui de illo vel minus diligenter, vel minus vere scripserunt; in quo numero sunt præsertim scriptores noftri Alidofius, & Ghirardaccius. Sed hæc curabunt, qui magis otio abundant. Nunc ejus scripta recensenda funt, quæ & multa fue. runt, & magno in pretio habita. TH4DD=1SCRIPTA. Expositio in arduum Ipocratis volumen. Galenus Aphorismos Hippocratis illuftri commentario exornavit. Thaddæus & Hippocratis Aphorismos, & Galeni commentarium diligenter exposuit.Cum autem in septem libros, fivepar ticulas Hippocratis volumen Aphorismorum diftributum fit, Thaddæus fcrip. to tradidit expofitionem suam in sex priora capita, eamque absolvit. Decimadie Septemb., utadejuscalcem adnotatum efttam in editis exemplaribus, quam in manu exarato, quod vidi in bibliotheca, Collegii Hispanorum Bononiæ. Eft autem hoc Thaddæi opus valde proli xum, cuiscribendo non uno tempore insudavit. Sic enim ad ejus finem ait: I n his particulis explanandis diversa fuerunt tempora. N a m cum efjorn in nono anno mei regiminis (qui publice docebant regere tur) incepi gloffare Aphorismos a principio. Et infpatiofex menfium glossa. v i primam, fecundam, tertiam, a quartam particulas, a quintam usque ad illum Aphorismum: Mulieri menstrua fine colore. Tunc autem fupersedi, convertens me ad glosas, quas fuper Tegni feceram, completiores edendas; quas perfeci usque ad illud capitulum caufarum: A d inventionem vero salu brium. Ibidem vero deftiti impeditus a guerra civitatis Bononiæ, au lucrati va operatione distractus. Poft vero placuit mihi refumere, ut complerem glof fas Aphorismorum, addendo ad eas, quas primo feceram. Et feci additiones Super primam, Be fecundam, no quartam particulam. In tertia vero particu la solum glossas veteres divis: Item in quinta particula super veteribies glosis quas feceram primo nullam additionem feci. Incepi autem de nova glosam in illo Aphorismo: Mulieri menftrua fine colore, ut dictum est. Quod hic habetde Bononiensium bello,pertinerevideturad Lambertacciorum, & Jeremienfium turbas, civitas noftra pæne d e solata eft. Cum autem nono anno poftquam docere cæperat, ad inter pretandum Hippocratis Aphorismos le contulerit, in eoque opere tempus aliquod impendere debuerit, & rursum eo dimiffo, librum Tegni interpre tandum susceperit, & in eo verfatus fit, quoad Bononiæ in otio quietus esse potuit; subductis rationibus apparet, non multo poft annum M C C L X. debuisse illum publice docendi in scholis noftris munus suscipere, imo ditavit hortulanum fuum. Vixit autem renze, noftro cittadino, il quale fu s o m m o Fisiciano sopra tutti quelli de' Cristiani. Je. scholas diceban  4. ооо annis Fuit Thaddæus medicus famosus, apud Murat. Antiq. med. ævi To. I. col. 1262. conterraneus auctoris, Dantis qui le In questo tempo morì in Bologna git& scripsitBononiæ& vocatuseitplus. M.TaddeodettodaBologna,ma eradiFi. quam commentator.Et factus est ditiflimus, & mortuus est morte repen Villan, ad an. MCCCIII. tina, & fepultus eft Bononiæ ante portam (c) Extar Dini confilium,five fententia in Minorum in pulchra & marmorea sepultu- arcbivo Fratr. Prædicat. Bonon. ra. Benvenut. Imol. comment, in Purgat. Dantis Ad   Ad septimam particulam Aphorismorum quod attinet, Thaddæus perpetua in eam commentaria non reliquit, sed monuit auditores suos, fi quis voluif fet ex ore docentis excerpere, quæ in nenda in schola protulisset, fe deinde emendaturum, & utin ordinem re digerentur curaturum. Sic enim inquit: immediate Icribere intendo. Sed fi quis de meis auditoribus notare voluerit eas corrigam, o in petias redigi faciam. Hæc autem verba fcripfi, ut si alicubi minus completa expositio reperiatur, non adfcribatur ignorantiæ, fed potius novitati, a pigritiæ scriptoris. Sed Thaddæi commentaria in septi m a m partem Aphorismorum nufpiam apparent, & ejus loco circumferri solebat expofitio Alberti Zancarii, de q u o alio loco dicemus. Expositio in divinum Hipocratis Pronosticorum volumen, A d cujus finem ita ada notatum eft in editis exemplaribus. Explicit liber tertius yra ultimus Pro. nofticorum Hipocratis fecundum antiquam translationem a Thaddæo Florentina explanatus. Sed revera Thaddäus ipfe non unam translationem præ mani bus habuit, fed faltem duas. Ad extrema vero capita, seu textus libri tertii nihil adnotavit Thaddæus, aut certe nihil adnotatum reperio in edis tis exemplaribus; manu enim scripta explorare non licuit. Thaddæi Florentini in præclarum regiminis acutorum morborum Hipocratis volu men expositio. Hanc Thaddæus in proæmio fatetur se maxime procudisse ut rem gratam faceret Bartholomæo Veronenfi, q u e m fibi dilectiffimum vocat, & pollentis ingenii; aitque,non minimo fibi adjumento fuisse ad id operis perficiendum. Non attigit Thaddæus, nisi tres priores libros hujus operis, ratus fortasse, quartum non effe legitimum Hippocratis færum,quod aliis visum erat, ut fatetur Galenus ipfe initio commentariorum in hunc quartum librum de regimine acutorum. Suam porro diligentiam oftendit Thaddæus in his commentariis exarandis, appellans ad verfionem Græcam, ubi in ea, quæ ex Arabica facta erat, vitium suspicabatur. (b) Atque hinc apparet, duplicem ejus libri interpretationem per illud tempus in doctorum manibus verfatam fuisse, quarum altera ex Græca, altera ex Ara. bica lingua ducta erat. In fubtiliffimum figogarum Johannicii libellum expositio. E a m fic concludit Thad dæus: Scio tamen, quod de his obscure dixi, Jed fellus f u m a deficit charta: misera excusatio, & vix fapienti homine digna. Q u æ hactenus recensuimus Thaddæi opera in unum volumen redacta Venetiis edita sunt per Lucam Antonium Junctam anno MDXXVII.curante Joan ne Baptista Nicolino Sallodienfi, qui in epiftola nuncupatoria ad Aliobel. lum Averoldum Polenfium Antiftitem, & Romani Pontificis Legatum ad Venetos, impense Thaddæum laudat, illumque dicit, nonnisi ad lapsam Extat hic Thaddæi liber in Codice Vaticano, (c) ejufque hæc eft æcono. mia. Initio agit de corpore sano, ejusque, ut ita dicam, essentia, & va. riis sanitatis gradibus; tum pergit in hunc m o d u m: Nota quod dicit Johan nicius, quod fi unaquæque res naturalis propriam naturam jervaverit, facit fanitatem, fi vero ipfam dimiferit, facit ægritudinem, vel neutralitatem, fta tum fcilicet, quo necfanum eft, necægrum.Sequiturinhuncmodum usque ad finem libri: Nota quod dicit Galenus; nota quod dicit Hipocras, Avicenna.Nota quod venæ non dicuntur oriri ab epate quod oriantur ex ea dem materia v c. Nota differentiam arteriarum ad venarum, originem nervorum W c. Nota quod partes totius capitis funt quatuor B c. Inter has notationes, in quibus totus hic liber decurrit, aliquas quæftiones interferit, (a) Ad text. X. lib. I. ita inquit: Alia quod patet per translationem Græcam. Liba translatio non ponit hic nifi duos colores & c. III. text. X. ea Aphorismorum particula expo Super feptima vero particula nihil principum fanitatem recuperandam vocari consuevisse. Auctoritates are definitiones fuper libro Tegni, quamplures utiles dubitationes. uti (b) Unde dicendum quod litera Arabica, (c) Cod. Vatic. 1. 4445. ex qua fumitur illa auctoritas, elt corrupta, 1   uti est illa: Quæritur hic an dari poffit membrum, quod nec recipitur, nec tribuit. Nunquam editus eft hic Thaddæi liber, quem ne ipse quidem au ctor satis elimatum cenfuit. Itaque rurlus Artem parvam Galeni, sive li brum Tegni interpretandum suscepit. Habemus hoc Thaddæi opus typis editum Neapoli cum hoc titulo: Commentaria in artem parvam Galeni. NeapoliannoMDXXII.Horum initiofatetur,fepræmaturamaliamexpo fitionem Artis parvæ edidisse,hisverbis: Atveroquoniamfuper eundem librum expofitionem facere necessitas compulit præmaturam, in qua non ut expedit Galeni instituta patefeci". Ideo e c. Magiftri Thaddæi conflia. In Codice Vaticano (a) consilia Medica Thaddæi sunt centum quinquaginta sex.Minore numero,imo perpauca,lirecte memi ni, funt in codice bibliothecæ Cæsenaris Fratrum Minorum. Primum in utroque codice est de debilitate visus. Ultimum in codice Vaticano eft de virtute Aquæ vitis. Docet in eo modum præparandi alembicum cu. preum. Incipit: A d faciendam Aquam vitem, quæ alio nomine dicitur aqua ardens. Eft unum ex his consiliis de minctu urinæ cum fanguine. Incipit: Conqueftus est dn. Bartoločtus comes. Eft is Bartholottus comes Ripæ Insulæ Suzariæ & Bardinæ, de quo plura diximus, ubi de Rolandino Passagerio a r tis Notariæ doctore agebamus. Eft aliud Thaddæi confilium ad midtum f a n guinis pro Duce Venetiarum. Aliud item de impedimento loquelæ propter mollitiem linguæ. Incipit: C u r a comitis Bertholdi. In librum Galeni de crisi. Eft in codice Vaticano. (b) Magiftri Thaddæi de Florentia quæftio de augmento. Eft in codice Vatica Thaddæum artis Medicinæ in civitate Bononiæ doctorem. Eft in codice bi. bliothecæ Eftenfis, tefte Muratorio. (d) Idem Italice extat, scriptus in m o d u m epistolæ cuidam ex Neriis Florentinis. Incipit: Imperciocchè la con dizione del corpo umano. (e) Extat etiam latine typis editus Bononiæ anno MCDLXXVII.cum libelló Mag.Benedicti de Nurlia ejusdem argumenti. N u m autem Italice scriptus fit libellus ifte ab auctore suo, an latine, mihi non conftat. Italica tamen lingua, quæ tum nitefcere, & a Scriptoribus nobilitari cceperat, delectatum constat Thaddæum, qui Ariftotelis Ethicam in eam linguam vertit; quamquam hunc ejus laborem haud magnopere laudandum exiftimarit Dantes in Convivio, ubi ait, velle se suum illum librum Italica, five, ut ipfe inquit, vulgari lingua donare, ne ab alio quopiam interprete vitietur, ut Ethicæ Ariftotelis contigit, quam Thad dæus Italicam fecit.(f) Eum purgare nititur Biscionius,vitio vertens non tam Thaddæo, qui Italicam ex Latina non bonam, quam veteri interpre ti,qui nihilo meliorem ex Græca Latinam fecerat Ariftotelis Ethicam.(8) Sed vix quisquam probabit hanc Biscionii defensionem. Id unum enim r e prehendit inThaddæo Dantes Aligherius, quod Italicam interpretationem ejus libri non bonam dederit. Nihil autem impedit, quominus librum aliquem, licet mendofiffimum, & maxime corruptum, optime, quod ad nitorem verborum attinet, interpretari, & in aliam linguam elegantissime quispiam convertere possit. Habuerat Thaddæus Aristotelis Ethicam ex Thesauro Brunetti Latini, ut observat Laurentius Mehus, qui de his abun de disserit in prolegomenis ad epiftolas Ambrofii Camaldulenfis, nuper Flo rentiæ editas. (h )  no. (c) Libellus fanitatis conservandæ factus pay adinventus per probiffimum v i r u m M a g. (f)E temendo,cheilvolgarenonfosse dato posto per alcuno, che l'avelse laido fat. (g ) Ibidem: (h) Tv.I.pag. 156. 157. Epift.Ambrof.Cam. to parere, come fece quegli, che tramutò il Ooo 2 (a) Cod. Vatic. 2418. Expe latino dell'Etica, ciò fu Taddeo Ipocratita (c) Ibid. 4454. provvidi di ponere lui, fidandomi di me più (d) Murat.To.IX.Rer.Ital.Script.p.583. che d'un'altro.Convito di Dante.In Firenze (e) Vid.Biscion.Annot.alConvitodi Dan (b) Ibid. 4451. te.loc.cit. 1723. p.68. 1   Experimenta Mag. Thaddæi probata ab ipfo. Hunc titulum habet collectio ex. perimentorum Medicinalium Thaddæi in codice Vaticano. (a) Incipit: Omnes herbee a radices quæ debent prius coqui, abluantur mundentur Poit brevem præfationem, fire inftructionem, defcribere incipit p r i m u m Syrupos varii generis. Receptio Syrupi majoris fecundum M. T. Syrupus Jor. danus M. T. ad correctiones epatis aut fplenis @ c. Deinde describit electua ria, inter quæ hæc confectio locum habet: Confectio qua utuntur magna tes in curia Romana, vagy maxime convenit in æftate fanguinem mundificans, colera fuaviter educitur. R. pulpæ Caffic fi. 16. 2. Tamarindorum 3. pe. nidii.zuc.violati añş.x.Syrupi violati, Ġ.Mirrhæ s3 conficianturfive dissolvantur cum tali fucco. X. Prunorum.ios feminum ordei mundi. lic quir. añ i 2 cum ifta aqua decoquatur usque ad spissitudinem mellis. Dein pergit ad vina medicata. In his ett Aqua vitis ad calculum M. B. ideft, M a. giftri Bartholomæi de Varignana, ut opinor, medici celeberrimi, cujus infra mentionem faciemus. Tum de oleis agitur, ibidemque describitur Tragea M. T. & Tragea M. B., ideft, Magiftri Thaddæi, & Magiftri Bar. tholomæi. Pulveres fubinde varii, & pilulæ, & unguenta describuntur, tum remedia quædam ad peculiares morbos. N e c desunt fuperftitiofa quædam, & vanissima. Tale eft illud: Ut homo poffit ire super ignem fine læfio. ne. Dicas ifta verba. ter in nomine individuæ Trinitatis.Abyfon. Dalma. tiu, vel Magata, v e a s nudus. Emplaftra quædam poft hæc describuntur: fed in hujus libri extremis partibus vix ordo ullus apparet, ut conjicere liceat, aliena manu aliquid genuinis Thaddæi experimentis additum; quo ex genere esse arbitror superftitiola illa, quæ dixi. De Interioribus libri VI.a mag.Thaddæo correcti. Ita in codice Vaticano.(b ) Thaddæus de Bononia de aquis, oleis, a vinis medicatis. Extat inter codices mo locorecensuitejusCommentariainIpocratem,moxCommentariain Avicennam; n a m neque in alia Hippocratis opera fcripfit Thaddæus, quam quæ indicavimus, quæque vel iple Biscionius feorfim poftea enumerat; nec ulla in Avicennam Commentaria scripsisse comperio.Addit tamen idem Biscionius descriptionem pulveris mirabilis Mag.Thaddæi, quam re perit ad calcem libri M a g. Aldobrandini. E g o alterius pulveris descriptio n e m in hunc m o d u m reperi ad calcem Almansoris, ideft, libri Rasis in codice Vaticano. Recepta quam mag.Taddeusreliquitpauperibus in te ftamento: R. Cinamomi eleli s Macis. Croci aš 3 ij. Sene s fiat pul vis poftea R u s Tartari albi fubtilissime pulverizati, a misce fimul. Dosis ejus eft; 3 ij cum brodio poteftconfici cum zuccaro ut melius conserve tur. E u m d e m pulverem defcriptum vidi in codice bibliothecæ Cælepatis Fratrum Minorum inter confilia Medica Mag. Thaddæi ad libri marginem in hunc modum: Pulvis folutivusTaddei. R. Cinamomi:5. Macis.Cra ci añ 7. 3. 1. Sene ad pondus predictorum. Fiat pulvis, cui potes addere de zuccaro albo vel rubeo B eft delectabilior. DON  476 MEDICINE Thomæ Bodleii. (c) Auxit immaniter Biscionius paucis verbis catalogum operum Thaddæi, dum pri (c) To. I. mill. Angliæ. Cod. 2359. (d) Cod. Vatic.4425. Aderotti. Alderotti. Keywords: le quattro cause. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alderotti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Alessandro – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Alessandro was a member of the Lizio, the friend and teacher of Marco Licinio Crasso. According to Plutarco, Alessandro lived a very modest life and showed a great indifference towards material possessions, behaving more like a member of the Porch than the Lizio.

 

Grice ed Alessandro – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Alessandro was a philosopher of the Orto or Garden, and friend of Plutarco. He may have been the same person as Tito Flavio Alessandro, a sophist and father of another sophist, Tito Flavio Phoenix.

 

Grice ed Alessandro – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Appio Alessandro was public official honoured as a philosopher.

 

Grice ed Alessandro – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Tiberio Claudio Alessandro. All that is known of Alexander is a funerary inscription found in Rome identifying him as a philosopher belonging to The Porch.

 

Grice ed Alessandro – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Tiberio Giulio Alessandro. He is discussed by Filone, in connection th problems concerning providence and the nature of animals. He pursued a career n public and military life.

 

Grice ed Alessandro – Roma – filosofia italiana – Luig Speranza (Roma). Alessandro di Egea was a member of the Lizio and tutor to Nero for a time. He wrote a commentary on the Categories of Aristotle.

 

Grice ed Alessandro – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Alessandro Polyhistor was taken as a slave to Rome, but later freed (or escaped). He goes on to teach philosophy there.

 

Grice ed Alfieri – LVCREZIO – filosofia italiana – Luigi Speranza (Parma). Filosofo. Grice: “I like Alfieri; the enzo is vital – Vittorio alfieri has statues at Torino! V. Enzo Alfieri dedicated his life to prove that Democritus was more of a poet than a philosopher. ‘Indeed, I will go as far as to argue that he ain’t no philosopher!’ Unfortunately, Abbagnano ignored him, and Lucrezio stayed in the canon! Then Alfieri tried to study the idea of the ‘in-divisibile,’ the ‘atom’ and the ‘clinamen,’ and how Lucrezio was a good poet but a bad philosopher!” --  Filosofo. - allievo diCroce. Nato a Parma, visse la maggior parte della sua vita a Milano ove si laureò in filosofia e insegnò storia della filosofia alla Bocconi, per poi continuarne l'insegnamento presso l'Pavia.  Allievo di Piero Martinetti e di Benedetto Croce, di cui condivideva l'ideologia liberale e il pensiero filosofico, ma anche gentiliano non ortodosso secondo la definizione di Ugo Spirito, fu un oppositore del regime fascist che lo arrestò una prima volta nell'aprile del 1928 quando a Milano scoppiò una bomba all'ingresso della Fiera che fece sospettare che si trattasse di un fallito attentato al Re. Alfieri fu incarcerato a San Vittore assieme a Ugo La Malfa, Umberto Segre e Mario Vinciguerra. Fu liberato senza processo tre mesi dopo per l'interessamento di Benedetto Croce che tramite Marinetti aveva fatto intervenire Mussolini.  Il secondo arresto, per la scoperta di lettere ritenute compromettenti dalla censura fascista, avvenne nel 1936. Alfieri fu scarcerato dopo quindici giorni per l'intervento diretto di Gentile ma dovette lasciare entro due giorni l'insegnamento a Modena e trasferirsi a Milano dove riuscì a sopravvivere grazie all'aiuto di amici e di parenti che lo ospitarono.  A Milano ottenne il primo incarico universitario presso la facoltà di Lingue della Bocconi dove rimase per 13 anni fino al suo trasferimento a Pavia per la docenza di storia della filosofia.  Suoi amici, «maestri e testimoni di libertà», come lui stesso li definì, oltre a Croce, furono Giuseppe Prezzolini, Giuseppe Lombardo Radice, Francesco Flora, Pilo Albertelli, il giovane professore ucciso alle Fosse Ardeatine e, tra i più vicini e affezionati, Giovanni Spadolini.  Fortemente critico nei confronti del movimento sessantottino e impegnato attivamente per le riforme della scuola, Alfieri è stato il fondatore del "Movimento per la libertà e la riforma dell'università italiana" e del "Comitato nazionale per la difesa della scuola", e presidente dell'"Associazione amici dell'Gerusalemme".  Negli anni 1937-1938 collaborò alla rivista L'Italia che scrive che ancora in quel periodo riusciva a mantenere una certa autonomia nei confronti del fascismo. Monarchico, iscritto al Partito Liberale Italiano; nel dopoguerra si avvicinò agli ambienti della destra, aderendo al Sindacato Libero Scrittori Italiani e collaborando con la casa editrice di Giovanni Volpe e con la rivista Intervento di Fausto Gianfranceschi. Negli anni '70 fu collaboratore culturale per la filosofia de Il Giornale diretto da Indro Montanelli.  Tra le sue opere di filosofia vanno annoverati saggi sulla filosofia greca-romana antica, “La tristezza di Pindaro”; “Lucrezio”; “Gli atomisti” e opere di estetica, L'estetica dall'Illuminismo al Romanticismo. Ad Alfieri, oltre ad un suo epistolario con Croce, si devono due libri di memorie autobiografiche (“Maestri e testimoni di libertà” e “Nel nobile castello”) dove sono originalmente ritratti personaggi della vita culturale e politica italiana da Croce a Scotti, da Jacini a Casati, a Flora. Antonio Troiano, I 90 anni dell'ultimo allievo di Benedetto Croce, in Corriere della Sera, 10 maggio 199648.  Massimo Ferrari, Piero Martinetti e Antonio Banfi, in Il Contributo italiano alla storia del PensieroFilosofiaTreccani,.  Alessandra Tarquini, Gli sviluppi della scuola di Gentile: da Armando Carlini a Ugo Spirito, in Croce e GentileTreccani,.  Andrea Mariuzzo, La Scuola Normale di Pisa negli anni Trenta, in Croce e Gentile Treccani,.  Marcello Veneziani, 68 pensieri sul '68: un trentennio di sessantottite visto da destra, Firenze, Loggia de' Lanzi, 199846.  Michele d'Elia, Monarchici e partito, su Italia Reale.  Benedetto Croce, Vittorio Enzo Alfieri, Lettere,  Milazzo, Edizioni Spes, Aldo Garosci, Nel nobile castello, in Tempo presente, Forum in occasione del novantesimo compleanno di Vittorio Enzo Alfieri, in Rendiconti, parte generale e atti ufficiali,  Maria Luisa Cicalese, Vittorio Enzo Alfieri maestro di studi e di vita, in Nuova Antologia, Vittorio Enzo Alfieri: maestro e testimone di libertà: atti del Convegno, Cremona, 22 novembre 1997, Cremona, Circolo Culturale Benedetto Croce, 1998. Margherita ardi Parente, Vittorio Enzo Alfieri e il nobile castello, in Belfagor.   Già Vittorio Enzo Alfieri, nell’introduzione al breve primo scritto bembiano incluso in una strenna dell’editore Sellerio, aveva colto una possibile connessione ai dialoghi platonici più ‘letterari’, dove a proposito del piacere ecfrastico del giovane scrittore per il podere di S. Maria del Non scriveva: «Bembo si compiace a descrivere il luogo a lui caro, il fresco riparo dalla calura estiva, il fiumicello, i pioppi piantati dal padre, il quale si stupisce che nella piana verso le pendici dell’Etna vi siano platani, che gli fanno forse risovvenire i platani d’Ilisso»321.L’intuizione diviene più 320 «Del resto l’opera stessa prima del Bembo, il De Aetna, aveva richiamato a quei molteplici interessi – spesso da e su testi greci – che avevano ispirato le Castigationes Plinianae. E la stessa felice ambientazione del dialogo già di per sé dilata i confini dell’oggetto esegetico e rilancia tutte le più vitali istanze di plenitudo culturale, di renovatio che il Barbaro stesso (e il Poliziano per suo conto) aveva indicato tra gli scopi della propria lezione (Mazzacurati). Sono una plenitudo e una renovatio che si muovono anche da quell’indirizzo filosofico e umanistico insieme che era stato così caratteristicamente veneziano, dal Barbaro a Giorgio Valla: nella ripresa di un tutto autentico Aristotele che Aldo aveva consacrato con la sua monumentale edizione delle opere aristoteliche (1495-1498) ispirata alla lezione di Ermolao e dedicata a Alberto Pio. Proprio sulla base della retorica e della poetica aristoteliche, ripresentate come esemplari dopo secoli e secoli sulla laguna, poteva svilupparsi anche la filologia più nuova del Bembo, tutta fondata sul concetto di creazione artistica, non come furor o inventio platoniche, ma come imitatio naturae e su una considerazione critica nuova della lingua», Branca, La sapienza civile, c Bembo Pietro. De Aetna: il testo di Pietro Bembo tradotto e presentato da Vittorio Enzo Alfieri, note di M. Carapezza e L. Sciascia (Palermo: Sellerio) concreta se posta a confronto con un altro testimone contemporaneo di Bembo, Gregorio Giglio Giraldi. Questi infatti nella sua lettera introduttiva a Renata di Francia alla Historia Poetarum tam Graecorum quam Latinorum, su uno sfondo tutto boccacciano -- l’occasione della peste e la conseguente riunione di una piccola brigada (il puer Pico della Mirandola e B. Piso) --, così si esprimeva nel presentare la cornice diegetica del trattato: L'Alfieri, critico verso la cecità dell'eruditismo dei vecchi filologi che si affannavano a congetturare e spostare, sminuzzare e riattaccare i luoghi del poema lucreziano, sintetizza ancora: “Il canto del sonno e dei sogni si riattacca a quei canti precedenti, ai canti delle illusioni, e apre la via ai versi contro la più terribile delle illusioni: contro l'amore. Ecco come viene il sonno: una parte dell'anima è dispersa fuori, una parte si è raccolta nel profondo della sua sede, e le membra si sciolgono, e manca il senso, perché il senso è opera dell'anima; ma il senso non manca interamente, perché, se no, non si potrebbe riaccendere mai più e sarebbe la morte. La causa del sonno è la continua perdita di atomi da parte del corpo, perdita che avviene specialmente per le incessanti percosse degli atomi aerei; e questi versi sono bellissimi, nella narrazione dell'inavvertito conflitto, eppoi (vv. 950-953 ) nella rappresentazione della sonnolenza, con versi rotti e con un verso finale di grande dolcezza: ' poplitesque cubanti / saepe tamen summittuntur virisque resolvunt, ' ' e quel che dorme si sente scioglier le ginocchia e venir meno tutte le forze'. E il sonno segue al cibo e alla stanchezza, perché allora è avvenuto un tanto più grave turbamento di atomi in noi. Qui passiamo alle illusioni. Ognuno si sogna quello che è la sua occupazione del giorno: gli avvocati sognano di trattar cause, il generale di guidare eserciti alla guerra, il marinaio di lottare coi venti, Lucrezio d'essere sveglio a scrivere il 'De rerum natura'. Ed ecco quelli che si sognano i pubblici spettacoli, dopo essersene storditi per tanti giorni; i cavalli, che sognano le corse; i cani, che sognano la caccia e fiutano in aria ve si agitano; gli uccelli si sognano di sfuggire ai falchi. Così gli uomini: sanguinosi e paurosi sogni di re, sogni terrificanti di uomini che si credono alle prese con pantere e leoni, e gente che parla dormendo e svela tutti i propri segreti, e gente che immagina di morire o di precipitare da alti monti, e gente che ha sete e si sogna di essere presso un fiume e di bere infinitamente”. E' come se all'interno di un'argomentazione piana, di un'espressione variata, di un vocabolo già abusato, di un ritmo additivo irrompessero sistematicamente una rivendicazione terminologica, un elemento imprevisto, un segnale indecifrabile, un'interruzione del ritmo, un vestigio ad investigare. Non cessano infatti di stupire, per vistosità e normatività, un'accelerazione espressiva e un turbamento linguistico, i quali tuttavia, anziché disperdersi in una sorta di dadaismo originario o di impazzire nel gioco retorico, concorrono al prima e al poi della dimostrazione, alla proporzione del dettato, alla simmetria e regolarità del verso. Essi stessi riducibili a struttura, più simile ora ad un reticolo cristallino, ora ad una tavola aritmetica, ora ad un ordinamento geometrico. Questa compresenza dell'uno e del molteplice, del medesimo e del diverso, del codificato e del nuovo -- responsabilità morale di annunciare un nuovo mondo. Linguistica, che porta alla preoccupazione dell'iso-morfismo, al voler far combaciare vocabolo e oggetto segnato ↔ segnante ordine linguistico ↔ ordine cosmico. La eversibilità e convertibilità di ordine fisiologico o naturale, e di ordine “filologico” -- verbale. Anzi, la fisiologia irrelata e caotica sembra comporsi e prendere forma in un divenire “caosmico” proprio grazie alla filologia, la quale *ordina* sintammaticamente il molteplice -- il complesso nel semplice, nel semplicissimo (atomon, indivisum), domina il caos, resiste alla morte ed all'amore, e, anziché immaginare o assecondare l'esistente, lo ferma e se ne appropria. A ut noscas referre earum primordia rerum cum quibus et quali positura contineantur et quos inter se dent motus accipiantque, quin etiam refert nostris in versibus ipsis cum quibus et quali sint ordine quaeque locata. Namque eadem caelum mare terras flumina solem SIGNIFICANT, eadem fruges arbusta animantis. Si non omnia sunt, at multo maxima pars est consimilis. Verum positura discrepitant res. Sic ipsis in rebus item iam materiai intervalla vias conexus pondera plagas concursus motus ordo positura figurae cum permutantur, mutari res quoque debent. Atque eadem magni refert primordia saepe cum quibus et quali positura contineantur et quos inter se dent motus accipiantque. Namque eadem caelum mare terras flumina solem constituunt, eadem fruges arbusta animantis, verum aliis alioque modo commixta moventur. quin etiam passim nostris in versibus ipsis multa elementa vides multis communia verbis, cum tamen inter se versus ac verba necessest confiteare et re et sonitu distare sonanti. tantum elementa queunt permutato ordine solo; at rerum quae sunt primordia, plura adhibere possunt unde queant variae res quaeque creari. Analogia tra formazione di "verba" et versus e formazione res, espressa dagli eadem e dal parallelismo tra "significant" e constituunt resa esplicita nella spiegazione della paronomasia ignis/lignum iamne videas eadem paulo inter se mutata creare gnis et lignum?  Quo pacto verba quoque ipsa  inter se paulo mutatis sunt elementis, cum ligna atque ignis DISTINCTA VOCE NOTEMUS. Costituenti minimi semantica (parola, sillaba, articolazione, prima articolazione, seconda articolazione, terza articolazione) ↔ natura (radice -- atomo - molecula). Reversibilità dei co-efficienti dei costituenti minimi, positura, motus, ordo, che già nella metafisica aristotelica -- dell'aristotele perduto -- erano indicati come le sole e tutte differenze che possono presentare tra loro le lettere. Circolarità tra realtà fisica e linguistica con successione intrecciata delle argomentazioni nei due passi elemento -- ELEMENTUM (gr. stoicheion) è costituente originario sia di alfabeto che natura, secondo Democrito e Leucippo, fonte Metafisica, Aristotele. Lo stoicismo, nella sua lotta contro l'epicureismo, sostiene la legge finalistica del Logos come vera unica legge che indirizza la scrittura delle opere e la formazione delle cose. Platone sostene l'esperienza letteraria come micro-cosmo produttori del reale. Concurcus motus ordo positura figurae. Sono documentati come 'produttori' del 'reale' (res, rerum) in Leucippo, Democrito (dalla Metafisica) ed Epicuro e sono gli esatti sinonimi latini dei termini greci (individuum, atomon; elementum, stoicheion, simple, simplice, simplicissimum. Il verso è straordinario, dal punto di vista ritmico, tutto spondaico, e semantico, essendo costituito da soli sostantivi elencati a-sindeticamente, e culminante dal punto di vista fonico su ordo, quasi palindromo, appena bi-sillabo. Un verso icastico, che riprende i termini già esposti ma in ordine sparso e vi associa figurae, termine con una doppia valenza (ma monosemia) materiale e linguistica. Numerose testimonianze nei testi grammaticali latini fanno emergere la perfetta corrispondenza della terminologia atomistica e linguistica, in quanto tutti i term9ni "concurcus", "motus", "ordo" et "positura" sono specificamente grammaticali. motus concursus gramm: fenomeni fonetici: sinalefe (contrazione in un'unica sillaba di due vocali, solitamente dittonghi), sineresi (contrazione in un'unica sillaba della vocale terminante di una parola e di quella iniziale della successiva), iato (incontro di vocali forti successive). Il “distaccamento”, l'”accostamento”, il “mutamento” degli atomi convertono la natura delle cose nello stesso modo in cui l'”omissione”, l'”aggiunta”, il “mutamento” delle lettere convertono l'identità delle parole. Il modello grammaticale sembra in ogni caso essere preminente e fungere da paragonante per scoprire e chiarificare i meccanismi del mondo atomico, “ex apertis in obscura”, per rendere più semplice il passaggio dall'esperienza sensibile della littera scritta all'invisibilità degli infinitesimi atomi, elementa. Gramm: flessione (verbo) music: ritmo retor: figura retorica  ut potius multis communia corpora rebus multa putes esse, ut verbis elementa videmus. L'assimilazione tra verba et res fornisce una giustificazione e funzione della poesia, nonché annulla il divario tra poesia e filosofia, aprendo la strada della ben più successiva divulgazione scientifica. E' convinzione epicurea quella dell'iso-morfismo tra parole e cose, e tale risulta nella costituzione del poema intero, costruito come un cosmo vero e proprio. La valorizzazione di ogni singola parola, la sua attenta scelta si riflette in un innalzamento a materia poetabile delle realtà anche più umili, come “minerali, piante, fiumi, cielo, mare, terra, fiere, uomini”. Si crea così una democrazia linguistica ante litteram, lontana dal buonismo religioso, spesso degradato in ipocrisia, o dagli esperimenti novecenteschi degl'atomismo logico di Russell, che demolendo la sintassi o creando l'enumerazione caotica volevano demolire la società borghese e capitalistica e criticare la massificazione elevando ogni singola parola, pur immersa nella sua massa uniformemente bianca e nera che è il testo. Vittorio Enzo Alfieri. Alfieri. Keywords: Lucrezio, l’implicatura di Lucrezio, la folla di Lucrezio, Croce, filosofia romana. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alfieri” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Alfonso – filosofia italiana – Luigi Speranza (Santa Severina). Filosofo italiano. Grice: “I like Alfonso – no, he ain’t a Spaniard; the surname was pretty popular in Southern Italy after the roaming of the Spaniards! And it’s ultimately barbaric, that is, Goth!” “Typically, for a philosopher, a professional one, I mean, he started with logic for teenagers (il ginnasio ed il liceo), but with a twist – he called his lectures (his ancestor may testify) ‘logica reale,’ or colloquenza reale – and he tried to criticse “il Vera,” who had written “Il problema dell’assoluto.” “Like me, he has an interest in S is P and S is not P (questo uomo no est sensibile). His first utterance is actually, NOT ‘the fat cat sat on the mat, and as he sat on the mat, he saw a rat” – but the rather naïf ‘il sole e luminoso.’ He gives two other examples, which are easy to detect, since he does not use quotes but ITALICS!: “questo corpo est rotondo” and “questa pianta fiorisce.” His idea, like mine, or Peacocke’s,, or Speranza, is that that is pretty much enough to deal with the most serious problems in philosophy: the judicatum, and its component Concetto 1 e Concetto 2 – “Questa pianta fiorisce’” -- Un temperamento di spirito positivo e di evoluzionismo idealistico, che attesta l’origine del suo metodo e la serietà dei suoi studi, ma che dimostra pure quanto egli si sia discostato dall’indirizzo del Vera e dello Spaventa per accostarsi a quella che fu chiamata la sinistra hegeliana»  (Luigi Ferri). Filosofo. Autore di 67 pubblicazioni scientifiche e di numerosi articoli su riviste letterarie e quotidiani, alcuni dei quali sulla Calabria e sui personaggi delle tragedie di William Shakespeare, che gli fecero guadagnare l’attenzione internazionale per l’approccio singolare alle opere del grande drammaturgo inglese.   Nato a Santa Severina il 17 agosto 1853 da una famiglia di proprietari terrieri, molto giovane si dedicò all'approfondimento delle Sacre Scritture, grazie ai due fratelli del padre, don Michele e don Francesco d'Alfonso, entrambi canonici del Capitolo metropolitano della Cattedrale; questi studi, parte dei quali furono pubblicati con il titolo “Le donne dei Vangeli” (Firenze, Successori Le Monnier), manifestano un approccio *positivista* sull'analisi del testo biblico.  Terminati gli studi nel suo paese natale si trasferì a Catanzaro, dove fu allievo del letterato e patriota rocchitano Vincenzo Gallo-Arcuri. Frequenta poi il Liceo Ginnasio "Pasquale Galluppi", conseguendo la licenza ginnasiale. Ottenne in seguito la licenza liceale con lode al Liceo classico del Convitto nazionale "Vittorio Emanuele II" di Napoli, che gli fece valere, su concessione del Ministero della Pubblica Istruzione, la possibilità di iscriversi contemporaneamente alle facoltà di Medicina e di Lettere e Filosofia presso la Regia Napoli. Alla facoltà di Filosofia, dove, allievo di Sanctis, Vera e Spaventa, ottenne vari riconoscimenti.  Conseguì entrambe le lauree in Medicina e Chirurgia e Filosofia, a soli tre mesi di distanza l'una dall'altra. I Lincei gli assegono il Premio Reale per le Scienze filosofiche e morali, consistente in 4.000 lire, per lo studio dal titolo “Kant. I suoi antecessori e i suoi successori”. Su espressa volontà del padre fece ritorno a Santa Severina, dove esercita la professione di medico condotto. Ma la passione per la filosofia e l'insegnamento prevalse e partecipò ai concorsi a cattedra per i licei, iniziando a insegnare Filosofia in Sicilia (Caltanissetta, Messina e Catania). Da questa esperienza di insegnamento cominciarono ad evidenziarsi sempre di più le sue qualità didattiche, tant'è che il ministro della Pubblica Istruzione Paolo Boselli lo convocò a Roma per affidargli la cattedra di Filosofia nei licei della Capitale: prima al Liceo Ginnasio "Umberto I" (dove insegnò dal 1889 al 1909) e poi al Liceo "Ennio Quirino Visconti". Nello stesso periodo cominciò a collaborare con le più importanti riviste letterarie, tra cui il Nuovo Convito, la Rivista d’Italia, la Rivista moderna politica e letteraria, la Rivista italiana di filosofia, la Nuova Antologia, L’Educazione, la Rivista italiana di Sociologia, la Rivista di filosofia e scienze affini e con diversi quotidiani, tra cui L'Osservatore Romano.  Nel 1890 fu chiamato dal ministro della Pubblica Istruzione Paolo Boselli ad insegnare Pedagogia e Filosofia all'Istituto Superiore Femminile di Magistero, dove, in seguito a concorso, divenne Professore dal 1903 al 1923. Ebbe come colleghi Luigi Pirandello, Maria Montessori e Luigi Capuana. Durante i trantaquattro anni di insegnamento al Magistero, fu relatore di oltre trecento tesi. Per il Dizionario illustrato di Pedagogia, curato da Luigi Credaro e Antonio Martinazzoli, redasse la voce Istituti Superiori femminili di Magistero. Dal 1896 fu anche libero docente di Filosofia teoretica alla Regia Roma, dove insegnò ininterrottamente fino al 1933, anno della sua morte.  All'insegnamento affiancò sempre una prolifica attività di scrittore, pubblicando complessivamente sessantatré opere, recensite in Italia e all'estero, che spaziano dai temi dell'educazione e della morale all'economia politica, dagli studi sull'ambiente e sulle foreste all'analisi criminologica dei personaggi shakespeariani. Il suo Sommario delle lezioni di pedagogia generale (Loescher) fu giudicato dalla Reale Accademia dei Lincei «frutto d'amorosa meditazione e di mente abituata alla ricerca e alla costruzione filosofica, che esce dai confini degli ordinari trattati di pedagogia per elevarsi ad una sintesi mentale superiore».  Tenne la prolusione all'Universal Congress of Races di Londra, che fu poi pubblicata col titolo “Speculative psichology and the unity of races” (E. Loescher & Co), e fu membro del VI Congrès international du progrès religieux a Parigi. Fu consulente medico della Real Casa d'Italia durante il regno di Umberto I e del Palazzo Apostolico Vaticano sotto il pontificato di Benedetto XV.  Mai volle aderire ad alcuna corrente filosofica e politica, e fu fortemente avversato dal ministro della Pubblica Istruzione Gentile,che decise di mandarlo anzitempo in pensione con un provvedimento ad personam. Si tratta del Regio Decreto all'interno della Riforma Gentile, che anticipa, per i soli professori del Magistero, il collocamento a riposo al compimento del settantesimo anno anziché al settantacinquesimo, come per gli altri docenti universitari. Il suo posto fu immediatamente occupato da Radice, amico di Gentile. Anche Croce intervenne nella vicenda in favore di d'Alfonso, chiedendo a Gentile una deroga a tale decreto, ottenendo però risposta negativa. La salma fu portata sulla carrozza della Real Casa e seppellita nel Cimitero monumentale del Verano.  Il paese natale, Santa Severina, gli ha intitolato una via del centro storico e la Scuola elementare.  Opere: “Le donne dei Vangeli, Firenze, Successori Le Monnier); “Sonno e sogni” (Milano-Roma, E. Trevisini); “Principii di logica reale” (Roma, G. B., Paravia & C.); “Il re Lear” (Roma, Società editrice Dante, Alighieri); “La dottrina dei temperamenti” (Roma, Società editrice Dante, Alighieri); “Lezioni elementari di psicologia normale” (Torino, Fratelli Bocca editori);  “Pregiudizi sull'eredità psicologica (genio,delinquenza, follia)” (Roma, Società editrice Dante Alighieri); “I limiti dell'esperimento in psicologia” (Roma, Casa editrice E. Loescher); “Sommario delle lezioni di filosofia generale (la filosofia come economia)” (Roma, Casa editrice E. Loescher); “Lo spiritismo secondo Shakespeare, E. Loescher & C.); “Sommario delle lezioni di Psicologia criminale. Critica delle dottrine criminali positiviste, Roma, Casa editrice E. Loescher); “Il Cattolicismo e la filosofia, Roma, Casa editrice E. Loescher); “Otello delinquente, Casa libraria editrice E. Loescher e C. Sommario delle lezioni di pedagogia generale (L'educazione come economia)” (Roma, Casa editrice E. Loescher); “Note psicologiche, estetiche e criminali ai drammi di G. Shakespeare (Macbeth, Amleto, Re Lear, Otello)” (Milano, Società Editrice Libraria); “Principii economici dell’etica”; “Naturalismo economico”; “Principi naturali di Economia Politica” (Roma, Athenaeum); “Gli alberi e la Calabria dall'antichità a noi” (Roma, Angelo Signorelli editore); “La disoccupazione: cause e rimedi” (Torino, Fratelli Bocca editori. Nicolò d'AlfonsoIl  del Sud  Furio Pesci, Pedagogia capitolina. L'insegnamento della pedagogia nel Magistero di Roma, Parma, Ricerche pedagogiche, 1994  Francesco d'Alfonso, Nicolò d'Alfonso. Ritratto di un intellettuale indipendente, Bisignano, Apollo edizioni,, cit Attilio Gallo-Cristiani, In memoria del filosofo Nicolò d'Alfonso, Roma, A. Signorelli editore, 1934  La vicenda del pensionamento di Nicolò d'Alfonso è ricostruita e ampiamente documentata in Nicolò d'Alfonso. Ritratto di un intellettuale indipendente, cit., cap. V  Francesco d'Alfonso, L'onesto solitario. Vita e opere del filosofo Nicolò d'Alfonso, Reggio Calabria, Città del Sole edizioni,  Francesco d'Alfonso, Nicolò d'Alfonso. Ritratto di un intellettuale indipendente, Bisignano, Apollo Edizioni,  Francesco d'Alfonso, Amleto e Ofelia. La critica shakespeariana negli scritti di Nicolò d'Alfonso, Reggio Calabria, Città del Sole edizioni,  Furio Pesci, Pedagogia capitolina. L'insegnamento della pedagogia nel Magistero di Roma  Parma, Ricerche pedagogiche, Attilio Gallo Cristiani, In memoria del filosofo Nicolò d'Alfonso, Roma, A. Signorelli editore, 1994 Mariantonella, Giovanni Marchesini e la «Rivista di filosofia e scienze affini», Franco Angeli  Daniele Macris, Nicolò d'Alfonso: uno studio introduttivo, in Quaderni Siberenensi, Catanzaro, Ursini, Francesco De Luca, Santa Severina. L'antica Siberene, Pubblisfera edizioni, Antonio Testa, La critica letteraria calabrese nel novecento, L. Pellegrini editore, 1968 Silvio Bernardo, Santa Severina dai tempi più remoti ai nostri giorni, Istituto editoriale del Mezzogiorno, 1960  Santa Severina Università La Sapienza di Roma Accademia dei Lincei Liceo classico Pilo Albertelli.   Il prof. Nicolò D'Alfonso presenta: 1) Note psicologiche, estetiche e criminali ai grammi di Shakspeare Macbeth, Amleto, Re Lear, Otello - U n a nuova fase dell'economia politica, (st.);3) Speculative psychology and the unity of races. Il cattolicismo e l'insegnamento della storia del cristianesimo nell'Università di Roma, (st.);5) - La filosofia della storia nel nostro tempo -; Morgagni e la biologia moderna »;7) «In Calabria». Il prof. D'Alfonso, come già risulta dall'elenco dei lavori presentati, s'è occu pato di argomenti disparatissimi, senza che però, a giudizio unanime della Commis sione, egli sia riuscito a trattarne alcuno con metodo scientifico. Per la più parte sono articoli occasionali e informativi, discorsi, prelezioni, ma invano si cercherebbe un'indagine compiuta con intento scientifico. Le nole psicologiche sui drammi dello Shakspeare, che del resto sono una ristampa di articoli pubblicati già parecchi anni addietro, per molti rispetti sono pregevoli, contenendo osservazioni giuste, e in ogni modo attestano l'amoroso studio che l'A. ha fatto dei drammi dello Shakspeare; ma, a giudizio unanime della Commissione, non sono titolo sufficiente per l'assegno del premio a cui il D'Alfonso aspira.E'un insegnante che ha una lunga eonorata carriera,e moltissime pubblicazioni. Ma queste che pu r contengono molti pregi, riguardano la psicologia, lalogica e la pedagogia Lastessaoperaches'intitola:«Saggiodifilosofiamo. rale »,è un saggio di psicologia applicata alla critica dell'antropologia criminale.«Il Sommario delle lezioni di filosofia generale (la filosofia come economia) in cui espone i concetti cardinali del suo pensiero, non tratta propriamente problemi morali,al cui studio non arreca contributo notevole l'opuscolo « Principi economici dell'Etica ». Formulati in questo modo i giudizi riassuntivi intorno ai quattordici candidati, e vagliati comparativamente ititoli di ciascuno, e tenuto conto infine dell'esito della prova orale, la Commissione procedette alla votazione definitiva, secondo le norme. La terna risultò così concepita in ordine alfabetico: Calò Giovanni con tre voti favorevoli e due contrari; Ferrari Giuseppe Michele, con tre voti favorevoli e due contrari; Orestano Francesco, a voti unanimi. Due voti riportò ilcandidato Zini. Essendosi quindi proceduto alla graduazione dei tre candidati designati per la terna, in ordine di merito, si ebbe il seguente risultato: 1°Orestano Francesco con voti quattro contro uno; 20 Ferrari Giuseppe Michele con voti tre contro due; 3°Calò Giovanni con voti tre contro due. Ilcandidato Calò ebbe un voto come primo nellaterna. La Commissione pertanto propone a V. E. di nominare il dott. Francesco Ore. stano professore straordinario di filosofia morale presso l'Università di Palermo. Roma,Il Consiglio Superiore di Pubblica Istruzione, esaminati gli atti del concorso,li riconobbe regolari e nell'adunanza dell'11 maggio 1907 deliberò di restituirli al Ministero senza vazioni.  La Commissione Osser.  -- quando un maggior numero di uomini si strinsero in rapporti fradi loro e furono animati dal *fine comune* (mutual goal) di *aiutarsi* (reciprocal helpfulness)  nel superare le difficoltà per la vita, onde sivideilgrande vantaggio del lavoro collettivo, questo fatto ebbe una grande importanza per quegli uomini e pei primordi dell'umanità in genere.Fu allora necessaria la dimora fissa in un luogo, ciò che dovea  LA STORIA DEL LINGUAGGIO.   diminuire loro idisagi e le incertezze del domani.Si preferi di dimorare presso le rive dei fiumi, dei laghi e del mare,che offrivano certi vantaggi. Risoluto il problema dell'esistenza nell'oggi, fu reso possibile il tentativo di produrre pel domani, allora si principio ad allevare il bestiume ed a coltivare la terra, prendendo insegnamento, come potevano, dalla natura. Allora fu reso maggiore il bisogno di *esprimersi* (express ourselves) e d'*intendersi* (comprehend ourselves) in un più largo ambito e nacque nell'uomo il desiderio di ben provvedere al suo avvenire, à quello della tribů o della piccola società ed a ricordare la vita passata per trarne insegnamento per l'avvenire. Fu reso ancora necessario il tradurre in segui materiali, e perció più memorabili, I rumori e le voci di *espressione*: prima origine della scrittura e della lettura. Ma,anche in questocaso,quando nonsitrattavadi do vereriprodurre l'immaginesensibiledelle cose,ma di u sare segni più o meno facili ad eseguire e da connettere alle parole, ciascuno dovette significare da principio in modo affattoarbitrarioedinintelligibile aglialtrile pro prie rappresentazioni; e solo posteriormente per mezzo di accordi alcuni *segni* (segnante/segnato) furono ricunosciuti da parecchi siccome *esprimenti* alcune date *rappresentazioni*. Si *stabilirono* (Grice – established procedure) cosi tanti segni (segnante, segnato) per quante erano le parole in uso. Però un cosiffatto costituirsi della società primitiva non avvenne per un aggruppamento solo, in un solo sito, di uomini e di famiglie. Dato invece il continuo dirimersi e disgregarsi degli uomini preistorici, bisogna ammettere che sia dovuto avvenire, isolatamente, in vari punti della superficie della terra; e per ciascuna piccola società dovettero stabilirsi speciali segni di scrittura e di lettura. Questi movimenti d’emigrazione e d'immigrazione, di conquiste, raggiunte con la violenza o con lacalma e l'astuzia, furono più frequenti nei primordi della storia; poichè in quei tempi non tutti i bisogni individuali e sociali dell'uomo potevano essere sollecitamente soddisfatti, quantunque fosse stato prepotente in lui il desiderio di soddisfarli. E poichè ogni gruppo sociale migrante, come avea un complesso di parole, cosi poteva avere un complesso di *segni* a quelle corrispondenti, avvenendo lo stesso per la società che subiva l'immigrazione o il dominio, con la mescolanza degli uomini dovette ancora avvenire una mescolanza di differenti linguaggi. In questo caso il gruppo sociale più potente dovea esercitare il suo dominio sul popolo nuovo arrivato o sul debole. Era necessario perciò che gl'imponesse anche la propria lingua, altrimenti non sarebbe stata possibile la comunicazione degli animi, prima condizione al vivere. Queste società col vivere a lungo in un sito andarono incontro ad alcuni disagi per lo sfruttamento del terreno non ancora coltivato secondo le leggi naturali o per la distruzione degli animali boschivi o infine perchè il loro sviluppo sociale dovea far loro avvertire nuovi bisogni o per dar nuove esplicazioni alle loro energie. Nacque perciò in loro o in parecchi di essi il bisogno di avvicinarsi ad altre società, sia per offrire a queste i prodotti particolari del loro suolo e della loro industria e rice verne altri; sia per offrire loro le proprie energie organiche dalle quali volevano trarre un profitto. L'avvicinamento e poi la reciproca compenetrazione degl’animi avvenne per via pacifica o per laviolenza e la forza, onde la società sopravvegnente sottomise a sè l'indigena. sociale. Ma si deve anche ammettere che il popolo vinto o il nuovo abbia in parte contribuito a modificare la lingua dell'altro, non potendosi ammettere che esso si fosse potuto così facilmente e presto privare della sua lingua abituale e l'altro non ne avesse subita alcuna modificazione. Cosi,come la parola (del greco parabola), anche altri segni dovettero subire molteplici metamorfosi in ragione del vario congregarsi e disgregarsi degli uomini, in ra gione dei vari influssi che quelle società esercitarono fra di loro. E quando in mezzo alla vita indeterminata delle società primitive sorse un popolo energico e forte che acquisto di sè una coscienza superiore a quella degli altri popoli che si sforzò di soggiogare e di dominare ed impose loro i suoi costumi, le sue credenze, fu quello il primo popolo veramente storico e allora la lingua di esso fu imposta ai vinti ed ammesso riconosciuto da questi. Ma un popolo che sappia esercitare il suo dominioè destinato a vivere e a perpetuarsi. È necessario allora che esso diventi qualche cosa di organico, che abbia un ordinamento interno, che abbia leggi ed istituzioni. Un popolo cosi costituito è costretto a conservare ed a coltivare la propria lingua, dando un valore determinato alle proprie parole; perchè solo cosi è possibile il governo che deve implicare la stabilità delle leggi e della istituzioni alle quali deve perció connettersi una lingua determinate e fissa, altrimenti quel popolo ricadrebbe, come, malgradociò, tende sempre a ricadere, allo stato primitivo di disgregamento. In un popolo che vive e dura la lingua  deve non  solo fissarsi ma le parole di cui consta debbono moltiplicarsi. E ciò non può non ammettersi se si considera che una società che vive non può non compiere,per mezzo degli individui che la costituiscono, un'attività psicologica scrutativa e conoscitiva sulla natura circostante. Questa che da principio apparisce come qualche cosa di molto semplice, come un tutto a sè, in ragione che più si esercita l'attività umana sopra di essa,apparisce distinta in una molteplicità di gradi o di oggetti i quali alla loro volta da prima appariscono indeterminati nelle molte proprietà di cui risultano e, progressivamente, appariscono sempre più determinati. Tale è stato il movimento della conoscenza dai primordi della storia sino ai nostri tempi e non si è peranco arrestato. Di nessun oggetto si può dire che esso sia stato cosi studiato ed analizzato in tutte le sue note,in tutti i suoi rapporti, che un ulteriore studio nulla di nuovo potrebbe darci. Quantunque questo processo di scrutazione e di conoscenza si sia eseguito sopra ogni cosa, pure non tutti i popoli hanno all'istesso modo fatte le loro conquiste in ogni ramo della realtà. Giacchè alcuni hanno scrutato un ramo ed hanno lasciato intatto un altro di essa e, conseguentemente, la lingua si è più arricchita in quella regione della natura che non in un'altra. Inoltre è avvenuto nella storia che, come gli uomini hanno fatto un progresso nel campo della conoscenza, si sono ingegnati di servirsi delle loro cognizioni per modificare la natura esteriore a loro profitto, producendo una molteplicità di beni e sovrapponendo cosi all'opera della natura una nuova creazione che è quella dell'arte. Tutte le istituzioni sociali sono creazioni dello spirito, Cosi quando un popolo emerge nell'arte della guerra e delle conquiste, come il popolo romano, deve anche creare una nomenclatura in cose militari e guerresche. Giacchè, anche in questo caso, ogni nuova veduta, ogni nuova invenzione, per quanto possa sembrare poco apprezzabile, pure deve essere contrassegnata dalla sua parola. Tale lingua non poteva riscontrarsi nei popoli che, nel movimento storico, precedettero quelli. Ed allora la nuova lingua potrà inprosieguo divenire patrimonio di nuovi popoli; perchè le conquiste di una nazione nel campo della conoscenza e dell'attività pratica tendono a divenire patrimonio ed eredità delle altre nazioni, Una nazione che emerga nel mondo pel suo dominio sul mare, ciò che non può avvenire senza la costruzione di vascelli di meravigliosa complicazione, come il popolo ligure, deve creare una nomenclatura marinaresca, sia per le varie parti e di vari apparecchi di cui consta un vascello, come per la loro funzione e per gli uomini che vi si addicono, nomenclatura che *prima della formazione di quei vascelli non avea ragion d'essere* e che ora deve essere accettata dalle altre nazioni che vogliono costruire  nelle quali se la natura interviene, essa non vi è come puramente tale, ma rianimata da un nuovo soffio. La storia ci fa vedere che ogni società civile ha prodotto qualche cosa di particolare in un ramo delle istituzioni sociali; o nelle leggi o nell'industria, nel commercio, nell'arte militare, nelle belle arti, nella religione, nella scienza. Corrispondentemente a questo progresso nell'attività intellettuale e pratica, nuove forme particolari debbono sorgere che contribuiscono ad accrescere la somma delle parole di un popolo. -- navi di quei tipi o forme, onde quelle parole genovese o ligure debbono in massima parte essere accettate come tali dalle altre nazioni. Anche una nuova e grande religione, come il culto di Marte, il dio della guerra dai romani, dovette formarsi una nuova lingua relativamente alle antiche religioni, quantunque alcune parole di queste siano state conservate nella nuova religione, all'istesso modo che qualche cosa del contenuto delle prime religioni si perpetua nel contenuto delle altre. E, poichè la religione, sopra tutto la religione istituta dal primo principe, Ottaviano, compe netra ed informa tutti gli aspetti della vita individuale e sociale, esercita la sua azione modificatrice nella lingua di tutte le istituzioni sociali. Nel culto romano di Marte troviamo parole che hanno un contenuto differente da quello che avevano nei popoli precedenti o che non ancora hanno accettato il Cristianesimo, quantunque le stesse parole possano prima essere state usate.E, poichè il Cristianesimo è stato il punto di partenza di un grande e lungo svolgimento artistico, teologico e filosofico, informato ai suoi principii, si è dovuto ancora produrre una lingua atta a rendere in tutti i loro elementi le nuove e grandi concezioni. Cosi l'attività pratica sociale e le istituzioni contribuiscono a fare arricchire la lingua latina dei romani. Ma infondo a questo progresso linguistico sociale dobbiamo trovare come principale fattore l'attività individuale di un Cicerone, di un Lucrezio, di un Varrone, di un Romolo! Come avviene delle nazioni che non fanno un passo innanzi nel progresso dell'umanità se non per l'opera dei grandi uomini che esse nondimeno hanno creato eeducato, avvieneanche pel progredire della lingua dialettale – o soziale – altre l’idioletto. Giacchè gl'individui in quanto vedono aspetti nuovi della natura o della vita s o  Però da principio essi hanno ricevuto dalla società in seno alla quale sono nati e cresciuti un linguaggio che era patrimonio comune a molti; essi l'hanno solamente arricchito in quel ramo di attività nella quale hanno espli cato la loro energia e,se questa riguarda immediatamente la vita del popolo,potranno le nuove parole divenir popolari, altrimenti rimarranno sempre chiuse nella cerchia dei pensatori e degli studiosi. Così la lingua filosofica di Cicerone non è popolare o ordinario o volgare come non è popolare o ordinaria o volgare la filosofia, mentre il linguaggio della religione e dell'arte potrà più fa cilmente scendere sino al popolo e divenire suo patrimonio; perchè esse al popolo sopra tutto s'indirizzano ed in esso debbono trovare alimento. -- Pertanto se la lingua dell'arte, della filosofia, della storia differiscono in qualche modo fra di loro, differisce anche la lingua di un cultore di quella data branca di attività umana da quello di un altro.Così il idoletto o idioma di Platone differisce da quello di Aristotele e di Hegel. La lingua, l’idioletto, o l’idioma di Omero differisce da quello di Aligheri, di Shakespeare e di Goethe. La lingua, l’idioletto o l’idioma di Tucidide e di Erodoto differisce da quello di Livio, di Tacito, di Machiavelli. E ciò perchè ciascuno scrittore impiega nella realtà che studia e perciò nella lingua che trova e contribuisce a creare, quella sua attività particolare che   ciale contribuiscono a formare la lingua ed imprimono parole nuove a nuovi fatti reali che si sono scoperti od escogitati. Ippocrate, che fu il fondatore della scienza medica nell'antichità, fu anche il creatore della lingua medica che si conserva in fondo alla compless lingua medica moderna. Cesare dette nuove determinazioni ed una più grande precisione alla lingua militare. lo spinge ad usare nuove parole o a dare un nuovo contenuto o segnato a vecchie parole o it nobilitarle o a degradarle. In questo modo la lingua di un popolo che, come ogni conquista dell'uomo e dell'umanità, tende a sminuire e a perdersi, è sostenuto dalla vita nazionale ed è migliorato dal progresso che essa fa in ogni ramo dell'atti vità umana. Il suo progresso va di pari passo col progresso dell'umanità,  all'istesso modo che il decadere di questa trae seco il decadere della lingua. Una nazione mantiene integralmente la sua lingua quando una sola vita ed un solo pensiero circolano in essa quando vi è, cioè, unità nazionale, onde tutti i cittadini hanno la stessa educazione, la stessa coltura, le stesse aspirazioni, volgono la loro attività allo stesso fine collettivo, partecipano intimamente agli avvenimenti nazionali, sono animati dello stesso spirito religioso, artistico. Quando lo spirito nazionale si affievolisce o cade, tendendo allora la lingua a degradarsi, la scuola apparisce come una sostituzione alla vita sociale, la quale può creare il culto della lingua nazionale, facendo interpretare e gustare i capilavori letterari, storici e politici che quella data nazione possiede. In questo caso la scuola può creare un movimento per un nuovo risorgimento nazionale e per mezzo di essa può la lingua durare e vivere anche quando le istituzioni che la formarono e la sostennero son decadute. Ma se in quei casi la scuola manca, tutto va in rovina.  Nella scuola va incluso anche il culto per l'arte, quando questa non rappresenti il puntosalientedella vita nazionale, come avvenne in Grecia la quale dovette la popolarità di quella meravigliosa lingua primieramente al  culto per Omero I cui canti, artistici e religiosi insieme, venivano imparati a memoria e ripetuti e cantati da tutto il popolo. La religione ha anche essa una grande potenza a mantenere in vita una lingua, quando ogni altra istituzione sia perita in una nazione; perchè essa, tendendo a difondere un complesso organico di principii e di massime a tutto un popolo, in modo che tutti gl'individui vengano illuminati e spinti all'azione da essa (e già la religione esercita la sua azione in tutti i fatti della vita, onde la lingua religiosa penetra in ogni cosa), deve tenere perciò vivo il culto per la lingua nazionale. Quando queste condizioni mancano la lingua sidiscioglie,soprat tutto se quella nazione continua ad essere ilcentro d'im migrazionedialtripopoli,come avvennedell' Impero Ro mano dopo la sua caduta,in cui, con la invasione dei barbari, quando la scuola mancava, nuovi linguaggi e nuovi costumi penetrarono che dovettero affrettare la disorganizzazione di quella lingua in tanti linguaggi particolari a varie provincie e luoghi, varianti fra di loro secondo che varie erano le nuove condizioni di ciascuno. Alcuni di questi particolari dialetti più tardi divennero ancheessinuovelingue,quandoapparvero ipoeti,gli oratori,glistorici,ilegislatori,ireligiosi, i quali, per adattarsi al popolo al qualedoveano volgerel'operaloro, dovetterobeneconoscereilnuovolinguaggio ed,usan dolo, gli accrescevano prestigio e destavano il culto per esso. In questo modo una grande lingua si discioglie e gli altri linguaggi che vengon fuori da quella dissoluzione possono di nuovo nobilitarsi e divenire storici. La lingua tedesca non sarebbe divenuta una nobile e bella lingua se Lutero,col movimento religioso che egli. Risulta da quel che si è detto che non è stato un solo il popolo storico, ma vari,quantunque però si debba a m mettere che questi si sieno manifestati in una regione piuttosto che in un'altra del mondo e che vi sieno stati p o poli storici di cui non sono rimaste vestigia;perchè la parte che essi hanno rappresentato per la storia dell'u manità in genere non è stata di grande importanza, onde non sono divenuti centro di attrazione di altri popoli e non hanno avuto perciò l'energia di sottometterne e di dominarne altri. All'istesso modo che ogni popolo ha una storia parti colare e comparisce e sparisce dal teatro del mondo e ad un popolo si succedono altri popoli ed ognuno ha la ere dità degli altri ed ha insieme aspirazioni, tendenze ed uno spirito proprio,si foggia ancora in modo particolare la propria lingua. E come il suono o la voce è l'espres sione dello stato interiore psichico indeterminato dell'a  fondo ed inizio, in cui dovea avere gran parte la cultura del popolo, non avesse destato un culto per essa.I grandi poeti tedeschi, gli storici, i filosofi, gli scienziati,animati dallo spirito della riforma,contribuirono poi a rendere importante nel mondo e nella storia quella lingua. L'a vere la Grecia conservata, dopo la sua caduta, la sua antica lingua la quale, tenuto conto dei mutamenti necessari che in essa son dovuti avvenire pel progresso del pensiero umano, si è continuata nella lingua greca moderna, si deve all'essere essa, dopo la sua caduta, stata quasi tagliata fuori dal grande movimento del mondo, il cui centro divenne ROMA, e al non essere più essa stata fatta segno alle invasioni e alle immigrazioni di altri popoli. Quando, dopo la rovina dell'impero romano,il pen   animale o dell'uomo, anche la lingua, nel complesso si stematico delle sue parole, è l'indice dello stato intellet tuale di un popolo,della sua storia,del grado dellasua eticità,della sua energia,delle sue aspirazioni economi che, artistiche, sociali, religiose, scientifiche. Sicchè, conosciuta la lingua di un popolo, ci è dato conoscere la sua vita naturale e spirituale; perchè nulla è nella vita naturale e spirituale degli uomini che non sia in qualche modo nel suo linguaggio. Diciamo in qualche modo,per «chè la lingua non è l'espressione perfetta della vita e del movimento della psiche. Le parole di cui il linguaggio consta sono sempre vi 'brazioni tradizionali,empiriche o convenzionali per espri mere alcune rappresentazioni o azioni o energie delle cose;'sono perciò involucri naturali ed estrinseci in cui si avvolge la coscienza e la mente per esprimere la realtà delle cose e degli avvenimenti; la cui ricchezza di par tivolari, d'intrecci e di energie è profonda ed inesauribile. Sono perciò una pallida immagine della realtà e della mente,quantunque siano però qualche cosa di superiore e di più perfetto relativamente al linguaggio indetermi nato.Equandovièdissdiotrarealtàelingua,dimodo.che quella apparisce alla mente nel suo progresso di complicazione,mentre la lingua si pietrifica, questa diviene un impaccio alla espressione dellamente che di continuo si muove e si svolge; ed è solo rompendo questo in volucro sensibile e dandogli un valore più nuovo e più altochesi possonointendereemanifestarelepiùascose pieghedel pensieroedella mente;giacchè per inten dere il pensiero non vi vuole che il pensiero.  Ad ogni modo la mente nella sua progressiva forma-. zione si sforza di creare il suo linguaggio; perchè il linguaggio serve pel pensiero;e foggia nuove parole o nuove combinazioni di parole o dà un nuovo significato alle vecchie parole. E perció la storia ci fa vedere che quelle nazioni che sono state ricche di pensiero,co inella sfera di attività pubblica e sociale,come nella s'era artistica, religiosa, scientifica, hanno avuto una lingua an corariccadiparole,dilocuzioni,diflessioniper espri mere i più fuggevoli moti della realtà e dello spirito; ed in quella nazione in cui la vita del pensiero è stata poverit o nascente si è ancora avuta una lingua povera. di parole e di uso. Ciascuno di questi gradi dell'evoluzione del linguaggio è l'espressione dello stato psichico e cerebrale di quei dati popoli, stato in parte ereditato in parte acquisito; dello stato degli organi vocali e dell'ambiente cosi na turale come etico che gli uomini si sono creato ed in cui sono vissuti.Queste tre seriedi fattori hanno la parte principale nella storiadel linguaggioe,secondo il grado. -- del loro accordo dello sviluppo di esso, costitu'scono la lingua peculiare di un dato popolo.  --  siero cristiano che porto seco una nuova civiltà,più pro fonda e più complessa della romana, a poco a poco si sostituiva alle vecchie istituzioni, LA LINGUA DEL LAZIO non potè essere più adatta ad esprimere il nuovo pensiero, sopra tutto dopo le invasioni barbariche; e se fu colti vata dalla Chiesa e dai dotti,questi per entrare in re lazione col popolo e partecipare perciò alla vita.nazio nale, dovettero usare il vulgare. Qualche cosa di analogo avviene nella storia dell'in   è psicologicamente molto simile agli animali, emette an.che esso dei suoni indeterminati. Ma in ragione che ac. quistano maggior sviluppo i sistemi del suo organismo e gli organi vocali e le sensazioni acquistano maggior pre cisione funzionale, il bambino si assimila gli elementi delle voci o delle parole che ode intorno a sè,assimila zione che è resa facile da predisponenti condizioni ere ditarie, le riferisce alle cose con cui è in rapporto, le fissa nella memoria, si sforza di pronunciarle,riuscendovi male da principio;ma dopo unalunga esercitazione,ar riva a pronunziare bene ed a mano a mano non solo al cuni monosillabi, ma anche parole più o meno semplici. Nella storia del fanciullo si ha insomma come riepilogo quello che è avvenuto nella lunga storia dell'umanità; cosi il bambino da poco nato non ha altro modo per esprimere isuoi stati interni che ilgrido,ilpianto,che sono poco più che un moto riflesso, una forte sensazione che si estrinseca per le vie del respiro.  - dividuo. Come il grido indefinibile che l'animale emette •è l'espressione dello stato indeterminato dei sentimenti che lo agitano e dello stato informe delle rappresenta zionichelomuovono,come dellapovertàdeicentridelsuo:sistema nervoso, cosi il bambino che nei suoi primi anni 53 Abbiamo usato promiscuamente la parola linguaggio e lingua; m a è bene dichiarare che la lingua implica m a g giori determinazioni che non il linguaggio che è qualche cosa di più generale ed inderminato relativamente ad essa. La linguaè un linguaggio divenutoclassicoostorico,con nesso cioè ad una vita nazionale, per cui ogni parola ha una storia e le cui origini si possono seguire anche in altri linguaggi che sono presupposti della lingua che si   Dopo che le parole son divenute storiche, sono state cioè connesse ad un segno materiale,possono continuare, sopra tutto in tempi in cui le lingue si formano, ad a vere una storia circa alla loro struttura. Ed anzi tutto pare non si debba ammettere che, quando LA LINGUA PREISTORICA abbia principiato a divenire STORICA, si fossero tra dotte in segni materiali tutte le parole parlate. Invece si deve aminettere che queste dovettero essere moltissime neila lorogradazionedipronunziadaindividuoad iudiv'duo, da tribà a tribù, per la ragione detta precedentemente. E quando si volle tradurre in segni una parola la quale aveva immense gradazion,essi furono appunto quasi una. somma di una molteplicitii di parole parlate le quali se: poterono fissarsi in segni non poterono però definitivamente fissarsi in un tipo di vibrazione fonica ad esse corrispon denti,quantunque pero questo fosse stato il fine dell'in venzione dei segni materiali e della scrittur a e questo. fosse anch e il fine dell'inseegnamento della lettura. Da ció segue che le parole parlate furono moltissime relativamente alle impresse. Stabilitasi la forma della parola parlata e della i m pressa non si tenne più alcuna ricordanza della deriva-. zione primitiva di essa nè si pensó più a modellare le: parole sulle forme delle vibrazioni naturali. Dovette per  - studia. Si può dire ‘lingua’ della natura, ‘lingua’ degli animali, ‘lingua’ dei bambini, ma non lingua senza quotazioni. L'uomo che per morbi perde la facoltà di parlare che prima posse deva in modo perfetto, non *parla* più la lingua, *ha* però una lingua. La condotta dell'uomo si può chiamare una ‘lingua’ in quanto manifesta per mezzo di una. serie di atti tutto un concetto interiore della vita.] ció necessariamente ammettersi che i primi popoli storici dovetterò averə ciascuno una nomenclatura e corrispondenti forme d'impressione e di scrittura e,nel loro con tinuo movimento di espansione e di concentrazione, tutto dovette mutare fino a che un popolo non raggiunse la sua stabilità. Ma anche allora la stabilità della lingua non fu definitiva. Abbiamo detto che la parola è qualcosa di molto più complesso del semplice suono o della semplice voce o esclamazione o della semplice imitazione di suoni o rumori naturali, quantunque derivi da essi -- è già un suono o più suoni e rumori connessi che complessivamente e sprimono una rappresentazione formata od un'azione od un concetto.Vi sono perciò parole di pure voci o suoni, altre di puri rumori ed altre infine risultanti degli uni e degli altri. Studiando l'acquisizione della loquela nel l'individuo vedremo come egli dall'attività più semplice passa alla più complessa, cosa che,come avviene ora nel l'individuo, si veritica anche nella storia dell'umanità in genere.Dovettero perciò iprimi uomini da principio pronunziareparolerisultantidipurevociodipuri ru mori; anche allora, o più tardi poterono pronunziarsi monosillabi,che sono l'unità di un rumore edi una voce. Il mono-sillabo è perció la parola più conforme alla possibiliti tisiologica e psicologica di esecuzione fonica dei popoli primitivi e rappresenta la vibrazione primitiva della cosa,trasformata dall'attività fisiologica e psicolo gica degli uomini.Le lingue dei primi popolifurono per cid monosillabiche.Ed a questo proposito possiamo noi indagare se le lingue primitive fossero più o meno ric che di parole delle lingue moderne o in generale delle lingue più complesse. E bisogna dire di si se si pensa che, quantunquepei primi popoli storici il mondo esteriore fosse qualche cosa di molto semplice, pure, nel ri produrre gli oggetti essi teneano conto solo della vibra zione la quale era varia d'intensità nelle cose ed era ancora più variamente ripetuta od imitata dagli uomini di una popolazione e dalle varie popolazioni. Onde varie parole doveano primitivamente indicare la stessa cosa. Anche perché, potendo una stessa cosa dare vibrazioni differenti, essa veniva indicata con quella tale vibrazione della quale più s'interessava il soggetto. Cosi il cavallo poteva essere indicato pel suo nitrire, per lo scalpitare, pel m ovimento della criniera, pel rumore che fa nei masticare il cibo, per la velocità nella corsa, ecc. cosa assumeva. In tal caso la parola monozillabica primitiva si dice  -- Per questa ragione le parole dovettero molto più delle cose esse represe in considerazione. Ma in tempi più progrediti abbiamo una lingua più complessa, in cui cioè le parola o la maggior parte di esse sono risultanti di più sillabe; e in questo caso le parole monosillabiche non spariscono. E questa le lingue poli-sillabiche o la agglutinante o l’articolata. Perchè in esse la sillaba si collegano o si articolano con la sillaba. La parola poli-sillabica potè divenir tale o perchè mono-sillabi di una lingua si vide che corrispondevano alla stessa cosa, di modo che, pronunziandole insieme due o più esigenze venivano conciliate. O perchè una sola sillaba assume una voce nuova secondo che la nuovi movimenti; perchè le cose assumono ancora nuove energie se l'attività scrutatrice del soggetto si esercita.su di esse.   radice la quale non cessa di essere parola, perchè esprime una rappresentazione, per quanto indeterminata, ma è considerata come una parola elementare la quale è come il ceppo comune ed originario di altre parole. Essa, entrando in rapporto con altre parole più o meno semplici o pure assumendo varie flessioni, si complica in modo da esprimere una rappresentazione più complessa o un concetto. Se la lingua mono-sillabica, esprimendo rappresentazioni indeterminate, e la LINGUA PRIMITIVA, la lingua agglutinante o articolata segnano un *progresso* relativamente alle precedenti. Perchè in essa, una parola poli-sillabe e un complesso di al meno due parole mono-sillabe e perció si parlano da quei popoli nei quali è più sviluppata l'attivitàr appresentativa, onde un solo mono-sillabo non sempre è sufficiente ad esprimere una rappresentazione molto complessa. La lingua del Lazio, la maggior parte delle cui parole hanno flessioni, in cui la “radice” e il “tema” assumono varie forme e una lingua flettente. E quella che han raggiunto il maggior sviluppo possibile e puo costituire l'espressione di una tela organica di concetti e di un pensiero dalle più ricche gradazioni e di sfumature appena apprezzabili. In tale lingua, il nome sostantivo o aggetivo ed il verbo assumono flessioni (declinazione e congiugazione) e mediante tali forme si esprimono i vari rapporti delle cose e l'avvenimento dell'azione nei vari gradi di tempo e di condizione in rapporto con l'avvenimento di altre azioni. Una lingua flettente e perció *posteriore* anche alla lingua agglutinante, quantunque non bisogna credere che, quando esse appariscano, le parolea gglutinanti e monosiilabiche non esistano più. Esse sono le ultime apparse nella storia  - Con lo sviluppo della lingua del Lazio va di pari passo lo sviluppo del mondo logico. Giacchè sono due aspettidiuna stessa cosa.. Il pensiero e la sua manifestazione sensibile. Non si può ben comprendere l'importanza della lingua del Lazio senza vedere l'importanza dell'energia logica che è inclusa in esso, la quale sottratta, l'attività della loquela rimarrebbe un fenomeno puramente fisico e *fisiologico* ma non umano, o pure sa rebbe l'espressione di uno stato interno indeterminato.  delle lingue, e sono state parlate e scritte da popoli ricchi di pensiero e di azione. Se dunque le lingue ultime dei popoli civili, che noi crediamo le più perfette, perchè ricche di flessioni (onde tra queste bisogna comprendere la latina o lingua del popolo del Lazio) ha avuto una così lunga e avventurosa istoria ed alla loro formazione hanno, piùo meno immediatamente, con corso tanti e cosi disparati elementi e lingue di minore perfezione e lingue anche complesse e ciascuna lingua, per quanto immediata sia, risulta di elementi molteplicissiini ed accidentalissimi (per quanto vi sia qualche cosa di costante),comparisce chiaro quanto debba essese difficile, fare una compiuta anatomia della lingua del Lazio ed assegnare a ciascuno elenento di essa, a ciascuna parola di cui essa risulta, il suo vero valore e la sua vera istoria. Bello stesso; Sonno e sogni. E. Trevisini, Milano-Roma scolastico. E. Trevisini,Milano-Roma. Ilparlare, il leggere e lo scrivere nei bambini, saggio di 00 1 Saggi di pedagogia:(ilproblema dell'educazionemorale. Le donne dei Vangeli. Successori Le Monnier, Firenze. La rappresentazione psicologica è l'immagine che l'oggetto della percezione lascia di sè nel campo co sciente quando è sottratto all'azione stimolante che esso può esercitare sugli organi dei serisi del soggetto. Questa rappresentazione è tanto più indeterminata ed imprecisa per quanto più l'oggetto che l'à prodotta risulta di un numero grande di qualità e di note,per quanto più breve è stato il tempo che essa ha agito da stimolo sul soggetto, per quanto meno sviluppata è l'attività percettiva cosciente del soggetto e per quanto meno questa si è esercitata su di esso. Non vi è oggetto del mondo esterioreilquale,dopo l'osservazione volgare e dopo lo studio scientifico, non risulti di una molteplicità di note e di qualità ed in cui queste qualità non abbiano un determinato grado d'intensità; ma queste note non appariscono determi nate e distinte fra di loro innanzi al soggetto quando    l'oggetto gli si presenta d'innanzi per laprima volta o quando per la prima volta l'anima principia ad es sere attività cosciente;allora l'oggetto apparisce come un tutto indistinto,anzi apparisce come una nota sola. Cosi appariscono il mondo esteriore e gli oggetti di esso al bambino nel primo sbocciare della sua coscienza e cosi devono essere apparsi all'uopo primitivo che non ha avuto una potente attività scrutatrice; ed in questa stessa posizione è l'uomo moderno dirimpetto a quelle cose più o meno complicate che gli si parano d'innanzi per la prima volta e che non ha avuto il tempo di scrutare. In ragione che l'attività cosciente si esercita sempre più intensamente sul mondo este riore gli oggetti a mano a mano appariscono come distinti gli uni dagli altri ed in ciascuno oggetto la nota uniforme e primitiva che lo designava si pre senta progressivamente moltiplicata in più note dif ferenti.  a mano ad affievolirsi, a divenire sempre più imprecise, a perdere una parte delle note che le costituiscono e lentanente a sparire quando non vengano rianimate, mediante nuove percezioni degli stessi oggetti che le han prodotte, nella coscienza; 10 Se l'attività del soggetto si esercitasse sulla rap presentazione dell'oggetto già percepito piuttosto che sull'oggetto ripetutamente percepito, non vi sarebbe progresso nella scrutazione dell'oggetto, anzi vi sa rebbe regresso;perchè èlegge psicologica infallibile che le rappresentazioni degli oggetti già percepiti tendono a mano   mentre la ripetuta azione del soggetto sull'oggetto fa sempre scoprire di questo nuovi aspetti e nuove re lazioni;ed a questa condizione la rappresentazione dell'oggetto sempre più si arricchisce e si compie e risponde più precisamente all'oggetto reale. Si può fare a meno dal percepire più oltre l'og getto e considerare solo la rappresentazione in sè stessa quando esso è stato cosi studiato ed analizzato e scrutato che un ulteriore studio non aggiungerebbe nulla di nuovo allarappresentazione diesso,laquale però, perchè si mantenga integra, deve spesso ripro. dursi nel campo della coscienza.E ciò può sopra tutto avvenire quando l'oggetto che si studia risulta di poche qualità e determinazioni; ma quando l'oggetto è ricchissimo di struttura, di organi e di funzioni, quando presenta un vasto e ricco sistema di fatti e di fenomeni, riesce quasi impossibile rappresentarlo compintamente, senza che alcuni aspetti di esso non sfuggano alla coscienza o non spariscano da essa.In questo caso il soggetto, per quanti sforzi faccia ad apprendere e conservare la rappresentazione compiuta · dell'oggetto,non può fare a meno dal tornare a per cepire spesse volte l'oggetto del suo studio per sem pre meglio comprenderlo e conservarlo. Sicché,parlando qui della rappresentazione psico logica, non s'intende dire che quella rappresentazione la quale rimane nel soggetto dopo la ripetuta azione di esso sull'oggetto: ciò che è la rappresentazione dell'oggetto percepitu. Ed è questa la condizione pilt importante perchè la rappresentazione psicologica possa divenire obbietto della logica, quantunque non sia primitivamente tale. La rappresentazione della sensazione pura o lo stimolo della sensazione non può mai divenire obbietto della logica; perchè la sensa zione non consta che di certi stati dell'anima, che sa distinguere e che anzi attribuisce a sė stessa, senza riferirli allo stimolo: e ciò per quegli animali che per tutta la loro vita rimangono nella cerchia della sensazione pura.Ma nell'animale e nel l'uomo che rimane solo temporaneamente nella cerchia della pura sensazione dove stimolo ed animo si con fondono e che oltrepassa questa cerchia per divenire percezione e coscienza che è dualità tra l'anima che ora diviene soggetto e lo stimolo che diviene oggetto, ciò che prima ha determinato la sensazione (lo stimolo) può divenire oggettodellapercezioneedellacoscienza e poi della logica; anzi non vi è oggetto della logica che non sia oggetto della coscienza. Onde segue che la materia prima del mondo logico è fornita dall'oggetto della percezione che è l'oggetto della coscienza, senza del quale non potrebbe darsi attività logica di sorta; perchè l'attività logica del soggetto si deve esercitare sempre sopra un oggetto, come il soggetto non diviene attività logica senza la sua relazione coll'oggetto. Il soggetto cosi diviene at tività logica, non nasce tale e la sua attività dere esercitarsi o sull'oggetto naturale esteriore o sulla rappresentazione interiore di esso,  essa non 12   In una zona logica cosi ampia non va compreso solamente l'uomo superiore con la sua potente ener gia logica, nè solamente l'uomo medio con la sua or   pura Però il passaggio nel soggetto dalla pura sensa zione alla logica non è rappresentato da una linea cosi precisa che si possa dire: Di là dalla linea vi è tutto il mondo delle sensazioni, di qua vi è tutto il mondo logico compiutamente formato; giacchè, come avviene in ogni sfera che passa in un'altra sfera, quella che passa non è completamente esclusa come tale da quella in cui passa. E non bisogna credere che, superato una volta il confine, questo sia supe rato per sempre; perchè la vita della o dellerappresentazionidisensazionipuòtornarecome puramente tale anche quando una volta si sia pene trati nel campo logico.Inoltre è difficile per lo stu dioso tracciare questa linea in cui l'anima cessa di essere meramente sensitiva e fa il primo ingresso nel campo logico. Come ogni grado dell'esistenza,la logica occupa una determinata zona, chiusa fra due determinati limiti, di cui l'uno rappresenta il minimo della logicità,tanto chedilàdaquestolimitenonvièattivitàlogicane obbietto logico e l'altro rappresenta l'entità logica nel suo più alto grado.Dal primo all'ultimo limite il mondo logico compie un processo che implica una progressiva perfezione,per cui, partendo dal fatto puramente sensitivo, si allontana sempre più da esso per divenire entità logica compiuta. sensazione   dinaria potenzialità logica; ma ancora l'uomo volgare, il fanciullo, gli animali superiori ed alcune specie degli animali inferiori che arrivano a percepire.Però se, come avviene in ogni sfera dell'esistenza che ha una serie di gradazioni, la sfera logica presenta un sistema cosi ricco di gradazioni le quali passano l'una nell'altra in modo appena apprezzabile, tanto che è quasi difficile distinguerle, pure si può dire che tutte queste gradazioni vanno comprese in tre grandi sot tozone le quali possono chiamarsi la logica meccanica o estrinseca, la logica chimica o intima e la logica organica. La prima zona,rappresentandoleformelogichepiù elementari, se può stare di per sè come pura logica meccanica, si ritrova però anche nelle due zone sus seguenti; e cosi la sfera chimica si ritrova ancora nella sfera organica che è la più compiuta. In generale si può dire che l'oggetto della perce zione ovvero la rappresentazione di esso principia a mostrare il primo movimento logico allorché cessa di apparire innanzi al soggetto come risultante di una sola qualità naturale,ma apparisce come distinto in due o più qualità connesse in qualsiasi modo fra di loro ed allora si ha la forma primitiva della rappre sentazionelogica.Una qualitàsolaedincomunicabile ad altre qualità e zon trasformabile non fornisce al cuna materia logica.E se un fatto naturale,secondo che è più scrutato dal soggetto, comparisce sempre più ricco di qualità e si vede la ragione intima per cui le varie qualità convengono all'oggetto,è chiaro che esso diventa progressivamente obbietto di una entità logica superiore. Ma può avvenire ancora che,dopo uno studio più profondo e comprensivo fatto sull'oggetto,questo ap paia innanzi al soggetto come intimamente connesso ad altri fatti esteriori ad esso, tanto che senza di questi non potrebbe essere quello che è. E,se vi sono oggetti le cui note ed i cui rapporti sono immobili e fissi, ve ne sono altri in cui le qualità che li costi tuiscono ed i loro molteplici rapporti con enti fuori di essi si trasformano e cangiano. È chiaro allora che l'entità logica dell'oggetto si accresce e si complica. Può avvenire ancora che l'oggetto che ora è studiato comparisca come l'ultimo risultato di una storia spe ciale propria o di una storia di altri enti simili o dis simili da esso; onde l'importanza delle note attuali che lo costituiscono si accresce e mostra cosi una n a tura assai più elevata.La rappresentazionelogicaha cosi una considerevole latitudine; perchè principia quando il soggetto vede almeno due note nell'oggetto e si conserva ancora quando si è scoperto in esso un numero grandissimo di qualità. Si è detto e ripetuto che è il linguaggio che segna nell'uomo ilprimo apparire delle attivitàlogiche.Ma non si considera che la parola linguaggio, avendo un largo contenuto esignificandoqualsiasimanifestazione dei fatti interni psichici,siano sensitivi che rappresenta tivi ed emotivi,ha una larga applicazione cosi nel campo animale come nel campo umano;onde non si vede con determinazione la necessità del coesistere solamente nell'uomo del linguaggio e della funzione logica,si deve però ammettere che la lingua che è un linguaggio formato e divenuto classico (onde vi è differenza tra linguaelinguaggio),quandoèbeneusata dal sog getto uomo,può far vedere in questo le più grandi energie logiche,all'istesso modo che una lingua im perfetta o poveramente usata può manifestare nell'uomo rudimentali qualità logiche. Però non si può concedere che deva necessariamente intervenire la lingua per potersi trovare nella sfera logica e perpoterecompierefunzionilogiche.Individui nati muti o sordo-muti possono compiere con grande coerenza logica i loro atti, all'istesso modo che la lo quela non sempre rivela una perfetta energia logica, come avviene per disordini nervosi e mentali o per ritardato sviluppo di tutte le attività psichiche. Al l'incontro ciò che è indispensabile perchè il soggetto compia le più elementari funzioni logiche è l'oggetto della percezione e la rappresentazione molteplice del l'immagine di esso, come è manifestato dagli atti e dalla condotta che gli animali e l'uomo non ancora parlante hanno verso quegli oggetti sui quali si eser cita la loro attività e dal giovarsi che l'animale fa dialcunequalitàdeglioggetti.E larappresentazione molteplice dell'immagine degli oggetti è anzitutto necessaria ancora per l'uomo logico che parla,la r a p presentazione e l'esecuzione della parola udita, par  16   lata e scritta non essendo che un'altra specie di r a p presentazioni specialideglistessioggetti sopraggiunta alla prima;per cui illavoro psicologico elogicodel l'uomo è assai più complicato di quello dell'animale, anche perchè, per la sua grande energia psichica, l'uomo moltiplica le rappresentazioni relativamente semplici che delle cose hanno gli animali,onde il lin guaggio diventa nell'uomo assai più intricato e com plesso. Segue da ciò che il linguaggio umano è una nuova aggiunta che si fa alla rappresentazione pri mitiva dell'immagine delle cose; ma rimane sempre questa l'obbietto delle attività logiche cosi animali come umane. Questo è ancora dimostrato dalla patologia del lin guaggio umano;poichè è statoconstatatoche,quando l'uomo perde la memoria della immagine percepita delle cose e conserva la ricordanza della parola udita, parlata o scritta,che ad essa corrispondono, la sua lingua è divenuta un caos; perchè, essendo perduto il nesso tra la cosa e la sua parola udita e parlata, l'attività logica non si può esercitare sulle parole, perché non si può esercitare sulle cose, come allora è manifestato dalla sconnessione e dalla incoerenza del linguaggio.  Del giudizio e dei suoi elementi. Quando il soggetto distingue per la prima volta un dualismo nell'oggetto, cioè da una parte quello che, prima di questo atto psichico,costituiva tutto l'og getto, indistinto nelle sue qualità, e dall'altra quello che scorge ora in esso mediante l'atto di distinzione e vede che questo è connesso con quello in modo che senza di esso non sarebbe,si fa quel che si dice un giudizio. Sicché per avere un giudizio occorrono due fatti distinti fra di loro ed un atto psicologico che li connetta.Però bisogna considerarequestitreelementi di cui consta il giudizio come dati tutti e tre insieme nello stesso atto. Dei due fatti che possono dirsi anche termini,perchè significati con parole, il primo, quello che prima del l'atto psicologico faceva una sola cosa con la qualità che ora si distingue da esso e che meglio osservato e scrutato può mostrare altre qualità inerenti a sé,onde può divenire obbietto di altri giudizii,si chiama sog getto;la nota che gli si attribuisce sidice aggettivo   od attributo; l'atto psicologico col quale gli si attri buisce è il verbo. Bisogna bene intendersi sul significato della parola soggetto che si usa nel giadizio. In generale soggetto significa ente attivo, ente operoso. Si chiama soggetto l'anima cosciente e distinguente sè dall'oggetto e nel l'istesso tempo l'anima che esercita la sua attività sul mondo esteriore che considera come suo oggetto. E poichè dall'animale inferiore all'uomoedall'uomoemi nente per pensiero e per azione questa attività cono scitiva ed operativa sempre più si afferma e cresce, è cosi che la parola soggetto,quantunque possa ap plicarsi indistintamente alla serie degli enti animali, pure compete in sommo grado all'uomo ed all'uomo che abbia la più grande energia nel campo del pen siero e dell'azione. Intesa cosi la soggettività, scendendo dall'animale alla pianta, sembra non essere più il caso di dovere applicare la parola soggetto;ma,poichè la pianta è un organismo dutato di attività la quale consiste nel compiere una serie di funzioni interiori per le quali è continuamente messa in rapporto coll'ambiente este riore ad esso (aria,luce,terreno)e manifesta, quan tunque in modo assai più imperfetto di quel che si compia nell'animale, per mezzo di una serie di feno meni esteriori, i suoi fatti interiori ed il suo orga nismo compie una storia, pure si può concedere il nome di soggetto alla pianta la quale cosi manifesta anche essa una certa energia.  19   Ma igrammatici ed ilogici hanno anche dato il nome di soggetto non solo ad ogni opera dell'uomo, che può considerarsi come un tutto armonico in sé, avente un determinato fine,ma ad ognipartediessa, ad ogni ente della natura inferiore ed inorganica o adunframmentodiessa,adogni minerale,adogni fatto ineccanico o chimico e financo hanno consi derato come soggetto le qualità e gli attributi stessi delle cose.Però l'uso che in questo caso i gram matici hanno fatto della parola soggetto può essere giustificato,considerando che ciascuno degli enti in feriori agli enti organici e psichici è sempre un com plesso, anche quando sia semplice parte, di qnalità o proprietà concentrate e connesse insieme; onde, rigo rosamente parlando, non si può negare ad essi una certa energia senza la quale le proprietà non potreb bero esistere in essi; possiamo chiamare questa energia, meccanica, fisica o chimica; ma è sempre una energia E non si può non concedere che le qualità stesse che si considerano come attributi delle cose possano essere considerate ancora esse come soggetti,quando si riconosce che ciascuna qualità,essendo inerente a molti soggetti i quali hanno altre proprietà differenti, contribuisce in modo differente all'energia di ciascuno di essi. Cosi quando si parla della gravità che è una proprietà dei corpi, si vede che essa si manifesta di versamente secondo che si tratta di an corpo gassoso o di una pietra o di un liquido o di un pendolo o del sistema planetario.  Quando ilsoggettodelgiudizioèconsiderato o stu diato dal soggetto psichico allora può anche chiamarsi oggetto; perchè, quantunque attivo in sè, è sempre qualche cosa di passivo relativamente al soggetto psi chicoilqualeesercitalasua azionescrutatricesudiesso.  Il secondo termine del giudizio, cioè quella qualità o quella determinazione che, quantunque insita nel soggetto o estranea ma conveniente ad esso,per mezzo dell'atto psicologico gli si riconosce come connessa, è stata chiamata dai logici attributo o predicato.Rap presentando il soggetto un gruppo di proprietà dif ferenti, suscettivo di ulteriori giudizii,e l'attributo una sola qualità o determinazione,è chiaro che questo può essere applicabile a più soggetti, non essendo ciascun soggetto costituito di attributi assolutamente speciali a sé; ma in mezzo ai tanti attributi comuni a molti soggetti ha solo qualcuno che conviene esclu sivamente a lui. Dei molti attributi che costituiscono un soggetto una parte sono sensibili o percettibili per mezzo degli organi dei sensi. Ogni oggetto del mondo esteriore è fornito di peso,ha una grandezza variabile, una re sistenza, è situato ad una certa distanza dallo spet tatore, ha una forma fissa o cangiante,un colore,una composizione mineialogica, chimica o organica, può presentare una struttura determinata, uno stato ter mico, può vibrare in modo differente nella intimità clelle sue molecole, può esercitare un'azione più o meno irritante o elettrica o offensiva sull'organismo   del soggetto,può dare speciali odori,può essere gn. stato per mezzo della lingua. Ma vi sono altri attri buti i quali non sono percepiti per mezzo degli or gani dei sensi ma vengono compresi mediante un atto della mente, quantunque le attività percettive possano contribuire o avere contribuito alla comprensione di queste nuove specie di attributi. Sono tutte quelle qualità che riguardano la provenienza od il fine del soggetto,isuoirapporticon altrioggetti,lasuaazione favorevole o nociva su di essi o viceversa. Inoltre il soggetto acquista attributi non semplicemente sensi bili quando desta in noi stati interiori piacevoli o do lorosi,ricordanze,speranze etimori,ma qualche cosa di più che sensibile, poichè in quel caso viene scossa l'intimità della nostra vita interiore.  22 Quantunque a primo aspetto sembri che ogni at tributo sia una qualità semplice e non suddivisibile in altre qualità,benchè una qualità possa averevari gradi d'intensità, ciò che non la fa considerare come qualche cosa di fisso, pure può una qualità essere il risultato di un sistema di altre condizioni o attributi. Quando diciamo che l'animale è sensibile,la nota della sensibilità pare che sia una qualità sola; ma, se si pensa che per essere sensibile l'animale deve im plicare una serie di organi e di funzioni e di condi zioni esteriori all'organismo, si è costretti ad ammet tere che quest'attributo è come la risultante di fatti molto complessi, non è dunque un attributo semplice. Se diciamo che Giulio ė ragionevole quest'attributo è  Il soggetto e l'attributo non potrebbero costituire il giudizio senza l'atto psicologico col quale l'uno ė connesso con l'altro; senza questo atto i due termini non avrebbero fra di loro altro legame fuori quello accidentale della coesistenza e della successione, che è un legame psicologico, non logico. Rigorosamente parlando,è quest'atto che costituisce ilverogiudizio; però senza i ter.nini esso non potrebbe essere, non sarebbe che una mera possibilità. Questo atto che è espresso dal verbo è quella scrutazione che l'anima attiva fa tra i due termini, per la quale si riconosce che l'uno è connesso indissolubilmente,intimamente e necessariamente con l'altro.Questo nesso intimo che lega i due termini è un fatto obbiettivo delle cose, non è una pura produzione dell'atóività psicologica, però non si pno pervenire ad esso senza l'attività picologica. È questa un'alta attività a cui l'anima umana per viene;perché per mezzo di essa può internarsi nella natura dell'obbietto, vederne il movimento, compren derlo ed assimilarselo. Sicché non si arriva al fatto logico senza l'attività psicologica e senza di questa l'energia logica rimarrebbe nella inconsapevolezza delle cose naturali, rimarrebbe per sempre muta ed inco municabile ad alcuno, Per questo vgni atto giudica  di una natura cosi complessa che deve presupporre un ricco sistema di condizioni perchè possa darsi. L'attributo ragionevole perciò non implica un fatto cosi semplice come l'attributo pesante.   tivo non è un atto meramente psicologico,ma è anche obbiettivo, il suo contenuto cioè corrisponde al conte nuto delle cose;ed in quest'atto si uniscono e com penetrano l'energia psichica e l'energia delle cose. Con l'atto giudicativo, subbiettivo insieme ed ob biettivo, si entra nel vero campo logico e si può dire che è sul giudizio che poggia tutto l'organismo logico e che è il giudizio, considerato nel suo sistematico svolgimento,che costituisce la parte più importante della logica e che il primo prodursi della più rudi mentale attività giudicativa dell'uomo o dell'animale segna ilprimo apparire del mondo logico. In generale si può dire che sempre che ilsozgetto principia a giudicare l'oggetto della percezione o la  24- Però'seil giudizio come necessaria convenienza dell'attributo al soggetto è la forma più perfetta alla quale il soggetto pensante non arriva se non dopo una lunga educazione,vi sono molte forme di giudizio inferiori ad essa, che possono considerarsi come tanti tentativi che l'anima fa per penetrare nell'intimità delle cose ed impadronirsene. Ciò conferma il fatto che non vi è un limite netto tra la psicologia e la logica e che se vi è una parte della psicologia quella inferiore, in cui non vi è nulla di logico,e che se vi è un'altra parte della psicologia, quella ultima e più raffinata, in cui ogni energia o la più parte delle energie sono logiche, vi è una larga zona psicologica in cui si manifestano le prime tendenze logiche ed in cui il lavoro logico è eseguito allo stato bruto.   rappresentazione di esso,allora questa cessadiessere rappresentazione psicologica e diviene rappresenta zione logica; e non vi è alcuna rappresentazione logica la quale non sia insieme, implicitamente od esplicitamente, giudizio. E, se l'infimo gra lo della rappresentazione logica deve implicare un solo giudizio almeno nella sua forma primitiva e bruta,un'alta rap presentazione logica si ha quando essa implica un gran numero di giudizii. Delle tre parti in cui si può considerare divisa la logica (la meccanica, la chimica e l'organica), la rappresentazione logica cosi intesa esaurisce le due prime parti. Se l'anima non può principiare ad eseguire funzioni logiche dall'infimo al massimo grado se non quando è divenuta percettiva,perchè allora solamente distingue fra di loro i fatti del mondo esteriore e distingue al cune proprietà di ciascun fatto,giacchè senza la mol teplicità dell'obbietto non può eseguirsi funzione lo gica di sorta, nondimeno non in tutto quello che per cepisce od in tutto quello che si rappresenta nella coscienza interiore vi è energia logica o, quando vi è, non vi è all'istesso grado in tutto. L'anima vivente o va incontro ad una varietà di fatti e steriorioquestilesipresentano a caso ovvero a s siste ad un inovimento di rappresentazioni o fa l'una cosa e l'altra insieme ed intercorrentemente. Questi fatti si succedono o coesistono fra di loro e sono per cepiti dal soggetto nella loro successione o nella loro coesistenza. Ogni fatto deve perciò connettersi ad un altro fatto; e questa connessione può essere di due specie,o casuale estrinseca,ovvero intima,vera,con veniente. Bisogna però distinguere la casualità e la estrin- sechezza,tra ifatti psichici,che rimane sempre tale pel soggetto, per quanto questo possa elevarsi alla più alta attività psichica,dalla casualità e dalla estrin sechezza che apparisce tale al soggetto solo tempo raneamente nel primo periodo della sua storia,quando non ancora è giunto al grado di potere compiere un lavoro psicologico cosi intenso da sapere vedere una connessione intima tra due fatti; onde questa gli si presenta estrinseca senza esser davvero tale e, con un ulteriore sviluppo dell'attività soggettiva,sparisce la estrinsechezza e comparisce la intimità. no Non si può non ammettere però che questa estrin sechezza vera è in certo modo relativa al grado di sviluppo dell'attività del soggetto psichico;perchè,a vendo ciascun soggetto nel mondo es'errore un campo  Nel caso della estrinsechezza vera, per quanto in oggetto si succeda ad altri od apparisca al soggetto in concomitanza con altri oggetti, anche con un ac curato studio, non si saprà mai trovare una ragione del succedersi di un avvenimento ad un altro o della coesistenza di un fatto con un altro, di una qualità con un oggetto;giacchè ciascuno oggetto apparisce come assolutamente indipendente dirimpetto all'altro, perchè non lo modifica in alcun modo nė ne ė dificato.   speciale nel quale si esercita la sua attività, onde é messo frequentemeate in rapporto di coscienza solo con un determinato aggruppamento di oggetti, egli può vedere meno di estrinsechezza tra questi oggetti che non tra quelli estranei alla sua azione.In ragione che il soggetto allarga sempre più il suo campo og gettivo e lo scruta con maggiore intensità l'estrinse chezza si allontana sempre.E quando l'obbietto del l'attività soggettiva è tutto l'universo allora il filo sofo,guardando le cose dal più alto punto di vista che è quello dell'unità,non vede più estrinsechezza di sorta tra le cose;perchè ogni cosa vi apparisce come organo di un vasto sistema ed è necessariamente connessa a tutti i gradi di esso. La intimità,laveritàelaconvenienzatradueog getti (e perciò tra due rappresentazioni) o tra un og getto ed una sua proprietà si ha allora quando l'uno non può essere in alcun modo indipendente dall'altro per cui sempre che è dato l'uno è dato l'altro o, se prima è dato l'uno, dopo verrà necessariamente dato l'altro. Ora questa intimità ha vari gradi che possiamo riepilogare in tre zone logiche principali,presentando ciascuna zona immense gradazioni. La prima zona, quella più elementare in cui si de signano le prime linee del mondo logico, di là dalla quale vi è il puro mondo degli oggetti delle percezioni e delle loro rappresentazioni scomposte e sconnesse, ha questo di particolare che in essa alcuni oggetti o rappresentazioni sono, è vero, legate, da nessi intimi, ma questa intimità è al suo minimo grado,rasenta quasi la estrinsechezza;perchè della loro intimità non si vede altro che il semplice succedersi costantemente diuna rappresentazioneadun'altraodilsemplicecoe sistere di una rappresentazione con un'altra.E questa conquista il soggetto può avere fatto non solo per pro pria esperienza ma anche per tradizione o per quel che si è detto consenso degli uomini. Qui non si vede alcuna ragione della convenienza delle due rappre sentazioni,alla qualeilsoggettorimaneperfettamente estraneo; e tutta l'attività del soggetto si esaurisce nel vedere questo puro costante coesistere e succe dersi delle cose e perciò il giudizio che esso compie è semplicemente meccanico, non fa che constatare quanto avviene nel mondo naturale. Così l'attività del soggetto qui è meccanica e delle cose non afferra che il semplice meccanismo,l'energia più elementare della natura, il muoversi delle cose per la loro pura gravità o per la loro forza od il muoversi per forze estranee ad esse ma che agiscono su di esse. In questa zona logica va compresa anche quella elementare attività giudicatrice mediante la quale si scopre o constata qualche proprietà o qualità che in teressa gli organi sensibili e percettivi del soggetto, come il sole è luminoso; è un'attività giudicativa molto elementare.A questa zona logica possono per venire gli animali superiori e quegli animali inferiori i quali si elevano alla percezione, quantunque gli a nimal¡ non possono esprimere con paroletaligiudizii,    poichè bastano certi atti o movimenti che l'animale esegue adimostrarecheessohacompiutoungiudizio. Ma questa attività meccanica logica non solamente rappresenta la prima epoca dell'energia logica umana e l'energia dialcuni animali,ma anche quando l'uomo è atto ad elevarsi ad una attività logica superiore compie ordinariamente giudizii logici meccanici. È questa la posizione dell'uomo incolto. Di tutti gli a v venimenti naturali ed umani ai quali egli assiste non può vedere altra intimità che quella meccanica ed estrinseca; alla ragione intima dei fatti egli non perviene. La seconda zona che si dice chimica e che sta più in alto alla precedente ed alla quale non si perviene se non per mezzo della precedente rappresenta quel campo della logica in cui il soggetto può compiere un più complesso lavoro di penetrazione tra gli og getti, onde quei nessi intimi che prima vedeva in modo quasi estrinseco sono visti davvero nella loro intimità. La parola chimica sembra bene adoperata;perchè cor risponde a quello stato della energia della materia in cui gli elementi relativamente semplici si compe netrano ed uniscono insieme per formare un corpo di una più elevata natura ed in cui corpi di complessa natura si scindono nei loro elementi sem plici;ondelachimicadelcampo logico corrisponde a quel grado delle attività psicologiche per le quali il soggetto afferra la convenienza vera di un oggetto. e delle sue proprietà e vede le intime ragioni per le  29 nuovo   La zona chimica logica si evolve cosi dalla mec canica non solo, ma questa coesiste nella chimica; perchè, anche quando vediamo il rapporto chimico di duerappresentazioni,vièsempreillato meccanico, l'incontro cioè di due oggetti o di un oggetto ed una qualità,quantunque questo meccanismo sia assorbito e trasformato dal chimismo. Avviene nel campo lo gico quel che avviene nel campo naturale in cui il chimismo implica ilmeccanismo,quantunque non sia semplicemente tale,essendoilmeccanismotrasformato ed elevato ad un più alto grado di esistenza nel chi mismo il quale senza di esso non potrebbe darsi. Però non bisogna credere che, quando l'uomo è ar rivato alla zona chimica della logica tutti i suoi atti logici siano giudizii chimici;perchè questi,implicando una grande difficoltàacompiersi,nonpossonofarsida ciascun uomo che in un campo speciale che ha scelto come materia del suo studio e delle sue ricerche; il resto della sua attività logica è rappresentato sempre dal meccanismo e questo può intercorrere nel chimi smo logico od alternarsi ad esso.  quali il soggetto non può fare a meno di quellapro prietà e questa deve sempre necessariamente andare congiuntaalsoggettoinquellecondizioni.É questo, si può dire, il campo della conoscenza vera e della scienza dove il soggetto compie le più elevate forme di giudizio,risultato di una lunga scrutazione psico logica nei rapporti delle cose. Il giudizio nella sua for.na più elevata, implicando quell'atto del soggetto cosciente mediante il quale si riconosce che ad un oggetto del mondo naturale o ad un ente spirituale che qui diviene soggetto logico con viene intimamente e necessariamente un dato at tributo, esprime un rapporto tra i due termini che nelle stesse condizioni,deve essere tale costantemente, sempre vero, oggi e sempre, qui ed ovunque. Per questa ragione il giudizio non va soggetto a m u t a zioni per tempo e perciò si esprime sempre com'è,in tempo presente.Ogni dubbio,'ogni incertezza circa alla concordanza perfetta dell'attributo col soggetto nondarebbeilverogiudizio;seperòilsoggetto ri conosce l'incertezza nel suo atto giudicativo e cerca di uscirne per addurre la verità, sforzandosi di eser. citare tutto il suo potere percettivo nella scrutazione dei termini e nel loro rapporto, allora l'incertezza è unbene,perchèciconducealverogiudizio.Per la stessa ragione, quando in un giudizio interviene il de  - Considerazioni sul giudizio.   siderio o la speranza od iltimore,non siavrà ilvero giudizio.  - I logici classici si sono molto occupati della nega zione nei giudizii e li hanno perciò distinti in affer mativi o positivi e negativi: affermativi sono stati detti quei giudizii in cui si riconosce che l'attributo conviene al soggetto, negativi quelli in cui questa convenienza non si ha.Ma evidentemente ilogicinon hanno ammesso che è sull'oggetto della percezione o della sua rappresentazione che primitivamente deve volgere ogni giudizio e che bisogna guardarsi bene dal giudicare prima di avere studiato e scrutato bene l'oggetto.Se questo sifacesse,sivedrebbelainutilità e la vacuità di una gran parte di qnesti giudizii ne gativi,come è dimostrato anche dal fatto che alcuni giudizii negativi possono tradursi in positivi.Quando si ammette che un dato corpo non è solido, implici tamente si ammette che è liquido o gassoso.Per que sta ragione i veri giudizii devono essere tutti positivi; perchè, rigorosamente parlando, lo scienziato deve conoscere quello che una cosa è non già quello che non è. Quando si tratta che il soggetto può avere uno di due attributi che sono fra di loro contrari e che se gli convieneuno di essi gli sconviene neces sariamente l'altro, si dice che allora si possono for mulare due giudizii,l'uno negativo e l'altro positivo. Ma è facile osservare che, fatto il giudizio positivo, è perfettamente inutile formulare il negativo ilquale con parole diverse,per mezzo della negazione,ripete la positività del primo giudizio. Vi sono però dei casi in cui pare che il giudizio negativo dovrebbe aver luogo. Cosi noi sappiamo che una data pianta deve fiorire; se la guardiamo in un'e poca in cui il fiore non è apparso,dobbiamo dire che la pianta non è fiorita; ma d'altra parte è in es.a la possibilità di dovere fiorire; poichè in tutti i fatti che implicano uno svolgimento od una storia non tutte le qualità che devono costituirli possono essere date belle e compiute dal bel principio; perchè ciò escluderebbe la storia; a ciò pensando, la pura nega. tività di questo giudizio è spuntato. Che se poi guar diamo la pianta non fiorita come ci si presenta per cettivamente, allora non si ha alcuna ragione a par lare di negazione. Sappiamo inoltre che la sensibilità deve essere un attributo necessario all'uomo; ma permalattiedelsi stema nervoso questa funzione può perdersi, onde il direalloraquest'uomonon sensibile,potrebbepa iere un giudizio negativo incontestabile; ma si tra scura di considerare che quani'o l'uomo è divenuto insensibile non è pixi l'uomo compiuto, ma l'uomo che è nel declivio della dissoluzione e della morte e che, dicendo che non è sensibile, si riconosce che la sua  Molti, parlando e scrivendo, anche di cose scienti fiche, fanno grande uso di questi giudizii negativi; ma è questa una consuetudine di linguaggio chequalche volta fa anche vedere la poca sicurezza e la povertà delle nostre cognizioni; perchè il difficilc non sta nel dire quel che una cosa non è,ma qnelcheèdavvero.   attribuzione sarebbe la sensibilità e che questa si è perduta solo per condizioni morbose. Nondimeno se il giudizio negativo è possibile esso può solo avere laragionediessereinquesticasididissoluzione edi sfacelo degli organismi e delleistituzioni,quantunque anche allora,stando alla semplice percezione, si po trebbe semplicemente giudicare quel che l'oggetto pre senta di positivo; m a allora il soggetto che pensa non può fare a meno dal paragonare la primitiva gran dezza o la perfezione tipica di una data cosa con la dissoluzione e la rovina presente, onde quel che è ora è la negazione di quel che era prima. Può avvenire lo stesso quando si tratta di paragonare varioggetti fra di loro. Il giudizio nella sua forma classica è rappresentato dal soggetto, dal presente del verbo essere e dall'at tributo. M a il soggetto per tenere avvinto a sè l'at tributo deve esercitare una certa energia che indica il vero nesso tra il soggetto ed il suo attributo; ora il giudizio formulato in quel modo non fa vedere tutta questa attività del soggetto,ne fa vedere,si può dire, la minima parte. All'incontro sono i verbi attributivi i quali possono risolversi nel verbo essere e nell'at tributo, che manifestano la vera energia, la vera at tualità del soggetto, che costituisce il giudizio nella sua realtà vivente; perchè fanno vedere il soggetto che si manifesta nel suo attributo e fanno vedere l'at tributo vivificato dal soggetto.Per questa ragione il giudizio espresso nella sua forma classica trova più ragione di essere applicato nelle sfere inferiori mec. caniche della natura,quelle che manifestano una energia più povera, relativamente alla energia animale ed umana erelativamente all'altaenergiadella vita dello spirito. Qui tutte le attività, tutte le funzioni che si esercitano e che si esprimono con verbo sono gin dizii viventi. Se diciamo questo corpo é rotondo l'a' tributo, quantunque inerente al soggetto, pure è con siderato come qualche cosa d'indifferente ad esso.Qui si tratta del giudizio nella sua primitiva forma. Ma se diciamo questa pianta fiorisce facciamo un giudizio della seconda forma, perchè qui vediamo il soggetto che crea il suo attributo e vive in esso Ammesso il concetto del giudizio qui dato, risulta evidente che ogni giudizio implica una sintesi ed una analisi insieme e nello stesso atto. L'analisi vi dà la dualità dei termini, siano nello stesso soggetto che tra due oggetti; e l'analisi è un morrento necessario al giudizio; poichè senza il dualismo giudizio non v i sarebbe; m a d'altra parte cesserebbe l'atto stesso del  e per esso. Più elevata e spirituale è la natura del soggetto e più è ricco di attività speciali e più verbi glisipos sono attribuire e più giudizii compie, svolgendosi e vivendo.Più ilsoggetto appartiene alle sfere della materia bruta e meno verbi gli si possono attribuire più le sue qualità possono essere espresse con la forma classica del giudizio; ma ciò non toglie che anche giudizii di questa fatta possano eseguirsi sopra alcuni soggetti di elevata natura.   giudizio se questo non fosse insieme sintetico; cés sando la sintesi cesserebbe anche l'analisi e viceversa. Non vi sono perciò giudiziipuramente analiticinè pu ramente sintetici;per conseguenzailsoggettovivente compie continuamente un'analisi ed una sintesi delle sue qualità e lo scomparire dell'una o dell'altra ap porta la morte di esso. Quando diciamo giudizio diciamo ancora ragione, pensiero. Però come il giudizio consiste più nell'atto psicologico,corrispondente al nesso intimo che vi è tra due rappresentazioni, che nella distinzione dei ter miui, quantunque i termini siano necessari al giudizio e senza di essi giudizio non vi sarebbe,lo stesso deve dirsi del pensiero e della ragione. Se non che queste due parole, considerate come semplice giudizio,dicono molto meno di quel che dicono quando sono adoperate nel senso assoluto del loro contenuto. Quando diciamo il pensiero,la ragione si vuole intendere il sistema di tutti i nessi possibili di tutte le rappresentazioni delle cose della natura e dello spirito insieme, sog gettivamente ed oggettivamente considerate. Quando poi sono applicate come semplice giudizio equivalgono ad un pensiero,una ragione. Per alcuni logici la parola proposizione esprime la stessa cosa chela parola giudizio eperòsiadoperano promiscuamente queste due parole. Ma se vi sono verbi attributivi che possono ridursi a giudizio,ve ne sono però altri i quali non vi si possono ridurre, perchè non corrispondono pienamente a quel che siè detto dovere essere un giudizio. Quando conosciamo  Si comprende però che gli avvenimenti storici pos sono essere guardati dal punto di vista estrinseco e quasi accidentale come fanno gli storici che riprodu cono i fatti semplicemente nel modo come sono suc cessi;ma questistessifattipossono ancheesserestudiati scientificamente e filosoficamente, considerati cioè in quel che essi hanno di intimo,di necessario e di co stante; allora, entrando quei fatti nel dominio della scienza,possono divenire obbietto di giudizii, le proprietà e le speciali energie dei fatti naturali o psichiciosociali,ecc.allora possiamo faregiudizii; perchè si hanno avvenimenti e fatti che sono sempre gli stessi nelle stesse condizioni e si manifestano co stantemente ad un modo; ma se narriamo le gesta di Annibale o di Alessandro, ciascun verbo che siamo costretti ad operare non può essere il verbo di un giudizio;perchè esprime un avvenimento singolo che non è stato prodotto che da quel tale individuo in quelle sue particolari condizioni ed in quelle condi zioni di tempo,di luogo,in quello stato speciale di un popolo,avvenimento che non può più riprodursi e perciò il giudizio non si ha quando si deve espri mere uii fenomeno che non può ripetersi frequente mente,che è avvenuto una volta e non piùequando non si vede alcuna necessità del suo ritorno. In questo caso,più cheillinguaggioscientificoelogico,abbiamo illinguaggio storico,ed allora,più che ilgiudiziosi ha la proposizione:cosi è spiccata la differenza tra il giudizio e la proposizione:questo esprime gli avve nimenti storici, quello i nessi logici. Il soggetto che giudica é determinato dall'atto stesso del giudizio alla vitapratica.Ogni essere vivente,dal l'animale infimo all'uomo, si sforza, come è noto, una condotta assai elevata, presupponendo ciascun suo atto una molteplicità di giudizii;onde si vede l'intimo rapporto che passa tra una grande intellettualità e la vita pratica. ancora  38 sottomettere ai suoi bisogni la natura esteriore, ed ogni atto,ogni movimento che l'animale esegue,cer cando di fuggire il malessere e di addurre a sè il benessere,presuppone una distinzione negli oggetti concuièinrapporto.La formicachevaincercadel frumento, riconoscendo in questo la proprietà di n u trire,non solo compie un lavorogiudcativo ma anche un atto col quale manifesta tale lavoro psichico.In tutti i pericoli che gli animali schivano come in tutti i movimenti che fanno per prepararsi il nido o per andare in cerca del cibo e per conservarsi,sipossono riconoscere gli atti che presuppongono ilgiudizio,per quanto questo possa essere classificato tra i giudizii meccanici. I psicologi in questo caso parlano d'istinto; ina è sempre l'istinto nel giudizio. In questo senso gli atti degli animali equivalgono ad un linguaggio che esprime alcuni nessi logici,quantunque sia il lin guaggioin unaformabrutaemonca.Intuttigliatti che gli uomini fanno per raggiungere i loro fini e la loro felicità si può riconoscere la conseguenza di un giudizio.E si comprende come l'uomo eminente che ha una perfetta conoscenza delle cose possa avere di Il soggetto può compiere sull'oggetto un numero grande di giudizii secondo che pixi educato e svilup pato è ilsuo potere di scrutazione e secondo che più complicata è la natura dell'oggetto. Cosi, vivendo e studiando, la rappresentazione psicologica primitiva che il soggetto ha delle cose si arricchisce di attributi e di qualità ovvero sirisolvein attributiiquali erano primitivamente confusi in quel che dicevamo oggetto e che costituivano tutto l'oggetto.Nondimeno durante e dopo questo processo di scrutazione l'oggetto rimane sempre come qualche cosa in cui alcune qualità sono distinte ed altre indistinte, potendo le qualità indi stinte ricomparire subito distinte secondo che l'attività giudicatrice si rivolge su di esse ed allora le distinte ritornano indistinte. Si verifica anche qui un'applicazione speciale di quella legge psicologica secondo la quale in una data unità di tempo il soggetto non può compiere che un lavoro limitato e,come non può scrutare che succes.  per la prima volta sipresentino allo studio del soggetto; in questi casi è la legge generale che pre domina. Dopo che si è compiuto sopra un oggetto un n u mero considerevole di giudizii non si deve credere che allora l'oggetto sia conosciuto pienamente.Più chela conoscenza del soggetto, si ha allora la conoscenza di un mucchio di note coesistenti;perchè,se il giu dizio è un'alta funzione psicologica e lozica, non è però la più alta la quale si ha invece quando tutte le note di cui l'oggetto risulta appariscono in esso come organizzate, cioè si ha un organismo di giu  40 sivamente un dato numero di oggetti e di rappresen tazioni,per la stessa ragione non può compiere in una unità di tempo e nello stesso atto psichico che un numero limitato di giudizii, quantunque succes sivamente possano essere compiuti sopra un oggetto tuttiigiudiziidicuipuò esseresuscettivo.Perònon si può sconoscere che le abitudini della mente possono arrivare ad un'altezza cosi meravigliosa:da conside rare come compiuti una serie di giudizii che non si haavutoiltempodicompierepacatamenteodicom pierli in un breve atto: è il meccanismo che penetra nelle più elevate regioni psichiche ed in cui si sem plifica, per mezzo della ripetizione, il processo giu dicativo primario che è più lungo e difficile. Ma in questi casi si deve trattare di compiere sempre giu dizii già compiuti altre volte o negli stessi oggetti od in oggetti differenti già percepiti, non in oggetti che   dizii. In generale con la parola conoscenza si vuol dire non solo l'apprensione e la ritenzione delle pro prietà dell'oggetto e degli oggetti in connessione fra diloro,ma ancorailoronessiconlealtreproprietà dello stesso oggetto e con le proprietà delle altre cose, a differenza del pensare e delragionareincuisitiene pii conto dei nessi delle cose. Quando l'oggetto è un mucchio di proprietà, queste aderiscono a quel centro comune che primitivamente costituiva tutto l'oggetto indistinto in sè stesso;e,se si ha qui il grande vantaggio che ciascuna nota e per mezzo dell'atto giudicativo connessa all'oggetto, non si vede la ragione del coesistere di tutte queste qualità nell'oggetto e non sivede alcuna ragione del l'incontro delle note fra di loro.La parola mescolanin che usano i naturalisti quando vogliono indicare il coesistereel'essere diparecchi corpi incontattol'uno dell'altro senza perdere la loro natura corrisponde a questa sfera dell'obbietto logico in cui si possono c o m piere molti giudizii sullo stesso obbietto, ma senza che l'uno eserciti una preponderanza sull'altro,senza che l'uno abbia un valore superiore all'altro,e perciò ciascun giudizio ha un valore per sè; e considerati tutti fra di loro costituiscono una mescolanza. Quandoilsoggettocominciaa scorgerenellarap presentazione la proprietà più appariscente,quella sopra tutto per la quale l'oggetto ha costantemente un valore speciale ed un uso,ed intorno a questa nota costantemente si aggruppano, con nessi pi'i o  meno 3. - +1   intimi, altre note si principia a scorgere nell'oggettu i primi rudimenti del sistema il quale può darsi non solamente tra le note dello stesso oggetto, ma anche tra più oggetti, secondo il campo su cui si esercita l'attività soggettiva. Intendere logicamente il sistema significa fissarlo nel suo minimum primitivo ed in una forma più com plicata e seguirlo a mano a mano sinoallaforma piiz completa in cui cessa di essere puro sistema e di venta sistema funzionante, sistema di sistemi ed ganismo vivo.  un si OL 42 L'intendimento del sistema è stata una delle pii grandi conquiste che ha fatto il pensiero filosofico in generale ed il pensiero logico in particolare. Questa parola che primitivamente ha significato la molte plicità scomposta delle cose è stata ulteriormente usata ad indicare la molteplicità ordinata di esse. È la filosofia di Hegel che ha compreso il sis'ema nella sua forma più alta e come non era mai stato fatto prima. Considerando Hegel l'universo come stema, si è molto addentrato nella comprensione delle cose. E, come il sistema occupa una gran parte cosi nel mondo della natura come in quello dello spirito, perchè interviene in ogni grado di essi e senza il si stema nessuna cosa potrebbe intendersi, cosi costi tuisce anche una sfera del mondo logico, tanto che senza di esso non potrebbe intendersi il concetto che rappresenta in sommo grado l'energia logica. Il sistema nella sua forma primitiva trova il suo   In questa forma primitiva il sistema apparisee, anche al soggetto superiore, nel regno minerale ed inorganico od anche in tutto ciò che l'uomo, serven dosi di materiali bruti ed amorfi, foggia pei suoi bi sogni; poichè qui si hanno sempre forme inferiori di sistema.Qui le qualità connesse al sistema sono co stanti finchè dura l'oggetto; non hanno una energia superiore a quella meccanica, fisica o del chimismo inferiore od inorganico. Il sistema solare presenta una forma più perfetta di sistema;perchè esso presenta una molteplicità,un centro ed una periferia e gli uni di cui risulta sono di visi fra di loro e dal centro per mezzo di grandi tratti di spazio e sono uniti al centro del sistema  riscontro nel regno minerale; il sistema della seconda forma trova il suo riscontro nel regno della vita; ma anche qui si riproduce,quantunque trasformato, il sistema della prima maniera. La forma più rudi mentale di sistema si ha quando ilsoggetto aggruppa intimamente intorno alla nota più importante dell'og getto altre note secondarie od intorno ad un oggetto principale altri oggetti di secondaria importanza fra i quali passino rapporti più o meno estrinseci. È questo il sistema quale apparisce alla soggettività volgare la quale non sa considerare l'oggetto diver samente anche quando ha dinanzi a sè un sistema nella sua più alta forma quale può apparire allo scien ziato. per legge di gravitazione. Per quanto si osservi qui in la   alto grado di sistema, perchè ciascuno degli elementi non è autonomo,ma connesso al centro,pure serva tra le parti di cui il sistema risulta una grande estrinsechezza. Per trovare una più elevata forma di sistema dob biamo entrare nel regno della vita e nei tessuti che co stituiscono l'organismo animale o vegetale;ma anche qui il sistema si presenta in una grande e meravi gliosa graduazione; perchè se in questa sfera gli ele menti che devono intervenire non sono,  si os non sono, come nelle formeprecedenti,esseriinorganici,ma entidotatidi vita e di una più o meno grande energia interiore e non sono divisi fra di loro per mezzo di distanzepiù o meno grandi,ma sono in qualche modo in contatto fradiloro,ilcentroperò che deve implicare ilsi stema non è sempre determinato, anzi non vi è nei sistemi dei tessuti vegetali o nei tessuti di un'impor tanza inferiore degli animali,comeperesempio iltes sutograssosoedilconnettivale.Per questa ragione ė più perfetto quel sistema in cui gli elementi istolo gici che sono dotati di vita sono non solamente con nessi od in contatto fra di loroma anche unitiinuna comunione funzionale e che vi sia un centro ove con vergano le attività degli elementi e che l'energia fun zionale dal centro s'irradii anche verso la periferia. E, come vi è una sola funzione, quantunque assai multiforme, che circola pel centro e per le parti che, per contrapporle al centro, possiamo chiamare peri feria, vi deve anche essere la stessa identità di co   stituzione chimica tra gli elementi istologici di cui risulta il sistema. I biologi distinguono il sistena dall'apparecchio il qnale consiste in un complesso di organi di varia strut tura,ordinatiinmodo fradiloroda compiere'una: funzione di complessa natura.Cosisidice apparecchio respiratorio, uditivo, visivo, ecc. Inteso l'apparecchio in questo senso, ha una importanza logica intermedia tra l'organo ed il sisteina, superiore a quello, infe riore a questo. Ma un siste.na della vita non ha che una funzione speciale e non autonoma; perchè è connesso agli altri sisteini e non può compiere questa funzione senza l'in tervento e l'aiuto di altri sistemi. È qui che l'auto nomia del sistema principia a venir meno; perchè cia. scun sistema non fa che compiere una funzione spe ciale in un sisteina che co.nprende tutti i sistemi della vita, ciò che s'indica col no.ne di organismo. Anche dicendo sistema di sistemi si dice sempre meno di quel che dice la parola organismu, la quale include una grande intimità e reciprocità funzionale tra i singoli sistemi e tra gli elementi istologici di cui risulta il sistema. Da questo punto di vistasesideve riconoscere che il sistema circolatorio sanguigno sia un grande si stema si deve però ammettere che non vi è nell'orga nismo un sistema più compiuto del nervoso, sia per la elevatezza della funzione che per la meravigliosa struttura e per la ricchezza e bellezza delle forme che esso presenta.   Nel sistema una parte può venire sottratta senza cheilrestodies30vadainrovina;maun organo qualunque dell'organismo non può essere tolto senza che l'organismo non perda una nota fondamentale della vita, la quale induce una diminuzione generale della perfezione organica e funzionale e se l'organo ha una importanza grande nell'organismo adduce la caduta o la morte di esso. La parola fisiologismo adoperata nel senso moderno (non nel senso antico e greco secondo il quale signi fica semplice attività naturale) contrassegna la nota più saliente dell'organismo che è la vita animale.Però il fisiologismo non è una sfera naturale autonoma ed indipendente dalle altre zone inferiori naturali;in esso  -46 Sipuò dire che solamente in questo secolo,pei grandi progressi che si sono fatti negli studi sulla vita in senso largo, si è potuta comprendere la grande importanza dell'organismo. Quando si dice che l'uni verso èun organismosivuole indicare un fattodiuna natura assai più complessa ed elevata che quando si dice che esso è un sistema. Quegli elementi che nel sistema diciamo parti nell'organismo diventano organi iqualisono,èvero,parti,manonconnessialresto più o meno estrinsecamente, come avviene nel sistema ordinario; e sono elementi attivi e funzionanti pel resto dell'organismo tanto che contribuiscono grandemente a tutta l'energia dell'organismo e viceversa, questo dà ad essi un alto significato che, fuori dell'organismo, non avrebbero.   Ilchimismo,quantunquerappresenti una seriedi fatti inferiori a ciò che costituisceilfisiologismo,pure costituisce parte integrante di questo, cosi nel senso scientifico come nelsenso logico,tanto che senzachi mismo non potrebbe darsi fisiologismo; poichè non vi è funzione fisiologica la quale non implichi una serie di complicazioni e riduzioni chimiche. E, poichè non vi è fatto chimico che non implichi nello stesso tempo fatti meccanici e fisici; il fisismo èparte integrale del chimismo,cosi scientificamente come logicamente,e per conseguenza anche dell'organismo. Ed il fisismo si trova nel fisiologismo non solo come assorbito dal chimismo, ma anche come indipendente da questo. Cosi nell'organismo, oltre ai fatti chimici si trovano fatti anche puramente fisici, quantunque questi si tro vino in complicazione coi fatti chimici e fisiologici; ma però il soggetto può fissarlied isolarli dagli aitri fatti e considerarli come puramente fisici. Avviene cosi nell'organismo logico quel che avviene nella natura in generale in cui le zone inferiori sono ciascuna autonoma e per sè e nell'istesso tempo in al troeper altro.La meccanica e la fisica rappresentano invece sono implicate il chimismo ed il meccanismo ofisismo (adoperando anche questa parola nel senso moderno non nel senso antico secondo il quale vorrebb e indicare semplicemente il fatto naturale. Si sa che la fisica moderna studia solamente alcuni fatti della n a tura, come la gravità, il calorico, la dinamica, l'elet tricità,la luce,la vibrazione dei corpi,ecc.).   alcuni gradi della natura dove si manifestano in tutto il loro potere.Ed anche la chimica è una zona per sé della natura,ma frattanto in questa devono ne cessariamente intervenire le sfere precedenti, mecca nica e fisica, altrimenti non potrebbe sussistere come chimica.E similmente i fatti più complessi della na tura quali sono la vita vegetale ed animale non po trebbero sussistere senza le due zone precedenti; giac chè non vi è fenomeno vegetale ed animale senza che v'intervengano fatti fisici e chimici. Ifisiologi,inquestiultimitempi,avendo riscon trato fatti meccanici nell'organismo ed una certa so miglianza dell'organismo al meccanismo, si sono stu diati a tracciare le differenze che passano tra l'orga nismo ed il meccanismo ed hanno conchiuso che l'organismo non è un meccanismo. Per quanto giuste sieno state le osservazioni fatte, pure avrebbero rag. giunta una più vera conoscenza dell'organismo se avessero detto che esso implica ilmeccanismo, quan tunque il meccanismo che si trova nell'organismo non sia come quello che si trova nei congegni meccanici, ma trasformatoecomplicatodaifattidellavita;ondeé sempre una sfera dell'organismo.  18 Nel campo psicologico si raggiunge la sfera della perfezione quando l'anima èdivenuta organismo degli stati suoi, di sè stessa e dell'oggetto, ciò che è la mente; e non si raggiunge questo punto senza essere passati pel meccanismo psichico prima e pel chimismo poi;enondimeno queste due formediattivitàpsichica   esistono sempre nella mente come due sfere subordi nateefondamentali per essa,tanto che quando l'or ganismo mentale comincia a decadere, permanentemente o temporaneamente, ricomparisce il chimismo prima e poi gradatamente il meccanismo come forme autonome psichiche,e,quandoperunaincompiuta educazione psicologica,l'uomo non raggiunge la mente, si arre sta al chimismo. Il meccanismo psichico pure contras segna la vita animale e l'ultimo stadio di decadimento della mente già compiuta. La parola organismo trova più propriamentelasua applicazione, che non la parola sistema, quando si vuole significare in modo saliente quel che sia la fa miglia,lasocietàoloStato.La molteplicitàdegliin dividui funzionanti di cui una società risulta,l'essere questi individui animati da un fine comune che è lo spiritonazionaleecheècomeilcentrodelle individua lità,la varietà di classi,di funzioni, di aspirazioni, di attività in cui si possono scorgere tanti fini secon dari o aspetti speciali e necessari del fine comune,onde non tutti gl'individui partecipano all'istesso modo al raggiungimento di questo fine, ilpermanere dello spi rito nazionale mentre gl'individui che vivono in esso e per esso muoiono erinascono, fa diuno stato un or ganismo assai più complesso e di un'assai più elevata natura che non l'organismo animale. E più lo stato ė organico in questo senso e più è perfetto. Si può dire anzi che,dal primo costituirsi dello stato sino allo stato come può essere ai giorni nostri, si nota una  tendenza a raggiungere la forma perfetta della orga nicità. Quando si parla di organismo, sia che si tratti del l'organismo vegetale od animale, che dell'organismo eticosihad'innanziunaltro fattopiù complessochene rende più difficile la conoscenza ed è che l'organismo non può essere conosciuto in sè stesso se non è messo in relazione con tutto ciò che lo circonda. La pianta non può essere conosciuta se non si conoscono le sue relazioni con l'aria,col terreno,col calorico, ecc.La vita animale non sipuò conoscere pienamente se non si vedono irapporti che la legano al cibo che rappre senta il mondo esteriore, all'atmosfera, al clima, al luogo.Sisa che l'animaleassorbisce qualche cosadal mondo esteriore e lo rende ad esso per altri modi e per altre vie.Anche gli organismi etici non possono sussistere senza un ambiente non solo naturale, ma anche etico. Uno stato non può esistere senza il suo territorio,senza un determinatoclima,senzaiprodotti delsuolo,come non pno aver una vita spirituale propria senza assimilarsi il pensiero degli altri stati, senza essere in rapporto con essi e senza esercitare un'azione sugli altri stati. Il soggetto, passando dall'oggetto in cui questo è una mescolanza a quello in cui è un sistema ed a quello in cui è un organismo, compie un lavoro giu dicativo chimico progressivamente intenso.Conseguen temente larappresentazione dell'oggetto sidetermina sempre più e diventa anche essa sistematica ed or   Perchè si abbia il concetto logico le note di cui il concetto risulta devono essere comprese tutte nel loro organismo, di ognuna di esse deve vedersi la neces sità e l'importanza; poichè se di qualche nota non si sa vedere la necessità,cioè se non si vede diessa la connessionealtuttoedallepartioaglialtri or gani od alle altre parti dell'oggetto,mediante un giu dizio intimo od una serie di giudizii, non si ha più ilconcettologico;siha alloralarappresentazione logica. Sicchè la rappresentazione logica si ha non solamente quando delle proprietà che costituiscono l'oggetto una o parecchie sono viste nella loro con nessione intima con esso e le altre sono viste acci dentalmente, ma anche se l'oggetto è compreso,nella maggioranza delle sue note, nel suo sistema e nel suo organismo e solamente una nota di esso non è vista nel sistema o nell'organismo, non si può dire che si abbia allora la conoscenza compiuta dell'og getto;sihasempre una conoscenza inferiore cheè  ganica non solo in sè stessa, ma anche in connes sione con altre rappresentazioni; cosi anche a m a n o à mano la rappresentazione bruta e puramente psico logica diventa rappresentazione logica. Ma quando l'oggetto o la rappresentazione di esso è un sistema od un organismo, allora siamo innanzi ad una nuova zona logica che è il concetto che vuol dire conoscenza sistematica ed organica delle cose.Cosi si può fare una distinzione precisa tra la rappresentazione logica ed il concetto logico.   Poichè la conoscenza sistematica ed organica del l'oggetto è l'ultima a raggiungersi dal soggetto,s'in tende che prima di averlo pienamente raggiunto, un certo numero di note ha dovuto essere considerato come inesplicato od accidentale e non è stato espli cato se non dopo un ulteriore studio del soggetto. La perfetta conoscenza di un oggetto o di un fatto può non essere stata raggiunta dall'individuo che pensa;ma può possedersi dagli scienziati o conser varsi negli annali della scienza; può ancora non es sere stata raggiunta dagli scienziati. In tutti e due questi casi si è nella sfera della rappresentazione lo gica,non del concetto. Finora i logici non han fatto distinzione tra r'ap presentazione e concetto ed han contrassegnato l'una e l'altro insieme con la parola idea. Si sa che la pa rola idea è stata largamente usata dai filosofi greci, dai filosoa del Medio-Evo e del Rinascimento e dai filosofi moderni e contemporanei. Quantunque dallo studio delle opere di Platone e di Aristotele appari sca che questi due grandi filosofi abbiano bene di stinto quel che ora si dice conoscenza rappresenta tiva dalla conoscenza perfetta delle cose,la opinione dalla verità,pure essi,usando la parola idea, pare  32 la rappresentazione logica. In questo caso una o pa recchie note sono considerate come inesplicabili ed accidentali, mentre le altre sono considerate come ne cessarie ed esplicate (la nota esplicata è la nota con nessa all'oggetto mediante l'atto giudicativo).   che non abbiano tenuto conto di questa distinzione e l'abbiano invece adoperata per indicare indistinta mente l'una cosa e l'altra: ciò che, trattandosi di un fatto di tanta gravità per la scienza, non può non ingenerare confusione ed equivoci nella mente del lettore. Gli stessi equivoci hanno sostenuto, adoperando la parola idea ifilo:ofidelMedio-Evo,delRinascimento, i filosofi moderni e contemporanei.Non si deve però noverare tra questi l'Hegel il quale frequen:emente nei suoi libri accenna alla differenza che deve pas sare tra la rappresentazione e la nozione od il col cetto.E se è vero che anche egli fa moltissimo uso della parola idea, l'adopera però per indicare il si stema od i vari gradi del sistema dell'universo; ed in questo caso è chiaro che la parola idea deve corri spondere al concetto. Ma,anche posteriormente all'Hegel,ilogici, ado perando la parola idea, non han creduto necessario dichiarare se essa deve corrispondere alla rappresen tazione od al concetto; però nel fatto l'hanno adope rata per indicare l'una cosa e l'altra indistintamente come si vede dai trattati di logica che circolano per le scuole di tutte le nazioni. E vi sono anche alcuni logici che adoperano promiscuamente le parole idea e concetto;ma non si può dire che la parola concetto che essi usano corrisponda a quel che si è detto do vere essere il concetto, anzi, stando a certe divisioni che essi ne fanno, si deve conchiudere che per co:  53   cetto essi intendono la rappresentazione. Cosi essi, tra le altre divisioni dei concetti, ne fanno una in concetti chiari ed oscuri,distinti e confusi,completi ed incompleti; ma un concetto che sia oscuro o con fuso od incompleto deve essere una rappresentazione non un concetto. Per l'uso equivoco che della parola idea si è fatto per tanti secoli e perchè può ancora ingenerare con fusione nella mente, sembra necessario il non doverla più adoperare,tanto più che le parole rappresentazione e concetto,che sono anche esse due parole classiche, corrispondono benissimo a distinguere due gradi dif ferenti di quello che i logici hanno indicato con la parola idea. La parola concetto ha nella lingua latina ed ita liana un significato assai profondo e complesso;poiché esprime l'ultimo e più compiuto risultato di un pro cesso,diuna seriediavvenimentiiqualihannoavuto il loro punto di partenza in un fatto che è il loro presuppostonecessarioelaloropossibilità.E questi avvenimenti devono essere legati fra di loro con legame tale di successione che ciascuno di essi non può rappresentare che un dato grado del processo, non può prodursi cioè prima che si sieno dati altri gradiod avvenimenti più o meno elementari che esso pre suppone e da esso devono prodursi altri gradi più c o m plessi i quali menano al pieno risultato del processo. Cosi si vede che la parola concetto include w a storia e che questo processo concettuale si riscontra non solo nella natura, nel suo insieme, ma anche in ogni grado di essa con questo diparticolare che più ci eleviamo nelle sfere alte della natura, quali sono la sfera della vita e dell'umanità,più questo processo. Del Concetto lin   si esegue compiutamente e, relativamente, in breve tratto di tempo ed ogni proprietà di ciascuno entedi queste importanti zone della natura compie insieme con le altre proprietà una storia. Quel processo che avviene nella vita dell'animale e della pianta risponde bene a quel che è un concetto. Si sa che la pianta ha il suo punto di partenza nel germe che può considerarsi come il grado infimo di essa,di là dal quale non vi è nulla della pianta. Partendo dal germe la pianta attraversa una serie di gradi,lo sviluppo delle foglie e la trasformazione di esse nel fusto, nei rami, nei fiori e nel frutto che racchiude il seme, ciò che segna il grado ed il limite ultimo dell'esistenza della pianta; onde essa parte dal germe e ritorna al germe. Si può dire che nel germe sono implicati tutti i gradi della pianta e che il grado che segue alla trasformazione del germe lo include come un presupposto necessario e cosi pos siamo dire del grado successivo relativamente ad es:a. È stato dimostrato che il fiore è una trasformazione della foglia ed il frutto è una trasformazione del fiore e perciò anche della foglia e che anche il seme sia una foglia trasformata; onde nel frutto sitrova come un grado ad un presupposto necessario il fiore e perciò anche la foglia, all'istesso modo che nel fiore sitrovalapossibilitàdelfrutto.Ora lastoria com piuta della pianta si ha quando essa attraversa tutti questi gradi e si considera uno di essi come quello a cui mirano i gradi precedenti, cioè il frutto ed allora  56   possiamo dire di avere il vero concetto della pianta. Cosi quando diciamo concetto diciamo anche sviluppo. Da ciò si vede che il processo del concetto che è il concetto stesso delle cose non deve essere inteso come una progressione aritmetica.Da un grado non sipassa all'altro mediante una aggiunzione di qualche cosa a  -- Ma gli avvenimenti di cui risulta il concetto non solo devono essere legati fradi loro pel nesso di suc cessione ma anche pel nesso di coesistenza; giacchè, quando il concetto è dato,esso rappresenta un com plesso di avvenimenti o di proprietà le quali ha con quistato e conservato nel suo processo,di cui ciascuna è necessaria, benchè non necessaria all'istesso modo chelealtre,perl'attualitàdelconcetto;enon po trebbe mancare senza che il concetto venisse sconvolto o degradato. Però bisogna bene intendere questo conservare che il concetto fa delle proprietà che acquista, nell'at traversare tutti i gradi necessari prima di attuarsi pienamente; giacchè le proprietà di un grado non sono conservate come precisamente tali nel grado seguente, ma sono conservate ed insieme trasformate e complicate. Cosi nel fiore non abbiamo la somma delle qualità della foglia insieme con quelle del fiore; ma lequalitàdellafogliasisonotrasformateinquelle del fiore, di modo che vi si conservano ma non come puramente tali,son divenute cioè proprietà nuove.E questa trasformazione avviene in tutti i gradi che il concetto attraversa.   qualchecosaltro il quale, dopo l'aggiunta,rimanga come puramente tale insieme con la cosa aggiunta, di modo che l'ultimo grado possa essere considerato comelasommadeigradiprecedentiedincuiigradi precedenti si conservino come puramente tali. In vero iprimi filosofi hanno compreso il mondo come una progressione quantitativa;peressilaveritàdelle cose non era che un risultato di una moltiplicazione o di una sottrazione dell'istesso principio naturale; e l'esplicazione dell'universo dal punto di vista m a t e matico e quantitativo è stato quasi sempre tenuto di mira dai pensatori e dagli scienziati.Anche aitempi nostri in cui le scienze particolari possono dare larghi contributi per arrivare ad una concezione organica delle cose e dell'universo, è sempre il punto di vista quantitativo che esercita le più grandi attrattive su gli scienziati, anche quando si tratti di argomenti i più complessi ed ipiù remoti dalla quantità pura,come la vita sociale o nazionale o la vita organica; si sa che anche ai giorni nostri ilcervello,come organo supremo dellavitaorganicaementale dell'uomo,sicrede non po tersi altrimenti intendere che considerandolo dal puuto divistaquantitativo.Ma ènotochePlatoneedAristo teleavevanointravistochelamatematicaedilnumero sono insufficienti per la comprensione piena delle cose e che l'HegeleilVera, apiùriprese,hanno molto insi stito nel far vedere l'importanza limitata della mate matica nel sistema dell'Universo e nel far vedere che il sistema delle cose non può essere compreso che dal  punto di vista qualitativo e specifico il quale però presuppone come un elemento subordinato la mate matica, ciò che è ben diverso.  a numero, quantità a quantità, mentre la chimica va dall'identico al non identico, che è il vero processo delle cose. Il processo chimico non esclude il processo matematico;perchè non può esservi processo chimico senza il processo matematico; si sa che la chimica procede aggiungendo atomi ad atomi, molecole a molecole,ciò che èprocesso quan titativo e, mentre nella sfera della quantità, aggiun gendo quantità a quantità, questa è semplicemente aggiunta o sovrapposta a quella la quale,dopo questa nuova aggiunzione, nulla acquista enulla perde della sua natura qualitativa primitiva;aggiungendo all'in contro chimicamente atomi o molecole specifiche ad atomi ed a molecole specifiche, viene come risultato un corpo avente proprietà nuove, tutte diverse dalle proprietà che avevano gli elementi di cui si compone il nuovo corpo. Si sa che l'idrogeno e l'ossigeno di cui sicompone chimicamente l'acqua hanno proprietà diverse dalle proprietà che ha l'acqua. E ciò si può dire di tutti i corpi composti relativamente ai corpi semplicidicuirisultano.È questoillatoimportante e meraviglioso del processo chimico. Noi crediamo che il principio chimico,la cui impor tanza era sfuggita agli antichi e si è vista solo ai tempi moderni,possa, più del principio matematico, esprimere bene il vero svolgimento delle cose;giacchè la matematica procede dall'identico all'identico, ag giungendo numero a numero,   Sembra ora assodato dalla scienza chimica che l'im mensa varietà dei corpi composti inorganici ed orga nici sipossano tutti scomporre in quei pochi e deter minati corpi semplici ora conosciuti.Ebbene,in qual modo con cosi pochi corpi semplici si possono otte nere corpi innumerevoli con proprietà differentissime gli uni dagli altri?Semplicemente mutando ledispo sizionichimicheomolecolari;odaggiungendo sem plicemente una molecola di un nuovo corpo a molecole costituenti prima un altro corpo o moltiplicando una molecola specifica di un corpo composto di determi natemolecoleosottraendonealcuneadalcune.È questo processo che ci dà corpi di natura tanto differenti e diversi.  60 Ma se la chimica occupa un largo campo nellana tura,dallamateriaprimaallamateriacheraggiunge la più alta forma complicativa, alla sostanza nervosa,dap pertutto nella natura essendovi più o meno lente e conti nue complicazioni osemplificazionichimiche,ilprincipio però chimico,quello secondo il quale di due o più cose od elementi che si uniscono si forma un nuovo grado ilqualeha proprietànuoveedifferentidaquelli dai quali risulta,rimane non solamente nella natura ma anche nella storia delle cose naturali ed in quelle dello spirito. L'animale non s'intende aggiungendo alle note che costituiscono la pianta, la sensibilità ed ilmovimento;eseèveroche alcune qualità della pianta si trovano nell'animale, queste hanno assunto ụną naturą tutta nuova nell'animale, tanto che,rigo   rosamente parlando, ciò che costituisce la vita della pianta non si rinviene punto come tale nell'animale; perchè quelle note che costituiscono la pianta sono nell'animale elevate ad una nuova zona e vivificate e complicate e moltiplicate da una nuova vita.La nu trizione dell'animale è tutta differente dalla nutri zione della pianta, all'istesso modo che la struttura organica della pianta differisce dalla struttura animale. Ciò portanecessariamenteunadifferenzanotevolenella storia della pianta ed in quella dell'animale; sicchè tutto è nuovo nell'animale relativamente alla pianta e si ha nell'animale una nuova e complessa serie di proprietà tutte differentidalle proprietàvegetali.Cosi una proprietà che si aggiunga modifica tutte le altre proprietà, come fa la sottrazione di una data proprietà o funzione nell'animale.  Nella storia organica e psicologica del regno ani male troviamo dominare lo stesso principio; giacche, se vi è una vasta scala di specie animali,in ciascuna specie la modificazione di una data proprietà organica e psichica,relativamente ad altre specie,adduce con sė una corrispondente trasformazione di tutte le altre proprietà organiche,funzionali e psichiche.Cosi laforma esteriore degli animali non è indifferente al loro grado di energia funzionale e di energia psichica; la sensi bilità è varia secondo le varie forme organiche,,se condo le varie forme di sistema nervoso; i movimenti sono vari secondo che è varia la sensibilità ed è vario il sistema scheletrico ed il sistema muscolare. Una   Inoltre l'individuo come tale ha attribuzioni che non  -varietà organica dunque non si ha senza avere unà varietà di tutte le altre proprietà e funzioni dell'ani male; cosi di ogni proprietà animale. Si sa inoltre che alla vita di uno stato devono con correretantecondizioni,tantifattori; ma c'inganniamo se crediamo che ciascuna condizione non eserciti se condo il suo grado alcuna azione determinante su tutte le altre condizioni e perciò su tutta la vita nazionale. L a ricchezza non è nè il solo fine né il solo fattore di una nazione;ma uno statoricco può avere un gran mezzo per creare condizioni necessarie ad elevare lo spirito di una nazione in tutti i suoi aspetti, a far felice la fa miglia e gl'individui; e d'altra parte uno spirito n a zionale elevato trova molte vie aperte all'acquisto della ricchezza.I grandi individui contribuiscono a far grande una nazione e d'altra parte sono le grandi nazioni che fanno le grandi individualità. Un'alta vita reli giosa non può intendersi e compiersi che nelle grandi nazioni e d'altra parte lo spirito religioso dà un ele vato contenuto all'arte,allaletteratura,spingegliuo mini alle investigazioni scientifiche e filosofiche, può dare indirizzi nuovi alla vita politica, commerciale, economica dei popoli, può dare un'impronta speciale a quel che sidicespiritonazionale.Ciascunfattoredella vita sociale dunque, mentre è modificato dagli altri fattori, dal loro grado di energia o di decadimento, contribuisce a modificare,svolgendosi,quale che sia il suo grado, gli altri fattori.   63 ha come faciente parte della famiglia in cui acquista nuove e più alte qualità,onde,senza il sacrifizio e senza l'abnegazione dell'individuo,lafamiglianon può vivere una vita rigogliosa. Cosi le attribuzioni della famiglia sono differenti da quelle dello stato, quan tunque senza la famiglia lo stato non potrebbe essere, essendo questo costituito di una moltitudine di fa miglie e perciò d'individui, i quali nello stato acqui stano nuove e più alte qualità; onde nello stato le famiglie e gl'individui non sono come sono fuori dello stato, Il principio chimico domina cosi la vita della n a tura e dello spirito,non ilprincipio matematico, quan tunque la chimica implichi e presupponga lamatema tica senza la quale né il chimismo, nè la natura, nè lo spirito stesso potrebbero essere.Onde,sepuò dirsi che il chimismo è lo schema dell'organismo delle cose, la matematica può dare lo schema quantitativo del chimismo e per conseguenzadellecose;ma perquesto è più lontana che non la chimica dalla realtà che non può intendere e che è sopra tutto qualitativa; ed è la chimica che fa intendere il concetto e che costi tuisce la seconda zona logica e che è parte integrante della vita del concetto più che la quantità la quale può corrispondere alla prima zona logica. S'intende che qui si parla del chimismo logico, non della chi mica come sfera della natura, la quale ha anche essa il suo concetto, come qui si parla della matematica come principio logico;non della matematica come sfera    speciale del pensiero e delle cose; poichè come tale ha anche essa il suo concetto. Sicché non si nega che la matematica possa dare un certo schema della realtà e che perciò non sia una certa logica; si afferma solamente che essa ci dà uno schema assai povero della realtà, che non ce la fa intendere. In vero la logica classica non è stata che la logica matematica e se vi sono oggi dei logici i quali, coltivando la logica intesa matematicamente, credono di coltivare una nuova logica,essi s'ingannano, quantunque però diano nuovi svolgimenti alla vec chialogicalaquale,se nonpuòesserelalogicadella vita e dello spirito,può essere però la logica delle sfere inferiori della natura,della meccanica, in tutti i suoi gradi, e della fisica intesa come grado della natura in generale. Si sa che tutti i fatti meccanici e fisici possono ridursi a formole matematiche, quan tunque allora non saranno la meccanica e la fisica che ci guadagneranno, le quali sono sfere molto più con crete e ricche che le matematiche pure; onde,ridotti i fenomeni meccanici e fisici a schemi matematici, essi perdono la loro concretezza, perchè sono semplificati (le cose non potendo essere intesa che dal punto di vista semplificativo ecomplicativoinsieme;onde,s'in tende la meccanica e la fisica non solamente quando sono intese matematicamente, ma quando sono intese matematicamente ed insieme meccanicamente e fisica mente; in quel caso guadagna però la matematica la quale estende i suoi confini). I fatti però meccanici e fisici dell'organismo non sono cosi facilmente riducibili a schemi matematici; non avendosi allora il meccanismo ed il fisismo puro od inferiore, ma ilmeccanismo ed ilfisismo come gradi dell'organismo,onde quei fatti sono allora determi nati da cause chimiche ed insieme fisiologiche e per ciò sono di una provenienza oscurissima e complica tissima; perchè il fatto meccanico o fisico può essere effetto di moltissime e svariate condizioni organiche e sono nello stesso tempo effetto e causa di altri fe nomeniorganici.Cosisipuòdiredei fenomeni psi chici e sociali; onde, per quanti sforzi la matematica faccia per entrare in questo regno, essa non potrà impadronirsene mai, potrà però calcolare matematica mente i fenomeni estrinseci di essi.Ciò conferma sem pre più il principio che non può essere la matema tica lo schema della realtà; ma è il chimismo. Aristotele, il primo grande logico dell'antichità e quasi il fondatore della logica, le cui dottrine per 22 secoli hanno doininato e dominano ancora nelle scuole, perché non si possedeva ai suoi tempi una conoscenza profonda della natura e dello spirito come si possiede ora, non poteva darci che la logica quantitativa che si può considerare come il grado primitivo e più ele  È lo studio profondo dei fenomeni biologici come in gran parte è stato compiuto ai nostri tempi, che può farci vedere la grande importanza del processo logico chimico per raggiungere il vero concetto delle cose;e ciò non era possibile prima dei nostri tempi.   mentare della logica. L'Hegel poi può dirsi il fonda tore della nuova logica più per avere fatto vedere l'insufficienza della logica classica ad intendere la realtà anzichè per averci dato compiuta la nuova lo gica;e ciò perchè anche ai suoi tempi gli studi na turali e biologici non avevano raggiunto quell'alto grado cheraggiunseroposteriormente.Nondimeno l'ap parire della logica di Hegel segna nella storia un'e poca grandiosa;poichè,per mezzo di essa sono state poste le basi e si sono fatti i primi passi della lo. gica reale come può aversi e svolgersi ai nostri tempi. Inteso il concetto come l'ultimo risultato del pro cesso storico e chimico delle cose non ha più quel l'importanza che ha nella logica classica il capitolo della comprensione e della estensione dei concetti, in cui il concetto è inteso solo quantitativamente. Bisogna distinguere il concetto che sta per co.n piersi dal concetto compiuto; quello può essere chia mato concezione o concepimento che indica appunto l'atto del compiersi del concetto. Ora nell'atto che il concetto si forma attraversa vari gradi di cui cia scuno, se è considerato come arrestato nel suo c a m mino,può essereconsiderato come unconcettopersė; e si considera come grado di un altro concetto se as sume qualità e forme nuove di esistenza tanto che puòcorrispondere adun concettopiù compiutodiesso; ed in questo caso esso fa parte della concezione o del concepimento del nuovo concetto; e ciò può dirsi di ogni concetto. Considerando da questo punto di vista l'universo, si scorge facilmente che ogni sfera,ogni grado di esso è insieme concepimento e concetto, cioè è assorbito e complicato chimicamente in un concetto più alto e nello stesso tempo può essere considerato come un con cetto in sè. Questo duplice fatto forma dell'universo un vasto sistema e nell'istesso tempo un grandioso organismo;perchè ciascun concetto è in sè e per sè ed insieme in altro e per altro. conce  -67 Questo principio si osserva con evidenza in tutte le zone delle mondo della natura. I minerali ed i feno meni fisici sono insieme in sè e per sè in una deter minata zona della natura (concetti);ma essi sono per la chimica relativamente alla quale sono pimento.Cosi la chimica rappresenta anche una de terminata zona del mondo naturale;ma, mentre è in sè, e perciò è un concetto,è anche concezione;perchè la chimica è per la vita della pianta e dell'animale e perciò,mediatamente,anche ilminerale èperlavita. Nel regno della vita questo processo diconcepimento continua; perchè,quando è data la forma infima della vita vegetale, si passa da forme vegetali semplici a forme gradatamente e successivamente più complesse sino all'ultima forma vegetale che potrà dirsi la più compiuta.In questo processo quei gradi che inatura listi dicono specie rappresentano appunto la conce zione della pianta;per cui ciascuna specie èinsieme concetto e grado del concetto superiore.Lo stesso può dirsi dellapiantarelativamenteall'animaleedelmondo della vita animale in generale.   Quando siconsideral'uomonell'ordinedellanatura sembra cheinluisiabbial'ultimorisultatodellastoria e del processo naturale; ma d'altra parte l'uomo non è per sè solamente; perchè egli è quel che è per la famiglia e per lo spirito nazionale che egli contribuisce a formare ed in cui vive e si muove,all'istesso modo che lo spirito nazionale è per Dio che è il puro per fetto spirito in cui perciò si ha il vero concetto ed a cui tutta la concezione dell'universo aspira; perchè Dio non è più per altro ma per sè ovvero ė inaltro per sè; e tutta la vita ed il movimento della natura e dello spirito terreno non sono che un processo di ele vazione a lui e fuori di lui non sarebbero e non po trebbero esplicarsi. Cosi vi è un solo concetto e l'universo è una serie di concepimenti che sono relativamente concetti.E questi concetti costituiscono un processo di compli cazione che è chiuso tra due limiti estremi, il massimo ed il minimo. Il limite minimo si ha nell'elemento primo della naturaeperciò del pensiero,diqna dal quale vi è il sistema e l'organismo dei concetti, di là dal quale vi è il nulla della natura e del pen siero. Come tale questo limite minimo dei concetti può essere concepimento od elemento del concetto che segue ma non concetto.Il limite massimo ècostituito dal concetto assoluto, di là dal quale vi ha del pari il nulla e di quà dal quale vi è tutto ilsistema e l'or ganismo dei concetti. Ciò posto i concetti sono nella natura e nello spi    Le cose sono cosi in se stesse,obbiettivamente, con cezione e concetti; ed il soggetto, volendo conoscerle, deve seguire lo sviluppo di ciascuna di esse, dal suo primo ed infimo grado sino alla sua più compiuta realtà;deve seguire il processo del formarsi e del trasformarsi delle proprietà costituenti l'oggetto che siconcepiscesinoalsuoultimostato,come avviene degli enti morti o sino al massimo grado della sua energia, come avviene degli esseri viventi o degli or ganismi etici.Quandoilsoggettoavràcompiutoquesto lavoro psicologico insieme elogico di concezione in modo che questo processo corrisponda alprocesso obbiettivo  rito,eperciònelpensiero,dispostiinmodo seriale; onde ciascun concetto che è tra i limiti ha un prima ed un dopo ed è concetto del concepimento 'precedente e concepimento del concetto seguente.Non sipuò dire però che il concetto che precede sia compreso come tale e nel senso della logica classica e con tutti i concetti precedenti dal concetto seguente; poichè il chimismo che domina il processo dei concetti non a m mette lacomprensionenelsensoclassico,cheè conside ratain senso puramente quantitativo. Del pari non si può dire che ciascun concetto si estenda in altri concetti; perchè esso è chimicamente assorbito e trasformato dal concetto che segue immediatamente e non si può tro vare come semplicemente tale in altri concetti'; onde la estensione secondo la logica dei secoli non risponde al vero; perchè in questa i concetti sono estrinseci gliuniagli altri,percuinonvièorganismodiconcetti. della cosa, egli allora avrà raggiunto il concetto di essa: ciò che può dirsi cosi dei singoli concetti o di un si stema di concetti che del concetto assoluto.  L’economia nella vita dell’animale e dell’uomo. L’attività economica è una nota propria e fondamentale  della vita animale ed umana. Essa è rappresentata prima dalla  fisiologia, cioè dalle funzioni dell’organismo. Ogni funzione or-  ganica, studiata analiticamente, dimostra una dualità, cioè due  termini: l’organismo vivente che rappresenta l’unità degli or-  gani funzionanti; e il mondo a lui esteriore con cui è in con-  tinuo rapporto (alimento, ossigeno dell’aria, acqua, calore, luce,  ecc.). L’ uno dei due termini scisso dall’ altro annullerebbe in-  sieme con la vita l’attività economica; e l’organismo dovrebbe  disfarsi.   La vita, sostenuta da organi di elevata struttura e costi-  tuzione chimica, implica l’ unità degli elementi istologici, dei  tessuti, dei sistemi e degli organi che la rappresentano. Ma la  funzione di ciascun organo e sistema, mentre ha un fine che si  esercita o dentro l’organismo, in aiuto ad altre funzioni, o fuori  dell’organismo, contro il mondo esteriore per dominarlo e farlo  servire ai suoi bisogni, deve implicare una continua perdita  materiale degli organi funzionanti, che si riduce contempora-  neamente in una degradazione chimica di sostanze componenti  i tessuti e gli organi, dallo stato di elevata natura a quello di  più elementare costituzione molecolare. Nello stesso tempo deve  associarsi ad uno sviluppo di forze fisiche (forza meccanica,  vibrazioni molecolari, calorico, elettricità).   In tal modo i due termini debbono entrare in un rapporto  molto intimo e continuo fra di loro; giacché il termine esterno  naturale, rappresentato dall’alimento, dall’ossigeno dell’aria, dal-  l’acqua, deve diventare interno. Infatti l’alimento da sostanza  esterna e morta, quantunque di elevata costituzione chimica. I  giacché è stata vivente, come la carne, le uova, il latte, le erbe,  frutta e semi di varie piante, modificati esternamente e poi in-  geriti dall’animale e dall’uomo, vengono ancora modificati, ri-  dotti in sostanze relativamente semplici. Passate poi nel circolo  sanguigno vengono ancora modificate dalla presenza dell’ ossi-  geno che i globuli rossi del sangue hanno fissato per nutrire i  tessuti in contatto dei quali sono messi e dai quali si compie  l’assimilazione. In tal modo il cibo raggiunge la sua massima  elevcizione; da termine esterno e morto diventa interno e vivo.  Ma qui comincia la scissura interiore, onde il termine interno  diventa per mezzo della funzione anche esso morto in alcuni  suoi elementi e le sostanze che lo costituiscono, decadute e sem-  plificate, vengono così restituite al mondo esterno, per mezzo  dei reni, della cute, del polmone e ancora modificate dalle glan-  dolo di speciale segrezione; all’ istesso modo che l’energia che  costituiva il termine interiore si risolve in forze meccaniche e  fisiche le quali si spengono entro l’organismo stesso e nel mondo  esteriore, anche per mezzo del lavoro.   Il termine interiore che da prima è un organismo vivente   di elevata struttura, perchè è e sussiste, si può chiamare bene,   secondo lo scrittore del j)rimo capitolo della Genesi, per cui è   bene tutto ciò che è creato da Dio; ed il termine esteriore,   perchè anche esso è e sussiste, si deve anche esso chiamare   bene; ma, poiché deve essere degradato come tale, e trasfor-   %   maio e ridotto nei suoi elementi; diviene male. E male il deca-  dere, lo scomporsi, il menomarsi degli enti. Ma, poiché dai suoi  elementi di nuovo si ricompone, si organizza ed alimenta la  vita, diviene di nuovo bene; ma bene interno, come il bene in-  terno si trasforma in male interno airorganismo da prima, poi  in male esterno; perchè nei suoi elementi primi si trasforma in  male esterno, cioè in elementi inorganici senza una finalità su-  periore. Ma di nuovo può divenire bene esterno, perchè per  mezzo di essi si possono ricostituire i beni esterni più elevati  (piante, animali, ecc.). Il bene cosi si trasforma in male e questo  in bene. L'antico detto corruptio unius gene ratio alterius espri-  me un principio che domina il regno della vita vegetale ed  animale, giacché anche la pianta si trova in una posizione dua-  listica tra sè e il mondo a lei esteriore (il terreno, Tarla, la luce) ed è perciò in lotta con esso che tende a conquistare,   come questo è in lotta con la pianta. L'animale è in una lotta   più intensa col suo termine esteriore, la natura, come questa   %   è in lotta contro Tanimale. E questo lo schema più semplice  della vita vegetale ed animale.   Distinta cosi T attività economica in due termini e fatta  Tanalisi di questi, apparisce più chiaro il concetto generico di  economia. Quantunque questa parola sia stata adoperata la prima  volta in Grecia ed intesa come legge, amministrazione della  casa, implica anche il concetto di soddisfazione, di godimento,  che gli animali e noi abbiamo di qualche cosa che dalTesterno  penetri nel nostro organismo. Coinvolge anche il concetto d'in-  tegramento, conservazione, elevazione di qualche cosa di ma-  teriale per mezzo del lavoro delTuomo o per opera della na-  tura stessa, ma che rimane sempre nel mondo esterno alTuomo  e di cui questi può cercare di godere. Importa notare la differenza tra Teconomia della vita ani-  male e quella delTuomo, che implica insieme con la vita orga-  nica 0 animale, qualche cosa di superiore o mentale. Benché  una grande differenza vi sia anche nel regno stesso delTani-  malità, nelle sue varie specie, dalTaniraale infimo a quello della  più complessa organizzazione, giacché dalla prima alla seconda  specie il processo della vita si va sempre più complicando e  specificando, alT istesso modo che si complica ed aumenta di  volume Torganisrao nei suoi tessuti e nei suoi organi; onde si  ha un'organizzazione più vasta e complessa, pure in quest'ara-  pia graduazione di animali lo schema dell* economia della vita  è identico in tutti; benché varia sia la quantità dell' alimento  ingerito ed assimilato e poi consumato e ridotto ad elementi  semplici, come corrispondentemente varia sia la somma delle  forze fisiche esplicate.   L'animale infatti, a qualunque genere o specie appartenga,  non vive che monotonamente, sempre nel presente, benché va-  ria sia la sua attività esplicata per vivere, secondo la natura  della specie a cui appartiene, e vario sia l'ambiente naturale e  climatico in cui vive. Esso non ha cura che per conservarsi e  per fuggire i pericoli che lo minacciano; cerca la tana, il cibo,  e l’acqua per dissetarsi; alleva con molta cura i suoi nati e provvede per il loro alimento; li protegge contro le insidie degli  altri animali sino a che essi non possano vivere da sè. Non  provvede pel suo avvenire e, durante la vita, non è suscettivo,  a causa delle limitate sue condizioni psicologiche, a migliorare  la sua posizione economica, come è avvenuto pel suo passato  in cui si è riprodotto sempre identicamente lo stesso tipo e  la forma del suo organismo.   Dall’animale all’ uomo si fa un passo gigantesco; giacché  questi, a causa della superiorità della struttura del suo organi-  smo e della sua intelligenza, si volge a studiare continuamente  sè e il mondo esteriore. Avendo il suo organismo molteplici bi-  sogni, egli si sforza di soddisfarli per mezzo delle sostanze che  trova nel mondo esterno; e, a differenza dell’animale, prevede  i suoi bisogni avvenire e provvede come può affinchè nulla  abbia a mancargli pel futuro. E, se tende da prima a sfruttare  la natura, come fa l’ animale, di poi, apprendendo da essa stessa  i suoi metodi, si sforza di produrre ciò di cui ha bisogno per  vivere (piante ed animali speciali). Si apn; cosi all’ uomo il   campo della produzione dei beni naturali di cui ha bisogno, e   %   che può ottenere per mezzo deir ingegno e del lavoro. E una  lotta che egli deve sostenere contro la natura, che ha avuto  principio col suo primo apparire sulla terra, che è andata sem-  pre crescendo ed intensificandosi lungo il processo della storia  e con lo sviluppo della civiltà; e che non avrà mai fine, finché  dura la vita umana. La materia economica non può perciò essere intesa fuori  della sua storia, anzi essa fa una sola cosa con la storia del-  r umanità; giacché questa ha la sua base nell' economia e  senza di questa non potrebbe essere; all' istesso modo che nes-  sun aspetto 0 grado del mondo naturale ed umano sfugge alla  storia e fuori di questa non potrebbe comprendersi. La scienza  economica dunque deve trattarsi storicamente. È questo un ten-  tativo che può farsi solo oggi, in tempo di un grande sviluppo  dell'esperienza e della rifiessione umana, in cui il pensatore acqui-  sta coscienza di sé, dei propri bisogni fisiologici e mentali e del  mondo esterno naturale, in ciò che può soddisfare i detti bisogni. Questa materia cosi deve essere studiata nei suoi due ter-   mini, il soggetto e l'oggetto, economici, ciascuno nella sua storia  e nel suo rapporto con l'altro, senza del quale nessuno dei due  termini potrebbe sussistere sotto l'aspetto economico; e questo  rapporto é tutto tra i due termini, per lo quale questi si uni-  scono e dividono continuamente. È la storia deU’umanità e della  natura insieme nel loro aspetto drammatico.   Nel trattare i principii naturali di economia bisogna trarre  insegnamento prima dello studio della storia deH'umanità. Ma  nella storia fatta dagli storici più valorosi e rinomati l'aspetto  economico non è messo gran fatto in evidenza; come se per loro  » * non avesse avuto che un' importanza trascurabile; non veniva   perciò compreso e considerato nella sua obbiettività e non si  sognava che un giorno i posteri sarebbero stati curiosi di cono-  scere, nei suoi particolari, il metodo e la materia dell' attività  economica dei popoli di cui si narrava la storia. Si credeva  che il cibo e gli altri beni di cui l'umanità ha bisogno sarebbero  stati sempre abbondanti e perciò non meritava che gli uomini se ne preoccupassero. Del resto anche gli storici più recenti  si sono cosi condotti verso l’aspetto economico della popola-  zione. Pure in ogni scrittore non possiamo non trovare qualche  accenno alla vita economica delle nazioni di cui si narra la storia  0, se non alla economia normale, aireconomia patologica, come la  carestia, la pestilenza, i risultati della guerra, le emigrazioni e le  immigrazioni, i perturbamenti della natura fatti per opera della  mano deiruomo, che, facendo vedere la deviazione del processo  economico normale e naturale nella storia, fanno meglio vedere  le necessità di questo. Avviene così nel campo economico quel  che avviene nel regno della vita, per cui le malattie che sono la  deviazione funzionale degli organi dal processo tipico normale  della vita, che apportano anche una corrispondente alterazione  chimica, istologica ed anatomica degli organi, hanno dato non  pochi contributi alla conoscenza delle funzioni normali della vita.   Vi sono poi le grandi crisi economiche nazionali o univer-  sali, come quella che ora si attraversa sull’ incarimento del  costo della vita, un fenomeno nuovo e gigantesco che non ha  avuto l’eguale nella storia, la cui origine oscura ci obbliga a  riflettere e a meditare per risolvere Tenigma. Vi sono inoltre  gli errori della storia che il popolo stesso compie per suo prò-  prio istinto o che compiono gli uomini di governo, errori di cui  è piena la storia e che, con le loro conseguenze patologiche,  fanno meglio comprendere il processo logico e progressivo della  storia come avrebbe dovuto essere. Cosi è stato disastroso per  la vita dei popoli il non avere compreso la natura propria della  moneta che si è voluta sempre di metallo prezioso, per cui  alla scarsezza di questa si debbono alcune rivoluzioni ed un  arresto nello sviluppo del lavoro e della produzione dei beni e  r arricchirsi di alcune nazioni che ne hanno molta a danno di  altre che ne hanno poca. Ma il presente stato economico del  mondo in cui l’ industrialismo ha raggiunto un grado di vitalità •   esuberante da per tutto ed attira l’energia e V operosità del  maggior numero degli uomini i quali affluiscono nelle industrie  e nelle città disertando i campi e i villaggi, ci spinge a stu-  diare il presente fenomeno e, mettendolo in relazione col pas-  sato economico, ci apre la via ad intendere la storia econo-  mica deir umanità.  Ma la storia economica che fa una sola cosa con la storia *   politica, artistica ed intellettuale delle nazioni, nell’ aggregarsi  o disgregarsi continuo di queste, è certo un grande e cospicuo  periodo del processo logico della storia del mondo ed è anche  quello più memorabile: quello cioè che, per essere stato esperi-  mentato primitivamente da alcuni uomini, riconosciuto e pro-  vato da altri, aggruppati da prima in piccole tribù o società, e  poi esteso, ad altri, è trasmesso a mano a mano ai posteri col  contatto degli uomini, attraverso il loro nascere, crescere e  morire. E l’attività economica che è stata sempre viva nella sto-  ria, quantunque abbia operato in modo inconscio agli uomini,  negli ultimi due secoli ha raggiunto uno sviluppo considerevole  insieme con lo sviluppo industriale e con l’estendersi del commercio nel mondo. Questa da prima si è sviluppata istintiva-  mente ed impulsivamente per mezzo dell' ingegno dell’ uomo  che ha saputo trovare ed aprire le vie; poi è venuta la scienza  dell' economia industriale e commerciale, che ha riconosciuto i  fatti compiuti e ne ha formulato e cercato di spiegare le leggi.   Sicché non è stata la scienza economica che ha destato l’atti-  vità economica, bensì questa ha dato origine a quella.   Si può rintracciare dunque, attraverso la storia intellettuale,  politica e pratica dell’umanità, una storia economica. Ma la sto-  ria politica rappresenta il processo degli avvenimenti umani di  cui si conserva memoria; si è perciò innanzi ad un’epoca molto  avanzata dalla storia, quella in cui l’uomo ha cominciato ad acquistare consapevolezza della sua superiorità sulla natura e  della possibilità del suo dominio sugli uomini inferiori per in-  gegno ed attività pratica. Ma la storia memorabile e memorata  presuppone la preistoria, che è di là dalla memoria degli uo-  mini e che nondimeno ha dovuto preesistere alla storia. Come  nessun aspetto della civiltà e delle istituzioni umane sfugge alla  preistoria, quale il linguaggio, la politica, l’arte, la religione, ecc.,  così avviene dell’economia e della scienza economica. E la sto-  ria d’altra parte si connette alla preistoria di cui è continua-  zione e complicazione, onde si può dire che nella preistoria si  trovano i principii economici più semplici ed elementari che  nella storia progressivamente si sono andati complicando; ma  che sono sempre vivi ed attivi nella storia ulteriore: ed appariscono nella loro semplicità nelle grandi crisi di economia so-  ciale, quando si sente il bisogno di tornare alla vita naturale  e primitiva. Non bisogna però ammettere una barriera tra la  preistoria e la storia. Ciò che fu il principio è la base odierna  deir edificio economico.   Quantunque la preistoria pura e primitiva sfugga alla no-  stra osservazione, pure, come è avvenuto pel linguaggio, stru-  mento fondamentale deirintelligenza e deirattività pratica umana  e del progresso scientifico, si può rintracciarla prendendo le  mosse daireconomia naturale che può avere rappresentato essa  sola neirepoca preistorica tutta T umanità, che di poi divenne  storica, economia che anche oggi deve essere considerata come  il sostegno deireconomia storica, industriale odierna, e senza la  quale questa è destinata a fallire. In questo senso, guidati dalla  logica della realtà delle cose e dalla psicologia speculativa, si  può rintracciare il processo preistorico dell’ economia. Il punto  di partenza è qui Teconomia fisiologica, comune da prima al-  Tanimale e airuomo, giacché ambidue sono soggetti economici  che hanno la natura come termine a loro opposto. Ma, mentre,  come si è detto, la soggettività animale ha un arresto nel suo  sviluppo, la soggettività umana all’ incontro prosegue senza li-  miti, cercando di conoscere la natura ed adattarla alla soddistazione dei suoi bisogni, che con la sua intelligenza sa scoprire  in sé, nel suo organismo e nella sua mente, nuove lacune da  colmare. A differenza però deiranimale in cui Torganismo si svi-  luppa rapidamente, onde breve è per esso il periodo in cui ha  bisogno delle cure dei genitori, perchè ben presto può fare uso  delle sue forze e rendersi indipendente, onde vive guidato dai  suoi istinti, l'uomo all’ incontro ha bisogno di un certo numero  di anni per potere da sé provvedersi del cibo e colmare tutti  i suoi bisogni. Ben presto morrebbe se, appena nato, non avesse  le cure materne, ed anche se venisse abbandonato a sé stesso  neH'infanzia e neiradolescenza. Molte altre cure poi richiede,  ed anche un certo numero d’anni, se egli vuole educarsi, eser-  citare un facile mestiere od una difficile professione; e volesse  elevarsi nella sfera dell’ alta cultura, dell’arte o della scienza.  In questo lungo periodo della sua vita il giovanetto è allevato  e educato dalla famiglia, o dalle istituzioni di beneficenza, dal-  r insegnamento pubblico e dalla religione. In tutto questo periodo dell’infanzia e della fanciullezza  il dualismo è rappresentato dal fanciullo, ente passivo nella sua  attività, e dalle istituzioni familiari e sociali, che sono il termine  veramente attivo, il quale, servendosi di elementi c vie naturali,  eleva e conduce il bambino all’attività pratica, affinchè possa  col tempo provvedere ai suoi bisogni. Il giovanetto, diventato  adulto, deve da sè solo risolvere il problema dell’esistenza, per  quanto possa essere agevolato dalle istituzioni; allora egli si  trova d’innanzi alla natura alla quale domanda i mezzi di vita  0 di conservazione. Questi sono rappresentati dal ricovero e  dall’alimento che è fornito dagli animali e dai frutti e semi di  piante; e vegetali di una elevata costituzione chimica. Qui co-  mincia la lotta tra 1’ uomo e la natura. Questa è da prima prov-  vida madre per lui, onde gli concede facilmente ciò di cui ha  bisogno, ma non senza che egli taccia qualche sforzo, qualche  fatica, andando in cerca deU’alimento, sottomettendosi anche a  gravi pericoli e spesso rimanendo vittima delle intemperie o  degli animali che egli ha cercato di abbattere e conquistare.   E questa la condizione dell’ uomo primitivo che non ha a-  vuto dal passato insegnamenti e tradizioni; per cui l’esperienza  e l’osservazione debbono cominciare da lui che è fornito di un  organismo che si presta ad una grande varietà di lavori; e di  intelligenza che gli è guida all’ attività pratica, allo studio ed  alla conoscenza della natura della quale cosi può meglio servirsi; e conserva memoria delle sue conquiste, passate e pre-  senti. Ma la natura, dà all’ uomo i mezzi di vita, purché li cer-  chi, non glieli assicura per sempre. Comincia cosi l’attività per  la ricerca del cibo e comincia ancora un’epoca di disgregamento per la ricerca dei luoghi dove la natura fosso più ferace di ve-  g'etabili e di animali, atti a far vivere l’uomo. In quest’ epoca,  certamente non breve, si ha un grande disgregamento del ge-  nere umano, in tutta la superficie della terra, per quei luoghi  dove la vita fosse possibile; giacché in quest’epoca in cui il la-  voro collettivo non era ancora principiato, l’uomo voleva essere  solo con la sua famiglia a conquistare e a godersi la preda. D altra parte 1’ uomo in lotta con la natura primitiva, che  si slanciava ad imprese difficili ed audaci, in tempi in cui l’aria  sulla superficie della terra era buona ed in cui ralimentazione  era prevalentemente carnea, dovea dare al suo organismo uno  sviluppo ed una resistenza ammirevole, che lo rendeva atto a  trionfare dei più grandi ostacoli che nel suo cammino potesse  incontrare. Grande era anche la potenza generativa, per cui gli  uomini si moltiplicavano facilmente. Quel genere di vita tutto  naturale dava un’educazione anche naturale all’ uomo, che gli  dava la massima resistenza all’ impresa e lo rendeva refrattario  agli stimoli morbosi sino alla vecchiezza, se fosse riuscito a su-  perare il periodo della fanciullezza, flrano i tempi di Ercole.  In tutto questo lungo periodo egli cerca, con l’ ingegno che la  vita nomade e mal sicura dell’ avvenire rendono più acuto, a  modificare minerali e legna per costruire strumenti che rendes-  sero più facile il conseguimento del fine di vivere; a rendere  alcuni animali adatti ad essere guidati, a viaggiare, a portare  masserizie ed a ottenere la prole di essi, anche per potersene  alimentare.   Finché si é in questo stato di vita nomade ed incerta in  cui non si può essere sicuri della vita avvenire ed in cui gli  uomini tendono continuamente a dividersi, le conquiste iiella  conoscenza dei metodi per servirsi della natura vanno perdute  e non é necessario il linguaggio che é possibile quando é data  una certa associazione di uomini i quali, a intendersi scambie-  volmente, conservino la tradizione delle precedenti attività li-  mane che agevolano la vita. Tutto questo lungo periodo della  vita umana sulla terra, di una larga estensione sulla medesima,  può essere indicato col nome di 'preistoria dell’ umanità. La  quale bisogna intendere non come ristretta in un solo angolo  della superfìcie della terra, ma come diffusa da per tutto, e dove la vita dell’ uomo fosse possibile, e rappresenta la fami-  glia da per tutto disgregata in famiglie, di cui ciascuna aspirerà  più tardi ad entrare nella storia e da nomade diventare fìssa. In tutta questa lunga epoca i due termini dell’attività eco-  nomica sono r uomo e la natura; 1’ uomo il quale é uscito da  quello stato di felicità del periodo della sua fanciullezza in cui  vive a spese della sua famiglia o della carità altrui; ma l’uomo  che deve fare uno sforzo per andare in cerca dei mezzi di sus-  sistenza; deve cioè andare incontro ad una perdita di forza muscolare e psichica, che, aggiunta alla perdita che apporta la vita   in sé stessa, apporta una perdita maggiore o un male interiore  maggiore. La natura, dando da viv^ere all’uomo, ha una perdita  in sé 0 una degradazione, quantunque parziale e limitata; ma  questa perdita apporta all’uomo un bene interiore.   La mancanza di sicurezza dell’alimento pel domani in que-  sto periodo della preistoria in cui non ancora si erano conosciuti  i metodi e non si possedevano i mezzi per ottenere gli animali  di cui avrebbero potuto servirsi e nutrirsi e né anco si sapevano conservare le carni degli animali di cui si era andati in  caccia, é la nota preminente di questo cosi largo periodo dell’umanità. La storia della civiltà ha per fondamento la storia  dell alimentazione. Il passaggio dalla preistoria alla storia, dalla  vita naturate allo stato di civiltà, si ebbe quando si potè provedere ad un alimento che potesse conservarsi per qualche anno,  assicurando così il prolungarsi della vita umana ed il fissarsi  di alcune popolazioni in dati siti della superficie della terra do-  ve la produzione di date sostanze alimentari potesse avvenire. Scambio e stimoli economici    Si eiiira cosi in un altra c più elevata sfera deH’attività  economica che è quella dello scambio (e questo avviene cosi  nella zona industriale propriamente detta che in quella naturale  ed agricola). Si cominciano così a formare dei piccoli mercati  in cui r uomo vende e compra. Jla s’ intende che, prima che  nella storia si stabilissero dei veri mercati, queste operazioni  di scambio avvenivano egualmente, quantunque in modo più   vago, appetiii ai)parve la libertà e l’ elezione nel lavoro dell’uomo.   Nella sfera dello scambio si ha una maggiore facoltà di  acquisto ed un risparmio di tempo e di forza (ciò che è propria-  mente r attività economica); perchè il soggetto economico vende  ciò che ha prodotto facilmente e bene per acquistare ciò che da  sè stesso non avrebbe i)otuto produrre che male e con molta per-  dita di tempo. E ciò in generale; perchè l’ ingegno umano po-  ti ebbe in ciò darci una smentita, non essendo molto rari quegli  uomini che hanno saputo tanto bene educare il loro ingegno e  1.1 loio attività pratica da diventare valenti produttori di una  varietà di beni e in modo perfetto. E questo avviene cosi per  la produzione dei beni inferiori e materiali che dei beni supe-  riori ed artistici.   Importa notare che lo scambio può avvenire tra questi e  quelli, come con le attività intellettuali dell’uomo. Cosi il lette-  rato, r uomo istruito e dotto, l’ insegnante, il medico, l’ inge-  gniere, l’ avvocato, scambiano il loro sapere, la loro dottrina  e l’arte, con beni materiali. Anche nella sfera dello scambio,  l’acquisto implica una perdita, quantunque la perdita sia ridotta  al minimo; perchè quello che il produttore perde gli è costato relativamente poco lavoro, mentre quello che acquista è per lui  un guadagno, perchè ha un prodotto che si suppone buono, che  egli non avrebbe potuto eseguire, anche perdendo molto tempo.   Per mezzo del lavoro artistico dunque la produzione dei  beni si specializza, mentre questi si possono moltiplicare senza  limiti, perchè ognuno può trovare nell’uomo una sorgente di  bisogni da colmare e nuove comodità che si desiderano, nuovi  beni che riescono a quel fine. E poiché in tutti gli uomini si ha  r istesso metodo e perciò gli stessi bisogni che si tende a sod-  disfare, i nuovi beni prodotti sono ambiti da tutti. Ma qui deve  intervenire l’opera dell’istruzione che sveglia e fa riconoscere  aU’uomo i propri bisogni e fa sviluppare in lui il desiderio di  soddisfarli.   Moltiplicandosi i beni che l’uomo ambisce, egli può acqui-  starli tutti col suo prodotto particolare che alla sua volta viene  ambito dai produttori dello merci altrui, con le quali egli scam-  bia la sua. Il principio economico qui non solo si conserva, ma  si eleva ad una più alta potenza di acquisto.   Ma più tardi 1 ’ uomo ha avuto un istrumento d’acquisto non  solo nel suo ingegno e nelle sue forze muscolari, ma anche nella  macchina che egli, aiutato dalla conoscenza delle leggi mecca-  niche ha prodotto ed applica ancora alla produzione di una  grande varietà di beni.   E necessario qui promettere che la macchina come inven-  zione umana è stata preceduta dalla macchina che è insieme  nell’organismo animale ed umano. L’ organismo infatti è insieme  meccanismo; e se come organismo è qualche cosa di più elevato  del meccanismo che implica, come meccanismo non cessa di  essere macchina; macchina organica si, ma sempre macchina. Lo schema della macchina si ha infatti in tutti gli organi e i  sistemi più importanti deH’organismo; nel cuore col sistema va-  saio annesso; neU’apparecchio digestivo con le sue glandolo, co-  me in ciascuna glandola; nell’apparecchio respiratorio; nei reni  e nella vescica; nel sistema osseo-muscolare-nervoso. L’occhio è  una macchina, come l’orecchio. Anche nel cervello si trovano  gli elementi più complicati della macchina; all’istesso modo che  le funzioni di tali organi sono insieme funzione e meccanismo. È  proprio della macchina costruita dall’ ingegno umano il venir    "•uw'mo'' • ‘‘‘ Hìacchina die è or-   moNe oigan.smo, anche essa per mez^o di questo.nuove   l.i macchina esteriore, sia immediatamente che mediatamente  per mezzo delle forze fisiche. ^uiawmente,   L’apparire della macchina è stato accolto con grande entu- ..asmo da tutto il mondo, perchè ha portato una fraudo rivo  uz.one nel campo della produzione, poiché l’A accresciuta co.isi-  erc^olmcnte; ma ha anche contribuito ad una maggiore spe-  CK hzzaz.one d. produzione. E poiché la macchina è stata appli-  c a anche al trasporto dei beni in tutto il mondo, per mare e  PCI terra, ha anche contribuito ad accrescere in modo come  non era possibile prima, il commercio mondiale. Sicché ol!  e solamente possibile a pochi uomini godere di una grande   J-h nomi I che sono nel mondo. Si ha cioè il grandioso feno-  meno de la umversalizzazione del godimento dei beni. È questo  nsuUato di una lunga storia nell'attivirà degli scambi che  pimcipiata in modo limitato, tra individuo e individuo, per una’   lunpo tra vari aggruppamenti umani, tra varie popolazioni e  mi/ioiii, e tra tutte le parti del mondo. È questa veramente la   pffffcernza.''"’ « dell’industrialismo   S’intende che se prima lo scambio comincia cedendo merce  per merce, e in certe condizioni questo può sempre avvenire  lo scambio e.1 commercio che rendono accessibili le merci da  |.cr t„„o, h„„ dovuti avvenire con la moneta che é,m mé.t  tei mine, inventato da. governi, tra due merci o più merci; per cui  «1 lavora, cioè si danno le proprie forze, il proprio ingegno e   a propria produzione, per guadagnare danaro e si ambisce que-  sto per provvedersi di tutti i beni di cui si ha bisogno. Segue  ancora che, in ragione che la produzione, gli scambi e il cL-   moneta ìr^nmiido; È qui necessario far notare che, se la parola stimolo inter-  lene a ogni passo nella trattazione dei fenomeni fisiologici e  pa ologici, come nei fenomeni psicologici, intendendo la psicoogia in tutta la sua ampiezza, in tutte le sue forme e in tutti i  suoi gradi, apparisce chiara la necessità dell’ intervento frequente  di questa stessa parola anche nello studio dei fenomeni econo-  mici, giacché anche questi hanno un fondamento fisiologico e  psicologico, senza il quale non potrebbero essere. Così nella pro-  duzione si ha uno stimolo interiore a produrre, il bisogno inte-  riore organico e psicologico, immediato o prossimo, che deve  sparire, facendo col lavoro esistente il bene che si desidera: l’im-  magine interiore cioè deve tradursi in atto col lavoro produttivo  e che diventa anche stimolo esteriore, la materia esteriore otte-  nuta col lavoro, per mezzo della coltura (sostanze vegetali) o con  rallevamento del bestiame (sostanze organiche). Queste debbono  alimentare e far vivere 1’ uomo, trasformando la materia morta  e bruta che deve dargli alcune comodità o godimenti dell’ animo.   Si ]Hiò dire che sono gli stimoli e gli stati interiori a spin-  gere 1 uomo all attivila; e più questi sono numerosi ed elevati  più muovono l’individuo al raggiungimento dei suoi materiali od  alti filli che egli vorrebbe vedere tradotti nel mondo reale. Ma  alla sua volta gli stimoli interiori sono il riflesso di stimoli este-  riori, di oggetti già percepiti o immaginati. È questo ciò che si  esprime con la parola ambizione umana la quale, se è la nota  preminente dei grandi uomini è anche una nota importante degli  uomini mediocri e d’ infimo ordine, giacché ogni uomo, secondo  il grado della sua costituzione mentale e della conoscenza del  mondo esteriore, naturale ed umano, vorrebbe far suoi tutti i  beni che conosce, sia di basso che di elevato ordine. Il cibo è uno  stimolo per l’alimentazione e la fame è uno stimolo per provve-  dersi del cibo. Cosi il gusto letterario e le conoscenze scientifiche  possono essere uno stimolo interiore per ajiprofondirsi nel campo  dell’arte e delle.scienze.   Non solo sono stimoli i due termini economici, oggetto e  soggetto, 1 uno per 1 altro: nia è anche stimolo il mezzo termine  fra le due merci o tra il soggetto e l’oggetto, cioè la moneta.  L come è nota della natura umana l’insaziabilità dei beni mate-  riali e spirituali, quando questi siano conosciuti; ciò che è dif-  ficile, come 1 illimitatezza nell’acquisto, cosi avv^iene per la mo-  neta. Di questa anche 1 uomo non è mai sazio di possederne;  perchè riconosce in essa una possibilità ed uno stimolo per acquistare altri beni. Ed il possesso è di vari gradi. Vi è il pos-  sesso limitato della moneta, per quanto questa possa essere grande,  e di essa 1 uomo si contenta e che vuole o conservare o spen-   deie, 0 di questa egli si serve come stimolo per la produzione  di nuove ricchezze.   Proprio quando la vita economica, industriale, commerciale,  è molto complessa ed estesa, e tutto il mondo umano sembra  un grande mercato come è ora, per cui grandi sono i bisogni c  le richieste dei beni da per tutto; e l’ambizione umana si estende  ed intensifica ovunque, allora la ricchezza può essere adoperata  come strumento (stimolo) per acquistare nuove ricchezze. Cosi  viene stimolata la sete deH’uorno per l’acquisto indefinito della  ricchezza; perchè vi è richiesta di tutti i beni che egli conosce  e di cui vuole godere, come da per tutto viene apprezzato e  richiesto il lavoro dell’uomo..Si comprende in tal modo come  piu sovrabbonda il danaro in una società, più gli uomini.sono  spinti all attività pratica e cresce la loro ambizione per guada-  gnare e godere. Uomini che hanno quest’aspirazione e non hanno  danaro, ma riconoscono di avere ingegno, forza muscolare e  tempo per arricchirsi, ricorrono al prestito del danaro. Ma cosi  si entra in una categoria economica più elevati, quale è appunto  il presfito, il cui polo opposto è il capitale. Il semplice possesso  della ricchezza, sia questa rappresentata dalla moneta o da altre  specie di beni immobili e mobili o da prodotti industriali od  artistici, se è come semplice servizio personale o della famiglia,  non merita il nome di capitale. Si richiede invece che essa si.a  data in prestito. ll capitale-prestito cosi rappresenta un più alto grado dello  scambio; e, come in questo, ciascuno dei due termini o soggetti  economici acquista e perde, cosi avviene nel capitale-prestito;  ma anche qui la categoria di acquisto e perdita implica una più  elevata economicità. Cosi colui che prende in prestito acquista la  ricchezza ma la perdita e rimandata aH’avvenire; si ha cioè il  bene presente; ma la perdita che dovrà aversi nell’ avvenire  consisterà non solo nella restituzione del capitale, ma anche  nell’ interesse convenuto. Frattanto l’uso provvido ed economico  del capitale avrà dovuto fargli acquistare nuove ricchezze. An-  che nuove ricchezze acquista il capitalista, cedendo tempora-  neamente la sua ricchezza ad altri; ma va incontro anche ad  una perdita temporanea della sua ricchezza durante il periodo  della sua cessione; perchè non se ne può servire.   Col capitale e col prestito l’attività economica da una sfera  limitata e quasi individuale, quale è quella dello scambio, da  prima in una ristretta cerchia, s’ingigantisce ed estende da pri-  ma in ciascuna nazione e più tardi gradatamente in tutto il  mondo; con la fondazione o moltiplicazione delle banche che  dànno una grande diffusione al capitale e al credito, stimolando  l’attività economica produttiva e portando la diffusione delle  merci da per tutto. E ciò con l’aiuto della macchina che ha  moltiplicato e specializzato la produzione dei beni industriali e  li fa penetrare, come vi fa penetrare anche i beni naturali, in  tutto il mondo umano. Ma per quest’attività si richiede l’ ingegno;  all’ istesso modo che 1’ esercizio di essa fa sviluppare Tingegno.   La produzione dunque della ricchezza capitalizzata e capitalizzante, per cui si tende sempre a ridurre al minimo la   perdita, nello stesso tempo che si tende a jiortare al massimo  l’acquisto, deve essere sempre l’obbietto dell’attività del soggetto  economico. Me questa che già fece esistente il capitale si affie-  volisce, l’oggetto per mancanza di governo e di direzione tende  ad arrestarsi nel suo processo e, per le mutate condizioni este-  riori, tende a deviare, a perdere la sua potenzialità di acqui-  stare ed a venire cosi scemato come semplice ricchezza.   Sicché, se dalla produzione diretta primitiva alla produzione  capitalistica si ha una progressione per cui pare che la ricchezza  si produca da sé, indipendentemente dal soggetto, pure l’attività  di questo deve intervenire, cercando di farla progredire ed ac-  crescere. Deve prevedere il cammino che si può e si deve fare e provvedere alla conservazione della ricchezza ed alla sua dif-  lusione proficua; ciò che è il lavoro di critica e di speculazione  che il soggetto deve tare. Ad ogni modo questo lavoro, se im-  plica una piccola perdita di tempo e di forza organica e psichica,  pure riduce con l’esercizio al minimo questa perdita; onde si  può dire che se il lavoro di produzione che da prima è grande,  secondo la quantità e la specificità d’impiego del capitale, esso  è di poi menomato e perciò agevolato; anzi deve al meccani-  smo, guidato dall’ intelligenza, il suo grande sviluppo.   All’incontro nella produzione naturale il soggetto deve so-    stenere una lotta intensa contro il suo oggetto, la natura indomita e ribelle, che può essere vinta temporaneamente ma non  definitivamente; giacché essa offre sempre nuove difficoltà al  soggetto produttore, anzi si può dire che dai primi tempi della  \ ita umana sulla terra, queste difficoltà si sono andate sempre  accentuando. E ciò perchè, se la natura da prima, dopo uscita  dal suo stato selvaggio, dava facilmente all’ uomo i suoi pro-  dotti, col progresso del tempo gliene ha dato sempre meno, an-  che essendosi moltiplicato l’ ingegno e il lavoro dell’ uomo volto  contro di essa. E ciò mentre gli uomini si moltiplicavano ed ac-  crescevano con la loro associazione i loro sforzi per la produ-  zione agricola.   Sembra che d’ oggi innanzi il lavoro dell’ uomo contro la  natura per obbligarla a produrre ciò di cui ha bisogno diverrà  sempre più intenso ed i mezzi più necessari alla vita diverran-  no sempre più difficili a conquistare. In altri termini la lotta tra l’uomo e la natura diverrà sempre più intensa; perchè la fina-  lità di questa è in opposizione alla finalità di quello; ed una conciliazione solamente è possibile alla condizione che ciascuno dei  due termini conceda all’ altro qualche cosa di sé, senza annul-  larsi, anzi sostenendosi l’ uno con l’altro. Questo fa vedere che  r uomo deve essere limitato nelle sue pretese verso la natura e  che, se questa deve dare qualche parte di sé all’ uomo, non  può e non deve dare tutta sé stessa se non a costo di annullarsi;  perchè allora anche la natura, dominata dall’ uomo ed alla quale  questi domanda i mozzi di vita, dovrà venir meno alle sue pro-  messe, producendo in lui le più grandi delusioni.   Frattanto, mentre i prodotti dell’ industria si moltiplicano  indefinitamente e progressivamente da per tutto, in quantità e  qualità, richiedendo questa un esiguo lavoro muscolare e meno  tempo, ciò che incoraggia l’ irregimentazione dei lavoratori, tanto  più perchè questi vi hanno la promessa di una vita agiata e  comoda, quasi sempre in città, senza sospettare che un giorno  avessero a scarseggiare gli alimenti necessari alla vita, i lavo-  ratori delta terra, all’ incontro debbono sostenere una lotta lunga  faticosa ed intensa per procacciarsi di che vivere. Del valore e delle sue forme inferiori   Le attività economiche, come quelle fisiologiche, sono cosi  connesse ecl intralciate fra di loro che l'esposizione logica e siste-  matica ne riesce oltremodo difficile, Non si può trattare un a-  spetto, una categoria economica se in essa non intervengano,  sottintese o manifeste, altre categorie. Sicché da prima si può  avere una conoscenza parziale o sconnessa di alcune funzioni;  e solamente dopo che si è raggiunta la piena conoscenza di  tutte, si può principiare a vederle ordinatamente. È que.sta la  ragione della difficoltà nello spiegarsi i fenomeni economici. E  l’ordine consiste neH’universalizzazione dei vari principii e nel  1’ unificazione di que.sti in tutte le loro gradazioni, in tutti i loro  movimenti, nei loro reciproci rapporti, tanto da apparire come  lo svolgimento di un principio solo. Sotto quest’aspetto molto  importante è il principio del valore in economia politica, cosi  in quella naturale come in quella industriale; e in tutte le isti-  tuzioni umane nelle quali questo concetto interviene. Ma solo una  esposizione storica e sistematica, in che consiste la vera tratta-  zione logica della dottrina, può farcela intendere in tutti i suoi  gradi ed aspetti. Negli ultimi tempi si è parlato di valore in materia di arte  di scienza, di filosofia, di religione; ma poiché in tali rami di  attività umana, cosi come sono stati trattati, la dottrina del va-  lore non é dedotta da un principio più universale che comprenda  e questi e tutti gli altri rami del mondo naturale ed umano,  quella trattazione riesce incomprensibile e vana. E, benché si  possa dire che la filosofia e la religione implichino la più alta  sfera del valore, pure, se esse v^engono considerate come per  sé, senza alcuna comunicazione col resto del mondo, non come   il risultato di uno svolgimento e di una storia, il concetto del  valore che da esse si può trarre non deve essere soddisfacente.  E se il valore è una categoria universale che interviene in tutti  i gradi deiressere, nel mondo metafisico, come nel fisico e nello  spirituale, in ciascun grado ha un aspetto particolare, ha qualche  cosa d'identico e di differente con la stessa categoria di valore  degli altri gradi del mondo reale. Far distinguere perciò le dif-  ferenze dall’ identità del valore in ciascun grado della realtà è  il dovere di colui che tratta questa materia. Da prima potrebbe sembrare che la teoria del valore si  identificasse con quella del bene; ed in vero vi è molta identità  fra le due categorie. Però del bene i filosofi e i moralisti hanno  dato più un concetto comprensivo che analitico e storico; ed  alcuni Tànno identificato con Dio stesso, il sommo bene. Essi  hanno anche fatto notare la varietà dei beni che sono nel  mondo e l'ànno anche sistematizzati; hanno messo il bene e tutti  i gradi di esso in correlazione col male e con tutti i mali pos-  sibili. Ma la dottrina del valore include quella del bene e del  male insieme, però le compie, mettendole in una posizione dua-  listica ed unitaria insieme, quasi drammatica; scinde cioè la ma-  teria in due termini in lotta fra di loro, rorganismo e il mondo  esterno che ha valore per quello, può cioè tornargli a bene;  vede una dualità tra l'anima, la mente e il mondo esterno. E se  nella prima zona l’organismo vivente deve accettare e subire il  mondo esterno quale è, pure reagendo contro di esso; nella se-  conda zona r anima e la mente possono modificare per sè il  mondo esterno, elevandolo; o produrre addirittura qualità nuove neiroggetto. E questo l’aspetto nuovo ed originale della dottrina del va-  lore, il cui regno in verità é quello della vita organica, vegetale  ed animale, le zone cioè superiori della natura; ed anche quello  deH’aniraa umana, nelle sue attività inferiori e nelle superiori,  intellettive, pratiche ed anche creative, che sono i gradi più  eminenti del mondo umano. L’attività umana perciò diventa essa  stessa una forma altissima di bene, il bene attivo, limitrofo a Dio  stesso: non il bene immobile che può anche menomare se stesso  e il suo termine opposto che presuppone e per cui è; può pro-  durre cioè il male, dal quale può, è vero, di nuovo nascere il  bene che rientra nella sua ricostituzione storica e progressiva.  Ma, se r organismo e la mente rappresentano il regno e la  vitalità del valore, essi non esauriscono tutta la natura; vi è  in questa qualche cosa che essi presuppongono, senza di che  non potrebbero essere e muoversi; e che si può dire il loro  presupposto. E se si va a fondo nello studio della natura questo  che noi chiamiamo presupposto si risolve in una serie di pre-  supposti, una serie di gradi di cui ciascuno è presupposto e  presuppone altri. E questa è pure un’ ampia zona del valore  che si può dire puramente naturale, la quale, studiata, apparisce  come l’unità e la sistematizzazione di altre sottozone. Si ha cosi  la zona fisica la quale comprende e quella della materia e quella  delle forze. Sembra a prima vista che questa sia come chiusa  in sè ed isolata dal regno della vita e perciò fuori il mondo  del valore. Forme superiori del valore   Il processo ascensivo e discensivo, chimico, minerale, il quale,  non bisogna dimenticarlo, è sempre un processo di elevazione  e di menomazione insieme del valore, diventa più intenso in  quella sfera più elevata della chimica che è 1’ organica in cui  entra in composizione il carbonio. Pure quest’ attività è relativa-  mente qualche cosa di semplice se si studia in sostanze singole  che sono fuori dell’ organismo vegetale ed animale o estratte  da questi. Ma se si.studia entro di questi, l’ intensità trasforma-  trice del movimento chimico e di valore organico diventa stra-  ordinariamente complessa, quantunque questa complessità sia  minore nella pianta e maggiore nell’ animale. In quella è con-  siderato il lavorio complicati vo mentre è vivente; e con la morto  si ha il lavorio analitico. Nella vita interna dell’animale albi  contro intensissimo è il lavorio di scomposizione, come è quello  di composizione e di reintegramento, in tutti gli atti della vita,  sia considerata in ciascuna cellula e in ciascuna fibra che in  ciascun organo o sistema e nell’ unità funzionale di questi. Qui  il concetto del valore, cosi in ciascuno elemento della vita,  come in ciascun organo e tessuto e nell’ insieme dell’organismo  vivente, diviene di tanta molteplicità, complessità e varietà, che  la mente umana non può seguirlo in tutti i suoi elementi e in  tutti i suoi intimi processi.   Vi è una più alta regione della natura, rappresentata dalla  vita animale e vegetale nel loro insieme, come si svolge nel  mare dove vivono insieme piante ed animali in lotta fra loro;  e sulla superficie della terra che è rappresentata dal bosco nel  cui mezzo gli animali vivono e prosperano, come è avvenuto  nelle epoche primitive della natura vegetale ed animale. Qui ciascun animale, ciascuna pianta, è un elemento della vita na-  tumle, animale e vegetale, nel suo insieme e nella sua univer-  salità, nella quale si può riscontrare, in proporzioni ancora vaste  ed universali, il processo di elevazione e di riduzione, che si ha  in ciascuno organismo vivente, onde piante e generazioni di  piante muoiono ed altre nascono, come animali e generazioni di  ammali muoiono ed altri nascono; ed alcuni servono di cibo  (hanno un valore) per altri: la corruzione degli uni è la venerazione degli altri. Ma per la vita vegetale ed animale hanno  un valore ancora il clima, le condizioni atmosferiche, le condi-  zioni del suolo ed anche le condizioni storiche di questo; giac-  che la vita vegetale ed animale nella loro lunga storia, come  elidono a modificare lo stato del terreno, contribuiscono ancora  a modificare la vita vegetale ed animale, onde animali si nu-  trono m modo più 0 meno rigoglioso di piante e di altri ani-  mali; e la dissoluzione delle piante e degli animali rende più  energica la vitalità delle piante.   hin qui vi ò un processo puramente inconscio di movimenti  naturali e di elementi, di cui gli uni hanno valore per gli altri,  -la, benché l’animale distingua ciò che può avere un valore  Ku- lui (positivo 0 negativo), come l’alimento, l’acqua, la tana,  .1 c ura pei figli, la ricerca del clima a lui propizio, la fuga dai  leiicoli, alcune di queste cose sono un prodotto puramente na-  urale, che l’animale trova d’ innanzi a sé; solo alcuni animali  ivendo il potere limitato di costruirsi il nido e la tana altre  i Olio tenomeni istintivi. Apparso l’uomo con l’intelligenza di cui è dotato, che egli  < sercita e sul mondo circostante e su sé stes.so, il suo organismo  I sua anima, e tutto ciò che ha fiuto suo, nel mondo esterno  Ultra la natura e gli elementi che la costituiscono, acquistano  I 11 pili alto valore. Studiando sé stesso, egli non può non av-  ' crtire e scoprire i bisogni, le lacune che si generano conti-  1 uamento nel suo organismo e nel campo della sua mente; e  con la sua intelligenza prevede i bisogni avvenire. Nello stesso  t ‘inpo, essendo messo in rapporto col mondo esterno, egli studia  questo negli elementi, nelle qualità e proprietà, che lo costitui-  s-ono, nei suoi movimenti; cerca di adattarlo a sé; e non solo  d colmare i suoi bi.sogni per mezzo di qualche cosa, di qualche   elemento di esso; ma anche di elevare il proprio benessere, di  assicurarlo per sè ed i suoi per l’ avvenire. Tutto questo processo  è avvenuto dal principio della storia dell’ uomo sulla terra e si  è andato progressivamente affermando, intensificando e svolgen-  do, sino a noi. E non solo non si è arrestato; ma con lo studio  progressivo della natura, nella sua materia e nelle sue forze, .sembra voglia assumere proporzioni più vaste anche nel nostro  tempo in cui non si lascia nulla di tentare e di studiare per  applicarlo al miglioramento ed al progresso umano. Questo lavoro l’uomo ha compiuto empiricamente ed incon-  sapevolmente dai primi tempi; e più tardi in modo più o meno  scientifico, organico e progressivo. Cosi deve essere inteso il  progresso che l’ umanità ha fatto nel campo del sapere. A questo  progresso nel regno della conoscenza si è andato sempre asso-  ciando un progresso nell’ attività pratica la quale è divenuta  anche materia di studio per l’ uomo; questi due ordini di  attività essendo 1’ uno indivisibile dal’ altro e l’uno stimolando  1 altro nel suo sviluppo. A questo processo coiioscitivm e pratico,  che implica un lavoro distintivo delle cose si è associato un  progresso nel linguaggio. Ad ogni atto distintivo o cosa distinta  applicandosi una nuovni parola, ciò ha contribuito al lavoro di  associazione e di conservazione delle conoscenze e delle atti-  vità umane.   Sarebbe un lavoro importante ma lungo seguire questo  fenomeno nella storia, per cui si è riconosciuto un valore ad un  dato minerale, ad una data pianta o animale, che hanno con-  tribuito alla soddisfazione di un bisogno organico o al mantelli  mento della vita o a dare certe comodità. Si è riconosciuto nelle  parti di alcune piante e nelle sostanze animali un valore nutri-  tivo e conservativo. E il primo valore che l’uomo ha cercato  nelle cose è stato quello che ha potuto contribuire a mantenerlo  in vita, come ha tatto 1 animale. Sono state cioè le cose neces-  sarie che egli ha cercato. Fatto sicuro del vivere, egli ha cercato  a ben vivere; quindi la ricerca e l’uso delle cose utili. Ma, accanto a questa attività, si è sviluppata quella inventiva, per cui  egli, aiutato sia dal suo ingegno che dalle scoperte scientifiche,  ha cercato di costruire istrumenti, congegni, apparecchi e più  tardi, macchine, che contribuissero a modificare le inatGrie che dovessero essergli utili. Sicché da una parte ha impiegato le  sue attività intellettive a scoprire, nei regni delia natura, ele-  menti, sostanze, energie, che potessero giovargli, dall’altra ha  cercato di trovare i mezzi per servirsene. Queste attività dal loro più primitivo inizio nella storia  sino a noi, attraverso i millenni, si sono andate svolgendo ed esten-  dendo con l’estendersi delle comunicazioni e delle associazioni  umane. Sarebbe una ricerca importante seguire nella storia il  processo per cui 1’ uomo, singolo da prima, ha trovato un’utilità  in un dato animale, in una pianta o in un minerale. Si può rin-  tracciare questo cammino nelle letterature antiche, medioevali e  moderne di tutte le nazioni; giacché in varie epoche si vedono  nominati speciali metalli, piante ed animali, ai (]uali o alle parti  dei quali 1 uomo ha attribuito un valore e di cui si é servito. Così  l’uomo mano a mano ha aggiunto al valore delle cose, latente ed  inconscio, un nuovo valore. E, se da prima questo era qualche  cosa di limitato, più tardi al primitivo valore si sono aggiunti  nuovi valori, nuovi usi della cosa; nuovi congegni si sono in-  ventati, nuovi metodi si sono adoperati per poter estrarre la  cosa, modificarla, farla servire ai vari usi della vita; metterla  in commercio affinché tutti gli uomini ne godano. Tanti metalli  e metalloidi che dalle epoche primitive della natura erano se-  polti nelle viscere della terra, aventi una semplice potenzialità  di valore chimico, vengono disseiipelliti dall’ uomo ed ai quali  la civiltà moderna dà alte attribuzioni economiche, come l’oro,   1 argento, il ferro, il rame, il solfo, il carbonio, ecc. Hi sa che  se presentemente ipiesta sola unica sostanza, il carbonio, veni.sse  a mancare, tutto il ritmo della vita contemporanea verrebbe  arrestato; giacché é un istrumento di moltiplicissime attività  tisiche, meccaniche, chimiche e perciò, si può dire, rende possi-  bile la vita economica del nostro tempo. Ma questi bisogni acciescono 1 attività umana la quale si volge a rintracciare le  •sostanze di cui ha bisogno, da per tutto, cosi sulla superficie  ionie nelle vi.scere della terra. Anche le forze fìsiche le quali  prima erano in balla della natura, come le forze meccaniche,  il calorico, la elettricità,.sono state non solo conquistate e domi-  nate dall’uomo ma ancora dirette e specializzate per la produzione  di certi dati movimenti, beni o comodità della vita. La forza meccanica e l’elettricità hanno dato un impulso straordinario  alla civiltà odierna. Più tardi 1’ uomo crea e dà certe attribuzioni di valore alle cose, come fa con la moneta, tanto necessaria  al mondo economico. Inoltre il v^alore acquista un nuovo e più  alto contenuto ed un significato nuovo nel mondo psicologico  ed artistico, come nella sfera religiosa. Ma in queste ultime e  così alte sfere dell’attività umana tale dottrina merita una trat-  tazione a parte. Nicolò Raffaele Angelo D’Alfonso. N. R. D’Alfonso. Nicolò d'Alfonso. Keywords: principii economici dell’etica, valore superiore, valore inferiore, economia, principio di economia di sforzo razionale – scambio, exchange – worth, assiologia, valore economico, l’economia di Platone, l’economia di Aristotele, linceo, dissertazione su Kant ai lincei – naturalismo economico – no positivista – critica a la psicologia criminologica positivista, Amleto, lo spettro di Amleto, Macbeth. Linguaggio e mente, il sole luminoso, l’oggetto rotondo, la pianta fiorisce – logica reale – psicologia del linguaggio, la storia del linguaggio, storia e prestoria. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alfonso” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza

 

Grice ed Algarotti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiano. Grice: “You’ve got to love ‘il conte Algarotti’; he is the typical Italian philosopher of language, relishing on ‘la bella lingua,’ by which they do not mean the Roman! “La Latina, in bocca di un popolo di soldati, e concise e ardimentosa.’” Grice: “Algarotti thinks that the Florentines have enriched it – ‘Imagine Aligheri in Latin!” – Grice: “All that should be lost on Oxonians, but it ain’t!” – Consider ‘conciseness.’ One of my conversational maxims is indeed, ‘be concise, i. e. or viz., avoid unnecessary prolixity [sic].” – So, if the Roman tongue was the tongue of soldiers, and a soldier needs to be concise in communicating with another soldier – The justification of the maxim is in the practice of ‘soldiering.’ With ‘ardimentosa’ we have moer of a problem!” – Grice: “In any case, Algarotti’s excellent point is that each conversational maxim has its root in the practice of the corresponding conversants!” -- Grice: “Nobody can fail to be enchanted by the drawing by Richardson of Algarotti!” -- essential Italian philosopher. Grice: “I don’t have a monicker, but Algarotti had two: il cigno di Padova and il Socrate veneziano. Filosofo. Spirito illuminista, erudito dotato di conoscenze che spaziavano dal newtonianismo all'architettura, alla musica, era amico delle personalità più grandi dell'epoca: Voltaire, Jean-Baptiste Boyer d'Argens, Pierre Louis Moreau de Maupertuis, Julien Offray de La Mettrie. Tra i suoi corrispondenti vi erano Lord Chesterfield, Thomas Gray, George Lyttelton, Thomas Hollis, Metastasio, Benedetto XIV, Heinrich von Brühl, Federico II di Prussia.   Saggi, 1963 (testo completo) Nacque da una famiglia di commercianti. Dopo un primo periodo di studio a Roma continua gli studi a Bologna, dove affronta le diverse discipline scientifiche nella loro vastità. Si trasfere a Firenze per completare la propria preparazione letteraria.  Inizia a viaggiare, raggiungendo Parigi. Presentare il proprio newtonianismo, opera di divulgazione scientifica brillante. L'opera fu prima apprezzata, e poi denigrata da Voltaire, che dal lavoro del suo caro cigno di Padova — come era solito appellarlo — trasse alcuni temi dei suoi Elementi della filosofia di Newton. Voltaire e Algarotti si erano conosciuti personalmente a Cirey nello stesso periodo in cui l'italiano preparava il saggio. Dopo il periodo trascorso in Francia, Algarotti si reca in Inghilterra, per soggiornare per qualche tempo a Londra, dove fu accolto nella Societa Reale. Tornato in Italia si dedica alla pubblicazione del Newtonianesimo. Dopo un breve ritorno a Londra, andò a visitare alcune zone della Russia (fermandosi in particolare a San Pietroburgo) e della Prussia.  Quando il re Federico si recò a Königsberg a incoronarsi, Algarotti si trova in mezzo gli applausi e il giubilo di quella potente e valorosa nazione misto e confuso coi principi della famiglia reale, e stette nel palco col re, spargendo al popolo sottoposto le monete con l'immagine di Federico. Fu in tale congiuntura che questi conferì a lui, quanto al fratello Bonomo e ai discendenti della famiglia Algarotti, il titolo di “conte”, meno vano quando è premio del sapere, e lo fece suo ciambellano e cavaliere dell'ordine del merito, mentr'era alla corte di Dresda col titolo di consigliere intimo di guerra. Dal momento che conosce Federico né l'amicizia, né la stima del re, né la gratitudine, la devozione e il sincero affetto del cortigiano vennero meno, né soffersero mai alcuna alterazione. L’amicizia fra Algarotti ed il re e estesa anche alla sfera più intima. Il re lo volle non solo a compagno degli studi e dei viaggi, ma altresì dei suoi più segreti piaceri, essendoché della corte di Potsdam, ora fa un peripato, ed ora la converte in un tempio di Gnido, il che significa: in un tempio di Venere. Utilizza la propria influenza anche a favore degli oppositori filosofici a Venezia, Bologna, e Pisa. Altre opere: “Viaggi di Russia”; “Il Congresso di Citera” -- un romanzo dedicato ai costumi galanti e amorosi rivisitati secondo quanto osservato nei diversi luoci in cui soggiorna. Altre opere: edizione con indice analitico – reproduzione anastatica -- Poesie -- Epistole in versi -- Annotazioni alle epistole -- Rime giusta l'ediz. di Bologna -- Elegia ad Francisci Marive Zanotti Carmina -- Dialoghi sopra l'ottica Neutoniana -- Breve storia della Fisica ed esposizione dell' ipotesi del Cartesio sopra la natura della luce e de' colori. I principi generali dell'ottica -- La struttura dell'occhio e la maniera onde si vede; e si confutano le ipotesi del Cartesio e del Malebranchio intorno alla natura della luce e de colori -- Esposizione del sistema d'ottica neutoniano. Il principio universale dell'attrazione -- Applicazione di questo principio all'ottica -- Si confutano alcune ipotesi intorno la natura de colori, e si riconferma il sistema del Neutono -- Opuscoli spettanti al neutonianismo. Caritea, ovvero dialogo in cui spiega come da noi si veggano dritti gli oggetti che nell'occhio si dipingono capovolti e come solo si vegga *un* oggetto, non ostante che negli occhi se ne dipingano *due* immagini -- Dissertatio de colorum immutabilitate eorum que diversa refrangibilitate -- Memoire sur la recherche entreprise par m. Du fay, s'il n'y a effectivement dans la lumie re que trois couleurs primitives -- Sur les sept couleurs primitives, pour servir de réponse à ce que m. Dufay a dit à ce sujet dans la feuille du Pour et contre -- Le belle arti. L'Architettura. La Pittura. L'Accademia di Francia ch'è in Roma. L'opera in musica. Enea in Troja. Ifigenia in en Aulide: opera -- Sopra la necessità di scrivere nella propria lingua -- La lingua francese -- La Rima -- La durata de' regni de' re di Roma -- L'impero degl'incas -- Perchè i grandi ingegni a certi tempi sorgono tutti ad un trat o e fioriscono insieme -- se le qualità varie de' popoli originate sieno dall' influsso del clima, ovveramente dalle virtù della legislazione -- Il gentilesimo. Il Commercio -- Cartesio -- Orazio -- La scienza militare del segretario fiorentino. Discorso militare -- La ricchezza della lingua italiana ne' termini militari -- Se sia miglior partito schierarsi con l'ordinanza piena oppure con intervalli -- La colonna del cav. Folfrd -- Gli studj fatti da Andrea Palladio nelle cose militari -- L'impresa disegnata da Giulio Cesare contro a' Parti -- L'ordine di battaglia di Koulicano contro ad Asraffo capo degli Aguani. L'ordine di battaglia di Koulicano a Leilam contro Topal Osmano. Gl'esercizi militari de' prussiani in tempo di pace -- Carlo XII re di Svezia -- La presa di Bergenopzoom. La potenza militare in Asia delle compagnie mercantili di Europa -- L'ammiraglio Anson -- La scienza militare di Virgilio -- La guerra insorta l'anno MDCCLV tra l'Inghilterra e la Francia -- Il principio della guerra fatta al re di Prussia dall' Austria, dalla Francia, dalla Russia, etc. -- Gl'effetti della giornata di Lobositz -- La condotta militare e politica del ministro Pitt -- Il poema dell'arte daila guerra -- Il fatto d'armi di Maxen -- La pace conchiusa l'anno MDCCLXII tra l'Inghilterra e la Francia -- La giornata di Zamara -- Viaggi di Russia -- Storia metallica della Russia -- Lettere a milord Hervey sopra la Russia -- Lettere al marchese Scipione Maffei sullo stesso argomento -- Congresso di Citera -- Giudicio di Amore sopra il Congresso di Citera -- Vita di Stefano Benedetto Pallavicini -- Sinopsi di una introduzione alla Nereidologia -- Lettera sopra il prospetto o Sinopsi della Nereidologia. 387 Risposta dell' Autore -- Gl'effetti dell'invasione dei goti e de'vandali in Italia -- Le Accademie -- Michelagnolo Buonarroti -- Gl'italiani -- Il passaggio al sud per il norte -- L'industria. Gl'inglesi -- Bernini -- Metastasio -- Gl'abusi introdottisi nelle scienze e nelle arti -- Le donne celebri nella letteratura -- La difficoltà delle traduzioni -- Il commercio -- Fontenelle -- La forza della consuetudine -- L'utilità dell' Affrica per il commercio -- Il secolo del seicento -- Ovidio -- Cicerone -- Plutarco -- I romani -- L'etimologie -- I  principi dotti -- L'eleganza nello scrivere del Vasari e del Palladio -- Galilei -- La maniera onde si venre a popolar l'America -- Dante Alighieri --  La lingua francese -- Voltaire -- Euclide -- Le misure itinerarie degli antichi -- La questione della preferenza tra gli antichi e i moderni -- Il secolo presente -- Omero -- Lettere di Polianzio ad Ermogene intorno alla traduzione dell'Eneide del Caro -- La Pittura -- Descrizione dei quadri acquistati per la Galleria di Dresda -- La prospettiva degli antichi -- Pitture ed altre curiosità di Parma -- Pitture di Mauro Tesi -- Pitture di Cento -- Pitture di Bologna -- Pitture di varie città di Romagna -- L'Architettura -- Un'antica pianta di Venezia, prete so intaglio di Alberto Durero -- L'uso dello appajar le colonne -- L'origine delle basi delle colonne -- Descrizione dei disegni di Palladio ed altri per la facciata di s. Petronio di Bologna -- Delle antichità ed altri edifizj di Rimini -- Delle cose più osservabili di Pisa -- Progetto per ridurre a compimento il R. Museo di Dresda -- Argomenti di quadri dati a dipingere a' più celebri Pittori moderni per la R. Galleria di Dresda -- Lettere scientifiche -- Lettere erudite -- Il Cesare tragedia di Voltaire -- EUSTACHIO MANFREDI -- Saggio tritico sulle facoltà della mente umana dello Swift -- L'opera de natura lucis del Vossio -- Omero -- I poemi del Tasso -- Milton -- La traduzione di Omero fatta dal Salvi -- Il poema le Api del Rucellai -- Iscrizioni ed epitaffj rimarcabili -- Sandersono -- Iscrizioni per la chiesa cattolica di Berlino -- Le traduzioni delle sue opere -- Il moto dell'apogeo della luna -- Le comparazioni -- Gli Scrittori italiani del cinquecento -- L'ANTI- LUCREZIO del card. di Polignac -- Gl'abitanti del Paraguai -- Alcuni plagiati de' francesi -- Le cose che i irancesi hanno imparato dagl'italiani -- L'invenzione degli specchj ustorj di Buffon -- L'Edipo di Sofocle -- L'ULISSE del Lazzarini -- L'elettricità -- Il CATONE dell' Addison -- Elogio di Giovanni Emo -- I fosfori -- La doppia rifrazione de' prismi di cristallo di rocca. -- La diffrazione della luce. 355 rocca -- Le Poesie di Gio: Pietro Zanotti -- Pope -- Lo stile di Dante -- L'opinioni del Rizzetti intorno la luce -- La stranezza di alcuni paralelli -- Il poema di Milton -- Il libro De orli et progressu morum del p. Stellini -- Elogio del Caldani -- Gl'influssi della luna -- L'abuso della filosofia nella poesia -- Il Poema del Trissino -- La maniera di seminare insegnata da Alessandro del Borro -- L'operetta Il Congresso di Citera -- Pregi degli scrittori toscani -- Le due tragedie di Mason r Elfrida ed il Carattaco -- L'odi di Tommaso Gray -- La necessità di arricchire di voci toscane il dizionario della Crusca -- La deformità di Guglielmo Hay. Il gnomone di Firenze rettificato dal p. Ximenes -- Storia de' Dialoghi dell' Autore sopra la luce e i colori -- L'origine dell'Accademia della Crusca -- Carteggio con Mauro ('Maurino') Tesi -- Lettere ad Eustachio Zanotti -- Lettere all'ab. Antonio Conti -- Carteggio con il p. d. Paolo Frisi. Lettere. Di Eustachio Manfredi al co. Algarotti -- Di Giampietro Zanotti al co. Algarotti -- Di Francesco Maria Zanotti al co: Algarotti -- Del co: Algarotti a Giampietro Zanotti -- Del co: Algarotti a Francesco Maria Zanotti -- OPERE INEDITE. Lettere. Di Francesco Maria Zanotti al co: Algarotti -- Di Eustachio Zanotti al co: Algarotti -- Della marchesa Elisabetta Ercolani Ratta -- Del co: Algarotti a Francesco Maria Zanotti -- Dell' ab. Metastasio al co: Algarotti -- Dell' ab. Frugoni -- Di Alessandro Fabri -- Di Flaminio Scarselli -- Di Benedetto XIV. Sommo Pontefice. -- Del co: Agostino Paradisi -- Del co: Giammaria Mazzuchelli -- Di mons. Michelangelo Giacomelli. 361 Del co: Algarotti a Flaminio Scarselli -- Del co: Algarotti a Benedetto XIV -- Del co: Algarotti al co: Giammaria Mazzuchelli. Dell ab. Clemente Sibiliato al co: Algarot -- Dell'ab. Saverio Bettinelli -- Del consigliere don Giuseppe Pecis -- Di Gio: Beccari -- Del marchese Scipione Maffei -- Del co: Aurelio Bernieri -- Del co: Paolo Brazolo. 277, 279 Di Lodovico Bianconi.. 282, 296, 308 Del padre Paolo Paciaudi. 285 Del marchese Gio: Poleni. 288 Di Antonio Cocchi. 291 Del doge Marco Foscarini. 293 Dell' ab. Giammaria Ortes. 315 Del marchese Girolamo Grimaldi. 317 Dell' 300, Dell' ab. Metastasio. Del padre Jacopo Belgrado. 335 Di Giovanni Bianchi. 338 Di Tommaso Temanza. 342, 345, 348 Del padre Antonio Golini. 350 Dell'ab. Gaspero Patriarchi. Di Giuseppe Bartoli. 369 Del co: Girolamo dal Pozzo. 373 Del marchese Bernardo Tanucci. 383 Dell'ab. Spallanzani. Di Jacopo Martorelli. 439 Del canonico Andrea Lazzarini. 443 Del co: Algarotti all'ab. Sibiliato. 3 Del co: Algarotti all'ab. Bettinelli -- Del co: Algärotti al consigliere Pecis --Del co: Algarotti al co: Aurelio Bernieri. -- Di Federico II. Re di Prussia al co: Algarotti -- Del Principe Guglielmo di Prussia -- Del Principe Ferdinando di Prussia -- Del Principe Enrico di Prussia -- Del Principe Ferdinando di Brünswic -- Del cardinale di Bernis -- Del sig. du Tillot. Del co: Algarotti a Federigo II -- Del co: Algarotti al Principe Guglielmo -- Del co: Algarotti al Principe Ferdinando -- Dello stesso al Principe Enrico -- Dello stesso al Principe Ferdinando di Brünswic -- Dello stesso al cardinale di Bernis -- Della marchesa di Châtelet. pag. 3 a 61 Di Voltaire -- Di Maupertuis -- Di Formey -- Di madama Du Boccage -- Del.co: Algarotti a Voltaire -- Del co: Algarotti a Formey -- Dello stesso a madama Du Boccage -- Di mad. Du Boccage al co: Algarotți --  Del co. Algarotti alla stessa -- Del triumvirato di CRÀSSO, POMPEO E CESARE.  Fu sepolto nel camposanto di Pisa in un monumento di stile archeologizzante, tradotto in marmo di Carrara. L'epitaffio è quello che per lui dettò il re di Prussia: “Algarotto Ovidii aemulo” --  Neutoni discipulo, Federicus rex". Algarotti medesimo si era preparato il disegno del sepolcro e l'epitafio, non già per orgoglio, ma spinto dal sacro amore del bello che anche in faccia alla morte non poteva intiepidirsi nel suo petto. Aperto al progresso e alla conoscenza razionale, esperto del bello (si prodiga come fautore di Palladio), fu rispetto alla filosofia un grande assertore delle teorie di Newton, sul conto del quale scrisse uno dei suoi più noti saggi, Il newtonianesimo. Viene considerato una sorta di Socrate veneziano e per comprendere la sua statura di insigne filosofo con un'infinita sete di sapere e divulgare è sufficiente porsi davanti al suo innumerevole campo di interessi. Al di là del suo ruolo di spicco nell'illuminismo filosofico, fu anche un diplomatico e un procacciatore d'arte. In particolare viaggia cercando antichita romani per conto di Augusto III di Sassonia. È noto che fu a comprare a Venezia il capolavoro di Liotard, il pastello de La cioccolataia, che poi divenne una delle perle a Dresda. Di bell'aspetto, dotato di un aristocratico naso aquilino (esiste al Rijksmuseum uno suo ritratto a pastello, sempre di Liotard, nel Saggio sopra Orazio non perde occasione di far notare come questi fosse ambi-destro, e tanto lodava i vantaggi di questa disposizione, che c'è chi suppone che egli la condividesse. Ebbe a filosofare praticamente su tutto, affrontandocon l'acuta attenzione dello scienziato presso ché ogni aspetto dello scibile umano. Basti ricordare i saggi “Sopra la pittura”; “Sopra l'architettura”; “Sopra l'opera in musica”; “Sopra il commercio”; “Poesie”. Il demone ben temperato. tra scienza e letteratura, Italia ed Europa, Sinestesie,  Note  Umberto Renda e Piero Operti, Dizionario storico della letteratura italiana, Torino, Paravia, 195226.  Ugo Baldini, BRESSANI, Gregorio, in Dizionario biografico degli italiani,  14, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Francesco Algarotti, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Francesco Algarotti, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  Francesco Algarotti, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Francesco Algarotti, su Find a Grave.  Opere di Francesco Algarotti, su Liber Liber.  Opere di Francesco Algarotti / Francesco Algarotti (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Francesco Algarotti,. Spartiti o libretti di Francesco Algarotti, su International Music Score Library Project, Project Petrucci LLC.  Progetto per ridurre a compimento il Regio Museo di Dresda su horti-hesperidum.com. Sito Algarotti dell'Treviri, su algarotti.uni-trier.de. La casa di Francesco Algarotti è aperta da settembre  come alloggio turistico. Algarotti e Palladio, su cisapalladio.org. Il newtonianismo per le dame, su google.com. Opere del conte Algarotti, su google.com. Corrispondenza con Federico II di Prussia (testo francese e tedesco) V D M Illuministi italiani --  LGBT  LGBT Letteratura  Letteratura Teatro  Teatro Categorie: Scrittori italiani del XVIII secoloSaggisti italiani del XVIII secoloCollezionisti d'arte italiani Venezia PisaTeorici del restauroIlluministiScrittori trattanti tematiche LGBTMembri della Royal SocietyViaggiatori italianiMercanti d'arte italiani. Il conte Algarotti adunque per più ragioni, secondo che egli dice, entra in pensiero, che della metà a un di presso s'avesse ad accorciar la durata de’ regni de’ re di Roma. Alcune di queste possono considerarsi come certi sguardi, che getta ad un traito sopra tutto il corso degli anni, che. E per trattare ordinatamente la quistione reputo necessario l'accennare prima ditutto il cammino, che ho avvisato dover battere per giungere al vero. Breve lavoro sarebbe pertanto i l rispondere alle opposizioni della prima maniera, che fa contro le epoche dagli antichi fissate alla storia de' re, in ispecie a quelle, che sono in principio del suo saggio, le quali sono tratte, direi cosi, dalla sola natura del soggetto. P r ciocchè alcune ch'egli aggiugne in fine del suo saggio, quantunque risguardino in genere tutto il tempo della durata de' sette regni, contuttociò tratte sono dagli avvenimenti narrati dagli storici, e sono come un  fidicono passati. Sotto cotesti Re. Altre, e queste sono in maggior copia, risguardano più particolarmente ciascun regno, e s'in gegna con tutto questo di dimostrare, com e i fatti, che dagli storici, e principalmente da Livio ci furono tramandati, facciano guerra alle epoche assegnate da esso altri scrittori di quelle storie; le quali ragioni io non istimo Livio medesimo, e dagli essere di tal peso, che s'abbia -perciò ad infringere l'autorità degli storici, ed abbre viare della metà circa la durata de'mentovati Regni.  un risultato delle osservazioni sue sopra ciascun regno. Ma riesce poi più lunga faccenda il togliere quelle contraddizioni, e ripugnanze, che dice ritrovarsi tra i fat tiregistrarinegli annali  degli storici, e le epoche da elli assegnate. Ben è vero, che per questo rispetto chi volesse restringersi unicamente a mettere la cosa in dubbio, quella stessa facilità, con cui prese per guida que’.foli Storici, che gli andavano a grado, e fece scelta di que ' foli luoghi di questi, che gli erano favorevoli, potrebbe appigliarsi ad altro Scrittore, oppure ammertendo gli stesii sceglier da quelli que'luoghi (che al certo non gli mancherebbono), i quali favorissero l'antico cronologico sistema. Ma questo sarebbe porre folianto, c o m e disli, in dubbio la cosa; anzi il far vedere, che non mancano testimonianze in favore sia dell'una, che dell'altra opinione, riuscireb be di non poca confusione, e darebbe a credere a' poco avveduti, che la quistione definir non sipossa. Onde io credo, che far si debba un passo più oltre, vale a dire non appagarsi di ridur la cosa a tal segno soltanto,che vengano ad indebolirfi le ra gioni addotte dal Conte Algarotti contro l'antico Cronologico Sistema, per m o d o che non    che per l'altra, o pure anche che venga non fiavi per una parte ragion più forte, a rendersi più probabile l'antico Sistema, m a di più innalzarlo al grado delle cose più fi cure, che affermar si possano di quella pri ma età di Roma:ilche per recare adef fetto si dovrebbono esaminare le qualità, ed il particolarcaratteredi ciascuno degli Sto rici, che scrissero gli avvenimenti di que' secoli, e confrontandone i luoghi, far ragio ne dal tempo, in cui vissero, dal fine,per cui presero a dettare le loro Storie, in s o m m a adoperarsi per conciliarli fra di loro, ed accertarsi per mezzo di una sana Critica della verità de'fatti, onde chiaramente siscopra, se questi, ove sieno ben accertati, sieno poi tali, che all'epoche ripugnino. Ora adunque seguendo lo stesso ordine te nuto dall'Autore nelSaggio suo, allorchè mi sarò ingegnato di rispondere a quelle g e n e rali opposizioni, ch'egli fa, e dopo che avrò delineato non dirò già un ritratto, m a un lieve abbozzo de'tre principali Scrittoridelle Storie di Roma sottoi Re, mi farò distin tamente ad esaminare quelle irragionevolez ze; ed anche ripugnanze, com'ei le chiama, per cui stimò doversi abbreviar ciascun R e gno, e per conseguente di molto, cioèdella  i b metà   metà forse, doversi scemar la durata di tutti fette iRegni. Si risponde ad alcune obbiezioni, che fa il Conte Algarotti coniro l'antico dero  no, CAPO Cronologico Sistema. P e r farci a considerar quelle ragioni, che adduce prima di tutto l'Autor nostro nel suo Saggio, e che tutta la quistione abbraccia fa d' ilpremettere, uopo, e che gli mette troppo bene a conto, ed è che i fatti fieno staticonservati illesi dalla semplice tradizione, che tro egli chiama vaga, senza ajuto degli A n nali,i quali perirono nelle fiamme, cui die 1 noftri ultimi tempi alcuni Letterati Francesi dell'antica avanti Pirro osservato Storia molti luoghi avendo Roma farono doverne dubitar della certezza nel qual dubbio se fosse per avventura 'egli en trato, non opporre che, essendo il tutto dubbioso egualmente egli un partito Ora è da avvertire prender che a questi di sottilmente, p e n più ragionevolmente potrebbe i fatti dagli Storici narrati all'epo di mezzo per al  dero in preda i Galli la Città di Roma, e le epoche sieno state interamente distrutte da quell'incendio, nè per quelte sole tradi zioni veruna valendo, abbiano dovuto gli Storici posteriori immaginarsele a senno loro. Il qual partito, soggiugne il noitro Autore, ben volentieri presero essi, trovando modo di appagar con questo quel natural deside rio,che,nonmeno diciascuna famiglia, ha ciascun popolo di spingere, come e'fece ro, tant'oltre quanto poterono nella oscuri rità de'tempi la propria origine. E quello che è più lidà a credere,che a ciò fare giustificati fossero dalla opinione, la quale ei dice ch'essi aveano, che tante generazio ni corressero quanti Re; onde circa tre R e gni largamente in ogni secolo si avessero a porre, essendo ogni generazione di trentatrè anni: laddove egli pensa, che più brevi di molto sieno di Regni, non giungendo questi l'uno fagguagliato coll'altro se non ai di. ciotto o vent'anni, secondo che scrisse il Neurone (a), la qual legge, segue egli a dire, si vede confermata in quella unga fe rie d'Imperadori, che da Yao infino a ' di b2 (a) “The Chronology of the ancient kingdoms of Rome, amended by Newton. Veggansi le due tavole Cronologiche in fine. nostri tennero il vasto Impero della China, D a tutto questo si raccoglie fupporsi dall'Au tor noftro, che quella vaga tradizione, la quale conservò gli avvenimenti, comechè facili a ricevere alterazioni, a cagion delle molte circostanze, che fogliono a c c o m p a gnarli, anzi che conservò, c o m e di alcuni dovrem notare le epoche precise, in cui non abbia potuto conservare le altre epoche più notabili, vale a dire la durata di ciascun Regno, e per conseguen te la somma dello spazio di tempo,che ab bracciarono tutti isette Regni insieme,quan tunque cosa non meno importante di m o l tiffimi fatti, che pur furono da cotesta sua tradizion conservari, e non capace di pren dere come ifatti diverso alpetto passando per le bocche degli uomini. Non troppo ra gionevole pertanto mi sembra la sua preten. fione, e per asserire, che gli Storicidique' primi tempi di R o m a non fossero informati di queste epoche, farebbe mestieri produrre qualche testimonianza, o almeno congettura, da cui si potesse chiaramente inferire che di quelle veramente informati non fossero, la qual cosa non facendo egli, io ftimo, che non maggior ragion fiavi per credere a' fatti, che alle epoche. Cie seguiti sono 1 Ciò posto o è l'antica Storia di Roma del pari tutta dubbiofa, e d in questo caso inutili sono le osservazioni sue, o è del pari certa tanto a' farti, ed rispetto alle epoche allora non hassi a dire,che le, quanto i che sieno state supposte ci. Senzachè se gli Storici si fossero i m m a ginato a piacer loro le durate de'Regni se condo la legge delle generazioni, com'egli pensa, non si sarebbono tolto la briga di far registro di quanti anni precisamente sia stato ilRegno diciascun Re, edavrebbonodato qualche cenno d' aver seguita una tal legge; fe pur non vogliam credere, non che seguit sero una regola da essi giudicata sicura,ma che avessero concepito di tessere un dolce inganno a'contemporanei loro, il che, senza che se ne adducano le prove, conceder non si dee a giudizio mio per modo nessuno. epo da'pofteriori Stori- * il malizioso disegno 1 Quantunque però sia abbastanza Ito, che, quand'anche tutta l'antica Storia di Roma fi fosse, non solo ugualmente per semplice tradizione conservata instrutti della Cronologia, che de'fatti por si debbano gli Storici mentovati; nulla dimeno, fia per salvar dalle fiamme questa Cronologia, d a cui divorata,ma anche più manife la presume ľ sup Aus b   due (6)Quae incommentariisPontificumaliisquepublicisprive. tisque erant monumentis incenfa urbe pleraeque interiere. T.Liy.Dec. I.Lib.VI.inprinc. ()Plut.inNuma inprinc.  non che vorrà negare. Autor noftro, sia perchè resti maggiormen te confermata la certezza dell'antica Storia di R o m a (la quale a vero dire già ha a v u to troppo più valorosi difensori di quello ch'io m i sia ) stimo pregio dell'opera il *mostrare, che non fu poi, qual per alcuni si dipinge,si funesto l'incendio de'Galli per gli annali di Roma. E per cominciar da Livio, della testimo nianza di cui si fiancheggia in prima il no ftro Autore, oltrechè mostreremo fra breve, che a lui non poco premeva di fare passar per dubbiosi gli antichi avvenimenti seguiti avanti l'incendio de'Galli, se si considera no attentamente le parole di lui (b), que ste non vengono a dir altro, se buona parte de'monumenti perì in quelle. fiamme,ilche nè io, nè alcuno, penso, Plutarco poi non dice altro (c), se non che, secondo quello, che avea osservato un certo Clodio,supposte erano alcune m e m o rie appartenenti a Numa, essendo le vere mancate nella presa di R o m a. Se da questi   ро ALGAROTTI. CAPO II. 23 due luoghi di Livio, e di Plutarco si possa inferire, che abbiano gli Archivj di R o m a fofferto un generale incendio, lo lascio al giudicio de'giusti estimatori delle cose. Se R o m a fosse itata inaspettatamente presa di asfalto, non riuscirebbe forse difficile ilcon cepirlo;ma ad ognuno è noto,che iRo mani, dopo l'infaufta giornata di Allia, in cui furono da’Barbari sconficci, vedendo di ·non potere per modo nessuno difendere la Città dal vittorioso esercito de'Galli,ebbero ancora tale spazio di tempo (d) (tre giorni diconoDiodoroSiculo (e),ePlutarco)da po ter fornire di munizioni il Campidoglio,m e t tervi alla difesa il miglior nerbo della solda tesca, i più valorosi Senatori, e la più vi gorosa gioventù, ove ancora per teftimo nianza del medesimo Diodoro posero in fal v o quant' oro, argento, vesti preziose, e cose rare, che s'avessero (f): ebbero t e m b4 Diodor. Sicul, loc, cif, non  le Vertali di ricoverarsi a Cere, non r é itando nella Città fe non que'venerandi v e c chị, che vollero rimanervi. Ora adunque (1) T. Liv. Dec. 1. Lib. V. cap. 21. 22. ) Diodor. Sicul. Bibliot. Stor. Lib.XIV.n. 115. p.729. tom. I. ed. Amft. 1746. Plut. in Camillo. >   ed incerta, ma poco o nulla men pregevole delle Storie medesime, di cui a b biamo fatto parola sopra, e per mezzo di cui, secondo quello che abbiamo osservato, riesce  non avranno o i guerrieri rinchiusi nella roca o quelli, che lisottrassero colla fuga. all' eccidio della Città, falvati dalle f i a m m e quegli antichi Annali? I n verità bisognereb be far forza a noi medesimi per idearci Romani accesi com'erano dell'amor Patria, e solleciti di ogni cosa, che potesse fervire alla gloria di quella, così (8) V o f f i u s d e H i f t. L a t. L i b. I. C a p. I. T o m. I V. O p a i della ca, ranti delle proprie poco Storie.M a supponiamo cu che,che questi an fossero periti; il f a m o so Vossio Annali (g) osserva tacciar non per questo tica Storia dubbia credibile l'an avessero di Roma, essendo pur anche i loro Annali, che le circon fi dovrebbe vicine Città, con tuto ad un bisogno loro; ed in secondo alle luogo non essereda cre dere, che coloro fra'Romani, i q u a l i li l e g g e vano, custodiyano duto la memoria, scriveano del tutto: ed ci riduciamo a quella tradizione vaga,, non però,che di falsa, o cui i Romani abbiano mancanze supplire, avessero in tal caso po per ed, Amst. 1699   (4)Cic.de Orat.Lib.II.,de Legib.Lib.I. Nulla enim lex neque pax, neque bellum, nequè res ficnotata: Corn. Nep. in Attico n. 18. (1) SenexHistoriasfcribereinstituit,quarumsuntlibrisep.  M a che serve affaticarsi di provare con congetture una cosa, di cui abbiamo cost chiare, e sicure testimonianze? N o n giunse ro gli Annali Maslimi.a'rempi di Cicerone, e non ne reca egli giudizio (h) in più luoghi. delle opere sue? Onde Fabio Pirrore, Lu cio Pilon Frugi, Valerio Anziate Scrittori che furono tra lemani dị Dionigi,ediLi vio, avranno prese le memorie per dettare le Storie loro, se non da'monumenti, che avanti l'incendio esistessero? Pomponio A t tico intrinseco amico di Cicerone, che se condo Cornelio Nipote (i) non tralasciò in certo suo libro di porre sotto l'epoca pre cisa cosa alcuna riguardevole del popolo R o m a n o, C a t o n e, il p r i m o l i b r o d e l l e S t o r i e d i cui comprendevaifattide'Re diRoma come riferisce lo stesso Cornelio (k), onde avran tratto i materiali per quest' opere loro? Varrone il più dotro de'Romani, uomo al  tiesce non solo ugualmente, m a più credi bile eziandio la Cronologia de'fatti. certo ili luftris estpopuli Romani, quae non in eo,fuo tempore com,primus continet res gestasRegum populi Romani Corn. Nep. in Cat. n. 3.  certo di non facile contentatura,su che avrà fondato l'opinion sua contraria a quella di Catone circa al tempo della fondazion di R o m a, se non sopra monumenti,che a'suoi tempi ancora esistessero, in cui fosse accura tamente descritta quella prima età? E, v a gliami per ultimo l'autorità di quel diligen te investigatore delle antichitàRomane Dio. nigi d'Alicarnasso, quante tenebre egli non dilegua coi Commentarj de’Censori, e con altre memorie, le quali pajono anteriori alla famosa irruzione de'Galli, o almeno sopra quelle compilate? E non è forse da crede. re, che a quel Dionigi, il quale dovendo per mezzo di un suo computo fissar la giu Ata epoca della fondazione di R o m a, fi Itu dia di portare tanti monumenti, per venire in cognizione del numero d'anni, che cor sero dalla deposizion di Tarquinio insino all' incendiodiRoma (1),echecircaalladu, rata de'Regni non muove la minima que stione, anzi concordando con Livio, gli af segna il medesimo numero di anni;a quel Dionigi,cui è data la lode di esattissimo nel fissar le epoche, come più sotto vedremo, (9)Dionyf.Halic:Antiq.Rom.Lib.I. p. 60. ex ed, non Graeco-Lat. Friderici Sylburgii Lipfiae 1691, امی juC h e poi per vantare antichità abbiano gli Storici allungata la Cronologia, è noto a d ognuno esserregola dell'Arte Critica, doverfi presumere, che alcuno abbia ingan, nato sulla fola luogo bio, non ܕ nato in suo pro l'ingannare, m a doversi a d d'aver egli.veramente ciò fatto; ed oltre a questo non può cade dur prove manifeste sopra Dionigi., come quello, ch'essendo straniero re per modo nessuno un talsospetto non era tentato dall'amor della patria a m e n tire per adularla, e che fece un particolare ftudio di chiarire l'antica Storia di Roma. che sarebbetor non mancassero i suoi fondamenti per accer tartaldurata,come cosa fuord'ognidub congettura, Non istimo ora del resto dover parlare della diversità, che l'Autor nostro dice c o r Tere tra le generazioni, e le successioni de' Regni;giacchè è manifesto non aver gli Storici seguito una tal regola, e quand'an. che seguita l'avessero potendosi far veder di leggieri, che se per alcuni motivi da lui e dal Neutone addotti sembra, che iRegni debbano riuscir più brevi, che le, per altri rispetti potrebbe più lunghi restassero tazioni. Tanto più che dovrò accennare in generazio succedere, che i Regni, che le gene ni  luogo più opportuno quelle regole ch'io stimo doverli osservare, nel fiffar queste g e nerazioni, potendosi queste sotto diversi a f petti riguardar da ' Cronologi. (mn)Description de l'Empire de la Chine par le P.Dus Halde. Tom.I. Faites de la Monarchie Chinoise  per dare a divedere, che quella rego Mi basterà per ora notare, ch' in quella lunga serie degli Imperadori della Cina s'in • contrano n o n una volta sola, m a diverse fiare sette Regni di seguito, i quali se non giungono, si avvicinano però assai allo spa zio di tempo, che tolti insieme durarono i Regni de'Re diRoma:per comprovarla qual cosa giova il recarne alcuni esempj, che m'è venuto fatto di ritrovare ne'fatti di quella Monarchia descritti dall'accurato P. Du-Halde (m).Nellaprima.DinastíadaTi Pou-Kiang insino a Kiè corsero dugento e dodici anni. Nella seconda da Tching-Tang infino a Tai-Vou passarono dugento e quat tro anni; e nella terza Dinastía dugento 'e venticinque da Tchao -Vang insino a Li-Vang. Facilmente non saranno questi foli i casi, in cui,non uscendo dalla serie degli Imperadori della Cina, fecte Regni di seguito abbiano abbracciato più di due secoli; tanto però basta la, 2.9 gi  la, la quale pure è vera, trattandosi di l u n ghissimo spazio di tempo, riesce falsa nelle itesse Tavole Cronologiche degli Imperadori Cinesi, quando si reftringa a fette soli R e gni. Ed ecco come si vengono a sciogliere tutte quelle diffico'tà inosse dall'Avior no stro per diminuir la credenza, che prestar fi dee agli Storici, e rendere improbabile in genere la lunghezza di questi Regni. O r a fa di mestieri farsi a considerare quelle ragioni, ch'ei deduce dalla ripugnanza dei fatti, di cui fecero gli antichi Scrittori re gistro,alleepoche,per venireadaccorciar ciascunRegno:Seiodicesli,che concor dando a un dipresso tutti gli Storici nelle epoche principali, e circa la durata de'Re-. gni, e discordando ne'fatti, ilconsenso loro nello afferir la durata dee meritar. troppo maggior fede, e pertanto doversi come lup-, posti rigettar quegli avvenimenti, e quelle epoche particolari di alcun fatto, che taluno fra essilasciò ne'suoilibri descritte, che ripugnano a quello, la di cui certezza è chiaramente,e concordemente da essi affe rita; se jo ciò dicefli, mi servirei di una ragione più atta a far forza, che a persua dere. Perciocchè resterebbe sempre una c o tal nebbia, ed oscurità nella mente de'Lega   gitori, non vedendo eglino quali oltre a que ito fieno i motivi, per cui come falsi s'ab biano'a rigettar questi fatti, che falli certa mente avrebbono a d essere, quando ad una verità fi opponeffero. Laonde è convenien te o farne vedere per altre ragioni la fal fità, o mostrarne la non ripugnanza, quan do, come di alcuni veri dovrò fare meno avvedutamente ripugnanti, sieno stati dall'Au tor nokro creduti.Per condurre a fine le quali cose, siccome è d'uopo far uso delle regole, che prescrive l'Arte Critica, stimo pregio dell'opera il premetter quella, la quale più d'ogni altra ttimali necessaria, ed è il chiarir bene a quale Scrittore s'ab bia per CAPO (n) Si unus aut alius (Hiftoricus) adverfus plures teftifi: Centur, Historicorum conferendae dotes, fecundum cas je dicandum. Genuenfis in Arte Logico-Crit. Lib.IV, Cap. II. §. 19. can. 2.  30 COSI. l'antica Storia Latina, i di cui av. venimenti cadono nella nostra quiltione, a ri correre, ed in caso di disparere, a quale fi debba prestar maggior fede (n).   CAPO Trattasi della credenza, che prestar fi dee a Tito Livio, Dionigi d'Alicarnaso Plutarco, per rispetto ai fatti, che R a gli Scrittori, in cui troviamo descritti i principi di quella Nazione, al di cui co fpecto dovea tremar l'Universo, primeggia no Tito Livio, Plutarco per le vite, che stese de'due primi Re, eDionigidiAlicar naffo. Penso adunque esser buona cosa l'in.vestigare prima di tutto il vero carattere di ciascuno di questi, per rispetto al m a g g i o re o minor caso, che far si vuole della au torità di taluno di effi per riguardo a tal altro,ne’racconti,che pressodiloro sitrovano. per (a) Come Livio scrive, che non erra, Dante Inf. cant.  che non Fra ALGAROTTI, *31 cądono nella presente quistione. Se farò poi in questa disamiņa precedere Tito Livio agli altri due, si è, perchè di lui fi pregia più che d'ogni altro l'Autor nostro, e glid à ad una voce col creatore della nostraLingua,non meno chedellano Itra Poesia la lode di Scrittore 2 erra (a), la qual lode se vera se giusta sia 2 28. V. 124 III.   (5) Livius etiam, & Curtius artem declamatoriam affe&taffe videntur.Nimiam ftyli.curam in Hiftorico fufpettam ho beo,Genuens. in Arce Logico-Crit. Lib.IV. Cap. 2o $.18.  per rispetto a quel tratto della Storia Latina', che cade sotto la controversia noftra, verrà brevemente esaminando. pol L'andar dietro alle quistioni, e dubbie tà, che s'incontrano nella Storia de primi tempi di Roma, il diradar lenebbie,incui si avvolgeva quell'oscuro secolo, era cofa, che ripugnava all'indole di Livio, il qual certamente più compiacevafi nel dipingere con quel luo vivo, e maestoso itile i bei giorni di R o m a, che in ricercarne sottilmen te le origini traendo alla luce gli avveni menti, che succeduti erano in quelle rimote età. Pare veramente ch'egli dovesse te mer forte non i suoi lettorifi disgustassero, se egli si fosse messo in un tale intricato sen tiero, sentiero, che male egli avrebbe p o tuto spargere di tutti i fiori della sua E l o quenza; la quale fua Eloquenza però, per dirlo alla sfuggita, rende sospetta a tal C r i tico la veritàde'fatti da lui narrati (b). Principale intendimento era adunque di lui lo stendere la Storia più luminosa di R o ma, vale a dire allor quando falira a gran   possanza, ed a grande onore questa R e p u b blica cominciò a stender le ali  Pontificum libros annosa volumina Storia in fine, la quale troppo più che l'antica era confacente algeniodi Livio, ed alcomun desiderio dei Romani de'suoi tempi, per cui preso avea a dettarla.Che se Tacito parago nando le Storie de'tempi suoi a quelle di que sto secolo, di cui favelliamo, dice, che m i nute,e poco memorevoli farebbono sembrate le per cose, 1Uni verso. Quando, domati finalmente i feroci popoli dell'Italia, qual rinchiuso fuoco, che rovescia ogni ostacolo più forte, avventò le fiamme in grembo all'emula Cartagine, ed a Corinto, e loggiogata parte coll'armi, par te coll' accortezza la Grecia tutta, e corsa l' Asia trionfando, essendo, per servirmi delle parole di Tacito, l'antica, e natural ansietà ne'mortali della potenza cresciuta e scoppia ta colla grandezza dell'Impero (c), sidivise in quelle fazioni, che tanti e si gran casi somministrarono alla Storia. Storia di gran di imprese, di gran personaggi, e di gran di avvenimenti ripiena; Storia non troppo lontana dal secolo, in cui egli vivea, e per cui non avea a rivoltare  Tacit. Hist. Cte nimia obfcuras, velut, quae magno ex intervallo'lo ci vix cernuntur; tum quod, & rarae por cadem tempo ra literae fuere,u n a custodia fidelis memoria rerum g e ftarum; & quod etiam fiquaein commentariis Pontificum, aliisque publicis, privatisque erant monumentis incenja urbe pleraeque interiere. Clariora deinceps certioraque ab secun 'da origine velut ab ftirpibus laetius feraciusque renatas urbis, gefta domi militiaeque exponentur,  1 34 mo cose, ch'egli avea a raccontare, e che non erano da eguagliarsi le Storie sue agli A n nali antichi diR o m a (d), poichè gli Scrit tori di quelle narravano guerre grosse, Città sforzate, R e prefi, e sconfitti, e dentro di scordie di Consoli con Tribuni, leggi a'fru menti, zuffe della plebe co'grandi,larghilli mi campi, scarso all'incontro e stretto effe re il suo: che ne avrà dovuto pensar Livio paragonandole a quelle di que'rimoti, ed oscuri secoli? Se non tralasciò pertanto del tutto di far menzione de'principj de'R o m a ni, non altra ragione, penso io, averlo a ciò moffo, fe non per non incorrer la tac cia d'aver composta una Storia mancante, e per potersi in certo modo fpianar la ftra da a descrivere le susseguenti famose impre se di quel popolo d'Eroi. Ed in fatti dalle sue stesse parole fi rac coglie (e) non aver egli troppo dibuon ani (d)Tacit.Annal.Lib.IV.Cap. 32. n.1. &.. cum vetufla  m o lavorato a ftendere quel tratto delle sue Storie. Cofe le chiama oscure per troppa antichità, e che, per così dire, a cagione della grande distanza appena più sivedeano. Parla di quelli avvenimenti in modo che fi scorge, che poco o nessun conto ne fa cea, tanto più dicendo, ch'esporrà più l u minose, ed accertate gelta della quafi da più fertili, e rigogliole radici rinata Città dopo l'incendio de'Galli. Poco, ei dice, scriveasi avanti l'irruzione de' Galli, e se al cune memorie eranvi negli Annali de'P o n tefici, ed in altri pubblici, e privati m o n u menti,buona parte di queste peri nelle fiam me. La qualcosa, posto che veramente molte memorie ancora esistessero a'suoi gior ni di que'tempi, come ben feppe rinvenirle Dionigi, dà non lieve motivo d i dubitare non il dire, che molti di questi monumenti periti fossero in quell'incendio sia un mendi cato pretesto di lui per ispacciarsi in poche parole di quelle antichità. Per raccogliere il tutto in breve non p a re, che in questo tratto di Storia almeno Livio sia quel Livio, che non erra, e che a più buona ragione, che non quel verso diDante, adattar fe gli.patrebbe ilgiudicio  di с2   di Quintiliano (f), ove dice,che quella dol ce facondia di Livio non sarà mai per a p pagare colui, che non la venuftà del dire, m a la verità cerca nella Storia. Perlaqual cosa a giudicio non solo del P.Rapino(g), m a di quasi tutti i più valenti Critici, e per l'accuratezza, e per lo discernimento, e per la verità delle cose narrateanteporre fidee a Livio Dionigi d'Alicarnaffo. Questo Storico è appunto il nostro caso. Perito egli era della lingua, e de'costumi de'Latini,fra cui fece lunga dimora.Con temporaneo di Livio, Critico eccellente p r e se a trattar quella parte della Storia Latina, ch'era più oscura per la lontananza de'tem consultò tutti gli antichi Romani Scrit tori diligentemente; e siccome si scorge, se condo quello, che abbiam notato, che l'in tenzion di Livio era di trattar principalmen te la Storia di R o m a dopo l'incendio de' Galli, così il fine di Dionigi era d'inftrui re i suoi lettori nelle antichità soltanto di quella Nazione, per le quali sue doti ftimò   pi? il Neque illa Livii lattea ubertas fatis docebit eum, qui non speciem expofitionis, fed fidem quaerit. Quiptil.Lib. X. Cap. I. (8) Rapin. Réflex. sur l'Hift. n. 28.   Sto. il Bodino (h) di doverlo in questa parte pre ferire a tutti gli altri Storici Greci e Latini. E se per avventura non è, come osservò il Rollin (i), nella lingua lua si eloquente, e si colto come Livio nella Latina, in quanto all'accuratezza, e diligenza il vince sicura mente d'affai.Che poi più cose, e più ac intorno antichità presso di lui, che presso Livio fi curatamente descritte ritrovino,èancheilparerediquel Varro ne dell'Ollanda Gerardo Vossio (k), ilqual coll' autori tà di Eusebio, e dello Scaligero, l'ultimo fuo sentimento egli fiancheggia de quali lo commenda appunto per quella dote, di cui noi abbisogniamo, voglio dire per essere stato egli più d'ogni altro dili gente nel fissar le epoche. M a a che serve andar raccogliendo le testimonianze de'Cri tici? Niuno v'ha fra' letterari, che ignori quanto Dionigi sia benemerito delle R o m a ne antichità, e che non sappia esser egli alla C3 alle Romane  (h) Dionyfius Halicarnasseus antiquitates Romanorum ab ipfius urbis origine tanta diligentia confcripfit, ut Graecos omnes, ac Latinos fuperaffe videatur. John B o d i n. M e t h. a d f a c i l. H i f t. c o g n. C a p. I V. (i) Rollin Histoire Anciene tom.XII. (A)VoffiusdeHift.GraecisLib. II.Cap.V.,&ibi Euseb. in prep. Evang., & Scaligerin animad.Euseb., il qual dice: Curatius co niemo tempora obfervavit,   E'ben vero esservi taluno fra'moderni,il quale non fa gran calo dell'autorità di lui per riguardo a ciò, che scrive intorno alle origini de'popoli d'Italia, avendo a parer suo Dionigi,per gloria della propria nazio ne, dato luogo troppo leggermente alle con getture, per derivar dalla Grecia i primi abitatori dell'Italia (l). Lascio ad altri il giudicare le giusta fia, o no quest'accusa; m a, quanrunque fosse ben fondata, non so avrebbe per questo a dubitare delle cose n a r rate da lui, le quali cadono nella nostra qui ftione: perciocchè in quella parte dell'Ope ra sua, di cui servir ci dobbiamo, n o n trattasi più delle prime origini de' popoli Italici, m a delle origini soltanto primi tempi di Roma; onde non può più aver luogo quel sospetto, ch'egli abbia v o luto adulare la nazion sua, non essendovi piùlagloriadiquellainteressata in modo nessuno. Questo Storico pertanto, quantun que venga una volta fola in campo nel Saga  Storia Latina de primi tempi quello, che è alla Storia d'Italia de'secoli di mezzo l'eru dito, e diligente.Muratori. e dei gio (1) Guarnacci Origini Italiche Lib. I. Cap. I. De 4   Veniamo ora finalmente a Plutarco.M o l to discordanti sono i giudici, che di lui re cato hanno i Critici:perciocchè, se a molti Letterati di grido siattribuisce per una par te quel detto, che se in uno universale in cendio di tutti i libri un solo scampar se ne potesse dalle fiamme, si vorrebbono falvare le vite di Plutarco; non manca per altra parte chi ne rechi troppo più vantaggioso giudicio, e fra gli altri un celebre Lettera to Inglese il Signor Midleton (n) giunse a chiamar l'Opera di lui un abbozzo piuttosto, che il compimento di un gran disegno. A chi fu (m) Saggio sopra la durata de'Regni de'Re di Roma p. 142-3. del tomo III.delle Op. del Conte Alga rotti ediz. di Livorno 1764 Nella edizione fatta di questo Saggio in Firenze nel 1746. non è mai citato Dionigi, anzi nella lettera al Signor Zanotti dice P Autore: che non avea voluto leggere altri scrittori, cheparlafferode'Re diRomafuorchèLivio,ePlutarco. (a) Conyers Midleton prefaz, álla Vita di Cicerone, per  gio del nostro Autore (m ), sarà però quello, che più d'ogni altro ci additerà la strada, che li vuol battere per giungere al vero nella presente materia, c o m e quello, il quale più giustamente di Livio merita il nome di P a dre di Romana Storia. ! altro pon mente alle belle qualità, per cui fu lodato, ed a'diferti, perliquali C4   D e l resto per giungere a farci una chia ra idea del merito di questo Autore fa d' uopo prendere d'alquanto più alto i princi p j.Quantunque pertanto pregio essenziale della Storia sia la verità de'fatti, si voglio no con tutto ciò offervare e la scelta che fa l'Autore di questi, e le rifleffioni, e l'ordi ne, con cui dispone ogni cosa, e la dici tura, di cui si serve, del che tutto nell'al tra nostra Opera abbiamo copiosamente ra. gionato. O r a per parlar soltanto delle riflel fioni, queste son quelle, che danno a vede re il giudicio dell'Autore intorno alle cose narrate, giudicio,che resta più o meno de gno di stima a misura, che viene ad esser fondato sopra valide ragioni, e che non esce di quella scienza, a cui ènoto aver con Jode dato opera lo Storico. Le considera  1 fu ripreso, riuscirà agevole il comporre i lorodispareri. Vero è, che ilSignorMidle ton ne recò più svantaggioso giudizio di al cun altro, perchè forle non ritrovò in lui, come bramato egli avrebbe, abbastanza en comiato l'Eroe, a gloria di cui egli consa crò una sua assai lunga, ed elaborata o p e ra, nella quale però sembra ad alcuni, che ne tefla egli piuttosto il Panegirico, che la Storia. zioni,   zioni di un Polibio, o di un Cesare sopra l'arte della guerra, o di un Tacito sul  Inoltre dalla scelta, che fa de'fatti, fi (6) Arte Poetica del Signor Francefco Maria Zanotti verno de'popoli intanto degne sono di c o m tore le manifeste, in quanto hanno essi fama di ef mendazione fere stati di quelle facoltà ottimi conoscitori M a fupponiamo, che sitralascino. dallo Scrita riflessioni,non èforsevero, è per così dir forzato lo Sto che narrando rico a dar segni della approvazione fapprovazion,odi sua? Cosi pensa quel dotto, e Scrittore, uno de'primi lumi d' leggiadro Italia, cui il Conte fto fuo Saggio (o). Ora que ognun Algarotti indirizzo ciò posto professò principalmente sa, che Plutarco fcienza de'costumi; questa cui le altre tutte qual più direttamente s'hanno a riferire, come raggi d'un meno cerchio al centro, esercita l'impero suo so pra le azioni tutte degli uomini, ond'è m a nifesto, che anche supposto, che Plutarco alcuna osservazione do reca giudicio dell'azione non aggiugnesse fcrivendo, e giudicio, di cui non piccol caso facoltà,narran ', che va de uscito dalla penna di un F i far fi dee,come losofo de'più rinomati dell'antichità. go la poi, a, qual viene Rag.IV.pag.261,Bologna 1768.  qual dà maggiormente a conosce re il bellicofo genio di quell'Alessandro del Settentrione Carlo XII.,loggiugne (p), che tal cosa lasciato non avrebbe d'inserire nella vita di lui un Plutarco. remmo 6)Opere del Conte Algar. tom.IV.Discordimilitari Disc,IX,pag.230. e nel formare il carattere de'perso naggi, di cui stende la vita. Egli non sia p paga delle azioni pubbliche, e ftrepitose, nè si ferma intorno alla sola corteccia, m a seguendo, per dir così, i suoi Eroi in ogni lu go, e non temendo di abbassarsi col de. scrivere certe minute particolarità, entra ne? più fecreti ripostigli dell'animo loro, e pre fentà al lectore ad un tempo medesimo un fedel ritratto e di esli, e della umana na. tura. E questa singolar dote di Plutarco fu giàdal nostroAutore osservata; poichènar rando in un suo discorso un tal fatto parti colare, il qual dà viene in cognizione della perizia di lui nello scoprire le più nascoste proprietà del cuore umano, e nel formare Questo è il favorevole aspetto, fotto cui riguardar fi possono le vite da lui scritte,e gli encomj,di cui gli furono cortefi iCrie tici,vengono a ridurlia questo.Ma sevo leffimo poi in materie dubbie, ed oscure ri poläre interamente sulla fede di lui, corre  altri. remmo non piccolo pericolo d'ingannarsi. Plutarco, con ben raro esempio, congiun geva un ingegno straordinario ad una credu lità somma (difetto, da cui i rari ingegni fogliono per altro andar esenti, cadendo più sovente nell' eccesso contrario ). Forse ritene va in questo parte degli influfli del Cielo di Beozia. Occupato da'negozji, ch' ebbe a trattare, e dall'impiego di dare lezioni di Filosofia, poco tempo gli rimaneva per ac certarsi della verirà delle cose, che s'accin geva adescrivere.Sifa,ed eglistessolo con feffa, che ignorava la lingua Latina, nè o b bligato era dalla necessitàa d iftudiarla, ava vegnachè dimorasse in R o m a, servendo la lingua Greca a que' tempi presso i Latini di lingua,come fuoldirsidiCorte,cioè par lata dalla più leggiadra, e brillante parte delpopoloRomano,edi linguadotta.La (ciopensare di quanti sbaglj una tale igno ranza possa essere itato cagione. Che della fola autorità di lui pertanto non si debba far molco caso, è il sentimento del dotto Bodino (9), del Rualdo, del Dacier, e di (1)Joh.Bodin.Method.Hist.Cap.IV..Interdum etiam in Romanorum antiquitatelabitur.Ruald.animad.inPlut. Dacier nelle note alla fua traduzion francese delle Vite di Plutarco. Vero   Vero è, che l'erudito Giureconsulto Ei neccio (r) per salvar dalle accuse de'Critici un luogo di Plutarco, ove narra questo Sto rico aver N u m a concesso certi privilegj alle Vestali, i quali si sa indubitatamente non essere stati ad effe concessi senon dopo que sto R e, avvisofli di fare una mutazione nel teito di lui,di modo che seavantidiceva: aver conceduro grandi onori alle vergini V e Itali, veniffe a dire: loro concedettero (i R o mani ei sottointende ) molti onori, e fog giugne, che per sì fatta maniera salvar li possono molti luoghi di questo Storico.cen Turati dagli eruditi. M a lasciando stare, che molti non saran no quelli,che con una talcurafanarfipof fano; non so, perchè con tanta facilitànon. essendo il luogo di Plutarco un frammento di qualche antico Giureconsulto, il qual a b bia necessariamente cogli altri a concordare, si avventuri da lui questa emendazione, fen za addurne altra ragione, fe non che ilfal varsi con questa l'autoritàdi Plutarco.Am mesfa una tal Critica si fanno scomparire con poca fatica tutti gli sbaglj de'libri, che ci restano dell'antichità. (5)Heineccius ad legem Papiam Poppaeam Lib.I.Cap,  II, p. 27.Amít, apud Wetftenios, Sia adunque per la ignoranza della lingua Latina, lia molto più per lo genio credulo, e poco critico, anzi qualora trattasi di Sto rie lontane da tempi fuoi portato al m e r a viglioso Plutarco, non è guida ficura per chi vuol penetrare nelle più rimote istoriche n o tizie. Quella Storia favolosa, che dic' egli rinvenirli (S ). nelle origini delle nazioni prende, e li ftende troppo negli scritti di lui sopra i diritti della vera Storia maggior mente sgombra dalle finzioni presso altri Scrit tori. M a per riguardo a quella parte della Storia di Roma, i di cui avvenimenti ca d o n o nella nostra quistione, potea troppo qui  cilmente schivar gli errori. N o n avea egli nella sua stessa lingua le accurate fatiche d i Dionigi di Alicarnasso Scrittore, che ben d o vea esfergli noto, e noto veramente gli era, facendone egli menzione? Perchè adunque n o n fi restrinse a lui solo, tralasciando quelle fue popolari, e favolose tradizioni? Niuno dubiterà pertanto, che in questa parte della R o m a n a Storia pofpor si debba Plutarco a Dionigi. E ben riuscirà singolar cosa, fe recherò in mezzo l'autorità dello stesso Algarotti, il quale, fuori di questa fa (S ) Plut, in Theseo in princ.   quistione non lasciò di rendere il dovuto omaggio a Dionigi, e di mostrare il poco caso, che far fi dee della sola autorità di Plutarcone'fattide'Romani,efefarò ve dere aver egli in cofamolto più recente negato credenza a quel Plutarco, a cui tan to s'affida per rispetto ad avvenimenti ri motissimi dalla età di lui. Bafta per chiarirfi di quanto ho detto dar un'occhiata a ciò, che scrisse l'Autor nostro intorno all'impre fa di Cesare contro a'Parti (t). Questo è quanto ho io stimato dover pre mettere circa la fede, che prestar fidee agli Storici, innanzi di farmi ad esaminare. la verità, o falsità de'fatti, e la ripugnan ża o non ripugnanza di questi alle epoche il che mi studierò quanto più brevemente per me sipossa di recare ad effetto. Alicarnasco, Polibio...... danno una più esatta contez fa delleragioni dei costumi Romani che non fanno i Romani medefimi..... M a quei Greci sapeano a fondo la lingna Latina, buona parte della vita erano viffura co'Romani ec.  Alg.Op.tom.IV.Disc.Milit.Disc.V. soprala impresadisegnata da Giulio Cesare contro a'Partipo 178-9. La verità si è, che ognuno si può effere ac corto quanto nelle cose dei Romani fia poco efatro Plu tarcoec.,epag.180. Egliècerto,chedellecoseRo mane le migliori informazionisi può dire che le dob biamo a' Greci. Ed è naturale che cosìfia. A forestieri ogni cosa giugne nuovo ec, D i qui èche Dionigi    D i s cIsecnedndeenndo ora coll'Autor -noftro al para ricolare, ci si fa innanzi il Regno del bel licoso Fondatore della R o m a n a grandezza, e sarà secondo quello, ch'io Atimo Indole guerriera, dic'egli, danno ad una voce tuttigli Storici al Fondatore di quella Impero, che dovea coll'armi fare la con. quista del M o n d o. Questa indole bellicosa piùnonfipuò celebrareinRomolo,quando fi mostrasseaver eglipassatolamaggior par te del suo Regno in grembo alla pace:ora le prime guerre di lui contro i Sabini, che ridomandavano le donne loro, e contro al quni altri popoli per gelosia d'Impero, furo no tutte breviffime, e dellapenultima guer ra contro a'Camerj ce ne dà l' tarco (a), che non cade più in là dell'anno sedicesimo dalla fondazione di R o m a. N e dopo questa si ha notizia di alira guerra, falvo  CAPO Regno di Romolo.? cagio ne di non piccola maraviglia il farsi a c o n siderar la prima venir ad abbreviare la durata. ragione,ch'egliadduce per epoca Plu. @ Plut.inRomulo, IV.   salvo di quellaco'Vejemi, i quali doman davano, che fosse loro restituita Fidene, c o me Cittàdilorragione,dicuiRomolos' era impadronito, avanti che egli s'impadro niffe di Camerio. E questa guerra non si ha da porre più tardi, che sotto l'anno d i ciassettesimo dalla fondazione di R o m a 0 là in quel torno non essendo verisimile che una nazione potente com'erano iVejenti tardasse gran t e m p o a cercare di riavere il suo. Senzachè ognun ben fa, che le guer re tra que popoli erano subitanee, tra loro la vendetta non tardava molto a seguitar l'offesa. Posto adunque, ei soggiu gre, che l'ultima guerra fatta da Romolo cadeffe nell'anno diciassettesimo del suo R e gno, se non vogliamo, che i Romani fie no stati più lungo tempo in pace che in guerra fotto il reggimento dilui,nonsivuo le farlo regnar trentotto anni, m a della m e tà circa il Regno di lui accorciar fi dee 'Questa è la prima ragione, che adduce l'Autor noftro per abbreviar la durata del Regno di Romolo, a proposito di cui,,co m e già disli, strana riuscir dee a chi pon mente quella epoca, su cui fonda egli ilsuo argomento, ed è ľ  epoca della e che tro i Camerj somministrata guerra con da Plutarco. Il Conte   d Conte Algarotti, che la durata del Regno · di Romolo attestata da tutti gli Storici vuol distruggere, adopera per mandarla in rovi na un'epoca di un fatto particolare,dicui niuno fa menzione, fuorchè il solo Plutarco Storico a tutti iCritici, ed a lui medesimo sospecto. E d in fatti di questa guerra contro i Camerj Livio non ne parla punto nè p o co, prova forse della trascuratezza di lui nel tessere l'antica Storia. Dionigi (b) poi, il quale nel collocarla frale guerre co'Fide nati, e co'Vejenti da Plutarco non discor da,non dice però, che questa precisamen te seguita sia l'anno sedicesimo d i R o m a. V e d e pertanto ognuno,ch'io potrei, rifiu tando la testimonianza di Plutarco, togliere ogni fondamento a questa ripugnanza, m a conveniente mi pare di mostrarmi cortese ful bel principio delle osservazioni mie. Concediamo adunque, che nell'anno fe dicesimo di Romolo succeduta appunto sia questa guerra coi Camerj:.con qual ragio ne si prova, che tantosto abbiano impugna te le armi i Vejenti? Forse perchè avendo i Vejenti mosso contro i Romani per riaver Fi... 49 (6) Dionyf. Halic. Lib. II. pag. 117.    Dice Plutarco, che i popoli circonvicini vedendo (c) riuscir bene tutte le guerre a Romolo,da invidia,e da timore agitati, ftimarono non essere la sua crescente gran dezza da guardar con occhio indifferente, e doversi opprimere una potenza, era ne' suoi principi formidabile Laon de i Vejenti,i qualitenevano un ampio paese, ed erano de'più potenti fra' Tosca ni, mosfero contro Romolo, chiedendo la restituzion di Fidene che dicevano essere di giurisdizion loro; il che, foggiugne P l u tarco, non solamente ingiusto,m a ridicolo era, poichè domandavano come ad efli sper tante una Città, che non avean difeso, quan  che già do Fidene come Citrà di lor ragione soggioga ta da Romolo innanzi a Camerio, non è da credere, che un popolo potente come quello abbia tardato molto a farsi rendere il fuo, essendo le guerre a que'tempi fubitanee,nè tardando molto la vendetta a seguitar l'of fela? Ora io intendo dimostrare,anchecollo stesso Plutarco, effer piuttosto da credere, che alla guerra co' Camerj seguita fia las guerra co'Vejenti dopo qualche notabile spa zio di tempo. () Plut. in Romulo.   do da Romolo era stata assalita, e lasciati in quel tempo gli uomini in balia de'nemi ci,aspettavano allora a pretenderne lemura. Livio poi dice, che presero le armi i V e jenti (d), non perchè fossero possessori di Fidene loro tolta da Romolo, ma perchè i Fidenati erano anche Toscani, e quel che è più, perchè temevano non le armi de' Romani avessero ad esser fatali alle vicine nazioni; e Dionigi in fine (e) dice, che il pretesto della guerra fu la strage de' Fide nati. Ora adunque, poichè siamo certi,che per gelosíad'Impero, e non per altro im pugnarono le armi i Vejenti, li dee piutto Ito credere effere questa gưerra fucceduta qualche tempo notabile dopo quella coi Ca. meri; perciocchè stava ad osservare questo popolo, le poteva assicurarsi della sua forte Tenza arrischiar nulla, e se riusciva a qual che altra nazione di abbattere i Romani: veggendo poi, che s'erano felicemente sbri gati da quelle, e che anzi salivano ogni sanguinitate (nam Fidenates quoque Etrufci fuerunt ), & quodipfapropinquitasloci,fiRomana armaomnibusin.  d 2 gior  (d)T. Liv.Lib.I.Dec. I. Cap.VI.n.15. Belli Pidenatis contagione irritaii Vejentium animi, & con festafinitimis effent,fimulabat. (e) Dionyf. Halic. Lib. II. pag. 117.   Oltr' a ciò, avvegnachè seguita fosse., come si dà a credere l'Autor noftro,questa guerra circa all'anno diciassettesimo dalla fondazione di R o m a, chi ci assicura, che altre non ce ne sieno state, le quali,come di non gran conseguenza,n o n sieno state dagli Storici giudicate degne di entrare negli A11 nali loro? Pretende pure egli stesso, che non fisia tenuto accurato registro de'fatti, anzi confervari fi fieno per mezzo di una cotal vaga, ed incerta tradizione? Veda adunque non se gli possano ritorcere le sue stesse ar mi, e ch'egli medesimo ammetter debba p o ter offer fucceduti cali da cotefta fua vaga tradizione non conservati.  giorno a maggior buona cosa il non lasciarli fortificar nella grandezza stimò esfer pa ce. Se ruppe adunque per propria sua ial vezza la guerra, è probabile, che ciò non abbia fatto se non dopo un qualche conside rabil tratto di tempo, nel quale abbia ve duto, che nessuno s'arrischiava di sfidar R o molo a battaglia. Queste osservazioni,a me pare,bastar po trebbono per dimostrare, cheleirragionevo lezze ręcate in mezzo dal nostro Autore non sono di tal peso, che vagliano ad in fringere la Cronologia, e sminuir la durata del   del Regno di Romolo: nulladimeno stimo pregio dell'opera, acciocchè maggiormen te appaja la verità, fare una luppolizione, Orsù adunque abbiasi per non detto tutto ciò, di cui abbiamo ragionato sin ora.Dianli per invincibili le ragioni del nostro Autore. Concedafi la presa di Camerio esser seguita; com'ei pretende,l'anno sedicesimo di Ro m a, l'anno seguente la guerra co'Vejenti, e dopo questopace profonda; che ne segui rà per ciò? Si opporrà questo per avventu ra a quell  + ' indole bellicosa, che gli Scrittori danno ad una voce al Fondatore del R o m a no Imperio? Non potrà un Principe dopo essere felicemente riuscito in molte pericolo se imprese, dopo essersi procacciato stima, e venerazione presso le vicine nazioni colla fua bravura, goder de'frutti delle sue vit torie, e riposando all'ombra allori 9. col mantenere il guerriero valore vivo, e rigoglioso ne'suoi soggetti, fare in modo,che la fama diprode,ed invittoac quistatası, ed il sapersi esser egli a guerega giare sempre apparecchiato, gli proccurino una pace non inquieta,turbata, e vergogno fa,ma ferma,ftabile,sicura,pienadiglo ria, e di virtù. Troppo sarebber funesti all? uman genere gli Eroi, e troppo infelice vi de'conquistati ta d 3   (f)Op.del Conte Algar.tom.VIII.Epistoleinverfa ep.16. sopra ilCommerciopag.147, (8)Dionyf. Halic,Lib.II.p.82. se per guerra fosse valente, ce ne assicura D i o nigi (g), ove con quanti modi studiato fi di sia ta avrebbono eglino stessi a menare, acquistarsi tal n o m e, viver dovessero o g n o ratra le stragi, e tra 'l sangue. E non eb be lo stesso Autor nostro a lodare l'amor delle bell'arti, la profonda Scienza Politica, e le altre civili virtù di quel bellicoso Prin cipe, il quale tanto, vivo, il processe, ed in tanto illustre modo, morto,rese celebre la memoria di lui? E non fu la verità ster fa, che animò la sua tromba, quando ce. lebrò quel paese (f). Dove un Eroe audace, e saggio Nestore, e Achille in un fa fede al Mondo, Che l'Italo valor non è ancor morto. Troppo fiera fu adunque l'idea, ch'egli fi formò in questo suo Saggio di un Principe guerriero,potendo esseremoltobene,eche Romolo abbia la maggior parte del suo R e gno passato in pace, e che ciò non ostan te a sminuir non si venga la gloria milita re, dicui gode presso gli Storici. E chenell'artinonmenodipace,che 4   fia di ordinare lo stato va divisando. N e meno di un Romolo vi avrebbe voluto,per assodare, ed unire con faldi nodi una sì mal ferma società, e per ispirare la dovuta f o m missione, una sola foggia di vivere, di pen fare in certo modo, l'amordella patriaido. lo de'Romani., e fonte di tutte levirtù loro, in uomini di varie nazioni, di non ottimi costumi,per l'armi,eperlevittorieferoci. N è quelle parole, che Plutarco mette in bocca di N u m a (h), quando per sottrarsi dallo accettare il Regno offertogli insiste, di cendo, chedi un uomo di spiritiardenti,e insulfiordell'età,che non diunRe,ma di un condottier di esercito avean di biso gno i Romani per fronteggiar que'potenti nemici, che Romolo avea lasciato loro sulle braccia; quelle parole, dico, non sono da tanto, c o m e si c r e dell’Autor nostro, c h e, a n che concedendo non esservi ftata dopo l' anno diciassettesimo del Regno di Romolo guerra alcuna, perciò ritrar debbasi la m o r te di lui al diciottesimo, o ventesimo anno del suo Regno. Temeva Numa, che i po poli circonvicini, i quali non s'attentavano di moleftar i Romani, poichè ben sapevane  qual d4  (5) Plut. in N u m a,    Storici, che finsero aver que'personaggi, i quali a favel lare introducono, ragionato secondo le cir costanze, e giusta l'indole loro. Dalle m a l sime, che nel corso del suo Regno dimostrò Numa, dalla non curanza di luiper gli ono ri ricavo Plutarco questa parlata da lui fat ta, rifiutandoil Regno offertogli da'Romani. A proposito del qual nulla trovarsi appreffo Livio, altra prova. forse della sua trascuratezza, e che Dionigi (1) rifiuto è d a notare 2 qual prode Principe li reggeffe, non pren dessero animo dal genere di vita tranquillo, e filosofico, che noto era ad ognuno essere da lui professato, e non volessero lasciarsi sfuggir di mano una occafione sì favorevo le di abbattere un popolo, il quale già d a to avea tanti non dubbj fegni di voler fot tomettere le confinanti nazioni, ed in q u e to modo è da intendere, che Romolo la sciato avesse potenti nemici sulle braccia a' Romani. Senzachè, per non ripeter quello, che già disfi, e di nuovo mi converrà dire intorno al poco credito, che far sidee della autorità di Plutarco, certa cosa è, che quelle parole, le quali presso di lui si leggono c o me diNuma,s'hanno ariguardarealpari delle altre concioni,sia di Livio, chedilui, quai lavori della mente degli Storici 1  firestringeadire,che avendoperbuo no spazio di tempo ricusato ilRegno, s'in duffe poi ad incaricarsene a persuasione de' fuoi, è inutil cofa riuscirebbe cercar in Lo stesso Plutarco poi è quello,che fom miniitra il fondamento ad un'altra ragione, con cui ftudiasi il noitro Autore di abbre viare il Regno di Romolo. Ammette.egli adunque, che nel cinquantesimoquarto anno dellasua età giunto siaa morte Romolo, ma conceder poi non vuole,che difolidi ciassette anni abbia cominciato a regnare, la qual cosa è forza dire, quando foftener si voglia, che di anni trentotto stata sia la durata del Regno di lui. Le ragioni, che egli adduce per mostrare non poter R o m o lo esser cosìper tempo falitolulTrono,non fono altre, se non che ciò ammesso,non po. terli quelle tante cose, che questo Principe facea secondo Plutarco (k) con sì tenera età conciliare; ed essere maggiormente impro babile, che si giovane abbia fondato u n a Città, fiasi fatio Capo di un popolo, ed  pone Plutarco. 1 abbia sto Storico quelle parole, che in bocca gli (1) Dionyf. Halic. Lib. II. pag. 121. (1) Plut. in Romulo. que   (1) Op.delConte Alg.tom.IV.Disc,milit.Disc.V.sopra cit.p. 180. Per via della conversazione, dic'egli (Plu tarco)convieneinstruirsidelleparticolarità,chesonosfug gite agli Storici abbia guidato difficilissime imprese, c o m e a tutti è noto. M a io non so ritrovare in primo luogo ripugnanza veruna tra la età, e la condot ta di Romolo innanzi a'principi del suo R e ' gno,principalmente se vogliamo attenersi a ciò che di lui narrano Livio, e Dionigi, e non ricorrere a Plutarco quale pren dendo le notizie dalla bocca di que'R o m a ni,con cui conversava, come stesso'noftro che dalla venerazione, in cui quelli tenevano dell' Imperio leggiadro Autore (1), ben è da credere, ogni cosa, che appartenesse al Fondatore loro,sia Scrittor erudita, ed elegante (m ), diceva, che la grandezza sero i Romani cia, e dell'Alia dopo le conquiste, avea (parfo voluttà non ebbe, e di gloria fu que'pri lume di chiarezza de’ m i loro antenari posteri, qual rozzo, e barbaro popolo sem il, i quali senza la fama avverti lo.Un, che in fatto di stato ingannato Francese pari, a cui giun della G r e per così dire un Non so s e i moderni noftri Critici ileClerc, é i Muratorigli avessero menato buono tal fuo Criterio. (m) S. Euremont Ouvres mélées, pre    (n) Montesq.Consid. surlescausesde lagrand,desRom. a segnes venando peragrare falous: hinc robore corporis bus animisque fumo jam, non feras tantum fubfiftere, fed in latrones praeda onuftos impetum facere, pastorie busque rapta dividere, & c u m his crescente in dies grege juvenum ferias, ac jocos celebrare,  pre 1 farebbono stati riguardati dalle colte n a zioni. Io non voglio per niun modo adot tare il parere di lui, anzi penfo, che lo stesso Signor Montesquieu, il quale osservò c o n occhio si filosofico tutto il corso della Romana Storia, abbia avvilito di non Chap.I. (0 ) D i o n y f. H a l i c. L i b. I. p a g. 7 2. 8 ful bel principio della sua Opera (n) l'ori gine di quella Città Regina; m a credo Tuttavia di potere a buona ragione sospetta fondato sopra popolari tradizioni, e proveniente dalla b o c re del racconto di Plutarco ca di coloro,che qual Nume Romolo ado ravano, quando nè Dionigi, e nè pur Li vio danno di ciò il minimo cenno. Ed in fatti Dionigi (6) ci fa sapere soltanto, che i due giovani Principi furono condotti Città de'Gabj, perchè loro s'insegnassero leLettere,laMusica,ed ilmaneggiarle armi alla foggia Greca insino a tanto che pervenissero alla pubertà, e tutti que'p r e gi, i quali attribuisce loro Livio (p), T. Liv.Dec. I.Lib.I.Cap.3.1.4. Quum primum adolevit aetas nec inftabulis, nec ad peco troppo alla   disconvengono punto alla giovanile età, a n zi più diquella,ched'ogni altracomecor porali esercizj fon convenienti. M a su via concedasi per vero ciò, che dice Plutarco, sarebbe poi da farne le maraviglie, che un giovane d'ottimo ingegno fornito cominci a dar segni di quella prudenza, che ha da tilucere un giorno in lui.Educato Romolo, come fu, non v'ha inverisimiglianza nessu na,cheinlui,avvegnachè giovanetto,sfa villasse un raggio di qualche cosa maggior del comune M a dirà egli, per quanto, e dalla natura di belle doti fornito,e dalla educazione in strutto suppor si yoglia Romolo, che abbia edificato una nuova Città, che si sia fatto Capo d'un popolo, che abbia guidato diffi cilissime imprese, sempre con si tenera età mal potrafficoncordare. Non sipuò nega re, che di troppo maggior forza, che non  e cominciassero a svilupparsi que'semi di generosità, che dalla sua prin cipesca origine avea tratto? Oltre di che quan te volte il corso dello ingegno è più velo ce di quello degli anni? U n a illustre prova ben ce ne diede lo stesso noftro Conte Al garotri, il quale nella sua prima età in m o l te, e varie facoltà dimostrò l'acume, e la perfpicacia dell'ingegno suo. la   la precedente sia questa ragione: vediamo con tutto ciò il modo, con cui Romolo di venne Re, e non parrà più forse tanto dif ficile il concepire, che si giovane sia giun to a tanta grandezza; e prina d'ogni cosa prendiamo le più sicure notizie di quello, che è succeduto dalla nascita di Romolo in Gino al tempo, in cui fu innalzato alTrono. A tutti que'racconti della infanzia diR o molo io ltimo doversi preferire quello di F a bio antico Storico seguito da molti, come dice Dionigi, ed acui più propende egli medesimo (9), come quello, che favole chia m a le narrazioni degli altri Scrittori. Egli adunque rigettando quella poetica finzione della Lupa, nega insino, che fieno stati ef posti i due gemelli; che anzi afferma aver Numitore per destro modo sottoposti altri fanciulli, i quali furono da Amulio spieta tamente trucidati. Quindi essere stati i due Principi da Faustulo educati, ed inviati, perché ricevessero una insticuzione, secondo che richiedeva la origine loro,alla Città de' G a b j; il qual Fauftulo, per dirlo alla sfuga gita, quaprunque pastore de'Regj armenti, è da credere fosse poco meno di un uomo  (9) Dionyf. Halic. Lib, I. pag. 70-12 di   di stato de'nostri dì, attesa lasemplicitàde* costumi di que'tempi. Ritornati poi dalla Città de'Gabi, legue a dir Fabio presso Dionigi, di consenso dello stesso Numitore, i due giovani Principi fi azzuffarono co'p a stori d i lui, e gli sforzarono di ritirarsi in un co'loro armenti dà certi pascoli tuttoc chè comuni. Questo aver fatto Numitore per poterli accufare, e trovar m o d o di far entrare senza dar sopetto tutti que' pastori nella Città. Ordita una tal trama, esser v e nuto Numitore dal fratello Amulio a lagnarsi, e chiedere a lui, che gli dovesse consegna Te que'due Fratelli col Padre loro, i quali l'aveano sì villanamente oltraggiato, e d a n neggiato nelle cose sue, se pure seguito era ciò senza colpa di esso Amulio.Amulio per dare a divedere, che avuto non ne avea al cuna parte, manda tosto per esli,  dando,che nella Città venir dovessero non il solo Faustulo co'suoi supporti figliuoli, m a tutti coloro eziandio, i quali erano di tale delitto accagionati. E con tal mezzo essen dosi, oltre a 'rei, grandissima moltitudine nella Città introdotta, Numitore, dopo aver a' giovani l'origine loro, i loro cali, e le offele da Amulio ricevute, averli scoperto animati alla vendetta, ed averli persuasi a esli, coman non  non lasciarsi sfuggir di mano sì favorevole occasione di eftirpar quel Tiranno come fe cero. Questo è quanto si raccoglie da Fabio presso Dionigi; narrazione, lia per la quali tà del testimonio, sia per la veritimiglianza, da antiporsi sicuramente a quella di Plutar co (r), che porta in se stessa scolpito ilca rattere della finzione, e che al primo aspet to si dà a conoscere per lavoro della fanta sía de'Romani de'suoi tempi, da cui attin geva questo Storico le sue notizie, i ogni cosa nel loro Fondatore finsero straordi naria, e maravigliosa. N o n fu adunque solo Romolo in quella impresa, anzi fu a quella stimolato dall'Avo, e fu diretto da quello il suo valore, perchè produr potesse non solo discordie, e sangue, ma utilità, e fi curezza. quali  con Non voglio poi ora parlare diquellaopi nione accennata da Dionigi (1 ), e se non -abbracciata, n e m m e n o riprovata da lui, che R o m a stata sia anteriore a Romolo; onde egli non Fondatore diquellaCittà,ma Capo soltanto d'una colonia chiamar 'si debba; (1) Plut, in Romulo. (8) Dionys. Halic. Lib. I. pag.60...   concedo, che ne sia stato ilFondatore,ma è da sapersi, che, ha l'idea di edificare una Città, lia i mezzi per condurla a fine, fu rono opera di Numitore, e non diRomolo. Dionigi (1) di questo ci assicura, dicendoci, che due fini il mossero a ciò fare; primie ramente per dare un ricetto degno di loro a'due giovani Principi, in secondo luogo per isgravare la troppo grande popolazione della Città di Alba, allontanando principal. mente coloro, che avean seguito le parti di Amulio, ond'egli poteffe regnare libero di ogni sospetto. La qual cosa è, avvegnachè oscuramente accennata da Livio (u): per ciocchè dicendo questo contro l'autorità però e di Fabio, e di Dionigi, i quali per ianti rispetti degni sono di maggior fede, che il disegno di fabbricare una nuova Città fu pure Numitore,  opera della mente dei due Fratelli,m a n i felto indizio, che troppo non erasi studiato di diradar le tenebredi que'primi secoli, soggiugne, ch'eravi allora una gran molti tudine diAlbani,e di altri,con cui pote vano popolarla. Nè mancó Lores quoque accefferant, come. (1) Dionyf. Hasic. Lib. I.pag. 72. (u) T. Liv.Dec. I.Lib.I.Cap.III.n.6. Supererat multitudo Albanorum,Latinorumque, ad id p e r   come attesta Dionigi, di somministrar loro e danari,ed armi,ed ognialtra cosa,che abbisognasse per edificareuna Città (x).Ed a quella parte di popolo, che seco condot ta avea Romolo, fra cui eranvi non po chi de' principali di Alba, iecondo il parer dell'Avo, ragionò sul cominciare della edi ficazione (y ). Dal tutto il fin.qui detto pertanto ftati  e (3) Dionyf. Halic. Lib. I pag. 72. (y) Dionys. Halic.Lib. II.pag.78. ) Dionyf, Halic. Lib. II, pag. 119. ramente ne risalta non esserpunto cosa in verisimile, che di soli diciassette anni, o di diciotto abbia potuto Romolo farquello,che pur fece, se lipon mente, che in quelle sue prime imprese ebbe sempre a'fianchi l' A v o, ed ogni cota secondo il consiglio di lui esegui;fu egli l'Achille d'ogni impre fa,Numitore ilChirone. Tanto ho stimato dovermi stendere su que ho particolare, perchè non è Plutarco il solo, che ciò scriva; ma lo stesso Dionigi chiaramente attesta aver Romolo incomincia to il fuo Regno di foli diciotto anni (z). Vero è, che se si dovessero togliere dagli anni, che corsero avanti N u m a cinquanta giorni, i quali vogliono molti Autori essere 1 chia.    stari aggiunti da questo R e, oltre ad undi ci giorni, che pur mancavano all'anno fe condo la riforma, ch'egli ne fece, tre anni fi vorrebbono togliere dalla età di Romolo, quando ascese al Trono, nè vi farebbe per venuto di diciassette, o diciotto anni, di quattordici, o quindici. Anche ciò con cesso nel modo, che divenne Re, non sa rebbe gran meraviglia, che divenuto lo foffe in età si tenera, non avendo forse altro egli fatto, senon imprestare ilsuonome alieim presedell'Avo:ma dipiùsivuolnotare che quegli Autori, da cui raccogliesi esser giunto al Solio R o m o l o di soli diciassette, • diciott'anni, non sono di parere, che tanti giorni mancassero all'anno avanti Numa. za  r Dionigi, il qual dice (aa) essere il Fon dator di R o m a morto di cinquantacinque anni dopo averne regnato trentafette, e che aggiugne sulla testimonianza di tutti gli a n tichi Scrittori, i quali parlarono di lui, che molto giovane fu innalzato al Solio vale a dire di soli diciott' anni, di questa rifor ma dell'anno fatta da Numa, per quanto io ne abbia osservato, non ne dà alcun cen no, silenzio, che congiunto colla accuratez (aa) Dionyf. Halic. loc. cit, 2    (bb) Plut. in Roinulo. (cc) Plut. in N u m a. (dd)T. Liv.Dec. I.Lib.I.Cap.19. (ee) Macrob.Salurnal. Lib.I. Cap.XIII.Numa......quin quaginta dies addidit, ut in trecentos quinquaginta qua. suor dies za di lui mi mette in dubbio della verità della cosa.Plutarco poi, che dice esseregli morto di cinquantaquattro anni (bb), onde abbia dovuto incominciare ilsuo Regno di diciassette, parla di questa riforma (cc), m a vuole, che Numa altro non abbia fatto,le non aggiugnere gli undici giorni, che m a n cavano all'anno, e togliere l'irregolarità de' mesi, che erano in uso, essendovene tale, che non giungeva a venti giorni, e tale, che giungeva a trentacinque e più. Che al tro egli non abbiafatto,cheregolareimesi, ed aggiungervi alcuni pochi giorni, è quello pure, c h e intorno a questo raccogliere fi possa da Livio (dd). So, che molti Scrittori, come Macrobio (ee), 'Ovidio, Censorino, ed altri furono di contrario parere. Si dee però distinguere tra quelli, che asserirono, che l'anno avanti Numa era di soli dieci mesi, e quelli,che dissero precisamente di quanti giorni fosse composto, perchè potrebbe essere, trattan e2 dosi....annus extenderetur,Ovid.Falt.Lib.I.    dosi di Scrittori molto lontani da'tempi di Numa, che da quelli, i quali lasciarono scritto essere stato l ' anno avanti N u m a di soli dieci mesi, abbiano altri, come forse Macrobio,argomentato, che l'anno foffe di foli trecento e quattro giorni, la qual c o n getturą ognun può vedere, quanto sarebbe · fallace, potendo esser benissimo, che fi fa. cessero avanti N u m a dei mesi più lunghi a l fai del convenevole, e si venisse a compor re con foli dieci mesi l'anno di trecento cinquantaquattro giorni, non di foli trecento e quattro. Del resto il.Signor Dacier (ff) afferma, che alla opinione, che di soli trecento e quattro giorni fosse composto l'anno avanti N u m a prevalse quella, che giugnesse ai trecento cinquantaquattro per l'autorità principalmen te di Fenestella, e di Licinio Macro. Cre do pertanto, che ciò basti per togliere quello 'o m b r a d'inverisimiglianza, c h ' altri ritrovar potesse tra l'età di Romclo, e l'elier egli giunto ad ottener la Corona, dovendosi, le condo la più comune opinione, togliere fol tanto pochi mesi, che risultano dagli undici giorni, i quali mancavano all'anno avanti (f) Dacier nelle note alla vita di Nuina di Plutarco,   Numa,    e3 CAPO (88) Così dice il Signor Dacier nelle mentovate sue annotazioni doversi leggere Plutarco, e non trecento e s e s s a n t a, come molto bene lo dà a di vedereil contetto,  Numa, e non tre anni dalla età di diciotto. Senzachè a me baita, come già disfi, che da quegli Autori, da cui fi rica-. va questa età di Romolo quando fali sul Trono, non fi può l'obbiezione dedurre in modo alcuno, anzi il primo glıtoglieilfon damento, non parlando di questa riforma. lui di dell' anno, te, il secondo la confuta espressamen dicendo, che l'anno avantiNuma giun geva ai trecento cinquantaquattro giorni (gg ). O n d e mi pare a sufficienza dimostrato, che tuttique'fatti,iqualirecatisono inmez z o dall'Autor nostro c o m e ripugnanti alla d u rata del Regno del primo Re diRoma,ot timamente con questa possono conciliarsi, e vengono a perdere.ogni lor forza, e a di. leguarsi cutte le contrarie ragioni.   (a)L'Ami desHommes Tom.III.Chap.V.DesPro cui  V. Fondare Regno di Numa. CAPO Ondare un Regno, e dargli le leggi sono due operazioni cosi fra loro diverse dice un valente Politico (a), che richiedono per lo più due distinti Principi per eseguirle. Nascono ordinariamente gl'Imperj nella fe. rocia de'popoli tra la discordia,e learmi: laddove la Legislazione (intendo io di quella, che veramente meriti un tal nome ), è uno de'piùpreziosifruttidellapace.Ed èben conveniente, che ciò, che rende per quan to si può gli uomini felici, tra quello for ger mal poffa, che ne fa l'infelicità m a g giore. Ed in effetto le leggi di Romolo,. di cui abbiam sopra fatto parola, riguarda vano soltanto lo stato corrente degli affari, erano leggi, che abbisognavano, p e r così dire, allagiornata. Numa si che fu poi quello, che concepì una vasta pianta di L e gislazione, un general Sistema, il quale m i rar dovea alla eternità; Sistema, che sotto di se comprendeva eziandio la Religione,di hibitions. M a l'Autor noftro, quafichè ridur non si possa a credere, che senza alcuno indirizzo ira popoli feroci, e pressochè barbari, g i u n gere Per  fia potuto Numa a tanto senno da cui egli secondo l'uso de' Legislatori,iquali furono a' tempi degli Dei bugiardi, utilmen te fi servi per fiancheggiarne quelle leggi, quegli instituti, que'coitumi, e quelle opi nioni, che a parer fuo doveano maggiormen te contribuire alla felicità della Nazione: per se, mette in campo quella tradizione, che correva per bocca de'Romani insin da'tem pi di Augusto, secondo cui dicevasi essere Itato ilRe Numa uditor di Pitagora:onde le belle doti, le quali rilussero in lui, frutto fieno stato degli ammaestramenti di quel F i losofo, la qual tradizione torna molto in a v vantaggio del suo Sistema. Perciocchè, dic' egli, posto che N u m a sia stato discepolo di Pitagora, siccome sappiamo da Cicerone, Livio, e da altri Scrittori esser giunto q u e Ito Filosofo in Italia in età molto lontana dal tempo, in cui comunemente fi pone. N u m a, dee questo far accorciare almeno la durata de'cinque susseguenti Regni, perchè il Filosofo possa essere contemporaneo del Re Legislatore. еА 3 da   Per rispetto al qual suo ragionamento dei che se egli si fosse soltanto servito di quella tradi zione, secondo cui dicevasi N u m a essere Itato uditor di Pitagora, da questo n o n avrebbe potuto inferirne cosa alcuna in fa vore del suo Sistema, potendosi una tal v o ce concordar molto bene coll'antica C r o n o logia, cioè dicendo, che Pitagora venne in Italia in que'tempi, in cui secondo questa, fi crede regnasse N u m a; facendo ascendere in una parolaPitagora a'tempi di lui.Ma siccome egli desiderava farlo discendere a’ tempi pofteriori, non bastavagli questa s e m plice tradizione, bisognava, che d'altronde in cui coreito raccoglier potesse il tempo, Filosofo venne in Italia: preselo da Cicero ne, e da Livio, ma non s'avvide, che vo. lendo servirsi della autoritàloro,erapoi for za rinunciare a quella tradizione base avea posto alla obbiezion sua. Percioc chè vero è bensì, ch'essi dicono esser giun to questo Filosofo molto più tardi in Italia di quel tempo, in cui secondo l'antica C r o nologia regnava N u m a, m a in tanto l'asse riscono in quanto l'uno lo fa contemporaneo di Servio, di Tarquinio il Superbo, o,del Console Bruto l'altro. Volendo pertanto at gno è di particolar considerazione. che per 9 te   266., ed ivi Giamblico, e Diodoro. () Diogen. Laert. inPythagora Lib.VIII.Clem.Alex,  + il qual venne Pitagora in Italia, poichè ne lia l'epoca, come bene osservò incerta il dotto P. Gerdil (b), non però Scritto gran fatto fra loro i più accreditati far ri, i quali di tal sua venuta dovertero fessagesimaleconda te concordano quale asserisce piade 'feffagefima Clemente Alessandri. Diodoro menzione piade sesfagefimaprima sotto la facilmen no, che lo mette conda, e finalmente fotto la pone forto, Giamblico l’Olim, le quali epoche (c), il aver egli fiorito fotro l'Olim con Diogene Laerzio con variano la fessagesimale con Eusebio dice esfer egli morto nel quarto anno della fettantesima Olimpiade Diogene mentovato - ottanta o novant'anni. Livio poi, Cicero- in cui quantunque del (d) in età di, e per attestato Laerzio ne, renerli ad effi, non v'era ragione per a b bracciare soltanto il tempo, e n o n di qual R e fu contemporaneo questo Filosofo le non il tornar questo in avvantaggio del suo Sistema. lo pon parlerò qui del tempo, (1) Introduz. allo Studio della Relig. Lib. III. $. 2. p. Strom.Lib.1. (4) Diogen. Laert.loc.cit.   ed altri Scrittori in tanto ci danno 19 epoca inquanto,come ho accennato,cidi con di qual Re fu Pitagora contemporaneo le quali epoche però da loro fissate non ef cono dagli anni, che secondo la Cronolo gia comunemente ricevuta, corsero dal fine del Regno diServio, insinoalprincipiodel Consolato; del che niente è da maravigliarsi, poichè essendo probabile aver dimorato in Italia questo Filosofo un notabile spazio di tempo, tale Scrittore avrà tolto l'epoca, di cui fece registro, dall'anno della sua v e nuta,tal altro da un fatto accaduto essendo lui in Italia, tal altro dalla sua partenza, o dal tempo di mezzo della sua dimora, onde possono aver detto tutti ilvero,quando fiasi fermato in Italia non più di venticinque a n ni, che tanti ne corsero appunto dalla m o r te di Servio infino al principio del Consolaro. Tutto questo adunque io lafcierò da par te.Concedo, che ammettendo per vera quella popolar voce, essa dovesse piuttosto far discender N u m a a'tempi di Pitagora, che far ascender Pitagora a'tempi di N u m a. M a quello, a cui principalmente badar fi dee, è, che questa tradizione medesima non è fondata sopra alcuna autorevole testimo nianza, che la renda credibile. Vero è,che ne   2 al.   verità  nelsuo gover  alcuni rammentati da Livio, da Dionigi, e da Plutarco (e) furono di parere, che da Pitagora, il quale in quella parte d'Italia, che M a g n a Grecia nomavası, gittò ifonda menti della sua filosofica serta, N u m a ricevu to avesse quelle maflime di Religione, e di Politica, che pose in opera no. M a è da considerarsi negar Livio ciò apertamente, p.120. non essendo secondo luivenu to Pitagora in Italia,se non sotto ilRegno di. Servio Tullio, e dopo alcune ragioni, con cui studiasi di mostrar l'insusistenza della opinione di costoro, soggiugne, che di sua natura inclinato fosse alla virtù cotesto Re, nè bisogno avesse di straniera instituzione bastandogli la dura, e severa disciplina degli antichi Sabini, de' quali non v'avea una vol ta più incorrotta nazione (f ). E questa se (e)T.Liv.Dec.I. Lib.I.Cap.7.8. 18. Dionyf. lic.Lib.II. Plut.in Numa. (f) T.Liv.loc.cit.Auétoremdoctrinaeejus,quianonexa taralius,falfo Samium Pythagoram edunt: quem Servio Tullio regnante Romaecentumampliuspoftannos inul tima Italiae ora.juvenum emulantium ftudia coetus habuiffe conftat..fuopte igitur ingenio, temperatum animum virtutibusfuisfeopinor magis, instru&tumquenon tam peregrinis artibus, quam disciplina teirica, ac tristi veterum Sabinorum, quo genere nullum quondam incorru. prius fuis.   verità origine ebbe per avventura da una Colonia di Spartani venuta in Italia a't e m pi di Licurgo, come appare dalle memorie antiche nazionali portate da Dionigi, e di cui anche ne dà un cenno Plutarco (8 ), la qual Colonia è da credere che trasfufo avesse ne'Sabini buona parte de'costumi de' Lacedemoni. Cicerone poi in più luoghi delle opere sue afferma fuor di alcun dubbio esser giunto questo Filosofo in Italia sot to ilRegno di Tarquinio ilSuperbo,eche in Italiapur era a que’tempi,in cuiBruto diedelalibertà a'Romani(h).SottoilCon solato di Bruto lo mette pure Solino, ed Aulo Gellio in fine dice effer venuto questo Filosofo in Italia sotto il R e g n o dello stesso Tarquinio Superbo. Dirà forse taluno, che l'alterigia de'R o (8) Dionyf. Halic. Lib. II. pag. 113. Plut. in N u m a in piternum Hanc opinionem discipulus ejus Pythagoras maxime confirmavit,quicum ·Superbo regnanteinItalian veniffet tenait magnam illam Graeciam ec. Cic. Tusc. Brutuspatriam liberavit:ld.ibid.Lib.IV.Aulus Ge lius Noet. Attic.Lib.XVII.Cap.21.PofteaPytagoras Samius in Italiam venit Tarquinii filio regnum obtinente, cui cognomento Superbus fuit,  mani princ. (h) Ferecides Syrus primum dixit animos hominum ellefema Quaeft. Lib. I. Pythagoras, qui fuit in Italia temporibus iisdem, quibus L.   mani fu cagione del non darsi credenza a questa tradizione dai dori, quafichè ellite messero non venir con questo a scemare la gloria di que'primi secoli,, riconoscendo da un Greco l'Institutore della Religione, ed il più favio de'Re loro. Quantunque questa non paja ragion bastante per negare ciò, che gli Scrittori Romani ci dicono: poichè ammessa questa regola, rifiutar fi potrebbe come supporto tutto ciò, che uno Storico narra di avvantaggioso per la nazion sua, v e diam tuttavia ciò, che ne dissero iGreci. E' da credere; che questi sisarebbono recato ad, onore l'aver dato a Romani il Maestro di N u m a: che per Greco passò presso Dionigi e Plutarco Picagora, che che ne sia della opinione di alcuni moderni, i quali nè G r e co.il. vogliono, e nè,pure di quelle Greche Colonie fondate negli ultimi confini d'Italia.  pal  Ora ciò non oftantePlutarco(i)nonscio glie la quistione, e reca foltanto in mezzo le varie opinioni, che a'suoi di correvano, fra le quali degna è di considerazione quella di coloro, che asserivano essere venuto in Italia un certo Pitagora Spartano, il quale avea nella Olimpiade sedicesima riportata la (i) Plus,in Numar   bre (k) Dacier nelle annotazioni alla sua traduzione francese delle vite di Plutarco; alla vita di Nuina.  palma ne'giuochi Olimpici, fotto Numa terzo anno appunto del Regno di lui il Il Signor Dacier (k) fi ride di una tale opinione, fembrando a questo Critico ripu gnanza da non potersi comportare, che u n personaggio atto a dare instruzioni ad un R e, e ad un Re,qual fuNuma,abbiagareggia to in Olimpia per ootttenere il premio del corso.Ma a me pare con buona avendo Spartani questi additato parecchj al Re ftrato fondamento uli degli sommini Legislatore alla favola., abbia ed pace di 'un tanto uomo, che le usanze moderne lo abbiano ingannato nel giudicar delle antiche. A tutti è noto, che Socrate il più rinoma to Filosofo della Grecia non isdegnava di suonar la cetra, e che anzi non lasciò di esercitarsi nella lotta; ed oltre a ciò non era poi mestieri, che fosse un gran scien ziato costui per instruire N u m a delle leggi degli Spartani. Si sa, che quel popolo nella rigidezza de' costumi, e privazione di prel so che tutte le cose, le quali rendono dol ce la vita, godeva per altro dell'avvantag gio d'aver leggi, che per la semplicità, e   con  brevità loro, e per la cura del governo nel farle apprendere a'fanciulli erano note a tutti coloro, che doveano obbedirvi. N o n farei pertanto lontano dall'ammettere que fta opinione,se altro non vi fosse in con trario, fuorchè questa ripugnanza ritrovata dal Signor Dacier; m a rinunciar vi fi dee per troppo più forte motivo, ed è la te stimonianza di Dionigi, il qual dice non ri levarsi da alcuna memorabile Istoria, che stato vi sia in Italia altro Pitagora anterio re al famoso Filosofo (l). Del resto,cheilcelebreFilosofodi que sto nome nonsia stato a'tempi di Numa, con molte, ed incontrastabili ragioni Atelio Dionigisiprova (m), e di più ac cenna ciò, c h e diede occasione a questa v o ce sparsası nel volgo, e sono la venuta di Pitagora in Italia, la sapienza di N u m a fuori dell'usato della nazion sua, a cui sipuò ag. giugnere la conformità della dottrina, ed il ritrovarsi presso alcuni antichi Scrittori, da cui non dissente Dionigi (n), che N u m a fu chiamato al R e g n o il terzo anno della fedi cesima Olimpiade, il qual anno designarono dallo (1) Dionyf. Halic. Lib. II. pag. 121. (12)Idem loc.cit. (n) Idein Lib.II.pag. 120.   con dire, che fu quello appunto, in cui quel certo Pitagora Spartano avea riportato il premio de'giuochi Olimpici.E le pure è fondata quella taccia data a Dionigi di derivare da'Greci assai più di quello, che ragion voglia delle cosede'Romani,Greco d a lui efsendo Pitagora stimato, ben è da credere, che nel secolo, in cui eglivivea, fossero i dotii,uomini sicuri della falsità di questa popolar tradizione. Chiaro è a d u n q u e abbastanza, che nessun caso si volea fare di questa, quando da'più dotti fra' R o mani, e fra' Greci fu non solo rigettata, m 3 confutata eziandio, e quando fondato sopra l'unanime consenso loro già esitato, non avea l'erudito Stanlejo di chiamarla fas vola folenne (0) Quello, di cui abbiamo infino ad ora raa gionato,non risguardailRegno diNuma, m a tendeva ad accorciare i cinque seguenti Regni,ed inquestoluogo se*o'èdovuto trattare, perchè da cosa appartenente a lui ricavata era l'obbiezione.Facciamoci ora a considerare quelle ragioni, per cui accorciar debbasi il Regno diN u m a medesimo. Pare adunque primieramente all'Autor nostro, che non () Stanlejus in Hift.Philosoph.part.VIII.Cap,X. Io non fo rispondere altro a queste ragio ni,se non lasciare al giudicio di chiha fior di senno,sesianon solo maraviglioso, eri pugnante, m a soltanto fuori dell'ordinario corso delle cose, che, quando un uomo fia stato di singolare ingegno dalla natura for nito, e quand'esso abbia posto cura in col tivarlo, giunga in età di quarant'anni ad acquistarsi il grido di favio: tanto più che sappiamo aver N u m a avuto l'arte di conci liarsi venerazione presso gente rozza, e per conseguente superstiziosa, collo sfuggire il con  non potesse esser fornito nella fresca età,ei dice, di quarant'anni questo R e di tanta fcienza, e di cosi alto lenno 2 che già ri suonaffe la sua fama non folo pressoi suoi nazionali, m a ancora presso gli stranieri, e che il suo nome già dovesse far tacere in un subito ogni particolar riguardo, e le ani mosità delle parti, che per lo spazio di un anno intero contefo aveano fra loro dello Imperio. Che tale fosse la riputazione, che si avea della sua scienza, nelle cose divine, ed umane, che quantunque i Padri vedes sero la grandezza, che tornava togliendo il Re dalla nazion loro,nondime n o niuno ebbe ardire di preporre ad un tal uomo. alcuno a'Sabini, 7 f   consorzio degli uomini, dimorando ne'sagri boschi, col disprezzar le pompe, M a questo non è il tutto, segue a dire il nostro Autore. Tazio, che reggeva R o m a insieme con Romolo, preso al grido della fapienza di N u m a, gli ditde Tazia unica sua figliuola in moglie; ed ancorchè dalla Storia non abbiasi in qual tempo ciò preci samente avveniffe, si p u ò affermare senza tema di errore, questo essere avvenuto nei primi anni del Regno di Romolo dacchè Tazio morì prima della guerra co'Fidenati, e co'Camerį, cioè prima dell'anno sedice 6)Tacit.Annal.Lib.III.Cap.26. Nobis Romulus ut  e le 1 gran dezze, e lasciar che corresse la voce dei suoi pretesi congressi colla Ninfa Egeria.La fama della sua giustizia non era tale da afa sicurar i Romani, che non sarebbono stati molestati da 'Sabini, quantunque essi avesse ro tolto il Re della nazion loro? Doveano finalmente concordare una volta i Padri, e stanchi forse i Romani, e mal foddisfatti, come quelli, che dato ne aveano non dubbj segni,del governo diRomolo,ilqualpen deva al tirannico (p), fi contentarono di eleggere a R e loro un Filosofo. fimo, libitum imperitaverat.   fimo, o diciassettesimo del Regno di R o m o lo; e Plutarco (9) inoltre atteita, che T a zia era morta, quando N u m a fu chiamato al Regno, e che era vissutacon effo luilo spazio di ben tredici anni. Quindi ei rac coglie, che gran tempo innanzi fioriva la fama della fapienza di Numa, e dice,che, volendosi ritenere il compuro di Plutarco, sarebbe di necessità asserire contro ogni ve. risimiglianza, che all'età di soli venticinque anni la fama della fapienza di N u m a fosse già tanta da indur Tazio Re ad allogare una fua unica figliuola con lui u o m o priva Ed ecco altre opposizioni,a cuidàsem pre il fondamento il folo Plutarco. E che fede fi dee prestar m a i a questo Scrittore,  to, f2 е  onde conchiude non potersi fare a m e no di non dare un sessant'anni almeno a Numa, quando ad una voce fu eletto Re di Roma, e ne deduce, che se vogliamo, che, come s'ha dagli Storici, sia vissuto in fino all'età di ottantatré anni, avendo vent' anni più tardi, che non è la comune cre denza, incominciato a regnare, è neceffario, che di altrettanti fi venga ad accorciare il suo Regno. (1) Plut. i n Numa.    avanti lui? Per formarci una chiara idea della falsità del ragionamento del nostro A u tore, connettiamo alcune delle epoche di Plutarco, che è il suo Achille per questi due primi Regni col suo Sistema Cronologico. Tredici e più anni avanti alla morte di Romolo ei raccoglie da questo Storicoesser seguite le nozze di Numa con Tazia. Que sto Storico medesimo dice esser nato N u m a nello stesso tempo che Romolo innalzava le mura dell'alta sua Roma (n): ma vuole il nostro Autore, che di foli diciannove anni circa stato sia il Regno di Romolo, dunque ne seguirebbe a ritenere tutte queste e p o che di Plutarco,e congiungerle col suo S i stema, che nel fefto, o fettimo anno della età  e per rispetto almatrimonio di Numa con Tazia, e per rispetto all'esatto numero di anni, che vissero insieme, minute particola rità, le quali sfuggono agli stessi contempo sanei? D'onde ebbe egli si particolarinoti zie,che aver non potè non già ilsoloLi vio,ma nè pure l'accuratoDionigi,ilqua le tanta maggior diligenza usò nello stende re le sue Storie, che di maggior criterio è fornito, e che visse notabile spazio di tem po () Plut. in Numa. 1   età fua N u m a avesse menato moglie, ridi colo affurdo, ed inverisimiglianza troppo maggiore al certo, che non sia quellad' averla menata nell' anno vigesimoquinto. So che rigetterà egli quest'epoca, poichè chia ramente scorgesi doversi secondo il suo Si Itema porre  f 3 la nascita di N u m a quarant'anni innanzi alla fondazione di Roma; ma è da riflettere,che se di quelle, direi così, m i nute epoche, di cui favella Plutarco, non ne danno gli altri Scrittori un minimo cen no,nel mettere la nascita diNuma alprin cipio del Regno di Romolo, o là in quel torno, concordano tutti; poichè tanto asse risce Dione (s ), lo stesso si raccoglie a un dipresso da Livio, ed infine l'accurato D i o nigi dice,che Numa,quando giunsealSo lio, era vicino al quarantesimo anno, onde non essendovi, come a luo luogo opportu no abbiam mostrato ragione alcuna di ab breviare il Regno di Romolo, fi vuol pure secondo lui mettere circa a'prinċipj di R o m a la nascita di N u m a. Perlaqualcosa stra no dee riuscire, che l'Autor noftro rifiuti (1) Dion. Cocej. in fragm. Peiresc. pag. 8. ex ed.Rei. quella mari Hamburg. 1750. T.Liv.Dec. I.Lib.I.Cap.8.n.21, Dionys, Halic, Lib, II. pag. 129.   quella epoca di Plutarco, la quale è atte Iata dagraviffimi Scrittori,ed ammetta quel le, nello asserir le quali trovasi solo questo Stórico. E' adunque forza rigettare le epo che di Plutarco, e queste sue minute noti zie,non solo perchè incerte,ma perchèfe fi colgono tutte insieme mal congiungerli possono col Sistema del nostro Autore. Per rispetto poi a quelle parole di questo R e presso Plutarco, con cui rifiuta il R e gno, le quali pajono a lui disdicevoli i n bocca  M a concediamo, che queste particolarità accertate fieno, e n o n ripugnino col Sitte m a di lui le epoche stesse di Plutarco, che grande assurdo ne seguirebbe poi? Che T a zio avrebbe data lasua figliuola in isposa a Numa, mentre questi era di soli venti cinque anni;a Numa de'principali fra' Sa bini; a N u m a, che già erasi acquistato per avventura riputazion d i fapiente; a N u m a infine, che quantunque giovane, ben si può far ragione dal gran renno, che poscia di mostrò, che di venticinque anni uguagliasse molti uomini, i quali già fossero avanti nell' età. Qui mi pare in una parola, che la grandezza moderna abbia offuscato l'intellet to del nostro Autore nel recar giudizio dell' antica semplicità.   E' ben vero però, che fa d'uopo fer marsi ancora alquanto intorno ad una sua considerazione, la quale entrambi gli abbrac cia,ma spero,chemi verràfattodidimo, bocca di un uomo di soli quarant'anni,già ne abbiamo sopra ragionato(1).Basteràag giugnere, che quantunque proferite le avel le questo Re Filosofo in taleesà,male non gli sarebbono state in bocca. Forse tuttigli uomini hanno da potersi vantare di militar bravura?E quando vantatosenefosse,non era egli noto, che mai vissuto non avea fra l'armi? Concedası, che questa dote fosse necessaria ad un Principe in quelle circostan ed egli appunto mostrò di stimarla tale e per questo accettar non volea l'offertagli Corona. Non hanno pertanto da parer disdi cevoli, e vergognose in bocca di un Filo sofo di quarant'anni, mentre N u m a di tutt' altro pregiavasi, che di stare in full armi, ed avea preso b e n diverso cammino per giungere alla gloria. Laonde mi pare, che già li fia fatto chiaramente vedere, che per quello, che spetta a'due primi Regni, non avea l'Autor noftro per accorciarli. alcun bastantemotivo Itrare ze, f A (+) Cap ly.   strare non aver questa maggior forza delle altre sue obbiezioni. Pare adunque all'Au tor noftro improbabile,  D 88 Tullo Ostilioriaccendere petti de'Romani (nervati che abbia la bellica virtù ne® di sessantacinque anni dice risultare l'antica Crono logia da quarantatré anni del Regno di N u m a, da un anno d'interregno, e da ven tuno pacifici già da unapace anni, iquali sessantacinque di Romolo. secondo potuto samente potuto Tullo Ostilio delta re dopo sì gran tempo Romani, e guidarli come ei fece si animo alla vittoria: fi ponga però soltan to mente alla pace, da cui uscivano i R o mani,e biano interrotto l'ardor guerriero n e ' per qual guerra una e chiaramente fi verrà a comprendere, come ciò fia poflibile. tal pace ab Lasciando ora da parte, se quegli ultimi anni di Romolo sieno stati cosi pacifici c o me si dà a credere il nostro Autore, o fe almeno, come abbiamo sopra mostrato, non abbia quel bellicolo Principe mantenuti vivi gli spiriti marziali ne'suoi Soggetti; venia mo a vedere, fe ammettendo questasilun ga pace,ne risulti tale inverisimiglianza, per cui abbiasene a negar la possibilità. Tutta la ripugnanza consiste nel concepi come abbia те, 2 La   La pace de'Romani non era nata dall' ozio,èdaltimore,ma eraunapace,che ben lungi dal paventar de'nemici era in istato di farsi temer da quelli:onde non d o vea pure sembrare improbabile al nostro A u tore, che le circonvicine nazioni gelose della grandezza di R o m a non ne abbiano turba ta la tranquillità. E che senno sarebbe stato il loro di romper guerra con un popolo pol sente, e valoroso, che vivea in pace bensi, m a in una pace lontana dalle morbidezze, dura, rigida,anzi feroce, che non le of fendeva in cosa alcuna, che dava speranza in fine di voler depor l'armi, confervar l' acquistato, nè più curarsi di estendere i c o n fini? Aggiungafi inoltre di quai belle doti a b bia il saggio N u m a fornito i suoi soggetti pendente il suo pacifico Regno. Numa acconciò il popolo a Religione, e Divinità, per servirmi delle parole di Tacito,(u) fu, vale a dire, datore di quel freno, e {pro ne sì necessario, promosse, favorì, e ftudioffi in ogni modo di farfiorirel’Agricoltura,co me hassi non già dal solo Plutarco, ma da Dionigi eziandio (v). Ora ciò posto non iscriffe Plut, in N u m a, Dionyf, Halic. Lib.II, pag. 133  (w)Tacit.Annal.Lib.III.Cap. 26.n.3: lo   Che (a) Alg. Op. tom. III. Saggio sopra il Gentilefiro  go lo stesso noftro Algarotti (x ), seguendo il parere del Segretario Fiorentino, che, se dove sono le armi, e non Religione, con dif ficoltà fi può quella introdurre, dove è R e ligione, facilmente si possono introdurre le armi? E in quanto allo avere un popolo di agricoltorinon avrà egliavuto probabilmen te sotto gli occhi una riflessione veramente aurea diPlutarco,laqualequestopiùFilo. fofo, che Storico inserisce nella vita di N u m a, ed è, che, se in villa si perde quella temerità, e malnata voglia, che ci spinge a rapire le sostanze altrui, fi conserva però ottimamente tutto il necessario coraggio per difender le proprie? Che più? Non diceegli stesso, che quel Principe, che ha uomini può farne presto de'soldati (y ), che un zappatore, un contadino li avvezza agevole mente a marciare, a patir caldo e gelo, alle fatiche, ed agli ordini della milizia? Ecco in qual maniera da que'robusti contadini, della Religion loro veneratori, amanti della patria abbia Tullo Ofilio potuto ben tosto crarre un poderoso esercito. pag.273: (y ) A l g. O p. c o m. V. V i a g g i di R u s i a p a g. 5 8 - 9;   ra, avere C h e se altri poi si volgerà a considerare, per qual guerra abbia questo R e rotti gli ozj dellapatria, e spintii Romani all'ar mi, come s'esprime Virgilio, vedrà,che ca de rovinata del tutto la ripugnanza i m m a ginata dal nostro Autore. Nella prima guer che ebbero i Romani dopo ilRegno di N u m a, non trattossi di uscire dal proprio paese,e andarad invaderecon armata ma no l'altrui, trattosli di difendere i propri confini dagli Albani', che per gelosía d'ima pero vollero la guerra con esli, e le per avventura non si-sarebbono questi accinti di buon animo ad una straniera espedizione, è da credere, che non avendo ne'campi perduto il necessario coraggio per difende re il suo, con tanto maggior ardore moffi G fieno a rintuzzare la forza degli ingiusti aggressori. Che tali poi fieno stati gli Alba ni, avvegnachè Livio (7) secondo l'usanza fua distintamente non ne favelli, non ce ne lasciano dubitare e Diodoro Siculo, e lo Atesso tante volte lodato Dionigi (aa). Per ciocchè il primo dice, che finfero gli Alba ni di aver motiyo di lagnarside'Romani per (z)T.Liv.Dec. I.Lib.I.Cap.9.n.22. (a a ) D i o d. S i c u l. e x c e r p. L e g a t. t o m. I. p. 6 1 8. Dionys Halic.Lib.II.p.137.    iR o m a ni sia per gara di primato, sia a cagione di questo stesso maltalento, che contro esli gli Albani dimostravano, non mancassero di corrisponder loro in malevolenza, e già in questo modo fparli fossero que'semi di odio, i quali scoppiarono poi in guerra manifesta. Nè tralasciarfidee,cheilnuovoReTullo Ostilio già erasi colle sue belle qualità cat tivato l'affetto de'Romani, e col distribui re a'bisognosi cittadini certe terre, le quali aveano appartenuto a'due primi Re, come scrive Dionigi (bb), avea già dato ad effi  avere un pretesto di muovere contro esli, c o m e quelli, che portavano invidia alla p o •tenza loro; e Dionigi attesta, che Cluilio Dittator di Alba volle la guerra co’Roma ni, e permise a'suoi di dare il sacco impu nemente alle terre loro.Aggiungafi, che gli Albani, come sopra abbiam cacciato una parte del popolo loro, la qua le a persuasion di Numitore, che per rego la dibuon governo volea purgarne laCittà lua,era ita con Romolo probabile, che vedessero di mal occhio cre sciuta a tanta grandezza una Città formata de’rifiuti loro, e che d'altra parte riferito, avean a Roma, onde è mo 1 (bb) Diony. Halic. Lib. III. pag.137 1   motivo di sperare di dover condurre una vita felice sotto il governo di lui. In abbiano CAPO VI. Regni di Tullo Ostilio, Anco Marzio, Ccoci ora giunti al Regno di quel Tullo Oftilio, che meritò di nuovo corona per la sua perizia militare, e guidò alla vittoria (a). pure il nostro Autore, che d'alcun poco s'ac (a) Virg. Lib. VI. Aeneid,  potuto cor Patria si cara, e che già per le civili, e militari virtù di Romolo, e per lo senno di Numa salita era ingrande stima,ed ono re presso le vicine nazioni. difendere una Eccoci e Tarquinio Prisco. que Ita maniera resta verisimile, che i Romani robusti, e valorofi com'erano dilornatura, offesi da un popolo ad essi odioso, governa ti, e retti da un favio, e prode Principe, che amavano, Agmina J a m desueta triumphis QuestoRegno adunquenon meno diquello del suo fucceffore Anco Marzio defidera   Vero è, che si potrebbe in primo luogo fospettare e dell'età si avanzata di Anco e della stessa asserzione, che questo R e alla morte sua non avesse un figliuolo, il quale giunto fosse alla pubertà. Perciocchè il n o Itro Autore da un'epoca del suo Plutarco raccoglie, che giunto già foffe Anco all' anno sessantesimoprimo dell' età sua, quan do venne a morte, prestando intera fede a questo Storico, allorchè dice, che Anco ni pote di N u m a per parte di una figliuola alla morte dell'Avo già era nel quintoanno dell' età fua (b); minuta particolarità, di cui egli folo c'instruisce, non facendone motto non solo Livio, m a nè pure Dionigi, entrambi  corcino, avvegnachè non possano chiamarfi di lunga durata, non giungendo ilprimo se non a trentadue anni, ed il secondo a ven tiquattro, secondo la Cronología comunemente ricevuta; e la ragione, che lo spinge ad abbreviarli, non è altra, se non l'improba bilità, che, secondo lui, risulta dal doversi ! fupporre nell'antico Sistema, che il R e A n co Marzio fia morto nella età di anni fel fantuno senza aver figliuoli, i quali già p e r venuti fossero alla pubertà. (6) Plut. in Numa in fine. i   fe dati questi per ne nyf. Halic. Lib. 1. p. 136. (d) 'T. Liv. Dec. I. Lib. I. Cap. 14. n. 35. Jam filii  i quali fi restringono a dire, che questo R e nipote era per via di una figliuola del Re Numa (c).Nè certaèpurequell'altraal serzione del nostro Autore, che alla morte di Anco non fosse ancora alcun suo figliuo lo giunto alla pubertà: perciocchè, te L i v i o descrivendo non troppo accuratamente quel primo secolo di R o m a secondo l'ufan za fua,diceallasfuggita,cheifigliuolidi Anco erano vicini alla pubertà (d), Dioni gi, il quale con occhio più diligente scorse que'tempi, attefta, che uno de'sopraccen nati figliuoli era già pervenuto alla pubertà, e l'altro ancora fanciullo (e). Dubbiosi sono pertanto,per nondirfalsi,ifondamentidella difficoltà. Vediamo ora, veri fia almeno questa convincente". Perdo nimi il Conte Algarotti; ma io debbo con fessare, che quando lessi questa parte del suo Saggio,non potei fare a meno di non com piangere m é c o stesso la deplorabil sorte della umana ragione, non potendosi coloro, che © T.Liv.Dec.ILib.I.Cap.13.n.32.NumaePom pilii Regis Nepos filia ortus Ancus Martius erat.Dio prope puberem aetatem erant. (e) Dionys, Halic.Lib.III.pag.184.    ne fanno la gloria, qual certamente egli era liberare da'pregiudizi pienamente. Grave presunzioneinvero controallagiustiziadella causa si è l'esser forzato un u o m o del suo senno a ricorrere a tali ragioni per sostenerla. La grande impressione, che avea fatto in lui il Sistema Cronologico del Neutone, 1' opinione, che aveva della dottrina di q u e fto Filosofo fecero sì, che lasciò sfuggir dalla penna certe ragioni, le quali eglim e desimo, le altri gliele avesse opposte, non avrebbe né m e n o degnate di risposta se è da credere, che tutti gli uomini facciano, e d Anco medesimo abbia fatto quello,che pru dentemente far fi dovrebbe. Se finalmente anche concesso, che ne'giovani suoi anni abbia   Lascio pertanto al giudizio de'giusti matori delle cose, se l'esser morto il Re Anco Marzio in età di anni sessantuno fen za aver figliuoli,iqualitrapassasseroiquac tordici ami, sia tale inverisimiglianza, che ci sforzi a negar fede a'più gravi Scrittori delle cose Romane di que'tempi, e lascio per conseguente pure al giudicio loro, fe, fupposto, cheil partito prudente fosse di tor moglie, essendo egliancor giovane perpo terlasciare, come l'Autor nostro s'esprime, dopo le figliuoli attial governo, esti abbia tolto moglie, sia cosa inverisimile, che se non tardi abbia avuti figliuoli,o pu re morti fieno avanti lui i primi,non rima nendovi che gli ultimi. Tutte queste cose, come dicea,io le lascio al giudicio de'let tori, e mi reftringerò soltanto a dimostrare, che la speranza, la quale prudentemente a y rebbe potuto nodrire, che i suoi figliuoli poteffero succedergli nel Regno, non era tale da spingerlo a tor moglie affai per tempo, la qualcosa per recare ad effetto mi con verrà indagare attentamente quelle leggi, o per dir meglio costumanze,secondo cuicrea vanli i R e di R o m a; tanto più che, oltre all' effere materia per se importante, non ci riuscirà forse inutile l'averla trattata nel de. corso di queste osservazioni. Chi dunque prende a considerare la con ftituzione del governo di Roma a que tem pi,hadapormente innanziditutto,che le cose non erano ordinate, come sono negli Statide'giorninoftri,ma chesenonrego lavansi gli affari del tutto all' avventura, elea  forza, e l'accortezza aveano per l'ordina rio'non poca parte nelle deliberazioni.Dif ficile pertanto sarebbe trovare le leggi fone damentali, secondo cui fissata fosse la suc cessione al Trono, ovvero il modo della la g   A due capi ridur si può la base della constituzione di qualunque Stato: al m o d o, con cui si eleggono, od intendonsi eletti quel Principe, o que' Magistrati, che hanno da reggerlo, ed alla autorità, che questi hanno sopra i loro soggerti. Della autorità, che i Re di Roma avessero soprailorosog getti, non appartenendo punto alla presente quistione, io non farò parola. Chi deside raffe per avventura d'esserne informato, p o trà ricorrere al Grozio, ed al Cellario (1) ed a que'luoghi degli antichi Scrittori da essi accennati. Mi volgerò bensì a mostra che H. Grotius de Jure Belli & Pacis Lib. I. Cap.III. Chriftoph. Ceilar.Breviar.Antiq.Roman.Cap.II.feff.1.   1 elezione: tuttavia connettendo alcuni luoghi degli Scrittori, e facendovi sopra alcune ri flessioni, verremo in chiaro, per quanto comportar lo possa un si rimoto secolo, di quelle consuetudini, le quali, secondo c h e io stimo, tenevano luogo presso i Romani di leggi fondamentali. per quanto raccoglier si poffa dalle scarse notizie di quella età il Regno di R o m a piuttosto elettivo, che altro chiamar li dee. re, 1 E 03.120. n.5 S. 2.   ma E prima di tutto, le dalla qualitàde'Re, i quali fuccedettero l'uno all'altro, si può ricavare alcuno indizio, certa cosa è, che in que'sette Regni mai figliuolo non succe dette al padre, che anzi tutti furono di di verle famiglie. N o n parlo di Tarquinio il Superbo, il quale non per giusta strada, m a colla forza, e per mezzo delle scelleratezze giunse al Trono, a cui mai sarebbe in al tro modo pervenuto.Veda adunque l'Au tor noftro, se dalla elezione di Anco, che nipote era per via di una figliuola di N u che non subito dopo il Regno dell' Avo,ma dopo quello diServioTullioasce se al Trono, inferir se ne possa, che piut tosto pendesse ad essere successivo il Regno di Roma. Che se Tarquinio Prisco allonta nò da Roma i figliuoli di Anco nella ele zione del nuovo Re, la qual precauzione egli s'avvisa dimostrar, che vantassero que sti giovani diritto al T r o n o,si vuol notare, che tutto facea per li figliuoli di Anco,per muovere i Romani a conceder loro il R e g n o, e tutto era contrario a Tarquinio. Erano i primi discendenti da N u m a figli uoli di Anco Principe, che congiunto avea le più belle qualità de'suoi antecessori, o n de è detto da Livio uguale a qualunque de' pal. g 2    Pa (8)T.Liv. Dec. I. Lib.I.Cap.13. n.32. Medium erat in Anco ingenium,& Numae, & Romuli memor. Id. ibid. Cap. 14. n. 35. Cuilibet fuperiorum Regum belli ) Dionyf. Halic. Lib. III, pag. 184.  1 Too  passati R e nella gloria delle arti sia di Sequitur jactantior Ancus Nunc quoque jam nimium gaudens popu laribus auris. Uno di questi poi secondo Dionigi (1) già era alla pubertà pervenuto.Laddove Tar quinio oltre ad essere straniero essendo stato dal morto Anco fuo fingolar benefattore d e ftinato per tutore a'suoi figliuoli, la qual cosa fece per avventura, lusingandosi, che avrebbe egli tentato ogni modo di aprir loro la strada al Trono,nè per gratitudine questo dovendofi fupporre ignoto a' R o m a ni, certa cosa è, che eravi ragion di teme re per lui di non poter ottenere il suo in tento, quantunque il Regno fosse elettivo, se i figliuoli di Anco avessero potuto chia marlo, esponendo a' Romani i meriti del paces che di guerra (g), e quello, che è più grandemente amato dal popolo,secondo che disse Virgilio in que'suoi versi, ove più da Storico, che da Poeta favella (h). pacisque,& artibus, & gloriapar. (h) Virgil.Aeneid.Lib.VI.   Padre loro, la di cui memoria era ad effi si cara. Sapea benissimo l'astuto, ed a m bizioso Tarquinio, qual impressione far p o tea nel popolo l'aspetto de' giovani Princi pi, ed il rinfacciargli, che avrebbono fatto la sua ingratitudine. T e m è pertanto la pre senza loro giustamente, e trovò m o d o di allontanarli da’ Comizj. Dal fin quì detto chiaramente risulta, che non ostante i pregj, che vantavano i figliuoli di Anco, essendo stati esclusi dal Trono, a cui quantunque per molti motivi gliene dovesse esser chiusa la strada (k), fu innalzato Tarquinio, ben lungi dall'inferire da questo allontanamento, che nella elezio. ne del R e i voti stessero ordinariamente per la ftirpe Reale, 'avendo un tale allontana mento bastato ad escluderli, se ne dovea a più buona ragione dedurre, che i Romani niun riguardo avessero al sangue Regio nella elezione del R e loro. min (k),Alienum quod exaétum: alienioremquod ortum Corin tho:faftidiendum quod mercatore genitum: erubefcendum quodetiam exule Demararo narum patre, Valer. Mas xim, Lib.III,Cap.IV.  M a veniamo ora con testimonianze degli Storici a dimostrar maggiormente il diritto de'Romani nell'elezione de'Re loro,eco.. g3  ininciando da Livio:(1) Servio Tullio, dice questo Storico, avvegnachè foffe coll'uso al possesso del Regno, tuttavia perchè sa peva, che il giovane Tarquinio andava dif ieminando esso regnare senza ordine espres so del Popolo, conciliatosi il buon voler della plebe col distribuir certe terre tolte a’ nemici, fi arrischio di porre in deliberazio ne a'Romani, fe volevano, ed ordinavano, che regnasse o no, e con tanto general c o n senso, con quanto per lo innanzi alcun al tro giammai Re fu dichiarato. Ove è da notare,che Tarquinio il Superbo per farsi strada al Trono non vanta già i suoi diritti come figliuolo di Re, nè taccia Servio di usurpatore, perchè coll'occasione di a m m i nistrar la tutela di lui era giunto al Princi pato, m a dice, che fenza espressa elezione del popolo Servio Tullio governava il R e gno: e Servio per dileguar que'rumori,non risponde già non essere un tal consenso n e cessario, m a, assicuratosi prima dell'affetto quam jam ufu haud dubie Regnum poffederat; tamen quia interdum jactari voces  1 102 (1)T. Liv.Dec. I.Lib.I.Cap.18.n.46.Serviusquam del a juvene Tarquinioaudiebat fe injusu populi regnare, conciliata prius voluntate plebis, agro capto ex hoftibus viritim diviso, aufus eft ferre ad populum, vellent juberentne fe regnare: santoque consena fui, quanto haud quisquam alius ante, Rex eft declarcius;   # Questo è quanto dice Livio lo Storico, di cui l'Autor nostro maggiormente si pre gia; m a per dare a vedere con alcun altro Scrittore la verità medesima, a chi della a u torità del solo Livio non si volesse appaga consideriamo c o m e parla lo ítesso S e r vio presso Dionigi per difendersi dalle accu fe di Tarquinio: mentre io era disposto (ei dice adunque a Tarquinio ) a rinunciare il Regno (m) iRomani mi trattennero, sulqual Regno essi hanno diritto, e non voi altri, o Tarquinj; quindi prosegue: siccome al vostro A v o (cioè a Tarquinio Prisco ) fu dato il Regno, quantunque estero, ed alie nisfimo dalla cognazione diAnco, sprezzati i figliuoli di Anco non fanciulli e nipoti, m a nel fiore dell'età loro, nello stesso m o d o a m e f u concesso, p e r c h è il Popolo Romano non un erede del Padre metre algo verno della Repubblica, m a un personaggio veramente degno del Principato. Tutto questo vien confermato dalla con g4  'del popolo, pone in deliberazione a ' R o m a ni, le volevano, che seguitasse a reggerli, cose tutte, che l'autorità del popolo nella elezione de'Re appieno dimostrano. dotta 1 re, (in) Dionyf.Halic.Lib.IV.pag.237. 1    dotta di Tarquinio Prisco verso i figliuoli di Anco; chi si vorrebbe dare a credere, che un uomo cosi accorto avesse commesso tale inconsideratezza di lasciar dimorare in R o m a questi Principi, e non proccurare di al lontanarli per destro m o d o d a quella Città se avesse loro usurpato il R e g n o? Bisogna credere, ch'ei s'avvisasse dinon esser reo d'ingiustizia veruna contro d'essi, non altro avendo fatto, se non usare una destrezza per ottener dal Popolo una cosa, di cui questo poteva liberamente disporre. Vero è, che sia Anco Marzio, fia Tare. quinio Prisco, destinando per tutori de'pro pri figliuoli personaggi, i quali doveano ef sere per ogni ragione ad elli tenuti grande mente, si lusingarono, che questi proccurasse roa'lorofigliuoli quelRegno, cheime desimi procacciarono per fe, servendosi p e r l'appunto del credito acquistatofi penden te il governo de'benefattori loro. M a que sta cura medesima, ed il non aver sortito l'effetto desiderato da que’ due R e, dimo-. ftra vie più il poco riguardo, ch'avea il Popolo Romano al sangue Reale nelle ele, zioni de’nuovi Principi. Del resto, se da quel general ritratto de? costumi de'Romani di que'tempi, che racs  Troppo parrà a taluno, che dilungato mi fia in questa materia, la quale in vero non avrei trattato così ampiamente, se non mi fosli dato a credere, che anche prescinden (7) Montes Esprit des Loix Liv.XI.Chap. 12,  cogliesi dalla Storia, si può trarre qualche congettura, essendo propria di popoli rozzi peranco e semibarbari una costituzione in forme di governo, non è da credere, che la successione al Trono di padre in figliuo lo stabilita fosse tra esli, essendo questa frut to di secoli più colti, e per recar finalmen. te la testimonianza di qualche moderno Scrit tore ', che questa verità abbia riconoíciuto, basterà per tutte quella del Montesquieu (n), il quale asserisce chiaramente e fuori di v e r u n d u b b i o, c h e il R e g n o d i R o m a e r a e l e t tivo. Veda adunque l'assennato lettore, se la speranza di lasciar figliuoli atti al R e g n o allamorte fua era tanta da muover Anco a tor moglie assai per tempo, e se anche c o n cedendo tutte le conseguenze, che da que Ro matrimonio cosi per tempo contratto ne deduce il nostro Autore, le quali altri forse non avrebbe alcun ribrezzo a negare il fon damento, che a queste ei pose, siastabile, e fermo fufficientemente. do   do dalla nostra quistione, non sarebbe per avventura riuscito discaro il veder posto in pieno lume untal punto. Tempo è ora, che veniamo al Regno di Tarquinio Prisco. Se de'Regni di Tullo Ostilio, ed Anco Marzio toccò per così dire soltanto alla sfug gita il nostro Autore, di troppo più forti r a gioni fi crede afforzato per accorciar la d u rata di quest'ultimo. E qui debbo di n u o vo avvertire, che l'essersi egli appagato degli scarsi racconti di Livio, e il non aver rivolto l'occhio a quel lume, che mena di ritto per l'oscuro calle di que' primi tempi di Roma, voglio dire a Dionigi, è stato cagione dell'aver egli ritrovate ripugnanze, che non vi sono. Strana a lui pare, per istringere le sue ragioni in breve,la disfimu lazione de' figliuoli di Anco, che per tren totto anni aspettarono luogo e t e m p o vendetta, e vendetta ei dice eseguita c o n tro un usurpatore del R e g n o in pregiudizio loro, avvegnachè fosse itato instituito tor di essi dal Padre medesimo. E d'altra parte a lui pare, che troppo grande disdet ta sia stata la loro, che di tanta dissimula zione dopo aver indugiato intino alla età di cinquant'anni ad operar quel fatto, non ne abbiano colto frutto alcuno alla tu. tuttociò essendo cona rimasi esclusi dal Trono.    per altro grido di accurato nel r a c cogliere i fatti descritti dagli Antichi (p), e il di cui difetto non è la brevità, cioè, ch'essendo stato ucciso il famoso Augure Accio Nevio colui, di cui si racconta il prodigio vero o supporto della cote tagliata col rasojo, i figliuoli di A n c o attribuirono questa uccisione a Tarquinio, fia perchè, essendo il R e entrato in pensiero di far m u tazioni nelle leggi, temeva non gli dovesse di   M a se avesse egli consultato Dionigi, avrebbe veduto, che vero è bensì aver in terposto i figliuoli di Anco trent'otto anni tra la ingiuria, e la vendetta in questo fen fo, che potessero recate ad effetto le loro crame, ma vero poinon è, che in questo frattempo questa medesima scelleratezza altre volte macchinato non avessero,laqual cosa non sivenne a sapere,se non dopochè eb bero eseguita quella tragedia: Chiaramente in farti asferisce Dionigi, ove narra la m o r te di Tarquinio (o), che coteíti figliuoli di Anco più volte aveano tentato di togliergli la vita, che anzi aggiugne questa partico larità, omeffa da uno Storico moderno, il quale ha (1) Dionyf. Halic. Lib. IV. p. 204-5; (0) Rollin Hift. Rom.  di nuovo efier contrario questo Augure,coa m e altre volte trovato lo avea, sia perchè egli non fece le necessarie ricerche per stato a  1 conoscere, e punirne gli uccisori. Riconci liolli Servio Tullio con Tarquinio, m a a v e n dolo ritrovato facile al perdono, dopo tre anni il messero a morte nel modo, che de scrive Livio. Dirà taluno non esser da cre dere, che abbia Tarquinio sì facilmente p e r donato un tale attentato a'figliuoli di Anco; m a forse vero era ciò, di cui l'accagiona vano, e se ne avesse mostrato risentimento, avrebbe dato peso all' accusa. Del rimanen te è da credere, che note non fossero a Tarquinio le antecedenti macchinazioni, p e r chè dicendo Dionigi unicamente a proposi to di quest' ultima, che lo ritrovarono fa cile al perdono, dimostra, che le altre giun te non erano a cognizione di lui; onde cagion di quella accusa, ben avesse egli m o tivo di tenerli per malcontenti, m a n o n a segno di volergli toglier la vita. ri che allora pre Anzi di più è da notare cipitarono l'impresaifigliuolidiAnco,quan do sividero chiusa lastrada dipoteredopo la morte del vecchio R e, esponendo i m e riti del Padre loro, procacciarsi il Regno; voglio dire quando giunto Servio inalto   stato presso a Tarquinio, ed instituito tutor re de'figliuolidilui,vedevano,chequesti amato, e ten Tutto questo succeduto non sarebbe, se fosse stato, come pensa l'Autor noftro, Tar quinio un usurpatore, poichè non avrebbo no dovuto tentare tante obblique strade, usar tanta diffimulazione, ed è da credere, che più facilmente, e più presto sarebbono forse venuti a capo de'loro disegni. M a già so pra abbiam messo in chiaro, ch'elettivo ef Tendo ilRegno di Roma ingrato bensi, e sconoscente ad Anco fuo benefattore non usurpatore chiamar fi può Tarquinio Prisco. Strano pertanto non dee riuscire che abbiano frapposto i figliuoli di Anco trentore'anni non già tra l' ingiuria, e la e riverito da'Romani poteva con tro esli servirsi del credito rante ilRegnodi Tarquinio.Fecero per tanto pensiero di arrischiare il tutto iare, le poteva loro venir fatto con una d i {perata impresa di far levare il popolo a r u more,presso cui(prestando fededileggie ri l'uomo a quello, che spera ) stimato a v ranno, potere ancor molto la memoria del di quel Trono, a cui avvisavano di non poter giugnere in Padre, e così impadronirsi altro modo. acquistatofi du ma de   deliberazione, che fecero di vendicarsi,m a tra l'ingiuria, ed il vedere la vendetta loro eseguita non sarebbe questo il solo esempio, che delle contraddizioni c'instruisca dello spirito umano. Non avete, dice pure egli stesso (1) Alg.Op.tom.IV.Disc,milit.Disc.XIX.Soprala Giornata di Maxen.  Non fa ora quasi più mestieri di farmi a dimostrare, che per non aver esli colto al cun frutto dalla loro lunga dissimulazione, non sidee,come fa l'Autornoftro,negare, che di trentotto anni stato non zio di tempo, il qual corse dalla morte di A n c o a quella di Tarquinio Prisco. E chi non sa, che moltissime volte non riescono ad uomini avvedutissimi i loro disegni? Dice pure lo stesso Conte Algarotti, che l'efito il quale importa il tutto innanzi agli occhi del volgo, è nulla innanzi a quelli del fa vio? (9) E d ancorchè fuppor fi volesse, che i figliuoli di Anco, i quali aveano per si lungo tempo con tanta cautela l'affare, non avessero poi usate condotto le dovute della c o n giura, non farebbe questo, per servirmi di avvertenze nell'ultimo scoppiar nuovo delle parole di lui in altra sua o p e sia lo spa tan ra  tante volte veduto la medesima nazione, il medesimo uomo prudentissimoragionevolisii m o in una cosa, imprudente, ed irragione vole in un'altra, benchè in ammendue gli dovessero pur esser di regola le stesse m a l fime, gli itefli principi (r)? Del rimanente chi la, se non si farebbo no gli uccisori impadroniti del Trono, quan do Servio Tullio, e Tanaquilla non foliero stati così avveduti, come e'furono? A tutti è noto, che Tanaquilla fece correr voce, che Tarquinio ancor vivea, affinchè niente si tentaffe di nuovo, e Servio avesse c a m ро di premunirsi. Onde possiam conchiude re,chenèpureinquestoRegno diTar quinio vi è ripugnanza tale tra i farti, e le epoche, che ci sforzi ad abbreviarlo. Regni di Servio Tullio, e di Tarquinio E il non aver consultato Dionigi traffe più volte l'Autor noftro in errore, secondo () Alg.Op.tom.I.Dialoghi sopra l'OtticaNeuron,  C A Pp Oo quello, SE Superbo. VII. Dialog.IV.pag.140.   Per venire adunque prima di tutto alle ragioni, per cui giudica l'Autor nostro d o versi abbreviare il R e g n o di Servio Tullio: fu Servio, ei dice, ucciso da Lucio Tarqui n i o, d i p o i cognominato il Superb o, c h e v o leva ricuperare il R e g n o paterno toltogli d a effo Tullio, uomo intruso, e dischiattaser vile,e fu ucciso dopo un indugio di qua rantaquattro anni, il che, segue eglia dire, vie maggiormente pare inverifimile a chi fa considerazione, che questo Tarquinio era già u o m o da menar moglie, allorchè Servia Tullio divenne Re, ch'egliera dispiritiol tre quello, che abbiam sopra dimostrato, onde ritrovò irragionevolezze, ed inverisimiglian ze tali, che stimò doversi di sì lungo trat to di tempo abbreviar la durata de'Regni de'RediRoma,ilnon aver rivolto lo sguardo a questo Storico assurdi gli fece rinvenire in questi due ulti mi Regni. Perciocchè in vero gliere le difficoltà mosse de'cinque primi Regni contro la durata non avrebbe molte volte fairo mestieri d i mente a Dionigi; m a più difficile riuscireb b e il rispondervi per rispetto ultimi,se nonsifacefleusodellaautorità di lui. troppo maggiori ricorrere necessaria. a questi due, per iscio 1   che abbrancato Servio nel mezzo della persona lo si portò di peso fuor della C u ria,e gittollo giù perli gradini;ora sea quarantaquattro anni del R e g n o di Servio si aggiungono venti circa, ch' eidovea ave re alla morte di Tarquinio Prisco,verrà ad esser vecchio di sessantaquattro anni, allor chè dimostrò tanta gagliardía. Questi sono i motivi, per cuistima l’Au tor nostro esser più inverisimile aver Servio regnato quarantaquattro anni, che Tarqui nioPrisco trentotto.Già abbiamosopradi mostrato non esser punto contraria a'fatti la durata del Regno di Tarquinio, ora verre mo a far vedere effer non meno verisimile la durata del Regno di Servio, che quella non  tremodo ardenti, ed ambiziosissimo,.e v e niva tuttodi stimolato ad occupare ilRegno da Tullia sua moglie femmina trista fopra ogni credere, e malvagia. Dal che ne c o n chiude esser m e n o probabile, che Servio Tullio abbia potuto regnare quarantaquattro anni, che Tarquinio Prisco trentotto. Oltre di questo ei riflette, che Lucio Tarquinio, il quale vivente Servio Tullio è sempre q u a lificato giovane, fosse tuttavia giovane, e robusto alla fine del Regno di quello, la qual cosa egli arguisce da ciò, che fi leg ge, h   a ) T. Liv. Dec. I. Lib. I. Cap. 17. n. 42. O T. Liv. Dec.I.Lib.I.Cap.16.n.41.Tuumeft..... non sia del suo antecessore. Desidererei per tanto prima di tutto lapere, onde abbia r a c colto l'Autor noftro quella particolarità,c h e al principio del Regno di Servio già fosse Lucio Tarquinio in età da menar moglie. Di questo non m i venne fatto di ritrovarne parola presso gli Storici, e non mi posso persuadere, che perchè Livio (a) descriven do le azioni di Servio pone prima di tut to aver egli date in ispose due sue figliuo le a Lucio, ed Arunte, per questo abbia l' Autor nostro stimato di poter mettere q u e sti due matrimoni al principio del Regno di Servio: perciocchè in questo caso ognun vedrebbe sopra quanto fallace congettura egli avrebbe avventuraro questo fatto. M a quando pure da Livio ciò ricavar fi potesse, vorrei di più, ch'altri mi sciogliel se questo nodo, cioè se a tale età già per venuto era Tarquinio Superbo alla morte di Tarquinio Prisco, c o m e riuscir poffa proba bile, che Tanaquilla con quelle si eloquenti parole eforti presso Livio Servio Tullio (6) a Servi fi vir es Regnum, non eorum, qui alienis mani. bus peffimum facinus fecere: erige'te Deosque duces re. quere, qui clarum hoc fore caput divino quondam circum 1   Desidererei pure, ch'altri insegnar mi sa pesse ilmodo dicomporre insieme l'aver Tanaquilla un figliuolo giunto alla luccenna ta età, ed il proccurar, ch'ella fa il R e gno a Servio piuttosto, che a Tarquinio suo figliuolo. E d ecco che senza rivolgere al tro Storico, che il folo Livio, dando vento anni circa a Tarquinio Superbo al princi pio del Regno di Servio, ne risultano in verisimiglianze grandissime, per toglier le quali altro far non si potrebbe, che suppor re fanciullo Tarquinio Superbo alla morte di Tarquinio Prisco; il qual partito essendo h2 115  - a prendere le redini del Regno ancor manti del sangue di Tarquinio Prisco, e a vendicar la morte dell'uccilo fuo marito, A m e sembra, che ad una tal vendetta ad ogni m o d o piuttosto ella proprio figliuolo, se questi già pervenuto era al ventesimo anno dell'erà sua, ed è ben da credere, che u n giovane Principe nel fior de'suoi anni facesse troppo più m e morabil vendetta della uccisione del Padre di quello, che fosse per fare Servio Tullio. fufo igni portenderunt: nunc te illa coeleftisexcitesflama ma:nuncexpergifcerevere:& nosperegriniregnavimus: qui fis non unde natus fis, reputa: Si iua, re subita 2 confilia torpent, at tu mea confiliafequere. animar dovesse il fu quello,    Posto ora adunque, che ancor fanciullo fosse TarquinioSuperbo alprincipio delRe. gno di Servio Tullio, ne segue, che da lui allevato, non avendo vedute. le grandezze del R e g n o dell'Avo, del quale lapea. aver Servio vendicata la morte collo allontanarne dal Trono gli uccisori, e per ultimo stret to seco lui in vincolo di parentado, e spe rando di succedere ad un uomo già oltre negli anni per commettere la scelleratezza che commise, dovettero concorrere questi due impulsi, vale a dired' avere a lato una malvagia, ed ambiziosa femmina, e d'ef fer fuori di speranza di poter succedere a Servio Tullio, avendo questi, come ce ne affi e  quello, che toglie tutte le ripugnanze, d altra parte non raccogliendosi dagli Stori ci, di qual' età precisamente ei fosse alla morte di Tarquinio Prisco, sarebbe quello, che prendere li dovrebbe.M a non abbia m o bisogno di congetture, poiché, che T a r quinio Superbo fosse per anco fanciullo, non figliuolo, ma nipote di Tarquinio Pri sco, chiaramente viene attestato d a D i o n i gi (c); il che dovremo di nuovo notar più fotto. (c) D i o n y f. H a l i c. L i b. I V. p a g. 2 1 1. 2 1 3.   re frapposto qualche indugio, affinchè m a • nifeftamente n o n risaltassero agli occhi i d e suno  5 che ci dicono gli Storici (e), per potere stringere quel scellerato matrimonio, fra l'una delle quali, e l'altra avranno p u assicurano Livio, e Dionigi (d), fatto pen fiero di rinunciare il Regno, e dare la lic bertà a Romani. M a è da avvertire, che forse qualche notabil tempo trascorse oltre il ventefimo anno del Regno di Servio,in-· nanzi che si congiungessero con quelle infa m i nozze Lucio Tarquinio, e Tullia: per. ciocchè, fupponendo, che avanti al vente fimo anno del Regno suo non abbia Servio date le sue figliuole in ispose a' Tarquinj, ad ognuno è noto, che Tullia moglie era di Arunte, e non di Lucio, e Lucio a m m o gliato era coll'altra figliuola di Servio, o n de ebbero a passare per tutte quelle scelle ratezze, litti loro. Credo poi veramente, che dopo ch' ebbero coronate le commesse iniquità colle nozze, non si debbano per modo nef h3 (d) T. Liv. Dec. I. Lib. I.Cap. 18. n.48. Idipfum tani mite tam moderatum imperium deponere eum inani. mo habuisse quidam Auctores funt, ni fcelus intestinum li. berandae patriae confilia agitanti interveniffet. Dionyfi Halic. Lib. IV. pag. 243. (c)T. Liv.Dec. 1.Lib.I.Cap.18.n.46 Dionyf.Halic.Lib.IV.pag.232,234,   che la ragione, per cui finalmente val sero preffo Tarquinio le persuasioni della sua rea moglie, fu l'aver questi inteso c h e Servio volea dar la libertà a'Romani, alla qual risoluzione forse fu egli spinto princi. palmente dalle malvagità della figliuola, e di Tarquinio. Vedeva egli benislimo che Tarquinio da lui giudicato indegno del T r o no,appunto perchè tristo,giàdovea forse essersi formato una fazione di ribaldi pari suoi, e che dopo la morte di lui o avreb be forzato i Romani ad eleggerlo a Re lo ro, o pure quando avessero avuto tanto co raggio di eleggerne un altro, prevedeva, che avrebbe tentato ogni mezzo, ed anche accesa una civil guerra per giungere al T r o no. E d'altra parte Tarquinio Superbo, se con questa risoluzione di Servio non sifosse veduta tagliata ogni strada, non avrebbe avventurata la sua fortuna e la sua vita G T.Liv.Dec.I.Lib.I.Cap.18.n.46.Initiumcura  suno passar sotto silenzio i continui stimoli di una donna, quale si era Tullia, onde a buona ragione abbia detto Livio (F), che il principio di sconvolgere ogni cosa da una donna ebbe origine: m a contuttociò io sti me mo, bandi omnia a foemina orium ift   Tolti ora diciannove o venti anni dalla età, che aver dovea Tarquinio ilSuperbo, onde venga ad essere di soli quarantaquat sro o quarantacinque anni, e non di sessan taquattro,quandogittògiùper ligradini della Curja Servio Tullio, non parrà più in nessun m o d o inverisimile tanta gagliardía. Senzachè io lascio al giudicio degli assen nati, se, anche concedendo, che di sessan taquattro anni abbia Tarquinio fatta una tal prova, menandosi allora una vita più dura, e per conseguente più robusta, ed essendo Tarquinio riscaldato dalla collera, sia poi cosa da farne tanto le meraviglie.Onde mi pare di potere a buona ragion conchiudere, h4 1  1 1 V medesima come fece, ma servito fifareb be della fama dell'Avo suo dopo la morte di Servio, che già era oramai pieno di anni per farsi elegger Re da'Romani, cosa, la qual potea giustamente sperare potergli riu sčir più agevole, che d 'intraprendere, com ' egli fece, di usurpare il Regno vivente lui medesimo. Ben vedea, che se tentato avel 1 se inutilmente questo passo di trucidare il suo Suocero, ed impossessarsi coll'armi del Solio, non gli rimaneva più speranza alcu na. Non arrischiò adunque iltutto, senon quando si vide in procinto di tutto perdere. 1 119 chę ) <che siccome non v'ha motivo di accorcia. re i precedenti Regni, così nè pure ve ne ha alcuno per accorciar quello di Servio Tullio. Siamo finalmente pervenuti al Regno dello steffo Tarquinio Superbo ultimo R e di R o ma. La principal ragione, che adduceľ Autor noitro per abbreviare ilRegno di lui, e che abbraccia anche i Regni di Tarqui nio Prisco, e di Servio Tullio, è questa. A c cadde,ei dice, che verso la fine del Regno di Tarquinio Superbo, Sefto Tarquinio, e Tarquinio Collatino essendo a c a m p o ad A r dea, vennero a contesa chi di loro avesse moglie più onefta; d'onde poi nacque, c o m e ognun fa, il Consolato, e la libertà di R o m a. Ora questo Tarquinio Collatino a quel tempo secondo le parole di Livio (8) era giovane, e secondo lo stesso Autore era figliuolo di Egerio, a cui Tarquinio Prisco suo Zio commise la guardia di Collazia Città novellamente acquistara (h) nella guerra S a (8) Regiiquidem juvenes interdum orium conviviis comeslaf. fionibusve inter fe terrebant; forte potantibus his apud (fratris hic filius erat ) Collasiae in praefidio relictus  bina, Sextum Tarquinium incidit de uxoribus mentio & c. T. Liv. Dec. I. Lib.I. Cap. 22. n. 57. (1) T. Liv. Dec. I. Lib. I. Cap. 15. n.38. Egerius }   1 3 1 1  bina, e ciò fu verso il principio del Regno di Tarquinio Prisco, il quale viene a c a d e re fe non prima l' anno centocinquanta se condo il computo comune della edificazione di R o m a. Convien dire, ei soggiugne, che Egerio a quel tempo avesse almeno i suoi quarant'anni, fe vogliamo crederlo atto a Costenere un carico di tanta gelosía, come è quello di castodire una Città, di nuovo a c quisto, e se vogliamo, che fosse nato, c o m e si h a d a L i v i o, p r i m a c h e Tarquinio Prisco veniffe a Roma.Ma come può fta re, ei conchiude, che un uomo di quarant' anni l'anno di R o m a centocinquanta avesse un figliuolo'ancor giovane l'anno dugento quarantaquattro? Cioè quasi un secolo dopo, come non fi voglia dire, ch'egli avesse fi gliuoli passati i novant'anni, il che merita va aver luogo secondo lui tra le meraviglie della Storiadi Plinio,non traifattidiquella di Livio. Pensa adunque l'Autor noftro, che s e vogliamo ritenere questa discendenza de'Tarquinj, fa mestieri prendere ilpartito di accorciare i Regni di Tarquinio Prisco, di Servio Tullio, e di Tarquinio Superbo, che occupano il tempo, che è di mezzo tra il figliuolo, ed il Padre. Molte cose io potrei qui porre sotto l. +    (i)Collariae inpraefidio reli&us.T. Liv.loc.fupra cita  opera ucchio del lettore per isciogliere questa dif ficoltà, come farebbe il dire, che non sifa precisamente il tempo, in cui sia stata con quistata Collazia; che Livio Storico non trop po'accurato può esserfi ingannato nel dire, che già nato era Egerio prima che Tarqui nio Prisco venisse a R o m a, che la custodia d'una Città non era carica a que'tempi, per esercitar la quale dovesse u n guerriero effer giunto all'età di quarant'anni: tanto più trattandosi di un Zio, che una tal c u ftodia commette ad un Nipote: perciocchè non essendo in quell'età le cose così rego late,come a'dinostri,piùosservavasinegli uomini, i quali davano al mestier delle armi,la bravura,elagagliardia,doti, di cui potea egli molto b e n e esser fornito alla età di venti o venticinque anni che n o n il s e n n o, c h e a ' n o f t r i t e m p i i n u n G o vernatore fi richiede, per fuppor ilqual sen no ci vorrebbe per avventura più avanzata età. Potrei dire di più, che se vogliamo Itare alle parole di Livio,da queste nonfi può dedurre, che la custodia della Città sia Itata a lui principalmente come Capo c o m mesla (i), ma solamente che fu lasciato di pre   presidio inquella Città dal Re fuo Zio.Por ter essere finalmente, che questo Collatino giovane più non fosse, attesochè, per non far parola della poca esattezza di Livio, questo Storico non dice precisamente, che giovanefosseCollatino,ma cheiRegjgio vani passavano il tempo in conviti, mentre erano occupati in quella piuttosto lunga,che viva guerra, 1 gliuolo sotto le quali parole di Regi giovani può egli aver foltanto intesi i figli uoli del R e, e non Collatino, quantunque della stessa famiglia, tanto più che dicendo egli dopo,che stando essibevendo pressoSe sto Tarquinio, ove pur Collatino cenava, cadde ildiscorso sopra le moglj (k), a me pare, che quelle parole ove pur Collatino cenava, dimoltrino, che sotto quelle ante riori di Regj giovani non altri abbia volu to intendere Livio fuor che ifigliuoli di Tarą quinio. M a comunque fiafi di ciò, s'abbia per nulla il fin quì detto, concedasi essere impossibile, che Egerio abbia potuto avere un figliuolo giovane al fine del Regno di Tarquinio Superbo. Sappiasi adunque, che Dionigi (1) crede Collatino nipote,e non fie (k) Forte potansibus his apud Sextum Tarquinium ubi Collatinus coenabat. T. Liv. loc. cit. (1) Dionys, Halic. Lib. IV. pag. 261,  L'ultima ragione, con cui l'Autor nostro ftudiali di abbreviare il R e g n o di Tarquinio Superbo, e che abbraccia anche quello del fuo predecessore Servio Tullio, ei la ricava da questo. Tarquinio quando pervenne al Principato, avea secondo lui sessantaquattro anni, a'quali chi aggiugne i venticinque che si dice aver egli regnato, troverà, che era questi in età di Ottantanove anni, a l lorchè fu cacciato dal Regno, la qual par ticolarità posto che vera,n o n sarebbe stata passata dagli Storici sotto silenzio. C h e più, segue egli a dire, leggeli, che il medesimo Tarquinio parecchj anni dopo che fu c a c ciato di Roma, combatté a cavallo al L a go Regillo contra ilDictatorePostumio (m), ciò, che verrebbe a cadere l'anno centefi m o circa della età fua, onde ei correrebbe la giostra c o n un secolo sulle spalle,affurdo, prosegue egli, non punto diffimile da quello avvertito da Luciano (n), che quella Elena,  gliuolo di "Egerio, ed in questa maniera con un colposolositagliailnodo. 1 i Per cui l'Europa armolli,e guerra feo, E l alto imperio antico a terra sparse, (m)T. Liv.Dec. I.Lib.II.Cap.11.11.19. (1) Lucian, in Somnio seu Gallo, quando desto quelle si celebri fiamme i n petto a Paride già fosse coetanea di Ecuba. suo.  Lalcio io qui,d'avvertire, che a Tarqui nio Superbo si vogliono torre que'vent'anni, iquali,come già sopra abbiam mostrato, gli dà di troppo l'Autor noftro, onde per dirlo alla sfuggita, non avea egli da mara vigliarsi, che gli Storici abbiano taciuta quella particolarità, che quando Tarquinio fu cacciato di R o m a, già era pervenuto alla età di oitantanove anni. Quello poi, che tronca ogni quistione per rispetto alla giornata del L a g o Regillo si è, che Dionigi (o), ch'egli pure reca in mezzo a questo proposito, e non gli presta fede, riprende quegli Storici, i quali narrano tal fatto, e dice doversi credere suo figliuolo, e non lui medesimo esser quello, che fu,ferito com. battendo contro ilDittatore Poftumio. O v? è da notare che anche facendo il caso, che con sole congetture si dovesse scioglie re questo nodo, essendovi due mezzi noti al nostro Autore per togliere l'inverisimi glianza,, cioè o di abbreviare i due.Regni di Servio Tullio, e di Tarquinio Superbo, o pure di dire non essere stato lui,m a il (0 ) D i o n y f. H a l i c. L i b. V I. p a g. 3 4 9.   Si dà risposta a varie opposizioni. Chiaro Hiaro ora resta abbastanza, che le in. verifimiglianze raccolte dal Conte Algarotti, s'altri le viene minutamente osservando,non  fuo figliuolo quello, che ritrovossi alla giord nata del Lago Regillo, il nostro Autorem prende piuttosto il primo, cioè quello, che favorisce l'opinion sua, quantunque a m m e t ter non si possa per modo nessuno, quando si sa, che Dionigi, il quale avea con tan ta cura studiati gli antichi Storici Latini, e che se non altro fu tanti secoli più antico del Conte Algarotti, Dionigi in s o m m a così diligente nel fiffar le epoche, stima più prudente partito prendere il secondo. La scio ora pertanto decidere da chi diritto ragiona, se tali fieno i motivi addotti dallo Autor noftro, che si debba pure accorciare il Regno di Tarquinio Superbo,o se piut tosto,come ioavviso,non resistanoalla autorità degli antichi Storici, e debbano c a dere a terra come damento, del tutto privi di fon fon  folamente non sono valevoli a mandare in rovina la Cronologia comunemente ricevuta, m a nè pure hanno forza per ispargervi fo: pra alcuna ombra di dubbietà,nè efferne cessario ricorrere a quel suo ripiego di a b breviare pressochè della metà la durata de' sette Regni per conciliare la giovanile erà di Romolo colle grandi cose, ch'egli ope To, e l'età di N u m a colla sua esalcazione al Trono. Nè secondo quello, che abbia m o osservato, l' u o m o indugia troppo cogli ftimoli della vendetta, e dell'ambizione a fianco anzi lungo spazio di tempo non ba fta ad estinguerli; nè quella gagliardía,che trovar non si può nella vecchia età, avvien che vi si trovi, onde senza negar credenza, com 'egli pretende, a' più gravi Storici dell' antichità in cosa, in cui tutti convengono, quale si èla duratade'fette Regni,torna ogni avvenimento (per servirmi delle stesse fue parole in contrario senso ) nell' ordine naturale delle cose.  nolo. 1 Del resto si dee avvertire, e di fatticre do, che ognuno avrà avvertito quanto d e boli, e leggiere fieno le inverisimiglianze ed assurdi,dicuiservisli ilnostro.Autore per distruggere la durata de'mentovati R e gni, e venire a confermare il Sistema Cronologico del suo Filosofo. Q u a n d o altri nes gar vuole la verità di un fatto attestato da gravi Storici per folo glianze, o contraddizioni, queste devono ef ler tali, che ammesse per vere il fatto al trimenti fufliftere non pofsa: perciocchè è legge dellaPoesia,non della Storia,ilnarra re soltanto cose verifimili.La.Storiaècon tenta di narrar cose vere; e quante cose, a v vegnachè vere inverisimili ci pajono per una minuta circostanza o smarrita, o di cui non pensarono gli Scrittori di far menzione,per un costume, per una legge, per una fog. gia particolare di vivere, di cui come di cose a'contemporanei loro notiffime, n o n istimarono dover far parola? In s o m m a molte volte assomigliar potrebbefi la Storia ad una macchina, la qual produca maravigliosi ef fetti, e i di cui ordigni sieno ignoti. Tali dicono essere i nostri orologi per rispetto a’ Cinesi,e noinondirado,inispecieinquan. to allaStoria,laqual'èo da’tempi,oda? paesi nostri lontana, fiamo nel caso loro. Ecco adunque,che leguate n o n fi fossero le inverisimiglianze i m maginate dall'Autor noftro, sono queste si deboli, che come saette vibrate contro una motivo d'inverisimi quantunque eziandio di falda armatura, ben lungi di recare alcuna offesa,  offesa, cadono effe medesime infrante a terra, chę  E appunto per iscogliereil nodo, ch'egli benissimo vedea, ch'alori gli avrebbe potu to mettere innanzi agli occhi, vale a dire per qual ragione egli opponesse alcuni fatti, in cui discordano gli Storici alla durata di tutti i sette Regni tolti insieme, ed alla d u rata di ciascheduno in particolare, in cui sono a un di presso di un medesimo pare re, ei dice, che la memoria de'fattidovet te con più sicurezza essere conservata dalla tradizione, che non fu da quante volte, mentre quelli avvennero tornato un Pianeta al medesimo sito del Cie lo; la qual risposta io non so, se basterà per appagare chi considera alquanto adden tro nellecose; perciocchè a me pare noti zia non meno importante,e degna di esse re dalla tradizione, e dagli Scrittori a' p o steri trasmessa il numero degli anni, che occupòilTrono un Principe,diquello,che fieno molti fatti, a cui presta l'Autor n o ftro intera credenza. N e aveano i Romani bisogno di troppo fortili astronomiche culazioni, come pare, ch'egli accennar v o glia,per sapere di grosso, quando terminal le,eprincipiassel'anno.Ed unaprova, che questa tradizione del numero degli anni, i essa trasmessa sia {pe   ' epoca di molti de principali fatti, non si sia notato però l'anno preciso, in cui segui ciascun fatto. O v e è da riflettere che lo stesso noftro Autore dicendo non ef fere da credere, che gli Storici sapessero quanti anni sieno trascorsi, mentre andava no fuccedendo i fatti, è forza,che ammet  guerra di Romolo con lo veramente credo poi, che quantunque tenuto fi sia registro non solo del numero degli anni, che durarono i Regni de'Re di Roma, ma ancora del Regno di ciascun. R e, e dell ta, che abbia regnato ciascun Re, e per con seguente della somma di tutti isetteRegni, inratta conservata fi fia, si può dedurre da quella ammirabile concordia degli Storici nella Cronología, concordia, la qual non si vede certamente ne'fatti. che non sapesser nè pure l'anno preci fo, in cui questi avvenimenti seguirono. Ora con questa sua sola concessione viene a ro vinare buona parte delle ragioni, ch'egli apporta per abbreviare ciascun R e g n o. E d in fatti quante volte non fi serve egli di epoche di avvenimenti minuti, e per lo più; registrati soltanto da un Plutarco, per ritro var ripugnanze nell'antico Cronologico Siste ma, come sarebbe,per recarne alcuno esem pio, l'epoca della tro e del diverse guerre; tempo Approssimandosi l’Autor nostro al fine del suo Saggio, reca altra prova contro l'anti co Cronologico Sistema,e ben sivede,che avendola riserbata in ultimo, ei crede, che dia questa l'estremo colpo, e il nodo del tutto recida. Questa prova, ei dice, è c a vata dalle generazioni di uomini, le quali tro i Camerj, che è in Plutarco, l'epoca del matrimonio di Tazia con N u m a, che trovali presso lo Iteffo Storico, come anche il precito numero d'anni, che vissero insie m e, il q u a l p u r e è r i c a v a t o d a l l o e s a t t o r e giftro, che il medesimo Plutarco ne tenne, per non parlare de cinque anni nè più nė meno,che avea Anco allamortediNuma e degli anni, in cui seguirono precisamente della nascita di Egerio, ch'egli raccoglie da Livio. Le quali epoche tutte oltre all'essere tratte la maggior parte da Plutarco o da Livio, credulo il primo, Itraniero, e lontanissimo da'tempi,poco accurato l'altro,non dovea no per nessun modo addursi da lui, come quello, che pretendea non aver la tradizio ne potuto tramandareepoche di troppom a g gior rilievo, che queste non fieno, e c h e sono da tutti i più gravi Storici ammesse per vere. fono i2   sono indicate dagli Autori nella Storia dei R e diRoma,le qualigenerazionidice,che con vincono di falsa la loro Cronología quanto alle durate de'Regni. Nella vita di R o m o lo,ei segueadunque, liha,cheOttilioAvo lo di Tullo Ottilio mori nella guerra contro a'Sabini, la qual fu ne'primi anni di R o ma,iRegni pertanto,eiconchiude,diRo molo, di Numa, e di Tullo Oftilio non si stendono più là, che il tempo razioni.Da Numa ad Anco Marzio,ei se gué, ci è una generazione sola, perchè l' uno era Avolo dell'altro; dal che seguita, che la generazione tra Numa, ed Anco coincidendo col tempo di Tullo Oftilio, ci fia l'età di un uomo qualche anno più o meno da Tullo al fine del Regno di Anco. Onde dal principio del Regno di Romolo allafinediquellodiAncocorrono datre generazioni. Lucio Tarquinio Prisco, p r o legue egli, uno de'Lucumoni dell'Etruria, viene a Roma uomo maturo sotto ilRegno di Anco, de cui figliuoli fu instituito tuto re: e però l'età di Tarquinio convenendo con quella di Anco, non resta che una. e fola generazione tra il Regno di Anco il Regno di Tarquinio Superbo figliuolo del Prisco. Talchè, ei conchiude, dal principio di due gene del   del Regno di Romolo alla fine di quello di Tarquinio Superbo fi contano quattro sole generazioni in circa, e non più. Ora som mando insieme gli anni di quattro genera zioni, che corrono durante ifetteRe diRo. m a fi hanno cento trentadue anni; poiché una generazione di uomini trentatré anni. E fommando insieme gli anni di ciascun Re, secondo il computo di Livio, fi hanno d u gento quarantaquattro anni; e vi ha più di un secolo di differenza tra due risultati, che pur avrebbono ad essere uguali.D'altra par te facendo, che tocchi a ciascun R e l'uno ragguagliato coll'altro diciannove anni di R e gno, come vuole il Neutone, fi ha cento trentatré anni, e tra questi due risultatinon corre differenza niuna. di comune sentimento vengono dati a  9 fSin quì il nostro Autore. Io per rispon dere a questo lungo ragionamento prima di tutto voglio concedere, che quattro fole g e nerazioni fieno corse da Romolo insino a Tarquinio Superbo: perciocchè ciò si riduce finalmente a dire, che durante i Regni dei serte Re, quattro uomini in tutto ilR o m a no popolo ebbero prole un dopo l'altro di sessanta e un anno. Ora farebbe poi forse questa impossibilità tale fisica, per cui non i3   fi dovesse più prestar fede agli Storici delle antiche memorie de'Romani? Ma,suppo sto (quello però, che in nessun modo con cedere fi può ) che questa fosse inverisimi glianza tale, per cui sipotesse negar cre denza alla Storia, s'è forse l' Autor nostro bene assicurato, che, non uscendo da quelle persone, di cui egli fece scelta per fissare le generazioni, quattro soltanto corse ne fie no pendente il Regno dei sette Re? Dio nigi (a) attesta pure, che Tarquinio S u perbo fu nipote, e non figliuolo di Tarqui nio Prisco?Questo accuratissimo Storico d o po aver fatto parola di molti assurdi, che ne seguirebbono, fe figliuolo, e non nipote ei fosse di Tarquinio Prisco, fi afforza colla autorevole testimonianza di Pison Frugi, il qual solo tra gli Storici affermò questa cosa. Nè mancadiaccennarequello,cheperav ventura fu cagion dello sbaglio: poichè dice, che dall'essergli nipote per natura, e figli uolo per adozione fieno stati forse gli altri Storici ingannati. Nè giovaildire,comefal'Autornoftro, che la contrarią opinione cioè, che figliuo lo fosse questo Re, e non nipote di Tar   qui (2)Dionys,Halic.Lib.IV.pag.211,213,     13 S parte (6) Hic, L. Tarquinius Prisci Tarquinii Regisfiliusneposre fuerit parum liquet:pluribus tamen auctoribusfiliumcreg diderim.T. Liv,Dec. I.Lib.I.Cap.18.n.46.  9 In quanto a Collatino poi, quà di nuovo addotto dall'Autor nostro p e r confermare il 2 fuo di numerare in quegli arcaismi come le autorità, contentofli e non si fece a pesarle il diligente sciando da Dionigi. In secondo luogo, la perder tempo ľ autorità di Dionigi, la quale, com ' è palese, è molto più da segui re, che non sia quella di Livio, ben diver sa è la maniera di spiegarsi dei due Scrit cori intorno a questo affare,l'uno ne tocca alla sfuggitą, l'altro vi si ferma, ragiona reca latestimonianza di uno de'più antichi Storici, e sappiglia a quella opinione, la quale sia per lo credito, che ha all'Auto re fia per, quinio Prifco fu opinione dei più, ed opi pione abbracciata da Livio medesimo; d o vendosi in primo luogo riflettere alla m a n i e ta, con cui Livio s'esprime, vale a dire, che questo punto era assai all'oscuro, che egli peraltro seguendo i più credevalo figliuo lo (6); il che dimostra aver egli benissimo veduta la difficoltà, m a che non volendo, come sopra abbiam notato lo contesto di tutta la Storia, gli pare più sicura. is   suo Sistema, già sopra abbiamo osservato raccogliersi dallo stesso Dionigi (c), che n i pote era, e non figliuolo di Egerio. Ciò posto ne viene, che senza uscire da quelle persone, di cui egli osservò le generazioni, non quattro, m a cinque numerar se ne debe bono d a Romolo inlino a Tarquinio Super bo: onde se aver non si dovea per assurdo tale da negar fede alla Storia l' essersi ritro vare quattro persone in tutto il popolo R o m a n o le generazioni, di cui fossero di fef santa e un anno, tanto meno dovrà parer ripugnante, che cinque susseguite ne sieno, ciascheduna delle quali uguagliatamente non oltrepassi i quarantanove anni. (.)Dionyf.Halic.Lib.IV.pag.2619 que  3 M a dirà il nostro Autore, che ad una generazione comunemente si danno soli tren tatré anni, laonde n o n si può essere così largo, e concederne a ciascheduna di q u e Ite quarantanove. Qui mi convien prendere d'alquanto più alto i principi, e si verrà a conoscere, che quelle generazioni, a cui comunemente fi danno trentatré anni, o secondo altri tren tacinque,non sono della specie di quelle osa servate dal nostro Autore. Vediamo adun  q u e quali fieno quelle, a cui diedero tal nu: mero di anni i Cronologi, e verremo in chiaro, fe tali fieno le osservate da lui.La Cronologia, come tutte le altre facoltà,dee seguir la natura, come maestro fa ildiscen te, per dirlo alla Dantesca, e pure è che collo.Specularvi sopra molte fiate,in luo go diavvicinarsiaquellaaltrilafugge,e gli ultimi passi sono quelli c h e riconducono a lei nella  vero, L e generazioni pertanto, che fiffarono i Cronologi circa a trentatré anni, sono quelle, che generalmente si osservano in un lungo spazio di tempo nella maggior parte famiglie di una nazione;laonde, fe fiof servano in una sola, o poche famiglie, a n che per lungo tempo questa osservazione, non è più fattasecondo la regola, che general mentela maggior parte abbraccia:percioc chè, se nella maggior parte delle famiglie sono uguagliatamente le generazioni di tren tatré anni,potrebbe succeder benissimo, che fi ritrovasse una famiglia, od anche diver se, in cui queste foffero o più lunghe, più brevi. Se poi non si osservassero in un lungo spazio di tempo, riuscirà ancor più agevole il ritrovarne. M a le generazioni, di cui servifli il nostro Autore, nè corsero delle -   nella maggior parte delle famiglie, nè in lungo tempo, anzi nè pure in unasola fa miglia, essendo composte di diverse perso ne d i varie famiglie. Certamente se si fa un Cronologo ad osservare per tal modo le generazioni, ben tosto fisserà la regola ge nerale di queste a settanta e più anni, per chè in un notabil tratto di paese popolato iopenso,chenon passisecolo,senzachèfi veda uno, o forse più uomini, che di tale età hanno prole. Lo sbaglio in somma del Conte Algarotti consiste nello aver presa la regola d a quello che suole generalmente avvenire, gli esempj da ciò, che in pochi succede,ed aver pensato, che que'casipar ticolari sotto la general regola cadessero, o n de la Cronologia degli Storici delle cose de? Romani sottoi R e s'opponesse a quella legge, che osservaro aveano nella natura i più periti Cronologi. Nel che quanto sia a n dato lungi dal vero credo d'aver fatto ba ftantemente palese. Due ragioni reca ancora finalmente l'Au tore in difesa del Sistema del Neutone,cui è necessario rispondere innanzi di por fine a quelte nostre osservazioni. La prima fiè, che tal Sistema discolpa Virgilio esattissimo Poeta, ci dice, da quello anacronismo i m  putatogli volgarmente per conto de'tempi, in cui vissero Didone, ed Enea. La secon da, perchè giustifica quella comune tradi zione tenuta in R o m a, che N u m a foffe fta to uditor di Pitagora. Ora per rispondere alla prima, questa. ammetter fi dovrebbe senza dubbio veruno qualora fosse stato Virgilio tenuto a soddi sfare alle leggi della verità storica;ma non fa mestieri ricordare, che da tali leggi sciolti sono i Poeti.Raro è quel vero, che non abbia bisogno del finto per aggradire ai più, e se non inftillano virtù, col dilet tare mancano i Poeti al principal fine dell' arte loro; tanto più, che fecondo quello che pensa il dotto P. dellaRue (d),non per ignoranza delle antiche Storie, m a per dar ragione de'famosi odj, i quali si lungo tempo fra' Cartaginesi, e la Nazion suam durarono, e per introdurre quel patetico, che tanto piacque, come ce ne assicura Ovidio (e), a'suoi contemporanei, e tanto è degno di piacere ad ogni età,e ad ogni popolo, non ebbe difficoltà di commettere (4) Ruaeus in not.ad.Arg.Lib.IV.Aeneid.  quell' Ovid. Trift. Lib. II. Eleg. I. v. 535. Nec legitur pars ulla magis de corpore toto. Quam non legitimofoederejunétus4mor,   quell'anacronismo. S'aggiunga, che que ito anacronismo non era tale che facil mente potesse venire scoperto dalla comune de'Leggitori, da'quali soltanto balta, che non vengano scoperti gli errori storici dei Poeti: perciocchè correa fama fecondo A p piano (f), che Cartagine fosse stata fonda ta alcuni anni avanti all'eccidio di Troja da una colonia di Fenici, presso i quali poi ricoverossi dopo lungo tempo Didone, del che non lascia Virgilio didarne qualche cen nei?  Appian. apud Ruaeum cit. loc. no, > onde trattandosi di tempi assai lontani dalla età di Virgilio, questo rumore basta va per render tale la finzione, che non fof se la verità ad un tratto conosciuta,e vinta a terra cader dovesse la invenzione di lui. Ma abbreviando della metà iltempo,che durarono i Regni de'Re di Roma viene forse a nulla cotesto anacronismo? E che fa rebbe, se il nostro Autore inutilmente ado perato fi fosse, e che anche togliendo pref so che la metà degli anni dalla somma di tutti quelli, che corsero sotto a'Regni dei fette R e, non si venisse con questo a ren der probabile in alcun modo, che Enea, e Didone potessero essere stati contempora   Tre secoli e più corsero,secondo gli an tichi Scrittori, dall'incendio di Troja alla f u g a d i D i d o n e, c o m e o s s e r v a r o n o il d o t t o Petavio, e l'erudito Commentator di Vir gilio della Rue (g): ora da trecento e le dici anni (che tanti ne corlero fecondo il Petavio dall'eccidio di Troja alla fondazion di Cartagine ). togliendone cento e undici, come piace all'Autor noftro,vale adire facendo venire Enea in Italia cento undici anni più sardi, rimangono nulladimeno d u gento e cinque anni di svario. Laonde é chiaro, che nè Virgilio abbisogna della di fesa del nostro Autore, nè, quand' anche ne abbisognasse, sarebbe questa bastante per do (3)Petav.Rationar.tempor.Parte I.Lib.II.Cap.IV. Cartagofundata dicitur anno posttemplum incoatum144. qui est annus poft Trojanam calamitatem 316. Ruaeus loc, supracis.  te svanire l' anacronismo da lui commesso. fa  nei? Sia adunque egli pur certo, che cote fto fuo ripiego nontoglie, ma soltantosmi nuisce l'anacronismo di Virgilio; che anzi questo rimane peranco maggiore di due le coli. N è soltanto vuole il Conte Algarotti, che fia alla più esatta verità conforme ciò,che si legge in un Poeta, purché in alcun m o   anno  > che comunemente credefi centesimo undecimo dalla fondazion di Roma,alprin cipio del Regno, di cui già dovea effer giunto N u m a al quarantesimo primo della età fua (se pur vogliamo seguire ical coli dell'Autor nostro, il quale dando diciannove anni circa di Regno a Romolo faprincipiare il suo Regno aNuma giàvec chio di sessant'anni ), e fissando d'altra p a r te, come già sopra abbiamo osservato, le condo la mente di lui, la venuta di Pitas gora anno soli do favorir possa il suo Sistema; ma preten de eziandio, che maggior credenza prestar fi deggia ad una popolar voce,laqualtor na in avvantaggio della opinion sua che a'più rinomati Storici dell'antichità. Già abbiamo sopra veduto il suo parere circa all'essere stato Pitagora contemporaneo anzi Maestro di N u m a, ora adunque a confer mare vie più ilsuo Sistema,lorecadinuo vo in mezzo quasichè ridondar debba in avvantaggio di questo il porgere, che fa fa vorevole interpretazione a d u n a tale p o p o lar voce. Avendone però già altrove fuffi cientemente favellato, non mi resta altro da aggiugnere, se non che, anche fiffando il principio del Regno di Romolo secondo lo intendimento del nostro Autore, a quello    Queste sono le riflessioni, le quali, fecon do quello,ch'iopenso,chiaramentedimo streranno, che il Conte Algarotti cadde trat to dal suo Filosofo in errore. Se parranno per avventura troppo più lunghe di quello, che neceffario fosse, gioveràin primo luo go considerare, che bastano poche parole per mettere una cosa in dubbio, m a effer forza per iftabilirne la certezza ricorrere a' principi, onde riescono sempre le risposte più lunghe delle opposizioni; in secondo luogo, c h e ho stimato dovermi fermare alquanto in torno a certi punti, i quali oltre allo influi re nella materia, che per me trattar fi do vea, poteano essere forse non del tutto inu tili per chiarir la Storia di quella prima età di Roma. Che  gora in Italia circa a quello anno, che giu dicasi dagli Storici dugentefimo quarantesi moquarto diRoma, virimaneciònon ostan te un anacronismo di cento trentatré anni tra la venuta di questo Filosofo in Italia, ed il tempo, rendere in cui Numa-già era perve anno della età sua; o n de il Sistema del Neutone non può nè pure nuto al quarantesimo Pitagora, e Numa contemporanei, come non può affolvere Virgilio te dall’anacronismo interamen di Didone, e di Enea. 1 1   1144 RAGIONAM. CONTRO IL CONTE Che se,come fpero,mi è riuscitodifar vedere l'inganno del Conte Algaroiti, sarà questa una novella prova di quanto sia in tralciato il cammino del vero, quanta 1 sia connesso, ed unito l'errore: collo inge gno umano, poichè gli uomini fommi non tralasciando desser uomini, in tutto spogliar non se ne possono. La più bella discolpa del resto che addur si possa in difesa di lui, îi è il dire, che fe pur s'ingannò, s'ingan nò seguendo un Neurone. L'opinione del Newton fu sostenuta in Italia dal conte Algarolti in un suo saggio sopra la durata de're gni de'Re di Roma,scritto nel 1729,cioè due anni dopo la morte di Newton e un anno dopo la pubblicazione del libro di lui!.Ora,in questo suo saggio l'Algarotti lascia poche censure intentale contro la cronologia dei primi due secoli e mezzo di Roma,procurando di provare in particolare come non fosse succeduto davvero ciò che per una ragione generale il Newton aveva affer malo che non era potuto succedere.Ilsuo fondamento è soprallulto Livio; e in secondo luogo Plutarco, non 1Ilsaggiodell'Algarotttisitrovanelvol.IV dellesueopere (Cremona 1779),p.106-138.Ma laristampachequivi n'è fatta non è in tutto conforme all'edizioni anteriori,delle quali ioho la seconda, Firenze 1746, presso Andrea Bonducci; e dico la seconda perchèl'editoreinunaletteradidedica all'illustrissimosig.cav.An tonioSerristorichiamaquestaunaristampa,enonpuò esservistata, se non una sola edizione prima, perchè una lettera dell'Algarotti allo Zanotti, che precede il saggio, è del 24 dicembre 1745, e da essa appare che il saggio non fosse stato stampato prima. In questa lettera l’Algarotti dice appunto di averlo scritto oramai sedici anni passati,quando dava opera alla Cronologia sotto la scorta di quel lume vero d'Italia, Eustachio Manfredi, e che non vi avrebbe più riguardato,«sevoinonmiavesteeccitatoainandarlovicome fate»; e se n'era distolto, perchè « distratto da mille altre cose, e gli pareva,che non fosse da moltiplicare in iscritture e in istampe intorno a cose già trattate,benchè in modo diverso dal mio.» Que g l i il q u a l e a v e v a t r a t t a t a q u e s t a, e r a u n I n g l e s e d i c u i n o n d i c e il nome,ma di cui gli aveva dato notizia,in un suo viaggio in Inghil t e r r a, il s i g. C o n d u i t, e r u d i t o g e n t i l u o m o i n g l e s e e d e r e d e d e l N e w t o n, quello stesso che ha scritto una lettera di dedica alla Regina, messa avanti alla Cronologia.Lo scritto dell'Inglese doveva esser pub blicato in fronte d'una storia Romana. Non so chi fosse. E. M a n fredi scrisse gli « Elementi della Cronologia con diverse scritture appartenenti alCalendarioRomano.» Furon pubblicatiinBologna nel 1744.Egliaccettaladatavarron.dellafondaz.di Roma,01.6,3.  1.- LAMONARCHIA. 51   riferendosi a Dionisio mai; anzi confessando di non avere lello se non idue primi'.Ora,ilsuo assuntoé che i fatti che Livio racconta dei Re,non s'accordano col numero d'anni che questi,secondo lui stesso,avreb. b e r o r e g n a l o. Il c h e p r o v a, m o s t r a n d o p e r R o m o l o, q u a n t a parte del suo regno resti vuota di avvenimenti,e quanta sial'inverisimiglianza,che,a17anni,ch'è l'etàincui si dice cominciasse a regnare, desse già segno di tanta prudenza civile e virtù di guerriero, quanta gli se ne attribuisce; per Numa,che dovesse,poiché eletto per la fama sua e per avere avuto in moglie Tazia, essere asceso sul regno a sessant'anni; per Tullo Ostilio ed Anco Marcio, che dovessero aver avuto più breve re gno,di 32 anni il primo, di 24 il secondo,se dev'es. sere vero, che i figliuoli di queslo, il quale aveva, a detta di Plutarco, cinque anni alla morte di Numa, non fossero ancora maggiorenni alla sua,cioè quando Anco avrebbe avuto sessantun anni; per Tarquinio Prisco, che non può avere regnato trenlolto anni, se dev'essere stato ucciso per opera de'figliuoli di Anco, attentato da giovani, ancora freschi del torto ricevuto, e non da uomini di cinquant'anni quanti ne avreb bero avuto alla morte di Tarquinio dopo cosi lungo re gno, anche supposto che non ne contassero se non soli dodici alla morte del padre; per Servio Tullio,che a i Cosi dice nella lettera allo Zanotti, secondo sta nell'ediz. del 1726;ma non è ripetuto in quella dell'edizione del 1779,che è variata anche in altri punti. E di fatti in questa seconda edi zioneècitatoDionisio,lib.VI,permostrarecome questi,accor gendosi dell'impossibilità, che Tarquinio Superbo assistesse egli stesso alla battaglia del Lago Regillo, vi fa invece assistere il figliuoloTito.Però,anchecosi,lostudiodell'Algarotti resta,come prima,poggiato tutto sopra Livio e Plutarco.  dargli quarantaquattro anni di regno,Tarquinio Superbo, ilqualeeragiàingradodimenar mogliealprincipio diquello,non avrebbe potuto a sessantaquattro anni opress'apoco ucciderlo nel modo che si racconta; per Tarquinio Superbo infine,che Tarquinio Collalino non avrebbe potuto essere giovine alla fine del regno di lui, poichè egli era figliuolo di fratello,se il suo cugino avesse avulosessantaquattro anni al principio del regno stesso; e che, se questi n'aveva tanti allora, n'avrebbe avuto ottantanove, quando su sbalzato dal trono, e cento alla battaglia al Lago Regillo dove avrebbe combattuto a ca vallo,e sarebbe poi morto, si può aggiungere, di cento trèanni.Sicché l'Algarotti crede che questi regni si debbono accorciare lulti, se la storia di ciascun Re si deveaccordarecolladuratadel regno.E di quanto biso gni accorciarli,egli lo trae da un'altra considerazione, cioè dal numero di generazioni, intervenule durante la monarchia.Queste,egli dice, non poter essere state se nonquattro:poichèiregnidiRomolo,diNuma ediTullo Ostilionon siestendono più di due generazioni, stante chéOstilio,avolodiquest'ultimo,ècontemporaneo di Ro molo;un'altra generazione richiede il regno di Anco, che è vissuto la maggior parte di sua vita durante il regno di ullio; ed un'altra, i regni di Tarquinio Prisco. di Servio Tullio e di Tarquinio il Superbo, poichè il primo ha del pari vissuto la maggior parle di sua vita durante il regno di Anco. Sicché contando ciascuna generazione per trentatré anni,la durata della monar Chia sarebbe stata di centotrentadue anni,e ne tocche rebbero a ciascun Re, l'uno ragguagliato con l'altro, diciannove.  Sopra la durata de'Regni DE RE DI ROMA. Gli è una neceffaria conse guenza delSistemacronolon gico del Neutono abbrevia re considerabilmente i regni de' sette Re di Roma, a ciascun de' quali agguagliatamentegli Storici danno trentacinque anni di regno, mentre il comun corso di Natura secondo le offervazionidel Filosofo, non ne concede loropiù di diciot to o di venti. La qual conseguen za separesse stranaad alcuno,pur dovrà meno parerlo a chi risguar derà, che gli Archivi di Roma perirono dalle fiamme nel tempo che E 15   Ma noi (chiarati anco in questa parte dalle of (1) Plut,inNuma in principio p. 59.ed.Grecolat,Francofurti 1620.  16 che iGalli occuparono quella Cita tà(1),onde gliStoricinonebbę. ro dipoi alrro fondamento di quel lo scriveano, se non se la tradi zionevaga ed incerta,ch'era ri masa delle cose passate Talmente che ritenendo esli i nomi de'Re e registrando le azioni di quelli che tuttavia duravano nella m e moria degli uomini, fecero una Cronologia a modo loro. E questa Cronologia allungandola più del dovere, poterono in quella incer tezza fatisfareaquelnaturale ap petitocosidelleFamigliecome del le Nazioni, di cacciar le origini l o r o il p ị ù i n d i e t r o c h e p o s s o n o n e l la caligine del tempo.   (1).Come Livioscrivechenonera ra.DanteInf.29:  offervazioni del Neutono,possiamo rimettere le cose al debito ordine nella serie de'tempi, e ciò fare mo non in altro modo che aflog gettando i Re di Roma a quelle comunileggi diNatura,allequa li ubbidiscono nelle Tavole cro nologiche tutti gli altri Re della Terra.Pur nondimeno questa par c o f a d u r a a m o l t i c h e si d e b b a f r a n ger,dicono efli,l'autorità di Sto ricichenonerrano(1),echevo gliano uomini di jeri giudicar m e glio degli antichi di cose passate tantisecoliavanti.A questiioin tendo di ragionare;e perchè ilN e u tono nella fua Cronologia non fa al tro che accennare così in generale la detta quiftione, io intendo d i fputarla con alcune particolari ra gio B 17   gioni,e quefte derivate appunto da quegliStorici,dell'autoritàde' quali e'fanno sì gran caso, e maffi-. me daTitoLivioPadre diRoma na Istoria.Nel che io mostrerò, che avolerritenere ifattida efio lui riferiti, egli è forza rigettar le epoche da esso affegnate 'a quelli, come non sivogliaammettere(che niuno ilvorrà) certe irragionevo lezze da non ammettersi,che na scono da'suoi raccontimedefimi, e da quella sua Cronologia,  18 E prima diognialtracosa io metterò innanzi una Tavoletta de' regnidiquestiRe distesagiustal' oppinioncomune la qualeporrà fotto l'occhio in un tratto l'anti co Sistema,eserviràameglio in tendere ilseguente Ragionamento. T4,   VII.TarquinioSuperbo 44 219  11. Numa muore dopo un regno di anni 38 III. Tullo Oftiliom u o IV.AncoMarziomuo 43 81 32 113 38 24 redopounregnodi anni 137 V. Tarquinio Prifco muore dopo un rem gno di anni Tulliomuo ·redopounregnodi - anni 1 TavolaCronologicade' anni anni RediRomasecondor de' ab oppiniondiTitoLivio. Regn.V.C. 1.Romolo muore 37 37 Interregnodiun'anno Í è cacciato da Roma dopounregnodianni 25 19 re dopo un regno di anni DO V i. Servio Ba 175: 244   Dove non sarà fuor di propofi to avvertire quello che avverte lo stelloNeutono(1)comedaltem poincui laCronologia cominciòad ellercertaedesatta,non sitrovain tutta laStoria pure un'esempio di sette R e, i più de'quali furono a m mazzatied uno deposto,che ab biano regnato dugenquarantaquat tro anni senza interruzione veruna. Ma venendoalparticolare, e in cominciando da Romolo, i fatti di questo Principe dopo il ratto del ledonne,primacagione delmet tersi in arme (1).Nella Cronol.p.137. dellaE  20:) furono le guerre contro i?Sabini, che ripeteano le donne loro,e.leguerrecontroal cuni popoli per gelosia d'imperio. Plutarconedà l'epoca della pe nul-, diz, Franzese 1728.   giuri sdizione,laqual Fidene era stata soggiogata da Romolo innanzi Ca merio. Il che ne somministra assai pro (α)και την πόλιν ελών, τοίς. μεν ημίσεις των περιγενομένων εις Ρώμην εξώκισε,τών δ'υσομερόν- τωνδιπλασίους έκ Ρώμης κατώ κισεν εις την Καμερίαν Σεξτιλίαις Καλάνδαις.τοσύτοναυτώ περιήν πολιτών εκκαίδεκα έτησχεδον οί κάντι την Ρώμην.  21: nultima di queste guerre che fu c o n t r o i -C a m e r j, l a q u a l e e p o c a c a -, de nell'anno sedicesimo della edi-, ficazione di Roma,e del Regno di Romolo (1). E dopo questa e gli non imprese altraguerra se non contro iVejenti, chemoslero cono tro i Romani domandando la resti tuzion diFidere,come di,Città che siapparteneva alla loro Β3   22 probabile argomento di por questa ultima guerra guerra l'anno decimofetti mo della edificazion di Roma o là in quel torno, non essendo punto verisimile che i Vejenti domandaf sero la restituzione di cofa tolta troppo lungo tempo avanti; tanto più che siccome era rozza.a quei di l'arte della guerra,rozza altresì era quellade'Manifesti.Stando a (1) In Rom. in fine p. 37. Id. inNuma in princip.p.60. dunquecosìlacosa,cioè che l'ul tima guerra fatta da Romolo cadel senel'annodecimosettimodelre gno suo, e facendolo regnare tren totto anni,comedicePlutarco(1), ne rimarrebbe uno spazio di ven tun'anno in bianco, voglio dire tuttopacifico e quieto, e con verria dire che sotto il reggimen to    A questeparticolariragionidi abbreviare il regno di Romolo se ne aggiugne un' altra non meno ftringente tratta da Plutarco, fe condo cui egli deveaver comin B4 cia  23 to diquel Re fosserostatiiRom mani molto più tempu in non in guerra; il che non accorda punto con quella indole bellicosa che tutti gliAutori ad una voce danno al fondatore di quello Iinperio. N e ciò accorderia pure con quelle pa role che Plutarco mette in bocca á Numa, il quale per rifiutare il Regno offertogli dalRomani,dice che si convenia loro un Condot tierod'esercitoanzicheunRe per cacciare que' potenti nimici che Romolo avea lasciato loro in sulle braccia (1). pace che. (1) Plut,in Numa p.63.;   (1)Id.inRom.infine 77 24 ciatoaregnareinetàdi anni di cialette, dacchè egli è morto di anni cinquantaquattro secondoi computi di quello, e ne à regnata trentotto (1). Ora come sipuò egli mai conciliare con una età cos sì tenera quelle tante cose che fa cea costui secondo lo stesso Plutara co,perlequalisivoleaunaetà più gagliarda,e più ferma?Egli eccellente ne'consigli e nella civil prudenzá mostrò moltepruovedel suomirabileingegno inoccasiondi trattar co' vicini, attendeva agli ftudidell'artiliberali;fi esercita vanellefatiche,nellecacce delle fiere,nelperseguitare gliaffaslini, nel purgar levie da'ladroni,e nel difender dalle ingiurie coloro che fusleroftatioppressi dall'altrui fu per P.37    perchieria(1):modi tutticheil feceró crescere in reputazione fra glialtri påstori,e chedebbono fara locrescerdietàapponoi.Nè lo aver' egli guidato a quel tempo impresedifficilisfime,lo efferfi fat to capo di un popolo, e lo aver fondato una Città ne rimoveranno dall'oppinione di farlocominciare a regnar più tardi, e di accorciare ilsuoregno. tore E da Romolo passando a N u ma,eglinoncisonomenfortira gioni per abbreviare il regno anco di questo. Io lascio ftare quella quistione roccata da Livio,e da Plutarco(2)come questo Legisla (1)Plut.in:Rom.p.20. (2)Id.inNumap.60.69,e 74. Tit. Liv. Decad. I. lib. la pa 14.atergo.Ed.Ald.1918.. 25 :   por Authorem do&trina ejus quia non extat,alius,falfo SamiumP y thagoram edunt,quem Servio Tül lo regnante Rom& centum amplius poft annos in ultima Italiæ ora cir ca Metapontum Heracleamque de Crotonam juvenum æmulantium fta diacatus habuilleconstat.Liv,Ibid.  26 gnan tore potesse essere stato uditor di Pitagora, il quale essendo venuto inItaliapiùtardiche Numa non cominciò a regnare secondo la co mune oppinione (1), ne farebbe (1) Plut,in Numa p.60. PherecidesSyrus primum di xit animos bominum esse fempiter nos:antiquusfane:fuit enim meo regnante Gentili.Hanc opinionem discipulus ejus Pythagoras maxime confirmavit, quicum Superbo re   fu Cic.Tusc.Quæft. Lib.I.  27 il regno suo più sotto, e per conseguente accorciare almeno le durate degli altri cinque regni,che furonodaessoNuma fino alRegi fugio;della certezza della qual'e pocanonsidubitadaniuno lo Jascio,dico,questa quistione,la qua lenon risguarda tantoladuratadel regno diquestoRe,quanto il prin cipio di quello:e vengo a cið che ne appartienepiù davicino, porre Plutarco ne dice che Numa aveva quaranta anni (1), quando gnante in Italiam menisset, tenuit magnam illam Greciam ac. Pythagoras qui fuit in Italia temporibusiisdem,quibusL. Bru tus patriam liberavit. Id.Ib.Lib.IV. (1)InNuma p.62,   28 qua rantatre, la quale ultima cosa ne dicefimilmenteLivio(1).Ma qui io domando le parrà ragionevole ad altrui,che incosìfrescaetàpo tesseNuma essergiuntoaquelloe minente grado di fapienza, che fi dice;emoltopiùpoiseparrà ve risimile, che tenendo egli maslime modi di vivere differenti dagli u fatinel fuo paese(2),egli potesse esser salico in così alto grado di re Tit. Liv. Decad. I. lib. I.p. 16. a tergo.  fu eletto in Re di Roma, e che la governò per lospaziodi pu (1) Plut.InNuma p.73.2 74. Romulus feptem do triginta regnavit annos. Numa tres a quadraginta - (2) Vedi Plut. in Numa in princip.   Annumque intervallum regni fuit. Id ab re quod nunc quoque tenet nomen,interregnum appella tum. ld paullo post. Consultissimus vir omnis di  putazione,che lo facesse riverire non solo appo gli stranieri, ma nel proprio paeseeziandio per così straordinario modo,come narrano; e per recar le molte parole in u. na, che l'autorità del nome suo. fossetale,ch'ella dovesse in un subito far ceffare le animosità, e le gare delle parti, che per lo Ipazia di un'anno aveano conteso in Ro.: m a per lo Imperio (1). M a egli (1)Patrum interim animos certamen regni ac.cupido verfa bat @c. OK 29 ci Tit.Liv.Decad.I. lib.I.p.14.   30 Plut.in Numa p.61. --- a y  ci è ancora alcuna altra confider1 zione da farsi.Tazio che reggeva Roma insieme con Romolo,mcf so dalla gloria e dal nome dilui che tantoalto suonava,selofece genero dandogli per moglie una sua unica figliuola che si chiama vaTazia.Quandoquestoavvenif feper appunto nonsilegge;ma eglièverobensì,che ciðfumol divini atque'bumani juris dito nomine N u m e Patres Romani quamquam inclinari opes ad Sabi nos rege inde fumpto videbantur: t a m e n n e q u e se q u i s q u a m, n e c f a Etionisfuæalium,nec denique Pa trum aut Civium quenquam prefer re illo viro auf ud unum omnes. Numa Pompilioregnumdeferendum decernunt,Id. Ib.atergo,ep.15. to   (1)T.Liv.Decad.I.Lib.I. p.12.Plut.inRom.p.32.  31 sua to di buon'ora nel regno di R o molo,dacchè Tazio muorì prima della guerra co'Fidenati, e co'Ca meri (1),cioè prima dell'anno see dicesimo del regno di Romolo; e d'altra parte ne racconta Plutarco che Tazia era morta quando N u ma fu chiamato al regno, e ch'era vissuta con esso luilo spazio di tredicianni(2).Dal chetuttofi deeraccogliere,che grantempoa vanti la morte di Romolo fioriva lafamadellafapienzadi Numa;e converrià dire,ritenendo il c o m p u todiPlutarco,cheavendoNuma foli venticinque anni,questa fama fossegiàtanta,che inducefleTa zio Re a dare in matrimonio una (2) Plut.in Numa p.61.   -(1) Id. in Numa p.63.  sua unica figliuola a lui uomo pri vato, il che mostra essere alieno da verisimiglianza, Diremo per tantoasalvareilvero,cheNuma dovesse avere sessanta anni almeno quando fu eletto con tanta unani mitàaRediRoma;eciòpofto, gli staranno molto meglio inbocca quelle parole che periscansarsi da questo carico gli fa dire Plutarco, qualmenteallecondizioni de'Ro mani era bisogno che laCittà avef seunRe dianimoardente erobu sto (1),le quali parole più tosto fi disdirieno che no ad un'uomo di quarantaanni.Postoadunque che Numa, come ragion vuole,comin ci a regnare vent'anni più tardi che non si crede,> di altrettanti an ni fi verrà ad accorciare ilsuo re gno   in età in circa di ottantatre anni (1).  gno, dove si voglia ch'egli sia morto come narrano, 33 sta E per tal modo abbreviando il regno di Numa, e similmente q u e l l o d i R o m o l o, si v e r r à a r e n der più probabile la lunghezza del la pace di cui godè Roma a tempo attorniata da popoli estre mamente gelosidellasua grandezza, come ellaera.Questapace giusta l'antico computo farebbe dileffan tacinque anni,iqualirisultano dal la somma de'quarantatre del regno diNuma,daun'anno d'interre gno,e da'ventun'anni passati da Romolo, dirò così, nell'ozio e nella cessazion dalla guerra; e g i u C: quel > (1) ετελεύτησε δε χρόνον ο σ ο λύντοϊςογδοήκοντα προσβιώσας. Plut,in Numa p.64.   ven  di pre 34 itale cose discorse, questapace viene ad essere di ventiquattro an ni in circa e non più. E da ciò riesce molto più verisimile, come Tullo Ostilioerededelregno,non dell'arti di Numa, abbia potuto facilmente rinvigorir ne' Romani la bellica virtù inspirata loro da R o molo,ecomeabbiapotuto sente combatter con feroci Nazio ni e soggiogarle; il che di troppo fáriafuordell'uso,e della oppi nion comune se la virtù de' R o manifossestata(nervatadauna pa c e di fesfantacinque anni. Io non dirò nulla de' due fuf seguenti regnidiTullo Ottilio,edi Anco Marzio,ilprimo de'qualiè di trentadue anni (1), l'altro di (1) Tullus magna gloria bel li regnavitannosduosdotriginta. T. Liv.Decad.I.lib.I.p.24.   (2) Jam.filii prope puberem etatem erant Id. Ib.  35 ventiquattro (1), se non che ab breviandogli un tal poco, egli ne parrà piùverisimilequello che di ce Tito Livio de'figliuoli di A n co Marzio: cioè che alla morte del padre e'non fossero ancora ag giunti agli anni della pubertà (2) (1) Regnavit Ancus quatuor dig viginti. Ib.p. 26. a tergo. Anco Marzio aveva cinque anniallamortediNuma(3):sea cinque se ne giungano trentadue, e ventiquattro, avremo leffantun’ anno,cioè l'età d'Anco Marzio allamorte fua;ilqualeavriadova to naturalmente lasciare figliuoli più adulti,postoche egliavesse regnato ventiquattro anni, e Tul C2 lo annos (3)Plut. in Numa pag. 74.   36 lo trentadue; e cið perchè seconda ragione,un regio uomo come si era Anco Marzio e che fu poi Re, dovea menar moglie assaidibuon' ora per lasciare il regno a'figliuoli nella più ferma età che far fi po tesse. Eniente farebbe ildire,ch' egliavesle avuto figliuoli maggio ri di età che morisfero innanzi a lui, e che questa cura del padre di la fciar figliuoli atti al regno futle del tutto inutile in un regno e lectivo qual sieraquello diRoma, poichè dall ' una parte egli pare improbabile che dovessero ellere morri in tenera età tutti i primi suoi figliuoli più tosto, che gli altrs,edall'altrocanto eglisem bra che si avesse risguardo alla stir pe regia nella elezione del Re. Segno è di questo, che i Romani chiamarono al regno il medesimo 1 An    37 Ma  Anco Marzio nepote di Numa che Tarquinio Prisco allontand i figliuolidiluidaRoma neltem po de'Comizj (1). (1) C3 do peromnia expertus (L.Tarquinius ) postremo tutore diam liberisregistestamento insti tueretur Jam filiiprope pube remætatemerant.EomagisTar quinius instare,utquamprimum comitia regi creando fierent: qui.. bus indi&tisfub tempus pueros vem natum ablegavit:isqueprimus de petisse ambitiofe regnuin & c. T. Liv:Dec. I.lib.I.p.26.atergo. Tum Anci filii duo, etfi a n tea femper pro indignissimo habue rant fepatrio regnotutorisfraude pulsos:regnare Romæ advenäm non modo civica, fed ne Italica qui demftirpis& c.Id.ib.p.29.terg. e   (1) Nel luogo citato.  р 3:8 Ma non è già così da passar sotto silenzio il regno del medesi mo TarquinioPrisco successoredi Anco.Ne viene costui rappresen tato come usurpatore del regno, secondo che disli, a' figli di quello, de'qualieglierastatoistituito tu tore dalpadre(1).Egliregna tren totto anni (2),e vien finalmente ammazzato per opera degli stessi fi gliuolidi Ancovaghidiricuperare il regno paterno tolto loro dalla frande dell'uomo straniero(3).Nel che (3) Sed injuria dolor in Tarquininın ipsum magis quam in Servium eosftimulabat (3) Duo de quadragefimo fer me anno ex quo regnare cæperat Tarquinius bc.Id.Ib. ipseregiinfidiaparantur.Id. Ib. aullo poft. ob hæc   che chi non ammirerà la flemma incredibile di costoro, che tra la ingiuria e la vendetta polero in mezzo trent'otto anni, spazio di tempo bastante a sedare e spegner forfe nell'animo qualunque più violenta passione? Questo fatto a dunque dovette avvenire nella lo to giovanile età non molti anni d o polamortedelpadre;ilche quan to è comprovato dalla vatura del fatto medesimo, lo è altresi dal non ne avere effiraccolto frutto alcuno, come coloro che dopo la uccisione di Tarquinio rimasero ne più nè meno esclusidal regno pa terno.La qualcosaben mostraef fere questa stataopera di età gion vanile e inconsiderata, e non di quella ferma e matura di cinquan ta anni, in cui Livio gli fa c o n troogni verisimiglianzaoperarque  3999 Ita. C4   Che diremo oltre del suo suc cessore Servio Tullo, il quale nel fapno regnare quarantaquattro an ni (1)? Se non che dobbiamo di moltoaccorciareancoquesto regno, per quella medesima ragione per la qualeabbiamoaccorciatoquello di Tarquinio Prifco fuo predeceffore. Fu Servio Tullo anch' ello mello a morte da chi volea ricuperare il regnopaternotoltoglida essoTul lo,ch'era di schiatta fervile,e chefuportosultronodiRomaper artifiziodiJanaquilęmoglie diTar  40 sta Tragedia, E però rimane che fi debbaabbreviareilregnodi Tar quinioPriscocomesiè fattode' superiori. 1 qui (1) Servius Tullus regnavit, annosquatuor quadraginta.Id. Ib. p. 34. a tergo.   e preso dalla più violenta ambizione; e ch'egliin 41 quinio Prisco. È in ciò dovrà pa rere molto strano che Lucio Tar quinio, che fu poi cognominato il Superbo,abbiaaspettatoa metter lo a morte quarantaquattro anni.E molto più poi le altri vorrà por menteatrecose,chequestoTar quinioera giovine fatto allorchè Servio Tullo fu aflunto al Trono, ilqualela prima cosa diede per moglie due sue figlie a due giova ni Tarquinj Lucio ed Arunte (1); che questo Tarquinio era di natu ra 3rdentifima CS  > (1) EtnequalisAneiliberum animusadversusTarquinium fuerat, talisadversusse Tarquinii liberam esset: duas filias juvenibus, regiis' Lucio atqueAruntiTarquiniisjunio git •Id.Ib.p.30:a tergo•    fine era eccitato cotidianamente ad occupare il regno da Tullia fua moglie la più stimolofa è rea f e m mina che fulle mai (1). Le quali cose considerate che fieno,faranno che debba credersi molto più irra gionevole che Servio Tullo abbia potuto regnare quarantaquattro an ni,che Tarquinio Prisco trentotto.  42 Et ipfe juvenis ardentis animi do domi #xore Tullia in-, quietum inimum stimulante Id. Ib.p.38. Sen (1) Servius quanquam jam 16 fu haud dubie regnum possederat; tamen quia interdum jactari voces a juvene Tarquinio audiebat büs Id.ib.p.32,àtergo. Vedi p.33. a tergo, quid te stregium juvenem confpici jenis6607 Nel fine del regno diSer. Tullo.   Senzache questoTarquinio,che è sempre chiamato giovine nella vi ta di Servio Tullo, moftra effére robusto e giovinę tuttavia allafi nedelregnodiquello,come co luichepiglioServioperlomez zo della perfona, e sollevatolo in alto lo gittò giù per la scala della Curia (1). La qual pruova giova nile non avrebbe potuto altrimenti fareseaquarantaquattro anni del regno diServioneaggiungiamo venti più o meno,ch'egli ne do yea avere alla morte di Tarquinio Brisco;.che lo farebbono vecchio di sessantaquattro anni allorchè ei (1)Multo ætateį viribus va lidior medium arripit Servium,es latumque eCuria in inferiorempar temper gradusdejecit.Id.Ib.p.34. a tergo.  per 43 »   de uxoribus mentio, Suam quisquelaudat miris modis,  44 Ora venghiamo finalmente ale lo stesso Tarquinio Superbo che fu l'ultimoRe diRoma iAvvenne verso la fine di questo regno,che nell'offidionedi Ardeainforgesle quistione traSesto Tarquinio e T a r quinio.Collatino marito di quella Lucrezia,chị de'dueavesse più savia moglie, dal che poi nacque, comeYaognuno),11Confolato ela libertàRomana,Ora quertoTar quinio Collatina secondo le parole di Livio era giovine","e Yecondo lo ftesto autorem pervenne ad occupare il regno 5. Upitni HI,1, cer era figlio di un Inde IT: (1)Forte potantikusbisapud Sextun Tarquinium ubii collati aus cænabat, Tarquinius Egerii fs lius incidit  .(fratrisbicfilius e rat Regis)Cyllațiæ in præfidio re lietus. 1:1, Ib.p, &, e 28. a tery.  45 eerto Egerio,il quale fu lafciato da Tarquinio Prisco alla guardia di Collazia Città di novella con quita nella guerra Sabina (1) ver -fo la metà del regno fuo o la in torno, che viene a cadere nell'an no cencinquantacinqueincircadal (1)Collatio.c quisquid citra Collariam agri erat Sabinisadema ***** ptum Egerius py,sub Indecertamine accenfoCollatinusne gatverbisopuseffe;paucisid quide12 horis poffe:frisi,quantum cæteris præftet Lucretia (14. Quin sivi gor juventa ineft confcendimus,e qws,invifimulqise præsentes 102 strarun ingenia? T'it,Liv.Ib.p.40. la   (1)Vedi'anco la Tavoletta Cronologica registrata di topra.  46 la edificazione di Roma (1),lomi penso che sarà mestiero darea ques sto Egerioaquel tempo per lo m e no trenta anni, sì perchè l'età sua foffe in alcun modo eguale al cari co commessogli dal Re Tarquinio Prisco,sìperchèquesto Egerioera nato prima del tempo in cui Tar quinio venne a Roma sotto il re. gno di Anco (2), Ora come può egli starecheun'uomoditrent'anni ļ' a n n o d i R o m a c e n c i n q u a n t a c i n q u e avere unfigliogiovine l'anno du genquarantaquattro,come non sivo glia supporre ch'egli avesse questo figlio dopo l'età degli ottant' an ni? ilche ben vede ognuno quan to 1 (2)T,Livio Decad. I.lib. I. p. 26.   che è di niez zo tra ilpadre,e ilfigliuolo. 47 to siacontrario all'ordinario corfo delle cose naturali. Per lo che se vorremo ritenere questa discenden za de'Tarquinj, bisognerà accor ciare ilregiodiTarquinio Prisco di ServioTullo e similmente di TarquinioSuperbo,che occupano tutti e tre il tempo ot Un'altrapruova peracccrcia re ilregnodiTarquinio Superbo e quello eziandio di Servio Tullo fuopredecessore, fipudcavarda questo. Tarquinio Superbo quand? egli occupò il regno avea festanta quattro anni,come abbiani veduto poco innanzi,a'qualichiaggiunga i venticinque che fi dice avere ef fo regnato (1)troverà,ch'egli avea (1) L. Tarquinius Superbus r e gna    48 ottantanove ánniallorchè fu elpus: fo dalregno;laqualcosapofto che vera, avšia merit:ito d'esser nota=; ta dagli Storici. Che più? Si legno gechequestoTarquinio parecchi a n n i d o p o il R e g i f u g i o (1 ) c o m b a t tè a cavallo alLago Regillo con tro il Dittatore Postumio (2), il che gnavit annos quinque la viginti ! Regnatum konæ ab condita Urbe ad liberatam annos CCXLIV. Id. Ib.infinepo42. (1) Vedi T.Livio Decad.I. lib. II. (i) in Pofthumian prima in acie firos adhortantem inftruen temque Tarquinius Superbus quam quam jam '&tate a viribus erat gravior equum infeftus admifit; ietusqueab latere,concursufuorini receptus in tutum eft. Id. Ib. Pr54.    49 du  che verrebbe a cadere nell'anno centesimo e più.là ancora dell'età sua, irragionevolezza troppo mag giore chenon sipuò comportare, e la qual nasce pure anch'essa, co me ognunvede,da uncalcolofon dato sopra leEpoche Liviane. Come adunquesidebbano le var molti e dalle du rate de'regnidi inni cotefti R e, egli si provato rimane abbastanza altrimenti nasco dagliassurdiche insieme i nelvoler comporre no le altre condizioni che ac fatti,e regni; medesimi cer questi conpiù compagnano furono i quali fatti dalla tra a'pofteri men tezdatrasmesli quantevolte dizione,che non un pia tornò. Ed egli abbastanza, come se fi riducano seguirono del Cielo tre quelli sito neta al medesimo provato è medesimamente le,cred'io,   SO  durate di cotesti Re allà ordinaria legge diNatura,che li faregna re presi insieme diciotto o venti anniperuno,secondocheàdisco perto il Neutono, tutte le difficol tà siappianano,esvauiscono leir ragionevolezze tutte degli Storịci. La qual cosa benchè sia oramai fuor d'ogni quistione,mi piace aggiu gnere un'altra pruova, perchè fi vegga vie meglio qualmente sorga il vero da ogni lato, come all' in contro da ogni lato si manifefta 1 errore·Questanovellapruova fa rà ricavata dalle generazioni d'uo mini che sono indicate dagli Au tori nella storia di detti Re, le quali anch' esse arguiscono di falla la tecnica loro Cronologia in quanto alle durate de' regni. Nella vita diRomolofià,che OttilioAvo lo di Tullo Oftilio morì nella guer-. > ra   mo (1) Principes utrinquepugnam ciebant:ab Sabinis Metius Curatius, ab Romanis Hoftius Hoftilius (2) τετάρτω δε μηνί μεν την κτίσιν(ωςφάβιοςισορά) τοπε ρι την αρπαγήν ετολμήθη των γ υ Voixãi.Plut. inRom.p.25. Plut.Ib.p.29.descrivendo co meleSabinediviserolazuffatra i Ro. mani, e Sabini aggiugne: aipšv.muidice κομίζεσαινήπιαπροςταίςαγκάλαις  racontro i Sabini, che viene a cadere ne'primi anni di quel re gno(2).Ilregnopertantodi Ro ut Hostius cecidit & c.T. Liv. Dec. 1. lib. I. p. 11. Indo Tullum Hostilium nepotem Hostilii,cujus in infima arce clara pugna adver Sus Sabinos fuerat, regem populus. jussit. I d. I b. p. 1 6. a t e r g o. P l u t. inRom.p.29. /   molo di Nama e di Tullo Ottilio, non occupa a un di presso che il tempo didue generazioni: quella del padre,o della madre che dir vo gliamo di ello Tullo Ostilio,che duvette nafcere al principio del regno di Romolo,e quella diTul lo Oftilio medesimo D a N u na ad Ancu.Marzio suno due ge nerazioni, poichè ello Numa era avolo di Anco Marzio (1); dat che ne feguita che la generazione tra Numa ed Anco finendo al tempo diTullo Oftilio,rimanga·una ge nerazione fola da Tullo alla fine del regno di Anco. Con che dal principio del regno di Romolo al  (1) Numa Pompilii regis ne pos filia ortus Ancus Martiuserat. T. Liv.Decad.I.lib.I.p.24. la Plut.inNuma p.74.   ne  la fine di quello di Anco corrono incircatregenerazioni.Lucio Tar quinio Prisco prima detto L u c u m o ne viene a Roma uomo maturo nel regno di Anco, (1) onde la gene razione di Tarquinio'coincidendo con quella di Anco non resta che una sola generazione di uomini tra ilregnodiAncoeilregnodiTar quinio Superbo figlio di Tarquinio ilvecchiooPrisco,Adunque dal principio del Regno di Romolo al la fine di quello di Tarquinio Su perbo corrono quattro fole genera zioni in circa di uomini e non più, EglièilverocheTitoLiviodi cedubitarealcuni,sequesto Tar quinio Superbo folle figliuolo a (1)T. Liv.Decad.I. lib.I. p.26.eatergo. Hic L.Tarquinius Prifci Tarquinii filius, ne posve fuerit, p a rum liquet:pluribustamen autho ribusfilium crediderim. Id. Ib.p. 33. devolvere retro ad ftirpem fra. trifimilior quam patri. Ib. a ter go.Quas Anco prius, patre deinde Sito regnante, perpelli fint.p. 37. Tarquinius reges ambos patrem 80 vie,filium perfecisse p. 38.aterg.  nepotedelPrisco;ma fenzache i più erano di oppinione ch'ei gli fusse figliuolo, oppinione abbrac ciáca da esso Livio medesimo, eglisipuòmostrare,cheda Tar quinio Prisco al Superbo correfle una sola generazioneper esser Col latino ancora giovane in ful fine del regno di Tarquinio Superbo, mentre il padre suo Egerio era uomo già fatto nel regno di Tarqui nio Prisco,come abbiamo veduto avatt   avanti.Ora fommando insieme gli anni di quattro generazioni, ognu na delle quali ragguagliata è di trentatre anni, si hanno cento e trentadue anni, e dando a cia fcun Re diecinove anni di regno, sihanno cento trentatre anni,ilche derivato dalle Leggi di Natura co sì maravigliosamente conviene col la regola cronologica delNeutono, che leosservazioniastronoinichepiù a capello non convengono colle Teo rie eco'calcolidiquel grand'uomo. Io nonaggiugneròaltroaque fto Ragionamento,se non che a quel modo che la Cronologia del Neutono assolve Virgilio che fu il più esatto de'Poeti da quello Ana cronismo imputatogli comunemen Vedi la Cronologia del Neutono te in rispetto a'tempi in cuiyisse. ro Enea e Didone,così ella può giustificarequellacomun tradizione tenuta inRoma,che Numa fusle stato uditore di Pitagora, e che non meno contribuisseafondarquel lo Imperio, il qual fu fignor delle cole,la Virtù Italiana che la Gre ca Sapienza. Algorottus. Francesco Algarotti. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, "Grice ed Algarotti," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Grice ed Alici – reciproco – filosofia italiana – Luigi Speranza (Grottazzolina). Filosofo italiano. Grice: “If an Italian philosopher tells me he believes in God, I stop calling him ‘philosopher’!” --. Grice: “I like Alici; he has philosophised on some of the topics *I* did, since it should not surprise anyone, since we are philosophers (if I’m also a cricketer!) --.Grice: “I will organize some overlaps in hashtags: compassione. – serious study – il terzo incluso – I curiazi, i moscheteri -- ”:noi dopo di noi,” ‘we after we’ – the meta-language – romolo e remo; ossia, il bene condiviso;:romolo e remo; ossia, condividere la deliberazione; eurialo e isso, ossia, dall’io al noi; colloquenza romana; amore: l’angelo della gratitudine; eurialo e nisso: amore d legarsi – la reciprocita; pilade ed oreste --  luigi Alici Presidente nazionale dell'Azione Cattolica Italiana. Filosofo. È stato presidente nazionale dell'Azione Cattolica Italiana, Allievo di Armando Rigobello, ha insegnato Filosofia morale nell'Università degli Studi di Perugia e Filosofia teoretica presso la LUMSA di Roma. Attualmente è Professore di Filosofia morale nell'Macerata, nonché titolare degli insegnamenti di Istituzioni di Filosofia morale, Filosofia morale (corso triennale), Etica pubblica ed Etica della vita (corso magistrale). È stato presidente del Corso di laurea in Filosofia coordinatore del Dottorato di ricerca in Filosofia e Teoria delle Scienze Umane, presidente del Presidio di Qualità di Ateneo (-), direttore della Scuola di Studi Superiori "Giacomo Leopardi" Studioso dell'opera di Sant'Agostino, è autore di numerose pubblicazioni dedicate al rapporto tra interiorità e intenzionalità, comunicazione e azione, libertà e bene, con particolare attenzione alle tematiche dell'identità personale e della "reciprocità asimmetrica", esaminate anche sotto il profilo della loro rilevanza morale. Le sue ricerche più recenti, a partire dai temi della fragilità e della cura, sono dedicate al rapporto tra natura, tecnologia e libertà.  Impegnato fin da giovane nell'Azione Cattolica, nel corso degli anni ha ricoperto nell'associazione numerosi incarichi, prima a livello locale e poi nazionale: dal 1992 al 1998 è stato responsabile dell'Ufficio studi; -- è stato direttore della rivista culturale "Dialoghi"; è stato eletto consigliere nazionale dell'associazione dalla XII assemblea nazionale. In seguito alla designazione del Consiglio nazionale, il Consiglio permanente della Conferenza Episcopale Italiana lo ha nominato presidente dell'associazione per un triennio. Il suo mandato è terminato. È membro dei seguenti organismi: Consiglio scientifico dell'Istituto per lo studio dei problemi sociali e politici "Vittorio Bachelet" (Roma); Comitato Scientifico della Collana di “Filosofia morale” (Vita e Pensiero, Milano); Comitato di direzione della rivista “Dialoghi” (Roma); Consiglio Scientifico del “Centro di Etica Generale e Applicata” (Pavia); Comitato scientifico della rivista “Hermeneutica” (Urbino). Membro del Comitato Scientifico della Fondazione “Lanza” (Padova). Dirige inoltre la sezione di Filosofia della Collana “Saggi” (La Scuola Editrice, Brescia) e della Collana “Percorsi di etica” (Aracne Editrice, Roma).  Opere: “Il linguaggio come segno e come testimonianza. Una rilettura di Agostino”(Edizioni Studium, Roma); “Tempo e storia. Il "divenire" nella filosofia del '900” (Città Nuova Editrice, Roma); “Il pensiero del Novecento Editrice Queriniana, Brescia); “Il valore della parola. La teoria degli "Speech Acts" tra scienza del linguaggio e filosofia dell'azione” (Edizioni Porziuncola, Assisi PG); “Presenza e ulteriorità, Edizioni Porziuncola, Assisi (PG)); “La dignità degli ultimi giorni” (Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)); “Con le lanterne accese. Il tempo delle scelte difficili, Ave Edizioni, Roma); “L'altro nell'io. In dialogo con Agostino” (Città Nuova Editrice, Roma); “Il terzo escluso, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI)); “La via della speranza. Tracce di futuro possibile”  (Edizioni Ave, Roma); “Cielo di plastica. L'eclisse dell'infinito nell'epoca delle idolatrie” (Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI), (Premio "CapriSan Michele); “Amare e legarsi. Il paradosso della reciprocità, Edizioni Meudon, Portogruaro (VE)); “Filosofia morale” (Editrice La Scuola, Brescia); “I cattolici e il paese. Provocazioni per la politica” (Editrice La Scuola, Brescia); “L'angelo della gratitudine, Edizioni Ave, Roma); “Cittadini di Galilea. La vita spirituale dei laici” (Quaderni di Spello”, Edizioni Ave, Roma,  (Premio “CapriSan Michele); “Il fragile e il prezioso. Bio-etica in punta di piedi, Editrice Morcelliana, Brescia); “InfinitaMente. Lettera a uno studente sull'università, EUM, Macerata,. Edizioni di opere di Sant'Agostino La città di Dio, Rusconi, Milano; Bompiani, Milano. La dottrina cristiana, Edizioni Paoline, Milano; Confessioni, Sei, Torino, Manuale sulla fede, speranza e carità, Collana La vera religione, Città Nuova Editrice, Roma. “Il potere divinatorio dei demoni, Collana La vera religione, Città Nuova Editrice, Roma; La natura del bene, Città Nuova Editrice, Roma; Il libro della pace. «La città di Dio, XIX», Editrice La Scuola, Brescia); “Agostino nella filosofia del Novecento (con R. Piccolomini e A. Pieretti), 4Città Nuova Editrice, Roma (comprende: Esistenza e libertà, Interiorità e persona, Verità e linguaggio, Storia e politica). Azione e persona: le radici della prassi, V&P, Milano, Forme della reciprocità. Comunità, istituzioni, ethos, Il Mulino, Bologna, La filosofia come dialogo. A confronto con Agostino” (Città Nuova Editrice, Roma, Filosofi per l'Europa. Differenze in dialogo (con F. Totaro), Eum, Macerata, Agostino. Dizionario enciclopedico, di Allan D. Fitzgerald edizione italiana curata assieme a Antonio Pieretti, Città Nuova Editrice, Roma); “Forme del bene condiviso, Il Mulino, Bologna, “La felicità e il dolore. Verso un'etica della cura” Aracne Editrice, Roma,. Dialogando. Idee, pensieri, proposte per il nostro tempo, Edizioni Ave, Roma); “Unità e pluralità del vero: filosofia, religioni, culture, Archivio di filosofia); “Il dolore e la speranza. Cura della responsabilità, responsabilità della cura, Aracne Editrice, Roma); “Prossimità difficile. La cura tra compassione e competenza, Aracne Editrice, Roma); I conflitti religiosi nella scena pubblica. I: Agostino a confronto con manichei e donatisti, Città Nuova Editrice, Roma); “Noi dopo di noi. Accogliere, rigenerare, restituire: nella società, nell'educazione, nel lavoro” (FrancoAngeli, Milano); “I conflitti di valore nello spazio pubblico. Tra prossimità e distanza, Aracne Editrice, Roma); “I conflitti religiosi nella scena pubblica. II: Pace nella civitas, Città Nuova Editrice, Roma); “La fede e il contagio. Nel tempo della pandemia, (con G. De Simone eGrassi), Ave, Roma. L'umano e le sue potenzialità: tra cura e narrazione (conNicolini), Aracne, Roma. L’etica nel futuro (con F. Miano), Ortothes, Napoli-Salerno. Pagina di presentazione nel  docenti dell'Università degli Studi di Macerata, su docenti.unimc.  Dialogando. Il blog di Luigi Alici, su luigialici.blogspot. Predecessore Presidente nazionale dell'Azione Cattolica Italiana Successore Paola Bignardi.  “Love and duty are the cement of society” (Elster). “Love and duty are *not* the cement of society. The mechanism is *reciprocity*. Seemingly co-operative, helpful, altruistic behaviour, based on versions of the ‘I’ll-scratch-your- back-you-scratch-mine’ principle, require no nobility of spirit. Greed and fear suffice as motivation: greed for the *fruit* of co-operation, and fear of the consequence of *not* reciprocating the co-operative helpful overture of the other.” (Binmore). Chi tra Elster e Binmore ha ragione? Chi che vede nell’amore il “cemento della società”, o chi che considera invece la reciprocità dei due soggetti, basata su egoismo e paura, come il meccanismo sufficiente per tenere assieme la società? Oppure le cose sono più complicate? Grice propone di penetrare all’interno delle dinamiche della gratuità, della reciprocità e del tipo di razionalità che sottostanno ad esperienze conversazionale che potremmo chiamare “sociali”, come sono quelle dell’Economia di Comunione Conversazionale [cf. Bruni e Pelligra]. In particolare ci domandiamo a quali condizioni un soggetto o un’impresa mossi da una razionalità diversa da quella standard possano sopravvivere e svilupparsi in un contesto dove esiste una eterogeneità di soggetti interagenti. Inizieremo (§ 1) evidenziando le caratteristiche base dell’idea di razionalità che muove l’homo oeconomicus, cioè l’agente considerato “standard” dalla teoria economica convenzionale. Quindi, nella sezione 2, introdurremo un tipo di agente non standard, mosso da una razionalità in cui l’azione donativa ha una ricompensa intrinseca. Questo fa in modo che la reciprocità possa assestarsi come equilibrio stabile. Nella sezione 3 vedremo che, quando agenti eterogenei interagiscono tra di loro, le cose si complicano e gli esiti non sono più scontati. Per far questo ci serviremo della forma più elementare di giochi evolutivi; saremo, così, in grado di mostrare i risultati più interessanti del modello, che espliciteremo nelle conclusioni. * Alessandra Smerilli f.m.a. è dottoranda di ricerca in economia presso l’Università La Sapienza di Roma, dipartimento di Economia Pubblica. Luigino Bruni è ricercatore presso l’Università di Milano-Bicocca, Dipartimento di Economia. Gli autori ringraziano Nicolò Bellanca, Luca Crivelli, Fabio Gori, Benedetto Gui, Vittorio Pelligra e Luca Zarri per utili suggerimenti e critiche a precedenti versioni. Perché è così difficile cooperare (per l’economia)? L’idea di razionalità è dove sono maggiormente concentrate le assunzioni della scienza economica circa il comportamento umano, che potremmo anche chiamare antropologia filosofica, o psicologia filosofica. La razionalità economica, non cerca, principalmente, di descrivere il comportamento “quale è” nella realtà, ma piuttosto di individuare dei criteri di comportamento ottimo, razionale appunto, che fanno in modo di poter individuare tra i tanti comportamenti possibili quelli ottimizzanti – anche se tra analisi descrittiva e normativa esiste poi uno stretto rapporto. Le caratteristiche base dell’idea standard di razionalità economica, possono essere sinteticamente enucleate guardando alle assunzioni, che restano spesso implicite, del “gioco” più famoso utilizzato oggi in economia: il cosiddetto dilemma del prigioniero. Esso, nell’ambito della teoria dei giochi1, è usato per mostrare come la ricerca dell’individualistico tornaconto, in molte situazioni (in particolare in quelle dove non è possibile stipulare un contratto vincolante per le parti), non solo non porta al bene comune, ma neanche al bene privato dei singoli individui. La logica che sottende il gioco è usata per spiegare molti dei dilemmi dovuti all’assenza o al mal funzionamento dei mercati: dall’inquinamento, alla congestione del traffico, alle difficoltà della co-operazione. Il gioco rappresenta l’interazione tra due individui, che chiamiamo Romolo e Remo, identici (hanno le stesse informazioni e la stessa struttura di preferenze, i due elementi che fanno la diversità tra gli agenti economici –a cui va aggiunto, nel caso di imprese, il potere di mercato). Romolo e Remo si trovano a scegliere in una situazione ‘strategica’ di inter-dipendenza, ciascuno sa di avere di fronte un soggetto identico a sé, con le stesse preferenze, e *entrambi* conoscono la struttura del gioco (le ricompense, o pay-off associati agli esiti, che dipendono dalle proprie azioni o muoti conversazionali e da quelle dell’altro/i). Quali sono le preferenze? Per restare nel concreto, pensiamo ad una situazione famigliare: la raccolta differenziata dei rifiuti (ma il ragionamento, come si capirà immediatamente, è di portata più universale). L’ordine di preferenze dei nostri due giocatori, e in generale dell’homo oeconomicus standard che di norma l’economista ha in mente quando descrive il mondo, sono le seguenti. Al primo posto Romolo ed Remo – o Eurialo e Niso -- mettono: “l’altro fa la raccolta e io no”. A questo esito del gioco associamo il punteggio massimo, diciamo 4 punti. Al secondo posto “tutti la facciamo, me compreso” (3 punti). Al terzo “nessuno la fa” (2 punti). Al quarto “solo io faccio la raccolta differenziata” (1 punti). La tabella e il grafico sottostanti (che sono due modi diversi di rappresentare questa situazione, rispettivamente in forma normale ed estesa) rappresentano sinteticamente la struttura del gioco. La teoria dei giochi è oggi pervasiva nella teoria economica. Essa è soprattutto un linguaggio che consente di rappresentare in modo molto efficace interazioni (chiamate “giochi”) di tipo ‘strategico’, cioè situazioni nelle quali i guadagni, non solo monetari (chiamati pay-off, ricompense), dipendono dalla scelta dell’ altro soggetto o individuo inter-agente con lui, e non solo dalla propria (deliberazione condivisa). La teoria dei giochi ha oggi un campo di applicazione molto vasto, che va dalla collusione tra imprese all’inquinamento, dalle scelte elettorali al rapporto paziente-psicologo. Va notato che sebbene, per semplicità e per ragioni di chiarezza espositiva, abbiamo assegnato pay-off numerici (ipotesi che verrà eliminata nelle prossime sezioni), in realtà siamo all’interno di un orizzonte di tipo ordinalistico. Di per sé i valori numerici non possiedono alcun significato, e quello che conta è l’ordine delle preferenze individuali. Data una tale struttura di preferenze, si dimostra facilmente che Eurialo e Niso, *se sono razionali*, sceglieranno entrambi di *non* co-operare (non fare la raccolta differenziata), ritrovandosi così al terzo livello di preferenza (con due punti ciascuno: 2 punti per Eurialo, 2 punti per Niso), una situazione “dominata” dalla co-operazione reciproca (fare tutti la raccolta), in cui avrebbero ricevuto tre punti ciascuno (3, 3). Eurialo  Co-opera Co-opera 3,3 1,4 Non co-opera Non co-opera 4,1 2,2. Nella rappresentazione in forma estesa, gli esiti del gioco esprimono bene le caratteristiche base dell’idea di soggetto che l’economia normalmente segue nel costruire i suoi modelli. Il suo mondo ideale è quello in cui gode dei benefici (ad esempio un mondo non inquinato) senza sostenerne i costi che preferisce trasferire sull’altro, se può (separare i rifiuti, depositarli in raccoglitori diversi, ecc. ). Da qui il dilemma. Si dimostra facilmente che, poiché si trova di fronte uno/a con la stessa “razionalità” e preferenze, la soluzione del gioco è che entrambi Eurialo e Niso si ritrovano al terzo livello dell’ordinamento di preferenze, cioè nessuno fa la raccolta differenziata, quando invece ciascuno avrebbe preferito che tutti la facessero (che infatti si trova al secondo posto). E la realtà delle nostra città e del nostro pianeta ci dice quanto questi dilemmi siano reali e urgenti, e quanto la scelta ‘sociale’ non si discoste poi tanto dal modello astratto utilizzato dall’economia. Tutto ciò ci dice che la *soluzione* del gioco, e gli esiti dilemmatici dipendono sostanzialmente da due ipotesi base circa la razionalità. Primo, l’individualismo: ragionare esclusivamente nei termini di “cosa è ottimo, o meglio, per me: mittente/recipiente”). Secondo: lo strumentale (la bontà di una azione si misura sulla base della sua capacità di essere un *mezzo* condizionale per ottimizzare i pay-off, non per il suo valore categorico intrinseco. Date queste ipotesi, la non- [Nella tabella i numeri (i pay-off) esprimono utilità, quindi il più è preferito al meno. Il primo numero si riferisce a Niso, il secondo ad Eurialo. Nell’appendice abbandoniamo i numeri e passiamo ad un caso più generale (dove i pay-off è espresso in lettere, ordinate non in modo cardinale). Va aggiunto che non ogni inter-azione rappresentabili come dilemma del prigioniero porta a risultati dilemmatici e sub-ottimale a causa dell’antropologia sottostante. Si pensi, ad esempio, agli  [3  cooperazione (nessuno fa la raccolta) è un *equilibrio* stabile del gioco (o equilibrio di Nash), dal quale nessuno dei giocatori ha convenienza a spostarsi uni-lateralmente, a meno che non si sia capaci di stipulare un *patto* vincolante. Se un patto vincolante non è possibile -- si pensi alle interazioni quotidiane con numerosi agenti, come nel traffico stradale -- o troppo costoso, *non* cooperare risulta la ‘strategia’ ottimale per due ragioni. Prima se Eurialo suppone che Niso è azionale (individualista e strumentale) allora se co-operassi avvierei Eurialo allo sfruttamento (1 punto).Se invece Eurialo ha buone ragioni per pensare che Niso *non* è razionale o, come dice Dawkins, “ingenuo”, e che quindi si lasce sfruttare, Eurialo ha una ragione in più per *non* cooperare. Otterrai infatti 4 punti. Quindi l’esito dilemmatico è una combinazione di paura alla Hobbes e di opportunism. Se va male Eurialo cade in piedi e non si lascia sfruttare. Se va bene Eurialo prende tutto. Una razionalità puo essere con ricompense *non* materiali. In un mondo fatto di due individui mossi da questa razionalità la co-operazione può essere raggiunta solo quando siamo capaci di auto-vincolarci a delle regole non opportunistiche, per un bene individuale maggiore. Io gratto la tua schiena, tu gratti la mia. Questo principio è, in mille varianti, il tipo di co-operazione che può emergere tra due soggetti razionali di questa maniere. Grice lo chiama ‘altruismo reciproco’ -- individuando un comportamento pro-sociale in tutte le specie animali, dove però l’altruismo disinteressato non esiste, ma è solo maschera di più sottili forme di egoismo (o amore proprio e non benevolenza). In ogni caso la co-operazione è interamente condizionale e non un imperativo di tipo kantiano. Eurialo aiuta Niso a condizione che Niso aiuta Eurialo e vice versa. Viene comunque spontaneo chiedersi se negli esseri umani – o almeno due filosofi oxoniensi -- ci sia qualcosa di diverso, in termini di socialità, rispetto alle scimmie o alle formiche. Al di fuori di questi specifici casi nei quali la co-operazione emerge, un atto che non punti a rendere massimo il proprio interesse, di breve o di lungo periodo, è considerato *irrazionale* o ingenuo, poiché si diventa pasto degli altri individui più aggressivi, che cresceranno e prospereranno a spese degli ingenui. Forse molti degli atti di co-operazione a cui assistiamo nella vita quotidiana possono trovare la loro spiegazione sulla base di questo tipo di logica individualistica, strumentale, e condizionale. Non tutti però. E’ infatti nostra convinzione che la convivenza civile, e le dinamiche economiche conversazionale, conoscono anche altre forme di co-operazione, che possono emergere sulla base di un ragionamento mosso da un tipo *diverso* di razionalità non utilitaria ma assoluta. In quanto segue, cercheremo di esplorare le implicazioni che scaturiscono dalla seguente domanda. Come cambia il gioco della vita in comune se complichiamo la visione antropologica sottostante i modelli economici? L’elemento di diversità (rispetto all’approccio standard) che qui introduciamo, è la presenza di un valore *intrinseco* categorico assoluto ingorghi stradali. Questi sono perfettamente rappresentabili come dilemmi del prigioniero. Ma sarebbe impreciso definire gli automobilisti che escono per andare a lavoro individualisti e strumentali. Ma abbiamo a che fare con un problema di mancanza di co-ordinamento in una scelta collettiva, che se vogliamo rimanda anch’esso a una dimensione ‘sociale’ (come la capacità di addivenire a patti vincolanti), ma, antropologicamente, è meno coinvolgente di casi dilemmatici che riguardano l’inquinamento o il rapporto con il fisco. Questo per dire che la teoria dei giochi è un linguaggio che trascende l’ambito economico e la sua tipica forma di razionalità; e infatti essa è utilizzata anche per modelizzare agenti mossi da forme razionalità *non* strumentali (come in parte fa Grice). (Dal nome del matematico che nei primi anni cinquanta introdusse questa nozione di equilibrio stabile). Il fatto che nella realtà concreta riusciamo a non cadere nel dilemma dipende dal fatto che spesso riusciamo a disegnare patti o contratti vincolanti, con sanzioni. Grice mostra che anche il richiamo di allarme che certi uccelli emettono per avvisare il gruppo dell’arrivo di un predatore, a *rischio anche della propria vita*, è il risultato di un calcolo egoista. L’uccello può più facilmente salvare la sua vita se tutto lo stormo si sposta e non rimane isolato. -- associato a un comportamento di gratuità, da cui discende la possibilità di sperimentare una co-operazione, o reciprocità, non primariamente strumentale e condizionale, ma assoluta, costitutiva dell’umano, e categorical. Questo agente economico intende pertanto la reciprocità diversamente da come essa è usata oggi in economia. Rispetta l’ambiente, paga le tasse o edifica la casa rispettando i vincoli del piano regolatore (tutte faccende cooperative), ad esempio, perché questi comportamenti sono per lei dei valori, perché le danno una ricompensa intrinseca, e non solo strumentale (i vantaggi materiali della cooperazione, che pure sperimenta). Questo diverso tipo di agente non è quindi puramente consequenzialista e utilitario come invece è l’agente-individuo. Non valuta cioè la bontà del muoto conversazionale solo sulla base della conseguenza che tale muoto produce, ma tiene conto sia di una componente assiologica o deontologica – non aletica --, legata al valore, sia di una componente procedurale, più legata ai tipi di relazione all’interno delle quali il suo muoto si sviluppa. Sa inoltre che il suo muto è pienamente *efficace* se anche l’altro si comportano allo stesso modo (se reciprocano). Ma non condiziona il suo comportamento a quello dell’altro (come invece farebbe l’homo oeconomcus-individuo standard). Al tempo stesso, se l’altro si comportano sulla base della stessa razionalità assiologica e dello stesso valore intrinseco, allora egli soddisfa al massimo le sue preferenze, e anche il benessere sociale aumenta. In base ad una tale struttura di valori, o cultura della reciprocità gratuita, al primo posto dell’ordine di preferenze questo tipo di agente economico non mette, diversamente dal tipo standard, “tutti co-operano tranne me”, ma “tutti, me compreso, cooperiamo”, o doniamo. E questo perché il comportamento in sé è parte integrante del suo sistema di valori. Al secondo posto dell’ordine di preferenze pone: l’altro co-opera, io no. Al terzo posto: io co-opero, l’altro no. Al quarto, nessuno co-opera. Per capire questi valori si può partire dalla struttura di ricompense (i pay-off, cioè i numeri che misurano le ricompense) del dilemma del prigioniero. Ma occorre aggiungere, o sottrarre, ai pay-off materiali una componente intrinseca, sulla base della teoria classica della felicità o calculo eudaimonico, o beatifico, nella quale il comportamento buono in sé, o *virtuoso*, ha una ricompensa intrinseca. Così, se un soggetto ha fatto propria questa cultura della reciprocità gratuita o, per usare un’espressione più forte ma anche più corretta, della “comunione” (la communita immune), quando Eurialo co-opera e la controparte, Niso, no (pensiamo sempre all’esempio ambientale, o, se si vuole, ad un rapporto di amicizia), il suo pay-off, materialmente uguale a 1 (come nel gioco standard), aumenta a causa delle ricompensa intrinseca (che poniamo pari ad uno), attestandosi a 2. Se Eurialo invece *non* coopera ma la controparte, Niso, sì, ecco allora che il pay-off, pur essendo materialmente pari a 4, diminuisce a 3, perché si inserisce una *sanzione* intrinseca. 4 – 1 = 3. Si pensi a chi, pur avendo fatto propria la cultura della reciprocità, in un certo muoto non è coerente perché non riesce a vincere la tentazione del vantaggio materiale. La sua soddisfazione è comunque minore a causa della sanzione intrinseca, che potremmo chiamare anche insoddisfazione o senso di colpa o vizio. Il mondo peggiore (pay-off = 1) è quello in cui ciascuno è chiuso in se stesso. Qui il pay-off è 1 perché si parte da quello materiale (2) e gli si sottrae il valore intrinseco (2 – 1 = 1). Il mondo migliore è invece la *reciprocità*, un incontro mutuo di gratuità: (4), il pay-off materiale della co-operazione (3) più la componente intrinseca della gratuità. Sui vari usi della categoria di reciprocità nella teoria economica, cf. Crivelli. Questo ordine di preferenze dipende dall’ipotesi che la componente intrinseca dei pay-off sia costante e pari ad uno. Un’analisi più approfondita dovrebbe studiare i casi quando la motivazione intrinseca è maggiore, minore o uguale alla componente materiale. Non è da escludere, ad esempio, che all’aumentare di quest’ultimo dovrebbe aumentare la tentazione di tralasciare gli aspetti intrinseci. Se fare, ad esempio, la raccolta differenziata diventa estremamente costoso e laborioso, il numero di quelli, anche bene intenzionati, che la faranno diminuirà. Inoltre, una tale analisi ammette la possibilità di confronti  -- La componente intrinseca dell’azione è legata alla teoria classica della felicità o calculo eudemonistico di Bentham. La felicità, essendo il risultato di una vita virtuosa, è fuori dalla logica strumentale. La virtù è praticata perché ha un valore intrinseco, non per un calcolo machiavelico strumentale costi/benefici. La virtù, in particolare quella civica, ha bisogno di reciprocità perché porti ad una vita sociale pianamente realizzata, ma non può pretenderla, solo attenderla dalla libertà dell’altro. Ecco perché dagli antichi fino ad oggi alla felicità è associato un elemento *paradossale*. La feicita ha bisogno di reciprocità, ma solo la gratuità può suscitarla senza pretenderla. Un “gioco di reciprocità” (intesa nella maniera appena detta), che rimane sempre del tipo dilemma del prigioniero, può essere dunque rappresentato come segue: Eurialo Dona Non-Dona   Dona 4,4 2,3 Non-Dona 3,2 1,1 Rappresentiamo anche questo gioco in forma estesa. Dalla tabella, o dall’albero decisionale, si nota che se i due giocatori hanno questa stessa struttura di preferenze, l’unico esito stabile del gioco o equilibrio di Nash, dal quale cioè nessuno è incentivato a spostarsi, è “dona-dona”. Quindi per interpersonali di utilità, cosa peraltro non inusuale quando l’utilità attesa si calcola con la funzione di Von Neumann Morgernstern. Per un’analisi approfondita dei pay-off psicologici cf. Pelligra. Sul paradosso della felicità cf. Bruni. Il modello che può essere considerato il capostipite dei giochi del tipo gioco di reciprocità è quello introdotto da Sen -- questi giocatori-persone donare (o co-operare) è ‘strategia’ strettamente dominante, e l’unico equilibrio stabile del gioco è la reciprocità o la *comunione*: dona/dona. Cosa ci suggerisce questo gioco, pur nella sua estrema semplicità? Se sono un soggetto che ha questi valori non ho alternative a cooperare: gli altri possono rispondere o meno, e quindi il mio benessere/felicità è incerto (stando al gioco precedente, posso ottenere in termini materiali 2 o 4 punti): ciononostante per me l’unica possibilità, l’unica azione razionale, è cooperare, o come abbiamo detto, donare. Così, per fare un esempio, se sono alle prese con un fornitore difficile, non ho alternative al donare. Potrò trovare reciprocità o no, ma in ogni caso l’alternativa, ‘non-dona’ – che, nella pratica, significherà ogni volta qualcosa di diverso – è per me la peggiore (perché è sempre dominata dalla co-operazione) a causa della ricompensa (sanzione) intrinseca. E’ questo un soggetto che per alcune scelte non calcola i costi e i benefici. Che senso ha fare la raccolta differenziata se solo io la faccio. Ma agisce sulla base di un valore, o di una norma etica interiorizzata. Ciò spiega, tra l’altro, perché in certe società l’ecologia o il rispetto delle norme civili sono messe in pratica anche in contesti nei quali sarebbe razionale (nel senso standard) non farlo: iclassico fazzoletto di carta buttato fuori dal finestrino quando nessuno ci osserva, e quindi nessuna sanzione può essere applicata. D’altro canto, davanti a queste nostre considerazioni qualcuno potrebbe obiettare. Ma se ipotizzate che gli individui traggano soddisfazione dal muoto conversazionale stesso, diventa banale spiegare l’emergere (dalla perspettiva della psicologia filosofica) della co-operazione. In effetti l’idea è semplice. Ma ci auguriamo non banale, ma bizarra. In particolare, gli aspetti più interessanti intervengono quando pensiamo che nel mondo reale, nel mercato in particolare, non sappiamo normalmente con chi stiamo giocando, se abbiamo cioè di fronte un soggetto del primo tipo o uno del secondo. E qui entriamo in quello che possiamo chiamare il “paradosso della reciprocità” o della comunione, che possiamo sviluppare sinteticamente come segue, mettendo assieme i vari pezzi fin qui costruiti. Una vita buona ha bisogno di reciprocità genuine. La reciprocità genuina però non viene suscitata se la logica che ci muove è primariamente strumentale. La risposta dell’altro, la reciprocità, non possiamo pretenderla, ma solo *attenderla* dalla libertà dell’altro. Co-operare porta quindi a due esiti diversi (indicati con 2 o 4) in base alla risposta o non risposta dell’altro. Per comprendere questi risultati, si consideri che ognuno sa che l’altro ha di fronte due possibili scelte: donare e non donare, e, date le loro preferenze, qualunque scelta faccia l’altro per ciascuno è preferibile donare -- considerando anche il pay-off intrinseco. Se infatti l’altro giocatore (Eurialo) sceglie “donare” i punti di Niso sono 4 (mentre la mossa “non-dona” avrebbe portato solo 2 punti); e anche se Eurialo scegliesse “non donare”, Niso preferisce sempre “donare” che gli dà 2 punti invece di 1 (che è il pay-off di “non-dona/non-dona”). Può valere la pena specificare che qui con “donare” non si intende l’altruismo o la filantropia -- che possono restare atti individualisti. Donare è sinonimo di ciò che la cultura greco-romana chiama “amore”, e cioè un atto gratuito ma che ha sempre di mira la *reciprocità*, il rapporto personale con l’altro (amore-amicizia). Qualcuno potrebbe obiettare sostenendo che più che di una diversa forma di razionalità in questo caso siamo in presenza di un soggetto che ha solo preferenze diverse, ma la cui razionalità resta quella standard strumentale, perché in fondo anche lui massimizza la propria utilità. Noi preferiamo pensare che una persona che agisce mossa da motivazioni intrinseche sia più efficacemente rappresentabile da una forma di razionalità che Grice chiamava “rispetto ai valori” o assiologica che non dalla classica razionalità strumentale, che si caratterizza proprio per il suo essere tutta basata sul calcolo utilitario.Qui infatti nostri soggetti co-operativi fano la scelta non sulla base di un calcolo, ma per un valore. È ovvio che esiste una circolarità tra motivazioni intrinseche e il comportamento dell’altro -- su questo cf. Bruni e Pelligra. Per questo la vita in comune è fragile, come anche i filosofi – da Aristotele in poi - ci insegnano, perché essa dipende dalla risposta dell’altro – l’amore di Eurialo e reciprocato dall’amore di Niso e vice versa. Quale evoluzione? Facciamo ora un passo avanti, e ci domandiamo cosa succede quando soggetti standard e soggetti non standard (il secondo tipo che abbiamo appena descritto) interagiscono tra di loro. Sono situazioni che Grice studia. Sono ormai numerosi i modelli con un agenti altruistico che interage con un agenti auto-interessato. Qui ipotizziamo quattro casi, che, con diversi gradi di astrazione, possono rappresentare alcune situazioni reali che vengono a verificarsi quando l’interazione avviene tra soggetti diversi, perché mossi da culture diverse. Utilizzeremo, allo scopo, i rudimenti della teoria dei giochi evolutivi, nella sua forma più elementare, il cui elemento innovativo è l’introduzione della componente immateriale del pay-off corrispondente alla ricompensa intrinseca. Ipotizzeremo cioè i nostri giocatori immersi in un ambiente abitato da popolazioni diverse, dapprima due, e poi tre. La teoria dei giochi evolutivi utilizza lo stesso linguaggio, e in buona parte la stessa metodologia, della *biologia* evolutiva. Tra più popolazioni esistenti in un dato ambiente, nel tempo sopravvive quella che ha la fitness – capacità di adattamento – maggiore. Se due popolazioni hanno la stessa fitness sopravvivono entrambe. Ma se una ha una fitness minore delle altre è destinata all’estinzione, non nel senso biologico del termine (morte di tutti i soggetti di quella specie), ma che quel comportamento non verrà riprodotto, e saranno imitati i comportamenti vincenti. Il dibattito sull’applicazione di una tale metodologia agli essere umani e alle loro popolazione è aperto, e controverso. In quanto segue noi non intendiamo abbracciare la filosofia, né la metodologia, dei giochi evolutivi. Riteniamo soltanto che il linguaggio dei giochi evolutivi ci aiuti a mettere in luce dinamiche, che riteniamo reali, non facilmente individuabili con linguaggi diversi. Il nostro è quindi un esperimento, che ci piacerebbe, in futuro, portare avanti, mettendo a quel punto in questione alcuni assiomi che nell’attuale teoria dei giochi evolutivi ci appaiono troppo semplificati, come il concetto di fitness: semplificati, ma non inutili, come speriamo di mostrare. Primo caso: Tipi 1 e Tipi 2, non riconoscibili Come primo caso facciamo le seguenti ipotesi. Esistono solo due tipi tra loro non riconoscibili. Chiameremo tipi 1 quelli standard, e tipi 2 quelli non-standard o di reciprocità. Le ricompense intrinseche sono determinanti per la scelta (che, come visto, fanno sì che per il tipo 2 sia sempre razionale, perché strettamente dominante, “donare”). Ma per la sopravvivenza nel tempo di un tipo di agente, la cosiddetta fitness (misurata -- La versione più semplice di tali modelli si può trovare nel Manuale di microeconomia di R. Frank. Un testo classico è quello di Axelrod, e un recente studio, basato su evidenza sperimentale, è quello di Bowles. Un modello vicino a quello qui presentato è Sacco e Zamagni. Interessanti considerazioni metodologiche si trovano in Crivelli. Vale la pena specificare che mentre nella biologia evolutiva l’unità di selezione è il gene, in economia l’unità di selezione è il comportamento; inoltre, mente in biologia la trasmissione è ereditaria in economia essa avviene per imitazione. Sono i vari comportamenti adottati e imitati che rendono un agente più efficiente di un altro. Un contributo importante a questo riguardo è l’articolo The evolutionary turn in game theory diSugden -- dal valore medio dei pay-off materiali), contano solo i pay-off materiali, non i pay- off dovuti alla ricompensa intrinseca. c. I pay-off materiali sono i seguenti. Coopera – coopera. Non coopera – coopera. Coopera – non coopera. Non coopera – non coopera. Con a > b> c> d. La probabilità di incontrare un tipo 1 è p1, mentre quella di incontrare un tipo 2 è p2, dove, per la definizione di probabilità, p2 = 1- p1 In questo primo caso lo scenario non è roseo per i tipi 2. Si dimostra, infatti, che a sopravvivere saranno solo i tipi 1, e questo risultato è indipendente dalla percentuale di tipi 1 e 2 presente nella popolazione. Infatti, anche se i tipi 2 fossero la quasi totalità (ex. 99%) dell’universo, sarebbero destinati ugualmente all’estinzione perché sistematicamente sfruttati dagli individui. SE VALGONO LE IPOTESI PRECEDENTI, SOPRAVVIVONO SOLO I TIPI 1, PER OGNI VALORE DI p1 e p2. Se supponiamo un intervento ridistributivo dello stato che preleva risorse dai tipi 1 per sostenere i tipi 2 (es. ciò che avviene normalmente nei sistemi di stato sociale con le imprese sociali), il gap di fitness si riduce, e in certi casi potrebbe essere nullo, consentendo così la co-esistenza dei due tipi. Situazione diversa se ipotizziamo che i due tipi siano, per l’esistenza di un qualche segnale, riconoscibili, e che il tipo 2 decida di interagire soltanto con i suoi simili.  Aggiungiamo, quindi l’ipotesi. Rispetto ai giochi delle prime due sessioni, ora ricorriamo esplicitamente a pay-off ordinali, dove la sola condizione rilevante nella misurazione dei pay-off è il loro ordine, e cioè che a sia maggiore di b, b di c e c di d. Indichiamo con Fi la fitness dei tipi 1, e con Fp la fitness dei tipi 2. F1 = p1c + p2a F1 = p1c + (1-p1)a F2 = p1d + (1-p1)b. La tesi F1>F2 equivale quindi a: p1(b-a) + p1(c-d) > b-a, per p1 = 0 la disuguaglianza diventa a>b ed è quindi vera per p1 = 1 la disugualglianza diventa c>d ed è quindi vera osservo che valore di p1 (0, 1), p1(c-d) >0 p1(b-a) > b-a, perché b-a è minore di zero, quindi: F1>F2 valore di p1 [0, 1]. È possibile inoltre dimostrare che, per tutti I giochi di questo tipo, quale che sia la posizione iniziale di partenza, l’unico equilibrio evolutivamente stabile verso cui si converge nel tempo è quello che prevede l’estinzione di una delle popolazioni, nel nostro caso dei tipi 2.  9  e. i tipi sono riconoscibili e l’interazione è selettiva (il tipo 2 gioca solo con i simili). Se la riconoscibilità è perfetta (cioè la probabilità di simulazione è nulla), si dimostra facilmente che sarebbero i tipi 2 a sopra-vivere. Infatti, in questo caso vale il Risultato. SE IPOTIZZIAMO PERFETTA RICONOSCIBILITÀ DEI TIPI, SI ESTINGUONO I TIPI 1. Questo secondo risultato ci dice già qualcosa d’importante. La riconoscibilità, anche quando non perfetta (come nella realtà normalmente avviene), aumenta la fitness dei tipi 2. Ciò spiega, ad esempio, l’emergere del fenomeno della “rete”, una realtà tipica dell’economia sociale. Le varie componenti ed espressioni dell’economia sociale tendono infatti a cercarsi e scegliersi l’un l’altra: reti di imprese, reti di consumatori che insieme preferiscono le imprese sociali, reti di imprese (si pensi ai consorzi di co-operative, di veri livelli), risparmiatori e consumatori (il fenomeno delle banche etiche e della finanza etica). Nella realtà, però, supposto che un agente 2 voglia evitare di interagire con i tipi 1 (cosa da non dare per scontata), la perfetta riconoscibilità o la simulazione nulla sono comunque altamente irrealistiche (sono troppi i soggetti con i quali un’impresa e anche una persone interagisce: lavoratori, finanziatori, concorrenti, fornitori, consumatori...). E’ quindi necessario ricorrere ad altre ipotesi per giustificare teoricamente lo sviluppo delle imprese sociali nel tempo. E’ quanto di cerca di fare negli altri due casi. Introduciamo ora un *terzo* tipo che si aggiunge ai due precedenti. Potremmo chiamarlo ‘civile’ o griceiano. Ipotizziamo che: f. il tipo 3 gioca una strategia “colpo su colpo”, una strategia intermedia (rispetto alle altre due più “radicali” dei tipi 1 e 2, che, rispettivamente, co-operano mai e sempre), che lo fa co-operare con chi coopera, e *non* cooperare con chi *non* coopera. Quest’ultimo co-opera quindi con chi coopera, e *non* co-opera con chi *non* co-opera. Il tipo civile o griceiano, non attribuendo un valore intrinseco (o attribuendogliene uno troppo basso) all’azione donativa, *non* ha “cooperare!” o “cooperiamo!” come ‘strategia’ *dominante*. La strategia dominante e “Siamo razionali”. Ma se ha di fronte un tipo 2, pur riconoscendolo, non lo sfrutta preferendo reciprocare. E’ un 21 La correlazione esclusiva tra tipi può avvenire per almeno due ragioni: o perché l’agente sceglie il tipo preferito che viene riconosciuto attraverso un segnale (che deve essere affidabile), oppure perché si trova in un cluster, cioè in un’area nella quale si trovano soltanto soggettio dello stesso tipo – pensiamo, ad esempio, ad una comunità locale come il gruppo maschile della sub-faculta di filosofia a Oxford, dove la probabilità che un agente si trovi ad interagire con uno “like- minded” è altissima, ed è indirettamente proporzionale al numero di forestieri – non filosofi non oxoniensi -- presenti in quella comunità. In questa situazione, i casi interessanti si trovano sui confini, dove la probabilità di interazioni miste aumenta (pensiamo agli effetti dell’introduzione di pratiche e comportamenti nuovi da parte del gruppo femminile, di missionari o di emigranti da Cambridge). Il segnale, inoltre, per essere efficace dovrebbe essere troppo costoso da imitare da parte dei tipi 1, come l’adesione ad un codice o procedimento di comportamento o ad una struttura di valori molto forte (come nelle botteghe del commercio equo e *solidale*, o nelle imprese di Economia di Comunione). Con riconoscibilità perfetta, la probabilità di incontrare un tipo simile è 1, mentre la probabilità di incontrare uno diverso è 0. Quindi F1 =(0(a) + 1(c))=c, mentre F2 = (0(d) + 1(b)) = b, quindi: F2 > F1. Rispetto a quella classica, questa versione di colpo su colpo è modificata, poiché non inizia sempre con un muoto di cooperazione, e poi il gioco non è ripetuto --  soggetto leale, che per questo chiamiamo “civile” o griceiano. Si ipotizza quindi l’esistenza di un segnale, utilizzabile solo dal tipo civile o griceiano, che gli permette di discriminare perfettamente tra i tre tipi che ha di fronte. Si ipotizza quindi che le altre due imprese non possono, o non vogliono, utilizzare quel segnale (pensiamo, ad esempio, a chi pur sapendo di rischiare entrando in un ambiente molto opportunistico, rifiuti l’idea della nicchia e accetti di scendere in campo, non utilizzando quindi il segnale di riconoscibilità. Cosa succede in questo caso? Innanzitutto è possibile vedere come la fitness del terzo tipo è sempre maggiore di quella del tipo 2. Infatti vale il risultato. SE E SOLO SE VALGONO LE IPOTESI PRECEDENTI (a. – d., f.) SI HA: F3 > F2 VALORE DI a, b, c, d, VALORE DI p1, p2, p3. Un secondo aspetto che emerge, è che l’evenienza che la fitness dei tipi 2 possa risultare maggiore di quella degli 1 dipende dalla percentuale di tipi 3 civili griceiani presente nella popolazione. Più quest’ultima è alta, maggiore è la fitness dei tipi 2 e minore quella dei tipi 1. Qui per semplicità supponiamo che gli scarti tra i pay-off siano uguali tr aloro, cio è che sia: (a–b) = (b–c) = (c–d). Tali scarti possono essere visti, rispettivamente, come vantaggio dello sfruttamento, premio della cooperazione e costo della coerenza. Anche nell’esempio numerico precedente tali scarti sono uguali (tutti pari ad 1). Con queste semplificazioni, vale il seguente risultato. SE VALGONO LE IPOTESI a.–d., f., g., F2>F1 SE E SOLO SE p +p <p. Il risultato ci dice ancora qualcosa d’importante. La sopra-vivenza dei tipi 2 dipende anche dall’esistenza, e dal numero, degli agenti del terzo tipo, cioè di soggetti che, pur *non* attribuendo un valore intrinseco ma derivato dalla razionalita generale all’azione del co-operare o donare non “sfruttano” il muoto co-operativo (come fa invece il tipo 1), ma reciprocano. Rispondono alla co-operazione. Per questo denominare questi tipi “civili”. Questo risultato può essere utilizzato anche a sostegno del ruolo della cultura civile – la conversazione civile – la civil conversazione del rinascimento italiano popolarizzato in tutta Europa. La sopra-vivenza e lo sviluppo di imprese e un soggetto più radicali, come i tipi 2, dipendono anche dalla “cultura civile” presente nell’ambiente dentro il quale operano. Di qui l’importanza duplice della diffusione della “cultura”, alla quale le imprese sociali non possono non attribuire grande importanza. Le imprese dell’EdC, ad esempio, dedicano un terzo dei propri utili alla formazione alla *cultura del dare*. Da una parte la cultura re-inforza le motivazioni intrinseche dei tipi 2, e dall’altra contribuisce ad aumentare e rafforzare il senso civico e la cultura della co-operazione dalla quale, indirettamente, dipende anche la loro sopra-vivenza e il loro sviluppo. Supponiamo, per assurdo, che la tesi non sia vera: Dovrà essere: F3 ≤ F2  => p1c + p2b + p3 b ≤  p1d + p2b + p3b = > p1c ≤ p1d, disuguaglianza che non e’ mai verificata essendo, per ipotesi, c>d. p1d + p2b + p3b > p1c + p2 a + p3c p1 (d − c) + p2 (b − a) + p3 (b − c) > 0;<=> p1(c−d) + p2(a−b )< p3(b−c) p1+p2 <p3.  Altra implicazione del risultato è il prendere coscienza che affinché i tipi 2 possano svilupparsi, i tipi civili debbono essere abbastanza numerosi. In particolare, si dimostra che la fitness dei tipi 3 è maggiore di quella dei tipi 1 se e solo se i tipi 3 sono in numero maggiore dei tipi 2. Ipotizzando, come nei risultati precedenti, l’uguaglianza tra gli scarti, abbiamo un altro risultato. SE VALGONO LE IPOTESI DEL LEMMA, F3>F1 SE E SOLO SE P2<P3. Rappresentiamo le due fitness nello spazio delle fitness e di p2. 0 P2* 1 P2 F1, F3. Da questo emergono due ordini di considerazioni. Il valore soglia di P2 (P2*) oltre il quale F3 diventa minore di F1 dipende dalle pendenze delle due rette, rispettivamente a per F1 e b per F3: (a – b) misura infatti il vantaggio che i tipi 1 hanno rispetto ai 3 per la presenza dei tipi 2 che sfruttano. Quindi minore è questo vantaggio, maggiore è la quota di tipi 2 che i tipi 3 possono tollerare Se a=b le due rette sarebbero parallele. Si nota che i tipi 3 perdono fitness con l’aumento dei tipi 2, e la differenza di fitness massima si ottiene in corrispondenza di P2 = 0. E’ il meccanismo che potremmo chiamare i figli delle rivoluzioni che uccidono i padri, perché li considerano troppo radicali, come i francescani di seconda generazione che rimossero Francesco dal governo dell’ordine, perché con il suo radicalismo impediva – a loro dire – lo sviluppo del francescanesimo più moderato e minacciava la morte stessa del movimento. Nell’ultimo scenario, ipotizziamo che la motivazione intrinseca, la componente non materiale dei pay-off, possa avere un effetto non solo sulla scelta ma anche sulla fitness. Finora non abbiamo fatto ciò per un senso di realismo. Eurialo puo persuadersi a vivere nella piena correttezza verso Niso perché attribuisce a tale comportamento un valore intrinseco. Se però poi non arrivano i risultati economici, se ho -- F3 >F1 <=> p1c +p2b  + p3b > p1c + p2a + p3c <=> p2pb + p3b > p2pa + p3c <=> p2 (b-a) > p3 (c-b) <=> p2 (a-b) < p3 (b-c) p2 < p3. Il valore soglia P2* è pari a P3, come sappiamo dal risultato.  F1 F3  -- ad esempio costi troppo elevati, la fitness di Eurialo ne risente. Ora però abbandoniamo questa semplificazione, e ipotizziamo che la fitness sia influenzata anche dalle motivazioni. Alcuni esperimenti dimostrano come i comportamenti ispirati da motivazioni intrinseche e da logiche di gratuità, oltre a non avere buoni sostituti - nel senso che in tali casi altre forme di incentivi monetari non funzionano - portano anche una maggiore efficienza in termini di risultati. Perché quindi non ipotizzare una fitness influenzata anche dalle motivazioni intrinseche? Le fitness del primo e del terzo tipo restano le stesse (questi due tipi non hanno motivazioni intrinseche), mentre cambia quella del tipo 2, dove la motivazione intrinseca è rappresentata da un ε > 0,29 che viene aggiunto ai pay-off materiali. Le fitness dei tre tipi diventano perciò le seguenti: h. F1 =p1(c) + p2 (a) + p3 (c) F2 =p1 (d) + p2 (b) + p3(b) + ε F3 = p1 (c) + p2 (b )+ p3 (b). Si dimostra che è possibile che la fitness dei tipi 2 sia maggiore anche di quella dei tipi 3. Vale infatti il: Risultato. SE VALGONO LE IPOTESI a. – d., f., h.: 1. F 2≥ F3, SE E SOLO SE ε≥ p1(C–D)31E 2. F2 ≥ F1, SE E SOLO SE ε≥ P1(C–D) + P2(A–B) + P3(C-B). C’è un rapporto diretto tra ε e (c –d) dove (c – d) misura il costo della coerenza per la fitness dei tipi 2, poiché è quanto questi perdono per essere coerenti con la loro cultura ottenendo “d” quando interagiscono con i tipi 1, invece di giocare, come i tipi 3, *non* coopera, ottenendo così “c”, che è maggiore di “d”. Il valore più piccolo che può assumere ε (cioè l’effetto materiale delle motivazioni intrinseche) affinché valga la disuguaglianza F2>F3, è ε* = p1 (c – d). Possiamo quindi osservare che, maggiore è il costo della coerenza (c – d), maggiore dovrà essere il valore-soglia ε*. Inoltre, c’è un rapporto diretto anche tra ε* e p1: se i tipi 1 sono, relativamente, molto numerosi, allora ε* dovrà essere più alto (e viceversa in caso contrario). Pensiamo, per fare un esempio, ad una impresa di Economia di Comunione che nel campo della legalità si comporta come un tipo 2. Paga le tasse, rispetta le leggi, per una norma etica alla quale attribuisce un valore intrinseco, non strumentale. Un tale imprenditore se opera in un mercato nel quale il costo della coerenza è molto alto o i soggetti opportunistici sono relativamente molti, per non estinguersi dovrà fare in modo che le proprie motivazioni etiche si traducano in maggiore fitness in una misura relativamente maggiore rispetto allo stesso imprenditore operante in un mercato più civile e dove i soggetti opportunisti sono meno. Come a dire che più un mercato, e una -- Rustichini e Gneezy -- A rigore potrebbe anche essere minore di 0. -- Ipotizziamo quindi che solo i tipi 2 e non i 3 “civili” abbiamo motivazioni intrinseche. F2 ≥F3 p1(d) + p2(b) + p3(b) + ε>p1c + p2b + p3b ε ≥ p1(c−d). F ≥ Fp(d) + p(b) + p(b) + ε≥p(c) + p(a)+p(c) 21123123  ε ≥ p1(c−d)+ p2(a−b)+ p3(c−b) -- società, premia i “furbi” (con condoni, ecc.) e penalizza i tipi cooperativi (con leggi che non riconoscono sgravi fiscali per le imprese sociale, ad esempio), più questi ultimi dovranno far sì che le motivazioni etiche si riflettano in maggiore efficienza, altrimenti non sopravvivono. Affinché valga invece la seconda disuguaglianza, F2 ≥ F1, il valore-soglia di ε, che chiameremo “ε ̊”, dovrà essere: ε ̊ = P1(C – D) + P2(A – B) + P3(C- B). E quale il rapporto tra i tipi 3 e i tipi 1? SE VALGONO LE IPOTESI DEL RISULTATO 4.1, F3 > F1, SE E SOLO SE P2 < P3 (b − c). (a − b) Come interpretare questo? (b – c) è il vantaggio dei tipi 3 rispetto ai tipi 1 (solo i tipi 3 co-operano con i tipi 2 ottenendo “b”), possiamo quindi chiamarlo il premio della cooperazione, mentre (a – b) è il vantaggio dei tipi 1 rispetto ai 3, perché è il premio dello sfruttamento che gli standard ottengono nei confronti dei tipi 2, al quale invece i tipi civili rinunciano. Dal Risultato 4.2. emerge un’affermazione a prima vista inquietante: affinché si affermino i tipi 3 (sui tipi 1) sarà necessario che i tipi 2 non siano troppi; in ogni caso questi ultimi potranno essere tanto più numerosi quanto più il “premio della cooperazione” sovrasta il “premio dello sfruttamento”. Se infatti i tipi 2 sono numerosi essi diventano pasto per i tipi 1, che hanno così un vantaggio relativo sui tipi civili. Il risultato potrebbe, infine, essere ulteriormente rafforzato se che quando un tipo 2 incontra un altro tipo 2 ottiene un di più dovuto alla reciprocità (il pay-off diventerebbe in questo caso a). i. F2=P1 (d)+P2(a)+P3(b)+ε La fitness dei tipi 2 potrebbe così essere maggiore di quella dei tipi 3 e 1 con un ε anche minore rispetto al valore di altro risultato. SE VALGONO LE IPOTESI DEL RISULTATO 4.1 E L’IPOTESI i. 1. F2≥F3, SE E SOLO SE ε≥ p1(C–D)+P2(B–A) E 2. F2≥F1, SE E SOLO SE ε≥P1(C–D)+P3(C-B). “ε**” e il valore soglia di ε, affinché valga la disuguaglianza F2≥F3 e, ricordando che la quantità (b – a) è negativa, possiamo subito notare che ε**≤ ε*. Similmente, ε ̊ ̊ =  p1 (c – d) + p3(c –b) è minore di ε ̊. Le motivazioni intrinseche e il di più della reciprocità si rafforzano a vicenda e rappresentano una strada molto interessante per esplorazioni. F<F p(c)+p(a)+p(c)<pc+b+pbp<p(b−c). 1312312323(a−b). F2 ≥F3 p1(d)+p2(a)+p3(b)+ε≥p1c +p2b + p3b ε ≥ p1(c−d)+ p2(b−a). F ≥Fp(d)+p(a)+p(b)+ε≥p(c)+p(a)+p(c) 21123123ε ≥ p1(c−d)+ p3(c−b).  Riassumiamo i punti ai quali siamo giunti ragionando, con l’aiuto della teoria dei giochi, attorno alle prospettive e alle sfide di uno scenario economico nel quale fanno la loro comparsa soggetti diversi da quello standard. Un primo punto emerso in diverse parti di questo scritto è che un agire economico improntato alla gratuità e alla reciprocità, o alla comunione, in un ambiente abitato da agenti eterogenei non cresce con la politica dell’aumento numerico: escludendo l’ipotesi di perfetta riconoscibilità dei tipi, l’aumento numerico, di per sé non basta a far sì che i tipi 2 sopravvivano. Sono invece tre gli aspetti strategicamente cruciali affinché esperienze rette da una logica come quella delineata possano svilupparsi. Lavorare sulla cultura media della società (che noi abbiamo espresso con il “terzo tipo”, quello civile): il messaggio che emerge una volta che abbiamo esteso la dinamica ai terzi tipi è che i tipi 2 possono sopravvivere e svilupparsi soltanto all’interno di un’economia civile, un’economia nella quale sono numerosi gli agenti leali, che pur non attribuendo un alto valore intrinseco all’azione donativa (e quindi non hanno “donare” come strategia strettamente dominante in tutti i tipi di gioco), sono comunque corretti se incontrano un agente co-operativo, non lo sfruttano e co-operano con esso. Poiché le motivazioni intrinseche dipendono in parte dall’approvazione sociale, esiste un effetto di complementarietà strategica. Tanto più tali comportamenti sono diffusi, tanto più saranno premianti36. Infatti, uno sviluppo interessante del modello potrebbe essere quello di vedere sotto quali condizioni i tipi 1 possono trasformarsi evolutivamente in tipi civili, ma in questo scritto non lo abbiamo fatto. Va comunque aggiunto che se è vero che un impegno culturale che si limita a rafforzare le motivazioni intrinseche dei soggetti di tipo 2 non può bastare, al tempo stesso, però, questa seconda direzione ricopre un ruolo fondamentale, per evitare che nel tempo scompaia il tipo 2 e ci si assesti sul terzo tipo. Un mondo senza soggetti che, *almeno in certi contesti* -- ceteris paribus --, *donano* *incondizionalmente*, sarebbe un mondo più povero. La presenza dei due tipi civili e griceiani – Eurialo e Niso -- ci dice che nel tempo saranno questi ultimi gli unici a sopravvivere, a meno che le motivazioni intrinseche si riflettano nei pay-off ed il loro “riflesso” sia relativamente grande. Questo risultato è già di per sé significativo. Anche se in determinati contesti la motivazione intrinseca non riesce a migliorare la performance dei tipi 2, la presenza, magari solo transitoria, dei tipi 2 svolge un importante ruolo civile e culturale: permette cioè che l’incontro (o equilibrio) si assesti sulla reciprocità e non scivoli nella mutua diffidenza. Senza l’esistenza dei tipi 2, o, paradossalmente, senza il loro sacrificio, i tipi civili non avrebbero potuto sperimentare la reciprocità, perché in un mondo popolato solo da loro e da tipi standard, l’unica esperienza possibile è la diffidenza reciproca, la *non* cooperazione (war is war). Ciò serve a gettar luce sul significato culturale e civile che nella storia hanno esperienze radicali -- Ciò implica la possibilità di equilibri multipli ordinabili, cioè la stessa popolazione può essere altamente inefficiente o altamente efficiente a seconda che un numero anche piccolo, al limite anche un solo soggetto, decida di cooperare. 37 E’ infatti verosimile che i tipi 3, quelli civili, abbiano nel loro “programma” la possibilità della cooperazione perché nell’ambiente esiste, o è esistito, il tipo 2: certo si potrebbe teoricamente ipotizzare che i tipi 3 co-operino tra loro anche in assenza dei tipi 2. Ma, storicamente, la cultura civile dell’umanità è andata avanti grazie all’esistenza di esperienze *totalitarie* che hanno creato categorie nuove che poi hanno contaminato la cultura generale. Pensiamo, ancora una volta, alla regola d’oro, o, più recentemente, ai movimenti ecologisti -- come la comunione dei beni totale, certe forme di accademie o monachesimo, e in generale i primi tempi dei fondatori di nuovi carismi (si pensi, per tutti, ad un Francesco d’Assisi e alla sua vicenda storica. Simili esperienze non sempre sono riuscite a sopra-vivere con tutta la loro radicalità, ma senza di quelle chi è venuto in contatto con loro (nella nostra metafora, i “tipi civili”) non avrebbero potuto elevare il livello della convivenza Senza coloro che si sono fatti imprigionare, e hanno dato la vita per i diritti o per la libertà, oggi l’umanità – il tipo umano personale di Grice -- sarebbe meno libera e meno diritti sarebbero riconosciuti. Un po’ come avviene con il sale, che si perde nella massa ma dà quel di più al tutto. La metafora del sale non è però l’unica presente in quel codice della cultura occidentale che è il Vangelo: vi è anche quell della città sul monte, una città che illumina la città sotto monte. La dinamica evolutiva potrà condurre l’economia sociale, e l’economia di comunione, o sul sentiero sale della terra o in quello città sul monte. Ma, in entrambi i casi, occorre che la cultura rafforzi le motivazioni intrinseche. E forse questo il messaggio culturale che il giocco conversazionale griceiano vuole dare. Araujo, V.“Quale visione dell’uomo e della società?”, in Bruni, L. e V. Moramarco (a cura di), L’Economia di comunione: verso un agire economico a misura di persona, Milano: Vita e Pensiero. Aristotele, Etica Nicomachea, Milano: Rusconi. Axelrod, R. The evolution of cooperation, New York: Basic Books. Binmore, K. Game theory and social contract, Cambridge Mass: MIT Press, Vol. II. Bowles, S. et al. In Search of Homo Economicus: Behavioural Experiments in 15 Small Scales Societies, American Economic Review, 91, Bruni, L. La felicità e gli altri, Città Nuova, Roma. Bruni, L. e R. Sugden, Moral canals: trust and social capital in the work of Hume, Smith and Genovesi, Economics and Philosophy, Bruni L. e V. Pelligra, Economia come impegno civile, Roma: Città Nuova. Crivelli, L. Quando l’homo oeconomicus diventa reciprocans”, in Bruni e Pelligra. Dawkins, R. The selfish gene, Oxford University Press, Oxford. Frank, R. Microeconomia, Milano: McGrow-Hill. Elster, J. The cement of society. A study of social order, Cambridge: CUP. Gneezy, U. e A. Rustichini. A fine is a price, Journal of Legal studies, January. Gui, B. Economic interactions as encounters, mimeo, Università di Padova. Hollis, M. Trust within reason, Cambridge: CUP. Nussbaum, M. C. The fragility of goodness: Luck and Ethics in Greek tragedy and Philosophy, Cambridge: CUP. Pelligra, V. Fiducia r(el)azionale, in Sacco P.L. e S. Zamagni. Putnam, R. Bowling Alone, New York: Simon e Schuster. Sacco P.L. e S. Zamagni. Un approccio dinamico evolutivo all’alturismo”, RISS, Sacco P.L. e S. Zamagni. Complessità relazionale e comportamento economico, Bologna: Il Mulino. Sen, A. Isolation, assurance and the social rate of discount”, Quarterly Journal of Economics. Sugden, R. The Evolutionary Turn in Game Theory, Journal of Economic Methodology, Weibull, J. Evolutionary Game Theory, Cambridge MA: MIT Press. Zanghì, G. Dio che è amore, Roma: Città Nuova. Luigi Alici. Keywords: reciproco, alici, amore proprio ed amore altrui, self-love and other-love – il paradosso della reciprocita – eurialo e niso – noi – condividere la deliberazione – eidolon – comunita, immunita, genovesi, il canale morale, la fidanza e il capitale sociale in Genovesi. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alici” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Grice ed Alighieri – filosofia italiana – filosofia toscana – filosofia fiorentina – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. dante. Grice: “Problem with having Alighieri as a philosopher is that rhyming is not usually considered a priority – that’s why the old Romans like Lucrezio never had to rhyme – you might say metre is essential to Parmenide and Lucrezio – and that there is metre in my prose if not in endecasibili!” -- Grice: “This is important for an Oxonian; since Sir Peter once told me that he made an effort to understand Italian – ‘or Tuscan implicature,’ to be more precise – just to be able to digest Inferno compleat with rhyme.’” Grice: “Must say that my favourite Dante is ‘lasciate ogni speranza voi ch’entrate.”” Grice: “The Italians, all being Renaissance men, love to catalogue as ‘philosopher’ those whom the head of the Sub-Faculty of Philosophy at Oxford would NOT: Alighieri, one of them!” Grice: “But then, a sport of Italian philosophers is to ramble on “Pinocchio,” too!” -- “The Commedia and philosophy.” Liste di opere in Wiki.  Refs.: “Philosophical references in Dante’s Commedia.”  v.17. Sevolemeguardare in LINGUAD'oco ein LINGUA DI si, ec.e Pag.69. D’oco,ec.N o n giudico superfluo ildire alcuna cosa su questa v.2. Massimamente quelli di LINGUA denominazione a,ncorchè ne sia stato già parlato da altri. Era costume de'nostri antichi,volendo essi denominare il linguaggio d 'una nazione, prendere il suo distintivo dalla particel. la affermativa del volgare di quella gente. Per tanto la lin gua Italiana si diceva la lingua del si, la Tedesca dell' io, la Franzese dell’oi, la provenzale dell’hoc. Eco sì si va d a discorrendo dell'altre lingue.IlVarchịnel TuoErcolano ac.335. facendosi interrogare dal Conte BaldaflarCastiglionesul parti colare della lingua Italiana, con queste parole: Cbi la cbie mase lalinguadelsi? risponde:seguiterebbeuna largbiffimodi. vifione,chehofa dellelingue,nominandole daquellaparticella, collaqualeaffermano,comeèlalinguad'hoc,chiamatada volgari lingua d'oca; perciocchè hoc in quella lingua fignifica quanto væí nella Greca, e etiam ita mella Lasina, & pelle soffre si; •perciò Dantedife: Ab Pifa, vitupero delle gesti Del belpaese là, dove 'lsifuona. Ed avanti al Varchi Benvenuto da Imola su questo medesimo luogo: Quiageneraliteromnisgens Italicautunturifto vulgari sì; ubi Germani dicunt io, do aliqui Gallici dicunt oi, do aliqui Pedemontani dicunt ol vel dic: leggo foc credendolo errore del copista nel M Ş. Laurenziano Derivano tutte queste particelle dal latino, Il “si” nostro dal sico sic est, eforse più interamenteda sicestbec, od al contrario da hoc eftfoc. L'altra di queste voci fu presa da' provenzali, cioè l'hoc: e da questa fu non solamente illor parlare denominato “lingua d'oco”, che vale a dire lingua dell'hoc. Ma il paese ancora “Linguadoca”.  e ne'tempi più balli della latina lingua fu detto “Occitania”, ilqual paese non è altro che l'antica Gallia Narbonensis. Lo io del Tedesco da illudbocest, ed in più perfetta pronunzia “ja”, forse dall'”iam est”. Il Franzese ai, dall “hec illud est”, che bene si ritrova nell'antico “ouill”, che adesso è diventato “oui”. Ed in somma il piemontese ol, dall'istesso “hoc illud”. Sicché, a proposito del passo di Dante, in lingua d’oco, e in lingua di sì, vuol dire in lingua provenzale, ed in lingua Italiana. V. 24. concioffiacbè. l. conciosracofache. Lingua, dal lat. 'lingua', voce usata in due signif. principal nel signif. propr., per quell'organo mobilissimo del corpo anide che è posto nella bocca ove si stende dall'osso joide fin dietro denti incisivi. Essa è la sede del senso del gusto, serve alla funzione del succhiare, alla masticazione, alla deglutizione, alla pronuncia delle parole, ed allo sputare.Varia molto nella grandezza ha la forma d'una piramide, appianata dall'alto al basso, rotonda su i suoi angoli, e terminata da certa punta ottusa che guarda ne davanti. E 'lingua' vale pure idioma, linguaggio, favella. Alighieri usa 'lingua' nei due suoi signif. principali spesse volte nelle sue opere, nel secondo signif. specialmente nel Vulg. El. Nella Div. Com. 'lingua' si trova 30 volte --19 nell'Inf.(II, 25; X1,72; IIV, XV, 87; XVII, 75; XVIII, 60,126; XXI, 137; XXII, 90; xxx,133; IITL 72, 89; XXVII, 18; XXVIII, 4, 101; xxx, 122; XXXI, 1; XXIII, 9, 1146; 3 volte nel Purg (vii, 17; XI, 98; xix,13) e 8 volte nel Par. 63; X1, 23; XVII, 87; XXIII, 55; XXVI, 124; XXVII,131; XXXIII,70,708). Sulle dottrine d'Alighieri concernenti la lingua, cioè il linguaggio umano, conviene rimandare al Vulg. El., specialmente al libro I di quest'opera. Si notino i seguenti usi. Lingua, riferito a sete; Inf. xxx, 122. Trarre la lingua, per Spingerla fuori della bocca; atto di SPREGIO; Inf. xvii, 75.-3. Mostrare ciò che puote una lingua, per Condurre un idioma all'apice della sua perfezione; Purg. VII, 17.-4. Scernere nella lingua, le parole dette o scritte; Purg. XV, 87.-5. La gloria della lingua, Il pregio d'un idioma, e la maestria dell'usarlo; Purg. XI, 98.-6. Alighieri chiama la lingua italiana lingua di sì, la provenzale lingua d'oc, la francese lingua d'oil;Vulg. El. 1, 8, 30 eseg.; cfr. Vit. N. xxv, 24 e seg.-7. Concernente la lingua primitiva Alighieri esterna in diversi tempi dee opinioni diverse. Secondo Vulg. El. I, 6, 29 e seg. la lingua dei primi parenti fu parlata da tutti i loro discendenti sino alla edificazione della torre di Babele, e dagli Ebrei anche dopo, onde la lingua primitiva fu semplicemente l'ebraica. Invece secondo Par. XXVI, 124 e seg. la lingua primitiva, parlata da Adamo, fu tutta spenta già prima della confusione babilonica, non ha dunque che fare nè coll'ebraica nè con altre lingue.-8. Anche in merito alla maggiore o minor nobiltà delle lingue latina e volgare Aligheri muta opinione. Secondo Conv. I, 5, 76 e seg. il latino è più bello, più virtuoso e più nobile del Volgare. Invece, secondo Vulg. El. 1, 1,  il volgare è più nobile del Latino. La seconda opinione è tutta propria d'Alighieri e segna un progresso nello svolgimento del suo pensiero. La prima era l'opinione dominante del tempo, accettata anche d'Alighieri, finchè i suoi studi lo indussero a lasciarla. La tèrra d’Occitania a gardat fin a aüra un immense patrimòni gropat simplament a sa lenga, una lenga qu’es istaa la primiera, comà es ressauput, naissuá dal latin, a èsser escrita, una lenga que vuèlh soventar, a donat vita a la primiera literatura moderna europencha, quèla qu’a servit de model per totas las autras lengas, qu’aviá trobat dau l’acomençament sa forma escrita, fòrça unitaria.  Es pas aicí lo luòc adont percorrer l’istòira de nòstra lenga faça als colonialismes qu’an empachat la creacion d’una lenga e de istitucions politicas unitarias mas la retrobaa unitarietat culturala de la tèrra occitana en cèstos darrieri ans a fait creisser un’ideá, beleu un utopiá, quèla de una Nacion, malaürament sença estat, de una Nacion culturala.  Lo mot Occitaniá, ben conoissut fin a la Rivolucion, a retrobat sa modernitat geografica, istorica, lingüistica. Malaürosament nòstra lenga ilh es aüra, apres mila ans, entren de se perdre, de se esvantar al solelh. Un procés qu’a començat a partir dal segle XVI, quand nòstra tèrra occitana a perdut definitivament son autonomiá. Quèlos que los expecialistas de la lenga noman gallicismes, an começat penetrar en Occitaniá sobretot a partir de l’ordonança de Villers-Cotterêts dal 15 d’aost dal 1539, quand lo francés es devengut lenga uficiala de la lei e de l’administracion francesa.  Eissubliaa la cultura dal Meianatge, quèla, per se comprener, dals trobaires, la lenga occitana es chaüta dins l’umbla condicion de, e zo dizo abó una paraula francésa, patois, patés. Cèsta paraula la vòl dire parlar abó las pautas, abó los pès.  Dins las Valadas avem perdut la valor de la paraula patois e l’anobrem tranquilament per dire que parlem a nòstra mòda, comà la se ditz dins tantas valadas. Mas lo mot patois pòl indicar qualsevuèlhe parlar natural dal mond, sença donar una precisa indicacion sus la lenga parlaa. Per aiquò Occitan es l’unica paraula que pòl servir per nomar nòstra lenga, l’unica que rend justiça a mila ans d’istòira. Pas mens de viatge sabem pas de adont arriba nòstre vocabolari, quala istòira an nòstras paraulas.  Comà bien sabon, la plus part dal vocabolari es d’origina latina, comun a quasi totas las lengas romanzas. Un’autra partiá dal vocabolari ven dal grec e decò aicí zo partagem abó las autras lengas; un’autra encara nos ven de las lengas alemandas o germanicas, de quèlos puèples qu’an envaít l’Imperi roman. Resta una fòrta presença de paraulas que beleu nos venon de las lengas parlaas dins nòstros territòris quand los romans sion arribats en çò nòstre: de lengas de sobstrat, que normalment partatgem en lengas anarias, al es a dire d’ancianas lengas mediterranèa comà lo ligure, l’etrusc o de lenga arias pre-latinas comà lo gallic o la lenga celta.  Comà la se pòl comprener sien drant a un tresaur lexical en partiá ben conoissut, mas adont los trabalhs lexicologics abondan pas e adont de ensemb lingüistic comà l’occitan alpec, nomat a son temps vivarò-alpenc, reston mal conoissut.  Comà a escrit Robert A. Geuljan dins son Dictionnaire Etymologique de la Langue d’Oc, en ligna, l’occitan “est la seule grande langue romane dépourvue d’un Dictionnaire Etymologique.   Volem pas de segur far concorrença al trabalh qu’es istat entrenat per lo Prof. Geuljan, mas prepausar de trabalhs sus l’etimologiá de paraulas pas gaire conoissuás de nòstra Valadas e de l’encemb occitano-alpenc per arribar, dins lo temps, a la redaccion d’un Diccionari Etimologic de l’Occitan Alpenc.  Pas mens nòstre Diccionari Etimologic sarè bilengas, es a dire li aurè una partiá entierament en lenga occitana e una traducion italiana. Escriure un Diccionari sus nòstra lenga adont per chasca paraula la se dona la traduccion dins una lenga diferenta de la nòstra me sembla una chausa que vai contra la lenga meseima.  Pensatz a un vocabolari de l’italian o dal francés o de un’autra lenga adont la descripcion de la paraula siè dins un’autra lenga.  Per l’occitan pareis siè la nòrma. Lo Tresor dóu Felibrige de Mistral, lo vocabolari de Alibert comà tuts los autri que sion istats realizats dins cèstos ans donan la paraula en occitan, mas tota la descripcion, e pas mesquè la traducion, dins un’autra lenga, o lo francés o l’italian.  Per far un autre exemple, plus recent, cito un grand trabalh de lexicografia comà quel de Jusiana Ubaud, adont tota l’introduccion e la descripcion de l’òbra es en francés. Perquè un’obra sus la lenga occitana deu èsser ilustraa en se servent d’un’autra lenga? Cèstos diccionaris rintran dins la categoriá dals vocabolaris “dialectals”; meseime los pauqui vocabolaris fait aicí dins las Valadas, normalment de l’occitan local a l’italian, rintran dins aicèsta categoriá.  Los catalans non pas, nos mostran, abó sos Diccionaris, que se pòion justament redigir de diccionaris completament en lenga sença la sugecion d’un autra lenga, comà totas las autras lengas nacionalas.  Per aiquò, en cèst espaci, en cèsta rubrica, chercharem de esclarzir l’origina de certenas paraulas, beleu pas gaire conoissuás, de nòstre vocabolari. ON ritrovando io, che alcuno avanti me abbia della volgare eloquenzia niuna cosa trattato. E vedendo questa cotal eloquenzia es sere veramente necessaria a tutti; conciò sia che ad essa non solamente gli uomini, ma ancora le femine, & i piccoli fanciulli, in quanto la natura permette, sisforzino pervenire: e volendo al quanto lucidare la discrezione di coloro, i quali come ciechi passeggiano per le piazze, e pensano spesse volte, le cose posteriori essere anteriori; con loaiuto, che Dio cimanda dal cielo, ci sforzeremo di dar giovamento al parlare delle genti volgari. Nè solamente l'acqua del nostro ingegno a si fatta bevanda piglie  ma  remo, ma ancora pigliando, ovvero compilando le cose migliori da gli altri, quelle con le nostre mescoleremo, acciò che d'indi possiamo dar bere uno dolcissimo idromele. Ora perciò che ciascuna dottrina deve non provare, aprire il suo suggetto,acciò si sappia che co sa sia quella,ne la quale essa dimora,dico, che 'l Parlar Volgare chiamo quello,nel quale i fanciulli sono assuefatti da gli assistenti, quan do primieramente cominciano a distinguere le voci,o vero,come piùbrevemente sipuò dire, ilVolgar Parlare affermo essere quello,ilquale senza altra regola, imitando la balia, s'appren de.Ecci ancora un altro secondo parlare il quale i romani chiamano “letteratura” (greco: grammatica). E questo se condario hanno parimente i greci & altri, ma non tutti; perciò che pochi a l'abito di esso pervengono; conciò sia che, se non per spazio di tempo & assiduità di studio, si ponno pren dere le regole, e la dottrina di lui. Di questi dui parlari adunque ilVolgare è più nobile,si perchè fu il primo che fosse da l'umana gene razione usato, si eziandio perchè in esso tut to'lmondo ragiona",avegna che in diversi vocaboli e diverse prolazioni sia diviso; si a n cora per essere naturale a noi, essendo quel l'altro artificiale: e di questo più nobile è la nostra intenzione di trattare. Il testo latino ha: ipsa (locutione) perfruitur; ossia: di esso si serve.  non dico nostro,perchè altro parlar ci sia che quello dell'uomo; perciò che fra tutte le cose che sono, solamente a l'uomo fu dato il parlare,sendo a lui necessario solo.Certo non a gli angeli, non a gli animali inferiori fu ne cessario parlare; adunque sarebbe stato dato invano a costoro, non avendo bisogno di esso. E la natura certamente abborrisce di fare cosa alcuna invano. Se volemo poi sottilmente con siderare la intenzione del parlar nostro,niun'al tra ce ne troveremo, che il manifestare ad altri i concetti de la mente nostra.Avendo adunque gli angeli prontissima, & ineffabile sufficienzia d'intelletto da chiarire i loro gloriosi concet ti, per la qual sufficienzia d'intelletto l'uno è totalmente noto all'altro, o per sè, o almeno per quel fulgentissimo specchio,nel quale tutti sono rappresentati bellissimi, & in cui avidis simi sispecchiano; pertantopare, chediniuno segno di parlare abbiano avuto mestieri.Ma chi opponesse a questo, allegando quei spi riti, che cascarono dal cielo; a tale opposi zione doppiamente si può rispondere. Prima, che quando noi trattiamo di quelle cose, che Sono  Che l'uomo solo ha il comercio del parlare. Uesto è il nostro vero e primo parlare: Q a bene essere, devemo essi lasciar da 3   parte, conciò sia che questi perversi non vol lero aspettare la divina cura. Seconda rispo sta,e meglio è,che questi demoni a manife stare fra sè la loro perfidia, non hanno bisogno di conoscere, se non qualche cosa di ciascuno, perchè è, e qua nto è 1: il che certamente s a n no; perciò che si conobbero l'un l'altro avanti la ruina loro. A gli animali inferiori poi non fu bisogno provvedere di parlare; conciò sia che per solo istinto di natura siano guidati.E poi tutti quelli animali, che sono di una medesima specie, hanno le medesime azioni, e le m e d e sime passioni; per le quali loro proprietà p o s sono le altrui conoscere; m a a quelli che sono di diverse specie, non solamente non fu neces sario loro il parlare, ma in tutto dannoso gli sarebbe stato, non essendo alcuno amicabile comercio tra essi. E se mi fosse opposto che il serpente che parlò a la prima femina, e l'a sina di Balaam abbiano parlato, a questo ri spondo, che l'angelo ne l'asina, & il diavolo nel serpente hanno talmente operato, che essi animali mossero gli organi loro; e così d'indi la voce risultò distinta, come vero parlare; non che quello de l'asina fosse altro che rag ghiare e quello del serpente altro che fischiare.   ·Il testo ha: non indigent,nisiutsciantquilibetde quolibet, quia est, et quantus est. Parrebbe più proprio iltradurre cosi:non hanno bisogno di conoscere,se non ciascheduno di ciaschedun altro,che è,e quanto è: ossia l'esistenza e il grado.   Se alcuno poi argumentasse da quello,che Ovi dio disse nel quinto de la Metamorfosi, che le piche parlarono; dico che egli dice questo figu ratamente,intendendo altro:ma se si dicesse che le piche al presente & altri uccelli parlano, dico ch'egli è falso; perciò che tale atto non è parlare, m a è certa imitazione del suono de la nostra voce; o vero che si sforzano di imitare noi in quanto soniamo,ma non in quanto par liamo. Tal che se quello che alcuno espressa mente dicesse, ancora la pica ridicesse, questo non sarebbe se non rappresentazione, o vero imitazione del suono di quello,che prima avesse detto.E così appare,a l'uomo solo essere stato dato il parlare; m a per qual cagione esso gli fosse necessario, ci sforzeremo brievemente trattare. Che fu necessario a l'uomo il comercio Ovendosi adunque l'uomo non per istinto di natura,ma per ragione;& essa ra gione o circa la separazione, o circa il giudi dizio, o circa la elezione diversificandosi in ciascuno;tal che quasi ogni uno de la sua propria -- La voce del testo discretio sarebbe resa meglio dalla parola discernimento -- del parlare -- specie s'allegra; giudichiamo che niuno intenda l'altro per le sue proprie azioni, o p a s sioni, come fanno le bestie; nè anche per speculazione l'uno può intrar ne l'altro,come l'an gelo, sendo per la grossezza, & opacità del corpo mortale la umana specie da ciò ritenuta. Fu adunque bisogno, che volendo la genera zione umana fra sè comunicare i suoi concetti, avesse qualche segno sensuale e razionale; per ciò che dovendo prendere una cosa da la ra gione, e ne la ragione portarla, bisognava es sere razionale; ma non potendosi alcuna cosa di una ragione in un'altra portare,se non per il mezzo del sensuale, fu bisogno essere sen suale, perciò che se 'l fosse solamente razio nale,non potrebbe trapassare;se solo sensuale, non potrebbe prendere da la ragione, nè ne la ragione de porre. E questo è segno che il subietto, di che parliamo, è nobile; perciò che in quanto è suono,egli è per natura una cosa sensuale;& inquanto che,secondolavolontà di ciascuno, significa qualche cosa, egli è ra zionale 1. Iltestoha:Hoc equidem signum est,ipsum sub jectum nobile,dequoloquimur:naturasensualequi dem, in quantum sonus est, esse; rationale vero, in quantum aliquid significare videtur ad placitum. A noi pare più giusto l'interpretare questo passo cosi. Questosegno (l'aliquod rationale signum et sensuale, di cui ha parlato poche righe più sopra ) è per l'appunto il nobile soggetto di cui parliamo: sensuale, per n a tura,in quanto èsuono;razionale,inquantoche,se   cheuomofuprimadatoilparlare, echedisseprima,& inchelingua. l'uomo solo fu dato il parlare. Ora istimo che appresso debbiamo investigare, a che uomo fu prima dato ilparlare,e che cosa prima disse, & a chi parlò, e dove e quando, & eziandio in che linguaggio il primo suo parlare si sciol se. Secondo che si legge ne la prima parte del Genesis, ove la sacratissima Scrittura tratta del principio del mondo, si truova la femina, primacheniunaltro,aver parlato,cioèlapre sontuosissima Eva, la quale al diavolo, che la ricercava, disse, « Dio ci ha commesso, che non mangiamo del frutto del legno che è nel mezzo del paradiso, e che non lo tocchiamo, acciò che per avventura non moriamo.» Ma a vegna che in scritto si trovi la donna aver pri mieramente parlato,non di meno è ragionevol cosa che crediamo, che l'uomo fosse quello, che prima parlasse. Nè cosa inconveniente mi pare condo la volontà di ciascuno, significa qualche cosa. Contro la quale interpretazione stala punteggiatura, e la voce esse del testo,che sarebbe di troppo; ma,per com penso, il brano riesce più chiaro, e si collega meglio col senso di tutto il Capitolo. 9  Anifesto è per le cose già dette, che a pensare,che così eccellente azione de la il   generazione umana prima da l'uomo,che da la femina procedesse. Ragionevolmente adunque crediamo ad esso essere stato dato primiera mente il parlare da Dio,subito che l’ebbe for mato.Che voce poi fosse quella che parlò prima, a ciascuno di sana mente può esser in pronto; & io non dubito che la fosse quella, che è Dio, cioè Eli, o vero per modo d'interrogazione, o per modo di risposta.Assurda cosa veramente pare,e da la ragione aliena,che da l'uomo fosse nominata cosa alcuna prima che Dio; con ciò sia che da esso,& in esso fosse fatto l'uo mo.E siccome,dopolaprevaricazionedel'u m a n a generazione, ciascuno esordio di parlare comincia da heu; così è ragionevol cosa, che quello che fu davanti, cominciasse da alle grezza,e conciò sia che niun gaudio sia fuori diDio,ma tuttoinDio,& essoDio tuttosiaal legrezza, conseguente cosa è che 'l primo p a r lante dicesse primieramente Dio. Quindi nasce questo dubbio,che avendo di sopra detto, l'uomo aver prima per via di risposta parlato, se risposta fu, devette esser a Dio; e se a Dio, parrebbe,che Dio prima avesse parlato,ilche parrehbe contra quello che avemo detto di sopra. Al qual dubbio risponderemo,che ben può l'uo mo averrispostoa Dio, che lointerrogava,nè per questo Dio aver parlato di quella loquela, che dicemo.Qual è colui,che dubiti,che tutte le cose che sono non si pieghino secondo il voler diDio,da cuièfatta,governata,econservata   ciascuna cosa? É conciò sia che l'aere a tante alterazioni per comandamento della natura in feriore si muova, la quale è ministra e fattura di Dio,di maniera che fa risuonare i tuoni, ful gurare il fuoco, gemere l'acqua, e sparge le nevi, e slancia la grandine; non si moverà egli per comandamento di Dio a far risonare al cune parole le quali siano distinte da colui, che maggior cosa distinse?e perchè no? Laon de & a questa, & ad alcune altre cose credia mo tale risposta bastare. Dove,& a cuiprima l'uomo abbiaparlato. ta così da le cose superiori, come da le inferiori), che il primo uomo drizzasse il suo primo parlare primieramente a Dio, dico, che ragionevolmente esso primo parlante parlò s u bito,che fu da la virtù animante ispirato: per ciò che ne l'uomo crediamo,che molto più cosa umana sia l'essere sentito che il sentire, pur che egli sia sentito,e senta come uomo. Se adunque quel primo fabbro, di ogni perfezione principio & amatore,inspirando il primo uomo con ogni perfezione compi, ragionevole cosa mi pare, che questo perfettissimo animale non prima cominciasse a sentire, che 'l fosse sen tito. Se alcuno poi dicesse contra le obiezioni, Iudicando adunque (non senza ragione trat che non era bisogno che l'uomo parlasse, es sendo egli solo; e che Dio ogni nostro segreto senza parlare, ed anco prima di noi discerne; ora (con quella riverenzia, la quale devemo usare ogni volta,che qualche cosa de l'eterna volontà giudichiamo),dico,che avegna che Dio sapesse, anzi antivedesse (che è una medesima cosa quanto a Dio) il concetto del primo parlante senza parlare, non di meno volse che esso parlasse; acciò che ne la esplicazione di tanto dono, colui, che graziosamente glielo avea do nato,se ne gloriasse.E perciò devemo credere, che da Dio proceda, che ordinato l'atto de i nostri affetti, ce ne allegriamo. Quinci possiamo ritrovare il loco, nel quale fu mandata fuori laprimafavella;perciòchesefuanimato l'uo m o fuori del paradiso, diremo che fuori: se dentro, diremo che dentro fu il loco del suo primo parlare. Ra perchè i negozj umani si hanno ad esercitare per molte e diverse lingue, tal che molti per le parole non  intesi da molti,che se fussero senza esse; però fia buono investigare di quel parlare, del quale si crede aver usato l'uomo, che nacque senza sono altrimente 1 Di che idioma prima l'uomo parld, e donde fu l'autore di quest'opera.   madre, e senza latte si nutri, e che nè pupil lare età vide,nè adulta.In questa cosa,sì come in altre molte, Pietramala è amplissima città, e patria de la maggior parte dei figliuoli di Adamo.Però qualunque si ritrova essere di cosi disonesta ragione, che creda, che il loco della sua nazione sia il più delizioso, che si trovi sotto il Sole, a costui parimente sarà licito preporre il suo proprio volgare, cioè la sua materna locuzione,a tutti gli altri; e conse guentemente credere essa essere stata quella diAdamo.Ma noi,acuiilmondo èpatria, sì come a'pesci il mare, quantunque abbiamo bevuto l'acqua d'Arno avanti che avessimo denti,e che amiamo tanto Fiorenza, che pe averla amata patiamo ingiusto esiglio, non dimeno le spalle del nostro giudizio più a la ragione che al senso appoggiamo. E benchè se condo il piacer nostro, o vero secondo la quiete de la nostra sensualità, non sia in terra loco più ameno di Fiorenza;pure rivolgendo i vo lumi de'poeti e de gli altri scrittori, ne i quali il mondo universalmente e particularmente si descrive, e discorrendo fra noi i varj siti dei luoghi del mondo, e le abitudini loro tra l'uno e l'altropolo,e'lcircolo equatore,fermamente comprendo, e credo, molte regioni e città es sere più nobili e deliziose che Toscana e Fio renza, ove son nato, e di cui son cittadino; e molte nazioni e molte genti usare più dilette vole, e più utile sermone, che gli Italiani. Ritornando adunque al proposto, dico che una certa forma di parlare fu creata da Dio insie me con l'anima prima,e dico forma, quanto a i vocaboli de le cose,e quanto a la construzione de'vocaboli, e quanto al proferir de le con struzioni; la quale forma veramente ogni par lante lingua userebbe, se per colpa de la pro sunzione umana non fosse stata dissipata, come di sotto si mostrerà. Di questa forma di par lare parlò Adamo, e tutti i suoi posteri fino a la edificazione de la torre di Babel, la quale si interpreta la torre de la confusione. Questa forma di locuzione hanno ereditato i figliuoli di Heber, i quali da lui furono detti Ebrei; a cui soli dopo la confusione rimase, acciò che il nostro Redentore, il quale doveva nascere di loro,usasse,secondo laumanità,dela lin gua de la grazia, e non di quella de la confusione. Fu adunque lo ebraico idioma quello, che fu fabbricato da le labbra del primo par lante. ' Il testo ha: qui ex illis oriturus erat secundum humanitatem,non lingua confusionis, sed gratiæ frue retur.E deve tradursi: il quale dove vanascere di loro secondo l'umanità, usasse della lingua della grazia, e non di quella della confusione. Hi come gravemente mi vergogno di rin  15 e per De la divisione del parlare in più lingue. A en ta nerazione umana: ma perciò che non possia mo lasciar di passare per essa, se ben la fac cia diventa rossa, e l'animo la fugge, non starò di narrarla. Oh nostra natura sempre prona ai peccati, oh da principio, e che mai non finisce, piena di nequizia; non era stato assai per la tua corruttela, che per lo primo fallo fosti cacciata, e stesti in bando de la p a tria de le delizie? non era assai, che per la universale lussuria, e crudeltà della tua fami glia, tutto quello che era di te, fuor che una casa sola, fusse dal diluvio sommerso, il male, che tu avevi commesso, gli animali del cielo e de la terra fusseno già stati puniti? Certo assai sarebbe stato; ma come prover bialmente si suol dire,Non andrai a cavallo anzi terza; e tu misera volesti miseramente andare a cavallo.Ecco,lettore, che l'uomo, o vero scordato,o vero non curando de le prime battiture, e rivolgendo gli occhi da le sferze, che erano rimase, venne la terza volta a le botte, per la sciocca sua e superba prosunzio ne. Presunse adunque nel suo cuore lo incu rabile uomo, sotto persuasione di gigante, di superare con l'arte sua non solamente la na tura,ma ancoraessonaturante,ilqualeèDio; e cominciò ad edificare una torre in Sennar, la quale poi fu detta Babel, cioè confusione, per la quale sperava di ascendere al cielo,avendo intenzione, lo sciocco,non solamente di aggua gliare,ma diavanzare ilsuo Fattore.Oh cle menzia senza misura del celeste imperio;qual padre sosterrebbe tanti insulti dal figliuolo? Ora innalzandosi non con inimica sferza, ma con paterna, & a battiture assueta, il ribel lante figliuolo con pietosa e memorabile corre zione castigò. Era quasi tutta la generazione umana a questa opera iniqua concorsa; parte comandava, parte erano architetti,parte face vano muri,parte impiombavano,parte tiravano le corde ", parte cavavano sassi, parte per ter ra,partepermareliconducevano.E cosìdi verse parti in diverse altre opere s’affatica vano, quando furono dal cielo di tanta con fusione percossi, che dove tutti con una istessa loquela servivano a l'opera, diversificandosi in molte loquele, da essa cessavano, nè mai a quel medesimo comercio convenivano; & a quelli soli, che in una cosa convenivano una · Il Witte osservò che in luogo di pars amysibus tegulabant, pars tuillis linebant, come leggeva erro neamente la volgata nel testo latino, si deve leggere: pars amussibus tegulabant, pars trullis (o truellis) linebant, e si deve tradurre: parte arrotavano sulle pietre i mattoni,parte con le mestole intonacavano. istessa loquela attualmente rimase, come a tutti gli architetti una, a tutti i conduttori di sassi una,a tuttiipreparatori di quegli una, e così avvenne di tutti gli operanti; tal che di quanti varj esercizj erano in quell'opera, di tanti varj linguaggi fu la generazione umana disgiunta. E quanto era più eccellente l'arti ficio di ciascuno, tanto era più grosso e barbaro il loro parlare. Quelli poscia, a li quali il sacrato idioma rimase, nè erano presenti nè lodavano lo esercizio loro; anzi gravemente biasimandolo, si ridevano de la sciocchezza de gli operanti.M a questi furono una minima parte di quelli quanto al numero; e furono, sì come io comprendo, del seme di Sem, il quale fu il terzo figliuolo di Noè, da cui nacque il popolo di Israel, il quale usò de la antiquissima locu zione fino a la sua dispersione. e specialmente in Europa. Er la detta precedente confusione di lin gue non leggieramente giudichiamo, che allora primieramente gli uomini furono sparsi per tutti iclimi del mondo e per tutte le re gioni & angoli di esso. E conciò sia che la  P Sottodivisione del parlare per il mondo,  principal radice dela propagazione umana sia ne le parti orientali piantata, e d'indi da l'u no e l'altro lato per palmiti variamente diffu si, fu la propagazione nostra distesa; final mente in fino a l'occidente prodotta, là onde primieramente le gole razionali gustarono o tutti,o almen parte de ifiumi di tutta Europa. Ma ofussero forestieri questi, cheallorapri mieramente vennero, o pur nati prima in E u ropa, ritornassero ad essa; questi cotali por tarono tre idiomi seco; e parte di loro ebbero in sorte la regione meridionale di Europa, parte la settentrionale, & i terzi, i quali al presente chiamiamo Greci, parte de l’Asia e parte de la Europa occuparono.Poscia da uno istesso idio ma,dalaimmonda confusione ricevuto,nac quero diversi volgari, come di sotto dimostre remo; perciò che tutto quel tratto, ch'è da la foce del Danubio, o vero da la palude Meotide, fino a i termini occidentali (li quali da i confini d'Inghilterra, Italia e Franza, e da l'Oceano sono terminati), tenne uno solo idioma: ave gna che poi per Schiavoni, Ungari, Tedeschi, Sassoni, Inglesi & altre molte nazioni fosse in diversi volgari derivato; rimanendo questo solo per segno, che avessero un medesimo prin cipio, che quasi tutti i predetti volendo affir mare, dicono jo. Cominciando poi dal termine di questo idioma,cioè da iconfini de gli Ungari verso oriente,un altro idioma tutto quel tratto occupò. Quel tratto poi, che da questi in qua si chiama Europa, e più oltra si stende,o ve ro tutto quello de la Europa che resta, tenne un terzo idioma 1, avegna che al presente tri partito si veggia; perciò che volendo affermare, altri dicono oc, altri oil, e altri sì, cioè Spa gnuoli, Francesi & Italiani.Il segno adunque che i tre volgari di costoro procedessero da uno istesso idioma,è in pronto;perciò che molte cose chiamano per i medesimi vocaboli, come è Dio,cielo,amore,mare,terra,e vive,muore, ama,& altri molti.Di questi adunque de la meridionale Europa, quelli che proferiscono oc tengono la parte occidentale, che comincia da i confini de'Genovesi; quelli poi che dicono sì, tengono da i predetti confini la parte orientale, cioè fino a quel promontorio d'Italia, dal quale comincia il seno del mare Adriatico e la Sici lia.Ma quelli che affermano con oil,quasi sono settentrionali a rispetto di questi; perciò che da l'oriente e dal settentrione hanno gli Ale manni, dal ponente sono serrati dal mare in 1 Il testo ha: A b isto incipiens idiomate, videlicet a finibus Ungarorum versus orientem aliud occupa vittotum quodabindevocatur Europa, necnonul terius est protractum. Totum autem, quod in Europa restat ab istis, tertium tenuit idioma. E deve essere tradotto cosi: A cominciare da questo idioma, cioè dai confini degli Ungari verso oriente, un altro idioma occupò l'intero tratto che da quei confini in là si chiama Europa, e che si protrae anche più oltre. Tutto il tratto poi della rimanente Europa tenne un terzo idioma. 19    glese, e dai monti di Aragona terminati, dal mezzo di poi sono chiusi da'Provenzali,e da la flessione de l'Appennino. Noi ora è bisogno porre a pericolo 1 la ' Il verbo periclitari del testo latino qui vale mettere alla prova, cimentare.  ragione, che avemo, volendo ricercare di quelle cose ne le quali da niuna autorità siamo aiutati, cioè volendo dire de la variazione, che intervenne al parlare, che da principio era il medesimo. Ma conciòsiachepercammininoti più tosto e più sicuramente si vada, però so lamente per questo nostro idioma anderemo,e gli altri lascieremo da parte, conciò sia che quello che ne l'uno è ragionevole, pare che eziandio abbia ad esser causa ne gli altri. È adunque loidioma,deloqualetrattiamo(come ho detto di sopra) in tre parti diviso, perciò che alcuni dicono oc, altri si, e altri oil. E che questo dal principio de la confusione fosse uno medesimo (il che primieramente provar si deve) appare, perciò che si convengono in molti vocaboli,come gli eccellenti dottori dimostrano; De le tre varietà del parlare, e come col tempo il medesimo parlare si muta, e de la invenzione de la grammatica. A   la quale convenienzia repugna a la confusione, che fu per il delitto ne la edificazione di Babel. I Dottori adunque di tutte tre queste lingue in molte cose convengono, e massimamente in questo vocabolo,Amor. Gerardo di Berneil, « Surisentis fez les aimes Puer encuser Amor.» Il re di Navara, «De'finamor sivientsenebenté.» M. Guido Guinizelli, « Nè fè amor, prima che gentil core, Nè cor gentil,prima che amor,natura.» Investighiamo adunque, perchè egli in tre parti sia principalmente variato,e perchè cia scuna di queste variazioni in sè stessa si varii, come la destra parte d'Italia ha diverso par lare da quello de la sinistra, cioè altramente parlano i Padovani, e altramente i Pisani: e investighiamo perchè quelli,che abitano più vi cini,siano differenti nel parlare,come è iMila nesi e Veronesi,Romani e Fiorentini;e ancora perchè siano differenti quelli,che si convengono sotto un istesso nome di gente,come Napole tani e Gaetani, Ravegnani e Faentini; e quel che è più maraviglioso, cerchiamo perchè non si convengono in parlare quelli che in una medesima città dimorano, come sono i Bolo gnesi del borgo di san Felice, e i Bolognesi  della strada maggiore.Tutte queste differenze adunque,e varietàdi sermone,che avvengono, con una istessa ragione saranno manifeste. Dico adunque, che niuno effetto avanza la sua ca gione, in quanto effetto,perchè niuna cosa può fare ciò che ella non è.Essendo adunque ogni nostra loquela (eccetto quella che fu da Dio insieme con l'uomo creata) a nostro benepla cito racconcia,dopo quella confusione,la quale niente altro fu che una oblivione de la loquela prima, & essendo l'uomo instabilissimo e va riabilissimo animale, la nostra locuzione ne durabile nè continua può essere; m a come le altre cose che sono nostre (come sono costumi & abiti),simutano;cosìquesta,secondo ledi stanzie de iluoghi e dei tempi,è bisogno di va riarsi.Però non è da dubitare che nel modo che avemo detto,cioè,che con ladistanziadeltempo il parlare non si varii, anzi è fermamente da tenere; perciò che se noi vogliamo sottilmente investigare le altre opere nostre,le troveremo molto più differenti da gli antiquissimi nostri cittadini, che da gli altri de la nostra età, q u a n tunquecisianomoltolontani1.Ilperchèaudace mente affermo, che se gli antiquissimi Pavesi ora risuscitassero,parlerebbero di diverso parlare di quello, che ora parlano in Pavia; nè altrimente questo, ch'io dico, ci paja maraviglioso, che I qualicisianomolto lontani (magis....quam a coetaneis perlonginquis).   ciparrebbe a vedere un giovane cresciuto,il quale non avessimo veduto crescere.Perciò che le cose, che a poco a poco si movono, il moto loro è da noi poco conosciuto;e quanto la va riazione de la cosa ricerca più tempo ad essere conosciuta, tanto essa cosa è da noi più stabile esistimata.Adunque non ci ammiriamo,se i discorsi di quegli uomini,che sono poco da le bestie differenti, pensano che una istessa città abbia sempre il medesimo parlare usato, conciò sia che la variazione del parlare di essa città non senza lunghissima successione di tempo a poco a poco sia divenuta, e sia la vita de gli uomini di sua natura brevissima. Se adunque il sermone ne la istessa gente (come è detto) successivamente col tempo si varia, nè può per alcun modo firmarse, è necessario che il par lare di coloro, che lontani e separati dimorano, sia variamente variato; sì come sono ancora variamente variati i costumi & abiti loro, i quali nè da natura,nè da consorzio umano sono firmati, ma a beneplacito, e secondo la conve nienzia de i luoghi nasciuti.Quinci si mossero gl'inventori de l'arte grammatica; la quale grammatica non è altro che una inalterabile conformità di parlare in diversi tempi e luo ghi.Questa essendo di comun consenso di molte genti regulata, non par suggetta al singulare arbitrio di niuno, e consequentemente non può essere variabile.Questa adunque trovarono,ac ciò che per la variazion del parlare, il quale  De la varietà del parlare in Italia da la destra e sinistra parte de l'Appennino. Ra uscendo in tre parti diviso (come di  24 LIBRO PRIMO, per singulare arbitrio si move,non ci fossero o in tutto tolte, o imperfettamente date le a u torità, & i fatti de gli antichi, e di coloro da i quali la diversità dei luoghi ci fa esser divisi. sopra è detto) il nostro parlare nella comparazione di se stesso, secondo che egli è tri partito, con tanta timidità lo andiamo ponde rando, che nè questa parte, nè quella, nè quell'altra abbiamo ardimento di preporre, se non in quello sic, che i grammatici si trovano aver preso per avverbio di affirmare: la qual cosa pare, che dia qualche più di autorità a gli Italiani, i quali dicono si.Veramente ciascuna di queste tre parti con largo testimonio si d i fende. La lingua di oil allega per sè, che, per lo suopiùfacileepiùdilettevoleVolgare,tutto quello che è stato tradotto, o vero ritrovato in prosa volgare,è suo;cioè la Bibbia,ifatti de i Trojani e dei Romani,le bellissime favole del re Artù, e molte altre istorie e dottrine 1. ma: 0 · Il Fraticelli avverte, a ragione, che qui bisognava tradurre non: la Bibbia,ifatti de' Trojani... i libri che contengono i fatti de' Trojani. L'altra poi argomenta per sè, cioè la lingua di oc; e dice che i volgari eloquenti scrissero i primi poemi in essa, sì come in lingua più perfetta e più dolce; come fu Piero di Alver nia & altri molti antiqui dottori.La terza poi, che è de gli Italiani, afferma per dui privilegj esser superiore; il primo è, che quelli, che più dolcemente e più sottilmente hanno scritti poe mi, sono stati i suoi domestici e famigliari, cioè Cino da Pistoja, e lo amico suo; il secondo è, che pare, che più s'accostino a la g r a m m a tica,la quale è comune.E questo, a coloro, che vogliono con ragione considerare, par g r a vissimo argomento. M a noi lasciando da parte il giudicio di questo, e rivolgendo il trattato nostro al Volgare Italiano,ci sforzeremo di dire le variazioni ricevute in esso, e quelle fra sè compareremo.Dicemo adunque laItalia essere primamente in due parti divisa,cioè ne la de stra e ne la sinistra; e se alcuno dimandasse qual è la linea che questa diparte,brievemente rispondoessereilgiogodel'Appennino;ilquale, come un colmo di fistula, di qua e di là a diver se gronde piove,e l'acque di qua e di là per lunghi embricia diversi liti distillan, come Lucano nel secondo descrive; & il destro lato ha il mar Tirreno per grondatoio, il sinistro v'ha lo Adriatico. Del destro lato poi sono regioni la Puglia,ma non tutta, Roma, il Ducato 1,  + Ducato di Spoleto.   , Toscana,la Marca di Genova.Del sinistro so no parte de la Puglia, la Marca d’Ancona, la Romagna, la Lombardia, la Marca Tri vigiana, con Venezia.Il Friuli veramente,e l'Istria non possono essere se non de la parte sinistra d'Italia; e le isole del mar Tirreno, cioè Sicilia e Sardigna,non sono se non de la destra, o veramente sono da essere a la destra parte d'Italia accompagnate.In ciascuno adun que di questi dui lati d'Italia, & in quelle parti che si accompagnano ad essi, le lingue de gli uomini sono varie; cioè la lingua de i S i ciliani co iPugliesi, e quella de i Pugliesi co i Romani,edeiRomani coiSpoletani,edi que sticoiToscani,edeiToscani coiGenovesi,e de i Genovesi co i Sardi. E similmente quella de i Calavresi con gli Anconitani, e di costoro coiRomagnuoli,e deiRomagnuoli co iLom bardi,edeiLombardi coiTrivigianieVene ziani, e di questi co i Friulani, e di essi con gl'Istriani; ne la qual cosa dico, che nessuno de gl’Italiani dissentirà da noi. Onde la Italia sola appare in X I V Volgari esser variata: cia scuno dei quali ancora in sè stesso si varia: come in Toscana i Senesi e gli Aretini, in L o m bardia i Ferraresi e i Piacentini; e parimente in una istessa città troviamo essere qualche variazione di parlare,come nel Capitolo di so pra abbiamo detto. Il perchè se vorremo cal culare le prime, le seconde, e le sottoseconde variazioni del Volgare d'Italia,avverrà che in Si dimostra, che alcuni in Italia hanno brutto & inornato parlare. Ssendo ilVolgareItalianopermoltevarietà dissonante, investighiamo la più bella & illustre loquela d'Italia; & acciò che a la n o stra investigazione possiamo avere un picciolo calle, gettiamo prima fuori de la selva gli a r boriattraversati,elespine.Sicome adunque i Romani si stimano di dover essere a tutti preposti, così in questa eradicazione, o vero estirpazione, non immeritamente a gli altri li preporremo; protestando essi in niuna ragione de la Volgare Eloquenza esser da toccare. Di cemo adunque il Volgare de'Romani,o per dir meglio il suo tristo parlare, essere il più brutto di tutti i Volgari Italiani; e non è maraviglia, sendo ne i costumi e ne le deformità de gli abiti loro sopra tutti puzzolenti. Essi dicono: M e sure, quinte dici 1. Dopo questi caviamo quelli de la Marca d’Ancona, i quali dicono Chigna mente sciate siate 2; con i quali mandiamo via questo minimo cantone del mondo si verrà,non solamente a mille variazioni di loquela, m a ancora a molte più. I Sorella mia, che cosa dici? 2 Qualmente siate state.  , i Spoletani. E non è da preterire, che in vitu perio di queste tre genti sono state molte can zoni composte, tra le quali ne vidi una drit tamente e perfettamente legata, la quale un certo fiorentino, nominato ilCastra,avea com posto; e cominciava, « Una ferina va scopai da Cascoli Cita cita sen gia grande aina '. » Dopo questi i Milanesi, & i Bergamaschi,& i loro vicini gettiam via; in vituperio de i quali mi ricordo alcuno aver cantato, Ciò fu del mes d'ochiover. » Dopo questi crivelliamo gli Aquilejensi, e gli I striani, i quali con crudeli accenti dicono Ces fastù; e con questi mandiam via tutte lem o n tanine e villanesche loquele, le quali di brut tezza di accenti sono sempre dissonanti da i cittadini, che stanno in mezzo le città, come i Casentinesi, & i Pratesi. I Sardi ancora, i quali non sono d'Italia,ma a la Italiaaccom pagnati, gettiam via: perchè questi soli ci p a jono essere senza proprio Volgare, & imitano la grammatica,come fanno le simie gli uomini; perchè dicono, Domus nova,e Dominus meus. Una ferina vosco poi da Cascoli  « In te l'ora del vespero, Il Fontanini propone di leggere: Zita zita sen gia a grande aina. Zita vale gita; e aina val fretta.   « Ancor che l'aigua per lo foco lassi. » «Amor, chelongamentem'haimenato.» Ma questa fama de la terra di Sicilia, se dirit tamente risguardiamo, appare, che solamente per opprobrio de'principi Italiani sia rimasa; iquali non con modo eroico,ma con plebeo seguono la superbia. M a quelli illustri eroi Federico Cesare & il ben nato suo figliuolo Manfredi, dimostrando la nobiltà e drittezza de la sua forma,mentre che la fortuna gli fu fa vorevole,seguirono le cose umane,e le bestiali sdegnarono.Ilperchè coloro,cheeranodialto De lo Idioma Siciliano e Pugliese. Ei crivellati (per modo di dire) Volgari d'Italia, facendo comparazione tra quelli che nel crivello sono rimasi, brievemente sce gliamo il più onorevole di essi. E primiera mente esaminiamo lo ingegno circa il Siciliano, perciò che pare che il Volgare Siciliano abbia assunto la fama sopra gli altri; conciò sia che tutti i poemi, che fanno gl'Italiani, si chia mino Siciliani,e conciò sia che troviamo molti dottori di costà aver gravemente cantato,come in quelle canzoni, Et,   Se questo poi non vogliamo pigliare, ma quello che esce de la bocca de i principali Si ciliani, come ne le preallegate canzoni si può vedere, non è in nulla differente da quello,che è laudabilissimo, come di sotto dimostreremo. |Traduzione letteraledialtripices,chesignifica in gannatori. , cuore e di grazie dotati,si sforzavano di ade rirsi alla maestà di sì gran principi; talchè in quel tempo tutto quello, che gli eccellenti Italiani componevano, ne la Corte di sì gran re primamente usciva. E perchè il loro seggio regale era in Sicilia, è avvenuto,che tutto quello che i nostri precessori composero in Volgare, si chiama Siciliano; il che ritenemo ancora noi; & i posteri nostri non lo potranno mutare.Racha,Racha.Che suona ora la tromba de l'ultimo Federico? che ilsonaglio del secondo Carlo? che i corni di Giovanni e di Azzo m a r chesi potenti?cheletibiedeglialtrimagnati? se non, Venite, carnefici; Venite, altripici 1; Venite, settatori di avarizia.M a meglio è tor nare al proposito, che parlare indarno. Or dicemo,che se vogliamo pigliare ilVolgar Si ciliano,cioè quello che vien da imediocri pae sani, da la bocca de i quali è da cavare il giu dizio, appare, che il non sia degno di essere preposto a gli altri;perciò che 'l non si profe risce senza qualche tempo, come è in « Traggemi d'este focora se t'este a bolontate. »   I Pugliesi poi, o vero per la acerbità loro, o vero per la propinquità dei suoi vicini, che sono Romaneschi e Marchigiani, fanno brutti barbarismi.E'dicono, « Per fino amore vo'si lietamente. » Il perchè a quelli, che noteranno ciò che si è detto di sopra, dee essere manifesto, che nè il Siciliano, nè il Pugliese è quel Volgare che in Italia è bellissimo; conciò sia che abbiamo m o strato, che gli eloquenti nativi di quel paese sieno da esso partiti. De lo Idioma de i Toscani e dei Genovesi. per la loro pazzia insensati, pare che a r rogantemente s'attribuiscano il titolo del V o l gare Illustre; & in questo non solamente la  « Volzera che chiangesse lo quatraro. » Ma quantunque comunemente ipaesani pugliesi parlino bruttamente, alcuni però eccellenti tra loro hanno politamente parlato, e posto ne le loro canzoni vocaboli molto cortigiani, come manifestamente appare a chi iloro scritti con sidera,come è, « Madonna, dir vi voglio. » E, opinione dei plebei impazzisce, m a ritruovo molti uomini famosi averla avuta: come fu Guittone d’Arezzo, il quale non si diede mai al Volgare Cortigiano;Bonagiunta da Lucca,Gallo pisano,Mino Mocato senese,eBrunetto fioren tino, i detti dei quali, se si avrà tempo di esaminarli,noncortigiani,ma proprjdeleloro cittadi essere si ritroveranno. Ma conciò sia che i Toscani siano più de gli altri in questa ebrietà furibondi, ci pare cosa utile e degna torre in qualche cosa la pompa a ciascuno de i Volgari delle città di Toscana.I Fiorentini par. lano, e dicono, « Non facciamo altro. » I Pisani, « Bene andonno li fanti de Fioranza per Pisa.» I Lucchesi, « Fo voto a Dio,che ingassara eie lo comuno de Luca.» I Senesi, « Vo'tu venire ovelle?» Di Perugia, Orbieto, Viterbo e Città Castel lana, per la vicinità che hanno con Romani e Spoletani,non intendo dir nulla.Ma come che quasi tutti i Toscani siano nel loro brutto p a r   « Onche rinegata avessi io Siena.» Gli Aretini, « Manuchiamo introcque.»  lare ottusi,non di meno ho veduto alcuni aver conosciuto la eccellenziadel Volgare,cioè Guido, Lapo & un altro, fiorentini, e Cino Pistojese, il quale al presente indegnamente posponemo, non indegnamente costretti.Adunque se esami neremo le loquele toscane, e considereremo, come gli uomini molto onorati si siano da esse loro proprie partiti, non resta in dubbio che il Volgare, che noi cerchiamo, sia altro che quello che hanno ipopoli di Toscana. Se alcu no poi pensasse che quello, che noi affermiamo de iToscani,non sia da affirmare de iGenovesi, questo solo costui consideri, che se i Genovesi per dimenticanza perdessero il z lettera, biso gnerebbe loro, o ver essere totalmente muti, o ver trovare una nuova locuzione; perciò che il z è la maggior parte del loro parlare; la qual lettera non si può se non con molta aspe rità proferire.  nino, & investighiamo tutta la sinistra parte d'Italia, cominciando, come far solemo, a levante. Intrando adunque ne la Romagna, dicemo che in Italia abbiamo ritrovati dui Vol gari, l'uno a l'altro con certi convenevoli con  De loIdioma di Romagna, edialcuni Transpadani,especialmentedelVeneto. P Assiamo ora le frondute spalle de l'Appen    trarj opposto !, de li quali uno tanto femenile ci pare per la mollizia dei vocaboli e de la p r o nuncia, che un uomo (ancora che virilmente parli) è tenuto femina. Questo Volgare hanno tutti iRomagnuoli, e specialmente i Forlivesi, la città de i quali, avegna che novissima sia, non di meno pare esser posta nel mezzo di tutta la provincia. Questi affermando dicono Deusci, e facendo carezze sogliono dire oclo meo,e co rada mea.Bene abbiamo inteso,che alcuni di costoro ne i poemi loro si sono partiti dal suo proprio parlare,cioèTomaso & Ugolino Buc ciola faentini.L'altro de idue parlari,che ave mo detto, è talmente di vocaboli & accenti ir suto & ispido, che per la sua rozza asperità non solamente disconza una donna che parli, ma ancora fa dubitare, s'ella è uomo. Questo tale hanno tutti quelli che dicono magara, cioè Bressani, Veronesi, Vicentini, & anco i P a doani, i quali in tutti i participj in tus,e de nominativi in tas, fanno brutta sincope, come è merco, e bonté. Con questi ponemo eziandio i Trivigiani, i quali al modo de i Bressani, e de i suoi vicini proferiscono lo v consonante per f, removendo l'ultima sillaba, come è nof p e r n o v e, v i f p e r vivo; il che veramente è barbarissimo, e riproviamlo. I Veneziani ancora non saranno degni de l'onore de l'investigato Il testo latino ha: duo.... vulgaria, quibusdam convenientiis contrariis alternata.    tra i quali abbiamo veduto uno, che si è sfor zato partire dal suo materno parlare, e ridursi al Volgare Cortigiano, e questo fu Brandino padoano.Laonde tutti quelli del presente Ca pitolo comparendo alla sentenzia,determiniamo, che nè ilRomagnuolo nè ilsuo contrario,come si è detto, nè il Veneziano sia quello Illustre Volgare che cerchiamo. CA Fa gran discussione del Parlare Bolognese. quello che della italica selva ci resta.D i cemo adunque,che forse non hanno avuta mala opinione coloro, che affermano che i Bolognesi con molto bella loquela ragionano; conciò sia che da gli Imolesi,Ferraresi eModenesi qualche cosa al loro proprio parlare aggiungano; chè tutti, sì come avemo mostrato, pigliano dai loro vicini, come Sordello dimostra de la sua Mantova, che con Cremona, Bressa e Verona confina. Il qual uomo fu tanto in eloquenzia, che non solamente ne i poemi, m a in ciascun modo che parlasse, il Volgare de la sua patria abbandond.Pigliano ancora iprefati cittadini Volgare; e se alcun di loro, spinto da errore, in questo vaneggiasse, ricordisi se mai disse, « Per le plage de Dio tu non verás »; Ra ci sforzeremo, per espedirci,a cercare   la leggerezza e la mollizia da gl'Imolesi, e da i Ferraresi e Modenesi una certa loquacità, la qual è propria de i Lombardi. Questa, per la mescolanza de i Longobardi forestieri, crediamo essere rimasa ne gli uomini di quei paesi; e questa è la ragione, per la quale non ritro viamo che niuno, nè Ferrarese, nè Modenese, nè Reggiano,sia stato poeta;perciò che assue fatti a la propria loquacità, non possono per alcun modo,senza qualche acerbità,alVolgare Cortigiano venire. Il che molto maggiormente de i Parmigiani è da pensare; i quali dicono inonto per molto. Se adunque i Bolognesi da l'una e da l'altra parte pigliano, come è detto, ragionevole cosa ci pare che il loro parlare, per la mescolanza de gli oppositi, rimanya di laudabile suavità temperato: il che per giudi zio nostro senza dubbio esser crediamo.Vero è che se quelli, che prepongono il Volgare S e r mone de iBolognesi,nel compararli essi hanno considerazione solamente a i Volgari de le città d'Italia, volentieri ci concordiamo con loro. M a se stimano simplicemente il Volgare Bolognese essere da preferire, siamo da essi differenti e discordi; perciò che egli non è quello che noi chiamiamoCortigiano& Illustre;ches'elfosse quello,ilmassimo Guido Guinizelli,Guido Ghis liero,Fabrizio,& Onesto,& altripoetinon sariano mai partiti da esso; perciò che furono dottori illustri, e di piena intelligenzia ne le cose volgari.  « Più non attendo il tuo soccorso, Amore. » Le quali parole sono in tutto diverse da le pro prie bolognesi. Ora perchè noi non crediamo che alcuno dubiti di quelle città che sono poste ne le estremità d'Italia;e se alcuno pur dubita, non lo stimiamo degno de la nostra soluzione; però poco ci resta ne la discussione da dire. Laonde disiando di deporre il crivello, accid che tosto veggiamo quello che in esso è rimaso, dico che Trento, e Turino,& Alessandria sono città tanto propinque a i termini d'Italia, che non ponno avere pura loquela; tal che se così come hanno bruttissimo Volgare,così l'avessono bellissimo, ancora negherei esso essere vera mente Italiano, per la mescolanza che ha de gli altri.E però se cerchiamo ilParlare Italiano Illustre, quello che cerchiamo non si può in esse città ritrovare.  Il massimo Guido, Fabrizio,  «Madonna,ilfermocore.» « Lo mio lontano gire. » Onesto  e pascoli d'Italia, e non avemo quella pantera, che cerchiamo, trovato; per potere essa meglio trovare, con più ragione investi ghiamola; acciò che quella, che in ogni loco si sente, & in ogni parte appare?, con sollecito studio ne le nostre reti totalmente inviluppia mo. Ripigliando adunque inostri istrumenti da cacciaredicemo, cheinognigenerazionedi cose è di bisogno che una ve ne sia,con la quale tutte le cose di quel medesimo genere si abbiano a comparare e ponderare, e quindi la misura di tutte le altre pigliare.Come nel numero tutte le cose si hanno a misurare con la unità;e di consi più e meno, secondo che da essa unità sono più lontane, o più ad essa propinque. E cosi ne i colori tutti si hanno a misurare col bianco; e diconsi più e meno visibili, secondo che a lui più vicini, e da lui più distanti si sono.E sicome diquestichemostrano quan tità e qualità diciamo, parimente di ciascuno I L'edizione del Corbinelli ha: redolentem ubique, etnec apparentem.Ilprof.Witte proponedileggere: nec usquam apparentem.  De lo eccellente Parlar Volgare, il quale è comune a tutti gli Italiani. A poi che avemo cercato per tutti i salti D   de i predicamenti e de la sustancia pensiamo potersi dire; cioè che ogni cosa si può misu rare in quel genere con quella cosa, che è in esso genere simplicissima. Laonde ne le nostre azioni, in quantunque specie sidividano,sibi sogna ritrovare questo segno,col quale esse si abbiano a misurare; perciò che in quello che facciamo come simplicemente uomini, avemo la virtù,la quale generalmente intendemo?; perciò che secondo essa giudichiamo l'uomo buono e cattivo;in quello poi che facciamo, come uomini cittadini,avemo la legge,secondo la quale si dice buono e cattivo cittadino;così in quello, che come uomini italiani facciamo, avemo le cose simplicissime. Adunque se le azioni italiane si hanno a misurare e ponde rare con i costumi, e con gli abiti, e col p a r lare,quelle de leazioni italiane sono simplicissi me,che non sono proprie di niuna città d'Italia, ma sono comuni in tutte 2; tra le quali ora si 2Iltestolatinoha:inquantum uthominesLatini agimus,quædam habemus simplicissima signa,idest morum,et habituum, et locutionis, quibus Latino actiones ponderantur et mensurantur. Quce quidem nobilissimasuntearum,quæ Latinorum sunt,actio num,hæc nulliuscivitatisItaliæ propria sunt,sed in omnibus communia sunt: inter que nunc potest di scerni Vulgare.... Il Fraticelli raddrizzò la traduzione del Trissino a questo modo: in quello che, come uomini   Il testo latino ha: virtutem habemus, ut genera literillas(actiones)intelligamus.Edevetradursi:ab biamo per intenderle (leazioni)generalmente,lavirtù.   può discernere il Volgare,che di sopra cerca vamo, essere quello,che in ciascuna città ap pare, e che in niuna riposa 1. Può ben più in una,che in un'altra apparere,come fa la sim plicissima de le sustanzie, che è Dio, il quale più appare ne l'uomo che ne le bestie, e che ne le piante, e più in queste che ne le miniere, & in esse più che ne gli elementi,e più nel foco, che ne laterra.E lasimplicissima quantità,che è uno,più appare nel numero dispari che nel italiani facciamo, abbiamo certi segni semplicissimi, cioè de'costumi, degli abiti e del parlare, coi quali le azioni italiane si hanno a misurare e ponderare.Adun que quelle delle azioni italiane sono nobilissime, che non sono proprie di niuna città d'Italia, ma sono co muni in tutte: tra le quali ora si può discernere il Volgare.... Il Trissino, in luogo di nobilissime, ha semplicissime;eforselasua lezioneèlavera.Levoci nobilissima,hæc,propria,communiaedinterquo non possono riferirsi ad actiones, ma a signa: cosicchè si dovrebbe tradurre segni nobilissimi. M a il dir segni nobilissimi è, certo, poco conforme al concetto generale del Capitolo, nel quale l'autore non parla che di semplicis simi segni: e quindi la traduzione più propria parrebbe dovesse essere la seguente: ora, quelli, che sono segni semplicissimi delle azioni degli Italiani, quelli non sonpropri di nessuna città,ma comuni a tutte:trai quali....;epiùbrevemente:iqualisegnidelleazioni degli Italiani non son propri di nessuna città....  4Vulgare.... quod in qualibet civitate apparet, nec cubat in ulla. Il Manzoni, citando questo passo nella lettera al Bonghi, da noi ristampata, traduce più esatta mente: il Volgare, che in ogni città dà sentore di sè, e non si annida in nessuna.   pari; & il simplicissimo colore,che è ilbianco, più appare nel citrino che nel verde. Adunque ritrovato quello che cercavamo, dicemo, che il Volgare Illustre, Cardinale, Aulico e Corti giano in Italia è quello, il quale è di tutte le città italiane, e non pare che sia di niuna, col quale il Volgare di tutte le città d'Italia si hanno a misurare, ponderare e comparare. Perchè questo Parlare si chiami Illustre. Erchè adunque a questo ritrovato Parlare aggiungendo Illustre,Cardinale, Aulico e Cortigiano, cosi lo chiamiamo, al presente di remo; per il che più chiaramente faremo parere quello, che esso è. Primamente adunque d i m o striamo quello che intendiamo di fare, quando vi aggiungiamo Illustre, e perchè Illustre il dimandiamo.Per questonoiildicemo Illustre, che illuminante & illuminato risplende. Et a questo modo nominiamo gli uomini illustri, o vero perchè illuminati di potenzia sogliono con giustizia e carità gli altri illuminare, o vero perchè eccellentemente ammaestrati, eccellen temente ammaestrano, come fe'Seneca e Numa Pompilio; & il Volgare di cui parliamo, il quale innalzato di magisterio e di potenzia, innalza i suoi di onore e di gloria. E ch'el sia da magisterio innalzato, si vede, essendo egli  O n senza ragione esso Volgare Illustre o r niamodisecondagiunta, cioèche Cardinale il chiamiamo, perciò che si come tutto l'uscio seguita il cardine, talchè dove il cardine si volta, ancor esso (o entro, o fuori che 'l si pie  Perchè questo Parlare si chiami Cardinale, di tanti rozzi vocaboli italiani, di tante per plesseconstruzioni,ditante difettivepronunzie, di tanti contadineschi accenti, cosi egregio, così districato, così perfetto e così civile ri dotto, come Cino da Pistoja e l'amico suo ne le loro canzoni dimostrano. Che 'l sia poi esaltato di potenzia, appare: e qual cosa è di maggior potenzia che quella, che può i cuori de gli u o mini voltare, in modo che faccia colui che non vole,volere;e colui che vole,non volere, come ha fatto questo, e fa? Che egli poscia innalzi di onore chi lo possiede, è in pronto: non sogliono i domestici suoi vincere di fama ire,imarchesi,iconti,etuttiglialtrigrandi? certo questo non ha bisogno di pruova.Quanto egli faccia poi i suoi famigliari gloriosi, noi stessi l'abbiamo conosciuto, i quali per la dol cezza di questa gloria ponemo dopo le spalle il nostro esilio. Adunque meritamente dovemo esso chiamare Illustre. NA Aulico, e Cortigiano.  Il testo latino ha: Est etiam merito curiale dicen dum, quia curialitas nil aliud est, etc. Il Fraticelli os serva in questo proposito quanto segue: « La Curia è il foro,illuogoovesitrattanogliaffaripubblici;ma es  ghi)si volge; cosi tutta la moltitudine de i V o l gari de le città si volge e rivolge, si move e cessa,secondo che fa questo.Il quale veramente appare esser padre di famiglia; non cava egli ogni giorno gli spinosi arboscelli della italica selva? non pianta egli ogni giorno semente o inserisce piante? che fanno altro gli agricoli di lei se non che lievano, e pongono, come si è detto? Il perchè merita certamente essere di tanto vocabolo ornato.Perchè poi ilnominiamo Aulico, questa è la cagione: perciò che se noi Italiani avessimo Aula,questi sarebbe palatino. Se la Aula poi è comune casa di tutto il regno, e sacra gubernatrice di tutte le parti di esso; convenevole cosa è che ciò che si truova esser tale,che sia comune a tutti,e proprio di niuno; in essa conversi & abiti; nè alcuna altra abi tazione è degna di tanto abitatore.Questo ve ramente ci pare esser quel Volgare, del quale noi parliamo; e quinci avviene, che quelli che conversano in tutte le Corti regali, parlano sempre con Volgare Illustre. E quinci ancora è intervenuto che il nostro Volgare, come fore stiero va peregrinando, & albergando ne gli umili asili, non avendo noi Aula.Meritamente ancora sidee chiamare Cortigiano,perciò che la cortigiania ^ niente altro è,che una pesatura de   le cose che si hanno a fare; e conciò sia che la statera di questa pesatura solamente ne le ec cellentissime Corti esser soglia, quinci avviene, che tutto quello, che ne le azioni nostre è ben pesato, si chiama cortigiano. Laonde essendo questo ne la eccellentissima Corte d'Italia p e sato,merita esser detto Cortigiano.Ma a dire che 'l sia ne la eccellentissima Corte d'Italia pesato, pare fabuloso, essendo noi privi di Corte; a la qual cosa facilmente si risponde. Perciò che avegna che la Corte (secondo che ụnica si piglia, come quella del re di Alema gna) in Italia non sia,le membra sue però non cimancano;ecome lemembra diquelladaun principe si uniscono,cosi le membra di questa dal grazioso lume de la ragione sono unite; e però sarebbe falso a dire, noi Italiani mancar di Corte quantunque manchiamo di principe; perciò che avemo Corte, avegna che la sia cor poralmente dispersa, sendo dal Trissino tradotto la Corte, viene a prodursi confusione,perchè Corte è sinonimo di Aula o Reggia, Per l'esattezza del significato converrà rendere la voce curialitas per curialità: e cosi in appresso per cui curiale le voci curia e curialis., e   Che i Volgari Italici in uno si riducono, Uesto Volgare adunque,che essere Illustre, Q Cardinale,Aulico e Cortigiano avemo dimo strato,dicemo esser quello,che si chiama Vol gare Italiano; perciò che sì come si può tro vare un Volgare che è proprio di Cremona, così se ne può trovar uno che è proprio di Lombardia, & un altro che è proprio di tutta la sinistra parte d'Italia; e come tutti questi si ponno trovare, così parimente si può trovare quello, che è di tutta Italia. E sì come quello si chiama cremonese e quell'altro lombardo,e quell'altro di mezza Italia, così questo che è di tutta Italia si chiama Volgare Italiano.Que sto veramente hanno usato gl’illustri dottori che in Italia hanno fatto poemi in Lingua Vol gare; cioè i Siciliani, i Pugliesi, i Toscani, i Romagnuoli,iLombardi,e quelli delaMarca Trevigiana e de la Marca d’Ancona. E conciò sia che la nostra intenzione (come avemo nel principio dell'opera promesso) sia d'insegnare la dottrina de la Eloquenzia Volgare; però da esso Volgare Italiano,come da eccellentissimo, cominciando, tratteremo nei seguenti libri, chi  e quello si chiama Italiano. siano quelli, che pensiamo degni di usare esso, e perchè, e a che modo, e dove, e quando, & a chi sia esso da dirizzare. Le quali cose chia rite che siano, avremo cura di chiarire i Vol gari inferiori, di parte in parte scendendo sino a quello che è d'una famiglia sola.  e quali no. del nostro ingegno,e ritornando al calamo de la utile opera,sopra ogni cosa confessiamo, che 'l sta bene ad usarsi il Volgare Italiano Illustre così ne la prosa, come nel verso. M a perciò che quelli che scrivono in prosa,pigliano esso Volgare Illustre specialmente da i trovatori; e però quello che è stato trovato 2, rimane un fermo esempio a le prose,ma non al contrario; per ciò che alcune cose pajono dare principalità 1 Il Corbinelli e, dietro lui, tutti gli altri hanno poli citantes,che non ha senso ol'hamoltooscuro;ma forse si deve leggere sollicitantes.  Quali sono quelli che denno usare il Volgare Illustre, P. Romettendo 1 un'altra volta la diligenzia 2 La voce inventum qui significa poetato.   al verso; adunque secondo che esso è metrico, versifichiamolo 1, trattandolo con quell'ordine, che nel fine del primo Libro avemo promesso. Cerchiamo adunque primamente,se tutti quelli che fanno versi volgari, lo denno usare, o no. Vero è, che cosi superficialmente appare di sì; perciò che ciascuno che fa versi,dee ornare i suoi versi in quanto 'l può. Laonde non sendo niuno di sì grande ornamento, com'è il Volgare Illustre, pare che ciascun versificatore lo debbia usare. Oltre di questo, se quello, che in suo genere è ottimo, si mescola con lo inferiore, pare che non solamente non gli tolga nulla, ma che lo faccia migliore.E però se alcun versificatore, ancora che faccia rozza mente versi,lo mescolerà con la sua rozzezza, non solamente a lei farà bene, ma appare che così le sia bisogno di fare; perciò che molto è più bisogno di ajuto a quelli che ponno poco, che a quelli che ponno assai;e così appare che a tutti i versificatori sia licito di usarlo. M a questo è falsissimo; perciò che ancora gli eccellentissimi poeti non se ne denno sempre vestire,come per le cose di sotto trattate si po trà comprendere.Adunque questo Illustre Vol gare ricerca uomini simili a sé,sì come ancora fanno gli altri nostri costumi & abiti: la m a gnificenzia grande ricerca uomini potenti, la · Il testo latino ha ipsum carminemus, che non vale versifichiamolo, ma pettiniamolo, rimondiamolo.  porpora uomini nobili; così ancor questo vuole uomini di ingegno e di scienze eccellenti; e gli altri dispregia, come per le cose, che poi si diranno, sarà manifesto.Tutto quello adunque, che a noi si conviene, o per il genere, o per la sua specie, o per lo individuo ci si convie ne; come è sentire, ridere, armeggiare; m a questo a noi non si conviene per il genere; perchè sarebbe convenevole anco a le bestie; ne per la specie; perchè a tutti gli uomini saria convenevole: di che non c'è alcun dubbio; chè niun dice,che'lsiconvenga aimontanari.Ma gli ottimi concetti non possono essere, se non dove è scienzia,& ingegno; adunque la ottima loquela non si conviene a chi tratti di cose grossolane; conviene sì per l'individuo; m a nulla a l'individuo conviene se non per le pro prie dignità; come è mercantare, armeggiare, reggere.E però, selecoseconvenienti risguar dano le dignità, cioè i degni; & alcuni possono essere degni, altri più degni, & altri degnissi mi;è manifesto,che le cose buone a i degni,le migliori a i più degni, le ottime a i degnissimi si convengono. E conciò sia che la loquela non altrimenti sia necessario istromento a i nostri concetti, di quello che si sia il cavallo al sol dato; e convenendosi gli ottimi cavalli a gli ottimi soldati, a gli ottimi concetti (come è detto) la ottima loquela si converrà. M a gli ottimi concetti non ponno essere,se non dove è scien zia,& ingegno;adunque laottimaloquelanon    si convien se non a quelli, che hanno scienzia, & ingegno; e così non à tutti i versificatori si convien ottima loquela, e consequentemente nè l'ottimo Volgare; conciò sia che molti senza scienzia,e senza ingegno facciano versi.E però, se a tutti non conviene, tutti non denno usa re esso; perciò che niuno dee far quello, che non si gli conviene.E dove dice,che ogni uno dee ornare i suoi versi quanto può,affermiamo esser vero; m a nè il bove efippito !, nè il porco balteato chiameremo ornato,anzi fatto brutto, e di loro ci rideremo; perciò che l'ornamento non è altro, che uno aggiungere qualche con venevole cosa a la cosa che si orna. A quello ove si dice, che la cosa superiore con la infe riore mescolata adduce perfezione, dico esser vero,quando laseparazionenonrimane;come è, se l'oro fonderemo insieme con l'argento; ma se la separazione rimane,la cosa inferiore si fa più vile; come è mescolare belle donne con brutte. Laonde conciò sia che la senten zia de i versificatori sempre rimanga separata mente mescolata con le parole, se la non sarà ottima, ad ottimo Volgare accompagnata, non migliore,ma peggiore apparerà,a guisa di una brutta donna, che sia di seta o d'oro vestita. Ephipiatum vale insellato, e balteatum vale cin turato. In qual materia stia bene usare Apoichè avemo dimostrato, che non tutti  il Volgare Illustre. D tissimi denno usare il Volgare Illustre, conse i versificatori, m a solamente gli eccellen quente cosa è dimostrare poi, se tutte le m a terie sono da essere trattate in esso, o no; e se non sono tutte, veder separatamente quali sono degne di esso. Circa la qual cosa prima è da trovare quello che noi intendiamo,quando dicemo degna essere quella cosa, che ha di gnità, si come è nobile quello che ha nobiltà; e così conosciuto lo abituante, si conosce lo abituato, in quanto abituato di questo; però conosciuta la dignità, conosceremo ancora il degno. È adunque la dignità un effetto, o vero termino de i meriti;perciò che quando uno ha meritato bene, dicemo essere pervenuto a la dignità del bene; e quando ha meritato male, a quella del male; cioè quello che ha ben c o m battuto, è pervenuto a la dignità de la vittoria, e quello che ha ben governato, a quella del regno; e così il bugiardo a la dignità de la vergogna, & il ladrone a quella de la morte. Ma conciò sia che in quelli, che meritano bene, si facciano comparazioni, e cosi ne gli altri, perchè alcuni meritano bene,altri meglio,altri   ottimamente, & alcuni meritano male, altri peggio,altripessimamente;e conciò ancora sia, che tali comparazioni non si facciano, se non avendo rispetto al termine de imeriti, il qual termine (come è detto) si dimanda dignità, manifesta cosa è,che parimente le dignità hanno comparazione tra sè,secondoilpiù& ilmeno; cioè che alcune sono grandi, altre maggiori, altre grandissime; e consequentemente alcuna cosa è degna, altra più degna, altra degnis sima; e conciò sia che la comparazione de le dignità non si faccia circa il medesimo objetto, ma circa diversi, perchè dicemo più degno quello che è degno di una cosa più grande, e degnissimo quello che è degno d'una altra cosa grandissima; perciò che niuno può essere di una stessa cosa più degno; manifesto è che le cose ottime (secondo che porta il dovere) sono de le ottime degne.Laonde essendo questo Vol gare (che dicemo Illustre) ottimo sopra tutti gli altri volgari,consequente cosa è,che solamente le ottime materie siano degne di essere trat tateinesso;ma qualisisianopoiquellema terie,che chiamiamo degnissime,è buono al presente investigarle.Per chiarezza de le quali cose è da sapere, che si come ne l'uomo sono tre anime, cioè la vegetabile, la animale e la razionale, cosi esso per tre sentieri cammina; perciò che secondo che ha l'anima vegetabile, cerca,quello che è utile, in che partecipa con le piante; secondo che ha l'animale, cerca  ,   quello, che è dilettevole, in che partecipa con le bestie; e secondo che ha la razionale, cer ca l'onesto, in che è solo, o vero a la natura angelica s'accompagna; tal che tutto quel che facciamo, par che si faccia per queste tre cose. E perchè in ciascuna di esse tre sono alcune cose, che sono più grandi, & altre grandissi me;per la qual ragione quelle cose, che sono grandissime, sono da essere grandissimamente trattate, e consequentemente col grandissimo Volgare;ma è da disputare quali si siano que ste cose grandissime. E primamente in quello, che è utile; nel quale, se accortamente consi deriamo la intenzione di tutti quelli, che cer cano la utilità, niuna altra troveremo, che la salute. Secondariamente in quello, che è dilet tevole; nel quale dicemo quello essere massi mamente dilettevole, che per il preciosissimo objetto de l'appetito diletta; e questi sono i piaceridiVenere.Nel terzo,cheèl'onesto, niun dubita essere la virtù. Il perchè appare queste tre cose,cioè la salute,ipiaceridi Ve nere, e la virtù essere quelle tre grandissime materie, che si denno grandissimamente trat tare, cioè quelle cose, che a queste grandissime sono; come è la gagliardezza de l'armi, l'ar denzia de l'amore, e la regola de la volontà. Circa le quali tre cose sole (se ben risguar diamo) troveremo gli uomini illustri aver vol garmente cantato; cioè Beltramo di Bornio le armi; Arnaldo Danielo lo amore; Gerardo de  Bornello la rettitudine; Cino da Pistoia lo a m o re; lo amico suo la rettitudine. Beltramo adunque dice, « Non puesc mudar q'un chantar non esparja. » Arnaldo, « Laura amara fa 'ls broils blancutz clarzir. » Gerardo, N o n trovo poi, che niun Italiano abbia fin qui cantato de l'armi. Vedute adunque queste cose (che avemo detto), sarà manifesto quello, che sia nel Volgare Altissimo da cantare. In qual modo di rime si debba usare R a ci sforzeremo sollicitamente d'investi 0 gareilmodo,colqualedebbiamo stringere quelle materie, che sono degne di tanto V o l gare.Volendo adunque dare ilmodo, col quale  , « Per solatz revelhar Que s'es trop endormitz.» « Degno son io,che mora.» « Doglia mi reca nelo cuore ardire. » il Volgare Altissimo. Cino, Lo amico suo,  queste degne materie si debbiano legare; primo dicemo doversi a la memoria ridurre,che quelli, che hanno scritto Poemi volgari,hanno essi per molti modi mandati fuori; cioè alcuni per C a n zoni, altri per Ballate, altri per Sonetti, altri per alcuni altri illegittimi & irregolari modi, Come di sotto simostrerà. Di questi modi adun que il modo de le Canzoni essere eccellentissi m o giudichiamo; là onde se lo eccellentissimo è delo eccellentissimo degno, come di sopra è provato,le materie che sono degne de lo eccel lentissimo Volgare, sono parimente degne de lo eccellentissimo modo,e consequentemente sono da trattare ne le Canzoni;e che 'l modo de le Canzoni poi sia tale, come si è detto, si può per molte ragioni investigare.E prima,essendo Canzone tutto quello che si scrive in versi, & essendo a le Canzoni sole tal vocabolo attri buito, certo non senza antiqua prerogativa è processo. Appresso, quello che per sè stesso adempie tutto quello per che egli è fatto, pare esser più nobile, che quello che ha bisogno di cose che sieno fuori di sè; m a le Canzoni fanno per sè stesse tutto quello che denno; il che le Ballate non fanno,perciò che hanno bisogno di sonatori,aliqualisonofatte;adunque séguita, che le Canzoni siano da essere stimate più n o bili de le Ballate, e consequentemente il modo loro essere sopra gli altri nobilissimo, conciò sia che niun dubiti, che il modo de le Ballate non sia più nobile di quello de i Sonetti. A p   , presso pare, che quelle cose siano più nobili, che arrecano più onore a quelli che le hanno fatte; e le Canzoni arrecano più onore a quelli che le hanno fatte, che non fanno le Ballate; adunque sono di esse più nobili, e consequen temente il modo loro è nobilissimo. Oltre di questo, le cose che sono nobilissime, molto ca ramente si conservano; m a tra le cose cantate, le Canzoni sono molto caramente conservate, come appare a coloro che vedeno ilibri; adun que le Canzoni sono nobilissime,e consequen temente ilmodo loro è nobilissimo.Appresso, ne le cose artificiali quello è nobilissimo che comprende tutta l'arte; essendo adunque le cose,che si cantano, artificiali, e ne le Canzoni sole comprendendosi tutta l'arte, le Canzoni sononobilissime,ecosìilmodo loroènobi lissimo sopra gli altri.Che tutta l'arte poi sia ne le Canzoni compresa,in questo simanifesta, che tutto quello che si truova de l'arte, è in esse,ma non si converte 1. Questo segno adun que di ciò che dicemo, è nel cospetto di ogni uno pronto; perciò che tutto quello che da la cima de le teste de gli illustri poeti è disceso a le loro labbra,solamente ne le Canzoni si ri truova. E però al proposito è manifesto, che quelle cose che sono degne di Altissimo V o l gare, si denno trattare ne le Canzoni. Sed non convertitur.Più chiaro di non si converte sarebbe però non e converso,ovvero non al contrario. De la varietà de lo stile secondo la qualità de la poesia. L'adpotiavimusdellatinononvaleavemoapprovato, ma abbiamo dato a bere.Il Fraticelli propone che si tra duca per traslato: abbiamo dato un saggio.  A poi che avemo districando approvato 1 co, e che materie siano degne di esso, e parimente il modo, il quale facemo degno di tanto onore, che solo a lo Altissimo Volgare si con venga; prima che noi andiamo ad altro, di chiariamo il modo delle ca nzoni, le quali pajono da molti più tosto per caso che per arte usur parsi. E manifestiamo il magisterio di quel l'arte, il quale fin qui è stato casualmente preso, lasciando da parte il modo deleBallate e de i Sonetti; per ciò che esso intendemo dilu cidare nel quarto Libro di quest'opera nostra, quando del Volgare Mediocre tratteremo. R i veggendo adunque le cose che avemo detto, ci ricordiamo avere spesse volte quelli, che fanno versi volgari, per poeti nominati; il che senza dubbio ragionevolmente avemo avuto ardimento di dire; per ciò che sono certamente poeti, se drittamente la poesia consideriamo; la quale non è altro che una finzione rettorica, e po sta in musica.Non di meno sono differenti da i , grandi poeti, cioè da i regulati; per ciò che quelli 1 hanno usato sermone & arte regulata, e questi (come si è detto) hanno ogni cosa a caso; il perchè avviene, che quanto più stret tamente imitiamo quelli 2,tanto più drittamente componiamo; e però noi, che volemo porre ne le opere nostre qualche dottrina, ci bisogna le loro poetiche dottrine imitare. Adunque s o pra ogni cosa dicemo, che ciascuno debbia pi gliare il peso de la materia eguale a le proprie spalle, a ciò che la virtù di esse dal troppo peso gravata, non lo sforzi a cadere nel fango. Questo è quello, che il maestro nostro Orazio comanda,quando nel principio dela sua Poe tica dice, « Voi, che scrivete versi, abbiate cura Di tor subjetto al valor vostro eguale.» Dapoinelecose,che cioccorrono + Il testo latino ha isti:quindi non quelli,ma questi; e per conseguenza nella riga seguente non questi, ma quelli. Sarebbe più chiaro dire i primi in luogo di quelli.  devemo usare divisione, considerando da cantarsi con modo tragico,o comico, o ele giaco. Per la Tragedia prendemo lo stile s u periore,per la Commedia lo inferiore, per l'E dei miseri. Se le cose che ci oc legia quello cantate col correno, pare che siano da essere modo tragico, allora è da pigliare il Volgare Illustre, e conseguentemente da legare la Can a dire, se sono  1 Il testo latino ha: tensis fidibus adsumat secure plectrum; che deve essere tradotto: tese le corde, a s suma francamente ilplettro.  zone; m a se sono da cantarsi con cómico, si piglia alcuna volta ilVolgare Mediocre, ed al cuna volta l'Umile; la divisione de i quali nel quarto di quest'opera ci riserviamo a mostra re. Se poi con elegiaco, bisogna che solamente pigliamo l'Umile.M a lasciamo gli altri da parte, & ora (come è il dovere) trattiamo de lo stile tragico. Appare certamente, che noi usiamo lo stile tragico, quando e la gravità de le sen tenzie, e la superbia de i versi, e la elevazione de le construzioni,e la eccellenzia de ivocaboli si concordano insieme. M a perchè (se ben ci ricordiamo) già è provato, che le cose somme sono degne de le somme, e questo stile che chiamiamo tragico, par e essere il sommo dei stili; però quelle cose che avemo già distinte doversi sommamente cantare, sono da essere in questo solo stile cantate; cioè la salute, lo amore e la virtù, e quelle altre cose, che per cagion di esse sono ne la mente nostra conce pute, pur che per niun accidente non siano fatte vili. Guardişi adunque ciascuno, e di scerna quello che dicemo; e quando vuole que ste tre cose puramente cantare, o vero quelle che ad esse tre dirittamente e puramente se gueno, prima bevendo nel fonte di Elicona, ponga sicuramente a l'accordata lira il sommo plettro 1,e costumatamente cominci.Ma a fare   questa Canzone e questa divisione come si dee, qui è la difficultà, qui è la fatica; per ciò che mai senza acume d'ingegno, nè senza assiduità d'arte, nè senza abito di scienze non si potrà fare. E questi sono quelli che 'l Poeta nel VI de la Eneide chiama diletti da Dio, e da la ar dente virtù alzati al cielo, e figliuoli de gli Dei, avegna che figuratamente parli. E pero si confessa la sciocchezza di coloro, i quali senza arte,e senza scienzia,confidandosi solamente del loro ingegno, si pongono a cantar som mamente le cose somme.Adunque cessino que sti tali da tanta loro presunzione; e se per la loro naturale desidia sono oche, non vogliano l'aquila,che altamente vola, imitare sentenzie a bastanza, o almeno tutto quello che a l'opera nostra si richiede; il perchè ci affretteremo di andare a la superbia dei versi. Circa i quali è da sapere, che i nostri pre cessori hanno ne le loro Canzoni usato varie sorti di versi, il che fanno parimente imoder ni; m a in fin qui niuno verso ritroviamo, che abbia oltre la undecima sillaba trapassato, nè sotto la terza disceso. Et avegna che i Poeti , De lacomposizionedeiversi e de la loro varietà sillabica. Noi pare di aver detto de la gravità de le A   Italiani abbiano usate tutte le sorti di versi, che sono da tre sillabe fino a undici, non di meno il verso di cinque sillabe, e quello di sette, e quello di undeci sono in uso più fre quente; e dopo loro si usa il trisillabo più de gli altri; de gli quali tutti quello di undeci sillabe pare essere il superiore sì di occupa zione di tempo, come di capacità di sentenzie, di construzioni e di vocaboli; la bellezza de le quali cose tutte si moltiplica in esso, come manifestamente appare, per ciò che ovunque sono moltiplicate le cose che pesano, si molti plica parimente il peso.E questo pare che tutti i dottori abbiano conosciuto, avendo le loro illustri Canzoni principiate da esso; come G e rardo di Bornello, « Ara auzirez encabalitz cantars.» Il qual verso avegna che paja di dieci silla be,è però,secondo la verità de la cosa, di undeci; per ciò che le due ultime consonanti non sono de la sillaba precedente.Et avegna che non abbiano propria vocale, non perdono peròlavirtùdelasillaba;& ilsegnoè,che ivi la rima si fornisce con una vocale; il che essere non può se non per virtù de l'altra che ivi si sottintende. Il re di Navara, «De finamor sivient sen e bonté.» Ove se si considera l'accento e la sua cagione, apparirà essere endecasillabo.  , «Amor,che longiamente m'hai menato.» «Per finamore vo silietamente.» « Amor, che muovi tua virtù dal cielo.»  «Al cor gentil ripara sempre amore.» 11 Giudice di Colonna da Messina, Guido Guinicelli, Rinaldo d'Aquino, «Non spero che giammai per mia salute.» Et avegna che questo verso endecasillalo (co me sièdetto)siasopratuttiperildoverece leberrimo, non di meno se'l piglierà una cer ta compagnia de lo eptasillabo, pur che esso però tenga il principato, più chiaramente e più altamente parerà insuperbirsi, ma questo si rimanga più oltra a dilucidarsi. Così diciamo che l’eptasillabo segue a presso quello che è massimo ne la celebrità. Dopo questo quello che chiamiamo pentasillabo,e poi il trisillabo ordiniamo.Ma quel di nove sillabe, per essere il trisillabo triplicato, o vero mai non fu in onore, o vero per il fastidio è uscito di uso. Quelli poi di sillabe pari, per la sua rozzezza non usiamo se non rare volte; per ciò che ri tengono la natura de i loro numeri,i quali s e m Cino da Pistoja, Lo amico suo:   Erchè circa il Volgare Illustre la nostra nobilissimo; però avendo scelte le cose che sono degne di cantarsi in esso, le quali sono quelle tre nobilissime che di sopra avemo pro vate; & avendo ad esse eletto il modo de le Canzoni, si come superiore a tutti gli altri modi, & a ciò che esso modo di Canzoni pos siamo più perfettamente insegnare, avendo già alcune cose preparate, cioèlostile,& iversi; ora de la construzione diremo. È adunque da sapere, che noi chiamiamo construzione una regulata composizione di parole, come è, Ari stotile diè opera a la filosofia nel tempo di Alessandro. Qui sono diece parole poste regu latamente insieme, e fanno una construzione.  pre soggiaceno a i numeri caffi, sì come fa la materia a la forma. E cosi raccogliendo le cose dette, appare lo endecasillabo essere su perbissimo verso; e questo è quello che noi cercavamo. Ora ci resta di investigare de le construzioni elevate e de i vocaboli alti, e fi nalmente, preparate le legne e le funi, inse gneremo a che modo il predetto fascio, cioè la Canzone, si debba legare. De le construzioni, che si denno usare ne le Canzoni. P si   M a circa questa prima è da considerare, che de le construzioni altra è congrua, & altra è incongrua.E perchè(seilprincipiodelano stra divisione bene ciricordiamo)noi cerchiamo solamente le cose supreme, la incongrua in questa nostra investigazione non ha loco; per ciò che ella tiene il grado inferiore de la bontà. Avergogninsi adunque, avergogninsi gli idioti di avere da qui innanzi tanta audacia, che v a dano aleCanzoni;de iquali non altrimenti so lemo riderci, di quello che si farebbe d'un cieco,ilqualedistinguesseicolori1.È adun que la construzione congrua quella che cerchia mo.Ma ci accade un'altra divisione 2 di non minore difficultà, avanti che parliamo di quella construzione,che cerchiamo,cioè di quella che è pienissima di urbanità; e questa divisione e, che molti sono i gradi de le construzioni, cioè lo insipido, il quale è de le persone grosse, come è, Piero ama molto madonna Berta. Ecci il semplicemente saporito, il quale è de i scolari rigidi, o vero de i maestri, come è, Di tuttiimiserim'incresce;ma homaggiorpietà di coloro, i quali in esiglio affliggendosi, r i vedeno solamente in sogno le patrie loro. Ecci ancora il saporito e venusto, il quale è di alcuni, che così di sopra via pigliano la R e t torica,come è,La lodevole discrezione del Meglio, forse, ragionasse o giudicasse di colori. 2 Meglio distinzione (discretio).   «Nuls hom non pot complir adreitamen.» Amerigo di Peculiano, «Si com’l'arbres,que per sobrecarcar.» ' Præparata qui ha il senso di preveniente.  « Si per mon Sobretot no fos.» Il re di Navara, « T a m m'abelis l'amoros pensamens. » Arnaldo Daniello, marchese da Este,e la sua preparata 1 magni ficenzia fa esso a tutti essere diletto. Ecci a p presso il saporito e venusto, ed ancora eccelso, ilqualeèdeidettatiillustri,come è,Avendo Totila mandato fuori del tuo seno grandissima parte de i fiori, o Fiorenza, tardo in Sicilia, e indarno se n'andd. Questo grado di constru zione chiamiamo eccellentissimo, e questo è quello che noi cerchiamo, investigando (come si è detto ) le cose supreme. E di questo sola mente le illustri Canzoni si trovano conteste, come: Gerardo, « Dreit amor qu'en mon cor repaire.» Folchetto di Marsiglia, « Sols sui qui sai lo sobrafan, que m sorts.» Amerigo de Belimi,   « Tegno di folle impresa a lo ver dire.» « Avegna ch'io non aggia più per tempo.» « Amor, che ne la mente mi ragiona.» N o n ti maravigliare, lettore, che io abbia tanti autori a la memoria ridotti; per ciò che non possemo giudicare quella construzione, che noi chiamiamo suprema, se non per simili esempj. E forse utilissima cosa sarebbe per abituar quella, aver veduto i regulati poeti, cioè Virgilio, la Metamorfosi di Ovidio, Stazio e Lucano, e quelli ancora che hanno usato al tissime prose; come è Tullio, Livio, Plinio, Frontino, Paolo Orosio, e molti altri, i quali la nostra amica solitudine ci invita a vedere. Cessino adunque i seguaci de la ignoranzia, che estolleno Guittone d'Arezzo, & alcuni al tri, i quali sogliono alcune volte 1 ne i vocaboli e ne le construzioni essere simili a la plebe. Nunquam invocabulisatqueconstructionedesuetos plebescere.Non dunque alcune volte,ma sempre., Guido Cavalcanti, « Poi che di doglia cor convien, ch'io porti.» > Guido Guinizelli, Cino da Pistoja, Lo amico suo, 1   dere ricerca, che siano dichiarati quelli vocaboli grandi, che sono degni di stare sotto l'altissimo stile. Cominciando adunque, affir miamo non essere piccola difficultà de lo intel letto a fare la divisione dei vocaboli; per cið che vedemo, che se ne possono di molte m a niere trovare.De i vocaboli adunque alcuni sono puerili, altri feminili, & altri virili, e di questi alcuni silvestri,& alcuni cittadineschi chiamia m o 1,& alcuni pettinati, e lubrici; alcuni irsuti e rabuffati conosciamo; tra i quali i pettinati e gl’irsuti sono quelli che chiamiamo grandi; i lubrici poi e i rabuffati sono quelli la cui riso  nel metro volgare. A successiva provincia del nostro proce. Quali vocaboli si debbano porre e quali no 1IlCorbinelliha:ethorum quædam silvestria,quæ dam urbania:eteorum,quo urbana vocamus,quo dam pesaethirsuta,quædam lubricaetreburrasenti mus.LatraduzionedelTrissinovaraddrizzatacosi:edi questi alcuni silvestri,e alcuni cittadineschi;e di quelli che chiamiamo cittadineschi, alcuni pettinati e irsuti, alcuni lubricierabbuffati. Altrihanno invece:quædam pexaetlubrica, quædam hirsutaetreburra:cioèal cunipettinati e lubrici (ossia scorrenti),alcuni irsuti e rabbuffati., nanzia è superflua; per ciò che si come ne le grandi opere alcune sono opere di magnanimità, altre di fumo, ne le quali avvenga che così di sopra via paja un certo ascendere,a chi però con buona ragione esse considera, non ascendere, m a più tosto ruina per alti precipizj essere g i u dicherà; con ciò sia che la limitata linea de la virtù si trapassi. Guarda adunque, lettore, quanto per scegliere le egregie parole ti sia bisogno di crivellare; per ciò che se tu consi deri il Volgare Illustre, il quale i Poeti Vol gari, che noi vogliamo ammaestrare, denno (come di sopra si è detto) tragicamente usare, averai cura, che solamente i nobilissimi v o c a boli nel tuo crivello rimangano. Nel numero dei quali ne i puerili per la loro simplicità, com'è mamma e babbo,mate epate,per niun modo potrai collocare; nè anco i feminili, per la loro mollezza, come è dolciada e placevole; nè i contadineschi per la loro austerità, come è gregia e gli altri; nè i cittadineschi, che siano lubrici e rabuffati, come è femine e corpo, vi si denno porre. Solamente adunque i citta dineschi pettinati & irsuti vedrai che ti resti no, i quali sono nobilissimi, e sono membra del Volgare Illustre. E noi chiamiamo pettinati quelli vocaboli, che sono trisillabi, o vero v i cinissimi al trisillabo, e che sono senza aspi razione, senza accento acuto, o vero circum flesso, senza z nè a duplici, senza gemina zione di due liquide, e senza posizione, in cui    ·Qucecampsarenonpossumus, cioèchenonsipos sono scansare.   la muta sia immediatamente posposta, e che fanno colui che parla quasi con certa soavità rimanere, come è amore, donna, disio, virtute, donare, letizia, salute, securitate, difesa. Ir sute poi dicemno tutte quelle parole, che oltra queste sono o necessarie al parlare illustre, ornative di esso. E necessarie chiamiamo quel le che non possiamo cambiare 1; come sono al cune monosillabe, cioèsi,vo,me,te,se,a,e,i, 0,u;eleinterjezioni,& altremolte.Ornative poi dicemo tutte quelle di molte sillabe, le quali mescolate con le pettinate fanno una bella armonia ne la struttura, quantunque abbiano asperità di aspirazioni, di accento, e di d u plici, e di liquide, e di lunghezza, come è terra, onore, speranza, gravitate, alleviato, impossibilitate, benavventuratissimo, avventu ratissimamente, disavventuratissimamente, sovra magnificentissimamente, il quale vocabolo è endecasillabo.Potrebbesi ancora trovare un vocabolo, o vero parola, di più sillabe, m a perchè egli passerebbe la capacità di tutti i nostri versi, però a la presente ragione non pare opportuno; come è onorificabilitudinitate, il quale in volgare per dodeci sillabe si compie; & in grammatica per tredeci, in dui obliqui però.In che modo poi le pettinate siano da es sere ne i versi con queste irsute armonizate,   lascieremo ad insegnarsi di sotto.E questo che si è detto de l'altezza dei vocaboli, ad ogni gentil discrezione 1 sarà bastante. Ra preparate le legne e le funi, è tempo da legare il fascio; ma perchè la cogni zione di ciascuna opera dee precedere a la ope razione,laquale ècome segno avanti iltrarre de la sagitta,ovvero del dardo;però prima,e principalmente veggiamo qual sia questo fascio, che volemo legare. Questo fascio adunque bene ci ricordiamo tutte le cose trattate) è la Canzone; eperòveggiamochecosasia Canzone, e che cosa intendemo quando dicemo Canzone. La Canzone dunque,secondo la vera significa zione del suo nome, è essa azione o vero pas sione del cantare; sì come la lezione è la pas sione o vero azione del leggere; m a dichiariamo quello che si è detto, cioè, se questa si chiama Canzone, in quanto ella sia azione o in quanto passione del cantare. Circa la qual cosa è da considerare, che la Canzone si può prendere in dui modi, l'uno de li quali modi è, secondo "Ingenuce discretioni,cioè ad ogni non viziato di scernimento. , Che cosa è Canzone, e che in più maniere può variarsi.   o tuono, o nota, o melodia. E niuno trombetta, o organista, o citaredo chia m a il canto suo Canzone, se non in quanto sia accompagnato aqualche Canzone;ma quelli che compongono parole armonizate, chiamano le opere sue Canzoni.Et ancora che tali pa role siano scritte in carte e senza niuno che le proferisca, si chiamano Canzoni; e però non pare che la Canzone sia altro, che una c o m  che ella è fabbricata dal suo autore; e così è azione; e secondo questo modo Virgilio nel primo de l'Eneida dice, « lo canto l'arme e l'uomo.» L'altro modo è, secondo il quale ella da poi che è fabbricata si proferisce, o da lo autore, o da chi che sia,o con suono,osenza,ecosì è passione. E perchè allora da altri è fatta, & ora in altri fa, e così allora azione, & ora passione essere si vede.Ma conciò sia che essa è prima fatta,e poi faccia;pero più tosto,anzi al tutto par che si debbia nominare da quello che ella è fatta, e da quello che ella è azione di alcuno,che da quello che ella faccia in altri. Et il segno di questo è, che noi non dicemo mai, questa Canzone è di Pietro perchè esso la proferisca, m a perchè esso l'abbia fatta. O l tre di questo è da vedere, se si dice Canzone la fabbricazione de le parole armonizate, o vero essa modulazione, o canto; a che dicemo, che m a i il canto n o n si c h i a m a Canzone, ma 0 suono,    piuta azione di colui, che detta parole a r m o nizate,& atte al canto. Laonde così le Canzo ni,che ora trattiamo,come le Ballate e Sonetti, e tutte le parole a qualunque modo armoni zate, o volgarmente, o regulatamente, dicemo essere Canzoni; m a perciò che solamente trat tiamo le cose volgari,però lasciando le regulate da parte,dicemo,che dei poemi volgari uno ce n'èsupremo, il quale persopraeccellenziachia miamo Canzone; « Donne,che avete intelletto di amore.» E così è manifesto che cosa sia Canzone,e se condo che generalmente si prende, e secondo che per sopraeccellenzia la chiamiamo. Et a s sai ancora pare manifesto che cosa noi inten demo,quandodicemoCanzone;e consequente Meglio forse,quiealtrove,un collegamento (conjugatio).  , che la Canzone sia una cosa suprema, nel terzo Capitolo di questo Libro è provato;ma conciò sia che questo,che è dif finito, paja generale a molti, però risumendo detto vocabolo generale,che già è diffinito,di stinguiamo per certe differenzie quello che so lamente cerchiamo.Dicemo adunque che la Canzone,la quale noi cerchiamo,in quanto che per sopraeccellenzia è detta Canzone, è una con giugazione 1 tragica di Stanzie equali senza risponsorio, che tendono ad una sentenzia, come noi dimostriamo quando dicemmo 2 2Iltestolatinoha:utnosostendimus,cum diximus.   mente qual sia quel fascio,che vogliamo legare. Noi poi dicemo, che ella è una tragica congiu gazione; perciò che quando tal congiugazione si fa comicamente, allora la chiamiamo per diminuzione cantilena, de la quale nel quarto Libro di questo avemo in animo di trattare.   Stanzie,e non sapendosi che cosa sia Stan zia, segue di necessità, che non si sappia a n cora che cosa sia Canzone; perciò che de la cognizione de le cose, che diffiniscono, resul ta ancora la cognizione de la cosa diffinita, e però consequentemente è da trattare de la Stanzia, accio che investighiamo, che cosa essa si sia, e quello che per essa volemo intendere. Ora circa questo è da sapere, che tale voca bolo è stato per rispetto de l'arte sola ritro vato; cioè perchè quello si dica Stanzia, nel quale tutta l'arte de la Canzone è contenuta, e questa è l a Stanzia capace, overo il recettacolo di tutta l'arte; perciò che sì come la Canzone è il grembo di tutta la sentenzia,così la Stan zia riceve in grembo tutta l'arte; nè è lecito di arrogere alcuna cosa di arte a le Stanzie s e quenti; m a solamente si vestono de l'arte de la. Quali siano le principali parti de la Canzone, e che la Stanzia n'è la parte principalissima. Ssendo la Canzone una congiugazione di   prima: il perchè è manifesto, che essa Stanzia (de la qual parliamo ) sarà un termine, o vero una compagine di tutte quelle cose, che la Canzone riceve da l'arte;le quali dichiarite, il descrivere che cerchiamo,sarà manifesto.Tutta l'arte adunque de la Canzone pare, che circa tre cose consista, de le quali la prima è circa la divisione del canto, l'altra circa la abitu dine1deleparti,laterzacircailnumero dei versi e de le sillabe; de le rime poi non face mo menzione alcuna;perciò che non sono de la propria arte de la Canzone.È lecito certamente in cadauna Stanzia innovare le rime, e quelle medesime a suo piacere replicare; il che, se la rima fosse di propria arte de la Canzone, le cito non sarebbe.E se pur accade qualche cosa de le rime servare, l'arte di questo ivi si con tiene,quando diremo de la abitudine de le parti. Il perchè così possiamo raccogliere da le cose predette, e diffinire, dicendo, la Stanzia è una compagine 2 diversi e di sillabe, sotto un certo canto, e sotto una certa abitudine limitata. 2 Il testo latino ha: limitatam compaginem.  , La voce abitudine, qui e altrove, significa propor zione, disposizione.   S ne la Canzone. Che sia il canto de la Stanzia, e che la Stanzia si varia in parecchi modi Apendo poi che l'animale razionale è uomo, e che sensibile è l'anim a, & il corpo è animale; e non sapendo che cosa si sia quest'a nima, nè questo corpo,non possemo avere per fettacognizionedel'uomo;perciòchelaperfetta cognizione di ciascuna cosa termina ne gli ul timi elementi, sì come il maestro di coloro che sanno, nel principio de la sua Fisica affer ma.Adunque peraverelacognizionedelaCan zone,che desideriamo,consideriamo al presente sotto brevità quelle cose,che diffiniscano il dif finiente di lei; e prima del canto,da poi de la abitudine,e poscia de i versi e de le sillabe in vestighiamo.Dicemo adunque,che ogni Stanzia è armonizata a ricever una certa oda, o vero canto; ma pajono esser fatte in modo diverso, che alcune sotto una oda continua fino a l’ul timo procedeno, cioè senza replicazione di al cuna modulazione, e senza divisione;e dicemo divisione quella cosa, che fa voltare di un'oda in un'altra;la quale quando parliamo col vul go,chiamiamo Volta.E questeStanziediun'oda   sola Arnaldo Daniello usò quasi in tutte le sue Canzoni; e noi avemo esso seguitato quando dicemo, · Il testo ha syrma, che è quanto dire strascico.  « Al poco giorno,& al gran cerchio d'ombra.» Alcune Stanzie sono poi, che patiscono divi sione. E questa divisione non può essere nel modo che la chiamiamo, se non si fa replica zione di una oda o davanti la divisione, o da poi, o da tutte due le parti, cioè davanti e da poi. E se la repetizion de l'oda si fa avanti la divisione, dicemo, che la Stanzia ha piedi; la quale ne dee aver dui; avegna che qualche volta se ne facciano tre, ma molto di rado.Se poi essa repetizion di oda si fa dopo la divi sione, dicemo la Stanzia aver versi. M a se la repetizione non si fa avanti la divisione,di cemo la Stanzia aver fronte; e se essa non si fa da poi,la dicemo aver sirima?,o vero coda. Guarda adunque, lettore, quanta licenzia sia data a li poeti che fanno Canzoni; e considera per che cagione la usanza si abbia assunto si largo arbitrio; e se la ragione ti guiderà per dritto calle, vederai, per la sola dignità de l'autorità essergli stato questo,che dicemo con cesso.Di qui adunque può essere assai mani festo a che modo l'arte de le Canzoni consista circa la divisione del canto; è però andiamo a la abitudine de le parti.e de la distinzione de'versi che sono da porsi nel componimento. tudine,sia grandissima parte di quello,che è de l'arte; perciò che essa circa la divisione del canto, e circa il contesto dei versi, e circa la relazione de le rime consiste; il perchè a p pare, che sia da essere diligentissimamente trat tata.Dicemo adunque,che la fronte coi Versi 1, & i piedi con la sirima, o vero coda, e pari mente i piedi co i Versi possono diversamente ne la Stanzia ritrovarsi; perciò che alcuna fia ta la fronte eccede i Versi, o vero può ecce dere di sillabe e di numero di versi; e dico può, perciò che mai tale abitudine non avemo veduta. Alcune fiate la fronte può avanzare i Versi nel numero de i versi, & essere da essi Versi nel numero de le sillabe avanzata;come 1 Il Trissino tradusse con la stessa voce verso tanto il carmen che da Dante fu usato nel significato proprio e comune di verso, quanto il versus che fu invece usato da lui per indicare una data parte della stanza,che consta d'un certo numero di versi. Per togliere ogni equivoco noi stamperemo in corsivo e con l'iniziale maiuscola la parola Verso quando corrisponde al latino versus.  77 De la abitudine de la Stanzia, del numero de ipiedi e de le sillabe, noi pare, che questa che chiamiamo abi  , se la fronte fosse di cinque versi, e ciascuno dei Versi fosse di due versi, & i versi de la fronte fosseno di sette sillabe,e quelli de i Versi fosseno di undeci sillabe. Alcuna altra volta i Versi avanzano la fronte di numero di versi e di sillabe come in quella che noi dicemmo, Ove la fronte di quattro versi fu di tre ende casillabi e di uno eptasillabo contesta:la quale non si può dividere in piedi; conciò sia che i piedi vogliano essere fra sè equali di numero di versi, e di numero di sillabe,come vogliono essere frà sè ancora i Versi. M a siccome dice mo, che i Versi avanzano di numero di versi e di sillabe la fronte, così si può dire, che la fronte in tutte due queste cose può avanzare i Versi; come quando ciascuno de i Versi fosse di due versi eptasillabi, e la fronte fosse di cinque versi; cioè di due endecasillabi e di tre eptasillabi contesta. Alcune volte poi i piedi avanzano la sirima di versi e di sillabe, come in quella che dicemmo, Et alcuna volta i piedi sono in tutto da la si rima avanzati; come in quella che dicemmo, « Donna pietosa, e di novella etate.» E si come dicemmo, che la fronte può vincere di versi, & essere vinta di sillabe, & al con  « Traggemi de la mente amor la stiva. » « Amor,che movi tua virtù dal cielo.»   trario; così dicemo la sirima. I piedi ancora ponno di numero avanzare i Versi, & essere da essi avanzati;perciò che ne la Stanzia pos sono essere tre piedi e dui Versi, e dui piedi e tre Versi; nè questo numero è limitato, che non si possano più piedi e più Versi tessere insieme. E siccome avemo detto ne le altre cose de lo avanzare de i versi e de le sillabe, così dei piedi e dei Versi dicemo, i quali nel medesimo modo possono vincere,& essere vinti. Nè è da lasciare da parte, che noi pigliamo i piedi al contrario di quello che fanno i Poeti regulati; perciò che essi fanno il verso de i piedi, e noi dicemo farsi i piedi di versi, come assai chiaramente appare. Nè è da lasciare da parte, che di nuovo non affermiamo, che i piedi di necessità pigliano l'uno da l'altro la abitudine & equalità di versi e di sillabe, p e r ciò che altramente non si potrebbe fare repeti zione di canto. E questo medesimo affermiamo doversi servare nei Versi.De la qualità de i versi, che ne la Stanzia si pongono, e del numero de le sillabe ne i versi. Cci ancora (come di sopra si è detto) una certa abitudine, la quale quando tessemo iversi devemo considerare;ma acciò che di  E, quella con ragione trattiamo,repetiamo quello che di sopra avemo detto de i versi; cioè che ne l'uso nostro par che abbia prerogativa di essere frequentato lo endecasillabo, lo eptasil labo, & il pentasillabo; e questi sopra gli altri doversi seguitare affermiamo. Di questi adun que,quando volemo far poemi tragici,lo ende casillabo, per una certa eccellenzia che ha nel contessere, merita privilegio di vincere; e però alcune Stanzie sono che di soli endecasillabi sono conteste, come quella di Guido da Fio renza, « Donna mi prega, perch'io voglio dire. » «Donne,cheaveteintellettodiamore.» Questo ancora li Spagnuoli hanno usato, e dico li Spagnuoli che hanno fatto poemi nel volgare Oc. Amerigo de Belmi, « Nuls h o m non pot complir adreitamen. » Altre Stanzie sono, ne le quali uno solo epta sillabo sitesse;e questo non può essere,se non ove è fronte, o ver sirima, perciò che (co me sièdetto)neipiedieneiVersisiri cerca equalità di versi e di sillabe. Il perchè ancora appare, c h e il numero disparo dei versi non può essere se non fronte o coda; ben chè in esse a suo piacere si può usare paro, o disparo numero deiversi.E così come al  Et ancora noi dicemo:   cuna Stanzia è di uno solo eptasillabo formata, così appare,che con dui,tre,o quattro si possa formare; pur che nel tragico vinca lo endecasillabo,e da esso endecasillabo si co minci.Benchè avemo ritrovatialcuni,chenel tragico hanno da lo eptasillabo cominciato, cioè Guido de iGhislieri,e Fabrizio Bolognesi, Et alcuni altri.Ma se al senso di queste Can zoni vorremo sottilmente intrare, apparerà tale tragedia non procedere senza qualche ombra di elegia. Del pentasillabo poi non concedemo a questo modo; perciò che in un dettato grande basta in tutta la Stanzia inserirvi un pentasil labo, ovver dui al più ne i piedi; e dico ne i piedi, per la necessità !, con la quale i piedi & i Ver s i si cantano; ma b e n non pare che nel tragico si deggia prendere il trisillabo, che per sè stia;e dico,che per sè stia;perciò che per una certa repercussione di rime pare, che frequen ' Propter necessitatem,qua pedibusque versibusque cantatur; per la necessità che nei piedi e nei Versi si deve cantare. (Fraticelli.)  E, E, 1 « Di fermo sofferire, » «Donna,lofermocuore,» « Lo mio lontano gire. »   temente si usi; come si può vedere in quella Canzone di Guido fiorentino, « Donna mi prega, perch'io voglio dire, » « Poscia che amor del tutto m 'ha lasciato. » Nè ivi è per sè in tutto ilverso,ma è parte de lo endecasillabo, che solamente a la rima del precedente verso a guisa di Eco risponde. E quinci tu puoi assai sufficientemente conoscere, o lettore,come tu dei disponere, o vero abituare la Stanzia; perciò che la abitudine pare che sia da considerare circa i versi. E questo ancora principalmente è da curare circa la disposizione de i versi: che se uno eptasillabo si inserisce nel primo piede,che quel medesimo loco,che ivi piglia per suo, dee ancora pigliare ne l'altro; verbigrazia, se 'l piè di tre versi ha il primo & ultimo verso endecasillabo,e quel di mezzo, cioè il secondo, eptasillabo, così il secondo piè dee avere gli estremi endecasillabi, & il mezzo eptasillabo; perciò che altrimenti stando, non si potrebbe fare la geminazione del canto,per usodelqualesifannoipiedi,come sièdetto;e consequentemente non potrebbono essere piedi. E quello che io dico de i piedi, dico parimente de i Versi; perciò che in niuna cosa vedemo i piedi essere differenti da i Versi,se non nel sito; perciò che ipiedi avanti ladivisione della Stan zia,ma i Versi dopo essa divisione si pongono., Et in quella che noi dicemmo: De la relazione de le rime, e con qual ordine ne la Stanzia si denno porre. T dealcuna cosa al presente non trattando però de la essenzia loro; perciò che il proprio trat tato di esse riserbiamo, quando de i mediocri poemi diremo.Ma nel principio di questo Ca pitolo ci pare di chiarire alcune cose di esse; de le quali una è, che sono alcune Stanzie, ne le quali non si guarda a niuna abitudine di rime, e tali Stanzie ha usato frequentissima mente Arnaldo Daniello,come ivi, « Si m fos amors de joi donar tan larga? » E noi dicemo, L'altra cosa è che alcune Stanzie hanno tutti i versi di una medesima rima, ne le quali è superfluo cercare abitudine alcuna; e così resta che circa le rime mescolate solamente debbia mo insistere;in che e da sapere,che quasi  Et ancora sì come si dee fare ne i piedi di tre versi, così dico doversi fare in tutti gli altri piedi. E quello che si è detto di uno endeca sillabo, dicemo parimente di dui e di più, e del pentasillabo, e di ciascun altro verso. «Alpocogiorno,& algrancerchiod'ombra.»   'Iltestolatinoha:quisuasmultasetbonas Can tiones nobis ore tenus intimavit. Il Fraticelli traduce: ci canto a voce, ossia ci canto improvvisando.  tutti iPoeti si hanno in cið grandissima licen zia tolta;conciò sia che quinci la dolcezza de l'armonia massimamente risulta.Sono adun que alcuni, i quali in una istessa Stanzia non accordano tutte le desinenzie de i versi; m a alcune di esse ne le altre Stanzie repetiscono, overamenteaccordano;come fuGottoman tuano, il quale fin qui ci ha molte sue buone Canzoni intimato 1. Costui sempre tesseva ne la Stanzia un verso scompagnato, il quale essò nominavaChiave.E come diuno,cosìèlecito di dui e forse di più. Alcuni altri poi sono, e quasi tutti i trovatori di Canzoni, che ne la Stanzia mai non lasciano alcun verso scompa gnato, al quale la consonanzia di una o di più rime non risponda. Alcuni poscia fanno le rime de i versi, che sono avanti la divisione, diverse da quelle dei' versi, che sono dopo essa; & altri non lo fanno; ma le desinenzie de la pri ma parte de la Stanzia ancor ne la seconda in seriscono.Non di meno questo spessissime volte si fa, che con l'ultimo verso de la prima parte, il primo de la seconda parte ne le desinenzie s'accorda; il che non pare essere altro, che una certa bella concatenazione di essa Stanzia. La abitudine poi de le rime,che sono ne la fronte e ne la sirima,è sì ampla, che 'l pare che ogni    atta licenzia sia da concedere a ciascuno, m a non di meno le desinenzie de gli ultimi versi sono bellissime, se in rime accordate si chiudeno; il che però è da schifare ne i piedi, ne i quali ritroviamo essersi una certa abitudine servata; la quale dividendo dicemo, che il primo piè di versi pari, o dispari, si fa; e l'uno e l'altro può essere di desinenzie accompagnate,o scom pagnate; il che nel pie diversi pari non è dubbio; m a se alcuno dubitasse in quello di dispari, ricordisi di ciò che avemo detto nel Capitolo di sopra del trisillabo,quando essendo parte de lo endecasillabo, come Eco risponde. E se la desinenzia de la rima in un de i piedi è sola, bisogna al tutto accompagnarla ne l'al tro;ma seinun piedeciascuna delerimeè accompagnata, si può ne l'altro o quelle ripe tere, o farne di nuove,o tutte,o parte,se condo che a l'uom piace,pur che in tutto si servi l'ordine del precedente: verbigrazia, se nel primo piè di tre versi le ultime desinenzie s'accordano con le prime, così bisogna accor darvisi quelle del secondo; e se quella di mezzo nelprimo pièèaccompagnata,oscompagnata; così parimente sia quella di mezzo nel secondo piè; e questo è da fare parimente in tutte le altre sorti di piedi. Ne i Versi ancora quasi sempre è a serbare questa legge; e quasi s e m pre dico, perciò che per la prenominata con catenazione,e per la predetta geminazione de le ultime desinenzie,ale volte accade il detto or 8    + Il testo latino ha: cum in isto libro nil ulterius de r i t h i morum doctrina tangere intendamus. E si dovrebbe tradurre: che in questo libro non vogliamo parlar pivo della dottrina delle rime. Nel Corbinelli questo ultimo capitolo è diviso in due. Il decimoterzo finisce con le parole: tanta sufficiant. (a bastanzasarà.);e il decimoquarto comincia con le parole: , dine mutarsi. Oltre di questo ci pare conve nevol cosa aggiungere a questo Capitolo quelle cose, che ne le rime si denno schifare; conciò sia che in questo libro non vogliamo altro, che quello che si dirà de la dottrina de le rime toccare 1. Adunque sono tre cose, che circa la posizione di rime non si denno frequentare da chi compone illustri poemi; l'una è la troppa repetizione di una rima,salvo che qualche cosa nuova ed intentata de l'arte ciò non si as suma; come il giorno de la nascente milizia, il quale si sdegna lasciare passare la sua gior nata senza alcuna prerogativa. Questo pare che noi abbiamo fatto ivi, « Amor,tu vedi ben,che questa donna;» la seconda è la inutile equivocazione, la qual sempre pare che toglia qualche cosa a la sen tenzia; e la terza è l'asperità de le rime, salvo che le non siano con le molli mescolate; per ciò che per la mescolanza de le rime aspere e delemollilatragediaricevesplendore.E que sto de l'arte, quanto a l'abitudine si ricerca, a bastanza sarà 2.Avendo quello che è de l'arte   ' Il testo latino ha: discretionem facere, che qui vale trattare partitamente.  de la Canzone assai sufficientemente trattato, ora tratteremo del terzo, cioè del numero de i versi e de le sillabe. E prima alcune cose ci bisognano vedere secondo tutta la Stanzia, & altre sono da dividere, le quali poi secondo le parti loro vederemo.A noi adunque prima s'ap partiene fare separazione 1 di quelle cose, che ci occorrono da cantare; perciò che alcune Stanzie amano la lunghezza, & altre no; con ciò sia che tutte le cose che cantiamo, o circa il destro o circa il sinistro si canta; cioè che alcuna volta accade suadendo, alcuna volta dissuadendo cantare, & alcuna volta allegran dosi, alcuna volta con ironia, alcuna volta in laude, & altra in vituperio dire. E però le parole, che sono circa le cose sinistre, vadano sempre con fretta verso la fine, le altre poi con longhezza condecente vadano passo passo verso l'estremo Ex quo quo sunt artis.... (Avendo quello che è de l'arte.... ); ed ha il titolo seguente: De numero car minum et syllabarum in Stantia.(Del numero dei versi e delle sillabe nella Stanzia.)Alighieri. Keywords: lingua del si, la divina implicitura, lasciate ogne [sic] speranza voi ch’entrate, inferno – section on ‘divina commedia’ in philosophical dictionaries. ‘inferno’ catabasis, -- la catabasis d’Enea di Virgilio --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alighieri” – The Swimming-Pool Library, Villa Speranza.

 

Grice ed Aliotta – esperienza – filosofia siciliana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo italiano. Grice: “I like Aliotta; he has philosophised on most things I’m interested in: ‘la guerra eterna’ is a bit of a hyperbole if you go by a principle of helpfulness, but that’s Aliotta! – He has focused on Lucrezio, which is fine – But he has also studied ‘colloquenza romana’ systematically – and more into the Italian rather than Roman idiom, he has explored Galileo (not the father, thouh: “Some like Galileo Galiei, but Vincenzo Galilei is MY man); he is also like me a ‘philosophical psychologist,’ along the lines of Stout and Wundt, that is – he as given proper due to the idea of ‘esperienza’ – unlike Oakeshott, who abuses of the notion! – and indeed, others see his attachment to ‘esperienza’ as an ‘ism’ (lo sperimentalismo).  He has also discussed the semiotics of Vico, and the idea of life-form, following Witters (‘cricket come forme di vita’). And he has explored one intriguing idea, that the so-called ‘meaning’ of life (‘il significato del mondo,’ actually) is that of ‘sacrificio’ which is very fine with me – but then it would, since I like ‘Another country’ – the ‘sacrifice’ -- He Antonio Aliotta (n. Palermo), filosofo. Fu componente dell'Accademia Nazionale dei Lincei, nonché dell'Accademia Pontaniana e della Società Nazionale di Scienze, Lettere e Arti. Fondò la rivista internazionale di filosofia Logos e fu autore di una decina di monografie.  Allievo di Felice Tocco e Francesco De Sarlo, fu influenzato molto dalla concezione della conoscenza scientifica del secondo, che si rifaceva alle teorie di Franz Brentano.  Nel primo periodo della sua vita, Aliotta si interessò in particolar modo alla psicologia sperimentale come ricercatore, mentre in un secondo periodo, rivolse il suo interesse alla filosofia e all'epistemologia.  Tra i suoi allievi vi furono Nicola Abbagnano, Paolo Filiasi Carcano, Cleto Carbonara, Renato Lazzarini, Giuseppe Martano, Alberto Marzi, Nicola Petruzzellis, Michele Federico Sciacca, Luigi Stefanini, anche se la sua indole non dogmatica e aperta "a diverse culture e suggestioni" non diede luogo alla formazione di una vera e propria scuola riferibile al suo nome, ma incoraggiò i suoi allievi a indirizzarsi su percorsi culturali autonomi, emancipandosi dall'egemonia esercitata dal neoidealismo di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile.  Al suo magistero può essere associato anche la figura dello psicanalista Cesare Musatti, che si indirizzò allo studio della psicologia dopo aver assistito alle lezioni sull'argomento tenute da Aliotta all'Padova, divenne socio dell'Accademia delle scienze di Torino.  A lui è intitolato il dipartimento di filosofia dell'Università degli studi di Napoli "Federico II".  Pensiero Psicologia Nella sua prima fase, prettamente psicologica, agli inizi del nuovo secolo, Aliotta afferma che i fatti psichici non possono essere quantificati come avviene con i fatti fisici esistenti e misurabili, in quanto i fatti psichici sono elementi costitutivi della coscienza. La psicologia, perciò, essendo una scienza empirica che studia i fatti psichici interni al soggetto, avrebbe dovuto servirsi del metodo dell'introspezione, riferendosi a formulazioni matematiche al solo scopo simbolico.  La filosofia La particolare concezione della conoscenza dell'autore, intesa né come esistente in sé, né come iscritta nel processo dialettico del pensiero, lo allontanò sia dalle posizioni positiviste che da quelle neoidealiste.  Nelle sue opere emerge una visione contraria all'idealismo: né Hegel, nemmeno Fichte, né tanto meno Schelling col loro proposito di racchiudere tutta la realtà nel pensiero, sebbene con sfumature diverse, soddisfano Aliotta, che invece paragona il pensiero a un processo vivente, costruito da tanti centri individuali tesi verso una armonia, continuatrice dei fenomeni dell'universo. Aliotta si sofferma sulla coordinazione delle conoscenze, sulle intese fra le persone, sulla sintesi della scienza e soprattutto sulla ricerca filosofica a cui assegna il compito particolare di supervisione dei campi di conoscenza con il fine di limitarne i dissidi e di ampliare, il più possibile, il punto di vista delle scienze particolari. Aliotta afferma che l'unico metodo che consente la ricerca della verità sia l'esperimento; la verità stessa non è assoluta e unica ma prevede vari livelli, i superiori dei quali sfruttano e inglobano quelli inferiori. La ricerca filosofica possiede, secondo l'autore, un formidabile strumento di indagine e di verifica che si chiama "storia".  In alcuni scritti successivi ("Il sacrificio come significato del mondo",1947), pubblicati nel secondo dopoguerra, Aliotta sembra avvicinarsi a un modello di pensiero a metà strada tra il pragmatismo e lo spiritualismo, nel quale mette in rilievo l'esperienza morale e il sacrificio, considerato come l'esempio di realizzazione più elevato, sia per l'individuo sia per la collettività.  L'affermarsi dello sperimentalismo produce in Aliotta una serrata critica all'astratto intellettualismo nonché apre la strada alla ricezione di studi avanzati sulla cosiddetta 'filosofia scientifica', in un panorama di reazione idealistica contro la scienza e di graduale affermazione in Italia di scienze come la sociologia (Guglielmo Rinzivillo, Antonio Aliotta. L'idea scientifica dello sperimentalismo in Una epistemologia senza storia, Roma, Nuova Cultura, Opere principali “Platone”, “Aristotele”; “Lucrezio”; “Epitteto”. La reazione idealistica contro la scienza; La guerra eterna e il dramma dell'esistenza; L'estetica di Kant e degli idealisti romantici; Il sacrificio come significato del mondo; Il relativismo dell'idealismo e la teoria di Einstein”; “Evoluzionismo e spiritualismo”; “Il problema di Dio e il nuovo pluralismo”; “Le origini dell'irrazionalismo contemporaneo”; “Pensatori tedeschi della prima metà dell'Ottocento”; “Critica dell'esistenzialismo”; “L'estetica di Croce e la crisi dell'idealismo italiano”; “Il nuovo positivismo e lo sperimentalismo”; “Cinquant'anni di relatività” (Edizioni Giuntine e Sansoni Editore). Belardinelli, in Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in. Belardinelli,  in Dizionario Biografico degli Italiani, su accademiadellescienze Abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino, Pomba, Abbagnano, Dizionario di filosofia, Torino, Pomba,  Michele Federico Sciacca, Lo sperimentalismo di A. Aliotta, Napoli, Nicola Abbagnano Antonio Aliotta, in "Rivista di Filosofia", Dentone, Il problema morale e religioso in Aliotta, Napoli, Mecacci, Antonio Aliotta, in: Guido Cimino, Nino Dazzi, La psicologia in Italia: i protagonisti e i problemi scientifici, filosofici e istituzionali: Milano, LED, 1Enciclopedia Italiana II Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, Belardinelli, «ALIOTTA, Antonio» in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 34, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Antonio Aliotta, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Antonio Aliotta, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Antonio Aliotta,.  Opere di Antonio Aliotta consultabili nell'Archivio di Storia della Psicologia, su archiviodistoria.psicologia1.uniroma1. Filosofia Filosofo del XX secoloAccademici italiani Professore1881 1964 18 gennaio 1º febbraio Palermo NapoliAccademici dei LinceiProfessori dell'Università degli Studi di Napoli Federico IIMembri dell'Accademia delle Scienze di Torino. Antonio Aliotta. Aliotta. Keywords: esperienza, l’implicatura di Lucrezio, sacrificare, significare, sacrificare, guerra eternal. aliotta — l’implicatura di lucrezio — il filosofo di campagna — la guerra eterna — sacrificare/significare — croce — il latinismo dello storicismo — galilei — vico – epicureismo campano -- Refs.: Luigi Speranza, Grice ed Aliotta” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Allegretti – colloquenza – filosofia italiana – Lugi Speranza (Forlì). Filosofo italiano. Grice: “I love Alegretti; very Italian; imagine: after tutoring for a while on dialettica at Firenze,, he retires to Villa Allegretti, Rimini, where he philosophises ‘De propositionibus’ (sulle enunciate) as part of the Dialettica!”  Grice: “He was so proud of the meetings at his villa that he called it ‘our Parnassus’!” Grice: “Allegretti’s idea of the villa meetings was modeled after Plato who, with fewer means, met at the gym in theVIlla Echademo!” -- – cf. Raffaello, “Il Parnaso.” -- Stemma della famiglia Allegretti Coa fam ITA allegretti Blasonatura cuore d'oro su campo azzurr. Noto per aver fondato, secondo alcuni storici, la prima accademia letteraria d'Italia.  Fu figlio di Leonardo Allegretti, giudice a Forlì, di parte guelfa. Apparteneva ad un'antica e cavalleresca famiglia, il cui capostipite fu Mazzone Allegretti (o Mazzonius Alegrettus), che nel 1095 prese parte alla prima crociata in Terra Santa e per “arma” scelse un “cuore d'oro su campo azzurro”.  Lesse filosofia a Bologna,  logica e filosofia a Firenze.  Fonda la prima accademia con un gruppo di intellettuali: Francesco dei Conti di Calbolo, Azzo e Nerio Orgogliosi, Giovanni de' Sigismondi, Andrea Speranzi, Rinaldo Arfendi, Valerio Morandi, Giovanni Aldrobandini, Spinuccio Aspini e Paolo Allegretti. Per motivi politici, gli Ordelaffi, signori di Forlì ghibellini, imposero il confino a Giacomo e al fratello Giovanni. Si trasfere perciò a Rimini. Richiamato dall'esilio, coinvolto in una faida familiare degli Ordelaffi, fu nuovamente costretto a fuggire a Rimini, ove fonda una nuova Accademia, l'Accademia dei Filergiti, con vocazione insieme letteraria e scientifica.  La sua prosapia si estinse per linea maschile ma s'innestò negli Aspini mediante una Margherita di Francesco Allegretti, che sposò un Lodovico, che fu erede degli averi e del cognome degli Allegretti. Si trova il seguito di questa famiglia nel senese e nel modenese (a Ravarino).  Note  Fonte: F. Valenti, Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in. Opere Nel XIV secolo, la sua opera principale era considerata il “Bucolicon”.  Ma scrisse anche:  un epicedio per la morte di Galeotto I Malatesta, signore di Rimini; un carme al Conte di Virtù; un carme per la "divisa della tortora"; Eglogae, in lingua latina; un carme sulla "bissa milanese", cioè lo stemma dei Visconti, il biscione.  Giorgio Viviano Marchesi, Memorie storiche dell'antica, ed insigne Accademia de' Filergiti della città di Forlì..., Forlì, per Antonio Barbiani, Paolo Bonoli, Storia di Forlì scritta da Paolo Bonoli distinta in dodici libri corretta ed arricchita di nuove addizioni, 2 voll., Forlì, Luigi Bordandini, Filippo Valenti, ALLEGRETTI, Giacomo, in Dizionario biografico degli italiani, II, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1960. Opere di Giacomo Allegretti, Filosofi.  ALLEGRETTI, Giacomo. - Nacque, presumibilmente, a Ravenna, da Leonardo Allegretti, appartenente a famiglia guelfa di Forlì, in un anno da porsi tra quelli immediatamente precedenti il 1326. È supposizione abbastanza fondata (cfr. Massera, p. 156) che nel 1357 leggesse filosofia nello Studio bolognese; certo, nel 1358-59 fu lettore di dialettica e di filosofia a Firenze, dove rimase almeno fino al 1365.Benché se ne perdano poi le tracce, è indubbio che si trovava da qualche tempo a Forlì quando, nel 1376, fu colpito, nella sua qualità di guelfo, dal bando di Sinibaldo Ordelaffi. Ma la fama di dottrina in diverse materie -filosofia, astrologia, medicina -che lo circondava, era tale che egli fu ben presto richiamato alla corte forlivese, dalla quale, però, dovette di nuovo fuggire per aver rivelato, nella sua qualità di astrologo, ma senza essere creduto, la congiura che Pino e Cecco Ordelaffi stavano tramando contro Sinibaldo, loro zio. L'A. si rifugiò a Rimini, dove fu precettore del giovane Carlo Malatesta, allora succeduto al padre Galeotto (m. 21 genn. 1385), e medico presso la corte. A Rimini l'A. possedette una villa, luogo di raccoglimento, di studio e, forse, di dotti convegni, cui si compiaceva di dare il nome di Parnaso; donde la notizia, tratta dagli Annali forlivesi di Pietro Ravennate, secondo cui l'A. "Arimini novum constituit Parnasum",notizia ripetuta ed elaborata poi da vari scrittori nel senso, del tutto fantastico, che egli fondasse già allora una vera e propria Accademia. Negli ultimi anni della sua vita ebbe rapporti abbastanza stretti con la corte viscontea. Morì a Rimini nel 1393.  L'A. godette di non piccola fama presso i contemporanei. Citato, come astrologo, nel terzo trattato del De fato et fortuna di Coluccio Salutati, fu in diretta corrispondenza col Salutati medesimo, di cui si ha una lettera a lui con unito un lungo carme latino (Epistolario,I, pp. 279-288), e con Antonio Loschi, del quale si conservano due epistole metriche (ed. in Massera) a lui dirette.  Fatta eccezione per un problematico trattato in prosa De propositionibus,attribuitogli da L. Cobelli nelle sue Cronache forlivesi (Bologna 1874, p. 21), tutte le opere dell'A. di cui si ha notizia si riferiscono alla sua attività di poeta latino. Ci rimangono: un lungo carme a sfondo mitologico-pastorale intitolato Falterona,pieno di contorte allegorie politiche (Venezia, Bibl. Marciana, cod. lat.cl. XIV, 12); un componimento a carattere araldico-encomiastico dedicato a Gian Galeazzo Visconti (edito da F. Novati in appendice allo studio Il Petrarca ed i Visconti in F. Petrarca e la Lombardia,Milano 1904, pp. 82-84); un Epitaphium inonore di Galeotto Malatesta (Milano, Bibl. Ambriosana, cod. P 256);un carme Ad Ludovicum Ungariae inclitissimum Regem (Venezia, Bibl. Marciana, cod. lat.cl. XIV, 12). La sua fama, però, era legata soprattutto ad un'opera ora perduta, il Bucolicon,che Flavio Biondo, nella sua Italia illustrata (Basilea), giudicava seconda soltanto alle Bucoliche di Virgilio e che il Massera ha tentato con buoni argomenti di identificare in una raccolta di egloghe di maniera stampata nel sec. XVII e attribuita in un primo tempo ad Albertino Mussato. All'A., infine, come opinò il Sabbadini, andrebbero attribuiti i cosiddetti Endecasyllabi di Gallo, che egli avrebbe, secondo la tradizione, scoperti a Forlì ma che, invece, molto probabilmente contraffece, credendo erroneamente che quell'antico poeta fosse nativo di Forlì.   Fonti e Bibl.: Epistolario di Coluccio Salutati,a cura di F. Novati, I, Roma 1891, in Fonti per la storia d'Italia, Sabbadini, Le scoperte dei codici latini e greci ne' secoli XIV e XV,Firenze, E. Carrara, La Poesia pastorale,Milano 1 Massera, Iacopo Allegretti da Forlì,in Atti e memorie d. R. Deput. di storia patria per le prov. di Romagna, Thorndike, A history of magic and experimental science,III, New York  L. Bertalot, L'antologia di epigrammi di Lorenzo Abstemio nelle tre edizioni sonciniane,in Miscellanea Mercati,IV, Città del Vaticano La stessa origine hanno le presunte accademie di Rimini e di Forli, che gli scrittori fanno fondare negli ultimi decenni del se colo xiv a Iacopo Allegretti da Mantova, uomo versato cosi nella medicina e nell'astrologia come nelle lettere.Anche in questo caso la più antica affermazione in proposito non risale a nostra notizia al di là della seconda metà del secolo XVII.Uno storico di Forli, Paolo Bonoli, appunto nelle sue Istorie della Città di Forlì?al l'anno 1369 dice: « Strepitava ancora di Forlivesi la fama di G i a como Allegretti, Filosofo, Medico, Poeta et Astrologo; compose anch'egli la Bucolica, che doppo quella di Virgilio non vede forse ilmondo lapiùbella;traletenebre dell'antichità,manifestó molte compositioni del nostro C. Gallo,e in Rimini,ove poi ricovrossi, per schivar l'ira degli Ordelaffi, erresse una fioritissima Accade mia.».La notizia passa indi nel proemio delle Leggi vecchie,di stinte in XII Tavole, dell'antica Accademia de'Filergiti della città di Forlì e nuovi ordini-sopra essa Accademia, stampate nel 1663, aggiungendovisi però oltre l'Accademia riminese anche un'Acca demia in Forli,che sarebbe pure stata fondata dall'Allegretti,e che più tardi, organizzatasi, divenne l'Accademia dei Filergiti. «G i a como Allegretti – vi si dice – Filosofo e poeta illustre, trecento anni or sono,non si contentò di esercitare in Forli sua patria vir. tuose sessioni, che ancora in Rimino, dove sbandito ricovrossi, er gette una nuova Accademia ».3 Queste parole furono ripetute tali e quali da G. Garuffi Malatesta nel L'Italia Accademica 4; però nella parte ancora inedita di quest'opera che giace nella Gamba lunghiana, e dove si tratta appunto in particolare delle Accademie | Francisci Petrarcae Epistolae de Rebus Familiaribus et Variae, curate da GIUSEPPE FRACASSETTI.Volume III.Firenze 1863, p.39. 2 Forli,  In Memorie storiche dell'antica ed insigne Accademia de'Filergiti della città di Forlì già citate:a p.338-340. 4Rimini,1088;p.116.  136   Ma anche qui,come dicevamo, sitrattadiunabbaglio.Aspet tando che maggior luce venga data in proposito in quella vita del l’Allegretti,che il Novati ha promesso da parecchio tempo,4 basterà notare che a base delle notizie circa queste due Accademie stanno leseguentiparoledegli Annales Forolivienses5:tempore Ecclesiae Arces in his civitatibus factae sunt: B o noniae, Imolae, Faventiae et Forolivii. Iacobus Allegrettus Forli viensis poeta clarus agnoscitur, qui plures Endecasyllabos Galli civis Forliviensis poetae invenit et Arimini novum constituit Par Quest'ultima parola fu interpretata senz'altro per Ac cademia, a cui, come al solito,furono ascritti i personaggi princi pali del tempo,perfino il Petrarca, come abbiamo visto. | Cfr.La Coltura letteraria e scientifica in Rimini lal secolo XIV ai pri. mordi del XIX di Carlo Tonini. Vol.I, Rimini; cfr. anche del medesimo:VitaeVirorum Illustrium Foroliviensium.Forli Cfr.Della vita e delle opere di Antonio Urceo detto Codro di Carlo MALAGOLA.Bologna 1878,a p.163. 4 Cfr.Epistolario di Coluccio Salutati per cura di FRANCESCO Novati, Vol.I,Roma 1892,p.279,nota 1. 5 Rerum Italicarum Scriptores.Tomo XXII.Milano, di Rimini, egli dice di più che l'Accademia fondata dall'Allegretti in Rimini si radunava in una sala del palazzo Malatesta, adornata dei ritratti dei poeti ed oratori più celebri del tempo,e che vi era ascritto anche il Petrarca.1 Il già citato Marchesi dal canto suo circa l'Accademia fondata dall'Allegretti in Forli dice che costui « lasciata da parte la se verità degli studi astronomici,medici e filosofici, ne'quali aveva spesi con molta gloria isuoi giorni,finalmente l'anno 1370,rac colti in una degna Assemblea gl'intelletti più perspicaci,fece la memorabile fondazione,benchè senza nome particolare,regolamento ed impresa, invenzioni delle succedute età, ma col solo generico d’Accademia. Furono i suoi colleghi, o piuttosto discepoli Francesco dei Conti di Calbolo,Azzo e Nerio Orgogliosi,Giovanni de'Sigi s m o n d i, Speranzi, Arsendi, Morandi, Aldobrandini, Spinuccio Aspini e Paolo Allegretti, tutti illustri per sangue, ed assai più per l'affetto che professavano per le belle arti.Per le frequenti sessioni che, tenevano a porte aperte, e per gli ammaestramenti e saggi dati dal Fondatore, s'avanzarono molto iprimi Accademici colla coltivazione della poesia,sopra ogni altra scienza da essi tenuta in pregio ».? Esiliato poi l'Allegretti daForli,l'Accademiaandòdispersa,eleraunanze vennero riprese solo nel secolo xv per opera di Antonio Urceo.3 18 nasum DELLA TORRE   Orbene si osservi che l'Allegretti fu in Rimini maestro di Carlo Malatesta '; e qual cosa più naturale che assieme al Malatesta si trovassero altri giovani delle principali famiglie Riminesi? Epperò quel Parnasum va senza dubbio inteso per scuola di umanità e non già per Accademia nel senso che l'intendono gli scrittori su riferiti. Quanto poi all'Accademia di Forli, come osserva giustamente ilTiraboschi,?severamentefosseesistita,loscrittoredegli An nales Forolivienses che nota il Parnasum aperto dall'Allegretti in Rimini, avrebbe a tanto maggior ragione notata un'Accademia. fondata in Forli, le cui vicende appunto egli si propone di nar rare;ed invece nulla.Come alsolito,gli scrittoridicose forlivesi, che, interpretando Parnasum per Accademia credevano che l'Alle gretti avesse fondata appunto un'Accademia in Rimini, sapendo che l'Allegretti era stato anche a Forli,gliene fecero fondare sen z'altro una anche in Forli,ascrivendovi come al solito quanti in quel tempo vi erano di uomini insigni per ingegno e per cultura. E con questa mania, sempre nel secolo Xvir, si andò tanto oltre, che si raggrupparono insieme perfino gli architetti del duomo di Milano per farne un'Accademia;laqualesarebbe cominciata verso l'anno 1380, mentre Giovan Galeazzo Visconti andava pensando di gettar le fondamenta del D u o m o: vi si sarebbe atteso « a quella maniera di fabricare,che i moderni chiamano Alemana »; avrebbe àvuto sede « nella Corte ducale compiacendosi in estremo quello stesso Duca del fabricare e dell'udirne talvolta discorrere i m a g giori architetti di que'tempi, ch'erano Giovannuolo e Miche lino, da'quali furono ammaestrati i compagni di Bramante » 3 Non occorre certamente fermarci piú a lungo per dimostrare l'as surdità di queste affermazioni:basti il dire che questa volta a base di esse non sta il più piccolo dato di fatto.4 1Cfr.ANGELO BATTAGLini:Della corte letteraria di Sigismondo Pan dolfo Malatesta Signore di Rimini in Basinii Parmensis poetae Opera prae stantiora. Tomo II,parte I. Rimini, e Lettera di Coluccio Sa lutati a Carlo Malatesta del 10 settembre 1401 in Epistolario di Coluccio Sa. Lutatiacuradi FRANCESCONOVATI.VolumeIV.Roma 1896,p.538:«Velim igitur,simichicredideris,eum (GiovannidaRavenna)decernasintertuos recipere et in locum magistri tui, viri quidem eruditissimi, quondam Jacobi de Alegrettis et in eius provisionem acceptes et loces ». 3 Cfr. GiroLAMO BORSIERI Il supplimento della Nobiltà ili Milano. Milano, 1619,p.37,eZANON,Catalogoetc.inl.c.p.305. 4 Si dia in proposito la più semplice scorsa alla prima parte di Il Duomo di Milano di Camillo Boito, Milano 1889.Jacopo Allegretti. Giacomo Allegretti. Allegretti. Keywords: colloquenza, dialettica, villa, villa Allegretti a Rimini, Bucolicon, Andrea Speranzi, i filergiti, “De propositionibus”, scuola di Firenze, dialettica a Firenze, accademie italiane dall’A alla Z, Andrea Speranzi, il primo accademico italiano a Firenze. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Allegretti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Allievo – filosofia italiana – Luigi Speranza (San Germano Vercellese). Filosofo italiano. Grice: “I love Allievo; of course he reminds me of all those scholars back in the day that I relied on for my philosophising on ‘intending’ – since isn’t this an act of the ‘soul’ – I mean Stout, and the rest – I once was a Stoutian, and then for better or worse, I became a Prichardian!” --  Grice: “Now Oxford never knew what to do with people like Stout – surely ‘the Wilde’ readership was a possibility, but Lit. Hum. and the Sub-Faculty of Philosophy always considered ‘mind’ – (as in the journal, ‘a journal of psychology and philosophy’) secondary to metaphysics! We thought The Aristotelian Society had more prestige than the Mind Association, and we still do!” – Grice: “So Allievo, like myself, was fascinated by Stout and Spencer and Bain and – in the continent, closer to Allievo, and always having more prestige than the barbiarian islanders! – Grice: “Add to that the charm of his italinanness versus the Germanic coldness of a Wundt – his name is unpronounceable to Allievo – and you get to the heart of his philosphising on ‘psicofisiologia’ – where the ‘io’ meets the ‘tu’ – and his focus, having studied the philosophical tradition in Rome – to ‘educatio fisica’ – which obviously needs to be psicofisica!” -- Wundtan d Flechner!” – Giuseppe Allievo (San Germano Vercellese) filosofo.  Frequentò la facoltà di filosofia dell'Torino e seguì l'insegnamento di Giovanni Antonio Rayneri, sacerdote e filosofo di matrice rosminiana.  Laureatosi il 18 luglio 1853 insegnò pedagogia a Novara, a Domodossola, dove conobbe Rosmini, e a Ivrea e nel Collegio di Ceva. A Domodossola pubblicò i suoi primi saggi e scrisse articoli per la Rivista contemporanea di Luigi Chiala.  Arrivò alla cattedra di pedagogia a Torino (1869). Cattolico spiritualista, fu propugnatore del cosiddetto sintesismo degli esseri, principio secondo il quale «nessuna parte di un ente può sussistere divisa dal tutto dell'ente stesso, e nessun essere può sussistere né operare diviso dagli enti che costituiscono l'universo».  Il 13 gennaio 1895 divenne socio dell'Accademia delle scienze di Torino.  Pensiero Critico dell'hegelismo, soprattutto per motivi religiosi, Allievo sosteneva doversi rifare alla tradizione filosofica spiritualista italiana per combattere sia la dottrina hegeliana che quella positivista che nella pedagogia si stava in quegli anni diffondendo in Italia.  Rimase fino al 1912 nell'Torino insegnando pedagogia e dedicandosi a ricerche di antropologia e pedagogia. Fu autore anche di un'opera di vaste proporzioni dedicata a Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia, dalla scuola ionica a Giordano Bruno (Torino 1877).  Opere principali: “Saggi filosofici”; “Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia”; “Studi antropologici”; “L’uomo e il cosmo”; Si espone e si disamina l'opinione del Brothier. Si espone e si giudica la teoria di G. A. Hirn. Segue l'esposizione critica della teoria di G. A. Hirn. Büchner. Si pone la questione e si accenna il come risolverla -- Si accenna la differenza tra l'uomo ed il bruto. Concetto definitivo dell'antropologia. Valore ed importanza dell'antropologia -- Del metodo in antropologia Divisione dell'antropologia -- Concetto della persona umana -- Analisi della persona umana -- La virtù intellettiva -- Della coscienza personale -- La coscienza di sè e la conoscenza esteriore -- Individualità soggettiva della conoscenza esteriore -- Universalità oggettiva della conoscenza esteriore -- Il potere animatore ed affettivo -- Del corpo umano in sè e nelle sue attinenze col potere animatore -- L'organismo esanime ed il potere animatore -- Unità sintetica della persona umana TEORICA DELLA VITA UMANA -- La vita latente anteriore alla nascita -- L'infanzia -- Le prime origini dei problemi psico-fisiologici. L'attività volontaria -- La suprema libertà dello spirito -- Varie forme della personalità umana derivanti dall'attività volontaria -- Attinenze tra la facoltà conoscitiva e l'attività volontaria -- Corrispondenza dell'organismo col potere affettivo -- Trapasso dalla teorica dell'essenza umana alla teorica della vita umana -- Il corso della vita umana -- Della conoscenza esteriore -- Mente e corpo distinti ed uniti nella persona umana -- La gioventù -- La virilità -- I poteri della vita  -- Teorica della sensitività -- L'atteggiamento esteriore dell'organismo ed il potere animatore -- Concetto comprensivo della persona e dell'essenza umana La vita maschile -- La vecchiaia -- Delle potenze in riguardo all'oggetto -- Delle potenze in rapporto col soggetto umano -- Delle potenze umane in particolare -- Specie del potere affettivo -- Del potere animatore -- Distinzione essenziale tra la mente e l'organismo corporeo -- Unione personale della mente coll'organismo corporeo -- Del potere affettivo -- Carattere universale ed ufficio del sentimento -- Concetto e forme della vita umana -- La vita propria e la vita comune -- Divisione del corso temporaneo della vita ne'suoi periodi fondamentali -- Durata della vita umana -- Dei periodi della vita umana in particolare -- Considerazioni generali in torno i periodi della vita -- La vita oltremondana -- Delle potenze umane in generale -- Delle potenze considerate nel loro sviluppo -- La vita fisica e la vita mentale -- Del senso fisico e delle sensazioni -- Del senso spirituale e de' sentimenti -- Del sentimentalismo -- Dell'istinto -- Della percezione sensitiva -- Della fantasia sensitiva -- Teorica dell'intelligenza -- Della speculazione e della memoria. Dell'intelligenza in riguardo al soggetto conoscente -- Dell'intelligenza in riguardo all'oggetto pensabile -- L'esperienza e -- L'intelligenza umana e LA PAROLA --  Dell'immaginazione. Concetto generale dell'immaginazione. Specie dell'immaginazione. Efficacia dell'immaginazione. Delle potenze estetiche. Teorica della volontà. Potere della volontà. L'operare della volontà. La libertà del volere. TEORICA DEL CARATTERE UMANO E DEL TEMPERAMENTO -- Ragione e genesi del carattere -- Concetto generale del carattere id. Dell'intuizione. Dell'attenzione intermedia tra l'intuizione e la riflessione -- Della riflessione -- Dell'istinto in ordine all'oggetto -- Trapasso dalla teorica della sensitività alla teorica dell'intelligenza -- Concetto generale dell'intelligenza -- Dell'intelligenza in riguardo al soggetto pensante -- La libertà del volere e la scuola positivistica -- Critica del determinismo positivistico -- La libera volontà e l'ambiente Art.7. Sintesismo dei poteri della vita -- Del senso -- Dell'istinto rispetto allo scopo la ragione. Dell'intelligenza in riguardo all'oggetto conosciuto -- Del carattere in ispecie -- Del carattere riguardato nella sua fonte -- Del carattere rispetto alle potenze ed alle forme dell'attività umana -- Del carattere morale -- Il carattere umano nella specie, nelle stirpi, nelle nazioni -- Del temperamento -- De'temperamentiinparticolare -- De'temperamenti in rapporto fra di loro “Studi pedagogici”; “Attinenze tra l'antropologia e la pedagogia”; Il linguaggio e la scrittura -- Dell'attenzione -- Dell'immaginazione sensitiva -- Dell'arguzia -- Della riflessione -- La memoria ed il ricordo -- Educazione del senso del bello -- La Levana di Giovanni Paolo Richter – Cenni biografici dell'autore --- Concetto generale -- Importanza ed efficacia dell'educazione -- La Levana o Scienza dell'educazione -- Appendice: Dell'educazione fisica infantile -- Dell'educazione della donna. “Esame dell'hegelianesimo”; “Il ritorno al principio della personalità”.  Note  Fonte: Francesco Corvino, Dizionario biografico degli Italiani alla voce corrispondente  in F. Corvino, Op. cit. ibidem  Giuseppe ALLIEVO, su accademia delle scienze. Giuseppe Allievo, su Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Giuseppe Allievo, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giuseppe Allievo, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Giuseppe Allievo, su open MLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Giuseppe Allievo,  Filosofia Filosofo del XIX secoloFilosofi iSan Germano Vercellese Torino Membri dell'Accademia delle Scienze di Torino. L'intelligenza umana e la PAROLA (dal greco, parabola) sono due termini,che mostrano l'uno verso l'altro armonica corrispondenza e vicendevolmente si spiegano e s'illustrano, come lo spirito ed il corpo nell'uomo. Il conoscere ed il sapere umano ritrae dalla ‘parola’, che lo riveste, una peculiare impronta, che lo distingue dal conoscere proprio degli spiriti puri, e la lingua rivela la tempra mentale. L'intelligenza infantile si schinde dal suo germe in grazia della ‘parola’, con essa va via via sviluppandosi e progredendo, con essa ha comuni le vicende e le fasi. Infatti, la ‘parola’ torna necessaria all'effettivo pensare, all'effettivo conoscere. Finchè il pensiero non si concreta nella ‘parola’, ed in essa per così dire non s'incorpora, nès'incarna, è inconsistente, sfuggevole, vago, non per anco formato, ma solo rudimentale ed appena sbozzato. Le percezioni, che si hanno degli oggetti esterni mercè isensi, sono confuse, indistinte, e si dileguano col dileguarsi degli oggetti percepiti. Ben si possono in certo qual modo fissare colle immagini, le quali rimangono anche nell'assenza degli oggetti materiali. Ma le immagini sono pur sempre *individuali*, come gli oggetti, cui si riferiscono, e per di più sfuggevoli e vane.Veri pensieri e vere cognizioni propriamente dette non si hanno se non mercè la ‘parola’. E e questa torna tanto più necessaria, quanto più la idea da SIGNI-ficare (o segnare) e generale ed astratta, ed ecco ragione per cui I BRUTI NON ‘PARLANO’ (Monkeys can talk) siccome quelli, che sono destituiti della facoltà di generaleggiare e di astratteggiare. Che se ponga si mente non più alla percezione esteriore, ma alla ragione ed alle funzioni diverse della riflessione, la necessità della ‘parola’ si chiarisce ancora più evidente a segno che senza di essa tornerebbe impossibile la formazione di qualsi voglia specie dell'umano sapere. Se adunque la ‘parola’ è vincolo necessario, che lega la mente col mondo delle idee e mezzo es -- Vedi la nota g in fine del volume. Due altre ragioni si aggiungono a confermare vie meglio la necessità di siffatto studio, l'una sociale, pedagogica l'altra. La ‘parola’ non solo è mezzo alla formazione dei pensieri e delle idee, ma altre sì organo il più acconcio A MANIFERSTAR la proposizione ALTRUI, epperò vincolo necessario, che congiunge l'uomo co'suoi simili in comunanza di vita, condizione potissima della società umana. Gli spiriti umani, perchè ravvolti nell'involucro dell'organismo corporeo, non possono rivelarsi l'uno all'altro, nè intendersi, nè mutuamente rispondersi senza qualche MEZZO SENSIBILE riposto in qualche atto o movimento del corpo: quale è appunto la ‘parola’, la cui potenza ed efficacia sugli animi altrui è meravigliosa. Ancora, essa non solo è una necessità sociale, ma altre sì pedagogica, perchè è vincolo essenziale, che unisce in armonia di intendimenti e di voleri l'educatore coll'alunno, il maestro col discepolo, tanto chè senza di essa ogni educazione ed istruzione vera ed efficace rimane un vano e sterile desiderio. La ‘parola’ e l'immaginazione, quando vengono raffrontate l'una coll'altra, appariscono convenire insieme in ciò, che entrambe importano una dualità di elementi, sensibile ed intelligibile [[psico-fisico]] insieme accoppiati, e sono potenze individualizzatricie rappresentative dell'idea sotto forma sensibile. Ond'è che tal fiata l'immagine ridesta la ‘parola’, tal altra la ‘parola’ ri sveglia l'immagine, ed amendue rinvengono un punto di comune contatto nel linguaggio metaforico, figurato, immaginoso. Ciò nulla meno evvi tra queste due potenze siffatto divario, che l'immagine essenzialmente si di spaia dal semplice SEGNO, ed oltre di ciò la ‘parola’ è un sensibile tolto dall'organismo umano, l'immagine per contro è un sensibile attinto dalla natura esterna. Riguardata nella sua nativa essenza la ‘parola’ può venire definita un sensibile umano SEGNANTE (o significante) un intelligibile. Umano, dico, perchè riposto in qualche atto o movimento del nostro corporeo organismo, quale il gesto, la voce pronunciata ed udita. Rintracciando la ragione spiegativa dell'essenza della ‘parola’ noi la rinveniamo nell'essenza stessa dell'uomo. Infatti i due costitutivi della ‘parola’, quali sono IL SEGNO [o SEGNANTE]  sensibile e l'e lemento intelligibile [IL SEGNATO], ritrovano la ragione ed il fondamento loro nei due supremi costitutivi dell'essere umano, quali sono l'organismo corporeo [il segnante] e la mente [il segnato]; e come all'essenza dell'uomo torna tanto necessario lo spirito, quanto il corpo, così è tanto necessario alla ‘parola’ il SEGNO quanto l' idea significata [IL SEGNATO]. Onde si vede ragione, percui ai bruti, destituiti di mente, fallisce la ‘parola’. Inoltre a costituire la ‘parola’ non basta la dualità degli accennati elementi, ma occorre, che siano contemperati ad unità, essendochè il sensibile debbe essere SEGNO [segnante] di un intelligibile.  -- esenziale alla formazione de' pensieri ed all'acquisto delle conoscenze effettive, appare manifesto, che l'intelligenza umana, ad essere compiutamente compresa, va altresì studiata nelle sue attinenze colla ‘parola’. Ora quest'unità importa un primato dell'intelligibile sul sensibile, ed ha la sua ragione nel dominio della mente sull'organismo corporeo, ciò è dire nell'armonia stessa dei due supremi costitutivi dell'uomo. In fatti la mente nostra padroneggiando l'organismo, con cui è naturalmente congiunta, essa è che eleva i gesti, la voce, l'udito, il moto delle membra alla virtù di significare [O SEGNARE] una idea o un sentimento dell'animo, vincolando questi con quelli. Di qui la bella sentenza di Cicerone intorno l'origine della ‘parola’. Vox principium a mente ducens (De natura Deorum, lib.2). Nella parola adunque il segno O SEGNANTE sensibile e l'idea, o IL SEGNATO, sono due termini inseparabili tanto, quanto sono nell'uomo indisgiungibili lo spirito ed  il corpo. Da siffatto interiore e naturale compenetramento fluiscono alcuni corollarii, che reputo opportuno di accennare. Il pensiero progredisce di pari passo col linguaggio. La lingua corre le medesime sorti e segue le stesse fasi che il pensiero,tanto chè la ragion spiegativa delle origini, dei progressi, delle trasformazionie del corrompersi di un idioma va rintracciata nello studio delle vicende, a cui soggiace il pensiero di un popolo, che lo parla. Dichesi pare quanto vadano errati non pochi cultori della filologia, i quali la segregano onninamente d allo studio del pensiero umano, di cui il linguaggio è l'ESPRESSIONE esteriore, togliendole di tal modo il carattere di scienza, non solo, ma trasmutandola in un tessuto di errori. Lo stampo e l'indole peculiare di un idioma arguisce uno stampo o tempra singolare di mente in chi lo adopera. Epperò come gli è vero, che la lingua genericamente presa è nota specifica, che distingue l'umano pensare e conoscere da quello di altri esseri intelligenti, così è pur vero, che i differenti idiomi in particolare sono note altresì distintive, che differenziano le une dalle altre le menti umane individue e nazionali. Tuttavia in mezzo a questa tra grande varietà di lingue etnografiche apparisce un fondo comune, su cui tutte sono intessute, e, direi, uno spirito universale, che tutte le informa e le solleva ad una unità superiore, essendochè la mente umana, se si manifesta molteplice e varia nelle molteplici nazioni e nei varii individui, risguardata nella suas pecifica essenza è una ed identica, perchè, governata dalle medesime leggi logiche e rivolta all'universalità del vero. E quest’unità radicale delle lingue riverberata dall'unità specifica della mente umana arguisce logicamente l'unità originaria e specifica del genere umano, come la loro moltiplicità arguisce la varietà delle razze,in cui esso è distribuito sulla faccia della terra. Consegue ancora dal principio stabilito, che il tradizionalismo, il quale pronuncia, che l'uomo riceve dalla società insieme colla ‘parola’ anche le idee e la virtù dello intendimento, apparisce erroneo, siccome quello, che disconosce il primato dell'idea sul segno vocale, e l'ingenita virtù della mente di elevare la voce a dignità dinunzia del pensiero. Se l'uomo impara dalla società il linguaggio, ciò è dovuto alla virtù, che possiede la sua intelligenza, di intenderne il significato o SEGNATO. Infine discende quest'altro corollario, che non manca della sua importanza pedagogica. Vera istruzione non è, quando il discepolo riceva passive la parola del maestro, come se questa dia bell'e fatta all'alunno l'idea, la quale invece vuol essere un portato del suo lavoro mentale, e quindi si deve cooperare alla forma zione della ‘parola’. Poichè altro è ricevere la ‘parola e meccanicamente ripeterla, altro è FARLA NOI. IMPLICATURA. La’ parola’ ‘altrui ha sempre alcunchè di vago, di incerto e di oscuro per CHI LA RICEVE, mentre presenta un SENSO FERMO  e più o men definito per chi se la forma, come si avvera nella formazione di un neologismo come ‘implicatura’. Il linguaggio umano trae le sue prime origini da quell'impulso spontaneo della NATURA, che spinge l'infante a significare O SEGNARE mercè di una GRIDA INARTICOLATA il suo BISOGNO, il suo desiderio, la sua sensazione, e già abbiamo chiarito altrove, come a poco a poco egli ne abbia svolto il suo linguaggio ARTICOLATO. Ma la grida primitiva, onde si svolse il linguaggio articolato e convenzionale, non costituiscono tutto quanto il linguaggio naturale, spontaneo o di azione, il quale abbraccia altresì IL GESTO, il movimento, la fisionomia ed altri segni ed atteggiamenti esteriori della persona. Ora GESTO può anch'esso svolgersi e perfezionarsi, o come complemento del linguaggio o accompagnando e compiendo il linguaggio articolato, o da sè solo sotto forma di linguaggio mimico, quale lo scenico dei drammatici e lo educativo dei sordo-muti. Il linguaggio articolato primeggia sul naturale, perchè il suono articolato o l'organo vocale, accompagnato dall’organo auditivo,è più pie ghevole, più facile, più svariato e perfettibile,più acconcio ad esprimere le idee in tutte le loro articolazioni. Esso può essere o parlato, o scritto. La ‘parola’ parlata riesce più viva della scritta, più ESPRESSIVA, più animata, ma alla sua volta questa è stabile e permanente, quella sfugge vole e mobile. Il linguaggio articolato riveste forme diverse corrispondenti alle forme progressive dell'intelligenza nelle varie età degli individui. Quindi si distingue un linguaggio proprio dell'intuizione e del sentimento, un altro della riflessione e della coscienza, un altro della scienza e dell'arte. Il linguaggio dei popoli e degli individui fanciulli è povero, sintetico, metaforico e figurato. Quello dei popoli e degli individui adulti è più o meno concettoso, la grammatica ne è fissa, la prosa misurata. Quello dei popoli colti e dei pensatori è dotto, analitico e sintetico ad un tempo. Imparare a parlare è qualche cosa di più elevato che non imparare le lingue particolari; e noi impariamo a parlare apprendendo LA LINGUA MATERNA. Questa lingua, che abbiamo imparato da piccini, quando la nostra intelligenza cominciava a schiudersi, costituisce per noi il linguaggio per eccellenza. Ogni altra nuova lingua, che sia pprenda, si capisce soltanto mediante il suo paragone o rapporto colla lingua materna, ed a questa con maggior ragione convengono tutte le lodi, che noi attribuiamo alla lingua dei Romani come mezzo di coltura. Il bambino è sempre tanto desideroso di udirvi, che spesso vi interroga anche su cose conosciute, unicamente per aver occasione di ascoltarvi. Or bene tutto il mondo esteriore vien fatto comparire e brillare davanti alla fantasia del bambino mediante il nome, con cui vien designato ciascun oggetto. Tutto ciò, che è corporeo, venga analizzato sotto gli occhi del fanciullo durante i suoi due primi lustri, ma non gli si faccia analizzare affatto tutto ciò, che è solo spirituale. La lingua materna siccome e la più innocente delle filosofie pel fanciullo, siccome il più valido esercizio di riflessione. Parlategli molto e con precisione, ed anche da lui esigete la precisione.Una PROPOSIZIONE oscura, ma che diventa chiara se ripetuta una volta, provoca l'attenzione e rinforza l'intelligenza. Non temete mai di non essere intesi, e nemmeno se si tratta di intere proposizioni. La vostra faccia, il vostro accento, e il vivo bisogno che sente il fanciullo di comprendere, rendono chiara la cosa per metà. E questa prima metà farà col tempo capire anche l'altra. Pensate che I fanciulli. [SVILUPPO DELLA TENDENZA ALLA COLTURA DELLO SPIRITO] come facciamo noi per la lingua greca o per qualunque altra lingua straniera, imparano prima a CAPIRE la nostra lingua, che a ‘parlar’-la. Al bambino parlate sempre come se avesse qualche anno di più. L'educatore, il quale a torto attribuisce al suo insegnamento troppa parte di ciò, che impara l'alunno, ricordi che il bambino porta già pronto in se medesimo ed imparato tutto il suo mondo spirituale (cio è le idee morali e metafisiche), e che la lingua con tutte le sue immagini sensibili non serve che a rischiarare questo mondo interiore. Qui trova suo luogo la questione dello studio della lingua dei romani come mezzo di coltura mentale. Lo studio della lingua de romani e come una ginnastica dello spirito, che ne riceve una scossa ed eccitazione salutare.Esso studio, non tanto in virtù del mero vocabolario, quanto in forza della grammatica, che è la logica della lingua, costringe lo spirito a ripiegarsi sopra di sè, a riflettere sulla ‘parola’, considerandole come un riverbero della propria attività intuitiva. Dal linguaggio si passa a dire dello scrivere, ed anche su questo punto non sono meno assennati ed acuti I suoi accorgimenti. In sua sentenza, lo scrivere, ancora più che il ‘parlare’, separa e concentra le idee, perchè il suono meccanico della ‘parola’ parlata insegna a scosse e passa rapido, mentre i caratteri della scrittura ‘parlano’ in modo continuato e distinto. Lo scrivere facilita la produzione delle idee assai più che il suono rapido della ‘parola’, essendo esse una veduta interiore più che un'audizione esteriore. Sotto altri riguardi la ‘parola’ parlata assai sovrasta alla parola scritta, essendochè quella è ‘parola’viva, che esce animata dall'interiore organismo e discende potente nell'anima di chi la ascolta, mentre questa è parola morta, che esce dalla penna inanimata e non è che una debole eco della prima. Esercitate di buon’ora, e gli prosegue, il fanciullo a scriver e I pensieri suoi proprii piuttostochè ivostri. Risparmiategli i temi comunissimi, quali sarebbero le lodi della diligenza, del maestro di scuola,dei governanti ecc.Niente più nuoce a qual siasi componimento, quanto la mancanza di un oggetto proprio e di inspirazione. Una lettera, provocata unicamente dalla volontà del maestro, e non da un bisogno del cuore, diventa una  morta apparenza di pensiero,un inutile consumo di materia mentale. Se fate scrivere lettere, siano rivolte ad una persona determinata e sopra un determinato oggetto. Lo scrivere una pagina eccita e sveglia l'intelligenza assai più che il leggere un libro intiero. Vi è tanto poca gente,che sappia scrivere con un po'di garbo, quanto son pochi coloro, che sanno dire quattro periodi continuati  [2. Dell'attenzione. È avviso dell'autore,che l'attenzione,riguardata non in generale,ma specialeerivolta ad un particolare oggetto,non va raccomandata,nè suscitata o promossa con mezzi esteriori, quali sarebbero il premio od il castigo, poichè in tal caso il fanciullo più che all'oggetto proposto all'osservazione, terrebbe l'animo attento al premio, che lo attrae, od al castigo minacciato. Pongasi mente, che esso non è atto a sostenere un'atten zione prolungata e non mai interrotta;perciò non pretendete, che anche trattandosi d'un argomento, che possa interessarlo, vi presti la sua attenzione in qualunque ora e luogo e per tutto il tempo prescritto dai nostri regolamenti scolastici. La novità è pure una potente attrattiva per l'attenzione, m a per ciò stesso non va sciupata ripetendo troppo spesso le medesime cose sicchè diventino monotone e stucchevoli.  ] .  Chi dovrà un giorno fare giustizia e scrivere veramente la storia del pensiero filosofico italiano nell’ultimo secolo, non potrà non dare una gran parte allo spiritualismo: del quale certo uno dei più illustri e combattivi rappresentanti è stato ed è»1. Le parole di Calò attestano una realtà difficilmente discutibile per chi si approcci anche alle vicende della pedagogia italiana nel mezzo secolo successivo all’Unità. Nato a San Germano Vercellese il 14 settembre 1830, Giuseppe Allievo2 compì gli studi secondari al seminario Arcivescovile di VGiuseppe Allievoercelli. Vinta una borsa al Collegio Carlo Alberto di Torino, si iscrisse nella Facoltà di filosofia della Regia Università. Si distinse per la preparazione e l’applicazione negli studi. In un articolo pubblicato sulla«Rassegna Nazionale», Giacomo Cottini riportò una lettera scritta da Aporti che comunicava al giovane Allievo la vincita di un premio che ammontava a trecento lire per i suoi meriti universitari3, segno premuni tore di una carriera accademica di primo piano. Laureato nel 1853, già lo stesso anno fu chiamato alla direzione di una scuola di metodo presso Novara, dove teneva anche il corso di pedagogia. Iniziò così una lunga serie di esperienze educative che lo portarono in diversi centri piemontesi: nel 1854 fu trasferito a Domodossola, poi per due anni ad Ivrea, quindi nel collegio di Ceva e successivamente a Casale Monferrato dal 1858 al 1860. L’anno seguente fu destinato sempre all’insegnamento di filosofia al Regio Liceo di Porta Nuova a Milano, l’attuale Liceo Parini, dove rimase per sei anni. Nel centro lombardo insegnò anche Filosofia teoretica, 1 G. Calò, Giuseppe Allievo Filosofo, in Vita e mente di Giuseppe Allievo, Torino, Scuola Tipografica Salesiana, 1913, p. 13. 2 G. B. Gerini, Gli scrittori pedagogici italiani del secolo decimonono, Torino, Paravia, 1910, pp. 707- 708; P. Braido, Allievo Giuseppe, in Dizionario Enciclopedico di Pedagogia, Torino, S.A.I.E., 1958, vol. I, pp. 59-60; M. P. Biagini, Allievo Giuseppe, in Enciclopedia Pedagogica, Brescia, La Scuola, 1989, vol. I, pp. 377-381.  3 G. Cottini, Giuseppe Allievo, «Rassegna Nazionale», I settembre 1913, p. 66. 22  logica e metafisica, all’Academia Scientifica – Letteraria. Ebbe modo di stringere rapporti con alcune delle personalità di spicco della cultura milanese: Pestalozza, Poli, Cantù, Tullio Dandolo. Continuò a tenere i rapporti con l’università torinese, dove nel 1857 aveva superato l’aggregazione nella Facoltà di lettere e filosofia, con giudizi molto positivi del Mamiani e del Rayneri4. Furono anni di intenso studio e anche segnati dalla sofferenza, dopo la morte di uno dei suoi figli5. Nel 1867 poté tornare a Torino poiché fu nominato insegnante di filosofia al Regio Liceo Cavour e incaricato del corso di pedagogia all’Università, dopo la morte del Rayneri. Continuò ad insegnare nella scuola sino al 1869, quando fu nominato titolare della cattedra di Pedagogia. Divenne ordinario solo nel 1878, ed insegnò ininterrottamente all’Università di Torino sino al 1912. La sua produzione pedagogica fu copiosa. Scrisse più di cento pubblicazioni tra monografie e saggi. Le sue opere più importanti furono: Saggi filosofici (1866), Della pedagogia in Italia, L’antropologia e l’hegelismo, L’Hegelismo e la scienza, la vita (1868), L’educazione e la nazionalità (1875), L’educazione e la Scienza (1882), Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico (1883), Delle idee pedagogiche dei Greci, Studi pedagogici, Riforma 4 Cottini riportò un ricordo di Antonio Parato, risalente al giorno Allievo passò il concorso per l’aggregazione a Torino: «Antonino Parato, anch’esso decoro e vanto della scuola pedagogica italiana, disse nella sua Vita Magistrale, che avendo nel giorno stesso della pubblica prova incontrato Giovanni Antonio Rayneri, allora professore di Pedagogia nel Torinese Ateneo, gli venne dal medesimo annunciato con trasporto di gioia che il Collegio Universitario aveva allora allora accolto nel suo seno una sicura speranza della Filosofia italiana» G. Cottini, Giuseppe Allievo. Nel suo articoli, Cottini trascrive una lettera di Allievo indirizzata all’abate e professor Bernardo Raineri, rinvenuta dallo studioso e sacerdote Alessandro Roca tra le carte che il Raineri affidò agli archivi dei padri rosminiani. Si tratta di pagine molto significative, scritte poco dopo la morte del figlio Giulio, deceduto all’età di soli dieci anni: «Professore carissimo, Vi sonon grato e riconoscente della vostra lettera consolatoria. La profonda e grave ferita, che mi sta aperta nell’animo, è insanabile, ma pure ringrazio di cuore gli uomini del loro pietoso ufficio. L’immagine del mio povero Giulio mi accompagna dovunque, eppure so che vivo non lo rivedrò mai più sulla terra. La mia mente è con lui nel sepolcro, dove assisto col pensiero alla dissoluzione delle sue povere membra, che si confondono colla polvere della terra e in ogni passo che faccio, mi pare ci sentirmi dire: Padre, perché mi calpesti? Ah, se io avessi la sventura di essere materialista, vedendo che il mio Giulio è tutto finito in un pugno di polvere, non saprei resistere all’idea di rinunciare anch’io alla vita in modo violento. La fede, solo la fede cristiana, mi fa forte nella lotta tremenda, e rassegnato ai duri, eppur sempre adorabili voleri di Dio. La natura mi ha strappato dal seno il mio diletto per convertirmi il corpo in poca polvere; la fede miaddita il suo spirito sempre vivo in cielo e mi assicura che quella poca polvere si rifarà corpo vivo per mantenerla. Non ho voluto che la salma di mio figlio giacesse qui a Milano, dove non si pensa più ai poveri morti: l’ho fatto in quel campestre cimitero, accanto ai sepolcri, dove riposano lacrimate le ossa de’ miei genitori. E vorrei anch’io abbandonare per sempre Milano, ma non posso nulla per me. I molti miei amici vivamente mi solleticano di chiedere la cattedra di pedagogia vacante nell’Università di Torino, e ci andrei volentieri, ma io mi tengo forte nel mio proposito di non chiedere più nulla al Potere. Ieri mi è giunto notizia che è morto un mio fratello ammogliato, lasciando dietro di sé tre creature. E quasi tutto ciò non bastasse, ho il mio ultimo bimbo di quatto anni ammalato da 25 giorni di febbre miliare, in grave pericolo di vita ed ormai disperato dai medici. Sono infelice, ma l’infelicità non è così, quando si è con Dio, il quale ci addolora quaggiù per bearci in cielo. Ricambiate i mieri saluti a quall’anima di Iacopo Bernardi: ditegli che gli sono proprio riconoscente della parte che prese al mio dolore, e voi vogliatemi sempre bene» Ibid., pp. 67-68.  23  dell’educazione mediante la riforma dello Stato (1897), Esame dell’hegelismo (1897), La pedagogia antica e contemporanea (1901), Opuscoli pedagogici,  G. G. Rousseau filosofo e pedagogista. Scrive anche alcuni manuali per le scuole secondarie come il Breve compendio di filosofia elementare ad uso de’ licei (1862), Elementi di pedagogia ad uso delle Scuole normali del Regno e il Compendio di Etica ad uso dei Licei (1899), con più edizioni e ampiamente adottati nelle scuole italiane. Allievo collaborò attivamente alla pubblicistica pedagogica e filosofica del tempo6. Nel 1867 con Carlo Passaglia fu il principale animatore del «Gerdil», organo dei giobertiani e spiritualisti torinesi, che ebbe però breve durata non riuscendo a superare l’anno. Vi scrissero, tra gli altri, Giovanni Maria Bertini e Francesco Bertinaria. Diresse «Il campo dei filosofi», un periodico fondato a Napoli da Gaetano Milone, poi trasferito a Torino nel 1867. Si tratta di un’esperienza pubblicistica che ebbe una certa rilevanza nel dibattito filosofico e pedagogico italiano, come ha già sottolineato Eugenio Garin7. Vi collaborarono autori come Di Giovanni, Toscano, Morgott, Peyretti, Rayneri, Tagliaferri, Bonatelli, Marsella, Tiberghien, Bosia, 6 Cfr. G. Chiosso (ed.), La stampa pedagogica e scolastica in Italia (1820-1943), Brescia, La Scuola. Dopo aver citato alcuni brani della rivista, Garin osserva: «“Il Campo dei Filosofi Italiani”, la rivista vissuta a Napoli dal 1864 al ’67, e poi passata a Torino sotto la direzione dell’Allievo, si proponeva di combattere soprattutto “l’idealismo dell’Hegel e il positivismo del Comte” – come scriveva l’Allievo nel programma del ’68, continuando del resto l’attività iniziata a Napoli dal barnabita Gaetano Milone. Oltre i saggi di critica all’hegelismo già citati, altri ve ne comparvero, dell’Allievo nel ’72, del Di Giovanni nel ’64, del Donati nel ’66, del Selvaggi nel ’67, del Tagliaferri nel ’70. E l’attività della rivista in questo settore meriterebbe di essere studiata, tanto più che non è privo d’interesse il legame subito stabilito fra hegelismo e positivismo, quasi gemelli nemici». Dopo aver ricordato la facilità con cui diversi idealisti si «convertirono» al positivismo negli anni seguente all’Unità, Garin spiega questo fenomeno riprendendo e valorizzando l’analisi dell’Allievo che vedeva in queste due teorie apparentemente distanti, un comune denominatore: «Quell’onesto studioso che fu Giuseppe Allievo, professore di antropologia e pedagogia a Torino, che aveva alimentato una vivace ma seria discussione intorno all’hegelismo sul “Campo dei Filosofi Italiani”, che nel ’68 aveva messo insieme un onesto libretto su L’hegelismo, la scienza e la vita, pubblicando quasi trent’anni dopo, nel ’97, a Torino, un Esame dell’hegelianismo, che voleva essere un bilancio, credeva di poter individuare una convergenza profonda fra positivismo e hegelismo. “L’Hegelianismo – scriveva – e il positivismo, che a tutta prima hanno sembianza di due dottrine diametralmente opposte e riluttanti, in realtà sono fra loro congiunti da un punto di contatto intimo e profondo.” Assoluta immanenza, realtà come processo e sviluppo, celebrazione della ‘scienza’ (Wissenschaft): ecco alcuni dei punti su cui insisteva l’Allievo, pur avverso a entrambe le concezioni. Ma comunque si valuti la sua disamina, e al di là dei ‘casi’ degli hegeliani passati al positivismo, una cosa certa l’Allievo coglieva esattamente: l’esistenza di una ‘riforma’ in atto della dialettica del senso dell’evoluzionismo, con tutto quello che una veduta del genere implicava, “in metafisica, in politica, in diritto, in morale, in religione” – per usare le sue parole. Proprio dentro questo processo, già avviato nell’ambito dell’eredità feurbachiana, si muoverà fra tensioni e polemiche Antonio Labriola: contro l’evoluzionismo spenceriano al posto del moto dialettico della storia, contro il socialismo neokantiano-positivistico al posto del marxismo, per una rinnovata filosofia della prassi, ma anche – lo dichiarerà a Engels – per una sostituzione del metodo genetico a quello dialettico, il che non era solo ‘questione di parole’» E. Garin, Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l’Unità, Bari, De Donato, 1983, pp. 56-57.  24  Bertini, Polla, Leonardi, Naville, Passaglia e altri. In seguito pubblicò una serie di articoli sulla «Rivista filosofica». Nel 1883, quando era ormai divenuto uno tra i principali protagonisti del dibattito pedagogico nazionale, Allievo assunse la direzione de «Il Baretti»8, un foglio dedicato a questioni scolastiche e pedagogiche, che guidò sino al 1885. Qui vi apparvero perlopiù una serie di articoli utili a lumeggiare le sue posizioni in merito alla libertà d’insegnamento e, più in generale, alla politica ministeriale. Nella sua lunga carriera, Allievo rappresentò una delle personalità di primo piano della pedagogia spiritualista italiana. Le sue opere e il suo pensiero divennero un punto di riferimento per la riflessione e il mondo educativo cattolico9, trovando una considerevole «circolazione pedagogica», per riprendere una categoria riproposta da Prellezo10. La Bertoni Jovine ne parlò come il maggiore esponente del «neospiritualismo»11, sino a considerarlo, esagerando, come la guida della corrente cattolica12. Il ruolo assunto nella discussione pedagogica del tempo è senza dubbio legato alla posizione privilegiata avuta per quasi mezzo secolo in ambito accademico. Va tenuto conto che allora i docenti di pedagogia incardinati nelle Università italiane erano relativamente pochi. Serafini, riprendendo un brano di Cesca, rileva come nel 1890 si contassero solo cinque professori di pedagogia nelle tredici facoltà italiane di Lettere e Filosofia, e di questi solo tre erano gli ordinari13. Allievo era uno di loro, ed insegnava in un Ateneo come quello torinese che oltre ad avere con quello napoletano il primato per il numero di studenti iscritti, rappresentava in quei decenni uno dei poli principali del dibattito pedagogico italiano, sia in campo accademico, che in quello pubblicistico e scolastico. 8 Cfr. G. Chiosso (ed.), La stampa pedagogica e scolastica in Italia (1820-1943), cit., pp. 90-91. 9 G. Chiosso, I giornali scolastici torinesi dopo l’Unità, in Id. (ed.) Scuola e Stampa nell’Italia liberale. Giornali e riviste per l’educazione dall’Unità a fine secolo, cit., p. 17. 10 In uno studio dedicato a Rayneri, a cui ne seguì uno analogo su Allievo, Prellezo invita ad approfondire la capacità di influenza dei pedagogisti più impegnati teoreticamente con la realtà educativa. Egli parla della «necessità di promuovere ricerche puntuali allo scopo di definire limiti e portata dell’incidenza delle dottrine pedagogiche, non solo nell’ambito delle riforme dell’insegnamento pubblico, ma anche, ad esempio, in quello dell’azione educativa dei fondatori e primi membri delle congregazioni religiose dedicate all’insegnamento» J. M. Prellezo, Pensiero pedagogico e politica scolastica. Il caso di G. A. Rayneri (1810- 1867), in «Annali di Storia dell’Educazione e delle Istituzioni scolastiche», n. 1, 1994, Brescia, La Scuola, p. 149. 11 D. Bertoni Jovine, F. Malatesta, Breve storia della scuola italiana, Roma, Editori riuniti, 1961, p. 25. 12 «Il neo spiritualismo dell’Allievo se riuscì a creare una corrente alla quale aderirono studiosi come il Conti e l’Alfani e tutto il gruppo della Rassegna Nazionale non ebbe la capacità intrinseca di operare un capovolgimento della pedagogia e neanche quella di combattere efficacemente il positivismo che, benché debole dal punto di vista speculativo, era portatore di vivissime esigenze socali, sostenute dai partiti democratici» D. Bertoni Jovine, La scuola italiana dal 1870 a nostri giorni, Roma, Editori Riuniti, 1972, p. 63. 13 G. Serafini, L’idea di pedagogia nella cultura italiana dell’Ottocento, Roma, Bulzoni Editore, 1999, p. 83.  25  Riguardo alla «circolarità» di Allievo nella corrente cattolica, merita di essere accennata la collaborazione con i salesiani14. Il docente vercellese poté conoscere presumibilmente l’esperienza educativa della congregazione già negli anni dell’Università, prima come studente della città di Torino, e poi quando divenne professore. Diversi collaboratori di Don Bosco frequentarono infatti l’ateneo subalpino. In seguito, uno dei suoi figli studiò al collegio salesiano di Mirabello. Il docente vercellese si avvicinò sempre più alla congregazione: collaborò nel collegio salesiano di Valsalice, partecipò alle numerose manifestazioni scolastiche e culturali dei salesiani in città15, fece spesso visita in qualità di «esperto» alle scuole del santo piemontese. Alcuni studiosi salesiani hanno parlato di una vera e propria amicizia tra Don Bosco e il pedagogista vercellese16. Un episodio risulta significativo nella ricostruzione di questo rapporto. Quando alla fine degli anni ’70 l’oratorio di Valdocco rischiò di essere chiuso per dei provvedimenti voluti dal Ministro Correnti, Allievo si offrì per cercare di salvare l’istituto. Aiutò don Bosco nella compilazione dell’istanza da inviare al Ministero e si impegnò per inoltrare un ricorso al Consiglio di Stato. Negli anni seguenti mantenne stretti i rapporti con gli altri salesiani più giovani, soprattutto con don Durando, direttore generale degli studi delle scuole salesiani. Il pensiero dello studioso vercellese ispirò anche alcune opere dei primi pedagogisti salesiani17. Prellezo documenta l’influenza della pedagogia di Allievo sulla Storia della pedagogia (1883) di Cerruti e sugli Appunti di pedagogia (1897) di Barberis18. Una certa influenza è anche rilevabile nelle Lezioni di pedagogia di don Vincenzo Cimatti19. In 14 Sul tema si rinvia al documentato e approfondito studio di: J. M. Prellezo, Giuseppe Allievo negli scritti pedagogici salesiani, «Orientamenti pedagogici», n.3, maggio-giugno 1998, pp. 393-419. 15 Proverbio ricorda la presenza dell’Allievo alla seconda rappresentazione del Phasmatonices di Rosini nel 1868. «Le insistenza per la replica furono tali che il sipario si riaprì l’otto giugno: vi accorsero molti torinesi, tra cui il professor G. Allievo, docente di pedagogia alla Università di Torino, il quale “andava per la sala del teatro a trarre innanzi persone ragguardevoli”, mentre negli intervalli venivano eseguite le romanze verdiane di G. Cagliero» G. Proverbio, La scuola di don Bosco e l’insegnamento del latino (1850-1900), in F. Traniello (ed.), Don Bosco nella storia della cultura popolare, Torino, Sei, 1987, p. 172. 16 Trat tando del santo piemontese, Braido ha osservato: «reali furono le relazioni, perfino di cordialità e di amicizia, con alcuni teorici della pedagogia contemporanei, come A. Rosmini, G. A. Rayneri, G. Allievo» P. Braido, L’esperienza pedagogica preventiva nel secolo XIX, Don Bosco, in Id. (ed.), Esperienze di Pedagogia cristiana nella storia, cit., p. 313. Si veda anche: J. M. Prellezo, Giuseppe Allievo negli scritti pedagogici salesiani, cit., p. 413. 17 Su tale legame Pietro Braido ha rilevato: «Giannantonio Rayneri e Giuseppe Allievo esercitarono un palese influsso diretto su due note figure di studiosi salesiani di pedagogia, rispettivamente D. Francesco Cerruti e D. Giulio Barberis; gli inediti Appunti di Pedagogia sacra di quest’ultimo rivelano un’evidente dipendenza. Allievo, benefattore e sostenitore di Don Bosco, si batté strenuamente per la sopravvivenza delle scuole di Valdocco, mettendo a disposizione, in difesa della libertà educativa, la sua energica contrarietà al centralismo burocratico del Ministero della P.I.» in P. Braido, L’esperienza pedagogica preventiva nel secolo XIX, Don Bosco, in Id. (ed.), Esperienze di Pedagogia cristiana nella storia, cit., p. 313. 18 J. M. Prellezo, Giuseppe Allievo negli scritti pedagogici salesiani, cit., pp. 406-412. 19 Ibid., p. 413.  26  verità, anche altri manuali pedagogici del tempo si ispirarono alla riflessione dell’Allievo20. Se l’opera del vercellese fu accolta subito con favore dal circuito cattolico liberale e da quello salesiano, il gruppo intransigente non sembrò accorgersi del suo contributo. Solo all’inizio del Novecento, quando la dialettica interna nel mondo cattolico assunse toni meno aspri, anche «La Civiltà cattolica» lo menzionò per le sue posizioni a favore della libertà d’insegnamento21. Sebbene l’opera di Allievo mantenne una dimensione prevalentemente nazionale, egli attirò l’attenzione di alcuni studiosi stranieri come Naville, Daguet, Blum. Dopo una lunga esistenza spesa interamente alle riflessione educativa si spense a Torino il 24 giugno 1913. I. 1. Influenze rosminiane e dimensione europea Alla costruzione del sistema pedagogico e filosofico dell’Allievo, contribuirono molteplici scuole e sollecitazioni. Gran parte degli studi dedicati al pedagogista vercellese hanno rilevato un’«evidente traccia della riflessione rosminiana»22, come già aveva sottolineato nelle sue ricerche Gentile23. Per cogliere le ragioni di tale influenza, occorre in primo luogo considerare il peso del rosminianesimo nella cultura pedagogica e filosofica piemontese della prima metà dell’Ottocento. L’Ateneo torinese rappresentò con i seminari lombardi uno dei maggiori centri di influenza e propagazione della filosofia del roveretano24. Si tratta di un afflato radicato, che si conservò ancora a lungo nella cultura subalpina25. Allievo trascorse, pertanto, gli anni della sua formazione universitaria in un contesto permeato dal pensiero rosminiano. Diversi dei suoi professori erano discepoli rigorosi del roveretano. Grazie ad un suo docente, Allievo poté avere un primo contatto con Rosmini: Pier Antonio Corte inviò al pensatore roveretano un breve scritto dello studente vercellese per averne un parere. Poco tempo dopo, Rosmini rispose all’invito del professore e 20 Tra gli altri, Arcomano, sottolinea come il saggio di Costanzo Malacarne, Sunti di pedagogia, un classico della manualitstica pedagogica del tempo, appaia fortemente influenzato dalla pedagogia di Allievo. Cfr. A. Arcomano, Pedagogia, istruzione ed educazione in Italia, Chiosso, Editoria e stampa scolastica tra otto e novecento, in L. Pazzaglia (ed.), Cattolici, educazione e trasformazioni socio – culturali in Italia tra Otto e Novecento, Chiosso, Novecento pedagogico, Brescia, La Scuola, Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia. I platonici, Messina, Principato, Gambaro, Antonio Rosmini nella cultura del suo tempo, «Il Saggiatore», Traniello, Cattolicesimo conciliarista, Rosmini e il Piemonte. Studi e Testimonianze, Stresa, Edizioni rosminiane, 1994. 27   apprezzò il lavoro pur sottolineando i limiti dello scritto di Allievo, allora solo ventiduenne26. Pochi anni dopo, nel 1854, il pedagogista vercellese ebbe anche l’occasione di conoscere personalmente il Rosmini, poichè allora dirigeva un corso di Metodica a Domodossola, frequentato da alcuni allievi dell’Istituto di Carità. Del roveretano ebbe una impressione eccezionale. Ricordando quella circostanza, ne parlò come di una persona dotata di una «modestia pari alla sua grandezza»27, ma anche di una profonda serenità, probabilmente legata, in quel periodo, al recente Dimmitantur per le sue opere. Il legame con il rosminianesimo fu corroborato da Giovanni Antonio Rayneri, da cui Allievo ereditò la cattedra all’Università di Torino. Professore e sacerdote, il Rayneri rappresentò un protagonista nel fermento educativo e pedagogico piemontese tra gli anni ’40 e ’50 dell’Ottocento. Il suo sistema pedagogico si innestava sull’impianto filosofico del roveretano, di cui offrì un’organica riproposizione in chiave educativa. L’elaborazione di Rayneri fu di vitale importanza per la circolazione della pedagogia rosminiana28. La lezione del suo predecessore rimase un costante punto di riferimento per l’Allievo. Lo studioso vercellese curò nel 1869 la pubblicazione postuma del saggio Della pedagogica, una summa in cinque volumi del pensiero del Rayneri, «supplendo il libro e mezzo, che mancava, con pochi appunti rinvenuti fra le carte dell’autore»29. Si tratta di un’opera considerata da Allievo come una delle maggiori confutazioni agli errori della pedagogia moderna30. In una delle sue prime opere più importanti,: L’Hegelismo e la scienza, la vita (1868) si trova una dedica molto significativa al suo maestro31. 26 In una lettera datata 17 febbraio 1852, il Rosmini scrisse al Corte: «La ringrazio d’avermi comunicato lo scritto del signor Giuseppe Allievo. L’ho letto con piacere e confermo pienamente il giudizio favorevole da lei portato e mi congratulo colla R. Università se fa di tali allievi, mi congratulo con Lei e coll’autore del detto scritto, che mi par l’ugna del leone. Quello che può mancare alla proprietà del linguaggio verrà in appresso, essendo cosa che solo s’impara cogli anni... Queste sottili osservazioni però non impediscono che il lavoro favoritomi sia degnissimo di lode» Citata in G. B. Gerini, La mente di Giuseppe Allievo, Torino, Tipografia S. Giuseppe degli artigianelli, 1904, p. 8. 27 G. Allievo, Il concetto pedagogico di Antonio Rosmini, in Per Antonio Rosmini, Milano, Cogliati, 1897, vol. II, p. 523. 28 G. Chiosso, Rosmini e i rosminiani nel dibattito pedagogico e scolastico in Piemonte (1832-1855) in Antonio Rosmini e il Piemonte. Studi e Testimonianze, cit., p. 102. 29 G. Cottini, Giuseppe Allievo, cit., p. 71. 30 Nella commemorazione già citata scrive: «La Pedagogica mi apparisce una spiccata antitesi dell’Emilio di Gian Giacomo Rousseau; in quella tutto è semplice, connesso, lucido, ordinato e preciso: in questo tutto è sconnesso, incoerente, saltuario; il nostro Pedagogista ha la coscienza del suo pensiero, misura i suoi conoscimenti, non trascorre mai gli estremi; il ginevrino scatta fuori con grandi paradossi che colpiscono, con pensieri sublimi, grandi originali, dove la verità è in lotta continua con l’errore; [...] Un’altra idea della vita, un giusto sentimento della natura umana, un vivo ed operoso concetto del dovere, sono questi i principi filosofici, che informano la Pedagogica del RAYNERI, principi diamentralmente opposti a quelli dell’umanismo contemporaneo, che fa dell’uomo Dio a se stesso» G. Allievo, Commemorazione del primo Centenario della nascita di Giovanni Antonio Rayneri, letta in Carmagnola, Asti, Tipografia Popolare Astigiana, 1910, pp. 14-15. 31 La dedica recita: «Alla cara e venerata memoria di Gioanni Antonio Rayneri, Che primo fra gl'italiani tentò elevare all'unità sistematica della scienza la. Pedagogica da lui per un ventennio professata all'Università di Torino questo tenue lavoro con riverenza di discepolo piamente consacro».  28  Nel 1910, il vercellese fu invitato a tenere un discorso in occasione del centenario dalla nascita di Rayneri32. Ormai prossimo alla pensione, ripercorrendo quasi cinquant’anni di insegnamento universitario, ricordò con queste parole il maestro: «Gran parte della mia vita pedagogica sta collegata col nome di lui, essendochè negli anni miei giovanili, sedendo sui banchi dell’Università io ascoltava la sua magistrale parola, e che egli ha illustrato per poco più di un ventennio quella cattedra, che io tengo da quasi mezzo secolo»33. Durante gli anni del suo magistero, Allievo rimase sempre in contatto con gli ambienti rosminiani, collaborando anche ad alcune riviste ad esso legato34. Diversi concetti e posizioni del sistema del vercellese sono chiaramente mutuati dall’alveo rosminiano. Un primo elemento è l’idea della personalità, che Allievo pone al centro della sua pedagogia35. In questo campo, accolse gran parte dell’impianto psicologico e antropologico del roveretano, riproponendo la tripartizione delle facoltà: senso, volontà e intelletto, largamente utilizzate e approfondite dal professore piemontese. Al Rosmini lo legano anche ragioni e argomenti di critica alla filosofia moderna. Al pari del roveretano, ma anche di altri autori spiritualisti, Allievo riunì Kant e i pensatori idealisti sotto la stessa etichetta di «scettici». Un altro elemento riguarda l’unità di filosofia e pedagogia, di cui Allievo si fece araldo di fronte agli eccessi di metodologismo cui erano tentati anche alcuni studiosi cattolici36. All’idea di unità, è collegato un altro concetto rosminiano accolto da Allievo, vale a dire quello del «sintetismo»37, strettamente connesso a quello di «armonia», considerato nodale per comprendere la sua idea di educazione38. Non senza motivo, Berardi riassunse la teoria della personalità dell’Allievo come una «traduzione del sintetismo di origine 32 G. Allievo, Commemorazione del primo Centenario della nascita di Giovanni Antonio Rayneri, letta in Carmagnola, cit. 33 Ibid., p. 4-5. 34 Tra le altre, offrì la sua collaborazione alla rivista La Sapienza, Rivista di filosofia e di Lettere, diretta da don Vincenzo Papa e pubblicata dal 1879 al 1886. Cfr. Antonio Rosmini e il Piemonte. Studi e Testimonianze, cit., p. 65. 35 Giovanni Calò sostenne come, in fondo, «Quella del Rosmini è una pedagogia della personalità» G. Calò, Pedagogia del Risorgimento, Sansoni, Firenze, 1965, p. 679. 36 Commentando un breve intervento dello studioso vercellese sulla pedagogia del Rosmini, Cavallera ho osservato come «l’Allievo individua nel concetto di unità la forza del pensiero pedagogico rosminiano uscendo dai consueti schemi della illustrazione della metodica, ma non va oltre tale precisazione» H. A. Cavallera, Rosmini nella Pedagogia dell’Ottocento, cit., p. 117. 37 Come conferma Mazzantini: «Rimasero sempre per lui fari di orientamento, nella sua vita di studioso, le dottrine ontologiche (già in gioventù manifestateglisi evidenti) della gradualità e del sintetismo degli esseri» C. Mazzantini, I capisaldi del sistema filosofico pedagogico di G. Allievo, «Rivista Pedagogica», n. 10, 1930, p. 702. 38 In merito la Quarello, che ha dato alle stampe uno dei lavori più precisi ed elaborati sull’Allievo, ha osservato: «Nella dottrina pedagogica dell’Allievo la legge fondamentale è dunque l’armonia, legge che necessariamente deriva da quella suprema filosofica: “Il sintetismo universale”» V. Quarello, G. Allievo, studio critico, Lanciano, Carabba, 1936, p. 121.  29  rosminiana»39. Sebbene il vercellese, ad esempio nei Saggi filosofici, sul tema si rifaccia alle opere del Krug, le tracce del discorso rosminiano sono evidenti. Se tali elementi mostrano un chiaro ancoraggio all’opera rosminiana, da una lettura più attenta delle opere di Allievo emerge tuutavia anche una serie di differenze con il roveretano che non permettono di ascrivere in toto l’opera del professore piemontese tra quello del circuito rosminiano vero e proprio, rispetto al quale, al contrario, manifestò l’esplicita intenzione di differenziarsi. Si tratta di una posizione che, secondo uno dei più importanti pedagogisti di scuola rosminiana, poteva tuttavia essere letto in modo positivo40. Già Francesco Paoli, curatore di alcune delle più importanti opere postume del Rosmini e suo ultimo segretario, nel saggio Della scuola di Antonio Rosmini, recentemente ripubblicato, nel disegnare la geografia del rosminianesimo in Italia sottolineava la dissonanza tra l’Allievo e il roveretano41. Questa precisazione di Paoli, peraltro in un libro con toni marcatamente apologetici, denota come tra i seguaci «osservanti» del roveretano, l’Allievo non fosse considerato un rosminiano «ortodosso», nonostante la riconosciuta prossimità. La distanza tra i due pensatori è documentata dal fatto che nelle opere del vercellese i richiami e le influenze dell’opera rosminiana si diradano. La maggior parte dei espliciti riferimenti al roveretano, infatti, si riscontrano nei primi lavori dell’Allievo, in specie nei Saggi filosofici (1866), con chiari rinvii all’ontologia, alla metafisica e alla logica. Ma già in un’opera dell’anno seguente, Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866, il legame con il sistema del roveretano appare più distaccato. In particolare, si coglie un certo ridimensionamento dell’apporto del Rosmini. Delineando l’itinerario della pedagogia italiana del primo Ottocento, sebbene non manchino apprezzamenti positivi, Allievo sottolinea come il vero innovatore della pedagogia italiana fu il Rayneri. Si tratta, senza dubbio, di un’interpretazione impensabile per qualsiasi studioso rosminiano42. 39 R. Berardi, La libertà d’insegnamento in Piemonte 1848-1859 e un saggio storico di G. Allievo, «Quaderni di cultura e storia sociale», febbraio 1953, p. 62. 40 Cottini rileva come: «Circa la discordia fra l’Allievo e il sommo Roveretano, osservò giustamente il mio quondam condiscepolo Prof. Giuseppe Morando, che il dissenso aperto e leale dell’Allievo porge maggiore rilievo alla riverenza sconfinata che questi gli professò, ed all’omaggio, ch’egli gli rese in ogni occasione» G. Cottini, Giuseppe Allievo, cit., p. 67. 41 Scrive il pedagogista di Pergine: «Di presente l’onore della Filosofia e della Pedagogia è sostenuto nell’Università di Torino dal Prof. Giuseppe Allievo, che se non professa del tutto la filosofia del Rosmini, l’accetta in gran parte e la onora colla esemplarità della vita e colle molte gravi sue pubblicazioni pedagogiche» F. Paoli, Della scuola di Antonio Rosmini (a cura di P.P. Ottonello), cit., p. 38. 42 Scrive: «Del Rosmini, per quel che spetta alla pedagogia rigorosamente intesa, non si aveva che il Saggio sull’unità dell’educazione, opuscoletto di poche pagine. I lavori del Tommaseo sono studi serii, monografie peregrine, pensieri, desiderii, come egli stesso li intitola, sono preziosi elementi scientifici, ma un organico sistema di scienza non fanno; egli stesso si tiene in guardia dalla mania de’ sistemi anche in  30  In alcune opere degli anni ’70, quando il sistema dell’Allievo si consolidò, il vercellese si discostò esplicitamente da elementi non secondari della filosofia rosminiana. Nell’opera in cui sistematizza con più rigore le sue teorie ontologiche, vale a dire Il problema della metafisica, si affranca dal roveretano in merito alla dottrina dell’essere. Mentre Rosmini crede che l’oggetto primo della metafisica sia l’essere categorico, astratto e comunissimo, egli lo identifica nella realtà infinita e finita considerate nel loro insieme e nelle «vicendevoli loro attinenze»43. Nello stesso saggio, riconoscendo nel fatto di pensare il primo noto della metafisica, si preoccupa di sottolineare l’assenza di tale idea in Rosmini44. Sempre in campo gnoseologico, Allievo contesta inoltre la teoria secondo cui dall’intuito si arrivi alla visione dell’essere ideale universalissimo. Stando al pedagogista vercellese, l’intuito percepisce la realtà confusa ed indeterminata45, opponendosi così ad uno degli elementi caratterizzanti la gnoseologia del roveretano, oltre che oggetto di aspre contese con la filosofia neoscolastica. Pare ancora più netta la posizione esposta negli Studi psicofisiologici in merito alla psicologia e al rapporto tra anima e corpo: «In che ripone il Rosmini l’essenza dell’anima umana? È assai malagevole impresa il cogliere su questo punto della psicologia capitalissimo il suo pensiero; tanto parmi intricato, inconsistente, incerto!»46. E poi motiva: «Il concetto psicologico del Rosmini oscilla incerto tra questi tre pronunciati: 1° l’anima umana è sentimento dell’Io e niente di più: il sentire animale sta all’infuori di essa, ossia non è contenuto nella sua essenza; 2° l’anima possiede di fatto, siccome suoi essenziali costitutivi, il principio sensitivo animale ed il principio intellettivo; 3° il principio sensitivo è virtualmente contenuto nelle intellettivo»47. Contrario a tali posizioni considerate equivoche, proporrà un duo dinamismo coordinato su cui avremo modo di trattare in seguito. La valenza delle critiche mosse al pensatore roveretano dall’Allievo, è confermata dalle dure repliche di alcuni dei più «fedeli» epigoni di Rosmini. A questo proposito, sono molto significativi due scritti di Pietro De Nardi, rosminiano ortodosso, che stampò due severi pamphlet contro l’Allievo. pedagogia, e crede che addestrando in maniera variata il pensiero si serva, meglio che con severe teoriche, all’unità dell’idea. Il Rayneri seppe far tesoro de’ profondi e svariati lavori parziali de’ pedagogisti, che lo precedettero, coll’intendimento di ricondurli all’unità della scienza» G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, Torino, Tipografia Subalpina di Stefano Marino, 1901, pp. 148-149. 43 G. Allievo, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, Torino, Stamperia reale, 1877, pp. 35, 46. 44 Ibid., p. 47. 45 G. Allievo, L’uomo e il cosmo, Torino, Tipografia Subalpina, 1891, p. 298. 46 G. Allievo, Studi psicofisiologici, Torino, Tip. del Collegio degli artigianelli, 1911, p. 60; 47 Ibid., 62;  31  Nel 1883, pubblicò La teorica rosminiana dello sviluppo graduato della ragione umana difesa da P. De Nardi contro la traccia di contradditoria che ad essa ha dato G. Allievo. In questo saggio lo studioso rosminiano considerava «gravissima nella sostanza»48 la critica mossa da Allievo riguardo lo sviluppo della mente nell’opera del roveretano, esposta ne Il positivismo in sé e nell’ordine pedagogico. L’anno seguente De Nardi pubblicò Due sillogismi di Giuseppe Allievo contro la percezione intellettiva come viene percepita da A. Rosmini49, nel quale contestava al pedagogista vercellese prima il merito di un appunto sulla filosofia del roveretano riguardanti i rapporti tra l’anima sensitiva e intellettiva, e poi criticò un presunto pensiero del vercellese secondo il quale «oggetti» di natura diversa non possano comunicare fra loro. Una prima risposta alle accuse del De Nardi appare ne L’uomo e il cosmo (1891), dove Allievo confuta i pamphlet e una recensione apparsa su Il Rosmini del marzo 1887, sostenendo che fossero state travisate le sue parole. Dopo aver mostrato l’infondatezza delle critiche fattegli, muove una critica molto significativa a certi epigoni del Rosmini i quali «s’immaginano, che il sistema rosminiano sia tutto quanto verità esso solo, sicché chiunque osa muovergli qualche appunto, bisogna dire che cammina nella via dell’errore»50. Per lumeggiare più chiaramente il rapporto tra Allievo e Rosmini, è inoltre indispensabile citare i due testi in cui l’Allievo trattò specificatamente dell’opera del roveretano: il brevissimo saggio, Il concetto pedagogico di A. Rosmini51 e il più sostanzioso articolo dal titolo Antonio Rosmini uscito prima nella rivista universitaria «Studium», e poi pubblicato nel 191252. Il primo lavoro, seppure breve, appare tuttavia molto significativo. Tale saggio fa parte del già citato Per Antonio Rosmini, un’opera che raccolse in due volumi gli interventi al congresso commemorativo per il centenario dalla nascita del filosofo, organizzato dall’Accademia degli Agiati di Rovereto nel Maggio del 1897. 48 P. De Nardi, La teorica rosminiana dello Sviluppo Generale della Ragione umana difesa da Pietro De Nardi contro la taccia di contradditoria che ad essa ha dato Giuseppe Allievo, professore all’Università di Torino, Intra, Bertolotti, 1883, p. 3. 49 P. De Nardi, Due sillogismi di Giuseppe Allievo, Professore all’Università di Torino, contro la percezione intellettiva come viene concepita da Antonio Rosmini esaminati da Pietro De Nardi, Professore di Filosofia nel Collegio Internazionale Italiano di Torino, con appendice del medesimo in risposta a T. Mamiani, Modena, Vincenzi, 1884. 50 G. Allievo, L’uomo e il cosmo, cit., pp. 417-418. 51 G. Allievo, Il concetto pedagogico di Antonio Rosmini, in Per Antonio Rosmini, cit., vol. II, pp. 521- 523.  52 G. Allievo, Antonio Rosmini, Pavia, Tipografia Fratelli Fusi, 1912. 32  Nel suo intervento Allievo riconobbe in prima istanza le virtù filosofiche di Rosmini53, attestando l’importanza di lavori come il Saggio sull’unità dell’educazione e Del supremo principio della metodica per lo studio della filosofia e della pedagogia. Tra i principali meriti, individuò l’aver difeso l’idea che l’educazione è vera, efficace e perfetta solo quando è «schiettamente cristiana». Un concetto che, secondo Allievo, intuirono in tanti ma «niuno meglio del Rosmini seppe farla risplendere di quella lucentezza ideale, che scaturisce dalla ragione speculativa»54. Nella stessa sede, tuttavia, Allievo volle sottolineare le differenze tra il suo sistema e quello di Rosmini55. Questa precisazione in un consesso con chiari intenti apologetici a pochi anni dal Post obitum, conferma con limpidità la volontà di Allievo di smarcarsi dalla discendenza rosminiana. Il secondo saggio citato, Antonio Rosmini, è molto più consistente e permette di approfondire le idee di Allievo circa il roveretano. Introducendo il lavoro, fa notare la grande risonanza che ebbe il pensiero di Rosmini, e cita tra i suoi discepoli Tommaseo, Cantù, Sciolla, Berti, Cavour, Bonghi, Pestalozza, Corte, Rayneri. Conduce poi un’analisi particolareggiata dell’opera filosofica e pedagogica del Rosmini, muovendo una serie di critiche e «correzioni» al pensiero del roveretano. Riguardo l’articolazione delle scienze nel sistema del roveretano, parla di un’ambiguità del Rosmini circa il legame tra la psicologia e l’antropologia56. In seguito contesta la seguente definizione di uomo tratta dall’Antropologia di Rosmini: «l’uomo è un soggetto animale, dotato dell’intuizione dell’essere ideale indeterminato e operante secondo l’animalità e l’intelligenza». Allievo trova in questo enunciato un eccessivo risalto per la parte «naturale» dell’uomo. Nel definire la persona, Allievo preferisce mettere l’accento sulla natura spirituale dell’uomo, poiché in esso l’animalità «è subordinata alla spiritualità, che la informa e la governa»57. Tale critica è poi smussata tenendo conto del modo in cui Rosmini affronta e suddivide la scienza antropologica. Riprende inoltre la critica al concetto dell’intuizione primaria dell’uomo dell’essere ideale indeterminato: «Questo - dice Allievo - è un pronunciato fondamentale del sistema di Rosmini, ma è impugnato da molti, e non è una verità dimostrata con tanto rigore, che debba essere accettata da tutti»58. Sempre in campo gnoseologico corregge l’espressione rosminiana di «sentimento corporeo» che secondo 53 «È virtù propria del genio speculativo risalire ai supremi principi dell’essere e del sapere, e nella loro unità comprensiva raccogliere tutto un intero ordine di idee organate da questo sistema» G. Allievo, Il concetto pedagogico di Antonio Rosmini, in Per Antonio Rosmini, cit., vol. II, p. 521. 54 Ibid., vol. II, p. 521. 55 «Ed io, sebbene da lui discorde in alcuni punti delle sue dottrine filosofiche, mando questo mio lavoruccio in attestato della mia scienza sincera e profonda ammirazione verso tant’Uomo» Ibid, vol. II, p. 523. 56 G. Allievo, Antonio Rosmini, cit., p. 8. 57 Ibid., 9-10. 58 Ibid., p. 10.  33  Allievo dovrebbe essere «senso corporeo», e poi aggiunge: «Come pure io non so capire come mai il senso intellettivo, la cui esistenza è innegabile, possa essere compreso come parte nel tutto, nella sensitività animale, come fece l’autore»59. Anche in campo pedagogico, fa degli appunti alquanto critici. Trattando dell’unità dell’educazione sostenuta dal Rosmini, lamenta l’assenza di un adeguato approfondimento del concetto di varietà60. Un'altra definizione contestata riguarda il rapporto tra le affezioni casuali e l’ordine interiore. Allievo riporta senza rinvii al testo originale: «si conduca l’uomo ad assimilare il suo spirito all’ordine delle cose fuori di lui, e non si vogliano conformare le cose fuori di lui alle casuali affezioni dello spirito suo». E poi ne prende le distanze, «correggendo» le posizioni del Rosmini»61. Sullo stesso argomento, commentando poco dopo la parte del Saggio sull’unità dell’educazione relativa all’«Unità degli oggetti» sostiene che è «alquanto sconnessa». Allievo fa notare come il Rosmini abbia dedicato molto spazio all’analisi dell’apprendimento e dell’educazione durante l’infanzia, soffermandosi sullo sviluppo delle facoltà del bambino. Il pensatore vercellese, tuttavia, fa notare come un corretto sistema pedagogico debba tener conto dell’intervento educativo, e del fatto che spesso si insegnino cose che il bambino non sa ancora, e che quindi lo studio delle naturali facoltà del bambino non sia sufficiente ma debba essere integrato dai metodi educativi esterni62. Anche se riconosce al Rosmini il contributo sulla libertà d’insegnamento, a dispetto per esempio di un Gioberti giudicato eccessivamente statalista, l’Allievo contesta al Rosmini l’affermazione secondo cui la scuola dovrebbe «guardarsi dallo spirito individuale siccome 59 Ibid., p. 12. 60 «L’autore ripone nell’unità la legge suprema dell’educazione; nel che io non convengo pienamente con lui. L’unità vera, effettiva, feconda non può andare disgiunta dalla varietà, né questa può andare scissa da quella. Unità senza varietà è arida, sterile, priva di moto e di vita; varietà senza unità è sparpagliata, dissipata, che si sciupa nel vuoto. L’uno nel vario, il vario nell’uno, ossia l’armonia è la legge suprema della vita in ogni ordine di cose. Epperò all’umana educazione l’unità e la varietà tornano essenziali amendue ad un modo. Certamente l’autore non esclude, né perde di vista la varietà, giacché riconosce la molteplicità delle dottrine, che si insegnano, e delle potenze, che vanno educate; ma occorreva che avesse in modo esplicito riconosciuta e formulata la varietà accanto all’unità, siccome egualmente necessaria» G. Allievo, Antonio Rosmini, cit., p. 17. 61 «Però in riguardo alla dottrina del Rosmini, a me par giusto l’osservare, che se per una parte sonvi nel nostro spirito affezioni casuali, le quali vanno acconciate e conformate all’ordine oggettivo delle cose fuori di noi, per l’altro anche nell’ordine esteriore vi hanno accidentalità e turbamenti casuali e fortuiti, a cui lo spirito nostro non che adattarsi, deve seguire una reazione, conservando intatta la sua indipendenza. Anche nel nostro spirito esiste un ordine oggettivo posto dalla nostra natura, sicché la formula del Rosmini sembra bisognevole di essere corretta e parmi più conforme a verità l’affermazione che il supremo principio pedagogico dimora nel mantenere in perfetta armonia l’ordine oggettivo dello spirito dell’alunno coll’ordine oggettivo delle cose fuori di lui. S’intende da sé, che quest’armonia importa il riconoscimento di un principio superiore divino, ed inoltre supremo, in cui l’ordine oggettivo esteriore e l’ordine oggettivo interiore hanno il loro centro di unità e la loro cagione efficiente» Ibid., p. 19. 62 «Il Rosmini, intento, alla legge suprema direttiva dell’umano pensiero descrive per filo e per segno i momenti successivi, per cui progredisce e per cui va condotta la mente infantile, il Pestalozzi in iscuola tracciava sulla lavagna a’ suoi fanciulli una proposizione, che di presente essi non comprendevano, ma avrebbero compreso col tempo» Ibid., p. 29.  34  da suo capitale difetto», e osserva: «Questa opinione dell’autore parmi bisognevole di essere ritoccata. Sta bene che l’educazione pubblica non debba tener conto delle singole famiglie e de’ singoli individui, ma se non vuole incorrere nel dispotismo e trasmodare, occorre che essa rispetti mai sempre lo spirito informatore della famiglia e la personalità individuale di ciascun uomo, essendochè lo stato è fatto per le famiglie e per le persone singolari, non questo per quello»63. Oltre alle critiche, emergono anche una serie di considerazioni positive. Allievo considera di vitale importanza il contributo di Rosmini nell’aver mostrato la conciliabilità tra lo spiritualismo e la realtà naturale dell’uomo64, di aver riportato la pedagogia ad un metodo realista65, il richiamo all’armonia come principio educativo, valorizza il tentativo di salvare l’unità della persona, l’idea di sviluppo armonico delle facoltà umane ed elogia il merito di aver unito didattica ed l’educazione. Vivo apprezzamento egli esprime circa il legame tra pensiero e nazionalità. Allievo scrive che «è meritevole di nota il rapporto, che il Rosmini istituisce fra il metodo filosofico e la diversa tempra degli ingegni proprii delle singole nazioni». Lontano da tentazioni sciovinistiche e da forme di autarchia culturale, il vercellese sostenne l’importanza di conservare le tradizioni della filosofia italiana. In questo senso cita la lezione III Del metodo filosofico in cui Rosmini scrive «Il vero metodo è indigeno all’Italia: il carattere dell’ingegno italiano consiste nella chiarezza» e ne sottolinea l’importanza66. Altri autori spiritualisti influenzarono Allievo. Tra questi esercitò un considerevole ascendente il Bertini67, almeno «quello» precedente alla conversione razionalista. Lo studio della sua opera, l’Idea d’una filosofia della vita, rappresentò un momento importante nello sviluppo del pensiero di Allievo. Il pensiero di Bertini lo convinse ad affermare il Primo teologico, vale a dire Dio inteso come potenza, sapienza, amore infinito, il Primo cosmologico e cioè che il creato è l’essere che partecipa della potenza, amore di Dio, e 63 Ibid., p. 21. 64 «Come la sua filosofia è essenzialmente spiritualistica, così il carattere, che informa la sua dottrina pedagogica, è lo spiritualismo, non però lo spiritualismo gretto ed esclusivo, che sacrifica la materia allo spirito, bensì lo spiritualismo largo e comprensivo, che riconosce come parte anch’essa essenziale dell’umano composto l’organismo corporeo, ma lo vuole subordinato all’impero dell’anima razionale» Ibid., p. 41. 65 Trattando del contributo pedagogico e scolastico dell’impostazione rosmininana osserva: «Un secondo punto di capitalissima importanza per la scuola normale è questo: “prima regola del metodo filosofico (scrive l’autore) è che l’osservazione precede il ragionamento”. Questa norma riguarda propriamente il procedimento, che deve tenere il pensiero nella costruzione della scienza» Ibid., p. 32. 66 Ibid., p. 33. 67 Sull’influenza del Bertini sull’Allievo, Virginia Quarello che pubblicò nel 1936 uno dei lavori più completi e attenti sulla filosofia dell’Allievo scrisse: «L’influenza del Bertini sull’Allievo, specie nel campo religioso, è stata fortissima tanto che il pensiero dell’uno non solo si connette, ma perfettamente aderisce a quello dell’altro» V. Quarello, G. Allievo, studio critico, cit., p. 62.  35  quindi il Primo enciclopedico per cui «l’infinito s’intria nel finito»68. Secondo Vidari oltre che il Rosmini, proprio al Bertini, Allievo dovrebbe la fondazione del suo sistema filosofico69. Stretti rapporti ebbe anche con Augusto Conti. Nei Saggi filosofici (1866) riportò tre scritti sull’opera del samminiatese: uno riguardante la Storia della filosofia, una recensione di un libro scritto sul toscano da Pietro Dotti, e un lavoro sui legami tra il pensiero di Naville e quello di Conti, con particolare attenzione alle considerazioni espresse dal filosofo ginevrino nel testo La vie éternelle. Allievo condivide una serie di concetti del Conti, come la critica al principio moderno secondo cui la filosofia nasca dal dubbio e non dalla sorpresa dell’essere70, l’analisi dei criteri della filosofia e il legame con il senso comune, il concetto di errore e di distinzione. Nel commento alla Storia della filosofia si possono riconoscere diverse analogie tra le concezioni dei due pensatori. Del testo citato, Allievo sottolinea diversi elementi positivi: l’idea che la storia della filosofia debba essere un confronto tra le teorie filosofiche e la filosofia perenne, l’importanza attribuita alla biografia e al contesto culturale per cogliere la filosofia, e il criterio «cronologico» con cui il Conti conduce la narrazione della storia della filosofia guidati da cause di relazione e connessione. L’unico appunto mosso dall’Allievo al Conti riguarda la questione degli universali71. Allievo fu anche un buon conoscitore del panorama culturale europeo e dei maggiori pedagogisti e filosofi stranieri. Si tratta di un elemento non così comune tra gli autori della seconda metà dell’Ottocento. Nonostante diffidasse di una certa esterofilia, che contestava 68 G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe Allievo, «La Cultura filosofica», n. 5, Sett-Ott. 1910, p. 447. 69 «Movendo dalla formula giobertiana «l’ente crea l’esistente», che non lo soddisfaceva del tutto, e passando attraverso all’Idea di una filosofia della vita del Bertini, che all’ALLIEVO era parsa un’opera provvidenziale per la filosofia italiana dopo i traviamenti a cui l’aveva esposta il Gioberti, Egli si arresta al concetto cristiano – cattolico della creazione, per cui da una parte è Dio infinito creatore libero, dall’altra gli enti finiti e reali che trovano in quella la loro causa prima» G. Vidari, Giuseppe Allievo, Torino, Stamperia Reale Paravia, 1914, p. 6. 70 «Ripudiando il criticismo come propedeutica della filosofia, egli vuole che il conoscere sia fin dalle prime tenuto per vero, e come tale riconosciuto ed esaminato dappoi, e non già posto in problema. La natura umana, perché ragionevole, è nella verità, opperò il conoscere naturale è di per sè evidènte, non già problematico nè bisognevol di prova. In questa evidenza del vero o del conoscere ci ripone il supremo ed intrinseco criterio della filosofia, dal quale fluiscono poi e nel quale si appuntano come criterii secondarii ed estrinseci l'affetto della verità, il senso comune, la tradizione scientifica e la rivelazione» G. Allievo, Saggi filosofici, Milano, Gareffi, 1866, p. 384. 71 Osserva il pedagogista: «Quanto è poi al concetto filosofico del nostro Autore, sebbene mi paja più comprensivo assai e più conforme a verità che non altri parecchi, durerei tuttavia non poca fatica ad accoglierlo come definitivo e perfetto. E veramente (per tacere qui di altri argomenti in contrario ) io non so fare buon viso a quella ontologia scolastiso-wolfiana non ancora abbandonata a' di nostri, che egli pone come parte integrale, anzi sublimissima della filosofia; giacché l'essere astrattissimo e onninamente indeterminato, in cui si vogliono concentrati i sommi universali di essa ontologia, ove si pigli da sè, disgiuntamente da Dio e dalle realtà finite, convertasi in un aereo ed inconsistente fantasma, che mal reggendosi di per sè è quindi impotente ad ammanire un saldo fondamento alla protologia, cardine di tutto il sapere» Ibid., pp. 359-360.  36  soprattutto ai positivisti e agli hegeliani, accolse nel suo sistema diversi elementi di autori stranieri: «Dello spiritualismo tedesco accetta e il sintetismo trascendentale del Krug (l’io riflette sui “fatti della conoscenza” anzi nella coscienza, per l’originaria armonia di pensiero e realtà, ideale e reale si sintetizzano) e in concetto del Krause della personalità ed essenza divina (“l’essere Dio è il principio personale del mondo”) e il suo Panenteismo, conciliante in sintesi sia la ragione con l’esperienza, sia il processo analitico (dall’io e dal finito a Dio) con il processo sintetico (da Dio all’io ed al finito.)»72. Nel Krug apprezzò la capacità di conciliare il realismo con l’idealismo73. Dello studioso riprese nei Saggi filosofici (1866)74 il principio della sintesi a priori, nel tentativo di spiegare l’origine dell’unità tra oggetto e soggetto. Si tratta di un concetto facilmente accostabile all’idea primaria di Rosmini. Allievo raccolse così soprattutto le tesi di quanti cercarono di superare le antinomie dell’idealismo75. Un altro autore molto importante nella biografia intellettuale di Allievo fu Lotze76, il successore di Herbart all’Università di Gottinga. Del filosofo sassone cita i Principes généraux de psychologie physiologique77 che definisce un «lavoro magistrale»78. Allievo lo cita nell’elaborazione della sua psicofisiologia, nel tentativo di sostenere con il suo «duodinamismo coordinato» un approccio che coniugasse gli studi sperimentali con la struttura spirituale della persona. Importante anche il legame con Maine de Biran di cui accoglie le idee circa il legame tra la persona umana e la persona divina, Allievo oltre che il principio de «l’autocoscienza della personalità vivente»79. Spesso citato fu anche Heinrich Pestalozzi. Il pedagogista vercellese fu quasi «devoto» all’esempio e alla pedagogia dell’educatore svizzero. Non senza ragioni Calò lo definì un «pestalozziano». L’unica critica che gli mosse riguardò l’utilizzo del termine «organismo», al quale Allievo preferisce quello di persona. 72 V. Quarello, G. Allievo, studio critico, cit., p. 28. 73 G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, Milano, Agnelli, 1868, p. 42. 74 G. Allievo, Saggi filosofici, cit., p. 30. 75 «E dirò che, con il Krause e con il Jacobi, proprio lo Stahl fu sempre presente all’Allievo, nella sua opposizione decisa all’idealismo post-Kantiano» V. Quarello, G. Allievo, studio critico, cit., p. 83. 76 A riguardo, la Quarello ha osservato: «Più forte, certamente, fu l’influsso di Lotze specie nel campo psicologico, benché, a mio credere, si possa pure far risalire al Lotze il concetto di Dio come suprema realtà personale, che crea il mondo degli spiriti personali» Ibid., p. 82. 77 H. Lotze Principes généraux de psychologie physiologique, nouvelle edition, traduite de l'allemand par A. Penjon, Paris, Bailliere, 1881. Si  tratta di una traduzione del primo capitolo del testo H. Lotze, Medizinische Psychologie oder Physiologie der Seele, Leipzig, Weidmann’sche bucchandlung, 1852. 78 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit. 79 V. Quarello, G. Allievo, studio critico, cit., p. 29.  37  Altri autori hanno sottolineato il ruolo del vercellese nella ricezione dell’herbartismo in Italia80. Sempre Calò lo giudicò «più herbartiano di quello ch’egli stesso non creda»81, un giudizio che fu in seguito emendato82. L’opera dell’Allievo è anche segnata dall’opera del Naville, a cui lo accomuna la convinzione che alla base della pedagogia ci debba essere l’antropologia e non l’etica come per Herbart o la psicologia scientifica come per molti positivisti. Nella voce sull’Allievo, presente nell’Enciclopedia Filosofica di Sansoni83 e riportata in quella Bompiani84, Pozzo accosta Allievo perfino a Plotino, riprendendo la valutazione del Gentile, sostenendo che il vercellese aveva una concezione teistica di «tipo plotiniano (l’ente uno infinito pone fuori di sé il molteplice e a sé lo richiama) da cui deriva il concetto di armonia dell’universo, come “coesistenza” (o “sintetismo”) di esseri che cooperano sotto l’imperio dell’inesauribile atto di Dio». In sintesi, ci sembra di poter ragionevolmente sostenere che nonostante i diversi apporti e «contaminazioni» con diversi autori, il professore piemontese abbia preferito smarcarsi da discendenze unidirezionali. Più che di Rosmini, di Pestalozzi, di Rayneri, egli si sentiva un rappresentante dello «spiritualismo italiano». Egli considerava questa corrente come la più genuina tradizione nazionale85, oltre che in linea con la più autentica pedagogia e 80 In merito alla crisi del positivismo iniziata già negli anni ’80 dell’Ottocento, Malatesta e la Bertoni Jovine commentarono: «Il Labriola prima, il Fornelli e l’Allievo poi e in ultimo il Credaro, avevano prodotto una svolta molto sensibile negli studi introducendo nella pedagogia i princìpi più validi dell’herbartismo» D. Bertoni Jovine, F. Malatesta, Breve storia della scuola italiana, cit., p. 43. 81 G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe Allievo, Prato, Tipografua Carlo Collini, 1910, pp. 34-35. 82 G. Calò, Dottrine e Opere, Lanciano, Carabba, 1932, p. 262. 83 Enciclopedia Filosofica, Firenze, Sansoni, 1967, vol. I, pp. 192-193. 84 Enciclopedia Filosofica, Milano, Bompiani, 2006, vol. I, p. 297. 85 Nel testo già citato Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866 (1867) ripercorre la storia della pedagogia italiana e chiosa: «Le opere pedagogiche chiamate fin qui a rassegna rivelano un carattere comune, che tutte le segna di una medesima impronta: lo spiritualismo. È questo il carattere dominante e tradizionale di tutta la pedagogia italiana da Vittorino da Feltre al Rayneri. Essa riconosce nel perfezionamento dell’uomo la preccelenza del principio spirituale sull’organismo corporeo, l’immortalità personale dello spirito umano e la dipendenza di esso da Dio risguardato come spirito conscio di sé, distinto sostanzialmente dal mondo, causa creatrice e finale di quanto sussiste. Essa considera la nostra temporanea esistenza siccome tirocinio e preludio di una esistenza oltremondana, e conseguentemente vuol preparare il fanciullo alla sua duplice destinazione, vuol educare in lui l’uomo temporaneo che passa quaggiù soffrendo, e lo spirito immortale fatto per una seconda vita. Essa ripudia siccome offensiva della dignità della persona umana la dottrina che vuole il fanciullo esclusivamente allevato per la patria e pel reggimento politico dominante, facendolo così, di essere avente ragione di fine, un semplice mezzo agli arbitrii del Governo e della società. L’ideale dell’uomo perfetto che la natura ha preformato nell’infante, essa lo addita vivente in Cristo, assegnando per iscopo all’opera educativa la virtù cristiana, non la virtù naturale, né la civile, né lo sterile misticismo. Per lei non si da istruzione vera ed efficace senza l’educazione dell’animo; non vera educazione morale senza religiosità; non religiosità vera senza Cristianesimo cattolico, sicché l’educazione ha da abbracciare tutto l’uomo e con tale universalità ed armonia, che i sensi vengano subordinati alla ragione, il corpo allo spirito, la libertà a Dio, la vita temporanea alla oltremondana. Mercé questo carattere dello spiritualismo la pedagogia italiana contemporanea mantiensi fedele alle sue tradizioni secolari e si ricongiunge colla scuola spiritualistica platonica di Firenze, perché discepolo ed amico di Giovanni di Ravenna, il grande scuolaro del Petrarca» G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 158.  38  filosofia greca86. Allievo era convinto che fosse una tradizione che andasse difesa87, soprattutto dall’idealismo e dal positivismo, considerate teorie di «importazione» aliene allo spirito filosofico italiano. I. 2. Gnoseologia e metafisica I testi in cui Allievo affronta i problemi più specificatamente metafisici e gnoseologici sono i Saggi filosofici (1866), Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola Jonica a Giordano Bruno (1877) e Studi antropologici: l’uomo e il cosmo (1891). Non si può affermare che su tali questioni il contributo di Allievo abbia avuto una reale originalità. Lo studioso si è limitato piuttosto alla ricerca di alcune basi teoretiche che gli permettessero di fondare la sua pedagogia su una prospettiva «realistica», com’è stata definita la sua filosofia88. La carenza di approfondimenti è stata oggetto delle critiche di alcuni studiosi dell’Allievo come la Quarello89 e Mazzantini90. Sebbene il contributo di Allievo non abbia apportato novità rilevanti nel discorso gnoseologico e metafisico del tempo, espose comunque il suo pensiero in modo organico e coerente. Egli considera la Metafisica come il momento fondamentale della ricerca filosofica, caratterizzata dall’universalità e dalla trascendenza. La definisce come «scienza del Primitivo»91 o «Scienza de’ supremi principii del sapere e dell’essere»92. Contro gli orientamenti antimetafisici di marca positivista e scettica, considerava l’abrogazione del problema del senso e del «tutto» come un tradimento della filosofia. Essa trovava la sua ragion d’essere in quel mandato della persona umana, che strutturalmente e spontaneamente interroga l’Universo e ne pretende un significato. In questo senso la metafisica collocava la sua origine nel desiderio dell’uomo di «rendersi ragione di questo 86 G. Allievo, Studi pedagogici, Torino, Tipografia Subalpina, 1889, p. 33. 87 Accusato di nazionalismo, Allievo si difese: «Noi siam lontanissimi dall'assumere il nazionalismo per sommo ed infallibil criterio del Vero; che anzi arditamente sosteniamo, che nel principio di nazionalità qual è universalmente ammesso v'è del troppo e del vano assai da tor via, e gli bisogna essere ricondotto entro a più ragionevoli e modesti confini. Noi invece propugniamo l'italiana filosofia non per ciò solo che è italiana, ma primamente e precipuamente perché fondata sulla verità del Teismo cristiano, siccome ripudiamo l'Idealismo di Hegel ed il Positivismo di A. Comte perché disformi entrambi dal Vero, e non già perché l'uno di tedesca, l'altro di francese origine» G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit., p. 14. 88 V. Suraci, Giuseppe Allievo filosofo e pedagogista, «Educare», maggio - giugno 1952, p. 151. 89 V. Quarello, G. Allievo, studio critico, cit., p. 21. 90 C. Mazzantini, Due filosofi spiritualisti piemontesi della seconda metà del sec. XIX, «Archivio di Filosofia, organo del R. Istituto di Studi Filosofici», Roma, 1942, n. 1-2, pp. 35-36. 91 G. Allievo, Saggi filosofici, cit., p. 284. 92 G. Allievo, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, cit., p. 5.  39  gran tutto, che dicesi universo»93, un’esigenza che non può essere soppressa, pena la negazione dell’identità umana. Sulla scorta del rosminianesimo e di molta filosofia cristiana, Allievo rileva come la crisi della metafisica fu prima inaugurata dal soggettivismo di Cartesio e poi consacrata dal criticismo di Kant. La gnoseologia moderna era soggiogata, a suo giudizio, da un equivoco legato alla volontà di condurre in dubbio il valore veritativo e orientativo dei criteri dell’evidenza e del senso comune insiti nell’uomo. Si tratterebbe di un cortocircuito conoscitivo dai corollari disparati. Se, infatti, da un lato si svaluta la ragione riducendone il dominio (kantismo), dall’altra si arriva a «divinizzare» l’Io (idealismo), attribuendo alla razionalità umane quasi gli stessi attribuiti che i teologi avevano sino ad allora riservato al Creatore. Per superare l’impasse, Allievo sollecitò in coro con il resto degli spiritualisti una correzione radicale della prospettiva. La filosofia non poteva uscire dalla palude dello scetticismo, se non «attestando» e «accettando» dei criteri conoscitivi immanenti all’uomo. Questa soluzione era considerata l’unica possibilità per uscire dall’equivoco gnoseologico moderno. Le sue posizioni gli costarono la critica del Gentile, che nel saggio sulle origini della filosofia contemporanea, inserisce l’Allievo tra i «mistici», cioè tra quei filosofi che continuavano a «credere» nell’esistenza di una realtà «esterna» all’Io pensante. Non potendo «dimostrare» l’esistenza del mondo e spiegare il suo rapporto con lo spirito, secondo Gentile, i realisti accettano in modo fideistico il senso comune. Per questa ragione, ossrvò che quella di Allievo è «una filosofia fondata sul mistero dell’evidenza»94, una critica poi ripresa e approfondita dalla Quarello95. Il sintetismo, cioè un’interpretazione della relazione intima tra l’essere e il pensiero in un’ottica realista, era considerato da Gentile come una soluzione non fondata per motivare la relazione tra la mente e il «supporto» mondo esteriore96. Questa visione armonica dell’essere, è anzi letta da Gentile, nella sua tipica riduzione della storia della filosofia a preambolo di un compiuto Io spirituale, come delle tesi idealiste «mancate». 93 G. Allievo, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, cit., pp. 2-3. 94 G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia. I platonici, cit., p. 366. 95 V. Quarello, G. Allievo, sudio critico, cit., p. 20. 96 «Il sintetismo dell’Allievo, dunque, non vale più dell’ordine del Conti. Anche per l’Allievo basta il sintetismo ad aprire tutte le porte e svelare tutti gli enimmi. Così il gran problema gnoseologico del rapporto del pensiero con l’essere, per l’Allievo è prima risoluto che formulato. Criticismo o scetticismo? Separazione dell’essere dal pensiero, o identità dell’uno con l’altro? Ma il sintetismo c’insegna che tutto è unito e distinto in natura, e ciascuna forza opera consociata con tutte le altre! Anche il soggetto e l’oggetto vorranno essere insieme connessi, ma non confusi: conciliati in un armonia, che non sia per altro la negazione delle loro differenze» G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia. I platonici, cit., p. 366.  40  Il filosofo siciliano riconobbe in ogni caso nell’Allievo «una certa inquietudine circa la saldezza del suo principio filosofico»97, originata dal confronto con la logica hegeliana, che gli avrebbe «turbato i sonni» nel corso della sua opera. Di fronte alla tesi idealista, Allievo reputava l’accettazione dell’essere come l’atto più consono alla natura razionale dell’uomo98. Si tratta di un’attestazione «misteriosa», ma non per questo irrazionale99. Il primo dato della coscienza è la percezione di un mondo fuori di noi, tale dato si può o accettare o rifiutare, non si può dimostrare. Secondo l’Allievo la filosofia trova il suo fondamento nella constatazione dell’esistenza dell’essere. Il pedagogista sollecita perciò a tornare ad un sano realismo, a ripartire dal mondo delle cose, dal dato semplice della sua esistenza, dal mistero del sé, per giungere solo dopo all’Eterno. Ciò ha conseguenze gnoseologiche importanti, tra le quali il fatto che stando all’Allievo il ruolo iniziale nel ragionamento risiede nell’intuito che si muove verso la comprensione. Nel saggio Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, egli traccia una serie di stadi, o passaggi, con cui si sviluppa un pensiero filosofico compiuto. Un primo livello della riflessione riguarda la constatazione dell’esistenza di un senso comune e di criteri con i quali di norma si valuta e si giudica, in un secondo momento vi è un pensiero critico che si interroga sulla veridicità di quanto pensato, nell’ultimo passaggio il pensiero speculativo indaga e verifica con criteri validi e veritativi. Per l’Allievo, la riflessione speculativa non è la negazione del senso comune, ma ad esso è strettamente legato, poiché i criteri veritativi emergono spontaneamente nella persona, e non sono la costruzione dell’impegno filosofico. Il compito della metafisica è dunque proprio quello di riconoscere la «realtà della vita, pur mentre la spiega e si solleva al di sopra di essa per dominarla dall’alto: essa rispetta le credenze universali del genere umano, conformasi alle esigenze della natura umana, tien conto de’ suoi bisogni, soddisfa le sue imperiose aspirazioni, e non disconosce veruno degli elementi integrali dell’umanità»100. 97 Ibid, p. 368. 98 Osserva a proposito «Nel fatto della cognizione il soggetto e l’oggetto si compenetrano misteriosamente l’un l’altro senza però smettere ciascuno la sua la propria ed individua natura» G. Allievo, Saggi filosofici, cit., p. 14. 99 In un brano molto significativo, quasi replicando a tale obbiezione, Allievo enuclea la sua concezione del mistero: «La ragione ha certamente il diritto di respingere l’assurdo, perché l’assurdo ripugna, ma non ha diritto di respingere il mistero, perché il mistero è una proposizione, di cui si conoscono i singoli termini, che la compongono e non si comprende bene il nesso, che collega il soggetto col predicato. Quindi possiamo affermare che in ogni mistero dogmatico vi è sempre alcunché di conosciuto accessibile alla ragione, come in fondo di ogni verità conosciuta dalla ragione umana vi è sempre alcunché di ignoto, di tenebroso, un’ombra del mistero» G. Allievo, Appunti di Antropologia e Psicologia, Torino, Carlo Clausen, 1906, pp. 33-34. 100 G. Allievo, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, cit., p. 38.  41  Allievo identifica nel «primo noto», evidente e concreto, la base della sua speculazione metafisica. Si tratta di quanto il vercellese chiama anche Io penso, da cui nasce la constatazione che l’essere esista e che possa essere riconosciuto nella sua realtà e verità. Sulla relazione tra il pensiero e il reale, si pone in continuità con il concetto di sintetismo esposto da Rosmini. Allievo ammetteva un Universale ontologico assoluto a cui erano subordinati i singoli universali ontologici, attraverso la legge del sintetismo e dell’armonia101. Il suo realismo gli impedisce di ammettere sia tesi che vorrebbero la causa del reale come qualcosa di non reale, sia quelle le forme di spiritualismo che identificano Dio con qualsiasi essere ideale. Secondo Allievo sebbene Dio sia l’origine dell’uomo e di tutte le cose non si identifica con esse. E anche qui applica una delle regole classiche della sua filosofia, il «Distinguere per unire», enunciato già nei primi libri, e posto alla base della sua gnoseologia102. In questo senso, avversa sia l’identificazione del pensiero con l’essere di origine idealista, sia il monismo materialista. La Quarello ha considerato insufficiente la spiegazione della relazione tra l’Io e il non Io nel pensiero del Vercellese: «Il punto debole del sistema dell’Allievo è proprio qui, in sede gnoseologica, nell’avere, cioè, posto a base della speculazione puramente filosofica l’evidenza dei dati della realtà, nell’avere voluto che il sapere filosofico non fosse che elaborazione del sapere naturale (oggettività della conoscenza) ammettendo poi, senza spiegarla, un’intima “conciliazione” fra ragione ed esperienza»103. E ribadisce «L’Allievo non ci spiega il come dell’atto conoscitivo anche se ampiamente ha tentato di svolgere la sua tesi di una corrispondenza tra pensiero e realtà, tra soggetto ed oggetto, tale da essere considerata una unione stabilita da natura, secondo la legge dell’ordine universale per la quale tutti gli esseri armonizzano in unità una molteplicità di parti e cooperano e sono uniti fra loro, pur rimanendo distinti, sì da formare una totalità armonica»104. I. 3. Il principio della personalità 101 Suraci spiega con le seguenti parole il «percorso» che va dal primo nota alla vera conoscenza: «L’Allievo nota che il pensiero, nel suo movimento dialettico, descrive un circolo non vizioso, ma solido per cui dall’uno gnoseologico, l’universale oggetto dell’intuito primitivo, si passa al molteplice della cognizione determinata, distinta, oggetto della riflessione: dal molteplice si passa poi alla visione comprensiva delle cose e quindi alla visione mentale dell’Uno ideale. Dialetticamente la mente umana, secondo l’Allevo, non fa che “discorrere dalla cognizione intuitiva o virtuale dell’Uno gnoseologico alla cognizione riflessa o attuale del suo molteplice ideale, e dalla cognizione attuale del molteplice ideale alla cognizione attuale dell’Uno gnoseologico”. Questa formula del movimento del pensiero somiglia molto da vicino a quella enunciata dal Rosmini nel n. 701 della sua Logica, al quale l’Allievo si attiene, citandolo spesso nel corso di questi “Saggi” e, potremo dire, in tutte le sue Opere» V. Suraci, Giuseppe Allievo filosofo e pedagogista, cit., p. 158. 102 G. Allievo, Saggi filosofici, cit., p. 3. 103 V. Quarello, G. Allievo, studio critico, cit., p. 21. Lesse all’Università di Torino una prolusione dal titolo, Il ritorno al principio della personalità105. In quella occasione, ripercorse l’itinerario delle sue opere identificando in questo concetto il punto cardine di tutto il suo pensiero106. Questa considerazione fu poi ribadita qualche anno dopo nella prefazione degli Opuscoli pedagogici107. Oltre a riprendere il contenuto di questo principio e a mettere in luce la rilevanza nell’economia del suo pensiero, diversi autori hanno considerato l’elaborazione del principio della personalità come il più importante contributo di Allievo alla storia del pensiero pedagogico e filosofico108. Calò ne ha ricordato la valenza pedagogica, osservando come «nessuno con tanta consapevolezza e chiarezza aveva prima di lui messo in luce quel principio e mostratane la fecondità e illuminatane vivamente tutta quanta l’opera educativa»109. Con questo principio, Allievo affronta la più profonda questione antropologica, vale a dire la specificità dell’uomo rispetto al resto della natura. Di fronte alla domanda «chi è l’uomo?» Allievo parla della persona come «una mente informante un organismo corporeo»110. Egli individua due piani strettamente connessi: «nell’uomo la mente ed il corpo sono due sostanze diverse, eppur fatte l’una per l’altra il corpo è animato, l’anima è 105 G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, Torino, Tipografia degli Artigianelli, 1904. 106 Citò la prima prolusione letta all’Università nel 1870, in cui già enucleò tale principio. Scrisse: «Questo nuovo concetto, che allora mi era balenato alla mente, fece la sua prima apparizione nella mia Prolusione universitaria del 1870, intitolata appunto Il principio della personalità, base della scienza e della vita. “Questo principio (io scriveva allora) è quel centro ideale, che vale a comporre le antinomie tra le dissidenti scuole filosofiche nel mondo del sapere, ed i dissidi tra gli elementi sociali nel mondo dell’operare, e questi due mondi della scienza e della vita insieme composti solleva ad una unità superiore, che è il punto di contatto e di armonia di entrambi. Enunciando in una breve e chiara formola questo concetto, poniamo che, senza il riconoscimento speculativo e pratico della personalità, non si dà né vera scienza, né vera vita per l’uomo.” Da quel punto questo principio diventò il pensiero dominante della mia mente, il tema perpetuo delle mie meditazioni, lo spirito animatore de’ miei lavori e delle mie lezioni, la mia credenza filosofica rimasta incrollabile e costante in tanto volgere di anni, in mezzo a tante rivolture e volteggiamenti d’ingegni e di dottrine, l’arma della mia critica contro tutte quelle teoriche e quei sistemi che inchiodarono la scienza e la vita sul nudo calvario dei fenomeni sensibili, senza uno spirito che li animi e li illumini» Ibid., p. 4. 107 «Tutti i miei lavori pedagogici, a qualunque punto della umana educazione si riferiscano, sono informati da una idea unica e suprema, il concetto della personalità umana: da esso si vanno logicamente esplicando, in esso si ritrovano il loro principio di armonia, in esso si compongono ad una comprensiva e potente unità» G. Allievo, Opuscoli pedagogici, Torino, Tipografia del Collegio degli Artigianelli, 1909, p. 5. 108 Cannella, che peraltro afferma come il pedagogista piemontese non sia stato «in Italia conosciuto ed apprezzato abbastanza» scrive sul principio di personalità: «Lasciando da parte le sue critiche storiche, acute, precise, e bene spesso pregevolissime, io credo, per esempio, che la sua idea fondamentale pedagogica dell’educazione della personalità meriti molta considerazione e racchiuda in sé il nucleo vero, intorno a cui si deve aggirare una dottrina pedagogica. E così si può dire di molte sue opinioni sui problemi pratici, dove tanta confusione regna oggi, e dove l’Allievo ha già disegnato soluzioni assai giuste» G. Cannella, Opuscoli pedagogici inediti ed editi di Giuseppe Allievo, in «Rivista di Filosofia Neoscolastica», n. 2, 20 aprile 1910, p. 209. 109 G. Calò, Dottrine e Opere, cit., pp. 261-262. 110 G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, Torino, Tipografia Subalpina, 1904, p. 3.  43  incorporata»111. L’uomo è definito «sintesi vivente di un’anima razionale e di un corpo organico, insieme composti ad unità di essere; o meglio ancora è una mente informante un organismo corporeo, prendendo qui il vocabolo mente come sinonimo di spirito, ossia di anima razionale»112. Questo primo antropologico scaturisce dalla sua profonda origine: «Lo spirito umano, ossia la mente sostanziale è persona per essenza, il corpo umano con essa congiunto in unità di essere è personale per derivazione e partecipazione, ossia è della nostra personalità complemento estrinseco, non già principio intrinseco»113. Si tratta di una prospettiva che ha implicazioni teologiche. Trattando di questo principio Mazzantini ha osservato: «non è, dico, d’importanza suprema solo in quanto rivela l’uomo a se stesso, ma in quanto altresì offre un principio supremo interpretativo della realtà universale, compresa la stessa realtà divina»114. Su questo versante, è stato osservato come il principio della personalità sia imprescindibile dal teismo di Allievo115. Per il vercellese, infatti, il concetto di persona trova la sua ragion d’essere e il suo compimento nella relazione con la Persona infinita116. In una radicale e metafisica indagine antropologica, Allievo individuava la questione nodale della scienza pedagogica: «Ora l’idea fra tutte la più comprensiva, la più feconda, la generatrice di tutto il sapere speculativo, è, se io ben veggo, l’idea della personalità. Il moto riformatore della scienza debbe esordire da lei»117. Il destino della pedagogia era legato al rispetto di questo principio, che invece considerava minacciato dalle teorie coeve. Nel saggio già citato Sulla personalità umana, elenca una serie di orientamenti che 111 Ibid., pp. 49-50. 112 G. Allievo, Appunti di Antropologia e Piscologia, cit., p. 3. 113 G. Allievo, L’uomo e il cosmo, cit., p. 78. 114 C. Mazzantini, Due filosofi spiritualisti piemontesi della seconda metà del sec. XIX, cit., p. 33. 115 Ha scritto in merito Suraci: «Il principio “personalistico” serve all'Allievo per affermare senz'altro in sede pedagogica, che, “la personalità finita dell'educatore e quella dell'educando si reggono sulla personalità infinita di Dio, trovano in questa la loro ragione sulla personalità infinita di Dio, trovano in questa la loro ragione di essere la loro causa efficiente”. Ebbene, bisogna porsi da questo punto di vista ontologico ed essenzialmente religioso per intendere a pieno il valore e il vero significato della pedagogia dell'Allievo, nella quale convergono con ricchezza di argomenti e di ampia e, spesso, di esauriente trattazione scientifica, tutti i temi relativi all'essenza e allo svolgimento della natura umana e della educazione dell'uomo. La religiosità, la credenza di Dio e nella immortalità dell'anima, rimane, per il nostro autore, il punto di partenza e di arrivo dell'azione educativa, il cardine essenziale in cui si radica e gira la pedagogia; è luce inoffuscabile che deve rischiare l'idea e il fatto dell'educazione: “l'uomo si muove in Dio, principio della sua vita, fine supremo della sua esistenza”» V. Suraci, Giuseppe Allievo filosofo e pedagogista, cit., p. 9. 116 «La coscienza personale è il primo, fondamentale pronunciato da cui esordisce la scienza. La persona umana sovrasta per eccellenza e nobiltà di natura su tutto il corporeo universo; ma finito qual è sottostà alla personalità infinita divina. Non bisogna mai perdere di vista questa dualità di essere personali, che si richiamano e si corrispondono; poiché, tolta la prima, l’uomo rimane oltraggiato nella sua dignità personale e diventa una cosa; tolta la seconda, si apre il varco al più ignobile egoismo, alla libertà più sfrenata, alla più selvaggia indipendenza. L’uomo riconosce l’esistenza di un essere personale infinito, dacchè egli stesso è una persona finita, e con esso si congiunge con un vincolo d’intelligenza e di amore. Questo vincolo costituisce la religione, la quale forma l’oggetto della disciplina religiosa» G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 11.  117 G. Allievo, Sulla personalità umana, Torino, Fina, 1884, p. 4. 44  reputava nocivi a tale principio118. Divide queste teorie in due gruppi. Nel primo inserisce i sistemi che disconoscono la persona nella vita speculativa: il panteismo, il calvinismo, il fatalismo, il materialismo e l’ipermisticismo. Si tratta di teorie accomunate dalla svalutazione dell’apporto dell’individualità nella storia e nella vita. Nel secondo raggruppa gli orientamenti che menomano il ruolo della persona nella vita pratica: il socialismo, la statolatria, il dispotismo del costume. Si tratta di teorie che riducono la persona ad un «mezzo» per il raggiungimento del progresso della società. Nell’ultimo sistema citato, il dispotismo del costume, Allievo si schiera contro certa sociologia «per cui ciascuno vien tratto a conformare il proprio vivere e pensare, al vivere ed al pensare altrui come a norma suprema»119. Oltre alle teorie citate, il pedagogista vercellese denunciava il rischio di ingigantire il ruolo di un aspetto della persona a discapito della sua totalità. Il professore vercellese riconosce questa tendenza in due grandi sistemi che allora si contendevano il campo della filosofia: il positivismo e l’idealismo. Secondo Allievo la mente non è quella degli idealisti, staccata dal corpo e superiore ad esso, ma non è neanche quello dei positivisti e di certi psicologi sperimentali che riducevano il pensiero ad un’espressione materiale. Anche se non si confonde con essa, la vita della mente e dello spirito è intimante connessa con quella carnale120. La loro relazione non deve condurre all’assimilazione di una delle due nature che compongono l’uomo121. Entrambi i livelli sono distinti in una stretta «collaborazione»: «l’essere umano possedendo un corpo organato alla vita materiale non può essere spiegato tutto quanto senza la materia, ma neanco può essere spiegato colla sola materia, dacchè il suo organismo è informato di una sostanza spirituale»122. Sebbene il rapporto tra materia e spirito nell’uomo rimanga un «mistero»123, non è ammissibile assimilare su questo presupposto la persona al resto della natura determinata. Nella vita dell’uomo, infatti, emergono proprietà irriducibili alle dinamiche delle entità 118 Ibid., pp. 54-57. 119 Ibid., p. 57. 120 «L’uomo è siffattamente costituito, che non vi ha parte del suo essere, la quale non viva congiunta coll’universo corporeo esteriore. Sentire, pensare, volere, sono i tre supremi attributi costitutivi dell’umano soggetto; e tutti e tre si svolgono in intima ed operosa corrispondenza colla natura, fuor della quale rimarrebbero atrofizzati» G. Allievo, L’uomo e la natura, Torino, Carlo Clausen, 1906, p. 4. 121 La natura e lo spirito sono uniti «ma sarebbe gravissimo errore il credere, che siffatta unione si converta in una identità, negando così ogni sostanziale distinzione fra l’uno e l’altra, e confondendoli in una comune essenza. La distinzione esiste e non distrugge l’unione. Poiché nel mondo esteriore le sostanze sono corporee, e quindi i fenomeni e le forze sono fisici; nel mondo interiore la sostanza è l’anima, i fenomeni sono psichici, le forze sono facoltà o potenze. Ma il punto più spiccato, che distingue questi due mondi, malgrado la loro cospicua armonia, sta in ciò, che l’anima ha la coscienza de’suoi fenomeni, il dominio delle sue potenze; e questa coscienza di sé, questo dominio di sé manca alla natura» Ibid., p. 6. 122 G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 4.  123 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 11. 45  fisiche. Come osserva Allievo: «il punto più spiccato che distingue questi due mondi malgrado la loro cospicua armonia, sta in ciò, che l’anima ha la coscienza de’ suoi fenomeni, il dominio delle sue potenze»124. Negando la natura spirituale dell’uomo, la realtà effettiva della persona sfugge alla comprensione: «È un dogma del senso comune ed un pronunciato della sapienza filosofica tradizionale, che l’uomo non è tutto quanto materia organata, come non è neppure uno spirito puro, bensì una sintesi stupenda, un’armonia vivente di questi due distinti principii insieme composti ad unità di persona: ponete che tutto il suo essere si risolva in un composto di molecole organate a vita materiale, e voi non capirete più nulla dei solenni problemi, che agitano la coscienza dell’umanità, più nulla delle sublimi aspirazioni, che fervono indomabili nei penetrati dello spirito umano»125. Per il vercellese, è lo spirito che dà dignità all’uomo, sollevandolo dal resto della natura. La persona esprime il grado sommo dell’essere e lega l’individuo all’eterno. La coscienza dell’esistere colloca la persona in una dimensione irraggiungibile per qualsiasi altro essere della natura. L’esigenza di sottolineare il primato spirituale lo portò il docente piemontese a criticare in una serie di lavori la definizione aristotelica dell’uomo come animale politico126, che reputava ambigua. Data la confusione antropologica coeva, Allievo non reputava conveniente indicare primariamente nell’uomo la natura animale. Si rischiava di avallare le tesi dei materialisti positivisti e di un certo evoluzionismo127, che volevano ridotto l’uomo ad un «bruto», per usare le parole di Allievo128. Il pedagogista avvertiva il rischio di ridurre lo studio della persona, al solo aspetto materiale: «Per conseguente l’antropologia, anziché scienza distinta e superiore, apparirà niente più che una parte della zoologia, parte la più sublime, se vuolsi, ma pur sempre una parte»129. 124 Ibid., p. 15. 125 Ibid., p. 9. 126 G. Allievo, L’uomo e il cosmo, cit., p. 80. 127 Osserva: «La tristissima definizione, l’uomo è animal ragionevole, non solo capovolge l’ordine naturale, che regna tra questi due elementi, ma soppianta ben anco la stessa personalità umana, la quale ha la sua propria sede e radice nella mente imperante sull’organismo corporeo e fornita di una perenne sussistenza, mentre essa pone l’animalità siccome soggetto, di cui la ragionevolezza apparisce un mero e semplice predicato, tantochè venendo meno la prima, cessa issofatto la seconda, né questa può spiegare altra virtù, che non sia compresa nella cerchia di quella»127. In seguito ribadisce che accoppiare «all’animalità la ragionevolezza come ad un soggetto un attributo suo è un disconoscere il primato dello spirito sulla materia e della mente sull’organismo corporeo nell’uomo, ed un aggiudicarlo alla materia sullo spirito, al corporeo organismo sul principio pensante» G. Allievo, Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, Genova, Tipografia del R. Istituto dei sordo – muti, 1874, p. 7. 128 «Mentre il bruto opera per impulso irresistibile di cieco istinto, l’uomo opera consapevole di sé e del fine a cui mira, ed è arbitro delle sue azioni. Questa potenza, per cui l’umano soggetto si determina da sé ad operare per un fine conosciuto, è la volontà» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 46.  129 G. Allievo, Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, cit., p. 6. 46  Per riscoprire l’autentica alterità umana, era invece compito dell’antropologia evidenziare nello sviluppo della persona quegli aspetti irriducibili al divenire determinato. Allievo richiama all’osservazione dell’uomo, delle sue facoltà, e della sua azione. Egli afferma che in ogni uomo inizia, prima o dopo, la «vita spirituale» che consiste nella coscienza del sé e del mondo: «Io sono: con questo pronunciamento un essere personale si desta alla vita, annunzia la propria esistenza, afferma se stesso, rivela sé a se medesimo, e specificamente si differenzia dagli esseri impersonali che esistono, pur non sapendo di esistere. Questa coscienza di sé può essere più o meno viva, più o meno ampia e potente, ma è pur sempre necessaria all’io, poiché una incoscienza assoluta ripugna alla natura di un essere intelligente, qual è la persona»130. Nella visione di Allievo, l’affiorare dell’Io, diviene così la prova della natura spirituale della persona: «Il vocabolo io chiude esso solo in sé la più decisiva confutazione del materialismo, essendochè il ripiegarsi che fa l’io sopra di sé ed il riconoscersi siccome sostanzialmente identico nella dualità del soggetto riflettente e dell’oggetto riflettuto è dote propria dello spirito ed affatto ripugnante all’essenza medesima della materia, che è di sua natura impenetrabile, cioè tale da non poter compenetrare interiormente sé stessa e tutta riconcentratasi siccome in semplicissimo punto: chè in tal caso cesserebbe di essere materia»131. L’emergere della individualità personale all’interno del mondo, indica anche lo sviluppo della coscienza alla scoperta della propria esistenza132. L’Io emerge primariamente in due connotati propri, vale a dire l’intelligenza e l’attività volontaria133. In questo senso definisce la persona come «sostanza dotata di intelligenza, mercé cui ha coscienza di sé affermandosi quale unità vivente di vita sua propria distinta dalla realtà esteriore e pur con questa unità, e di attività volontaria, per cui possiede sé stessa e dispiega liberamente la virtualità sua in ordine al fine universale segnato dalla personalità infinita di Dio»134. Questi due attributi sono l’espressione della coscienza, in 130 G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., pp. 4-5. 131 G. Allievo, Sulla personalità umana, cit., p. 17. 132 «La coscienza personale è l’io, che rivela sé a se medesimo. Ora quali sono le rivelazioni della coscienza interiore? L’io sente di essere uno od identico con se medesimo, di possedere un’esistenza effettiva e reale, si riconosce e si afferma una sostanza sussistente, attiva, semovente, operosa, che svolge la sua intima virtù in una molteplicità di pensieri, di affetti, di voleri, ed in sé li raccoglie ad unità» G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 6. 133 «Lo studio della personalità umana è lo studio dela mente contemplata primariamente in sé medesima, poi nelle attinenze su coll’organismo corporeo. La mente, sede della personalità, emerge da due supremi costitutivi, che sono l’intelligenza conoscitiva e l’attività volontaria» G. Allievo, Sulla personalità umana, cit., p. 16.  134 Ibid., p. 55. 47  cui l’uomo trova la sua indipendenza, alterità e potenza rispetto al resto della natura135. Con altre parole, Allievo osserva: «Dovunque c’è la persona, cioè un soggetto dotato di intelligenza ed attività volontaria, là vi è lo spirito. La persona è una energia, un’attività, una forza, non cieca, ma intelligente e conscia di sé, non fatale e necessitata, ma libera e signora di sé, lo domina e lo trasforma informandolo giusta il suo ideale: ma la materia non conosce né se stessa, né lo spirito, non domina sé medesima, ma è irrepugnabilmente dominata dalle forze, che la investono»136. Nell’uomo, infatti, la volontà è radicata nell’intelligenza137. Solo una prospettiva simile, per Allievo, è capace di comprendere la vita della persona, e salvare la sua unità138. Commentando una parte del celebre libro di Smiles, Self – help, tradotto in Italia con il titolo Chi si aiuta Dio l’aiuta, Allievo scrive che ognuno: «sente di essere un’attività consapevole di sé ed arbitra del proprio operare, una forza morale, che si muove all’atto non per esteriore costringimento, ma per intrinseco impulso intelligente e libero. “Se ciò non fosse (scrive lo Smiles nel capitolo VIII della sua opera Chi si aiuta Dio l’aiuta), dove sarebbe la responsabilità? A che gioverebbe lo insegnare, l’ammonire, il consigliare, il correggere? A che servirebbero le leggi, ove non fosse la credenza universale, come è un fatto universale, che gli uomini obbediscono o no ad esse, secondo che deliberarono individualmente?”»139. 135 «La persona è un tutto individuo e sostanziale, che afferma sé come distinto dalla realtà universa; un soggetto, che possiede sé stesso mercè il pensiero e la volontà; una monade, che è conscia sui et compos sui, è presente a sé ed è tutta in ciascuna delle molteplici sue forme, determinazioni, momenti e stati, sicché il secreto de’ grandi caratteri dimora nel conservare la propria individualità personale in mezzo alle forze contrarie padroneggiandole; una sostanza dispiegantesi per intrinseca sua virtù da un centro o principio supremo di vita suo proprio e che nello esplicamento del suo contenuto compenetra tutta sé stessa in una viva ed attuosa unità di intendere e di volere» Ibid., p. 54. 136 G. Allievo, Lo spirito e la materia nell’universo, l’anima e il corpo nell’uomo, Torino, Carlo Clausen, 1903, p. 15. 137 Secondo Allievo l’attività volontaria è «la fonte secreta, inesauribile, da cui prorompe tutta la corrente della vita umana, ed a cui rifluisce con perpetuo circolar movimento. Il voglio pronunciato dall’io attesta l’atto di una coscienza personale ed annuncia il lavoro. S’intende da sé che questa forza, quest’attività interiore dell’io non è una volontà cieca, inconsapevole di sé, bensì illuminata dall’intelligenza, essendochè chi dice coscienza, dice conoscenza, e propriamente conoscenza di sé» G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 8. 138 «La coscienza è la rivelazione dell’anima a sè stessa nella sua natura e ne’ suoi fenomeni, nella sua sostanza e ne’ suoi modi, nella sua essenza e nella sua attività, nel suo essere e nelle sue manifestazioni. Così il concetto della personalità umana, vale a dire di un soggetto sostanziale fornito di intelligenza e di libera volontà, è il solo, che concilii la molteplicità dei fenomeni coll’unità del loro comune soggetto, sicché questi due termini nello sviluppo della vita umana si mantengano indisgiungibili, e si rischiarano l’un l’altro» G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 74. 139 G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 47.  48  L’esistenza nella persona di una unità tra mente e corpo, rappresenta una premessa incontrovertibile su cui dipanare il discorso antropologico e pedagogico140. Negare questa dualità nell’uomo, significherebbe disconoscere un dato di realtà. Stando al pedagogista, la stessa idea di scienza appare contenere implicitamente l’affermazione dell’esistenza della coscienza141. Allievo dedicò ampio spazio al rapporto tra la dimensione spirituale e quella corporale. Com’è già stato osservato, l’uomo è sintesi tra persona e corpo, due nature che si mantengono in una relazione di armonia nell’uomo. In questo senso egli definisce l’uomo come «persona organata»142 o «persona incorporata». Questa relazione, pone il problema di come i due livelli siano coordinati tra loro. Come premessa a questo problema, Allievo scrive che «nell’uomo non vi sono due esseri, ma uno solo; quindi in lui le potenze mentali dell’anima e le funzioni animali del corpo si svolgono complicate insieme, sicché non si può tracciare una linea di separazione tra i fenomeni psichici ed i fisiologici»143. Contro i positivismi chiarisce in più di un’occasione che la vita della mente va distinta da quella materiale. Osserva: «L’anima non trae la sua origine dagli organi del corpo, ma (dicevano i pitagorici) vien dal di fuori nel corpo è un’emanazione dell’etere, simbolo dell’anima universale, ossia di Dio animatore supremo»144. Nel testo Studi psicofisiologici, si occupa in specie della relazione tra la natura spirituale e quella fisiologica, citando diverse opere di studiosi tra cui Marat, Lèlut, Lotze, Cerisem, Cabanis, Broussais ed Herzen. Polemico contro il monismo scientista, propone una teoria chiamata duodinamismo, che spiega in questo modo: «Mentre il monodinamismo concentra la vita umana tutta quanta in una sostanza, cioè o nel solo spirito o nella sola materia componente l’organismo corporeo, il duodinamismo riconosce nell’uomo due centri di vita sostanzialmente distinti, cioè l’anima razionale e la forza vitale, e da quella fa rampollare i fenomeni mentali, da questa i fenomeni fisiologici ed animali»145. La teoria si 140 Per Allievo l’uomo è «La persona, sostanza individua, sussistente in sé, volontariamente attiva; l’unità è l’identità dell’io nella molteplicità e varietà dei suoi modi e dei suoi fenomeni; la vita intima ed individuale intrecciata colla vita esterna e comune; la vita mentale svolgentesi insieme colla vita organica. Ecco le rivelazioni della coscienza personale, rivelazioni, che costituiscono le prime, spontanee intuizioni dello spirito umano, salde, inconcusse, irrepugnabili. Ora da ciascuna di queste rivelazioni la ragione vede spuntare una serie ordinata di problemi, che ammaniscano la materia, su cui la scienza ordisce le sue trame e compie il suo lavoro speculativo» G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 10. 141 «Così coscienza e scienza sono i due poli, fra cui si muove il mondo della speculazione: la coscienza ci rivela la personalità dell’essere, ed alla luce di questo principio la ragione costruisce la scienza» Ibid., p. 10. 142 G. Allievo, Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, cit., p. 14. 143 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 26. 144 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, Cuneo, Tipografia Subalpina di Pietro Oggero e C., 1887, p. 18. 145 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 69.  49  rifà ad autori come Barthez, Montpellier, Lordat. Essa «concilia insieme la molteplicità della natura umana coll’unità dell’Io individuale. Infatti l’anima razionale non essendo uno spirito puro, ma congiunto colla materia, è essa che informa ed avvia il corpo, è il suo principio ed animatore: così il principio corporeo produce i fenomeni della vita fisica ed animale, ma in grazia della forza vitale ricevuta dall’anima, la quale in tal modo produce direttamente e per se stessa i fenomeni della vita mentale, ed indirettamente, ossia per mezzo del corpo i fenomeni della vita corporea»146. Al naturalismo e al positivismo contestò, come già accennato, la riduzione dell’antropologia a un «capitolo della fisiologia, ad un ramo della zoologia»147. Allievo chiarisce è che non è contrario alla fisiologia, ma al «fisiologismo». Negli Studi pedagogici cita il caso dei fisiologi come Salvatore Tommasi, che sostengono come la disciplina non porti necessariamente al materialismo148. Inoltre osserva come anche alcuni positivisti abbiano ammesso una serie di difficoltà nello spiegare la vita mentale con la sola fisiologia. Per suffragare la sua tesi rinvia al saggio Herzen, Il cervello e l’attività celebrale, nel quale lo studioso riconosce quanto sia ancora lontana la possibilità di chiarire aspetti fondamentali del funzionamento della mente umana. Allievo trae queste conclusioni: «Così i più grandi rappresentanti del positivismo contemporaneo riconoscono l’ignoto, che giace in fondo al problema dell’unione tra la vita fisica e la vita mentale dell’uomo. Certamente la fisiologia moderna co’suoi luminosi ed incontestabili progressi ha sparso molta luce su questo problema, ma non ha svelato il mistero che lo avvolge»149. Allievo si poneva come obiettivo di salvare insieme le esigenze spirituali e i dati fisiologici. Osserva: «Il principio antropologico da me propugnato è antico quanto l’uomo, il quale intuisce per natura la personalità del suo essere, ma è pur fecondo di novità e di progressivo sviluppamento, perché ammette insieme armonizzati i due supremi fattori della scienza, voglio dire l’esperienza, che apprende la fenomenalità delle cose, e la ragione, che coglie il loro essere sostanziale»150. Nel principio della personalità si palesa lo spiritualismo di Allievo, che viene spiegato così dalla Quarello: «Realismo spiritualistico e spiritualismo teistico: tale è la filosofia dell’Allievo. È realismo in quanto il pensiero è l’ “attività” di un essere reale (io = persona); è spiritualismo in quanto la persona è essere uno, sostanziale cosciente di sé (“lo 146 Ibid., p. 72 147 G. Allievo, L’uomo e la natura, cit., pp. 13-14. 148 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 42-43. 149 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 12. 150 G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18  novembre 1903, cit., p. 14. 50  spiritualismo, egli scrive, proclama la personalità umana”); è teismo in quanto Dio è pensato come persona (“il teismo proclama la personalità infinita di Dio”)»151. Lo spiritualismo dell’Allievo trae alimento dal principio della personalità. Se da una parte, infatti, si afferma una dimensione irriducibile alle dinamiche nell’uomo, e dall’altra l’attestazione di questa «natura» dell’uomo conferma il suo spiritualismo. «Preso nel suo ampio senso – osserva il pedagogista vercellese - lo spiritualismo risiede nell’ammettere l’esistenza di sostanze immateriali, che cioè non cadono sotto i sensi e non hanno le proprietà della materia, quali sono la figura, la grandezza, l’estensione, la divisibilità, il movimento locale, bensì sono fornite di intelligenza e di libera volontà»152. In questa duplice difesa dello spirito e della realtà materiale, sembra di poter affiancare Allievo al personalismo nato in Francia diversi decenni dopo, a cui lo accomunò la volontà di «evitare che la persona umana fosse schiacciata dal materialismo positivistico o assorbita nel vortice del monismo idealistico»153. I. 4. Antropologia e pedagogia Secondo Allievo, la pedagogia deve fare i conti con la realtà educativa e le sue dinamiche154. La riflessione teorica e la vita formativa rappresentano due poli indispensabili l’uno all’altro155. Allievo prospetta, in questo senso, un metodo di ricerca pedagogico sia empirico che razionale. Egli lo definisce «dialettico» in quanto «contempera insieme l’esperienza e la ragione, i fatti e i principi»156. La storia della pedagogia documenta come qualsiasi riflessione sistematica sull’educazione, abbia sempre fondato le sue posizioni su una concezione dell’uomo e del suo ideale. Anche per Allievo, l’antropologia come «scienza dell’essere umano»157 si 151 V. Quarello, G. Allievo, Studio critico, cit., p. 79. 152 G. Allievo, Appunti di Antropologia e Psicologia, cit., p. 8. 153 Pedagogie personalistiche e/o della Pedagogie della persona, Brescia, La Scuola, 1994, p. 15. 154 «Siccome l’educazione è ad un tempo un’idea ed un fatto, così la Pedagogia, che ne rampolla, assume il duplice carattere di scienza e di arte. Essa è scienza perché l’esplicazione razionale di quell’idea; è arte, perché ideale tipico di quel fatto. Come scienza è un sistema di cognizioni, una teoria speculativa intorno l’educazione umana, epperò potrebbe appellarsi pedagogia pratica» G. Allievo, Studi pedagogici, cit., 1889, p. 25. 155 «Così la scienza pedagogica è la teoria dell’educazione, l’arte pedagogica è la pratica dell’educazione; scienza ed arte, teoria e pratica bisognevoli l’una dell’altra. Poiché la mera pratica dell’educazione, non illuminata dalla scienza pedagogica, non è vera arte, bensì cieco empirismo; la scienza pedagogica alla sua volta, non tradotta in pratica, né fecondata dal magistero dell’arte, rimane una vana e sterile teoria» G. Allievo, Concetto generale della storia della pedagogia, Pavia, Bizzoni, 1901, p. 2. 156 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 55. 157 G. Allievo, L’uomo e il cosmo, cit., p. 1.  51  prospetta come uno studio di fondamentale importanza tanto per la teoria quanto per la pratica educativa158. Allievo colloca l’antropologia al centro dell’organigramma di tutte le scienze. Egli individua il suo obiettivo nella conoscenza dell’essenza unitaria della persona159. L’Allievo non pensa all’antropologia come ad una etnografia, ma come «scienza generale sull’uomo» connotata da un orizzonte metafisico. Dallo studio generale sull’uomo, discendono due gruppi di discipline, quelle che lo studiano nella sua accezione individuale, e quante ne approfondiscono l’aspetto sociale160. Le scienze che studiano l’uomo sotto l’aspetto individuale si dividono a loro volta in altri due gruppi. Del primo fanno parte tutte le discipline che si occupano della mente: logica, estetica, etica, eudemonologia, filologia, pedagogia. Al secondo gruppo afferiscono le scienze che riguardano l’organismo corporeo: fisiologia, anatomia umana, patologia, terapeutica, igiene, ginnastica. Le scienze che riguardano l’uomo sociale sono secondo l’Allievo la politica, la giuridica, l’economia pubblica colle scienze industriali e commerciali, la storia, l’etnografia, la filosofia della storia. Tutte queste discipline sono legate all’antropologia, che permea e fonda qualsiasi aspetto dello scibile umano. Secondo Allievo, la prospettiva sulla natura e il senso della persona, permea le possibili soluzioni avanzate riguardo la vita della società, le sue leggi, le sue prospettive, il suo sviluppo. Osserva: «Ogni problema sociale, vuoi politico, vuoi artistico, vuoi religioso, cova in sé un problema antropologico»161. Questa relazione è ancora più evidente per quanto concerne la scienza pedagogica, con la quale l’antropologia ha un «vincolo indissolubile»162. Lo studioso piemontese, infatti, pur riconoscendo un proprium alla pedagogia nell’affrontare dei problemi fondativi e generali sull’educazione, considerava necessario il contributo delle altre scienze, indispensabili per completare e integrare la ricerca pedagogica163. Tra queste primeggia l’antropologia filosofica poiché necessaria per chiarire 158 «L’educazione dell’uomo presuppone la conoscenza dell’uomo stesso, epperò la pedagogia o scienza dell’educare e la didattica o scienza dell’istruire, hanno il loro fondamento nell’antropologia, o scienza che studia l’essere umano» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 3. 159 Allievo sostiene che l’antropologia studia «l’uomo nella sua intima e generalissima essenza, ossia nell’integrità e pienezza complessiva del suo essere» G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 6. 160 Cfr. G. Allievo, Appunti di Antropologia e Psicologia, cit., p. 8. 161 G. Allievo, Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, cit., p. 4. 162 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 39. 163 Nel seguente brano elenca le discipline ausiliarie alla pedagogia, che sono: «1° L’antropologia generale, che studia l’uomo nella dualità di anima e di corpo e nella unità della sua persona; 2° la psicologia, che studia l’anima umana nelle proprietà della sua natura e nella varietà delle sue potenze; 3° la logica riguardata siccome la teorica della verità e della scienza; 4° l’etica, che studia il Buono, norma ed oggetto della libertà morale umana; 5° la cosmologia, che è una spiegazione scientifica del mondo; 6° la metafisica,  52  la natura e il fine dell’educando, e quindi dell’educazione. Nonostante i diversi ambiti di ricerca «tra l’antropologia e la pedagogia intercedono le due fondamentali attinenze della distinzione e dell’unione»164. Se il principio della personalità è il fulcro dell’opera di Giuseppe Allievo, l’antropologia è il centro della pedagogia. Non a caso, quando il professore vercellese sostituì Rayneri sulla cattedra di pedagogia all’Università di Torino, cambiò il nome dell’insegnamento da «Metodica» in «Antropologia e Pedagogia». Il carattere di ciascun sistema pedagogico dipende dalla prospettiva antropologica: «le diverse e contrarie teorie pedagogiche professate dai cultori di questa disciplina traggono appunto la loro ragione e origine dai diversi e contrari concetti antropologici, da cui essi hanno preso le mosse, e su cui hanno costrutto il sistema»165. Per capire e pensare l’educazione occorre una chiara idea su cosa sia l’uomo, se ci sia e quale debba essere il suo compito nel mondo: «Ogni dottrina pedagogica ritrae dai principi antropologici su cui si regge, la virtù peculiare, che la informa, e lo stampo singolare, che la individua»166. Non si possono slegare questi due aspetti nella riflessione: «L’uomo e la sua educazione sono due termini insieme compenetrati, come un principio e la conseguenza sua, e che li disgiunge, è mente piccina che né l’uno, né l’altra intende. L’uomo spiega se stesso nell’educazione e l’educazione riflette se stessa nell’uomo; e sempre il concetto antropologico ed il concetto pedagogico serbano l’uno coll’altro rispondenza esatta o veri o fallaci che siano entrambi»167. La correlazione è necessaria. In un altro brano chiarisce gli scopi delle due discipline: «La distinzione delle singole scienze origina dalla distinzione dei loro oggetti: l’una non è l’altra, perché versa sopra un oggetto suo proprio, che non è quello dell’altra. Per conseguente la scienza antropologica dalla pedagogica si differenzia essendochè quella ha per oggetto suo l’essere umano, questa l’educazione umana, l’una studia l’uomo nell’integrità e compitezza dell’esser suo, l’altra sotto il peculiare riguardo della sua educabilità; la prima si propone di rispondere alla domanda: Che cosa è l’uomo; la seconda ha per ufficio di soddisfare all’inchiesta: Che l’educazione e come l’uomo va educato. Ecco il rapporto di distinzione, ma da questo stesso già si rileva il vincolo unitivo, che stringe l’una all’altra le due discipline, essendochè l’uomo e la educazione sua sono due termini inseparabili. La pedagogia ha coll’antropologia un vincolo così intimo e necessario, che trova in questa il fondamento e che studia l’Essere primitivo in sé e ne’ suoi rapporti col mondo e coll’uomo» G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, Torino,Tipografia Subalpina di Stefano Marino, 1883, p. 246. 164 G. Allievo, Attinenze tra l’antropologia e la pedagogia, «Rivista Pedagogica Italiana», Asti, 1897, vol. I, p. 308. 165 Ibid., p. 310. 166 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 31. 167 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., 1909, p. 10.  53  la ragion sua ed in ogni punto del suo processo si regge sui principii supremi della scienza antropologica»168. Per fare pedagogia occorre dunque possedere una «conoscenza scientifica dell’origine, della natura, del fine dell’uomo»169. Bisogna tenere conto del fatto che nella temperie culturale in cui Allievo sosteneva queste posizioni, porre l’antropologia filosofica a fondamento della pedagogia, non era un’ovvietà, soprattutto quando essa era collocata entro un contesto metafisico. Porre il baricentro del discorso pedagogico sulla questione antropologica, era considerato da Allievo come la risposta emergente ad una problematica educativa reale. Si trattava di un problema radicale che faceva da discriminante tra le varie teorie. Le risposte alla questione circa la natura dell’uomo, non erano infatti da considerare secondarie per la qualità della relazione pedagogica: «Educare è sviluppare le virtù insite dell’uomo fanciullo. Ma che cosa e quale è mai l’uomo che si vuol educare? Forse l’uomo di Molescott, un mero giuoco di elementi chimici colla predominanza del fosforo pensiero, e niente più? O l’uomo-scimmia de’ moderni naturalisti? O l’uomo de’ panteisti tedeschi fatto una cosa sola con Dio? O l’uomo de’ razionalisti trasformato in libero pensiero? O l’uomo de’ mistici che lo spiritualeggiano per intero, mentre i materialisti lo abbruttiscono?»170. Per l’Allievo, si trattava di domande impellenti. La pedagogia esigeva nuova chiarezza sull’idea di persona: «Oggi più che mai essa reclama un supremo principio vitale, che risponda al suo altissimo compito, ricomponga ad unità di organismo potente la sua squilibrata compagine e le additi l’ideale suo, verso cui cammina franca e sicura»171. Secondo il pedagogista, la domanda circa la natura dell’uomo non poteva essere affrontata con gli strumenti epistemologici delle scienze esatte, incapaci di cogliere l’essenza della persona. Tale compito spetta alla filosofia, che diviene la prima interlocutrice della pedagogia. In più di una occasione chiarì che la sua era una «pedagogia filosofica»172 poiché si «fonda sopra un principio essenzialmente vero ed inconcusso, quale è quello della natura umana riposta nella personalità dell’io, e nel suo procedimento adopera non la sola esperienza disgiunta dalla ragione, né la sola ragione astratta, che disdegna la realtà dei fatti, bensì entrambe queste due potenze conoscitive, e l’una in armonia coll’altra»173. 168 G. Allievo, Attinenze tra l’antropologia e la pedagogia, cit., pp. 308-309. 169 Ibid., p. 309. 170 G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 125. 171 G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 12. 172 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, Torino, Carlo Clausen, 1905, p. 3. 173 Ibid., p. 8.  54  Stando a Calò, uno dei punti centrali nell’opera dell’Allievo è questo: «Non trascurare le esigenze dell’esperienza né quelle della ragione; ecco, secondo l’Allievo, il primo canone del metodo filosofico»174. Ciò è confermato anche dall’esigenza di rompere le catene del misurabile, e allargare la pedagogia alla profondità e al mistero della persona. Solo «La pedagogia filosofica riconosce nell’alunno un’anima razionale non già separata dal corpo, ma con esso vitalmente congiunta in unità di persona, sebbene da esso distinta, un’anima, che sviluppa di continuo le sue energie in una successione di fenomeni, che formano la sua vita, epperò vuole un’educazione, che si estenda a tutto quanto l’uomo nella dualità delle sue sostanze e nell’unità della sua persona, alla vita temporanea e alla futura»175. La natura delle domande che l’esigenza dell’educazione ci pone, non si possono risolvere con il metodo scientifico176. Allievo non portò sostanziali novità nella riflessione epistemologica, ma difese la prospettiva pedagogica spiritualista, confutando i detrattori della metafisica in campo antropologico. Secondo Serafini, nonostante «il modello disciplinare intorno al quale egli lavora è ancora, in larga misura quello di una pedagogia come scienza pratica (quantunque punti particolarmente sulla figura d’una disciplina complessa) che si differenzia dal modello elaborato in ambito positivistico particolarmente per gli effetti che su questo ha il suo personalismo»177. Un altro carattere distintivo della pedagogia di Allievo è l’idea della specificità nazionale della pedagogia. Occorre secondo il pedagogista pensare in continuità con la storia del proprio popolo e con le proprie attitudini. Su questo tema trovò una consonanza con il saggio di Antonino Parato dal titolo «La scuola pedagogica nazionale», non senza motivo diverse volte citato dall’Allievo. I. 5. L’educazione 174 G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe Allievo, cit., p. 8. 175 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 10. 176 Spiega Allievo: «La pedagogia è la scienza dell’educazione umana; e siccome l’uomo non può essere convenientemente educato se prima non è conosciuto secondo verità, quindi è che la pedagogia dipende ed attinge da tutte quelle scienze, che hanno per oggetto la conoscenza ragionata dell’uomo riguardato in sé ed in rapporto colla realtà universale. Ciò posto, che cosa è l’uomo, donde esso viene e dove va? Come si congiungono in lui ad unità di vita il corpo e la mente? I suoi destini si compiono quaggiù o in una vita ultramondana? Esiste la verità e la scienza, a cui aspira la sua intelligenza? Esiste una legge morale, norma della sua libera volontà? Che cos’è questo mondo esteriore, che lo circonda, ed in cui è posto a vivere? Qual concetto dobbiamo formarci di quell’essere assoluto ed infinito, che è l’oggetto della moralità e religiosità umana, origine prima e fine ultimo di lui?» G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., pp. 245-246.  177 G. Serafini, L’idea di pedagogia nella cultura italiana dell’Ottocento, cit., p. 130. 55  In più di un’opera, il pedagogista vercellese denunciò una grave crisi educativa, che egli imputava alla confusione imperante circa i caratteri di una formazione adeguata178. Sulla base del principio della personalità, egli considerava l’efficacia educativa legata alla previa soluzione data al senso della perfettibilità dell’uomo179. Mancando, come già si è accennato, una concezione adeguata sulla natura dalla persona, anche la pratica educativa ne veniva fuori menomata. Tra i fondamenti pedagogici di Allievo si colloca questa massima: «Sul sentimento e sul rispetto della dignità della persona si fonda l’arte dell’educare»180. Al pari di un ampio stuolo di pedagogisti ed educatori, il docente vercellese era convinto che non si dà autentico sviluppo della persona senza un intervento formativo181. La natura esteriore, infatti, «non è per se stessa educativa nel senso rigoroso della parola, bensì tale diventa allorquando il fanciullo in sé accogliendola l’accompagna e la feconda colla coscienza del suo sviluppo»182. Per tratteggiare i caratteri precipui dell’educazione, Allievo si rifà alla lezione di Rayneri, che nella Pedagogica enumerò cinque attributi imprescindibili: Unità rispetto al fine, Universalità rispetto a tutte le facoltà umane che devono essere medesimamente sviluppate, Armonia tra le potenze umane, Gradazione, Convenienza, cioè – oggi diremmo – personalizzazione dell’intervento educativo183. Mentre il suo maestro considerava la «convenienza» come la più importante di queste leggi, Allievo sostiene il primato dell’armonia184, quale condizione necessaria per un’educazione efficace185. 178 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 21-22. 179 «L’opera educativa si modella sul concetto dell’uomo: quale noi lo conosciamo, tale lo educhiamo, e per conseguente ogni dottrina pedagogica si informa e si esempla sopra una dottrina antropologica.(...) L’educazione muove dalla natura originaria dell’uomo, come da suo fondamento, lo segue nel corso progressivo della sua vita governando lo sviluppo delle sue potenze, mira ad un ideale di perfezione, a cui intende sollevarlo» G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, Tipografia Subalpina, Torino, 1910, pp. 81-82. 180 G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit. p. 185. 181 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 67-68. 182 G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 68. 183 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 106. 184 Ibid., pp. 109-112; 185 L’educazione deve essere armonica rispetto a tutte le facoltà della persona «Che l’alunno debba essere educato in armonico accordo colla natura fisica circostante, colla famiglia e colla nazione, a cui appartiene, coll’organamento sociale, in cui vive, col grado di civiltà e collo spirito proprio del tempo, è una verità già riconosciuta e proclamata dalla pedagogia filosofica. Poiché l’alunno non è una monade solitaria ed isolata, chiusa ad ogni comunicazione esteriore, bensì abbisogna della convivenza di altri esseri, a fine di espandere la sua vitalità interiore e compiere il suo esplicamento. Ma egli possiede una personalità sua, che non può essere sacrificata al mondo fisico sociale; è fornito di una libertà interiore, che gli conferisce il dominio di sé medesimo, sicché egli è quale vuole essere, non quale lo fa la necessità insuperabile dell’ambiente; non potrebbe vivere una vita comune nel consorzio con altri esseri se anzi tutto non vivesse in se medesimo di una vita tutta sua propria; non potrebbe mettersi in conformità di accordo coll’ambiente, se da prima non fosse in concorde armonia con sé stesso; non potrebbe acconciarsi alle impressioni del grande organismo  56  Sebbene guidata da un criterio unitario, l’educazione può essere analizzata nella sua molteplicità. Allievo parla di un’educazione fisica, intellettuale, estetica, morale, religiosa. Distingue tra quella naturale, che segue lo sviluppo delle facoltà della persona, e quella esterna, guidata da modelli valoriali, culturali e intellettuali dal discente. Il perno dell’educazione della persona è la sua razionalità ed intelligenza. Riprendendo la tripartizione rosminiana delle facoltà umane186, Allievo ricorda come l’interiorità della persona sia il vero oggetto dell’educazione, mistero non materiale187, ed eccedente i meccanismi fisiologici188. I fenomeni dell’interiorità sono governati da leggi come quella di associazione, simultaneità, successione, e si fondano sulla dinamica delle potenze umane, tratto tipico della pedagogia rosminiana, che si dividono in corporee o fisiche e in spirituali o mentali189. Compito dell’educazione è di sviluppare le potenze umane, in cui l’intelligenza umana si esprime come desiderio spirituale190. Se l’educazione è il mezzo attraverso cui l’uomo può essere se stesso, questa va rivolta a chiunque. Allievo considerava necessario offrire a qualsiasi persona l’educazione e l’istruzione, senza discriminazioni per le condizioni economiche, sociali, o di genere. In questo senso contesta i positivisti che negavano la possibilità e l’utilità di occuparsi dell’educazione e dell’istruzione dei diversamente abili. Negli Opuscoli Pedagogici191 sostiene la necessità di educare i sordomuti, i nevrastenici, i balbuzienti, i ciechi, ed esorta ad approfondire gli studi sui mezzi con i quali sia meglio educarli, richiamando a prendere esempio da altre nazioni europee come la Francia. Nel saggio su Rousseau, contesta l’idea difesa nell’Emilio, secondo cui i della natura, se anzi tutto non sentisse il vitale influsso dell’organismo corporeo suo proprio; infine egli aspira ad un ideale della vita futura, il quale non può trovar luogo nella cerchia dell’ambiente della natura tutto circoscritto ad un punto del tempo e dello spazio» G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., pp. 19-20. 186 «Sentire, intendere e volere, in questa triplice classe di fenomeni psicologici si raccoglie tutto lo sviluppo del nostro essere spirituale» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 6. 187 «I fenomeni interni o psicologici non si veggono cogli occhi del corpo, non si toccano, non si odono, non si odorano: un pensiero, un affetto, un volere non hanno forma o figura, non divisione o dimensione, non grandezza o misura: essi soltanto alla coscienza si mostrano e sono oggetti di osservazione interiore» Ibid., p. 7. 188 «I fenomeni interni sono di loro natura superiori all’organismo; i sentimenti, i pensieri, i propositi deliberati sono manifestazioni esclusivamente proprie dello spirito, al cui compiuto sviluppo i fenomeni dell’organismo corporeo intervengono bensì, ma come condizione soltanto, non some causa» Ibid., pp. 7-8. 189 «Ciò posto, siccome i fenomeni interni ci vennero superiormente distribuiti in tre classi supreme, affettivi cioè, intellettivi e volitivi, così siamo condotti ad ammettere tre supreme potenze umane corrispondenti, la sensitività, l’intelligenza e la volontà, intendendole con tale larghezza, che la sensitività comprende tanto la sensazione animale, quanto il sentimento spirituale, l’intelligenza abbracci tanto la percezione o fantasia sensitiva quanto la ragione, e similmente la facoltà spirituale della volontà si mostri preceduta dagli appetiti inferiori e con essi collegata» Ibid., p. 12. 190 «Come l’istinto animale provvede alle esigenze della nostra vita fisica, così l’istinto spirituale fornisce alla vita mentale i beni, che le sono proprii. Ora lo spirito vive del Vero, del Bello, del Buono, e vi si sente portato da naturale istinto, il quale viene così a distinguersi in intellettivo, estetico e morale» Ibid., p. 29.  191 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., pp. 94-97. 57  diversamente abili, Allievo parla di «storpi», non abbiano diritto all’istruzione e all’educazione192, ribadendo la convinzione che l’educazione sia un diritto per tutti. Tutti gli uomini sono persone, qualunque sia la loro condizione, e ognuno merita di essere educato e istruito, anche se ciò deve essere fatto secondo le inclinazioni e le potenzialità di ciascuno. Analogamente contestò Platone quando estromette i «malconformati di corpo» dalla cerchia degli educabili. Inoltre fa notare come «anche lo Spencer a’ di nostri muove rimprovero alla società che si prende cure dei miserabili, dei poveri, degli infermi, fino a dichiarare una grande crudeltà il nutrire gli inetti a spese dei capaci degli operosi»193. Allievo considera questa prospettiva come una diretta conseguenza del materialismo: disconoscendo il valore assoluto dell’uomo, non ha più senso la cura di quanti non «funzionano», non «producono», quanti insomma sarebbero solo un peso per il sistema economico. Secondo Allievo solo il riconoscimento della dignità suprema dell’individuo permette il rispetto di ciascuno e la sua valorizzazione. Dimenticata la persona nell’uomo, si elimina la ragione dell’eguaglianza degli esseri umani e dunque il diritto all’educazione per tutti. Sulla base del principio della personalità, il pedagogista vercellese fu altresì un difensore dell’istruzione e dell’educazione delle donne. Anche per l’Allievo, come per molti altri studiosi della seconda metà dell’Ottocento, era necessario concepire l’educazione della donna in armonia con l’ufficio della maternità e la cura della famiglia, compiti a cui secondo il pedagogista la donna era naturalmente destinata. Dopo aver difeso il ruolo della donna nella famiglia, spiega: «Né altri di qui inferisca, che la donna circoscrivendo nel recinto della casa il suo genere peculiare di vita debba crescervi e passarvi i suoi giorni solitari, ignorante, incolta, spregiata e negletta. Anch’essa possiede per natura tutte le facoltà costitutive della specie umana, a cui appartiene; epperò ha, quanto l’uomo, diritto alla verità, alla felicità, alla virtù, al rispetto della dignità umana, che in lei rifulge, al perfezionamento suo proprio. E se abbia da natura sortito qualche raro pregio di mente e di spirito, qualche felice attitudine al culto di qualche disciplina, od arte, o nobile professione sociale, chè non venga mai meno alla sua prima e natural missione, alla quale è chiamata nel santuario domestico»194. Allievo reputa che sia necessario offrire un percorso educativo e di istruzione anche alle donne meno abbienti. Dopo aver analizzato le opere della Saussure, contesta il fatto che si parli dell’educazione solo per i ceti sociali più alti: «Però io non posso passare sotto 192 G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, cit., p. 160. 193 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 113. 194 Ibid., pp. 117-118.  58  silenzio, che in questo eletto lavoro pedagogico della Saussure è tutto rivolto alla coltura della donna di agiata e civil condizione, come lo sono altresì le opere pubblicate dalle due egregie donne italiane, la Colombini e la Ferrucci intorno l’educazione femminile. Eppure anche l’educazione della donna popolana ed operaia può e deve fornire al cultore della pedagogia bello e grande argomento di studio e di meditazione, per quantunque debba essere discorso sott’altra forma ed in proporzioni più modeste»195. Nonostante l’inciso finale, il discorso dell’Allievo sembra innovativo rispetto alle comuni pratiche e teorie pedagogiche. La donna inoltre, in quanto persona, non poteva essere considerata proprietà di alcuno. Per questo motivo critica Rousseau che aveva fatto di Sofia una moglie totalmente asservita al marito. Al contrario: «La donna non è nata per essere la schiava né dello Stato, né dell’uomo»196. L’attività dell’educatore e della scuola deve anche essere in armonia con quella familiare. La famiglia è l’inizio e il paradigma dell’educazione. Chi si occupa di educazione deve avere come modello l’istituzione familiare. Allievo sostiene la necessità di una famiglia generosa, laboriosa e aperta. Contesta la famiglia rappresentata nell’Emilio, considerata isolata ed egoista. Invero, persistono nella sua opera ancora alcuni stereotipi sul sesso femminile. Allievo parla di un’inferiorità fisica197, e sostiene che «nella donna il sentimento e l’affetto predominano sull’intelligenza e sulla volontà», e sebbene sottolinei i vantaggi di questa caratterustica femminile198, considera l’uomo maggiormente capace di sottomettere la volontà alla ragione199. Secondo Allievo la durata dell’educazione abbraccia tutta la vita. L’uomo ha sempre da essere perfezionato. Il suo cammino verso il compimento di se stesso è costante200. È tuttavia vero che la vita è composta da diverse fasi, ognuna ha delle particolari esigenze educative. Allievo contesta cesure nette nella teorizzazione dello sviluppo della persona. 195 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, Torino, Libreria Scolastica di Grato Scioldo, 1884, p. 222. 196 G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, cit., p. 159. 197 «Insegna la fisiologia, che l’organismo corporeo è più gagliardo e più robusto nell’uomo, più esiguo e più delicato nella donna; questa diversità di struttura deve naturalmente riuscire ad una differenza tra le potenze fisiche del sentire e del muoversi corporeo» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., pp. 16-17. 198 «Essa pensa più col cuore, che col cervello. La verità la sente più che non la mediti, la intuisce più che non la ragioni, la crede senza avvolgerla fra le tortuose spire del dubbio, la accoglie tutta quanta viva ed intiera senza dissolverla e notomizzarla col coltello dell’analisi; pensa e riconosce Dio come un bisogno del cuore, anziché come un principio della ragione; posa il suo pensiero sulla realtà concreta e vivente e mal si rivolge alle aride astrattezze, alle generalità trascendetali» Ibid., p. 17. 199 «Venendo alla volontà, anch’essa nella donna soggiace alla influenza del sentimento, nell’uomo procede a tenore della ragione» Ibid., p. 18. 200 «L’educazione comincia colla vita e mai non cessa, perché la nostra perfettibilità dura quanto la nostra mortale esistenza; però essa muta tenore ed ufficio ed indirizzo secondo il mutare delle diverse età» G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 33.  59  La vita non può essere divisa in tappe con demarcazioni rigide, dato che la crescita è graduale e soggettiva. A tal proposito critica Rousseau, il quale «ha rotto l’uomo (e con esso l’educazione) in tre pezzi, che spuntano non si sa come, l’un dopo l’altro, il fanciullo, l’adolescente, il giovinetto: e sotto il taglio della sua anatomia psicologica la personalità è finita»201. Tale istanza è legata ad uno dei principi cardine dell’educazione in Allievo, vale a dire l’armonia. «Se la virtù e l’anima e l’universo e Dio medesimo e tutto quanto esiste è armonia, appar manifesto, che anche essa l’educazione deve posare e reggersi tutta quanta sull’armonia, come suo fondamentale principio, val quanto dire essenzialmente ed integralmente ordinata all’armonico sviluppo delle forze del corpo e delle facoltà dell’anima»202. Importanti appaiono alcune annotazioni sul rapporto educatore-educando. Se la persona è libera e tende alla sua libertà, l’educatore non può agire sull’educando non tenendo conto di questo aspetto proprio della persona. Dato che l’uomo è libero, non si potrà ridurre l’educazione ad un meccanismo, l’educatore non costringe, non forza, non chiude, ma mostra, fa ammirare, interroga, sollecita, suscita. Su tale principio l’Allievo riprende fortemente il modello della paideia greca, contrapposto alla modernità che confusa sulla natura spirituale della persona e dunque sulla sua libertà, ha costretto l’insegnamento in un procedimento vuoto e disumano. Non c’è libertà senza l’autorità. La pedagogia moderna, di cui Rousseau è il più alto rappresentante, ha disconosciuto tale evidenza. Nonostante sia giusto assecondare la crescita naturale del bambino, non lo si può privare dell’intervento esterno: «Mai non ci deve cadere di mente, che nell’educazione umana suolsi seguire come infallibil maestra la natura medesima, sicché nulla mai si tenti, né si faccia, che contraddica a’ suoi principii, nulla si dimentichi, né si trascuri, che torni opportuno o necessario a secondarlo nel suo spontaneo sviluppo. Ai dì nostri vide questa potenza educatrice della natura Gian Giacomo Rousseau, ma di troppo la esaltò fino a bandire siccome inutile e nocivo il magistero dell’arte. Aristotele non disconobbe la virtù educatrice, che giace nella consuetudine o costume, e nella coltura della ragione o disciplina. Poiché i germi del Bello e del Buono deposti in noi da natura non crescono già né maturano mercé l’opera dei beni esterni, né il caso e la sorte fa sì che noi diventiamo onesti; bensì richiedesi a tanto fine l’esercizio della facoltà del volere e del sapere»203. 201 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p. 117. 202 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 34. 203 Ibid., p. 155.  60  Per questo stesso motivo mette in guardia da una sopravvalutazione dell’autodidattica: «L’io umano è un soggetto personale, e quindi fornito di una energia pensante sua propria, per cui aspira scientemente e liberamente alla conoscenza della verità, siccome suo naturale obbietto; ecco l’origine ed il fondamento dell’autodidattica. Ma la personalità umana individua è limitata per natura, e quindi bisognevole di un intervento esteriore: ecco la ragione dei limiti, che circoscrivono l’autodidattica»204. La persona ha bisogno di altre persone per essere introdotta nell’esistenza. In un altro brano, Allievo individua nella «nuova psicologia» l’origine dell’equivoco: «L’autodidattica si regge tutta quanta sulla personalità dell’io, riguardato come un soggetto sostanziale fornito di una individualità singolare, per cui è consapevole che l’energia pensante, di cui è fornito, è tutta sua propria, e che gli atti intellettivi, in cui si svolge, vengono da lui ed a lui appartengono come loro principio originario e comune soggetto. Ora i fautori della nuova psicologia rinnegano apertamente la libera attività e la personalità dell’io umano riducendolo ad un insieme complessivo di fenomeni mentali, che non appartengono a nessun soggetto e si succedono a tenore di leggi ineluttabili, facendo dell’anima umana una mera funzione dell’organismo corporeo»205. La prima regola del maestro è il rispetto per il discente, che è l’attore principale dell’atto educativo. Una vera educazione è contraddistinta dal rispetto e dalla pazienza. L’educatore è chiamato a essere umile, non c’è inoltre insegnamento quando l’insegnante non impara a sua volta: «Il maestro deve di sicuro sovrastare al discepolo per ampiezza di dottrina, per coltura e sviluppo mentale, ma non dimentichi mai, che in faccia all’immensità dello scibile quel tanto, che egli sa, è poco meno che nulla, e gli bisogna perciò imparare sempre, ed imparare nell’atto medesimo, che istruisce gli altri»206. Allievo riprende la celebre frase di Plutarco che critica l’insegnamento come «riempimento», e sostiene che «Il vero imparare è un lavorare colla propria mente ed avere consapevolezza della verità scoperta e del come siamo giunti a scoprirla; il vero insegnare è un accendere la scintilla del pensiero e mantener viva la fiamma della riflessione. La parola del maestro riesce all’alunno necessaria in quella guisa, che ad un seme l’aria e la luce esteriore del sole, il quale destando la virtù sopita in esso lo schiude dal suo germe e lo tien vivo ed atto a spiegare le sue forme. L’acquisto della scienza è un martirio per uno spirito giovanile abbandonato alle solitarie ed isolate sue forze, come il possesso materiale 204 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 16. 205 Ibid., p. 17. 206 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 83.  61  della scienza non conquistata colla nostra meditazione somiglia a splendido patrimonio avito, eredato da nepoti degeneri e dappoco»207. Educare è dunque far cresce armonicamente le capacità dell’alunno, è un atto della vita che fa entrare nella vita, sviluppa e forma il carattere, ma soprattutto tende a far essere se stessi, e cioè autocoscienza del mondo. Educare significa formare le capacità umane, ma soprattutto interrogare il discente, contagiare l’esigenza di conoscersi e di capire se stessi. Nel suo studio, la Quarello riporta una frase della Marchesa di Lambert citata dall’Allievo nello Studio Storico critico di pedagogia femminile (1896), in cui la pedagogista sostiene che: «La più grande scienza sta nel sapere essere in sé»208. L’educatore è chiamato a condurre l’educando a questa vetta. L’azione formativa risulta dunque una continua interrogazione ed esortazione. È molto interessante la considerazione di Calò, secondo cui l’Allievo puntava ad un’azione educativa che «correggesse con un movimento centripeto verso il nucleo più profondo dell’io il movimento centrifugo verso l’esterno, che sapesse fare procedere l’educazione dal di dentro, non dal di fuori». 209. In questo «stare in sé» l’uomo scopre una dimensione infinita che lo interroga, lo spiazza. La persona sente in sé il richiamo di un’alterità misteriosa ma a cui si sente inesorabilmente legato: «Dovunque si muova l’educazione trovasi in faccia all’infinito sempre, perché l’educando è persona finita sì, ma che pur si muove e gravita verso l’infinito». Su questi presupposti, Allievo è convinto che non si possa negare l’educazione religiosa ai giovani: «La coltura impertanto dell’intelligenza, e dell’attività volontaria va ordinata a Dio. Così la personalità finita dell’educatore e dell’educando si regge sulla personalità infinita di Dio, e trova in questa la sua ragion di essere, del pari che la sua cagione efficiente. Educazione vera non è, che non sia personale sotto entrambi questi riguardi. Il materialismo, che spegne nel fango la personalità dell’uomo, l’ateismo, che nega a Dio la sua personalità infinita, il panteismo, che nega all’uomo ed a Dio una personalità loro propria per confonderli in una medesima sostanza, conducono ad un’educazione disumana, omicida, perché è negazione della persona. La formazione del carattere, intorno alla quale si travaglia tutta l’arte educativa, torna opera impossibile, ove non si regga sulla personalità dell’essere infinito»210. Strettamente legato alla questione della vocazione umana ed educativa, è il concetto di «carattere», con cui Allievo riprende un tema caro ad altri pedagogisti cattolici e non. Il carattere è definito come «quello stampo, o quell’impronta speciale, che configura 207 Ibid., pp. 84-85. 208 V. Quarello, G. Allievo, Studio critico, cit., p. 106. 209 G. Calò, Dottrine e Opere, cit., p. 25. 210 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 31.  62  ciascuna natura umana»211. Con questo concetto intende l’universalità dell’essere persona nella particolarità del singolo. «L’alunno accoppia in sé l’umanità comune a tutti i suoi simili, e l’individualità propria di lui solo»212. Un altro passo chiarisce tale relazione: «il genere (umano) vive nell’individuo sotto forma del carattere»213. È compito dell’ufficio educativo riconoscere e far fruttare l’individualità della persona214. Secondo l’Allievo: «l’uomo di carattere è colui, che pensa con verità e colla propria testa, è arbitro del suo operare e conforma le sue azioni esterne coi suoi interiori convincimenti, sempre mirando all’ideale divino della perfezione»215. Ma per condurre al vero carattere bisogna educare, non basta istruire. Allievo definisce l’educazione del carattere come il «punto di gravitazione» e l’ «apogeo»216 dell’educazione. All’educatore spetta il riconoscere il carattere dell’alunno, la sua coltivazione, e l’aiuto verso la vocazione personale di ciascuno. Così «Il fanciullo è persona, cioè sostanza individua, che in sé armonizza la virtù conoscitiva, fonte della vita operativa, congiunta con un organismo corporeo, sede della vita fisica e ministro della vita spirituale. La vita speculativa si sviluppa mercé l’acquisto del sapere, oggetto dell’educazione intellettuale, la vita operativa mercé la formazione del carattere, compito dell’educazione civile, morale, religiosa, la vita fisica mercé il rinvigorimento, la salute e la destrezza del corpo, termine dell’educazione fisica; e tutte e tre queste forme di educazione deggiono armonizzare insieme, come armonizzano dell’unità dell’umano soggetto le tre forme di vita umana»217. Il carattere va educato sin dalla prima infanzia, e in esso l’esempio è il principale fattore218. L’apice della formazione è il carattere morale, vale a dire la libertà dell’uomo di obbedire esclusivamente alla legge morale insita nell’uomo. Allievo considerava il rispetto e obbedienza a questa legge, come il compimento della libertà, che certo non riteneva essere un arbitrio assoluto del 211 G. Allievo, L’uomo e il cosmo, cit., p. 357. 212 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 336. 213 G. Allievo, L’uomo e il cosmo, cit., p. 357. 214 «La formazione del carattere è opera nostra, sebbene abbia suo fondamento in natura, e le occorra il sussidio dell’arte educativa» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 50. 215 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 4. 216 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 322. 217 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 31. 218 «Il carattere morale non forma lì per lì come per incanto nell’età virile; ma, come ogni opera grande e duratura, che sorge da piccoli inizii, esso fa le sue prime prove nella puerizia, e progredisce con lento lavorio sino alla compiuta sua forma mediante l’opera concorde dell’alunno, del maestro, dei genitori, durante tutto quel lungo periodo educativo, che dalla prima puerizia si stende sino al termine della gioventù» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 91.  63  soggetto219. Il pedagogista vercellese è, infatti, convinto che «Volere liberamente il dovere, ecco, secondo me, la formula di tutto l’ordine morale»220. Per un’educazione efficace è imprescindibile lo sviluppo della capacità di volere e seguire ciò che è bene. «La dignità umana rifulge nel carattere. Plasmare nel fanciullo il carattere dell’uomo, che esprime la santità della vita in sé, nella famiglia, nella patria, questo è dell’arte educativa il supremo, altissimo ufficio»221. Parlando dell’insegnamento in classe dice che «ogni atto educativo dev’essere un’affermazione, un’impronta della sua individualità personale. Così si forma il carattere, così l’alunno impara a diventare uomo maturo di senno, esperto della vita, arbitro delle sue sorti»222. L’ultima opera dell’Allievo, datata 1913, è dedicata allo studio comparato tra Giobbe e Schopenhauer. Contrapposto al nichilismo, al pessimismo, e al disimpegno del secondo, Giobbe rappresenta la vera statura umana, colui che nonostante le circostanza si spende per la verità. Osserva Allievo: «L’operosità della vita, perché si compia con efficacia, con dignità e decoro, richiede in noi la coscienza della nostra libertà personale rivolta ad un ideale supremo, il sentimento della nostra propria vigoria, il voglio imperioso dello spirito pronto a lottare contro le difficoltà, gli ostacoli, con imperturbabile costanza sino al sacrificio, riverente a quanto si presenta di grande, di nobile, di sacro, di divino»223. L’Allievo critica la riduzione dell’intervento educativo all’istruzione, riprendendo una battaglia tipica della pedagogia spiritualista. Sulla base dell’antimetafisica e del relativismo etico di certo positivismo, più di un pedagogista ridusse il compito dell’educazione all’istruzione, estromettendo dai suoi compiti la formazione del carattere, e quindi dell’autocoscienza e della libera volontà. Tale approccio ha come premessa fondamentale la convinzione che non ci sia nulla di vero, e quindi di insegnabile, fuori dalle asserzioni scientificamente dimostrabili. A questo proposito può essere utile richiamare un aneddoto raccontato da Allievo riferito ad una visita di Padre Girard all’Istituto del Pestalozzi: «Nell’atto che il Padre Girard stava visitando l’Istituto di lui, egli uscì fuori con queste parole: “È mio intendimento, che i miei 219 Per queste posizioni fu criticato da Santoni Rugiu: «L’Allievo ha della moderna pedagogia una concezione normativa (come sempre, d’altronde, nella concezione cattolica), la vede cioè non come un’indagine libera e obiettiva sulla natura e sulle condizioni reali in cui si svolge la formazione dei soggetti, ma come l’elaborazione di un insieme di indiscusse norme, appunto, che guidino alla perfezione morale e spirituale. Guai a lasciarsi travolgere dal «gran movimento sociale» e ritenere che esso indichi sempre la via del progresso e della civiltà» A. Santoni Rugiu, Storia sociale dell’educazione, Milano, Principiato, 1987, p. 528. 220 G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico,cit., p. 89. 221 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 18. 222 G. Allievo, Principi fondamentali di Scienza Pedagogica, in «Rivista Pedagogica», n. 10, 1930, p. 687. 223 G. Allievo, Giobbe e Schopenhauer, Torino, Tipografia Subalpina, 1912, p. 41.  64  alunni non tengano per vero, tranne ciò solo, che possa essere loro dimostrato come due e due fan quattro”. Al che il Girard rispose: “Se io fossi padre di trenta figli, nemmeno un solo ve ne affiderei ad essere ammaestrato, perché non vi verrà mai fatto di dimostrargli come due e due fan quattro, che io sono suo padre, e che egli è tenuto di amarmi»224. Le parole di Padre Girard erano utili a spiegare quali fossero i rischi dell’ipertrofia della ragione scientifica e matematica. Limitando il veritativo al «misurabile», infatti, si escludevano dall’educazione tutta una serie di apprendimenti e principi morali indispensabili alla vita e alla formazione del carattere. Anche su questo punto Allievo esorta a distinguere ma senza dividere. L’educatore deve far crescere tutte le capacità umane, sia quelle del «cuore» che quelle della «mente». Era convinto che «la natura non si riforma, bensì va riconosciuta e rispettata»225. E la natura della persona non può essere ridotta alla pura istruzione, ma ha bisogno della certezza morale, dei principi, dei criteri per distinguere bene e male. I. 6. Critica all’idealismo e al positivismo Una parte considerevole delle opere di Allievo è destinata alla critica dell’idealismo e del positivismo. A tali correnti, sin dai primi lavori, Allievo addossò le responsabilità della profonda «crisi»226 e confusione che ammorbava la filosofia italiana. Oltre ad una lunga serie di studi dedicati a questi sistemi, anche negli altri saggi di Allievo appaiono frequenti incisi polemici contro queste teorie. Calò ha rilevato come questa ricorrente confutazione e polemica del positivismo e dell’idealismo, rappresentò un tratto specifico del pensiero del pedagogista vercellese «L’atteggiamento critico contro le due correnti suddette forma la preoccupazione costante e costituisce, insieme con il principio della personalità, svolto dall’Allievo in tutti i suoi aspetti, il motivo fondamentale e la sostanza del suo pensiero filosofico»227. Secondo alcuni studiosi Allievo avrebbe avuto nei confronti delle teorie coeve un atteggiamento difensivo ed eccessivamente «polemista»228. Caramella, un gentiliano che certo non concordava con le critiche dell’Allievo all’hegelismo e ai suoi epigoni, fu molto severo con il pedagogista, e ne sminuì il contributo, riducendolo ad una lamentela sterile e arretrata: «Ma venendo ai risultati effettivi della sua vasta opera di più che mezzo secolo, 224 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p. 89. 225 G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 261. 226 G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit., p. 6. 227 G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe Allievo, cit., p. 4. 228 S. Caramella, Lo spiritualismo pedagogico in Italia, «La nostra scuola», n 13-14, 1921, p. 9.  65  qual è il significato storico dell’Allievo? Niente di meno ma niente di più che un’ostinata battaglia cattolica contro lo scientifismo, senza che dal cozzo si generasse mai una scintilla nuova»229. Una critica analoga gli venne mossa da Vidari230. È facile riscontrare nell’opera di Allievo toni duri, se non apocalittici, nei confronti di teorie giudicate dannose non solo alla pedagogia, ma anche alla vita educativa e sociale del paese. In molti saggi mancano aperture concilianti, mentre le posizioni espresse sono spesso risolute e poco inclini ad aperture. Ma, a onor del vero, va riconosciuto che le critiche portate dal pedagogista sono sempre articolate e suffragate da una conoscenza precisa degli autori e delle scuole esaminate. «L’Allievo non fa mai la critica per la critica: il suo scopo è sempre molto preciso, quello di dimostrare e di salvare certi principi e certe verità filosofiche»231. All’interno del lungo itinerario delle opere dell’Allievo possiamo distinguere due momenti. Sino agli anni ’70 dell’Ottocento, si concentrò in particolare sull’idealismo, mentre in seguito si occupò quasi esclusivamente del positivismo, data l’incipiente influenza che iniziava ad avere sulla pedagogia e filosofia italiana. Già alla fine degli anni ’60, Allievo notava come il positivismo si accingesse a dominare il clima nelle Università italiane e negli studi filosofici e pedagogici, mentre l’idealismo era destinato a restare ai margini del dibattito. Nel 1903, ricordando quel tornante storico, commentò: «Il campo filosofico era in allora combattuto da due scuole di tutto punto opposte, l’idealismo hegeliano, che andava declinando dal suo apogeo, ed il positivismo anglo-francese, che si annunziava ristauratore sovrano della scienza e della vita»232. In quegli anni, la scuola idealistica era viva quasi esclusivamente a Napoli grazie a Spaventa e Vera. Allievo, peraltro docente in una sede dove l’idealismo era quasi inesistente, si misurò criticamente soprattutto con i positivisti. Come accennato, i lavori di critica all’idealismo si concentrano in larga parte nelle opere giovanili, in particolare nei Saggi filosofici (1866) ne L’hegelismo, la scienza e la vita, (1868) e nell’ Esame dell’hegelismo (1897), un saggio più breve di quello precedente dove riprende pressappoco le stesse tematiche. 229 Ibid., p. 9-10. 230 «In tutti questi lavori la mente dell’ALLIEVO si presenta sempre nell’atteggiamento di chi, incrollabilmente fermo e sicuro nelle proprie convinzioni maturate in uno studio severo e diuturno, vede nell’avversario e nelle dottrine da lui rappresentate un pericolo esiziale per la società e per la scuola, in cui esse si diffondano. Onde non tanto Egli mira a penetrare ed esporre l’idea dell’avversario nella sua genesi e nelle sue eventuali giustificazioni, quanto a metterne in rilievo le deficienze o le contraddizioni o le inaccettabili conseguenze» G. Vidari, Giuseppe Allievo, cit., p. 8. 231 G. Calò, Il pensiero filosofico – pedagogico di Giuseppe Allievo, cit., p. 447. 232 G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 3.  66  Alcuni cenni polemici contro l’idealismo sono presenti anche in altri testi, tra cui L’antropologia e l’umanesimo (1868), Della vecchia e della nuova pedagogia (1873), L’Antropologia ed il movimento filosofico sociale (1869); La pedagogia e lo spirito del tempo, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia (1877) Studi filosofici sul carattere delle nazioni (1878) Sulla personalità (1878). Il testo in cui espone in modo più articolato le sue tesi contro l’idealismo è L’hegelianismo la scienza e la vita, un lavoro giudicato da Eugenio Garin «onestamente espositivo»233. L’opera fu scritta in occasione del concorso Ravizza del 1865-1866, che chiedeva agli scrittori di cimentarsi con questo tema: «Quali pratiche conseguenze derivino dall’idealismo assoluto di G. Hegel nella morale, nel diritto, nella politica e nella religione?». Il testo, che vinse il premio, fu poi rivisto e pubblicato. Nell’opera, l’Allievo delinea l’origine dell’hegelismo, mettendo in luce l’humus kantiano da cui nacque l’idealismo. Il pedagogista enuclea i passaggi che portarono dalle posizioni del filosofo di Königsberg ad Hegel. Allievo ricorda come Kant fosse allora considerato il nuovo «Socrate» per aver salvato la scienza dallo scetticismo, mentre egli pensava che il kantismo fosse stato la «tomba» della scienza e della filosofia234. L’errore di Kant fu quello di disconoscere il primo dato filosofico, vale a dire l’evidenza dell’essere. Egli perpetuò quella torsione prospettiva cartesiana che si piegò sull’affidabilità della ragione, dimenticando lo stupore e l’attestazione del mondo. Allievo osserva che l’uomo neanche penserebbe se non ci fosse quel «fuori». Così Kant aveva «condannato il soggetto ad un perpetuo e violento celibato segregandolo dalla realtà oggettiva»235. Osserva Allievo: «Scienza assoluta intorno il pensiero umano, ignoranza assoluta intorno la realtà universale, ecco i due poli del Criticismo di Kant, la finale risposta che egli diede alla sua prima domanda. Con questo suo sistema originale Kant reputava di avere ricostrutto su salda base il sapere speculativo, e quetati una volta i dissidii che da secoli sconvolgevano il regno della metafisica: Ubi solitudinem faciunt (direbbe qui Tacito), pacem appellant»236. Ma se lo scopo di Kant era quello di salvare la scienza, egli superò lo scetticismo di Hume, in quanto non riuscì a riconoscere il senso e i motivi della scienza metafisica. E ciò fu confermato dagli sviluppi successivi della filosofia. Nei cinquant’anni trascorsi tra la pubblicazione della Critica della Ragion Pura, 1781, e la morte di Hegel, 1831, la Germania visse un radicale cambiamento culturale. Dallo scetticismo di Kant si arrivò attraverso Fichte e Schelling, all’affermazione dell’idealismo 233 E. Garin, Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l’Unità, cit., p. 56. 234 G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit., p. 22. 235 Ibid., p. 31. 236 Ibid., p. 29.  67  assoluto di Hegel, che secondo Allievo non fa altro che trarre le nefande conseguenze di quel divorzio tra l’io e il mondo, che se aveva portato Kant allo scetticismo, conduceva Fichte alla tesi dell’Io assoluto, origine e creatore del mondo. Si trattò di una deriva di quelli che chiamò in un altro testo i «trascendetalisti tedeschi», i quali «estendendo fuor di misura il potere dell’io umano, lo posero creatore dell’essere e del sapere, e finirono collo spogliarlo della soggettività ed individualità sua, confondendolo col massimo degli universali»237. Nel saggio Allievo dedica diversi capitoli a questi passaggi, concentrandosi dopo Kant, su Fichte e Schelling. In ultimo affronta in modo analitico la figura e la filosofia di Hegel, introducendo il suo pensiero con un’accurata esposizione della vita, oltre che un’analisi degli apporti e delle influenze che ne condizionarono il pensiero. Successivamente, ne enuclea il sistema filosofico, con un’analisi articolata. Allievo parte dal concetto generale di filosofia, quindi affronta il metodo dialettico, il concetto dell’Idea e il suo sviluppo nel Sistema. Poi tratta della Logica, della filosofia della Natura e infine della filosofia dello Spirito. In conclusione sintetizza i motivi della critica all’idealismo. Il seguente brano compendia la critica di Allievo: «Il nome di Idealismo assoluto con cui viene designata la dottrina di Hegel, ne rivela tutto lo spirito e ne compendia il contenuto. Il suo sistema è tutto in queste due parole: Idea assoluta, od in altri termini Idea e sviluppo, giacché l'essenza dell'Assoluto è un esplicamento universale, un moto continuo e senza fine. Come per Condillac tutto è sensazion trasformata, così per Hegel tutto è Idea trasformante. L'idea essendo assoluta si fa tutte le cose, e con questo suo diventare universale spiega successivamente tutto l'essere, perché riproducendolo rivela le intime essenze delle singole cose, sicché l'Idea assoluta si manifesta ad un tempo siccome il sistema della scienza e l'insieme della realtà, identità universale delle idee e delle cose, del pensiero e dell'essere. Datemi materia e moto, diceva Cartesio, ed io creerò l'universo. Hegel pigliando in senso trascendentale il motto cartesiano avrebbe potuto ripeterlo dicendo: Datemi Idea e sviluppo, ed io vi ridarò rifatta e spiegata la realtà universale»238. L’identificazione dell’essere con l’idea conduceva l’idealismo a numerose antinomie ed epicicli, elencati dall’Allievo. Il pedagogista fa notare come Hegel, mentre tacciava di misticismo i realisti, chiedeva un atto di fede nel riconoscimento dell’Io assoluto. In conclusione, Allievo ripropone la ragionevolezza del realismo. Secondo il pedagogista vercellese, il reale anticipa, sporge e supera il razionale. Una frase dell’Amleto di 237 G. Allievo, Sulla personalità umana, cit., p. 18. 238 G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit., p. 59.  68  Shakespeare è ripresa dall’Allievo come legge della filosofia, «v'hanno cose e in cielo e in terra di cui le nostre filosofie non si sognano neppure»239. La diaspora degli hegeliani e le numerose critiche fattegli dai suoi discepoli evidenziano tanto il fascino della prospettiva hegeliana, quanto la sua fragilità. L’errore cruciale dell’idealismo è la negazione della validità di quella serie di evidenze e strumenti che l’uomo ha nel suo naturale rapporto con il mondo: «il sistema dell’identità assoluta contraddice ai pronunciati della coscienza e si oppone ai dati del senso comune e del sapere naturale; dunque è insussistente»240. Per questa ragione, Allievo definisce Hegel come uno «spietato Torquemada del senso comune»241. Il pedagogista riprende l’analisi rosminiana e considera gli idealisti fondamentalmente degli scettici. Osserva: «La scienza è la spiegazione razionale della realtà sussistente: ora la realtà va anzitutto schiettamente osservata quale si presenta alla nostra percezione, e non già indovinata a priori e ricercata attraverso le pieghe del nostro cervello. Una teoria della realtà, costrutta col puro ragionamento e non fondata sull’osservazione, non è scienza seria e verace, ma un tessuto di astruserie, che potrà tutt’al più dimostrare la potenza immaginativa di chi l’ha costrutta. L’idealismo trascendentale germanico de’ tempi nostri ha sacrificato l’osservazione della realtà al puro ragionamento. Esso ha preso le mosse dal concetto più astratto, a cui si possa giungere ragionando, e colla virtù di quel concetto vuoto ed indeterminato pretese di costruire la realtà universale»242. Prima Gentile243 e poi la Quarello244, criticarono all’Allievo una conoscenza poco approfondita di Hegel. Se non si può considerare il pedagogista vercellese tra i massimi studiosi di Hegel, dai suoi lavori emerge un confronto nel merito con il cuore delle posizioni idealiste. Altri autori, come il Suraci, parlarono dell’opere sull’Hegelismo come «una critica quanto mai acuta e serrata»245. Anche per altre teorie, Allievo non bada ad una erudizione pedante sulle vicende di una corrente, ma al cuore e al significato delle sue principali direttrici filosofiche. Come è già stato accennato, dopo alcuni lavori dedicati all’idealismo, Allievo diede largo spazio alla critica del positivismo, che occupò gran parte della sua attenzione nella sua carriera seguente. Il pedagogista si accorse della rapida diffusione del positivismo nelle Università. Uno degli atenei in cui tali teorie presero piede e si diffusero era proprio quello 239 Ibid., p. 143. 240 G. Allievo, Saggi filosofici, cit., p. 6. 241 Ibid., p. 372. 242 G. Allievo, Antonio Rosmini, cit., p. 33. 243 G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia. I platonici, cit., p. 370. 244 V. Quarello, G. Allievo, Studio critico, cit., pp. 128-129. 245 V. Suraci, Giuseppe Allievo filosofo e pedagogista, cit., p. 84.  69  di Torino, che era stata sino a pochi anni prima una roccaforte del rosminianesimo e dello spiritualismo cristiano. Come ha ricordato Giorgio Chiosso: «Proprio a Torino la cultura positivista stava compiendo il massimo sforzo con Moleschott, Lessona, Lombroso, Mosso per tracciare una antropologia incentrata su esclusivi tratti fisio – psichici e fortemente condizionata dalla cultura evoluzionista»246. Come ebbe a scrivere Norberto Bobbio, Torino rappresentava sul finire dell’Ottocento «la citta più positivista d’Italia»247. Allievo individuava come ragione della diffusione di tale corrente un forte appoggio politico, che era diventato come abbiamo già rilevato, il braccio ideologico dei gruppi anticlericali che spesso sedevano nelle poltrone più importanti del neonato Stato italiano. Il pedagogista aveva una chiara percezione di tale egemonia e non mancò di denunciarla. Scrisse a proposito «Il partito iperdemocratico, che nei lontani sfondi della rivoluzione italiana del 47 appena s’intravvede indistinto e sfumato, prese a poco a poco forme più spiccate e concrete, e fattosi potente tende oggidì a tenere esso solo il campo. Esso novera potenti ingegni fra i suoi numerosi seguaci, che ne bandiscono i principii dalle cattedre universitarie, dalle tribune parlamentari, dalle officine della pubblica stampa. La sua arma è la critica, il suo dogma supremo è l’umanesimo sociale, ossia il naturalismo pagano razionalizzato. E la critica, dacché fu inaugurato il Regno dell’Italia una, si spiegò con forze maggiori che mai. Essa si pose ad abbattere il principio di autorità nell’ordine del pensiero e della vita, a dissolvere le credenze morali e religiose dell’universale, a minare le fondamenta di tutta la dommatica del cristianesimo, a snaturare l’indole nativa e tradizionale della filosofia italiana»248. Nonostante il peso del positivismo fosse riscontrabile già nei citati dibattiti del ’47, fu solo con l’Unità che ai positivisti fu concesso quello spazio privilegiato col quale poterono diffondere le loro teorie e avere una inaspettata diffusione. Come denunciò Allievo: «Ai seguaci e promotori della nuova scuola pedagogica il Governo prodiga la pienezza de’ suoi favori, e sotto la potente sua egida assicura il trionfo»249. Se i capi scuola europei del positivismo meritarono, da parte dell’Allievo, delle analisi approfondite e alcuni, rari, apprezzamenti, la valutazione degli epigoni italiani fu molto severa. Essi vennero ridotti al rango di semplici ripetitori di autori più organici come Spencer, Comte, Bain. Allievo si limitò ad affrontarne in modo sbrigativo la produzione positivistica italiana nel saggio La pedagogia italiana antica e contemporanea (1901). In 246 G. Chiosso, L'interpretazione rosminiana di Giuseppe Allievo, «Pedagogia e vita», n. 6, 1997, p. 152. 247 N. Bobbio, Introduzione, in E. R. Papa (ed.), Il positivismo e la cultura italiana, Milano, Angeli, 1985, p. 13. 248 G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., pp. 161-162. 249 Ibid., p. 168.  70  esse il pedagogista si lasciò andare a valutazione in parte ingenerose e tranchant. Affrontò le teorie di Angiulli, Siciliani, Gabelli, e di altri pedagogisti minori. Il primo è considerato il «principe» fra i cultori del positivismo in Italia. Viene definito come un «pensatore robusto e profondo, ma non originale»250 che ricalca fondamentalmente le posizioni di Spencer, e dunque tutti i suoi errori. La riduzione spencieriana dell’uomo ad un animale, mina le basi del pensiero di Angiulli: «Lottando contro la realtà dell’io, che egli ha negato e che s’impone inesorabile al suo pensiero, si vede costretto a ricorrere ad una novità di linguaggio, ad una dicitura attortigliata ed involuta, ad un ritornello di espressioni stereotipate, che spargono una nebulosa caligine sul tutt’insieme della sua dottrina»251. Un altro errore a cui lo conduce la negazione del principio della personalità è la statolatria nel campo dell’istruzione pubblica. Pietro Siciliani è invece accusato di eclettismo e di aver mal combinato istanze inconciliabili, producendo un sistema contradditorio e instabile. In una prelazione risalente al 1882, rammentò il cambio di opinione sul positivismo, prima criticato e poi elogiato252. Del sistema del Siciliani l’Allievo denunciò l’incapacità di giustificare sui presupposti positivisti l’esistenza della libertà e i fondamenti della morale. Negli Opuscoli lo accusa di trasformismo e scrive che «muta di dosso i panni a tenor della moda»253. Stando ad Allievo, questa «accozzaglia» di principi spuri condanna alla mediocrità la pedagogia del Siciliani: «Egli non si afferma né spiritualista, né materialista, né idealista, né ontologista, né trasformista, né positivista, e lascia capire che vuol essere qualche cosa di più e di meglio di tutto ciò; ma non ci presenta un principio superiore a tutti questi sistemi, che impronti il suo pensiero e lo determini per quello che è»254. Si occupò anche di altri autori come Emanuele Latino, Aristide Gabelli, Edoardo Fusco in cui rileva sostanzialmente gli stessi errori di Siciliani e dell’Angiulli. Saluta invece con soddisfazione il ritorno allo spiritualismo di Ausonio Franchi, al secolo Cristiano 250 Ibid., p. 169. 251 Ibid., p. 174. 252 Nel saggio cita direttamente le parole di Siciliani e poi le commenta: «“Troppo scettici, noi Italiani abbiamo bisogno di fede: troppo anneghittiti dal positivismo, abbiamo bisogno di sacro entusiasmo nella scienza, nell’onestà, nell’onore, nei principii di giustizia, nell’attività del lavoro, nell’autorità creata da noi stessi, nell’Italia. Possiamo dunque accettare il Positivismo? No. Inteso come sistema, il Positivismo è dottrina assolutamente negattiva, non ha storia, non ha principii; è contrario allo spirito filosofico di nostra età, è dannevole nelle sue applicazioni morali, estetiche, politiche, religiose, storiche. Nol possiamo accettare come sistema, perché contrario alla nostra istoria, alla mente dei nostri padri, all’indole nostra, al nostro genio, alle nostre tendenze, contrario ai nostri bisogni fisici e intellettuali [in nota: P. Siciliani, Critica del positivismo]”. Chi pubblicava or non è molto queste righe contro il sistema positivistico, è quegli stesso, che oggi ha inalberato il vessillo del positivismo dlla sua cattedra di pedagogia in una celebratissima Università italiana, mutando dottrine con quella leggerezza medesima, con cui altri muta di dosso i panni a tenor della moda» G. Allievo, L’educazione e la scienza. Prelezione fatta all’Università di Torino il dì 18 novembre 1881, Torino, Marino, 1882, pp. 14-15. 253 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 122. 254 G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 177.  71  Bonavino, di cui esalta le Lezioni di pedagogia che viene indicato come un testo fondamentale per la pedagogia spiritualista. Le considerazioni dell’Allievo restarono severe. Valuto le teorie positiviste «disumane e liberticide»255. Inoltre avversò una certa indifferenza degli epigoni di Comte che sembravano sordi agli appunti delle altre correnti pedagogiche. In più d’una occasione Allievo lamentò la loro indifferenza alle critiche, oltre alla poca onestà intellettuale256 Come già accennato, i suoi studi si concentrarono soprattutto sui fondatori del positivismo europeo: Comte, Spencer, e Bain. Le sue numerose opere dedicate a questa corrente, rappresentano una prima sistematica reazione dello spiritualismo italiano al positivismo europeo. Il lavoro più preciso e sistematico su tale corrente è Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico (1883), definito dalla «Civiltà Cattolica» come una «splendida e serrata critica di questo sistema»257. Nella prelazione tenuta per l’anno accademico 1881-1882, Allievo annunciò che durante il corso sarebbe sceso «nell’arringo a combattere il positivismo riguardandolo siccome una larva ingannevole della scienza, siccome un pericolo esiziale della pedagogica»258. Nel solco di quelle lezioni pubblicò poi il lavoro. L’opera si divide in due parti principali: nella prima tratta delle origini del positivismo e ne mette in discussione i fondamenti filosofici, nella seconda critica le conseguenze pedagogiche ed educative. Allievo identifica come causa prima del positivismo, la stessa dell’idealismo, vale a dire la crisi della metafisica avvenuta con la modernità, che Kant sancì nella Critica della ragion pura, sostenendo la sostanziale inconoscibilità del non sperimentalmente. Il metodo scientifico si dogmatizzò, pretendendo di estromettere dalla conoscenza e dalla vita privata e pubblica tutto ciò che non è misurabile. Il positivismo si configurò come una nuova prospettiva epistemologica, metodologica e antropologica, fondata sulla negazione di tutte le conoscenze non verificabili sperimentalmente. In questo senso, si oppone a qualsiasi 255 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. I. 256 Nel saggio su La scuola educativa, Allievo riporta una critica fattagli da Fornelli che nel testo La pedagogia e l’insegnamento classico, accusò il professore vercellese di aver travisato le posizioni di Comte. Dopo essersi difeso, critica anche una evidente storture delle sue posizioni, avendolo assimilato all’idealismo: «Ma il più grosso abbaglio del mio critico è questo: io non sono punto quell’idealista, che egli s’immagina mostrando di non aver letti i miei lavori filosofici, o di averne frainteso il significato malgrado la loro conveniente chiarezza. Mi additi un solo passo, da cui risulti che io ripongo le origini prime del pensiero in concetti astrattissimi, anteriori e superiori ad ogni realtà concreta e sussistente, ed io mi do’ per vinto» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 218. 257 Linee di pedagogia moderna, «La Civiltà Cattolica», quaderno 1565, 1915, vol. III, p. 542. 258 G. Allievo, L’educazione e la scienza. Prelezione fatta all’Università di Torino il dì 18 novembre 1881, cit., p. 15.  72  considerazione metafisica, di cui è «la sua negazione assoluta ed esclusiva»259. In questo rifiuto consiste, per il pedagogista vercellese, anche «il carattere direi negativo del positivismo»260. Va tenuto conto, che Allievo riconosce l’apporto positivo delle scienze sperimentali e della metodologia scientifica. Senza alcun timore verso gli esiti della ricerca empirica, il pedagogista attribuisce alla scienza (non al positivismo) il merito di aver accresciuto notevolmente la conoscenza del mondo e il benessere materiale. Tuttavia, Allievo individua proprio nell’euforia per gli esiti della tecnologia la presunzione di certo positivismo. Galvanizzata dalle scoperte scientifiche: «esaltò l’esperienza sensibile siccome l’unica e suprema ed assoluta fonte di tutto lo scibile umano, rigettò tra le illusioni tutto ciò, che trascende i suoi confini, assegnò unico oggetto della scienza i fenomeni disgiunti dalle sostanze e respinse la ragione siccome facoltà trascendente che contempla la sostanzialità delle cose»261. Allievo ricorda come il metodo sperimentale non possa racchiudere tutto il campo dello scibile, pena l’esclusione di ambiti conoscitivi fondamentali per la vita umana. Rivolgendosi ai positivisti Allievo scrive: «No, la mente umana non può fermarsi ai confini dell’esperienza, come alle colonne di Ercole: i grandi problemi dell’esistenza, soffocati dalla vostra dottrina, risorgono davanti alla ragione e le si impongono irremovibili. Voi non riuscirete mai a cancellare dalla coscienza del genere umano questo indestruttibile sentimento, che noi non siamo sfuggevoli fenomeni, quasi ombre erranti alla ventura nel deserto, bensì persone vive, forniti di una ragione che trascende la cerchia dell’esperienza sensibile e si innalza alle supreme idealità della vita. Gli ingegnosi apparecchi meccanici, di cui avete forniti i vostri laboratori di psicologia sperimentale, potranno procacciarsi nuove ed interessanti notizie intorno la vita sensitiva dell’uomo esteriore, ma non ci sapranno dir nulla intorno i misteri dell’anima, il secreto lavorio della sua vita intima, le sue sublimi aspirazioni»262. La scienza esatta e sperimentale non può esaurire tutto il campo della conoscenza dell’uomo. Inoltre, secondo Allievo, l’esautorazione della metafisica dal campo dello scibile danneggia la stessa scienza. Essa, infatti, nasce da domande metafisiche, si nutre di concetti e di una logica che non può essere rinvenuta nella esperienza materiale, ma solo in quella spirituale. L’antimetafisica getta il positivismo in un paradosso: lo scientismo, 259 G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 13. 260 Ibid., p. 10. 261 G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 14. 262 Ibid., pp. 14-15.  73  infatti, nega le premesse della scienza. Con l’affermazione «non esistono che fatti» si esprime un giudizio generale e veritativo sul mondo, portando avanti un discorso propriamente metafisico. Scrive Allievo: «Dicono infine che, seguendo la dottrina evoluzionistica, le teorie non sono più campate in aria quali sono foggiate dall’apriorismo, ma riescono l’interpretazione oggettiva dei fatti. Sta bene: i fatti vanno adunque interpretati; ma con quale criterio? Certamente con qualche concetto o principio ideale, superiore ai fatti stessi, perché questi per sé sono lettera morta, bisognevole dello spirito, che la vivifichi e la illustri. Eccon quindi chiarita l’insufficienza dell’esperienza alla formazione della psicologia e della pedagogia»263. Il positivismo si autodefinisce teoria delle scienze positive, ma secondo Allievo, la costruzione di un sistema filosofico accede già ad una dimensione della riflessione che travalica i confini dell’esperienza empirica. Si tratta di una «astrazione» che si serve della logica, del giudizio, dell’argomento. In questo senso, se i positivisti volessero essere coerenti con le loro posizioni, dovrebbero «liberarsi da concetti «metafisici» come quelli di causalità, identità, o di non contraddizione. In questo senso, per il pedagogista vercellese, l’assoluta antimetafisica del positivismo, si traduce in un suicidio della scienza stessa: «Dacchè dunque l’antropologia studia l’uomo pensante, il quale sovrasta alla materia e possiede in sé i principi ideali necessarii alla costruzione del sapere, consegue che essa è lo spirito informatore delle discipline positive e naturali, e che il naturalismo, che la impugna, distrugge le stesse scienze della natura e contraddicendo a se medesimo fa della metafisica col proclamare che la materia è l’essenza universale di tutto, che è infinita, eterna, mentre tutto questo trascende i limiti dell’esperienza e dell’osservazione sensibile»264. Allievo giudica la posizione gnoseologica dei positivisti fondamentalmente scettica, in quanto le loro premesse conducono all’inevitabile dissoluzione della conoscenza: «Una critica priva di principii universali ed assoluti, che la rischiarino, è una critica, che pretende di essere fine a se stessa, anziché mezzo potente per giungere al Vero, ossia è criticismo scettico. Il positivismo contemporaneo ha menato un gran guasto nel campo della critica odierna, la quale è insorta a dissolvere e disfare quelle medesime verità universali, che è tenuta a rispettare siccome fondamento della sua esistenza»265. A proposito di tali nefande conseguenze, Allievo ebbe modo di criticare il Romagnosi, che vicino a posizioni simili 263 G. Allievo, Gli evoluzionisti e il metodo in pedagogia, «Rivista Pedagogica Italiana», Asti, 1897, vol. I, pp. 305-306. 264 G. Allievo, L’uomo e la natura, cit., p. 17. 265 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p. 9.  74  sosteneva che è sano solo colui che la pensa come la maggior parte dei suoi concittadini, non avendo più un riferimento metafisico su cui fondare la validità delle posizioni266. Inoltre il materialismo non può che portare ad una confusione nella scienza, in quanto se la conoscenza è un prodotto necessario dell’esperienza personale, e nasce da questa in modo spontaneo e incontrollabile, perde di significato la valutazione delle teorie che non sono né vere né false, ma unicamente frutto della determinazione. Scrive a proposito: «Ora se il pensiero è sempre di necessità quale lo forma l’esperienza, ossia quale lo esige la condizione fisiologica, in cui versiamo, allora cessa ogni distinzione tra un vero ed un falso pensiero, e così il pensiero a priori, o sarà vero anch’esso, oppure dovrebbe negarsene l’esistenza, siccome di un fatto impossibile, mentre l’evoluzionista lo piglia ad oggetto della sua critica»267. Invece l’esistenza della scienza conferma la presenza di una natura non materiale nell’uomo, solo la persona ha coscienza del mondo e cerca la verità. Un altro nodo insolubile per il positivismo è l’esistenza della libertà. La scienza esatta, come ha insegnato Kant, non può attestare la sua esistenza, e il materialismo e determinismo di certi positivisti la negano. Se l’uomo non è più libero, si chiede Allievo, come lo potrà essere la scienza? Inoltre ad Allievo pare pretestuoso l’uso della scienza contro la metafisica e la religione. Le scienze naturali «anziché escludere di loro natura la metafisica, rinvengono in questa sola la loro suprema ragione, sì che non lasciano più luogo alla filosofia positiva. Infatti, un fisico, un chimico, un astronomo, può ammettere i pronunciati del teismo e dello spiritualismo, senza punto rinunciare ad un solo dei teoremi della propria scienza (valga l’esempio di Newton, del Galilei, del Padre Secchi, del Pasteur)»268. Un'altra «vittima» del positivismo è l’antropologia, che da tale corrente viene snaturata. La negazione della metafisica ha notevoli ripercussioni sulla scienza dell’uomo, poiché getta nell’indecifrabile la sua essenza personale. Il positivista non può conoscere la vera essenza dell’uomo, in quanto la persona non può essere raggiunta e compresa nell’esprit del finesse. Scrive Allievo «Colla loro antropometria non giungeranno mai a misurare le profondità dell’anima, a scandagliare gli immensi problemi, che si agitano nelle intimità dello spirito umano»269. La persona non è rilevabile nell’esperienza come se fosse un fenomeno fisico, è riscontrabile solo nella riflessione oltre il sensibile. Occorre, stando ad Allievo, sollevarsi dal fatto, per constatare l’Io: «Il positivista vuol fatti, nient’altro che fatti, né vuol saperne di esseri individui, di sostanze permanenti. Ma il factum (e chi nol 266 G. Allievo, Studi psicofisiologici, cit., p. 29. 267 G. Allievo, Gli evoluzionisti e il metodo in pedagogia, cit., pp. 304-305. 268 G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 16. 269 G. Allievo, Lo spirito e la materia nell’universo, l’anima e il corpo nell’uomo, cit., p. 6.  75  sa?) è un sostantivo verbale derivante dal verbo facere, è un participio che presuppone l’ego facio, tu facis, ille facit: importa l’essere, che fa, il soggetto operante, e rompe in una contraddizione il positivista separando l’un termine dall’altro»270. Ma tale agnosticismo si trasformò presto in una negazione. Infatti, per i positivisti, «L’uomo non è una sintesi vivente di due sostanze, spirito e corpo essenzialmente distinte, eppur composte ad unità di persona, bensì un complesso di fenomeni fisiologici e psicologici, diversi di grado soltanto, ma non di essenza da quelli animali»271. Osserva nei già citati Opuscoli pedagogici: «Negli intimi recessi dell’anima, dove non penetra coltello di anatomico, dove non giunge lente microscopica di fisiologo e naturalista, si nascondono secreti che accennano all’Infinito, si destano aspirazioni, che vengono dall’alto e nell’alto ritornano. Quei secreti, quelle aspirazioni il positivista riguarda quali vani fantasmi, e lo spirito umano quale un fantasma multiforme errante fuori del mondo della realtà. Duri tempi per questi tempi»272. Così la prospettiva epistemologica dei positivisti mette in discussione la scienza dell’uomo e sfigura la persona. Osserva Allievo: «il sistema antropologico dei materialisti non è la scienza nuova, che cerchiamo, ma la negazione della scienza»273. La loro antropologia risulta dunque un grande «equivoco»274. Per questo chi approccia l’antropologia positivistica è «trascinato entro una selva intricata di osservazioni senza un’idea suprema dominante, che lo sorregga e le dia unità, anima e vita a quel tritume di particolari»275. Il miglior esponente di questa prospettiva è Spencer che enuclea tali concetti nel Primi Prinicipii, così commentati dall’Allievo: «Per quantunque la credenza nella realtà dello spirito individuale sia inevitabile, e benché sia riaffermata non solo dall’unanime consenso del genere umano, ed adottata da tanti filosofi, ma ben anco dal suicidio dell’argomento scettico, pur tuttavia non può venire per nulla giustificata dalla ragione: havvi ancora di più; allorquando la ragione è messa alle strette di pronunciare un giudizio formale, essa condanna tale credenza... di guisa che la personalità di ciascuno ha coscienza, e la cui esistenza è da tutti avuta per un fatto certissimo sopra ogni altro, è tal cosa che non può in veruna guisa essere conosciuta; la conoscenza della personalità è vietata dalla natura medesima del pensiero»276. 270 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 87. 271 G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 243. 272 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 13. 273 G. Allievo, Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, cit., p. 13. 274 Ibid., p. 12. 275 G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 58. 276 G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 315.  76  Il filosofo britannico non può che giungere ad un riduzionismo antropologico. Scrive ancora Allievo: «Lo Spencer fa sua (né vi ha di che stupirne) l’osservazione di uno scrittore, che cioè a riuscire nella vita occorre primamente essere un buon animale»277. Tale prospettiva è inaccettabile per l’Allievo, secondo cui l’uomo è strutturalmente differente dal resto della natura: «L’umano soggetto, insino dal primissimo istante della sua mortale esistenza, è non solo di grado, ma di specie differente dal bruto, perché la mente, ossia l’anima razionale, che lo costituisce uomo, ei la possiede per natura, e non l’acquista punto col tempo, non la vede allo sviluppo progressivo dell’organismo corporeo. Questo giustissimo concetto pitagorico, che tanto bene risponde al sentimento naturale della dignità umana, sta diametralmente opposto alla moderna dottrina del positivismo evoluzionistico, il quale sentenzia che nel neonato l’animalità si viene a poco a poco trasformando in unità in virtù delle leggi fisiologiche dell’organismo animale, il quale, mentre nella prima infanzia della vita si manifesta mercé le sole funzioni inferiori del senso fisico e del cieco istinto, proseguendo nel suo sviluppamento, acquista la virtù di esercitare esso stesso la facoltà superiore dell’intendere, del ragionare e del volere, sicché la mente, lo spirito, l’anima razionale, che tanto ci sublima e ci differenzia dal bruto, non sarebbe già una sostanza diversa dall’organismo corporeo, bensì rimarrebbe pur sempre in fondo l’animalità stessa che funziona sott’altra forma più elevata»278. L’uomo è ontologicamente differente rispetto al resto della natura. Il positivismo al contrario «afferma che l’io umano non è un’energia vivente, un’attività libera e conscia della sua personalità sostanziale, bensì un mero complesso di fenomeni che non appartengono a nessuno»279. Queste posizioni antropologiche, denuncia Allievo, portano ad inevitabili corollari pedagogici: «ai giorni nostri e nella nostra Italia in fatto di pubblica educazione si trascorre agli estremi, sicché questa gran legge dell’armonia rimane offesa. All’educazione fisica si attribuisce una importanza esorbitante, e assai più di quanto le convenga ed in suo servizio si lavora in tutti i rami ed in tutte le guise, mentre la formazione del carattere che è di tutta l’umana educazione la parte più nobile e più prestante, giace pressoché dimenticata e negletta. Lo Spencer esaltando sopra misura la cultura dell’organismo corporeo ha asserito che l’uomo debb’essere anzi tutto e soprattutto un buon animale, ma ha dimenticato che si può essere un buon animale ed un pessimo soggetto ad un tempo»280. 277 Ibid., p. 322. 278 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., pp. 28-29. 279 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., pp. 5-6. 280 G. Allievo, Principi fondamentali di Scienza Pedagogica, cit., p. 680.  77  Invece la persona è quella briciola dell’Universo che appartiene a se stessa, e a ciò deve essere educata. La persona sente, capisce e vuole. La riduzione dell’uomo ad animale compromette la morale, e cioè l’immanenza dei criteri di bene e di male e la responsabilità personale. Allievo individua le conclusioni di queste premesse nell’opera di Spencer, il quale negando la libertà, «nella sua psicologia riguarda la volontà quale una evoluzione dell’istinto fisico ed assoggetta perciò l’opera umana ad un fatale e necessario determinismo, in cui i fenomeni psichici si succedono gli uni agli altri con un intreccio indissolubile. Torna quindi inutile, anzi contrario a ragione, il pronunciare, che siamo moralmente tenuti a compiere le azioni per noi vantaggiose ed astenerci dalle dannose se esse non dipendono dal nostro libero volere, ma sono per insuperabile necessità predeterminate le une alle altre»281. Si tratta di una posizione con nefandi corollari morali e pedagogiche. «Rigettando la libertà – infatti - viene per ciò stesso a mancare ogni ragione di responsabilità morale, in quella guisa che, rovesciato un principio, cadono tutte le conseguenze sue»282. Si tratta di una corollario spesso negato dai positivisti. Allievo ben evidenzia questa contraddizione e osserva «parlano della necessità imperiosa di formare il carattere dell’alunno, di promuovere lo sviluppo spontaneo della sua attività mentale, di educarlo alla libertà di pensiero; ma in tal caso la logica li costringe ad accogliere il concetto filosofico dell’uomo, da cui discendono tutte queste conseguenze pedagogiche, e rigettare il concetto antropologico positivistico da cui fioriscono conseguenze pedagogiche diametralmente opposte»283. Si tratta di un’aporia che emerge con chiarezza nella «retorica» sull’autodidattica284. Privato della libertà e del fine, l’uomo si rifugia nell’accidia: «Vivere adunque alla giornata secondochè porta il caso fino a che venga l’unus interitus hominum et iumentorum, ecco l’unica morale a cui possa logicamente far luogo il positivismo»285. Allievo critica ancora lo Spencer quando nella sua Educazione morale, intellettuale e fisica riduce la morale a «conservazione propria diretta», una considerazione che se è 281 G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 309. 282 Ibid., p. 109. 283 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 5. 284 Scrive sull’argomento: «I propugnatori della nuova scuola positivistica vanno proclamando la somma importanza dell’autodidattica e dell’educazione del carattere, e se ne fanno banditori come di una loro scoperta; ma con ciò non si avvedono, che danno una smentita alla loro dottrina, la quale facendo dell’io umano un mero fenomeno senza sostanza, e rigettando fra le illusioni la libertà dello spirito, toglie di mezzo quella personalità, per cui l’alunno colla sua interiore energia conquista le conoscenze e vi attinge la fermezza incrollabile del volere» G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 13.  285 G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 262. 78  spiegabile col suo darwinismo non è accettabile ai fini di una convivenza e di una prassi educativa. La vita diviene adattamento e sopravvivenza. Senza un fine ultimo non può esistere educazione, ma solo adattamento, e cioè in qualche modo abbruttimento e alienazione. Il positivismo è la negazione della vera educazione e «non ha ragione di usurpare il posto della scienza, così compromette fatalmente le sorti dell’educazione umana»286. In questo senso, non sconsacra solo la fede e la metafisica, ma anche la vita umana, la fiducia, l’amore, la morale, gli ideali. La nuova antropologia dei positivisti ha conseguenze nefaste sull’educazione. Negato il principio della personalità e il valore della libertà, l’educazione è declassata ad adattamento. Il fine della formazione si riduce all’ «allevamento» di un buon animale, il suo unico interesse e scopo dovrà essere quello di collaborare al benessere dell’Umanità. Nella prospettiva positivistica perde di significato quella formazione del carattere, della volontà, e di emancipazione dalle funzioni biologiche, in cui risiede secondo Allievo lo scopo dell’educazione umana. Anche l’istruzione, come contesta Allievo al Bain, è ridotta a comunicazione di nozioni, sempre funzionali alla produzione o alle condizioni sociali, e senza nessun riferimento all’educazione, agli ideali, ai valori. Non si bada più alla formazione del carattere, ma alle capacità cognitive, privandole però del fine e della direzione. L’educazione cessa di essere esortazione per divenire condizionamento. Il suo senso nella pedagogia positivistica viene svilito in quanto «manca il pensare grandioso, elevato, che raccoglie una molteplicità svariatissima di idee particolari in una potente ed organica unità; manca quel soffio di idealità, che innalza lo spirito dell’educatore al sentimento del suo arduo e sublime magistero»287. Oltre all’idea di libertà, di morale, e di educazione sono le stesse scienze umane che vengono ribaltate sulla base dei principi antimetafisici, materialisti e naturalisti. Allievo denuncia che «Le scienze della natura hanno usurpato il posto delle scienze dello spirito: la psicologia, la morale, la filosofia in genere non hanno più una esistenza loro propria e distinta, ma sono trasformate in altrettanti rami delle scienze naturali»288. La pedagogia vede messi in discussioni i suoi principi fondamentali: «Una scienza pedagogica senza verità universali e necessarie, un’educazione senza ideale, ecco le conseguenze, che derivano dal principio, che l’esperienza è la norma unica e suprema della disciplina pedagogica»289. 286 G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 183. 287 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 27. 288 G. Allievo, Lo spirito e la materia nell’universo, l’anima e il corpo nell’uomo, cit., p. 4. 289 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 8.  79  Il primo dato necessario alla pedagogia che il positivismo confonde è la natura non materiale della persona: «La nuova scuola, mentre proclama di non voler accogliere nella cerchia della scienza altro che fatti, inconseguente a se medesima rinnega alcuni fatti di singolarissima importanza. Giacché è un fatto irrepugnabile, che l’educatore e l’alunno, l’uno di fronte all’altro, sentono di essere non già meri fenomeni insieme implicati, bensì due persone vive e reali, che hanno ciascuna affetti, intendimenti e voleri suoi propri, ed affermano la loro individualità col vocabolo io; sentono di essere attività libere, consapevoli di sé, arbitre del proprio operare. Ora la nuova scuola proclama illusorii questi due solennissimi fatti, che sono il fondamento primo dell’opera educativa». L’antimetafisica mette in discussione un altro elemento necessario per la pedagogia, vale a dire l’evidenza che «L’uomo è un soggetto educabile. Questo concetto semplicissimo ed elementare trascende la sfera dell’esperienza»290, e non può dunque essere incastonato nell’architettura positivista. La persona inoltre ha bisogno di un ideale, di un fine a cui piegare la sua esistenza. «Senza ideale non si vive da uomo, non si vive personalmente; e l’ideale vero non ci viene da una scuola, la quale insegni che la vita umana si risolve tutta quanta in un gabinetto di fisiologia, non ci viene dalla nuda esperienza. Essa mi dirà quello che io sono di fatto, o integro o corrotto che io mi sia; l’ideale invece mi rivela quello che io debbo essere; quello dell’esperienza è l’ideale del momento che passa, del punto che scompare; il vero ideale abbraccia l’universalità del tempo e dello spazio»291. In un altro saggio osserva: «L’esperienza mi dice quello, che è di fatto, non quel che debb’essere; mi apprende cioè che l’uomo viene realmente educato, ma non già che lo debba essere; è dessa la ragione, che muovendo dal concetto della persona umana ne argomenta che l’educazione le è necessaria ed essenziale. Così la sola esperienza non vale a somministrarci la verità universale e necessaria dell’educabilità»292 L’educazione ha bisogno di un ideale. Questo brano sintetizza chiaramente i concetti suaccennati: «Che se il soggetto educando de’ positivisti, conscia ed arbitra di sé e cagione efficiente degli atti suoi, è niente più che una mera successione de’ fenomeni, i quali non appartengono a nessuno, ognun vede, 1° che voi farete del vostro alunno non già una libera individualità, che pensi da sé e si regga per virtù interiore, bensì un meccanismo di fenomeni insieme raccostati dalla forza dell’abitudine; 2° che la santità del dovere è sfatata e l’educazione morale torna impossibile, perché i fenomeni passano senza lasciar traccia di sé, e le nostre risoluzioni 290 Ibid., p. 6. 291 G. Allievo, Il ritorno al principio della personalità, Prolusione letta all’Università di Torino il 18 novembre 1903, cit., p. 15.  292 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 6. 80  volontarie sarebbero una risultante di fenomeni ossia di forze meccaniche cooperanti; 3° che anch’essa l’educazione religiosa non ha più ragione di essere, perché il positivismo è la negazione della metafisica, come scienza dell’Essere assoluto, e la negazione della religione, come amore intelligente ed operoso dell’Essere divino»293. La pedagogia positivista viene inoltre criticata in quanto si fregia di aver portato fondamentali novità per la pratica educativa. Allievo chiarisce che: «I positivisti s’immaginano di avere dato alla scienza dell’uomo e della sua educazione un impulso affatto nuovo e potente, di averle impresso il suo vero indirizzo, di averla ricostruita sulle sue giuste fondamenta come se tutti i grandi pensatori, che meditarono prima di essi intorno a queste due discipline, avessero brancolato alla cieca; e tutta la riforma, della quale vanno altieri, sta nell’aver circoscritto tutto il compito dell’antropologia e della pedagogia allo studio de’ fatti umani ed alla ricerca delle loro leggi, indipendentemente da ogni considerazione relativa alla sostanzialità del me, in cui essi fatti hanno il loro comune principio, il loro punto centrale ed armonizzatore»294. Ne La nuova scuola pedagogica analizza le novità che i positivisti si prendono il merito di aver apportato alla pedagogia: metodo intuitivo, autodidattica e adattamento. Allievo fa notare come siano tutte intuizioni e nozioni assai note prima della nascita del positivismo e prima ancora della comparsa della pedagogia. Per quanto riguarda le scienze umane, Allievo contesta la trasformazione positivistica della psicologia in una branca della fisiologia. Tale critica è legata alla battaglia per la difesa della personalità umana e della sua libertà. Ciò che Allievo intendeva difendere era l’idea che i fatti psicologici non fossero solo fisici, ma fondamentalmente spirituali. Il mentale non può essere trattato come il biologico, per cui l’oggetto della psicologia deve essere l’io sostanziale e non la sua espressione fisiologica o fenomenica. Per tale motivo la psicologia deve seguire, a detta di Allievo, un metodo filosofico e non scientifico, con cui invece si può indagare l’uomo da un punto di vista anatomico o fisiologico. Così per l’Allievo «la psicologia è quella parte di filosofia, che ha per oggetto l’anima umana studiata ne’ suoi fenomeni e nel suo essere sostanziale mediante la coscienza perfezionata dalla riflessione al ragionamento»295. Tale concezione deve essere contestualizzata in un periodo in cui la scienza italiana era parecchio lontana dagli approcci e dai risultati dei laboratori psicologici svizzeri, tedeschi e francesi. Questa difesa del collocamento della psicologia nella filosofia da quanti la volevano ridotta a pura fisiologia, nacque dalla paura 293 G. Allievo, Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico, cit., p. 409. 294 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 87. 295 G. Allievo, Appunti di Antropologia e Psicologia, cit., p. 24.  81  che tale prospettiva avallasse la riduzione dell’essere umano a un mero meccanismo biologico. Occorre inoltre far notare che Allievo tenne in grande considerazione le scienze sperimentali, anche se denunciò l’alto rischio dello scadimento della scienza in scientismo. Osserva «Non vi è amatore del vero sapere, che non riconosca e non ammiri i grandi progressi fatti dalle scienze naturali, e lo splendido avvenire, a cui sono chiamate, proseguendo per la retta via dell’osservazione sincera e compiuta dei fatti fisici, fecondata da una lenta e prudente induzione verificata mediante la prova e riprova di ben condotto esperimento. Questo successo e sicuro progredire del pensiero nella scoperta delle leggi e delle forze della natura avvantaggia le sorti dell’umanità e conferisce potentemente alla civiltà ed al perfezionamento sociale, essendochè l’uomo la fa sua rivolgendola al compimento del suo ideale. Se non che mentre per una parte il progresso delle scienze naturali conforta l’animo di liete speranze, per l’altra si nota con rincrescimento la tendenza di alcuni illustri ingegneri contemporanei a trascendere i confini proprii di esse scienze e riguardarle siccome la vera e sola scienza, a cui tutte le altre vanno sacrificate, come se in esse sole fosse incarnato lo spirito scientifico»296. Appare dunque poco fondato l’appunto mosso dalla Bertoni Jovine all’Allievo, che criticò al vercellese una presunta ostilità nei confronti della scienza e del suo valore educativo. Secondo la studiosa emiliana, per Allievo: «Tutte le scienze che si valgano di questo metodo e che inducono l’educando all’osservazione spregiudicata dei fatti storici e naturali sono dunque scienze diseducative o quanto meno non-educative, se per “educative” s’intendono soltanto le suggestioni che rafforzano la fede»297. In un lavoro successivo provò a giustificare la supposta contrarietà all’insegnamento della scienza, con l’esigenza di difendere il «dogmatismo» in funzione dell’ostruzionismo al progresso sociale e civile298. 296 G. Allievo, L’uomo e la natura, cit., pp. 12-13. 297 D. Bertoni Jovine, Storia della scuola popolare in Italia, Torino, Einaudi, 1954, p. 387. 298 «Ad ogni modo, pur attraverso una prosa gonfia e nello stesso tempo reticente, è opportuno districare il filo delle argomentazioni del pedagogista torinese. Il punto sostanziale della sua polemica è la critica del valore educativo della scienza. La scuola moderna si fa un feticcio della scienza sottovalutando altri elementi formativi dello spirito umano. Ma di quale scienza parla Allievo? Lo chiarirà in una nota inviata alla Reale Accademia di Scienze di Torino. Si tratta soprattutto si quel complesso di problemi e di studi che si raggruppa sotto il nome di “sociologia” e che interessa tutti i problemi della vita moderna, compresi quelli educativi. Egli non avrebbe probabilmente trovato tanto rivoluzionarie le teorie del positivismo, dello scientificismo, dello storicismo, se tutte insieme queste nuove teorie non avessero giusitificata l’esigenza di dare un nuovo sviluppo e un nuovo orientamento alla scuola; se in altri settori della vita pubblica quell’esigenza non si fosse collegata con necessità fatte sull’analfabetismo non avessero messo l’accento sull’influsso che una struttura economica arretrata aveva sulla scarsa efficienza della scuola. In questo legame l’Allievo trova il punto più pericoloso delle nuove dottrine pedagogiche che segnavano il tramonto di quello spiritualismo al quale egli si richiamava con nostalgia. Ad esse attribuisce il fallimento scolastico italiano, richiamando gli educatori ad una maggiore prudenza nell’accettare quel metodo positivistico che  82  Nel testo Studi Psico fisiologici (1896) riprese diverse scoperte fatte in ambito sperimentale e ne valorizzò i meriti e la valenza pedagogica. In più d’una occasione dovette difenderne l’importanza per la pedagogia da quanti, come gli idealisti, ne contestavano il senso e l’utilità299. Tale avvicinamento alla psicologia sperimentale gli costò la critica dell’idealista Santamaria Formiggini che avversando l’ilemorifismo dell’Allievo vide nell’apertura alla psicologia sperimentale un tradimento della realtà spirituale:300 D’altra parte pare chiaramente inesatto il giudizio di Vidari che fa dell’Allievo un osteggiatore della psicologia, sostenendo che il principio della personalità è «anti-sperimentalista» e «anti – sociologico»301. Invece l’armonia tra il materiale e lo spirituale, il loro “accordo”, era proprio ciò a cui Allievo puntava. Le due discipline, psicologia e fisiologia, non dovevano essere confuse ma ben distinte nel comune studio sull’uomo. Scrive a proposito: «La psicologia si trova in intimo contatto colla fisiologia, ma ciascuna di queste due scienze va distinta dall’altra, perché la prima ha per oggetto suo proprio la mente co’ suoi fenomeni psichici, la seconda l’organismo corporeo colle sue funzioni vitali; e tuttavia sono unite insieme da quel medesimo vincolo, che congiunge nell’uomo l’anima razionale ed il corpo organico, e così unite costituiscono l’antropologia»302. A causa di ciò Allievo non può essere considerato come un nemico della psicologia sperimentale, ma contro quella che esclude la «natura personale» nell’uomo. La critica del positivismo e del materialismo è connessa a quella sull’evoluzionismo. Allievo fa notare come il darwinismo non sia una necessaria conseguenza del positivismo, ciò è confermato dal fatto che non fosse condivisa da autori come Auguste Comte o Stuart Mill. Nella Nuova scuola pedagogica (1905) Allievo osserva: «La nuova scuola pedagogica annovera nel suo seno alcuni seguaci dell’evoluzionismo darviniano, i quali accusano la distruggerà il metodo dogmatico [in nota: G. Allievo, L’indirizzo storico e sociologico della pedagogia contemporanea, Torino, 1908]. Tutte le scienze che si valgono di questo metodo e che inducono il fanciullo all’osservazione spregiudicata dei fatti storici e naturali sono dunque scienze diseducative o quanto meno non-educative, se per “educative” s’intendono soltanto le suggestioni che rafforzano la fede» D. Bertoni Jovine, Storia dell’educazione popolare in Italia, Bari, Laterza, 1965, pp. 221-223. 299 G. Allievo, Il problema metafisico studiato nella storia della filosofia dalla scuola ionica a Giordano Bruno, cit., p. 14. 300 «Forse l’Allievo si lasciò trascinare nella sua vita dal desiderio di porre la sua psicologia in maggiore armonia con le teorie scientifiche sull’emozione che allora si diffondevano in seguito all’indirizzo di studi del Wundt; volle dimostrare la possibilità di coordinare il suo sistema coi risultati della scienza più moderna; ma naturalmente non poté riuscire bene nel suo intento, perché l’eclettismo è il più difficile di tutti i sistemi» E. Santamaria Formiggini, La pedagogia italiana nella seconda metà del secolo XIX, parte I, gli spiritualisti, Roma, A. F. Formiggini, 1920, p. 281. 301 Vidari sostiene che l’Allievo è contrario alla «psicologia fenomenistica, che è per la Pedagogia rovinosa, negando essa il principio fondamentale della sostanzialità e unità della Persona» G. Vidari, Giuseppe Allievo, cit., pp. 8-9.  302 G. Allievo, Appunti di Antropologia e Psicologia, cit., p. 26. 83  vecchia pedagogia di posare sopra una psicologia astratta e dualistica, per cui mancava di salde basi scientifiche, adoprava un metodo puramente soggettivo ed astratto e toglieva di mezzo ogni raffronto tra i fenomeni psichici dell’uomo e quelli degli animali. Tutte queste accuse presuppongono che l’evoluzionismo, a cui si appoggiano, sia una verità scientifica rigorosamente dimostrata, ma cadono l’una dopo l’altra, dacché il Darwinismo è una mera ipotesi sostenuta da pochi pensatori, che lo scambiano per un teorema scientifico dimostrato. Anche riguardato come una pura ipotesi bisognevole di conferma, l’evoluzionismo è ben lontano dallo adempiere i difetti ingiustamente attribuiti alla pedagogia filosofica e rinnovare di sana pianta la scienza educativa nelle sue basi, nel suo metodo, nelle sue attinenze sociali»303. In tale testo conferma una considerazione fatta già nel 1874: «L’alterazione della specie sostenuta da Darwin è una mera ipotesi, che va ogni di più perdendo valore e seguaci»304. Di certo la previsione è risultata sbagliata. Tuttavia, il fatto che Allievo considerasse la teoria dell’evoluzionismo come una probabilità appare giustificabile sulla base delle conoscenze scientifiche e delle prove addotte dal darwinismo alla fine dell’Ottocento. Va peraltro tenuto conto che la critica dell’Allievo fu abbastanza superficiale e incentrata su questioni filosofiche più che scientifiche (non ne aveva gli strumenti). L’idea che il pedagogista vercellese difendeva era comunque la stessa, l’irriducibilità dell’uomo alla natura. Nel testo L’uomo e la natura (1906) si interroga: «possiamo noi ammettere che la specie umana abbia avuto origine dalla materia universale diffusa nello spazio per via di una lenta e progressiva trasformazione degli organismi viventi? Lo asseriscono i seguaci dell’evoluzionismo materialistico, ma non lo hanno mai dimostrato seriamente né punto, né poco; né dimostrare lo possono perché nemo dat, quod non habet, e la materia bruta primitiva non racchiudeva certamente in sé il germe di quella sublime razionalità, che è il carattere costitutivo della specie umana. Carlo Vogt nelle sue Lezioni sull’uomo si sbraccia a dimostrare, che le diverse razze umane originarono dalle differenti famiglie di scimmie, ma ristrinse tutto il suo esame alla morfologia del cranio umano raffrontato con quello scimmiesco, e non disse verbo delle facoltà mentali proprie dell’umanità: che veramente avrebbe avuto un disperato partito per le mani, se avesse preteso che la mentalità dell’uomo è sbocciata dalla brutalità della scimmia»305 Stando all’Allievo il positivismo non è perdente solo sul piano teoretico. È la vita a condannare questo sistema. Nell’introduzione degli Studi Pedagogici, Allievo riprende il 303 G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 12. 304 G. Allievo, Della vecchia e della nuova antropologia di fronte alla società, cit., p. 10. 305 G. Allievo, L’uomo e la natura, cit., p. 10.  84  romanzo di Dickens, Duri tempi per questi tempi, e cita diversi brani al fine di mostrare la confusione a cui porta il positivismo nella vita reale, infatti è inevitabile che venga svilito il compito dell’educatore, svalutata l’immaginazione, sminuito il sentimento e l’amore. Il positivismo soffoca l’esistenza. Anche se Allievo ricorda che «il cuore è tal forza che più di ogni altra della natura scoppia irresistibile quanto più lungamente e violentemente repressa»306, il positivismo conduce inevitabilmente alla «ruina e lo sfacelo della vita domestica e sociale»307. Allievo contesta anche le posizioni positivistiche sulla scuola. Critica Comte che impone alle prime classi un quadro orario composto quasi esclusivamente con materie matematico scientifiche, sminuendo quelle umanistiche. Nonostante le critiche Allievo riconosce alla nuova pedagogia anche dei meriti308. Uno degli apporti importanti del positivismo è stato quello di riavvicinare la scienza pedagogica all’analisi e all’osservazione degli aspetti empirici dell’educazione.309 Comunque se Allievo dopo gli anni ’70 risultava preoccupato per l’avanzata del positivismo, alla fine della sua carriera ebbe occasione di esultare per la sua decadenza. Nel 1909 Allievo poteva scrivere che «Il positivismo pedagogico attraversa una grandissima crisi e va via via smarrendosi in mezzo a diversi e contrari indirizzi. La mancanza assoluta di critica, la cieca fidanza si sé, il dogmatismo sostituito al ragionamento ed alla discussione, la noncuranza delle dottrine contrarie, il disprezzo della tradizione, tolgono a questo sistema ogni efficacia scientifica e segnano il suo decadimento»310. 306 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 8-9. 307 Ibid., p. 12. 308 «Nessuno mai, che abbia fior di senno, rigetterà siccome sciupato, fallito e contrario al vero tutto il lavoro della nuova scuola pedagogica. Anch’essa ha le sue parti buone e commendevoli accanto alle malsane e morbose; ha messo in bella luce alcuni punti, che non erano stati sufficientemente lumeggiati; ha posto in rilievo alcuni fatti educativi mediante un’analisi sottile ed accurata; ha dato un nuovo impulso all’educazione fisica ed alla coltura del pensiero; ma il principio fondamentale, su cui essa posa, è radicalmente sbagliato; epperò tutte le verità, che essa contiene nella sua dottrina, non le può logicamente ammettere, se non a condizione di rigettare il suo principio supremo, mentre la pedagogia filosofica le può accogliere tutte quante, perché rientrano nel principio che le è proprio» G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 9. 309 «Il positivismo (sarebbe ingiustizia il disconoscerlo) ha recato non poco giovamento agli studi antropologici coll’averli ritirati dalla via dell’incompiuto ed esclusivo metodo trascendentale dell’antica scuola e condotti su quella dell’osservazione e della storia; ma è solenne errore quel suo fermarsi alla nuda osservazione dei fatti e delle loro leggi senza punto assorgere allo studio delle origini, della natura e della destinazione dell’uomo che è causa efficiente e ragione spiegativa di quei medesimi fatti.”309 Osserva ancora: “Certamente dimostrerebbe ingiusto verso la nuova scuola chi le negasse il merito di avere efficacemente contribuito all’incremento della scienza pedagogica; ma dall’altro lato è giuoco – forza riconoscere, che nel corso delle sue indagini ha passato sotto silenzio argomenti e problemi pedagogici di altissimo rilievo» Ibid., p. 27.  310 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 6. 85  Concludendo, si può rilevare come Allievo abbia scovato nelle critiche al positivismo e all’idealismo un errore comune. Entrambe mancano infatti di realismo, e riducono sia il campo dello scibile che quello dell’esistente311. I. 7. Il contributo alla storia della pedagogia Gli studi di storia della pedagogia costituiscono una parte cospicua nella produzione di Allievo, che nella sua lunga carriera si è occupato di diversi periodi, che vanno dalla pedagogia antica greca e romana, all’itinerario della riflessione europea tra il XVIII e il XIX secolo, alla storia dello spiritualismo italiano. L’importanza data agli studi storici è inoltre confermata dal fatto che i testi in cui Allievo espone il “suo” sistema pedagogico e filosofico sono lavori di storia della pedagogia, vale a dire i Saggi filosofici, gli Opuscoli e Il problema metafisico. Tra le opere più importanti vi è il già citato Del positivismo in sé e nell’ordine pedagogico (1883), che non si limita ad una critica sui contenuti ma riprende con precisione lo sviluppo delle teorie pedagogiche di Comte, Spencer, Bain. Sulla stessa corrente, è particolarmente significativo il testo La psicologia di Herbert Spencer: studio espositivo-critico (1898). Al contributo della pedagogia svizzera dedica il libro: Delle dottrine pedagogiche di E. Pestalozzi, A. Necker de Saussure, F. Naville e G. Girard (1884). Un altro testo importante è Delle idee pedagogiche presso i Greci (1887). Nel 1901 pubblicò La pedagogia italiana antica e contemporanea in cui in un capitolo è riportato un testo pubblicato quaranta anni prima: Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866 (1867). Negli Opuscoli pedagogici (1909) presenta saggi su l’Helvetius, Gerdil, Jacotot, Kant, Herbart, Blackie ed altri. Importante anche lo studio sul fondatore della pedagogia moderna, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista (1910) e l’ultima opera che rappresenta il testamento pedagogico dell’Allievo: Giobbe e Schopenhauer (1912). Un altro importante contributo fu la traduzione e l’introduzione della Levana di Richter, e lo studio su Maine de Biran e la sua dottrina antropologica (1895). 311 Sui punti in comune delle due teorie scrive: «Queste due specie di umanismo filosofico hanno due punti comuni in cui convengono, ai quali corrispondono due punti di discrepanza, in cui esse differiscono. Anzi tutto entrambe concordano nel proclamare l'autonomia illimitata del pensiero umano, che nulla più riconosce oltre di sè: da ciò poi che l'attività del pensiero si spiega e come ragione avente per oggetto il mondo soprasensibile, immutabile ed assoluto delle essenze, e come esperienza la quale coglie il mondo sensibile, mutabile e relativo de' fenomeni, ne viene una ragion soggettiva per cui l'umanismo filosofico si specifica in razionalismo assoluto ed in empirismo universale. Ancora, esse convengono nel proclamare il moto indefinito delle cose e delle idee, mercè il quale l’uomo, disertando il posto segnatogli dalla propria natura, o si faccia identico con Dio, che gli sovrasta, trasumanando, o si confonda colla materia che gli soggiace. disumanandosi; e di qui una ragione oggettiva, per cui l'umanismo differenziasi in antropoteismo ed in naturalismo» G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit., pp. 9-10.  86  Uno dei periodi più studiati dall’Allievo fu la pedagogia del XIX secolo. Nel testo Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, (1884), innalza la scuola svizzera come un momento importante per l’intera scienza e storia della pedagogia, una scuola che seppe integrare le spinte della modernità con una prospettiva antropologica spiritualista. Un altro testo molto significativo è il già citato Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866 (1867). Questo saggio ripercorre con precisione lo sviluppo della cultura pedagogica e della legislazione scolastica in Piemonte e in Italia, in un decennio decisivo per la costruzione della scuola italiana. Commentando questo saggio Gerini ha scritto: «La monografia, composta per incarico del Ministro della P.I., è il primo saggio di storia pedagogica scritto in Italia, che sarà sempre consultato da quanti vorranno conoscere il nostro risorgimento educativo»312. Dello stesso avviso anche Arcomano, che commenta: «È una rassegna delle situazioni, delle attività e delle opere del ventennio 1846-1866, in fatto di istruzione ed educazione, e si può considerare un capolavoro di chiarezza nella interpretazione degli avvenimenti e nella presentazione delle idee che circolavano»313, anche se poi rileva come il testo è forse troppo concentrato sulla realtà subalpina. Il testo ebbe vasta eco nel dibattito pedagogico, lo troviamo spesso citato in opere di altri autori314, abbastanza rare sono le critiche315. In questo saggio Allievo esalta i protagonisti di quella stagione come Vincenzo Troya, Agostino Fecia, Vincenza Garelli, Carlo Boncompagni. Riprende poi tutte le discussioni sulla riforma della scuola, e trova nell’esperienza pedagogica del Piemonte e della Toscana nella metà dell’Ottocento i due laboratori della nuova scuola e della nuova pedagogia. È molto significativo il peso dato dall’Allievo alla «Società pedagogica» e anche alle riviste del tempo. Questo testo, contribuì a dimostrare come fosse solo un mito l’idea propagandata dai positivisti secondo la quale la pedagogia precedente alla loro non avesse avuto nulla da dire. Allievo fa risaltare la pedagogia spiritualista risorgimentale e quel clima di liberalismo educativo che sarà tradito e defraudato dalla statolatria e dal positivismo. 312 G. B. Gerini, La mente di Giuseppe Allievo, cit., p. 44. 313 A. Arcomano, Pedagogia, istruzione ed educazione in Italia (1860-1873), cit., p. 56. 314 Cfr. C. Uttini, Nuovo compendio di pedagogia e didattica: ad uso delle scuole e delle famiglie, Torino, Libreria scolastica di Grato-Scioldo, 1884, p. XIV. 315 Si vedano per esempio gli appunti negativi di Vidari: «Abbastanza buono per la parte della pedagogia contemporanea è il Saggio dell’Allievo, il quale porta in esso il contributo delle sue proprie memorie e impressioni; ma anche qui il senso della vita storica, cioè della interiore unità onde si collegano nel loro svolgimento le dottrine, è quasi del tutto assente, e invece prevalgono le preoccupazioni personali dell’autore» G. Vidari, Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico, cit., p. 4.  87  Senza dubbio lo studioso può essere considerato uno tra i primi storici della pedagogia italiana, e non solo per il numero dei lavori pubblicati, ma anche per la teorizzazione dell’ambito disciplinare e delle metodologie di ricerca. Allievo espone il suo pensiero circa il fine e il metodo della Storia della pedagogia nel breve opuscolo Concetto generale della storia e della pedagogia (1901), anche se accenna a tale questione in diversi altri saggi. Nel lavoro citato, parte dalla considerazione dell’educazione come fatto e concetto comune. La pratica e la teorizzazione educativa sono imprescindibili, e la scienza pedagogica si sviluppò sotto la spinta di voler vedere perfezionata l’arte educativa. In questo senso continua: «La necessità di una scienza pedagogica emerge dal difetto inerente all’inconscia educazione naturale, e quindi dall’insufficienza del suo concetto»316. Egli rivendica uno statuto epistemologico propria alla storia della pedagogia, che distingue tanto dalla pedagogia in sé, che dalla storia dell’educazione. In questa direzione critica Paroz che nella Histoire universelle de la Pédagogie non separa le due discipline317. Allievo distingue anche la storia dell’educazione in generale, vale a dire i tratti tipici dell’educazione e la sua storia universale, dalla storia dell’educazione di una particolare tradizione o società318. Nei suoi studi richiama l’importanza della precisione storiografica ed uno studio approfondito delle fonti. In particolare rimarca come la storia dell’educazione debba essere: ordinata, veridica, ragionata, compiuta. Chiede di riferirsi sempre a «fonti accurate e sicure»319. Uno degli aspetti innovativi dei lavori dell’Allievo è il peso dato allo studio del contesto e della personalità dell’autore320. 316 G. Allievo, Concetto generale della storia della pedagogia, cit., p. 1. 317 «La storia dell’educazione ha per ufficio suo proprio di esporre le diverse forme, che prese l’educazione presso i diversi popoli antichi e moderni; per contro la storia della pedagogia espone le origini e lo sviluppo di questa scienza attraverso le dottrine, i sistemi, le teorie de’ pensatori, che la coltivarono. [...] Per certo queste due specie di storie sono fra di loro congiunte da intime attinenze e si lumeggiano a vicenda, ma la loro distinzione va tenuta in conto per non confondere due ordini di cose affatto diversi, quali sono le idee pedagogiche de’ pensatori e le azioni educative degli istitutori» Ibid., p. 3. 318 «La storia dell’educazione, riguardata rispetto alla sua estensione, viene a diversi in universale, particolare e singolare. La storia universale si estende all’educazione di tutti i tempi dai più remoti ai contemporanei, di tutti i popoli e barbari e civili, e antichi e moderni. La particolare comprende un periodo storico generale, quale sarebbe la storia dell’educazione antica, o parte di un periodo storico, come ad esempio la storia dell’educazione dal 1500 a noi. In entrambi i casi abbraccia l’educazione presso tutti i popoli ristretti però ad un tempo determinato. È altresì particolare quella, che espone l’educazione di una nazione considerata o in tutta la durata della sua esistenza (quale l’educazione presso i romani) o in uno de’ suoi periodi storici (quale l’educazione dei romani nel periodo repubblicano). Infine è singolare, se si restringe o ad un dato secolo (come la storia dell’educazione ai tempi della rivoluzione francese), o ad un Istituto educativo, quale l’Istituto pitagorico o l’Istituto educativo di Vittorino da Feltre; ed allora piglia più propriamente nome di monografia storica» Ibid., p. 3-4; 319 Ibid., p. 4. 320 Già in uno dei primi saggi esponeva con chiarezza tale principio: «La critica ha da descrivere la genealogia del genio speculativo; ha da seguirlo in tutto il suo periodo evolutivo ricordando i sentieri e le vie riposte per cui è passato prima di giungere al suo ideale definitivo; ha da studiare il movimento speculativo dell'epoca in mezzo al quale si svolse; ha da sceverare nelle pagine della storia le idee di cui ha elementato il proprio sistema e significare come queste nel proprio sistema s'intrecciarono e vi ricevettero un'impronta peculiare e sistematica. Tale è l'ufficio narrativo della critica. Oltre a tutto questo, apprezzare nel suo giusto  88  Come la storia dell’educazione, anche la storia della pedagogia si può dividere in generale e particolare. Il suo fine non si limita ad una narrazione asettica della riflessione educativa, ma trova il suo senso nella valutazione delle teorie pedagogiche rispetto all’autentica scienza pedagogica. Scrive Allievo: «Da queste generali considerazioni intorno al come si forma e si va svolgendo la pedagogia emerge da sé il concetto della sua storia, la quale apparisce una ordinata e razionale narrazione dello svolgimento progressivo della scienza pedagogica attraverso i tentativi fatti dai pensatori di tutti i tempi e luoghi a fine di determinare l’ideale tipico dell’umana scienza»321. In particolare, sono significativi alcuni brani presenti negli Studi pedagogici (1889)322 e ne La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti (1905)323, in cui mostra come lo scopo dell’approfondimento storico è strettamente connesso al fine della scienza pedagogica. L’Allievo sostiene che l’educazione possa essere studiata o nel suo svolgimento pratico o da un punto di vista speculativo. La pratica educativa può essere di tre tipi: quella che normalmente le persone attuano, quella di una determinata società, e la vera arte di educare. Come l’educazione, anche la teoria pedagogica sembra connaturale alla vita umana. Per tale motivo in ogni epoca l’uomo si è fatto un’idea circa il miglior modo di educare. Così, secondo Allievo, esistono tre tipi di teorie pedagogiche: la pedagogia volgare, quella del singolo pensatore, e la scienza pedagogica. Il compito della storia della pedagogia quello di individuare il differenziale tra quanto pensato in passato e la scienza pedagogica. La storia ha così un valore fondamentale della riflessione pedagogica, poiché propone agli studiosi interlocutori di vaglia, anche sé Allievo ricorda di distinguere la scienza dalla storia324. Il seguente brano ben lumeggia la distanza tra ciò che si è pensato e la scienza: «Fu detto che la storia universale è tutta una congiura contro la verità: nell’ipotesi che stiamo valore il punto iniziale da cui un sistema piglia le mosse, il processo a cui s'informa il suo sviluppamento, il termine finale in cui si è chiuso; pronunziare se nella storia del pensiero speculativo esso segni un periodo di sosta o di progresso; giudicare se il problema filosofico sia stato concepito in tutta la sua integrità e giustezza, e risoluto a dovere; epperò se siano state convenientemente satisfatte le esigenze del pensiero spéculativo senza punto disconoscere i pronunziati universali della sapienza comune, anzi armonizzandoli colle conclusioni della ragion filosofica: ecco l'altro ufficio della critica che discute» G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit., p. 18. 321 G. Allievo, Concetto generale della storia della pedagogia, cit., p. 6. 322 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 28-31. 323 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p. 7. 324 «I cultori della pedagogia trovano nella storia una saggia maestra, che additando gli errori dei pensatori che li precedettero, da un lato, e dall’altro le verità da essi scoperte e lumeggiate, li consiglia a procedere ammisurati e guardinghi nei loro tentativi, li anima e li sorregge all’amore ed alla conquista del vero, ed allarga l’orizzonte del loro pensiero. Riconoscendo l’utilità e l’importanza della storia della pedagogia, guardiamoci però dall’ingrandirla oltre il convenevole.» G. Allievo, Concetto generale della storia della pedagogia, cit., p. 8.  89  discutendo, bisognerebbe ripetere, che anch’essa la storia della pedagogia è tutta una congiura contro la scienza pedagogica»325. Nel stesso saggio critica il Siciliani e il suo testo Storia critica delle teorie pedagogiche nel quale sostiene che la scienza pedagogica si fonda sulla esperienza storica dell’educazione326. Se per Siciliani la scienza pedagogica è frutto di evoluzione, per lo spiritualista Allievo la «vera» scienza pedagogica è una, e ad essa ci si può avvicinare o allontanare. Entra poi in merito a come si fa la storia della pedagogia. Spesso si è costretti a raccogliere le «idee slegate e frammentate» in opere non propriamente pedagogiche, scovando le «teorie particolari intorno a qualche punto di educazione, o sia che esse formino un tutto da sé distinto da ogni altro, o sia che giacciano implicata ed involte in opere di altra natura», ma anche «i trattati che abbracciano un compiuto sistema pedagogico, dove l’educazione è contemplata in tutta l’integrità del suo organismo, quali ce ne porge in copia moderna». Bisogna quindi studiare le opere dell’autore, i frammenti della sua opera presente in altri autori, la tradizione su di lui. «Gli scritti originali di un pedagogista sono essi soli le vere fonti, da cui si attinge limpida e netta la sua dottrina, mentre i frammenti registrati nelle opere di altri scrittori, e la tradizione scritta od orale, anziché fonti, sono rivi più o meno puri». Dai suoi scritti occorre innanzitutto cogliere in concetto centrale di un autore, cercandone poi le cause. Occorre comunque valutare la pedagogia degli autori studiati: «Ma il compito più elevato, più grave e ad un tempo più arduo della critica storica risiede nel cernere nelle esposte dottrine la parte vera dalla erronea, la certa dall’incerta ed opinabile, l’elemento soggettivo, particolare, relativo, dall’oggettivo, universale, assoluto, che solo può passare nel dominio della scienza pedagogica»327. Lo storico dovrà stare attento ad ancorarsi sempre alla scienza pedagogica328. In conclusione sintetizza così il compito dello storico della pedagogia: «Ai quattro uffici propri della storia pedagogica ora accennati fanno natural corrispondenza quattro distinte e successive forme speciali, che essa può rivestire nel suo progressivo sviluppo. La storia della pedagogia rintraccia primamente i materiali, che entrano a comporla, ed in questo suo primo studio riveste la forma di memorie e frammenti. Poi si accinge ad esporre e descrivere le raccolte dottrine, e qui assume la forma di cronaca, alla quale succede la forma di storia propriamente detta, 325 Ibid., p. 9. 326 Ibid., p. 10. 327 Ibid., p. 15. 328 «Lo storico deve scansare due estremi; da un lato la troppa fidanza di sé ed il cieco immobilismo nelle proprie idee, dall’altro l’incostanza e la volubilità del pensiero, a cui potrebbe essere trascinato dallo spettacolo di tanti sistemi diversi e contrari» Ibid., p. 16.  90  che corrisponde all’ufficio etiologico od inquisitivo, finché s’innalza alla sua più perfetta forma, quale è la filosofia della storia, che risponde all’ufficio critico e speculativo»329. Il senso della Storia della pedagogia ha appunto lo scopo di rilevare il differenziale presente sia tra i modi che le popolazioni che ci hanno preceduto avevano di educare in confronto con la vera arte di educare, sia il confronto tra le varie teorie pedagogiche e la vera scienza pedagogica. Osserva Allievo: «Quindi ancora ne consegue, che introno al medesimo oggetto conoscibile (ad esempio intorno l’essenza dell’educazione, od al suo fine, od alle sue leggi) possono darsi e si danno di fatto molte teoriche, e quel che è più le une dalle altri discordi ed avverse, mentre una sola è la scienza e sempre a se stessa concorde, perché una sola è la verità, in quella guisa che nell’ordine geometrico tra due punti dati non può correre che una sola linea retta, mentre di linee curve se ne possono condur chi sa quante». Il senso della Storia della pedagogia è analizzare i sistemi pedagogici confrontandoli con la vera scienza pedagogica. Dunque: «La storia de’ sistemi pedagogici è sostanzialmente la storia de’ tentativi felici od infelici, retti o traviati, fatti dai cultori dell’arte educativa per giungere al Vero siccome fondamento di essa; per lo contrario la storia della scienza pedagogica è la storia della Verità educativa riguardata nel suo progressivo esplicamento»330. Sulla base di questa prospettiva, i numerosi studi di storia della pedagogia di Allievo, sono un dialogo rispetto a determinati principi pedagogici con gli autori trattati, più che un’esposizione oggettiva del loro pensiero. Lo studio della storia della pedagogia secondo Allievo può condurre a una migliore comprensione dell’educazione e a quei tratti unici e particolari che la caratterizzano. Per tale ragione nelle sue ricerche spesso trova degli spunti per confermare alcune delle sue tesi o muove critiche agli altri sistemi pedagogici, in primis ai già citati positivisti. I testi sono dunque ripetutamente accompagnati da valutazioni personali, commenti, paragoni, e non pochi giudizi sferzanti. Ha scritto puntualmente Vidari «Si comprende da tutto questo come l’Allievo nei suoi studii di storia delle dottrine antropologiche e pedagogiche fosse guidato e mosso più che dal proposito di comprenderle nel loro processo di formazione, di inquadrarle nel momento storico a cui appartennero, di seguirle nei loro sviluppi, nelle loro irradiazioni e conseguenze, da quello piuttosto di saggiarle e 329 Ibid., p. 16. 330 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p. 6.  91  giudicarle in rapporto a quei principi fondamentali di scienza dell’educazione, che egli andò illustrando in tutto il resto della sua produzione filosofica»331. Dalle posizioni prese di fronte al «laboratorio della storia della pedagogia» si precisa ancora meglio il sistema pedagogico di Allievo. Forse anche per questo la lettura di questi testi aiuta a cogliere il cuore e le preoccupazioni pedagogiche dell’Allievo. Il tema principale su cui Allievo si confronta è per la maggior parte legato a prospettive antropologiche e alle loro conseguenze in campo educativo e scolastico. Giustamente Valdarnini osserva: «qual criterio adotta l’Allievo per giudicare della verità o della falsità delle dottrine di cui è intessuta la storia della Pedagogia? Questo: il sentimento e il concetto della dignità propria della specie umana»332. Da Seneca a Rousseau ciò che l’Allievo valuta è quale l’idea di uomo essi comunicano e difendono. Ma tale prospettiva ha secondo alcuni studiosi portato a esiti negativi. La Quarello, ad esempio, critica il fatto che certi giudizi storici siano «troppo soggettivi»333 e fa notare che alcune valutazioni dell’Allievo partono «talora da “presupposti dommatici” più che da dimostrazioni convincenti»334. Tra le altre, critica la scarsa considerazione data al Kant della Critica della ragion pratica. Di un’idea contraria è Vidari quando osserva che «alcune delle osservazioni critiche che l’Allievo muove alla dottrina morale di Kant, per quanto non nuove, sono giuste e fondate»335. Come già accennato, sempre stando alla Quarello, Allievo non avrebbe colto il contenuto della filosofia di Hegel, riducendo la portata dello Spirito e dell’Assoluto hegeliano336. Tra gli altri, il principio della libertà d’insegnamento è uno dei criteri con cui valuta le teorie pedagogiche. Nel testo Delle idee pedagogiche presso i greci la questione della libertà d’insegnamento decide della divisione degli autori. Allievo affronta prima Pitagora e Socrate, che sono considerati i difensori di un’educazione libera, e poi Senofonte, Platone e Aristotele, che considera difensori di una visione spartana e statolatrica dell’educazione. Affrontando tali autori esprime la sua idea di educazione e di libertà. Scrive: «Plutarco non separa la famiglia dallo Stato, né la confonde con esso. Per lui la famiglia non è solo un grado della gerarchia dello Stato, ma un centro, che ha uno sviluppo suo proprio. 331 G. Vidari, Il contributo di G. Allievo alla Storia della Pedagogia, «Rivista Pedagogica», n. 10, 1930, p. 689. 332 A. Valdarnini, Giuseppe Allievo storico della pedagogia, in Vita e mente di Giuseppe Allievo, cit., 1913, p. 56. 333 V. Quarello, G. Allievo, Studio critico, cit., p. 124. 334 Ibid., p. 124. 335 G. Vidari, Il contributo di G. Allievo alla Storia della Pedagogia, cit., p. 692. 336 V. Quarello, G. Allievo, Studio critico, cit., pp. 128-129.  92  L’educazione, senza punto dimenticare di preparare il fanciullo a divenire buon cittadino, ha sovra tutto per compito suo di formare in lui l’uomo mercè il culto della famiglia»337. Sugli «avversari» della libertà scrive invece: «Platone aveva confuso la famiglia collo Stato fino ad introdurre il Governo nei penetrali del santuario domestico, e colla famiglia anch’esso l’individuo veniva assorbito nella comanza politica. Aristotele giunse a distinguere la famiglia dallo Stato, ma il suo pensiero su questo grave argomento mostrasi perplesso ed oscuro, tant’è che l’uomo in sua sentenza non è tale, perché persona individua, perché padre o marito, o figlio, ma perché cittadino»338. Un altro brano su Platone mostra la pertinenza tra il concetto di persona e quello della libertà d’insegnamento, e come la perdita del primo faccia necessariamente scivolare nello statalismo: «Il massimo e capitale errore, che falsa la politica e conseguentemente la pedagogia di Platone e scorre e s’inviscera in tutte le parti della sua teoria, questo è di avere sacrificato l’attività personale dell’individuo all’onnipotenza dello Stato, di avere assorbito l’uomo nel cittadino. La dottrina politica di Platone è un esplicito socialismo governativo: l’individuo esiste e vive in servigio esclusivo dello Stato, è niente più che una molla, un ordigno del gran meccanismo sociale, giacché nell’assoluta ed oppressiva unità della comunanza politica si perde ogni libertà personale. Epperò l’educazione riesce essenzialmente ed onninamente politica, mentre dovrebb’essere primamente e sostanzialmente personale: l’umana persona, spogliata della sua dignità finale, viene educata come semplice mezzo e strumento della civil società»339. Concludendo la parentesi greca scrive: «Lo Stato adunque non prevale sull’individuo, bensì gli sottostà come effetto della sua cagione; e quando Aristotele a sostenere la supremazia naturale dello Stato sulla famiglia e sui singoli uomini osserva, che il tutto trionfa sulla parte, perché distrutto quello, anche questa vien meno, possiamo ritorcere il suo argomento contro di lui avvertendo che la parte congregandosi con altre parti, forma essa il tutto, e se quella scompare, anche questo ruina. In una parola non l’individuo è fatto per lo Stato, bensì lo Stato è fatto per tutti e per ciascuno, epperò l’educazione debb’essere umana e personale, prima che politica e civile»340 In alcuni punti le valutazioni dell’Allievo sono decisamente esagerate. Nel testo su Giobbe e Schopenauer apre una parentesi molto sommaria contro il popolo ebraico341, rasentando il razzismo. In altre occasioni il suo giudizio è palesemente sproporzionato. 337 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 163. 338 Ibid., p. 162. 339 Ibid., pp. 131-132. 340 Ibid., p. 148. 341 G. Allievo, Giobbe e Schopenhauer, cit., pp. 36-37.  93  Come quando nell’introduzione al lavoro su Delle idee pedagogiche presso i greci (1887) osserva «Pitagora e Socrate ci appariscono gloriosi campioni di una pedagogica, che si muove libera di sé, franca da ogni ressura governativa, sorretta da un ideale divino, che consacra la persona, santifica il dovere, suggella l’immortalità della vita personale. Platone ed Aristotele ci si mostrano fautori dello Stato educatore, che disconoscendo ne’ singoli uomini la dignità della persona individua, trae con sé a perdimento tutta la Grecia»342. Anche Santamaria Formiggini contesta all’Allievo la scarsa precisione su taluni lavori, in particolare fa riferimento agli studi su Rousseau ed Herbart. Inoltre sostiene che l’Allievo non riuscì a «penetrare oggettivamente nel pensiero degli autori che studia e che critica»343. Però poi ammette che «Come pedagogista egli lascia a grande distanza gli altri per la larga informazione storica, che è uno degli elementi essenziali per la trattazione ponderata ed illuminata delle questioni educative, è condizione per un vero progresso delle teorie. Egli può considerarsi veramente uno dei primi pedagogisti che abbiano indirizzato gli studiosi italiani a mettere in raffronto e in rapporto i loro studi con i risultati del pensiero pedagogico straniero, perché dai confronti scaturisca più viva e più nuova la verità, perché si evitino ripetizioni di teorie discusse e superate»344. Oltre ad imprecisioni, i lavori dell’Allievo risultano approfonditi e curati. Lo studio su Rousseau criticato dalla Formiggini, è ricco di riferimenti bibliografici ma soprattutto offre una chiave di lettura molto interessante del pensatore ginevrino non temendo di evidenziarne i pregi, ma anche le contraddizioni, le ambiguità e i rischi. Non pensiamo di essere lontani dal vero affermando che nonostante la sterminata bibliografia sull’autore dell’Emilio, il libro di Allievo risulta ancora oggi ricco di spunti e di considerazioni. Il merito di Allievo come storico della pedagogia emerge ulteriormente se paragonato ai lavori coevi di storia della pedagogia, dai quali si distanzia per riferimento alle fonti e immedesimazione. Senza dubbio si può affermare che Allievo può essere considerato uno tra i primi storici della pedagogia italiani. I. 8. La scuola educativa 342 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. II. 343 E. Santamaria Formiggini, La pedagogia italiana nella seconda metà del secolo XIX, parte I, gli spiritualisti, cit., p. 12.  344 Ibid., pp. 322-323. 94  Nel corso della sua carriera, Allievo diede ampio spazio alla riflessione sulla scuola, cui attribuiva un ruolo decisivo per il destino delle nazioni345. Se riferimenti e accenni su questioni scolastiche sono disseminati in molti dei suoi libri, in un saggio del 1904, La scuola educativa, è presente una sistematizzazione più articolata e completa delle sue posizioni. Riflettendo sulla funzione di questo istituto, Allievo racchiude le questioni più importanti del problema in quattro semplici domande: «1° in servizio di chi è ordinata la scuola? 2° a chi spetta il diritto di governarla? 3° in quale giusto rapporto deve serbarsi colla famiglia e colla società? 4° come debb’essere organata l’educazione e l’istruzione nella scuola?»346. Allievo è convinto che l’autentico e principale scopo della scuola sia lo sviluppo perfettivo della persona nella sua totalità. Caratterizzata da una appassionata ricerca della verità e del bene dell’alunno347, auspicava fosse animata da un vero «culto della personalità dell’alunno»348. Contro il determinismo di certa didattica, sosteneva l’idea di una scuola in cui il rispetto della vera libertà potesse divenire il fine e lo stile della vita educativa349. Su queste prospettive invocò una convergenza dell’istruzione e dell’educazione, che dovevano coabitare e collaborare in vista di uno sviluppo integrale della personale350. La conoscenza e l’educazione, dovevano potenziarsi a vicenda. In questo senso considerava l’istruzione anche come un aspetto necessario per la formazione solida del carattere351. 345 «La casa dunque, il tempio, la scuola sono i tre grandi centri dell’umana coltura, i tre solenni convegni sacri alla comune educazione. La scuola segnatamente apparisce il santuario del sapere, il tirocinio della vita sociale, il vivaio della civiltà; epperò essa racchiude nelle sue modeste pareti le sorti di un popolo e collo splendore o coll’oscuramento del suo ideale segna i giorni di grandezza o di decadenza di una nazione. Dall’importanza massima della scuola agevolmente si misura la necessità di formarcene un concetto adeguato e verace, che risponda al suo intimo organismo ed al suo ideale» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 68. 346 Ibid., p. 69. 347 «La scuola è luogo sacro al culto del Vero e del Buono, ciò è dire è il santuario della sapienza, essendochè questa congiunge in sé il lume speculativo della scienza e la pratica onestà della vita. Oggidì il carattere educativo della scuola è misconosciuto. La scienza ha cacciato fuor della scuola la virtù e la divinità. Si è consumato un divorzio tra l’istruzione della mente e l’educazione del cuore. Istruzione in iscuola, educazione in casa. Si aprono ogni dì nuovi edifizi scolastici per piantarvi l’albero della scienza, senza badar più che tanto, se all’ombra dell’albero germogli e si spieghi il fiore delle virtù domestiche, civili e religiose. Quest’eresia pedagogica va ogni di più propagandosi, e minaccia giorni luttuosi alla famiglia ed alla patria. La scuola (ripeto col Tommaseo) se non è tempio, è tana; e quando mai fosse tana, dovrei ripetere col Rousseau: L’uomo che pensa, è animal depravato. Gli è allora che la scuola diventa davvero un semenzaio di socialismo, perché i giovani ne escono poi gonfi di borra enciclopedica, quanto vuoti di ogni principio morale e religioso, e riversandosi nella gran società diffondono la corruzione, che portano in seno, pretensioni, sprezzanti, spostati, scontenti di tutti e di tutto, gittando qua e là il disordine e lo scompiglio» Ibid., p. 78. 348 Ibid., p. 70. 349 «Se l’alunno non è lui il primo educatore di se medesimo, che spiega la personalità sua e la afferma spiegandola, gli altri educatori persona la vera loro ragione di essere, perché non formano più una persona, ma foggiano una macchina» Ibid., p. 67. 350 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 65-67. 351 «Lo studio è un dovere, e dall’idea del dovere sorge appunto il carattere» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 92.  95  Uno degli errori maggiori individuati da Allievo era quanto chiamava «enciclopedismo», vale a dire la riduzione del ruolo della scuola a veicolo di nozioni da sommare nelle menti degli allievi: «L’enciclopedismo (perché tacerlo?) è il verme roditore delle nostre scuole, il cancro dell’educazione moderna»352. Allievo auspica che l’accumulo di conoscenze si coniughi con lo sviluppo di uno spirito libero e creativo: «L’enciclopedismo violenta, tortura, conquide, le potenze mentali del giovine: la virtù intellettiva, che concepisce l’ideale, il sentimento, che lo accalora, l’immaginazione, che lo colorisce, giacciono spossate»353. Il pedagogista osservò come la scuola somigliasse sempre più «all’aria morta di una biblioteca»354. Mancava quella spinta ideale che è invece propria dell’educazione. A questa stortura del compito educativo, concorse un traviamento del ruolo dell’insegnante: «Pur troppo si è ormai perduta di vista questa gran verità pedagogica, che il maestro, segnatamente delle scuole elementari e secondarie, debb’essere non solo l’insegnante, ma ben anco l’educatore de’ suoi alunni, interessandosi delle loro persone, vegliando sulle loro sorti, vivendo con essi la vita del cuore, come fa un padre, una madre co’ figli suoi»355. Da queste premesse, era convinto che il “cuore” degli educatori fosse il ganglio vitale della pratica educativa e al contempo il discriminante della sua efficacia356. Allievo si sofferma a considerare come l’insegnamento sia un’azione propria della persona, ed espressione della sua specificità. Si impara e si insegna con le parole, suoni che uniscono nel significato le coscienze e le conoscenze dell’educatore e dell’educando. Poter capire costituisce la superiorità dell’uomo sulle cose357. In questo senso, Allievo sottolinea come: «Lo sviluppo dell’intelligenza è intimamente connesso colla parola, la quale è un segno sensibile esteriore, che esprime un’idea»358. La parola si impone così come 352 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 14. 353 Ibid., p. 425. 354 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p. 250. 355 Ibid., p. 249. 356«Pestalozzi, Girard, De la Salle furono grandi istitutori, perché furono grandi cuori, che sentirono la santità del loro apostolato, e fecero di sé nobile sacrificio per loro alunni. Senza cuore non si educa con dignità, non si ammaestra con verità, non si impara con senno; e la scuola diventa essa stessa corpo senz’anima. Ed in quella guisa che le istituzioni politiche anche ottime declinano, si disfanno e finiscono, quando sono guaste dallo spirito settario, dall’ambizione sfrenata dei reggitori, dal dispotismo sotto maschera di libertà, così gli istituti scolastici anche meglio organati languiscono e cadono giù, quando nei governanti che li dirigono e nei maestri che professano, sottentra l’indifferenza e l’apatia, il mestierismo e la cupidigia del guadagno, la vanità pretensiosa e lo scetticismo demolitore» in G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., pp. 182-183. 357 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 102-107. 358 G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 44.  96  «necessità pedagogica», da indirizzare verso l’educazione della persona359. Per tali motivi il fulcro della scuola è la spiegazione360. La sua importanza è attestata, secondo Allievo, anche dalle difficoltà di relazione e di formazione dei sordo - muti361. Considerava un grave errore pensare che la mera istruzione potesse bastare all’educazione: «Che l’istruzione faccia colla educazione un’adequazione perfetta e si converta con essa, è fatale errore, il quale trascina la società a distrette più deplorande, che non quelle medesime dell’ignoranza e della rozzezza. L’uomo non vive di sola conoscenza, ma ben anco di virtù e d’amore, perché alla potenza dell’intendere accoppia la libertà del volere e la facoltà del sentire. Laonde la scienza è sibbene una splendida manifestazione dell’umana essenza, ma non è punto l’umanità tutta quanta: nell’immensa sfera dello svolgimento umano essa tiene un posto luminoso, ma non il solo, né il più elevato, sottostando alla vita morale e religiosa»362. Questa mancanza, era colta da Allievo soprattutto nella scuola secondaria, dove lo sviluppo razionale e il prossimo approccio alla vita, meritavano una relazione educativa e valoriale piena, e non solo limitata all’istruzione: «La nostra scuola secondaria non educa, perché è tutta nell’istruire: le materie di studio sono tenute estranee allo sviluppo del sentimento morale e religioso. La cattedra non è un apostolato di civile e morale insegnamento, ma di puro sapere: rilassati e pressochè spezzati i vincoli tra la scuola e la famiglia, e maestri ed i discepoli». L’assenza di un’educazione morale e religiosa, senza la quale lo sviluppo integrale della persona era reputato da Allievo impossibile, fu variamente ripresa: «Questa idolatria della scienza fa le sue tristissime prove nel campo della pubblica istruzione; l’istruzione è come una gran fiumana che allarga il santuario della scuola e caccia via la coltura morale e religiosa, come se vi fossero soltanto teste da riempire, e non anco anime da ispirare, cuori da educare. Questa specie di fanatismo per il culto del sapere è la piaga precipua, che vizia oggidì l’organismo della pubblica educazione.»363 Due delle sue citazioni preferite erano la celebre frase di Tommaseo: «La scuola se non è tempio, è tana» e il motto socratico Non scholae sed vitae discendum. Oltre che culto 359 «La parola è pur anco una necessità pedagogica, perché vincolo essenziale, che unisce le intelligenze e le volontà del maestro e del discepolo, dell’educatore e dell’alunno, ma a tale riguardo occorre, che la parola del maestro sia luce intellettuale piena d’amore, e che il discente non la riceva passivo, ma la faccia ripensandola. Un insegnamento parolaio sciupa se stesso in un’intrinseca contraddizione, essendochè appartiene all’essenza medesima della parola l’ufficio di significare un’idea» Ibid., p. 45. 360 «Il programma governativo è, per così dire, l’embrione della materia d’insegnamento, il didattico ne mostra le giunture, le articolazioni in forma di compagine, il libro di testo porge l’organismo in carne ed ossa e polpa e sangue, la spiegazione del testo è la vita, che circola per entro l’organismo» Ibid., p. 103. 361 Ibid., p. 98. 362 G. Allievo, L’educazione e la scienza. Prelezione fatta all’Università di Torino il dì 18 novembre 1881, cit., p. 6.  363 G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, cit., p. 59. 97  della verità, la scuola doveva infatti divenire tirocinio alla vita, e non doveva essere staccata da essa364. Ciò implicava anche un assetto didattico in cui era prevista la formazione professionale e la ginnastica. Sotto questo profilo critica la proposta educativa di Platone365, considerata eccessivamente spiritualista. La scuola deve preparare soprattutto alla partecipazione alla società, della quale essa può diventare importante fermento di progresso e umanizzazione. In questo senso, contestò posizioni come quelle di Rousseau, che mettevano in evidenza le ingiustizie perpetuate nella socialità scolastica, invece che i suoi aspetti formativi366. Allievo sottolinea il rapporto virtuoso tra educazione e società. Solo se cresce il singolo, progredisce la comunità. Giustamente Allievo ricorda che «La personalità umana giustamente intesa ed educata a dovere porta la floridezza sociale»367. La scuola non poteva, tuttavia, essere vista come funzione della società, e soprattutto del suo potere politico368. Il controllo sociale esercitato mediante la scuola rischiava di tradire il principio della personalità369. Il legame con la vita e l’unità dell’educazione, doveva essere corroborato da una stretta collaborazione tra gli istituti scolastici e la famiglia. Per questa ragione propone l’abolizione dei convitti, preferendo che gli allievi restassero nella loro famiglia370. In caso di necessaria lontananza dalla propria casa, Allievo indica come modello le pensioni libere inglesi in cui gli alunni seppur lontano dalla propria casa vivono con un’altra famiglia, a 364 «Quest’armonia tra la scuola e la società esige che nell’ordinamento delle discipline scolastiche si abbia speciale riguardo a quelle che sono peculiarmente reclamate dallo spirito del tempo, dai bisogni sociali, dall’indole della nazione. Però anche qui non va dimenticato, che la scuola, pur mentre si attempera alle condizioni della società, non debbe servire alle medesime, come se fossero l’ideale supremo e definitivo di ogni umano consorzio» G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 37. 365 G. Allievo, Delle idee pedagogiche presso i greci, cit., p. 103. 366 «Il mio concetto della persona umana, in servigio della quale dico ordinata la scuola, è ben altro dal concetto della natura umana, in cui Rousseau vuole riposto il fine supremo della educazione. Nell’essenza medesima della persona umana, che è intelligenza ed attività volontaria, io scorgo la fonte medesima della socievolezza, ossia la virtù di stringersi in comunanza di intendimenti e di voleri con altre persone, mentre l’autore dell’Emilio reputa le istituzioni sociali natefatte a snaturar l’uomo, spogliandolo dell’unità sua per assorbirlo come parte nel tutto» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 71. 367 Ibid., p. 71. 368 «La scuola non può, non debb’essere una funzione della società, perché ne verrebbe essenzialmente snaturata. Infatti, la scuola è un santuario di persone, ossia di creature intelligenti e libere, e non già una agglomerazione di bruti o di cose. Ora la persona non è uno strumento ai voleri altrui, ma è una creatura sacra, fornita di diritti, che vanno rispettati da qualunque potere sociale, da qualunque autorità umana, il diritto all’esistenza, alla verità, alla felicità, alla virtù, sicché se ad esempio la prosperità di un popolo intiero costasse la schiavitù o la distruzione di una sola creatura umana, già per ciò stesso dovrebb’essere detestata come un delitto. Orbene, ponete che la scuola sia una funzione,una proprietà, un’appartenenza della società e soggiaccia al suo assoluto dominio, e allora gli alunni non verranno più educati siccome persone, che appartengono a sé stesse, ed ordinate ad un fine, da cui hanno diritto di non essere deviate, bensì come mancipii del volere sociale, come cose o strumenti in servizio della società» G. Allievo, La nuova scuola pedagogica ed i suoi pronunciamenti, cit., p. 23. 369 «L’individualismo egoistico ed il socialismo oppressivo sono due estremi, che contraddicono agli intendimenti della natura, la quale mentre chiama gli uomini alla convivenza sociale, vuole ad un tempo salva la personalità di ciascuno». G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, cit., p. 99.  370 G. Allievo, Studi pedagogici, cit., pp. 333-335. 98  volte la stessa dei propri insegnanti. Ciò aiuta a supplire la funzione dei genitori, che deve rimanere un paradigma. Non è un caso che parlò della scuola come «seconda famiglia»371. In merito all’organizzazione della scuola avanzò una serie di proposte. Sosteneva il primato degli asili italiani rispetto a quelli fröbeliani372, auspicava una scuola elementare unica senza distinzione di censo373, mostrandosi fortemente preoccupato per una divisione della scuola classista374. Propose la fusione del ginnasio con la scuola tecnica per rimandare la scelta della scuola superiore di tre anni, ipotizzando così la nascita di una scuola media unica. Sostenne il valore dell’educazione classica, un insegnamento della filosofia armonico con le altre discipline, un più ampio spazio alla storia italiana. Della scuola superiore critica l’eccessivo numero di materie, e il quadro orario troppo lungo. Inoltre contestò i criteri di valutazione negli esami, nei quali si preferisce la quantità alla qualità degli apprendimenti, inducendo ad una mentalità enciclopedica e non critica. Anche per questo motivo propone di eliminare la Giunta centrale per gli esami di licenza liceale. Per quanto riguarda le scuole normali prospetta un quadro orario in cui si affermi il 371 G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 86. 372 «I nostri asili infantili sono una creazione del genio nazionale e per un trentennio conservarono la loro originale impronta. Verso il 1860 entrarono in lotta coi seguaci della scuola germanica, che insorsero coll’intendimento di atterrarli e sulle loro rovine costrurre i giardini fröbeliani. I novatori lottarono e lottano tutt’ora coll’opera e colla parola, nelle Conferenze pedagogiche e nei privati convegni, con ardore sempre vivo, invocando ben anco in loro aiuto la potenza ministeriale (Vedi l’opuscolo Società dei giardini d’infanzia di Udine, ecc. Udine, 1981, pag. 24). Ed il Ministero non nascose la sua simpatia pel fröebelismo. Già nel regolamento del 188°, all’art. 28, esso sostituiva alla denominazione asili d’infanzia il vocabolo giardini; poi impose ai professori di pedagogia presso le scuole normali l’obbligo di insegnare alle allieve maestre in teoria ed in pratica il metodo di Fröebel, prescrivendo lo stesso metodo alle scuole italiane aperte all’estero, e nella sua Circolare del 27 gennaio 1889 manifestava l’intendimento di «trasformare man mano i numerosi asiloi, secondo vecchi metodi governativi, in istituti educativi informati a una dottrina che prenda il nome dal Pestalozzi o da Fröebel, o meglio da entrambi; tal fine si può ben dire ci abbia segnata la via, nella quale dobbiamo metterci». Nel fervore della lotta non mancarono valenti istitutori, che, come l’Uttini a Piacenza, il Colomiatti a Verona, la Goretti – Veruda a Venezia, si adopravano con saggio accorgimento a riparare gli abusi ingenerati nelle scuole aportiane da sbagliate applicazioni pratiche, ad adempiere i difetti ed introdurvi le ragionevoli migliorìe, pur conservando intatto il principio interiore della loro origine» Ibid., pp. 127-128. 373 Attacca quanti volevano fare una scuola per il popolo e una per la classi agiate e scrive: «Quindi si fa necessaria una scuola, la quale abbia appunto per iscopo di fornire quella coltura, la quale occorre a tutte le classi sociali senza riguardo ed eccezione di sorta. La scuola che risponde a questo fine universale è appunto la scuola elementare, così denominata, perché ha per oggetto gli elementi della coltura umana. Da questo suo concetto si scorge che essa non ammette disparità tra i figli dell’operaio e i figli del facoltoso, perché la coltura primordiale è la stessa per tutti: non deve mirare agli uni piuttosto che agli altri, ma va ordinata in servigio di ambedue: essa è ad un tempo democratica ed aristocratica, rurale ed urbana, popolare e borghese» Ibid., pp. 139-140. 374 «Alle corte, intendete voi che la scuola elementare accolga a comune ammaestramento i figli di tutte le classi sociali, o quelle soltanto della classe operaia? Nel primo caso, la trasformazione, che propugnate, non più ragione di essere: nel secondo caso, create un dualismo irragionevole» Ibid., p. 140.  99  «primato» alla pedagogia, mentre nei licei, legandosi ad una battaglia tipica di quegli anni, fu fautore della centralità della filosofia375. Da un punto di vista metodologico richiama alla necessità di conoscere le facoltà psicologiche dell’allievo e denuncia l’ignoranza della classe magistrale su tali tematiche. Gli insegnanti sembrano essere più preoccupati di offrire agli alunni conoscenze precise e copiose, rispetto a capire quanto i loro alunni possano imparare. Un altro aspetto avversato dall’Allievo è un’idea caporalesca della disciplina, che dimentica l’importanza della libertà e del consenso per un’educazione efficace. Voleva che la scuola educasse al patriottismo. Ciò non deve far pensare ad un Allievo nazionalista e sciovinista, il pedagogista era però convinto che la scuola dovesse difendere la tradizione, la cultura e la filosofia italiana376, di cui i giovani avrebbero dovuto acquisire consapevolezza e orgoglio. Inoltre considerava importante l’assimilazione dell’idea di nazione, intesa come comunità a cui appartenere e da servire. Per questo propose di sostituire all’ «educazione civile», la materia di «educazione italiana». Riguardo al tema dell’obbligo scolastico, che coinvolse il dibattito pedagogico durante la costruzione del sistema scolastico nazionale, Allievo si oppose alla sua applicazione, perché lo considerava illiberale. Il pedagogista non intendeva restringere il diritto all’educazione ad un’élite, ma riteneva che l’obbligo non fosse un mezzo adatto per la diffusione dell’istruzione e dell’educazione377. Egli era altresì convinto che bisognasse convincere alla scuola e non costringere378. Come non si possono obbligare le persone ad essere virtuose o a lavorare, così non le si può costringere ad istruirsi, mentre può moltiplicare le scuole e formare bravi insegnanti che attirino le famiglie ad iscrivere i figli nelle scuole379. Dove c’è costrizione, secondo l’Allievo, non può esserci una vera educazione. I. 9. La libertà d’insegnamento e la riforma della scuola 375 «Nelle scuole normali spetta alla pedagogia il posto supremo ed intorno ad essa vanno coordinate tutte le altre materie. Nei licei la filosofia deve tenere il campo, siccome quella, che in virtù del suo carattere universale è atta a collegare in armonico accordo tutte le altre discipline» Ibid., p. 116. 376 Cfr. G. Allievo, Studi pedagogici, cit., p. 36. 377 G. Allievo, Dell’istruzione obbligatoria, Torino, Tipografia Subalpina, 1893, p. 5. 378 Sull’argomento, in un saggio cita Lambruschini, che in una relazione presentata al Ministro Berti scrisse »L’istruzione e l’educazione son cosa di sì alto ordine, e così degna di essere desiderata e cercata per se medesima, che la violenza nell’imporle ne scema il pregio agli occhi si chi deve riceverle, e ne spegne l’amore. Da un altro canto, comechè si adoperi il Comune acciocchè l’istruzione sia ricevuta da tutte le famiglie, non riuscirà mai nell’intelletto, se nelle famiglie non nasce l’amore dell’istruzione”, dopo di ciò commenta “In Prussia erasi organizzato un sistema di polizia, per cui allorquando un fanciullo si rifiutava di recarsi a scuola, né il padre ve lo mandava egli stesso, un poliziotto lo pigliava a casa e lo trascinava a scuola come un pubblico malfattore» G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 137.  379 G. Allievo, Dell’istruzione obbligatoria, cit., p. 12. 100  Le posizioni di Allievo sulla scuola e sulla libertà d’insegnamento sono state in parte già oggetto di studio380. Si tratta, infatti, di un contributo di rilevante importanza nell’economia delle vicende scolastiche del secondo Ottocento. Le opere più importanti in cui affronta tali questioni sono: L’educazione e la nazionalità (1875)381, La legge Casati e l’insegnamento privato secondario (1879)382, Intorno le scuole normali e gli asili di infanzia fröbeliani (1888)383, Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli, (1889)384, Della istruzione obbligatoria (1893)385 e La scuola educativa (1893)386, poi rivisto e pubblicato nel 1904387. A questi vanno aggiunti altri come: La Riforma dell’educazione moderna mediante la riforma dello Stato (1879)388, Il Classicismo nelle scuole (1891)389, Esposizione critica delle opinioni di illustri pedagogisti intorno il rapporto tra l’educazione privata e la pubblica (1898)390 Delle condizioni presenti della pubblica educazione (1886)391, raccolti negli Opuscoli pedagogici (1909). In realtà, l’intera produzione dell’Allievo è disseminata di richiami e rilievi su tali questioni392. 380 I lavori sinora pubblicati lasciano spazio per ulteriori studi e considerazioni. Il testo di R. Bonghi, Idee di G. Allievo circa la libertà d’insegnamento, «Cultura», n. 19-20, 1889, p. 603, è scritto nel vivo delle polemiche scolastiche del tempo e manca di una necessaria distanza critica e storica; il lavoro di R. Berardi, La libertà d’insegnamento in Piemonte 1848-1859 e un saggio storico di G. Allievo, cit., pp. 60-74, prende in esame una sola opera del pedagogista, vale a dire Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866 (1867), e soffre di una conoscenza parziale dell’opera del pedagogista; il saggio di A. Consorte, Scuola e Stato in Giovanni Allievo, «Ricerche Pedagogiche», n. 12, 1969, pp. 52–65, seppur significativo, approfondisce soprattutto le polemiche tra lo studioso piemontese e l’apparato ministeriale, tenendo peraltro conto solo di alcune sue opere. 381 G. Allievo, L’educazione e la nazionalità, Torino, Tip. del giornale Il Conte Cavour, 1875. 382 G. Allievo, La legge Casati e l’insegnamento privato secondario, Torino, Tip. Salesiana, 1879. 383 G. Allievo, Intorno le scuole normali e gli asili di infanzia fröbelliani, Torino, Tip. Subalpina,1888. 384 G. Allievo, Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli, Torino, Tip. del Collegio degli artigianelli, 1889. 385 G. Allievo, Della istruzione obbligatoria, Torino, Tip. Subalpina, 1893. 386 G. Allievo, La scuola educativa. Principi di antropologia e didattica: pedagogia elementare, Torino, Tip. Subalpina, 1893. 387 G. Allievo, La scuola educativa. Principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., 1904. 388 G. Allievo, La Riforma dell’educazione moderna mediante la riforma dello Stato, Torino, Tip. Subalpina, 1879. 389 G. Allievo, Il classicismo nelle scuole, Torino, Tip. M. Artale, 1891. 390 G. Allievo, Esposizione critica delle opinioni di illustri pedagogisti intorno il rapporto tra l’educazione privata e la pubblica, «Rivista pedagogica italiana», 1-2, 1898. 391 G. Allievo, Delle condizioni presenti della pubblica educazione. Prolusione letta nella R. Università di Torino il 25 novembre 1886, Torino, Tip. Subalpina, 1886. 392 In tutte le opere dell’Allievo sono ricorrenti degli incisi nei quali lo studioso propone parallelismi con le condizioni scolastiche coeve. Il seguente brano pare particolarmente paradigmatico. Dopo aver esposto i caratteri della pedagogia romana, ad esempio, Allievo riporta un passo di una lettera scritta da Plinio il giovane ed indirizzata a Corellia Ispulla, nel quale le suggerisce di scegliere con oculatezza l’insegnante di retorica per il figlio. Subito dopo, Allievo chiosa: «Qual profondo divario tra i tempi di Plinio ed i nostri in riguardo ai pubblici studi! Allora la scuola si muoveva libera da ogni potere governativo, epperò la scelta dei maestri spettava ai genitori come un sacro e coscienzioso dovere. Ora invece lo Stato impone alle famiglie i maestri da lui solo fabbricati ad immagine e somiglianza sua. Una radicale riforma intorno a questo rilevantissimo punto della vita civile e sociale è una necessità pedagogica. La libera attività dei cittadini, su cui posa in gran parte la civiltà moderna, non consente che essi vengano trattati come fanciulli, i quali hanno nel governo il loro supremo educatore ed assoluto maestro. La libertà non è privilegio esclusivo di nessuno.  101  Il problema della libertà d’insegnamento occupa un posto privilegiato nell’opera di Allievo. Quest’attenzione è indubbiamente legata all’evoluzione del sistema scolastico italiano, di cui il pedagogista vercellese denunciò la deriva monopolistica ed un assetto contrario alla libertà d’insegnamento. Stando allo studioso, tali politiche avevano profonde radici filosofiche e pedagogiche. In particolare, erano la conseguenza da una parte della crisi del concetto di libertà, e dall’altra, del «mito» dello Stato nato con la modernità. Lo sbriciolamento della metafisica, inaugurato nel ‘600, condusse alla confusione circa l’esistenza e il ruolo della libertà personale. Ciò portò ad una certa sfiducia verso l’iniziativa privata, preferendo al rischio educativo la gestione del processo formativo. D’altra parte con la modernità si impose il profilo di uno Stato simile al «Leviatano» prospettato da Hobbes, nel quale il governo di pochi si arrogava il diritto di fagocitare e sacrificare le singole individualità in nome del bene della collettività. Un «mostro», come lo definì Allievo, ingombrante, fatto di meccanismi politici e burocratici. Da ciò la scuola e l’educazione non erano più considerate una responsabilità della famiglia, ma dello Stato393. Il vercellese definiva questo statalismo anche «socialismo governativo». In una sua opera spiega: «socialismo dico ogni istituzione che la santa autonomia della persona e della famiglia disconosca in qualsiasi modo, rimestando ad arbitrio quella convivenza sociale che ha da posare sicura sulle leggi eterne dell’umanità»394. In un altro saggio commenta: «Socialismo governativo è lo Stato moderno; socialismo pedagogico è l’educazione moderna. Lo vuole la logica, lo proclamano i fatti. Onnipotente è lo Stato? Dunque onnisciente. Creazione sua la società? Dunque suo feudo la scuola. Esso, che si reputa l’umanità, ben può dire di sé: l’educatore sono io»395. Secondo Allievo, da tale pretesa nacque il controllo sul sistema scolastico, sui programmi, sul reclutamento degli insegnanti, sull’organizzazione degli esami, sui libri di testo. La monopolizzazione della scuola era sentita dall’Allievo in modo catastrofico: «Là dove l’educazione propria della famiglia viene sacrificata all’educazione dello Stato, vano è lo sperar bene delle sorti di una nazione»396. Scrive: «Non si dà libero cittadino senza il governo di sé, né si da governo Governi lo Stato le sue pubbliche scuole; ma siano libere le famiglie di associarsi insieme per fondare istituti educativi ed imprimere ad essi un indirizzo rispondente alle loro aspirazioni egualmente che allo spirito del tempo. Così sorgerebbe una nobile gara, da cui la pubblica educazione trarrebbe singolare e felice incremento», in G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 40. 393 Commentando il progetto di legge di Baccelli sul riordinamento degli studi universitari, lo studioso vercellese scrive: «Il Ministro, che l'ha proposto, sente che nella coscienza universale ferve irrefrenabile l'aspirazione alla libertà; ma ad un tempo è imbevuto del dominante pregiudizio, che il Governo è lui il primo e sovrano motore di tutta la vita pubblica e civile, è lui l'unico ed assoluto maestro ed educatore della nazione, che la legge è lui, come Luigi XIV proclamava sé lo Stato» G. Allievo, L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe Allievo, Torino, Tip. Subalpina, 1899, p. 5. 394 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 11. 395 Ibid., pp. 11-12. 396 G. Allievo, G. G. Rousseau filosofo e pedagogista, cit., p. 89.  102  di sé quando lo Stato siede arbitro e donno di tutte le attività umane. Tolta di mezzo l’autonomia personale de’ singoli cittadini anche l’indipendenza della nazione diventa ingannevol menzogna; e verrà giorno in cui suprema battaglia per un popolo quella sarà che esso combatterà non per l’indipendenza dalla straniero, ma dalla statolatria»397. Va notato che nella prospettiva di Allievo, il concetto di Stato è ben separato da quello di Nazione, come giustamente ha rilevato polemicamente la Bertoni Jovine398. Per il pedagogista la Nazione è espressione della civiltà, di valori, di tradizioni, di una storia, mentre lo Stato non necessariamente ne rappresenta e asseconda gli interessi. La famiglia rappresenta il punto di congiunzione tra l’individuo e la Nazione, e ad essa lo Stato deve rispondere nell’organizzazione della scuola. Lo stato è nato per servire la famiglia, e suo compito è garantirne la libertà. Secondo Allievo: «È necessario far penetrare nella coscienza sociale questa gran verità, che principio, cardine e ragion d’essere dello Stato è la famiglia, che fondamento e centro unificatore della vita pubblica e civile è la vita domestica, e che perciò i primi educatori per diritto e per natura sono i genitori, che lo Stato non possiede un diritto pedagogico e scolastico assoluto e supremo, ma relativo soltanto e derivato dalla famiglia»399. Per queste ragioni: «Il Governo non può avere altro diritto scolastico, se non quello, che gli venga implicitamente o esplicitamente consentito dalla famiglia, ciò è a dire un diritto relativo, non assoluto, secondario e non supremo, partecipato e non originario»400. Non sembrano dunque fondate le critiche mosse ad Allievo, circa la connessione tra l’antistatalismo e un presunto individualismo scaturigine del principio della personalità, segnalato da Vidari401. Il pedagogista non professava una totale anarchia in campo educativo, ma esautorava lo Stato dal diritto assoluto sull’educazione. 397 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 18. 398 «Uno dei più forti oppositori della preminenza dello Stato nell’educazione fu Giuseppe Allievo, dell’università di Torino, che svolse il concetto di “nazione” distinguendolo da quello di Stato. Lo Stato non ha alcun diritto ad educare, mentre la nazione che “è lo stesso uomo collettivo”, influisce con tutti i suoi elementi sullo sviluppo dell’individuo; onde nazionalità ed educazione sono due fatti inseparabili. È naturale che fra i più importanti elementi della nazione l’Allievo collochi la religione e la Chiesa pur accettando dagli avversari alcuni elementi più moderni diventati realtà con le vittorie liberali. Con l’esigenza di uscire dal ristretto cerchio della famiglia, si assimila infatti, in questa ideologia, il concetto basilare di patria. Si supera così il punto critico che divideva i liberali dai clericali: “Dio, patria e famiglia” divengono i tre pilastri fondamentali dell’educazione sui quali i cattolici più avanzati e i liberali moderati vi ritrovano la concordia; ma se i clericali assimilavano l’educazione patriottica, esigevano che i liberali accettassero l’educazione religiosa. E questo era possibile perché nonostante la vittoria laicista ottenuta con la legge Coppino, non era mai stata definita la questione dell’insegnamento del catechismo» D. Bertoni Jovine, F. Malatesta, Breve storia della scuola italiana, cit., p. 25. 399 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 43. 400 G. Allievo, La scuola educativa, principi di antropologia e didattica ad uso delle scuole normali maschili e femminili, cit., p. 73. 401 «In fondo l’impronta fortemente individualistica, un po’ derivata dal principio della persona, ma molto anche da una deficienza del senso della continuità e unità storica nella vita dello spirito, è prevalente in tutta la pedagogia dell’Allievo; e si presenta poi in forma estrema là dove, applicando alla politica e al diritto i  103  Sulla paternità della responsabilità educativa, famiglia o stato, si giocò il dibattito pedagogico sul tema, considerato tale non solo in ambito spiritualista402. Allievo attribuisce alla famiglia la responsabilità educativa. La famiglia è il nucleo che solo può permettere il futuro della Nazione e una vera educazione delle giovani generazioni. Sugli stessi principi, critica aspramente anche Fröbel per non aver riconosciuto il primato della famiglia sulla società.403 Sotto questo profilo sono evidenti i richiami alla tradizione del cattolicesimo liberale, che attribuiva alla famiglia un valore educativo centrale, nelle opere di autori come Berti, Gustavo di Cavour e Rosmini, i quali fondavano la libertà d’insegnamento proprio sul principio della libertà e sul protagonismo educativo della famiglia. Attacca in più di un’occasione gli hegeliani come Spaventa e i positivisti come Siciliani, Angiulli, De Dominicis, considerati fiancheggiatori della statolatria. Il seguente brano lumeggia le sue idee: «Riponendo nella famiglia la suprema autorità scolastica noi ci troviamo collocati nel giusto punto di mezzo tra i due opposti sistemi, dei quali l’uno attribuisce al Governo un assoluto e supremo diritto sopra la scuola, l’altro gli niega ogni e qualunque siasi ingerimento pedagogico. Se lo Stato possiede bensì un’autorità nell’ordine scolastico, ma subordinata a quella della famiglia e de’ privati cittadini, ne consegue che esso deve lasciare luogo alla libertà della scuola, e potersi con questa conciliare. E qui si vede la ragione di ammettere, oltre le scuole pubbliche governative, anche le scuole private, le quali però non devono essere una storpiatura, una copia forzata e stereotipata delle scuole governative, ma hanno diritto di muoversi libere e spontanee dentro un’orbita loro propria. Il libero insegnamento va riconosciuto siccome una delle più splendide forme della libertà politica e civile, che informa la scuola moderna»404. Egli non teorizzava l’anarchia in campo educativo, ma uno Stato meno opprimente e più rispettoso della libertà. Come ha fatto notare Giorgio Chiosso, egli preferiva allo «Stato educatore» uno «Stato regolatore»405. Egli, infatti, non escludeva il controllo dello Stato suoi concetti, arriva a concepire la libertà d’insegnamento in modo essenzialmente antistatale, così da affermare che “lo Stato non possiede un diritto pedagogico e scolastico assoluto e supremo, ma relativo soltanto e derivato dalla famiglia”» G. Vidari, Il pensiero pedagogico italiano nel suo sviluppo storico, cit., pp. 86-87. 402 Non è un caso che la voce “Libertà d’istruzione” curata da Fornari nel Dizionario Illustrato di pedagogia di Credaro e Martinazzoli, che rappresenta uno spaccato della pedagogia italiana di fine Ottocento, introduca il tema con la domanda «A chi appartengono i figlioli?» Cfr. P. Fornari, Libertà d’istruzione, in A. Martinazzoli e L. Credaro (ed.), Dizionario illustrato di Pedagogia, Milano, Vallardi, 1895, vol. II, p. 62. 403 G. Allievo, Delle dottrine pedagogiche di Enrico Pestalozzi, Albertina Necker di Saussure, Francesco Naville e Gregorio Girard, cit., p. 117. 404 G. Allievo, Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli, cit., pp. 24-25. 405 G. Chiosso, Alfabeti d’Italia, Torino, Sei, 2011, p. 93.  104  sull’istruzione406. Nonostante la comune rivendicazione della libertà di insegnamento, le tesi dell’Allievo si discostavano da quelle allora prevalenti nel mondo cattolico, in particolare negli ambienti dell’intransigentismo. In questo caso il principio della libertà d’insegnamento era alquanto strumentale e sostenuto più per ragioni pragmatiche che per la sua validità pedagogica. La vera scuola era quella «cristiana» e in nome di questa si avvertì l’esigenza di creare una scuola cristiana parallela a quella statale, in linea con quella logica «separatista» dal “paese legale” che ebbe largo corso dopo Porta Pia. Per questo motivo era chiaro che una rivendicazione simile sarebbe stata immotivata in uno Stato rispettoso dell’educazione religiosa e cristiana407. Per Allievo invece, la libertà rappresentava un valore effettivo per la scuola. In questo senso contestava la contraddizione di molti sedicenti liberali, che in molti paesi europei negavano la «lotta»408, cioè la concorrenza, proprio in campo educativo. Secondo il pedagogista il concorso di soggetti privati all’istruzione del popolo, il confronto e il «gareggiamento» tra le diverse realtà, rappresentava un volano per il miglioramento della scuola. Per mostrare i vantaggi dell’applicazione di tale principio, Allievo approfondì con appositi studi i sistemi di istruzione di Gran Bretagna e degli Stati Uniti, dove i principali liberali avevano forgiato anche le istituzioni scolastiche. Un altro stato indicato come modello da Allievo per quanto riguarda l’autonomia scolastica è il Belgio, di cui cita ed elogia gli articoli della Costituzione concernenti la libertà d’insegnamento409. Alla realtà educativa degli Stati Uniti dedicò un saggio dettagliato intitolato Dell’educazione pubblica negli Stati Uniti D’America410. In esso sostiene come la peculiarità del sistema scolastico americano fosse la libertà dei cittadini di fondare e 406 Sempre criticando il citato progetto di legge Baccelli sull’Università scrive: «Ecco il primo articolo della sua proposta: “Alle regie Università e a tutti gli altri Istituti d'istruzione superiore è concessa personalità giuridica ed autonomia didattica, amministrativa, disciplinare sotto la vigilanza dello Stato”. È cosa manifesta, che autonomia e vigilanza sono i due concetti supremi, a cui s'informa questo disegno di legge; ma è pur evidente, che il giusto significalo dell'autonomia dipende dai limiti, che vengono segnati alla vigilanza. Che lo Stato vegli, bene sta: ma la vigilanza sua va circoscritta entro determinati confini, sicché non trasmodi in un illimitato ingerimento e soppianti la libertà» G. Allievo, L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe Allievo, cit., p. 5. 407Luciano Pazzaglia ha rilevato come, soprattutto dopo l’Unità, più che la difesa del principio della libertà d’insegnamento in quanto tale, prevalse nella Chiesa la rivendicazione della sua prerogativa educativa. Commentando la significativa allocuzione di Pio IX alla Gioventù italiana del 6 gennaio 1875, lo studioso della Cattolica osserva: «Pur continuando a sostenere la tesi del monopolio educativo della Chiesa e a condannare, parallelamente, la libertà d’insegnamento come principio che mal si conciliava con i diritti della verità di cui solo il magistero sarebbe l’autentico interprete, concedeva che in certe condizioni la libertà d’insegnamento potesse diventare per i cattolici uno strumento essenziale al raggiungimento dei loro obiettivi» in L. Pazzaglia, Educazione e scuola nel programma dell’Opera dei Congressi (1874-1904), in Cultura e società in Italia nell’età umbertina, cit., p. 426. 408 G. Allievo, L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe Allievo, cit., p. 8. 409 G. Allievo, Lo Stato educatore, in Opuscoli pedagogici, cit., pp. 68-69. 410 Il saggio è inserito negli Opuscoli pedagogici, cit., pp. 380-406.  105  mantenere delle scuole. Secondo Allievo ciò permise di far sorgere tantissime scuole pubbliche non statali che hanno accresciuto la vita scientifica e sociale della giovane nazione, che seppur fondata da poco, aveva di gran lunga superato nella libertà e nella preparazione le scuole del vecchio continente. Sostiene inoltre che l’Università americana fosse molto più democratica di quella italiana. Seppur finanziata dalle tasse di tutti i cittadini le Università italiane erano frequentate quasi solo da persone benestanti, a causa delle alte tasse che venivano chieste alle famiglie di studenti. Negli Stati Uniti invece anche se le Università si mantengono quasi esclusivamente sulle tasse degli studenti gravando relativamente poco sui bilanci statali, esistevano numerose borse di studio che permettevano agli studenti capaci, ma con pochi mezzi, di poter frequentare prestigiose Università. Nel testo valorizza anche le «Scuole di scienza» e cioè le Università scientifiche di medicina e ingegneria che si diffondevano nel paese. Gli Stati Uniti erano un chiaro esempio del fatto che il monopolio dell’istruzione fosse in contraddizione con i principi dello stesso liberalismo. Allievo sostiene che «Il libero insegnamento va riconosciuto siccome una delle più splendide forme della libertà politica e civile, che informa la società moderna»411, i liberali italiani erano incoerenti con i loro stessi principi. Scrive su tale contraddizione: «La libertà delle scuole è la suprema necessità del momento, se già non fosse un principio sacrosanto scritto nel codice della civiltà vera; è l’unica tavola di salvamento nel presente naufragio della nostra istruzione. Ma qual è l’opinione dominante su questo vitale argomento? Anche qui dissidio di menti e lotta di idee. Propugnatori del libero insegnamento non mancano, ma ad esso non sanno fare buon viso i novatori e gli iperdemocratici, i quali lo vogliono angustiato in tale strettoie governative da farne un monopolio per sé e per i loro seguaci. Ingrato spettacolo di gente che vela con una mano la statua della libertà dopo di averla coll’altra levata alla pubblica venerazione»412. Ma le posizioni dell’Allievo erano in controtendenza rispetto agli indirizzi del Ministero. La lobby massonico liberale che tenne le fila della Minerva nei decenni successivi all’Unità contrastava la battaglia per la libertà d’insegnamento dietro la quale vedeva la mano della Chiesa preoccupata di non perdere l’egemonia sull’istruzione e sull’educazione, messa in seria discussione dopo l’Unità. L’istruzione pubblica e l’Università resteranno sotto il totale controllo del Ministero, le scuole libere saranno tollerate, ma discriminate sotto il profilo giuridico ed economico. Niente fu fatto per una vera parità nell’erogazione dei titoli di studio, una delle questioni da 411 G. Allievo, Lo Stato educatore, in Opuscoli pedagogici, cit., p. 68. 412 G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., pp. 164-165.  106  cui dipende l’effettiva libertà d’insegnamento. Lo statalismo scolastico, infatti, è primariamente un monopolio di «abilitazioni», controllando le quali il governo «obbliga» e i giovani a frequentare le sue scuole. D’altra parte, costringeva le scuole libere ad adeguarsi ai dettami governativi. In un testo osserva: «Bella concorrenza davvero sarebbe quella di Istituti privati ridotti ad una storpiatura o miserevole copia dei governativi! Bella libertà scolastica quella di chi fosse legato mani e piedi ai ceppi dell'Autorità ufficiale»413. Paradossalmente il percorso di statalizzazione della scuola e di riduzione degli spazi di autonomia per le iniziative educative libere iniziò in un periodo in cui la pedagogia sembrava andare in una direzione opposta. La libertà d’insegnamento fu, infatti, un tema largamente sviluppato nella riflessione cattolico liberale che aveva caratterizzato la stagione risorgimentale. Lambruschini, Rosmini, Tommaseo, Gioberti, con le dovute differenze, auspicavano per lo Stato un ruolo da supervisore nell’educazione pubblica, non quello di gestore e macchinatore dell’istruzione e dell’educazione. Il percorso di statalizzazione tradiva quei principi di libertà caratteristici del clima culturale del ’48. Allievo denunciò questa inversione di tendenza, riprendendo i temi della Società pedagogica: «Il primo Congresso generale tenuto dalla Società in Torino nell’ottobre del ‘49 rivelava in modo solenne l’unità di disegno e l’universalità del concetto che la governava: senatori del Regno e deputati del Parlamento, autorità ministeriali e scolastiche, membri di Accademie scientifiche e reggitori di istituti educativi, professori e dottori di Università e maestri elementari, sacerdoti e laici, esuli degli altri Stati della patria comune illustri per sapere, intelligenti promotori della pubblica educazione, là convenivano a pubblica discussione, e nella arena del dibattimento discendevano insieme affratellati i cultori degli studi classici e speculativi coi maestri dell’istruzione tecnica e professionale, i reggitori di pubblici e governativi istituti scolastici ed i favoreggiatori del privato e libero insegnamento. Così il Piemonte, appena sorto a nuova vita, adoperava in servigio di nobilissima causa il diritto di libera associazione allora sancito nel nuovo Statuto Carlalbertino, ma, prima che negli stati politici, scritto a caratteri indelebili nel gran codice della natura; così esso porgeva uno splendido esempio di attività cittadina e di privata entratura, che sole sanno a tenere a modo la podestà del governo così lesta ad invadere diritti non suoi. E si fosse mantenuta costante quell’attività e quell’entratura privata, e propagatasi più rigogliosa e compatta in tutte le regioni d’Italia! Chè ora la pubblica istruzione del nostro paese non gemerebbe soffocata da alcuni anni sotto lo strettoio del potere esecutivo»414. Già nel saggio sull’hegelismo del 1868 attribuì a 413 G. Allievo, La legge Casati e l’insegnamento privato secondario, cit., p. 8. 414 G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 90.  107  Cavour e al «cavourinismo» la colpa per il profilo illiberale della scuola italiana415. Una simile lettura del pensiero e delle responsabilità dello statista piemontese sembra essere confermata dall’iter della legge Lanza416. Esso quindi vedeva nei principi della legge Casati degli aspetti positivi, poi traditi dalle politiche successive417. I. 10. Le polemiche con la Minerva Il docente dell’ateneo subalpino non si limitò a teorizzare i princìpi intorno a cui si sarebbe dovuta realizzare la libertà scolastica, ma entrò in diretta polemica con gli esponenti politici più o meno «statolatri» che, tra la sua giovinezza e la maturità, governarono il Dicastero dell’Istruzione Pubblica. Qualche anno dopo la laurea, già noto per alcune pubblicazioni, Allievo fu incaricato dal Ministro Berti di scrivere un saggio sulla scuola e la pedagogia italiana in occasione della mostra universale della Arti e delle industrie a Parigi del 1867. Ne uscì il saggio Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866418 (1867), che, tuttavia, non incontrò il parere positivo del ministero, motivo per il quale il libro non fu presentato alla fiera419. Commentando quell’episodio Gerini osservò come mentre il positivismo fosse una dottrina «protetta in alto», «agli avversari della pedagogia spiritualistica furono prodigati tutti i favori del Ministero, a lui l’oblio»420. Le posizioni espresse dall’Allievo, considerando le quali non desta meraviglia la censura ministeriale, sono utili per introdurre le sue critiche alla politica scolastica post unitaria. Già nello scritto del 1867, l’Allievo nel ripercorrere gli anni del riformismo 415 G. Allievo, L’Hegelismo e la scienza, la vita, cit., p. 7. 416 M. C. Morandini, Da Boncompagni a Casati: l’affermazione del modello centralistico nella costruzione del sistema scolastico preunitario (1848 – 1859), in F. Pruneri (ed.), Il cerchio e l’ellisse, centralismo e autonomia nella storia della scuola dal XIX al XXI secolo, cit., p. 50. 417 Tale lettura è confermata in un opera della fine del secolo. Scrive: «Or mezzo secolo fa veniva promulgata la legge pel riordinamento della pubblica istruzione, che ancora oggidì governa il nostro insegnamento universitario. Quella legge porta l'impronta del tempo, che l'ha inspirata, fervido di nobili aspirazioni e di grandi speranze. La libertà non era un nome vano ed illusorio, ma una santa realtà potentemente sentita, lealmente riconosciuta, mirabilmente armonizzata col rispetto dello patrie istituzioni. Gli animi tutti erano assorbiti nella grande idea dell'indipendenza nazionale, e davanti alla coscienza del popolo italiano splendeva l'ideale di un nuovo glorioso avvenire. Ora non ci riconosciamo più. Dal 1859 al 1899 siamo discesi sempre più giù per la china del decadimento. Lo Stato andò sempre più invadendo il campo riservato all'attività dei cittadini comprimendo sotto il suo strettoio le energie individuali» G. Allievo, L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe Allievo, cit., 1899, p. 3. 418G. Allievo, Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866, cit.; poi in G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., pp. 84-168. 419 Lo stesso pedagogista racconta la vicenda in G. Allievo, Della pedagogia in Italia dal 1846 al 1866, cit., pp. 99-100.  420 G. B. Gerini, La mente di Giuseppe Allievo, cit., p. 126. 108  pedagogico subalpino all’origine della riforma Boncompagni del 1848421, lamentava che gli ideali originari – ispirati al principio della libertà scolastica – fossero stati in seguito gravemente compromessi dalle iniziative successive che avevano invece rafforzato il ruolo dello Stato422. Secondo Gerini, l’ostilità del ministero ebbe delle conseguenza nella progressione di carriera dell’Allievo: Straordinario nel 1871, ottenne la promozione ad Ordinario solo nel 1878423. In un’altra occasione sembrò al pedagogista vercellese di aver subito un torto dalle autorità politiche, quando cioè, eletto consigliere comunale, fu volutamente escluso dall’assessorato all’istruzione424. La lettura di Allievo sull’evoluzione del sistema scolastico italiano fu ripresa nel già citato La Legge Casati e l'insegnamento privato secondario apparso nel 1879. In questo scritto l’Allievo denunciava la contraddizione tra le norme a tutela della libertà scolastica prevista dal testo del 1859 e la loro attuazione pratica, sulla base del principio politico secondo cui il Governo «sopravveglia il privato a tutela della morale, dell'igiene, delle istituzioni dello Stato e dell'ordine pubblico»425. Per quanto la Casati riconoscesse l’utilità di una proficua «concorrenza degli insegnamenti privati con quelli ufficiali»426, le norme e gli atti successivi andarono contro questo principio. Per Allievo era evidente che politiche simili fossero dettate dal timore del Clero e della sua presenza educativa, ma ciò non poteva minimamente giustificare la soppressione della libertà427. 421Va sottolineato come il principale redattore del testo legislativo, fu il sacerdote Giovanni Antonio Rayneri. Cfr. M.C. Morandini, Da Boncompagni a Casati: l’affermazione del modello centralistico nella costruzione del sistema scolastico preunitario (1848- 1859), cit., p. 42. 422G. Allievo, La pedagogia italiana antica e contemporanea, cit., p. 90. 423Secondo Gerini, genero dell’Allievo (ne aveva sposato la figlia), curatore di numerosi saggi sul pedagogista, il ritardo non fu casuale. Citando una lettera dello stesso Allievo al ministro De Sanctis e alcune considerazioni di Parato, egli sostiene che ci fu una ostruzione ministeriale alla carriera del vercellese, motivata dal suo credo spiritualista e dalle sue posizioni critiche nei confronti delle politiche ministeriali. Cfr. G.B. Gerini, La mente di Giuseppe Allievo, cit., pp. 10-12. 424 Come racconta Gerini: «Dopo le elezioni amministrative del 1895, essendo riuscito con bella votazione consigliere (il 20° su 80), l’Allievo venne chiamato a far parte della Giunta. Costituita la quale “l’opinione generale e più favorevole, specie nel corpo insegnante di tutti i gradi d’istruzione, dalla elementare alla universitaria, era che nella distribuzione dei varii rami di amministrazione fra gli assessori, al prof. Allievo sarebbe toccato il governo dell’istruzione, essendo egli la persona meglio indicata, per attitudini particolari ben note, a tenerlo: invece venne destinato dal sindaco alla direzione della Biblioteca dei Musei”. Naturalmente l’Allievo con sua lettera in data 5 luglio rinunziava all’assessorato. Il sindaco Rignon, cui non menziono in questo luogo a titolo d’onore, non gli affidava l’ufficio dell’istruzione perché non si conoscevano ancora abbastanza le sue idee intorno al governo delle scuole, pur essendo disposto a commetteglielo quanto avesse avuto campo di far conoscere il suo modo di pensare (Osservatore scolastico di Torino, 13 luglio 1895). Il fatto non abbisogna di commenti. Basti il dire, che qualche tempo dopo il Rignon chiamava all’assessorato dell’istruzione un avvocato, il quale non aveva mai dimostrato d’intendersi d’amministrazione scolastica. – Nelle successive elezioni l’Allievo declinò in modo irremovibile la candidatura» Ibid., pp. 11-13. 425 R. D. 13 novembre 1859, n. 3725, art. 3. 426 G. Allievo, La legge Casati e l’insegnamento privato secondario, cit., p. 12. 427 “La potenza che voi paventate nel clero; non la distruggerete colla forza dei divieti, ma la fortificate colla mostra della persecuzione e colla vostra sfiducia nella libertà. Voi la volete la libertà, ma per voi e per 109   Nell'appendice l’Allievo dimostra tale tesi, analizzando nel dettaglio i diversi provvedimenti elaborati dai successori di Casati, tra cui Natoli, Coppino e Correnti, criticandone lo scarto rispetto ai principi della legge fondativa del ’59. E così icasticamente conclude: «Da vent'anni e più anni la legge riconobbe e sancì il principio del libero insegnamento: da quasi venti anni il Governo continua a misconoscerlo, la burocrazia a manometterlo»428. La stessa lettura dell'evoluzione dell'ordinamento scolastico italiano è confermata in un altro testo di vent’anni dopo429. Un caso esemplare del «tradimento della Casati» riguarda la figura dell’istitutore libero. Come spiega Allievo, secondo la legge: «L’istitutore è governativo o libero, secondochè la scuola, in cui esercita il suo magistero educativo, è retta dallo Stato o da privati cittadini. All’uno il governo prescrive la sostanza e la forma del suo insegnamento, la misura, il procedimento, il criterio direttivo. Dall’altro la vigente legge 13 novembre 1859 esige i titoli, che lo autorizzano, ed il rispetto dell’igiene, della morale e delle patrie istituzioni, epperò la sua libertà non è assoluta; ma non concede al Governo di sindacare, se e quanto, e come egli educhi e insegni; chè altramente la libertà dell’istitutore si risolverebbe in una vana parola»430. Ma alla libertà riconosciuta dalla Casati, conclude l’Allievo, corrisposero norme restrittive che di fatto compromisero l’iniziativa dei liberi insegnanti. Non meno severa era la denuncia dei rischi dell’ingerenza statale sull’identità delle scuole private: «Dalle recenti statistiche – così scriveva nel 1879 – si rileva come gli istituti secondari liberi affidati alle provincie, ai comuni alle corporazioni religiose, ai privati, gareggino per numero con quelli del Governo; il che è splendido argomento del grande amore, che nutrono i cittadini, per l’incremento degli studi e lo sviluppo della coltura sociale; ma non si può non provare ad un tempo un sentimento increscevole e doloroso in veggendo come tanti nobili sforzi vengano in gran parte sciupati dallo smodato ingerimento del Governo, il quale introduce la monotona e rigida uniformità de’ suoi gli amici vostri; a siffatta guisa di libertà anche i vostri avversarii potrebbero fare buon viso, anche la Czar delle Russie: di una veneranda matrona ne avete fatto una brutta ed intollerabile Megera.” G. Allievo, La legge Casati e l’insegnamento privato secondario, cit., p. 28. 428 Ibid, p. 26. 429 Un passo di un saggio del 1899 conferma la lettura di Allievo: «Or fa mezzo secolo fa veniva promulgata la legge pel riordinamento della pubblica istruzione, che ancora oggidì governa il nostro insegnamento universitario. Quella legge porta l'impronta del tempo, che l'ha inspirata, fervido di nobili aspirazioni e di grandi speranze. La libertà non era un nome vano ed illusorio, ma una santa realtà potentemente sentita, lealmente riconosciuta, mirabilmente armonizzata col rispetto dello patrie istituzioni. Gli animi tutti erano assorbiti nella grande idea dell'indipendenza nazionale, e davanti alla coscienza del popolo italiano splendeva l'ideale di un nuovo glorioso avvenire. Ora non ci riconosciamo più. Dal 1859 al 1899 siamo discesi sempre più giù per la china del decadimento. Lo Stato andò sempre più invadendo il campo riservato all'attività dei cittadini comprimendo sotto il suo strettoio le energie individuali» G. Allievo, L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe Allievo, cit., p. 3. 430G. Allievo, La scuola educativa. Principi di antropologia e didattica: pedagogia elementare, cit., p. 86.   110  metodi, de’ suoi programmi, de’ suoi studi là dove dovrebbe lasciare, che si svolga libera, varia e feconda la vita scolastica»431. Ciò dipendeva, a giudizio del pedagogista piemontese, dal monopolio statale dei titoli di studio, mediante il quale il Governo disincentivava l’iscrizione negli istituti liberi. Inoltre il «pareggiamento» delle scuole libere, condizione per erogare titoli equiparati a quelli statali, era regolamentato da norme restrittive e obbligava all’omologazione con il sistema statale. Come denunciò il vercellese: «A chiunque si muova fuori dell’orbita degli studi segnata dal Governo, è chiuso irrevocabilmente l’adito alle professioni liberali; potrà procacciarsi una coltura scientifica e letteraria ampia ed eletta per quanto si voglia, ma prima pur sempre di un carattere pubblico e legale, e ridotta ad un puro ornamento dell’animo e nulla più»432. Allievo leggeva bene la situazione della concorrenza tra scuole statali e non statali. La Talamanca, riprendendo il dibattito parlamentare su tali argomenti, fa notare come le scuole private cattoliche avessero un numero maggiore di studenti rispetto a quelle statali. Cita il senatore Menabrea che nel maggio del 1872 fa notare come sui 4136 studenti che avevano sostenuto la licenza liceale, ben 2670 provenivano da scuole private e seminari433. Ma come dimostrano le vicende successive, il sistema nato dalla Casati avrebbe portato, come denunciato dall’Allievo, all’assottigliamento delle scuole private. Sulla volontà del governo di attuare la libertà d’insegnamento è particolarmente significativo un breve saggio dal titolo: L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe Allievo434. Il testo non riporta la data di pubblicazione, ma si può desumere da alcuni brani che sia stato dato alle stampe nel 1899. Allievo critica nel testo della legge una profonda ipocrisia. Da una parte si affermava il principio dell’autonomia, ma nei fatti esso rimaneva un flatus vocis, in quanto veniva contraddetto dal resto della legge. Infatti il progetto non segnava i limiti della “vigilanza” governativa; sanciva che i confini dell’autonomia sarebbero stati in seguito definiti dal Consiglio Superiore e dal Consiglio di Stato (senza contrattazione con gli atenei); affermava che la nascita di nuove Università, Istituti o Scuole d'istruzione superiore, o di Facoltà poteva avvenire esclusivamente per decreto; attribuiva al Ministero il potere di respingere le 431 G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., p. 25. 432 Ibid., p. 25. 433 A. Talamanca, La scuola tra Stato e Chiesa dopo l’Unità, in Chiesa e religiosità in Italia dopo l’Unità (1861-1878), cit., vol. I, p. 365. 434G. Allievo, L’autonomia universitaria proposta dal Ministro Baccelli ed esaminata da Giuseppe Allievo, cit., p. 3.  111  proposte di nomina o di conferma dei professi ordinari e straordinari avanzate dalle Università. In questo modo, ironizza Allievo, «il Governo lascia alle Università il governarsi da sé, purché si governino a modo suo»435. Il pedagogista guarda così al modello medioevale, tornando a contestare l’idea secondo cui gli istituti nascano per legge e non dalla libera associazione436. Conclude citando Villari, correlando la mancanza di autonomia con la crisi dell’Università437. Un altro aspetto che Allievo considerava illiberale e nefasto era il controllo dei libri di testo, con cui il Ministero poteva indirizzare politicamente e culturalmente l’insegnamento. Lo stesso pedagogista pubblicò un pamphlet nel quale difese un saggio di un professore siciliano438 che, stando alla sua narrazione, incorse ingiustamente nella censura ministeriale439 a motivo del suo orientamento filo cattolico440. 435 Ibid., p. 7. 436 «Seguendo l'ordine numerico del disegno di legge, passiamo all'art. 3 che suona cosi: “La creazione di nuove Università, Istituti o Scuole d'istruzione superiore, o di loro Facoltà o sezioni, non potrà avvenire se non per legge”. Anche qui abbiamo un segno del tempo. Sentendo proclamare l'autonomia degli Istituti scolastici superiori, il nostro pensiero corre spontaneo alle gloriose Università medioevali, che sorsero e fiorirono non per decreti di Stato, ma per libero valore di insigni maestri, di studiosi discepoli, di privali cittadini, fervidi amatori della scienza, e ci immaginiamo di essere ritornati a quo' felici tempi di scolastica libertà. Illusione! A nessuno si concede di creare nuove Università, o facoltà universitarie, o Scuole d'istruzione superiore senza il placet regio o parlamentare. Non si osa proclamare francamente e incisamente il principio, già sancito dal Belgio coll'articolo 17 della sua Costituzione: “L'insegnamento è libero; ogni misura preventiva è vietata”» Ibid., p. 7. 437 «Io potrei proseguire più oltre la mia critica, ma dalle poche considerazioni, clic sono venuto fin qui esponendo, emerge, per quel che a me ne pare, la conclusione, clic la proposta autonomia è irretita fra tali e tante strettoie da essere ridotta ad una vana parvenza, mentre la vigilanza dello Stato non ha confini, che la circoscrivano, non ha norme, da cui sia vincolata. 11 segnare i giusti limiti della vigilanza governativa, non è qui luogo da ciò: questo solo panni di potere ragionevolmente affermare, che questo disegno di legge conferisce al Governo poteri assolutamente inconciliabili colla autonomia universitaria veramente intera. Qualche anno fa Pasquale Villari scriveva: “Dal 1850 fino ad oggi, colle libertà, eolie nuove leggi, regolamenti e mutamenti, con nuovi professori italiani e stranieri, noi non siamo ancora riusciti a far nascere nelle nostre Università una vera vita scientifica: esse non rispondono all'aspettazione giustissima del paese. E perché, dimando io? Perché il Ministero arrogandosi il diritto supremo ed assoluto della pubblica istruzione ed educazione, ha governato a sua posta le Università invece di mostrarsi ossequente alla legge del 1850 non mai abolita, informata ai più larghi o giusti principii di libertà /in nota cita il libro di Martelli, La decadenza dell’Università italiana”» Ibid., p. 10. 438Si tratta del libro di G.B. Santangelo, La Famiglia e la Scuola, letture proposte alle allieve delle classi femminili, esercizi fondamentali di lettura, scrittura e calcolo per le bambine, Palermo, Tip. M. Amenta, 1887. 439 G. Allievo, Clericalismo e liberalismo, ossia i libri di lettura del prof. G. B. Santangelo censurati dal Ministero della Istruzione pubblica e difesi da Giuseppe Allievo, Palermo, Tip. delle letture domenicali, 1888. 440 Nella relazione del Ministro in cui si valutava negativamente il testo difeso dall’Allievo, si accusava il libro di un certo «odore di sagrestia». A tale accusa, lo studioso piemontese replicò: «Ah finalmente ecco qui la chiave omerica, che apre l’arcano di una critica spigolistra, permalosa, assassina! L’Autore per ragione pedagogica e per debito di programma ha qua e là nei suoi libri (e non dalla prima all’ultima parola, come, bugiardamente asserisce il Relatore) parlato di Dio e delle cose sante: dunque giù botte da orbo sulla sua mal battezzata cervice! In verità addolora il vedere il Ministero suggellare coll’autorità sua il giudizio di chi parla un linguaggio tanto plateale e lacera il primo articolo dello Statuto fondamentale del Regno e l’articolo 315 della vigente legge organica della pubblica istruzione! Ma già il sentimento religioso è puzza di sagrestia, che ammorba e va proscritto in nome della nuova Igiene! L’Ermenegarda morente del Manzoni sclamava: “Parlatemi di Dio, sento ch’ei giunge”: il moderno epicureo grida: Non parlatemi di Dio, sento che mi si guasta la digestione. Se il Santangelo fosse stato un prete spretato, che avesse gettato il tricorno alle ortiche, o  112  L’unico momento in cui sembrò potersi fermare la parabola monopolistica, fu la nomina a Ministro dell’istruzione del senatore palermitano Perez nel luglio 1879. Il neoministro mostrò la volontà di mettere mano ad una riforma della scuola volta a difendere il principio della libertà d’insegnamento. L’Allievo prese subito le difese del Ministro in un articolo pubblicato nella Gazzetta piemontese del 20 agosto e stese il saggio La riforma dell’educazione moderna mediante la Riforma dello Stato, che trovò l’apprezzamento del neoministro441. Gerini documenta come Perez avesse l'intenzione di chiamare Allievo stabilmente al Ministero, con lo scopo di redigere una riforma della scuola e dell’Università incentrata sulla libertà d’insegnamento e contraria alla deriva monopolistica intrapresa dai suoi predecessori442. L’Allievo fu infatti presto coinvolto nella compilazione di un nuovo Regolamento per la licenza liceale in sostituzione di quello precedente definito dal ministero Correnti nell’aprile 1870. Il nuovo regolamento, nel quale Allievo ebbe «non poca e vivissima parte»443, intendeva ricondurre gli esami di licenza liceale alla loro «primiera forma legale, allorquando l'alunno privato si presentava a sostenerli presso qualunque pubblico liceo dello Stato e senz'obbligo dell'attestato di licenza ginnasiale e del percorso triennio»444. Il suo scopo era quello di restituire più ampia libertà agli studenti delle scuole non statali445. Il pedagogista documentò nel saggio sulla legge Casati come il testo trovò il consenso della maggior parte dei provveditori e dei presidi sui quali era stato fatto un sondaggio preliminare446. Ma il progetto suscitò anche numerose polemiche447. Accusato dagli ambienti liberal-democratici di voler favorire la scuola libera (e quella cattolica in specie), a pochi mesi dal suo insediamento, già nel novembre 1879, il Perez dovette abbandonare il un frate sfratato, che avesse bruciato il convento per andare a godersi la vita, i suoi libri avrebbero incontrato ben altro giudice ed altro mecenate» in G. Allievo, Clericalismo e liberalismo, ossia i libri di lettura del prof. G. B. Santangelo, cit., p. 19. 441 In un autografo del 9 agosto 1879 il Ministro scrisse ad Allievo «...m’accorgo come Ella sia fra quei pochi cui non travolge la mente l’idolatria dello Stato onnipotente e onnisciente» in A. Consorte, Scuola e Stato in Giovanni Allievo, cit., p. 53. 442 G. B. Gerini, La mente di Giuseppe Allievo, cit., pp. 11-12. 443 G. Allievo, La legge Casati e l’insegnamento privato secondario, cit, p. 36. 444 Ibid., p. 35. 445 Così il professore piemontese sintetizza i punti salienti del Regolamento: «Gli articoli più sostanziali di esso Regolamento, che avrebbero radicalmente mutato l'attuale sistema degli esami di licenza, sono: il quinto, che restringe l'esame sulle materie nei limiti, in cui esse furono svolte nel terzo anno, quando si siano superati gli esami di promozione dei due primi anni; il settimo, che lascia libero il candidato privato di iscriversi presso qualunque pubblico liceo del Regno; il nono, che lo proscioglie dall'obbligo dell'attestato di licenza ginnasiale e del percorso triennio; il dodicesimo, che incarica i professori liceali della preparazione di temi per le prove scritte, ed inchiude l'abolizione della Giunta centrale» Ibid., p. 36. 446 Ibid., pp. 36-37. 447 «Eppure quel regolamento era un semplice richiamo alla legge Casati: si intendeva di ricondurre gli esami d licenza liceale alla loro primiera forma legale, allorquando l'alunno privato si presentava a sostenerli presso qualunque pubblico liceo dello Stato e senz'obbligo dell'attestato di licenza ginnasiale e del percorso triennio. E se ne fece una questione di clericalismo, mentre era una questione di legalità» Ibid., p. 35.  113  dicastero448. Il caso sembra confermare quanto annotato da Giuliana Limiti: «Il problema della scuola privata sembra essere fatale per la sorte di taluni ministri della Pubblica Istruzione e qualche volta per la sorte degli stessi governi!»449. Sebbene impossibilitato ad incidere effettivamente negli indirizzi della scuola, la sua collaborazione con il Ministero continuò negli anni seguenti. Come ricorda Prellezo: «nel 1884 esprime il suo parere sui programmi delle Scuole normali; nel 1885 viene incaricato dal Ministro Coppino dell’ispezione delle Scuole normali del Piemonte e della Liguria; nel 1887 lo stesso Ministro Coppino lo chiama a far parte della Commissione reale per il riordinamento della scuola popolare»450. Molto più duro fu il rapporto con il Ministro Paolo Boselli, che guidò la Minerva dal 17 febbraio 1888 al 6 febbraio 1891, durante i due primi governi Crispi. Qualche mese dopo il suo insediamento, Allievo criticò il Boselli a motivo della censura di un testo già citato451. Questo iniziale contrasto probabilmente convinse il pedagogista piemontese, chiamato a far parte della commissione presieduta da Pasquale Villari per stendere i nuovi programmi delle scuole elementari, a non partecipare a buona parte delle sedute. Pesò probabilmente la convinzione di rappresentare un’esigua minoranza all’interno della commissione, formata in larga maggioranza da studiosi di area laicista e positivista. Qualche tempo dopo l’Allievo attaccò più severamente il Ministro con il pamphlet dal titolo Lo Stato educatore ed il ministro Boselli452. Si tratta di un saggio con toni molto 448Così commentò l’Allievo: «Il Ministro Perez, rara avis, ritornando al concetto della legge arditamente si accingeva a spastoiare le scuole private ed a redimere gli istituti governativi da quel formalismo artifiziato e da quel enciclopedismo, che insieme congiuravano a sciupare gl’intelletti giovanili e sfibrare i caratteri. Ma il dio Stato colpiva a mezzo del lavoro la mano ribelle del suo Ministro. La genìa burocratica con ignobili e subdole manovre, la stampa liberalesca con una critica sleale ed assassina lo precipitarono ben presto di seggio miterandolo da clericale! Come avevano adoprato alcuni anni prima verso il Ministro Berti, propugnatore sincero di libertà» in G. Allievo, Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli, cit., p. 4. 449G. Limiti, Momenti e motivi della legislazione sulla scuola non statale in Italia, in S. Valitutti (ed.), Scuola pubblica e scuola privata, Bari, Laterza, 1965, p. 133. 450 J. M. Prellezo, Giuseppe Allievo negli scritti pedagogici salesiani, cit., p. 396. 451Introducendo il lavoro Allievo denuncia: «Questa turba liberalesca altro non vede e non adora che se medesima, e va gridando: l’Italia siamo noi, noi siamo il patriottismo, la libertà, la Costituzione, lo Stato: chiunque non ci appartiene è nemico della patria, chi non è con noi, è contro di noi. Sì, i clericali sono contro di voi, perché i nemici della patria siete voi, voi i demolitori delle franchigie costituzionali e della indipendenza politica, gli oppressori della libera attività dei privati cittadini. Oh benedette rimembranze del 1848, allorchè si vagheggiava, anelando, un ideale di unità e di floridezza sociale, di dignità e di indipendenza nazionale, di vera e larga libertà politica e civile, sorretta dalla religiosità e dall’integrità del costume! In omaggio a quell’ideale languivano nelle carceri del dispotismo austriaco o cadevano decapitati sul palco i martiri italiani; cimentavano sui campi lombardi la vita contro gli stranieri i prodi. Orta quel santo ideale conquistato con inauditi sacrifici di sangue e di danaro, è buttato nel fango da una turba di affamati, di ambiziosi e di settarii» in G. Allievo, Clericalismo e liberalismo, ossia i libri di lettura del prof. G. B. Santangelo censurati dal Ministero della Istruzione pubblica e difesi da Giuseppe Allievo, cit. 452 Solo la prima parte del saggio, intitolata Lo Stato educatore, è stata ripubblicata in G. Allievo, Opuscoli pedagogici, cit., pp. 50-70.  114  aspri, ma composto da critiche precise e circostanziate come è stato notato da Bonghi453. Nel saggio ribadì le accuse al sistema statolatrico italiano e stigmatizzò una serie di provvedimenti emanati dal Ministro: criticò il decreto 9 maggio 1889 il quale prescriveva che, per le sole scuole statali, la licenza elementare fosse titolo sufficiente per l’ammissione alla prima classe del ginnasio e della scuola tecnica; contestò la circolare dell’8 agosto 1889 con cui, in mancanza di maestri legalmente abilitati, dava la possibilità ai militari congedati che avevano superato l'esame prescritto per gli aspiranti sergenti, di insegnare nelle scuole assicurando la metà della copertura con fondi ministeriale, al contrario di quanto avveniva per gli altri insegnanti; protestò contro una circolare ministeriale nella quale, a dispetto dell’art. 325 della legge Casati, s’impediva ai parroci di presiedere gli esami di istruzione religiosa; recriminò che il corso di pedagogia non risultasse tra i corsi obbligatori per il conseguimento della laurea in Lettere e Filosofia454. Criticò, inoltre, i toni di una circolare del 20 febbraio 1889 finalizzata al riordino degli Orfanotrofi e dei Conservatorii e stigmatizzò la «faziosità» con cui il Ministro gestì i trasferimenti tra le diverse Università per influenzare le vicende concorsuali. Questi elementi condussero Allievo a tacciare Boselli di «cesarismo scolastico». In conclusione avanzò una proposta provocatoria e risoluta: «Delenda Carthago. Il ministero della pubblica istruzione va annullato»455. La proposta dell'abolizione del dicastero, peraltro avanzata già in Parlamento il 18 giugno 1867 dal deputato libertario e socialista Salvatore Morelli, non rappresentava in effetti agli occhi di Allievo la condizione ideale per il governo dell’istruzione pubblica, ma costituiva la fatale soluzione alla «metastasi statalista» che soffocava la scuola italiana456. Confermò le stesse posizioni in un 453 Commentando il saggio, il Bonghi osserva: «L’Allievo è professore di pedagogia come tutti sanno, e tanto ha scritto della scienza che professa, e posto molta cura a’ problemi, che vi si trattano, da meritare, di certo, che un suo studio sulla materia dell’educazione, teorica e pratica, non passi inosservato. Quello che annunciamo, è diviso in due parti. Nella prima tratta la questione se e quale parte spetti allo Stato nell’educazione; e viene alla conclusione media e vera, che la suprema autorità scolastica risiede nella famiglia, e allo Stato spetta un ufficio complementare e di vigilanza. La seconda è una critica minuta – e talvolta, il che non è bene, acre – della condotta dell’attuale ministro di Pubblica Istruzione. Né si può negare che una buona parte dele osservazioni sia giusta, e a ogni modo consigliamo il ministro di darvi peso, e non immaginarsi, che, prima o dopo, non ne avranno. Soprattutto le considerazioni intorno al concetto e alla condizione dell’insegnamento religioso nelle scuole elementari, come appaiono nelle più recenti circolari del ministro, ci paion degne ch’egli vi rivolga la sua attenzione» R. Bonghi, Idee di G. Allievo circa la libertà d’insegnamento, cit., p. 603. 454 Sullo stesso tema il pedagogista aveva già scritto un pamphlet: G. Allievo, Il ministro Coppino e la pedagogia, Torino, Borgarelli, 1878. 455 G. Allievo, Lo Stato educatore ed il Ministro Boselli, cit., p. 44. 456 Concludendo il saggio Allievo ricorda la sua fedeltà alle istituzioni dello Stato Italiano: «Pubblicando questo lavoro io non ho inteso di venir meno ala ragionevole riverenza dovuta all'autorità ministeriale; e ne fa prova manifesta il rispetto, che io professo sincero per le leggi dello Stato, per le patrie istituzioni, per le franchigie costituzionali, per la nazionale indipendenza. Ho censurato gli atti governativi adoperando quella crudezza di forma, che risponde alla gravità del male, esercitando un diritto, che lo Statuto conferisce ad ogni libero cittadino, adempiendo un dovere impostomi dalla carità del loco natio e dalla coscienza del mio mandato. Ho parlato il linguaggio dei fatti; ed i fatti li smentisca chi può, li riconosca chi deve.  115  articolo del 1910, intitolato Salviamo la scuola!, nel quale dopo essersi soffermato sulle storture della scuola statale e sul suo ordinamento illiberale ritornò a prospettare la soppressione del Ministero457. Un attacco così diretto non restò senza conseguenze. All’opuscolo del pedagogista replicò infatti un libretto anonimo intitolato Lo Stato educatore – botte di un educatore – risposte di un educato458 che, stando al Gerini, sarebbe stato redatto negli uffici del ministero. La risposta alle critiche è non solo pungente quanto, del resto, le denunce dell’Allievo, ma scade a livello di attacco personale. Oltre a difendere ogni singolo provvedimento annotato dallo studioso vercellese, l’autore si abbandona alla denigrazione della sua attività didattica e scientifica: «Ha una famiglia pedagogica l’Allievo? No. E la ragione è una sola, ed è naturale e chiara, non si può dar famiglia senza amore. Omnia vincit amor. Ma l’Allievo non ha amore, se non verso sé medesimo»459 [...] «Il sentimento che noi scorgiamo nel prof. Allievo non è, no, mal volere; è piuttosto un affetto immoderato che lo muove a far troppo di sé centro a sé stesso; talmente che egli rende, senza forse accorgersene, l’immagine dantesca di cosa che sé in sé rigiri; e rigirandosi, egli nella sua vaga visione si esalta così, che gli par di poggiare su, ad un punto superiore a quello di chi nella scala sociale e nella realtà dei fatti è più alto di lui»460. L’acida polemica continuò con un ulteriore passaggio in una replica dell’Allievo nel breve saggio: Risposte di un educato: un educato. Fin dalla prima pagina lo scritto era poco conciliativo, sia nel difendere le sue tesi sia nel contestare le accuse, così chiosando ironicamente lo statalismo ministeriale: «Beati i popoli (ripiglio io), retti da un governo così raccolto ne’ suoi giusti confini, così ossequiante alle leggi ed ordinato in ogni atto suo, così alieno dallo esclusivismo e tanto rispettoso della libera attività de’ cittadini All'educazione nazionale peggior ventura che quella del Ministero di Paolo Boselli non è toccata mai» Ibid., p. 45 457 «Il dilemma si affaccia irrevocabile. Delenda Carthago! L’abolizione del Ministero di pubblica istruzione si impone imperioso, urgente, indeclinabile. La salute della nostra grande ammalata, che è la scuola, è a questo prezzo. Per questa via sola si giunge a smantellare la roccia della vastissima setta, che impera sovrana alla Minerva. Dacchè il parlamentarismo rasenta la bancarotta, può ben far senza di un Ministero, liberandoci da quella smania di legiferare, da quel subisso di leggi e regolamenti e decreti e circolari scolastiche, che intralciano il regolare processo della pubblica istruzione e comprimono la libertà degli studi» Salviamo la scuola! in «La libertà d’insegnamento. Bollettino trimestrale della “Unione pro Schola Libera”», Torino, Tip. S.A.I.D, n. 2, 1910, pp. 14-15. 458Lo Stato educatore – botte di un educatore – risposte di un educato, Roma, Stabilimento Giuseppe Civelli, 1890. 459 Ibid., p. 54. 460 Ibid., p. 55.  116  segnatamente nel campo pedagogico, che alla famiglia non venga impedito di comporsi nell’ordine suo ed adempiere la sua missione educatrice»461. L’anno seguente tornò a criticare il Ministro Boselli sulle pagine de Il nuovo Risorgimento462. Alle accuse precedenti ne aggiunse altre come quelle circa l’ingerenza della Minerva sulla scuola dell’infanzia, la nomina di un impiegato di biblioteca ad ispettore scolastico di prima classe, e il fatto che «il ministro Boselli con una sua ordinanza deferiva l’anno scorso alle singole Commissioni esaminatrici la proposta dei temi per le prove scritte della licenza liceale, offendendo l’articolo 38 del R. regolamento 23 ottobre 1884 allora vigente»463. Si trattava secondo l’Allievo della persistenza di una serie di «abusi del potere esecutivo», in cui scorgeva il tradimento dello Stato di diritto e della libertà: «L’Italia è tutta infesta da una turba di pseudo-liberali, che la libertà fanno strumento di servitù, e della patria, delle franchigie costituzionali, delle leggi dello Stato si fanno sgabello per salire in alto sitisbondo di dominio e di oro, corrompendo il pubblico costume e le istituzioni politiche e civili della nazione»464. Un altro episodio che segnò lo scontro con la Minerva, risale al pensionamento di Allievo, quando il dicastero era guidato dall’onorevole Credaro. Nel corso del 1912 il pedagogista, ormai anziano e con poche forze, chiese al Ministero che gli affidasse un sostituto. La Facoltà nominò il pedagogista Romano, «ex» spiritualista e cattolico convertito al positivismo. Lo studioso era già stato bocciato in una serie di concorsi per conseguire la libera docenza a Torino, Milano, Palermo e Bologna. A Catania addirittura tutti e cinque membri della commissione esaminatrice diedero esito negativo. La nomina di un candidato simile come suo supplente, peraltro agli antipodi rispetto alla sua linea pedagogica, portò l’Allievo a prendere dura posizione contro la Facoltà e il preside Vidari, e poi a chiedere di andare definitivamente in pensione, per impedire al Romano di insegnare sulla sua cattedra. Raccogliendo una serie di articoli apparsi su giornali e riviste come Italia Reale, L’Unione di Vercelli, Il Momento, Il Corriere d’Italia, I diritti della scuola Studium, fu pubblicato un pamphlet sulla vicenda465. Furono inserite anche due lettere inviate da Allievo a due di queste riviste come ringraziamento della solidarietà dimostrata, e un piccolo scritto dallo stesso pedagogista in cui chiariva ulteriormente i contorni della vicenda. La posizione di Allievo sulla vicenda è molto significativa: 461G. Allievo, Un educato anonimo, Torino, Tip. Subalpina, 1890, p. 7. 462 G. Allievo, Il Ministro Boselli e la legge, «Il nuovo Risorgimento», 1890-1891, pp. 165-172. 463 Ibid., p. 168. 464 Ibid., p. 171. 465 Giuseppe Allievo e la sua cattedra, Torino, Tip. S, Giuseppe degli artigianelli, 1912.  117  emergono sia un vivo attaccamento all’impegno pedagogico e magistrale466, ma anche forti dissidi con l’ambiente universitario. Nelle sue ricostruzioni Allievo attribuì a Giovanni Vidari, allora preside della Facoltà di Lettere e Filosofia di Torino, la responsabilità dello smacco subito467, collegando l’appoggio da parte del preside del Romano e un generale poco rispetto dimostrato anche con altri episodi, in virtù della sua aderenza ai principi spiritualisti e alla sua fede468. Un altro testo in cui attacca il Ministero è il testo Del realismo in pedagogia469, nel quale contesta le posizioni espresse da De Sanctis in uno scritto del 1878 pubblicato ne la «Gazzetta letteraria di Torino», in cui lo statista napoletano sosteneva come la classe magistrale dovesse ispirarsi ad un realismo di impronta pragmatista. L’Allievo era invece convinto che l’anima della scuola poteva essere un solido ideale umano. Senza valori certi, 466 Si tratta di una lettera inviata a l’Unione di Vercelli, per ringraziare delle parole in sua difesa. Scrisse: «Io non sono più maestro. Non è la morte, che mi abbia rapito alla cattedra, ma è qualche cosa di peggio. In questi ultimi anni la mia vita universitaria fu amareggiata da grandi dolori. Pur tuttavia avrei continuato nel mio insegnamento; ma quando mi si volle imposto per supplente un rifiuto di tutti i concorsi universitari, a cui egli si è presentato, esclamai: Basta così; e mi ritirai nel santuario della vita privata, abbandonando alla dimenticanza ed all’oblio quei tra infelici che malignavano sulla mia persona. [...] Abbandono con certo qual rammarico la cattedra, che per più di cinquant’anni mi fu cara compagna di lotta del pensiero, nella conquista della verità, e vedendo scomparire a me d’intorno quella folla sempre nuova di giovani studiosi che nel volgere degi anni veniva ad ascoltare la mia povera parola, mi pare quasi che la mia vita si spenga nell’isolamento. No, non si spegne, ma semplicemente si trasforma. [...] Veggo che la mia più che attuagenaria esistenza volge al tramonto, ma io mi esalto pensando al Divino Maestro, al Pedagogo eterno, al Verbo vivente, al Redentore dell’umanità» Ibid., pp. 6-7. 467 Dopo aver accennato i concorsi falliti da Romano, Allievo commenta l’ultimo a Catania «quest’ultimo poi gli fu veramente disastroso, non avendo riportato nemmeno un voto favorevole. Tanto è che coloro stessi fra i miei colleghi che per lo passato lo avevano sempre protetto e difeso a spada tratta, in faccia a quel disastro esclamarono: È un uomo liquidato! Ma che? Questi medesimi lo proposero per mio supplente e poi riuscirono ad insediarlo sulla Cattedra di Pedagogia da me lasciata vacante. Viva la libertà del dire e del disdire! Il Romano deve il presente suo splendido successo al Presidente Vidari, il quale rifiutando di interpellarmi intorno la scelta del mio supplente, sostenne in Consiglio di Facoltà insieme con sei altri professori presenti all’adunanza (senza contare tre altri, che diedero voto contrario) che fosse proposto il libero docente, fallito in tutti i concorsi universitari di pedagogia specie in quel disastroso di Catania» Ibid., cit., p.12. 468 Allievo riporta nello scritto un brano di una lettera uffficiale scritta da Vidari in occasione delle sue dimissioni, e così la lo commenta: «Egli mi rivolse un saluto perché abbandoni l’Università, ma non aggiunge sillaba, che esprima il menomo rincrescimento di aver perduto in me un collega, e quando presentai le mie dimissioni non mi ha significato il menomono desiderio che fossero ritirate. L’augurio anche’esso mi sa di forte agrume. Che nel placido riposo io possa lungamente deliziarmi nei prediletti miei studi? – Ma questi cari miei studi prendono forma e vita dalla pedagogia italiana tradizionale fondata sul teismo cristiano. Ora questa pedagogia l’avete cacciata via dalla mia Cattedra per fare luogo alla dottrina razionalistica del mio supplente, sicché l’augurio a me rivolto viene a tradursi in questi termini: Deliziati senza fine negli studi tuoi, ma non qui in queste aule universitarie in mezzo a noi e nella realtà della vita sociale, ma in mezzo alle mi- stiche regioni del soprannaturale, nelle sedi beate dei Campo elisi conversando cogli spiriti magni di Ferrante Aporti e di Giovanni Antonio Rayneri. Sì, io serberà sempre viva la mia ragione filosofica sorretta dalla fede religiosa in Cristo; ma voi vi vantate razionalisti e calpestate la scienza collocando sulla cattedra chi non la possiede; voi esaltate la libertà del pensiero, e v’inchinate a tutte le dottrine, fossero pur dissolventi e scettiche: soltanto il pensiero cristiano non trova grazia presso di voi.» Ibid., p. 21. 469 G. Allievo, Del realismo in pedagogia, Torino, Roux e Favale, 1878 inserito in Id., Opuscoli pedagogici, cit., pp. 422-426.  118  si sarebbero abbandonate le giovani generazioni a progetti e prospettive volgarmente materiali e pragmatiste, condannandole all’alienazione. All’inizio del Novecento la battaglia dell’Allievo in favore della libertà d’insegnamento si tradusse – per quanto egli fosse già avanti negli anni – nel sostegno alla fondazione, nel 1907, dell’associazione «Unione pro schola libera. Società nazionale per la libertà d’insegnamento», fermamente voluta da don Giuseppe Piovano e dal prof. Rodolfo Bettazzi, finalizzata diffondere le ragioni della libertà scolastica, contro lo statalismo e i suoi fautori. Allievo fu scelto come «presidente generale effettivo», carica che ricoprì solo per un anno, dopo il quale si allontanò progressivamente dal nucleo direttivo e organizzativo dell’associazione, a cui continuarono a legarlo comunque lo spirito e le motivazioni di fondo. Nel 1910 iniziò ad essere pubblicato anche il Bollettino dell’associazione, La libertà d’insegnamento470, un trimestrale a diffusione nazionale pubblicato inizialmente in circa tremila copie. La nascita e l’attività del sodalizio ebbero notevole risonanza contribuendo a vivificare il dibattito sulla libertà scolastica che stava registrando in quegli anni una notevole ripresa471. In un convegno svoltosi a Genova tra il 28 e il 30 marzo 1908, dal titolo Istruzione ed educazione cristiana del popolo italiano gli eredi dell’Opera dei Congressi, confluiti nelle Unioni Cattoliche, lodarono l’iniziativa dell’Allievo e nella seconda delle tre risoluzioni fu sancito uno stretto rapporto con l’Unione torinese. «La Civiltà Cattolica» – che a lungo aveva praticamente ignorato le tesi dell’Allievo – dedicò al Convegno un articolo, riportando le conclusioni dell’assise cattolica ed encomiando l’operato dell’Allievo e dell’«Unione pro schola libera»472. Appaiono significative le affermazioni conclusive dell’articolo, nel quale si celebrano affianco agli allievi i più importanti rappresentanti del cattolicesimo liberale francese473. 470 G. Chiosso (ed.), La stampa pedagogica e scolastica in Italia (1820-1943), cit., p. 398. 471 G. Chiosso, Gentile, i cattolici e la libertà di insegnamento nei primi anni del Novecento, in G. Spadafora (ed.), Giovanni Gentile. La pedagogia, la scuola, Roma, Armando, 1997, pp. 309-315. 472 Nella seconda delle tre risoluzioni fu scritto che il Congresso «Plaude all’Unione pro schola libera sorta in Torino sotto gli auspici del venerando prof. Allievo, e a tutte le altre istituzioni aventi lo scopo di tutelare i diritti dell’insegnamento libero; Fa voti che l’azione in favore della scuola libera sia efficacemente coadiuvata dai padri di famiglia, dagli insegnanti degli istituti privati e specialmente dall’azione illuminatrice della stampa quotidiana; Delibera di affidare all’Unione stessa l’incarico di studiare ed attuare quei mezzi pratici, che valgano a salvare quanto resta ancora di libertà d’insegnamento nella vigente legislazione e di ottenere dai pubblici poteri quegli immediati temperamenti, che servano a sopprimere le più odiose disposizioni regolamentari contro l’insegnamento privato» Il congresso cattolico di Genova, «La Civiltà Cattolica», quaderno 1388, 1908, vol. II. pp. 140-150. 473 Scrive l’autore dell’articolo: «Dopo queste semplici osservazioni intorno alla prima risoluzione, lasciamo ai lettori di apprezzare l’importanza della seconda risoluzione del congresso; in cui si traggono con un senno pratico degno di ogni encomio, le conseguenze legittime del principio fissato nella prima. Quale campo fecondo di attività, non meno benefica che urgente nelle singole deliberazioni di questa seconda  119  Fu a partire da questo periodo che il pensiero pedagogico del pedagogista vercellese iniziò a essere apprezzato e diffuso anche al di fuori del circuito del cattolicesimo liberale. Lo confermano una serie di articoli pubblicati sulla «Civiltà Cattolica»474, l’attenzione delle «Rivista di Filosofia neoscolastica»475, i meriti riconosciutigli da Filippo Meda476, e un celebre saggio di Giuseppe Monti, La libertà della scuola (1928) in cui si trovano citati gli scritti di Allievo e si ricordano le sue battaglie scolastiche477. Nel frattempo Giuseppe Allievo aveva lasciato questo mondo, il 24 giugno 1913.  risoluzione! Le ponderino attentamente i cattolici italiani; i giornalisti, i conferenzieri e gli stessi sacerdoti, in Chiesa e fuori di Chiesa, ne facciano il soggetto del loro apostolato, finché il popolo se ne impossessi e ne sappia fare buon uso specialmente in tempo di elezioni: da ciò dipende la salvezza della gioventù e della patria! Noi ne siamo sì profondamente persuasi, che non possiamo fare a meno di mandare da queste pagine un saluto e un augurio solenne all’Unione pro schola libera di Torino e al suo venerando presidente prof. Giuseppe Allievo, il più illustre pedagogista che oggi vanti l’Italia, degno rappresentante delle tradizioni filosofiche ed educative veramente italiane; la cui fama è pur troppo assai inferiore al merito, perché ingiustamente eclissata dal predominio del positivismo anglo – sassone e teutonico negli atenei e nelle scuole normali del regno. Possa il suo nome tramandarsi ai posteri con quelli del Montalembert, del Falloux e del Dupanloup per la Francia, come simbolo della conquistata libertà d’insegnamento per l’Italia!” Il congresso cattolico di Genova, cit.. pp. 147-148. 474In tre articoli pubblicati nel 1915 sulla pedagogia contemporanea sono citate le opere di Allievo e le sue critiche al positivismo. Cfr: Linee di pedagogia moderna, cFinalità educative, quaderno 1568, 1915, vol. IV, pp. 129-146; L’opera educativa positivista, quaderno 1570, 1915, vol. IV, pp. 397-411. 475 G. Cannella, Opuscoli pedagogici inediti ed editi di Giuseppe Allievo, cMeda, Universitari cattolici italiani, cit., pp. 197-214. 477 G. Monti, La libertà della scuola, principi, storia, legislazione comparata, Milano, Vita e Pensiero, 1928, pp. 4, 7, 206.  Antropologia e di pedagogia nell'Università di Torino Torino,Carlo,Clausen 1896. In un'opera assai importante pubblicata nel 1891 (1) dall'illustre prof. Allievo, della quale ho a suo tempo discorso in questa autorevole Rivista,leggeşi un capitolo inscritto: Prime origini dei problemi psico. fisiologici,checontieneingermelamateria della presente memoria, la quale richiama a sè l'attenzione di tutti coloro che s'interessano dei più gravi problemi della scienza antropologica. Pigliando le mosse dall'origine storica e psicologica dell'Antropo logia,dellaqualedeterminapurei limiti,l’A.poneinsodo ilVero, l'incerto e l'ignoto di questa disciplina, per dichiarare quindi l'ana. logia tra il mondo esteriore della natura ed il mondo interiore dell'anima. Ma se il mondo esterno ed il mondo psicologico interiore si rispecchiano e si rassomigliano sotto certi riguardi, tra l'anima ed il corpo nell'uomo, intercedono analogie assai più intime, spiccate e na• turali, intorno alle quali si trattiene a lungo l'Allievo. Ora uno dei più cospicui punti di corrispondenza tra l'anima ed il corpo si manifesta nel parallelismo di sviluppo attraverso le successive età della vita umana: parallelismo però, che non è nè assoluto, nè continuato,tanto meno poi un'identità. Un'altra corrispondenza è quella che intercede tra la mente sada edilcorposano,tralemalattiedell'anima oquelledel corpo.L'A. (1)Studiantropologici– L'uomoedilCosmo Unvol.in8gr.dipag.450circa Torino Tipogr.Subalpina editrice.  Psicologia. Studi psico-fisiologici. Memoria di GiusePPE ALLIEVO, professore   BOLLETTINO PEDAGOGICO E FILOSOFico. ripone la sanità della mente nell'armonico e regolare sviluppo della medesima,elasanitàdelcorpo,nell'equilibriooperosodelle funzioni fisiologiche. Conseguentemente distingue una duplice specie d'igiene, di patologia e di terapeutica,corrispondenti alle due sostanze componenti l'essere umano.Anche iduestati dellavegliae delsonno sicorrispon dono fra di loro, essendochè su ciascuno di essi le potenze dell'anima elefunzionidell'organismosimostranosottoforme specialiedana. loghe.Lo spiritopoiedilcorpointuttoilcorsoascensivodelloro perfezionamento si prestano vicendevoli uffici, poichè lo spirito deve ai sensi esterni la prima conoscenza del mondo sensibile corporeo; alla parola, che è un segno sensibile ordinato ad esprimere un intel ligibile,losvilnppodelsuopensiero;alla mano (nellacuistruttura Elvezio non dubitava di riporre la superiorità dell'uomo sul bruto) lo strumento della sua attività artistica e morale. Lo spirito alla sua volta ricambia dei suoi servigi ilcorpo,inpalzandolo alla dignità prco pria della persona umana,e conferendogli virtù singolari,assai supe jiori alla sua costitutiva essenza. Iofatti il corpo umano, informato dalla mente che lo governa, è reso capace di compiere azioni a cui non arrivano i corpi dei bruti, sia che venga riguardato nell'intiera compagine del suo organismo, sia che lo si consideri nella speciale struttura delle sue parti e nelle funzioni de'suoi sensi particolari.A questo punto l'A. richiama ad un'ordinata rassegna la molteplice varietà dei fenomeni, che si svol gono nell'interiorità del nostro essere, e che forniscono argomento di una specialedisciplina,lapsico-fisiologia,dellaqualetraccialelinee generali, non senza avvertire che di essa ai nostri tempitrovansicenai nelSaggio sui'principiiedilimitidellascienzadeirapportidelfisico e del morale del Cerice, e più ancora nei Principi generali di psico login fisiologica di Ermannu Lotze. La scienza psico-fisiologica, dice l'A.,suppone come sua condizione la psicologia e la fisiologia e facendo tesoro delle cognizioni che le ammannisce l'unaintorno all'anima umana,l'altra intornoall'organismo corporeo,s'innalza a studiare ilsupremo principio generatore di tutti i fenomeni della vita umana che forma il problema fondamentale di tale disciplina.Ilquale può ricevere due soluzioni principali, secondo che ilprincipio generatore di tutti ifenomeni riponsi in una sostanza o nei fenomeni stessi. Nel primo caso abbiamo il dinamismo; nel secondo il fenomenismo. Il primo può essere mono-dinamismo, se riconduce tutti i fenomeni umani ad una sola sostanza, la quale potendo essere o l'anima od il corpo, bipartisce il mono-dinamismo in animismo e materialismo: duo-dinamismo se pone una differenza essenziale tra ifenomeni mentali ed i fisiologici. Il fenomenismo si bipartisce pure, potendo essere dualistico od e voluzionistico, secondo che riconosce una linea di distinzione trai due ordini di fenomeni, ovvero sostiene che sitrasformano gli uni ne gli altri. Allievo esamina con singolare lucidezza di pensiero e grande chiarezza d'esposizione queste diverse classi di sistemi psico-fisiologici, considerandoli nei loro più noti rappresentanti; ed è degno di consi derazione l'esame della dottrina di Serbatti su questo punto. Venendo allo scioglimento del problema,vuolsi distinguere il duodinamismo esclusivo dal temperato. Ora se il primo non risolve il problema perchè separa l'uno dall'altro idue principii costitutivi dell'uomo, per guisa chel'animarazionaleècausaunicaessasoladituttiesoliifenomeni mentali e non interviene per nulla nella produzione dei fenomeni fisio logiciedanimali,ilprincipiovitalepoièessosolo ilgeneratore dei fenomeni della vita corporea e mantiensi affatto estraneo ai fenomeni mentali; il secondo pel contrario siccome quello che mantiene distinti i due principii costuitutivi dell'uomo, e riconosce ad un tempo la loro vicendevoleinfluenza,talchèifenomenimentalisicompenetrano coi fenomeni animali e si condizionano a vicenda, dà un'equa soluzione al problema. a Cosi, conclude l’A., il concetto della personalità umana, vale a dire di un soggetto sostanziale fornito d'intelligenza e di libera volontà, è il solo,che conciliila molteplicità dei fenomeni coll'unità delloro umano soggetto, sicchè questi due termini nello sviluppo della vita umana, si mantengono indiegiungibili, e si rischiarano l'un l'altro. Su questo concetto si fonda appunto la notissima divisione della psi cologia in empirica e razionale.» Tale è nelle sue linee generali lo studio dell'insigne filosofo subal pino che mostra un ingegno vigoroso sempre ed acutissimo:e siamo certi che l'accoglienza fatta alle altre opere di lai, sarà rinnovata per questa memoria,nella quale si scrutano ipiù ardui problemi della scienza dell'uomo.Giuseppe Allievo. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Allievo” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Allmayer – colloquenza – filosofia siciliana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo Italiano. Grice: “I like Allmeyer; especially his rambles on Roman philosophy when he taught at Rome – ‘La filosofia romana’ has a very datable beginning: that infamous embassy that terrified the old Romans but charmed the younger ones, such as Scipione!” --  Grice: “Due to Gentile, Allmaayer was forced to focus on Italian philosophy, and Gentile allowed him to call Galileo a ‘filosofo’! – Grice: “Allmayer’s pragmatics is Griceian: there is a colloquium, when a ‘soggeto’ empirico recognises another soggesto empirco (il tu del’io) – and they shape a ‘noi’ – for this he appeals to concepts of objectivity as intersubjectivity – If I imply, it is the UTTERE’s expression and implication that is primary, but I INTEND my implicature to be reccognised by the ‘tu’ – and this does not ‘alienate’ my concrete subjectivity – it does not vanish – it is merely re-invoked by the other – ‘invoke’ being a linguistic term – vox –: this is what the ‘assoluto’ stands for, that terrified Bradley!” --  Grice: “I love the fact that Allmayer taught the history of logic, with a focus on ‘stoic’ logic – and it’s only natural that ‘stoicismo’ was his favourite stage in Roman philosophy!” – Grice: “Oddly, Allmayer has a genial commentary on my favourite of Arisotlte’s treatises and the foundation of my method in philosophical psychology – “De Anima””! Fu insieme a Gentile, e altri filosofi, uno degli esponenti di spicco della corrente filosofica detta attualismo. Nacque a Palermo da Giuseppe Emanuele Fazio, originario di Alcamo (ex garibaldino e in servizio presso il Museo nazionale di Palermo) e da Felicina Allmayer, di origine tedesca, ma residente in Italia. Fin da ragazzo si interessò alla storia dell'arte; a 23 anni si laureò in giurisprudenza ma poiché era appassionato alla filosofia, iniziò subito gli studi filosofici e a frequentare la Biblioteca filosofica di Palermo, dove ebbe modo di conoscere Giovanni Gentile.  Nel 1910 l'Allmayer si laureò in filosofia e iniziò la carriera come professore: nel 1914 passò al liceo "Umberto I" di Palermo, dove cominciò la sua ricca produzione saggistica che lo rese famoso in Italia.  La sua carriera continuò a Roma; subito dopo la caduta del fascismo, nel novembre 1943, il Fazio Allmayer fu sospeso dall'insegnamento; per essere reintegrato dopo la fine della guerra.  Dopo un periodo travagliato della sua vita, negli anni Cinquanta riprese la molteplice attività di saggista e critico, oltre che di docente.  Nel 1915 si era sposato con Concettina Carta, con cui ebbe tre figli. Nel 1953, rimasto vedovo, si sposò in seconde nozze con Bruna Boldrini che, conosciuta col cognome acquisito, è stata tra i maggiori critici del Fazio e ne ha promosso un'edizione completa delle Opere (I-XXII, Firenze 1969-1991).  L'Allmayer, colpito da infarto tre anni prima, morì a Pisa nel 1958.  In memoria di questo insigne filosofo e pedagogista di origine alcamese, il Liceo Statale delle Scienze Umane, Economico Sociale, Linguistico, Musicale (ed autorizzato per le Arti coreutiche) è stato intitolato al suo nome.  Carriera 1910: Professore presso il liceo di Matera 1911: professore al liceo di Agrigento, vinse nello stesso anno una borsa di studio per perfezionamento presso l'Roma 1914 docente presso il liceo "Umberto I" di Palermo 1918: libero docente di storia della filosofia a Roma 1919: trasferito a Palermo, fu condirettore del Giornale critico della filosofia italiana, fondato da Gentile e diretto dallo stesso prima di essere ministro. 1921-1922: docente di filosofia presso l'Palermo 1922-1924: docente di storia della filosofia (con corsi su Bacone e sui sofisti e Platone) presso l'Roma, in sostituzione di Gentile e incaricato di pedagogia al magistero di Roma. 1924: collaboratore di Gentile per la riforma scolastica e, con l'incarico di ispettore centrale degli istituti medi di istruzione, ebbe affidata la redazione dei programmi della scuola media. 1925: professore non stabile di storia della filosofia medievale e moderna 1929: ebbe la cattedra di filosofia teoretica in sostituzione di Pantaleo Carabellese 1939: preside della facoltà di lettere 1925-1931: commissario per l'amministrazione straordinaria della sezione arti decorative, annessa alla Scuola artistica e industriale di Palermo dal 1931 in poi: commissario governativo per l'Accademia di Belle Arti. 1943: sospeso dall'insegnamento e reintegrato dopo la fine della guerra 1951: cattedra di storia della filosofia dell'Pisa 1954: direttore dell'istituto di filosofia. Pensiero filosofico Il tramonto del Positivismo e l'amicizia con Gentile lo portarono a un impegno ideologico a favore dell'attualismo che sembrava poter portare a un rinnovamento culturale e civile; secondo l'attualismo, era l'atto del pensare in quanto percezione, e non il pensiero creativo in quanto immaginazione, a definire la realtà.  Assieme a Gentile e Guido De Ruggiero, fu uno dei sostenitori di quell'attualismo che "aveva tutta la seduzione romantica e tutta la fiducia ottimistica a trarre a sé... i migliori dei giovani scontenti, quelli che non si muovevano verso D'Annunzio o Marinetti", e appoggiò apertamente, anche con conferenze, l'intervento dell'Italia nel conflitto mondiale, ma venne riformato alla visita militare.  Nelle parole di Bruna Boldrini, moglie del filosofo, che tendeva a sottolineare la sostanziale autonomia della ricerca del Fazio dalla metafisica di Gentile, il Fazio-Allmayer giunge a giustificare l'esperienza storica come vita concreta, in cui le molteplici e diverse forme confluiscono in un rapporto intersoggettivo, sintesi etico-estetica, nella specificità di ciascuna (p. 35).  D'altronde, anche Benedetto Croce, fin dal 1922, in una recensione del saggio Contributo alla teoria della storia dell'arte (poi in Opere, IV,  103-113), metteva in dubbio che si potesse parlare ancora di idealismo attuale per il Fazio.  Nel secondo dopoguerra, in un momento denigratorio dell'idealismo, e maggiormente dell'attualismo, che era accusato di connivenza col fascismo, la posizione del Fazio fu di aperta difesa dell'attualismo e di un fedele sviluppo del proprio pensiero.  Insegnare è non morire Insegnare vuol dire non morire, ma entrare in un processo di vita che ci precede e ci prosegue nel tempo: su questa certezza di Vito e Bruna Fazio-Allmayer, si basa una spinta pedagogica di tipo socratico, per cui il maestro si sente un uomo tra uomini, lui più esperto, e loro più giovani, ma protesi verso il nuovo.  L'educatore, nel suo farsi persona, diventa storico di se stesso, nel rapporto con i propri alunni li deve riconoscere nella loro singolarità, piuttosto che livellarli. Aprirsi agli altri è il contributo al vivere: allorché viene meno questo senso di solidarietà col tutto, si crea in noi il disagio dell'angoscia.  Quindi il senso della vita è quello della speranza e dell'amore: gli altri individui non sono antitetici al proprio io, ma un indispensabile sbocco del proprio io. Ognuno di noi si fa compossibile agli altri per ciò che dà e per quello che ripiglia dagli altri, così il particolare si risolve nell'universale e quest'ultimo nel particolare.  Per Vito Fazio-Allmayer la speranza è nella certezza che il futuro è nel presente: sono vecchi, quindi, gli insegnanti che, presi dal passato, trovano disprezzabile tutto ciò che si produce nel presente, e sciocchi i giovani, e sbagliato ogni nuovo pensiero. La scuola è vecchia se non riesce a vedere il mondo nuovo e in rinnovamento; l'insegnante che si racchiude nelle memorie del passato, manifesta la malattia mortale che si chiama vecchiaia.  Fondazione La Fondazione Nazionale "Vito Fazio-Allmayer” è sorta a Palermo nel 1975, creata da Fanny Giambalvo e Bruna Fazio-Allmayer, che venne in Sicilia dalla Toscana per insegnare Filosofia morale e Storia della Pedagogia; tale istituzione è stata fondata per onorare il ricordo del marito e per suscitare nelle giovani generazioni l'interesse per la filosofia.  Opere Su: La Sicile illustrée, articoli e saggi (1905-1908) Su: Rassegna d'arte, articoli e saggi (1905-1908) Studi sul pensiero antico; Sansoni, 1974 Galileo Galilei; R. Sandron, 1911 Galileo Galilei, Palermo, poi in Opere, Galileo Galilei; Sansoni, Novum organum: Bacon, Francis; Laterza & Figli, Dell'anima Aristoteles; Laterza,  la formazione del problema kantiano, in Annali della Bibl. filosofica di Palermo, fasc. I,  43-89, poi in Opere, IV,  191-235) La scuola popolare e altri discorsi ai maestri: Battiato, Introduzione allo studio della storia della filosofia; Zanichelli; Materia e sensazione (Sandron, Palermo, poi in Opere, II) Materia e sensazione; Sansoni, 1969 Introduzione alla filosofia; Sansoni, La teoria della libertà nella filosofia di Hegel (Messina, poi in Opere, XIV) Saggio su Francesco Bacone (Palermo, poi in Opere, XI) Saggio su Francesco Bacone; 1979 Il problema morale come problema della costituzione del soggetto, e altri saggi (Firenze, Le Monnier, 1942, poi in Opere) Il problema morale come problema della costituzione del soggetto e altri saggi; Sansoni, 1971 Il significato della vita; Sansoni, 1955 Il significato della vita; 1988 Divagazioni e capricci su Pinocchio; G.C. Sansoni, 1958 Divagazioni e capricci su Pinocchio; Fondazione nazionale Vito Fazio-Allmayer, Ricerche hegeliane; G. C. Sansoni, 1959 Ricerche hegeliane; Fondazione nazionale Vito Fazio-Allmayer, 1991 Storia della filosofia; G.B. Palumbo, 1942 Storia della filosofia; Sansoni, 1981 I vigenti programmi della scuola elementare: Commento e interpretazione; Firenze, F. Le Monnier, 1954 Morale e diritto; Sansoni, 1955 Discorsi, lezioni; Sansoni, 1983 Saggi e problemi; Sansoni, 1984 Recensioni e varie, 1986 La Pinacoteca del Museo di Palermo e altri saggi; notizie dei pittori palermitani, Palermo, Prolusioni e discorsi inaugurali; Sansoni, Alcune lezioni edite e inedite; Sansoni, Alcune lezioni edite e inedite; Sansoni, 1983 Spunti di storia della pedagogia Moralita dell'arte: rievocazione estetica e rievocazione suggestiva (con 53 postille); Sansoni, Moralita dell'arte e altri saggi; Sansoni. Logica e metafisica; Sansoni, La storia; Sansoni, Lettere a Bruna; Fondazione nazionale Vito Fazio-Allmayer, 1992 Lettere a Gentile; Fondazione nazionale Vito Fazio-Allmayer, 1993 Introduzione allo studio della storia della filosofia e della pedagogia; Sansoni, La teoria della liberta' nella filosofia di Hegel; Giuseppe Principato, Opere; Sansoni, 1969 Commento a Pinocchio; G. C. Sansoni, 1945 Il problema Pirandello; Firenze, Belfagor, 1957 Note //treccani/enciclopedia/vito-fazio-allmayer_(Dizionario-Biografico)/  E. Garin, Cronache di filosofia italiana..., I-II, Bari, ad Indicem; //fazio-allmayer/index//  treccani,//treccani/enciclopedia/vito-fazio-allmayer_(Dizionario-Biografico)/. fazio-allmayer,//fazio-allmayer/index//. Vita e pensiero di V. F., Firenze, Palermo, con  degli scritti del e sul F., alle  A. Massolo: Fazio e la logica della compossibilità, in Giornale critico della filosofia italiana,Luporini, Ricordo di V. F., in Belfagor, Francesco: Intenzionalità ermeneutica e compossibilità nell'attualismo comunicazionale di Vito Fazio-Allmayer: implicazioni pedagogiche; Edizioni della Fondazione nazionale Vito Fazio-Allmayer, A. Guzzo, V. F. e Rossi, in Filosofia, Giornale critico della filosofia italiana, (scritti di G. Saitta, A. Massolo, S. Caramella, F. Albeggiani, M. F. Mineo Fazio, B. Fazio-Allmayer Boldrini); A. Santucci: Esistenzialismo e filosofia italiana, Bologna, Negri, In ricordo di V. F., in Filosofia, XIII (1962),  527-530; E. Garin, Cronache di filosofia italiana..., I-II, Bari ad Indicem; B. Fazio-Allmayer: Esistenza e realtà nella fenomenologia di V. F., Bologna, L. Sichirollo, Filosofia e storia nella più recente evoluzione di F., in Per una storiografia filosofica, II, Urbino  Giambalvo, La metafisica come esigenza in Bergson e l'esigenza della metafisica in V. F., Palermo, Sini: Studi e prospettive sul pensiero di V.F. Allmayer; estratto da "il Pensiero" ist. editoriale Cisalpino, Milano-Varese Atti del 1º Congresso nazionale di filosofia "V. F., oggi", Palermo Atti del Convegno nazionale su l'estetica come ricerca e l'impegno dell'artista nel suo mondo, Palermo  (con interventi di L. Lugarini, U. Mirabelli, L. Russo  Attualismo (filosofia) Giovanni Gentile Guido De Ruggiero Alcamo  treccani, http://treccani/enciclopedia/vito-fazio-allmayer_(Dizionario-Biografico)/. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secolo Pedagogisti italiani Insegnanti italiani del XX secolo Insegnanti italiani Professore. Vito Fazio Allmayer. Allmayer. Keywords: colloquenza, colloquio, dialettica, dialogo, hegel – fascism – he was forced to retire after the fall of fascism, altmeyer wurd allmeier Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Allmayer” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Alminusa – i nobili siciliani – filosofia siciliana – filosofia italiana – Luigi Speranza (Catania). Filosofo italiano. Grice: “Cutelli is like Hart, a jurisprudent, rather than a philosopher!” Si laurea a Catania. Un saggio e il “Patrocinium pro regia iurisdictione inquisitoribus siculis concessa”. Vuole escludere dal "privilegium fori" numerosi delitti come la resistenza a pubblico ufficiale, ed omicidio anche tentato.  Altro saggio: “Codicis legum sicularum libri quattuor” dove manifesta un'idea di politica amministrativa che mira a creare un centro unificatore e un ministro superiore, cui fosse affidato il compito di amministrare e dirigere la monarchia, ottenendo il rilancio economico, la riduzione delle spese e il riequilibrio del conto fiscale. Si recò a Napoli. Acquista il feudo di Mezza Mandra Nova.  Altro saggio: “Catania restaurata”. Altro saggio: “Supplex libellus.”Acquistò il feudo di Alminusa e il borgo già creato da Giuseppe Bruno, figlio del fondatore Gregorio, per atto del notaro Pietro Cardona di Palermo. Ad Aliminusa dota la chiesa di Santa Anna e stabilisce un legato di maritaggio di dieci onze l'anno in favore di una figlia dei suoi vassalli, come si scorge dal suo testamento redatto innanzi al notaio Giovanni Antonio Chiarella di Palermo. Acquista il feudo di Cifiliana.  Il suo testamento rivela la volontà di destinare una parte dei suoi possedimenti alla fondazione di un collegio d'huomini nobili in cui si dovesse studiare filosofia: il Convitto Cutelli, o Cutelli.A Catania gli sono dedicati una piazza sita sul percorso della centrale via Vittorio Emanuele II e il Liceo Classico "Mario Cutelli".  Dizionario biografico degli italiani.  Una utopia di governo. La formazione dell'élite in Sicilia tra Settecento ed Ottocento. Il "Collegio Cutelliano" di Catania, in "Quaderni di Intercultura". Conte di Villa Rosata. Conte Mario Cutelli di Villa Rosata e signore dell’Alminusa. Alminusa. Keywords: i nobili, i nobili siciliani, homosocialite, boys-only, male-only, Convitto Cutelli, élite filosofica, all-male establishment, Oxford as non-co-educational – the coming of Somerville! – Grice’s play group as an all-male play group, the idea of nobilita, nobility. --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alminusa” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Alopeco – Roma – filosofia italiana – Lugi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), Alopeco was a Pythagorean.

 

Grice ed Altan – soggeto, simbolo, valore – ermeneutica antropologica – filosofia italiana – Luigi Speranza (San Vito al Tagliamento). Filosofo italiano. Grice: “I like Altan; he is of course an anthropologist and not a philosopher, although his first rambles were on Croce and philosophy as synthesis of history! – but then I lectured on Peirce’s misuse of ‘symbol,’ and Altan, not a philosopher, just like Peirce was not – repeats the mistake – Welby should possibly know better – Grice: “Altan fails to explain why the Romans felt the need to borrow ‘symbolum’ from the Greeks, and never return it!” Grice: “The examples in Short and Lewis for the Roman use of ‘symbol’ are extravagant – Peirceian almost!” – Grice: “Altan’s point is that a ‘soggeto,’ to communicate via ‘logos’ with another ‘soggeto’ in a colloquium, must rely on this or that symbol, which means that he must rely on this or that ‘valore’ – and unless you share those values, you don’t quite grasp the implicatum in the use of the symbol.” Nato da un'antica famiglia friulana di San Vito al Tagliamento, Carlo Tullio-Altan è stato uno dei massimi esperti di antropologia culturale in Italia.  Destinato dalla famiglia alla carriera diplomatica, si laurea nel 1940 in giurisprudenza a La Sapienza di Roma con una tesi in diritto internazionale.  Inviato in Albania durante la seconda guerra mondiale, partecipa successivamente alla Resistenza, militando nel Partito d'Azione.  Dopo le vicende belliche, conosce Benedetto Croce grazie a cui fa il suo ingresso nel panorama culturale italiano.  L'incontro con Croce, avvicina il suo pensiero all'idealismo crociano ed allo spiritualismo etico, come testimoniano le sue prime opere di questo periodo. Trascorre quindi, a partire dai primi anni '50, dei periodi di studio e di ricerca a Vienna, Parigi e Londra, dove si accosta pure all'antropologia e all'etnologia.  Dal 1953, grazie all'influsso di Ernesto De Martino, di Remo Cantoni (di cui sarà anche assistente volontario, a partire dal 1958) e di Tullio Tentori, si dedica all'antropologia, secondo un approccio che non si basi esclusivamente sulla ricerca sul campo e l'etnografia ma che faccia soprattutto ricorso al pensiero filosofico, alla storia delle religioni, all'epistemologia, alla sociologia, alla psicologia. Inoltre, influenzato pure dall'opera di Bronisław Malinowski, si oppone allo strutturalismo, aderendo successivamente al funzionalismo nonché a un marxismo mediato dalla scuola francese degli Annales.  Nel 1961, gli viene assegnato, per la prima volta in Italia, l'incarico di insegnamento di Antropologia culturale alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Pavia, successivamente ricoperto alla Facoltà di Sociologia dell'Trento. Poi, come ordinario della stessa disciplina, ha lavorato alla Facoltà di Scienze Politiche "Cesare Alfieri" dell'Firenze e, dal 1978 fino al collocamento a riposo (nel 1991), nella Facoltà di Lettere e Filosofia dell'Trieste, della quale è stato poi nominato professore emerito.  Nel 1987, organizza a Roma, insieme ai maggiori antropologi italiani di allora, il primo "Convegno nazionale di antropologia delle società complesse", che, negli anni, verrà riorganizzato più volte.  Negli ultimi anni, ha vissuto tra Milano e un'antica casa rurale tra Aquileia e Grado, la stessa dove lavora il figlio Francesco Tullio-Altan.  Sulla base della sua iniziale formazione universitaria in discipline storico-giuridiche nonché della sua vasta conoscenza filosofica e culturale, dopo una prima fase di originali ricerche sulla fenomenologia religiosa ed il simbolismo, volge la sua attenzione verso i metodi antropologici applicati all'analisi sociologica, quindi si dedica allo studio dei comportamenti e dei valori della gioventù italiana negli anni '60-'70, che lo hanno poi condotto ad approfondire, da una prospettiva storico-culturale e con una visione alquanto critica, la dimensione identitaria degli italiani.  Altan ha poi cercato di far capire sia all'opinione pubblica che ai politici italiani l'importanza e la necessità di dare al loro paese una "religione civile". In questo progetto, vanno inserite alcune fra le sue opere più recenti come La coscienza civile degli italiani e il manuale di Educazione civica.  L'ultimo periodo della sua attività di ricerca, lo dedicò allo studio delle basilari componenti simboliche dell'identità etnica, concentrandosi, a tale scopo, sulla categoria dell'ethnos, individuandone ed analizzandone le sue cinque principali componenti, ovvero l'"epos" (cioè, la memoria storica collettiva), l'"ethos" (cioè, la sacralizzazione delle norme e delle regole in valori), il "logos" (cioè, il linguaggio interpersonale), il "genos" (cioè, l'idea di una comune discendenza) ed il "topos" (cioè, il simbolo di una identità collettiva comunitaria stanziata su un dato territorio), allo scopo di trovare una possibile soluzione razionale, dal punto di vista dell'antropologia, ai conflitti tra i vari etnocentrismi.  Altre opere: “La filosofia come sintesi esplicativa della storia. Spunti critici sul pensiero di B. Croce e lineamenti di una concezione moderna dell'Umanesimo” (Longo & Zoppelli, Treviso); “Pensiero d'Umanità. Sommario breve d'una moderna concezione speculativa dell'Umanesimo” (D. Del Bianco e Fratelli, Udine); “Parmenide in Eraclito, o della personalità individuale come assoluto nello storicismo moderno, Udine); “Lo spirito religioso del mondo primitivo” (Il Saggiatore, Milano); “Proposte per una ricerca antropologico-culturale sui problemi della gioventù” (Società editrice il Mulino, Bologna); “Antropologia funzionale, Bompiani, Milano); “La sagra degl’ossessi: il patrimonio delle tradizioni popolari italiane nella società settentrionale” (Sansoni, Firenze); “Personalità giovanile e rapporto inter-personale” (ISVET, Roma); “Le origini storiche della scienza delle tradizioni popolari” (Sansoni, Firenze); “Atteggiamenti politici e sociali dei giovani in Italia” (Società editrice il Mulino, Bologna); “I valori difficili. Inchiesta sulle tendenze ideologiche e politiche dei giovani in Italia” (Bompiani, Milano); “Comunismo e società” (Società editrice il Mulino, Bologna); “Valori, classi sociali, scelte politiche. Indagine sulla gioventù” (Bompiani, Milano); Manuale di antropologia culturale. Storia e metodo” (Bompiani, Milano); “Modi di produzione e lotta di classe in Italia” (Arnoldo Mondadori Editore-Isedi, Milano); “Tradizione e modernizzazione: proposte per un programma di ricerca sulla realtà del Friuli, Editrice cooperativa Il Campo, Udine); “Antropologia. Storia e problemi” (Feltrinelli, Milano); “La nostra Italia: arretratezza socioculturale, clientelismo, trasformismo e ribellismo dall'Unità ad oggi” (Feltrinelli, Milano); “Populismo e trasformismo. Saggio sull’ideologie politiche italiane” (Feltrinelli, Milano); “Per una storia dell'Italia arretrata” (Le Monnier, Firenze);  “Una modernizzazione difficile. Aspetti critici della società italiana” Liguori Editore, Napoli); “Soggetto, simbolo e valore. Per un'ermeneutica antropologica, Feltrinelli, Milano); “Un processo di pensiero, Lanfranchi, Milano); “Ethnos e Civiltà. Identità etniche e valori democratici” (Feltrinelli, Milano. Italia: una nazione senza religione civile. Le ragioni di una democrazia incompiuta, IEVF-Istituto editoriale veneto friulano, Udine); “La coscienza civile degli italiani. Valori e disvalori nella storia nazionale, Gaspari Editore, Udine); “Religioni, simboli, società: sul fondamento umano dell'esperienza religiosa” (Feltrinelli, Milano); “Gl’italiani in Europa. Profilo storico comparato delle identità nazionali europee, Il Mulino, Bologna); “Per un dialogo fra la ragione e la fede, Leo S. Olschki, Firenze); “Le grandi religioni a confronto. L'età della globalizzazione, Feltrinelli, Milano); Identità etniche, Una religione civile per l'Italia d'oggi, emsf.rai/biografie/ anagrafico.asp?d=328 Il crogiolo, web. archive.org/web/ /http://emsf.rai/biografie/ anagrafico.asp?d=328; “L'esperienza dei valori”, “Identità etniche e valori universali” web.archive.org/ /http://emsf.rai/ biografie/anagrafico.asp?d=328 Modelli concettuali antropologici per un discorso interdisciplinare tra psichiatria e scienze sociali, in: Psicoterapia e scienze umane, polser.wordpress.com/2009/02/25/carlo-tullio-%e2%80%93-altan-modelli-concettuali-antropologici-per-un-discorso-interdisciplinare-tra-psichiatria-e-scienze-sociali-in-psicoterapia-e-scienze-umane-n-1-Citazioni «Per la destra l'antropologia è roba per selvaggi; la sinistra pensa solo all'economia; altri sono ancorati a schemi anglosassoni, che vedono le strutture politiche come realtà a sé», da un'intervista rilasciata a Paolo Rumiz e pubblicata in La secessione leggera, Roma, Editori Riuniti, 1997202. Note  Cfr. il saggio autobiografico: C. Tullio-Altan, "Un percorso di pensiero", Belfagor. Rivista di varia umanità,  nonché il testo autobiografico Un processo di pensiero, Lanfranchi Editore, Milano,  Cfr. U. Fabietti, F. Remotti, Dizionario di Antropologia. Etnologia, Antropologia Culturale, Antropologia Sociale, Zanichelli Editore, Bologna, 1997, voce "Tullio-Altan, Carlo"772.  Cfr.//controluce/notizie-old-html/giornali/a14n03/18-culturaecostume-altan.htm  Cfr.//segnalo/TRACCE/ NONPIU/tullio-altan.htm  Frutto di questo nuovo programma di ricerca, fu peraltro la monografia Lo spirito religioso nel mondo primitivo (1960).  Cfr. A. Rigoli, Lezioni di etnologia, II edizione, Renzo e Reau Mazzone editori/Ila Palma, Palermo (IT)/San Paolo (BRA), Cfr. U. Fabietti, F. Remotti, cit.  Fra cui Armando Catemario, Giorgio Raimondo Cardona, Matilde Callari Galli, Vittorio Lanternari, Gavino Musio, Francesco Remotti, Aurelio Rigoli, Luigi Lombardi Satriani, Tullio Tentori.  Cfr. Tullio Tentori, Antropologia delle società complesse, A. Armando Editore, Roma, 1999.  Da un punto di vista storico, è da ricordare come l'antropologia culturale abbia avuto origini giuridiche. Invero, molti dei maggiori antropologi della seconda metà Professoreerano giuristi o, quantomeno, avevano una formazione giuridica. Ciò fondamentalmente è dovuto al fatto basilare per cui nessuna società umana è priva di una qualche forma di diritto, anzi tutte le istituzioni sociali hanno una imprescindibile dimensione giuridica; cfr. U. Fabietti, F. Remotti, cit., voce "Antropologia giuridica".  Cfr. I. Ignazi, "Populismo e trasformismo nell'analisi di Carlo Tullio-Altan", il Mulino. Rivista di cultura e politica. Angioni, "Obituary. Carlo Tullio-Altan: un antropologo "anti-italiano". Familismo amorale e clientelismo tra i mali del Paese", in: Il Sole 24 Ore,  Cfr. Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche   in.  Cfr. C. Tullio-Altan, "La dimensione simbolica dell'identità etnica", in: G. De Finis, R. Scartezzini, Universalità e differenza. Cosmopolitismo e relativismo nelle relazioni tra identità e culture, Franco Angeli Editore, Milano, 1996,  318-339.  Qui, per regola, si intende una norma, in genere non necessariamente codificata, suggerita dall'esperienza o stabilita per convenzione o consuetudine, spesso in riferimento al modo usuale di vivere e di comportarsi, sia individualmente che collettivamente; cfr.   Cfr. C. Tullio-Altan, Ethnos e civiltà. Identità etniche e valori democratici, Giangiacomo Feltrinelli Editore, Milano, 1995, nonché i ricordi di Umberto Galimberti e di Marcello Massenzio comparsi su La Repubblica del 16 febbraio 2005 e reperibili all'indirizzo  Archiviato il 1º marzo  in. Cfr. pure A. Rigoli, cC. Tullio-Altan, Un processo di pensiero, Lanfranchi Editore, Milano, 1992 (testo autobiografico). C. Tullio-Altan, "Un percorso di pensiero", Belfagor. Rassegna di varia umanità, Ferigo, " di Carlo Tullio-Altan", Metodi & Ricerche. Rivista di studi regionali,   Atti del Convegno Storia comparata, antropologia e impegno civile. Una riflessione su Carlo Tullio Altan, Udine-Aquileia, i cui sunti sono stati pubblicati, Liza Candidi, sulla rivista Italia Contemporanea,  243,  (cfr., per esempio, ). Fascicolo speciale dedicato a Tullio-Altan:  16, N. 1, Anno 2005 della rivista Metodi & Ricerche. Rivista di studi regionali.  L'antropologia italiana. Un secolo di storia, Editori Laterza, Roma-Bari, 1985. E.V. Alliegro, Antropologia italiana. Storia e storiografia, SEID Editori, Firenze,. C. Tullio-Altan, C. Signorelli, "A proposito di alcune critiche: dibattito Tullio Altan-Signorelli", in Rivista della Fondazione Italiana dei Centri Sociali, Roma,  A. Forniz, "Il Palazzo Tullio-Altan in S. Vito al Tagliamento: dimore illustri nel Friuli occidentale", in Itinerari. Carlo Tullio-Altan, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Carlo Tullio-Altan, in Dizionario biografico dei friulani. Nuovo Liruti online, Istituto Pio Paschini per la storia della Chiesa in Friuli.  Biografia [collegamento interrotto], su feltrinellieditore. Biografia, su blog.graphe. Convegno in memoriam, su qui.uniud. Ricordo biografico, su controluce. Filosofia Sociologia  Sociologia Categorie: Antropologi italianiSociologi italianiFilosofi italiani Professore, San Vito al Tagliamento PalmanovaAccademici italiani del XX secoloStudenti della SapienzaRomaProfessori dell'Università degli Studi di PaviaProfessori dell'Università degli Studi di Trento. Carlo Tullio-Altan. Altan. Keywords: soggeto, simbolo, valore – ermeneutica antropologica, Croce, filosofia come sintesi, Velia, la porta rossa di Velia, fascismo, ideologia politica italiana, ideologie politiche italiane, simbologia, simbolismo, ermeneutica, mercurio, ermete, mercurio, humano, uomo, umanesimo, Altan e Passolini, Palazzo Altan – Altan nobile friulese, il conte Carlo Tullio-Altan – la etnia friulese, ‘friulese, non italiano’ – dizionario biografico dei friulesi – friul – la lingua friulese – la base romana – la occupazione romana. Aquileia – i friulesi durante il fascismo – contro il friulese, italisazzione – Altan e la resisenza – etnia e italianita, -- romanita ed italianita – friulesita  --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Altan” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Alvarotti – retorica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo italiano. Nacque nell'antica famiglia padovana Speroni degli Alvarotti nel palazzo di famiglia in contrà Sant'Anna. Il padre Bernardino fu archiatra di Leone X, la madre Lucia era esponente dei Contarini. Bambino prodigio negli studi, divenne professore di semiotica a Padova a soli diciotto anni. Dopo pochi anni di insegnamento però decise di approfondire gli studi a Bologna, da Pomponazzi. Alla morte di Pompoazzi, ritornò a Padova dove insegnò per altri tre anni, fino al decesso del padre; dopo di ciò dovette occuparsi attivamente della sua famiglia.  A questo periodo risale la composizione dei dialoghi che verranno pubblicati dall'amico Barbaro con il titolo di Dialogi: sono il “Dialogo d'amore”, “ Della dignità delle donne”; “Del tempo di partorire delle donne” e “Della cura famigliare”; due dialoghi lucianei “Della usura” e “Della Discordia”, seguiti da quello “Delle lingue” e da “Della retorica” e infine quello “Delle laudi del Catajo, villa della S. Beatrice Pia degli Obici e quello Intitolato Panico e Bichi. Questi dialoghi sono le opere più note di Speroni, nonostante siano stati pubblicati a sua insaputa e non siano mai stati riconosciuti, e hanno avuto decine di ristampe nel corso del Cinquecento.  A questo periodo risale anche la composizione del “Dialogo della vita attiva e contemplativa” che non venne però inserito nei Dialogi per motivi tuttora sconosciuti.  Membro dell'Accademia degli Infiammati e amico di Tasso si occupò della revisione della Gerusalemme liberata. Fu autore della Canace, pubblicata a Venezia,  tragedia che darà seguito a un'accesa polemica tra l'autore e Giambattista Giraldi Cinzio.  In seguito intervenne anche nella polemica tra lo stesso Cinzio e Pigna a proposito dell'”Orlando furioso” e del romanzo come genere letterario. Si trasferì a Roma dove divenne amico di Caro. Tornato a Padova compose i “Discorsi Su Alighier”, “Sull'Eneide”; “Sull'Orlando furioso” e il “Dialogo della istoria.” Fu fautore di un classicismo ancor più estremo di quello del vicentino Trissino, cui rimproverava di aver tratto dalla storia e non dalla mitologia il soggetto della sua Sofonisba. Conformemente all'uso greco e, naturalmente, nel pieno rispetto delle unità aristoteliche, si ispirò alle Heroides ovidiane per la Canace.  Fu sepolto nella Cattedrale di Padova negli avelli degli Alvarotti. Nell'andito della porta settentrionale gli venne in seguito eretto un monumento ad opera di Girolamo Campagna.   Sperone Speroni. OOpere di M. Sperone Speroni-degli-Alvarotti tratte da' mss. originali, Marco Forcellini, Venezia, Occhi, Sperone Speroni, in Trattatisti del Cinquecento, Mario Pozzi, Milano-Napoli, Ricciardi, Francesco Cammarosano, La vita e le opere di Sperone Speroni, Empoli, Tipografia R. Noccioli; Francesco Bruni, Sperone Speroni e l'Accademia degli Infiammati, in « Filologia e letteratura », Francesco Bruni, Sistemi critici e strutture narrative (Ricerche sulla cultura fiorentina del Rinascimento), Napoli, Liguori,  Amelia Fano, Notizie storiche sulla famiglia e particolarmente sul padre e sui fratelli di Sperone Speroni degli Alvarotti, in « Atti e memorie dell'Accademia di Padova », Padova, Tipografica G.B. Randi, Amelia Fano, Sperone Speroni, Saggio sulla vita e sulle opere, I, La vita, Padova, Fratelli Drucker, Piero Floriani, I gentiluomini letterati. Il dialogo culturale nel primo Cinquecento, Napoli, Liguori; Adelin Charles Fiorato, Jean-Louis Fournel, Il “camaleonte” e il “cuoco”. Sperone Speroni e la critica del romanzo, in « Schifanoia », Stefano Jossa, Rappresentazione e scrittura. La crisi delle forme poetiche rinascimentali, Napoli, Vivarium,  Stefano Jossa, Verso il barocco. Sperone Speroni e Borromeo (tra retorica e mistica), in « Aprosiana »,  Mario Pozzi, Le lettere familiari di Sperone Speroni, in « Giornale storico della letteratura italiana » Pozzi, La critica fiorentina fra Bembo e Speroni: Varchi, Lenzoni, Borghini, in M. Pozzi, Ai confini della letteratura. Aspetti e momenti di storia della letteratura italiana, Alessandria, Edizioni dell'Orso, Sperone Speroni, volume monografico di « Filologia veneta », Padova, Editoriale Programma, TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Camillo Guerrieri Crocetti, Sperone Speroni, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Sperone Speroni, su sapere, De Agostini.  Luca Piantoni, Sperone Speroni, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Sperone Speroni, su Liber Liber.  Opere di Sperone Speroni, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Sperone Speroni,. Audiolibri di Sperone Speroni, su LibriVox.  Michele Messina, Sperone Speroni, in Enciclopedia dantesca, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Keywords: “Dialogo della lingua”--. Speroni degli Alvarotti. Speroni degl’Alvarotti. Alvarotti. Keywords: retorica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Alvarotti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Amaduzzi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Savignano di Romagna). Filosofo italiano. Grice: “Oddly, I had an occasion to refer to Amaduzzi’s birthplace in my little thing on Caesar crossing the Rubicon!” -- “I love Amaduzzi: he writes about the academy of Paris, and the academy of Berlin, but nothing about the English Acadeemy! He notes that the warrior – against the Trojans, was Echademos – and ‘it is naturally that the first important Accademy was founded in Tuscany, -- since a Tuscan hates a Roman!” –Grice: “Amaduzzi’s hobby was to collect references to ‘accademies,’ – “which are all nonsensical, since only ONE has a ‘rigid’ designation link to EchEdemos!”. Discepolo a Rimini di Giovanni Bianchi (Iano Planco), si trasferì dal 1762 a Roma, dove iniziò la sua attività di ricerca ed erudizione, sia pure tra numerose ristrettezze. Un assestamento nella sua vita si registrerà alla fine degli anni Sessanta del XVIII secolo, come rilevano i diari dei suoi primi "diporti" (gli Odeporici autunnali eruditi), le brevi perlustrazioni compiute nei dintorni della città eterna o comunque entro lo Stato della Chiesa, emblema di un genere letterario di viaggio che mostra chiaramente la sua versatilità di interessi.  Grazie alla protezione del papa Clemente XIV, anch'egli ex allievo di Bianchi, dal 1769 fu professore di lettere greche presso La Sapienza, mentre dal  insegnò al Collegio Urbano. Nel frattempo era anche diventato ispettore della Congregazione di Propaganda Fide, ottenendo da Clemente XIV la carica di soprintendente della relativa stamperia. Con la quale curò la pubblicazione, scrivendone le prefazioni, in particolare di importanti trattati di grammatica di lingue orientali, fra cui l'ebraico, il persiano, l'armeno, il tibetano e perfino il malayalam.  Per i suoi studi ottenne ottima reputazione presso i principali esponenti del panorama culturale settecentesco, entrando in contatto e in corrispondenza, tra gli altri, con Pietro Metastasio, Vincenzo Monti, Carlo Denina, Ippolito Pindemonte, Girolamo Tiraboschi, nonché con Lazzaro Spallanzani.  Fra le sue pubblicazioni spiccano anche dissertazioni di ordine filosofico, che s'innestavano nell'alveo di un illuminismo moderato: infatti, con i «discorsi» su La filosofia alleata della religione e sull'Indole della verità e delle opinioni del 1786 (per i quali fu denunciato all'Inquisizione), i cui temi di fondo erano ispirati al filosofo inglese John Locke, egli cercava di coniugare il sensismo con il cattolicesimo, poiché vedeva nel sensismo un valido approccio alla conoscenza dell'uomo. Vicino alle istanze del giansenismo regalistico, come emerge dalla ultradecennale corrispondenza con Scipione de' Ricci, ebbe parte significativa nella discussione che portò al decreto di soppressione della Compagnia del Gesù.  Si occupa anche di archeologia, curando fra l'altro i “Fragmenta vestigii veteris Romae” -- e la “Raccolta di antichità agrigentine”. In questo ambito s'inscrive l'ampia corrispondenza con l'aquilano Anton Ludovico Antinori. Compose, inoltre, canzoni e rime, e poco prima di morire pubblica anche per la Stamperia del Bodoni a Parma un commentario su Anacreonte.  Fu tra gli accademici dell'Arcadia, con lo pseudonimo di Biante Didimeo.  Opere principali: Dissertazioni – “Dissertazione canonico-filologica sopra il titolo delle instituzioni canoniche De officio archidiaconi, s.e., s.i.l.”; “Donaria duo graece loquentia quorum unum in tabula argentea apud moniales Saxoferratenses S. Clarae, s.e., Roma); “Discorso filosofico sul fine ed utilità dell'Accademie, per i torchi dell'Enciclopedia, Livorno); “La filosofia alleata della religione. Discorso filosofico-politico, per i torchi dell'Enciclopedia, Livorno); “Discorso filosofico dell'indole della verità e delle opinioni, dai torchj Pazzini, Siena); “Carteggi Ad virum clarissimum Janum Plancum archiatrum, et patricium Ariminensem epistola, typis J. Rocchii, Lucae); “De veteri inscriptione Ursi Togati ludi pilae vitreae inventoris epistola, apud B. Francesium, Romae); “Epistola ad Iohannem Baptistam Bodonium qua emendatur et suppletur commentarium de Anacreontis genere eiusque bibliotheca, in aedibus Palatinis typis Bodonianis, Parmae). Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, L. Morelli, Leo S. Olschki, Firenze, Lettere familiari, G. Donati, Accademia dei Filopatridi, Savignano sul Rubicone); Carteggio, M. F. Turchetti, Edizioni di storia e letteratura, Roma); “Curatele Leges novellae 5. anecdotae imperatorum Theodosii junioris et Valentiniani, Typ. Zempelianis, Romae); “Alphabetum Brammhanicum seu Indostanum Universitatis Kasi, (a J. Ch. Amadutio editum), Sac. Cong. de Propaganda fide, Romae); “Alphabetum Hebraicum addito Samaritano et Rabbinico, Sac. Cong. de Propag. Fide, Romae); “Alphabetum veterum Etruscorum et nonnulla eorundem monumenta, Sac. Cong. de Propaganda fide, Romae);  Alphabetum Graecum, Sac. Cong. de Propag. Fide, Romae Alphabetum grandonico-malabaricum sive samscrudonicum, Sac. Cong. de Propaganda Fide, Romae); “Alphabetum Tangutanum sive Tibetanum, Sac. Cong. de Propaganda Fide, Romae); Anecdota litteraria ex mss. codicibus eruta, apud G. Settarium, Romae); “Catalogus librorum qui ex tipographio sacrae congreg. de propaganda fide variis linguis prodierunt et in eo adhuc asservantur, Sac. Cong. de Propaganda Fide, Romae); “Alphabetum Barmanum seu Bomanum regni Avae finitimarumque regionum, typis Sacrae Congregationis de Propaganda Fide, Roma); “Alphabetum Persicum, Sac. Cong. de Propag. Fide, Romae); “Alphabetum Armenum], Sac. Cong. De Propaganda Fide, Romae); “Characterum ethicorum Theophrasti Eresii capita duo hactenus anecdota quae ex cod. ms. Vaticano saeculi 11, Typ. Regia, Parmae); “Alphabetum Aethiopicum sive Gheez et Amhharicum, Sac. Cong. de Propaganda Fide, Romae); Intitolazioni L'Accademia dei Filopatridi di Savignano ha creato nel 1999 il Centro di studi amaduzziani, su proposta di Antonio Montanari, autore di vari testi su Amaduzzi. Tra le principali iniziative del centro:  «Giornate amaduzziane»: una giornata di studi annuale su G. Amaduzzi; «Biblioteca amaduzziana»: la pubblicazione di opere (biografiche e non) su Amaduzzi. Il primo volume è Elogio dell'abate Giovanni Cristofano Amaduzzi di Isidoro Bianchi, la prima biografia scritta sull'abate savignanese. Note  T. Scappaticci,Gli Odeporici di Amaduzzi, in Fra Lumi e reazione. Letteratura e società nel secondo Settecento, Cosenza  G. Moroni, Dizionario di erudizione storico-ecclesiastica,  Venezia, Cfr.Metastasio, Opere,  V, Firenze, A. Cappelli, Del carteggio inedito tra Ludovico Antonio Antinori e Giovanni Cristoforo Amaduzzi. Studi archeologici, Tip. Perfilia, Aquila, L. Spallanzani, Diciassette lettere di Lazzaro Spallanzani all'abate Gio. Cristoforo Amaduzzi per la prima volta stampate, Ditta tip. Conti, Faenza, L'espressione è di Antonio Piromalli.  A. Piromalli, La letteratura calabrese,  I, Pellegrini, Cosenza, G.C. Amaduzzi, Raccolta di antichita agrigentine alle quali si uniscono i disegni del tempio di Teseo in Atene e di quello di Pesto il tutto espresso in 53. rami, Zempel, Roma, A. Cappelli, V. Lancetti, Pseudonimia. Ovvero tavole alfabetiche de' nomi finti o supposti degli scrittori con la contrapposizione de' veri, Milano  G. C. Amaduzzi, Odeporici autunnali eruditi, ovvero diario di un viaggiatore curioso ed erudito,  I, Rubiconia Accademia dei Filopatridi, Savignano sul Rubicone, G. C. Amaduzzi, Rime, G. Donati, Rubiconia Accademia dei Filopatridi, Verucchio, A. Fabi, «Amaduzzi, Giovanni Cristofano», in Dizionario Biografico degli Italiani,  II, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Roma, A. Montanari, Giovanni Cristofano Amaduzzi e la scuola di Jano Planco, Accademia dei Filopatridi, Studi Amaduzziani, III, Viserba di Rimini, A. Montanari, Amaduzzi, illuminista cristiano, «Romagna arte e storia», A. Montanari, Appendice storico-critica in G. C. Amaduzzi, La Filosofia alleata della Religione, rist. an. Il Ponte, Rimini, A. Montanari, Amaduzzi editore a Roma delle Notti di Bertòla. Storia inedita dei Canti clementini, Quaderno, Accademia dei Filopatridi, Savignano sul Rubicone, A. Montanari, Amaduzzi, Scipione De' Ricci ed il ‘giansenismo' italiano, «Il carteggio tra Amaduzzi e Corilla Olimpica, Olschki, Firenze, T. Scappaticci, Fra lumi e reazione. Letteratura e società nel secondo Settecento, Pellegrini, Cosenza 2006. M. Trincia Caffiero, Cultura e religione nel '700 italiano: Giovanni Cristofano Amaduzzi e Scipione de' Ricci, in «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Giovanni Cristofano Amaduzzi, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Giovanni Cristofano Amaduzzi / Giovanni Cristofano Amaduzzi (altra versione) /Giovanni Cristofano Amaduzzi (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di Giovanni Cristofano Amaduzzi, Documenti sui fratelli Amaduzzi sul web. Filosofi italiani Professore1740 1792 18 agosto 21 gennaio Savignano sul Rubicone RomaScrittori italiani del XVIII secolo Linguisti italianiPoeti italiani del XVIII secoloOrientalisti italianiAccademici dell'Arcadia.  Giraian Cristofano Amaduzzi di Savignano fu una delle țeste più filosofiche e veramente erudite delsecolotraq scorso. Nacque di Michele Amaduzzi, e di Caterina Gasperoni. La sua famiglia traeva origine da Longiano, com'egli stesso nella pre fazione del libro intitolato DEVOLUTIO AD S. R. E. afferma = Grato enim animo me ab hoc solo (Longiani) ad Sabinianense traductum recordor, quinimirum exeagenteprogpatussim, cujussintab ipso saeculi XIV initio certissima inter vos incolatus monumenta etc. = Giovinetto amò tanto,oltre l'età, lostudioelafatica,cheilpadrene vennefind'alloraa buonesperanze; e però fu posto fraglialunnidel Seminario di Rimini, ove prese gli ordini clericali. Furono sì rapidi i progressi ch'egli fece, da destare ammirazione grande disè.Compiutalacarrieradegli studii,ed ap presa assai bene lingụa Jatina!eloquenza, eragion poetica uscì del Seminario, e fu nel 1955, e sidiede tutto alla filosofia, fidato alla scorta del famoso dottor Gio. Bianchi, il quale della propria casa, aveva fatto una scuola per chi volesse usarne, ricca di biblioteca, dimuseo,digiornali;ediquantoerada luiprivato LONCIANI DI 1...  procurare a bene del pubblico. Nè solo filosofia, ma lingua greca imparò dal Bianchi, e sì bene da uscirne solenne maestro. Gli piacque anche conoscere le leggi, e però si fece ad udire lezioni dell'avvocato Lelio Pasolini che era pubblico professore di giurisprudenza nella stessa città.Nell'anno 1761 l’abbate Amaduzzi non più discepolo, ma amico e fratello del Bianchi si cessò dalla sua scuola, e poco appresso recossi a Roma; efuappuntonelmaggiodel1762. Appena ebbe preso stanzanella metropoli del m o n do cattolico non è a dire come prestamente desse a conoscere di quale ingegnoera fornito,e come entras se nella grazia dei più distinti personaggi che al lora quivi mostravansi. E a ciò gli valse specialmente la benevolenza e la protezione del magnifico Gaetano Fantuzzi, cui non so se la porpora de cardinali desse o ricevesse più splendore: perocchè egli nella sua vita. fututtoinproteggere gliuominidotti,e,fattanerac colta presso di sè,giovarli d'ogni maniera conforti, e quel che più è,senza pompa di fasto in mezzo ad una vitaillibataemodesta.E perchèiomivogliadimol tialtri tacere,non passerò sotto silenzio i cardinali Boschi, Torrigiani, Borgia, Garampi, Doria, Antonelli,Mare foschi,Zelada,Giovanetti,ilcardinaleduca diYorch, einfineilGanganellichefupoiPapagloriosissimo e de gnodi piùlungo pontificato. Che anziquest'ultimol'eb be fra suoi più cari, e levato alla cattedra di Pietro se ne valse in molte e gravi bisogne. E s'egli avesse più a lungo vivuto, all?abaté Amaduzzi non sarebbeforso mancata eminenzadicaricaparial suo ingegno e dal suo'merito. Ma perrendermial'filodella narrazione dirò che, poichè 14Amaduzzi a più tornate 'ebbe letti discorsi profondamente filosofici e nobilissimi in Arca dia,tuttaRoma fupienadellesuelodi.Egli perassecon dare idesiderii de'suoi genitori, che avrianó voluto far di lui un giureconsulto,poichè non erano giunti adaverlo sacerdote,diemano alla giurisprudenza;ma essendo d'animo sehietto, e nemico di cavilli, e d'in sidieforensi,piùchealfôrositenne,ailibridei gius pubblicisti,esimisea svolgereleoperedel Cujaccio, dell'Alciati,del Gottofredo, del Gravina e di somiglianti, sdegnoso di quell'ammasso informedi leggi,di prati  6   che, di consuetudini sotto cui sovente venivano artata mente sepolte la verità e la giustizia. A prova del profitto che egli fe’in questaragione di studii pub blicò prima d'ogni altra cosa nel 1767 le cinque novelle inedite degli imperatori Teodosio juniore, e Valenti niano terzo, (di cui più appresso avremo a riparlare), nella quale opera non so qualpiùsimostriobuon legista, o critico acuto o profondo archeologo. Nè la sciò aparte gli studii teologici,(perocchè a'suoi pia ceva che ei si guadagnasse alcun impiego ecclesiastico) ecome simanifestaper alcunesueerudite disserta zioni, in breve in questa scienza pure entrò molto i n nanzi. Gli fu maestro il celebre P. Marcelli agosti niano; e tanto s'internò nelle dottrine del gran de dottore s. Agostino, che a difesa delle medesime ebbepiùvoltea combattere.Siconobbepurediquel la parte di diritto, che io dirò sacro perché riguar. da la canonizzazione dei Santi, e si esercitò in più cause, essendo promotori dellaFede monsignor Forti prima, e monsignor Pisani dappoi. M a dove più di forza intese fu nella cognizione de'sacri canoni, indispensabile a chi voglia penetrare nelle ecolesiastiche antichità con sicurezza digiudizio. Belledissertazioni,lequalicomprovanoconoscenza som ma che egli aveva dei canoni,lesse egli nell'accade mia che il sullodato cardinal Fantuzzi aveva formata in Roma de'più chiari personaggi, di cui era protet tore come è detto. Non acquetossi a questi studii la mente dell'Amaduzzi,laquale sentiva d'averforzada stendersi a più largo campo, e però si fece ad ap prendere lalingua ebraica e molte altre orientali,e n’eb be amaestriilTeoli,  l'Eva, ilGiorgi, l'Assemani,cime d'uomini,anzidisapere.Non èmaravigliadopoque sto, seappena scorso un'anno dalla sua venuta in Roma, il cardinal Torrigiani con onorevolissima lette ra dell' 11 novembre 1963 raccomandò l' Amaduzzi al principe di Francavilla, a cui spettava provvedere di custode labiblioteca Imperiali; officioche ben con venivagli,echeavrebbeottenuto,selamorte delmar chese Imperiali non avesse rese vane le premure del V ottimo porporato. In questa occasione ebbe pure una raccomandazionedelducadiParma.Intantol'Amaduzzi  7   In questo mezzo essendo accordatalagiubilazio ne aGio.BattistaGautier,professoreche fudilingua greca nell'Archiginnasioromano,Clemente XIV.di moto proprio glinominòsuccessore1'Amaduzzi,ed egli n'ebbe il diploma. Essendo passato di vi ta l'abbate Barcubaldo Bicci, che aveva la direzione della tipografiadiPropaganda,l'Amaduzziconviglietto, della segreteria di Stato fu nominato a quell?uffizio inluogodel defunto.Equìmipiacenotareunabel lissima lode a,lui doyuta, qual è di aver meritato i primi pensieridelsuoprincipe,edi non averli com perati con viltà di adulazione, o tristo mercimonio di corte. Anche,un altra lode si ebbe l’Amaduzzi, e fu del mostrarsigrato alsuo maestro Jano Planco; peroc che si adoperò onde,avesse grado di Archiatro del Pontefice, e gli siaumentasse l'onorario che aveva in patria, e quel che è più rimarchevole scampasse dal 1'umiliazione di soggiacereallefave annualmente; co sadi rilievoassai,perchè troppo spesso avviene, che nei municipii prevalga il privato risentimento dei yo-  8 non si cessando mai dalle sue erudite occupazioni, ac-. cresceva ad un tempo in sapere, ed in fama. E seb bene avesse a sostenere fin dai primi anni la guer ra degl'invidi, e dei tempi, nimicizie perpetue dei buoni ingegni,pure non ristette perquesto. In una lettera al dottor Giovanni Lami scritta li si luglio 1.768 si legge cosi: = Non godono le nostremuse quella tranquillità, che loro invidia l' infelicità dei tempi che corrono. Pure non ostanteio,che mi pre servo per quei tempi più lieti che spero,non inter metto lemieletterarie occupazioni(Nov. Lett.di Firenze1768).Elettonel15.maggiodel1769.a.Pon teficeMassimo Ganganelli, tutta Roma,che benediluisiconosceva,seneallegro,e piùchemail'A maduzzi,ilqualeebbeascriverepocoappresso= sotto questopontificatocomincianoarisorgerelelettere=.E perchèquellagranmentecheeraPapa Ganganellivede va che il ravvivare gli studii,e gli uomini, che per quelli hanno grido,ristorare, è opera disavio e buon prin cipea questo sivolse,e cercavamodo diprovvederel'A maduzzi per cui aveva speziale stima, e benevolenza. 1.  tanti al bene del pubblico. Quanto poi studiasse por gersi r i conoscent e a l l' immortal suo benefattore Pontefice lo danno a vedere le opere che egli pubblico, e che vanno sì onorateper lo mondo, chenon è permes 80 ignorarle a chi abbia pure attinto a prime labbra glistudiidiantichitàsacrae profana.Lasacracon gregazione diPropaganda volendo dar segno di aggra dimento alle tante fatiche dell'Amaduzzi, gliconferì la cattedra di lingua greca nel collegio Urbano,la qualeera rimastavacante per la morte del celebre. Raffaele Vernazza.Ciò funel:il 27  9 salito, e la grazia dei grandi, bre.Ilgridoincheera,loa parola del vero captivavasi cui egli collasevera avesse per poco posto sì in alto, c h e, se egli vevano, avría posto la mano per piegato alle artidi corte che nome; non letterato che non volesse fortuna.Nonviera accademia trooicapeglidella ne ricercasse,il averloa socio,enon non si onorasse commercio di let;non giornale che non si riputasse tere.coll’Amaduzzi dotti pensieri. Fu ascritto a vanto pubblicare i suoi 6. febbra alla società letteraria de'.Volsci di Velletri Etrusca di Cortona il 5. jo del 1769., all'accademia, alla Fulginea li 29. gennajo aprile col nome di Nestore.1 8. a quella dei Forti in Roma del 1774,e ne scrisse a modo delle dodici ta ottobre col nome di Biante Didimeo voleleleggi;all'Arcadia il 7. febbraro 1775; all'accademia dei Placidi di Re del 1775; alla società georgica dei canati1'8. aprile 1779: all'acca Sollevati di Montecchio  demiarealediScienze,eLetteredi Napoliil5.agosto diVerona il4. giugno del del1779: alla Filarmonica il 7 settem Colombaria diFirenze:alla società degliAffidatidi Pavia il bre del 1785., all'accademia di Dublino li del 1786;alla reale Ibernese 4. giugno anno;alla reale di Scienze 21. novembre dello stesso il30. agostodel 1789. eamolte al eLetteredi Mantova letterarjdi quei giorni. tre.Scriyeva nei migliori giornali Pressocchè tutti gli articoli provegnenti da R o m a senza me d'autore del Lami,le quali furonopoi continuate n o, che leggonsi dal 1760. al 1791. nelle Novel le Letterarie,sono cosa dell’Åmaduzzi. Ebbe anche mole dal Lastri di Palermo,nell'Ef ta mano nelle notizie de’Letterati di novem e n   femeridi letterarie,enell'Antología di Roma,neglian nali ecclesiastici di Firenze. Carteggiava in Italia con tuttiipiùdistinti uominidiqueltempo,fraiquali siami lecito nominare Lami, Bandini, Lastri, Passeri, Olivieri,Mandelli, Vettori,Ferri,Mingarelli,Giovenaz zi, Bianchi, Pietro Borghesi,ePasqualeAmati suoi con cittadini. Fuor d'Italia poi aveva corrispondenza di lettere estesa più che mai, come si può vedere da mol ti volumi che esistono manoscritti nella pubblica li brería di Savignano., Chi potesse, dice ildottissimo Isidoro Bianchi in una nota (36) all'elogio ch'egli scris şe dell'Amaduzzi, raccogliere e regalare al pubblico tutte le lettere famigliari, che il nostro Cristofano ha nel corso della vita iscritte a tanti e così dotti amici d'ognirango,d'ognicondizione,siavrebbecertamen te un'opera di moltissimi volumi, che nel merito su pererebbe forse molte altre, che egli ha vivendo rese pubbliche collestampe;un'opera pienadianeddoti interessantissimi, la quale ci presente rebbela più veridica e genuina storia de'più grandiosi fatti e singola ri avvenimenti, che nel giro di non molti anni si 80 no nel nostro secolorapidamente succeduti.Gli ogget ți di politica, e le grandi notizie del giorno formaro no una parte essenziale del suo erudito carteggio. Egli ben conosceva le corti, e i ministri di gabinetto, e di stato, e in particolar modo i principi, ei loro rispetativi interessi.E certo benchè egli nulla ambisse, pure aveva voce in corte,e ilPapa volentieri l'udiva, eglifidavacosed'importanzaassai.Ma poichèquel grande Pontefice ebbe a cedere a fato immaturo, la fortuna si volse contro l'Amaduzzi, il quale dovette sentirne i colpi più avversi eduri a sostenere.Alcuni glidavano tacciadimalfilosofo, altri altrimenti il' mordevano.Ilmondo parteggiava avarie fazioni,e tutte erano contro l'Amaduzzi, perchè egli non istudiava ad alcuna, anzi combattevale tutte per seguire la verità, Non mancavano forse le gare degl'invidi, e di quegli che volevano fargli scontare a caro prezzo labenevos lenza che aveva goduta di Papa Ganganelli. Nel 1790. usci un libello famoso contro di lui senza data di luo. go, Aveva per titolo Lettera di un viaggiatore istruito, ad un amico di Rama risguardante principalmente la  ! 10   dottrina dell abbate Cristoforo Amaduzzi. Era quel libro una catena di calunnie e d'infamie; non più che sedicipaginesistendeva,ma insedicipagine chiude vaquanto puòlarabbias temperarein moltivolumi.Ven devasi inRoma,ma senza luogo enome di stampato re. L'autore non è a richiedere, che si stette e starà sempreocculto: elomerita. L'Amaduzzi,comecchèsu periore fosse alle male arti dell'invidia e della calun nia, pure tenne dell'onor suo rispondere e scolparsi; e dettò uno scritto intitolato Rimostranza al Trono Pontificio,emanifestoalPubblico= Equestofino dal 1790. era in punto per le stampe. M a consigliato dagliamici a presentarne prima il Papa, alloraPio VI, anzichèmandarlo allaluce, eglicondiscese. L'ebbe (1) infattoilPontefice,lolesse,conobbe lacalunnia,eren dendolo con molta benignità all'autore gli fe'travede re, che egli avrebbe punito i calunniatori col trionfo delcalunniato.Ma lavitanonbastòall'Amaduzzi.Sa rebbe assai desiderevole che questa Rimostranza fosse data a luce, perocchè oltre allo scoprire fino al fondo l' animo dell'autore, mostra la condizione dei suoi tempi, e di molte cose incerte rende pienissima fede. Ivi egli parla di sè con libertà di filosofo, e fa il ca rattere suo qual era in fatto, ed i suoi stessi difetti non nasconde. Si confessa amatore della filosofia, non di quella che in barbaro gerga di voci più barbare non dà che frasche, e sofismi, m a di quella nerboruta e vigorosa che prese spirito dal Galilei, da Bacone, da Cartesio, da Newton e dagli altri di tale schiera, i quali, abbattute le vecchie superstizioni e le matte fre nesie, rimisero al suo seggio la ragione,e in quello stesso che la innalzavano la mostrarono più riverente, ed ossequiosa alla Religione.E apertamente dichiara solo quella filosofia piacergli, che è guida e conforto degli uomini, maestra di costumi, e di civiltà, e che nasce dalla carità cristiana, che è la sola per cui la società ha fermezza, e innanzi cui scompare ogni fel lonia ed ogni pubblica sventura.E non disconfessa il suosentirsidisoverchiotrasportatoadireilveronu do e calzante,e l'essere sdegnoso de tristi, e insofa (1) Vedi rimostravza al Trono Pontifieio] ferente di oltraggi.Insomma io non credo che altri possa ritrarre lụimeglio, di quello che egli stesso in quella scrittura si ritrasse. L'abate Francesco Gusta nella sua Vita di:Co stantino, oltre il pụngere sovente ! Amaduzzi, e tal volta inveire contriesso, lo tratteggia come soverchia menteamicodinovità,elomandadelparicolPe reira, col Tamburini, col Natali, e col Zola .Ma cheil Gusta parlasse per invidia, e per bassissima vendetta, sitravede in leggendo quella vita; e l'Amaduzzi ben fe? a punirlo collo sprezzo dell'opera, e dell'autore. Egli il 16. maggio del 1791. ottenne di essere giu bilato dalla cattedra di lingua greca nel collegioUre bano, e il decreto n'è molto onorevole. Nel dicem bre dello stesso anno cadde malato, e giudicarono che egli avesse pericolosa ostruzione alla milza, ed al fe gato.Siposeinletto,e arigorosacura;ma ilmale anzi che cessare rincrudì, e lo mise fuori d'ogni spe ranza di riaversi. Anima nobilissima come era,accettò l'annunzio del pericolo suo con serenità di volto, e tranquillità, e adoperò in quello stremo da quel filo sofo cristiano, che per tutta la vita aveva mostrato. Sia qui debita lode ai cardinali Antonelli, Borgia, G a rampi, che luisoccorsero generosamente in ogni gui sa; perocchè egli non aveva modo da sè di sostenere lunghe spese di malattia; non avendo mai voluto far denaro,anche potendolo.Ne glimancarono buoni ami ci in quell'estremità,che ben n'aveva di tali; sebbe ne egli fuor del mondo col cuore solo fidava in Dio, e però presi i conforti della chiesa, dispose delle poche cose sue,etranquillamentepassòil21.gennaro del1792. in età di soli 51. anni. Morendo lego alla patria la sua ricca biblioteca che era il meglio dell'eredità sua; legato preziosissimo specialmente peisuoi scritti,e pel carteggio. Fu pore țato al sepolcro in abito clericale suo principale o r n a mento edecoro,come,egli primadimoriredichiarò; poichè egli aveya ricevuti, come siè detto, gli ordini minori. Tutti i giornali d'Italia piansero laperdita di tantuomo.L'abbateOssuna ex-gesuitamaestrodirettori: pa in Savignano ne inserì un bell'elogio nella gazzetta di Cesena;unaltronemiseilP.Pujatinegliannali eça clesiastici di Firenze.Anche il Mazzuchelli nella sua grand'opera degliScrittoriitalianinefeceun bell'elogio: ma il più ricco di tuttifu letto nella reale accademia delle scienze e belle lettere di Mantova il 29. novembre del 1793. dall'abate don Isidoro Bianchi,con appresso il catalogo delle opere dell'illustretrapassato; catalogo â cui rimetto i miei lettori, perchè penso che di m e glio non si possa fare. Basti sapere che ilnumero delle opere dell'Amaduzzi tra le edite, e quelle che inedite rimangono nella biblioteca savignanese vanno oltre à cento venti, é ve ne ha alcuni di gran mole. Non possoperò quipassarmidall'accennarneuna per oni 1 Amaduzzi si ebbe grandi amarezze, e fu = Lege'snovellaeV.anecdotaeImperatorum Theodosiiju nioris,etValentiniani111.etc.= Intornolaqualeil dotto Bianchi dice così = Ai colti bibliografi non è ignoto, che in tempo che l'abate Amaduzzi era in R o ma occupato per la pubblicazione di quest'opera in signe,inRavennapure sitravagliava dal dott. Anto nio Žirardini per lo stesso oggetto. Or la morte dello stampatore,cheincominciò l'edizione romana,é ledue malattie di quello che la prosegui (vedi Nov. Lett. del Lami del 1766. a col. 822. ) ritardò la medesima più oltre del tempo assegnato nel manifesto, che usci ai 21. di giugno del 1766; é nel quale si promettevä il libro nel prossimo agosto, quando per le suddette c a gioni realmente non uscì che nel 1767. L'edizione in tanto del Zirardini si rese pubblica nello stesso mese di giugno dell'anno sumentovato, e dal Lami ne fu subitoriportato un lungoestratto,chesiè creduto di mano dello stesso Zirardini, o di qualche altro suo intimo amico dimorante in Roma (Gaetano Marini): Un altro breve annuncio della stessa edizione faentina fadatodaigiornalistid'Yverdon (tom.I.1768)av vilendola forse un po'troppo in confronto della roma na.Questoannunziounpo'vibratomisedimoltomal amore il Zirardini, e stuzzicò un letterato romano (it prelodato Marini)molto amicodel medesimo ad inse rire nel tomo 3. del giornale di Pisa un lungo estrat to dell'edizione delle cinque Novelle fatte in Faeriza dal dott.Zirardini, attaccando l'abbate Amaduzzi d'im postore e di plagiario, come se egli nella sua edizione] La cosa era in sè semplicissima. Due dottiquali eranoilZirardini,el'Amaduzziavevano estratta00 pia delle cinqueNovelle quasi inpari tempo;amendue vi ponevano studio intorno per illustrarle;l' uno in sciente l'altro le pubblicava. Or che male è qui? lo avviso che se i giornalisti d'Yverdon avessero con più lode trattata l'edizione faentina non si sarebbe mossa querela alcuna nè dallo Zirardini, nè da alcun altro. M a il Zirardini punto dalle parole dei giornalisti d ' Y verdon, e rinfocato dal Marini, che vedeva forse di mal'occhiosalitoinfama1'Amaduzzi,chealloraa lui non era amico più che d'apparenza (cosa che si pro va benissimo per molti fatti,ma piùper le lettere del Marini al dottissimo pesarese Olivieri le quali nella p u b blica biblioteca di Pesaro si conservano )cominciò a fare lagnanze, ed avventarsi contro l'Amaduzzi.Sebbene sa rebbe piùveroildire, cheilZirardini,chemodestoepaci fico era di natura, si lasciò reggere in tutto dal Marini stesso; il quale si fe' innanzi al pubblico co'suoi scritti a c cusatore dell'Amaduzzi,più presto che buon difenso redelZirardini.Egliè fuordubbiochemolto inge nuamente l'Amaduzzi, nel S, X. della prefazione dopo aver mostrata nel suo vero essere la cosa, diè le più belle lodi che mai al Zirardini, sino a confessare che ove avessepotuto,sisarebbeegliastenuto dalpubblica re l'opera sua, dopo avere conosciuta quella dell'illu stre ravignano. Eccone le parole = Neque hic nunc silentiopraetereundum dum opus hoc nostrum praelo traderetur, has ipsas Novellas ex eodem Othoboniano Codice depromptas faventinisArchiitypisprodiisselu culentissimo commentario illustratas Antonii Zirar dini ravennatis viri consultissimi, qui eundem codi cem insciis nobis ab ipso Ruggerio jampridem obti, nuerat, qui sane longe effusiori doctiorum adnota tionum segete,ulteriorique rerum doctissimarum ap  999 » 14 romana si fosse approfittato dei lumi, e della erudizio ne sparsa nell'edizione faentina. L'abbate Amaduzzi però,cheebbe sempre a cuoreilproprio onore,esem pre si fece un dovere di vendicare igravitorti, che la malignità congiunta all'invidia avesse saputo recare alladi lui onestà,e buona fama,non tardòapubblica re sotto il finto n o m e di Evisio Erotilo la sua apología. 92 99  jypáratu rem perfecit;quod sane sinobis, antequam hanc spartam curandam susciperemus, innotuisset, w cîtrapublicaefidei,quajamobstringebamurinjuriam; eademfortedimittianobispoterat.= (Ginanni t. 2. Memorie storico-critiche degli scrittori ravennati ): Dopo questo io non posso credere per conto alcuno a ciò che francamente il Marini afferma nella sua im. mortaleoperadeipapiridiplomatici.- L'Amaduzzi volle far credere di non aver lettö il libro del giures consulto ravennate,chepur aveva tutto coraggiosamento te espilato و Parole che bene consuonano alle acers bissime che scriveva all'Olivieri, dalle quali si pare, che per buon viso che mostrasse all'Amaduzzi pure vi avesse mal'animo contro.Tanto possono le passioni nel cuore degliuomini piùsapienti,etale èlasciagura perpetua delle lettere italiane! L'Amaduzzi fu uomo pio, caritatevole,generoso; bocca di verità.Cogli amici affabile,con tutti umano; socievole. Consultato dai primi dotti volentieri lorð sinceramente si prestò. Sappiamo infatto che fu inters pellato dal famoso Pasquale Amati per la sua col lezione dei Poeti latini,come si legge nel tomo I. pax gina 6. della prefazione; dal dottorFantini per le an tichità di Sarsina, che ristampò in Faenza nel 1969: in cui si trovano varie aggiunte dell'Amaduzzi; dal Ferri; dal Bianconi,dalcardinalRiminaldi,aiqualidièmoltis sima mano.Faceva volentiericopiaaltruidelsuo vasto sapere, e spesso scrisse per altri donando la fatica e la gloria che ne verrebbe. Grato oltre ogni credere tramandò ai posteri le lodi di quanti a lui premoriro no amici, e benefattori. Se qualcuno a lui caro o sti mato veniva offeso nell'onor letterario o in altro, e gli si levava a difesa, e acerrimamente ripugnava le accuse. Intraprese viaggi per diversi luoghi d'Italia onde meglio erudirsi, visitando biblioteche e codici, e molti ne trasse dalle tenebre.Usava ogni di notare in un libro le cose vedute, o fatte. Amò lapoesía, e giovine dettòversi italiani, iquali,comecchèritraggano assai del secolo in che visse, sono degni di essere letti. Si piacque oltremodo delle artibelle, e ne rendono fede i'elogioche egliscrisse di RaffaeleMengs, e l'amici xia che lo lego al Winckelman, al Bianconi, al Bottari;  16 'e ai primi artisti di Roma. Non 'cercò, anzi rifiutò ca riche offertegli. Dalle lettere a lui dirette da varii m i nistri sirileva cheegli fuinvitato dalla real corte di Napoli allacarica di CustodedellaBiblioteca regiae delmuseofarnesiano,'edi coadjutoreperpetuo della reáleaccadèmia il 2. settembre del 1780. con onora rio di 300 a 400 ducati, ed altre buone condizioni. Ed essendosene scusato 'fu di nuovo invitato con più vive istanzel' con più largheof ferte.Nè unsecondorifiutobastòacessarel'inchieste: poichè il 24. luglio del 1784. gli furono offerti mille d u cati,equelch'egli volesse,solochesirecasseadac cettare l'invito.Altrecariche purericusò,perchèa tutto anteponeva lo starsi fra 'suoi libri in R o m a. La patria accettando ilgeneroso legato fattoglidi oltre 4000 volumi gli ordinò solenniesequie nella chie sa maggiore a spese pubbliche, a cui intervennero il magistrato, e i principali cittadini di ogni ordine. Fu posta sullaporta della chiesa una 'onorevole iscrizione dettatadall'eruditissimoPietroBorghesi,laquale andò pure'alle'stampe.Appresso nell'atrio dellecasedel municipiofuincisala seguente iscrizione scritta dal chiarissimo suoconcittadinocavaliereBartolomeoBor ghesi figlio di Pietro, la quale dice così. Jano · Christophoro · Mich · F · Amadutio Philologo: Eruditissimo Ordo • Sabinianensium Civi. Bene ·Mer. ·Altro onore vole titolo puresarà in breveposto entrolabiblioteca, ovecongrandesennoe gloriadei trapassati, a stimolo dei viventi 'concittadinisono in marmo descritti gli elogidiquantireseroillustre la patria dell'Annaduzzi, che fu pur quella del Barbaro, dei Borghesi, degli Amati, è del Perticari. N.B.Ilritrattoèstatorica- miglia Amaduzziin Savignano. mpato da quello esistente nella fa MONTANARI PROF. G. I.DI BAGNACAVALLO = SCRIS. EA est temporis ed acitas, ut cum ftapaul- latim diflolvat, nullaque res fit vel pre¬ tio,velfoliditate,velquocumquealio nomine praeftans, quae eius imperium detreftare (e poffc confidat. Si Roma¬ norummonumentaadaeternitatemcon- ftru&a perpendamus, quae nunc vel diruta, vel male confi- ftentia oculis nofiris obverfiantur, intimo quodam doloie percellimur, & aegre licet, indubie tamen fluxam rerum hu¬ manarum conditionem agnofeimus. Ceterum is eft de animi noftriimmortalitatenobisindituslenius,atqueitaaltede¬ fixus, ut veluti tacite ab eo profe&um intelligamus tum de- fiderium,quotangimur,veterummonumentorumanxieper¬ quirendorum, tum lolertiam, quam in lifdem vel reipfia con¬ fervandis,velinlongiusduraturamateriaexcipiendisimpen¬ dimus. Haec peragentes videmur quodammodo inanimatis re¬ busnoftramtribuere immortalitatem,qui&eafdempofteritati commendemus, & earumdem praefidiovelutinosipfos ad transacftas remotiffimas aetates, ad quas pertinent, transferamus, atque I   II atque ita exiguam nimis vitae noltrae brevitatem vel produ¬ cendo, vel compenfando nobis libentiffime blandiamur. Quae ergo veterum artes, & profeffiones condiderunt, Signa, Protomas, Hermas, Anaglypha, Sarcophagos, Titulos, cetera- quemonumentacolligeretumprimumfategitFrancifcusPe- trarcha, quem Tuae aetatis perpauci, plures fequiorum tem¬ porumimitati, tumMulca,& Villasiifdemlucupletantesa litu, Iquallore, quin& interituprovidilTime vindicarunt.Sed in irritum cefolTet haec ipfa follicitudo, nili typorum etiam accefliffet luccenturiata fedulitas. Quot enim diffracta Mufoa, quot iam Villae labefactatae, & quot vel avulfa, vel rurfus obruta, atque etiam foede difrupta, quae ibidem exfiftebant, monumentavelutiaboculisnollrisaufugerunt 1Quarelaetandum nobis elt, eo pervenille humanae mentis acumen, utiplistemporum,&rerumvicilTitudinibusoblittere,&vim inferre non dubitaverit, & curas curis addendo nova excogita¬ veritpraelidia, quibus diuturniori huiufmodi monumentorum confervationi prolpiceret. Hmc ergo elf, ut quae in unum collecta monumenta perierunt, perenniter vivant in eruditorum Voluminibus vel typis aeneis contignata, vel doctis illultrata adnotationibus, quibus nunc autographorum deliderium nobis reparari quodammodo videatur. Quare non aliam ob cauffam, neque etiam abfimili ratione quae olim laudabili providentia Cyriaci, &: Afdrubalis ex Matthaeia gente Procerum, & lovii Marchionum tum in Hortis Caelimontanis, tum in Aedibus ad Circum Flaminium coafta, & collocata fuerunt omnis generis monumenta, nunc primum aereis formis infoulpta, nollris il¬ ludi ationibus ditata, in unum collecta, rite dilpolita, ac tribus comprehenfa Voluminibus preli beneficio in publicam lucem emittuntur. Licetenim, utfuolocomonuimus, &deinceps etiam monebimus, multa eorum a prioribus hilce domiciliis pro-   III profectain celeberrimumillud MufarumSacrarium,Mufeum nempe Clementinum Vaticanum, conceffierint aevo quam lon- giffimo fruitura, tamen non omnia illuc fe receperunt, multa quinimmoproculiamabiere, acmultaetiamindiesfatifcunt. Videt, credo, porro unufquifque, ereomninofuifle, utquae olimfuerittantamonumentorumcongeries, unooculiiftu perluftretur, tumdomi,& foris,tumpraefenti,acfuturo tempore innotefcat. Deliderandum quidem erat, Hortos, & Aedes Matthaeiorum tantis confpicuas monumentis litterato¬ rum obtutibus exhiberi, ne tot aliis, numquam cum iis comparandis, quae hoc beneficium nactaefuerant, veluti quodam¬ modo inferiores & haberentur, & effient. II. Poftquamlitterarum, &veterumfcriptorum,rnonu- mentorumque ftudium adolevit, tum artes ipfae, quibus ab honeftate nomen efi, barbariem a Gothis, Langobardis, ce- terifque feptentrionalibus populis inaufpicato invectam Italia exfulare iulfierunt, homines conformare fe urbanitati, cultui, & magnificentiae Romanorum veluti quadam concertatione facta coeperunt. Inter cetera Romanae magnificentiae opera, quibus luxus impenfius excreverat, &.ipfe Perfarum faftus, & opulentia obfcurata omnium iudicio cenfebatur, Villae pro¬ fecto fuerunt, quibus nihil pulchrius, nihil amoenius, nihil praeftantius&fpatiiamplitudine,&ftruHuraeexcellentia, & aedificii decore, &: operum copia haberi poterat. Exftant nunc etiam Tibure Hadrianeae Villae veltigia, quae fupra re¬ liquas plane excellebat, & ex qua tam infignia & Graecorum, & Aegyptiorum monumenta prodierunt, ut iis Mufeum Ca¬ pitolinumtamquamcimeliisomninolingularibus,omnium- que praefiantiffimis inclaruerit (0. Scatebat porro Tiburtinus ager (i) Pyrrhi Ligorii Defcriptio Villae Tiburtinae Hadriani Caefaris. Romae 1551. in fol. eum Ji- guris • Vide lofephum Roccum Vulpium Vet.Lat. Tom. X. y Sc omnes Tiburtinos Hifloricos, Ioh. Franc. Martium, & Antoninum Regium, tum_, Idyllium Fabii Crucii, inferius citandum - Omnium   IV ager multis aliis privatorum civium fecedibus longe clegan- tiffimis, inter quos omnium deliciarum genere conferta emi¬ nebat Maecenatis Villa, aderantque aliae, quae ad Manlium Vopifcum(0,MunatiumPlancum,SalludiumCrifpum,C. Caffium, Quintilium Varum, Marcum Lepidum, & Cyn¬ thiam Propertii amicam, aliofque pertinebant. Praetereo Ci¬ ceronis Tufculanum (2), quod fuerat antea Syllae, tum For¬ mianum, Cumanum, Puteolanum, & quod omnibus celebrius, porticu, & nemore infigne, atque Academicis quaedionibus facrum, Pompeianum. Celebre & Horatii diverforium in Sa¬ binis (?), Catulli extra Portam Valeriam ad ripam Anienis (4), Senecae in via Nomentana 5), Martialis ibidem C6), & longo laniculi ingo (V, aliorumque. III.Horumigiturimitatiexempla(aeculiXVI.magnates opulentia, luxu, & litteris praedantes fuburbana condere coe¬ perunt amoenidima, quorum primum illud cd, quod in oppido Bagnaiae anno coidxi. inchoatum tandem perfecit Ioh. Franci- fcus Gambara Card., & Viterbiends Eccleliae Epifcopus, cuius fata & Francifcus Marianius (s), & Felicianus Buldus (9) late alienigenarumfrequentiacelebraturhaecVilla,nec caruic praefentia IOSHPFII II. Imp. Pii Felicis Aug. 3 cuius rei memoria marmore infculpta haec Imp. Caef. lofepho. II Petro. Leopoldo. M. Etruriae. Duci Archiducibus. Andriae. Germanis. Fratribus PP. FF. AA Hadrianae. Villae. vedigia In. hoc. fundo, ac. vicinia, confpicua Huius. Villae. Dominus, demondravit Iofephus. Eqiles. de. Fide Aulae. Caefareae. Confiliarius XIII. Kal. Apr. A. MDCCLXIX pro- lianaeVillaeexidimat;tumGregoriumPlacenti- nium de Tafculano Ciceronis 3 nunc Crypta Fer- rata; Romae 1758. (3) Vide Differtazione di Domenico de Sanctis tra oli Arcadi Falcifco Carijliofopra la Villa di Orazio Flacco; Roma pel Salomoni 1761., 8c De- cuoverte de la Maifon de Campagne d'Horaee par PAbbe Bertrand C.ap Martin-Chaupy; d Rome 1769. vol. III. (4) Hendecafyll. XLII. (5) Epiff 104., & 110. (6) Lib. I. Epig. 106. (7) Lib. IV. Fpig. 64. (8) In Parergo de Fpifcop. Viterbien. pojl Dif- fertationem de Etruria Metropoli; Romae 1728. (9) Ifloria della Cittd di Viterbo; in fine del- (2) Vid. Ioh.LucamZuzzcrium(D'unaanti- laCronologiade'Vefcovi;Roma1742.Condito¬ ca Villa [coperta fui dojfo dei Tufalo; Venezia rum nomina hifce Verfibus Petri Magni ibidem (0 Vid. Statium Sifa. Lib. I. 3. 17 47- 9 qui Ruifincllac delicium Jocum fuiffe Tui- exaratis innuuntur: Nec   V profequuntur. Tum prodierunt, ac longe lateque inclaruerunt Horti Tiburtini, quos poft Card. Bartholomaeum Quevam, qui aluliolll. obtinuerat, Card. Hippolytus Eflenfis exftruxit, permagnifico praetorio auxit, & antiquis ftatuis, picturis regiaque prorfus fupelleftile locupletavit. Hi dein in Card. Aloyfium Eflenfem translati funt, quo vita funbto, ex, Hip¬ polytite ftamentaria voluntate, & iudicialifententia, eorumdem usura XII. annorum spatio cedit Sacri Collegii Decano, donec purpura donato Alexandro Eftenfi, eorumdem ius in ipfa familia'inftauratum cft, novafque a legitimis dominis & additiones, & reparationes poftea habuerunt(0. Tiburtinum hoc delicium carminibus celebravit M. Ant. Muretus, ac praedicarunt infuper Libertus Folietius (2), Ioh. Francifcus Martius (s), Antoninus Regius(4), Fabius Crucius W, Ferdinandus Ughellius 05), Francifcus Scottius»), Rodulphinus Ve- Nec placuifle tibi laus ultima3 magne Riari, A quo primus honos 3 nobilitafque loci. Quod fi longa tuae ncvifTct flamina vitae Invida Parca, nihil quod quereremur erat. Saltem magnanimi virtus praeclara Rodulphi Serius ad fuperos hinc abiifTet heros. Nunc j o Dive loci praefes, tibi Gambara poft hos Contigit haud opibus } fed pietate pari. (0TeflesfuntfequentesInfcriptiones’: I. Regios. Eftenfium. Principum Hortos. iinmenfo. Card. Hippolyti Sumptu. praeruptae. rupis Afperrimis. cautibus In. mollilTimi. clivi. penfiles Ambulationes. converfis Ac. terebrati. per. montis. vifcera Duffcis. ex. Anniene. innumeris Fontibus. admirandos. ab. Aloyfio nutius Magnificentiori. forma. conftru&i Et. venuftati. quam. vides Reftituti Anno. Salutis. MDCLXXXV (2) Tyburtinum Hippolyti Card. Ferrarien. ad Flavium Vrfinum Card. ampliff. 3 inter Opera fub- Jiciva Vberti Folieti Genuen. Romae apud Franc. Zanettum 1S’79- j & In 1'om. I. Part. II. Thefaur. antiq. bijtor.ltalic.Ioh.Georg.Graevii.Lugd. Batav. 1704. (2) Hiflor. Tibure. Lib. V. num. 174. Thef.. Graev. Vol. III. pag. 4. (4) Antichitd di Tivoli di Antonino dei Re; Tom. eod. Thef. Graev. (5) Ville di Tivoli deferitte dall'Arc/prete Fa¬ bio Croce di detta Citta; ldilio divifo in due rac- conti 5 nei quali fedelmente Ji narratio non meno le Ville, che anticaraente v'ebbero, e frequenta- rono gl*Imperatori, Re con altri infigniperfonag- Et.Alexandro.Cardinalibus pi,ecelebrivirtuofi, raalamedefimadellaSere- Magna. fplendidi. cultus Acceflione. nobilitatos II. Serenifiimi.Francifci. II. Mutinae. Regii. &c. Ducis Vel. abfentis. munificentia Fontes. ifli. temporis. iniuria. collabentes nijjima Cafa d*EJle &c. 1» Roma per it Mancini 1664. in 8. (6) In additionibus ad Alpbonfum Ciacconium de Fontiff. Rora. 3 S.R.E. Cardd., ad ann. 1539. ubi de Hippolyto Card. Eftenfi. (7) In Itinerario Italiae Lib. III. pag. 631.   nutius(0,IohannesPetroskiusO),IolephusRoccusVulpius (3), Ioh. Andreas Barottius (4), aliique. Picturam vero aeneis typis Romae publicavit Corona Pighius. In hos oculos Ilios potiflimum intendit, & horum exemplo incenius eit Cy- riacusMatthaeius,quodeinluosinCaelimontioexcitaret, quoslatedeferibemus, poftquamceteros,quideinRomae, vel in eius vicinia conditi funt, levi calamo attigerimus. IV7. Fere eodem tempore excitari coepit ab Alexandro Farnefio Card., Paulli III. fatris filio, Caprarolae delicium, infigni praclertim architectura lacobi Barotii a Vignola, St praeclaris Thaddaei, Friderici, St Octaviani fratrum Zucca- riorum, Antoniique Tempeftii picturis celebratiflimum b). Heicetiam laudandinunc veniuntHorti,quiprimumexiuflu Card.IuliiMedicei, qui fuit poflea Clemens VII. P. M., for¬ mam praebente Raphaele Sanctio, conftructi funt ad Clivum Cinnae (nunc Montem Marium dicunt ), picturilque Iulii Ro¬ mani, StIoh.Utinenfisornatifunt,actandeminFarnefiam gentem, quae cultu fplendidiores, St opere ampliores fecit, devenerunt W Recenlenda infuper eft Villa Philonardia, quam EnniusPhilonardiusS.R.E.Card.Tiburefibicomparavit, quaeque nunc fquallet, St rimarum plena undique fatifeit, atque dilabiturb). Quid vero memorem Hortos a Iulio III. extra Portam Flaminiam dein mire exftruStos, a Faufto Sa¬ (1) Defcrizione topografica 3 ed iflorica di Ro¬ ma moderna Tom. II. pag. 925. bae- prarola &c. Opera de' pih celebri Arebitetti 3 di- fegnata da diverfi. Libro in 8$. fol. 3 c mezzi fol. Imper. Parte III. Tum Deferizione 3 e rela- zione iflorica dei nobilijftmo real palazzo di Ca- prarola&c.daLeopoldoSebafliani;Romapergli (2) Trigonometrica Dioecefls, & Agri Tiburti- tii Topograpbia 3 ‘veteribus 1viis 3 'villis 3 ceterifque antiquismonumentisexculta&c.RomaetypisGe¬ nercflSalamoni3pag.XIII. eredideiFerri1741.inS.VideEpigrammaAu¬ ($) Vet. Lat. Tom. X. (4) Memorie Ifloriche de’ Letterati Ferrareft; opera pofluma. In Ferrara nella Stamperia Came- rale 1777. Vol. I. pag. 336. CS) Vide Studio d’Arcbitettura civile fopra va¬ rie Cbiefe, Cappelle di Roma 3 e Palazzo da Ca- relii Urfii Romani de Caprarolae deferiptione ad Card. Farnefium Lib. III. Epigr. 21. pag. 75- utriufque editionis Parmen. 1589. 3 & Bonon. 1594* (6) Nunc Villa Madama vulgo audit \ (7) Vid.‘Iofephum Roccum Vulpium Vet. Lat. Tom. X. Lib. XVIII. Cap. X. pag. 379-   baeio(*)&FrancifcoCommendonio.C2)carminibuslaudatos, tum a Scottio Cd, BoifTardio 3 CiacconioW 3Panvinio (6), aliifque fufe defcriptos? Ii namque a Clemente XIV., & PIO VI. Summis Pontificibus nuper reparati eruditorum o- mnium oculos in fe converterunt, & aeneis formis expreffi, noftnfque illuftrationibus audi in publicam lucem ad Archi- tedonicae artis praefertim adiumentum propediem prodibunt. Laudari vero lure poftulant Horti Medicei in Colle Hortulo- lum exfiflentes, a Card. Ioh. Puccio Politiano inchoati, & dein ab altero, eoque eximio Romanae purpurae ornamen¬ to, tum Magno Etruriae Duce Ferdinando Mediceo multis eruditae vetuftatis praeclaris reliquiis, & exoticarum lingua¬ rum typographia longe celeberrima magnificentiffime ampli¬ ficati. Commemoratio faltem defiderium reparet Hortorum Carpendum, quos in Quirinali olim aedificaverat, atque adeo praeclaris ornamentis infigniverat Rodulphus Pius S. R. E. Card., ut CXXXVI. amplius ftatuae in iis numerarentur, quarumpraeffantioresrecenfetLJlyffesAldrovandiusV)3eas infuper referens, quas & ipfius Palatium in Campo Martio fervabat.Hisiungantur&Hortiilli,quioliminSuburra prope Amphitheatrum Flavium, & Templum Pacis a Card. Lanfranco conditi, Carpenfes dein fadfi funt. Prodierunt & hoc tempore Horti Farnefiani Tranftiberini (8J, aliique Palati- nifV,ubinuncvineae,&;vepres.Necreticendifuntmodo ma¬ to Epigrammatam Lib.I. pag.Sj., fi7.,,33., 138., 144.3 148., i;i., ij6., ij7., 161, (2) Ex Mf. Cod. Epiflolar, Cornelii Muflii Epifc. Bituntini apud CI. Praefulem Stephanum Borgiam a Secretis Sac. Congr. de Propaganda Fide. (3) Itiner. Ital. pag. 483. (4) Topograpbia Vr.bis Romae Tora. I. pag. Jo. & feqq. (3) In vitis Ptmtif., 'ubi de Iulio III. (fi) ln vita Ia/ii III. poli vitas Barth. Platinae. Hortis Carpenfibus legendus Boiflardius loc. cit. pag.46.jScottiusloc.cit.Lib.II.Cap.VII[. pag.476.j Francifcus Swertius Lib. II. Itiner. Italiae 3 Andreas Victorellius, ae Ferdinandus U- ghellius apud Ciacconium in Rodulphi Pii Card. vita3&FloravantesMartinelliusRomaexethni¬ ca facra pag. $y. Vide Portae eCtypum inter o- pera Architectonica Iacobi Barotii a Vignola^ Tab. XXXXV. (8) Vid. Scottium loc. cit. pag. 416., Boif Tardium (7) D elieStatue antiche, cbepertutta Roma, loc.cit.pag.11.,&UrfiumLib.I.epigr.12.pag.52. fiveggono 3 pag. 29J. Vid. fuperius pag. 201. De (9) Vid. Scottium pag. 444.   VIII ma*nificentiffitni Horti Quirinales Card. Guidonis Bentivoh Ferrarienfis, quibus nulli Romae erant arboribus fplendidiores, ut & lilvae lpeciem praeberent, & labyrinthi b).Succedant dein HortiCaelii,qui,defcribenteloh.BaptiftaFonteio-, ad dexteram laniculum habent, ad laevam Vaticanos montes, ante fe Tiberim, SancTi Spiritus Fanum, & Xenodo¬ chium, pojlfe Prata Neroniana, fornaces lateribus exco¬ quendis infimaas, edito in colle,fecundum aedes Cacfias re- fertiffimas ipfis antiquitatibus. Horum Hortorum Inlcripuones multas refert ipfe Fonteius, lulius Iacobonius, cetenque, ac nonnulla eorumdem vetera monumenta iamdiu inde avufa ad augendam Capitolii maieftatem praecipue emigrarunt b. NonnullisantiquitatisexuviisditatiquoqueerantHortiAven¬ tini Maximorum H). Nec fua careat laude Blofianae Villae amoenitas, & Hortorum Coloccianorum apud veteres Sallu ftianosO123) tumobveterummonumentorumcopiam,tumob litteratorum conventum celebritas. Infuper memoretui Augu- ftiniChifiiSuburbanumTranftiberinum,inFarnefiamgentem translatum, magniRaphaelis picturis, multifque antiquitatibus IpedlatiffimumV; 5 Marcelli Ccrvinii Card., & dein Pontificis Max. Villula elegantiffimaV), ac Petri Melinii altera V), in qua Poe- (1) Vid. Scottium pag. 479.} & BoifTardiurrL. pag. 47. (2) DeprifeaGaeftorumgenteLib.Il.Cap.XIII. pag. 154. Vid. Urfium Epigr. 19. Lib. III. pag. 72., ubi de fimulacro Veftae in Hortos O&avii Caefii translato. (3) In Capitolio: Clemens.XI.P.M Romae. de. Dacia. Triumphantis Captivorumq. Numidarum. Regum. Statuas Ex. Hortis. Caefiis Addito. Aegyptiorum. Signorum. ornatu Porticuque. a. fundamentis. excitata Ad. augendam. Capitolii. maieftatem Tranftulit Anno. Salut. M. D. CC. XX "4) Vid. lulium Iacobonium appendice ad Fon- umdeprifeaGaeftorumgenteCap.XIX.pag.229. (5) Vid. Fauftum Sabaeium Lib. 111. Epigram., 525., 524., & 5*5- edic- Romae isj6- (6) Vid. Virum Cl. loh. Francilc. Lancellot-,m in vita Angeli Coloccii praemilta operi, cui ulus:PoefieItaliane,eLatinediMtuifg.'i»' IoColocci&c.hfi.772-PUires''"rcriP‘ionesCo- rcianae migrarunt in Palatium Caid. Carpine!: Le Smetio in Praef. Infer. (7) Suburbanum Aitgitfini Chifi per Blofum illadium. Romae per lacobum Mazocbium Re- jn. Academiae Bibliopolam 1J12. (8) Vid. Sabaeium loc. cit. pag. 568. (9) Vid. Benedi&i Lampridii Cremon. Odem in eliciis Poetar. halor. Tom. I. pag. 1311«   IX Poetas de more familiae coena excipere ipfe folebat. Accedat Villa Lantia in laniculenfi calle fita, quam Iulii Romani architeftura, & piHurae celebrem praefertim fecerunt. Acci¬ pe nunc & veteres Hortos Vaticanos (0, quibus Hortus Bo- tanicus quinetiam Nicolai V. iufiu olim conditus adnecleba- tur(2),quofqueamoenioresfecithoctemporePiusIV.,ex- flxufto 'ibidem delicio fane elegantiffimo, ufus opere Pyrrhi Ligorii, qui formam dedit, & perficiendam curavit. Huc e- tiam revocanda Villa ampliffima, quam ad Tufculanum aedi¬ ficavit Card. Marcus Siticus Altempfius Pii IV. fbroris filius, quaeMondragonisdiflaeft,quaequedeinfaftaeitCard. ScipionisBurghefii,aquomultaetiamhabuitincrementa. Sed iam properemus ad celebres Hortos Viminales, five Ex- quilinos, quos Sixtus V. condidit, infignibufque ornavit ve¬ terummonumentis,quiproinde&Perettii,&Montaltini dicti funt, quos Aurelius Urfius Romanus (d praefertim car¬ minibus celebravit, quofque dein fuos fecit Ioh. Francifcus Nigronius Genuenfis S. R. E. Cardinalis O. Tum his iungan- turproximitate,&eiufdemPontificisbeneficentia,&aufpi- ciis affines Horti Viminales Martii Frangipanii0), qui nunc adStrotiamgentempertinent; atqueitafinisim ponaturprae¬ cipuis, quae tulit ruralia delicia faeculum XVI. IV.Necminoricelebritate,magnificentia,acveterum monumentorum congerie praeftiterunt huiufmodi Suburbana, quae (i) Belvedere vulgo audiunt. Vid. Delie. Poetar, halor. Iani Gruteri Tom. i. pag. 638. (2)Vid.HortiRomanibrevemHiJloriamGeorgu. Bonellii CI. Medicinae Profefloris in Archigymna- fio Romanae Sapientiae ad Tom. I. Horti Botani¬ ci Romani pag. 1. (;) Carminum tib.II. pag.:8. Peretthm, fm Sixti V. Pontif. M. Horti Exquilim, & Lib.IU- Epigr. 24. pag. 73, de Perettina Sixti V. P. M VUlq carmine deferipta, mittit nempe verfus fu- perius indicatos. (4) In inuro Hortor, prope Bafilicam Tiberianam: Sub. praefidio. Deiparae I.F.tit.S.M.in.Ara.Caeli.Card.Nigronus Se. fuos. fuaque. conflituit Die. V. Aug. ann. Domini. MDCCVII (5) In fronte Aedium: Sixto. V. Pont. Max Ob. collata In c‘. fe. beneficia Hortofque. Viminales Au Flos Martius. Frangipanius Grati. animi. ergo b   X quae dein faeculo XVII. exftru&a funt. Tufculum quidem amoe¬ nitate loci multos ad fe rapuit, & ad deliciarum feceffus ibi dem aedificandos invitavit. Talis eft, quem Petrus Aldobran- dinius Clementis VIII. fratris filius regiis prorfus impenfis, & apparatibusexfiruxit0),& cuiabipfograto prospectu nomen inditum est. Eidem etiam accepti referendi funt, qui in Quirinali colle eius Aedibus iunguntur, & veterum nuptiarum pi¬ cturis, ex Titi thermis addu&is, Horti potiftimum celebrantur. Romae in Ianiculi vertice prope Portam Aureliam delicium fibi comparavit InnocentiusMalvafiaV)AnnonaePraefectus, eumlocum occupans, quemibi Horti Martialis olimobtinuerant (r). Quis vero pro dignitate referat Hortos Pincianos fplendidiftimos, quos condidit Card. Scipio Caffarellius in Burghefiamgentemadfeitus,quoiquetot,actantiselegan- tioris antiquitatiscimeliis, tum&picturislocupletavit?Manillius, Montelaticus, Leporeus, Brigentius, aliique C) latis fuperque eofdem celebrarunt. Nec iple Paullus V. Burghe- (1) Infcriptlo ibi legitur: Petrus. Aldobrandinius Clem.VIII.Fratris.Filius Redacta. in. poteflatem. Sanftae. Sedis. Ferraria Reipublicae. Cbriftianae. fallite. reflituta Villam. hanc Deducta. ex. Algido. aqua. extruxit Vid. Villa Aldobrandina Ttefculana, & varii il¬ ($) Vid. Epigr. LXIV. Lib. IV: Hinc Jeptem dominos videre montes, Et totam licet aejlimare Romam. litisHortorumi&Fontiumprofpettus;infol.E- pitifingolari.IuRomaperGio.FrancefcoBuagni didit Dominicus Barriere ann. 1647. Tabulis XV., & dicavit Ludovico XIV. Galliarum Regi. (2) Perfecit anno 1604., ut docet Infcriptio, quae fic fe habet: in S. 3 Aufctorem habet Dominicum Montelaticum. Defcrizione della Villa di Borgbefe di Lodovico Leporeo in 4. Vide Apes Urbanas Leonis Allatii pag. 185. Poetica deferiptio Villae Burghefiae vul¬ go Pineianae Andreae Brigentii. Romae 1716. fius. (4) Villa Borgbefe fuori di Porta Pineiana di Giacomo Manilii Romano,hiRomaperLodovico Grignani 1650., in S. Villa Borgbefe fuori di PortaPincianaconPornamenti3chefioffervano nel di lei palazzo, e con le figttre delle Statue In. hoc. Colle. lani. Bifrontis. memoria Et.Martialis.Poetae.Hortis.celebri in8.Deorum ConciliuminPinciisBurgbeftanis Suburbanum.hunc.fecefium Domo. clauftro. flatuis. picturis Fonte. aviario. pomario. vinea Inftruftum. ornatum Innocentius. Malvafia. Cam. Apo/t. Clericus Annonae. Praefe£tus. fibi. amicis Animi. caufa. comparavit Anno.Sal. MDCCIIII HortisabEr/.Iob.Lanfrancoimaginibus,mono- crornatibus} & ornamentis exprejfum. Delineavit, & infculpfit Petrus Aquila, fol. IX. imper. Fpi- Jlola Francifci Blancbinii de nobilijjimo hofpite Co¬ mitis de Traufnitz nomen profejjo, & in Villa Pinciana Burgbefiorum Principum excepto die 27. Maii 1716. Romae 1716.   'XI fius, qui Quirinale Mutatorium Pontificum excitavit, Hortos ibidem defiderari, neque eofdem & veterum monumentis-, &. ceteris honeftae voluptatis deliciis carere voluit. Celebres & antiquis monumentis referti funt Horti Ludovifiani, quibus locuscumvetuftisSalluffianisHortiscommunisaliquainparte efi, quique Cardinalem Ludovicum Ludovifium praecipuum auftorem habent. His neftantur Horti alii Ludovifia¬ ni iucundifiimi, quos dein fuos fecit gens nobilillima de Co¬ mitibus, in Tufculo politi. Non elegantia folum, fed etiam Ioh.TomciMarnavitiiBofnenfisEpifcopidefcriptiocelebrem fecit Villam Sacchettiam Oftienfem. Quis omnes recenfeat Barberiniae gentis delicias & in Vaticano ubi olim Horti Neronis, & in Ianiculenli, & in Quirinali colle (ri, & ad Ca- llrum Candulphi etiam magnifice conditas? En Rufina Villa in veitice Tufculi, ubi Tulculanutn Ciceronis aliqui ftatue- runt, ut & fuperiusinnuimus, quam Alexander Rufinus Roma¬ nus MelphienfiumEpifcopusexftruxit.Prodeat&nunclani- culenlis Nobilia Villa, cui nunc Spadiae a gente, quae eam poftea obtinuit, nomen efi, quamque inter Aureliam Portam, & Hortum publicum Botanicum Vincendus Nobilius excita¬ vit ri). Sed Ianiculenfem collem nulla magis confpicuum fecit, quam Pamphilia Villa, cuius pi-oPpedum, delineationem, & praeftantiora monumenta typisaeneisper Ioh. Bapt. Faldam inlcuiptisexhibuitIoh.IacobusRubeus,quiopusinfcribens Principi Ioh. Bapt. Pamphilio perperam Alexandri Algardii C0 Villa Sacchetta OJlienfis cofmograpbicis ta¬ bulis, & notis illuftrata > rujlicanis legibus, officinarumque infcriptionibus adnotata &c. Romae apud Ludov. Gngnanum 16jo.i,; 4. vid. Leonem Allatium in Apib. Vrban. pag. 166. (2) Vid.Tetium in Aedib. Barberin. p.37o& feqq. G)Haecibidemlegiturlnfcriptio: Villa. Nobilia Viator Hic. ubi. Aedes., ad. animos archi- Inter. amoena. exhilarandos A. Vincentio. Nobilio. excitatas Adfpicis Aug. Caesarem. aquae. de. fuo. nomine. vocitatae Ex. Lacu. Alfiatino. milliario. XIV Conceptae Et.in.rranfliberinam.Regionem.perduftae Emiffarium.exftruxifle. ne. fis. nefcius Dixi. abi. felix. &. vale An. Sal. MDCXXXIX b2   XII architecturam fecit, cum ad Ioh. Franc. Grimaldium Bono- nienfem pertineat (0. Exquilinum vero collem tenet, atque ornatVillaAlteria,inquaStatuae,Frotomae,Infcriptiones, & sepulcri Nafonum Picturae nonnullae veteres adfervantur. Iuftinianea Villa, quae extra Portam Flaminiam & veterum ci- meliis, & recenti cultu conlpicua olim erat, nunc omnino fquallet, eiufque ornamenta praecipua iam ad alteram iuxta Lateranum fitam amplificandam proceflerunt (2). Dies me de¬ ficeret, ficeterasminores Villas, Cofiagutiam, Caipineam, Caeferiniam, Urfiniam ad Arcus Neronianos, Gilliam via Portuenfi, Cafaliam in Caelimontio, Gymnafiam in Aventino, Sannefiam via Flaminia, Nariam via Salaria, Cinquiniam viaNomentana,aliaiquefingillatimpercenfere,acdefcribe- re nunc vellem. V. Quare memorentur nunc tandem Villae praeftantiores, quas tulit noltra aetas. Praeftat extra Portam Nomen¬ tanam splendidecx ftructa PatritiaVilla (fi, quamimmortalis memoriae Pontifex Clemens XIV. honeltum oblectamentum capturus quotidie fere adire confueverat. 1 ranitiberinas Aedes Corfiniae gentis, olim Riariae, ubi iam degerat Chrifti- na Succorum Regina, ornatiores facit Viridarium amplum, amoenumque, quod iifdem coniungitur. Fluic proximum elt aliud eiufdem Corfiniae gentis Delicium extra Portam Aure¬ liam,exSimonisSalviiarchitecturaconltructum,lofephiPaf- feriipicturisinfignitum,pomarioauctum,&veterumcolum¬ bariis, quae Petrus Sanctes Bartholius illuftravit W, & quo¬ (0VillaPamphilia3eiufquePalatiumcumfuh Ioannes profpeUibus } Jlatua^ fontes } vivaria, theatra > Card areolae 3plantarum3 viarumqueordinescumeiuf¬ dem ahfoluta delineatione. Romae formis loh. Ia- cobi de Rubeis in fol. Dicitur haec Villa Re/re- Patritius Anno MDCCXVII fpiro. (4)Vid. Praef.adlibrum,cuititulusde'Sepol- (2) Anno 1715. (5) In fronte Aedium haec leguntur: cri degli antichi; & opus alterum eiufdem poftu- mum editum Parifiis a CU. Viris Caylufio9 & Ma- rietteio 3 quod infcribitur Peintures antiques. rum   XIII rum unum eft libertorum Verginiae gentis, noftra aetate de- te£him('), refertifiimum; quod licet exafto faeculo ortum, no- ftro tamen maxima ex parte eft amplificatum. Ad Portairu. Nomentanam, contra Coflagutiam Villam, novam excitavit ColbertiiaemulusSilviusValentiusGonzagaMantuanus,S. R. E. Cardinalis, Sc fapientiffimi Pontificis Benedicti XIV. a fecretioribus confiliis, quam doctis omnibus patere iubebat, Sc antiquis infcriptionibus, exoticis plantis, pluribufque ex India, & America adveftis cimeliis abunde ditaverat, quae¬ que dein a Card. Prolpero Columna Sciarra comparata Bar- beriniae genti nunc acceflit. Extra eamdern Portam aliam fibi paravit Villam, nonnullis antiquis monumentis ornatam, Car¬ dinalis Hieronymus Columna Aerarii Pontificii Quaeftor, Ca¬ merarius vulgo nuncupatus. SecefTum quoque via Aurelia libi fecit iucundiflimum Card. Iofephus M. Feronius Florentinus, qui primus docuit hortos topiario opere ex malis medicis instruere, ne voluptas, Semagnificentia folo fiimptu,Stfterilitate diftingueretur, quin potius ex ipfo luxu, & oblectamento non mediocris gigneretur proventus. Deliciis, & elegantia fpectatif {imam Villam infuper aedificavit extra Portam Salariam non longe ab Aniene, & ponte Narfetis Flavius Chifius Iunior S.R. E.Cardinalis, quemmoxdirafatiforsperemit. Verumceteris fupereminet,&iamomniummaximefamacelebraturfplen- didiffimaVilla,quamextraPortamSalariamaedificavit,St quotidie etiam amplificat Eminentiffimus S. R. E. Cardinalis Alexander Albanius, qui regio plane cultu, Sc exquifita ele¬ gantia ipfam perfecit. Aegyptiaca, Graeca, Sc Romana eiu- ditae antiquitatis monumenta ubique fe produnt, quorumple¬ raque anecdota typis aeneis expreflit, doctifque illuflravit ex¬ pli¬ co Vid. EphemerideslitterariasFlorentinasCl. O) Vid. Elogio dei Card. Silvio Vale,ni Go«- Ioh.Lamiianni1765.n.21.3 &feqq.coi.jai.j zaga (deiCh.Monfig.ClaudioTodefchi). « &peqq. Roma dalle Jlawpe dei Salomoni 177^*PaS-34*   plicationibus Vir Cl., idemquc infeliciflimus Ioliannes Win- ckelmannius Saxo, olim Nethnicii in Agro Drefdenti Buna- vianae Bibliothecae, quae in Electoralcm pottea migravit, Cu¬ ltos alter, tum Romanae Ecclefiae facra profefTus, Romanarum antiquitatum praefe&ura ornatus, Bibliothecae Vaticanae Scriptor Graecus renunciatus, & Albaniae iplius Bibliothecae curandae praepofitus (0. Cetera, quae ipfe intafta reliquit, eadem plane ratione expofuit Vir alter eruditiffimus Stephanus Raffeius C2); utceterospraeteream,quifparfimipfavelexplanantes, vel laudantes celebratiffimam hanc Villam undique praeftiterunt. Tanto apparatui refpondent & picturae, quae au- btorem habent Antonium Raphaelem Mengfium, cuius prae¬ dantia eo pervenit, ut Urbinatenfis virtuti proxime acceflifie omnium iudicio exiltimetur. Vere quidem dixeris & Gratias, & Mutas heic habere domicilium, ac veterum Confulum, & Au- guftorum tamquam redivivam exfurgere maieftatem. Non igitur mirum, ti fplendiditTimum huius Villae atrium patuerit Ca- moenis Dardani Aluntini, Iotephi II. Caefaris (3), & Herme- lindae Thalaeae, Mariae Antoniae Walburgae Bavarenfis, Sa- xonicae Electricis viduae (4) laudes concinentibus, ipfum- que Augultitlimum Principem, &: Romanorum Imp. electum, Romae degentem, anno cididcclxix. a. d. XIV., & V. Kal. Aprilis & invifentem, & admirantem tantarum rerum copiam, (0Monumentiautlchiineditifpiegati,ei‘tl- lujtrati da G:o. Winckelmann &c. Torni II. Roma  in fol. (2) Ricerche fopra uti Apolline della Villa.j dellEmoSig.Card.AlejjandroAlbani.IuRoma 1772. Saggio di ojfervazioni fopra ttn Bafforilisvo della Villa fuddetta (efprimente il voto di Bere¬ nice ) In Roma 1773. Ojfervaziom fopra un altro BafforilievodellameiefmaVillaAlbani(elpri- mente Ercole domatore d’Echidna Scitica ). Dif- fertazione fopra uh fmgolar combattimento efpreffo in Bajforiliem, efflente nelta Villa fuddetta, c cioe Ja monomachia di Mennone con Achille). & prae- Filottete addolorato 3 altro Bafforilievo tiella Vil¬ la JleJfa; in fol. (3) Adunanza tenuta dagli Arcadi per Velezio- ne della Sacra Reni Maefla di Giufeppe II. Re de’ Romani. In Roma 1764.3 cui adne&itur Ta¬ bula aenea exprimens frontem Aedium } & Atrii ornatiHimi. (4) Adunanza tenuta dagli Arcadi nella Villa AlbaniadouorediS.A.R.MariaAntoniaWal- burga di Baviera Elettrice Vedova di Saffonia, fra le Pajlorelle acclamate Ermclinda Talea.• In Roma 1772.XV &praeftantiam,ibidemmirecoaddam,&concinnedilpofi- tam confpexerimus (0. VI. Recenfitis Hortis omnibus, aut faltem celebriori¬ bus,quivelpraeceflerunt,velfubfequutifuntMatthaeianos noftros,reflatmodo,utdeiplispreflius,&latiusdicamus. Locum nunc perpendimus. Iidem fiti funt in ea Pomoerii parte, quam Aurelianusintra Urbemcomplexuseft(2),quaeque in Regione II. Caelimontana comprehendebatur. Man- flones Albanas antiquitus hunc locum potiflimum tenuifle, cenfueruntBoiflardiusCj), MarlianiusW,&DonatiusD,fed nullam, quaniterentur, rationemattulerunt. Quareincertus, fiNardinio0)credimus,adhuceftharumManfionumlocus, neque nos quidquam etiam hac de re ftatuere aufimus ali¬ bi de iildem loquentes (7). Proxima huic Caelimontii parti fuifle, immo iplam occupafle aliquando Caftra Peregrinorum ab Augufto inftituta, alii cenfuerunt, atque inter ceteros Pan- vinius W, & Vignolius (?), innixi potiflimum veterum infcri- ptionibus,inquibuseorummentio,quaequevelinareaAedi¬ culae Sanctae Mariae in Domnica, vel prope Aedem rotundam S. Stephani inventae funt; ut nunc praeteream, quaeetiamin laudata area erutae fuerunt Benedi&i Aegii Spoletini aetate, quasipfeedidit(IO),quibufqueadduddus&eademCaftraibi¬ dem agnovit, & eos, qui ponunt ad Templum SS. IV. Coro¬ (i) Huius rei accipe monumentum ibidem po- fitum: lofepho. II Pio. Felici. Augufto Quod. has. Aedes. praefentia. fua Maximus. hofpes. impleverit Alexander. Card. Albanus M. P nato- ($) Lib. III. cap. XII. (6) Rom. vet. Lib. III. cap. 7. (7) Append. ad Fragmenta 'vejligii 'veteris Ro¬ mae lob. Petri Bellorii Tab. XXVI. pag. 95. (3) Defer. Vrbis Romae } TheJ\ Antiq. Romau. Graevii Tom. III. pag. 286. (9) lnfcript.felecl. pojl Differt, de Columna Imp. Antonini Pii pag. 183. j e feq. (10) In adnotationibus ad Apollodori Atbenien. (2) Vid. Fabrettium de aquis 3 & aquaeducti¬ busn.45.ad53. Bibliotb.,fivedeDeor.origine&c.Romaeinae¬ (3) Topograpb. Vrb. Romae dibus Antonii Bladi 1555. Vid. apud Gruter. pag. (4) Topograpb. Vrb. Romae Lib. IV. cap. 9. 22. n. 3. & pag. $93. n. 2.3 & 3.   XVI natorum(0, impugnavit.Muripars feptentrionalis, quaHorti Matthaeianicinguntur, licetadvetusMonafterium,dequo mox dicemus, potiflimum fpectct, pertinebat olim ad ductum aquae Claudiae, cuius ibidem divortia erant; pars enim in An- toninianasThermas,utteltanturlitteraeadhucconfpicuae... NTONIANA, magnis laterum tabulis e muro paullulum prominentibus confectae W; pars in Palatium Caefarum tendebat, ut produnt veftigia aquaeductus interdum occurrentia. His adneftitur arcus adhuc exftans ex lapide Tiburtino, fuper c]uo aqua ad Aventinum procedebat, & in quo legitur inlcri- ptio fatis nota (s): P. CORNEUVS. P. r.DOLABELlA C. 1VN1VS. C. F. SILANVS. FLAMEN. MARTIALIS COS LX.S.C FACIVNDVM. CVRAVERVNT. IDEMQVE. PROBAVERVN.T Via, quae ad Clivum Scauri per Curiam Hoftiliam ante Hor¬ tosnoftrosprocedit,eacenfetur,quaolimperTabernolam, antiquaeUrbisvicum,attendebaturinCaeliumU).Prope etiamaderatrotundumTemplumvelFauni(j),velBacchi) velClaudii,aPombaiamVefpafianiImpp.,utaliicenfuerunt, quodnuncNicolai Circiniani, vulgoPomerancii,&Anto¬ nii Tempeltii picturis, veterum Martyrum diros cruciatus ex- Pri- (1) Inter ceteros Boijfard. Topograpb. Vrb. Rora. Tom. I. pag. His nunc accedit Hora¬ tius Orlandius Ragionamento fopra ut?Ara antica (dedicataaVulcano).Roma1772.art.ult.pag.95. Suppiem-adJVuv.T*hef.Muratoriipag.So.n.5., (2) Vid: Epiftolam Flaminii Vaccae latinitate' fed mutilam, aliique. Fornicis typum habes apud donatam a Montfauconro in Diario Italico Cap. X. pag. 14S. Gudius pag. 81. n. 10. refert tabulas in¬ ventas c regione vineae S. Sixti, «Sc Thermarum Antoninianarum ad radicem Montis Aventini ver- fus regionem dictam Pifcinam publicam 3 in quit, bus haec legebantur: A^VA. CLAVDIA. ANTONIANA. NOVA VIRIAE. ALCESTE. ET. L. VIR1I. ANTIQ FORTVNATI (5) Refert Gruterius pag. 176. n. 2.3 Panvi- nius de Civ. Rora. Cap. XXIV. coi. 217. Tom. I. Ioh. Bapt. Piranefium Tom. I. Airtiq. Koman. Tabula XXV. Fig. I. (4) Nardin. Rora, •veter. Lib. IIL cap. V. 3 Bor- richius de antiqua Vrbis facie Cap. IV., Rondi- ninius de SS. Ioh. 3 & Paullo, eoruraq. Bajilica in ‘Drbe Roma vetera monumenta. (5) In inferiptione hoc loco detefta, quam re¬ fert lulius lacobonius Append. ad Fonteium de prifeaCaejiorumgenteCap.IV.pag.38.3memo¬ ratur AED1CVLA GENIO AGRESTI dicata.primentibus (*), ornatum, duplicique columnarum ordine fu- ftentatumDivoStephanoMartyrifacrumeft(12**).Heicetiam- numconfpicuifuntarcus Neronianiaquae Claudiae,quibus aquaipfaad Palatinumdeferebatur. Proximaetiamerat Curia Hoftilia, a Tullo Hoflilio III. Romanorum Rege magnifi¬ ce aedificata, cuius adhuc haberi reliquias, hafque cenfendas efle ingentes arcus ex Tiburtino lapide, quibus fuperftat nunc turriscampanaria,longainfuperfubftrudioneinhortumpor- redos, recentiores plures, praeeunte Flavio Blondio 0), Con- fenferunt; idque eo magis, quod ibidem quatuor Pulvinaria marmoiea eruta fuerint, quae dein ad fcalas Aedium Matthaeiarum in Circo Flaminio translata fuerunt, quaeque nos fuo loco(T adduximus. Ceterum Pompeius Ugonius d), alii¬ que aedificium aliquod Caefarum aetate excitatum in hilce ruderibusagnofcendumpotiusexiftimant,quodparumcredi¬ bile videatur pofl tot faeculorum lapfum, poft tot Urbis exci¬ dia, atque poft tot imperii viciftitudines hactenus antiquiflimi aedificii reliquias, annorum edacitatis, & direptionum furoris vidrices,fupereflepotuifie.Montfauconius(5)hacdere_» etiam dubitavit, quod aegre in animum libi induceret, im¬ manemillamaedificiimolem,caftrorummoremunitam,unicam fuifle Curiam; quin potius hinc coniedafie nonnullos refert, exftitiflehocloco CaftraPeregrinorum. Heicquidem fuifle aedes Sandorum fratrum Iqhannis, & Paulli, in quorum honorem dicata eft proxima Bafilica, ambigi non po- teft; quarum quidem veftigia haberi putat Philippus Rondi- nini- (1) Ecclefiae militantis triumphi) five Deo ama- (3) Romae inflaur. Lib. I. hilium Martyrumg/oriofapro Chrijlifidecerta- (4)Vol.II.horumMonumentor.ClafT.X.Tab. mina ) prout in Ecclefia S. Stephani Rotundi Romae vifuntur depicia, a Vincentio Billy aeneis Tab. expreffa. Romae 1714. (2) Interioris huius Templi profpe&um habes apud Ioh. Bapt. Piranefium Tom. I. Antiq. Ro- man. Tab. XXV. Fig. II. ' LXXII. Fig. I., & II., Tab. LXXIII. Fig. I., & II., & Tab. LXXIV. Fig. I., & II. pag. 93., & feqq. Vid. Ficoronium Vejligia di Roma antica Lib. I.,cap. XIV. pag. 87. (5) Eibro de Stationibus Vrbis. (6) Git. Diar. Ital. Gap. X. pag. 148-   XVIII ninius CO in quibufdam arcubus, & ruderibus prope laudatam Bafilicam exfiftentibus, quorum nemo Scriptorum meminit. Sub Hortis noftris vetus aliquod etiam fuille aedificium, arguere licet ex marmore reperto eo loci, quod refert Fabret- tius (2), & in quo habetur fimulacrum Veftae, & artis pilto- riae inffrumenta, modium, spicae, & mola verfatilis, cum hac epigraphe: VESTAE. SACRVM C. PVPIVS. FIRMINVS. ET MVDASENA.TROPH IME VII. Veterum aedificiis. Hortos Matthaeianos ambien¬ tibus, ufque dum recenfitis, accedant Chriftiana Templa, quae iifdem ita adhaerent, ut ipforum pars effe videantur. Nihil amplius dicemus de Templo S. Stephani, & de Balilica SS. lob., & Paulli, quae titulus Pammachii dicitur, cum de his,utpotepaulloremotioribus,fatisiamactumvideripoffit. Omnium quidem proximior Matthaeianis Hortis eft Eccleha S.Mariaein Cyriaca, livein Dominica,quae&in Domni- ca,&in Navicula h)?anaviculamarmorea,caudavotilo¬ cata, quae ante Templum cernitur, dicta eft. Haec navis m- fignita eft roftro apri caput referente, quam ex voto Marti, vel alio Numini politam aliqui putant a milite in Caftris pe¬ regrinis degente. At Ficoronius (4) Cybeli potius dicatamu» fufpicatur, quod aliud viderit anaglyphum, ab ipfo etiam vul¬ gatum b) 5 in Mufeum Veronenfe profectum, ubi navis cernitur, in qua vehitur Dea Cybele, quamque Matrona velata, funis ope, cui adligata eft, extra aquas ad fe trahere dextera manu nititur, hac fubiecta infcriptione: (0 &e SS. Martyribus lobanne 3dr Paullo, Seft.I. n.3. pag.94. eorumqueRafilicainVrbeRoma‘veterarnonumen- (3) VulgoNavicella. MA- ta &c. Romae 1707. Cap. VII. §. I. pag. 69. (2) Ai Tabulam Iliadis poftColumnam Tra- ian.pag.339.3SiInfer. Cap.VIII.n.277.Pag-632. Attulimus&nosTom.III.Clafs.X.Syllog. Infer. (4) Le ve/ligia, e rarita di Roma antica Lib. I.Cap.XIV.pag.90. (5)Ibid.Cap.XXII. pag.148.   MATRI.DEVM.ET.NAVI.SAI.VIAE SALVIAE. VOTO. SVSCEPTO CLAVDIA.SYNTHYCHE D.D Nomen Cyriacae, vel Dominicae Ecclefiae inditum videtur acelebri MatronaRomana,quaeibidemaedeshabuerit('), ut & praedium habuit in Agro Verano. Forte fandae huius Ma¬ tronae imaginem habes in antiqua pidtura ex ipfius Coemeterio ad S. Laurentii extra muros iam eruta, quam Cl. Ioh. Botta- rius 00 ex Arringhio adduxit. Ceterum Sanctae Domnicae no¬ men, & natale Bollandius affert (2) ex Menaeis Graecorum ad d. VIII. Ianuarii; fed haec Virgo Africana, quae floruit fub TheodofioM.ufque adLeonem,&Zenonem Augg.,anoftra differt.VualafridiStrabonisG)fententiam, aDomino,cuicultus in illa aede redditur, nomen repetentem, quia omnibus ae¬ dibusfacriscommunem,acceterasetiamhuicquidemnonabfi- milesfententiashaudmorabimur. EcclefiahaecaPafchaleI. a fundamentis ampliata, & renovata fuit, cuius exftat ver¬ miculataabfisaduabusporphyreticiscolumnisfuffentataG); quibusacceduntXVIII.infuperexGraecomarmore,nigro, & viridi, columnae aliae nihilo inferiores. Sanctae Balbinae corpus ibidem reconditur, atque heic Sixtum I. per Levitam Laurentium ecclefiae thefauros pauperibus diffribui mandafle, funt qui tradant. Vetuftiflima quidem haberi debet haec Ec- clefia, cuius mentio eft in veteri Defcriptione Regionum Ur¬ iis,editaa MabillonioG),ubiagensdefeptemviisufque.> porta Ajinaria, ftatim fubditur Sancta Alaria Dominica. Adfaeculumfaltem XI.pertinerevideturArchipresbyterRe- ncdillus Diaconus Sanctae Alariae, quae Domnica dicitur, (1) Roma fotterranea Tom. II. Tav. CXXX. pag. 17S. cu- (5)V id. Floravantem Martinellium Roma ex ethnica facra pag. 214. (6) Vetera Analecta pag. 365. fecund. edit. (2) Aci. Santf. lanuar. pag. 4S3. (3)Viet.Franc.VifloriiDiffert.Philolog.pag.$1. Parif.1725. (4) De rebus ecclejiajlic. Cap. VII. c2 XIX   JiX cuius monumentum in Divi Stephani in Monte fitum, & a Doniod) adductumheicfiltimus: HIC. REQVIESCIT. CORPVS. DEVOTVS. XPI FAMVLVS. ARCH1PBR. BENEDICTAS. DIAC. SCI. MA RIF,. QA. DOMICA. Q. OMS. Q. AD. HANC. BASILICA. IN GREDITIS. DIGNEMINI. ORARE. PRO. ME. PECCATORE. AC. P. XPI. NOMEN. OMS. CONIVRANS. VT NVLLVS. HOC. TVMVLO. VIOLARE. AVDEAT. 3 SI. QVIS <0 AVTEM. VIOLARE: P: SVPSERIT: i A. PATRE. ET. FILIO. E. SPS SCI. ANATHEMATE. IM. P.. P. DANATVS. EXISTAT Certe quidem, ut innumeris exemplis o(tendi pofTet, ab VIII. ufque laeculo ad. XI. ufus obtinuit has malas precationes, a Chriftiana pietate, & manfuetudine alienas, & a fola tempo¬ rumbarbarie,&infcitiaquoquomodoexcubitasadhibere(3>; quidquid contra Reinefium (j) Fabrettius M reponat. Cum Benedictus dicatur Diaconus huius Eccleliae, apparet nondum ad Archidiaconum pertinuifie, ut dcin factum videbimus. Iam in noftra Diflercatione in tit. Canonicum de officio Archi- diaconiWadduximus Chartamanecdotamannidcccclxxxii., inquamemoratumcernimuslohannemArchidiaconumfum- viac Santiae Apojlolicac Sedis, & praepojitum venerabili Diaconiae Santlae Dei Genitricis Alariae, quae appellatur No- ha;incuiusnimirumArchivohaecipfa Chartafervatur. Quarearguerelicet,pofterioritemporehocfactumeffe; nec fane documenta, quae id adltruant, occurrunt faeculo XII. maiora. Commode in Chronico Ricardi Cluniacenfis, quod abanno Chriltidccc. Usquead annum mclxii. pertingit,quod¬ (0 Jnfcrip. antiq. C!afT. XX. n. 71. pag. 539. ex fchedis Nic. Alemanni. que (5) D iffertazione Canonico-Filologica fopra il ti- tolo delle IJlituzioni Canonicbe de Officio Arcbidia¬ coni, recitata dali’Abate Giovanni Criflofano Arna- dtizzi la fera de’ 17. d'Agoflo deiPanno 1767. in (2) Vid. Hieron. Fabrium Ravenna antiqua pag. 116., Mabillonium ile re Diplornat. Lib. II. Cap.VIII.§.XVII.pag.ioi.,ArringhiumRora- RomanelPAccademiadelPEmin.3eRev.Sig.Car¬ fubterran. Lib. IV. Cap. XXVII., aliofque. dinale Gaetano Fantuzzi &c. adnot. $. pag. 57. (3) Syntag. veter. Infcript. Clafl*. XX. n. 440. Tom. XVII. Nova Raccolta d'Qpufcolifcientifici3 (4) Infcript. Cap. II. pag. no. e flologici. In Venezia 1768.   XXi queaMuratoriorelatumeft(0,recenfenturDiaconiaeCardi¬ nalium S.R.E. decem, & odo, quarum princeps Sundae Ala¬ riaeinDomnica,ubiejiArchidiaconus.Huicacceditteftimo- nium Petri Manlii apud Mabillonium (12), ubi legitur: S.Ala¬ ria in Domnica, ubi debet ejje Archidiaconus; & Leonis Ur- bevetaniapud Cl. loh. Lamium (A, ubi haec habentur: S. Ala¬ ria in Domnica, ipfe eji Archidiaconus altorum; quorum primus ad laeculumXII., alter ad XIV. pertinet. At vero hanc Ecclefiam haud Cardinali Archidiacono adfignatam, nili laben- te ipfo faecula XII., credere licet, cum certum fit, triginta, vel viginti ad fummum annos ante eius exitum ipfam Diaco¬ num, non Archidiaconum obtinuiffe. Docet id Bulla Inno¬ centi!II.annimcxlii.apudHarduinium(4),cuifubfcripfitGe- rardus Diaconus Card. S. Alariae in Dominica. Id etiam ad- firueret D. lacobus tit. X. Alariae in Navicella, qui a Bollan- diftisV) recenleturex Marchefiointereos Cardinales,qui interfuerunt canonizationi S.Brunonis Epifcopi Signini, quam Signiae anno mclxxxi. peregit Lucius III. Summus Pontifex, nili critices regulae obliderent, Bollandiflae ipli hanc Cardi¬ nalium recenfionem affumentum iudicarunt, & iure merito; neque enim fi lincera lubnotatio fuiflet, Ecclefia ipfa titulus dicta efiet, quo vocabulo numquam Diaconias appellatas aut antiquitus, aut recenter inveniemus. Quo tempore vero haec effedefieritiurisArchidiaconiCardinalis,incertum;verofi- mile tamen eft, id accidifte, cum, translata Avenionem Apoftolica Sede, Romanae dignitates mutationem aliquam fubierunt, & Gallicos mores induerunt, & ipfa Archidiaconi iurifdiftio, & munus magna ex parte ad Camerarium delata eft. Honorii III. aetate Ecclefiam hanc pertinuifle ad Ec- (1) Antiq. med. aevi Tom. IV. coi. 1113. (4) Concil. Tom. VI. Par. II. coi. 1170. (2) Ord. Roma». XII. n. II. pag. $6y. (j) In Comment. praevio ad A£ta S. Brunonis ($)Delie,erudii.Toni.II.pag.28. Epifc. Signinidie XVIII.Iuliiqum.24.   XXII Ecclefiamalteram S.Thomae, StS.Michaelis Archangelide de Formis (de qua mox dicemus ), innuit laudati Pontificis Bullaannim ccxvii.,quainterceteraspoffeffiones, quaseidem confirmat,refertabjidam,&inclaujirumEcclefiaeB.vlla- riae in Donnica (0. Parochialem vero curam eidem adnexam etiam fuilPe, docent Litterae Apoftolicae SixtilV. C), quibus Apollonius de Valentinis & Canonicatibus Lateranenfis Eccle- fiae, St S. Mariae in Via lata, St Parochia S. Mariae Navicellae interdicitur. Honor, quo, Archidiaconali dignitate deleta, Eccleliahaec decidit,integratusquodammodovifuseft, cum Card.IohannesMcdiceusPontifex Max. Leonis X. nominere- nunciatus eft. Ipfe enim inftaurari illam iullit, atque ut id pro dignitate fieret, Raphaelis Sanclii opera ufus eft quoad Ar¬ chitectonicae artis concinnitatem, lulium vero Romanum, St Perinum Bonacurfium Vagae difcipulum pro pibturae or¬ namento adhibuit. Tum eadem obtigit Card. Iulio -Mediceo, Leonis X. patrueli, Archiepifcopo Florentino, Sc S. R. E. Vi- ce-Cancellario, qui poftea fuit Clemens VII., licet & Eccle- fiam S. Clementis, & alteram S. Laurentii in Damafo dein fibi adfeiverit. Eadem Diaconia potitus eft poftea Iohannes Mediceus Cofmi I. Magni Florentiae Ducis filius, qui a_. Pio IV. Cardinalis eft renunciatus, & cuius exftant tres epilholae de ipfius Ecclefiae cultu, Sc famulatu (0, quem appri¬ me (0 Collect. Bullar. Sacrofantlae Bafilicae Va¬ gliare } perche rifeda in la Cbiefa della Navicella ticanae&c.Romae1747.Tom.I.pag.100. aujfiziare,&dipiu3perchefattovederlecofe3 (2) Ex Tom. 96. Regeft. Brev. Sixti IV. pag. 74. in Archivo fecr. Vaticano. CS) LetteredeiCard.G:o.de’Aledicifigitodi Cofano 1. Grati Duca di Tofeana, efiratte da un nifi Roma 1752. Fib. Ili. pag. 505. Lettera ferit- ta dal Poggio 25. Settemb. 1561. al Podefta di Grofleto, a cui dice di voler pariare a M. Porzio Fanuzio Canonico della Navicella 3 che capitava coli j o a Monte Fano. Ivi pag. 506. Lettera ferit- ta dal Poggio 26. Settemb. 1561. al Vefcovo Ce- farino, a cui dice > che manda D. Gio. luo fami- che di prefente occorrono farfi per riparazioni di quelluogo,meloavvifiparticolarmente3acciofi pojfadaropportunoriparo&c.Homandatoper quel medefimo Porzio Fanuzio per aver da lui in- formazione di quel3 che fiara a fiua notizia delle cofe di quella Cbiefa. Ivi pag. 507. Lettera ferit- ta dal Poggio a di detto al Babbi in Roma: Noi mandiamo il prefente D. Gio. nojlro famigliare 3per- cbe rifeda a ujfiziare vella Cbiefa della Navicel¬ la j non volendo noi filia 'fenza un Cappellauo 3 fimo a tanto, cbe fi verranno ritrovando 3 e riordtnan- do   XXIII me curaffie conflat. Huic vita fundo in eamdem fucceffit Cardinalis Ferdinandus Mediceus, marmoribufque ornavit, ac refecit, antequam ampliffima dignitate abdicaret, & Magni Ducis Etruriae, denato Francifco eius fratre, infignia recipe¬ ret.Habuit&Card.CarolusMediceus,cuiusmemoriamar¬ moreaibidemcerniturfuprafacrariiportam.Tandeminitio huius faeculi tenuit etiam ex eadem regia domo Card. Franci- fcus M., de quo nihil eft aliud, quod moneamus. Presbyte¬ rum Beneficiatum, qui Ecclefiae inferviret, facrumque face¬ retdiebusfeffis, PaullusV.inftituit(0,idquemunerispri¬ mus obivit Vir Cl. Leo Allatius, antequam ad maiora fibi viam faceret in Urbe officia. Ex Diaconia in titulum presbytera- lem convertit Benedidus XIII 0);ac tandem Monachis Grae- co-Melchitis Congregationis S. Ioh. Baptiflae in Soairo OrdinisS.BafiliiMagni,poflulanteSacraCongregationedePro¬ paganda Fide, Templum cuftodiendum, & aedes incolendas Benedidus XIV. conceffit. Vili. Huic proxime fuccedit Templum S. Thomae in Caelio, quod& S. Thomae, & S. MichaelisinFormisdi- dumeft,cuiquehofpitaleadnexumerat.DudusaquaeClau¬ diae,quieidemadhaerebant,nomendeFormisinduxe¬ runt G). Ecclefia haec fuit olim Abbatia in Urbe non igno¬ bilis;cumeiusAntiftes,teftePanvinioG),intervigintiAb¬ bates, qui Romano Pontifici celebranti adeffe confueverant, decimus tertius accenferetur. Eamdem pollea Innocentius III. conceffit Fratribus Ordinis Sandifs. Trinitatis Redemptionis captivorum, quam proinde, dum vixit, incolatu, corporis veroexuviispoflobituminfignivitS.IohannesdeMatha, licet dolealtrecofe.Vedrete 3cbeabbiaqualcbepo- toprefente30fiarelazionedellaCortediRoma&c. In Roma 1765. Tom. I. Cap. I. pag. 8. fa 3 cbe ci pare impojjibile, cbe non ve ne Jia. (3) Fabrett. de aquis 3 & aquaedtM* Dif Tert. IX- (1) Vid. Martinellium loc. cit. pag. 215. (4) Lib. de VU• 'Urbis EccleJ'. pag. 142. (2) Vid. Equitem Hieronymum Lunadorium Staco di Jlanza 3fe ve n’’ealcuna pertinente alia Chie-   XXIV licet dein in Hifpanias translatae fuerint. Interea Honorius III. Bullam emifitd), qua Ordinem praedictum commendat, Ec- claliameidemconcetfamfub Apoltolicae Sedistutelalufcipit, privilegiis ornat, facras aedes, ac bona quamplurima eidem lubditarecenfet,&confirmat.Quareibidemmemoratfor¬ mam, fcilicet aquae Claudiae ductum, fuper ditia Ecclejia S. Tbomag cum aedificiis, cimitcrio, crucibus, & aliis per¬ tinentiisfuis: montem cum formis, fi?aliisaedificiispojitum interclaufiram Clodei(CaftellumnempeaquaeClaudiae, quod forma quadratum, & magna ex parte integrum Fabri¬ cius W vidit), fi? inter duas vias, unam videlicet, qua a praeditia Ecclejia S. Thomae itur ad Colifcum, fi? aliam, qua itur ad SS. lobannem, fi? Vaulum fi?c. Exftat adhuc fupra fores hofpitalis, five coenobii tigillum ex mutivo Ordinis, quem diximus, Redemptionis captivorum, & arcui marmoreo forium haec inferipta leguntur: MAGISTER.1ACOBVS.CVM.FILIO.SVO.COSMATO.FECIT. HOC.OPVS Dein Poncellio EJrfinio Cardinali commendatam Ecclefiam ipfam fuiffe infuper patet, donec Urbano VI. iubente anno mccclxxxvii. menfae capitulari Vaticanae Bafilicae adnexa fuit, ipfaque unio ex Bonifacii IX. Diplomate dat. V. Idus Novem¬ bris confirmata eft. Ceteras Apoltolicas Bullas lohannis XXI., five XXII. 0), Bonifacii IX. O, & Eugenii IV. W iam editas in Bullario Vaticano, & ad hanc Ecclefiam pertinentes fciens praetereo. IX. Defcripfimus locum, quem tenent nunc Horti Mat- thaeiani,tumediticia&vetera,&fubfequentia,quaeipfisob- iacent.Rcftatmodo,utdeeorumaubtore,forma,&prae- ftantia dicamus. Ii fiquidem auctorem habent nobiliffimum, toAnn- '2'7-vii- ColleU. Bullar. SacrofanU. Baftl.Vatie. &c.Romae1747.Tom.I.pag.iod. (2) D efcript. Vrb. Romae cap. 17. & ma¬ (3) Cit.Collecl. fttillar.Bafil.Vatic.Tovn.l.p.28J. (4) Ibid. Tom. II. pag. 31. (5) Ibid. Tom. II. pag. 3y.   XXV &magnificentiflimum Virum Cyriacum Matthaeium,Alexandri filium, Cyriaci nepotem, qui fane avitam gentis fuae am¬ plitudinemho copere explicandam fiulcepifievifusefi. Non noftrumheicefi;,MatthaeiaegentisoriginemaPaparefchia, quae genuit Gregorium, poftea Innocentium II., deducere, quodvifuminprimisefi:OnuphrioPanvinioCO,AlbertoCaf fio G), Felici M. Nerino (3), aliifque; non enim id ipfius vel vetuftati,velnobilitatiacceflionisplurimumfaceret.Monu¬ mentum fiquidem faeculiXIII., quodcontinetSenatuscon- fultumhabituminTemploS.MariaedeCapitolio,quodque ex apographo Perufino edidit Cl. praefui lofephus Garampius nunc apud Aulam Vindobonenfetfi Apofiolicus Nuntius me- ritifiimus G), gentis huius praefiantiam fatis prodit, cum in¬ ter ceteros nobiles Romanos viros recenfeatur etiam ibidem lohannes Matthaei, quemGarampiusipfenoftrisadferibere non dubitat G). Ceteros ex hac gente illufires viros recenfe- re quinetiam non iuvat, quorum monumenta praefertim con- fulere facile quifque poflit apud Cafimirum Romanum, Fran- cifcanae familiae Alumnum, ubi de Templo Aracaelitano G). Quare circa annum mdlxxxi. Villae huius confiruftionem ag- grelfus efi: Cyriacus nofier, & ad annum mdlxxxvi. perfecit, utdocentmonumenta,quaeibidemmarmoreinfculpcnda curavit,quaequenemoadhucedidit.Siquidemfuprapor¬ tam Villae parte interiori haec leguntur: CY- (1)Cod.Mf.dcGente Matthaeiain Bibliotheria alculto dellaR.ChiaradiRhnino&c. In caFrangipania. Roma175:5- Differt.VIII.pag.244.jefegg. (2)Memorieijlorichedellavitadi S.Silvia&c. (5)Vid.Indicemvoc.Matteipag.52J. Cap.XIII.§.I.pag.89. (6)Memorieijlorichedellacbiefaje convento (3) Detemplo,& coenobioSS.Bonifaciij& Ale- di $. Maria in Araceli di Roma &c. In Roma i73j5. Cap. IV. pag. 29., Cap. V. pag. 43. 3 44., 394. Ad not. 54. 71.;, & 72. 3 e Cap. XVII. pag. 451. (4) Memorie ecclefiajliche appartenenti all'ijlo- xiihijloricamonumentain Append.n.VIII.pag.   XXVf Tum inferne: CYRIACVS. MATTHAEIvs. HORTOS GENTILICIOS.CVLTV.AEDIFICIO VETERVM.SIGNORVM.COPIA INLVSTRIORES. ET. AMOENIORES REDDIDIT A. S. M. D. LXXXI CYRIACVS.MATTHAEIVS HORTOS. CAELIMONTANOS A. IACOBO. MATTHAEIO. SOCERO. SVO SIBI. POSTER ISQ__. SVIS. DONO. DATOS. MVLTIS • ORNAMENTIS MAGNIFICENTIVS. EXCVLTOS. SVAE. ET. AMICORVM OBLECTATIONI.DICAVIT M.D.LXXXVI Quae ille praeftiterit, ut ampliffimos undequaque Hortos hof- ce efficeret, prodit etiam epigraphe, quam affixit parieti Aedium ad meridiem, quae ita fe habet: CYRIACVS. MATTHAEIVS ALEX F. CYRIACI.NEP HORTOS.CAELIOS GENTILICIOS. POMARIIS AVIARIIS. NF.MOR1BVS OBELISCO.AEDIFICIIS IAM.INSTRVCTOS AD. MAIOREM. POSTEROR SVORVM.AMICORVMQ_ OBLECTATIONEM VETERIBVS ETIAM.SIGNIS EXORNAVIT Huic etiam infcriptioni confbna eft altera, quam edidit Petrus Leo Cafella (0, quae forte Hortorum domini, & conditoris fuffragium non tulit, cum nullibi ipfam infculptam viderim. En ipfam: CY- (0 Elogia illufirium Artificum;, Epigrammata, Ionis, de Tufcorum origine, & Republica Florett- &foferiptiones,poliLibrumdeprimisItaliaeco-tina,pag.186.edit.Lugdun.1606.   CYRIACVS.MATTHAEIVS.ALEXANDRI.F CYRIACI.N GENIO. CAELIMONTANAE. SALVBRIORIS. AMOENITATIS HORTOS. GENTILICIOS. SIBI. ET. SVIS. AEDIBVS. ET AQVIS. IRRIGVIS. EXCOLVIT. FONTANIS. EXHILARAVIT QVAE. PRO. GRADVVM. CORONA. EX. EPISTYLIIS. ALTE SVBSILIENTES. FLORVM. IN. CIRCIS. FLORVM LVDVNT.LVDICRA TVM. ET. AREAM. ET. AREOLAS TOPIARIIS.SEPSIT.POMARIIS VALLAVIT AMBITVM.MVRO.CINXIT VETVSTEIS.MONVMEN TEIS.SIGNIS.DISPOSITIS ET.MVNIPICENTISSIM A.S.P.Q R INDVLGENTI.A OBELISCO. EXORNAVIT X. Quare Hortos nortros vel hilce infcriptionibus ita iamamplos, excultos, elegantes, &locupletes defcriptos habes, ut vix nobis, quae infuper adnotentur, relinquantur. Innuemus tamen. Aedes, quae in medio Hortorum adfur- gunt, ex lacobi Ducae architeilura conditas fuilTe, quarum vertibulum porticu ornatur, columnis, lignis, ac protomis infignita; quemadmodum aula, & cetera, quae fequuntur, cubicula undique & lignis, & protomis, & columnis, & ana¬ glyphis, & cippis, & aliis rarirtimis cimeliis, inter quae men- faexviridiporphyreticomarmore, miruminmodumpraecellunt. Porticum enim in primis ornant Statuae ex alaba- rtro Pomonae, & Midae Phrygiae Regis, aliaeque Bacchi, Faunorum,&Caracallae.Tumauladirtinguebaturpraefer- tim Simulacro colofleo M. Aurelii Antonini, & Statua eque- ftri L.Aurelii Commodi, qui Antoninus alter, vel Hadrianus antea cenfebatur, quae dein in Mufeum Clementinum Vaticanumtranslataeft.Inadiacentibuscubiculisreconde¬ batur d2 XXVII   XXVIII batur inter cetera caput Ciceronis, quod nunc in Aedibus adCircum Flaminium, caputalterumIovisSerapidisexba- falte, tum caput Plotinae Traiani uxoris, & Signa Dianae, &.Herculis,Graecifculptorisopera,aliaque,quaeiamVa¬ ticanoMufeo,utinfradicemus,infuperaccefierunt,Fauni cum utre iacentis, & alterius a Satyri pede fpinam extrahentis, actandemStatuaAmicitiae,opusPetriPaulliOlivem, quam CyriacoMatthaeiodonodederatVirginiusUrlinius, ut patet ex epigraphe, quam exhibet lamella aenea ibidem appoiita: VIRGINIVS. VRSINIVS CYRIACO. MATTHAEIO AMICITIAE. MONVMENTVM STATVERE ILLVSTRIVS. ME. IPSA AMICITIA NON.POTVIT MDCV Aditus ex foribus Hortorum recda ad Aedes ducit per ambu¬ lacrum, utraque parte ornatum urnulis fepulcralibus elegan- tiffimis, ut nufquam tot ullibi fe vidiffe affirmaverit Montfau- coniusb). Aedium vero externus paries meridionalis multis etiamdiffinguiturSignis,acpraefertimImpp.IuliiCaelaris, Octaviani Aug., Cl. Domitii Neronis facrificantis habitu, Liviae Aug. Coniugis, tum etiam Cereris, ac Bacchantum. In medio autem pariete tollitur (lemma Matthaeiae gentis, pileo ornatum, cui haec subscribuntur: HIERONYMO. CARD MATTHAEIO HicenimfuitCard.tituliS.Pancratii,Cyriaci,&Afdruba- lis frater, cui iidem titulum etiam pofuerunt in Templo Ara- caelitano (2^>. Area dein panditur, in qua celebris Urna IX. Mu- (0 Diar. Italie. Cap. X. pag. 148. dal P. F. Cajimiro Romano &c. Cap. V. pag. 72. (2) Vid. Memorie ijloriche della chiefa, e con¬ Vid. aliud monumentum ibid. Cap. XVII. pag. 451. vento di S. Alaria in Araceli di Roma raccolte /•-rr.   XXIX Mufarum proflat, & in cuius medio cernitur Obelifcus Ae¬ gyptius variis infcriptus hieroglyphicis litteris, quas haud mo¬ ramur, cum neque Hermapionis perlonam geramus, qui Obelifcorum inlcriptiones olim interpretatus Auguftum dece¬ pit, neque etiam Kircherium imitari lubeat, qui eamdem_. provinciamornansdecepitfeipfum.CeterumMarchioSci¬ pio MafFeius (0 in ea fuit fententia, ut putaret, fculpturas Obelifcorum nullam fcripturam praefeferre, notafque illas nul¬ liusgeneris efle litteras. Quare id dumtaxat innuemus, Matthaeianum Obelifcumaltumefle XXXVI.palmos,latumvero ad baflm palmos IV. Caret vero litteris, five notis X. a bafi palmis,livequodilledataoperafieftusfuerit,fiveignecafu confumptus. Verumtamen novem primae, quae in cufpide conlpicuaefuntnotaeadquatuor lingulalatera,omninocon¬ veniuntcumiis, quasexhibet Obelifcus, olimIpinaeimpolitus CirciFloraeinvicoPatriciointerViminalemcollem,& Exquilias, nunc in Hortis Mediceis ereftus. Nofter vero ex- ftabatolim ante fores minores Templi Aracaelitani, e quibus in plateam Capitolinam delcendcbatur, five in eius Caeme- terio, ut placet Boiflardio (2), in cuius bafe, tefte lacobo Ma- zochio G), haec legebatur inlcriptio, quam Gruterius (+) ipfe adducit: deo.CAVTE FLAVIVS.ANTISTIANVS V.E.DE.DECEM.PRIMIS PATER.PATRVM Tandempetenti CyriacoMatthaeioexSenatusconfultoa.d. III. Idus Septembrisannimdlxxxii.concefluseft Obelifcus,quem fuisin Hortiscollocavit,acdeinduplexmonumentumineius (1) Art. erit, lapid. Lib. I. coi. 3. (3) Epigramm. Vrb. pag. 21. a ter. (2) Topograpb. Vrb. Romae Tom. I. pag. 24. (4) lnfcript. pag. 99. n. 4. ba-   XXX bafe infcripfit, quo fuum gratum animum Populo Romano lar¬ gitori tortaretur, Primum, quod meridiem relpicit, hoc eft: CYRIACVS.MATTHAEIVS OBELIS CVM. HVNC. A. POPVLO ROMANO.SIBI.DATVM.A CAPITOLIO. IN. HORTOS SVOS.CAELIMONTANOS TRANSTVLIT.VT. PVBLICAE ERGA. SE. BENEVOLENTIAE MONVMENTVM. EXSTARET ANNO.M.D. LXXXII Alterum vero boream verfus ita fe habet: S. P. Q_. R CYRIACO.MATTHAEIo OBELISCVM. HVNC. SVMMO CONSENSV.DARI.DECREVIT VT. IIORTORVM. EIVS PVLCIIRITVDO. PVBLICO ETIAM. ORNAMENTO AVGERETVR Huius Obelifci typum non dedimus, quod aere incifus olim non fuerit, neque id nunc Librario luberet, neque nos etiam apprime necertarium cenferemus. Si quis velit eumdem con- fulere,facilecomperietapudMontfauconium0),Iohannem Barbaultium (2), ac Bonaventuram, & Michaelem Overbe- keiosL). Ipfum etiam defcripferunt, ac laudarunt Scottius (A } (0 Antiq. explic. Tom. II. Par. II. Lib. II. Cap. VII. Tab. CXL1I1. n. 5. pag. 332. (2) Les plus beaux Alonumeuts de Rome ancien- tie3 ou Recueil des plus beaux morceaux de Pan¬ tiquite' Romaine qui exijleut encore, dejjines par Monfieur Barbault Peintre ancien Petijtonaire du Roy a Rome 3 & grave eu 12S. plancbes avec leur explication; fol. max. a Rome cbez Boucbard de Pimprhnerie de Komareb 1761. Pl. 30. n. i.p. 47. Ca- O)LesreflesdePancienneRomerecherchez&c. & gravez par feu Bonaventure d'Overbeke &c., imprimesauxdepensdeMicbeld'0-verbeke.Ala Haye cbez Pierre Gojje 1763. Tom. II. Pl. 14. pag. 21. Vide etim Degli avanzi delPantica Ro¬ ma 3 opera pofluma di Bonaventura Overbeke Pit- toreInglefe&e.3accrefciutadaPaoloRolliPa- trizio Todino. Iu Londra 1739. §. JLVIII. pag. 177. (4) Itiner. ltal. Lib. II. Cap. VII. pag. 401.   XXXI Cafimirus Romanus 0), Marangonius, qui fingulos etiam Romanos Obelifcos enumerat 0), tum Ficoronius, Venutius, Titius, ceteriquc, qui Romanas antiquitates, &c magnificen¬ tias defcribendas fumpferunt. Reflat nunc caput coloflale Alexandii Magni, quod plateam hanc ornat parte meridio¬ nali, quoque nullum in Urbe maius. Siquidem a mento ad ladicem capillorum mensura eflfex pedum pariliorum, totum vero caput odio pedum, ut proinde fexagintaquatuor pedibus conflaret eius Statua, fi integra fuperelTet. Sane ca¬ put marmoreum Domitiani in impluvio Aedium Capitolina¬ rumeflquinquepedum,acproindeintegraStatuaquadra¬ ginta dumtaxat pedum fuiflet; nec aliter fuadent pes, & alia membrorum frufla, quae ibidem exllant. Tum in Villa Lu- dovifiaefl' caputcoloflalequatuorcirciterpedum;&inIu- flinianeaextraPortamFlaminiamhabebaturolimcolofluslu- flinianiImp.,neccle’funtinaliisvillis,acaedibusRomae Statuaealiaeproceritatevulgariduplo,auttriplomaiores. Caput vero noflrum, quod Alexandro M. tribuitur, quodque nos fuoloco (Villuftravimus, ex Aventini ruini serutumfuit, ut prodit infcriptio, quae ibidem legitur: CYRIACVS. MATTHAEIVS ALEXANDRI. MAGNI. CAPVT. EX. AVENTINI RVINIS. EFEOSSVM. INIVRIA. TEMPORVM NONNIHIL. CORRVPTVM.ANTIQ_VAE FORMAE. ET. NITORI. RESTITVIT VETVSTATIS.AMATORIBVS SPECTAN DVM. PROPOSVIT Ipfum vero accurate descripflt MontfauconiusW,aflad quem pertineat, incertum elfe afferuit. Hinc Ficoronius M mul- (0 Cit. Memor, ijloricbe della chiefa, e con¬ fino alia pag. 36$. ventodiS.MariainAraceli&c. Cap.V.§.V. (3) Tom.II. ClafT.II.Tab. VII.pag.9.  pag.71. (4) Diar.Ital.Cap.X.pag.148. (2) Delie cofe gentilefchej eprofane trafportate (5) Offervazioni contro il Diario dei P. Mont• ad ufo, ed ornamento delle Cbiefe 3 dalla pag. 555. faucon pag. 3 1.   XXXII multas eidem gemmas, & numifmata obiecit, quibus ex for¬ mae fimilitudine fidem huic etiam monumento conciliaret. Sed contra repofiuit Romualdus Riccobaldius (0, qui Plutar- chifi) teftimoniumurgens,incertamAlexandriM.effigiem etiam tunc temporis exlfitifie contendit, ac magis dubiam fa¬ ciam fuifie deinceps, cum Caracallam lubido incefiit adfcri- bendi fibi Alexandri nomen, praecipiendique quinetiam, ut ipfius vultum quifque fibi pararet, fervaretque. XI. Praeftat vero haec leviter attingere, ut ceteras Hortorum Matthaeiorum partes perluftrando defcribamus. Areola hinc occurrit, cui ab amoeno afipeclu fi) quaefitum nomen eft, & ex qua moenia ab Aureliano producta ufque ad Portam Capenam, & Latinam, & Thermarum Antoniniana- rum ingentia rudera intueri praefertim licet. Statuae, & in- fcriptiones heic ordine difpofitae habebantur, quarum prio¬ res referebant Apollinem Citharoedum, Martem, Mercurium, Dianam, Herculem, Poetam cum cycno, Feminam velatam cum puero, Gladiatorem, & Pudicitiam. Ambulacris hinc in¬ de recurrentibus ad oppofitam partem area altera occurrit, inquapraefertimHermaeconfpiciuntur,quibusPlatonem, Heraclitum, Ariftotelem, Ifocratem, Epicurum, Diogenem, Ariftomachum, Pindarum, Anacreontem, Euripidem, Ari- flophanem, Hefiodum, Apollonium Tyanaeum, Pofidonium, Apuleium, L. Iunium Rufiicum, Archimedem, aliofque re¬ ferre vulgo cenfetur. Quid iuvat conclavia, quae fex prae¬ fertimnumerantur, nemora, topiaria, aliaqueloculamenta fingillatim defcribere, eaque fignis, anaglyphis, aliifque monumentis fere undique diffincla Labyrinthum tamen innue¬ mus,licetvixnuncinveftigandum,ecuiusregioneaffingit co Apologia dei Diario Juddetto Cap.LX.pag.48. (3) Belvedere vulgo audit. (2) In vita Alexand. M. pro XXXIII procera columna porphyretica viridis coloris, quae ob minu- tiffimas, ex quibus coalefcit, materiae partes lingularis merito cenfetur. Nec aliae defunt hinc, & illinc difperfae co¬ lumnae, quarum pleraeque multi aedimandae funt, quaeque XXVII. fummatim numerantur. Nodrum vero non ed fon¬ tes, pomaria, viridaria, ceteralqueHortorumpartesvillicis commendatas defcriptione profequi. Innuemus tamen fub Aedibus haberi hortulum malis aureis confitum, ac fupra eius odium hoc didichon legi: HAVRI. OCVLIS. ET. NARE. LICET. TIBI. VIVA. VOLVPTAS SIC. ALITVR. TANTVM. CARPERE. PARCE. MANV Plures funt in Hortos ingrefius; fed duo infigniores, quorum unum, idque princeps, prope Templum S. Mariae in Do- mnica;alterumvero adCuriam Hodiliam,quiconditoris nomen gerit, cum longa linea infcriptum habeatur: HIER. MATTHAEIVS. DVX. IOVII. AN. IVBILAEI. MDCL XII. Habes, quae fuerit Hortorum Matthaeiorum amplitudo, amoenitas, & praedantia. Hinc nil mirum, d advena somnes infui admirationem rapuerint, tumcivesad se ipsos sive describendos, live illudrandos invitaverint. Quare Scottius('),Mabillonius(12345),Montfauconiusb),Addifo- nius (d, Richardius b), aliique inter exteros tum ipfos expen¬ derunt, tum in fuis hodoeporicis praedantioreseorumdem partes defcribere fatagerunt. Inter nodros vero illos potidimum quoquo modo illudrarunt Pinarolius (6), FicoroniusW, Ve- (1) hin. Ital. Lib. II. Cap. VII. pag. 401. (2) Itin. Ital. pag. 88. (3) Dior. Ital. Cap. X. pag. 148. (4) The Works of the right honourable lofeph Addifon EJ'q., Beingh remarks onfeveral parts of Jtaly &c. in the Tears 1701. 3 1702.3 1J03. Du¬ bii» 1735* Vol. III. pag. 16 3. (5) Defcription hiflorique} & critique de Phalle; a Dijon 1766. Tom. VI. Par. II. Cap. 17. pag. 169. (6) Trattato delle cofe piri memorabili di Roma, opera di Gio. P. Piuaroli; Roma 1725. Tom. II. pag. 274., e fegg. (7) Le •vejligia 3 e rarita di Roma antica; Roma 1744. Lib. I. Cap. XIV. pag. 90. 3 e Lib. II. Le Jingolarita di Roma moderna Cap.VIII. pag-68.   XXXIV VenutiusCO, Vafius W, & Titius^); Celebrarunt vero inter Poetas Aurelius Urfius Romanus (4), & Ludovicus Lepo- reus C). Tum monumenta ipfa, quae in illis adfervantur, nacta funt qui & typis exprelTerint, & explanaverint, ut luo loco monuimus. Si Signa lpectes, eorum praeflantiora adducta habes a Paullo Alexandro MafFeio, & Bernardo Mont- fauconio.SiAnaglypha,eorumpleraqueeditaviderelicet apud Sponium, Bellorium, & ipfum JVIontfauconium. Si In- fcriptiones, noftris pleni funt celebres thefauri, live colle¬ ctionesiameditaeab Apiano, Mazochio, Smetio, Urlinio, Gruterio, Reineho, Sponio, Malvafia, Gudio, Donio, Fabrettio, Muratorio, Maffeio,Donatio,aliifque.At,quae lane elt rerum humanarum infelix conditio, ita paucis ab heincannisimmutataelt Hortorumnoltrorumfacies,utqui cosintueaturpraeltantioribusmonumentisIpoliatos,atque undique collabentes, dicere fimiliter poffit: Iam fcgcs cjt, ubi 'Troiafuit. Sanenon nullas marmoreas Infcriptiones in Caeliis Hortis exltantes conceflcrat iam Alexander Matthaeius Iovii Dux Cl. Praefuli Raphaeli Fabrettio, ut ipfe grati ani¬ mi caufla faepe commemorat, in fua domelticarum Inlcriptio- num fylloge, & nos quinetiam fuis locis advertimus. Tum ex iis profectum eft in Mufeum Capitolinum, poftulante Bene- diftoXIV. Pontifice Max.,marmorAebutianum,iamanobis adductum (D, & antiqui Romani pedis, aliorumque Archite¬ cto- (0Accurata,efuccintadefcrizionetopografi¬ nuovofinoalTannoprefente. InRoma1763.pag. ca, e tjlarica di Roma moderna, opera pofiuma di Ridolfino Venuti &c. Roma 1766. prejfio Carlo Bar- biellini Tom. I. pag. 4. (2) Itinerario iflruttivo divifo in otto fiazioni 3 0 giornaie per ritrovare con facilitd tutte le an- tiche 3 e moderne magnificenze di Roma, di Giu- feppeVafiInRoma1765.11.58.pag.62. (3) Defcrizione delle pitture, fcalture, e ar- cbitetture efpojle al pubblico in Roma, opera co- minciata dati'Abate Filippo Titi da C.itta di Ca- fielk,conPaggiuntadiquantoeflatofattodi 208., e 475. (4) Carminum Tib. III. Epigr. 32. pag. 74. edit. Parmen.,&Bonon.3ubihaechabentur: ln Hortos Mattbaeiorum: Komae fepultae hinc intueri imaginem, Arcus,theatra,Scimperiivireslicet. Urbis, & Orbis lumina, & miracula. (5) Poefie; ln Roma 1682. pag. 88. Sonetto. (6) Tom.III.ClalT.X.Sect.VI.n.<;.Tab.LXII. Fig. I. pag. 118.   XXXV flonicac artis inftrumentorum forma infculptum; cuius rei memoria exftat in titulo marmoreo, qui ibidem appofitus ell f ^. Sed noftra aetate maximum palTi lunt detrimentum, cum novi Vaticani Mufei condendi neceflitatem peperit erum¬ pens quotidie veterum monumentorum copia, & eorumdem alportationis impediendae providentia. Poftquam igitur San- dlillimus, ac fapientilTimus Pontifex Clemens XIV., quem ut poteprimum litterariaemeae fortunaeparentem,&publi¬ caetranquillitatis,quafruimur,fundatoremfempergratoani¬ mi fenfu, & laudum praeconiis profequar, Ambulacrum Va¬ ticani Palatii, quo iter eft ad Bibliothecam, veteribus Infcri- ptionibus in clalfes naviter diftinefis V) ornandum fufeepit; tum Chriftianum Mufeum, quod aeternae memoriae Pontifex Benediftus XIV. iam excitaverat, & gemma affabre Iculpta, (i) Editus eft a CI. Praefule Ioh. Bottario in opufculo, cui titulus: Indice delle antichita 3 cbe fi cujiodiscono nel Palazzo di Campidogltc &c. pag. 8., poft Philippi Titii librum de Pi&uris, Scul¬ pturis j & Architecturis Romanis ab eo amplifica¬ tum3 quoddeinfeorfimbisetiameditumfuit: Mo- ('b) Grut. Tom. II. pag. 167 (c) Fabrett. de Aquis, & aquaedu6tib. Differt.II. pag. 73., & 74. n. 129. j & feqq. (2)HucconfluxeruntpraeterMatthaeianas, veteres Infcriptiones domus Porciorum 3 tum plures Paflioneii Eremi apud Camaldulenfes in Tufculo. Ceterum vide varias antiquas Infcriptiones ex iis 3 quae pro hac ingenti colleftione coa6tae fuerunt 3 vel memoratas, vel addu6tas in Epiftola noltra edita in Ephemeridibus litterariis Florentinis anni 1772. n. 10. coi. 14S., & n. feq. coi. 170, um in aliis n. 45. j & feqq- coi. 6yy. 3 & feqq., dein n. 48. coi. 7$S.3 ac tandem n. 1. earumdem Anecdotorum noftrorum. De Feriis Latinis huc addu&is vid. quae adnotavimus hoc I. Vol. Clafs. VII. pag. 73. e2 00 (&) (0 Ephemeridumanni1775.coi.4.3tumn.2.coi.10. Confuleetiam Opufculum, cuititulus: Adlnfcri- ptionem M.lunii PudentishocipjoannoRomae deteffam adverfus anonymi convicia curae pojlerio- Dono.Hieronymi.Principis.Alterii res(CaietaniMelioris).Romae177$.Vid.Ephe¬ Aebutianum merides Romanas eiufdem anni 3 ubi de eadem In- Ex.Matthaeiorum.Villa feriptioneEpiftolaCl.viriMatthiaeZarilliin.XXI. pag. 161. Habes etiam aliquas Infcriptiones Va¬ ticanas editas a CI. Viro Caietano Marinio Tom. IX. 3 & feq. Diarii Pifani litteratorum 3 & in Syl- loge veter. Infer. 3 qua claufimus III. Volumina Marmora. omnia. antiqui. pedis Modulo. infculpta Scriptorumq. teftimoniis. commendata Benedictus. XIV. P. O. M In. Mufeum. Capitol. tranftulit Anno. Pontif. III Dono. Hieronymi. Ducis. Matthaei Capponianum Non. ita. pridem. Via. Aurelia. reper Ex. Aedibus. Capponianis Dono. Alexandri. Gregorii Marchion. Capponii Eiufdem. Mufei. Curatores. perpetui Statilianum In. Ianiculo. alias. effofium Ex. Hortis. Vaticanis Colfutianum. feu. Collotianum Ex. Marii. Delphini. Aedibus (a) Aldrovand. pag. 121.   XXXVI Mofaici ferpentis emblema referente (0, & Carfagnanae fi- gillo(*), testimonio sane luculentissimo antiquae eiufdemfi¬ delitatiserga Beatum Petrum, &RomanamEcclefiam,pro¬ vide ditavit, novique cubiculi elegantifiime picti a temporum noftrorum Apelle, Antonio Raphaele Mengfio, accefiione auxit, ut Papyris omnibus per Bibliothecam, & fecretum Ta¬ bularium olim difperfis, in unum colleblis, aliifque Vibloriae gentiscomparatiscertuslocuseffiet(?);acinfiuperEtrufco- rum Vafculorum, quibus Bibliothecae Vaticanae fcrinia 01- nantur, fupcllecfilem mire amplificavit M; ipfumque tandem aeneorum monumentorum Mufeum a Clemente XIII. fplen- dide exftrucfum, praeter recentia ad fe dono mifia Vindobo- nenfis, Parifienfis, Taurinenfis, Palatinae, aliarumque lega¬ liumfamiliarumaureanumilmata,argenteisnummisquine- tiarn FerettiaeE), & Palfioneiae EI gentis, tum & ballarinii Mufei Wfanerariffimis, Herodis AntipaeE)lingulariaeneo (1) Offervazioni di varia erudizione fopra un carneo antico rapprefentante il ferpente di bronzo, efpojle da Orazio Orlandi Romano &c. In Roma 1773. per Arcangelo Cafaletti. Vide cenfuram_, noftram in Ephmerid. Litter. Romanis eiufdem an¬ ni num. XLI., 8c XLIE (2) Vid. Ephemerides litterar. Florentinas anifl' 1771- n. 12*43- c°l* 194- j & feqq. Articulum nos ipfi fuppeditavimus Donum Cl. Praefulis Ste- phani Borgiae. llluftratum pridem fuerat a Cl. alio Praefule Iofepho Garampio edito opere, cui titulus:IlluflrazionediunanticoSigillodellaGar- fagnana. In Roma 1759. per Niccolb, e Marco Pagitarini. Anonymi Lucenfis cenfuris refponfio nunc paratur. (5)^ rid. in cit. Ephem. Flor. ann. 1771. n. 1. num- gubiui de tribus Vasculis Etruscis encaatice piclis a Clemente XIV• P O. M. in Mufeum Vaticanum inlatis Differtatio. Florentiae 1772. in Typogra- pbia Mouckiana - Ex Mufeo Anfideiano Perufino. Alia plura Vafcula in Vaticanam Bibliothecam mi¬ grarunt ex munere Antonii Raphaclis Mengfii eximiiPi&oris, & Raphaelis Simonettii PatritiiAu- ximatis,CanoniciBafilicaeVaticanae3&SS.D. N. a cubiculo. (5) Vid. articulum noftrum in Ephem. litter. Flor, anni 1771. n. 14. coi. 210. (6) Vid. ibid. n. 31. coi. 482. (7) Nempe Simonis Ballarinii Praefe&i Biblio¬ thecae Barberiniae j & a cubiculo Pontificio, qui obiit V. Idus Martii anni 1772. Hic donavit aliquot rariora, & vetuftiora numifinata Pontificia, feu potius nummos; cetera empta poft eius obitum. coi. 5.3 ubi alter articulus nofter de huiufmodi Papyris. Adde Papyrum alteram dono datam ab Equite Marchione Carlo Mufca Bartio Pifaurenfe, dequaconfuleEpiftolamnoftraminfertamEphe¬ mo3inNummophylacioClementisXIV.P-O.M. meridibus Florent, anni 1775., & praefertim n. 49. coi. 774., & n. 51. coi. 811. Vid. & Praefatio¬ nem noftram ad Fragmentum Papyri faecali V. 3 velVI.&c.inTom.II.Anecdotor.litterar.p.437. (4) Iobannis Bapt. Pajferii Pifaurenfis Nob. Eu- affervato, demonflratur, Cbrijhrm natum ejfe anno VIII- ante aeram vulgarent contra veteres 0- mnes, & recentiores Cbranologos, auBore P Do¬ minico MagnanOrd. Minirn. Presb.&c. Romae 1772. typis Arcbangeli Cafaletti. Vid. 8c Epifsolamnummo, aerae Chriftianae inchoandae documento, Bruti, Sc Numoniae confularis familiae aureis nummis Plancani Mu- fei('),quorumunuspretiofiffimus,alteranecdotus,Titi,Sc Traiani argenteis Graecis nummis rarioribus maximi modulis vigintiduobusinM.Antoniinummislegionibus,&binisine¬ ditis Lucretiae, & Minutiae gentis, a Traiano reftitutis nu- mifmatibus Mufei Zarilliani (2), veterum Beneventi Ducum ab Arigilio ad Georgium Patricium aureis, argenteifque nummis bene multis 0), Etrufci pueri in Tarquinienli agro eruti prae- clariffimohmulacroexaereG),TabulisaeneisOftranorum,& SentinatiumveterumUmbriaepopulorumG),tumpaterisG), fiftrisG), inauribus (s), vitris vetuftilTimis C9), ac ceteris hu- iufmodi monumentis munificentiffime locupletavit; id infuper conlilii cepit, ut novum omnino Muleum in ipfis Innocen- tii VIII. cubiculis, infigni porticu, adytifque ornatiffimum ad excipiendumfigna, protomas, anaglypha, ceteraque mar¬ morea monumenta excitaret. Inlatum fuit quapropter in ipfum, ut primum licuit, Iovis Verofpiae gentis marmoreum Signum praeclarissimum (IO), tum aliud omnino integrum, rarum- ]ara noftram in Ephem. litter. Florent, anni 1771. n. 35. coi. 517*) & feqq. Donavit Henricus San- clementius Monachus Camaldulenlis } nunc Gregorianii Coenobiiad Clivum Scauri Abbas. (1) De his vid. Epiftolae noftrae partem 3 quae eft in Ephem. litter. Florent, anni 1773* n* 47* coi. 745.3 & n. 49. coi. 772.3 & feqq. De nummo Bruti vide etiam 3 quae adnotavimus Tom. II. ho¬ rum Monumentor. ClalT.II. Tab.XII. Fig.I. pag.29. (2) Vid. Epiftolam noftram in cit. Ephcmcrid. ann. 1774- n- 43* c0,‘- 67S. & feq. (3) Vid. camdem ibid. coi.68 1. Donum Cl. Praef. Steph. Borgiae. (4) Vid. articulum noftrum in cit. Ephcmer. anni 1771- n. 49. coi. 774. 3 & Praefationem nostram ad Alphabetum veterum Etruscorum pag. 29. Videndaetiamloh.Bapt.PajferiiPifaur.JVob.Eu- gubini de pueri Etrufci aeneo firnulacro a demen¬ te XIV. P- O. M. in Mufeum Vaticanum inlato Dijfertatio. Romae in Aedibus Palladis 1771* Con- fule tandem 3 quae nos adnotavimus hoc I. Vol. Clalf. X. pag. 108. Donum praeclarifiimi Praefu- Jis Francifci Carrarii Bergomatis} qui etiam pate¬ ras j & numifmata aliquot argentea donavit 3 de quibus vide Epiftolae noftrae partem 3 quae eft ad n. 40. coi. 628. Ephem. Flor. ann. 177 1. (5) Vid. articulum noftrum in laud. Ephem. e- iufdem anni n. 1. coi. 4. Retulit Muratorius Thef. Infer, pag. 563. n. 2. 3 & pag. 164. n. 1. (6) Vid. Epiftolae noftrae partem in Ephem. Flor, ann. 177^. n. 47. coi. 745. Adde pateras Carra- rianas, de quibus fuperius adnot. 4. (7) Vid. ibidem. (8) Vid. eiufdem Epiftolae partem, quae eft ibid. n. 49. coi. 772.3 8c feqq. (9) Vid. Ephemerides litter. Romanas anni 1774. n. VI. pag.41. DonumCl.PraefulisMariiGuar- naccii Volaterrani. (10) Vid. articulum noftrum in Ephem. Flor, an¬ ni 1771. n. 49. coi. 777.3 quaeque adnotavimus hoc   XXXVIII rumque Ottaviani Augufti (0, Meleagri alterum longe cele¬ berrimum Aedium Pighinianarum 0), lunonis, & Narciffi (s) non deterioris artis, & famae gentis Barberiniae, Sardanapali fuo nomine inferipti (4), Paridis Aedium Altempliarum (j), Dianaeftolatae(6),&fervibalneatorisV)HortorumPam- philiorum, Dilcobuli laudatiffimi in agro Romano non ita_» pridem eruti, aliorumque; Tum Borgiae gentis Helvii Perti¬ nacis rariffima Protome (8), aliaque Antinoum referens, Card. I tidetici Marcelli Lantis munus (9), Antifthenis Athenienfis I hilofophi Herma Tiburtinus 0°), Ara Vulcani Hortorum Ca- falium('05BigacircenfisadDiviMarciBalilicamiacens<12), hoc Tom. I. ad Tab. I. pag. 2. Vid. typum apud £q. Paullum Alexand. MafFeium in ColleEtionc ve¬ terum Signorum Romae Tab. CXXXV. pag. 127. (0 Vid. quae adnotavimus hoc Tom. 1. ClalT. VIII. Tab. LXXVL pag. 77. (2) Vid. EpiRolae noftrae fragmentum in Ephcm. Flor, anni 1770. n. 15. coi. 231., quaeque ad¬ notavimus Tom. III. horum Monument. ClalT. V. lab. XYX. pag. 59. Vid. apud eumdem MafFeium ibid. Tab. CXLI. pag. 131. C$) Laudantur haec Signa ab omnibus Romana¬ Can- Vid. typum Tab. 36. cit. Villae Pamphiliae. (S) Typum aeneum habes apud lof. Roccum Vulpium Vet. Lat. profati. Tom. IV. Cap. VI. Tab. VII. Vid. Fpiftolae noftrae fragmentum in Ephem. Flor, anni 1773. n. 34. coi. 551., quae¬ que adnotavimus Tom. II. horum Monum. ClalT. III. Tab. XXVI. Fig. II. pag. 42. (9) Meminimus hoc ipfo Vol. ClalT. VIII. Tab. LXXXVIII. pag. SS. (10) Vid. Epiftolam noftram in laud. Ephemer. eiufd. anni num. 45. coi. 715. 3 & n. 47. coi. 742. rumAntiquitatumferiptoribus,alterumveroad¬ OORagiotiamentodiOrazioOrlandiRomam ducitur a Hier. Tetio in Aedib. Barbariniis litt. N. a Cl. Ioh. Winckelmannio Monum. antiq. inedi V°l. F n. 207., Protomen porphyreticam Philip pi Imp., & duos Sarcophagos, de quibus omn bus vide Epiftolae noflrae partem in Hphcin. Flo; ann. 1772. n. 45. coi. 711. (4) Vid. eius typum apud Winckeimanniur loc. cit. Vol. I. n. 163., cuius illuftrationem ha b_s \ ol. II. Par. III. Cap. I. pag. 219. (5) Apud Maffeium cit. Colle#. Tab. CXXIV pag. 116. (6) De Dianae Signo Winckelmannius loc. cit. X° l U' Par’ L CaP- VII. n. III. pag. 27. Vid. t)pum T„b. 5-3. in y t/la Pamphilia, eiufque pa¬ latiocumfuisprofpeclibus,fatuis,fastibus&c. Romae formis Iacobi de Rubeis. (7) De Servi balneatoris Signo, quod Senecae falfo tribuitur, vide eumdem Winckelmannium Jbid. Par. IV. Cap. IX. n. II. Jitt. C. pag. 256. fopra un’Ara antica pojjeduta da Monfig. Antonio Cajali Governatore di Roma. Iu Roma per Ar- cangelo Cafiletti 1772. Vide, quae nos adnota. vimus Tom. III. horum Monument. ClalT. VII. Tab. XXXVII. Fig. II. pag. 73. Adde vas cine¬ rarium elegantilTimuin, quod fimul dono datum cft,&abOrlandioilluftratum.PraecelTeratan¬ tea donum Capitis aenei Balbini Imp., de quo nos in iudicio, quod de hoc Opufculo emifimus in Ephemerid. Roman. anni 1772. n. XXXV. pag. 276., & in Epiftolae fragmento, inferto Epheme¬ rid. Florent, anni 1771. coi. S21. (12) Eius fchema exhibuit Tab.III.fub n.XLVIII. ad Cap. XXIII. coi. 2111. Valerius Chimentcllius illuftrans Marmor Pifanum de honoreBijfelli(Tom. VII. Antiq. Rom. Graevii') qui balnearem feliam putat, & rurfus alferit Cap. XXVII. coi. 2130. Vid., quae adnotavimus Tom. III. ClalT. VIII. Tab. XJLVII. Fig. II. pag. 87.   XXXIX Candelabra BarberiniaCO, Zeladianum C2>, aliaque ad Divae Agnetis extra Portam Nomentanam adfervata OJ, Sarcophagus Veliternus quantivis pretii Sex. Varii Marcelli V), Urna Tudertina (A egregii Etrufci operis, & altera Perufina V) ar¬ canis ethnicorum fculpturis infignita, aliaque permulta, quae fciens praetereo, quaeque iam eruditorum fcriptis lon¬ ge, lateque inclaruerunt. His omnibus accedunt praeftan- tiora Hortorum Matthaeiorum Signa, quorum pleraque fupe- rius etiam pro re nata defignavimus, Cereris nempe Peden¬ tis (7), & ftantis (8), Fauni dormientis (9), & a Satyri pede (pinam extrahentis 0°), armatae Amazonis (‘0, velatae.» Pudicitiae 02), OHaviani facrificands C'3), Traiani Pe¬ dentis ('4), Commodi equo vecti (**), duo Hiftrionum (igil- (1) Vid. Epiflolae noftrae fragmentum in Ephem. Flor, anni 1770. n. 15. coi. 230. Alterius ex his Candelabris fchema habet Winckelmannius loc. cit. Vol. I. n. 30., agitque de eo Vol. II. Par. I. Cap. XII. n. i» pag. 36., & alibi. Vid. adnot. feq. (2) Vid. articulum noftrum in Ephem. Florent, eiud. anni n. 45. coi. 71 5., & feqq. Vid. Opuf- eulum, cui titulus: Difcorfo deW Abate Gaetano MarinifopratreCandelabriacquijlatidalS.P. demente XIV- b> ftfa *77*• PreJF° Aaoftino Piz- zorno. Tab. III. aeneae. Ex Diarii Pifani Tom. III. art. V. pag. 177. (3) Ex V. 3 quae exftabant y IV. in Mufeum Clementinum Vaticanum adfportata, quintum fuo loco reli&um ed:. De his multi Romanarum anti¬ quitatum Scriptores verba faciunt. (4) De hoc Sarcophago s qui a pluribus editus, & illuftratus effc, vide Ephemerides Romanas ann. 1775. n. III. pag. 17. (5) Vid. Epiftolam noftram in Ephem. Flor, an¬ ni 1771- n* 45h coi. 712.3 & feq. De hac Urna verba fecimus etiam in hoc I. Vol. ClalT. X. ad¬ not. ad Tab. CII. pag. 107.3 & Vol. III. ClalT. V.Tab.XXIV.Fig.I.pag.5-7. la corum fculpturis in/ignito 3 in quibus fymbolice fa- cra quaedam revelatae Religionis mvfieria adum¬ brantur 3 & Clementi XIV. P. O. M., ac fapien- tijfimo ad incrementum Mufei Pontificii Vaticani ab Emerico Bologninio Ferufiae, e?* Vmbriae Praefide humillime oblato Coniecturae loh. Bapt. FaJJerii Pifaur. Regiae Academiae Londinenfis 3 Infii- tuti Bononienfis Socii. Romae 1773. apud Benedi- Bum Francefium. (7) Matthaeiana monumenta ad Mufeum Vatica¬ num ornandum comparata innuimus in EpiHolae no- ftrae articulo, inferto Ephem. Flor, anni 1771.0.1- col. 6. Singula vero in his Voluminibus defignavi. mus. Vide ergo Signum Cereris fedentis Tom. I. ClalT. II. Tab. Tab. XXXVI. pag. 21. (8) Vid. ibid. Tab. XXX. pag. 24., & feq., & apud Maffeium Tab. CVIII. coi. 100. (9) Ibid. ClalT. III. Tab. XXXIV. pag. 28. (10) Ibid. Tab. XL. pag. 32. (11) Ibid. ClalT. IV. Tab. TX. pag. 53., apud Maffeium Tab. CIX. pag. 202., 8c apud Montfau- conium Antiq. explic. Tom. IV. Par. I. Tab. XIV. n. 2. pag. 2. (12)Ibid.ClalT.V.Tab.LXII.pag.$6.3 & apud Maffeium Tab. CV1I. pag. 99. (6) Vid. eamdem Epiftolam noftram in cit. Ephem. Flor.n.47.coi.741.3&feqq.3tumea,quae (13)Ibid.ClalT.VIII.Tab.LXXVII.pag.77* innuimus Tom. III. horum Monum. ClalT. II. Tab. XII. Fig. II. pag. 22. Exftant etiam De marmoreo fepulcrali Cinerario Ferufiae effoffo3 arcanis ethni¬ (14) Ibid. Tab. LXXXV. pag. 84. (15) Ibid. Tab. XCIII. pag. 92., & apud Maf¬ feium Tab. CIV. pag. 96. Notae funt Ficoronii ex- po«   XL la (0, ac truncus militis gladio cincti, galeamque pede dex- tero prementis W; tum Protomae Iovis Serapidis G) Sile¬ ni (P, Plotinae W, & L. Veri(6); infuper aenea capita Ne¬ ronis (7), & Treboniam Cg), lymplegma vel Ariae, & Poeti, vel Portiae, & Bruti (9), St animalium collectioni accenfiti Aries arae impolitus P°), Leo, St Aquila PO; praeterea ba- fes pompam Iliacam referentes ('V, & anaglypha Coniuges IfidifacrilicantesC'S), VeturiamalloquentemCoriolanumP4), natale Romuli, St Remi C‘j), & Nymphas fontium praeli- des (l6) exhibentia; ac tandem Cippi, Urnae, & Infcriptio- nes bene multae, quas fuis locis delignare fategimus C17). Cetera vero aliter diftracta, & praefertim Marci Aur. Anto¬ nini praetextati Protomen a Gavino Hamiltonio Anglo comparatam (,s) haud perfequi vacat, quum iam tantus Vatica¬ narum divitiarum fplendor in fui nos modo rapuerit admira¬ tionem. Quare li tantae rerum antiquarum fupcllectili ibi¬ demcoadtaeaddasceleberrima,iamtumibidemadfervata, marmoreaSignaiacentiaCleopatrae,liveNymphaeadfon¬ tem dormientis ('A, Nili C*°), St Tiberis amnium, tum cete- pofhdationes adverbiis Maffeium 3 & Montfauco- (ii) Leo3& Aquila defiderantur in noltra hac nium,quodhocSignumHadrianotribuerint. collectione. (1)Ibid.Claff.X.Tab.XCIX.pag.100.3& (12)Tom.III.Claff.IV.Tab.XXV.Fig.I. apudSponiumMifcell.erud.antiq.Se6t.IX.n.1. (2) Nunc reftauratur 3 ut in integrum Signum evadat. Quare mirum videri non debet apud nos defiderari. (3) Tom. II. Claff. I. Tab. I. Fig. II. pag. 3. (4) Ibid. Tab. VI. Fig. II. pag. 8. (5) Ibid. ClafT. III. Tab. XV. Fig. II. pag. 34. (6) Ibid. Tab. XXIV. Fig. I. pag. 40. (7) Ibid. Tab. XIII. Fig. II. pag. 32. (8) Ibid. Tab. XXXI. Fig. I. pag. 46. Vid. Epi- ftolae noltrae fragmentum in Ephem. Flor. 1771. n. 52. coi. 822. (9) Ibid. Claff. V. Tab. XXXIV. Fig. I. pag.48. (10) Ibid. ClafT. X. Tab. LXIX. pag. 92., & apudMontfauconiumAntiq.explic.Tom.II.Lib. III. Cap. I. n. 2. pag. 49. Tab. IX. n. 1. &II.pag.44. (13) Ibid. Tab. XXIV. pag. 41. (14) Ibid. Claff.VII. Tab.XXXVII.Fig.I. pag.7 r (15) Ibid. Tab. ead. Fig. II. pag. 73* f 16} Ibid. Claff.X.SeCt.I. Tab.LIII. Fig.I.pag.95*. (18) Vid. Tom. II. Claff. III. Tab. XXII. Fig. I. pag. 38. (19)Vid.Ioh.WinckelmanniumTraCtatuprac- liminariadMonumentaantiquaanccdotaCap.IV. pag. XC. Vol. I. (20) Vid. Epiftolam noltramin Ephemeridibus Jit- ter.Florent,anni1775".n.2.coi.22.3&feqq., ubi de huius Statuae reltauratione 3 & lingua per¬ peram crocodilo affi£ta.   XLI ra longe praeclariflima Apollinis Pythii, Laocoontis, Anti¬ noi, Herculis cum Aiace (0, Antinoi, & Veneris, truncus Herculeus, quod opus erat Apollonii Athenienfis, & Michae- lisAngeliBonarotiifpedaculum,actandemvasingenspor¬ phyreticum,larvasfcenicas, arasfacrificiales ab Agrippae Pantheo avedas, aliaque nonnulla, nae tu dixeris, erudite Ledor, praeftantiora quaeque artis miracula heic Graecae, & Roma¬ nae magnificentiae Genio templum parafTe, fibique aeternam afieruifle incolumitatem. Sed quid non infuper Iperandum aPIOVI.Pont.Opt.Max.,cuiusprovidentianuncregimur, & cuius dudu, confilioque, dum Aerario Pontificio praeeflet, tantumopusinchoatum,acperfectumeft?Ipfeenimlibera¬ lium artium amore incenfus iam tantum opus amplificandum regio plane animo, & magnifico fumptu fufcepit, iamque multa plane egregia antiquitatis cimelia, quae in lucem aufpi- cato nunc e terrae finu prodierunt, fedulo conquilivit, atque paravit,quibusauguftumhocMufarumdomiciliumprodigni¬ tate exornet. Huc nimirum confluet Fauni Signum celeberri¬ mum ex rubro Aegyptio marmore, Hermae Bacchandum, & Herculis lane elaboratiflimi, Antifthenis alter haud vulgaris, tumDomitiaeAuguftaenonobviaProtome,olimComitis lofephi Fedii deliciae, ac peritorum omnium admiratio. Huc item migrabit Mularum chorus, &. Graeciae fapientum Her¬ mae, ipforum nominibus*, & lentendis infcripti, aliique ve¬ terum tum Poetarum, tum Philofophorum plane fimiles, quos Tiburtinus ager nuper eduxit!2). Huc etiam procedet Alpafiae Herma alter hoc iplo anno detedus, aliaque e Ca- ftrinoviruderibusfimulerumpentiamonumentaG).Hucle reci- CO quae ex Winckelmannio adnotavimus mus Tom. II. ClafT. VII. Tab. LII.Fig. I. pag. 69. & ad Tom. II. CiaIT. III. Tab. XXV. Fig. I. pag. (3) Vide Epiftolas Caietani Torracae Centum- 41.,&adTom.III.Claff.V.Tab.XXXI.pag.60. cellenfisMediciclariflimirelatasinTom.III.An- (2)VideAnthologiamRomanamTom.I.num. thologiaeRomanaen.XXXIII.p.257.3n.XXXVIIf. XXXIV. pag. 269.3 quaeque nos etiam adnotavi- pag. 297.3 n. XLI. pag. J27., & n. LII. pag. 409. f Vid.   xlii recipient & vas ex bafalte clegantiiTimum in Quirinali effof- fum, & alterum ex alabaftro pretiofiffimum ad Augufti Mau- foleum recens erutum, ceterique ibidem detecti & Livillae Germanici Caefaris filiae (0, & Tiberii Caefaris Drufi Cae¬ laris filii (*), & Caii Caefaris., Tiberiique Caefaris, tum & alterius anonymi, Germanici Caelaris filiorum emortuales ti¬ tuli, & Auguftae domus nova indubia monumenta G). Huc infuper adducentur quatuor lymplegmata, Herculis facinora exprimentia, nempe Geryonem Hilpaniae Regem tricorpo- reum ab ipfo bello fuperatum, Diomedem Thracem quadrigis devictum, tripodem ab Apollinis Sacerdotis manibus vi ere¬ ptum,ScCerberumcanemtricipitemtriplicicatenaadfuperos retractum, quae nimirum inter Oftiae rudera non ita pridem reperta funt. Huc tandem accedet & Protome Perufina Anto¬ nini Caracallae W, & altera Lavinatium Sabinae Hadriani uxo¬ ris, & Anaglyphum bubulum Ocriculanum, & Picena Falarien- fa Monumenta W, & Mufivum Tulculanum Medulae caput referens (*), & alia fexcenta tum ad Hortos Carpentes, tum in Quirinali, tum ad Curiam Innocentianam, tum alibi de¬ tecta,quibusenarrandisdiemperderem.Necdeeruntaltero aeneorum monumentorum Mufco perrara, atque felecta ci- melia,praefertimqueeffolfaexactoannoadAventinumClu- nienfis Senatus confulti aenea tabula, Graecaque numifinata anecdota Tigianis Armeniae Regis cum Eratonis fororis vul¬ tu V), Octaviae Augufii fororis cum anadyomenes Veneris ty- Vid. 8c quae nos adnotavimus noftro Tom. III. ClalT. X. Sefl. XIII. n. 66. pag. 171. (0 Vide Epift. anonymatn CI. Viri Ioh. Ludov. Blanconii} Saxonici Ele&oris a confiliis, &. Romae Oratoris laud. Tom. III. Anthol. Rom. n. LI. p. 401. (2)Vid.EpiftolamalteramciufdemTom.IV. Anthol. Rom. n. I. pag. 2. (S) Vid. Epift. tertiam eiufdem Joc. cit. n.II. p.9. (4) Vid. quae nos adnotavimus Tom. II. horum Monum. ClalT. III. Tab. XXX. Fig. II. pag. 46. po (S) Vide Opufculum 3cui titulus:Suile Citta Pi¬ cene Falera 3 e Tignio Dijjertazione epijlolare delP Abute G.ufeppe Colucci ai Signori di Falerone. Fermo 1777. in S. /w*Cap.IV.pag.jS. (7) Vid. Tacitum Annal. Lib. II. initio. Part anter. legitur: BAdAETC. BAC1AE.QN. TITPANHC averfa vero parte: EPATft. BACIAEI2C. T/TPA- NOT.AaEA3>H.   XLIII po CO, Silani Syriae Praefidis poft Quirinum, ubi infcripta an¬ ni nota novum ad coniebtandum aerae Chriftianae principium lumen afferret (2), Titi,& Domitiani cum peculiari Laodicen- fium epocha, Philippi lenioris, iuniorifque in Stecloris urbe pcrcufla, cetera huiulmodi Graecis Coloniis accenlenda. Sed quo me abripit tantarum lautitiarum ingens prorfus, ac mira congeries?Quapropteriamediverticuloinviam. XII1. Singula hulquedum expofiuimus, quae ad Hortos Caelimontanos Matthaeiorum pertinent; nec quidem de Hor¬ tis Palatinis, quae ad ipfos olirn fpefitabant, ac pollea Spa- diae,deinMagnaniaegentisiuribuscefferunt,iuvatquid¬ quamattingereG).NuncverodeeorumAedibusurbanis verba nobis facienda funt. Huius gentis maiores avitas aedes habuerunt in regione Tranfliberina ad pontem Caeftium, qui Infulam Lycaoniam Ianiculo iungit, quae adhuc exftant, qui- bulquefidemconciliantgentilitiafiemmatahincin.deappidta, &iplapontiscufiodiaMatthaeiisDucibusetiamnumconcredi¬ ta, Pontificia Sedevacante. Multisinlcriptionibusornatas fiuiIIehasaedes,patetpraelertimexGruterio(4),RcinefioG), Seldenio G), & Kirchmannio(?), qui earum nonnullas, ad¬ dita huius loci defignatione, adducunt. Excitatis aedibus ur¬ banis, Tranftiberinas deferuiffe verofimile eft. Certe quidem tam laxo lolo potiti funt, ut Infulam condiderint, quae ex variis, iifque amplis, & elegantibus domibus coalefcit. De iis fingillatim dicemus, at primum vetera aedificia, quae hunc locumtenuerunt,ceteralqueviciniasperpendemus.Circus Flaminius quidem in regione Urbis nona litus praelertim de¬ (0 Cum epigraphe OkTAOTIA; & averfa par¬ te KftlnN. (2) Cum epigraphe: ANTIOXEliN.Enr. SIAA- NOY. AM. (3) Venuti Roma moderna Tom. 11. pag. 395. (4) Iufcript. Romati. pag. 22. n. 3. > Sc 6.3 pag. fieri- 31. n. 11., pag. 32. n. 12., & pag. 86. n.4., 8c 5. (5) Syntagma Infer, antiquar. Cl. IX. n. 67. pag. SII'j & Claff.XI.n. 105., &feqq.pag.645; (6) De Diis Syris Syntagm. II. Cap. I. pag. 220. (7) De funeribus Romanor. Lib. III. pag. 355'. edit. Lugd. Batav. apud Hackios 1672. f2   XLIV fcribendus venit, quem, fi Feftum, Liviique epitomato- rem (') audiamus, exftruxit Flaminius Cenfor, qui etiam viam Flaminiam Roma Ariminum ufque, five potius ad Rubico¬ nem amnem munivit, vel Flaminius alter antiquior, Plutar- chotefteC),quipopuloRomanocampumlegavitprocer¬ taminibus equeftribus obeundis. Celebratos hoc loco etiam ludos Tauricos Diis inferis facros, vel ludos Apollinares poli: Cannenfem cladem inftitutos vulgo fertur C), ac nundinas quinetiam habitas teftatur Tullius (4). Diu huius Circi reli¬ quiae confervatae funt, & multae adhuc exftant. Flabetur Bulla Caeleftini III. Rom. Pont., qua enumerantur, & con¬ firmantur bona Ecclcfiarum Sanctae Mariae Domnae Roiae, &. S. Laurentii in Caltello aureo, quaeque data elt Laterani annocidcxck.a.d.IV.nonasOctobrisindictioneX.,atque ibidem ita deferibuntur Circi Flaminii veftigia tunc exfilten- tia: Idem Cajiellum aureum cum utilitatibus fuis, videlicet parietibus altis, & antiquis in circuitu pojitis, cum domibus, ocaminatis,eifdemqueparietibusdeforisundiquecopulatis-. Hortum, qui ejl mxta idem Cajiellum cum utilibus fuis, & fuperioribus Criptarum; Populum foras portam iam difti Ca- ficlli a parte Campitelli, & regionis Sanfti Angeli ufque in Burgum61.Cajiellumenimaureummedioaevo,&Pala¬ tium quoque dictus fuit Circus Flaminius, ut cetera etiam vetcia ingentia aedificia a rudioribus infimae latinitatis feri- ptonbus vocata laepe fuerunt. Hinc Ecclefiae Sanfti Lau¬ rentii, quae in eius ambitu comprehendebatur, nomen in ajidlo aureo, tum etiam in Palatinis, corrupte vero Palla- Clm\ ac tandem TM claifura adhaefit, ut inter alios animad¬ vertit Ioh. Vignolius (s). Hoc etiam adnotavit Iacobus Gri- mal- (0 Lib. X. (2) Froblem. 6j. ad A“k• '4' Lib' ' (S) Liv. XXX. 38. Adnot. 5. ad S. Leonis III. Tom. II. Libri Pontificalis.   XLV maldiusO), qui agens de Monafterio S. Laurentii in Palati¬ nis, dicebatur, inquit, in Palatinis propter Circum (Flami¬ nium), quemignarePalatiumvocabant.ItaCircumNero¬ nisPalatiumappellant,&MontemS.Alicbaelishacdecauf- fa Palatiolum. De Ecclelia S. Michaelis in Palatiolo vide FTancifcum M.TurrigiumC)latiusdifferentem.Etiamapud Anaftafium Bibliothecarium in vita S. Petri Palatium Nero- nianum memoratur; quemadmodum in Codice Vaticano <h), ubi quaedam ad Balilicam Sanctorum XII. Apoltolorum fpe- ctantia habentur, Forum Traianum Traiani Palatium dici¬ tur, ac alibi Palatium Antonianum dictae etiam funt Ther¬ mae Caracallae. Quare Templum noftrum S. Lurentii in Pa¬ latinis, ac monafterium noviter reltauravit Hadrianus I., & coniunxitcumaliomonafterioS.Stephaniiuxtaipfumpofi- to, & in Baganda dicto, ibique Monachos ad pfallendum in tituloSanbtiMarciordinavit(4).Necaliudinfuper,quam noftrum putandum forte eft Templum S. Laurentii Palatini, cuius mentio eft in Bulla S. Leonis IX. (V, licet Bullarii Vaticani editores V) ad S. Laurentii in Pifcibus revocaverint, ac de eo dubius haeferit Eques Francifcus Victorius, dum IX. Templa S. Laurentio facra in Urbe recenferetO. Heic etiam fitum erat Templum S. Mariae Domnae Rofae, cuius mentio fupra occurrit, & habetur infuper in Ordine Romano, quod¬ que cum ceteris in conftrubtione Monafterii S. Catharinae de Funariis C) dirutum eft. Andreas Fulvius (?) aetate fua, Clemente fcilicet VII. regnante, exftitiffe etiamnum huius Circi formam, & veterum fedilium figna tradit, atque in (0 In Lib. Mf. de Canonicis Bajtlicae S. Petri Cap. II. (2) Bella Cbiefa di S. Micbele Arcbangelo} e di San Magno Cap. VII. pag. 20. (3) Sub n. 5560. (4) Vid. Florav. Martinellium Roma ex etbnica eius faera pag. 364. (5) Tom. I. Bullar. Baftl. Vatican. pag. 26. (6) Ibid. adnot. (c). (7) Differt. Pbilolog. pag. 85. (8) Ibid. pag. 371., & 374. ($0 Vrbis antiquit. Vid. infer, p. XLVIII. adn. 2.   XLVI eius cavea erectum laudatum Templum S. Catharinae cogno¬ mento dc Funariis, quod ibi ob loci commoditatem, & a- reae longitudinem funes intorqueri confueverint. Eiufdem Circi formam faeculo XVI. depictam, quam tamen multa ex parteingeniumfupplcverit,affertMontfauconius(0exLau¬ ro. 1orro iuxta Fulvii, aliorumque fententiam Circi latitu¬ do fpatium occupavit, quod inter officinas, five apothecas oblcuras, forumque Iudaeorum eft intcriectum. Huiufmodi quidem apothecae olirn iunctae erant non Circo folum Fla¬ minio, fed aliis etiam Circis. Numularium, nummorum fci- licet permutatorem,veleorumdemaeffimatorem, dcCirco FlaminiohabesinveteriinferiptioneaVignolioadductaW} VitriofficinaminibietiamfuilfedocetMartialis(?)dicens: Accipe dc Circo pocula Flaminio. Habetur Pomarius dc Circo Alaximo ante pulvinar apud Rei- nefiumO,&Sponium0),quinempeinternegotiantesmi¬ nutos, & faTOTTCAas olera vendebat, non autem viridaria cole¬ bat, ut placuit Sponio. Siquidem faepe occurrit in veterum inferiptionibus delignatus locus, ubi opifices officinas fuas aperiebant, ut in noftra Infcriptionum fylloge obfervaVi- mus V). Ad eas autem officinas, cum Card. Dominicus Gy- mnafius exacto faeculo Templum S. Luciae a fundamentis una cum adiunctis aedibus, & monafferio renovaret, efFoffae funt ingentes columnarum fpirae, & fcapi e Tiburtino lapide, ac quadratae eximiae magnitudinis. Quare lutnmus Circus in he- micyclumcurvabaturadplateamMarganamvulgodictamnon longe a Capitolio, ac flectebatur ad Aedem S. Angeli in Fo¬ ro Pifcario; eius autem ima pars, ubi Circi carceres habe- (0 exf/ic. Tom. III. Par. II. Lib. III. Cip. III. Tab. CLIX. pag. 27S. (2) Infcript.felecl.pag.141.poftDiflertat.de Columna I/np. Antonini Pii. ($) Epigraru. 75. Lib. XII. ban- (4) Syntagm. Infcript. antiq. CluIT. XI. n. 7^. C5) MifcelL erud. antiq. Se61. VI. pag. 230. (6) Tom. III. ClaflT. X. Secl. VI. n. 11. pag. 119.3 & leq.   XLVII bantur, pertingebat ad Aedem S. Nicolai ad Calcarias didi, & ad palatium Ducum Caefariniorum. Certe quidem Templum Apollinis CO,quodaliiMulis,velHerculiCudodi(aerumdi¬ xerunt, Circo Flaminio adhaerebat; nec aliud fpatium obti- nuifle, quam quod nunc tenet Aedes S. Nicolai, & adiun- 6lum Collegium Clericorum Rcg. de Somafcha, docent ve- fligia fphaericae parietis, cui adneduntur Ionicae columnae incendio corruptae, & ex veteri marmorato concinne refe- dae, quorum lingula adhuc in Cavaedio eiuldem Collegii confpicua lunt. De Aede altera Neptuno dicata, quae erat 'in Circo Flaminio, & cuius Aedituus erat Abafcantius Aug. Lib. (2), cum nullae fint reliquiae praeter antiquae inlcriptio- nismemoriam,haudpraedatpluribusdilferere.Ceterum condat, in ea fuiffie multa tum Signa, tum Anaglypha, quq- rum nonnulla Neptunum, Thetim, Achillem, Nymphafque marinas delphinis vedas referebant, & tamquam Scopae o- pera praedicabantur (s). Anaglypha quidem nonnulla affixa etiam nunc funt parietibus Aedium Matthaeiarum, Nymphas marinas d), & Pelei, & Thetidis nuptias (s) exprimentia, quae forte ad hoc Templum pertinuerunt, & in hac vicinia erui potuerunt. In iplo Circo Flaminio exditide etiam Si¬ gnum Achillis, Cephidbdori opus, tradit Plinius (6): verum hoc, ceteraque huiulmodi vel abfumplit temporum iniuria, veladhuccelatinvidatellus.QuidmemoreminfuperCirco FlaminiopropinquasAedesMartis,Vulcani,Bellonae,Ca- doris, Pietatis, ipdufque Iovis Statoris, quas Onuphrius Pan- vinius(7)dudiolerecenfuit?QuapropterdedgnataCirciFla¬ (1) Le antichita Romane 3 opera di Glo. Rati- Jla Piraneft; Roma 1756. Tom. I. n. 94. pag. ig. (2) Infcriptionem} quae exdabat in pratis Quin- £tiisinvineaquadam3refertOnuphriusPanvi- nius de Ludis Circenfibus Cap. XVIII. 3 ubi de Circo Flaminio, pag. igg. edit. Parif. ann. 1601. & ex eo etiam ceteri. * minii (3) Plin. JVatural. Hift. Lib. XXXVI. Cap. V. (4) Vid. Tom. III. Claffi II. Tab. XII. Fig. I. pag. 21., & Tab. ead. Fig. II. pag. 22. (5) Ibid.Claff.VIII.Tab.XXXII. pag.61. 3 & Tab. XXXIII. pag. 64. (6) Loc. cit. (7) Loc. cit.   XLVIII minii longitudine, a platea nempe Margana ad Aedes Cac- farinias, ccterifque eidem adiacentibus aedificiis, apparet Ae¬ des Matthaeianas id loci nunc tenere, quod media fere pars Circi olim tenere debuerat. Tertis quidem cft Pyrrhus Ligo- rius (0, atque etiam laudatus Panvinius (2), paucos annos an¬ te harum Aedium conrtructionem, multam Circi partem ad¬ huc integram exftitiffe, praefertim eo loci, ubi etiamnum e- rigiturdomusaLudovicoMatthaeioexcitata,dequainfe¬ riuslatiusdicendumerit;cumibidem,utroqueetiamferipto- re afferente, multa marmora effoffa fuerint, ac potiflimum Anaglyphum Circenfibus ludis infignitum, quod non aliud, quam noftrum fuo loco adduclum (s), exiftimamus. Nec il¬ ludpraetereunduminCavaedioMatthaeianaenortraedomus parietibus affixos cerni quatuor arcus femicirculares, foliis, rolifque diftinctos, quorum duo integri adhuc funt, duo vero dimidia fere parte fccti (fragmentis hinc inde fparfis) quof- que fupra Circi Flaminii carccrum fores olim exftitifie exifti- mat CO Librode’CerchirComtnciavaqueflo mus Marganiae,ubiinhemicycliformamdefne¬ (il Flaminio) dalla piazza de' Morgani3 e finiva appunto al fonte di Calcaram, abbracciando tut- tclecafede'Mattel3eflendendofifinoalianuo- *i'a •via Capitolina 3 ripigliando in tutto qtiel giro j/joltealtrecafe. Daqueflolatode'MattelilCir¬ copoebiannifonoeraingranparte inpiedi;la parte piu intiera flava nel fto della cafa di Lo- dovicoMattel3ilqualehacavatounaquantita di tr avertini dei Circo in qttel luogo 3 e tr ovatovi tPali i Ce ui fregio in u» ran pt ina- gliato de' putti 3 che fopra de' carri facevano i giuocbi Circenft, e nella cantitia trovaronfi altri travertim 3 e videft alquauto dei canale 3 per do- ve pajfava /'aequa, la quale ora chiamap it fon¬ te di Calcaram, forfe per la calce, che hi fi macerava. (z) Loc. cit. pag. 129: Porta Carmentalis, fecundo murorum Vrbis ambita, quos T. Tatias eam Romulo regnans exfiruxit, radicibus Capitolii condita fuit, a qua llaud procul Circus Flaminius erat, ad eam partem vergens, ubi nunc efi Vrbs Roma. Cusus longitudo protendebatur ab area do¬ bat 3 uf'que ad novam viam Capitolinam 3 ubi car¬ ceres>& XIII. ojlia erant: latitudo vero fuit ab AedibusLudoviciMatthaeittfqueadCalcariaefon- tern, ubi efl ojfctna tin:loris ambiens eo circuitu apothecasobfcurasMatthaeiorum3&multasdiver- forumprivatasdomus. CuiusfundamentiseTibur¬ tinolapide,quaeMatthaeiorum,&vicinisaedi¬ busfuppofitafunt,antealiquotanniserutis3mar¬ morea tabula pueros currilia ludrica agitantes in- cifos continens reperta fuit. Adhuc vero exflat an¬ tiquus Circi euripus limpidijftmus tincioris ofpci- nam praeterfluens 3 qui fons Calcariae a vicinis (quae ibidem coquebantur calcis fornacibus ) di¬ citur. Eius Circi arena lateribus minutijpmis tranf- verfe flratis opus tefjellatum fuprapofitum habebat. Vide&Fulvium l.ib.IV. cap.deCircoFlaminio, ubi ait: Longitudo eius Circi ab Aedibus nunc D- Petri Margani3 (snS.SalvatoreinPenjiliufque adAedesD.LudoviciMatthaeiiuxtaCalcara- num, ubi caput Circi. (3) Tom. III. CiaIT. VIII. Tab. XLVII. Fig. II pag. 87.   XLIX mat Carolus Blanconius liberalium artium cultor eximius, idemque fcientiffimus, & Ludovici Saxonicae Aulae a confiliis, & komae Oratoris, a quo Circi Caracallae formam, & univerfam illuftrationem praeflolamur, meritiflimus frater; ratus fcilicet hoc loci, vel non longe effodi eofdem iam potuif fe, & dein fedem hanc, atque ufum nactos fuiffe. Quae in- fuper ad hunc Circum flmul pertineat, reflat adhuc decur¬ rens aquae vena, quae habetur in crypta vinaria cuiufdam domus Matthaeianis Aedibus propinquae (0. Abundare enim aquae copia Circum opus erat, fi XXXVI. crocodilorum lpeftaculum ibidem edidit Auguflus (fi. Nec nifi ad Cir¬ cumfpeffaffeverofimileeflaliquamquoqueaquaepartem, quae etiamnum decurrit iuxta proximam, cui ab ulmo no¬ men efl, cloacam. XIV. Iam monuimus Matthaeiorum Infulam in plures difpefci Aedes, quae tamen ad unam, eamdemque gentem olim pertinebant. Antiquiores eae effe videntur, quae me¬ ridionalem plagam, & plateam tefludinum, quod eae fontis crateri infculptae, refpiciunt; in qua nimirum aquae Salo- niae, Gregorio XIII. Romano Pontifice, in Urbem Mutii Matthaeiicurisdedubtaefonscernitur, quatuorvafibus,con- chilioruminflar,exAfricanomarmore,totidemqueaeneis delphinorum fimulacris a Thadaeo Landinio Florentino an¬ nocioidlxxxv. conflatisinfigniterornatus(fi.Haequidem AedesaubloremhabentIacobum Matthaeium,quiproiifdem condendis architectonica opera ufius efl Nanni Bigii, earutn- que parietes diftingui voluit Thadaei Zuccherii pibturis, qui¬ busFuriiCamillifacinoraexprimebantur,licetquaeinfron¬ te erant, obdubta calce paucis ab hinc annis inepte oblittera¬ tae (1)Vid.VenutiumanticaRomaPar.II.Cap. pograpbia Lib.VII.pag.161.ater.edit.Venet. III. pag. 87. 1588., & Andream Fulvium Anticbita di Roma (2) Dio Lib. LV. Lib. V. pag. g21. a ter. Venezia 1588. ($) Vid. Barthol. Marlianium Vrhis Romae To-   L tae iam fuerint, iis, quae funt ad latus, dumtaxat referva- tis. Duo etiam interiora cubicula eiufdem pennicillo exorna¬ ta infuper fuerunt. Ante Templum SS. Valentino, & Seba- ftiano dicatum furgunt Aedes, quas Iacobi Barotii a Vignola opera condidit LVD.MATTHAEIVS. PETR ANT. F1LIVS. LVD. NEPOS ut supra fores flat epigraphe conditorem ciens, quaeque ad Matthaeios Paganicae Duces iam fpeclabant, multifque ve¬ terum monumentis inftru&ae erant. Nec alia, quam quae heic fervabantur Signa, cenfenda funt, quae fub Caefaris AuguftiO), & Aurelii Caefaris (2) nomine in Aedibus Ludovi- ciMatthaeiihaberiait,acetiamediditlacobusMarcuccius; quorum alterum habetur etiam inter Icones a Heronymo Fran- zinio editas (A. Hifce Aedibus aliae adhaerent prope ulmi cloa¬ cam, quae Bartholomaeum Brecciolium architectum agnofcunt. Hincfequunturaliaea LudovicoMatthaeio(fi PhilippoTi¬ tio credimus ) aedificatae anno cididlxiv. ante Divae Luciae Templum,fedabAlexandroMatthaeioexftructac,fiearum foribus infcriptum lemma attendamus, ut revera attendi de¬ bet (A, Bartholomaeo Amannatio, ut nonnullis placet, vel Claudio Lippio, ut alii cenfent, formam aedificii praebente. Earum interiora cubicula Francifci Caftcllii picturis diitin- guuntur. Has vero nunc tenent Caietani Duces, qui fibi iplis compararunt, quemadmodum & Nigronios, & Duratios, & Serbellonios dominos pro divertis temporibus eaedem an¬ tea agnoverant W. (0 Antiquar. Statuar. Vrbis Romae Libri IIT. Romae 1623. j edidit lacobus Marchuccius in fol. Lib. III. Tab. 93. (2) Ibid. Tab. 94. (3) Icones Statuar, antiquar. Vrbis Romae Hie- ronymi Franzini Bibliopolae ad* Signum Fontis 0- pera. Romae 15S9. in 12. XV. Ve- (4) Q uare h°c Joco corre&a volumus} quae a Titio decepti temere diximus Tom. III. CIa(T. VIII. Tab. XLVII. Fig. I. pag. 87. (5) Vid. Defcrizione delle pitture, fculture 3 e arcbitetture efpojle al pubblico in Roma, opera co- minciata dalPAbate Filippo Titi &c. pag. 86. fino a 90.5 tum etiam Itinerario ijlruttiuo divifoinot- to   LI XV. Verum non id nos nunc agimus, ut has veluti appendices Aedium Matthaeiarum defcribamus; Potiori namque iure ad fe nos avocant, quae R magnificentiores, & fplendidiores firnt iuxta dextrum latus Ecclefiae, & Mo- naflerii S. Catharinae de Funariis, quaeque Afdrubalem Mat- thaeium Cyriaci fratrem auCtorem habent. Id docet infcri- ptio in cavaedio exfiftens, quae ita fe habet: ASDRVBAL.MATTHAEIVS. MARCHIO.IOVII VETERVM.SIGNIS.TAMQVAM.SPOLIIS EX. ANTIQVITATE.OMNIVM.VICTRICE.DETRACTIS DOMVM. ORNAVIT. ET. PRISCAE. VIRTVTIS. INCITAM EN TVM POSTERIS.RELIQVIT. ANNO.DOMINI.cioiacxvi Carolus Madernius architectonicum opus rexit, & interiora cubiculafuispennicillisexornarunt Francifcus Albanius, Iohannes Lanfranchius, & Dominicus Zampierius. Pictae vero tabulae etiam exftant hinc inde difpofitae, quae Cafparis Caelii, Chriftophori Roncallii, Iacobi Trigae, Caroli Sara- cenii, Hieronymi Mutianii, Michaelis Angeli Morigii, Gui- donis Renii, Ioh. Francifci Barbierii, Petri Paulli Gobbii, Petri Berettinii, Michaelis Angeli Bonarotii, Valentini Galli, aliorumque opera praedicantur. Alt nulla res & celebriores, &praeftantioresfecithas Aedes,quamveterummonumen¬ torum undique difperforum praeclara congeries. In cavae¬ dionamque, fcalis,acperiltylioligna,protomae,anagly¬ pha, cippi, aliaque huiufmodi occurrunt, quae fummatim innuere fat erit. Cavaedium habet praefertim Signa Apolli¬ nis Sagittarii, & Herculis, tum Romanorum Impp. Iulii Cae- faris,Caligulae,Claudii,Neronis,Domitiani,aliaqueGla¬ diatorum. Inter Anaglypha fpectandum praecipue venit fa- crificium Capitolinum, & Militum Praetorianorum feditio. Hinc to Jiazioni, o olornate per ritrovare con facilita tna &c. di Giufeppe Vafi n. 195. pag. 198. tutte le anticbe 3 e moderne magnificenze di Ro- §2   LII Hinc fi exitum quaeras verfus Divae Catharinae Templum, habebis Nymphas marinas a delphinis, ac tritonibus ve- btas, Bacchi, & Ariadnae nuptias, & Mulas defundo Poe¬ tae famulantes, quas marmore infculptas cernas. Si vero me¬ ridiem verfus egredi lubeat, occurrent Amores Deorum vi¬ ctores, Polyphemus, Se Galathea, Sphinx fcopulo iniidens, & Oedipum aenigma folventem aufcultans (0, tum Bacchi, & Herculis uterque thronus marmoreis tabulis expreffi. Si ad porticumretrocedas,&ibidemconditas,&DeumMithram, & Hylam a Nymphis raptum anaglyptico opere exhiberi in¬ tueberis. Si fcalas albendas, Bacchans occurret, dein Fortu¬ na, tum Iuppiter Signis expreffi; hinc parietes ornatos con- fpicies Anaglyphis referentibus utramque venationem Com¬ modi, & Philippi Impp., ac Pelei, & Thetidis nuptias; ac tandem ipfos fcalarum gradus identidem di/tinctos offendes pulvinaribus, quae quaternario numero inventa ad Curiam Hoftiliam & fuperius, & fuo loco monuimus. lam ventum ad periftylium, quod aulam refpicit, atque heic pedem figens fuper aulae poftes cerne viri incogniti Protomem, tum leor- fim Aefculapii Signum ad laevam, quod medium habent co¬ lumnaeduaemarmoreae,quibusCybelisduoSigillafuper- ftant, tum aliae fimiles e regione aditant duo pariter Cybelis Sigillafuftinentes.Hincduaealiaecolumnaeadpoftesdif- pofitae, totidemque contra itantes capitulis caniftriformibus initructae; tum iacens inferne ante Aefculapii Signum Sar¬ cophagus vindemiali opere infignitus, ac muris appicta Ana- glypha, quae referunt tabulam Heliacam, Priami occifionem, & lacrificium taurile lovi, & quatuor anni tempeftates. Ex hoc loco Ipectare licet cavaedii parietibus inhaerentia hinc inde cetera praeclara Anaglypha, quae nimirum rurfus ex- hi- (0 Hoc Anaglyphum ab operis noftris omiflum eft, caruitque aeneo typo j quo ipfum Le&oribus nothis exhiberemus.   LIII hibentPelei,&Thetidisnuptias,&Proferpinaeraptum, tum Venerem concha veftam, pompam Iliacam, aliam Bachicam, Orpheumcantumulcentemanimantia, Meleagri, & Atalantae fabulam, Bacchi, & Ariadnae nuptias, facrifi- cium Iovi, & lunoni, Antilochum Patrocli mortem Achilli nunciantem,tabulamvotivamAefculapio,Hygiae,Fortunae, hx. Baccho, aliaque bene multa, quibus Icientes parcimus. Quare etiam memorare lingillatim negligemus plures praecipue cippos, aliaque marmorea monumenta, quae in ambulacro fubdiali, quo cavaedium veluti bipartitum cernitur, adlervan- tur.Aefculapii, &Hygiae,aliaqueiacentiaSileni,Flumi¬ nis,acSomniSignaheicIparlimdifpolitatantumindicafie litfatis.Sicelebrem, aclingularemprorfus M. Tullii Ciceronis Protomen innuerimus in Aedium pinacotheca exlillen- tem,nileritreliqui,quodexponamus;liquideminteriora cubiculaomnicarentantiquitatisornamento. XVI.Nequeetiamhaecipfatamegregiavetullatismo¬ numenta &illuftratoribus,&laudatoribuscaruerunt.Videas liquidem praeftantiora Anaglypha adducta a Sponio, Mont- fauconio,Bellorio,Aleandrio,Spenceio,Winckelmannio, aliilque; multalque veteres Inlcriptiones fere ab iis omnibus editas, qui eas in unum collegerunt, quolque fuperius cita¬ vimus, cum de Hortorum Caeliorum monumentis fermonem haberemus. Nec tacuerunt exteri Scriptores, noltrique etiam Topographi, praefertimque Ficoronius (0, Venutius 0>, Va- lius (s), & Titius (4) coadtam heic tantam & monumentorum, & elegantiarum congeriem.Atdelideranduminfuper erat, has Aedes, utpote quae 1'eorlim ab Hortis Muleum re¬ ferantlocupletiffimum,illuftratore,actantaefupelleftilisedi¬ tore haud carere. Iam porro hanc lortem tulerant & lulti- (0 Lefingolarita diRoma moderna Cap.VILp.65. (3) Loc. cit. n. 193. pag. 198. (2) Roma moderna Tom. II. pag. 358. (4) Loc. cit. pag. 86., e 461. nia-   LIV nianearum Aedium Tablinum (0, & Mufeum gentis Odefcal- chiae (*), & Antiquitates, ac ornamenta alia Aedium Barberi- niarum(s), necqualemcumqueetiamdefideraverat defcri- ptionem ipfum Strotianae domus Mufeum U); quibus nunc baudinferioreseruntAedesMatthaeianae,eilqueadnexa venerandae vetuffatis cimelia. XVII. Aff utinam & Horti, & Aedes Matthaeiorum, eifque adiuncta monumenta eum nacla fuiffent illuftratorem, & editorem, qui eorumdem praedandae, ac dignitati par eflet. Si exiguum quidem ingenium nofixum, cui eadem concredita, perpendatur, dolendum inprimis elt eorumdem exornationem, promulgationemque nobis potiffimum obtigifie, tumineaincidifle tempora, inquibus variisdidrahebamur itudiis, & occupationibus longe quidem inter fe diflitis, ut edita interim per nos opera latis offendunt. His acceffe- runt multarum morarum interiecfa impedimenta, obquaenobis in medio veluti curfu didentis tum mentis alacritas, tum piopofiti noflri unitas, quae ab affdua fyffematis, & metho¬ diiecoidatione,&exfecutionependet,identidemminui, tuibaiiquevidebatur.FluxeruntiamXlf., &ampliusanni, ex quibus hanc provinciam lufcepimus, quam quidem per hoc tempus tot vicibus & affumpfimus, & intermifimus, ut faepeiamexantlatoslaboresinffaurare,&.multosmoxinir¬ ritum ceffuros abfumere cogeremur. Non hoc tamen noffra culpa factum quis credat, quibus operis ardor, & fedulitas (0 Galleria Giufliniaua dei Marcbefe Vincett- z° GiuftMani Par. I. Tavole CL1I., e Par. II. Taveh CLXV'11. iSji. infol. (2)M armi, Statue, Carnei, ed altro efflenti ”'&n Appartamenti, e Galleria delPEccmo Sig. D. Livio Odefcalcbi Daca di Bracciano, Nipote d’lnmcenzo PP. XI. in fol.,70z, (Trafponati gran parte in Aranquez ). Hinc prodiit Mufeum Odefcalcbum,fveThefaurusantiquarumGemma¬ rum 6-c. Accejferunt aerea Deorum, ac Dearum fit idola3 marmorea item anaglypha, mouumentaque alia plura &c. (Illuftratore Henrico BrulaeiOj & Ni- °olao Galeottio) Tom. II. Romae 1751. in fol. (3) Dominici Panaroli Mufeum Rarberinum. Ro¬ mae 1656. in 4. Hieronymi Tetii Aedes Rarberi- nae ad Quirinalem. Romae typis Mafcardi 1642. in fol. A pag. 197. incipit recenfio veterum Pro- tomarum, & Signorum ufqne ad pag. 220. (4) Defcrizionc dei Mufeo Strozzi 3 di Gio. M. Crefcimbeni3fraleProfedegliArcadi.   LV fit maxime ia deliciis, quofque properatio ad finem tam¬ quam ex naturae incitamento urgeat vel in ipfa rerum au- fpicatione. Nonhinc tamenexcufationempeterenobismens eft aut ofcitantiae, aut negligentiae noftrae; fied id potifli- mum nunc monitum voluimus, ut diverforum temporum, quibus noftrae per univerfum opus difleminatae aflertiones refpondent, quaeomninoneceflariaeftet,ratiohaberetur• Quare Lebtorum noftrorum humanitate confifi non aliud nunc exponerefatagemus, quamtotiusnoftrioperistexturam, vel profpectum, quem quidem paucis expediemus. XVIII. Illuftrandae ingenti huic veterum monumento¬ rum colledtioni manum iam admoverat Rodulphinus Venu- tius Patritius, &. Academicus Etrufcus Cortonenlis, Nicolai Marcelli Marchionis, & Philippi Praepofiti Liburnenfis Vi¬ rorumCll.frater,BenvenutiIofephiMarchionis,acubiculo Petri Leopoldi Magni Ducis Etruriae, Socii, & Amici noftriobfuamvirtutem, acfuavitatemfpectatiliimipatruus, Romanarum antiquitatum Praefes, ac Vir denique multis e- ruditis,doctitqueeditisVoluminibuslongenotiftimus.At vix opus hoc aggreftus fuerat, cum ecce mors ipfum peremit a.d.III.Kal.Aprilisannicididcclxiii.,necultraprimiVo¬ luminis Tabularum, quae Statuas comprehendunt, illuftrationem procellit. Fadtum interim eft, ut onus in nos conla¬ tum fuerit adornandae quartae Bellorianae editionis Vejiigii veteris Romae, & fex Tabularum anecdotarum elaborandae Appendicis (0; quae licet ab imperita, ac iuvenili prorfus manu profectae tunc forent, cum tamen aliquod approba¬ tionis fuffragium a doctis viris obtinuiftent, in caufla fuerunt, cur oculi in nos conficerentur, & digni, qui in Venutiani ope- (i) Haec omnia paraverat etiam ante nos Ioh. Bapt. Piranefius initio Tom. I. Antiq. Roman. uf- que ab anno 1756., fed ut Opus omne abfolveret, & una ederet univerfum, priorumVoluminum pu- blicationein retardavit, & noftrae editioni tempo- ris principatum reliquit.   LVI operiscomplementumfuccederemus, infuperhaberemur. Qual'e ipiius apographum, quod & emandatum, & aliqua e- tiam fui parte reformatum fuerat a Contuccio, olim Kircheriani Mufei Praefecto, & deletae Loyolitarum Societatis Alumno, mox vita functo, traditum nobis fuit, quod antequam iterum expendei emus, umveilos archetypos monumentorum, quae tum in Hortis Caelimontanis, tum in Aedibus urbanis iVlat- thaeioi um adfervabantur, fingillatim invifendos, ac pene con¬ trectandosanobiseflecenfuimus.Verumutideafedulitate, acfeiefecuiitateabfolveremus, quaenosvelabofcitantia,vel ab ingenii licentia immunes faceret, focios nobis adiunximus Ioh. Baptiflam Vicecomitem Romanarum Antiquitatum Prae- hdem meritiflimum, eumdemque doctiflimum, atque ipflus filium Ennium Quirinum vix ex ephebis egreflum, ob miram vetcus eruditionis peritiam, qua inter cetera difciplinarum ornamenta praecellebat, plurimi aeftimandum, nunc vero in dies & fcientia, & fama magis inclarcfccntcm, & PII Vi. P. O. M. a fecretiori cubiculo, qui mihi fcilicet praefto effent, quaeque forent vel adnotanda, vel conftabilienda, difcuffis fententiis, 6t omnibus naviter expenfis, una mecum decer¬ nerent. Multa fane Venutius ftatuerat, multaque etiam pu¬ blica voce invaluerant, quae typis exprefla iam apud vulgum fidem omnem obtinuerant. At nos veritatis unice folliciti, & fymbola omnia, & vultuum lineamenta iuxta critices re¬ gulas, & ope ceterorum monumentorum expendentes, mul¬ ta immutanda, atque aliter exponenda cenfuimus. Hinc fa¬ cium eft, ut multae Statuarum illuflrationes, quas i. Volu¬ men compleCti debebat, expunctae fuerint, eilque noftras subrogandas curaverimus. Hinc etiam faftum, ut ceteras live infciiptiones,fivenomenclaturas,quasnonnullisTabulis, ex quibus reliqua Volumina compingi debebant, iam ipfe adle-   LVII adleverat, eidem etiam cenfurae, ac reformationi fubiecerimus. Quid hac in re a nobis geftum fuerit, fupervacaneum erit nunc exponere, cum haec quidem illufirationes, & adnotationes no- ftras legentibus patere facile poffint. Ac fane multa etiam ex Venutii explicationibus fuperflua, vel nimis nota amputavi¬ mus, Graecum textum adduftis ex Latina verfione Graecorum Scriptorum locis adiunximus, & omnia in eum ordinem, quem nobis propofuimus, accurate redegimus. Nec etiam minorem infumpfimus diligentiam, ut Scalptorum erratis, quae commode licebat, medicina aliqua per nos fieret.• Mul¬ tae fane fabulae non omnino eleganter caelatae occurrunt, quumnonomnesvelimmutare,velexpolireinnoftraefiet poteftate. Ceterum id faltem curavimus, ut Caesarum, ceterorumque imagines fatis cognitae ad veram vultus, quae in autographo haberetur, formam redigerentur, ceteraque omnia fuis prototypis apprime refponderent. Nec alia fane poftopusaScalptoribusomninoabfolutum,antequamnos hanc provinciam fufciperemus, follicitudo nobis relinque¬ batur. XIX. Sed iam qui ordo a nobis fervatus fuerit, innuamus. Numina quidem praecedere aequum erat, tum ut Divinitati, quae his etiam indiciis a gentilitate petitis adfiruatur, inprimislitaremus,tumutveterumethnicorum,quorum monumenta tractamus, facro inhaereremus fyftemati. Quare Numinaipfa, quaeStatuisexpreffahabebamus,cumaliamaiorum gentium, eademque felecta, insignia, & eximia cenferentur, alia vero minorum gentium, eademque adfcriptitia, minufcularia, & putatitiadicerentur,infuasclafiesdi-* ftribuerefiuduimus,utproindefuuscuiquehonorolimetiam redditus fervaretur. Hinc Caeleftes Deos primae Claffi ad- fignavimus, Terreftres fecundae, Silveftres tertiae, Semideos, h five   LVIIl five Indigetes quartae, ac quintae demum Deas Virtutes. Tum DiiseorumMiniftros,&Sacerdotesfubiunximus,quibusin Clafle fexta factus eft locus. Sacerdotibus fuccedunt Magi- ftratus, ac proinde ex temporum ratione Confules feptimam Claflemobtinuerunt.HisfubnectunturImperatoresRoma¬ ni, quibus Claflis obtava occupanda obtigit. Barbari Reges nonnifi pone eorumdem domitores collocandi erant, atque hinc Clafle nona ipfos comprehendi opus fuit. Decima Mi- fcellanea continet; undecima Statuas iacentes. Atque haec eit totius I. Voluminis, quod CVI. Tabulis conflat, difpoll- tio.Nonabfimilirationefecundumdigeftumeft,quodXC. Tabulas continet, quodque in Protomis, Hermis, Clypcis, & nonnullis Anaglyphis fimplicioribus referendis verfatur. Hinc Protomarum Deos exprimentium Claflls prima; tum Protoma- rum Heroas, & Viros illuftres praefeferentium Claflis fecunda; dein earumdem Imperatores, & Auguftas repraefentantium Claflis tertia; ac tandem Imperatores Germanicos faeculi XV., Si XVI. exhibentium Claflis quarta. Sequitur Claflis quinta, quae Capita incognita; fexta, quae Hermas, feu Terminos; septima, quae imagines quadratis, & rotundis figuris inclufas; obtava, quae Anaglypha cum variis homi¬ num, & mulierum imaginibus; nona, quae figuras anagly¬ pticaslingulares;decima,quaetrophaea,pulvinaria,capitula, bales, truncos, & candelabra; ac tandem duodecima, quaelarvasfcenicas,&ceteramonumentamifccllacontinet. Sed iam tertium Volumen procedit, quod Anaglypha, Sarco¬ phagos, Cippos, & Infcriptiones compleblitur, ac ex Tabulis aeneis LXXIV. coalefcit. Ordo Claflium etiam in hoc ipfo Volumine lervatus eft, ut proinde prima comprehendat Deo¬ rum imagines; fecunda Fabulas ad Deos pertinentes; tertia Bacchanalia; quarta Monumenta Aegyptiaca; quinta Mo- numen-   LIX numenta Graeca ante bellum Troianum; fexta eadem poft ipfum bellum; feptima Monumenta Romana hiftorica; odta- va ritus, mores, & artes veterum; nona Sarcophagos, & Urnas fepulcrales; ac decima tandem veteres Infcriptiones, quaeinfuperordine, quemGruterius,ceteriqueinvexerunt, difpofitae a nobis lunt, ac proinde in XIV. SeHiones di- geftae confpiciuntur. Eaedem GCCXXXII. plus minus numerantur, & earum fere omnes ab aliis editae iam fuerant. Neque nos eas dumtaxat, quas in Hortis, & Aedibus Matthaeiorum deprehendimus, proferre fluduimus, fed infuper eas omnes huc revocavimus, quas olim ibidem exftitilTe vel nosipficognoveramus,velexearumdemcolledoribusconflabat; ne in hac noflra Monumentorum congerie quidquam deeffet,quodolim&celebres, &praellantesHortosnoftros potiffimum effecerat. Indices etiam Infcriptionibus fubieci- mus,quorumprimusScaligerexemplarpropofuitinGrute- riano thefauro. His tandem fubiunximus generalem etiam omniumpotiorum, quaeIII.hifceVoluminibuscontinentur, rerumIndicem,cuiuspraefidio,quodcumqueopuseffet,a LeHoribus nollris inveniri poffet. XX. Haec elt univerfa Operis noffri compages. An verofingulaprodignitatepraeftiterimus,nonnoffrumeftiudi- care. Id tantum affirmare poffumus, omnes tum animi, tum fedulitatis nervos nos intendifle, ne vel aliquam muneris noffri partem neglexiffie, vel a ratione, ac luce, quae pecu¬ liares habentur faeculi XVIII. dotes, ac notae, quaeque fin- gulas facultates attingere aequum eft, quidquam abfonum admiffife videremur. Quapropter id nobis propofuimus, ne inreplerumquedubia,&ancipitivelfomnia,velcommen¬ ta in fcenam produceremus. Qui enim vel natura duce, vel cogitandi arte magiftra veritatem confeHari, & rerum eviden-   LX tiae infidere didicit, aegre fane fertur vel ad incerta, vel ad cerebrofa. Saepe igitur contenti fuimus varias Antiquario¬ rum fententias proferre, & intactum fimul argumentum re¬ linquere,nevideremurnovamtantumopinionemincete¬ rarum acervum inducere, vel coniedturas conieduris addere. Quid enim infuper congefia vel vacillans opinio, vel levis coniectura, aut etiam audax paradoxum litterarum incre¬ mentoconducit?Pabulishilcequidemfuaviflimisfruantur, quibus in rc quaque leviffima libi plaudere, etymologiis ab- firufiora quaeque definire, remotiorum aetatum aenigmata folvere,fequiorumtemporumruditatesingerere,nugarum feries oftentare, umbras pro corporibus amplexari, carbones pro unionibus vendere (qui elt antiquariae facultatis abutus longeeliminandus)volupeelt.Noscerte,quianimicaulla, & ultro delatae occupationis occalione, huiufmodi ftudio vacavimus, haud fane operae noltrae poenituit, qui nimirum folidas hiftoriae, chronologiae, veterum linguarum, ar¬ tium, ac rituum utilitates unice lpeckantes aliquam videmur & noftris notionibus, & famae quinetiam accelfionem fecii- fe, tumampliflimaehuiusUrbis,veterumelegantiarumundi¬ que feracillimae, incolatum gratiorem nobis, & iucundiorem praeftitific. Quare ab omni ingenii licentia, quae vel verita¬ tis criterio adverfaretur, vel quae nullo tum rationis, tum auctoritatis valido fundamento niteretur, femper abhorrere nobis folemne fuit; ac quidquid, vel omnibus tacentibus, vel omni deficiente exemplo, a nobis proferendum fuit, nonnifi modefte, & fere cum trepidatione propofuimus. Rati infuper ex monumentorum inter fe collatione, quae vel rerum affinitate, velquacumquealiarationelibiinvicemrefpon- derent, veram plerumque prodire pofle fignificationem, vel receptis fcriptorum fententiis maius etiam polle robur accedere,   LXI dere, id praefertim curavimus, ut quae fimilia ia ceteris Mu- feis, & in iplis Antiquariorum libris exftant monumenta, tamquam conflantis, & indubiae veritatis vadimonia propo¬ neremus. Nihilenimmagis valetadiudiciumderealiqua tum ob vetuftatem, tum ob obfcuritatem incerta quoquo modoiufte,re&equeferendum,quamconflansmonumento¬ rum conformatio, & eorumdem accurata comparatio. Haec fuit inftituti noftri ratio, cuius fane ope fi quid dignum hac luce elicimus, iri totum veritatis, & certitudinis, quam gerimus, notioni acceptumeftreferendum;finminus,haud fateri nos pudebit, impares nos huiufmodi Audio fuifie, quod aliorumgratia,nonnoftromarteexcoluifleingenueprofi- tentes aliquam faltem veniam hoc iplo nomine confecuturos confidimus. Qui legis, feliciter vale. INDEX TABULARUM Quae m hoc. Statuarum Volumine continentur. CLASSIS I. Chiae continet deos caelestes. Tab. I. Iuppiter. pag. i. Tab. II. Apollo Citharoedus, pag. 3. Tab.III. Apollo Citharoedus, pag. ead. Tab. IV. Apollo. pag. 4. Tab. V. Apollo Pythius, pag. 5. Tab. VI. Apollo Sagittarius. pag. ead. Tab VII. Apollo, pag. (5. Tab- VIII. Apollo, pag. 7. Tab. IX. Apollo, & Marsyas. pag. 8. Tab. X. Mars. pag. ead. Tab. XI. Mercurius. pag. 9. Tab. XII. Bacchus. pag. 10. Tab. XIII. Bacchus asino insidens, pag.ead. Tab. XIV. Bacchus,pag.u. Tab. XV. Amor. pag. 12. Tab. XVI. Amor cum Herculis symbolis. pag. ead. Tab XVII. Amor canens. pag. 13. Tab. XVIII. Venus, pag. 14. Tab. XIX. Amicitia, pag. 15. Tab. XX. Minerva. pag. ead. CLASSIS II. Quae continet DEOS TERRESTRES. Tab. XXI. Cybele, pag. 17. Tab. XXII. Cybele, pag. 18. Tab. XXIII. Cybele, pag. 19. Tab. XXIV. Cybele, pag. ead. Tab. XXV. Ceres. pag. 20. Tab. XXVI. Ceres, pag. ead. Tab. XXVII. Ceres, pag. 21. Tab. XXVIII. Ceres, pag. 2$. Tab. XXIX. Ceres. pag. 24. Tab.XXX.Ceres.pag.ead. Tab. XXXI. Ceres, pag. 25. Tab. XXXII. Urania, pag. 26. CLASSIS III. Quae continet DEOS SILVESTRES. Tab. XXXIII. Faunus, pag. 27. Tab. XXXIV. Faunus. pag. 28. Tab. XXXV. Faunus, pag. 29. Tab. XXXVI. Faunus, pag. ead. Tab- XXXVII. Faunus, pag. 30. Tab XXXVIII.Faunus,pag.32. Tab. XXXIX. Faunus. pag. ead. Tab. XL. Faunus, & Satyrus, pag. ead. Tab. XLI- Silenus, pag. $3. Tab. XLII. Silenus. pag. $4. Tab. XLIII. Silenus, pag.' ead. Tab. XLIV. Diana, pag. 35. Tab. XLV. Diana, pag. 36. Tab. XLVI. Diana, pag 37. Tab. XLVJI. Flora, pag. ead. Tab. XLVIII. Pomona, pag. 38. Tab.XLIX,Pomona,pag.39. Tab. L. Pomona, pag. ead. Tab. LI. Nais. pag. 40. CLASSIS IV. Quae continet DEOS INDIGETES. Tab. LII. Hercules, pag. 41. Tab. L111. Hercules, pag. 42. Tab-LIV. Hercules, pag. 43. Tab LV. Bellerophon, pag. 44. Tab. LVI. Aefculapius» pag. 47. Tab. LVII. Aefculapius. pagt 49. Tab. LVIH. Hygia, pag. ead. Tab.LIX.Hygia,pag.ji. Tab. LX. Amazon. pag. 53. CLASSIS V. Quae continet VIRTUTES DEAS. Tab. LXI. Pudicitia. pag. 56» Tab. LXII. Pudicitia, pag. ead. Tab. LX III. Fortuna, pag. 58. Tab. LXIV. Fortuna, pag, 59. Tab.LXV.Abundantia.pag.60. CLASSIS VI. Quae continet DEORUM SACERDOTES ET MINISTROS. Tab.LXVI.Camilluspuer.pag.62. Tab. LXVII. Bacchans. pag. 63. Tab.LXVIII.Bacchans.pag.6j. Tab. LXIX. Bacchans. pag. ead, Tab. LXX. Bacchans. pag. 66. Tab.   Tab. LXXI. Sacerdos Cereris facrificans. pag. 67. CLASSIS VII. Quae continet LXIII Tab.XCIII. L. Aurelius Commodus. pag.ead. Tab. XCIV. M. Aur. BaRianus Antoninus Caracalla. pag. 94. Tab.XCV.P.LiciniusGallienus,pag.95. CONSULES. CLASSISIX. Quae continet Tab. LXXII. L. lanius Brutus, pag. 69. Tab. LXX1II. ConfuI. pag. 71. CLASSIS VIII. Quae continet IMPERATORES ETAUGUSTAS. REGES BARBAROS. Tab. XCVI. Mida Rex Phrygiae, pag.96. Tab. XCVII. Ptolemaeus Rex Aegypti.p.97. Tab. LXXIV. C. Julius Caefar. pag. 74. Tab. LXXV. C. Iulins Caefar. pag. 75. Tab. LXXVI. Octavianus AuguRus. pag.76. Tab LXXVII. Octavianus AuguRus. pag 77. TabLXXVIII.OctavianusAuguRus•pag.78. Tab.C*Gladiator,pag.102. Tab LXXIX. Livia. pag, 79. Tab. LXXX. Caius Caligula, pag. 80. Tab. LXXXI. Tiberius Claudius, pag 81. Tab.LXXXII. Claudius Domitius Nero. p.82. TabLXXXIII.ClaudiusDomitiusNero.p83. Tab. LXXXIV. Flavius Domitianus. pag.Sq. Tab. LXXXV. Nerva Traianus Ulpius. p.ead. Tab. LXXXVI. Marciana AuguRa. pag. 85. Tab. LXXXVII. Sabina AuguRa. pag. 86. Tab. LXXXVIII. Antinous, pag. 87. Tab. LXXXIX. Antoninus Pius. pag. 89. Tab. XC. M. Aurelius Antoninus. pag. 90. Tab. XCI. Annia FauRina* pag. 91. Tab. XCII- L. Aurelius Commodus. pag. 92. Tab. CI. Gladiator, pag. 104. Tab. CII Femina velata cum puero. p. ead. Tab. CIII. Femina Rolata. pag. 109. CLASSIS XI. Qitae continet STATUAS IACENTES. Tab. CIV. Fig. 1. Silenus, pag. 111. Tab. ead. Fig. 11. Flumen. pag. 11 2. Tab. CV. Fig. 1., Sc 11. Amores quiefeen- tes. pag. 11 3. Tab.CVI.Fig.i., 11., & m. Somni, & Mortis Genii, pag. 114. ERRATA CORRIGE. pag.xxxii.referre. pag. 42. TAB. XLIII. pag. 45 Florentia. ibid. SebaRianus Blanchius. pag. 63. Franc. Ant. Gorium. P?g- 79- ibid. not. 2. cap. 102. pag. 88. Tubere. pag. 107. coi. 1. quos Etrufcis in ma¬ nibus funt. ibid. Enomao • ibid. coi. 2. onorabant. pag. 109. PALLIATA. referri. TAB. LIII. Florentiae. Iofephus Blanchius. Ant. Franc. Gorium. ferre. cap. 101. Tibure. qui Etrufcis in manibus funt, Oenomao. honorabant. STOLATA. Curatore: Fragmenta vestigiis veteris Romae --  A D O N E A. Adonidis mmen apud Ouidiutn. AEDIS HERCVLIS MVSARVM AEDIS. lOVIS InporticihusOBauU. Injiaurau ah Hadriano * AEDIS. IVNONIS. In porticihus OBauU* Aedes Palladis inforo T^erua* AEDES-OPIS 62 Aedes Telluris in forel^erud* 'vide Templum* Aedium Paiamatummagnifcentia • Aedes Romanomm nohilium, Aid infacris Aedihus* f Atnhulatio circa celUih^ 6.Aedium • A M P H I T H E A T R V M. AnemoneflosapudGuidium, ' Apollo Sandalarius • AQVEDVCTIVM. AquaduBus Ajud Claudia i AquaduBus Aqua Mania reflimti a Tratano 3 9,ah Alexandro Seuero, ArcusfeulanusadPorticumOBauia• Arcus Germanico»& Drufo • AREA.APOLLINIS cumara. a r e a. VALERIANA. *2 \ rCVS.MAXIMVS AREA. MERCVRII cumara« AREA. POLL VCIS Traiani.CauediuminAedihus* 3t Area cumar4in Quirinali« 47 AlexanderSeuerusinfatirauit - 35 AqueduBus AquaMartia* 40 4^ 9.io Armamentaria.Ij. s> AniariumDomitiorum• ihid* Atrium in Aedihus. 61 ATRIVM. LIBERtATIS. s 1SJ AulaAdonidis• ihtd. AulaRegiainTheatro. 47 39 3* 20 57 57 BALINEVM. AMPELIDIS. BALNWM. CAESARIS. 47 BALNEVM. SVRAE* 31 Ba l n e a. coTiNi. B ^9 < 23 57 balneaadJolemexpofta0 J BalneaVirorum,acMulierum• ihid* 77 BASILICA. AEMILI. 27 48 Basilica.LiGiNii. }9 15 tT BASILICA. VVLPIA. 79 IZ c Capitolium. 20 40 CASTRA. MISENATIVM; * H 10 CaftraPeregrina, 1$ *69 CaflellumAquaManiacumtrofh*tii 39 \ Ciceronislocusillufratus• AREA.RADICARIA. 4S\fIRCVS.FLAMINIVS 7t ^7 Cir^   Circi CISTER.NAE. Cijierthe TUiand* CLIVVr.yTcTORIAE Clajfiarij dimijji honejia mijjtone ac ciuitate donati • ihid* 7 i ihid» 19 1 5 j S7 5 HORREA: CANDELARIA. 40 HORREA. LOLLIANA 4 Horrea puhlica > priuata ad uarm vfus• 6 HORTI. CELONIAE. FABIAE 44 Horti Gallieni, HORTI. PALLANTIANI 40 ^• I Columnatio in Uterihmfionte &fo(lico Column<&contraantas i O5 j DOMVS. CORNIFICIA *'— ^ Cornuafcena CVRIA.IVLIA D DELVBRVM. I^INERBA E, Capu 6j INTELLVRE 57 In Tellure locus extra Templutn Dicta Domitiani.* 47 27 51 Liciniana Baflica. Lollianiful Seuero. Lollianustyui, tP*GentianusConful 1 6 6 Dipteros columnatio duplex^ DOMVS. CILONIS Domus (lelU Confulis Domus interior 5 Domus Romanorumnohilium. "T. E 4S 44 l^cclefiafmB<e MarU Ae^yptiaca oUmTemplumfortune njirilis. 5.MarUinPorticuolimlunonis• 9 S* T^icolai olim louis • ibid, MACELLVM; 49 24.S,StephaniadTiherimolimMatuu &4 Macellum l^leronis • MAVSOLEVM. AVGVSTI MONVMENTA. MARIANA Muri Vrhis inflauratl al Arcadia CST* Honorio. N N A V A L E M Piummus Alexandri Seueri cum Cajiello Aft<e MartU* T^ummus T^eronis, O ilidl 85 39 Euripus in Circo Ealius Clio, eiufijue muniafu l Seuero fapi^ium in porticilus. Eons Lolltanus. Gallieni Ba(tlica,& Horti in Effuilijs GRAECOSTASIS. Gyn<eceum • n HECATONSTYLVM.33. Hecatonftylum in Hojlilium feu \^uriamffojliliam corrupts 8 1 j G 10 6 i r MVTATORIVM. 47 IJ 20' 40 49 77 5 35 Orilejlra in Teatro» ^In Amphitheatro, Palatium Licinianum • Perypteros* 47 5 S7 LAVACRVM.AGRIPPINAE 23 35 Telluris cumBaJfo. LVDVS.MAGNVS M *_ Marci Aprippto magnificentia 6 Per^   ^erijlylia duplicia in JeMus* TiBura amiqua infants • Vimcothem. Pifcim* Pltn^ locus illufiratus. Porta Trigemtm ante Claudiufn i P O M g VS. AEMILIA. 5* t 6 6i ^3 9 fundator Jmperij cognominatus • I c h n o g r a p h i a m V t h i s i n i e mp l o P L c h - muli iocauit ihidi & I, 19 • 5* 19 ibid. i o z j ^orticus Metelli cum duabus Jedtbus» i o PORTICVS * OCTAVIAE. E t HE- 9.10 Porttcus^pBduU i Ionicaeiufque ornamentA • Porticus Pompeii flecatonjlylon i Porticus nohiles atiobilibuspiBurii 16 SVBVRA. 17 SVMI.GHORAGII 35 *9 5 10 S 70 1 1.2.19 6 $ 45 cogmminau • Porticusjimplex. Pronaon Pfeudodijneros. R templvm.c6ncori5ia^ 39 F ortun* wirilis. 24 Matuu. ibid. R E G lA. 53 Romuli templum injtauratum a Stipt* SiUtro i Rom* ^ejligiumfeu knographia ScenaTheatrii Septa Agrippina • 65 ibid. a 5 ibid* $ SEPTAaVLlA. 43.44 SEPTA^ TRIGABJA Septorum reliquU inVialata t Sepulcrurn DOmitiorUm. ^Sepvikrurrt. GNi DOMITII w 45 CALVIN! 61 Sepukfum PhitomeUfeu Lufcini* SEVERI. ET. ANTONINL AVG. )Sf.N. 19 SeptitHiusSeuerUsKejiitutorVrUs & Rom*. i.2«i9 VlA.jTOVA 70 ibid* S 3 (jillknii 45 61 !Septi:^onium. -v.. StdtUa Apollinis in Vaiicdno. Statu* in nieflibulo*fact adium Staiud celkires in Thottnis. Staiudt tV piBur* tfoffe adArcum SERAPAEVM Stattia Apollinis Sandalarij » Vide tab. X V U T raiani. Fheatrum Bilbii THEAtRVM.MARCELLI - THEAfRVM/POMPEH Theatri Pompeij reliqitU ad Cdmputn Flord in*dibulV rftiotumi Thernid (iatuis exornatd. T hermd hyemdles i Troph*a Ttdiani iiulgo ^ar^ in in Capitolio i Traianus inflaurauti AqudduBus Aqu* Marti*. Veflibula Regalia. Vefligiumfeu Ichnographia Vrbis J 5 VICVS.$ANDALARIVSIoannis Cristophori Amadutii. Giovanni Cristofano Amaduzzi. Amaduzzi. Keywords: Filopatridi, i filopatridi.  Alfabeto etrusco, alphabetum etruscorum, alphabetum veterum etruscorum, grandonico-malabaricum sive samscrudonicum. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Amaduzzi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Amafinio – Roma – filosofia Italiano – Luigi Speranza.  Filosofo italiano. Amafinio. Amafinio (in latino: Gaius Amafinius o Caius Amafinius) è un filosofo italiano. Visse probabilmente negli stessi anni di Cicerone, che lo cita in coppia con un certo Catio. Dovrebbe, dunque, aver operato a Roma a partire da quando Cicerone inizia ad occuparsi dell'epicureismo come un “trend” della cultura romana. Amafinio e uno dei primi romani a redigere un'opera in latino per far conoscere e diffondere la filosofia - e in particolare la fisica - di Epicuro.  Benché la sua opera avesse avuto successo, Cicerone la giudicò il lavoro insufficiente soprattutto per quanto riguardava lo stile ma non solo:  «Opere rappresentative di questa filosofia, in latino si può dire non ne esistano: o, se mai, sono assai poche. Ciò è dovuto alla difficoltà della materia e al fatto che i nostri connazionali erano presi da ben altri problemi, e ritenevano inoltre che quelle non fossero cose da piacere a gente senza istruzione come erano loro. Mentre essi tacevano, venne fuori Gaio Amafinio. Quando uscirono i suoi libri la gente ne rimase impressionata, e accordò notevolissimo favore alla dottrina di cui egli era rappresentante, per la facilità con cui si capiva, per l’attrazione esercitata dalle seducenti lusinghe del piacere, e anche perché, dal momento che non le era offerto nulla di meglio, prendeva quello che c’era. Ma quando i loro stessi autori ammettono apertamente di non saper scrivere né con chiarezza, né con ordine, né con gusto, né con eleganza, io rinuncio senza rammarico a una lettura così poco attraente. Tanto, le teorie della loro scuola le sanno già tutti quelli che abbiano un minimo di cultura. Così, visto che poi non si preoccupano nemmeno loro del modo in cui scrivono, non vedo perché gli altri debbano andare a leggerli: che si leggano tra di loro, con quelli che la pensano in quel modo. Noi invece siamo dei parere che, qualunque cosa si scriva, si debba scrivere per il pubblico colto: e se non riusciamo a mantenerci sul piano adeguato, non dobbiamo per questo dimenticarcene. Ad Familiares, XV 19, 2. ^ H. H. Howe, Amafinius, Lucretius and Cicero, in "American Journal of Philology", Enciclopedia Italiana Treccani alla voce corrispondente. Cicerone, Academica. Cicerone, Tusculanae Disputationes. Cicerone, Tusculanae disputationes. Klebs, Amafinius, in RE, I, col. 1714. H. H. Howe, Amafinius, Lucretius and Cicero, in "American Journal of Philology", Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Amafinius, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. V · D · M Epicureismo Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Ellenismo   Portale Filosofia Categorie: Filosofi romaniFilosofi del II secolo a.C.Filosofi del I secolo a.C.Romani del II secolo a.C.Romani del I secolo a.C.Epicurei[altre] AMAFINIUS, CAIUS. Amafinius was a Gardener. He was criticised by Cicero for his poor understanding of the teachings of the First Gardener, thought, his inadequate literary style, and for devoting his attention to relatively uneducated people. At least in part this was because Amafinius chose to teach and write about the philosophy of Epicurus in Latin, enabling him to reach a wider but often less sophisticated audience. The extent to which he genuinely misrepresented Epicureanism is impossible to tell as no texts survive, but he does seem to have helped to make the ideas of the school better known and appreciated.

 

Grice ed Ambrogio – SEBASTIANE – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I like the Italian philosopher, Ambrogio – he was born, of course, in Germany! And he never wrote in Italian! But the fact that he got all his inspiration not so much from God but from Cicerone’s Liber II De Officiis, makes him an ineludible step in Lit. Hum. at Oxford!” -- Grice: I prefer the spelling “Ambrogio,” or if not “Aurelio Ambrosius”To call him Ambrosisus is like calling me Gree.” Grice: “Not to be confused with Ambrose and his orchestrasweet!”on altruism. known as Ambrose of Milan. Roman church leader and theologian. While bishop of Milan, he not only led the struggle against the Arian heresy and its political manifestations, but offered new models for preaching, for Scriptural exegesis, and for hymnody. His works also contributed to medieval Latin philosophy. Ambrose’s appropriation of Neoplatonic doctrines was noteworthy in itself, and it worked powerfully on and through Augustine. Ambrose’s commentary on the account of creation in Genesis, his Hexaemeron, preserved for medieval readers many pieces of ancient natural history and even some elements of physical explanation. Perhaps most importantly, Ambrose engaged ancient philosophical ethics in the search for moral lessons that marks his exegesis of Scripture; he also reworked Cicero’s De officiis as a treatise on the virtues and duties of Christian living. ambrogio: Sant'Ambrogio  Nota disambigua.svg DisambiguazioneSe stai cercando altri significati, vedi Sant'Ambrogio (disambigua). Nota disambigua.svg Disambiguazione"Ambrogio da Milano" rimanda qui. Se stai cercando lo scultore e architetto italiano, vedi Ambrogio Barocci. Sant'Ambrogio di Milano AmbroseOfMilanMosaico di Sant'Ambrogio di Milano nel sacello di San Vittore (378 ca.) annesso alla Basilica del Santo, probabile ritratto del vescovo.   Vescovo e Dottore della Chiesa    NascitaAugusta Treverorum (Treviri), forse 339-340 MorteMilano, 397 Venerato daTutte le Chiese che ammettono il culto dei santi Santuario principaleBasilica di Sant'Ambrogio, Milano Ricorrenza4 aprile (vetero-cattolici) 7 dicembre (cattolici) 7 dicembre (ortodossi) Attributiapi, scudscio, bastone pastorale e gabbiano Patrono diMilano, Alassio, prefetti, Lombardia, Rozzano, Monserrato, Buccheri, Cerami, Vigevano, Castel del Rio, Sant'Ambrogio di Torino, vescovi, Omegna, Carate Brianza, Caslino d’Erba Manuale Aurelio Ambrogio vescovo della Chiesa cattolica AmbroseGiuLungaraTemplate-Bishop.svg   Incarichi ricopertiVescovo di Milano   Natoincerto 339-340 a Treviri Ordinato presbitero? Consacrato vescovo7 dicembre 374 Deceduto4 aprile 397 a Milano   Manuale Aurelio Ambrogio (in latino: Aurelius Ambrosius), meglio conosciuto come sant'Ambrogio (Augusta Treverorum, incerto 339-340Milano, 4 aprile 397) funzionario, vescovo, teologo e santo romano, una delle personalità più importanti nella Chiesa del IV secolo. È venerato come santo da tutte le Chiese cristiane che prevedono il culto dei santi; in particolare, la Chiesa cattolica lo annovera tra i quattro massimi dottori della Chiesa d'Occidente, insieme a san Girolamo, sant'Agostino e san Gregorio I papa.  Conosciuto anche come Ambrogio di Treviri, per il luogo di nascita, o più comunemente come Ambrogio di Milano, la città di cui assieme a san Carlo Borromeo e san Galdino è patrono e della quale fu vescovo dal 374 fino alla morte, nella quale è presente la basilica a lui dedicata che ne conserva le spoglie.   Incarichi pubblici e nomina a vescovo di Milano 1.3Episcopato 1.3.1Gli impegni pastorali 1.3.2Politica ecclesiastica 1.3.3Rapporti con la corte imperiale 2Pensiero e opere 2.1Esegesi 2.2Morale e ascetismo 2.3Società e politica 2.4Antigiudaismo 2.4.1L'episodio di Callinicum 2.5Mariologia 3Milano e il rito ambrosiano 4Sant'Ambrogio e il canto liturgico 5Leggende su Sant'Ambrogio 6Opere 6.1Oratorie (esegetiche) 6.2Morali (ascetiche) 6.3Dogmatiche (sistematiche) 6.4Catechetiche 6.5Epistolario 6.6Innografia 6.7Altro 7Curiosità 8Note 9 10 11Altri progetti 12 Biografia Gioventù  Altare di Sant'Ambrogio, 824-859 ca., Ambrogio ordinato vescovo Aurelio Ambrogio nacque ad Augusta Treverorum (l'odierna Treviri, nella Renania-Palatinato, in Germania), nella Gallia Belgica, dove il padre esercitava la carica di prefetto del pretorio delle Gallie, intorno al 339 circa da un'illustre famiglia romana di rango senatoriale, la gens Aurelia, cui la famiglia materna apparteneva inoltre al ramo dei Simmaci (era dunque un cugino dell'oratore Quinto Aurelio Simmaco).  La famiglia di Ambrogio risultava convertita al cristianesimo già da alcune generazioni (egli stesso soleva citare con orgoglio la sua parente Santa Sotere, martire cristiana che «ai consolati e alle prefetture dei parenti preferì la fede») e stesso una sua sorella ed un suo fratello, Marcellina (consacratasi a Dio nelle mani di papa Liberio nel 353) e Satiro di Milano, vennero poi venerati come santi.  Destinato alla carriera amministrativa sulle orme del padre, dopo la sua prematura morte frequentò le migliori scuole di Roma, dove compì i tradizionali studi del trivium e del quadrivium (imparò il greco e studiò diritto, letteratura e retorica), partecipando poi attivamente alla vita pubblica dell'Urbe.  Incarichi pubblici e nomina a vescovo di Milano Dopo cinque anni di avvocatura esercitati presso Sirmio  (l'odierna Sremska Mitrovica, in Serbia), nella Pannonia Inferiore, nel 370 fu incaricato quale governatore dell'Italia Annonaria per la provincia romana Aemilia et Liguria, con sede a Milano, dove divenne una figura di rilievo nella corte dell'imperatore Valentiniano I. La sua abilità di funzionario nel dirimere pacificamente i forti contrasti tra ariani e cattolici gli valse un largo apprezzamento da parte delle due fazioni.  Nel 374, alla morte del vescovo ariano Aussenzio di Milano, il delicato equilibrio tra le due fazioni sembrò precipitare. Il biografo Paolino racconta che Ambrogio, preoccupato di sedare il popolo in rivolta per la designazione del nuovo vescovo, si recò in chiesa, dove all'improvviso si sarebbe sentita la voce di un bambino urlare «Ambrogio vescovo!», a cui si unì quella unanime della folla radunata nella chiesa. I milanesi volevano un cattolico come nuovo vescovo. Ambrogio però rifiutò decisamente l'incarico, sentendosi impreparato: come era in uso presso alcune famiglie cristiane all'epoca, egli non aveva ancora ricevuto il battesimo, né aveva affrontato studi di teologia.  Paolino racconta che, al fine di dissuadere il popolo di Milano dal farlo nominare vescovo, Ambrogio provò anche a macchiare la buona fama che lo circondava, ordinando la tortura di alcuni imputati e invitando in casa sua alcune prostitute; ma, dal momento che il popolo non recedeva nella sua scelta, egli tentò addirittura la fuga. Quando venne ritrovato, il popolo decise di risolvere la questione appellandosi all'autorità dell'imperatore Flavio Valentiniano, cui Ambrogio era alle dipendenze. Fu allora che accettò l'incarico, considerando che fosse questa la volontà di Dio nei suoi confronti, e decise di farsi battezzare: nel giro di sette giorni ricevette il battesimo nel battistero di Santo Stefano alle Fonti a Milano e, il 7 dicembre 374, venne ordinato vescovo. Riferendosi alla sua elezione, egli scriverà poco prima della morte:  «Quale resistenza opposi per non essere ordinato! Alla fine, poiché ero costretto, chiesi almeno che l'ordinazione fosse ritardata. Ma non valse sollevare eccezioni, prevalse la violenza fattami.»  Nonostante, come scrisse più tardi, si sentisse «rapito a forza dai tribunali e dalle insegne dell'amministrazione al sacerdozio», dopo la nomina a vescovo, Ambrogio prese molto sul serio il suo incarico e si dedicò ad approfonditi studi biblici e teologici.  Episcopato  Ambrogio con le insegne episcopali Gli impegni pastorali Quando divenne vescovo (nel 374), adottò uno stile di vita ascetico, elargì i suoi beni ai poveri, donando i suoi possedimenti terrieri (eccetto il necessario per la sorella Marcellina).  Uomo di grande carità, tenne la sua porta sempre aperta, prodigandosi senza tregua per il bene dei cittadini affidati alle sue cure. Ad esempio, Sant'Ambrogio non esitò a spezzare i Vasi Sacri e ad usare il ricavo dalla vendita per il riscatto di prigionieri. Di fronte alle critiche mosse dagli ariani per il suo gesto, egli rispose che «è molto meglio per il Signore salvare delle anime che dell'oro. Egli infatti mandò gli apostoli senza oro e senza oro fondò le Chiese. [...] I sacramenti non richiedono oro, né acquisisce valore per via dell'oro ciò che non si compra con l'oro» (De officiis)  La sua sapienza nella predicazione e il suo prestigio furono determinanti per la conversione nel 386 al cristianesimo di Sant'Agostino, di fede manichea, che era venuto a Milano per insegnare retorica.  Ambrogio fece costruire varie basiliche, di cui quattro ai lati della città, quasi a formare un quadrato protettivo, probabilmente pensando alla forma di una croce. Esse corrispondono alle attuali basilica di San Nazaro (sul decumano, presso la Porta Romana, allora era la Basilica Apostolorum), alla basilica di San Simpliciano, detta Basilica Virginum, ossia basilica delle vergini (sulla parte opposta), alla basilica di Sant'Ambrogio (collocata a sud-ovest, era chiamata originariamente Basilica Martyrum in quanto ospitava i corpi dei santi martiri Gervasio e Protasio rinvenuti da Ambrogio stesso; accoglie oggi le spoglie del santo) e alla basilica di San Dionigi (Basilica Prophetarum).  Il ritrovamento dei corpi dei santi martiri Gervasio e Protasio è narrato dallo stesso Ambrogio, che ne attribuisce il merito ad un presagio, per il quale egli fece scavare la terra davanti ai cancelli della basilica (oggi distrutta) dei santi Nabore e Felice. Al ritrovamento dei corpi seguì la loro traslazione (secondo un rito importato dalla Chiesa orientale) nella Basilica Martyrum; durante la traslazione, si racconta (è lo stesso Ambrogio a riportarlo) che un cieco di nome Severoriacquistò la vista. Il ritrovamento del corpo dei martiri da parte del vescovo di Milano diede grande contributo alla causa dei cattolici nei confronti degli ariani, che costituivano a Milano un gruppo nutrito e attivo, e negavano la validità dell'operato di Ambrogio, di fede cattolica.  Ambrogio fu autore di diversi inni per la preghiera, compiendo fondamentali riforme nel culto e nel canto sacro, che per primo introdusse nella liturgia cristiana, e ancor oggi a Milano vi è una scuola che tramanda nei millenni questo antico canto.  Politica ecclesiastica L'importanza della sede occupata da Ambrogio, teatro di numerosi contrasti religiosi e politici, e la sua personale attitudine di uomo politico lo portarono a svolgere una forte attività di politica ecclesiastica. Egli scrisse infatti opere di morale e teologia in cui combatté a fondo gli errori dottrinali del suo tempo; fu inoltre sostenitore del primato d'onore del vescovo di Roma, contro altri vescovi (tra i quali Palladio) che lo ritenevano pari a loro.  Si mostrò in prima linea nella lotta all'arianesimo, che aveva trovato numerosi seguaci a Milano e nella corte imperiale. Si scontrò per questo motivo con l'imperatrice Giustina, di fede ariana e probabilmente influì sulla politica religiosa dell'imperatore Graziano che, nel 380, inasprì le sanzioni per gli eretici e, con l'editto di Tessalonica, dichiarò il cristianesimo religione di Stato. Il momento di massima tensione si ebbe nel 385-386 quando, dopo la morte di Graziano, gli ariani chiesero insistentemente con l'appoggio della corte imperiale una basilica per praticare il loro culto. L'opposizione di Ambrogio fu energica tanto che rimase famoso l'episodio in cui, assieme ai fedeli cattolici, "occupò" la basilica destinata agli ariani finché l'altra parte fu costretta a cedere. Fu in questa occasione, si racconta, che Ambrogio introdusse l'usanza del canto antifonale e della preghiera cantata in forma di inno, con lo scopo di non fare addormentare i fedeli che occupavano la basilica. Fu inoltre determinante per la vittoria di Ambrogio nella controversia con gli ariani il ritrovamento dei corpi dei santi Gervasio e Protaso, che avvenne proprio nel 386 sotto la guida del vescovo di Milano, il quale guadagnò in questo modo il consenso di gran parte dei fedeli della città.  Fu infine forte avversario del paganesimo "ufficiale" romano, che dimostrava in quegli anni gli ultimi segni di vitalità; per questo motivo si scontrò con il suo stesso cugino, il senatore Quinto Aurelio Simmaco, che chiedeva il ripristino dell'altare e della statua della dea Vittoria rimossi dalla Curia romana, sede del Senato, in seguito a un editto di Graziano nel 382.  Rapporti con la corte imperiale  Sant'Ambrogio rifiuta l'ingresso in chiesa all'imperatore, nel dipinto di Van Dyck. Molto probabilmente questo episodio non avvenne mai: Ambrogio preferì non arrivare allo scontro pubblico con l'imperatore, ma lo redarguì in privato. Il potere politico e quello religioso al tempo erano strettamente legati: in particolare l'imperatore, a cominciare daCostantino, possedeva una certa autorità all'interno della Chiesa, nella quale il primato petrino non era pienamente assodato e riconosciuto. A questo si aggiunsero la posizione di Ambrogio, vescovo della città di residenza della corte imperiale, e la sua precedente carriera come avvocato, amministratore e politico, che lo portarono più volte a intervenire incisivamente nelle vicende politiche, ad avere stretti rapporti con gli ambienti della corte e dell'aristocrazia romana, e talvolta a ricoprire specifici incarichi diplomatici per conto degli imperatori.  In particolare, nonostante il convinto lealismo verso l'impero Romano e l'influenza nella vita politica dell'impero, i suoi rapporti con le istituzioni non furono sempre pacifici, soprattutto quando si trattò di difendere la causa della Chiesa e dell'ortodossia religiosa. Gli storici bizantini gli accreditarono questo atteggiamento come parrhesia (παρρησία), schiettezza e verità di fronte ai potenti e al potere politico, che traspare a partire dal suo rapporto epistolare con l'imperatore Teodosio.  Essendo Ambrogio precettore dell'imperatore Graziano, lo educò secondo i principi del Cristianesimo. Egli predicava all'imperatore di rendere grazie a Dio per le vittorie dell'esercito e lo appoggiò nella disputa contro il senatore Simmaco, che chiedeva il ripristino dell'altare alla dea Vittoria fatto rimuovere dalla Curia romana  Chiese poi a Graziano di indire il concilio di Aquileia nel settembre del 381 per condannare due vescovi eretici, secondo i dettami dei vari concili ecumenici ed anche secondo l'opinione del Papa e dei vescovi ortodossi. In questo concilio Ambrogio si pronunciò contro l'arianesimo.  Ambrogio influì anche sulla politica religiosa di Teodosio I. Nel 388, dopo che un gruppo di cristiani aveva incendiato la sinagoga della città di Callinico, l'imperatore decise di punire i responsabili e di obbligare il vescovo, accusato di aver istigato i distruttori, a ricostruire il tempio a suo spese. Ambrogio, informato della vicenda, si scagliò contro questo provvedimento, minacciando di sospendere l'attività religiosa, tanto da indurre l'imperatore a revocare le misure.  Nel 390 criticò aspramente l'imperatore, che aveva ordinato un massacro tra la popolazione di Tessalonica, rea di aver linciato il capo del presidio romano della città: in tre ore di carneficina erano state assassinate migliaia di persone, attirate nell'arena con il pretesto di una corsa di cavalli. Ambrogio, venuto a conoscenza dell'accaduto, evitò diplomaticamente una contrapposizione aperta con il potere imperiale (con il pretesto di una malattia evitò l'incontro pubblico con Teodosio) ma, per via epistolare, chiese in modo riservato ma deciso una «penitenza pubblica» all'imperatore, che si era macchiato di un grave delitto pur dichiarandosi cristiano, pena il rifiuto di celebrare i sacri riti in sua presenza («Non oso offrire il sacrificio, se tu vorrai assistervi», Lettera 11). Teodosio ammise pubblicamente l'eccesso e nella notte Natale di quell'anno, venne riammesso ai sacramenti.  Dopo questo episodio la politica religiosa dell'imperatore si irrigidì notevolmente: tra il 391 e il 392 furono emanati una serie di decreti (noti come decreti teodosiani) che attuavano in pieno l'editto di Tessalonica: venne interdetto l'accesso ai templi pagani e ribadita la proibizione di qualsiasi forma di culto, compresa l'adorazione delle statue; furono inoltre inasprite le pene amministrative per i cristiani che si riconvertissero nuovamente al paganesimo e nel decreto emanato nel 392 da Costantinopoli, l'immolazione di vittime nei sacrifici e la consultazione delle viscere erano equiparati al delitto di lesa maestà, punibile con la condanna a morte.  Nel 393 Milano fu coinvolta nella lotta per il potere tra l'imperatore Teodosio I e l'usurpatore Flavio Eugenio. In aprile Eugenio varcò le Alpi e puntò alla conquista della città, in quanto capitale d'Occidente. Ambrogio partì e andò ritirarsi a Bologna. Durante un soggiorno temporaneo a Faenza scrisse una lettera ad Eugenio. Poi accettò l'invito della comunità di Firenze, ove rimase per circa un anno. La guerra per il controllo dell'impero fu vinta da Teodosio. Nell'autunno del 394 Ambrogio fece ritorno a Milano.  Alla sua morte, per sua stessa volontà, fu sepolto all'interno della basilica che tuttora porta il suo nome, fra le spogli dei martiri Gervasio e Protasio. Le sue spoglie, rinvenute sotto l'altare nel 1864, furono trasferite in un'urna di argento e cristallo posta nella cripta della basilica.  Pensiero e opere  Rilievo gotico raffigurante Ambrogio. Tra gli attributi del santo c'è il miele, simbolo della dolcezza delle prediche e degli scritti Fortemente legata all'attività pastorale di Ambrogio fu la sua produzione letteraria, spesso semplice frutto di una raccolta e di una rielaborazione delle sue omelie e che quindi mantengono un tono simile al parlato.  Per il suo stile dolce e misurato del suo parlato e della sua prosa, Ambrogio venne definito «dolce come il miele» e tra i suoi attributi compare perciò un alveare.  Esegesi Oltre la metà dei suoi scritti è dedicata all'esegesi biblica, che egli affronta seguendo un'interpretazione prevalentemente allegorica e morale del testo sacro (in particolare per quanto riguarda l'Antico Testamento): ad esempio, ama ricercare nei patriarchi e nei personaggi biblici in generale figure di Cristo o esempi di virtù morali. Fu proprio questo metodo di lettura della Bibbia ad affascinare Sant'Agostino e a risultare determinante per la sua conversione (come egli scrisse nelle Confessioni V, 14, 24).  Secondo Gérard Nauroy, «per Ambrogio l'esegesi è un modo fondamentale di pensare piuttosto che un metodo o un genere: [...] ormai egli "parla la Bibbia", non più con la giustapposizione di citazioni dagli stili più diversi, ma in un discorso sintetico, eminentemente allusivo, "misterico" come la Parola stessa». Per Ambrogio la lettura e l'approfondimento della conoscenza biblica costituiscono un elemento fondamentale della vita cristiana:  «Bevi dunque tutt'e due i calici, dell'Antico e del Nuovo Testamento, perché in entrambi bevi Cristo. [...] La Scrittura divina si beve, la Scrittura divina si divora, quando il succo della parola eterna discende nelle vene della mente e nelle energie dell'anima»  (Ambrogio, Commento al Salmo I, 33) Tra le opere esegetiche spiccano l'esauriente commento al Vangelo di Luca (Expositio evangelii secundum Lucam) e l'Exameron (dal greco "sei giorni"). Quest'ultima opera, ispirata ampiamente all'omonimo Exameron di Basilio di Cesarea, raccoglie, in sei libri, nove omelie riguardanti i primi capitoli della Genesi dalla creazione del cielo fino alla creazione dell'uomo. Anche in questo caso, il racconto della creazione è occasione di evidenziare insegnamenti morali desunti dalla natura e dal comportamento degli animali e dalle proprietà delle piante; in questo senso l'uomo appare ad Ambrogio necessariamente legato con tutto il creato dal punto di vista non solo biologico e fisico, ma anche morale e spirituale.  Morale e ascetismo Un altro gruppo significativo consiste nelle opere di argomento morale o ascetico, tra le quali risalta il De officiis ministrorum (talvolta abbreviato in De officiis), un trattato sulla vita cristiana rivolto in particolare al clero ma destinato a tutti i fedeli. L'opera ricalca l'omonimo scritto di Cicerone, che si proponeva come manuale di etica pratica indirizzato al figlio (cui è dedicato) rivolto soprattutto a questioni politico-sociali. Ambrogio riprende il titolo (indirizzando l'opera ai suoi "figli" in senso spirituale, cioè il clero e il popolo di Milano), la struttura (il libro è ripartito in tre libri, dedicati all'honestum, all'utile e al loro contrasto risolto nell'identificazione tra i due) e alcuni elementi contenutistici (tra i quali i principi della morale stoica, come il dominio della razionalità, l'indipendenza dai piaceri e dalla vanità delle cose, la virtù come sommo bene). Questi elementi sono rivisti con originalità in chiave cristiana: agli exempla tratti dalla storia e dalla mitologia classica, Ambrogio sostituisce ad esempio storie ed esempi tratti dalla Bibbia. In generale, è lo stesso orientamento del testo a non essere più etico-filosofico ma prevalentemente religioso e spirituale, come egli spiega fin dall'inizio: «Noi valutiamo il dovere secondo un principio diverso da quello dei filosofi. Essi considerano beni quelli di questa vita, noi addirittura danni» (De officiis, I, 9, 29). Allo stesso modo, le virtù tradizionali vengono rilette cristianamente e accettate alla luce del Vangelo: la fides (lealtà) diventa la fede in Cristo, la prudenza include la devozione verso Dio, esempi di fortezza divengono i martiri. Alle virtù classiche si aggiungono le virtù cristiane: la carità (che già esisteva nel mondo latino, ora assume un significato più interiore e spirituale), l'umiltà, l'attenzione verso i poveri, gli schiavi, le donne.  Altre cinque opere sono dedicate alla verginità, specialmente quella femminile (De virginibus, De viduis, De virginitate, De institutione virginis e Exhortatio virginitatis). Ambrogio esalta la verginità come massimo ideale di vita cristiana, sulla scia della tradizione cristiana da San Paolo («colui che sposa la sua vergine fa bene e chi non la sposa fa meglio», 1 Cor 7,38) fino al contemporaneo Girolamo, senza tuttavia negare la validità della vita matrimoniale. La scelta della verginità è ritenuta l'unica vera scelta di emancipazione per la donna dalla vita coniugale, in cui si trova subordinata. Critica aspramente in questo senso il fatto che il matrimonio costituisca solo un contratto economico e sociale, che non lascia spazio alla scelta degli sposi e in particolare della donna: «Davvero degna di compianto è la condizione che impone alla donna, per sposarsi, di essere messa all'asta come una sorta di schiavo da vendere, perché la compri chi offre il prezzo più alto» (De virginibus, I, 9, 56). Per questo Ambrogio incoraggia i genitori ad accettare la scelta di verginità dei figli e i figli a resistere alle difficoltà imposte dalla famiglia («Se vinci la famiglia, vinci anche il mondo», De virginibus, I, 11, 63).  Società e politica  Ambrogio assolve Teodosio dopo l'episodio di Tessalonica Nel confronto con la società e gli ideali del mondo latino, Ambrogio accolse i valori civili della romanità con l'intento di dare ad essi nuovo significato all'interno della religione cristiana. Nel suo Esamerone esalta l'istituzione repubblicana (di cui l'antica repubblica romana era secondo lui un ammirevole esempio) prendendo spunto dalla spontanea organizzazione delle gru, che si dividono il lavoro avvicendandosi nei turni di guardia:  «Che c'è di più bello del fatto che la fatica e l'onore comuni a tutti e il potere non sia preteso da pochi, ma passi dall'uno all'altro senza eccezioni come per una libera decisione? Questo è l'esercizio di un ufficio proprio di un'antica repubblica, quale conviene in uno stato libero.»  (Esamerone, VIII, 15, 51) Nella visione di Ambrogio inoltre potere e dell'autorità, intesi come servizio («Libertà è anche il servire», Lettera 7), dovevano essere sottomessi alle leggi di Dio. Prendendo ispirazione dal racconto della corona imperiale e del morso di cavallo realizzati, secondo la tradizione, da Costantino con i chiodi della croce di Gesù, nel discorso funebre di Teodosio egli elogiò la sottomissione dell'imperatore a Cristo, dimostrata in primis dall'episodio di Tessalonica:  «Per quale motivo [ebbero] "una cosa santa sul morso" se non perché frenasse l'arroganza degli imperatori, reprimesse la dissolutezza dei tiranni che, come cavalli, nitrivano smaniosi di piaceri, perché potevano impunemente commettere adulteri? Quali turpitudini conosciamo dei Neroni e dei Caligola e di tutti gli altri che non ebbero "una cosa santa sul morso"!»  (In morte di Teodosio, 50) Di fronte al dispotismo e alla dissolutezza che avevano caratterizzato il comportamento di non pochi imperatori romani, Ambrog io vide nel cristianesimo una possibilità per "redimere" il potere imperiale e renderlo giusto e clemente. Nella sua idea, infatti, il cristianesimo avrebbe dovuto sostituire il paganesimo nella società romana senza per questo negare e distruggere le istituzione imperiali («Voi [pagani] chiedete pace per le vostre divinità agli imperatori, noi per gli stessi imperatori chiediamo pace a Cristo», Lettera 73 a Valentiniano II), ma anzi dando ai valori romani la nuova linfa offerta dalla morale cristiana.  Ambrogio richiamò infine la società romana nella quale era sempre più accentuato il divario tra ricchi e poveri; alla sperequazione economica, Ambrogio contrapponeva infatti la morale del Vangelo e della tradizione biblica. Così egli scrive nel Naboth:  «La terra è stata creata come un bene comune per tutti, per i ricchi e per i poveri: perché, o ricchi, vi arrogate un diritto esclusivo sul suolo? [...] Tu [ricco] non dai del tuo al povero [quando fai la carità], ma gli rendi il suo; infatti la proprietà comune, che è stata data in uso a tutti, tu solo la usi.»  (Naboth, 1,2; 12, 53) Antigiudaismo Magnifying glass icon mgx2.svg Antisemitismo § Antigiudaismo teologico. Per Ambrogio era fondamentale la storia di Israele come popolo eletto: da qui la grande presenza dell'Antico Testamento nel rito ambrosiano, le numerosissime sue opere di commento agli episodi della storia ebraica, la conservazione della sacralità del sabato, ecc. Tuttavia, come era comune nel cristianesimo dei primi secoli, forte era anche la volontà di mostrare l'originalità cristiana rispetto alla tradizione giudaica (che non aveva riconosciuto Gesù come Messia) e di affermare l'indipendenza e le prerogative della Chiesa nascente.  Ad esempio, nell'Expositio Evangelii secundum Lucam (4, 34), commentando un passo del vangelo di Luca in cui un uomo invaso dallo spirito di un demonio impuro, grida: «Ah! Che c'è fra noi e te, Gesù Nazareno? Sei venuto per rovinarci? So chi tu sei: il Santo di Dio», Ambrogio critica aspramente l'incredulità della gente circostante:  «Chi è colui che aveva nella sinagoga spirito immondo di demonio, se non la folla dei giudei che, come stretta da spire serpentine e legata dai lacci del diavolo, simulata la purità del corpo, profanava con le immondezze della mente interiore? Ebbene: era nella sinagoga l'uomo che aveva lo spirito immondo; perché lo Spirito Santo lo aveva ammesso. Era entrato infatti il diavolo dal luogo da cui Cristo era uscito. Insieme, si mostra la natura del diavolo non come ostinata, ma come opera ingiusta. Infatti quello che attraverso una natura superiore professa il Signore, con le opere lo nega. E in questo appare la sua malvagità [del demonio] e l'ostinazione dei giudei, poiché così [il demonio] spandé tra la folla la cecità della mente furiosa; affinché la gente neghi, colui che i demoni professano. O eredità dei discepoli peggiore del maestro! Quello tenta il Signore con le parole, essi con l'agire: egli dice "Buttati!" (Luc. IV, 9), questi sono assaliti perché [lo] buttino.»  L'episodio di Callinicum Le cronache storiche riportano un episodio che può essere considerato rivelatore dell'atteggiamento di Ambrogio nei riguardi degli ebrei. Nel 388, a Callinicum (Kallinikon, sul fiume Eufrate, in Asia, l'attuale al-Raqqa), una folla di cristiani diede l'assalto alla sinagoga e la bruciò. Il governatore romano condannò l'accaduto e, per mantenere l'ordine pubblico, dispose affinché la sinagoga venisse ricostruita a spese del vescovo. L'imperatore Teodosio I rese noto di condividere quanto deciso dal suo funzionario.  Ambrogio si oppose alla decisione dell'imperatore e gli scrisse una lettera (Epistulae variae 40) per convincerlo a ritirare l'ingiunzione di ricostruire la sinagoga a spese del vescovo: «Il luogo che ospita l'incredulità giudaica sarà ricostruito con le spoglie della Chiesa? Il patrimonio acquistato dai cristiani con la protezione di Cristo sarà trasmesso ai templi degli increduli?... Questa iscrizione porranno i giudei sul frontone della loro sinagoga:Tempio dell'empietà ricostruito col bottino dei cristiani -... Il popolo giudeo introdurrà questa solennità fra i suoi giorni festivi...»  Citando dalla lettera di Ambrogio a Teodosio (Epistulae variae 40,11):  «Ma ti muove la ragione della disciplina. Che cosa dunque è più importante, l'idea di disciplina [mantenimento dell'ordine pubblico] o il motivo della religione?»  Nell'epistola Ambrogio si attribuì la responsabilità dell'incendio: «Io dichiaro di aver dato alle fiamme la sinagoga, sì, sono stato io che ho dato l'incarico, perché non ci sia più nessun luogo dove Cristo venga negato»  Ambrogio si spinse ad affermare che quell'incendio non era affatto un delitto e che se lui non aveva ancora dato l'ordine di bruciare la sinagoga di Milano era solo per pigrizia e che bruciare le sinagoghe era altresì un atto glorioso.  Ambrogio non volle salire sull'altare finché l'imperatore non abolì il decreto imperiale riguardante la ricostruzione della sinagoga a spese del vescovo. Secondo la visione del vescovo, nella questione della religione l'unico foro competente da consultare doveva essere la Chiesa cattolica la quale, grazie ad Ambrogio, divenne la religione statale e dominante. In questa impresa lo scopo era quello di avvalorare l'indipendenza della Chiesa dallo Stato, affermando anche la superiorità della Chiesa sullo Stato in quanto emanazione di una legge superiore alla quale tutti devono sottostare.  Mariologia Sebbene non si possa parlare di una mariologia vera e propria (intesa come pensiero sistematico), sono numerosi nell'opera di Ambrogio i riferimenti a Maria: spesso, quando si presenta l'occasione, egli si rifà alla sua figura e al suo esempio.  La sua venerazione per Maria nasce soprattutto dal ruolo attribuitole nella storia della salvezza. Maria è infatti madre di Cristo, e dunque modello per tutti i credenti che, come lei, sono chiamati a "generare" Cristo:  «Vedi bene che Maria non aveva dubitato, bensì creduto e perciò aveva conseguito il frutto della sua fede. «Beata tu che hai creduto». Ma beati anche voi che avete udito e avete creduto: infatti, ogni anima che crede, concepisce e genera il Verbo di Dio e ne comprende le operazioni. Sia in ciascuno l’anima di Maria a magnificare il Signore, sia in ciascuno lo spirito di Maria ad esultare in Dio: se, secondo la carne, una sola è la madre di Cristo, secondo la fede tutte le anime generano Cristo»  (Esposizione del Vangelo secondo Luca, II, 19. 24-26) Ambrogio difende strenuamente la verginità di Maria, soprattutto in relazione al mistero di Cristo: egli infatti, proprio perché nato da vergine, non ha contratto il peccato originale. Maria è anche la prima donna a cogliere i "frutti" della venuta di Cristo:  «Non c’è affatto da stupirsi che il Signore, accingendosi a redimere il mondo, abbia iniziato la sua opera proprio da Maria: se per mezzo di lei Dio preparava la salvezza a tutti gli uomini, ella doveva essere la prima a cogliere dal Figlio il frutto della salvezza»  (Esposizione del vangelo secondo Luca, II, 17) Maria è inoltre modello di virtù morali e cristiane, in primo luogo per le vergini («Nella vita di Maria risplende la bellezza della sua castità e della sua esemplare virtù») ma anche per tutti i fedeli; di lei vengono esaltate la sincerità (la verginità «di mente»), l'umiltà, la prudenza, la laboriosità, l'ascesi.  Milano e il rito ambrosiano  Sant'Ambrogio con in mano il flagello contro i nemici di Milano, in un bassorilievo quattrocentesco Magnifying glass icon mgx2.svg Rito ambrosiano. L'operato di Sant'Ambrogio a Milano ha lasciato segni profondi nella diocesi della città.  Già nel settembre del 600 papa Gregorio Magno parlò del neoeletto vescovo di Milano, Deodato, non tanto come successore, bensì come "vicario" di sant'Ambrogio (equiparandolo quasi ad un secondo "vescovo di Roma"). Nell'anno 881 invece papa Giovanni VIII definì per la prima volta la diocesi "ambrosiana", termine che è rimasto ancora oggi per identificare non solo la Chiesa di Milano, ma talvolta anche la stessa città.  L'eredità di Ambrogio è delineata principalmente a partire dalla sua attività pastorale: la predicazione della Parola di Dio coniugata alla dottrina della Chiesa cattolica, l'attenzione ai problemi della giustizia sociale, l'accoglienza verso le persone provenienti da popoli lontani, la denuncia degli errori nella vita civile e politica.  L'operato di Ambrogio lasciò un segno profondo in particolare sulla liturgia. Egli introdusse nella Chiesa occidentale molti elementi tratti dalle liturgie orientali, in particolare canti e inni. Si attribuisce ad Ambrogio l'inno Te Deum laudamus, ma la questione è controversa e negata anche da Luigi Biraghi. Le riforme liturgiche furono mantenute nella diocesi di Milano anche dai successori e costituirono il nucleo del Rito ambrosiano, sopravvissuto all'uniformazione dei riti e alla costituzione dell'unico rito romano voluta da papa Gregorio I e dal Concilio di Trento.  In dialetto milanese Ambrogio viene chiamato sant Ambroeus (grafia classica) o sant Ambrös (entrambi pronunciati "sant'ambrœs").   Sant'Ambrogio affrescato da Masolino, Battistero Castiglione Olona Alla sua figura è ispirato anche il premio Ambrogino d'oro, che è il nome non ufficiale con cui sono comunemente chiamate le onorificenze conferite dal comune di Milano.  Sant'Ambrogio e il canto liturgico  Michael Pacher, Sant'Ambrogio, Monaco, Alte Pinakothek Con il termine di ambrosiano non si definisce solo il rito della Chiesa Cattolica che fa riferimento al santo, ma anche un preciso modo di cantare durante la liturgia. Esso viene indicato con il nome di canto ambrosiano. Esso è caratterizzato dal canto di inni, cioè di nuove composizioni poetiche in versi, che vengono cantate da tutti i partecipanti al rito.  A differenza di quanto avveniva per i salmi, solitamente cantati da un solista o da un gruppo di coristi, essi vengono invece cantati da tutti i partecipanti, in cori alternati, normalmente tra donne e uomini, ma in altri casi tra giovani e anziani o anche tra fanciulli e adulti. Alcuni di questi inni sono stati sicuramente composti da Ambrogio. La certezza viene dal fatto che a menzionarli è sant'Agostino, che fu discepolo di Sant'Ambrogio.  Essi sono:  Aeterne rerum conditor (cf. Retractionum I,21); Iam surgit hora tertia (cf. De natura et gratia 63,74); Deus creator omnium (ricordato nelle Confessioni e citato complessivamente ben cinque volte dal vescovo di Ippona); Intende qui regis Israel (cf. Sermo 372 4,3). Attraverso la liturgia della Chiesa cattolica in generale e di quella ambrosiana in particolare, sono giunti fino a noi una moltitudine di inni in stile ambrosiano. I ricercatori hanno cercato di trovare dei criteri per indicare quelli che, con più certezza, sono stati composti da Ambrogio. Nel 1862 Luigi Biraghi ne indicava tre: la conformità degli inni con l'indole letteraria di Ambrogio, con il suo vocabolario e con il suo stile. Con questi criteri egli arrivò a selezionare diciotto inni:  Splendor paternae gloriae (nell'aurora) Iam surgit hora tertia (per l'ora di terza domenicale) Nunc sancte nobis Spiritus (per l'ora di terza feriale) Rector potens verax Deus (per l'ora di sesta) Rerum, Deus, tenax vigor (per l'ora di nona) Deus creator omnium (per l'ora dell'accensione) Iesu, corona virginum (inno della verginità) Intende qui regis Israel (per il Natale del Signore) Inluminans Altissimus (per le Epifanie del Signore) Agnes beatae virginis (per sant'Agnese) Hic est dies verus Dei (per la Pasqua) Victor, Nabor, Felix, pii (per i santi Vittore, Nabore e Felice) Grates tibi, Iesu, novas (per i santi Gervasio e Protasio) Apostolorum passio (per i santi Pietro e Paolo) Apostolorum supparem (per san Lorenzo) Amore Christi nobilis (per san Giovanni Evangelista) Aeterna Christi munera (per i santi martiri) Aeterne rerum conditor (al canto del gallo) Gli autori dell'edizione delle opere poetiche di Ambrogio in un volume stampato nel 1994, che ha portato a compimento l'Opera Omnia, in latino e in italiano, del vescovo di Milano, hanno ridotto questo numero certo a tredici canti, escludendo quelli per le ore minori, per i martiri e della verginità. L'esclusione va ascritta alla metrica di questi testi. Ambrogio aveva una predilezione per il numero otto. I suoi inni sono tutti di otto strofe con versi ottosillabici. Egli vedeva in questo numero la risurrezione di Cristo, la novità cristiana e la vita eterna (octava dies, l'ottavo giorno della settimana, cioè il nuovo giorno, in cui inizia l'era del Cristo). Per questi studiosi appare improbabile che egli sia venuto meno a questa preferenza e quindi quelli di due o di quattro strofe non vengono attribuiti al vescovo milanese.  Per questi storici inoltre non vi è motivo di dubitare che l'autore della melodia sia lo stesso Ambrogio dato che per loro natura questi inni nascono consostanziati alla musica. Il Migliavacca nota come Ambrogio possedesse una conoscenza musicale approfondita. Le sue opere rivelano, oltre a una perfetta conoscenza scolastica, anche una particolare propensione musicale. Egli parla dell'arte musicale con cognizione tecnica e non solo con estetica raffinatezza come il suo discepolo Agostino.  Leggende su Sant'Ambrogio  Spoglie mortali di Ambrogio e Gervasio, rivestite dei paramenti liturgici, nella cripta della Basilica di Sant'Ambrogio a Milano. Su Sant'Ambrogio vi sono numerose leggende miracolistiche:  Mentre Ambrogio infante dormiva nella sua culla posta temporaneamente nell'atrio del Pretorio, uno sciame di api si posò improvvisamente sulla sua bocca, dalla quale e nella quale esse entravano ed uscivano liberamente. Dopodiché lo sciame si levò in volo salendo in alto e perdendosi alla vista degli astanti. Il padre, impressionato da tutto ciò, avrebbe esclamato: «Se questo mio figlio vivrà, diverrà sicuramente un grand'uomo!». Ambrogio, camminando per Milano, avrebbe trovato un fabbro che non riusciva a piegare il morso di un cavallo: in quel morso Ambrogio riconobbe uno dei chiodi con cui venne crocifisso Cristo. Dopo vari passaggi, un "chiodo della crocifissione" è tuttora appeso nel Duomo di Milano, a grande altezza, sopra l'altare maggiore. Nella piazza davanti alla basilica di Sant'Ambrogio a Milano è presente una colonna, comunemente detta "la colonna del diavolo". Si tratta di una colonna di epoca romana, qui trasportata da altro luogo, che presenta due fori, oggetto di una leggenda secondo la quale la colonna fu testimone di una lotta tra Sant'Ambrogio ed il demonio. Il maligno, cercando di trafiggere il santo con le corna, finì invece per conficcarle nella colonna. Dopo aver tentato a lungo di divincolarsi, il demonio riuscì a liberarsi e, spaventato, fuggì. La tradizione popolare vuole che i fori odorino di zolfo e che appoggiando l'orecchio alla pietra si possano sentire i suoni dell'inferno. In realtà questa colonna veniva usata per l'incoronazione degli imperatori germanici. A Parabiago, Ambrogio sarebbe apparso il 21 febbraio 1339, durante la celebre battaglia: a dorso di un cavallo e sguainando una spada, mise paura alla Compagnia di San Giorgio capitanata da Lodrisio Visconti, permettendo alle truppe milanesi del fratello Luchino e del nipote Azzone di vincere. A ricordo di tale leggenda fu edificata a Parabiago la Chiesa di Sant'Ambrogio della Vittoria e a Milano, su un portone bronzeo del Duomo, gli è stata dedicata una formella. Opere: “Divi Ambrosii Episcopi Mediolanensis Omnia Opera”; “Oratorie (esegetiche)” “Exameron”; “De paradiso”; “De Cain et Abel”; “De Noe”; “De Abraham”; “De Isaac et anima”; “De bono mortis”; “De Iacob et vita beata”; “De Ioseph”; “De patriarchis”; “De fuga saeculi”; “De interpellatione Iob et David Apologia”; “David”; “De Helia et ieiunio”; “De Tobia”; “De Nabuthae historia; “Explanatio in XII Psalmos Davidicos”; “Expositio in Psalmum CXVIII”; “Expositio in Lucam De excessu fratris; “Satyri libri duo”; “De obitu Valentiniani consolation”; “De obitu Theodosii oratio Morali (ascetiche); “De virginibus” o “Ad Marcellinam sororem libri tres De viduis; “De perpetua virginitate Sanctae Mariae”; “Adhortatio virginitatis o Exhortatio virginitatis”; “De officiis ministrorum Dogmatiche (sistematiche): “De fide ad Gratianum Augustum libri quinque; “De Spiritu Sancto ad Gratianum Augustum; “De incarnationis dominicae sacramento; “De paenitentia Catechetiche; “De sacramentis libri sex; “De mysteriis De sacramento regenerationis sive de philosophia; “Explanatio Symboli ad initiandos Epistolario: “Epistulae Innografia Hymni Altro Sermo contra Auxentium de basilicis tradendis”. Tituli Curiosità S.Ambrogio essendo patrono delle api, rappresenta al meglio l'operosità non solo quella risaputa dei milanesi, di cui è patrono festeggiato il 7 dicembre, ma di tutti coloro che si impegnano nel lavoro, con combattività, spirito di sacrificio e di spirito di abnegazione. Inoltre S.Ambrogio ha come secondo simbolo il gabbiano che è legato alla sensazione di libertà e spazio immenso. Il gabbiano trova l'equilibrio e si alimenta di ciò che trova nel rispetto della sua natura di predatore e onnivoro che non si tira indietro a nulla per la propria sopravvivenza. Per le suddette simbologie, e per tutte le altre che sia le api che i gabbiani rappresentano, S.Ambrogio è ormai considerato da tempo il protettore delle startup innovative che vedono in S.Ambrogio, guida sicura con la sua famosa frase di valore eterno: "Voi pensate che i tempi sono cattivi, i tempi sono pesanti, i tempi sono difficili. Vivete bene e muterete i tempi" Note  lastampa/vatican-insider/it//10/02/news/milano-studi-confermano-l-identita-di-sant-ambrogio-e-di-due-martiri-1.34049446 Johan Leemans, Peter Van Nuffelen e Shawn W. J. Keough, Episcopal Elections in Late Antiquity, Walter de Gruyter, 28 luglio,  978-3-11-026860-7.  Ambrogio, Exorthatio virginitatis, 12, 82  Robert Wilken, "The Spirit of Early Christian Thought" (Yale University Press: New Haven, 2003),  218.  Michael Walsh, ed. "Butler's Lives of the Saints" (HarperCollins Publishers: New York, 1991),  407.  Paolino, Vita di Ambrogio, 6  Basilica Vetus e Battistero di Santo Stefano alle fonti, su adottaunaguglia.duomomilano. 18 marzo.  Paolino, Vita di Ambrogio, 7-8  Indro Montanelli, Storia di Roma, Rizzoli, 1957  Ambrogio, Lettera fuori coll. 14 ai Vercellesi, 65  Ambrogio, De officiis, I, 1, 4  Giacomo Biffi, Relazione al Meeting di Rimini, 29-08-1997  C. Pasini, I Padri della Chiesa. Il cristianesimo dalle origini e i primi sviluppi della fede a Milano, op. cit.,  169-170  Graziano avrebbe voluto convocare un concilio numeroso, ma Ambrogio lo esortò a convocare un numero limitato di vescovi, affermando che per appurare la verità ne bastavano pochi e che non era il caso di incomodarne troppi, facendo loro affrontare un viaggio faticoso (Neil B. McLynn, Ambrose of Milan: Church and Court in a Christian Capital, University of California Press, 1994.  124–5.).  Codex Theodosianus, 16.10.10  Codex Theodosianus, 16.7.4  Codex Theodosianus, 16.10.12.1  Guida della Basilica di S. Ambrogio: note storiche sulla Basilica ambrosiana, Ferdinando Reggiori, Ernesto Brivio, Nuove Edizioni Duomo, 198686.  Gérard Nauroy, L'Ecriture dans la pastorale d'Ambroise de Milan, in Le monde latin antique et la Bible. J. Fontaine e C. Pietri, Parigi 1985. Citato in Pasini, I Padri della Chiesa. Il cristianesimo delle origini e i primi sviluppi della fede a Milano, op. cit.  Per un'ampia descrizione dell'episodio: Antonietta Mauro Todini, Aspetti della legislazione religiosa del IV secolo, La Sapienza Editrice, Roma, 1990, pag. 3 e segg.; Thomas J. Craughwell, Santi per ogni occasione, Gribaudi, 2003, pag.49; Lucio De Giovanni, Chiesa e stato nel Codice Teodosiano, Tempi moderni, pag.120; Giovanni De Bonfils, Roma e gli ebrei, Cacucci, 2002, pag. 186; Mariateresa Amabile, Nefaria Secta. La normativa imperiale ‘de Iudaeis’ tra repressione, protezione, controllo, I, Jovene, Napoli,.James Hastings, Encyclopedia of Religion and Ethics, Kessinger Publishing, 2003, pag. 374  Walter Peruzzi, Il cattolicesimo reale, Odradek, Roma, 2008  Ambrogio, De virginibus, 2, 6-18, citato in L. Gambero, Testi mariani del primo millennio, Città Nuova, 1990  Rito Ambrosiano: la centralità dell'opera di Sant'Ambrogio per la Chiesa di Milano  Jacopo da Varazze, Leggenda Aurea, LVII. Un episodio analogo è riferito anche a Santa Rita da Cascia, vedi: Alfredo Cattabiani, Santi d'Italia, Ed. Rizzoli, Milano, 1993,  88-17-84233-8, pag. 816  Per una narrazione della leggenda e della costruzione della chiesa si veda: Don Gerolamo Raffaelli, La vera historia della Vittoria qual ebbe Azio Visconti nell'anno della comune salute 1339 nel dì XXI febbr. in Parabiago contro Lodrisio V Limonti, Milano, anno MDCIX Don Claudio Cavalleri, Racconto istorico della celebre Vittoria ottenuta da Luchino Visconti princ. di Milano per la miracolosa apparizione di Santo Ambrogio, seguita il dì 21 febbr. l'anno 1339 in Parabiago, e dedicata al March. D. Giambattista Morigia G. Richino Malerba, Milano, 1745 Alessandro Giulini, La Chiesa e l'Abbazia Cistercense di S. Ambrogio della Vittoria in Parabiago, Archivio Storico Lombardo, 1923, pagina 144  Ponzio di Cartagine, Vita di Cipriano; vita di Ambrogio; vita di Agostino / Ponzio, Paolino, Possidio, Città Nuova, Milano, 1977 Tutte le opere di sant'Ambrogio, Ed. bilingue a cura della Biblioteca Ambrosiana, Roma: Città nuova. Angelo Paredi, Ambrogio, FIR MilanoStoriaSec. IV-V Hoepli collana Collezione Hoepli Angelo Ronzi, Sant'Ambrogio e Teodosio: studio storico-filosofico, Visentini editore, Venezia. Enrico Cattaneo, Terra di Sant'Ambrogio: la Chiesa milanese nel primo millennio; Annamaria Ambrosioni, Maria Pia Alberzoni, Alfredo Lucioni, Ed. Vita e pensiero, Milano, 1989. Vita di sant'Ambrogio: La prima biografia del patrono di Milano di Paolino di Milano, Marco Maria Navoni, Edizioni San Paolo, 1996.  978-88-215-3306-8 Cesare Pasini, Ambrogio di Milano. Azione e pensiero di un vescovo, Edizioni San Paolo, Cinisello B. Vaccaro, Giuseppe Chiesi, Fabrizio Panzera, Terre del Ticino. Diocesi di Lugano, Editrice La Scuola, Brescia, Piana, Ambrogio in  Enciclopedia Biografica Universale, Roma, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, 2006, 434-442. Dario Fo, Sant'Ambrogio e l'invenzione di Milano Einaudi Torino 2009 978-88-06-19486-4. Raffaele Passarella, Ambrogio e la medicina. Le parole e i concetti, LED Edizioni Universitarie, Milano 2009 978-88-7916-421-4 Cesare Pasini, I Padri della Chiesa. Il cristianesimo dalle origini e i primi sviluppi della fede a Milano., Busto Arsizio, Nomos Edizioni.  978-88-88145-46-4 Franco Cardini, 7 dicembre 374. Ambrogio vescovo di Milano, in I giorni di Milano, Roma-Bari, 21-40. Sant'Ambrogio, in San Carlo Borromeo, I Santi di Milano, Milano,  978-88-97618-03-4 Patrick Boucheron e Stéphane Gioanni, La memoria di Ambrogio di Milano. Usi politici di una autorità patristica in Italia (secc. V-XVIII), Paris-Roma, Publications de la Sorbonne-École française de Rome,  (Histoire ancienne et médiévale, 133CEF, Sant'Ambrogio, [Opere], apud inclytam Basileam, [Johann Froben], 1527.  Sant AmbroeusTra storia e leggenda, Meravigli edizioni (in collaborazione con Circolo Filologico Milanese), Milano,   Satiro di Milano Santa Marcellina Agostino di Ippona Basilica di Sant'Ambrogio Patristica Diocesi di Milano Rito ambrosiano Paolino di Milano Chiesa dei Santi Ambrogio e Theodulo Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Sant'Ambrogio Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina in lingua latina dedicata a Sant'Ambrogio Collabora a Wikiquote Citazionio su Sant'Ambrogio Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Sant'Ambrogio  Sant'Ambrogio, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Sant'Ambrogio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Sant'Ambrogio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.  Sant'Ambrogio, su sapere, De Agostini.  (IT, DE, FR) Sant'Ambrogio, su hls-dhs-dss.ch, Dizionario storico della Svizzera. 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Cathechesi, su w2.vatican.va. di papa Benedetto XVI su Sant'Ambrogio in occasione dell'udienza generale PredecessoreVescovo di MilanoSuccessoreBishopCoA PioM.svg Aussenzio374-397San Simpliciano SoresiniV D M Padri e dottori della Chiesa cattolica V D M Ambrogio di Milano Antica Roma  Antica Roma Biografie  Biografie Cattolicesimo  Cattolicesimo Milano  Milano Categorie: Funzionari romaniVescovi romani del IV secoloTeologi romani 397 4 aprile Treviri MilanoAmbrogio di MilanoSanti romani del IV secoloCorrispondenti di Quinto Aurelio SimmacoDottori della Chiesa cattolicaPadri della ChiesaSanti per nomeScrittori cristiani antichiScrittori romaniTeologi cristianiVescovi e arcivescovi di MilanoSanti della Chiesa ortodossa. 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To Marcellina His Sister Concerning Virgins.  -- Treatise Concerning The Widows. IL DIRITTO ROMANO Fu sopratutto col pacifico apostolato della scienza e della virtù,chequeigrandi uomini, cuila Chiesagiustamentesaluta suoi padri, illuminarono e vinsero il mondo pagano. Allo scetti cismo, frutto di astruse teorie filosofiche, che distruggevano senza edificare, essi opposero le verità cattoliche, profonde e s u blimi pei sapienti, chiare e popolari per la moltitudine,pratiche per tutti;alla spaventosa depravazione prodotta e mantenuta da una religione tutta materia e sensi,essi risposero coll'introdurre della sfibrata e morente società romana una moltitudine di uomini e di donne, i quali invece delle sterili declamazioni di Cicerone e di Seneca,offrivano sé stessi,ad esempio di Gesù Cristo, ostie viventi di sacrificio per la Chiesa e per l'umanità. I secolo IV segna appunto il massimo furore di quelle in cruente battaglie. S. Atanasio, S. Basilio, i due S. Gregorii, S.Girolamo,S.Agostino,S.Giovanni Grisostomodaunaparte; S. Antonio e le migliaja di monaci e di sante vergini dall'al tra.Nel mezzo del secolo poi e nel mezzo dell'Occidente com pare il grande Arcivescovo di Milano,S. Ambrogio,che rac coglie la penna di S. Atanasio per trasmetterla a S. Agostino, e colla voce, cogli scritti e cogli esempi propri e della santa sua sorella Marcellina popola, non ideserti,ma le corrotte città latine di una legione di angeli terreni. Sublime missione al certo,ma non unica,a cui laDivina Provvidenza destinava il figlio del Prefetto delle Gallie, allora che inconsapevole de'suoi destini,giungeva in Milano nel l'anno 373,per esercitarvi qual Consolare l'autorità del Vicario d'Italia nella Liguria ed Emilia.Infatti nel congedare il suo giovine amico,Petronio Probo Prefetto del pretorio e cristiano, gli aveva detto:ricordatevi,mio figlio, di operarenon da giu dice, ma davescovo. L'opulentoesaggiosenatoreromano con quelle parole manifestava, senza comprenderne la forza profetica, il vizio radicale ed il maggior pericolo dell'impero romano,e quale avrebbe dovuto esserne ilrimedio:la cristia nizzazione cioè veraceed intera del governo e delle leggi. 437  (1)Paulin,in vit.Amb.n.5.  A quest'opera tuttavia richiedevasi non un greco od un barbaro,ma un nobile romane discendente dall'antica razza conquistatrice;era conveniente non un uomo di guerra ne un colto letterato,ma un giurisperito,che dalla magistratura dell'impero terreno passasse alla magistratura dell'impero spi rituale.Tal fu Ambrogio,allorché nel 374 per mezzo di un prodigio fu eletto Vescovo di Milano. Se alcunofossestatoalloraammessodaDio leggerenel futuro avrebbe ravvisato nel Consolare romano fuggente l'o noreela responsabilità diVescovo,ilsecondo fraiquattro Dottori della Chiesa, che sono rappresentati sostenere la cat tedra di S. Pietro in Vaticano; ma insieme avrebbe meravi gliato contemplando da lungi la nuova società cristiana succe dere all'impero pagano,e S. Ambrogio,che formata la mente ed il cuore del grande Teodosio, ne congiunge la destra a tra verso isecoli con quella di Carlo Magno. Si; è evidente che S. Ambrogio ritorna fra noi appunto nel momento del maggior bisogno della Chiesa e della società, quando il paganesimo redivivo ha consumato ormai presso tutte le nazioni cristiane l'apostasia dello Stato dalla Chiesa e va lentamente scristianizzando tutti i codici e tutte le leggi dei popoli civili.Non è pertanto meraviglia se dalla scoperta delle reliquie santambrosiane la setta anti-cristiana intraveda una minaccia misteriosa a quelle che essa chiama le gloriose conquiste dell'umanilà; mentre il popolo veramente e sincera mente cattolico si commove ed esulta, come all'arrivo di uno sperimentato e valente capitano.  Nondimeno chi fu che sospettasse in que'giorni questa importantissima missione religiosa ecivile del nuovo Ve scovo di Milano? Gli uomini invero sono istrumenti e spet tatori quasi sempre inconscii,dellemeraviglie di Dio.Ben po chi giungono a sorprenderne la mano onnipotente e miseri cordiosa, allorchè in mezzo alle angoscie dei secoli più trava gliati, quando lutto sembra avviarsi a rovina,getta silenziosa ed inosservata la semente, che fruttificherà a suo tempo pace e prosperità alle generazioni venture.Furono isecoli cristiani che riconobbero la lontana,ma efficace opera di S. Ambrogio; ed è perciò con un trasalimento di gioja che noi, dopo quin dici secoli, da quel 74, in cui Dio lo dono alla Chiesa ed alla società, vediamo risvegliarsi l'eroe delle battaglie contro il paganesimo ed affacciarsi dalla sua tomba a riguardare le il lusioni, le convulsioni ed i terrori di questo secolo XIX, per errori e pericoli sociali tanto simile al secolo IV. Alla domanda perciò che ispontanea si presenta alla mente di ognuno,in questi giorni,in cui collo spirito della Chiesa, che è spirito di preghiera, ci prepariamo ad onorare gli avanzi mortali del gran Santo, gran Dottore e grande cittadino del secolo IV,vale a dire: perché ritorna ora fra noi S. Ambrogio? non si può chiedere una risposta intera ed adeguata che ai secoli avvenire.Essi ci mostreranno e spiegheranno laragione provvidenziale, per cui le reliquie del santo Arcivescovo e dei due martiri milanesi riapparvero in questi anni e non prima. Noi frattanto dal passato cercheremo di pronosticare il futuro; e dalla influenza tutta santa e civilizzatrice, che il C o n solare romano eletto Vescovo esercitò sul governo, sulle leggi e sulla società del secolo IV,ciconforteremo a sperare che in modo eguale e maggiore vorrà ora farci sentire la potenza di sua intercessione presso Dio in pro della tribolata e perico Jonte società moderna; speranza e consolazioni ben giuste,poi che nella Chiesa Cattolica anche le ossa dei santi profetano.  I. La divisione scientifica del Diritto in pubblico e privato era conosciuta,se non di nome,certo di fatto,anche nel l'anticoGiureRomano;eilprimo era fontedelsecondo,il quale sisvolgeva e modificava mano mano che si svolgevano e modificavano le istituzioni politiche. Un popolo eminenlemente guerriero e conquistatore,come era quello formato dai primi compagni e discendenti di Romolo, non poteva a meno di dare alla propria legislazione un impronta semplice,ma fiera e di spotica, spesse volte in aperta contraddizione co'diritti di na tura. Per essa la patria era tutto, l'individuo nulla, la famiglia un mezzo perdarguerrierialcampo, uominiprudentialforo lodata perció la madre dei Gracchi, che invece dei giojelli m u liebri fa pompa de'suoi figli, futuri tribuni della plebe; poi chè essa conciòrappresentavaladonna romana,qualelavo leva il ferreo diritto repubblicano. Quella patria infatti, per cui tutti e tutto si doveva sagrificare, non era che l'interesse e l'ambizione di poche famiglie patrizie discendenti dall'antica razza conquistatrice: all'infuori dei senatori e cavalieri non si conoscevacheplebe,efuoridiRoma tuttoilmondo,secondo il diritto pubblico romano, non era abitato che da vinti o da nemici.Di qui nacque e si perpetuò dai primi tempi di Roma quell'antagonismo fra senato e plebe, che fu causa non ultima della caduta della repubblicae dell'intronizzazione del dispotismo cesareo;diqui anche quella lotta continua con tutte le nazioni confinanti coll'impero, lotta che fini colla inondazione dei barbari. L'aspettocaratteristicoperò dell'anticoDirittoRomano come di tutte le primitive legislazioni, è l'unione indissolubile dello Stato colla Religione.Essa presiede a tutti gli atti pubblici e privati; non si intima guerra ne si concede pace senza i feciali egliaruspici;senzaauspicj nonsiradunanoassemblee;nonsi stringono trattati che sotto la protezione degli dei, e la stessa proprietà privata è sotto la salvaguardia degli dei penati, cui i primi romani non si dimenticavano mai di salutare all'ingresso dellecase.La religione latina d'altra parteera essenzialmente nazionale,e si informava a quello spirito di famiglia, che appare l'anima ditutte leistituzioni romane;essa perciò rimaneva in carnatacollarepubblica,poichéRoma derivavadaglideiein taccar la religione era intaccare Roma,ed essendo Roma il mondo,era un dichiararsi nemici del genere umano.Più tardi, all'avvenimento dell'impero,Augusto uni ilsommo pontificato alla soprema potenza civile e militare e collocò l'altare della Vittoria nel senato,come testimonio e simbolo dell'eterna al leanza fra lo Stato ed il paganesimo. Laonde,quandoaltempo dell'abbrutito Tiberio,alcunipe scatori di Galilea predicarono una nuova religione, che diceva doversi obbedienza prima a Dio che a Cesare - essere glidei nazionaliidoliedemonii nostrapatriailcielo la terra luogo non di piaceri ma di prova - gli uomini senza distin zione di sesso edi città,siailromano che ilgreco,ilbarbaro, "loschiavo,tuttifratelli- figlidiun comun padreIddio- idegradati nipoti diCincinnato siscossero,come all'annuncio di un nemico alle porte,che minacciasse di rovesciare l'antica maestà di Roma.Il cristianesimoinfatti non era un semplice culto religioso, una delle mille superstizioni che dall'oriente si importavano alla capitale colle spoglie delle vinte nazioni e che il fiero politeismo romano riceveva come arra di pace e difusionedeipopoliassoggettati;ilcristianesimoeraun in tero sistema teorico e pratico, che abbracciava tutto l'uomo e siimponeva a tutte le questioni sociali,esigendo un'intera ri voluzione di idee, di costumi e di leggi, un cambiamento ra dicale nel diritto pubblico e privato dell'impero.Appena pro mulgata questa nuova dottrina aveva trovati assecli ferventi ed indomabili in ogni classe e condizione dell'impero; accolto sopratutto con trasporto fra quegli esseri, quanto spregiati al trettanto numerosi, quali erano nella società romana ledonne e gli schiavi (1).Non ci meravigliamo pertanto che la giuri sprudenza e la politica romana si trovassero bentosto nella necessità di risolvere un quesito, il quale involgeva le sorti dell'impero e dell'umanità. Se l'impero accoglieva il cristianesimo, questo che trasformava le donne ed i fanciulli in eroi, avrebbe salvato l'impero dallo sfascelo all'interno, all'esterno dai barbari, mansuefattidalvangelo;ma loStatoconciòcessavadiessere ilsupremo Iddio;laChiesa assumeva con esso le parti dim a dre; lo schiavo, il vinto, la donna dovevano esser rispettati; s'umiliava l'orgoglio;cadevano Venere e Mercurio;regnava Cristo. Se per contrario volevasi sostenere l'onnipotenza dello Stato, la divinità degli imperatori, l'eternità di Roma, la nuova religione si doveva far sparire dalla faccia della terra.Da Ne rone a Massenzio gli imperanti romani si decisero per questa seconda politica e ne affidarono la cura al carnefice; il quale per tre secoli stancò uomini e belve, e non riesci che a ren dere più splendido il trionfo del cristianesimo. Costantino cambiò sistema e dopo aver bandito tolleranza,dichiarossi per ilnuovo culto;seguitodalfiglioCostaozo,chefattosiperò da protettore giudice e padrone della Chiesa, divenne il triste modellodituttiipersecutorifinoadoggi.Sopragiunse Giu liano,col quale ilpaganesimo, domato ma non spento, tentò fe roce, sebbene effimera, riscossa. Quando Ambrogio entrò Consolare a Milano,regnava Va lentiniano I, successo al buon Gioviano. Scelto dall'esercito l'imperatore era prode guerriero;accorse al Reno e all'onda sanguinosa dei barbari, che scrosciava e trasbordava dalle frontiere, oppose, per allora, un argine di ferro.  Tuttavia se la spada valeva coi nemici non giovava per le questioni interne, nè per arrestare la decomposizione sociale di quell'immane gigante,cui ilcristianesimo tentava invano di risanguare con forti e pratiche dottrine di virtù e sagrificio. La fede operava al certo nel segreto delle coscienze una im portantissimarivoluzionemorale;ma nonostanteglisforzidi Costantino, il mondo amministrativo si era tenuto in disparte dalla influenza e dalle istituzioni cristiane.Infatti sotto Valen tiniano, già confessor della fede avanti all'Apostata, il governo continuava colle massime e coi costumi dell'antica Roma pa gana;l'imperatore proseguiva a chiamarsi divino ed eterno; (1)Lactant.,Instit.lib. V,cap.18.   aveva assunto i titoli e le insegne di pontefice massimo; m a n teneva ai sacerdoti degli idoli privilegi e sovvenzioni a carico dell'erario; mentre l'altare della Vittoria eretto nel mezzo del senato,attestava la politica incerta ed equivoca del regnante cristiano.Idue elementi opposti edinconciliabilierano invero tuttora di fronte e disponevano di forze eguali; più popo lareediffuso,massimeinoriente,ilcristianesimo;più po tente per ricchezze ed aderenze,in ispecie in occidente e fra le famiglie aristocratiche, il paganesimo, considerato da esse come simbolo e palladio dell'antica gloria romana. Valenti niano I reputò pertanto abilità politica il mettere lo Stato nel mezzo, come neutrale e paciere fra le due nemiche correnti. Enorme fallo politico, che si ripete continuamente ogni volta che nella società scendono in campo ad aperta battaglia i due eterni nemici, la materia e lo spirito, l'errore e la verità, la città degli uomini e la città di Dio ! Dall'errore nasce l'errore:un governo che esita e teme decidersi fra il cristianesimo e le superstizioni gentilesche, per quanto spiritualizzate dal neoplatonismo,fra Cristo e Satana,un tal governo non può reggersi che con una serie di ripieghi, sovente contraddittorii; per esso il principe cristiano non porterà che colpi troppo prudenti a quelle antiche istituzioni pagane, che rimanevano sempre incarnate nel diritto civile dell'impero. Quante questioni giuridiche, di cui ilprogresso introdotto dal cristianesimoreclamavauna prontaeradicalesoluzione,re stavano perciòsenza una risposta.Eppure necessitàstringeva, se l'impero voleva salvarsi ! La società era tuttora divisa fra una minoranza di opu lenti, che si chiamavano liberi e cittadini,ed una immensa maggioranza di uomini, cui il cristianesimo diceva fratelli dei superbi padroni,ma che la Roma conquistatrice aveva classificati fra gli utensili d'agricoltura ed industria e fra gli oggetti di commercio (1); gli schiavi reclamavano in nome della natura e della religione idiritti dell'uomo e del cristiano. Un'altra schiavitù legale era stata recentemente introdotta dal fisco rapace,che in nome della divinitàdiRoma,padrona del mondo,non solospogliava ma distruggeva;icoloni ed icu riali protestavano,io nome di una assennata economia politica, per un mutamento radicale nei principii che regolavano sia la proprietà,che l'esazione delle imposte. Il padre verso ifigli,  (1)Ulpian.Inst.I,tit.8.   il padrone verso gli schiavi, e perfino il creditore verso il d e bitore,anchedopolesaggiecostituzioni diCostantino,con servavano diritti, che si assomigliavano troppo a quelli che la ferrea mano dei decemviri aveva scolpiti nel bronzo;la carità cristiana, la quale ne andava sbandendo dai costumi l'atroce esercizio, esigeva che il legislatore sciogliesse i sudditi da quelle pastoje dell'antico servaggio,con cui ilgiudice per rispetto ad una formulistica e sacrilega legalità conculcava l'equità e la giustizia. Che più; il matrimonio fondamento della società e la donna che ne è il cuore, erano sempre 'all'arbitrio di una legislazione,che sanzionava,col divorzio e colla tutela perpetua, una incredibile corruzione di costumi, massimo fra i pericoli dell'impero;or bene le vergini e martiri cristiane volevano,che un sesso santificato dalla Vergine madre di Dio, fosse ricollo cato nel posto assegnatogli dal Creatore e che il matrimonio, pei cristiani elevato a Sacramento, fosse anche pei pagani cosa seria e rispettata. Queste ed altre questioni,che travagliavano lasocietà ro mana nelSecoloIV,sisarannoessepresentateallavastae profonda intelligenza ed al cuore nobile e passionato del gio vine Consolare, in quel primo giorno che in Milano prese pos sesso dell'importante sua carica? Le parole e le gesta del m a gistrato divenuto Vescovo dimostrano, che S. Ambrogio le aveva comprese, e già risolte in quella, che tutte le compen diava:la cristianizzazione del governo e del diritto romano. S. Ambrogio vi si adoperò con quel tatto pratico carat- teristico dellaRoma conquistatrice del mondo,che ora è pas sato nella Roma capitale del cattolicismo.Cauto,prudente e piuttosto lento,l'antico romano taceva, meditava ed operava a colpo sicuro; non guidandosi a vivaci teorie più o meno ulo pistiche esso studiava ed aspettava, non preveniva gli avveni menti;e perciò mentre le colte e filosofiche repubbliche greche sparivano fra l'olezzo dei fiori ed il canto dei loro inimitabili poeti,il tardo romano si impossessava dell'universo. Questa impronta si ravvisa negli scritti e più nelle opere del grande Metropolita di Milano; perchè se ilcuore ardente di Vescovo cattolico lo moveva a parlare al suo popolo,a scrivere lettere e volumi, a portarsi alla corte e trattar cogli imperatori, la severa prudenza del magistrato romano gli dava quella calma e quella saggezza, onde isuoi detti ricevevansi come oracoli.   Suo primo atto fu volgersi a Valentiniano I, la cui indole buona ma violenta era stata esasperata da malattie e da cor tigiani e satelliti sanguinarii, per cui si riempiva l'occidente di gemiti e di lamenti.Cosa disse Ambrogio all'imperatore dagli storici contemporanei non ci è riferito; ma la risposta del so vrano e più il mutamento totale di sua politica dopo quel col loquio,ci dimostrano la prima vittoria sul dispotismo cesareo, Valentiniano lodò la franca indipendenza del vescovo e ne volle pe'suoi peccati conveniente rimedio (1).Cosa inaudita e fin allora creduta impossibile!La divinità imperiale, cui la legisla zione romana,anche dell'età classica,asseriva sciolta dalle leggi (princeps solulus a legibus),anzi legge vivente, e libero senza ombra di ritegno a dichiarar lecito ciò che jeri era illecitoed ingiusto (2), il dio di R o m a, riconosce d'aver errato; ed i s u d diti,senza essere costretti,come era d'uso,a sgozzare e poi celebrar l'apoteosi dell'imperatore,possono ormai fargliperve nireleloroquerelepermezzodei Vescovi,rappresentanti la co mune madre, la S. Chiesa. Se ad alcuno però non piace questo progresso,perché introdottodaVescoviepreti,riservipure l'ammirazione per Ulpiano e Paolo, fra i più grandi giurecon sulti al certo dell'epoca degli Antonini,iquali celebravano la clemenzaelasaggezza diquelmostrochesichiamavaComodo! Un altro passo tuttavia rimaneva a fare: non solo la per sona,ma la stessa dignità imperiale doveva ripudiare officialmente il culto nazionale di Roma. Una cerimonia ridicola era stata introdotta da Augusto e ripetevasi infallantemente ogni volta era assunto un nuovo principe all'impero;lo stesso Co stantino non aveva osato di rinunciarvi.L'offerta però del titolo e delle insegne di pontefice massimo, che il senato faceva all'imperatore,inchiudeva un gravissimo significato, poichè era la conferma di quel vecchio diritto pagano e teocratico, del quale igiureconsulti non ardivano acora distruggere l'autorità tante volte secolare e che isenatori,in parte ancora idolatri, facevano studiosamente rivivere appena se ne presentasse l'oc casione.Rigettare quelle insegne era dunque sconfessare l'as soluta sovranità dello Stato sopra i beni, sulla vita e, ciò che più importa ai despoti,sulle anime e sulle coscienze dei sud diti. Quale fra i moderni vantatori di liberalismo in simile circostanza ascolterebbe la voce della ragione e della fede, par [ (1) Theodor. Hist. Eccl. Lib. IV,c. VI. (2) Digest. Const. Lib. I, tit. 4.   lante per bocca di Ambrogio? Lo stato attuale d'Europa ce ne è testimonio.Ben diversamente pensava però quel caro figlio spirituale di Ambrogio, come esso chiamava Graziano, il primo che alla deputazione del senato rispose:sè essere cristiano. Ottenuta questa seconda vittoria,se ne richiedeva una terza, perché il cristianesimo potesse lusingarsi di vedere ilgoverno dei Cesari informatodisue caritatevolidottrine.Ragion logica voleva che l'ara della Vittoria,simbolo delle antiche superstizioni, sgombrasse il senato, molto più ora che l’imperatore, associatosi Teodosio, aveva vinti i Goti, invirtùnondi Giovemadi Gesù Cristo. Ilregalealunno d'Ambrogio,che primadipartirper la guerra, gli aveva chiesti consigli ed istruzione a conferma della propria fede, mostrossi coerente. Un mattino adunque i senatori entrando nella Curia,stupirono vedendo scomparsa l'ara e la statua d'oro,tolte quella notte per ordine sovrano (1). Il colpo inaspettato commosse la fazione pagana fino nell'ultime fibre: molti senatori tuttora partitanti per i vieti riti di N u m a edeiFabii,siradunarono inquietieminacciosiperstendere una querela all'imperatore. Ma ai fianchi di Graziano vegliava Ambrogio,chegli parlòinnome deglialtrisenatori,delPonte fiMilaniaso, dellasedecristiana.Invanopertanto ladeputazione instò; il giovine principe si dichiarò irremovibile e neppur volle ammetterla all'udienza. Graziano era allora nel fiore dell'età,nell'auge della gloria, gioconda speranza della Chiesa e dell'impero: e invece per uno di que'misteriosi decreti della Divina Provvidenza,che scon certano tutti gli umani ragionamenti e non lasciano luogo che all'umiltà ed alla adorazione, l'imperatore viddesi abbandonato dalle sue truppe e cadde vittima di infame tradimento.Il pa ganesimo erasi vendicato; e risorgevano le speranze degli idolatri, i quali rappresentati da Aurelio Simmaco Prefetto d i Roma e ricco sfondato, credettero di approfittarsi delle circostanze e del favore della corte, per fare pressione sull'animo sbigot titodel fanciulloValentinianoI e della superba, ma insieme debole, Giustina. Statista e letterato, filosofo e scrittore, il discepolo d'Ausonio esauri tutte le risorse del brillante suo in gegno e stese una supplica,vero capolavoro di rettorica; se natore poi e pootefice, e caro al popolo,cui non lasciava m a n carepanéecircesi,impiegò perilpoliteismo,alquale esso  (1) Baanard, Vita di S. Ambrogio, pag. 128.   stesso non prestava più credenza, tutta l'influenza della per sona e degli impieghi; e si riteneva sicuro della riuscita. In fattigià stavasi preparando il decreto che ristabiliva l'ara della Vittoria,allorchèS.Ambrogio sopragiunse dalleGallie,ove alla corte dell'usurpatore Massimo aveva, con finezza di diplo matico consumato ed intrepidezza di vescovo cattolico,patro cinata e vinta la causa del pupillo imperiale. Benchè un rigoroso segreto presiedesse alla congiura dei senatori pagani ed ai consigli del Concistoro imperiale,geloso dell'influenza del Vescovo di Milano, tuttavia esso ne penetrò le macchinazioni; e presa la penna scrisse, non più all'Eterno, Invincibile, Germanico, Partico e c c., ma a l felicissimo e cristianissimo imperatore Valentiniano I I. In quella magnifica lettera, incui isentimenti più elevatideiDottore e Ponteficecattolico si alternano e vestono la forma della più commovente tene rezza paterna, si trova già completamente tracciata la nuova politica cristiana, che fa i principi non padroni dei popoli, sib bene ministri di Dio e suoi luogotenenti sulla terra. Valenti niano perciò ode ricordarsi, che come tutti gli altri suoi sud diti, egli stesso è soggetto al Re dei Re; che un altro potere è sorto nell'impero a regolare le coscienze,al quale pertanto, cio è a i Vescovi, spetta il giudizio in materia religiosa: i n c a s o contrario,come indegno della professione cristiana,venendo l'imperatore alla chiesa,vi avrebbe trovato Ambrogio alla porta ad impedirgliene l'ingresso. Bisogno cedere:S.Ambrogio ebbe lasupplicadiSimmaco e riprese la penna. In quel giorno il profondo giurista, il de stro avvocato,ilsaggio magistrato rivisse nello scritto del Vescovo e del santo. Il Metropolita milanese non bada a contendere coll'avversario in lenocinio di eleganze irreprensibil mente classiche: esso mira alla sostanza: perciò non allegorie, non scappatoje, non esitazioni,non dottrine incerte e,dirò, fosforescenti,tutto è massiccio;gli argomenti procedono ser rati, come le legioni romane, e la verità che appare evidente, abbatte, frantuma e disperde perfin la polvere degli annientati sofismi pagani.Simmaco s'appoggiava a tre argomenti:Roma disonorata per l'abbandono degli dei;le vestali reclamanti;la patria sfortunata e pericolante per la nuova politica cristiana degli imperatori.S. Ambrogio prende questi tre sofismi,li spoglia delle vesti affascinanti, li osserva, li analizza e li trova non altroche un accozzo difrasireboanti,vuotedisenso.Che parla Simmaco della dea Vittoria? La vittoria è un nome astratto: esso si realizza nel numero e nel valore delle legioni romane:Scipionevinse sfondandolefittecoortidiAnnibale, non ardendo incenso alla statua di Giove. Chiedono i pagani privilegiedentrateperisacerdotidegliidoli? Dunque con fessano che senza essi non possono reggersi: ma noi, dice S.Ambrogio,crescemmo fra leingiurie,le miserie,lemapnaje; e dei nostri benifacciamo il tesoro dei poveri. Le vestali? O h ! quante immunità,privilegi ed entrate per sette fanciulle pro fessanti continenza temporanea fra il lusso e gli onori; il cri stianesimo invece ne presenta migliaja e migliaja, che si conse crarono a perpetua verginità nel nascondimento e nelle pri vazioni. Volete privilegi ed entrate alle vostre vergini? Le a b biano in misura eguale anche la moltitudine quasi innumerabile delle cristiane:non è secondo giustizia l'accordar preferenze: otutte,onessuna.Ilcristianesimocagione deidisastri del l'impero e della recente carestia d'Italia? I cristiani nemici della patria? — Avanti all'antica e sempre calunnia nuova il discendente degli Ambrogii, che aveva testė salvato l'Italia e l'imperatore, credė di imporre silenzio all'indegnazione del suo cuore romano: esso rispose con fina ironia, riscontrando le allegazioni enfatiche ed immaginarie di Simmaco colla reale prosperità di quell'anno, quale presentavasi agli occhi di tutti. Era un seppellire l'elegante declamazione sotto il peso della più terribile delle confutazioni, un meritato ridicolo. Ciò falto, S. Ambrogio non si arresta a riguardare il prostrato nemico e piglia l'offensiva.Allo scetticismo pagano confessatoda Sim maco,e che supplicava per una tolleranza,non solo pratica ma teorica,dituttiiculti,essocontraponelachiaraevidenza della fede e le forti convinzioni dei cristiani,Ritorce poi l'ar gomento; richiama la gloriosa ed ancor recente memoria di quel tempo,in cui ipagani non ammettevano l'indifferenza dello Stato per ogni culto,ma perseguitavano e massacravano; fa osservare che non è giusto imporre ai senatori cristiani i riti pagani e conclude dichiarando,che la natura stessa vuole ilprogresso:essere ormaitempo,che letenebre cedano,al sole,l'errore allaverità.La causa fu vinta:quel soffioche già spirò dal cenacolo nelgiorno di Pentecoste,portò via l'ultimo avanzo del paganesimo officiale, il quale invano una terza volta sipresenterà a Teodosio.L'alleanza secolare fra l'impero romano e l'idolatria è rotta; non solo, m a sono abbandonate le illusioni di una politica anfibia e contraddittoria, che voleva separato lo Stato dalla Chiesa, il corpo dall’anima son gettate; da quel punto le basi del nuovo Diritto Pubblico della Chiesa e delle genti cristiane. Graziano infatti, continuando l'opera di Costantino, aveva dall'anno 379 al 382 pubblicati varii decreti, sia in favore della Chiesa che contro gli eretici e manichei e contro gli apostati recidivi al paganesimo:ci giunsero nelle raccolte di leggi c o m pilatepiùtardipercomando diTeodosioilgiovine,econo sciuta sotto il nome di Codice Teodosiano.Frattanto Teodosio il Grande promulgava in Costantinopoli (anno 380) quella sua memorabile costituzione, in cui dichiarava la fede cristiana religione dell'impero, e fra le varie sette che ne disputavano il nome, osservava, intender esso quella sola, la quale profes. sata ed insegnatadalPontefice Romano,allora Damaso,aveva con sé le note caratteristiche ed esclusive della verità. Qual rivoluzione nei principii legali e nelle massime di governodelDirittoromano!Ma nonbastavachel'imperatore facesse decreti,esso stesso doveva conformare le proprie azioni alle dottrine, che andavano informando la nuova legislazione. Se pertanto Giustina vuol favorire i suoi ariani e intima sia loro ceduto un tempio dei cattolici, S. Ambrogio si offre pronto a donare all'imperatore le proprie sostanze private, a sacrifi care lavita stessa,non mai ilpatrimonio della Chiesa.Se anche il grande Teodosio, illuso da una fantasmagoria di tolleranza religiosa, patrocinata ardentemente dall'indifferentismo ed i m moralità dei cortigiani, vorrà costringere il vescovo di Callinico a rifabbricare la distrutta sinagoga degli Ebrei, vedrà giun gersi una lettera rispettosissima, ma conquidente del Vescovo di Milano,nella quale l'equità,la giustizia, la fede cristiana ed anche i dettami di una saggia politica impongono a Teodosio direvocareilmalconcepitodecreto.Teodosiosimostra esi tante;ma Ambrogio insisteevince.Evincerà finoal punto di persuaderlo a promulgare una legge, con che il troppo vio lento principe impone agli altri giudici,e prima a sè stesso, di soprasedere ventiquattro ore dall'esecuzione d'ogni sentenza capitale; non solo, ma in abito da penitente lo vedremo con fessare ed espiare in faccia alla Chiesa ed all'impero le fatali conseguenze della impetuosa sua ira contro i Tessalonicesi. Magnanimo principe, degno dell'ammirazione di tutta la posterità! Esso fu grande quando sul campo di battaglia tre volte sgomino le legioni degli usurpatori e due volte ruppe e disperse le immense orde dei barbari; ma fu più grande allor chè nel vestibolo della Basilica milanese riconobbe, esser nessuno,fuorché Dio,padrone della vita degli uomini.Circadue centoquarant'anni prima un altro imperatore romano,sommo unicamente perlibidinié crudeltà, avevaespressoildesiderio che il senato e Roma stessa avesse una sola testa,onde poterla spiccare d'an colpo.A quell'imperatore,cui Seneca fu maestro, if sénato e l'impero si prostravano e ne placavano la divina cle menza con statue e sacrificii. Ora un altro principe grande per'mente, per cuore e per braccio, è in ginocchio avanti ad un Vescovo Cattolico, domandando penitenza per esser troppo trascorso nell'esercizio della giustizia contro alcunisudditi. Chisceglieremo,Teodosio oNerone?A chidovrà ascriversi il cambiamento totale nei principii che reggevano l'impero? I fattirivelanoilloroautore:seipregiudiziimoderni impedi scono a'molte intelligenze di leggerne il nome,è solo, come osserva uno scrittore francese (1) di principii esso stesso tut. t'altro che cattolici, perchè il cristianesimo è troppo poco stu diato e'meno compreso. S.Ambrogio,come tuttiglialtripadridellaChiesa,si occupava delle questioni sociali e politiche per lo più solo in direttamente: la sua cura cotidiana, il pensiero della sua vita era la santificazione del suo gregge; e le sue azioni e i suoi scritti tendevano unicamente a questo scopo.Ilsuo stesso libro degli Officii, quell'opera scritta ad imitazione di Cicerone, la quale,come rappresentante dei secoli cristiani,sebbene segni unqualcheregressonelleforme, locompensaconunimmenso progresso, nelle idee non mira che ad offrire al suo clero saggi precetti di santa vita.Ma si può egli sanar l'anima senza gio varealcorpo?Ecco pertantoS.Ambrogio,por professando osservanza dei canoni,che intimavano a pruti e vescovi una operosa residenza fra il popolo (2), togliersi da Milano, c o m parire alla corte, intraprendere disastrosi viaggi,ogni volta lo richiedeva la necessità della cosa pubblica. Teodosio gli affida i suoi due figli; e quando il grande Arcivescovo stava per entrare nell'eternità,Stilicone,ilreggente dell'impero,lo mando a scongiurare, che volesse pregar Dio per un po'd'altri anni, poiché l'Italia, lui morendo, pericolava (3).  III. (1) Il signor Cousin citato da Troplong, De l'influence du christianisme sur le Droit civil des Romains, pag. 368. 29 (2)Epist.LXXXV,n.2. (3)Paulin, Vit.Ambros.n.45. Scuola Catt.Anno II.Vol.III.Quad.XVII. Non è perciò meraviglia, se negli scritti e più nelle azioni del Consolare romano divenuto Vescovo cattolico troviamo, sebbene quasi per incidente e per lo più solo in germe, accen nate e risolte le principali questioni di diritto, la cui completa trasformazione doveva esser l'opera dei secoli avvenire. La clemenza di Teodosio verso i vinti, gli sforzi di lui per siste mare l'esazione delle imposte, cuiibarbari, glierrori dell'impero e più l'interna corruzione dei costumi rendevano intollerabili, dimostrano che l'influenza di S. Ambrogio si stendeva dovunque eravi un ministero di carità da esercitare (1).Irrompono iGoti, mettono a ferro ed a fuoco l'Illirico e ne conducono gli abi tanti inservitù?S.Ambrogio spogliatosidituttoperredimerli, spezza e vende ivasi preziosi della Chiesa:essendochè più preziose, dicealsuopopolo,sonoleanimeredentedaCristo,chenon l'oro e l'argento consecrati al culto divino.Era lo scioglimento pratico per mezzo della carità di quella questione della schia vitù,cui Ulpiano e Pomponio dicevano di assoluto diritto delle genti (2) e che la nuova religione professante la fratellanza universale degli uomini, voleva sbandita dalla terra.Il cristia nesimo infatti ogni volta che vedea aperto ilcampo all'azione, viene attuando gradualmente l'affrancamento degli schiavi,con quella prudenza però che prepara prima la libertà delle anime e delle intelligenze, avanti di procedere alla liberazione dei corpi;poichè questa,se troppo repentina ed ispirata solo da passioni politiche,riesce in pratica egualmente fatale agli schiavi stessi ed alle nazioni che la compiono:gli Stati Uniti d'Ame rica ne vanno ora facendo l'esperienza. Era tuttavia principalmente nell'udienza episcopale,che S. Ambrogio rivelava nelle sue sentenze ilmagistrato cristiano e santo. Costantino, approvando ciò che di fatti già trovava nei costumi cristiani, donò alle decisioni dei Vescovi il medesimo valore giuridico,che ilsenso pratico degli antichi romani aveva ottenuto agli editti del pretore. Con ciò lo stretto diritto civile consecratodalleleggi delle XII Tavole, ilqualegià ritiravasi davanti al diritto di natura più ampiamente propugnato dai giureconsulti dell'età classica, cessava totalmente, o meglio si trasformava in quel codice,cui S. Agostino chiamava divina (1 ) Pare c c h i e lettere d el santo versano su gli officii, che ei sovente assom e vasi di intercedere presso l'imperatore per le vittime delle enormità fiscali.  (2)... quae potestas (servorum)juris gentiumest;(Ulpian,Insl.I, tit.8)e Pomponio conchiudeva che chi cadeva nelle mani del nemico gli re stava per diritto delle genti suo schiavo.(Tit.49. V. ff.De captivis).  mente emanato per bocca dei principi (1); e che fatto pubbli care da Giustiniano, mentre l'impero d’occidente era distrutto e quello d'oriente minacciato,conserva all'antica Roma la gloria di dominare eternamente,se non coll'armi,col migliore primato delle leggi. Di fianco al diritto civile romano nasceva il diritto ca nonico. La proprietà è resa universale: non vi sono più distinzioni di res mancipi o nec mancipi, di dominio quiritario o per pre scrizione; non si possiede più secondo S. Ambrogio, in forza della cittadinanza romana, la quale comunichi il diritto di proprietà proveniente dalle conquiste;la fonte d'ogni diritto è Dio, di cui tutti gli uomini sono figli; e che unico padrone della terra, ne dà l'uso a chi legittimamente lo acquista (2). Scompajono egualmente le legillimae nuptiae come contra posto alle justae nuptiae ed al concubinato legale:non si parla più né di confarreazione, né di co -emptio, nè di usus per aqui stare alla donna idiritti matronali e la successione,come figlia al marito: n o n v i è p e i cristiani che il matrimonio Sacramento della Nuova Legge, simbolodell'unionedi Gesù Cristocolla Chiesa:la legge ecclesiastica de determina gli impedimenti,ne prescrive i riti; ed il marito e la moglie si trovano eguali nell'obbligo di vicendevole fedeltà ed amore e nella santa emulazione del bene.«Nessuno,predicava S.Ambrogio,silusinghiappoggian dosi alle leggi umane... non è lecito al marito ciò che non è permesso alla donna (3).» Per misurare ilprogresso introdotto dal cristianesimo,bisogna ricordare ciò che scriveva Tertulliano: * al giorno d'oggi chi si sposa ha già concepito il progetto di ripudiarsi e il divorzio è come un frutto del matrimonio (4 ). ” La lettera(LX)delsantoarcivescovoscrittaadun talPe tronio ci introduce a contemplare ilsegreto lavoro della Chiesa costituente gli impedimenti dirimenti, per la sempre maggior santificazione della società matrimoniale,cui invano avevan tentato di mettere in onore le Leggi Giulie e Pappia Poppea. S. Ambrogio infatti dissuade con parole severe l'amico dal progetto di contrarre colla nipote:cosa contraria,egli dice, alla legge divina (5). Si crede anzi che la costituzione civile (1) Leges Romanorum divinitus per ora principum emanarunt,cit.dell'Oza- ' nam.Ilquinto secolo,vol.1,pag.188. (5) L'impedimento di consanguineità in linea collaterale è di natura eccle siaslica:S. Ambrogio parla dellelogge divina considerata nelle sae dedazioni.  (2) De Nabuthe Jezraelita,cap.I,III,etalibipassim. (3)D:Abraham.Lib.I,n.26. (4) Apolog. $ 6.   pubblicata da Teodosio il grande circa ilmatrimonio fra i con giunti(1),glifosseispiratadalsantosuo amico,consigliere e padre spirituale.Isuccessori del grande imperatore spaven tati dall'opposizione che l'impudicizia pubblica recava all'ese cuzione di simili leggi,si mostrarono incerti e indietreggiarono; ma l'impulsoeradatoeilcristianesimo,trionfandodell'immo ralità,si impose poi pienamente anche alla legislazione. Il diritto di vita e di morte, che le leggi delle XII Tavole concedevano al padre sul figlio, era già stato abolito durante ilperiodo,in cui la filosofia stoica,piegandoalsoffio spi rato dal Golgota, moderò tutta l'antica giurisprudenza (2). Costantino arrivò a decretare la pena del parricidio contro il genitore che uccidesse il proprio figlio. M a quanto cammino rimaneva tuttora a fare anche in questa materia per giungere a stabilire un pieno accordo colle imprescrittibili leggi di na tura!Nonsoloilpadre conservava,comegiudicedomestico, ildiritto diinfliggere pene,benché moderate alfiglio;ma esse stesso dettava al magistrato lasentenza, che nei casi più gravi era reclamata dalla disciplina paterna (3).Arroge che l'esere dazionedimorava intattafralesuemani,senzachelacrea zione,fattadaCostantino,delpeculio quasi-castrensee laparte concessa nella eredità della madre, bastasse a sottrarre ilfiglio di famiglia ad una autorità, che, sebben giusta, dee avere essa pure i proprii confini. Che più? Perseverava ancora il barbaro diritto nei padri di vendere i propri figli: S. Girolamo (4) ci ha conservati i lamenti di una misera vedova,cui ilmarito per supplire all'ingordigia del fisco, dovette vendere i tro figliuoli; S. Ambrogio stesso flagellando l'atroce crudeltà de gliusuraj,introduceunpoveropadreche«usandodellaau toritàconferitaglidallalegge,ma negataglidallanatura» per pagare l'usurajo, da cui ebbe il pane, conduce all'asta i proprii figli; e con sanguinosa ironia esclama: « o miei figli, pagate le spese della mia gola, soddisfate il prezzo della mense paterna. Voi divenite il mio riscallo eil vostro servaggio ricom pėra la libertà mia (5). » Quai diritti, buon Dio, e quali ese crabili cause li facevano esercitare! Ben a ragione S. Ambrogio prosegue,narrando,chein uncaso simile,all'usurajo,ilquale (1)Leg.5,C. Deincestisnuptiis. (2) Troplong, op. cit. pag.264. (3) Lec. 3. C. lust. de patria potest. (4) In vito Paphnutii (5)De Tobia,cap.VIII,n.20.  voleva approfittarsi della legge ed ostava ai funerali di un cre ditoreimpotente,avevaordinato:siprendessein casailca davere in garanzia del proprio debito; e ve lo fece traspor tare dal popolo. Con simile legislazione però chi avrebbe osato farsi mediatore per riconciliare coll'inflessibile autorità pa terna un figlio, il quale aveva ardito menare in isposa una donzella, non trasceltagli dal padre? Il diritto romano riguar dava taleatto,comeunattentatocontro natura;poichéla nuora, secondo la legge, diveniva figlia del capo di casa. Ma lacaritàcristianasilasciaguidare da istintidivini:fra Je lettere di S. Ambrogio, la 83.a è appunto diretta a un tal Si sinnio,onde persuaderlo non solo a perdonare ma a ricevere incasaun talfiglioeduna talnuora;eviriusci.Sublime cat tolicità della Chiesa ! Dopo undici secoli circa, fu riproposta ai padri del Concilio di Trento la scabrosa questione del matri monio contratto dai figli di famiglia senza il consenso del pa dre: e lo spirito del santo vescovo di Milano ricomparve nella prudentissimarisoluzionedelSinodoEcumenico.Quella lettera a Sisinnio invero rivela in S. Ambrogio un tatto pratico squi sito:ma insieme qual profonda conoscenza del cuore umano, quanta delicatezza e soavità di sentimenti in quel grande av vezzo a moderar l'animo degli imperanti e a stringer le redini dello Stato;il miele,giusta l'enigma di Sansone,gocciava di nuovo dalla bocca del leone. Le leggi che regolavano le successioni richiedevano pari menti importantimodificazioni.L'antica legislazione era il ca polavoro dell'aristocrazia; esaminando quella ferrea catena di eredi suoi, agnatizii, gentilizii, in fine alla quale non manca vano mai le spalancate fauci del fisco, non si può a meno di ammirare con un senso di sacro terrore quel vigore di con cetto, quella intrepida inflessibilità di logica, con cui per conservare i beni e di sacrifizii nelle famiglie, il legislatore romano non indietreggiava davanti alle più inique violazioni dei di ritti di natura. L'equità pretoria vi aveva già portato al certo qualche cambiamento coll'editto:unde liberi;ma ohime!di qnanto poco accontentavasi la sapienza di Cajo e degli altri giureconsulti della setta stoica (1)! Prima però cheGiustiniano si preparasse una imperitura e giusta gloria con quelle leggi sulle successioni, che ancora (!) A a e j u r i s i n i q u i t a t e s e d i c t o praetoris emendatae sunt. Troplong.  Che più? scrivendo al giudice Studio, il quale lo aveva consultato sul modo di comportarsi,quando dovesse pronun ciar sentenze capitali, il prudente ed amoroso vescovo gli in culca con ogni maniera di ragioni l'esercizio dalla clemenza, che deve giungere, esso dice, fin dove vi è giusta speranza di emenda del reo. Lungi però dalle moderne utopie, le quali in nalzando a principio l'abolizione della pena capitale per qual siasi grande malfattore, riescono in pratica a disarmare e con danpare gli innocenti,il santo giurista pone per base la giustizia della pena di morte e raccomanda all'amico la custodia delle leggi, « poichè mentre si leme la spada dei giudici, si reprime e non si stimola il furore dei delilli (3). » La stessa procedura criminale è lucidamente delineata nelle duelettere(VeVI)aSiagriovescovo di Verona.S.Ambro gio lo rimprovera d'aver troppo superficialmente ricevuto l'ac cusa contro la vergine Indicia; gli fa osservare che nel suo processo trascurò quasi tutti gli argomenti che potevano far prova giuridica in favore dell'accusata; mentre illegalmente aveva avuto ricorso a testimoniaoze ed atti quanto obbrobriosi altrettanto insufficienti; e gli descrive il modo da sè tenuto per riveder quella causa e cassarne l'ingiusta sentenza.Leggendo quelle lettere scritte nel secolo IV,l'animosicompiace riscon trando i medesimi principii tracciati dal nostro santo, seguirsi 11) Ep. LXXXII cit.n.3. (2 ) Conf. L i b. V I. c a p. I V. (3)Ep.XXX cit.n.9.VediancheBagnard,op.cit.pag.140eseg. al presente sono la base di tutti i codici moderni, S. Ainbro gio l'aveva non solo preceduto, ma superato con un giudizio, la cui equità sembra oltrepassare i confini di una soverchia condiscendenza.Nella letteradifatti (LXXXII)al Vescovo Mar cello, pel cui testamento eransi fratello e sorella a lui appellati, il santo ci descrive collocate di fronte le due opposte influenze, che si disputavano allora ilcampo delle leggi. La procedura ci vile avanti al magistrato ci appare da una parte irta di inter minabili acontroversie,azioni,recriminazionimolteplici,istanze, cavilli da curiale (1); » la procedura canonica del vescovo dal l'altra tien l'occhio alla giustizia e non alle forme legali, e la stessa giustizia tempera e corregge colla carità. Cosi S. A m b r o gio applicava al diritto civile quella sua massima,che come ci attesta S. Agostino (2), soleva ripetere al suo popolo: la let tera uccide, ma lo spirito vivifica. tuttora dalla S. Congregazione del Concilio,quando trattansi certe questioni, le quali come quella giudicata da S. Ambro gio, richiedono la più dilicata prudenza. Di tal modo l'influenza del Consolare romano si stese su tutti irami della scienza e pratica legale,donando loro la vita el'amore, che provengono dalla croce diGesù Cristo. Non ci sarà perciò lecito di conchiudere,che il sommo Arcive scovo il quale nelle immense occupazioni del suo apostolato quasi mondiale, trovò tempo e mezzi da gettare le basi di un intera ristaurazione del diritto pubblico e privato, deve essere salutato,come la personificazione del genio cristiano nella se conda metà del secolo IV? S. Ambrogio infatti ben diverso dai grandi uomini volgari dell'epoca moderna, non studiò gli er rori ed ipregiudizii dell'età in cui visse se non per combat terli:gli avvenimenti stessi più fortunosi non lo scossero: non segui ma trascinossi dietro uomini ed istituzioni, informan doli del suo spirito di forza e di carità":esso pertanto è a tutto rigor di storia,l'uomo del suo tempo. Ritorna quest'anno il quindicesimo centenario, da che il Consolare fu eletto e consecrato Vescovo di Milano.L'impero romano,di cui S.Ambrogio avanti di chiuder gli occhi alla vita vidde le prime strette di morte,è sparito;ed ibarbari che lo distrussero,avendo prestato orecchio più docileallelezioni la sciate dal santo,crearono le nazioni cristiane.A qual punto però siamo noialpresente?Lasocietàprogredisceoretrocede? Immense innovazionionoranoalcertolospiritoumano,che in questi ultimi tempi percorse e scrutò tutti i regni della n a tura, sorprendendone preziosi segreti:esso obbligo il fuoco a servire alle sue industrie, lo aggiogó al carro e traverso la terra;diede leggi al fulmine e lo costrinse a trasmettere ad immense distanze il proprio pensiero.Tuttavia nonostante que ste meraviglie, quale è il diritto pubblico e privato d'Europa e del mondo in quest'anno 1874? Diamo uno sguardo in giro: il Dio - stato b a r i alzato ovunque i suoi altari e non vi è governo che non gli abbruci in censo e sacrifichi vittime: e quali vittime ! Sono diverse le forme sotto cui si presenta ilredivivo paganesimo;ma è in forza deimedesimi principii,che essoristaural'anticabattaglia, sperando che il maggior progresso delle scienze fisiche e la maggior forza che ne proviene ai governi,gli daranno di po  IV.   ter questa volta abbattere l'indipendenza della Chiesa, ri durla a servaggio e prepararla alla morte.Dietro al diritto pubblico vien necessariamente trasformandosi il diritto privato; il matrimonio, qual fu consacrato e reso indissolubile dalla fede cristiana, l'istruzione della gioventù, che deve sottrarsi all'er rore,l'inviolabilità della proprietà sia privata che collettiva, e cento altre conquiste dei secoli cristiani vanno ritirandosi in faccia ad altre conquiste, per antifrasi dette moderne.Si grida progresso: ma basta gridarlo? Frattanto le popolazioni moyon lamenti,simili a quelli che si udivano nel secolo IV,reclamando contro isempre crescenti balzelli;una febbre di ricchezzadi vora gli uomini creati pel cielo; e nello sfondo di un non lon tano orizzonte vediamo avanzarsi il Comunismo, ultima fase del paganesimo,ilquale viene a prender possesso del mondo in nome della logica e della Giustizia di Dio. È in questi frangenti che ilvecchio campione del secolo IV si scosse nella tomba de'suoi quindici secoli e volle rivedere lasuaMilano. Non spetta certamente all'umana ignoranza di indovinare i di segni misteriosi dell'altissimo: Esso c e li manifesterà come e quando crederà meglio.Ma è egli possibile che questo gi gante di santità ritorni fra noi senza una missione degna di sua grandezza? Il consolante dogma dell'intercessione dei santi ci dà diritto alle più soavi speranze; poiché la S. Chiesa,e que sta nostra in ispecie,è la vigna già lavorata da S. Ambrogio; e la sua visita perciò non può portare che frutti di benedizione e di pace alla Chiesa ed alla società. AMBROSE (fourth century AD) Originally from Trier, Ambrose is usually associated with Milan where he became bishop in AD 374 and died in AD 397. He wrote a major work on ethics, On the Duties of Priests, which relies heavily on the On Duties of Cicero. In it he discusses Christian ethics with special reference to the clergy. (Nicene and Post-Nicene Fathers series II, vol. X). Ambrogio. Keywords: Sebastiane; Ambrose and his orchestra, male virgin, virgo, satyr, his brother satyr, san Sebastiano l’eroe romano, l’eroe stoico – cicerone – uffizi – diritto romano – normativa dell’impero, sebastiane, vita di sebastiane, nato a Milano – Derek Jarman, Sebastiane – lingua latina -- --  Refs.: Luigi Speranza, “Ambrogio e Grice” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Ambrosoli – filosofia italiana – Luigi Speranza (Varese). Filosofo italiano. Grice: “I like Ambrosoli: ‘La filosofia è patrimonio dello spirito e non ha patria; l’hanno, invece, le dottrine e le scuole.’ But then he dedicates his life to Cattaneo – whose ‘patria’ informs his philosophy, as it does in Mazzini and in each philosopher Ambrosoli provided an exegesis for! At Oxford we call such a ‘philosophical historian’!” -- Il Prof. Luigi Antonio Ambrosoli (Varese), filosofo. È stato uno dei protagonisti della storiografia italiana del secondo Novecento. Allievo di Federico Chabod negli anni della Seconda guerra mondiale, si dedicò per tutta la vita alla ricerca storica, coniugandola con un costante impegno civile per la sua Varese.  Laureato in Filosofia all'Università degli Studi di Milano, fu dapprima docente di scuola secondaria, poi preside di scuola secondaria; successivamente fu ordinario di Storia contemporanea presso l'Università degli Studi di Ferrara, quindi presso l'Università degli Studi di Padova e infine preside della Facoltà di Magistero presso l'Università degli Studi di Verona, dove fu anche direttore dell'istituto di storia.  I suoi studi si orientarono particolarmente alla storia del Risorgimento e, nell'ambito di questa, all'opera di Carlo Cattaneo, con esiti unanimemente apprezzati sia per il rigore filologico che per l'acume interpretativo e la ricerca storiografica. Parallelamente contribuì alla ricostruzione della storia dei movimenti e dei partiti politici, con saggi dedicati al movimento cattolico e al movimento operaio e socialista.  Grande fu il suo contributo allo studio del sistema educativo e delle istituzioni scolastiche nell'Italia del XIX e XX secolo, con apporti interpretativi che ancor oggi sono il riferimento per gli studiosi del settore.  Collaborò a "Il Ponte" di Piero Calamandrei, "Belfagor" di Luigi Russo, "Nuova Antologia", "Mondo Operaio", "L'Avanti!", "Critica storica", "Storia in Lombardia". Fu anche fervido sostenitore della nascita dell'Università degli Studi dell'Insubria.  Altre Opere: “Varese e il Risorgimento”; “Il primo movimento democratico in Italia” Roma, Edizioni 5 Lune); “La formazione di Carlo Cattaneo, Milano-Napoli, Ricciardi); “Né aderire né sabotare 1915-1918, Milano, Edizioni Avanti!); “La Federazione nazionale scuole medie dalle origini al 1925, Firenze, La Nuova Italia, 1967 (premio Friuli-Venezia Giulia 1969 per un'opera di storia sociale) I periodici operai e socialisti di Varese e storia, Milano, Sugarco); “Libertà e religione nella riforma Gentile, Firenze, Vallecchi); “La scuola in Italia, dal dopoguerra ad oggi, Bologna, Il Mulino, La scuola alla Costituente, Brescia, Calzari Trebeschi-Paideia); “Educazione e società tra rivoluzione e restaurazione, Verona, Libreria universitaria editrice); “Giuseppe Mazzini, una vita per l'unità d'Italia, Manduria, Piero Lacaita Editore); “Carlo Cattaneo e il federalismo, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, 1999 Varese. Storia millenaria, Varese, Editore Macchione, Ha curato per l'editore Mondadori i tre volumi degli scritti di Carlo Cattaneo e per l'editore Bollati-Boringhieri i due volumi degli scritti del «Politecnico» Onorificenze Commendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiananastrino per uniforme ordinariaCommendatore dell'Ordine al merito della Repubblica italiana «Su proposta della Presidenza del Consiglio dei Ministri» Luigi Ambrosoli, ricerca storica e impegno civile, su va.camcom. 16 luglio.  Sito web del Quirinale: dettaglio decorato, su quirinale. Filosofia Storia  Storia Categorie: Insegnanti italiani del XX secoloStorici italiani Professore1919 2002 15 luglio 20 maggio Varese VareseFilosofi italiani del XX secolo. Ambrosoli. Keywords: ambrosoli – cattaneo – Mazzini – insurrezione milanese – filosofia romana – filosofia italiana – filosofia di varese – ‘La filosofia è patrimonio dello spirito e non ha patria; l’hanno invece le dottrine e le scuole.” Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ambrosoli”.

 

Grice ed Ameinias – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Velia). Filosofo italiano. According to Diogene Laerzio, Ameinia was a Pythagorian and the tutor of Parmenide of Velia. Upon his death, Parmenide erectd a shrine to him.

 

Grice ed Amelio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Amelio Gentiliano. Amelio was a follower of Plotinus, who used to call him 'Amerius' -- suggesting indivisibility. He came from Etruria where he studied with Lysimachus. Upon his arrival in Rome, he studied with Plotinus, becoming a close friend of Porphyry in the process. He wrote a great deal. He took copious notes of the lectures of Plotinus and wrote them up into a series of volumes for the benefit of his adopted son Hostilianus Hesychius. He wrote another series of volumes attacking the views of the gnostic Zostrianus, and he also produced a book defending Plotinus against charges of plagiarising the works of Numenius of Apamea. Given his output, there may be some truth in the suggestion of Cassius Longinus that Amelius tended to write at greater length than was necessary. He left Rome for Apamea.

 

Grice ed Ammicarto – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Velia). Filosofo italiano. Nothing is known about Ammicarto except for one single reference to him by Proclus, in which Ammicarto is commended for his skills in a style of dialectic associated with Parmenide di Velia.

 

Grice ed Amico – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cosenza). Filosofo italiano. Grice: “I like Amico; at the time when a philosopher’s duty was to watch the stars, he noticed that instruments are unnecessary given Aristotle’s conception of concentric orbits – His treatise was highly popular in Padova; therefore, he was killed – I cannot imagine the same thing happen to Ayer at Oxford after the success of his “Language, Truth, and Logic””! Insigne studioso di astronomia, brillante nella conoscenza del latino, del greco e dell'ebraico, abbracciò la scuola di pensiero dell'aristotelismo padovano del XVI secolo. Fu autore dell'operetta  “De motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentricis set epicyclis” (Venezia, Pattavino e Roffinelli). Frequenta lo studium dei domenicani e Padova sotto Vincenzo Maggi, Passeri e Delfino. Per il resto della sua biografia si conosce ben poco se non quanto trapela dalla sua maggiore opera. Dalla sua opera si traggono le uniche scarne notizie relative alla sua vita, ovvero, come da lui stesso riportato nell'opera, che fosse cosentino di nascita. Del filone del peripatismo padovano. Membro dell'accademia di Cosenza. Amico fu il primo a mettere in discussione il modello peripatetico tolemaico. L’assassinio d’Amico e provocato dall'invidia della sua filosofia – impicato da un anonimo che compose l'epitaffio: «IOAN. BAPTISTÆ AMICO Cosentino, qui cum omnes omnium liberalium artium disciplinas miro ingenio, solerti industria, incredibili studio, Latine Grece atque etiam Hebraice percurrisset feliciter, ipsa adolescentia suorumque laborum & vigilarum cursu pene confecto, a sicario ignoto, literarum, ut putatur, virtutisque, invidia, interfectus est [ammazzatto da sicario ignoto per invidia delle sue lettere e virtù. --Monumentorum Italiae, quae hoc nostro saeculo & a Christianis posita sunt, libri 4, pag.11). Assalito, derubato e ucciso mentre camminava nei vicoli di Padova. Il processo contro ignoti che seguì accerta che e scomparsa una borsa contenente le carte con rivoluzionarie osservazioni. Subito dopo, l’Inquisizione istitusce un processo postumo per eresia contro lui. Dell'Amico fa menzione Telesio nella sua orazione in morte, ed il filosofo cosentino Aquino che lo define "così grande filosofo”. Cosenza gli dedica, inaugurandolo, il Planetario della città che sorge a 224 metri s.l.m. nel quartiere Gergeri del capoluogo bruzio.  Note  Amico, Giovanni Battista, su Consortium of European Research Libraries,//thesaurus.cerl.org/. 16 febbraio.  amico, giovan battista: d', su OPAC  Catalogo del servizio bibliotecario nazionale,//opac. Ioannis Baptistae Amici Cosentini de Motibus corporum coelestiu iuxta principia peripatetica sine eccentricis & epicyclis, su OPAC  Catalogo del servizio bibliotecario nazionale,//opac..Francesco Sacco, Giovan Battista Amico, su Galleria dell'Accademia Cosentina, Consiglio Nazionale delle Ricerche CNR. Concetta Bianca, DELFINO (Dolfin), Federico, su Dizionario Biografico degli Italiani, Enciclopedia Italiana Treccani. Elda Martellozzo Forin, Padova. Istituto per la Storia, Acta graduum academicorum Gymnasii Patavini Padova, Antenore. 15 febbraio.  Per il testo originale dell'epitaffio si veda Lorenz Schrader, Monumentorum Italiae, quae hoc nostro saeculo & a Christianis posita sunt, libri 4, Lucius Transylvanus, Le biografie degli uomini illustri delle Calabrie raccolte Luigi Accattatis, Cosenza, Tip. Municipale, Giovan Battista Amico, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Coriolano Martirano, L'arco di Ulisse. Vita ed opera di Giovanni Battista Amici, Bruttium et scientia, Laruffa, Francesco Sacco, Giovan Battista Amico, su Galleria dell'Accademia Cosentina, Consiglio Nazionale delle Ricerche CNR. Luigi Accattatis, Le biografie degli uomini illustri delle Calabrie, A. Forni, Mario Di Bono, Le sfere omocentriche di Giovan Battista Amico nell'astronomia del Cinquecento, Centro di Studio sulla Storia della tecnica. Franco Piperno, Da Eudosso di Cnido a Giovan Battista D'Amico da Cosenza, su Università della Calabria, progetto "Divulgare la Scienza Moderna attraverso l'antichità",//lcs.unical/.Noel Swerdlow, Aristotelian Planetary Theory in the Renaissance: Giovanni Battista Amico's homocentric spheres, su Journal for the History of Astronomy,http://articles.adsabs.harvard.edu/. Astronomi e gli scienziati calabresi del XVI-XVII secolo G. BATTISTA D'AMICO, in Provincia di Cosenza,//provincia.cs, Filosofi italiani Professore Cosenza Padova Accademia cosentina. Ioannes Baptista Amicus Cosentinus. Giovan Battista d’Amico. Giovan Battista Amici. Giovan Battista Amico. d’Amico. Amico. L’incipit del nostro “Amico”. Gli anni ’30 del XVI secolo costituiscono una profonda frattura in fisica tra il “prima” e il “dopo”. Gli studi condotti nei due millenni precedenti vanno in direzione del geocentrismo, da Galileo in poi la fisica procede verso soluzioni differenti e l’individuazione del sistema eliocentrico ne e lo snodo fondamentale. Ma fino a quel momento, tutto ciò che costituisce “il prima” parte da Eudosso, Aristotele e Tolomeo. Purbach tenta la fusione tra Aristotele e Tolomeo. Osservando il cielo, si accorge degli errori contenuti nella Tavola di Toomeo. Decide quindi di recarsi in Italia, per consultare direttamente i manoscritti antichi nell’arduo tentativo di re-digere della nuova tavola e più affidabili di quella di Tolomeo, allora d’uso comune in tutta Italia. Purbach insegna a Padova. Prima affina la capacità di calcolo computando una tavola dei seni per ogni minuto primo, quindi redige “Theoricae novae planetarium”. Dal punto di vista tecnico, il testo contiene l’innovazione di svuotare una sfera omocentrica e di aumentare lo spazio in modo tale da far posto agli eccentrici e agli epicicli di Tolomeo. Mette a punto le sue nuove tavola, completandone il controllo attraverso la discussione con i peripatetici veneti ed il confronto con i manoscritti antichi raccolti nelle biblioteche italiane. Ma qualche settimana prima di lasciare Vienna per Venezia, muore. Purbach tenta la fusione tra il sistema del modo omocentrico e quello matematico dell’epi-ciclo. Dopo di lui, vi e Amico, un cosentino, che rilevera l’impresa.  Pochi anni prima la pubblicazione del capolavoro di Copernico, sia assiste a una fioritura di testi dati alle stampe ove le speculazioni sulla sfera omocentrica sono sempre e ancora in primo piano. Il campo della fisica sono ancora troppo giovani per avere strumentazioni sofisticate e la fisica viene dedotta, assumendo, forse presuntuosamente, il carattere di verità. Ma qualcosa si muove. La fisica e la strumentazione progrediscono e gli filosofi stanno procedendo in un processo senza soluzione di continuità che culminerà nel metodo. Nella diatriba si inserisce Fracastoro. Voi certamente non ignorate che coloro che si professano filosofi hanno sempre trovato grandi difficoltà nel rendere ragione dei moti apparenti che presenta la fisica. Infatti si offrono loro due vie per spiegarli: l’una procede mediante l’aiuto di quell’orbita che e detta omo-centrica, l’altra per mezzo di quella che e chiamata eccentrica. Ciascuna di queste due vie ha i suoi rischi, ciascuna ha i suoi scogli. Chi che fa uso dell’orbita omocentrica non arriva a spiegare il fenomeno. Chi che fa uso dell’eccentrica sembra, per la verità, spiegarlo meglio, ma l’opinione che si formano di questi corpi divini è indegna e, per così dire, empia. Essi attribuiscono loro delle situazioni e delle figure che non convengono alla natura dei cieli. Sappiamo che Eudosso e Callippo, i quali tra gli antichi hanno tentato di spiegare i fenomeni per mezzo dell’orbita omo-centricha, sono stati ingannati più volte in conseguenza di questa difficoltà. Ipparco è  uno dei primi che preferirono ammettere l’orbita eccentrica piuttosto che restare ingannati dai fenomeni. Tolomeo lo ha seguito e, subito dopo, quasi tutti gli astronomi sono stati trascinati da Tolomeo nella stessa direzione. Ma contro questi astronomi o, almeno, contro l’ipotesi degli eccentrici di cui facevano uso, la filosofia tutta intera ha sollevato continue proteste. Ma che dico la filosofia? È piuttosto la natura e le stesse orbite celesti che hanno protestato senza tregua. Finora non è stato possibile rintracciare un solo filosofo che acconsentisse ad affermare l’esistenza di queste sfere mostruose in mezzo a corpi divini e perfetti”114. Ci si accorge, con decisione, l’ambito della scienza entro il quale si muovo scienziati, astronomi, astrologi e medici del tempo. La conoscenza maggiore dei classici ha portato una sorta di involuzione del pensiero, rientrato nell’ottica di quanto già affermato in passato, senza apportare grandi e significative migliorie. Da questo punto, invece, pur rientrando nella materia nota a tutti, sarà proprio il giovane cosentino a dare una ventata di innovazione in senso ovviamente relativo.  114 Girolamo Fracastoro, Homocentricorum, sive de stellis, liber unus, Venetiis 1535, presentazione. Amico è un filosofo cosentino ucciso in Padova. Della sua biografia si conosce veramente poco: agli esigui dati certi si contrappongono notizie fantasiose e di provenienza dubbia. Tra i primi a dare informazioni sulla sua vita c’è Barrio. Vede la luce il suo poderoso lavoro sulla storia delle città della Calabria, rigorosamente scritto in latino, alle stampe del De antiquitate et situ Calabriae. Il risultato non soddisfa lo stesso autore, il quale decide di emendare quella versione, ma la morte impedisce la prosecuzione di revisione dell’opera. Quattromani inserisce nell’opera postille esplicative. Per arrivare alla pubblicazione definitiva bisogna attendere sino a quando Aceti, dopo un lungo e laborioso lavoro completa l’elaborato con aggiunte e note. Di Amico si legge una sorta di epitaffio nel capitolo dedicato a gl’uomini di Cosenza eccelsi per santità, dottrina e dignità. Per una disamina riguardo le informazioni frutto più di fantasia di qualche erudito locale che di sostanza di fonti cfr. Dalena, Firenze. Thomae Aceti, Accademici Consentini, et Vaticanae Basilicae clerici beneficiati in Gabrielis Barrii Francicani De Antiquitate & situ Calabriae Libros Quinque, Nunc primum ex autographo restitutos ac per Capita distributos, Prolegomeni, Additiones, & Notae. Quibus accesserunt animadversiones Sartorii Quattrimani Patricii Consentini, Romae, ex Typographia S. Michaelis ad Ripam Sumtibus Hieronymi Mainardi, come cita il frontespizio di una delle copie in possesso della Biblioteca Civica di Cosenza (Fondo Salfi). “Vi fu anche Amico, che descrisse i moti dei corpi celesti secondo i precetti dei peripatetici, cosa invano tentata per tanti secoli dagli antichissimi filosofi e se non fosse stato colpito da morte immatura avrebbe affrontato fatiche maggiori. Aceti, nelle note, aggiunge l’epigrafe di Padova, addirittura meno lapidaria del conciso inciso di Barrio. A Padova si legge di lui nel monumento delle epigrafi d’Italia: A Amico, cosentino, il quale, avendo percorso felicemente le discipline tutte di tutte le arti liberali con mirabile ingegno, solerte operosità, incredibile passione,  ucciso da sicario ignoto. Ucciso, come si ritiene, dalla invidia delle lettere e della virtù. Le virtù che ad altri portarono premi e vita perenne, per costui solo furono causa di uccisione. Andreotti, nella sua Storia dei Cosentini, cita il nostro nell’elenco dei componenti dell’Accademia telesiana, presieduta dal grande filosofo bruzio. Vi fiore Amico, nato in Cosenza – educato a Padova – conoscitore sveltissimo della filosofia e della fisica.  fScrisse costui seguendo la teorica peripatetica, “De motu corporum coelestium”, descrivendo tutti i movimenti de’ corpi celesti senza ricorrere, secondo che narra l’Aquino nel discorso su Telesio, per spiegarli a quel movimento eccentrico ed all’epi-ciclo inventato da Tolemeo, quando vuole conciliare la sua opinione della solidità de’ cieli co’ moti de’ corpi celesti. Morì egli in Padova, ucciso --  e non appartenne alla citata Accademia, che nell’epoca in cui per affari di famiglia dimora un anno in Cosenza. La sua opera va così intitolata – Ioannis Baptistae Amici – De Motu Corporum coelestium”. La notizia ricalca, con qualche elemento in più, quelle già incontrate nell’opera del Barrio. Pochi dunque i ragguagli che si possono ricavare. Abbastanza poco è noto sulla sua genesi. Nato a Cosenza, morto a Padova, dove ha studiato, esperto nelle lingue colte, specializzato in metafisica e fisica, ucciso da mano ignota, proprio per la sua capacità filosofica. Capacità, questa che lo hanno portato  a essere membro della appena sorta accademia. Barrio, Antichità e luoghi della Calabria, aggiunte e note di Aceti, osservazioni di Sartorio Quattromani, Roma, trad. it. di Erasmo A. Mancuso, Brenner, Cosenza, presieduta dal ben più noto filosofo Telesio, “illustre cosentino”. La sua presenza in Accademia è quasi casuale, essendo rientrato nella città Bruzia solo quell’anno per affari di famiglia. Al rientro nelle Venezie, trova la morte. Quali informazioni possiamo estrapolare e spremere dalle fonti è veramente poca roba. Il gentilizio è di origine incerta. Il cognome è variamente declinator: Amico, Amici o d’Amico, in quanto nel latino medievale, nel titolo di un testo di utilizza il genitivo per quanto concerne il cognome dell’autore. Pertanto si presume che ‘Amici’ sia genitivo di ‘Amico’, mentre ‘Amici’ sia la mera ripetizione, e “d’Amico” la traduzione italiana *del caso genitive* latino. Per questo motivo, in questa sede si utilizza la forma più semplice. La famiglia ha una sua importanza nel contesto della “città libera” di Cosenza,  potendo permettersi, sia pur con enormi sacrifici, il mantenimento di un proprio membro agli studi in una città, di fama e retaggio culturale ottimi, ma così lontana. I sacrifici si posso ben immaginare, mancando, nella crescita di Amico, il padre, essendo prematuramente morto prima della sua nascita. L’assenza del capo famiglia, nel contesto del XVI secolo, società di fatto a carattere patriarcale, non ha sicuramente giovato nell’ambito dell’economia familiare, essendo assente proprio il fulcro stesso dell’istituzione. Ciò nonostante si può supporre un sicuro benessere, in quanto, anche in assenza del padre, un giovane rampollo di famiglia di ottimati puo permettersi gli studi lontani da casa. Nulla si conosce riguardo la sua formazione cosentina. Di certo, grazie a qualche insegnante, nel corso degli studi del trivio, conosce filosofia. L’ambiente, dopotutto, è quello emerso dal retaggio glorioso della Mégale Hellàs, ove gli studi della filosofia, della scienza, della medicina e dell’astronomia erano, per così dire, all’ “avanguardia”. E anche dopo lo iato medievale. L. Piovan, Amico, Telesio, Doria: documenti e postille, in “Quaderni per la storia dell’Università di Padova”. Dreyer, Boquet e Taton utilizzano la forma ‘Amici’, ma è presente anche la forma ‘De’ Amici’. È a tutti noto che la città di Cosenza non sube mai vassallaggi tipici dell’infeudazione.  --  nuovi impulsi e ritorni agli antichi studi erano senza dubbio all’attenzione della koiné culturale cosentina. Ne è esempio lo stesso Barrio. Nella sua monumentale opera, i riferimenti storici sono in primo piano, così anche è per Fiore e Marafioti, nonché per lo stesso Quattromani. Una ricostruzione culturale ‘amiciana’, estremamente verosimile si deve a Piperno. Le arti del trivio, grammatica, retorica e dialettica, portati a termine nella città brettia gli avevano assicurato la conoscenza attiva e passiva delle tre lingue sapienziali, aramaico, greco e latino. Dopo tutto questo, era partito alla volta del Veneto, di Padova in particolare, per completare, in quello prestigioo studio à, gli studi delle arti del quadrivio, geometria, aritmetica, astronomia e musica, in vista di intraprendere poi, presumibilmente, un curriculum filosofico. In quei tempi l’astronomia era insegnata in funzione della astrologia e questa a sua volta svolgeva un ruolo ancillare a fronte della medicina, arte che pratica la diagnostica delle malattie e ritma l’attività di cura secondo il variare delle configurazioni degli astri nel cielo notturno; insomma la medicina era profondamente intrecciata con il sapere astronomico in una sorta di ‘astroiatria’”. Sono conosciuti però i maestri con i quali Amico ebbe modo di formarsi. È egli stesso a dichiararlo, nella dedica a Ridolfi, introduzione alla sua opera. Questi sono tutti nomi che fanno parte del gotha scientifico-culturale dell’ambiente universitario patavino e non solo. Tra i maestri Amico annovera Delfino, Passeri, e Madio. Delfino è il più celebre insegnante di astronomia e matematica. Tra i suoi allievi, divenuti a loro volta famosi, si ricordano, oltre a Telesio e Amico, Contarini, Piccolomini e Fracastoro. Passeri ricopriva, in quel lasso di tempo, la cattedra di filosofia naturale, è stato l’autore di un commento al “De anima”. A lui si deve l’introduzione di Amico agli aspetti più esoterici e raffinati dell’Aristotele autentico. Sull’ambiente culturale cosentino del periodo cfr. L. De Rose, Cosenza “faro splendidissimo di cultura”. L’Atene della Calabria e i Brettii raccontati da Barrio, in G. Masi, Tra Calabria e Mezzogiorno. Studi storici in memoria di Tobia Cornacchioli, ICSAIC, Pellegrini Editore, Cosenza. Piperno, Ioannis Baptistae Amici..., -- greco; mentre il Madio o Maggi, che a sua volta aveva scritto un commento alla “Poetica”, e già divenuto l’interprete più autorevole della tradizine peripatetica, a lui, ritenuto il “massimo rappresentante peripatetico” si rivolge il Telesio per un giudizio sulla propria opera. Quando Amico arriva a Padova, la sua vita si dipana in due diverse settrici: da un lato la vita universitaria, con i suoi lustri, gli studi i professori, dall’altro la realtà quotidiana, fatta di privazioni (di affetti, di soldi), di solitudine. Non avendo fonti documentate che diano certezze a qualunque ipotesi passibile di verosimiglianza, si deve necessariamente concentrare l’attenzione sul percorso di studi dell’Amico, percorso, forse, neanche compiuto sino in fondo, non essendo stata reperita in alcun modo una pergamena a suo nome. La opera di Amico si incastona nell’ambiente padovano, ricco di stimoli e personaggi, dimenticata dopo la prematura scomparsa dell’autore, che tanta parte avrebbe avuto nella genesi della scienza moderna.  L’Università patavina vive, ormai da tempo, la rifioritura della corrente peripatetica sia per quanto concerne l’astronomia che per le altre scienze della natura – in questo, Padova e il Veneto si contrappongono a Firenze e alla Toscana dove è affermata, senza cesura, una adesione esclusiva al platonismo pitagorizzante. Certo, altre città in Europa, coi loro Atenei, hanno già imboccato la strada che riporta ad Aristotele. Si pensi, ad 122 Cfr. M. Di Bono, Le sfere omocentriche..., cit., p. 53. 123 K. M. Pataturk, Opere inedite perché non stampate, né scritte e neppure pensate, Valle Giulia, Roma. Piperno annota tristi particolari di un immaginario quotidiano padovano del giovane cosentino, ricostruito da Pataturk, non credibile e privo di fonti documentarie. L’autore, il più autorevole tra gli storici ponterandoti dell’astronomia [Pataturk n.d.A.], afferma che Amico, durante i lunghi e umidi inverni patavini, usasse lasciar dormire in casa, accanto a sé, sul letto, schiena contro schiena, il suo cane, un massiccio pastore della Sila Grande, che aveva condotto con sé dalle Calabrie – come per proteggersi dalla emarginazione anomica che, ieri come oggi, s’accompagna alla miseria di studente fuori sede squattrinato, in terra veneta. Il particolare può apparire irrilevante, anzi fatuo; e trattandosi di una fonte incerta perché irreperibile conviene lasciarlo cadere. Noi abbiamo scelto di farne uso, perché questa confidenza tra il filosofo ed il cane e considerata una prova per avvalorare una leggenda metropolitana che identifica il cosentino con il castigliano Ruy Faleiro, l’astronomo che, su richiesta del vicentino Pigafetta, aveva sciolto l’enigma del giorno perduto dai marinai della spedizione di Magellano”. Cfr. F. Piperno, Le imprese di Pigafetta, www. UNICAL/ variazioni sul tempo. Il nome di Amico (e in alcuna declinazione) non appare negli Acta Graduum Academicorum Gymnasii Patavicini. Index nominum cum aliis actibus praemissis, a cura di Elda Martellozzo Forin, Antenore, Padova. M. Di Bono, Le sfere omocentriche... -- esempio, a Basilea, Norimberga, Praga, Cracovia e la stessa Parigi. Ma, sebbene questi centri culturali abbiano conseguito risultati ragguardevoli e anche maggiori, nessuno di essi può “stare a confronto, sul piano della varietà di approcci, alla comprensione di Aristotele che si manifesta a Padova e nel Veneto”127. L’Ateneo patavino è campo fertile per l’educazione di astronomi (astrologi), medici e filosofi naturali, nella limitrofa Venezia sorgono, dopo la scoperta della stampa, gli impianti artigianali per l’editoria, che permette a tutti coloro che sono in grado di leggere e ovviamente alle persone istruite “di entrare in contatto diretto tanto con il pensiero dei classici quanto con l’elaborazione teoretica allo stato nascente dei contemporanei – non a caso, sarà nella città lagunare che verranno pubblicate, nel biennio 1536-37, le prime due edizioni dell’Opusculum, malgrado che il suo giovane autore fosse, a tutti gli effetti, un perfetto sconosciuto”128. Il ventiquattrenne cosentino approfitta del particolare contesto storico e, convinto dagli amici Cipriano Pallavicini e Giovan Battista Aurio, quasi certamente a proprie spese, presenta il suo lavoro ai tipografi Giovanni Patavino e Venturino Roffinelli, i quali, appunto, lo propongono in carta stampata. La ristampa del volumetto, con aggiunte e correzioni, è tangibile prova dell’interesse che suscita l’argomento e di come è stato affrontato dal giovane autore. La Repubblica marinara di Venezia interpreta così il ruolo di collegamento tra le grandi civiltà mediterranee, latina, bizantina e araba; divenendo, per dirla con De Bono, il centro di riferimento obbligato tanto per i commerci librari quanto per i saperi astronomici. Schimitt, L’aristotelismo nel Veneto e le origini della scienza moderna, in L. Olivieri, “Aristotelismo veneto e scienza moderna”, Antenore, Padova. Piperno, Ioannis Baptistae Amici.... Piovan, Giovanni Battista Amico. L’autore documenta come il filosofo cosentino Bernardino Telesio, a Padova nel 1538, si assunse l’onere dell’eredità debitoria di Giovan Battista Amico, saldando una pendenza di venti scudi veneti a favore di un certo Giovanni Battista Doria, d’origine genovese e ritenuto per pregiudizio dedito all’usura. L’entità della somma è tale da supporre che Amico abbia impiegato i venti scudi per pagare il tipografo veneziano che aveva stampato il suo Opusculum. Cfr. M. Di Bono, Le sfere omocentriche.... Resta insuperato il citato lavoro di Braudel riguardo l’importanza della Serenissima quale coacervo di culture, orientale, mediterranea e del Nord Europa.  91  Limitandoci qui solo ai testi d’astronomia editi a Venezia o nel Veneto, vi sono molte editiones principes degli autori dell’antichità: Arato, Manilio, Aristarco, Proclo, Macrobio, Igino, Marziano Cappella e così via. L’Almagesto di Tolomeo viene stampato, una prima volta nel 1515, recuperando dall’epoca medievale, una vecchia traduzione dall’arabo in latino a cura di Gerardo da Cremona; una seconda volta nel 1528, sempre nella traduzione latina ma questa volta, ormai in pieno Rinascimento, dall’originale greco, per opera di Luca Gaurico. L’editoria veneta degli inizi del secolo XVI non trascura certo le opere astronomiche più recenti o contemporanee: vedono infatti la luce i testi di Alcabizio, Purbach, Bate di Malines, Sacrobosco, Regiomontano e così via131. L’aristotelismo veneto non è una nicchia per accademici, ma una sorta di ideologia filosofica che impregna di sé tanto la comunità dei colti quanto l’attività produttiva. Si ricordi che a Venezia esisteva allora un artigianato altamente qualificato che costruiva le lenti per i presbiti, usando le leggi dell’ottica geometrica riformulate dai peripatetici arabi. Questa trasversalità rende l’Ateneo patavino una tappa prestigiosa per i curricula dei più grandi filosofi naturali che insegnano astronomia; e di conseguenza a Padova convergeranno molti tra i più dotati studenti di astrologia, matematica e medicina, non solo dall’Italia ma da tutta Europa. Cfr. M. Di Bono, Le sfere omocentriche..., cit.. L’astronomia del De Motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentrici et epicicli di Amico Un anno dopo la stampa de Gli omocentrici di Fracastoro132, Giovan Battista Amico pubblica il suo opuscolo su medesimo tema. Che i due astronomi siano debitori alle teorie di Eudosso è lo stesso astronomo cosentino a dichiararlo nei suoi scritti: “Tra gli antichi alcuni si sono sforzati di unire l’astrologia alla filosofia naturale, altri, al contrario, hanno cercato di separare queste due scienze. Infatti, Eudosso, Callippo e Aristotele hanno cercato di ricondurre tutti i movimenti non uniformi, che i corpi celesti ci presentano, a dei collegamenti tra le orbite omocentriche riconoscibili in natura; Tolomeo, all’opposto, e coloro che hanno seguito il suo metodo hanno voluto, andando contro la natura delle cose, ridurle ad eccentrici ed epicicli”. “Gli astronomi attribuiscono i fenomeni che percepiamo, quando osserviamo i corpi superiori, agli eccentrici e a quelle sferette che vengono chiamate epicicli. Ma la loro riduzione di tutti questi effetti a tali cause è pessima. D’altra parte, non ci si deve meravigliare se hanno errato in tale riduzione, poiché, come afferma Aristotele nel primo libro degli Analitici Secondi, ogni soluzione diventa difficile allorché coloro che hanno la pretesa di averla trovata fanno uso di principi falsi. Dunque, se la natura non conosce né eccentrici né epicicli, secondo la giusta espressione di Averroè, sarà bene che anche noi rifiutiamo tali orbite. Noi lo faremo tanto più volentieri in quanto gli astronomi attribuiscono agli epicicli e agli eccentrici certi movimenti che chiamano inclinazioni, riflessioni o deviazioni, che non possono convenire in alcun modo, almeno a mio parere, alla quinta essenza”133. “In quest’opera, forse, non si troverà nulla di completo, ma riterrò di aver fatto abbastanza se riuscirò a eccitare gli spiriti più illustri al desiderio di rendere più chiara questa spiegazione” (Ep. ad card. Nicolaum Rodulphum). 132 Girolamo Fracastoro, Homocentricorum, sive de stellis, liber unus, Venetiis 1535. 133 Giovanni Battista D’Amico, De motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentris et epicicli, Venetiis 1536, cap. 1 e cap. Frontespizio dell’esemplare conservato nella Biblioteca Nazionale di Napoli. Prima edizione del De Motibus corporum coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentrici et epicyclis di G.B. D’Amico, Venezia 1536 94  Nella dedica al Cardinale, il cosentino Amico avverte, con umiltà, l’intento dei suoi studi, confessando, in pratica, la gratitudine che deve a chi lo ha preceduto: i classici greci e latini e i trasmettitori arabi. Nei primi sei capitoli dell’opuscolo, secondo la tradizione, egli compone un breve excursus delle dottrine astronomiche di Eudosso, Callippo e Aristotele, concludendo che l’osservazione millenaria della volta celeste non autorizza a pensare che la natura sia costretta a muoversi per epicicli ed eccentrici. Dal settimo capitolo inizia a declinare le proprie teorie riguardo l’assetto cosmico. Amici, per primo, opera un vero e proprio pensiero critico riguardo le teorie antiche, e sebbene rimanga entro lo stretto cerchio di esse, promuove nuove formulazioni. Il cosentino dimostra dapprima che se vi sono due sfere omocentriche contigue i rispettivi assi perpendicolari tra di loro e se i poli della sfera esterna si muovono da una parte e dall’altra rispetto alla posizione media; se accade tutto questo, allora si vede facilmente che la sfera interna ora accelera ora ritarda. Subito dopo osserva che se i poli delle due sfere formano, più in generale, un angolo di n° gradi e l’uno ruota in verso contrario rispetto all’altro con velocità doppia, allora il movimento complessivo sarà una oscillazione su un arco di 4n° (Fig. 33) – in questo calcolo così elegante il nostro giovane Amico rivela quanto il suo talento debba, nella sua formazione accademica,alla geometria alessandrina rielaborata dagli arabi134.  134 F. Piperno, Ioannis Baptistae Amici..., cit. 95   Fig. 33 Introdotta questa innovazione nel sistema eudossiano, il giovane astronomo può concludere che sono sufficienti quattro sfere per ricostruire i movimenti apparenti del Sole; mentre per i sei pianeti – la Luna secondo la tradizione viene considerata tale — ne occorrono di più. 96  Si evidenzia pertanto una aggiunta di sfere che renda possibile la “salvezza dei fenomeni”, a discapito di un complicazione che già è palese ai tempi di Aristotele, che comporta un numero di sfere aumentato a ottantanove, come risulta evidente nella tabella (3) seguente: Tabella 3 EUDOSSO Saturno 4 Giove 4 Marte 4 Venere 4 Mercurio 4 Sole 3 Luna 3 CALLIPPO 4 4 4 +1 =5 4 +1 =5 4 +1 =5 3 +2 =5 3 +2 =5 4 +3 =7 16 4 +3 =7 16 5 +4 =9 16 5 +4 =9 13 5 +4 =9 13 5 +4 =9 4 5 55 89 11 26 33 Di conseguenza, il subito solleva una obiezione decisiva alla teoria tolemaica: la Luna di certo non si muove su un epiciclo giacché, se così fosse, non potrebbe mostrare, osservata dalla Terra, la stessa faccia, come invece a noi tutti capita di costatare — secondo la fisica aristotelica un corpo che compia una rivoluzione attorno ad un centro deve rivolgere a quest’ultimo sempre il medesimo lato (Fig. 34). cosentino passa ad esaminare nel dettaglio l’orbita lunare; e 97   Fig. 34 Formulata così l’obiezione, il giovane astronomo si affretta a generalizzarne la portata: anche gli altri pianeti non possono muoversi su epicicli dal momento che i pianeti, corpi intrisi di divina perfezione, devono dipanare i loro percorsi in forme perfettamente analoghe e altrettanto pregne della succitata perfezione sublime. Quattro sfere vengono quindi assegnate a ogni pianeta, in grado di svolgere il ruolo previsto, nella teoria tolemaica, per gli epicicli. La sfera più esterna, detta d’accesso, ha i suoi poli nel piano dell’orbita planetaria e si muove da Nord a Sud con la stessa 98  velocità con la quale si muoverebbe il corrispondente epiciclo tolemaico. La sfera successiva, più interna, presenta dei poli che distano da quelli della prima di un quarto del diametro dell’epiciclo. Codesta sfera adiacente si muove in direzione contraria alla prima ma a velocità doppia. La terza sfera, ancora più interna, detta di recesso, i cui poli giacciono sull’orbita planetaria, si muove da Sud a Nord. Infine, la quarta sfera, la più interna, ha il suo asse a perpendicolo rispetto al piano dell’orbita planetaria e ospita, incastonato, il pianeta su un suo cerchio massimo. La composizione dei diversi movimenti delle quattro sfere dà luogo, di solito, al moto progressivo annuale del pianeta, da Ovest verso Est; come, di tanto in tanto a quello retrogrado, da Est verso Ovest. Solo la Luna, per via della alta velocità della sua quarta sfera, presenterà unicamente il moto progressivo,sia pure appesantito, di tempo in tempo, da un certo ritardo (Fig. 35). Fig. 35.  99  Dopo avere così ricostruito qualitativamente, senza l’uso degli epicicli, tanto la regressione dei pianeti quanto il ritardo della Luna, il giovane astronomo affronta il problema ben più intricato di dar conto della variazioni della durata del moto regressivo planetario e del ritardo lunare. Questo insoluto è risolto con l’attribuzione a ogni pianeta di altre tre sfere poste tra la sfera d’accesso e quella di recesso già introdotte, in modo che venga opportunamente variato l’arco percorso durante il moto retrogrado. Inoltre, per prevenire lo spostamento della posizione planetaria verso latitudine più alte di quelle osservate, introduce altre tre sfere – portando così a dieci il numero totale di sfere per pianeta; e come se ancora non bastasse, per la Luna aggiunge una undicesima sfera destinata a spiegare il moto ciclico della linea dei nodi lunari, l’antico Saros dei babilonesi che si ripete ogni diciotto anni circa135. Malgrado l’evidente complessità del sistema del mondo così costruito, il cosentino si rende perfettamente conto che dieci sfere a pianeta non sono ancora sufficienti a dar conto di tutti i movimenti celesti reperiti lungo i millenni dagli astronomi; e aggiunge così altre sfere, portando alla fine a sedici quelle relative a Saturno, Giove e Marte, mentre per Venere e Mercurio ne basteranno, si fa per dire, solo tredici. L’astronomo inoltre ritiene, non certo a torto, che per procedere a d una previsione numerica, attraverso il suo sistema del mondo, delle posizioni e dei movimenti dei corpi celesti occorre fissare con maggiore precisioni le inclinazioni reciproche degli assi delle diverse sfere; e per far questo si richiedono ulteriori minuziose osservazioni dei sei pianeti e del Sole. Quanto alle stelle fisse, quelle incastonate nell’ottava sfera, bisogna che quest’ultima, oltre alla rotazione diurna sia affetta anche da un altro movimento, chiamato trepidazione, che ricostruisca la lenta precessione degli equinozi – il che, secondo la fisica aristotelica, può avvenire solo dall’esterno ovvero deve esistere una nona sfera che trasmette all’ottava il moto che emana dal motore immobile (Fig. 36). Fig. 36. Si noti che Amico non confronta la sua teoria con le osservazioni astronomiche più recenti, bensì ne fa di sue e si tratta di osservazioni del tutto innovative. Il suo programma è quello di ritrovare tutti i risultati dell’astronomia tolemaica usando il sistema omocentrico piuttosto che gli eccentrici e gli epicicli. Non si pone il problema della correttezza sperimentale delle misure ereditate dalla tradizione medievale. Inoltre l’astronomo cosentino non si rende affatto conto che il suo sistema, pur intendendo fare salva la fisica peripatetica, in realtà le va decisamente contro. La capacità che ha il sistema omocentrico di ricostruire, sommando moti circolari, il movimento rettilineo dei pianeti nella fase di retrogradazione, testimonia che tra cerchio 101  e retta non v’è quella differenza cosmologica affermata dalla fisica peripatetica, secondo cui nel senso che il cerchio appartiene alla perfezione del mondo sopralunare mentre la retta è partecipe del mondo sub lunare, della imperfezione terrestre137. Bisogna aggiungere ancora che l’Amico è del tutto consapevole delle obiezioni alle quali va incontro il sistema omocentrico. La prima si riferisce al fenomeno della variazione del diametro e della luminosità apparente dei sette pianeti; per esempio, la Luna si mostra più grande in quadratura che alle sizigie, il Sole ha dimensioni maggiori d’inverno che in estate, Marte presenta una luminosità variabile con la posizione sulla fascia zodiacale. Questi fenomeni, infatti, sembravano indicare che la distanza Terra- Pianeta fosse variabile; e questo era una obiezione fatale al sistema omocentrico, che richiede appunto una simmetria sferica ovvero la conservazione della distanza. Amici si confronta con questa questione e la risolve spiegando come il fenomeno sia dovuto alla contingenza che l’etere frapposto. tra la Terra ed il Pianeta osservato, non ha una densità uniforme. È necessario indagare questa spiegazione in dettaglio, giacché, malgrado si sia rivelata erronea, contiene un tratto essenziale della nuova fisica, quella basata sull’esperimento e non sull’esperienza. Amici, a Padova ha confidenza con gli artigiani degli opifici i veneziani – dove si lavorano le lenti per correggere miopia e presbiopia – e sa che un oggetto guardato attraverso la lente appare più grande in ragione diretta allo spessore della lente stessa. Egli, quindi generalizza la verità di questo esperimento all’universo nella sua interezza, ponendo alla teoria basi di “ottica empirica”. Di conseguenza i pianeti osservati dalla terra, malgrado si tengano sempre alla stessa distanza, ci appaiono più grandi quando, lungo lo zodiaco, si trovano in un punto nel quale l’etere è più denso. Analogamente la Luna si mostrerà più grande alle quadrature piuttosto che alle sizigie perché in queste ultime il suo forte splendore dirada l’etere che la circonda, sicché noi la vediamo come attraverso una lente più sottile che alle quadrature. L’altra obiezione è più di senso comune ma non per questo meno significativa. Il sistema omocentrico, rivisitato da Amici, resta notevolmente macchinoso. Esso, come mostrato nella tabella numero 3, richiede un numero di sfere nettamente superiore tanto di quello aristotelico quanto dei deferenti tanto degli epicicli tolemaici. Il giovane astronomo, però, rigetta l’obiezione affermando che egli cerca di ricostruire il cosmo così come realmente è, riproducendolo per similitudine su scala ridotta; ed è meno interessato ad un modello che rende sì più facile i alcoli ma comporta movimenti fisicamente inammissibili. Altrimenti detto, il cosentino, pur destreggiandosi assai bene con la geometria solida, si riconosce nella schiera degli “astronomi philosophi” intenti a conoscere la realtà del mondo e non in quella degli “astronomi matematici” indaffarati a formulare previsioni astronomiche quando non astrologiche, sulla base del computo. L’Opusculum si presenta come un trattato moderno, nel senso che il criterio di verità è assicurato dalla corrispondenza tra realtà fenomenica e proposizioni della teoria, e non già, come nella teologia medievale, tra fenomeni e parole della Sacra Scrittura o, andando ancora più a ritroso nel tempo, l’interdipendenza tra teorie scientifiche e filosofico/religiose del mondo antico. Nel mondo amiciano e del secolo della Rinascita Dio è una ipotesi di cui si può fare a meno, e non si trova nell’opuscolo una benché minima citazione biblica. La separazione tra scienza e fede, così tipica della modernità, afferma Piperno, è stata già totalmente interiorizzata dall’astronomo cosentino. L’Opusculum di Amici, come già detto, aveva vissuto una stampa e una ristampa a Venezia,  poi, presso lo stesso editore. E ancora una terza, postuma, questa volta a Parigi, a cura di Guillaume Postel, un intellettuale cosmopolita qualche po’ enigmatico, in bilico tra profezie millenaristiche e rigore scientifico – miscela non insolita per l’epoca. Tre edizioni di rilievo europeo nel giro di pochi anni e poi uno stato di latenza, quasi catalettico. Ssi pensi che il suo libro non sarà citato nella letteratura astronomica fino a quando Dreyer, nella sua classica storia della cosmologia, gli render. -- Amico non scompare del tutto dalle fonti letterarie. Il suo nome, assieme a una sintesi dell’Opusculum appare in molti testi di storia locale quando si ricomincia ad occuparsi di lui in quanto astronomo: cfr. M. Di Bono, Le sfere omocentriche..., -- onore, dedicando all’astronomo nato a Cosenza un intero paragrafo, volto alla rivalutazione della figura e dell’opera di Amici. La ragione del lungo silenzio che avvolge per secoli il nome dell’astronomo cosentino è dovuta al trionfo della fisica di Galileo in Italia. Infatti, appena solo cinque anni dopo l’assassinio di Amico, usce dai torchi di una tipografia di Norimberga, il “De Revolutionibus” di Copernico, canonico della cattedrale di Frauenburg, ben più noto con il nome latinizzato. La diffusione del De Revolutionibus e capillare in tutta Italia, e le copie del libro saranno rieditate all’infinito è in atto la pacifica rivoluzione scientifica, meglio nota come rivoluzione copernicana o di galileo. L’elaborazione dela fisica subisce uno spiazzamento; lo scontro per l’egemonia teoretica non avverrà più tra peripatetici e tolemaici, bensì tra questi ultimi ed i copernicani. Prima si confrontavano due sistemi del modo, entrambi geo-centrici e geo-statici, che si riferivano alla stessa fisica. Oa la competizione va svolgendosi tra il sistema geo-centrico argomentato con la fisica aristotelica e quello elio-centrico bisognoso di una nuova fisica. In questo quadro, Amico sembra avere imboccato la giusta strada ma in direzione sbagliata. In effetti, il filosofo cosentino ha posto la domanda decisiva per risolvere la crisi che agli inizi del XVI secolo attanaglia il sapere astronomico: come riunificare l’aritmetica di Euclide con la filosofia naturale o astronomia. La questione è quella giusta. Ma la risposta – massaggiare il cuore ormai esausto d’ Aristotele – s’è rivelata troppo macchinosa; e dunque erronea. Dreyer, A History of astronomy..., cit. Oltre a questo testo che descrive a grandi linee il sistema amiciano, va ricordato l’articolo di Swerdlow, Aristotelian Planetary Theory in the Renaissance: Amico’s Homo-Centric Spheres, in “Journal of Astronomy”,  e ancora l’importante saggio di Di Bono e i lavori di F. Piperno, qui ampiamente citati. Nato a Thorn, sulle rive della Vistola, terra incognita contesa tra l’Ordine dei Cavalieri Teutonici e il Regno di Polonia; anche lui, come Amico, giunto a Padova, per studiare astronomia e medicina. Mi piace ricordare che ben diciotto secoli prima Aristarco di Samo ha messo in atto la teoria elio-centrica. Copernico, anche lui, si è mosso, in qualche modo, guardando indietro: con l’abissale differenza che i tempi sono ormai maturi. Sulle accuse di empietà mosse ad Aristarco cfr. L. De Rose, Le ragioni dell’etica nei confronti della scienza. Tre esempi in epoca antica, in F. Garritano, E. Sergio, Scienza ed etica, «Ou. Riflessioni e provocazioni». Eppure, sarà proprio quella ricomposizione, cercata e non trovata da Amico, a dar luogo alla scienza moderna e quindi alla modernità tout-court – poco più di mezzo secolo dopo, per opera dei Galilei, toscano tutt’altro che aristotelico, piuttosto intriso di neo platonismo. -- Giovan Battista, astronomo talentato, è morto giovanissimo, ucciso forse senza una ragione, prima di poter portare a compimento il suo destino, forse perché “caro agli Dei”, come vuole la sapienza antica. Non è dato sapere quale sarebbe stata l’evoluzione del pensiero di Amico, il suo destino intellettuale, il suo karma scientifico, se fosse vissuto abbastanza, soltanto pochi anni ancora, da imbattersi nel De Revolutionibus di Copernico. Le cose non sono andate così; e un giovane dal destino incompiuto, ma dall’indiscutibile intelligenza ha potuto solo tentare di dare un senso a teorie che valgono solo dal punto di vista dell’osservatore. Questo è un mondo antico, come direbbe Leopardi spazzato via a guisa di una mera illusione dalla rivoluzione astronomica prima e dalla mentalità moderna dopo. F. Piperno, Ioannis Baptistae Amici..., cit. 146 G. Leopardi, Storia dell’Astronomia, in F. Piperno (a cura di), Arcavacata, Centro Editoriale UNICAL,  Keywords: planteario di Cosenza, pianeta, de motibus corporis coelestium iuxta principia peripatetica sine eccentricis set epicyclis – motti de’ corpori celesti giusta i principi peripatetici senza eccentrici ma con epicicli”. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Amico” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Amidei – il leviatano – filosofia italiana – Luigi Speranza (Peccioli). Filosofo italiano. Grice: “I like Amidei; he knew Beccaria well, and thinks, with H. L. A. Hart, that debtors should not necessariliy go to jail, to which Beccaria famously responded: ‘depends on what you mean by necessarily should’” --  Cosimo Amidei (Peccioli), filosofo. Frontespizio del Discorso filosofico-politico sopra la carcere de' debitori di Cosimo Amidei, ed. Harlem (Paris), 1771. Non si sa quasi nulla sulla biografia di Cosimo Amidei. Figlio del dotore in giurisprudenza Domenico Amidei di Peccioli (Pisa), si laureò in Giurisprudenza all'Pisa probabilmente nel 1746. Per le modeste condizioni della famiglia nel 1739 aveva chiesto di essere ammesso al Collegio di Sapienza, e aveva ottenuto un posto gratuito il 1º novembre 1741,. Stando ad una lettera di Alessandro Verri al fratello Pietro, Amidei era un magistrato fiorentino, "notaro criminale".  Fra le poche cose certe vi è quella che conobbe personalmente Cesare Beccaria, di cui era un ammiratore e con cui fu in corrispondenza fin dal 1766. Altre opere: “Discorso filosofico-politico sopra la carcere de debitori”; "La Chiesa, e la Repubblica dentro i loro limiti. Concordia discors” -- dell'origine della potestà ecclesiastica -- degli oggetti sopra de' quali si reggira la postestà ecclesiastica -- dell'origine della potestà politica -- del sovrano -- delle conseguenze -- delle cause della forza della potestà ecclesiastica ne' governi temporali. de' limiti del sovrano o potestà politica -- dell'immunità, privilegj ed esenzioni de' beni ecclesiastici -- de' priviolegij ed esenzione personali degli ecclesiastici -- dell'asilo -- del matrimonio -- del celibato -- delle professioni religiose -- del giuramento -- de' benefizj ecclesiastici -- della scomunica -- della proibizione de' libri -- della religione, e della politica. “De' mezzi per diminuire i mendichi.” L'Amidei è noto soprattutto quale autore del "Discorso filosofico-politico sopra la carcere de' debitori" (1770). Ispirata direttamente dal paragrafo XXXIV del "Dei delitti e delle pene" del Beccaria, l'opera è considerata una delle più importanti espressioni del riformismo e dell'umanitarismo settecentesco. L'opuscolo ebbe immediatamente successo: fu recensito con favore dalle "Novelle letterarie" di Firenze, e dal "Journal encyclopédique"; l'anno seguente ebbe una seconda edizione, con osservazioni di Giambattista Vasco, uscita a Milano presso lo stampatore Galeazzi, e ancora una edizione in testo bilingue italianofrancese. Il testo di Amidei influì certamente sulla riforma leopoldina del 1776, che, per merito del ministro Francesco Maria Gianni, abolì la carcerazione per debiti (ma occorre ricordare come un'analoga riforma venisse promulgata anche in Russia). Nella concezione relativistica delle leggi e nella critica alla legislazione romana dell'illuminismo giuridico-politico toscano di quegli anni, l'opera di Amidei si arricchisce di spunti egualitari rousseauiani (rarissimi ancora nel pensiero illuministico toscano) dai quali Amidei ottiene la giustificazione teorica per l'abolizione della pena detentiva dei debitori. Una nuova edizione dell'opera, apparsa in Firenze nel 1783, è una prova dell'esistenza in vita di Cosimo Amidei nel 1783; dopo di allora, infatti, non si hanno più notizie biografiche certe su di lui.  La Chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti All'Amidei è attribuita anche un'opera edita poco prima il Discorso sopra la carcere de' debitori, "La Chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti". L'opera, pubblicata anonima nel 1768, è stata attribuita a Cosimo Amidei a partire dal 1770, anno di pubblicazione del Discorso filosofico-politico sopra la carcere de debitori. Finora mancano però elementi sicuri per confermare tale attribuzione, attestata solo da alcuni cataloghi di biblioteche e di cui non v'è notizia neppure nel "Dizionario di opere anonime e pseudonime" di Gaetano Melzi. L'opera uscì anonima e senza indicazione del luogo dell'edizione; dovrebbe trattarsi di Pavia o di Firenze. Molti contemporanei ritennero che fosse Napoli, identificando probabilmente l'edizione originale con una edizione ampliata, con falsa indicazione di luogo Amsterdam, sequestrata presso lo stampatore Campo di Napoli; si tratterebbe in realtà di una ristampa contraffatta dello scritto apparsa nella città partenopea prima che fosse posta in vendita l'edizione proveniente da Firenze, e che venne sequestrata per la "sediziosa proposizione" dell'origine popolare della sovranità. Al suo apparire, infatti, per alcuni spunti contrattualistici rousseauiani, l'opera richiamò l'attenzione dell'autorità laica ed ecclesiastica e le vicissitudini di cui fu oggetto sono ritenute importanti per ricostruire la fortuna di Jean-Jacques Rousseau in Italia. A Roma, autore dell'opera fu ritenuto il Beccaria, e nel clima di irrigidimento contro le correnti giurisdizionalistiche e illuministiche che caratterizzò gli ultimi anni di pontificato di Clemente XIII, essa fu posta all'Indice nel 1769.  De' mezzi per diminuire i mendichi Anche quest'opera, pubblicata anonima nel 1771 senza indicazione di luogo, ma probabilmente a Firenze, è solo attribuita a Cosimo Amidei; ma l'attribuzione risale già ai contemporanei,. L'autore sostiene, in base a una concezione fisiocratica, che il grave problema possa essere risolto solo per mezzo di una riforma fiscale.  Note  Società storica pisana, Bollettino storico pisano 1965300.  Società storica pisana, Bollettino storico pisano. Carteggio di Pietro e Alessandro Verri. F. Nevati ed E. Greppi, Milano Beccaria, Scritti e lettere inediti, E. Landry, Milano 1910289. Landry segnala quattro lettere dell'Amidei al Beccaria, in Biblioteca Ambrosiana, Milano. Beccaria, B. 231).  Frontespizio di Scritti e lettere inediti del 1910  Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, F. Nevati ed E. Greppi, III (agosto 1769settembre 1770) Milano 1911210  Novelle letterarie, 16 febbr. 1770, n. 7, coll. 103 s.  Journal encyclopédique, 1º giugno 1770314  "Discorso filosofico-politico sopra la carcere de' debitori", Harlem, et se vend a Paris: chez Molini libraire rue de la Harpe, vis-a-vis la rue de la Parcheminerie, 1771.  F. Venturi, Settecento riformatore, 2., Torino, Einaudi, 1976237-249  Archivo General de Símancas, Estado Legajo, lettera di Bernardo Tanucci al marchese Domenico Grimaldi Portici  v. Savio, "Dottrina ed azione dei giurisdizionalisti del sec. XVIII", in Arch. Veneto, s. 5, LXII (1958),  12 n. 2, 31 ss.  vedi lettera citata del Tanucci al Grimaldi  Marco Lastri, Bibliotheca georgica, ossia Catalogo ragionato degli scrittori di agricoltura, veterinaria, agrimensura, meteorologia, economia pubblica, caccia, pesca ecc. spettanti all'Italia, Firenze, 178745  Carteggio di Pietro e Alessandro Verri. F. Nevati ed E. Greppi, III 17661797, Milano 1911.  M. Rosa, AMIDEI, Cosimo, in Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Cosimo Amidei Collabora a Wikiquote Citazionio su Cosimo Amidei Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Cosimo Amidei  Opere di Cosimo Amidei, su Liber Liber.  Opere di Cosimo Amidei, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.  V D M Illuministi italiani Filosofia Categorie: Giuristi italiani del XVIII secoloFilosofi italiani ProfessorePeccioli FirenzeIlluministiAmidei. AMUCO: not found.  AMIDEI, Cosimo. - Magistrato fiorentino, "notaro criminale", stando ad una lettera di Alessandro Verri al fratello Pietro; dati biografici di lui sono pressoché inesistenti, allo stato attuale della ricerca, se si esclude la notizia di suoi rapporti con il Beccaria (che l'A. conobbe personalmente e del quale fu ammiratore), desumibile da un gruppo di lettere dell'A., del 1766-68, e qualche rapido cenno nella ricordata corrispondenza dei Veri.  L'A. è noto quale autore del Discorso filosofico-politico sopra la carcere de' debitori, s. l. [ma Modena] che, ispirato direttamente dal paragrafo XXXIV del Dei delitti e delle pene, fu recensito con favore dalle Novelle letterarie di Firenze, 16 febbr. 1770, n. 7, coll. 103 s., e dal Journal encyclopédique, L'opuscolo è un'interessante espressione del riformismo e dell'umanitarismo settecentesco: esso nella concezione relativistica delle leggi e nella critica alla legislazione romana (partecipe in questo del diffuso antiromanesimo del tempo) si arricchisce di spunti egualitari rousseauiani, rarissimi ancora nel pensiero giuridico-politico toscano di quegli anni, ed anzi proprio dal pensiero di Rousseau ricava la giustificazione teorica per l'abolizione della pena detentiva dei debitori (pp. 22-23 dell'ediz. del 1783).  Non sfuggi ai contemporanei questo contenuto sociale dello scritto di là dall'aspetto giuridico della questione tanto che "persona illuminata" venne richiesta di note al Discorso dell'Amidei. Apparve cosi, presso lo stampatore Galeazzi di Milano, una seconda edizione dell'opuscolo, con osservazioni di Giambattista Vasco che ripropose le sue già note concezioni economico-sociali: Discorso filosofico-politico sopra la carcere de' debitori accresciuto di note critiche dall'autore de' Contadini, s. n. t. (cfr. recensione in Europa letteraria, I, 1, 1 sett. 1770, p. 101).  L'anno seguente esso fu edito ancora in testo bilingue, italiano e francese, Harlem et Paris 1771; ed influi certamente sulla riforma leopoldina del 1776, che, per merito del ministro Gianni, abolì la carcerazione per debiti (ma sarà da ricordare qui come anche in Russia venisse promulgata un'analoga riforma).  Nel 1783 a Firenze lo stesso A. curò una nuova edizione dell'opuscolo, con aggiunte riguardanti "un nuovo progetto di riforma della Legislazione":l'esigenza di riforma nel campo della procedura penale si articola in un discorso più ampio, di carattere amministrativo ed economico-sociale (sul diritto di proprietà). Nelle critiche rivolte ai già aboliti sistemi dell'Abbondanza e della Grascia, e nella polemica contro le primogeniture e i fidecommessi, già colpiti dalla legge del 1747, dei quali viene reclamata la totale soppressione, è introdotto ancora, a difesa di un libero sistema di economia, il motivo umanitario-egualitario che informa tutto lo scritto (v. partic. p. 58). Il Giornale enciclopedico di Milano, 1783, t IV, parte letter., 24 Ott., n. 17, p. 138, sottolineò il significato dell'opera dell'A., che resta a conferma dell'eco profonda, in Italia e in Europa, di uno degli aspetti del pensiero del Beccaria.  All'A. è attribuita un'opera di poco precedente il Discorso, La Chiesa e la Repubblica dentro i loro limiti, s. l. [ma Firenze] 1768; 2 ediz. ampliata, Amsterdam [Firenze?] 1783. Finora mancano però dementi sicuri per confermare una tale attribuzione, attestata solo da alcuni cataloghi di biblioteche (e di cui non v'è notizia neppure nel Melzi, Diz. di opere anonime e pseudonime).  L'opera, particolarmente importante nell'ambito della pubblicistica giurisdizionalistica del tempo (cfr. Passerin), contiene chiari spunti contrattualistici rousseauiani, che l'autore non sviluppa però in senso antiassolutistico: l'interesse è proiettato invece sui "diritti della Sovranità [che] non si perdono per il non uso, per essere originalmente ne' Popoli", sui diritti dei principi circa sacra e sui limiti che la potestà civile può e deve porre ai privilegi, alle immunità e alle esenzioni della potestà ecclesiastica. Ma gli spunti rousseauiani, pur moderati ed elaborati - e talvolta avversari, come nelle pagine riguardanti il rafforzamento del vincolo sociale operato dal cristianesimo, pp. 135, 151-152 - emergono evidenti, tra l'altro, laddove si discute dei limiti al potere assoluto e si giustifica, in nome dell'uguaglianza fra I sudditi, l'operato del duca di Parma contro Roma (pp. 51-56), e soprattutto laddove si polemizza contro il sistema dei concordati tra autorità statale e S. Sede (pp. 71-80) e contro il diritto di asilo ecclesiastico (pp. 80-86). Un breve cenno, infine, al problema della tolleranza religiosa non ha gran rilievo nell'insieme delle argomentazioni, legate in gran parte, nonostante le suggestioni del nuovo pensiero di cui si èdetto, a orientamenti tradizionali. La seconda edizione accentua, in alcuni nuovi capitoli, la polemica circa il carattere civile, del contratto matrimoniale e quella contro gli ordini monastici.  Al suo apparire l'opera richiamò, per gli spunti rousseauiani, l'attenzione dell'autorità laica ed ecclesiastica e le vicende di cui fu oggetto costituiscono una pagina notevole della fortuna di Rousseau in Italia. A Napoli, per la "sediziosa proposizione" dell'origine popolare della sovranità (cfr. lettera dì B. Tanucci) venne sequestrata presso lo stampatore D. Campo una ristampa clandestina dello scritto (proveniente da Firenze) prima che fosse posta in vendita); a Roma fu ritenuto autore dell'opera il Beccaria e nel clima di massimo irrigidimento contro le correnti giurisdizionalistiche e illuministiche, che caratterizzò gli ultimi anni di pontificato di Clemente XIII, essa fu posta all'Indice nel 1769. preoccupazione e la diffidenza per itemi rousseauiani dello scritto vennero ancora espresse, a proposito dell'edizione del 1783, da Scipione de' Ricci in una lettera indirizzata al granduca Pietro Leopoldo (cfr. Passerin).  Fonti e Bibl.: Archivo Generai de Siniancas, Estado Legajo 6102, lettera di B. Tanucci al marchese Grimaldi, Portici (indica Firenze come luogo di stampa dell'opera; ma molti contemporanei, cfr. Savio, considerarono napoletana l'ediz. del 1768, identificandola con la ristampa); C. Beccaria, Scritti e lettere inediti, a cura di E. Landry, Milano  (segnala quattro lettere dell'A. al Beccaria, in Biblioteca Ambrosiana, Milano, Beccaria, B. 231); Carteggio di Pietro e Alessandro Verri, a cura di F. Novati e E. Greppi, III (ag. 1769-sett. 1770), Milano 1911, pp. 194-195, 210; Fr. H. Reusch, Der Index der verbotenen Biicher, II, Bonn 1885, p. 934; E. Passerin, La politica dei giansenisti in Italia nell'ultimo Settecento, in Quaderni di cultura e storia sociale III (1954), pp. 269-270; F. Venturi, G. Vasco in Lombardia, in Atti d. Ace. d. Scienze di Torino, classe di scienze mor. stor. e filol., XCI (1956-57), pp. 41 ss. e nota; Illuministi italiani, Riformatori lombardi, piemontesi e toscani, III, a cura di F. Venturi, Milano-Napoli  (riporta un passo di lettera dell'A. al Beccaria, da Firenze 6 luglio 1767, riguardante la traduzione del Morellet del Dei delitti e delle pene),1044; P. Savio, Dottrina ed azione dei giurisdizionalisti del sec.XVIII, in Arch. Veneto. Cosimo Amidei. Amidei. Keywords: il leviatano; amidei — implicatura sovrana — implicatura intersoggetiva — implicatura sovresoggetiva — implicatura sovre-umana — implicatura sovrepersonale — hobbes — primo disegno — leviatano — carteggio con Verri — carteggio con beccaria (paragrafo XXXIV — la strada verso l’utopia giuridizzionalistica — la chiesa — the high church of england — Gianni abolisce la carcerazione per debiti — tacitoRefs.: Luigi Speranza, “Grice ed Amidei” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Anassilao – Roma – filosofia italiana (Roma). Filosofo italiano. Anassilao was a Pythagorean who was expelled from the whole territory of Italy by Ottaviano. Plinio Maggiore quotes his views on the use of hemlock, which Anassilao believed could be rubbed on adolescent girls’s breasts to make them permanently firm and on adolescent boys’s testicles to lower their libido.

 

Grice ed Anceschi – senso – filosofia italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice: “I like Anceschi; he plays with the idea of dialogue as a mirror (specchio) of ego and alter or ego and tu – I like that. He is the Italian equivalent of John Holloway, I suppose.” Si laurea sotto Banfi, ricopre l'insegnamento di Estetica nella Facoltà di Lettere e filosofia a Bologna. L'interesse per la letteratura e le arti figurative si accompagnò sempre a quello per la filosofia moderna anti-dommatica. Dopo la pubblicazione della sua tesi di laurea  autonomia naturale, heteronomia artistica. “Autonomia ed eteronomia dell'arte” edita da Sansoni, le sue ricerche sulla figura e il modello letterario antidealistici trovarono voce negli interventi pubblicati su “Orfeo”e su “Corrente di vita giovanile” -- riviste da lui stesso promosse.  Sensibile ai nuovi orientamenti culturali, si schierò a favore dell'ermetismo e della neo-avanguardia, affiancando all'attività di teorico quella di critico militante: pubblicò i Saggi di poetica e poesia. Con una scheda sullo Swedenborg e cura le antologie Lirici nuovi, Linea lombarda. Sei poeti e Lirica del Novecento. Della voce “ermetismo” fu autore nell'Enciclopedia del Novecento. Concentratosi sui modelli culturali dimenticati dal Neoidealismo, si dedica ai temi del Barocco, dando alle stampe Del Barocco e altre prove Barocco e Novecento. Con alcune prospettive metodologiche.  Non abbandona mai gli studi filosofici: “I presupposti storici e teorici dell'estetica kantiana”; “Hume e i presupposti empirici dell'estetica kantiana”; “Burke e l'estetica dell'empirismo inglese”; “Da Bacone a Kant. Saggi di estetica”. In particolare in “Progetto di una sistematica dell’estetica e dell'arte” delinea una teoria estetica intesa come fenomenologia della forma naturale e artistica. Sui principi della fenomenologia critica basò tutte le successive ricerche.  Fonda “Il Verri” di cui fu direttore, mentre diresse per Paravia la collana La tradizione del nuovo e Studi di estetica, che raccoglie i risultati delle ricerche filosofiche che egli condusse insieme con i suoi allievi. Per il suo impegno nel tener vivo il fermento culturale di questi anni, gli sarà assegnata a Mestre la prima edizione del prestigioso premio "Amelia" alla "tavola" di Dino Boscarato. Centrali sono i temi della poetica (“Poetiche del Novecento in Italia”; “Le poetiche del Barocco, 1963) e delle istituzioni letterarie (Le istituzioni della poesia”; “Da Ungaretti a D'Annunzio”, Che cosa è la poesia?”. Altre saggi: “Il caos, il metodo. Primi lineamenti di una nuova estetica fenomenologica”; e Gli specchi della poesia. Riflessione, poesia, critica”. Riceve dai Lincei il Feltrinelli per la Critica letteraria.  Presidente dell'Ente bolognese manifestazioni artistiche, dell'Accademia delle Scienze e dell'Accademia Clementina di Bologna, socio corrispondente dell'Accademia nazionale dei Lincei di Roma, donò la sua biblioteca (circa 30.000 stampati) e il suo archivio personale (oltre 18.000 lettere e migliaia di autografi) al Comune di Bologna; sono attualmente conservati presso la Biblioteca Comunale dell'Archiginnasio.  Premi Amelia 1965-2005, a cura della "Tavola all'Amelia", prefazione di Sergio Perosa, Venezia-Mestre, 2006,  18-21. Lo stesso anno il premio è assegnato anche "per le arti figurative", a Virgilio Guidi.  Premi Feltrinelli 1950-, su lincei. 17 novembre.  Università degli studi di Bologna, Annuario dell'anno accademico 1995-1996 e 1996-1997, Bologna, Compositori, 1998,  863–865.  Il Verri Giuseppe Pontiggia Salvatore Quasimodo Alessandro Montevecchi  Luciano Anceschi, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Luciano Anceschi, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Luciano Anceschi, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Luciano Anceschi, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Opere di Luciano Anceschi,.  Fondo Luciano AnceschiBiblioteca dell'Archiginnasio di Bologna Approfondimento, su ibc.regione.emilia-romagna. 22 marzo 2005 5 maggio 2001). Studi di estetica, su unibo. 18 gennaio  15 gennaio ). V D M Vincitori del Premio Feltrinelli Filosofia Filosofo del XX secoloCritici letterari italiani del XX secoloAccademici italiani Professore1911 1995 20 febbraio 2 maggio Milano BolognaVincitori del Premio FeltrinelliAccademici dei LinceiAutori del Gruppo 63BibliofiliDirettori di periodici italianiFondatori di riviste italianePremiati con l'Archiginnasio d'oroProfessori dell'Università commerciale Luigi BocconiProfessori dell'BolognaStudenti dell'Università degli Studi di Milano. Sembra proprio che studiare una nozione letteraria voglia dire rendersi conto di ciò che essa ha voluto significare; studiare l'ermetismo vorrà dire vedere come l'ermetismo stesso, in quanto movimento letterario e culturale, ha inteso presentarsi per se stesso nell'attenzione ai motivi di coerenza, ma anche alle interne variazioni e differenze. Qualche considerazione va fatta, per altro, in limine intorno al nome. È noto: l'uso della nozione di ermetismo è frequente nel discorso della cultura per indicare quei movimenti, quelle manifestazioni, quelle situazioni del pensiero e della letteratura, in cui maniere oscure, ardue, chiuse e di comunicazione non diretta esigono, per esser partecipate, e anche solo intese, il possesso di una chiave che pochi sono in grado di adoperare. Il termine ha un'origine storica abbastanza ben definita e che istituisce subito il destino dei suoi significati. Dal nome di  Ermes Trismegisto si disse ‛ermetica' una dottrina di tarda età ellenistica in cui motivi oscuramente mistici di sincretismo filosofico-religioso si fusero con ipotesi di fantastica alchimia, in un tessuto linguistico segreto, ricco di allusioni, di difficile partecipazione. Si consideri anche che a Ermes Trismegisto si attribuisce l'aver chiuso (si disse, appunto, ‛ermeticamente') un'ampolla di vetro mediante la fusione dei bordi delle aperture. Oscurità, chiusura, tono di rivelazione sacra, un insieme di difficili connessioni tra mistica e alchimia, una presentazione immaginosa e immediata di oggetti intellettuali e riflessivi: ecco alcuni caratteri degli scrittori che per primi furono detti ‛ermetici'; ed ermetici, poi, vennero chiamati talora quei movimenti di pensiero occulti, misteriosofici, iniziatici, che spesso si posero in antitesi al pensiero dominante nel secolo, che costituiscono una ormai ben definibile tradizione secolare, continua, e che talora affiorano nella cultura essoterica con singolari sollecitazioni e insorgenze. Con intenzioni inizialmente screditanti, ma il nome venne poi accettato da molti scrittori, ermetismo si disse anche una tendenza della letteratura italiana tra le due guerre, che, venuta dopo l'esperienza dei crepuscolari e gli esperimenti dei futuristi, si distinse nettamente dal rondismo, come corrente dell'ultimo gusto neoclassico, e da ogni genere di ritornante realismo; ed è ciò di cui qui dobbiamo parlare. Ci sono opinioni molto diverse su questo movimento. C'è chi, in una ben definita prospettiva letteraria militante, vede in esso il momento più alto della poesia e del pensiero poetico del secolo nel nostro paese; e c'è chi, movendo da un particolare orizzonte sistematico, accusa la ricerca ermetica di ‛perdita della immediatezza' fino a vedervi intellettualismo e, al limite, una distrazione di giochi verbali; c'è anche chi, secondo un'ispirazione fortemente ideologica, vede in essa un pericoloso e condannabile momento di evasione rispetto al dovere della partecipazione e dell'impegno. Solo un'indagine diretta e particolare potrà definire  il diritto e il torto di considerazioni come queste; e, tuttavia, è difficile disconoscere che si trattò di un movimento influente, complesso, articolato in diverse disposizioni dottrinali e di poetica, con varie stratificazioni di momenti interni secondo una tradizione breve e intensa. Il movimento ebbe vita difficile negli anni in cui si manifestò, trovò una sua forza contro molti oppositori e reali resistenze, giunse fino ad operare sul costume e a cadere in un nuovo Kitsch, si dissolse alla fine della  seconda guerra mondiale, ma lasciò un'impronta viva, e anche un impulso nella cultura della poesia e della critica che, da un lato, è continuato per anni nel lavoro degli epigoni, e che, dall'altro, ha condizionato indubbiamente i modi in cui si manifestarono i movimenti che seguirono. Quanto alle strutture della poesia, forse è riduttivo il considerare l'ermetismo solo come una tendenza della letteratura italiana contemporanea, che, riallacciandosi alle correnti simboliste non soltanto francesi, anzi europee, intende la poesia come esercizio assoluto di linguaggio che in tanto vale in quanto riesce a esprimere l'intuizione lirica nella sua originaria purezza, escluso l'intervento di preoccupazioni didattiche, moralistiche, dottrinali e speculative in una volontà attentamente coltivata e resolutamente diretta al risalto di momenti di intensità e di innocenza; ma è anche riduttivo parlare dell'ermetismo solo come dell'espressione di una rivolta in cui si concreta l'appello orfico-cristiano, religioso, metafisico, negatore della storia, di una storia che si appiattisce di fronte all'assoluto, libero dalle strutture rettoriche, e inteso a propositi soprattutto di rinnovazione radicale dell'uomo. Ritorneremo su queste differenze di pronunzia e sul loro significato; ma, a questo punto, occorrerà ormai rendersi conto e giustificare l'uso della nozione di ermetismo nel contesto della situazione letteraria italiana tra le due guerre e nella individuazione del significato interno del movimento. L'ermetismo va considerato come un movimento europeo o italiano, o puramente ‛fiorentino'? Certo, ci furono aspetti, e li considereremo, della poesia e della poetica d' Europa che si potrebbero dire ermetici o che hanno avuto rapporti con ciò che diciamo ermetismo, anche tali che senza di essi l'ermetismo non sarebbe stato possibile. Uno dei connotati dell'ermetismo è certo quello di aver tenuto aperti i rapporti - se pure in modo limitato secondo una lettura pregiudicata - con l'Europa in tempi difficili; ma una situazione, un movimento di cultura che si siano collocati sotto quel nome si ebbero solo in Italia; trovarono caratteri particolari e individuati; determinarono una singolare, e un poco astratta, cultura della poesia per certi aspetti di rara intensità e inquietudine. Il tentativo di ridurre il movimento solo al gruppo dei ‛fiorentini' dà nel sofistico, o nel riduttivo; non è certo facile tagliar con il coltello una situazione tanto compatta quanto varia; molti fatti si diedero contemporaneamente nella convergenza di letture e di interessi comuni; il ‛gruppo fiorentino' fu certo autonomo per suoi caratteri, ma nella misura in cui portò certi motivi di una generazione nuova in un contesto comune. In realtà, nella prima generazione ermetica in Italia la prima voce fu quella di  Giuseppe Ungaretti. Anceschi. Anceschi. Keywords: senso, ermetismo ed implicatura, grado d’ermetismo dell’implicatura, l’impossibilita dell’implicatura ermetica. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Anceschi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Andrea – filosofia italiana – Luigi Speranza (Ravello). Filosofo italiano. Grice: “I like Andrea, in more than one way!  Andrea made me realise how naïve Russell is with his ‘logical atomism;’ back in Naples, the Accademia degli Investiganti took thing really seriously. D’Andrea, a lawyer, like Hart, -- his claim to fmae is having written an ‘apologia in difesa,’ which I would abbreviate as just ‘in difesa’ of atomism – but my favourite is his unpublication, “Degl’atomi e degl’atomisti”!” Grice: “In Naples, unlike Oxford – cf. Locke and Boyle – it was understood that if you are an atomist you are, therefore, a libertine!” --  Da una ricca famiglia, studia a Napoli. Funzionario del viceré, il duca d'Arcos, a Chieti nel giustizierato dell'Abruzzo citeriore.  Frequenta villa Colonna, dove si illustrano i fondamenti dell’atomismo. Fondatore del salotto degl’InVESTIGanti alla sua villa Iambrenghi a Candela. Difende strenuamente l’atomismo nella “Apologia in difesa degl’atomisti” e nella “Risposta a favore di Capoa”. Avvocato primario del Regno di Napoli, viaggia e partecipa alla vita intellettuale e agli studi in molti salotti filosofici italiani. Cortese, I ricordi di un filosofo napoletano del Seicento, Napoli, L. Lubrano e C., Dogana della mena delle pecore in Puglia Regno di Napoli. Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Accademia della Crusca. Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del progetto Mille anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto Museo di Storia della Scienza di Firenze (home page), pubblicata sotto licenza il rinnovamento culturale del Seicento a Napoli (in occasione del rinvenimento di un manoscritto sconosciuto degli "Avvertimenti ai nipoti") di Stefano Capone, sito della Biblioteca di Foggia, Salottieri. Nacque a Ravello (presso Amalfi), dove la madre si era ritirata in seguito a difficoltà economiche, da Diego, avvocato in Napoli, di buoni natali ma d'incerta fortuna, e da Lucrezia Coppola, del seggio nobile di Montagna. L'infanzia non fu felice, per le "gravissime ristrettezze" della famiglia (Avvertimenti ai nipoti, p. 60), né soddisfacenti gli studi, cui venne avviato fin troppo precocemente. Compiuti sette anni, infatti, fu condotto a Napoli per apprendere la grammatica; a nove fu collocato presso la scuola oratoriana dei gerolamini, ma già ad undici frequentava lezioni di legge, addottorandosi poi nel marzo 1641, appena entrato nel diciassettesimo anno di età.  Egli stesso doveva sottolineare più tardi, nei suoi celebri Avvertimenti, i gravilimiti di quell'affrettata educazione. Nello scritto - che è insieme una sorta di testamento, una autobiografia e il richiamo a un modello di cultura e di comportamenti valido per tutto il ceto forense - ripercorreva le tappe della sua formazione, descrivendola come un lineare progresso dalla "grossa ignoranza", cui sembrava condannarlo l'arretratezza dell'insegnamento e delle professioni giuridiche alle quali il padre l'aveva avviato, verso l'incontro con le correnti di pensiero europee, la conquista delle nuove scienze e una concezione elevata del ruolo dei giuristi nella società. In questo itinerario intellettuale e civile, ben più dei suoi "direttori", di cui lamentava anzi il "mancamento", avevano inciso altre esperienze, personali o comunque estranee ai percorsi tradizionali. Per primo il rapporto con Giovanni Andrea Di Paolo, il solo in città capace d'illustrare le dottrine giuridiche con gli strumenti filologici e sistematici della scuola culta (ibid., pp.86 s.); poi l'impegno, durato oltre un anno dopo la laurea, per "studiar le materie continue e pei loro principi", abbandonando l'impostazione praticistica dominante, che riduceva la giurisprudenza ad un mero esercizio mnemonico o alla lettura disordinata dei decisionisti (ibid., p. 116).  Completata così autonomamente la propria preparazione, cominciò a seguire il padre nel foro e presentò di lì a poco due allegazioni, l'una per la principessa di Casalmaggiore, l'altra per il principe di Pietraelcina, che gli procurarono una certa notorietà ed alle quali rivendicava il merito di aver introdotto nei tribunali napoletani "il nome di Cujacio e degli altri eruditi", insieme con "l'uso di disputare gli articoli secondo i veri principi della giurisprudenza". Frattanto a Napoli, avvicinandosi la metà del secolo, con i profondi sconvolgimenti sociali e politici che la segnarono, si definivano le linee di un'iniziativa culturale, promossa da ambienti diversi, sia umanistici, sia tecnico-scientifici, che non restò senza conseguenze sul pensiero civile, né trovò indifferenti, o soltanto passivi, i giuristi e i forensi. Ministri e scrittori di cose legali se ne fecero anzi protagonisti, cogliendovi con prontezza gli elementi di novità che potevano dare consistenza e respiro a un discorso critico sul Mezzogiorno spagnolo.  Di tali sviluppi il D. fu testimone attento, interprete informatissimo, in breve tempo autorevole sostenitore. Grazie ai consigli di Ottavio Di Felice, "un vecchio assai erudito e molto affezionato della nostra casa",colmò le proprie lacune nella conoscenza delle "buone lettere"; ammesso poi a frequentare l'accademia di Camillo Colonna, dove s'illustrava una nuova filosofia "non gran fatto molto dissimile da quella che oggi chiamano atomista", vi apprese a respingere il conformismo della dominante cultura ecclesiastica ed il tenace scolasticismo che la caratterizzava. Fu l'incontro più fertile della sua giovinezza ed egli stesso ne ribadì spesso il rapporto di continuità con le successive esperienze. Le discussioni di casa Colonna costituirono, infatti, il segnale d'avvio di un rinnovamento intellettuale a Napoli, presto dispiegatosi con l'arrivo da Roma di Tommaso Cornelio e l'azione intrapresa da talune accademie, che spostarono energicamente l'accento dai temi letterari o eruditi a quelli scientifici e sperimentali.  Superato, con la guida di Camillo Colonna, il limite di una scarsa dimestichezza con l'arte retorica, tenne intanto con unanime applauso un solenne discorso nella Congregazione degli avvocati di S. Ivone, istituita dai teatini ai SS. Apostoli, e poco dopo, il 10 giugno 1646,la difese in Collaterale, alla presenza del viceré duca d'Arcos, contro la pretesa dei gesuiti di fondarne una nuova. Con questa arringa (Pro Congregatione Sancti Ivonis, edita dal Comparato) egli guadagnò la causa e il favore del viceré, che lo nominò ad interim fiscale di Chieti, dove si recò alla fine dello stesso anno.  Il periodo trascorso in Abruzzo, mentre a Napoli e in tutto il Regno avevano luogo gravi sommosse, dette luogo a dicerie malevole sul suo conto, che lo tormentarono per tutta la vita. Un tardo episodio del febbraio 1682, quando il principe Antonio di Sangro l'oltraggiò in pieno tribunale con l'epiteto di "Masaniello", provocando persino un duello tra il proprio campione, Cesare Mormile, e un nipote del D., Antonio della Marra, lo indusse a scrivere una lunga Relazione de' servizii fatti... nella provincia di Abbruzzo Citra(s.n. t., ma Napoli 1682), per replicare alle insinuazioni di aver parteggiato allora per i popolari e per rivendicare invece il proprio lealismo alle istituzioni regie, sola garanzia di stabilità e di arbitraggio tra i ceti, e gli atti compiuti a difesa dell'ordine sociale e giuridico esistente, ivi compreso quello feudale, che era parte integrante della realtà politica dello Stato.  Tuttavia le "seconde rivoluzioni", che portarono a Napoli alla proclamazione della repubblica nell'ottobre 1647 ed impressero al moto un carattere indipendentistico in un quadro politico più complesso e convulso, lo posero ai margini del conflitto abruzzese, sicché dopo due mesi trascorsi nel convento degli scolopi di Chieti, dove ebbe modo di leggere Cicerone e Campanella, pervenuta infine l'attesa nomina del nuovo fiscale e concluso l'affitto dell'arrendamento del sale nell'estate 1648,partì nel settembre per Napoli, che raggiunse in novembre, dopo un breve passaggio da Roma.  Qui non solo riprese l'esercizio dell'avvocatura, con crescente successo di prestigio e di entrate, ma si adoperò soprattutto per un rinnovamento scientifico e culturale, di cui non a torto il Giannone lo considerò protagonista e promotore principale (Istoria civile). Egli stesso sottolineò in seguito efficacemente, in una pagina giustamente famosa (Avvertimenti), il significato della svolta verificatasi a Napoli allora; l'importanza centrale ch'ebbe la diffusione delle opere di Cartesio; il ruolo essenziale di Tommaso Cornelio nel porre gli studiosi napoletani a contatto con il pensiero europeo; l'ostilità che le nuove dottrine incontravano presso i circoli tradizionalisti e la protezione ad esse accordata da taluni aristocratici; infine il proposito che animava i moderni di modificare l'assetto delle professioni, in particolare giuridiche, attraverso un confronto più intenso con le varie scienze.  Il momento era favorevole ad un'iniziativa dei gruppi intellettuali. L'opera di restaurazione, condotta dal viceré di Oñate secondo un disegno assolutistico volto a consolidare l'autorità delle istituzioni regie, prospettava un rinnovato compromesso tra monarchia e ceti privilegiati, deprimeva le aspirazioni della nobiltà più riottosa, maturate nei trascorsi disordini, offriva spazi nuovi e maggiori di presenza politica e di affermazione sociale ai forensi ed ai magistrati. Il D. affiancò prontamente l'azione del viceré e dalla sua paterna cura per il "ristoramento" degli studi ottenne un avanzamento universitario per Gian Camillo Cacace e l'attribuzione a Tommaso Cornelio, nel 1653, della cattedra ripristinata di matematica. Nel frattempo svolgeva una parte considerevole nella breve rinascita degli Oziosi, tra i quali recitò diverse orazioni, in particolare a favore della "novella maniera di filosofare" e per un rapporto più stretto della giurisprudenza con "tutte le altre scienze". La grande peste del 1656, lacerando drammaticamente la vita della città, pose fine d'un colpo agli esperimenti e alle iniziative che si conducevano a Napoli e che vennero poi ripresi, dopo il flagello, con lentezza e difficoltà. Rientrandovi dopo il periodo del "contagio", trascorso nei feudi del principe di Cassano, il D. dovette rinunciare per qualche tempo agli ambiziosi progetti di politica culturale, cui ritornò solo dopo alcuni anni impiegati nell'esercizio dell'attività forense per una clientela sempre più consistente ed altolocata. Si pose infatti in primo piano nelle vicende intellettuali della capitale a partire dal 1663, quando con numerosi scienziati, medici, filosofi, come Tommaso Cornelio, Lucantonio Porzio, Leonardo Di Capua, Giovanni Caramuel e molti altri, dette vita, al primo nucleo degli Investiganti, che prese a riunirsi in casa di Andrea Concublet, marchese di Arena.  Gli orientamenti dell'Accademia sono noti, così come la molteplicità ed eterogeneità dei motivi che vi si agitavano: dal probabilismo allo sperimentalismo, allo storicismo. Altrettanto celebre è l'episodio che ne riassunse simbolicamente il programma e gli inizi: la visita compiuta nell'ottobre 1664, sotto la guida del D., da oltre cinquanta accademici, tra cui numerosi nobili e prelati di rango, al cratere di Agnano, per controllare la fondatezza degli antichi miti, raccogliere materiali da sottoporre all'indagine chimica, far esperimento diretto delle caratteristiche naturali del sito. Tra gli Investiganti il D. ebbe infatti un ruolo cospicuo. Preziosa cerniera tra i novatori e il mecenatismo di una parte almeno della maggiore aristocrazia, non pose nulla in istampa direttamente legato a quell'esperienza, ma di alcune opere fu consigliere ascoltato, di altre fu promotore o dedicatario, intervenne infine sui temi che si dibattevano non soltanto come suggeritore o patrono di opere e di iniziative, o come veicolo d'idee, d'interessi e di libri. Agli argomenti centrali del nuovo sapere - l'atomismo, le leggi del moto, il rapporto tra elementi fisici ed "incorporei" e, sullo sfondo, tra metafisica ed esperienza - dedicò in vecchiaia alcuni lavori, quando l'Accademia era da tempo ormai spenta, ma non cessate le dispute da essa animate, né l'eco che avevano suscitato negli ambienti napoletani, messi in fermento dalle energiche controffensive dei gruppi conservatori.  Nei manoscritti filosofici del D. - affidati, come altre sue opere, a una tradizione testuale non sempre chiarita - possono riconoscersi oggi tre lavori distinti. Il primo è un'Apologiain difesa degli atomisti (Napoli, Bibl. Oratoriana dei gerolamini, ms. XXVIII.4.1; esemplare mutilo con correz. autografe), databile al 1685 e prodotto perciò in un periodo difficile nella biografia dell'autore e in una fase particolarmente vivace della dialettica politica e culturale napoletana. Il secondo, la Risposta a favore del sig. Lionardo di Capoa contro le lettere apologetiche del p. De Benedictis gesuita, tradizionalmente assegnato al 1697, ma elaborato a partire dal 1695, risale anch'esso a un momento cruciale, coincidente con la disputa sul S. Uffizio e la conclusione del processo contro gli "ateisti" (l'esemplare migliore è quello della Bibl. naz. di Napoli, ms. I D 4, alle cui cc. 286-317 corrisponde il frammento autografo della Bibl. Oratoriana dei gerolamini, ms. XXVIII.4.1; da segnalare anche la copia della Bibl. Angelica di Roma, ms. 1340, fatta eseguire per il card. Passionei dal pronipote del D., Giulio Cesare, nel 1752). Vi è inoltre una seconda stesura della Risposta, preparata tra il 1697 e il 1698 (se ne conoscono due diverse redazioni: Napoli, Bibl. naz., ms. IX A 66; e ms. Brancacc. I C 8).  Scritti di replica o di polemica contro il profilarsi, in momenti di acuto conflitto, anche politico, di una rivincita della cultura "dei chiostri" sulle istanze del sapere moderno, le opere del D. non disegnavano un compiuto sistema, né seguivano fonti univoche d'ispirazione. Adombravano una sorta di filosofia del particolare e del concreto, che si nutriva di salde radici umanistiche e galileiane, proprie della tradizione napoletana, innestandovi gli insegnamenti di Cartesio e Gassendi, talvolta di Spinoza e di altri ancora, secondo un'impostazione che può apparire eclettica o incline al frammento, ma che rispondeva piuttosto al proposito di rivendicare il lascito trasmesso dai novatori al pensiero meridionale, il segno da loro impresso sulla vita morale e civile attraverso lo sforzo d'iscriverla nei circuiti del "secolo della filosofia", di aprirla, nel modo più largo possibile, al movimento intellettuale europeo, d'includere infine nel suo orizzonte i numerosi motivi che lo percorrevano, cogliendone i nodi essenziali e gli aspetti capaci di stimolare più fresche energie. Perciò, guidate dalla consapevolezza dei vasti riflessi della battaglia teorica in corso, esse riaffermavano, contro il dogmatismo ed il verbalismo scolastico imperversante, il metodo sperimentale, l'intuizione della materia e l'ipotesi atomistica, l'indagine storica come criterio di verifica delle autorità.  Comunque l'impresa cui il D. dovette maggiormente la sua fama di studioso e il successo presso le corti di Napoli e di Madrid furono le scritture composte nel 1667 e nel 1676 per respingere le pretese di Luigi XIV alla successione spagnola e contestare le tesi della pubblicistica che lo sosteneva.  Sin dal 1663 il re di Francia aveva reclamato i Paesi Bassi alla moglie Maria Teresa in base al diritto di devoluzione. La contesa si era infiammata via via tanto sul piano politico-diplomatico quanto su quello giuridico e dottrinale. I rapporti tra le corone si avviavano a rottura aperta quando, sul finire del 1666, il vicerè Pietro d'Aragona incaricò il D. di controbattere gli argomenti francesi. Il 28 febbr. 1667 questi sottoscrisse solennemente, alla presenza del viceré una Dissertatio de successione Ducatus Brabantiae (copia a Napoli, Bibl. oratoriana dei gerolamini, ms. XXVIII. 3. 16), che venne subito inviata a Madrid. Tuttavia l'incalzare degli avvenimenti, con l'invasione francese delle Fiandre, seguita nel maggio, e il moltiplicarsi di trattati e libelli per il Re Sole, assieme al ruolo ufficioso rivestito nella polemica, imposero al D. di ritornare sulla materia, sicché nell'estate scrisse febbrilmente una nuova Risposta al Trattato delle ragioni della Regina Christianissima sopra il Ducato di Brabante, con altri Stati della Fiandra (Napoli 1667), che traeva spunto da un Traité anonimo, ma di carattere ufficiale, comparso a Parigi nel maggio dello stesso anno. La medesima Risposta, ritoccata, venne poi ristampata a Napoli con un Discorso e un Discorso aggiunto, di argomento storico-erudito, una appendice contenente la Copia di una lettera... nella quale si dà giudizio della Dichiarazione... del Re Christianissimo, redatta su incarico del viceré de los Velez come replica al manifesto di Luigi XIV per la guerra di Messina e già circolante sotto la data di Roma, 28 genn. 1676, e con altre due lettere di minore interesse (il libro cominciò a stamparsi nell'aprile 1676 e fu diffuso nel marzo 1677, come risulta dalla corrispondenza da Napoli di D. Ronchi; Roma, Arch. Doria Pamphili, fasc. 18.89, 18.90 e 18.91).  Strettamente legati all'occasione politica, gli scritti del D. ne seguirono le circostanze e gli svolgimenti, ma segnarono anche un passaggio di grande rilievo nella cultura napoletana del secondo Seicento. Se i due Discorsi, infatti, si avvicinavano in qualche modo al genere dei "bella diplomatica" che impegnava allora la migliore giurisprudenza europea, la Risposta confutava le rivendicazioni francesi in termini ben più avanzati delle consuete dispute avvocatesche, affrontando il tema della successione nel Brabante alla luce di una ricerca storica e di una meditazione sulle dottrine di Grozio, che la conduceva a individuare nel diritto di natura e delle genti le regole proprie al suo carattere giuspubblicistico. In tal modo rompeva l'isolamento del pensiero giuridico meridionale, lo apriva al confronto con le correnti d'Oltralpe, indicava un metodo storico per l'analisi degli ordinamenti e delle istituzioni che consentiva di determinare la natura privatistica o pubblicistica degli istituti, i loro rispettivi confini ed i fondamenti giuridici delle relazioni internazionali.  Non è dunque un caso se con quest'opera maturò nel D. un orientamento non solo giurisprudenziale, ma più largamente civile, fondato, in politica interna, sulla prospettiva di un accordo di governo tra il ceto intellettuale ed i viceré; sul lealismo spagnolo, in politica estera, giacché quell'impero restava, anche nel suo declino e col suo "genio tardo", atto a conservare più che ad innovare un puntello insostituibile per la pace e la stabilità dell'Europa, condizione per ogni sia pur relativa autonomia del Regno meridionale. Con la polemica sulla successione del Brabante prendeva forza, in sostanza, il difficile tentativo, condotto dal D. con cautele e prudenza, di collegare la battaglia culturale dei novatori alla riflessione e all'azione politica. Da allora infatti, nutrita dalla lezione di Machiavelli e dalle dottrine correnti della ragion di Stato, ma con l'aggiunta di un robusto realismo, che ne costituisce il tratto più caratteristico e originale, la sua attenzione si concentrò per circa un ventennio sulla scena internazionale, dove si decideva lo stesso destino del Regno di Napoli. Il rapporto tra gli Stati, la debolezza e l'immobilismo del sistema spagnolo, e di quello meridionale al suo interno, il dinamismo francese, infine l'emergere, da Napoli poco decifrabile, di altre potenze, divennero così l'argomento principale del suo nutrito carteggio col principe Doria, ed insieme lo sfondo di alcuni interventi forensi e di altri suoi scritti giuridico-politici (le une e gli altri editi ora da Mazzacane).  La familiarità col principe risaliva al 1673, quando dall'ottobre all'aprile 1675 il D. soggiornò presso di lui a Genova, Pegli e Torriglia, a conclusione di un periodo di viaggi guidati da curiosità intellettuali, non meno che da motivi di salute. Afflitto da serie crisi di ansietà e di apprensione, manifestatesi sin dal 1668 ed aggravatesi l'anno dopo con la morte del padre, forte di una solida situazione finanziaria, assicuratagli dalla funzione diavvocato primario del Regno, abbandonò la città poco più tardi, mentre precipitava una crisi nei rapporti politici degli intellettuali napoletani. Infatti se alla sua intesa col viceré d'Aragona si dovette l'avanzamento negli uffici del fratello Gennaro nel 1668 e l'incarico a lui, l'anno successivo, di difendere la "piazza" del popolo contro la nobiltà, tra la fine del 1669 e i primi mesi del 1670 il clima parve profondamente mutare, con la chiusura dell'Accademia degli Investiganti e la partenza da Napoli di alcuni suoi esponenti. Viaggiò per vari anni, con soggiorni più o meno lunghi in diversi centri italiani, raccogliendo consensi e amicizie, approfondendo gli studi scientifici e matematici, partecipando con vivacità alla vita intellettuale deicircoli che frequentava di volta in volta, come dimostrano le importanti lettere a Lucantonio Porzio (Napoli, Soc. napoletana di storia patria, ms. XX.B.24) e a Francesco Redi (Firenze, Bibl. Mediceo-Laurenziana, ms. Laur. Red. 219). Rientrò a Napoli nell'aprile 1675.  Le cronache della capitale, le relazioni degli agenti stranieri, le stesse lettere, spesso settimanali, al principe Doria consentono di seguire minutamente le sue attività professionali e la sua azione civile negli anni successivi. Tuttavia, nell'intreccio contraddittorio di una realtà arretrata, ma vitalissima, nell'accavallarsi di episodi maggiori o anche minimi, nel complicato scomporsi e ricomporsi dei vari "partiti", esse non si prestano a facili interpretazioni e non sono state interpretate uniformemente dalla storiografia. Del resto, qualsiasi lettura degli ultimi anni del D. è collegata con un giudizio sull'intera vita morale del Mezzogiorno durante il declino dell'impero spagnolo e nel profilarsi di una generale "crisi della coscienza europea". Perciò i dettagli di un'aneddotica spesso pettegola, le sfaccettature di un carattere umano incline alla melanconia, altero, ruvido ed anche "bizzarro", non possono esaurire il senso della sua presenza, vigile e critica, nella realtà napoletana di fine Seicento, il suo ruolo di maestro e guida intellettuale, di capostipite anzi di una genealogia spirituale che, attraverso il Biscardi e l'Argento, sarebbe giunta fino a Giannone.  Il governo del Velez segnò il momento di più consistente raccordo con la politica dei viceré e le aspirazioni egemoniche del ceto forense. Ne sono testimonianza eloquente, tra le altre, le scritture già ricordate sulle pretese del re di Francia, cui si aggiunse nel 1682 una Risposta al libro de' Francesi sopra li pretesi diritti del Re Cristianissimo sopra il Regno di Napoli et di Sicilia (Napoli, Bibl. naz., ms. XI.C. 25). A questa rapida "informazione" - una replica al Dupuy cui continuò a lavorare anche senza portarla a compimento - vanno aggiunte le difese in giudizio, sollecitate dal viceré, del marchese de Viso nel 1675, e dei Brancato e del Guaschi a partire dal 1679. Nello stesso anno rifiutò, con Carlo Cito, la designazione per la "piazza" del popolo, e l'episodio dimostra la volontà, e la possibilità tuttora attuale, di mantenere un'autonomia di partito per gli intellettuali e i forensi.  L'ascesa impetuosa di funzionari e ministri, profilatasi da lungo tempo e consolidatasi con l'assolutismo amministrativo del Carpio, spostando definitivamente il peso politico delle due anime del ceto civile, forense e togata, in favore di quest'ultima, divideva i rispettivi interessi e disegni e riduceva le possibilità, per la prima, di porsi con forza propria come centro di mediazione nella dinamica sociale e politica del viceregno. Perciò il D., emarginato e forse anche deluso dagli ambienti di palazzo (già nell'increscioso incidente del 1682 non si registrò né l'appoggio del Velez, né una risoluta solidarietà dei colleghi), si dedicò con rinnovata energia ai propri studi, per rianimare il gruppo disperso dei novatori dinanzi al ritorno in forze dello schieramento cattolico e del più oscuro spirito controriformistico.  Alla fine del 1684 morì il Cornelio e quella scomparsa sembrò segnare la conclusione di un intero ciclo della cultura napoletana, sicché assunse un significato evidente il carico preso dal D. per rivendicare il valore del suo insegnamento e la persistente vitalità della sua lezione. Egli infatti non solo sorvegliò l'edizione delle sue opere inedite, apparsa poi a Napoli sul finire del 1688, ma fece celebrare, nella primavera del 1685, un solenne funerale per il maestro, che ebbe il tono di un appello e di una perentoria riaffermazione di fedeltà ai principi della nuova scienza. Nello stesso anno stese anche la già ricordata Apologia in difesa degli atomisti e ricevette, tra ottobre e novembre, le visite di J. Mabillon e di G. Burnet, che rappresentarono un alto riconoscimento, da parte dell'Europa dotta, del suo prestigio internazionale e del rilievo degli studiosi napoletani nell'ambito del sapere moderno.  Furono tuttavia episodi che non lo scossero da una sorta di doloroso isolamento, in cui si inserirono meditazioni religiose sempre più fitte, d'intonazione etica rigorista, da leggersi comunque in rapporto con alcune scritture, di difficile datazione, dirette a inserirsi nei grandi dibattiti europei di filologia biblica (Napoli, Bibl. Oratoriana dei gerolamini, ms.). Di peso più concreto fu invece la nomina, ottenuta dal viceré conte di Santo Stefano, per la carica di giudice di Vicaria, della quale prese possesso il 10 maggio 1688. Egli tornava così sulla scena pubblica, ma attraverso un reclutamento nella burocrazia - sia pur mitigato dalla maggior comprensione del Santo Stefano, rispetto al Carpio, per le ragioni culturali dei novatori - che costituiva di fatto un'ammissione del sopravvento degli uffici sull'avvocatura da parte di chi, come lui, lo aveva sempre avversato, ed ancora sarebbe tornato a negarlo negli Avvertimenti.  Seguì nel luglio 1689 la promozione a consigliere nel Sacro Regio Consiglio, e poi a fiscale della Sommaria, dove s'insediò il 5 apr. 1690: tutti spostamenti che s'intrecciarono con i tortuosi percorsi, e gli intrighi, dei circoli ministeriali di quella vera e propria "Repubblica dei togati", che era ormai diventato il Regno di Napoli per sua profonda struttura.  Le funzioni di governo e le competenze finanziarie dell'organismo di cui entrava a far parte richiesero il suo impegno su questioni economiche di scottante attualità, che egli affrontò con uno spirito di cui è difficile sottovalutare l'originalità e l'importanza. Dalle allegazioni (sono note quella dell'ottobre 1690 sul problema dei pedaggi e dei passi, intitolata Iura pro Regio Fisco…, e l'altra, Ad interpretationem regiarum litterarum quibus fuit declaratum officia quae sunt de regalibus, in sostegno del carattere pubblico degli uffici; entrambe in N. Ageta, Adnotationes pro Regio Aerario, II, Neapoli 1692, pp. 180-96 e 299-328) e dai suoi ripetuti interventi in Collaterale, nel corso del 1691 (Arch. di Stato di Napoli, Collaterale. Notamenti, voll. 75 ss.), emerge infatti un complesso di temi e valutazioni, nei quali prendeva forma una acuta analisi dell'inferiorità meridionale, capace di coglierne la sostanza economica, ed un coerente piano di parziali riforme.  La linea prospettata dal D., spesso ripresa e ampliata nelle lettere al Doria, non può avvicinarsi alla contemporanea cultura mercantilistica. Essa tuttavia conteneva il richiamo, d'ispirazione pragmatica più che teorica, alle esperienze europee più avanzate (olandesi ed inglesi), la denuncia della venalità degli uffici come causa prima delle disfunzioni del sistema spagnolo e della questione beneficiaria come uno dei lacci più pericolosi che soffocassero il Regno, infine l'indicazione di misure concrete sui problemi della moneta, degli uffici, dei passi. Ma la sua perorazione per la libertà dei commerci e le proposte di riforma corrispondenti si arenarono subito, nonostante l'intesa col viceré, per la ferma opposizione del baronaggio. Durante il 1692 si fece perciò più rara la sua presenza nei diversi consessi ministeriali. Nel 1693 fu sostituito in Sommaria e fu giubilato nel 1695, mentre risiedeva a Procida, donde dava vita a un rilancio della sua azione culturale.  Di tale intenzione erano state già segno la collaborazione prestata al Valletta per una scrittura, compiuta in quegli anni, relativa al conflitto accesissimo sulla giurisdizione del S. Uffizio e la stampa della Disputatio an fratres (Napoli 1694), un testo capitale della scienza giuridica di fine Seicento, in cui, con matura sensibilità storica, egli poneva la consuetudine e l'interpretazione giurisprudenziale a fondamento del diritto del Regno e dei suoi svolgimenti. Risalgono inoltre allo stesso periodo alcune scritture e lettere sullo stato politico d'Europa e d'Italia (cfr. l'ediz. Mazzacane).  Le opere dell'ultimo biennio valsero a confermare il suo ruolo eminente tra le avanguardie intellettuali napoletane, sicché non sorprende la visita resagli a Procida dal Santo Stefano a metà dicembre 1695 per concordare un'azione contro l'offensiva curiale e gesuitica in atto, che si esprimeva sul piano e politico e culturale con la controversia del S. Uffizio, il processo agli ateisti, i libelli polemici tra cui spiccavano per ampiezza di argomentazioni le Lettere apologetiche del padre De Benedictis, pubblicate a Napoli nel 1694 sotto lo pseudonimo di Aletino. Ad esse il D. replicò con le Risposte già ricordate, ma nel frattempo nuovi equilibri si profilavano a Napoli.  Altri temi più direttamente incisivi che non gli appelli per la moderna filosofia, si offrivano a costituire il cemento ideologico capace di saldare alleanze diverse tra i ceti e di rimescolarne gli schieramenti. Nella svolta di fine Seicento, dinanzi all'atto di accusa rivolto dagli ambienti cattolici alla nuova cultura e ai suoi progetti di rinnovamento, dinanzi ad un tentativo d'imporre il prepotere ecclesiastico, il ministero togato serrava le fila, si attestava sull'intransigente difesa della giurisdizione regia, assumendola in proprio, senza demandarne la definizione a intellettuali appartati, sia pure di grande prestigio, come il D'Andrea. La sua lezione investigante non poteva più rappresentare la base per un'intesa tra monarchia, viceré e magistrati, stabilitasi invece attorno al giurisdizionalismo, e difatti egli venne del tutto ignorato nelle iniziative del duca di Medina Coeli. Perciò gli Avvertimenti ai nipoti, completati nel 1696 e destinati a una straordinaria fortuna, assunsero spesso il tono di una apologia retrospettiva, pagarono il prezzo della contraddizione tra un modello ancora proposto e il realistico riconoscimento dei cambiamenti avvenuti. Il primato dell'avvocatura come alto magistero per il giurista moderno, argomentato con frequenti tinte neostoiche, e come via regia per acquistare ricchezza e potere, vi si accompagnava all'ambigua ammissione del risalto sociale e politico conseguito dal ministero, ispirando una ricognizione minuta sulle vicende del ceto forense negli ultimi cinquant'anni, che rimane esemplare per profondità ed acutezza di analisi, ma che non può nascondere il fallimento del tentativo di fissare le direttrici ideali per i nuovi gruppi dirigenti.Gli Avvertimenti furono terminati l'anno prima del ritiro a Candela, nei feudi lucani del principe Doria, dove il D. si ridusse per un impulso di solitudine e per curarsi lo stato fisico declinante. Morì a Candela (Foggia) il 10 sett. 1698, di una febbre terzana contratta a Melfi nell'estate. La sua operosità non era venuta meno neppure negli ultimi mesi. Aveva infatti compiuto da poco un Discorso politico intorno alla futura successione della monarchia di Spagna (edito di recente dal Mastellone), che è il suo estremo messaggio agli intellettuali napoletani nella "cupa" finis Hispaniae.  Fonti e Bibl.: Fonte principale sono le notizie autobiogr. sparse negli Avvertimenti ai nipoti, pubbl. a cura di N. Cortese, I ricordi di un avvocato napoletano del Seicento. F. D.,Napoli 1923, con intr., note e append. bibliografica ricche di riferimenti ai documenti ined. e alle testimonianze più antiche. Per le date di nascita e di morte si sono tuttavia preferite quelle indicate da L. Giustiniani, Memorie istor. d. scrittori legali del Regno di Napoli, I,Napoli 1787. pp. 57, 65, confermate rispettivamente dai Registri battesimali della chiesa madre in Ravello e dai documenti dell'Arch. Doria-Pamphili in Roma, fasc. 19.8. Circa l'età in cui iniziarono i primi studi, si è adottato l'uso moderno di considerare l'anno di vita compiuto, anziché quello iniziato. Si è inoltre collocata la laurea nel marzo 1641, seguendo [G. L. Torrese], Diligentissima Neapolitanorum doctorum nunc viventium nomenclatura, Neapoli 1653, p. 99, e G. Corrado, Nomenclatura doctorum Neapolitanorum viventium, Neapoli 1678, p. 21; la documentazione archivistica dell'Arch. di Stato di Napoli, Coll. dei Dottori, lacunosa, ne dà conferma almeno e silentio. L'elenco delle opere edite e inedite e delle lettere finora rinvenute è fornito da A. Mazzacane, I misteri de' Prencipi. Lettere e scritti politici di F. D., Napoli 1986. Tuttavia, manca ancora una soddisfacente ricostituzione dei testi, avviata, per le opere filosofiche, da A. Quondam, Minima Dandreiana. Prima ricognizione sul testo delle"Risposte di F. D. a B. Aletino", in Riv. stor. ital.,LXXXII (1970), pp. 887-916 (ma v. anche A. Borrelli, L'"Apologia in difesa degli atomisti" di F. D.,in Filologia e critica, VI [1981], pp. 259-80). Per il carteggio, due lettere al Redi sono pubblicate e commentate da G. Tellini, Tre corrispondenti di F. Redi, in Filologia e crit.,I (1976), pp. 401-53; numerose altre allo stesso sono studiate da A. Borrelli, F. D. nella corrispondenza ined. con F. Redi, ibid., VII (1982) pp. 161-97; quelle al Doria (ora pubbl. da Mazzacane) sono in buona parte citate ed utilizzate da R. Colapietra, L'amabile fierezza di F. D. Il Seicento napoletano nel carteggio con G. A. Doria, Milano 1981, il quale riassume anche precedenti lavori propri, annota e discute in maniera completa la letteratura disponibile, antica e recente. Di essa perciò ci si limita a ricordare soltanto le monografie e le raccolte di saggi che hanno maggiormente animato, negli ultimi tempi, il dibattito storiografico sull'autore e sul secondo Seicento meridionale, rinviando agli indici per la precisazione delle pagine di diretto interesse: B. De Giovanni, Filosofia e diritto in F. D. Contributo alla storia del previchismo, Milano 1958; Id., La vita intellettuale a Napoli tra la metà del Seicento e la restaurazione del Regno, in Storia di Napoli, VI, 1, Napoli 1970; N. Badaloni, Introduzione a Giambattista Vico, Milano 1961; S. Mastellone, Pensiero politico e vita culturale a Napoli nella seconda metà del Seicento, Messina-Firenze 1965; Id., F. D. politico e giurista (1648-1698). L'ascesa del ceto civile, Firenze 1969 (alle pp. 183-99 il Discorso politico intorno alla futura successione della monarchia di Spagna); L. Marini, Il Mezzogiorno d'Italia di fronte a Vienna ed a Roma, Bologna 1970; V. I. Comparato, G. Valletta. Un intellettuale napoletano della fine del Seicento, Napoli 1970; Id., Uffici e società a Napoli (1600-1647). Aspetti dell'ideologia del magistrato nell'età moderna, Firenze 1974; Id., Retorica forense e ideol. nel giovane D.,in Boll. del Centro di studi vichiani, VI (1976), pp. 41-75 (alle pp. 62 ss. l'allegaz. Pro Congr. S. Ivonis); R. Ajello, Arcana juris. Diritto e politica nel Settecento italiano, Napoli 1976; Id., Cartesianismo e culturaoltremontana al tempo dell'"Istoria civile", in Pietro Giannone e il suo tempo, a cura di R. Aiello, Napoli 1980; P. L. Rovito, Respublica dei togati. Giuristi e società nella Napoli del Seicento, Napoli 1991; G. Galasso, Napoli spagnola dopo Masaniello, Firenze 1982. ANDREA (Francesco ’)nacquenellaCittàdiRavellonellaCoſta d’Amalfi il di 2.4. Febbraio dell’anno '1625. non già‘nel 162.4. o 1_óz7. come altri fi avvisarono. I suoi genitori furono Die go e Lucrezia Coppola della ſtessa Città', e nobile del sedile di Mon    58 -A N Montagna giusta l’avviso del nosiro autore' (r). Il Padre, che_ se ne stava in Napoli addetto all’ esercizio del foro, appena ch’ ebbe oltrepassata l’infanzia lo se quivi condurre (a), e di~ anni 10..-affidollo alla educazione de’ PP. dell' Oratorio. F in da quesia tenera età incominciò a dar saggio de' suoi vivaci talenti, ritenendo con iſtupore quanto legger segli facea, e quanto anche da’dotti sentiva, onde il nome gli diedero di maeslro di me moria. La sua educazione però, esser dovea tuttaltra da quella, che gliene diede poi il padre ne’ primi anni di 'sua giovanezza. Egli accorgendosì della vivacità del figli0,non volle metterlo sot to la disciplina degli oggigiorno espulsi Gesuiti per applicarlo ben toſto allo ſtudio della giurisprudenza, anche sul sospetto, che quel li conoscendo i talenti del giova‘netto persuaso lo avrebbero a ve flire le loro lane,e privar con ciò la sua casa degli avanzamenti, ' che avrebbe potuto sperare dalla sua riuscita,p Dell’etàdianni12.‘adunquemandollo adiſtudiargiurisprudenza,nien— te iſtrutto di quegli altri ſtudi necessari a ben intendere questa scienza. Buon per lui ch’ebbe_a maestro il tanto celebre Giannandrea di Pao lo,ottimo oratore dique’ tempi, e stato già discepolo di Alessandro...Turamino Sartese (3): giacchè a dir del nostro autore (4) corse ri ‘schio di esser discepolo di Gio. Domenico Coscia Calabrese, sopranno mato Casciana, uomo grosso d’ingegno, e ſtato già maesiro di Diego suopadre. Fe (i) L0 attesia esso Francesco nell’introduzione de’ suoi avvertimenti. (2)-Eglì ſtesso lo dice ne’ suoi avvertimenti, ove parla della casa Rovito. (3) Nicolò Toppi bibliot. napal. pag. 8. Giangiuseppe Origlia [sud. diNapol. r. a. p. '50. e Pietro Giannone jlor. civ. del Reg. di Napo!. [ib. 34.:0.8. Q. r. in fin. scrivono,'che quiz/Zi ancorchè Senese d’ origine su Napoletana. Ma-si sono ingannati a partito. Non pochi monumenti abbiamo da potergli reflituir la sua patria. Nel 1604. trovandosi in Ferrara scrisse una lettera al Cardinale Cammillo Borghese in cui scrive: e Neapoli per Tbyr-renum in pan-iam adveäiur-c Nel-1592. dimessosi dalla carica.di uditor di Rota nel {oro di Firenze, venne in Napoli, ed occupò la cattedra di diritto civi le,come appare-dalla letteravindirizzäta a D. Gio. Zunica Vicerè diNa 'poli, impressa nel libro de exaequariane legarorum, pubblicato nel i593. e dall’altra scritta dall'autore a Lorenzo Usimbardo., che fece precedere‘al suo opuscolo sulla L. non puro D.dejimfifri. Neap.1595.in4.enel1594. per morte del Colombino‘passò alla primaria, e tutte le opere, che pose qui a luce le dedicò' a’personaggí del suo paese; tal è quella sana a Giro lamo Cerretano, e Francese* Accarisio patrizj Sanesi, che precede al suo,opuscolo ad L. fruit—im‘, S. Papiníanur D. quem. dorperat. impresso nel 1600. E* da leggersianche l’accuratissimo Lorenzo Meho in praes. op”. Tura míni,ëdir.&nen/ir1-770. (4) Ne'suoiavvertimenti. 1 ñ    n, o AN 'gç Fece gli intendereildotto GianandreadiPaolo,quantoeglieramal fondato ne’ primi ſtud;,e qual bisogno avesse,per ben. coltivare i suoi talenti nello apprendere la scienza del diritto.Siffatti avverti menti però dispiacendo all’ambizioso genitore, bramandojl più preſto di vederlo esercitato nel foro, nell’età di anni 17. con di spensa volle addottorarlo nell’una enell’altra legge per fargli intraprendere bentoſto un. tal esercizro. Egli non però l’accorto giovanetto volle secondare i desider) paterni. N o n interruppe per ciò dopo la laurea dottorale le sue' affiduc applicazioni nella let tura degli autori latini e greci, tanto prosatori,che poeti. S'in vaghi non poco delle opere di Virgilio, e di Omero, ed anche de’più scelti poeti toscani, per cui avendoci acquiſtata una partico lar passione, com’c’ dice, non potè però giammai vedersi da tan- ’ to a comPorre un *ver/b con'qualchc suo dispiacimento. Queſta ' insinuazione gliela diede peraltro anche il dotto Ottavio di Felice, avendogli fatto comprendere similmente quanto fossenecessariol'ac— quiſto della geografia e cronologia,senza di cui e’tratto non avreb be un maggior profitto dalla ſtoria, e che ſtato sarebbe ancor per lui molto vanta gioso apprendere qualche cosa di moral filosofia. Colla guida de’ su odati valentnomint giunto all’età di anni zo. in cominciò la carriera del foro, *e ad iſtudiare gli articoli', che oc correano-nelle cause del padre. La prima scrittura,ch' e‘ mandò a ſtampa fu-sull’ articolo eccitato in un litigio del, principe di Ca salmaggiore,se l’interesse ~di più anni pote'a- eccedere il doppio della sorte principale. Lo spirito di novità con cui mane‘ iol-lo, piacque non poco alConsigliere Arias de Mesa stato diggi catte 'dratìco di Salamanca. La seconda in una causa d’ importanza del Principe d’Aquino col Duca dell’Acerenza per la vendita diGiu gliano, e in risposta di quella fatta da Giulio Caracciolo. M a poichè incominciò a veder da lungi. lavaſtità delle scienze, cad iscorgere qualeabilità ancor naturale richiedeasiñameritare ilnome dioratore,‘moſtrossìsul rincipio Corantoritenuto.diarringarc‘ nelle ruote, che su nella risoluzron di volersi di ’nuovo,rinchiudeñ re,-se animato non lo avessero i dotti, e poſtogli avanti gli occhi lasuaabilitàesapere.Undiqueſtisuil celebre Cammillo Colonna Signore di somme cognizioni, dandogli de’savsi) precetti, e la notizia insieme di scelti scrittori aformarsi un buÒno e diverso ſti— -le degli altri del foro. Ho ammise i-ndi nella sua letteraria accade-l mia-,che radunava in ogni settimana‘, perfarlo esercitare sì nello* scrivere, che nel parlare alla, presenza' di uomini colti. Queſto c sercizio confessa il noſtro autore che gli su di sommo aiuto, e che.perciò.vedeasinon poco obbligafo aqucſto gran protectorde’gtovani. Indi siascrissealla congregazione S.lvonc.,ove,recitò_una.suaart-?l 2. zio    60 AN zione in lode di quella is’tituzione; ed avendone riportati univerá sali applausi,incominciò pian piano ad incoragirsi,e a deporre quel timore,chel’aveafinallorasorpreso.Quindi trattenendosiunamat tina* nel Collaterale,in cui doveasi trattare la tanto famigerata cau sa tralla succennata congregazione,ei PP.Gesuiri, iquali pretendeano -fondarne altra, ed’ essendo ſtato chiamato dal Vicerè Duca d’Arcos il difensore di essa congregazione, non vi' si trovò per allora. Niu no de’ tanti avvocati della medesima,che vi s1 erano radunati vol le esporsi al cimento, ed il solo noſtro Francesco di anni ar. non già. zz. secondo vuole il Giannone (1) si addossò eſtemporaneamente l’in carico,e parlando colla più sop‘rafflna elo uenza, e sodezza di ra— gione,ancorchè avesse dovuto rintuzzare [avversario Francesco Pra to,che parlato avea in favella Spagnuola’,ne riportò a suo favore siuna compiuta decisione. Queſto dir solea il noſtro autore, esser ſtato un de’ più segnalati punti di sua vita, e il primo passo alla gran fama, che andò dipoi sempreppiù acquistando., Volle il Vicerè crearlo fiscale nella Regia Udienza di Chieti, che vi an ‘dò poiverso lafinedel1646.caricach’e liaccettòmalvolentieri,eche dispiacque e ualmente aglialtriperve ersi allontanato dal foro un giovanedi rffattaesettazione.Egliperòdilàadueannivisireſti tui,'e dopo di ave 1 procacciata della gran vfama nel suo eserci zio insieme‘ con D. Michele-Pignatelli Preside -e governador delle -armióinambedue’le‘provinciedegli'Abruzzi intempi sìmemo rabili di popolari rivoluzioni (z). Seguendo quelle provincie l’esem pio della capitale, quel savio Cavaliere’non trovò più abile Sog getto, che ll giovane'd’ Andrea,onde valersi in fiff‘atte circoſtanf ze a sedare ilfurore dell’insano popolaccio. Tanto nell’eseguire le incombenze del Pignatelli, quanto i nuovi ritrovati da lui, a ben riuscir nell’impresa in vari paesi tumultuati, moſtrò maisem pre una gran saviezza,ed una più che invecchiata prudenza-Chi unque volesse soddisfarsene legga la sua scrittura(ch’ io notcrò nel n. 7.) che conservasi tuttavia *dall’amabile odierno Marchese di Pe scopagano Sig. D. Diego d’Andrea Regio Consigliere di S. Chiara, -e del nuovo Tribunale dell’ Udienza dell’Esercito, Marina,Caſtel lidiquestaCittà,edell’Alcaida‘to,ilqualgentilmenteme lapassò nelle mani, ond’io tratte avessi lesuccennate notizie. Sa (1) Giannone [lor. civil. del Reg”. di Napo!. [ih-38. cap. 54’431. edizd723. (z) E’ norabìle, che tra i rubelli eranvi in Napoli Vincenzo, e Francesco d’Andrea di altra famiglia ignobile,edessendo ſtatocreatodalpopoloCon figlierediS.ChiaraessoFrancesco,mandataindilañnon degliuffiziali s a m dallo flessoinsuriflo popolo, si credette da taluni, ehegil noſtro Fi -scale d' Andrea fosse stato il promosso,- qual equivoco su smentito da esso --Miehele Pignatelli'. O 4. u 1"A N.ci Sarebbe ritornato'in Napoli fin da Luglio 1648. se un ordine della Camera non l’avesse dovuto trattenere sino a Settembre dello ſtesso anno. In qual tempo ripigliò l’esercizio del noſtro foro, e sparse ditanto intalminiſtcroilgrido-disuararacapacitàedeloquenza,ch’ ebbero ad appellarlo ilcomun maeſtro,e il principe degli oratori (r).,Il Conte di Ognatte avendo, dinuovo mandato il Pignatelli nelle ſtesse Provincie, ed avendogli data la facoltà di eliggersi que’ mi niſtri.perUditori,che iù—abilie dotti gli sembrassero, eglisulle rime fe'scelta del no r0 d’Andrea: ma `per quante fossero~ state e preghiere fattegli da quel Cavaliere, non volle avvedutamente interrompere altra volta il corso dell’avvocheria per non essergli, com’ e’disse,nè di utile, nè di decoro. Nell’anno 1656. accaduta in Napoli quella fiera peſtilenza, sotto il governo del Conte di Caſtrillo, cedescrittaci da parecchi noſtri ſto rici (2.), volle il Principe di.Cassano seco condnrlo ne' suoi stati nella Calabria Citeriore. Indi cessato il contagio fatto rrtorno in N a poli, trovò quasichè tutti morti -i professori del noſtro foro. Per la scarsezza adunque di queſti, e più,per la sua 'abilità;'se gli ac crebbe ditanto il numero de’clientoli,che tempo non reſtavaglia riſtora'rsi dalle tante gravi applicazioni,asegno che incomincio ad infaſtidirsidi sua professione, e a contrarre delle varie indisposizio - uelle di,Antonio Gomez,e di Domenico Bracati:il primo inqui q sito di capital delitto, l’altro di menomato. zelo verso del suo So _vrano. L’uomo quanto ‘eradotto, altrettanto ancor fortunato. Egli ebbe a perorarle,laprima aVanti del-Vicerè Cardinal d’Aragona,l’al tra avanti del VisitatorCasati, uom coſtui rigidissimo pe’diritti del suo Sovrano; e nulladim`eno~ne riporto compiute vittorie, ed alla gran gloria,chevenne adacquiſtarsiconsiffatti patrocini,ne,otten ne ancor delle buone' somme, che' a larga mano gli diedero i rei. Circa queſti tempi essendosene` morto Diego suo‘genitore,edavanza te più le sue indispofizroni,risolvette' nel 1669.‘di fare 'un viaggio per la noſtra Italia (3), a ffi n di ricuperare la quasi cadente dlhîi sa.-~ t — ` -î- 11-.... (i) Vedi il dotto Caſtelli adjeéiio”. 'ad Cart-aber” part. l. say-'l, n.34. et 35. Francesco Maradei prati:.` universal. proceflur execufi-vi cap. a. n. 64.1). 64. (z) Vedi il.P. D. Carlo Francesco Riaco:Jil giudizio `di Napoli csi/'sussidi‘ \ ni ed acciacchi sulla propria salute. ñ " f- Le prime cause, che difese dopo il ritorno dalla (Calabria, siiron passato conteggio cet.,ln Perugia [658. in 3. e il.Ragguaglio della mirato losa protezione di S. F rancesco Saverio *ver-fit la Città e il Regno di Napoli ì nelcontagiodel1656.d’incertoautore,ma senzafallo_Gesuita,inNapo— - ii, e in Gratz nel 1660. e di nua-vo Napoli.x743. inps. Parrino teatro de' Vic”) di Napoli t.2. Pag. 191. edi-z: [77_ (3) Vedi il noflro, autore negli avvertimenti a’suot mp0” 5. i. l. O ' '6:- AN lute. Egli girò per lo spazio di anni quattro, e luogo non vi.su j ove giugnesse,ch’ esatti non avesse i piu alti applausi esegni di ri spetto e venerazione. lo tralascio a far parola di que’ favolosi rac conti e del m o d o, 0nd’ egli viaggiato avesse per diverse parti dell’ italia; poichè ſtiam pur nella certezza d’ essersi fatto dappertutto conoscere,e dappertutto ancora esige atteſtatì diſtima ediammi razione. ln var} tribunali a preghiere de’ più grandi del. luogo, eb be a sar sentire la sua eloquenza, e donde partiva lasciava negli animi di tutti segni di affezione. Grandi furono gli onori, ch’ egli esigettc in Firenze (i) e in Perugia, che in occasion di sua par tenza composero i Perugini la seghente raccolta intitolatas Affet ti ossequiosì delle Muse di Perugia nella Partenza del Signor Francesco d’ Andrea Napoletano; In Perugia 1672.. in 4. Nell’ anno 1672.. alle cantinue preghiere de’ suoi illuſtri clientoli, e dello ſtes’s’o Vicerè, come si dice, ebbe a ritornare in vqueſta Ca pitale, e ripigliare per la terza volta l’esercizio del foro. Ella è coſtante tradizione,ch’vogni qualvoltadovea perorare,radunavansi i più dotti di queſta noſtra Metropoli, e con essi gli eſteri anco ra (z). Il celebre Giovanni.Mabillon (3) calato in italia nel 1685. col carattere d’ Inviato del Re di Francia per visitare le noſtre bi blioteche ed -antichità,dice di averlo ascoltato non seme! in Mist fn principîs Satriani magna cum eloquentiae flumine et fulmine Perorantem (4), ancorchè perallora- fosse già di anni 60. Dice Pietro Giannone (5).,,ch’ egli fosse stato il primo a sar risonare il nome di Cujacio,~-e di altri eruditi scrittori nelle sue aringhe. Autorità che' venne abbracciata dal Giannelli (á),e dal Grimaldi (7) avvisandoqueſt’ultimo,`che‘fosseſtato ilprimainn-adattaredelle operedelfamoso'anacio(8);Ma sÎingannaronosull’autoritàdellostes... lb‘7 y.-:l_. (i) Vedi le opere di Franc-,eseqRedi rom. 2. pag. rzt. e rom. 4. pag, 63. (z) Vedi Tommaso- Burner lnglese nel *viaggio d’Italia, l'autore dell’epi/iol. de ”He ín/Zímendfl academ., ad Lam. Prism” Venet. 1709.7. 21. e la vita, che ne scrisse Biagio Majoli A'vitabile impressa nelle ”ire degli Arcadí ì] ~~iilvh to 1- p ' (3) E’ troppo noto nella 'repubblica delle lettere queſto erudítislimo scrittore ~nato ‘in S. Pierremont nella Diocesi di Reims nel 163‘2‘. 'ed _entrato nella Cangregazionej di S. Mauro l’afluò- tanta gloria colle sue opere. Vedi. h Cei-f. biblioteque -hi/Ìarique army”: du.Am/mm' de 'la Congregalìon a': S'.Maw., Ruinart ‘vita Mobil!. ‘ (4) Mabillon im' Ita/ir. p. to;.‘~ - (5) Giannone islar. civil. [ib.;8. cap. 4. ', › ì -ñ ñ (ó) Giannelli editi-azione 'al figlio. Grimaldi isl_aría del/_e leggi {Magi/Ira” del Reg. di Nflp.t.x.p.106. (8) Vedi le notizie:siam/ae degli A m d: mom', tom.- a. p. 14. a z-r.  z” -‘ ñ ó**Lt-ñ.: ax-   LA N 63 so nostro Francesco avendo volutodarsi un talvanto negliavverti mentiassuoiscrivendo:Iofuiil rima,chefecisentirene’no/Ìn" tribunaliil”urnediCujacio,e eglialtrierudiri.Ma chiunque rivolgesse inostri scrittori legali,che gli fioriron d’ innanzi, vi rat troverebbe spesso nelle opere loro i nomi'di tutti quegli autori,che surseroda Andrea Alciati fino algranCuiacio(I).Se questi sivalea— no nc’ loroscrittì delle autorità -di tutti que’ dotti interpreti,parte Italiani,veparteOltramontani,come puòcredersi, cheperorando ne’ tribunali sentir non facessero anche iloro nomi. Questa gloria, chevolledarsiilnostrod’Andrea,nonsapreicomescrbarcela..i Che da’ suoi tempi incominciata fosse.un epoca più felice,per un cet. tomodo introdottodalui.nelloscrivere,eadisputargliarticoli, nongià‘secondoil ocogustode’precedentisecoli,ma iustale regole della ragion civile,e delle nostre municipali leggi,e sì quel vanto che merita assolutamente il nostro autore. La storia e la cri tica,mezzi valevoli a ben intender le leggi, per quanto potè l’in trodusse,-siccome'osserviamovnelle prime allega'zioni‘,ch"e’scrisse, e raccolte poi dal Moccia, e dal Staibano. e ì. - Egli s’impe nò,che.la giurisprudenza s’inse nasse anche con miglior metodo e’ erudizionc nella noſtra Univer lfà.'Si adoprò similmen te, che la cattedra di matematica si occupasse da Tommaso Cor ' nelio gran filosofo e medico’ di quel tempo, ch’egli venir fece da Roma nel1649.,quegliſtessoche*introdussepoitranoilevopere del celebre* Renato des Cartes,e volle-annoverarsi trai primi suoi ascoltatori. F e riſtabilire la.cattedra- di lingua greca con darsi al dot to Gregorio Messeri verso il1687.. come anche indusse Gio. Batiſta Cacace ad insegnare la rettorica, nel tempo -ſtesso ch' egli era pro fessore d’ iſtituzioni -civili,'mancandovi una-tal cattedra nella Uni vcrsità degli ſtud), ch’ indi fu eretta, e conferita ad Antonio Orlan dino. Fece ancor risorgere ñl’accademia degli Oziosi (a),e fu uno de’ fondatori delle accademie degli Oscuri.(3) de’ Razzi (4.), ‘de gl'I/zveſtiganri (5), e venne asgritt’o alla generale adunanza ‘d’Ar.:,..aaca ‘(t) Osserva il mio leggitore le opeíe di Francescantonio d’Adamo, di Vince zo_ Alfani, di Domenico de Rubeis, cet-’per res’tar‘ persuaso- di quel che i è da me afferiro. - '.. v (z) Nell'anno 1611.‘ Gio. Batìſta Manzo Marchese di Villa' iſtitui‘ una tal a c c a d e m i a.‘ Vedi Giulio Cesare Capacciomisura / f i e r e . e d g b be il`suo principio addì 3. Maggio ne’chiolii’i di S. Maria delle Grazie... presso S. Agnello. Vedi Tommaso Coílo memoriale de’succejji del Regno p di Napo/ì, in detto anno, 16”. g‘ (3) Nel M79. su eretta l’accademia degli Oscar!. (4) Nell’ anno ſtesso surseì'quell’ altra accademia sotto nome de’ Razzi. (5) Quella celebre adunanza iſtituìta anche nel 1679. venne protetta da D. - Ao    ~› e cadiacolnomedi'Lariscasafl’o. \* -'- ‘Egli adunque ambiva ‘di riformare il guſto del foro. e della cattedra” e fe de’ sforzi a riuscirci.-Per quanto potè moſtrossi protettore de’ letterati, co’ quali piacevagli molto il conversare. Ebbe dell’ a micizia con Lucanconio Porzio, Luca Tozzi, Cammillo Pelle grino, Carlo Buragna, Grana-alfonso Borrelli, Nicolò Amenta, Giambatiſta Capucci, Daniel'lo Spinola, Michele Gentile e, D o menico Scutari, Pietro Lizzaldi Gesuita, Sebastiano Bartoli, Fran cesco Redi, Antonio Magliabechi, Giammario Crescimbeni, Giu seppe del Pa a, Gabriello Fasano, Tommaso` Cornelio, Lionardo deCapua,e altriassaisiìmi;.moltide’quali,chescrìfferodelleope re, non lasciarono di`fargliquelle dovute lodi-nelle medesime, e parte gliele dedicarono ancora, come il Cornelio l’ opdka de eine, cumpulsione Platania:. ll Crescimbeni colmollo di lodi nella‘ifla ria del a 'volgarpmſta, e il Redi Co’ seguenti versi nel suo Bacco 6.1. AN i”Tosì‘ana:;L- -. ì ñ. ^‘_ E se ben Ciccio d’Andrea l Con amabilefierezza, \.ñ‘. Con terribile doleezàay, -. ‘~ Tra gran mani d’eloquenza Nella propria mia[presenza › _...i` _. Inalzarundi‘*voeva.~9 ñ y-, -..\ - ' Il Conte di. S. Stefano Vicerè di Napoli lo relesse Giudice di Vicaria vverso, il 1688. e‘quì debbo notare un errore in cui sono incòrsi v,..,‘h —tutti AndreaConcubletMarchesed’Arena,dcflinandolapropriasuacasa.Ve di Giannone lib. 40. rap, 5. Lionardo di Capua; parer: ragion. 8. Carlo Suv sauna in Buragnae vita. Lucantonio Porzio in opnseus. de mom graùium,et ` deìorig. semi-nn. Giannalfonso Borrelli nell’ api/i. dedie. al, suo libro da, mazionibu: naturalibus a gra-visure pendentióu:. Gl’iſtirutoti furono T o m m a so Cornelio, Lionardo, di Capua, il nostro d’Andrea, e il dilui germano‘ fratello Gennaro, nat-o addì. 4.‘ AgoſtosideL 1637.-e morto nel 1717c~di an ni 80. da Reggente di Collaterale, e Delegato della giurisdizione. (i)Gimmaelogiaccademicipart.1.nell’elogiodi.PietroEmiliaGuaseo.A sti dell’ ush ed autorità della ragion civile lió. l. tap. l. p. 4L‘infin- Gianno neIibÌ38.mp4... [ib.39.up.1,[ib.40.rap.8.Staibanor.2.resolat.185. Celano `delle notizie del bello, dell’ antico e curia/ò della Città di Napoli, x. 3. giornata V. p. 92. Fabroni 'vitae Ita/or. t. 3. p. 332. Ariani comment., dc chris iuriseonfl Napo!. p. 26. ` Quel (PA-versa acido Asprino, ` ì,~~“ Che nonfl) s’è tigre/70,0 -vina, ’  EinaNapolise!-óea- p ‘ Del superi-bo Fasano in; compagnia cet. nèaltrimentiparecchi-altriscrittori. tutti coloro che ne han fatta parola avvisandosi, che il Re Car lo II.` innalzollo al grado di avvocato fiscale del Real patrimo— nio; qual carica essendogli troppo odiosa, commutar la volle con quella di Consigliere: ma da’libri delle discendenze del S. C. ri levasi, ch’ egli ebbe la commessa delle cause del Consiglier Ste— fano Padilla nel dì zo. Settembre del 1689. e nel 1691. passò avvocato fiscale, e le sue cause furon commesse al Consigliere D. Pietro Messones con decreto die 6. mensir sulii. 1691. Dopo anni 9. in circa di esercizio miniſteriale,ne reſtò talmente annoiato, che rinunciar volle la toga, e cercar un pò d’ ozio filosofico, avendo menata sua vita da circa anni 50. tralle noiose cure del foro, e in una piucchè assidua applicazione. A tal fine si ritirò nella noſtra Mergellina,eproprionelladiluimasseria,checomprossi erdue. zooo. ove fin dal primo giorno assalito dalle frequenti viiredegli amici e clientoli, si avvide ben toſto, che non avrebbe soddisfat to il suo desiderio; quindi se passaggio nell’ Isola‘di Procida, lusin gandosi ch’ivi trovato avesse quel tanto suo bramato intento: ma non gli riuscì nemmeno tal sua risoluzione, frequentata venendo nel modo iſtesio la dilui abitazione da numerosa folla- di litiganti a chiedergli qualche suo savio regolamento, ed inquietato piuc~ che mai veniva dalle visite de’sav) viaggiatori Europei,che calava no nella noſtra dotta Italia per riverire un uomo, la cui fama erasi diggià sparsa per tutto l’orbe letterario.Fu coſtretto perciò por tarsi in Candela terra in Capitanata, ove venne. a morte addì IQ Settembre verso le ore z:. dell’anno 1698- e di sua età settanta treesimo, e mesi,e non già come altri scrissero di anni.7t. Il Vescovo di.Melfi si adoprò nella miglior maniera, onde rendere gli ultimi uffizi alla sua memoriaznè mancò persona,che fatta gli avesseorazion funebre,laquale è ſtata da me lettamanoscritta,e non s0 se fosse ſtata benanche impressa. Il titolo èqueſto: In obi tuDominiFranci/ZideAndreaRegiiConsiliarii,acinRegiaCa mera Fisci Petroni elegiacum carmen,et oratio nabita ab UJ.D. s0.Bapti/Za Patetta. Ora altro non resiami,che dare a’leggitori un elenco delle tante 'sue opere,ed i motivi 0nd’ ebbe a scrivere alcune delle medesime. E’ celebre nelle iſtorie la controversia mossa da’ Franzesi nell’ anno 1666. sopra il Ducato di Brabante, ed altri ſtati della Fiandra contro i Spagnuóli. Per affar sì serio vennegl’impoflo dal Vicerè D. Pietro d’Aragona sul principio del 1667. di scrivere in difesa del lor Sovrano Carlo Il. Egli l’Andrea eseguì bentoſto un tal comando, eaddì2.8. FebbraiodelloAſtess’annoglipresentòunasua dotta scrittura, col titolo: '. 1.Dijkrtatiodesucceffione DucatusBraáantiae.QuaMenditurmul- - Tom!. vI lam 4    66 AN lam Córislianiflîmae Reginae ad ejusdem _Dueatur la ereditata-m spem fieri;per Consuetua'inem illms pravmciae,quaefilias primi Îlori *vom: ad parenti-”n berediratem exclnsir liberi:, quam-ui: mn/?ulisorti;exsZ-Cimdo;quodea,tanquani rivarorumci-vinm propria, ni/Îil commune habent, eum sucçe zone_ Publica tori”: Principal”. Volle intanto il Vicerè, che m dllUl presenza sotto scritta l’avesse, affinchè sr'egiata del suo nome, impoſta avesse in Europa una più alta e maggiore autorità,e così manoscritta inviol la in [spagna. Ella non su mandata a ſtampa per non dar nuovo motivo a’ Franzesi di dire, che i noſtri fossero ſtati iprimi a pro vocar li al cimento, non avendo pubblicata alcuna delle scritture, ch’ in i in poi produsse-ro. M a nel mese di Maggio, come siebbe avviso,che il ñRe Criſtianiſtimo era giunto co’ suoi eserciti nelle frontiere della Fiandra, e che n"el medesimo tempo avea fatto pub blicare di suo ordine una scrittura inlingua spa nuolasi), coi tito tolo: Traffado delos Deree/ms de la Reyna C riflianiflimn fi)er *vario: E/Zador dela Monarquia de Españ'a; toſtochè l’ebbe nelle mani ilVicerè D. Pietrantonio d’Aragona l’inviò alnoſtro autore con ordine di rispondervi,nel mentre ilRedi Francia entratone’ paesi bassi avea incominciato ad usarvi tutti gli atti della ostilità. L’ Andrea vi fece la desiderata ris`poſta,e su una delle più celebri scritture, che vedute si fossero in tal occasione. Eccone il titolo: z. Ri/jdo/Za al trattato delle ragioni della Regina Cbri/liani/Iìma/b pra il Ducato del Brabante, con altri fiati della Fiandra, nella qualesidimoslral'ingin/lizia dellaguerra mossa dalRe diFran cia Per la conquisha di quelle Provincie; non o/lanti le ragioni, eee _fifim pubblicateinsitonome,PerlaPretesasueeeflioneafavor della Regina Cbri/lianijsima. In Napoli Anno 166'”;- infl Fu ripro dotta con un nuovo discorso, ed alcune lettere' nel 1676. in4. Nel mentre che ilnoser d’Andrea ſtava mandando a ſtampa lasur riserita rispoſta,comparve altra conftttazione alla ſtessa scrittura de’ Franzesi,scritta da un dotto miniſtro in franzese, ed essendone ve nuta una sola c0 ia in queſta Capitale, su da un eruditissimo mi. niſtro volta in lingua Spagnuola, e mandata di nuovo a ſtampa, e finalmente tradotta in italiano. Intanto un certo Aubery avvo— cato della Corte del Parlamento di Parigi diede fuori un libro: Des _ju/les Pretentions du Roi sur l’Empire.Paris 1667. a cui si dice dal Giannone (2.),che l’Andrea data-vi aVesse altrarispoáia, —e (I) Vedi l'informazione al ieggitore di esso d'Andrea 'impressa nella risposla al` trattato delle ragioni cet. Giannone ci!. [ib. 39. cap. i. (a) Vedi Giannone lio. 39. cap. i.    As N 67 e'd impressa nello ſtesso anno 1667. in 4. (I).. x 3- Disputatio a” flames influida no/Zri Regnisucco-dan!, eum frati-i deeedenti non sunt eonjum‘îi ex eo latere, ande ea oàvenerunt. A d intelleéium Con/lirationis Regni m‘ de [iiceeflionibus, de sue cessionenobilium.Neap.apudParrinum,etMarian-11694.in Ei la è ſtata riſtampata molte volte.Nel 1717. ex typogr. Simoni/ma; e nel 1769. Avendo in queſta dilui opera consutato Andrea d’lfier nia, videli dopo la sua morte un certo Dottor Gio. Bernardino Manieri dar fuori propugnaeulnm Winiense, come nei dicoſtui ar ticolo t'ratterò più a lungo.. 4. In un opera del Cardinal de Luca (z)trovasi una sua scrittura:sii per sèererariorum APO/Zolieorum /uPPreflione.. 5. Consultariones in muffa sanno”. Majoratus s0. BaPti/Zae. Tro— vansi presso Gio.Torre (3). ì ó.RejÌmnsajm‘is’flipersuceeffionesaltata-ia,etquando babe”;la cum, neene. Si hanno presso lo stesso Torre (4). 7. Relazione de’jèr-vizj fatti nel tempo., ea’e/ercitö il Po/Zo di avvocatofi/ealenella rovineiadiAbbruzzeCitra,eParticolar mente di tutto ciò‘, e e da lui si operò in ser-vizio di LM. menz tre din-arena le rivoluzioni Popolari; cominciate in Napoli nel di 7.diLuglio 1647.ete/Zinteneldi‘6.diAprile164.8.in Le altre sue opere rimaſte inedite,sono: Varie lezioni intorno allafilosofia dellescuole, e del moderno gu flo introdotto nell’arte difilosofare.Furonrecitaredaluinell’ac cademia degli Oziosi, e quantunque i suoi. sentimenti sembrassero flrani per allora, furon dipoi abbracciati e 'coltivati, Trattato degli atomi con varie lezioni filosofiche. Voiqarizzamento dell’erica d’Ari/Zotile. ‘ ' Difesa della filo/olio di Leonardo di Capa/t, contro l’Aletino indi— rizza/z al Principe di Feroleto. Queſt’ opera, ch’ avrebbefi dovuta mettere a luce, giacchè in essa l’autore fe pompa dei suo sapere, e varie furono le inchieſte de’letterati, non so perchè trascurato lo avessero i suoi eredi. Infatti il nofiro dotto Nicolò Amenta (5) scrisse:non ba gnam', consomma mio piacere, e con profitiarne ‘ non (1) Alle altre scritture de’ Franzesi, non vi mancarono ‘altri dottíopposirori, che leggersi possono nel Diario Europeo rom.XV. X V L e XVIII. e men tovate vengono dall’erudito Struvio Syntagm. [Ji/Zar.Germ. dafl'ertat.” S.” (7.)De Lucatraéi.deoffieiis.Romae1682. ' ñ. (3) Jo. Torre traff. de susiefliom in Majoraxibmflet. Lugduni Ani/fln 1688.1.: (4)*Idem ma‘.deprimogenitìs Italia: eap.39.5.7.e9.ct”11.40.5.6.Lugdu- l m › (5) Amenta nella Vita dì Lianarda di Caploa pag-.54. `  53 AN non poco, ho letto, e riletto: nè jb perchè il dilui fratello,il Tagguarde'vole per tanti capi, Regçente del Collateral Consiglia, Gennaro d’Andrea,non l’/7a fatto Pubblicare Per 'via delle [Zam pe, quantunque ne [/rabbia i0fatto pregare. In tretomi in foglio ella conservavasi nella celebre libreria diGiuseppe Valletta (1). ln un de’ Codici Magliabechiani in Firenze (z) evvi una lettera- di esso Francesco de’ 2.3. Agosio 1685. con cui gli chiede notizia di var) libri, che consultar dovea per tal suo lavoro. Disror/b della nobil famiglia della Marra.,. Discor/n sopra la /uc‘reflirme di?pagna in morte quando filC-'Có’dsldel ReCarloII.d'Au/lriagia}disperatod'a-verprole.Lo scrissestan— do in Candela colla data’ del di 15. Aprile 1608. Zisa/jime, ojjiano avvertimenti a’suoi nipoti, D. Gia. e D. Andrea, per farlor divvisare,eneasoslenerelacasanellagrandezza,in cuiegli,eilReqqentesuofratellol’a'vean Palla,unicomezzo era l’avvor/;eria. Quelli avvertimenti, ch‘ egli scrisse nell’ età di an ni 71. non sono ſtati impressi per aver incontrato l’oſtacolo di alcuni personaggi, ch’ebbero a scorno il sar vedere la di loro ori gine da qualche professore del noſtro soro. Son tante però le copie a penna siſtentino in queſto nostro Regno, e fuori, ch’ è riuscito vano il loro impegno. Si vuole ch’ egli avesse compilata quella s’toria di alcune famiglie no bili del nosiro Regno, che altri però attribuiscono al Presidente Gaetano Argento.Ma imoderni noslri critici la vogliono a ragion tuttagdi esso d’ Andrea ’scorgendovi in essa un metodo tutto suo proprio, poichè l’Arge’nto quanto dotto, altrettanto un pò scarso nell’ordine delle scritture. Lasciò finalmente più volumi di allegazioni, come dice ne’ suoi avi vertimenti, mapochediqueſte sonoſtate conservatedaalcuniscrit t-ori,ed inseritenellediloroopere,come dalStaibano,Silva,Ma radei, e Sorge (3). ANELLO (Gabriella) mandò'a ſtampa: De judieiornm civiliflm ordineadNeapolisTribunaliumnormam,necnonpro-w'nriarum, [cz-,Fumane,qua e: Curiarum infimarum Regni aélitandi i” aligui Imc minima 'varietas, advertitur,Pro Clerieorum PraHicorum in ÌBÌÌÌQEÌIti”,6tF.P.juvemsisusa, con/*cripta:bre-w,Foggiaeſtu dio/ae ju'UC’ÎIH-ls'l dieatus. Anno 1-780. in 8. ANGELIS (Baldaffarre de) dicesi giureconsulto Napoletano‘, edeb be a nascere nella decadenza del secolo XVI. come rilevafi dal ''.. le (l) Vedi i giornali rie’letterati Venez. t. 24. pag. 89. (z) Sognare Vlsl. Francesco d'Andrea cet. 133. (3) Smge in'sua pale/ira iuris t.z. allega:.7.   Parlando del DiCapua,ilVolubile,aiprincipiidel1683, dice che vent'anni prima a Napoli era fiorita l'Accademia degli Investiganti; un semplice calcolo ci riporta adunque all'anno 1663. Le parole del Volubile sono anche confermate, nello stesso luogo,da Cesare di Capua (73). Io credo,adunque, di non errare affermando che questa Accademia fu fondata nel 1663 e che il Buragna fu tra i fondatori principali, pur non potendo, però, frequentarla a lungo, perchè alla fine di quello stesso anno dovette allontanarsi col padre da Napoli. E, del resto, l'Accademia non fa che dar nome e sede ad una associazione di uomini già uniti da anni in un'intima comunanzadistudi, diintelletti,diaspirazioni.Andrea Con cublet, uomo amante degli studi e delle dotte compagnie, è il fondatore, dirò, materiale dell'Accademia, a cui assicurò (72) Non premessa al Parere dello stesso, come da alcuni fu scritto, per la già notata confusione fra le opere del Di Capua. Cfr. le n.6 e 61 di questo capitolo. (73) Nelle citate Lezioni la lettera del Volubile è preceduta da una prefazione di Cesare di Capua, che ci informa essere state queste Lezioni del padre suo, ancor vivente in quel tempo, recitate appunto nelle riunioni degli Investiganti; e anche il Di Capua, scrivendo nello stesso 1683, parla della Accademia come di cosa anteriore di venti anni. Non vi può esser quindi dubbio.  -76 V   la vita con la sua munificenza é la sede col suo palazzo; ma,virtualmente,l'Accademia esisteva già(74). Fra gli Investiganti, col Di Capua, col Cornelio, col Buragna, col Borelli, coi fratelli D'Andrea, troviamo G. B. Capucci, Camillo Pellegrino (75), il dotto vescovo Giovanni Caramuele, Sebastiano Bartoli, L. A. Porzio e qualche altro. Dal Volubile sappiamo che l'Accademia aveva per impresa un cane bracco col motto lucreziano: « Vestigia lustrat »; motto e impresa che ben rendono, insieme col titolo, la fi sonomia, gli scopi, gli ideali degli Investiganti. E, invero, gli Investiganti non vanno confusi con gli Addormentati, gli Insensati, con tutte quelle migliaia di in coscienti perditempo che avevano formate le tante Accademie di quel secolo. L'Accademia degli Investiganti si collega direttamente a quella del Cimento, fondata sette anni prima a Firenze, e ne trapianta a Napoli l'opera e le idee; essa, attraverso il Borelli e il Cornelio, mette capo a Galileo. Il Susanna stesso ci dice che il titolo era stato scelto appunto ad indicare come gli Investiganti si proponessero di percorrere le nuove vie scientifiche e filosofiche, procedendo con la ri cerca e l'esperimento, simboleggiati nel cane bracco e nel motto. In mezzo ai cultori della scolastica e della casistica, (74) Anima degli Investiganti, anche per la sua grande attività, fu Leonardo di Capua; non è però esatto dire, come il CARINI, (op. luog. cit.), che l'Accademia fu fondata dal Di Capua; i contemporanei riconoscono, concordi, nel Concublet il fondatore, tanto è vero che, scomparso lui, l'Accademia morì. Così erra l'ORIGLIA, nell'op. cit., vol. II, p. 89 affer mando che il Vicerè Oñate favori l'Accademia degli Investiganti, perchè, come abbiamo veduto, il viceregno dell'Oñate durò sino al 1653 e gli Investiganti si costituirono in Accademia dieci anni dopo. Secondo il D'AFFLITTO, uno dei principali fondatori del l'Accademia fu F. D’Andrea. Questo illustre storico che nell'Apparato delle antichità di Capua iniziò la via, che poi il Muratori percorse con passo gigantesco, morì nel 1663;percuil'essereilsuonon fraquellidegliInvestiganti,èuna nuova confermadiquantofu,piùsopra,stabilito:checioèl'Accademia era già costituita nel 1663,   - 78 che ancora abbondavano a Napoli, gli Investiganti sorgevano a rappresentare nuove idee, nuove cose e nuovi tempi; ed è perciò che è una gloria pel Nostro l'esserne stato uno dei fondatori, mentre, nello stesso tempo, è documento della sua grande cultura scientifica e della modernità del suo in telletto. (76) Dell'influsso esercitato dagli Investiganti contro il vaneggiare della grande turba dei poetastri seguaci del Marino, abbiamo, fra le altre, una prova nelle parole dell'abate DE ANGELIS, contemporaneo, nella citata Vita di Antonio Caraccio, luog. cit., p. I, p. 145. Scrive il De Angelis: « In poco conto erano in quel tempo per tutto il regno di Napoli.... la vaghezza e la purità dello scrivere italiano.... tenute. Per lo contrario erano intesi i componimenti di coloro che dal proprio sregolato capriccio e r a n d e t t a t i, c o n improprie metafor e.... e c c. ». Aggiunge poi che il Caraccio si tolse da questa cattiva schiera di poeti per i consigli e gli esempi degli Accademici Investijanti «uomini per universale consentimento an noverati tra i maggiori e più ce'ebri letterati dell'età presente e della passata»;efraimaggioridi siannoverailNostro.InfattiL’Imperio vendicato del Caraccio non si può dire, in generale, infetto di cattivo gusto secentistico, al contrario di altri scritti anteriori dello stesso poeta.  Senonchè il Cornelio, il Di Capua e il Buragna erano, oltre che scienziati e filosofi, uomini di lettere e gli ultimi due, insieme con qualche altro, anche poeti. E come nelle scienze, così nelle lettere, gli Investiganti rappresentano un profondo distacco da tutto ciò che è comune, anzi volgare; essi, voltando le spalle al marinismo, proclamano la necessità di una nuova poesia più conforme al buon gusto e alle patrie tradizioni poetiche. Fra gli Investiganti non c'è nessun m a rinista; essi ritornano al Petrarca e lo spogliano degli ele menti secentistici che vi s'eran sovrapposti e intorno eserci tano un influsso salutare, che fu da parecchi, della genera zione che sorgeva, sentito (76). E poichè il Di Capua, in questo tempo,aveva per sempre abbandonate le muse,dob biamo ritenere che il Nostro, il maggior poeta fra gli Inve stiganti, in questa Accademia, in cui portò un contributo notevole di profondi studi scientifici, abbia esercitato un   preponderante influsso letterario, che corrisponde a quello esercitato dallo Schettini nell'Accademia Cosentina (77). Il nome del Nostro si lega, dunque, a tutta una rivo luzione intellettuale, che abbraccia la scienza, la filosofia, la letteratura, e che certo deve essere meglio studiata e valu tata. Se avessimo le opere scientifiche e filosofiche del B u ragna, potremmo considerare tutti e tre i lati del prisma; ma non abbiamo che alcuni dei suoi versi,iquali però ba stano a dlarci testimonianza delle idealità poetiche di questa Accademia,della quale sono ifrutti migliori. Ma ci riman gono altri scritti scientifici, come quelli del Di Capua, già citati, e, con nuove ricerche, sarà possibile collocare gli I n vestiganti nell'importante posto che loro spetta, fra gli acca demici di questo secolo. Quanto durò l'Accademia ! Per meglio fissare alcune circostanze della vita del Buragna, dobbiamo cercare di ri spondere a questa domanda, almeno approssimativamente. Il Susanna scrive che la vita di questa Accademia fu breve (78) (77) Nell'esaminare le rime del Buragna, meglio vedremo delinearsi questa verità. In fondo gli Investiganti sono precursori dell'Arcadia, tanto è vero, che fra essi colui che più visse, il Di Capua, fu poi Arcade. Ma ognuno sa che vi furono due Arcadie e che la prima aveva in sè ideali poetici nobilissimi. (78) Come al solito, le vaghe espressioni del Susanna sono malfide per stabilire una cronologia con sufficiente esattezza. Egli ci spiega come il Nostro, anche durante la sua dimora a Lecce, e cioè, come fu già detto, dal 1663 al 1667, potesse continuare a prender parto ai lavori degli In vestiganti, tuttochè lontano da Napoli; infatti ora permesso di inviare per iscritto le proprie idee sciontifiche e filosofiche. Dice il Susanna, (e cito il brano perchè getta un po' di luce sui procedimenti di questa A c cademia ): «Licebat absentibus, ex Academiae institutis, sua mittere de Philosophicis rebus cogitata, quae recitarentur in congressu et per expo rimenta ad veritatis expenderentur trutinam. Moris quippe erat altera hebdomadae die ibi dicere quae quisque sentiret; altera, voro, insequentis heb d o m a d a e experimentis dicta exercer e ». Susanna. Il metodo rispondeva agli scopi, ma vi era il difetto, comune a tante Accademie, anche gloriose, di voler creare una discussione che era fine a sè stessa e di cui, spesso, non v'era bisogno.  -79   e ciò ripetono coloro che ho citato; anzi il Caravelli (79), in un accenno, scrive: « Disgraziatamente la coraggiosa ed importante Accademia morì quasi sul nascere ». D'altra parte lo stesso Susanna viene a parlare dell'Accademia soltanto a proposito del ritorno del Nostro da Lecce, dicendo che egli fu accolto dai soci festosamente e prese parte alle riunioni degli Investiganti,cheperò, dopononmolto,cessarono.E così altri contemporanei, pur notando la breve esistenza dell'Acca demia, non ci parlano di una vita addirittura effimera; anche l'opera esplicata dagli Investiganti presuppone una certa d u rata della società. E se il Nostro prese parte ai convegni in casa del Concublet, dopo il 1667, e cioè dopo essersi defini tivamente stabilito a Napoli, e se, d'altra parte, l'Accademia non ebbe lunga vita, la fine degli Investiganti dovrà cadere. Ma io credo che l'Accademia abbia continuato a vivere fino a quest'ultimo anno; me ne foruisce una prova abbastanza convincente la valutazione delle cause per cui l'Accademia stessa finì. Il Susanna scrive che ciò avvenne per essere Andrea Concublet venuto a mancare (80); e così, su per giù, gli altri (81). Ora, tenendo legittimamente per sicure le notizie dei contemporanei, noi sappiamo che nel 1670 il Concublet era ancora nell'Italia meridionale; in fatti appunto in questo anno G. Alfonso Borelli stampava (CARAVELLI, op. luog. cit., p. 178. (8 0 ) Però, (ed appare anche dalle parole del Volubile ), si tratta d i partenza e non di morte del Concublet, come credette il CARINI, nell'op. cit., p. 523. Il Volubile non ci dà alcuna notizia sulla durata dell'Ac cademia. (81) Qualcuno accenna ad ostilità dei Vicerè verso gli Investiganti; e, anzi, il CARAVELLI, al medesimo luogo dell'op. cit., fa terminare l'esi stenza dell'Accademia per soppressione ordinata dal governo. « Fosse, scrive, invidia o sospetto, o innato spirito del male, la dottissima e tran quilla adunanza fu messa in mala voce e, dopo qualche scissura e qualche atto violento, ne fu ordinata la soppressione dall'imbestialito governo vi ceregnale ». Senonchè, per vero dire, e non per tenerezza verso l'infausto governo dei Viceré, questa notizia non risulta da alcun documento deltempo,  80   Intalmodo ilBuragna accresce valasuadottrinaelasua fama, ma s'avvicinava rapidamente per lui anche il momento dirinnovareildolore,giàprovatodiecianniprima;ildo lore di staccarsi ancora da tutta quella operosa vita di pen siero, da tutte le più care abitudini intellettuali e le più n o bili amicizie, per ricominciare il pellegrinaggio nella provincia. L'ora della giustizia era scoccata per Giovan Battista Buragna, dopo lunghi dolori. Per quanto fitta fosse la tela di calunnie, di cui parla il Susanna, per quanto i Vicerè. È l'opera: De motionibus naturalibus a gravitate pendentibus. Reggio 1670, non del tutto ignota agli studiosi. L'Accademia ci fornisce ancora una prova della impossibilità che il Buragna sia rimasto a Cosenza sino al 1665. (Cfr. la nota 48 di questo capitolo). L'Accademia verrebbe a protrarre la sua vita oltre i limiti cho le notizie del Volubile e del Di Capua consentono.  -una sua opera scientifica (82), dedicandola al Concublet, parlando, anzi, nella dedica, degli Investiganti e della impor tante opera loro; ed è troppo noto il significato di queste dediche a mecenati intelligenti e generosi, perchè debba di lungarmi a dimostrare che ciò prova la presenza dello stesso Concublet a Napoli. Non si può, quindi, di molto errare fissando dal 1663 al 1670 la durata di questa Accademia, che racchiuse la più eletta. Francesco D’Andrea. Andrea. Keywords: investiganti, salotto degl’investiganti, villa Iambrenghi, Candela, investigare, vestigio, motto: investigare, sequere, segno – segno, di sequere, non sequitur, sequitur, il cane, che tipo di cane e il meglio investigante – l’atomismo – vestigio, Boezio, vestigio, segno, nota – latinismo, Cicerone su vestigio, nota, segno, notificare, segnare, segnificare, significare, vestigare, investigare, interpretare il segno, seguere il segno, segno non sequitur, segno e consequenza, sequenza logica, segno e sequenza, etimologia di ‘vestigare’ – cfr. tedesco ‘steigen,’ anglo-sassone stagan, greco stechos --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Andrea” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Andria – filosofia italiana – Luigi Speranza (Massafra). Filosofo italiano. Grice: “I like Andria; of course he brings more problems than solutions but that’s philosophy even if his philosophical credentials are obscure! “He did write a philosophical chemistry and a philosophical agriculture, but that’s because at Naples there were only two faculties: law and philosophy – he also wrote a ‘medicina filosofica’ – Grice: “Andria’s theory of life – as he calls it – osservazione generalie sulla teoria della vita’ – owes a lot to Aldini and Haller--  Mainly he elaborates and refines Haller, if you believe it – it’s all Italian to me, so it’s eccitbabilita, sensibilita, ed irritabilita. “Andria goes on to define this eccitabilita in terms of the ‘fluido elettrico’ con ‘sende nel cervello e nei nervi’ – which galvanism smacks of Aldini. Grice: “Andria classifies ‘vita vegetale’ o delle piante, and ‘vita animale’ – Note that ‘social life’ is understood by ‘eucarioti’ of higher order, in terms of reproduction (of life – hence re-productum). A fronte de' profondi misteri dell'immensa, ed eterna meccanica, colla quale l’Autor del tutto à voluto che sian le cose disposte ed ordinate, la forza dell'umano intendimen to si trova per l'ordinario talmente oppressa dalla propria picciolezza ed imbecillità, che o totalmente impossibile le riesce di penetrarvi dentro, o appena l'è concesso di conoscerne le più esterne apparenze; o pur finalmente, sembrandole di esser riuscita nel suo disegno, realmente non fa altro, che delirare e perdersi dietro la brevità e l'inezia delle sue idee.»  (N. Andria, Osservazioni generali sulla teoria della vita, 1804).Tre anni dopo la sua morte il suo nome apparve nella Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli il suo primo profilo bio-bibliografico Gennaro Terracina. Studiò nella città partenopea giurisprudenza, pubblicando nel 1769 un Discorso politico sulla servitù. Decise, poi, di proseguire i suoi studi applicandosi alla medicina. Allievo di Domenico Cotugno e Giuseppe Vairo, a soli 23 anni aprì a Napoli una scuola privata; a 27 concorse con il Cirillo per l'ottenimento della cattedra di medicina pratica, poi conferita a quest'ultimo.  La sua attività di cattedratico, svoltasi tra Sette e Ottocento, nel contesto di un particolare periodo storico, fu principalmente di ricerca e didattica presso l'Università Regia degli Studi di Napoli, dove ricoprì vari insegnamenti dalla storia naturale, alla medicina teoretica e pratica, all'agricoltura.  Pubblicò diverse opere ad uso degli studenti di medicina ed apprezzate altresì in varie parti d'Europa.  Nel 1808 Nicola Andria prese a dettare lezioni di medicina teoretica; di patologia e di nosologia. Malato ed ormai cieco, fu congedato agli inizi del 1814, insignito del titolo di cavaliere da Gioacchino Murat (cognato di Napoleone), e il 9 dicembre morì di tifo a Napoli, dove fu seppellito nella chiesa di Santa Sofia, insieme al collega Antonio Sementini.  Nicola Andria ha subìto per più di un secolo una "congiura filosofica" perché medico e perché di Massafra, da cui gli epiteti spesso riferiti, nei pochi profili apparsi, alle sue origini provinciali; tuttavia, egli fu decano a Napoli ed ebbe amicizia e consuetudine epistolare con i nomi più noti ed importanti del panorama scientifico europeo dell'epoca. Non esistono studi sull'autore, eccezion fatta per alcuni contributi arenatisi agli anni ottanta del secolo scorso. Nicola Andria fu socio fondatore e membro del Real Istituto d'Incoraggiamento e del Comitato Centrale di Vaccinazione, oltreché di molte altre Accademie italiane ed estere. A Massafra, città natale del medico filosofo, com'egli stesso si definisce, portano il suo nome ben tre vie (Via Niccolò [sic] Andria, Lungovalle Niccolò [sic] Andria e Vico Casa di Niccolò [sic] Andria) e una Scuola Media.  Il 10 settembre 1997, in occasione del 250esimo anniversario della nascita, a Massafra è stato fatto un annullo filantelico speciale e una cartolina commemorativa.  Pensiero «Non vi è una materia in Natura che abbia per sua qualità intrinseca la vita, e meriti perciò di esser chiamata vivente. Né la vita è un fenomeno semplice, che a una sola materia appartenga, e nasca da una sola forza. Molte son le materie, e queste fra loro diversissime, che concorrono alla formazione di una macchina, in cui la vita risiede, le quali materie intanto, trovandosi separate, niuna vita producono»  (N. Andria, Osservazioni generali sulla teoria della vita, 1804) Il contesto storico in cui Andria vive fa da “cerniera” ai due secoli più importanti della storia della scienza e della civiltà: il Settecento e l'Ottocento hanno “gestato” l'umanità contemporanea, provocato le guerre e portato l'uomo sulla Luna.  Andria vive a Napoli, per certi versi quasi “fulcro” e “convoglio” delle principali idee e scoperte dell'epoca; la sua particolare sensibilità di scienziato di formazione filosofica lo porta ad assorbirne il carattere rivoluzionario e ad “anticipare” i tempi. La sua condizione di provinciale in-urbato, tuttavia, lo “veste” di una semplicità ed umiltà di cuore, la quale si esprime nelle lodi del creato e dell'uomo, «congegni perfettissimi» di straordinaria bellezza.  Oggi, questo significa “ri-orientare” la ricerca scientifica verso un fine che non sia l'“utile” economico (politico, militare), ma ricerca del vero e del bello nella tutela e nella salvaguardia di tutta l'umanità.  Dagli anni cinquanta dell'Ottocento la circolazione delle idee andriane (di “freno vitalistico” al meccanicismo più sterile) si arena sulla sponda di un “nuovo lido”: quel meccanicismo biologico che dell'anima e del pensiero ha fatto solo un aggregato chimico di molecole. L'eco dell'appello di Nicola Andria, così instancabilmente perpetrato, in ricerca come in didattica, si perde; si perde alle soglie di una svolta importante, la stessa che avrebbe prodotto la Grande Guerra, il delirio dei nazionalismi, la credenza che debba sopravvivere il più abominevole degli uomini, dove “fortezza” vale essenzialmente in-umanità, dis-umanità, non-umanità.  «Il filosofo [...] in tutto questo giro di cose, ravvisando le tracce della sapienza infinita di un Dio, è obbligato ad esclamare: quanto ammirabili, o Signore, sono le opere tue!»  (B. Vulpes, in N. Andria, Elementi di Chimica Filosofica). Opere: “Discorso politico sulla servitù” (Napoli, Campo); “Piano di un corso di chimica pratica” (Napoli); “Trattato delle acque minerali” (Napoli: Manfredi); “Lettera sull'aria fissa” (Napoli);  “Elementi di chimica filosofica” (Napoli: Manfredi) -- Delle forze e delle materie di cui si occupa la chimica -- Del fuoco, sti che nederivano --- Delle principali combinazioni dell’ossigeno ede'composti chene risultano -- INTRODUZIONE alla Chimica – Dell’unione delle altre materie fi. nora non iscomposte, e de’ corpi,che quindisene otten -- Della cristallizzazione -- ne,edellasublimazione -- Della fusione. X zir X piùsolidi basamenti del globo terraqueo, che indi ne sorgono -- Dell'ossigenazione, & quindi della combustione e dell'atmosfera terrestre.-- Della congiunzionedelleterre,ede? --  Della soluzione. --- Degl’altri generi di combinazioni – Dell’operazioni chimiche -- Della distillazione, dell'evaporazio -- Della fermentazione, e della putrefazion. “Elementi di Fisiologia, Napoli, V. Manfredi); “Materia Medica” (Napoli, V. Manfredi, “Elementi di Medicina Teoretica” Napoli, V. Manfredi); “Istituzioni di Medicina Pratica, Napoli, V. Mandredi); “Prospetto generale dell'istituzione di agricoltura”; “Osservazioni generali sulla teoria della vita, Napoli, V. Manfredi); “Riflessioni su di un caso singolarissimo di gravidanza fuori dell'utero”; “Elementi di Medicina”. A partire da V. Cuoco, vari studi sono stati editi a proposito della Rivoluzione napoletana del 1799, la quale diede vita alla Repubblica partenopea, preparata dal triennio giacobino sin dal 1796.  Per l'internazionalità del suo pensiero si vedano gli studi di M. A. Duca in Il pensiero scientifico di Nicola Andria, Massafra, A. Dellisanti,,  95-9  Melania Anna Duca, Il pensiero scientifico di Nicola Andria, Antonio Dellisanti Editore, Massafra  Melania Anna Duca, Nicola Andria: Epistolario (1775-1794). Lettere a Canterzani, Haller e Spallanzani, Antonio Dellisanti Editore, Massafra. Melania Anna Duca, Nicola Andria et les origines de la psychiatrie moderne. Une contribution historiographique, in «Psychofenia», n. 23,  Melania Anna Duca, Troubles de l'alimentation, hypocondrie et mesmérisme en Nicola Andria, in «Psychofenia», n. 24,  Altri progetti Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Niccolò Andria  Sito dedicato al medico e filosofo Nicola Andria, su nicolaandria. 21 ottobre  15 maggio ). Felice Mondella, «ANDRIA (D'Andria), Nicola», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 3, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1961. iFilosofi italiani del XVIII secoloFilosofi italiani Professore Massafra Napoli. Francesco Nicola Maria Andria. Andria. Uno de' fenomeni piùs orprendenti, che nell'immensa università delle cose continuamente si ammiran, è senza dubbio la vita, o sia quel l'assortimento di circostanze particolari che à luogo negli esseri organizzati, e che decide del la loro individuale esistenza. La qual cosa fa, che riesca un tal fenomeno per noi anche il più importante, non solo per l'interesse che la no stra curiosità ne prende, come di un affare che tanto da vicino ci riguarda, ed è tutto nostro privativô;ma dippiùperl'impegno,incuina turalmente ci dee mettere,di ravvisarne le prin cipali molle, ed i mezzi percið di farlo corre re alla lunga, e con passi meno stentati è più sicuri. Disgraziatamente però è accaduto per conto della vita quello che à soluto sempre avvenire trattandosi de'gran fenoineni della natura,tutte le volte che si è dall'uomo concepito l' ardito disegno di rischiararli, o d'interpetrarli in qua lunque modo. A fronte de profondi misteri del l'immmensa ed eterna meccanica, colla quale  a2 l'Au. / 582663   |Autordeltuto à volutoche sian le cose di sposte ed ordinate, la forza dell'umano intendi mento si trova per l'ordinario talmente oppres sa dalla propria picciolezza ed imbecillità,che o totaliñente impossibile 'le riesce di penetrarvi dentro tutto si è abbandonato all' osservazione ed all'indagamento de solifatti. Col favore di un metodo cosi servile, che è pur.quello di cui la Natura si compiace, è permesso alle volte di giugnere allo scuoprimento di qualche picciola. edisolataverità,laqualeincanto senzal'aju. to di altre innumerevoli, all' intendimento u m a notuttaviaignoteenascoste sarà. tana dal render piena e perfetta ogni nostra cox poscenza. Nelle cose qui da noi rammentate; e che da ogni uomo anche di niuna esperienza son fa cilmente ammesse econosciute,sembra esser con tenuta la ragione, perchè nella cognizione del,  appena fes 4 1% è concesso di conoscerne le più esterne apparenze; o pur finalmente j sem brandole di esser riuscita nel suo disegno, real. mente non fa altro,che deliraré e perdersi die tro la brevità e l'inezia delle sue idee.Se qual che volta diversamente è avvenuto; è stato appunto, quando diffidando l'uomo di sèmedesi sempre lon   dine  Ma pur bisognerà convenire,che fra le dif ficoltà, onde1'umana ragione trovasicontinuar mente inceppata,ed in mezzo delle tenebre,che l' avvolgono e rendono i passi suoi sempre vam cillanti ed inceni,qualche verità di primo or 5 fenomeno della vitatanto picciolo avvanzamena to si sia finora fatto, quanto ognun sa; non ostante l'importanza del medesimo, e la forza colla quale, come si è già osservato, à dovuto richiamar sempre a sè l'attenzione e l'indagine umana. Ne fanno testimonianza le tante cose, che in tutte l'epoche della Medicina se ne sono dette ed.i tanti sistemi che se ne sono imma ginati.Iquali,adireilvero altroapparato per lopiùnonanno chediunapesanteerus dizione,quella cioè che ordinariamente pud tro varsi nella storia delle idee e de'pensierialtrui, ricavati non dalla natura,ma dal fondo di un'im maginazione,spesse fiatę riscaldata,e mal pre venuta. E se ammirazione qualche võlta pare che tai sistemi si abbian conciliato, cid solo va inteso per parte di coloro, che senza conoscer l'arte ben difficile di saper non sapere, e privi perciò di ogni criterio, tutto ammettono ed in gojano,contenti della sola apparenza, o di qual che picciolo inal concertato artifizio.   dine alle volte si rinviene,che una facile e ge sterale osservazione fa saltare agli occhi della maggior parte,o che gratuitamente si trova dal la Provvidenza accordata per intrinseco ed essen ziale appannaggio dell'umano intendimento.In una tal rubrica dee principalmente quell'assioma registrarsi di logica universale, in cui è stabili to secondolediverseinnumerevoli circostan. ze,che possono aver luogo nella grande,e nel laminuta esempreugualmentesorprendente meccanica della Natura. Ne inutile sarà ora di osservare,che una tal cosa sembra trovarsi prin cipalmente verificata nel gran fenomeno della vi ta, ove gli Uomini fin dal principio an dovuto conoscere ed ammettere una forza,che unicamen te ne decide.Del che ne abbiamo un argomento non equivoco nel privilegio,col quale un tal fe nomeno à solo meritato di esser nel comun lin guaggio annunziatocon una parola,ladi cui eti mologia vien precisamente in quell'altra voce  che in Natura niun fenomeno vi sia senza una forza che lo produce, e che il principio perciò di ogni movimento, o azione, o fenome no che si voglia dire,in una forza consiste.Se non che questa forza medesima può esser sem plice o composta, intrinseca o altronde ricerca ta con   71 contenuta,che per immemorabile universal con: senso altro che forza non à soluto mai indie care (a). Questa semplicissima osservazione, che è pur vera e grande e da ogni ragion sostenuta, sembra la più atta a somministrare un solo pune to di appoggio, onde alcuno possa spingersi in un'analisi profonda delle cose della vita; e in tal modo potrà ben procacciarsi di che ragione, volmente contentare la sua curiosità,e,ciò che importa molto di più, soddisfare quella cocente natural sollecitudine,che ognuno à di render la propria esistenza,per quanto all'Uom permes so,piùdurevoleemenoinfelice,Almenocosi sembrando al nostro corto intendimento,prendes rem volentieri una tal traccia per ordinare l'ana lisidellavita eportarlaperoratantoinnan zi,quanto dalle nostre deboli forze, e dallo sta to attuale delle nostre cognizioni potrà esser permesso. E mentre questo, e non altro, sarà (a) "Vita" viene da "vis", come anche "virtus", "vir","virilitas", le quali parole tutte fignificano forza: o ciocchè nella forza consiste, o la contiene    Nella..considerazione mo difare,ilprincipalsegno dellenostremife che qui ci proponia ilnostroprincipalfine ciifaremundoveredi non andarci divagando in altre cose aliene dal medesimo, o poco atte a raggiugnerlo.Eviterem soprattutto le citazioni; ed ogni esame di opi nioni diverse ed il rischio perciò di attribuir ad alcuno ciò che ad altri appartiene e di andar nuovendo picciole ed inutili gelosie. Contenti di prender dal sacro deposito della Scienza ciò che al nostro bisogno potrà esser bastante, la --scerem ad ogni depositario poi la cura di riven dicar il suo, tutte le volte che lo crederà o p portuno al proprio interesse · Per noi, l'avrem certamente a singolar fortuna quando ci venisse accordata la sola scarsa lode,.che neppur a coa loro sinega,chenon potendo per naturale inet titudine alcun vantaggio recare,se ne dimostra no almeno premurosi ed invogliati. Della qual nostra buona volontà ci lusinghiamo che ottima testimonianza ce ne potrà principalmente venire da Giovani che alle nostre lezioni an sempre assistito, o da chiunque altro che non isdegna di trovar tuttavia buono per il suo uso ciò che per mezzo nostro l'è potuto in qualunque modo pervenire. sarà    sarà l'assioma di sopra stabilito, dal quale si potrà per avventura losviluppo ottenere di con seguenze importanti, che disposte con metodo dalla natura istessa suggerito, ci potran forse a quel termine condurre, che formerà ora l'og geito principale di ogni nostra ricerca. Se la vita dunque in una forza consiste 3 che continuamente si esercita bisognerà neces sariamente supporre attaccataed inerente una tal forza alla macchina che vive, Questa qualunque facoltà che negli esseri organizzati risiede per vivere, si è voluto in questi ultimi tempi ecci tabilità chiamare.In vece di una tal parola,non saressimo ripugnanti, che quella ancor si usasse di vitalità,e d'irritabilità universale,e di for za nervosa,o altra qualunque di simil calibro; le quali ancorchè si sia preteso che possan cose diverse designare, in ultima analisi perd real mente non sono intese,che adichiarare il prin cipio generale della vita considerato dadiversi lati, o sotto forme diverse. Fra 'l' espressioni o r qui accennate noi intanto riterremo laprima, si perché si trova bastante per esprimer ciò che accade,si perchè troviam un tal nome già qua si universalmente ammesso.COM  9 b >? Vi sarà anche per foi un altro motivo, quello cioè di potersi tal Osserv.   lità 1  + 10 cosa in questo modo rappresentare, qual da noi si crederà più opportuna, senza esser obbligati di ammetterne qualunque altra corrispondente al le altrui idee. Una definizione, che venga a tempo, toglierà sempre ogni equivoco,che nel le diverse maniere di immaginare può aver luo go, ogni volta che con una sola voce sia venu to il talento di annunziarle. E ' un fatto costante che durante la vita si sentano dagli esseri organizzati le impressioni, che molti agenti son capaci di farvi, ed alle quali si risponde sempre con del movimento, o con un particolar senso che si risveglia. L'ec citabilità è quella su di cui cade l'operazione di ogni natural agente. Questi agenti medesimi si an poi voluto chiamare stimoli,e il prodotto della di loro operazione eccitamento. Il quale non dichiarandosi altrimente che per mezzo del moto,edelsenso,possonoben quindiqueste due cose rappresentare le forme principali del medesimo.Sembra dunque che per la vita vi bi sogni l'eccitabilità da una parte onde viene il senso ed il moto,e dall'altra il concorso de'sti. moli onde l'eccitabilità si mette in azione.Sena za eccitabilità l'operazion de'stimoli è inutile, e niuna vita produce, e senza stimoli l'eccitabi   Tutti gli stimoli poi, per ragion della di loro intrinseca particolar natura  lità non è richiamata'a qualunque azione, ed alle ordinarie forine di eccitamento. si sono divisi in esterni, ed interni. Nella classe de primi l'aria va messa, ed ilcalorico,e laluce,ed il cibo,ed il sangue, ed ogni altra material cosa, quam li da noi si sono considerate sempre come gli stia moli della vita,econ tal frase le abbiamo an che indicate tutte le volte che ci è toccato d'in terpetrarle. Di questi stimoli intanto mentre che gli esterni molte volte bastano a risvegliare un giro di eccitamento e di vira comune niera di operare, e diversa m a 9 a tutti gli esseri orginizzati, non bastano poi senza il concorso degli interni a costituire una vita per feita, com ' è quella dell'uomo, fra tutti gli al tri esseri che vivono il primo certamente ed il più nobile. gli organ può operare. Per interni al contrario s'intendono i movimenti dell' animo e quindi ogni morale azione, che non lascia pur in una maniera dichiarata di rimbombare sugli organi del corpo, Corrisponde tutto ciò perfettamente a quello, che gli antichi delle sei cose, c o m u nemente dettenon naturali,intendevano,le che fisicamente su Quan b2   Quando l'affare è precisamente considerato me' termioi finora proposti, niuna conseguenza potrà dedursi onde favorir dichiaratamente lo statoattivo,opassivodellavita.Ogni quistio ne diventerà perciò inutile,e sarà dissipato si. milmente lo scandalo, che alcuna delle opinioni accennate potrebbe recare a chi non ama occu parsi delle cose profondamente. Trattandosi di opposti,facilmente possono diuna medesima co sa intendersi, quando questa si consideri sotto i vari suoi aspetti,o in circostanzediverse.La vita a senso nostro può ben rappresentare uno stato passivo guardata per un lato,e nel tempo stesso uno stato pienamente attivo guardata per 1'altro.L'eccitabilità,o siailgerme immedias to della vita relativamente ai stimoli de' quali nulla può valere, è assolutamente pas siva.Ma addiviene di botto attiva dietro l'azio ne de' stimoli medesimi, ricavando dal suo pro prio fondo quell'energia ed attività,che spiega nell' eccitamento.Si potrebbe da alcuno chiamar: reazione quella dell'eccitabilità.Ma questa reaa. zione medesima non è a buon conto che una lità dunque è passiva relativamente ai stimoli, vera azione qualunque abbia potuto essere il motivo, ed il modo di risvegliarsi. L'eccitabi  senza, atti   attiva relativamente all' eccitamento ed a tutto il resto che ne può venire.Con una tale inter petrazione possono dunque benissimo restar con ciliate le due idee opposte, le quali si trovano ugualmente vere, allogandosi ognuna nella sua propria nicchia. Nè converrà dimenticarsi in questa spezie d'indagine,che non essendovi azio ne in Natura, che non sia il prodotto di un'al tra, per l'intelligenza della prima basterà cono scere ed ammettere quella, che inimediatainente laprecede,eneformaperciòlacagione imme diata. Perchè altrimente per uscir d'imbarazzo', e finirla presto, Essendo una verità di fatto l' eccitabilità; ossialafacoltà cheàlamacchinaviventedi e muoversi, non lo sarà meno il doversi quella trovar. sempre inerente alla maça si potrebbe da principio ricor rere alla suprema volontà dell'Autor del tutto, ove senza contrasto alcuno incomincia la serie alternadicagioniedeffetti,chel'immensa ca tena rinchiude delle cose del Mondo. Ma in tal modo bisognerebbe pur convenire,che invece di sciogliereilnodo nonsifarebbealtrocheru vidamente tagliarlo,e distruggere così ogni fi lo,nel quale è unicamente raccapezzatol'ordi ne delle cose. poter sentire chig   di ravvisarvi distintamente l'uomo os e l'uomo arterioso, e l'uomo muscolare ed il nervoso, china suddetta in tutto il corso della vita. a tutti i peza non che può nascere il dubbio, che una tal fa coltà risiegga ugualmente applicata a tutti i zi della macchina vivente,o pure alcuno ve ne sia onde si propaghi, e venga agli altri comu nicata. Vi sono de' Fisiologi che nella costitu zione della macchina animale vi ravvisano tante parti, che con un singolar andamento dimostra no di esser molto fra loro diverse Se, quantunque poi tutte intese alla formazione di quelli uno, che l'intera macchina rappresenta e cosi di tutto il resto. Corri sponde tutto questo apparato di nuove parole, o per Si an voluto insignire col nome particolare di sistemi, ed è quindi insorto il sistema irrigatore, il sistema assorbente, il nervoso, il muscolare, il cellula re, e ogni qualunque altro che il bisogno potrà richiedere. Vi è stato chi segnando con mag gior precisione i contini diversi di cotai siste mi, per rilevare in tal modo l insigne differen za che fra i medesimi sembra passare,e la gran parte che ciascuno di essi nella costituzione del corpo prende, non à avuto difficoltà nella con siderazione, che à voluto fare della macchina umana seo,   Noi intanto non sapressimo cosi facilmente intendere quanto la particolar considerazione de' pezzi della macchina animale, principalmente di versi fra loro per la diversità delle forme,o di altre circostanze non essenzialiallaparticolar na tura della di loro pasta originale, possa contri buire a far ravvisare l'eccitabilità nel suo unico e vero e general aspetto. Sembra la medesima esser qualche cosa di cale importanza, alleforme,oadaltreminoricircostanzeappar tenga,ma bensi direttamente alla pasta già ram  e per dir meglio di parole usate con nuova regoa la, a ciò che da altri con tuono più semplice ediungustopiùantico manelfondosignifi. cante lo stesso, si è derto sostanza cellulare vasi,enervi,emuscoli',eossa nel farne la particolare storia, e stabilire colla medesima i fondamenti della Fisiologia. Prima di passare ad altri argomentinon sa ràsuperfluo soggiugneranche qualchecosasul flo gisto,affinchèintalmodo iprincipiantis'istruisca no di una dottrina,la quale ne'tempi precedenti haavutotantoluogo intutteleteoriechimiche. E'anzi a tutti noto di essersi introdotto qua si universalmente l'uso di questa vocabolo an cora nelle altre Scienze. I Chimici, dopo di Sthal, pretendevano generalmente che dovesse  X 68 X in   X 69 X intendersiper flogisto quella talcosa,che ata caccandosi a'corpi producesse in qualunque modo il principio della loro infiammabilità.si altri. buivanoin oltre al medesimo moltissimi altri fenomeni. Siccome nella combustione si raduna una grandissima quantità di fuoco, di cui prima non eravi alcun vestigio,cosi Sthal sorpetto che in questa operazione si sprigionasse quel fuoco, il quale trovavasi nascosto nel corpo infiammabile. Questo fuoco nascosto in modo da non dar segno della sua presenza costituiva il flogisto. E quindi si ravvisaa primo colpo d'occhio, che il fogi sto fosse indentico col calorico aderente. M a la natura de'fenomeni richiedeva che quello com stituisse un ente di suo genere, trasfersisi tutto intero da uno in un altro corpo. Quindi bisognò immaginare una materia,o sia una base, alla quale il fuoco, o sia il calorico, si at taccasse ed in certo modo addivenisse fisso, cosi composto acquistasse un'adesione colle para ti de' corpi infiammabili. Nella prima edi zionediquestenostreistruzionicisiamo indu striati di esporre questa teoria, sostenendola con tutte le nostre forze; e per lo spazio di quasi cinque lustri ce ne siamo serviti nel ri schiarare tutti gli argomenti chimici. Ed in ve ro colla sua applicazione vedevamo che i feno meni non restavano spiegati con molta infelici tà. Questo è stato ancora conosciuto da ruta ti i Chimici di gran nome, che fiorirono dopo di Sthal, onde la teoria del flogisto si era qua potesse  affinchè E3 si >   X 70 X siresa universale fino a'tempi presenti.Non può negarsiperd,chenonmaiiltlogistocosi inimaginato siabbiapotuto apertamente diinostra re; e dal fin qui detto si deduce la sua ipotetica composizione.Cid non ostante era una teoria comoda, ed avea il suo luogo per mancanza di una migliore.Il progresso però della Chimica pneumatica, il quale a tempi nostri è addivenu to grandissimo, non solo l'haresa sempre più dubbia, ed inetta alla spiegazione de'fenomeni; ma (quello che magiormente importa ) ne le hasostituitaun'altra meno ipotetica,e più corri spondente aifenomeni.Eglièvero,cheifau tori dell'antica teoria abbiano fatto grandissimi sforzi per conciliare tutte le nuove teorie col flogisto; ma ora senza difficoltà può dimostrarsi che questi sforzisiano stati infelici,come biso gnosi sempre di nuove finzioni, o di false in terpretazioni. Keywords: chimica filosofica, implicatura bio-chimica, biologia filosofica, teoria della vita, vita, virtu, virilita – l’implicatura flogistica – Grice: what science? Palmistry? What deliverance? Phlogiston theory? Rhetorical questions: he means No and No. Or non rhetorical and they are formidable obstacles to his constructive realism about which he could care less!--. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Andria” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Angeli – filosofia italiana – Luigi Speranza (Venezia). Filosofo italiana. Grice: “I like Angeli – I’m glad he dropped the ‘degl’angeli” – but then I would because he is into the infinite (insert infinity symbol here) as so am I – mainly in my elucidation of that Anglo-Saxonism of Indo-European origin (Latin, ‘mentatum,’ ‘mentitum,’ ‘mentitura,’ dicitura) – ‘mean’ – I refer to a self-referential clause to solve the problem, but then I also refer to Plato on geometry and the idea of a ‘de facto’ versus ‘de iure’ instantiation of a ‘regressus ad infinitum’ – So Angeli is bound to charm me!” Frate dell'Ordine dei gesuati, nel 1668, con la soppressione dell'Ordine voluta da papa Clemente IX divenne prete secolare. Delfino e fedele allievo di Bonaventura Cavalieri, insegna a Padova. Fu l'unica voce autorevole di fine Seicento che continuò a difendere la teoria degli infinitesimi, in palese conflitto con i gesuiti.  Si dedica allo studio della geometria, continuando le ricerche di Cavalieri eTorricelli. Passa quindi alla meccanica, su cui spesso si trova in conflitto con Borelli e con Riccioli.  Opere: “Della gravità dell'aria e fluidi, esercitata principalmente nei loro omogenei” (Padova, Cadorin); “Problemata geometrica sexaginta” (Venezia, La Noù); “De infinitorum spiralium spatiorum mensural” (Venezia, La Noù); “Accessionis ad steriometriam, et mecanicam” (Venezia, Noù); “De infinitis parabolis, de infinitisque solidis ex variis rotationibus ipsarum, partiumque earundem genitis” (Venezia, Noù); “Miscellaneum geometricum” (Venezia, Noù). Note  Fonte: M. Gliozzi, Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in.  Mario Gliozzi, «ANGELI, Stefano degli», in Dizionario Biografico degli Italiani, Volume 3, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1961. Àngeli, Stefano degli, in TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Amir Alexander, Infinitamente piccoli. La teoria matematica alla base del mondo moderno, Torino, Codice edizioni, 353.Kirsti Andersen, "Cavalieri's method of indivisibles." Arch. Hist. Exact Sci. 31 (1985), no. 4, 291-367  Stefano degli Angeli, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Stefano degli Angeli, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Stefano degli Angeli, su MacTutor, University of St Andrews, Scotland.  Opere di Stefano degli Angeli / Stefano degli Angeli (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl.  Pietro Magrini, Sulla vita e sulle opere del Padre Stefano degli Angeli matematico Veneziano del sec. XVII memoria di Pietro Magrini, letta all'Ateneo Veneto 10 Luglio 1862: Estratta dal Giornale Arcadico; tomo 45 della nuova serie, Tip. delle belle arti, 1866. Filosofia Matematica  Matematica Categorie: Matematici italiani del XVII secoloFilosofi italiani Professore1623 1697 23 settembreMorti l'11 ottobre Venezia Padova. Stefano d'Angeli, veneziano, lettore nello studio di Padova, provinciale veneto della sua religione de' gesuati, che fu soppressa, e discepolo di Cavalieri, di cui scrisse, 'Herculem geometricum alterum Bonaventuram sc. Cavalerium, cui devotione i habitu sui conjunitillimus eiusque sub disciplinis tyrocinium in geometria ad novem dumtaxatmenses, ipso a vivis mei mortali angore, qui tunc ad eram, o geometrarum omnium luctus, aciactura sublatum, posui auspican tillinum, orc: Siren de celebre Cavalieri colle molte opere, che manda alla luce, e spezialmente per la sua geometria degl'indivisibili, l'origine della utilissima analisi degl'infinitamente piccoli, come Itall'oinne fanno menzione i Chi ariss. Giornalisti. Ma sono opere dell'Angeli: "Problemata", "De infinitis parabolis", "Miscellaneum hyperbolicum, o parabolicum"; "Miscellaneum geometricum", "De infinitorum spiralium spatiorum mensura". Le Considerazioni sopra la forza di alcune ragioni Fisico-matematiche addotte da Riccioli nella sua "Astronomia Riformata" *contro il sistema copernicano*; le seconde *contro il moto diurno della terra piegato da Manfredi nelle risposte alle prime riflessioni di Stefano de Angeli; le terze e le quarte sopra la lettura di Borelli sopra la confermazione di una sentenza dello stesso prodotta da Zerilli, ecc; "Della gravità dell'aria, e de'audi"; "Dialoghi due";ed altri tre gli stampo.  The concept of infinitesimal was beset by controversy from its beginnings. The idea makes an early appearance in the mathematics of the Greek atomist philosopher Democritus c. 450 B.C.E., only to be banished c. 350 B.C.E. by Eudoxus in what was to become official “Euclidean” mathematics. We have noted their reappearance as indivisibles in the sixteenth and seventeenth centuries: in this form they were systematically employed by Kepler, Galileo's student Cavalieri, the Bernoulli clan, and a number of other mathematicians. It was Galileo's pupil and colleague Bonaventura Cavalieri (1598–1647) who refined the use of indivisibles into a reliable mathematical tool (see Boyer [1959]); indeed the “method of indivisibles” remains associated with his name to the present day. Cavalieri nowhere explains precisely what he understands by the word “indivisible”, but it is apparent that he conceived of a surface as composed of a multitude of equispaced parallel lines and of a volume as composed of equispaced parallel planes, these being termed the indivisibles of the surface and the volume respectively. While Cavalieri recognized that these “multitudes” of indivisibles must be unboundedly large, indeed was prepared to regard them as being actually infinite, he avoided following Galileo into ensnarement in the coils of infinity by grasping that, for the “method of indivisibles” to work, the precise “number” of indivisibles involved did not matter. Indeed, the essence of Cavalieri's method was the establishing of a correspondence between the indivisibles of two “similar” configurations, and in the cases Cavalieri considers it is evident that the correspondence is suggested on solely geometric grounds, rendering it quite independent of number. The very statement of Cavalieri's principle embodies this idea: if plane figures are included between a pair of parallel lines, and if their intercepts on any line parallel to the including lines are in a fixed ratio, then the areas of the figures are in the same ratio. (An analogous principle holds for solids.) Cavalieri's method is in essence that of reduction of dimension: solids are reduced to planes with comparable areas and planes to lines with comparable lengths. While this method suffices for the computation of areas or volumes, it cannot be applied to rectify curves, since the reduction in this case would be to points, and no meaning can be attached to the “ratio” of two points. For rectification a curve has, it was later realized, to be regarded as the sum, not of indivisibles, that is, points, but rather of infinitesimal straight lines, its microsegments.  La prima opera alquanto diffusa, ch'egli c o m pose e pubblicò in Venezia nel 1658, ha per titolo: Problemata geometrica sexaginta circa conos, sphae ras, superficies conicas,sphaericasque praecipue ver santia. In questo volume sono svolte con tutto il rigore della scuola dottrine,che in tali materie fan no continuazione a quelle di Archimede e di A p o l lonio Pergeo. Frequentissime occasioni gli si pre sentano di usare la teoria degl'indivisibili,e fra que ste è la tesi,dove dimostra che il conoide parabo lico è la metà del cilindro ad esso circoscritto. Il grande Newton nella sua Arithmetica Univer salis si occupa anch'egli a lungo di questa propor zione, perchè la prende come suo tipo ad insegnare la maniera, con cui l'analisi algebrica debba asse starsi alla risoluzione delle questioni geometriche; ed è in questo luogo ch'egli stabilisce le regole, che poi servirono a tutti gli analisti di norma in così fatti esercizii. L'inglese geometra, dopo tutte le opportune considerazioni, arriva a darci  riphaeria subtendatur ab ipsis. pe per satemi il termine, confermò ed ampliò con più s o lenne espressione nella molto profonda sua opera di recente pubblicazione, che versa sui Porismi di Euclide. E d eccovi esperte tutte le riflessioni che m'indussero e m ' incoraggiarono a passare a rasse gna i lavori dell'uorno che mi proposi oggi di farvi ricordato. In mezzo ai tanti curiosi problemi di questo li bro trovai degno di menzione quello così annunziato: Datis tribus lineis invenire semicirculum cuius risoluzione del problema una equazione del terzo la   Quello che alcun poco potè turbarmi nell'esame di questa opera si fu la qualche importanza, che il nostro degli Angeli sembrava attribuire al così detto paradosso geometrico, perchè abbagliò lo stesso Galileo, ed è che il centro di un cerchio è eguale alla sua circonferenza. Questo giuoco di parole,che come vedesi non presenta alcun senso se non as surdo, era un fatale intoppo nel quale si urtava quasi sempre nell' uso del calcolo degl' indivisibili, ed eccovene l'origine.  ! 20 grado,dicui,come è notissimo,non puòfarsila co struzione se non per mezzo delle coniche sezioni. La sola riga ed il compasso non possono qui essere usate allo scopo, se non nel caso, in cui due delle date rette sieno eguali,poichè in allora l'equazione cubica può comodamente venire abbassata al grado secondo. Il degli Angeli scioglie i due casi, senza la face dell'algebra,che allora non era accesa,l'uno per locum planum, secondo illinguaggio scolastico, e l'altro per locum solidum. Le sue costruzioni sono elegantissime,e mostrano chiaro che istintivamente anche gli antichi avevano un -segreto oracolo di a n a lisi, che domesticamento consultavano,ma non fa cevano vedere al volgo. Vi risovvenga, o Signori, di quei due solidi d e scritti da me poco fa, cioè di un emisfero e di un cilindro incavato da un cono rovescio,cilindro che lo circonda, dei quali così facilmente si appalesa. l'equivalenza. Or bene: questa equivalenza si de duce col provare, che tagliati dovunque idue corpi con un medesimo piano segante parallelo.colla base comune d'entrambi, il circolo nato nell'emisfero   eguaglia a puntino la zona circolare spettante al cilindro incavato. E siccome ciò ha luogo per ogni piano segante immaginabile, dicevasi con molta fretta che ciò doveva effettuarsi anche nel piano tangente alla sommità della superficie sferica; il che, come si vede, presentava da una parte un centro (cioè il punto di contatto) e dall'altra una circonferenza, cioè lo spigolo nudo del cilindro terminato; dunque per la presa analogia,il centro, cioè quel punto di contatto, doveva essere eguale a quella circonfe renza. Noi lo accorderemo di buona voglia, se sono così teneri di questa inezia, poichè sotto il riguardo di superficie (e qui si tratta di superficie soltanto) così il centro come la circonferenza si possono egua gliare,perchè sono entrambi eguali a zero; ma que sto strano vaniloquio non può insorgere a pretesa, se non in quei casi speciali, ove si richiama ad uno stato anteriore di rapporto, e non può certo aver modo di entrare quando sitrattassediun qua lunque cerchio isolato in un piano. Bastava riflet tere che il ragionamento dimostrativo non era ri volto che a' piani seganti; dunque il piano tangente non v'entrava se non ad indicare il limite dove il rapporto di eguaglianza andava a cessare.La man canza di un linguaggio ben formato, e che ci fu dopo dalla teoria dei limiti perfezionato, impedì forse la spiegazione chiara del sofisma per parte Questa menda del nostro autoreriflessa sopradi lui dallo splendore di un gran nome,è a dismisura can cellata dai tanti lavori di gran lena ch'ei porse nel seguito. Tale è il suo Miscellaneum hyperbolicum  21 di tri cotanto valenti e degnissimi di rispetto. geome   pubblicato nel 1659, e dedicato agli Illustrissimi Cinquanta del Senato di Bologna in contrasegno di gratitudine per quella illustre città; nella quale sua opera tratta profondamente dei centri di gra vità dell'iperbola, delle sue parti e di alcuni so lidi, dei quali nessuno fino allora aveva parlato. Insegna a quadrare la parabola in doppia manie ra ed a guidare le tangenti a tutta la famiglia pa rabolica. Sulla parabola inoltre e sui co noidi di essa risolve curiosi problemi spettanti ai massimi, inscrit tibili ed ai minimi circoscrivibili. In questo suo li bro l'autore ambisce di pretendere alla priorità sul la Faille e sul Guldino medesimo, il quale nella rinomata sua opera Centro -barica, così confessa la sua mancanza in questo proposito: deest hoc loco hyperbolae ejusque partium centri gravitatis investi gatio. L'opera uscita dalla sua penna nel 1660 è m e ritevole di ricordanza,tanto per la persona alla quale viene dedicata, quanto e molto più per la materia che l'autore vi ha svolta. È stato umiliato quel lavoro all'eminentissimo cardinale Gregorio Barbarigo, Patrizio Veneto, ve scovo allora di Bergamo, e che in seguito, come tutti sanno, fu vescovo di Padova e morì nel 1697, cioè l'anno medesimo della morte del nostro degli Angeli, ed il quale vescovo fu poi annoverato fra i beati dal suo concittadino Carlo Rezzonico,Papa sotto il nome di Clemente XIII. La dedica, o Si gnori, era degnissima,poichè sappiamo dalla storia della vita del Barbarigo.ch'egli era dottissimo nelle cose matematiche, e per ciò sembra che a buon di  22   Parlando della materia del trattato,che s'inti tola De infinitorum spiralium spatiorum mensura, ella valse a collocarlo in un gran posto fra i geo metri del suo tempo: e quel soggetto fu poi anche ampliato coll'aggiunta ch'ei vifeced'un altro trat tato, detto De spiralibus inversis, stampato in P a dova nel 1667. Fine a quell'epoca gli antichi a v e vano assai beve conosciuto ed usato le proprietà, gli spazi, le tangenti della Spirale di Conone o di Archimede,ma di poco o nullasieravarcatoque sto termine. Il degli Angeli ci racconta egli stesso di essere stato parecchie volte stimolato a scandagliare più a fondo in questo mare,quando trovavasi in Roma. E quelli che così eccitavanlo erano un Michelangelo Ricci,da lui chiamato il Corifeo degl'italiani geo metri, al che fece eco pienamente anche il Montu cla; poi un Francesco Slusio, riputato geometra fran cese, ed infine un matematico inglese di fama, Ric cardo Albio. Essendo egli allora troppo giovane ri cusò di affrontare cotali gravi ricerche, confessando modestamente il carico non trovarsi adattato agli omeri suoi. Ma più tardi,essendo in Venezia, e ri svegliatosi in lui colle nuove forze acquistate a n che il coraggio, intraprese lo studio delle infinite specie di spirali, e fu allora riverito per la novità dell'argomento e per la profondità della trattazione. Dopo di lui altri valenti coltivarono questo campo e lo trovarono ancora fecondo. Se non che la glo ria di esaurire in tutta la sua estensione un tale argomento era riservata al più moderno chiarissimo  23 ritto e senza lusinghe il degli Angeli lo invocasse col nome di Geometrarum Mecenas peritissimus.   matematico Varignon,inuna bellissimasua memoria, citata spesso e spesso indicata a modello ai giovani studiosi, la quale si trova inserita nelle Memorie dell'Accademia delle Scienze di Parigi per l'anno 1704. Tuttavolta a non iscemare di un punto il meritodelVeneziano,tornaopportuno ilriflettere che quella Memoria straniera comparve 44 anni più tardi, e di quegli anni di abbondanza, nei quali ľ analisi ardita aveva tanta sua ala distesa. Copiusi problemi di tutte le specie riguardanti le aree delle figure piane ed i volumi dei solidi non che i loro centri di gravità, si contengono tanto nella seconda parte di questo libro delle Coclee, quanto nel Miscellaneum Geometricum prodotto nel  24 Alle ora accennate due opere va unita per m e rito d'interessanti investigazioni quella del 1661 De infinitarum Cochlearum mensuris ac centris gra vitatis,dedicata a Leopoldo II dei Medici,granduca di Toscana, quegli sotto i cui validiauspiciisi for m ò e crebbe l'Accademia del Cimento. In questo dotto lavoro descrive la forma delle infinite coclee sìstrette esìallargate,chesigeneranopermezzo di triangoli, di rettangoli, di semicerchi,ed altre fi gure piane scorrenti con duplice moto, l'uno circo lare e l'altro progressivo, con diverso rapporto di velocità; ed assegna col metodo degl'indivisibili i volumi di questi solidi strani ed apparentemente intrattabili. Si propone in tale memoria l'autore di continuare e di estendere la strada tracciata ed i n cominciata assai pregevolmente dal Torricelli, m a ehe questo celebre uomo per cagione di morte la sciava ad altri da percorrere.   quanto ancora nell'opera pubblicata nel 1662, cioè nell'anno primo in cui era entrato nella Pa tavina Università e che si intitola: Accessio ad Ste reometriam et Mechanicam in qua traduntur m e n s u rae et centra gravitatis quamplurium solidorum.  Idea un nuovo genere d'in vestigazioni nell'opera intitolata de Superficie U n gulae, a cui si unisce una seconda parte, che tratta de quartis liliorum parabolicorum et cycloidalium. Ciò che porgesse a lui il destro di mettersi a trat tare questi argomenti lo racconta egli nella sua pre fazione. E comparso in Roma un opuscolo de cycloide et de figura sinuum, che vantava per autore un Onorato Fabri Gesuita, sotto ilpseudonimodiAntimoFabio:ilbuondegli An geli s'invaghì di quest'opera ed indovinò che nella figura dei seni ivi celebrata latitabat non spernendum geometricum mysterium. E svelò a quanto pare pel primo ilmistero,dicendo che quella curva che noi chiamiamo sinusoide, altro non era che la sezione obbliqua d'un cilindro tagliato diagonalmente con un piano condotto pel raggio del quadrante base e sviluppata in un piano. Quantunque quell'Onorato Fabri non sia un nome molto onorato nella storia della scienza, poichè fu quest'uomo mai sempre av verso al Galileo e combattè ostinatamente tutte le belle scoperte dei giorni suoi, ilnostro matematico fa di lui qualche caso rispetto al citato libretto. Per altro è facile indovinare ch' ei lo faceva con una piccola dose di spirito di partito, giacchè sco priva nel Fabri un grande settátore del metodo del Cavalieri. E tanto anzi il Fabri lo usava con in 3   26 Quell'opuscolo per tanto del Fabri diede occa sione al degli Angeli di combinare problemi di tutte le specie intorno alle unghie cilindriche,ai loro cen tri di gravità, ai solidi da esse con varia maniera di movimento ingenerati. Raddoppiata la superficie svolta in piano dell'unghia cilindrica in tre modi diversi, egli costruisce una simmetrica figura, ch'ei chiama un giglio ungulare, dal quale poi altri gigli germogliano con altri ideati movimenti, e di tutta questa fantastica famiglia di figure aventi tutte per elemento l'unghia cilindrica, valuta secon do il solido le aree, i punti di equilibrio, i vari conoidi derivanti da quelle: e le stesse combinazioni, e gli stessi oggetti si propone nei suoi studi sulla semicicloide. Queste descritte, ed altre molte di eguale va lore, sono le opere geometriche del professore degli Angeli, opere il dobbiamo pur dire con ricresci m e n t o, le quali al pari di quelle di altri illustri suoi contemporanei non vengono più lette. La ragione di questo abbandono non è a mio credere soltanto il Fu quel secolo uno dei più brillanti e privile giati,sì per la moltitudine degli uomini di genio su periore, e si per la grandezza dei trovati. Sembra che la natura abbia voluto in quei giorni di deca  temperanza,che ilnostro autore a suo riguardo così si esprime: ut ad indivisibilium arenam percurrendam fraeno potius quam calcaribus indigere videatur. progresso della scienza ed il lasso del tempo, che corre da quelli a'nostri anni, poichè le verità m a tematiche non sono soggette aprescrizione di tempo; la causa più vera e profondamente morale.   27 denza delle lettere mostrare quanto ella era capace di produrre per largo compenso alla dignità del l'uomo. L'Italia prima del sapere maestra, dopo la barbarie dell'età di mezzo diede in questo se colo potentissimi e rinomati ingegni,un Luca Vale rio, un Galileo, un Torricelli, un Viviani, un C a valieri,un Pucci e moltissimi altri.Ma l'Europa produceva in quel tempo in altri climi il Nepero inventore del nuovo calcolo logaritmico, il Guldino scopritore di un nuovo cammino nello studio delle curve, il Keplero che tutti sanno, il Roberval; poi il Pascal, il Cartesio, il Newton; poi l'Huygens e la portentosa famiglia dei Bernouilli, e quel mira colo del Leibnizio, di cui tante si onora l'umano intelletto. E come la comunione espansiva di que ste straniere intelligenze fece salire a passi gigan teschi il sapere e lo unificava, è ben da credere che il tributo, che a questo cumulo di ricchezza l'Italia poteva recare, avrebbe certo accresciuto il tesoro della scienza o di molto accelerato ilsuo an damento nella matematica pura, come l'Accademia del Cimento fece già a pro' delle naturali scienze. Ma gl'italiani, rispettate alcune eccezioni,si tene vano in disparte nel purismo sintetico, ed offerivano solitari sagrifizi alla greca sapienza, benchè con at tività e maestria nuove ricchezze portassero a que gli altari ed a quei templi vetusti.E mentre sde gnavano di dare ad altri la mano nella grande in vestigazione della verità, ebbero talvolta a provare qualche umiliante disinganno;come avvenne fra gli altri al Viviani nel suo vantato Ænigma geometri eum, che ben presto fu spiegato in più modi ed    in più luoghi dagli oltramontani analisti. Attenutisi troppo scrupolosamente al linguaggio ed alle forma lità degli antichi, e non avendo voluto adottare quel calcolo algebrico, che tanto facilitava agli altri le dotte ricerche, si vennero a chiudere le porte per arrivare fino ai nepoti, e non rimasero le faticose ed ottime loro opere che come venerabili m o n u manti di storica scienza, che visitati non vengono se non da pochi pazienti eruditi. Mi si perdoni questa digressione, che per in tendimento aveva di mettere le produzioni del mio encomiato Stefano degli Angeli nell'aspetto sotto il quale è lecito oggi di riguardarle, e passiamo a par lare delle polemiche sue scritture.  28 È notissima nella storia della scienza la lunga lotta, che si riscaldò fra lui ed il Padre Giambat tista Riccioli Gesuita, uomo rispettabilissimo per la multiforme sua dottrina letteraria e scientifica, e so prattutto riputatissimo astronomo.Questo dotto pro fessore, che in compagnia del P. Grimaldi suo al lievo, giovò non poco colle sue esperienze a conser mare le leggi dei gravi cadenti scoperte dal fioren tino Filosofo, ebbe poi a macchiare inescusabilmen te il suo nome coll'essere divenuto uno dei più pertinaci combattenti, che mai facesse battaglia al grande Italiano sulla sua tesi del moto diurno della Terra. Ma il sapiente Riccioli non si teneva contento ai soliti plateali sofismi stiracchiati fuori dalle sagre carte dagl'ignoranti; egli invece si sbracciò a con trastare in sul serio quel movimento del globo con argomenti fisico -matematici. Oltre alla tante volte addotta difficoltà di concepire la rotazione della terra   a cagione della forza centrifuga, che dovrebbe ge nerarsi, a detta degli avversarii, in tutti i corpi terrestri nel moto circolare diurno,per cui la massa del globo ben presto verrebbe disfatta, argomento che si abbatte colla dimostrazione consueta che la velocità della terra dovrebbe essere 17 volte m a g giore dell'attuale perchè la forza centrifuga potesse eguagliare soltanto la gravità dei corpi, il Padre Riccioli aveva coniato un argomento fisico -m a t e m a tico tutto di suo gusto,al quale credeva che nes sun uomo di scienza potesse rispondere. Immaginatevi, ei diceva, che un grave siasi la sciato cadere dalla cima di una torreelevata,tanto che il corpo debba impiegare p. es. cinque minuti secondi per battere il suolo nella caduta. Dividendo quest'altezza in cinque parti nel rapporto dei tempi parzialidiquesta caduta con moto uniformemente ac celerato,cioè 1, 3, 5, 7, 9, figuratevi che il grave abbia ricevuto l'impulso da occidente in oriente a principio, c o m e voi pretendete, e troverete naturale ch'esso debba descrivere una curva. Ora il calcolo mi dimostra che le parti od archi di questa traiet toria rispondenti ai varii tempi summentovati sono pressochè eguali. Laonde le velocità del Il professore degli Angeli nell'anno 1663, quando  29 questi varii tempi, rappresentate da quegli archi, dovranno essere eguali,cioè nell'ultimo tempo come nel primo; dunque il corpo cadente dovrebbe bat tere la terra colla stessa forza come nel primo i stante così anche nell'ultimo, lo che è contrario all'esperienza, e perciò questo vostro sognato moto della terra non può esistere. in corpo   già da sei anni si trovava all'Università di Padova, si propose di abbattere tutti gli argomenti dell'a stronomo Gesuita, e ciò fece trionfalmente in va rie riprese colle sue prime, seconde, terze e quarte considerazioni sopra la forza degli argomenti fisico matematici del P. Riccioli contro il moto diurno della Terra,stampate in Padova. La confutazione sparsa per quei suoi quattro opuscoli riuscì un poco lunga e forse prolissa, poichè la compose alla forma di conversazioni fra un certo Conte Lescysky, un si gnore Offreddi ed il Matematico di Padova, ch'era egli stesso. La lentezza dei ragionamenti e delle d e duzioni dipendeva naturalmente dalla forma in dia logo dell'opera, poichè metteva il personaggio prin cipale nella necessità di togliere le più piccole dif ficoltà ed obiezioni degli altri due interlocutori. Ma la sostanza delle ragioni del Matematico di Padova si ristringeva a mostrare che il Padre Ric cioli, per altri conti commendevole,siera mostrato con sua vergogna in questo affare, atteso lo spirito di partito, assai inesperto nelle leggi più comuni della Meccanica.Mostrò cioè d'ignorare che nell'urto dei corpi contro un ostacolo irremovibile, come il piano sottoposto alla torre, dipendere doveva la forza della percossa non tanto dalla velocità asso Juta, di cui è il corpo animato, ma ancora dalla di rezione con cui la percossa discende. La velocità accordata pure che sia eguale nell'ultimo tempo come nel primo, non è poi egualmente inclinata nel corso della traiettoria nei varii tempi rispetto alla verticale.Decomposta in fatti la velocità assoluta in in una verticale e l' altra orizzontale, soltanto la  30   Ad ogni modo questa lunga controversia fu tutta col vantaggio del nostro concittadino, ed ebbe nella sua schiera tutti i veri scienziati d'allora, e non solo per questo conflitto, m a per la più possente ragione, ch' egli fu per carattere uno dei più caldi sostenitori del progresso in tutti i rami delle scienze fisico-matematiche. Ed invero nell'anno 1671 faceva di pubblica ragione in Padova due lunghi dialoghi fisico-m a t e matici; e tre altri che avevano per titolo Della gravità dell'aria e dei flui di esercitata principalmente nei loro omogenei: nei quali con amene conversazioni fra quegli stessi in  31 prima doveva operare nell'urtare; e siccome le in clinazioni della velocità nei varii tempi erano diverse, diverse pure dovevano risultare le componenti v e r ticali; e queste appunto si trovano, con facile di mostrazione, nello stesso rapporto crescente, come se non esistesse l'impulso orizzontale; e per ciò si conchiude che il moto della Terra per nulla si o p pone all'esperienza, e può ben anche con essa sus sistere. Rilevata così l'impotenza del grande Achille del Riccioli si usarono dall'autore tutti gli ar gomenti indiretti, che potevansi per allora mettere innanzi. Là prova diretta del movimento rotatorio della terra, come ben sapete, signori, era riservata ai giorni nostri; chè ce la diede quel preclaro ingegno del sig.Faucault, per mezzo del pendolo da lui idea to, e poi da quel suo giroscopio, che rende sen sibile il fenomeno fra le pareti d' un gabinetto di fisica.   terlocutori di sopra nominati, si svolgono tutte le leggi dell'idrostatica e si sciolgono le minute diffi coltà di certi paradossi, già noti in quella materia, e dei quali in allora ben pochi precettori davano una chiara spiegazione. Non pretende il nostro autore, com'egli asserisce con modestia nella introduzione, che queste súe composizioni contengano cose del tutto nuove e non tocche dagli altri; m a essergli stato di eccitamento a scrivere il desiderio di gio vare ai nobilissimi scolari di quel sapientissimo s t u dio:i quali, diceva il nostro professore,camminando al dottorato pei ponti delle dottrine peripatetiche e delle formalità, poco o nulla vedevano della filoso fia sperimentale. La quale dichiarazione serve farci conoscere ad un tempo e lo stato delle p u b bliche istituzioni d ' allora, e gl' intendimenti del n o stro degli Angeli sul vero scopo degli studii pegli uomini socievoli. Ma non è a credere ch'egli con tato zelo del sapere calcasse unicamente le sole aride ed ardue vie della severa matesi e delle scienze. Abbiamo invece ogni motivo per ritenere ch'egli nella clas sica letteratura fosse molto perito, egli che per molti anni della sua fresca età n ' era stato precettore fra i suoi: egli che con tanta sveltezza di dicitura usò mai sempre familiarmente la lingua del Lazio. Ed inoltre nelle lunghe dedicatorie epistole, rivolte ai più distinti personaggi dello stato e della chiesa, lo troviamo come uomo familiarissimo degli ameni stu di spargere sali ed argutissime mitologiche allusioni, e questo con frequente uso ed anche abuso a se conda del gusto del secolo. Il Bresciano dottissimo  32   A coronare il monumento,che oggi m'ingegnai d'innalzare in questo letterario ricinto al nostro c o n cittadino Stefano degli Angeli, non mi rimane che porvi sopra un'ultimaghirlandadifiori,cioèdifare ricordanza delle qualità dell'animo suo. E qui sarò breve poichè l'affare è assai vecchio. Questo sacer dote così esaltato e venerato dai suoi confratelli per più di trenta anni, così accarezzato e tenuto per familiare ed amico da tanti nobili e famosi per sonaggi, la intera vita del quale non respirò che osservanza scrupolosa dei proprii doveri, e fu inces santemente modellata alla ricerca e diffusione del vero, non poteva essere dotato che di bella indole e di soavi costumi. E mi basta ad accertarmene per tutte la testimonianza del più volte citato sto rico contemporaneo della Patavina Università, Carlo Patino, che col degli Angeli viveva domesticamente, ed il quale al suo riguardo si esprime con queste parole: Singularem Stephani comitatem, m o r u m » que suavitatem experiuntur quicumque illam d e » siderant, adeo facilis est omnibus, benignus et » beneficus. In ejus gloriam dictum sit nullum a » m e inventum, qui vel levissime de ejus dictis » factisque conquereretur ».  33 E qui darò termine alle mie illustrazioni sulla vita e sulle opere Mazzuchelli ricorda la corrispondenza che regnava fra il degli Augeli ed ilcelebre antonio Magliabechi, in assai scritti di argomenti scientifico-letterari, e questo legame col fiorentino filologo serve bastan temente a dichiararlo non istraniero al consorzio dei dotti contemporanei di tutte le classi. di questo insigne matematico   e filosofo veneziano. Il desiderio di togliere da ob blio ingiusto e di mettere in piena luce i diritti a fama non peritura di quest'uomo il nome del quale così stretto si lega ad uno de' trovati più belli dell'italiano ingegno, m'infuse costanza, e dolce mi sembrò la fatica nella lettura di opere,che at tualmente pei modi mutati sono poco leggibili. So che potrebbe taluno ricantarmi essere ilnostro pre sente così fervido d'interesse nella scienza e nelle sue applicazioni al materiale benessere della vita da impedirci di guardare addietro nei secoli che f u rono. Ma io penso che sia non ultimo fragl'inte ressi del progresso e di quelli che lo promuovono, il celebrare con sagro zelo la memoria ed il bene fatto dai trapassati. Imperocchè con questo g e n e roso operare tramanderemo un buon esempio ai n e poti, a quei nepoti  34 « che questo tempo chiameranno antico », di non mancare di gratitudine ai primi informatori del bello,dell'utile e del vero.Così impediremo loro di gettare addosso un guardo compassionevole sui nostri prodigiosi lavori, che ora vagheggiamo con giusto orgoglio, m a i quali per fermo, secondo mento delle mondane cose,si contenteranno in al lora di venire conservati e posti in opera come materiali alla costruzione di nuovi e più amati edi fizii. Stefano degli Angeli. Angeli. Keywords: implicatura stereometrica – parabola infinita – Grice’s infinity – regressus ad infinitum, i cinque solidi platonici – la scatologia di Platone – il cerchio infinito – concetto limite, ottimalita – fisica e metafisica, fisica e aritmetica – aritmetica e geomtria – il moto diurno della terra, il sistema di galileo – antropocentrismo, ferita narcissista.   Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Angeli” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Angiulli – la dialettica della dialettica – filosofia italiana – Luigi Speranza (Castellana). Filosofo italiano. Grice: “I like Angiulli; especially since he brought some grice to the mill, as he crossed the pond to read “System of Logic,” but his heart is in Berlin --  he loved that monumental ‘aula magna’ where Hegel taught. “Once a Hegelian, always a Hegelian.” He loved Feuerbach because he multiplied dialectic – la dialettica della dialettica – Garin loved this!”  If there is a hashtag here is #metafisicacritica, since Angiulli oddly concludes with a synthesis: metaphysics (which includes the view that ‘la natura delle cose e la fenomenalita’) should be part of what he calls the ‘ricerca’ (and which Lakatos translated as ‘research’) --.” Grice: “I love the fact that Angiulli, seeing that Mill was so erudite yet never attended Oxford, thought that Oxford was perhaps ‘acccidental’” – Grice: “Another thing I love about Angiulli is that he can quote direct from greek, as in his note on nature spawning itself, without (a) the need to translate or (b) provide the boring stuffy academic source!” Importante esponente del positivism.  Inizialmente allievo di Bertrando Spaventa, uno degli interpreti del pensiero hegeliano in Italia, successivamente Angiulli si allontanò dalla scuola hegeliana napoletana dopo un soggiorno biennale di studi in Germania nonché in Francia e in Inghilterra, dove conobbe la sua futura sposa: Mary della nobile famiglia dei Romano di Patù, nipote di Liborio Romano. Aderì al positivismo, ma rifiutò l'agnosticismo di Herbert Spencer, mentre ritenne possibile giustificare la "religione dell'umanità" (di Auguste Comte) in base alle scienze positive.  Iniziò la sua carriera d'insegnante di filosofia nel liceo "Vittorio Emanuele" di Napoli. In seguito divenne professore di antropologia e pedagogia nell'Bologna e dal 1876 ordinario di pedagogia in quella di Napoli, dove fu anche incaricato dell'insegnamento di etica e di filosofia teoretica.  Fu più volte assessore alla pubblica istruzione nel Comune di Napoli dal 1884 e candidato senza successo al parlamento nazionale. Angiulli era ritenuto un progressista vicino al socialismo che egli invece contestava come dimostra la sua corrispondenza epistolare con Marx che aveva avuto modo di conoscere in Germania.  Massone, fu affiliato Maestro nella Loggia Fede italica di Napoli. Il pensiero pedagogico Angiulli riteneva che ci si dovesse adoperare per una riforma dell'istruzione in senso popolare e nazionale inserendo questo progetto nell'ambito di un rinnovamento dell'intera società che solo tramite l'educazione sarebbe riuscita a mantenere nel tempo le proprie caratteristiche. Occorreva dunque una fusione fra cultura, sistemi educativi e la politica sociale realizzando così il programma del pensiero positivista che, secondo Angiulli, ha un valore soprattutto pedagogico, di una pedagogia scientifica, secondo i dettami positivisti, ma anche letteraria e liberale.  La pedagogia quindi non potrà non tener conto dell'antropologia che dimostra l'importanza della famiglia come nucleo fondante della società e della sociologia che stabilisce il collegamento tra educazione e una politica laica e liberale.  È nella famiglia, secondo Angiulli, che avviene la prima forma di pedagogia dove il padre rappresenta l'autorità e la madre il temperamento, tramite l'affetto, dei comportamenti infantili: elementi questi essenziali destilla formazione armonica di un cittadino in grado di esprimere solidarietà sociale e volontà di progredire resistendo a quelle pressioni clericali che caratterizzavano i primi anni della nascita dello stato unitario italiano.   I grandi progressi compiuti in questo secolo in ordine alle scienze p o sitive hanno avuto il loro riverbero nelle industrie e in tutto ciò che si po trebbe dire scienza pratica, la quale ha fatto dei passi giganteschi. È stato questo che ha contribuito a infiltrare nell'animo di tutti, nonchè un senso pratico della vita assai più raffinato, la tendenza al sacrificio di ogni più nobile cosa di fronte all'interesse. Data una tale costituzione psicologica, parecchi problemi son sôrti nel campo teorico. Si èdetto:– A che la Poesia, a che l'Arte? Il tempo delle finzioni, delle illusioni e dei sogni è passato; ora si cerca ciò che ha un'utilità più o meno immediata, la realtà ci s'im pone. Il terreno delle emozioni si va sempre più restringendo e l'intelligenza pervade tutto.— Il grido Non piùPoesia si è accompagnato col grido Non più Metafisica (Nicht mehr Metaphysik ), ed abbiamo ancora nelle orecchie gli anatemi lanciati non solo contro la Metafisica,ma anche contro la Filo sofia in genere. Il puro specialista in fatto di scienza si ascriveva ad onore il dispregio per ciò che fosse Metafisica. Questo stato però si può dire che sia durato poco,e da tutte parti re centemente è surta una reazione benefica contro la corrente antifilosofica. Ma se ci è un certo accordo quanto ad ammettere la Filosofia,regnano ipiù grandi dispareri per ciò che concerne i limiti da dover assegnare a tale disciplina. La maggior parte dei scienziati, per esempio, ha compreso che ciascuna delle loro scienze speciali ha per iscopo precipuo la scoverta di leggi sempre più generali, di leggi che raccolgano sotto il loro dominio il maggior numero di fenomeni. Generalizzando sempre,si arriva a certi principii che offrono sinteticamente la genesi di quasi tutti i fatti primitivamente raccolti e descritti dagli scienziati;esponendo e discutendo tali principii, sidiceche si fa la Filosofia di quella data scienza. Per codesti specialisti quindi non ci sarebbe una sola Filosofia, o meglio, la Filosofia come scienza a parte, ma ciascuna scienza avrebbe la sua. E pur volendo ammettere,notarono al cani, la Filosofia quale scienza a sè, ad essa non rimarrebbe altro compito che quello di volgere intorno alla Dottrina della Conoscenza. Ci furono altri che proclamarono un sogno la sintesi cosmica, per modo che tutti i sistemi metafisici passati e futuri non avrebbero per loro che il valore di aspirazioni dell'anima, di espressioni di amore per l'Ideale. Codeste opinioni sono sostenute da filosofi di molto merito, nè si creda che non siano giustificate in nessuna guisa; ciascuna invece contiene una parte di verità; il difetto sta nell'aver esagerato troppo l'importanza di co desta parte e nell'aver escluso gli altri elementi. Quelli, per esempio, che hanno visto nella Metafisica nient'altro che ilromanzo dell'anima,non hanno tutti i torti, giacchè se in ogni lavoro scientifico quasi quasi si trova la nota della sensibilità, molto più si rinviene questa nella Metafisica che è un lavoro d'insieme. Le condizioni della conoscenza non sono sempre in uno stato di semplicità ideale, ma si vanno sempre complicando,e l'oggetto della ricerca non appare con una nettezza definita, nè l'intendimento è comparabile ad uno specchio terso. L'uomo non ha abbastanza facoltà per quest'opera di creazione,perchè scovrire è creare.  L'immaginazione entra in giuoco,muo vendo dal fondo stesso del temperamento, di cui quest'immaginazione è un riassunto. Ogni spirito di scienziato ha dunque un certo fare originale, sub biettivo,anche nell'ordine delle conoscenze più lontane dalla complessità della vita. Che avverrà in ordine alle conoscenze più viventi e più complesse, e fra queste in ordine alla più complessa di tutte, come quella che riflette l'uomo e il mondo, vale a dire alla Metafisica? I sostenitori dell'opinione che la Metafisica debba considerarsi come un romanzo dell'anima,ragionano a questo modo. Costruire un sistema è com piere, per mezzo di un'ipotesi esplicativa, la somma delle conoscenze esatte fornite dall'esperienza. Noi possediamo sull'universo e sull'uomo una certa quantità di nozioni positive, noi le coordiniamo e completiamo per via di una teoria generale,allo stesso modo che un geometra disegna una circonferenza intera secondo il semplice frammento di un cerchio. E queste nozioni posi tive, materia indispensabile della nostra ipotesi,ci sono apportate dall'espe rienza in due modi distinti. Da una parte il filosofo conosce i risultati ge nerali delle scienze sperimentali nel tempo in cui egli lavora, e vi conforma la sua immaginazione d'inventore d'idee; dall'altra parte questo filosofo ha subìto, almeno nella sua infanzia e nella sua giovinezza, le influenze infini tamente multiple e complesse della sua famiglia, dei suoi amici, della sua città,della sua regione. La sua vita sentimentale e morale ha preceduto ed accompagnato la sua vita intellettuale. Questa seconda iniziazione si unisce alla prima in modo che la scoverta d'una dottrina si trova essere insieme un romanzo dello spirito ed un romanzo del cuore. Coloro che limitano l'obbietto della Filosofia solo alla dottrina della co noscenza, neanche sono completamente nel falso. Se l'oggetto della Filosofia come sintesi cosmica è la ricerca della genesi dei principii fondamentali di ciascuna scienza speciale, è chiaro che per gradi si risale, generalizzando sempre, dal dominio di ogni scienza speciale a quello della Filosofia. Le con dizioni della scienza moderna son tali che il puro specialista quasi quasi si potrebbe dire che non è un vero scienziato.I legami fra le varie scienze sono oggi così stretti,che s'impongono alla considerazione di tutti.Ed ipro blemi un tempo di esclusiva pertinenza della Filosofia entrano ora nel d o minio delle scienze speciali. Identificando l'oggetto della Metafisica con la realtà immanente dell'esperienza e identificando il metodo di studiarlo coi procedimenti della scienza positiva, essa o non deve esistere, o si converte nella Fisica, intesa come scienza prima ed universale, in quanto tocca il problema cosmico, il problema dei principii fondamentali ed universali, pro blema che emerge da sè dalle scienze speciali, senza alcun lavorio partico lare. La Filosofia però è la continuazione delle scienze positive,costituendo la loro unità, il loro tutto, ma non è che un lavoro di compilazione. Come còmpito speciale ed originale della Metafisica non rimane alla fin delle fini che la Dottrina della Conoscenza. L'obbietto del saggio dell'Angiulli  è appunto quello di esaminare i titoli che la Filosofia pud presentare per essere riconosciuta come scienza separata che ha un còmpito proprio. È stato per questa ragione che mi è sembrato opportuno dilungarmi prima un pochino nel delineare come stanno le cose attualmente. Prima e contemporaneamente alla pubblicazione del libro dell'Angiulli, parecchi altri hanno mostrato come la Metafisica fosse da considerarsi quale scienza con un obbietto ben definito. E si può dire che tutte le scuole filo sofiche contemporanee siano d'accordo su questi punti, che il vero oggetto del nostro sapere è la sintesi dello scibile, la ricostruzione ragionata del mondo analiticamente conosciuto,che la veduta metafisica deve essere sug gerita principalmente dai risultati delle scienze sperimentali, e di queste essere la migliore spiegazione possibile, e che non ha valore quella tratta zione metafisica, alla quale non sia fatto precedere un accurato esame del potere conoscitivo umano,una critica cioè della conoscenza. Gli Idealisti però non consentono che la Metafisica sia dichiarata una scienza positiva, perchè, a differenza di queste, essa ha un doppio intento: ha per oggetto materiale il pensiero, che differisce dagli obbietti delle altre scienze, e per oggetto formale lo studio delle relazioni supreme onde i singoli fatti si col legano fra loro.Le cognizioni proprie della Metafisica,secondo costoro,si ottengono bensì mercè l'osservazione, purchè questa sia psicologica, razi nale, anzichè solo empirica. Poi il procedimento della Metafisica nell'addurre la ragione delle conoscenze, non è quello delle discipline positive; queste debbono limitarsi all'esperimento ed all'induzione, laddove quella, oltre tali metodi, deve seguire speciali criteri suggeriti dalla critica della conoscenza,  Ora comincio col domandare: A quale delle categorie di pensatori ac cennatepiùsuappartiene l’Angiulli? A nessuna: per lui oltre la Filosofia di ciascuna scienza, c'è la Filosofia il cui obbietto è la sintesi cosmica e del sapere. Egli ritiene che i progressi delle scienze positive non hanno fatto pernientemutarel'obbietto dell'antica Metafisica –Sintesi cosmica (Cosmologia), Sintesi del sapere (Dottrina e Critica della Conoscenza) e Valore dell'esistenza (Etica) -- ma hanno solamente portato una rivoluzione in ciòche riguarda il metodo da seguire nella soluzione del problema metafisico. Angiulli qualifica la sua Metafisica come scientifica e progressiva,dichiaran dola scienza e non meno positiva delle altre. Se tale quesito fosse stato for mulato da un dommatico spiritualista o materialista che fosse, ci sarebbe da meravigliarsi poco, e la cosaavrebbepocoopunto importanza; ma il tenta tivo di una metafisica scientifica fatto da un partigiano così illustre del metodo sperimentale, è cosa degna di ogni considerazione.   per distinguere l'apparenza dalla realtà. Finalmente l'ordinamento delle parti nelle singole scienze è parziale, invece la disposizione di esse nella Meta fisicaètotale:quelleordinanocose,fatti;questa,oltrelecose,devedisporre ancheleidee,eordinarel'essereeilconoscere.Conchi one, la Metafisica e una scienza razionale, non positiva. Lasciando da parte ora le sottigliezze metafisiche che non fanno progredire d'un passo la scienza, dirò che tra i filosofi contemporanei quegli che molto si è occupato del problema metafisico è stato il Fouillée. Mentre la scienza pura e semplice, egli dice, non bada che ad oggetti particolari, fac e n d o astrazione dalla mente che li conosce, come d'altro canto la psicologià non si occupa che dei fatti mentali, facendo del pari astrazione da ciò che si co nosce per via dei poteri mentali, è solamente la metafisica che si occupa della relazione, del nesso esistente tra gli obbietti e la mente; e la vera realtà sta appunto in tale relazione, in tale corrispondenza. Però, a senso suo, tutte le altrescienze, compresala Psicologia, sarebbero dachiamarsipro priamente scienze astratte, mentre solo la Metafisica sarebbe da dirsi concreta. Insomma, l'oggetto della metafisica volgerebbe intorno alla reazione di tutto il nostro organismo mentale (conoscenza, volizione, sentimento) di fronte al Mondo.IlFouillée delrestoaccennasolamente aivariproblemimetafisici, ma non ne svolge, nè alcuno ne approfondisce, vuoi in fatto di cosmologia, vuoi in fatto di psicologia, non forma, direi,un trattato dei problemi metafisici, in modo che ti si dia la genesi delle idee filosofiche odierne positive. Tale merito era riservato, si pud dirlo con orgoglio,all'Angiulli,m e rito tanto maggiore, per le difficoltà che offriva il soggetto. La parte vera mente importante ed originale del suo saggio è di non aver solamente proclamata l'esistenza di una metafisica positiva e progressiva, di non averne solamente ideato il disegno, m a di aver eseguito questo, di aver gettato le basi di una Cosmologia e di una Psicologia quale oggi si può avere dal Positivismo ragionato. I partigiani dell'esperienza o non devono ammettere una Metafisica, o, se devono ammetterla, non possono accettare che quella,di ciamo pure, abbozzata dall'Angiulli. Esporrò ora a grandi tratti i con cetti fondamentali dell'autore. Se gli oggetti della realtà conoscibile sono studiati dalle diverse scienze positive, rimane sempre da studiare l'insieme degli oggetti e le scienze stesse e quindi i rapporti, le connessioni esistenti tra gli oggetti particolarmente studiati dalle scienze, e tra le scienze stesse; campo codesto riservato alla Filosofia. Il dimostrare che è impossibile la formazione di una sintesi cosmica è già una ricerca filosofica. Ma veramente l'analisi degli oggetti cosmici è inseparabile dalla sintesi in cui essi ottengono il loro vero valore. E le scienze stesse si volgono a raggruppare più fatti sotto una nozione o una legge generale,o più nozioni e più leggi sotto una nozione od una legge ancora più alta.Ma in questa opera giungono a toccare un limite che di mostra la loro insufficienza. Gli ultimi sostegni e gli ultimi legami dei loro concetti sorpassano i confini delle loro indagini; perciò non possono trovare nella propria sfera la soluzione compiuta anche dei problemi speciali. La filosofia comprende quella parte di ogni scienza che s'innalza a principii e ad ideeuniversali, quellaparte chericonducequesteideeequestiprincipii ad una unità superiore. È parte di ogni scienza ed è una scienza a sé. Ed il Girard,dimostrando che la Filosofia non è un'opera aggiunta alle scienze, sibbene una loro parte integrante, distingue itna Filosofia delle scienze particolari, una Filosofia dei diversi gruppi di scienze, ed una Filo sofia centrale che è la loro sintesi ultima e definitiva. L'Angiulli con ra gione insiste molto su questo, appunto perchè rimanga ben chiarito il con cetto che dobbiamo formarci della Filosofia, e del suo compito nella cultura e nella vita. Le scienze, egli dice, per sè sole scoprono verità che diremo astronomiche, fisiche, chimiche; la Filosofia scopre verità cosmiche. Solo quando le verità attinentisi ai fenomeni meccanici, fisici, chimici, biologici, sociologici si collegano in un principio, in un rapporto comune, si ha una verità cosmica. Quando il Lagrange con la sua splendida applicazione del principio delle velocità virtuali a tutti i fenomeni meccanici, fuse in un tutto orga nico i diversi rami della meccanica che erano stati fino allora studiati sepa ratamente, ottenne una conquista scientifica di un grado superiore. Quando ilGrove el'Helmholtz,mostrandocheivarimodidelmovimento pos sono essere trasformati l'uno nell'altro, apparecchiarono una base comune allo studio del calore, della luce,dell'elettricità e del moto sensibile,conquista rono una verità,la quale,sebbene tocchi già la sfera della filosofia,non esce ancora dai cancelli di una scienza speciale. M a quando il principio delle v e locità virtuali e il principio della correlazione delle forze furono dimostrati entrambi corollari del principio della persistenza della forza, conseguenze necessarie di un medesimo assioma, allora la verità conquistata appartenne all'ordine filosofico. Cosi anche quando Von Baer sostenne che l'evoluzione di un organismo vivente è un progressivo passaggio dall'omogeneità della struttura alla eterogeneità, egli scoprì una verità biologica;ma quando Spencer applicò questa medesima formola all'evoluzione del sistema solare, della terra,della vita,dell'intelligenza,della società,egli conquistò una ve rità filosofica, una verità non semplicemente applicabile ad un ordine di fe nomeni, ma a tutti gli ordini. Dopo averfissatocodestipunti, ilimitidellaFilosofiasembranobencir coscritti, nè vi dovrebbe esser luogo a discutere,se,poniamo,una data teoria sia da considerarsi come teoria filosofica,ovvero tale che non esca dai confini delle scienze speciali. Pure non è così, come si vedrà più giù, quando mi fermerò un po' sulla teoria darwiniana. L'Autore passa subito a fare l'applicazione dei principii su esposti. Svolge dapprima il concetto largo che bisogna formarsi dell'esperienza, ag. giungendovi l'elemento sociale e storico, entrambi tanto importanti; passa poi a delineare la dottrina della conoscenza, mostrando giustamente come sia impossibile trattare un tal soggetto, senza prima far precedere delle note paramente psicologiche. E poichè la Filosofia, se èsintesi del conoscereè anche sintesi dell'essere, Angiulli, nella parte III “ del suo libro si occupa della dottrinadell'evoluzione cosmica. Quivisono raccolti i più recenti risultati scientifici, ed è notevole che l'Angiulli è perfettamente al corrente di ogni novità in ordine alle scienze della natura. Io non scenderò a partico larità; mi fermerd solo un momento su cið che concerne la Biologia, tanto per offrire un esempio della difficoltà che si prova a giudicare se una data teoria scientifica possa aspirare all'onore di essere detta filosofica. Porrò prima il quesito: Qual'è l'importanza che nella sintesi cosmica, qualesipuòformareoggi, ha ladottrina darwiniana? A questoriguardo regna ancora un po' di confusione: c'è chi vorrebbe vedere nell'idea darwi. niana la legge del mondo,e quindi nel darwinismo una dottrina filosofica, e c'è chi pensa proprio il contrario. Giova premettere che non va confuso il Trasformismo col Darwinismo: il primo certamente racchiude un pensiero generale che rasenta almeno il dominio della filosofia; dar ragione di tutto il mondo organico per via di trasformazioni graduali e consecutive è certa mente un'idea che raccoglie il massimo numero di fatti particolari organici e nello stesso tempo tenta di darne la spiegazione; tanto più se si pensa che un tempo tutto lo studio del mondo organico si riduceva a fare un in ventario più o meno ordinato degli esseri organizzati. Ma il Trasformismo è benaltra cosa del Darwinismo: questo in fin dei conti non è che una forma particolare di quello. Il Darwinismo è nient'altro che una teoria generale,la quale non esce dai cancelli di una scienza speciale. Ed infatti: raccoglie esso il massimo numero di fatti che si osser. vano nel mondo organico? Tenta, dico tenta e non a caso, di risolvere il massimo numero di problemi organici? La sua formola è tanto generale da dare la spiegazione della genesi dei fatti più importanti in Biologia? Pone esso tutti i problemi di origine? L'idea del trasformismo era già vecchia; C. Darwin non ha fatto che togliere da tale veduta tutto ciò che poteva sembrare estraneo alla scienza. Ed è stata l'impronta scientifica da lui data a tal genere di studi che ha fatto sì che le scienze ausiliarie concorressero a controllare i risultati già per altra via ottenuti. M a la selezione naturale non spiega tutti i fenomeni organici e molto meno connette questi coi fenomeni fisico-chimici.Di qui il bisogno che si è sentito di fare l'integrazione, come si è detto, della teoria darwiniana: si è completata, si è perfezionata, aggiungendovi molti altri elementi che l'hanno trasformata tutta. Essa, ridotta ad una teoria pretta mente scientifica, non offre quell'universalità propria di una teoria filosofica. È per questo che l'integrazione non concerne elementi accessori,ma riguarda la sostanzialità di essa. Per il Darwin, invero, dalla carestia dipenderebbe la variazione, mentrechè si è notato che il primo fondamento della varia zione risiede nell'opera della nutrizione, la quale riesce ad un accrescimento della sostanza vivente, per quel processo naturale onde essa, col concorso favorevole dei mezzi dell'ambiente esterno, accoglie in sè nello stadio evo lutivo più di quello che non perda. Dall'abbondanza dei mezzi nutritive -- Cfr. MORSELLI, Lesioni di Antropologia L'Uomo secondo la Teoria dell'Evoluzione, Dispense --  come ha notato il Rolph, dalla prosperità, non dalla miseria, dipende la variazione, l'accrescimento della materia organizzata. Questo accrescimento, segnando in pari tempo una conquista di nuovi caratteri ed una divisione di attività e di attinenze, si porge come svolgimento, come progresso. Giova notare anche qui che la prima storia della vita comincia dal rispecchiare le condizioni dell'ambiente ove essa si svolge. Innanzi alla lotta coi rivali l'essere organizato deve, di contro alla varietà degli agenti esterni, conquistare il suo posto. La legge della concorrenza non può essere il primo sostegno dell'evoluzione biologica:èsolounepisodiodiquesta.La leggemalthusiana deve essere mantenuta in confini più giusti, poichè il rapporto della ripro duzione di fronte ai mezzi dell'esistenza, cangia, si trasforma col perfezio namento degli organismi. Chi voglia persuadersi di primo acchito come siano essenziali gli ele menti introdotti nell'integrazione fatta della teoria darwiniana, non ha che a volgere uno sguardo a ciò che tanto lucidamente ha scritto l'Angiulli nella parte biologica della sua sintesi cosmica. Egli, guardando sempre le cose da un punto di vista generale, cerca sempre di connettere e di scovrire i rapporti esistenti fra le cose, mentre il Darwin, puro scienziato, non vi presenta che serie di osservazioni con le rispettive dichiarazioni, senza mai tentare di unificare.L'Angiulli,peresempio,vidicechebisogna ricon durre i principii e le leggi esplicatrici della derivazione delle specie all'effi cacia delle funzioni stesse della vita nutrizione e riproduzione adat tamento e trasmissione ereditaria. La legge dell'evoluzione biologica sarebbe la stessa della Fisiologia, dilargata nello spazio e nel tempo. A base del l'evoluzione biologica rimane quella virtù della variazione che scaturisce dalla complessità e dall'indefinitezza della composizione della materia orga nizzata. Cosi l'ultimo principio esplicativo delle forme e delle proprietà degli esseri viventi si trova in un cangiamento chimico. La trasmissione ereditaria si risolve in una semplice partecipazione di proprietà chimiche. Si è sentito il bisogno di ricorrere ad altri ausiliari per la dichiarazione del mondo organico, facendo sempre l'applicazione del principio posto, che bisogna spiegare la derivazione delle specie mediante l'efficacia delle fun zioni stesse della vita. Così anche la sensibilità e la motilità, se sono fun zioni integranti della vita, debbono avere un'efficacia trasformatrice degl’organismi. Senza gli stimoli della irritabilità, dice Virchow, non vi ha lavoro organico, nessuna assimilazione di materia formativa, nessuno svolgimento. Inoltre, come le attività e i rapporti della vita si accrescono e si moltiplicano, si accrescono e si moltiplicano del pari i fattori della varia zione.Ed a misura che i singoli fattori si elevano, nello svolgimento della vita, ad una forma più alta, acquistano un'efficacia trasformatrice sempre maggiore. Perd dobbiamo attribuire col Virchow alle forme più elevate della sensibilità e della motilità, al pensiero ed all'azione volitiva una m a g giore efficacia trasformatrice e perfettiva degli organismi concreti. Coi fatti della sensibilità e del movimento è congiunta nella sostanza organica la disposizione a riprodurli, che fu detta memoria, ed è il fonda mento dell'abito, senza di cui sarebbe impossibile la variazione degli esseri viventi. In tale proprietà va implicato quel processo di coordinazione o ag gruppamento degli effetti dell'esperienza che altri ha considerato come nota speciale dell'intelligenza. All'occasione di un sol termine di una relazione di un gruppo, dato da una sperienza presente, si riproducono anche gli altri termini non dati,ma con esso congiunti.Ora,l'anticipazione immaginativa è una condizione essenziale dei progressi della variazione perfettiva. La varia zione non avviene soltanto come effetto di azioni o di stimoli presenti, per manenti,ma avviene anche in anticipazione di azioni non presenti;non vi è un adattamento a relazioni attuali, ma benanche un adattamento a rela zioni future e previste. L'interna attività della rappresentazione anticipativa è sufficiente per sè a produrre una certa modificazione della struttura orga nica in anticipazione della funzione.Così si ristabilisce una specie di finalità negl'intimi svolgimenti della vita, rilevando l'efficacia dell'attività intellet tiva come fattore della trasformazione delle specie. Oltre all'adattazione per opera dell'immaginazione anticipativa, vi ha un'adattazione più specialmente intellettuale, perchè riguarda circostanze nuove e non previste,e non si riconosce in un abito già formato. Questa specie di adattazione selettiva o raziocinativa si appalesa gradatamente nella serie degli organismi, comin ciando dai più bassi, m a senza di essa sarebbe inesplicabile l'acquisto di molti istinti el inesplicabile il progresso della vita animale. La varia zione, per esser progressiva e perfettiva, non può essere accidentale, abban donata alla pura lotta esterna degli organismi, ma deve essere promossa da una funzione coordinatrice ed anticipatrice delle relazioni dell'esistenza. Ora domando: Dopo un'integrazione di tal fatta, la quale si potrebbe chiamare la filosofia della trasformazione delle specie, perchè riunisce sotto un unico principio, giusto o falso che sia, tutti i vari elementi che concor. rono alla derivazione delle specie organiche, che cosa è divenuta la teoria darwiniana vera e propria, quale uscì dalla mente del suo autore? Niente altro, mi pare, che un caso particolare della grande legge della variazione organica. Già Darwin stesso confessa che egli rifugge dall'occuparsi dei problemid'origine,equindi di quellid'ordine generale;eppure,chivuol fare la filosofia della natura organica non può fare a meno di trattare la que. stione della genesi della vita, come di penetrare nella natura intima dei fenomeni implicati in essa,quali la nutrizione,la crescenza,la riproduzione, lasensibilità,lamotilità,lavariabilità.E l'Angiulli,chehaintesodi porgere le linee principali di una sintesi biologica, ha trattato a modo suo tutte codeste questioni. Potrà essere discutibile la soluzione data del problema, ma questo va sempre messo col tentativo della discussione. Alla teoria darwiniana manca per questo ogni individualità propria, e può entrare nei sistemi filosofici più diversi; individualità e precisione che Qui espongo semplicemente l'integrazione della teoria darwiniana offertaci dal l'Angiulli, non ne faccio la critica, perchè ciò non risponderebbe allo scopo che mi son proposto più sopradimostrare come il Darwinismo sia una pura teoria scientifica, non filosofica. Dirò solo che sarebbe oltremodo necessario precisare sia l'immaginazione anticipativa organica che l'adattazione raziocinativa. le vengono impartite dall'integrazione fattane, la quale racchiude un pensiero filosofico. Il concetto della selezione è per se stesso abbastanza elastico,e si presta alle più disparate interpretazioni, ond'è che per vedere un concetto filosofico in essa,la si è più o meno piegata alle proprie idee. La selezione, si è detto, è il fatto stesso della variazione prodotta dal complesso delle attinenze e delle condizioni interne ed esterne dell'essere vivente: è un'espressione a b breviativa di tutte le condizioni interne ed esterne di esistenza: non è la causa della variazione, ma è l'espressione di essa.La selezione, si è anche detto, non deve circoscriversi a significare l'accumulazione di quelle varia zioni che sono utili nella lotta coi competitori, ma deve essere intesa in un senso più generale, cioè come quell'aspetto della variazione che rende l'or ganismo atto a sopravvivere,come espressione metaforica del fatto che ogni equilibrio di forze meglio adatto a sopravvivere, sopravvive. Intesa a questo modo,rispondo io,la selezione naturale diviene un con cetto astratto, una forma vuota,e non più una legge concreta e produttiva, o,meglio,esplicativa dei fenomeni. Se essa non ci si presenta come un con cetto definito e preciso, si può lasciarla impunemente da parte. Ma è poi vero che nella mente del Darwin la selezione naturale significasse ciò che vogliono alcuni filosofi d'oggi? A me non pare: per lui era la legge dell'e voluzione organica. Aggiustarla ora in varie guise prova sempre più l'inde terminatezza delle vedute darwiniane, rileva la poca esattezza da parte di chi sconvolge le idee, ed in ogni caso è reso sempre più certo il fatto che la teoria darwiniana vera e propria è perfettamente estranea alla Filosofia. L'ultima parte dell'opera dell'Angiulli riguarda l'etica; vi si trova la giustificazione completa del titolo La Filosofia e la Scuola. Dirò solo che codesta parte non è inferiore alle altre da qualunque punto di vista si voglia considerare. Ora non mi è concesso discuterla; spero di farlo in altra occasione,ma non concluderò senza affermare che questo dell'Angiulli è fra i lavori filosofici dell'ultimo decennio, di cui maggiormente possa onorarsi il pensiero italiano.  sono, come l'Ente, altro che umane astrazioni. Noi non conosciamo il pensiero se non come un'attività, una funzione dell'umano organismo. Però lo spirito assoluto, e tutte le altre entità metafisiche sono una produzione di questa umana attività, un fenomeno psicologico. Vale dunque solol'opposito diciò che affermavaHegel:in luogo cioè di essere la natura e la materia una manife stazione del pensiero, egli è il pensiero una m a n i fesiazione della natura e della materia. Oltre alla materia non vi ha altro principio. Il materialismo ed il naturalismo è dunque ad un tempo la conse guenza e la confutazione dell'eghelianismo.Questa specie di dialettica della dialettica egheliana è un fatto storico,ilcui maggiore autore fu il Feuerbach,  12 M W L'io assoluto dell'Hegel, cioè il pensiero e lo spirito assoluto, affermato c o m e principio e verità di tutte le cose,non è altro che la massima di Pro tagora spogliata del carattere d'individualismo. Se Protagora esprimeva esagerato un fatto reale, H e gel esprime esagerata un'astrazione spiritualistica, che non è meno relativa del relativismo sofistico. Feuerbach tornaall'uomo concreto.L'uomo èan cora per luiilcentro della filosofia,ma nè più co m e l'individuo arbitrario dei sofisti, nè più come l'universale astratto dell'Hegel, si bene come tutto l'uomo,come sensibilità e come società. Di con tro all'idealismo si riafferma il realism. Solo  Però l'astrazione è produzione di nuovi concelli solo in quanto è trasformazione di precedenti.Anche per la psicologia moderna vale ciò che vale per la geologia modern a; le funzioni ed i prodotti psicologici sono spiegabili con le stesse forze fisiche e fisiologi che,con l'aggiuntadelfattoredeltempo.L'eredità. psicologica è un altro fatto accertato dalla scienza moderna e capace di recare molta luce in siffatte quistioni. Noi non facciamo che continuare le atti iudini e le conquiste del passato. Ilprogresso è l'educazione dell'umanità;la civiltà è un risultato d'esperienza, e non un miracolo di rivelazioni. Ma con tutte queste aggiunte e modificazioni dell'empirismo voi, si dirà,non potrete mai elevarvi sopra la sfera del sensibile;ossia le cause che voi potete ricercare non possono essere che altri fatti primitivi;eleleggichevoipotetescoprirenon pos sonoessere altro,che le relazioni costanti dei fatti. Precisamente questo: così l'uomo moderno ha in sè stesso il suo punto di appoggio, e la storia ha in sè stessa la sua legge, senza bisogno di entità teologiche o metafisiche che la dirigano, come la natura ha in sè stessa l'energia ed il principio della sua esistenza e della sua spiegazione. La natura fondamento della natura, ecco il grande principio della cultura ccidentale (ουδένάνευφύσιοςγίγνεται,γίγνεται 27.12.çúcevēxo.oto.). Allora ricadetenel positivismo schiell. No, perch è se il positivist a r i l i c n e come. Opere: “La filosofia e la ricerca positiva: quistioni di filosofia contemporanea”; L'idealismo assoluto confutato dal materialismo. L'idealismo ed il materialismo nel corso della storia della filosofia. La filosofia greca. La filosofia naturale dei romani antichi. La fondazione della scienza positiva. Il medio evo. Il risorgimento italiano. La filosofia moderna. Il secolo XVIII. Il criticismo di Kant in Italia. La filosofia speculativa. La ricerca scientifica. La critica filosofica e la scienza positiva. La filosofia positiva -- il positivismo filosofico in Italia. Che cosa manca al positivismo filosofico. Gli altri sistemi contemporanei. Vacherot, Renan, Taine, Comte, Mill, Littré. La filosofia come ricerca positiva.– V.La filosofia e la storia.   “Gl’hegeliani e i positivisti in Italia e altri scritti inediti”(Savorelli); Pubblicazione dell'Accademia toscana di scienze e lettere "La Colombaria". Gli hegeliani e i positivisti in Italia. Positivismo e socialismo. Problemi di etica; Evoluzione, educazione e società. Il prof. Haeckel e la pena di morte. Dal carteggio di Andrea Angiulli". Collezione "Studi".  “La pedagogia lo stato e la famiglia”;  Natura complessa della quistione sociale. Riguardalari or ganizzazione della cultura nei diversi strati della socie tà. Problema dell'educazione. Antinomie dei sistemi pedagogici. Una Pedagogia scientifica è resa impossibile dalle dottrine della teologia e dell'ontologismo. La teoria dell'educazione presuppone la legge dello svolgimento nel campo della biologia e della sociologia. L'attuazione di un sistema scientifico dell'educazione nazionale presuppone la costituzione dello Stato libero, il trionfo libertà e di ordine. Appartiene agli uffici dello Stato. L'istruzione scientifica. La scuola laica. L'eliminazione del catechismo non rende la scuola antireligiosa. Non vi ha conflitti tra la scienza e la religione in generale. La perfezione religiosa deriva dai progressi della scienza. La scienza la religione e la morale. La scienza e l'arte. La scienza e la quistione economica. La scienza e la quistione politica. Difficoltà per l'attuazione del l'istruzione scientifica. La riorganizzazione delle scuole normali. Le condizioni dei maestri elementari. Insufficienza dell'azione diretta dello Stato. La famiglia. L'opera della madre. Il punto culminante del problema. L'istruzione richiesta nella donna per compiere il suo ufficio di sposa, di madre, di educatrice. Insufficienza dell'istruzione per migliorare il carattere e la condotta umana. Una dottrina di H. Spencer. Il Lewes.Verità  della politica scientifica. L'educazione è un dovere nazionale. È un principio di   VIII parziale di questa dottrina. È anche vero che l'istruzione determina gli affetti e conferisce al perfezionamento morale e pratico. Il Luys. Il Littré. Il nostro discorso rimane saldo ad ogni modo. Ammesso come vero che la condotta sia determinata dalle associazioni del sentimento, rimarrà vero che solo dalla conoscenza delle leggi onde si formano coteste associazioni, cio è solo dall'istruzione scientifica dipenderanno in ultima analisi gl'indirizzi dell'operare, il miglioramento morale dell'individuo e della razza. “La filosofia e la scuola” La quistione fondamentale della filosofia. Rapporti tra le scienze e la filosofia rispetto alla conoscenza della realtà. L'unità dell'oggetto e del processo conoscitivo. La filosofia non è una pura somma de' risultamenti delle scienze. Le scienze generano la filosofia. La moltiplicazione delle scienze agevola l'opera della filosofia. Tre modi d'intendere quest'opera della filosofla riguardo alle scienze. La filosofia è una ricerca progressiva, e può scoprire verità di un ordine superiore. Il *fondamento esplicativo* delle scoperte scientifiche è dato dalla filosofia. Influenza reciproca della scienza e della filosofia nel corso della storia. La filosofia come dottrina generale della conoscenza e della scienza. Medesimezza di natura tra la conoscenza comune, la scienza e la filosofia. Relazione storica della logica o dialettica e delle scienza. Classificazione della scienza. Dottrina del Comte. Rapporto delle scienza astratta e della scienza concreta. Un concetto della filosofia più compiuto di quello del Comte. La dottrina dello Spencer. Gli stadi dell'evoluzione cosmica e la clas sificazione della scienza. Il posto della psicologia filosofica nella classificazione della scienza. Bain, Spencer. La ricerca *meta-fisica* come *compimento indispensabile* della scienza e della dottrina della scienze. Lacuna del Comte. Il lato *logico* o dialettico ed il lato *cosmo*-logico della meta-fisica. La ricerca delle origini e degli elementi generativi dei fatti è una nota caratteristica della scienza e della filosofia. Contraddizione del Comte. Il Littré. L'inconoscibile dello Spencer. Il lato metafisico dell'etica. La religione dell'umanità e dell'inconoscibile. Sistema e speculazione. IV. Il problema della critica. Ladottrina del Kant si muove sopra un supposto *non*-critico. Gli elementi della conoscenza. Il molteplice. I problemi della filosofia,   della sensibilità. Le forme dello spazio e del tempo. Le categorie del l'intelletto. L'attività sintetica originaria della mente. La funzione sopra-individuale della conoscenza. Critica della dottrina kantiana. Il neo kantiani e i vetero-kantiani. I neo-criticisti e i vetero-criticisti. La critica e la psicologia filosofica. Il Liebmann, il Riehl, il Goering, il CARNERI. Il positivismo francese. John S.Mill. I Spencer, Lewes. La critica dell'esperienza e la dottrina della conoscenza. Il falso supposto dualistico della vecchia critica. L'unità dell'io è un'illusione metafisica. La genesi della coscienza. L'embriologia mentale. Le facoltà psichiche sono una derivazione dell'esperienza. Gli elementi dell'esperienza debbono ricercarsi col soccorso dell'esperienza stessa. Le esperienze incoscienti. Le leggi della vita e le leggi dell'esperienza. Il senso e l'intelletto. La sensazione e la coscienza. L'attività trasformatrice dell'esperienza. L'esperienza ereditaria e l'esperienza individuale. L'esperienza abbraccia tutt'i lati della mente. La legge dell'esperienza e la legge dell'associazione. L'esperienza individuale e l' ESPERIENZA sociale e COLLETTIVA esperienza collettiva. L'esperienza storica. La psicologia sperimentale e la dottrina della conoscenza. Le leggi della sensazione e del pensiero. L'elemento a priori della conoscenza è un prodotto dell'esperienza stessa. Trasformazione dei gradi più bassi della conoscenza mediante le attività più elevate della mente. La genesi dei concetti e delle categorie. Le note della necessità e dell'universalità della conoscenza. Il principio della regolarità nell'ordine della realtà. Il realismo sperimentale. Le proprietà del reale. Lo spazio ed il tempo. Il fatto, la legge e la causa. La metafisica. La dottrina dell'evoluzione cosmica. Il problema intorno alla concezione del mondo. Sguardo storico della dottrina dell'evoluzione cosmica. I fattori della dottrina scientifica dell'evoluzione. Gli elementi primitivi della materia e della forza. La sostanza e il divenire. Due lati di un unico problema. Interpretazione più esatta del processo di evoluzione. L'evoluzione biologica. L'origine della vita e della mente. Le pro prietà capitali dell'essere vivente. La nutrizione, la riproduzione, la sensibilità, la motilità. L'origine delle specie viventi spiegabile mediante l'azione delle attività fondamentali della vita. La dottrina del Darwin. Estensione del principio della lotta per l'esistenza. La selezione è il *risultato* non la causa della variazione. L'efficacia dell'elemento psichico. L'*evoluzione sociale*. La legge dell'associazione nel seno della biologia. *Formazione della società etnica*. Struttura e funzioni dell'*organismo sociale*. Esagerazione dell'analogia biologica. La dottrina del Comte e dello Spencer. Dallo studio degl'individui non si può ricavare l'esplicazione del fatto sociologico. I fattori che determinano la differenza specifica e qualitativa del fatto sociologico. Il consentimento volontario e la creazione di prodottiche debbono essere appresi. Rapporti tra i prodotti della cultura nello svolgimento progressivo della vita sociale. La dottrina dell'Etica. La sociologia mette capo al problema dell'etica. La dottrina del l'etica compie il concetto della filosofia. Nell'etica si accoglie un problema di un significato cosmico. L'etica e la religione. La dottrina dell'evoluzione è il fondamento più saldo e perfetto dell'etica, ed è il fondamento di una nuova religione. La religione nella sua forma primitiva è una scienza nascente. Gli elementi costitutivi della religione. Il lato pratico, il lato estetico. La legge morale e la legge dell'ordine cosmico. Il fatto morale è il *prodotto* no n il presupposto dell'evoluzione. L'ottimismo e il pessimismo. Il concetto d'evoluzione e la nuova dottrina del migliorismo. La base biologica sociale storica dell'etica. Il fattore dell'ideale nell'etica e la quistione della libertà umana. La libertà è un prodotto sociale e storico. L'educazione rinnovatrice dell'esistenza sociale è una funzione dell'etica. L'educazione nel suo metodo e nel suo contenuto scientifico. Opinione dello Spencer. Le materie dell'istruzione designate dai fini della vita. Il loro ordinamento conforme allaclassificazione delle cognizioni scientifiche. Il fine dell'istruzione non si raggiunge se non si porge una intima connessione tra i diversi rami degli studi. Questa connessione è l'opera della filosofia. La filosofia nei diversi gradi della scuola. Gl’insegnamenti della scuola primaria debbono essere animati da uno spirito filosofico per raggiungere la loro efficacia educativa. Lo studio della filosofia nella scuola media. Trasformazione di questa scuola secondo i bisogni della cultura moderna. Lo studio della psicologia nella scuola media. La teorica della conoscenza. Lo studio della filosofia all'università. Efficacia pratica e sociale di questo studio.  Curiosità Al professore è stata intitolata, la Società Ginnastica Angiulli di Bari. Garin, Dizionario Biografico degli Italiani, riferimenti in.  Andrea Angiulli, La filosofia e la ricerca positiva, Napoli, tip. Ghio, Gnocchini, L'Italia dei Liberi Muratori, Erasmo ed., Roma, Volpicelli, La Pedagogia: storia e problemi, maestri e metodi, sociologia e psicologia dell'educazione e dell'insegnamento, ed. Piccin, Espinas, La Philosophie expérimentale en Italie. Origines-Etat actuel, Paris, Alterocca, Sulla vita e sulle opere di A. A.,Milano,  Colozza, A. A., in Diz. illustrato di Pedagogia, Milano, Ferrari, Il Liceo Vittorio Emanuele II di Napoli, all'esposizione universale di Parigi, La cattedra di filosofia, Napoli, Orestano, A. A., Roma, Gentile, La filosofia in Italia, I Positivisti. V. A. A., in "La Critica",  (e in "Le origini della filosofia contemporanea in Italia", II, Messina, G. Flores D'Arcais, Studi sul positivismo pedagogico italiano, Padova, Spirito e F. Valentini, Il pensiero pedagogico del positivismo, Firenze, Tisato, Positivismo pedagogico italiano,  II, Torino, Savorelli, Positivismo a Napoli. La metafisica critica di A. A., Napoli, G. Oldrini, Idealismo italiano tra Napoli e l'Europa, Milano, Donzelli, Origini e declino del positivismo. Saggio su Auguste Comte in Italia, Napoli, Cavallera, A. A. e la fondazione della pedagogia scientifica, Lecce, Positivismo Pedagogia Famiglia  Eugenio Garin, Andrea Angiulli, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Andrea Angiulli,.  Andrea Angiulli, in L'Unificazione, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Filosofia Istruzione  Istruzione Filosofo del XIX secolo Pedagogisti italiani Castellana Grotte Napoli Massoni Professori dell'Bologna Professori dell'Università degli Studi di Napoli Federico II. Angiulli. Keywords: la dialettica della dialettica; l’antisignano del positivismo filosofico – metafisica critica – l’organismo sociale, il fatto sociale, la collettivita, il fatto collettivo, il fatto sociale – la societa, la collettivita, la collettivita etnica, la razza. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Angiulli” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Anioco – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A Pythagorean according to Giamblico

 

Grice ed Annunzio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Pescara). Filosofo italiano. Grice: “I will call him a philosopher.” D’Annunzio e il fascismo è una storia italiana. I Contemporanea. L’Illuminismo oscuro Il rapporto tra il vate e il fascismo è molto più complesso e burrascoso di quanto si pensi: un poeta buono nell'infondere emozioni e a forgiare l’immaginario collettivo, ma che poco ha a che spartire con Mussolini e la dottrina fascista.  Difficile trovare un personaggio più divisivo di Annunzio. O lo si ama o lo si odia. Chi lo ama, solitamente, sa vagamente perché. Chi lo odia, il più delle volte, non ha idea della ragione. Pochi si addentrano nel personaggio, nelle opere, nella biografia, nella sua filosofia, e finiscono per apprezzarlo per le sue magnificenze e contraddizioni, senza amarlo né odiarlo. L’uomo presenta slanci superbi e difetti inemendabili, che si elidono e restituiscono l’immagine di una persona straordinaria.  Propaganda Filippo Tommaso Marinetti. Come si seducono le donne Manuale di seduzione futurista. Coraggio, coraggio, coraggio: ecco l’afrodisiaco supremo della donna! Una celebre contraddizione di Annunzio fu l'adesione al fascismo. La questione viene spesso relegata a una semplicistica organicità del vate al regime e alla sua dottrina politica, cosa che lo rende – come se interventismo, erotomania, morosità, dissolutezza e tossicodipendenza non bastassero – inviso e disprezzato dai più. Dire che Annunzio fosse un antifascista sarebbe un’esagerazione fuori luogo, dire però che fosse un fascista fatto e finito è altrettanto un errore, perché ben poco condivideva di quella dottrina e certo non fu amico di Mussolini. Il personaggio e le sue scelte sono figli di quel tempo complesso, e della lacerante crisi che l’Italia vive. Proiettiamoci allora con l'anima in quegli anni terribili.   Cartolina disegnata da E. Anichini per il centenario dantesco. Si vede l’Italia tra Dante e Annunzio, in una specie di simbolico passaggio di consegne. Il vate, nella mano destra un fascio curiosamente capovolto, è rappresentato come la più illustre personalità d’Italia: colui che, come Dante unifica linguisticamente lo Stivale, lo unifica con la forza della parola e delle mani. È una cartolina pubblicata per conto dei fascisti, in cui di Mussolini non si fa la minima menzione. Per tutti, se un duce ci è non può che essere Annunzio. È finita la Grande Guerra e l’Italia è sull’orlo di un altro conflitto, una guerra civile. I reduci sono delusi e arrabbiati, sia i cosiddetti interventisti democratici – quelli che intendeno portare il popolo in armi alla liberazione dei compatrioti sotto dominio straniero –, sia gli interventisti nazionalisti – coloro che auspicano che l’Italia, sconfiggendo lo storico rivale dispotico e arrogante, potesse sedere al tavolo delle grandi potenze – si trovano a stringere un pugno di mosche: alle trattative per la pace l’Italia ottiene ben poco ed è trattata con sufficienza. Tre anni di combattimenti, 600 mila caduti e la vittoria sul campo non garantiscono quanto era stato promesso nel Patto di Londra -- è la vittoria mutilata. I nazionalisti insorgono. Annunzio ha occupato Fiume e la tiene fino a quando lo stesso governo italiano bombarda la città mettendo fine all’avventura della Reggenza Italiana del Carnaro. Come se non bastasse, in Italia scoppiano scioperi e rivolte. Gl'operai si ribellano, occupano le fabbriche, erigono barricate. Scioperano gli agrari, i sindacati si mobilitano, le piazze sono in tumulto, il Partito Socialista si agguerrisce: si compie il biennio rosso, che culminerà, almeno simbolicamente, nel Congresso di Livorno, quando la corrente massimalista del Partito Socialista secede, dando vita al Partito Comunista. I fascisti seminano violenza in tutta la Val Padana e anche oltre. Si scagliano contro i socialisti e le loro sezioni, contro gl'operai, i contadini, i comuni amministrati dalla sinistra. Sono il primo antidoto repressivo al biennio rosso. Obiettivo prestabilito: i rossi, la canaglia bolscevica, i pacifisti traditori. Uniti nella lotta, socialisti, comunisti e anarchici fronteggiano un nemico comune, le squadre di camicie nere.   La classe dirigente liberale è impotente, il parlamento litigioso e inconcludente, i politici non hanno consenso: le trattative di pace sono state condotte con scarsa convinzione e l’amministrazione pubblica è allo sbando. La gestione dell’ordine pubblico è quasi inesistente, tanto che frange dell’esercito, delle forze dell’ordine e alcuni prefetti iniziano a simpatizzare coi fascisti: almeno loro riescono a garantire un minimo di ordine, seppure in maniera inadeguata a uno stato di diritto.  Qui si incastra una doppia illusione. Da un lato, parte della borghesia industriale e agraria foraggia i fascisti in funzione anti-rivoltosa, contro i propri stessi lavoratori indisciplinati. Dall’altro, la classe politica *liberale* ritiene che queste squadre di *incolti picchiatori* siano utili a mantenere ordine e a prevenire una possibile rivoluzione socialista, e che spariranno a breve come tutti i fenomeni pittoreschi, capeggiate come sono da cinici opportunisti, violenti agitatori e da un parolaio magico. Gl'uni e gl'altri credono di potersi servire di questo movimento finché lo si farà durare, per i propri comodi.   Annunzio legge nella Capponcina -- è noto per le opere letterarie, i saggi filosofici decadentisti, le avventure amorose e per il suo gusto nel bel vivere. La guerra, Fiume e le folle sono di là da venire. A questa età, Mussolini si appresta a diventare capo del governo. In tutto ciò Annunzio *è l’italiano più famoso all’estero* e più influente in patria. La parola del Poeta non è quella di uno scrittore o un politico normale. Annunzio è un *eroe di guerra*, è l’artefice dell’Impresa di Fiume. Occupa le prime pagine dei giornali di tutto il mondo -- è uno scrittore acclamato, il più tradotto, il più amato e il più odiato. Ha un seguito enorme, migliaia di sostenitori appassionati, reduci di guerra e ammiratori comuni, e centinaia di legionari fiumani legati a lui da giuramento -- è un uomo che può raccogliere attorno a sé migliaia di fedeli, persone che tra le altre cose conoscono le armi. È un uomo pericoloso. Quando arringa, unisce; quando dileggia, divide. È bipartisan il Vate, piace a tutti e non appartiene a nessuno -- è inserito fino al collo nell’ALTA SOCIETÀ, piace agl'ARISTOCRATICI -- è un fervente patriota, beniamino di tanti nazionalisti. Ha incassato la stima di Lenin e in alcuni momenti pare davvero un rivoluzionario, per questo lo osservano diversi proletari.  Lo vorrebbero con loro anche molti fascisti. Ma Annunzio non ricambia il favore ai demagoghi che credono di aderire alla realtà e non aderiscono se non alla loro camicia sordida. È un ottimo momento, ma il Vate temporeggia. Stanco, disilluso, disgustato dalla politica e dal governo *liberale* che gli ha tirato addosso le granate, a lui che, *monarchico* e patriota, vanta sette medaglie al valore. Si è ritirato nella villa di Gardone, sul Lago di Garda, e sostiene che  non c’è oggi *in Italia* nessun movimento politico sincero, condotto da un’idea chiara e diretta. Perciò è necessario che noi facciamo parte di *noi stessi*, immuni da ogni mescolanza e contagio. Annunzio osserva il caos in cui l’Italia versa e decide di non gettarsi nella mischia. Lui ha già combattuto, non è questo il suo terreno. Spera in fondo che un giorno non lontano tutta Italia lo richieda a gran voce come paciere, novello *dittatore romano* che scongiura la guerra civile. Ha tutte le carte in tavola ma non le sfrutta. Dice di sé. Mi auguro di essere la persona alla quale un giorno si penserà dicendo: Avanti! Non resta che lui!  I fascisti credono sia arrivata la loro ora, ma manca un vero condottiero. Mussolini è l’ideologo, l’*inventore* del movimento, ben lontano dal diventare il *duce degli italiani*. Colui che in questo momento viene acclamato come *duce dalla gioventù* è Annunzio, il condottiero che deve portare al potere *la giovane Italia* nata nelle trincee, scalzando la pletora di politici vecchi e mercanteggianti che hanno vinto la guerra non per merito loro e hanno svenduto la patria allo straniero. Annunzio ha il carisma, il seguito, la statura culturale per trascinare i giovani e i reduci a Roma, compiendo quella rivoluzione italiana che *nulla ha a che fare con la rivoluzione bolscevica*. Ci sperano i suoi seguaci, meno lo agogna lui. Annunzio è però anche un cialtrone, un oratore capace di trascinare le folle nei momenti bui ma del tutto inadeguato alla politica intesa come mediazione e governo quotidiano. Ciononostante vanno in molti a bussare alla sua porta.  Contemporanea Nicola Maiale In Fiamme Violenza politica in Italia dalla belle époque alla marcia su Roma. Mussolini sigla il patto di pacificazione coi socialisti, che prevede la rinuncia bilaterale alla violenza e la *costituzionalizzazione* del movimento fascista, e all’interno dello stesso movimento le polveri esplodono. "Chi ha tradito, tradirà" si legge sui manifesti affissi dagli stessi fascisti a Bologna. L’ovvia implicatura è al tradimento del Mussolini socialista. La massa fascista, le squadre e i rispettivi ras, ripudiano la guida di Mussolini, che ricambia con le dimissioni (rigettate) e affermando che quello che era un movimento ideale si è trasformato in una banda armata al servizio del capitale. Mussolini è politicamente fuori gioco e i ras invocano il duce che è tornato da Fiume da pochi mesi. Dino Grandi e Italo Balbo si incaricano dell’ambasciata a Gardone per offrirgli la guida del fascismo. Annunzio rifiuta nettamente, senza rispetto, e i due se ne vanno sdegnati. Anche Gramsci compie il pellegrinaggio! Non si sa quale sia la proposta perché Annunzio rifiuta di incontrarlo poiché, dice,  non posso lasciarmi imporre i colloqui.  Forse Gramsci vuole trascinare il poeta nel Partito Comunista, più probabilmente proporgli di unire i suoi legionari alla resistenza antifascista. Perché si sa che Annunzio non ama i fascisti, seppure con una certa ambiguità, e il disprezzo è ancor più motivato dai toni che in quel momento Mussolini assume nei riguardi del Vate, quando smette la riverenza e dice apertamente che le iniziative politiche di Annunzio sono irrilevanti, che egli è inaffidabile e capriccioso, inservibile e intrattabile. Non ha tutti i torti. Annunzio sarà anche stato l’eroe di guerra, il condottiero che prende Fiume in armi e la tiene per un anno e mezzo, ma è pur sempre un poeta, un dandy *narcisista* e *dissoluto*, uomo adatto alle arringhe, a infondere emozioni e volontà, a forgiare l’immaginario collettivo, ma di cosa sia la politica non ne ha idea e non vuole saperne nulla, disgustato com’è da tutto e tutti, desideroso solo di crogiolarsi nella sua solitudine e tornare ad essere quel che era, un operaio della parola, come ama sempre definirsi.   I due personaggi appaiono quanto mai diversi. In questa immagine si ritraggono un Mussolini primo *deputato* fascista, *sguardo severo* e *abbigliamento scuro*, minaccioso nell’espressione, e un Annunzio in uniforme, gli occhi persi nel vuoto, indubbiamente più affascinante, ma *meno granitico*. Nel periodo precedente la marcia su Roma Annunzio mostra particolare ostilità al fascismo. Dopo il fallito tentativo di Gramsci, sono ricevuti i capi della CGIL e persino Čičerin, commissario sovietico agli Affari esteri, tutti per attrarlo nell’orbita antifascista. Ma le parole faticano a trasformarsi in fatti. Di agire stivali sul terreno non se ne parla. Si fa vivo addirittura Nitti, il Cagoja, l’odiato primo ministro dei tempi fiumani, che gli scrive:  bisogna unire tutte le forze per finire questo regime di stupidità e di violenza, per riportare l’Italia ai suoi ideali di democrazia, di libertà e di lavoro. Non m’importa di me. Tu vedi il pericolo e puoi agire sulla *gioventù*, infiammandola e riportandola al buon sentiero.  Francesco Saverio Nitti Il momento di Annunzio è giunto, può mettere finalmente d’accordo le forze in lotta e prendere le redini di un paese nel caos. Viene organizzato un incontro tra Nitti, D’Annunzio e Mussolini. Due giorni prima il poeta cade da una finestra della stanza della musica, dal primo piano del Vittoriale. Sul volo dell’arcangelo, come lo chiama, vede fatta molta *dietrologia* e qui la storia fatta con i “se” potrebbe sbizzarrirsi. Chissà cosa sarebbe successo se si fossero incontrati e Annunzio avesse espresso la sua terzietà e l’opposizione rispetto a un governo fascista. Fatto è che l’incontro viene annullato. Il poeta non lo sa ancora, ma è definitivamente uscito di scena.   La foto ritrae Mussolini come tutti lo conoscono. Non veste ancora l’uniforme ma già fa mostra di tutto il suo stile: attorniato da *camicie nere*, posa con lo sguardo arcigno, la mascella prominente e le mani sui fianchi. Pittoresco e quasi ridicolo all’apparenza, conquista nonostante ciò le folle, armato della retorica altisonante e aggressiva, trionfale e accattivante, che ha in parte imparato da Annunzio. Mussolini va a trovarlo ma non viene ricevuto. Si incontrano ugualmente ma senza risultati tangibili. Ormai i tempi sono maturi, i fascisti vogliono il potere e vanno a prenderselo. Ricorre l’anniversario della vittoria e Annunzio è invitato nella capitale per presenziare le celebrazioni, per questo la marcia su Roma viene anticipata di una settimana. Mussolini teme che il Vate possa effettivamente convogliare alcune correnti in favore del governo e compromettere l’iniziativa fascista. Le squadre imperversano per le strade di Roma. Vittorio Emanuele III rifiuta di firmare lo stato d’assedio e convoca Mussolini.  Annunzio è ormai un relitto della politica. L’uomo che poteva fare non ha fatto, colui che aveva forze vive, uomini, consenso e autorevolezza, non aveva né l’idea né l’ambizione. Obnubilato dalla sua stessa grandezza, si è rimpicciolito fino all’inutilità. Forse l’aveva proprio cercata questa inutilità, non gli interessava praticare la politica quanto ritrovare se stesso e la sua arte, in solitudine, se è vero che confidò a un amico pochi mesi prima. "Ho voluto ri-entrare nel silenzio, ho voluto essere un capo senza partigiani, un *condottiero senza seguaci*, un *maestro senza discepoli*.  Gabriele D’Annunzio Mesi dopo, uno che per vivere la Grande Guerra ha falsificato la carta d’identità e si è qualificato come giornalista, che aiuta l’esercito italiano in Veneto nel servizio ambulanze, uno scrittore di nome Ernest Hemingway, scrive di Mussolini come del più grande bluff d’Europa. Aggiunge che  sorgerà una nuova opposizione, anzi si sta già formando, e sarà guidata da quel rodomonte vecchio e calvo, forse un po’ matto, ma profondamente sincero e divinamente coraggioso che è Annunzio.  Purtroppo per l’Italia, cui nei successivi anni non verranno risparmiate sofferenze e costrizioni, la previsione di Hemingway non si rivela esatta. Un’opposizione è effettivamente incarnata dal Comandante, ma rimane silente, sepolta nelle mura del Vittoriale e dell’incombente vecchiaia.  Comunismo d'annunzio fascismo fiume Gabriele D'Annunzio Italia Mussolini prima guerra mondiale seconda guerra mondiale Socialismo socialisti italiani. La costituzione più bella del mondo. Quella sì, fu davvero “la più bella costituzione del mondo” e non per modo di dire. Per i contenuti, lo stile, la prosa, l’idealità che sprigionava. La Carta del Carnaro non fu scritta da pur insigni costituzionalisti e rivista da politici, come la nostra costituzione. Fu scritta da un grande sindacalista e rivista da un grande poeta-soldato. Parlo di Alceste De Ambris e di Gabriele d’Annunzio. Fu animata dal confluire di tre grandi energie: l’amor patrio, lo slancio poetico e lo spirito sindacalista rivoluzionario. All’articolo 2 della parte generale, scritta da De Ambris sono condensate tutte le parole chiave della carta: democrazia -- diretta, sociale, organica, fondata sulle autonomie, sul lavoro produttivo e sulla sovranità collettiva di tutti i cittadini. È d’Annunzio a parlare nella sua stesura della volontà popolare, del fato latino, e d'evocare il Carnaro di Alighieri, l'estremo confine della civiltà romana, e il culto della lingua. È d'Annunzio a sostituire 'repubblica' con quella più classica 'reggenza' -- intesa come governo del popolo. Fu Annunzio a richiamarsi ai produttori e agl'ottimi. E fu Annunzio a indicare nella bellezza della vita, del lavoro e della virtus, la credenza religiosa collocata sopra tutte le altre, che guida lo Stato.  La forte impronta sociale e popolare della carta non impede il culto aristocratico dell’eccellenza e la tutela delle arti e delle discipline più nobili, del corpo e dell'anima.  Nella carta è garantita ogni libertà dei cittadini, il voto universale -- è poi ribadita la funzione sociale della proprietà privata ed era disegnato l’assetto delle corporazioni di arti e mestieri. Nove corporazioni raccoglievano i lavoratori nelle loro articolazioni (terra; mare, operai, impiegati, liberi professionisti, intellettuali); la decima corporazione era enigmaticamente riservata alla forze misteriosa del popolo in travaglio e in ascendimento, al genio ignoto, all’uomo novissimo, a colui che fatica senza fatica -- è risolto il dilemma tra parlamentarismo e presidenzialismo, riconoscendo centralità al lavoro e sovranità al popolo dei produttori -- è introdotta la figura di un comandante, inteso come il dictator romano, con pieni poteri ma limitati a un breve arco di tempo. Elementi costitutivi della carta sono l’auto-decisione del popolo, la possibilità di indire referendum, la tutela dei sacri confini nazionali e della civiltà italiana-latina-romana, l’istruzione e l’educazione del popolo come il più alto dei doveri della repubblica, la musica riconosciuta nella costituzione come un’istituzione religiosa e sociale. Nel linguaggio d’oggi dovremmo dire che sovranismo, amor patrio e populismo furono i cardini ideali della carta del Carnaro. La fusione tra poesia, trincee e sindacalismo è il suo timbro originale. Veniva poi costituita una Lega di Fiume che une in un solo fascio la forze sparsa di ogni. Cerca l’adesione della Russia Bolscevica ma si rivolge anche ai paesi islamici. Annunzio esalta il risveglio dell’Islam, auspice Italia, dispensatrice di diritto e giustizia. Memorabili i discorsi fiumani d'Annunzio che prepararono il terremo alla reggenza del Carnaro e al suo statuto. Da L’orazion piccola in vista del Carnaro a l’Hic manebimus optime. E a Fiume vi rimane davvero. La carta del Carnaro non è il sogno proibito di una città-utopia separata dalla storia e non è nemmeno il frutto di un’avventura velleitaria d'un eroe disoccupato a caccia di emozioni, come l’ha sbrigativamente liquidata Emilio Gentile -- èinvece la visione più lucida e ardita della politica e della società di combattenti che la guerra la fano sul serio. Così De Ambris sintetizzò la carta ad Annunzio. Diamo al mondo l’esempio di una costituzione aristotelico-vichiana-nietzscheiana che in sé accolge ogni libertà e ogni audacia di Platone, facendo rivivere la più nobile e gloriosa tradizione della nostra stirpe italica. Esempio perfetto di rivoluzione conservatrice.Annunzio. Keywords: Alighieri, quarnaro, reggenza, non repubblica, musica, dictator romano, commandante, il fiume, il fiumenismo, sindacalismo, utopia, dystopia, revoluzione conservatrice, implicatura fiumenista, la filosofia in d’annunzio, la carta di carnaro, aristotele, vico, Nietzsche. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Annunzio” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Antemio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Antemio is one of the last of the western Roman emperors. He studied philosophy and became acquainted with a number of members of the Accademia. He was made emperor, but died five years later when trying to defend Rome from attack.

 

Grice ed Antimedon – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), Antimedon was a Pythagorian.

 

Grice ed Antimedes – Roma –filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), Antimenes was a Pythagorian.

 

Grice ed Antipater – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Antipater taught philosophy and was responsible for introducing CATONE Minore to the Porch. He wrote a book on physics in which he portrays the whole world as a single living rational being – with its intelligence located in the aether.

 

Grice ed Antiseri – solidali – filosofia italiana – Luigi Speranza (Foligno). Filosofo italiano. Grice: “Antiseri makes a distinction between what you CAN say and what you MUST ‘tacere’ (i. e. left implicit). Not exactly what I was thinking when I made the explicit/implicit distinction, but similarly! His point is that for Vitters, questions of the mystic – which Antiseri compares to Bonaventura! -- -- ‘la logica di un mistico y la mistica di un logico’! genial – I was thinking more along the lines that ‘You’ve just committed a social gaffe’ is best left implicit (“She is a windbag’) – our of manners, etiquette, and what I call the principle of conversational gentility!” – “So I find the ‘must’ too strong, and change it for a ‘may’ – but in Antiseri’s case, the point is conceptual: you just CANNOT make the mysitic explicit, and there is a need (his word) to keep whatever the mystic is Unexpressed.” Grice: “I like Antiseri, and he indeed quotes me, not only because he MUST, as in his history of contemporary philosophy, but because he LIKES it (cf. Italian piacere) – as surprised I was when I see that when discussing the future of metaphysics within analytic philosophy he relies on my Third-Programme for the BBC!” Grice: “Antiseri reminds me of myself, when he discusses ‘senso commone’ and ‘filosofia anallitica’ and ‘linguaggio ordinario’ – that’s why I used to joke, when lecturing in the New World – and at Welleseley, no less! – about the “Oxford School of Ordinary Language Philosophy”! Grice: “While Antiseri invests a lot to make logic of Austin, he has to because he has posited himself as giving ‘lezione di filosofia del linguaggio’!” Grice: “Most importantly, his key words, such as solidarity, are very much along the lines that base my ‘ethics of conversation’ which is Kantian in spirit --.” Grice: “Antiseri has to fight how to deal with this Kantianism along utilitarian lines, as when he confronts ‘horizontal’ to ‘vertifical’ (i. e. bad) subsidiarity – where a principle of subsidiarity – or respect for ‘il bene commone – gets balanced with the principle of solidarity. A Calvinist approach, to some!” – Antiseri: “It is amusing that Antiseri is forced to defend the relevance of the Romans, where that is taken for granted at Lit. Hum. Oxford!” -- Dario Antiseri (Foligno), filosofo. Originario della città umbra di Spello, si laurea in filosofia nel 1963 presso l'Perugia; ha poi proseguito i suoi studi presso varie università europee sui temi legati alla logica matematica, all'epistemologia ed alla filosofia del linguaggio.  Divenuto libero docente nel 1968 ha iniziato l'insegnamento presso l'Università "La Sapienza" di Roma e l'Siena. È inoltre membro dell'Advisory Board del Centro Studi Tocqueville-Acton.  Dal 1975 al 1986 è stato ordinario di filosofia del linguaggio presso l'Padova mentre, dal 1986 al 2009, ha assunto la cattedra di "Metodologia delle scienze sociali" alla LUISS di Roma per poi ricoprire l'incarico di preside della Facoltà di Scienze politiche della stessa Università tra il 1994 ed il 1998. Nel febbraio del 2002 è stato insignito, assieme a Giovanni Reale, di una laurea honoris causa presso l'Università Statale di Mosca. Collabora stabilmente con il quotidiano Avvenire.  Dario Antiseri ha pubblicato testi didattici di filosofia oltre a testi di divulgazione filosofica e di autori stranieri, in particolare ha contribuito a far conoscere in Italia il pensiero di Karl Popper.  Critiche Il pensiero del professor Antiseri è da tempo sottoposto a critiche sia all'interno della Chiesa sia all'interno del mondo intellettuale liberale. A tal proposito sono interessanti le critiche recentemente mosse al pensiero dell'intellettuale da Assuntina Morresi sul giornale on-line L'occidentale e l'articolo del 2005 su "espressonline" di Sandro Magister in cui l'opera di Antiseri viene definita "apologia del relativismo".  Altrettanto interessante è il commento al relativismo di Antiseri apparso sul web nel blog di Fabrizio Falconi, e quello di Litta Modignani pubblicato sul sito Critica liberale.  Opere:  “Perché la metafisica è necessaria per la scienza e dannosa per la fede” (Brescia, Queriniana);  Epistemologia e metodica della ricerca in psicologia, Padova, Liviana Editrice); C'è ancora spazio per la fede?, Milano, Rusconi); “Il filo della ragione, Roma, Donzelli); “Liberi perché fallibili, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Trattato di metodologia delle scienze sociali, POMBA Università); “Come lavora uno storico, Roma, Armando); “Liberali. Quelli veri e quelli falsi, Soveria Mannelli, Rubbettino); “L'università italiana. Com'è e come potrebbe essere, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Tre idee per un'Italia civile, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Credere dopo la filosofia del secolo XX, Roma, Armando); “Didattica della storia: epistemologia contemporanea, Roma, Armando, Karl Popper, Soveria Mannelli, Rubbettino); “L'agonia dei partiti politici, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Epistemologia e didattica delle scienze, Roma, Armando); “La medicina basata sulle evidenze, Edizioni Memoria); “La Vienna di Popper, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Quale ragione?, Milano, Cortina); “Teoria unificata del metodo, POMBA); “Cattolicesimo, Liberalismo, Globalizzazione, Soveria Mannelli, Rubbettino,  Karl Popper. Protagonista del secolo XX, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Cristiano perché relativista, relativista perché cristiano. Per un razionalismo della contingenza, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Epistemologia, clinica medica e la "questione" delle medicine "eretiche", Soveria Mannelli, Rubbettino); “Principi liberali, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Idee fuori dal coro, Roma, Di Renzo); “Ragioni della razionalità [ 1], Soveria Mannelli, Rubbettino); “Cattolici a difesa del mercato, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Come leggere Kierkegaard, Milano, Bompiani); “Come leggere Pascal, Milano, Bompiani, Credere. Perché la fede non può essere messa all'asta, Roma, Armando); “Epistemologia, ermeneutica e scienze sociali, Roma, Luiss University Press, Introduzione alla metodologia della ricerca, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Prefazione a Joseph Agassi, La filosofia e l'individuo, Roma, Di Renzo); “Ragioni della razionalità [2], Soveria Mannelli, Rubbettino); Relativismo, nichilismo, individualismo. Fisiologia o patologia dell'Europa?, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Teorie della razionalità e scienze sociali, Roma, Luiss University Press); “L'ermeneutica è scienza?, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Liberali e solidali. La tradizione del liberalismo cattolico, Soveria Mannelli, Rubbettino); “La «via aurea» del cattolicesimo liberale, Soveria Mannelli, Rubbettino); “La società aperta» di Karl Popper, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Von Hayek visto da Dario Antiseri, Roma, Luiss University Press); “Dario Antiseri e Gianni Vattimo. Ragione filosofica e fede religiosa nell'era postmoderna, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Libertà. Un manifesto per credenti e non credenti, Milano, Bompiani); “Dialogo sulla diagnosi. Un filosofo e un medico a confronto, Roma, Armando); “L'attualità del pensiero francescano. Risposte dal passato a domande del presente, Soveria Mannelli, Rubbettino); “In cammino attraverso le parole, Roma, Luiss University Press); “Contro Rothbard. Elogio dell'ermeneutica, Soveria Mannelli, Rubbettino); “Liberali d'Italia, Soveria Mannelli, Rubbettino,  Note  Questioni disputate, su chiesa.espresso.repubblica.  Marx, un falso profeta sconfitto dalla storia, su lanuovabq.   Contro Popper, Bruno Lai, Armando Editore, Vedi L'impegno dei cattolici in politica si misura sui valori non negoziabili Archiviato il 21 gennaio  in. di Assuntina Morresi, l'Occidentale, 12 giugno.  Vedi Questioni disputate. Un filosofo cattolico fa l'apologia del relativismo di Sandro Magister, chiesa.espressoonline, 3 novembre 2005.  Vedi Il relativismo inevitabile? Risposta a Dario Antiseri, Il blog di Fabrizio Falconi, 1º gennaio.  Vedi La falsa "laicità" che piace al Corriere Archiviato il 30 aprile  in. di Alessandro Litta Modignani, Fondazione critica liberale, 29 maggio.  Giuseppe Franco, Per una biografia intellettuale. In dialogo con Dario Antiseri, in Giuseppe Franco, Sentieri aperti della ragione. Verità, metodo, scienza. Scritti in onore di Dario Antiseri nel suo 70º compleanno, Pensa Editore, Lecce,  23–43.  Relativismo. Citazionio su Dario Antiseri  Sito ufficiale, su docenti.luiss.  Dario Antiseri, su TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Dario Antiseri, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana. Opere di Dario Antiseri,.  Registrazioni di Dario Antiseri, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Tocqueville-Acton Centro Studi e Ricerche, su tocqueville-acton.org. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloInsegnanti italiani del XX secoloInsegnanti italiani Professore1940 9 gennaio FolignoProfessori della SapienzaRoma. In un saggio in "Roma", Antiseri studia e spiega 'Se e perché studiare ancora il mondo romano.' Non posso qui ripetere tutte le argomentazioni, cui rimando volentieri, ma il succo del discorso sta in questi due punti. Primo. Niente avviene al di fuori di una tradizione culturale. Le stesse rivoluzioni sono tali rispetto a una determinata linea di svolgimento, che ne costituisce il presupposto; perciò i grandi rivoluzionari sono stati tutti buoni conoscitori del passato. Secondo. La nostra tradizione culturale italiana è quella latina. Non c’è possibilità di auto-identificazione e di innovazione se la si ignora. Quindi lo studio di quell’ antico è una condizione di fatto della nostra civiltà italiana. Se ci fermassimo al primo punto, dovremmo considerare di buon auspicio per le nostre sorti la ripresa, che si sta verificando, di interesse per il passato, da quello immediato e locale al più lontano nel tempo e nello spazio. Visto più da vicino, questo interesse non collima col secondo punto. Non solo questo passato italiano è romano, ma è selettivo. Accomuna l’archeologia industriale ai graffiti preistorici, la cultura materiale e i valori. La selettività di per sé contraddice al *momento*  romano *antico* correttamente inteso. Anzi gli toglie la staticità del *classico*, cioè del modello unico, esemplare perfetto e irripetibile (quindi fuori della storia) e lo ricolloca nella dinamica dell’evoluzione umana, lega la unica Roma all'Italia d'oggi. Questa elettività diventa filosofica, quando considera il romano *antico* -- in sue fasi monarchica, repubblicana ed imperiale -- un momento come un altro, senza speciali incidenze sulla storia. Peggio, quando si configura in qualche modo come una ri-edizione della tesi della priorità vetero-italica, palaeo-italica, o archaeo-italica, sulla civiltà classica. Peggio ancora, se pre-dilige il *passato* eroico dell'Omero romano, Virgilio, quale che sia come tale, come un tutto indifferenziato, solo perché diverso. Si rischia di tornare così alla cultura dei sassi, che Leopardi rimprovera ai romani del suo tempo (lettera al de Sinner, cioè all’antiquaria di settecentesca memoria (cioè senza storia e senza lingua). Se nell’interesse verso *il romano antico* non ha per noi un posto preminente i tre *momenti* del romano antico -- regno, repubblica, principato -- questo è segno di perdita di storicità vichiana, gentiliana, o croceana, di oscuramento di valori, di restringimento di orizzonti. Quel momento del romano antinco non è importante solo perché ha aperto vie, costruito ponti, tracciato città, su cui ancora insistiamo, ma perché ha dato un impulso decisivo a un complesso filosofico, di idee, mentalità, istituzioni, che costituiscono ancora i nostri parametri abituali e la nostra cultura di italiani. Gli altri momenti forti, da cui si può volta a volta, non senza ragione, far partire la nostra riflessione storica, il rinascimento toscano, l’Unità d’Italia mazziniana, si sono misurati con questa tradizione romana antica, l’hanno arricchita o combattuta, mai ignorata. Se riteniamo naturale ancor oggi rifarci alla nostra genesi civile romana, dobbiamo subito porci il problema se si debbano studiare Roma e se non sia riduttivo assumere come punto di partenza *solo Roma*, cioè studiare la civiltà *latina*, del Lazio. Non si tratta di rinnovare la vecchia questione dell’originalità romana, che una volta costituiva un passaggio obbligato per ogni storia della letteratura latina. Quel problema rispondeva a diverse contingenze storiche e teoriche. Il suo ambiente culturale era Roma, dove il nazionalismo rispecchiava se stesso nella superiorità di Roma rispetto ai barbari. Il sostegno teorico era offerto dal mito del classicismo romano, cioè del modello a-storico e perfetto, attingibile solo dagli eletti. Nelle ultime fasi della sua storia, la tesi trova forti resistenze in Italia per la convergenza di due motivazioni diverse. Da una parte il nostro nazionalismo, culminato nella grande guerra, dall’altro la nuova estetica simbolista di d'Annunzio, che insegna a fare filosofia in se stessa. Oggi quei condizionamenti storici e quei presupposti teorici sembrano molto lontani. Del resto, a parte le punte polemiche, già la ricerca aveva portato a una revisione di fatto di questi atteggiamenti. La contrapposizione poi di una *romanolatria* è più pensabile come ideologia politica. Il mondo romani costituisce una unità, ma non tanto in senso sincronico, quanto in senso diacronico. Roma si dispone in successione, in una unità dinamica. Roma è fatto antico e non solo a livello dotto. Non è un fenomeno solo neoterico, ma anche delle origini e della fine. Roma accentua la tradizione per raccoglierne l’eredità e stabilire così il suo diritto successorio alla leadership mondiale. E’ corretto che i moderni pongano il problema in modo non diverso dagli antichi romani. Di qui discende anche la legittimazione a fare di Roma un possibile punto di partenza della riflessione storica. Se la civiltà romana è  tradizionale, nell’atto stesso di arricchire, trasformar, e diffonder una tradizione, studiare Roma è universale. Rimane ai romani antichi il merito di molte creazioni, e di averle trasmesse al futuro. Il concetto dell’uomo e della comunità, la storiografia, la scuola, la retorica rimangono quelle ereditate da Roma. L’asse culturale si conserva intatto. Si può senza difficoltà riconoscere che l’eredità romana, dal diritto alla lingua, non ha finito di operare. Si pensi per esempio alla lingua italiana, che, pur diversa com’è ormai dalla latina, conserva di quella i caratteri costitutivi e le energie generative. La stessa evoluzione del 'volgare' si è svolta e si sta svolgendo secondo modalità sempre latine. Un fatto significativo rimane il latino medioevale, che non è più il latino classico ed è una lingua di dottrina, però è una lingua viva, perché usata nella comunicazione reale. La sua peculiarità consiste nel non dipendere da matrice italica nazionalista. Usano il latino medioevale le genti che si riconoscono in un’unica cultura. Così quella lingua diventa propria anche dei non-neolatini e coopera alla formazione di una nuova unità, l’Europa, ben diversa, anche geograficamente, dall’Impero. L’Europa è una formazione post-romana, con materiali latini. Questa è un’importante ragione oggi per lo studio anche del solo latino. Quasi come uno slogan si potrebbe dire che Roma ha generato l’Occidente (una civiltà), l'Italia, e l’Europa (una storia). Entrambe le prospettive sono sprovincializzanti. Non c’è niente di più istruttivo che consultare i volumi dell’Année Philologique, che non solo si fanno di anno in anno più grossi, ma vedono allargare la partecipazione agli studi classici a paesi sempre più lontani e che sembrerebbero estranei a questa tradizione: dagli stati dell’Est alle nazioni in via di sviluppo. Segno che questa cultura non è neanche solo nazionale o europea o occidentale, ma ci appartiene come uomini senza esaurirci. Questi concetti sono generalmente ammessi e non hanno perciò bisogno di particolare documentazione. Ne discendono però alcune conseguenze sui modi corretti dell’atteggiamento odierno verso il mondo romano. Anzitutto si rifiuta l’ideologizzazione, specie politica. È invece oggetto di studio questo atteggiamento nel passato, specie recente (Fascismo, Nazismo: cfr. specialmente la rivista Quaderni di storia). Fa ancora ideologia (postuma e alla rovescia) chi osserva da una parte sola quest’uso politico del classico in passato (in genere considerandolo al servizio del potere o della classe dominante). In realtà l’ideologia del classicismo è sempre reversibile, fornisce insieme Bruto e Cesare, come è avvenuto a cavallo fra Sette e Ottocento. Ma in genere le ricerche hanno un respiro più ampio, volte come sono a indagare la presenza degli studi classici filosofici nella cultura moderna, quindi la partecipazione degli antichisti latinista e la loro relazione con gli orientamenti e movimenti coevi: è molto di più non solo della ideologia, ma anche della diretta influenza dei classici sui moderni. Rifiuto dell’ideologia e studio della presenza dei classici e del classicismo nel mondo moderno presuppongono senso vivo della storicità, ossia della continuità antico-moderna, che vuol dire due cose insieme: un legame che ci unisce agli antichi e l’alterità che, senza contraddirlo, ci distanzia. Di qui il rifiuto anche dell’esemplarità e del presentismo. L’esemplarità fa del romano un modello perfetto, imitabile ma irraggiungibile; questa concezione, oggi improponibile, in altri tempi ha avuto una sua funzione attivizzante (come nell’Umanesimo). Le conseguenze del mutato atteggiamento sono evidenti. Non si definisce più un’età aurea, non si parla più di declino, ma di trapasso. Decadenza romana o tarda antichità? intitolava H. Marrou un suo piccolo libro (ed. it. Jaca Book, Milano). Il tardo antico richiama molta attenzione. I convegni comensi, indetti in occasione del XIX centenario della morte di Plinio il Vecchio (e oggi disponibili negli Atti in tre volumi), si sono spinti molto oltre l’età dello scrittore celebrato, studiando la tecnica, la città, l’economia (vedi i titoli: Plinio il Vecchio sotto il profilo storico e letterario: Tecnologia, economia e società nel mondo romano; La Città antica come fatto di cultura). Rinunciando infatti all’ideale della esemplarità, il concetto di «classico» (nel senso di romano) esce dalla sola categoria del bello e del perfetto una volta per tutte e si arricchisce di valori e di problemi esistenziali. Si supera anche l’antinomia classico = forza contro debolezza, anacronisticamente riproposto dalla edizione italiana di un libro composto da W. Otto mezzo secolo prima (Spirito classico, La Nuova Italia, Firenze). Si esplorano province nuove (i papiri di Ercolano e l’epicureismo campano). Qualche volta si registrano scoperte notevoli (dopo Menandro, Callimaco, Cornelio Gallo, Rutilio Namaziano, la Seconda Centuria del Poliziano ecc.). Si ricuperano, nella loro umanità e nel loro valore documentario, autori e movimenti minori: il Favorino di Arelate di A. Barigazzi (Le Monnier, Firenze), le Questioni neoteriche (che comprendono i novelli) di E. Castorina (La Nuova Italia, Firenze). Anche nella filologia nostrana nasce l’interesse verso i rapporti fra Roma e la cultura d'Etruria (G. Scarpat, Il pensiero religioso di Seneca e l’ambiente d'Etruria, Paideia, Brescia nuova ed. F. Arnaldi, La crisi morale dell’età argentea, « Vichiana ». Estesa e polidisciplinare è la bibliografia sui rapporti tra Roma ed Etruria. Sono meno frequenti le monografie, ma non mancano le sintesi come quella celebre di P. Grimal, Le siècle des Scipions. Rome au temps des guerres puniques, Aubier, Paris -- Paideia, Brescia). Intensa è l’attività traduttoria dell’editoria italiana: va da A. D. Leeman, Orationis ratio. Teoria e pratica stilistica degli oratori storici e filosofi latini. Il Mulino, Bologna a R. Syme, Tacito (che è un grande affresco dell’età tacitiana), Paideia, Brescia di P Boyancé, Lucrezio e l’epicureismo, Paideia, Brescia, ancora a R. Syme, La rivoluzione romana, Einaudi Torino, da M. Pohlenz, La stoa, La Nuova Italia, Firenze, a W. Jaeger. Paideia, La Nuova ltalia, Firenze, a H.I. Marrou, Storia dell’educazione nell’antichità, Studium Roma. Ho citato un po’ a caso fra i titoli più famosi. La stessa ampiezza di questa produzione, con la eterogeneità dei suoi titoli, testimonia la lontananza attuale da un ideale ristretto di esemplarità. Di recente si è verificato, invece, un breve successo dell’ atteggiamento antitetico, cioè del presentismo, più rilevabile a livello di letteratura scolastica che scientifica, forse nel tentativo di rendere accettabile l’antico a un determinato pubblico, facendone vedere l’analogia col moderno. Il procedimento però è rischioso. Proiettando sull’antico la luce del moderno, tende a ritrovare in quello un doppio del presente, quindi ne rende inutile lo studio e impedisce di vedere i legami storici, cioè le fondamenta lontane del moderno, che legano e insieme differenziano, distinguendo nella continuità. Già il Rostagni avvertiva questo pericolo, riflettendo sul suo stesso lavoro (Aristotele e l’aristotelismo nella storia dell’estetica antica, « Studi ital. di filologia classica » ora in Scritti minori I, Aesthetica, Bottega d’Erasmo, Torino, spec. p. 235): eppure è noto quanto egli fosse guidato da un certo crocianesimo, andando alla ricerca di un’estetica dell’intuizione presso i classici. Il pericolo oggi si ripresenta leggendo i classici alla luce di altre ideologie attualizzanti. Legittimo è invece studiare nell’antico temi e problemi, che sentiamo vivi, ma sempre con coscienza storica, ossia proprio per scoprirne la formazione lontana: pace-. libertà, progresso, lavoro, scienza. L’atteggiamento corretto sarà dunque di porsi davanti all’antico senza cessare di essere moderni e (poiché quell’antico è greco-romano, cioè la nostra origine culturale) senza negare il debito e senza cancellare l’intervallo: dunque alterità più legame storico. Questo comporta anche l’uso di strumenti ermeneutici nuovi e la modernizzazione dei tradizionali. Di alcuni impieghi di tecniche recenti danno qui sotto saggio i contributi di V. Cremona e di G. Proverbio: sono appena esempi, cui altro sarebbe da aggiungere. Così, molto vivace è oggi la narratologia; e è il Convegno internazionale «Letterature classiche e narratologia» a cura dell’Istituto di Filologia Latina dell’Università di Perugia.. Gli strumenti tradizionali a loro volta hanno compiuto i progressi di tutte le tecniche; per la filologia in senso stretto danno informazioni il saggio e il materiale approntati da L. Castagna. Mezzi vecchi e nuovi si intrecciano per conseguire risultati più fini: A. Grillo ha messo la narratologia a servizio della critica testuale per risolvere alcuni problemi di lezione dell’Ilias Latina in Critica del testo. Imitazione e narratologia. Ricerche sull’Ilias latina e la tradizione epica classica, Bibliot. del Saggiatore, Le Monnier, Firenze. E’ facile constatare la differenza da una meccanica applicazione di criteri lachmanniani (almeno come vengono volgarmente intesi). E si veda quale cammino si è percorso dalla ricerca grezza e materiale delle fonti (la famigerata critica dei «fontanieri») alla più sofisticata tecnica allusiva e alla memoria poetica. A loro volta quelle che un tempo venivano chiamate discipline ausiliarie (archeologia, topografia, epigrafia ecc.) non solo si sono giovate dei progressi delle tecniche applicate, ma hanno esteso il loro campo ben al di là del mondo greco-romano, abbisognando quindi per competenza di un discorso riservato (come del resto la storia generale, intrecciata al diritto e all’economia, oltre che a queste stesse discipline e alla cultura materiale, nella prospettiva di una storiografia totale). Non si possono infine dimenticare alcuni graditi incontri o addirittura ritorni. La linguistica, sorta fuori e in opposizione alle lingue classiche, è salita man mano dalla frase al testo e ha ricuperato concetti della grammatica nata dal greco e dal latino. La logica e la critica letteraria hanno riscoperto la retorica classica senza la mediazione della filologia greco-latina, incontrandosi e quasi confondendosi con questo genere di studi. Della retorica, affermatasi a Roma come tecnica politica e poi diventata cultura, paideia e letteratura, si ripete oggi mutato nomine la dicotomia, da una parte nei mass media e nella pubblicità, dall’altra nella critica letteraria. Gli antichisti cooperano da parte loro a questo riavvicinamento: gli Elementi di retorica di H. Lausberg, ed. it. Il Mulino. Bologna, si presentano come un moderno manuale di linguistica; quella di E. Cizek, Structures et idéologie dans «Les Vies des Douze Césars» de Suétone, Editura Academiei e Les Belles Lettres, Bucuresti Paris è insieme un’analisi strutturalistica e retorica (studia la sovrasignificazione fornita, al di là dei concetti, dalla loro distribuzione). In questa prospettiva molte analisi letterarie su testi moderni rivelano una straordinaria possibilità di impiego di strumenti antichi. Dario Antiseri. Antiseri. Keywords: solidali -- antiseri — implicatura solidale — il concetto di solidale -- liberali d’italia – il principio del liberalismo – la mistica di Gentile e il liberalismo di Croce — Grice — metaphysics in Pears 3rd programme — Grice p.331 — ‘violazione consapevole della massima’ — flouting the maxim — la scuola di Oxford di filosofia analitica del linguaggio ordinario — Austin, Grice, … gruppo di giocco – Grice sa benissimo che la massima e violabile intenzionalmente e comunicativamente — Fidanza — il mistico — la logica di un mistico -- Roma – la relevanza della filosofia del mondo romano antico -- — La mistica fascisdta di Gentile —Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Antiseri” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Antonini – filosofia italiana – Luigi Speranza  (Viterbo). Filosofo italiano. Grice: “I like Antonini, or Cinesio – you see, one problem of these Italians – but cf. Occam – by sticking to the first-name is that a researcher in the longitudinal history of philosophy has to check references to Aegeius viterbensis and Aegidius Cinesio! It was only recently that he was found to be one of the Antoninis! His place in the longitudinal history of philosophy is that famous pendulum between Plato and Aristotle – so after Aquinas’s Aristotle, Egidio – an almost Tuscan man! – finds Plato more pleasing – especially his philosophy of love in the symposium, the references to Ganymede as representing ‘amore,’ and he has the cheek to display all this hardly scholastic erudition (more of a renaissance thing) in his commentary of Lombardo’s sentences! Delightful – my favourite is his reference to Ganymede, for here we have the treatment of a subject (Zeus) of another subject as an object – and that’s just only one reading of Zeus’s intention --.”  Grice: “In any case, the sacrificial status of Ganymede is recognised in the Platonic tradition – as the manipulative use of a subject by another subject who is subjected as an object, rather --.” Antonini: Essential Italian philosopher. Antonini (n. Viterbo), filosofo. Egidio da Viterbo  «Sono gli uomini che devono essere trasformati dalla religione, non la religione dagli uomini»  (Egidio da Viterbo, prolusione al Quinto Concilio Lateranense) Egidio Antonini da Viterbo, O.E.S.A. cardinale di Santa Romana Chiesa Egidio 2Egidio da Viterbo, affresco XVII secolo (part.), Sala Regia, Palazzo dei Priori, Viterbo Stemma egidio  Incarichi ricopertiPriore generale dell'Ordine di Sant'Agostino, Cardinale presbitero di San Bartolomeo all'Isola, Cardinale presbitero di San Matteo in Merulana, Vescovo di Viterbo e Tuscania, Patriarca titolare di Costantinopoli, Cardinale presbitero di San Marcello, Amministratore apostolico di Zara, Amministratore apostolico di Lanciano. Ordinato presbiteroin data sconosciuta Nominato vescovo2 dicembre 1523 da papa Clemente VII Consacrato vescovo10 gennaio 1524 dall'arcivescovo Gabriele Mascioli Foschi, O.E.S.A. Elevato patriarca8 agosto 1524 da papa Clemente VII Creato cardinale1º luglio 1517 da papa Leone X Deceduto12 novembre 1532 a Roma   Manuale Egidio Antonini da Viterbo, o semplicemente Egidio da Viterbo (Viterbo), filosofo. Apparteneva all'Ordine degli Agostiniani. Nacque a Viterbo, da Lorenzo Antonini e Maria del Testa, in un giorno imprecisato tra l'estate e l'autunno del 1469Pur essendo i genitori di origini modeste, fecero compiere ad Egidio studi approfonditi presso il convento agostiniano viterbese della Santissima Trinità. Forse influenzato dalla predicazione di Mariano da Genazzano, presente a Viterbo nel 1485, tre anni dopo, nel 1488, all'éta di diciotto anni, entrò nell'Ordine degli Agostiniani, presso il medesimo convento per esservi ordinato sacerdote. Sotto il priorato di Giovanni Parentezza, studiò filosofia, teologia e lingue antiche (greco, ebraico, arabo, aramaico, persiano) e si perfezionò, cominciando anche ad insegnare, presso le case del suo ordine ad Amelia, Padova, Firenze, Roma, Viterbo ed in Istria. A Padova incontrò più volte Pico della Mirandola, con il quale discusse di astrologia e cabalismo, ma, soprattutto, in quella città curò nel 1493 l'editio princeps di tre commenti aristotelici di Egidio Romano, con notazioni contrarie ai peripatetici e ad Averroè. Alcuni anni più tardi conobbe a Firenze l'umanista Marsilio Ficino, di cui fu allievo e successivamente amico, e con il quale si perfezionò notevolmente nello studio delle dottrine neoplatoniche, specialmente in rapporto alla loro assoluta compatibilità con i principi del Cristianesimo. Nella primavera del 1497 il cardinale Riario, protettore degli Agostiniani, che aveva per lui grande stima, lo richiamò a Roma dove, dopo una duplice e complessa prova, conseguì il magisterium in teologia.  Oratore di straordinaria efficacia, particolarmente apprezzato in quegli anni da papa Alessandro VI, quindi dai suoi successori, paragonato da taluni a Demostene, fu in contatto con i maggiori intellettuali del tempo; oltre alla fitta corrispondenza con Marsilio Ficino, va ricordata la frequentazione che ebbe a Napoli con Giovanni Pontano (che gli dedicò il dialogo Ægidius) e con gli intellettuali della sua Accademia.  Nel giugno 1506 papa Giulio II gli affidò la guida dell'Ordine agostiniano come Vicario apostolico; l'anno successivo (1507) il capitolo generale dell'Ordine lo confermò alla sua guida come Priore Generale, incarico che mantenne per molti anni, durante i quali riformò profondamente l'Ordine stesso, riportandolo agli antichi fasti con il pieno recupero della regola di S.Agostino. Durante quegli anni fu uno dei più stretti collaboratori di Giulio II, che accompagnò nella sua missione contro Bologna e dal quale fu inviato come nunzio apostolico a Venezia e Napoli per ottenere l'adesione di quegli stati alla crociata progettata dal pontefice: venne anche inviato nella città ribelle di Perugia e ad Urbino. Il 3 maggio 1512 il papa gli conferì il prestigioso incarico di tenere l'orazione inaugurale del Quinto Concilio Lateranense: Egidio pronunciò così una celebre, accorata allocuzione in cui parlò con determinata onestà dei mali della Chiesa, suscitando viva emozione nei presenti, molti dei quali lodarono lo stampo ciceroniano dell'orazione.  Morto Giulio II, anche il suo successore Leone Xappartenente alla potente famiglia fiorentina dei Medicicontinuò la stretta collaborazione con Egidio, che impiegò in importanti missioni diplomatiche, come quella del 1516 in Germania, quando ottenne una difficile pacificazione tra Massimiliano I e la Repubblica di Venezia. Il papa innalzò Egidio alla dignità cardinalizia nel concistoro del 1º luglio 1517 creandolo cardinale prete con titolo di San Bartolomeo all'Isola; quasi subito il porporato viterbese optò per il titolo di San Matteo in Merulana, antica chiesa agostiniana; molti anni più tardi, poco prima di morire, avrebbe infine optato per il titolo di San Marcello. Nel 1518 Leone X lo nominò cardinale protettore dell'Ordine degli Eremitani di Sant'Agostino e, nello stesso anno, lo inviò come legato pontificio in Spagna per una complessa missione nella quale avrebbe dovuto impegnare Carlo V alla crociata contro i turchi. In quel periodo fu anche governatore di diverse città dello Stato Pontificio. Occorre altresì ricordare come a meno di quattro mesi dalla sua nomina a cardinale e quando Egidio era ancora Priore Generale degli Agostiniani, un monaco agostiniano tedesco, Martin Lutero, affisse sulle porte della Schlosskirche di Wittenberg le notissime 95 tesi che avrebbero dato inizio alla riforma protestante.  Dopo la scomparsa di Leone X ed il breve pontificato di Adriano VI, il 18 novembre 1523 fu eletto papa, con l'appoggio di Egidio, un altro Medici, Clemente VII, che, pochi giorni dopo l'elezione, il 2 dicembre, conferì al cardinale viterbese la nomina a vescovo proprio della diocesi di Viterbo: l'anno successivo Egidio venne nominato patriarca latino di Costantinopoli e amministratore apostolico dell'arcidiocesi di Zara. Purtroppo in quegli anni le indecisioni e gli errori politici di Clemente VII crearono problemi gravissimi al governo della Chiesa: il papa finì per schierarsi con i francesi, ma prima la sconfitta di Francesco I a Pavia, poi le incertezze della lega di Cognac aprirono le porte alla discesa in Italia di Carlo V con i suoi lanzichenecchi, culminata nel terribile Sacco di Roma (1527), durante il quale venne distrutta -tra l'altro- tutta la ricchissima biblioteca di Egidio nel Convento di Sant'Agostino. Il porporato si trovava allora nelle Marche e, per soccorrere il papa, assediato in Castel Sant'Angelo, organizzò -impiegando anche il proprio denaro- una spedizione armata, che non ebbe però fortuna per i molti ostacoli frapposti dai signori locali. Dopo quei dolorosi momenti la salute di Egidio andò peggiorando: questo fatto non gli impedì, peraltro, di tenere, durante il concistoro pubblico una famosa ed appassionata orazione sulla necessità di riformare la Chiesa dopo lo scisma luterano. Clemente VII dichiarò la sua disponibilità, ma sarà solo il suo successore, Paolo III, conterraneo di Egidio, a convocare l'importante Concilio di Trento, che segnerà, con la controriforma, la prima importante reazione della Chiesa al protestantesimo. Poco prima di morire il cardinale fu nominato arcivescovo di Lanciano; amministrò la diocesi lancianese a titolo di commenda per sette mesi, fino alla morte.  Morì a Roma il 12 novembre 1532 e venne sepolto nella chiesa di Sant'Agostino, dove lo ricorda una semplicissima lapide sul pavimento della navata centrale, a cornu evangelii rispetto all'altar maggiore.  Filosofia, Ebraismo, Cabala  Egidio da Viterbopartic. di affresco XVIII secolo, Sala del Cenacolo, Convento Santissima Trinità, Viterbo Egidio deve certamente essere considerato uno dei maggiori filosofi di quei secoli. Il suo primo impegno importante fu quando, studente a Padova, curò nel 1493 la pubblicazione con commento di tre opere del filosofo e vescovo agostiniano Egidio Romano, vissuto tra il XIII ed il XIV secolo: elaborò così un'autentica avversione nei confronti della filosofia di Aristotele e dell'averroismo, contro i quali ritenne che l'unico possibile antidoto fosse, specie dopo l'incontro con Marsilio Ficino ed in perfetta armonia con Sant'Agostino, il neoplatonismo, inteso come «pia philosophia», cioè nella sua piena compatibilità con i valori cristiani. Uomo dottissimo, volle leggere tutte le opere che studiava nelle lingue originali in cui erano state scritte, per meglio comprenderne il vero significato: acquisì in tal modo una straordinaria conoscenza, oltre che del latino e del greco antico di cui aveva padronanza assoluta, dell'aramaico, per il Talmud e varie parti della Bibbia, dell'arabo, per il Corano e le opere di Averroè, e dell'ebraico, per la Torah. Ebbe una fitta corrispondenza con l'umanista tedesco Johannes Reuchlin, finissimo conoscitore dell'ebraismo, con il quale si intrattenne a lungo sia su temi relativi all'Antico Testamento sia sulla cabala (in ebraico Qaballáh), argomento da lui già affrontato con Pico della Mirandola, che trattava dei misteriosi simbolismi, parte dei quali nascosti nei numeri e nelle lettere stesse dell'alfabeto ebraico, che potevano avvicinare l'uomo a Dio. Le problematiche della letteratura ebraica e della cabala occuparono gran parte dei suoi ultimi anni di vita, quando tentò ripetutamente di ricondurre in ambito cristiano tutte le altre culture, dedicandosi in particolare ad approfonditi studi e ricerche sullo Zohar.  Lo scrittore e l'oratore  Raffaello:La disputa del Sacramento (affresco, Roma, Stanze Vaticane)  Egidio da Viterbo in preghiera, particolare di pala d'altare, chiesa Santissima Trinità, Viterbo Rimane ben poco della cospicua produzione letteraria di Egidio, sia a causa della perdita della sua biblioteca durante il Sacco di Roma, sia perché lui stesso, per modestia, non volle dare alle stampe molte delle sue opere. Tratta quasi tutti i campi della filosofia alla letteratura, dall'astrologia alla storia, dalla poesia alla geografia, dalla teologia all'arte: a quest'ultimo proposito si ritiene che il programma iconografico per gli affreschi di Raffaello della Disputa del Sacramento e della Scuola di Atene nella Stanza della Segnatura sia stato largamente ispirato dalla sua opera, con la probabile mediazione di Tommaso Fedra Inghirami. Da notare come Antonini preferisce di solito ritirarsi in luoghi tranquilli, come l'Eremo di Lecceto, presso Siena, o la sua città natale, Viterbo, o, ancora più spesso, due rifugi nei dintorni di quest'ultima: un Convento nell'Isola Martana, sul Lago di Bolsena, ed un Eremo nella selva del Monte Cimino. Meritano comunque menzione tre ecloghe latine di stampo virgiliano (Paramellus et Aegon, -- Paramello e Egone -- in Resurrectione Domini – la risurrezione del Signore -- e De Ortu Domini – L’orto di Dio --, sei madrigali dedicati alla famiglia Colonna  ed una favola silvestre dello stesso periodo (“Cyminia”, in volgare italiano viterbese. La a sua maggiore opera filosofica è costituita dai “Commentaria sententiarum ad mentem et animum Platonis” (I comentari dei sentenze sull’anima di Platone”, brevemente detta Sententiae ad mentem Platonis, che presenta l’ostilità all'aristotelismo e la necessità di sostituirlo, l'anima e la dignità umana; “Historia XX saeculorum” racconta le vicende di Alessandro VI a Leone X, attinsero a piene mani vari storici, da Gregorovius a Pastor, anche se il loro giudizio complessivo sulla Historia è perplesso, se non addirittura negativo. Tra altre opere meritano anche menzione il “Libellus de litteris sanctis”, sul significato recondito delle lettere dell'alfabeto romano, e la Scechina che guarda in la cabala.  Il campo nel quale Egidio riuscì comunque a dare il meglio è quello della retorica o dialettica colloquenza filosofica, divenendo uno dei migliori oratori di quei decenni, forse il migliore in assoluto, con giudizi sempre entusiastici da parte di tutti quelli che ebbero modo di ascoltarlo. In realtà egli era veramente dotato di un'eloquenza drammaticamente coinvolgente, capace di suscitare grandi emozioni negli uditori, sia che fossero ricchi principi, sia che si trattasse di poveri popolani; lo aiutava probabilmente lo stesso aspetto fisico, ascetico, con il viso pallido e scavato e la barba fluente. Tra le orazioni conservate vanno ricordate: quella nel certamen che lo vide trionfare su tre filosofi peripatetici e conseguire il magisterium. Altre opere: “De aurea aetate” (o De Ecclesiae incremento), tenuta in San Pietro su incarico di Giulio II per onorare re Manuele I del Portogallo che aveva scoperto nuove terre e riportato una grande vittoria navale, lavoro dottissimo e ricco di riferimenti cabalistici; l'orazione delConcilio Lateranensegrande onore concessogli dal papache provocò indicibile emozione negli astanti e fece definire l'agostiniano viterbese il nuovo Cicerone; è in quest'ultima orazione la celebre sentenza di Egidio. “Sono gli uomini che devono essere trasformati dalla religione, non la religione dagli uomini”. Va infine ricordata l'orazione tenuta in occasione di un concistoro, sulla necessità di riformare la Chiesa, che viene da molti considerata come il vero preludio al celebre Concilio di Trento, convocato da Paolo III.  Genealogia episcopale Arcivescovo Gabriele Mascioli Foschi, O.E.S.A. Cardinale Egidio Antonini da Viterbo, O.E.S.A. Note  Notizie molto precise sul suo luogo di nascita e sul suo esatto cognome sono reperibili nel lavoro di Giuseppe Signorelli, Il cardinale Egidio da Viterbo etc.,Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, 1929. L'opera dello storico viterbese, con una ricchissima documentazione bibliografica, costituisce un indispensabile fondamento monografico per lo studio di questo porporato; in particolare Signorelli precisa, con riferimento a numerosi manoscritti, perché debba essere ritenuta Viterbo la città natale di Egidio ed in base a quali errori diversi storici abbiano, sbagliando, ritenuto Canisio il suo cognome:il cognome esatto è Antonini.  Quanto sostenuto dal Signorelli è pienamente confermato da G.Ernst,Egidio da Viterbo, in Dizionario Biografico degli Italiani, Treccani, 1993, in quella che è probabilmente la più completa monografia su Egidio reperibile on-line, con notevole.  Pur essendo acclarato il cognome Antonini, appare peraltro corretto chiamarlo semplicemente EGIDIO da VITERBO: Ægidius Viterbiensis o Viterbii è il nome con cui viene indicato nella bolla papale di nomina cardinalizia relativa al concistoro è il nome che compare nelle bolle da lui sottoscritte ed è, infine, il semplice nome che compare sulla sua lapide sepolcrale nella Chiesa di S. Agostino in Roma; sempre Egidio da Viterbo sono intitolate le principali monografie a lui dedicate da Signorelli, Ernst, Massa, O'Malley ecc.. Va infine ricordato come lo stesso Comune di Viterbo abbia chiamato Via Egidio da Viterbo la strada a lui dedicata parecchi anni fa nel centro storico cittadino e con la medesima intitolazione Egidio da Viterbo vi siano altre istituzioni viterbesi.  L'epoca della nascita è indicata ancora dal Signorelli (op.cit.), che cita vari documenti del periodo.  Si veda in proposito Lettera a Mannio Capenati, agosto 1504 citata in: Francis X. Martin, Friar..., cit., Appendice III, pag. 346  De materia coeli; De intellectu possibili; Egidii Romani commentaria in VIII libros Physicorum Aristotelis  Egidio non ricambiò mai la simpatia di papa Borgia, anzi il suo giudizio sul pontificato di Alessandro VI fu terribile, con parole di inusitata durezza; si veda Cesare Pinzi, Storia della Città di Viterbo, Viterbo, Agnesotti, 1913.  Lo dice espressamente il Signorelli, op. cit., capo II, pag 5.  Per la precisione fino al 25 febbraio 1518, giorno in cui depose l'incarico davanti al Capitolo generale dell'Ordine, consegnandolo nelle mani dell'amico Gabriele Di Volta, nominato due giorni prima con breve di Leone X proprio su proposta di Egidio; v. G. Signorelli, op. cit., Capo VI, pag. 68.  Lo sottolinea bene Ernst (op.cit.).  L'episodio che vide Egidio alla testa di un esercito è ricordato in un intero capitolo (Da Vescovo a Duce) nella monografia del Signorelli, op.cit., capo VIII.  Papa Paolo III, era nato come Alessandro Farnese nella cittadina di Canino, situata ad una trentina di chilometri da Viterbo.  La lapide, fatta collocare dal Priore Generale Gabriele Veneto, reca la seguente iscrizione: D.O.M. AEGIDIO VITERBIENSI CARDINALIGABRIEL VENETUS GENERALISMDXXXVI (v.S.Vismara,Una grande figura religiosa del Rinascimento:Egidio da Viterbo su Biblioteca e società in//bibliotecaviterbo/biblioteca-e-societa/index.php?fasc=12; il volumetto contiene gli Atti di un interessante Convegno di studi su Egidio da Viterbo, nel anniversario della morte). Occorre notare come la lapide originale, praticamente distrutta dal tempo, sia stata sostituita nel 1982, a cura dell'Ist. Stor. Agostiniano con una nuova lapide che riporta, integralmente, l'iscrizione. Il background intellettuale e la relativa fonte egidiana dei due affreschi della Stanza della Segnatura sono stati promossi dallo storico gesuita Pfeiffer (Heinrich Pfeiffer, Die Predig des Egidio da Viterbo über das goldene Zeitalter und die Stanza della Segnatura, in:  Schmoll gen. Eisenwerth, Marcell Restle, Herbert Weiermann, Festschrift Luitpold Dussler, Monaco-Berlino, Deutscher Kunstverlag, Id., La Stanza della Segnatura sullo sfondo delle idee di Egidio da Viterbo, Colloqui del Sodalizio, Zur Ikonographie von Raffaels Disputa: Egidio da Viterbo und die christlich-platonische Konzeption der Stanza della Segnatura, Roma, Università Gregoriana Editrice) ripreso da Ernst, op.cit., e da G.Polo, Egidio da Viterbo e Raffaello, in Biblioteca e Società, cit., pagg. 21-22. Il ruolo di Fedra Inghirami quale mediatore tra Egidio e Raffaello è stato inizialmente ipotizzato da Paul Künzle, Raffaels Denkmal für Fedra Inghirami auf dem letzen Arazzo, in: Mélanges Eugène Tisserant,  VI, Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, e si ritrova in: Christiane L. Joost-Gaugier, Raphael's Stanza della Segnatura: Meaning and Invention, Cambridge, Cambridge University Press, 2002. Per una sintesi si veda: Ingrid D. Rowland, The Intellectual Background of the School of Athens: Tracking Divine Wisdom in the Rome of Julius II, in: Marcia HallRaphael's School of Athens, Cambridge, Cambridge University Press,  Biblioteca apostolica vaticana, Ms Vat.lat. 6525  Il più autorevole di questi manoscritti è certamente quello autografo esistente presso la Biblioteca Nazionale di Napoli (Mss.lat.,IX,B,14).  Tutti i giudizi degli storici sono ben riportati dal Signorelli, Riprendendo il Signorelli, descrive bene le sue grandi doti oratorie Sandro Vismara, Biblioteca e società, ATTI del Convegno...,op.cit.,pag.11.  Proprio a questa orazione si sarebbe ispirato Raffaello per due affreschi della Stanza della Segnatura, cioè la Disputa del Sacramento e la Scuola di Atene (v.Pfeiffer e Polo, ocitt..)  S.Vismara,op.cit..  Il testo latino recita letteralmente: Homines per sacra immutari fas est, non sacra per homines.  Egidio da Viterbo, "Ecloghe", Jacopo Rubini, Sette Città,. Rafael Lazcano, Episcopologio agustiniano. Agustiniana. Guadarrama (Madrid), Hubert Jedin, Riforma Cattolica o Controriforma, Morcelliana, Brescia, Francis X. Martin, The problem of Giles of Viterbo: a Historiographical Survey, "Augustiniana",  Francis X. Martin, Friar, Reformer, and Renaissance Scholar: Life and Work of Giles of Viterbo Villanova, Augustinian Press, John W. O'Malley, Giles of Viterbo on Church and Reform: a Study on Renaissance Thought, Leiden, Brill, 1968 Heinrich Pfeiffer, Le Sententiae ad mentem Platonis e due prediche di Egidio da Viterbo, in: Marcello Fagiolo, Roma e l'antico nell'arte e nella cultura del Cinquecento, Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, Cesare Pinzi, Storia della Città di Viterbo,  IV, Agnesotti, Viterbo, François Secret, Notes sur Egidio da Viterbo, "Augustiniana",  Giuseppe Signorelli, Il cardinale Egidio da Viterbo agostiniano, umanista e riformatore, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, Viterbo Ordine di Sant'Agostino Umanesimo Cabala ebraica TreccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Egidio da Viterbo, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Egidio da Viterbo, su sapere, De Agostini. Egidio da Viterbo, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.  Egidio da Viterbo, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Egidio da Viterbo, su ALCUIN, Ratisbona. Egidio da Viterbo, su Find a Grave. Opere di Egidio da Viterbo,. Egidio da Viterbo, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company. David M. Cheney, Egidio da Viterbo, in Catholic Hierarchy.  Biblioteca e società, ATTI del Convegno di Studi su Egidio da Viterbo nel 450º anniversario della morte, su bibliotecaviterbo. Rassegna bibliografica   [collegamento interrotto], su bibliotecaviterbo. ÆGIDIUS OF VITERBO, Jewish Encyclopedia (la voce contiene, peraltro, alcune inesattezze) Salvador Miranda, VITERBO, O.E.S.A., Egidio da, su fiu.eduThe Cardinals of the Holy Roman Church, Florida International University. Articolo della rivista Theological Studies (O'Malley) dedicato al pensiero riformistico di Egidio da Viterbo, su bc.edu. PredecessorePriore generale dell'Ordine di Sant'AgostinoSuccessore13.escudo.oar.png Agostino da Terni, O.E.S.A Gabriele da Venezia, O.E.S.APredecessoreCardinale presbitero di San Bartolomeo all'Isola Successore Cardinal CoA PioM. Domenico GiacobazziPredecessoreCardinale presbitero di San Matteo in MerulanaSuccessoreCardinalCoA PioM.svg Cristoforo Numai, O.F.M.Obs. Charles de Hémard de DenonvillePredecessoreVescovo di Viterbo e Tuscania SuccessoreBishopCoA PioM.svg Ottaviano Riario2 dicembre 152312 novembre 1532Niccolò Ridolfi (amministratore apostolico)PredecessorePatriarca titolare di Costantinopoli Successore PrimateNonCardinal PioM.svg Marco Corner Francesco de PisauroPredecessoreCardinale presbitero di San MarcelloSuccessoreCardinalCoA PioM.svg Enrique Cardona y Enríquez9 maggio 153012 novembre 1532Marino GrimaniPredecessoreAmministratore apostolico di Zara SuccessoreArchbishopPallium PioM.svg Francesco Pesaro (arcivescovo metropolita) Cornelio Pesaro (arcivescovo metropolita)PredecessoreAmministratore apostolico di LancianoSuccessoreBishopCoA PioM.svg Angelo Maccafani (vescovo)10 aprile12 novembre 1532 Michele Fortini, O.P. (vescovo) Filosofi italiani del XVI secoloCardinali italiani Professore Viterbo RomaAgostiniani italiani Cabalisti italianiCardinali nominati da Leone XPatriarchi latini di CostantinopoliEbraisti italiani. Raptus GANYMEDIS. Ubi ea de AMORE tractavimus, quae aeterna sunt, nunc ad ea accedimus, quae ad mortales usque proveniunt. Utrumque enim in symposio disputatum est a Platone, et quod magnus deus AMOR est, quod ad aeternitatem pertinet, et quod medicus est curatorque mortalium, quod vergit adtempus. Quam quidem sententiam plerique eorum contempserunt, quisibi sapientes videntur, quique rationem sensilibus, non sensilia ratione dimetiuntur.Rati ex aeterna causa res novas absque medio provenire non posse, ne aeterna, stabilis, immotaque res, de ea enim causa praecipue loquuntur, quae firma immota semper est, quasi quae novam rem pariat. Iam a priore statu mota videatur, eademque et immota et mota esset, quod veri nulla potest ratione. Sane divinus ille Amor ex aliquo semper effertur inaliquid,quod si quamanatex aliocogitetur Amor,aeternaprogressione fluit a Parente ac Filio. Sin vero ut vergit in aliquid prospi-ciatur, aut qua in id vergit, quod amatur, velut a patre proles, atque eaprogressio perpetua est, aut qua in id rapitur, quod ex Amore ut, velut inmunera, quae hominibus divinitus tribuuntur. Qui quidem divini AMORIS adventus, tam aeternus non est, quam homines, quibus illa donantur.Mortales sunt, aeterni non sunt; neque accessus ille, illaque curatio quic-quam in Deo collocat novi nisi ex nostra quadam cogitatione. Sed id innobis oritur, quod ad aliquid est, in nobisque non eo in amore mutation ut, quemadmodum orientem solem spectantibus, dexter est antarcticus polus, articus sinister, quibus rursus occidentem spectantibus contrariaratio ut, efficiturque et dexter arcticus et sinister antarcticus, ac quam-quam immoti semper poli sint, qui tamen dexter erat sinister efficitur,non caeli parte, sed spectatoris corpore commutato. Ita sane ut, cumad bonas hominum mentes, cum ad morbos animorum curandos, ille loquntur V; locuntur N pariat] percipiat V sint] sunt  ac. V Utrumque … est] Symp.  NV ; Symp. N medicus … mortalium] Symp. N V accedit amor. Ita ad aegrum se conert, ut agitationem ac motum, nonamor ille divinus, sed solus aegri animus patiatur. Nam cum gemini AMORES, geminaeque sint Veneres, sicut Platoni placet, uterquesi processerit, urorenoscorripit. Sedalterperturbationum, morborum, malorum omnium causa est; alter sedationes, salutem, bonaque plane omnia elar-gitur.HincMenonillePlatonicusait, mortals non nisi divino gurore correptos bonos eri. Quae quidem sententia oraculo consentit, quo praedicatum est, caeli regnum vim pati atque a violentis mortalibus rapi. Utenim malus furor in era humanam sortem rapit mentem, ita divinus spiritu vehementi, supra hominum vires in caelum usque correptam men-tem vehit.  HIC ILLE RAPTVS DIVINVS EST QVEM SVPERIOR FABVLA IN PHYRGIO PVERO COGITARI VOLEVAT QVEM IN CÆLVM AD DIVINAS DAPES NON SVO CONSILIO PROTECTVM SED DIVINO POTIVS RAPTV ADVECTUM PRODEBAT – RAPTVMQVE AMAVIT NON NISI AB AMATORE – VT HOMINVM AD DIVINA RAPIENDORUM POTESTAS NON NISI IN DIVINVM ET AMOREM REFERATVR. Nam Plato cum tres furors ostendisset: Musarum, Bacchi, Apollinis, quartum etiam Veneris adiecitomnium maximum, sacratissimum, divinissimum. Aeterna vero de causa novi aliquid procisciquid prohibet, a libera praecipue atque immota omnino. Quippe quae idcirco non mutata usque iudicatur, quod quae aeterna voluntate in tempore se acturam statuit, eastatuto tempore fecit. Quare tantum abest ut mutata dicenda sit, quod in tempore quicquamegerit, ut mutatautique dicenda esset, si quod constituit, in tempore non egisset. Adde quod non ponimus spiritum illic esse, ubi prius non uerit, sed alia ratione esse quam uerit. Atque ita ad nos in tempore dicimus procisciillum cum divino aliquot coniungitur munere, quo prius nobis non coniungebatur. Callistoetenim, et amanti deo miscetur prius, et deinde ab eodem in caelum rapta est. Quibus quidem in rebus, non divinum AMOREM sed illam mutatam esse voluerunt, cumprius divina AMICITIA ac deinceps etiam caeli sede a divino AMORE donata est nactaque. Spiritus munus est quippe quem non aquis mergi sed superaquas erri scriptum est. Aquae etenim multae, Solomone teste, extinguere non possunt charitatem, quae una more olei virginum prudentum obrui in undas non potest, sublime tutumque supernatat. Ita quos sanctus [amor  in marg. V  animus] animis  ac. V  Quare] quarum  ac. V esse] etiam  V esse] esset  V etenim  om.  V  Salamone  N V cum placet] Symp. N N V Menon … eri] Men. N N V puero]  asteriscus N Nam divinissimum] Ion  N V ; Phaedr. Ion  N caeli rapi] Mt. Aquae … charitatem] Cant.] ille AMOR inhabitat, nihil mali metuunt, nullos adversos re ormidant ventos, nulla malorum tempestate iactantur. Quam quidem rem et prius Homerus et postea Maro posteris prodiderunt. Arctos Oceani metuentes aequore tingi, quod hii, quos divinus AMOR corripit, agitari ortasse quandoque nonnihil possint, mergi ullis tempestatibus non possint. Iam verode AMORIS processibus quaesitum saepe est, duonesint, anunus. Alii duos aciunt, quod aeterna res eadem rei non aeternae esse non debeat. Aliiunum dumtaxatessecontendunt,quia duo sunt ad aliquid in spiritu:alterum re, alterum ratione. Quod vero ratione, non re ponimus, nihil erum constituat oportet. Res ex re oritur, non ex solius principio rationis. Nos medium malentes, modo quodam unum, modo alio duos processus esse volumus, omnis enim progressio inter duos iaceat terminosnecesse est, ut Daedali volatus e Cretensi coepit carcere, Calcidicaque levis tandem super adstitit arce. Aquam etiam, quam in horto voluptatis esse docet Moses, vel ex onte unde manat, uel ex alveis in quos manat,spectare possumus. Si ex onte, unam, si ex alveis, plures esse dicendumest. Ita erme et AMORIS divini processus. Si ontem unde fluit adspicias, unus dumtaxat erit immortalis aeternusque, sicut unum esse principiumostendimus unde manat. Sin vero ea spectes, in quae tendit, quia alterum est aeternum, alterum temporarium, ut spiritus divinus et HUMANUM genus, id circo duosesse progressus asseverandum est. In onte enim si quid est quod sit ad aliquid in processu spiritus, unum dum taxatest. In unibus vero non unum, sed duo reperiuntur, quorum alterum in spirituaeternum, alterum in hominibus temporarium residet. De aeterno quidem Hesiodus disseruit, qui etiam Aristotele teste, erram et ante eam Chaos, hoc est vacuum,  ut idem interpretatur quod ii concedant oportet, qui mundum volunt conditum fuisse, ut etiam consensit interpresAverroes ante haec vero, utpote rebus antiquiorem AMOREM constituit,cuius postea partes uere, super aquas erri, et ut alii melius, rudi mundi et silvae et materiae incubare. AMOREM itaqueis vates aeternum essececinit, quem temporarium quoque universa ecit antiquitas,cum Iovem tra-xisse nxerunt ad Danaes, ad Laedae, ad Alcmenae consuetudinem. Nec aliud plane per divinos amores, per amatas Deo puellas, et (si ss esset ii  N re ponimus] reponimus  V  onte V spiritum  V concedunt  V  Almenae  N V Arctos … tingi] Virg.  N V omnis … est] Phy.;. Phy;.Phy. N N V Aristotele … Chaos]. Phy.  N N V Arctos … tingi] Geo..Calcidicaque … arce] Aen..dicere) per Iovis adulteria intellexere, nisi AMORIS divini adventum in homines, cum ex innumerabili pene mortalium turba ad interitum, adineros, ad miseriam properante, quidam seliguntur Deo cari, quibus et verum agnoscere, pedem retrahere, caelum contempta terra conscendere datum est. Dat siquidem Plato in Euthyphrone Divino AMORI, quicquidin mortalibus vel studiosi, vel sancti reperitur. Omne enim Diis AMICVM sanctum, diis vero NON AMICVM PROPHANVM arbitrabatur. Quicquid itaque spei, quicquid salutis, quicquid recti in hominibus esse potest, exmunere deorum esse voluit, cum ALCIBIADES ad bene, recteque agendum censuit non sufficere mortales. Id quoque vestigatione dignum putavere, ancum AMORIS Divini muneribus, quae donantur hominibus, ipse etiam Divinus AMOR Deus, ac ipse a nobis spiritus una cum muneribus possideatur. Plato in “Symposio” illud Hesiodi, quod prius adduximus, commemoravit, antiquissimum deorum esse AMOREM ut spiritum ostenderet Deum esse maximum, turbas novorum Deorum ipsa aeternitate antecedentem. Antiquissimum vero et primum intelligimus non modo qua deos alios anteit, verum etiam qua divina in nobis antecedit dona. Primum namque donorum omnium AMORE facit Aristoteles in Rhetoricis, quare nisi prius mortalibus AMOR detur, nunquam divina munera tribuuntur de iis, inquam, muneribus, quae AMICITIAM nobis conciliant divinam. Deum praeterea Aristoteles in maximo caeli circulo esse vult, ea dumtaxat nisus ratione, quod simplices incorporeaeque substantiae eo in loco sunt, sicuti in loco esse possunt, ubi actiones exercent. Quodsi id agit AMOR ille divinus in nobis, ut ex impiis pii, ex iniustis iusti, ex hostibus AMICI efficiamur, non potest idem ipse AMOR non esse innobis. Iungimur quoque non modo muneribus cum illa suscipimus, sedipsi etiam Deo, quem probetum nosse tum AMARE incipimus. Notitia enim AMORque Dei, quae praecipua a Deo munera generi humano tribuuntur, ut Deo et propius iungamur et iunctissime haereamus efficiunt. Atqui sicut Apostolo placet, quicunque haeret deo, ut unus cum Deo spiritus evadat, oportet. Fit denique in nobis dato munere ad aliquid, quo non modo dona suscepta, verum etiam dantem AMOREM aspicimus. Quamobrem efficitur, ut AMOR ille, qui deus est, alia quam prius ratione possideatur a nobis. Possidetur autem cum sese nobis insinuat, cum in udit se animo, cum sinui penetralibusque amatae mentis illabi- ut] et V nixus V ille  sl. N suscepimus V ut] et  V prius  in marg.V  autem] etiam  V .– Dat … reperitur] Eut. N V ; Eutyphrone N Plato … Amorem] Symp. N N V] tur.Quod si parum id persuaserimus, non potest Apostoli oraculum non persuadere, qui Dei AMOREM in discipulorum cordibus praedicat diffusum per spiritum, inquit, sanctum, qui datus est nobis. Quo quidem loco incredibile immortalium munus ostenditur, quo non modo divina dona, verum etiam Deus ipse donorum dator sese et dat et exhibet animae humanae. Ex iis vero, quae dicta sunt, dubitatio exoriri potest, sienim AMOR est donorum primum, nullo nos donari munere sequitur, nisi prius AMOREM spiritumque suscipiamus. Cum tamen non nullos constet improbos Spiritus divini dona suscepisse, spiritum tamen minime suscepisse. ria nomina intelligenda sunt nobis, quae saepe a rismegisto et a Platone in medium afferri consuevere. Deum namque apellitare soliti sunt patrem, verum, bonum. Patrem quidem nominant illamut causam, a qua pro ecti sumus. Verum, ut id quod summum intelligimus. Bonum, ut id quod ut beatisimus adamamus. aria itaque divina nominasunt, tres etiam rationes quibus in nobis est Deus. Quaenim Pater ac causa rerum est, omnibus inest rebus. Ea namque, quae sunt, similitudinem servant eorum, unde sunt, atque hoc pacto in rebus est Deus. Esentia, potestate, praesentia, quemadmodum publica senatus decretal censuerunt. Ego omnia impleo, dicebat oraculum. Quam quidem rem divinarum rerum consultissimus Maro in rusticis carminibus scriptamreliquit. Ab Iove, inquit, principium musae. Iovis omnia plena. Ubi et sententiam et sententiae causam elegantissime posuit scribens, Iovis esse plena omnia, atque ideo ab eo principium musae facere. Qui locus longe altius agit, quam prima carminis ronte videatur, voluit enim Iovis plena esse omnia, quoniam Musae principium, atque ortus a Iove ipso est. Filias enim Iovis Homerus Musas ecit. Musas etiam caelestesque deos una cum rebus omnibus a principio conditos a Deo fuisse constat. Quare id circo docet omnia esse plena Deo, quod Musae rerumque omnium pater est et causa ac principium Deus. Primamque rationem describit, qua Deus rebus inest, eiusque rei causam ostendit, quod Musae rerum quesit et pateret principium. Didicitex imaeo Deum esse non modo Musae, sed et rerum patrem, ubi insignis illa Platonis sententia est, actarum rerum patrem invenire difficile est, effari autem nulliunquam as est. Quod enim sit Deus, magno tandem negotio coniicimus, quid autem sit nullo studio, nullo labore in terris animadvertimus. rimegisto  illam] illi  N intelligmus  beatissimus] beatissimus V inquit  sl. N ac] et V advertimus V Ab plena] Virg. NV Didicit … est] im.NNV At esse ubique Deum Academia semper voluit, utpostea, non semel Plotinus testatus est, cuius quidem doctrinam ad Maronis interpretamenta necessariam esse, vel Servius atetur. Altera ratio, qua inest nobis Deus,est cognitionis et mentis, quod quidem divinum munus ii soli possident, qui sunt mentis rationisque participes. Iungitur namque Deo mens dum contemplatur Deum, utque divinas quasdam speculatur imagines, quibus aciem dirigit in divinam lucem; atque hoc pacto in contemplante estDeus per similitudines atque imagines quasdam, quibus modo quodam coniungimur Deo. Tertia ratio est cum inest nobis deus non modo tamquam verum cognoscentibus, sed tanquam bonum summum adamantibus. Illud cognitionis, hoc amoris est opus. Id menti convenit, hoc daturaffectui. Quarum quidem rerum illud est interstitium, quod rei speciemaltera, altera non speciem, sed rem ipsam assequitur. Species enim lapidis, teste Aristotele, in animo est, non lapis, cumcontra bonumipsum ac malum, non in rerum imaginibus, sed in ipsissintrebus. Quaretertius hic nodus quoiungimurdeo, tanto est superiorepraestantior,quantoaurum, atque homo auri hominisque imagines antecellit. Licet intelligentia qua-dam nos ratione iungat Deo, ita tamen iungit, ut scientiae et mathematicae solent, quae aciunt necessaria quadam consecutione, ut cognitas res et coelum cognoscamus, non tamen praestant, ut etiam intellecta possi-deamus. At amor, qui similitudinibus imaginibusque contentus esse nonsolet, ad res ipsas, quas optat, se recipit, nec unquam nisi pulchro poti-tus conquiescit. Cognitio quidem rerum similitudines ad cognoscentem vehit, amor vero amantem ipsum ad rem pulchram rapit. Iarbam quem novit Dido, non admisit, quem amavit Aeneam virum cepit, non enimilli colloquia, non convivia, non munera, non consuetudo sat uit, quinpotius nunquam destitit, donec “speluncam Dido, dux et troianus eandem devenirent, ubiarctissimo connubiivinculoiungerentur. Atquehocest quod in Republica Plato monet, AMORIS nexum multo esse mathematicis artiorem, cum disciplinarum necessitas similitudini mentem iungat, AMORIS vincula pulchro ipsi devinciant. Adde quod velut Maro AMORIS retinacula ut arctissima esse demonstraret, matrimonii illa et nuptia- vel sed V ii ipsi ac. V atque  N altera  om. NV sint sl. V nodus] modus  ac. V  potitur  V Iarbam] Hyarbam  N V  mathamaticis V denunciant V esse est] Enn. VI lib. cap. et   lib. cap. N N V  hoc artiorem]. Reip.  N NV  speluncam … devenirent] Aen. Rumiugosigni cavit. Idem quoque hicidem quo de agimus Spiritus effecit in AMATORIIS canticis, commercia namque humanarum animarum et inmortalis Dei, quae caritate amoreque conciliantur, non aptiori nomine appellate sunt, quamc onnubii atque nuptiarum. Quam obrem liberis, qui mores canit et castos et divinos, ab Ieronimo, Origene, aliisque senatus principibus VIRIS Epitalamii titulo inscriptus est, haud alio plane consilio, quam ut cum amoris nodum cogitemus, efficacissimum arbitremur. Est itaque in rebus Deus maximus primo quidem modo sicut causa iniis, quae vel proveniunt vel oriuntur ex causa. Est rursus in eo animante, quirationisest particeps, quadam et specierum similitudine et intelligentiae luce. Et denique in hoc ipso per sanctos caritatis amorisque complexus. Primum quidem naturae opus est, alterum studii, tertium AMICITIAE. Primum dat nobis essentiam, sequens cognitionem, postremum gratiam atque benevolentiam. Deus siquidem in primo et intellectum et mentem praebet homini, in secundo dei species et enigmata, in postremo AMORIS bene ciodatseipsum. Iam itaque constarepalam potest, quaemunera AMORIS ea sint, quae cum exhibentur hominibus, efficiunt ut auctor quo-que ipse exhibeatur. Licet enim, qua pater et causa rebus insit omnibus,praecipuum tamen inhabitandi munus, quod ad amorem pertinet, nullis cum muneribus praestatur hominibus, nisi ea AMORIS, gratiae, amicitiaesint. Extat oraculum clarissimum, quo AMORIS hoc divinissimum significatum est munus: “ad eum,” inquit, “veniemus, in quo, et nobis domicilium faciemus. Hoc idem in Platonico Symposio indicat, quod in AMORIS ortu enia Poro miscetur, ut aperte AMORIS vis intelligatur, cuius inaestimabili et bonitate et beneficio et, ut non speciei, non similitudini, sedipsi Deo anima copuletur. O beatum munus! O felices AMORIS VIRES, O Fortunatos HOMINES, ubi divinus ille flagrat AMOR, ubi suas Deus exercet nuptias, ubi amatae sponsae commiscetur, ubi tanquam in thalamo cubat suo. Quidfasces, quid imperia, quid utiles hominibus voluptates prosunt? Qui si unum hunc AMOREM non possident, male omnia atqueexilio possident. Qui ut parentem et causam colunt deum, parum sese aellureevehunt, caelum que lunae dum taxat aspiciunt, quam terrae naturam sapere volunt et Aristoteles et Averroes, proindeque torpentes acgelidi AMORIS munera acesque non sentiunt. Qui vero contemplantur atque] ac  V costare  V  quoque quo V  inestimabili  V; inextimabili  N N ac a V Hoc copuletur Symp.  N V ad aciemus Io. ut verum in Mercurii orbem oculos attollunt, unde artium et discipli-narum munera tribui generi humano abulantur. Qui etsi amoris flam-mas nondum concipiunt, quoniam tamen orbis ille venereo iunctus est, nec sua stella a Veneris stella procul unquam migrat, atque utraque semper circum flammeum ardentemque micat solem, idcirco ab intelligen-tia, modo recta piaque sit, ad amoris ignes acilis patet aditus. Qui autemetiam Mercurii somnia virgamque apertis oculis transiliunt, quasi vene-reae columbae pennis, nisi ad Veneris se flammas caelumque recipiunt,quo qui tandem convolant, non in concertatione similitudinum dimicant vel laborant, sed in pace in id ipsum dormiunt laeti atque requie-scunt. Has pennas optabat olim vates: “quis,” inquit, “dabit mihi pennasut columbae, quibus simul volabo, et requiescam!” Huc se venturum isetiam ut poterat sperabat, geminas qui forte columbas aspiciens, quaetum caelo venere volantes, maternas agnovit aves. In hoc denique AMORIS caelumtertiumraptusilleest,quiamoremabsquerebusaliissatisesse,res alias absque amore nihil esse arbitrabatur. Non itaque cum vatici-niis, non cum prophetia, non cum miraculis semper datur deus. Quaeomnia, ut idem testatur, si habeam, unum AMOREM non habeam, nihilomninosum. Quod vero sit donorum primum acitutaliquasempercum donis AMOR detur; si -- prior testo con note – apparato critico – Antonini. Ubi ea de AMORE tractavimus, quae aeterna sunt, nunc ad ea accedimus, quaead mortals usque proveniunt. Utrum queenim in Symposio disputatum est a Platone, et quod magnus deus amor est, quod ad aeternitatem pertinet, et quod medicus est curatorque mortalium, quod vergit adtempus. Quam quidem sententiam plerique eorum contempserunt, quisibi sapientes videntur, quique rationem sensilibus, non sensilia ratione dimetiuntur. Rati ex aeterna causa res novas absque medio provenire non posse, ne aeterna, stabilis, immotaque res, de ea enim causa praecipueloquuntur, quae rma immota semper est, quasi quae novam rem pariat.Iam a priore statu mota videatur, eademque et immota et mota esset,quod eri nulla potest ratione. Sane divinus ille AMOR ex aliquo semper effertur inaliquid, quod si qua manatex aliocogitetur AMOR, aeternaprogressione fluit a Parente ac Filio. Sin vero ut vergit in aliquid prospi-ciatur, aut qua in id vergit, quod amatur, velut a patre proles, atque eaprogressio perpetua est, aut qua in id rapitur, quod ex Amore ut, velut inmunera, quae hominibus divinitus tribuuntur. Qui quidem divini AMORIS adventus, tam aeternus non est, quam homines, quibus illa donantur. Mortales sunt, aeterni non sunt; neque accessus ille, illaque curatio quic-quam in Deo collocat novi nisi ex nostra quadam cogitatione. Sed id innobis oritur, quod ad aliquid est, in nobisque non eo in amore mutation ut, quem ad modum orientem solem spectantibus, dexter est antarcticus polus, articus sinister, quibus rursus occidentem spectantibus contrariaratio et, efficiturque et dexter arcticus et sinister antarcticus, ac quamquam immoti semper poli sint, qui tamen dexter erat sinister efficitur,non caeli parte, sed spectatoris corpore commutato. Ita sane ut, cumad bonas hominum mentes, cum ad morbos animorum curandos, ille accedit amor. Ita ad aegrum se confert, ut agitationem ac motum, nonamor ille divinus, sed solus aegri animus patiatur. Nam cum geminiAmores,geminaequesintVeneres,sicutPlatoniplacet, uterquesiprocesserit, urorenoscorripit.Sedalterperturbationum, morborum, malorum omnium causa est; alter sedationes, salutem, bonaque plane omnia elargitur. Hinc Menon ille Platonicus ait, mortales non nisi divino urore correptos bonos feri. Quae quidem sententia oraculo consentit, quo prae-dicatum est, caeli regnum vim pati atque a violentis mortalibus rapi. Utenim malus uror in ra humanam sortem rapit mentem, ita divinus spiritu vehementi, supra hominum vires in caelum usque correptam mentem vehit. HIC ILLE RAPTVS DIVINVS EST QVEM SVPERIOR FABVLA IN PHYRGIO PVUERO COGITARI VOLEBAT QVEM IN CÆLVM AD DIVINAS DAPES NON SVO CONSILIO PROTECTVM SED DIVINO POTIVS RAPTV ADVECTVM PRODEBAT – RAPTVMQVE AMAVIT NON NISI AB AMATORE VT HOMINVM AD DIVINA RAPIENDORVM POTESTAS NON NISI IN DIVINVM AMOREM REFERATVR. Nam Plato cum tres furoresostendisset: Musarum, Bacchi, Apollinis,quartumetiam Venerisadiecitomnium maximum, sacratissimum, divinissimum. Aeterna vero de causa novi aliquid procisci quid prohibet, alibera praecipue atque immota omnino. Quippe quae idcirco non mutata usque iudicatur, quod quae aeterna voluntate in tempore se facturam statuit, eastatuto tempore fecit. Quare tantum abest ut mutata dicenda sit, quod intempore quicquamegerit, ut mutat autique dicenda esset, siquod constituit, in tempore non egisset. Adde quod non ponimus spiritum illic esse,ubi prius non uerit, sed alia ratione esse quam uerit. Atque ita ad nos in temporedicimus procisciillumcumdivinoaliquoconiungiturmunere, quopriusnobisnonconiungebatur.Callistoetenim,etamantideomisce-tur prius, et deinde ab eodem in caelum rapta est. Quibus quidem inrebus, non divinum amorem, sed illam mutatam esse voluerunt, cumprius divina amicitia ac deinceps etiam caeli sede a divino amore donata est nactaque. Spiritusmunus est quippe quem nonaquis mergi sed superaquas erri scriptum est. Aquae etenim multae, Solomone teste, extin-guere non possunt charitatem, quae una more olei virginum prudentumobrui in undas non potest, sublime tutumque supernatat. Ita quos sanc-tus ille Amor inhabitat, nihil mali metuunt, nullos adversos reformidant ventos, nulla malorum tempestate iactantur. Quam quidem rem et priusHomerus et postea Maro posteris prodiderunt: “Arctos Oceani metuen-tes aequore tingi, quod hii, quos divinus amor corripit, agitari ortasse quandoque nonnihil possint, mergi ullis tempestatibus non possint. Iam vero de AMORIS processibus quaesitumsaepe est, duonesint,anunus.Aliiduos aciunt, quod aeterna res eadem rei non aeternae esse non debeat. Aliiunum dumtaxatesse contendunt, qui aduosuntad aliquid in spiritu: alterum re, alterum ratione. Quod vero ratione, non re ponimus, nihil rerum constituat oportet. Res ex re oritur, non ex solius principio ratio-nis. Nos medium malentes, modo quodam unum, modo alio duos pro-cessus esse volumus, omnis enim progressio inter duos iaceat terminosnecesse est, ut Daedali volatus e Cretensi coepit carcere, Calcidica que levis tandem super adstitit arce. Aquam etiam, quam in horto voluptatis esse docet Moses, vel ex onte unde manat, uel ex alveis in quos manat,spectare possumus. Si ex onte, unam, si ex alveis, plures esse dicendumest. Ita erme et amoris divini processus. Si ontem unde fluit adspicias,unus dumtaxat erit immortalis aeternusque, sicut unum esse principium ostendimus unde manat. Sin vero ea spectes, in quae tendit, quia alterum est aeternum, alterum temporarium, ut spiritus divinus, et huma-numgenus, id circoduosesse progressusasseverandumest. In onteenimsi quid est quodsitad aliquidin processu spiritus, unum dumtaxatest. In nibus vero non unum, sed duo reperiuntur, quorum alterum in spirituaeternum, alterum in hominibus temporarium residet. De aeterno quidem Hesiodus disseruit, qui etiam Aristotele teste, erram et ante eam Chaos, hoc est vacuum, ut idem interpretatur, quod ii concedant oportet, qui mundum volunt conditum fuisse, ut etiam consensit interpres Averroes ante haec vero, utpote rebus antiquiorem Amorem constituit,cuius postea partes uere, super aquas erri, et ut alii melius, rudi mundi et silvae et materiae incubare. AMOREM ita queis vates aeternum essececinit,quemtemporariumquoque universa ecit antiquitas,cum Iovem traxis senxerunt ad Danaes, ad Laedae, ad Alcmenae consuetudinem. Nec aliud plane per divinos amores, per amatas Deo puellas, et si as essetdicere per Iovis adulteria intellexere, nisi AMORIS  divini adventum inhomines, cum ex innumerabili pene mortalium turba ad interitum, adineros, ad miseriam properante, quidam seliguntur Deo cari, quibus et verumagnoscere, pedemretrahere, caelum contemptaterraconscendere datum est. Dat siquidem Plato in Euthyphrone Divino Amori, quicquidin mortalibus vel studiosi, vel sancti reperitur. Omne enim Diis AMICUM sanctum, diis vero NON AMICUM PROPHANUM arbitrabatur. Quicquid itaque spei, quicquid salutis, quicquid recti in hominibus esse potest, exmunere deorum esse voluit, cum ALCIBIADES ad bene, recteque agendum censuit non sufficere mortales. Id quoque vestigatione dignum putavere, ancum AMORIS Divini muneribus, quaedonantur hominibus, ipseetiam Divinus AMOR Deus, ac ipse a nobis Spiritus una cum muneribus possideatur. Plato in “Symposio” illud Hesiodi, quod prius adduximus, commemoravit, antiquissimum Deorum esse AMOREM, ut Spiritum ostenderet Deum esse maximum, turbas novorum Deorum ipsa aeternitate antecedentem. Antiquissimum vero et primum intelligimus non modoqua deos alios anteit, verum etiam qua divina in nobis antecedit dona.Primum namque donorum omnium AMOREM facit Aristoteles in “Rhetoricis”, quare nisi prius mortalibus amor detur, nunquam divina munera tribuuntur de iis, inquam, muneribus, quae amicitiam nobis conciliantdivinam. Deum praeterea Aristoteles in maximo caeli circulo esse vult,ea dumtaxat nisus ratione, quod simplices incorporeaeque substantiaeeo in loco sunt, sicuti in loco esse possunt, ubi actiones exercent. Quodsi id agit Amor ille divinus in nobis, ut ex impiis pii, ex iniustis iusti, ex hostibus amici efficiamur, non potest idem ipse Amor non esse innobis. Iungimur quoque non modo muneribus cum illa suscipimus, sedipsi etiam Deo, quem probe tum nosse tum amare incipimus; notitiaenim AMORque Dei, quae praecipua a Deo munera generi humano tri-buuntur, ut Deo et propius iungamur et iunctissime haereamus efficiunt. Atqui sicut Apostolo placet, quicunque haeret deo, ut unus cum Deospiritus evadat, oportet. Fit denique in nobis dato munere ad aliquid,quo non modo dona suscepta, verum etiam dantem AMOREM aspicimus. Quam obrem efficitur, ut AMOR ille, qui Deus est, alia quam priusratione possideatur a nobis. Possidetur autem cum sese nobis insinuat, cum inudit se animo, cum sinui penetralibusque amatae mentis illabitur. Quod si parum id persuaserimus, non potest Apostoli oraculum non persuadere, qui Dei amorem in discipulorum cordibus praedicat diffu-sum “per Spiritum,” inquit, Sanctum, qui datus est nobis. Quo quidem loco incredibile immortalium munus ostenditur, quo non modo divina dona, verum etiam Deus ipse donorum dator sese et dat et exhibet animae humanae. Ex iis vero, quae dicta sunt, dubitatio exoriri potest, sienimA AMORES tdonorumprimum, nullonos donarimunere sequitur, nisiprius AMOREM Spiritumque suscipiamus. Cum tamen nonnullos con-stet improbos Spiritus divini dona suscepisse, Spiritum tamen minime suscepisse. ria nomina intelligenda sunt nobis, quae saepe a risme-gisto et a Platone in medium afferri consuevere. Deum namque apelli-tare soliti sunt Patrem, Verum, Bonum. Patrem quidem nominant illamut causam, a qua protecti sumus; Verum, ut id quod summum intelli-gimus; Bonum, ut id quod ut beati simus adamamus. ria itaque divina nominasunt, tres etiam rationes quibus in nobis est Deus; quaenimPaterac causa rerum est, omnibus inest rebus. Ea namque, quae sunt, simili-tudinem servant eorum, unde unt, atque hoc pacto in rebus est Deus:essentia, potestate, praesentia, quemadmodum publica senatus decretacensuerunt. Ego omnia impleo,” dicebat oraculum. Quam quidem rem divinarum rerum consultissimus Maro in rusticis carminibus scriptamreliquit: “Ab Iove,” inquit, “principium Musae; Iovis omnia plena”; ubiet sententiam et sententiae causam elegantissime posuit scribens, Iovisesse plena omnia, atque ideo ab eo principium Musae acere. Qui locuslonge altius agit, quam prima carminis fronte videatur, voluit enim Iovis plena esse omnia, quoniam Musae principium, atque ortus a Iove ipsoest. Filias enim Iovis Homerus Musas fecit. Musas etiam caelestesquedeos una cum rebus omnibus a principio conditos a Deo fuisse constat. Quare idcirco docet omnia esse plena Deo, quod Musae rerum-que omnium pater est et causa ac principium Deus. Primamque rationem describit, qua Deus rebus inest, eiusque rei causam ostendit, quod Musae rerum quesitet pateret principium. Didicitex imaeo Deum essenon modo Musae, sed et rerum patrem, ubi insignis illa Platonis sententia est, actarum rerum patrem invenire difficile est, effari autem nulliunquam as est.” Quod enim sit Deus, magno tandem negotio coniicimus, quid autem sit nullo studio, nullo labore in terris animadvertimus. At esse ubiqueDeum Academia semper voluit, utpostea, non semel Plotinus testatus est, cuius quidem doctrinam ad Maronis interpretamenta necessariam esse, vel Servius atetur. Altera ratio, qua inest nobis Deus, est cognitionis et mentis, quod quidem divinum munus ii soli possident, qui sunt mentis rationisque participes. Iungitur namque Deo mens dumcontemplatur Deum, utque divinas quasdam speculatur imagines, quibus aciem dirigit in divinam lucem; atque hoc pacto in contemplante est Deus per similitudines atque imagines quasdam, quibus modo quodam coniungimur Deo. Tertia ratio est cum inest nobis deus non modo tamquam verum cognoscentibus, sed tanquam bonum summum adamanti-bus. Illud cognitionis, hoc amoris est opus. Id menti convenit, hoc daturaffectui. Quarum quidem rerum illud est interstitium, quod rei speciem altera, altera non speciem, sed rem ipsam assequitur. Species enim lapidis, teste Aristotele, in animo est, non lapis, cumcontra bonumipsum ac malum, noninrerumimaginibus, sedinipsissintrebus. Quaretertius hic nodus quoiungimur deo, tanto es tsuperiorep raestantior, quantoaurum, atque homo auri hominisque imagines antecellit. Licet intelligentia quadam nos ratione iungat Deo, ita tamen iungit, ut scientiae et mathemati-cae solent, quae aciunt necessaria quadam consecutione, ut cognitas res et coelum cognoscamus, non tamen praestant, ut etiam intellecta possi-deamus. At amor, qui similitudinibus imaginibusque contentus esse nonsolet, ad res ipsas, quas optat, se recipit, nec unquam nisi pulchro poti-tus conquiescit. Cognitio quidem rerum similitudines ad cognoscentem vehit, amor vero amantem ipsum ad rem pulchram rapit. Iarbam quem novit Dido, non admisit, quem amavit Aeneam virum cepit, non enimilli colloquia, non convivia, non munera, non consuetudo sat uit, quinpotius nunquam destitit, donec “speluncam Dido, dux et Troianus ean-dem devenirent, ubi arctissimo connubiivinculoiungerentur. Atque hoc est quod in Republica Plato monet, AMORIS nexum multo esse mathematicis artiorem, cum disciplinarum necessitas similitudini mentem iun-gat, amoris vincula pulchro ipsi devinciant. Adde quod velut Maro amo-ris retinacula ut arctissima esse demonstraret, matrimonii illa et nuptiarum iugo signi cavit. Idem quoque hicidemquodeagimus Spiritus effecit in AMATORIIS canticis, commercia namque humanarum animarum etinmortalis Dei, quae caritate amoreque conciliantur, non aptiori nomineappellatasunt,quamconnubiiatquenuptiarum.Quamobremliberis,qui  AMORES canit et castos et divinos, ab Ieronimo, Origene, aliisque senatus principibus VIRIS Epitalamii titulo inscriptus est, haud alio plane consilio, quam ut cum amoris nodum cogitemus, efficacissimum arbitremur.Est itaque in rebus Deus maximus primo quidem modo sicut causa iniis, quae vel proveniunt vel oriuntur ex causa. Est rursus in eo animante, qui rationis est particeps,quadamet specierum similitudine et intelligentiae luce. Et denique in hoc ipso per sanctos caritatis amorisque complexus. Primum quidem naturae opus est, alterum studii, tertium AMICITIAE. Primum dat nobis essentiam, sequens cognitionem, postremum gratiamatque benevolentiam. Deus siquidem in primo et intellectum et mentem praebet homini, in secundo dei species et enigmata, in postremo amo-risbeneficiodatse ipsum. Iamitaqueconstarepalampotest, quaemunera AMORES ea sint, quae cum exhibentur hominibus, efficiunt ut auctor quo-que ipse exhibeatur. Licet enim, qua pater et causa rebus insit omnibus,praecipuum tamen inhabitandi munus, quod ad amorem pertinet, nullis cum muneribus praestatur hominibus, nisi ea amoris, gratiae, amicitiaesint. Extat oraculum clarissimum, quo amoris hoc divinissimum significatum est munus: “ad eum,” inquit, “veniemus, in quo, et nobis domicilium aciemus.”HocideminPlatonico Symposioindicat, quodinAmorisortu Penia Poro miscetur, ut aperte Amoris vis intelligatur, cuius inaestimabili et bonitate et benficio et, ut non speciei, non similitudini, sedipsi Deo anima copuletur. O beatum munus! O felices AMORIS VIRES, O fortunatos HOMINES, ubi divinus ille flagrat Amor, ubi suas Deus exer-cet nuptias, ubi amatae sponsae commiscetur, ubi tanquam in thalamocubat suo! Quid asces, quid imperia, quid utiles hominibus voluptates prosunt? Qui si unum hunc Amorem non possident, male omnia atqueexilio possident. Qui ut parentem et causam colunt deum, parum sese aellureevehunt,caelumquelunaedumtaxataspiciunt,quamerraenatu-ram sapere volunt et Aristoteles et Averroes, proindeque torpentes acgelidi Amoris munera acesque non sentiunt. Qui vero contemplantur  ut verum in Mercurii orbem oculos attollunt, unde artium et discipli-narum munera tribui generi humano fabulantur. Qui etsi amoris flam-mas nondum concipiunt, quoniam tamen orbis ille venereo iunctus est,nec sua stella a Veneris stella procul unquam migrat, atque utraque semper circum flammeum ardentemque micat solem, idcirco ab intelligen-tia, modo recta piaque sit, ad AMORIS ignes facilis patet aditus. Qui autemetiam Mercurii somnia virgamque apertis oculis transiliunt, quasi vene-reae columbae pennis, nisi ad Veneris se flammas caelumque recipiunt,quo qui tandem convolant, non in concertatione similitudinum dimi-  cant vel laborant, sed in pace in id ipsum dormiunt laeti atque requie-scunt. Has pennas optabat olim vates: “quis,” inquit, “dabit mihi pennasut columbae, quibus simul volabo, et requiescam!” Huc se venturum isetiam (ut poterat) sperabat, “geminas qui orte columbas aspiciens, quaetum caelo venere volantes, maternas agnovit aves.” In hoc denique AMORIS caelumtertiumraptusilleest, qui AMOREM absquerebusaliissatisesse,res alias absque amore nihil esse arbitrabatur. Non itaque cum vatici-niis, non cum prophetia, non cum miraculis semper datur Deus. Quaeomnia, ut idem testatur, si habeam, unum Amorem non habeam, nihilomninosum.Quodverositdonorumprimum acitutaliqua semper cum donisAMOR detur. Simplicitertamenexactequedari non dicitur, nisi dum munera tertii sunt generis et divina cum AMICITIA tribuuntur. Egidio Antonini. Antonini. Keywords: Ganimede, amore, amare, amatore, amante, amatum, significatum. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Antonini” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Antonino – imperare – filosofia italiaa – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. – marc’aurelio: antonino -- Grice: “Some call him Aurelio, but I call him Antonino, since the first time his thing was published in Latin, his thing was under ‘M. Antonini,’ no clue about the Aurelius!” -- Grice: “I once suggested to Strawson that he should write a dissertation on a comparison of Barberini’s and Xylander’s translation of Marcus Aurelius; you see, he was a Roman who philosophised in Greek; and he was translated to Latin only in the 1550s; and into Italian a century later! Sir Peter responded: “I guess you want me to detect all the misimplicata!’ ‘Misimpiegato,’ I replied!” Solo il presente ci è tolto, dato che solo questo abbiamo.»  (Marco Aurelio, Pensieri) Marco Aurelio Antonino Augusto (in latino: Marcus Aurelius Antoninus Augustus; nelle epigrafi: IMP·CAES·M·AVREL·ANTONINVS·AVG. Meglio conosciuto semplicemente come Marco Aurelio, è stato un imperatore, filosofo e scrittore romano. Su indicazione dell'imperatore Adriano, fu adottato dal futuro suocero e zio acquisito Antonino Pio che lo nominò erede al trono imperiale.  Nato come Marco Annio Catilio Severo divenne Marco Annio Vero, che era il nome di suo padre, al momento del matrimonio con la propria cugina Faustina, figlia d’Antonino, e assunse quindi il nome di Marco Aurelio Cesare, figlio dell'Augusto (Marcus Aurelius Caesar Augusti filius) durante l'impero di Antonino stesso. Antonino e imperatore sino alla sua morte, avvenuta per malattia a Sirmio secondo Tertulliano o presso Vindobona. Mantenne la coreggenza dell'impero assieme a Lucio Vero, suo fratello adottivo nonché suo genero, anch'egli adottato da Antonino Pio. Morto Lucio Vero, associa al trono suo figlio Commodo. È considerato dalla storiografia tradizionale come un sovrano illuminato, il quinto dei cosiddetti "buoni imperatori" menzionati da Edward Gibbon. Il suo regno fu tuttavia funestato da conflitti bellici (guerre partiche e marcomanniche), da carestie e pestilenze. Marco Aurelio è ricordato anche come importante filosofo stoico, autore dei Colloqui con sé stesso, “Τὰ εἰς ἑαυτόν” nell'originale. Alcuni imperatori successivi utilizzarono il nome "Marco Aurelio" per accreditare un inesistente legame familiare con lui. Busto dell'imperatore Marco Aurelio (Musei Capitolini, Roma). Nome originale Imperator Caesar Marcus Aurelius Antoninus Augustus Tribunicia potestas 9 anni (da solo), 6 con Lucio Vero, 4 con Commodo e 15 con Antonino Pio per un totale di 34 volte: la prima volta dal 1º dicembre del 147, rinnovata annualmente al 10 dicembre di ogni anno. Cognomina ex virtute Armeniacus nel 164, Medicus e Parthicus Maximus, Germanicus, Sarmaticus. Titoli: Pater Patriae, Salutatio imperatoria10 volte:[1] I (al momento della assunzione del potere imperiale). Morte17 marzo 180 Sirmio o Vindobona (attuale Vienna) PredecessoreAntonino Pio SuccessoreCommodo ConiugeFaustina minore FigliDomizia Faustina Aurelia Tito Aurelio Antonino Tito Elio Aurelio Lucilla Annia Aurelia Galeria Faustina Tito Elio Antonino Fadilla Annia Cornificia Faustina minore Commodo Tito Aurelio Fulvio Antonino Marco Annio Vero Cesare Vibia Aurelia Sabina Adriano Un altro figlio di cui non si conosce il nome nato dopo Tito Elio Antonino GensAnnia DinastiaAntonini PadreMarco Annio Vero adottivo: Antonino Pio MadreDomizia Lucilla Consolato3 volte: nel 140, 145 e 161. Le principali fonti per la vita e il ruolo di Marco Aurelio sono frammentarie e spesso inaffidabili. Il gruppo più importante è rappresentato dalle biografie contenute nella Historia Augusta, composte in epoca successiva al IV secolo.[34] Le biografie derivate principalmente da fonti ormai perdute (come Mario Massimo), ma anche da Eutropio e Aurelio Vittore, ovvero quelle di Marco Aurelio, Adriano, Antonino Pio e Lucio Vero, sono ritenute accurate e affidabili. Di Frontone, maestro di retorica di Marco e di vari funzionari di Antonino Pio, si conservano una serie di manoscritti irregolari. Nei Colloqui con sé stesso Marco offre una finestra sulla sua vita interiore, ma gran parte dei libri risultano senza riferimenti cronologici e con pochi accenni al mondo esterno. La più attendibile fra le fonti del periodo è Cassio Dione, Egli scrisse una storia di Roma dalla sua fondazione al 229, chiamata Historia romana.[36] Altre fonti letterarie e giuridiche, come gli scritti del medico Galeno, le orazioni di Elio Aristide e le costituzioni imperiali dello stesso Marco Aurelio forniscono ulteriori informazioni sul contesto storico e sociale in cui visse l'imperatore. Epigrafi e monete possono integrarle, così come i numerosi reperti archeologici. La sua famiglia e di origine romana, ma stabilita da tempo a Ucubi (Colonia Claritas Iulia Ucubi), una piccola cittadina. Essa salì alla ribalta alla fine del I secolo, quando il suo bisnonno, Marco Annio Vero, fu senatore e forse pretore. Il nonno, anch'egli di nome Marco Annio Vero, fu elevato al rango di patrizio. Il terzo Marco Annio Vero, cioè suo padre, sposa Domizia Lucilla. Lucilla maggiore, la di lei nonna materna, eredita una grande fortuna, tra cui una fabbrica di mattoni (figlina) a Roma, attività alquanto redditizia in un'epoca in cui la città era interessata da una notevole espansione edilizia. La famiglia della madre e di rango consolare, mentre quella del padre vanta addirittura una discendenza da Numa Pompilio. Busto di Marco Aurelio giovane uomo, Museo Archeologico Nazionale di Napoli, collezione Farnese. Il busto (fino al collo) è un rifacimento moderno. Nacque da Vero e Lucilla il sesto giorno prima delle calende di maggio, l'anno del secondo consolato di suo nonno Marco Annio Vero, corrispondente all'anno 874 dalla fondazione di Roma. La sorella, Annia Cornificia Faustina, nacque probabilmente nel 122 o nel 123. Il padre Annio Vero muore giovane, durante la sua pretura, quando Marco ha solo tre anni. Anche se difficilmente può averlo conosciuto, scrisse nelle sue Meditazioni che ha imparato modestia e virilità dal ricordo di suo padre e dalla sua reputazione postuma. Lucilla non si risposa più. La madre di Marco, come da usanza della nobilitas, trascorse poco tempo col figlio, affidandolo alle cure delle domestiche. Ciononostante, Marco accredita a sua madre l'insegnamento della pietà religiosa, la semplicità nella dieta e come evitare le vie dei ricchi. Nelle sue lettere Marco fa frequente e affettuoso riferimento alla madre, manifestandole la sua gratitudine, nonostante mia madre fosse condannata a morire giovane, trascorse i suoi ultimi anni di vita con me. Dopo la morte del padre, anda a stare dal nonno paterno Marco Annio Vero. Ma anche Lucio Catilio Severo, descritto come il bisnonno materno di Marco (probabilmente il patrigno o padre adottivo di Lucilla maggiore), partecipa alla sua istruzione. Crebbe nella casa dei suoi genitori, sul Celio, dove era nato, in un quartiere che avrebbe affettuosamente ricordato come il mio Celio. E una zona esclusiva, con pochi edifici pubblici e molte domus nobiliari fra cui il palazzo del nonno, adiacente al Laterano, dove Marco avrebbe trascorso gran parte della sua infanzia. Marco era riconoscente al nonno per avergli insegnato a tener lontano il brutto carattere, ma era anche grato agli eventi che gli evitarono di vivere nella stessa casa con la concubina presa dal nonno dopo la morte della moglie, Rupilia Faustina. Evidentemente questa donna o qualcuno del suo seguito potevano costituire una tentazione per Marco. La sua istruzione avvenne in casa, in linea con le tendenze aristocratiche del tempo. Uno dei suoi maestri, Diogneto, si dimostrò particolarmente influente, introducendo Marco a una visione filosofica della vita e insegnandogli l'uso della ragione. Per volere di Diogneto, prese a praticare le abitudini proprie dei filosofi e a utilizzarne l'abbigliamento, come il ruvido mantello greco. Altri tutores, Trosio Apro, Tuticio Proculo edAlessandro di Cotieno, descritto come un importante letterato (il principale studioso omerico del suo tempo), continuarono a occuparsi della sua istruzione. Deve ad Alessandro la sua formazione nello stile letterario, rilevabile in molti passi dei Colloqui con sé stesso. Adriano, convalescente nella sua villa di Tivoli dopo aver rischiato di morire per un'emorragia, scelse Lucio Ceionio Commodo (conosciuto poi come Lucio Elio Cesare) come suo successore, adottandolo contro la volontà delle persone a lui vicine. Lucio però si ammalò e morì, costringendo il princeps Adriano a indicare un nuovo successore, quando la scelta cadde su Aurelio Antonino, il genero di Marco Annio Vero che il giorno successivo, dopo essere stato attentamente esaminato, fu accettato dal Senato e adottato col nome di Tito Elio Cesare Antonino. A sua volta, come da disposizioni dello stesso princeps, Antonino adotta Marco, allora diciassettenne, e il giovane Lucio Commodo, figlio dello scomparso Lucio Elio Vero. Da questo momento Marco muta il suo nome in Marco Elio Aurelio Vero e Lucio in Lucio Elio Aurelio Commodo. Rimase sconcertato quando seppe che Adriano lo aveva adottato come nipote. Solo con riluttanza passò dalla casa di sua madre sul Celio a quella privata di Adriano, che si ritiene non fosse ancora la casa di Tiberio, come veniva chiamata la residenza imperiale sul Palatino). Adriano chiese in Senato che Marco fosse esentato dalla legge che richiedeva il venticinquesimo anno compiuto per il candidato alla carica di questore. Il Senato acconsentì e Marco divenne prima questore, ricevette quindi l'imperium proconsulare maius e il consolato. L'adozione facilitò il percorso della sua ascesa sociale: egli sarebbe verosimilmente divenuto prima triumvir monetalis (responsabile delle emissioni monetali imperiali) e in seguito tribunus militum in una legione. Marco probabilmente avrebbe preferito viaggiare e approfondire gli studi. Il suo biografo attesta che il suo carattere rimase inalterato: mostrava ancora lo stesso rispetto per i rapporti come aveva quando era un cittadino comune ed era così parsimonioso e attento dei suoi beni come lo era stato quando viveva in una abitazione privata. La salute di Adriano peggiorò al punto da fargli desiderare la morte, tentando anche il suicidio, impeditogli dal successore Antonino. L'imperatore, gravemente malato, lasciò Roma per la sua residenza estiva, una villa a Baiae, località balneare sulla costa campana, ove morì infine di edema polmonare. La successione di Antonino era ormai stabilita e non presentava appigli per eventuali colpi di mano. Per il suo comportamento, rispettoso dell'ordine senatorio e delle nuove regole, Antonino fu insignito dell'appellativo "Pio". Governo con Antonino Pio (139-161)  L'adozione (Monumento dei Parti, oggi presso il Museo di Efeso di Vienna): Antonino Pio (al centro) con Lucio Vero di sette anni (a destra) e Marco Aurelio di diciassette anni (a sinistra, alle spalle). All'estrema destra, sembra esserci Adriano. Magnifying glass icon mgx2.svgEtà antonina. Subito dopo la morte di Adriano, Antonino pregò la moglie Faustina di accertarsi se Marco fosse disposto a modificare i suoi precedenti accordi matrimoniali. Marco acconsentì a sciogliere la promessa fatta a Ceionia Fabia e a fidanzarsi con Faustina minore, la loro giovane e bella figlia, inizialmente promessa a Lucio. Ricopre il suo primo consolato nel 140, con Antonino come collega. In qualità di erede designato, fu quindi nominato princeps iuventutis, il comandante dell'ordine equestre. Assunse il titolo di Cesare,[69] divenendo Marco Elio Aurelio Vero Cesare, ma in seguito si schermì dal prendere troppo sul serio l'incarico. Su invito del Senato, Marco venne inserito contemporaneamente nei principali collegi sacerdotali, tra i quali figuravano i pontifices, gli augures, i quindecemviri sacris faciundis e i septemviri epulones. Antonino gli chiese di prendere la residenza nella Domus Tiberiana, uno dei palazzi imperiali sul Palatino. Marco avrebbe avuto difficoltà a conciliare la vita di corte con le sue aspirazioni filosofiche, anche se ammirò sempre e profondamente Antonino come un uomo giusto, esempio di condotta integerrima. Marco si convinse che la vita serena a corte doveva essere un obiettivo raggiungibile, dove la vita è possibile, allora è possibile vivere una vita giusta, la vita è possibile in un palazzo, per cui è possibile vivere la vita proprio in un palazzo affermò, trovandolo comunque di difficile attuazione. Nei Colloqui con sé stesso Marco sembrava criticarsi per aver abusato della vita di corte di fronte alla società. Come questore, Marco sembra abbia ricoperto un ruolo amministrativo secondario: i compiti erano la lettura delle lettere imperiali al Senato, quando Antonino era assente, e più in generale quello di essere una sorta di segretario privato del princeps. I suoi compiti come console furono invece più significativi, presiedendo le riunioni che avevano un ruolo importante nelle funzioni amministrative del corpo statale. Si sentiva assorbito dal lavoro d'ufficio e se ne lamentò con il suo tutore Frontone: Sono senza fiato a causa di dover dettare quasi trenta lettere. Egli era stato, nelle parole del suo biografo, preparato per governare lo Stato. Marco venne nominato console per la seconda volta, a soli ventiquattro anni. Una lettera di Frontone esortava Marco a dormire molto in modo che potrai entrare in Senato con un buon colorito e leggere il discorso con una voce forte. Marco si era lamentato di una malattia in una lettera precedente: Per quanto riguarda la mia forza essa è migliorata, sto cominciando a guarire e non vi è alcuna traccia di dolore nel mio petto, ma riguardo l'ulcera sto facendo un trattamento e faccio attenzione a non fare nulla che interferisca con esso. Marco era di salute cagionevole: lo storico romano Cassio Dione, scrivendo dei suoi ultimi anni, lo elogiò per essersi comportato a dovere, nonostante le numerose malattie. Matrimonio con Faustina  Busto di Faustina Minore, Louvre, Parigi. Nell'aprile del 145 Marco sposò la quattordicenne Faustina, come era stato programmato. Secondo il diritto romano, per far sì che il matrimonio potesse aver luogo, fu necessario che Antonino liberasse ufficialmente uno dei due figli dalla sua autorità paterna; in caso contrario Marco, in quanto figlio adottivo di Antonino, avrebbe sposato sua sorella. Poco si sa della cerimonia stessa. Vennero coniate delle monete con le immagini degli sposi e di Antonino, che avrebbe officiato la cerimonia come pontifex maximus. Nelle lettere rimanenti Marco non fa esplicito riferimento al matrimonio, durato trentun anni, e accenna solo raramente a Faustina. Dopo aver indossato la toga virilis nel 136 iniziò probabilmente la sua formazione oratoria. Aveva tre maestri di greco, tra cui Erode Attico, e uno di latino, Marco Cornelio Frontone, che Marco ricorda spesso come suo maestro di stile e di vita nei Colloqui con sé stesso. Frontone e Attico erano gli oratori più stimati dell'epoca, ma divennero suoi precettori solo dopo la sua adozione da parte di Antonino. La preponderanza dei tutores greci indica l'importanza di quella lingua per l'aristocrazia di Roma. Questa era l'età della seconda sofistica, una rinascita della letteratura greca. Sebbene istruito a Roma, Marco userà il greco per scrivere i suoi pensieri più profondi nei Colloqui con sé stesso. Erode era un uomo molto ricco e discusso, forse il più ricco d'Oriente e mal sopportava gli stoici, ma era un abile oratore e sofista; Marco, che sarebbe diventato proprio uno stoico, non lo ricorda affatto nei suoi Colloqui, nonostante si fossero incontrati molte volte nel corso dei decenni successivi. Quinto Giunio Rustico in un disegno riportato nel Crabbes Historical Dictionary. Busto di Erode Attico in marmo, risalente al II secolo d.C. e conservato al Museo del Louvre di Parigi. Frontone godeva di grande reputazione: nel mondo consapevolmente antiquato della letteratura latina era considerato, come oratore, secondo solo a Cicerone, una fama che oggi, in base ai pochi frammenti rimasti, può lasciare meravigliati. Non correva una gran simpatia fra Frontone ed Erode; eppure i due seppero in ultimo far scorrere una vena di reciproca cortesia e gentilezza, grazie anche a Marco. Frontone non divenne insegnante a tempo pieno di Marco e continuò la sua carriera di avvocato. Una causa famosa lo portò in contrasto con Erode, che era il principale accusatore di Tiberio Claudio Demostrato, un notabile ateniese difeso proprio da Frontone. L'esito del processo è ignoto, ma Marco riuscì a far riconciliare i due. All'età di venticinque anni Marco cominciò a disamorarsi degli studi in giurisprudenza, mostrando segnali di un diffuso malessere. Era stanco dei suoi esercizi e di prendere posizione in dibattiti immaginari. In ogni caso, l'istruzione formale di Marco era ormai finita. Aveva mantenuto con i suoi insegnanti buoni rapporti e continuava a seguirli con devozione, anche se la lunga istruzione ebbe negative influenze sulla sua salute.[89] Quando Marco era giovane Frontone lo aveva messo in guardia contro lo studio della filosofia, disapprovando come una deviazione giovanile le sue lezioni con Apollonio di Calcide. Pur se Apollonio potrebbe aver introdotto Marco alla filosofia stoica, sarebbe stato Quinto Giunio Rustico, il vero successore di Seneca, ad aver esercitato la maggior influenza sul ragazzo. Marco s'ispirò anche ad Epitteto di Ierapoli, le cui letture fu proprio Rustico a suggerire. Nascite e morti nella famiglia. Il 30 novembre 147 Faustina diede alla luce una bambina di nome Domizia Faustina Aurelia. Era solo la prima di almeno quattordici figli (tra cui due coppie di gemelli) che Faustina avrebbe partorito nei successivi ventitré anni.[92] Il giorno successivo, 1º dicembre, Antonino Pio attribuì a Marco il potere tribunizio, mentre l'imperium, cioè l'autorità sugli eserciti e sulle province imperiali, potrebbe essergli già stato conferito. Il potere tribunizio conferiva a Marco il diritto di proporre un provvedimento con prelazione sul Senato e sullo stesso Antonino. Questi poteri gli furono rinnovati, insieme ad Antonino, il 10 dicembre.La prima menzione di Domizia nelle lettere di Marco ne rivela la salute malferma.[94] Lui e Faustina furono molto occupati nella cura della bambina, che sarebbe morta poi. Nacquero a Faustina due gemelli, celebrati da una moneta con cornucopie incrociate sotto i busti dei due bambini e la scritta "felicità dei tempi" (temporum felicitas). Essi però non sopravvissero a lungo. Tito Aurelio Antonino e T. Elio Aurelio, questi i nomi ricavati dagli epitaffi, morirono molto presto (entro la fine del 149) e furono sepolti nel mausoleo di Adriano. Lo stesso Marco scrisse: Uno prega: «che io non debba perdere mio figlio!»; ma tu devi pregare: «che io non tema di perderlo! Marco Aurelio: aureo FAUSTINA MINOR RIC III FAVSTINA AVGVSTA, busto con drappeggio FECVNDITA-TI AVGVSTAE, la Fecunditas (fertilità) seduta, con un bambino sulle ginocchia e altri due in piedi AV (7,37 g); 161 circa Il 7 marzo del 150 nacque una bambina, Annia Aurelia Galeria Lucilla, cui seguì Annia Aurelia Galeria Faustina, che sembra sia nata non più tardi del 153 (un altro figlio, Tito Elio Antonino, viene citato dalle fonti nel 152). Una moneta celebra la fertilità dell'Augusta (FECVNDITAS), raffigurando due bambine e un bambino (Lucilla, Faustina e Antonino, appunto). Il maschio non sopravvisse a lungo, considerando che sulle monete del 156 erano raffigurate solo le due femmine. Egli potrebbe essere morto nel 152, lo stesso anno in cui mancò la sorella di Marco, Cornificia.[92][96]  Un settimo figlio nacque e morì poco dopo tra la fine del 157 e gli inizi del 158, come risulta da una lettera di Marco, datata 28 marzo del 158. Nel 159 e 160 Faustina diede alla luce altre due figlie: Fadilla e Cornificia, che portavano i nomi delle defunte sorelle di Faustina e di Marco.[99] Altri figli nacquero in seguito, oltre a Commodo e al gemello di questi, Fulvio Antonino. Si trattava di Marco Annio Vero Cesare, Vibia Aurelia Sabina e Adriano, che morì anche lui giovanissimo. Lucio divenne questore all'età di ventitré anni, due anni prima dell'età legale (Marco aveva ricoperto lo stesso incarico a soli diciassette anni).[63] Nel 154 ottenne il consolato all'età di venticinque, sette anni prima dell'età legale. Lucio non aveva altri titoli onorifici, tranne quello di figlio dell'Augusto. Aveva una personalità molto diversa da Marco: amava l'attività sportiva di ogni genere, in particolare la caccia e la lotta, e aveva evidente piacere ad assistere ai giochi circensi e alle lotte dei gladiatori. Non si sposò fino al 164. Antonino Pio non condivideva i suoi stessi interessi: desiderava mantenere Lucio in famiglia, ma non era sicuro di potergli dare gloria e potere. Come si nota dalle statue di questo periodo, Marco cominciò a portare la barba (oltre ai tipici capelli arricciati dell'età antonina), proseguendo la moda iniziata da Adriano,[102] seguita da Antonino e che durò a lungo, sostituendo il tradizionale aspetto dell'uomo romano, completamente sbarbato. Nel 156 Antonino Pio compì settanta anni. Godeva ancora di un discreto stato di salute, seppure avesse difficoltà a stare eretto senza utilizzare dei sostegni. Il ruolo di Marco andò via via crescendo, in particolare quando il prefetto del pretorio Gavio Massimo, che per quasi vent'anni era risultato di fondamentale importanza con i suoi consigli su come governare, morì tra il 156 e il 157. Il suo successore, Gavio Tattio Massimo, sembra non avesse lo stesso peso politico presso il princeps e poi non durò a lungo.[104] Nel 161 Marco e Lucio furono designati consoli insieme, forse perché il padre adottivo sentiva avvicinarsi la fine che infatti giunse nei primi mesi dello stesso anno. Secondo i racconti della Historia Augusta l'imperatore, che si trovava nella sua tenuta di Lorium, due giorni prima di morire aveva fatto indigestione, vomitò e fu colto da febbre. Aggravatosi il giorno successivo, il 7 marzo 161, convocò il consiglio imperiale (compresi i prefetti del pretorio Furio Vittorino e Sesto Cornelio Repentino) e passò tutti i suoi poteri a Marco, ordinando che la statua d'oro della Fortuna, che era nella camera da letto degli imperatori, fosse portata da Marco. Diede quindi la parola d'ordine al tribuno di guardia, «equanimità», poi si girò, come per andare a dormire, e morì. Dopo la morte di Antonino Pio, Marco Aurelio era di fatto unico princeps dell'Impero. Il Senato gli avrebbe presto concesso il titolo di Augusto e di imperator, oltre a quello di Pontifex Maximus, sacerdote a capo dei culti ufficiali della religione romana. Sembra che Marco dimostrasse, almeno inizialmente, tutta la sua riluttanza a farsi carico del potere imperiale, poiché il suo biografo scrive che fu "costretto dal Senato ad assumere la direzione della Res publica dopo la morte di Pio". Egli deve aver avuto una vera e propria paura del potere imperiale (horror imperii), considerando la sua predilezione per la vita filosofica, ma sapeva, da stoico qual era, quello che doveva fare e come farlo. Anche se nei Colloqui con sé stesso non sembra mostrare affetto personale per Adriano, Marco lo rispettò molto e presumibilmente ritenne suo dovere metterne in atto i piani di successione. E così, anche se il Senato voleva confermare solo lui, egli rifiutò di entrare in carica senza che Lucio ricevesse gli stessi onori: alla fine il Senato fu costretto ad accettare e insignì Lucio Vero del titolo di Augustus. Marco divenne, nella titolatura ufficiale, Imperatore Cesare Marco Aurelio Antonino Augusto mentre Lucio, assumendo il nome di famiglia di Marco, Vero, e rinunciando al suo cognomen di Commodo, divenne Imperatore Cesare Lucio Aurelio Vero Augusto. Per la prima volta Roma veniva governata da due imperatori contemporaneamente.[109]  Fin dalla sua ascesa al principato, Marco ottenne dal Senato che Lucio Vero gli fosse associato su un piano di parità (diarchia),[62][69] con gli stessi titoli, ad eccezione del pontificato massimo che non si poteva condividere. La formula era innovativa: per la prima volta alla testa dell'impero vi era una collegialità e una parità totale tra i due principes. In teoria i due fratelli ebbero gli stessi poteri, in realtà Marco conservò una preminenza che Vero mai contestò. Le ragioni pratiche di questa collegialità, voluta da Adriano forse per onorare la memoria di Lucio Elio, adottandone il figlio, e al tempo stesso lasciare l'impero a Marco Aurelio di cui aveva capito le grandi qualità, non sono completamente chiare. A dispetto della loro uguaglianza nominale, Marco ebbe maggior auctoritas di Lucio Vero. Fu console una volta di più, avendo condiviso la carica già con Antonino Pio, e fu il solo a divenire Pontifex Maximus. E questo fu chiaro a tutti. L'imperatore più anziano deteneva un comando superiore al fratello più giovane: Vero obbedì a Marco... come il tenente obbedisce a un proconsole o un governatore obbedisce all'imperatore. Subito dopo la conferma del Senato, gli imperatori procedettero alla cerimonia di insediamento presso i Castra Praetoria, l'accampamento della guardia pretoriana. Lucio affrontò le truppe schierate, che acclamarono la coppia di imperatores. Poi, come ogni nuovo imperatore, da Claudio in poi, Lucio promise alle truppe un donativo speciale, che fu il doppio di quelli passati: 20.000 sesterzi (5.000 denari) pro capite ai pretoriani, e in proporzione agli altri militari dell'esercito. In cambio della donazione, pari a diversi anni di stipendium, le truppe giurarono fedeltà ai due imperatori. La cerimonia non del tutto necessaria, considerando che l'ascesa di Marco era stata pacifica e incontrastata, costituì comunque una valida assicurazione contro possibili rivolte da parte dei militari. In seguito a questi eventi sembra che la moneta d'argento, il denario, cominciò un lento processo di svalutazione, che portò sia alla riduzione del suo peso che del suo titolo (% di argento presente nella lega), che passò dall'89% dell'epoca di Traiano al 79%. Il funerale di Antonino fu celebrato in modo che lo spirito potesse ascendere agli dèi, come era tradizione. Il corpo venne posto su una pira. Lucio e Marco divinizzarono il padre adottivo attraverso un sacerdozio preposto al suo culto, con il consenso del Senato. Secondo le sue ultime volontà, il patrimonio di Antonino non passò direttamente a Marco, ma a Faustina, che in quel momento era incinta di tre mesi. Durante la gravidanza sognò di dare vita a due serpenti, uno più agguerrito rispetto all'altro. A Lanuvium nacquero infatti due gemelli: Tito Aurelio Fulvio Antonino e Commodo, che poi sarebbe succeduto al padre come imperatore. A parte il fatto che i gemelli erano nati lo stesso giorno di Caligola, i presagi sembra fossero favorevoli, e gli astrologi trassero auspici positivi per i due neonati. Le nascite furono celebrate sulla monetazione imperiale. Statua equestre di Marco Aurelio (Equus Marci Aurelii Antonini), in bronzo, situata al Campidoglio (copia moderna non fedele dell'originale che si trova ai Musei capitolini) Subito dopo l'adozione, Marco promise come sposa a Lucio la figlia undicenne, Lucilla, nonostante fosse formalmente suo zio. Alle celebrazioni dell'evento, furono donate delle somme per i bambini poveri, come aveva fatto in precedenza Antonino Pio quando volle commemorare la moglie scomparsa. I sovrani divennero popolari tra la gente di Roma. Gli imperatori concessero piena libertà di parola, come dimostra il fatto che un noto commediografo, un certo Marullus, poté criticarli senza subire ritorsioni. In ogni altro momento, sotto qualsiasi altro imperatore, sarebbe stato giustiziato. Ma era un periodo di pace e di clemenza e il biografo riporta che Nessuno rimpiangeva i modi miti di Pio. Marco Aurelio sostituì vari funzionari dell'impero: Sesto Cecilio Crescenzio Volusiano, responsabile della corrispondenza imperiale, con Tito Vario Clemente, un provinciale, originario del Norico, che aveva prestato servizio militare nella guerra in Mauretania e in seguito aveva servito come Procurator Augusti in cinque differenti province. Costituiva l'uomo adatto per affrontare un periodo di emergenza militare. Lucio Volusio Meciano, che era stato uno degli insegnanti di Marco Aurelio, era governatore della prefettura d'Egitto. Marco lo nominò senatore, poi prefetto della tesoreria (Praefectus aerarii Saturni) e poco dopo ottenne anche il consolato. Il figlio adottivo di Frontone, Gaio Aufidio Vittorino, padre dei futuri consoli di età severiana Gaio Aufidio Vittorino e Marco Aufidio Frontone, venne nominato governatore della Germania superiore. Non appena la notizia dell'ascesa imperiale dei suoi allievi lo raggiunse, Frontone lasciò la sua casa di Cirta e il 28 marzo rientrò nella sua residenza romana. Inviò una nota al liberto imperiale Charilas, chiedendo di potersi mettere in contatto con gli imperatori poiché, disse in seguito, non aveva osato scrivere direttamente agli imperatori. L'insegnante si dimostrò immensamente orgoglioso dei suoi allievi. Egli, ripensando al discorso tenuto per l'ascesa al consolato del 143, elogiò Marco con queste parole: C'era allora una straordinaria capacità naturale in te, perfezionata ora in eccellenza, il grano che cresceva è ora un raccolto maturo. Lucio era invece meno stimato dallo stesso precettore, i suoi interessi erano di livello inferiore. Annia Lucilla, figlia di Marco e moglie di Lucio Vero Il primo periodo di regno procedette senza intoppi, così che Marco Aurelio poté dedicarsi alla filosofia e alla ricerca dell'affetto popolare. Ben presto, però, nuove preoccupazioni avrebbero significato la fine della Felicitas temporum, che il conio del 161 aveva con disinvoltura proclamato. Nell'autunno del 161, il Tevere esondò dalle sue sponde, devastando alcune comunità italiche e gran parte di Roma. Annegarono molti animali, lasciando la città in preda alla carestia. «Marco e Lucio affrontarono personalmente questi disastri» e le comunità italiche colpite dalla carestia furono aiutate, permettendo loro di rifornirsi del grano della capitale. In altri tempi di carestia, gli imperatori avevano tenuto le comunità italiche fuori dai granai romani. Gli insegnamenti di Frontone continuarono nei primi anni di regno di Marco. Frontone riteneva che, visto il ruolo ricoperto da Marco, le lezioni fossero più importanti oggi di quanto non fossero mai state prima. Riteneva che Marco desiderasse riacquistare l'eloquenza di una volta, eloquenza per la quale aveva per un certo periodo di tempo perso interesse. Frontone ricordò nuovamente al suo allievo l'antitesi tra il suo ruolo e le sue aspirazioni filosofiche: Supponiamo, Cesare, che tu possa raggiungere la saggezza di Cleante e Zenone, eppure, contro la tua volontà, tu non possa comunque avere la mantella di lana del filosofo.  I primi giorni di regno di Marco furono i più felici della vita di Frontone: il suo allievo era amato dal popolo di Roma, era un ottimo imperatore, uno studente appassionato, e, forse più importante, eloquente come lui voleva. Marco diede prova di grande abilità retorica nel suo discorso al Senato dopo un terremoto avvenuto a Cizico. Aveva trasmesso il dramma del disastro, e il senato era stato intimorito: improvvisamente la mente degli ascoltatori era più violentemente agitata durante il discorso, che la città durante il terremoto". E Frontone ne fu enormemente soddisfatto. Politica interna: l'amministrazione dello stato In politica interna, Marco Aurelio si comportò, come già Augusto, Nerva e Traiano, da princeps senatus, cioè "primo tra i senatori" e non da monarca assoluto, rivelandosi rispettoso delle prerogative del Senato, consentendogli di discutere e di decidere sui principali affari di Stato, come le dichiarazioni di guerra alle popolazioni ostili o le stipule dei trattati, come anche sulle nomine alle magistrature.[131] Avviò anche una politica tendente a valorizzare le altre categorie sociali: ai provinciali fu reso possibile raggiungere le più alte cariche dell'amministrazione statale. Né ricchezza, né illustri antenati influenzarono il giudizio di Marco, ma solo il merito personale. Egli concesse cariche a persone che riconosceva come illustri eruditi e filosofi, senza guardare alla loro condizione di nascita. L'assetto amministrativo introdotto da Augusto quasi centocinquant'anni prima, che fino a quel momento aveva preservato l'Impero anche quando si erano succeduti imperatori dissoluti come Caligola e Nerone, oppure in occasione della guerra civile del 69, era imponente e la sua classe dirigente cominciava ad acquisire piena consapevolezza del proprio potere. Marco istituì l'anagrafe: ogni cittadino romano aveva l'obbligo di registrare i propri figli entro trenta giorni dalla loro nascita; colpì l'usura, regolarizzò le vendite pubbliche e distrusse tutti i libelli diffamatori che circolavano su molte persone.[135] Proibì i processi pubblici prima che fossero raccolte prove certe, garantì ai senatori l'antica immunità dalle condanne capitali, a meno che ci fossero prove certe e una condanna ufficiale. Impiegò il denaro non in splendide architetture, ma in opere di ricostruzione estremamente necessarie, o in migliorie della rete stradale, da cui dipendeva la difesa dell'impero e il progresso del commercio, o in fortezze, accampamenti e città.Egli non amava particolarmente i giochi gladiatorii e gli spettacoli cruenti del circo, ma li indiceva e li frequentava solo se non poteva esimersi; più tardi formò unità militari ausiliarie di gladiatori a supporto delle legioni del nord, ma dovette richiamarli per il malcontento del popolo che, nonostante le economie necessarie a causa della guerra, reclamava il suo divertimento. Non riuscì a realizzare i suoi ideali stoici di eguaglianza e libertà perché l'esigenza di controllare le finanze locali portò alla formazione di una classe burocratica che presto volle arrogarsi diritti e privilegi e che si costituì quale classe chiusa.   Marco Aurelio Pontefice Massimo Trascorse, inoltre, molto tempo del suo regno a difendere le frontiere. Tra le altre leggi proibì la tortura per i cittadini eminenti, prima e dopo la condanna, poi per tutti i cittadini liberi, come era stato in epoca repubblicana. Restò valida per gli schiavi, ma solo se non si trovavano altre prove. Venne comunque proibito di vendere uno schiavo per utilizzarlo nei combattimenti contro le belve. Nei processi da lui presieduti cercò sempre la massima giustizia ed equità per tutti, anche quando doveva emettere una condanna secondo le leggi.[142] Marco e Lucio stabilirono ad esempio la non punibilità di un figlio che avesse ucciso un genitore in un momento di follia, materializzando così un primo concetto di infermità mentale. Come molti imperatori, Marco trascorse la maggior parte del suo tempo ad affrontare questioni di diritto come petizioni e controversie, prendendosi molta cura nella teoria e nella pratica della legislazione. Avvocati di professione lo definirono un «imperatore versato nella legge» e, come sosteneva il grande Emilio Papiniano, «molto prudente e coscienziosamente giusto». Egli mostrò uno spiccato interesse in tre aree del diritto: l'affrancamento degli schiavi, la tutela degli orfani e dei minori, e la scelta dei consiglieri cittadini (decuriones). Rivalutò la moneta da lui svalutata, ma due anni dopo tornò sui suoi passi a causa della grave crisi militare che l'impero stava affrontando a causa delle guerre marcomanniche. E mentre il fratello Lucio era impegnato in Oriente contro i Parti, Marco era impegnato a Roma in questioni familiari. La prozia Vibia Matidia era morta e sul suo testamento pendeva una disputa legale, dato che il suo ingente patrimonio aveva attratto l'attenzione di molte persone. Alcuni dei suoi clientes erano riusciti a farsi includere nel suo testamento attraverso vari codicilli. Tuttavia, le sue volontà non potevano essere riconosciute come valide, poiché in contrasto con la lex Falcidia: Matidia aveva infatti assegnato più di tre quarti del suo patrimonio non alla propria familia ma a gente estranea, fra cui un gran numero di suoi clientes. Marco si trovò così in una posizione imbarazzante, dato che Matidia non aveva mai confermato la validità dei documenti, anche se sul letto di morte alcuni dei sedicenti eredi avevano colto l'opportunità per farli convalidare. Frontone esortò Marco a portare avanti le rivendicazioni della famiglia ma quest'ultimo, studiato attentamente il caso, preferì che fosse il fratello a prendere la decisione finale. Benché a Roma vigessero la tortura e la pena di morte, applicate con facilità soprattutto nei confronti di schiavi e stranieri, la normativa di molti imperatori "illuminati" cercò di ridurre il numero di reati punibili con pene severe, come in passato aveva già fatto Tito. Per Marco anche gli schiavi andavano trattati come persone, seppure subordinate, e non come oggetti, evitando quindi ogni crudeltà e rispettandone la dignità, a differenza dei cristiani che spesso non si pronunciavano a favore della classe servile. Alcuni critici tuttavia temevano che il movimento filosofico-giuridico legato alla politica di affrancamento degli Antonini, se non fosse stato profondamente ancorato al sistema economico romano, basato principalmente sulla schiavitù, avrebbe portato all'abolizione de facto dell'istituto servile entro un secolo, ed avrebbe comportato gravi ripercussioni economiche. Marco mostrò un grande interessamento affinché a ogni schiavo fosse data la possibilità di riguadagnare la propria libertà, qualora il padrone avesse espresso la propria disponibilità a restituirgliela. Si racconta, infatti, che in una causa di manomissione, portata alla sua attenzione dall'amico Aufidio Vittorino, e citata in seguito dai giuristi come un precedente decisivo, egli favorì uno schiavo. Coerente con lo stoicismo, filosofia contraria alla schiavitù, emanò numerose norme favorevoli alla classe servile, estendendo le leggi già promulgate dai suoi predecessori, a partire da Traiano, e ribadendo per esempio il concetto di diritto di asilo per gli schiavi fuggitivi (che potevano essere puniti e uccisi in ogni modo dal padrone) garantendo loro l'immunità finché si trovassero presso qualsiasi tempio o qualsiasi statua dell'imperatore. Sul letto di morte, Antonino Pio aveva espresso la sua collera nei confronti di alcuni re clienti, che il Birley interpreta fossero quelli posti lungo i confini orientali. Il cambio al vertice dell'Impero romano sembra infatti abbia incoraggiato Vologese IV di Partia ad aggredire, nella seconda metà del 161, il Regno d'Armenia, alleato dell'Impero romano, nominando un re fantoccio a lui gradito, Pacoro III, un arsacide come lui. L'Impero dei Parti, sconfitto e parzialmente sottomesso da Traiano quasi cinquant'anni prima, era così tornato a rinnovare i suoi attacchi alle province orientali romane dagli antichi territori dell'Impero persiano.[154][156]  Il governatore della Cappadocia, Marco Sedazio Severiano, convinto che avrebbe potuto sconfiggere i Parti facilmente, condusse una delle sue legioni in Armenia, ma a Elegia fu sconfitto e preferì suicidarsi, mentre l'intera legione veniva completamente distrutta. E mentre tutto ciò accadeva in Oriente, nuove minacce si profilavano lungo le frontiere settentrionali della Britannia e del limes germanico-retico, dove i Catti dei monti Taunus erano penetrati negli Agri Decumates. Sembra che Marco non fosse pronto ad affrontare simili problematiche poiché, come ricorda il suo biografo, non aveva potuto maturare un'adeguata esperienza militare, avendo trascorso l'intero periodo del regno di Antonino Pio in Italia e non nelle province, al contrario dei suoi predecessori, come Traiano o Adriano. Scena di guerra tra Romani e Parti, sul Monumento dei Parti a Efeso, celebrativo delle vittorie di Lucio Vero e Marco Aurelio contro Vologese IV. Poco dopo giunse la notizia che anche l'esercito del governatore provinciale della Siria era stato sconfitto dai Parti e che si stava ritirando disordinatamente. Era quindi necessario intervenire con grande rapidità, anche nella scelta dei migliori ufficiali da inviare lungo quel settore dell'Impero così strategicamente importante. Marco pose a capo della spedizione (expeditio parthica) il fratello Lucio perché, come suggerisce Cassio Dione, era robusto e più giovane del fratello Marco, più adatto all'attività militare. Birley suggerisce che Marco volesse spingere Lucio ad abbandonare la vita dissoluta che conduceva e a capire i suoi doveri. In ogni caso, il Senato diede il suo assenso, e nell'estate del 162 Lucio partì, lasciando Marco Aurelio a Roma, perché la città ha chiesto la presenza di un imperatore. Era però necessario affiancare a Lucio un adeguato staff militare (comitatus), ampio e ricco di esperienza, e che comprendesse anche uno dei due prefetti del pretorio: il prescelto fu Tito Furio Vittorino. I rinforzi vennero inviati da numerose province imperiali fino alla frontiera partica. Frattanto Marco si ritirò per quattro giorni a Alsium, una nota località turistica sulle coste dell'Etruria, ma le numerose preoccupazioni gli impedirono di rilassarsi. Egli scrisse allora all'amico Frontone, dicendogli che avrebbe evitato di descrivergli nei particolari quello che stava facendo a Alsium, perché sapeva che sarebbe stato rimproverato. Frontone rispose ironicamente e lo incoraggiò a riposare, prendendo esempio dai suoi predecessori: Antonino era stato un appassionato di palaestra, di pesca e di teatro, Marco trascorreva invece gran parte delle sue notti insonni a risolvere questioni giudiziarie. Dai loro scambi epistolari sappiamo che Marco non riuscì a mettere in pratica i consigli di Frontone poiché ho doveri che incombono su di me che difficilmente possono essere delegati e rimandati, adducendo la sua devozione al dovere. Conclude informandosi della salute dell'amico e salutandolo addio mio ottimo maestro, uomo dal cuore buono. Frontone rispose qualche tempo dopo, inviando all'amico una selezione di letture e, per rimediare al suo disagio per lo svolgimento della guerra contro i Parti, una lunga e meditata lettera, piena di riferimenti storici, indicata, nelle edizioni moderne sulle opere di Frontone, De bello Parthico (Sulla guerra partica). Frontone scrive che, anche se in passato Roma aveva subito pesanti sconfitte, alla fine i Romani avevano sempre prevalso sui loro nemici: Sempre e ovunque Marte ha cambiato le nostre difficoltà in successi e i nostri terrori in trionfi.[164]   Il teatro delle campagne militari orientali di Lucio Vero Intanto Lucio, partito dall'Italia e giunto dopo un lungo viaggio in Siria, fece di Antiochia il suo "quartier generale", trascorrendo gli inverni a Laodicea e le estati a Daphne. Durante la guerra, nel periodo autunnale/invernale del 163 o del 164, Lucio andò a Efeso per sposarsi con Lucilla, secondo quanto stabilito da Marco, nonostante circolassero voci sulle sue amanti, in particolare su una certa Panthea, donna di umili origini. Lucilla aveva circa quindici anni e venne accompagnata dalla madre Faustina, insieme a uno zio di Lucio, Marco Vettuleno Civica Barbaro, nominato per l'occasione comes Augusti. Marco che avrebbe voluto accompagnare la figlia fino a Smirne, in realtà non andò oltre Brindisi. Una volta tornato a Roma, inviò istruzioni specifiche ai governatori provinciali affinché non preparassero alcun ricevimento ufficiale. La capitale armena Artaxata, venne presa nel 163 e alla fine di quello stesso anno Lucio assunse il titolo di Armeniacus, pur non avendo mai partecipato direttamente alle operazioni militari, mentre Marco si rifiutò di accettare l'appellativo fino all'anno successivo. Al contrario, quando Lucio venne acclamato imperator, anche Marco accettò la sua seconda salutatio imperatoria. Le armate romane si attestarono stabilmente in Armenia e l'ex console di origine emesana, Gaio Giulio Soemo, venne incoronato re tributario d'Armenia, con l'assenso di Marco. Vide le armate romane entrare vittoriose in Mesopotamia, dove posero sul trono il re vassallo Manno. Avidio Cassio raggiunse le metropoli gemelle della Mesopotamia: Seleucia, sulla riva destra del Tigri, e Ctesifonte su quella sinistra. Entrambe le città vennero occupate e date alle fiamme. Cassio, nonostante la penuria di rifornimenti e i primi effetti della peste contratta a Seleucia, riuscì a riportare indietro e in buon ordine la sua armata vittoriosa. Lucio venne così acclamato Parthicus Maximus, mentre insieme a Marco venne salutato nuovamente imperator, ottenendo la sua seconda acclamazione imperiale. Ancora Avidio Cassio invase il paese dei Medi, al di là del Tigri, permettendo a Lucio di fregiarsi del titolo vittorioso di Medicus, mentre Marco otteneva la IV salutatio imperatoria e il titolo di Parthicus Maximus. I Parti si ritirarono nei loro territori, a oriente della Mesopotamia. Marco sapeva di dover ascrivere il maggior merito della vittoria finale allo staff militare del fratello Lucio. Tra i comandanti romani si distinse Gaio Avidio Cassio, legatus legionis della III Gallica, una delle legioni siriane. Al ritorno dalla campagna, a Lucio venne tributato un trionfo (12 ottobre del 166). La parata risultò insolita perché comprendeva i due imperatori, i loro figli e le figlie nubili, come una grande festa di famiglia. Nell'occasione Marco elevò i due figli, Commodo di cinque anni e Marco Annio Vero di tre al rango di Cesare (il gemello di Commodo, Fulvio Antonino, era morto l'anno precedente).[176]  Scambi commerciali con l'Oriente Magnifying glass icon mgx2.svgRelazioni diplomatiche sino-romane. Proprio durante la guerra partica Marco potrebbe aver favorito l'apertura di nuove vie commerciali con l'Estremo Oriente. Si ricorda, infatti, negli annali del "Celeste impero", un'ambasceria inviata presso l'Imperatore cinese della dinastia Han, Huandi (nel 166), nella quale i Cinesi chiamarono l'imperatore romano col nome di Ngan-touen o Antoun. Ciò sembra confermare che tale ambasceria (forse composta da soli mercanti), sia giunta in Estremo Oriente proprio durante il regno di Marco Aurelio o del suo predecessore, Antonino Pio, in quanto Antoun equivarrebbe in lingua cinese al nome latino della famiglia imperiale degli "Anto[u]n-ini". Statua di Marco Aurelio in uniforme militare (Museo del Louvre, Parigi).  Marcomanni e Sarmati nel 178 Il figlio adottivo di Frontone, Gaio Aufidio Vittorino, venne inviato, dal 162 al 166, a governare la provincia della Germania superiore, ove si trasferì con l'intera famiglia (a parte un figlio che rimase a Roma con i nonni). La situazione lungo la frontiera settentrionale si presentava estremamente difficile. Una postazione lungo gli Agri Decumati era stata distrutta e sembra che molte delle popolazioni dell'Europa centrale e settentrionale fossero in fermento. Regnava, inoltre, molta corruzione tra gli ufficiali romani: Vittorino fu costretto, infatti, a chiedere le dimissioni di un legatus legionis che aveva preso tangenti e numerosi governatori esperti vennero sostituiti da amici e parenti della famiglia imperiale. Le tribù germaniche e altri popoli nomadi avevano iniziato le prime incursioni lungo i confini settentrionali romani, in particolare in Gallia e sul Danubio. Questo nuovo slancio verso occidente era causato dalle pressioni che subivano a loro volta dalle tribù germaniche più orientali e settentrionali. Una prima invasione di Catti nella Germania superiore era stata respinta nel 162. Molto più pericolosa fu l'invasione del 166, quando i Marcomanni della Boemia, clienti dell'impero romano dal 19 (ma ribelli sotto Domiziano, che vi scatenò contro un'offensiva), attraversarono il Danubio, insieme a Longobardi e altre tribù germaniche. Contemporaneamente, i Sarmati Iazigi attaccarono i territori compresi tra il Danubio e il fiume Tibisco. Secondo la Historia Augusta, conclusa la guerra partica, scoppiava così quella contro i Marcomanni, una coalizione di natura militare, composta da una decina di popolazioni germaniche e sarmatiche (dai Marcomanni propriamente detti della Moravia, ai Quadi della Slovacchia, dalle popolazioni vandaliche dell'area carpatica, agli Iazigi della piana del Tibisco, fino ai Buri di stirpe suebica del Banato). Era la naturale conseguenza di una serie di forti agitazioni interne e dei continui flussi migratori che avevano ormai modificato gli equilibri con il vicino Impero romano. Questi popoli erano alla ricerca di nuovi territori dove insediarsi, sia in conseguenza della forte spinta che subivano da altre popolazioni, sia per il continuo aumento demografico della Germania Magna. Erano, inoltre, attratti dalle ricchezze e dalla vita agiata del mondo romano. In quel periodo la frontiera danubiana non poteva contare su buona parte dei suoi effettivi, sia perché molte legioni avevano dovuto destinare consistenti distaccamenti alla guerra partica, sia perché la grave epidemia di peste aveva falcidiato numerosi reparti. Tale epidemia avrebbe causato una catastrofe demografica prolungatasi per oltre un ventennio e paragonabile a quella causata dalla peste nera. Nel 166/167 avvenne il primo scontro lungo il limes pannonicus ad opera di poche bande di predoni longobardi e osii che, grazie al sollecito intervento delle truppe di confine, furono prontamente respinte. La pace stipulata con le limitrofe popolazioni germaniche a nord del Danubio fu gestita direttamente dagli stessi imperatori, Marco e Lucio, ormai diffidenti nei confronti dei barbari aggressori, recatisi pertanto fino alla lontana fortezza legionaria di Carnunto (nel 168).[184]  Al ritorno dalla campagna partica l'esercito portò con sé una terribile pestilenza, in seguito conosciuta come la "peste antonina" o "peste di Galeno", che si diffuse a partire dalle fine del 165 per quasi un ventennio, mietendo milioni di vittime e riducendo drasticamente la popolazione dell'Impero romano. Qualche anno dopo la malattia, una pandemia che oggi si ritiene potesse invece essere vaiolo o morbillo,[185] avrebbe finito per reclamare la vita dei due imperatori stessi. La malattia scoppiò di nuovo, nove anni più tardi, secondo Dione, e causò fino a 2.000 morti al giorno a Roma, infettando fino a un quarto dell'intera popolazione. I decessi totali sono stati stimati in cinque milioni. La colonna di Marco Aurelio o colonna antonina, fatta costruire dal figlio Commodo Dopo che la morte colse Lucio agli inizi del 169 (secondo la Historia Augusta in seguito ad un attacco apoplettico che lo colpì non molto distante da Aquileia,[187] mentre autori moderni sostengono che il decesso, forse causato dalla stessa peste, sopraggiunse mentre era impegnato in nuove manovre militari lungo il limes danubiano), Antonino si trova ad affrontare da solo i barbari ribelli e con decisione, piuttosto che imporre nuove tasse ai provinciali, organizzò una vendita all'asta nel Foro di Traiano degli oggetti preziosi appartenenti al patrimonio imperiale, tra cui coppe d'oro e di cristallo, vasellame regale, vesti di seta, trapunte d'oro appartenuti anche all'augusta moglie, oltre a una raccolta di gemme trovata in un forziere di Adriano. In quell'anno Marco diede alla figlia Lucilla, rimasta vedova di Vero, un nuovo marito, il fedele Claudio Pompeiano, un militare esperto e affidabile, premiato in seguito con il consolato, nel 173. Marco avrebbe voluto associarlo al trono, al posto dello scomparso Lucio Vero, conferendogli perlomeno il titolo di Cesare, ma egli rifiutò sempre la porpora imperiale. Frattanto lungo il fronte settentrionale, i Romani subirono un paio di pesanti sconfitte contro le popolazioni di Quadi e Marcomanni le quali, una volta penetrate lungo la via dell'ambra e attraversate le Alpi, devastarono Opitergium (Oderzo) e assediarono Aquileia, il cuore della Venetia, la principale città romana del nord-est dell'Italia. Questo evento provocò un'enorme impressione: era dai tempi di Mario che una popolazione barbara non assediava dei centri del nord Italia.[192]  Contemporaneamente la popolazione dei Costoboci, proveniente dalla zona dei Carpazi orientali, aveva invaso la Mesia e la Macedonia, spingendosi fino in Grecia, dove riuscì a saccheggiare il santuario di Eleusi. Dopo una lunga lotta, Marco riuscì a respingere gli invasori. Numerosi barbari germanici vennero allora stabiliti nelle regioni di frontiera come la Dacia, le due Pannonie, le due Germanie e la stessa Italia. E sebbene ciò non costituisse una novità, Marco si adoperò per creare sulla riva sinistra del Danubio, tra l'odierna Repubblica Ceca e l'Ungheria, due nuove province di frontiera chiamate Sarmazia e Marcomannia. Quelli che erano stati insediati a Ravenna si ribellarono e riuscirono a impadronirsi della città. Per questo motivo, Marco non portò mai più nessun altro barbaro in Italia, e mise al bando quelli che qui si erano stabili ti in precedenza. Marco fu così costretto a combattere una lunga ed estenuante guerra contro le popolazioni barbariche del Nord, prima respingendole e "ripulendo" i territori della Gallia Cisalpina, del Norico e della Rezia, poi contrattaccando con una massiccia offensiva in territorio germanico e sarmatico, in scontri prolungatisi per diversi anni. L'imperatore, in seguito a questi conflitti, poté fregiarsi dei cognomina Germanicus (172) e Sarmaticus (175), ma contestualmente abbandonò ufficialmente i titoli Armeniaco, Medico e Partico, che non volle più tenere dopo la morte di Lucio Vero, giacché andava a quest'ultimo il merito del loro conseguimento;[195] tuttavia egli, per via dell'impegno profuso lungo il fronte pannonico, non riuscirà più a far ritorno a Roma.  Dione e gli altri biografi raccontano anche alcuni episodi particolari della guerra, come il cosiddetto miracolo della pioggia, rappresentato anche nella scena XVI sulla colonna di Marco Aurelio.[196] I Romani, circondati dai Quadi in territorio nemico, si salvarono a stento da un possibile nuovo disastro. L'evento fu utilizzato dagli apologeti cristiani per sostenere che non sarebbero state le preghiere dell'imperatore a ottenere la pioggia in favore dei soldati romani assetati, ma quelle di alcuni legionari di fede cristiana.[197]  Sempre nel 172-173 scoppiò una violenta rivolta in Egitto, guidata dal sacerdote Isidoro, che arrivò a minacciare la stessa città di Alessandria. L'intervento di Gaio Avidio Cassio e le discordie interne ai rivoltosi portarono alla fine del conflitto entro breve tempo[198].  Rivolta di Cassio (175) Magnifying glass icon mgx2.svgAvidio Cassio § La ribellione. Nel 175, mentre preparava una nuova campagna contro le popolazioni della piana del Tibisco, l'imperatore fu raggiunto dalla notizia che il governatore della Siria, Avidio Cassio, uno dei migliori comandanti militari romani, alla falsa notizia della sua morte, si era autoproclamato imperatore. Secondo quanto ci tramandano sia Cassio Dione che la Historia Augusta, Avidio Cassio accettò la porpora imperiale per volere di Faustina, poiché la stessa credeva che Marco stesse per morire e temeva che l'impero potesse cadere nelle mani di qualcun altro, visto che Commodo era ancora troppo giovane. Cassio venne acclamato imperator dalla Legio III Gallica mentre la gran parte delle province orientali, escluse Cappadocia e Bitinia, si schieravano a fianco dei ribelli.  All'inizio Marco cercò di tenere segreta la notizia dell'usurpazione, ma quando fu costretto a renderla pubblica, di fronte all'agitazione dei soldati si rivolse loro con un discorso (adlocutio) rivelando di voler evitare inutili spargimenti di sangue tra Romani. Ma dopo soli tre mesi, quando la notizia della morte di Marco si rivelò ufficialmente falsa, il Senato romano proclamò Cassio hostis publicus, nemico dello stato e del popolo romano e Avidio fu ucciso dai suoi stessi soldati. La testa dell'usurpatore fu portata a Marco, come testimonianza dell'uccisione, ma l'imperatore, che avrebbe voluto dimostrargli il suo perdono e salvarlo, non esultò, al contrario esclamò: Mi è stata tolta un'occasione di clemenza: la clemenza, infatti, dà soprattutto prestigio all'imperatore romano agli occhi dei popoli. Io però risparmierò i suoi figli, il genero e la moglie, lasciando metà del patrimonio paterno ai figli di Avidio Cassio, e donando una grande quantità di oro, di argento e di gemme alla figlia.[200]  Viaggio in Oriente (175-176) Marco Aurelio: aureo[201] MARCUS AURELIUS RIC III 357-159422M ANTONINVS AVG GERM SARM, testa laureata con corazza e paludamentumTR P XXX IMP VIII COS III, la Felicitas con caduceo e scettro AV (7,33 g). Nell'ultimo decennio di regno, mentre si trovava lungo i confini settentrionali imperiali, Marco scrisse i Colloqui con sé stesso, tornando di rado a Roma. Insieme alla moglie Faustina, al figlio Commodo, al seguito composto dai comites del consilium principis e a un ingente esercito, Marco visitò le province orientali nel 175-176.[202] Partito da Sirmio nel luglio del 175, dopo essere passato per Bisanzio, Nicomedia, Prusias ad Hypium e per Ancyra, giunse a Tarso, sostando in Cilicia dove, secondo Dione, molti si erano schierati dalla parte di Avidio. Poco dopo aver passato la località di Tanya, Faustina morì in circostanze poco chiare in un villaggio di nome Halala, sito in Cappadocia ai piedi dei Monti Tauri. Cassio Dione riporta alcune versioni sulla morte dell'Augusta: una prima ipotizza il suicidio, motivato dall'aver stretto accordi per la successione con Avidio Cassio; una seconda chiama in causa la gotta; una terza vedrebbe Faustina morire di parto dopo un'ennesima gravidanza all'età di quarantacinque anni. Dopo la morte venne divinizzata ufficialmente con degne cerimonie a Roma, per volere del Senato. L'Augusta, che aveva spesso accompagnato il marito in guerra, era stata la prima delle imperatrici romane a essere insignita del titolo di mater castrorum.[204] Halala, il villaggio dove era morta, venne rinominato "Faustinopolis". In suo onore furono istituiti collegi di sacerdotesse e create le puellae Faustinianae, in ricordo dell'istituzione benefica sorta in memoria della madre, la moglie di Antonino Pio, istituzione che si occupava di fanciulle orfane della penisola italica.[204] Le fonti antiche, in contrasto coi Ricordi di Marco Aurelio, spesso accusarono Faustina di dissolutezza e di aver ripetutamente tradito il marito, con marinai e gladiatori, tanto che da una di queste relazioni sarebbe nato Commodo, secondo una diceria riportata dal biografo della Historia Augusta. Dopo questa ennesima disgrazia famigliare, il princeps ripartì per la Siria, forse fermandosi a visitare la città di Antiochia (che si era schierata con Cassio), perdonandone i suoi abitanti, e qui potrebbe avervi svernato, incontrando alcuni personaggi locali come il patriarca Giuda I. Riprese, quindi, il suo viaggio per giungere nell'estate nel 176 in Egitto, dove ricevette una delegazione dei Parti. Nel viaggio di ritorno dall'Oriente, dopo essersi imbarcato per l'Asia Minore, passò per Efeso, poi Smirne (dove incontrò Elio Aristide) e, da ultimo, Atene, dove il filosofo cinico Zenone aveva fondato la scuola stoica, sotto il famoso portico dipinto, dichiarandosi "protettore della filosofia". Istituì quattro cattedre permanenti di studio, finanziandole, una per ogni principale scuola filosofica: platonici, aristotelici, epicurei e stoici.[209] In Grecia prese parte anche ai riti dei misteri eleusini.Durante il tragitto lungo l'Asia Minore e la tappa a Atene si rivolsero a Marco Aurelio e a Commodo anche alcuni padri apologisti cristiani. Decise di associare al trono imperiale il figlio Commodo, l'unico maschio superstite tra i suoi figli (dopo la morte del giovane Marco Vero Cesare e quella di alcuni nipoti), nominandolo Augusto e concedendogli la tribunicia potestas e l'imperium, benché avesse nei confronti del figlio alcune perplessità. Marco celebrò, quindi, il matrimonio di Commodo con Bruzia Crispina. A Roma, si dedicò ad amministrare la giustizia, cercando di riparare a torti e abusi del passato; dispose la celebrazione di giochi circensi, mettendo però un limite di spesa a quelli gladiatorii. Marco, che aveva battuto le popolazioni germaniche e sarmatiche a nord del medio corso del Danubio, ottenne per decreto del Senato romano il trionfo insieme al figlio Commodo, da poco nominato Augusto. In suo onore venne eretta una statua equestre, tuttora custodita nel Palazzo dei Conservatori. Offensiva finale in Marcomannia e Sarmatia (177-180)  L'impero romano alla fine del regno di Marco Aurelio, nel 180 L'apparente tregua sottoscritta con le popolazioni germaniche, in particolare Marcomanni, Quadi e Iazigi, durò però solo un paio d'anni, fino al 177. Il 3 agosto del 178 Marco fu infatti costretto a marciare ancora una volta verso la frontiera danubiana, a seguito di una nuova sollevazione dei Marcomanni. Non sarebbe mai più tornato a Roma. Egli fece della fortezza legionaria di Brigetio il suo nuovo quartier generale e da qui condusse l'ultima campagna nella primavera successiva del 179, che aveva come obiettivo quello di occupare stabilmente parte della Germania Magna (Marcomannia) e della Sarmatia.[219] Si racconta infatti che:  «I Quadi essendo poco disposti a sopportare la presenza di forti romani costruiti nel loro territorio tentarono di migrare tutti insieme verso le terre dei Semnoni. Ma Marco Aurelio Antonino che ebbe queste informazioni in anticipo della loro intenzione di partire per altri territori, decise di chiudere loro tutte le vie di fuga, impedendo la loro partenza.»  (Cassio Dione, 72, 20.2.) Dopo una vittoria decisiva nel 178, il piano per annettere la Moravia e la Slovacchia occidentale (Marcomannia), per porre fine una volta per tutte alle incursioni germaniche, sembrava avviato al successo, ma venne abbandonato dopo che Marco Aurelio si ammalò gravemente nel 180, forse anch'egli colpito dalla peste che affliggeva l'impero da anni. La sua salute, da sempre fragile e in costante declino, sembra lo costringesse a fare uso anche di oppio per alleviare il dolore persistente che lo affliggeva da anni allo stomaco, rimedio prescritto dallo stesso Galeno. Eugène Delacroix, Ultime parole dell'imperatore Marco Aurelio, una rappresentazione moderna della morte di Marco: l'imperatore, al centro, siede a letto, circondato da amici e dignitari, e stringe il braccio di Commodo (a destra), vestito di rosso, sbarbato e abbigliato in maniera orientaleggiante, con orecchini e una corona, e che appare distante e poco interessato. «Uomo, sei stato cittadino in questa grande città: che ti importa se per cinque anni o per cento? Quel che è secondo le leggi ha per ognuno pari valore. Che c'è di grave allora se dalla città ti espelle non un tiranno o un giudice ingiusto, ma la natura che ti ci aveva introdotto? (...) A stabilire che il dramma è completo infatti è chi allora fu responsabile della composizione, ora del dissolvimento; tu invece non sei responsabile né dell'una né dell'altro. Quindi parti sereno: chi ti congeda è sereno.»  (Marco Aurelio, 12.36.) Marco Aurelio muore nella città-accampamento di Vindobona (Vienna).[19] Secondo invece quanto riferisce Tertulliano, uno storico e apologeta cristiano suo contemporaneo, sarebbe invece deceduto sul fronte sarmatico, non molto distante da Sirmio (odierna Sremska Mitrovica, nell'attuale Serbia),[20] che fungeva da quartier generale invernale delle sue truppe, in vista dell'ultimo assalto. Il Birley ritiene infatti che Marco potrebbe essere morto a Bononia sul Danubio (che per assonanza ricorda la località di Vindobona), venti miglia a nord di Sirmio. Iniziando a stare male, chiamò Commodo al capezzale e gli chiese per prima cosa di concludere onorevolmente la guerra, affinché non sembrasse che lui avesse "tradito" la Res publica. Il figlio promise che se ne sarebbe fatto carico, ma che gli interessava prima di tutto la salute del padre. Chiese pertanto di poter aspettare pochi giorni prima di partire. Marco, sentendo che i suoi giorni erano alla fine e il dovere compiuto, accettò da stoico una morte onorevole, astenendosi dal mangiare e bere, e aggravando così la malattia per permettergli di morire il più rapidamente possibile. Il sesto giorno, chiamati gli amici e deridendo le cose umane disse loro: perché piangete per me e non pensate piuttosto alla pestilenza e alla morte comune? Se vi allontanerete da me, vi dico, precedendovi, statemi bene. Mentre anche i soldati si disperavano per lui, alla domanda su a chi affidasse il figlio, rispose ai subordinati: a voi, se ne sarà degno, e agli dèi immortali. Nel settimo giorno si aggravò e ammise brevemente solo il figlio alla sua presenza, ma quasi subito lo mandò via, per non contagiarlo. Uscito Commodo, coprì il capo come se volesse dormire, come il padre Antonino Pio, e quella notte morì.[224] Cassio Dione aggiunge che la morte avvenne "non a causa della malattia per cui stava ancora soffrendo, ma a causa dei medici che, come ho chiaramente sentito, volevano favorire l'ascesa di Commodo", anche se secondo il Birley, "è inutile avanzare ipotesi". Officiato il funerale, venne cremato, e fu immediatamente divinizzato, mentre le sue ceneri furono portate a Roma e deposte nel mausoleo di Adriano, che divenne così il sepolcro di famiglia da Adriano a Commodo e, forse, anche per alcuni imperatori successivi, finché il sacco visigoto della città lo danneggiò gravemente. Le sue campagne vittoriose contro Germani e Sarmati furono commemorate con la costruzione della Colonna Aureliana e di un tempio. Marco Aurelio aveva stabilito che a succedergli fosse il figlio Commodo, che già aveva nominato Cesare nel 166 e poi Augusto (co-imperatore). Questa decisione, che mise di fatto fine alla serie dei cosiddetti "imperatori adottivi", venne fortemente criticata dagli storici successivi, poiché Commodo non solo era estraneo alla politica e all'ambiente militare, ma fu inoltre descritto, già in giovane età, come estremamente egoista e con gravi problemi psichici, appassionato in maniera eccessiva di giochi gladiatorii (a cui lui stesso prendeva parte), passione ereditata dalla madre.  Marco Aurelio riteneva, a torto, che il figlio avrebbe abbandonato quel genere di vita così poco adatto a un princeps, assumendosi le necessarie responsabilità nel governare un Impero come quello romano, ma così non fu. A conclusione del principato di Marco Aurelio, Cassio Dione scrisse un elogio all'imperatore, pur descrivendo il passaggio a Commodo con dolore e rammarico. Marco non ebbe la fortuna che meritava, perché non era fisicamente forte e poiché dovette affrontare, per la durata del suo regno, numerose difficoltà. Proprio per questo motivo lo ammiro maggiormente, in quanto egli, in mezzo a difficoltà insolite e straordinarie, non solo sopravvisse ma salvò l'impero. Solo una cosa lo rese infelice, il fatto che, dopo aver dato l'educazione migliore possibile al figlio, questi deluse le sue aspettative. Questa materia deve essere il nostro prossimo argomento, dato che da quel periodo dei Romani deriva oggi la nostra storia, decaduta da un regno d'oro a uno di ferro e ruggine.»  (Cassio Dione, 72, 36.3-4.) Carattere e pensiero filosofico Magnifying glass icon mgx2.svgColloqui con sé stesso, Pensiero di Marco Aurelio e Letteratura greca alto imperiale.  Statua equestre di Marco Aurelio (Roma, Musei capitolini) Marco Aurelio fu l'ultimo grande esponente dello Stoicismo. Marco scrisse i Colloqui con sé stesso, come esercizio per il proprio orientamento e auto-miglioramento. Il titolo è stata un'aggiunta postuma, originariamente Marco intitolò l'opera “A se stesso”, ma non si sa se avesse intenzione di renderla pubblica. Il saggio è considerato uno dei capolavori filosofici di tutti i tempi. Sii come il promontorio contro cui si infrangono incessantemente i flutti: resta immobile e intorno ad esso si placa il ribollire delle acque. «Me sventurato, mi è capitato questo». Niente affatto! Semmai: «Me fortunato, perché anche se mi è capitato questo resisto senza provar dolore, senza farmi spezzare dal presente e senza temere il futuro». Infatti una cosa simile sarebbe potuta accadere a tutti, ma non tutti avrebbero saputo resistere senza cedere al dolore. Allora perché vedere in quello una sfortuna anziché in questo una fortuna?»  (Marco Aurelio, 4.49.) Politica religiosa e atteggiamento nei confronti dei cristiani Magnifying glass icon mgx2.svgPersecuzione dei cristiani sotto Marco Aurelio. Sebbene Marco abbia da sempre seguito la linea indulgente degli imperatori Adriano e Antonino Pio, che continuò nei confronti dei culti ammessi, è elencato tra gli imperatori persecutori dei cristiani. Molti disordini si verificarono sotto il regno di Marco Aurelio, segnato da epidemie, carestie e invasioni e più volte le folle diedero la caccia ai cristiani, ritenuti responsabili di tutto (per aver causato la collera degli dèi, avendoli negati), e i martiri furono numerosi. Marco Aurelio, personalmente, non mostrò esplicito disprezzo per i cristiani, né li considerò un vero pericolo, ma piuttosto dei fanatici.[229][230]  Monetazione imperiale del periodo Magnifying glass icon mgx2.svgMonetazione degli Antonini. Il prototipo di statua equestre è senza alcun dubbio la statua equestre di Marco Aurelio. In precedenza l’opera bronzea si trovava nella piazza del Campidoglio a Roma, prima di essere sostituita da una copia e trasferita nell’adiacente Palazzo dei Conservatori. Historia Augusta, Cassio Dione, Aurelio Vittore, De Caesaribus, 16.  Tertulliano, 25.  Grant 1996,27.  Testo per esteso dell'epigrafe: Imperator Caesar Marcus Aurelius Antoninus Augustus.  Il luogo della morte è incerto tra Sirmio o Vindobona: Tertulliano, 25: (LA) «[...] cum M. Aurelio apud Sirmium rei publicae exempto die sexto decimo Kalendarum Aprilium [...]» «essendo stato Marco Aurelio strappato allo Stato a Sirmio il 17 marzo.»  Aurelio Vittore, De Caesaribus, 16.14: (LA) «Ita anno imperii octavo decimoque aevi validior Vendobonae interiit, maximo gemitu mortalium omnium» «Il diciottesimo anno del suo governo, tra grandi lamenti, il più forte e più grande di tutti gli uomini morì a Vindobona»  Riportato invece così in Aurelio Vittore, Epitome de Caesaribus, 16.12 (compendio, più tardo, della stessa opera di Vittore, attribuita a lui stesso, ma con molta incertezza): (LA) «Ipse vitae anno quinquagesimo nono apud Bendobonam morbo consumptus est» «Egli stesso, nel cinquantanovesimo anno della sua vita, venne consumato da una malattia a Vindobona.»   Historia Augusta, Marcus Aurelius, 1.9; McLynn 2009,24.  Cassio Dione, 69, 21.1.  Asse della zecca di Roma antica (del 151-152), RIC, III, 1308a (Antoninus Pius); BMCRE,1917; Cohen, Cassio Dione, 72, 11.3-5.  Machiavelli 1531, I.10.  Gibbon 1776-1789, capitolo I: Estensione e forza militare dell'Impero nel secolo degli Antonini; in particolare I.78, in cui l'autore descrive il buon governo degli imperatori adottivi; inoltre,273 nota 4 del testo disponibile su Google libri, in cui usa l'espressione "good emperors".  Cassio Dione, 72, 14.3-4. Il libro completo, che parla dell'epidemia avvenuta sotto Marco Aurelio, è andato perduto; questa nuova epidemia fu la più grave che lo storico avesse mai visto, a quanto narra nella "vita di Marco Aurelio".  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 12.13, 17.1-2 e 22.1-8.  Renan 1937.  Tra questi vi furono: Marco Aurelio Probo (CIL XI, 1178), Marco Aurelio Mario (imperatore nelle Gallie), Marco Aurelio Caro e Marco Aurelio Carino (CIL VIII, 10956), oltre a due imperatori suoi omonimi, Caracalla (AE 1911, 56) ed Eliogabalo (il cui nome imperiale ufficiale era "Marco Aurelio Antonino"; CIL VI, 40677 e AE 1990, 469) e che furono i primi, pur non appartenendo alla dinastia antonina, ad usare il suo nome. Questi ultimi due, in particolare, come già il padre di Caracalla, Settimio Severo, che aveva riabilitato la memoria di Commodo, divinizzandolo e rimuovendo la damnatio memoriae imposta dal Senato, e dato al figlio il nome di Marco Aurelio, cercavano un collegamento diretto con gli Antonini al fine di nobilitare le loro origini africane e asiatiche, quindi provinciali. Inoltre, una delle mogli di Eliogabalo era una nipote di Marco Aurelio stesso, Annia Faustina. Il nome Marco Aurelio divenne, quindi, un nome di famiglia dei Severi e, come «Cesare», «Augusto» e, più tardi, «Flavio», venne utilizzato come prenome imperiale da molti altri.  Birley 1990,317-318.  Birley 1990,269 ss.  Birley 1990,316.  Birley 1990,313-319.  CIL II, Birley 1990,31.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, Birley 1990,32-34.  McLynn 2009,14.  Birley 1990,34.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 1.5.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 1.  Poiché suo fratello Marco Annio Libone è stato console nel 128 e difficilmente potrebbe essere stato pretore più tardi del 126, Annio Vero deve essere stato a sua volta pretore prima di questa data, verosimilmente, appunto, nel 124.  Birley 1990,34-35; Marco Aurelio, 1.2  Birley 1990,36-37; Tacito, Dialogus de oratoribus, 28-29; Marco Aurelio, 5.4.  Marco Aurelio, 1.3.  Birley 1990,40; Marco Aurelio, 1.17.7.  Birley 1990,35; Historia Augusta, Marcus Aurelius, 2.1; Marco Aurelio, 1.14.  Birley 1990,39; Marco Aurelio, 1.1.  Marco Aurelio, 1.17; Birley 1990,39.  Marco Aurelio, 1.4.  Marco Aurelio, 1.6.  Norelli,75 Marco Aurelio, 1.6; Birley 1990,43.  Marco Aurelio, 1.10 e 1.12; Birley 1990,46.  Birley 1990,51-52.  Guido Clemente 2008,629-630.  Birley 1990,55 ss.  Guido Clemente 2008,630.  Birley 1990,69.  Birley 1987,38-42.  Birley, Cassio Dione, 69, 22.4; Historia Augusta, Hadrianus, 25.5-6  Cassio Dione, 69, 22.1-4; Historia Augusta, Hadrianus, 24.8-13.  Birley 1990,63-66; Grant 1996,12.  Birley 1990,63.  Mazzarino 1973,328.  Marco Aurelio, 6.30: "Bada di non cesarizzarti, di non impregnarti con la porpora: succede infatti".  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 6.5; Birley 1990,67-68.  Marco Aurelio, 1.16.  Marco Aurelio, 5.16.  Birley 1990,68.  Marco Aurelio, 8.9.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 2.4 e 3.6.  Birley 1990,108.  Frontone, Ad Marcum Caesarem 4.8 (trad. da Haines 1.184 ss.).  Cassio Dione, 71, 36.3.  Grant 1996,24.  Birley 1990,110-111.  Marco Aurelio, 1.11.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 2.4; Cameron 1967,347.  Aulo Gellio, 9, 2.1–7 e 19.12; Birley 1990,76-78.  Birley 1990,65-67; molti critici moderni hanno avuto dubbi per l'ammirazione dei contemporanei. Filologi di fama espressero numerose critiche: Barthold Georg Niebuhr, lo descrisse "frivolo", Samuel Adrian Naber lo trovò "disprezzabile" (Champlin 1980, capp. 1-2); altri lo hanno definito "pedante e noioso", scrivendo che le sue lettere non offrono né l'analisi politica di un Cicerone né l'introspezione di un Plinio (Mellor 1982 commentando Champlin 1980); una ricerca prosopografica degli anni '80 ha riabilitato, almeno in parte, la sua reputazione, cfr. ad esempio, sempre Mellor 1982 su Champlin 1980.  Birley 1990,88 ss.  Birley 1990,78.  Birley 1990,113.  Birley 1990,114 ss.  Birley 1990,83 ss.; Marco Aurelio, 1.8.  Marco ricorda Epitteto come una guida spirituale, facendo spesso riferimento alle sue Diatribe e al Manuale come ad esempio in Marco Aurelio, 11.34, dove lo cita e ne commenta alcune massime.  Birley 1990,336-339.  Birley 1990,126 ss.  Champlin 1980,174 n. 12.  Frontone, Ad Marcum Caesarem 4.11 (trad. da Haines 1.202 ss.).  Birley 1990,130-132.  Marco Aurelio, 9.40.  RIC, III 682 (Aurelius); MIR, 18, 13-2a; Calicó, 2055 (moneta illustrata); BMCRE,399 note.  Inscriptiones Graecae ad Res Romanas pertinentes, 4.1399, tradotta da Birley 1990,140.  Birley 1990,205 e 339.  Historia Augusta, Lucius Verus, 2.9-11 e 3.4-7; Birley 1990,132-133.  Forse in omaggio ai filosofi greci o a causa di una cicatrice (cfr. Melani, Fontanella e Cecconi,58).  Bianchi Bandinelli e Torelli 1976, scheda 131 (ritratti di Adriano).  Birley 1990,137-138.  Birley 1990,140.  Cassio Dione, 71, 33.4-5.  Historia Augusta, Antoninus Pius, 12.4-8.  Birley 1990,142; Historia Augusta, Pertinax, 13.1 e 15.8  Birley 1990,142-143.  Historia Augusta, Lucius Verus, 4.2.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 15-16.  Historia Augusta, Lucius Verus, 3.8; Birley 2000,156  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 7.9.  Savio 2001,331.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 7.10-11; Historia Augusta, Antoninus Pius, 12.8; Birley 1990,144-145.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 19.1-2; Birley 1990,145.  Historia Augusta, Commodus, 1.2.  Birley 1990,145-147.  Birley cita Mattingly 1940, Marcus Aurelius and Lucius Verus, nos. 155 ss.; 949 ss.  Cassio Dione, 71.1, 3; 73.4.4–5.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 8.1.  Birley 1990,150.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 8.8; Birley 1990,151 cita Eck 1995,65 ss.  Vittorino minore fu console assieme al nipote di Marco Aurelio, Tiberio Claudio Severo Proculo nel 200 (AE 1996, 1163 e CIL III, 8237).  Birley  cita Frontone, Ad Verum Imperator 1.3.2 (trad. da Haines 1.298 ss.).  Frontone, Ad Antoninum Imperator 4.2.3 (trad. da Haines 1.302 ss.).  Birley 1990,148 ss.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 8.4-5.  Birley 1987,278.  Birley 1990,158 ss.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 8-10 e 12.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 10.  Pulleyblank 1999.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 9.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 11.  La grandiosa colonna di Marco Aurelio di fronte a Palazzo Chigi (alta 42 m) fu eretta per ricordare proprio le vittorie sul fronte germanico-sarmatico del Danubio. La colonna era sormontata da una statua dell'Imperatore, dove ora è posta quella di san Paolo, così come accadde per la colonna di Traiano, dove venne posizionata una statua di san Pietro in sostituzione di quella dell'Optimus princeps), in Coarelli 2008,42-43.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 17 e 23.  Renan, Eusebio, 5.1.77.  Codice Giustinianeo, Digesto, 1, 18, 13.  Codice Giustinianeo, Digesto, XVIII, 1,42.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 24.1-3.  Codice Giustinianeo, Digesto, XLVIII, 9, 9, 2.  Codice Giustinianeo, Digesto, XXXI, 67.10: «Item Marcus imperator […] et ideo princeps providentissimus et iuris religiosissimus cum fideicommissi verba cessare animadverteret, eum sermonem pro fideicommisso rescripsit accipiendum».  Birley 1990,165 ss.; Millar 1993,6 e ss. Vedi anche Millar 1967,9-19  Frontone, Ad Antoninum Imperator 2.1-2 (trad. da Haines 2.94); Birley 1990,164; Champlin 1980,134.  Historia Augusta, 24.1-3.  Svetonio, Titus, 8 e 9.  Casadei e Mattarelli 2009,107-108.  Bloch 1947.  Renan 1937,336-337.  Birley 1990,170-172.  Historia Augusta, Antoninus Pius, 12.7; Birley 1990,148.  Birley 1990,149.  Mazzarino 1973,335 ss.  Frontone, De Feriis Alsiensibus 4 (trad. da Haines 2.19); Frontone, De bello Parthico 1-2 (trad. da Haines 2.21-23); e 10 (trad. da Haines 2.31); Guido Clemente 2008,633.  Luciano di Samosata, Alessandro, 27.  Cassio Dione, 71, 2.1; Luciano di Samosata, 21; 24-25  Cassio Dione, 71, 2.1.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 8.9.  Birley 1990,151-154.  Birley 1990,154-155.  Champlin 1980,134; Frontone, De Feriis Alsiensibus 4 (trad. da Haines 2.19); Birley 1990,156-157.  Frontone, De bello Parthico 10 (trad. da Haines 2.31); Birley 2000,150-164; Birley 1990,157.  Historia Augusta, Lucius Verus, 9; Historia Augusta, Marcus Aurelius, 9.4; Birley 1990,159.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 9.4-6; Historia Augusta, Lucius Verus, 7.7; Birley 1990,162.  Birley 2000,163.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 9.1; Historia Augusta, Lucius Verus, 7.1-2; Frontone, Ad Verum Imperator 2.3 (trad. da Haines 2.133); Birley 1990,159; Mattingly 1940, Marcus Aurelius and Lucius Verus, 233 e ss..  Birley 2000,162.  Farrokh 2007,165; RIC, III, Antoninus Pius to Commodus, n. 511-513255 e n. 1370-1375322.  Birley 1990,163.  Mattingly 1940, Marcus Aurelius and Lucius Verus, nos. 261ff.; 300 ff.  Birley 1990,174.  ILS 1098; Birley 1990,179-180; Mattingly 1940, Marcus Aurelius and Lucius Verus,401 ss..  Birley 2000,164.  Birley 1990,183.  Birley 1990,180; Pulleyblank 1999; Mazzarino 1973,338 ss..  Frontone, De nepote amisso 2 (trad. da Haines 2.222); Frontone, Ad Verum Imperator 2.9-10 (trad. da Haines 2.232 ss.)  Birley 1990,164-165.  Lucio Dasumio Tullio Tusco, un lontano parente di Adriano, fu inviato in Pannonia superiore, per sostituire l'esperto Marco Nonio Macrino. La Pannonia inferiore venne affidata al poco conosciuto Tiberio Aterio Saturnino. M. Servilio Fabiano Massimo venne trasferito dalla Mesia inferiore a quella Superiore quando Iallio Basso si era recato ad Antiochia di Siria da Lucio Vero. La Mesia inferiore venne allora affidata al figlio, Marco Ponzio Leliano. La Dacia venne divisa in tre distretti, governati da un senatore pretoriano e da due procuratori. La pace non poteva durare a lungo, la Pannonia inferiore disponeva di una sola legione, ad Aquinco. Cfr. Alföldy 1977, Moesia Inferior,232 ss.; Moesia Superior,234 ss.; Pannonia Superior,236 ss.; Dacia, 245 ss.; Pannonia Inferior,251.  Birley 1990,189.  Southern 2001,203-206.  Ruffolo 2004,84.  Birley 1990, 194-197.  Stathakopoulos 2004,95.  Birley 1990,186-187.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 14.8; Historia Augusta, Lucius Verus, 9.11.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 17.4.  Cassio Dione, 72-2, 3; 73-4,5 e 20,1; 74-3, 1,2.  Birley 1990,207; Alföldy 1977, Moesia Inferior,232 ss.; Moesia Superior,234 ss.; Pannonia Superior,236 ss.; Dacia,245 ss.; Pannonia Inferior,251.  Questa invasione avvenne secondo Birley 1990,184-186, 194-196 e 207-208 ed altri studiosi moderni (Brizzi e Sigurani 2010,393-394 e 398) nel 170.  Birley 1990,208-213.  Guido Clemente 2008,635.  Kneissl 1969,206-207. Infatti i cognomina Armeniaco, Medico e Partico sono assenti nella documentazione di carattere ufficiale posteriori al 172, come ad esempio i diplomi militari: nello specifico si veda, ad esempio, AE 1990, 1023 o AE 1987, 843 (entrambi del 179).  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 24.4.  Tertulliano, 5, 6.  Michael Grant, The Antonines. The Roman Empire in Transition, Routledge, 1994,50.  Birley 1990,230-231.  Cassio Dione, 72, 27-29; Historia Augusta, Marcus Aurelius, 26.10-12.  RIC, Marcus Aurelius, 357 corr. (no P P); MIR,18, 322-2/35; Calicó, 2017; BMCRE,674.  Astarita 1983,155-162.  Birley 1990,239-240.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 26.3-9.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 19.1-8 e 26.3-9.  Ammiano, Historia Augusta, Marcus Aurelius, Cassio Dione, 71, 1.1.  Birley 1990,243-244.  IG II2 3620  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.1.  Historia Augusta, Commodus, 12.4.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.5.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.11-12.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.8; Cassio Dione, 71.31.1  Historia Augusta, Marcus Aurelius, 27.6.  Historia Augusta, Commodus, 12.5; Historia Augusta, Marcus Aurelius, Historia Augusta, Commodus, 12.6.  Birley 1990,259-261.  Guido Clemente 2008,636.  Cassio Dione, 72, 36; Grimal 2004,228.  Birley 1990,264.  citato in Antonio de Guevara, Vita, gesti, costumi, discorsi, lettere, di Marco Aurelio imperatore, Venezia, 1557,80.  Historia Augusta, Marcus Aurelius, Cassio Dione, Birley Cassio Dione, 72, 36.3-4.  Erodiano, Commodo, I, 13.1; Historia Augusta, Commodus  Perelli 1969,320-324.  Marco Aurelio, 11.3.  Sordi 2004,103 ss. 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Predecessore: Antonino Pio161–180 (con Lucio Vero, dal 177 con Commodo)Commodo Predecessore Console romanoSuccessoreConsul et lictores.png Gaio Bruttio Presente Lucio Fulvio Rustico II140 Marco Peduceo Stloga PriscinoI con Imperatore Cesare Tito Elio Adriano Antonino Augusto Pio IIcon Imperatore Cesare Tito Elio Adriano Antonino Augusto Pio IIIcon Tito Enio SeveroTito Statilio Massimo145 Gneo Claudio Severo Arabiano II con Lucio Edio Rufo Lolliano Avitocon Imperatore Cesare Tito Elio Adriano Antonino Augusto Pio IVcon Sesto Erucio Claro II Appio Annio Atilio Bradua161Quinto Giunio Rustico IIIII con Tito Clodio Vibio Varocon Lucio Elio Aurelio Commodo IIcon Lucio Tizio Plauzio AquilinoMarco Aurelio Campagne partiche di Lucio Vero Guerre marcomanniche Imperatori adottivi Imperatori romani e relative linee di successione Stoicismo. Antica Roma Portale Antica Roma Biografie Portale Biografie Filosofia Portale Filosofia Letteratura Portale Letteratura   Categorie: Imperatori romaniFilosofi romaniScrittori romani Nati il 26 aprile Morti il 17 marzoNati a Roma Morti a Sirmio Aforisti romani Dinastia antoniniana Consoli imperiali romani Stoici Annii Auguri Sepolti a Castel Sant'Angelo Marco Aurelio Persone legate ai Misteri eleusini. Italian philosopherone of the most important onesVide his letters to his tutor Frontino -- Marcus Aurelius, Roman emperor (from 161) and philosopher. Author of twelve books of Meditations (Greek title, To Himself), Marcus Aurelius is principally interesting in the history of Stoic philosophy (of which he was a diligent student) for his ethical self-portrait. Except for the first book, detailing his gratitude to his family, friends, and teachers, the aphorisms are arranged in no order; many were written in camp during military campaigns. They reflect both the Old Stoa and the more eclectic views of Posidonius, with whom he holds that involvement in public affairs is a moral duty. Marcus, in accord with Stoicism, considers immortality doubtful; happiness lies in patient acceptance of the will of the panentheistic Stoic God, the material soul of a material universe. Anger, like all emotions, is forbidden the Stoic emperor: he exhorts himself to compassion for the weak and evil among his subjects. “Do not be turned into ‘Caesar,’ or dyed by the purple: for that happens”. “It is the privilege of a human being to love even those who stumble”. Sayings like these, rather than technical arguments, give the book its place in literary history. Ab avo meo Vero didici placidis esse moribus et iram abstinens. Ex estimatione parentis mei cius recordatione ad verecundiam et VIRO dignos mores usus sum. Matre in studio pietatis erga deos isberalitate gimitatus. Præterea in abstinendo anno perpetrandis modo sed et cogitandis flagitiis. Tum in frugalitate victus, ab opulentia comitante luxu remotissima. A pro-avo id habui ut ne in publicos ludos comcarem sed bonis præceptoribus domimex uterer, intellige regnullis hac in re parcendum sumptib. Ab educatore, ne auriga Praginus, aut Venetus, neuc palmularius aut scutarius fierem. Ab eodem tolerare labores, esse contentus parvo, operari, non immiscere mc multis negociis, haud facile calumniam admittere, didici. A Diogneto, tudium in res inanes non conferre, fidem abrogare iisque de incantationibus, de  monug pfligationib. acid genusalii reb pitigiatores et impostores referent. Nec animi causa coturnices alere, aut fi milium rerum studio et cupiditate teneri. Ite libere dicta ferre æquo animo, PHILOSOPHIAE ME ADDICERE, audire primo Bacchiu, deinde Tandasidem ac Marcianum, scriber dialogos puerili etate grabatu, pellem, aliağ ad greca disciplinam pertinentia, usurpare. RUSTICI monitu in ea deveni cogitatione, mores meos correctione ac cultu opus habere. Non esse imitandos sophistas, non esse instituendas de contemplationibus scriptiones ne que oratiunculas adhortatorias declamandum neq speciem VIRI exercitiis dediti, ac laboriosi ostentandam. Ad hæc rhetorica, poetica ed atrologia abstinendum, domincuesticu, negaliis huius modi rebutendum. Epistolas scribendas simpliciter, quomodo ipsius ad matrem meam est epistola Sinueſſam missa. In super placabilitatem este et in alloquio facilitatem exhibendam iis qui stomachu nobis moverint, aut aliquid deliquerít, simulatqii redire adofficium volint. Diligenter etiam legendum, nec omnino considerationem accuratam satis putandum, ne æceleriter adsentiendum loquacite LOQUACITER CONVERSANTIBUS. Commentarios Epicteti legendos, quorum et e domo sua mihi copiam fecit. Apollonius medocuit ut libertatem secta rer, certamg constantiam, negalio un quam, ne minimum quidem, quam ad rectam rationem respicerem ac semper mei similis essem in gravibus doloribus a missione prolis, morbis diuturnis. Uc quem in vivo exemplo evidenter contemplarer, posse eundem et durissimum esse et remissum quam maxime. Tum etiam ut in percipienda doctrina menon morosum præberem sed circumspicerem de homine qui palam experientiam et in tradendis scientijs facultatem mia nimum suorum bonorum putaret. Præterea modum beneficia utiis videntur ab amicis accipiendi ne vel accepta ea nos viliores redderent vel stupidem ne gligerenturato permitterent. In Sexto de præhemdi comitatem et exemplum domo ad arbitrium patris familias institute, vivem di secundum naturam, gravitatem nion simulatam, ing consulendo amicorum commodis sagacitatem, facilitatem erga privatos, mores omnibus accomodatos. Quo fiebat, ut eius consuetudo omni adulatione suavior ipseos codem tempore in summa apud cos quibus cum agebat veneratione esset. Porro autem expedicam viam acrationem inveniendi et disponendi præcepta ad usum vitæ necessaria. item quod nequc iræ neo alius cuius animi commotio nis ullum indicium dabat, sed simul et quam maxime affectibus vacuus et humanissimi erat ingenii. In codem honc stam famam finciactatione. Multa rumorerum scientiam citra ostentationem. Alexandrum Grammaticum obseruabam ab increpationibus sibi tempera re, neque ignominiose castigare si quis barbarum, lolocum, aut absonum quippiam protulisset sed civiliter id modo o dicendum fuerat, pronunciare. Perinde ac si respondens vel suam sententiam interponeret, aut rationem re ipsa non verbo cum altero conferret. Aut omni no alia quadam solerti et occulta correctione idem efficiebat. A FRONTONE didici ut scirem quæ consequeretur tyranidem invidia quæ varietas simulatione. Et quod omnino qui nobis patria icidicunt in humaniores quodammodo fint reliquis. Ab Alexando Platonico, ne crebro neve nil necessitate coactus cuiquam dicerem scriberemúeme esse occupatum ne ve identidem impendetia negocia prætendendo debita familiaribus officia detrectare, A CATULO, ne parvi facerem li quid amicus conquereretur, etiam et nulla id ab eo fieretratione. Sed anniterer eum in pristinam gratiam rcducere. Item ut summa animi contentione præceptorum laudem prædicarem. Uti de Domitio et Athenodoto traditum est. Ut yliberos vere diligere. A fratre meo SEVERO amore familiarić et ucritatis iustitiæ. Per eundem cognovi Thrasea, Helvidium, CATONEM, Dionem, BRUTUM. Idem mihi autor fuit ut animo conciperem formam reipublicam in qua æquis legibus codemý iure omnia administrarent, ac regni, cui nihil cf afet libertate subditorum antiquius. Eun dem observans curis esse vacuum, constantiam in honore PHILOSOPHIAE habendo, beneficentiam et liberalitatem perpetuam servare, bene sperare ac de amicorum in amore certo libipolliceri, aq bus animo elſet factus alieno idiis non occultum ferre. Nec amicis eius opus esse ut de ipsius voluntate coniectura facerent sed eam apertam elle. Maximus adhortatus me est, ut suo exemplo me ipsum regerem, neq ulla in re præcipitarem, animo bono cùm aliis in calibus, tum in morbis essem. Ut moribus ut erer temperatis, blandis, ac gravibus ut quæ instituissem expedite necma gnacum molestia perficere. Dicebat libi verba facienti aut a genti quic quam nemine non fidem habuisse ex animi ipsum sententia loqui vel agree. Nullius rei admiratione se obstupuisse nunquam aut seſsi nasse, aut cunctatum fuisse, nec trepidasse neq mæstitiæ, neo gaudii nimium fuisse, neqz iracundum neq suspiciosum sed beneficum, placabilem, veracm, magis có Itantia erroris secura o erratorum correc ioné præ se tulille. Neminem fuisse, afe 1 abipfo conteptum, aut ipso pstantiorem putaret. Liberaliter quoß facetum fuisse. Patris notavi humanitatem et inijs quæ semel essent accuratem deliberata, pmansionem vanægloriæ et eorumque putant, ne que sunt tim honoru contemptu, tudium laborum, assiduitatem. Libenter audiebat cos, qaliqd reip. utile poterant adducere. In tribuendo unicuip dignitate suu firmiter pſeuerabat, pitusubi intendendum et ſet, ubi remittedum. AMORES ADOESCENTU lorum coercebat, utilitati publicæ, oes cogitationes intendebat. Amicis sec uncce nan dı, autiter faciendi necessitate remittebat etque necessitate aliqua impediti cum non conitati fuerant, cunde fempirfum inveniebant.In consiliis accurateqd conducere possetīqrebat, ac conftanter, nec ob uiis quibusg cogitationik. contento fine consultandi faciebat.Amicitiam conservabat, neq vel satietaté amicorum capiebat, ne ad eosparandos furore aliquo ferebat. In oib.reb. ola sua i se repogta habebat, læto vultu. Longe futura puidebat. Arq et minima antem pparabat, idý citra tumultum. Acclamationes, oems adulationem compescebat. Quæ ad magistratum erant necessaria, semper custodiebat, sumptus procura bat, ncq detrectabat dcijsreb, causam dicere. Deos citra superstitionem cole þat, homines ne demerebatur, ncquc auram popularem captabat. In omnib, his sobrius, costans, nusquam ineptus, aut novitatis studiosus. Has porrò res, quæ ad vitę commoditatem aliquid conducunt, quas fortuna suppeditat, liberaliter, fimulý sincfastu tractabat, ita ut & liadeffent, haud solicite iis uteretur, nec defidcraret, li deeflent.Nemo fuit, quieum aut sophistam, aut vernam, aut hominem de schola esse diceret. Sed VIRUM MATURUM, absolutum, adulatione superiorem, qui et seipsum regere, et ali ospoflet, Iam PHILOSOPHIAM VERAM profitentes in honore habens, reliquis nihil exprobravit. Cæterum in consuctudi ne familiari commodus gratiosuso extra fastidium erat. Corpus suum moderate curabat, non ut qui vitæ CUPIDUS, aut cuiforme elegantia curæ esset, non tamen interim negligenter. Itag suæ diligentiæ causa paucissimis medicorum pharmacis et fomentis opus habuit. Id in co praeclarissimum fuit, quod facultate alicuius rei præditis concedebat abso invidia, utoratoriæ, historiæ, legum, consuetudinum, aliorum gid genus. Quin etiam ut gloriam iis rebusquibus excellebant, adipiscerentur, operam suam ipsis navabat. Eccum ageret omnia secundum instituta maiorum, ne hoc ipsum quidem studebat consequi, ut videretur a maioribus accepta obserualle. Ad hæc non erat vagus aut levis sed locise et negociis iisdem soleba timmorari. Post intentissimos capitis dolores, recens at que alaçer ad consueta opera redibat. Praeterea pauca ad modum habebat arcana et hæc quoq tantum derebus publicis. Prudens porroerat, moderatus cum in spectaculis exhibendis, tumin operum extructionibus congiariis et aliis huius modi negotiis. Guippe vir ed ex usu foret potius, quam quem gloria fa &tum sequeretur, reputans. Non utebatur alieno tempore balneis, non erat ædificandi CUPIDUS, non de ciborum, non vestium texturæ aut infacturæ, non formæ corporis elegantia anxius. Comitatus ei e prædio qui eum ab inferiori casa deduceret. Inter Lanuvinos plerum Tusculano publicano utebatur, etiam deprecante. Omnino in eius moribus nihil in erat in humanum, nihil in verecundum, nihil procax, ne quod dicitur ad sudorem usque. Sed omnia ita apta  et concinna ut li per otium cogitata fuissent, compositem, placidem, firmiter et sibi in vicem convenienter. Ac commodari posset ei id quod de Socrate memoratur, quod et abstinere potuerit,et frui reb.istis, quibus et carere ple rio per infirmitatem & in fruendo continere se nequeunt: at temperare fibi ab utroque uitio pofle et sobrium permanere, id VERO VIRI eft animo integroinui conspræditi: quod ille in morbo maximi præstitit.A diis bonos avos, bonos parentes, bonam sororem, bonos praeceptores, familiares, necessarios, amicos bonos accepi feren omnia bona: tum g in nullum eorum quicquam deliqui, quam quam ita affectus, ut, si occasio incidisset, utiq aliquid tale admisissem verum beneficio deorum evenit, neresita caderent, ut hoc in me depræhenderetur. Id quoque iis acceptum refero, quod non diutius apud concubinam avisum educatus, quodad PUBERTATEM CASTUS perveni, neque ante eam VIR sum factus sed tempus expectavi. Quod principi et patri subditus fui, qui erat omnem mihi superbiam excussurus, oftenfurúsque pofle eum qui in aula vivat et ftipatoribus carere & vestibus pictis et facibus, ftatuisý certi generis, reliquo ğluxu: Sed licercei proximum privato homini habitum ſumere: imò verò eum splendorem eos, qui principes rempub.gerere velint, demissio, res segnioresg efficere. Itemque eum fratrem sum nactus, qui moribus fuis me ad curam mei ipsius habendam posset excitate, honore autemet  amore in me suo delectare. Quod hberi mi hi neque indole, neque corpore pravinati sunt. Quodmagnos in rhetorica, poetica, reliquisg studijs progressus non feci, qme fortassis planem detinuissét, si me feliciter pficeresenlitlem. Quod mature cos a quibus sum enu tritus in dignitate constitui, quod mihi videbantur cupere, quodg id iuvenib. Adhuc praestiti, neo diu cas future spela cavi. Quod Apollonium, RUSTICUM, Maximum cognovi. Quod perspicueat ą sæpe numero naturalem vitam cum ani momeo reputavi, qualisnam ea esset: nimirum quodad deos attineret & co rum munera, cogitationcsoninde conceptas, nihil iam obstarc, quin aut secundum naturam viverem, aut non. Atque boc quidem fore mca culpa, qui deûm monitus,actantùm non præcepta non obferuaffem. Quòd in cali uita mcum corpus tandiu durauit.Quòdncquecú Benedicta,nc cumThcodoto rem ha bui, fed & pofteàamore cócitus, rcctæ rationi parui. QuòdRuſtico fæpiusin dignatus,nihil prætercà admiferim, cu ius mepæniterepotuiſſet. Quòd ma ter, cum esset adhuciu venis moritura, reliquos tamen vitæ suæ annos mocum exegit. Quod quotiescung pauperi ali cui, aut alias indigenti opitulari statuissem, nunquam audivi, pecuniam mihi non esse, unde id facere et quod mininum quam usu ucnit, ut alterius ope indigerem. Quod uxorem ita obsequentem, mei AMANTEM ac limplicem habui. Quod alumni quibus liberos meos credere idonei non defuere. Quod in somnis cum alia mihi remedia funtdata tum contra sanguinis ex creationem ac contra vertiginem, hocg Caietę. Sicut Chrękę  cuğanimü ad PHILOSOPHIA adiunxič ſem, nó incidi in sophistam aliquem aut scriptore vel a SYLLOGISMOS dissoluere doceret aut meteora traderet. Olahực deorum auxilio, forcuna indigent. Hec in Quadis ad Granuam. Solobatis sibi prædicere, erit ut incidam in curiosum, ingratum, contumeliosum  dolosum, invidum, DISSOCIABILEM. Omnia hęcijs euenc runt ignoratione bonorum et malorum. Ego vero, quinaturam boni perspectam habeo, quòdhoncstum fit, & mali, quod turpc, ipfamg eius qui peccat natura, quod mihi lit cognata non quia ciul dem carnis efs aut feminis sed mentis et divinem particulæ particeps a nullo cocum lædi pollum. Nequccnimiamo V turpitudinem aliquam quisquam con ijciec. Ei porrò quod mihi cognatum est, negira scipossum, neque insensus esse: ute nim unus alterum iuvaret in suo opere, eo nati sumus, ut manus, ut pedes, ut palpebræ, ut superiorum inferiorum o dentium ordines. quare contra natura est, ut in vicem nobis repugnemus: atqui succensere at a versari se invicem, idquidem est repugnare. Quidquid ego sum, idomne constat caruncula, animula et mente. Proinde missos fac libros, neß stude, non enim licet. Quin tu, ut mox vitam cum morte commutaturus,cor pussperne, quod est tabus, ossicula et reticulí muliebris instar plexus nervorum, venarum arteriarum. Animaquog considera, qualis ea sit. SPIRITUS nimirum, ne que is idem semper, sed qui in horasali us efflatur, alius ſorbetur. Restat tertia pars, principatum obtinens. Proindelic tecum reputa. Senex es? Ne patere hanc principem partem ulcerius feruire, necß alieno impetu raptari, neq fatú uel præ sensi niquem fer, vel im pedes subterfuge. Res decorum plenæ sunt prudentiæ. Fortuitæ aut non carent natura, complexude corum quæ a prudentia administratur. Inde omnia fluunt:necessitas etiam accedit, et totius universi cuius tu pars es utilitas. Porrò autem quòd natura univerſi fert, quod quem ad eam facit conservandam, id bonum est unicui vis univerli particulæ. Conseruant autem mundum, quemadmodum elementorum, ita & exipsis concretarum rerum mutations.Hec sufficiant tibi, ac sem per præceptorum locum habcant. Librorum vero Gitim proijce, ne murmurans moriare sed vere placatus, at ex animo gratiam diis agens. A Emento quandiu hactenus ea diftuleris, ac quoties prorogato tibi à diis tempore, co non ususlis. Certe aliqua do te animadvertere oportet, cuius mundi pars sis et a quo mundi gubernatore de fluxcris. Tum finem præscripti tibi temporis futurum. Quodquidem tempus G ocio sus intra parietes consumpseris, elabet, nequeredibit unquam tibi defuncto. Singulis horis animo in id incumbe ut fortiter, quemadmodum ROMANO ET VIRO CONVENIT id quod præ manibus est, per agas, accurata & non fi &ta gravitate, humanitate, liberalitate, iustictia g adhi bitis.Interea animum tuum ab omnib aliis cogitationib. abduc: quodita fict, si unum quodlibet negotium, eorum quæ in vita tua exequenda cibi fintpo stremum elfe iudicans, ita conficias, ut ne quid vanitatis, affectuum a conglio avertentium, simulationis, AMORE SUI, aut earum rerum quæ fato quodam ei negotio adiunctæ sunt improbationis admittat. Cernis, quam pauca Gint ea, quorum có pos vitam felicem ac diuinæ similem ui uerc homo potest? nam ea qui adferuarit, ab eo dijnihilultrà exigunt. Ignominia te ipsum affice anime, contemnete ipsum inquam ut enim honore te ipsum afficias, non tibi præterea tempus suppetet. Vita enim unicuiqueid præbet. Quæ tibi propemodum iam exacta eſt. Nonigitur te ipsum venerare sed felicitatem tuam aliorum in animis reposita habe. Non patere ab ijs quæ extrinfecus accidunt, te circúagi,ſed otium tibipa raut boni aliquid addiſcas,ac uagari de fine.Eft & alter declinandus error: nó. nulli enim actibus uitæ ſuæ'confecti de lirant,quòdfcopum nullum habent,ad qué omnes ſuos conatus & cogitatio nes dirigant. Haud temere quisquam repertus est infelix ea de causa quod non inquireret quid aliorum animis accideret. Qui ucrò luiiplius animi motib. non obsequitur, necessario miser est. Horum semper oportet recordari, quæ sit uniuerli natura, quæ mea, quomodóque hæc ad illam lit affecta, qualis pars ca cuius totius Git: adhæc neminem esse qui obstet, quo minus semper ea, quæ naturæ cuius tu pars es Gintconfentanca et agas et dicas. THEOPHRASTUS in comparatione peccatorum, ubi ostendit communiorem ea inter se conferendi rationem, PHILOSOPHICE, inquit, ea quæ per cupiditatem conmittuntur peccata, graviora esse iis quem periram. Et enim iratus videtur cum dolore quodam et occulte correptus animo a recta ratio ne divertere. Qui vero per cupiditatem peccat, victus a voluptate, intemperantior altero censetur, magilý EFFEMINATUS. Recte igitur et ut PHILOSOPHO diagnum erat. In maiori esse culpa pronunciavit cui voluptas, quam cui dolor peccandi fuisset causa: ac omnino hic ante læsus, & propter doloré iratus, ille sponte sua ad delinquendum cupiditatis explendæ causa fertur. Omnia tibi ita et agenda sunt et dicenda et cogitanda, ut Giam nunc vitam in exitu esse arbitreris. Cæterum e vivis discedere, si quidem dii sunt, nihil habet incommode. Neque enim ii te aliquo malo sunt affecturi. Sin autem, vuel non sunt dii, uc!res humanas non curant, quid atti nebatui vere in mundo deum, ac prouidenti z uacuo? Enim vero et sunt dii et rerum humanarum curam gerunt et ut ne homo in ea, quæ re vera sunt mala, incideret, id quidem in eius potestate posuerunt. In reliquis rebusliquid mali inesset, utique & hinc ei prospexissent, ne omni noin malum incideret. Quod uerò hominem deteriorem non efficit, quonam id modo uitam eius poflet redderepeiorem? Et quidem um niuerli natura nunquam neg perigno rationem,ncg fciens quidem, non ua lens autem cauere autemědare illa, tan tum errorem admiſerit,neque imbecil licatis,nequeinſcitiæ caula, ut bona & mala bonis malisque hominibus promiscuem et ex æquo accidant. Atqui mors et uita, honor et ignominia, dolor et voluptas, opes et paupertas, omnibus hæc uniuersa eadem ratione hominibus cum bonis tum malis contingunt, ſuntg neque honesta, neque turpia: ergo neque bona quidem, neque mala. Quam celeriter omnia aboletur, in müdo quidem corpora, in quo autem etiam corum memoria. Omnia quæ sub sensum cadut, ac præsertim ea, quæ vel voluptate alliciu ut, vel dolore terrent, vel faste suo clara sunt, quam vilia sunt ca omnia et contemptione digna, quam sordida, obnoxia interitui et mortua? Intelligentiæ est, indagare quidnam sintii, quorum opiniones et voces gloria. Quidnam estmors? Certe si quis ea per se intueatur, cogitatio neg omnia ab ea separet, quæ ciinesse videntur, isi am nihil aliud existimabic esse mortem, quam opus naturæ. At vero PUER EST, qui nature aliquod opus formidat. Et quidem mors non opus solum est naturæ sed et prodest ei. Qoónam modo Deus hominem attingis et qua hominis parte?preterea quomodo affe citur eo tactu pars illa? Nihil miserius cít eo, qui omnia circulando scrutatur, et quod aiunt ea etiam quæ ſunt infra terram rimatur, coniecturağ ea quæ in aliorum animis eueniant inquirit, neg ſentit ſufficere,utſuu quiſq quiin ipſo ineſt genium obferuet, eumlegitimè colat.Colitur autem, fi quis ſeiplum ab animi perturbationib.à vanitate,ab in dignatione eorum caufa quæ à diis aut hominibus aguntur concepta,uacuum conseruet. Quæ enim dijagút, virtutis causa honorem quæ ab hominibus, cognationis nomine AMOREM merentur: nonnunquam etiam miserationem, ratione ignorationis eorum quæ bona aut mala ſunt. qui sane defectus non uilior eſt eo, quo ne inter album et nigrum discernere poſsimus, impediunt. Quodf tria annorum millia tibi vivenda forent, insuperg triginta alia, tamen recordandum tibi est, neminem aliam ab ea quam vivit uitam deponere, negaliam dep nere quam eam quam vivit. Itagidem est longissimum spatium cum eo quod est brevissimum. nam quod praesens eſt, id omnibus idem est, quanquã id quod perijt, non fitidem, atqid quodamitti  temporis punctum eſſe apparet. Ete nimncß præteritum aliquis,neß futu rum quicquã amittere poteft:qui enim id ei adimatur, quod ne habet quidem. Duo itag hæc memoria sunt tenenda, unum, omnia ab æterno eſſe ciufdé for mæ, atq circulo reuolui,nequedifferre quicquam, eadémne cétum aliquis, aut ducentis annis, an uerò infinito videat tempore. Alterum, quodis qui diutif sime uixit, & is qui celerrimem moritur, tantundem amittunt: eo enim tantum priuantur, quod præsens est, quando id etiam solùm habent: quod autem non habet, neid ne deperditur quidem, Universa elle ſita in opinione. Quod patet ex his quæ cum Monimo Cynico sunt disputata. Perſpicua autem eft c ius quod dictum eſt utilitas, fi quis ea tenus eius fuauitatem admittat, quate nus ueritati congruit. Anima hominis contumelia se ipsam multis modis afficit. Primo, quum quantum in se ipsa Gitum eſt,abſceſſus quidam, & qua fulcus mundi fit. Abscedit autem à natura, quando ea quæ fiunt, iniquo fere animo: cuius quidem naturæ una in par e reliquæ singulorum naturæ omnes continentur. Deinde, quum hominem aliquem auerlatur, aut lædendi causa adversatur: hoc est iratorum. Tertiò, quum uoluptati aut dolori ſuccum bit. Quartò, quum fimulat, fidéquc aliquid autfacit aut loquitur. Quin to, quum fiquam actionem aut cona. tum ad nullum certum scopum diri git,fed fruftrà quicquam,nulláque con fequentia agit: quum oporteat etiam minima quæg ad certum finem referri. Finis autem animantiratis eprædi to propoftus eft utrationem atque Le gem ciuitatis uetuſtiſsimæ fequatur. Humanæ quidem uitæ tempus,momë tum eft, natura fluxa,fenſus obſcurus: totius corporis temperamétum putrc fcitfacilè,animauaga eſt, fortuna quæ fit, difficile eſt colligere, famaincerta eſt. Atque ut ſummam rei dicam, o mnia quæ ad corpus pertinent, fluuij naturam habent, quæ ad animā,inſom nij & fumi:uita bellum eſt, & peregri natio, fama poſt mortem,obliuio eft. b4  Quid ergo eſt quòd tutò hominem por fit deducere? PHILOSOPHIA. Ea verò in hoc consiſtit, ut genium quiin te est, incontaminatum conferues, atqz illesum, la voluptatibus et doloribus superiore: ut nihil fruſtrà, nihilfictè aut falſò agas: nihil cures, agátne quicquam alius, aut omittat.Præterea, ut ea quæ accidūt, fa tóue eueniunt, ita accipias, tanquã inde miſſa,unde tu quoqueneris.Poftremò, utplacıdo morté animoexpectes,quip penihil aliud,quàm diffolutionem ele métorum eorum,ex quibus unūquod libet animal concretum eſt. Iam Gipfis elementis nihil mali euenit continenti bus iſtis mutationibus, quibus ipfain ter ſe alia identidem in alia uertuntur, quænam causa est, cur de mutatione universi corporis, dissolutionéque fini ſtrum quicquam suspicari debeamus? Cum ea fecúdum naturam fiat. nihil vero malum est, quodnatura cuenit. Hæc Carnunti disputata. qonhoc tantum est considerandum, singulis diebus vitam cossumi, parcég eius ſubinde minorérelinqui: fed & hoc cogitandum,getſiquis diutius lit uictu rus,incertum tamen eſt,lítne fuppedita tura eadem intelligentia ad cognoſcen das res et contemplationem cuiusfiniseft peritia rerü diuinarű at humanarum, Etenim & delirare ceperithomo,fpira bit quidé nihilominus, nutrietur, imagi nabitur, appetet, reliquasgid genus facultates retinebit: ca vero vis, qua se i plo uti queat, rationes officii subduce re accuratas, quæ animo pręcepitin or dinem collocare, de coipſo an iam tem pus fit uitam relinquendi delibcrare, ac fi quæ alia sunt, ad quæ obcunda ratione probè exercitata opuseft, ea inquã uis iam antem extincta est. Feftinandum eſti gitur,nonidcò ſolú, quòd fubinde moc b s  ti propiores fimus, fed &quia rerum in telligentia nos ante exitum uitæ deſti tuit.Id quoß observandum, ca quę appendicis quafi loco adhæréthis quæ na tura fiunt,haberenonnihil gratiæ & o blectationis.Viquum panis pinlitur,ui demusquaſdam particulaseius rumpi: quod ipſum etli quodãmodo accidit præter inſtitutú piſtoriæ artis, habet ta mennónihil decoris,appetitumg cibi ſuo quodammodo excitat. Ficus quog quú maximè maturæſunt, fati scut, itém Oliuis maturissimis quiddam putredi niproximum,pulcritudinem peculiaré addunt. Iam ſpicas deorſum le flecten tes, leonis ſupercilium, fpumam apro rú ex ore effluentem,multa eiuſmodi alia fiquis ſeorſim confideret,intelliget ca ctGlongèabſuntà pulchritudine,tas men quia rebus naturalibus inhærent, & eas conſequuntur,co &ornatum his adferre, & delectare. Quam obrem qui attentiùs ea quæin rerum natura fi untmente contemplatus fuerit, nihil pon eleganter eſſe factum putabit, e tiam corum quæ appendicis loco res naturales conſequuntur. Itaque ue ros belluarum rictus haud minori cum uoluptate afpiciet, quàm quos picto res & figuli effingunt: uetulæ etiam & ſenis maturam ætatem, puerorúmque amori aptum florem caſtis oculis in tuebitur: multaque alia cernet, non a. pud omnes fidem inuenientia sed apud eos folùm, qui naturam, ciúſque opera rectè intelligit. HIPPOCRATES quummultos sanasset morbo, ipſemor bo deceffit. Chaldæi multis finem vitæ prædixerunt: post ipsos etiam fatum arripuit, Alexander, Pompeius, & C. Cesar, quum totas urbes toties deleuiſ ſent, commiſſó queprælio multa cqui. tum peditúmque millia cecidissent, i pli quoque tandem uita exceſſerunt. HERACLETUS, multa de natura rerum et incendio finem univerfo allaturo quum disputasset, ipse intercutc aqua distentus, ftercore bubulo oblitus mortem obijt. DEMOCRITUM pediculi, SOCRATES CICUTA absumplit. Quorſum hæc? Ingressus es vitam, navigasti, uc et us cs: discede. Quod fi abcundum esti n aliam vitam, equidem neibi quido erit quicquam dijs uacuum:lin omnissensus adiinet, non iam præterea dolores ac uoluptates ferēdæ, nec ferviendum vaſi tantò deteriori. Quinimo quod servit, id supererit, nimirum mens et genius: cum uas illud terra fit, & tabus.Proinde reli quum uitæ tépusne abſume de alijs co gitando, nifi ad commune aliquod co modum id referatur: alioquin enim in terim ab alio negotio detineberis.Nam cogitare,quid hic uelille agat, quamob rem, quid loquatur, quid cogitet, quid moliatur automnino de alijs effe folici tum, id uerò efficitur euagemur,neque obferuemus eam quæ principatú in no bis obtinet partem.Itaq;in ſerie cogita tionú declinanda eſt uanitas, omniúş maximè curiofitas, & malitia.Adſuefa cere teipfum debes, ut de his tantùm re bus cogites, de quibus fi quis te fubitò interroget quid nunc mediteris, confe ftim liberè pofsis refpondere, hocaut boc:nimirum ut ftatim conſtet,cogita tiones tuas eſſe ſimplices,placidas,con fentaneas animali fociato alijs, ac negligenti earum quæ ad uoluptatéoble & ationemúefaciant cogitationum,ua cuo contentionis, inuidiæ, fufpitionis, aliorúmue, quæ ſi te animoagitaffefaf fus eſſes,pudore ſuffundi oportuiſſet. Virad hunc modum compoſitus, non eft cur diutiusexpectet nomen eius, qui in optimorum Gii numero. Est enim fa cerdos quasi et administer deum, uti turg eo, quod in ipso tamquam sacrario est positum. Id autem hominem præstat purum a voluptatibus, inviolatum à do Ioribus, intactum A LIBIDINE inſciumo mnis malitiem, certatorem maximi certaminis (ne scilicet ullus cum affectus de ijciat altem tinctum iustitia, ex animo contentum ijs quæ eveniunt, fató vedesti nata ipsi sunt, non sæpe, ncg niſi magna & publica necessitate urgente, de alio rum dictis, factis, aut cogitationibus meditantem. Solis enim iis quæ in ipso sunt ad agendum intentuseſt, ac quæ à fato universi ipsi sunt deſtinata, continenter conſiderat. Nam illa cenſet honeſta & pulcra: quæ uerò fibi obtigerunt, cabo Dacſſe perſuaſum habet: quippe uniufs cuius factű & constat aliunde, & fecü aliud adfert.Meminit etiam oia ratione prædica eſſe interſe cognata, eſſeſ,ho minis naturæ cóueniens, ut omniūho minú curā gerat: exiſtimationem auté non ab omnibus hominibus petédam, sed ijs tantùm, qui naturæ conuenienter vivunt. Qui uerò aliter uiuunt, hi quales ſe domi & extra ædes,noctu at que interdiu gerant,ac quibus fc homi nibus admiſccant, perpetuò memoria tenet: ab his igitur laudariſe nihil cu rat, quum ij ne fibi quidem ipfis pro. bentur. Ne inuitus accedas ad agen dum, neque cotus humaniimmemor, neque non bene cogitata re, neque pa tere te retrahi:nein cogitationibustuis aftutiam ſecteris,nequeuerbolusfis,ne que multa negocia ſuſcipias. Enimue ro Deus qui in te ineſt, præfit'tibi,ma ſculo animanti, ſeni, ciui,Romano, ac principi, qui ſeita comparauerit, ut ad abitum inſtructus expecter quando re ceptui ex hac uita canat. Neiuramen toindigeas, néue hominis alicuius teſti monio, Hilari eſto uultu, ac qui exter " A nominiſterio poſsit carere., eám quam alij ſuppeditent quietc. Rectú elle expe dit te, nó quilapſus ſe erigat. Si quid in uita humanainuenis potius iuſtitia,uc ritate, temperantia, fortitudine,autfi quid aliud melius eſt, quàm animum tuum eſſe ſeipſo contentum, quatenus præſtat ut fecundum rectam rationem agas: ſi, inquam, in fato, & ijs quæ abfo tuo delectu tibi ſunt deſtinata inucnis aliquid his quæ dixi præſtabilius, caut fruaris toto animo incumbe.Sin co qui in te eft collocatus genio nihil præftan tius inuenis, qui & appetitus fibijpfi fubiecit, & uifa examinat, &à perſua fionibus ſenſuum ut dicebat Socrates scipsum abduxit, féque Dco ſubmißt et pro hominibus procurat: fi hoc inferiora omnia, & uiliora de prehendis, nulli alteri rei locum con cede, nefemel ad eam inclinans, poft hac proprium illum tuum bonum præ ferre omnibus rebus nequeas. Nes fas enim eft ullam aliam diuera generis rem bono rationcprædito, & effe &tri ci opponi: ut laudem popularem, principatum, divitias, voluptatum perceptionem: hæc omnia,quel parùm te iis accómodare uiſum fuerit,confeftim præualent et à recta uia abducunt. Tu uerò, inquam, fimpliciter ac liberè id quod eſt meliuselige,eiginhære:me lius autem eſt id quod conducit. At hocipſú fi ea ratione fitutile, quatenus métem habes, serva: lin quatenus es ani mal,repudia, & iudicium integrum reti ne. Id modo cura, ne quid, p tuo como do amplectaris, quòd pofsit aliquando tecompelleread fallendum fidem,pro dendam uerecundiam, odium alicuius, fufpitiones, imprecandum, ſimulandú, appetendúmue aliquid, quod parietes & uelamenta degideret. Etenim quimé tiacgenio fuo, & facris uirtutis eius pri mas defert, is tragediam nullam exci tat,nongemet,nó ſolitudinis,nófrequé tiæ hominum indigebit: plerung uiuet nekappetés quicquā, neqfugiens.diú ne aparuo téporis {patio incluſa cor pori animautatur, nihil omnino cura bit:nam etli continuo migrandum fit,i. ta facile diffoluétur ut fi ad aliam quan dam functionem uerecundè ac decen ter obeundam ſe conferat. Id unum fi per uniuerſam uitam obſerues,ut cogi caciones tuæ ſíper lint de ijs rebus quæ ad ſocietatem ciuilem nato animali, ei que rationis compoti cóueniant, nihil unquam in animodeprauatú, nihil puc rulentum, nihil contaminatú,nihilſug. gillatú invenies Ncą uerò fatum uitá imperfectam adhuc abrūpit, quemadmo dum dici poſſet de tragãdo fabula no. dum peracta diſccdéte.)præterea nihil feruile, nihilfucatum,nihil alligatum, nihil abſciſſum, nihil obnoxium,nihil occulcum. Venerare facultatem cogita trice: in co.n.ſuntoía, ut pars cui prin cipatum obtinés nihil unquam animo concipiat quod fit naturæ inconueni ens, aut conſtitutionianimalis ratione præditi.Illiusautem conſtitutionis eſt munus,ut à temeritate alieni, coétui hu mano adiuncti, dijsý obſequentes li mus. Proinde omnibus proie & is, hæc modo pauca comprchende, acmemo ria tene, gunufquifq tantùm, id quod præſens eittemporis punctum uiuit: reliquum uitæ aut iam exactum,autin in certo politum est. Exiguū ſanè tempus quod uiuit quil:perexiguus etiãter ræ, in quo uiuitur,angulus:etia longiſsi ma poſt obicú fama, cxiguum cft, quæ &ipſaper ſucceſsionem cóſeruaturho múculorum mox moriturorum, acne ſe quidem ipfos cognoſcentium, nedů cum,quiiampridem fato conceſsit. Ad dendum his quæ commemoraui præce ptis unum, nempe eius quæquouis tem pore animo noftro cogitanda accidit rei, definitionem ſeu deſcriptioné effe faciendam,quo tecúipſe differerepof fis, quęnam lit eiusnuda &abomnibus alijs ſeparata natura, ac qualis: tú quod proprium eius nomen, quæ item appel laciones eorum, è quibus ipfa confiata eſt, & in quæ diſſoluet. Nihil enim per indeaninum magnitudine extollit, ac uia & uerè poſſe lingula,quæ in hacui. ta nobis occurrunt, examinare, atß eo modo ſemper intueri,utunà deprehen datur, cuinam uniuerli parti unuquod. que uſui ſit, quo in precio habendúra tione cum iplius.uniucra, cú hominis, 14 qui ded quiciuis cſt ſupremæ ciuitatis, ac cuius quaſi domus lunt reliquæ ciuitates. Quid eft, quibusex elementis concres tum. & quandiu fert natura cius ut per maneat id, quòd modò cogitatione ani momco attulit?quaporrò uirtuteadid uſus cric?ſcilicetmanſuetudine, ortitu dine, ueritate, fide, ſimplicitatc, ea qua totus ex me aprus fum, cęteris?de lingu lis ergo dicédum. Hoc divinitus venit, hoc faci connexio, casus $ aut fortuna attulit,hoc pfectum eſt à cognato mco & focio,ignaro quidem quænam effet cius natura: ego autem & noui, & cofc cundum legem ſocietatis naturalem u toræquo animo,iuſté,limulgin mc dijs rebus coniecturam facio ut unicui que ſuum ut dignum eſt tribuam. Sirea &am rationem fequens, id quodinſtat agas diligéter,firmiter,æquo animo,nc quc inftituto negotio alia admiſccas, ſcd cuum geniumGincerum conſerues, perinde ac fi iam is dimittendus tibieſ let, atqita ſi perſeucres nihil expectás, nihil fugiens,fed eo quod ſecúdum na turam agis, & heroica in dictis factiſas ueritate cótérus, bene uiues. Nemo aut eſt, quihocimpedire poſsit.Quéadmo dum mediciad ſubita malacuranda,in promptu ſua inſtrumenta habent, at ferramenta: fictu ad res diuinashuman nalý præcepta inſtructa habe,atos para ta:omniaş etiam minimaita age,ut mc mineris hæc duo genera interfe eflc có nexa. Neg enim rem ullam humanárc ctè perfeceris,niſi ſimulcam ad deosre feras:neq contrà. Non erra amplius. Non eniin commentarios leges tuos, neque priscorum ROMANORUM et græcorum acta, excerptas ex libris, quæ tibijpfi in ſenectute utenda repoſuiſti. Itaqad fi nem propera,uanaló (pes miſlas faciés, tibiipfi opem fer, fiquidé(dum licet )tui rationem habesullam. Neſciunt quàm multa fignificet uocabulum furari, ſerc re, emere,quieſcere, uidere quid sit agendum. Quorum hocnon oculis cernitur, ſed alio uiſu.Corporis ſuntſenſus, ani miappetitus, mentis praecepta. Imaginari aliquid, & uiſum concipere,nobis cu pecoribus eſt communc.Moueriappe titus explendi cauſa,id quidé & belluis contingit et ANDROGYNIS et Phalaridi et NERONI. Porrò mentem ducé habere ad ea quæ apparent eſſe officij, corum etiá eſt, qui deos eſſe negant, qui patria deſerunt, qui fimulac fores clauſere,ni hil non turpe perpetrant. Si igitur reli qua his quæ dixinius omnibus funtcó munia,reliquum ſanè eft aliquid, quòd proprium lit uiri boni: nempe æquo a nimo ferre ca quęaccidunt,fatog eie ueniút, in pectore collocatum genium non commouere, neg turba uiſorum perturbare,ſed quietum ſeruare, cique decenter tanquam Deo obſequi: nihil à ueritate alienum loqui,nihil præteriu ftitiam agere. Quòd fi nemohominum credat eum fimpliciter, uerecundè, ac tranquillo animo uiuere, tamdnneque ſuccenſebit cuiquam, nez deflecter à femita ad finem uitæ ducente:ad quem finem uenire debet homo purus, quie tus, ac diffolutu facilis, & qui nulla ui coactus ultrò ſuo ſc faro accommodauerit. VAE in nobis ineſt pars prī cipatum tenens, ea di ſecun dum natura fe habeat, ita ad ea quæ accidunt comparata cit,ut quouis tépore facile ad id quod poſsibile eft &conceditur ſe adiungat. Neg.n. materiã aliquä fibi ppria ſubic ctá habet, fed ut cum exceptione qua dam'ad ea fertur, quę propofita ſunt,ita id quod offertur ei, pro materia sua accipit. Quemadmodúignis, quiijs quæ inciduntpręualet,à quibus exiguus ly chnus fuiffet extinctus: at copiofiori gnis ſtatim ea quæ ipG iniecta lunt, Gibi accommodat,ato conſumir,atg ex ijs ipfis augetur.Nihil agendú fruſtrà,ne aliter, quàm ſecundum contemplatio nem, qua artisdefectus compleatur.Se ceflus uulgò quærunt hominibus,rura, litto ra,montes: tu quoq ſoles maximè cadeliderare. Atqui id planèeft rudiữ &  & abiectæ ſortis hominum. Tibi qua cúq uiſum fuerit hora licet in teipſum recedere:nuſquam enim neg tranquil lior, nec maioris otii ſeceſsus homini datur, quàm adanimum ſuum: præſer cim ei qui intus ea habet, in quæ aſpici ens,ftatim ſummam animi tranquillita tem reperit:bene nimirumomnibus in tus compofitis.Cótinenter igitur te eò recipe,ac teipfum renoua. Breuia auté fint quædam, & elementorú uicem ob tinentia, quæ tibiſtatim occurrant, om nig te molcftia liberent, & remittent nihil indignè ferentem corum ad quæ reuerteris. Quid enim fersindignè?nú hominüimprobitatem?Reputa tecü,i ta eſle ſtatuendum,ratione prędita ani.. mantia unum effe alterius caulanatum: tum æquanimitatem parté cflciuftitiæ: item non ſua cos peccare uolütate:quá multi exercitisinimicitijs, odijs, ſuſpi tionibus, confoſsi perierunt,ac in cine remreda & ifunt:ita & deſinetádem. At molcftú tibi eft fatum tuum? in mētem reuoca quomodo uniuerfi partes difti xerit uel prouidentia,uel atomiillę,uel  quodcungillud fuit, ex quo demóftra tum eft,múduminſtar ciuitatis effe. At quæ corpus attingūt,ca te afficiūt?cogi ta intellectú, cu femel feipfum college rit,ſuamý uim perfpexerit non permi ſceri Spiritui leniter aut aſperè moto: præterea quæ de uoluptate & dolore auditu perceperis,repete, atqillis adfé tire. Sed forlitan gloriola teſolicitúte net?refpice quá celerrimè omnia obli uione delcantur,quod fit chaos infiniti utrinæ æui,quá inanis famæfonus, quã ta inconftantia &incertitudo opinio num humanarum, quàm arcto includā tur hæc omnia loco. Quippe punctum eſt terra,at huius iplius quàm perexi guus angulus habitai? quot uerò ſunt in ca ipſa, aut quales illi, qui.tefint lau daturi?Proindememento in hanc (quã demonſtraui,particulam tui recedere; idó præcipue cura,ne cupiditate traha ris,fedliber mane,relợita intuere,ut VIRUM UT HOMINEM UT CIVEM UT ANIMAL MORTALE conucnit. Cæterum ex his quæ tibi infpicienti quàm maximèin promptu cffe debcãt, duo funt:alterú,gresipfæ animā non contingut, ſed extra eam fic matæ perſiſtunt.Perturbationes tátùm ex internis opinionib.naſcunt. Alterú, goía hæc quæ cernis, statim mutabun tur, nec crunt amplius perpetuog.com gita, quoriam eorú mutationib.ipfe in terfueris.Mundus quidérerum in uari as fubinde formas mutatio eſt, uita in o pinione confiftit. Si intelligentia eſſe pręditu,hominibusnobis inter nos eſt comune, erit &ratio, ob quam illud no bis adeft cómunis: ſin hæc, etiam ratio quæ præcipit quid agendum fit,quido mittendum, communis eric omnium: proinde &lcx. Quód Gita habet,ciues ſumus: crgo ciuitatis alicuius partici pes. Quo reliquit, múdú ciuitatis loco esse: cuius.n. alius civitatis dicere possimus comunionem esse humano generi? utruita ex hac comuni civitate nobis eſſe capacib, intelligentiæ, utiratione, & legi, datú est, an aliunde? Utenim ter renæ mihià cesra aliqua particulæ sunt tributæ & humorab alio quodā elemento, ités ſpiritus,calor, & ignca natura, ſuis fingula à fótib. admcderiuataſūt, puso  nihil enim eſt,quod non alicunde &uc niat, & aliquò abcat.) ita & intelligétia nobis aliunde data eſt. Mors, perinde acuita,arcanum cftnaturæ opus, ex ijſ dem elemétis in eadé confufio & mix tio.Deniq non est eares, cuius pudere aliquem debeat: neque enim eſt contra caufas animalis mente donati, ncg có tra eius ſtructuræ rationem. Hæcita, hiſq de caufis fiút neceffariò. Quod qui fieri nolit,perinde faciat, acli ficum ar borem fucco uelit carere. Omnino au tem memineris,intra breuiſsimum tem lo pòſt, ne nomen quidem ucftrum ſu pererit. Tolle opinionem, fimul etiam de accepto damno abolebitur cogita tio:hacý ſublata, ipſum etiam danum non crit. Quod hominéſeipfo deterio rem efficere nó poteft, id neg uită eius pciorem reddit,ncg lædit,nec extrin Tecus, neg intrīſecus. Natura utilitatis hoc neccſſariò fccit, ut quicquid acci dat,iufte accidat: quod, fi diligenter observes, ita haberc inuenies: atq hocdi co,non tantùm caufarum consequentia ita fieri, fed etiam ratione iuſtitiæ, & ab aliquo, g tribuat unicuip dignita te ſuū. Itaq,uti coepiſti,obferuare hoc perge, & quicquid facies, hoc modo a ge,adhibitabonitate, quo modo uerè bonus intelligitur:idgin omnibus tuis obſerua actionibus. Nonita tibi fentić dum eſt, quemadmodú is quiiniuriá fa cit, uel iple fétit,uelte cxiſtimare uult: ſed resipfæ quid uerè lint,perſpice.Sem per hçc duoin promptu habenda ſunt: alterú,utea tãtùm agas, quod ratio cius partis, quæregnum in te, & poteſtatem obtinetlegislatoris,te hortat, idý pros pter hominum utilitaté. Alterum, ut fi quis adfit, qui te corrigere, & ab aliqua opinionc deducereuelit, ſententiamu tes:modò ut ea mutatio fidé mereatur iuſtitiæ autpublicę utilitatis,aliúſuchu iufmodi cauſa, nóuoluptatisgloriæúc gratia facta eſſe. Ratione præditus es: cur ca non uteris? quid enim prætcrca deſideras, ca ſuum obeuntc officium? Scis te, utparté, interiturű in co, quod te produxit universo: imò potius facta mutationc allumcris ad mcntem cam quæcſtreliquarum origo.Multa thuris grana eidem aræ impolita, unum altes ro priusignicorripit, ſed nihil intereſt. Intra decimum diem, Deus uideberis ijs,qui te nuncbeſtiam & fimiam putát: fiquidem ad præcepta &ueneratione métis reflectas,ne & cogites uitam tibi in immenſos annos prorogatum iri. Mors imminet, ergo dum vivis et licet,bonus ut sis cura.Quantum otij lu cratur, quinon uidet quid proximus di catsagat, aut cogitet, ſed tantùm quid ipfe agat, curato ut hoc iuftú fit & fas. At quifecundum Agathonem fortèbo numno circunfpicit nigrosmores, fed propofitamlineam recto,non uago cur fu tenet. Quifamæ poftmortem cupidi tate ducitur,non cogitat quenlibetco Tum, quiipfius mentionem fint facturi, mox ipfum etiam moriturum: deinde itidem eum quihuic ſuccedit, idő.co uſcs, dum omnis memoria per attoni. tosinanifama,extinctoſý homines p pagatu aboleatur. Quinetiam fingeim mortales fore eos, qui tui recordentur, immortalemg tuifutură memoriam.. quid ergoid adte,ne dicam,mortuum? quid ueluiuo tibilaus proderit?nifi ra tionecuiuſdam difpenfationis: omitte enim nunc naturæ munus, huic tempo ri non conucnicns et de quo fuo loco erit differendum. Omne quod pul chrum eſt,ex ſeipſo tale cſt, atquc in ſc ipſo abſoluitur,nullámque ſui partem habetlaudem. Ideoid quod laudatur, co ipfoncß peius fit, neq melius. Idý ctiam deijs intelligiuolo, quęcómuni ori nominc pulcraaut bona dicuntur, ut quæ ex materia fiunt, &artis opera. Id autem quod rcuera bonum eft, noa magis alia quadam re opus adid, ut fit bonum, habet, quàm lex, ueritas, cran quillitas animi,uerecundia:quid horú uelli laudetur bonum fit, uel uitupera tione corrumpitur? Smaragdus quidem niſ laudetur, debonitate sua aliquid a mittit? quid aurum, ebur, purpura, cul ter, floſculus, arbuscula? Si permanent animi, quomodo cosab æterno capit aer: & quomodo terra abęuo uſquchu matorum corpora recipit? Quemad modum hîc corpora quum aliquádiu in terra delituere,mutantur,diſsipatag fpacium alijs cadaueribus præbent:fic animæ in aérem ſubuectę,quum aliquá diu ibiperftiterunt,mutantur, fundun turg, &ad menté omnium aliarum ge nitricem adiungunt, eağ ratione alijs aduentantibus locum cedunt. Hocrea fpóderi poteſt, pofito animas eſſc cor poribus ſuperſtites. Neq uerò tantùm multitudo ſepultorum eo modo cor porum confideranda eſt: ſed & corum quæ quotidie comeduntur à nobis, & beftijs animalium et fic quodammo do ſepeliuntur magno numero, acni hilominus fuppedicat ſpatium alijs, p pter corum in fanguinem, aërem, calo remgmutationem. Ratio autem ucri tatis conſtat, ſimateria & caufæ inqui rantur.Non eſt uagandum,fed in omni appetitu iuſticię ratio habenda:omnig in cogitatione,certitudinis.Quicquid tibi,ô Naturarerum, conuenit, id omne mihiconuenit,nihilſ mihi uelimmatu rum eſt,ueltardú, quod tibi ſit tépeſti uum:oéid fructum meum puto, quod tuæ ferunthoræ.Ex tcfunt, &in una to omnia, ac in te unam omnia redeunt, Quidam dixit, ô chara Cecropis urbs. ego autem de tccur non dicam, ô cha ra Dei urbs? Pauca age, inquit, fi tibi tranquillitas animi curæ eſt. Nihil co plus cnofert, quàm ea quæ neceffe eft, agere, & quæ ratio animalis ad ciui lem ſocietatem nati, ac quo ca modo dcligit. Id enim non modò rede a gendo, fed & paucaagendo animi tran quillitatem parit. Nam ex his, quæ plurima &agimus & loquimur,fi quis ca quæ non ſunt neceffaria tollat, is &maiori otio Pombaur, & pauciores per turbationes experietur. Itaque lingu. lis in rebus circunfpiciendum, ne quid non neceſſarium agamus: acnon mo dò actioncs, fed & cogitationes inuti les funt uitandæ. ita cnim fict, ut nea. &tiones quidem fuperuacaneæ conſe quantur.Facpericulum,ut tibiboniui uita quadret:eius inquam,qui fato fibi deſtinata æquo fert animo, contentus eſtiuſtis ſuis actibus, & placidoftatu:ui diſti illa,hæc quoqueintuere.Non per turbatcipfum, fed fimplex efto.Si quis U MAwy peccat, fibijpfi peccat. Tibili quidbom ni obtigit, ab initio tibiid fato tuo fuit deſtinatum. Omnino autem breuis quum sit uita, curandum ut præſens tempus lucreris rectam rationem & iu ftitiam ſequutus: ac in remiſsionibus animi ſobrius fis. Aut compofitus eſt certo ordine mundus, aut cófuſo quæ ram rerum temerè mixtarum, mundus tamen. An quum in te ipſo poſsitor dolocum habere, uniuerſum nullo or dine conſtare dicemus? præſertim om nibus in co rebus ita digeſtis, diffufis, atque inter fe affectis. Mores nigri uocantur mores effæminati, duri, fe ri, pecorum aut infantium fimiles, ſto lidi,fucati,fcurriles,cauponarij,tyran nici. Si peregrinus in mūdo habetur, quæin mundo funt, non cognofcit: haud minus peregrinus erit, qui ea quæ fiunt:non cognofcit: exul, quiciuilem rationem fugit: cæcus, quiintelligen tiæ oculos clauſos habet: pauper, qui alio indiget, nequein fe habet omnia quæ ad uitam conducunt. Abſceſſus,ſiuculcus mundi-eſt, qui ſe à communis naturæ ratione feiungit,in dignè ferendo ea quæ cueniunt:(caeń quæ te produxitnatura, omnia pfert.) fruſtum à ciuitate amputatum, quiſu am animam à communi & unica om nium ratione præditorum méte reſcin dit. Alius line toga philoſophatur,ali us abfg libro,alius feminudus,panes ſe non haberè,& tamen ingſtere rectæ rationi dictitans,alius ſe diſciplinis ſuis non alere, & tamen perfeuerare profi tens.Tu artem quam didiciſti,dilige, in cağacquieſce. Reliquam vitæ partem: ita exige, ut q ex animo dijs omnia tua commiſeris,negullius te hominisuel ſeruum uel tyrannum conſtituas. CóGidera ſuerbigratia) quęVeſpaſia nitēpore euenerint: inuenies homines tum nuptias contraxiſſe, liberos aluiſ ſeægrotaſſe,diem ſuum obijffe, bellige raſſe,feſtos dies egiſſe, negociatos fuif ſe,agricultură exercuiſſe,adulatosfuif ſc,præfractos ſe geſsiſle, suspicionibus indulgfie, inſidias feciſſe,quoſdami uo tis mortem uocaſſe,alios quiritatos de præſentererum ſtatu,amalle, theſauros d TU collegiſſe,conſulatus et regna expetiif fe.Nonne corum omnium uitaiå aboli ta eſt?Rurfus ad ætatem Traiani defcé. de: invenies eadem omnia, atque cius quo ætatis hominesmortuoseſſe,eo dem modo ſi etiam reliquas ætates et gentes totas conlideres, uidebis quàm multicú ad ſummú cótendiſſent,paulò poſt ceciderint, & in elementa reſoluti fint.Præſertim uerò hi memoria recole di ſunt,quos ipfe cognouiſti uana affc Etantes, cum agere fecundum id ad quod natura erant facti, cizinhærere, &eo contenti effc ceflarent.Id quoque opuseftmeminiffe,in unaquauis actio necantum uerfandum,quantum digni tas cius & modus permitcunt:ita fiet,ut non diutius quum par litreb.exiguisim moratus, nullú faſtidiú cótrahas. Vlita ta quondā uocabula, nuncinterpreta tionis loco funt: ita et corum quifuerút olim celeberrimi, nunc quodammodo ſunt glossæ, ut Camillus, Cæso,Volcſus, Leonnatus, cum paulò post SCIPIO, CATO, inde AUGUSTUS, ADRIANUS, ANTONINUS. Ist hus: omnia enim hæc euanida ſunt, & mox in fabulam abeunt: mox obliuio. nc oí a obruuntur.Ato hocdicodeijs, qui ad miraculü ufo clari erant: relig enim fimulato animam efflarunt, obscuri, & ignoti facti ſunt. Quáquá quid eſt omnino,cuius fit memoria lempiter ħa? Omnia füntinanía. Quid eftigitur, in qd Geſtudio incúbendú? Vnicú hoć, ut cogitationes antiuftæ, actiones ſo cietatem humanam refpiciant, ratio te punő fallat,itag lis alo affcctus,ut quæ cúqaccidút,catanğneceſſaria,nota,ab codé principio & fonte promanantia, approbes. Vltrò te fato ſubmitte, pate regid teijs quæ ei uiſum fuerit rebus destinare:oia in diéfunt, cum id recordat alicuius, túid, cius fit mentio. Nunquá nó con dera, oía permutationes fieri, neq uniuerſi naturæ quicquã eſſe ulita tius,ĝres mutare, & innouare. Omnia em quæ in natura ſubliſtűt,femina qua G ſunt corum, quæ cxillisſunt naſcitus ra; eftautem nimium rudis hominis exi Ntimare ea cătùm ſemina cfTe, quæ in cer ram aut matricem deijciuntur. IM lam morieris,neque in pofterumeris is quinunces,fimplex, perturbationu uacuus,nihilſuſpicans extrinfecus tibi poffe damni afferri, omnib. benignus, prudentiam in eo tantum utiuſtè agas poſiram cenſens. Intuere aliorum principem partem, acquænam fugiant,quæ ſequanturpru dentes. Tuum quidem malum non eſt in al terius animo pofitú,neg in conuerlio neulla aut mutatione cæli. Vbi ergo? in opinione demalistua. Nihiligitur malum eſleiudica, & omniabenehabc bunt.Quòd li corpus, quod animo tuo eft proximum,fecetur,uratur,ſuppure tur,putreſcat,tamen ea pars, quæ iudi care de his debet, quietaGt:hoceft,exi ftimet nihil effe neque bonum,neque malum,quod exæquo poteft bono at que malo accidere:nam quod'ei qui ſe cundum naturam uiuit, exæquo acci dit, id neque fecundum, neque contra naturam eft, Aſsiduè tecum cogita,mundum eſſe animal quoddam unum,unam naturā, uno animo præditum, quomodo om nia ad eius fenfum unicum rcferantur, omnia ab co unico appetitu mouétea gantur, ac omnes res omnium rerum caufæ aliqua ex parte fint,tum quis ca rum inter fe contextus & ordo. Animula es, quæ cadauer geſtat: ut Epictetus dicebat. His qin mutatione funt, nihil eſtma lum: utnequebonum quicquã his qui è mutatione exiftunt. Aeuum, fluctus quidam eſtrapidus carum quefiunt rerü:fimulcnim unum quodß & apparet &præterit, &aliud ſubſequitur, moxitem aliud ſuccedet. Omne quod nobis accidit, ita conſue tum eſt, & notum, ut roſa uere, fructus æftate. Eadem eſtratio morbi, mortis, calumniæ, inſdiarum, omniumg eorü, quæ ſtultis uel gaudium, uel triſtitiam afferunt. Quæ ſubſequuntur ſubinde, ca præcedentibus rite ſuccedunt.Non enim numerus tantum certus eft eorü, àfolaneceſsitate dependens:fed & có fentanca corum inter ſe colligatio. ac quemadmodum certo ordine resinter fe ſunt coaptatæ, ita quæ fiunt,non ſuc ccfsionem nudam,fed mirabilemctiam quandam inter fe coniun &tionem etne ceſsitudinem oftendunt. Dictum Hera cleti ſemper eſtmemoria tenédum:ter ræmortem fcilicer eſſe aquam,aquæ ac rem,aêrisigné,idý uiciſsim. Eius quo quc exemplum recolendum,quineſcie bet quorſum iter duceret, Et quod cum rationc quæ uniuerſum admini ſtrat, continenter conſuetudinem ha bentes, tamen ab ea diſcrepant: itag in quæ quotidie incidunt, ca noua ipfis & peregrina uidentur. Non tanquam ſi dormiremus, agendum nobis eſt & lo quendum: in fomnis enim tantum uide murnobissgere aut dicere. Nequeimi tádi ſunt nobis pueri, qà parentib.fuis * hucé,nudè, Gicutaccepimus,Quéadmo dulias tibi Dcorūdiceret, moriendum tibi aut cras, aut ad diētertiú: nojā ma gnopètertiú dié craftino pferres,nifi a nimielies oio abiectiſsimi.quátú emeſt interuallum? Eodēmodoiudicanon in magno effe fouédú difcrimine,poſtmil lenos acaonos, anuçrò çras decedas. Crebrò reputa, quàm multi medici fint mortui, qui ſæpenumero ægrotos inſpi cientes ſupercilia contraxerint: quot Mathematici, qui alijs exitú è uita præ dicédo ſeiactauerint:quotphilofophi, quide morte & immortalitate multa alleruiſſent:quotre bellica laudati, qui multos occiderant: quot tyranni, qui magna cum inſolentia tanquamimmor tales poteſtate luauſi crant:quot urbes mortuę(utita dică)ſunt,Helico, Pom peij,Herculanú,& aliæ innumeræ.Col lige etiam,quos tuipſc noftiunum poſt alium,cuius funus curaffet mortuos:Et quod heri fuit piſcis,cras critfalfamen tum, aut cinis. Momentancum itagté pus à natura eſſe conſtitutum, conſide randum eft æquoſ animo è uita abeun dum:perinde ac Goliua maturitaté co ſecuca G decidat,arboréqipfam tulit ac genuit,collaudet, & gratiasagat. Simi lis elle debespromontorij, adquod al fiduè fluctus alliduntur: ipſum autem perfiftit,utcunque undęæftuantes cir cùm ferátur.Diceret aliquis: infęlicem mé,cuiboçacciderit:quinimòfelicem t me, quihunc cafum fine dolore perfe ram, & nec præſentibus frangar, necfu tura extimeſcam.Nam unicuiqtaleąd potuit accidere: at non cuiuſuis craç,li ne dolore cum caſum excipere. Curigi tur illud potius infortunio, quam hoc felicitati adſcribis? autcuridinfelicita tem hominis appellas,in quo nihil mali palla eſt hominis natura? an uerò dam num tibi humanæ naturæ uideri poteſt id, quod non eſt contra uoluntatem naturæ çius? Quid ergo? Numcaſus ifte ef ficere poterit, quominusfis iuſtus, magnaminus,temperans,prudens, circum fpectus,tutus ab errore,uerecundus, li ber?autadimereomnino quicquam co rum,quçhominis naturę funt propria? Proinde quoțies inciderit quicquam, quod ad dolorem te prouocet, recor dare huius præcepti,non illud informado nium eſſe appellandum,fedfelicitati tri buendum, quòd id fortiter feran Eft quidem ignobile,præſenstamen ad contemnendam mortem auxilium, memoria repeterc eos, qui uitam inlon giſsimum extraxerc tempus. Quid enim hi 57 1 hi amplius consecuti sunt, quàmij, qui immaturamorte ſuntabrepti? Vtique ipfi etiam defuncti iacent, Cadicianus, Fabius,Iulianus,Lepidus, alijſ corum fimiles, q cúmultosex tulissent, ipfidein de elati sunt. Omninoeņexiguū eſt ſpa çium, időper quotlabores,inter quos, &quali in corpuſculo exigendum? Ne igiturmortem prore difficili accipe. In tuere cius quod retro eſtæui uaſtiratë, & eius quod reſtat,immenſam longitu dinem:in tanto tempore quid præſtat is qui tres ætatcs, ci qui uixit triduum? Semper breuiorem uiamingrederc: brevissima autem est ea, quamnatura præ ſcripſit. Itag in omni & fermone & a. & ioncidfectare, quòd eſtrosiſsimum. Hocpropoſitum laboribus,militia, çura rei familiaris, & folicitudi neliberat. Anè cum grauatim à fom no ſurgis, in promptu tibi ſitcogitare,tead humanum opusfaciendum ſurgere.lca que ergo dices) grauatè acccdo ad agé da ea, quorum cauſa natusſum, ac pro ter quæ in huncueni mundum? scilicet in hocfactus, ut decumbesin lectome ipsum calefaciam? Atquihoc iucundi dius eft. Ergónead uoluptatem natus es, nonad agendum?nonuides plantu las, palierculos, formicas,arcaneas, a pes, lingula hæc luo intenta officio: tu uerò ea quæ funt hominis obire recu ſas, nc ad id te confers, quod naturæ tuæ conuenit? At uerò quiete opus eſt. Sane: fed & huic,modü ftatuit natura, pinde,utedédi,bibédig: atqui tu ultra modú &laq gfatis é, pcedis:n reb.uc rò agedis intro moduſubliſtis. Fit hoc cò, qateipſum nó diligis:alioqn eń & natura tua, cius voluntate diligeres.Et cnim alij qui ſuas artes amāt, operibus fuis ita incumbunt, ut neque balneorü nog cibi curá habeant. Tu naturm tua non tanti facis, quanti aut tornator, aut histrio suam artem, quanti avarus argentum, &inanis gloriæ cupidus glo riolam. Hi enim quarum rerum ftudio tenentur,dum eas augere poſsint, cibų &fomnum poftponunt. At tibi actio nes ad ſocietatem ſpectanteshumanam uiliores uidentur', 'minorig opera di gnæ?Quàm facile eft omnem cogitatio nem quæ animo aut perturbationem af ferat,aut nóconueniat, reijcere, & delc re, ſtatimg effc in fumma animi tran quillitate? Omnem fermonem & actionemque fit fecundum naturam, dignam te iudi. ca:nca te auertat ab ijs reprehenfioare fermones aliorum ca consequentes. Sed fi quid fa & o dictúue pulchrumeft,idte neindignum putes. Alij cnim aliam ra fionem,alios appetitus fequuntur:ad quos tibi non eit refpiciendum,fed re Cta via cò pergendum,quò &tua,& comunis omnium ducitnatura: utriuf que autem una eademg eſtuia per ca quæ funt fecundumnaturam progre: dior,donec morte finiam: expirans qui dem eam, quá inſpiro quotidie animā, cadens uerò in terram, ex qua &femen meum pater, & fanguinem mater,&lac nutrix collegit: quæmeterratot iam an nos'quotidie alit cibo ac potu, quamc calcantem fert, ac totmodisipla abu tentem. Auſteritatem tuam ut admirêturno est. Sit fanè, at multa alia ad quæ tc non eflenatura aptum, dicere non po tes.Eaigitur profert, quętota funtin te: integritatem, grauitatem,laborum tole rantiam, uoluptatum abftinentiam,ani mum ſua ſorte contentum, pauca defi derantem,placidum,liberum, àcurioſi tate & nugis alienum, altitudine prædi tum.Nonſentis,quam multa poſsisprę ftare, de quibusnulla eſt excufatio na turæ ad ea non aptæ: & taméadhucfpó te tua inferius manes. Quid? Ante natura parum bene in ſtructa cogit indigna ri,cúctari, adulari, corpuſculum tuum incuſare, tuam ſortem improbare,leuć eſſe, animouagari:nonmehercle,fed his omnibus iampridem ut liberareris malis,in tua fuit poteſtate.Hoc tantum erat uitij, quod tardioris ingenij, ac qui non facilè affequeretur ea quæ traderé tur,exiſtimari poteras: Sed & hoc exer citationeerat corrigendum,neſubinde cogitares de tua tarditate, néue ca de lectateris. Eorum qui bene alijs faciút,triaſune genera:primum corum, quiſtatim exhi bito beneficio, ſtatim etiam quam ſint meriti gratiam reputant. Alterum co rum, quiid quidem non faciunt,ta conſcij quid fecerint,debitorem ſeiam habere cogitant.Tertij quodammodò ne hocipfum quidem quod fecere,no runt:uiti ſimiles, quæ uuam cum protu lit, ut femel ſuum deditfructum, nihil præterea quærit. Equus ficucurrit, canis fi uenatus eſt,apis fi mel fecit,fatis eſt. Homo auté l benè fecit,non reuocatur, ſed ad ali ud negocium tranſit, quemadmodum uitis,ut rurſum fuo tempore uuam producat. In his nc igitur eſſe debent, quæ aliquomodo fine conſequentiaid faciunt?equidem.ſed hocipſum debet confequi. Propriū cnim est inquit animalis lege sociati, ut sentiatle et societatis causa egisse &ut velit omninoid eû qui ſocietatis eft ciuſdem, sentire. Verum clt quod dicis: quod autem nunc dici tur, excipe. Proptereà ex eorum numc ro eris,quorüantè feci mentionem. Hi enim uerifimilitudine quadam proba bili abducuntur. Quòdh intelligereuis quidná litid, quod diximus, netimcas, ne obid actio aliqua ſocietati hominü inferuiés tibi Gt omittêda.Athenienlių erathocuotu:plue,pluuiã ò chare lu piterin agros & cáposAthenienſes de mitte. Enimuerò aut nihil eft optandū, aut omnino fimpliciter, & liberalitcr. Quod dicimus Aeſculapium huice quitationé, illi lotioné in frigida,alteri utnudispedib.ambulet, iniúxiſſe:nihil aliud eft cú dicim°, natura uniuerfi huic hoimorbú, defectú autamiſsionémen brialicui'impofuit.Náutilliccum dici mus iniunxiſſe,intelligit.AEſculapium HUO O unam rem ad alterāordinafic, uerbigra tia,camrem reſpectum habere ad fanita té:ica hicidqunicuiqaccidec, rationé babet & rcfpectumad fatū.Ita enim hęc nobis accidere & cógruere dicimus, ut opificesquadratoslapides in muris aut Pyramidibus extruendis congruere a lerunt, quippe certa cos collocation ne inter ſe componétes. Omnino enim una quædam eſt harmonia: atg ut uni uerG huius corpus ex omnib.corporib. eſt compactum, ita ex omnib.caufis Fa tum ſuprema cauſa conſtat.Id quod di co,etiam rudiſsimi intelligút homiues: dicút enim,hocſors cius tulit,hoceica ratimpolitú.Accipiamusergo hæcita, utilla quæ Acſculapius impofuit: nā & in illis multa ſunt aſpera, quæ tamen fpc ſanitatis ferimus.Tibi crgò corú quęcó munis naturatibiiniúxerit perfectio,fi milis ſanitati iudicet:atqita æquo ſuſci peanimo oía quæ fiút(ctiāli gd durius uidcat. ) quoniã adidducunt, quod ra tioncmúdić fanicas,népeadfelicitaté. Nihileſ accidiſſet tibi, nifi in réuniuer Gita ect:ncq cnim una quæuis natura i  quicquam fert,ſed id modò, quod re fpcctum adid quod ab ea adminiſtratur, habcat. Quare duæ ſunt rationes,cur ea que tibicueniunt, çquodebeas animoferre. Vna, quiaſors tua ficferebat, & tibi de ſtinata erant ab antiquiſsimacauſa fata li habentiaad te certum reſpectum.Al teras quòd ca faciunt adprofectum, & perfe &tionem, ac permanentiam eius, quòduniuerfo praecſt. Totum enim muti latur,fi etianminimam partem conti nuitatis & coherentieutmembrorum, ita etiamcaufarum difcindas. Id autem quantum intc eft,facis, quotiesea quæ tibi obtigerút,moleſtèfers,ac quodam modo tollis. Faftidire,animumdeſpondere,ac de terrerinódebes, fi nó ubiq tibi fuccef ſusrefpondet,fecundum recta præcep ta agere fingula cupienti:ſed fruſtratus conatu,cum redintegrare, & æquo ani mopleraq humanaferre: neque debet te eius,ad quod redis,poenitere.Nequc tibi eſt ad philofophiam tanquam ad pædagogum redeundum:Sed utſolent qui ex oculis laborant,ad ſpongiam & ouum, alij ad cataplaſma &perfufioné confugere.Ita enim nó opuserit tibi o. ſtendi,utrectęrationiobedias:ſed in ca ipſe acquieſces. Memento philofophiam ca tantum poſcere, quæ natura etiam tua exigit: tu aút aliud quippiam uolebas.Vtrum uc rò horum blandius'eft an nonhocpa eto dccipit uoluptas? Vide gratior no gt magnamitas, libertas, simplicitas,æ quanimitas, fanctitas? Quid enim ipſa prudentia Git acceptius,ubicùm animo tuoreputes facultatem quæ ſcientiam certam, & certis conſequentijs nixam habet,nuſquamlabi, & ubiq ſucceſſum habere? Res quidem ipfæ in tanta quodam modo uerſantur obfcuritate, ut philo fophorú plerifcb & ijs no ignobilibus, omnino pcipipoſſe nihil uifum fit:Stoi ci tamé poflc percipi, ſed planè difficul ter,cenſucrunt.Eft omnis noſtra aſſé lo talis, utfalli & mutati poſsit:quis c nim ſenó pofle errare dixerit? Trasfer itag cogitationes ad ipfas res fubice  & as,acuide quàm breues, uilesø Gne, quæ ctiam à cinædo, fcorto,autprædo ne poſsint teneri.Inde tranG ad mores corum, quibuscum uitam degis, inter quos uix eſt etiam gratiofifsimum per ferrc,ne dicam, quod uix ſeipſum quis perpeti pofsit. Tanta igitur in caligigine, sordibus, tātoo rerum, temporis, motuumý, & rerum quæ mouentur flu xu, non uideo quid lit effe in honore, aut obferuantia hominum. Contrà præ ftat feipfum confirmare, acmortemræ quo animo expectare,ncqmoram indi gnè ferre, fed in his modo acquieſcere duobus: uno, quòd nihil mihi accidet, quod nó fitſecundum naturam uniuer fi:alterum, quòd licet mihi, nihil agere quod contra Deum geniumg fit meú demo em ad hocme cópellere poteft. Subinde hoc teipſuminterroga: quam adrem nunc utoranimo meo? at & exa mina teipfum:ea pars, quam principem uocant, quomodo núc habet?cuiusaío prçditus ſum? num pueri, num ADOESCENTIS, num mulierculæ, num tyranni, num iumenti,num feræ? Qualia fint illa, quæ uulgò bona ha bentur, etiam hinc euidens fiat.Sienim animo concipias ca quæ ſunt reipfa bo na, utprudentia, ut temperantia,utiu fticia,ut fortitudo,hisiam antè reputa tis, nihil porrò audies nominari bonú, quod nófub hæc referatur. Quæ uerò uulgus hominum bona putat,ca qui an tè mente conceperunt,fimulatq nomi nari audiút,perfacilè accipiút,perinde ut liquidà Comico appolice di& ú eft. Hæc eſt fere uulgi de differentia bo norum opinatio:alioquin enim haud co peruentum eſſet, ut uera bona auer ſarent,diuitiarū aút, voluptatis aut glo riæ métionéita admitterét, utſcitè ato urbanè dicta.Progredere ergò,acinter roga,(intne in honore habendaet in bo nis ducenda hæc, quæ fi animo tuoima ginatus fueris,aptè quis dicere poſsit, cum quiiſta poſsideat,propterhác co piam ncubi quidem cacec habere. Ex forma & materia conſto: ho. rum uerò neutrum in nihil uertetur, ut neque ex nihilo extitit. Ergo om nis mci pars permutationem redigetur in aliquam mundi partem, atqhæcrur fus in aliam uniuerli portioné tranſibir, ido ad infinitum uſ. Huiufmodi auté mutatione & ipfe extici, & parétes mei, ide in infinitum uſo retrò eunti licet dicere:quãquam certis alioquin circui tibusmundusadminiftratur. Ratio et rationalis ars, facultates funt abiipfæ ſufficientes,fuisg operib. Progrediunturàſuo principio, acper gunt ad finem propoſitum:habent a & tiones earum à uiæ cuiinGftuntilleno men apud gręcos, utfine netoptásons:nos rectas effectiones dicere poſſumus.Ho rum nihil de homine dicipoteſt,neque enim ei conucnit, ea ratione, qua homo eft: Non hæchomo,ncgiplius natura profitetur:non eſt ca in humana natura perfectio.Proindein externis rebusnc quaquam erit finis homini cóftitutus, nepid bonum, quod finem illumabfol uit:Alioquin hominis partes non fuif ſét,ut eosdeſpiceret,nem laudedignus, quiſeita parat,utillis non indigeat:no que qui illis rebus abſtinct, bonus dici mercrctur, fiquidem cæ bona ellent Nunc uerò tanto quiſ melioreſt, quá to magisſeipſum ab illis rebusabſtinet. Talis erit intellectus tuus, qualia ſunt ca,de quibus ſubinde cogitas: nam à ui bis fcu cogitationibus illis animus im buitur.Inficeigitur eum adliduitatehu iuſmodi cogitationum, qualesſunt:ubi cunqueuiuere,ibietiam bene uiuere li cet:uiuere autem licet in aula, ergo etiã bene uïvere licet in aula. ltem alicuius rei caufa fingula ſunt facta cui ucrò gra tia unúquodgfa & ú eft,adid fert, ado aút fert in eo finis eius é poſitus: ubi ue ro finis,ibi ét bonú unicuiq. Ergo finis animanti ratione prędito ppolituseft, focictas, natos cnim nos effe ad eājiam pridem eft demonſtratum. An uerò non euidens eſt, deteriora præstantiorum, rurſumýex his unum alterius caufa esse. Præftantuerò inani mis animata,atq inter hæcipfa, ca quæ rationem habent. Ioſani eſt,ſectari impoſsibilia. At fic ri non poteft,quinmaliſuomore agāt. Nihil cuiquam accidit,nifi ita Natu rá deſtinarit. Id quod alius iniquè fert, e  bas wal wide ولا bus alteri accidit, qui fiue ignorationc cius caſus,ſineut magnanimitatem oftédat, cóftantiā tuetur,atqillæſus manet.Ini quú cſtigitur admittere,utinſcitia et o pinio prudētiäſupent. Etenim res ipfæ animúnequaqattingunt, non intrātad eu,ncg mouere, ncq uertere poffunt. Solusipſe ſeipſum ciet, ac quale iudicia umtulerit, talia ea quæ accidere, fiunt. Alia róeſumma nobis eſt necefsitu. do cũ hoíe cóftituta,quaeibenefacere, eumý ferre iubemur:cú aúcimpedire conant noſtras actiones, nó magis ad nos attinet, ộ Sol, uétus:beſtiæ. Ato hi qdé impedire effectú aliquãdo pofsint: animi uero appetitioné, & affectum no qucunt,quiahæcexceptioné habét, & conuerlionem.Ná omneid quodimpe dimento fuit effectioni,id animus ad ca quæ præcellerút,cóuertit, atßcomo do id, quod instituto operi, uiccoßinitę obftitit,ei iam confert aliquid. Id quodin múdo eft præftantiſsimū, cole. Eit aútid, qd oíbusreb.utitur,oía gubernat. Similiterid quoßhonora, q in te elt primú: nimirú illi alteri cogna tum, cesa üles DO Pe quatum,quòd & cæteris quæ in teſuntom nibus utitur, & tuam uitam regit. Quod civitati nullum affert detri mentum,idnc ciui quidé nocet. Hæcre gula recoléda tibič, quotieſcúq telæ ſum aliquâ eſſe cogitas.Sin ciuitas dam no affecta cft, ei qui ítulit,ſuccéferenó debes. Quid neglectú eft?Sæpenumero códdera, ệ celeriter oía quæ & funt & fi unt, abripiãtur & cuanefcát. Etenim & ipfęnaturę amnisinſtarin adſiduo funt fluxu, & cffectiones cótinétib.mutatio nibus obnoxiæ, & cauſarúinfinitæ ſunt uices:denią nihilferè perſiat, aut ſui fi mile durat.lā & pręteriti, & uenturiçuí infinita é, in qua oſaabolentur,uaftitas, Quî ergo ſtultitiæ nó damnet, qin hoc tā cxiguo téporis articulo ſupbit,appe tit,autmoleſtia fe affectú quiritaf. Universæ rerum naturam recordare, cuiusmini. mã parté tenes: totius zui,cui' breue & mométaneútibi éattributúſpacium:fa ti, cuius perexigua ad te portio ptinet. Peccatalius qs aduerſummc uiderit, ſuā habet affectioné, ſuum a &um. Ego in præſentia id habeo, quod me habere i t c & C a & 1 uult cómunis natura: agogid qd'age remeiubetmea natura. Pars animitui princeps neinucrtatur ullo uelleui uel alpero carnis motu, neg admittat per fuafones quçinmembrisoriuntur, Sed circumſcribatcas. Quòd fi ex ratione alterius conſenſusad intelligentiam ef ferútur,nimirum quatennsea cum cor pore copulata eft, tum quidem ſenſui, cum is a natura proficiſcatur, reluctan dum non eft: opinioniautem mali aut. boniadfentiremensnon debet. Viuendum eſt cum dijs.Vitam ucrò cum dijs agit, qui continenterijs ſuum animum oftendit probātem ea quę ipli fatum tribuit, agentemg ea quægenio placerent: quem lupiterſuæ quandam particulā naturæ unicuiæ prælidé, du coşdedit, nimirú mente atæ rationé. Neiraſcaris ei qui hircú olet, autcui aia fætet; nihil, n.ad teidcmaliredibit, Alæ iplius, & osita ſunt affecta,utne ceflc ùthæcmala conſequi, Rationc,inquis, præditus eſt homo, ac fi scrutari uclit, intelligere poteſt quainre delinquat.Benereshabet. Proinde tu, qui & ipfe præditus es ratione, mentem eiustuæ mentis motu cxcita, doce, commonefac: li enim obtempe rat tibi, fanabis eum, negira opuserit. Nonita hic uiuendú eſt tibi,ut Tra gedo autſcorto qui egrediés uiuere co gitat. Quòd li tibinon cóccditur,tunc uita excedere, ita quidé,ut qnihil mali patiatur,acfumiinitar abeat, Quid hoc rei eſſeputas? Dum uerò nihilme tale abducit,liber permaneo,neq mequif quam prohibet agere,ut uolo, uolo au. tem,ut naturæ animantis ratione predi ti, & ad certum nati conuenit, Mens quæ mundum gubernat, ſocic tatisrationcm habuit:itag & inferiora præftantiorumcaufa effecit,& pręſtan tiorum unum alteri ſubdidit. Videt, ut ſubiecerit, cóiunxerit,ac unicuiq ſecu dú dignitaté ſuú tribuerit,ea quęlunt pręſtátiſsima,mutuo cófenfu deuíxerit. Quomodo uſus es hactenus dijs, pa rentibus, fratrib. uxore, liberis, docto ribus, alumnis,amicis,familiaribus, fa mulis? an in huncuſquediem in nemi nem horrcū uerbóuefuiſti iniurius! Reminiſcere étą ſupaueris, actolc raueris: tum fabulam uitæ tibiiam pera tam,teş tuo miniſterio defunctum ef ſe. Quàm multa uidiſti pulcra? quot uo luptates quotdolores deſpexiſti? quot peruerfis hominib. æquúte præbuiſti? Quamobré animi artis & diſciplinæ uacuiarte & fcientia præditum confun dunt? quem uerò animum arte & ſcien tia præditum uocas?cum,qui principi um & finem cognoſcet,et mentem, quç per uniuerfam rerum natură penetrat, acper omnes fæculorum curſus defini tos atq; ftatosmundum gubernat. lãiá cinis eris, &oſſa nuda, nihil öter nomé(liquidéid ſupererit) tui reſtabit. Noméautnihil eftõſonitus. Atea quæ magniin uita precij habent,uana ſunt, putrida, cxigua, atą inſtar catellorum mordicantiŭ, aut pucrorü inquietorů, quimodò rident,mox plorant. Cæterű fides,pudor,iufticia, & ueritas. Climatib. tcrræ cæld petiere relictis. Quid ergò reſtat, te hîc detineat? fen Gliane tam fluxa, torý mutationib. cxpofita?an ſenſus, obſcuri, & qui facilè decipiantur?animula ipſa, quæ cft ex halatio à ſanguine? gloria inter huiuf modi homines, inanis illa? Quid ergo aliud operiris,niſiuelextinctionem,uel translationem,idý æquo animo?Quid interim dum eam occafio adducit,tibi fuffi ciet? Quid aliud, quàm deos uene rari &collaudare,hominibus beneface re,eos &ferre, & ijs abftinere:quæ cx tra tuæ carunculæ & animulæ ſunt po fata fines,ea meminiſſenex poſſeſsióis, nco poteſtatis tuæ eſſe? Semper potcs uti ſecundisſucceſsibus, Gredtæ uiæ in Giſtere uis,duo hæc obferuare, quæ di uinæ menti communia funtcum homi nis, omnisg ratione præditi aſalis ani mo: unum, non poſle te ab alio impedi ri:alterum,iniuſta uoluntate & actione | bonum eſſe collocatum, cumý ad fino efle appetitionesdirigendas: Si hocneg mca fitmalicia,ncqactio eſtàmeaproficiſcensmalicia:nequcco munitatidāno eſt, quid folicitus deco ſum?querò dānúě cómunis focictatis? Non debemus nos cogitationib.om ninoabripiédos præbere, fed opitulari quátum eius fieri poteſt, & dignum eſt, etiam li in medio lit defectus:ncqueid pro damno ducere.ca enim cófuetudo mala eſt. Sed quemadmodū ſenex di ſcedens rhombum alumni poſcebat, memorrhombú cffc.ita etiam hic: quo niam bonú aliquid fiatin roſtris. Heus homo,oblitus es, adhæc lint? lanè: Sed ca,in quibushiſtudiú ponát.Propterea tu quoqs ſtultus es fa & us? Aliquando uteung relictus,factusſum felix. Felici tas auteſt, utbonam tibiipfifortem uendices: id eft,boni motus ani mi,bonæ appetitiones,bonæ actiones. Aturauniuerfi ſuo guberna tori obedies eft, acbene có polita: quæ uerò cam guber nat mens,nulláin ſeipſa ha betmalè agendicauſam: quippenihilei ineft uitij,nc peccat,nc ab ea quic quam læditur: omnia uerò fecundum cam fiuntatßperficiuntur. Nullo ponein diſcrimine,algenſne, an calens, dormiturićsan ſomni fatur, malian benè audiens,moriens an aliud quid agens id facias, quod te decet: quando mors etiã una eft carum a & tio num, quæ ad uitam referuntur. Sufficit igitur ea etiam imminente, id quodin ſtat,benè collocare. Intrò refpice.Nullius rei nequepro pria qualitas,neqid quod cidebetur, te fallat. Omnia quæſubiccta ſunt,celerrimè mutantur, & autin halitum refoluun tur, fiquidem fit compacta corum ſub ftantia,aut diſsipantur. Mens uniuerli gubernatrixſcit quó ſe habeat, quid agat, & quá habeatma teriam ſubiectam. Vlcilcédi ratio optima eſt,ne ſimilis fias cius, qui iniuriam fecit. Unohocte oblecta, inguno hocac. Quieſce, ut ab una ſocietatis humanæ tuendęcauſa ſuſcepta actione,ad aliam tranfeas, dei memor. Princeps hominis pars eſt ea, quæſe ipfam excitat atą cict, feğz talem, qualem vult,efficit,præſtatý ut ea quæ eue niunt talia, qualiaipſa uult, fibi uidean tur. 04 Omnia fecundú naturā uniuerG fiúc: negenim poſſunt fieri fecundú ali ali quam,ſiue extrinfecus circumdantem, fiue incluſam,fiue foris ſuſpenſam. Vniuerſum aut confufio quædam eſt, & cótextus fortuitus rerum iterum àſé diuellendarum & diſsipandarú: aut unitionc ordine, & prudétia conſtat. Si prius illud uerum eſt, quid eft,curcu pia inani huic colluuiei & mixeuræim. morari? quid aliud expetendum,quàm ut in terram utcungredigar? quid per turbor?quicquid egero,tamen difsipa tio mc corripiet. Sin altero mó res ha bet, uencroreú, animoſ conftári ſum, & gubernantimundum confido. Cum te rerum præſentium ſtatus nó nihil perturbat,celeriterad teredi,neg ultràquàm neceſſe é, à modoeius quá inftituiſti cantilenæ difcede. Nam co fa cilius harmoniam tueberis, ſi continen ter ad eam reuertaris. Sitibi Amul &nouerca, & mater effet, illam quidem coleres, &tamen crebrò ad matrem te recipercs. Eadem eſtribi ratio aulę & PHILOSOPHIæ. Quarc ad hanc sæpe numero revertere, & in hacac quiefce, quæ efficit,ut &res aulicæ tibi tolerabiles uidcantur, & tu duminijs ucrſaris,ferri queas. Quid cogitandum est de cibis & id genus rebus? hoc eſſe piſcis ca dauer, illud auis, aut porci: item Fa lernum, ſuccum eflc exiguum uuulz purpuram capillos elle ouiculæ, modi. co teſtudinis fanguine imbutos: tum coitum,inteſtini parui affrictioné, mu ciğ excretionem non fine cóuulấone. Cogitationes hæ præclarę ſunt: nam ré ipfam attingunt,acpertranſeüt, ut qua lis cafit,cerni poſsit.His per omnem ui tam utendum eft:aclicubiresquàmma ximè uidetur comprobatu digna,tegu mentis cſt nudanda, ut & eius in cófpe dum ueniat uilitas,& id,quo fe oftenta bat, ei adimai. Etenim fucus impoſtor eſt callidiſsimus,ac tummaximèin frau dem inducit,cum quis maximèfe res ſe rias & dignas tractare putat. Videigit, quid de Xenocrate ipſo Crates dicat: Pleraq, inquit,corum, quæ uulgus ad miratur, fi fub habitu aunatura conti nerent, ad latiſsimè patentia genera ré uocabat,utlapides,ut ligna,ficus, uites, oleas.Quęſubarctiorib.aliquanto, ad animata,utgreges,arméta.Si qua paulò plº haberćt gratiæ,hęcad eareducebac a cópræhédútur fub ala róe prędita,nó quidé uniuerſali,ſed quatenus artes tra ctat, aut alias facultates: aut ipſa per fc. au L fcæſtimabat, ut:quidnam cſſct,poſside remultamancipia.Qui uerò animūra •• tione præditum cû omnibus ſuis facul tatibus,ciuilis coetus ſtudio uenerat, reliquarum is rerum nullam curat. Sed omnibus poſtpoſitisſuum animum ita affectum,atgita fe mouentem, ut ratio ni & ciuili ſocietati cögruit,conſeruat: ijs quiſunt eiufdem generis, utiden præftent,auxilio eſt. Quædam iam fiút, quædā mox exiſtent, quin &cius quod fic, pars iam nuncaliqua euanuit. flu xus, & alterationes continenter mundű renouất: quemadmodum infinitum æ uum temporis adſiduolapſu nouü ſub indereddit.In hocita @ flumine quifná ca quæ præterferút, ac quibusinfiftere nonpoſsit, honore aliquo dignetur?is quidem perinde lit,acli quis unum de præteruolátibus paſſerculis diligerein cipiat,atisiamè conſpectu cius abica rit.Itafe & uita uniufcuiufque hominis habet,ut halitus a fanguine ſublatus,& aër inſpiratus. Quale.n.eft quod femel animāattrahimus, & efflamus,id quod identidemfacimus,tale ctiam eſt, quòd f ac ad all a. ba omnem reſpirádi facultatem, quam hc ri aut nudius tertius nati accepimus, eò reddimus unde accepimus.Quod uege tamurmoreſtirpium,reſpiramusmore pecudú, & ferarú, quòduitsafficimur, quòd appetitionis cauſa mouemur, q congregamur, quòd nutrimur,omnia hæcnonmaioriſunt in pretio ponéda, quàm quòd excernimus cibirecremé ta. Quid igitur honore dignü est? num plauſus?nequaquá. Ergo nelaus quidé populi,quænihil eft aliud quãplauſus 1 nguarú.Sublata igit etiâ gloriola, quid reſtat, quod ſuſpiciamus & ueneremur? Equidéhoccenſeo, ut quemadmodú fa ciiinſtructiś à natura fumus,ita mouca mur.Eò nos etiam diligentia opificum, &artes ducût. Ois.n. ars huc collimat, utid quod paratú eft,aptü fit & idoneu adopus, cuius operis cauſa paratú eft. Idé querit uinitor,idé qui pullos equo rum domat,idé qui canes educat. Ergo &inſtitutio primęætatis & doctrina co contédunt:isý finiseſt,quem expetere debeas. Húc córecutus,nihileft in alijs rebus quod ſis tibi quæliturus. Quòd fi pergas ES pergas alia eciã expetere, nec liber cris, neg tibi ſufficies ipſe, negeris affectuú uacuus:neceſſariò.n.inuidebis,æmula beris,liniſtra ſuſpicaberisdehis, quiilla tibi adimere poſsúc,infidiaberis ijs, qui? id quodmagni fit à tepoſsidét.Oino.n. necesse est cu esse aio pturbato, qiſta de fiderat:fępe etiá deos incufare. Quiuc rò mente ſuam reuereturato colitis & fibi ip, probabitur, & cum cætu homi num bencei conueniet, cúmque dijs conſentier,id eft,laudabit quæcunque ij diftribuunt & ordinauerunt. Infrà, ſuper, atque circum te motus ſunt elc métorum. Motus uerò uirtutisin eorú nullo eft,fed diuiniore quadá, & adin telligendum difficili'uia procedit. Vide quid aganthomines. Eos qui eodem cú iplis uiuúttépore, laudare nolūt:ipfi uerò à pofteritate laudari magnü exiſti mant:nimirúabijs quos ne uiderunt, neq uidebūtunqua.Id uerò haud mul tò aliud eft, quàm ſi dolerét, non à prio ris etiá ætatishominib. felaudatos esse. Non, li quid allegintelligétia tua neqs, id daullopoile apprehendi homine exiſti 0 co ert as f 2ti ma: Sed quicquid homo poreft, quic quid ei conuenit, id & tibiconcediiu dica.ln palæſtra fi quis unguibus aduer farium laniauit,autcapiteincuſſo ferijt, nonindignamur, ncq;offendinjur,nco inſidiarum fufpectum habemus: caue mus quidem nobis abeo,non ut abho ſte, ncquc Gniſtrum quid de eo ſuſpica mur,tantùm placidè cum declinamus. Id fieri debetetiam in reliquis uitæ partibus, ucidem de alijsſentianus, quod de ijs, cum quibus collucamur:poflu muscnim (utdixi) citra fufpitionem & odiűabijscauere, & cosuitace. Si quis meredarguere poteft, & demonftrare, quòdnon recte ſentiam,aut agam,læto animo fentétiam mutabo:ucritatem.n. quæro, quæ nemini unquam dáno fuit; damnum autem facit,quiin crrorc & i gnorationcſua pmanct. Ego, quodcft mci officij, ago, cætera menonauellúc. Autenim anima,autrationc carent,aut uiæ ignara errant. Animantia rationis expertia,tú omnes ciuſmodi res & fub. iccta,magno & liberali animo ſunt ufur panda tibi,ncmpcrationeprædito. Hominibus uerò, ut ipſis quogmentcin ſtructis rationeſocietatis habita utere. Inomdisciònegocio deos comproca rc:neos ſolicitusefto,quantum tempo ris fpatium tibi adagendum detur:fuffi ciúteoim ucitres huiuſmodi horæ. Ale xander Macedo,agaloß eius, mortui in idem ſuptredacti: autenim aſſumpti ſunt ad mentēmundicam, qua fati ſunt reliquorum animi, aut diſsipati ſuntin atomos, unus perinde atgalter. Cum animo tuo conlidera,quàm multa uni co temporis momento fiantin uniuſcu iuſ @ noftrûm,cùm animo, tum corpo re:ita fict,utnó mireris, quòdlógè plu ra, imò uerò omnia quæ in mundohoc fiunt,fimul extent. Si quis à te quærat, quomodo fitnomen Antoniniſcriben dum: nónne fingulatim omnes literas proferres? Quid ergo fi qui iraſcuntur, num uiciſsim tu quoque ſtomachabc ris?nó potius numerum inibis placidè; Ingularum rerú? Itac ctiam hîçmemé to luis omnc officium quibuſdam con ſtare numeris: quos li imperturbatos ſeruaueris, ncq indignatibus alijs ipfo com Spro MIUS. quog indigneris,recta uiaid quod pro pofuifti,perficies. Inhumanum effe ui detur,hominem impedire, ne ad ea fera turquæ ei utilia & cognata uidetur. At quiid tu ne faciant prohibes quodam modo,dūiniquo animo fers cos delin quere.Ferútur enim utiqueadid, quod naturæ fuæ coniunctum, & utile putāt. Sed res nó ita habet. IditaB oftéde eis, & & doce citra indignationé.Morsfinem imponit ſenſuum motus, & cogitation num officijs,animúģàcorporismini- situ ſterio liberat. Turpe aút eft in hac uita, in qua corpus tuũlabori nỏ fuccubit animú tuú elāgueſcere.Videne à pręfé tiſtatu deiectus obruaris. Poteft.n.hoc fieri.Itaq; cóferua teipfum Gmplice, bo ne núintegrū,graué,apertū,iuſtitiæ ſtudio fum,piúerga deos, benignú, humanú, ad officiunituendúforté,annitere utta lite lispermaneas, qualetefacere uoluit phi c loſophia.ucnerare dcos,ſalaté homini busaffer. Breue eſt uitæ in terra degen dæ tempus,omniſg eius fructus, ſancta animi conftitatio, & actiones commu- beri pitati hominum utiles.Omniautdecet Anto SE maig Sophie Antonini diſcipulum.age. Quæ fuerit eius in agendo fecundum rationem fir mitas, quæ ubiqueæqualitas, quæ ſan ctitas, memento: quæ uultusferenitas, accomitas. Quantus ille gloriæ con temptor, quod eius in percipičdis reb. ſtudium, quum nihil prętermitteret,ni fi prius accuratèperſpexiſſet,ac cogno uiffet.Vt tulerit iniuftè ipfum repræhé. dentes, neque conuitium his repoſuc rit:ut nihilproperatè aut cupidèaggrel fus fit: ut calumnias nó admiſerit, ut di ligens fueritmorum actionúmque exa minator:non obtrectator,conmeticu loſus, non ſufpitioſus, non fophifta. Quàm paucisfuerit contentus, ut do moleco, ueſte, cibo,famulatu:quàm tolerans laborum,quàm lenianimo: ut tempusnequeadueſperam propter ui ctustenuitaté egerit,ita ut neexcernere niſi coſueta hora opus ei effet.Queeius in amicitia fuerit conftantia, &æqua bilitas: quomodo tulerit cos, qui ipfius fententia liberè impugnarent,gauilulý fuerit,fi quis melius aliquid oſtêderet. Qua ille deos religione coluerit citra ſuperſtitionem,recordare, ut iibi quo quc ultima hora perinde atque is fuit re ¿ te tibi coſcio adueniat. Expergiſcere, & tcipſumreuocafomnog diſcuſſo co gitans quæ te inſomnia perturbarint,ui gilās ea intuere,utilla inſpexiſti, Ex cor pufculo & anima con to. Corpuſculo nihilintereſt interres, neque enim po teft difcrimen ftatucre. Rationiautem inter ca diſcrimen habetur, quæ nóſunt ipfius actiones: has uerò oés in ſua ha bet poteſtate. Quod ipſum tantùm eſt de præſentibusaccipiendum,præteritę enim & futurę animi actiones,ipſe quo que nullum habentiam diſcrimen.Ma nuiacpedi,dum ſuum agunt officium, nullus eſtpræter naturam labor.ita ho mini quoqueea agenti quæ ipfius ſunt partium, nullus eſt præter naturam la bor:ergo nę malum quidé.Quotuolua ptatibus,acquantis frui contigit latro nibus, cinædis, parricidis, tyrannis? Nonnc uidos ut qui ſordidas profiten. tur artes, uſque ad certum finem ſe pri uatis hominibus accómodent? nihilom minus tamčſuæ artis rationcm retinét, nab ea decedere uolunt. Nónne aútturpeft, fi architectus &medicus magis lux artis rationé reuercatur,quá ſuam homo, quæ quidé ei eſt cum deo communis? Aga& Europa, anguli ſunt mandi: uniuerſum mare, guttamundi: Athos, glebula mundi: omne inſtans tempus,púctum cſt æternitatis. Omnia funtparua,mobilia,interituiobiecta: 0 mnia inde ueniunt, profecta à principe uniuerfi,aut per conſequétiam. Etenim rictus lconis, lethalia uenena, omniaos maleficia,ut ſpina, cænú, pulcrarum & bonarum rerum ſunt additaméta, Non igitur ea aliena ab eo quod colisimagi nare,ſed fontem omnium rerum confi dera. Qui preſentia cernit,omnia uidit, quæ ab æterno fuerunt, & in infinitum uſg erunt, Omnia enim ſunt eiuſdem generis, & conformia.Sæpenumero co gita de omnium in hoc universorerum connexu, mutuag affectionc, Quodá cnim modo omnia inuicem ſunt impli cata,ca ratione amica mutuò. Aliud enim ex alio confequitur,propter con fantem motum, ac conſpirationem & fs unitionem (ut ita dicam )ſubeſſe. Quib. negotijs addictus es ſorte tua, his teac commoda: & quibus tehominib.fatū adiûxit, cos amore,idig uero,proſeque re.Organa, inſtrumenta, uaſa, quumid agunt,cuius gratia funt adornata, bene habent et quidéis qui ea parauit, abeſt abipfis.At in his quæ natura continen tur,remanet, intuſý eſt uis ea paratrix. Ita tanto magis honoranda eſt, &exi ftimandū, li ſecundum cius uoluntatem agere perſeueres, oía tibifecundum mé tem eſſe:idéo de alijs hoíbus oíbusin tellige. Quodcu exijsreb.quæ extra te,negin tua uolútate ſunt pofitæ,tibi Ppofueris,boniuel malinoie, id, fi uel utmalú tibi cótingat, uelfi, cú pbono ducas,adipiſcinon poſsis, efficiet ut & deos incufes, & odio habeas homines quiin cauſa ſūt,aut eo certe noíe ſuſpe cti habét, g uelmalú hochabeas,uelbo no careas.Propterhác rerú differentia, quam ipfi ftatuimus, fituc multa pecce mus. Quod fi ſola ea, quæ in nobis ſunt pofita,bona&mala tractaremus,nihil cauſęreſtaret,ne aut Deú incufaremus, aut cú hoíbusinimicitias ſuſciperemus. Oés ad eúde finé & effectú agimus: pars ſciétes, & certo ordine,pars inſcij. Qué admodú & dormiétes.Heracletus nifal 1 lor dixit eſſe operarios,qui adiuuétlua opera hæc quæ in múdo fiút. Alius aút alia róneid opus adiuuat:ſupuacanea opera eft eius qrephédit, & reniticonat ijs quæ fiút, ea reſcīdere:nā & hocuti tur múdus. Proide animum aduerte, in quorú tute numero reputes. Nã admi niſtratorhuius uniuerd, utiq tePombare &è, & accipiet te inter cooperarios.Tu vero ne ſis huiuſmodieorú pars, qualis eſtinfabula uilis ille et ridiculus versus, cuius mentioné Chrysippus facit. Sólne pluuiæ munia obire cupit,aut Aeſcula pius terræ frugé ferētis? Quid ucròfyde ra, anno diuerſa quidélingulis eſt actio, quętnadcómune opus cóferat?Quod fide me & his quęmihieuenire debue rút, dij cófultauerüt, rectè nimirú mihi confuluerút. Nam Deum fine confilio agentemnc cogitarequidem facile est: quæautem fuiſſet cauſa, propter quam malè mibi confultum uoluiſſet? Quid inde ad deos, & ad uniuerſum (cuius maximè habentróné fru & usredijſſet? Sin de me priuato nihil conſultauerüt, ac deuniuerſo utigrationes duxerunt, ex quo quum ea conſequutur que mihi cueniunt,non debet mc eoruinpcenite re.Sanède nulla re eos confilium inire, impiū eſt credere: autneſacrificãdum, neprecandum,neiurandum quidé, ne que quicquam corum faciendum,quæ fingula tanquam cum preſentibus & u nà uiuentibusdijs agimus. Sed tamen fi nihil illi de nobis ftatuerüt,licet mihi dcmeipfo cóGliú capere, ac demea uti litate deliberare. Vtile aút eſt unicuig id, quod eſt naturæ eius & conſtructio ni cófentaneú. Atnatura mea rationis eft cópos, & ciuili cætui accommodata. Civitas mihi est et patria,quatenus quidem ANTONINUS SUM, ROMA. Quate nushomo,mūdus:hçcigit tantùm mihi funt utilia, quæ his ciuitatibus condu cunt. Quælingulis cucniút,ca profunt uniuerſo: id eratfatis ſcire. Sed &hoc addendum, quòd fi animaduertere uc lis,ubig uidebis: quæ homini, autalijs hominibus * Sed nuncuocabulumu tilis accipiamus latius, ut etiam medijs rebus pateat.. Quæ in theatro aut fimili bus locis uides,ca quum ſemper eadem ſpectentur, & uniformia, fpe & aculiſa tictatem afferunt. Idctiam de tota uita ſentiendum. Omnia enim fuperiora & inferiora eadem funt et exijſdem cauſis excitcrunt.quouſ igitur?Adliduooís generis homines conlidera, qui ex om nis generis profeſsionibus & nationi busmortuiſunt:ita ut ctiam ufque ad Philiſtioncm, Phoebum et Origanio nem deſcendas. Hic fanè cogitandum, idem euenturú nobis,quodaccidit tot cloquentibusoratoribus,totgrauibus philosophis: HERACLETO, PYTHAGORæ, SOCRATI, tot Heroibus prius,deinde tot du cibus, tyrannis: tum Eudoxo,Hippar cho, Archimedi, alijs acutis ingenijs, magnanimis,laborioſis, callidis, contu macibus,his ipfis,qui caducam hanc & & in dies durantcm uitam hominūſub ſannarút,utMenippo &fimilibus.Hos omnes cogitandum eft dudú eſfemor tuos:quid auté maliinde habent?Quid hi, quorumne extant quidem nomina? Vnumhocſummi cſt pretij, ueritate iuſtitia feruata,mendacib. & iniurijsho minibus placidú uiuere. Cùm teipfum oblectare uis, cogita virtutes corú qui uiuunttecum: ftrenuitatem eius, illius uerecundiam, aut liberalitaté, aut aliud quippiam. Nihil enim eſt,quòd tantam afferatlætitiam, quantam limilitudines uirtutum in eorum quibuſcú uiuimus moribus expreſſæ,ac fefe cófertim offe rentes cófpectui.itaqz in promtu haben dæ.Noniniquè fers, tot libras te appen dere, &non trecentas: ita etiã quòdan norum certum, & conon maiorem ui ues numerum, indignari non debes.Etc nim ut corporis tanram, quanta cibi eſt tributa,portionem probas: ita &de té pore tibi ſentiendum eft. Annitendum eft nobis, ut perſuadeamusijs cum qui bus agimus: lin minus, etiam illis inuitis id agendú eft,quod iuftitiæ ratio iubet. Quod li quis ui te impediat,tranfi adę quanimitatem, eo impediméto ad al terius uirtutis opusabutere:memor, tc cú exceptione quadaíftituere actioné, negca appeterc,quęfieri nequeat.Itaq is füitimpetus animi tui, cui ſatiſfiat, ii id, cuius caufa citatuses, cóſequat. Glo rięcupidus, alienā actioné pluo bono reputat.uoluptuarius affectioné,quai ple afficit:méte uerò pręditus, ſuã actio né.Licet etiá nihil de hisexiſtimare.ipſe.n.res nó funt eius naturæ, ut iudiciú no ſtrúefaciat. Adſuefac te, ut alio docéte cogitationes nó aliò diuertas,fed totus animo diceris fisintétus. Quodalucari nó pdeſt,id ncapiquidé pdeſt. Sinau tæ malè gubernét, aut no rectè curétur ægroti,dicúr:alius erat quærendus,cui mecómitterē: aut quo hic faluté naui gātib. uelægrotis ſanitaté afferet? Quá multiiam unà cũhis, quibuſcúin mun dum uenerüt, ex múdo exceſſerút?Mor bo regio laboratib.melamarú uidetur: morfis àrabida beſtia, aqua eft timori: pueris fphęrula pulcra cft. Quid ergo i raſcor? aut tibi minor uis uidetur elle fal Gitatis, q bilis apudictericũ, aut ueneni apud morſum à rabioſo animali.Nemo prohibebit, quin fecundú rationé tuæ naturęuiuas:nec tibi quicqua accidet, quod fit cótrarónéuniuerg.Qualcsfút illi, quibus cupimus placere, aut ppter qd, g cis ſuperlis,autper quasactiones? quàm celeriter æuum omnia abſcon. dat: imò quàm multa iam nunc occultauit? eſtmalicia?id, quod iệpenumero uidiſti.Et quic quid omnino acciderit, ex peditin promptu te habere hanc rcgula, ſæpeid effe à te uifum. Om nino fi ſuperiora &inferiora animore petas,inuenies omnia cadem eſſe, quo rum plenæ sunt priscæ,mediæ, recéteró hiſtoriæ,& urbes, & domus:nihilnouú eft,omnia uſitata & breui durātia tem pore.Neque uerò alia ratione extingui poſluntopiniones, quàm cogitacioni bus quæ ijs respondent, abolitis: quas quidem ut continéter reſuſcites, in tua cft pofitum poteſtate. Poſſum de re oblata exiſtimare, id quod oportet: li hoc poflum, quid eſt cur animo pertur ber?Quæ ſuntextra mentem meam, ni hil omnino ad cam attinét. Hoc modo affectus,rectus eris. Reviviscere potes: nam fi res quas antè uidiſti, rursus apud animum tuum contempleris, exactam uitæ partem qualirepetes. Inane pompa ſtudium, fabulæ ſceöi tægreges,armenta,uelitationcs,oſsicu lumcatello proiectum,auteſca in piſci nám iniecta,formicarūlaborcs,& one: rum geſtationes,murium perterritorü diſcurſus, Gimulacra ncruis tracta ut le moucát. In his igit oportetanimo pla cido, &non elato confiftere, & intelli gere,tanto unumquem dignum eſſe, quâto ea in quibus ftudium fuú is po ſuit. In oratione ſingula uerba, inijs quæ fiunt, lingulęappetitiones ſuntant maduertendę: ato hic ftatim uiden dú,quam ad finem cæ referantur; illic quidfignificent: Sufficitne intellectus meus ad hanc rem, an ſccus? Quòd G fufficit,utoř cô ad rem propogtam tanquam inſtrume to mihiab uniuerli naturaconcello Sin g. contrà, aut eam rem alteri cuidam, qui melius id poſsit, perficiendam relin quo,præfertim fi alioquin id agere offi cium meúnó iubet:autipfe perago pro uirilimea,adſcito mihi auxiliario,cuius opera mca'mensid efficerepoſsit,quod in præſentia fitcommodum, & focieta ti hominum conducat. Quàm multi quondam fucre cele bres, quorum nunc fama eft obliuioni tradita? quàm multietiam horum, qui iſtos celebrauerunt, è medio funt fub lati?) Ne ducas tibi pudori, li cuius auxilio uſus es.Propofitúeftenim tibiid agere, quod fit tuarum partium: perinde ac militiin oppugnatione muroru. Quid ergò faceres, li tu claudicans folus con ſcendere propugnaculum nequires: ab alio adiutus,pofles? Ne te perturbent futura. Nam fi ita uſus erit, peruenies ad ea eadem inftru ctus ratione, qua nunc in præfentibus uteris. Omnia inter ſe ſunt complexa ſacro nodo és i nodo neg quicquam ab altero eſ alie ñum, ordincenim omnia certo funt dif polta, unum eundem mundum ex ornent. Mundus ex omnibus conſtat unus, unusqueper omnia diffufus est d Deus, una natura,unalex,unaratio cô munis omnibus ratione præditis ani mantibus, una ucritas:Siquidem etuna eſt perfectio eorum quę eiuſdem funt ni generis, eiufdemó participia rationis ui animantium.. Omneid quodmateria conſtat, ce lerrimè in uniuerlo abolei: omois cau io fa, celerrimè in rationem uniuerfi adlus mitur:omnium rerum memoria quàm 20 primùm æuoconfunditur. id Ratione prædito animali cadem a. EEtio & fecundum naturam eſt, & fccun dum rationcm. Rectus,an qui erigatur? Quam ra. Itationem in unitis & compactis corpori bus habent membra, eatn obtinent ra tione prædita animalia in diullia, præ parata ad unam quandam actionem. Hæc cò magis animum tuum tanget, ſi crebro tibiipfi dicas: pars fum cius, quodeſtex ratione præditis conflatū, corporis:Si autem propter elementum R.dicas te eſfc partem, nondum ex ani mo diligis homines, nondum ex bene ficentia delectationcm capis, quam ue rè apprehendat animustuus,adhucde cori tantùm cauſa ita agis, non ut in te ipfumbeneficium conferens. Sanèalijsquęcun & accidant,corum eft, fi uelint, ca culparc.Ego quidem re bus mihi contingentibus, niſi in malis eas ducam, nihillædor:& licet mihi ea non putaremala. Quicquid alij loquantur & faciant, mc quidem oportet ellebonum:haud aliter,gliaurū uel ſmaragdus,uelI pur pura ſemperita diceret, quicquid alij dicant, aut faciant, ſmaragdum eſſe o. portet,me colorem ſeruare mcum. Mensipſa ſeipſam nó perturbat,hoc cſt,non afert fibiipfiullam cupiditaté autmctum.Si quid aliud eſt, quod pof fit cam terrere aut dolorem afferre, fa ciat ſanè: ipſa quidé per ſenulla opinio. nc libihosmotus affert. Corpuſculum ucrò uerò ipſum curet, ne quid patiatur dis cato, ſi quid patitur.Animonullus me tus dolor,aut opinio horum accidere pót.negem ci ſunthabitusad hęc. Per le omnimetu mcns uacat, niſ feipfam deftituat:ita &perturbationis, & im pedimenti exors. Felicitas eft bonus dæmo, ſeu bonü. Quid igiturtu hic agis phantafia? ubi, unde ueniſti, non enim te opushabeo. Sed uenifti fecundum priftinam con fuetudinem: non tibiſüccéſco, faltem abi, Siquis mutationem timct,is cogitet able ea nihil fieri poffe, ncque eſte ca quicquam naturæ uniuerli amicius.An tu lauare poffes, nifi ligna mutarentur? aut ali,nifi nutrimétomutato?autquid nam aliud utile poteft abf mutationc fieri?Non ergo uides etiam tuimutatio nem carum limilem eſſe,ac perinde nc ceffariam uniucrü naturæ. Per uniuer ſam naturam:tanquam per torrcntem, tranfeunt omnia corpora,uniuerſo ipa cognata, & eius opcrum adiutoria, uti et nostra invicem luntmembra. Quot Chrysippos, Socrates et Epictetos xuí iamn deglutijt. Idem de omnire & homi ne tibiad animum accidet. Vnum hocmeſolicitumtenet,ne ad faciam, quodhominis conſtitutio aut nolit factum,aut alio modo, uel tempo re factum velit. Propediem erit, ut et tu omnium re rum obliviſcaris,& nulla Gtuſquam tui memoria. Proprium hominieſt,ut etiam cos di Jigat,qui peccant. Fiethocl in menté tibi ueniat, elle cos tibi cognatos, im prudétia, & inuitos peccare,paulò pòſt & te, & illum qui peccauit,moriturum; idý potiſsimum,nó lælum te ab co.no enim eius peccato tua mens deterior, quàm fuerat,facta eſt, Natura mundi, ex uniuerſitatetaną ècera modò equum finxit,moxco con fuſo, materia iſta ad fabricam arboris ulacſt,deinde ad homunculi, inde ada. liarum rerum.Harum ſingulæ quá bre uiísimo duraruntſpacio. Atquiarcula utlicompingatur,nihil eftmali:ita neli diffoluatur quidé. Irati uultus oío eft cótra natyrä,quádo fæpius immoriedi fit prętextus,aut ad extremú extinctus eſt,ut oſo inflammarinópotuerit.Hoc ipfo intelligere labora, irá à ratione effe alienam. Nam fi etiã ſenſus peccati nul lus erit, quæ erit uiuendi cauſa? Quæcung uides, ea iam iam à guber natrice mundi natura in alias, rurſuso & deinceps in alias mutabit formas:ut femper recens fit mundus. Si quís aliquid contra te deliquerit, ftatim cogita quánam boni uel malio pinionc pcccauerit:id.n.fi cernas, miſc reberis eius,acneobmiraberis,neq ira fceris.Nam autipſeidé,quodis,bonum putas, aut aliud quidda eiuſdé generis: venia ergo danda: Sin tu secus de bonis et malis iudicas, cò placabilioreris ei qui falsus. Non deijs quæ abſunt, tanquam de præfentibus cogitandum eſt:fed præſentium ea quæ ſunt aptiſsi ma, deligenda funt,illorumg caulame moria repetendū,quánam rõefuiſſenç quærenda fiquidem abfuiffent.Caueta men præſentia adeò probes, ut etiam in honore ca habeas,ac fi quãdo abſint,p turberis.Intra teipſum uertere. Hæceſt natura mentis,utiuſtè agens, in hocg acquieſcés,nihil extra fe quærat, Aufer uiſå inhibemotum ncruorú, cir cunſcribe inſtans tempus,cognoſceid quod uclţibi,uel alij accidat, diuide fubiectum in materiam &formam, co. gita de poſtrema hora, Quod peccatú eſt, ibi ceſſat, ubi pec cațum ſubliſtit, Intendenduseſtanimus ijs quæ dicuntur,mente penetrandum in causas et effectus, Exorna teipfum fimplicitate& uere cúdia, coś, ut quæ ſunt medio inter uir tutem & uitium loco, in nullo ponas di fcrįmịne, Diligehumanum genus, obſe quereDeq:is enim aitomnia fieri certa lege. Quod fi diuina ſunt etiam elemen ta. Sațiseſt meminiſſę,hæc omnia certa lege conſtare,aut admodú paucaſecus, Mors é auţ diſsipatio,qui indiuidua rum particularum ſecretio,aut exinani tia,autextinctio, aut migratio, Dolorli fitintolerabilis, mortem af, fert:diuturnus ferri poteſt,interimga. nimus ſuam retinet tranquillitatem,ne que fit deterior. At partes dolorç con fectæ, ipsæ quæratur,fiquidem poflunt. Honinum opiniones de gloria intue cil re, quales Gint, quid propolitụm habc cidant,quid fugiant, Lide Viß in littore maris arenæ cumuli Co- alij ſuperaliosappulg,prioresoccultát, įta in uita quo priora à ſubſequenti bus celeriter abſconduntur. Platonicũ.Quiigituranimocſt præ unditus alto et cognitioné habet omnis temporis, omnisg naturæ,an tu cúpu er tas exiſtimarç, quòd hominis uita ma - gnum ſit aliquid?Nequaquam,reſpon sc ditille. Ergo,inquam nemortem qui B: dem in malisille reputabit? Minimè Era uerò, Antiſthenicum,Regium eftmalè au dire, çum bene feçeris. Turpe eſt uulta co obſequi intellectuiſco componercita uutisiubeat,cumipfeintellectusſeipſum non componatat ornet. Namrebus iraſci,nihilfanè expedit: Iram curăt enim noſtram nihil.Dijslę. tiignaris, & nobis gaudia doncs. Frugiferam uti fpicam mcæ uitæ mc tam.* At hoc quidem effe, illud nona then Lam LIK trCurl be Quod ſi dij me, libcross ncgligunt, Ratio eft & huic. Meum enim est bbene efle et iustitia. Non una lugere, Deg tremere. Platonica. Ego autem haudiniuria hoc retule. rim.Non rectè dicis, ô homo,liputas ef ſe uel uitam uel morté aliquo in diſcri mine ponendam ciuiro, qui uel alicu ius fit precij:acnon id potius unum có fiderare cum inter agendum,iuſténcan iniuftè agat, & eáne fintuiri boni anue rò fecus.Reienim ueritas, & Athenien ſes, ita habet, ut quo quis loco ſeipſum conſtituerit,exiſtimansita optimum el fe,aut cum ita Gtoptimum,cò colloca tus fuerit, ibi (mea quidem ſententia ) perGftere debeat, ac quoduis pericu lum ſubire,neg mortem, uelullam alia rem turpitudine grauioré ducere. Sed heus tu,uide,ne animimagnitudo,cibo pum aliud quidpiam ſint, quam ferua re, & feruari. Neque enim conceden dum eſt,eum reuera uirum diçimereri, qui quantocuný tempore uiuendum, acquc rationem uitæ habendamputat: Sed 1 leo sel gar, CO all 1 WC 1 ef Sed eum, qui dehis cura deo commife la, credens mulieribus, non pofle fa tum ab ullo euitari, id consderandum porrò ducat, quánam rationetempus uitæ conceſſum fibi quàm optimè exi, Curſus liderum conſiderareexpedit, quali eos comitaremur, & elementorú mutuæ mutationes crebrò cogitandæ. Hæ enim cogitationes uitæ humilis for des abſtergent. Bene eſt à Platonchoc dictum.Etiam cùm de hominibus loq. mur, intuendum est in pes terrenas. Etc nim qui memoria altius repetierit ho minú cógregationes,exercitus,agricul turas,nuptias,pacta,ortus,interitus,iu 1. diciorum turbas, uaftitates regionum, varias. Barbarorum gentes, ferias, lu dus, nundinas, in ſumma, qui colluui cm illarum, & ex contrarijs compol tum præteritorum aceruum, tantas 191 imperiorum mutationes recoluerit, is ecià futurā præuiderc poterit. Quippe et candem hæc habent cum præteritis for mam, nem alio possuptmo fieri, Itaçćç Cu alia edbo en idem eſt, quadraginta, an decies milių ſpacio annorum uitam humanam exa mines, nihil enim amplius uidebis. Exterra enim nata in terramredacta funt:quæucrògenus traxeruntcælitus, redicre ad æthercúpolü: fiuehæc quæ dissolutio complexuum, quibus ato miiunguntur, sive elementorum passio nis expertium dissipacio. Cibis, potug, & magicis adeo artibus Avertimus currum, & mortis fugi mus uiam. Flantem diuinitus auram Opus eft tolerarclaboribus, Luctu, lachrymisg calentibus. Est aliquis te peritior luctæ:quid tú? at rófocietatis humanę ſtudioſior eſt, non uerecundior, non ita commodè fert ca quæ accidunt, nó ita mitis homi num peccatis. Vbicung poteft aliquid perfici,fecun dum cómuné dijs & hominibusratio ncm, ibi nihil eftmali.Nam ubi utilita tem conſequi licet actionis, quære&a uia proccdit fecundum conſtitutioné i hominis,ibinon cft uerendum nequid fubfit tog fubfit damni. Vbig & femper in tuacſt manupofitum,ut ca quæin præfentia di biacciderunt, & approbes piè, & cúbo minibus quicccum lint,iuftè agas, &ui ſa oblata artificiofe examinesne, quid non facis perceptum admittatur. Noli aliorum mentes circumſpicere, ſed cò recta intuere, quò te natura ducit, cùm uniuerli, per ea quæ tibieueniunt,tum tua per ca quæ tibi ad agendum ſunt propoGta. Id autem unicuiq ad agen dum proponitur, quod eft eius conſti tutioni conſentaneum. Porrò ita con ſtituta ſunt & comparata fingula: reli qua quidem omnia corum cauſa, quæ mente ſunt prædita,nimirumdeteriora pręſtātiorum causa, ratione autem pro ditorum unum alterius caufa factú cft. Primas igitur inter partes ex quibus ho mo conſtat, ca pars obtinct, que fo cietatcm humanamreſpicit:alteras,ca, fibi à perſuaſionibus corporeisillo abſtinet.Rationccnim & intellectu prę ditimotusproprium eſt,ſeipſum circa ſcribere, &nco ſenſitiuæ,ncqueappe titiuçmotioniſuccumbere:harumem utrag ctiam brutorum cft. 1 qua Atintelle&iua principatum obtine re, neq ab illis regiuult:neciniuria, quig pecuius natura ferat,ut omnibus reli quis ipſa utatur. Tertiú eſt,uacuitas te meritatis & erroris. Quibus intéta pars princeps,rectà progrediat, ſuis cóiéta. Tanquam mortuo, &qui hactenus tantùm uitæ uſura fuerit cóceſſa, quod ſupereſt uiuendum tibi crit fecundum naturam,tanquam ex abundanti. Tu ſolus ca diligens, quæ tibi fatum iniunxit, contentus efto. Quid enim magis congruum, quàm ut ſingula cue niunt,ftatim cosante oculos habere, & cum eadem ipfis cucniffent, indignati ſunt,nouitatem rei mirati, &repræhen derunt ea. Vbinuncijſunt?nufquam. Quid attinet te corum fimilem effe uel le? acnon potius alijs fuum morem rc linquere, ipfein hoc effe, utrebustuis bene uraris? Idý poteris præftare, nec deeritmateria, modò animaduerte, & ftude, uttibiipliin omnibus actionib. uidearis honeftatem confecutus. Vtri ufgz uerò actionum finis recordandum cft.Intrò reſpice:intuseft fons boni,ſem per ſcaturiens,fiquidem femper fodias. Corpus conftare,acneq motu, ncg habitu diffolutum effe debet. Sicutem mens efficit, ut vultus Gt compolitus & aptus, ita detoto corpore uttale Gt annitendú eſt. Omnia hæc curandu é, ut ne oftétationis caula Gimulata fint. Vivendi ars palæſtricæ cft, quòd ſal tatoriæ fimilior,eò quòdipfa quo cu rat,utad ea quæ incidūt,neq; ancè lune præcognita,parata fit et à caſu tutum hominem feruet. Adliduò inquire, qualesij fint, quos teftimonium de te ferreuis, ac quæ co rum fint mentes.Ita nco cos qui inuo luntariè peccantculpabis,nee teſtimo nijegebis,fiinipfosfontes infpicias,un deijopinionesfuas,appetitiones hau ſerunt:Omnis animus, inquit illc, non ſua ſponte priuatur ueritatc: idem sentiendum de iustitia, temperantia, benignitate, omnibusý limilibus.Atnecef ſariū eſt quâ maxime, id te nunquã nó meminiflc:ita. n. erga oés crismitior. Dcomni dolorein própru fit tibi co gitare, cum ncg turpem efle, neqmen tégubernątricem reddere deccriorem feras. Id quog recordare,multa cú ea quippe hæcnegrationc materiæ, nem ſocietatis humanędamnum accipit. In maiori autem dolorum numero etiam Epicuri dictum prodeſt,eum ncg into lcrabilem eſſe,ncg æternum. fiquidem finium recorderis,ac non preiudicium in * dem habeantcum dolore naturam, ta men occultèmodò moleſta eſſe:ut dor miturire, eſtum ferre,nauſeare:quorum aliquod li moleftè fers, dic tibiipfi,te dolori ſuccumbere. Vide neita afficiaris contra inhuma nos, ut homines contra homines. Vnde nobis conſtat Socratem fuiffc illuſtrem et meliori conſtitutionc præ ditum? Non enim ſatis eſt eum clariori morte occubuifle,aut peritiùs cum So phiſtis diſputalic, & patientiùs in frigo re pernoctalle, & Salaminium abdu cere iuſſus,fortiter rcpugnaſſe, acíuijs maieſtatem uultus præ ſe tuliſſe,dequo maximè dubitari poteſt an uerú id fuc rit. Sed hocconſiderandum eſt, quo ani mo fuerit Socratcs,an potuerit conten tus efle, Siiuſtumfc hominibus præbe ret, ac pium erga deos, annequç teme rè ob aliorum maliciam litindignatus, nec ullius inſcitiæ ſubferuiuerit, an ni hil corum quæli uniuerſi natura attri buiſſet, tanquam peregrinū autintole rabile acceperit, nunquám ne affecti bus carnis conſentientem mentempræ buerit. Non ita confudit omnia natura,ut no liceat circúfcribere ſeipſum, & quæ ſont propria cuix, caipfum in ſua reti nere poteftatc.Admodum cnim poſsi bile eſt,ut quis diuinus uir fiat,acă ne mine cognoſcatur. Hụius ſemper me mento:atqhuius etiam, quòduita bca ta in pauciſsimis rebus eft pofita. Nog guia deſperattice Dialecticú autPhyl cum futurum,iccirco etiã liberú,pudi cum,fociabilem,deog obedientem to fieri poſſe. In maximaapimi uoluptate licețui uere, tutum ab omni ui,utcung omnes quæ uolunt contranos clamitent:etia li corporeæ huius molis membra å ferig laniétur.Quid enim obſtat,quominus intcrim meas ſeipfam conſeruet in tran hic 10 5 quillitate,uero de rebus præfentibus iudicio, & uſu corú quæ ſuntpræma. nibusexpedito: ita quidem ut iudiciú rei fubicctæ dicat: fanè cu natura tua họces,etfi aliud uideris:urg ulus dicat rei oblatæ: Ego te quærebam. Semper cnim id quod adeſt, materia mihi eſt exercendæ uirtutis rationalis & ciuilis, omninog uirtutis humanę aut diuinç. Omni enim id quodaccidit,deo eft aut homini familiare,ncgnouum, ncgin fractabile,ſed conſuctum & tractabile. Perfectio morú hocpręſtat,ut omne diétanquá ſupremūagas,nihil tremas. nihiltorpeas,nihil Gmules.Dij, cu Gar immortales, tamen non indignè ferút, quodin tam diuturno zuo ſemper om nino tot improbos homincs perferre debeant: quinimo illorum curam fum mamgerunc. Tuautem qui iamiam cef fabisuiuere,defperas,idg unus è numc romalorum.Ridiculumeft te non fuge rc tuáipfiusmaliciam, id quod potes, aliorum uelle fugere, quodnonconce ditur tibi. Quicquid rationalis et ciuilis tua uis inuc  vn. ich inuenerit nc rationi cóſentancū,ncq ad focietatem conducens, id rectè ca indignum iudicabis. situ benè alicui feciſti, & cſt, quià to beneficium acceperit, quid præter hæc duo tertiumaliquid requiris ftultorü more,ut & uidearis bcnè feciflc, & gra tiam recipias. Nemo defatigatur accipi endo aliquid utile. Atqui utile tibi cita tcſecundum naturam aliquid agere: nc igitur dum alij prodes, dcfatigare tibi aliquid boni parando. Vniuerfi natura olim ad mundum fa bricandum fe contulit:nunc autem uck omnia quæ fiunt, confequétia fiút ſua,, uel ctiá in præcipuis corum, ad quæ fa mundi gubernatrix natura confert, ra tioninullum locum efle & cóGlio, tené dumeft. Hoc, & memoria tencas, multis in rebus animo ut his tranquilliori cffi ciet. hs 1 'D quoqad minuendamglo riæ cupiditatem facit, quòd non licet tibi adhuc totam uitam,quæàprima tuaæta te fuit,philofophicè uiuere: fed cumul tis alijs, cum uerò tibi ipli manifeſtum eſt factum,teproculà PHILOSOPHIA abef fea Gonturbatæ igitur funt tuæ ratio nes.cumaço ipfeiam nomen philofo phi facilèpoſsis adipiſci, & tuum inſti tutum repugnet. Siitaque uerè perfpe xiſtį, in quo litrespofita, omitte curare quis habearis:fatis autem fit tibi fireli quú uitæ arbitrio naturæexigas. Quid ca uelit, cogita, hinc te nihil diuellat. Expertus enim es circum quotres ua gatus,nufquam uitam beatam inuene ris:nonin ratiocinationibus, non in di uitijs, non in gloria, non in voluptate, nullibi.Vbi uero eſt?in agendo ea, quæ hominis natura requirit.Quomodo ita aget? Si eahabeatdogmata,à quibus có ſentạneæ appetitiones &actiones ueni ant.Quęſunt illa?debonis& malis.Sci licetNihil, effebonühomini, quod nó reddit iuftum,temperantcm,fortem, li beralem:nihilmalum,niſi quod horum contrarium efficiat. In omni actione à teipfo quere, qua lis ca tibi Gt. Nec poenitentia eiusmoue re:parum abeſt, ut moriaris, &omnia è medio fint. Quid prætcrca requiro, li præſens a &tio animalis eſt mente prædi ti,ſocietatis hominum ftudiofi et deo æqualis. Alexander, Caius, et Pompeius, quid hiad Diogenem, Heraclitum, vel Socratem? Hi enim nouerant res, earum cau ſas,materias:ita erant ipſarum mentes. inſtructę.Ibiuerò, quibusin rebuseſſet prudentia, & feruitus. Nihilominus cadem facicnt,eciam litute ruperis. Primum cſt hoc,neperturberis:om nia ſecundum uniuerli naturam eucni unt:paulò pòft,nuſquam eris,ficut núc Adrianus & Auguſtus. Deinde in rem ipfam intucre,eamg cólidera,recorda tusoz debcrc tc eſſebonum uirú, acad hominis natura uelit, ageid quod pro pofitum eſt cóftanter, aciuſtiſsimetúc te egiſſe puta:modòplacidè,uerecúdè, & citra ſimulationem cgeris. Vniuerli naturehoc agit,ut quæ hoc modo habcnt,aliòmPomba, & exuno lo coin alium res transferat: Omnia con Itant mutationibus, neß quicquã mc tue: nihil enim noui,omnia uſitata cue niunt, & æqualiter diſpenſantur.Cæte fum unaquęg natura,firccta uia ingro diatur,fibiipfi fufficit.Natura autem in tellectiuaid facit, G'in cogitationibus, id obſeruet,ne falſo,aut obfcuro aftipu letur: impetus animi ad eas folum actio ncs dirigat, quæ faciunt ad ſocietatem hominum: catantum appetat & uitat, quæ in nobis funt pofita: omnia quæ à communi natura tribuuntur grata ha beat.Hiuius enim pars eſt,bcutnatura fi lij,naturæ ftirpis pars eſt: nifiquod hæc eſt eius naturæ quę & ſenſu & intelle Au carcas,impedirepoſsit:Hominjsną  gratis non iraſci. tura,pars eſt naturæ quæ impedirinon poſsit,intelligat,& iuita fit:liquidem æ qualiter, & pdignitate uniuscuiuſuis tempora,ſubſtantiam,actionem, & eué ta diuidit. Congdera autem æqualitaté că inuenturum te fifingulas res exami nes: finunam cum uniucrGs conferas, non item. Atqui licetlibidinem arcerc,uolup tatibus &doloribus ſuperiorem eſſe, item gloriola: licet ctiam ſtupidis & in Nemo te audiat uitam aulică repræ hendere,ac ne tu quidem teipfum. Penitentia eſt repræhenlo quędam fui ipfius,propter bonü aliquod dimif ſum:bonú uerò,oportet utile effe, ideo qúe ciºcura é haběda uiro bono & ho neſto.At nullus talis pænitentia ducc turobneglectam aliquam uoluptatem, ergo uoluptasncqin bonis eft, ncoin utilibus numeranda. Resita expédendæ ſunt.Quid é hocp ſc, & fua, ppria cóftitutionc? ģei° ſubită tia &materia, quæ forma?quod eius in mundo officiú,ac quandiu permanet? Si difficulterà fomno expgiſcaris, reminiſcere conſentaneum eſſe tuæ conſti tutioni, & naturæ humanæ, ut aliquid agas quod coetui humano pſit. Atdor mire,etiam brutis eſt communc. Quod autem unicuiq ſecundum naturam eſt, id & magisproprium ei eſt, & cognati us, adde etiam gratius. Hoc aſsiduo & quibuſcũæ incidétibus cogitationib, li fieri pofsit, in promptu habendum. Si de natura, affectibus,aut alijs reb. diſputare cum aliquo libet,ftatim teip fum antè interroga: Quænã is ſentit de bonis &malis.Nam opiniones de uolu ptate & dolore, eorumg efficientibus, de honore, ignominia, morte, uita. Non debet mihinouum aut mirum uideri, li quæ res hoc aut hoc modo a gát: cogitabo em, ita opus efle fieri. Co gitabo, licut turpe fit uelle me in mira culum raperefificus fructum ſuum pro ducat, ita etiam, fi mundus ea proferat, quorum eft ferax: etiam medico & gu bernatori turpe fit mirari uelle, li quis febricitaret, aut fi aduerſus uentus exi Iteret. Memento mutare ſententiam, & re aệ & èmonentiobſequi,perindeeffe libe ri. Tua enim adio fecundum tui animi impetum fit atque iudicium, tuamo mentem. Siin tua eſt poteſtate,cur facis? linin alterius,quid repræhendis? atomósne, an Deuni? quorum utrungeſt cum inſa nia coniunctum.Nihiligitur repræhen dédum.Nam fi potes,uel eum qui cau ſa eſt,corrige,ucl,fi prius nequis,rem ip fam: lin neutrum,quid iamtibi profuit repræhēdiffe? atqnihil fruſtra faciédű. Quod moritur,non excidit è mun do:nam ut conftat, & mutatur, ita etiã diffoluiturin elementa, quẹtibifunt cũ mundo communia.atq hæc ipfa ctiam mutantur,negindignè ferunt. Vnum. quodgeſtad certum finem factum, ut uitis,equus.quid mirum? etiam ſol, & reliqui dij pofluntdicere,cuius rei cau fa facti funt. Tu ucrò cuius cauſa? num uolupta tis? uide an hocferat intellectus. Natura confilium inijt de uniuſcuiuſ quereitam finc,quàm initio & duratio nc. Si quis pilam inſublimçiacier, quid h nam ea uelcûm effertur, uclcum defert, aut cadit quid bonimaliucpatit?Quid bullæ boni accidit fi conſtet,autmaligi diffoluatur? Idem de lucerna poſsisin telligere. Cogita quidfiat corpuſculo Genelcat, ægrotet,fi ſcortetura Breuis uita cft & laudantis, & cius q laudatur, cius quimentionem facit, & eius, cuius mentio fit:prçterca fit hocin angulo portionis mundi, acncque ibi quidem omnes contentiunt, imò nelie bi quidem ipfi quifqua. Tota ucrò ter ra punctumeft. Animum aduerte ſubicctæ opinio. ni,actioniaut di&to. Meritò hçcpatcris, malles uerò cras bonus fieri quàm ho dic. Siquid ergo, id ita fit à me, ut ad benefaciendumhominib.referatur.Ac cidit mihi aliqd,referoidad Dcos, om niumg rerum fontem,& originé,à qua omnia inter ſe connexa dependent. Lauare,quæ tibires uidetur? Oleum, sudor, sordes, aqua, ſtigmenta: omniaab ominanda.Ita fe omnis pars mundi, om nisgres ſubiecta habet. Lucilla Verum, deinde Lucilla fecunda Vini, da Maximum.Secunda Diotimum,Fau Itinam, Antoninus hæc omnia. Cęterű Adrianum, inde Celer. * Vbi ucro auſte ri illi &uates, & inflaci? ut ex auſteris Charax, et Demetrius Platonicus, Eudemon, & fi qui alij tales. Omnia in diem durant.iampridem mortui ſunt:quorú dam ne minimo quidem tempore dura uit mcmoria: quidam fabula facti ſunt: ponnulli etiam c fabulis jam cuanue rűt.Idigiimemoriatenédú, g necelſeç rit autdiſsipari tuâmixturā, autextin guianimulă,autmutari,ctaliò trasferri. Læticia hois é, ut faciat quæciſuntp pria.Propria aút cius funt:beneuolétia crgaſuũ genus,cótéptusmotuúq ſunt in lenGb.diftin &tio inter uiſa pbabilia, cótéplatio naturæ uniuerfi, & corúqſe cundú că fiút.Itě tres refpeétus:unus ad cauſam pximā,alter ad diuină çaufam, à quaoíaoíbus cueniüt,tertius ad cose nobiſcü uiuút. Doloraut corporima lus é:ergo ipfum id pnúcict,autalo.Scd animuspoteft fuam tranquillitatem & ferenitatcm conferuarc, ncc dolorem pro malo ducere. Omnc enim iudici ým, omnis impecus,appetitio, & inclinatio intus eſt:ncq.ci dolorquicquam mali affert. Quare omnia uila tolle ex animo, Continenter te ipſum admone:Núc in mea cft poteſtate,ut in animo hocni hilfitmaliciæ,nihil cupiditatis, nihil. cu multus: accum omnia ita cernam, uti funt, fingulis utor pro ipsorum dignitate. Hoc tibi licere,memineris fecúdum naturam. Loquere & in ſenatu, & cum quibus cunghominibus compofitè.Sana ora tione non eſt apertè femper utendum. Aula Augufti,uxor,filia,ncpotes,po ſteri,ſoror,Agrippa,cognati,proping, amici,ſoror, Agrippa,cognati, propinqui, amici, Areus Mæcenas, niedici, sacerdotes: omnino totam aulam mors abripuit.Deinde etiam accede, ubinon unusmodò eſt mortuus homo.Defecit tota Pompeiorum gens:hincmonimen tis etiam inſcribi uidemus,fuiſſe aliqué cius familiæ ultimum. Quàm anxij uc rò fuere maiores cius, ut aliquě ſuccel forem relinquerent: & tam necesse eft aliquem efle ultimum. Vita componenda est ita, ut conftet uniuſcuiuſ actionis ratio. Quarum li unaquęg ſuum, quantum cius fieri po teſtpræſtet officium, contentus fis:at queid quominusfiat,nemo tibi obfta re poterit.Sedobftabit,inquis, aliquid extrinſecus. Nihil quidem, quodiufti ciæ,modcſtię &prudentiæ impedimen tolt. Atqui fortaſsis aliquiduim agen dihabens impediet? quin tu id impedi menti boni conſule, fico ftatim facto tranfitu adid quo conceditur moderá to,alia emergertibi adio, quæ ad cam, de qua loquimur, conſtitutionem qua dret.Accipiendumline faſtu, dimitten dum cum facilitate, Si quando uidiftimanum abſciſlam, uelpedem,capútuc amputatum alicu biſcorâmă corporciacere,cogita ei ſe adfimilarc pro uirilifuahunc, qui im pá bat ea quæipli eueniunt,ſeg à commu ni ſocietate feiungit,aut agit aliquid ab čaalienum, Ita tu te ipſum ab unitione Dáturali abrupiſti,cuius eraspars narº: nücuerò teipſum abfcidiſti.Id uerò fei tum eft, quòd iterum tibilicetei adiun  gi:id quod nulli alij parti deus concef fit, ut ſeparata & auulla rurſum inoleſce ret toti.Hicmihi bonitatem conlidera, quæ homini tantum honoris detulit. Nam & initiò iplius in manu pofuit,ac à toto auelleretur: & deinde, ut auulfus redier,iterug cócreſcerco locü partis recuperarepoſſet, dedir. Nãquéadmo dugngulç ferè rationis cópotes naturą ab ea cæteras facultatcs, ita nos quoß hanc ab ipſa accepimus. quemadmo dumenim ipſa omne id quod obftat & rcfiftit,cóuertit, & fato fubijcit, ſuam partcm efficit:ita animal rationc prædi tum poteft omne impedimentum pro ſua materia accipere,coğuti adid, qd intenderat. Note cogitatio totiusuitæ confuna dat: neq animum aducrte ijs,quæ mul ta uidentur dolorem poffe afferre.Sed ſingulis rebus oblatis à te ipfo quæro, quid náca in rc Gtintolerabile:id cnim pudebit te fateri.Deindememineris,ne que præterita tibi, ncquefutura ullam afferremoleſtiam, fed præſentia tantű. Achæc cxtenuantur,& fuis ca limiti, bus, determines, cogitationem tuam redarguas,fi ca tam cxiguæ reinó Grfo rendæ. Num iam domini tumulo adfident Panthca, aut Pergamus? Num Adriani sepulchro Chabrias & Diotimus? ridi culum hoc. Quid verò G adGderent, ſentiréntne illi? autuoluptatem cape Tent, fiquidem ſentirent? aut fi cam ce piſſent, an coimmortales eſſentreddi te? Nónnchis quoquefatum fuit,ut ſencs &uetulæ priùs ficrent, inde mo scrétur? Quidautem illi poftmodò fa ciét, his mortuis? Oia hæc fætida funt, & tabus in facco. Si acutèuidere potes,afpiccetquàm fapientiſsimè iudica,inquitille. In conſtitutionc animantis mente præditi nullam inueniouirtutem quæ iuſticiam cxpellat: Sed quæ uolupra. tem cijciat,uidco continentiam. Si tuam opinionem detrahas ab ea quod uidetur dolorem afferrc, ipfe in tutiſsimo es collocatus.Quisipſe? Ratio.Verùm ego, inquies, non ſumra tio.Efto.Proinde ratio ſeipſamnedolo re afficiat:Si quid aliudin te eſt quodlæ datur,ipſum de fe iudicet. Cùm impedit fomnus aut appetitus, idmalú accidit uegetatrici animæ: quæ &alia ratione offenditur. Ita fi mensim pediatur,fitcum damno mente prædi tę naturę.Hæcoía ad te tranſfer.Dolor, uoluptas,attinguntte?Si uiſus impedia tur quominuscernat,impedituriã fen ſus. Quòd fi abſos exceptione aliquid appetis,iamid cú rationis capacis par tis incommodo fit:lin communetibi p poſitum eſt, neg læſus es, nec impedi tus. Mentis quidem proprias actiones nihil aliud impedire poteft:nonenimac tingitur ab igni ferro,tyráno,autcalum nia,aut alia ulla talire. Sphæra cum fit,rotunda manet. Indignum eſt, me mihi ipfi dolorem afferre,quinullum unquam aliúlubens læferim. Alijs aliæ res læticiam afferunt:mihi, fi pars mei princeps fana ſit, ne auerſe tur quenquam uel hominem, uel humanum calum:Sed omnia placidis afpici at oculis, omnia accipiat, ijsý utatur uti dignum est. Difce præsens tempus tibiip, gratificari. Qui commendationem pofterita tis magis curant,nó reputant dos horú Similes futuros,quosnuncægrè ferunt, argipä сcia mortales. Porrò quid om nino tua intercít, a talibusi) uocibuste cantent,autita de te fèntiant. Tolle mc, & ponc quocung uoluc tis, ibi enim utar genio mcopropicio.i. cótéto,& habeat ſe &agar naturæ mica confequenter. Id uerò an dignum eft,ut malè props tereàhabeatanimusmeus, ac feipfo de terius?abicctus, appetens, anxius;per. territus? Ecquid co dignum inueniam? Homini dihilaccidere poteft quod nó fit humanum, nccboui,uiti,ſaxo quic quam, quod nonlit confentaneumcius naturæ. Quòd fi unicuigid contifigit; quod & cófuetum eſt,& naturale,quid eft cur indigneris? nihiliticoletabile ci bicommunisadfert natura. Sin propter cttrancam aliquam ré perturbaris: nó A illa tibi,fed tuum de ea iudicium, molc ſtiã affert: id uerò ut abolcás, in tua eſt poteſtate. Quòd fi quid eorú quæ in te ſunt, te moleſtat, quis eſt qui prohibe at,ncopinionem emendes? Similiter Gi doles te hocnon agere,prodeft cogi tare,curnon potius agasaliquid, quàm doleas: ſin aliquod potétiusobſtat,no li dolere, cùm nófiat tua culpa,neagas. At uidetur ujuendum non elle,nig hoc agatur: placidus ergo uitam relinque: quádo &is qui agit,moritur æquusim pedientibus. Memento partem tui principem ſu perari non poffe, cum in ſe collecta fc ipsa contenta est, neque quicquam pre ter uoluntatem agat, etiam fi noninftru eta ratione pugnam conferat. Quid er gò fier, li étà rõe parata, circúſpectè de reb.iudicet.Itaqmés ab affećtibus libe ta,arx é: nihil.n.munitius homo habet, quò refugiés fuperari nópót.Id qui nó uidit,indoctus est: qui uidit, ncq eòrc fugit, infortunatus. Siqd uiſa aut cogitationes tibi renú. ciāt,caue aliquid cu addas. Renunciacú 'cit, eft,aliquem tibi malè dixiſſe. Eftoid al latum,non taméid quo $,cflc teleſum. Video puerú ægrotare:uideo, sed g inpericulo Gt,non uideo, Ad hunc modú ſemper ingifte primis uilis, nihilipfein tus adijce:ita nihil mali erit.Imòhocad 1.dc,noſlete omnia quæ in mundo cuc niunt. Cucumis amarus cit,omitte cum: uc i pres in uia ſunt, declina cas:ncq uerò dicas, Cúrnam hæcin mundo sunt facta. Ridereris enim ab homine naturæ rerű indagatore, haudſecus quàm à fabro aut futore, damnares quòdinofficina ramenta & reſecamenta operum uide: res.Atquihi ca poſſunt aliquo abijce re: uniuerli natura nihil extra fe habet. Verùm hocin cius arte potiſsimùm mirari decet, q cùm ſeipſam circumſcri pâffet, omnia quæ in ſe habet, quæ ob noxia corruptioni,ſeniog, & nulli ele uſus uideantur, in ſeipſam tranſmutat, rurfus ex his alia noua efficit: ita utne que fubftãtiá extra ſe requirat, neqlo cum,quò uiliores res eijciat.Contenta eſtigitur ſuoloco,materia:& arte. Neqin rebus agendis flu & uandum eſt, ncqucin communi uita turbandú, ncquecogitatiouibus uagandum, nego omnino animus contrahendus, aut fü bito impetu efferendus,ncg uita occu pationibus inanibus attcrenda.Cædes peragunthomines, mactant,exccran tur: quid hęc poffunt,quominus mens tua permancat pura, prudens,modeſta, iufta? Quemadmodum fi quis limpido & dulcifontiaſsiſtens, eiconuicium fa ciat:illa quidem ob id non ceſſat purā aquam ſcaturire: quin &fi quis lurum, aut ftercus inijciat,tamen ſtatim illa dif fipabit atą eluet,ncgabijs obturabit. Quid ergo agendum, ut fontemper en nem habeas,non ciſternam? Compone te ipſum,ut fis ad oés horas liber, man fuctus,fimplex,uerecundus. Qui neſcit effe mundum, neſcit ubi ür. Qui neſcit, cuius rei cauſa fit natus, ncß quis ipſefit,neq; omnino mundú cflefcit.Quorum alterutrum cui decft, is cuius gratia extiterit,dicere ncqucat. Vter uerò tibi elegantior uidetur, isą plaudentium fugit laudem,anilli, qui ac negubi,nequc qui fint,cognoſcunt, Laudari cupis ab hic, & feipfum ſpa cio unius horæter execrat?placere uis homini, qui ne fibi quidem ipfe proba tur?nifi is probeturlibiipa,qui ferè om nium eorum, quæ egerit,poenitétia cor ripitur. Non iam tantùm unà ſpirandus eſt circumfuſus aër, fed & confentiendum cum méte quæ uniuerfa complectitur. Haud em minus uis intellectrix omni ci, quod cam trahere poteſt,circumfu fa eft, quam ſpiritus ſpirare uolenti. Generatim malicia mundo non ob eft:inſpccie auté,nihil lædit proximu: Soli ci obeltcui & conceflum eſt, ut cũ primüita uolucrit,liberari ea poſſit. Non magis ad meam uoluntas alie na pertinet, quam uel anima eius, uel caro.Nam etfi maximè uerum eft, una noftrûm cffc alterius cauſa natū, tamé principes noftrum partes,ſuum quæli. bet dominium obtinct.Etenim curalte rius malicia,mihieſſer malo? cum non Elit uiſum Deo,ut in alterius Gt potefta te, cſſemeinfelicemSol diffufus effe uidetur? atæ omni. no quidem fufus eſt, non tame effuſus, Fulio enim eius,cxtenſio.Itaq & fulgo res eius, quos nos radios,actinas ab ex tendendo Græci dicunt. Quod autem Git natura radij,uidere eſt, fi inſpiciaslu men ſolis per anguſtum in umbrofam donum immiffum. Recta enim im mittitur, & diuiditur ad obiectum foli dum corpus, quòd aërem intercipit:ibi ucrò permanct,ncq decidit. Ita &intel lectum fundiac difundi, non tamen ef fundi oportet: quippe utextendatur,ne quc ui & temerario impetu ad obiecta impedimenta impingat:ne concidat, fed perftet, & illuftretid, à quo acci pitur, id quidem, quòd eum transmit tet,ſplendore ſeipſum priuabit. Qui mortem metuit, aut amiſsioně ſenſuum timet, aut diuerfum fenfum, Quod& amitượt ſenſum,nihilutig ma lifenriet; lin alium ſenſum adipiſcetur, aliud erit animal, neg amittetuitam. Homines unus alteri cauſa natifunt, Diſccigitur,aut fer, Aliterjaculú,alitermens fertur.Hæc enim etâ cauta ſit, &in deliberatione uerſetur, rectà tamen fertur.ingredi in principem cuiuſuis partem: præbet au tem etiam alij unicuique ingredi in ſu am principalem partem. Viiniuſtè agit, impietatis reus eſt. Etenim cùm uni uer natura ratione prędi ta animantia eò effecerit ut quantum eius dignum eft,unum alteri profit,noceatautem ne quaquam: qui uoluntatem cius præua ricat, impius utißeſtin omniú dcorú primam.Acqui mentitur,etiam impic tatisin candem dcam fefe obligat. Na tura enim uniuerfi,corúcſt natura,quæ funt:hęc autem omnia interfecognata funt. Porrò autem cadem Veritas dicituf,uerorųý primaeft caufa. Quii. tagſtudiò mentitur, cò quod decipit, impius eſt: quinon dedica opera,eò, p ab uniuerh natura diſcrepat, &quòd præter decorum agit, repugnās uniuer, b naturæ:repugnatenim ei, quiin con frariam partem à ueris deflectit, prætop quam iplius natura ferat, quęcioccalio nes præbuit, quibus neglectis non pót jam uera à fallis diſcernere. Impietatis reus is quoque eſt, qui uoluptates tan, quam bonum appetit, dolorem utma, lum fugit.Hic enim peceſſe eſt ſæpenu merà incufet communem natura,quae ſi ça aliquid præter dignitatem bonis malísue tribuerit:ppterca, quod fæpe mal¡ uoluptatibus fruuntur,cag.quib. efficiútur eæ,poſsidet:boniuero dolo re afficiunt, & in caufas dolorişincidūt. Jam qui dolorem metuit mețuet aliquá do aliquid eorum,quçinmundo fient: įd uerò impium eſt.Rurfus qui uolupta tem confectatur,non abftinebit fe ab in juſticia:id uerò palàm impietas eít, O portet autě ad ea,quæ natura in utraq partem æqualia effecit (nca cnim utra que feciffet,niſi ad utranæ partem exx quoſe babuilſet)eum qui naturam uult lequi ducem, fimiliter æqualiter eſſe ef fectum,Ita & qui dolores & uoluptates, mortem & uitam,gloriam & ignomini am,quibusæqualirationcutitur natu 14, nonin eodem ponitmomento, pro culdubiò impiè agit. Quod auté dixi, Naturam communcm ijs exæquo uti, ita intelligendú eſt,qdea cueniút in u traque parté conſequentia quadam, iu xta antiquum prouidentiæ impetum, quo illa ab aliquo principio ſe ad res i ta diſponendas contulit,complexa ra ționes quaſdam corum quæ ellent futu ra, deſtinatis quibusdam facultatib. ex quibus nafcerentur ſubicctæ, muta ţiones, & fucceflus eorum, Gratiofius quidem crat, hominem mendacij, fimulationis, luxus & ſuper biæ omnis inexpertum mori: ſecunda (aiunt)nauigațio eft,fatietate horum af fcctum antemigrareè uita quàm illa ui tia probare. Nondum ne tene experien tia quidem docuit,utpeſtem fugias? Pestis enim eft ca intellectus corruptio, lo gè magis, quàm aëris quædam intempe' ries ifta &mutatio. Hæc enim animali peftis eft,quatenus uiuitillud: hæcho minum, qua ratione ſunt homines. Mortem non contemne, boni camć conſule, quippe remexijs unā,quasna turadecreuit.Qualcenim eftiuueneſco re, ſeneſcere, augerc, uigerc, dentes, barbam, canos ferre, liberos crcare, uterű ferre, parere, reliquæ $ naturales effe ctioncs, quas tempora uiteadferút, tale eft etrādiffolui. 'Hominis ita ßrationc utentis cft,mortem ncggraucm,ncquc uiolentam, neg contemnendam rem exiſtimarc,fed operiri eam, tanquam u nam è naturalibus actionibus:perinde atque nunc expectas, quando fætus ex utero tuçuxoris edatur, ita expectanda etiam hora, quaanimula tua ex hocre ceptaculo excidat. Quodfi rudequidé, ſed taméquod corattingere poſsit,do cumentum accipis,omninò ut facile fo ras mortem efficiet, fi cogites, quales ij fint à quibus diſcedas, & à quorum morum litanimus tuus ſeparandus col luuica luuie. Iraſci quidé ijs qui tecum uiuút, nequaquam debes, ſed corum curā gc rere,ijsý placidum te prebere:Cogitan dum tamē tibi eſt,te ab hominibusnon idem tecum fentientib. diſcedere. Hoc enim unam erat,quod poterat retinere in uita', G fuiffet homini datum uiuere cum ijs,quieademſentirent:Núc uides quàm laborioſa fitinter unà uiuentes diffenfio,ita ut dicas:ô mors, uenicele riùs,ne quádo ipſe quog meiipfius ob liuiſcar. Quipeccat,abiipfi peccat: quiiniuftè agit, & biipfi iniuftè agit, ſco malum efficiens ipſum,lædit. Sæpenu merò iniuriam facitis qui nihil agit, nó is modò quiagit. SiadGt certa de rebus fententia, & a ctio ſocietatem humanam ſpectans, & animus ita affe & us,ut boni cóſulat om nia quæ accidunt præter id quod eſt à cauſa profectum: hæcli adfint, ſuficiút ad opiniones tollendas, Gftendum im petum animi, extinguendum appetitú, &habendum paratam apudſeſc parté principalem. Vna uita brutis animantibus eft dis tributa:unamens, rationem adeptis. Qucmadmodum una eſt terrenorú ter ra, & unam lucem uidemus, unum aêre trahimus. quæcáqucuidendi & uiuédi uim habcmus. Quæ commune aliquid habent,con tendút ad id quod eft eiufdem generis. Omne terrenum ad terramuchit,omnc item humidum, aut aërcum ad ſuum iti dem genus,ita ut neceſſe fituiea inde in tercludi.Ignis furſum effertur, propter clemétarem igncm: omniuerò hic igni aliquid eſtparatum utinflammctur,ita ut omnis materia paulò ficcior facilè i gnem concipiat,quia minus eft in eius temperic id quod inflammationě pro hibeatItag & omnc, id quod commu nis mentis eſtparticeps, limiliter ad co gnatum ſuum contendit:atq etiam am plius. Quanto enim eſt alijs rebus præ Itantius, tanto &parațius ut cómiſcea tur cum co quod eiufdemcſt generis. I taquc apudipla ſtatim bruta inuenta ſunt examina, greges,pullorum educa tiones, atq id genusquali amores.Ani macnim iam in his eſt, ido quod ea in unum conduceret, apud præftantioré partem reperitur:id quodin plantis,la pidibus &lignis nó inuenitur.Atapud ratione õdita animalia,ciuitatcs funt,ct amiciciç, & domus, & concilia:ingbel lo pacta & induciæ. Apudpræſtátiora, etiam ex diuerfis modis unitio quædá conftat, ut apud aftra adcò aſcenſus ad fuperiora conſenſum etiam in de iua dis cfficere potuit. Atqui apud catan tùm, quæ mentem habent,obliuio mu tui ſtudij & conſenſus reperitur, & hic modònon uidetur quomodò adſe in uicem affluant.Quanquam etiam fi fu giant homincs hanc coniun &tioncm,ca men ab ea corripiuncur, naturanimirú præualente. Vidcbis autem id quoddi co, li animum aducrtas. Facilius cnim inuenies tcrrcum aliquid nulli terreno adiunctum, quàm hominem ab homini bus auulſum. Fructumfert &homo,& deus,&mú dus,fuo unumquodą temporc: quòd lconfuetum cſtin uite, ut luum fru & ű, nullum communem ferat, tamen ratio fructumfert &communem &propriú, naſcunturg ex eo alia quædam eiuſmo di, qualis est ratio. Peccataliquis.Sipotes,meliusillum doce:fin uerò, meminerismanſuetudi nem tibipropterea datam: nam & ipli dij illis ſunt clementes, qui& nonnul lis ad conſequendam fanitatem diuiti as, &gloriam,auxilium ferüt:adeò funt benigni. Id & tibi licet, neque impedit quiſquam Labora, non ut miſer, nec ut qui uel miſericordia,uellaudé conlequi ſtude as:idunum tibi fit propoſitum agere ſe cundum ciuilem rationcm. Hodie omni me periculo exemi,imò uerò omnia quæ uidebantur mala cie ci: nihil enim extrà erat,fed omniaintus in opinione mea. Omnia hæc, quæ in caducis funt, fa miliaria iam mihifecit experientia:du ratione autem ſunt diurna, materia for dida,omniatalia, qualia erat etiã apud illos, quosſepeliuimus. Resipfæ extrafores ſtát,nihilipfæ de feipfisnorūt, neß pnunciát. Quid igit deijs pronunciat?ratio. Negidperſua fione, fionc,ſed actione diſtinguit bonum & malum ciuilis animalis ratione prædi ti: ſicut ncßuirtusneg uitiú in perſua fione, fed actione. Lapidi in altum coniecto nihil mali accidit fi dccidat,ncg bonum, quòdin ſublime effertur. Introſpice corum animos, & uidebis quosij iudices timcant, & ut hi ſeipfos iudicent. Omniafunt in mutatione,ac tuipſe quog in perpetua alteratione, ac quo dammodo corruptione. Quin & totus mundus. Alterius peccatum ibi eſtre linquendum, ut firactionis defcctus,ap petitus,opinionis quics,ac quaſi mors. nihil mali. Tranfi nunc ad ætates, ut puericiam, adoleſcentiam,iuucatutem,ſenectam: horum omnium mutatio eft mors.aun quid mali?Trág deinde ad uită ſub auo acam,ſub matre, ſub patre: quinetiã ali as multas mutationes & fines inucni cs, quære ex teipso, an quid mali Git?Ad cundemmodum eſt etiam totius tuz ui sæ finis, quies,acmutatio. Perpende mentem tuam,uniuerfi,ac proximi:tuam,ut ea iuſtam reddas.uni uerfi ut recorderc cuius pars fis: proxi mi, ut uidcas fitnein ca igooratio,an uc rò incellcctus. Simul intelliges te factú ad explédum ciuile corpus,atqita om nem actionem tuam facere ad uitam ci uilem complendam.Etenim quecúquc tua actio nó ad focictatem humanam, tanquam finem uel propinquum uel remotum refertur,illa uerò uitam inter polat,& unitatem eius foluit; turbaso ciet,ficut in populo cam plebs ſeceſsio nem facit. Abhac concordantia. Pue. rorumirę,ludicra ſpiritus qui cadauera geſtant:ut co efficacius accidatidquod eſtin Necya. Vade adqualitatem cauſa, čamgå materia ſecretam confidera, tum quàm diu permanerc omnino pofsit ca pro pria qualitas. Paffus esinnumera, eò quod non có tentus fuiſti cua mente agere ca,ad quæ crat facta.Sed hæc fatis. Cum te alius repræhendit aut, odit, aut aliquid talcpronunciat,afpicecorú animulas: intra, & uide quales Gint.Cer nes nihil eſſe tibi laborandú, ut hocuel illud ij de teiudicent. Bene quidem ijs uelle debes: Datura em amicifunt, eos dij omni ratione iuuant,perinſomnia, uaticinia.Hæc quidem de quibus ijcer tant, circulus ſunt rerum mundanaa rum, quæ ſurſum deorſumgab unoz uoin alterum uoluuntur. Aut ad fingulas res uniuerſi intelle ctus ſe applicat, quod fi eftita, id, quò ca ſe applicat:approba. Aut ſemcltan tum impetüfecitipfa més, reliqua om nia conſequéter fiunt.* Et quid unum alicui. Quodam enim modoAtomi. Omninò autem, que Deus fit, recte omnia habent: ſiue temerè ſunt omnia; i nunquid & tu? lam nosomnesterra occultabit:poſt ipfa quogmutabitur: & res deindealię item in infinitum mutabuntur.Enimuc ro qui fluctusmutationum & motuum confiderabit, earumg celeritatem, is omnia mortalia contemnet. Torrentis inſtar cauſa uniuerſi rapit omnia. lam ó ipſa iſta ciuilia quàm ſuntuilia? & quàm k uidenturhomunciones iſti philoſophi cè agentes,pleni eſſe muci? Quid facien dum? quod nuncnatura poſcit,cò con tende îi liceat, neqcura,an fit aliquis mortalium hoccogniturus.Neo Plato nis remp. ſpera: Sed contentuseſto,G uel minimum procedat:hứcqueipſum ſucceſſum cogita quàm non fit exi guus. Mutat aliquis illorum ſuum placitum? atquiline horum mutatio ne quid eſt, quàm feruitus gementium, &perſuaſos ſe esse simulantium. Vade nunc et Alexandrum et Philippum et Demetrium Phalereum mihi dic, Vide rint an ſcierint quid communis uolue ritnatura, & an leipfos ſub diſciplina te nuerint.Quod ſi tragicè tantùm ſeſe o tentarunt,nemo me damnauit, ut co gar eos imitari.Opus philoſophiæ ſim-, plex eft, & uerecundum.Nolimeaddu cere ad faſtú, qui præſeferat grauitaté. Supernè contemplari infinitaarmen ta,ſacrificia,omnis generis diuitias, in tempeſtatibus & ferenitate: quæ facta funt,cum ijs nata, quæitem deceſſerút. Conſidera etiam uitam eorum qui ante te,& qui poſt te uiuét: horú ét, qui hodie apud Barbarosuiuút: @multico rum ne nomen quidem tuum sciant, mul ti ſtatim obliuiſcentur, mulu cũ te núc laudent, ftatim ſunt culpaturi. Deniz quam res nullius momehti lit memoria aut gloria, aut aliquid tale. Vacuitas perturbationum in his quæ ab extrinſe ca cauſa accidunt, iuſticia in ijs, quarū actionum tu es cauſa: hoc eft impe tus animi, & actio, quæ finem habe at ſocietatem humanam: id enim eft tuæ naturæ conſentaneum. Multa fup uacanea ex hisq te perturbát,precidere potes,q tota in tua ſunt opinione fità, multūý laxitatis et ſpacij tibi acqrere. Torūmundū alo cócipe,tuuğæuú per pēde, tú celeré lingularú rerú mutatio. né.breue.f.efſe tēpus ab ortu ad interi.. túid uerò q huncfequit,idó pillú prę ceſsit,infinitú. Oía quę uides,celerrime interibút: hi quo,quieorú interitú ui dent, ipfi quog mox peribunt. Qui decrepita lenecta moritur, idem ferer cum co, quiimmaturamorte cadit. Quænam ſunt eorum mentes, quib. rebus ſtudent,quæ habent in honore, quæ amant?iudicate nudas ipforum in tueri animas.Cum uituperando obeſſc, aut prodeſſe laudando ſe putant, quæ cítilla opinio? Amiſsio uitæ nihil eft aliud quàm mu tatio: hacautem delectatur natura uni uerfi, fecundum quam omnia fiunt rc te. Abæternoreseiuſdem formæ natæ ſunt, licg eritin infinitum. Quid ergo dicis omnia facta, & futura male. Ergo nullus inter totdeos repertus eſt, qui ca corrigeret,ſed damnatuseſt mundus ut perpetuis malis conflictetur. Vide quàm putris ſit omniú rerum materia,aqua, puluis,oſsicula,fætor: rurſus calli terræ,marmora:fęces, aurű & argentum:crines,ueſtis,fanguis, pur pura,omnia reliqua eiuſdemmodi. Eti am quæ fpiritu conſtant, alio modo ta lia, atq ex hisin hæcmutantur. Satis miſeræ uitæ eft, & murmuris, & & imitationis? Quid perturbaris? quid in hisnoui? Qui terret te?nú formala ſpicc cã.nú materia? afpiceilla. Extra hæc nihil eft. Quin &iam crga deos ſim pliciot &melior esfaćtus. Idem eft Gue tribus hæc, live centum annis ea diſcas. Si peccauit, malum apud ipſum eſt: fortaſsis autem non peccauit. Aut ab una aliqua mente tanquam onteomnia progrediuntur, quæ cor poribus accidunt:proinde pars non de bet euentis totiusfuccenfere. Autato miſunt omnia,confufio, & diſsipatio; quid ergò perturbaris?Menti tuæ dicis. Mortuus es?perijſti, efferatus es, ſimu las, cs in cætu, aleris? Aut nihil poffunt dij, aut aliquid. Si nihil,cur non compræcaris eos?Sin pol ſunt,cur non magis etiam pecis ut dét tibi, ne quid horum metuas, autexpe tas,ncque magis doleas ſi abſit,quam ſi adfit.Omnino cnim li poſſunt adiuua reij homines, etiam in hoc poterunt. Fortè dices,Dcusea in meapoſuit pote ftate.Efto. Nónne crgo præſtatteijs ģ in tua ſunt poteſtate uti libere, quàm de · ijs quæ non ſuntin tua man u pofita,ſo icitum eflc, animo feruili & abiecto 9 3 k 3 Quis autem tibi dixit, deos non in his etiam, quæ penes nosſunt,auxilium ad ferre?Incipe ergo precari de his, et uide bis.Precat alius, ut cum aliqua cubet: tu petę, ne eius rei appetitustibioriat. Alius petit, ut certa releuetur, tu, neca leuari tibi op' ft.Alius,ne amittat filiú: tu, ne idipfum metuas. Omninò adhuc modum uota concipe, & quid fitfutu rum uide. Epicurus ait fibicum ægrotaret, nul la fuiffe de corporis affectione cum ſu is colloquia,fed decaufis rerum natura lium præcedentibus diſputatum conti nenter.Eı rei ſe intentum, mentem ha buifſe perturbationum uacuam, ut quę motuum corpuſculi nullam partem ac ciperet, ſuum bonum cuftodiens,idea qúe ſe ne medicum quidem qui appli caret pharmaca adhibuiffe; Sed uitam benè habuiſſe.Tuquod is in morbo po tuit,hoc liquid alterius rei incidat,ob ſerua. Vt eniin non defiftere à philoſo phia propter quæuis negocia, neg cũ quouis uulgari homine nugari,omnib, Sectis é cómunc.lic in omniactione cie b h ti incumbendum ſoli, q ppoſitum eſt,in ftrumétog quoadidutimur. Si cui? impudentia offenderis,ftatim percótare teipfum, an poſsit fieri, ut nulli fint in múdo impudétes.nó pótaūt hoc fieri: neigitpoſtula id qd herinequit:alio quin ipse quoß un'eris eximpudétib. ijs, quos effe in mundo oportet. Idem de uerſuto,infideli,omnidenim quocú quemó uitiofo in próptu ſit tibi cogita re.Ná firecorderis neceſſarioid genus hominú efle, fingulos æquioré te prebe bis.Id quoq utileé,ftatimcogitare,quá homini natura uirtuté cótraid pecca tú dederit.Remediū.n.tribuit, cotra in gratos manſuetudiné,cótra aliud uitiū, aliud pharmacũ. Olo aút licet tibi in ui am reducere eu qui errauit: nā oís q pec cat, cò errat, pàppofito aberrat. Denique quid inde tibidamniallatú é:inue nies quidénullú eorú quib.iraſceris, tale quippiam fecisse, quomés tua fit futu ra deterior:atquiin hocunico fitú crat, ut malú tibi atg dánú accideret. Quid verò malum aut novum accidit, fi indoctus į homo agit suo modo: uide ne tu tibiip c 2 0 k 4 ſe potius ſisrepræfendis, quinon præ fenferis fore, utisi: a peccarct. Eenim anſam tibi omnino præbuit ut cogita res, confentaneum eſſe utis ita pecca ret.Ac tamen eius oblitus,miraris eum deliquiſſe? Maximè ucrò fi cui infi delitatis uel ingratitudinis cauſa ſuce cenſes, intra te conuertere. Proculdu bio enim à te peccatum eſt, fi eum ita affectum iudicauifti fidem feruaturum: aucl beneficium conferens,non eo có tentus fuiſti quod dederis, neque fru - & tum teipſa ex actione capere cogitaui ſti. Quid enim aliud requiris, cum ho mini bene facis?non cibi ſatis eſt,te tuæ naturæ conuenienter egiſſe, ſed & mer cedé inſup defideras, perinde ac fimer çede oculus poſcat,quia uiderit,autpe des ppter grellus. Quéadmodú enim hæc ad certūfiné facta ſunt,ita ut ſecun dúfuam conſtitutioné atą naturam ſi egerint, fuum finem adepta ſciamus:ita homo adbeneficentiam natus, & quid beneficij cótulerit, aut aliud quid ege rit,quod ſocietati humanæ conducat, fecitid,cuiusgratia eſt factus, conſecu tus cft id, quod ad eum pertinebat. Ris aliquando, ô anima, bona, simplex, unica, & nuda, ſplendidior corpo re tibi circumiceto. Gu ſtabis olim amoris affo ctum:plɔna eris,nullius indigens, nihil deliderans ncg animati neque inanimi ad fruitiones uoluptatum:ncqtempus requires: quo diutius fruare,neq locũ, regionem, aut aèris commoditatem, nec hominum conuenientiam.Sed có tenta eris præfenti ſtatu, dele & aberis omnibus quæ cruntin promptu, tibig ipfi perſuadebis,omnia tibiadeſſe,om nia cuareétè habere,omnia à Dijs tibial lata,probabisquæcúq ijs probabunt, ac quæ tibi ad perfe&ti animalis ſalu tem dabunt,quod bonum eft, iuſtum, honeſtum,omnia generat at continet & ample &titur, quæ diſſoluuntur cò, ut alia exiplis exiftant. Eris aliquando ta lis, utita cum Deo & hominibus uiuas, utne quid in ijs repræhendas, neg ab illis damneris.Obferuaquid natura tua requirar, quippe qui tātùm à natura gu berneris:id deinde fac &admitte, nifi tuanatura,qua animales, cò fiat deteri or.Secundo loco animaduertédumeſt, qd animalis natura quæin te eft, requi rat:idgo mne omittendum eſt, nifide terius tit habitura ea natura, ob quam rationis particeps diceris: nempe ciui lis, & rationalis. His uſus regulis, nihil ages fuperuacancum. Omni quod tibi euenit, aut ita euc nit,ut tu laturuses, aut ſecus.Si como do, quo tuid ferre potes, non fer ægrè, fcd utnatura tua te docet: fin cótrà, no litamen indignari, etenim ipſum peri bit.Enimuerò memento cam eſſe tuam naturam,ut omnia feras ca,quæ an into lerabilia iudicare uelis nécne, in tua eſt fitum poteſtate,ſecundum uiſa, qua id tibi prodeſſe aut conuenirc ducis. Siquis errat; docercillum debes benigne, & oftendere quid non animaduer terit.Siidneſcis,teipfumaccuſa,imò ne teipſum quidem. Quidquid tibieuenit, id omne abę. terno tibi deſtinatum eſt,atą à conne xu caufarum fataliter tributum. Nam &quod tu es, et quæ tibi cueniút, ab æ terno dependent. Siue ex impartilibus corpuſculis, fi uc natura mundus conftat, id primum conſtat,eflcte partem totius quòd à na ra gubernatur.Deinde,coniunctionem tibi quandam eſſe cum eiuſdemgeneris partibus.Horum memor,quatenus par tem me eſſe totius fentio, nihilægrè fe ram eorum, quæ à toto mihi tribuútur. Parti enim nihil poteft nocere, quod to ti prodeſt. At totum nihil habet, quod nóip6 profit.Id, cùm omnibu set có mune naturis, tú Vniuerſi naturæ hoc accedit, quod ne ab ulla quidemextrin feca cauſa poteſt cogi, ut aliquid fibi dá nofum producat. Quatenus uerò mihi cognatio quædam eſt cum partib. quę funt eiuſdem generis, nihil agam quod non refpiciat communitatem, imà ſemper ad communem utilitatem diri gammeas actiones, & à contrario auer tam.Hisita conſtitutis,necefle eſt uitá proſperos habere ſucceſſus: ficut & ci uis uitam profperam intelligeres,proce dentis per actiones ciuibus utiles, boniş consulentis quæcung ei civitas tribueret. Omnes partes mundi interire necef farium eſt, hoceft, alterari. Quod fi hoc etiam malumipfis fit,nónne uniuerfum malè poſsit perdurare, partibus ad inte ritum, &alterationem cóparatis. Vtrú enim natura inſtituitſuas partesmalè af ficere,malog obnoxia, & quidéneceſ ſariò,efficere?aut perimprudentia hoc admifit? Vtrung quidem non eft ueri li mile. Quin etiam ratione Natura omiſ ſa, ipfarum rerum naturam confideret, item ridiculum erit hóc. Simul enim di cere, quod mundi partes à natura factæ ſintad mutationes et carummutatio ncs quafi contra naturam euenientes mirari aut indignè ferre, abſurdum ſit: præſertim cum fingula ex quibus ſunt conflata, in ea etiam diffoluantur. Aut enim diſcretio fit clementorum, cx qui bus concretæ ſunt res, aut mutatio, ſoli di quidem in terram,aèrci autem in ae rem, ita ut hæc quoß aſſumantur in Ra tionem uniuerfi, fiuehoc certis conuer fionibus inflammabitur, fiue perpetuis uicibus renouatur. Solidas autem &ae reas partesnon opinare ab ortu te habc re: omnia iſta heri & nudiustertius ex alimento et inspirato aêre affluxerunt: hæcgmutanti, non id quod ex utero matris attulifti. Poneaut,hocte admo dum adiungere propriæ qualitati:nihil rcuera,puto,adid quod dicitur. Cùm fumpferis tibiipfinomina hęc, bonus,uerecundus,uerax, intelligens, prudens,alti animi,caucne quando ifta nomina,amittas,alijsg camutes. Celc riter ea aſo repete, acrecordarcnole in telligentis indicari ſcientia dc fingulis rebus percipiendi, & eú, qui cogitatio nibus alienis non occupetur: pruden tis uerò, uoluntariam approbationem corum, quæ communis natura tribuc rit:altitudine animi,mentis intentioné & ſublimitatem, ſupraleues & duros motus carnis, gloriam,mortem, aliasg res elatæ. Siigitur teipſum dignum his nominibus præftiteris,non id appetés, utab alijs ita appelleris,alius eris,alião ingredieris uitam. Nam talem te porrò elle,qualis hactenus fuifti,hoceftin hac uita raptari &inquinari, nimis ſtupidi eft hominis, & VITAM AMANTIS, fimiliso eorum, qui in pugna aduerfusferas fe meſi ſunt. Hicnim pleniuulnerum & ta bi,tamen hortantur, ut in craftinum fer ucntur,iterum pugnaturi aduerſus eof dem ungues & dentes. Itaq te paucisi ſtis nominibus accommoda, ac,& qui dem pofsis,ea tuere, perinde at hin In ſulas quaſdam fortunatas commigral ſes.Sin teinferiorem ijs eſſe ſentis, fece de audacter in angulum aliquem,utibi uictoriam obtineas: aut omnino è uita abi, non iratus,ſed Gimplici & libero ani mo, atæ uerecundo, cùm id unum in ui ta egeris,uteo modo difcedas. Vt auté memoriam illorú nominum retincas, haud exiguú tibi ad feret adiumentú, ſi recorderis deorum, atß eos nolle fe adulari,fcd hocuelle, ut ratione prædita animalia, ipforum quàm fimilima ef ficiantur. Ficus,canis,apis,ſuum quoduis offi ciumfacit: idem eft &hominis partiú. Mimus, bellú, terror,ſtupor,ſeruitus: hæc quotidic delebút facra illa tua pla cita, quæè contemplatione naturæ rc rum hauſta circumfers. Omnia autem, ita ſuntinfpicienda &agenda,ut & cir cumſtantijs fimul ſatisfiat, & cognitio inactioné uertatur,ferueturó animicó ſtátia ex earūſciétia accepta. Ignorat, non tñ cft abfcóditú Quando capies fru &tum fimplicitatis?qñ grauitatis? quan do cognitionis fingularum rerum? quæ: nimirum fiteius natura, quis in mundo locus, quandiu ferat eius natura ut du ret, quibus ex rebus conflata fit, quis eam poſsit poſsidere,quis dare autadi Aranca, ſi muſcamceperit, exultat: alius G leporem, aut piſciculum,aut fu cm, aut urſum, autfarmatas,nónne hi ſunt prædones? Si opiniones exami ncs, quomodo unumin alterum tranf mere. mPombaur,uiam ac rationem contempla di parabis.Continenter autem hucani mum aduerte, teý huic parti adlucfac: nihil eſt enim quòd perinde animum magnum efficiat.Corpus enim exue, in telligensgiamiam te ex hominibus di ſcedentem ifta omnia deſerturum,torů teipſum da iufticiæin actionib. tuis ſer uandæ, in reliquis quę eneniuntrerum naturæ totum te cómitte: quid alij uel fentiant de te, uel agant contra te, ne ad mentem quidem tibi tuam accidat. Duobushis contentus eſto, ut & iuftè agas in præſentia, & id quod nunc tibi obtigit,boniconſulas. Omnes alias oc cupationes,omnia ſtudiamiſſafac,huic modò intentus,ut rectà ſecundum lege ingrediaris, deum ſequens. Quis lituſusderebus tanquam ſuſpe Etis deliberādis hinc patet. Si quid age dum fit,uideasą id elle ex uſu, firmiter cò procedendum. Sın id nonintelligis, inhibendaactio, & optimis utendum confiliarijs.Quòd G alia his aduerſa oc currant,progrediendum eft iuxta præ fentes occaliones,animo ci quodiuftú uidetur intento. Optimum enim eſt cú áttingere ſcopum. Quietus fimul, & ad motus facilis, fi mul & lætus, & conftans eftis, qui ra-. tionem ubiq fequitur ducem. Interroga ex teipfoftatim à fomno ex pergefactus,nū tua interſit, fi quæ iuſta funt & reétè habent, in aliorum fint poteſtate?Nihilintereſt. Nunquid oblicus es, illi qui aliorum fermonibus & laudibusfeiactant,qua les in lecto fint,quales inméta quid? a gant,quæ fugiant, quæ confectentur? quæ furentur,quærapiant? non quidé manibus & pedibus, ſed precioſiſsima ipforum parte,qua acquiri poteſt (ſi qs uelit) fides, uerecundia,ueritas,lex,bo nusgnius. Omnia danti & recipienti naturæ p bè inſtitutus & uerecundus dicit: Da quicquid uis, aufer quicquid uis. Ne que hocaudacia elatus dicit, fedeio bediens, camś probans. Vitæ cxigua reſtat pars:uiue tanquá inmonte. Nihilem refert hîc ne fisuel illic,modò ſcias te ubig in mundo, tan quam in urbe eſſc. Videant, inquirant hominemhomi nes uerum ac fecundum naturam uiué tem.Sinon ferunt eum, occidant:præ ftat'enimhoc,quàm illo modo uiuere, Noniam præçerea tibidiſputandum eſt, qualísnam ſit uir bonus: fed curan dum, ut fis uir bonus. Subinde tibi ante oculos pone æuũ totum, & uniuerſam natura:cogita, uc res ſingulæ ratione ſubſtantiæ nuclei fint oliuarum,temporis,tenebri cóuer lio:1dý de ſingulis rebusindaga.Quem admodum exiam diffoluátur, finto in mutatione ac qualiputrefactione & dil ſipatione: utunumquodą ſuam ucluti mortem habeat.Quiſuntilli, qui nunc comedunt,dormiunt,coêunt,uentrem purgant?cum quiimperant alijs, ſuper biunt,indignantur,inferiores increpát? quibusilli paulò antè feruierunt, & qui bus de caulis?quieruntpaulò pòft? Vnicuiqid prodeft, quod naturau niuerG fert,atx co quidem tépore, quo ca fert. Expetit quidem pluuiam terra: expetit autem uenerandus æther cum eſt repletus nubibus in terram decide re,ita & mūdusid agere cupit,quod fit: dico itaqmundo,meei adſentiri. Itag & hocfit, & dicitur fieri, quod mundus uultita fieri.Authic uiuis, & te adſuefe ciſti, aut aliò te confers, & hoc uoluiſti: aut defunctus tuo munere moreris. Nihil eſt præter hæc. Bono ergo esa nimo. Semper fit euidens, hoc efſe agrú: 1 & quomodo omnia funt hieijs qui in ſummo luntmóte,autin littore, autu. biuis. Omnino enim inuenies Platonis illud, ftabulo in monte abditus: & ba lare. Quid eſt mens mca? ad quid nunc ea utor?Eſtne aliquid mentis uacuum? cftne aliquid à comunitate diuullum? num affixum & admixtum carni, ut il ludunàmPombaur? Qui dominum ſuum fugit, fugitiuus eſt.Lex autem dominus eft. Ergo qui cótra legem agit, fugitiuus eſt. Acdolo-, rem aliquis,iram, aut metumconcipit, propter aliquid eorum quod facūeſt, uçlât, uel fict ſecundum uoluntatem & eiusqui uniuerſum gubernat.Hic uerò lex eſt tribuens ſuum unicuif. Ergo 13 qui hoc modo timet, dolet, aut irafcit, & fugitiuuseft. Pater semine in uterum matris dimillo abijt. Inde ſuccedés alia cau ſa agit, & abſoluit facum,animaduerten dum eſt ex quo quid efficiatur. Rurſus cibus per fauces dimittetur,deindealia cauſaluccedens,ſenſum,appetitum,ui tam,robur,omniaģiſta aliaefficit.Ita ea, quæ in tanta occultatione fiunt, co Gderanda ſunt, facultasģita conſiderá da eft,ut& eam quæ deorſum, & eam quæ ſurſum uergit uidemus, non ocu lis quidem corporeis, fed haud minus tamenperſpicuè. Alsiduò conſiderandumeſt,quomo do omniahęcſint,qualia fuerint,aclint bulæ atqfcenæ earundem in ſpeciem rerum, quasuelexperientia uidiſti, uel exantiquahiſtoria cognouiſti,ut,aulá Adriani,totam Antonii aulam,totam Philippi aulam, Alexandri,CroG.Om nia enimhæc, talia erant. Tantú per alios animo tibi finge cũ, quialicuius rei caufa doletautindigna tur,fimilem efle porcello qui mactatur, & calcitrat at grunnit, Similisetiã ei qui gemitin lectulo ſolustacitè alliga tionem noftram. & quod ſolianimali ratione prędito datum eſt ut rebusque cueniütfpóte obſequat. Olo aut ſequi eas,oíbusé neceſſariū.In fingulis reb. rereexteipfo debes, fitnemors mala, proptereà quòd ea re te fit fpoliatura. Cuni alicuiusoffenderis peccato,fta tim ad te reuertere, ac cogita quain fi milire tu pecces: ut,Quòd argetum,uo luptatem,gloriolam in bonisducas. Id iram mox obliuione delebit: accedat autem & hoc,uteum inuitum peccare ſcias. Quid uerò faceret coactus? Tu; li potes,efficene cogatur, Cùm Satyronem uides,Socratium ti bifinge conſpectu dari:cùm Eutychen, Hymenem,uel Euphratem cervis, Eutychionem, Syluanum, Alciphronem, uel Trophæiferum imaginare: Xenophon. te uiſo, Critonem aut Scuerum: denis ſingulis aliquem priorum certa ratio ne limilem oppone. Simuluerò tibi ad animum accidat,Vbinamfuntilli? nusquam,autubicung. Ita nunquam non cernes res humanas fumum ellc & uani tatem.Maximè fi recorderis id quod ſe mel mutatum eſt, nihil fore in infinito tépore. Tu aut in quo tempore es? aut qui non ſufficit tibi, breue hoc honeſte exigere?quam materiam, o ſubiectum fugis? Quid enim ſunthęcoia,nifi ex ercitia rationis quæ accuratè perfpexiç naturam earum quæ in uița occurrunt rerum. Perduraigitur, dum eas res tibị familiares reddas: Quéadmodú ualid ventriculus oía fibi effiçit familiaria: & ignis ſplendidus quidad ei inijcias, fla mã ex co &fulgore edit. Nulli liccat uerè dicere,nó efſe te fimplicé et bonu: sedmentiatur, quicúq hocde te ſentit. Id uerò omne penes te eſt:quis enim pa hibeat,nelisbonus&fimplex? Tibimo ftet ſententia,nó uiuere,nifi talis ſis:ne que enim patiturratio te niâ talem. Quid Git, quod poſsit de propoſita materia rectiſsimè dici, uel agi, conſide ra:quicquid erit,facere tibi uel dicere li cet,nemine obſtate:neo prætēdete im pediri.Nexprius deſine ſolicitudiné, ita ſis affectus,ut qďuoluptuarijs ſunt deliciæ, id tibi fit actio in ſubiecta & ob lata materia, humanæ cóftitutioni co ſentanea.Oé.n.id qdlicet tibi agere ſe cundú natură, p uoluptatehabendú é: licet aút ubią.Nam cylindro quidem non datur,ut quouis loco feraturſuo,p prio motu, ut negaquæ, neg igni,ne alijs, quęànaturaautanima rationis ex pertereguntur:multa enim ſunt quęob ſtent eis, & intercipiant.Mensautem, ſi ueratio per omnia quæ reſiſtunt perge re poteſt ſecundum ſuam natura & uo luntatem.Hanc facultatem anteoculos tuos ponens, g mens per omnia poſsit ferri, ficut ignis ſurſum, lapis deorſum, cylindrus per decliue,nihilpræterea re quire.Reliquaimpedimenta aut corpo reiſuntcadaueris,autpræteropinioné, ipfius métisremiſsionénó lædunt,ne que ullú afferunt malū:Alioquin is qui impediret,malus confeftim fieret. Na reliquæ res omnes ita ſunt compara tæ ut fi qd eis maliaccidat,ftatim dete riores fiåt.At hîc, a oío dicédüeſt,meli or etiam fit homo, maiorique dignus į aude,fi rectè utatur ijs quæ occurrunt. Omninò autem memoria tenendum eſt,ei qui natura ciuis eſt,nihil poſſe no cumenti accidere, quod nonidem ciui tati noceat.Atqui huic nihilnocet,nifi quod obfit legi.Eorum uerò, quæ incó moda autinfortunia uocant, nihillegi officit:ergo neg ciuitati,ncg ciui. Qui morſus eſt à ueris dogmatibus, ei ad recordationem uacuitatis dolorú & metusſufficiet uel minimum. quale illud: Sternit humi uentus folia. Haud aliter genus humanum. Foliorum uerò rationem obtinent &liberi tui, &ij homines qui acclamát & collaudantita,utfidem mereri uide antur, aut contrà execrantur,aut tacitè repræhendunt & fubfannant. Foliorú rationem obtinent et hi, qui famam po ſteritatis excipient.Hęcenimomniana fcuntur tempore ueris:pòſt animus ea deijcit: inde alia ipſorum in locum ſyla ua producit.Breuitas uerò téporis om nibus eſt communis. Tu autem omnia perinde atque æterna fugis aut appetis, paulò pòft moriturus:& cum quite ef feret,alius lugebit. Sani oculi eft,omnia uiſlia cernere, & non uiridia tantum uelle, quòd faci unt ij, qui vitio aliquo oculorum laborant.Idem de sano auditu et olfactusentiendum, utriqomnia fui generis senli lia esse promptè appræhendenda: qua ratione etiam uentriculus ad omne a limétum paratus debet effe,inſtar mo læ, quæ ad quæcunque molienda para ta eſt.Proinde & més ſana parata debet eſſe ad omniaquæ occurrunt. Sed ea ģ hoc tantum curat, ut liberi fint ſalui, ut ab omnib.laudentur eius actiones, ocu lo fimilis eft uiridia, autdenti tenuia tan tum uolenti. Nemo eft adeò felix, cui mortuo non Gintadftituri quidam, qui malú quod ei obtigiſle putatur, haud malè lit con ſulturus:probus,dicent, & fapiens crat: nónne ad extremum aliquis dicet fe cum, Etipfe aliquando reſpirabo-ab hocpædagogo.Nulliquidem noſtrum erat grauis,fed feng tamen clam nos ab coſperni. Hæc de bono uiro dicentur. ant. Nobis quàm multa ſunt alia, ppter quæ multi ſunt, qliberari à nobis cupi Hæcmoriens li cogites, cò facili us diſcedes hinc, reputans te ex ea uita abire, ex quaijipli q ei' ſunt participes, quorum gratia táta certaminafuftinui, precatus ſum,pcuraui,meuolüt migra re,fortaſſe aliquid meamorte alleuatio nis fperátes. Quidé,curdiutius hic mo rari quæras? Nihilo tn minus benignus illis diſcede,morem tuum ſeruans, ami cus,beneuolus,propicius:negutis qui abripiatur,ſed quibenemoritur,animu la facilè ſe foluente è corpufculo. Eo modo & ab his diſcedendum eſt, quib. nos natura accommodauit & mifcuit. Difloluitnunc? diffoluor et à familias ribus abducor, non reluctans, non vim patiens. est enim et hoc unum corum, quç fiunt secundum naturam. Asvesce, utin omni re teipsum per con teris. Hçustu quorſum hocrefert? A teipso facinitium, teg primo examina, Memento facultatem motricem corporis intus latere. Hæc est facundia, hæcuita, hoc est, ut ita dicam, homo. Nunquam circumiecta vasa animo tibi propone et instrumenta hæc tibi afficta. Similia enini sunt dolabræ, cotantum differentia, quod adnata funt. Alioquin sine causa, quæ ea movet et continet, haud maio ri sunt usui, quàm radius te xtrici, calamus scriptori, flagellum auriga. Aec propria sunt animi ratione præditi. Se ipsum videt, se ipsum componit feipfumtalé, quale vult, efficit, fru &tus quosfert, ipfepercipit,(Erenim plantarú fructus, atg etiam animalium, alij percipiunt.) fuum finem conſequitur, quicung ui tæ fit terminus: nó utin ſaltatione, & a gendis fabulis,alijs id genus rebus fit, ut fi quid offendatur,tota actio fiat irri ta: fed is animus omni in parte, ubicuß depræhendatur, id quod oblatum eſt,e fedum & nullius rei indigum reddit, ita ut dicere poſsit ſeſuum habere.Con plectitur pręterea totum mundum, eiſ inanc circundatum,figuram eius, infini tatem qui, certis conuerlionibus con Itantem regenerationem uniucrſarum rerum contemplatur. Inde cognoscit, ncgnouum aliquid pofteris cuen turú,nem eos qui ante nos fuere,quica amplius nobisuidiffe:fed quod is qui è quadraginta annorú,fi méte utaturferè oía præcerita &fucura uidet in reb.eiul demformę.Hecquoß eifunt propria, amorproximi,ucritas,uerecundia, utni hil feipſa præſtantius ducat,quod qui dem ei cum Lege eſt commune,itaut ai hilinterfitinterreciam rationem, &ra tionem iufticiæ. Cantilenam iucundam,faltationem, & pancratium contemnes, Siuocélua uè fonantem diuidas in fingulos fonos, ata ſeorlim de fingulis ex teipfo quæ ras an ab co patiarete uinci:pudorcpro fe & ò afficieris.Idem dereliquis fuomo do intellige.Deniqin omnib.illis quæ nonfunt uirtus, nec à uirtute profici ſcuntur, memento ad partes corum re fpicere, diuifiones illa in cótemptum adducere: ids in uſum totius uitæ eft transferendum. Qualis eſt aia quęparata fit, fiiamde beat à corpore ſolui, & uel extingui,ucl diſsipari,uelconſtare.Vtautem licpara ta ſit, à peculiari iudicio uenit: non ut fimpliciter mortem aliquis ſubcatid Chriſtiani faciunt,fed bene ſubductisra tionibus & cum grauitate, ita ut & alte ri hoclincuerború cxaggeratione per, fuadere poſsis. Egi aliquid ad ſocietatem humana códucens: ergò utilitatem ſum cóſecu tus.Id femp occurrat, nequnquādebt. Quã tenes arte?Bonuseſſe. Quánam fic hocratione? Si contempler, partim na tură uniuerâ partimhominis ſtructurā. Initiò Tragoediæ prolatæ ſunt, quæ monerent de ijs quæaccidere homini bus ſolent, eam eſſe.rerum naturam, ut liceueniant.At uerò quib. in ſceną delectabamini, curijſdem offendimini in maioreuitæ humanæ theatro? Vide. ris quidem,quod ita hæcdebuerint per fici,quodý ea feruntetiam ij, qniclama uerunt. Id Cithoron. Et fanè quædam utiliter à poëtis dicuntur, quale eſtil ludin primis.: Quod li dijmenegligút, &liberos, Rationem habet illud.item. Nam reb. iraſciſanènihil expedit. Frugiferam utiſpicam meæ uitæ me tam. aliag id genus. Poft Tragedia uetus Comædia illata eſt,libertatédiſci plinæ accommodatam habens, cazip fa haud inutiliter nos monens, ne faſtu extolleremur. Cuius fimile aliquid etiã Diogenes uſurpauit. Poſthas &media quædã comedia & ad extremú noua aſſumptæ ſunt, haud alium ob finem, a ad ſtudiú artis imitando oftentandæ. Dici enim & ab hisipfis quædam utilia, nonignoratur: fed tota huius poëſeos & fabularum,ſcriptionis intentio qué nam finem reſpicit? Quomodoeuidens fit,non eſſe aliud uitæ propofitú ita có modú ad philofophádū,ut eftid, quod núc tenes?Ramusà pximoamputari ra monó pót, an & à tota arborere fecet: fic homo etiã ab uno auullus hoie,nó pornó écà toto excidiſſe cætu. Itagra mum quidem alius aliquis, homo feip ſum à proximo feparat, cum eum odit aut auerfatur:ignorat uerò étà tota ciui li ſocietate ſecadéroeabrumpitur. Ve runtamé hoc habemus munere louis, hác ſocietaté cóftituit,ut rurſum adcre ſcere pximo, & explere totú poſsimus: Ettamen ſi hæcauullio fæpius admitta tur,efficie,ut uniriiterum at coaleſce rehaud facile pofsit id quod erat auul fum:tum uerò, quòdfatent plátatores, non eadem eſt ratio rami qui ab initio floruit cum arbore,manfitgin ea,&e. ius qui amputatus;rurſus deinde eſt in fitus. Oportet igitur in eadem arborc elle, etfi nonidem cum omnibus ſentias. Qui tibi ſecundum rectam rationem procedenti impedimento funt,ut auer tere teà recta actionenópoffunt,ica ne que tua erga ipſos beneuolentia depel lantte:utrobiß teipſum eundem ferua, utnon modò iniudicado cóftantia, & agédo, fed &aduerſus eosqte phibere conantur, aut aliâs indignantur,māſue tudiné tuearis. Haudem minusinfirmi eſt illis iraſci, ô defiftere ab actione, & concideremetu perculſum: utrunque eft eius qui ordinem ſuú delerit, quod alter mctu facit,alter odio cognati fibi, &amicinatura. Nulla natura arte inferior eſt: quip PC cùm artes fint naturæ imitatrices. Quodſi eſt,utiq naturaomnium perfe & tiſsima &omnia compræhendens, ar tium folertiæ nequaquam cedet. Porro omnes artes præftantiorú gra tia faciunt uiliora:ergo & cómunis na tura. Acoz hic eſt ortusiuſticiæ: ab hac reliquæ uirtutes dependent:non enim conitabitiuſticia,ſi uelrebus ſuapte na tura neqz bonis nec malis nimium tri buamus,uel temerarij,ucl errori procli ues erimus: Non ueniunt ad teres eę, quarum fu ga uel appetitu perturbaris,fed tu quo dam modo ad eas accedis:iudiciumita la que deijs quieſcat,ita etipfçquieſcent, & & ne ſequeris eas,neg fugies. Animus globo ſimiliseſt, figuræ æ quabilis, quandones effertie, negcó trahit,ſed luminefulget, quo in omnib. & rebusueritatem cernit,& in ſe quoque Contemnorab aliquo: uiderit. ego ibi curabo,nequid contemptu dignum a gam autloquar.Oditmealiquis: uide ip rit.Ego quidem omnibus ſum placidus ces &beneuolus,atco ipſo promptus ad ne ch ere cm que ipſo. 100 god m oftendēdos alijs ſuos errores: neß hoc exprobrādi cauſa, aut ut patientiam o ftentem meam, fed ingenuè & pro bè. Quantus erat Phocion, nifi idip ſum præ ſe tuliffet. Intus enim omnia oportetrectèhabere, & à dijs conſpici hominem nullam rem indignè ferenté, autquiritantem. Quid enim mihi mali accidit,fi alius id agit, quod eſt naturæ tuæ commodum? nó accipies id quod nuncnaturæ uniuerfi eſt opportunum, cum ſis homo eò deftinatus,ut commu ni utilitati inſeruias? Qui contemnunt fe mutuò, ijdem mutuò ſe demerentur: & qui mutuò de primatu contendunt, mutuò libi con cedunt. Quam putiduseſt, & fallusille, qui dicit: Statui fimpliciter tecum agere. Quid agis? non erat hoc præfari opus: ipla reshocoftendet.Statim ipſo in uul · tuinſcriptus debet efTe fermo,acftatim ex iplis oculisapparere: Quemadmo dúex afpectu amatores ſenlum ſui ama fij.ſtatim cognoſcunt.Omninò uir bo nus & fimplex hircoli debet aliquld fi mile habere, ut qui ei adeft, uelit, nolit, tń cius fimplicitate depræhendat. One tatio aut ſimplicitatis, infidiæ ſunt te étæ:neq uerò quicộ turpius eftfubdo lis acinfidis congreſsib.Hocoím maxi mè fugito. Bonus,fimplex& manſuelº uir,hæc oíaí oculis habet, ncg calatét, Rectiſsimè uiuédi facultas é in tuo aío pofita,nimirú ut res neg bonas ne quemalas,in nullo ponas diſcrimine. Id fet, & unamquamlibet eorum conté pleris diuiſim, & rationetotius,memor nullam earúin animis noſtris de ſe poſ fe excitare opinionē, negadnos ueni re: sed ipsas quidem quieſcere,nosautem effe, q deijsiudicia faciamus apudnos, easýnobis quali depingamus:cú liceat tñ autoío no depingereillas, aut fihoc oío ſit admiſſum ſtatim delere. Exigui temporis attétio hæc eſt, indefinis erit uitæ.Quid obftas,quo minus hęcrectè habeant?Quęli ſuntſecundú naturam, gaudeillis, & erútfacilia:ſincótra natu ram,quære quid fit tibi fecundum natu ram,atpid contéde et si gloria careat. Ignoſcedūé.n.oīci, ſuuğrit bonum. Videunde uenerint omnia, ex quib. conſtent,in quod mutentur,qualia fint inde futura,tum nihilmalicis accidere. Primùm, quis mihi ad eos reſpectus. Nati fumusinuicéun ' alcerius gratia.A lia autem ratione natus fum utipfisprę ſim, ficut aries gregi, aut taurus ar mento. Rem altius repetc. Sinó conſtat mú dus ex atomis, utią natura cum guber nat. Quod fi detur, utiq deteriora præ ftantiorumgratiafunt: hæcuerò, unum propter alterum. Deinde, quales illi ſunt in menſa,le cto,alibi?Maxime autem quib. illi funt neceſſariò opinionibusaddicti, & qua to cum faſtu aguntſua. Tertium eft. Sircctè faciunt hæc, nó eſt indignè ferendum: ſinfecus, at non ſponte,ledignoratione peccant. Omnis enim anima invita privatur cum veritate, tum eo, ut possit cum uno quoli betut eſt dignum,uiuere. Itaque dolo reafficiútur,li iniuſti, ingrati, auari,om ninoſiniurij erga aliosdicantur. Quartum eſt.Ipfequoginmultis delinquis, es ipſorum ſimilis:ac tametG quibuſdam peccatis abſtines, tamen ha bitum ea faciendihabes, ac uel metus, uel gloriolæ conſectandem causa, aut aliud ob malum, abstines similibus peccatis. Quintunc hoc quidem ſatis ſcis, an peccent. Quædam enim ordinc fiút. Omnino autem multa experiri opusē, antè quàm certum aliquid dealiorum actionibus ſtatuas. Sextum.ut maximèſtomacheris,ta men uita hominum eftmométanca, ac paulò pòſtomncsmorimur. Septimum.Non actiones ipforúno bis moleſtiam exhibent, cùmeæfint in ipforum animis: fednoftræ opinioncs. Itaq tolle uoluntatem iudicandi de rc aliqua tanquam mala: limul ſuſtuleris iram.Quomodo, inquies,tollam? Sire putes,non eſſerem turpem.Namnig.fo la turpitudomalum eſſet,tu quogne ceffariò multis modis peccares,ficres latro, & omnia tentares. Octauum.Multò grauiora adferunt dolor & ira,quam obaliorum pecca: ta concipimus, quam ipla illa, ob quæ m 3 raſc imtur & dolemus. Nouú manſuetudo, li genuina fit, no adſcititia aut fucata,inuictač. Quid uerò uel extremæ libidinis homo tibi faciet, fi conſtantermanſuetudinem fer ues, acl res ita ferat, placidè eum hor teris ac doceas eo ipſo tempore, uacás huic reitum, cùm is te lædere nititur. Si dicas,Noli fili, ad alias res nati ſumº: ego quidem non lædar,ſed tu: ido eia pertè & integrè oftendas, neque apes, ullum aliud eorum quæad cætű apta funt natura animalium ita agere. Oportet autem neque irridendi,neque conuitiandi caufa hocfacere,fed aman ter, atq ita ut ne cor mordeatur, néue ccio abuti uidearis, acne quis adftans mirctur,fed ut cum ſolo, ita loqui de bes, etiam fi alijadlint. Horum nouem capitulorum memento, tanquam a Musis li ea dono accepiſſes. Acincipe tan dem homo efle, dum uiuis. Tam vero cavendum ne irascaris eis, quam ne aduleris. Utrunque enim a societate est alienum et damnosum. In promptu tibi fit ira accedente, non iram esse VIRI, fed man ſuetudinem: id ut humanius, ita & VIRILUS EST, requiritgrobur, nervos et fortitudinem: quænon ſunt apud indignan tes & morolos.Nam quanto proping or eftmanſuetudouacuitati affcctuum, tanto & potentia: acquemadmodum dolor,in impotétes cadit, fic & ira. Uter que enim uulnus accepit, &herbápor rexit. Quod fi lubet, etiam decimum à duce Muſarum donum accipe:nempe, Inſani eſſe,uellene praui homines pec cent.qui enim hocpetit, id petit, quod fieri nó pót.Alijs uerò cócedere ut fint mali, modònein tepeccent, ingrati eſt, et tyranni. Quatuor potiſsimum motus animi continenter ſuntobferuandi, ac, fi eos deprehenderis, inhibendi. Primò, ut dicas. Hæc cogitatio non erat neceflaria. Alterum,hocfacit ad ſocietatis diſſolu tionem.Tertium, hoc non ex te dices: nam non à le dicere, inter abfurdiſsima eft reputandum. Quartum: tibiipa ex probra, eſſe hoceius, quidiuiniorelui parte uincatur, & cedat ignobiliori & mortali parti, corpori ſcilicet &eius craſsis uoluptatibus. Aêreū, & oésigneęparticulæ quęcó miſtæ ſunt tuo temperamto, cth natu ra ſurſum efferantur,tamen ut obediãt ordini uniuerli,ab ipſa mixtione conti nentur.Similiter omne terrçumin te, & humidum,cùm natura ſua deorſum fe rantur, tamen in ſublimimanét, non in fuo naturaliloco. Adcò elementa uni verſo obtemperant, aca quò deſtinen tur per uim, manent, donec diſſolutio. nis rurſum canat claſsicum.Nonnc igi tur iniquum lit, ſolam tuam rationem nolle obedire,ſuumglocú indigne fer re.Etquidem nihil ei uiolentum impo nịtur: ea modò, quæ eius naturæ conue niunt. Et tamen ea non ſuſtinet, fedin contrarium fertur.Motusenim adiniu fticiam,luxuriem iram,dolores, & me tus, nihil aliud eft,quàm ſeceſsio à naru ra: & cùmanimusaliquid corum quęc ueniunt indignèfert, tunc quoqueluú locum deſerit. Etenim ad equalitatem & pietatem cóftructuseſt haud minus, quàm adiuſticiam: quia & hæ (pecies funt uirtutum,quibus benè defenditur focietas humana, imò etiam antiquio resiplis iuſtis actionibus. Quinon eundem per omnem uitam propofitum habet fcopum, is unus & idem eſſe,p totā uitam nequit.Non fa tis eſt, id quod diximus, niG & hocad datur, qualem eſſe oporteat eú scopú. Quemadmodum enim non eſt Gmilis de bonis utcunqueplurium opinio,ſed quæ eſt certorum quorundam commu nis:ita & ſcopus ciuilis, & communita tem reſpiciens eſt ſtatuendus, Adhuc qui oés fuos animi impetus direxerit, omnes actiones ſimiles reddet,cogmo ſemper ſuieșit fimilis, Murem montanum, et dameſticum huiusý pauorem & fugam, Socrates, & uulgi opiniones,Lamias uocabat,puerorum terriçulamenta. Lacedæmonij peregrinis ſub umbră fede adugnabāt in ſpectaculis, ipli quo uis loco fedebant, Socrates Perdiccæ quærenticur nő ad ipfum ueniret,refpondit:nc turpiſsi mointeritu peream.hoceft,ne benefi cio affectus, idnon poſsim compenſaa re. In Epheliorum literis crat hocprz ceptum, quod iubebat quotidie remi nilci alicuius ex antiquis, qui uirtutem coluiffent. Pythagorei manè nos coelum afpice se iubebant,ut recordemur eorum,qui femper fuum officium præſtant: ité or dinis,puritatis, & fimplicitatis nudæ:a ftris cnim nullum eft uelamentum. Memento qualis fuerit Socrates > củ pellem præcingeret, cùm Xáthippe uc fte fumpta procefsit:acquæ dixerit fo cijs Socrates pudorc affectis, ac recede tibus, cum uiderent eúin iſto ornatu. Núquàm fcribere &legere alios do. cebis: nih ipſe prius didiceris: id multò magis inuita eſt præſtandum.Seruus es, ratione cares.tú charũ cor mihi rifum fuftulit. Virtuti grauibus facient conui cia urbis. Infani eſt, ficus hyeme quærere.Tale eft puericiam quærere præteritam. Epictetus puerum oſculatus, interi us cum eo fe collocutum dixit. Fortaſsis cras mortem obibis. Abo minaris hoc: nihil dictu graue cft, ingt, quod aliquod opusnaturæ defignat:ni ſi abominere, quod fpicæ'metuntur: Vua primùm cruda,deinde matura fit, pòſt palla:hæc omnia rei ſuntmutatio nesnonin nihilum, ſed in id quodiam non eft. Nemo ut dicebat Epectetus latro eſt uoluntatis.Ars autem, aitidem, in ueniéda eft in adſentiedo, utgimpetus animiferuentur,ita uthabeátautadiun ctam exceptionem, spectét societatem et dignitatem. Cupiditate omnino abſtinendum çít, neque inclinandum ad ea quæ non ſunt penes nos. Itaq, inquit,non de leuire,ſed de in. fania certatur,nib SOCRATES dixit.Vultis ne compotes rationis animos habere, aut non?uolumus. Cuiuſmodi, bonos ne an prauos?ſanos. Cur ergo nó quæritis? Quia habemus. Quid igitur conton ditis? Mnia ista, quæ per circui tus temporum adipiſcio ptas,iam nunc habere potes, nifi tibiipfi invides: hoceft, Siomneid gpręte. rijt,omittast,uturum prouidentię com mittas,id modò quod præſens eſt,diri gens ad ſanctitatem & iuſtitiam: alte ram, ut boni conſulas ca quæ tibi fatū tribuit etenimid natura tibi attulit alteram, ut liberè ac fine ambagibus ueri tatem loquaris,agasok ſecundum lege, & ut dignum eſt. Non impediat autem teneg aliena malitia,aeg opinio,ncß vox,nequc fenſus circundare tibi carnis. Id enim curet, quod afficitur. Itaq jamio exitu cùm fis,tantummentem tu am,idç quod eſt in te diuinum,uenera beris:neo morrem metues,fed nequan do uiuere non fecundum naturam incipias. Sichomo eris dignus mundo quite protulit,nec amplius cris tan quam peregrinus patria tua, admirans ca quæ quotidie eueniunt,ncg de hac uclillare dependebis. Videt dcus omnia mentesnudas à ua lis materialibus & corticibus iftis repurgamentis.Sola enim fua intelllige tia ſola ifta cótingit, quæ abipſohucde fluxerút ac deriuata funt. Quodipfum tu quoque li facere afucſcas,magna cx parte efficies, ne ita circútrahare. Qui cnim nó aſpicit carncm circumicctam, occupaturin ueſte, domo,gloria, relia quisg exterioribus ac quali tabernacu lo contemplando. Tria ſunt ex quibus conſtas:corpus, anima, mens. Priora duo tátum ea ratio ne tua funt, quòd corum curam geris: Tercium folum ucrè tuum est, quod si separes à te. Quæalii dicunt aut faciunt aut quetuipſe,aut ģte futura pturbát, aut quæ corpori tibi circundato, uela nimulæunànatæ præter cuam uolunta tem accidunt, ac quæfluctusexterna. rum rerum uoluit:Ita ut intellectus ab illis rebus, quæ fato una sunt, exemptus libera apud feipfam uitā uiuat, agensiu Ita,probás euéta, dicens uera, fi inquam remoueas à menteres quæ ci conſenſu quodam naturæ adhærent, itemģfutu rum & præteritum tempus, efficies ex tcipfo globú, qualis illcEmpedocleus. Sefolo exultās,totus ceres atqz rotú dus:Diſces id tátú uiuereg uiuis, hocé. in præsentia.I ta fiet, ut ad fine ufo ui tæ tibi ſupereſt, pofsis abſque petürba tionibus generosè,& geniū tuú pbás atq amās exigere. Sæpenumeròmihi mirari ſubijt,quidnãeſſet rei, q homi nes cùm feipfos magis ĝ quenquam ali um diligat, iñ ſuam de ſeſe exiſtimatio nem minoris ducant quàm aliorum. Quòd fi quis Deus,aut prudens præ ceptor mandet, ne quid homo apud fe ipſum cogitet animóue concipiat, nisi id statim lit prolaturus, certè ne unum quidem diemid coleret: adeòmagis ue remur, quid proximus de nobis fit exi stimaturus, qusm quid ipsi nos. Qui fit, quod Dij, cum oía pulchrè & humaniter ordinauerint, hoc unu neglexerint,quod nonnullos homines apprime bonos, acin quos in plurimus ſuam erga deum pictatem quaſi teſſeris fecerunt teſtatam,unuinig lele familia res multis pijs actionibus et facrificijs effecerunt, femel fato functos nonredu cunt,fedomnia extingui finunt. Idaute Gita é,ſcias deos aliterinſtituturos fuif fe,& aliter fieri expediuiſſet.Nam fieraj iuſtum, erat utiq etiam poſsibile: ac di erat secundum naturam, certe naturaid tulisset. Quod ergò res nó ita habet Si tamen non ita habet,id tibi faciatfidem non fuiſſe ex uſu, ut aliter quàm eft fie ret.Vides enim ipſe quoquete, dúhoc fcrutaris, cum Deodeiure diſceptarc. Atqui non hocmodo cũ dijs colloque remur, nili cos optimos eſle &iuſtiſsi mos putaremus.Si autem tales funt, ni hil certè in rerum difpenfione iniuftè accontra rationem neglectumpręteric runt. Ad sue facte ad ea etiam, de qbus de ſperas.Etenim læua manus, cum adalia obeunda ſitinhabilis,propterca q non conſueuit: tamen frænumfortius quàm dextra continet. Qualete corripiecmorscorpore et ani mo?Conlidera uaftitatem æui quod an te & poft te est, brevitatem vitæ, materiæ imbecillitatem. Causas ipsas ab integumentis nudas inspice. Quo referantur actiones vide. Quid dolor, voluptas, mors, gloria, quis sibi ipsi occupationum sit causa.Neminem ab alioimpediri, omnia opinionibus constare. In uſu placitorum Gimilem oportetel ſe pancratiaftæ, nó gladiatori:hic enim enſem quo utit li deponit, interficitur, alter verò manum semper habet paratam, camg ut ex uſu eſt conuertit. Huiuſmodi res conſiderandæ ſunt, diuiſione earum facta in materiam, formam et respectum. Quanta est potentia hominis? Cui licet nihil aliud facere, qid,quoddeus sit laudaturus et amplecti omnia quæ ei Deusobtulerit. Quodad naturam conſequitur,eius cauſa dei non ſunt culpandi, nam nex volentes,neg inuiti peccant nec hoíes. Quamridiculus clt & perigrinus, qui ratur ca quæ in vita fiunt. Omnia funt aut neceffitas fatalis,at que ordo ineuitabilis, autprouidentia placabilis: aut confufio inanis & nul lum habés pręfectum.Quòdfi eft necef fitas ineuitabilis, quid reluctaris? fin p uidentia quę admittit placationcm, dignum præbe teipſum diuino auxilio. Sin confufio eft, cui præſtnemo,conté tus eſto, gin tanto rerum fluctuipſe in te habes mentem: quòd ſi te abripiat æftus,abripiat ſanè corpuſculú, animu: lam,acreliqua:mentem quidemnó ab ripiet. Quaſi uerò lumen candela tanti ſperluceat dum extinguatur, ne @ splendorem amittat: Veritas autem in te et iustitia et temperantia ante obitum tuú extingui debeat. Siquis deſe opinionem peccati præ beat, cogita:ecqd nofti, finepeccatú? ac fi peccauit:quid ſiipſe ſeipſum dam net, ide perindeeſt ac ſuum ipfius lædere oculum. Qui autem prauos pecca renon uult eius limiliseft, quinon uult ficum in ſuo fructu fuccum ferre, infantes plorare, equum hinnire: acli quz ſunt alia neceſſaria.Quid enim aliud faceret, quihuncfibi habitum contraxit. Si igitur trux eſt, cura eum morbum. Sinon conuenit,neagas:& non eſt uc rum,ne dicas. Tui animi motusita Gint compoſiti,ut omnia circunfpicias.Co gita, quid fit quod cogitationem tibi commouet: idğ excute dividendo in causam, materiam, respectum, tempus, intra quod ea resdesinet. Senti vel tan dem, elle aliquid in te præſtantius ac di uinius quam ca ſunt, quæ affectus ciét, ac quæ te mouent. Quid enim est intellectus? nummetus, nu suspicio, num CUPIDITAS, num aliquid aliud tale? Primò cogita nihilfruſtra eſſe agen dum, neq quod non aliquò referatur: deinde, ut non aliò ĝad ſocietatehuma nā referatur. Paulo post nusquam eris, nec quicquam eorum quæ núc cernis nco quisq eorû q núc uiuunt. Omnia cnim nata ſuntitaut mutétur, vertatur et pereant, ut in eorum locum alia na ſcantur. Omnia opinione cóſtát:hęc aúteſtin tua poteſtate. Tolle igit,cu lu bet,opinioné,eritộtibi tanĝ pronto riú præteruecto oía ſerena, & linus flu etibusuacans. Nulla, quçcung ca fic actio malú aliquid patitur,fi ſuo tempo re definat: icutnesis, qui agit, ca róc aliquid mali accipit. Itidem & corpus omnium in uniuerſum actionú, quod eſt uita,li ſuo tempore deſinat,nihilma li ea rationcpatitur:neqisquioppor tunè finem facit ſeriei iftiactionú,malú aliqd' fecit. Tepusucrò debitum et terminum natura costituit. Aliquamdo et privatim utin senectute. Oio aut univerli natura. Cuius quidem partib.mutatis, fem perrecens & uigesmundus perdurat. Seper uerò id pulchrū é & fpecioſum, o códucit uniuerſo.Finisita g uitæ, în gulis mala quidẻ có nó pót.gene cúnố fit turpis: quippe necuolútate ènoftra depédens,&àfocietate nó aliena. Bona aútfit: cú & opportune fiat reſpectu u niuerli, & profit, &diuinitus accidat. His cogitatis, tria hæcin,pmptu habe. Primúut in agendo cures, ne quid fru Itra agas, aut fecus quàna ipſa iuſtitia e giflet:in rebus extrinſecus accidentib. easfortunæ nutu,aut puidétiæ obtigif fe:quarú neutra éīcuſanda. Secundum, qua le unum quodlibetam privatioe fuéritufa dum animam accepit,indeý,donccca reddidit:ex quibus conflatum fit et in quæ diffoluatur. Tertium,ſurſum elato animo humanas res intuere, earumý multiplicem uarietatem: quàm multa circùm in aëre & inætheréhabitét:caſ te uiſurum, quoties in ſublime attolla ris: utſintomnia.unius ſpeciei, & breui tempore durent. Hisne superbimus? Eijce opinionem, & faluus es. nemo id prohibebit. Rem aliquam moleftè ferés, oblitus es omnia fieri fecundum uniuerfi natu rā; &quod peccatum fit alienum:præ terea omnia ita ut nuncfiunt, femper fa eta effe, & futura,núcý fieri ubiq:item quæ homini fit cũ uniuerſo genere ho minú coniunctio:nó ea ſanguinis autſe minis,fed mentis communicatio. Obli tus es etiam mentem uniuſcuiuſg eflc Deum et inde fluxiſſe: nihil cuiĝpro prium effe, ſed illinc & fætum, &cor puſculú & ipſam animulā ueniſſe.Obli t'es oía uerſariin opinione, gid tm qd præſenseít,unuſquitg uiuit, & amittit. Crebrò apud animú tuú recole cose certis de rebus nimium sunt indignati, qui maxima gloria,calamitate, inimicitia, aliáue quacüq fortuna effloruerút. Deinde quære, ubi nam sintista. Nempe fumus sunt, & cinis et fermo. Aut ne hoc ipsum quidem. Simulad mentem tibi accidat, qualia Gntomnia. Ut Fabius Cattullinus rure, Lucius Lupus in hor tis obijt, Stertinius Baijs, Tiberius Caprei, Velius Rufus Et omnino opinionis cauſa diſcrimě inrebus indifferentibus ftatutum.Tum quàm uile fit omne quod reliſtit. Item quanto magis fit philofophięconfenta neum, in data materia tueri iuftitiam, modeſtia,ac fimpliciterdijs obſequi.Fa ftus enim qui ſuperbiæ uacuitatem o ſtentando exercetur, omnium eſt gravissimus. Qui quærit cur Deos colas, quomo do eos uideris, aut elle deprehenderis, ei reſpondebis, primùm efle cos uigles: deinde absqz hocſit, tamen animam me am cum non uideam,nihilominusma gnifacio:ita Deosquoq ex uiribus co rum quas identidem percipio,cùm eſſe intelligo,tum ueneror. In cò ſita eſt uitæ falus, ut fingulas res totas intuea ris, quid in iis formæ sit, quid materiæ: toto ało ageut iufta agas et vera dicas: Quid enim superest, q ut fruaris uita bo nis bona annectédo,ita ut minimú ſpa cium intermittas. Vnú eftlumenſolis, ét fiintercipiaturparietibus, muris,alijs innumeris rebus. Vnaeſt communis na tura,etſi certo modo affectis corporib. infinitis diſtincta.Vna anima, et si naturis in numeris,proprijs circúſcriptio nibus diſtributa uideatur. Una étmens, etsi discreta uideat.Reliquæ proinde di ctorum partes,tanquam ſpiritus & ſub iecta inſenſata, & inuicé nihilcóiunctio nis habentia, tamen ipfa quoqà mente & eius potentia continentur.Atpecu liariter intellectuseiuſdem generis ad iungit ſe naturis, neo a societate divellitur. Quid quæris? Ut vivas? Id est sentire,appetere,creſcere,deſinere, loqui, cogitare. Quid horú deſideratu dignu est? Quod Guilia sunt oia hæc,ad extrc mú te cófer, népe ut fequaris rationem &Deú ducem. Sed utrum huic instituto pugnat, ægrè ferre aliquid, an uerò morsid abolet? Quanta pars immenſi infiniti ę ui attributa eſt unicuiq? celeriterea in æternitate euaneſcit. Quanta pars universi? Quantas est univers? quantula in glebula terræ repis? Hæc omnia tecum cogitans, nihil animo magnum conci pe, hoc tantum, ut ductu naturæ agas, &feras quæ communis fert natura. Id cura, quomodomens tua ſeipſa utatur. In hocenim ſunt omnia. Cætera fine à uoluntate dependeant,quc ſccus, mor tua ſunt, fumus. Id maximè ad contemptum mortis facit, phi ét,qui dolore in malis, &uo luptaté in bonis duxerüt, tamen ea dei fpexerunt. Quiid tantùmboninom nc dignatur, quod eft opportunum, ac cui perinde eſt pluresne an pauciores fecundum rectam rationem præftiterit actiones,negin aliquo ponit diſcrimi ne,lógioréné an brcuiori tempore mű dum contempletur, ei mors nequaqua eſt terrori. Heustu, ciuis fuiſtiin hac magna urbe, adattinet, utrum quinquénio? Etenim quod secundum leges, id omni bus est æquum. Quid ergo grave accidit, si te urbe emittit dominus. Non is quidem iniustus iudex, sed natura quæ te introduxit; perinde ac fi prætorhi ſtrionem emitrate theatro, in quod cum introduxerit. Quod fi is dicat, fenon quinque, sed tres modo actus recital fe, recte dicet. Atvero in vita tres actus fabulam implet. Finem enim is determinat, qui et concretionis olim fuit et nunc est dissolutionis autor. Tuneutrius es causa. Discedeigitur æquo animo. Nam. &is qui te dimittit, propicius tibi est. Riconosco da Vero, mio avolo, la piacevolezza de’ costumi e'l non adirarmi. Dalla riputazione e ricordanza di mio padre una modestia virile. Dalla madre, la pietà verso gl'iddii, la prontezza nel donare ed il contenerini non solo dall'onprar male ma dal fermarmi cicziandio col pensiero. Ancora la semplicità nelle vivande e l'esser lontano dal vivere dovizioso. Appresi dal bisavolo di non frequentare le pubbliche ragunanze, e di valermi in casa di buoni maestri, col conoscere che in questo è di mestiere lo spendere senza risparmio. Dall'aio, di non parteggiare ne co' prasiani ne co' veneziani, ne co’ palmulari ne con gli scutari. Ditrava gliar volontieri, d'abbisognar di poco, d'operare da me medesimo, ne di troppo infaccendarmi, e difficilmente ammetter le calunnie. Da DIOGNETO, di non perdermi in cose vane e non prestar fede a ciò chei prestigiatori e gli stregoni dell'inicantare e discacciare le demonia e di altre cose tali si vantano, di non nutricare coturnici ne perdersi circa si fatti trattenimenti, di sopportare l'altrui libertà del parlare, D'ESSERMI FATTO DOMESTICA LA FILOSOFIA, l'haver udito primieramente Bacchio, appresso Tandaside, Marciano, l'haver composto nell'era puerile dialoghi, e di contentarmi di uni letticciuolo e di pelle e di tutti altre cose alla greca. Da Rustico: di formar in me concetto che i miei costumi habbiano bisogno di correzione, e di coltura, di non divertirmi all'imitazione de' sofisti, di non comporre sopra MATERIE SPECULATIVE e di distendere orazioncine efore tative, overo con altrui stupore ostentare di esser huoino di A vita rigorosa e benefico, di lasciar la rettorica, la poetica e l'elegante parlare, e no andar con l'abito solenne per casa ed usar si fatte cose, e discriver letteruzze semplicemente, come da lui medesimo fu scritto da Sinoessa a mia madre, di rendermi senza indugio reconciliabile co’ quelli, che danno qualche disguſtoso commettono qual che errore, subito ch'e'volessero ritornare al buono, nella lettura non contentarmi di passarla superficialmente ma con accuratezza, di non esser inconsiderato in dar l’assenso a ciarle e che leggessi i commentarii d'Epitteto, prouedendomi d'un esemplare di quelli ch'egli teneva in casa. Da Apollonio, il proceder con franchezza, con una ferma costanza senza vacillare e non rimirare ad al ître por grande che fosse, che alla ragione e l'esser sempre il medesimo ne' dolori più acerbi, nella perdita della prole e nelle lunghe malattie, dal vivo esemplo di lui riconobbi che può l'huomo esser fiſo e inficmemente rimer ſo. Era egli non tedioſo nello fpiegare;e ſcorgeuafi vn huo. mio, che riputaua ben chiara mente l'infima delle ſue doti la pratica, e ſpedita maniera dello ſpiegare i Theoremi. Da lui ancora imparai come biſogni riceuer dagli amici le grazie, ſenza rimanerne perciò oppreffo,nemeno co me inſenſato ſprezzarle. Da Seſtola piaceuolezza el'eſempio d'vna.caſa guida ta con carità: Il proponimen to di viuere fecondo natura: Vna grauità ſenz'affettazio ne:L'inueſtigare attentamen te il guſto degli amici: Il tollerare gl'idioti, e quelli, che opinano ſenza conſiderazio ne:L'effer con tutti confacce uole, ficchè la sua conversazione aggradiua aſſai più di qualſivoglia anche luſinghe uole adulazione; ed era in quello ſteſſo tempo ſomma mente riyeriro da quelli, che feco erano: E di più yna ap prenſiua nell'inuentare,e diſ porre con buon ordine le maffime neceſſarie al viuere. Non moſtraua mai alcun fe gno ne dira,ne d'altro affetto maera aſfai lontano da tutte le passioni; ed inſieme eglice lebraua, e lodaua gli altri, ma ſenza ecceſſo; ed era di gran sapere senza ostentazione. Da Aleſſandro Gramatico, il non ilgridare, ne riprén dere ingiurioſamente, ſe al cuno cometteſſe Barbariſmo, o Solleciſmo, o altro,chenon bene fonaua; ma con bella maniera ſuggerire quel tanto appunto, che ſi douea dire, apportandolo per cagione di riſpoſta, di confermamento, o di conſiderazione ſopra la coſa ſteſſa, non ſopra la paro la, o con qualch'altro manie roſo, e coperto auuertimento, 9 Da Frontone imparai qual ſia il tirannico liuore, la frode, e la doppiezza;e come tutti quelli chiamati da noi “patrizi” sieno in certa manie. m A 4 ra disamorati. D’Alessandro il platonico,non iſpeſſo, ne ſenza ne ceflità il dire, o fcriuere ad alcuno di non hauer punto di reſpiro; e per tal modo ſpeſſo eſentarſi dalle conuenienze che per l'affetto ſono douute a quelli, che con noi viuono ſotto preteſto, che li negozi ciaſſediano. Da CATULO di non havere in poca stima le querele de gli amicisancorchè foffero ir ragioneuoli; maprocurare di ritornarli nel solito stato; CO, sì ancora di celebrar di cuo re li precettori;le quali coſe fi rammentano di Domizio, e di Athenodoto: Finalmente di amare con vero affetto i figli uoli. Dal mio fratello Vero l'affezione verso i domeſtici; l'amor della verità e della giuſtizia. E per fuo mezzo hebbi notizia di Traſca, Elvidio, CATONE L’UTICENSE, Dione, e MARCO BRUTO; c mi formai nell'immagina zione vn reggimento di Re pubblica, con leggi eguali a ciaſcuno, e di vn Regno, che antepone ſopra tutte le coſe la libertà de' ſudditi. Dal medeſimo appreſi la negli genza difeſteiro, e la coſtan za nel PREGIAR LA FILOSOFIA, anteponendola a ciascun'altra cosa; e la beneficenza e la liberalità, non mai intermessa, lo sperar sempre bene e l’asicurarmi di esser AMATO DAGL’AMIICI. Non taceva, lasciando di fare la correzione a coloro, che conosce la meritassero sicchè a quelli, A 5 che gli crano caduti di grazia non lo tene celato. E non bisogna alli suoi amici conghietturare intorno a quello ch'egli voleva o non voleua, ma la di lui volontà e apertamente palese. Fu eſortazione di Massimo esser padron di se stesso, non lasciarsi aggirare in cosa alcuna ed esser di buon animo in tutti gli altri accidenti, ancora nelle malattie. Esser ben aggiustato ne' costumi, foane e onorevole e senza querimonia esecutore delle cose proposteli. E che tutti credessero ch'e' PARLA COME SENTE e che nel fare in nulla male opera. Di niente si maraviglia terriua: in niuna cosa e frettoloso o tardo o perplesso, i ne s'at accdioso o si faceva befe fe o vero era collerico o sospettoso, ma benefico, indulgente, e verace, e pare ch'e'e più tosto retto per natura, che corretto per istudio, ne giammai alcuno si tene da lui disprezzato ne manco presume di stimarſi di lui migliore e ſe fu faceto fu con modo. Appresi dal padre addotivo, l’imperatore ANTONINO PIO, la mansuetudine e la stabilità nelle cose già con esaminamento deliberare, di non esser vanaglorioso negli onori di apparenza ma amatore della fatica, operando di continuo, e di eſſer pronto ad v dir quelli che hanno da suggerir cose PER UTILE COMUNE,  Iin mutabile in dare a ciascuno quello che ſecondo il proprio merito gli era dovuto, ed esser discreto ad usar il rigore, come la moderazione, dove bisogna. Non era egli distratto con l'affetto verso de giovani ma al pubblico totalmente intento. Non merte GLI AMICI in necessità che feco cenassero ne bisogna che lontano peregri nafiero per lui, però lo trovano l'istesso quelli che per qualche necessità erano rima Ai indietro. E ricercatore ne'consigli esquisito e fermo. Non s'attacca ad ogni sufficiente indagazione delle opinioni che gli occorreno. Attento e a conseruarsi GLI AMICI de quali mai non si attedia ne pazzamente amavali e si contenta d’ogni cosa con volto sereno. L’antiuedendo, e preordinando di lontano, eziandio le coſe minime senza strepito. Non vuole sentirsi d'attorno ne acclamazioni ne adulazioni. Tenendo in buona guardia le cose necessarie al principato, e sempre provveduto di ciò che a quello fa mestiere, sopportando con pazienza se di questi e simili rigori viene tacciato. Non e superstizioso circa gl'iddii ne quanto agli huomini troppo popolare, cattando l'aura della plebe, ma in tutto attento, e ſodo, non dimenticando mai il convenevole. E quelle cose che conferiscono in qualche modo agli agi della vita delle quali la fortuna gli tera stata liberale;vfaua ad un’ora senza fasto, e iſchiettezza, dimodo ch'egli godeua indifferentemête del le preſenti, non bramando ciò chenon haueua. Non vi fu alcuno; che diceſſe di lui che fosse Sofista, o Caſalingo o pedante; mavn perſonag gio maturo,perfetto,ſuperio. re alle adulazioni, capace a gouernar ſe ſteſſo e gli altri; ed oltre ciò onoraua quelli, che veramente eranoFiloſofi; tuttauia non dileggiava gli altri.Era di più nelle conuer fazioni huomo compagncuo le, egrazioſo, peròfenza te dio.Del proprio corpo tene ua cura quanto conueniua, non come huomo del tutto dedito a prolungare la vita, o per fare il bello, però ne meno con traſcuraggine, ma in maniera tale, che col propio riguardo aſſai rade vol. te haueſſe biſogno di medi camenti, o al di fuori epitçi marſi. E ſpezialmente cedeua ſenza inuidia a que’tali, ch'e rano dotati di qualche facul tà, come a dire, o di ben lare, o dinotizia per via d'if toria, foſſe di leggi, o foſſe di coſtumi, o di altre fi fatte co ſe; anzi ſtudiauaſi che ciaſcu ņo ſecondo il proprio talen to acquiſtaſſe nome e crediato. E facendo ogni coſa ſe condo gl'inſtituti de'maggio. ri,non perciò veniua ad appa fire rigido guardatore dell' antichità, non efſendo amico di muouerſi leggiermente, ſuariare,ma di diinorare ſem pre ne'medeſimi luoghi, ed affari. E dopo i paroliſmidem dolori di teſta tornania ſubito freſco, e vigoroſo alle ſue ſoli te operazioni.Egli non hauea ua di molti arcani, ma po chiſſimi, molto radi, e queſti ſolamente circa gli affari del comune. Andaua con pru denza, e miſura nel conce dere gli ſpettacoli, nelle fab briche pubbliche, e congia rij, e ſimili opere, fi come colui, che riguardava a quel to, che conueniuà di fare e non alla gloria, che dal te coſe fatte ne era per ri fultare: Non vſaua bagni fuor di tempo,non era vago di edificarc, non inuentore di viuande, ne di teſſiture, etine ture di drappi, ne ambizio fo di ſeruirù di bella preſen za. A Lorio ýſaua la tonica cheſe gli prouuedcua dalla balla villa, e così sſana ordinariamente per Lanuuio: ma nel Tuſculano per ſoprauue fta yn tabarro; e di tal licen za ne faceua come ſcuſa. Era inſomma tale il ſuo tenor di viuere, non diſguſteuolc, non iinmodefto, non eccedente nelle ſue azioni, ne comeſi dice in prouerbio, Infino al ſudore; ma tutte le coſe fue ſi annouerauano così ben dif poſte, come ſe foſſero fatte a bellagio, placidamente, or dinatamente, con ogni vigo re, e conſonanza fra diloro. Onde a propoſito di lui ſi po teua dire, ciò che di Socrate ſi racconta ch'egli poteua aſtenerſi, e goderſi di quelle coſe, delle quali molti, e ncll? aftenerſi s' indeboliſcono, e nel goderle ſi moſtrano in temperanti. Ma l'eſfer padro 3 nic di ſe, e lo ſtar ſaldo, e sobrio nell'vno e nell'altro, è da huomo, che ha l'animo ben aggiuſtato, ed inuitto, come ſi vide nella malattia di MASSIMO. Dagl'Iddij riconoſco l'haucr hauuto buoni auoli, buoni genitori, buona ſorel la, buoniprecettori, buoni dimeſtici, parenti, amici, e quaſi ogni coſa buona: che, niun di loro inconfiderata mente io offendeſfi, benchè con tal natural diſpoſizione', che ſe foſſe venuto il caſo, io vi farei traboccato. Tuttauia per grazia degl'Iddij non ſe gui tal combinamento di co le, che ſi diſcopriſſe queſta mia inclinazione: E che io no foſſi più lunga mente alleua to appreſſo la concubiņa di mio auolo, come dell'hauer conferuata immacolata la mia pubertà; e che io non mi riſentiſsi d'eſſer in età virile prima del tempo, anzi in ol tre d'hauer indugiato dopo che io peruenni a quell'età: L'effereſtato ſoggetto ad un Principe padre, il quale era per farmi por giù ogni altcri gia, e per farmi appréderc che ſi può viuere in Corte ſenza che ſieno necaffarie le guardie, le veſti ſegnalate, le cerimonie delle fiaccole, e delle ſtatue, o altro ſimile ap parato; ma che ſia lecito il trattarſi sù l'andare di priua to,ne quindi auuilirſi, o de primerli per far quello, che conuiene ad vn Principe in riguardo del pubblico go uerno · Ancora d ' efformi tocco in forte vn fratello tae le, che poteua co’ſuoi coſtu. mi eccitare in me vn eſatta cura di me ſteſſo, mentre in-: fieme con l'onore, e con l'a more mi ricreaua: D'hauer hauuto figliuoli d'indole non tralignante, ne di corpicciyo lo mal fatti: Che io non fa ceſſi maggiori progreſſi nella Rettorica, e nella Poctica, o in fi fatti ſtudij, ne'quali for fe mi ſarei troppo ſuagato, ſe mi fofſi auuiſto che in quelli felicemente m' auanzaua: Che io preueniſſi di colloca re nelle dignità i miei edu catori, concioffiecoſa che mi pareua eli lo defiaſſero, non nutrendoli di ſperan za, come che cffendo ano cora giouani poteſſero al pettare quello che poſcia io era per fare: Parimente d'ha uer io conoſciuto Apollonio, Ruſtico, e Maſsimo: Che ſo uente, e chiaramente mi li presétaſse nell'immaginazio nc la forma della vita c011 ueniente alla natura. Onde', per quanto appartiene agli Iddij per le ammonizioni,as ) iuti, ed iſpirazioni da eſsi co partitemi, non vi è ſtata coſa, che mi tolga il viuere rego lato alla natura, o che'l man camento non proceda al tronde, che permia colpa, e per non offeruare io gli au uertimenti, de'quali fui da lo ro come addottrinato: Che: il corpo mio fia durato nella ſorte divita, che io ho menato: Di non mieſſer non ſolo accoſtato ne a Benedetta, ne a Theodoto; mache ancora dopo dalle paffioni ' amore ho conferuato la men te fana: Che ſpeffe volte tro uandomi adirato con Ruſtico io no fia traſcorſo tantoltre, che me ne habbia hauuto a pétire:E che giacchè mia ma dre era per morir giouane, io viuuto ſia cô eſſa inſieme ne glivltimi anni ſuoi.Ogni vol ta che io habbia voluto fou uenire il pouero,o qualunque altro biſognoſo, non vdij mai che i denari, co’quali poteffi ciò fare mi mancaffero; ne mai accadde tal’vrgenza, che io da altri gli accattaffı. D’ hauer conuerfato con vna moglie tanto riuerente, tan.. to amoroſa, e tanto ſchietta: Che ho haluto buona forte negli educatori per li figliuo li: Che in ſognomifieno ſtati fuggeriti molti rimedij, prin cipalmente quello allo ſputo del fangue, e quello alla ver tigine; di ciò hebbi la grazia in Gaeta ed anco in Chre fa: Che, eſſendomi io dato al l'acquiſto della Filoſofia, non m'abbattei in qualcheSofiſta; ne conſumai il tépo in iſqua dernare ſcartafacci, ne in or dire, e ſoluere fillogiſini; ne mi ſmarrij tra le quiſtioni meteorologiche. Queſte co fe tutte riconoſco dall'aiuto degl'Iddij, e dalla loro for tuna; dimorando io nel pacſe de' Quadi preſſo il fiu me Granua. Di bel mattino ho così da predire a me ſteſſo: E’faci le che io m'incontri in tale, che ſia o importuno, o diſ grazioſo, o proteruo, o malizioso o invidioso, o nemico di ogni comunanza. Tutti queſti difetti prouennero in eſsi dall'ignoranza del bene', e del malc; ma hauendo io notizia della natura del be ne, che è l'eſfer'oneſto; e del male, che porta al no oneſto; ed eſſendomi inſiememente nota la natura di chi nel male pecca, poſciachè egliè a me, cõgiunto no tanto per la ſimi. gliáza del ſangue, e della ge nerazione, quanto per la mé te, la quale è comeporzione, della diuinità, ne ho da trar re conſeguenza,che non pof lo rimaner leſo da alcuno de detti difettuoſi;concioffiecofa che niuno mi auuilupperà cô le ſue ſconueneuolezze; e non ho da ſdegnarmi con chi è a me congiunto neodiarlo, im perocchè ſiamo fatti a fin di cooperare, come li piedi, le mani, le palpebre, e de i den til'ordine di ſopra con quel di ſotto. Il contrariarſi dun que l’yno all'altro è contro all'iſteſſa natura, e l'adirarſi, e lodiarſi è vn contrapporſi. Tutto quell'eſſer mio ſi ri ſolue ad vn pezzo di carnuc cia, ad vno ſpiritello, ed al la parte ſuperiore, ch'è la mente. Laſcia da parte i libri, ne coſa alcuna ti diſtragga. Ciò non t'è permeſſo: ma co me sul'orlo della morte ſprez za quella carnuccia, che con ſiſte in ſanguuccio, oſſetti, ed in vna teflitura tramata di nerui, venette, ed arterie. Conſidera ancora che ſia lo ſpirito? aura che mai non ri mane ľifteffa; ma ognora B fuori ſi ſpira, e reſpirando di nuouo li attrae.La detta terza parte dunque di noi è quella, che ci gouerna, circa della quale così hai da diſcorrere, Se' vecchio non hai da com portare che queſta più viua in servaggio. E che ſia più per violenza ſtraſcinata dall' im peto, ch'è alieno dall'huma na comunicazione; e che non fi prenda più faſtidio di quello, che cagioni il fato al preſente, o in auuenire. L ' opere degl'Iddij tutte fon ri piene di prouidenza; e quelle della fortuna non ſono ſenza concorfo della natura, o del la coordinazione, ed intrec ciamento delle coſe guidate dalla prouidenza. Quindi tut to ſcaturiſce. Aggiugni anco ra, che così èneceffario, conferendo all' vniuerfo Mondo, del quale tu se porzione e ad ogni parte della natura è buo no quello che porta la comu ne natura; e ciò che s'affà al la di lei conferuazione - Però con feruano il Mondo così le mutazioni degli elementi,co. me quelle de compoſti. Que Ite coſe a te ſieno ſufficienti, e perpetui decreti. Caccia ľ auidità de'libri per non mori re fufurrando, ma con vera placidezza, ringraziando di tutto cuoregl'Idddij. Ammcntati da quan to tempo in quà se? andato differendo queſte co ſe; e quante volte de termini, a te aſſegnati da gl'Iddij, non ti ſe’valuto.Biſogna vnavolta che tu riconoſca di qualMon do ſij parte; e da qual Rettor del Mondo deriui: E come ti è ſtato circonſcritto yn termi ne di tempo, il quale, ſe tu ben non te ne varrai per tran quillarti, trapaſſerà, e tu con esso, leſſo;ne ritornerà più. 2 Sta totalmente, e in ogni tempo intento, come conuie ne ad yn Romano d'animo forte, e maſchio, ad ele guire quello, che hai tra ma no, con attenta, e non affet tata grauità, con humanità con libertà, con giuſtizia, con dar poſa a te ſteſſo, rimo uendo ogni altra immagina zione; E allora la rimouerai, quando facendo qualche a zione riputerai eſer l'vltima della tua vita, lontana però da ogni temerità, e da ogni appaſſionata auuerſione alla retta ragione, dalla diſſimu lazione e dall'amor di te ſteſ ſo, e da qualſiuoglia diſpia cenza alle coſe a te per fatali tà congiunte. Tu vedi quan te poche ſiento quelle coſe, le quali poffedendo, potrà vno viuere felice, e diuina vita; poſciachè gl'Iddij niente di più domanderanno a colui, che queſte tali coſe oſſerua 3. Rimprouera, o anima,rim, prouera a te ſteſſa, come t'è ſcorſo il tempo per propria mente honorarti, eſſendo che la vita comunemente ſe'n fugge;ela tua è già quaſi su I'vltimo, riponendo la tua fe licità nell'opinione degli ani mialtrui. 4 Perchè fe diſtratto dagli ac. cidenti ch'eſtrinſecamente di foprauuengono? Proccura del l'ozio a te ſteſſo, per appren dere qualche bene; e ceſſa da aggirar la mente. Inoltre hai da guardarti da vn'altro ſua. ria mento: Imperocchè alcu, ni quaſi delirano con le loro aziani: cioè quelli, che tra uagliano aſſai nella vita, ne hanno fine certo, doue indi rizzino ogni inclinazione, e tutta quanta la loro imma ginazione. $ Non fi vedrà facilmente alcuno eſſer infelice, perchè non comprende quel, che ſe gua negli animi altrui: ma è Forza cheinfelici fieno quelli che non offeruano i moui menti del proprio animo. Egli èmeſtiere che ti ri cordi fempre delle coſe ſe guenti: Qual fia la natura de principij vniuerfali, e quale la propria; ecome ſi riferiſca quefta a quella, equal parte ellaſia, e di qual vniuerfo: E cheniitno impediſce, che tu del continuo non facci, e non dichile cofe congruealla na B · til tura, della quale tu ſe'parte. Filosoficamente diſcor re Theofraſto intorno al far comparazione de'peccati, fe condo che più comunemente fi vſa tal paragonc, afferendo efſer più graui quelli,che per la concupiſcibile fi commer tono, di quelli, che per l'ira fcibile. Imperocchè l'adirato con qualche dolore, e occulto raggricchiamento dell'animo pare che ſi diſcoſti dalla ra gione; doue quegli, che pec ca per la concupiſcenza, vin to dal piacere, dimoſtra che in certo modo più da intem perante,e più da effeminato fdruccioli nel peccato. Retta mente dunque, e da filoſofo proferì, maggior colpa incora rere chi pecca con piacere, che qucgli, che pecca con dia ſpiacere: E in ſoinma l’ynos" assomiglia più a colui che per innanzi habbia ricevuto qual che ingiuria, e che, forzato dal dolore, entra in collera;l altro ſpontaneamente fi muor ue all'operare ingiuſtamente, portato a ciò fare dalla con cupiſcibile. 8 In tal modo hai da con durre P opere, ei penſieri, come tu foſſi in punto per vſcir di vita. Ne il dipartirti dagli huomini ti ha dapeſa re; poſciachè, eſſendoci gl'I & dij, quefti non poſſono mai indurre al male; fe poi gl'Iddij non ci foſſero, o nonhaueffen ro alcun penſiero delle coſe humane, che mi giouerà di viuere in yn Mondo manche: uole degl'Iddij, e doue mans chi la prouidenza?Ma e gl'Id BS dij cifono, ea cura loro ſono le coſe humane; e acciocchè lº huomo non cadetle in quello che veramente è male, il tut to ripoſero nel ſuo volere. Nell'altre coſe, ſe vi fofle del male, haurebbero pure in torno a queſto prouueduto, a cagione che niuno mai vi pericolaffe. E in vero quello che non può render la perfo na peggiore, come potrà far peggiorela vita ſua?La natura dell' vniuerfo ne ignorante mente, ne ſcientemente, ma per non poterle preferuare,ne taddirizzare le haurà trafcura te Ella certamente non com miſe sì enormepeccato, oper mancanza del potere, odel fapere, che i beni, eimali ac cadano vgualmente, e indif ferentemente agli huomini buoni, e a imaluagi;giacche la morte e fæ vita la gloria e'l disonore, il trauaglio e I pia cere la ricchezza e la pouertà; e così fatte coſe auuengono vgualmente agli huomini si buoni, si cattiui, non hauen do elleno in ſe nedell'oneſto ne del difoneſto; dunque non portano feca ne bene, ne male O come il tutto ben pre fto ſuamiſce!NelMondo i pro prij corpi, e dopo anche col tempo le memorie di effi fi dileguano. Di tal condizio ne fonotutte le coſe ſenſibilis e ſingolarmente quelle, che adefcano col piacere', o che atterriſcono col tranaglio, o per lo faſto ſono applætrdite, quanto fonovili,diſpregevo Li, fordide, e facili acorrom B 6 perſi,e già boccheggianti? 10 Tocca alla facultà intel lettuale l'auuertire, che coſa fieno quelli, nelle opinioni, e voci de'quali fi conftituiſce la gloria: Che coſa ſia il morire; il quale, fe alcuno il contem pla per ſe ſteſio ſolamente; e conla diſgiunzione della con: fiderazione ne ſepari tutte l? immaginazioni, che con effo vengono rappreſentate, com prenderà non eſſer altro, che yn opera di natura: Onde da fanciulletto è l'atterrirſi ad vi opera della natura; e pure il morire non ſolo è opera + zione della natura, ma molto a quella conferente: Come s? vniſce l'huomo a Dio; e con qual parte di ſe, e con qua ! maniera ancora tal particella dell'huomo all' ora è affetta e diſpoſta.  II Niuno è più miſerabile di colui che s'aggira per tut to a rintracciare ogni coſa, e Va razzolando comecolui dice fin nelle viſcere della terra; e an cora va cercando per con ghietture quello, ch'è negli animi altrui, non accorgen doſi che gli ſarebbe a baſtan za di paſſarfela bene col ſuo genio, e riuerentemente ſe condarlo, eſſendo dentro di lui. Queſta offeruanza però conſiſte nel preferuarlo puro dalle paſſioni, dall'eſſerarro gante, dalli diſguſti,che ſi pi gliano per quello che venga da gl'Iddij, o dagli huominis concioſliecoſa checiò, che vi: ene dagľ Iddij per la virtù s? ha da venerare;quello cheda: gli huomini, s’ha da amare per la congiunzione della natura: anzi alle volte in yn certo mar do fono degni di compaſſione, per non conofcere il bene, e il male; ne queſta ignoranza è minore dell? offüfcazione di poter diſcernere il bianco dal nero. Eziandio che tre mila anni ti rimaneffero a viuere e di più altrettante decine di migliaia', nondimeno ricor dati che niuno perde altra vita, che quella, cħeviue', ne altraviue;che quella cheper. de.. Al medeſimo dunque fi riduce così la vita funghiffima, comela breuiffima. Perchè quello, ch'è preſente, a tutti & vguafe,benchè quello, ch'è perduto, a tuttinon è va guale; ecosì quello, che & perde, pare chefiavn attimo folo. Imperocchène il paffatoy, neil futuro da niuno ſi perde; concioſliecofa che quelloche non ſi ha, come può eſſere tolto da veruno? Però dique ſte due coſe è da ricordarſi: l'vna, che dall'eternită tutte le cofe fono ſtate ſimili, vol. tandoſi in giro, e non v'è niu na differenza, ſe per cento, o per dugento anni, o pure per tempo indeterminato vedrai le medefime coſe: La ſecon da è, che colui, che lunghiſſi mamente ville, come quegli, che preſtiſfimo muore, refta no pareggiati nella perdita, mentre non vengono a rima ner priui, chedelpreſente, il quale ſolo hanno, eciò, che non fiha, non ſi perde. Ogni coſa ſta nell'opia nione, il che appariſce mani feſto dalli diſcorſi con Monimo Cinico. E chiaro farà l've tile di queſti diſcorſi, ſe da quelli ſe ne coglierà il midol lo della verità. Oltraggia ſe ſteſſa l'ani ma dell'huomo:Primieramen te allora che, quanto è per 0 pera fua, diuenta yn’apofte ma, o ghianduccia delmon do;mentre che chiunque mal volentieri prende quello, che il tempo porta, è vn ' diſtacs camento della natura, in par te della quale le nature di cia. fchedun degli altri ficonten gono:Secondariamente,quan. do ſi ha auuerſione a qualche huomo, o ſe gli opponeper danneggiarlo, come fanno que', che ſi adirano: Nel ter żo luogo tratta male fe me deſimaallora, che ſi arrende al piacere, o al dolore: Nel quarto, oue diſſimulando fina tamente,e ſenza verità, qual che coſa fa, o dice: Nel quin to, quando non indirizza l' azioni fue, eiſuoi moti à niun ſegno; ma opera a cafo, e ſenza congruenza; effendo neceſſario che ancora le coſe minutiſſime habbiano rela zione al lor fine. Ora il fine degli animali ragioneuoli è di ſeguire la ragione, e la leg ge della Città, e dell'anti chiſſimo gouerno. Il tempo dell' humana vita è vn punto: la ſoſtanza fluſſibile: il ſenſo caliginoſo: e la coagulazione di tutto il corpo facile a putrefarſi:lani moyn continuo rigiro: la for tuna difficile a conghietturarm fi: la fama vna incertezza  E per recare le inolte parole in vna: tutte le coſe corporali vna corrente, quelle dell'ani ma vn ſogno, e vn fuina d'ac qua: la vita yna guerra, e vor pellegrinaggio di vn viandan. te: e la famapoftuma farà di menticanza. Checofà è dun que, che pofſa fare durare 1 huomo Una sola  la Filosofia; e queſta conſiſte nel con feruare l'interno genio inno cente e ſenza taccia,ſuperio re a ' piaceri, e a ' dolori; che niente operi temerariamente, ne con bugiane con finzione: e che non habbia biſogno, che altri faccia, o non faccia. In oltre, che ben ricetia ciò, che auuieneso impoſto gli ſias come di là tutto auuenga, donde egli medeſimo è ve nuto; e ſopra tutto cheaſpetti la morte con animno ſërena, non: nonla confiderando, che co mevn diſcioglimento degli clementi, de'quali qualſiuo glia animale fi compone. E ſe agl'iſteſſi elementinon è ma. lala mutazione continua,che ſi fa di ciaſcuno di eſli in vn altro, per qual ragione hafli a temere la mutazione, e il di fcioglimento di tutti inſie me, giacchè è conforme al la natura e niente è male, eſſendo conforme ad effa? Fin qui a Carnuto. Ccoveredt gde jeunesse eos POS. Non è ſolamente da confiderare che la vitaſi va di giorno in giorno conſumando; e che di eſſa ne rimanc il meno; ma quel lo ancora fi vuole andar ri penſando, che quantunque yno viueffe eziandio d'au uantaggio, pur reſta quegli incerto ſe ſia per durargli la mente habile alla buona in telligenza degli affari, e di quella ſpeculazione, che ri chiede nel trattare le coſe humane, e diuine: Imperoc „chè fe comincierà perauuen. zura l'huomo a delirare, non perciò gli mancheran forze, ne il reſpiro, ne la facultà del nudrirſi, ne l'immaginatiua, ne gli appetiti,ne ſimili altre potenzc; ma s’eſtinguerà ben ſi affatto in lui quella del po terſi di ſe ſteſſo valere, e di perfettamente adempiere le parti del ſuo miniſtero, e di chiaramente ſpiegare i con cetti dell'animo, e di confi derare altrui, fe tal volta debba a ſe medeſimo dare la morte; e tutti finalmente quci ſimiglianti affari, i quali per ben riſoluere richiedel vn perfetto, e raffinato di ſcorſo.E'dunque da non iſtar fone a bada, non ſolo perchè la morte ſempre più s'appref ſa, ma perchè in oltre il ra ziocinio, e l ' intelletto noi fpeffe volte abbandonano innanzi alla morte. E'ancora da oſſeruare,che tuttociò, che alle coſe già dal la natura prodotte ſoprattuie ne, aggiugne loro yn certo che di bellezza, edi grazia; comeper eſemplo, quando il pane ſi cuioce, infrangonfi, e in varie guiſe apronfi four? eſſo alcune particelle di cro ſta, che fuor della creden, za, ed arte del fornaio co sì ſcrepolate con particolar compiacimento muouono P appetito. Così a i fichi, quan dogià ben maturi rompeſi la camicia; e allylive ſtagiona te, mentre principiano a pu trefarſi, fi viene ad accreſcere in tal particolare alletta mento: le ſpighe, che per lo pelo s' inchinano, il ſopraci glio del Lione, la baua, chc1 Cignale ſchiumando getta dal grifo, e altre coſe, delle quali, ſe ciaſcuna riguardaſi da per fe, appariſce lontana da ogni bellczza,per lo effe re all'opere della natura con giunte, recano a queſte orna mento, e agli animi deri guardanti diletto; Ondechi ha l'affetto e la conſiderazio ne intenta intorno a ciò, che vien prodotto nell' vniuerſo, quafi niente troverà anco nel le cofe, che a quelle addiuen gono, come neceſſarie pendi ci, che con qualche buona grazia non le veda congiu gnerfi. E così i veri digrignan ti grifi de viui animali non con ininor piacere rimirerà, che quelli, che con iſcherzo dalla pittura, e dal rilieuo ſo no rappreſentati; e vn certo vigorc, e vna certa maturità d'vna vecchia, o d'vn vec chio, non che la venuſtà de? fanciulletti, potrà con ben purgata viſta rimirare; e mol te ſimili cofe, che non ad ogn’vno ſaranno accette; ma ſolo a colui, che finceramen te ne'ſegreti,e nell'opere del la natura ſi ſarà internato. 3 Hippocrate, che haueua fanati molti infermi', amma latoſi egli ſe nemorì: I Cal-, dei a molti prediſſero le mor ti, ed eſſi poſcia furono dall: ora fatale portati via: Aler ſandro, Pompeo, e Caio Ce fare, hauendo intiere Città del tutto, e tante volte di ſtrutte, e tagliate a pezzi in battaglia molte decine di migliaia d'huomini tra fanti, e caualieri, eſſi ancora alla fi ne vſcirono di vita: Heracli to, dopo hauer con diſcorſo naturale trattato dell'incen dio del Mondo, gonfio le vi ſcere d'acqua, rauuolto in iſterco bouino, finì i ſuoi gior ni: Democrito da i pidoc chi, Socrate da altri vermi reſtarono eſtinti. A che quc ſti racconti? Entraſti in bar ca, nauigafti,approdaſti: Eſci fuora, e ſcendi; ſe pervn'al tra vita, iui ancora faranno gl'Iddij, eſſendo quclli per tutto "; ſe reſterai ſenz'alcun ſenſo, ceſſerai d'eſſere.ratte nuto tra i trauagli, ed i piace ri, e di feruire ad vn vaſel letto tanto inferiore, quanto la porzione è ſuperiore a quello, a cui ella ferue. Poi chè queſta è la mente, e il genio, doue quello terra, e putredine. 4 Non conſumare queila parte di vita, che ti riinane nel darti inipaccio,o penſiero de? fatti altrui, quando quelli non riguardino all vtile comune; altrimente tu reſterai impac ciato in coſa da te aliena, ro fiſticando, che faccia il tale, cd a qual fine e che dica, o penſi, o macchini, e altre co ſe ſimili, le quali ci fanno de uiare dall' offeruanza della parte, ch'è la propria di cia fcuno reggitrice. Concioffie coſa che biſogni nel diuilare ľ immaginazione, sfuggire ogni penſiero intempeſtiuo, e vano, e molto più quello, che habbia del vizioſo e del maluagio: Alucfare ancora vuolſi ſe ſteſſo a penſare ſolo a quelli particolari,de' quali, chi all'improuiſo t’interro gaſſe, che penſi tu adeſſo? tu polla con franchezza riſpon dere, ſenza interporre tempo di mezzo, queſto, e queſto; dalle quali riſpoſte ſubito manifeſtamente appariſca che i penſieri tutti ſono in te ſchietti, manſueti, come conuiene a i viuenti per l'hu mana comunicazione; e che, tu non ſei applicato ' a i piace ri, ne a qualſifia voluttuoſa immaginazione, non alle conteſc, non all'inuidia, o a i ſoſpetti, o ad altro, per lo che tu ti hauefli da arroſſire, diſcoprendo quello, che tu couaui per auuentura nell' C 2 animo. Giacchè vna perſona, così coſtituita, è quaſi vno degli ottimi, qual facerdo te, e miniſtro degl'Iddij,ſer uendoſi di quello, che den tro di lui riſiede Questo rende l'uomo illibato e libero da i piaceri, illeſo da ogni trauaglio, intatto da ogni ingiuria e ſenza vn mini mo ſentore di malizia, cam pione del maggior combat timento, da non eſſer ab battuto da paſſione alcu na, intinto nella giuſtizia in fino all'intimo, che con tut to l'animo ben riceue quanto auuiene, e quanto per defti no gli venga compartito. Non iſpeſſo ne, fuori che in grandi neceſſità, e che ſpet tano all' vtile comune, ri flettente a quello, che altri ſi dica, o faccia, o penſi, ſolo da vn canto intento a ' proprij affari, e dall'altro continu a mente attento a ciò, che per le contingenze dell' vniuefo a lui tocchi; acciocchè s'in duſtrij di rendere quelli di bella oneſtà compiuti, queſto reputi colmo d'ogni vtile e d'ogni bene. Concior ſiecoſa che, quanto a ciaſcu no viene dal fato deſtinato, fia portabile, e del bene ſeco portante. Ed egli tenga a mente, che a lui effcr dee fa migliare tutto quello che ha del ragioneuole, e che la natura dell'huomo richiede, e che dee applicare alla cura di qualunque ſi ſia degli aleri uomini.  Però non ha a vo ler dipendere dall' opinione così d'ognuno, ma ſolo di C 3 coloro, che viuono conforme alla natura; e dee offcruare quali ſieno quelli, che diuer famente viuono ilmodo, che tengono in caſa, e fuori, il giorno, e la notte, e quali, e con quali conuerſando ſi me ſcolino; Eper ciò non ſi ha ď hauer in alcun grado la lode di coſtoro, che ne meno fe fteſli contentano. Non opererai come con tro tua voglia, ne come ſcor dato del bene comune, ne ſenz' hauer prima ventilato efattamente l'affare, ne ritro fo; ne attenderai con bellet ti di vago dire a vanamente liſciare i tuoi concetti, non effendo ciarlone, ne troppo faccendiero. Iddio, ch'è in te, preſieda al tuo viuere da perſona virile, e nell'età auanzata, e di vita politica, e da nato Romano, e chema neggia gouerno. Sta in mo do tale apparecchiato e diſ poſto che alla prima chiama ta tu ſij pronto di ſtaccarti da i viui fi intero, che ti fia data credenza senza tuoi giuramenti o teſtimonianze altrui. Queſt'vno non manchi, ch'è tal ſerenità nell'animo, che non occorrono conforti efterni, ne di effere tranquil lato per opera d'altri: s'ha dunque ad cſſer per ſe ſteſſo retto, e non raddirizzato. 6 Se nella vita humana tu trouerai alcuna coſa migliore della giuſtizia, della verità, della temperanza, della for tezza, e in fomma fe altro meglio, che l'eſſer l'opera zione della tua mente sufficiente a ſe ſteſſa, acciò ca gioni, che tu operi ſecondo la retta ragione, e in ciò, che non può dipendere dal pro prio tuo conſiglio, al fato tu ti accomodi: ſe meglio dico di ciò tu truoui, od iſcopri,a quello volgiti con tutto l'a nimo, e godi dell'ottimo, che haurai ritrouato. Ma fe nulla t'appariſce, che ſia inigliore dell'iſteſſo genio, che in te riſiede, il quale habbia sottomessi a se stesso i proprij mori de'tuoiappetiti, ed eſamini le coſe. immaginate, e che dalle perſuaſioni, o alletta mcnti de' ſenſi, come Socrate dicea, ſia diſtratto, e con 1 affetto attento agli huomini, fi fia fubordinato agl'Iddij: Se di queſto trouerai eſſere ogni altra coſa inferiore, e più vile, non dar luogo nclla mente tua ad altra cofa veru na, alla quale vna volta che tu o propendendo, o decli nando aderifli, ſareſti ferma mente impedito a poter libe ramente preferire ad ogn'al tro il ſingolare, e proprio tuo bene; non eſſendo giuſto che al bene ragioneuole e operatiuo ſi contrapponga qualſiuoglia altro, che ſia in diuerſo genere, come fareb be l'applauſo della moltitudi ne, o la dignità, o le ric chezze, o il godimento de piaceri;tutte coſe le quali ha. uendo apparcnza, ancorchè in minimo, di adattarſi a noi, repentemente preuarranno, e ci rapiranno. Ondeio ti di co, attienti fchiettamente, e francamente al meglio; e С aderiſci a quellos e il meglio è quello, che a'te è di profit to; però ſe ſi confà, come a perſona ragioneuole, queſto riſerbati; ma ſe ſolo, come. ad animal viuente, riggetta lo, e ſenza gonfiartene,cuſto diſci il fologiudicio, per po ter formare vn eſame certo, e ſicuro. Non iſtimare giam mai, che ſia coſa conferente a te ſteſſo quella, che tal vol ta forzeratti a traſgredire la fede, mancarc all honore, odiare alcuno, ſoſpettare maledire, fintulare, ed ambi re qualche coſa, laquale hab bia biſogno di naſcondimen to di muri, e di velami. Im perocchè chi ſtima fopra tut to la propria ſua mente, e il genio, e l'operazioni della ſua virtù, quegli non fa azione da tragedia, non pia gne, non hannà biſogno di Itar folitario, ne della com pagnia di molti. Esquel che più importa, viuerà ſenza de fiderare, e ſenza sfuggire co fa alcuna; ne farà molto ca fo, ſe dell'anima circondata dal corpo ſe ne ſeruirà per più lungo, o per più breue tempo: acciocchè qual ora s'haueſſe a dipartire, così franco ſe ne vada, come ha ueffe a disbrigarfi di qualche affare, che gli conueniffe efe guire con decoro, e con ogni modeſtia: ofſeruando queſto folo puntualmente per tutta la vita, che i fuoi penſieri s. aggirino attorno qualche co fa, che ſia propria de viuen ti razionali, e ciuili. 7 Nella mente di perſona C 6 ben aggiuſtata, e purgata non trouerai niente di guaſto, niente di marciume, o che v'habbia fatto ſaccaia. Simil. inente. non troncherà il fato la vita di coſtui imperfetta, come ſi direbbe dell'Iſtrione, fe,auanti di finire, e compire il Drạmma,gli vditori all'im prouiſo piantaſſe. Di più non trouerai nulla di feruilc, ne di affettato, ne di appicci cante, ne di diſciolto che habbia biſogno d' eſſer corretto, ncd'eſſer ricoper ne to. Habbi in venerazione la facultà, che forma l'appren ſione, dependendo da queſta il tutto;acciocchè niuna opi nione s' inſeriſca nella tua mente, che non confcnta colla natura, e colla coſtituzione di viuente razionale: E queſta profeſſi di non cor rerc alla cieca, e che l'huomo fi confaccia con gli huomini, e verſo gl’Iddij ſia offequiolo. Rigettate dunque tutt'altre coſe, imprimiti ſolo queſte poche, e ſpesſo rammenta ti che da ciaſcuno ſi viue il ſolo momento preſente, il re fto l'ha gia viuuto, o gliè af fatto ignoto. Piccola adun que è l'età di ciaſcuno: Pic colo è il cantoncino della terra, dove ſi viue, e piccola, benchè lungi s'eſtenda, è a ' poſtuni la fama, proceden do queſta dalla ſucceſſione di homicciuoli, che preſto ſe ne vanno a morire, i quali non conoſcono le ſteſſi, non che colui, il qual di già lungo tcmpo morì. A'già eſpoſti auvertimenti s'aggiunga ancora di far ſem pre vna diffinizione, o de: ſcrizione di quello, che vie ne dall’iinmaginatiua rappre fentato acciocchè qual'è nudamente nella propria ſo ſtanza, e il tutto per tutte le parti diſtintamente, tu rico noſchi,e ſia a te ſteſſo eſpreſ ſo. e paleſato qual ſia il ſuo proprio nome, e i nomi di quelle parti, delle quali è compoſto, e nelle quali ſi ri foluerà. Perchè non è cofa, che a ſolleuare la generoſità dell'animo ſia più poſſente; quanto l'eſaminare con me todo, e verità ciaſcuna coſa che può accadere nella vita ': c riguardarla del continuo in tal modo, che tu comprenda inſieme a qual Mondo, qual vſo porgano, che poſto tena gano in riguardo dell’yniuer fo, e quale in riguardo dell' huomozil quale è cittadino di quclla ſopraniſlıma Cittade di cui le altre ſono come.abi. tazioni di famiglie: Che co fa ſia, o di quali principij ſia compoſto, e quanto tempo fia per durare quello, che al preſente m’imprime tale im inaginazione; e qual virtù in torno quello s'habbia da vla re: come a dire della manſue tudine, delle fortezza, della verità, della fede, della ſchiet tezza della contentezza, del la propria ſorte, e d'altre fi mili. Per lo che biſogna dire di ciaſcheduna coſa: Queſto viene da Dio, ma questo per fatale ordinazione, e conneſ fione delle cose del mondo o per una tale congiuntura, e fortuna: E queſto altro pro cede da vn tuo proſſimo, e congiunto, e teco conuer fante, ignaro di quello, che a lui pernatura ſi conuiene. Ma io che lo ſo m’auuaglio d' effo, fecondo le leggi naturali della comunicazione, con af fetto benigno, e giuſtizia; e inſieme nelle coſe indifferen ti, o mezzane mi ſtudio d' andar conghietturando, qual ftima a quelle habbiaſi a da re. Se tu, della retta ragione feguace, opererai quello che haurai dauanti ſtudiofa mente, validamente, placi damente, e non mirando ad altro che all'intrapreſo nego zio, anzi conferuerai il tuo genio puro, e conſtante, co me ſe già ti abbiſognaſſo di renderlo. Se dunque queſto offeru.crai, a niente altro at tendendo, niente fuggendo; ma nell'operazione, che hai tra le mani, conformandoti alla natura, e contentandoti d'eſprimere con verità eroica tutto ciò, che a dire intra prendi, tu viucrai felice. In vero non v'ha chi ti potra quefto impedire. u Comei Maeſtri del cu rare hanno ſempre alla mano gli ſtrumenti, e i ferri per ogni inopinata cura così habbi tu pronti i decreti a ri conoſcere per mezzo d'effi le coſe diuine e l'humane, in tutto ciò, che, quantunque mi nimushaurai da operare; ben ricordcuole come queſte fia no amendue tra di loro con giunte, non potendo far nulla, che appartenga agli huo mini, che per mera corriſpon denza al Cielojne per lo con trario. 12 Non andar più vagan do, mentre non haurai più da leggere i tuoi libretti di me morie, ne i fatti degli an tichi Romani, e Greci, ne le raccolte, che hai eſtratte da varij ſcrittori, le quali riſer bate t'haueui per la vecchia ia. Affrettati adunque ver ſo la fine, e abbandonando, mentre che t'è lecito, le va ne ſperanze, porgi ogni aiu to a te ſtello, ſe tu fe'a cuore a te medeſimo. 13 Gli huomini volgari non fanno quanti ſignificati hab biano le voci rubate, femina re, comperare, ripoſare; ne fanno diſcernere quello, che s'ha da operare: il chenon ſi fa con la viſta degli occhi, macon altra perſpicacia. Habbiamo il corpo, l'a nima, c la mente: Al corpo appartengono i ſenſi, allani ma gli apperiti, alla merite i decreti. Si formano le imma ginazioni ancora dagli ani inali bruti; ma il laſciarli trarre dagl'imperi degli ap petiti a guiſa di pupazzi tira ti con cordicelle, è cofa da beſtie, e da effeminaci, e d ' yn Falaride, ed'vn Nerone. L'applicarela reggitrice men: te all' apparenti conuenienze è ancora di coloro, i quali non tengono, che ci ſiano gl’Iddij, e che alle occaſioni abbandonano cziandio la pa tria, e che quando han chiu te le porte, fanno di tutto. Se dunque l'altre coſe ſono comuni alli già detti, reſta proprio dell'huomo dabbene l'amare, e abbracciare ciò che a lui auuenga, e che dal fato gli fia compartito, come il non rimeſcolare, e confon dere il genio, che nel mezzo del petto riſiede, ne pertur barlo colla moltitudine dell' immaginazioni: ma conſer varlo placido, e come a vn Dio, decenteinente portar gli riuerenza, ed oſſequio. Non proferendo mai parola, che tutta yera non ſia;ne fuo ri del giuſto facendo cofa al cuna. Se poi tutti gli huomi ni non crederanno, ch'egli fchicttamente, e oneſtamen te, e tranquillamente ſe ne viua, non però fi crucсerà con chi che ſia di loro; ne vſcirà mai dal dritto ſentiero, che lo conduce al fine della vita, al quale fa di meſtiere giugnerepuro,quieto, c pron to a diſcioglierſi, e acco- - modarſi di buona vo glia al proprio de ſtino. Nell interno che domina in noi quando ſi confor ma alla natura, reſta sì indif ferente a tutti gli auueni menti, che ſenza ripugnanza ſempre prontamente ſi tra fporta a ciò; ch'è poſſibile, e conceduto; Imperocchè non s'obbliga a materia deterininata; ma è facile verſo ciò, che gli venga propoſto, ben che con qualche eccezione; e quello, che in luogo dell eſcluſo è introdotto, s'appro pria come ſua materia, in guiſa del fuoco, quando nel le coſe, che incontra predo mina; dalle quali vna picco la lucernctta verrebbe e ſtinta,la doue vna gran fiam ma trasforma in ſe preſta mente tutto quello, che in nanzile è poſto, e lo conſu ma, e di quell'iſteſſo diuiene maggiore 2 Niun'opera ſi faccia a ca ſo, ne altrimente ſi eſegui ſca, ſe non conforme agli ammaeſtramenti di perfezio ne dell'arte. 3 Proccurano le perſone di ritirarſi nelle campagne,alla -50 he 9 or it 71 za 2. e 01 marina, e ne' monti, e an co tu queſti ſe' stato particolarmente ſolito d'amaro e queſta è coſa ordinarijfſima agl'idioti; eſſendo a te lecito in qualſifia tempo, che ti pia cerà, ritirarti in te ſteſſo. Ne c'è luogo per l'huomo di più quiete, e più lontano dalle faccende, per ritirarſi di quello del proprio animo; particolarmente ſe haurà in ſe formato tali concetti, che in quelli internandoti pron tamente rimanga in vna to tale tranquillità. Ne altro dico eſſere queſta calma che l'animo ben compoſto: Ritirati dunque ad oraad o ra, e rinnuoua te ſteſſo. Si eno però breui, è ordinati que' ricordi, i quali ad vn tratto fouuenendoti, ſaran no ſufficienti a liberarti dio gni moleftia, e di rimetterti nelle tue operazioni; alle quali ſenz' annoiarti farai ri torno. Poſciachè di qual co ſa pigti tu noia? forſe della maluagità degli huomini? Rammentati di quel decreto, che i viuenti ragioneuoli ſo no prodotti a pro \ vno dell'altro; e che il medeſimo ſofferire è part e della giuſti zia dell'huomo: e che quelli, che delinquono, no'l fanno di buona voglia; e quanti dopo hauere eſercitato l'oſti lità, i ſoſpetti, e gli odij, e trafittiſi ľ.yn l'altro, ſono morti e diſteſi ridotti in cene, re? quietati dunque vna vol ta. Ma tu non t'appaghi di quello, che dall' vniuerſo ti è ſtato diſtribuito. Richiama: D però nella memoria la pro porzione diſgiugnéte, che ci è, o la prouidenza, o gli atomi, o anco altre coſe, donde ben fi conchiude che il Mondo è in guiſa di ordinata Città. Se poi t'aggrauono le coſe cor poree, tu quì confidera che la mente, dopo che vna vol ta ſi ſarà in ſe ſteſſa raccolta, e haurà riconoſciuta la pro pria dignità, non ſi meſco ſerà con iſpirito, che venga ad eller morbidamente, o ru uidamente agitato. Aggiu gnidi più tutto quello, che del dolore, e del piacere tu hai vdito, e l'hai approuato. Mala gloricota ti diſtrarrà? Da vno ſguardo, come pre fto va il tutto in dimenti canza, e nel chaos dell'euo da amendue le parti immen fo, e nella vanità d ' yn rim bombo: e quanto mutabili, e ſenza giudicio fono quelli, che di noi poſſono formar concetto, e in quanto poco luogo tutto ciò li circonſcri ue; mentre tutta la terra è yn punto, e di queſta non è che yn cantoncello la noſtra abitabile; e quanti, e quali fono quelli, che ſieno per lo darti. Ricordati dunque di ritirarti in quella particella di te ſteſſo; e ſopra tutto di non ti diftrarre, e di non far refiftenza; ma fij. franco, e ri guarda l'opere da PERSONA VIRILE, D’UOMO, da cittadino, da viuente mortalc. Ma tra i ricordi più pronti e ſpe diti, i quali hai da conſide rare, fieno queſti due. L'yno, che le coſe iftcffe non s'at D 2 taccano all'anima, ma ſtan no al di fuori immobili; e che le turbazioni deriuano ſolo dall'opinione interna: l' altro è, che quanto vedi, queſto non iftarà guari a mu tarſi, e più non ci ſarà; e con fidera a quante mutazioni già tu ti ſe trouato, e di con tinuo tieni a mente, che il Mondo ſta nell'alterazione, la vita nell'opinione. 4 Se l'intelletto è comune, comune ancora è la ragione, mediante la quale noi ſiamo ragionevoli. E ſe è vero que ſto, eziandio la ragione, che comanda quello, che ſi deb ba, e che non ſi debba ope rare, ſarà coinune. E ſe è cosi, ſarà comune la legge; il che ammettendoſi, verre mo noi ad eſſer Cittadini; donde è, che hauremo da par ticipare di qualche Cittadi nanza; e conſeguentemente reſta il Mondo eſſere come vna Città. Concio ffiecofa che dirà alcuno: qual'altra Cittadinanza fitruoua fi co mune, della quale tutto il genere humano partecipi? E da queſta comune Città deriua l'iſteſſo effer noſtro in: tellertilo, e ragineuole, e le gale. O se quindi non ès-don de è perciocchèſi come quel lo, che è di terreſtre in me, da qualche terra a me ſi com, parte, el eſſere vmido da vn altro elemento, e l'eſſere fpiritale da qualche ſcaturi gine di ciò, e'l caldo, e l'i gneo da qualche altra pro pria ſorgente; imperocchè nulla prouiene dal nulla, co D3 me ne meno ritorna in quel che non è così anche l'intel lettiuo da qualche luogo fi comparte. 5 Tale è la morte, quale è la generazione, e ſono degli arcani della natura; queſta è miſtura degli elementi, e quel. la è diſcioglimento ne'mede fimi: In ſomma non ſe n'hà d'hauer vergogna, poichè non è contra la conuenienza del viuente intellettuale, ne repugna alla ragione della di lui conſtituzione, 6 La natura porta che queſte cofe da tali ca gioni nafcano neceſſaria mente; il che, ſe ad alcuno non piacerà, vorrà che'l frutto del fico non habbia lattificio. Quello in tutto, e per tutto rimanga nella mente, che tra breuiſſimo tempo tu, e quel tale vi morrete, e tra poco non ci ſarà, ne pu re il voſtro nome. Leua via l'opinione, che ſarà tolta la querela, che dice, IO SO NO STATO OFFESO, leua queſto dire: IO SONO STA TO OFFESO, e verrà tolta l'offeſa. Quello, che non fa peggiore in ſe l'iſteſſo huo mo, non renderà peggiore la di lui propria vita; e ne in ternamente, ne efternamen te l'offenderà. 7 La natura ad operare in tal modo per lo comune vti le fu neceſſitata. E ciò, che auuiene, giuſtamente auuie ne: il che ſe attentamente of feruerai, trouerai eſſer vero; ne per ſola conſeguenza di co, che è queſto, ma perchè D4 così vuole il giuſto; venen do da colui, il quale ſecon do il proprio merito, diſtri buiſce a ciaſcuno il ſuo.Of ſerua dunque tu queſto, co me hai dato principio; e nel fare qualunque coſa ado pera con qucfta oſſeruazio ne, e con lefſere huomo dab bene; ina di quella maniera, come s'intende propriamen te l'hucmo dabbene. Tutto ciò oſſerua in ogni tua ope razione. 8 Non farai concetto del le cofe fecondo il giudicio di chi t'oltraggia; ne come e quali eſſo vuole che tu le giudichi; ma conſiderale, quali eſſe veracemente ſono. 9 Debbonfi ſempre hauer in pronto queſti due punti: primieramente di non operare in modo diuerſo da quello che la ragione, Rcina, e leg gislatrice per l'vtile degli huomini fuggeriſce; ſecon dariamente d'effer facile a mutarti di parere, ſe qual cuno fi corregga, e rimuoua da qualche opinione; però queſto rimouimento s'ha ſempre d'appoggiare alla perſuaſione, che porti del giuſto,o del ben comune, O di coſe ſu queſto andare,non per compiacimento, ouero per apparenza di gloria. Hai tu la ragione? la tengo: Per chè dunque non te ne ſeruia Che vuoi cu altro, che que ſta, mentre ella fa quello, che è proprio di lei? 10 Come parte di queſto vniuerſo già ſe'ſtato conftitu ito, così tornando a chi t'ha DS fat 82 LIBRO QVARTO fatto, diſparirai, o più toſtoy con qualche mutazione, fa rai ripoſto nella ragione fe minále di quello. Di molte granella d'incenso su Piſteffo altare vna cade prima dellº: altre, purchè ſi conſumi mula la importa. Tra dieci giorni tu parerai vn Dio a quelli alli quali ora ſembri vna be ftia; e yna ſcimia, fe ritorni a ri pigliare i decreti, e la vene mazione della ragione. Non fare i conti come fe hauefli ancora a viuere più migliaia d'anni. Il debito fatalc fou raſta, mentre viui,mentre ti è permeſſo diuenta buono.. II Quanto di quiere d'ani mo guadagna chi non bada a quello, che'l vicino diſſe, o fece, o pensò, ma ben fi ſolo a quello, ch' egli ſteſſo fa, acciocchè l'opera ſua ſia giuſta, e pia?, nericercando va ſe altri ſia di buoni, o rei coſtumi, ma corre a dirittu ra per la linea, ſenza punto da efla ſcoſtarſi? I2 Chi dietro alla fama apoſtuma ſe ne va,come ſtor dito, non conſidera come cia fcuno di quelli, che di lui li rammenteranno, anch ' egli preſto ſe ne baſirà, e così di nuouo quegli ancora, chea queſto ſuccedera, finchè ogni memoria, per mezzo di huo mini, parte ſtupiditi, parte già morti continuata ſi ſpen ga.Mapreſupponi tu, che quelli che terranno di te me moria fieno immortali, e la memoria rimanga immorta le? ciò che gioua a te 2 ne ora parlo di quando tu fa D 6 rai nh ada Te ef 1 rai estinto, ma del preſente mentre tu viui. Che è la lo de ſe non certamente yn tal condeſcendimento d'huomi ni. Tralaſcia dunque, come inopportuni i doni della na tura, mentre che dipendo no dal giudicio d'altri. Del reſto tutto quello, che in qualſiuoglia maniera è buo no per ſe ſteſſo è buono, e in ſe ſteſſo fi riſtrigne; ne tra le fue parti annouera la lode; onde non diuiene ne miglio re, ne peggiore. il lodato. Queſto dico ancora di ciò, che volgarmente ſi chiama buono: quali ſono le coſe, che o per la materia, o per l' operazione dell'arte tali fi ftimano. Ed in vero quello, che è realmente buono, di che ha biſogno di nulla più certamente che la legge, di nulla più che la verità, di nulla più, che la buona mente, che la modeſtia Quale di queſte per lo eſſer lodata diuiene buona, o bia-, fimata ſi corrompe? forſe di uenta peggiore lo ſineralduc. cio, ſe non è lodato? non di rafli il medeſimo dell'oro, dell'auorio, della porpora, del pugnalett, del fiorellino, dell'arbuscello? Se l'anime ſempre du rano, come fin dall' eternità le può contenere in ſe l'aria? e come la terra i corpi rac chiudere de' ſepolti di tanti ſecoli: Poichenell'iſteſſo mo. do, che la mutazione, e la re ſoluzione di queſti danno luogo ad altri cadaueri,dopo eſſer per qualche tépo quag. giuſo ſtati, così l'anime poi chè ſono ſtate traggettate nell'aria, e trattenuteuifi al quanto, fi tramutano, e ſi ſtruggono, e s'abbruciano, ri tornando nella ragione ſemio nale del tuttoje in tal modo fanno luogo ad altre, che appreſſo vengono a ricongiu gnerſi. A queſto ſi riſponde, che ſuppoſto che l'anime du rino, biſogna non ſolo con cepire la moltitudine de'cor pi così ſepolti, ma quella an cora degli animali, che cia fcun giorno da noize da altri animali ſi mangiano; poichè quanto numero le ne confu ma, ecosì in yn certo modo ſi ſeppelliſce nelle viſcere di quelli, che ſe ne cibano de tuttauia capono in questo luogo per la traſmutazione in in sangue, in aria, e in fuoco. Qualeè intorno a que ſto la notizia della verità il. diuiderſi in materiale, e cau-, ſale. Non fi vuole andar con aggiramenti vagando, ma in ogni appetizione dell'animo deefi aſſegnare il giuſto; ed in ogniimmaginazione con feruare quello, che ſi è compreso. Tutto quello, che a cé, o Mondo, è conueniente, a me ancora ſta bene. Nulla è a me acerbo, o tardivo, che a te ſia ſtagionato; ogni coſa, che portano le tue ſtagioni, è a me frutto. O natura, da te deriua il tutto, in te è il tutto, e a te il tutto ritorna. Diffe colui; Amata Città di Ci tropese tu non dirai,Amata Cit tà di Gione? Intrigati di poco, diſſe, se tu vuoi ſtare coll' animo quiero Non è miglior cola, che far ſolo ciò, che è neceſſario, e quello, che la ragione all ' huomo,nato per la vita ciui le, detta, e nel modo, che lo detta. Imperocchè queſto non folamente reca la tran quillità, che dal ben fare procede; ma quella ancora, che dal poco operare.ti au uiene. Concioſliecoſa che; fe la maggior parte di quello che ſi dice, o lifa, non eſſen do di neceſſitade, alcuno ri ciderà, egli ſe ne ſtarà int maggior ozio,c meno ſturba to. Perciò biſogna in ciaſcu na coſa in particolare ricor darſi che forſe ella ſi è vna di quelle, che non lon neceſſa rie. Biſogna in oltre non ſo lo toglier vią l'azioni, che non ſon tanto neceſſarie, ma ancora l'iſteffe immagina zioni, perchè così non ſegui ranno azioni ſuperfluc. Fa prova, come ti rie fca la vita d'vn huomo dab bene, cioè, cheſi contenta di ciò, che dall' Vniuerſo gli vien aſſegnato, che ſi ſoddis fa del proprio operare giu ſtamente, e della ſua man fuera diſpoſizione.Hai confi derato queſto.2 rimira queſt altro; non ti turbare, habbi l'animo tuo aperto. Chi pec ca, contro di fe pecca. Ti au uenne qualche bene? Dal principio dell'uniuerso ti fu ciò deſtinatose intrecciato in ſieme ognaltro auuenimena to.In ſomma la vita è breue. Vuolſi guadagnare il preſen te gote con feguire la retta ragio ne, e la giuſtizia. Sta attento di non rilaſſarti. 18 O il Mondo è vna bel la ordinanza,o'vn meſcuglio confuſo, tuttauia & Mondo. Ora ſe in te ſteſſo qualche Mondo,cioè,comeper efem plo,vna venuſtà può conſiſte. re, haurà poi da eſſer yn'im monda ſconuenenza neli'yni. uerfo, mentre in effo tutte le cofe fi vedono così diſtinte, c dilatate, con effer inſieme reciprocamente affette? 19 Ci ſono coſtumi negri, coſtumi effeminati, ferrigni, ferini, e diquelli, che ſono fimili a'brutali, e a ' fanciul leſchi, inſenſati, affettati, buffoneſchi, tauernieri, e ti rannici. Se fireputa pellegri no nel Mondochi non faciò: che in eſſo ſi truoua, molto o più pellegrino è colui, che ignora ciò, che in eſſo ſi fac cia. Fuggitiuo farà chi fugge 0 dalla ragione ciuile, è cieco chi ha chiuſo l'occhio dell' intelletto, mendico chi ha neceffità d'altri, e non ha ap " preſſo di ſe tutto quanto gli è neceſſario per vſo della vi ta. Eyna apoſtema del mondo, chi ſi diparte, e fi difrom pe dalla ragione della comu ne natura, non accomodan dofi agli auuenimenti; men tre gli produce quella mede fima, che ha te ancora pro dotto.E vna ſtracciatura del la Città, chi diſtacca la pro i pria anima dalla mente r & ei gioneuole, che è vna. 20. Ci è chi filoſofa ſenza tonica, e chi ſenza libro, vn' altro mezz'ignudo. Non ho del pane, diffe, e nonmipar to dalla ragione. Io non ho il cibo degl'inſegnamenti, e pur in eſſi perſcuero: Affe zionati all'articella, che im paraſti, e in quella acqueta ti.Mena il reſto della vita tua con riporre negl'Iddij la cura d'ogni tuo affare, e ciò con tutto l'animo: e dhuomo, che viua,non ti fare,ne tiran i no, ne fchiauo. 21 Conſidera, verbi gratia, i tempi di Veſpaſiano, tu vi vedrai tutte queſte medefi me coſe, cioè huomini, e far.nozze, ed educar figliuoli, ed ammalati, e morienti, e com battenti, e feſteggiantise mer. catanti, e agricoltori, e adu latori, e arrogantemente par Janti, e ſoſpettoſi, e infidiatori, e deſideranti la morte, e delle coſe, che ſuccedeuano ha lamentantiſi, e innamorati, e at intenti ad ammaſſar teſori, e e ambizioſi di Conſolati, e di 1 Regni; tutti fparirono, e della loro vita già non vi rcſta 1 nulla. Appreffo traſportati all'età di Traiano; di nuouo I rimirerai tutte le medeſime cofc, e pur la vita di quelli non ci è più.Similmente con ſidera altri ſegnalati inter ualli de' tempi e delle intere nazioni; e offerua,come tanti, e tanti allora gonfiati l' vno * contro l'altro,dilì a poco ca e dettero, c fi dileguarono ne gli elementi. Specialmente B t'hai da rammentare di quel li, che tu ſteſſo hai conoſcill ti, che vanamente affannati hanno tralaſciato d' operare  conforme alla propria diſpo fizione, e d'aderire tenace mente a quella, e di quclla foddisfarli. E neceſſario an cora di rammentarti,che l'ap plicazione in ciaſcuna azio ne ha la ſua propria conue nienza, e proporzione; per chè così tu non ti dorrai; ſe tu non più di quello chepor ta il pregio in queſte coſe minori, ſarai occupato. 22 Le voci già correnti, ora fono diſufate, e richie dono chioſe; così i nomi di quelli già tanto celebri fono in yn certo modo al preſente fimilia derte voci: tale è Ca millo, Cefone, Volefo,Leon.nato; e poco appreffo Scipio ne; e Catone; dopo anco Auguſto, c indi Adriano, e Antonino; perchè ogni coſa ſua Ct colla 211 ap 10 16 ber Ol ſuaniſce, e tofto paſſa in fa uoleggiamenti, cben preſto dentro d' yna totale obbli uione reſta ingoiata.E queſto dico di quelli, che a maraui glia yna volta riſplenderono; poichè gli altri nell'iſteſſo lo ro fpirare reſtarono ignoti, e niuno più ne domanda. Che coſa è dunque queſta eterna memoria? Tutto vanità. In torno a che dunque s'ha da porreil noſtro ſtudio in que ſto ſolo; che la mente ſia giu ſta, l'azione diretta al co mun bene,tale la ragione che mai non reſti ingannatå, el animo così diſpoſto, che ciò, che gliaccada, abbracci, co me foſſe a lui neceſſario, e co me famigliare, e come dall' ifteflo comun principio, e fonte deriuato. Di buon ani til zie id 700 DITI OP ON DC1 او و mo gettati nelle braccia del fato; permettendogli che e inuolga in quelle coſe, che a lui parrà. Il tutto va a giorni, e chi rammenta, e'l rammen tato. Mcdita del continuo, come tutto ciò, che ſi fa a per mezzo delle mutazioni fi fa; e auuezzati a conſiderare, che nulla ama così la natura del l' vniuerſo, come di mutare gli entie far delle coſe nuo ue a quelle aſſomiglianti. Perchè in vn certo modo o gni coſa, che è, ſemenza è di quella, che da eſſa s'ha da produrre; e tu t'immagini ef ſer ſoli ſemi quelli, che ſi traſ mettono nella terra, o nell' vtero. Coteſti fono penſieri da perſona molto idiota. Già ſei all' orlo detta morte e ancora non se' diue hel nen ZIO pe TI che can de nuto ſchierto, e libero dalle rei perturbazioni, da’ſoſpettid' eſſere dagli eſterni leſo, ne bi placido inuerfo tutti;ne ſtimi la prudenza eſſere il ſolo giu ftamente operare. 24 Rimira la mente conducitrice degli altri e ciò, che veramente fuggano e fe de guano i prudenti. Il tuo male non consiste nella mente d'altri o ne' rivolgimenti o variazione dell'ambiente Doue dunque la doue tu hai l'opinionede'tuoimali. Per di ciò non opinare queſto, che il tutto andrà bene; ancor chè il corpicciuolo, che a f quello è propinquo,fi ſeghi,fi abbruci, marciſca, ſi putre faccia; purchè rimanga quie ta la particella, la quale for ma l'immaginazione di que dit + C. ef E Ite ſte coſe, cioè che non giudi chi eſſer ne bene, ne male ciò, che può accadere, tanto all'huomo dabbene, quanto al cartiuo, Concioſliecoſa che quello, che ſimilmente auuiene a chi viue, secondo la natura, e a chi viue diuer ſamente, non è ne secondo la natura ne contro di essa. Conſidera del continuo il mondo come un' animale, composto d’una sostanza e di un'anima, e come all ynico ſenſo di quello tutte le coſe ſi riportino, e come con vn'im peto il tutto operi, e come tutte le coſe tra fe di tutto quello che ſi produce, ſon co. muni cagioni;e quale ſia l'in trecciamento, ola teflitura. Sei un'animuccia, che porta un cadauero; diceua Epitteto. A quelli, che ora ſono ali nella mutazione, niente è di male, come niente è di bene a quelli, che nella mutazio ne ſuffiſtono. 28 L'euo è come un fiume, e come yna corrente violen ta delle coſe, che ſi fanno, perchè, ſubito che ciaſcuna di quelle compariſce, è rapi ta, e altra ne compariſce, e queſta ancora ſi traſporterà. Ogni accidente è così ſolito, e famigliare, come nella pri mauera la roſa, c nella ſtate i frutti. perciocchè tale è la malattia, la morte la maledi cenza, l'inſidie, e ciò che rallegra i pazzi, o gli contri fta. Quello, che proſegue, ſempre ſi connette accon ciamente agli anteceden ti. poichè non è vna nume 1 orazione di coſe tra loro dif crete, e ſuſſiſtenti per necef ſità ſolamente di calculo; ma èyna congiunzione, ſecondo la ragione; e come ſono coor dinate, e ben congiunte tut. te le coſe che eſiſtono, così quelle, che ſifanno non han no vna ſemplice ſucceſſione, ma dimoſtrano vna certa ma rauiglioſa famigliarità, che è tra di loro. 29 Habbiaſi ſempre a mente quel detto d’ERACLITO. La morte della terra eſſere quando diuenta acqua; e la morte dell' ac qua, quando diventa aria; come del l'aria, quando fuoco, e così per l'oppoſito. E ancora da ri cordarſi di colui, al quale era ignoto,doue la ſtrada condu ceſſe; e di quelli, che ſpecial mente, e del continuo con uerſano con la ragione, la quale ogni coſa amminiſtra, e nondimeno da quella dif ſentono, e che quelle coſe, nelle quali ogni dis’abbat tono, a loro paiono ſtranie re. e che non biſogna fare, e fauellare in guiſa quafi di dormienti,perchèallora anoi ſembra difare, e di dire; ne fi hanno da imitare i fanciul li, i quali dicono con ſempli cità: Così habbiamo appreſo dai noftri maggiori. « 30 Se alcuno degl' Iddij ti diceffe, che hai da morire la domane,o al più lungo por domane, non molto ti im portarebbe, che foſſe più to ito domane, che poſdomar nc, ſe non le d'animoin eſtre mo tralignante. Imperocchè E 3 quanto ſi è l'interuallo d'vn giorno cosìno iſtimare gran coſa le fia più toſto dopo moltiſſimi anni che domane. Ripenſa contimamente teco medeſimo; quanti medici ſon morti, che ſpeſſo hanno le ci glia inarcate ſopra de i ma lati? quanti matematici, che come yn gran caſo le morti d'altri prediffero 2 quanti Fi loſofi dopo mille, e mille contefe della morte, e dell' inmortalità? quanti prodi in armi, che molti vcciſero? quanti tiranni,checon gran de preſunzione della loro potestà sopra l'anime ſi feruiro no, quaſi chenon foffero e glino ancora mortali? quan te Città ſono, per così dire, affatto morte? Elice, Pom pei, Erculano, e altre innu nie merabili. Traſcorri ancora quanti hai tu conoſcuti l'yno appreſſo l ' altro morti. Que gli dopo hauer fatto i fune rali dell'altro, ha ſteſo egli morendo le gambe, e dopo lui yn'altro. Tutto ciò in bre de tempo. In ſomma ſempre fono da conſiderare tutte le coſe humane,come d'vn gior no, e di prézzo viliffimo: ieri vn pochin di mocci,domanc falſume, o ceneri. E perciò queſto momento di tempo paffalo viuendo, ſecondo la natura, e muori tranquillo, come l'vliua, che fatta ben matura cade laudando la ſua producitrice, e rendendo gra zie all'albero, dal quale fpuntò. 31 Sij ſimile a vn promon torio, nel quale inceffante E 4 mente l'onde s'infrangono; e nulladimeno egli ſta ſaldo, e intorno a lui fi abbonacciano gli orgogli dell’acque. Infe. lice me, perche ciò mi è au uenuto l’anzi al contrario, me ſelice, che essendo miciò accaduto, me ne ſto ſenz'al cun dolore, nedal prefente offeso, ne temendo l'auueni re. imperciocchè queſto po teua ad ogni altro accadere, manon ognuno l'haurebbe ſopportato ſenza dolerſi.Per chè adunque più toſto quello infelicità che queſto felicità farà da noi giudicato? echia mi tu a pieno infelicità dell' huomo corefto, che non è difauentura alla natura hu mana? E diſauucntura della natura humana pare a te, che ſia quello, che non è contra ilvo il volere di lei? Quello che ella voglia, l'hai tu appreſo? Non é impediſce dunque queſto accidente, che tu non ſij giuſto, magnànimo, tem perato, prudente, conſidera to,,verace, modesto, libero, con le altre qualità, le quali efſendo preſenti, la natura humana gode ogni ſuo pro prio. Quanto al rimanente ricordati, ogni volta che al. cuna coſa t' induce ad attri ſtarti, di valerti di queſta ſen tenza. Che queſto, che t'è accaduto non ti è d'infelici tà, ma di felicità, foppor tandolo generoſamente. 32 Per certo è volgare aiu to, ma tuttauia efficace, per diſprezzar la morte, il ri membrarſi di quelli, i quali, attaccati al viuere, lungo Es: tempo durarono. Che hebbe, ro più queſti di quelli, che in eri acerba morirono?Giacor ciono ſenza dubbio in qual che luogo Cadiciano, Fabio, Giuliano, Lepido, e altri fi mili, i quali, dopo hauer fat ti i funerali a molti, eglino ancora furono poſcia ſepolti. Finalinente ci è poco d'inter ftizio, il quale con quante moleſtie, e con quali ſten ti, e in qual corpicciuolo vien ſofferto? Dunque non ne far gran conto į rimira però indietro all'immenſità dell'euo, e a te dauuanti yn altro infinito. In queſto, che differenza è tra vno morto a capo di tre giorni,e d'vn Ne ſtore di tre ſecoli? Per la ſcortatoia corri ſempre, e quella via, che ſi conforma alla natura, è la fcortatoia saluteuole. Però dì, e fa ogni coſa nella ma niera più ſalateuole. Impe r occhè queſto propofito libe ra dalle fatiche, da i com battimenti, da ogni ſimula zione, e da ogni oſtentazione. Vando dal ſonno neghittofamente la mattina ti fue gli, habbi in pronto. lo mi fueglio all'opera dell'huomo; ancora dunque ripugnanza fento, ſe io vo a fare quello pere, alle quali ſon nato, e per le qualiſono ſtato intro dotto nel Mondo forſe ſono ſtato ordinato, acciò tra piu macciuoli giacendo io mi riſcaldi? Maciò è di maggior guſto. Dunque a pigliarti gu ito, e in ſomma non al fare ne all'operazioni ſei nato? non vedile pianterelle, i paſ ferotti, le formiche, i ragnis l'api comecooperano all' or namento delMondo, e tu non vorrai fare quello, che ſpet ta all'huomo e non accorri a ciò, ch'è conforme alla nå tura tua? Ma biſogna pure ripoſarti. Biſogna.Ed in que ſto la natura aſſegnò lemiſu re; e diedele ancora, ed al mangiare, ed al bere; e non dimeno tu pafli oltre alla mi fura, e oltre alla ſufficienza. Non però così nell'opere; ma affai meno di quello ſi puote; concioffiecoſa che tu non a mi te ſtello, che quando ciò foffe, amereſti la natura, e'l di leivolere. Altri, che amano le loro arti, ſi conſumano ne’lauorij di quelle ſenza go der de bagni, e ſtando digiu ni. Tu fai men conto della tua natura, che il tornitore non fa dell'arte del tornire, o il ſaltatore dell'arte del fal tare, o l'auaro dell'argento, o il vanagloriofo della glo rietta; e quando queſti s'af fezzionano a cotalicofe, alle qnali ſono inclinati, abban donano più preſto ilmangia re, e il dormite, che il laſciar d'accreſcerle. E a te l'azioni fpettanti alla comunicazione humana appariſcono di più baſſo pregio, e men degne ď accuratezza. Quanto è facile lo ſcace ciare,elo fcancellare ogni turbolenta immaginazione, onon conueniente, e ſubito metterli in iſtato d'ogni tran quillità? Reputa te ſteſſo de gno d'ogni diſcorſo, e d'ogni azione, che lia conforme alla natura, ne ti ritragga il ri chiamo d'alcuni, o il biaſimo, che ne ſegue; masſe farà coſa oneſta da operare, o da dire, non te ne ſtimerai indegno. Imperocchè hanno quel li la propria loromente, e v fano della propria inclina zione, alle quali tú non hai da riguardare, ma dei cam minare per la diritta, ſegui tando così la propria comela comunenatura, delle quali amendue èvna via. Io cammi. nando me ne vo per le coſe, che ſono ſecondo la natura, finchè cadendo io mi ripoſe rò, e ſpirando in quello,don de ciaſcun giorno reſpiro, e si cadendo in quello, donde il ſemuccio da mio padre, e il fanguuccio da mia madre, e il lattuccio dalla inia nutri ce furonoraccolti; e del qua le per tanti anni ogni di mi paſco, e m’abbeuero, che mi foftiene mentre lo calco, e dello ſteſſo in tanti modi in '. abuſo. 3 Non hanno in chemara uigliarſi della tua acutezza fia così. Ci fono molte altre coſe,delle quali non puoi ne gare, che in te non ſia l'abi lità Mettidunque in opera quelle, che ſono tutte a tua. diſpoſizione, l'eſſere ſincero, grauie,tollerante della fatica, non amico del piacere, non, quereloſo della tua forte, biſognofa di poco, placidos libero,moderato, serio, e magnifico. Non t'accorgi quan te coſe tu hai poter di fare, per le quali tu non hai prete ſto, che la tua natura non fia atta, o abile; nondimeno di propria elezione te ne reſti, comedappoco al diſotto? forſe inetto per natural diſpo ſizione ſe neceſſitato a inor morare, ad eſſere tenace, ad adulare, ad incolpare il cor picciuolo, o a luſingarlo, ad effere vano, ed a cotanto nel l'animo agitarti d'eſſer natu ralmente inetto, e dappoco? Non per gl' Iddij. Ma però già vn pezzo fa di tutte que Ite coſe tu eri da te ſteſſo pof ſente a libcrarti.E ſolamente, ſe però è così,poteui ellerac cuſato come più tardo, e du ro ad apprendere. Ed in que ſto ancora ti doueui eſercitare, non trasuolando altroue con la mente, ne godendo della pigrizia. 4. Euni chi, quando ha vſa to qualche amoreuolezza in riguardo d'alcuno, glie lo di chiara incontanente per gra zia: eď emui ancora chi, ſe non vſa ſeco tal prontezza in ri conoſcerla, nondimeno ap preſſo di ſe penſa, quanto quegli li ſia debitore, e cono ſce molto bene quello, che egli haoperato. Fuui ancora chi in vncerto modo non co noſce quello cheha operato; ma è fimile alla vite,laquale, prodotto il grappolo,null’al tro di più richiede, dopo ha uer yna volta dato il ſuo frut to. Il cauallo, cheha corſo il cane,che ha cacciato; l'ape, che ha lauorato il mele; 1 * huoc huomo, che ha ben opcrato, non cerca acclamazioni, ma procede ad yn altr'opera, co me la vite torna a produrre dinuouo alla ſtagione vn al tro grappolo. Fra queſti dun que biſogna in un certo mo do eſſere, come chi ſenza ba dare opera? fi per certo. Nul ladimeno a queſto iſteſſo s'ha da badare.  Perciocchè, dirà alcuno, è proprio del comu nicatiuo che s'auuegga d'o perare, conformealla comu nicazione; ma perciò ſi vuole, per gl'Iddi, che anco quegli a chi fi comunica, fe n'accor ga. E'veriffimo coteſto, che tu dì, ma ſe tu non compren di quello, che'ora ſi dice, farai per tanto vnodi qnelli, de'quali ſopra s'è fatta men zione: concio ffiecoſa che ancora quelli da certo probabi le diſcorſo'fi diftraggono, ma ſe tu vorrai comprendere quale vna volta fia quello, che s'è detto, non temere; ne perciò laſcia d'operare per beneficio comune. Erano le preghiere degli Atenieſi: Pioni,pioui, ocaro Gion u éjsopra i campise gli orti degli A tenieſi. Però o non bisogna pregare, o farlo con iſchiet tezza, e con libertà. A quello, che comune mente ſi dice: ESCULAPIO ba oi dinqto a queſti il canalcare, o il lauarli con acqua fredda, d'andar a piedi ſcalzi;è fimile anco queſto che la natura dell? vniuerſo ha ordinato a quegli la malattia, o la ſtor piatura, o qualche perdita, o altro ſu queſto andare: poi chè nella parola, Ha ordinato, vi è vn tal ſenſo, che coſti tuiſce queſto in ordine a que ſto, come per riferirſi alla fa nità, e così qui quello, che accade a ciaſcheduno, è con ſtituito per relazione al deſti no. E però diciamo queſte coſe conuenirſi nel modo, che gli artefici dicono le pietre quadrate per le mura, e per le piramidi conuenirſi tra di loro in tale commetti tura combaciandoſi. Perchè in fatti l'armonia è viia, e ' fi come da tutti i corpi ſi viene a compirc vn tal corpo, che è il mondo, così di tutte le cagioni vien ad esser il fato vna tai cagione compita. Comprendono ciò, che dico anco le genti affatto idiote. imperocchè così fauellano. Queſto huyenne a colui, dun que queſto a colui douea ar rivare; e ciò era dal fato or dito a queſto. Prendiamo dunque ſi queſte coſe, co inc quelle, ſecondo che Eſculapio ordinò - Perchè molte coſe in vero in fc ſter ſe ſono aſpre, e nientediine. no noi l'abbracciamo per la ſperanza della ſanità. Penſa alle coſe, che per la comune natura auuengono, la perfe zione, e il compimento effe re, come a te la ſanità. E così tuto quello, che vien dato,benchè ti paia vn po co più aſpro ", abbraccialo, perchè conferiſce alla sanità del mondo, c agli proſperi auuenimenti, e beneficenza di Gioue. Concioſliecoſa che queſti non produſſe mai coſa alcuna, fe non per giouare all'vniuerſo; giacchè qualſifia natura non produce niente, che non ſia congruo al go uernato da lei.Però biſogna che per due ragioni tu amio gni qualunque coſa ti auuie ne. Quanto all'vna, perchè per te ſi fece, e a te s'ordinò, e a te in certo modo attiene, deſtinato da ſourane, e anti chiſime cagioni. Quanto all' altra, perchè al reggimento dell' voiuerfo ancora quel particolare,che a ciaſcuno au uiene, è cagione del progreſ ſo, e della perfezione, come anche in verità dell'iſtella per inanenza. Perciocchè ſi ſtor pia l'integrità del tutto, fe qualſifia particella tu tronche rai della conneſſione e conti nuanza,così delle parti come delle cagioni; e, per quanto è in te, lo tronchi, quando non ben lo riceui, ed in vn certo modo lo toglivia. Non s'ha da maledire, non da ſmarrirſi,nc ſtomacar fi, ſe volendo tu operare, ſe condo la rettitudine de'pre cetti, in ciaſcuno di quelli non ti rieſce; ma ancorchè ſij abbattuto, torna di bel nuouo ad eſſi, e ad abbrac ciarli nelle coſe, che hanno maggiormente dell'humani tà; e affezionatia quell'azio -ne, alla quale tu riedi. Nc ſi ha da tornare alla filoſofia, nel modo, che ſi fa al pedan te, ma come glinfermi d'oc chi ricorrono alle ſpugnette e all'youo, o come altri all' impiaſtro, e altri al lauamen to. Imperocchècosi non ostenterai d' eller lignoreg giato dalla ragione, ma di ri poſare totalmente in eſſa. Ri cordati, che la Filoſofia ſolo vuole quello,che la tua natu ra vuole:ma che tu hai voglia d'altro diucrſo dal voler della natura. Qual coſa ha più di queſte deldiletteuolc? poichè il piacere non ingan na egli noi per mezzo di quelle? ma tu conſidera, ſe più diletto dia la magnani-, mità, la franchezza, la ſchiet tezza, l'equità, la ſantimonia. E qual coſa vi è, che ſia più diletteuole della prudenza, quandoben conſidererai,che ſia il non fallire, e l'eſſer ben docile in tutto quello, che tocca alla facoltà dell'inten dere, e del ſapere? 8 Sono le coſe in yo certo F modo così ricoperte, che a non pochi Filoſofi, e queſti non ignobili. parue che del tutto fieno incomprenſibili. Anzi agl'iſteſſi Stoici ſembra rono difficili a comprenderſi. Ed eſſendo ogni noſtro aſſen ſo ſoggetto a cadere, e mu tarſi, in che luogo dunque fa rà l' immutabile? Riuolgiti però col penſiero a queſte co ſe preſenti;e cöſidera quanto ſieno momentanee, e di po ca ſtima: ch' elle poſſono ef ſere poſſedute da vn zanze ro, da vna meretrice, da vn aſſaſſino. Dopo queſto tra paſſa a i coſtumi di quelli che teco viuono, tra quali anco il più da te gradito, malage uolmente da te vien compor tato, per non dir che l'huo mo appena comporta ſe ſtesso. In queſta perciò caligine e immondizia, e in tal Auſli bilità della ſoſtanza del tem po, del moto, e di tutto quel, che ſi muoue, non potrà im maginarſi qual ſia quello che poſſa eſſer degno affatto di ſtima, e d'affetto. Dall'altro canto però biſogna confor tarſi ad aſpettare il natural diſcioglimento, e non dolerſi del rattenimento, ma ac quietarſi in queſte due ſole coſe: L'yna ſi è, che nulla mi auuerrà, che non ſia confor me alla natura dell' vniuerſo; e l'altra, che ſta in mio pote re di non operare contro il mio Dio, e genio:'concioſ fiecoſa che niuno ci forzi a traſgredir queſto. A che finalmente mi va glio ora dell'anima mia? Ad ogni momento ho da in terrogaré me ſteſſo, e ricer care che ſi fa adeſſo da quel la porzione, che reggitri ce viene chiamata? Di chi dunque preſentemente porto l'anima? per auuentura d'vn: bambolino, o d'vn fanciullo forſe dyna donnicciuola, d'vn tiranno, o d'vn giumen to, o d'una fiera? Quali ficno i beni, che alla moltitudine paiono tali; lo potrai quindi comprende re;poſciachè ſe vno concepi fce nell'animo efferui alcuni veramente beni, come a dire la prudenza, la temperanza la giuſtizia, la fortezzá, chii haurà con la conſiderazione concepito queſte tali cöfe, non potrà più dar luogo ad alcun'altra, che a queſto bene non ſi conformi. Ma ſe nella mente ſi faran concepi te quelle, che con faccia di bene agli più piacciono, da rà luogo, e facilmente rice uerà il detto del comico.Co sì fin il volgo immagina ſimil differenza;perchè altrimen te quel detto non offende rebbe, e non ſarebbe con if degno mal preſo. Per lo con trario l' ammettiamo come propriamente detto, quando cade ſopra delle ricchezz e, e de cominodi per lo luffo, e per la pompa. Passa più ol e interroga, ſe queſte coſe hai da pregiare, e ſtima re,quando di eſſe li truoua ef ſer detto con gaiezza, e gra zia, che al poſſeditor di det te coſe per la gran copia manca doue egli yoti il triſto facco. Sono ſtato compoſto di cauſa, e di materia, e ne l'vna, ne l'altra fi dilegucrà nel nul. la; giacchè di nulla non fu prodotta. Dunque ognimia parte mutandoli rientrerà in qualche parte del Mondo; e di nuouo queſta in vn'altra parte del Mondo ſi traſmute rà, e così in infinito. Per mezzo di queſta mutazione ed io ſon venuto, ed i miei genitori; e così retrogradan do in vn altro infinito. Ne ci e chi proibiſca di così parlare, ancorchè per peri odi terminati la macchina mondiale ſi regga. La ragione, e l'iſteſs'ar te ragioneuole ſono facultà a ſe medefime, e alle opere loro proprie ſufficienti. Muo uonli dunque dal loro proprio principio; e camminano dirittamente al propoſto fine. Per lo che ſi dicono rettifica zioni così nomate queſte azioni a ſignificar la rettitu dine del ſopraddetto cam mino. Neſſuna di queſte co ſe è da dir, che ſia dell'huomo la quale non conuenga all' huomo, come huomo, ne ſi richiedono dall'huomo, ne quelle profeſſa la natura del l'huomo, ne ſono perfezioni della natura humana. Non è dunque ne meno il fine dellº huomo ripoſto in quelle, ne meno il bene, che è il compimento di quel fine. Se pure qualche cofa di queſte foſſe conferente all'huomo, non gli apparterrebbe ne il diſpregiarla, ne il contrariar la: ne farebbe da lodarſi chi si moſtraſſe non hauer biſo gno di elle, anzi chi ſtudiaf fe priuarſi d'alcune di quelle, non ſarebbe buono, mentre quelle foffero buone. Ora però quanto più l'huomo ſi leua queſte coſe dattorno, 0 altre ſimili; o permette, che ſe gli leuino, tanto più buo no è. Tale farà la tua mente quali ſaranno le coſe, che ſpeſſe volte ti ſono paſſate per la fantaſia:reſtando l'ani ma colorata dall'immagina zione. Immergila dunque in fi fatte continuate immagi nazioni; delle quali yna ſi è quella che doue ſi puòviuere, iui ſi può anco viuer bene: ma nella Corte ſi può viucre, a dunque nella Corte puoſſi feuza dubbio ben viuere. E dinuouo queſt' altrà, che cia ſcheduna, coſa a qualche co ſa è diſpoſta, e dou' è di ſpoſta ſi porta, e doue fi porta conſiſte il ſuo fine, e doue è il fine, iuiè l'vtile, e il bene di ciaſcuno. Sicchè il bene del viucnte ragion euo le è la comunanza; e men tre teftè s'è dimoſtrato che perla comunanza ſiamo nati, non è euidente, che l'inferior bene per lo meglio è fat to, come vn meglio per l'al tro meglio?ma migliori deg! inanimati ſono gli animati, e degli animati li ragioneuoli. E da furioſo il profe guir le coſe impoſſibili: ma impoſſibile è che i cattiui non facciano alcune tali co fe. Niente auuiene a niuno, che non gli ſia ſtato dato a portare dalla natura; ma le medeſime coſe ſuccedono a gli altri, i quali o non com prendono l'accaduto loro, o per oſtentar la magnanimi tà, non ſi muouono dal lor fefto, e lieti ſe ne ſtanno Onde ſtrano parrà che l'in gnoranza, e la propria com piacenza fieno più poſſenti della prudenza. Le coſe per fe fteffe in niun modo tocca -no l'anima; anzi non hanno in quella l'introito, ne poſſo no piegarla, o muouerla. El la ſola riuolge, e muoue ſe ſteſſa: e le coſe, che le fo prauuengono fono tali, qua ſi ella ſe ne forma i giudicij. 15 Per vn altra ragione la natura degli huomini è a noi famigliariſſima, in quanto che noi dobbiamo far loro del bene, e tollerarli; in quanto poi alcuni relifto no all'operazioni, che a noi conuengono, l'huomo a me diuiene come vna coſa del le indifferenti non meno del fole, del vento, delle beſtie. Da queſti ſi può impee dire qualche operazione; ma non ſi può dare impedimen to, ne all'appetizione, ne al la diſpoſizione, a cagion della eccezione, e del ri. uolgimento.Conciosfiecoſa che la mente riuolge, e tra muta in coſa a ſe proporzio. nata tutto quello, che all? operare le da impedimento, e quello, che ratterrebbe l'o pera, l'iſteſſo diuiene opera, e quello che innanzi era oſta colo al cammino, ſe le fa. cammino. Di tutto quello, ch'è nel Mondo tu venera l' otti mo; e que to è quello, che, feruendoſi del tutto, il tut to gouerna. E così parimen te di quello, ch'è in te, onora l'ottimo,hauendo queſto fin golar relazione a quello.. Concioſliecoſa che, eſſendo in te, fi vale delle coſe tue, eſotto il di lui gouerno è condotta la tua vita. Quello, che non è di danno alla Città, non nuo ce al Cittadino.Applica que fta regola in ogni occorrenza in cui tu reputi d'eſſer offeſo. Se da queſto la Città non ri ceue nocumento, ne io lo ri ceuo; e fe la Citrà riceueffe nocumento, non biſogna, che tu t'adiri contra chi l'ha daneggiatta. Ma moſtra in che egli ha traueduto. Conſidera ben fouente la preſtezza,con la quale li por tino via, e ſi fottragghino tutte le coſe, che ſono, e ſi van facendo; poſciachè la ſo ſtanza a guiſa d'yn fiume è in continuo fluſſo, eľ opera zioni in non intermeſſe mu tazioni, e le cagioni ſogget te ad infinite riuolte. Nec è quaſi coſa alcuna, che falda ftia, e che non ſia vicina ad yn'immenſità infinita, sì del paſſato,come del futuro,ncl la quale il tutto ſpariſce.Co me dunque non è pazzo chi di queſte coſe ſi gonfia,o fe ne trauaglia,o ſi querela dicoſa, che per iſpazio di tempoan, che pochiſſimolo conturba 2 Ricordati della ſoſtanza vni uerſale, della quale tu partecipi per vna minima parte, e del vniuerfal tempo,del qua le vn breue ſpazio, o momen to te n'è aſſegnato; e nella ſerie fatale che parte fai? Alcuno pecca: che impor ta queſto a me? Egli ſe lo ve drà. Egli ha la propria diſpo ſizione, la propria operazio ne. Io al prefente ho quello, chela natura comune vuole, ch'io adcfſo m’habbia, e fo quello, che la mia propria natura vuole, che io adeſſo faccia. 18 La reggitrice, e domi, nante porzione della tua ani maſia immutabile, e inarren. deuole a i moti della carne, o morbidi, o aſpri che ſi fieno; ne vi ſi rimeſcoli,ma conten ga ſe ſteſſa, e confini quegli affetti dentro i ſuoi meinbri. Quando poi per vn'altra ſim patia ſi rinnalzaſſero alla mente, per effer ella vnita al corpo, ſtante l'eſſer il ſen ſo connaturale, non haſli a contraſtare con violenza, pe rò la mente reggitrice da ſe ſteſſa non v'aggiunga l'opi nione inrorno al bene, o al male. S'ha da viuere con gli Iddij. Viue con gl'Iddij chi loro fuela continuamente la fua anima effer contenta del diſtribuitole, ed operando tutto quello, che vuole il ge nio, dato a ciaſcuno da Gio ue per preſidente, e rettore, come parte a ſe medeſimo preſa, e queſto è la mente, e la ragione di ciaſcuno. 20 Non ti adiri tu con co Jui,al quale puton l'aſcelle? E con quegli altresì,che man da fuor dalla bocca fetente fiatore? che ti farà coſtui? Egli ha vna bocca ſi fatta, e l'aſcelle di tal condizione: Forza è, che ſimili eſalazioni eſcano da ſimili parti; Mal huomo, mi dirà alcuno, ha la ragione, e può s' egli au uerte conſiderare in che egli difetti. Buon prò ti faccia. Dunque per hauer tu ancora la ragione rifueglia la ſua ra gioneuole diſpoſizione con la tua, inſegnali aminoniſci lo. Perchè fe quello t'aſcol-. terà, lo riſanerai, e ſarà fu perflua ogni collera. 21 Non fare ne da rappre fentante tragico;ne da mere trice: Nella maniera che tu diſegni vſcir di vita, così ti lece ora di vivere? <a quando non te lo permetteſſero, allora eſci di vita, ma però, come da niuno infortunio abbattuto,ma quaſi tu dichi: Qui c'è del fumo, e io me ne vado. Ti par queſto gran coſa? mentre nient'altro mi fa vſci re rimango con la libertà, e niuno mi vieterà di far quel lo, che io vorrò. Vorrò però quello, ch'è conueniente al la natura dell'huomo ragio neuole, e nato per la vita cos mune. 22 La inente dell'yniuerſo è comunicatiua; e perciò hafat te le coſe peggiori in ordine alle migliori, e le più princi pali tra di loro ſcambieuol mente compoſe • Vedi come le ſubordinò, come inſieme le ordinò, e come quello che cra conueniente detre a cia ſcuna e le più principali con reciproca concordia con giunſe? 23 Come ti ſei portato fin ora con gl'Iddij, con i geni (tori, co fratelli, con la mo glie, con i figliuoli, co * pre cettori,co'nutricatori, amici, domeſtici, e ferui? hai tu fin ora oltraggiato alcuno di - loro, o in fatti, o in parole? -Ricordati di più per qualico fe ſe paſſato, e quali ſe ſtato fufficiente a tollerare,e come di già per te è adempita la • ſtoria della vita, ed è finito il miniſterio.E quante coſe bel le hai vedute? e quanti pia -ceri, e dolori hai diſprezza ti? quante coſe d' apparente gloria hai neglette? a quanti fconoſcenti ti dimoſtraſti benigno? Per qual cagione l’ani me ſenz'arte, e fenza ſcienza conturbano il perito nell'ar te, e l'erudito? quale dun que farà l'anima perita nell' arte, ed erudita nelle ſcicn • ze? quella, che ha notizia del principio, e del fine; e di quella ragione, che pene trando ogni ſoſtanza dell' vniuerſo, per tutta l'età, fe condo i periodi ordinaci,reg. ge il tutto. 25 Or or tu farai cenere, é carcame, ' o ſolamente no 1 me,ma ne pur nome, ridu cendoſi il nome in vn poco di ſtrepito, e di riſonanza; e certamente quelle coſe, che in queſta vita s ' hanno in i grandeſtima, ſono vane,pu tride, ſcarſe, e in guiſa dica gnolini, che ſi mordono, e di 2 putti, che contendono, e ri dono, e ad vn tratto paſſano al pianto. Ma la fede, la mo deſtia, la giuſtizia, e la verità Da ilarghi ſpazi della terra alCielo s? innalzarono. Che coſa adunque qui ti rattienca ſe le coſe ſenſibili, ſono faci liffime a mutarſi, e non ſon conſiſtenti, e gli organi del fenſo oſcuri, e facili a ri ceuere falſe impreſſioni, e l' iſteſſa animuccia del ſangue yna eſalazione, l'acquiſtar gloria appreſſo queſti tali è vanità. Che dunque aſpetti? Aſpetta placido o la eſtin zione, o la traportazione. E finchè il teinpo arriui di que ſto, che coſa a te farà ſuffi ciente che altro ſe non il ri uerire gl’Iddij, e lodarli, e be neficare gli huomini, sopportarli e aftenerſi da quelli? E quanto coſe ſono fuori del confine della carnuccia dello ſpiritello ricordati, che non ſono tre, ne ſotto il tlio comando. Potrai profpcrarti per. fempre, e ben incamminarti, e con buon ordine apprende dre, e operare. Queſte due co ſe ſono comuni così all'ani ma di Dio, come a quella de gli huomini', e d'ogni ra gioneuole viuente, cioè di non poter eſſere impedito da che che altro fi fia, e di porre nella giuſta affezione, e azio ne il ſuo bene; e in queſto ri ftrignere ogni ſuo deliderio. Se ne queſto è malizia naia, ne meno l'operazione procede dalla mia malizia, ne il comune viene offero, perchè di ciò mi trauaglio? e qual è il danno del comune? Non ti laſciar così totalmen te rapire dalle immaginazio ni, ma aiutati quanto puoi, e conforme alla conuenienza; e ancorchè nelle coſe mezza ne ſieno diffettoſi, non iftima re perciò, che queſto ſia dan no;perchè auuiene da mala conſuetudine. Ma come yn vecchio andandoſene richie deua la trottola del ſuo allies uo, ricordandoſi che al fine era vna trottola, così tu quì, o huomo, quando hai fatto ne’roſt ri qualche coſa di bel lo, non ti ricordi, che coſa queſto fia? me ne ricordo. Ma quello è pregiato da co loro; perciò dunque hai an che tu da impazzare? Impaz zauo già vna volta ſoprap preſo, douunque io foſſi, ed ero fortunato; e l'oſſer fortu nato, conſiſte nel dare a ſe hafteſſo vna buona forte: le buone ſorti ſono i buoni mo uimenti dell'animo, le buo ne inclinazioni, le buone azioni. La sostanzia dell'universo è ben ubbidiente e maneggieuole. E pur la ragione, che la reg ge, non ha in ſe cagione al cuna di mal fare; perchè non ha malizia, ne opera malamente, ne da eſſa coſa alcuna riceue leſione; ma il tutto conforme a quella fi fa e s'affina.  Sia a te indiffcrente d'operare quello, che ſi conuiene; ſe tu ti ſenti freddo o caldo o pur ſonnacchioſo o fazio di dormire o fc di te bene, o male ſi parli o tu ftij ſulmorire o in qualche altra azione, mentre pure quello è vno degli atti vitali per i quali noi finiamo. Baſta. dunque, e in queſto ben disponi il negozio preſente. Guarda al di dentro, ac ciocchè ne la propria qualità, ne il merito di coſa alcuna fenz ' auuedertene ti scappi. Tutto ciò, che hai dinanzi affai presto si cambierà, o di leguandofi, se la sostanzia consiste per via d'vnione, o dissipandoſi La mente reggitrice conosce bene con che disposizione e che cosa e in qual materia opera. s Belliſſimo modo di ven dicarſi con chi t'offcfe, è il non aſſomigliarſi a lui. In vna ſola cofa hai da godere, e d’acquetarti, cioè di paf ſare da vn atto conueniente alla comunità humana ad vn altra azione, pur conuenien te alla medeſima, con ricor darti, che ci è Dio. 6 La facultà reggitrice è quella, che ſe ſteſſa eccita, e volge, e forma ſe ſteſſa in quella guiſa, che ella voglia, e tutto ciò,cheauuiene ſi rap preſenta, quale più le piace. Ciascuna cosa si conduce a fine conforme la natura dell'universo e non secondo altra natura, che si fia, o esteriormente ambiente o al di dentro riſerrata ouero al di fuori ſeparata. Il mondo o è vn imbro glio, e auuiluppamento, e diſſipazione, ouero vnione, eordine, c prouidenza: Se i primi, per qual cagione deſidero io di conuerfare con questa massa confusa, e cotal nieſcolanza? a che m applico io ad altro, che ad eſſere per qualche modo ter ra? che ſto a perturbarmi? Concioſliecoſa che qualun que coſa io mi faccia la dif ſipazione al ſicuro m'arriue rà: ma ſe è l'altro detto in fe. condo luogo, io riueriſco co lui, che il tutto diſpone, e in lui m’acqueto e confido. Quando gli anuenimen ti eſtranei ti violentano per qualche verſo a perturbarti, prontamente ritorna in te ſteſſo; e non vſcire dal tenore, e concerto più diquello, che la neceſſità ti ſpigne. Im perocchè cóſeruerai più con fonanza, ſe toſto in eſſa ti ri metterai. Se inſieme tu ha uelli la matrigna, e la madre, tu quella feruireſti, e niente dimeno del continuio alla madre fareſti ritorno. Non altro a te è ora la Corte, e la Filoſofia: a queſta ſpeſſo ri torna, e in eſſa acquetati, per mezzo della quale le cofe, che in quella occorrono, ti parranno più tollerabili, e tu nell' iſteſſe coſe farai da tollerare. 10 O comeè bene formar ſi nell'immaginatiua intorno alle viuande, e altre cole ſi mili comeſtibili: che queſto ſia cadauero d'yn peſce,quel l'altro cadauero d'vn' vccello d'un porcello. Simil mente, che il falerno ſia pic cola gocciola d’yn grappo lino d'vua, e lo ſcarlatto pe luzzi di pecorella intinta col fanguuccio di vna conchi glia. Così ancora nelle coſe intorno al congiugnimento carnale, che fia vn diletico dell'inteſtino, e conqualche conuulfione yna egeſtione di yn moccino.Ora come queſti fimili conceputi penſieripe netrano je toccano il fon dodelle coſe in modo, che ſi vedano talis quali elle fono in queſta maniera biſogna ſeruirſi di queſti in tutta la vita, e doue le coſe paiono più degne di fede, dinudarz le, e riguardar la loro viltà e ſuilupparie dalla pompa, con la quale foſſero poſte in G 3 alterigia.Poichè l'apparenza è vnagrande ingannatrice e maſſime quando tu penſi di trattare le coſe ferie, allora più che mai t'affaſcini. Mira dunque a quel, che diſſe Cratete di Senocrate. Il più delle coſe, che la inolti tudine degli huomini ammi ra, ſi riduce generalmente a quelle, che hanno dalla na tura le forme, o dall'arte fon loro aggiunte; per cfemplo, le pietre, le legne, i fichi, le viti, e gli oliui, e quelle, che vengono ſtimate da huo mini alquanto più moderati, fi riducono alle coſe animate, ome a dire, gregge, ar menti: ma quelle, che ſono pregiate da perſone di più garbo, ſono le dotate d'a nima ragioneuole, non già di quell'anima, che è dell' vniuerfale, ma di quella, che fi val dell'arte, o altri mente come con ingegno penetra, o per dirlo ſempli cemente tutto tiene ſogget to, in guiſa d'una quantità diſchiaui. Però chi dell'ani ma ragioneuole, vniuerfale, e ciuile fa conto, non bada a nient'altro, ma ſopra il tutto conferua la propria anima di ſpoſta, e ſemouente ragione uolmcnte, e alla comunica zione humana, é con l'vni uerfale, ch'è del medeſimo genere, coopera. II Alcune coſe s'auanza no al lor facimento, e altre s'auanzano al lordisfaci mento; e di quello, cheſi va facendo, vna parte già è ſpas rita. I corſi delle coſe, e l'al G 4 te terazioni continuamentc ri nouellano l'infinita eternità, cd il Mondo; nella maniera, che il corſo non mai man cante del tempo lo rende ſempre recente. E chi è que gli, che in queſta corrente poſſa affezionarſi ad alcuna di quelle coſe, che via traf ſcorrono, mentre in quella non può arreſtarſi a queſti fa + rebbe in guiſa d'vno, che ſi metteſſe ad amare vn paſie rotto di quelli, che col volo trapaſſano, dopo che già dal. la viſta foffe fcappato. La vi ta di ciaſcheduno è come lo ſuaporamento del ſangue, e'l reſpirardell'aria. Poichè. qual'è l'attrarre dell'aria, e il renderla, che del continuo ciaſcuno fa, tale è ogni fa cultà reſpiratiua, che ieri, o ieri 1 ieri l'altro nafcendo fi rice uè, e l’ha da irimandare là, donde primafu colta. 12 Stimabil coſa non è, ne l'efferc fuentolati, come le piante, ne il reſpirare,come le beſtie, e le fieregne il riceue re l'impreſſioni nell'immagi nazione, ne l'effer tirato dal l'impėto delle paſſioni, ne lº adunarfi inſieme,ne l'alimen tarſi; poichè queſto è il me deſimo, che lo ſcaricar il fo prauanzo dell'alimento. Di che s'haurà da far conto de lo sbattimento delle mani? Non già. Dunque ne meno dell'applaufo delle lingue; poichè gli applaufi, ele ladi della moltitudine altro non fono, che ſtrepito di lingue. Mentre tu dunquc leui via queſta glorietta che ci riina G 5 ne da pregiare? Io per me re puto,che ſia il muouerſi, e com tenerſi fecondo la propria conſtituzione là;doue gli ftu dij,e l'arti conducono.Poichè ogni arte ha queſto per mira, che quello, che appreſta, lia abile all'opera, per la quale è diſegnato. Queſto pure ri cerca il lauoratore della vi gna, ed il cozzone de' pule dri, e’lcanattiere. E ledu cazione de' fanciulli, e glin. ſegnamenti a che altro s'in dirizzano? Qui dunque con ſiſte il pregio, e, ſe ciò ti ſta rà bene, di niente altro ti curerai. Cheſe non ti quie ti, e ſtimeraipiù altre coſe, allora non goderai della li bertà, ne ſarai ſufficiente a te ſteſſo, ne immune dalle paſſioni; conciofficcola che ti D ti ſarà di meſtiere d'eſercitar Pinuidia, e l'emulazione, e'l ſoſpetto verſo quelli, che habbiano potere di priuarti delle dette cofe; e anco di macchinar contro quelli » che le da te ftimate poſſiedo no. Onninamente è neceſſa rio che ſi conturbi chi ďal cuna di dette coſe è biſogno fo, e che in oltre ſpeſſo faccia doglienza degl' Iddij. Ma chi la ſua propria mente ris ueriſce, e pregia, compiace rà a ſe ſteſſo, e a quelli, che fecocomunicano s'adatterà, e fi conformerà con gl'Iddij, cioè loderà quanto eſli defti nano, e diſtribuiſcono. Le moſſe degli elemen ti ſono in giù, in fu, e in giro: però il monimento dellavirtù non confifte in niuna di que G 6 ſtę; + R ng  ſte;ma come coſa più diuina, per via malageuole a cõpren dere felicemente s'auanza. Che è quello, che fan no glihuomini? ricuſano di lodare coloro, che nel me deſimo tempo, e inſieme con effi viuono, e poi queſti iſteſ fi fanno gran conto d'eſſer lodati da’ poſteri, i quali ne mai conobbero, ne mai vec dranno; ed è quaſi lo ſteſſo, che fe tu ti doleſli, che da gli antepaſſati in lode tua non foſſe ſtato mai parlato. Non perchèate ſteſſo quello fia difficile a confe guire, hai d'apprendere,che Via impoſſibile all'haomo; ma ſe queſto all'huomo è pofſi bile, e conuencuole, Itima che anco tu lo poſſi arriuare. 16 Negli eſercizij corpo rali 1 DIMARCO rali, ſe vno con l'vnghie graffia, o vrtando il capo ha urà fatto piaga, non perciò glie la ſegnamo, ne ce n'of fendiamo, ne ombra ne prendiamo come d'inſidia tore; ancorchè ci guardiamo da lui, non, come da nimi co, ne con ſoſpetto, ma piaceuolmente ſcanſandoci. Queſto medeſimo s'vſi da noi ancora nell'altre parti, che reſtano della vita noſtra, do ue ci affatichiamo aſſai, co me contro quelli, che con noi s'eſercitano; perchè vn può, come ho detto, fcan fargli ſenza ſoſpetto, e odio. 17 Se alcuno potrà cor reggermi, o moſtrarmi, che io dalretto m’abbaglio con l'opinione, e con l'opere, di buona voglia mimuterò, essendo in me brama della vee rità, la quale non nocque mai ad alcuno: ma egli vien leſo dal proprio errore, e dalla ſua ignoranza, nella quale egli perſiſte.Io fo quel lo, ch'appartiene al mio of ficio; l'altre coſe non mi di ſtraggono, perchè ſono ina nimate, o irragioneuoli, o che errano e non riconoscono la strada. De viuenti irragioneuoli, e vniuerfal mente di tutte le coſe, e dem ſoggetti tu come ragioneuo le ſeruitene con grandezza d'animo, e franchezza, giac chè ragione non hanno; ma degli huomini, perchè eſ hanno la ragione, ſeruitene nel modo, checonuiene alla focietà humana. E ſopra tutto inuoca gl'Iddij, e non ti pi 1 gliar penadi quanto tempo tu haida porre in queſta o pera, perchè tre fole ore fo no baſteuoli. Alessandro Macedone, e 'l ſuo mulattiere, ora che ſon morti, ſono in tutto ri dotti al medeſimo. Auue gnachè o ſono aſſunti nell' iſteſſe ſeminali ragioni del Mondo 20 parimente ſono difperfi ne gli atomi. Conſidera quante coſes. dell'animo, o del corpo in yn momento di tempo in qualſiuoglia di noi tutte in ſieme fi facciano; ed in tal guifa non ti marauiglierai, fe molte più coſe, anzi tutto quello, che ſi fà, in queſt vno, c yniuerfo, che noi chiamamo Mondo, parinen te ſufliſtano.in 2Se alcuno t'interro ga, come fi ſcriua il nome & ANTONINO, proferirai tu appuntatamente ciaſcu-. na delle lettere? Che dun que s'egli entrerà in colles ra,entrerai ancor tu in collera? Anzi più toſto profe guendo non conterai tu ad vna ad vna con piaceuolezza le lettere? Però queſto ti ri durrai nella memoria, che ciò, che è conueniente, da alcuni numeri riceue il ſuo compimento.Queſti biſogna offeruare, e ſenza turbarſi, ne ſdegnarſi contro quelli, che prendeſſero Idegno, ter minar la faccenda per lo pro prio cammino. E' come yna crudeltà il non permettere agli huomi ni che ſi diano a far quello, che pare a loro s'adatti, e conuenga. Il che in vn certo modo tu vieti loro di fare, quando, peccando eſſi, tu ti diſguſti, e ti ſdegni; auuegna chè allora ſon portati a quel lo come a coſa, a loro conuc niente, e profitteuole. Ma la cofa, mi dirai, non va così. Dunque tu inſtruiſcili, e ciò dimoſtra loro ſenza alterarti. 22 La morte fa cellare l' impreſſioni, che da i ſenſi si cagionano., le commozioni violente per l'affezioni, co me ancora gli aggiramenti mentali, e ogni ſeruitù ver ſo della carne. Diſdiceuole coſa è, che in quella ſorte di vita, nella quale il corpo non s'infiacchiſce, l'anima prima del corpo s'infieuoliſca. Guarda di non inccfa rirti, per non intriderti, che così fuole auucnire. Però conferua in te ſteſſo la ſchiettezza, la probità, l'inte grità,la conueneuelezza, l'in genuità, l'amore del giuſto, la pietà, la piaceuol ezza, l'humanità, la fermezza nell operare cofe comuenienti. Sforzati di mantenerti tale, quale fu l'intento della Filo ſofia di formarci. Venera gľ Iddij, protegi gli huomini. Breue è la vita, e l' vnico frutto del viuer in terra è vna ſanta compoſtura d'ani mo, ed il far opere indirizza te al comun bene degli altri. In ſomma fa ogni coſa da vero allieuo di ANTONINO, Rio cordati, come egli sempre sta in un retto tuono d'operare ſecondo la ragione dell’uguaglianza ſua in tutte le cose della santità, della serenità della faccia della soauità, del diſprezzo della vanagloria e dell'attenzione nell'apprender gli affari. E come egli non haurebbe trapaſſato coſa alcuna, ſe prima non l'haueſſe ben co noſciuta, e perfettamente confiderata; e come egli comportaua quelli', che di eſſo a torto ſi lamentauano, ſenza ridolerſi diloro; e co ine in coſa alcuna non s'af frettaua, c non ammetteua calunnie; ne de' coſtumi, o dell'azioni era curiofo fpia tore, ne rinfacciatore, non timido non ſoſpettoſo, non ſofifta; ecome conten tauaſi del poco sì nell'abi tare, sì net dormire, sì pel 0 e veſtire, sì nel mangiare, si nella ſeruitù; come, pronto trauagliaua volontieri nel le fatiche, e con longanimi tà; e in qual modo fe la paf ſaua fin alla ſera con leggier riſtoro; non hauendo biſo gno fuor delle ore conſue te delle folite egeſtioni. In oltre conſidera la fermezza di lui fenza niuna variazio ne nell'amicizie; e la tol leranza' di chi liberamente contradicena a’fuoi pareri, e't godimento, fe venina da al tri moſtrata cofa migliore; e come era, religioſo ſenza fuperſtizione: acciocchè nel l'vltinio punto della tua vita ti truoui con fi buon co noſcimento di te fteffo, me'anuenne a lui. Riſuegliati e richiama te fter D fteſlo, e di nuouo fuori del fon no conſidera che i ſogni ti perturbauano, Torna riſuc gliato a rimirare queſte coſe humane, come miraui quelli. 25 Son compoſto di cor picciuolo, e d'anima. Al corpicciuolo dunque ogni coſa è vna, poichè egli non può farui differenza; maall? intendimento tutto quello è indifferente, che non è del le ſue proprie operazioni Ora le ſue operazioni tutte ſono nel di lui potere; e fra queſte, quelle che al preſen te folo maneggia: mentre quelle dell'auuenire, o quel le del paſſato anche eſſe già a lui ſono indifferenti. Non è fuor di natura la fatica alla mano, e al piede, finchè il piede fa quello, che ha da fare il piede, e la ma no quello, che la mano. Co sì ancora all'huomo, come huomo, non è fuor di natu ra la fatica quando opera quello, che ſi ſpetta all’huo mo; c ſe ciò a lui non è fuor di natura, non gli ſta male. Quanti piaceri ſi goderono i maſnadieri, i zanzeri, i par ricidi, i tiranni? Non confi deri come i mecanici artiſti infino agl'idioti in vn certo modo s' accomodano nientedimeno ſoſtengono la regola della loro arte, ne comportano, che da quella ſi manchi, Non farà coſa ſconueneuole, che l'archi tetto, o il medico riſpettino più la ragione della propria arte, che l'huomo la ſua, la quale gli è comune con gli Iddij? L'Asia, l'Europa ſono angoli del Mondo: tutto ľ Oceano vna gocciola del Mondo: il monte Atho una zollerella del Mondo: ogni tempo, che corre yn punto dell'eternità. Tutte ſon coſe piccolc, facili a mutarſi, che preſto fuaniſcono là, donde procedono, deriuando tutte dal comun direttore. Sicchè il grifo del Leone, e'l vele no, e ogni maleficio,come le ſpine, ela mota, ſono giun te forucnute da quelle coſe degne, e buonc. Dunque queſte coſe non reputar alie, ne da quello, che tu riueriſci, ma riuolgi nella tua mente il fonte di tutte le coſe. 28 Chi vede le coſe pre fenti, l'ha vedute tutte, fieno quelle, che furono per tutti i ſe 70 12 lle of chi in ori ſecoli, o quelle, che per gli infiniti ſaranno;eſſendo tutte dell'iſteſſo genere, e confor mità. Conſidera bene ſpeſſo la congiunzione di tutte le coſe mondane,e l'abitudine; o il riſpetto, che vna ha con l'altra; giacchè in certo mo do tra ſe tutte le coſe ſono intrecciate, e così tra di loro, ſecondo queſto, ſi affeziona no, poichè vna ſeguita l'al tra, o ſiaſi per lo moto loca le, o per la coſpirazione, o per l'vnione della ſoſtanzia. Adatta te ſteſſo a que' negozij; che ci ſono toccati in forte, ea quelli huomini, co’quali ſei deſtinato d'eſſere, poni affetto, ma di vero cuo re. Gl'iſtrumenti, gli arneſi, e ognivaſo, ſe a quello, ache è stato ordinato s'accomoda, è buono; ancorchè quegli', che lo fabbricò no vi ſia più. Ma di quelle coſe, che ſotto la natura ſi contengono den tro vi è; eperſeuera la facult tà che le diſpoſe. Perciò tanto più deeſi quella vene rare; e ſtimare, perchè ſe tu opererai, e ti gouernerai conforme al voler di quella, il tutto ti riuſcirà, ſecondo la tua intenzione; così an cora ad ognuno le cofe - rie ſcono, fecondo la mente di lui. 30 Quando fuor di quello, che cade ſotto la tua elezio ne hai a te ſteſſo preſuppoſto o bene, o male', è neceffa. rio, ſecondo l'auuenimento di detto male', o miſauueni mento di detto bene, lan H mentarti degl'Iddij, e anco ra odiar ' gli huomini, che ſieno ſtati cagione, o che a te ſieno ſoſpetti, come che poteſſero eſſer cagione di detti miſauuenimenti, o au uenimenti. E per queſta dif. ferenza verremo pure a peca car molto. Ma ſe folo giudi chiamo le coſe buone o cattiue, che ſono in noftro potere, non ci rimane niuna cagione, ne di dolerci di Dio, ne di contro gli huo mini con oſtil ſedizione op porci - 31 Tutti cooperiamo a compiere l'iſteſſo ouraggio, alcuni ſapendo, e compren dendolo alcuni ſenza ſaper lo. E quindi, al mio parere, Heraclito chiama operarij, e cooperarij nel facimento di tutto quello, che nel Mondo ſi fajanco da'dormienti.Altri in altro modo coopera, e molto largamente ancora quegli, che ſi querela, e que gli, che ſi sforza d'opporſi, e di diſtrugger le coſe,che ſi fanno: concioffiecoſa che, di ciò hebbe meſtiere ilMon do. Reſta dunque, che tu intenda tra quali di queſti tutti annoueri; poichè l’ ordinator del tutto in ogni maniera ſi ſeruirà bene di te, e ti riceuerà in qualche parte di quelli, che cooperano, 0 poſſono operare; ma tu fa di non hauer tal parte, quale nel dramavn vile, e ridico lo verſo mentouato da Cri ſippo. Forſe che'l sol ambiſce far da pioggia? ed Eſculapio da terra fruttifera? Non vedi com 3 li H 2 me ciaſcuna ſtella, quantun que dall'altre diuerfa, nien tediineno al facimento di vna, e iſteſſa coſa concor re 32 Se dunquegl'Iddij han no deliberato dime, e delle coſe, che a me ſono per au uenire, la deliberazione non farà, ſe non buona: hauena do in fe repugnanza il penſar yn Dio ſenzaconſiglio. Qual cagione lo mouerebbe a far mi del male? Poſciachè a los ro, e all'vniuerſo, del quale hanno ſpezial promuidenza, da ciò che ne riſulterebbe? ma ſe intorno a me non de liberarono, certamente in torno dell' vniuerfo hanno deliberato, per cui conſe guenza eſſendo queſti auue nimenti ordinati, debbo ab bracciarli, ed eſſer contento. Se poi di nulla ſi pigliano cura, il che è empio a crede Te, non facrifichiamo noi? non porghiamo preghiere? non giuriamo? e non faccia mo altre coſe, le quali tutte agl' Iddij, come ſe foſſero prefenti, e conuerſaſſero con noi; indirizziąmo? E ſean cora niente in riguardo no ftro deliberano, farà lecito ch'io pigli deliberazione di me ftcflojie la mia riſoluzio nenon farà altro, che intor no a quello, che mi torna 'bene;maquello torna bene a ciaſcheduno', che è fecon do la ſua conſtituzione, e nåtura. Ora la mia natura è ragioneuole, c cittadineſca. La Città, e la patria è a me Roma, in quanto ſon ma in quanto ſon huo. mo è il Mondo. Dunque quelle coſe, che a queſte Cittadi sono d'vtile, quelle fole ſono a mebuone. Quello che a ciaſcuno auuiene, conferiſce al' tutto. Queſto doueua effer fufficientes ma ancora di più quello in ogni maniera con perfpicacia of feruerai, che ciò, che acca de conferente all'huomo, anche agli altri huomini conferiſce. Ma al preſente s'intenda queſta parola Eup Os pov nelle coſe mezzane in ſenſo comune al bene, e al male. Come quanto ti ſi rap preſenta nella faccia del Theatro, o di ſimili luoghi, fe in vn modoſempre ſi ve de, e non mai cambi l'aſpetto, diuiene ſazieuole alla vi fta, l'iſtella apprenſione ſi fa negli auuenimenti per tutta la vita. Poichè ſottoſopra tutte le coſe ſono le medeſi me, e dalle medeſine ca gioni. Sin doue dunque? Conſidera del continuo tuto te le ſorti d' huomini, e ď ogni ſorte di profeſſione, e di tutte le nazioni, quei che fono morti, con arriuare fi no a Filiſtione, Febo, e Ori ganione. Paffa adeſſo ad al tre nazioni. Colà hauemo da tragettare, doue traget tarono tanti graui oratori, tanti venerandi Filoſofi. He. raclito, Pitagora, Socrate, tanti Eroi primieramente, e poi tanti condottieri, e ti ranni: e appreſſo a loro Eu doſſo, Hipparco, Archimede, e altri di perſpicace ingegno, magnanimi, amatori della fatica, Scaltriti, arroganti: e quelli ancora, che di que fta vita humana caduca, e giornaliera ſi ferono beffe come Menippo, e ſimili. Tut ti queſti conſidera che già yn pezzo fa giacciono. Ora che male è a loro queſto, e che male a quelli ancora, che in tutto ſono ſenza niuna no minata? Vna coſa iui è dc gna di ſtima, il viucr tran quillamente con li bugiardi, e gl'ingiuſti, vſando la veri, tà,e la giuſtizia. 34. Quando tu vogli ralle grarti, riuolgil'animo all’ec cellenze di quei:, ché teco viuono: come a dire all'atti uità di quegli, alla modeſtia di queſti, alla liberalità d? vno e così ad altra virtù di qualche altro. Non ci effen, do cofa, che tanto rallegri, quanto le ſomiglianze delle virtudi alviuo rilucenti nelli coftumi de contemporaneiig le quali tutte in vn tratto in fieme a noi rappreſentano. Per lo cheper quanto è pof fibile, le hai d ' hauer ſempre alle mano. Forſi tu ti duoli, che fei ſolamente di tante libbre, e non di trecento di Nell' iſtefla maniera, che fino a tanti anni prolungherai la vita, e non più. Perchè co me della ſoſtanzia corporea in quanto the determinata e acquieti, così fa ancora del tempo. 36. Sforciamoci di render gli huomini capaci: però o pereremo ancora qualche cofà contra guſto loro, quan do la ragione del giuſto così richieda.E ſe qualcuno vſan doti violenzati si oppone, trapaſſa alla placidezza fen za dolerti; e dell'impedimen to feruitene per vn'altra, vir tù; e ricordati che tu deſideri le coſe con dell'eccettuazio ne, non appetendocofe im. poflibili. Che coſa dunque appetiſco? quel certo defi derio regolato; e queſto tu ottieniquando, arriua quel lo, che primo, e principal mente viene deſiderato. L'amator della gloria dall'opere d'altri ſi perſuade il proprio bene; quegli, che ama la voluttà, dalle ſue pafſioni: ma chi ha ceruello, dalla propria operazione! E' in tuo potere ſopra ciò non formarne opinione, e non perturbarti nell'animo. concioſliecoſa che niuna co fa ha vna natural poffanza ſopra i noſtri giudicii. Auuezzate ſteſſo ad apo plicare attentamente a quel le coſe, che da vn'altro fo no dette; e più che puoi in ternâtinell'animo di chi fta parlandoti. 40 Quello, che non è gio. neuoleallo fciame, ne' meno gioua alla pecchia.  Se i marinari parlaffe Fo male del loro piloto, 0 gli ammalari del loro media co, forſe per ciò ad altro ar tenderebbono, che all'opera re, quegli per la ſaluezza de' nauiganti, e queſti per la fanità di quei, che fi ciira no? Quanti fon già morti diquelli, che meco ſon en trati nel Mondo? -43. Aglitterici pare ilme-, le amaro: e a ' morſi da ani mal rabbioſo l'acqua è di terrore: e alli putti è coſa bella il palloncino. A che dunque io m'adiro? forſi.pa re a te, che habbia minor forza quello, che falſamen te s'apprende, di quello cheha la bile nell'itterico, o'l veleno nell'arrabbiato a Non t'impedirà perſona, che tu non viua ſecondo la condizione della tua natu rà: e niente t'amierrà fuori della ragione della natura dell’vniuerfo.. 44 Quali ſono quelli, alli quali ſi deſidcra d'andar a verſo, e per qualiauuenimen, ti, e con quali opere? 0 quanto preſto i ſecoli ogni coſa copriranno, e quante han di già ricoperte! Che coſa è la mal nagità? è quello, che ſpeſſo hai veduto; e ad ognicoſa, che ti ſoprauuenga, prontamente rappreſon tati, eſſer lo ſteſſo, che ſpef fo hai veduto. Vniucrſala mente nelle coſe ſuperiori, ed inferiori, trouerai le me deſime, delle quali ſono pie nele Storie antiche, e quelle di mezzo tempo, e lemoder ne, e ora ne ſono piene le cittadi, e le caſe. Non ci è niente di nuouo, tutto è vſa to, e di corta durata. I dogmi, in qual' altra maniera ſi potranno in te cancellare ſe l'immagina zioni., che a quelli ſono con formi non ſi eſtinguono, le quali, a te ſta di continua menté rauuiuare? Reſta in mio poter di fare intorno a ciò quel concetto, che ſi conuiene: e ſe ſta nel poter mio, a chemi turbo? Quel lo, ch'è fuori della mia men te, non ha che fare in modo alcuno con la medeſima mente. Queſtoſia il tuo ſen timento, e cositu ſei retto. 3 Pofciache in tua balia è il ritornare in vita, riconoſci le coſe nel modo, che le hai già vedute; perchè in ciò conſiſte il ritornare in vita: Tali ſono la vana curioſità delle pompe, le rappreſen tazioni nelle fecne, i bran chi d'animali, le mandre, i giuochi d'arme; vn ofſetto gettato a cagnolini; i minuz žoli di pane buttati nel viua io de' pefci, i trauagli, e il vettureggiare delle formi che, le corfe in quà se'n là de toperti ſpauentati, i bam bocei, a quali ſi fanno far de moti con cordićelle. Bi fogna dunque tra queſte coſe fermarſi con animo tranquil lo, e ſenza ſtrepito: e confe guentemente apprendere, che tanto ciaſcun vale,quan to vagliono le coſe, intorno alle quali s'affanna. 4 E' neceſſario attendere nel parlare parola per parola a quello, che ſi dice: e nell' operare ad ogni moto: e nel l'vno riguardare ſubito a qual fine ſi rapporti; e nell? altro oſſeruare quello, che venga ſignificato 5 E' ſufficiente il mio intel letto per queſto, o non è? s' egli è ſufficiente io me ne vaglio come d'inſtrumento datomi dalla natura dell'yni uerſo nell'opcrare; se non è ſufficiente, o io cedo l'ope ra a chi poffa meglio di me condurla a fine, ſe non foſſe a me ſteſſo ſpettante, o vero la fo come poffo, feruendomi dell'aiuto di quegli, che può cooperando col mio intellet to effettuare quelloche ſia di preſente opportuno, e vtile alla comunione humana:per ciocchè ciò che fo, o da per 3 2 3 ine me ſolo, o con altri, dee ſolo indirizzarſi a quello ch'è pro ficuo, e più proporzionato al comune. Quanti, che ſom mamente furono celebrati, di già ſono paſſati nell'obbli uione? E quanti, che li cele brarono già tempo fa, ſono ſpariti a Non ti vergognar d effere aiutato; poichè ti con uiene operare quello, che ti appartiene, come ad vn ſol dato nell'affalto d'vna mura glia. Che dunque fareſti, ſe azzopppato non poteffi ſolo aſcendere fu i merli, e con yn altro poteſſi farlo? 6 Quello, che ha da auueni re non ti ſgomenti, perchè giugnerai a quello, fe ſarà di vopo, fornito dell'iſteſſa ra; gione, della quale tu ora ti ferui in ciò, che t'è preſente. olo bro gal ]l DO ď ti -7 Tutte le coſe ſono tra di loro auuinte, ed il nodo è fa cro, e quaſi' niuna è all'altra ſtraniera. Concioffie cofa che tra fc sono ordinatamente disposte, e adornano l'istesso mondo, poichè di tutte le coſe queſto è vno, e Dio è vno per tutto, vna la natura, e yna la legge, vna la ragio ne comune a tutti i viuenti intellettuali, e la verità yna, doue pure vna è la perfezio ne di quelli, che ſono dell' iſteſſo genere, e di quei, che della medeſima ragione par ticipano. Ogni coſa materia le preſtamente va a ſuanire nella ſoſtanzia dell'vniuerfo: e ogni cagione'efficiente pre ſtamente è aſſorbita dalla ragione vniuerſale. I ſecoli ancora dentro di fe ſeppelli ſcono lo ni. che id at to s ſcono preſtamente la mc moria di ciaſcheduno, s,is:: 8 L'animal ragioneuole ha la medeſima opcrazionéry fe condo la natura se ſecondo la ragione, o retto o raddirizzato. Con qual? abitudine fi riguardano i membrivnitid vn corpo con tale fi confans no gli enti ragioneuoli, ben chè diſuniti, PER HAVER DISPOSIZIONE A CONCORRERE IN UNA COOPERAZIONE. E maggior mente ti s'imprimerà l'intelligenza di queſto, ſe ſpeffe fiate diraia te ſteffo « Io ſono membro di queſto, aduna mento di razionali. Ma ſe col mutamento d'yna lettera dip'sno, cioè membro, farai fe'egos, che fuona parte, non di cuore porterai amore agli huo INC die a re ſteſſo. id -11 huomini, ene anche tu non ti compiacerai fenz hauere altro fine della beneficienza f operando per 'mera conue polo nienza, e non come per far beneficio. 10 Accada ciò che ſi vuole i d'eſteriori arucnimenti ſopra a coloro, che poſſono patir queſti accidenti, e quelli pa tendo ſi querelino pure à lor e voglia: che quanto a me, se io non reputo che ſia male l'auuenuto accidente,non ne reſto lefo: ora da me dipen de il non reputarlo. II Qualunque coſa altri ſi faccia, o ſi dica, tocca a med eſſer huomo dabbene:non al trimente, che ſe l'oroj ouero lo ſmeraldo, o la porporaco si delcontinuo diceſse; Che che altri ſi faccia, o dica; a na or el file 7110 Nad fe -em are di col me 1POC fuc da са ) ſim bil vie La 011 me tocca d ' eſſere ſmeraldo, e di ritenere il mio proprio colore. La porzione, che è in noi reggitrice,non è a ſe ſteſ ſa moleſta, cioè à dire, ella non s'atterriſce ne s'affige con la cupidigia, e ſe altri è poſſente d'atterrirla, ò di contriftarla, lo faccia. Certo è cheda per ſe ſteſſa con l'ap prenſione non fi riuolgerà a tali commouimenti. Alcor, picciuolo ſi laſci il penſiero, che non patiſca coſa alcuna, ſe potrà; e ſe patiſce lo dica. Però l'animuccia, che teme, e s'attriſta, e riceuc total mente l'apprenſione, niente patirà; concioffiecofa che non procederà mai al giudizio di cose simili. Quanto a ſe ſteſſa la por qu Id nd CC n  A 0 porzione in noi réggitrice è fuori d'ognibiſogno, ſepure da ſe ſteſſa ella non ſi fabbri ca la neceſsità, e nella mede fima maniera è imperturba bile, ed incapace d'impedi mento, fe da ſe ſteſſa non vien perturbata, o impedita. La felicità è il buon genio, o l'iſteſſo bene. Che dunque quì fai o fantaſia? deh pergľ Iddij, vattene comevenifti, nonho vopo di te.Seivenuta conforme all'antica vfanza: non m'adiro teco; ma vatte ne vna volta. 14 Alcuno ha paura della tramutazione; e qual coſa può eſſere ſenza tramutazio ne, e quale è più di lei ami ca, o domeſtica alla natura dell'yniuerfo? Ti potreſti tu lauare, ſe le legne non ſi tra 2 1 21 -2 al che d 1 mil 1mutaſsero? ti potreſti nutri re, ſe i camangiari non ſi tra mutaſſero? che altro fi com pierebbe di neceſſario ſenza la mutazione?Non vedi dun que come ancora il tuo tra mutarti è confacerole, e pa rimenre neceſſario alla natu ra dell'yniuerſo?. Per l'effen za di queſto trapaſſano quaſi per yn torrente tutti i cor pi connaturali; e cooperanti con l'yniuerfo, almodo che le parti noſtre tra di loro cooperano. QuantiChriſippi, quanti Socrati, quantiEpit teti il tempo s'è inghiottito? l'iſteſſo in fatti ti ſouuenga di qualunque huomo, e di qua lunque coſa. Vna coſa fola cruciandomi mi ſcontorce, cioè, che io non forſe faccia quello, che la conſtituzione dell'huomo non vuole, o nel la maniera, che non vuole, o come al preſente non vuole. Tra poco tu ti ſcorderai di tutti, e tra poco tutti ſi ſcor deranno di te. 15 Proprio è dell'huomo amare anco quelli, che erra no;e queſto ſi fa, ſe nel mede ſimo tempo ti ſouuerrà, che quelli, che peccano, ſono a te congiunti; e che o per ignoranza, o non volendo, peccano; e come tra breuil ſimo tempo, e tu, e quellive n'andrete: e ſopra tutto per chè non ti ha leſo, mentre la porzione tua principale non l'ha deteriorata più che per linnanzi ella ſi foſſe. 16 La natura dell' vniuerfo dall'eſſenza vniuerfale, come ha ora formato vn ca: 3. da cera, 194 LIBRO SETTIMO caualluccio, e poi, quello di ftruggendo, ſe n'è valuta per materia d ' yn albero di poi d'vn homicciuolo, e appref lo per qualch' altra coſa; e ciaſcuna di queſte ha durato per cortiffimo ſpazio. Non reca al caffettino molcftia if diſcomporlo, ficome non gliela recò ne meno il fabbricarlo. La ſdegnoſa torbidez za del volto è oltre modo fuordel naturale; perchè fa fpeſſe fiate ſuanire la gratia di quello, ouero alla fine in guifa l'eſtingue, ch'ella non poſla giammai più ràuuiuarſi: Dunque, per queſto iſteſſo sforzati di apprendere che quello è fuori della ragione; poſciachè, ſe il riſentimento contra il peccare fi perde, a che gioua il viuere? 18 Le coſe, che tu vedi, tutto tra poco le muterà la natura, che gouerna il tutto; e dall'eſſere di queſte pro durrà altre cofe, come di nuouo altre dall' effenza di quelle, acciocchè il Mondo di continuo ſi conferui in giouentù. 19 Quando vn commerta errore contro di re, toſto conſidera, che coſa egli pec Cando s'immaginò di bene, o dimale: perchè,conoſcen do queſto, lo compatirai, ſenza marauigliarti, o adi Tarti. Pofciache o formerai l'isteſſo concetto del bene ch' eſſo formò, o altro ſimi le a quello concepirai, on de fia neceſſario perdonar gli. Ma quando anco tu non 1 3 2 I 2 facefli lifteffo concetto del bene, o delmale, ti renderai più facilmente benigno ver fo colui, che ha traueduto. 20 Non s'hanno da conſi derare le coſe aſſenti nel ino do di quelle, che ora ſono: ma fi dee ſcegliere delle preſenti le più abili, e ricor darſi con quanto ſtudio quc fte fi cercherebbono, fe non foſſero preſenti. Però è inſic me da guardare cheper trop. po gradirle non ti auuezzi a ſtimarle vantaggioſamente., a ſegno tale, che, ſe ti inan caffero, te ne turbaſſi. 1.21 Raccogliti in te mede mo. La parte ragioncuole, e principale, è di tal natura, ch'è ſufficiente a ſe ſteffa, quando giuſtamente opera; e in ciò truoua la sua quiere. Scancella l'immaginazione, arreſta la violenza delle par fioni, circonfcriui il prefente del tempo, riconoſci quello, che auuiene così a te, come ad altri: diftingui, e partiſci quello, che ti ſta fra mano nelle fue cagionimateriali, e caufali: figurati l'vltima ora: laſcia l'errore comineffo a quello, e dove fu l'errore. L'animo dee star applicato a quanto si dice e la mente dee internarsi nelle cose operate, e negli operanti: Abbelliſci te ſteffo colla ſemplicità, è vergogna, e coll indifferenza, ch'è in mezzo tra la virtù, e'l vizio. Ama il genere humano, con formati con Dio. Quegli diſſe, ogni coſa eſſer ordina ta con legge certa, ma gl’elementi soli muoverſi con mouimento incerto, e for tuito. Baſta hauer nella me moria tutte le coſe eſſere rc golate con legge fiſſa, c po chiffime andare a caſo.. 23 Intorno alla morte: 0 è diſipazione, o atomi, o euacuazione, o eſtinzione, o trapaſſo. Intorno al dolore: fe non è ſoffribile porta via ſe fi allunga nõ è inſoffribile; e l'animo nel formare i con cetti conferua la ſua pro pria tranquillità, e la parte ſuperiore non peggiora: le parti affitre dal dolore, ſe poſſono,palefino il loro ſen timento. Intorno alla glo ria: riguarda gli animi di co loro, quali ſieno, e qualico fe abborriſchino, e qualiap petiſchino: e come l'arene de i lidi, che vna ſopra l'al tra venendo a ſoprapporſi naſcondono le prime, fimil mente nel noſtro viuere le coſe antecedenti ſono dalle foprauuenute ben preſto ca cellate. 24 Da Platone. Penſi tu dunque, che quegli, che ha penfieri da magnanimo colla fpeculazione d'ogni tempo, e d'ogni ſoſtanzia faccia gran concetto del viuere dell'huo po? Non può eſſer che ſia, riſpoſe. Dunque ne queſti potrà reputare che ſia male la morte. Non per certo. Detto di Antiftene. E' coſa da Re operar bene, e riceuer ne biaſimo. E ' ſconuenelio le, che'l noſtro volto obbe diſca, e ſi regoli, e s'abbel liſca, come la noſtra mente I 4 or 200 LIBRO SETTIMO ordina, e che queſta per fe medeſima non ſi regoli, ne ſi abbelliſca. Se con le cofe diſdegnar ti vuoi Che non curan diſdegno, il tutto è vano. A i mumi da cui morte va lontano Diaſi allegreza,e diaſi pur'a noi. Che ſi tronchi la vita, come ſuole Matura Spiga, e un viua, e un ' altro mora Che di me cura, e de' miei figli 'ancora Non ſi prendan gl'Iddij, ragion il vuole. 26 Da Platone. Io riſpon derei con giuſta riſpoſta. Che tu, o huomo, non ben diſcorri, ſe penſi douere fti mar coſa di gran momento il viuere, o il morire dell huomo, per poco ch'effo va glia, e non più toſto queſto solo confiderare, cioè, ſe quando opera, operi coſe giuſte, o non giufte e da huo mo buono, o cattiuo. Così il vero ſta, o citta dini d ' Athene: fe alcuno reputando il poſto cfler otti mo vi ſi collocherà Principe vi farà collocato, " conuiene, come a me pare, ch'iui ſi fermi, anco che vi foſſc pericolo, non facendo conto ne della morte d'altro, fuori che della brut tezza. Ma poni cura, o galant huomo, ſe altra coſa è l'effer buono, e generoſo, che'l faluare altri, e faluare ſe Ateffo · Concioffiecoſa che non è da deſiderarſi dall ' huomo veramente prodc la vita lunga,ne dee ftare appiccicato al yiuere, ma rimet terſi intorno a tutto ciò in Dio, credendo alle donne, che neſſuno può ſcanſare il fato; e in conſeguenza qui ha da premere in qual ma niera poſſa impiegare, per ottimamente viuere, il tem po, che gli reſta da viuere. Offerua il corſo delle ſtelle, comeſe tu giraffi in compagnia loro e confide ra del continuo le vicende uoli tramutazioni degli ele menti; perchè coll' appren fioni di queſte coſe fi purifi cano l'immondizie della vi ta terrena. Bene ne i diſcorſi dell'huomo fu da Platone af ſerito che ſi debbono con templar le coſe terrene, co me da alto in baſſo, le con greghe, gli eſerciti, i lano ri et is 20 90 7.1 her III le in ri de'campi, i congiugnimen ti de' parentadi, i diſciogli menti, le nafcite, le morti, gli ſtrepiti de' tribunali, i paefi diſertati, le varietà del te genti barbare, le feſte, i pianti, imercati,il rimeſco famento del tutto, e l'abbel limento del Mondo per le coſe tra di loro contrarie. Riuedi conſideratamen te le coſe dianzi ſuccedute: le tante mutazioni degl'Im perij. E lecito ancora preue dere le coſe future: perchè a tutti i modi hauranno l' iſteffa ſomiglianza, c non trauſeranno mai dall' ordine di quelle, che al preſente ſi fanno. Quindi auuione che il miſurar la vita humana con anni quaranta non ſia diffe rent e dal miſurarla con an 1 fir 1 0 I 6 ni 204ni diecimila. Perchè qual coſa vedrai tu di più? Vanno indietro le coſe, e ciò che diede La terra in terra, e nel celefte templo Ciò che venne dall'etera ſen riede Ouero queſta è, yna riſolu zione degl'intrecciamenti de gli atomised vna diſſipazione degli elementi, che non ſog giacciono à paſſione. Con beuande,con cibi,e con magia Della morte cerchiam ſuolger la via. Conuien Soffrir con ftenti, e ad occhi afciutti Il vento,ch'a noiSpira dagl'Iddi 29 Rieſce vno più di te de ftro nella lotta per atterrare gli altri: ma non ſia più co municatiuo, non più riſpet toſo, non più compofto ne gli accidenti, non più benigno verso gli abbagliamenti de ' profſimi. 30.: Douc, secondo l'intendimento comune agl’Iddij, e agli huomini,ſi può condurre vn'opera à fine, iui non è del male: auuegnachè doue è le cito di trouar l'vtile per l'o perazione, che proſpera mente s’auanza, e non trali gna dalla ſua diſpoſizione, iuinon s'ha da ſoſpettar di danno. In ogni luogo, e in ogni tempo ſta in re il pren der a grado, con la douuta pietà, quello, che preſente mente accade, e di portarti con glihuomini, li quali con te conuiuono, giuſtamente, ed eſaminare efattamente quello, che fi rappreſenta all'immaginazione; accioc chè non vi fubentri qualche coſa, che non ſia per prima bene compreſa. 31 Non inueftigare ciò che ad altri paſſa per la men te, ma riguarda diritta mente à quello, a che la natura ti conduce, o ſia quel la dell'vniuerfo, per le coſe che ti accadono, ouero la tua, per l'azioni, che da te dependono. Ora quellos? haurà a fare da ciaſcuno, che conſeguentemente corriſpo de alla ſua diſpoſizione. Per rò tutte l'altre coſe ſono diſm poſte per quelli, che ſono ragioneuoli, come in ogni altra l'inferiori in riguardo delle migliori, e le ragioner. uoli l'vna per l'altra.Dunque il primo e principale nella: diſpoſizione dell'huomo ſi è l’essere COMMUNICATIVO. Secondariamente non arrenderſi alle corporali inclinazioni. Concioſliecoſa che proprio del mouimiento ragioneuo le, e. intellettuale è dicir confcriuer fc fteffo, e non laſciarſi ſottomettere da mo. ti ſenſuali, o impetuolis poi chè tanto gli yni, quanto gli altri hanno del beſtiale. Ma la intellettiua vuol la preininenza, e non eſſere do minata da quelli: e a ragio ne; perchè è fatta per feruir ſi di tutti quelli. Il terzo nel la ragioneuole conſtruzione, è di non trauedere, nc d'ef ſer ſoppiantato. A queſte co ſe dunque applicata la men te proceda a dirittura, e co si conſeguirà quello, ch'è fuo proprio. 32 Come tu non hauefli havuto a uiuere, che fin ora, e già foffi morto, queſto fo pra più che c'è dato diuiuere, dourai viuerlo fecondo la natura, folamente contento di quello, che ti auuenga, e che ti è deſtinato dal fato, imperocchè qual coſa ti può efferpiù couveniente? 33 In ogni accidente vo glionfi hauere auanti agli oc chiquellija' quali occorſero cafi fimili, e che poi fi dole uano, e ſembrado loro ftrano fi lamentauano. Doue dun que ſono eglino ora? in niun fuogo. Vorrai tu dunque fare altrettanto? Perchè non la fci gli altrui rigui alli rigi ranti, e rigirati?: e non te ne ftai tutto intento come ti habbi da ſeruire di tali acci denti? Te ne feruirai dunque bene, e quelli ti ſerui ranno per materia. In ogni coſa, che farai; non hai da applicare ad altro, ne altro proccurare, che d'effer a te Iteffo buono. Nell' yno, e -nell'altro (fia di ciò, che hai da ſcanſare, o ſia di ciò, che hai da fare ricordati che'l foggetto dell'operazione è indifferente. Con perspicacia rimira dentro te stesso, che la fonte del benc è dentro di te, la quale non ceſſerà mai di ſca turire, ſe tu di continuo la terrai ſcanata. 35 Il corpo ha da ſtar fiffo, e non ſi ſtorcere, o fia nel moto, o fia nella poſtura. Perchè nel modo, che l'ani mo imprime vn certo che nella faccia, ferbandola ſe 7 1 Il ria, e ben composta, al trettanto ſi dee ricercare che ſegua intieramente nel corpo; e tutte queſte coſe s'hanno da offeruare fcirza affettazione. Il noſtro modo di viuere è più da affomi gliarſi alla Paleſtra, o lotta, che all'Orcheſtra, o al ballo; douendo alle coſeche ſopra uuengono, e non ſono pre ucdute trouarſi appareccħia to, e fermo pernon cadere. Giammai non laſcerai d'eſaminare quali ſieno quel li, dalli quali tu brami le te ſtimonianze, e quali l'inten zionidella loro mentc: per chè ne accuſerai quelli, i quali peccano inuolontaria mente, ne ricercherai la lo ro teftimonianza, fc rimire rai da qual fonte ſcaturiſco no 10 a,al ercare ate ni € fcuzi mode allomis Torta ballo lopera t no le loro opinioni, e i loro appetiti. Niun'anima, diſſe que gli, di ſua fpontanea elezio ne ſi priua della verità. L'i ſteſſo s'ha da dire intorno al la giuſtizia, alla temperanza, alla benignità, e a tutte le ſi mili.Però è fommamente ne ceffario di non mai ſcordar d'ognuno ſarai più benigno. In ogni coſa penoſa, che ti ſucceda, ti fouuenga prontamente che quella non ha bruttezza, ne può peggiorare la mente in noi reggitrice; poichè non le nuoce, nene in quanto è ragio neuole, ne in quanto è co municatiua; e nella maggior parte de dolori ti venga in mente quello d'Epicuro; Che to pre cchia dere ulcera quel let inter: per Uli, / taria a lo mit rico no 2 I 2Che non è intollerabile, o non è eterno; ricordandoti però di laſciarlo ne' ſuoi termini fen za aggiugnerui altro con la tua opinione. Ancora quel lo hai da hauer a mente, che molte coſe, che partecipa 110 propriamente del dolore, copertaméte ci trauagliano: come è l'hauer ſonnolenza, lo fmaniar di caldo, il patir faſtio di ſtomaco '. Quando dunquc alcuna diqueſte coſe maltolenticri ſopporti, con feffa a te fteffo d' ellerti arre ſo al dolore. Auuerti di non hauere tal volta quell' auuerſione agl'inhumani, che gl'inhu manihanno agli huomini. 40 Donde argomentiamo, che Socrate foffe illuſtre, e di diſpoſizione d'animo migliore? Mentre non baſta, che haueffe vna morte delle più glorioſe, c più acutamen te co ' Sofiſti diſputaſſe più ſofferentemente ſopra'l ghiaccio pernottaſſe, e co mandato a condurre quel Salaminio, più d'ogni altro generoſamente fi moſtraſſe renitente, e che per le ſtrade andaſſe con graue contegno. Intorno a che era aſſai da in ueftigare le così era vera mente. Maquello è neceffa rio conſiderare, qual ' animo s'haueſſe Socrate, e ſe egli po teſſe appagarſi d'effer giuſto inuerſo gl’huomini, e fanto inuerſo gļIddij,nő iſdegnan doſi temerariamente contro la malizia, ne punto feruen do all'ignoranza d'alcuno, ne accettando come ſtranie Fit Ho fe je. Te ne ng€ ra uc PC PE ra alcuna cofa datagli dall' vniuerſo, o ſopportandola come intollerabilc: në hauef ſe mai acconſentito, c piega to l'animo alle paſſioni della carnuccia. La natura non in fi corporò talmente il compó fto, quaſi che l'huomo non poſſariſtrignere, e regolar ſe lo medeſimo e far le ſue proprie VE coſe foggiaceré a ſe feflo. 41 Può eſſere facilmente, in che vn diuenga huomo diri no, e non fia conoſciuto da alcuno. Ricordati ſempre di queſto: e in oltre di quello, 1 che?l viucre felicemente conſiſte in pochiſſime coſe. E non perchè habbi tu per duto la ſperanza d' eſſere Dialettico, o Fiſico, ti ſtime rai rigettato dal poter eſſer libero, pudico, comunicati uO. E I uo, e oſsequente a Dio. 42 Senza alcuna violenza potrai trapaſſare la vita in vna piena giocondità, an corchè tutti ſtrepitino,come fi voglino, ancorchè le belue ſtrappino i membricciuoli di queſta mafsa, che t'è cres ſciuta addoſſo, perchè, che vieta in tutte queſte coſe ala l'animo di conferuar ſe ſteſso in tranquillità, e nel giudi cio vero delli circonſtanti accidenti, e collyſo pronto i delle coſe preſenzialmente ayuemute: in modo che poſsa il giudicio ſentenziare ſopra è quello, che vien accadendo: queſto fe' in ſoſtanza, ben chè lecondo l'opinione, al tro appariſci; e l'vſo poſsa di re all'accidente: tu fe' quel lo, ch'io cercaua. Perchè fem - 01 te elle est sempre quello, ch'è preſen te, ferue per materia della virtù ragioneuole, e ciuile; e inſomma è materia dell'ar te dell'huomo,ouero di Dio. Laonde tutto quello, che auuiene ſi fà famigliare a Dio o all'huomo; e non è coſa nuoua, ne intrattabile, ma conoſciuta, e maneggieuo le. 43 La perfezione de'coſtu mi porta feco queſto; ch? ogni giorno ſi trapaſſi come fe foffe l'vltimo, non ſi com mouendo a coſa alcuna, ne con iftordimento, ne con fi mulazione 44 GI'Iddij eſsendo immor tålicnon hanno a male, che in tanti ſecoli ſia a tutti lo to neceſsario comportare ta li, e tanti fcelerati, anzi han Q b f Uella bile ar Dio. che Dio cola m2 Cuo hanno in oltre di quelli vna total cura; e tu che ſtai già per mancare ti ſtracchi, non oſtante che tu ſij vno degli ſcelerati? è da riderſenc; tu non fuggi la tua propria mal uagità, il che è poſſibile, ę fuggi quella deglialtri, il che t'è impoffibile. 45 Quello, che la facultà ragioneuole, e ciuile truoua, non fecondo l'intelletto, ne ſecondo la ſocietà, con buon dettame lo giudica più viledi fe ftefla. 46 Quando tu hai benéfica to, e vi altro ha riceuuto il beneficio, oltre di queſto che terza cofa pretendi,comefan no i pazzi, di parer d'hauer fatto bene, e d'hauer a rice uere il contracambio? niuno s'affatica, mentre riceue vtili K tå, oſtur ch 9 come COM 2, ne ont 7mor s che tti lo are ta anzi 9 Tantà, e mentre l'vtile è azione ſecondo la natura; non ti af, fannar dunque riceuendo yti lità in quello che tu ſe'di gio uamento agli altri. La natura dell’yniuerlo per proprio inſtinto venne alla fabbrica del mondo, donde è che ora tutto ciò, che ſi va facendo, procede in ſeguime to di quello; ouero le coſe principaliffime, alle quali la mente reggitrice del Mondo ha:vna particolar inclinazio ne, ſono ſenza ragion prodot te. Se tu ciò a memoria ha urai, ti renderà più tranquillo in molte cse. E è azione non tia4 ndowe 'digia erloper e alla Ponde fi va imé coff lila 1 do 1 10 ota 1 Vello ancora è gio ueuole contro la vanagloria, con fiderare, che non iſta più in tuo potere l'eſſer viuuto tutta la vita, o almeno la paſſata dopo la giouentù, filoſofica mente: ma a molti altri, e a te medeſimo hai dato a co nofcere, che tu ſeben lonta no dalla DALLA FILOSOFIA. Dunque ti truoui imbrogliato: perchè K 2 1 1 # oramai non ti è più facile.d ' acquiſtare ſtima di Filoſofo, ſenza che ti è contraria ancor ra la tua profeſſione. Se adun que tu penetraſti veramente fin doue conſiſte ľaffare, non ti curar quale tú habbi da ef ſer riputato, ma baſtiti ſe tu il reſto menerai della vita,fe cõdo il dertame della tua na: tura. Conſidera dunque quel lo,ch'eſſa ſivoglia, ne altroiti diſtragga: perciocchè hai già prouato per quantecoſe ſe'i to vagando, ne mai in niuna hai trouato il ben viuere, ne nel fillogizzare, ne nella ric chezza, ne nella gloria,nenei piaceri, ne in che ſi fia. Don ue dunque farà? nell'operare ciò, che richiede l'iſteffa na tura humana. Come dunque queſto li eſeguirà? quand'v no faciled Elofoto ta anch eader zmente y101 dach fetu 2,fe na no haurà nell'animo fermati queidogmi, dalli quali han no origine gliappetiti, elo pere. E quali ſono queſti do gmi? quelli, che appartengo no ai beni, e a i mali, come nulla eſſer bene all'huomo, che non lo renda giuſto, tem peratoforte, liberale, enulla male, ſe non quello, che ope ra il contrario delle coſe ſud dette, 2 In ogni operazione in terroga così te ſteſſo: in qual maniera queſtaa me fi confà? forfe appreffo non ine ne pen. cirò a Di qui ' a poco io farò porto, e ogni coſa fuanirà. Che coſa di più ricerco, ſe no che l'azione preſente cõuen ga ad animale ragioneuole, e comunicatiuo, e che nella legge ſi conformi con Dio? Alessandro, Caiose Pompeio, che coſa ſono appetto a DIOGENE, ERACLITO, E SOCRATE? Queſti penetrarono le coſe, e le cagioni,e le materie, e tali erano le menti loro: ma quelli a quanti haueuano da prouedere? a quanti haueua no da ſeruire? 4 Ancorchè tu crepaffi tutttauolta gli huomini fará no l'iſteſſe coſe. Al bel primo non ti ſtare a turbare; poichè tutte le cole, fuccedono fe condo la natura dell'vniuerſo; e tra poco tempo tu farai nič te; ed in niun luogo, come non é Adriano, ne Auguſto. Appreſſo fiſſandoti nell'opera ſteſſa, conſiderala, ed inſieme riducendoti a memoria che ti biſogna eſſere huomo dab bene, e ciò che la natura del l'huomo richiede, fa ciò, che tu ti proponeſti con inuaria bile fermezza, e parla come giuſtiflimo ti parrà; però con placidezza e con rispetto e senza ſimulazione. Questa é della natura dell'uniuerso l'opera e'l ministero. Le cose che ſono qui traſportar colà, tramutarle leuarle di quà, ed iui riporle. Ogni cosa è mutazione, non però sì, che s'habbia da te mcre di nouità, andando il tutto ſecondo il conſueto; anzi le diſtribuzioni delle co fe fono eguali. Ogni natura ſi ſoddisfàdi ſe ſteſſa, s'ella cà. mina per la propria via. E la natura ragioneuole cammina bene, quando nelle immagi nazioni non conſente al falfo, o all'incerto; e negli appetiti, quando alle ſole opere co munali gli dirizza; e nellide fiderij, e nelle auuerſioni, qua do le reſtrigne a quelle coſe fole, che ſtanno in noſtro ar bitrio; e abbraccia volentie ri tutto quello, che dalla na tura comune le vien datos poichè è parte di quella, co me la natura della foglia è parte della natura della pian ta, ſe non che iui la natura della foglia è parte di natura, che è ſenza ſenſo, e ſenza ra gione, e che ſi può impedire: doue la natura dell'huomo è parte della natura ad impedi mento non ſoggiacente, in tellettuale, e giufta; mentre eſſa, ſecondo l'egualità, ei meriti, diſtribuiſce a ciaſcuno i compartimenti de' tempi, delle ſoſtanzie della cagione,  dell'operazione, e delle con tingenze. " Anuertiperò,che non trouerai in niuna coſa, conſideratele ad vna ad vna, queſta vguaglianza pari ad vn tutto;maſi bene accumulata mente, conferendo il tutto dell'vne col tutto dell'altre. 6 Non te conceduto di poter leggere,maè in tuio po tere il non far delle ingiurie, -il vincere i piaceri, e idolori, l'effer ſuperiore alla glorietta: di più,il non alterarti contro de i difenfati, e degļingrati: anzi tè conceduto l'hauere etiandio cura di loro. Niuno ti oda querelarti del viuer nella Corte, neme no di quello, che tocca a te. 8 Il pentimento è vna tal riprenſione di te ſteſſo per yn ytile traſcurato. Ora il bene de' efſere qualche vtile, e de eſſere procurato.dall'huomo dabbene, e di buoni coſtumi. Ma neſſuno huomo dabbene, e bene accoſtumato haurà pen. timento di hauer traſcurato qualche piacere. Non è dun que coſa vtile, ne buona il piacere. 9 Che cofa è queſto ſecon do te ſteſſo nellapropria con ftituzione? Quale è il ſuo ſo ſtanziale, e materiale? Quale è il ſuo caufale? A che serve nel mondo? E quanto tempo fulliſterà? Quando ti ſuegli con di fguſto dal ſonno ricordati ciò etſer conforme alla tua conſtituzione, e fecondo la condizione naturale dell'huo. mo di produrre operazione a prò dell humana focietà: dove il dormire è comune an cora agli animali irragiuneuo. li. Quello perù, ch'è naturale ad ognvno, quello è più pro prio, e più comodo, ed è più giocondo. II Continuamente, ed in ogni immaginazione, giuſta tua poffa, eſamina la ſua na tura, ricerca le fue paſſioni, e dialetticamete intorno a quel. la diſcorri. In chiunque t'ab batti, prontamente diſcorri dentro di te; Queſti che maf fime può hauere intorno al bene, e intorno almale?. Im perocchè, fe ha tali, e tali maſſime intorno al piacere, e al dolore, e le cagioni dell’y -no, e dell'altro, intorno alla gloria, all'ignominia, alla morte, e alla vita, non mi ma rauiglierò, ne mi parrà coſa K 6 ſtrana, s'egli opera tali coſe; e mi rammenterò, che quegli è violentato ad operare in fi mile maniera. Rammentati, che come è coſa difdiceuole lo ſtimare ſtrano, che'l fico produca fichi così che'l Mon do produca quelle coſe, delle quali è fecondo. E ſimilmen te ancora farebbe vergogna al medico, ed al piloto il pa rer loro ſtrauaganza, ſe viene ad yno la febbre, e fe il ven to ſoffia in contrario. 12 Ricordati, che tanto il mutarſi quanto il conformar fi a chi ti corregge, non ti to glie l'eſſer libero; perciocchè l'azione è tua, e ſecondo il tuo appetito, e giudicio, co me anco conforme al tuo in, tendimento, ſi riduce a fine. 13 Se depende da te, pers ché in chè lo fai? ſe depende da al tri, di che ti lamenti? degli atomi, o degl'Iddij? mentre così l'vna, come l'altra è paz zia. Non dei querelarti d'al cuno: perchè ſe è in tuo po tere queſto, correggi l'iſteſſa azione; ma ſe quello non tuo potere, a che gioua il do lerti, giacché non conuiene far coſa alcuna inuano? 14 Ciò che morì non caſca fuori del Mondo:ſe reſta dun que qui, e qui fi muta, anco qui ſi riſolue nelle coſe pro prie, le quali ſono elementi del Mondo, e tuoi; e queſti pure ſoggiacciono a mutazio ni, nc fi qucrelano. Ciò che è, per qualche coſa è fatto, come a dire il ca uallo, la vite.Di che ti maraui. gli? Il Sole pure dirà, per qual'effetto ſon fatto, e così gli altr’Iddij. Tu dunque per qual coſa per pigliarti piace re? conſidera ſe l'intclletto lo comporta. La natura s'ha preſo pen fiero diciaſcuno, non meno del fine, che del principio, e della durata dellavita. 17 Quando alcuno tira in alto vna palla, che di bene ne riporta fa palla quando va balzata in alto, o che di male quando fcende, e quando ca de in terra? E che di bene n'auuiene alla bolla dell'ac qua, ſe dura in eſſere, e che di male, ſe fi dilegua. In que ſta guiſa puoi ancora diſcor rere della lucerna. Riuolta il corpo, e vedi quale è, e in uecchiandoſi, quale diuiene, o pure cadendo in infermità, o dap  o dappoi che s'ha preſo i ſuoi guſti carnali. 18 E ' di breuc durata echi loda, e chi vien lodato: il men touato, e chi lo mentoua.Ag giugniui, che ciò ſuccede in yn cantone di queſta regione, ne in quello ancora tutti ſono del medeſino ſentimento; ne pur yno è ſempre del medeſi mo con ſe ſtcffo.E tutta la ter ra è finalmente yn punto. 19. Applica l'animo a quel lo che ti ſi appreſenta, o al de. creto, o all'operazione, oal fignificato. Giuſtamente que ſto patiſci, perchè vuoi diffe rire a domane a diuenirc huo. mo dabbene, più roſto ch'er ſerlo oggi? 20 S'io fo coſa alcuna, la fo riferendola a bencficio d'huo. mini. Se m'auuiene qualche? l 1 P cofil 232coſa la riceuo, riferendola al.. tresì agl Iddij, e al forte d'or gni coſà, dal quale tutto ciò che auuiene inſiemederiua. Che ti pare che ſia il la uarſi? olio, fudore, fucidu, me, acqua', ſtrofinacci, coſe tutte difpiaceuoli: I ale èogni parte della vita, e tutto quel lo,che a noi fotto ſta. 22 Lucilla ſeppelli Vero, appreſſo morì Lucilla. Secon da fepellìMaflimo, appreſſo morì Seconda. Epitinchanó Diotimo, appreſſo Epitinchano. Antonino ſeppellà Fauſti na', appreſſo morìAntonino. In tal modo cammina ogni cofa. Celere ſeppellì Adria no, appreſſo morì Celere. Quelli anco d'acuto ſpirito, o indouini; o fuperbi, doue ho ra ſono? come Charace, Demetrio il Platonico, Eudemone, e altri ſimili d'acuto spirito tutte le coſe ſono tran. ſitorie in yn giorno, e di già morte, e mancate: alcuni ne meno per poco rcſtarono nel la memoria: altri trapaſſaro no in fauole; altri già dall'i ſteſſe fauole ſcancellati, Quel lo dunque non è da ſcordarſi, che biſogna o diſſiparli queſta tua compoſizioncella, o eſtin guerſi lo ſpiritello, o traſpor tarſi, e altroue riporſi. - 23 La conſolazione dell' huomo conſiſte nell' operare ciò, che appartiene all’huo mo; e appartienſi all'huomo il voler bene a quello, che gli è ſimile per natura: ſprez zare i moti delfenſo, diſcer ner le probabili apparenze, contemplar la natura dell'y Olli" ello 300 ha 710 on te ho DP niwer niuerſo, e tutto ciò, che in quella ſi produce. Tre fono le abitudini, l'vna alla ca gione,che circoncigne, l'altra alla cauſa diuina, dalla qua le il tutto a tutti deriua, la terza a quelli, che con noi vi uono. Il dolore o è male del corpo, el corpo ſia quello, che lo paleſi, o è dell'animo: ma l'animo ha in ſua balia il conſeruar la propria tranquil lità, e ſerenità, e di non rcpu tar, che quello fia male. Per chè ogni giudicio, e inclinac zione, e appetizione, e de clinamento ſta nel didentro e da indi non afcende male neſſuno. 25 Scancella l'immagina zioni del continuo dicendo a te fteffo: Ora è in mio potere, che in 10 tra 12 10 vi del 09 70: che in queſt'anima non hab bia luogo alcuna maluagità, ne la cupidigia, ne qualſiuo glia turbolenza: ma cono fcendo ciaſcuna coſa, fecon do il ſuo eſſere, mi ſerua di ciaſcuna per quanto vale. Ri cordati di queſta facultà a te conceduta dalla natura. 26 Parla nel Scnato, e con ciaſcun'altro in particolare co decoro, e non con troppa li fciatura, ma vſa vn modo fa no di parlare. La corte d'AUGUSTO, la moglie, la figlia, i nepoti, i defcendenti; la ſorella, Agri pa si parenti, I famigliari, gli a mici, Ario,Mecenate, i medici, i sacerdoti, tutta quel la corte è svanita con la morte. Mettiti poi a conſiderare altre famiglie,nelle quali non trouerai la morte d'vn huo mo ſolo, ma di tutte, come dei Pompeij. Mancò quella, e ne' fepolcri iſteffi leggiamo chi fu Byltimo di quella gen te: come anco. quello, che viene ſcolpito ne'monumen ti, vltimo della ſua gente. Conſidera poi quanto fi tra uagliarono i loro antenati, di laſciar yni fucceſſore, e pure fu di neceſſità, che alcuno for ſe l'vltimo, e qui parimente conſidera la fine di tutta quel. la gente. 28. S'ha collazioni ad vna ad yna a compor la vita; e ſe ciaſcuna vi ha la ſua parte, Thuomote nºha đa content - re; e che quella non habbia il ſuo pienoaſufficienza, niuno lo potrà impedire.Se poi s'op- ' poneſſe qualche cofa eftra nea?1€ lagi 110 11 Pr di 24 nea? niente al certo s'oppor rà al giuſto, modefto, e confi derato. Ma forſe qualche al tra operazione l'impedirà?Pc rò ſe tu prendi a grado l'iſteſ fo impedimento, e trapaſſe rai coll'animo ben aggiuſtato a quello, che ti vien dato ti ſi furrogherà vn'altra operazioa ne, che quadri a quella com poſizione d'animo di cui ora ſi parla, che veramente firice na ſenza fato, e fi laſci pure con facilità 29 Se mai vedeſti vga ma no, o vn piede troncati, avna tefta dal reſto del corpo reci fa in qualche luogo giacere; a queſti ſimile per quanto a il Luiſta ſi rendechiunque ricu fa le coſe ch’auuengono, e ſe ftetſo quafi tronca, o fa quel ſa lo, chenon ſi confaccia al be ne of Tele nd f noto iF ne degli altri, col diucller i in certo modo dall' vnione della natura; mentre tu effen do nato parte di cffa, da te ſteſſo te ne fe'reciſo, ma qui cade in acconcio il dire, che in tuo potere ſta di ritornarti a riunire: il che Dio a niuna altra parte ha conceduto, che ſegregata,e reciſa, di nuouo fi tornaffe a congiugnere. Però confidera la fouranz bontà, che tanto onore conceffe all' huomo. Poichè nel principio poſe inſuo potere il non di uel'crſi dal corpo intero, e dopo diuelto, il ritornare, ed il ricongiugnerſised il ricupe rare il poſto di parte. 30 Come ciafcuno de'ragio. neuoli ottenne dalla natura tutte l'altre facultà quaſi qua to è capace la condizione del. boz fa  € 1li ragioneuoli, così ancora da lei riceuemmo queſta facultà, la quale è, che in quel modo, che quella tutto ciò, che le reſiſte, e le oſta, lo conuerte, e rimette nel fato, e lo fa ſua parte, così l'animal ragione uole può d'ogni impedimen to farſi propria materia, e ben vſar di quello, a che ella per iſtinto e portata. 31 Non ti confonda l'imma ginazione di tutta la vita Non iſtare a ghiribizzare pen ſando quanti, e quali trauagli poſſano ſoprauuenirti; ma in qualunque delle coſe, che ti ſi preſentino,interroga te ſtefa ſo: in queſto fatto,che ci è d'incomportabile, che ci è d ' intolerabile? Concioſliecofaa che t'arroſſirai di confeſſarlo. Appreſſo ricorda a te ſteſſo, che 7 ge 10 14 fel 2 t C a C che ne il futuro,ne quello che è paſſato t'aggraua, ma ſem pre quello che è preſente; é queſto ſiſminuiſce,ſe diſtinta mente lo ſeparerai, e la men te tua riprenderai, ch'ella non fia baſtante a reſiſtere a que ſto ſolo. 32 Forſe aſſiſte per ancora al ſepolcro del ſuo Signore Panthea, o Pergamo? o pure a quello di Adriano Cabria, o Diotimo? E ' da riderſene, E ſe aſſiſteſſero, ne haureb. bono ſentimento? E ſe ne ha uefíero ſentimento, haureb bono godimento di queſto E ſe haueſſero godimento, fa rebbono diuenuti per queſto immortali? Non portò il f to, che ancora queſti prima diueniſſero vecchi, e vecchie, ed appreſſo moriſſero? Che dun il 762 en 101 JUICE Con 701 dunque erano perfare quelli, dopo che queſti foffero mor ti 2 Il tuttoè puzza, e mar cia in yn ſacco. 33 Se tu haiacuta viſta, adoprala, difle quegli ſauia mente, nel giudicare. 34 Non vedo, che nella conſtruzione dell'animal ra gioneuole ſia virtù alcuna re pugnante allagiuſtizia: ma fi bene vedo cffer repugnante al piacere la virtù della con tinenza. 35 Sea quello chepare ap porti a te meſtizia, detrarrai la tua apprenſione, tu ſteſſo ti ſe’poſto in ſicuro. Chi è quel tu ſteffo? la ragione. Ma io non ſono la ragione. Così fia: dunque la ragione non tra uagli ſe ſteſſa. Maſe qualche altra coſa in te patiſce del L male 16 han Foi [ um 10 The  male, ella medefima ne formi il fuo concetto. L'impedimento del fen ſo è male della natura vitale, e ſimilmente è male della na tura vitale l'impedimento del l'appetito: ed ecci eziandio vn altro parimente impedi mento, e male della conftitu. zione vegetatiuas. Così duna que l'impedimento dellamé te è male della natura intel lettiua; applica: tutte queſte coſe a te ſteſſo. Il dolore, e? I piacereti co muotono? il ſenſo fę n'auuer. drà. Nell'apperire ti ſi poſe oſtacólo ſe tu ti folli moffo fenza ſottraimento, e rifertias allora farebbe male delura: gioneuole;mia fe tu lo riceuí, come coſa comune tu non fe'dannificato, ne impedito, po es el Bio di tu né ele poſciache nigni altra cola ſuo le impedire le coſe proprie della mente: perchè in quieta la ne fuoco, ne ferro, ne ti ranno, ne maledicenza, ne altra coſa del Mondo può pe netrare:che cheſi faccia della palla, eſſa ſempre rimane tony da.:' 37 E' coſa indegna il mole ſtar me ſteſſo, mentre a niun? altro mai di proprio volere ho dato moleftia Altre coſe cagionano allegrezza in altri; io m'allegro, ſe la mia facul tà guidatrice ſtarà fana, la quale non habbia auuerſione ad alcuno huomo, ne adal cuna coſa di quelle, che fuc cedono agli huomini, mail tutto rimiri con occhi placi di; e riceua ciaſcuno, e dieſſo fi ferua,fecondo il ſuo pregio. L 2 38 Ve có LIF CA Mo It This 700 TO: Vedi di ſpendere a tuo prò queſto tempo preſente. Coloro, che più affettano la fama apoftuma, non conſidc rano, che quelli, da’quali la ſperano ', faranno tali, quali al preſente ſono coloro, che a lor non piacciono, poichè eſſi ancora ſono mortali. In ſom ma che t'importa, ſe quelli con tali, o tali voci ftrepitino, o habbiano di te queſta, o quella opinione? 39 Prendimise gettami do ue vuoi: poichè iui ancora trouerò il mio genio buono, e propizio, cioè a dire a me ſufficiente, purchè habbia e operi quello, che è confor me alla propria fua condizione. E' forſe coſa che meriti, cheper eſſa s'incommodi l'animo mio, e peggiori ſe ſteſ ſo con auuilirſi, appctire, confonderſi, e ſgomentarſi? E che trouerai, che tanto ine riti? Non può auuenire coſa a vn huomo, che non ſia acci dente, che non habbia dell? humano; ne al bue che non ſia accidente, che egli non habbia del bue; ne alla vite, che non ſia della vite; ne alla pietra, che non ſia proprio della pietra. Se accade dun que a ciaſcuno quello, che è folito, e connaturale, perchè t'attriſti? mentre non è intol lerabile quello, che la natura comune a te contribuiſce. E ſe ti pigli moleſtia per qual che coſa eſtranea, non certo efla ti moleſta,mail tuo giudi cio intorno a quella. E pure il cancellar quello depende da L 3 te. E ſe ti trauaglia qualche cofa nella diſpoſizione del tuo animo, chi è quegli, che ti vieta di rettificare il tuo concetto Con tutto ciò ſe tu ti affanni, perchè non operi tu ciò, che a te pare ben fat to? Perchè più toſto non ope ri, che contriſtarti? Mavna coſa più valeuole mi oſta Dunque non ti affannare; poi chè non proccde da te la ca gione del non operare. Ma non par che conuenga di più viuere, fe ciò non fi fa. Dùn que placidamente finifti la vita: mentre ancora quegli fa qualche coſa, che muore benigno eziandio verſo colo ro; che gli fanno oſtacolo. Osserva che la princi pal parte dell'huomo resta inespugnabil, quando in ſe Iter ko fel he UNO steſſa ritirandoſi di ſe ſi con tenta non facendo quello che effa non vuole, ancorché ſi metta in battaglia ſenza la. iuto della ragione. Che dun queſarà, quando coll'aiuto della ragione prudentemen te giudicherà qualche coſa? Per queſto la mente libera delle paſſioni è come vn'alta rocca, giacchè l'huomo non ha coſa più forte, nella quale ritiraro rimanga poi ſempre incípugnabile. Chì dunque queſto no comprende è igno rante: chi l'ha comprefo, non ſe ne vale,difgraziato. 42 Niente di più ſuggeri fci a te ſteffo di quello, che portarlo Ic mere priine ap prenſioni. T'è ſtato riferto, che il tale dice malc di te; queſto è vn rapporto. Ma L 4 che tu ſij ſtato, offeſo, non ſi contiene nel rapporto. Veg gio, che il figliolino è am malato, queſto ilvedo, ma che ſia in pericolo nol vedo già. Dunque reſta ſempre ne gli primi apprendimenti della immaginazione, e non v'ag. giugnere dentro da te ſteſſo niente d'autantaggio: e così niente ti ſopragiugne; anzi aggiugni, che non ti viene nuoua qualunque coſa, che nel Mondo accade. Il cóco mero è amaro, laſcialo; le fpine ſono nella ſtrada, ſchi fale, baſta; non iſtar a fog giugnere: e perchè queſte co fe ſono ſtate fatte nelMondo concioffiecoſa che ſi burle rebbe di te ogn'huomo, che fia inueſtigatore della natura: come appunto ſareſti derifo da of 12 do De le SI da vn fabbro, o da yn coiaio, ſe tu li condennafſi, per ve dere nella ſua bottega fca muzzoli, e ritagli delle coſe, che effi lauorano. E pure que gli hanno doue gittar queſte coſé; il che non può fare fuori di ſe la natura dell'vni. uerſo: maciò che recamara uiglia di queſta ſua arte è, che circonſcritta in ſe ſteſſa, quan to dentro di fe fi corrompe, e s'inuecchia, e appariſce non eſſer più ad alcun yſo, tutto in ſe ſteſſa tramuta, e di nuo uo di quelli forma cole recen tizin tal guiſa, ch'ella non ri cerca ſoſtanzia eftrinfeca, ne ha biſogno di luogo per git tarui le coſe più corrotte. Così le ſono baſteuoli la ſua regione, la ſua materia, e la propria arte. Dzi De TC O le Dj D D? 7 0 L 5 43 Non andar vacillando nelle azioni; e nelli congreſi non far confufione. Nelle immaginazioni non andar ya. gandojne in modo alcuno con Panimo o angoſcioſo, o trop po impetuoſo, non accupare ja vita in fouerchie faccende. Se ammazzano, fe mandano a fil difpada, fe con efecra zioni infeftano, che nuocono quefte coſe al conſeruarti Ja mente pura, prudente, contes nente, e giuſta? fiati per e fcmplo: le vno auuicinatofi ad vna fonte di dolce; c limpi da acqua,a quella diceſſe del le ingiurie,non perciò ceffereb be di porger l'acqua da bere, e fe ancora vi gettafle del fan go, ' e dello ſterco, immanti nente ella lo ſegregherebbe, e diffiperebbe, e in neſſun modo Llande agreb Nelli dara 1000 Otrop CINK cord ndan Mocht OCOMO artil СОЛь modo fe n'imbratterebbe.. Come farai dınque per hauer vna fontana ſempre viua; e non vn pozzo d'acqua fta gnante? Merci te ſteſſo ad ognora in libertà, ſtando con l'aniino trãquillo, ſchiet to, e modeſto. 44 Chì non sa, che coſa ſia il Mondo, non fa doue egli fia.E chi non ſa a che fine egli medelino fia ſtato fatto, non få ne qual'egli fi lia,ne che co. fa ſia il Mondo. A chi manca vna di queſte coſe, non può dire a che fine egli fia fatto Chi dunque pare a te, che ftia più contento, quegli, che fugge le lodi degliadulatoris o quelli, che nonfanno doue, o quali eſli fi fiano Ti com piaci d'effer lodaro da vnos che tre volte l'ora maledice Del & zarob limpi edel flerech berty bhe cfiun do L 6 se ſteſſo? Vuoi piacere ad huomo, che ne pure ſoddisfà a ſe ſteffodroddisfà a ſe mede ſimo quegli, che in tutte quafi le azioni, alle quali pon ma no, ſi pente? Avverti per l'avvenire non ſolo di reſpirare nell'am biente dell'aria, ma ancora di conformare i tuoi penſieri con l'intelletto, che tutte le coſe contiene. Concioffieco fache non meno queſta facul tà intellettuale fi diffonde, ed entra in quello che la puòat trarre, che quella dell'aria in quello, che può reſpirare. 46. Generalmente la mali zia non danneggia il mondo; e quella che riſguarda il par ticolare, non fa danno ad vn altro, ma a quel folo e noci ua, al quale ancora è conce duto read Idishi med quafi ma enie l'am ncora ofieri tele eco cu duto di libcrarſene, qualun que volta egli ſia pronto a volerlo. Al mio arbitrio è indift ferente egualmente l'arbitrio del proſſimo, ficome anco il fuo fpiritello, e la carnuccia: Imperciocchè fe bene ſiamo fatti principalmente l'vno per l'altro, niétcdimcno ciaſcuna delle menti noftre ha il fuo dominio particolare; altri mente ſeguirebbe, che la ma lizia del profſimo foſſe il mio male, coſa che non è piaciu ta a Dio, acciò non dependa da altri il far il mio ſtato in felice. Il Sole par, che fià dif fuſo, c veramente per tutto fi fpande, ma non però con queſto Ipandimento fi fparge, e perde; perchè queſta ſua ef fuſio Ged at iain ali doi par yn ci ce fuſione è vn diſtendimento': che però gli ſplendori ſuoi, o raggi ſi chiamano in Greco con parola, che viene dallo diftenderk. Ma quale sia la natura di queſto raggio, tu la potrai conoſcere,fe riguardila luce del sole penetrata per qualche feſſura in vna ofcura ftanza imperocchéciò ſi fa di rettamente, e quaſi vien diui fose ſquarciato da ogni corpo folidojin cui s'incontri no am * mettente più oltre l'aria: e qui ſi ferma,nc inciampa, ne cade. Tal effuſione, e diffuſione del eſſere della mente, non ell çuamento, ma diſtendimento; ficche agl'impedimenti chein. contro le ſi parano non violen. temcntene temerariamente re fifta, mà refti ſtabile, e illumi. ni ciò che la riceue. Imperoc chè  llo be 1 ih pier lill chè priua fe ſteſſo di luce, quegli, che non l' ammets te. 49 Chi teme la morte, o te me la perdita de'fenſi, o qual che altra forte di ſenſo, ſe non haurà niun fenſo, non fentirà male alcuno. Se poſſederà vn'altra ſorte di ſenſo, farà yn altro animante, e non reſterà di viuere. 50 Gli huomini ſono fatti P'yno per l'altro; Dunque in ſegna, o ſoffriſci. Altrimente la faetta, al trimente ſcorre l'intelletto. Ma l'intelletto e quando cau tamente procede, e quando alla conſiderazione ſi volge, non meno ſi porta per diritto, ed al berſaglio. S'ha da penetrare den tro alla mente di ciaſcuno e per DO 1] Te te } 0 re e permetter altresì ad ognu no di penetrare dentro la pro pria tua mente. Chi fa ingiuſtizia fa vn atto d'empietà. Im perocchè, hauendo la natura dell' vniuerfo fabbricato gli animali ragionevoli, vno a prò dell'altro, acciocchè, ſe condo il douere, vno gioui all'altro, e in niuna guiſa gli muoca, chi traſgrediſce tal decreto di queſta, commette manifeſta empietà contro il nume' antichiſſiino tra gľ Id dij. Concioffiecofache la natura dell' vniuerſo è natura di enti, e gli enti hanno vna coral fratellanza con tutte l'altre coſe eſiſtenti. Di più queſt' iſteſſa fi noma verità, ed è prima cagione di tutte le cofe vere. Onde chi ſponta neamente mentiſce è empio in quanto con l'inganno fa in. giuſtizia, come ancora chi in uolontariamente mentiſce, in quanto difcorda dalla natura dell'vniuerfo, e in quanto ca gion deformità, ripugnando alla natura del Monda. Im; perocchè ripugna quegli, che per ſe ſteſſo è portato alla contrarietà delle coſe vere: giacchè haueua innanzirice uuto dalla natura alcuni in ſtinti, i quali poi eſſo traſcu rando, non può ora diſcerne re le coſe falſe dalle vore. E pure chi ſegue i piaceri, come coſa buona, e fugge il traua glio, comemale, commette empietà. Perchè è neceſſario, che coftui fi quereli ſpeſſe vol te della comune natura, qua fi ch'ella faccia diſtribuzioni di beni a traſcurati, ed a fol leciti contra il lor merito; effendo che fouente i traſcu rati fieno di piaceri abbon danti, e di quelle coſe ond'ef fi deriuano; ed i ſolleciti al l'incontro fieno da dolori op preſli, e cadano in quelle co fe, che dolore cagionano • In oltre chi teme i dolori, ha urà ancora in orrore qualchu na di quelle coſe, che hanno da ſucceder nel Mondo; e ciò fimilmente ha dell'empietà. chi va dietro a’piaceri, non s'afterrà dal far'ingiuſtizia, e qucſto Lira Ck Ho che all te: Ice FCH E re queſto è chiaramente empie tà. Biſogna, che a quelle co ſe, alle quali la natura comu ne egualmente ſi porta (per chènon haurebbefatta l'vna, e l'altra, fe all'vna, e all'altra di queſte coſe indifferenti non foffe ftata vgualmente pro penfa ) quelli, che vogliono eſſere ſeguaci della natura, hauendo i medeſimi ſenti menti, con eſſa ſiano vgual mente affetti. Dunquc chi a' dolori, ed a'piaceri, o alla morte, e alla vita, o alla glo ria, e al diſonore, delle quali egualmente fi vale la natura dell'vniuerſo, non è per fe ſteſſo parimente affetto, chia ra cofa è, che fia empio. Io però dico valerſi di queſti v gualmente la natura comune, in luogo di dire, che auuengono vgualmente per certa conſeguenza alle coſe, che ſi fanno, o che vanno ſucceden do conforme allancico im pulſo della prouidenza, col quale ſi moſſe ſin dal princi pio ad ordinare queſta bella macchina mondiale, hauendo concepute alcune ragioni del. le coſe future, e determinate le facultà feconde dell'eſi ſtenze, delle traſmutazioni, e di fimili fuccedimenti. 2 Migliore, e più deſidera bil coſa certamenteper l'huo mo ſarebbe ch'egli da quefta vita partiſſe digiuno affatto; così dire,del mentire, del ſimulare, del luſſo, e della fu perbia: defiderabile dopo ciò (quaſi come vna ſeconda men profpera nauigazione) ſareb be, che almeno vno già fazio 1:22 il alla to ali UTA per f j 10 j” 19 21 di queſte coſe,voleſſe più to fto morendo fpirare, che nel la prauità continuare viuen do". E non t'inſegna ancora l'eſperienza a fuggire dalla peſte? e la corruttela dell'a niina è aſſai peggior peſte a riſpetto di quella, che dall intemperie, e mutazione del l'aria, che d'intorno fi fpande, e fpira: poichè queſta peſte è degli animali in quanto fo no animati: e quella è degli huomini in quanto fono huo mini. 3 Non diſprezzar la morte, ma fija quella ben affctto, ef ſendo ancor eſſa yria delle co ſe; che la natura richiede; poichè quale è la giouentù; la vecchiaia, il creſcere, l'in uigorire, il naſcere de’denti, la barba, i canuti, il genera re100 nel ICP 1000 dali ell Mei de ant re figliuoli, portargli nel ven tre, e partorirgli, e altre ope re naturali., le quali prodịco, no le ſtagioni della tuavita, tale è ancora il diffoluerfi. Dunque queſto è da huomo, che ben ſi ſerue della ragione ne ſuperficialmente, ne impet tuoſamente, ne ſuperbamente fiporta verſo la morte;, ina l'attende come yn'opera del la natura. Nel inodo che tu ora, aſpetti o cheſca il fe to del ventre ditua moglic,.com hai da caſpetar l'ora, nella quale la tua animuccia diqueſto ricettacolo eſca ca dendo. E fe vuoi ancora vn conforto cordiale, benchè volgareztirenderàſoprammo do prontoalla morte l'appli cazione alle coſe preſenta nec, dalle quali douraieſſere ſe A oto des Tak ler jed Simi Jä Teni Nem If feparato, e a'coſtumi di colo ro, con i quali non t'haurai più da meſcolare: tuttavia con quelli non s'ha da rompe re, ma ſtudiare di curarli, e placidamente ſoffrirli. Onde hai da rammentarti, che que ſta ſegregazione s'ha da fare da huomini, i quali non han no teco glifteſli ſentimeriti: mentre queſto folo potrebbe ſeruirci di contrappeſo,e rite nerci in vita, ſe ne foſſe con ceduto il conuiuere con quel li; che haueſſero gl'iſteſifen timenti. Ma tu- ora vedi quanto malageuole ſia il con uiuere in tanta diffonanza de' conuiuenti. Sicché ſi può di re: Sollecita o morte a veni re, accioché io non arriui a fcordarmi vna volta di me ſteffo. 4 Chi  rola aurai mpe afait har caini ebbe 4 Chi péccas contro le ſtefi ſo pecca • Chi opera ingiu ftamentega ſe medeſimo nuô ce, rendendo maluagio ſe ſteſſo; è ingiuſto ſpeſſe volte, non ſolo chi opera alcuna co fa, ma ancora quegli, che nonfa qualche cosa. Basta la presente opinione apprensiua e la preſente operazione comunicativa e la presence disposizione, che fi compiace d'ogni cosa, che da principiocauſante prouen. ga; per iſcancellar l'immagi nazione arreſtar l'impeto de gli affetti, temprare gli appe titieper mantenere nella ſua facultà la parte principale. 6 Fra i bruti viuenti è diui:. ſå vnà fòl'anima: c tra i viuen. ti ragioneuoli è compartita vn’animà intellettuale: fico. M me COlle auch Tere vad COll ade bel oni qili? mi me a tutte le coſe terreftri è vna ſola terra, e tutti quanti habbiamo facultà di vedere e facultà diviuere, con vna lu cc vediamo, c d'un aria respiriamo. Tutti quelli, che partecipano d' vna coſa co mune a quella, che è del me deſimo genere, anſiofaniente fi portano. Ogni coſa terrc ſtre inchina alla terra. Tutto l'ymido va inſieme ſcorren do,ogniaereo ſimilmente: ſic chè biſogna diuidergli a for za. Il fuoco s'erge a cagione del fuoco elementare. Tutto il fuoco, ch'è quà giù, è così pronto ad ardere con l'elc mentare, come ogni materia le alquanto più ſecco è facile ad accenderſi pereſſere meno abbondante di quello, che impediſce l'accenderſi. Dun que  letes re CO me In 170 za que tutto quello che è parte cipe della comune natura in tellettuale, corre ſimilmente verſo il ſuo connaturale, anzi più;: perchè quanto è meglio degli altri, tanto è più diſpo fto à miſchiarſi inſieme col ſuo famigliare - Anticameji te dunque furono tra i bruti inuentati gli fciami, le greg ge > i pollai, e quaſi ynioni d'affetti; imperciocchè ancor? efli hanno animais ecosi la virtù congregatiua tra i min gliori ſpicca maggiormente, il che non è nell'erbe, non è ne faffi, non è ne’tegni. Ma tra gli animali ragioneuoli fi truouano leRepubbliche;lean micizie, le famiglie leraunan ze, e in tempo di guerra le paci, e le tregue. Anzi nelle coſe piùveccellenti, benchè M 2 ell fit 01 DINE TTO OSİ [ 7110 Fle 70 7e tra ſe lontane, in qualchemo do vi è vnione, come a dire, tra le ſtelle, così il deſiderio d'auanzarſi al meglio ha po tuto operare la ſimpatia ezian. dio tra le coſe diſtanti. Vedi dunque quello che ora ſi fa. Perchè foli gl'intellettuali ſi ſono ſcordati del conſenti mento, e dell'affetto tra loro; e queſto concorrimento in effi ſolamente non ſi vede; e nien tedimeno, ancorchè fuggano, reſtano accerchiati, e preſi, poichè la natura in ciò pre uale. E vedrai queſto, che di co, offeruando, che più preſto trouerai qualche coſa terre ftre non congiunta ad altra terreſtre, che vn'huomo dall' altr'huomo totalmente diſ giunto. 7 Producon fruttto e l'huomo dire deria apo 2126 Vedi fifa. alii enti. oro; mo, e Dio e il Mondo; e ſi pro duce ciaſcun frutto nelle ſue proprie ſtagioni; e ſe la con ſuetudine principalmente ſi ferue di queſto modo di dire nelle vitije altre ſimili piante, cið poco importa: però la ra gione produce il frutto si proprio, come il comune; e da quella fi propagano altre tali cofe, della condizione delle quali è ancora l'iſteffa ragione. 8 Se tu puoi, inſegna ſem pre il meglio a quelli, che er rano; e ſe non puoi, ricordati che per ciò fare t'è ſtata data l'amoreuolezza, e che gl'Id dij ſon amoreuoli verſo que? tali, e tanto ſon benigni in alcune coſe,ch'e'dan loro aiu to per la ſanità,per le ricchez ze, e per la gloria. E queſto a neft viera 2110 vrela pre edi ceſto erre Ultra dall ' dile 10 M 3 te lice, o ſeno, dichiara, chi te lo vieta? 9 Trauaglia, non come vn tapino, ne meno a fine di pro cacciarti compaſſione, o mara. uiglia: ma vn folo fia il tuo fine di muouerti, e di fermar ti, fecondo che la ragione ci uile richiede. 10 Oggi vſcij d'ogni mole ftia, anzi ſcacciai fuori tutte le moleſtie; poichè quelle non erano eſterne, ma couauano dentro nelle opinioni. 11 Tutte queſte coſe fami gliari per l'yſo di vn fol dì quanto al tempo, fordide per la materia, ſono ora tutte le medeſime, quali furono a tem po diquelli, che habbiamo ſepolti. 12 Le coſe ſtanno in ſe ſteſ ſe fuori, per così dire, delle por ch meni dipro mara il 2016 Amal onec 1270 tutte porte, е da per ſe medeſime, niente fanno del ſuo eſſere, e niente a noi fanno apparire. Che dunque è quello, che le diſcuopre? la ragione. Non nella perſuaſione, ma nella operazione conſiſte il bene,e'l male dell'animal ragionclio le ciuile: ſicome ancora la vir tù, e’lvizio di queſto non è nella perſuafione, ma nell'o perazione.Alla pietra fcaglia ta non ſuccede male ſe caſca, ne bene, tirandoſi in alto. 13 Entra più addentro nelle menti degli huamini, cſcor gerai quali giudici tu tcma, e quali ſieno elli giudici intorno a fe ſtelli. 14 Tutte le coſe ſtanno in continua mutazione, e tu ſtef fo in vna continua alterazio nc, c in vn certo modo cor jenon Lidlo fami Cold de pe urtel atem bilam ' efter dell corruzione, e così ancora tut to il Mondo. 15 L'errore d’yn altro biſo gna laſciarlo doue è. 16 Il finire della operazio ne, il ceffare dell'appetito, e dell'apprenſione, e quaſi la loro inorte, e nulla nuoce: Fa ora paſſaggio all'età,qual'è la pucrile, alladolcfcenza,al la giouentù, alla vecchiaia. Ogni ſcambiamento di cia ſcuna di queſte è morte. E per ciò ne auuiene danno? Paſ. fa adeſſo ricercando il tempo, che ſe’viuuto fotto l'auolo; appreſſo, quello, cheſotto la madre, dopo ſotto il padre, e trouando altre molte diuerſi tà, mutazioni, e termini, di manda a te medefimo, ſe ve alcun' nocumento. Dunque fimilmente pe manco nel finire, nel ceſſare, e nel mutarfi del total tuo viuere. 17 Rifletti alla propria tua mente, e a quella dellyniuer fo, e a quella d'altri; alla tua per farla giuſta, a quella del I'vniuerſo per rainmentarti di chi ſei parte, a quella d'altri per conoſcere, le viene da ignoranza, o da animo deli berato; e nell'iſteſſo tempo fa tua ragione, che colui e a te congiunto.Sicome tu ſe'ſtato fatto per dar compimento al la conſtituzione d’yn corpo ciuile, così ogni tua azione compia la vita ciuile, Dun que qualſiuoglia tua amone, che non iſtà in tal modo che o proſſimamente, o remo tamente non ſi riferiſca a quc. ſto comun fine, quella fcon certa la vita, ne le permette, che continui l'iſteſſa; ed è di M 5 più fedizioſa, quale è colui nel popolo, il quale diſtrae il fuo partito da fimile concor dia. 18 Riffc, e giuochi di figlio letti, e ſpiritelli foftenenti cadaueri; acciocchè con più efficacia fi rapprefenti il Dra ma del martorio. Applica alla qualità del la cagione; c conſiderala aftratta dalla matcria, dopo preferiui il tempo, in cuitale, è tal coſa in particolare ſia per più lungamente durare.: 20 Haiſofferto mille coſe per eſſerti nö ſoddisfatto del la tua mente operante quello, in ordine a cui ella fu fatta: ma queſto baſti. 21 Quando alcuno ti biafi ma, o t'odia, o con ſomiglian ticoncctri di te ſparla, rifletti all'animucce di cotoro pene tra 1 nione? 3 tra dentro, e ſcorgi quali quel. le filiano. Vedrai, che non bi ſogna trauagliarti per l'opi ch'elli hanno dite, ma è neceffario voler loro be ne, ftante che, ſecondo la na tura, foto amici, e gl’ladij in ogni manicra li foccorrono con fogni, e vaticinij, ancora in quelle coſe, nelle qualief fi difſentono. 22 Queſti fono i rivolgi menti fotto e fopra del Mon do, da vn ſecolo all'altro.. E la mente dell' vniuerſo oli applica alli particolari, e fe ciò è, riceir volentieri ciò che quella ti porta: ouero, ſe vna volta dette la molla, e l'al tre coſe camminano per con ſeguenza, e come vna è nell' altra; perchè queſti in qual che maniera o ſono atomi, a M 6 corpi 276 LIBRO NONO corpi indiuiſibili: e in fom ma, ſe ci è alcun Dio, ogni coſa ſta bene: ſe il tutto è a caſo, e tu non le'a caſo? Fra poco la terra naſcon derà tutti noi; appreſſo anco ra eſſa fi muterà, e quelle co fc, in cui eſſa s'è mutata, in in finito fi muteranno, e quelle di bel nuouo fi cambieranno in infinito. Perciò chi conſi dera queſti maroſi delle mu tazioni, e alterazioni, e la ve locità di quelle, diſprezzerà ogni coſa caduca. La caufa vniuerfale è vn torrente, che rapiſce il tut to. Quanto vilc e ancora queſta politicheria, e queſte faccende humane, ſe filoſo ficamente vno le conſidera, quanto ſono piene di mocci? O huomo fa yna volta quello che ora la natura richie de. Se ti da facultà accorriui, e non riguardare fe alcuno ſe n'accorge: ne hauere fperan-. za di vedere la Repubblica di Platone: ma contentati ſe la cofa, ancorchè mcnomiffima, ti rieſce profitteuole, e l'eſito di quella conſidera non come coſa piccola. Imperocchè chì mutcrà i loro deliberamenti? e ſenza la mutazione delli de. liberamenti, che altro farà che yna feruitù di lamentoſi, e di fimulanti di obbedire in Ora paffa auanti. Raccontami d'Aleſſandro, di Filippo, e di Demetrio il Falereo:vedran no eſſi ſe conobbero quel lo, che voleua la natura vni uerfale, e ſe inſtruirono bene ſe ſteſſi, o fe pure fecero da recitanti di Tragedia, Niu j -1 no m'ha condannato ad imi tarli: l'opere da Filoſofo fona fincerità, e modeftia; non mi traſportare alla faftoſa graui tà. 25 Conſidera per lo paſſato gregge d'Armenti fenza nu mero, innumerabili ſacrificij e nauigazioni d'ogni forte, e nelle procelle, e nelle bonac ce; e diuerſità di coſe, che fi fanno, che inſiemefi fanno, e che ſi disfanno. Conſidera ancora la vita già viuuta ſot to d'altri, e quella, che dopo te s'haurà da viuere, e quella, che oggidi fra barbare genti ſi viue. E quanti vifono, che non ſanno ne manco il tuo nome? Quanti pure prefto fe lo ſcorderanno? E quanti, che ora ti lodano, di qui a po. co t’incolperanno. E coine non è da fare ftima, ne della gloria, nc d'altro tal, qual a fia. Sij tu imperturbabile in torno a quello, che da cagio ne eſtrinfeca ti auuiene, ela giuſtizia fia nelle operazioni, delle quali tu ſela cagione, cioè a dire, che habbiano i moti dell'animo, ele aziciri da terminare nell'operare conforme al ben comune, co me quello, che a te appartie ne, fecondo la natura.1 526 Molte coſe fuperflue, che ti trauagliano, puoirife gare, le quali ſono ripoſte to talmente nella tua opinione: e così yn molto ampio cam po a te ftcffo dilaterai. 27 Concepifci nella tua mē te l ' vniuerfo Mondo, e va conſiderando il ſecolo, nel quale ſci; e medita la preſta mutazione di ciaſcuna cofa; e particolarmente come è bre. ue il tempo dalla naſcita al diſcioglimento; quanto è im menſo quello, che è ſtato a uanti al naſcere; e come pa rimente infinito è quello, che ha da ſeguire dopo il diſcio glimento. Tutte le coſe, che tu vedi periranno preſtiſſima mente, e quelli, che al pre fente le rimirano perire, pre ftiffimamente anch'eglino pe. riranno. E quegli, che nella decrepità fi muore, paſſerà a Atato pari con quegli, che muore immaturamente. 28 Quali ſono le menti di coloro, e a quali coſe atteſe rose per quali cagioni le ama no, ele onorano? Reputa 11!. de l'animucce di queſti tali; perchè hanno apparenza di C nuocere, mentre biaſimano, e di giouare,mentre lodano. O quanto è vana queſta im maginazione ! 29 Il perire non è altro che mutazione: e di queſta gode la natura vniuerfale, in con formità della quale tutte le coſe bene ſi fanno. Ab eter no tutte le coſe ſono ſtate dell'iſtetfa forma, e così in in finito altre coſe ſaranno. Per chè dunque tu dì, che tutte le coſc fatte, e tutte quelle, che ſi faranno ſempre faranno mali? E tra tanti Iddij non mai s'è trouato niuno di tanto va lore, che poteſſe vna volta correggere queſte coſe? ma è ſtato condennato il Mondo ad eſſere coſtretto da mali che mai non ceffano? 30 La putredine della materia, che è ſoggetta a ciaſcu na coſa, è acqua, poluere, of ficelli,immondezza, o pur cal li della terra, come i marmi; o feccia,comeè l'oro, e l'ar gento; o peli, come la veſte; o ſangue, come la porpora, e tutte le altre cofe fimili. Elo fpiritello,benchè altro, è tale, e di queſto in altre cofe ſi tra finuta. 31 Sc'viuato affai in queſta vita trauaglioſa, di mormora rione, e alla ſciiniatica. A che ti perturbiè che ci è di nuouoa che ti fa attonito. Lacaufiri, guardala. O forſe la nateriale riguarda quella, fuori di que fte non è cofa veruna: mna vna volta inuerfo gPIddij diuieni e migliore, e più piaceuole. 32 Il medefimo è, che tu habbi conoſciutoqueſte coſe per  CH sof cz. mi te; o 2,6 Elo tra per cent'anni, o per tre. 33 Se quegli peccò, egli ha ilmale, ma forſe non peccò. Certamente, come in yn corpo, da vna fonte intellet tuale tutte le coſe deriuanose non biſogna, che la parte fi quereli delle coſe fatte a pro del tutto; ouero fonoatomi, e nient'altro: ouero yn me ſcuglio, e diſſipazione, che ti conturbi dunque? Alla men. te tu dì ſe'morta, fe’perdutå, ſe'rigettata, ti congreghi, e a modo di armenti ti pafci? O gl’Iddij non poſſono far niente, o lo poſſono. Se non poſſono a che li preghi? ma ſe poſſono, perchè più preſto loro non dimandi, che ti concedino di non temere coſa alcuna, che ſi ſia di queſte, ne di bramare quella, ne di do clie 012 che 2012 VII CITI leer le dolerti di qualſiuoglia di effe più toſto, perchè eſſe non ſi habbiano, che acciò fi hab biano.Imperocchè,ſe nel tut to poſſono foccorrere agli huomini, poſſono ancora in torno a queſte coſe giouare. Ma forſe dirai. Poſero gl'Id dij queſte coſe in mio potere. Non è dunque meglio valerſi con libertà di quello, che de pende da te, che laſciarti di ſtrarre con feruitù, e baſſezza intorno a quello, che da te non depende? Machi ti diſſe, che gli Iddij non aiutano in quelle coſe, che ſono in no ſtro potere? Comincia dun que a pregargli intorno di effe e vedrai. Prega il tale diccn. do: come potrò io godere co. lei? tu anzi dì; come potrò io non deſiderar di goderla? vn altre dichi 11001 Thebe elcut e agli Ora in Quare 8 !!!! Orere valení hede altro: come mi libererò io da colui? tu dì: come non haurò biſogno di priuarmene? vn al. tro: come non perderò il fi gliolino? tu dì: come non temerò di perderlo? In ſom ma in queſta maniera indirizza le tue preghiere, c conſidera che ne ſuccede. 36 Dice Epicuro: Nella malattia i ſuoi diſcorſi non ef ſere ſtati intorno alli pati menti del corpicciuolo i ne meno con quelli, chelo viſi tauano hauer di coſe ſimili fa. uellato: ma hauer ragionato filoſofando ſopra la naturą delle coſe premeditate; tutto intento a queſto, cioè, come. partecipando la mente di co tali mozioni, ch'erano nella carnuccia, ſteſſe imperturbabi. le conſeruando il proprio be ortida lezza dar idilli 110 i in no dur dielli dicas reca troi tre ne. Ne hauer dato occa fiorea' medici, che ſi vantaſſero d'ha uer operato qualche coſa, ma che contuttociò ſe n'andaua tirando'auanti la vita tran quillamente,e bene.Il medeſi. mosch'egli fece in quella ma lattia, tu hai da fare, ſe ti ſen. tiffi male, o ſe ti trouaſſi in al. tro trauaglio. Poichè il non partirſi dallaFiloſofia in qual fiuoglia cofa, che vada acca dendo; e il non applicare alle bagattelle degl'idioti', e fofi fti è comune diqualſiuoglia fetta, è di ſtar fiffo ſolo nella coſa, che al preſente l'huomo fase nello ſtrumento permez zo del quale ſi opera:" ) 37 Se vienioffeſo dalla sfac. tiạtezza di alcuno, ſubito in: terroga te fteſfo: Può forſe il Mondo essere senza sfacciati non 0 ca fara ' cobs vanda ta tra ētiles trinal non può. Non ricercare dunque l'impoſſibile: poſcia chè queſti è yno di quelli sfacciati, i quali è neceſſario, che ſieno nel Mondo. L'ifter ſo ſia del macchinante, e del l'infedele, e di qualſiuoglia vizioſo. Habbi qucſto ſempre in pronto; Quando ancora ti ricorderai eſſere impollibile, che tal forte di gente non ſia, tu ſarai più placido iuuerfo ciaſcuno di eſſi. Sarà pari mente gioueuole il conſidera. re ſubito qual virtù habbia dato la natura all ' huomo contra di queſto vizio: men tre ha dato, come antidoto contra l'ingratitudine, lc mã, ſuetudine, come contra d'vn altro qualche altra virtù. E ſopra tutto t'è lecito di diſin gannare chi errò. Ora ogni aqual 1107 ve all chat uoghi JOMO m.cz sfac it feil nii 10,no,che erra, Si deuia da quel, che gli fu propoſto, e va va gando. E poi in che ſe'ſtato danneggiato? poſčiachè tro uerai,, che niuno di coloro, contro de'quali tu ſei eſacer bato, habbia operató tal fat to,dal quale la tua inenté po teiſe cffere peggiorata; men tre in queſto è ogni ſuſſiſten zadel tuo dannose malé.Che đi male, o di ſtrano è ſtato fatto, ſe vn'ignorante opera da ignorantc?Guarda,che tu non habbi più toſto a ripren dere te ſteſſo del non hauer hauuto riguardo, ch'egli for: fe per commettere tal man camento; done tu haueui i motiui della ragione à conſi derare, ch'era veriſimile; che quegli in tal modopeccaſſe: E nientedimeno ſcordato ti maAtato 170 1001 opo per ter marauigli, ch'egli fia caduto? quel principalmente quãdo tu l'ac. the cuſi, come d'infedele, o d'in. grato, rifetti in te ſteſſo:con cioſliecoſache più che manis oros feſtamente l'errore é tuo, ſe credeſti, che yno sin tal mort fue do diſpoſto, e haueſſe ad of feruare, la fede; e ſe facen dogli delle grazie, non le haidate coinpitamente, ne in che modo da riceuere dall'iſteſſa tua azione tutto il frutto ſu bito. Perchè qual coſa più deſideri, che di hauerbenefi cato vn'huomo? e ciò non ti baſta, che tu hai operato coſa conforme alla tua natura? e di quefto ricerchi lamercede? come ſe l'occhio domandafle la ricompenfa, perchè vede, ei piedi perchè camminano. E fi come queſti membri ſo N no 7210 Toy tell for 2014 alf che Te ! 2 ho farti a queſto effetto, e ſe condo la loro conſtituzione operando si ne ritraggono quello che è loro proprio: così l'huomo dalla natura pro dotto benefico, quando be nefica, o nelle coſe mezzane coopera, ha operato, ſecondo la fua condizione, e ottiene quello, che a lui ſpetta. Fine del Libro Nono. LI 10 291 180,CH tituziar TAGION propri cura on do be 70272 cond l’Anima ſarai tu mai Ovna volta buona, e ſemplice, e vna, e quda, più ſplendida del corpo, che ti circonda guſterai tu giammai della diſpoſizioneamicabile e caritatiua quando farai pienamente fornita,e von bi. fognofa, e di niente altro de fideroſa, e di niente o ani mato, o inanimato anida, per N 2 prender piaceri? ne di temo Po, nel quale più lungamen te habbi da fruire: ne di luo go, o paeſe, o buona tempe. rie d'aria: ne d'huomini au uenenti; ma ti compiacerai del preſente ſtato, e goderai di tutte le coſe a te preſenti, e inſieme perſuaderai a te Itefla, che tutto ciò, che ti fia dauanti, tutto bene ti ſtia, e che dagl'Iddij a te venga, e ti parrà bene tutto quello, che a loro piacerà', e quello, che da loro ſi concederà s'in riguardo della ſalute, e con ſeruazione d'vn animal per ferto, buono, e giuſto, ebel los é quello, chetutte le co fe genera; contiene, circon da, e abbraccia, le quali fi diſſoluono, generando altre cofe fimili. Sarai dunque finalmente talc, che tu ſij atta à viuere in cittadinanza con gl’Iddij, e con gli huoinini in modo che tu non c'habbi da dolere di quelli in coſa alcu na, ne quelli t'habbiano a condannare. 2 Oſſerua quello, che la na tura tua richiede in quanto dalla mera natura vien diret to: poſcia fa quello, cab ) braccialo, fe la natura tua, 7 come diviuente, per queſto non ſia da peggiorare • Ha urai daoferitare appreffo,che 1 coſa richieda la natura tua, come di viuénte, e tutto ciò f hai da riceuere, ſe da queſto la natura tua come quella d'un animal ragioneuole,, nó fia perdiucnirne peggiore, e'l ragioneuole, nell'iſteſſo tempo ancora ciuile. Ditali 01 N 3 regole ſeruendoti non andar cercando altro curioſamente. 3 Tutto ciò, che e ' auuie ne, o in modo ti fuccede che ſij per natura abile a com portarlo, o pure a non com portarlo. Se dunque t'accade nella maniera, che puoi fof. ferirlo, non l'haucre a male ma ſopportalo,fecondo chefe naturalmente idoneo'; fe poi non fe'idoneo per fofferirlo, aðn ti diſguſtare: perciocchè, confumando té, confumerà fe parimente. Niente dimet no ricordati, che tu ' se fatto per fofferirc ognicoſa; ' eche ſia in potere della tua opinio ne di farla tollerabile, cfof. feribile, fecondo il concerto che farai, che quello ti conferiſca, o che ti conuenga ſofferirlo. Se qualchuna erra man fueramente s'ha da inſtruire, e moſtrargli quello, ch'hab, bia traucduto. Però ſe ciò non ti rieſce, la colpa è di te ſteffo, anzi ne meno di te ſteſſo. 5 Qualunque coſa c'auuie ne, queſta ab eterno ti ſi prc. paraua, e l'intralciamento delle cauſe fin dall'eternità fi aggomitolaua inſieme con Peffer tuo, e con quelli au venimenti. 6 O fieno gli atomi, o ſia la natura, ftabiliſcafi primie ramente che io ſon parte dell'yniuerfo, che la natura gouerna; appreffo, che io ho vna famigliarità in vn certo modo con le parti della me deſima forte; pofciachè ricor dandomi di queſte coſe, in quan 40 TO ON ng N quanto io ſon parte,non pren derò a male coſa alcuna, che venga compartita dall'vni uerlo: concioffiecofache ni ente, che conferiſca all'vni. uerfale può nuocere alla par te:imperocche non vi è coſa, che all'vniucrfo non conferi ſca.E ciò hanno comune tutte le nature; e quella del Mondo ha queſto di più, che da niu na cagione eſtrinſeca può ef ſere forzata a produrre cofa alcuna a ſe nociua; e ſecondo quella ricordanza, che io fon parte di talvniuerfo, mi com piacerò ditutto ciò, che au uiene; e ſecondo che io ho fi fatta famigliarità colle parti, della medeſima forte, non o pererò coſa, che non ſia co municatiua con queſte, ma più toſto porrò mira alle parti della medeſima forte, e condurrò ogni mia inclina zione all'vtile del comune, e dal contrario me ne ritrarrò Queſte cofe così da te con dotte, ne ſegue neceffaria mente, che ci traſcorra la vi ta felice,quale ſtimereſti quel. la d'vn citttadino, che gui daſſe il ſuo viuere in azioni vtili a i cittadini, c.abbrac ciaſſe tutto quello, che dalla città a lui determinato viene. 7 A tutte le parti dell'vni uerſo, quelle dico, che il Mondo contiene, è di necel ſità il corromperſi,cioè a di re, l'alterarſi, ma ſe aggiungo, ciò, che loro è necellario, el fere dannoſo, non ſi gouerne rebbe bene l'yniucrfo, eſſen do le parti di lui nell'altere zione diſpoſte a corromperſi in diuerſe maniere Diremo N dunque, o che la natura ftef-. ſa intraprendeſſe a fabbricare il male alle ſue parti, e le fa ceffe fuggette al male, e che di neceſſità caſcaſſero a far il male, o'che inconſiderata mente non s'accorgeſſe, che le faceffe tali: ma ne I'vno', ne l'altro certamente è da credere. E ſe qualcheduno laſciando da yn canto la nas voleſſe dir, ch'effe ſom no così nate, quanto ſarebbe ridicolo nell'iſteſſo tempo il dire, che la naſcita loro le porta, come parti dellyni uerſo,alle mutazioni, e in ſieme marauigliarſi, e hauer ciò a male, come ſe auuenifs ſe fuori della natura dell'yni. uerfo? Tanto più, che la dif ſoluzione vien fatta in quel le coſe, delle quali ciaſcuna è compoſta, e conſiſte. Im perocchè, o è diſgregazione degli elementi, dequali le coſe eran permiſchiate, o conuerſione del folido nel terreſtre; o dello ſpirituale nell'acreo, in modo, che queſte coſe fi ritornino nella ragione dell'vniuerfo: o è che dopo più periodi di temu ро ſe ne vada in fuoco, o po re con perpetue viciffitudini fi rinnuoui. E queſto folido, e queſto ſpiritale, non t'im maginar, che fia dalla prima naſcita, perchè tutto queſto l'altro giorno, o al più tre di fa dall'alimento; e dall'aria attratta riceuè l'accreſcimen to. Dunque queſto, che ri ceuè fi muta, non quello che la madre partori; e,fupponi, che - quello ti riduce affai N 6 vicino alle qualità del ſug getto particolare, che a ri ſpettodi quello, che ora fi dice, ſecondo la mia opinio, ncé nicnte. 8 Quelli titoli, che ti se poſto dibuono, di modeſto, di verace, d'accorto, dipru dente, di magnanimo, au uerti che giammai non ti ſi cambino, e,ſe li perdi, ſolle citamente torna a ripigliarli. Ricordati, che col nome d'ac corto ti ſi ſignifica l'attenzio ne, che tu deiporre per com prendere diſtintamente ciaf cuna coſa ſenza abbarbagliar. ti la mente: con quel di pru dente, la ſpontanea approua zione delle coſe, che dalla natura comune vengono di Itribuite: con quel di magna. nimo, l'alcanzamento della particella del fenno ſopra i moti della carne, ſieno aſpri, o morbidi, intorno alla glo rietta, intorno al morire, o a coſe si farte. Se dunque tra queſti nomiriſtrigni te ſteſſo, e di riceuer queſti titolida al tri non ambirai, farai yn al tro, e darai principio a dif ferente vita. Concioſliecofa che il proſeguire d'eſſer come finora ſe'ſtato, e ſtraſcinarti in tal vita, e imbrattarti, è da troppo inſenſato, e da in namorato del viuere, e da fi mile a quelli che, combatten do colle beſtie, reſtano ſmoz zicati, i quali,pieni di ferite, e di marciumi, ſi raccoman dano ad eſſere riſerbati fin ål giorno ſeguente,per rigettar fi di nuouo, così come ſono alle medefime'vnghie, e zan ne. Interna dunque te fteffo nella confiderazione di queſti pochinomi, e ſe puoi man tenerti in quelli,fermati, qua fi traſportato a ſtanziar' inal cuna dell'Iſole Fortunate.Ma fe t'accorgi chetu ſcappi fuo. ra, e non reſti ſuperiorez riti. rati con ardimento in qual che cantone, doue fignoreg gerai, quero in tutto eper tut to eſci di vita, non iſdegnan doti, ma con ſemplicità, li bertà, e modeftia; mentre non hai pretefo altro in queſta vita che di cosi vſcirne. A conſeruarti peròla memo ria di queſti titoli grande mente t'aiuterà il rammentar. ti degl'Iddij; e come quelli non vogliono eſſere adulati, ma chei ragioneuoli tutti so afſomiglino a loro. E come ! 1 il fico fa quello, che appar tiene al fico, e'l cane opera da cane, e l'ape da ape, così Phuomo da huomo. 9 Il giullare, la guerra, lo, sbigottimento, il terrore, la feruicù ſcancelleranno coti dianamente da te que' ſacri decreti,che tu eſaminator del la natura ti fe'nella mente tra ſmeffo coll'immaginazione. Però abbiſogna conſiderare il tutto, e operare in modo che inſieme s'habbia da adempie re quello, che la congiuntura porta, e che nell'iſteſſo tempo ciò che s'è fpeculato ſi metta in opera; e la franchezza, che s'acquiſta dalla ſcienza in torno a ciaſcuna coſa, fi con ferui occulta sì, ma non - for terrata. Dunque quando go derai della ſemplicità? quai do della grauità d e quando della notizia di ciaſcuna coſa in particolare, quale ſecondo la ſua ſoſtanzia ella fi fia, e qual luogo habbia nel Mon do, e per quanto debba du rare, e di quali coſe ſia com poſta, e chifia' per hauerla, e chi fienoquelli che poſſono darla, e ritoglierla a · 10 Il ragnetto grandemen te s'infuperbiſce per hauer predato vna moſca: ma vna perſona pervn leprotto, altri per vn'alice prefa nella rete, e altri per i porcaftri,. vn'al tro per g’orſie altri per i Sar. mati. Non faranno queſti la droni fe eſaminerai i conce pimenti della mente loro? 11 Seruiti del metodo fpe culatiuo, oſſeruando, come tutte le coſe in fe RECIPROCAMENTE fi trafinutano, e di con. tinuo ſta applicato,e intorno a queſta parte eſercitati; im perocchè niuna coſa ti cagio nerà altrettanto la magnani mità. Del corpo ſi Spogliò. E conſiderando, come ben pre ſto partendo dagli huomini, gli biſognerà laſciar'il tutto, ſottopoſe intieramente ſe ſteſ ſo alla rettitudine ', nell'ope rar quello, che da luidepen de, e alla natura dell'vniuer ſo negli altri accidenti. Ma che dica alcun di lui, ouero creda, o faccia contro di lui, ne pur colla mente vi bada: contento di queſte due coſe, dell'operare giuſtamente ciò che al preſente opera; e di compiacerſi di quello, che a lui preſentemente vien diſtri buito, e libero da ogn'altra occupazione, e ſtudio, non altro vuole che paſſarſela dirittamente in vigor della legge e ſeguir Dio,che a dia rittura cammina. Perchè hai da vſare il ſoſpetto, quando ti è lecito di conſiderare quel che ſi dee operare e fe lo conoſci, proſeguirai in quel lo dibonariamente, e fenza mai voltarti indietro: ma fe tu non lo conoſci, trattieni il giudicio, e feraiti di confi glieri ottimi. Se poi ii ſucce dono in contrario di queſto altre coſe, cammina pruden temente fecondo l'occaſioni, che ti s'offerifcono,adcrendo al giuſto, che fecondo l'appa renza ti fi porge innanzi: per chè è boniffima coſa arriuare a quello, nel quale il non ac certare ſia caduta. Quegli, che in tutto ſegue la ragione è inſiememente agile, e poſa to, e vnitamente viuace, e co Itante. 12 Subito che dal forno ſe fuegliato interroga te fteffo, ſe hauratti a importare, che quello che è giuſto é, retto, da qualch'altro fi efeguiſca? Non t'haurà a importäre. Ti fe'forſe ſcordato, che queſti, i quali ſi vanagloriano nelle lodi, e ne biafimialtrui, tali ſono nel letto, e tali nella menfa: e quali coſc fanno, quali fuggono, quali ambi fcono, quali naſcondono quali rapiſcono', non con le mani, o'con i piedi, ma con la digniffima parte di loro, colla quale,volendo jacqui ftar potevano la fede, la mo deſtia, la verità, la legge, e'l buon genio. 13 Il ben diſciplinato, e modefto,dice alla natura,che da il tutto, e riceue: Da ciò che vroi,ritogli ciò chevuoi:ne queſto dirà con tracotanza, ma con pura obbedienza pienezza di gratitudine verſo quella. 14 Poco è quello che ti re ſta;paſſalo come tu ſteſſi in vn monte: imperocchè niente importa che qui, o lì fi ftia, quando doinunque fi fia, s'ha da viuere nel Mondo, come in vna Città. Veggano, eri conoſcano gli huomini yn huomo vero, che viua con forme alla natura. Se non lo ſopportano, l’ýccidino: per chèqueſto èmeglio che viuer nella maniera di quelli. !! 15 Tu non timpiegherai più tutto in difcorrere qual fia, l'huomo dabbene, ma proccurerai d'eſſer tale. 16 Conſidera del continuo tutto l'euo e la ſoſtanzia vni uerſa; e comeognicoſa par ticolare riſpetto alla ſuſtan zia è come vn granello di mi glio; e riſpettoal tempo vn roteare di trapano: e appli. candoti a ciaſcuna delle coſe prelenti, conſiderala già nel disfacimento, e nellamuta zione, e comenella putrefa zione,o diſlipazioncs o ſecon do che ciaſcuna coſa è ſtata fatta in ordine al finire. Con. ſidera quali fono quelli, che, mangiano,che dormono, che attendono alla generazione, che mandano fuori gli cſere menti, t. altre coſe fimili: appreſſo quelli cheſignoreg: giano gli huomini, e s'inſu perbiſcono, o li ſdegnano, e come fuperiori inſultano, e pure poco innanzi a quanti feruiuano, e per quali occa fioni, e di quì a poco in che fi ridurranno 17 Ad ognuno conferiſce quello, che apporta a ciaſcu no la natura dell'vniuerfos, e allora conferiſce quando ella l'apporta. La terra ama-cer. tamente la pioggia, amaque ftaianco l'almo etera, amai Mondod’eſeguire quelloche ha da effere lo dico dun que al Mondo: '10 ti Tono compagno nell' amore. Non fi fa ancora queſto se fi dice; che s'ama di far quefto; 0 quello 18 O quà tu viui, e a queſta vita fei di già accoftumato, o elci di effa, e ciò era quello, che tu voleui, e hai finito l'officio tuo; fuori di queſto non c'è altro. Dunque ita di buon animo. 19 Habbi ſempre per cui dente, che ogni luogo è fi mile ad vna campagna, e che tutte le coſe rieſcono le me. deſime a chi ſtia fopra ad vn alto monte, o sul lido del mare, o douunque ti piaccia. Perchè chiaramente incon trerai da pertutto quello che diſie Platone: la greggia Ata torniata di fiepi? ful monte 501 Che coſa è in me la mérite mia 2 e quale ora io la fac cio? Ache di quella di pré fente mi ſerito a forfe, che è qualche coſa vacua d'ogni in telligenza? forſe è qualche cofa diſciolta, e diſtratta dalp accomunamento di forfu qualche coſa liquefatta,e me ſchiata nella carnuccia,ſicchè habbia da commutarſi con quella? 20 Chi fugge dal padrone chiamafi feruo fuggitiuo: la legge è la padrona, echi ope ra contro la legge, é fuggiti. uo. E inſieme, chi ſi da alla malinconia, o alla collera, o al timore, per qualche coſa delle ordinate, che già ſon fatte, o fi fanno, o ſono per farſi da quello, che governa il tutto, che è legge, così det ta dal diſtribuire a ciaſchedu no quello, che gli vienę. Chi dunque fi daal timore; o alla malinconia, oall'ira è feruo fuggitiuo 21 Depofto che alcuno ha lo ſperma nell'utero, fi dipar tegte appreſſo, qualch'altra cagione raccogliendolo, lo perfeziona, e compie il feto: di qual materia? è quale è? ſimilmente tramiſe l'alimento per la gola, e poi qualche altra cagione raccogliendolo, produce il ſentimento, l'ap petito, la vita, e la robuſtez za, e altre coſe (c quante, c quali? ) Biſogna dunque, che tu contempli quelle co fe, che ſotto tal copertura ſi fanno, e in queſta manicra ri conoſcere la facultà come noi vediamo, c quella cheaggra ua, e quella cheſolleua, non con gli occhi, ma non meno euidentemente. 22 Del continuo conſidera, come tutte le coſe ſono tali, quali ora ſi fanno, e già ſono ſtate; e conſidera quelle, che ſono per eſſere, erappreſen O tatele auanti agli occhi come intiere fauole, e ſcene, cun forme alle coſe le quali o per tua eſperienza, o per antichi racconti ti fono note. Verbi gratia tutta la Corte di Adria no, tutta la Corte di Antoni no, tutta la Corte di Filippo, di Alessandro, di Creso, poi chè tutte quelle erano l'iſteſ fe, che queſte, variando ſolo ne'perſonaggi. Immaginati, che que gli, il quale per qualſivoglia coſa ſi rammarica, e s'afflige, è fimile ad vn porcello, che fi macella calcitrante, e gru gnente; ne è diuerfo chì pian. ge solo ſopra il letto con si lenzio la noſtra dappocaggi ne; e immaginati, che al fo lo animal ragioneuole è con ccduto d'accomodarſi volon ta  hi volontariamente agli accidenti, e l' accomodarli ſemplicemen te è a tutti neceffario. 24 In ciaſcuna delle coſe, bi che tu operi applicando a parte a parte la mente, in tcrroga te ſteſſo, le la morte 01 pare terribile a cagione, che habbiamo a reſtare priui di e quella tal cofa. 25 Subito, che tu ti offendi per l'altrui peccare,, rientran do in te ſteſo, fa tua ragione, 111 ſe in caſo fimilcru erri: come a dire giudicando, che ſia co fa buona la moneta, il piace re, e la glorietta, e altre co ſe sì fatte. Perciocchè con fi qneſta conſiderazione preſta mente ſmorzerai la collera, venendoti inſieme in mente, che colui opera forzatamen te. Che ha egli dunque da fare? ſe è in tuo potere, libe ralo dalla violenza. Vedendo Satirione, vno de Socratici, immaginati o Eutichete, o Himene: e ve dendo Eufrate, immaginati di vedere Eutichione, o Sil uano: e vedendo Alcifrone, di vedere Tropeoforo; e ve dendo Senofonte, immagi nati Critone, o Seuero: e ri mirando te ſteſſo, immagina ti qualcheduno de ' Ceſari, e in ciaſcun altro qualche coſa {imile a proporzione. Ap preſſo ti ſouuenga, doue ſo -no dunque quelli? o in nilt no, o in qualſiuoglia luogo. Così di continuo vedrai le coſe humaneeffer fummo, vn nulla; maſſime fe eandrai rammentando, che il mu tato vna volta per tutta l'infinità de'ſecoli non tornerà ad accadere. E tu quanto tem po ſtarai a mutarti? perchè dunque queſto breue tempo non ti baſta per degnamente paſſarlo? qual materia, e qual foggetto abborriſci? che al tro ſono tutte queſte coſe, che eſercizij della ragione, la quale accuratamente ha con fiderato, e diſcorſo ſopra la natura di quello, che è nella vita? Perſiſti dunque finchè tu ti renda famigliare queſti, in guiſa d'vn gagliardo ſtoma co che ognicofa abbraccia, e come il chiaro fuoco di qua lunque coſa, che tu gli butti dentro ne forma fiamına, e fplendore. Non poſſa alcun veritie ro dire di te, che tu non se {chietto, o huomo dabbene. Il Do le ai 0 3.ma mentiſca chiunque di te ha fimile opinione. E rutto queſto è in tuo potere. Per chè chi t'impediſce, che non fij huomo dabbene, c ſchiet to? A te folo ſta lo ftatuire di non voler viuer più, ſe tik pon farai tale: imperocche non comporta la ragione, che tu non ſij tale. Che coſa è, che ſi pora fa intorno a queſta materia rettiſſimamente operare, je dire? qualunque coſa queſta fia è lecito di farla, e dirla, e non metter préteſto d'effe re impedito. Non prima cef ſerai di lamentárti, che tu ſij ridotto a queſto, che quale è agli huomini voluttuoſi il luſſo, queſto è a te l'operare nella ſoggetta, e ſommini Itrata materia, conneniente alla conſtituzione humana Imperocchè s'ha da concepi re perdelicia tutto quello, che farà lecito d'operare con forme alla propria natura, e queſto è lecito in ogni luogo. Perchè al cilindro non è con ceduto di portarſi per qualſi uoglia luogo col proprio mo. to, come ne meno all'acqnas ne al fuoco, ne ad altre coſe, le quali ſono rette dalla na tura, o dall'anima irragione uole; eſſendo molti li rat tenimenti, e gli oſtacoli:ma la mente, e la ragione può. penetrare pertutti gl'impedi menti, ſecondo la ſua natura, e a ſuo beneplacito. Queſta facultà, poſta che tu te Phai innanzi gli occhi, fecondo la quale la ragione potrà portar fi per tutto, come il fuoco in 04 alto, come la pietra al baſſo, come il cilindro per dio, nicnt'altro ricerca. Per chè gli altri impedimenti che. procedono o dal corpo, ch'è yn cadauero, o ſenza l'opi nione, e inchinamento dell' iſteffa ragione, non fanno. leſione, ne apportano danno alcuno, altrimente a yn trat toil patiente di quello diuer rebbe cattiuo: perciocche in tutti gli altri apparatid'opera, quel danno, che ad alcuno auuiene rende peggiore quel lo, che lo patiſce. Ma quì, le è lecito il dirlo, ſi fa l'huo. mo migliore, e più degno di lode, ſeruendoſi rettamente di queſti incontri. In ſomma ricordati, che a colui, il quale è per natura cittadino, nien te nuoce, che alla Città non 1 nuoca: e a queſta non fa dan no chi alla legge non fa dan no. E niuna di queſte, che chiamano difgrazie offende la legge. Quello dunque che non offende la legge, non offende ne la Città, ne il cittadino, - 29 A quello che gia è toc co da veri dogmi, è fuficien te ogni piccoliffimo, e ordi nario incontro per ricordarli di sbandire ogni dolore, e ti more. Quale è queſto? Delle foglie altre il vento a terra abbatte, Altre produce il verdegiante bosco; Quando la primauera fa ritorno. Cosi ſuccede alla natura lumana', Che mentre Spriiita l’vil, l'altro; dien em. Fogliucce fono i tuoi figlio lini: fogliucce ancora que fti, alle acclamazioni de qua 70 ol 70. di ite yle 00 05 322 quali ſi da tanto credito, e che parlano bene del fatto tuo; o pure per lo contrario quelli, che maledicono, o tacitamente biafimano, o di leggiano:fogliucce ſimilmen te ſono quelli, i quali aderi ranno alla tua fama dopo la tua morte. Perchè tutte que fte coſe naſcono al tempo della primavera, dopo il ven to le butta a terra, e appref fola felua in luogo loro altre produce. La breuità del tem po'è a tutti comune. Ma tu ogni coſa fuggi, e appetiſci tutte le cose, quafi chefoffero per eſſer perpetue. Tra poco tu ferrerai gli occhi, e vn al tro piangerà quello, che ben preſto ti porterà alla ſepoltu. 30 L'occhio fano è dime ra. Itie ftiere, che veda tutte le coſe viſibili; e non dire: Amo ve dere il verde, che queſto è perchi patiſce di viſta; e l'v dito fano, o l'odorato biſo gna, che ſieno pronti a tutte le coſe da vdirſi, e da odorar fi; e lo ſtomaco ſano a tutte le cofe, che nudriſcono: pa rimente, come yna macina dee eſfer ammannita per tuta te le coſe da macinare, nell' ifteſſo modo la mente ſana dee effer difpoſta a tutti gli auuenimenti; maquella, che dice: Sieno faluii figliolini, e tut ti lodino quello, che io farò; fono occhio, che cerca il verde, o denti, che cercano il tenero. Niuno è talmente feli. ce, che qualcuno di quelli, che ſi truouano alla ſua morte O 6 non ſia per godere di qucl. cattivo accidente. Era egli di valore, era fauio? non fa rà alla fine chi del medeſimo fra feſteffo dica? reſpireremo pur una volta da queſto pedante, Non era faſtidioſo con alcuni di noi, ma io m'accorſi, che tacitamente ci riprendeua. E queſto d'vn huo mo di valore;main noi quan te altre coſe ci ſono, per le quali molti bramano liberarſi da noi? queſto dunque confi dererai nel punto del morire; e meno trauaglioſo ti riuſcirà diſcorrendo come ſegue. Da quella vita io parto, dalla quale quelli, che meco co municano, e per li quali ho trauagliato intante cofe, ho pregato, m'ho preſo tanti penſieri, quegl'iſteſſi deſide rano ich DO 100 Ilo son O le rano, che io me ne vada, fpe randone facilmente da que ſto qualche ſollieuo. Chi dunque non saccomoderà a non far più lunga dimora in queſte parti? Non partirai per ciò da quelli men verſo foro benigno; majconſeruando il proprio tenore, amoreuole, beneuolo, e propizio: e non come ſe foſli per forza ſtrap pato, ma come a quegli, che felicemente trapaſſa, facil mente l'animuccia ſi diſtacca dalcorpo, così biſogna, che fi faccia queſta ſeparazione. dalle coſe preſenti; giacchè la natura con quelle ci vnì, e congiunte. Doue ora ti diſ giugne? mi diſgiungo perciò, come da famigliari, non già con renitenza,ma fpontanea mente; poichè queſto anco rfi [ rà 12 y 0 0 ti ra è vna delle coſe conformi alla natura. 32 In tutti gli atti, che da ciaſcuno ſi fanno, cerca d'af fuefarti, per quanto c'è poſsi bile, di ricercar dentro di te: Il tale fa quefto, per qual ca gione? comincia però da te medeſimo, e printieramente eſamina te fteſso. Ricordati, che, comequelle cordicine, che tirano i bambocci, non appaiono, così quello, che t'addolora, è dentro nafco fto. Quello è la perfuafiga, quello è la vita, quello, ſe conuiene cosi dirlo, è l'huo mo.Non fantaſticar dunque di quello, chea guiſa di vafo ti circonda, e di queſti inſtru mengucci, che attorno a te fono formati; poichè queſti ſono ſimili all'aſcia, folo in 1 1 ciò diffcrenti, che ſono con naturali. Mentre ſenza la ca gione, che gli muoue, e rat ticne, non è maggior l'vtile, che da queſti membri s'ha, di quello, che ne ha la teſli trice dalla fpola, gli ſcrittori dalla penna, e dalla fruſta i ! cocchicro. E proprietà dell'anima ragioneuole ſono, il ri mirare ſe ſteſſa, ſe ſteſſa minu tamente ricercare, fare fe fter ſa quale più a lei piace:il frut to,ch'ella produce lo produce a ſe ſteſſa (giacchèi frutti del. le piante, e ſimilmente quelli degli animali, altri godono ) in qualunque luogo le ſoprau uenga il termine della vita, arriua ella al fuo proprio fine: non come ne i balli, e nelle rappreſentazioni, e in fimili coſe, nelle quali, ſe qualche impedimento s'intrapone,tut ta l'azione rimane imperfetta: ma ella in qualſiuoglia parte, e douunque s'interrompa,ren de tutto quello che ſe le pro pone innanzi perfetto, e non biſognoſo di coſa alcuna; ſic chè può dire; lo poſſiedo il mio. In oltre, traſcorre per tutto il Mondo, e per lo va cuo, ch'è intorno ad eſſo, e al la di lui figura: ella s'eſtende nell'infinità de'ſecoli, eleri generazioni di tutte le coſe, che a certi giri de' tempi ſi fanno, comprende, intende, e diuiſa, che niente più di nuouo ſono per vedere i po ſteri, e niente di più videro i. noftri aſtepaſſati: ma in certo modo chi haurà quaranta an ni, s'ha fior d'ingegno, haurà veduto tutte le coſe paffare, future, per la ſomiglianza tra effe. Di più è proprio del l'anima ragionevole amare il proſſimo, effer verace, mo deſta, e non iftimare niuna co. ſa più di ſe ſteſſa. Il che è proa prio ancor della legge. In queſta maniera tra laretta ra giòne, e tra la ragione del la giuſtizia non è differen za. 2 Sprezzerai il canto Infin gheuole, il faltare, e'l pan crazio, cioè l'eſercizio degli atleri: ſe tu ſpartirai la voce armoniofain ciaſcuno de'tuor ni, e in qualſiuoglia di quelli interroga te fteffo: Se da quel lo tu refti vinto; perchè in ve ro te ne vergognerai. Nell' eſercizio del ſaltare farai l'i ſteſſo a proporzione, a cia ſcun moto, egefto; il medefi mointorno al pancrazio. In ſomma, in tutto quello, che e fuori della virtù, o da quel la non deriua, ricordati di traſcorrerlo a parte a parte; e con la diuiſione di quelle ver rai a vilipenderlo. E queſto l'hai da traſportare allvſodi tutta la vita 3 Quale è l'anima, che ſta pronta, fe già bifognaffe, a fcioglierſi dal corpo, o eſtin guerſi, o diſliparfi, o a rima nerui? pronta, dico, ma che tal prontezza prouenga da vn particolare diſcernimento di mente,non da vna nudacapar. bietà, comeè quella de'Chri ſtiani, mi conprudente diſ corſo, e maturità da poter ciò perfuadere ad altri ſenza tragica impreſione, 4 Operai qualche cofa ap partenente al comune? Dun que n'ho ritratto dell'vtile. Queſto ſia fempre alla mano in ogni occorrenza,fenza mai traſcurarlo. Qual'è il tuome ſtiere? l'eſſer buono; ma que fto non ſi fa bene, ſe non per mezzo delle fpeculazioni, e maſſime, o intorno la natura. dell'vniucrfo, oltero intorno la propria conſtituzione della huomo. 5. Al principio furono in trodotte le Tragedie, per rammemotar agli huomini gli accidenti; e che queſti così naturalmente, loro fogliono auuenire. E acciocchè quelle coſe, che ſu le ſcene vi ricre aſſero l'animo, non vi contri-, ftal ila NO jai 76 il Her e ftaffero nella ſcena maggio re, Perchè vedete eſſer così neceſſario che queſte coſe in cotal modo ſi terminino; e così le comportano quelli, che eſclamano:Oh CitheroneE fi dicono alcune coſe vtil mente da quelli, che com pongono ii Drami, quale è particolarmente quella. Che di me cura, ne de’mieifigli uoli. Non ſi prendan gl'Iddi ragion il vuole E parimente Che con le coſe diſdegnar non lice. E Cheſi mieta la vita,come ſuole Matura spiga. 119 e altre coſe ſimili. Pure dopo la Tragedia fu introdotta l'antica Commedia hauente vna libertà di maeſtreuol 10 2 Blo cer li si 0 mente correggere, rammen tando non inutilmente col fuo retto parlare la modera zione del faſto; al quale me defimo fine in qualche modo Diogene ſe ne valeua. Dopo queſta conſidera quale è la Commcdia mezzana; e ap preſſo la nuoua, a che fine fu poſta in vſo, o come a poco a poco per l'arte, e applica zione dell'imitare ſubcntrò; mentre ſi ſa, che anco da que TE fte fi dicono alcunecoſe gio fe ueuoli; ma l'vniuerſale inten to di tal forte di poeſia, o rappreſentazione mimica a qual ſegno hebbe la mira? C 6 Come truouafi euidente non ci eſſer altro modo di vi PE vere tanto a propoſito per fi po loſofare di queſto, nel quale VE tu se'di preſente? to ta 7 II zenu co TIE • H 0 - Mode 7 Il ramo non ſi può ſchian tare dal vicino ramo, ſe non fi diſtacca inſieme da tutta la pianta; cosìyn huomo non ſi può difceuerare da vn altro huomo, ſe non ſi ſepara dalla comunione. Il ramo dunque Jo diuide vn altro, ma l'huo mo li ſegrega da per ſe ſteſſo dal proſſimo, con odiarlo, e renderſigli auuerſo. Però non ſi auuede, come dalla gene rale cittadinanza ha ſeparato ſe ſteſſo E nulladimeno quella è yn dono particolare di Gioue il quale ha conſtitui to queſta comunicazione. Concioffiecolache è lecito di nuouo ricongiugnerſi col proſſimo, e dinuouo incor porarſi colla perfezione dell' vniuerſo; ma ſe ſimile ſepa razione fi fpeſſeggia, fi rende ľu più niC di le ds.81 tra tutduqunat più dificile il riunirſi, e'l tor nar a rallignarſi. In ſomma il ramo, che da principio ger minò con l'altro, e como conſpirando conſiſte, non é fimile a quello, che dopo il taglio vn altra volta è ſtato inneſtato. Il che pur dicono gliagricoltori. Biſogna effe re dell'iſteſſo germoglio, ma non dell'iſteſſa lembianza. 8 Quelli, che ad impedirti ti ſi frappongono, quando tu cammini conformealla retta ragione, ſi come non ti po - tranno trauolgere dalla fana operazione, così non t'han no da ritirare dalla buona vo lontà verſo di loro: ma cuſto diſci te ſteſſo egualmentenel I'vno, e nell'altro; ne folo colcoſtante giudicio, ecol l'azione, ma col portarti per9 all anttö ting allaOr? allo tejla -1 man zumail coloro, che ſtudiano d'impe manſuetamente ancora verſo 1 tor ger COM 1100 opo il Stato, ma d. dirti dirri, o in altro modo ti mo leſtano Imperocchè così è da animo iinpotente lo sde gnarſi contro di quelli comeil tralaſciar di operare, e abbat cono i tuto arrenderſi. Perchè amen. effe due abbandonano il poſto, queſti intimorito, quegli alie nato dal congiunto, camico per natura, 9 Niuna natura è inferiore retta all'arte; concio liecofache le arti imitano le nature. Sc pe Cana rò queſto è, la natura perfet tiffima tra tutte l'altre, e che il tutto abbraccia, non cederà Ao alla più atificioſa induſtria. Ora da tutte le arti in ordine alle coſe migliori ſi fanno le inferiori.Dunque anco dal la natura comune; donde é, P che Jo tu ipo han vo nel ! olo 04 arti  ſo & 11 re M che da quella deriua la giu ſtizia, e da queſta poi tutte le virtù hanno la ſua ſufiften za. Perchè non ſi conferucrà il giuſto, fe o alle coſe di mez zo troppo attribuirem'o, o fa remo facili a prender errore, ead cſſer temcrarij, e muta bili. 10 Se non vengono a te le coſe, delle quali il proſegui mento, o la fuga ri perturba 110, ma tu in certo inodo a quelle ti conduci, dunque il giudicio intorno ad eſſe s'ac quieri, e quelle rimanghino immote, e tu non ſarai vedu to, neappetirle, ne fuggirle. La sfera dell'anima è luminosa, quando ella non ſi eſtende fuori a qualche co fa, ne dentro ſi ritira, o fr conſtipa, ma riſplende con P d d. a 0 fc PE 9 mi ch ch quel a Giv tutti Tilter TUOTI Legii proccurerò di eſſer manſueto, quel lume, col quale ſcorge la verità di tutte le coſe, e quella, che è in lei medesima.Mi fprezzerà talvno? ſe n'accorgerà cgli. Io mi guarderò bene, che niſſuno mi truoui o opcrare, o parla re coſa degna di diſprezzo Miodierà? guardiſi egli. Io mez ot TOTE, MUT tele urb.2 do 1 quei rhino reche e di eſſer di buon volere verſo di ognuno, e con queſto me deſimo ancora pronto a farlo accorgere detfuo trauedere, non per modo di rinfacciare, o di far moſtra della mia fof. ferenza; ma con ingenuità, e probità, nell'iſteſſo modo di quel Focione, ſe pure non fi mulaua. Perchè così biſogna, che ſieno le coſe interiori, e che l'huomo ſia veduto dag! P 2 Iddij irle 1.2 € 1101 CO 0 h C011 I iddij, così diſpoſto a non ri ceucre coſa alcuna con iſde. gno, con querele. Poſcia. chè di che danno è a te, ſe tu fteſſo fai al presére quello, che e proprio della tua natura? non accetterai tu ciò, che ora è opportuno alla natura dell' vniucrlo, o huomo ordinato per far qucllo, che conferiſce al comune 13 Quelli, che l'vn l'altro fi difprezzano, l'un l'altro fi luſingano: e quelli, che cer cano diſoprauanzar l’yn l'al tro, l'vn all'altro ſi ſottomci tono. Quanto rancido, e non ſincero èil dire: Miſono propoſto di portarmi teco ſchiettamente. Che fai, o huomo? non è di me ftiere far queſto prologo: apparirà da per ſe. Nella fronte iſtekla dce eſſere ſcrit ta la voce. Quello, che hai dentro, ſubito viene eſpref fo negli occhi, come nel lo ſguardo degli amanti il tutto fubitamente conoſce Pamato. Tale inſomma biſo gna, che ſia il fincero, e buo no, che ſappia vn poco di ca prino; acciocchè chi ſe gli ac coſta, nell'iſteſſo primo in contro voglia, o non voglia, al fiuto lo riconoſca. L'affet tazione della femplicità è vn ferro traditore. Niuna coſa è più brutta, che l'amicizia lu pina. Fuggila più di ogni al tra. Gli occhi del buono del ſemplice, del manfueto han no queſto chenicite in quel li ſi naſconde. 15 La facultà di vinere ot timamente è poſta nell’anima. Se pur le coſe indifferen ti le piglia indifferentemente: e le prenderà indifferente merte, ſe ciafcuna di quelle contemplerà ſeparatamente, e con riguardo al tutto ricor dandoſi, che niuna di quelle può formae in noi l'opinione di ſe ſteſſa, ne a noi venire: ma quelle ſtanno ferme,e noi fiamo quelli, che formiamo i giudici di quelle, come in noi dipignendole; mentre è lecito laſciar di dipigaerle, è lecito ancora,ſe furtivamente s'infinuaffcr, o di ſubito ſcan cellarle. Che queſta attenzio ne ſarà per corto tempo, e appreffo terminerà la vita. E che difficultà ci è in ben pi gliar queſte coſe concioſie cofache ſe ſono ſecondo la naturai, habbile care, e ti 8 a I rega antes cate uck Ente; ca uelle vant 1 enoi moi ne if färanno facili; ſe ſono contro la natura, cerca quello, che ſia ſecondo la tua natura, e intorno a queſto ſtudiati, an corchè ſia ſenza gloria, eſſen đo da vſare indulgenza con chi cerca il proprio bene. 16. Conſidera donde ciaſcu na coſa è venuta, e di quali fubbietti ciaſcuna conſiſta, e in quali ſi muti, e mutandoſi quale ſarà, c come non ſog opere di giacerà a dannoniuno. E pri ma qualabitudine ſia in me verſo di quelli, eſſendo che ſiamo nati vno a prò dell'al tro; e ſecondo vn altra 'ragio ne ſon fatto per preſedere a quelli, come ariete al greg: ge, o toro all'armento. Poida queſto paſſa a raziocinar più alto ', che ſe non è vn concor fo diatomi, è la natura, che: legi ente car Slicet ndo ed P4 il tutto regge; e ſe ciò è, l'infe. riori coſe ſono fatte per le mi gliori, e queſte l'vna per l'altra. Secondo offerua, quali ſie no nella menfa, quali nel letticciuolo, e in altri luo ghi, ma ſpezialmente quali neceſſità apportino loro i dog mi, che effi fi ſono profiſſi, e con quanta preſunzione met tino in opera quegl' ifteffi lo ro decreti. Per terzo. Se quelli retta mente queſte coſe operano, non è da diſpiacerci; ma fe non rettamente, chiara co fa è, che operano per for za, o per ignoranza; perchè ogni anima dimala ſua voglia reſta priua come del vero,co sì di comportarſi con ciaſcu no fecondo la ſua conucneuo lezza; e perciò prendono a ma , afe ml 12 fit re 110 cal 105 et FO male l'eſſer chiamati ingiuſti, ingrati,auari,e al tutto procli ui al peccarecótra de proſſimi. In quarto luogo. Che tu ancora fai di molti errori, e come yn aftro di loro pecchi; ſe da alcuni errori ti aſtieni, tuttauia hai l'abito di com mettergli, quantuinquc per cagione di tinore, o di glo ria, o d'altro ſimile vizio tu ti rattenghi da si fatti crrori. Per Quinto. Che manco hai ben penetrato, ſe errano: auuenendo molte volte, che lo fanno diſpenſatiuamente; c in ſomma è neceffario d'ap prendere molte coſe auanti di pronunciare aſſeuerante mente delle azionialtrui. Per feſto.Che quando fuor di miſura tir ti degni,o da im pazienzia fei prcfo,fouuenga DI H ľ ¿ 2 P 5 tia 346 [ f fi ti, che la vita humana è mo montanea; e che tra poco tut ti ſtaremo diſteſi. Settimo. Che non ſono l'o perazioni loro ', che ci pertur bano; imperocchè eſſe ſono nelle menti di quelli, ma ben sì i noſtri apprendimenti. Deponili dunque, e conten tati di laſciarne il giudicio, come di coſa a te graue; e la collera farà ſùanita. Or bene in qual maniera li deporrò? diſcorrendo;che non té inter. venuto niente di diſdicevo le; poichè ſe non foſſe fe nori quel ſolo ', ch'è diſdice uole,male', néceſſario fareb be, che tu in molti modi pec cafſi, diuenendo ladro, e af fatro ſcelerato. Qttauo. Quanto fono coſe più graui quelle, che apport tano C t t C te al more f per le 30 tano per cagionc loro i cor rucci, e languſtie dell'animo, che non ſono le coſe i, quali ci contriftiamo, c adi riamocon quelli. Che la manſuetudine.è inuincibile, quando ſia fincera, e non affettata fimulata. Che ti farà vno per fouerchieuoliſſimo, che cgli fi fia:, ſe tu perfeueri d'eſſere con lui piaceuolc? E, ſe così t'auueniffe, placidamente l'aer uertirai ', e meglio l'inſegne rai', attendendo a ciò quieta mente in quell'iſteſſo tempo ni che colui fi ftudia di fare a re il male, dicendogli tu:: Non figliuolo, noi ſiamoprodottiat altre coſe. Io non rimarrà l'offeſo, ma tu bon fi,figliuolo; e con de ſtrezza e fommariamente gli moſtrerai, che la cofa paf P 6 ſa cosi. E che ne le api ciò fanno, ne niuno di quegli animali, che per lor natu ra inſieme ſi congregano E però di biſogno, che ciò ſi faccia lontano dall'irriſione, o dall'improperio; ma ami cheuolmente, e ſenza mor dergli l'animo, e non come nelle ſcuole, ne acciocchè altri, chepreſente ſia, faccia delle marauiglie, ma a ſolo a ſolo, quantunque alcuni altri vi ficno intorno. Queſti noue capitoli tiengli a mente, come doni a te fatti dalle Muſe: e yna volta, men. tre se'in vita, da principio ad eſſer huomo. Però biſogna guardarſi egualmente, come di non adirarti contro quelli, così di non adularli; perchè l'vno, e l'altro ſono contro l'hu D. l'humana comunione, e tira no al danno. Ti ſia in pronto, mentre ti traſporta la collera, che non è da prode huomo l'adirarſi; ma la placidezza, e la manſuetudine, quanto più fono da huomo, tanto più hanno del maſchio; poichè. queſti partecipa più della for tezza, e della neruoſità, e det vigore, ma non già chi è ſdegnofo, e diſamoreuole. Perché quanto più queſtoè proprio della tranquillità dell' animo, altrettanto è ancora del vigore. E come la triſtez za è de deboli, così è la col lera. Poſciachègli vni, e gli altri ſono feriti, e ſi arrendo no. E ſe ti piace, dal principe delle muse riccuiancora que ſto Decimo dono: Che è da furioſo il non volere j, che i cit 350 1 cattiui pecchino, concioffie colache in ciò fi pretenda l'impoſſibile.Ora il concede re, che verſo gli altri ſieno tali, e il volere, che contro di te non pecchino", è cofa da: huomo- ftolido, c.da tiranno. S'ha del continuo da of ſeruare', eſfer principalmente quattro i moti dell'anima. E quando tu li ſcoprirai, gli hai da ſcancellare; dicendo fra te ſteſſo ſopra ciaſcuno. Queſta immaginazione non è necef-. ſaria: Queſto diſcioglie la co -- munanza: Queſto non lo di rai di capo tuo;perché il non dirlo da fenno, reputalo tra le coſe ſtrauagantiſſime: II quarto è, che tu a te ſteſſo rimprouererai queſto eſſere yn dare per vinta la portione più diuina, che in te è, e fot to و in te è, bench cometterla alla parte più i gnobile,e mortale del corpo, e alle ſuematcriali voluttà. Il tuo spiritello e tutto quello d'igncos che è in te miſchiato,diſua natura tende 1 in alto', nondimeno per ob bedire all'ordinanza dell'vni uerſo dentro del miſto ficon tiene. Ancora', tutto quanto di terreſtre, e d'humido, che tuttauia refta ſollevato', e ſta non ſecondo il natural ſuo ſito. Così gli elementi ancora obbediſcono alle cofe vni verfali, quando, douunque fieno traſportati, reſtano per forza,finchè dinuouo lorven. ga fignificata la facultà di di fciorli. Dunque non è egli mal fatto che la ſola tua par ce intellettuale ſia dura all'obbedire, e che ſdegni la ſua re gione? e pure non ſe le ordi na niente di violento, ma ſo lo quello, che é ſecondo la natura fua; tuttauia non vi s'accomoda, ma corre al con trario. Concioffiecofache on gni commozione verſo l'in giuſtizie, le lafciuie, i ran cori, c i terrori non è altro che vna riuolta contro la natura. E quando la mente piglia mal volentieri qualche coſa di quelle, cheauuengono,allo ra abbandona il ſuo poſto; giacchè quella è fata diſpoſta all'equanimità, e pietà verſo gl’Iddij, non meno, che alla giuſtizia; perchè queſte ſono d'yna tal forte, che tendono alla buona comunanza, e fo no più antiche delle iſtelle opere giuſte. A cui non è ſempre vno, e'l medeſimo fine della vira, non può eſſer vno, e'l medeſi mo per tutto il tempo della fua vita.Ma non baſta quefto, che s'è detto, ſe non aggiu gni à quello, quale dee effere queſto fine. Imperocchè co me non è ſimile l'apprendi mento di tutte le coſe, che in qualſiuoglia modoalli più pa iono buone, ma di quelle di vna tal forte, cioè di quelle, che ſon volte al comune, così anco il fine dee eſſere diretto alla vita comune, e ciuile. Perchè chi a queſto indirizza - tutti i proprij appetiti, rende rà vniformi tutte le azioni, ed egli in tal modo farà ſempre il medeſimo. Conſidera il topo nion tagnolo, el domeſtico, e la 4 Vand S vana paura, e fuga di queſto. Così l'opinioni del volgo chia. maua Socrate lamie, e spaventacchi de'putti. I Lacedemonij negli ſpettacoli poneuano i fora ſtieri ne ſedili all'ombra; effi ſedeuano doue a forte loro toccaua.. 22. Socrate riſpondendo a Perdicca, perchè non andaua da lui, diſfc; Acciò io. non periſca di così infame morte; mentre non po teſſi corriſpondere alla grazia, che riceueſji. Tra gli ſcrittide gli E feij taua vn auuertimento y che ſpeſſe volte ſi ricordaſſero di qualcheduno degli anti chi, i quali haueſſero eſſerci-. tato la virtù. I pitagorici ordinavano, che di mattino si riguardatſe: ili 8 po fe BE il Cielo; acciocchè ſempre ci ricordaſſimo di quelli, che ſempre ſimilmente, e nell'i ſteifa maniera compiono l'o pere loro e dell'ordine, e del la purità, e difuelamento; im perocchè niun velo hanno le feller 25 Ti fouuenga quale cra Socrate cinto d'vna pelle, quando Santippe coperta del la di lui veſte vſcila fuori di caſa; e' rammentati quello, che diffé Socrate alli compa. gni, che fi vergognauano, e ſi ritirauano, quando lo vidde ro in tal'abito: 26 Non far il maeſtro di fcriuere, e leggere ad altri, in nanzi che ſij ammacſtrato ciò è da oſſeruare molto più nella vita. Seruo tu Lei peròparlar non dei. Allora io di buon cuo re me ne riſto Rampognan la virtù con aſpri det ti. 27 E' da pazzo domandar i fichi l'imerno. Tale è chì quando non è più tempo d'ha: uerne, deſidera yn figlioli no. Epitteto ammoniua quc gli, che baciaua il figliolino, che diceſſe tra di fe: domanefor fi morrà. Sono parole di mal augurio coteſte? Non è, di ceua cglig parlar di male au gurio vſar parole ſignificanti qualch' opera conforme alla natura: altrimente il mietere le ſpighe, ſarebbe yn cattivo augurio, L'vua è prima agre ſto, poi matura, e poi paſla. Ogni coſa foggiace a mu tarſi, non nel non eſſere, ma in quello, che di preſente non è. Detto è d'Epitetto, che Ninno è ladro della volonti. Vn arte, diſſe egli,s'ha da ritro uare d'aggiuſtar gli affenfi, e in materia degli appetiti biſo gna conſeruare l'attenzione, acciocchè ſieno con eccezio ne, e che s'indirizzino al be. ne comune, e ſecondo la con ueneuolezza e totalmente aſtenerſi dall' auide voglie e non iſchifare coſa alcuna, che non ſia in noſtro arbitrio. Non è dunque, diſſe egli, la conteſa intorno ad vna coſa ordinaria; ma intorno all'ef fer pazzo, o ſauio. Diceua Socrate, che anime volete ha uere, de'ragioncuoli, o degl'ir. ragioncuoli de'ragioneuoli. Di quali ragioneuoli, de’lani, o de’deprauati? de'fani. Per chè dunque non le cercate? perché le habbiamo:dunque a'che contraſtate, e diſcor date? Fine del Libro Vndecimo, CO b pa te fa fa PI all ace Vie LI 359 INO cercarei curse dike op. G là fta in tuo potere di poſſeder tutte quelle coſe, alle quali anſioſamente bramafti con aggiramenti di peruenire, ſe tu non inuidij a te ſteſſo: cioè a dire, ſe tu non farai più caſo di tutto il paf fato, e 1 futuro laſcerai alla pronuidenza,e'l preſente ſolo bu indirizzerai alla ſantità, e alla giuſtizia. Alla ſantità, acciò tu ami quello, che ti vien deſtinato; concioffieco C1 facció 0 li fache la natura ha portato quello a te, comc te a quel to. Ma alla giuſtizia liberamente fuori d'auuilup pamenti tu dica parlando la verità, c operi ſecondo la leg fi ge, e la conueneuolezza. E non ti ſia d'impedimento ne l'altrui maluagità, ne l'opi nione, ne le ciarle, ne meno ti il ſenſo della carnuccia teco connutrita. Però, chi pati- re. ſce, cipenſi. Se tu dunque tú quando in qualſiuoglia tem po t'approſſimi all’yſcita, ab bandonando tutte l'altre co ſe, solo stimerai la tua mente, e quello che di divino è in te; e non temerai il cessar vna volta dal vivere, ma il non haper cominciato giammai a vivere secondo la natura, ſa rai huomo degno del Mondo, che le TOLE to mi che wani DI110 ne Oi 70 c0 ti chet ha generato, e nonſarai più foreſtiere nella patria, e non ti marauiglierai,come di coſe inopinate, di quelle, che alla giornata auuengono,'e finiraidi rimaner ſoſpeſo per queſta, o per quell'altra co fa. 2 Iddio ſcorge tuttelemen. ti diſpogliate de’yaſi materia li, delle corteccie e lordu re. Poichè con la ſua ſola vir tù intellettuale attigne quel le coſe, che da eſſo ſcaturi rono, e deriuarono in queſte eofe materiali. Il che,ſe tu ti auuezzerai di fare, ti liberc rai da molti ſpafimi. Percioc chè chiriguardo non haalle carnucce chelo circondano,fi tratterrà forfi a badare al ve ſtito alla caſa, alla gloria, é a fimili abbigliamentie arredi? Tre ſono le coſe, delle qualitu fe conpofto, 'il cor picciololo fpiritello, vela mente. Di queſte le prime duefono cue, finche ta dilo To habbi cora. La terza fo la è propria rerire, tua. Setu fequeſtrerai da te, cioè dalla tua confiderazione in tutte quelle coſe che alla faccia no, o dicano, e quelle,'che Tu hai-detto e fatro, e que te,'che,comefe falfero per auucnire, ti- boiterbhojne quelle ancora cheper lo cort picciuolo, che ti circondala per Minneſtæto " piritello tohi tro tua vogliati fuccedchos de quelle, che intenten einer hohen mente con vina contratttváre tiğine ſi rivolgonoi, fieche; rendendo la potenza santé fertuale efente delle cofejohe fono inſieme fatali, pura, eili ibera viuerà in fe fteſfa', ope rando: le cofe " giufte, te rice uendo volentieri gli auueni menti, e proferendo la veri tà: Se tu ſeparerai, dicdi, da quefta potenzaquefte. cofend elfæaderentiper graditimpa zia, edaltempo, quelleche hanno da auuenire appreffo.. pilepaffate, etiformerairale, qualeè la palla sfericadiem pedocle; Chestutta titanda guide della-poluere, ch'attornojpelte rigiza, attenderai ſolo alviuere, the gu viui, cioè al preſente, e po tmisfio alla morte viuendo trapalaretuttoquello che ti reſta imperturbato gencroſa mente si emanſuetamente, fet condo il tuo genio. Speffo miſonimarauiglia TO:, come ciaſcuno più di tut Q:2 ti  ti ami ſe ſteſſo; e come non dimeno tenga in minor conto l'opinione propria intorno a ſe medeſimo, di quella degli altri. Se dunque Dio ſoprau uenendo, o vn macſtro pru dente, comandi ad alcuno, che nulla dentro dife penfi, o diſcorra, che ſubito l'ha conceputo, non lo palefi, non lo razterrebbe ne pure per vn giorno. Cosìpiù temiamo di quello, che i proſſimi giudi cano di noi, che di quello, che noi medeſimi giudichia mo.: 5 Come farà mai, cheha uendo ordinato il tutto gl'Id dij bene, e con carità verſo l'huomo, queſto folo habbia no traſcurato,che alcuni degli huomini, e molto buonije che colla diuinità hāno tenuto co me  01 700 011 22 TU 101 olis ha On di me ſpeſſi commercij, e che ſouentemente per l'opere fan te, e ſacrificij ſi ſono reſi à quella famigliari, queſti, vna volta morti, non ſi facciano ritornare, ma rimangano del tutto eſtinti? Queſto, ſe pu re così ſta, tu hai da ſapere, che fc altrimente biſognaſſe, che foffe; l'haurebbero fat to. Concioffiecoſa che ſe era giuſto, era poſſibile, e ſe era ſecondo la natura, l'haureb be prodotto la natura. Dal non eſſer così, ſe così non è, tu ti hai da perſuadere non eſſere ſtato neceſſario, che al trimente fi faceſſe. Imperoc chè tu ſteſſo t'auuedi, che ciò ricercando, tu entri a con tendere in giudicio con Dio. Ma noi non diſcorreremmoco sì con gl’Iddij, ſe ottimi, e Q 3 giufillimi non foſſero. E ſe così è, nicnte ingiuſtamente hanno traſcurato, e irragio nevolmente negletto nellab Tellimento dell'vniuerſo.. 6 Afſucfatti ancora a quel le coſe, delle quali non bene ſperi.Imperocchè la mano fi miltia inabile per non eſſere aylata all'altre coſe, reggeil freno più fortemente, che la deſtra, e queſto perchè vi s'e ZUL Czzata. Penſa quale biſogna, che tú ti truoui,e del corpo,e del Panima, ſopraggiunto che fą rai dalla morte: la breuità della vita, la vaſtità de'ſecoli ayanti, e dopo, la debolez za d'ogoi materia. Content pla ſpogliate d'ognicorteccia le caufalità, le relazioni dold' opere; che fią la fatica, che'l piacere, che la morte, chela gloria: chi ſia a ſe ſteſſo cagio ne deltrauaglio, e coine niu nofią impeditodaaltrise che ognicoſa lia opinione. & Nell'vſo delle tue maffime è neceffario, che tų fij, limi le non all'accoltellatore, ma al combattente maneſcamen. te con le pugną. Concioſſie cofache quegli, ſe pone giù la 1pada, della quale ſi ſerue, re fta vcciſo, ma queſti ſempre ha la mano, nę gli biſogna nient'altro, che ſerrarla. 9. Di queſta fatta s'hanno a riguardar le coſe, diuidendo ke in materia, forma, e rela zione Quanto potere hą l'huomo a non faraltro, faluo quello, che Dio ſia per gradi re, e riceuere tutto quello, che Dio gli diſtribuiſca, con Q 4 forme all'ordine della natu ra. To Non s'ha da querelarſi degl'Idij, mentre non ſono, nevolendo, ne non volendo, ſoggetti ad errori; ne meno ſono da áccufare gli huomi ni; perchè non peccano, fe non contra voglia, Diniuno dunque s'hanno da far querele. Quanto è ridicolo, e ftra niero chi s'ammira di qualſi uoglia coſa, che nella vita occorre! Oviè la neceſſità fatale e ordinazione inuiolabile, o prouuidenza piegheuole, o confuſione temeraria ſenza gouerno. Se è neceflità iné witabile, a che ti contraponi? ſe è prouvidenza che ammet tc eſſer piegata, fa degno te ſteffo del fuſſidio diuino: ſe è confuſione ſenza reggimen to, rallegrati, chein queſta tempefta tu medeſimo hai in te ſteſſo per gouernatrice qualche mente: e ſe la tem peſta t'aggira, fia traportata la carnuccia, lo ſpiritello, e l'altre coſe, ma la mente non farà traportata. Il lume della lucerna, finché fi ſpenga, 'ri luce sì, e non perde lo ſplen. dore: ma la verità, che è in te, e la giuſtizia, e la tempe ranza, anticipatamente s'e ſtingueranno? Dove l'immaginazione concepiſca, che vno ha peca cato, rifletterò donde ho,che queſto fia peccato, e ſe que gli peccò, ſe fi fia egli reſo reo per quell'atto? perchè ciò ſa rebbe quali vn lacerarſi il proprio volto. Poſcia rifletti, che chì non vuole, che'l cattivo, pecchi; è da raſſomigliarſi ad VCO, che voglia, che l'arbo re de i fichi non produca il lattificio, e i bambini non piangano, ei cauallinon ani triſching, e altre coſe taliche feguono di neceſſità. Pero, che coſa ha da fare, hauen do contratto " va cotal mal abito? Dunque, ſe ti ſenti da ciò, riſanalo. Se non conuiene, non do fare. Se non è vero, non lo dire, ma l'appetito dia fox, to dite per conſiderare il gut to che è quello, che fa im preſſione nella tua immaginas zione, e diſcutilo, diuidenz dolo nel formale, nel mate, riale nella relazione neltem po, dentro al quale quello ha da Vis petto? forſe cupidigia a forfe da finiie. Riconoſci una vol ta, che in ce è vna coſa più eccellente, e più diuina di quelle, che te paffioni in te cagionano. E in ſomma,quan te cofefono,che in qràge in la in guiſa d'un bamboccio con de cordicelle ti abburattano. Che’çoſà è ora il mio penfie rodforfe timore? forfe for. cofa alia fimile: 15 Primieramente penfais che niente è a caso e niente, senza relazione. Secondaria mente chea niun altro fine, che a quello della focictà fi riduc. Che non molto dopo niūno in niun loco farai, ne pur cofa alcuna fari di tutte quelle, che orá vedi, ne al cuno di quello che ora: vi -91 I Qo NOuono; conciofficcofache tut te le coſe ſono nate per mu tarſi, trasformarſi, e perire, acciò altre per ſucceſſione ſe guano. Ogni cosa è opinione,e queſta depende da te. Togli dunque, quando tu vuoi, l’opinione; e, come chi volge al ridoſſo d'vn promontorio trouerai ferenità ferma di tutte le coſe, e vn ſeno tran quillo.: -18 Vna, e qualſiuoglia fi fia operazione che a ſuo tem po finiſce, nonpariſce danno niuno, perchè finì; ne l'ope rator di quella, per hauer finito, patiſce mal alcuno. In ſimil modo dunque il ſiſte ma, o fabbrica ditutte l'ope razioni, che è la vita, ſe in qualche tempo finiſce, non rice etut or me erine Quel one, Togh oila ageal torio ma Stra / di riceue alcun danno, percioca chè fini; ne quegli, che in tal tempo terminò queſta ſerie, fu malamente trattato. Il tempo, e'l termine fono dále la natura conſtituiti, talvolta dalla propria,come nella vec chiaia; ma generalmente dal I'vniuerſale, le cui parti con tinuamente mutandoſi, reſta tutto il Mondo ſempre nouel. lo, e vigoroſo. Tutto ciò del continuo è buono, e oppor tuno, che all'yniuerfo.confe riſce. Dunque il finir del vi uere a chiunque tocchi, non è coſa cattiua, perchè non è vergognofa, come non de pende dal noſtro volere, ne contraria al comun bene del l'yniuerſo. Anzi è buono quando è opportuno, e con ferente all' vniucrſo, e con quel elial tem dan l'ope verf olfille 12 l'ope ſe i non. lo 1 quello è inheme portato Concioffiecofache è portato da Dio quegli, che fi perta vnitamente con Dio, e a quel le ifteffe cofe collintendimen to fi conduce. ! 19. Queſte tre coſe hanno da cflere fempre in pronto.. Primieramente in ciò, che tu fai, non fia niente inuano, ne altrimente fi facciay.che felis fefla giuſtizia haveſſe,opera to: ma nelle cofe, che anlı uengono di fuori, mentre quelle o fono procedurea ca fo, o fecondo la prouuidenza non s ' ha da querelarſidel ca fe, ne accufare la prouuiden za Secondariamente qual cofa faccia ciafcuro dal non effene, fino all'animazione, e dall'animazione, fino al ren dimento dell'anima, e da qua. li coſe da fatto l'adunamento, e in quali il diſcioglimentos Terzo come ſe ſoprad'yu’ers minenza follcuato tu rimiral G le coſe humane', e dopo ha. ụer compreſa, la lor gran va rietà inſiemeconoſcelli quan to ci ſia dell'abitato, e nel l'acre, e nell'etera, e çoine quante volte cu foffi cosi fol leuato, vedreſti le medeſime, l'iſteſſa ſpecie, la breue dura ta. Ed in queſte éla noſtra ſu perbia, 29. Gitta fuori l' opinio ne, ſarai ſaluo. Chi dunque e’impediſce il gittarla. Quando perqualche co ſa ti prendi diſguſto,ti ſe (cor dat, che ogni coſa li fa', le condo la natura yniuerſale, che quel peccato è d'altri. E oltre queſto, che tutto ciò, che pure, che ſi fa,cosìſempre's'è fatto, e li farà, e di preſente ſi fa per tutto: ancora, quanta è la co gnazione dell'huomo con l'o niuerſo human genere; per chè non è la comunione del fanguccio, ò della poca ſe menza; ma della mente. Ti fcordaſti che la mente di ciaſcheduno è Dio, e che da lui ſcaturì, non eſſendoui coſa alcuna propria di niuno, anzi il figliolino, e'l corpic ciuolo, e l'iſteſſo ſpiritello in di vennero. E ancora ti ſcor daſti, che ogni coſa è opinio ne, e parimente, che ciaſche duno il preſente ſolo viue, e che queſto ſolo ſi-perde. Del continuo riuolgi nell'animo quelli, che per qualche coſa li corrucciarono, e quelli, che in grandiſſime glorie, o calamità, o inimicia zie, o in alcuni altri auueni menti li ſegnalarono. Dopo medita, doue fono al preſente tut te queſte coſe?in fummosin cenc re, c fauole, e ne meno favole. Tiſouuenga di tutto queſto', cioè, come furono Fabio Catullino in Villa, e Lucio Lupo, e Stertinio a Baia, e Tiberio a Caprise à Velia Rutfo; e in ſomma di chi ha fatto con l'apprenſione gran caſo di qualunque ſia cofa: ecome ſia di vil prezzo turto, che in tentamente appreſe, e finala mente quanto più foffe da Fi loſofo nella materia toccata gli, portarſi da giuſto, e da fa uio e da ossequioso schietta mente agl'iddii. Imperocchè la superbia, che sotto velo di umiltà si nasconde è la più l’intolerabile daograbra. Agudligiche dimanda nosperchè vonsrigť Iddij acat me turgli habbi vechutia e dom de tu habbi appreso, che vi freno Primieramente risponde, che sono visibili agl’occhi, e poi a benchè io, non abbia veduta la mia anima, tuttavia l'onoro. Così dunque è degl'iddii, la potenza de’ quali mentre ogni giorno io pruqyosda questo comprendo, che ci sono, e gli venero. La salvezza della vita consiste, che ciascuno riguar di che cosa sia il tutto, il materiale, il formal, che con tutto l'animo FACCIA IL GIUSTO, DICA IL VERO.  Che resta altro, che goder della vita, aggiugnendo un ben fatto all'altro, sicche ne pur si perda un brevissimo spazio di tempo? Il lume del Sole, è uno a benchè venga interrotto dal: o e pareti, dai monti, e da altre mille cose. Una è la sostanzia comune, ancorchè ſia di partita tra migliaia di corpi, qualificati dalle loro proprietà. Una è l'anima con tutto che si distribuisca a mille e mille nature con ſsngolari circonscrizioni. Una è l'anima all'intelligente, se bene apparisce, che si divida. L'altre parti dunque delle cose dette: s, com! me gli spiriti, ei subbietti; so no senza senso, ne famigliarmente si uniscono insieme. Questi nondimeno contiene LA MENTE UNIVERSALE e poi la propensione, che al congiugnere gli spinse. Ma l'intelletto propriamente propende all'istesso suo genere, è s’unisce, ne fi può fradicare l'affetto al ben comune. Che cerchi? Di campare? o'pur di sentire, d’appetire, di crescere, e poscia diterminare? Di valersi della voce di DISCORRERE con la mente? Qual cosa di queste ti pare degna d'essere desiderata Male que ste una ad una non sono da frezzare, portati alla conclusione d'ossequiare la ragione e gl’iddei. Ma li fa contro alla stima di queste cotrammaricar si di rimaner perla morte privo d'alcune di queste. Quanta parte dell'immensa e infinita durata a cia. founo é compartita? Poichè ben prestissimo si dilegua nell' eternità. Quanta parte di tutta la sostanzia? Quanta parte di tutta l'anima? In quanta zolletta di tutta la terra ferpendo tu vai? A tutte coteste cose applicando l'animo, non t'immaginare niente di grande o questo solo se tu operi come la tua natura ti conduce, e soffri come la natura universale portage comeliva. le di se stessa la parte tua reggitrice; polciachè in cio il tutto consiste. Tutte le altre cose, o sieno nel tuo arbitrib. no fuori di quello. Sono cadaveri, e fummo: om.svisli! Efficacissimo è il rifletterre, per eccitarci al disprezzo della morte, che quelli ancora, che stimano essere il bene nella voluttà, e'l male nel dolore, nondimeno quella disprezzarono. A chi quel so. Lo che è opportuno è bene je a chì tanto è l'aver molte azioni fatte. Secondo la ragione retta, quanto poche. Ie a chì non iinporta contemplare il mondo in maggiore, o minor spazio di tempo, nemanco la morte è terribile. O huomo sosti cittadino in que sta gran città che ti fa te per cinque anni mentre quello. Che è conforme alle leggi ad ognuno è dellistesso peso. Perchè dunque ti ègraine, se dalla città ti manda via non il tiranno, o un ingiusto giudice, ma da natura, che vi t'introdulfezlic come dalla see, na licenzialse vas comico il capo della truppai che l'han keva, condotto. Però tu dii, non vappresentaii i cinque atti, ma solo tre. Tu dibeneze a proposito mentre che nella vita anche tre atti compiono tutto il drama. Conciossieco fache quegli impone il termine, dove abbia da finire, che allora ordina l'adunamento, cora fa lo scioglimento, nel li quali tu non ci hai avuto parte. Vattene dunque placido. Poichè quegli che ti licenzia, è placido. Dal mio avolo, Vero, la gentilezza del costume, e il non adirarmi. Dalla fama e dalla memoria del  mio genitore, l’esser verecondo e  maschio. Dalla madre, l’esser pio, il donar volentieri, l’astenermi non solo  dal fare il male ma anche dal venirne in pensiero. [Ancora, l’esser  Sottintendi, come nei paragrafi seguenti,  il verbo ‘imparai’, ovvero ‘riconosco’, nel senso di iono riconoscente ili aver ricevuto chessia, cosa, o esempio di qualsivoglia cosa o virtù), o altra espressione che riempia  acconciamente le ellissi. ‘Maschio’: intendi forte costante, non molle ed effeminate], frugale nel vitto e alienissimo dall’usanze dei ricchi. Dal mio bisavolo il non essere andato alle pubbliche scuole, l’avere avuto di buoni maestri per casa e  il conoscere che in siffatte cose non  si vuol guardare alla spesa. Dal mio aio: il non essere stato nè di parte prasina nè di parte veneta, nè parmulario, nè scuta-    [Il bisavolo paterno di Antonino e Aunio Vero. Il bisavolo materno e Catilio Severo. Non è  chiaro di quale dei due si parli nel testo. Intendi: la scola elementare. Poiché ognun sa che Antonino frequenta assiduamente come ‘scolaro’ le varie ‘scuole’ dei fìlosofi a Roma. Non si conosce il nome dell’aio] [elio morendo lascia grande desiderio di sè in Antonino. Sono i colori che distingueno i due  grandi partiti degli aunghi del circo, che  non sono piccola parte nella storia delle follie dell’impero. Nunc favent panno, pannum amant,’ disse energicamente Plinio il  giovane, IX, 6. Lucio Vero, collega d’Antonino, la pensava altrimenti, secondo le  parole di Capitolino. Rio]. Il reggere alla fatica, l’aver bisogno di poco, il saper fare da me, il non intromettermi nelle faccende altrui e il non porger facilmente orecchio ai delatori. Da Diogneto imparai il non occuparmi d’inezie, il non dar fede a ciò che  i magi e i fattucchieri dicono intorno alle malie, allo scongiurare gli spiriti e altre cose di tal fatta, il non avere atteso a nutrir quaglie nè essermi dilettato di simili cose, il  patire ehe altri mi parli francamente.    [Parmularius e il gladiatore  armato di un piccolo scudo di cuoio detto ‘parma’ o parmula, e ‘scutarius’ quegli che porta lo ‘scutum’, grande e lungo. Questo Diogneto era non solamente filosofo, ma anche pittore, secondo Capitolino, ed avea dato intorno a quest' arte alcune  lezioni ad Antonino. Si allude ad un giuoco dei romani  aveano prego dai greci,. Si faceano combattere fra loro questi uccelli, o dai casi del combattimento si traevano presage]. L’ESSERMI DATO ALLA FILOSOFIA. L’avere udito primieramente Bacchio, poi Tandaride e Marciano. L’avere scritto dialoghi da ragazzo. L’ avere voluto il lettuccio con la pelle sopravi e le altre cose che vanno appresso nella educazione greca. Da Rustico: l’esser venuto in  pensiero che i miei costumi avean bisogno di correzione e di coltura. Il  non essermi sviato dietro ad un’ambizione di sofista, o scrivendo su materie speculative, o declamando orazioncelle esortatorie, o facendo, per dar nell’occhio altrui, 1’uomo austero e benefico e l’avere abbandonato la rettorica e la poetica e il bel favellare, e il non passeggiare togato per casa e altre tali cose e lo scriver le lettere semplicemente [Era uno stoico come quell’altro romano fatto uccidere da Domiziano per aver  lodato Trasea Peto] e naturalmente, come quella ch’egli scrisse da la citta di Sinuessa a mia madre, e il non serbar rancore verso le persone che si son, meco adirate e m’ hanno offeso e rappacificarmi volentieri con loro tosto eh’ elle si voglion ricredere, e e il leggere con attenzione e non contentarmi di capire così air ingrosso, nè assentire troppo di leggieri a quel che i circostanti dicono, e lo avere avuto contezza  dei ‘Ricordi’ d’Epitteto che Rustico mi dona di suo proprio moto. Da Apollonio: la libertà dell’animo e la fermezza nel proposito senza dar mai nulla al caso, il non  guardare ad altro mai, nè anche per poco, che alla ragione, l’esser sempre uguale, nei sommi dolori, nella perdita del figlio, nelle lunghe malattie, l’aver veduto ad evidenza nel vivo esempio di lui siccome può  la stessa persona essere gagliardissima ad un’ ora e rimessa e il non impazientarsi nello spiegare e l’aver conosciuto un uomo che manifestamente tene pel minimo de’ suoi  pregi la pratica e la facilità ch’egli ha del comunicare altrui la scienza, e l’avere imparato come convenga liceverc fivelli che il volgo chiama benefizi dagli amici, senza  diventai, e loro divoto per ciò nè per altra parte, lasciando correre la  ('osa senza saperne grado. Da Sesto: l’amorevolezza e l’esempio del governare da buon padre una casa e il concetto di vivere “secondo natura” e la gravità non affettata, e l’indagare con sollecitudine quello di die gli amici  hanno uopo, e il sopportare gl’ignoranti e il sapersi adattare a  Nello spiegare. [Intendi: nel dare altrui  tutte le spiegazioni di die possa aver d’nopo per ben capire le cose]. [Intendi: senza diventar loro obbligato in modo che nìccia alla Ina libertà]  tutti per modo ch’il CONVERSARE con esso lui era più dolce cosa che l’adulare di chicchessia ed e egli nondimeno in quello stesso punto ed  appo quelle stesse persone in venerazione grandissima, e la chiarezza  di mente e la sagacità con cui trovava ed ordinava le verità filosofiche necessarie alla vita, e il non aver dato mai indizio di collera nè d’altra passione, ma essere stato ad un’ ora il più impassibile uomo ed il più tenero, e il dir volentieri liene d’altrui, senza menar remore per ciò, e la molta dottrina senza  che paresse.  Da Alessandro: il non isgridare e il non riprendere ingiuriosamente chi faccia un barbarismo o un solecismo o un cattivo accozzamento di suoni, parlando; ma  profferire destramente ciò che quegl’avrebbe dovuto dire, per modo di risposta, o di conferma, o come volendo esaminar con esso la cosa, non già la parola, o per qualsivoglia *altro modo di suggerimento indiretto* [IMPLICATURA], garbatamente. Da Frontone: quanta invidia, quanta malizia, quanta simulazione, sia nella tirannide. E siccome questi da noi chiamati ‘patrizi’ son cattivi padri anzi che no. Da Alessandro, il platonico: il non dir sovente nè senza necessità a nessuno, nè scriver per lettera, ch’io sono occupato, nè contrarre r abito di disimpegnarmi in  tal modo dei doveri verso le persone con le quali io vivo, allegando per iscusa le faccende. Da Catulo: il non tener poco conto delle doglianze di un amico, quand’ anche si dolga fuor di ragione. [Secondo Filostrato e un segretario di  Antonino]. [Cinna Catulo, filosofo stoico, menzionato da Capitolino] ma anzi sforzarmi di ricondurlo alle  maniere di prima, e il parlar bene e volonterosamente dei maestri, come si narra di Domizio e di Atenodoto, e l’amar i figli con vero affetto. Dal mio fratello, Severo, l’affezione ai dimestici, l’amor del vero e del giusto, l’avere, per mezzo  di lui, avuto contezza di Trasea, d’Elvidio, di Catone Uticense, di Dione, di Marco Bruto, ed essere venuto in pensiero di un reggimento civile dove la legge sia una per tutti e pari i [Neppure l’eruditissimo e diligentissimo  Qataker potè chiarire chi fosse questo Severo che Antonino chiama fratello. A tutto quello che ci è dimestico] [Una delle più illustri vittime della crudeltà di Nerone] [Genero di Trasea, esiliato da Nerone]. [L'illustre stoico Catone Uticense] [L' amico di Platone, l’avversario di Dionigi tiranno di Siracusa, la cui vita fu scritta da Plutarco] [Marco Bruto, la cui vita fu pure scritta da Plutarco] diritti di ciascheduno, e di un governo regio che sovra ad ogni altra cosa tenga conto della libertà dei governati. Ancora quel suo tenor costante ed uniforme nel culto della filosofia e la beneficenza e il far  parte altrui volentieri e senza rispar-  mio delle proprie sostanze; e lo sperar bene; e l’aver fede nell’amicizia degli amici e quel suo non infìngersi con le persone quando disapprova alcuna cosa in loro; e il  non aver mai avuto bisogno gl’amici di lui di andare indovinando che cosa egli volesse o non volesse, sendo l’animo di lui sempre aperto. Da Claudio Màssimo: il contener sè medesimo, e non lasciarsi andare in nulla malgrado suo, l’esser di buon  animo nelle malattie e negli altri casi avversi e quella temperatezza  di costume, soave ad un tempo e  [Clandio Massimo filosofo stoico] dignitoso e l’eseguir prontamente senza querimonia qualunque cosa gli accadesse di dover fare e la credenza che tutti avevano di lui, ch’egli  pensas tutto che dicee fa a  lìn di bene tutto che fa; e il non istupir di nulla, non isgomentarsi di nulla, non esser mai nè frettoloso nò tardo, nè imbarazzato, nè sfiduciato, nè infingardo, nè ripentito del consiglio preso, nè sospettoso e il  beneficare e il perdonar volentieri, e l’esser veritiero e il parer  piuttosto uomo per natura incontaminato che non per arte emendato e siccome nessuno fu mai che o si credesse dispregiato da lui, o ardisse riputar sè migliore di lui; e quel suo piacevoleggiare a proposito. Da mio padre adottivo: l’imperatore Antonino Pio]: l’esser bonario, e irremovibilmente fermo nondimeno nei partiti pi'esi dopo accurata disamina, il non trar vanità da  quelli che il volgo chiama onori, l’amore al lavoro e l’assiduita; il  dare ascolto a chiunque avesse da  proporre qualche cosa di utile al comune; il non lasciare che nessuna considerazione lo distornasse dal retribuire a ciascuno secondo il merito, il conoscere dove bisognasse esser rigido e dove indulgente, L’AVER POSTO FINE AGL’AMORI DE’ RAGAZZI e il  sentire modestamente di sè e volere stare ad uno stesso ragguaglio con gl’altri, il permettere agli amici di non cenar punto con lui, e di non accompagnarlo nei viaggi, e lo accoglier con gli stessi modi di prima chi per qualche sua bisogna non lo avea potuto seguire; e la diligenza e la persistenza con che esamina le cose  nei consigli, non come quell’altro di cui è stato detto che tòsto lascia la deliberazione contentandosi dei primi pensieri che gli furon venuti, e il conservar gli amici, non recandosi a fastidio nessuno, nè incapricciandosi di nessuno; e il sopperire  a sè stesso, sempre; e la serenità del volto; e l’antivederei da lontano e pral ovvedere senza scliifiltà anche alle rnenome cose e l’aver dato bando alle acclamazioni e alle adulazioni d’ogni genere e il tenere allestito  sempre quanto era necessario per le  occorrenze dello stato, moderando le spese e sopportando di buon animo  la taccia che alcuni gli davano per ciò, e l’essere alieno e dalla superstizione verso gli dei e dalla piagenteria verso gli uomini, non curandosi di acquistar grazia appo il  popolo o con le larghezze, o con le1 Luogo intricato. Nota due modi condannevoli e vani: di  acquistar grazia appo gli Dei, con pratiche  superstiziose; appo gli nomini, con l’andar loro a genio e secondarli anche a costo del  dovere lusinglie, o con lo imitare i modi  di quello] ma sobrio in ogni cosa e saldo, e non mai altro che dilicato e gentile e osservatore della convenienza e del costume stabilito, 0 il servirsi seifza boria e senza scrupolo di tutte quelle cose che conferiscono agli agi della vita, delle quali la fortuna è larga a’ suoi pari, per modo che delle presenti ei si giova senza farne casa e le assenti non desidera; e siccome nessuno  avria mai detto di lui ch’egli fosse un sofista o un dileggino o un pedante, ma sibbene un uom maturo,  perfetto, nemico dell’adulazione, capace a governar sè medesimo ed altri. Eri inoltre quel suo onorare i filosofi veri e non fare scherno de’ falsi, non lasciandosi nulla dimeno facilmente ingannare da loro  e il conversare sciolto, e quella sua grazia Come tanti imperatori die It) avevano  preceduto. che non ristuccava; e il tener cura  del proprio corpo, non tanta da parer tenero deliavita, o damerino, nè tanto poca da parere trascurato, ma quanta  basta per non avere quasi punto bisogno di medicine o simili cose. E sovratutto quel suo cedere senza invidia a chi avesse acquistato abilità in qualche cosa, come nell’eloquenza o nella conoscenza delle leggi e dei costumi de’ popoli, e altro di cotal fatta e lo adoprarsi insieme con essi  perchè ottenessero fama, ciascuno nell’arte in che primeggia e quel  suo fare ogni cosa secondo gl’institnti d’ maggiori, senza dare a divedere che avesse nessuno intento particolare, nè anche quello di volere conservare essi institnti. Ancora il  non esser nè randagio nè avventato, ma continuar volentieri a star nel medesimo luogo e ad occuparsi delle  medesime cose; e dopo passati gli  accessi del dolor di capo, ritornar   iU^teu Aurelio. fresco e vigoroso ai lavori solidi; e il non aver di molti segreti, ma anzi pochissimi, e di rado, e solamente  nelle cose di stato; e la prudenza e la misuratezza nel dare spettacoli, nell’ intraprendere opere pubbliche, nel far distribuzioni ai soldati, e simili cose; siccome uomo che riguardava a quello che conveniva fare, e non alla fama che gli sarebbe venuta dalle cose fatte. Non al bagno fuor d’ora, non la smania del fabbricare, non ricercatezza nel cibo o nella tessitura de’ panni o tintura, o nell’appariscenza de’ servi. La toga dalla villa inferiore e da quelle di  Lanuvio il più sovente; i modi che tenne col pubblicano in Tusculo, che supplica; e altre sue simili maniere. Nulla di men che umano, nulla d’ immisericorde, nulla di violento, nè, come direbbe taluno, siìw al su-   dove; tutte le cose di lui, pensate, distintamente avvertite, con pacatezza, con ordine, con vigore, e d’accordo le une con le altre, come se  le avesse premeditate per ozio. Ed  a lui si potrebbe applicare ciò che VIEN DETTO DI SOCRATE, che egli poteva e astenersi e godere colà dove a gran parte degli uomini manca la forza per 1’uno e la temperanza per l’altro. E il saper reggere con fortezza e con sobrietà ad ambedue non  appartiene se non a colui che ha  l’animo sano ed invitto, quale egli il dimostrò nella malattia di Massimo. Dagli dei: l’avere avuto buoni  avoli, buoni genitori, buona sorella,  buoni maestri, domestici, congiunti, amici, tutti, a un dipresso, buoni. E il non avere offeso mai nessun di loro, benché talmente disposto di 1 Claudio Massimo menzionato] natura, che io l’avrei fatto forse, ove fosse venuto il caso: ma per  bontà degli dei non incontra mai tal concorso di cose che mi ponesse a  repentaglio. Il non essere statò più lungamente allevato appresso la concubina del mio avolo; l’avere serbato nel fior degli anni la purezza del costume e non aver dato saggio di età virile prima del tempo, anzi avere soprastato anche più in là, l’essere  stato sottoposto ad un principe e padre il quale doveva sgombrar da me ogni sorta di boria e farmica pace come egli si può vivere in corte  e non aver bisogno nè di guardie nè di vesti screziate nè di fiaccole nè di statue, come s’usa, nè d’altre  simili pompe; ma anzi, che egli v’ha un modo di ristrignersi quasi alla  ondizione di private e non perder  nulla però nè della dignità nè del nerbo necessario al trattar le cose dello stato, l’essermi tocco in sorte il fratello ch’io ho il quale se è  d’incitamento a me co’ suoi costumi, ad invigilare sui miei, mi consola  nondimeno e mi rallegra con la riverenza e con l’amore ch’egli mi  porta, l’avere avuto figli nè ottusi d’ ingegno nè contraffatti di corpo, il non aver fatto maggiori progressi  nella rettorica nè nella poetica nè  nelle altre arti, dove sarei forse rimasto allacciato s’ io mi fossi accorto ch’io vi riusciva, l’eessermi sbrigato di costituire in dignità i miei educatori, come parve a me ch’essi  bramassero e non avere indugiato con  la speranza del potere far cotesto di poi, sendo essi ancor giovani, l’avere conosciuto Apollonio, Rustico, Massimo. Lo aver concepito chiaramente e più volte qual sia la vita  [Lucio Vero fratello per adozione, uomo  in vero viziosissimo, più assai, probabilmente, che non fosse noto ad Antonino; ma devotissimo e affezionatissimo a Ini] secondo natura: s'i che per gli dei non manca, nè per aiuti e suggerimenti ed ispirazioni loro, ch’io non  vivessi a quel modo; manca bensì  por me, il quale non osservai gli  avvisi e, sto per dire, gli insegnamenti che essi mi dano, l’aver potuto reggere della persona durante cotanto tempo in cotal vita. Il non  aver avuto a fare ne con Benedetta  nè con TEODOTO e che di poi, CADUTO novamente nella PASSION D’AMORE passion d’amore, io abbia potuto guarirne. Che, essendomi adirato più volte con Rustico,  io non abbia fatto nulla di che avessi  poi a pentirmi; che, dovendo mia  madre morir giovane, abbia nondimeno vissuto con me gli ultimi suoi anni; e che, ogni volta eh io volli soccorrere alcuno, o povero o  altrimenti bisognoso, non mi fu mai  detto ch’io non avessi danari per  farlo e il non essermi trovato mai  io medesimo in simigliante occorrenza, da dovere aver ricorso ad altri, l’avere la moglie ch’io ho, così docile, così amorevole, così alla buona; il non essermi mancato acconci educatori pe’ miei figli, l’essermi stati dati rimedi in sogno, e, fra gli altri, contro lo sputo di sangue e contro le vertigini, e il non  essere caduto nelle mani di un qualche sofista, quando io venni in desiderio della filosofia, nè essermi posto a far lo scrittore, o a risolver sillogismi, o a speculare sui fenomeni del  cielo. Le quali cose tutte richiedono  l’aiuta degli dei e della fortuna.  Fra i Quadi,  ulle sponde del Or amia. A FauRtiiia non dovè esser diffìcile il celare coir astuzia o colla fìnta tenerezza! [Suoi pessimi portamenti ad un nomo di sì  poco sospettosa natura qual era Antonino, massime verso dii mostravagli affeziono]. Al mattino, fa’ che tu dica a te stesso. Avrò da fare con un curioso, con un ingrato, con un soperchiatore, con un furbo, con un invidioso, con un insociale. Tutti questi difetti han per causa la ignoranza dei beni  e dei mali. Ma io, il quale conosco la natura del bene, e so ch’egli è l’onesto; e quella del male, e so  cb’egli è l’inonesto; e quella di lui  medesimo che pecca, e so ch’egli è  mio congiunto; non perch’egli sia d’ uno stesso sangue o d’uno stesso seme con me, ma perchè partecipa  «r una stessa mente e d’ una stessa  origine divina. Io non posso ricever danno da nessun di loro. Giacché  nessuno mi farà incappar mai nell’inonesto malgrado mio; nè adirarmi posso col mio congiunto, nè diventargli inimico; perchè NOI SIAM NATI PER COOPERARE L’UN COLL’ALTRO, siccome i piedi, siccome le mani, siccome le palpebre, siccome i denti di sopra e i denti di sotto. E però l’andare a ritroso l’ un dell’altro è cosa contro natura, ed è uno andare a ritroso lo adirarsi l’un coll’altro e l’aversi in dispetto. Questo checchessia, che io mi sono, è un composto di carni, di fiato, e della parte sovrana. Lascia  stare i libri; non travagliartene più;  non ne hai più il tempo. Ma, come quegli che sei presso a morire, metti le carni in non cale; elle non sono  altro che sangue, ossicini, e una rezza, per così dire, di nervi, di vene  [La parte sovrana, cioè la ragione o la  mente e d’arterie. Vedi anche il fiato che  cos’è: imvento; e non sempre il  medesimo, ma di continuo rigettato  e rinnovellato. Rimane la parte sovrana. A questa hai da badare. Tu sei vecchio. Non lasciare che ella serva più oltre. Non lasciare che ella sia tirata più oltre, quasi fantoccino, da appetizioni insociali; non lasciare  che ella contraddica più oltre al destino, 0 crucciandosi delle cose presenti o respignendo da sè le cose  avvenire. Le opere degli dei sono ripiene di  provvidenza. Le opere della fortuna  non sono infuori della natura, cioè  di quella coordinazione e connessione di cause cui la provvidenza  governa. Tutto scaturisce di là. Aggiugni che quanto è, di necessità è, ed è utile all’ universo di che tu sei parte. Ora, ad ogni parte della natura è buono ciò che porta la natura comune e che è sostentativo di quella. E sostentano il mondo, siccome  le mutazioni degli elementi, cosi ancora le mutazioni dei composti di essi  elementi. Queste cose ti bastino, queste sieno sempre mai le tue ferme credenze. E caccia via quella tua sete di libri, affinchè tu non muoia morando, ma sereno e ringraziando gli dei sinceramente e di cuore. Ricordati da quanto tempo tu vai differendo queste cose, e quante volte, avendo ricevuto opportunità  dagli dei, non te ne sei valuto. E convien pure che tu riconosca una  volta di qual mondo fai parte e da quale reggitor del mondo sei emanato; e siccome un tempo ti è prefìsso, del quale se tu non fai uso per  acquistare la tranquillità dell’ animo, egli passerà, e tu passerai, e non sarà  più. per ritornare. Sii sempre INTENTO AD OPERAR GAGLIARDAMENTE DA ROMANO E DA MASCHIO QUAL SEI, quel che hai por le mani, con serietà diligente e non punto affettata, con amorevolezza, con libertà, con integrità; e sgom-bra l’animo tuo da ogni altra cui*a. Lo sgombrerai, se farai ciascuna tua azione come se fosse l’ultima della tua vita, scevra affatto di leggerezza, e di avversione appassionata ai consigli della ragione, e di doppiezza, e di amor proprio, e di scontentezza  per le cose condestinate ab eterno con te. Vedi quanto poco ci vuole perchè altri possa vivere una vita  avventurosa e accetta agli dei! Chè  di fatti gli dei non richiederanno  nulla più da chi osserva cotesto. Disonorati su, disonorati, o anima; d’onorarti poi, non ti rimarrà  più tempo. Perchè tanto di bene ha ciascheduno, quanto la sua vita glie  ne arreca; e tu hai pressoché consumato la tua, non già rispettando. Con/’ala/ia, disse CICERONE usando anch’egli una voce ignota sinallora ai latini. 2t)   te medesima, ma riponendo nelle  anime altrui la tua felicità. Se’ tu svagato dalle impressioni  del di fuori? Concedi agio a te stesso  di imparare alcun che di buono, o cessa dall’errare qua e là. Ornai anche hai da guardarti da un  secondo svagamento. Perchè vaneggiano anche con le azioni gli uomini  stanchi della vita e non aventi uno scopo a cui dirigano ogni loro sforzo  ed ogni lor pensiero qualunque. Per non avere avvertito ciò che  succede nell’anima d’un altro, di  rado l’uomo fu mai veduto infelice, ma chi non avverte i moti dell’ anima  propria, è infelice di necessità. Queste ione conviene avere a  mente sempre. Quale è la natura dell’universo e quale la mia. Qual relazione ha questa con quella. Qual parte è del tutto e di qual tutto. E come nessuno può impedirti dal far sempre E DIRE ciò che è consentaneo alla natura di che sei parte.  Filosoficamente Teofrasto, nel  paragone ch’ei fa dei peccati, secondo che volgarmente si suole,  afferrna esser più gravi le colpe che  si commettono PER CONCUPISCENZA  che  non quelle che si commettono PER IRA. Imperocché non senza un certo dolore e raggricchiamento segreto  deir animo mostra l’uomo adirato ch’egli si torca dalla ragione; laddove CHI PECCA PER CONCUSPISCENZA, VINTO DAL PIACERE, sembra, in un certo modo, più intemperante e più EFFEMINTATO nel fallo. Rettamente adunque e con molta filosofia dice egl’essere maggiore la colpa di chi PECCA CON PIACERE che non di chi pecca con  dolore. Ed infine,’ uno rassomiglia  piuttosto a persona ingiustamente  [volgarmeutu: detto por opposiziono al dettato stoico, essere i peccati uguali. olTesa, che il dolore abbia sforzato a  sdegnarsi. Ma l’altro si muove spontaneo e da per sè all’ingiustizia, recandosi PER CONCUPISCENZA  a far checchessia. Convien pensare ed operare  ogni cosa come se tu dovessi uscir di vita in quell’ ora. Uscir di vita, se ci sono gli Dei, non è punto cosa tremenda. Da che non è possibile ch’essi ti vogliano fare incappar nel male e se non ci sono, o se non  curano le cose umane, a che vivere  in un mondo orbo di provvidenza e d’Iddei? Ma e ci sono gl’iddei, e si  piglian cura dell’uomo; e perch’egli  non inciampasse nei mali veri, posero in arbitrio di lui la cosa; dei  rimanenti se alcun fosse male, a  quello ancora avrian provveduto, sì  che potesse ognuno guardarsene. Ma  quello che non fa peggiore l’uomo,  come farebbe peggiore la vita dell’uomo? Oltre che la natura dell’ universo non saria stata mai trascurata A TAL SEGNO non, perdi ella non sapesse; non, perchè sapendo non potesse); non saria mai, dico, nè per  impotenza nè per disavvedutezza incorsa in tanto errore da lasciare che  i beni e i mali toccassero del pari  e senza differenza nessuna ai buoni  ed ai tristi. E pur noi veggiamo che  la morte e la vita, la gloria e l’infamia, il dolore e il piacere, le ricchezze o la povertà, cose tutte che  non sono nè oneste nè inoneste, toccano senza differenza ai tristi ed ai  buoni. Adunque, nè benf olle sono  nè mali. Come tosto svanisce e va a per-  dersi ogni cosa, nel vortice del mon-  do i corpi, e nello avvicendarsi del  tempo la memoria di quelli! quali  sono tutte le cose sensibili, e mas-  simamente quelle clic adescano col  piacere o atterriscono col dolore o  sono dalla vanità degli uomini celebrate! quanto son vili, dispregevoli,  sucide, corrottibili, morte! questo è . da considerare per una facoltà intel-  lettiva: che cosa son coloro le opi-  nioni dei quali e le voci distribui-  scono la fama; che cosa è il morire;  e siccome, chi lo considera solo da  per sè, separandolo con la mente da  tutto ciò che la fantasia v’ ha aggiunto, non se ne fa più concetto se  non come di operazione della natura:  ora il temere un’ operazione della na-  tura è cosa da fanciullo. E questa  non solo è operazione della natura,  ma operazione utile a quella. In  che maniera 1’ uomo comunica con  Dio, e per qual parte di sè; e come  disposta debb’ essere allora questa  parte dell’ uomo. Non v’ ha misero al pari di  colui che va esplorando in giro ogni  cosa, come disse quell’ altro, anche  le cose di sotterra, e vuol penetrare,  per via di congetture, ciò che sta nell’ animo del vicino, senza accor-  gersi che gli basterebbe pure tenersi  accanto al genio che è in- lui, e servir quello di cuore. Servire il genio  che è in noi,' vuol dire mantenerlo  netto di passione, di operar teme-  rario, e di scontentezza per cosa che  venga dagli Dei o dagli uomini. Per-  chè quel che viene dagli Dei è ve-  nerabile, per la virtù eh’ è in loro:  quel che vien dagli uomini è ami-  chevole, per la parentela che abbiam  con loro; e talvolta anche compas- 1  sionevole per l’ ignoranza in che '  sono de’ beni e dei mali; cecità non  minore di quella che impedisce di  scernere il bianco dal nero.  Quand’ anche tu avessi a vivere  tre migliaia d’ anni ed altrettante  diecine di migliaia, sovvengati non-  dimeno che r uomo non perde altra  vita che quella eh’ egli vive, nè vive    ' Inteudi la ragione.   altra vita che quella ch’egli perde.  Ad uno stesso fine adunque riescono  e la più lunga vita e la più breve.  Perchè il presente è uguale per tutti,  se bene non è uguale lo spazio di  vita insino allora trascorso; e così  appare che il tempo che l’ uom perde  è un momento indivisibile. Nè il pas-  sato di fatti nè il futuro non può  perdere egli mai; come perdere ciò  che non ha? Di questi due punti  adunque ti hai da ricordare; l’uno,  che il mondo va eternalmente sem-  pre ad un modo, ravvolgendosi come  in un cerchio, e che non v’ ha dif-  ferenza dal vedere le stesse cose per  cento anni al vederle per dugehto o  per la infinità dei secoli; l’ altro, che  ugual vita perde e chi muor decrepito  e chi muore'per tempissimo; perchè  il presente è la sola vita che venga  lor tolta, essendo la sola che ciascun  d’ essi abbia, e nessuno non potendo  perdere quel che non ha. Siccome tutto è opinione. È noto il detto di Monimo il cinico. E  nota anche V utilità di quello, chi ne  colga il midollo per insino ai confini  del vero. L’anima umana fa onta a sè  stessa, primieramente quando ella;  diventa, per quanto sta in lei, come  chi dicesse un apostema o tumore  del mondo, ritraendosi da quello co-  me fan gli umori guasti dal corpo. Perchè il crucciarsi di un accidente  qualunque è un ritrarsi dalla natura  univei-sale, dentro alla quale son  contenute, siccome parti di quella,  tutte le nature degli altri. In secondo  luogo, quando ha avversione a un  [Diceva che] [Ogni nostra opinione è fumo e boria. “Apostema” in greco vuol dire ad un tempo  ed apostema e ritiramento. È solenne agli  stoici il torre esempi, nelle cose morali,  dalla natura fisica, siccome quella in cui è  contenuta, secondo loro, ancho la natura  morale. qualche uomo, od anche se gli volge  contro per nuocergli, come le anime  degli adirati. In terzo luogo ella fa  onta a sè stessa quando si lascia vin-  cere dal piacere o dal dolore. Quarto,  quando ella s’ infinge ed opera o  parla con simulazione e contro la  verità. Quinto, quando ella non in-  dirizza a nessuno scopo una qualche  sua azione o una qualche sua deter-  minazione di volontà, ma opera a  caso e senza sapere che cosa si fac-  cia; laddove nè anche le minime cose  non (iovrian farsi mai se non con rela-  zione al fine. E il fine degli animali ra-  gionevoli è il conformai'si alla ragione  e legge della più antica fra le città e  le repubbliche e della più veneranda. Della vita umana, la durata è  un punto; la materia, fluente; il  senso, tenebre; la compagine di tutto  il corpo, corruzione; l’anima,* un   La città e repubblica del mondo. Per anima qui non s' intendo certamente  ap^gintrsi perpetuo; la fortuna, cosa  mala a prevedere; la fama, cosa  senza giudizio. E a dirla in breve, ciò che riguarda il corpo, è un torrente; ciò che riguarda l’ anima, so-  gno e fumo; la vita tutta intera,  guerra e pellegrinaggio; e la rino-  manza che le vien dopo, oblio. Che i  adunque v’ ha a cui tu ti possa atte-  nere? Sola ed unica una cosa; la  filosofia. E questa consiste nel custo-  dire per tal modo il genio interno,  eh’ egli non riceva nè onta nè danno,  sia superiore al piacere e alla pena,  non operi nulla a caso, nè infìnta-  mente 0 con animo d’ ingannare, nè  abbia bisogno mai che altri faccia o  non faccia checchessia; inoltre ac-  cetti ogni avvenimento a lui desti-   r anima ragionevole, nè la mente, o la parte  sovrana, o il genio interno menzionato nelle,  linee segnenti; ma solamente il principio della vita animale [Una distinzione è fatta distinzione fra corpo, anima e mente. nato siccome cosa che gli viene di  colà d’ onde è venuto egli stesso;  sovra tutto poi, aspetti la morte con  mente serena, siccome nulla più che  dissoluzione degli elementi onde ogni  animale è composto; ai. quali se non  è grave lo essere trasmutati di conti-  nuo r uno nell’ altro, per qual ca-  gione si avrà ella a temere la tras-  mutazione e la dissoluzione d’ essi  tutti in una volta? Ella è cosa se-  condo natura; e nulla che sia se-  condo natura non è mai un male. Tn Carnvnto,  Non solamonte è da considerare che la vita si va consumando  ogni dì, e che sempre ce ne riman  meno, ma eziandio che egli è incerto, ove ancor l’uomo viva lungamente, s’egli avrà sempre vigor 'di  mente che basti per la intelligenza  degli affari e la contemplazione che  ha per iseopo la conoscenza delle  cose divine ed umane. Perchè, quan-  do egli incominci a vaneggiare, non  cesserà però, egli è vero, nè di tra-  spirare, nè di nudrirsi, nè di avere  immaginazioni, nè appetiti, nè altre cose di tal fatta; ma valersi di sè  stesso, ma avvertire distintamente  tutti i numeri * del dovere, ma chia-  rire i propri concetti, ma, quel che  importerebbe allora, deliberare se  sia già tempo per lui di andatene,®  e quante altre cose richieggono una  raziocinativa molto bene esercitata,  cotesto non potrà egli più, chè la  facoltà sarà spenta anzi tempo. Con-  viene adunque affrettJirsi, non sola-  mente perchè ci facciamo ognora  più vicini alla morte, ma ancora  perchè cessano in noi anzi il finir  della vita la intelligenza e la com-  prensione delle cose. È degno pure d’ osservazione  che anche quelle cose le quali sono  un mero accompagnamento necessario  [‘Onesto’ chiamano gli stoici il perfetto  bene per lo avere esso tutti i numeri che la  natura richiede.] [Secondo gli stoici non dovea rimanere  in vita r nomo che non potea più adempire  gli uffici d’uomo] d’ ima operazione della natura  hanno un non so che di grazioso e  di dilettevole. Per esempio, cocen-  dosi il pane, si screpola in certi luo-  ghi. Or bene, anche quelle così fatte  screpolature che stan là, per così  dire, fuori dell’ intenzione del for-  naio, hanno un certo garbo o muo-  vono r appetito in un certo modo  lor proprio. Ancora i fichi, quando  sono ben maturi, si aprono. E nelle  ulive lasciate lunga pezza in su V al-  bero, quello stesso essere già vicine  a corrompersi, aggiugne al frutto  una certa bellezza particolare. E le  spighe che s’ inchinano, e la guar-  datura del leone, e la schiuma che  esce fuori di bocca al cinghiale, e  molte altre cose le quali, considerate  da per sè, sono lontane da ogni bellezza, nondimeno, perch’ elle accom-  pagnano necessariamente un’ opera  della natura, aggiungono a quella  ornamento e dilettano altrui. Di maniera che, chi avesse altezza d’ in-  gegno e considerasse ad una ad una  le cose che accadono nell’ universo  mondo, nessuna ne troverebbe per  avventura, anche di quelle che sono  mera conseguenza- necessaria delle  altre, la quale non gli paresse farsi  con una certa grazia. Costui vedreb-  be la gola spalancata d’ una fièra viva  con non meno piacere che quando  gli scultori o i pittori glie la fan  vedere imitata; e nelle vecchiarelle  e nei vecchi scorgerebbe un certo  che di finito e di maturo non meno  piacevole ai casti occhi di lui che  là venustà dei fanciulli; e molte altre  cose gl’ incontrerebbe di vedere, che  non fan senso in tutti, ma solamente  in chi s’ è veramente addimesticato  con la natura e con le opere di  quella. Ippocrate cura di molti ammalati. Poi s’ammala egli stesso, e muore. I caldei predicono a molti la morte, e poi venne anche per loro  la morte. Alessandro e Pompeo e Giulio Caio Cesare, i quali distrussero dalle fondamenta le tante città, e tagliarono a pezzi in giornata campale le tante migliaia di cavalli e di fanti, usceno poi anch’essi di vita, alla  fine. Eraclito, dopo avere con tanta sapienza e ragioni naturali discorso intorno alla conflagrazione del mondo, gonfiatosegli d’acqua il corpo,  coperto di letame se ne muore. DEMOCRITO e spento da’ pidocchi, SOCRATE da pidocchi d’ un’ altra sorta. Che è ciò? Ti se’ imbarcato, hai navigato, sei giunto; esci di nave. Se  per andare ad un’altra vita, nessun  luogo è vuoto di iddii, e nè anche [Diogene Laerzio narra che Democrito  mori di vecchiaia. LUCREZIO, che nscì spontaneamente di vita, perchè sente il suo  spirito indebolirsi per effetto degli anni. Non trovasi nota alcuna  tradizione che concordi con ciò che qui dice Antonino] quello dove vai; se per rimanere  senza sentimento, avrai finito di soffrire i dolori E I PIACERI e di dovere andare a versi ad un vaso che è di  tanto inferiore a quel che gli serve. Perchè l’ uno è mente e genio, e l’altro è terra e sangue. Non consumare quella porzione  che ti rimane di vita nel pensare ai  fatti altrui, ogni volta che tu noi  faccia con un fine di comune utilità. Cioè nello andar fantasticando che cosa opera il tale e per qual cagione, e che dice, e che pensa, e che macchina, e somiglianti cose, le quali  tutte ti fan deviare dalla custodia  della tua parte sovrana. Conviene adunque guardarsi, nella succession  dei pensieri, dall’ozioso e dal vano, ma molto ancora^più dal curioso e dal maligno; ed avvezzar sè stesso a pensar solo tali cose che, quando  altri, all’improvviso ti domandasse, che pensi ora? Tu possa risponder tosto e senza tema. Questo, o quest’altro. Onde appaia subito manifestamente non avervi nulla in te  che non sia schietto e benevolo,  nulla che non convenga ad animai  socievole; il quale non si compiace  nelle immaginazioni di piacere o di  godimento qual eh’ ei sia, o di gaiti  o d’invidia o di sospetto, o di qua-  lunque altra cosa ti facesse arrossire  quando tu avessi a confessare che  l'avevi in mente. Un uomo di tal  fatta, il quale non indugia d’ oggi in  domani a por sè nel novero degli  ottimi, è come un sacerdote e un  ministro degli Dei, devoto, non meno  che agli altri, a quello che ha il suo  tempio in lui medesimo; per virtù  del quale l’ uomo diventa inconta-  minabile ad ogni jiiacere, invulne-  rabile ad ogni dolore, inviolabile ad  ogni ingiuria, insensibile ad ogni  malizia, sostenitore in campo della  massima fra le imprese, quella del non essere abbattuto da nessuna  passione, imbevuto di giustizia in-  sino al fondo, disposto ad accogliere  con tutta r anima quanto accàSe e  gli vien destinato, e non occupan-  tesi se non di rado nè mai senza  una grande e pubblica necessità, di  CIÒ che altri fa o dice o pensa; perch’ egli non ha altre azioni in sua  balìa che le proprie, e pensa conti-  nuamente alle cose che il fato del-  r universo gli arreca; per far si che  le prime sieno oneste, siccome ha  fede che le seconde sien buone;  quando la sorte attribuita all’ uomo  procede dalla stessa causa che l’ uo-  mo e concorre insieme con 1’ uomo  ad un medesimo fine. Sa inoltre che  tutti gli esseri ragionevoli han pa-  rentela fra loro; che è quindi con-  forme alla natura dell’ uomo il tener  cura di tutti; benché non sia da far  conto deir opinione di tutti, ma solo  di coloro che vivono secondo natura. Quanto a quelli che vivono altra-  mente, egli tien sempre a memoria  che sorta cT uomini sono, e quali, e  in casa e fuor di casa, e di notte e di  giorno, si dimostrano, e con quali  praticano; non ha quindi in pregio  nessuno la lode che gli può venire  da tallente, la quale nè anche a sè  stessa non piace.   5. Non operar mai nè contro al  tuo volere, nè senza relazione al  bene della società, nè senza avere  esaminato la cosa, nò con renitenza;  non adornare con isquisitezza di frasi  il tuo pensiero: non esser uomo nè  di molte parole, nè di molte faccen-  de.' Ancora, fa’ che il Dio tuo in-  terno abbia a governare in te un  animale maschio, attempato, citta-  dino, romano, imperatore, apparec-  chiato di tutto punto, siccome quegli  che non aspetta ornai se non il suono Di molte faccende in cattivo senso, come  chi dicesse faccendone, o faccendiere. della tromba* per uscir della vita,  e non occorre sforzarlovi nè col giu-  ramento, nè con la testimonianza  (f altr’uomo; nel lieto aspetto del  quale ben si scorge non avere egli  bisogno nè dell’ aiuto che vien dal  di fuori, nè della tranquillità che gli  altri procurano. Conviene adunque  esser ritto in piedi già, e non riz-  zarui solamente. Se tu trovi qualche cosa di meglio nella vita dell’ uomo che la giustizia, che la verità, che la temperanza. che la fortezza, e, in una pa-  rola, che quella disposizione della  mente per cui ella si appaga di sè  medesima nelle cose die ti fa ope-  rare secondo la retta ragione,, e del  fato, nelle cose che senza parteci-  pazione della tua volontà ti vengono  distribuite; se, dico, tu trovi alcun  che di meglio che questo, a quello   1 Similitudine tolta dagli ordini della  milizia appo i Romani. voiti con tutta l’ anima e godine  siccome di cosa che hai ritrovato  esser l’ottima. Ma se nulla ti si presenta di meglio che il genio stesso  tuo interno, quando si è fatto signore  de’ propri moti, e rivoca ad esame  le proprie immaginazioni, e si è sot-  tratto^ come dice SOCRATE, dalle  passioni del senso, e vive sottomesso . agli Dei e pigliandosi cura degli uomini. Se, a paragone di questa, tutte . le rimanenti cose ti paion picciole  e vili, non dar più luogo appresso  te a nessuna altra, alla quale una  volta che tu ti sentissi propendere,  più non potresti senza repugnanza  preferire a tutti quel bene che è proprio di te ed è il tuo; perchè al  bene j’azionale ed efficiente non  vien contrapposto impunemente mai  nulla che sia di natura diversa, come  le lodi della moltitudine, o il comandare, o i piaceri del senso; tutte  queste cose, per poco che le si paiano   Ò1   adattare,' ti sopralfamio in un attimo  e ti strascinano. Or tu, dico io, sce-  gli schiettamente e liberamente il  meglio, e a quello ti attieni. — Ma  il meglio è l’utile. Se l’utile all’uomo in quanto è ragionevole, bene  sta, quello procura: se l’ utile all’ uo mo in quanto animale, dillo su aper-  tamente e vivi di poi senza boria nò  fasto, secondo quella determinazio-  ne. Ma bada, ve’, che non ti inganni  nell’ esame. Non riguardare giammai come i [Par ch’Antonino alluda qui alla teoria dell’adattare le nozioni generali alle cose  particolari, o, del concetto alla rappresentazione, che è ciò in che  consisto il giudizio]. Dillo spiattellatamente, se ardisci, senza  avvolgerti in parole coperte: e ammetti poi  tutte le conseguenze di quel tuo detto: cioè,  vivi poi da animale mero e puro, senza in-  gerirti a parlare nè di moralità nè di virtù  nè di giustizia, nè d* altro simile, che in  quel caso sarebbero un vano fasto di parole. E provocazione al senso intimo dell'uomo. Utile a te nulla che sia per isforzarti  un dì a violar la fede, abbandonare  il pudore, odiare alcuno sospettare,  maledire, simulare, desiderar cosa j  che abbia bisogno di pareti e di ve-  lame. Chi ha posto innanzi ad ogni  altra cosa la sua mente e genio, e  il culto della virtù eh’ è propria di  quello, non fa tragedie, non geme,  non ha bisogno di solitudine, non  di frequenza d’ uomini; quel che più  impoita, vive senza ricercar nulla  nè fuggire; abbia ad esser lungo o,  abbia ad esser corto Tintèrv^allo di  tempo durante il quale sarà conte-  nuta nel corpo l’ anima con che egli  lia a fare,' non se ne piglia nè an-  clic il minimo pensiero; e quando Con che egli ha a fare. Non veggo che  cosa abbia voluto dire l’ornato. [Il senso letterale del testo è: sia lungo o sia breve  il tempo, eh' egli avrà a far uso dell' ani-  ma contenuta nel corpo. Il che, parrai, equi-  vale a dire: sia lungo, o sia breve il tempo  ch'egli ha a vivere. L’è giunta l’ora dello sgombrare, cosi  spiccio se ne va, come se imprendesse un’ altra qualunque di quelle  azioni che si possono con verecondia  e con dignità operare; da questo  solo guardandosi per tutta la vita,,  che veruno dei moti della sua men-  te non sia mai men che convene-  vole ad animale intelligente o sociabile.  Nella mente dell’ uom castigato  e puro non troverai nulla di marcio,  nè tampoco nulla di contaminato o  che paia sano al di fuori e noi sia.  La vita di lui, a qualsivoglia ora lo  sorprenda la morte, non è mai imperfetta, come tu diresti quella tragedia d’onde un attore si fosso riti-  rato prima d’ aver condotto a fine  la sua parte. Ancora non è in lui  nulla di villano, nè nulla di artata-  mente gentile; nulla che il leghi  alle cose esteriori nè nulla che lo  separi da quelle; nulla onde egli sia palesemente ripreso,' nè nulla che  covi addentro nascosto.  Abbi in rispetto la facoltà giudicativa.^ Per lei sta che non si ge-  neri nella tua parte sovrana nessuna  opinione che non sia consona alla  natura o al fine per che 1’ uomo è  ordinato. Ed essa promette la infallibilità, e l’amicizia con gli uomini  e l’ubbidienza agli Dei. Messe adunque da banda tutte  le altre cose, queste poche sole abbi  in mente; ed ancora ricordati che i  r uomo non vive altro tempo che  questo presente, cioè un attimo; il  rimanente o lo ha vissuto o non sa  se il vivrà. Picciola cosa pertanto è  [Intendi: nulla che appaia manifestamente vizioso. Ossia la virtù del non cadere in errore; che vien definita da Zenone la  scienza del quando conviene assentire ad i  un' apparenza, e quando no. Questa accompagna sempre il giudizio comprensivo,  che è il criterio della verità appo gli  stoici. 0 Digitizedh, Cnoi^li:    il tempo che l’ uom vive, picciola cosa rangoletto della terra dov’egli vive. Picciola cosa la fama anche la  più lunga eh’ egli lascerà dietro sè,  e questa tramandantesi per successione d’ omiciattoli in omiciattoli, morti quasi appena nati, ed ignari  anche di sè medesimi, non che di  colui il quale moriva è già gran  pezza.   li. Agli avvertimenti dati sin qui  s’ aggiunga ancora quest’ uno, di de-  finir sempre o descrivere l’oggetto  che cade sotto al tuo senso, si che  tu lo scorga a parte a parte distin-  tamente e tutt’ insieme quale egli è  nella sua essenza nudo, e dir teco  stesso il nome proprio di quello e  il nome delle cose di che è compo-  sto e in che s’ ha da risolvere. Perchè non v’ ha nulla che sublimi  cotanto l’animo quanto il potere arguire per la diritta via e con verità  ciascuna delle cose che incontrano  nella vita, e saperle vedere per ino»  do da conoscere nello stesso tempo  di qual uso sendo questa tal cosa  al mondo, e a qual mondo, qual  valore ha rispetto al tutto e quale  rispetto air uomo, che è cittadino  della suprema fra le città, della  quale le altre città sono' come al-  trettante famiglie. Che cosa è, e di  che cosa è composto, e quanto tempo  è por duiare ij cesto che fa impres-  sione ora sul mio senso; di che virtù  s’ ha da far uso con esso, per esem-  pio, della mansuetudine, della for-  tezza, della veracità, della fede, della  semplicità, della frugalità, o simili.  Però, intorno a ciascuna cosa, con-  vien dire: questa mi viene da Dio. Questa dalla sorte, dalla complica-  zione delle cause condestinate, e so-  miglianti cose; quest’ altra dal mio  consorto, dal mio congiunto, dal  partecipe d’ una stessa società con  me, il quale ignora nondimenò ciò  che è secondo natura per lui. Ma   10 non lo ignoro; e però mi governo  con lui secondo la legge naturale  della società, con benevolenza e giu-  stizia; e ad uno stesso tempo ho  riguardo, nelle cose mezzane,' al  valore di ciascheduna. Se tu operi secondo la retta  ragione quel che hai fra mano, stu-  diosamente, c vigorosamente, placi-  damente, e non t’ occupi d’ altra cosa  tra via, ma conservi puro ed intatto   11 genio tuo, come se tu dovessi già  rassegnarlo; se a lui ti tieni stret-   Si chiamai! còse mezzane appo gli stoici  quelle che non sono nè ben nè male, cioè  nè virtù nè vizio. Le quali, comecché da  per sè non meritino d' esser cercato nè fug-  gite, si accettano nondimeno o si rigettano  per r aiuto o disainto che elle possono ar-  recare alla vita secondo natura. Quelle che  arrecan più aiuto, han più valore: quelle  che più disainto, più disvalore. Di questò  ha da tener conto il savio, ed accettare,  quando gli è data la scelga, quelle che han  più valore, o che han meno disvalore. 0.  Sottintendi « a chi tol diede. » to, nulla aspettando, da nulla rifug-  gendo, contentandoti dell’ azion tua  presente secondo natura e della eroi-  ca verità d’ ogni cosa che tu dica:  felicemente vivrai. Ora non v’ ha  nessuno' che ti possa questo impedire. Come i medici han pronti sem-  pre i loro ferri e strumenti per le  cure inopinate, così abbi tu alla mano  i principi! * per la cognizione delle  cose divine ed umane; e non far  nulla mai, per poco che sia, senza  ricordarti del legame che unisce  queste con quelle. Perchè nulla di  umano farai tu bene se non lo ri-  ferirai al divino, e viceversa. Non andar più vagando; per-  chè non sei per rileggere oramai nè  i tuoi ricordi, hè le azioni degli an-  tichi romani e greci, nè gli estratti  Punti fondamentali di credenza, cre-  denze prime, dommi: decreta. appo CICERONE. d’ autori che riserbavi per la vec-  chiaia. Studiati dunque d’ arrivare  al fine, e poste da banda le spe-  ranze vane, soccorri a te stesso, se  pur ti cale di te, mentre che il puoi.   15. Non sanno * quanti significati  abbiano le parole rubare, seminare,  comperare, riposare, veder quel che  sia da fare, il che non si reca ad  effetto con gli occhi, ma con un’al-  tra sorta di vista. Corpo, anima, mente; del corpo  son le sensazioni, deh’ anima le ap-  petizioni, della mente le credenze.^  Ricevere impressioni nella fantasia  è cosa anche da giumento; esser  mosso da appetiti è cosa anche da  fiera, anche da androgino, anche  da Falaride, anche da Nerone; avere  per iscorta la mente a quello che  ci pare nostro ufficio, è cosa anche    I Sottintendi c gli nomini del volgo. Dommi, decréta. Intendi, a quello che ci par eg$ere noda chi non crede che v’ abbiano  Dei, da chi abbandona la patria, da  chi fa, quando ha chiuso le porte,  ogni opera nefanda. Se adunque  tutte queste cose abbiam comuni  cogli anzidetti, resta che sia proprio  dell’ uomo dabbene lo amare ed ab-  bracciare gli accidenti ad esso con-  destinati e guardarsi dal macchiare  e turbare con immaginazioni sconce  il genio che risiede nel petto di lui,  ma conservarlo propizio, seguendolo  modestamente* come un Iddio, non  dicendo mai nulla che sia contro  al vero, nè dicendo mai nulla che  sia contro al giusto. Che se nissuno    ttro interene. Questo è il significato generale della parola ufficio appo gli stoici. Solo allor quando le si aggingne l'epiteto di  perfetto denota essa il dovere^ che è come  V intereae iublime dell' uomo. Noto questo  perchè alcuni degli interpreti, e per ultimo  anche il Corai, hanno maravigliosamente  scompaginato - e interpolato questo passo;  frantendendolo. V. Diog. Laerz.; Stobeo; Cic.  de Officiùt otc. degli uomini non gli vuol credere  eh’ egli viva con semplicità, con ve-  recondia, e di buon animo; nè s’adira  egli contro costoro, nè si svia dalla  strada che conduce al fine della yita.  al quale si vuol giunger puro, tranquillo, spedito, e conformato di vo-  lontà col proprio destino. La parte che dentro di noi regna, quando è nel suo stato natu-  rale, ha tal disposizione verso gli  accidenti, che senza difficoltà si rivolge sempre al possibile e al dato.  Perch’ella non ama nessuna mate-  ria determinata; ma si porta con  eccezione* a quello che si ha pro-  posto, e quando alcun che se le  viene ad attraversare per via, ella  si fa di quello stesso materia; come  il fuoco, quando s’ impadronisce delle  [La parte sovrana o dominante.  [Eccezione: vocabolo stoico. Indica limitazione del proponimento al possibile]. Farò  la tal cosa, se non sarò impedito] cose die incontra, dalle quali una  picciola lampana sarebbe spenta. Ma lo splendido fuoco assimila a sè tosto ogni cosa che se gli butti dentro, e  la consuma, e per quella stessa s’in-  nalza più in su.   2. Nessuna azione sia fatta a caso  mai, nè altrimente che secondo una  delle regole costitutive dell’arte. Van cercando ritiri, alla campa-  gna, alla marina, sui monti; e tu  stesso suoli desiderare siffatti luoghi.  Ma cotesto è da uomo ignorantissi-  mo, potendo tu, a quell’ ora che tu  vuoi, ritirairti in te stesso. Perchè [Ad ogni caso della vita corrispondo  una virtù da esercitare (vedi sopra, III, 11,  e più abbasso, IX, 11, 42): ed ogni virtù è  appo gli stoici nna scienza nello stesso  tempo ed un’ arte: parlo delle virtù pro-  priamente dette. Come scienza quindi e  come arte consta di certo proposizioni o re-  gole, ciascuna delle quali è parte integrante  di quella, e tutto insieme" la costituiscono. Ogni ufficio consta di corti numeri. inroRDi.«4   in nessuno altro luogo si ritira l’ uomo con più tranquillità e con meno  brighe che nell’ anima sua; massi-  mamente chi ci ha dentro tanto  alti oggetti di contemplazione che  il solo affacciarsi a loro procaccia  tosto ogni sorta di agevolezza. Quan-  do dico agevolezza, non voglio dir  altro che buon ordine. Concedi adun-  que sovente a te questo ritiro e rin-  novella quivi te stesso. Breve sia  r espressione ed elementare la forma  di quelle verità contemplative che  avran forza di rasserenare al primo  incontro V anima tua c. rimandarti  senza corruccio alle cose alle quali  ritorni. Perchè, di che cosa ti coi'-  rucci? Della malizia degli uomini?  Rammentati di quella sentenza, che  gli esseri ragionevoli son fatti gli uni  per gli altri; che il sofferire è parte  della giustizia; che malgrado loro  peccano; che tanti si son già inimi-  cati, sospettati, odiati,  perseguitatisi  a morte, i quali ora sono spenti, son  fatti cenere; e te ne darai pace. 0  ti crucci tu di quella parte che a te  Vien compartita dell’ universale de-  stino? Rinnovella il dilemma. 0 è  la provvidenza o son gli atomi,' op-  pure gli argomenti con che s’ è di-  mostrato che il mondo è come una  città. Ma forse tu ti contristi delle  affezioni del corpo? Pensa che non  han più nulla che fare con la mente  i moti o sieno soavi o sieno aspri  del senso, ogni volta che questa s’ è raccolta in sè medesima ed ha cono-  sciuto la sua propria potenza; al che  potrai aggiugnere quelle altre cose  che intorno al piacere e al dolore  hai apparato ed accettato per vere.   0 sarà forse T amor di gloria quello  che ti turba? Considera come è ratto   Si allude al  sistema atomistico di- Epicuro, il quale ne-  gava la previdenza, e attribuiva il mondo e  tutti i fenomeni del mondo ad una causa  non intelligente. l’oblio d'ogni cosa, interminato dal -  runa parte e dall’ altra* il caos della  età, vana cosa il rumore, mutabile,  e inconsiderato chi in apparenza ti‘  esalta, angusto il luogo dove è cir-  coscritto il suo dire. Perchè tutta la  t.erra' è un punto: e qual parte di  essa è l’angoletto che tu abiti? e  quivi ancora quanti avrai lodatori, e  quali? D’or innanzi adunque sov-  vengati di ritirarti in questa tua vil-  letta di te medesimo; e sopra tutto,  non. t' affannare, non t’agitare, ma  sii libero e vedi le cose da uomo, da ‘  maschio, da cittadino, da mortale.  Ed abbi in pronto, fra le verità alle  quali dovrai far ricprso, queste due  principalmente: 1’ una, che le cose  non arrivano sino all’ anima, anzi  stanno al di fuori immobili;* e i  turbamenti nascono dalla sola opinione [A parte ante e a parte pott come dice  la scuola. [nione, che è dentro. L’ altra, che  quanto tu vedi già già si muta e più  non è quel desso; e rivolgi in mente  ciascuna delle mutazioni alle quali  tu stesso sei inten'enuto. Il mondo^ alterazione. La vita, opinione.  Se la intelligenza ci è comune  a tutti, anche la ragione per cui  siam ragionevoli ci è comune; se  cotesto è, anche la ragione imperativa di ciò che si dee fare o non fare  ci è comune; adunque anche la legge  ò comune; aifunque siam concittadi-  ni; adunque partecipiamo tutti ad  una specie di reggimento civile;  adunque il mondo è come una città.  Perchè qual altro direm noi che sia  quel reggimento civile di cui tutto  il genere umano partecipa? Di colà,  da quella città comune, viene a noi  r intelligenza, la ragione, la legge,  o d’ onde verrebbon esse? perchè,  siccome quanto v’ ha in me di terreo viene da una certa terra di cui fa  parte; e quanto v’ ha in me d’umido,  da un altro elemento; e quanto v’ha  di caldo e d’ igneo, da una certa  sorgente propria (nulla venendo mai  dal nulla nè ritornando nel nulla);  così anche la intelligenza dee venire  da qualche cosa.  La morte è come la nascita, un  mistero della natura. Composizione  e risoluzione di certi elementi in  quegli elementi medesimi. Ad ogni  modo non è cosa di  che1’ uomo  debba arrossire; perchè non è cosa  che repugni alla natura dell’ animale  intellettivo o disconsegua al principio della formazione di quello. Tali cose debbono di necessità  farsi in tal modo da questi tali; chi  le vuole altrimente, vuole che il fico  non abbia lattificcio. Del tutto, sovvengati che in brevissimo tempo e    * Intendi ripugni, non aia conforme. !'•   tu e costui sarete morti: e che, poco  dopo, non rimarrà più di voi nè an-  che il nome. Togli via r opinione, ed è tolto  via il « sono stato offeso: » togli via  il « sono stato offeso, » ed è tolta via  r offesa.  Quello che non fa peggiore l’uomo non fa nè anche peggiore la vita  di lui, nè le nuoce, nè esternamente  nè internamente. È necessitata dall’ utile ‘ la na-  tura a far cotesto. Siccome ogni cosa che accade,  giustamente accade; il che, se tu  osserverai con attenzione, troverai   1 Comune. Più letteralmente: « È necessitata la na-  tura deir utile a far cotesto.» La natura  deir utile, cioè il principio sostanziale dell’utile (chè vuol esser presa sostanzialmente  in questo luogo la voce natura), il quale  evolvendosi, come ragion seminale, successivamente nel tempo, fa che ogni cosa sia  bene. Perchè non conviene dimenticar mai  che, appo gli stoici, l'utile non è altro che  il bene. sempre vero: non solamente, dico,  secondo l’ordine di conseguenza, ma  ancora secondo l’ordine di giustizia;  come se le cose procedessero da tale  che distribuisse a ciascuno secondo il  merito. Osserva adunque, come hai  cominciato; ed ogni cosa che tu fai,  falla con questa condizione, che tu  sia uom dabbene, nel vero signifi-  cato della parola dabbene. Questo  carattere conserva in ogni tua azione. Non concepir le cose quali le  giudica colui che fa ingiuria, o quali  egli vuole che tu le giudichi; ma  vedile quali sono in realtà. Conviene esser sempre pronto  a queste due cose; fai' solamente  quello che la ragion dell’ arte regia  e legislativa ti suggerisce per 1’ uti-  lità degli uomini; e cangiar partito,  quando altri viene a raddrizzarti e  rimuoverti da una qualche falsa opi-  nione. Ma questo cangiamento dee  farsi sempre per un qualche motivo plausibile, come di giustizia, o  d’ utilità comune, o somigliante; e  non mai perchè la cosa ti piaccia o  sia per arrecarti gloria. Hai la ragione? Si. Che  dunque non 1’ adoperi? Perchè, se  essa fa quanto le spetta, che ti resta  a desiderare? Sei venuto al mondo qual parte; disparirai dentro al tuo generatore. 0, piuttosto, ti raccoglierai nella  ragion seminale di lui, per via di mutazione. Molti grani d’ incenso su uno  stesso altare: l’uno è caduto prima  e l’altro dopo. È lo stesso.  Tra dieci giorni parrai un Dio  a coloro, ai quali pari ora una bestia  e una scimmia, se fai ritorno ai prin-  cipii e al culto della ragione.  Non come se tu avessi a vi-  vere molte migliaia d’ anni. La morte  ti sovrasta: mentre vivi, mentre ti è  dato, fa’ che tu sia uom dabbene.  Di quante brighe si libera chi  non bada a quello che ha detto il vi-  cino, o ha fatto, o ha pensato, ma solo  a quello eh’ egli stesso fa, affinchè  r opera sua sia giusta, e santa, e  qual si richiede dall’ uomo dabbene !   Non andar guatando attorno i neri  costumi, ma corrér diritto in sulla  linea senza volgersi a destra nè a  manca. Chi vive abbagliato dal  pensiero di lasciar fama dopo morte,  non considera come ciascun di quelli  che si ricordano di lui morrà tosto  aneli’ egli, e poi ancora chi sarà a  costui succeduto, sinattantochè, pas-  sando da abbagliato in abbagliato e  da morente in morente, venga a spe-  gnersi affatto ogni memoria. Ma sup-  poni anche immortale chi s’ ha a ri-  cordare di te, ed immortale la fama;  che fa ssi abbia, e nessuno non potendo  perdere quel che non ha. Siccome tutto è opinione. È   «   noto il detto di Monimo il cinico. E  nota anche V utilità di quello, chi ne  colga il midollo per insino ai confini  del vero. L’anima umana fa onta a sè  stessa, primieramente quando ella;  diventa, per quanto sta in lei, come  chi dicesse un apostema o tumore  del mondo, ritraendosi da quello co-  me fan gli umori guasti dal corpo. Perchè il crucciarsi di un accidente  qualunque è un ritrarsi dalla natura  univei-sale, dentro alla quale son  contenute, siccome parti di quella,  tutte le nature degli altri. In secondo  luogo, quando ha avversione a un   * Diceva che   «Ogni nostra opinione è fumo e boria. Apostema in greco vuol dire ad un tempo  ed apostema e ritiramento. È solenne agli  stoici il torre esempi, nelle cose morali,  dalla natura fisica, siccome quella in cui è  contenuta, secondo loro, ancho la natura  morale. qualche uomo, od anche se gli volge  contro per nuocergli, come le anime  degli adirati. In terzo luogo ella fa  onta a sè stessa quando si lascia vin-  cere dal piacere o dal dolore. Quarto,  quando ella s’ infinge ed opera o  parla con simulazione e contro la  verità. Quinto, quando ella non in-  dirizza a nessuno scopo una qualche  sua azione o una qualche sua determinazione di volontà, ma opera a  caso e senza sapere che cosa si fac-  cia; laddove nè anche le minime cose  non (iovrian farsi mai se non con rela-  zione al fine. E il fine degli animali ragionevoli è il conformai'si alla ragione  e legge della più antica fra le città e le repubbliche e della più veneranda. Della vita umana, la durata è  un punto; la materia, fluente; il  senso, tenebre; la compagine di tutto  il corpo, corruzione; l’anima,* un   [La città e repubblica del mondo. Per anima qui non s' intendo certamente   ap^gintrsi perpetuo; la fortuna, cosa  mala a prevedere; la fama, cosa  senza giudizio. E a dirla in breve,  ciò che riguarda il corpo, è un tor-  rente; ciò che riguarda l’ anima, so-  gno e fumo; la vita tutta intera,  guerra e pellegrinaggio; e la rino-  manza che le vien dopo, oblio. Che i  adunque v’ ha a cui tu ti possa atte-  nere? Sola ed unica una cosa; la  filosofia. E questa consiste nel custo-  dire per tal modo il genio interno,  eh’ egli non riceva nè onta nè danno,  sia superiore al piacere e alla pena,  non operi nulla a caso, nè infìnta-  mente 0 con animo d’ ingannare, nè  abbia bisogno mai che altri faccia o  non faccia checchessia; inoltre ac-  cetti ogni avvenimento a lui desti-   r anima ragionevole, nè la mente, o la parte  sovrana, o il genio interno menzionato nelle,  linee segnenti; ma solamente il principio ’  della vita animale. Vedi il § 16 del lib. Ili |  dei Bicordi, ove è fatta distinzione fra corpo,  anima c mente. P. I    nato siccome cosa che gli viene di  colà d’ onde è venuto egli stesso;  sovra tutto poi, aspetti la morte con  mente serena, siccome nulla più che  dissoluzione degli elementi onde ogni  animale è composto; ai. quali se non  è grave lo essere trasmutati di conti-  nuo r uno nell’ altro, per qual ca-  gione si avrà ella a temere la tras-  mutazione e la dissoluzione d’ essi  tutti in una volta? Ella è cosa secondo natura; e nulla che sia se-  condo natura non è mai un male. Tn Carnvnto,   Non solamonte è da considerare che la vita si va consumando  ogni dì, e che sempre ce ne riman  meno, ma eziandio che egli è in-  certo, ove ancor 1’ uomo viva lunga-  mente, s’egli avrà sempre vigor 'di  mente che basti per la intelligenza  degli affari e la contemplazione che  ha per iseopo la conoscenza delle  cose divine ed umane. Perchè, quan-  do egli incominci a vaneggiare,* non  cesserà però, egli è vero, nè di tra-  spirare, nè di nudrirsi, nè di avere  immaginazioni, nè appetiti, nè altre cose di tal fatta; ma valersi di sè  stesso, ma avvertire distintamente  tutti i numeri * del dovere, ma chia-  rire i propri concetti, ma, quel che  importerebbe allora, deliberare se  sia già tempo per lui di andatene e quante altre cose richieggono una  raziocinativa molto bene esercitata,  cotesto non potrà egli più, chè la  facoltà sarà spenta anzi tempo. Con-  viene adunque affrettJirsi, non sola-  mente perchè ci facciamo ognora  più vicini alla morte, ma ancora  perchè cessano in noi anzi il finir  della vita la intelligenza e la com-  prensione delle cose.  È degno pure d’ osservazione  che anche quelle cose le quali sono  un mero accompagnamento neces-   [“Onesto” chiamano (gli stoici) il perfetto  bene per lo avere esso tutti i numeri che la  natura richiede. Secondo gli stoici non dovea rimanere  in vita r nomo che non potea più adempire  gli uffici d’uomo, 0. ] sario d’ ima operazione della natura  hanno un non so che di grazioso e  di dilettevole. Per esempio, cocen-  dosi il pane, si screpola in certi luo-  ghi. Or bene, anche quelle così fatte  screpolature che stan là, per così  dire, fuori dell’ intenzione del for-  naio, hanno un certo garbo o muo-  vono r appetito in un certo modo  lor proprio. Ancora i fichi, quando  sono ben maturi, si aprono. E nelle  ulive lasciate lunga pezza in su V al-  bero, quello stesso essere già vicine  a corrompersi, aggiugne al frutto  una certa bellezza particolare. E le  spighe che s’ inchinano, e la guar-  datura del leone, e la schiuma che  esce fuori di bocca al cinghiale, e  molte altre cose le quali, considerate  da per sè, sono lontane da ogni bel-  lezza, nondimeno, perch’ elle accom-  pagnano necessariamente un’ opera  della natura, aggiungono a quella  ornamento e dilettano altrui. Di maniera che, chi avesse altezza d’ in-  gegno e considerasse ad una ad una  le cose che accadono nell’ universo  mondo, nessuna ne troverebbe per  avventura, anche di quelle che sono  mera conseguenza- necessaria delle  altre, la quale non gli paresse farsi  con una certa grazia. Costui vedreb-  be la gola spalancata d’ una fièra viva  con non meno piacere che quando  gli scultori o i pittori glie la fan  vedere imitata; e nelle vecchiarelle  e nei vecchi scorgerebbe un certo  che di finito e di maturo non meno  piacevole ai casti occhi di lui che  là venustà dei fanciulli; e molte altre  cose gl’ incontrerebbe di vedere, che  non fan senso in tutti, ma solamente  in chi s’ è veramente addimesticato  con la natura e con le opere di  quella.  Ippocrate curò di molti ammalati, e poi s’ ammalò egli stesso e  muore. I caldei predissero a molti la morte, e poi venne anche per loro  la morte. Alessandro e Pompeo e Caio Cesare, i quali distrussero dalle  fondamenta le tante città, e taglia-  rono a pezzi in giornata campale le  tante migliaia di cavalli e di fanti,  uscirono poi anch’ essi di vita, alla  fine. Eraclito, dopo avere con tanta  sapienza e ragioni naturali discorso  intorno alla conflagrazione del mondo, gonfiatosegli d’acqua il corpo,  coperto di letame se ne morì. DEMOCRITO e spento da’ pidocchi, SOCRATE da pidocchi d’ un’ altra sorta.  Che è ciò? Ti se’ imbarcato, hai na-  vigato, sei giunto; esci di nave. Se  per andare ad un’ altra vita, nessun  luogo è vuoto di Iddii, e nè anche   [Diogene Laerzio narra che Democrito  mori di vecchiaia; Lncrezio, che nscì spontaneamente di vita, perchè sentiva il suo  spirito indebolirsi per effetto degli anni.  Non trovasi nell' antichità a noi nota alcuna  tradizione che concordi con ciò che qni dice  Antonino. P.    quello dove vai; se per rimanere  senza sentimento, avrai Unito di sof-  frire i dolori e i piaceri, e di dovere  andare a versi ad un vaso che è di  tanto inferiore a quel che gli serve.  Perchè l’ uno è mente e genio, e  r altro è terra e sangue. Non consumare quella porzione  che ti rimane di vita nel pensare ai  fatti altrui, ogni volta che * tu noi  faccia con un fine di comune utilità;  cioè nello andar fantasticando che  cosa opera il tale e per qual cagione,  e che dice, e che pensa, e che mac-  china, e somiglianti cose, le quali  tutte ti fan deviare dalla custodia  della tua parte sovrana. Conviene  adunque guardarsi, nella succession  dei pensieri, dall’ ozioso e dal vano,  ma molto ancora^più dal curioso e  dal maligno; ed avvezzar sè stesso  a pensar solo tali cose che, quando  altri, all’ improvviso ti domandasse,  che pensi ora? tu possa risponder tosto e senza tema: questo, o que-  st’ altro; onde appaia subito mani-  festamente non avervi nulla in te  che non sia schietto e benevolo,  nulla che non convenga ad animai  socievole; il quale non si compiace  nelle immaginazioni di piacere^ o di  godimento qual eh’ ei sia, o di gaiti  o d’invidia o di sospetto, o di qua-  lunque altra cosa ti facesse arrossire  quando tu avessi a confessare che  l'avevi in mente. Un uomo di tal  fatta, il quale non indugia d’ oggi in  domani a por sè nel novero degli  ottimi, è come un sacerdote e un  ministro degli Dei, devoto, non meno  che agli altri, a quello che ha il suo  tempio in lui medesimo; per virtù  del quale l’ uomo diventa inconta-  minabile ad ogni jiiacere, invulne-  rabile ad ogni dolore, inviolabile ad  ogni ingiuria, insensibile ad ogni  malizia, sostenitore in campo della  massima fra le imprese, quella del non essere abbattuto da nessuna  passione, imbevuto di giustizia in-  sino al fondo, disposto ad accogliere  con tutta r anima quanto accàSe e  gli vien destinato, e non occupan-  tesi se non di rado nè mai senza  una grande e pubblica necessità, di  CIÒ che altri fa o dice o pensa; per-  ch’ egli non ha altre azioni in sua  balìa che le proprie, e pensa conti-  nuamente alle cose che il fato del-  r universo gli arreca; per far si che  le prime sieno oneste, siccome ha  fede che le seconde sien buone;  quando la sorte attribuita all’ uomo  procede dalla stessa causa che l’ uo-  mo e concorre insieme con 1’ uomo  ad un medesimo fine. Sa inoltre che  tutti gli esseri ragionevoli han pa-  rentela fra loro; che è quindi con-  forme alla natura dell’ uomo il tener  cura di tutti; benché non sia da far  conto deir opinione di tutti, ma solo  di coloro che vivono secondo natura.   Quanto a quelli che vivono altra-  mente, egli tien sempre a memoria  che sorta cT uomini sono, e quali, e  in casa e fuor di casa, e di notte e di  giorno, si dimostrano, e con quali  praticano; non ha quindi in pregio  nessuno la lode che gli può venire  da tallente, la quale nè anche a sè  stessa non piace. Non operar mai nè contro al  tuo volere, nè senza relazione al  bene della società, nè senza avere  esaminato la cosa, nò con renitenza;  non adornare con isquisitezza di frasi  il tuo pensiero: non esser uomo nè  di molte parole, nè di molte faccende.' Ancora, fa’ che il Dio tuo in-  terno abbia a governare in te un  animale maschio, attempato, citta-  dino, romano, imperatore, apparec-  chiato di tutto punto, siccome quegli  che non aspetta ornai se non il suono   Di molte faccende in cattivo senso, come  chi dicesse faccendone, o faccendiere. della tromba* per uscir della vita,  e non occorre sforzarlovi nè col giu-  ramento, nè con la testimonianza  (f altr’ uomo; nel lieto aspetto del  quale ben si scorge non avere egli  bisogno nè dell’ aiuto che vien dal  di fuori, nè della tranquillità che gli  altri procurano. Conviene adunque  esser ritto in piedi già, e non riz-  zarui solamente.   6. Se tu trovi qualche cosa di me- •  glio nella vita dell’ uomo che la giu-  stizia, che la verità, che la tempe-  ranza. che la fortezza, e, in una parola, che quella disposizione della  mente per cui ella si appaga di sè  medesima nelle cose die ti fa ope-  rare secondo la retta ragione,, e del  fato, nelle cose che senza parteci-  pazione della tua volontà ti vengono  distribuite; se, dico, tu trovi alcun  che di meglio che questo, a quello [Similitudine tolta dagli ordini della  milizia appo I ROMANI. 0Virco \urcIio. rivolgiti con tutta l’ anima e godine  siccome di cosa che hai ritrovato  esser V ottima. Ma se nulla ti si pre-  senta di meglio che il genio stesso  tuo interno, quando si è fatto signore  de’ propri moti, e rivoca ad esame  le proprie immaginazioni, e si è sot-  tratto^ come diceva Socrate, dalle  passioni del senso, e vive sottomesso . agli Dei e pigliandosi cura degli uo-  mini; se, a paragone di questa, tutte . le rimanenti cose ti paion picciole  e vili, non dar più luogo appresso  te a nessuna altra, alla quale una  volta che tu ti sentissi propendere,  più non potresti senza repugnanza  preferire a tutti quel bene che è pro-  prio di te ed è il tuo; perchè al  bene j’azionale ed efficiente non  vien contrapposto impunemente mai  nulla che sia di natura diversa, come  le lodi della moltitudine, o il co-  mandare, o i piaceri del senso; tutte  queste cose, per poco che le si paiano adattare,' ti sopralfamio in un attimo  e ti strascinano. Or tu, dico io, scegli schiettamente e liberamente il  meglio, e a quello ti attieni. — Ma  il meglio è l’utile. Se l’utile al-  r uomo in quanto è ragionevole, bene  sta, quello procura: se l’ utile all’ uo-  mo in quanto animale, dillo su aper-  tamente® e vivi di poi senza boria nò  fasto, secondo quella determinazio-  ne. Ma bada, ve’, che non ti inganni  nell’ esame.  Non riguardare giammai come    i [Par che Antonino alluda qui alla teoria  dello adattare le nozioni generali alle cose  particolari, o, come diremmo noi, del con-  cetto alla rappresentazione, che è ciò in che  consisto il giudizio. Dillo spiattellatamente, se ardisci, senza  avvolgerti in parole coperte: e ammetti poi  tutte le conseguenze di quel tuo detto: cioè,  vivi poi da animale mero e puro, senza in-  gerirti a parlare nè di moralità nè di virtù  nè di giustizia, nè d* altro simile, che in  quel caso sarebbero un vano fasto di pa-  role. E provocazione al senso intimo dell'uo-mo. Utile a te nulla che sia per isforzarti  un dì a violar la fede, abbandonare  il pudore, odiare alcuno^ sospettare,  maledire, simulare, desiderar cosa j  che abbia bisogno di pareti e di ve-  lame. Chi ha posto innanzi ad ogni  altra cosa la sua mente e genio, e  il culto della virtù eh’ è propria di  quello, non fa tragedie, non geme,  non ha bisogno di solitudine, non  di frequenza d’ uomini; quel che più  impoita, vive senza ricercar nulla  nè fuggire; abbia ad esser lungo o,  abbia ad esser corto Tintèrv^allo di  tempo durante il quale sarà conte-  nuta nel corpo l’ anima con che egli  lia a fare,' non se ne piglia nè an-  clic il minimo pensiero; e quando   [Con che egli ha a fare. Non veggo che  cosa abbia voluto dire Ornato. Il senso letterale del testo è: sia lungo o sia breve  il tempo, eh' egli avrà a far uso dell' ani-  ma contenuta nel corpo. Il che, parrai, equi-  vale a dire: sia lungo, o sia breve il tempo  ch'egli ha a vivere. è giunta V ora dello sgombrare, cosi  spiccio se ne va, come se impren-  desse un’ altra qualunque di quelle  azioni che si possono con verecondia  e con dignità operare; da questo  solo guardandosi per tutta la vita,,  che veruno dei moti della sua men-  te non sia mai men che convene-  vole ad animale intelligente o so-  ciabile. Nella mente dell’ uom castigato  e puro non troverai nulla di marcio,  nè tampoco nulla di contaminato o  che paia sano al di fuori e noi sia.  La vita di lui, a qualsivoglia ora lo  sorprenda la morte, non è mai im-  perfetta, come tu diresti quella tra-  gedia d’onde un attore si fosso riti-  rato prima d’ aver condotto a fine  la sua parte. Ancora non è in lui  nulla di villano, nè nulla di artata-  mente gentile; nulla che il leghi  alle cose esteriori nè nulla che lo  separi da quelle; nulla onde egli sia palesemente ripreso,' nè nulla che  covi addentro nascosto.  Abbi in rispetto la facoltà giu-  dicativa.^ Per lei sta che non si ge-  neri nella tua parte sovrana nessuna  opinione che non sia consona alla  natura o al fine per che 1’ uomo è  ordinato. Ed essa promette la infal-  libilità,* e l’amicizia con gli uomini  e r ubbidienza agli Dei.Messe adunque da banda tutte  le altre cose, queste poche sole abbi  in mente; ed ancora ricordati che i  r uomo non vive altro tempo che  questo presente, cioè un attimo; il  rimanente o lo ha vissuto o non sa  se il vivrà. Picciola cosa pertanto è   1 Intendi: nulla che appaia manifesta-  mente vizioso. Ossia la virtù del non cadere in er-  rore; che vien definita da Zenono « la  scienza del quando conviene assentire ad i  un' apparenza, e quando no. > Questa ac-  compagna sempre il giudizio comprensivo,  che è il criterio della verità appo g-li  stoici. 0.  Digitizedh, Cnoi^li:   il tempo che l’ uom vive, picciola  cosa rangoletto della terra dov’egli  vive; picciola cosa la fama anche la  più lunga eh’ egli lascerà dietro sè,  e questa tramandantesi per succes- sione d’ omiciattoli in omiciattoli,  morti quasi appena nati, ed ignari  anche di sè medesimi, non che di  colui il quale moriva è già gran  pezza.   li. Agli avvertimenti dati sin qui  s’ aggiunga ancora quest’ uno, di de-  finir sempre o descrivere l’oggetto  che cade sotto al tuo senso, si che  tu lo scorga a parte a parte distin-  tamente e tutt’ insieme quale egli è  nella sua essenza nudo, e dir teco  stesso il nome proprio di quello e  il nome delle cose di che è compo-  sto e in che s’ ha da risolvere. Per-  chè non v’ ha nulla che sublimi  cotanto l’animo quanto il potere ar-  guire per la diritta via e con verità  ciascuna delle cose che incontrano nella vita, e saperle vedere per ino»  do da conoscere nello stesso tempo  di qual uso sendo questa tal cosa  al mondo, e a qual mondo, qual  valore ha rispetto al tutto e quale  rispetto air uomo, che è cittadino  della suprema fra le città, della  quale le altre città sono' come al-  trettante famiglie. Che cosa è, e di  che cosa è composto, e quanto tempo  è por duiare ij cesto che fa impres-  sione ora sul mio senso; di che virtù  s’ ha da far uso con esso, per esem-  pio, della mansuetudine, della for-  tezza, della veracità, della fede, della  semplicità, della frugalità, o simili.  Però, intorno a ciascuna cosa, con-  vien dire: questa mi viene da Dio;  questa dalla sorte, dalla complica-  zione delle cause condestinate, e so-  miglianti cose; quest’ altra dal mio  consorto, dal mio congiunto, dal  partecipe d’ una stessa società con  me, il quale ignora nondimenò ciò  che è secondo natura per lui. Ma   10 non lo ignoro; e però mi governo  con lui secondo la legge naturale  della società, con benevolenza e giu-  stizia; e ad uno stesso tempo ho  riguardo, nelle cose mezzane,' al  valore di ciascheduna. Se tu operi secondo la retta  ragione quel che hai fra mano, stu-  diosamente, c vigorosamente, placi-  damente, e non t’ occupi d’ altra cosa  tra via, ma conservi puro ed intatto   11 genio tuo, come se tu dovessi già  rassegnarlo; * se a lui ti tieni stret-  Si chiamai! còse mezzane appo gli stoici  quelle che non sono nè ben nè male, cioè  nè virtù nè vizio. Le quali, comecché da  per sè non meritino d' esser cercato nè fug-  gite, si accettano nondimeno o si rigettano  per r aiuto o disainto che elle possono ar-  recare alla vita secondo natura. Quelle che  arrecan più aiuto, han più valore: quelle  che più disainto, più disvalore. Di questò  ha da tener conto il savio, ed accettare,  quando gli è data la scelga, quelle che han  più valore, o che han meno disvalore. 0.   ^ Sottintendi « a chi tol diede. » to, nulla aspettando, da nulla rifug-  gendo, contentandoti dell’ azion tua  presente secondo natura e della eroi-  ca verità d’ ogni cosa che tu dica:  felicemente vivrai. Ora non v’ ha  nessuno' che ti possa questo impedire. Come i medici han pronti sem-  pre i loro ferri e strumenti per le  cure inopinate, così abbi tu alla mano  i principi! * per la cognizione delle  cose divine ed umane; e non far  nulla mai, per poco che sia, senza  ricordarti del legame che unisce  queste con quelle. Perchè nulla di  umano farai tu bene se non lo ri-  ferirai al divino, e viceversa. Non andar più vagando; per-  chè non sei per rileggere oramai nè  i tuoi ricordi, hè le azioni degli an-  tichi romani e greci, nè gli estratti   * Punti fondamentali di credenza, cre-  denze prime, dommi: decreta.appo Cicerone. d’ autori che riserbavi per la vec-  chiaia. Studiati dunque d’ arrivare  al fine, e poste da banda le spe-  ranze vane, soccorri a te stesso, se  pur ti cale di te, mentre che il puoi.   15. Non sanno * quanti significati  abbiano le parole rubare, seminare,  comperare, riposare, veder quel che  sia da fare, il che non si reca ad  effetto con gli occhi, ma con un’al-  tra sorta di vista. Corpo, anima, mente; del corpo  son le sensazioni, deh’ anima le ap-  petizioni, della mente le credenze.^  Ricevere impressioni nella fantasia  è cosa anche da giumento; esser  mosso da appetiti è cosa anche da  fiera, anche da androgino, anche  da Falaride, anche da Nerone; avere  per iscorta la mente a quello che  ci pare nostro ufficio,* è cosa anche  Sottintendi c gli nomini del volgo.  Dommi, decréta. Intendi, a quello che ci par eg$ere noda chi non crede che v’ abbiano  Dei, da chi abbandona la patria, da  chi fa, quando ha chiuso le porte,  ogni opera nefanda. Se adunque  tutte queste cose abbiam comuni  cogli anzidetti, resta che sia proprio  dell’ uomo dabbene lo amare ed ab-  bracciare gli accidenti ad esso con-  destinati e guardarsi dal macchiare  e turbare con immaginazioni sconce  il genio che risiede nel petto di lui,  ma conservarlo propizio, seguendolo  modestamente* come un Iddio, non  dicendo mai nulla che sia contro  al vero, nè dicendo *mai nulla che  sia contro al giusto. Che se nissuno    ttro interene. Questo è il significato gene-  rale della parola ufficio appo gli stoici. Solo  allor quando le si aggingne l'epiteto di  perfetto denota essa il dovere^ che è come  V intereae iublime dell' uomo. Noto questo  perchè alcuni degli interpreti, e per ultimo  anche il Corai, hanno maravigliosamente  scompaginato - e interpolato questo passo;  frantendendolo. Diog. Laerz.; Stobeo; Cic.  de Officiùt otc. 0.    degli uomini non gli vuol credere  eh’ egli viva con semplicità, con ve-  recondia, e di buon animo; nè s’adira  egli contro costoro, nè si svia dalla  strada che conduce al fine della yita.  al quale si vuol giunger puro, tran-  quillo, spedito, e conformato di vo-  lontà col proprio destino.  La parte che dentro di noi re-  gna,* quando è nel suo stato natu-  rale, ha tal disposizione verso gli  accidenti, che senza difficoltà si ri-  volge sempre al possibile e al dato.  Perch’ella non ama nessuna mate-  ria determinata; ma si porta con  eccezione* a quello che si ha pro-  posto, e quando alcun che se le  viene ad attraversare per via, ella  si fa di quello stesso materia; come  il fuoco, quando s’ impadronisce delle   [La parte sovrana o dominante.   [Eccezione: vocabolo stoico. Indica limi-  tazione del proponimento al possibile. Farò  la tal cosa, se non sarò impedito. cose die incontra, dalle quali una  picciola lampana sarebbe spenta; ma  lo splendido fuoco assimila a sè tosto  ogni cosa che se gli butti dentro, e  la consuma, e per quella stessa s’innalza più in su.   [Nessuna azione sia fatta a caso  mai, nè altrimente che secondo una  delle regole costitutive dell’arte.*   3. Van cercando ritiri, alla campa-  gna, alla marina, sui monti; e tu  stesso suoli desiderare siffatti luoghi.  Ma cotesto è da uomo ignorantissi-  mo, potendo tu, a quell’ ora che tu  vuoi, ritirairti in te stesso. Perchè   * Ad ogni caso della vita corrispondo  una virtù da esercitare (vedi sopra, III, 11,  e più abbasso, IX, 11, 42): ed ogni virtù è  appo gli stoici nna scienza nello stesso  tempo ed un’ arte: parlo delle virtù pro-  priamente dette. Come scienza quindi e  come arte consta di certo proposizioni o re-  gole, ciascuna delle quali è parte integrante  di quella, e tutto insieme" la costituiscono. Ogni ufficio consta di corti nu meri. 0.      inroRDi.    «4   in nessuno altro luogo si ritira l’uomo con più tranquillità e con meno  brighe che nell’ anima sua; massi-  mamente chi ci ha dentro tanto  alti oggetti di contemplazione che  il solo affacciarsi a loro procaccia  tosto ogni sorta di agevolezza. Quan-  do dico agevolezza, non voglio dir  altro che buon ordine. Concedi adun-  que sovente a te questo ritiro e rin-  novella quivi te stesso. Breve sia  r espressione ed elementare la forma  di quelle verità contemplative che  avran forza di rasserenare al primo  incontro V anima tua c. rimandarti  senza corruccio alle cose alle quali  ritorni. Perchè, di che cosa ti coi'-  rucci? Della malizia degli uomini?  Rammentati di quella sentenza, che  gli esseri ragionevoli son fatti gli uni  per gli altri; che il sofferire è parte  della giustizia; che malgrado loro  peccano; che tanti si son già inimi-  cati, sospettati, odiati, ^perseguitatisi   a morte, i quali ora sono spenti, son  fatti cenere; e te ne darai pace. 0  ti crucci tu di quella parte che a te  Vien compartita dell’ universale de-  stino? Rinnovella il dilemma. 0 è  la provvidenza o son gli atomi,' op-  pure gli argomenti con che s’ è di-  mostrato che il mondo è come una  città. Ma forse tu ti contristi delle  affezioni del corpo? Pensa che non  han più nulla che fare con la mente  i moti o sieno soavi o sieno aspri  del senso, ogni volta che questa s’ è.  raccolta in sè medesima ed ha cono-  sciuto la sua propria potenza; al che  potrai aggiugnere quelle altre cose  che intorno al piacere e al dolore  hai apparato ed accettato per vere.   0 sarà forse T amor di gloria quello  che ti turba? Considera come è ratto   [Si allude al  sistema atomistico d’Epicuro, il quale nega la previdenza, e attribuisce il mondo e tutti i fenomeni del mondo ad una causa  non intelligente.. l’oblio d'ogni cosa, interminato dal -  runa parte e dall’ altra* il caos della  età, vana cosa il rumore, mutabile,  e inconsiderato chi in apparenza ti‘  esalta, angusto il luogo dove è cir-  coscritto il suo dire. Perchè tutta la  t.erra' è un punto: e qual parte di  essa è l’angoletto che tu abiti? e  quivi ancora quanti avrai lodatori, e  quali? D’or innanzi adunque sovvengati di ritirarti in questa tua vil-  letta di te medesimo; e sopra tutto,  non. t' affannare, non t’agitare, ma  sii libero e vedi le cose da uomo, da ‘  maschio, da cittadino, da mortale.  Ed abbi in pronto, fra le verità alle  quali dovrai far ricprso, queste due  principalmente. L’una, che le cose  non arrivano sino all’anima, anzi  stanno al di fuori immobili  e i  turbamenti nascono dalla sola opinione [A parte ante e a parte pott come dice  la scuola], che è dentro. L’ altra, che  quanto tu vedi già già si muta e più  non è quel desso; e rivolgi in mente  ciascuna delle mutazioni alle quali  tu stesso sei inten'enuto. Il mondo, alterazione. La vita, opinione. Se la intelligenza ci è comune  a tutti, anche la ragione per cui  siam ragionevoli ci è comune; se  cotesto è, anche la ragione impera-  tiva di ciò che si dee fare o non fare  ci è comune; adunque anche la legge  ò comune; aifunque siam concittadini; adunque partecipiamo tutti ad  una specie di reggimento civile;  adunque il mondo è come una città. Perchè qual altro direm noi che sia  quel reggimento civile di cui tutto  il genere umano partecipa? Di colà,  da quella città comune, viene a noi  r intelligenza, la ragione, la legge,  o d’ onde verrebbon esse? Perchè,  siccome quanto v’ha in me di terreo viene da una certa terra di cui fa  parte; e quanto v’ ha in me d’umido,  da un altro elemento; e quanto v’ha  di caldo e d’ igneo, da una certa  sorgente propria (nulla venendo mai  dal nulla nè ritornando nel nulla);  così anche la intelligenza dee venire  da qualche cosa. La morte è come la nascita, un  mistero della natura; composizione  e risoluzione di certi elementi in  quegli elementi medesimi. Ad ogni  modo non è cosa di che 1’ uomo  debba arrossire; perchè non è cosa  che repugni alla natura dell’ animale  intellettivo o disconsegua* al prin-  cipio della formazione di quello.   6. Tali cose debbono di necessità  farsi in tal modo da questi tali; chi  le vuole altrimente, vuole che il fico  non abbia lattificcio. Del tutto, sov-  vengati che in brevissimo tempo e   [Intendi: ripugni, non aia conforme. !'•    tu e costui sarete morti: e che, poco  dopo, non rimarrà più di voi nè an-  che il nome. Togli via r opinione, ed è tolto  via il « sono stato offeso: » togli via  il « sono stato offeso, » ed è tolta via  r offesa. Quello che non fa peggiore l’ uo-  mo non fa nè anche peggiore la vita  di lui, nè le nuoce, nè esternamente  nè internamente. È necessitata dall’ utile ‘ la natura a far cotesto. Siccome ogni cosa che accade,  giustamente accade; il che, se tu  osserverai con attenzione, troverai   [Comune. Più letteralmente: « È necessitata la na-  tura deir utile a far cotesto.» La natura  deir utile, cioè il principio sostanziale dell’utile (chè vuol esser presa sostanzialmente  in questo luogo la voce natura), il quale  evolvendosi, come ragion seminale, succes-  sivamente nel tempo, fa che ogni cosa sia  bene. Perchè non conviene dimenticar mai  che, appo gli stoici, l'utile non è altro che  il bene. Digilized by sempre vero: non solamente, dico,  secondo l’ ordine di conseguenza, ma  ancora secondo 1’ ordine di giustizia;  come se le cose procedessero da tale  che distribuisse a ciascuno secondo il  merito. Osserva adunque, come hai  cominciato; ed ogni cosa che tu fai,  falla con questa condizione, che tu  sia uom dabbene, nel vero signifi-  cato della parola dabbene. Questo  carattere conserva in ogni tua azione. Non concepir le cose quali le  giudica colui che fa ingiuria, o quali  egli vuole che tu le giudichi; ma  vedile quali sono in realtà. Conviene esser sempre pronto  a queste due cose; fai' solamente  quello che la ragion dell’ arte regia  e legislativa ti suggerisce per 1’ uti-  lità degli uomini; e cangiar partito,  quando altri viene a raddrizzarti e  rimuoverti da una qualche falsa opi-  nione. Ma questo cangiamento dee  farsi sempre per un qualche motivo plausibile, come di giustizia, o  d’ utilità comune, o somigliante; e  non mai perchè la cosa ti piaccia o  sia per arrecarti gloria.  Hai la ragione? Si. Che  dunque non 1’ adoperi? Perchè, se  essa fa quanto le spetta, che ti resta  a desiderare? Sei venuto al mondo qual parte; disparirai dentro al tuo generatore. 0, piuttosto, ti raccoglierai nella  ragion seminale di lui, per via di mutazione. Molti grani d’ incenso su uno  stesso altare: l’uno è caduto prima  e l’altro dopo. È lo stesso.   16. Tra dieci giorni parrai un Dio  a coloro, ai quali pari ora una bestia  e una scimmia, se fai ritorno ai prin-  cipii e al culto della ragione. Non come se tu avessi a vi-  vere molte migliaia d’ anni. La morte  ti sovrasta: mentre vivi, mentre ti è  dato, fa’ che tu sia uom dabbene. Di quante brighe si libera chi  non bada a quello che ha detto il vi-  cino, o ha fatto, o ha pensato, ma solo  a quello eh’ egli stesso fa, affinchè  r opera sua sia giusta, e santa, e  qual si richiede dall’ uomo dabbene !   Non andar guatando attorno i neri  costumi, ma corrér diritto in sulla  linea senza volgersi a destra nè a  manca. Chi vive abbagliato dal  pensiero di lasciar fama dopo morte,  non considera come ciascun di quelli  che si ricordano di lui morrà tosto  aneli’ egli, e poi ancora chi sarà a  costui succeduto, sinattantochè, pas-  sando da abbagliato in abbagliato e  da morente in morente, venga a spegnersi affatto ogni memoria. Ma sup-  poni anche immortale chi s’ ha a ri-  cordare di te, ed immortale la fama;  che fa egli a te cotesto? E non dico.   a te quando sarai morto, ma a te  mentre sei vivo: che è la lode, se  on forse talora un mezzo per una  qualche dispensazione? Lascia stare ora, che sarebbe inopportuna, la  considerazione dello essere secondo  natura o no e cosa quindi che non  ha pregio se non per rispetto d’ una  qualche altra. Tutto che è bello,  qual che egli sia, è bello da per sè,  ha il termine della sua bellezza dentro di sè, nè annovera tra le sue parti  la lode, e lodato, non diventa nè peg-  giore, nè migliore. Dico, anche i belli  volgari, le cose belle per materia o  per lavoro artificioso (perchè, in  quanto al bello per essenza, ha egli  mai bisogno di lode alcuna? No,  niente più che la legge, niente più  che la verità, niente più che la be-  nevolenza o la verecondia). Quale di  esse è bella per venir lodata o perde  per venir biasimata? Lo smeraldo  diventa egli peggiore, se non si loda?  E l’oro, l’avorio, la poi^pora, una cetra, una spada; un fiorellino, un arboscello?  Se le anime sussistono dopo  morte, come può, dalla eternità in  qua, contenerle in sè l’aria? E  come contiene la terra i corpi che  da tanti secoli vi sono seppelliti?  Perchè nell’ istesso modo che questi,  dopo essersi conservati alcun tratto  di tempo, col mutarsi di poi e col dis-  solversi dan luogo ad altri cadaveri:  cosi le anime che passano nell’ aria,  soffermatevisi un certo tempo, si mu-  tano si struggono e accendono, e ve-  nendo accolte nella ragion seminale  dell’universo, fan luogo alle altre che  lor vengono appresso. Questo si può  rispondere nella ipotesi che le anime  sussistono dopo morte. E convien  recarsi a mente il numero non solo  dei corpi seppelliti a questo modo,  ma anche di quelli che ogni di e da  noi e dagli altri animali si mangiano. Perchè quanti se ne consuma egli e  se ne seppellisce, per così dire, nei  corpi di coloro che se ne cibano! E  pur nondimeno li cape uno stesso  luogo, pel convertirsi, eh’ essi fanno,  in sangue, pel trasmutarsi loro in  aria od in fuoco. Come giugnere, intorno a ciò, alla  cognizione del vero? Col distinguere  in materia ed in causa. Non isviarti; ma fa’ sì che ogni  atto della tua volontà rappresenti il  giusto e che ogni tuo giudizio serbi  il carattere di comprensivo.  Tutto a me conviene quel che  a te conviene, o mondo. Non è im-  matura per me nè tardiva nessuna  cosa che sia opportuna per te. Tutto  è frutto per me quel che portano le  tue stagioni, o natura. Da te viene. 0il tutto, in te è il tutto, a te ritorna  il tutto. — Queir altro dice: 0 amica  città di Cecrope! ‘ e tu non dirai:  0 amica città di Giove?  Fa’ poche cose » dice colui, se vuoi viver contento. Non era meglio il dire, fa’ le cose che son necessarie, quelle che vuol la ragione d’un animai socievole, e a quel modo ch’ella le vuole? Cosi acquisterai la  contentezza non solo che nasce dal  far bene le cose, ma quella ancora  dell’ averne a far poche. Perchè, se  dalle cose che diciamo e facciamo lu  tronchi via le non necessarie, che  sono il maggior numero, assai più  agio ti rimarrà ed assai brighe avrai  meno. Quindi, ad ogni cosa che sei  per fare, domanderai a te stesso:  Non è questa una di quelle che non   [Aristofane, nella commedia de' contadini [DEMOCRITO, in un frammento conservatoci dallo Stobeo] sono necessarie? E conviene troncar via, non solo le azioni che non  son necessarie, ma anche i pensieri;  perchè in questo modo non avrai nè  anche più* a temere che azioni so-  verchie li seguano.   Fa’ un po’ il saggio dei  come ti riesce la vita dell’ uomo dab-  bene, dell’ uomo che accetta con pia-  cere ogni cosa che gli venga com-  partita dal tutto ed a cui basta che  r azion sua propria sia giusta e la  disposizione dell’ animo suo bene-  vola. Hai tu veduto quelle cose? Vedi  anco queste. Non turbar te medesimo. Fa’ che tu sia semplice. Pecca  egli, un tale? A sè medesimo pecca.  T’ è accaduto qualche cosa? Bene sta;  ab eterno era stato destinato per te,  destinato insieme con te, tutto ciò  che ti accade. Al postutto, breve è  la vita: conviene far guadagno del   [seguendo la ragione ed il  giusto] Sii in te anche quando ti ricrei.  il mondo o è ordinato da una  mente, o è un accozzamento fortuito  di cose, venute d’ ogni parte, sì, ma  non di meno ordinate. 0 credi tu  che possa avervi un cotal ordine in  te e che nell’ universo alberghi il  disordine? massimamente quando ci  vedi, le cose cosi distinte le une dal-  r altre, così mescolate le une con  r altre e cosi intimamente collegate  tutte insieme col vincolo di reciproca  dipendenza?   28. Neri costumi, eiremminati co-  stumi, costumi duri, brutali, pecorini, puerili, infingardi, falsi, buffo-  neschi, taverneschi, tirannéschi.   29. Se è uno estraneo nel mondo  chi non sa che cosa c’ è nel mondo,  non è meno un estraneo chi non sa  che cosa vi si fa; un fuoruscito chi  esce fuori della ragion civile; un cieco chi chiude gli occhi della men-  te; un mendico chi abbisogna d’ al-  trui e non ha in sè quanto gli fa  d’uopo alla vita: un apostema' del  mondo chi si separa é allontana dalla  ragione della natura comune, avendo  a male ciò che accade; perchè quella  te lo arreca la quale arrecò te* me-  desimo ancora; una smozzicatura di  città chi distacca la propria anima  dall’ anima comune degli esseri in-  telligenti, che è una.  Chi filosofa senza tunica, e chi  senza libro. Quest’altro, mezzo ignudo. Non ho pane, die’ egli, e pure  sto fermo nella ragione. Ed io non  ho il cibo della dottrina, e pur ci sto fermo anch’io. Ama l’arte che hai apparato;  in essa ti acqueta; e vivi il rimanente  della tua vita come quegli che ha  accomandato le cose sue con tutta l’anima agli Dei, e che di nessun  uomo non vuol essere ne tiranno nè  servo. Figurati, per esempio, i tempi  di Vespasiano; vedrai le stesse cose  che adesso: uomini che s'accasano,  che educan figli, che s’ammalano,  che muoiono, che fan guerra, che fan  festa, che mercatano, che coltivan la  terra, che adulano, che presumon di  sè, che sospettano, che tendono insi-  die, che desideran la morte di alcuno,  che mormorano del presente, che  fanno all’amore, che ammassan te-  sori, che voglion diventar consoli,  diventar principi. Or tutta quell età  è sparita. Passa ai tempi di Traiano] le stesse cose di nuovo. Quella età  è spenta anch’ essa. Considera nello  stesso modo le altre generazioni d’ uo-  mini e le nazioni tutte intere, e vedi  quanti si travagliarono e straziarono  per morir poi poco stante e risol-  versi negli elementi. Massimamente ricorderai coloro i quali hai veduto  a’ tuoi di aiTaticarsi per cose da nulla  e trascurare quello per che eran nati,  dove era da attendere a questo uni-  camente e non cercare altra cosa.   Qui è pur necessario il rammen-  tarti che a ciascuna azione corri-  sponde un certo valore e un grado  di applicazione proporzionato.* Per-  chè allora solamente eviterai il rin-  crescimento e la noia, quando non  ti occuperai più di quel che conven-  ga, nelle cose da poco.   33. Le voci che altre volte erano  in uso, or sono antiquate; così an-   [Termine stoico. Un grado di applicazione (dovutale per  parte deir uomo) proporzionato al valore,  cioè air importanza di essa. E vuol dire che  dobbiamo attendere e applicarci a ciascuna  azione secondo il valore o l' importanza di  essa azione, cioè molto a quelle che hanuo  un gran valore, e meno a quelle che ne hanno  un minore; e fra due di valore ineguale,  attendere piuttosto alla più importante, che  alla meno importante. che i nomi di coloro che una volta  furon celebri, or sono, per cosi dire,  antiquati; Cammillo, Cesene, Voleso,  Leonnato; e poco dopo, Scipione, Catone; poscia Augusto, poscia Adriano  c Antonino. Incerti e favolosi presto  diventano; presto ancora son sepolti  nell’ oblio universale. Parlo di co-  loro che in un qualche modo furon  chiari e ammirati; perchè, quanto  agli altri, appena han reso l’ ultimo  soffio. «Nessun ne parla più, nessun  ne chiede. Ma che è ella poi,  alla fin fine, la. eternità del nome? Vanità pura. Che è dunque quello  a cui dobbiamo seriamente badare?  Questo solo: che le_ nostre intenzioni  sien giuste; le azioni, utili alla so-  cietà; le parole, non mai menzogne-  re; e r animo, disposto ad accettare  tutto che accade, siccome cosa ne-  cessaria, siccome cosa amica, sicco-  me cosa derivante dallo stesso prin-  cipio e dallo stesso fonte che noi. Volontario i’ abbandona nelle  mani del Fato, lasciando eh’ egli ti  destini a quelle cose eh’ ei vuole.  E il ricordante e il ricordato,  ambidue han la vita d’ un giorno.  Osserva di continuo coipe ogni  cosa nasce per via di mutazione; ed  avvezzati a pensare che nulla ama  tanto la natura dell’universo, quanto  di mutar le cose che esistono e farne  dell’ altre simili. Perchè ogni cosa  che esiste è seme, in un certo modo,  di quella che per essa esisterà. Ma  tu ti immagini come semi quelli so-  lamente che si gittano nella terra  0 nell’utero. Cotesto è da uomo rozzo  assai. Or ora moirai, e non sei giunto  per anche ad esser semplice, nè im-  perturbato, nè senza sospetto che le  cose esterne ti possano nuocere, nè  sereno inverso tutti, nè a riporre la  prudenza nel solo operar con giu-  stizia,     Guarda alle menti di costoro,  e dei prudenti fra loro; quali cose  fuggono, e quali cercano!   39. Nella mente d’ un altro non  istà il tuo male; nè tampoco in un i  qualche cambiamento o alterazione   di quello che ti circonda. Dove sta  egli adunque?  In quella parte di  te, che giudica intorno ai mali. Quella  parte adunque non giudichi, e tutto  andrà bene. Ancorché la cosa a lei  più vicina, io voglio dire il corpo,  sia tagliata, sia abbruciata, marcisca,  infracidisca, stiasi nondimeno quieta  la pjirte che giudica di siffatti acci-  denti; cioè giudichi non esser nè j  male nè bene ciò che può accadere !  ugualmente al tristo ed al buono.  Perchè quello che accade ugual- ^  mente e a chi vive contro natura e  a chi vive secondo quella, non è cosa  nè secondo natura nè contro. Avvezzati a considerare il mon-  do come un animale unico, avente  un corpo unico ed un’ anima unica;  e come ad un senso unico, che è il  senso di lui, ogni cosa risponda;  come con un impulso unico - ogni  cosa operi; come ogni cosa concorra  alla produzione d’ogni cosa; e qual  sia la connessione e il concatena-  mento di tutte.   Sei una animuccia che porta  un cadavero, come diceva Epitteto.  Non è punto un male il venire a mutazione, come non è punto  un bene l’esser nato da mutazione. L’età è come un fiume di cose  che accadono, e una corrente rovi-  nosa; ' appena vedi 1’ una, ed è già  passata ed un’ altra passa, ed un’al-  tra passerà. Tutto quel che accade è cosa  tanto solita e tanto familiare quanto  le rose nella primavera e le frutta  [Intendi rapidissima e non cagione di  rovine, il che sarebbe nn disordine nel mondo,  che è 1' ordine per eccellenza. sa   nella state; nè son da riguardare  altramente la malattia, la’ morte, le  calunnie, le insidie, e tutto quello  che allegra o attrista gli sciocchi. Nella successione dei casi,  quelli che seguitano han sempre re-  lazione di parentela con quelli ché  li han preceduti. Perchè non è già  quivi come un novero di cose indi-  pendenti r una dall' altra, cui la sola  necessità * insieme costringa, ma  sibbene una connessione ragionevo-  le; e come negli enti si ravvisa una  coordinazione armonica degli uni  con gli altri, cosi negli accidenti si  manifesta, non già semplicemente  la successione, ma un certo modo  di parentela mai'aviglioso.   4C. Abbi a mente ognora il detto  di Eraclito; che la morte della terra  è il diventar acqua, la morte del-  r acqua è il diventare aria, la morte    I Intendi «necessità esterna.» dell’ aria il diventar fuoco e viceversa.* Ricordati ancora di colui che  non sa dove inette la via;* e sicco-  me la ragione con la quale gli uo-  mini conversano il più assiduamente,  e che governa ogni cosa, è quella  per r appunto con che essi non van  d’ accordo; e le cose in che s’ imbat-  tono ogni dì, son quelle che ad essi  paiono più strane. E siccome non  conviene fare nè dire a guisa di dormienti; perchè anche dormendo ci  par di fare e di dire; nè come fan-  ciulli che van dietro ai lor padri,  cioè nudamente e semplicemente a  quel modo che abbiamo appreso.   47. Come se un Dio ti avesse detto  che domani sarai morto, o posdomani [Pasfio famoso di ERACLITO, rammentato  da Diog. Laorzio, Plutarco, Massimo Tirio,  Clem. Aless. Filone, ecc., allegati tutti dal  Gataker a questo luogo]. Anche questo, come i seguenti, pare un  detto di ERACLITO. Vi fa allusione, credo,    al più, tu non ti cureresti gran fatto  dell’ avere a morire posdomani piut-  tosto che domani, ove tu non sia il  più codardo degli uomini; perchè,  quanto sarebbe il divario? così non  ti paia nè anche gran fatto l’avere  a morire piuttosto in capo a molte  diecine d’anni che domani.   48. Pensa di continuo quanti me-  dici son morti, che sovente in su  gli ammalati le ciglia aggrottarono;  quanti astrologi, che la morte altrui,  come un gran caso, predissero; quan-  ti filosofi, che intorno alla morte o  alla immortalità migliaia di discorsi  fecero; quanti prodi, che molti am-  mazzarono; quanti tiranni, che con  orribil ferocia, quasi non avessero  essi mai a morire, la podestà in sulle  vite esercitarono; quante città tutte  intere, per dir così, son morte. Elice, Pompei, Ercolano, altre senza  fine. Rammemora ancora quanti hai  conosciuto, l’ un dopo V altro: questi  fece a colui la sepoltura, e poi morì  egli, e queir altro la fece a lui; tutto  ciò in breve. La somma è, che le  cose umane son da riguardare come  di nessuna durata nè pregio; un po’ di  moccio, ieri; mummia o ceneri, doma-  ni. E quindi, questo attimo presente  di tempo, si vuol passarlo conforme  la natura richiede, e finirsela in  pace; come oliva matura che cada,  benedicendo la terra che la portò,  e ringraziando l’ albero da cui fu ge-  nerata.   49. Sii simile ad un promontorio,  contro al quale incessantemente s’in-  frangono fonde, e quegli sta saldo,  e s’abbonacciano intorno a lui i  gorgogli dell’ acque. Sventurato  me, che la tal cosa ra’ è accaduta. Anzi, avventurato, che, la tal  cosa essendomi accaduta, me ne sto  nondimeno senza cruccio, nè ango-  sciato del presente nè pauroso del-  f avvenire. Ad ogni altro poteva accadere; ma ogni altro non l’avria  senza angoscia sopportata. Perchè  adunque sarà quello una sventura  piuttosto che questo una ventura.*  E poi, chiami tu. sventura per l’ uo-  mo quello che non defrauda punto  la natura dell’uomo? E ti par egli  che defraudi la natura dell’ uomo  quello che non va contro al volere  di quella? E che? il volere della  natura tu il sai; forse che questo  accidente ti impedirà dall’ esser giu-  sto, magnanimo, temperante, pru-  dente, cauto, veritiero, verecondo, libero, fornito, in somma, di tutte  quelle doti che. unite insieme appagano e soddisfano intieramente la  natura dell’ uomo. Sovvengati adun-  que, ogni volta che una qualche  cosa ti contristerà, di ricoiTere a   1 Cioè a dire: c perchè chiameresti dun-  que sventura V esserti accaduta la tal cosa,  piuttosto che chiamare avventura felice  r aver tu saputo sopportarla con impertur-  bata costanza? » questo pensiero: che non solamen-  te essa non è sventura, ma anzi  il sopportarla da forte. è una buona  ventura.  Volgare aiuto, sì, ma nondi-  meno efficace per disprezzar la morte  è il rimembrar coloro che durarono  lentamente vivendo sino all’ età più  decrepita. Che hanno essi ora di più  che gli spenti di morte immatura?  Kcco, son buttati là in un qualche canto essi pure e Cadiciano e Fabio  e Giuliano e Lepido e quanti altri ve n’ebbe di cotal fatta, i quali accompagnarono molti alla tomba, e  poi ci furono accompagnati essi alla  fine. Breve, ad ogni modo, è l’in-  tervallo che l’uom vive, e questo  breve, tra quali cose, con quali uo-  mini, in qual corpicciuolo conviene  stentarlo! Non farne adunque gran  caso. Vedi, dietro a te, una eternità  senza fondo, e un’altra eternità in-  nanzi a te: posto così in mezzo, che  divario fai tu,da una vita di tre  giorni ad una di tre secoli?  Fa’ che tu vada sempre per la  più corta via. E la più corta via è  la via secondo natura. Seguirai quin-  di, in ogni cosa che tu abbia da fare  o da dire, il più sano partito. Que-  sto proponimento ti libera dai tra-  vagli, dai combattimenti interni, e  da ogni sorta di dispensazioni* e  d’astuzie. Al mattino, quando con difficoltà  ti svegli, abbi in pronto questo pen-  siero: Mi sveglio all’ufficio d’uomo;  come adunque m’ incresce, s’ io vo  a far quello per che son nato e in  grazia di che sono stato messo al  mondo? 0 sono io stato fbrmato  forse per riscaldarmi giacendo in  sul letto? Ma quest© mi dà più  gusto. Per pigliarti gusto adunque  sei nato? e non anzi per operare?  per essere attivo? Non vedi le pian-  te, le passere, le formiche, i ragni,   [Intendi: cO il fine a cui nacqui è for-  se di giacermi a godere questo tepore del  letto?»   le pecchie, far ciascheduna l’ ufficio  suo, concorrer, ciascheduna all’ordi-  namento di quel mondo che le è  proprio? E tu non vuoi-far l’ufficio d’uomo? Non intendi a quello che  è secondo natura per te?  Ma è  necessario poi anche il riposo. È  necessario, è vero; ma la natura vi  ha posto un limite; ve n’ ha posto  anche al mangiare ed al bere; e tu  nondimeno varchi quei limiti, vai al  di là del bisogno; quando si tratta  di fare, poi, la è un’altra cosa, tu  stai sempre al di qua del possibile. Gli è perchè tu non ami te .stesso. Se tu amassi te stesso, ame-  resti anche* la natura tua, e la vo-  lontà di lei.* Gli artisti, che amano  l’arte loro, si consumano in sui la-  vori di quella, dimenticando il ba-  gno ed il cibo: ma tu, fai men caso  della tua natura che il tornitore del  [Intendi agire, operare, essere attivo, e  non infingardo] torniare, che il ballerino del ballare,  che r avaro della moneta, che il va-  nitoso della gloriuzza. Quando la  passione ha preso. piede in costoro,  lascian piuttosto di mangiare e di  bere che di attendere ad avanzare  la cosa a che son portati. E a te, le azioni sociali paiono esse cosa di  men pregio, cosa men degna di applicazione?   Come è facile il respingere e  il cancellare ogni immaginazione  turbolenta o disconvenevole, e tro-  varsi tosto in piena calma! Reputa degna di te ogni parola  ed azione che sia secondo natura;  e non ti persuada il biasimo od il  garrire che ne seguirà di taluni; ma,  se è onesto il farla o il dirla, credi  eh’ ella è anche cosa da te. Perchè  quei tali hanno una mente lor pro-  pria per guida, ed operano per una  lor propria volontà; alle quali tu  non badare, ma va’ innanzi per la  diritta, seguendo la natura comune  e la tua. La via dell* una e dell’ al-  tra è una sola.  Vo per la carriera delle cose secondo natura, sino a tanto che  cadendo io trovi requie; esalando lo  spirito in quello di che ogni giorno  respiro; giacendo su quello di che  mio padre raccolse il seme, mia ma-  dre il sangue, la balia il latte; di  che da cotanti anni mi pascolo e mi  abbevero, che sopporta me il quale  lo calpesto e in tanti e sì vari modi  lo adopro. Non s’ ammirerà la prontezza  del tuo ingegno. E sia. Molte altre [Intendi: «Vo per la via per cui vanno  tutte le cose che sono secondo natura, in-  sino a che cadendo io trovi requie; esa-  lando lo spirito in quest' aria che ogni  giorno respiro, per essere sepolto in que-  sta terra onde mio padre raccolse il seme  dell* esser mio, mia madre il sangue, la ba-  lia il latte; dalla quale da tanti anni io  traggo di che nutrirmi e abbeverarmi, che  mi sostiene mentre ora la calco coi piedi  0 ne uso ed abuso in tanti modi.» P.  cose ei sono, delle quali non puoi  dire, la natura non mi ci ha dato  disposizione. In quelle adunque ti  esercita, le quali dipendono intera-  mente da te: la sincerità, la gravità,  r amore al lavoro, l’ indifferenza al  piacere, la rassegnazione, la fruga-  lità, la mansuetudine, la libertà dello  spirito, r incuriosità, la serietà, la  generosità. Non vedi quante cose  puoi acquistare, dove certo non ha  luogo la scusa dello esserci disadat-  to, e tralasci per colpa tua? 0 è ella  forse la tua mala disposizione natu-  rale quella che ti sforza a mormo-  rare, a star neghittoso, a piaggiare,  ad accagionare il corpo, a lusingare,  a millantare, a passare per tanti e  tanti turbamenti dell’animo? No, per  gli Dei ! Da lungo tempo tu potevi  esser libero da tutto cotesto; ma  solo avevi a cuore, se pur l’avevi,  di non farti scorgere per uno ottuso  e di poca penetrativa! E questo [Antonino ancora si vuol correggere col por  mente alle cose, e non istar sopra  pensiero, nè compiacerti nella tua  propria infingardaggine.  V’ ha chi, quando ha prestato un  rpialclie servigio ad alcuno, è pronto  anche a domandargliene il contracambio. Un altro non domanda con-  traccambio veramente, ma riguarda  colui come suo debitore nel suo se-  greto,, e sa quello che lia fatto. Un  terzo poi, non sa, per cosi dire, nè  anclie quello che ha fatto, ma so-  miglia ad una vite che ha portato  un grappolo, e non cerca nulla più  in là, messo eh’ ella ha fuoià il frutto  a lei proprio. Il cavallo die ha ga-  loppato, il cane che lia ormato, l’ape  che ha fatto il miele, e cosi Tuomo   1 Intonili: e questo t/t/'cf/o ancora si vuol  nondimeno correggere, quello cioè dell’ es-  sere ottuso e di poca penetrativa. Il testo  in questo luogo, e nelle linee che precedo-  no, è molto ellittico e poco chiaro, e diversamente spiegato dagli interpreti. che ha prestato un servigio, non  Lschiamazza,' ma passa atl altro, co-  me passa la vite a portar di nuovo un  grappolo d’ uva nella stagione. S’ha  egli adunque ad essere un di coloro  che fanno il bene, per così dire,  senza saperlo? Sì Ma convien  pure che 1’ uom sappia quello che  fa: sendo proprio dell’ animai sociabile il conoscere ch’egli opera so-  cialmente, e, per Giove, il votere  che anche colui, con chi egli ha a  fare, lo conosca. Tu di’ il vero:  ma non. pigli pel lor verso lo mie  parole; quindi sarai anche tu un di  coloro di che ho fatto menzione  quassù. Perchè anche essi son tratti  in errore da una qualche apparenza  di ragione. Ma se vorrai intendere  che cosa è quello eh’ io dico, vivi si-  curo che non avrai a lasciare indie-  tro nessuna azione sociale per questo.  Cioè non dee schiamazzare, ma passuire  ad altro ecc. Preghiera degli A.teniesi: «Pio-  vi, piovi, o amico Giove, sui campi  degli Ateniesi e sui prati. )> 0 non  s’ha da pregare, o così alla buona  s’ ha da pregare e con libertà di parole. Come s’ usa di dire, Esculapio  ordinò a colui il cavalcare, o il ba-  gnarsi nell’ acqua fredda, o l’andare  a piè nudi, si dice del pari, e con  locuzione non diversa, la natura or-  dinò a colui una malattia, una stor-  piatura, una perdita, o altro simile.  In quella prima frase, di fatti, la  parola « ordinò » vuol dire assegnò  la tal cosa a colui siccome correla-  tiva alla salute; e in questa, i casi  che avvengono all’ uomo gli sono as-  segnati, in un certo modo, come  correlativi al destino. Così ancora si  dice « i casi (die avvengono a come  son dette dagli artefici « avvenii*si »  le pietre quadre nelle mura o nelle  piramidi quando elle s* adattano l’ una air altra secondo un disegno deter-  minato. Perchè del tutto l’armonia  è una. E siccome di tutti i corpi  presi insieme è composto il gran  corpo del mondo, cosi di tutte le  c,ause prese insieme è composta la  gran causa del fato. Intendono ciò  eh’ io voglio dire anche i più rozzi,  quando dicono: * ella è toccata a lui.  Adunque ella andava a lui, adunque  era ordinata per lui. Riceviamo per-  tanto gli ordinamenti della natura  come facciamo quei d’Esculapio. Anche in questi v’ ha molto dell’ amaro,  e pur gli accettiamo di buon grado  per la speranza della sanità. Or be-  ne, r adempimento di ciò che la  natura ha voluto sia lo stesso per te  che la tua sanità. Accetta di buon  grado, per dura che ti paia, ogni  cosa che accade,- pensando che ella  conferisce alla sanità del mondo e  [Vale a dire: « itiostrauo di intendere] quando dicono ecc. al buon successo dei disegni di Giove. Perchè ella non sarebbe venuta  a qualcheduno, se non fosse conve-  nuta al tutto: sendo questo il pro-  prio d’ogni natura, e poni anche la  più infima, che quanto ella arreca  sia sempre acconcio al governato da  iei. Per due ragioni adunque dèi  tu aver caro ciò che accade: Tuna,  che questo accade a te, è ordinato  per te, ha attinenza in un certo  modo con te, essendo stato conde-  stinato di lassù con te dalla più an-  tica delle cause e dalla più veneran-  da; l’altra, che quanto tocca in sorte  a ciascuno, concorre, come causa par-  ticolare, alla prosperità, alla perfe-  zione, e, sto per dire, alla perma-  nenza istessa del reggitore del tutto.  Perchè diventa mozzo l’intero quando  tu tronchi via un minimo che, sia  dalla continuità delle parti, sia dalla  concatenazione delle cause. E tu lo  tronchi,- per quanto sta in te, e lo distruggi, per così dire, quando ti  corrucci di quel di’ è accaduto.  Non dèi indispettirti, nè per-  derti d’ animo, nè impazientirti teco  stesso, se la non ti riesce cosi per be-  ne ogni volta il governarti secondo i  retti principii in quello che tu fai;  ma, uscito di via, ritornarci; quando  la maggior parte delle tue azioni  sono passabilmente degne d’un uo-  mo, contentartene; ed amare quello  a che ritorni; RITORNANDO ALLA FILOSOFIA, non come ad un pedagogo, ma come  un eh’ abbia mal d’occhi alla spugna  ed all’uovo, un altro al cataplasma o alla doccia. Così non ti darà più  fastidio il dovere ubbidire alla ragione, ma anzi troverai in quella il  riposo. E ricordati che la filosofia  vuole quello solamente -che la tua  natura vuole; e che sei tu quegli il  quale volevi altro, che non era secondo natura. Ma pure, che v’ha  egli di piii liisingliiero? E il piacere, non t’ inganna egli appunto  perchè è lusinghiero? Ma vedi se  non fossero cosa più lusinghiera la  magnanimità, la libertà, la sempli-  cità, la bonarietà, la santità. Quanto  alla prudenza poi, v’ ha egli cosa più  lusinghiera di quella? se tu badi allo  andar esente da ogni fallo e all' avere  a seconda ogni cosa, che è il proprio della virtù comprensiva e intellettiva?  Le cose stanno immerse, per  cosi dire, dentro a un buio tanto  folto, che a filosofi non pochi, e non  dei più volgari, elle son parate del  tutto incomprensibili. E gli stoici  essi medesimi tengono che elle sieno -  comprensibili sì, ma difficilmente:  e che ogni nostro assentimento sia  mal certo;* perchè, dove è fuomo [Questa ed altri Inoghi dei Ricordi provano che gli Stoici dopo Crisippo venivan.<»i  facondo sempre più scettici, ed aveano essi  medesimi il sentimento della debolezza scientìfica della loro scuola. che non si sia mai ricreduto? Prendi quindi a considerare gli og-  getti in sè stessi; come poco dura-  no, come poco valgono, come possono  - cader nelle mani d’ un bagascione,  d’ una cortigiana, d’ un malandri-  no. “- Passa ai costumi degli uomini  con chi tu vivi; il più gentile dei  quali appena si può tollerare, per  non dire che appena v’ ha fra loro  chi possa tollerar sè medesimo. In  tanta caligine adunque, in tanto lez-  zo, in un tal flusso continuo e della  materia e del tempo, e del moto e  di quanto è in moto, qual cosa v’ ab-  bia mai che meriti la nostra stima,  o anche pur solo la nostra premura,  io noi so immaginare nè vedere.  Che anzi ci bisogna confortar noi  medesimi con l’aspettativa della dissoluzion naturale, e non adirarci  dell’indugio, ma acquietarci in que-  ste sole due cose: T una, che nulla  mi può accadere che non sia secondo la natura dell’ universo; l’ altra, che  è in mia potestà il non far nulla  contro il Dio e il Genio mio. Perchè  nissuno y’ ha che mi possa sforzare  mai ad offenderlo.   il. Che uso fo io ora della mia  anima? cpiesta interrogazione con-  vien fare a sè medesimo in ogni  circostanza, ed esaminar sè stesso,  che v’ ha egli ora in quella parte di  me la quale è detta sovrana? e che  sorta d’ anima è ella ora la mia? Non  è un’ anima di fanciullo? o di gio-  vinetto? o di donnicciuola? di tiran-  no? di giumento? di fiera. Quali sieno quelli die al volgo  })aion beni, tu il potrai conoscere  anche da questo. Chi ha preconce-  pito nella mente, qual bene, alcuna  di quelle cose che sono un bene  davvero, come, per esempio, la prudenza, la temperanza, la giustizia. la fortezza, non può, sincliè un tal  concetto gli dura, pre^star più orec-  chio a chi venga a dire in sulla scena,   «Tanta ho di ben dovizia.... eco. I   perchè questo ripugnerà al bene al  (juale egli pensa. Ma chi ha precon-  cepito alcun dei beni volgari, ascol-  terà ed accoglierà con piacere sic-  come arrecato a proposito, quello  che il comico dice. Così persino il  volgo s’ accorge della differenza. Altrimenti non rigetterebbe nell' un .de’ casi quel motto, che accoglie poi,’  siccome calzante e faceto, nell’altro,  quando lo vede applicato alle ricchezze o a quelle altre cose che fo-  mentano la effemminatezza o l’am-  bizione. Fàtti innanzi adunque e  domanda se si hanno da stimare e  [Verso di tm autor comico, che dovea  esser famigerato in sul teatro a quei tem-  pi; il senso del quale, benché Tautore noi  citi intero, appare dall' ultime linee di que-  sto paragrafo]  da riguardar come beni quelle cose  rispetto alle quali può molto accon-  ciamente venir soggiunto, che al  possessor loro, per la soverchia ab-  bondanza, non riman più luogo ove  fare i suoi agi.  Sono un composto di causa e  di materia. Ora nè questa nè quella  non è per ridursi a nulla mai; co-  me neppure non è venuta dal nulla.  Adunque ciascuna parte di me di-  venterà per via di mutazione una  qiìalche parte del mondo, e quella  poi ancora un’ altra parte del mon-  do, e così all’ infinito. Da una simi-  gliante mutazione ho avuto io resi-  stenza, e la ebbero i miei genitori, e  così risalendo, sino ad un^altro in-  finito; perchè nulla osta che si fa-  velli a questo modo, quand’ anche  vogliamo stabilire che il mondo si  regga a periodi determinati.'   1 Allusione alla c conflagrazione del mondo »  domma Eraolitico, la quale doveva accadere. La ragione e V arte ragionativa  sono facoltà che si contentano uni-  camente di sè medesime e delle  operazioni lor proprie. Piglian le  mosse dal principio peculiare a loro;  vanno dirittamente al fine proposto;  ondechè son nomate catortosi le  azioni di cotal sorta, significando col  nome la rettitudine della via. Non è da dire che sia dell’uo-  mo nessuna di quelle cose che non  ispettano all' uomo in quanto uomo.  Non sono punto requisiti dell’uomo,  nè le promette la natura dell’ uo-   a certi tempi, e distruggersi allora tutto  r ordine esistente delle cose, per dar luogo  ad un nuovo. Fu accettato dagli stoici ante-  riori, modificato e cangiato dai posteriori:  tra i quali non volle decider nulla Antonino.  por essere consumato ivi  dal fuoco, se T universo va soggetto a con-  flagrazioni periodiche, o per servire con  vicenda perpetua al rinnovamento di lui  s'egli dura eterno o incorrotto. Beota effectio appo Cicerone, lib. Ili de  Fin., cui vedi. Ciò che in questo § è no-  mato catortoei è l'aziono conforme al dovere,  ed è voce solenne alla scuola.  lYio o attende complemento da quel-  le. Adunque non istà nè anche in  loro 11 fine dell’uomo, nè iLbene. per conseguenza, che è parte integrante del fine. Ancora, se alcuna  di queste coso spettasse all’ uomo,  non ispetterebbe a lui il dispregiarle  o r opporsi ad esse; nè sarebbe lo-  devole chi mostrasse non averne  bisogno; nè sarebbe buono chi se  ne disdice alcuna, se buone elle  fossero, f^ppure, quanto più Tuoino  si priva di queste cotali cose, o so-  stiene d’ esserne privato, tanto più  buono è tenuto.'   IG. Quali saranno i tuoi pensieri  abituali, tale sarà la tua mente:  perché si tigne dai pensieri la men-  te.^ Tignila adunque con l’ abitudine   ' Dunque queste cotali cose non sono veri  beni per l' uomo in quanto è uomo, cioè ragionevole. [Questa conclusione è sott' intesa]. [Demostene più di una volta nelle sue  Filipj iche disse che quali sono le azioni in    (li pensieri come questo, per esempio: Dove si può vivere, quivi si può  anche ben vivere. Nella corte si può  vivere; adunque anclie nella corti;  si può ben vivere. K come quest’ altro: Una cosa eh’ ò fatta a contem-  plazione d' un’ altra, è fatta per qucl-  r altra; se è fatta per quell’ altra, a  quella ò portata; se a quella c por-  tata, quivi è il suo fine; se quivi è  il suo fine, quivi è anche il suo utile  e il suo bene. Adunque il bene del-  r animai ragionevole è la comunità;  sendo dimostrato già da lunga pezza  che per la comunità siam nati> O  non era evidente forse, che gli es-  seri men degni son fatti a contem-  plazione dei più degni, e i più de-  gni, a contemplazione gli uni degli  altri? che gli esseri animati son più  degni che gli inanimati, e i ragio-  nevoli più degni che gli animati?   cui sogliono versare gli uomini, tali soglio-  no pur essere i sentimenti deU’animo loro, Andar dietro all’ impossibile è  cosa da stolto. Ora è impossibile  che i malvagi non facciano cose di  questa sorta. Nulla accade a nessuno, che  egli non sia nato per sopportare.  Le stesse cose accadono a un altro,  il quale, o ignorando eh’ elle sieiio  accadute, o volendo dar a divedere  grandezza d’ animo, sta inaltérabile  e non se ne duole. Tristo a noi, se  la ignoranza o il rispetto umano  avran più forza che la prudenza. Le cose, per sè stesse, non  toccano l’ anima punto; nè hanno  accesso all’ anima; nè posson volger  r anima nè muoverla. Si volge ella  e si muove da per sè sola; e quali  sono i giudizi di che ella si reputa  degna, tali ella fa che sieno per lei  gli oggetti che le stan presso. Cioè, quali io le vedo fare a costui,  ora. Cioè a dire: «quali sono i giudizi che    Per un riguardo, l’ uomo è di  quelle cose che ci toccano il più  strettamente, in quanto convien far  del bene agli uomini e sopportarli;  ma in quanto si oppongono alcuni  alle azioni debite, diventa per me  cosa indifferente 1’ uomo, non meno  che il sole, non meno che il vento,  non meno che le bestie. Dalle quali  cose può benissimo venir impedita  una qualche azione; ma la volontà,  ma la disposizione interna non in-  contrano impedimento mai, per l’ ec-  cezione ‘ con che l’anima accompagna  i suoi conati e pel rimovere, eh’ ella  fa, l’ostacolo. Perchè l’anima ha  facoltà di rivolgere al suo scopo ogni  cosa che s’ opponga alla attività di  lei; e serve quindi ad un’ azione ciò  che impediva quella certa azione, e   ella stima degno di sè il fare delle cose  esteriori, cotali ella fa che per lei sieno le  dette cose. diventa una via ciò che le sbarrava  quella certa via.  Di quanto v’ lia al mondo, onora  r eccellentissimo. L’ eccellentissimo  ò quello che si vale di tutto il resto  e che tutto il resto governa. E così  ancora, di quanto v’ ha in te, onora  l’eccellentissimo. L’eccellentissimo  in te è quello che v’ ha in te di  congenere a quel primo. Di fatti esso  si vale in te di tutto il resto, e da  esso è governata la tua vita. Quello che non offende la città,  non offende il cittadino. Ad ogni  pensiero di offesa che ti paia aver  ricevuto applica questa regola; se la  città non è offesa da costui, non  sono offeso nè anche io. Che se la  città è offesa, non conviene adirarsi,  ma insegnare ‘ a chi l’ha offesa  dove sta il mancamento. Do il mio pieno voto alla correzione  dello Schultz, preceduto dal Gatakero, ben-  ché questi non sapesse così bono porro al  suo luogo le pardo scadute. Considera sovente la rapidità  con die passa e si dilegua tutto  quello che esiste e che nasce. Per-  chè la materia, a guisa d’ un fiume,  è in un flusso perpetuo; le azioni,  in uno avvicendarsi continuo; le  cause, in mille determinazioni di-  verse; nulla, per cosi dire, che stia;  e questo infinito che presso presso  t’incalza, del passato e del futuro,  è un abisso dentro al quale si spro-  fonda ogni cosa. Come adunque non  è uno stolto chi, fra questi termini,  si gonfia, o si travaglia, o guaisce,  per cosa che minimamente il mo-  lesti, come s’ ella avesse pure a du-  rare un buon tratto di tempo? Pensa a tutta quanta la materia, della quale per una minima  parte partecipi; e a tutta quanta la  età, della quale un breve e momen-  taneo intervallo ti è assegnato; e  all’ universale destino, del quale che  parte aliquota sei?  /Ucuno pecca. A me che fa?  Tocca a lui il pensarci; sua è la  volontà, sua 1’ azione. Io ho adesso  quel che la natura comune vuol che  adesso io abbia, e fo quello che la  natura mia propria vuol che adesso  io faccia. La parte sovrana e dominante  deir anima tua stia salda ai moti  della carne, o sien piacevoli o in-  grati, e non vi partecipi, ma circo-  scriva sè stessa e tenga confinate  nelle membra quelle passioni. Che  se elle penetrano ciò nondimeno  sino alla mente, per la simpatia in-  volontaria che han fra loro le parti  d’ uno stesso tutto; allora, al senso,  che è cosa naturale, non -si vuol  tentar di resistere; ma si guardi la  parte sovrana dallo aggiungervi del  suo r opinione che quello sia un  bene od un male.  Vivere con gli Dei. E que-  gli vive con gli Dei, il quale di con-  tinuo appresenta loro T anima sua  disposta di tal maniera che élla si  contenti di quanto le vien distribui-  to e faccia quanto vuole il Genio cui  Giove distaccò da sè stesso e diede  a lei per reggitore e per guida. Questo è la mente e la ragione di  ciascheduno.  T’adiri tu con quello che sa  di caprino? T’adiri tu con quello a  cui pute la bocca? Che vuoi tu che  ci faccia? Egli ha la bocca a quel  modo, egli ha le ascelle a quel modo,  di necessità debbono uscirne esala-  zioni a quel modo. Ma, odo chi  dice, r uomo ha la ragione, e può  scorgere, rillettendo, in che pecca. Egregiamente. E anche tu, dunque,  hai la ragione; eccita, con la disposi-  zione razionale, in lui la disposizione  razionale; ammaestralo; ammonisci-  lo. Perchè, s’egli ti ascolta, lo gua-  rirai, e non c’ è più uopo di collera.   28. ' Nè eroe di tragedia, nè putta. Come fai conto di vivere uscito  di qua,^ puoi vivere in quello stesso  modo anche qua. Che se non tei  permettono, allora esci pur anche  <lalla vita: ma come quegli a cui  non incontra nulla di male. C’è del  fumo qua, io me ne vado. Perchè  stimi questo gran cosa? Ma sin-   [Queste parole nella vulgata stanno alla  fine del § precedente; ma, se non sono cor-  rotte, debbono essere separate e formare da  por sè sole un paragrafo.   2 Cioè, non camminar sui trampoli, e non  istrascinartì per terra: non tanto alto da  parer gonfio o affettato, non tanto basso da  muovere a schifo altrui. Cioè, dalla corto. Allude, secondo che ci avverte il Gata-  kero, al proverbio:« tre esserle cose che ci  caccian fuori dì casa; il fumo, il pioverci  dal tetto, e la moglie astiosa.» Vuol dun-  que che r uomo esca di vita con quella in-  differenza con che uscirebbe dalla camera  dove vi avesse fumo. tantoché nulla di somigliante non  mi sforza a partire, me ne rimango  libero, e nessuno m’ impedirà dal  fare le cose eh’ io vorrò; e vorrò se-  condo la natura d’un animai ragio-  nevole e sociabile.  La mente dell’ universo ama la  comunanza. Perciò ha fatto gli esseri  men degni in grazia dei più degni,  e i più degni ha conciliato gli uni con  gli altri. Tu vedi come essa gli ha  subordinati, coordinati, dato a cia-  scuno secondo il suo grado, e ridotto  a mutuo consenso i primi tra loro. Come ti sei portato sinora con  gli Dei, co’ genitori, coi fratelli, con  la moglie, coi figli, coi maestri, co-  gli educatori, con gli amici, coi fa-  migliari, co’ servi; se, riguardo a  tutti, puoi dire insino ad ora:   « Nè d’ opre mai nè di parole oltraggio   A nullo io fea.* »   ' Omero, Odiss. Kanimenta per quali traversie sei  passato e quali hai avuto la forza  di tollerare: e siccome è piena ornai  per te la storia della vita e termi-  nato r incarico. Che cosa s’ è potuto scorgere in te di bello; quanti  piaceri e quanti dolori hai dispre-  giato; quante occasioni di gloria hai  negletto; a quanti sconoscenti ti sei  dimostrato amorevole. Forse tutto il paragrafo sarà più chiaro,  e il pensiero di Antonino meno ambigua-  mente espresso se diremo: < Qual fosti  infino ad ora verso gli Iddii, i parenti, i  fratelli, la moglie, i figlinoli, i maestri, gli  educatori, gli amici, i servi? Puoi tu dire,  rispetto a tutti: nè d'opra mai, ni di parole  oltraggio a nullo io /«a? De' passati tuoi  casi e delle passate fortune, quante hai  saputo tollerare da uomo? Conchiuso per te  oramai è il dramma della vita, finita la parte  che ti era assegnata. Ebbene, quante sono le  buone azioni che di te puoi ric-ordare?  Quanti piaceri, quanti dolori hai saputo  disprezzare? quante cose stimate gloriose,  * non curare? a quanti ingrati essere bene-  fico e amorevole?» In questo paragrafo il  Pierron ed altri dei migliori interpreti pre-  sero alcuni grossi granchi; 1' Ornato intese   Per qual cagione certe anime  inesperte ed ignare confondono esse  una esperimentata e sapiente? Qual è dunque l’ anima esperimen-  tata e sapiente? Quella che sa il prin-  cipio ed il fine, e conosce la ragione  che penetra la materia delle cose e  governa, secondo cicli determinati,  per tutta la eternità 1’ universo.  Oramai sei cenere, e schele-  tro, e un nome, o nè anco un no-  me; e il nome è strepito e rimbombo  mero. Le cose di che si fa gran  conto nella vita son vuote, fracide,  picciòle, cagnolini che si mordono,  fanciullini astiosi che ridono e poco  stante guaiscono. E la fede, e la ve-  recondia, é la giustizia, e la verità,   oc Air Olimpo, la terra abbandonando  Dalle vie spaziose.* »    meglio di tutti; ma troppo fedele alla let-  tera del testo, non fu chiaro abbastanza  nello esprimerne il senso. Esiodo, opere e giorni, v. 195. Sottin-   Che dunque ti può trattenere qui  ancora? quando le cose sensibili sono  senza costanza nè sussistenza; gli  organi del senso, ottusi- e pronti a  impressionarsi del falso; l’animuc-  cfa * tua stessa, non altro che una  esalazione del sangue; e 1’ aver fama  appo cotali, cosa del tutto vuota.  Che dunque aspetti? Con pazienza  il tuo qual eh’ ei sia o spegnimento  0 traslocamento. Ed intanto che quel-  lo viene, che cosa ti basta? Che  altro, se non venerar gli Dei e bene-  dirli, beneficar gli uomini e soppor-  tarli e astenerti con loro,^ ricordan-  doti che quanto è fuor dei limiti del  tuo corpicciuolo e della tua aniinuc-  cia non è nè in tuo potere nè tuo?    tendi un verbo, recaronsi o altro che più  ti piaccia. P.   t Per antniuccta, intende* spesso Antonino  il principio animale mero, comune anche ai  bruti, vedi la nota (6) in fino del volume. Cioè nelle tue relazioni con loro. Tu puoi prosperar sempre,  giacché puoi andar per la diritta  sempre, giacché puoi giudicare di-  rittamente sempre ed operare. Due  proprietà son queste, comuni al-  l’anima e di Dio ' e dell’ uomo e  d’ogni animai ragionevole: il non  potere essere impedito da altrui, e  lo avere il proprio bene interamen-  te riposto nella disposizione interna  e nella azione conforme alla giustizia, senza che il desiderio arrivi  più oltre. Comuni all'anima e di Dio e dell'uomo. Secondo il concetto stoico Iddio ora  un corpo o un essere vivente ed eterno,  non simile all' uomo, ma composto tuttavia,  come rnomo. d’anima e di corpo. L’unità  del corpo divino coll’anima divina ora per  essi il mondo, e quindi si accordavano a  dire che Dio è il mondo, cioè la materia,  dotata di una certa qualità e forma, colla  forza attiva in essa immanente. L'anima  di Dio sarebbe dunque questa forza attiva  immanente nel mondo, cioè nel corpo divino. Se cotesto non è malizia mia,   ' nè azione procedente da malizia mia, '  nè riceve danno la società, perchè  me ne do io fastidio? E qual dan-  no per la società v’ ha egli? Non lasciarti portar via dalla  immaginazione al primo incontro;  porgi aiuto altrui, sì, a tuo potere  e secondo l’ importanza.del caso,  qiiand’ anche lo scapito non sia se  non di cose mezzane; * ma guardati •  dall’ immaginare che sia un danno.  Perchè è una cattiva abitudine. Come quel vecchio che nel partirsi  domandava la trottola del suo allie-  vo, sapendo bene che ella era solo  una trottola: così hai da fare anche   tu * sui rostri. L’uomo, hai tu  dimenticato che cose son queste? No. Mma costoro ne fanno gran caso. E per questo hai da diventare  stolto anche tu? Dovunque il   colga la morte, uomo avventurato. E avventurato vuol dire che ha dato  buona ventura a sè stesso; e buona  ventura sono i buoni moti dell’ ani-  mo, le buone volontà, le buone  azioni. La materia delle cose è ar-  rendevole e piglia volentieri ogni  forma. E la ragione che 1’ amministra non ha in sè nessuna causa di  mal fare, non avendo malizia, e non  fa (juindi male a nulla, nè nulla è  dannificato da lei. Ed ogni cosa av-  viene ed ha compimento per essa.  Non ti curare che tu stia al  freddo o che tu stia al caldo, quando  fai il tuo dovere; che tu caschi di  sonno 0 che tu abbia a sufficienza  dormito; che te ne venga biasimo o  che te ne venga lode; che tu muoia,  o che tu attenda ad un’ altra azione  qualunque. Perchè ella è anche una delle azioni pertinenti alla vita,  quella per cui si muore; e basta  anche quivi, per conseguenza, ben  disporre del presente.   3. Vedi addentro; nè la qualità  propria di nessuna cosa nè il valore  ti sfugga.  Tutti gli oggetti in brevissimo  tempo si mutano; ed o avvampe-  ranno, se la materia è unificata, o si  disperderanno. La ragione governatrice sa bene  con qual intenzione e che cosa opera,  e su qual materia. Il miglior modo di vendicarsi  d’ una ingiuria è il non rassomigliare  a chi r ha fatta. D’ una sola cosa prendi piacere,  è di quella ti soddisfa; del passare  dall’ una azion sociale all’ altra azion  sociale, ricordandoti di Dio. [Intendi per aziono sociale una aziono  utile alla comunità dogli uomini, e qual si  conviene ad un animalo socievole qual è l’uomo. La parte sovrana è quella che  eccita e volge sè medesima; che fa  sè quale ella vuole,* e fa parere a  sè quali ella vuole tutte le cose che  aw^engono. Secondo la natura dell’ universo  ogni cosa si fa; non potendosi fare  secondo una qualche altra natura la  (piale 0 conterrebbe in sè quella, o  sarebbe contenuta in quella, o sta-  rebbe separata al di fuori di quella. 0 confusion d’ ogni cosa, accozzamento d’atomi, e disperdimento; o unità nel tutto, ordine, prov-  videnza. Se- il primo supposto ha  luogo, come desidero io di rimanere [Cioè che ha il potere di modificare sè  stessa come ella vuole. Se contenesse in sè la prima, non sa-  rebbe più questa la natura universale, ma  r altra; se fosse contenuta in essa, quel  che si farebbe secondo lei sarebbe fatto, a  fortiori, secondo l' altra: e se stesse sepa-  rata al di fuori, ci sarebbe qualche cosa  fuori dell* universo, il che è assurdo. più.a lungo in un guazzabuglio di  quella fatta e lordume? Che altro  mi debbe star a cuore che il « diven-  tare terra a qualunque modo? » E di  che mi turbo io? Verrà il disperdi-  mento a me, checché io mi faccia. Ma se è vero il secondo, adoro il  reggitore dell’universo, e in lui sto  fermo e confido. Quando vieni sforzato punto  punto dalle circostanti cose a tur-  barti, rientra subitamente in te stes-  so, e non istar fuori del ritmo ’ pili  di quello che la necessità ti costringa.  Perchè ti farai più valente nella  misura col ritornare ad essa di continuo. Se tu avessi la matrigna e la  madre nel tempo istesso, alla prima  faresti onore, ma torneresti pur non-  dimeno sempre accanto alla madre.  Cotali son per te la corte e la filosofia [Paragona la vita alla mimica. 0.  Ifarco Aurelio]. Torna sovente alla seconda e in essa ti riposa, la quale fa a te  sopportabil la corte, e te sopportabile in quella. Come ti fai concetto di tale  o tal altra vivanda, dicendo teco  stesso: è un cadavero di pesce, è  un cadavero d’ uccello o di porco;  e del falerno, è succo di grappoletti  d’uva; e della porpora, son peluzzi  di pecora intinti nel sangue d’ una  conchiglia; e del congiugnimento, è  attrito di membrane ed escrezione di  moccio con un po’ di spasmo; come  tu giudichi allora, penetrando col  concetto sino alle cose esse mede-  sime e rappresentandole nella es-  senza loro quali sono; così hai da  fare in tutte le occorrenze della vita;  e quando le cose ti si fanno innanzi  con molta appariscenza, denudarle,  e scorgerne la bassezza, tolto che  avrai d' intorno a loro la pompa onde  si fan magnifiche. Imperocché gran  madre illusioni è la boria; e quando  tu credi più fermamente eh’ elle sieno  serie le cose a cui attendi, allora sei  più affascinato. Vedi che cosa dice Cratete di Senocrate stesso.’  Le cose che il volgo apprezza  sono per la maggior parte di estremo  genere ed infimo, di quelle cioè che  dall’ abito (0) o dalla natura son go-  vernate: pietre, legni, fichi, viti, ulivi,  (rii uomini un po’men rozzi tengono  in pregio quelle che son governate  dall’anima: greggio, per esempio, e  mandre. Gli uomini ancor più còlti,  quelle che son governate dall’anima  ragionevole; non tuttavia in quanto  è universale, ma in quanto è arti-  ficiosa o, come che sia, ingegnosa.    1 StìTi Socrate tu discepolo di Platone, e  famoso per l’austerità del suo carattere,  (guanto al Cratete qui menzionato, ignorasi se fosse il filosofo Cratete di Atene, oppure  il cinico di Tebe; come ignorasi pariraentn  qual fosse il detto a cui si acceuna in questo luogo.  1 m2 ricordi.   V   od anche senza relazione a nulla, '  come il possedere semplicemente  una moltitudine di schiavi.* Quegli  poi che fa stima dell’anima ragione-  vole universale e sociale, non si  cura delle altre cose più punto; ma  si studia di consolidare in istati ed  in moti conformi alla ragione e  volti al bene della società 1’ anima  sua, ed aiuta il suo congenere a far  lo stesso. Una cosa s’affretta a nascere,  iin’ altra a venir meno, e di quella  stessa che nasce ima qualche parte  è già spenta; il flusso e l’alterazione  ringiovaniscono ad ogni ora il mondo,  come lo scorrere non interrotto del  tempo fa sempre nuova 1’ eternità.  Tn tal fiumana di cose che vengono  e passano, che v’ ha egli che altri   1 Intendi che costoro ameranno possedere*  nn gran numero di schiavi come i detti  pocanzi ameranno possedere nna mandra  numerosa. debba aver caro, quando,su nulla  può' far fondamento? Gli è come se  imprendesse ad amare uno degli uc-  celletti che volano, e quegli è già  sparito via.   La vita di ciascheduno è non al-  trimenti che una esalazione del san-  gue o una respirazione dell’aria. Pei>  chè non v’ lia differenza, che tu tragga •  a te l’aria una volta e la renda, il  che tu fai tuttodì, o che tu renda  tutta insieme colà d’ onde l’ hai tratta  la facoltà respiratrice che ieri o ier  l’altro nascendo acquistavi.   16. Non il traspirare, come le  piante, è degno di stima, non il re-  spirare, come i giumenti e le bere,  non il. ricevere impressioni nella  fantasia, non Tesser mosso dagli ap-  petiti, non l’adunarsi in branco, non  il nutricarsi; cosa non dissimile dal  mandar fuori il soverchiò del nutri-  mento. Che è degno di stima adun-  que? lo strepito? No. K per conseguenza nè anche lo strepito delle  lingue. Ora le acclamazioni del volgo  non sono altro che strepito delle  lingue. Anche la gloriuzza hai posto  adunque da banda. Che rimane, che  s«i degno di stima? Il muoversi, pare  a me, e il ristarsi * secondo il prin-  cipio della propria costituzione, al  che conducono ancora le arti e le  culture diverse. Perché ogni arte ha  questo per iscopo, che il formato da  lei sia acconcio alPopra per la quale  è formato; e il vignaiuolo che coltiva  la vite, e il cavallerizzo, e il canat-  tiere, cercano pur questo. E le educazioni, e le scuòle, a che tendono?  Questo adunque è il degno di stima.  E se questo vien condotto a bene,  non occorre procacciar più altro. —  Non finisci di stimare ancora molte  altre cose?* Nè libero adunque sarai   1 L'operare e il non operare. 0.   ^ Cioè, non cesserai dallo avere in pre-  gio molte altre cose?  tu mai, nè bastevole a te, nè im-  passibile; perchè ti sarà mestieri  invidiare, ingelosire, sospettare chi  ti può tórre le cose che stimi, mac-  chinar contro a chi le ha; in fine,  conturbato convien che sia chi  d’ alcuna di quelle è privo, ed ol-  tracciò, che mormori contro agli Dei  bene' spesso; laddove la riverenza  della propria mente e la stima ti  farà accetto a te medesimo, accomo -  devole agli uomini e consonante agli  Dei,* io voglio dire, contento di tutto  che essi distribuiscono e di tutto che  hanno ordinato.  Air insù, all’ ingiù, a cerchio  intorno, son le mosse degli elementi.  La virtù non si muove in nessuna   ^ cDi modo che ciascheduno che procac-  cia di desiderare e fuggire solamente quello  che è da essere desiderato e fuggito, pro-  caccia al tempo medesimo di esser pio -- Epitteto, Manuale, traduz. di  G. Leopardi. Vedi tutto questo capitolo del  Manuale. di queste guise, ma in una certa sua  più divina, e per via mal compren- . sibile procedendo va di bene in  meglio. Che cosa è mai quel che fanno !  Ai loro contemporanei, che insieme  con essi vivono, non voglion dar lode;  ed essi medesimi poi agognano di aver  lode dai posteri i quali non videro  mai, nè vedranno. Gli è come se tu  ti dolessi del ' non aver lode anche  da’ tuoi antenati.  Non ogni volta che una cosa  è malagevole a te, hai da credere  però eh’ ella sia impossibile all’uomo;  anzi, ogni volta ch’ella è possibile  all’ uomo e dimestica, credi ch’ella  è conseguibile anco da te.  Nell’ esercizio della lotta alcuno talora ci graffia, o venendoci  addosso ci percote malamente col   [Merico Casaabono cita qui, siccome  un bel comento a questo §, il saggio di Giobbe, che vuol leggersi tutto  intero. capo. Ma noi diamo a divedere, e  non ce ne tenghiamo olfesi, nè stiamo  in apprensione di lui quindi innanzi,  come se ci insidiasse; ce ne guardiamo, sì, ma non come da nemico, nè  con. animo sospettoso; lo scansiamo  con piacevolezza. Questo medesimo  s’ha da fare in tutte le altre parti  della vita: molte cose lasciar correre,  come tra persone che lottano. Perch’egli si può, come ho detto, schi-  vare altrui, e non averlo però a so-  spetto nè odiarlo.Se altri mi può convincere  e far capace eh’ io penso ed opero  non rettamente, di buon grado son  per ricredermi; perchè io cerco la  verità, la quale non noeque mai a  nessuno. Nuoce bensì altrui il li-  manere nell’ inganno e nell’ ignoranza propria. Quanto a me, io so l’ufficio mio;  le altre cose non me ne distolgono;  perchè o sono inanimate, o irragionevoli, o vanno errate e non conoscon  la via. Gli animali irragionevoli e le  cose in generale a te sottoposte,  quando esse non han la ragione e  tu r hai, usa senza riguardi altera-  mente; gli uomini, che han la ra-  gione, usa come vuol la legge di com-  pagnia. In ogni cosa poi, invoca gli  Dei. E non curarti del più o men  tempo che tu durerai a far cotesto:  perchè bastano anche tre sole ore  cotali. Alessandro il Macedone e il  mulattiere di lui si ridussero, morendo, alla medesima stregua. Perchè,  o furon ricevuti ambidue nelle stesse  ragioni seminali del mondo,' o si  dispersero del pari in atomi. Pensa quante cose, in un  medesimo istante, dentro a ciascuno   * Nel caso che sia vero il sìsteina ato-  mistico di Epicuro. di noi han luogo, relative al corpo  nello stesso tempo ed all’ anima; e  non istupirai che molte più, anzi  tutte quelle che avvengono, coesi-  stano simultanee in quel tutto ed  uno a cui diamo il nome di mondo.   Se qualcheduno ti domanda  come si scriva il nome d’ Antonino,  proferirai tu forse con isforzo di voce  ogni sillaba? E se quegli s’adira,  t’adirerai alla tua volta anche tu?  Non annovererai tu piuttosto, pa-  catamente procedendo, l’una dopo  l’altra le lettere? Cosi hai da fare  anche adesso. Ricordati che ogni  ufficio* consta di certi numeri; col-  r osservare i quali, e non col tur-  barti, e non coll’ adirarti con chi  s’adira, arriverai direttamente al fine,  proposto.  Come è crudele il non per-  mettere agli uomini che seguano quel che sembra a loro convenevole  ed utile? E tu noi permetti, in un  certo modo, quando ti corrucci del  loro fallire. Perchè del tutto e’ non  vi si indifcono se non in quanto il  credono convenevole ed utile a loro.  Ma non è così. Dunque ammae-  strali e falli capaci, senza corrucciarti.  La morte è una pausa alla im-  pressione dei sensi, allo stimolo degli  appetiti, al discorrer della mente èd  alla servitù verso la carne.  È un vituperio che in quella  vita dove non ti s’è stancato ancora  il còrpo, ti si sia stancata innanzi  tempo r anima.  Bada a non incesarirti,* a non  imbrattarti; chè cosi suole avvenii-e.  Conservati adunque semplice, buono,   ^ Intendi: sebbene tu sia stato adottato  nella famiglia dei Cesari, bada a non t«cc-  sarirli, cioè cadere nei costumi viziosi di  molti dei Cesari o imperatori che. ti hanno,  preceduto. intemerato, grave, ingenuo, amico  del giusto, pio, mansueto, amorevo-  le, saldo nell’ adempire al tuo ufficio.  Combatti per mantenerti tale, quale  ti ha voluto fare la filosofìa. Venera  gli Dei, fa’del bene agli uomini. Breve  è la vita; e l’unico frutto di questa  esistenza terrena è la santa disposi-  zione deir animo e 1’ opere indiriz-  zate al comun bene. Ogni cosa da  vero discepolo di Antonino quel  suo vigor costante in ciò che operava  secondo ragione, e 1 umor sempre  uguale, e la santità della condotta,  e la serenità del volto, e la soavità  dei modi, e il dispregio della vana  gloria, e l’ ardore nel voler comprender le cose, e come non avrebbe lasciato andar nulla mai, ch’egli non  avesse ben bene considerato in prima  e chiarito; e come sopportava quelli  che si dolevano di lui ingiustamente,  [Antonino Pio, suo padre di adozione. senza ridolersi egli di loro; come  non faceva mai nulla in furia; come  non dava adito ai delatori; come era  diligente esploratore dei costumi e  delle azioni, non maldicente nè te-  mente i rumori, non sospettoso,  non sofistico; come si contentava di  poco, in materia d’abitazione, per  esempio, di letto, di vestito, di cibo,  di servidori; come era operoso, lon-  ganime, e di tal tempra da poter  durare in uno stesso luogo sino alla  sera, senza aver uopo, per la fruga-  lità del vitto, nè anche di uscire ai  bisogni del corpo fuor dell’ ora con-  sueta; e la costanza e il tenor sempre  uguale nelle amicizie; e il sopportare  che altri contraddicesse con libertà  di parole al suo parere, e rallegrai’si  quando glien era mostro un migliore;  e come era religioso senza supersti-  zione; affinchè, con una buona coscienza pari alla, sua, tu incontri  come egli incontrò l’ultima ora. Esci dall’ ebrezza, ritorna in  te; e cacciato via il sonno, e veduto  ch’eran sogni quelli che ti turba-  vano, risvegliati una seconda volta,  e guarda le cose della vita come tu  guardavi quelle altre. Son composto di un corpicciuolo e d’un’ anima. Al corpicciuolo  tutte le cose sono indilferenti; non  potendo egli nè manco far differenza.  Air anima sono indifferenti tutte  Qui r Ornato volea fare una nota, come  è indicato nel manoscritto, ma non la fece.  Verosimilmente egli volea gìnstiiicare e il-  Instrare la sna interpretazione di questo  luogo, alquanto diversa da quella degli altri interpreti. La traduzione letterale di  tutto il § è cEsci d'ebrezza, richiama te  stesso; e cacciato via il sonno, e veduto che  eran sogni quelli che ti turbavano, desto  una seconda volta, guarda queste cose, co-  me tu guardasti quelle altre.  Intendi anima razionale, la quale per  gli Stoici non era altro che ragione e vo-  lontà, esclusa la sensibilità appartenente  solo airantmwccta, mero principio animale  comune anche ai bruti. quelle che non sono azioni di lei. E  quelle che sono azioni di lei, stantìo  tutte in balia di lei. E di queste an-  cora, quelle sole che riguardano il  presente. Perchè le azioni future  e le passate sono pure indififerenti  per lei. Il lavoro non è cosa contro  natura nè per la mano nè pel piede,  sintantoché il piede fa le cose del  piede, e la mano le cose della mano..  Quindi non è nè anche cosa contro  natura per V uomo, in quanto uomo,  fìnch’egli fa le cose dell’uomo. E  se non è cosa contro natura per lui,  non è nè anche per lui un male. Quanti piaceri non godono i  malandrini, i bagascioni, i parricidi,  i tiranni? Non vedi come gli artisti mec- *  canici condiscendono bene in.qual-  Sottintendi; € hanno importanza per  lei. che cosa agli imperiti, ma non  seguitai! meno però la ragione del-  l’arte, e da quella non si vogliono  distaccare? Non è ella una vergogna  che l’architetto e il medico abbiano  più rispetto per la ragion dell’ arte  loro propria, che l’ uomo per la sua, la quale egli ha in comune con gli dei?   L’Asia e l’Europa son cantucci  del mondo; tutto il mare, una goc-  ciola del mondo; l’ Athos, una zolletta  del mondo; ciascuno degl’istanti pre-  senti del tempo, un punto dell’ eter-  nità. Tutto è piccola cosa, mutabile,  peritura. Tutto vien di colà, da quella  mente comune, o voluto da lei, o per  concomitanza.* E quindi la gola del  leone, e il veleno, ed ogni cosa ma-  lefica, come le spine ed il loto, sono  un accompagnamento e quasi una  produzion necessaria di quanto v’ha d’eccelso e di bello. 'Non immaginai ti  adunque che sien cose aliene da  quello che tu veneri; ma pensa alla  sorgente del tutto. Chi ha veduto le cose d’ adesso,  ha veduto tutte le cose, quante per  gl’ infiniti secoli furono e per gli  jiltri infiniti saranno; perch’ elle son  tutte d' uno stesso genere e d’ uno  stesso coloi'e.  Considera sovente la concate-  nazione di tutte le cose nel mondo  e la relazione dell’ una all’altra. Per-  di’ elle son tutte intrecciate, dirò  così, r una colf altra, e tutte, per  (piesto motivo, amiche l’ una del-  l’altra. Di fatti all’ una vien sempre  dietro 1’ altra; del che è cagione iJ  moto tonico e consenso di tutte e  r unità della rnateiia prima.  Alle cose che ti sono date in  sorte, ti devi adattare; e gli uomini,  coi quali hai comune la sorte, li devi  amai'e, ma amar veramente. Uno strumento, un ordigno,  un arnese qualunque, se è atto, a  tutto quello per che è stato formato,  va bene; ancorché non ci sia più  chi r ha formato. Ma negli esseri  governati dalla natura è immanente  dentro e continua la virtù che li  formò; per lo che conviene ancor  più venerarla, e stimare.che, ove  secondo il voler di quella tu viva,  sia per riuscirti secondo il tuo in-  tento ogni cosa. E questo ò quello  che succede all’ universo, che gli  riesce secondo il suo intento ogni  cosa.   il. Quale che sia la cosa dove tu  riponi il tuo bene o il tuo male,  s’ ella è una di quelle che non di-  pendono dalla tua volontà, di neces-  sità debbe accadere che, incorrendo  tu in quel male, o non conseguendo  quel bene, tu accusi gli Dei, e che  tu odii inoltre gli uomini, i quali ti  saran causa, o i quali tu sospetterai avere ad esserti causa del non  conseguir 1’ uno o dell’ incorrer nel-  l’altro; e molte iniquità, certo, com-  mettiam noi, per non essere indif-  ferenti a siffatte cose. Ma se noi  tenghiamo per beni o per mali quelle  cose soltanto che dipendono da noi,  nessuna causa rimane più nè di ac-  cusare Iddio, nè di stare in ostilità  verso l’uomo. ANBEDUE COOPERIAMO AD UN MEDESIMO FINE. Gl’uniscienti e intelligenti, gl’altri alla cieca; per modo che anche i dormienti, come disse  Eraclito, se non erro, lavorano e  COOPERANO a ciò che si fa nel mondo. L’ uno ci lavora in una guisa, l’altro in un’altra; e ancorché senza  suo prò, ci lavora e coopera anche  colui che si va querelando e fa prova   ' Vedi il § 16 di questo medesimo libro.  Con questo § finisce il volgarizzamento del-  r Ornato, e col § seguente incomincia il volgarizzamento rifatto da me. di resìstere e distruggere l’opera  altrui: perchè anche di questi ha  bisogno il mondo. Rimane dunque  che tu vegga nel novero di quali tu  ti vuoi porre: perchè chi governa  il tutto, saprìi ben valersi di te in  ogni modo, ricevendoti in questa o  in queir altra banda de’ suoi lavora-  tori e cooperatori. Se non che hai  da badare che tu non sia tal parte  della brigata, qual è del dramma  quel povero e ridicolo verso di cui  parla Crisippo. Il sole vuol egli fare le veci  della pioggia? o Esculapio quelle di  Cerere? E gli astri non hanno essi  i loro uffici diversi, ciascuno il suo,    1 Plutarco {de comm. adv. Stoicot) cita le  parole di Crisippo, alle quali allude Anto-  nino: «In quel modo che le commedie hanno  talvolta dei versi ridicoli e facezie che non  hanno alcun valore in sè, ma giovano non-  dimeno all'effetto generale del poema; pa-  rimente il vizio è certamente riprovevole  in sè, ma non è inutile a tutto il rimanente  delle cose.» ma COOPERANTI AMBI AD UN MEDESIMO FINE?  Se gli Dei hanno deliberato  intorno a me ed alle cose che deb-  bono incontrarmi, hanno bene deli-  berato e provveduto: perchè un Dio  senza senno e improvvido non pos-  siamo neppure immaginare. E farmi  del male, per qual motivo l’ avreb-  bero essi voluto? Qual pio ne sa-  rebbe venuto ad essi o al tutto di  che prendono sì gran cura? Che se  non hanno deliberato intorno a me  in particolare, essi hanno al certo  deliberato universalmente intorno a  tutto il complesso delle cose. Io  debbo quindi accettare e aver caro  tutto che mi accade, come conse-  guenza necessaria di quella loro ge-  nerale determinazione. Che se poi  non pensano nè provvedono a nulla  (è una empietà il crederlo; o vera-  mente non facciam più sacrifici, nè  preghiere, nè alcuna di quelle cose che suppongono presenti gli Dei e  viventi con noi); ’ se, dico non pen-  sano nè provvedono in. alcun modo  a niuna delle cose mie; posso io  almeno pensare e provvedere a me  stesso: e mio primo pensiero debbe  essere di conoscere in che consiste  Futile mio. Ora egli è utile ad un  essere qualsivoglia ciò chcs è con-  forme alla costituzione e natura di  lui. La mia costituzione è ragionevole e socievole: la mia società e  LA MIA PATRIA, come Antonino, è ROMA; come uomo, è il mondo. Ciò solo adunque che giova a queste  due patrie, ò utile a me. Ciò che avviene a ciascheduno, è utile al tutto. Questo solo basta. Ma tu osserverai ancora, so  tu ci badi, che per F ordinario ciò  che succede ad un uomo, è utile an-  cora agli altri uomini. Intendo ora   ^ Intendi: «che suppongono la presenza J  e la provvidenza divina.»  r utile nel senso volgare, cioè attri-  buendo utilità alle cose medie. Quello effetto che fanno in te  gli spettacoli degli anfiteatri e di  simili luoghi, chè per essere sem-  pre le medesime cose, ti rechi a  noia il vederle, quello effetto me-  desimo facciano in te tutte le cose  della vita: perchè esse sono, dalla  cima al fondo, sempre le stesse, e  nate sempre dalle stesse. K fino a  quando adunque?  Non cessare di rappresentarti  al pensiero uomini’ trapassati di ogni  fatta 0 di ogni sorta di condizioni,  discendendo anche a Filistione, a  Febo e a Origanione;* passa di poi  ad altri generi di viventi. Colà dob-   I[Vi fu un Filistione poeta comico, contemporaneo di Socrate; vi fu ancora un  Filistione di Locri, il quale era medico, e  da alcuni creduto autore dei libri sulla  dieta che fanno parte della collezione ip-  pocratica. Quanto a Febo e Origanione ci  sono al tutto incogniti. biamo andare anche noi dove sono  iti tanti valenti oratori, tanti gravi  filosofi, Eraclito, Pitagora, Socrate;  tanti eroi prima di loro, tanti capi-  tani dopo, tanti tiranni; e insieme  con loro EUDSOSSO, IPPARCO, ARCHIMEDE altri acuti ingegni, uomini  magnanimi, laboriosi, scaltri, arro-  ganti, beffardi, schernitori di questa  povera vita di un giorno, siccome fu MENIPPO ed altri simili a lui.  Pensa che tutti costoro sono spenti. II celebro matematico discepolo di Platone, il cui sistema è esposto nel XII della  Metafisica di Aristotele; e che insieme cou  Speusippo assorbì tutto il Platonismo nella  teoria dei numeri. A lui si applica, non  meno che a Speusippo,!' osservazione di Ari-  stotele: «la matematica è divenuta tutta  la filosofia del nostro tempo. [Matematico contemporaneo di Tolomeo  Filadelfo, nato in Nicea] [Filosofi» cinico nato a Gadara, dal quale  un certo genere di satiro che furono dette menippee: orasi beffato dei filosofi e delio  loro dispute scrivendo con uno spirito e  una vena inesauribile, che gli fu invidiata,  come pare, anche da Luciano. da gran tempo. Ora che male per  essi? che male per coloro dei quali  non resta pure il nome? Solo una  cosa è qui da avere in gran pregio:  r osservar sempre la veracità e la  giustizia, comportandoci benevol-  mente anche verso i bugiardi e gli  ingiusti.   48. Quando vorrai rallegrare te  stesso, rappresentati al pensiero le  migliori qualità degli uomini coi  quali tu vivi: per esempio, l’ope-  rosità efficace di questo, la vere-  condia di quello, la liberalità di quel-  r altro, e cosi via via. Perciocché  non è cosa che tanto rallegri, quan-  to le sembianze della virtù espres-  se nei costumi delle persone colle  quali viviamo, e quanto più esser  possa, accumulate e frequenti. Vuoisi dunque averle pronte alla memoria.  Ti quereli tu del pesare solo  cotante libbre e non tre cento? Così non ti querelare dello aver a vivere  solo tanti anni e non più. Come ti  tieni per pago e lieto della quantità  di materia che ti fu assegnata, così  accontentati del tempo. Fa’ prova di persuaderli; ma  non lasciar di operare anchh mal-  grado loro, quando ragione di giu-  stizia il richieda. Che se altri ti  impedisce colla forza, volgiti alla  rassegnazione, e serba la serenità  dell’anima, facendo uso di quello  impedimento per l’ esercizio di un’altra virtù. E ricordati che tu vuoi  condizionalmente,* e che non si ri-  chiede da te r impossibile. Ora che  si richiede adunque? Una cotale determinazione di volontà. E questa  [ La volontà giusta è solo scopo e termine di sè medesima, sia o non sia ella  efficace, cioè a dire, sia o non sia seguita  dall' effetto esteriore, il che dipende dalle  circostanze esterne. tu l’hai: il fine a cui sei venuto  nel mondo è conseguito. L’ambizioso ripone il ben suo  nell’ azione altrui; il voluttuoso nelle  proprie passioni; ' il savio nella sua  propria azione. Io posso astenermi dal fare  concetto alcuno intorno a ciò, e non  turbarme nell’anima. Non le cose,  ma noi siamo gli autori dei nostri  giudizi. Fa’ di avvezzarti ad ascoltare  senza distrazioni ciò che altri dice,  e ad entrare quanto più puoi nel-  l’animo di chi favella. Ciò che non giova allo sciame,  non giova neppure alla pecchia. Quando i naviganti mormorano   contro al nocchiero, o gli infermi. Meno stoicamente direbbesi nel soddisfacimento delle proprie passioni, » cioè  nel piacere procurato da questo soddisfaci-  mento. Perchè il piacere stesso è per gli  Stoici una passione, un patire e non un  agire dell' anima. Di  contro al medico,' qual motivo può  moverli a ciò se non se il modo  con che il medico e il nocchiero  procacciano la sanità e la salvezza  loro? Quanti di coloro, coi quali io  venni al mondo, se ne sono già andati!  Agli itterici sembra amaro il  miele, l’acqua è spaventevole al-  r idrofobo, pel fanciullo è bellissimi  una palla. A che dunque mi adiro?  Stimi tu men potente una falsa opi-  nione che la bile nell’itterico, o il  veleno nell’idrofobo?  Niuno può recarti impedimento  al vivere secondo la legge della tua  natura; nulla accaderti contro la  legge della natura comune. Che è il vizio? è ciò che tu  spesso hai veduto. E ad ogni acci-  dente che t’ intervenga abbi apparecchiato questo pensiero, che è cosa  da te spesso veduta. Su e giù, a  dritta e a manca troverai pur sem-  pre le stesse cose, di che sono piene  le antiche storie, le mezzane e le  moderne; di che ora son piene le  città e le case. Nulla di nuovo: tutto  consueto e di poca durata. La fede nei domini come può  venir meno se non se collo spegnersi  di quei pensieri che sogliono ali-  mentarla? i quali sta in te jl ride-  «^tar di continuo. Posso pensare di una cosa quel che ne debbo pensare:  se questo è in mia facoltà, a che  mi turbo? Ciò che è fuori ilella mia  mente, non ha nulla che fare colla  mia mente. Fa’ di essere cosi dispo-  sto e sei ritto. Il risorgere sta in  poter tuo: vedi di nuovo le cose a  quel modo che tu le vedevi: sarà il  tuo risorgimento.'   3. Pompe, trionfi, vani apparati,  drammi che si recitano in sulla sce-  na, greggi, armenti umani, scara-  mucce, ossicciuolo gittate al cagno-  lino, tozzo di pane ai pesci nel vivaio,  affanni e lavorar di formiche,, discorrimenti qua e là di topi spaventati,  fantoccini mossi da un filo. È mestieri  assistere a codeste cose con viso  benevolo e non burbero, ma non  però dimenticare che tanto vale cia-  Pare che ad Antonino in un momento di  sconforto sombrasse aver perduta la fede  nei domrai della filosofia. E si conforta a ri-  cuperarla. Bello e profondo paragrafo, stoicamente considerate] scuno quanto vaglion le cose cui dà  le sue cure. Conviene por mente parola per  parola a ciò che si dice, e atto per  atto a ciò che si fa. E veder tosto  nell’ una cosa qual è lo scopo; nel-  l’altra, qual è il significato.   5. Basta, o non basta il mio in-  gegno a proccurare questo effetto? Se basta, io ne fo uso come di uno  stromento che la natura dell’ universo mi diede. Se non basta, ove  non osti il dover mio, lascio fare  r opera a chi può condurla a fine  meglio di me; ovvero io la fo co-  me posso, giovandomi dell’aiuto di  tale, che possa, scorto dal mio pro-  prio consiglio, recare ad effetto ciò  che è utile ed opportuno alla co-  munità. Perchè questo deve esser  sempre il fine di ciò che io faccia,  sia da per me solo, sia coll’aiuto altrui: l’utile e il convenevole al  comune.   6. Quanti lodatissimi sono già stati  dati all’oblio! e quanti che li loda-  rono sono scomparsi, già è gran  tempo!   7. Non ti vergognare dell’essere  aiutato. Tu ci sei per fare quello che  tocca a te, come un soldato ad una  battaglia murale. Ora se tu, offeso  in una gamba, non potessi solo salire  in sui merli, e ti venisse fatto col-  r aiuto di un compagno? Non ti mettere affanno delle cose  future. Tu arriverai ad esso, se il  dovrai, recando teco quella mede-  sima ragione di che fai uso nelle  cose presenti.   D, Tutte le cose sono reciproca-  mente collegate fra loro; sacro è il  legame che le unisce, e niuna cosa  può dirsi estranea ad un’altra. Esse  sono tutte coordinate insieme e con-  corrono ad ornare lo stesso mondo. Perchè uno è il mondo che è formato  di esse tutte, uno Iddio che penetra  tutto, una la materia prima, una la  legge, una la ragione comune a tutti  t?li esseri intellettivi, una la verità:.  essendo pur anche una sola la perfezione di tutti gli esseri congeneri  e partecipi della stessa ragione. Presto svanisce ogni corpo, risolvendosi nella sostanza universale;  presto svanisce ogni causa, rientran-  do nella ragione universale; e la  memoria di ciascheduna cosa è presto  inghiottita nell’abisso del tempo. Per l’animale ragionevole, la  stessa azione che è secondo natura,  è anche secondo ragione.  Se non sei ritto, dirizzati. Quella relazione che hanno fra   loro le membra del corpo nell’ ani- '  male individuo, hanno fra loro gli  esseri intelligenti nel corpo collet-  tivo della società: tutti sono fatti per  cooperare insieme ad uno scopo comune. E per meglio ricordartene  avrai cura di ripetere. spesso a te  medesimo: io sono un membro del  sistema degli esseri intelligenti. Ma  se tu di’ solamente: io sono una  parte, tu non ami ancora di cuore  gli uomini; il beneficarli non è  ancora per te cosa che per se me-  desima ti diletti e ti contenti: tu il  fai tuttavia per pretto dovere, non  perchè tu senta di beneficare ad un  tempo te stesso.  Accada che vuole al di fuori a  quelle parti che possono ricevere  nocumento da cotali accidenti: se  ne dorranno esse che patiscono,’ se  il vogliono. Quanto si è a me, ove  io non faccia concetto di siffatti ac-  cidenti come di un male, non ne  ricevo nocumento veruno. E sta in  mia facoltà il non fare cotali concetti. Che che altri faccia o dica, a  ine conviene essere uomo dabbene:  per appunto come se V oro, o la  porpora, o lo smeraldo dicesse: che  che altri faccia o dica, a me conviene  essere smeraldo, e avere il mio pro-  prio colore.   16. (7) La parte sovrana non dà  mai noia a sè stessa, vale a dire, non  è mai cagione nè di tristezza, nè di  timore, nè di concupiscenze a sè  stessa. Se altro v’ ha che possa moverla a ciò, vi si adoperi. Quanto a  lei, operando razionalmente, non  sarà mai a sè stessa cagione di cotai  moti. Provveda il corpo, se può, al  non avere a soffrire; e se soffre, lo  dica. Quanto si è all’animuccia, nella  (filale veramente cade la tristezza e  il terrore, basterà solo che la parte  ove si formano i giudizi* del terribile   [Animuccia; intendi il principio della  &dìoi&1o   e del tristo, non dia luogo a quelli:  essa animuccia non ha attitudine a  formare giudizi cotali. La parte sovrana, considerata in sè, non ha mai  manco di nulla, ove ella non venga  meno a sè stessa: e similmente non  è mai turbata nè impedita, ove non  turbi o impedisca ella sè medesima. Beatitudine vuol dire buon  genio, vuol dire mente buona. Che  fai dunque tu qui, o immaginazione?  Va’ via, te ne prego per gli Dei, vat-  tene come sei venuta: non ho bisogno  di te. Tu sei venuta secondo l’usanza  tua vecchia. Non mi adiro teco; ma  vattene.  V’ha chi teme il mutamento?  Ma che può farsi mai senza muta-  mento e trasformazione? E che v’ha  di più caro, di più proprio e consueto  alla natura dell’universo? E puoi tu  stesso prendere un bagno se le legna  non si trasformano? puoi tu nutrirti,  se non si trasformano i cibi? E v’ha egli alcuna delle altre cose necessarie  alla vita che possa elfettuarsi senza  trasformazione? Non vedi tu dunque  che il dovere tu ancora essere trasformato, va del pari con tutte le  altre trasformazioni,, ed è parimente  necessario alla natura dell* universo?   19. Per entro la sostanza dell' uni-  verso, come per entro a un torrente,  passano tutti i corpi connaturati a  (jiiello, siccome sono connaturate a  noi, e cooperano con noi le nostre  membra. Quanti Crisippi ha già inghiottiti il tempo, quanti Socrati,  quanti Epitteti! Lo stesso sovvengati  (l;ogni altro uomo, o cosa qualsi-  voglia.  Una sola cosa mi turba: la tema  di far cosa che la natura dell’ uomo  non voglia, o come essa non voglia,  o quando essa non voglia. Presto avrai tutto obliato, e  presto ancora sarai obliato da tutti. È proprio dell’ uomo l’ amare anche colui che ci offende. Il che ti  verrà fatto se tu penserai che egli è  pur tuo congiunto,^ che ha peccato  per ignoranza e suo malgrado, che  fra poco sarete morti ambidue, e so-  pra tutto che egli non ti ha nociuto:  perchè non fece peggiore che olla  prima si fosse la tua parte sovrana. La materia comune di tutte le  cose è nelle mani della natura universale, come la cera in quelle dello  scultore.^ Ora ella ne fa un cavallo,  poi, rifusa la materia del cavallo, ne  fa uso alla produzione di un albero,  poi a quella di un omiciattolo, poi  a quella di qualche altra cosa, e  ciascuna di queste cose dura un  brevissimo spazio di tempo. Ma e'non  è oggi più tremendo pel forzierino  r essere sconficcato e disfatto, che  non fu ieri 1’ esser fatto. Il quale si serve di essa cera per fare  i modelli delle sue statue. II livore in sul viso è cosa  contro natura, da che spesso vi al-  tera anche il colore che naturalmente   10 abbellisce, e che alla fine vi si  spegne in modo da non potervisi più  ravvivare. Questo ti provi che è cosa  eziandio contro ragione: perchè se  anche la coscienza del peccare si  perde, qual motivo di più vivere? Tutte le cose che vedi, già già  le viene mutando la natura reggitrice  del tutto, la quale ne farà altre della  materia loro, e poi altre della ma-  teria di queste, affinchè il mondo  sia sempre giovane.   Quando altri ti offende in che  che sia, considera tosto qual cosa  egli abbia dovuto estimare come un  bene o come un male perchè fosse  così mosso ad offenderti. La qual  cosa scorto che tu abbia, tu avrai  compassione airuomo, e cesserai dal maravigliarti e dallo adirarti. Perdiè  o tu stesso stimerai tuttavia come  un bene o come un male quella  medesima cosa od altra somigliante;  e allora gli si vuol perdonare; o tu  farai altra estimazione ch’egli non  fece, e più facilmente benigno sarai  a chi travide malgrado suo.  Non pensare alle cose che tu  ancora non hai come se tu g»à le  avessi. ^Ma facendo piuttosto il no-  vero delle più comode tra quelle che  liai, sovvengati quale studio porresti  in procacciarle se tu non le avessi.  Bada nondimeno che questo tuo  averle in grado non ti venga avvez-  zando a stimarle in modo da turbar-  tene poi quando elle ti mancassero. Ravvolgiti in te stesso. La parte sovrana e ragionevole dell’ uomo ha  natura tale che basta a sè quando  agisce rettamente e sa trovare in  ciò la sua quiete.   29. Cancella le immaginazioni, raffrena gli appetiti, circoscrivi il pre-  sente del tempo. Conosci ciò che  accade a te e ad altrui. Dividi e ri-  solvi ne’ suoi elementi, la parte  causale c la parte materiale, ogni  oggetto di appetizione o di aver-  sione. Pensa all’ ultima ora. Lascia  stare il peccato altrui colà dove ò  nato.   no. Segui col pensiero le altrui  parole. Penetra coll’ acume della  mente nelle cose che si fanno e nel-  r animo di coloro che le fanno.   31. Adornati di verecondia, di sem-  plicità e di indifferenza verso tutte  le cose che non sono nè virtù nè  vizio. Ama il genere umano. Obbedisci a Dio. Tutto le cose, disse  colui, si fanno secondo una legge  immutabile. 0 gli Dei, o gli atomi. Ma basta il ricordare che tutto si fa   [Cioè a dire: o v' ha una provvidenza  divina, o non v' ha, secondo il sistema ato-  mistico di Epicuro. secondo una legge. Ma troppo è anche  il poco già detto. Quanto alla morte, o essa a un disperdimento, se la vita ò un  accozzamento fortuito di atomi o altra  aggregazione qualsiasi. Ovvero essa è uno spegnimento, ovvero un  traslocamento. Quanto al dolore, se è intollerabile, ti uccide. Se dura, è tollerabile. E la mente conserva la sua tranquillità se si raccoglie in sè stessa:  e la parte dominante non si è fatta  peggiore. Quanto alle parti che sono  offese dal dolore, ce lo dicano se il  possono. Quanto alla gloria, vedi le menti  loro, quali cose fuggono e quali cose  ricercano. E ancora, che a quel modo  stesso che gli strati di arena novel-  lamente gittati in sul lido ricoprono  i precedenti; similmente nella vita  le cose nuove ricoprono, sovrappo-  nendosi, per così dire, ad esse, e fanno dimenticare quelle a cui succedono.   Di Platone: Ad uomo di  eccelsa mente, al quale sia dato di  abbracciar col pensiero tutta la serie  dei tempi e l’ università degli esseri,  credi tu che la vita sia per sembrare  un gran che? Impossibile, disse  quegli. E la morte, per conseguenza. non sarà punto stimata da  lui una tremenda cosa. — No certo. »   Di Antistene: Operar bene  ed essere lacerate è cosa da re.  È vergogna che il volto ubbidisca alla mente e si componga ed  assesti come ella vuole; e che la  mente poi non sappia comporre e«l  assestar sè medesima.  Contro le cose lo adirarsi è vano,  Ch'esse non se ne curano. 1 Fiat. Rep. lib. VI. [Lacerato, intendi, dai maldicenti. Plutarco negli Apoftegmi attribuisce questo detto ad Alessandro]. [Tratto dal ‘Bellorofonte’, tragedia perduta di Euripide. E gli immortali e noi di te fa lieti. Mieter la vita  Come spica matura, e morir l' uno,   E viver l’altro. Sed ime vède’nii eigl’ilddii non curano,  Ciò pure ha sua ragione. Che il bene e il dritto è dalla mia. Non pianger con altrui nè esultare.  (Di Platone). A chi mi favellasse in colai guisa, potrei con giu-  stizia rispondere: Tu erri dal vero,  o amico, se tu credi che un nonio  di qualche vaglia debba, quando im-  prende a far che che sia, computare  le probabilità dello avere a morire  0 a vivere; e non piuttosto conside-  rare unicamente se ciò ch’egli im-   t Nel testo è un verso esametro, ma igno-  rasi onde 1' abbia tratto Antonino. P.   2 Due versi dell' Isipile, tragedia perduta  di Euripide. II primo di questi due versi è citato  anche al § 6 del lib. XI, come verso di un  tragico; ma il nome del poeta non è noto. D’ ARISTOFANE negli Acarnesi. P.   5 I §§ 44 e 45 sono tratti dall’Apologia  di SOCRATE; il § 46 dal ‘GORGIA’] prende a fare sia giusto od ingiusto, se  azione da uomo dabbene, o da tristo. Perchè così è veramente, o  Ateniesi: quale che sia il posto che altri scelse nell’ordinanza, giudicatolo  il migliore, o in che sia stato collocato  dal capitano; egli vi dee perseverare,  secondo che mi pare, e sostenervi tutti i pericoli, non avendo in conto di  nulla la morte ne altro checchessia,  in paragone della disonestà e vergo-  gna che sarebbe lo abbandonarlo.   Ma bada bene, o valentuomo,  che altra cosa non sia la gentilezza,  d’animo e la virtù, ed altra il pro-  cacciare salvezza asèe ad altrui; e  che ufficio deir uomo, dico chi voglia  essere uomo veramente, non sia per  avventura, anziché lo ingegnarsi di  campar lungo tempo avendo cara  sopra ogni altra cosa la vita, il ri-  mettersene piuttosto a Dio; e pre-  stando fede a ciò che dicono le fem-  mine. essere inevitabile il destino di ciascheduno, studiare il modo di vi-  vere, il più virtuosamente ch’ei può.  quel tempo che ha a vivere. Contemplai’e il giro degli astri  accompagnandoli, per cosi dire, nel  loro corso; e ripensare di continuo  al perpetuo tramutarsi degli elemen-  ti da una in altra forma. Cotali pensieri purgano l’anima dalle lordure  di questa vita terrestre.   48. Bello è quel luogo di Platone:  « Chi ragiona* degli uomini, deve an-  che osservare, come da un’ alta ve-  detta, tutte queste cose terrene:  adunanze popolari, eserciti campeg-  gianti, agriculture, nozze, divorzi,  nascimenti',’ morti, strepiti di tribu-  nali, contrade inabitate, varietà di  nazioni, feste, lutti, mercati, e que-  sto miscuglio di tutti i contrari, e  l’ordine di questo miscuglio di che  si compone il mondo. Questo brano di Platone non si trova  nelle opere che ci rimangono di lui. E’ giova il rimembrare le cose  che furono prima di noi: tanti mu-  tamenti, tanti e sì grandi rivolgi-  menti di stati. Puoi anche conside-  rare le cose che seguiranno in futuro,  perchè esse saranno pur sempre  ti’ un taglio, e non è possibile che  escano mai del tenore usato infino  ad ora. Onde che tanto vale il ri-  cercare gli eventi di che si compone  il vivere umano ^ in un periodo di  t^uarant’ anni, quanto in uno di dieci  mila. Che potresti trovare di più? E questo. Ciò die fu terreo torna alla terra;   Ciò die d’ etereo seme è germoglio.   Del deio etereo torna allo sfere. Che vuol dir ciò? Separazione degli  atomi terrei che erano insieme ag-  gregati, e somigliante separazione  degli elementi attivi.^   ^ Intendi il vivere dell' umanità, o non  deir individuo umano. Gli elementi attivi erano, secondo gli  dE con cibi il torrente e con bevande  £ con incanti di stornar proccnra  Perchè a morte noi tragga. Con quel vento   Che Dio ne manda navigar ci è d'uopo,  £ non spargere inutile lamento.»  Pili valente nella lotta, ma  non piò devoto al ben comune, non  piò verecondo, non piò indulgente  e piò benevolo verso il prossimo  che ha peccato. Ogni volta che può condursi a  fine una impresa secondo i precetti  della ragione comune agli Dei e agli  uomini, non hai nulla da temere:  perchè dove sta in te lo avvantag-  giarti coir esercizio libero della tua  operosità, procedendo secondo la  costituzione dell’ uomo, quivi non è  luogo a timore di avere a soffrire  alcun danno.   stoici, Paria e il fuoco, con che intende-  vano il freddo e il caldo; i passivi, la terra  e l’acqua. In ogni luogo e in ogni tempo  è in tua facoltà lo acconciarti di  buon grado e con pia rassegnazione  all’ evento che ti occorre; e il por-  tarti con rettitudine verso gli uomini  coi quali ti trovi; e il vegliare dili-  gentemente con quelli spedienti che  tu sai sopra ogni tuo pensiero pre-  sente, affinchè non v’entri inavver-  titamente nulla che tu non abbia  perfettamente compreso.  Non andare investigando in  qual modo credano di doversi governare gli altri, ma guarda dritto  . Non andare investigando gli altri. [Intendo: non curarti di ciò che le menti  degli altri approvano o disapprovano; bada  dirittamente a ciò che approva la tua. Noto  questo perchè altri non creda essere il qui  detto da Antonino cosa contraria a ciò che  disse in molti altri luoghi, e segnatamente  nell’ Vili, 61: entrare nella parte sovrana di  ognuno. Le sono due cose diverse. In quanto  al tuo operare, non badare a ciò che le menti  degli altri prescrivono, bada a ciò che prescri-  ve la tua. In quanto ai giudizi che tu fai degli altri, entra il più che puoi nelle menti loro,  per vedere quai motivi li spingano. allo scopo verso il quale ti scorge  la natura universale per mezzo degli  eventi che essa ti manda; e la tua  propria natura per mezzo dei doveri  che essa ti impone. E dovere di cia-  scheduno sono quelle azioni che cor-  rispondono al fine pel quale è stato  formato. Ora gli esseri non ragio-  nevoli sono stati formati per gli es-  seri ragionevoli (come universal-  mente tutte le cose che hanno minor  valore, per quelle che ne hanno un  maggiore); e gli esseri ragionevoli,  gli imi per gli altri. Primo dovere  adunque dell’ uomo, in conseguenza  della sua costituzione, è di cooperare  al bene di tutti i suoi simili. Il secondo è lo star saldo contro gl’appetiti e le AFFEZIONE DEL CORPO. Essendo  proprio della forza razionate e intellettiva il serbarsi pura e distinta,  circonvallando, come a dire, sè stessa, e noh essere vinta mai dalla  t Vale a dire che non deve ammettere in forza sia sensitiva sia appetitiva. Perchè queste due forze sono animale-  sche, e sopra di esse quella vuole  aver primato e signoria, e non la-  sciarsi signoreggiare da esse. E con  ragione: quella essendo fatta per  servirsi di queste. Terzo dovere del-  r uomo \i è il procedere cautamente  ne’ suoi giudizi, per non cadere in  errore. A queste cose applicandosi  la parte tua sovrana, compia per la  diritta via il suo corso; ed ha tutto  ciò che le spetta. Come se tu avessi dovuto mo-  rire testé e fornito già tutto il corso  della tua vita; vivi secondo natuia  (piei giorni che ti rimangono, con-  siderandoli come un soprappiù che  tu non avessi sperato.’   se alcuna mistura di elementi estranei alla  sua natura,. e apparir quindi distinta con  taglio nettissimo da tutto ciò che ha na-  tura diversa dalla sua. [A  quel modo che se ci trovassimo al punto della Cari ti sieno quelli eventi soltanto che t’ incontrano, e sono quindi come a dire contesti insieme collo  stame della tua vita. Che potresti  desiderare di più accomodato a te? Ad ogni accidente che ti occorre abbiti davanti agli occhi coloro  ai quali incontrarono le stesse cose;  ed essi se ne adirarono, parve loro  strano, se ne querelarono. Ora dove  sono coloro? In niun luogo. Perchè  vuoi tu dunque rassomigliar loro? e  non lasci piuttosto a chi li vuole  quei moti alieni da te, e non badi  unicamente all’ uso che devi fare  deir accidente intervenuto? Perchè  tu ne farai buon uso, e ti sarà nuova  materia a virtuosamente operare,  solo che tu intenda ad esser uomo   morte senza speranza di riaverci e consi-  derassimo la nostra vita trascorsa; ci dor-  remmo di averla male impiegata, e vor-  remmo caldamente impiegarla meglio per  l’avvenire, scampando; cosi dobbiamo vo-  lere ora ec. dabbene agli occhi tuoi propri, sia  qual si voglia la cosa che tu faccia; e  ti sovvenga di queste due verità: im-  portare assai quale sia l’ azione, e non importare nulla in che cada razione. Guarda dentro di te. Ivi è la  fonte del bene, la quale non sarà  esausta mai, solo che tu ci vada  scavando di continuo.   60. Anche il corpo, e nel cammi-  nare e nello stare, serbi un contegno  egualmente alieno dalla avventatezza  e dalla mollezza. Imperocché siccome l’anima si rivela nel volto, imprimendovi un certo che di assennato  e di composto; così ella dee rivelarsi  anche nel rimanente del corpo. Ma  ciò vuoisi fare naturalmente, senza  che vi appaia studio nè affettazione.  La volontà giusta è per gli Stoici solo  scopo e termine di sè medesima, sia, o non  sia ella efficace, cioè a dire sia o non sia  seguita dall' effetto esteriore, il che dipende  dalle circostanze esterne. La virtù sola è  huona.essa sola basta alla beatitudino. L’arte del vivei e virtuosamente  rassomiglia piuttosto all’arte della  lotta che a quella della danza, in  quanto bisogna essere apparecchiati  ad ogni accidente non preveduto, e  saldi per non cadere. Non cessare di recarti a mente  le qualità di coloro dai quali vorre-  sti essere lodato, e quelle delle menti  loro. Così non ti avverrà di trascor-  rere all’ ira contro uomini che fallano  malgrado loro, nè ti curerai dell’es-  sere da loro lodato o biasimato, ve-  dendo qual sia la fonte onde moiVono  i giudizi loro e le loro azioni. Non per sua elezione, dicea  quegli, ma sempre malgrado suo, è l’anima umana priva del vero.' E   [La sentenza è di Platone, ed è citata anche da Epitteto (Dissert.),  il quale nomina T autore. Nel Sofista parti-  colarmente, Platone intende a provare che  r ignoranza è sempre involontaria, e che  sempre malgrado suo è l’uomo privo della cognizione del vero. parimente malgrado suo è priva della  giustizia, della temperanza, della  mansuetudine e di tutte le altre cose  cotali. Sommamente importa che tu  r abbi sempre a mente: sarai più  mite c be_nigno inverso di ognuno.   Oi. In ogni caso di dolore abbi  apparecchiato questo pensiero, che  non è cosa disonesta, non tale da  far peggiore la mente che ti gover-  na: perocché non le nuoce nè in  quanto ella è ragionevole, nè in quan-  to ella è socievole. Nel maggior nu-  mero dei casi troverai soccorso efficace anche in quel detto di Epicuro:  il dolore non esser mai nè intollerabile nè di lunga durata, solo che  tu non lo ingrandisca colla tua im-  maginativa, nia lo vegga ne' limiti  suoi naturali. Avverti ancora che  molte cose ci muovono ad atti di  impazienza senza quasi che vi ponghiaino mente, le quali non sono  pur altro che dolore: siccome lo  aver sonno quando vorremmo veglia-  re, r essere travagliati dal caldo, o  r avere inappetenza. Ora quando tu  sostieni malvolentieri alcuna di que-  ste cotali cose, di’ a te medesimo  che tu hai ceduto al dolore.*   65. Bada a non comportarti mai  verso i disumani, come i disumani si  comportano verso gli altri uomini. Come sappiamo noi che Telauge, quanto alle disposizioni dell’animo, non soprastasse a SOCRATE? [Intendi che non basta reggere ai dolori  gravi, ma conviene saper vincere anche i  leggieri: coi quali sovente non ci pigliani  briga di combattere, perchè la loro piccio-  Iczza fa che non ci badiamo; o ci troviamo  vinti senza accorgercene. In quei casi, dico  r autore, di’ a te stesso: « ho ceduto al do-  lore: » qnasi volendo, col rammentare quel  nome, che è il vero, faro a sò stesso parere  più gravo il caso,o destare cosi la sua attenzione. [Filosofo del quale Eschine Socratico  diede il nome ad uno de' suoi dialoghi].  Imperocché non basta che la morte  di SOCRATE Socrate sia stata più famosa, nè  eh’ egli abbia fatto prova di mag-  giore sagacità nel disputar coi sofisti, di maggiore fortezza col pas-  sare la notte in sul ghiaccio, di più  nobile coraggio col disobbedire al  comando di andare a prendere quel-  r uomo di Salamina,' nè eh’ egli  camminasse per le vie con altero  contegno: la qual cosa sarebbe mas-  simamente da considerare quando  fosse vera. Ma vorrebbesi vedere  quale intimamente fosse l’animo di  Socrate. Se egli potea contentarsi  dell’ esser giusto verso gli uomini e  [Quest’ nomo chiamavasi Leone e posse-  dea grandi ricchezze. Delle quali i trenta  tiranni sperando poter fare lor preda, avea-  no comandato a Socrate che andasèe, ac-  compagnato da altri quattro, ad arrestarlo.  Socrate, con pericolo della sua vita, disub-  bidì al comando. Questo fatto è ricorda-  to nell’ Apologia di Platone, da Eschine  il Socratico, da Diogene Laerzio e da Epitteto. santo verso gli Dei se non gli accadesse mai di adirarsi ciecamente  contro il vizio, nè di servire all’altrui  ignoranza, nè di accogliere come  strana o incomoda o intollerabile  veruna delle cose che gli venivano  compartite dal tutto,* nè di lasciare  che la mente sua partecipasse delle  affezioni della carne. Cioè [8’ egli riponeva in ciò solo, nella  santità e nella giustizia, la sua felicità,  Renza nulla desiderare di più. Da queste parole di Antonino non bassi  ad inferire che egli particolarmente dubi-  tasse della grandezza mórale di Socrate;  ma esse vogliono piuttosto esser prese in un  senso generale, servendosi Antonino del nome illustre di SOCRATE, come di un esempio,  por avvertire quanto sia malagevole il giudicare del valore morale degli uomini da  alcune loro azioni esteriori, sieno buone o  sieno cattive; e come l’eccellenza morale  non consista solamente nel compiere este-  riormente qualche grande atto di virtù, ma  richiegga inoltre tutte quelle disposizioni  intime e abituali di cui fa la rassegna. Detto di Fociono. La mente non fu dalla natura  mescolata per modo e confusa in-  sieme col corpo che essa non possa  distinguersi da esso e come a dire circonvallare sò medesima, ed eser-  citare libera signoria sopra ciò che  è ‘suo; sendo che possa darsi benissimo che un uomo sia sommamente buono, e che nissùno il vegga. Questo abbiti a mente, e ancora, che  in pochissime cose consiste il vivere Ecco come intendo io questo luogo: Noi  conosciamo altrui dalle azioni e dalle parole, quindi sempre per qualche organo corporeo, quindi dal corpo. Ora può benissimo  immaginarsi il caso che un uomo moralmente eccellente sia posto in tali condizioni, o per malattia, o per estrema povertà,  0 altra forza esteriore, da non poter usare  in verun modo del corpo per compiere alcuno di quelli atti che sono la manifestazione esteriore delle disposizioni virtuose  deir animo. In questo caso esse non potranno essere conosciute. E però quando  Antonino dice: «esercitare libera signoria  sopra ciò che è suo, non vuol dire sopra  il corpo, ma sulle facoltà stesse della mente. felice. E per ciò che tu abbia dispe-  rato di dover essere mai eccellente  nella dialettica o nella fìsica, non  disperare medesimamente di dover  esser libero, e verecondo, e socievole, e obbediente a Dio. Vivere non vinto da alcuna  forza esteriore e colla più grande  contentezza d’animo, ancora che tutti  gli uomini schiamazzino a posta loro  contro di te, e le fiere mettano in  brani le membra di codesta conge-  riedi carne e d’ ossa che ti è venuta  crescendo intorno; sì' tu lo puoi. E  che v’ ha in fatti in tutti questi co [tali casi, che possa impedire la mente  tua dal serbarsi mai sempre imperturbata, dal fare sempre giusta estimazione delle cose circostanti e uso  ragionevole degli accidenti che intervengono? Per tal modo che la tua  facoltà giudicativa dica all’ oggetto  presente: « secondo T opinione tu sei  altra cosa; ma Tessere tuo vero, è  cotale. E la tua facoltà operativa  dica immantinente all’ accidente in-  tervenuto: « te appunto io cercava:  perchè io non ho altro intento che  di operare razionalmente e socievole  mente, e tutto che accada me ne  porge occasione, tutto può essere  materia ad esercitare questa virtù,  quest’ arte umana e divina. Perchè  qualsiasi cosa che intervenga, ha qualche relazione di convenienza o con  Dio 0 con l’uomo, e può questi acconciarvisi, e non è mai nuova nè dif-  ficile, ma sempre nota e consueta, e facile 1’ uso che hassene a fare. Perfettamente costumato è co-  lui il quale vive ciascun giorno come se quello fosse l’ ultimo. Non mai  affannosamente operoso, non neghittoso, non infinto mai.  Gli Dei che sono immortali,  non indispettiscono d’ avere del continuo a tollerare, e per tanta durata  di tempo, tanti e cotali dappochi: ed oltre a ciò prendono ogni cura di  loro. E tu che oramai sei per finire,  tu rinneghi la pazienza, e quando sei  tu medesimo uno di quel novero? È cosa da ridere che l’uomo  non voglia fuggire la propria malizia,  il che è possibile e voglia poi fuggire la malizia, il che è  impossibile. Tutto ciò che la ragione speculativa e civile non vede essere ragionevole e socievole, è da lei giudicato inferiore a sè stessa. Quando tu fai del bene ed io ricevo quel bene, che vai tu cercando, come gli stolti,  una terza cosa di più, cioè, che si sa che tu fai del bene, o che te ne sia reso il contraccambio? Nissuno si stanca del ricevere giovamento ed è a giovamento nostro  [Cioè del novero di quei dappochi, anche per la ragione appunto che tu non sai tollerarli, come sarebbe tuo dovere di fare] e d’altrui ogni azione conforme alla natura. Non istancarti dunque di giovare a te medesimo col giovare ad altrui. La natura universale produsse il mondo. Ora o tutte le cose che succedono nel mondo sono conformi  alla intenzione di quella natura; ovvero sarebbero *sragionevoli*, cioè dilformi dalla detta intenzione, anche talune delle cose principali che si fanno  pel ministero particolare della mente che governa il mondo. In molti casi sarai più tranquillo se avrai questo a mente. A ritrarti dal vano amore della gloria giove anche il considerare come non è più in poter tuo il fare che tu sia vissuto da FILOSOFO tutta la tua vita, cioè insino dalla giovanezza: cioè anzi molti si ricordano di un tempo, e te ne ricordi benissimo tu stesso, nel quale tu eri LONTANO DALLA FILOSOFIA. Sicché tu sei contaminato. Non è dunque più facil cosa per te l’acquistar rinomanza di FILOSOFO al che si oppone anche  la condizione del tuo stato. E però, se tu hai veramente scorto dove batta il punto, lascerai da banda il pensiero dell’opinione che altri sia per avere di te, e ti contenterai di vivere conforme alla tua natura quel rimanente di vita che ti è conceduto. Pensa adunque che cosa vuole la tua natura, e niuna altra cura ti  distragga da ciò. Perchè tu sai bene di quante altre cose hai voluto fare esperimento e in nissuna di esse hai TROVATO LA BEATITUDINE. Non nei sillogismi, non nelle ricchezze, non nella  gloria, non NEL GODIMENTO DEI PIACERI, in niun luogo, insomma. Dove sta  essa adunque? Nel fare ciò che richiede la natura dell’uomo. E come fai tu cotesto? Lo fai, se hai la credenza che e produttrice di quella azione. Quale credenza? Quella intorno al buono ed al malo. Non essere il buono per l’uomo ver una cosa che non lo faccia essere giusto, temperante, forte  e libero. Non essere il malo veruna cosa che  non lo faccia essere il contrario. Cioè non lo contamini del vizio opposto alla VIRTÙ. Ad ogni tuo atto interrogate  medesimo. Che relazione ha esso con me? Non avrò io da pentirmene? Ancora un poco e son morto e  tutto è finito. Se ciò che so ora è  conforme alla natura di un essere  intelligente, socievole e avente le stesse leggi che gli’idei, che cerco io di più? Alessandro, o Caio, o Pompeo, che e rispetto a Diogene, Eraclito, o Socrate? Diogene, o Eraclito, o Socrate conosce la cosa e la causa e la materia de la cosa;  e la parte sovrana e in Diogene, o Eraclito, o Socrate, veramente sovrana. Ma quelli, che cosa Giulio Cesare. seppero prevedere? E di quante non sono schiavi? Credi pure che non cesseranno di fare la medesima cosa quando pure tu avessi a scoppiare predicando il contrario. In primo luogo non turbarti. Ogni cosa succede secondo la natura dell'universo. E tra breve tu non ci sarai più in nissun luogo, siccome non ci *sono* più. Nè Adriano  nè Augusto. Di poi affisando lo sguardo nella cosa, vedi che è. E rammentando che ti bisogna essere uomo dabbene e quello che richiede la natura dell’uomo, fallo senza guardarti indietro, e favella ciò che a te *sembra* esser giusto, ponendo  mente soltanto che questo tu faccia e dica sempre con amorevolezza, con verecondia e senza simulazione. Intendi la cosa che ti turba. Questa faccenda ha la natura  dell’universo. Trasportare colà le cose che sono qui, cangiarle, tramutarle da uno in altro luogo. Tutto è mutazione. Non però in modo che s’abbia a temere nulla di nuovo. Tutto  è cosa solita ed anche tutto è distribuito egualmente. Ogni natura qualsiasi è contenta di sè, quando procede libera  nella propria via. E la natura ragionevole procede libera nella sua via, quando non assente ad alcuna rappresentazione falsa od oscura, quando indirizza i suoi sforzi verso la sola cosa che e utile al comune, quando non ischifa nè appetisce se non la cosa che e in nostro potere, quando si accomoda. Il tutto non è che un giro; onde che non v' ha nulla di nuovo da temere. Di buon grado ad ogni cosa che le venga compartita dalla natura comune. Perchè essa è parte di questa, a quel modo stesso che la natura della foglia è parte della natura della pianta. Se non che la natura della  foglia è parte di una natura senza senso e senza ragione, e che può  essere impedita. Dove che la natura  dell’*uomo* è parte di una natura che non è sottoposta a ricevere impedimento ed è intelligente e giusta. Poiché distribuisce egualmente, e secondo i meriti di ciascheduno, il tempo, la sostanza, la causa, razione, l’accidente. La quale egualità di distribuzione potrai osservai e se tu paragm. r^rai non già separatamente l’una cosa di questo con l’una  cosa di quello, ma *complessivamente* ogni cosa di questo con ogni cosa di quell’altro. Non puoi leggere. Ma reprimere ì moti insolentì dell’animo, tu il puoi. Ma non lasciarti SIGNOREGGIARE DAL PIACERE o dal dolore, tu il puoi. Ma essere disprezzatore della gloriuzza. Tu il puoi. Ma non adirarti contro gli stolti e gl’ingrati ed anche pigliar cura  di loro, questo ancora tu il puoi. Fa che ninno t’oda più quind’ innanzi querelarti della vita in corte nè della tua. Il pentirsi è un rampognare se stesso dell’aver trascurato qualche cosa di utile. Ora il bene conviene di necessità  che sia qualche cosa di utile, e però l’uomo onesto deve averne gran cura. Ma l’uomo onesto non si pentirà mai dell’aver trascurato un piacere. Adunque IL PIACERE non è il buono o cosa utile. Che è questa cosa considerate. Sottintendi: e questa è la ragione per cui l’uomo onesto si pente di aver trascurato di far del bene. In se stessa e nell’essere suo proprio? che v’ha in essa di sostanziale e di materiale? che v’ha di causale? Che fa essa nel mondo? Quanto tempo è per durare? Quando peni a riscuoterti dal  sonno, sovvengati essere particolar mente conforme all’esser tuo e alla natura dell’uomo il fare opere socievoli. Dove che il DORMIRE ti è comune cogli animali irragionevoli. Ora ciò che è più particolarmente conforme alla nostra natura, è anche più particolarmente accomodato a  noi, più facile e ancora più giocondo a fare. Non ommetter in verun caso li esaminare, per quanto è possibile, ogni cosa, facendo uso degl’ammaestramenti della FISICA, di quelli dell’ETICA e di quelli della LOGICA. Divisioni principali della filosofia appo gli stoici. In chiunque tu ti avvenga, di’tosto a te medesimo. Che opinioni  ha costui intorno al buono? Perchè se egli ha intorno al PIACERE piacere o alla cosa che e produttrice del PIACERE, e intorno alla gloria e all’ infamia, alla  morte e alla vita, certe cotali opinioni, non mi pare rnaraviglioso nè strano che faccia certe cotali cose. E mi ricordo sempre lui essere sforzato ad operare in tal guisa. Ricordati che siccome è da vuol dire. Esamiua ogni oggetto, riferendolo alla natura generale, e vedendo, secondo il precetto della fisica, elio relazione  ha col tutto. Riferendolo a te stesso, in quanto sei capace di felicità, la quale non può mai andare disgiunta dalla VIRTÙ ed è sostanzialmente identica  con essa, e vedendo a che cosa ti giova,  secondo il precetto dell'etica; paragonando il giudìzio che tu ne fai con altri giudizi anteriori, e vedendo se non ìstà in contraddizione con quelli; esaminando inoltre le conseguenze che si possono dedurre da  questo giudizio: tutto ciò secondo il precetto della LOGICA. stolto il maravigliarsi che la ficaia  produca il fico, così è il maravigliarsi  che il mondo produca quelle cose che è destinato a produrre. Non altrimenti che stolti sarebbero quel  medico e quel pilota i quali si maravigliassero che altri avesse la febbre e che il vento fosse contrario. Non dimenticare essere da uomo libero anche il mutar parere e seguire il consiglio di chi propone un avviso migliore del tuo. Perchè egli è pur sempre tua l’azione che tu fai coir esercizio della tua volontà, della tua facoltà giudicativa, e secondo il tuo intendimento. Se la cosa sta in poter tuo, perchè la fai? Se sta in potere altrui, di chi ti lagni? Degli atomi o degli dei? E di questi e di quelli il [Se sta in te il fare o non fare yna cosa, o l’impedire che si faccia da altri, perchè la fai, o lasci che ai faccia per dolertene poi? lagnarsi è pazzia. Non occorre lagnarsi di nissuno. Perchè se il puoi, hai a correggere l’uomo. Se non puoi l’uomo, hai a correggere la cosa. E se anche questa non puoi, il lagnarti a che giova? Non vuoisi far nulla a caso e senza scopo. Fuori del mondo non può cadere chi muore. E se riman quivi, quivi anche e non altrove si trasforma e si risolve ne’ suoi principi, che sono gl’elementi del mondo e tuoi. E questi ancora si trasmutano d’una  in altra forma, e non mormorano. Non è cosa che non sia nata ad un certo fine: il cavallo, la  vite ecc. Qual meraviglia? Anche il Sole Febo Apollo dice. Io nacqui ad un certo fine e similmente gl’altri iddii. E tu a che sei nato? A darti bel tempo? Vedi se ciò concorda col concetto  che tu fai dell’uomo. Non meno che il cominciare. Cioè nel mondo e crescere delle cose la natura ha in mira il loro decrescere e finire,  non altrimenti che il giocatore che gitta la palla. Ora c^ual bene per questa il salire o il discendere, od anche il cadere a terra? e qual bene per la bolla d’aria il formarsi e qual  male il dileguarsi? Il medesimo puoi  dire della lucerna. Arrovescialo codesto corpo e vedi qual è: e qual diventa invecchiando, e ammalandosi e depravandosi.Di corta vita sono e il laudante e il laudato, il ricordante e il ricordato; ed anche ciò accade in un [Il qual giocatore non lancia la palla  perchè abbia solo ad andare in alto, ma ancora perchè abbia a discendere. La quale si accende, arde e si spegne, o tutto è naturale egualmente.  S Àrroveciato codc lo corpo. Mettendo coir immaginazione al di fuori ciò che sta al di dentro. Depravandosi coll’ABUSO DEI PIACERI SENSUALI. angolo di questa contrada, nè quivi  pure sono tutti d’accordo, e v’ha  tale che non è neppure d’accordo con sè medesimo: e tutta la terra  non è poi altro che un punto. Applicati all’oggetto, o al  domma, o all’azione, o al significato. È tua colpa se questo ti accade. Tu vuoi piuttosto diventare domani  che essere oggi uomo dabbene. So io una cosa? La so riferendola al bene degli uomini. Mi accade una cosa? La ricevo riferendola agli dei e alla fonte di tutte  le cose, dalla quale procedono in-  Cioè fa' che la tua attenzione sia sempre rivolta ad una di queste quattro cose. O all'oggetto su che tu operi, esaminando che è in realtà: o al domma o credenza per virtù della quale tu operi, esaminando se  ella è vera; o all’azione tua stessa, esaminando se tu la fai come vuoi farla; o al SIGNIFICATO della parole, cioè riferendo il particolare al generale, per capire l’ESSENZA della COSA SIGNIFICATA. sieme conserte le une colle altre tutte le. cose che accadono. Che ti pare che sia il lavarsi? Olio, sudore, sudiciume, acqua fecciosa, cose tutte stomachevoli. Tali  sono tutte le singole parti della vita,  tutti li oggetti esteriori. Lucilla fe il corrotto a Vero, poi altri a Lucilla; Seconda a Massimo, poi altri a Seconda; Epitincano a Diotiino, poi altri a Epitincano. Antonino a Faustina, poi altri ad Antonino; Celere ad Adriano. Poi altri a Celere. Sempre e in tutto il medesimo tenore. E quei belli  spiriti, quelli antiveditori dell’avvenire, quei burbanzosi dove sono egli-  no? Come per esempio, fra i belli spiriti, Carace, Demetrio il Platonico, Eudemone e simili? Tutti sono vissuti un giorno, tutti son morti da  lunga pezza; di alcuni non si è fatta  più menzione nè anche per un poco. Altri sono passati nelle favole, e alcuni di essi scomparvero già anche dalle favole! Sovvengati dunque come  bisognerà pure che o si dissolva codesto tuo composto, o si spenga codesto tuo spirito vitale, o sia tramutato altrove e vengagli assegnato un  altro posto. È letizia dell’uomo il fare ciò che è proprio dell’ uomo. E proprio  dell’ uomo è il voler bene a’ suoi congeneri, disprezzare i moti del senso, distinguere fra le rappresentazioni quelle che sono degne di fede, contemplare la natura dell’universo e le cose che conformemente a quella si producono. Tre relazioni. L’una colla causa  circostante. L’altra colla causa divina, dalla quale procede tutto che  accade ad ognuno. La terza cogli  uomini che vivono con noi. O il dolore è un male pel corpo, e se questo è, il corpo ce lo dica. O è un male per l’anima. Ma  questa ha in poter suo il conservar  sempre la sua calma e serenità, e il non fare concetto del dolore come  di un male. Imperocché ogni giudizio, ogni volizione, ogni appetizione o avversione qualsivoglia è un atto del tuo principio interno, e niun male  può salire insino ad esso. Rimovi da te le false rappresentazioni dicendo continuamente a  te stesso. Ora sta in poter mio il  fare che in questa mia anima non  sia veruna malizia, veruna concupiscenza, veruna perturbazione, in  somma; e vedendo le cose nel vero  esser loro, fare uso di ciascheduna  secondo il valore di essa. Nel senato e con chicchessia  parla compostamente, fuggendo il soverchio delle parole, e il tuo ragionare sia senza orpello. Corte di Augusto. Moglie, figlia,  nipoti, progenitori, sorelle. Agrippa,  congiunti, famigliari, amici. Ario,  mecenate, medici, sacrificatori. Tutta  una corte che è morta. Procedi innanzi e considera il venir meno non  delle persone ad una ad una, ma,  per esempio, della famiglia Pompeia. E quella scritta che si legge sui sepolcri. L’ultimo della sua schiatta; w  e pensa quanto s’ebbero a travagliare gli antenati di colui perchè non mancasse loro un successore. Nondimeno è pur forza che qualcheduno sia l’ultimo, ed ecco allora la morte di una intera prosapia. Colla bontà delle singole azioni  vuoisi procacciare di ben comporre  la vita. E se ciascuna di esse, per quanto è possibile, fa quelli effetti che dee fare, ti basti. Nè ciò  può essere impedito mai da checchessia. Sorgerà qualche impedimento esteriore. Ninno impedimento  che possa toglierti di operar giustamente, temperantemente, razionalmente. Tale o tale altra opera  potrà essere impedita. Ma se tu accetti di buon animo quello impedimento, e passi alacremente a far buon uso della nuova occasione che  ti vien data, ecco posta nella serie  degli atti di che si compone la vita,  in luogo di quella che ti avevi pro-  posta, un’ altra azione la quale non  è meno acconcia a quella buona  composizione della vita di che si favella. 33. Ricevi senza boria, lascia an-  dare senza ripugnanza. Vedesti mai una mano tronca.    t Cioè i beni della fortuna. Gli è come  se dicesse: Non tenerti per da più, quando  la fortuna ti viene a trovare; non tenerti  per da meno, quando ella se ne va. o un piede, o una testa giacenti  lungi dal corpo onde furono recisi?  Cotale si rende, per quanto sta in  lui, chi ripugna ad accomodarsi r  ciò che accade, e si separa a questo  modo dalla società comune, o fa  qualche atto contrario al bene di  quella. Tu te ne stai là gittate in un  canto, fuori dell’ unione naturale  degli esseri. Perchè tu eri nato parte  di quella, e te ne sei spiccato. Se  non che tu puoi sempre rappiccar-  viti di nuovo, usando della facoltà a  te concessa da Dio, e non concessa  a veruna altra parte di checchessia,  che spiccata una volta dall’ intero  potesse rappiccarvisi.Evedi di quanta  eccellenza volle Iddio adornare la  costituzione dell'uomo: chè, primie-  ramente, egli pose in potestà di lui  il non separarsi punto dal tutto; e  poi il rapprendersi e compigliarsi di  nuovo con quello, quando se ne fosse  spiccato, e riprendere il suo posto e le condizioni sue come parte aderente qual era da prima.   35. Dalla natura degli intelligenti  ha ricevuto ciascuno di noi,’ come  tutte le altre facoltà (e sono tante  quasi e tali, quante e quali quella  medesima ne avea ricevute*), e così  anche quest’ una: che a somiglianza  di lei, la quale volge e dispone nella  serie del fato, facendone cosa sua e  quasi parte di sè medesima, tutto  che a lei si venga ad attraversare e  a resisterle; così può T animai ra-  gionevole far cosa sua di ogni im-  pedimento, pigliandone materia al  suo operare e all’ esercizio della  propria virtù; sia pur qualsivoglia  la cosa nella quale venisse impe-  dito (14).   36. Non ti turbi il pensiero, quale [Intendi: in qnanto siani ragionevoli]. [Sottintendi: da chi è maggioro di lei. sia per essere tutta la tua vita, e  non darti pena e sconforto coll’an-  dare fantafticando quanti e quali  travagli avrai forse ancora a soste-  nere: ma ad ogni caso presente in-  terroga te stesso col dire: che v’ha  in ciò d’impossibile a sopportare?  Perchè avrai vergogna di rispondere  affermando che v’ abbia alcun che  di tale. E poi ricorda a te medesi-  mo, non essere mai nè il futuro nè  il passato quello che ti grava, ma  pur sempre solo il presente. E que-  sto presente s’ impicciolisce assai  quando tu il consideri ne’ suoi pro-  pri confini, chiedendo poi alla tua  mente, se anche così impicciolito  ella non sia buona da sopportarlo. Pantea o Pergamo stansi forse  tuttavia seduti presso alla tomba di  Vero? o Cauria e Diotiino presso a  quella di Adriano? è follia il chie-  derlo. Ma quando pure stessero tut-  tavia colà seduti, forse che ai loro signori ne giungerebbe notizia? e  quando ciò fosse, forse che ne avreb-  bero diletto? e quando ne avessero,  sarebbero Pantea e Pergamo e Caiirio e Diotimo immortali? non era  egli destino che anche questi invec-  chiassero e poi morissero? e morti  che fossero, che rimarrebbe a fare  ai loro signori? fetore è tutto cotesto, e marciume in un sacco. Se hai la vista acuta, dice egli, '  adoprala, giudicando saviamente delle cose. Una virtù che si opponga alla  giustizia non veggo nella costituzio-  ne deir animai ragionevole; ma una  che si opponga al piacere veggo io  bene: la temperanza. Togli via il tuo concetto in-   1 Epitteto. P.  Intendi: se hai P ingegno sottile, fa'  che la tna condotta il dimostri, cioè non  contentarti di dire le belle cose, falle. Dai  giudizi dipendono, secondo gli stoici, ne-  cessariamente le azioni. torno alle cose che sembrano darti  noia, e tu ti troverai al sicuro. Ma  chi è questo tu a cui favelli? La  ragione. Ma io non sono ragione. Sta bene. La ragione non dia  dunque noia a se stessa. E se poi  v’ ha altro in te che si dolga, faccia  egli concetto di quel suo dolore. Un male per la natura anima-  le è r impedimento del senso. Ancora un male per lei è ciò che può  impedire la soddisfazione dell’appetito. Medesimamente v’ hanno im-  pedimenti alla natura vegetale, e  sono quindi un male per essa. Adun-  (jue ciò'che può recare impedimento  alla mente è un male per la natura  intellettiva. Fa’ l’ applicazione di que-  sto ragionamento a te stesso. Il do-  lore ti tocca o il piacere? lascia che  ci badi il senso. Qualche ostacolo è  sorto ad impedire un effetto da te  voluto? se tu volesti senza la debita  riserva, questo invero fu un male per te, in quanto sei animale ragio-  nevole. Ma se fu una appetizione  nel significato comune, tu non hai  ricevuto nocumento nè impedimento  alcuno. Perocché tutto che è pro-  prio della mente non può essere  impedito che da lei stessa; non  è dato nè a fuoco, nè a ferro, nè  a tiranno, nè a maldicenza il giun-  gere insino ad essa: quando si è  fatta sferica, permane liscia e rotonda. Allusione ad alcuni versi d’Empedocle, il quale considerava la  sfera come la più perfetta delle figure; onde  che appo Orazio la rotondità potè anche  essere immagine a significare l’eccellenza  morale, Sat. II, 7; «Quisnara igitur liber?  Sapiens, sibique imperiosus: Quera neque  pauperies, neque mors, neque vincula ter-  reni: Responsare cupidinibus, contemnere  bonores Fortis, et in seipso totus teres,  atque rotundus: etc. » Ai quali versi di  Orazio alludeva pur forse Antonino in que-  sto luogo. Anche a Dante piacque una figura  geometrica come immagine di una virtù  morale quando disse: < Ben tetragono ai  colpi di ventura. Non debbo, io, che non ho mai  voluto contristare altrui, voler con-  tristare me stesso. Chi piglia piacere ad una cosa,  chi ad un’ altra. A me fa piacere se  ho una mente sana, che non abbia  avversione a verun uomo, nè a ve-  runa delle cose che sogliono acca-  dere all’ uomo, ma guardi ed accetti  ogni cosa con sereno occhio, facendo  uso di ciascheduna secondo il valore  di essa.   44. Pigliati questo tempo presente:  chi vuol piuttosto darsi pensiero  della fama che lascerà dopo sè, non  considera che i posteri saranno tali  tuttavia quali sono i contemporanei  eh’ egli ha in fastidio, e mortali essi  pure. A te che rileva al postutto che  dalle bocche loro s’ oda echeggiare  tale piuttosto o tal altro suono, e  che essi abbiano di te tale piuttosto  o tale altra opinione? Toglimi di qua e gittami dove vuoi. Colà ancora* avrò meco il mio  genio propizio, vale a dire pago di  sè medesimo, quando le disposizioni.  sue sieno conformi alla sua propria  natura.   Ciò * vale il pregio che la mia ani-  ma se ne turbi e voglia farsi peg-  giore di sè, essere travagliata da  desiderii e timori, sconfortata, im-  miserita? E qual cosa troverai tu '  che lo valga?   4G. Air uomo non può nulla ac-  cadere che non sia un accidente  umano, nè al bue che non sia acci-  dente’ proprio del bue, nè alla vite  che non sia accidente proprio della  vite, nè alla pietra che non sia ac-  cidente proprio della pietra. Ora se  a ciascheduno accade quello che è  solito accadergli e gli è connatura-   * Intendi: colà ancora dove mi avrai git-  tato, e dove-che sia, avrò meco ec. Intendi: ciò che ora mi accade, o chec-  ché altro di somigliante. le, a che ti crucceresti? la natura  comune non può arrecarti nulla che  tu non sia fatto per tollerare. Se ti attristi per alcuna cosa  esteriore, non è la cosa esteriore  quella che ti turba, ma si il giudizio  che tu ne fai. E lo annullare quel  giudizio sta in te. Se ti attristi per  alcun che del tuo stato interiore,  chi ti impedisce che tu non raddrizzi l’opinione onde deriva quel  tuo stato? Che se ti attristi perchè  non fai tale o tal altra cosa che ti  par buona, chè non ti volgi al farla  anzi che attristarti? — Ma sorse osta-  colo più potente di me. Non attristarti adunque se tua non è la colpa  del non fare. Ma non porta il pre-  gio di vivere, se questo non posso fare. Esci dunque pacatamente di  vita (dacché muore anche colui cui  vien fatta la cosa che imprende), o  con animo benevolo verso chi ti ha  contrariato. Sovvengati come divenga ines-  pugnabile la parte sovrana dell’ uomo  quando rinchiusa in sè stessa non  abbia altro proponimento'che di non  lasciarsi indurre a far cosa che essa  non voglia, anche nei òasi in' che  quel suo ostinarsi a non volere fosse  fuor di ragione. Ora che non sarà  quando la sua risoluzione proceda  da sano e ben ponderato consiglio?  La mente scevra da passioni è dun-  que una eccelsa rócca, nè 1’ uomo  ha luogo più validamente munito  ove raccogliersi per non esser vinto  mai. Chi non conosce questo- rifu-  gio, è un ignorante; chi lo conosce  e non vi ricovera, è uno sciagurato.   49. Non dire tu a te stesso più  che non siati annunciato dalla per-  cezione immediata. Ti si annuncia  che il tale sparla di te. Questo ti si  annuncia; ma che tu ne riceva no-  cumento, non ti è annunciato. Vedo  che il figliuolo è ammalato. Questo veggo io; ma ch’egli sia in pericolo  non vedo. Fa’ dunque di attenerti  sempre a ciò che ti dice la perce-  zione immediata, non aggiungendovi  nulla del tuo, e così non ti accadrà  nulla mai.' Anzi aggiiignivi pur qual-  che cosa, e siano le riflessioni di un  uomo che conosce le relazioni e le  con»lizioni vere di tutte lé cose che  accadono nel mondo. Il cocomero è amaro? non man-  giarlo. V’hanno sterpi nella via? fa  di non inciamparvi. Tanto ti basti.  Non farti a dire: che bisogno ci avea  anche di cotali cose nel mondo?  perchè ne avresti le beffe dell’ uomo  versato nella scienza della natura,  come avresti quelle del legnaiuolo Nulla di male, intendi, perchè tutto  quello che sarà oggetto immediato della  percezione, senza alcuna aggiunta del tuo,  non sarà mai gran male. Cioè che tutto che accade è nell' ordine  della natura, e vuol essere accettato di  buon grado. e del calzolaio se ti facessi a biasi-  marli del trovarsi trucioli e ritagli  nelle loro botteghe.' E nondimeno  per costoro v’ha luogo ove gittarli  fuori delle loro officineT mentre la  natura dell’ universo non ha fuori  dell’ universo alcun luogo. Ma questo è appunto il mirabile dell’ arte  di costei, che essendo essa circo-  scritta da quei limiti che ella pose  a sè stessa, tutto ciò che nella sua  officina sembra guasto, vieto, non  più utile a nulla, ella riprende in  sè stessa e ne fa materia alla pro-  duzione di cose nuove. Perchè ella  non vuole aver bisogno mai nè di  estranea materia, nè di luogo este-  riore ove gittare il vietume, e a  lei basta il suo proprio luogo, la  sua propria materia e l’arte sua propria.  Fa’ di non essere molle o negligente nell’ operare, non confuso  nel favellare, non vagante qua e là  senza scopo nel pensare; fuggi, in  quanto si è agli affetti, lo scoramento  e la subitanea gioia, e nel tenore  della vita lo impigliarti in troppe  faccende. Ammazzano, tagliano a  pezzi, fanno imprecazioni. Che vale  tutto questo ad impedire che la tua  mente non si conservi pura, assen-  nata, temperante e giusta? Se alcu-  no fattosi vicino ad una fontana lim-  pida e dolce si ponesse a maledirla,  forse che da quella cesserebbe di  scaturire acqua potabile? Vi gittasse  ancor dentro fango e sterco, essa lo  avrebbe sciolto ed espulso in poco  d’ ora, e non ne rimarrebbe conta-  minata. Come avrai tu dunque in te  una fontana limpida e perenne, e  non un pozzo? Col non cessare di  rivendicarti in libertà, serbandoti  sempre mansueto, schietto e verecondo. Chi non sa che cosa è il mondo,  non sa dove sia egli stesso. E chi  non sa a che il mondo e stato fatto,  non sa nò qual sia egli stesso, nè   " che cosa sia il mondo.* E chi ignoia  r una di queste due cose, non può  neppur dire a che fine egli stesso  sia nato. Ora che ti pare di colui  che ambisce esser lodato da tali che  non sanno nè dove essi sono, nè   quali essi sono?^   53. Vuoi tu essere lodato dall’uo-  mo che tre volte all’ora maledice  se stesso? Vuoi tu piacere all uomo  il quale non piace egli stesso a sè  medesimo? Piace egli a se medesimo  chi si ripente quasi di ogni cosa die  va facendo? Oramai non ti basti' più sola-   E chi non so o che il mondo..... nè  che cosa sto il mondo. StiU" interpretazione  di questo luogo diversamente inteso dagli  interpreti, si può vedere la nota nell' edi-zione di Torino. [Intendi quali ^ieno le loro condizioni. mente il respirare* con l’aria* che  ti circonda, ma fa’ eziandio di pen-  sare e di volere con l’ intelligenza  universale* che in sè contiene ogni  cosa. Perchè la potenza intellettiva  si diffonde e penetra per ogni dove,  chi voglia attingere da essa, non   [Respirare: intendi vivere la vita sensitiva per mezzo della respirazione. Il verbo “respirare” e il corrispondente nel testo hanno  nelle dne lingue rispettive oltre al senso proprio, quello di vivere. [Con “l’aria”: intendi coll’ aiuto e cooperazione dell’aria, conformemente - alla na-  tura di essa aria, e insieme con essa; chè  essa pure vive è spira, o respira. La preposizione con e la corrispondente in greco esprìmono nelle due lingue rispettive, oltre  alla relazione di compagnia, quella ancora di conformità, aiuto reciproco o COOPERAZIONE', esprimono ancora il rapporto di causa sia istrumentale, sia materiale. Tutte queste rela-  zioni di compagnia, conformità, aiuto e causa  materiale, vogliono intendersi come simul-  taneamente espresse, confuse insieme in una  idea complessa, nelle dette preposizioni, così  in questa come nella frase seguente.  Coll’intelligenza universale: intendi  coir aiuto di ossa, conformemente ad essa e  insieme con essa. meno che l’aria rispetto a chi la  aspira. Il vizio, universalmente, non  nuoce al mondo; e singolarmente,  non nuoce ad altrui. Nuoce solo a  colui al quale è dato di potersene  liberare al primo momento che il  voglia. Alla mia volontà la volontà  del vicino ò cosa tanto indifferente  quanto la anim uccia di lui e il cor-  picciuolo di lui. Perchè, sebbene  siam nati tutti gli uni per gli altri,  la parte sovrana di ciascuno di noi  ha nondimeno il suo proprio domi-  nio separato; altrimenti la malvagità  del vicino potrebbe essere un male  per me. Il che non fu voluto da Dio,  affinchè non fosse in potestà altrui  il far me infelice. Il sole sembra versarsi per  ogni dove, e effettivamente si diffonde   ' Cioè alPuomo vizioso, che può cessare  di esser tale tosto che il voglia. da tutti i lati, ma non però si effon-  de.* Quel suo diftbndersi è uno esten-  dersi: e però gli splendori di lui si  chiamano actines (raggi) da ecteine-  sthai (estendersi).* Tu puoi vedere  che cosa è un raggio guardando la  luce del sole che penetra per un  piccol buco in una camera oscura:  ella si allunga in diritta linea e va  come ad applicarsi sul corpo opaco  qual siasi, che le si fa incontro e  intercetta 1’ aria al di là.* Quivi si  ferma senza sdrucciolare giù nè ca-  dere. Cosi dee pure diffondersi la  mente, non effondersi, ma esten-  dersi; e quando s’ appresenta un  ostacolo, applicarvisi senza violenza  nè urto, nè tampoco cader giù, ma Non si versa fuori in modo eh' egli ab-  bandoni il luogo onde parte la sua luce. [Falsa etimologia, simile a tante altre  che puoi incontrare presso' gli antichi. Vale a dire intercetta come corpo opaco  il passaggio della luce agli strati d' aria  che sono al di là. star ferma e- illuminare 1’ obb ietto  che la riceve. Che se questo non  vorrà trasmettere la luce, tal sia  di lui se rimarrà privo di essa.Chi teme la morte, teme o di  non dover più aver sentimento, o  di dover avere un sentimento diverso dal presente. Ma se tu non avrai  più sentimento, non sentirai verun  male; e se tu avrai un sentimento  diverso, sarai un animale diverso, e  non avrai cessato di vivere. Gli uomini sono nati gli uni  per gli altri. Ammaestrali dunque,  o sopportali.  Altro è il moto della freccia,  altro quello della mente. Perchè la  mente anche quando procede cautamente e s’ aggira* nel deliberare, va   1 Intendi: non vorrà lasciarsi penetrare  da essa luce, dandole passaggio nelle parti  più interne. Cioè illuminato solo esteriormente, ma  al buio nell' interno. nondimeno per la diritta via verso  Io scopo.   61. Entrare nella parte sovrana  di ciascheduno, e far sì che ognuno  possa penetrare nella parte sovrana  di noi medesimi. Chi fa ingiuria ad altrui, è reo  d’ empietà. Perchè la natura univer-  sale avendo fatto gli animali ragio-  nevoli gli uni per gli altri, affinchè  r uno giovi air altro, secondo il merito, e non gli noccia; il trasgre-  dire le intenzioni di lei, è manife-  stamente un peccare contro la più  veneranda fra le Dee. Chi mente, è  pur reo di quel medesimo peccato.  Perchè la natura universale è natura  degli enti, e gli enti hanno relazione  di parentela con tutti gli esistenti. [Secondo il merito; frase stoica. Di tutti gl'interpreti anteriori all’ornato il Kmtz è il solo che intendesse bene   Oltre che ella è nomata la verità,  ed è la causa prima di tutti i very. E però *chi MENTE CON INTENZIONE*, è  reo verso di lei, in quanto fa torto  ad altrui ingannando; e chi mente  senza intenzione,' in quanto che ad  ogni modo discorda dalla natura  universale, e turba V ordine andan-  do a ritroso della natura del mon-  do; * perchè va a ritroso di essa  non senza sua colpa anche colui  che insciente va a ritroso del vero; sendo che non per altro che  per non aver profittato di quelli  indirizzi e sussidi di cui gli fu prov-  vida la natura, non è egli più in  grado di distinguere il vero dal falso.  Ancora è reo di empietà chi segue  il piacere come un bene e schifa il  dolore come un male. Perchè non   questo luogo, ancora che un po' troppo pla-  tonicamente. Vedi la nota dell' Ornato nel-  l'edizione di Torino. Cioè per ignoranza, o a caso. P.   * Che è l'ordine per eccellenza. può essere che costui non mormori  spesso contro la natura comune, quasi ’ ella non abbia riguardo al  merito nelle dispensazioni che va  facendo ai buoni ed ai tristi, veg-  gendosi spesso i tristi vivere nei  piaceri e nella abbondanza di tutte  le cose che li procurano, quando i  buoni cadono nel dolore e van sog-  getti a tutti gli accidenti che ne  sono cagione. Oltre che chi teme il  dolore, temerà pure talvolta alcune  delle cose che sono per accadere  nel mondo: il che è già da per sè  cosa empia;* e chi va in cerca del  piacere non si asterrà dal far torto  agli altri. Del resto, chi viiol seguire  la natura, dee consentire colla natura [Epitteto, Manuale XXXII, 4.   « Di modo che ciascuno che procacci di  desiderare e fuggire solamente quello che è  da essere desiderato e fuggito, procaccia al  tempo medesimo di esser pio » (traduz. di  G. Leopardi). Cfr. Manuale. ed essere indifferente rispetto a tutte  quelle cose rispetto alle quali ella si  dimostra indifferente col far che suc-  cedano egualmente nel mondo. K •  però chi non fa eguale stima del  dolore e del piacere, della morte e  della vita, dell’ infamia e della gloria, delle quali cose fa uso egual-  mente la natura universale, è mani-  festamente reo di empietà: dico che  la natura ne fa uso egualmente, vo-  lendo significare che sono accidenti  a cui sono deipari sottoposti secondo  la legge di anteriorità e posteriorità,'  tutti gli esseri che nascono e si suc-  cedono gli uni agli altri per conseguenza necessaria di.quello impulso  primordiale con cui la previdenza  concependo in sè certe ragioni del  futuro,* e determinando virtù gene-  ratrici di esistenze, di cangiamenti   1 Abbiamo seguito l' emenda^siono del Ce-  rai. Ragioni seminali. e di successioni conformi a quelle,'  diè principio a questo ordinamento  di cose.   2. Certo meglio era per te serbarti  puro di menzogna e di ogni sorta di  finzione e di boria sino al punto  della tua dipartenza dagli nomini.  Ora il partire nauseato di queste  cose è, dopo quello, il miglior par-  tito che ti rimanga. 0 hai tu forse  deliberato di marcir sempre nel vizio,  e r esperienza stessa non ti persua-  de ancora a fuggire dalla peste?  Perchè è peste la corruzione della  mente ancor più che lo infettarsi c  corrompersi di quest’ aria che ne  circonda. L’ una è peste degli ani-  mali in quanto sono animali; l’altro  è peste degli uomini in quanto sono  uomini.   3. Non disprezzare la morte, ma  accettala di buon grado, siccome  Conformi a quelle ragioni seminali. quella che è una delle cose che la  natura vuole. Perchè quale è il giun-  gere alla adolescenza, alla vecchiaia,  il crescere, il giungere alla virilità,  il mettere i denti e la barba, il ge-  nerare figliuoli, portarli, partorirli,  e tutti gli altri effetti che arrecano  le stagioni della vita, tale è ancorji  il dissolversi. Appartiensi dunque ad  uomo assennato il non procedere alla  cieca colla morte, nè all’ avventata  nè con superbia, ma aspettarla come  uno dei tanti effetti naturali: come  aspetti l’ora che dall’utero della mo-  glie esca il feto, a quello stesso modo  aspetta l' ora in che l’ anima tua  uscirà di codesto suo invoglio. Che  se ti è bisogno anche di uno em-  piastro da idiota il quale s’ applichi  al cuore,' ti gioverà il considerare  Che se ti è bisogno anche appli-   chi al cuore. Le parole del testo, chi ben  le intenda, non sono, a parer mìo, senza  una certa ironia. Perchè a far riguardare quali sieno le cose onde t’ hai a  dipartire, e gli umori degli uomini  tra i quali l’anima tua non sarà più  impigliata. Non che tu abbia a re-  carteli a noia, chè anzi hai da averne  cura e sopportarli con amore; ma  potrai ricordare che non sei per di-  partirti da uomini che la pensino  come te. Perchè, se ci avesse cosa   con indifferenza la morte, la ragione specu-  lativa data già innanzi dovrebbe, secondo l’autore, bastare al filosofo, al quale non  dovrebbero abbisognare argomenti che ai  indirizzino alla sensibilità, e che Antonino  chiama “empiastri da idiota che s’ applicano al cuore”. Ornato traduce  questo luogo come segue: Che se vuoi  inoltre uno espediente da nomo materiale  che ti muova sensibilmente:» notando al margine: c anzi tutto conveniva far capire  il senso, e qui era maggior fedeltà il la-  sciare la lettera. Il primo mezzo, dice An-  tonino, era da filosofo: questo secondo da  illetterato: e però quello era speculativo,  questo pratico. Ma vedi se puoi dir meglio,  chè sono scontento assai. » Per dir meglio  io ho stimato che fosse da conservare il  linguaggio figurato e l'ironia del testo, non  tanto difficile poi a capire anche nella traduzione. che dovesse affezionarci alla vita,  questa sarebbe fuor di dubbio; lo  averla a passare con chi sente e  giudica come noi.  Chi pecca, pecca a suo danno:  chi commette ingiustizia, fa ingiuria  a sè medesimo, facendo sè malvagio. È ingiusto soventi volte non  solo chi fa, ma ancora chi non fa.  Se il giudizio che tu fai nel  momento presente è vero; se l’azione  che tu fai nel momento presente si  riferisce al ben comune; se la disposizione in che sei nel momento pre-  sente è di accettare di buon grado  quanto avviene per virtù della causa  esteriore; non ti abbisogna più  altro. Togli via le false immagina-  zioni; contieni i moti dell’ animo;  spegni i desiderii troppo accesi; fa’  che la mente sia padrona di sè. Una è l’anima distribuita fra tutti gli animali irragionevoli; una  la ragione compartita a tutti i ra-  gionevoli come una è la terra di  tutte le cose terree, una la luce per  cui veggiamo, ed una 1 aiia che respiriamo tutti quanti abbiamo vista! e respiro.  Tutte le cose che hanno alcun  che di comune fra loro, tendono  l’una verso dell’altra. Il terreo  tende verso la terra, V umido s ac-  costa all’umido, l’aereo all’aereo.   Il fuoco va in su per cagione del  fuoco elementare; e quaggiù è così  pronto ad unirsi con altro fuoco, che  ogni materia un po’ secca s accende  di leggieri per lo esservi mescolata  dentro minor quantità di ciò che  impedisce l’unione, h sunilmente  ciò che partecipa della natura intellettiva tende verso il suo congene-  re, e con più forza eziandio: perchè  quanto ha più eccellenza delle altre  cose, tanto ha maggiore inclinazione ad unirsi con chi ha somigliante  natum, e a confondersi con esso. E però tu trovi appo gli animali  privi di ragione sciami, mandre, nidiate, e come chi dicesse amori:  sono già anime in essi, e la virtù  unitiva, più intensa nel più perfet-  to, vi si manifesta quale non è an-  cora nelle piante, nelle pietre o nei  legni. Ed appo i ragionevoli tu vedi  città, amicizie, famiglie, radunanze  pubbliche; e anco nelle guerre patti  e tregue. E appo gli esseri ancora  più eccellenti l’unione ha luogo in  certo modo anche fra i disgiunti e  lontani, come puoi vedere negli astri.'  Cosi un più alto grado di eccellenza  può generare scambievole corrispon-. Molti degli  Dei popolari riferivano gli stoici ai gran  corpi celesti, al sole, alla luna, alle stelle.  Gli Dei medesimi non sono pure, agli occhi degli stoici, ciascnno per sò medesimo;  ma tutti sono per tutti, per la loro comunità, pel Dio supremo, pel mondo ecdexiza negli esseri anche a mal grado  della distanza che è tra mezzo. Ma  vedi ora a che siamo: soli i ragio-  nevoli sembrano talora aver posto  in oblio la loro qualità che li chiama  ad unirsi reciprocamente gli uni cogli altri, e quivi solo pare che non si  trovi sempre concorso reciproco.  Nondimeno con tutto che essi fug-  gano a poter loro, e’ sono da ogni  parte arrestati; chè la natura è. più  potente di loro. Tu vedrai manifesto  (j nello che io dico, se tu saprai osservare. Perchè ti verrà più agevolmente fatto di trovar terra scompa-  gnata dalla terra, che non uomo  scompagnato dall’ uomo. Porta il suo frutto anche l’ uomo, ed anche Dio, ed anche il mon-  do: e ogni cosa nella sua stagione  porta il suo frutto. Che se l’uso ap-  plica questo modo di dire propria-  mente alla vite e alle altre cose di  simil fatta, non monta nulla. La ragione poi porta un frutto c per gli  altri e per sè stessa,* e nascono da  lei cose che hanno natura e qualità  simili alle sue proprie. Se tu il puoi, fa’ che si ricre-  da; se non puoi, sovvengati che la  benignità ti è stata data per questo.*  Anche gli Dei sono benigni a questi  tali; e in certe cose eziandio li aiu-  tano, come a conservare e ricuperare la sanità, ad acquistare fama e  ricchezza: cotanto sono essi amorevoli. Il medesimo puoi fare.tu an-  cora; o veramente di’ chi ti impedisce che tu noi faccia. Lavora non già come un ta-  pino nè come chi voglia farsi com-  miscrare o ammirare; ma intendi a  ciò solamente: operare e astenerti. Cioè per tollerare amorevolmente an-  che chi erra e non vuole o non può ricredersi. Intendi « agire o non agire, » frase solenne appo gli stoici, non traducibile. secondo che la ragion civile * richiede. Oggi sono uscito d’ ogni mia  noia, 0 per dir più vero, ho cacciato  fuori ogni mia noia, perchè non era  fuori di me, ma dentro, nelle mie  opinioni. Sion tutte cose, in quanto al  numero delle volte che si sono ripetute, consuete; in quanto alla durata,  transitorie; in quanto alla materia,  sordide. Tutte sono ora quali erano  al tempo di coloro che abbiam sep-  pelliti.  Le cose stan fuori dell’ uscio, ^  dapersè, nulla sapendo disè, nè giu-  dicando. Chi è dunque che giudica  intorno a loro? la parte sovrana. Intendi il bene della società. Intendi fuori di noi, e non hanno adito  a noi nè potenza di turbarci, se noi non  apriamo loro l’uscio, facendo stima di loro  disuguale al vero. Ho creduto di dover con-  servare l'espressione figurata del testo greco. Cioè la ragione. Non nella passione, ma nella  razione sta il bene e il male dell’animai ragionevole e socievole;  come non istà nella passione ma  nell’ azione la virtù di lui e il vizio. Alla pietra scagliata in aria  non è punto un male lo andare in  giù, nè un bene lo andare in su.  Penetra nell’interno delle menti  loro, e vedrai che gente è quella di  cui tu temi il giudizio, e che sorta  di giudici sono anche verso di sè medesimi. L’esistenza delle cose è un  passare incessante da una in altra  forma. E tu stesso non perduri un  istante nel medesimo stato, ma ti  vai di continuo alterando e come a  dire dissolvendoti.  E l’universo  parimente. Cioè iniqui anche verso sè stessi, non  che verso gli altri; dannando essi la lo(o  parte sovrana a servire alla inferiore. Il fallo altrui coiivien lasciarlo  dov’è. Il finire di una azione, il cessare di una volontà o di un pensiero  e, per così dire, il morir loro, non  è punto un male. Considera ora le  diverse età: l’infanzia, L’ADOLESCENZA, la giovinezza, la vecchiaia. Il cessare di quella che precede per dar  luogo a quella che segue, è ancora, come a dire, una morte. È egli un  male? Passa a considerare la vita  che vivesti sotto 1’ avolo, poi quella  sotto la madre, e rammenta ancora  molte altre diversità di stati, e mutamenti dall’ uno in un altro, e ces-  sazioni; e interroga te stesso; è egli  cotesto un male? Adunque nò anco   il cessare e concludersi della vita,  nè il totale mutamento di essa non  è punto un male. Cioè in chi n’è autore, il quale non  nuoce che a sè medesimo. Bada alla tua parte sovrana,  a quella dell’ universo, a quella di  costui. Alla tua, per ridurla giusta  ed imparziale; a quella dell’ uni-  verso, per non dimenticare di che  sei parte; a quella di costui, per  chiarire s’ egli operò per ignoranza ovvero con intenzione, e ricor-  dati ad un tempo che egli ti è congiunto. Come tu medesimo sei parte  del corpo sociale, così anche ciascuna delle tue azioni è parte inte-  grante della vita di quello. Adunque  se una qualsivoglia di esse non ha  per iscopo, o immediato o mediato,  il bene della società, ella turba la  vita comune rompendone l’ unità,  ed è sediziosa come è sedizioso chi  parteggia in una città e guasta,  per quanto è in lui, la comune concordia. Sdegni fanciulleschi, bambo-  late, animucce che portano cadaveri, cose che rappresentano al vivo  ciò che narra Omero delle anime  degli spenti. Considera la qualità della causa,  e separando quella dalla materia, fa’  di contemplarla distintamente in sè  stessa; di poi vedi anche e circoscrivi  distintamente entro i suoi confini il  tempo che, al sommo, possa cotal  cosa per la natura sua durare. Hai sofferto mille travagli per  non aver voluto appagarti unicamente  del far quello a che sei stato ordinato: ma basti. Quando altri ti lacera o ti odia,  o che schiamazzano contro di te,  come fanno ora, pensa alle animucce Farla di tutte le cose di questo mondo. L’Odissea, lib. XI, discesa di Ulisse all’Inferno. Intendi: per non aver riposto unica-  mente il tuo bene nel far quello ohe ec.Come schiamazzano ora; relativo a  qualche caso particolare. di questi tali, penetra loro addentro e osserva che uomini sono. Ve-  drai che non ti conviene il dar;(:i  briga perchè essi abbiano di te piut-  tosto tale che tale altra opinione.  Hai nondimeno a voler loro bene:  chè sono per natura amici tuoi. IC  anche gli Dei non lasciano di giovar  loro in ogni modo, per mezzo di  sogni, di oracoli, sebbene in quelle  cose soltanto che da costoro si pregiano. Cotale è il perpetuo giro delle  cose mondiali; all’ insù all’ ingiù,  d’ età in età. 0 la mente dell’ uni-  verso determina con atti particolari  di volontà ciascuna cosa; e se que-  sto è, tu hai da ricevere con amore  il voluto da lei: o ella ha voluto e  determinato una volta per sempre, o  tutto pende e procede da quella determinazione; e allora a che il ri-  calcitrare? Egli è, in certo modo,  come se non ci avesse altro che atomi e indivisibili. Al postutto, o  egli v’ ha un Dio intelligente e provvido, e tutto sta bene; o le cose si  governano dal caso; e tu almeno non  governare a caso te stesso. Oramai  la terra ci ricoprirà tutti quanti siamo; e poi anche la terra si trasformerà; e poi si trasformerà quello  ancora in che si sarà trasformata la  terra; e quest’ altro ancora di nuovo,  air infinito. Davvero chi ripensa a  un cotale incalzarsi di mutamenti e  di moti e alla rapidità con che si suc-  cedono, non può essere che al tutto  non disprezzi ogni cosa mortale. La causa universale è un tor-  rente che trae seco ogni cosa. E que-  sti omicciuoli che al parer loro ma-  neggiano secondo filosofia gli affari  «li Stato, come son piccioli! Veri  bimbi in culla.* 0 uomo, attendi a  Letteralmento: « pieni,di moccio, moc-  ciosi, » cioè « bimbi col moccio al naso.  far quello, che che sia, che la natura richiede da te nel momento  presente, e non andar guardando attorno se altri il saprà. Non isperare  la repubblica di Platone, e sii contento ad ogni po’ di progresso che  tu vegga; pensando che anche il ridurre questo ad- effetto non è pic-  cola cosa. Perchè le opinioni degli  uomini chi può mutarle? E senza  correggere le opinioni, che puoi tu  avere se non ischiavi che gemono e  s’infingono di obbedire? Or va’, non  istar più ad allegarmi Alessandro,  Filippo, Demetrio Falereo. Buon per loro, se conobbero che cosa vuol la  natura comune, e seppero raffrenare  e governar sè medesimi. Che se operarono solo per parere,' nissuno ha   moT'oeuXy direbbero i Francesi. Dal novero  di questi bimbi non pare che Antonino intendesse escludere sè medesimo. Fare il bene per amor del bene piutto-  sto che della lode, voler essere piuttosto  che parere ottimo, è il tratto più essenziale condannato me ad imitarli. Semplice  e modesta è l’opera della filosofia.  Non indurmi ad ostentazione di gravità. Contempla, come da un’ alta  vetta, mandre infinite d’uomini, usi  di religione innumerevoli, e un na-  vigar da ogni banda, in tempesta,  in bonaccia, e diversità di nascenti,  di conviventi, di morenti; pensa an-  cora alla vita che si vivea per lo  addietro, e a quella che si vivrà dopo  te, e a quella che tra le nazioni  barbare si vive ora, e quanti v’ ha  che di te ignorano anche il nome,   dì un gran carattere morale, dipinto da  Eschilo con tre versi sublimi nei Sette a  Tebe parlando di Amfiarao, in parte fran-  tesi dal Belletti; e la cui traduzione let-  terale, per quanto è possibile, sarebbe: « non  sembrare, ma essere ottimo ei vuole, fa-  cendo fruttificare il fertile terreno della  sua mente, ove germinano gli assennati pensieri. [ Bellissimo e nobilissimo paragrafo !  quanti insegnamenti, e per quanti, si compendiano in esso! P e quanti che sono per dimenticarlo  in breve, e quanti che ti lodano  forse ora, e ti biasimeranno tantosto:  e come non è da fare stima nè della  ricordanza, nè della gloria, nè di ve-  runa cosa quaggiù.  Imperturbabilità rispetto alle  cose che procedono dalle cause este-  riori; rettitudine nelle cose di che  tu stesso sei causa: vale a dire, determinazioni ed azioni non aventi  altro fine che sè medesime, cioè d’o-  perare socievolmente, siccome cosa  che è secondo la tua natura.  Fra le cose che ti molestano,  molte le quali hanno sede nella tua  opinione, tu puoi sgombrare da te, o  darai cosi campo ed agio a te stesso.   Fa’ di abbracciar colla mente l’uni-  verso mondo, e concepir nel pensie-  ro r eternità dei secoli, e considera  la rapida trasformazione di ciascuna  cosa particolare, e quanto è breve  l’intervallo dalla nascita alla dissoluzione, e infinito il tempo che precedet-  te la nascita, e infinito del pari quello  che terrà dietro alla dissoluzione.  Tutte le cose che tu vedi si  tlissolverannò tra breve, e coloro che  le vedranno dissolversi, si dissolveranno tra breve anch’essi. E chi  morrà d'estrema vecchiezza, si tro-  verà ad un medesimo ragguaglio  con chi mori anzi tempo. Che menti son quelle di costoro ! e per che motivi amano e  onorano altrui! abbi in uso diveder  nude le loro animucce. Quando si  credono nuocere biasimando, o giovare lodando, che vanità! Una perdita di che che sia non è altro che una trasformazione. Edi '  questo si compiace la natura dell’universo, conforme alla quale tutto   [Intendi: qual vanissimo errore!] Perchè la lode e il biasimo di chi che sia noii  aggiunge e non toglie nulla al valor vero  degli uomini o dello cose. si fa bene. Per secoli innumerevoli  le cose si sono fatte a questo modo,  e continueranno a farsi' a questo  modo per altri secoli innumerevoli. Che dirai dunque? Che sempre sensi  fatte male, e che continueranno a  farsi male per l’avvenire? Or nissuno dunque s’ è mai trovato fra cotanti Iddìi, il quale avesse potestà di correggere tutto questo? E il mondo è egli condannato a mali che  non avranno mai fine? Vedi il marcio della materia  che sottosta alle cose: acqua, polvere, ossicini, sudiciume. Il  marmo, callosità della terra; l’oro  e r argento, capomorto di quella;  la veste, peli; la porpora, sangue:  cosi di tutto il rimanente. E la materia organica vivente, altrettale: di  La conclusione è che le perdite, i mu-  tamenti, e tante coso allo quali il^ volgo  dà il nome di mali, non sono mali veri. quei medesimi ingredienti si com-  pone, e in quelli si risolve.  Abbastanza hai tapinato, abbastanza hai mormorato, abbastanza  hai fatto la scimmia. Che ti turba?  Che t’interviene di nuovo? Che è  ciò che ti trae dal senno? La causa?  vedila. La materia? vedi la materia.  Da queste cose in fuori non v’ ha  nulla. Ma anche fa’ di essere più pio  verso gli Dei e più semplice.   Lo stare a veder queste cose tre  o cento anni è tutt’uno.  Se egli ha peccato, in lui sta  il male. Ma forse non ha peccato. 0 da una sola fonte intelligen-  te, come in corpo organato procedono tutte le cose; e se ciò è, non  appartiensi alla parte il querelarsi  di ciò che fassi ad utilità comune  del tutto; o sono gli atomi. E tutto che esiste, accozzamento del caso,  vien dissipato dal caso. A che dunque ti turbi?   Di’ alla parte sovrana: sei tu morta? sei tu fradicia? sei tu altra cosa  che te? sei tu imbestiata? sei tu  giumento? sei tu pecora?  gli Dei non possono far nul-  la, o possono. Se non possono; a  che li preghi? Ma se possono, che  non li preghi piuttosto perchè ti  concedano di non temere nè desidarare alcuna di queste cose, nè di  rattristarti per esse, anzi che pre-  garli che tu possa ottenerle o evitarle? perchè ad ogni modo, se e’ pos-  sono aiutare gli uomini, debbono  poterli aiutare anche in questo. Dirai forse: cotesto gli Dei hanno posto  in mia facoltà. 0, non è dunque  meglio valerti con altezza d’ animo  indipendente di ciò che sta in poter  tuo, anzi c he affannarti abbiettamente e servilmente per ciò che non  dipende da te? E poi chi ti ha detto  che gli Dei non ci aiutino anche  nelle cose che stanno in poter no-  stro? provati di pregarli, e vedrai.  Altri prega: fa’ che io possa giacere  con colei. E tu prega: fa’ che io non  desideri di giacere con colei. Altri:  fa’ che io mi possa liberare dal tale. E tu: fa’ che io non abbia bisogno li liberarmi dal tale. Altri ancora:  fa’ che io non perda il figliuolo. E  tu: fa’ che io non tema di perderlo.  In somma raddrizza cosi le tue pre-  ghiere, e sta’ a vedere che ne segue.   4L Dice Epicuro: « Ammalato, io  non facea mai parola delle affezioni  del mio corpicciuolo nè d’altre co-  tali cose, quali sogliono essere quelle  di che amano gli infermi inti’atte-  nersi con coloro che li vengono a  visitare. Ma attendeva tuttavia a ragionare intorno ai punti principali  della filosofia naturale, soprasUmdo   ad investigare e dimostrare ciò ap-  punto: come possa V anima, ancora  che partecipe dei moti del corpo,  serbarsi nondimeno imperturbata, e  conservare in sè quel bene che è  proprio di lei: nè dava, aggiunge  egli, materia ai medici d’insupei-  bire, come se facessero gran che:  chè la mia vita, anche in quello  stato, non era senza calma e giocon-  dità. » Ora fa’ tu altrettanto, sia,  ponghiamo caso, che tu ammali, o  t’ intervenga qualsivoglia altra mo-  lestia: perchè"' il dover serbar fede  alla filosofia in ogni congiuntura  qualsiasi, e non delirare con lo stolto  e con l’ignaro, è precetto comune  a tutte le sètte. Bada unicamente a ciò che tu fai  nel momento presente, e all’ istro-  rnento con che il fai. Quando ti senti offeso dall’impudenza di alcuno, interroga tosto  te n'iedesimo: ò egli possibile che  non ci abbia impudenti nel mondo?  Non è. Non voler dunque l’impos-  sibile: questo è uno di quelli impu-  denti che di necessità hanno ad essorci. Lo stesso hai da dirti e del  furbo e del disleale, e di qualunque  altro vizioso che pecchi in qualsi-  voglia modo. Perchè ricordandoti  essere impossibile che tal sorta di  gente non sia, tu ti farai più mite  verso ciascuno. Giova ancora il pen-  sare subito. Qual virtù ha dato all’uomo la natura contro questo peccato'? Ha dato, per modo di eseni-   [Intendi: tosto che ci sentiamo offesi por  tale 0 tal altro fatto biasimevole di chicchessia. Intendi: contro al sentirsi offeso da  questo peccato del vicino. Perchè colle stesse  parole in altro luogo potrebbesi anche si-  gnificare: qual virtù diede all'uomo la na-  tura.per combattere in sè medesimo questo  peccato e serbarne puro sè stesso. pio, contro all’ ingrato la mansuotudino, 0 contro a ciascuno altro vizio,  altre virtù. Ad ogni modo tu puoi  far prova di ravviare quel traviato;  perchè chi fallisce, fallisce Io scopo  a cui mirava, ed è quindi traviato.'  E ancora tu hai a pensare qual danno  te ne viene: eli è troverai nissuno  di costoro, contro ai quali ti adiri,  aver fatto cosa per cui la mente tua  sia. per divenir peggiore. Ed ogni tuo  male, ogni tuo danno, ben sai, non  poter essere altrove che in quella.  E poi che male ci ha, o che v’ ha  egli di strano se l’indotto fa cose  da indotto?- Vedi piuttosto che tu  non abbia a rampognar te medesimo, il quale non hai aspettato da  colui tal sorta di fallo. Perchè a te  la ragione porgeva argomenti a pre-  vedere che costui fallirebbe probabilmente in quella guisa; ’ e tu non  badasti, ed ora ti vai maravigliando  eh’ egli abbia fallito. Massimamente  (juando parratti aver rimproveri a  fare a un disleale, a un ingrato, fa’  che tu rivolga contro te medesimo  r accusa: sendo manifestamente tuo  r errore se hai creduto che un uomo  in cotale disposizione d’animo fosse  ' per mantenere la fede; o,se facendo  tu del bene ad altrui, non l’hai fatto  senza un rispetto al mondo ad altra  cosa che al bene che volevi fare, nè  con r intento di avere a raccogliere  immediatamente e unicamente dal  fatto stesso dello aver compiuta una  buona azione, tutto ed intero il frutto  di essa. Nel vero quando tu hai  beneficato un uomo, che vuoi tu an-  cora di più?^ Non ti basta aver fatto II saggio, diceano gli stoici, avrà amici, ma li amerà per utile loro, e non di sè  stesso. un’azione che è conforme alla tua  natura, e vuoi inoltre ima mercede,  come se gli occhi avessero ad esser  pagati perchè vedono, e i piedi perchè camminano? Perchè siccome  queste membra furono così confor-  mate affinchè avessero a fare cotali  uffici, e quando hanno fatto i servigi a che furono ordinate, hanno  ricevuto tutto ciò che è dovuto loro;  cosi l’uomo, per 'natura benefico,  quando ha operato alcun che di bene, o semplicemente aiutato altrui nelle cose medie, ha fatto quello a che  è stato ordinato ed ha ricevuto tutto  quello che gli è dovuto. E quando mai, o anima, sarai  tu buona, o schietta, ed una, e ignuda, e più appariscente ' del corpo  che ti (àrconda? Quando gusterai tu  di quello stato che è tutto dilezione  ed amore? Quando sarai tu fornita  di tutto punto, non mancante di  nulla, non agognando nè desiderando  nissuna cosa, sia animata o sia ina-  nimata, per pigliarne diletto? nè  tempo perchè il diletto più duri? nè '  luogo od opportunità di paese o di  clima, nè conformità d’uomini che  ti vadano a genio? ma sarai paga   [Intendi visibile, chè questo senso ha  pure il vocabolo appariscente] del tuo stato presente, facendo piacer  tuo di tutte le cose presenti, e persuadendo a te stessa che tu hai tutto  e che tutto va bene, e che tutto li  viene dagli Dei e tutto andrà bene,  checché piaccia ad essi d’ inviarti  per la salute di quello animale per-  fetto e buono e giusto e bello, il  quale genera tutte le cose, e tutte  le contiene ed abbraccia e riceve al-  lorché si dissolvono per la riprodu-  zione di altre simiglianti? Quando  mai sarai tale che, vivendo in una  società con gli' Dei e con gli uomi-  ni, non ti accada mai né di dolerti  di loro, né di essere condannato da  loro? Vedi quello che richiede la tua  natura in quanto sei governato dalla  sola natura,’ e fàllo o accettalo ogni  volta che non sia per patirne danno  la tua natura d’animale; Di poi os-  Cioè a dire in quanto soi organismo viventi. serva quel che richiede la tua na-  tura d’ animale, e questo ancora ri-  duci ad atto ogni volta che non sia  per patirne danno la tua natura razionale. Ma il razionale importa,  qual conseguenza immediata, il so-  cievole. Metti in pratica queste re-  gole, e non darti pensiero più d’altro. Checché ti accada, è o non è  comportabile alla tua natura. Se è,  non hai motivo di crucciartene, ma  Adunque Antonino, come già gli stoici  antichi, come i fllosofl moderni (vedi particolarmente Burdach, Antropologia), tre diverse nature, o per dire più propriamente,  tre diversi gradi simultanei di vita distin-  gueva nell' uomo: la vita plastica o vegeta-  tiva, la vita animale, e la vita razionale.  Quanto al principio unico, o moltiplico di  queste tre vite, le idee degli stoici erano  confuse. E Antonino errava lungi dal vero  quando diceva, parlando della vita plastica  o vegetativa, questa essere « governata dalla  sola natura, » se con ciò intendea che a  produrne, o a spiegarne tutti i fenomeni  bastassero quelle leg^ che i moderni chia-  mano « leggi generali della natura. attendi a portartelo in pace, essendo  tu nato a ciò. Se non è, ancora non  crucciartene; perchè verrà meno  come prima ti avrà consunto. Ma  sovvengati che sei tale per natura  da poter tollerare tutto ciò che sta  in potere della tua mente di rendere  tollerabile col persuaderti che ti  giovi 0 sia dover tuo il tollerarlo. Se falla, correggilo amorevol-  mente, e mostragli in che ha falla-  to. Se noi puoi, incolpane te stesso,  o veramente nè anche te stesso. Qualunque accidente ti occorra, egli ti era da secoli innumerevoli predestinato, e la serie fatale  delle cause * avea connesso insieme  quello accidente colla tua esistenza.   6. Atomi, o nature, quale che fosse  dei due, io pongo per fermo  in primo luogo che io sono parte di   ^ Concatenazione delle cause, o serie delle  cause è appo gli stoici la definizione stessa  del fato. un tutto governato da una natura;  e- in secondo luogo che io ho rela-  zione di affinità con tutte le parti a  ine congeneri. Avendo ferme nel-  r animo queste due cose, in quanto  io sono parte, non avrò a grave nulla  di ciò che mi viene compartito dal  tutto, non essendo nocevole alla  parte quello che al tutto è giovevo-  le; nè potendo il tutto aver nulla in  sè che non conferisca al bene di  lui; primieramente perchè questa è  proprietà generale di tutte le na-  ture, e poi perchè la natura del-  r universo ha questo ancora di più,  che non è càusa alcuna esteriore da  cui possa essere necessitata a pro-  durre mai cosa la quale sia per nuo-  cerle. Ricordandomi adunque che io  sono parte di un tutto cotale, avrò  caro ogni cosa che avvenga. E in  quanto ho relazione di affinità colle  parti a me congeneri, attenderò a  non far nulla mai che non si riferisca a quelle; ma anzi mirando sem-  pre a» miei simili, rivolgerò tutte le  mie forze a procacciare il ben co-  mune, e mi asterrò da tutto che  possa ridondare in altrui danno. E  così governandomi' non può essere  che la vita non abbia un corso fe-  lice; come felice stimeresti il corso  della vita del cittadino il quale pro-  cedesse d’ una in altra opera giove-  vole ai suoi compagni di patria, e  avesse caro tutto quello che fosse  voluto dal comune. Alle parti del tutto, quante per  natura contengonsi nell’ universo, è  necessità il corrompersi: questo sia  •detto per significare lo alterarsi di  esse. Il quale alterarsi se fosse per  natura un male, come è una neces-  sità, poco felici sarebbero le condi-  zioni del tutto, le parti di lui es-  sendo, come a dire, avute in odio  da chi governa, e da lui fatte tali  da doversi chi in uno, chi in altro modo corrompere. Dove converrebbe  dire o che la natura avesse' voluto  nuocere ella stessa alle proprie sue  parti (20), sottoponendole al male, e  facendole tali che dovessero neces-  sariamente incappare ' nel male, o  che ciò sia avvenuto senza che sia  stato voluto nè avvertito da lei. Delle  quali cose nè V una nè 1’ altra ò da  credere. Che se taluno, messa da  canto la natura, presumesse espli-  care il nodo affermando le cose essere  nate a ciò, non sarà punto meno  strano il dire essere le parti del  tutto nate ai mutamenti, e ad un  tempo il maravigliarsi e dolersi quan-  do questi mutamenti si compiono:  massimamente quando noi veggiamo  che esse risolvonsi sempre in quei  medesimi elementi di che è compo-  sta ciascuna. Avvegnaché la corru-  zione o dissoluzione delle cose altro  non possa essere e non sia in ef-  fetto che una disgregazione e dispersione di quegli elementi, del cui ag-  gregato esse si compongono, o vogliam dire un ritorno al terreo di  I ciò che v’ ha in esse di solido, e al-  r aereo di ciò che v’ha in esse di  vitale,' di modo che la ragione se-  minale dell’universo riprenda di nuo-  vo in sè questi elementi, perchè al-  r ultimo sieho consunti dal fuoco, se  r universo è sottoposto a conflagrazioni periodiche, o servano con per-  petua vicenda al continuo rinnovel-  lamento di lui, se egli dura eterno  ed incorrotto.* E questo solido e que-  sto vitale non darti già a credere  I che sia quello che tu avesti dalla  madre nascendo: perchè ieri, e ier  r altro è venuto ad aggregarsi in te [Ricorda siccome appo gli stoici la vita  consiste nella respirazione, e quindi T es-  senza di quella è 1' aria. Opinione degli stoici più antichi: Ze-  none, Cleante, Crisippo. Opinione di molti stoici posteriori: Zenone da Tarso, Boeto, Posidouiu, Panezio. e tiai cibi, e (-l’aria die hai respi rata. Questo adunque che ti si è  assrefiato ora si trasforma, e non   oo o   più. quello che partoriva la madre.  Fa’ che tu vi sottoponga col pensiero  quel che ti lega sì strettamente a  ([ueste tali e tali altre cose, le quali  sono un nulla, cred’ io, jrispetto a  quello di che io ragiono Avendo tu imposto a te mede-  simo questi nomi di buono, di mc-  ciosto, di veritiero, di assennato, di,  consenziente, di magnanimo, fa’ che  non abbiansi a mutare nei loro con-  trari; e ove mai ti accadesse di per-  dere quelli, fa’ che tu non tardi a ri-  cuperarli. E ricordati che con la pa-  rola assennata, tu volevi significare  r attenzione discernitiva a ciascuna  cosa presente, e il non pensare ad  altro in quel mentre. Con la parola  consenziente, l’accettazione volontaria di quanto ti viene compartito  dalla natura comune; e con la parola ma(filammo, la elevazione dello  spirito al di sopra di ogni moto soave  o insoave della carne, e al di sopra  I della gloriuzza, della morte c di si-  mili cose. Se adunque tu ti assicu-  rerai il possesso di quei nomi senza  bramare che ti vengano dati da al-  trui, sarai un alti ò uomo ed entrerai  in ima vita nuova. Percìiè il continuare ad essere per lo innanzi quale  sei stato infino ad ora, e il continuare a voltolarti fra le brutture e  I Je angosce di una vita cotale, troppo  è da uomo stupido e codardo, simile  a quei bestiari ' mezzo rosi dalle  fiere, i quali pieni di ferite e con-  taminati di sangue e di loto, pre-  gano pure di essere conservati infine  al domani, ancora che.consapevoli  di dover essere di nuovo esposti,  conci in quel modo, alle medesi-  Cosi chiamavano i Romani quelli accoltollatori che negli spettacoli combatte-  vano contro le fiere. me unghie e ai medesimi denti.  Gittati adunque con animo delibe-  rato in su quei pochi nomi, e se  puoi tenertivi saldo ed eretto, tien-  tivi, non altrimenti che se tu fossi  venuto ad abitare in qualche isola  fortunata; se ti accorgi che tu vi  tentenni, e non possa vincere la  prova, vattene animoso in qualche  cantuccio ove tu sia certo di vincer-  la; od anche esci al tutto di vita,  senza adirarti, ma semplicemente,  liberamente, modestamente contento  di aver fatto pure una cosa nella  vita: Tesserne uscito in cotal modo.*  E al farti ricordare di quei nomi gio-  verà non poco il ricordarti degli Dei,  i quali non vogliono essere adulati; *  ma bensì che tutti gli esseri ragio-  nevoli facciano di assomigliarsi a   Epitteto, Manuale. La pietà  verso gli Dei consiste massimanientG in  avere sane e rette opinioni intorno a quelli (traduz. del Leopardi).  loro, e che il fico faccia le cose che  s’appartengono al fico, il cane quelle  che si appartengono al cane, e Tuomo  quelle che s’appartengono all’ uomo.  Il teatro, la guerra, lo sbigot-  timento, la torpidezza, la servilità  andranno in te cancellando di giorno  in giorno quelle sante massime, le  quali tu apprendi bensì colla imma-  ginativa e confidi alla memoria, ma  senza dar loro fondamento nè fer-  marle colla considerazione del tuttto 022). Egli ti bisogna vedere le cose  e fare in modo che e il particolare  che è intorno a te, sia bene osser-  vato, e la relazione di quello al tutto  sia contemplata, e quella compia-  cenza di sè medesimo che nasce  dalla scienza di ciascuna cosa si con-  servi nell’ interno tuo, segreta, ma  non celata. Altrimenti quando godrai  i frutti della semplicità? quando  quelli della gravità e sodezza? quan-  do quelli della conoscenza di ciascuna cosa, quale ella è per essenza, che posto occupa nel mondo,  quanto tempo è per sussistere, di  che è composta, in quali obbietti si  può trovare, e chi sono coloro che  possono darla o toglierla. Il ragno superbisce se ha preso  una mosca; altri, se un lepratto;  altri, se un’ acciuga; altri, se un  cinghiale o un orso; altri, se fece  prigioni alcuni Sarmati. Non sono  dunque assassini costoro se tu consideri i principii che li movono?  Fa’ che tu impari il modo ac-  concio di contemplare come tutte le  cose si mutano le ime nelle altre,  e attendi senza ristare a questa parte  della filosofìa, e vienti esercitando  in essa. Perchè nuli’ altro è che  tanto innalzi 1’ animo. Chi è assiduo  in questa contemplazione si spoglia,  sto quasi per dire, del corpo, e considerando siccome in poco d’ ora gli  converrà lasciare tutte le cose di qua e partirsi dagli uomini, non at-  tende più ad altro che a conformarsi  alla. giustizia e alla natura dell’ uni-  verso in tutto che egli fa o patisce.  Che dirà un tale, che opinione avrà  di lui 0 che farà contro di lui uìi  tal altro, egli non se ne dà un pen-  siero al mondo, pago e contento di  queste sole due cose; se egli fa con  giustizia ciò che egli fa nel mo-  mento presente, e s’ egli ha caro  qualsiasi cosa presentemente gli ac-  cada. Tutte le altre cure e negozi  lascia andare, e d’ altro non gli calo  che di camminare perla diritUivia,  tenendo dietro a chi sempre cam-  mina per la diritta via, a Dio. A che il sospetto quando tu  puoi ricercare che cosa è da fare  nella congiuntura presente? Che se  tu il vedi, mettiti a ciò, e va’ in-  nanzi alacremente per quella via,  senza guardarti dietro; se noi vedi,  sospendi il giud^io, e aiutati del consiglio degli ottimi. Se insorgono  ostacoli al compiere quello che hai  deliberato, governati razionalmente  secondo la nuova occasione che si  presenta,* attenendoti sempre a quel-  lo che ti par giusto. Perchè questa  è r ottima cosa da conseguire, sendo  che lo scostarsi dalla giustizia è un  decadere dalla natura umana. Egli  è un certo che di lento e posato e  insieme di mobile ed alacre, di ilare  e sereno e insieme di serio e grave,  colui che segue la ragione in ogni  cosa. Appena riscosso dal sonno  chiedi a te medesimo se ti impor-  terà che da altri anzi che da te  si faccia quello che sta bene ed è  giusto. Non te ne importerà: o avre-  sti tu dimenticato quali sono costoro  che superbiscono nel farsi dispensa-   M   t Cioè volgi l'ostacolo a profitto, servendoti di Ini come di nuova materia ad  azione. tori della lode e del biasimo, quali  nel letto, quali a mensa; e quali  cose facciano e quali fuggano, a quali  intendano, e quali rubino e quali  rapiscano ' non colle mani o coi pie-  di: ma colla parte più nobile di loro,  la quale può diventare, solo ch’ella  il voglia, fede, verecondia, verità,  legge, buon genio. Alla natura che dà e ritoglie  tutte le cose, 1’ uomo bene instituito  e modesto dice: « Da’ quello che vuoi,  togli quello che vuoi, o natura.  E questo dice non già con baldanza  orgogliosa, ma con intimo senso di  alfettuosa obbedienza verso di lei. Appo gli stoici imà virtù è la parte so-  vrana deir anima talmente modificata. [‘Natura’ per gli stoici è lo stesso che ‘Dio’. Queste parole di Marcaurelio corri-  spondono perfettamente a quelle di Giobbe:  Dominui dedita Dominus abstulit, osserva  qui bouissimo il Pierron. Poco^ è questo che ti rimane  a vivere. Vivi dunque come in sulla  montagna. Perchè a qui, o colà,  nulla monta, se, dove che tu sii, tu  vivi sempre nel mondo come in una  città. E veggano e conoscano pure*  gli uomini un uomo davvero, il quale  vive secondo natura. Se noi possono  tollerare, uccidanlo. Meglio questo  che vivere com’ essi fanno.*   1(». Non è più tempo di far parola  intorno a ciò che deve essere Tiiomo  dabbene, ma di incominciare ad esserlo.  Il pensiero del tempo universo  e della materia universa ti sia del  continuo presente, e che tutte le  cose particolari sono, rispetto a que-  sta, un granello di miglio, e rispetto  a quello, un batter d’ occhiò. Considerando ciascuno degli  obbietti che offronsi alla tua osser-  Letteralmente: un volger di trapano. vazione, fa’ di rappresentartelo come  già in atto di dissolversi e trasfor-  marsi; d’ infradiciare, per esempio,  o dileguarsi in fumo, o altro, secondo  il genere di morte a cui nacque. Vedili quando mangiano, quan-  do dormono, quando usano con fem-  mina, quando sono al cesso, o fanno  altre cose tali. Vedili poi (piando  stanno in sussiego o fan cipiglio,  quando van tronfi e pettoruti, o s'adi-  rano, rabbuffano altrui con alterigia.  E poco innanzi servivano pure come  schiavi a tante cose, e per quali  motivi ! E poco dopo ritorneranno  a quelle medesime cose.  Giova a ciascuno ciò che ar-  reca a ciascuno la natura comune.  Ed allora giova, quando essa lo arreca.   La terra ama la pioggia; e l’ama ancora 1’etere venerando. E il mondo ama far quello che è  per accadere. Dico adunque al mondo: Io amo con te. E non dicesi egli  parimenti che una tal cosa ama accadere?  0 tu vivi qua, e ci sei già avvezzo; 0 vai fuori, e questo tu desi-  deravi; 0 muori, ed hai finito il tuo  compito. Fuori di questi tre casi non  v’ ha altro. Adunque stattene di buona  voglia.  Abbiti sempre per certo che  quel tuo vivere in villa non è punto  diverso da questo, e che tutte son  qui le cose come in sulla cima del  monte, o sulla spiaggia del mare, o  dove che tu voglia. Perchè ti si pa-  rerà davanti a bella prima il detto  di Platone: « Egli sta nella reggia  come in una capanna sul monte,  mugnendo l’armento. Che è in questo istante la mia  parte sovrana? e quale la fo io? A  che Tadop ro io? Non è ella per av-   8Ìde«nd^‘°R sognando o deventura vuota di ragione? Non è ella  separata, divelta dalla comunità?  Non è ella cosi congiunta, conglu-  tinata col corpo, da doverne seguire  tutti i moti?*   25. Chi fugge dal suo signore, è  servo fuggitivo. Ma la legge è signora: chi trasgredisce la legge, è  dunque un servo fuggitivo. E similmente chi s’ attrista, o teme, o non  vorrebbe che fosse accaduta o acca-  desse 0 fosse per accadere alcuna  qualsivoglia di quelle cose che ha  ordinato il reggitore di ogni cosa,  cioè la legge distributrice di quello  che tocca a ciascheduno. Adunque  Bene rammenta qnì ìi Gataker ciò che  Platone avea già.detto nel Fedone: «Cia-  scun piacere e ciascun dolore, non altri-  menti che un chiodo confìgge l'anima al  corpo e con esso la unifica per modo che  ella, accetta per vero tutto che è affermato  dal corpo. La legge di cui qui parla Antonino è la  legge universale, quella della natura, di  Dio. chi teme, o s’ attrista, o s’ adira, è  nn servo fuggitivo.   2(ì. Chi introdusse il seme nella  matrice, se ne va; un’ altra causa  sottentra immantinente, e lavora e  conduce a termine il feto. Qual cosa  e da quale? Ancora, egli manda giù  il cibo per la gola: e tosto un’ altra  causa sottentrando produce senso,  moto, vita, vigore, eccetera. Quante  e quali cose? Queste maraviglie, che  si compiono sotto un velo si impe-  netrabile, sianti spesso subbietto di  contemplazione, e sappi fare  concetto della potenza operatrice di  ({uelle, come facciamo della causa che  fa gravitare i corpi o li spinge in al-  to, la quale non vediamo cogli occhi,  ma non però meno certamente. Non dimenticare che tutte  queste cose, che ora si fanno, si  sono fatte prima d’ ora: e pensa* che  si faranno per l’avvenire. Pònti da-  vanti agli occhi quanti drammi o scene vedesti tu stesso, o leggesti  nelle antiche storie: come, verbi-  grazia, tutta intera la Corte di Adrian  no, tutta intera quella di Antonino,  tutta intera quella di Filippo, di  Alessandro, di Creso: perchè erano  tutte la stessa cosa che adesso, solamente erano diversi gli attori.  Fa’ ragione che colui il quale  si attrista d’ alcuna cosa, o l’ ha a  male, non è punto dissomigliante  dal porcellino percosso dal ferro del  sagrifìcatore, il quale ricalcitra e  grida. Non altro concetto hai da  farti di chi lamenta solitario sul suo  lettuccio le catene che ne stringono. E pensa come al solo animale  ragionevole è dato seguire volontario gli eventi: che in quanto al se-  guirli ad ogni modo, è forza di ne-  cessità per tutti.   1 Lettuccio è qui come chi dicesse il  canapè su cui l’uomo lavora e studia. Cosi,  bene il Casaubono. Considera segregatamente in  sè stessa ciascuna delle cose che vai  facendo, e interroga te medesimo se  la morte è un male perchè ti priverà del potere di farla. Quando per l’ altrui fallo ti  senti montare la collera, rivolgiti  tosto sopra te stesso ed esamina in  qual cosa simile a quella tu pecchi:  stimando, per esempio, che le ricchezze siano un bene, o il piacere,  o la gloria; secondo il genere del-  l’altrui peccato che ti sprona all’ira. Perchè se tu badi a ciò, presto  cesserà la tua collera. E ancora con-  sidererai che colui è forzato.* E in  vero che farebbe egli? Ovvero, se tu  il puoi, rimovi da lui ciò che lo  sforza. Cioè a dire, rimovi dalla sua mente  l’errore, il falso giudizio; perchè gli stoici  deriTavano interamente il bene morale dal  giudizio razionale, e riferivano quindi uni-  camente alla luce della ragione le risoln-    [Veggendo Satirione, immagina  di vedere Socratico o Imene: veggendo Eufrate, immagina Eutichione  0 Silvano: quando vedi Alcifrone,  immagina Tropeoforo. Qquando vedi  Senofonte, immagina Oritene o Severo; e in te stesso figurati di ve-  dere qualcheduno dei Cesari; e così  via via. Poi ti occorra alla mente:  ora dove sono costoro? In nissun  luogo, 0 chi sa dove. Di questa maniera tu verrai avvezzandoti a consi-  derare le cose umane come un fumo  ed un nulla: massimamente se ti  rammenterai come ciò che fu mu-  tato una volta, non riprenderà mai  più quella forma in tutto il tempo  infinito. E tu in qual tempo? Che  non ti basta adunque il passare co-   zioni virtuose della volontà: secondo essi il  giudizio determina la volontà necessariamente. Intendi: se gli altri non ci ritornano  mai più, ti credi tu di averci a ritornare  tu solo? 0, stumatamente questo poco che ti è  dato? Da qual materia d’ azione, da  quale impresa rifuggi? Tutte queste  cose che ti accadono, sono esse altro  che occasioni di esercizio alla ra-  gione, la quale abbia diligentemen-  te, e come si addice allo studioso  della natura, considerate le cose che  avvengono nella vita? Rimanti adun-  que finché tu abbia assimilato a te  medesimo ancor questo,' come il  valente stomaco assimila a sè tutti  i cibi, come lo splendido fuoco fa  fiamma e luce di tutto che tu getti  in esso. Nissuno sia veritiero il quale dica di te che non sei sempli-  ce e schietto, che non sei uomo  dabbene: ma menta chiunque fac-  cia di te un tal giudizio. E tutto  ciò sta in poter tuo. Perchè chi è  [Intendi: ciò che ora ti è dato per ma-  teria di azione f frase solenne ad Antonino. quegli che ti possa impedire che  tu non sii schietto e dabbene? Solo che tu abbia fermo nell’ animo  di non voler più vivere quando tu  non sii tale. Nè la ragione il vorrebbe. Che è ciò che in questa occa-  sione che mi è data si può fare o  dire per lo meglio? Checché egli sia,  è in mia facoltà il farlo, o il dirlo.  Non iscusarti col dire che ne sei im-  pedito. Non prima cesserai dai lamenti che non sii fatto tale, che  r operare conforme air istituzione  tua in (jualsivoglia caso non sia  per te la stessa cosa che è pel sen-  suale la voluttà. Perocché ciò ap-  punto vuoisi dall’ uomo avere in  conto di vero godimento. L’operare. In questa occasione - in qualsivoglia  caso.» Chi preferisse la frase stoica dica:  « in questa materia — in qualunque materia a te sottoposta » come disse Ornato.  A me parve troppo alieno dall’ uso, ed anche poco chiaro in italiano. conformemente alla propria natura.  E questo può egli in ogni caso. Al  cilindro in tutti i casi non è dato  potersi muovere in quella forma di  moto che gli è propria, nè all’acqua,  nè al fuoco, nè a nissuna delle cose  che sono governate o da natura inanimata, 0 da anima irrazionale: molti  sono gli impedimenti che loro si  frappongono, molte le resistenze. Ma  la mente, la ragione può seguire,  solo che il voglia, la sua propria via  vincendo tutti gli ostacoli. Questo  potere e agevolezza che ha la ragione di seguire la sua via in tutte  le direzioni, all’alto, al basso, per   10 declive, come il fuoco, la pietra, il cilindro, pònti davanti agli occhi,  e non cercare più oltre. Tutti gli  ostacoli che tu puoi incontrare non  hanno relazione se non se al corpo  che è cosa morta; o veramente, se  non sottentra l’ opinione, e se la  mente non cede, non possono nuocere nè far male veruno. Altrimenti  chi ne patisse, dovrebbe eziandio pa-  tire deterioramento, come veggiamo  di tutte le altre produzioni sia della  natura sia dell’ arte; le quali tutte  trovansi deteriorate ove incolga loro  alcun male; ma, qui al contrario,  r uomo, se ho a dirlo, si fa migliore  e più degno d’ encomio, quando fa  retto uso degli accidenti, quali essi  sieno, che gli incontrano. In som-  ma ricordati che non offende il ve-  ro cittadino ciò che non offende  la città; che non offende la città  ciò che non offende la legge; e  che nissuna di tutte queste così  dette avversità offende la legge. E  se non offende la legge, non of-  fende adunque nè la città nè il citadino.  A colui che fu ben penetrato  dalle vere credenze, basta il più breve  detto, anche di quelli che sono a  tutti i più noti, a sgombrargli dall’animo la tristezza o il timore. Per  esempio. Quali sono le foglie, e tali sono  Le schiatte degli umani. Quelle il vento  A terra sparge, ed altre ne produce  La germogliante selva a primavera.   Cosi le schiatte degli umani: questa Or nasce, or quella muore. Foglie sono i tuoi figliuoli, foglie tutti  costoro che ti acclamano, e schiamazzano sì forte da far credere che  dicano il vero; foglie questi altri che  altamente ti maledicono, o ti vilipen-  dono e lacerano in segreto. Foglie  sono ancora quelli che ricorderanno  il tuo nome dopo la tua morte. Tutte  queste cose spuntano fuori alla verde  stagione, poi fi vento le sparge a  terra, e(i altre in loro vece ne ri-  produce' la germofjliante selva. Il  durar poco è comune a tutte. Ma tu  le fuggi 0 le cerchi come se aves-  sero a durar sempre. Ancora un poco  e chiuderai gli occhi; e a quello che ti comporrà sul rogo, altri farà il  corrotto.   35. L’ occhio sano deve essere dis-  posto a vedere tutto ciò che è vi-  sibile, e non dire: io voglio vedere  solamente il verde; perchè ciò è da  occhio ammalato. L’ orecchio sano  e r odorato debbono essere disposti  a udire tutti i suoni e a sentire tutti  gli odori. E lo stomaco sano deve  essere preparato a digerire tutti i  cibi, non altrimenti che la macina è  pronta a macinare tutto quello che  ella fu fatta per macinare. E così  pure la mente sana deve essere  pronta ad accettare tutto quello che  accade. Colui il quale dice: « sieno  salvi i figliuoli » e « tutti lodino le  mie azioni » è come 1’ occhio che  vuol vedere solamente il verde, o  come i denti che vogliono masticare  sol cose tenere.   36. Nissuno è tanto avventurato  che al suo morire non sia per avere intorno a sè chi si rallegrerà del  male che gli incontra. Savio e dab-  ben uomo sia stato; non mancherà  all’ ultimo chi in sè stesso dirà. Respireremo una volta da questo  pedagogo. A nissuno di noi diede  noia con rampogne, è vero; ma ci  siam pure avveduti che in cuor suo  ci condannava. » Questo si dirà del-  r uom savio. E di noi, quante altre  cose possono fare a molti desiderare  che ce ne andiamo! A questo pen-  serai quando sarai per morire, e la  tua partenza ti verrà fatta più facile.  Ragionerai teco stesso: me ne vo  da questa vita, dalla quale questi  miei concittadini, pei quali ho in  essa tanti travagli sostenuto, tante  preghiere fatto, tante cure avuto,  vogliono ora essi medesimi. eh’ io me  ne vada, sperando forse che debba  seguirne loro qualche profitto. Chi  dunqu e potrebbe desiderare d’avere  a starci più lungamente? Non per questo partirai tu men benevolo  verso di quelli, ma, serbando inai-  terato il costume e 1’ indole tua,  amico loro tuttavia qual fosti, pro-  pizio e amorevole a tutti, e non  però mesto nè ripugnante. Ma co-  me veggiamo in chi muore di fa-  cile morte V anima soavemente scio-  gliersi dal corpo, cosi conviene che  si faccia la tua separazione da co-  loro. Perchè la natura ti avea pure  congiunto e complicato con essi. Ora me ne disgiunge? Ed io mi  lascio disgiungere come da amici  e carissimi congiunti, non però turbato nè ripugnante, ma tranquillo  e di mio buon grado. Perchè anche  questa è una delle cose volute dalla  natura.  A ciascuna cosa che tu vegga  fare a chicchessia, vienti avvezzando,  per quanto è possibile, a ricercare,  ragionando teco medesimo: costui  a che riferisce quello che sta facendo? E incomincia da te, esami-  nando te stesso il primo.   38. Ricordati che chi dà V impulso  e muove, per cosi dire, le fila del  fantoccino, è il celato nel di dentro.  Quello è il dicitore che persuade,  t|uello è la vita, quello è, se vogliam  dire il vero, V uomo propriamente.  Guardati dal figurartelo come una  sola cosa con esso il vaso le cui pa-  reti lo circondano, o con questi in-  gegni che songli cresciuti intorno.*  Questi somigliano alla scure; se non  che gli sono per natura aderenti.   Si capisce facilmente che per ingegni bassi qui ad in-  tendere ordigni, cioè gli organi e le mem-  bra del corpo. Gli Inglesi e i Francesi  presero dai classici Italiani questa parola  ingegno con questo senso, e dicono quelli  engine e questi engin; come ne presero  tante altre bellissime o utilissime dello  quali si servono quotidianamente; e di tali  ancora che noi abbiamo interamente dimen-  ticato: e per significar poi quelle cose di  cui abbiamo dimenticato i nomi italiani, an-  diamo ad accattar vocaboli dai forestieri, E in effetto, allontanata la causa che  li muove, non è uso alcuno di essi  pili che non sia della spola, senza  la mano, al tesserandolo, nè della  penna allo scrittore, nè della frusta  al cocchiere. È proprio deir anima razionale'  il veder sè medesima; il conoscere  partitamente sè medesima; il far sè  meilesima quale ella vuole: il cogliere essa medesima il frutto che  ella produce, laddove i frutti delle  piante e i portati degli animali sono  colti da altrui; il giugnere sempre  allo scopo che è proprio di lei, in  qualsivoglia punto arrivi il termine  della vita: perchè 1’ azione di lei, in  qualsiasi momento ne sia arrestato  il corso, non rimane imperfetta, co-   [Razionale per distinguerla da quella  dei bruti, che dagli stoici è chiamata anima semplicemente. me nelle rappresentazioni sceniche  o nel hallo, o in simili cose; ma  anzi in qualsivoglia istante, in qual-  sivoglia luogo le sopravvenga la mor-  te, ella compie nondimeno intera-  mente, e in modo soddisfacente a sè  stessa, quanto si avea proposto (28),  e può dir sempre: io ho tutto il mio.  Ancora ella va spaziando colla speculazione per tutto il mondo e il  vuoto che lo circonda, e contempla  la forma di quello, e si estende nella  infinità dei secoli, e abbraccia col  pensiero i rinascimenti periodici della  università delle cose; e contemplan-  doli si fa capace che non rimane da  vedere nulla di nuovo ai nostri po-  steri, siccome nulla di più videro i  nostri antichi; chè anzi 1’ uomo  giunto all’età di quaranf anni, per  poco che abbia di buon discorso, ha   1 Tutto il mondo: intendi ciò che noi di-  remmo tntto il creato. Ma l'idea di crea-  zione era aliena dagli stoici. in certo modo veduto e conosciuto  tutto ciò che fu e tutto ciò che sarà  per la somiglianza che hanno le  cose fra loro. Ancora è proprio del-  r anima razionale l’ amore del pros-  simo, la veracità e la verecondia, e  il non anteporre nulla a sè mede-  sima: * il che è proprio eziandio della  legge. Onde segue che la retta ra-  gione e la ragione di giustizia sono  una sola cosa.  I canti aggradevoli e le danze  e gli esercizi ginnastici ti cadranno  Bene avverte qui il Gataker come an-che la legge cristiana ci prescrive di non  avere a nulla maggior rispetto che alla propria anima (confer. s. Matt. Evang. XVI, 26;  s. Marco Vili, 36). E san Gregorio Nazianzeno: c nulla, disse, è più prezioso a ciascuno  che la propria anima» riproducendo quasi  nella sua prosa il verso 301 dell’Alceste di  Euripide. [Esercizi ginnastici, letteralmente il  pancrazio. Ognuno sa che i romani per mezzo  della ginnastica voleano esercitata la forza del corpo con signiftcazione di leggiadria. E quindi i giuochi ginnastici erano pur uno  degli spettacoli più graditi ad un popolo,   in disprezzo, se tu dividi, per esempio, la cantilena melodiosa in ciascuno dei suoni di che ella si compone, e ad uno ad uno considerandoli, domandi a te stesso, è egli  questo quel che mi vince? » perchè  ne avrai vergogna. E similmente in-  torno alla danza, considerando sepa-  ratamente ciascuno dei moti, cia-  scuno degli atteggiamenti; e così  per gli esercizi ginnastici. E gene-  ralmente in tutto ciò che non è  virtù, o che non procede da virtù, i  sovvengati di ricorrere alla divisione  delle cose nelle parti loro (29), si che  divise a quel modo elle ti cadano in  dispregio. Fa’ l’applicazione di ciò  anche alla vita intera. Quale debba essere 1’ anima   in tutto r ordine della cui vita regnava  sovranamente l'idea della bellezza. Cioè, dividi la vita umana in tante pic-  cole porzioni, per disprezzarla tutta insieme. Sottintendi ronsi'lera, o ricordati. apparecchiata a sciogliersi, ove oc-  corra, immantinente dal corpo, a spegnersi o a dissiparsi, o ad entrare in  una nuova condizione di esistenza. E questa disposizione proceda da  giudizio particolare della mente, non  da sola pervicacia di volontà, come nei Cristiani; sia scevra da ogni  tragica ostentazione, non però senza  dignità, da poter anche persuadere  gli altri. Ho io fatto qualche cosa che  giovi alla società? Adunque ho gio-  0 ad entrare eiUtenta; letteralmente: 0 a perdurare. Ornato traduce: o a rimanere ancora dopo morte  Non mi piacque, ma la mia versione, che  svolge il pensiero dell’ autore, ha un coloro  troppo moderno.  I Cristiani erano ancora comunemente  mal conosciuti, e creduti settari fanatici,  nemici dell’ impero. Cioè a dire; sia tale, non solo intimamente. ma anche pe’ suoi caratteri esteriori,  da poter persuadere altrui che essa procede  da ben ponderato giudizio,* nòn da codardia  0 vanità o da intemperata esaltazione o  concitazione di mente.  vate a me stesso.' Questo pensiero  ti occorra sempre pronto alla mente,  e ti conforti a perseverare.  Qual è r arte tua? L’esser buono. E quest’ arte come altrimenti s’acquista, se non per le buone dottrine,  le une intorno alla natura dell’uni-  verso, le altre intorno alla costituzione propria dell’ uomo?  Da prima fu istituita la tragedia  a ricordare i casi che sogliono av-  venire e come essi sieno così fatti  per natura, e ad avvertirci nel medesimo tempo essere una contrad-  dizione il pigliarne diletto quando  li vediamo sulla scena del teatro e  dolercene poi quando accadono sopra  una scena maggiore. Voi vedete di   [Sono le parole di' Salomone, Prov. XI,  17: « Benefacit sibi ipsi vir beneficus.»  Epitteto svolgo il medesimo concetto, dis-  sert. I, 19; Seneca, epist. 48, disse: «Non  potest beate degere qui se tantum intuetur,  qui omnia ad utilitates suas couvertit: al-  teri viVas oportet, si vis tibi vivere.»  fatti essere pur forza che 1’ azione si  compia a quel modo (30), e che deb-  bono ad ogni modo soffrirlo anche  coloro che esclamano: « 0 Citerone,  ahi lasso.* w E invero alcune cose  diconsi utilmente dagli autori di tra-  gedie siccome questa:   Che se gli Iddìi   Di me nè de’ miei tigli non han cura,   Ragion pur anco a ciò li move. E quest’ altra. Contro alle cose lo adirarsi è vano. »   E ancora quest’ altra:   € Mieter la vita   Come spiga matura -»   E le altre di cotal fatta.   Dopo la tragedia fu introdotta hi   t Parole di Edipo. Vedi Sofocle, Edipo re,  vers. 1391. Ecco, secondo la traduzione del  Belletti, i tre versi che formano il periodo  intero di cui quelle parole sono il comin-  ciamonto:   Oh Citeron! perchè raccormi? o tosto  Perchè morte non darmi, ond' io giammai  L'origin mia non rivelassi al mondo! vecchia commedia, la quale, con  quella sua libertà, facesse come da  aio al popolo, e con quel suo chia-  mare le cose coi nomi loro, ne ri-  cordasse agli uomini la vanità: i  quali modi assunse poi Diogene ezian-  dio ad un fine somigliante. Dopo la  vecchia, quale sia stata la mezzana  commedia, ed ultimamente poi la  nuova, e quale scopo abbia questa,  che a poco^a poco si è ridotta ad, essere puro artificio di imitazione,  lascio a te il considerare. Che anche  da costoro si dicano alcune cose  utili, non è da negare: ma l’ inten-  zione generale di un tal genere di  poesia e di composizioni drammati-  che, qual è ella mai?  Come vedi tu chiaro nissun’ al-  tra setta' essere così acconcia al    1 Setta, intendo della setta illosodca in  che Marco vivea, e non dello stato o- condizione sociale. Ho qualche dubbio, e parrai che il 3iou    filosofare, come quella in che sei ora?  Un ramo spiccato da un altro  ramo non può non essere separato  dalla pianta intera. Parimente un  uomo diviso da un altro uomo è sca-  duto dalla società intera degli uo-  mini. Il ramo vien divelto per mano  d’altri. L’uomo si separa egli stesso  dal suo vicino, quando egli l’ odia,  quando lo ha in dispetto; e non  s’ avvede eh’ egli si distacca ad un,  tempo dalla intera comunità. Se non  che, per dono di Giove autore dplla  comunità, può ciascuno di noi che  siasi distaccato dal prossimo, riap-   ÙTTóOeo'.y potrebbe anche voler dire qualche  cosa che non fosse nè la condizione sociale-y  nè la setta filosofica^ ma bensi il modo e  r ordine ili vita adottato da Antonino nella  condizione sociale in cui vivea: e cosi l’in-  tesero anche il Gatakero e lo Schultz, i  quali_ tradussero vitee genus. Ma siccome  rOrriato pare che fosse ben fermo in quella  sua opinione, ho conservato la sua parola  fetta. P, piccarvisi e farsi di nuovo parte in-  tegrante del tutto. Vero è che quando ciò accade più volte, più diffìcile  diviene la riunione o il ristabili-  mento a suo luogo della parte stac-  cata. E ad ogni modo egli è diverso  il ramo che crebbe da principio in-  sieme cogli altri e sempre rimase  unito con essi, dal ramo che vi fu  innestato dopo esserne stato divelto:  checche ne dicano i giardinieri, fa  un albero solo cogli altri rami, ma  non un solo disegno. La vegetazione è una, ma la forma non  è una. Questo potrebbe dirsi di un ramo di pe-  sco, p. es,, che fosse innestato in quello di  un noce; ma quando un ramo del uoco che  ne fosse stato spiccato fosse innestato in  un altro ramo del noce medesimo, sarebbe  una la vegetazione cd una ancora la forma.  Mi è anco sospetto quello ófJioJoyjjiaTetv  parlandosi di piante. Io propendo a credere,  coi migliori critici, questo luogo corrotto o  manchevole nel testo. Alcuni di quest' ulti-  ma frase fanno un paragrafo separato: e  remato stesso non era ben risoluto. Chiunque voglia avversarti in  cosa che tu faccia secondo la retta  ragione, siccome non avrà forza dà  distoglierti dall’ azione incominciata,  cosi ancora non ti riinova dal sen-  timento di benevolenza che devi avere  per lui: ma fa’ che tu ti serbi co-  stante nel giudicare e nell’ operar  rettamente, e ad un tempo amore-  vole verso chi cerca di impedirti o  in qualsivoglia modo ripugni a ciò  che tu fai. Perchè non sarebbe mi-  nore fiacchezza lo adirarti contro  questi tali, che il ritrarti dall’ im-  presa e dar luogo per paura; essendo  egualmente disertore chi teine e  fugge dall’ ordinanza, e chi s’ allon-  tana dal congiunto e dall’ amico suo  naturale.   IO. Non è natura alcuna la quale  sia da meno dell’ arte che ne è imi-  tatrice; nè la più perfetta fra le na-  ture, quella che comprende in sè  tutte le nature, può essere da meno di un’ arte qualsivoglia. Ora le arti  tutte fanno le parti inen nobili di  ciascuna delle opere loro per amore  delle più nobili;' adunque anche la  natura comune. Quindi ha origine la  giustizia, e da questa procedono tutte  le altre virtù. Perchè mal potrà  conservarsi giusto colui, il quale o  non sarà indiflerente verso le cose  medie, o si lascierà facilmente in-  gannare dalle apparenze, o sarà pre-  Come, per esempio, un pittore farà ciò  che pone nel fondo di un suo quadro per  dare maggior risalto a ciò che ne è il sog-  getto principale. E (la questa procedono tutte le altre virtù.  Intendo che dallo aver la natura voluto che  si osservasse la giustizia, procedette che  essa natura istituisse le altre virtù; quelle  cioè di cui parla poco dopò; le quali sono  necessarie alla pratica della giustizia e fu-  rono dalla natura istituite per amore di  essa giustizia, còme un artefice fa le parti  men nobili di una sua opera per amore delle  più nobili. Ricordi il lettore che appo gli  stoici posteriori parte sovrana della filosofia •  era la morale: la logica, anche per gli stoici  antichi, era subordinata alla morale.  cipitoso nel giudicare, o mal fermo  nel giudizio fatto. Non le cose, il cui desiderio  o timore ti turba, vengono alla volta  tua; ma tu in certo modo vai alla  volta loro.' Ora fa’ che il tuo giudi-  zio intorno a quelle stia cheto, e  quelle rimarransi quete del pari, e  tu non sarai veduto desiderar nulla  nè temere.  La sfera dell’anima ha la forma che è propria di lei, quando ella  nè si estende al di fuori verso checchessia, nè si ritrae al di dentro, nè  si dissipa, nè si accascia,* ma splende  di una luce per la quale ella vede  la verità che è nell’ universo e quella  che è in lei.  Un tale mi disprezza?  Tal sia  di lui. A me basta parlare e operare Inteudi che l' anima è nello stato con-  forme a natura, quando ella non ha nè de-  siderio, nè timore, nè piacere, nè dolore. in modo che nissun mio detto o fatto  meriti disprezzo. Mi odierà? Tal sia  di lui. Quanto si è a me, io mi ser-  berò mansueto e benevolo verso ognu-  no, pronto a chiarire dell’ error suo  anche colui che mi odia, non con  parole di rimprovero nè ostentando  pazienza, ma cortesemente e con sin-  cera amorevólezza, come Focione so-  lea fare (31), supposto che non s’infin-  gesse. Perchè la mansuetudine vuol  essere interna, sì che gli Dei veggano in te un uomo disposto a non  ricevere nulla con isdegno nè a ma-  lincuore. Qual malej in fatti, per te,  se tu fai ora quel che s’ addice alla  tua natura e ricevi ciòcche ora è giu-  dicato opportuno dalla natura uni-  versale, tu uomo ordinato a questo  fine che sempre si faccia il comun  bene, sia qualsivoglia lo strumento  per cui si faccia? Si disprezzano l’un l’altro, e  si vanno piaggiando l’un 1’altro. L'uno vuol essere da pii» che l’altro,  e s’ inchinano 1’uno all’ altro scawi-  bievolmente. Che fradiciume e che doppiez-  za non è il dir di taluno: a Io ho  deliberato di trattar teco schietta-  mente. » 0 uomo che fai? Non è  bisogno' di questo preambolo. Alla  prova si vedrà. Sulla fronte conviene  ti si legga immantinente ciò che tu  di’, perchè è cosa di tal natura che  tosto si manifesta negli occhi, come  nello sguardo dell’ amante ogni cosa  conosce immantinente l’ amato. L’uo-  mo schietto e buono dev’ essere come  chi sa di caprino, sì che al solo ac-  costarsegli altri il senta, voglia o  non voglia. La schiettezza simulata  è un’ arme da traditore. Non è cosa  più turpe che l’amicizia del lupo. L’ amicizia del lupo espressione proverbiale presso i romani, ed era allusione a  quella favola di Esopo, nella quale i lupi  persuadono le pecore a dar loro i cani come  ostaggi, e ad accettare alcuni giovani lupi   A tutto potere fuggi cotesto. Alfuom  dabbene, all’ uomo schietto, all’ uom  benevolo sono appariscenti negli oc-  chi tjuelle qìialità loro, e non è bisogno di parole a manifestarle. Vivere beatamente è cosa che  sta in potere dell’anima, solo ch’ella  voglia essere indifferente verso le  cose indifferenti. E questo le succederà se ella considererà ciascheduna di esse nelle sue parti e nelle  sue relazioni col tutto, non dimen-  ticando che nissuna di esse viene  alla volta nostra nè ci sforza a fare  di lei tale o tal altro concetto; ma •  anzi elle si stanno tutte immobili  dove sono, e noi siamo quelli che  facciamo i. giudizi intorno ad esse,  e li scriviamo, per così dire, dentro  di noi, potendo non farlo; e ancora.    come gaardiatii in luogo di quelli; e divo-  rano poi le infelici che lascìaronsi gabbare  dalle belle parole e dalle belle promesse. Cioè le cose fuori di noi. quando ciò ne venga fatto inavver-  titamente e senza avvedercene, po-  tendoli cancellare immediatamente e rammentando inoltre che pocd^ha  a durare questa fatica di considerare  le cose in tal modo, e saremo poi  fuori della vita per sempre. E che  v’ha poi di tanto arduo in esse? Se  sono secondo natura, pigliane piacere, e ti diverranno facili; se sono  contro natura, vedi tu che cosa è  secondo la tua natura, e a quello  attendi, ancora che sia senza gloria.  È sempre degno di scusa chi va in  traccia del proprio bene. Donde sia venuta ciascuna  cosa, di che elementi sia composta,  ed in che si trasformi, e qual divenga trasformata, e siccome non è  per soffrire alcun male per la trasformazione. E in primo luogo,* quale rela-   [Sottintendi: Considera] [Sottintendido considerare, o altra  zione io abbiaceli essi e come siam  nati gli uni per gli altri, ed io, per  altri rispetti sono nato per essere  loro guida, come l’ariete della greggia e il toro deir armento. Risali più  in alto: se gli atomi non sono, la  natura è quella che governa l’uni-  verso; e se questo è, gli esseri meno  perfetti sono nati pei più perfetti, e  questi gli uni per gli altri. Quali essi sono a mensa, a letto,  negli altri momenti della vita. E massimamente a che sorta di azioni siano necessitati per le credenze che  essi hanno, e con quanta presun-  zione di sapere fanno essi ciò che  fanno. Che se essi fanno ciò a buon  diritto, e’ non ti bisogna avertelo a  male; se a torto, essi il fanno indubitatamente malgrado loro, non sa-  pendo quel che si fanno. Perciocché   frase cotale; e cosi al principio di ciascuno  degli otto capi seguenti. siccome è involontaria negli uomini  la privazione del vero, così involon-  tario è ancora il non portarsi verso  altrui secondo le norme del giusto:  il che provano collo adirarsi quando  sono chiamati ingiusti, ingrati, cu-  pidi dello altrui, o rei di qualsivoglia colpa verso il vicino. Che tu ancora pecchi non di  rado, e sei pur uno del numero loro;  e se da certi peccati ti astieni, hai  nondimeno la disposizione a com-  metterli, benché, sia per difetto di  audacia, sia per vanità o per altro  cotal vizio, tu noi faccia. Ancora, che tu non sai di certa  scienza che essi pecchino: perchè  molte azioni, che paiono malvage  si fanno talora a fin di bene o per  meno male: e ad ogni modo è me-  stieri sapere di molte cose a poter  sentenziare convenientemente sulle  azioni altrui.   6® Quando senti che sìa per occuparti r ira od anche solo l’ impazienza; che la vita umana dura un mo-  mento, e poi saremo tutti sotterra. Che non sono le azioni loro  quelle che ti turbano, standosi quelle  nei loro autori, ma bensì le nostre  opinioni. Adunque togli via, sappi  rimovere da te il concetto che tu  fai di quelle, e l’ ira se ne andrà  parimente. E come rimovere quel  concetto? Col considerare che le  azioni altrui non hanno nulla di dis-  onesto per te. Che se il male tutto  non consistesse nella sola disonestà  dell’agente, di necessità peccheresti  tu ancora, e saresti tu pure assas-  sino, e macchiato di ribalderie d’ogni  forma.  Siccome le ire, i rammarichi  intorno a siffatte cose arrecano seco  troppo più gravi danni che non siano  quelli di che ci adiriamo e ramma-  richiamo. Che r amorevolezza è sempre vittoriosa, quando sia schietta, e non  sia una affettazione o una parte che  tu reciti. E in vero che ti può egli  fare 1’ uomo il più iracondo e inso-  lente, se tu ti mostri a lui tuttavia  amorevole e se, venendo il caso, tu  lo ammonisci cortesemente e cerchi  di farlo ricredere in quel tempo me-  desimo che egli intende ad offen-  derti? No, figliuol mio; noi  siamo nati ad altro. A me tu non  nuoci; a te bensì, figliuol mio. E gli dimostri e fai toccar con mano  che la cosa sta COSI universalmente;  e come nè le pecchie si comportano  in quella guisa, nè alcun altro ani-  male che sia nato a vivere in co-  munanza. Le quali cose vogliono es-  ser dette senza ombra alcuna di  ironia nè di rimprovero, ma bensì  con amorevolezza, e senza amaritu-  dine alcuna nell’animo; nè ancora  come si direbbero da un maestro in  iscuola, nè per farsi ammirare dai  circostanti; ma da solo a solo, e se  v’ha altri presente, *   Di questi nove capi fa’ che tu ti  ricordi come se tu li avessi ricevuti  in dono dalle muse; e incomincia  pure una volta ad esser uomo men-  tre hai vita.* E’ ti conviene ad un  tempo guardarti dallo adulare gli  uomini non mejio che dallo adirarti  contro di essi: perchè le sono cose  egualmente antisociali e nocive.  Quando ti sentirai provocato all’ira,  ti occorra alla mente questo pen-  siero: non esser punto cosa virile  lo adirarsi; ma anzi la pacatezza, la  mansuetudine, siccome sono cose  più umane, così sono anche più vi-  rili; e che la costanza, il vigore, la  fortezza sono nel mansueto, non in  [Ornato collo Schultz, anzi più riso-  Intamento che lo Schultz, stimò che qui il  testo fosse manchevole.  Seneca, De ira, 111,43,  disse. Humanitatem colamns, dnm inter  homines snmus. »  chi si adira o s’impazientisce. Per-  chè più quegli si avvicina alla im-  passibilità, tanto più partecipa della  forza; laddove l’ ira, siccome il do-  lore, è propria del debole: lo adirato  e lo addolorato furono egualmente  piagati e ambidue cedettero egual-  mente.   E un decimo ricordo ancora ricevi, se vuoi, dal Musagete: * essere  da pazzo il volere che i malvagi non  pecchino, perch’ egli è un voler l’im-  possibile. Il voler poi che essi por-  tinsi da pari loro verso tutti gli altri  e noi facciano con te, è da stolto e da tiranno. Contro quattro specie di de-  terminazioni* della parte tua prin-  cipale ti bisogna sopra tutto stare in  guardia, e tosto che una ti venga   [Conduttor delle muse, o Apollo, o se  vuoi. Ercole. Piuttosto quello che questo. Vedi il Gatakero] nsieri, moti, determinazioni, volon-   avvertita, cancellarla, ragionando teco medesimo intorno a ciascuna di  esse in questa guisa: Intorno a  quelle della prima specie: questo  pensiero non è necessario. Intorno  a quelle -della seconda: questo pen-  siero tende a sciogliere la società.  Intorno a quelle della terza: tu stai  ora per dire cose che intimamente  non credi: e il dir cose che inti-  mamente non credonsi è da essere  annoverato fra le massime assurdi-  tà. Intorno a quelle finalmente del-  la quarta specie, rampognerai te  medesimo dicendo: tu lasciasti che  fosse vinta la parte più divina di  te, e sottoposta a quella che è  men nobile e mortale, cioè a di-  re al corpo e ai grossi piaceri di  quello. Quattro cose da prevenire od allontanare. Pensieri inutili oziosi. Volontà od azioni ingiuste, dove sono  anche compresi i moti di irascibilità;  Quanto è in te di aereo e di  igneo, benché abbia naturale ten-  denza ad innalzarsi, acconciandosi  nondimeno all’ordinamento del tutto  si rimane quaggiù nel tuo corpo. E similmente le parti terree é le acquo- |  se, benché tendano naturalmente allo '  ingiù, tengonsi non pertanto solle-  vate ed erette in una forma che non  é loro naturale: tanto anche gli ele-  menti sono obbedienti alla legge  dell’ universo, e facendo forza a sé  medesimi serbano costantemente il  posto in che furono collocati, finché  da quella medesima legge sia dato  il segno dello scioglimento. Ora non  é egli singolarmente strano che sola  la parte intelligente dell’ esser tuo  non voglia obbedire e si rammarichi  del posto che le fu assegnato? e  pure nulla di violento le è comandato  [Disaccordo della mente e delle parole;  cioè falsità voluta, o non avvertita. Moti di concupiscenza], ma cose soltanto che sono secondo la natura di lei. Con tutto ciò  non vi si vuole acconciare, e vuole  andare a ritroso. Perchè le ingiu-  stizie, le dissolutezze, l’ira, la tristezza, il timore, sonò tutti moti a  ritroso della natura. E ancora allor-  quando r anima non s’ acconcia di  buon grado agli avvenimenti, ella  abbandona il suo posto, essendo ella  stata instituita alla santità, alla  pietà, non meno che alla giustizia,  poiché quelle non meno di questa  fanno parte della sociabilità: chè  anzi gli atti di giustizia succedono  piuttosto (-he non precedano a quelli  della pietà e della santità. Intendi la pietà religiosa, o la pietà  verso Dio o la natura, che è tutt’uno presso  gli stoici, e non dimenticare che il rasse-  gnarsi volentieri a tutti i casi esteriori, è  atto religioso appo gli stoici. Cioè Tnomo ha relazioni con Dio prima  che con gli nomini, e le sue relazioni con  questi hanno per fondamento le sue relazioni con quello. Chi non ha sempre il medesimo proposito, il medesimo istituto  di vita, non può essere in tutta la  vita il medesimo uomo. Ma ciò non  basta se non aggiungi ancora quale  esser debba questo proposito o isti-  tuto di vita. Perchè siccome non di  tutti quelli che al volgo paiono beni  è invariabile negli uomini il giudizio,  ma di quelli soltanto che sono univer-  sali e comuni; ' così lo scopo comune  e civile dell’ umana famiglia, è quello  che l’uomo dee proporre a sè stesso.  Colui adunque il quale indirizzerà a  questo scopo comune l’esercizio di  tutte le sue facoltà, quegli farà che  tutte le sue azioni sieno fra loro  somiglianti, e per tal guisa sarà egli  costantemente il medesimo uomo. Intendi che T idea del bene privato varia  nella stessa persona, secondo che varia la  sensibilità; laddove l'idea del bene pubblico  è costante e invariabile, siccome quella che  dipende solo dalla ragione, la quale non  varia. Rammenta il topo di monta-  gna e il topo di casa, e lo spavento -  di questo e il correre precipitoso.'   Socrate chiamava befane le  credenze del volgo, spauracchi di  fanciulli. I Lacedemoni nella loro solen-  nità ponevano pei forestieri i sedili  all’ ombra, ed essi sedevano dovunque.   A Perdicca, che gii chiedea  perchè non andasse a lui, Socrate  rispondea, Per non morire di pes-  sima morte » cioè a dire, « per non  ridurmi alla condizione di non poter  ricambiare beneficii eh’ io avessi ricevuti.  Nelle lettere degli Epicurei era  una esortazione all’ aver sempre pre-  sente al pensiero alcuno di quelli  antichi che praticarono la virtù. I Pitagorici prescriveano che  [Gli interpreti allegano Orazio, sat. VI,  lib. II. Ma riscontra in Esopo, fav. 301.  Ogni giorno di buon mattino si do-  vesse volgere gli sguardi al Cielo,  affinchè per la contemplazione di  quelli esseri che sempre percorrono  le medesime vie e sempre compiono  a un modo il loro ufficio, l’ uomo  avesse ad ìfver sempre vivo in sè il  pensiero dell’ordine, della purità e  della nudità.' Perchè le stelle non  hanno velo che le ricovera. Qual fu a vedere Socrate cinto di una pelliccia, allorché uscì fuori  Santippe colla veste di lui; e le  cose che egli disse agli amici i quali  arrossivano e si ritraevano indietro,  vedendolo assettato in quel modo. Nell’arte dello scrivere nè in  quella del leggere non puoi essere  maestro se prima non fosti discepo-   [Il diligentissimo ed ernditissimo Gatalcer  non seppe egli pnre trovare qual fosse il caso particolare della vita di Socrate, e il  detto di Ini, ai quali fa qui allusione Antonino. Meno amcora lo potrai nell’arte  (Iella vita.   Sei servo, a te concesso  favellar non è. Ed il mio cor ne rise. E la virtute   Àccuseran con rigido parole. Pazzo chi vuole aver fìchf di  verno; pazzo ancora chi desidera  aver iigliolanza quando non è più  tempo da ciò.  Quando tu baci un tuo figliuolo, esortava Epitteto, fa' che tu dica  teco medesimo: domani sarà forse  morto. Cattivi augurii, cotesti. Nulla è cattivo augurio di ciò  che accenna ad un effetto naturale. Agresto, uva, zibibbo, tutte   [Nei testo è un verso iambico di autore incognito a noi. È la fine del verso 413, lib. I  dell'Odissea.  Nel testo è un verso esametro che ha  qualche somiglianza con un verso di Esiodo mutazioni; non dall’ essere al non  essere, ma dall’ essere ciò che è  all’ essere ciò che ora non è.  Assassini della volontà non ci  sono; sentenza di Epitteto. Diceva ancora (Epitteto) dovensi procacciare V arte dello assen-  tire; stare all’ erta coi moti della  volontà, affinchè tutti sieno condi-  zionali, sempre indirizzati ad un fine,  al bene universale, sempre propor-  zionati in intensità al valore intrinseco delle cose; astenerci in tutto  dalla appetizione, e non dare luogo  mai all’ avversione per cose che non  sieno in nostra potestà. Piccolo adunque, diceva egli,  non è il frutto della vittoria o il  danno della sconfìtta; ma l’ esser  savio, o r esser pazzo.   39. Socrate dicea: che volete voi! Vuol dire Antonino che il libero eser-  cizio della volontà non può esserci tolto da  nìssuna forza esteriore. avere anime di animali ragionevoli,   0 di irragionevoli? Di ragionevoli. Di quali ragionevoli? di sani o di  corrotti? Di sani. Perchè dunque non le cercate? Perchè già  le abbiamo. Perchè dunque batta-  gliate fra voi e siete discordi? Anche il Gataker non potè trovare da  quale opera socratica abbia tratto Antonino  questa argomentazione: ma moltissimi scritti  della scuola socratica non abbiamo più noi, i quali esistevano ai tempi di Marco nostro.  Tutte quelle cose, alle quali tu . studi di pervenire per mille andiri-  vieni, tu puoi avere immediatamente,  se tu non vuoi male a te stesso. E  ciò sarà, se tu metti da banda il pas-  sato e lasci alla Provvidenza la cura  del futuro, e attendi solo ad usare  il presente, secondo le norme della  santità e della giustizia: della san-  tità, coir accettare volonterosamente  i casi tutti che ti intervengono, es-  sendo essi dalla natura prodotti per  te, e tu per essi; della giustìzia,  col dire liberamente e senza ambagi la verità e far ciò che è con-  forme alla legge e alla dignità delle    l'ose,’ non lasciandoti frastornare mai  nè da malizia altrui, nè da opinione,  nè da discorso di chi che sia, nè da  affezione veruna di quel corpicciuolo  che ti è venuto crescendo all’ intor-  no: sta a lui che è il paziente a pen-  sarci. Or dunque, prossimo o lontano  sia per essere il termine della tua  vita, se tu, deposto ogni altro pen-  siero, non attenderai che ad onorare  la parte principale e divina dell’ os-  sei’ tuo, e tuo solo timore sarà, non  già di dover cessare quando che sia  di vivere, ma di non aver per anco  incominciato a vivere secondo natu-  ra; tu sarai uomo degno del mondo  che ti ha generato, non sarai più  [Le prescrizioni della l^igge sono gene-  rali; la dignità delle cose esteriori serve  di guida nell' applicazione della legge. Ta  altro modo si potea dire: « ciò che è confor-  me alla legge nelle circostanze particolari  in che ti’ trovi.» Ma quello è più stoica-  mente detto. Per dignità delle cose intendi il loro va-  lore ret»tivo.     straniero nella tua patria, non ti  maraviglierai più di ciò che accade  tutto dì come di cosa insolita; non  sarai più dipendente da chi nè da  che che sia. Iddio vede tutte le menti de-  nudate di questi vasi materiali e involucri e sudiciumi. Quelle solo egli  attinge colla pura sua intelligenza,  le quali da lui scaturite sono deri-^  vate in essi. Se ti avvezzi a far tu  pure il medesimo, tu avrai meno di  molte distrazioni e perturbazioni.  Perchè chi non guarda all’ involucro  della carne, si lascierà egli turbare  o distrarre alla vista dell’abito, o  delle case, o della riputazione, o di  altri cosi fatti involucri e addobbi?  Di tre cose sei composto: il  corpicciuolo, il soffio vitale e la  mente. Delle quali le due prime non  sono tue se non in quanto tu hai a  prenderne cura; la terza, questa  sola è tua veramente. Laonde se tu rimovi da te, o per dir più proprio  dal tuo pensiero, tutte le cose che  altri fa e dice in presente, e le pas-  sate che tu facesti e dicesti, e le  future delle quali 1’ aspqttamento ti  turba, e quelle che riferendosi al  corpo onde sei circondato e al soffio  vitale congenito con esso, sono in  te involontarie, e quelle che il vor-  tice di fuori va agitando intorno a  te, si che pura e sciolta da ogni  esterna fatalità la potenza intellet-  tiva se ne viva libera da sè, ope-  rando il giusto, avendo caro ogni  evento qualsiasi, e dicendo il vero;  se, dico, tu rimovi da codesta parte  dell’ esser tuo tutto ciò che presen-  temente le sta come a dire appiccato  per mezzo dello appetito sensitivo,  e tutto r avvenire e tutto il passa-  to, e ti fai siccome quella di Empedocle da GIRGENTU ri tonda   Sfera che posa e in suo posar s’ appaga, e attendi solo a vivere quel tempo  che vivi, cioè il presente; ti verrà  fatto di passare tranquillamente, nobilmente e in pace col genio tuo,  quello che ti rimane ancora insino  al morire. Soventi volte mi sono maravi-  gliato che ciascuno arai sè stesso  più che non arai qualunque altro  uomo, e faccia poi minor conto dei  propri giudizi intorno a sè medesimo, che di quelli degli altri.' Per-  chè se a taluno fosse da un Dio che  gli apparisse, o da qualche savio  maestro comandato che non pensasse e non volgesse nulla in mente  che tosto, appena ne fosse conscio   ' Anche i Pitagorici, benché non ne fa-  cessero nn precetto assoluto, raccomanda-  vano che ciascuno avesse massimamente rispetto a sè medesimo, cioè ai propri giudizi  intorno a sè stesso. Tra i versi dorati at-  tribuiti a Pitagora, ecco la traduzione di  quello che compendiosamente esprime la  detta raccomandazione. Più che di chiunque altro abbi vergogna di te ste.««so. »  a sè stesso, noi manifestasse; noi  sosterrebbe pure un solo giorno.  Tanto abbiamo noi maggiore rispetto  a ciò che di noi potrà pensare il vicino, che a ciò che ne pensiamo  noi stessi. Come mai avendo gli Dei propizi all’uomo ottimamente ordinato ogni cosa, questo solo lasciarono  passare inavvertito, che anco i migliori fra gli uomini, quelli i quali  entrarono, sto per dire, in più stretta  alleanza colla divinità, e per la pietà  e santità loro vissero in più intimo  commercio con essa, quando una  volta sian morti, non abbiano più  mai a rivivere, ma sieno spenti  per sempre? Se tale è veramente la  condizione di tutti gli uomini indi-  stintamente, abbi per indubitato, che  ove avesse dovuto essere altrimenti,  avrebbero gli Dei altrimenti ordinato: perchè se un ordine diverso  fosse stato giusto, sarebbe anche Stato possibile; e se fosse stato secondo natura, la natura lo avrebbe  recato ad effetto. Ora dal non essere  le cose in questi termini, supposto  che veramente non sieno, tu hai a  trarre argomento che non dovea essere altrimenti da quello che è. Per-  chè tu vedi pure che mentre tu  vai facendo queste investigazioni, tu.  disputi del diritto con Dio; la qual  cosa non faremmo con gli Dei, se  essi non fossero ottimi e giustissimi;  e tali essendo, non possono aver  mai tollerato nè lasciato correre  inavvertitamente nell’ ordinamento  del tutto, nulla che fosse ingiusto  0 irragionevole.  Vienti esercitando anche in ciò  a che tu credi aver poca attitudine.  La mano sinistra, la quale per difetto di esercizio è disadatta ad altri  uffici, tiene il freno più saldamente  che noi faccia la destra, perchè a  ciò fu esercitata.  In che stato debba essere l’uo-  mo, e rispetto al corpo e rispetto  all’ anima, al sopraggiungere della  morte; ' la brevità della vita, l’abisso  del tempo passato e del tempo avvenire, la debolezza di tutta la materia. Osservare le cause denudate  della loro corteccia; il fine delle  azioni; che sia il dolore, che il pia-  cere, che la morte, che la gloria;  chi sia quegli che è cagione di tra-  vagli a sè stesso; siccome nissuno  è mai impedito da altrui; che tutto  è opinione. Nel far uso dei precetti della  filosofia, fa’ di rassomigliare piutto-  sto al pugillatore che al gladiatore;  perchè questi, lasciata cadere la  spada, vien morto; ma quegli ha la  destra sempre, e non gli è mestieri  d’altro che di chiudere e scagliare  il pugno. Sottintendi: contidera. Vedere quali sono le cose  in sè stesse, risolvendole nei loro  elementi, la materia, la causa, il  fine.  Che potere ha l’uomo ! di non  fare se non ciò solamente che Iddio  sia per approvare, e di accettare  tutto che Iddio sia per inviargli. Ciò che è conforme alla natura. Non ti dolere degli Dei, perchè gli Dei non peccano nè volon-  tariamente nè involontariamente;  nè degli uomini, perchè gli uomini  non peccano mai se non malgrado  loro. Di nessuno dunque ti devi doere.  Quanto è mai ridicoloso e nuovo colui che si maraviglia di al-  cuna delle -cose che accadono nella  vita! In tutte le edizioni che io conosco si  incomincia con questa frase il paragrafo se-  guente; ma non si fa alt^o che guastarvi  il senso. O necessità fatale e ordine di  cose impreteribile, o‘ provvidenza  esorabile, o confusione a caso e senza  governo. Se necessità inflessibile *, a  che resisti? Se provvidenza esora-  bile; fa’ che tu sia degno dell’ aiuto  divino. Se confusione senza governo;  pur beato che in tanta tempesta tu  hai dentro di te una mente governatrice. Che se la bufera ti rapisce  seco, rapisca a sua posta il corpicciuolo e la parte animale di te e  cotali altre cose; non potrà rapir  seco la mente.  Che? il lume della lampada,  fmch’ ella non si estingue, risplende  e non perde della sua luce; e in te,  prima che la vita si spegneranno la  verità, la giustizia, la temperanza?  Quando altri ti dà materia a  supporre che egli abbia permeato,  di’ teco stesso: come so io che ciò  sia un peccato? E se è peccato, ch’egli  non siasi già condannato da per sè? il che h come nn graffìarsi il pro-  prio volto. ' Pensa ancora che il non  volere che il dappoco erri, è un non  volere che il fico acerbo abbia lattifìcìo, che i bambini vagiscano, che  il cavallo annitrisca, ed altri simili  effetti naturali e necessari. E che  può egli fare in cotale disposizione?  Se tu sei da tanto, incomincia a curar quella.  Se non è giusto, noi fare; se  non è vero, noi dire: perchè la tua  volontà è libera.  Esaminare in ogni incontro  che è la cosa che fa impressione in  te, ed esplicarla distinguendovi la  causa, la materia, il tempo entro il  quale avrà a cessare. Seneca, De ira. Nulla maior  pccna neqnìtiie est-, quiim quod sibi displicet. Con questo paragrafo finisco Pinterpro'  taziono lasciata dalPOrnato, la quale, tran-  ne i luoghi indicati, io ho fodcljnonto.seguita  noi mio volgarizzamento dal § 42 del lib. VI,    Accorgiti finalmente che tu hai  in te stesso alcun che di più potente,  di più divino che non sia ciò da cui  si generano gli affetti e che al tutto  ti trac qua e là come per ima fu-  nicella. Che è ora la mia mente?  Non è ella timore? Sospetto? Cupidità, 0 altra cosa cotale?  Primieramente nulla si faccia  a caso, nè senza uno scopo. Poi,  nulla sia riferito ad altro fine che a  quello universale e civile di tutta l’umanità. Che in breve tu non sarai più,  nè alcuna delle cose che vedi, nè  alcuno di quelli che ora vivono. Per-  chè ogni cosa nacque per alterarsi,  mutarsi o morire, affinchè altre possano nascere secondo l’ordine di  successione.    fin qni. Quanto all' interpretazione dei pa-  ragrafi che seguono, l'Ornato lasciò sola-  mente due otre note delle quali sarà parlato  al loro luogo. Che tutto è opinione, e questa  è in poter tuo. Adunque togli via,  quando ti piaccia, l’opinione, e come  navigante che appena superato il  passo di un promontorio, trovasi in  acque tranquille; così tu ti troverai  in perfetta calma e, come a dire,  entrato in un seno non agitati) da .alcun flutto.   23. Una azione qualsivoglia, quando  cessa a suo tempo, non patisce al-  cun male per la cessazione. Ancora  r autore dell’ azione, per la medesi-  ma cessazione, non patisce alcun  male. Medesimamente il complesso,  0 vogliasi dire la serie di tutte le  azioni, che è quanto dire la vita, quando cessa a suo tempo, non pa-  tisce alcun male per la cessazione,  , nè ancora chi cessa da questa serie  di azioni, soffre per ciò alcun male.  Il tempo proprio poi è determinato  dalla natura: talvolta dalla natura .particolare, quando avviene nella vecchiezza, ma ad ogni modo dalla  natura dell’ universo: le cui parti  trasformandosi e rinnovandosi del  continuo, ne segue che sempre nuovo  e sempre giovane si conserva nella  sua totalità il mondo. E bello sem-  pre e tempestivo è ciò che profitta  al tutto. Adunque la cessazione della  vita non è un male all’ uomo individuo, poiché non è cosa disonesta,  come quella che non dipende dal-  r arbitrio di lui, nè ripugna al fine  universale e sociale della umanità;  ed è in sé stessa un bene, perchè è  tempestiva e profittevole al tutto e  armonizzante con esso. E similmente  è divino r uomo che è mosso nella  medesima direzione e verso i mede-  simi fini che Iddio, ed ha caro di  essere mosso verso questi fini e in  questa medesima direzione. Tutto questo periodo è nel testo gre-  co oscurissimo e diversamente inteso dai  comontatori. Chi è grecista vegga nella  Queste tre cose non dimenticare. In primo luogo, per rispetto a  ciò che tu fai, che nulla sia fatto a  caso nè altrimenti che si farebbe  dalla giustizia in persona; e per  rispetto agli avvenimenti esteriori,  sieno essi effetti del caso o della  Provvidenza, che non vuoisi mai nè  incolpare il caso, nè mormorare con-  tro la Provvidenza. In secondo luo-  go, qual sia ciascun vivente dal mo-  mento della fecondazione sino a  quello della animazione, e da quello  della animazione fino a quello in cui  cessa la vita,' e di che elementi sia    nota a questo paragrafo nell' edizione di To-  rino le ragioni della nostra interpretazione  diversa da tntte le precedenti. Bene ricorda qui Gatakero com'egli  era opinione degli stoici il feto non essere  animato fino al momento in cui ^sce dal  seno materno. Fino a quel momento essi  consideravanlo come parte del corpo della  iinadre, come un ramo vegetante sul tronco  dell'albero a cui appartiene. Abbiamo ve-  duto (vedi la nota (26) in fine del volnme)  composto e in quali sia per risol-  versi. In terzo luogo, che se tu levato in altissima parte vedessi di là  tutte le cose umane e la grande  varietà loro, e vedessi ad un’ ora  quanta sia la moltitudine degli es-  seri aerei ed eterei che popolano  gli spazi all’ intorno; per quante  volte che tu venissi cosi levato in  alto, vedresti pur sempre le medesime cose, la somiglianza ^ che  sempre hanno fra loro e la breve  durata di tutte. Di cotali cose insu-  perbisci?   25. Espelli da te T opinione, e sei  salvo. Chi dunque ti impedisce que-  sta espulsione?   26. Quando stai di mala voglia per  cagione di qualsisia cosa o persona,  tu dimentichi che tutto succede se-    come gli stoici fossero ignoranti di anato-  mia: lo erano ancora più di fisiologia. Intendi le succedenti rispetto allo antecedenti. condo la natura dell’ imiverso; che  l’altrui colpa è male altrui; e inol-  tre che le cose che avvengono sono  sempre. avvenute e sempre avver-  ranno, e avvengono ora in ogni luogo al modo stesso; e ancora tu di-  mentichi quanto intima sia la pa-  rentela che ha ciascun uomo con  tutta la famiglia umana: perocché  non di sangue o di seme, ma è co-^  munanza di mente. Tu dimentichi  ancora che la mente di ciascun uomo  è divina e da Dio scaturita; che nulla  è proprio di nissuno, ma e il figlio-  lino, e il corpicciuolo e Tanimuccia  stessa, tutto venne da quello. Tu di-  mentichi finalmente che tutto è opi-  nione; che ciascuno vive solo il mo-  mento presente, e perde solo il  momento presente.  Recati spesso al pensiero co-  loro i quali di alcun che fieramente  adiraronsi, coloro che per grandis-  simi onori, o sventure, o inimicizie, o altre fortune quali si fossero, di-  vennero illustri; poi- chiedi a te  stesso; ora dove sono? Fumo, ce-  nere, languido romore di” fama, o  neppur questo. Poi ti occorrano alla  mente tutti questi cotali; Fabio Ca-  tullinOjin villa, Lucio Lupo negli .orti, Stertinio a Baia, Tiberio nel-  r isola di Capri, Rufo a Velia, e, per  dire in somma, tutte queste diverse  inclinazioni verso checchessia gene-  rate dall’ opinione; e quanto sieno  di poco pregio in sè medesime tutte  queste cose che con tanto studio si  ricercano; e quanto sia più da filo-  sofo il saper far buon uso delle cir-  costanze qualunque esse sieno, o per  dir più proprio, della materia quale ci è data, serbandoci sempre giusti,  temperanti e con semplicità obbedienti a Dio. Perchè 1’orgoglio dell’umiltà è di tutti il più abbomi-  nevple. A colóro che ti chiedono dove tu iibbia veduto gli Dei e donde  avuto certa otizia dell’ esser loro,  perchè tu abbia a venerarli - rispondi  primieramente. Anche alla vista  sono percettibili. E poi. Nè ancora la mia mente veggo io, e nondimeno io l’ho in onore: e così da  quelli effetti che mi rivelano la loro  potenza argomentando che essi sono,  venero io gli Dei. Salvezza di tutta la vita è il  vedere ciascuna cosa quale sia in sè  stessa, quale la materia di essa, quale  la ' causa; e attendere con tutta  r anima a operare il giusto e a dire  il vero. Poi, che ti rimane a faie, se  non se godere della vita, facendo  senza ristare che un bene succeda Opportunamente avverto qui il Gatakero  come Antonino potesse, stoicamente, dire  benissimo, gli Dei essere visibili anche al-  r occhio, poiché il mondo primieramente  era per essi il Dio supremo; e poi fra gli  Dei generati essi veneravano il sole, gli  astri, gli elementi eo.  immediatamente ad un altro, non  lasciando fra due neppure un menomo intervallo? Una è la luco del sole, ancora  che divisa all’ infinito da pareti, da  •monti, da altri obbietti innumerevoli.  Una è la materia comune, ancora  che divisa in una moltitudine innu-  merevole di corpi, ciascuno dei quali  ha le proprie qualità. Una è la vita,  ancora che distribuita in una molti-  tudine innumerevole di nature particolari. Una è r anima intelligente, '  ancora che sembri divisa in tante  unità. Ora tutte le altre cose sopra-  scritte, esseri organici viventi ed es-  seri privi di vita; non hanno comunanza. [Intendi: Quando tu sia ben risolato di  non attendere ad altro chò ad operare il  giusto e a dire il vero, non avrai più briga  alcuna, e non avrai che a godere della vita;  il qual godimento consiste appunto nel dire  il vero e praticare la giustizia; e il godi-  mento.sarà continuo, se tu non cessi un  momento dalle azioni virtuose che sono il  vero bene. nanzà fra loro nè corrispondenza  alcuna di sensibilità, sebbene anche  ad esse il respirare e il gravitare  verso un centro sia a tutte comune.’  Ma alla mente è proprio il tendere  verso ciò che le è congenere, e con •  esso ella si unisce, nè può essere  esclusa da lei questa corrispondenza  di affetti e di sensi. Che brami? Campare? Non  questo. Che dunque? Aver sensazioni, moto, incremento, appetiti? Far uso della facoltà della parola, di quella del raziocinio? E che  di tutto ciò ti sembra degno da desiderare? Se ciascuna di queste cose  ti sembra dunque in sè poco prege-  vole, volgiti à quella che sola rima-  ne, al seguire la ragione e Dio. Ma  a questo culto ripugna eh’ e’ ti gravi   [Il testo in questo luogo è certamente  corrotto. Chi ' vuol vedere come sia stato  emendato e quindi interpretato dair Ornato  in una lunga sua nota, ricorra all' Adizione  di Torino] il dover essere per la morte escluso dalle cose dette dianzi. Qual particella del tempo infinito fu assegnata a ciascuno? Tosto  perderassi nell’eternità. Qual particella di tutfii la materia? Qual particella di tutta l’anima? Sopra qual  particella di tutta la.terra ti vai  strascicando? Questi pensieri ti ricordino che non hai a fare gran  caso di nulla, fuori l’operare se-  condo che la natura ti guida, e tol-  lerare tuttociò che la natura comune  ti arreca.  Che uso fa di sè stessa la  mente? Questo è il tutto per te.  Tutto il rimanente, sia o non sia  sottoposto alla tua volontà, è per te  cadavere e fumo.   34. A farti disprezzare la morte  gioverà il pensare come anche coloro che ebbero il piacere per un  bene e il dolore per un male, non  di meno la disprezzarono. A colui al quale ciò solo che  è tempestivo è un bene, poco importandogli il maggiore o minor  numero di azioni virtuose che saràgli concesso di compiere, a colui, dico, la morte non ha nulla di  pauroso. L’ uomo, facesti le tue parti di  cittadino in questa grande città. Che  rileva a te se per cinque o solo tre anni? Ciò che è secondo la legge, è  giusto ed equo per tutti. Come puoi  dunque rammaricarti se sei rimandato, non da un tiranno, non da un  giudice iniquo, ma dalla natura che ti avea introdotto, non altrimenti che un attore è rimandato dalla scena  dal direttore della commedia che ve  lo avea chiamato? Ma io non ho  recitato i cinque atti. Bene dicesti. Ma nella vita anche tre atti bastano a compiere il dramma. Perciocché chi ne determina il fine, è  quel medesimo che allora fu autore  della plasmazione, cd ora ò della  dissoluzione. Tu non fosti autore nè dell’ una nè dell’altra. Vattene dunque in pace e contento, chè quegli  ancóra che ti accommiata è contento e propizio.  Epistle of Marcus Aurelius to the senate, in which he testifies that the Christians were the cause of his victory.1919 The Emperor Cæsar Marcus Aurelius Antoninus, Germanicus, Parthicus, Sarmaticus, to the People of Rome, and to the sacred Senate greeting: I explained to you my grand design, and what advantages I gained on the confines of Germany, with much labour and suffering, in consequence of the circumstance that I was surrounded by the enemy; I myself being shut up in Carnuntum by seventy-four cohorts, nine miles off. And the enemy being at hand, the scouts pointed out to us, and our general Pompeianus showed us that there was close on us a mass of a mixed multitude of 977,000 men, which indeed we saw; and I was shut up by this vast host, having with me only a battalion composed of the first, tenth, double and marine legions. Having then examined my own position, and my host, with respect to the vast mass of barbarians and of the enemy, I quickly betook myself to prayer to the gods of my country. But being disregarded by them, I summoned those who among us go by the name of Christians. And having made inquiry, I discovered a great number and vast host of them, and raged against them, which was by no means becoming; for afterwards I learned their power. Wherefore they began the battle, not by preparing weapons, nor arms, nor bugles; for such preparation is hateful to them, on account of the God they bear about in their conscience. Therefore it is probable that those whom we suppose to be atheists, have God as their ruling power entrenched in their conscience. For having cast themselves on the ground, they prayed not only for me, but also for the whole army as it stood, that they might be delivered from the present thirst and famine. For during five days we had got no water, because there was none; for we were in the heart of Germany, and in the enemy’s territory. And simultaneously with their casting themselves on the ground, and praying to God (a God of whom I am ignorant), water poured from heaven, upon us most refreshingly cool, but upon the enemies of Rome a withering1920hail. And immediately we recognised the presence of God following on the prayer-a God unconquerable and indestructible. Founding upon this, then, let us pardon such as are Christians, lest they pray for and obtain such a weapon against ourselves. And I counsel that no such person be accused on the ground of his being a Christian. But if any one be found laying to the charge of a Christian that he is a Christian, I desire that it be made manifest that he who is accused as a Christian, and acknowledges that he is one, is accused of nothing else than only this, that he is a Christian; but that he who arraigns him be burned alive. And I further desire, that he who is entrusted with the government of the province shall not compel the Christian, who confesses and certifies such a matter, to retract; neither shall he commit him. And I desire that these things be confirmed by a decree of the Senate. And I command this my edict to be published in the Forum of Trajan, in order that it may be read. The prefect Vitrasius Pollio will see that it be transmitted to all the provinces round about, and that no one who wishes to make use of or to possess it be hindered from obtaining a copy from the document I now publish.1921  1919    [Spurious, no doubt; but the literature of the subject is very rich. See text and notes, Milman’s Gibbon, vol. ii. 46.] 1920    Literally, “fiery.”  1921    [Note I. (See capp. xxvi. and lvi.) I recognised this stone in the Vatican, and read it with emotion. I copied it, as follows:  “Semoni Sanco Deo Fidio Sacrvm Sex. Pompeius. S. P. F. Col. Mussianvs. Quinquennalis Decur Bidentalis Donum Dedit.” The explanation is possibly this: Simon Magus was actually recognised as the God Semo, just as Barnabas and Paul were supposed to be Zeus and Hermes (Acts xiv. 12.), and were offered divine honours accordingly. Or the Samaritans may so have informed Justin on their understanding of this inscription, and with pride in the success of their countryman (Acts viii. 10.), whom they had recognised “as the great power of God.” See Orelli,  Insc., . (The Thundering Legion.)     The bas-relief on the column of Antonine, in Rome, is a very striking complement of the story, but an answer to prayer is not a miracle. I simply transcribe from the American Translation of Alzog’s Universal Church History the references there given to the Legio Fulminatrix: “Tertull., Apol., cap. 5; Ad Scap., cap. 4; Euseb., v. 5; Greg. Nyss. Or., II in Martyr.; Oros., vii. 15; Dio. Cass. Epit.: Xiphilin., lib. lxxi. cap. 8; Jul. Capitol, in Marc. Antonin., cap. 24.”] Antonino. Aurelio. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, "Grice, Marc'Aurelio e Frontino,” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia.

 

Grice ed Antonio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Antonio was a friend of Porfirio. It is assumed that he shared his friend’s interest in philosophy and perhaps also became a student of Plotino.

 

Grice ed Aosta – dio in gioco – logica e sovversione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Aosta). Filosofo Italiano. Grice: “I like Aosta; my favuorite piece of his philosophising is strangely nott he one on paronymy – or the worn-off paralogism on God’s existence; rather, the more obscure “De casu primi angeli,’ on the fall of the most beautiful angels of all! And more seriously – the previous ‘de casu diaboli’ – his rambles on ‘Dialectica’ – or dialettica, as the Italians prefer; you see axioma was Elio Gelliio thinks in “Notti attiche’ – and Varrone – the ‘proloquium,’ from ‘proloquor’ of course – the ‘pro’ suggests something like a ‘prae-miss’ – This is all very stoic, but we are not sure if Aosta knew this!”  Grice: “Aosta would of course be familiar with Augustin’s De Dialectica, where ‘proloquium’ means ‘pro-positio,’ something Quine abhorred!” -- Anselmo d'Aosta, noto anche come Anselmo di Canterbury o Anselmo di Le Bec (Aosta, 1033 o 1034 – Canterbury, 21 aprile 1109), è stato un teologo, filosofo e arcivescovo cattolico franco, considerato tra i massimi esponenti del pensiero medievale di area cristiana. Anselmo è noto soprattutto per i suoi argomenti a dimostrazione dell'esistenza di Dio; specialmente il cosiddetto argomento ontologico ebbe una significativa influenza su gran parte della filosofia successiva.  Nato da una nobile famiglia di Aosta, se ne allontanò poco più che ventenne per seguire la vocazione religiosa; divenne monaco nell'abbazia di Notre-Dame du Bec e, grazie alle sue qualità di uomo di fede e fine intellettuale ne divenne presto priore, e quindi abate. Si rivelò un abile amministratore e, avendo intrattenuto alcune relazioni con il regno d'Inghilterra, all'età di 60 anni ricevette l'importante carica di arcivescovo di Canterbury. Negli anni successivi, dapprima sotto il regno di Guglielmo II, quindi di Enrico I, ricoprì un ruolo rilevante nella lotta per le investiture che vedeva contrapposti i sovrani d'Inghilterra e il papato. Grazie al suo lavoro politico e diplomatico, svolto in accordo con il programma riformista gregoriano e finalizzato a garantire alla Chiesa l'autonomia dal potere politico, la questione si risolse infine con un compromesso piuttosto vantaggioso per i religiosi.  La riflessione filosofica e teologica di Anselmo, caratterizzata dal primario ruolo riconosciuto alla ragione nell'approfondimento e nella comprensione dei dati di fede, si articolò su diversi problemi: dimostrazioni a priori e a posteriori dell'esistenza di Dio, indagini sui suoi attributi, analisi di questioni di dialettica e di logica sulla verità e sulla conoscibilità di Dio, studio di problemi dottrinali come quello circa la Trinità o quelli legati al libero arbitrio, al peccato originale, alla grazia e in generale al male.  Anselmo venne canonizzato e proclamato dottore della Chiesa nel 1720 da papa Clemente XI (1649–1721). Sant'Anselmo d'Aosta AnselmstatuecanterburycathedraloutsideUna statua di Anselmo d'Aosta collocata all'esterno della cattedrale di Canterbury.   Arcivescovo di Canterbury, santo e dottore della Chiesa    NascitaAosta, 1033 o 1034 MorteCanterbury, 21 aprile 1109 Venerato daChiesa cattolica e Chiesa anglicana CanonizzazioneAutorizzazione all'elevazione del corpo concessa da Papa Alessandro III nel 1163[1] Attributibastone pastorale[1] e nave. Anselmo d'Aosta, noto anche come Anselmo di Canterbury o Anselmo di Le Bec (Aosta, 1033 o 1034 – Canterbury, 21 aprile 1109), è stato un teologo, filosofo e arcivescovo cattolico franco, considerato tra i massimi esponenti del pensiero medievale di area cristiana. Anselmo è noto soprattutto per i suoi argomenti a dimostrazione dell'esistenza di Dio; specialmente il cosiddetto argomento ontologico ebbe una significativa influenza su gran parte della filosofia successiva.  Nato da una nobile famiglia di Aosta, se ne allontanò poco più che ventenne per seguire la vocazione religiosa; divenne monaco nell'abbazia di Notre-Dame du Bec e, grazie alle sue qualità di uomo di fede e fine intellettuale ne divenne presto priore, e quindi abate. Si rivelò un abile amministratore e, avendo intrattenuto alcune relazioni con il regno d'Inghilterra, all'età di 60 anni ricevette l'importante carica di arcivescovo di Canterbury. Negli anni successivi, dapprima sotto il regno di Guglielmo II, quindi di Enrico I, ricoprì un ruolo rilevante nella lotta per le investiture che vedeva contrapposti i sovrani d'Inghilterra e il papato. Grazie al suo lavoro politico e diplomatico, svolto in accordo con il programma riformista gregoriano e finalizzato a garantire alla Chiesa l'autonomia dal potere politico, la questione si risolse infine con un compromesso piuttosto vantaggioso per i religiosi.  La riflessione filosofica e teologica di Anselmo, caratterizzata dal primario ruolo riconosciuto alla ragione nell'approfondimento e nella comprensione dei dati di fede, si articolò su diversi problemi: dimostrazioni a priori e a posteriori dell'esistenza di Dio, indagini sui suoi attributi, analisi di questioni di dialettica e di logica sulla verità e sulla conoscibilità di Dio, studio di problemi dottrinali come quello circa la Trinità o quelli legati al libero arbitrio, al peccato originale, alla grazia e in generale al male.  Anselmo venne canonizzato nel 1163[2] e proclamato dottore della Chiesa nel 1720 da papa Clemente XI (1649–1721). Una targa a memoria di Anselmo è collocata sulla sua presunta casa natale ad Aosta, via Sant'Anselmo.Anselmo nacque a (o nei pressi di) Aosta, allora parte del regno di Arles  al confine con la Lombardia. La sua era una famiglia nobile, anche se in declino,[9] imparentata con la casa Savoia[10] e con ampi possedimenti terrieri. Suo padre, Gundulfo (o Gandolfo),[11] era un longobardo, apparentemente molto dedito agli affari e non particolarmente affettuoso verso il figlio; sua madre, Ermemberga (o Eremberga),[11] apparteneva a un'antica famiglia nobile burgunda ed era legata da rapporti di parentela a Oddone di Savoia; risulta che fosse una madre di famiglia pia e virtuosa.[1][12]  Fin da bambino Anselmo espresse un forte sentimento religioso e un'altrettanta forte sete di conoscenza; il suo biografo Eadmero di Canterbury riferisce che, vivendo in una zona montuosa, il giovinetto si formò l'ingenua convinzione che il paradiso, in cui Dio stesso doveva risiedere, si trovasse in cima alle montagne.[12] Anselmo venne affidato a un istitutore, suo parente, che però si rivelò tanto severo da produrre in lui uno stato di infermità, dal quale guarì lentamente grazie alle cure materne. La sua educazione successiva venne affidata ai benedettini di Aosta.[1] All'età di quindici anni Anselmo espresse il desiderio di diventare monaco; il padre tuttavia, fermamente intenzionato a fare del ragazzo il proprio erede, si oppose a questa decisione e i monaci del convento locale, non volendo contrariare Gandolfo, respinsero la domanda di Anselmo.[1][12]  La delusione e la frustrazione per il rifiuto causarono una forte reazione nel giovane, che, sempre secondo il biografo, pregò Dio di ammalarsi in modo tale da impietosire i monaci e convincerli così ad accoglierlo; una crisi psicosomatica effettivamente si verificò, ma questo non bastò a far sì che Anselmo venisse accettato nel monastero.[12] In seguito l'ardore religioso del giovane si raffreddò e, benché egli rimanesse intenzionato a ottenere il suo scopo in un futuro più o meno lontano, poco alla volta le passioni mondane lo coinvolsero e, soprattutto dopo la morte della madre (che avvenne nel 1050),[5] si dedicò sempre più spesso a interessi di carattere materiale.[12] Nel frattempo i suoi rapporti con il padre si facevano sempre più tesi, e infine, all'età di ventitré anni,[8] Anselmo partì, accompagnato da un servo, con l'intenzione di oltrepassare il colle del Moncenisio alla volta della Francia.[1][12]  Superate le Alpi, Anselmo e il suo compagno girovagarono per tre anni tra la Burgundia e la Francia prima di giungere ad Avranches, in Normandia, nel 1059;[8] qui Anselmo venne a sapere dell'abbazia benedettina che era stata fondata a Bec nel 1034, dove insegnava il famoso dialettico Lanfranco di Pavia; attirato dalla fama di Lanfranco vi si recò, riuscendo nel 1060 ad esservi ammesso come novizio.[8][12] Il ventisettenne Anselmo si sottometteva così alla regola benedettina, che nel corso del decennio successivo ne avrebbe influenzato significativamente il pensiero.[13]   L'abbazia di Notre-Dame du Bec. Da Bec a Canterbury I progressi di Anselmo negli studi furono rapidi e brillanti e il giovane entrò presto nelle grazie del maestro, tanto che, quando nel 1063 Lanfranco venne nominato abate dell'abbazia di Saint-Étienne di Caen, Anselmo (pur avendo intrapreso la vita monastica da appena tre anni) venne eletto a succedergli quale priore dell'abbazia di Bec.[12][14] Alcuni dei monaci più anziani, ritenendosi maggiormente in diritto di ricoprire la carica di priore, si considerarono offesi dalla sua promozione; tuttavia ben presto le sue doti di cortesia, il suo senso della misura nel gestire la carica e le sue competenze di insegnante gli valsero l'affetto di tutta la comunità monastica.[12]  Nei quindici anni in cui fu priore a Bec, diviso tra i doveri derivanti dalla sua carica e l'aspirazione all'isolamento e alla contemplazione, Anselmo era solito rimanere desto durante la notte, impegnato nella preghiera o nella scrittura. Risale infatti a quegli anni (a partire dal 1070) l'inizio della sua attività di scrittore, che aveva principalmente il fine di munire i suoi allievi all'interno del monastero (ma anche alcune nobildonne laiche al di fuori di esso) di testi su cui meditare e pregare.[15] La composizione di due delle sue opere teologiche più rilevanti, il Monologion (Soliloquio) del 1076 e il Proslogion (Colloquio) del 1078, avvenne proprio in quel periodo.[1][12]  Nel 1078, alla morte del fondatore dell'abbazia di Bec, Erluino, Anselmo gli succedette come abate venendo consacrato il 22 febbraio 1079 dal vescovo di Évreux.[16] Fu con riluttanza che Anselmo accettò la carica, che avrebbe comportato ulteriori responsabilità e doveri sottraendogli tempo alla riflessione e alla preghiera;[12] la resistenza di Anselmo fu vinta dalle insistenze unanimi dei confratelli.[1]  Anselmo fu molto apprezzato come abate per via del suo acume, della virtuosità con cui conduceva la sua vita e della sua capacità di rapportarsi con gentilezza con tutti dentro e fuori il monastero;[1] la nuova carica lo portò a stringere rapporti con l'Inghilterra, dove l'abbazia normanna aveva alcuni possedimenti; viaggiò fino a Canterbury, di cui Lanfranco era diventato arcivescovo nel 1070, ed ebbe modo di farsi conoscere e apprezzare dalla nobiltà e dalla corte inglesi,[1][12] oltre che dallo stesso re Guglielmo il Conquistatore;[11] divenne così il candidato naturale a succedere a Lanfranco come arcivescovo di Canterbury.[17] Anselmo fu anche costretto a battersi per conservare l'indipendenza dell'abbazia di Bec dalle autorità civili ed ecclesiastiche.[18] Nonostante la rilevanza dei suoi impegni di amministratore e di guida, e la puntualità con cui li assolveva, Anselmo rimase per tutta la vita innanzitutto un intellettuale:[3] nel periodo in cui fu abate di Bec portò avanti una significativa attività pedagogica e didattica e, tra il 1080 e il 1085, compose il De grammatico (Sul significato della parola "grammatico") e i tre dialoghi sulla libertà, il De veritate (Sulla verità), il De libertate arbitrii (Sulla libertà della volontà) e il De casu diaboli (La caduta del diavolo).[19] Sotto Anselmo, Bec divenne uno dei centri di studio e insegnamento più importanti d'Europa, attirando studenti da tutta la Francia, dall'Italia e da altri Paesi.[20]   La cattedrale di Canterbury, sede dell'arcivescovato di Canterbury, in un'incisione del 1821. Quando, nel 1089, morì Lanfranco di Pavia, Guglielmo II d'Inghilterra confiscò i possedimenti e le rendite della sede arcivescovile di Canterbury e si astenne dal nominare un successore di Lanfranco.[12] Anselmo, che pure desiderava tenersi lontano dall'Inghilterra per non far pensare che aspirasse al ruolo vacante di arcivescovo di Canterbury, accettò l'invito di Ugo d'Avranches a recarsi oltremanica nel 1092.[12] Fu costretto a trattenervisi per quasi quattro mesi, e in un'occasione, giungendo in Canterbury alla vigilia della Natività della Beata Vergine Maria, venne salutato entusiasticamente dalla folla come prossimo arcivescovo; quando ebbe esaurito i suoi impegni, il re gli negò il permesso di rientrare in Francia.[12] Nel 1093, però, Guglielmo cadde gravemente malato ad Alveston e, desideroso di fare ammenda per la condotta peccaminosa alla quale attribuiva la causa del suo male,[21] ordinò che Anselmo venisse nominato arcivescovo di Canterbury all'inizio di marzo.[11][22]  Nei mesi successivi, tuttavia, Anselmo tentò di rifiutare la carica sostenendo di non essere adatto, in quanto monaco, a occuparsi di affari secolari[17] e adducendo come scuse anche l'età e alcuni problemi di salute.[6] Il 24 agosto Anselmo sottopose a Guglielmo le condizioni alle quali avrebbe accettato l'arcivescovato (condizioni peraltro in linea con il programma della riforma gregoriana): che Guglielmo restituisse le terre confiscate; che accettasse la preminenza di Anselmo sul piano spirituale; che riconoscesse Urbano II come Papa, in opposizione all'antipapa Clemente III.[23] Guglielmo era estremamente riluttante ad accettare tali richieste e, benché la situazione favorisse Anselmo, il re era disposto ad accondiscendere solo alla prima.[24] Arrivò al punto di sospendere i preparativi per l'investitura di Anselmo, ma infine, sotto la pressione della volontà pubblica, fu costretto a portare a termine l'assegnazione della carica. Riuscì tuttavia ad accordarsi con Anselmo raggiungendo un compromesso vantaggioso per la monarchia: la restituzione delle terre rimase l'unica concessione fatta dal re all'arcivescovato.[25] Anselmo ottenne dunque il consenso dei suoi ex confratelli ad essere dispensato dai doveri che lo legavano all'abbazia di Bec, rese l'omaggio feudale a Guglielmo, e il 25 settembre 1093 si insediò a Canterbury,[11] ricevendo le terre precedentemente confiscate all'arcivescovato;[24] il 4 dicembre dello stesso anno venne consacrato arcivescovo di Canterbury.[24]  È stato messo in dubbio che la riluttanza di Anselmo ad accettare la carica fosse sincera: mentre studiosi come R. W. Southern sostengono che avrebbe davvero preferito rimanere a Bec, altri, come Sally Vaughn, sottolineano che una certa recalcitranza nell'accettare importanti posizioni di potere ecclesiastiche era d'uso nel Medioevo, dal momento che se per esempio Anselmo avesse espresso il desiderio di succedere a Lanfranco come arcivescovo sarebbe stato considerato un ambizioso carrierista; inoltre, sostiene sempre Vaughn, Anselmo comprendeva gli obiettivi di Guglielmo e agì in modo da ottenere i massimi vantaggi per il suo eventuale arcivescovato oltre che per il movimento riformista gregoriano.[26]  Arcivescovo di Canterbury sotto Guglielmo II Scena raffigurante Anselmo costretto quasi a forza ad accettare il bastone pastorale, simbolo della carica di vescovo, da Guglielmo II d'Inghilterra gravemente malato. Prima ancora della fine di quello stesso anno 1093 ebbe luogo uno dei primi conflitti tra Anselmo e Guglielmo: il re era in procinto di avviare una spedizione militare contro suo fratello maggiore, Roberto II di Normandia, e avendo bisogno di fondi aspettava una donazione dall'arcivescovo di Canterbury;[27] Anselmo mise a disposizione 500 sterline, che il re rifiutò chiedendo una somma due volte maggiore.[12] Più tardi, un gruppo di vescovi convinse Guglielmo ad accettare la cifra originale, ma Anselmo fece loro sapere di aver già donato il denaro ai poveri.[11]  Quando si recò ad Hastings per benedire la spedizione che si accingeva a salpare per la Normandia, Anselmo rinnovò le pressioni volte a tutelare gli interessi di Canterbury e della Chiesa inglese, oltre che, più in generale, a riformare il rapporto tra Stato e Chiesa[11] secondo la visione della «teocrazia pontificia» espressa da papa Gregorio VII:[28] Anselmo concepiva la Chiesa come un'entità universale, con la sua autonomia e autorità, dalla quale lo Stato doveva dipendere per la sua missione e per la sua investitura;[29] questo andava in direzione opposta rispetto alla visione di Guglielmo la quale, in continuità con quanto già sostenuto dal suo predecessore, attribuiva al re il controllo sia sullo Stato che sulla Chiesa.[11][30] La figura di Anselmo, in effetti, è vista dagli storici tanto come quella di un monaco assorto nella contemplazione quanto come quella di un politico intelligente e capace, determinato a conservare i privilegi della sede episcopale di Canterbury.[31]  Nuovi attriti sorsero subito dopo, quando, come era tradizione, Anselmo avrebbe dovuto ottenere il pallio dalle mani del Papa per rendere definitiva la consacrazione: in quel periodo, infatti, la legittimità di papa Urbano II era messa in discussione dall'antipapa Clemente III. Quest'ultimo, nel 1074, aveva rifiutato esplicitamente l'autorità di papa Gregorio VII e, con il supporto di Enrico IV di Franconia, si era fatto eleggere Papa nel 1080, venendo qualificato da coloro che rimasero fedeli a Gregorio e ai suoi successori come "Antipapa".[32] Guglielmo vietò ad Anselmo di partire per Roma, dove si trovava la sede di Urbano II, riconosciuto dal regno di Francia così come da Anselmo stesso; non sembra che il re d'Inghilterra fosse incline a riconoscere l'autorità di Clemente III, ma insisteva affinché la decisione dell'arcivescovo di Canterbury di partire per Roma fosse subordinata al suo riconoscimento ufficiale di Urbano II, riconoscimento che si faceva attendere. Per dirimere la questione venne convocato a Rockingham, nel marzo 1095, un consiglio del regno in cui Anselmo, tenendo un discorso che rimane una testimonianza memorabile della dottrina della supremazia papale, ribadì la sua fedeltà a Urbano II come unico vero successore di Pietro.[12] Il concilio nazionale di Rockingham, che fu un momento di grande tensione tra i vescovi, i nobili e la monarchia dell'Inghilterra, fu per Anselmo una vittoria morale, ma per il momento la questione dell'investitura rimase insoluta.[11]  Anselmo, allora, inviò in segreto a Roma alcuni messaggeri.[33] Urbano II, in risposta, mandò a Canterbury un suo legato, Gualterio di Albano, per consegnare il pallio ad Anselmo in sua vece.[34] Guglielmo e Gualterio negoziarono in privato la questione, e infine il re acconsentì a riconoscere Urbano II come Papa in cambio del diritto di autorizzare o negare agli ecclesiastici la possibilità di ricevere lettere del papato; ottenne inoltre che Urbano non gli inviasse più alcun legato se non su esplicita richiesta. Guglielmo avrebbe anche voluto che Anselmo venisse deposto, ma finì per riconoscere l'autorità di papa Urbano II senza che ci fosse alcun avvicendamento per la carica di arcivescovo di Canterbury. Il re tentò allora di avere del denaro da Anselmo in cambio del pallio, ma senza esito; cercò anche di ottenere di poter consegnare personalmente il pallio all'arcivescovo, ma anche questo gli venne negato: si raggiunse un compromesso facendo in modo che Gualtiero, in rappresentanza del Papa, deponesse l'oggetto sacro sull'altare della cattedrale anziché consegnarlo ad Anselmo con le sue mani; Anselmo indossò quindi da solo il pallio nel corso di una cerimonia solenne che si tenne nella cattedrale di Canterbury nel giugno 1095.[35]  Nei due anni successivi non ci furono aperte dispute tra Anselmo e il re, anche se questi fece del suo meglio per impedire che Anselmo portasse avanti una riforma della Chiesa in senso gregoriano. Nel frattempo, nel 1094, Anselmo aveva ultimato la composizione dell'Epistola de incarnatione Verbi (Lettera sull'incarnazione del Verbo), il cui dedicatario era proprio Urbano II.[11]  Nel 1097, dopo l'insuccesso di una campagna militare diretta a sedare una rivolta in Galles, Guglielmo accusò Anselmo di avergli fornito una quantità insufficiente di truppe e gli ordinò di comparire presso il tribunale reale;[12] Anselmo rifiutò e chiese al re di potersi recare a Roma per chiedere consiglio al Papa, ma ciò gli venne negato.[36] Nel corso di un negoziato che si tenne a Winchester, Anselmo venne messo di fronte a due possibilità: partire, ma in questo caso non avrebbe più potuto fare ritorno al suo incarico di arcivescovo, o rimanere, ma avrebbe dovuto pagare un risarcimento a Guglielmo e rinunciare a ogni ulteriore appello a Roma.[36] Anselmo, deciso a difendere la visione di una Chiesa non sottomessa ad alcuna autorità terrena,[30] scelse l'esilio, e nell'ottobre 1097 lasciò l'Inghilterra diretto a Roma.[12] Guglielmo si impossessò immediatamente delle rendite della sede arcivescovile di Canterbury, anche se formalmente Anselmo conservò la carica di arcivescovo.[37]  Primo esilio  Ritratto di Anselmo nel Salone ducale del municipio di Aosta. Anselmo giunse a Cluny in dicembre, e passò il resto dell'inverno a Lione, presso il suo amico Ugo di Romans; nella primavera del 1098 riprese il viaggio, e attraversò il Moncenisio in compagnia di due confratelli. All'arrivo a Roma, Anselmo fu salutato dal Papa con grandi manifestazioni di stima e simpatia. Urbano II, che non voleva essere coinvolto più del necessario nelle vicende che contrapponevano Anselmo a Guglielmo II, non poté fare altro che indirizzare al sovrano inglese una lettera di rimostranze e l'invito a reintegrare l'arcivescovo nella carica.[12] Anselmo passò l'estate a Sclavia, presso il suo amico (già monaco a Bec e ora abate del monastero di Telese) Giovanni di Telese; qui terminò la sua opera Cur Deus homo (Perché Dio [si è fatto] uomo), che aveva iniziato in Inghilterra.[11]   Incisione della prima metà del XVI secolo raffigurante Anselmo d'Aosta. Anselmo trascorse quindi un periodo presso Capua, dove fu raggiunto da papa Urbano II. Questi, nell'ottobre 1098, indisse a Bari un concilio destinato a risolvere una questione dottrinale posta dalla Chiesa greca a proposito della processione dello Spirito Santo; più in generale, tra gli obiettivi del sinodo era quello di ricondurre a una comune posizione teologica i due grandi ceppi ecclesiastici venutisi a formare con lo scisma del 1054.[1] Ad Anselmo, che già si era espresso sull'argomento nell'Epistola de incarnatione Verbi,[11] fu chiesto di partecipare alla discussione e il Papa gli assegnò un ruolo importante nella disputa: espose infatti la posizione della Chiesa latina, secondo la quale lo Spirito Santo procede tanto dal Padre quanto dal Figlio, in modo così convincente da risolvere la disputa e persuadere i rappresentanti della Chiesa greca[1] (i suoi argomenti in seguito sarebbero stati raccolti nel testo De processione Spiritus Sancti, Sulla processione dello Spirito Santo). Anche il caso individuale di Anselmo venne sottoposto all'attenzione dell'assemblea, la quale avrebbe scomunicato Guglielmo se non fosse stato per l'intercessione di Anselmo stesso.[12]  Anselmo e i suoi compagni, a questo punto, sarebbero volentieri rientrati a Lione, ma venne loro ordinato di trattenersi in Italia per partecipare a un altro concilio, che doveva tenersi a Roma verso il periodo di Pasqua del 1099. Durante questo sinodo venne nuovamente ed energicamente sottolineata la posizione della Chiesa contro l'investitura del potere spirituale da parte dei laici,[30] contro la simonia e contro il concubinato dei religiosi.[1] A Roma si verificarono ulteriori attriti tra Urbano II e Guglielmo di Warelwast, rappresentante di Guglielmo II d'Inghilterra, con nuove minacce di scomunica al re se Anselmo non avesse riottenuto la sua carica; tuttavia, ancora una volta, la questione venne rimandata e, a causa della morte di Urbano in luglio, rimase di fatto insoluta.[11]  Infine, nel corso dello stesso anno 1099, Anselmo poté tornare a Lione; durante il soggiorno in questa città portò a compimento il trattato De conceptu virginali et originali peccato (Sull'Immacolata Concezione e sul peccato originale) e la Meditatio de humana redemptione (Meditazione sulla redenzione dell'uomo).[11]  Ritorno in Inghilterra sotto Enrico I Guglielmo II rimase ucciso durante una partita di caccia il 2 agosto dell'anno 1100. Gli succedette il fratello minore, Enrico I, il quale invitò Anselmo a tornare in Inghilterra e si impegnò a farne un suo consigliere.[38] Enrico cercava di ottenere l'appoggio di Anselmo nella propria rivendicazione del trono, a discapito, tra gli altri, del fratello maggiore Roberto.  Di ritorno, in settembre, Anselmo fu accolto con calore, ma il problema delle investiture si pose subito e in modo grave: il re, che pure inizialmente era stato del tutto conciliante, esigeva che Anselmo gli rendesse l'omaggio feudale[39] e che si assoggettasse a ricevere da lui l'investitura ad arcivescovo di Canterbury.[40] Anselmo non poteva tuttavia sottomettersi a queste richieste, dal momento che il papato (proprio con il recente concilio di Roma) aveva vietato agli ecclesiastici di rendere l'omaggio ai laici e di ricevere da questi l'investitura a cariche religiose.[12]  Enrico e Anselmo inviarono messaggeri a Roma a richiedere un'esenzione che consentisse al re di investire personalmente l'arcivescovo e di ottenerne l'omaggio.[12] Nel frattempo i due riuscirono a collaborare: Anselmo contribuì a rimuovere gli ostacoli al matrimonio di Enrico con Matilde di Scozia, l'erede dei sovrani di Sassonia, ostacoli dati dal fatto che Matilde era entrata in convento per qualche tempo pur senza prendere i voti; diede poi la sua personale benedizione a tale matrimonio[12] e rimase sempre in contatto epistolare con la nuova regina.[11] Inoltre, mentre l'Inghilterra era minacciata d'invasione da parte delle truppe di Roberto II di Normandia, Anselmo si schierò pubblicamente a favore di Enrico e, minacciando Roberto e i suoi sostenitori di scomunica, contribuì a volgere la situazione in favore del sovrano inglese, causando la ritirata del rivale.[12][41]  Papa Pasquale II, succeduto a Urbano II, non era intenzionato a derogare ai divieti del suo predecessore riguardo all'investitura da parte del potere laico e l'omaggio feudale.[41] Un nuovo gruppo di legati (due uomini di Anselmo e tre di Enrico) lasciò l'Inghilterra diretto verso la sede pontificia, nonostante alcuni ritardi dovuti all'impegno del re nel sedare la rivolta di Roberto II di Bellême; al loro ritorno i legati di Enrico, pur recando una lettera che continuava a sostenere le posizioni iniziali del pontefice, affermarono che Pasquale aveva acconsentito a un'eccezione nel caso di Enrico e Anselmo e che non aveva messo per iscritto questa decisione onde evitare di offendere gli altri sovrani europei. Tutto ciò fu però negato dai legati di Anselmo, il quale continuò a rifiutarsi di consacrare i vescovi investiti dal re.[11] Enrico chiese allora ad Anselmo di recarsi a Roma personalmente e questi, pur conscio di essere prossimo a un nuovo esilio, decise di partire per discutere la questione con il Papa.[12] Accompagnato dal funzionario del re Guglielmo di Warelwast, Anselmo lasciò l'Inghilterra il 27 aprile 1103.[11][42]  Secondo esilio Anselmo si trattenne a Bec sino quasi alla fine dell'estate per evitare di trovarsi a Roma nel periodo più caldo dell'anno; quando giunse nella sede pontificia e discusse con Pasquale II la questione dei rapporti tra potere temporale e spirituale, ottenne dal Papa ancora una volta una netta opposizione all'investitura degli ecclesiastici da parte dei laici e all'omaggio; l'ambasciatore del re d'Inghilterra, Guglielmo di Warelwast, non ebbe miglior successo. Sulla via del ritorno, a Lione, tra la fine del 1103 e l'inizio del 1104, Anselmo ricevette un messaggio di Guglielmo che interpretò come un invito a non tornare in Inghilterra se non con l'intenzione di (e l'autorizzazione a) ripristinare le pratiche dell'investitura degli ecclesiastici da parte dei laici e dell'omaggio. Anselmo dunque rimase a Lione, dove stese il De processione spiritus sancti.[11]  Anselmo si trattenne a Lione fino al marzo 1105, quando il Papa scomunicò Roberto di Beaumont, consigliere di Enrico I, che aveva insistito affinché il re continuasse a praticare l'investitura da parte di laici,[43] insieme ad altri prelati investiti da Enrico o da altri rappresentanti del potere temporale,[44] mentre si limitò, per il sovrano, a minacciare la scomunica.[11] Anselmo, che non sperava più in un aiuto concreto del Papa, si recò in Normandia per incontrare Enrico e minacciarlo personalmente di scomunica,[11][45] con lo scopo di costringerlo una volta per tutte a raggiungere un accordo sulla questione delle investiture.[46]  Anche grazie alla mediazione della sorella di Enrico, Adele d'Inghilterra, che Anselmo aveva assistito durante una malattia, l'arcivescovo e il re riuscirono a incontrarsi a l'Aigle nel luglio 1105 e raggiunsero un compromesso: la scomunica di Roberto di Beaumont e degli altri funzionari di Enrico I venne revocata (cosa che Anselmo fece grazie alla sua sola autorità, e di cui dovette poi rendere conto a papa Pasquale II)[43][47] a patto che essi tenessero sempre conto della volontà della Chiesa nel consigliare il re; inoltre Enrico avrebbe rinunciato al diritto di investire gli ecclesiastici se Anselmo avesse ottenuto dal Papa che agli ecclesiastici venisse consentito l'omaggio ai nobili laici; le entrate della sede arcivescovile di Canterbury furono restituite alla Chiesa e venne confermato il divieto per i sacerdoti di prendere moglie. Prima di tornare in Inghilterra, comunque, Anselmo volle che l'accordo fosse approvato dal Papa; questi, con una lettera del 23 marzo 1106, ratificò il compromesso: nonostante la rinuncia da parte del re al diritto di investitura costituisse un'importante vittoria per la Chiesa,[47] sia Anselmo che Pasquale consideravano il compromesso di l'Aigle come un accordo temporaneo, in vista di ulteriori azioni che, perseguendo gli obiettivi della riforma gregoriana, avrebbero dovuto abolire anche la pratica dell'omaggio degli ecclesiastici ai laici.[48] La lettera del Papa autorizzava Anselmo anche a revocare la scomunica di coloro che erano stati investiti da laici o che a laici avevano reso l'omaggio feudale, e lo invitava ad assolvere il re e la regina d'Inghilterra da tutti i loro peccati.[11]  Il ritorno di Anselmo a Canterbury comunque fu rimandato, anche a causa di alcuni problemi di salute dell'anziano arcivescovo; il 15 agosto Anselmo incontrò Enrico a Bec; il re aggiunse alle concessioni fatte anche la restituzione delle chiese confiscate a suo tempo da Guglielmo II e promise di risarcire il clero inglese dei danni economici patiti a causa della lotta per le investiture. Così, i due si riappacificarono.[11]  Ritorno in Inghilterra e ultimi anni Anselmo fece trionfale ritorno in Inghilterra nel 1107. Da un'assemblea dei vescovi e dei principi inglesi tenuta il 1º agosto risultò il "concordato di Londra", che formalizzava e annunciava pubblicamente il compromesso tra Enrico e Anselmo:[49] nessun vescovo avrebbe dovuto ricevere l'investitura da un laico, ma il fatto di aver reso l'omaggio a un laico non avrebbe impedito a nessuno di ricoprire la carica di vescovo. Le sedi vescovili e abbaziali vacanti (alcune delle quali erano vacanti ancora dai tempi di Guglielmo II) vennero assegnate, e Anselmo, riprese le funzioni di arcivescovo di Canterbury, consacrò tutti i nuovi vescovi.[11]  Anche nella fase finale della sua vita Anselmo continuò ad occuparsi dei doveri di arcivescovo e, contemporaneamente, a meditare e a scrivere testi di teologia, come il De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio (Sulla compatibilità della prescienza, della predestinazione e della grazia di Dio con il libero arbitrio). Anselmo lavorò per innalzare il livello spirituale del regno e, in particolare, delle regioni dell'Irlanda e della Scozia; fu inoltre coinvolto in una disputa circa il primato dell'arcidiocesi di Canterbury su quella di York, disputa che non sarebbe stata superata (con la riaffermazione della supremazia di Canterbury) se non dopo la sua morte.[11]  Anselmo morì il 21 aprile 1109, mercoledì santo, e venne sepolto nella cattedrale di Canterbury. Le sue spoglie vennero però esumate durante i disordini a sfondo religioso che ebbero luogo durante il regno di Enrico VIII d'Inghilterra e se ne persero le tracce.[11]   La tomba di Anselmo all'interno della cattedrale di Canterbury. Il processo di canonizzazione di Anselmo fu avviato da Tommaso Becket (uno di coloro che ne continuarono l'opera volta a garantire l'indipendenza della Chiesa inglese dal potere politico) e venne portato a termine da papa Alessandro III nel 1163. Anselmo fu dichiarato dottore della Chiesa da papa Clemente XI il 3 febbraio 1720[50].  Pensiero Oltre ad aver svolto un importante ruolo politico nella disputa sulle investiture in Inghilterra, Anselmo d'Aosta fu anche un pensatore di grande spessore nell'ambito della filosofia cristiana medievale, considerato uno dei principali esponenti della riflessione di area europea[3], il principale filosofo dell'XI secolo[8][51] e il primo grande pensatore del Medioevo dopo Giovanni Scoto Eriugena[4].  Influenze Il lavoro di Anselmo è caratterizzato da una grande originalità e sono rari, nella sua opera, i riferimenti a pensatori del passato: ciò rende difficile identificare le influenze che hanno contribuito a dar forma al suo pensiero[15]. Posto che la fonte principale della riflessione di Anselmo è l'autorità della Bibbia, è tuttavia ugualmente possibile riconoscere nel neoplatonismo cristiano di Agostino d'Ippona un importante punto di riferimento; l'importanza dell'influenza di pensatori come Giovanni Scoto Eriugena e lo Pseudo-Dionigi l'Areopagita, un tempo considerata significativa, è oggi giudicata tutto sommato trascurabile, mentre si tende a evidenziare l'importanza rivestita da Aristotele e dal suo traduttore e commentatore Severino Boezio nel determinare certi aspetti dialettici della filosofia di Anselmo, oltre che, tra le altre cose, la sua concezione del male come privo di positività ontologica e la teoria dei futuri contingenti che garantiscono la compatibilità della prescienza di Dio con la libertà umana[52]. L'influenza del maestro Lanfranco probabilmente non fu, se non forse per l'interesse alla dialettica, determinante[15].  Rapporto tra ragione e fede Nella riflessione di Anselmo, che pure ha un carattere prevalentemente teologico, la ragione svolge un ruolo di fondamentale importanza: nella concezione anselmiana del rapporto che, per un buon filosofo cristiano, dovrebbe sussistere tra la ragione e la fede (cioè, sostanzialmente, tra la filosofia e la teologia) la dimensione della ricerca razionale ha infatti un posto molto rilevante[3].  Anselmo riteneva che il presupposto di ogni sapere dovesse essere necessariamente la fede nella rivelazione delle sacre scritture, e che, quindi, si dovesse credere per comprendere piuttosto che comprendere per credere ("credo ut intelligam")[53]; in altre parole sosteneva, ispirandosi alle parole di Isaia (7, 9) «se non hai fede, non capirai» ("nisi credideritis, non intelligetis")[54], che il fondamento di ogni conoscenza dovesse provenire dalla fede, e che solo su di essa potesse innestarsi il lavoro della ragione, volto all'approfondimento e alla comprensione dei dogmi[53].  Anselmo tuttavia riponeva grande fiducia nella capacità della ragione di portare avanti con successo questo suo ruolo di chiarificazione e comprensione dei dati di fede: come disse il medievista francese Étienne Gilson, egli giudicava «presunzione non mettere per prima cosa la fede, [...] negligenza non fare successivamente appello alla ragione»[53]. Dunque, benché fosse per lui impensabile sottomettere o subordinare i misteri della fede alla dialettica, cioè alla logica, Anselmo riteneva che fondandosi saldamente sulla rivelazione fosse possibile usare la ragione per approfondire la comprensione di tali misteri o, anche, per dimostrare inconfutabilmente la necessità di accettarli come tali[55]. In effetti per lui esistevano dogmi non suscettibili di esatta comprensione razionale, come ad esempio quello della Trinità, ma riteneva che fosse ugualmente possibile raggiungere, tramite ragionamenti per analogia, una parziale comprensione di tali dogmi e che, inoltre, fosse possibile provare razionalmente la necessità di abbracciarli[56]. Una significativa espressione anselmiana, che può essere considerata il suo motto filosofico, è «la fede in cerca della comprensione»[8]. Con ciò Anselmo intendeva riaffermare la priorità della fede e, parallelamente, l'opportunità di tentare di rischiarare i contenuti della rivelazione per mezzo della riflessione razionale, senza che la ragione prendesse il posto della fede e senza che la fede soffocasse la ragione[8].  Nella concezione anselmiana della fede aveva molta importanza la dimensione affettiva (cioè legata all'ambito della volontà): l'amore di Dio che alimenta la fede è in gran parte assimilabile a un amore per la conoscenza di Dio stesso, e dunque viene attribuita una notevole importanza alla ragione, in quanto veicolo di questa ricerca di conoscenza[8]. Alcuni commentatori evidenziano come nella riflessione di Anselmo gli elementi esistenziali e legati all'ambito morale siano strettamente interconnessi con quelli teoretici e legati all'ambito della ricerca razionale[57].  Esistenza di Dio e attributi divini dimostrati a posteriori: il Monologion Magnifying glass icon mgx2.svgMonologion. Benché concepisse la fede come fondamento di ogni conoscenza, Anselmo riteneva che un argomento razionale potesse convincere anche un non credente.[8] Nel suo primo scritto filosofico importante, il Monologion, Anselmo si pone dalla prospettiva di chi ignori la rivelazione cristiana o non vi creda e, adottando tale prospettiva, intende dimostrare l'esistenza di Dio e dedurre alcuni dei suoi attributi per mezzo di procedimenti razionali a posteriori (cioè basati su evidenze tratte dal mondo sensibile e sviluppate con procedimenti razionali).[3][53]  La dimostrazione dell'esistenza di Dio proposta da Anselmo nel Monologion è di ascendenza platonica,[58] ed è ispirata almeno in parte al neoplatonismo di Agostino d'Ippona.[59] Il fondamentale presupposto di tale prova infatti, a parte la constatazione che le cose del mondo sono caratterizzate da gradi diversi di perfezione, è la convinzione che se le cose sono più o meno perfette (o comunque presentano una certa caratteristica positiva con grado maggiore o minore di intensità), ciò dipende dal fatto che tali cose partecipano in maniera più o meno diretta di un ente assolutamente perfetto (o che comunque possiede quella certa caratteristica positiva al massimo grado).[59]   Iniziale miniata da un manoscritto del Monologion risalente al XII secolo. Tale idea viene sviluppata, per esempio, a proposito del bene: dal momento che possiamo constatare che esistono nella realtà molti beni, diversi tra loro e buoni in grado maggiore o minore, dobbiamo secondo Anselmo dedurne con certezza che essi sono buoni in virtù di un solo principio del bene assoluto, cioè a causa della loro partecipazione in diverso modo e in diverso grado di un unico sommo bene; tale bene è buono in sé e per sé, mentre ogni altra cosa è buona riferendola a quel bene che si colloca a un livello gerarchicamente superiore a ogni altro bene.[58]  Dopodiché, avendo dimostrato che deve esistere un ente che corrisponde al sommo bene, Anselmo applica il medesimo procedimento ad attributi come la perfezione e la stessa esistenza, così da provare che deve esistere qualcosa caratterizzato da assoluta perfezione e assoluta pienezza d'essere (e dal quale tutte le creature finite ricavano la loro misura di perfezione e di esistenza).[58]  Secondo Anselmo, tanto l'ente sommamente buono, quanto quello caratterizzato dal sommo grado di esistenza, quanto quello sommamente perfetto, coincidono con il Dio della rivelazione cristiana, la cui esistenza è quindi provata a partire da dati di esperienza come la gradazione del bene e della perfezione, e come il processo di causazione degli enti da un essere primo.[60]  La seconda parte, quantitativamente preponderante, del Monologion è dedicata all'analisi degli attributi, cioè delle caratteristiche, di Dio.[61] Alcuni di questi attributi divini (come la bontà, la perfezione e il ruolo di causa incausata di tutti gli esseri finiti) sono conseguenze immediate dell'argomento appena esposto. Tuttavia Anselmo intende spingersi oltre nella definizione degli attributi di Dio, e sostiene che la perfezione divina implica, per esempio, anche le caratteristiche di eternità e intelligenza.[58]  Alla luce del carattere creativo di Dio, dal quale dipende tutto l'esistente, Anselmo propone poi una rielaborazione della dottrina del Logos (Verbo),[15] tradizionalmente inteso come corrispondente alla seconda persona della Trinità (il Figlio) e come intermediario tra Dio e il Mondo, così come nella filosofia neoplatonica era intermediario tra l'Uno e il Mondo.[62] Anselmo giunge alla conclusione che ogni ente creato dal nulla esisteva, prima di essere creato, nella mente di Dio.[15] Pertanto Anselmo sostiene che nella mente di Dio esistono i modelli ideali su cui sono costruiti tutti gli enti finiti che risultano dalla creazione, e che la creazione consiste nell'atto con cui Dio pronuncia fra sé e sé il Verbo che è fondamento di tutte le creature.[58]  Anselmo, discutendo dell'analogia che sussiste tra il Verbo divino e il pensiero (o Logos) umano, sostiene che gli uomini conoscono le cose per mezzo di immagini delle cose stesse, e che tali immagini sono tanto più veritiere quanto più aderiscono alla cosa; simmetricamente, in Dio esiste il Verbo, che costituisce l'essenza delle cose, e le cose sono modellate su di esso.[15] La terza persona della Trinità, lo Spirito Santo, viene identificata con la facoltà umana dell'amore. In Dio, afferma Anselmo, sussistono tre distinte persone che formano una sola essenza e una sola divinità;[15] questo può essere reso più comprensibile alla ragione per mezzo di un'analogia di origine agostiniana: come l'anima umana, pur essendo assolutamente unitaria, si compone di tre facoltà (memoria, intelligenza e volontà), così Dio, pur essendo assolutamente unitario, si compone di tre persone (Padre, Figlio e Spirito Santo).[63]  L'autore analizza poi altri modi per descrivere la sostanza divina, e propone di considerarla come ciò che c'è di più grande, di sommo, cioè maggiore di tutte le creature; o, ancora, come ciò che presenta tutte e sole le caratteristiche che è meglio avere piuttosto che non avere.[15] Con ciò, Dio comunque possiede tali caratteristiche in virtù di sé stesso, e non di altri principi; inoltre la molteplicità di tali caratteristiche non significa che Dio sia composito, dal momento che nell'essenza divina ogni attributo coincide con tutti gli altri e con la stessa essenza divina in una suprema unità e semplicità.[15]  Esistenza di Dio e attributi divini dimostrati a priori: il Proslogion Magnifying glass icon mgx2.svgProslogion e Argomento ontologico.  Statua di Anselmo ad Aosta, in via Xavier de Maistre. Sullo sfondo, i campanili della cattedrale di Aosta; a destra si intravede il seminario maggiore. (la) «Domine, non solum es quo maius cogitari nequit, sed es quiddam maius quam cogitari possit. Quoniam namque valet cogitari esse aliquid huiusmodi: si tu non es hoc ipsum, potest cogitari aliquid maius te; quod fieri nequit.» «O Signore, tu non solo sei ciò di cui non si può pensare nulla di più grande, ma sei più grande di tutto quanto si possa pensare; poiché infatti è lecito pensare che esista qualcosa di simile. Se tu non fossi tale, si potrebbe pensare qualcosa più grande di te, ma questo è impossibile.»  (Anselmo, Proslogion seu alloquium de Dei existentia, 15, 235C) Anselmo rimase parzialmente insoddisfatto della dimostrazione dell'esistenza di Dio e dell'indagine sulle sue caratteristiche per come esse erano state condotte nel Monologion: egli aspirava infatti a costruire un argomento più semplice e interamente autosufficiente in grado di portare alle stesse conclusioni. Un simile argomento, ricercato affannosamente e infine trovato[64], venne esposto nel Proslogion (il cui titolo, originariamente, era stato Fides quaerens intellectum, cioè «la fede in cerca della comprensione»)[65][66].  L'argomento del Proslogion (noto anche, secondo una denominazione attribuitagli da Immanuel Kant, come argomento ontologico)[8] è del tipo a priori: è cioè basato su una definizione di Dio ricavata dalla fede e sviluppata secondo un procedimento razionale che aspira ad essere valido in sé, anteriormente a ogni dato di esperienza[66].  Schema logico dell'argomento ontologico Chi nega l'esistenza di Dio (come lo stolto del Salmo: «che disse in cuor suo: Dio non esiste».) deve avere il concetto di Dio non si può infatti negare la realtà di qualcosa che non si pensa neppure, per negarla devo pensarla avere il concetto di Dio significa: pensare un essere di cui non si può pensare nulla di maggiore ("aliquid quo nihil maius cogitari possit") ma poiché «si potrebbe pensare un ente che, oltre agli attributi riconosciuti proprî di Dio, possedesse anche quello dell'esistenza, e quindi fosse maggiore di lui.»[67] questa, allora, sarebbe un'idea maggiore di quella di Dio quindi, ciò di cui non possiamo pensare nulla di maggiore, essendo il maggiore di tutti gli enti, non può non avere la caratteristica dell'esistenza: esistere senza dubbio sia nell'intelletto sia nella realtà ("existit ergo procul dubio aliquid quo maius cogitari non valet, et in intellectu et in re")[68] L'argomentazione di Anselmo prende dunque le mosse dalla definizione di Dio come «ciò di cui non può essere pensato niente di maggiore». Egli sostiene che chiunque, incluso lo «stolto» che, secondo i Salmi (14, 1 e 53, 1) «disse in cuor suo: Dio non esiste»[65], comprende tale definizione, anche se non comprende che l'oggetto di tale definizione esiste; comunque, nel comprenderla, si forma mentalmente il concetto di un ente sommamente grande, del quale sia impossibile pensare qualcosa di maggiore.  Ora, sostiene Anselmo, il concetto di «ciò di cui non può essere pensato niente di maggiore» esiste nella mente dello «stolto» (o di chiunque altro) come nella mente del pittore esiste l'immagine di qualcosa che egli è in procinto di disegnare, ma che ancora non esiste al di fuori del suo pensiero.  Tuttavia, qualcosa che esiste solamente nella mente di qualcuno non è tanto grande quanto qualcosa che esiste anche nella realtà esterna, nel mondo effettivo delle cose: pertanto ciò di cui non può essere pensato nulla di maggiore non sarebbe tale se non fosse dotato di un'esistenza effettiva anche fuori dalla mente di chi si forma quel concetto. Il che conduce alla conclusione per cui esiste necessariamente qualcosa di cui non può essere pensato niente di maggiore[65][66], e che non può essere pensato se non come esistente[15]. Si tratta in fondo di una dimostrazione per assurdo[69], basata in gran parte sull'approccio apofatico della teologia negativa[70], in base al quale è doveroso per la mente umana riconoscere l'esistenza di Dio come suo limite[71].  (LA) «Sic ergo vere es, Domine, Deus meus, ut nec cogitari possis non esse; et merito. Si enim aliqua mens posset cogitare aliquid melius te, ascenderet creatura super Creatorem.» «Dunque esisti in modo così vero, o Signore, mio Dio, che non si può neppure pensare che non esisti. E giustamente. Se infatti una mente potesse pensare qualcosa migliore di te, la creatura si eleverebbe sopra il Creatore.»  (Anselmo, Proslogion seu alloquium de Dei existentia, 3, 228B-228C) Come il Monologion, il Proslogion contiene numerosi capitoli nei quali l'autore indaga gli attributi di Dio: partendo dalla definizione della divinità come ciò di cui non può essere pensato il maggiore, Anselmo conclude che Dio deve essere necessariamente l'essere supremo, e quindi supremamente buono, giusto e felice[72]. Sempre in relazione al Monologion, risulta ora tanto più giustificata l'idea che Dio debba essere caratterizzato da tutte le peculiarità che è preferibile avere piuttosto che non avere.[72]  In effetti risulta che un Dio come questo, che (in accordo anche con gli insegnamenti della Bibbia) è necessariamente onnipotente, deve essere impossibilitato a fare il male perché è anche assolutamente benevolo; questo non è però contraddittorio dal momento che, per Anselmo, la capacità di fare il male non è in realtà una vera potenza, quanto piuttosto un'impotenza (il che è coerente con la sua interpretazione del male come privazione, cioè come pura negazione dell'essere e del bene, non dotata di un'autonoma positività ontologica). Non deve quindi stupire, secondo lui, che Dio non possa fare il male o contraddirsi[72].  Nei capitoli conclusivi del testo, Anselmo ribadisce e approfondisce l'analisi degli attributi divini iniziata nel Monologion, aggiungendo inoltre un accenno all'identità di esistenza ed essenza in Dio il quale prefigurava, anche se da lontano, i risultati che avrebbe raggiunto più tardi Tommaso d'Aquino[73].  Le critiche di Gaunilone all'argomento ontologico e la risposta di Anselmo (LA) «Gratias ago benignitati tuae et in reprehensione et in laude mei opusculi. Cum enim ea, quae tibi digna susceptione videntur, tanta laude extulisti, satis apparet, quia, quae tibi infirma visa sunt, benevolentia, non malevolentia reprehendisti.» «Ringrazio della tua benevolenza, sia per le critiche sia per le lodi del mio opuscolo.[74] Poiché infatti hai tanto lodato quelle parti che ti sembravano degne d'essere accettate, risulta chiaro che hai censurato per benevolenza, non per malevolenza, quelle che ti sono apparse deboli.»  (Anselmo, Sancti Anselmi liber apologeticus contra Gaunilonem respondentem pro insipiente, 10, 260B) Schema logico delle obiezioni di Gaunilone e la risposta di Anselmo nel suo Libro a difesa dello sciocco il monaco Gaunilone obietta:  in realtà l'ateo ha in mente solo la parola Dio non l'idea di Dio di cui è impossibile per la sua infinitudine avere una conoscenza sostanziale: ma anche ammesso di avere un'idea perfetta questo non significa che poi vi debba necessariamente corrisponderne l'esistenza: se così fosse basterebbe pensare alle mitiche perfette Isole Fortunate perché poi queste esistessero nella realtà. S.Anselmo controbatte che il suo argomento vale solo per quella realtà perfettissima che è Dio, in grado cioè non solo di riempire, ma di trascendere il pensiero stesso che lo ospita. Dio infatti non è soltanto «ciò di cui non si può pensare nulla di più grande» (id quo maius cogitari nequit), ma è anche «più grande di quel che si possa pensare» (quod maior sit quam cogitari):[75] l'ammissione dei propri limiti costringe l'intelletto umano a riconoscere una realtà ontologica che lo sovrasta.[76] Per spiegare come sia possibile che lo «stolto» neghi l'esistenza di Dio, nel Proslogion Anselmo afferma che chiunque dica «Dio non esiste» in realtà proferisce suoni completamente vuoti, parole di cui non comprende il senso, fermandosi ai segni senza cogliere i significati[77]. Gaunilone, un monaco benedettino contemporaneo di Anselmo, usò un argomento simile a questo per attaccare la prova a priori del Proslogion[78] in un testo intitolato Liber pro insipiente (Libro a difesa dello stolto); a Gaunilone Anselmo rispose nel Liber apologeticus adversus respondentem pro insipientem (Libro apologetico contro la risposta in difesa dello stolto) e da allora, per volontà dello stesso Anselmo, il Proslogion venne sempre riprodotto con il corredo di questa doppia appendice[79].  L'argomentazione del Liber pro insipiente, articolata su diversi punti e accompagnata da alcuni esempi, si può sintetizzare nell'osservazione di Gaunilone secondo cui il fatto di avere nell'intelletto un concetto come quello di «ciò di cui non può essere pensato il maggiore», e di pensarlo come esistente, è profondamente diverso dal fatto che ciò di cui non può essere pensato il maggiore effettivamente esista: egli cioè sostiene che non si può passare direttamente dal piano del pensiero al piano dell'esistenza[80]. Aggiunge inoltre che quello di «ciò di cui non può essere pensato il maggiore» è un concetto inaccessibile a un intelletto umano, sostanzialmente superiore alle sue forze: chi ascolta e comprende tale concetto, afferma Gaunilone, non lo comprende in realtà più di quanto secondo Anselmo lo «stolto» comprende l'espressione «Dio non esiste»[78]; quindi pensare Dio come ciò di cui non può essere pensato il maggiore è possibile solamente a posteriori, e cioè questa concezione di Dio (di per sé giudicata legittima) deve essere sviluppata a partire da argomenti simili, per esempio, a quelli platonizzanti del Monologion[80].  Nella sua risposta alle obiezioni di Gaunilone (il quale peraltro loda il Monologion e tutte le parti del Proslogion diverse dall'argomento ontologico) Anselmo si stupisce di ricevere critiche da qualcuno che è uno stolto ma un cattolico. Rispondendo quindi «al cattolico», Anselmo ravvisa nelle parole di Gaunilone una certa confusione tra «ciò di cui non può essere pensato il maggiore», limite innegabile del pensiero, e «la cosa più grande di tutte», che essendo un concetto impreciso può ancora essere negato senza cadere in contraddizione. Nella parte principale della sua replica alla replica Anselmo aggiunge che «ciò di cui non può essere pensato il maggiore» non è un concetto incomprensibile per l'intelletto umano,[81] a meno di fingere di non capire il concetto stesso che si vuole negare, «perché se anche ci fosse qualcuno abbastanza sciocco da dire che ciò di cui non si può pensare il maggiore non è niente, non sarà così impudente da dire di non riuscire a capire o pensare quel che sta dicendo. O se invece si trovasse qualcuno di questo genere, non solo il discorso è da respingere (respuendus), ma lui stesso da coprire di sputi (conspuendus)»[82]. L'esperienza delle cose del mondo, del resto, rende evidente che gli enti posseggono le diverse perfezioni in diversi gradi e che, dunque, è possibile stabilire una gerarchia di grandezza in cui di ogni cosa è possibile pensare qualcosa di maggiore finché si giunge a qualcosa di cui, appunto, non si può pensare niente di maggiore[83]. È stato fatto notare che con questa operazione, però, Anselmo dà parzialmente ragione a Gaunilone e riconduce la prova a priori del Proslogion alla prova a posteriori del Monologion, ammettendo che il concetto di «ciò di cui non può essere pensato il maggiore» si origina dall'esperienza[84][85]. In tal modo l'autosufficienza della prova del Proslogion può risultare compromessa, ma viene stabilita tra esso e il Monologion una continuità che fa delle due opere altrettanti momenti di un unico argomento per l'esistenza di Dio, in cui tale esistenza viene dimostrata inizialmente a partire da osservazioni empiriche, assicurando nel contempo la legittimità della definizione di Dio come «ciò di cui non può essere pensato il maggiore», e quindi viene dimostrato che a partire da tale definizione risulta che Dio non è concepibile se non come dotato dell'esistenza[72][84].  Anselmo dialettico: il De grammatico e gli altri scritti logici L'aspetto del pensiero di Anselmo legato alla logica (la quale nel Medioevo era indicata indifferentemente come dialettica o anche come grammatica, in una prospettiva paragonabile a quella della moderna filosofia del linguaggio) ha un'importanza non trascurabile, anche se tale importanza è stata rivalutata solo dalla critica della seconda metà del XX secolo[84].   Anselmo ritratto in una vetrata inglese. Anselmo considerava la logica uno strumento utile per il teologo: già nel Monologion il suo approccio si era caratterizzato per l'attenta disamina delle possibili ambiguità legate a espressioni come «[esistenza] per sé» e «[creazione dal] nulla», e anche nel Proslogion Anselmo aveva compiuto operazioni simili; ora, nel De grammatico, egli analizza nello specifico il problema della paronimia, ossia dello scambio di due parole dal suono simile ma prive di attinenza nel significato: si trattava di capire se la parola "grammatico" (così come tutti gli altri «denominativi», cioè quelle parole che derivano da una radice da cui differiscono solo per la desinenza, in questo caso "grammatica"), corrispondano a sostanze o qualità[86].  In effetti, sostiene Anselmo, pare ugualmente possibile sostenere che "grammatico" sia sostanza (essenza) o che sia qualità (accidente):[87] nel primo caso perché "grammatico" indica un uomo, e a ogni uomo corrisponde una sostanza; nel secondo perché "grammatico" indica una particolare caratteristica dell'uomo in questione. Anselmo afferma però che non ci troviamo di fronte a una contraddizione, dal momento che i due modi di intendere la parola si riferiscono a due punti di vista ben diversi: è infatti necessario, prosegue, distinguere la significatio di un termine, cioè il piano del suo significato, dalla sua appellatio, cioè il piano del suo riferimento. Pertanto "grammatico" è una significazione della grammatica, ma il suo riferimento è all'uomo[88]. Inoltre, aggiunge Anselmo, per se (cioè in modo diretto, cioè sul piano della significazione) la parola "grammatico" significa una qualità, ma può anche fare riferimento per aliud (cioè in modo indiretto, cioè sul piano del riferimento) a una sostanza[15][88]. Alcuni commentatori hanno rilevato che, con questo, Anselmo prefigurava la teoria della suppositio che sarebbe stata approfondita dai dialettici del XIII secolo e successivi[88].  In altre opere di carattere logico, abbozzate da Anselmo ma mai stese in forma compiuta, egli analizzava altre possibili ambiguità linguistiche legate all'uso di certe parole in filosofia e teologia: considerò con particolare attenzione i concetti e i termini necessitas ("necessità"), potestas ("potenza", "capacità"), voluntas ("volontà"), facere ("fare", ma anche "far fare", "patire") e aliquid ("qualcosa")[89].  Il problema del male, dell'onnipotenza divina e del libero arbitrio nella trilogia sulla libertà Nella cosiddetta «trilogia della libertà», composta dai dialoghi De veritate, De libertate arbitrii e De casu diaboli, Anselmo analizza le questioni etiche legate alla rettitudine[19] da un punto di vista teologico-dogmatico (analogo a quello che avrebbe adottato anche nelle opere successive) piuttosto che strettamente filosofico (come era stato invece quello adottato nei testi precedenti)[90].  La scelta della forma dialogica, debitrice in qualche misura della tradizione platonica ma non priva di una sua originalità d'interpretazione, era dovuta all'esigenza di rendere più vivace la discussione dei problemi teologici e al vantaggio di poter risolvere dialetticamente le difficoltà che via via si presentavano; essa inoltre corrispondeva al modo in cui Anselmo teneva le sue lezioni, le quali consistevano sostanzialmente in conversazioni tra gruppi ristretti di discenti legati da rapporti reciproci di confidenza che facilitavano il confronto di idee[91].  Il De veritate Magnifying glass icon mgx2.svgDe veritate (Anselmo d'Aosta). Il De veritate (primo in ordine logico, anche se non è chiaro in che ordine cronologico furono composte le tre opere) analizza in particolare il rapporto sussistente tra la virtù morale, la verità e la giustizia.[19]  Anselmo propone una teoria della verità in cui sono compresenti una matrice platonica (per cui la verità delle cose e delle affermazioni particolari risiede nella loro partecipazione alla verità in sé) e la tesi della verità come corrispondenza tra discorso e realtà (per cui la verità sta nell'aderenza delle asserzioni allo stato delle cose); la nozione di verità per come la intende Anselmo, quindi, è particolarmente ampia proprio perché per l'appunto essa è ricondotta sia alla corrispondenza di linguaggio e realtà sia all'aderenza di un'azione al suo fine teleologicamente proprio (che nel caso del linguaggio è esattamente quello di significare la realtà);[8] traducendosi in un più ampio concetto di rettitudine, la verità può quindi essere propria anche della volontà (la volontà vera è volontà retta) e delle azioni (le azioni vere sono azioni buone), oltre che dei sensi, delle essenze stesse delle cose eccetera.[8][15]  Tuttavia, aggiunge Anselmo, dal momento che tutte le cose veridiche devono trarre la loro verità da una verità suprema che, evidentemente, viene identificata con Dio, e dal momento che Dio è ugualmente fonte di tutta la verità e di tutto l'essere, tutto ciò che esiste deve esistere veridicamente e, quindi, rettamente; è qui che, data l'esperienza comune a tutti dell'esistenza del male, la questione acquisisce la sua importanza sul piano etico, dal momento che sorge per l'appunto il problema del male.[15]  La questione di come sia possibile che qualcosa di male accada a causa di (o nonostante) un Dio buono è risolta nel De Veritate osservando che, se i due termini opposti vengono considerati sotto rispetti diversi, l'apparente contraddizione tra l'esistenza del male e la bontà di Dio non è realmente problematica: Dio può permettere che il male esista senza causare il male, e d'altro canto quello che risulta malvagio in una prospettiva umana non è necessariamente malvagio in senso proprio. Anselmo sostiene che, come è possibile che un uomo riceva a buon diritto delle percosse benché per un certo altro uomo sia illegittimo somministrargliele, così è in generale possibile che essere l'oggetto passivo di un'azione sia male mentre esserne il soggetto attivo sia bene o viceversa; e, quindi, il problema di conciliare l'esperienza del male con un Dio onnipotente e buono si risolve se si considera che Dio e il male vengono considerati da due differenti punti di vista.[15]  In conclusione, Anselmo chiama verità quel particolare tipo di rettitudine che è percettibile solo alla mente; benché infatti in generale i concetti di verità, giustizia e rettitudine siano interscambiabili la verità ha un carattere proprio di retta intellezione, mentre la giustizia è legata più strettamente alla rettitudine della volontà.[15]  La rettitudine della volontà è poi direttamente collegata con l'aderenza del volere dell'uomo a quello di Dio, e la verità stessa ha la sua unità garantita dalla sua relazione con la verità suprema e assoluta di Dio: l'apparenza di molte verità particolari separate e indipendenti non toglie che ciascuna di esse sia vera unitamente a tutte le altre nella partecipazione a Dio.[15]  Il De libertate arbitrii Magnifying glass icon mgx2.svgDe libertate arbitrii. Il De libertate arbitrii è il testo della trilogia dedicato specificamente alla libertà della volontà dell'uomo in relazione alla sua facoltà di compiere il bene o di peccare e, in generale, al problema della grazia e del male.[92]  Fin dalle prime pagine dell'opera Anselmo rifiuta la definizione della libertà come la possibilità di scegliere senza condizionamenti se peccare o non peccare:[93] se, infatti, la facoltà di peccare rientrasse in tale definizione, la libertà vedrebbe irrimediabilmente compromesso il suo valore positivo (se, cioè, fosse la libertà a rendere possibile il peccato, essa non sarebbe più un carattere buono); e ne risulterebbe inoltre la conclusione assurda che Dio, non potendo fare il male (cioè non potendo peccare), non sarebbe libero.[72][92]  Anselmo sostiene al contrario che il peccato è dovuto non tanto alla libertà in sé quanto a una degenerazione della libertà; e aggiunge, alla luce di queste considerazioni, che la più opportuna definizione di libertà sarebbe quella per cui essa è «potere di conservare la rettitudine della volontà per amore della rettitudine stessa».[94] La libertà è dunque sostanzialmente la facoltà che ci consente non di perseguire ciò che vogliamo senza condizionamenti, ma di adeguare la nostra volontà a ciò che è giusto che noi vogliamo (a ciò che, in altre parole, sarebbe nostro dovere volere).[94] La libertà dunque è tanto più libera (tanto più corrispondente all'ideale di libertà) quanto più è retta.[96] Questo comunque non toglie che la volontà possa cedere a una tentazione: in questo caso essa si rivolgerà al peccato anziché alla grazia e lo farà non per costrizione da parte dei condizionamenti esterni, ma in modo autonomo;[96] tuttavia, stante la definizione che si è data sopra, questo non sarà un esempio di libertà ma un esempio di corruzione della libertà.  Infine Anselmo spiega che, in ogni caso, il modo in cui la libertà della volontà ci consente di volere ciò che è giusto che noi vogliamo (e di volerlo unicamente in virtù del fatto che è giusto che lo vogliamo) è legato strettamente all'intervento divino: in seguito alla caduta, infatti, all'uomo è preclusa la possibilità di agire bene in modo disinteressato con le sue sole forze (e, più in generale, un peccatore è incapace di risollevarsi senza aiuto)[97] ed è dunque solo con l'intercessione della grazia di Dio che la libertà si può esplicare al massimo delle sue potenzialità e può realmente condurre l'uomo verso Dio.[95] In conclusione l'autore propone una distinzione tra la libertà increata e interamente autonoma che è propria di Dio e la libertà creata che gli angeli e gli uomini ricevono da Dio; e ribadisce che la libertà pur imperfetta dell'uomo, aiutata dalla grazia, può e dovrebbe elevarsi a Dio.[98]  Il De casu diaboli Magnifying glass icon mgx2.svgDe casu diaboli. Il De casu diaboli tratta dei problemi legati alla rettitudine e alla libertà con particolare riferimento, come da titolo, alla caduta del diavolo[19] – cioè al momento della narrazione biblica in cui l'angelo Lucifero, avendo ricevuto da Dio una certa misura di esistenza (e dunque di bontà) e una volontà libera (cioè quella facoltà che gli avrebbe consentito di raggiungere la sua piena realizzazione adeguando la sua volontà a quella di Dio) scelse di non perseverare nel conservare la sua volontà aderente a quella divina, lasciò che la sua libertà si corrompesse e abbandonò quindi la rettitudine per tentare di assomigliare a Dio più di quanto fosse suo diritto. Anselmo dunque prende tale esempio come questione paradigmatica per un'analisi dell'origine e della natura del male.[100][101] La sua ricerca prende le mosse ancora una volta da un'attenta analisi logico-linguistica, volta in questo caso a chiarire il significato del termine nihil ("nulla"): afferma Anselmo che tale termine non indica, per il semplice fatto di esistere, una realtà positiva, e che anzi esso significa per negazione (sottraendo una proprietà e non aggiungendola). Il nulla dunque è un ente puramente razionale, perché "nulla" indica non tanto una realtà quanto la negazione di una realtà; ciò avviene, secondo un esempio riportato da Anselmo stesso, analogamente al modo un cui si dice di qualcuno che è cieco anche se la cecità non è tanto una facoltà quanto la negazione della facoltà della vista.[101]  Anselmo fa così propria la concezione, già espressa da un Agostino che l'aveva a sua volta mutuata dal neoplatonismo di Ambrogio,[102] del male come privazione, ovvero nega la positività ontologica del male stesso: come bisogna parlare del nulla come negazione dell'esistente e della cecità come negazione della vista, bisogna parlare del male come mancanza di bene. Dunque Lucifero, cui Dio aveva dato la facoltà di scegliere se perseguire la giustizia (adeguandosi alla volontà divina) o se perseguire la felicità (ribellandosi e tentando di sostituirsi a Dio) abbandonò la rettitudine e compì un moto di allontanamento da Dio; compì cioè un'ingiustizia che, però, non era nient'altro che una negazione della giustizia. Prendendo le mosse dall'esempio del diavolo, Anselmo dunque sviluppa la sua riflessione relativamente all'uomo: l'essere umano è creato da Dio ed è dotato da Dio stesso di una volontà libera, la cui piena realizzazione si ha nella conservazione della rettitudine – cioè nell'adesione alla legge che Dio, con un atto di grazia, dona all'uomo. Tuttavia al momento del peccato originale anche l'uomo, come già il diavolo, corrompe la sua libertà; e non gli è possibile tornare ad agire rettamente se non grazie a un nuovo dono di grazia da parte di Dio.[105] Come Anselmo avrebbe approfondito nel De concordia la volontà, che essendo libera ha facoltà (in potenza) di perseguire la rettitudine, non può di fatto (in atto) perseguire tale rettitudine se non in virtù del fatto di essere retta, e dunque il ruolo della grazia concessa da Dio è fondante. Un capolettera decorato da un manoscritto del Cur Deus homo del XII secolo. La necessità di un Dio-uomo redentore: il Cur Deus homo Magnifying glass icon mgx2.svg Cur Deus homo. Nel dialogo in due libri Cur Deus homo Anselmo spiega come, malgrado l'impossibilità dell'uomo di riparare al peccato di Adamo ed Eva contro Dio, Dio stesso si è riconciliato con l'umanità facendosi uomo.[106] Il testo contiene anche, come è reso inevitabile dal suo soggetto, un'apologia del dogma cristiano dell'incarnazione di Dio (che, per l'appunto, si è fatto uomo in Gesù) contro le critiche di ebrei e musulmani; tuttavia non è questo il suo tema principale, e in effetti il Cur Deus homo è un testo di ampio respiro che di fatto conclude, insieme al successivo De concordia, l'esposizione della visione teologica di Anselmo.Il testo si apre con una chiarificazione metodologica, in cui Anselmo ribadisce la sua posizione sul rapporto tra ragione e fede: come già si era riscontrato nel Monologion, e in accordo con la consueta dinamica dell'intellectus fidei (comprensione della fede), egli tratta sempre la fede come il necessario punto di partenza di ogni riflessione teologica ma giudica «negligenza» astenersi poi dal portare a compimento razionalmente tale riflessione. Dopodiché, Anselmo procede a spiegare il carattere necessario della volontà divina: Dio, sostiene l'autore, è dotato di una volontà spontanea e autonoma (non è cioè soggetto né a costrizioni né a impedimenti) ma tale volontà è talmente rigida nella sua assoluta immutabilità da far sì che essa possa essere considerata necessaria; si può dire, ad esempio, che è necessario che Dio non menta perché la volontà di Dio, tesa per sua stessa natura verso la verità (e da cui anzi la verità stessa trae la sua natura) è invariabile e incorruttibile nella sua costanza, e non può in alcun modo rivolgersi verso la menzogna.[109] Si è già visto che questa non può secondo Anselmo essere considerata una limitazione della potenza divina.  È proprio per via della necessità e assoluta immodificabilità del piano che Dio aveva predisposto per l'uomo all'inizio del tempo che, in seguito alla perdita dell'immortalità dovuta alla caduta di Adamo ed Eva, si è reso necessario un intervento di Dio per redimere l'uomo dal peccato originale e ripristinare tale immortalità (sotto forma della possibilità di vivere in eterno nell'altra vita).[110]  Dopodiché, risulta necessario che la remissione da parte di Dio dei peccati dell'uomo passi attraverso un'effettiva espiazione: se infatti Dio si riconciliasse con l'uomo con un atto di pura misericordia, senza che il peccato ricevesse una giusta e proporzionata punizione, il disordine generato dal peccato non verrebbe ricondotto all'ordine e, in generale, la legalità dell'universo morale umano e divino risulterebbe compromessa.[111] Bisogna dunque che l'uomo restituisca a Dio l'onore che peccando gli ha negato – anche se resta inteso che le azioni dell'uomo non aggiungono né tolgono nulla a Dio, dato che è impossibile privare dell'onore un Dio che coincide con lo stesso onore e con tutte le altre qualità positive: restituire a Dio l'onore che gli è dovuto significa semplicemente ripristinare la sottomissione, venuta meno con il peccato originale, della volontà umana a quella divina. Tuttavia l'uomo, che anche prima della caduta in quanto creatura era incapace di compiere il bene se non in virtù della partecipazione al bene supremo di Dio, non può espiare la sua colpa da solo: gli è impossibile rendere a Dio la giusta soddisfazione, perché la bontà di ogni azione di riparazione sarebbe comunque dovuta a Dio. È così che Anselmo dimostra che il salvatore dell'uomo deve necessariamente essere di natura divina; quindi egli procede ad argomentare che, per la precisione, egli deve essere un Dio-uomo.[112]  Risulta infatti che a rendere soddisfazione a Dio non può essere qualcuno che sia inferiore a Dio, e d'altra parte è necessario che ad espiare il peccato dell'uomo sia un uomo: pertanto le caratteristiche che le scritture attribuiscono a Gesù, vero uomo e vero Dio, partecipe in ugual modo e nello stesso tempo di entrambe le nature, sono esattamente quelle necessarie a spiegare razionalmente la redenzione dell'umanità[15] dal momento che, come scrive il filosofo Giuseppe Colombo, «Dio (per sé preso) non deve nulla a nessuno e l'uomo (per sé preso) non può nulla». Dunque Gesù, non macchiato dal peccato in virtù della sua natura divina e perciò privo di doveri e di debiti nei confronti di Dio, offrì volontariamente e liberamente la sua vita innocente a Dio stesso e così facendo, essendo uomo, espiò il peccato originale dell'umanità. La compatibilità di prescienza divina e libertà umana: il De concordia Il De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio, l'ultima opera di Anselmo, è volto a dimostrare la compatibilità della prescienza divina, oltre che della predestinazione e della grazia, con il libero arbitrio dell'uomo. Un manoscritto del nord della Francia del De concordia, risalente alla metà del XII secolo. Il problema dell'apparente inconciliabilità della prescienza e della predestinazione divina con la libertà umana, che risulta dal fatto che pare impossibile prevedere (e a maggior ragione predeterminare) un fatto senza far venir meno il suo carattere libero e non necessario, è risolta da Anselmo con un duplice argomento. In primo luogo, egli osserva, bisogna distinguere la necessità ontologica da quella logica, dal momento che quella ontologica ha una priorità su quella logica: se infatti qualcosa è necessario ontologicamente (come il sorgere del sole) allora lo è anche logicamente (nel momento in cui il sole sorge, sorge necessariamente); tuttavia se qualcosa è necessario logicamente (nel momento in cui avviene, avviene necessariamente) può anche non essere necessario ontologicamente (è il caso, ad esempio, di una rivolta popolare).[115] In secondo luogo Anselmo propone una tesi già affermata da Agostino e da Boezio: la nostra concezione di predestinazione e predeterminazione è limitata alla nostra coscienza temporale delle priorità cronologiche, ma Dio si colloca in un'eternità al di fuori e al di sopra del tempo, in cui non «nulla è passato o futuro, ma tutto è simultaneamente e senza divenire»; pertanto, Dio conosce e determina gli eventi che per noi sono passati, presenti e futuri da una prospettiva sovratemporale in cui tali eventi sono tutti simultanei; stando così le cose, non c'è contraddizione tra il fatto che egli conosca o determini un evento libero in quanto libero (allo stesso modo di come vede o determina eventi necessari in quanto necessari). Il problema di conciliare la grazia di Dio con il libero arbitrio invece sorge dalla contrapposizione di coloro che da un lato, «superbi», considerano la virtù e quindi la salvezza suscettibili di essere raggiunte dalla sola libera volontà dell'uomo; e di coloro che, dall'altro lato, attribuiscono così tanta importanza alla grazia divina nella redenzione dell'uomo da negare addirittura la sua libertà.[117] Anselmo assume nella controversia una posizione intermedia, in cui cioè grazia e libertà vengono armonizzate: egli sostiene infatti che, come si era già visto nel De casu diaboli, per agire rettamente è necessario volere rettamente, e per volere rettamente è necessaria una retta volontà; tuttavia l'uomo non può darsi da solo tale rettitudine della volontà, poiché (mentre si può autonomamente conservare la rettitudine della volontà quando la si ha) non si può volere la rettitudine con il solo libero arbitrio quando non si ha una volontà retta;[118] e dunque se è vero che è Dio, per grazia, a dare all'uomo questa facoltà, è vero anche che sta alla libertà dell'uomo conservarla – i due aspetti non sono quindi contraddittori, bensì complementari.[117]  Il testo prosegue con un'analisi dei significati della parola "volontà" e delle sue interazioni con il concetto di giustizia, e si conclude con una ricapitolazione dei punti già trattati: l'autore ribadisce che la volontà, creata come ente positivo e quindi di per sé orientata a Dio e alla conservazione della sua originaria bontà, è stata corrotta dalla deviazione del volere dell'uomo per un cattivo uso della libertà; pertanto la volontà umana ha perso la rettitudine necessaria a volere rettamente, e ha bisogno che tale rettitudine sia ripristinata dalla grazia divina prima di poter ricominciare ad agire con giustizia, preservando grazie alla libertà la rettitudine della sua volontà.[118]  Altri scritti  Miniatura inglese del XII secolo di un capolettera delle Orationes sive meditationes. Anselmo d'Aosta fu autore di diversi altri scritti di carattere teologico, ma pur sempre animati da uno spirito filosofico: l'Epistola de incarnatione Verbi e il successivo De processione Spiritus Sancti trattavano del problema della processione dello Spirito Santo e delle modalità della sua incarnazione; il De conceptu virginali et de peccato originali analizzava le questioni dottrinali dell'Immacolata Concezione e del peccato originale, e inoltre ripercorreva ragionamenti già portati avanti nelle opere precedenti; a ciò si aggiungono meditazioni, preghiere e opuscoli minori, oltre a una serie di frammenti provenienti da un'opera non conclusa e a un De moribus (Sui costumi [morali]) in parte spurio che tratta delle affezioni dell'anima.[15]  Le preghiere scritte da Anselmo sono raccolte in un'opera nota come Orationes sive meditationes (Preghiere ovvero meditazioni); esse, scritte lungo tutta la vita dell'autore dal periodo di Bec all'episcopato inglese, costituiscono un ulteriore esempio dell'ideale anselmiano di comprensione della fede: benché orientate più alla contemplazione e al raccoglimento spirituale che alla vera e propria filosofia o teologia, il loro scopo è infatti quello di suscitare nel lettore quel sentimento rivolto verso la verità e la rettitudine che è necessario presupposto tanto della teoresi quanto della stessa vita buona.[119]  Di Anselmo si è poi conservato un epistolario particolarmente significativo, che testimonia in modo efficace sia della sua personalità che della sua figura pubblica: risulta infatti chiaramente, da una parte, l'affetto, la carità, la sensibilità e la ferma pazienza che Anselmo infondeva nelle lettere ai monaci suoi amici e suoi discepoli; e dall'altra la sua determinazione nelle faticose e a volte frustranti questioni politiche legate alla sua posizione di arcivescovo. Esercita un'influenza estremamente significativa sulla storia della filosofia sia. La sua riflessione giunse a livelli di estrema profondità in tutti i campi in cui si espresse, anche se è forse vero che tali campi furono relativamente pochi. Infatti alla sua filosofia, estremamente raffinata dal punto di vista dialettico, fa difetto un'approfondita analisi del campo della filosofia della natura – la quale sarebbe stata necessaria per poter dire che le riflessioni di Anselmo formano un sistema forganico e completo. La discussione di Anselmo di certi problemi come quelli della libertà e del male, ebbe la sua risonanza nella filosofia, venendo ripresa ad esempio da Riccardo di San Vittore. L’'attenzione di Anselmo per la dimensione logico-dialettica della filosofia fa poi di lui, secondo alcuni critici, un precursore della filosofia scolastica. D'altra parte le pagine più famose della sua opera sono certamente quelle in cui, nel “Proslogion” egli espone il suo argomento a priori per la dimostrazione dell'esistenza di Dio. Esse, considerate un punto di riferimento di importanza capitale per la storia della filosofia, genera una mole di saggi sia critici che apologetici. A  proposito della rilevanza dell'argomento di Anselmo, le sue implicazioni sono tanto ricche che il solo fatto di averle ammesse o rifiutate è sufficiente a determinare il gruppo a cui una filosofia appartiene. Ciò che è comune a tutti coloro che l'ammettono è l'identificazione dell'essere reale con l'essere intelligibile concepito col pensiero. Ciò che è comune a tutti coloro che ne condannano il principio è il rifiuto di porre un problema d'esistenza separato da un dato esistente empiricamente. Dopo Gaunilone, che fu praticamente l'unico a mostrare interesse per il cosiddetto argomento ontologico durante la vita di Anselmo, esso venne citato da Guglielmo d'Auxerre e ripreso criticamente da diversi altri pensatori nel XIII secolo, tra cui i più degni di nota sono Aquino e Fidanza. Aquino contesta la validità di tale dimostrazione, Fidanza la difese. Oltre a Fidanza, altri dottori della Chiesa, tra cui Enrico di Gand e Alberto Magno, accettarono la prova anselmiana. Nel Medioevo anche Alessandro di Hales e Duns Scoto si espressero sull'argomento, entrambi condividendolo, anche se Duns Scoto sostenne che la formulazione sarebbe stata più appropriata se anziché dal concetto di dio Anselmo fosse partito dal concetto d’ente. Cartesio riprese a sua volta l'argomento, considerandolo valido e apprezzando la sua indipendenza da considerazioni di carattere empirico, disinteressandosi però di quegli aspetti della prova anselmiana che implicavano la necessaria trascendenza di Dio come fondamento del suo argomentare.[129] Passando tramite Cartesio, una dimostrazione simile alla prova a priori di Anselmo entrò anche nel sistema metafisico dell'Ethica di Spinoza, il quale dimostrava l'esistenza della sostanza (poi identificata con Dio stesso) sulla base del fatto che, per la definizione stessa della sostanza, la sua essenza implica l'esistenza. Leibniz sostenne la validità in sé della dimostrazione, ma contesta un'apparente leggerezza da parte di Anselmo. Leibniz riconosce infatti che l'autore del Proslogion in effetti dimostra che, SE Dio (inteso come l'essere massimamente perfetto) è possibile, allora è necessario, ma sosteneva che non avesse dimostrato che è possibile se non con argomenti a posteriori. L’argomento fu oggetto di critiche da parte di Hume e soprattutto di Kant: quest'ultimo in particolare, nella Critica della ragion pura, evidenzia che l'esistenza non può essere considerata un predicato (non senza cadere nelle contraddizioni messe in evidenza dai filosofi della scuola di Velia) e che, dunque, non si può dire che l'esistenza è un predicato positivo che un Dio di cui non può essere pensato il maggiore non potrebbe non avere. Hegel torna a difendere la dimostrazione di Anselmo affermando che in Dio essenza ed esistenza coincidono, e che la distinzione tra le due è tipica esclusivamente del mondo materiale. Secondo Russell, l'argomento è ancora alla base del sistema di Hegel e dei suoi seguaci, e riappare nel principio di Bradley. Ciò che può essere e dev'essere, è. La dimostrazione anselmiana piacce inoltre a Gioberti e Rosmini, che se ne appropriarono modificandola. La critica si è rivolta soprattutto all'analisi del rapporto tra fede e ragione negli scritti di Anselmo e si è interrogata sulla misura in cui le singole opere dovrebbero essere considerate filosofiche. Si è inoltre discusso sul valore della logica costruita da Anselmo e sono state analizzate le implicazioni esistenziali, con particolare riferimento al problema del peccato e della salvezza e al concetto di rettitudine. Barth vede Anselmo tra i suoi principali punti di riferimento, ed è stato un attento studioso della sua filosofia. Sono altresì degne di nota le rivisitazioni della prova anselmiana, con l'intento di emendarla da aporie ed equivoci logici, operate da Hartshorne e Malcolm. Di diverso tenore l'analisi di Findlay, che ha mosso una critica serrata, sotto il profilo linguistico, alla nozione di dio come ente assoluto utilizzata da Anselmo. In occasione dell'ottavo centenario della morte di Anselmo, il 21 aprile 1909, papa Pio X promulgò l'enciclica Communium Rerum in cui ne celebra la figura e ne promuoveva il culto. Papa San Giovanni Paolo II nell'enciclica Fides et ratio guardava alla prova ontologica di Anselmo come a un modello di quella complementarità imprescindibile tra fede e ragione, grazie a cui l'armonia fondamentale della conoscenza filosofica e della conoscenza di fede è ancora una volta confermata: la fede chiede che il suo oggetto venga compreso con l'aiuto della ragione; la ragione, al culmine della sua ricerca, ammette come necessario ciò che la fede presenta. Altre opere: “Monologion”; “Proslogion”; “De grammatico”; De veritate”; “De libertate arbitrii”; “De casu diaboli”; “Epistola de incarnatione Verbi”; “Cur Deus homo”; “De conceptu virginali et de peccato originali”; “Meditatio de humana redemptione”; “De processione Spiritus Sancti”; “Epistola de sacrificio azymi et fermentati”; “Epistola de sacramentis Ecclesiae”; “De concordia praescientiae et praedestinationis et gratiae Dei cum libero arbitrio”; “De potestate et impotentia, possibilitate et impossibilitate, necessitate et libertate:; “Orationes sive meditationes Epistolae. Fabio Arduino, Sant'Anselmo d'Aosta, in Santi, beati e testimoni - Enciclopedia dei santi, santiebeati. Probabilmente ad opera dell'arcivescovo Tommaso Becket su delega di papa Alessandro III del 9 giugno 1163 (in Inos Biffi, Anselmo d'Aosta e dintorni: Lanfranco, Guitmondo, Urbano II, Editoriale Jaca Book, 2007,325  Stefano Simonetta, Anselmo d'Aosta, in Franco Trabattoni, Antonello La Vergata, Stefano Simonetta, Filosofia, cultura, cittadinanza – La filosofia antica e medievale, Firenze, La Nuova Italia, Étienne Gilson, La filosofia nel Medioevo, Firenze, La nuova Italia, 1973,290.  Anselmo d'Aosta, La caduta del diavolo, a cura di Elia Giacobbe, Giancarlo Marchetti, Milano, Bompiani, 2006,39,88-452-5670-7. Butler's Lives of the Saints, a cura di Michael Walsh, New York, HarperCollins Publishers, 1991,117,0-06-069299-5. St. Anselm's Proslogion, a cura di M. J. Charlesworth, Notre Dame, University of Notre Dame Press, 2003,9. Greg Sadler, Saint Anselm, su Stanford Encyclopedia of Philosophy. URL consultato il 15 agosto 2012. Peter King, (St.) Anselm of Canterbury (PDF), su UTORweb. 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Thomas Williams, Introduction to the Monologion and Proslogion (PDF), su University of South Florida. URL consultato il 9 settembre 2012.  Tale interpretazione nacque dalla sintesi neoplatonico-cristiana operata da Agostino. Si veda Simonetta,440.  Simonetta,442 e 476.  Colombo,44.  Gilson,296.  Simonetta,477.  G. C., Enciclopedia Italiana (1935), alla voce "argomento ontologico"  Proslogion, cap. II.  Che l'argomento di Anselmo consista principalmente in una reductio ad absurdum è stato evidenziato soprattutto da Alvin Plantinga, esponente della filosofia analitica, in A. Plantinga, The nature of necessity, cap. X,196-221, Oxford University Press, 1974.  Karl Barth fa notare in proposito che Anselmo non attribuisce a Dio alcun contenuto positivo, enunciando il suo argomento più che altro come regola del pensiero, come divieto di pensare in modo inappropriato (K. Bart, Filosofia e rivelazione [1931], trad. di V. Vinay,123 e segg., Silva, Milano 1965).  Coloman Étienne Viola, Anselmo D'Aosta: fede e ricerca dell'intelligenza,58-80, Senso della formula dialettica del Proslogion, Jaka Book, 2000.  Simonetta,479.  Colombo,53.  A proposito della disputa sull'esistenza di Dio, avuta col benedettino Gaunilone.  Proslogion, cap. 15, Opera Omnia, I, 112.  Cfr. Coloman Étienne Viola, Anselmo D'Aosta: fede e ricerca dell'intelligenza,58-80, Senso della formula dialettica del Proslogion, Jaka Book, 2000.  Colombo,52.  Simonetta,478.  Colombo,56-57.  Colombo,57-58.  Per Anselmo, infatti, anche il sole non è fissabile direttamente dallo sguardo, eppure attraverso la luce del giorno riusciamo benissimo a vedere la sua stessa luce (cfr. Monologio e Proslogio, a cura di Italo Sciuto,296, Bompiani, 2002).  «Nam etsi quisquam est tam insipiens, ut dicat non esse aliquid, quo maius non possit cogitari, non tamen ita erit impudens, ut dicat se non posse intelligere aut cogitare, quid dicat. Aut si quis talis invenitur, non modo sermo eius est respuendus, sed et ipse conspuendus» (Liber apologeticus contra Gaunilonem respondentem pro insipiente, 9, 258C).  Colombo,59-60.  Colombo,61.  Simonetta,478-479.  Colombo,61-62.  Colombo,62-63.  Colombo,63.  Colombo,64-67.  Colombo,67.  Giacobbe, Marchetti,7-8.  Colombo,73.  Tale definizione era stata proposta da Giovanni Scoto Eriugena. Si veda Simonetta, 479.  Colombo, 74.  Simonetta, 490.  Colombo,75.  Colombo, 75-76.  Colombo,73, 76.  Colombo,76-77.  Giacobbe, Marchetti,10.  Colombo,77.  Il quale l'aveva a sua volta ricavata da Plotino e Porfirio. Si veda Simonetta,440.  Colombo,78.  Su questi argomenti Anselmo si esprimeva anche nel De concordia. Si veda Colombo,79.  Colombo,79.  Colombo,80.  Colombo,81-82.  Colombo,82.  Colombo,82-23.  Colombo,82, 84.  Colombo,85.  Colombo,86.  Colombo,86-87.  Colombo,87.  Colombo,88.  Simonetta,480.  Colombo,89.  Colombo,91.  Colombo,95.  Colombo,91-95.  Gilson,303.  Gilson,302-303.  Colombo,135.  Colombo,132.  Gilson,298.  Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero, Filosofi e filosofie nella storia, vol. 1, Torino, Paravia, Diego Fusaro, Anselmo d'Aosta, su Filosofico.net. URL consultato il 16 novembre 2012.  Colombo,132-133.  Francesco Tomatis, L'argomento ontologico: l'esistenza di Dio da Anselmo a Schelling,56-57, Città Nuova, 2010: mentre Anselmo intendeva mostrare la contraddizione logica di chi rinnega la fede in Dio, la preoccupazione di Cartesio è garantire l'autonomia interna del pensiero privandolo di sbocchi al trascendente. È stato rilevato come Cartesio sia caduto in fondo nello stesso errore di Gaunilone, concependo Dio soltanto in termini positivi come «il più grande di tutti» (maius omnibus), anziché in maniera negativa (nihil maius, «niente di più grande»): cfr. Virgilio Melchiorre, La via analogica,10-11, nota 18, Vita e Pensiero, 1996. Nello stesso equivoco sarebbe caduto Hegel (A. Molinaro, Anselmo, Hegel e l'argomento ontologico, in AA.VV., L'argomento ontologico, «Archivio di filosofia»,353-370, 1-3, 1990).  Emanuela Scribano, Guida alla lettura dell'"Etica" di Spinoza, Roma-Bari, Laterza, 2008,17-18,978-88-420-8732-8.  Colombo,133.  Piergiorgio Odifreddi, Il diavolo in cattedra – La logica da Aristotele a Gödel, Torino, Einaudi, 2003,272,88-06-18137-8.  Bertrand Russell, Storia della filosofia occidentale, traduzione di Luca Pavolini, Milano, Longanesi, 1966,548.  Giovanni Rossignoli, Disegno storico-teorico della filosofia, Torino, Società Editrice Internazionale, 1933,72.  Colombo,134-136.  Vincent G. Potter, Karl Barth and the Ontological Argument, in The Journal of Religion, vol. 45, Alessandro Caretta e Luigi Samarati, Introduzione al pensiero di Anselmo d'Aosta, in Anselmo d'Aosta, Una scorciatoia all'assoluto: Proslogion, Novara, Europía, 1994,45-46,non esistente. Communium Rerum, su Papal Encyclicals Online. 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Voci correlate Agostino d'Ippona Chiesa cattolica Cristianesimo Eadmero di Canterbury Filosofia medievale Gaunilone Libero arbitrio Lotta per le investiture Problema del male Prova ontologica Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Anselmo d'Aosta Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina in lingua latina dedicata a Anselmo d'Aosta Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Anselmo d'Aosta Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Anselmo d'Aosta Collegamenti esterni Anselmo d'Aosta, su sapere, De Agostini.Anselmo d'Aosta, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.Anselmo d'Aosta, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Anselmo d'Aosta, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.Anselmo d'Aosta, su Find a Grave.Opere di Anselmo d'Aosta, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.Opere di Anselmo d'Aosta / Anselmo d'Aosta (altra versione), su Open Library, Internet Archive.Anselmo d'Aosta, su Goodreads.(FR) Bibliografia su Anselmo d'Aosta / Anselmo d'Aosta (altra versione), su Les Archives de littérature du Moyen Âge.Anselmo d'Aosta, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company.David M. 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PredecessoreArcivescovo di CanterburySuccessoreArchbishcantarms.png Lanfranco di Pavia Ralph d'Escures V · D · M Anselmo d'Aosta V · D · M Padri e dottori della Chiesa cattolica V · D · M Ordine di San Benedetto V · D · M Santi della Legenda Aurea di Iacopo da Varagine WorldCat Identitieslccn-n50024763 Biografie Portale Biografie Cristianesimo Portale Cristianesimo Filosofia Portale Filosofia Medioevo Portale Medioevo Wikimedaglia Questa è una voce di qualità. È stata riconosciuta come tale il giorno 24 luglio 2015 — vai alla segnalazione. Naturalmente sono ben accetti altri suggerimenti e modifiche che migliorino ulteriormente il lavoro svolto. 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He argues that the most accessible proofs of the existence of God are through value theory: in his treatise Monologion, he deploys a cosmological argument, showing the existence of a source of all goods, which is the Good per se and hence supremely good; that same thing exists per se and is the Supreme Being. In the Proslogion, Anselm begins with his conception of a being a greater than which cannot be conceived, and mounts his ontological argument that a being a greater than which cannot be conceived exists in the intellect, because even the fool understands the phrase when he hears it; but if it existed in the intellect alone, a greater could be conceived that existed in reality. This supremely valuable object is essentially whatever it is  other things being equal  that is better to be than not to be, and hence living, wise, powerful, true, just, blessed, immaterial, immutable, and eternal per se; even the paradigm of sensory goods  Beauty, Harmony, Sweetness, and Pleasant Texture, in its own ineffable manner. Nevertheless, God is supremely simple, not compounded of a plurality of excellences, but “omne et unum, totum et solum bonum,” a being a more delectable than which cannot be conceived. Everything other than God has its being and its well-being through God as efficient cause. Moreover, God is the paradigm of all created natures, the latter ranking as better to the extent that they more perfectly resemble God. Thus, it is better to be human than to be horse, to be horse than to be wood, even though in comparison with God everything else is “almost nothing.” For every created nature, there is a that-for-which-it-ismade ad quod factum est. On the one hand, Anselm thinks of such teleology as part of the internal structure of the natures themselves: a creature of type F is a true F only insofar as it is/does/exemplifies that for which F’s were made; a defective F, to the extent that it does not. On the other hand, for Anselm, the telos of a created nature is that-for-which-God-made-it. Because God is personal and acts through reason and will, Anselm infers that prior in the order of explanation to creation, there was, in the reason of the maker, an exemplar, form, likeness, or rule of what he was going to make. In De veritate Anselm maintains that such teleology gives rise to obligation: since creatures owe their being and well-being to God as their cause, so they owe their being and well-being to God in the sense of having an obligation to praise him by being the best beings they can. Since every creature is of some nature or other, each can be its best by being that-for-which-God-made-it. Abstracting from impediments, non-rational natures fulfill this obligation and “act rightly” by natural necessity; rational creatures, when they exercise their powers of reason and will to fulfill God’s purpose in creating them. Thus, the goodness of a creature how good a being it is is a function of twin factors: its natural telos i.e., what sort of imitation of divine nature it aims for, and its rightness in exercising its natural powers to fulfill its telos. By contrast, God as absolutely independent owes no one anything and so has no obligations to creatures. In De casu diaboli, Anselm underlines the optimism of his ontology, reasoning that since the Supreme Good and the Supreme Being are identical, every being is good and every good a being. Two further conclusions follow. First, evil is a privation of being, the absence of good in something that properly ought to have it e.g., blindness in normally sighted animals, injustice in humans or angels. Second, since all genuine powers are given to enable a being to fulfill its natural telos and so to be the best being it can, all genuine metaphysically basic powers are optimific and essentially aim at goods, so that evils are merely incidental side effects of their operation, involving some lack of coordination among powers or between their exercise and the surrounding context. Thus, divine omnipotence does not, properly speaking, include corruptibility, passibility, or the ability to lie, because the latter are defects and/or powers in other things whose exercise obstructs the flourishing of the corruptible, passible, or potential liar. Anselm’s distinctive action theory begins teleologically with the observation that humans and angels were made for a happy immortality enjoying God, and to that end were given the powers of reason to make accurate value assessments and will to love accordingly. Anselm regards freedom and imputability of choice as essential and permanent features of all rational beings. But freedom cannot be defined as a power for opposites the power to sin and the power not to sin, both because neither God nor the good angels have any power to sin, and because sin is an evil at which no metaphysically basic power can aim. Rather, freedom is the power to preserve justice for its own sake. Choices and actions are imputable to an agent only if they are spontaneous, from the agent itself. Creatures cannot act spontaneously by the necessity of their natures, because they do not have their natures from themselves but receive them from God. To give them the opportunity to become just of themselves, God furnishes them with two motivaAnselm Anselm 31   31 tional drives toward the good: an affection for the advantageous affectio commodi or a tendency to will things for the sake of their benefit to the agent itself; and an affection for justice affectio justitiae or a tendency to will things because of their own intrinsic value. Creatures are able to align these drives by letting the latter temper the former or not. The good angels, who preserved justice by not willing some advantage possible for them but forbidden by God for that time, can no longer will more advantage than God wills for them, because he wills their maximum as a reward. By contrast, creatures, who sin by refusing to delay gratification in accordance with God’s will, lose both uprightness of will and their affection for justice, and hence the ability to temper their pursuit of advantage or to will the best goods. Justice will never be restored to angels who desert it. But if animality makes human nature weaker, it also opens the possibility of redemption. Anselm’s argument for the necessity of the Incarnation plays out the dialectic of justice and mercy so characteristic of his prayers. He begins with the demands of justice: humans owe it to God to make all of their choices and actions conform to his will; failure to render what was owed insults God’s honor and makes the offender liable to make satisfaction; because it is worse to dishonor God than for countless worlds to be destroyed, the satisfaction owed for any small sin is incommensurate with any created good; it would be maximally indecent for God to overlook such a great offense. Such calculations threaten certain ruin for the sinner, because God alone can do/be immeasurably deserving, and depriving the creature of its honor through the eternal frustration of its telos seems the only way to balance the scales. Yet, justice also forbids that God’s purposes be thwarted through created resistance, and it was divine mercy that made humans for a beatific immortality with him. Likewise, humans come in families by virtue of their biological nature which angels do not share, and justice allows an offense by one family member to be compensated by another. Assuming that all actual humans are descended from common first parents, Anselm claims that the human race can make satisfaction for sin, if God becomes human and renders to God what Adam’s family owes. When Anselm insists that humans were made for beatific intimacy with God and therefore are obliged to strive into God with all of their powers, he emphatically includes reason or intellect along with emotion and will. God, the controlling subject matter, is in part permanently inaccessible to us because of the ontological incommensuration between God and creatures and our progress is further hampered by the consequences of sin. Our powers will function best, and hence we have a duty to follow right order in their use: by submitting first to the holistic discipline of faith, which will focus our souls and point us in the right direction. Yet it is also a duty not to remain passive in our appreciation of authority, but rather for faith to seek to understand what it has believed. Anselm’s works display a dialectical structure, full of questions, objections, and contrasting opinions, designed to stir up the mind. His quartet of teaching dialogues  De grammatico, De veritate, De libertate arbitrii, and De casu diaboli as well as his last philosophical treatise, De concordia, anticipate the genre of the Scholastic question quaestio so dominant in the thirteenth and fourteenth centuries. His discussions are likewise remarkable for their attention to modalities and proper-versus-improper linguistic usage. Fin dagli esordi della filosofia medievale, la dottrina dei segni riguarda la questione dell’interpretazione, o addirittura dell'intero mondo reale, inteso come insieme di segni attraverso i quali l’assoluto di Bradley si fa manifesto, e attraverso i quali ci indirizza alla verità. Siamo agli albori di una logica del segno, con Alenino, lo Pseudo-Dionigi l'Areopagita, Scoto Eriugena, Beda il Venerabile. Al principio dell'xi secolo iniziano la vera e propria logica e la semantica medievali. Sant'Anselmo d'Aosta elabora una dot- trina della verità finalizzata alla dimostrazione dell'esistenza di Dio. È convinto, infatti, che la fede possa essere confermata dal- la ragione, anche se la sua origine -vieneprima della ragione stes- sa. Nelle sue opere {Monologion, Proslogion, De veritate) vengo- no articolate così le prove dell'esistenza dell’Assoluto, che costituiscono un momento di notevole interesse semiotico. Nel “Proslogion”, Anselmo d’Aosta sostiene la differenza fra linguaggio (o segno, segnante) e realtà (segnato). Se, secondo il linguaggio si può dire che l’Assoluto non esiste, non lo si può però pensare secondo il reale. Si tratta della cosiddetta "prova ontologica", importante perché distingue fra una verità referenziale e una verità *proposizionale*. La verita proposizionale è limitata a una pura asserzione di *esistenza*, che ha valore indipendentemente dall'*essenza* della cosa. Nel dialogo “De veritate”, la dicotomia fra segno (segno, segnante) e referente (relatum, segnatum) è maggiormente sviluppata, su base aristotelica, distinguendo fra verità di un segno (del segnato) -- la significazione -- e verità stretta della proposizione. Una cosa o avvenimento – l’alpha e beta -- determina la verità o falsita (il valore di verita) della proposizione ‘l’alpha e beta’ Fido is shaggy, ma non costituisce la sua verità. La verita IN-tensionale della proposizione e, infatti, data a priori, analiticamente, da una propria legge logica interna. Dunque, la verità di quello ‘segnato’, ‘comunicato’ o impiegato o impicato (la significazione) non è mai certa o provata. Questa dipende dalla realtà -- o livello ontologico -- con la quale non può essere coerente. Dunque, la verità della significazione, che può essere detta "semantica" o del segno, non si applica che al comunicato o impiegato della conversazione o discorso umano, che riflette piti o meno la cosa, evvento, o situazione (l’alpha e beta), mentre il verbum dell’assoluto  è con-sustanziale alla natura, ed è, alla Velia, Uno e Indivisibile. MAESTRO: Quando una proposizione, “Fido is shaggy”, è vera? DISCEPOLO: Quando esiste realmente ciò che essa enuncia affermandolo (il fatto che Fido e shaggy) o negandolo (il fatto che non e shaggy). Voglio dire che *esiste* -- una x che e Fido e che e shaggy -- ciò che essa *enuncia* *anche* se essa nega l'esistenza di ciò che non è. E questo perché, così, essa, “l’alpha e beta”, enuncia, in un certo modo, che una cosa è (“l’alpha e – Ex Kx e Bx). M: Ti sembra dunque che la cosa *enunciate* sia la verità della proposizione? DISCEPOLO. No!. MAESTRO: Perché? DISCEPOLO: Perché *nulla* -- cf. Heidegger -- è vero che per partecipazione alla verità, ed è così che la idea della verità sta nel vero. Ma la cosa enunciata (che Fido e shaggy) non sta nella proposizione vera. Perciò, non deve essere detta la sua verità, ma la *causa* (ragione) della verità della proposizione. MAESTRO. Vedi allora se il tuo *discorso* (il segnante) stesso o il segnato (la significazione del segnante) o qualche elemento della definizione della proposizione non siano ciò che tu cerchi. DISCEPOLO. Non lo penso! MAESTRO: Perché? DISCEPOLO. Perché se fosse così, *ogni* discorso –il discorso, la proposizione -- sarebbe vero o vera, poiché tutti gli elementi della definizione della proposizione – l’alpha e beta -- restano gli stessi, che ciò che essa enuncia esista o meno. Il discorso, la  è lo stesso; la signi-ficazione (lo segnato) anche e vero, e così tutto il resto. MAESTRO: Che cosa ti sembra essere dunque il vero? DISCEPOLO: Non ne so nulla, se non che, quando essa signi-fica esistere ciò che realmente è, ha in sé della verità, ed è vera. La prova dell'esistenza dell’Assoluto bradleyiano consiste nella discussione sul linguaggio che Aosta considera un vero e proprio rispecchiamento della natura, un po' come il logos platonico o il verbum agostiniano. La differenza fra il segno da natura (dell’assoluto) e il segno d’arte umana sta nel fatto che il segno dalla natura è cons-ustanziale alla natura, ne è l'esatta immagine, e per questo è perfetto (“If those spots mean measles, he has measles”). Invece, il segno dall’arte permette solo di "pensare alle cose", ed è pertanto necessariamente imperfetto: 1 Anselmo d'Aosta, Deventate, 11. 51   Questo basta per la verità della significazione di cui abbiamo cominciato a parlare. In effetti, la stessa ragione di verità che noi scopriamo in un segno dall’arte è applicabile a ogni segno che si fanno per affermare o negare qualcosa, come gli scritti, il linguaggio o i gesti. Ogni segno dall’arte e con l'aiuto del quale noi diciamo le cose, cioè di quel ci serviamo per pensar le cose, e una rassomiglianze o immagine (fantasma, manifestazione) della cose che il segno de-nota. Ora, ogni rassomiglianza o immagine è più o meno vera a seconda della sua maggiore o minore fedeltà alle cose che essa rappresenta. La logica o dialettica è, di norma, considerata come la solida roccia cui ancorare la filosofia. Infatti nella dialettica riteniamo di trovare garanzia di chiarezza, verità, comprensibilità. Ma quanto è affidabile questa garanzia? Parrebbe non molto, stando a quel che argomenta in modo provocatorio Anselmo d’Aosta. Colla sua dialettica e sovversione – dialettica sovversiva – Aosta rivela l’altra faccia della dialettica, quella perturbatrice, una dialettica che non è stabile e chiara, bensì ingannevole e torbida. Aosta propone, come caso di studio di una dialettica sovversiva che svia l’umana ragione, la argomentazione addotta a sostegno della prova ontologica dell’esistenza di dio. L’intento anselmiano e quello di stilare una ricetta dagli ingredienti ben poco amalgamabili – ragione, dialettica, e fede – per sfornare la ciambella del “credo ut intelligam”, da servire al posto di quella del “credo quia absurdum” di Tertulliano. Infatti, è da presumere che Aosta non fosse assillato da alcun dubbio circa il suo credo. Quindi cercava solo di *intelligere* la sua fede [credenza] senza ricorrere ad alcuna sua demonstratio. In soldoni, Aosta, con il suo argomento ontologico  forne all’insipiente -- che nel Salmo 13 sentenzia, in ebraico, “Dio non c’è” (dio non e) -- una prova cogente dell’esistenza di dio oppure Aosta credente vuole convincersi e convincere gl’altri credente, ancor di più dell’oggetto del loro credo? Ma da un attento e diffidente esame dell’intero corpus del fondatore della scolastica, con un’irritante, ma utile, tattica vuol risvegliare nel destinatario il memento che, sicuramente l’uso della ragione può combattere l’eresia. Ma, al contempo, un *abuso* dell’argomentare può sottilmente minare la stessa ortodossia. Infatti, nel progetto d’Aosta la ragione dialettica svolge ruoli differenti a livelli differenti. La ragione dialettica, da un lato, per la sua natura normativa, impone limiti a ogni eccesso. All’altro lato, però, la ragione dialettica apre un vasto spazio di sperimentazione in cui non si raggiunge mai un limite. Il programma di natura tipicamente dialettica impostato d’Aosta perché possa farci pensare più correttamente al signore ineffabile di tutte le cose anziché schiarire l’orizzonte crea una selva di interrogative. Nell’arco di un dialogo, Aosta è costretto a ricorrere al punto di domanda per ben 19 volte). L’illusione del possibile conseguimento di una perfezione morale e logica che sa tanto di viaggio verso l’isola che non c’è, fa diventare il problema dell’illuminazione razionale oggetto di una ermeneutica del sospetto alla Ricoeur. Pertanto, è più che naturale chiedersi che senso ha seguire l’incoraggiamento d’Aosta a cercar di raggiungere quel che è fuori portata. Come possiamo tracciare un percorso se non ne conosciamo la meta? Non è che forse stiamo in realtà facendo qualcos’altro quando cerchiamo’ così? Pur ammettendo la necessità delle considerazioni dialettico-razionali d’Aosta, che trovano il loro punto di partenza nella “fides quaerens intellectum”, c’è da chiedersi se nello “Proslogion” Aosta non avesse intenzione di convertire gli infedeli per mezzo di un sillogismo. A tal proposito, vale la pena riportare quanto ebbe a filosofare Newman in “Un saggio per aiuta di una grammatical dell’assentimento. La logica fa una triste retorica colla multitude. Il primo tiro, il colpo alla cieca, accircola le quadre, ma tu non despera da convertirte da un sillogismo! Infatti, usando la metafora del far partire il colpo alla cieca, Newman implica che bisogna partire dalla fede e dalla rivelazione – teologia revelata no naturale. Solo quando si accetta l’esistenza di Dio per revelazione, fede revelata, assiomaticamente, per assunzione, senza alcun tipo di dimostrazione, prova, presupposizione, o premessa, solo allora si è pronti a una conversione mediante un argomento dialettico-razionale. Pertanto, esistono dunque buoni motivi per cui il “gioco” d’Aosta debbe essere ristretto al suo destinatario gia credente. La chiave di lettura dell’argomentazione d’Aosta è da individuare, tramite la citazione di quello Salmo ebraico, numero 13, in ebreo, “Dio non c’e” -- nella figura dello stultus et “insipiens”. Certa critica ha sostenuto che Aosta ha messo in scena lo stolto per meglio promuovere la sua tesi. In un certo senso potrebbe essere cosi. Ma la caratterizzazione del *miscredente* come uno stolto è sfruttata sottilmente per dimostrarci che è possibile individuare un argomento *razionale* che consenta di affermare che *deum esse*, che dio e. Giungere a possedere un tale argomento dialettico razionale che concluse ‘Dio c’e” non serve solo nel caso in cui se ci imbattessimo in uno stolto sapremmo come comportarci. E che il destinatario di Aosta e stolto (discepolo, non maestro) in certa misura. La ricerca di trasparenza suggerita d’Aosta contribute a renderci – a rendere il destinatio – *meno* stolti. Lo stolto non è tale perché non vede che l’esistere di Dio è analiticamente, a priore, di manire intensionale, a priori, per se notum, per se notificatum, per se segnatum, per se segnatum per il segnante, ma lo è perché egli *sbaglia* nell’usare o proffirere una profferenza della forma logica, “dio e” – non-ente, ‘dio’ come suggeto di una enunciazione della forma “il S e P”. E stolto perche persevera in questo modo di *esprimersi* -- a negazione ‘non c’e’ del salmo interpretata per implicatura come interna – cf. ‘il re di Francia non e calvo, dato che ‘il presente re di Francia’ e una descrizione vacua – ‘Pegaso vuola’ – Grice, “Nomi vacuii”. Se il profferente usa correttamente l’espressione ‘dio’, riconosce che deve dire che dio esiste -- il ‘Deum esse’ di d’Aquino. Ma con questa affermazione (dio e – l’esistenza non e un predicato ma la copola) non puo pretendere di avere afferrato l’essenza di Dio (il ‘Dei esse’ d’Aquino– quello che dio e, s’e. ). Infatti, per Aosta la prova dell’esistenza di ‘dio’ (o dell’assoluto della scuola di Velia e di Bradley) può funzionare solo se dio o l’assoluto (o Assoluto, come preferisce Croce) è inteso (=df, alla Peano) come “id, quo nihil majus cogitari possit”. Tanto è che anche chi, vestendo i panni dello stolto, dice in cuor suo “non esiste alcun Dio” può *pensare* concivere il concetto di “quello da che niente maggiore puo essere cogitato”. Perché altrimenti non potrebbe neanche *formularne* la negazione. L’espressione soggeto “quello da che niente maggiore puo essere cogitato” diventa per Aosta una vera e propria macchina-generante-attributi-divini – il dio dei filosofi della filosofia naturale --. L’assoluto (quello da che niente maggior puo essere cogitato) deve essere onnipotente. Se non lo fosse, tu possi concepire un essere maggiore di lui. Ma l’assoluto è, per definizione, quello da che ninente maggiore puo essere cogitato. Quindi, l’assoluto deve essere onnipotente. Allo stesso modo, l’assoluto deve essere giusto, misericordioso, eterno, immutabile e così via. Se mancasse solo di una di queste qualità, non sarebbe più quello che l’assoluto e per definizione, =df – quello da cui niente maggiore puo essere cogitato, il che è impossibile. La semplicità teoretica di questa impostazione è fuorviante. L’apparente successo nel generare molteplici attributi divini per mezzo dell’argomento ontologico comporta un problema che innesca una reazione a catena. Si deve dimostrare che gli attributi divini siano non contraddittori l’uno con l’altro – in altri termini, dimostrare la possibilità della loro compresenza in un solo identico ente. Ecco il punto: il filosofo con la sua ratio argomentativa può rintracciare tutte le possibili relazioni intercorrenti, per esempio, fra bontà, giustizia e misericordia, ed è in grado anche di dimostrare che Dio non solo *può* -- il diamante dellla logica modale -- ma anche *deve* -- il quadrato della logica modale -- possedere tutti e tre questi attributi, pur tuttavia non esiste animale razionale al mondo che possa dar conto del perché l’assoluto si mostri giusto e misericordioso proprio nel modo in cui lo fa. L’algoritmo nel programma d’Aosta o porta all’output. Dunque, Signore, tu non sei solo colui di cui non può pensarsi il maggiore. Tu sei anche qualcosa di maggiore di tutto ciò che può essere pensato. Questa proposizione molecolare richiamano tutte le argomentazioni circa gli esiti di impossibilità della logica contemporanea. Tu possi pensare che esista qualcosa di maggiore di qualsiasi cosa io possa pensare, quindi ciò di cui non posso pensare il maggiore deve essere tale che non posso pensarlo” (p. 109). Anselmo ben sapeva di iniziare una partita impossibile – la razionalizzazione della fede – nella quale un ruolo chiave era svolto dalla inaccessibilità di Dio, pur tuttavia impostando come limite ultimo il concetto di quello di cui non puo pensarsi il maggiore, tenta di procurarsi una giustificazione razionale per l’inevitabile fallimento della ragione! Una mossa azzardata che dava in questo *gioco* la possibilità all’antagonista (l’infedele, la stessa ragione che è negativa per vocazione) di contrattaccare arrecando danno con una manciata di domande ben azzeccate, che possono trovarci pronti a fornire comunque una risposta o in subordine occuparci la coscienza con la loro presenza importuna. Possiamo, dunque, senz’altro dire che Aosta ha svolto egregiamente una ricognizione dell’aporia della ragiona trovando anche addentellati significativi circa l’esercizio della libertà intellettuale con un efficace richiamo a Bruno e Turing. Alcune perplessità sorgono dai commenti approntati dall’autore sull’argomento ontologico. Per esempio, vengono riportate queste parole d’Aosta. Così quando si *dice* ‘ente di cui non si può pensare il maggiore’, senza dubbio queste parole possono essere capite e pensate, anche se la cosa stessa di cui non si può pensare nulla di maggiore non può essere pensata o compresa. Subito si attribuisce ad Aosta l’utilizzo di una via negativa per giungere alla comprensione dell’assoluto. Non si sa veramente un gran che di qualcosa se si sa solo ciò che quella cosa *non* è. Ma non bisogna farsi confondere da questa limitazione. Non si tratta qui di avere un’intuizione dell’assoluto, ma di fornire un fondamento razionale per la verità di una proposizione. E tale operazione, lo sappiamo, spesso può essere compiuta per via puramente negativa – prova ne siano le argomentazioni attraverso reductio ad absurdum. Sull’argomento della reductio, si cita un passo tratto dalla Responsio d’Aosta. Si può pensare a cio di cui non si puo pensare il maggiore. Quindi, c’è un mondo m (pensabile) dove cio di cui non si puo pensare il maggiore esiste. Ora supponiamo che cio di cui non si puo pensare il maggiore non esista nel mondo reale. Allora *è* possibile pensare, in m, qualcosa di maggiore di cio di cui non si puo pensare il maggiore. Ma questa è una falsità logica. L’argomentazione è una reductio ad absurdum e la terza premessa è la premessa da dimostrare *assurda*, il che la rende indisputabile. Riterra  che l’argomentazione funziona se almeno stabilisce che l’assoluto esiste, senza renderlo molto incomprensibile o inconcepibile di quanto fosse prima dell’argomentazione. Dalla combinazione di questi due passi si ricava che si ritenga che la reductio sia particolarmente adatta per rendere accetta l’esistenza di cose inconcepibili. Rivisitando l’abusato sillogismo su “Socrate è ….”, si supponga che Socrate non è mortale; che Socrate è un uomo, e tutti gli uomini sono mortali; sicché Socrate è sia mortale che non mortale. Ma la terza premessa è necessariamente falsa e la seconda premessa è vera. Perciò la prima premessa è falsa. La seconda premessa non assume riguardo a Socrate una forma puramente negative. Pertanto in questo caso la reductio ad absurdum non può essere addotta in difesa dell’uso della via negativa. Perciò, anche se vi sono reductiones ad absurdum che possono essere formulate con premesse del tipo via negativa, non si spiega cosa di speciale vi sia nell’argomentazione per reductio ad absurdum da renderla adatta per esprimersi per via puramente negativa, e quindi la legittimità della reduction ad absurdum non suffraga l’accettabilità della via negativa. P(φ) φ è positivo (o φ P) ASSIOMA 1. P(φ). P(ψ) P(φ. ψ) ASSIOMA 2. P(φ) P(φ) (Disgiunzione esclusiva) DEFINIZIONE 1. G(x) ≡ (φ) [ P(φ) φ(x) ] (Dio) DEFINIZIONE 2. φ Ess.x ≡ (ψ) [ ψ(x) N(y) [ φ(y) ψ(y) ]] (Essenza di x) p Nq = N(p q) (Necessità) ASSIOMA 3. P(φ) NP(φ) P(φ) N P(φ) Poiché ciò segue dalla natura della proprietà. TEOREMA. G(x) G Ess.x DEFINIZIONE 3. E(x) = (φ) [φ Ess. x N (x) φ(x) ] (Esistenza necessaria)  ASSIOMA 4. P(E) TEOREMA. G(x) N(y) G(y) quindi (x) G(x) N(y) G(y) quindi M(x) G(x) MN(y) G(y) sibilità) (M = pos- M(x) G(x) significa che il sistema di tutte le proprietà positive è compatibile. Ciò è reso grazie a: ASSIOMA 5. P(φ). φ Nψ: P(ψ) x = x è positivo x ≠ x è negative. Anselmo d’Aosta. Aosta. Keywords: L’implicatura sovversiva.: Grice, “Anselmo’s “De grammatico” and paronymy.” Speranza, “Grice and Anselm on paronymy: a ‘quaestio subtilissima.’” Implicatura sovversiva, cio di cui non si puo pensare il maggiore, semantica, concetto, pensare, Turing, Bruno, Il programma Le critiche al programma La revisione del programma Ciò di cui non si può pensare il maggiore Appendici La logica di un’illusione Dottrine esotericheil programma sovversivo di Anselmo, eresia.  Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Aosta” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Apellas – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. According to Diogene Laerzio, Apellas was a follower of the Scesi and wrote an essay entitled “Agrippa.”

 

Grice ed Apelles – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Apelles was a gnostic who advanced a complicated theology claimed by Ippolito di Roma to postulate *five* and five only gods.

 

Grice ed Apollonides – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Apollonides was a member of the Porch, and a friend and companion of Cato Minore. He was present at the latter’s death.

 

Grice ed Apollonides – Roma –filosofia italiana – Luigi Speranza (Nizza). Filosofo italiano. Apollonides wrote commentaries on lampoons composed by Timone di Flio and dedicated them to TIBERIO, the prince of Rome. Apollonides was presumably a member of the Scessi himself.

 

Grice ed Apollonio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Apollonio was a member of the Porch, a friend of Cicerone, and like him, had been tutured by Diodoto.

 

Grice ed Apollonio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Apollonio was a celebrated teacher of rhetoric. CICERONE and GIULIO CESARE were among hi pupils. He wrote a book on philosophy in which he argues that the oracle at Delphi had NOT declared Socrates to be the wisest person alive because the pronouncement in question did not conform to the correct format of Delphic utterances.

 

Grice ed Apollonio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Apollonio was a member  of the Porch who taught two Roman emperors, Commodo and Antonino. He was regarded with some suspicion by Antonino Pio, who thought he charged too much – but Antonino came to admire him greatly. In his “Ad seipsum”, Antoninoo describes Apollonio as someone full of energy who knew how to relax, as someone who taught him how to deal with pain and rely on reason, and as someone whose teachings were a model of clarity.

 

Grice ed Apollonio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). FIlosofo italiano Apollonio belonged to the Porch and taught in Rome.

 

Grice ed Apollophanes – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He was in Pergamo, and sent on a mission to Rome on the city’s behalf. A follower of the Garden.

 

Grice ed Appio: il primo filosofo inglese, il primo filosofo romano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Murford.  Wikipedia Ricerca Appio Claudio Cieco politico e letterato romano Lingua Segui Modifica Appio Claudio Cieco Project Rome logo Clear.png Console della Repubblica romana Appio Claudio Cieco in Senato.jpg Appio Claudio Cieco accompagnato dai senatori nella Curia, simbolo del potere di Roma nell'epoca repubblicana Nome originaleAppius Claudius Caecus GensClaudia Consolato307 a.C., 296 a.C. Appio Claudio Cieco (in latino: Appius Claudius Caecus; 350 a.C. – 271 a.C.) è stato un politico e letterato romano, nato di nobili origini in quanto membro dell'antica gens Claudia. Secondo la leggenda, la sua cecità, da cui gli derivò il cognomen"Caecus", "Cieco",[1] fu dovuta all'ira degli dèi per la sua idea di unificare il pantheon greco romano con quello celtico e quello germanico.[2]  Fu un personaggio particolarmente significativo, caratterizzato da una marcata sensibilità verso la società greca, che lo portò ad intendere la fusione tra di essa e il mondo romano come un profondo arricchimento per l'Urbe.[3] Fu il primo intellettuale latino, dedito all'attività letteraria e interessato alla filosofia, nella tradizione romana arcaica considerate attività infruttuose ed indegne di un civis.  Biografia Modifica  Placca commemorativa ad Appio Claudio Cieco (Museo della Civiltà, Roma) Percorse un brillante cursus honorum, in quanto rivestì quasi tutte le più importanti cariche pubbliche e militari. Fu censore nel 312 a.C., quando ridistribuì i nullatenenti, originariamente presenti nelle 4 tribùcittadine, tra tutte le tribù allora esistenti.[4]  Fu console nel 307[5] e nel 296 a.C., sempre con Lucio Volumnio Flamma Violente come collega.[6] Mentre a Voluminio era toccata la campagna nel Sannio, ad Appio, toccò quella in Etruria, dove i popoli Etruschi si erano nuovamente sollevati, in seguito all'arrivo di un grosso esercito Sannita.[6] Dopo aver fronteggiato gli eserciti nemici in piccole scaramucce di poco conto, all'esercito romano in Etruria arrivò l'aiuto di quello condotto da Volumnio, arrivato dal Sannio, dove si era inizialmente recato. Nonostante l'inimicizia tra i due consoli, l'esercito romano riunito ebbe la meglio su quello Etrusco-Sannita.[7]  Nel 295 a.C., con poteri proconsolari, insieme all'altro proconsole Lucio Volumnio Flamma Violente, sconfisse quanto restava dell'esercito Sannita, scampato alla battaglia del Sentino, in uno scontro in campo aperto, nei pressi di Caiatia.[8]  Fu inoltre dittatore nel 292 e nel 285 a.C. Ebbe un ruolo rilevante nelle guerre contro Etruschi, Latini, Sabini e Sanniti, che sconfisse in battaglia nel 296 a.C.  A lui si deve la costruzione del primo acquedotto, l'Aqua Appia, della via Appia, che da lui prese nome e che rappresenta una chiara traccia dell'interesse di Appio Claudio per un'espansione romana verso la Magna Grecia,[9] e del tempio di Bellona. Pur essendo un patrizio appartenente all'alta aristocrazia romana, aprì in qualità di censore il senato ai cittadini di bassa estrazione sociale e ai figli di liberti. Combattendo le istanze più conservatrici della società romana, decise anche di ripartire i cittadini tra le classi previste dall'ordinamento centuriato tenendo in considerazione i beni mobili oltre che le proprietà terriere. Permise, inoltre, agli abitanti humiles di Roma di iscriversi alle tribù rustiche, che erano precedentemente controllate dai membri dell'aristocrazia terriera.  Di lui si ricorda la grande abilità oratoria: fu una sua orazione del 280 a.C., in senato, a dissuadere i Romani dall'accettare le proposte di pace di Pirro. Secondo la testimonianza di Cicerone, questa orazione fu il primo testo letterario latino ad essere trascritto e conservato.[10]  Per sua iniziativa nel 304 a.C. fu pubblicato a cura del suo segretario Gneo Flavio il civile ius, il testo delle formule di procedura civile (legis actiones), chiamato Ius Flavianum e il calendario in cui erano distinti i dies fasti e dies nefasti.  Sarebbe stato punito con la cecità e l'estinzione della famiglia, per avere ceduto allo stato romano il diritto di officiare al culto di Ercole[11] tradizionalmente attribuito ai membri della Gens Potitia.[12]  Letteratura Modifica Magnifying glass icon mgx2.svgLo stesso argomento in dettaglio: Età preletteraria latina. A suo nome ci è giunta una raccolta di Sententiae, massime a carattere moraleggiante e filosofeggiante particolarmente apprezzate dal filosofo greco Panezio, nel II secolo a.C. Secondo un'informazione fornita da Cicerone,[13] Appio Claudio avrebbe risentito dell'influenza della dottrina pitagorica, mentre risulta oggi più probabile che le sue massime siano da collegarsi ai versi sentenziosi della contemporanea commedia nuova greca. Nell'opera, di cui ci sono giunti esclusivamente tre frammenti, Appio Claudio sviluppava argomenti vari di carattere sapienziale; particolarmente importante risulta la risoluzione che egli propose per alcuni problemi dell'ortografia latina, quali l'applicazione del rotacismo, ovvero la trasformazione della "s" intervocalica in "r", e l'abolizione dell'uso della "z" per indicare la "s" sonora. Risulta probabile che l'intera opera fosse scritta in versi saturni, come due dei tre frammenti di cui disponiamo:  (LA)  «aequi animi compotem esse ne quid fraudis stuprique ferocia pariat.»  (IT)  «essere padrone di un animo equilibrato, affinché la dismisura non provochi danno e disonore.»  (Frammento 1 Morel; trad. di G. Pontiggia.) (LA)  «Amicum cum vides obliviscere miserias; inimicus si es commentus, nec libens aeque.»  (IT)  «Quando vedi un amico, dimentichi gli affanni: ma se pensi che ti sia nemico, non li dimentichi così facilmente.»  (Frammento 2 Morel; trad. di G. Pontiggia.) Il terzo frammento ci è giunto per tradizione indiretta tramite lo Pseudo Sallustio,[14] e risulta dunque alterato rispetto alla sua forma originale:  (LA)  «fabrum esse suae quemque fortunae.»  (IT)  «Ciascuno è artefice del proprio destino.»  (Frammento 3 Morel; trad. di G. Pontiggia.) Un'altra opera attribuita all'autore è il De usurpationibus, risalente al IV secolo a.C. Su questo punto, però, si registra nella letteratura romanistica un generale scetticismo.[15]  Note Modifica ^ Il cognomen era uno dei tria nomina che componevano i nomi di persona nella Roma antica: il praenomen, cioè quello che oggi chiamiamo primo nome ("Appio"); il nomen, o gentilizio, che identificava la famiglia (gens) di appartenenza ("Claudio"); e infine il cognomen, che non era obbligatorio, ma veniva attribuito alle persone in seguito ad atti significativi compiuti vita, nel qual caso venivano detti cognomina ex virtute: per esempio, Gneo Marcio venne detto Coriolano per le sue gesta nella guerra contro Corioli; ovvero, Publio Cornelio Scipione fu detto Africanus perché sconfisse i cartaginesi in Africa. I cognomina potevano essere attribuiti in base a determinate caratteristiche di una persona, e Appio Claudio ottenne il proprio, appunto, dalla sua cecità. ^ Romano Impero: APPIO CLAUDIO CIECO. ^ Clemente, p. 43. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita libri, IX, 46. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita, IX, 42. ^ a b Tito Livio, Ab Urbe condita, X, 15. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita, X, 18-20. ^ Tito Livio, Ab Urbe condita, X, 31. ^ Clemente, p. 44. ^ Marco Conti, Letteratura Latina (1a) - Dalle Origini All'Età di Silla, Sansoni per la scuola, p. 2. ^ Compendio delle antichità romane ossia leggi, costumi, usanze, e cerimonie dei romani. Compilato per l'istruzione della gioventù. Traduzione dal francese, G. Miglio, 1817 - 224 pagine, pg 81-82 ^ Tito Livio, I, 7. ^ Tusculanae disputationes, IV, 2, 4. ^ Epistula ad Caesarem, I, 1, 2: in carminibus Appius ait fabrum esse suae quemque fortunae, nei carmina Appio dice che ciascuno è artefice del proprio destino. ^ Masiello, Corso di Storia del Diritto Romano, p. 114. Bibliografia Modifica G. Clemente, Basi sociali e assetti istituzionali nell'età della conquista in AAVV, Storia Einaudi dei Greci e dei Romani. Repubblica imperiale. L'età della conquista, Einaudi, 2008. A. Garzetti, Appio Claudio Cieco nella storia politica del suo tempo, in Athenaeum, Michel Humm, Appius Claudius Caecus: la République accomplie, Paris, BEFRA, G. Pontiggia, M.C. Grandi, Letteratura latina. Storia e testi, Milano, Principato, 1996. Voci correlate Modifica Aqua Appia Via Appia Appio Claudio (Roma) Marcius Vates Altri progetti Modifica Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Appio Claudio Cieco Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Appio Claudio Cieco Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Appio Claudio Cieco Collegamenti esterni Modifica Clàudio Cièco, Appio, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Gaetano De Sanctis., CLAUDIO Cieco, Appio, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1931. Modifica su Wikidata Claudio Cieco, Appio, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010. Modifica su Wikidata Clàudio Cièco, Àppio, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata ( EN ) Appio Claudio Cieco, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( LA ) Opere di Appio Claudio Cieco, su Musisque Deoque. Modifica su Wikidata ( LA ) Opere di Appio Claudio Cieco, su PHI Latin Texts, Packard Humanities Institute. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere di Appio Claudio Cieco, su Open Library, Internet Archive. Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Lingua latina Ultima modifica 8 giorni fa di Er Cicero. Quinto Fabio Massimo Rulliano politico romano  Terza guerra sannitica conflitto tra Roma e i Sanniti (298 a.C.- 290 a.C.)  Lucio Volumnio Flamma Violente politico e militare romano  Wikipedia Il contenuto

 

Gride ed Apuleio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. He studied in Rome, where he practiced as a lawyer.

 

Grice ed Aquilino – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Giulio Aquilino was a philosopher of considerable learning and eloquence. In Rome, he debated with members of the Accademia of his day, although it is unclear what his own philosophical views were. He was a close friend of Marco Cornelio Frontone.

 

Grice ed Aquino – teoria dell’intenzione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roccasecca). Filosofo italiano. Grice: “Srawson used to joke and call me St. Thomas, as I rushed to tutor on ‘De interpretatione’ ‘That’s precisely what Aquino did at Bologna! Can’t the tutee not interpret it by himself?!’” Tommaso d'Aquino (Roccasecca, 1225 – Abbazia di Fossanova, 7 marzo 1274) è stato un religioso, teologo, filosofo e accademico italiano. Frate domenicano esponente della Scolastica, era definito Doctor Angelicus dai suoi contemporanei. È venerato come santo dalla Chiesa cattolica che dal 1567 lo considera anche dottore della Chiesa.  Tommaso rappresenta uno dei principali pilastri teologici e filosofici della Chiesa cattolica: egli è anche il punto di raccordo fra la cristianità e la filosofia classica, che ha i suoi fondamenti e maestri in Socrate, Platone e Aristotele, e poi passati attraverso il periodo ellenistico, specialmente in autori come Plotino. Fu allievo di sant'Alberto Magno, che lo difese quando i compagni lo chiamavano "il bue muto" dicendo: «Ah! Voi lo chiamate il bue muto! Io vi dico, quando questo bue muggirà, i suoi muggiti si udranno da un'estremità all'altra della terra!». San Tommaso d'Aquino San Tommaso d'Aquino e gli angeliSan Tommaso sorretto dagli angeli, del Guercino   Sacerdote e Dottore della Chiesa    Nascita1225 Morte7 marzo 1274 Venerato daChiesa cattolica e Chiesa anglicana Canonizzazione18 luglio 1323 da Papa Giovanni XXII Santuario principaleChiesa dei Giacobini Tolosa Ricorrenza28 gennaio; 7 marzo (forma straordinaria) AttributiAbito domenicano, libro, penna e calamaio, modellino di chiesa, sole raggiato sul petto, colomba. Patrono diTeologi, accademici, librai, scolari, studenti, fabbricanti di matite; regione Campania; comune di Aquino, Grottaminarda, Monte San Giovanni Campano e Priverno; diocesi di Sora-Cassino-Aquino-Pontecorvo; Belcastro; Falerna; San Mango d'Aquino. San Tommaso in una vetrata della Cattedrale di Saint-Rombouts, Mechelen (Belgio). Tommaso dei conti d'Aquino nacque, forse, nel 1225 nella contea di Aquino, territorio dell'odierna Roccasecca, nel Regno di Sicilia (Sgarbossa). Secondo altre tesi, San Tommaso sarebbe nato a Belcastro; a sostegno di esse si segnalano quelle di fra' Giovanni Fiore da Cropani, storico calabrese del XVII secolo, che lo scriveva nella sua opera Della Calabria illustrata, di Gabriele Barrio nella sua opera De antiquitate et situ Calabriae e di padre Girolamo Marafioti, teologo dell'ordine dei Minori Osservanti, nella sua opera Croniche ed antichità di Calabria.  Il castello paterno di Roccasecca rimane comunque ancora oggi il luogo più accreditato della sua nascita, da Landolfo d'Aquino e da Donna Teodora Galluccio, nobildonna teanese appartenente al ramo Rossi della famiglia napoletana dei Caracciolo. La sua data di nascita non è certa, ma è calcolata in maniera approssimativa a partire da quella della sua morte. Bernardo Gui, ad esempio, afferma che Tommaso è morto quando aveva compiuto i suoi quarantanove anni e iniziato il suo cinquantesimo anno. Oppure, in un testo un po' anteriore, Tolomeo da Lucca fa eco ad un'incertezza: «Egli è morto all'età di 50 anni, ma alcuni dicono 48». Tuttavia, oggi, sembra che ci sia accordo nel fissare la sua data di nascita tra il 1224 e il 1226.  Da Montecassino a Napoli Secondo le usanze del tempo Tommaso, essendo il figlio più piccolo, era destinato alla vita ecclesiastica e proprio per questo a soli cinque anni fu inviato dal padre Landolfo come oblato nella vicina Abbazia di Montecassino, di cui era abate Landolfo Sinibaldo, figlio di Rinaldo d'Aquino, per ricevere l'educazione religiosa e succedere a Sinibaldo in qualità di abate. In ossequio alla regola benedettina, Landolfo versò un'oblazione di venti once d'oro al monastero cassinese perchè accettasero il figlio di una nobile famiglia e in tenera età.In quegli anni l'abbazia si trovava in un periodo di decadenza e costituiva una preda contesa dal Papa e dall'imperatore. Ma il trattato di San Germano, concluso tra il Papa Gregorio IX e l'imperatore Federico II il 23 luglio 1230, inaugurava un periodo di relativa pace ed è proprio allora che si può collocare l'ingresso di Tommaso nel monastero. In quel luogo Tommaso ricevette i primi rudimenti delle lettere e fu iniziato alla vita religiosa benedettina.  Ma a partire dal 1236 la calma di cui godeva il monastero fu nuovamente turbata e Landolfo, consigliato dal nuovo abate, Stefano di Corbario, volle mettere al riparo il figlio dai disordini e inviò Tommaso, oramai adolescente, a Napoli, perché potesse seguire degli studi più approfonditi. Così nell'autunno del 1239, a quattordici o quindici anni, Tommaso si iscrisse al nuovo Studium generale, l'Università degli studi fondata nel 1224 da Federico II per formare la classe dirigente del suo Impero.  Fu proprio a Napoli, dove era stato fondato un convento, che Tommaso conobbe i Domenicani, ordine in cui entrò a far parte e in cui fece la sua vestizione nell'aprile del 1244.  Ma l'ingresso di Tommaso presso i Frati predicatori comprometteva definitivamente i piani dei suoi genitori riguardo al suo futuro incarico di abate di Montecassino. Così la madre inviò un corriere ai suoi figli, che in quel periodo stavano guerreggiando nella regione di Acquapendente, perché intercettassero il loro fratello e glielo conducessero. Essi, accompagnati da un piccolo drappello, catturarono facilmente il giovane religioso, lo fecero salire su di un cavallo e lo condussero al Castello di Monte San Giovanni Campano, un castello di famiglia ove fu tenuto prigioniero per due anni. Qui tutta la famiglia tentò di far cambiare idea a Tommaso, ma inutilmente. Tuttavia bisogna precisare che egli non fu né maltrattato né rinchiuso in qualche prigione, si trattava piuttosto di un soggiorno obbligato, in cui Tommaso poteva entrare e uscire a piacimento e anche ricevere visite. Ma prendendo atto che Tommaso era ben saldo nella sua risoluzione, la sua famiglia lo restituì al convento di Napoli nell'estate del 1245. Ciò avvenne in occasione del Concilio di Lione del 17 luglio 1245, allorché papa Innocenzo IV ufficializzò la deposizione dell'imperatore Federico II di Svevia. Gli studi a Parigi e a Colonia Beato Angelico: San Tommaso d'Aquino  Dipinto del Velazquez I Domenicani di Napoli ritennero che non fosse sicuro trattenere presso di loro il novizio e lo inviarono a Roma dove si trovava il maestro dell'Ordine, Giovanni Teutonico, il quale stava per partire alla volta di Parigi, dove si sarebbe celebrato il Capitolo generale del 1246. Egli accolse Tommaso inviandolo prima a Parigi e poi a Colonia, dove c'era un fiorente Studium generale sotto la direzione di fra Alberto (il futuro sant'Alberto Magno), maestro in teologia, il quale era ritenuto sapiente in tutti i campi del sapere.  Al seguito di Giovanni Teutonico, si sarebbe dunque messo in viaggio per Parigi e vi avrebbe trascorso tre anni scolastici. Qui potrebbe aver studiato le arti, sia in facoltà che in convento. Partì per Colonia con fra' Alberto, presso il quale continuò il suo studio della teologia e il suo lavoro di assistente. Il soggiorno di Tommaso a Colonia, al contrario di quello a Parigi, non è mai stato messo in dubbio, poiché è ben testimoniato dalle fonti. Il capitolo generale dei Domenicani riunito a Parigi decise la creazione di uno studium generale a Colonia, città nella quale esisteva già un convento domenicano fondato da fra' Enrico, compagno di Giordano di Sassonia.  L'incarico di insegnare venne affidato a fra Alberto, la cui reputazione in quel periodo era già notevole. Questo soggiorno a Colonia costituì una tappa decisiva nella vita di Tommaso. Per quattro anni, dai 23 ai 27 anni, Tommaso poté assimilare profondamente il pensiero di Alberto. Un esempio di questa influenza lo troviamo nell'opera nota con il nome di Tabula libri Ethicorum, la quale si presenta come un lessico le cui definizioni sono molto spesso delle citazioni quasi letterali di Alberto.  Il primo periodo di insegnamento a Parigi. Chiesa dei domenicani di Friesach: San Tommaso e papa Urbano V e il dogma della transustanziazione Quando il Maestro Generale dei Domenicani domandò ad Alberto di indicargli un giovane teologo che potesse essere nominato baccelliere per insegnare a Parigi, Alberto gli propose Tommaso che stimava sufficientemente preparato in scientia et vita. Sembra che Giovanni Teutonico abbia esitato per via della giovane età del prescelto, 27 anni, perché secondo gli statuti dell'Università egli avrebbe dovuto averne 29 per poter assumere canonicamente quest'impegno. Fu grazie alla mediazione del cardinale Ugo di Saint-Cher che la richiesta di Alberto fu esaudita e Tommaso ricevette quindi l'ordine di recarsi subito a Parigi e di prepararsi a insegnare. Egli iniziò il suo insegnamento come baccelliere nel settembre di quello stesso anno, cioè del 1252, sotto la responsabilità del maestro Elia Brunet de Bergerac che occupava il posto lasciato vacante a causa della partenza di Alberto.  A Parigi Tommaso trovò un clima intellettuale meno tranquillo di quello di Colonia. Ancora era vietato commentare i libri di Aristotele, ma durante la prima parte del soggiorno di Tommaso, la Facoltà delle Arti avrebbe finalmente ottenuto il permesso di insegnare pubblicamente tutti i libri del grande filosofo greco. Fu nuovamente in Italia, impegnato nell'insegnamento e negli scritti teologici: fu prima assegnato a Orvieto, come lettore, vale a dire responsabile per la formazione continua della comunità. Qui ebbe il tempo per completare la stesura della Summa contra Gentiles e della Expositio super Iob ad litteram. Inoltre qui Tommaso, che non conosceva direttamente il greco in maniera sufficiente a leggere i testi di Aristotele in originale, si poté avvalere dell'opera di traduzione di un confratello, Guglielmo di Moerbeke, eccellente grecista. Guglielmo rifece o rivide le traduzioni delle opere di Aristotele e pure dei principali commentatori greci (Temistio, Ammonio, Proclo). Alcune fonti riportano addirittura che Guglielmo avrebbe tradotto Aristotele dietro richiesta (ad istantiam) di Tommaso stesso. Il contributo di Guglielmo, anche lui in Italia come Tommaso dopo il 1260, fornì a Tommaso un prezioso apporto che gli permise di redigere le prime parti dei Commenti alle opere di Aristotele, spesso validi ancora oggi per la comprensione e discussione del testo aristotelico. Soggiornò a Roma come maestro reggente. Nel febbraio 1265 il neoeletto papa Clemente IV lo convocò a Roma come teologo pontificio. Nello stesso anno gli fu ordinato dal Capitolo domenicano di Agnani di insegnare allo studium conventuale del convento romano della Basilica di Santa Sabina, fondato alcuni anni prima. Lo studium di Santa Sabina diviene un esperimento per i domenicani, il primo studium provinciale dell'Ordine, una scuola intermedia tra lo studium conventuale e lo studium generale. Prima di allora la Provincia romana non offriva una formazione specializzata di alcun tipo, solo semplici scuole conventuali, con i loro corsi di base di teologia per i frati residenti. Il nuovo studium provinciale di Santa Sabina divenne la scuola più avanzata per la provincia. Durante il suo soggiorno romano, Tommaso cominciò a scrivere la Summa Theologiae e compilò numerosi altri scritti su varie questioni economiche, canoniche e morali. Durante questo periodo, ebbe l'opportunità di lavorare con la corte papale (che non era residente a Roma). Nel secondo periodo di insegnamento a Parigi, la sua occupazione principale fu l'insegnamento della Sacra Pagina e proprio a questo periodo risalgono alcune delle sue opere più celebri, come i commenti alla Scrittura e le Questioni Disputate. Anche se i commenti al Nuovo Testamento restano il cuore della sua attività, egli si segnala anche per la varietà della sua produzione, come ad esempio la scrittura di diversi brevi scritti (come ad esempio il De Mixtione elementorum, il De motu cordis, il De operationibus occultis naturae...) e per la partecipazione alle problematiche del suo tempo: che si tratti di secolari o dell'averroismo vediamo Tommaso impegnato su tutti i fronti.  A questa multiforme attività bisogna aggiungere un ultimo tratto: Tommaso è anche il commentatore di Aristotele. Tra queste opere ricordiamo: l' Expositio libri Peri ermenias, l' Expositio libri Posteriorum, la Sententia libri Ethicorum, la Tabula libri Ethicorum, il Commento alla Fisica e alla Metafisica. Vi sono poi anche delle opere incompiute, come la Sententia libri Politicorum, il De Caelo et Mundo, il De Generatione et corruptione, il Super Meteora.  Gli ultimi anni e la morte  Ritratto di Tommaso ad opera di Fra Bartolomeo Fu quindi richiamato in Italia a Firenze per il Capitolo generale dell'Ordine dei Domenicani[8], secondo dopo quello del 1251[9]. Lascia definitivamente Parigi e poco dopo la Pentecoste di quello stesso anno il capitolo della provincia domenicana di Roma gli affidò il compito di organizzare uno Studium generale di teologia, lasciandolo libero di scegliere il luogo, le persone e il numero degli studenti. Ma la scelta di Napoli era già stata designata da un precedente capitolo provinciale ed è anche verosimile che Carlo I d'Angiò abbia fatto pressione perché venisse scelta la sua capitale come sede e che a capo di questo nuovo centro di teologia venisse insediato un maestro di fama. Tommaso D'Aquino abitò per oltre un anno San Domenico Maggiore nell'ultimo periodo della sua vita, lasciandovi scritti e reliquie[10]. Gli fu offerto l'arcivescovado di Napoli, che non volle mai accettare, continuando a vivere in povertà, dedito allo studio e alla preghiera. Durante gli ultimi anni del periodo napoletano, continuò a procurarsi testi filosofici che leggeva e commentava con cura, disputandone i contenuti con i suoi confratelli e studenti. Si dedicò anche alle opere scientifiche di Aristotele relative ai fenomeni atmosferici e ai terremoti, cercando di procurarsi testi sulla costruzione degli acquedotti e la possibilità di applicazione della geometria alle costruzioni, commentando le traduzioni di testi greci e arabi in latino.  La famiglia D'aquino era in rapporti con Federico II di Svevia che aveva istituzionalizzato la Scuola Medica Salernitana, primo centro di fruizione culturale degli scritti medici e filosofici di Avicenna e Averroè, noti al Dottore Angelico. Stabilendosi presso la sorella Teodora al Castello dei Sanseverino[13], tenne una serie di lezioni straordinarie nella celebre Scuola Medica che aveva sollecitato l'onore ed il decoro della parola dell'Aquinate[8]. A memoria del suo soggiorno, nella Chiesa di San Domenico si conservano la reliquia del suo braccio e le spoglie delle sorelle. Partecipò al capitolo della sua provincia a Roma in qualità di definitore. Ma alcune settimane più tardi, mentre celebrava la Messa nella cappella di San Nicola, Tommaso ebbe una sorprendente visione tanto che dopo la messa non scrisse, non dettò più nulla e anzi si sbarazzò persino degli strumenti per scrivere. A Reginaldo da Piperno, che non comprendeva ciò che accadeva, Tommaso rispose dicendo: «Non posso più. Tutto ciò che ho scritto mi sembra paglia in confronto con quanto ho visto».  «San Bonaventura, entrato nello studio di Tommaso mentre scriveva, vide la colomba dello Spirito accanto al suo volto. Ultimato il trattato sull'Eucaristia, lo depose sull'altare davanti al crocifisso per ricevere dal Signore un segno. Subito fu sollevato da terra e udì le parole: Bene scripsisti, Thoma, de me quam ergo mercedem accipies? E rispose Non aliam nisi te, Domine. Anche Paolo fu rapito al terzo cielo, e poi Antonio e tutta una serie di santi fino a Caterina; il volo, il levarsi in aria indica la vicinanza con il cielo e con Dio, con archetipo nelle figure di Enoch e Elia.»  (Il piccolo Tommaso e l'"appetito" per i libri in L'Osservatore Romano, 28 gennaio 2010. Tommaso e il socius si misero in viaggio per partecipare al Concilio che Gregorio X aveva convocato per il 1º maggio 1274 a Lione. Dopo qualche giorno di viaggio arrivarono al castello di Maenza, dove abitava sua nipote Francesca. È qui che si ammalò e perse del tutto l'appetito. Dopo qualche giorno, sentendosi un po' meglio, tentò di riprendere il cammino verso Roma, ma dovette fermarsi all'abbazia di Fossanova per riprendere le forze. Tommaso rimase a Fossanova per qualche tempo e tra il 4 e il 5 marzo, dopo essersi confessato da Reginaldo, ricevette l'eucaristia e pronunciò, com'era consuetudine, la professione di fede eucaristica. Il giorno successivo ricevette l'unzione dei malati, rispondendo alle preghiere del rito. Morì di lì a tre giorni, mercoledì 7 marzo 1274, alle prime ore del mattino dopo aver ricevuto l'Eucaristia. Le spoglie di Tommaso d'Aquino sono conservate nella chiesa domenicana detta Les Jacobins a Tolosa. La reliquia della mano destra, invece, si trova a Salerno, nella chiesa di San Domenico; il suo cranio si trova invece nella concattedrale di Priverno, mentre la costola del cuore nella Basilica concattedrale di Aquino.  Il pensiero di Tommaso  San Tommaso d'Aquino, ritratto di Carlo Crivelli Per Tommaso l'anima è creata "a immagine e somiglianza di Dio" (come dice la Genesi), unica, immateriale (priva di volume, peso ed estensione), forma del corpo e non localizzata in un punto particolare di esso, trascendente come Dio e come lui in una dimensione al di fuori dello spazio e del tempo in cui sono il corpo e gli altri enti. L'anima è tota in toto corpore, contenuta interamente in ogni parte del corpo, e in questo senso legata ad esso indissolubilmente: si veda, sul tema, la questione 76 della Prima Parte della Summa theologiae, questione dedicata appunto al rapporto tra anima e corpo. Secondo Tommaso:  «Ciò che si accetta per fede sulla base della rivelazione divina non può essere contrario alla conoscenza naturale... Dio non può indurre nell'uomo un'opinione o una fede contro la conoscenza naturale... tutti gli argomenti contro la fede non procedono rettamente dai primi principii per sé noti.»  (Tommaso d'Aquino, Summa contra Gentiles, I, 7.) Nella filosofia tomista Dio è descritto con le seguenti proprietà:[senza fonte]  massimo grado possibile di ogni qualità (che è, è stata o possa essere fra gli enti), fra queste: sommo amore e sommo bene immutabile, semplice e indivisibile: è da sempre e per sempre uguale a sé stesso, a lui nulla manca e in lui nulla cambia. eterno: non nasce e non muore, vive da sempre e per sempre infinito in atto (non infinito potenziale): non ha limite-confine di tempo o di spazio onnisciente unico: nessuno, nemmeno Dio può creare un altro Dio onnipotente: ma non può perpetrare il male e non può creare un altro Dio per sé: non riceve la vita o altre proprietà da alcuno, poteva esistere senza gli enti da lui creati, che perciò non nascono come parte di lui e non sono Dio. trascendente: Dio non è un ente qualunque tra gli altri enti, la differenza tra Dio e gli altri enti è una differenza quantitativa, vale a dire stesse qualità ma in un minore grado di completezza e perfezione. Gli enti creati, fra cui gli angeli e l'uomo, in infiniti gradi a lui somigliano, sono come Dio, ma non sono Dio: non hanno una parte fisica dell'essere per essenza, poiché l'essere è semplice, senza parti e indivisibile. Questo essere (inteso da S.Tommaso come "Ipsum esse subsistens") ha molte proprietà in comune con l'essere della filosofia greca, così come lo definì Parmenide: uno e unico, semplice e indivisibile, infinito ed eterno, onnisciente. La differenza sostanziale però consiste nel fatto che crea gli enti, è più grande della somma di essi, e può esistere senza. Anche nell'ultima forma del pensiero greco, quello di Plotino, troviamo che l'emanazione dall'essere agli enti è un fatto eterno, ma anche necessario e reversibile, non una libera scelta dell'assoluto, che avrebbe potuto non manifestarsi. Il concetto di creazione ("produzione dal nulla") è peraltro estraneo alla filosofia greca ed è proprio del pensiero giudaico-cristiano.  Se la trascendenza nega il panteismo, la personalità di Dio nega a sua volta il deismo (che sarà proprio degli Illuministi): trascendenza ed essere per sé non significano lontananza inarrivabile. Gli uomini non nascono, ma hanno la possibilità di diventare parte integrante di Dio e, già in questa esistenza terrena, di identificare la propria vita con la vita del creatore.  In modo identico, si può dire che l'essere per san Tommaso non è solo l'essere comune o la piattaforma di tutto ciò che esiste, ma è l’esse ut actus inteso come atto puro che perfeziona ogni altra perfezione (essenza, sostanza, forma). Dio è atto puro, puro da ogni potenza, limite e imperfezione. Quando l'essere è mischiato o ricevuto in una potenza, allora è atto misto ed è ente finito. Tommaso fonda la sua concezione metafisica sul concetto di Analogia, rielaborando in maniera molto originale il pensiero aristotelico.  Le cinque vie per dimostrare l'esistenza di Dio San Tommaso distinse tre forme di conoscenza umana in relazione all'ente e al suo Creatore: an sit ("se sia"), quomodo sit ("in che modo sia"), quid sit ("che cosa sia"). La conoscenza umana di Dio è possibile soltanto in merito alla Sua esistenza e ad un quomodo sit negativo, nel quale la mente umana procede ad analizzare il creato sensibile, e, per analogia e differenza, identifica tutte le qualità dell'ente che non possono essere proprie di Dio Creatore, pur essendone l'opera. Tale percorso fu chiamato via negationis (o anche ' via remotionis) ordinata al fine di descrivere il quomodo non sit("in che modo non sia") di Dio. Esso è effetto della grazia divina ed è possibile soltanto perché il Creatore decide liberamente di rivelarSi all'uomo, conducendolo per mano da una serie di negazioni delle qualità dell'ente colte con i cinque sensi fino a pervenire ad un'affermazione intelligibile e positiva di Lui.  L'autore delle Cinque Vie, infine, escluse che la dimostrazione razionale dell'esistenza e unicità di Dio potesse rivelare all'uomo anche la Sua vera essenza, quel qui sit che rimane un mistero accessibile soltanto alla virtù ed è ritenuto un limite esterno per il dominio possibile della ragione. La conoscenza teologica può essere soltanto indiretta, relativa agli effetti della causa prima e del fine ultimo sulla Sua creazione. Molti pensatori cristiani hanno elaborato diversi percorsi razionali per cercare di dimostrare l'esistenza di Dio: mentre Anselmo d'Aosta, sulla scia neoplatonica di Agostino d'Ippona procedeva sia a simultaneo, cioè dal concetto stesso di Dio, da lui ritenuto id quo maius cogitari nequit (nel Proslogion, cap.2.3), sia a posteriori (nel Monologion) per dimostrare l'esistenza di Dio, l'unico modo per arrivarci, secondo Tommaso, consiste nel procedere a posteriori: partendo cioè dagli effetti, dall'esperienza sensibile, che è la prima a cadere sotto i nostri sensi, per dedurne razionalmente la sua Causa prima. Si tratta di quella che chiama demonstratio quia, cioè, appunto dagli effetti, il cui risultato è ammettere necessariamente che esista il punto d'arrivo della dimostrazione, anche se non è pienamente intelligibile, come in questo caso, ed in altri, il perché (demonstratio quid, es. i sillogismi: le premesse esprimono proprietà che sono cause della conclusione: «Ogni uomo è mortale; ogni ateniese è uomo; ogni ateniese è mortale": essere uomo e mortale è necessaria causa della mortalità di ogni ateniese)»  Sulla base di questo sfondo di pensiero Tommaso espone le sue prove dell'esistenza di Dio, Tutte e cinque, con alcune variazioni, seguono questa struttura. Constatazione di un fatto in rerum natura, nell'esperienza sensibile ordinaria (movimento inteso come trasformazione; causalità efficiente subordinata; inizio e fine dell'esistenza degli esseri generabili e corruttibili, perciò materiali, contingenti nel suo vocabolario, che quindi possono essere e non essere; gradualità degli esseri nelle perfezioni trascendentali, come bontà, verità, nobiltà ed essere stesso; finalità nei processi degli esseri non intelligenti);  2) analisi metafisica di quel dato iniziale esperenziale alla luce del principio metafisico di causalità, enunciato in varie formulazioni ("Tutto ciò che si muove è mosso da un altro"; "È impossibile che una cosa sia causa efficiente di sé stessa"; "Ora, è impossibile che tutte di tal natura siano state sempre, perché ciò che può non essere un tempo non esisteva"; "Ma il grado maggiore o minore si attribuiscono alle diverse cose secondo che si accostano di più o di meno a qualcosa di sommo o di assoluto"; "Ora, ciò che è privo di intelligenza non tende al fine se non perché è diretto da un essere conoscitivo e intelligente");  3) impossibilità di un regressus in infinitum inteso in senso metafisico, non quantitativo, perché ciò renderebbe inintelligibile, inspiegabile pienamente il dato di fatto di partenza esistente ("Ora, non si può in tal modo procedere all'infinito, perché altrimenti non vi sarebbe un primo motore, e di conseguenza nessun altro motore..."; "Ma procedere all'infinito nelle cause efficienti equivale ad eliminare la prima causa efficiente; e così non avremmo neppure l'effetto ultimo, né le cause intermedie..."; "Dunque non tutti gli esseri sono contingenti, ma bisogna che nella realtà ci sia qualcosa di necessario. Ora, tutto ciò che è necessario, o ha la causa della sua necessità in un altro essere oppure no. D'altra parte [in questo genere di esseri] non si può procedere all'infinito..."; questo passaggio manca, per la sua evidenza agli occhi dell'Aquinate manca nella quarta via e nella quinta via, si passa direttamente alla conclusione;  4) conclusione deduttiva strettamente razionale (senza nessuna cogenza di fede) che identifica il 'conosciuto' sotto quel determinato aspetto con quello "che tutti chiamano Dio", o espressioni simili ("Dunque è necessario arrivare ad un primo motore che non sia mosso da altri; e tutti riconoscono che esso è Dio"; "Dunque bisogna ammettere una prima causa efficiente, che tutti chiamano Dio"; "Dunque bisogna concludere all'esistenza di un essere che sia di per sé necessario e non tragga da altri la propria necessità, ma sia causa di necessità agli altri. E questo tutti dicono Dio"; "Ora ciò che è massimo in un dato genere è causa di tutti gli appartenenti a quel genere, come il fuoco, caldo al massimo, è causa di ogni calore, come dice lo stesso Aristotele. Dunque vi è qualcosa che per tutti gli enti è causa dell'essere, della bontà e di qualsiasi perfezione. E questo chiamiamo Dio"; "Vi è dunque un qualche essere intelligente, dal quale tutte le cose naturali sono ordinate ad un fine: e quest'essere chiamiamo Dio".  I cinque percorsi indicati da San Tommaso sono: Ex motu et mutatione rerum (tutto ciò che si muove esige un movente primo perché, come insegna Aristotele nella Metafisica: "Non si può andare all'infinito nella ricerca di un primo motore"); Ex ordine causarum efficientium (cioè "dalla causa efficiente", intesa in senso subordinato, non in senso coordinato nel tempo. Tommaso non è, per sola ragione, in grado di escludere la durata indefinita nel tempo di un mondo creato da Dio, la cosiddetta creatio ab aeterno: ogni essere finito, partecipato, dipende nell'essere da un altro detto causa; necessità di una causa prima incausata); Ex rerum contingentia (cioè "dalla contingenza". Nella terminologia di Tommaso la generabilità e corruttibilità sono prese come segno evidente della possibilità di essere e non essere legata alla materialità, sinonimo, nel suo vocabolario di "contingenza", ben diverso dall'uso più comune, legato ad una terminologia avicenniana, dove "contingente" è qualsiasi realtà che non sia Dio. Tommaso, in questa argomentazione della Summa Theologiae distingue attentamente il necessario dipendente da altro (anima umana e angeli) e necessario assoluto (Dio). L'esistenza di esseri generabili e corruttibili è in sé insufficiente metafisicamente, rimanda ad esseri necessari, dapprima dipendenti da altro, quindi ad un essere assolutamente necessario); Ex variis gradibus perfectionis (le cose hanno diversi gradi di perfezioni, intese in senso trascendentale, come verità, bontà, nobiltà ed essere, sebbene sia usato un 'banale' esempio fisico legato al fuoco e al calore; ma solo un grado massimo di perfezione rende possibile, in quanto causa, i gradi intermedi); Ex rerum gubernatione (cioè "dal governo delle cose": le azioni di realtà non intelligenti nell'universo sono ordinate secondo uno scopo, quindi, non essendo in loro quest'intelligenza, ci deve essere un'intelligenza ultima che le ordina così). Kant, pur ammettendo l'esistenza di Dio come postulato della ragion pratica, ritiene che l'esistenza di Dio sia indimostrabile da un punto di vista teoretico-speculativo: nella Dialettica trascendentale della Critica della ragion pura, Kant ha contestato tali dimostrazioni, pur non prendendo in realtà in considerazione direttamente le cinque "vie" di San Tommaso, ma le prove dell'esistenza di Dio nella filosofia leibniziano-wollfiana. La critica kantiana si rivolge infatti alla: 1) prova ontologica; 2) prova cosmologica e 3) prova fisico-teologica. Se per quanto riguarda almeno nelle conclusioni sia S.Tommaso, sia Kant sono concordi nel rifiutare la prova ontologica, per quanto riguarda la prova cosmologica e quella fisico- teologica, Kant critica queste due prove (a cui si possono ridurre le cinque "vie tomistiche), in quanto sarebbero legate ad un'estensione indebita dell'uso della ragione (nel suo uso teoretico-speculativo), i cui concetti razionali, cioè le idee, sono vuote. Solo l'intuizione empirica infatti potrebbe ovviare a ciò: per questo motivo l'idea di Dio è assolutamente non verificabile tramite la ragione, superando i limiti dell'esperienza possibile. Processo conoscitivo. Tommaso, affermava che la conoscenza dell'essere umano, in quanto dotato di un corpo creato da Dio, muove sempre dall'universo immanente, sensibile e corporeo nella direzione dell'universo trascendente, intellegibile (invisibile) e incorporeo. In tale aspetto, si differenziò da sant'Agostino, che pensava che questa avvenisse tramite l'illuminazione divina.[senza fonte]  Agostino sostenne che la sorgente del sapere e dell'essere è la stessa, Dio Creatore dell'universo, e che quindi i due piani dell'essere e del sapere non possono cadere in contraddizione l'uno con l'altro. Senza negare Agostino[senza fonte], San Tommaso aggiunse che il corpo umano deve poter essere capace di conoscere il creato mediante la sua mente e i suoi sensi, poiché l'uomo non soltanto è una creatura di Dio, ma più di ogni altro vivente è l'unico creato a immagine e somiglianza della mente e del Suo corpo umano-divino di Dio Padre e di Gesù, Suo Figlio. Tommaso aggiunse che i due piani dell'essere e del sapere sono tra loro comunicanti: infatti, le Cinque Vie dimostrarono che dall'essere della natura corporea è possibile giungere a conoscere e dimostrare la possibilità, la realtà e la necessità dell'esistenza e dell'unicità di Dio.  Prima ancora di questo, mediante ogni conoscenza (anche scientifica[senza fonte]) del creato, Tommaso riuscì a raggiungere il dono e il raro privilegio della visione del Corpo del Cristo risorto e del dialogo personale con Lui, il giorno della ricorrenza di San Nicola, poco tempo prima di completare la Summa theologica e di morire. Ciò non significa che Tommaso disconoscesse il pensiero di sant'Agostino, che è invece citato a più riprese nella Summa Theologica', e che fu dichiarato Dottore della Chiesa nel 1298, dopo la morte dell'Aquinate.  La conoscenza degli universali però appartiene solo alle intelligenze angeliche; noi, invece, conosciamo gli universali post-rem, ossia li ricaviamo dalla realtà sensibile. Soltanto Dio conosce ante rem.  La conoscenza è, quindi, un processo di adeguamento dell'anima o dell'intelletto e della cosa, secondo una formula che dà ragione del sofisticato aristotelismo di Tommaso. Veritas: Adaequatio intellectus ad rem. Adaequatio rei ad intellectum. Adaequatio intellectus et rei.» «Verità: Adeguamento dell'intelletto alla cosa. Adeguamento della cosa all'intelletto. Adeguamento dell'intelletto e della cosa.»  (Tommaso d'Aquino) La creazione secondo Tommaso Tommaso spiega che l'uomo può stabilire a partire dalla ragione il rapporto creaturale di dipendenza dell'universo da Dio ovvero la creatio ex nihilo intesa come totale dipendenza dell'essere creato, anche quello sostanziale, dall'Essere divino[26]. Ciò che la sola ragione non può stabilire è se il mondo è eterno o se è stato creato nel tempo ovvero se ha un cominciamento. La verità della seconda alternativa (la creazione con un inizio temporale) può essere conosciuta, secondo Tommaso, solamente per fede a partire dalla rivelazione divina. Dio, creando l'uomo, fornisce l'esistenza all'uomo secondo una dinamica simile a quella di atto e potenza, e lo rende quindi ente reale, fornito di esistenza (che è propriamente definita da Tommaso actus essendi oltre che di essenza. Soltanto in Dio, atto puro, essenza ed esistenza coincidono. Il rapporto tra Dio (necessario) e la creatura (contingente) è analogico in un solo senso: le creature sono simili a Dio. Il rapporto è di somiglianza non univoca né equivoca. Secondo Tommaso tutti gli enti sono buoni, poiché somigliano a Dio: "bonum" è uno dei tre trascendenti (o trascendentali), ovvero di caratteri applicabili a ogni ente e perciò trascendenti le categorie di Aristotele. Gli altri due sono "unum" e "verum".  Nelle opere di Tommaso l'universo (o cosmo) ha una struttura rigorosamente gerarchica[senza fonte]: posto al vertice da Dio che viene posto come al di là della fisicità, governa da solo il mondo al di sopra di tutte le cose e gli enti; al di sotto di Dio troviamo gli angeli (forme pure e immateriali), ai quali Tommaso attribuisce la definizione di intelligenze motrici dei cieli anch'esse ordinate gerarchicamente tra di loro; poi un gradino più in basso troviamo l'uomo, posto al confine tra il mondo delle sostanze spirituali e il regno della corporeità, in ogni uomo infatti si ha l'unione del corpo (elemento materiale) con l'anima intellettiva (ovvero la forma, che secondo Tommaso costituisce l'ultimo grado delle intelligenze angeliche): l'uomo è l'unico ente che fa parte sia del mondo fisico, sia del mondo spirituale. Tommaso crede che la conoscenza umana cominci con i sensi: l'uomo, non avendo il grado di intelligenza degli angeli, non è in grado di apprendere direttamente gli intelligibili, ma può apprendere solamente attribuendo alle cose una forma e quindi solamente grazie all'esperienza sensibile.  Un'altra facoltà necessaria che caratterizza l'uomo è la sua tendenza a realizzare pienamente la propria natura ovvero compiere ciò per cui è stato creato[senza fonte]. Ciascun uomo infatti corrisponde all'idea divina su cui è modellato, di cui l'uomo è consapevole e razionale, conscio delle proprie finalità, alle quali si dirige volontariamente avvalendosi dell'uso dell'intelletto: l'uomo prende le proprie decisioni sulla base di un ragionamento pratico, attraverso il quale tra due beni sceglie sempre quello più consono al raggiungimento del suo fine. Nel fare ciò segue la Legge naturale, che è scritta nel cuore dell'uomo. La legge naturale, che è un riflesso della Legge eterna, deve essere il fondamento della Legge positiva, cioè l'insieme delle norme che gli uomini stabiliscono storicamente in un dato tempo ed in un dato luogo.  Al di sotto dell'uomo troviamo le piante e le varie molteplicità degli elementi.  Concezione della donna  Sacra conversazione di Monticelli (Ghirlandaio, XV secolo) Tommaso riprende e cita, nella prima parte della Summa theologiae, alle questioni 92 e 99, l'affermazione di Aristotele (De generatione et corruptione 2,3) per cui la donna sarebbe un uomo mancato (mas occasionatus). L'aquinate afferma che "rispetto alla natura particolare la femmina è un essere difettoso e manchevole" (I, 92, 1).  «Infatti la virtù attiva racchiusa nel seme del maschio tende a produrre un essere perfetto simile a sé, di sesso maschile, e il fatto che ne derivi una femmina può dipendere dalla debolezza della virtù attiva, o da un'indisposizione della materia, o da una trasmutazione causata dal di fuori, per esempio dai venti australi, che sono umidi, come dice il filosofo.»  Ma aggiunge: «Rispetto invece alla natura nella sua universalità, la femmina non è un essere mancato, ma è espressamente voluto in ordine alla generazione. Ora, l'ordinamento della natura nella sua universalità dipende da Dio, il quale è l'autore universale della natura. Quindi, nel creare la natura, egli produsse non solo il maschio, ma anche la femmina 2. Ci sono due specie di sudditanza. La prima, servile, è quella per cui chi è a capo si serve dei sottoposti per il proprio interesse: e tale dipendenza sopravvenne dopo il peccato. Ma vi è una seconda sudditanza, economica o politica, in forza della quale chi è a capo si serve dei sottoposti per il loro interesse e per il loro bene. E tale sudditanza ci sarebbe stata anche prima del peccato, poiché senza il governo dei più saggi sarebbe mancato il bene dell'ordine nella società umana. E in questa sudditanza la donna è naturalmente soggetta all'uomo: poiché l'uomo ha per natura un più vigoroso discernimento razionale.»  (Somma teologica, I, 92, 1, ad 1) «la diversità dei sessi rientra nella perfezione della natura umana»  (Somma teologica, I, 99, 2, ad 1.) Importanza ed eredità Magnifying glass icon mgx2.svgTomismo.  Tommaso disputa con Averroè  Trionfo di san Tommaso, di Lippo Memmi  Trionfo di san Tommaso, di Benozzo Gozzoli San Tommaso fu uno dei pensatori più eminenti della filosofia Scolastica, che verso la metà del XIII secolo aveva raggiunto il suo apice. Egli indirizzò diversi aspetti della filosofia del tempo: la questione del rapporto tra fede e ragione, le tesi sull'anima (in contrapposizione ad Averroè), le questioni sull'autorità della religione e della teologia, che subordina ogni campo della conoscenza.  Tali punti fermi del suo pensiero furono difesi da diversi suoi seguaci successivi, tra i quali Reginaldo da Piperno, Tolomeo da Lucca, Giovanni di Napoli, il domenicano francese Giovanni Capreolus e Antonino di Firenze. Infine però, con la lenta dissoluzione della Scolastica, si ebbe parallelamente anche la dissoluzione del Tomismo, col conseguente prevalere di un indirizzo di pensiero nominalista nel successivo sviluppo della filosofia, e una progressiva sfiducia nelle possibilità metafisiche della ragione, che indurrà Lutero a giudicare quest'ultima «cieca, sorda, stolta, empia e sacrilega».[30]  Oggigiorno il pensiero di Tommaso d'Aquino trova ampio consenso anche in ambienti non cattolici (studiosi protestanti statunitensi, ad esempio) e perfino non cristiani, grazie al suo metodo di lavoro, fortemente razionale e aperto a fonti e contributi di ogni genere: la sua indagine intellettuale procede dalla Bibbia agli autori pagani, dagli ebrei ai musulmani, senza alcun pregiudizio, ma tenendo sempre il suo centro nella Rivelazione cristiana, alla quale ogni cultura, dottrina o autore antico faceva capo.[senza fonte] Il suo operato culmina nella Summa Theologiae (cioè "Il complesso di teologia"), in cui tratta in maniera sistematica il rapporto fede-ragione e altre grandi questioni teologiche.  Agostino vedeva il rapporto fede-ragione come un circolo ermeneutico (dal greco ermeneuo, cioè "interpreto") in cui credo ut intelligam et intelligo ut credam (ossia "credo per comprendere e comprendo per credere"). Tommaso porta la fede su un piano superiore alla ragione, affermando che dove la ragione e la filosofia non possono proseguire inizia il campo della fede e il lavoro della teologia.[senza fonte] Dunque, fede e ragione sono certamente in circolo ermeneutico e crescono insieme sia in filosofia che in teologia. Mentre però la filosofia parte da dati dell'esperienza sensibile o razionale, la teologia inizia il circolo con i dati della fede, su cui ragiona per credere con maggiore consapevolezza ai misteri rivelati. La ragione, ammettendo di non poterli dimostrare, riconosce che essi, pur essendo al di sopra di sé, non sono mai assurdi o contro la ragione stessa: fede e ragione, sono entrambe dono di Dio e non possono contraddirsi. Questa posizione esalta ovviamente la ricerca umana: ogni verità che io posso scoprire non minaccerà mai la Rivelazione anzi, rafforzerà la mia conoscenza complessiva dell'opera di Dio e della Parola di Cristo. Si vede qui un esempio tipico della fiducia che nel Medioevo si riponeva nella ragione umana. Nel XIV secolo queste certezze andranno in crisi, coinvolgendo l'intero impianto culturale del periodo precedente.  La teologia, in ambito puramente speculativo, rispetto alla tradizione classica, era considerata una forma inferiore di sapere, poiché usava in prestito gli strumenti della filosofia, ma Tommaso fa notare, citando Aristotele, che anche la filosofia non può dimostrare tutto, perché sarebbe un processo all'infinito. Egli distingue due tipi di scienze: quelle che esaminano i propri principi e quelle che ricevono i principi da altre scienze. L'ideale, per uno spirito concreto come Tommaso, sarebbe superare la fede e raggiungere la conoscenza ma, sui misteri fondamentali della Rivelazione, questo non è possibile nella vita terrena del corpo. Avverrà nella vita eterna dello spirito.  La filosofia è dunque ancilla theologiae e regina scientiarum, prima fra i saperi delle scienze. Il primato del sapere teologico non è nel metodo, ma nei contenuti divini che affronta, per i quali è sacrificabile anche la necessità filosofica.  Il punto di discrimine fra filosofia e teologia è la dimostrazione dell'esistenza di Dio; dei due misteri fondamentali della Fede (Trinitario e Cristologico), la ragione può dimostrare solamente il primo, l'esistenza di Dio, mentre non può dimostrare che questo Dio è necessariamente Trinitario. Ciò non è un paradosso razionale, perché da una premessa falsa non possono che derivare nel sillogismo conseguenze false, è più semplicemente qualcosa che la ragione non può spiegare: un Dio Uno e Trino. Il maggior servizio che la ragione può fare alla fede è che non è possibile nemmeno dimostrare il contrario, che Dio non è Trinitario, che la negazione non dimostrabile della Trinità a sua volta porta conseguenze paradossali e contraddittorie, laddove invece la Sua affermazione per fede è feconda di verità e conseguenze non contraddittorie. La ragione non può entrare nella parte storica dei misteri religiosi, può mostrare solo prove storiche che tal "profeta" è esistito, ma non che era Dio, e il senso della Sua missione, che è appunto un dato, un fatto a cui si può credere o meno.  Il primato della teologia verrà fortemente discusso nei secoli successivi, ma sarà anche lo studio praticato da tutti i filosofi cristiani nel Medioevo e oltre, tant'è che Pascal fece la sua famosa "scommessa" ancora nel XVII secolo. La teologia era questione sentita dal popolo nelle sacre rappresentazioni, era il mondo dei medioevali e degli zelanti studenti che attraversavano a piedi le paludi di Francia per ascoltare le lectiones dell'Aquinate nella prestigiosa Università della Sorbonne di Parigi, incontrandosi da tutta Europa.  Gli storici della filosofia richiamano l'attenzione anche sulla prevalenza dell'intelletto rispetto ad una prevalenza della volontà nella vita intellettuale/spirituale dell'uomo. La prima è seguita da San Tommaso e dalla sua scuola, mentre l'altra è propria di San Bonaventura e della scuola francescana. Per Tommaso il fine supremo è "vedere Dio", mentre per Bonaventura fine ultimo dell'uomo è "amare Dio". Quindi per Tommaso la categoria più alta è "il vero", mentre per Bonaventura è "il bene". Per ambedue però, "il vero" è anche "il bene", e "il bene" è anche "il vero".  Il pensiero di Tommaso ebbe influenza anche su autori non cristiani, a cominciare dal famoso pensatore ebreo Hillel da Verona.  A partire dal secondo Novecento poi il suo pensiero viene ripreso nel dibattito etico da autori cattolici e non, quali Gertrude Elizabeth Margaret Anscombe, Alasdair MacIntyre, Philippa Ruth Foot e Jacques Maritain.  Culto Fu canonizzato nel 1323 da papa Giovanni XXII. La sua memoria viene celebrata dalla Chiesa cattolica il 28 gennaio; la stessa, nella Forma straordinaria, lo ricorda il 7 marzo. La Chiesa luterana lo ricorda l'8 marzo.  San Tommaso d'Aquino è patrono dei teologi, degli accademici, dei librai e degli studenti. È patrono della città e della diocesi privernate e della Città e della diocesi aquinate.  L'11 aprile 1567 papa Pio V lo dichiarò dottore della Chiesa con la bolla Mirabilis Deus.  Il 29 giugno 1923, nel VI centenario della canonizzazione, papa Pio XI gli dedicò l'enciclica Studiorum Ducem.  L'enciclica Aeterni Patris di papa Leone XIII ricorda san Tommaso come il più illustre esponente della Scolastica. Gli statuti dei Benedettini, degli Carmelitani, degli Agostiniani, della Compagnia di Gesù dispongono l'obbligatorietà dello studio e della messa in pratica delle dottrine di Tommaso, del quale l'enciclica afferma:  «Per la verità, sopra tutti i Dottori Scolastici, emerge come duce e maestro San Tommaso d’Aquino, il quale, come avverte il cardinale Gaetano, “perché tenne in somma venerazione gli antichi sacri dottori, per questo ebbe in sorte, in certo qual modo, l’intelligenza di tutti”. Le loro dottrine, come membra dello stesso corpo sparse qua e là, raccolse Tommaso e ne compose un tutto; le dispose con ordine meraviglioso, e le accrebbe con grandi aggiunte, così da meritare di essere stimato singolare presidio ed onore della Chiesa Cattolica. Clemente VI, Nicolò V, Benedetto XIII ed altri attestano che tutta la Chiesa viene illustrata dalle sue meravigliose dottrine; San Pio V poi confessa che mercé la stessa dottrina le eresie, vinte e confuse, si disperdono come nebbia, e che tutto il mondo si salva ogni giorno per merito suo dalla peste degli errori. Altri, con Clemente XII, affermano che dagli scritti di lui sono pervenuti a tutta la Chiesa copiosissimi beni, e che a lui è dovuto quello stesso onore che si rende ai sommi Dottori della Chiesa Gregorio, Ambrogio, Agostino e Girolamo. Altri, infine, non dubitarono di proporlo alle Accademie e ai grandi Licei quale esempio e maestro da seguire a piè sicuro. A conferma di questo Ci sembrano degnissime di essere ricordate le seguenti parole del Beato Urbano V all’Accademia di Tolosa: “Vogliamo, e in forza delle presenti vi imponiamo, che seguiate la dottrina del Beato Tommaso come veridica e cattolica, e che vi studiate con tutte le forze di ampliarla”. Successivamente innocenzo XII, nella Università di Lovanio, e Benedetto XIV, nel Collegio Dionisiano presso Granata, rinnovarono l’esempio di Urbano.»  (Enciclica Aeterni Patris[31]) Opere di San Tommaso Sintesi teologiche Scriptum super libros Sententiarum Summa contra Gentiles Summa Theologiae  Questioni disputate Quaestiones disputatae de Veritate Quaestiones disputatae De potentia Quaestio disputata De anima Quaestio disputata De spiritualibus creaturis Quaestiones disputatae De malo Quaestiones disputatae De uirtutibus Quaestio disputata De unione uerbi incarnati Quaestiones de Quodlibet I-XII  Commenti biblici Expositio super Isaiam ad litteram Super Ieremiam et Threnos Principium “Rigans montes de superioribus” et “Hic est liber mandatorum Dei” Expositio super Iob ad litteram Glossa continua super Evangelia (Catena Aurea) Lectura super Mattheum Lectura super Ioannem Expositio et Lectura super Epistolas Pauli Apostoli Postilla super Psalmos  Commenti ad Aristotele Sententia Libri De anima Sententia Libri De sensu et sensato Sententia super Physicam Sententia super Meteora Expositio Libri Peryermenias Expositio Libri Posteriorum Sententia Libri Ethicorum Tabula Libri Ethicorum Sententia Libri Politicorum Sententia super Metaphysicam Sententia super Librum De caelo et mundo Sententia super Libros De generatione et corruptione  Super libros de generatione et corruptione Altri commenti Super Boetium De Trinitate Expositio Libri Boetii De ebdomadibus Super Librum Dionysii De divinis nomibus Super Librum De Causis  Scritti polemici Contra impugnantes Dei cultum et religionem De perfectione spiritualis vitae Contra doctrinam retrahentium a religione De unitate intellectus contra Avveroistas De aeternitate mundi  Trattati De ente et essentia De principiis naturae Compendium theologiae seu brevis compilatio theologiae ad fratrem Raynaldum De regno ad regem Cypri De substantiis separatis  Lettere e pareri De emptione et venditione ad tempus Contra errores Graecorum De rationibus fidei ad Cantorem Antiochenum Expositio super primam et secundam Decretalem ad Archidiaconum Tudertinum De articulis fidei et ecclesiae sacramentis ad archiepiscopum Panormitanum Responsio ad magistrum Ioannem de Vercellis de 108 articulis De forma absolutionis De secreto Liber De sortibus ad dominum Iacobum de Tonengo Responsiones ad lectorem Venetum de 30 et 36 articulis Responsio ad magistrum Ioannem de Vercellis de 43 articulis Responsio ad lectorem Bisuntinum de 6 articulis Epistola ad ducissam Brabantiae De mixtione elementorum ad magistrum Philippum de Castro Caeli De motu cordis ad magistrum Philippum de Castro Caeli De operationibus occultis naturae ad quendam militem ultramontanum De iudiciis astrorum Epistola ad Bernardum abbatem casinensem  Opere liturgiche, prediche, preghiere Officium de festo Corporis Christi ad mandatum Urbani Papae Inno Adoro te devote Collationes in decem precepta Collationes in orationem dominicam in Symbolum Apostolorum in salutationem angelicam. Traduzioni italiane Lo specchio dell'anima, La sentenza di Tommaso d'Aquino sul "De anima" di Aristotele, Traduzione e testo latino a fronte, Ed. San Paolo, Milano 2012. (È tradotto anche il testo dell'Aristotele latino). Catena aurea, Glossa continua super Evangelia vol. 1, Matteo, Bologna, Matteo, Bologna, Marco, Bologna 2007 Commento ai Libri di Boezio, Super Boetium De Trinitate, Expositio Libri Boetii De Ebdomadibus, Bologna, Commento ai Nomi Divini di Dionigi, Super Librum Dionysii de Divinis Nominibus vol. 1, Bologna 2004 vol. 2, (comprende anche De ente et essentia), Bologna, 2004 Commento al Corpus Paulinum, Expositio et lectura super Epistolas Pauli Apostoli vol. 1, Romani, Bologna 2004 vol. 2, 1 Corinzi, Bologna 2004 vol. 3, 2 Corinzi, Galati, Bologna, 2004 vol. 4, Efesini, Filippesi, Colossesi, Bologna, 2004 vol. 5, Tessalonicesi, Timoteo, Tito, Filemone, Bologna, Ebrei, Bologna, Commento al Libro di Giobbe, Bologna, 1995 Commento all'Etica Nicomachea di Aristotele, Sententia Libri Ethicorum, in 2 volumi, Bologna, 1998 Commento alla Fisica di Aristotele, Sententia super Physicorum vol. 1, Bologna, 2004 vol. 2, Bologna, 2004 vol. 3, Bologna, 2005 Commento alla Metafisica di Aristotele, Sententia super Metaphysicorum vol. 1, Bologna, Bologna, 2005 vol. 3, Bologna, 2005 Commento alla Politica di Aristotele, Sententia Libri Politicorum, Bologna, Commento alle Sentenze di Pietro Lombardo, Scriptum super Libros Sententiarum in 10 volumi, Bologna, Ed. ESD, 2002 Compendio di teologia, Compendium theologiae, Bologna, I Sermoni e le due Lezioni inaugurali, Bologna, 2003 La conoscenza sensibile, Commenti ai libri di Aristotele: Il senso e il sensibile; La memoria e la reminiscenza, Bologna, La perfezione cristiana nella vita consacrata, Bologna, 1995 De venerabili sacramentu altaris, Bologna, 1996 La Somma contro i Gentili, Summa contra Gentiles vol. 1, (traduzione Tito Centi), Bologna (traduzione Tito Centi), Bologna, 2001 vol. 3, (traduzione Tito Centi), Bologna, 2001 La Somma Teologica, Summa Theologiae, in 35 volumi La Somma Teologica, Summa Theologiae, in 6 volumi, Bologna, Ed. ESD Le Questioni Disputate, Quaestiones Disputatae vol. 1, La Verità, Bologna, 1992 vol. 2, La Verità, Bologna, 1992 vol. 3, La Verità, Bologna, 1993 vol. 4, L'anima umana, Bologna, 2001 vol. 5, Le virtù, Bologna, 2002 vol. 6, Il male, Bologna, Il male, Bologna,  La potenza divina, Bologna, La potenza divina, Bologna, Questioni su argomenti vari, Bologna, Questioni su argomenti vari, Bologna, Logica dell'enunciazione, Commento al libro di Aristotele Peri Hermeneias, Expositio Libri Peryermenias, Bologna, Opuscoli politici: Il governo dei principi, Lettera alla duchessa del Brabante, La dilazione nella compravendita, Bologna, Opuscoli spirituali: Commenti al Credo, Padre Nostro, Ave Maria, Dieci Comandamenti, Ufficio e Messa per la Festa del Corpus Domini, Le preghiere di san Tommaso, Lettera a uno studente, Bologna, Pagine di Filosofia: I principi della natura, De principiis naturae ad fratrem Silvestrum, sola trad. it., e antologia ragionata e commentata di altri brani filosofici di antropologia, gnoseologia, teologia naturale, etica, politica e pedagogia. Inni eucaristici A Tommaso d'Aquino sono classicamente attribuiti gli inni eucaristici per la solennità del Corpus Domini, usati per secoli in occasione dell'adorazione eucaristica. Gli inni sono stati confermati nella liturgia solenne dal Concilio Vaticano II:  Adoro te devote Pange lingua, che contiene al termine il Tantum ergo sacramentum Sacris sollemniis Verbum supernum prodiens Note  Napoli A.N. Rossi, Delle dissertazioni di Alessio Niccolo Rossi intorno ad alcune materie alla citta di Napoli appartenenti, Pasquale Cayro, Storia sacra e profana d'Aquino e sua diocesi del signor D. Pasquale Cayro, patrizio anagnino, Vincenzo Orsino, 1808,348.  Ferante della Marra, Discorsi delle famiglie estinte, forastiere o non comprese ne' seggi di Napoli imparentate colla casa della Marra. Composti dal signor Ferrante della Marra duca della Guardia, dati in luce da Camillo Tutini, Ottavio Beltrano, Jean-Pierre Torrell, O. P., Amico della verità: vita e opere di Tommaso d'Aquino, Edizioni Studio Domenicano, Fino a pochi anni fa gli storici avevano dei dubbi sulla veridicità del soggiorno di Tommaso a Parigi nel periodo immediatamente successivo a quello in cui la sua famiglia lo restituì all'Ordine. Dallo studio delle fonti, Walz-Novarina concludono che il viaggio di Tommaso in compagnia di Giovanni Teutonico «... senza essere certo, può considerarsi probabile... », ma erano più riservati circa la questione degli studi a Parigi. Grandi eruditi come Denifle e De Groot si associano a questa opinione, ma altri come Mandonnet, Chenu e Glorieux, osservano che il viaggio a Parigi non avrebbe avuto alcun senso se Tommaso non avesse dovuto svolgervi i suoi studi, questo perché lo studium generale di Colonia non era funzionante prima del 1248, data della sua apertura dovuta a fra Alberto al momento del suo ritorno in questa città.  Sofia Vanni Rovighi, Introduzione a Tommaso d'Aquino, Roma-Bari, Laterza, Aristotele, Etica Nicomachea, a cura di Marcello Zanatta, traduzione di Marcello Zanatta, vol. 1, 8. ed, Milano, Rizzoli, Astrid Filangieri, La vita e le Opere di San Tommaso d'Aquino. Storia dell'Ordine Domenicano a Firenze, su fiorentininelmondo.La cella di San Tommaso a San Domenico Maggiore (Napoli). G. Bosco, Storia ecclesiastica ad uso della gioventù utile ad ogni grado di persone, Torino, Libreria Salesiana Editore, con l'approvazione del card. Lorenzo Gastaldi, arcivescovo di Torino  Filmato audio Luca Bianchi, Onorato Grassi e Costantino Esposito, Tommaso e la sua eredità - il pensiero che nasce dall'esperienza, Centro Culturale di Milano,   «Non è vero che alcuni traduttori lavorassero al suo servizio, come Guglielmo di Moerbeke». (v. 1h 14').  Premio letterario internazionale San Tommaso d’Aquino, sabato 4 a Mercato San Severino., su gazzettadisalerno, Mercato San Severino (SA), Convento di San Domenico a Salerno, oggi caserma, su salernodavedere. Sandra Isetta, Il piccolo Tommaso e l'"appetito" per i libri, in L'Osservatore Romano. Jean-Pierre Torrell, Amico della verità,392  Quaestio 76 della Parte I della Summa Theologiae di San Tommaso d'Aquino. A cura di Marcello Landi  Massimo Adinolfi, Francesco Paolo Adorno, Francesco Berto, Massimo Cacciari, Piero Coda, Carmela Covino, Adriano Fabris, Franco Ferrari, Ernesto Forcellino, Carlo Sini, Luigi Vero Tarca, Vincenzo Vitiello, La conoscenza di Dio tra remotio e revelatio nella "Summa theologiae" di San Tommaso D'Aquino, in Il Pensiero. Rivista di filosifia, XLVI, Inschibboleth Edizioni,  S. Th. I, q.2, a.2, c. e luoghi paralleli nei commenti aristotelici  Cf. Summa Theologiae, Iª q. 2 a. 3  Cf. Summa Theologiae, pars I, quaestio 2 articolo 3.  Immanuel Kant, Critica della ragion pura, Laterza, Leo Elders, The Philosophical Theology of St. Thomas Aquinas, E.J. Brill, When St. Thomas Aquinas had a foretaste of heaven on St. Nicholas’ feast day, su lifesitenews.com, Cf. Quaestio disputata de anima, a. 3 ad 1; Summa Theologiae, Iª q. 16 aa. 1-2.  Sofia Vanni Rovighi, Introduzione a Tommaso d'Aquino, Roma-Bari, Laterza,  Summa contra gentiles, libro II, 31-37 e Summa theologiae, pars I quaestio 46  La Somma Teologica. Sola trad. italiana: Volume 1 - Prima Parte, Edizioni Studio Domenicano, «Né prima né dopo, si è pensato con tanta precisione, con tanta intima sicurezza logica, quanto nell'epoca dell'alta Scolastica. L'essenziale è che allora il puro pensiero si svolgeva con matematica sicurezza di idea in idea, di giudizio in giudizio, di conclusione in conclusione» (Rudolf Steiner, La filosofia di Tommaso d'Aquino, II, Opera Omnia, 74). Steiner aggiungeva che «il nominalismo è il padre di tutto lo scetticismo moderno» (conferenza del marzo 1908, cit. in Posizione dell'antroposofia nei confronti della filosofia, O.O., 108).  Martin Lutero, Servo arbitrio, WA 51, 126.  Encilica Aeterni Patris, su vatican.va. (o la traduzione similare qui riportata.  Heinrich Fries, Georg Kretschmar (a cura di), I classici della teologia, Jaca Book, 2005,978-88-16-30402-4. Annotazioni  Nella Sala del Tesoro di San Domenico Maggiore è conservato un arazzo raffigurante il Carro del Sole, parte delle Storie ed alle Virtù di san Tommaso d’Aquino, donato ai domenicani da Vincenza Maria d’Aquino Pico Bibliografia Tommaso d'Aquino, Super libros de generatione et corruptione, Jacques Myt, Jacques Giunta. Thomas Aquinas; Richard J. Regan, Compendium of theology Oxford University Press. Aimé Forest, Saint Thomas d'Aquin,Mellottée, Le Ragioni del Tomismo dopo il centenario dell'enciclica "Aeterni Patris", Ares, Milano, Maria Cristina Bartolomei, Tomismo e Principio di non contraddizione, Milani, Padova, 1973 Giuseppe Barzaghi, La Somma Teologica di San Tommaso d'Aquino, in Compendio. Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 2009 Inos Biffi, La teologia e un teologo. San Tommaso d'Aquino, Edizioni Piemme, Casale Monferrato (AL), [ Krzysztof Charamsa, Dispensa introduttiva “Trinità di San Tommaso”, Pontificio Ateneo Regina Apostolorum - Facoltà di Teologia, 2006. Marie-Dominique Chenu, Introduzione allo studio di S. Tommaso d'Aquino, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, Gilbert Keith Chesterton, Tommaso d'Aquino, Guida Editori, Napoli, Piero Coda, Contemplare e condividere la luce di Dio: la missione della Teo-logia in Tommaso d'Aquino, Città Nuova, Roma, 2014 Marco D'Avenia, La Conoscenza per Connaturalità, Edizioni Studio Domenicano, Bologna, 1992 Cornelio Fabro, Introduzione a San Tommaso. La metafisica tomista e il pensiero moderno, Ares, Milano, Cornelio Fabro, La nozione metafisica di partecipazione secondo S. Tommaso d'Aquino, S.E.I., Torino, Umberto Galeazzi, L'etica Filosofica in Tommaso D'Aquino: Dalla Summa Theologiae Alla Contra Gentiles per Una Riscoperta Dei Fondamenti Della Morale Città Nuova, Roma, 1989. 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Voci correlate Corpus Domini Dio, essere e ragione in Tommaso d'Aquino Ebraismo e Cristianità Opere Adoro Te Devote Quaestio disputata de malo Summa Theologiae Personalità Al-Ghazali Domingo Báñez Hillel ben Samuel da Verona San Bernardo di Chiaravalle San Bonaventura da Bagnoregio Teologia e filosofia Comunione dei santi Tomismo Filosofia medioevale Analogia entis Trascendenza Nunc stans Essenza Timeo hominem unius libri Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Tommaso d'Aquino Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina in lingua latina dedicata a Tommaso d'Aquino Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Tommaso d'Aquino Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Tommaso d'Aquino Collegamenti esterni Tommaso d'Aquino, su Treccani – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Tommaso d'Aquino, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.Tommaso d'Aquino, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2010.Tommaso d'Aquino, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc.Tommaso d'Aquino, su BeWeb, Conferenza Episcopale Italiana.Tommaso d'Aquino / Tommaso d'Aquino (altra versione), su Find a Grave.Opere di Tommaso d'Aquino / Tommaso d'Aquino (altra versione) / Tommaso d'Aquino (altra versione) / Tommaso d'Aquino (altra versione), su openMLOL, Horizons Unlimited srl.Opere di Tommaso d'Aquino / Tommaso d'Aquino (altra versione) / Tommaso d'Aquino (altra versione), su Open Library, Internet Archive.Opere di Tommaso d'Aquino, su Progetto Gutenberg.Audiolibri di Tommaso d'Aquino, su LibriVox.Bibliografia di Tommaso d'Aquino, su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff.Thomas Aquinas, su Goodreads.(FR) Bibliografia su Tommaso d'Aquino, su Les Archives de littérature du Moyen Âge.Tommaso d'Aquino, in Catholic Encyclopedia, Robert Appleton Company.Tommaso d'Aquino, su Santi, beati e testimoni, santiebeati.Spartiti o libretti di Tommaso d'Aquino, su International Music Score Library Project, Project Petrucci LLC.BiografiaTommaso d'Aquino dall'Internet Encyclopedia of Philosophy, su iep.utm.edu. 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V · D · M Padri e dottori della Chiesa cattolica V · D · M Famiglia domenicana. ·Biografie Portale Biografie Cattolicesimo Portale Cattolicesimo Filosofia Portale Filosofia Medioevo Portale Medioevo Categorie: Religiosi italianiTeologi italianiFilosofi italiani del XIII secoloNati nel 1225Morti nel 1274Morti il 7 marzoNati a RoccaseccaTommaso d'AquinoAccademici italianiProfessori dell'Università di ParigiDottori della Chiesa cattolicaFilosofi cattoliciFilosofi della politicaDomenicani italianiScolasticiSanti italiani del XIII secoloSanti canonizzati da Giovanni XXIISanti domenicaniSanti per nomePersonaggi citati nella Divina Commedia (Paradiso)Studenti dell'Università degli Studi di Napoli Federico IIScrittori medievali in lingua latinaTomismoSanti incorrotti[altre] “Perhaps the Italian most studied at Oxford!”Grice. Aquino and intentionalityClarkArmini -- aquinokeyword: “medieval pragmatics”! -- thomism, the theology and philosophy of Thomas Aquinas. The term is applied broadly to various thinkers from different periods who were heavily influenced by Aquinas’s thought in their own philosophizing and theologizing. Here three different eras and three different groups of thinkers will be distinguished: those who supported Aquinas’s thought in the fifty years or so following his death in 1274; certain highly skilled interpreters and commentators who flourished during the period of “Second Thomism” sixteenthseventeenth centuries; and various late nineteenth- and twentieth-century thinkers who have been deeply influenced in their own work by Aquinas. Thirteenth- and fourteenth-century Thomism. Although Aquinas’s genius was recognized by many during his own lifetime, a number of his views were immediately contested by other Scholastic thinkers. Controversies ranged, e.g., over his defense of only one substantial form in human beings; his claim that prime matter is purely potential and cannot, therefore, be kept in existence without some substantial form, even by divine power; his emphasis on the role of the human intellect in the act of choice; his espousal of a real distinction betweeen the soul and its powers; and his defense of some kind of objective or “real” rather than a merely mind-dependent composition of essence and act of existing esse in creatures. Some of Aquinas’s positions were included directly or indirectly in the 219 propositions condemned by Bishop Stephen Tempier of Paris in 1277, and his defense of one single substantial form in man was condemned by Archbishop Robert Kilwardby at Oxford in 1277, with renewed prohibitions by his successor as archbishop of Canterbury, John Peckham, in 1284 and 1286. Only after Aquinas’s canonization in 1323 were the Paris prohibitions revoked insofar as they touched on his teaching in 1325. Even within his own Dominican order, disagreement about some of his views developed within the first decades after his death, notwithstanding the order’s highly sympathetic espousal of his cause. Early English Dominican defenders of his general views included William Hothum d.1298, Richard Knapwell d.c.1288, Robert Orford b. after 1250, fl.129095, Thomas Sutton d. c. and William Macclesfield, Dominican Thomists included Bernard of Trilia d.1292, Giles of Lessines in present-day Belgium d.c.1304?, John Quidort of Paris d. 1306, Bernard of Auvergne d. after 1307, Hervé Nédélec d.1323, Armand of Bellevue fl. 131634, and William Peter Godin d.1336. The secular master at Paris, Peter of Auvergne d. 1304, while remaining very independent in his own views, knew Aquinas’s thought well and completed some of his commentaries on Aristotle. Sixteenth- and seventeenth-century Thomism. Sometimes known as the period of Second Thomism, this revival gained impetus from the early fifteenth-century writer John Capreolus 13801444 in his Defenses of Thomas’s Theology Defensiones theologiae Divi Thomae, a commentary on the Sentences. A number of fifteenth-century Dominican and secular teachers in G. universities also contributed: Kaspar Grunwald Freiburg; Cornelius Sneek and John Stoppe in Rostock; Leonard of Brixental Vienna; Gerard of Heerenberg, Lambert of Heerenberg, and John Versor all at Cologne; Gerhard of Elten; and in Belgium Denis the Carthusian. Outstanding among various sixteenth-century commentators on Thomas were Tommaso de Vio Cardinal Cajetan, Francis Sylvester of Ferrara, Francisco de Vitoria Salamanca, and Francisco’s disciples Domingo de Soto and Melchior Cano. Most important among early seventeenth-century Thomists was John of St. Thomas, who lectured at Piacenza, Madrid, and Alcalá, and is best known for his Cursus philosophicus and his Cursus theologicus. Theravada Buddhism Thomism 916   916 The nineteenth- and twentieth-century revival. By the early to mid-nineteenth century the study of Aquinas had been largely abandoned outside Dominican circles, and in most Roman Catholic s and seminaries a kind of Cartesian and Suarezian Scholasticism was taught. Long before he became Pope Leo XIII, Joachim Pecci and his brother Joseph had taken steps to introduce the teaching of Thomistic philosophy at the diocesan seminary at Perugia in 1846. Earlier efforts in this direction had been made by Vincenzo Buzzetti, by Buzzetti’s students Serafino and Domenico Sordi, and by Taparelli d’Aglezio, who became director of the Collegio Romano Gregorian  in 1824. Leo’s encyclical Aeterni Patris1879 marked an official effort on the part of the Roman Catholic church to foster the study of the philosophy and theology of Thomas Aquinas. The intent was to draw upon Aquinas’s original writings in order to prepare students of philosophy and theology to deal with problems raised by contemporary thought. The Leonine Commission was established to publish a critical edition of all of Aquinas’s writings; this effort continues today. Important centers of Thomistic studies developed, such as the Higher Institute of Philosophy at Louvain founded by Cardinal Mercier, the Dominican School of Saulchoir in France, and the Pontifical Institute of Mediaeval Studies in Toronto. Different groups of Roman, Belgian, and  Jesuits acknowledged a deep indebtedness to Aquinas for their personal philosophical reflections. There was also a concentration of effort in the United States at universities such as The Catholic  of America, St. Louis, Notre Dame, Fordham, Marquette, and Boston, to mention but a few, and by the Dominicans at River Forest. A great weakness of many of the nineteenthand twentieth-century Latin manuals produced during this effort was a lack of historical sensitivity and expertise, which resulted in an unreal and highly abstract presentation of an “Aristotelian-Thomistic” philosophy. This weakness was largely offset by the development of solid historical research both in the thought of Aquinas and in medieval philosophy and theology in general, championed by scholars such as H. Denifle, M. De Wulf, M. GrabmannMandonnet, F. Van Steenberghen, E. Gilson and many of his students at Toronto, and by a host of more recent and contemporary scholars. Much of this historical work continues today both within and without Catholic scholarly circles. At the same time, remarkable diversity in interpreting Aquinas’s thought has emerged on the part of many twentieth-century scholars. Witness, e.g., the heavy influence of Cajetan and John of St. Thomas on the Thomism of Maritain; the much more historically grounded approaches developed in quite different ways by Gilson and F. Van Steenberghen; the emphasis on the metaphysics of participation in Aquinas in the very different presentations by L. Geiger and C. Fabro; the emphasis on existence esse promoted by Gilson and many others but resisted by still other interpreters; the movement known as Transcendental Thomism, originally inspired byRousselot and by J. Marechal in dialogue with Kant; and the long controversy about the appropriateness of describing Thomas’s philosophy and that of other medievals as a Christian philosophy. An increasing number of non-Catholic thinkers are currently directing considerable attention to Aquinas, and the varying backgrounds they bring to his texts will undoubtedly result in still other interesting interpretations and applications of his thought to contemporary concerns.  : --a strange genitive for “Aquino,” the little village where the saint was born. while Grice, being C. of E., would avoid Aquinas like the rats, he was aware of Aquinas’s clever ‘intention-based semantics’ in his commentary of Aristotle’s De Interpretatione.  Thomas, philosopher-theologian, the most influential thinker of the medieval period. He produced a powerful philosophical synthesis that combined Aristotelian and Neoplatonic elements within a Christian context in an original and ingenious way. Life and works. Thomas was born at Aquino castle in Roccasecca, Italy, and took early schooling at the Benedictine Abbey of Monte Cassino. He then studied liberal arts and philosophy at the  of Naples 123944 and joined the Dominican order. While going to Paris for further studies as a Dominican, he was detained by his family for about a year. Upon being released, he studied with the Dominicans at Paris, perhaps privately, until 1248, when he journeyed to a priori argument Aquinas, Saint Thomas 36   36 Cologne to work under Albertus Magnus. Thomas’s own report reportatio of Albertus’s lectures on the Divine Names of Dionysius and his notes on Albertus’s lectures on Aristotle’s Ethics date from this period. In 1252 Thomas returned to Paris to lecture there as a bachelor in theology. His resulting commentary on the Sentences of Peter Lombard dates from this period, as do two philosophical treatises, On Being and Essence De ente et essentia and On the Principles of Nature De principiis naturae. In 1256 he began lecturing as master of theology at Paris. From this period 125659 date a series of scriptural commentaries, the disputations On Truth De veritate, Quodlibetal Questions VIIXI, and earlier parts of the Summa against the Gentiles Summa contra gentiles; hereafter SCG. At different locations in Italy from 1259 to 1269, Thomas continued to write prodigiously, including, among other works, the completion of the SCG; a commentary on the Divine Names; disputations On the Power of God De potentia Dei and On Evil De malo; and Summa of Theology Summa theologiae; hereafter ST, Part I. In January 1269, he resumed teaching in Paris as regent master and wrote extensively until returning to Italy in 1272. From this second Parisian regency date the disputations On the Soul De anima and On Virtues De virtutibus; continuation of ST; Quodlibets IVI and XII; On the Unity of the Intellect against the Averroists De unitate intellectus contra Averroistas; most if not all of his commentaries on Aristotle; a commentary on the Book of Causes Liber de causis; and On the Eternity of the World De aeternitate mundi. In 1272 Thomas returned to Italy where he lectured on theology at Naples and continued to write until December 6, 1273, when his scholarly work ceased. He died three months later en route to the Second Council of Lyons. Doctrine. Aquinas was both a philosopher and a theologian. The greater part of his writings are theological, but there are many strictly philosophical works within his corpus, such as On Being and Essence, On the Principles of Nature, On the Eternity of the World, and the commentaries on Aristotle and on the Book of Causes. Also important are large sections of strictly philosophical writing incorporated into theological works such as the SCG, ST, and various disputations. Aquinas clearly distinguishes between strictly philosophical investigation and theological investigation. If philosophy is based on the light of natural reason, theology sacra doctrina presupposes faith in divine revelation. While the natural light of reason is insufficient to discover things that can be made known to human beings only through revelation, e.g., belief in the Trinity, Thomas holds that it is impossible for those things revealed to us by God through faith to be opposed to those we can discover by using human reason. For then one or the other would have to be false; and since both come to us from God, God himself would be the author of falsity, something Thomas rejects as abhorrent. Hence it is appropriate for the theologian to use philosophical reasoning in theologizing. Aquinas also distinguishes between the orders to be followed by the theologian and by the philosopher. In theology one reasons from belief in God and his revelation to the implications of this for created reality. In philosophy one begins with an investigation of created reality insofar as this can be understood by human reason and then seeks to arrive at some knowledge of divine reality viewed as the cause of created reality and the end or goal of one’s philosophical inquiry SCG II, c. 4. This means that the order Aquinas follows in his theological Summae SCG and ST is not the same as that which he prescribes for the philosopher cf. Prooemium to Commentary on the Metaphysics. Also underlying much of Aquinas’s thought is his acceptance of the difference between theoretical or speculative philosophy including natural philosophy, mathematics, and metaphysics and practical philosophy. Being and analogy. For Aquinas the highest part of philosophy is metaphysics, the science of being as being. The subject of this science is not God, but being, viewed without restriction to any given kind of being, or simply as being Prooemium to Commentary on Metaphysics; In de trinitate, qu. 5, a. 4. The metaphysician does not enjoy a direct vision of God in this life, but can reason to knowledge of him by moving from created effects to awareness of him as their uncreated cause. God is therefore not the subject of metaphysics, nor is he included in its subject. God can be studied by the metaphysician only indirectly, as the cause of the finite beings that fall under being as being, the subject of the science. In order to account for the human intellect’s discovery of being as being, in contrast with being as mobile studied by natural philosophy or being as quantified studied by mathematics, Thomas appeals to a special kind of intellectual operation, a negative judgment, technically named by him “separation.” Through this operation one discovers that being, in order to be realized as such, need not be material and changAquinas, Saint Thomas Aquinas, Saint Thomas 37   37 ing. Only as a result of this judgment is one justified in studying being as being. Following Aristotle and Averroes, Thomas is convinced that the term ‘being’ is used in various ways and with different meanings. Yet these different usages are not unrelated and do enjoy an underlying unity sufficient for being as being to be the subject of a single science. On the level of finite being Thomas adopts and adapts Aristotle’s theory of unity by reference to a first order of being. For Thomas as for Aristotle this unity is guaranteed by the primary referent in our predication of being  substance. Other things are named being only because they are in some way ordered to and dependent on substance, the primary instance of being. Hence being is analogous. Since Thomas’s application of analogy to the divine names presupposes the existence of God, we shall first examine his discussion of that issue. The existence of God and the “five ways.” Thomas holds that unaided human reason, i.e., philosophical reason, can demonstrate that God exists, that he is one, etc., by reasoning from effect to cause De trinitate, qu. 2, a. 3; SCG I, c. 4. Best-known among his many presentations of argumentation for God’s existence are the “five ways.” Perhaps even more interesting for today’s student of his metaphysics is a brief argument developed in one of his first writings, On Being and Essence c.4. There he wishes to determine how essence is realized in what he terms “separate substances,” i.e., the soul, intelligences angels of the Christian tradition, and the first cause God. After criticizing the view that created separate substances are composed of matter and form, Aquinas counters that they are not entirely free from composition. They are composed of a form or essence and an act of existing esse. He immediately develops a complex argument: 1 We can think of an essence or quiddity without knowing whether or not it actually exists. Therefore in such entities essence and act of existing differ unless 2 there is a thing whose quiddity and act of existing are identical. At best there can be only one such being, he continues, by eliminating multiplication of such an entity either through the addition of some difference or through the reception of its form in different instances of matter. Hence, any such being can only be separate and unreceived esse, whereas esse in all else is received in something else, i.e., essence. 3 Since esse in all other entities is therefore distinct from essence or quiddity, existence is communicated to such beings by something else, i.e., they are caused. Since that which exists through something else must be traced back to that which exists of itself, there must be some thing that causes the existence of everything else and that is identical with its act of existing. Otherwise one would regress to infinity in caused causes of existence, which Thomas here dismisses as unacceptable. In qu. 2, a. 1 of ST I Thomas rejects the claim that God’s existence is self-evident to us in this life, and in a. 2 maintains that God’s existence can be demonstrated by reasoning from knowledge of an existing effect to knowledge of God as the cause required for that effect to exist. The first way or argument art. 3 rests upon the fact that various things in our world of sense experience are moved. But whatever is moved is moved by something else. To justify this, Thomas reasons that to be moved is to be reduced from potentiality to actuality, and that nothing can reduce itself from potency to act; for it would then have to be in potency if it is to be moved and in act at the same time and in the same respect. This does not mean that a mover must formally possess the act it is to communicate to something else if it is to move the latter; it must at least possess it virtually, i.e., have the power to communicate it. Whatever is moved, therefore, must be moved by something else. One cannot regress to infinity with moved movers, for then there would be no first mover and, consequently, no other mover; for second movers do not move unless they are moved by a first mover. One must, therefore, conclude to the existence of a first mover which is moved by nothing else, and this “everyone understands to be God.” The second way takes as its point of departure an ordering of efficient causes as indicated to us by our investigation of sensible things. By this Thomas means that we perceive in the world of sensible things that certain efficient causes cannot exercise their causal activity unless they are also caused by something else. But nothing can be the efficient cause of itself, since it would then have to be prior to itself. One cannot regress to infinity in ordered efficient causes. In ordered efficient causes, the first is the cause of the intermediary, and the intermediary is the cause of the last whether the intermediary is one or many. Hence if there were no first efficient cause, there would be no intermediary and no last cause. Thomas concludes from this that one must acknowledge the existence of a first efficient cause, “which everyone names God.” The third way consists of two major parts. Some Aquinas, Saint Thomas Aquinas, Saint Thomas 38   38 textual variants have complicated the proper interpretation of the first part. In brief, Aquinas appeals to the fact that certain things are subject to generation and corruption to show that they are “possible,” i.e., capable of existing and not existing. Not all things can be of this kind revised text, for that which has the possibility of not existing at some time does not exist. If, therefore, all things are capable of not existing, at some time there was nothing whatsoever. If that were so, even now there would be nothing, since what does not exist can only begin to exist through something else that exists. Therefore not all beings are capable of existing and not existing. There must be some necessary being. Since such a necessary, i.e., incorruptible, being might still be caused by something else, Thomas adds a second part to the argument. Every necessary being either depends on something else for its necessity or it does not. One cannot regress to infinity in necessary beings that depend on something else for their necessity. Therefore there must be some being that is necessary of itself and that does not depend on another cause for its necessity, i.e., God. The statement in the first part to the effect that what has the possibility of not existing at some point does not exist has been subject to considerable dispute among commentators. Moreover, even if one grants this and supposes that every individual being is a “possible” and therefore has not existed at some point in the past, it does not easily follow from this that the totality of existing things will also have been nonexistent at some point in the past. Given this, some interpreters prefer to substitute for the third way the more satisfactory versions found in SCG I ch. 15 and SCG II ch. 15. Thomas’s fourth way is based on the varying degrees of perfection we discover among the beings we experience. Some are more or less good, more or less true, more or less noble, etc., than others. But the more and less are said of different things insofar as they approach in varying degrees something that is such to a maximum degree. Therefore there is something that is truest and best and noblest and hence that is also being to the maximum degree. To support this Thomas comments that those things that are true to the maximum degree also enjoy being to the maximum degree; in other words he appeals to the convertibility between being and truth of being. In the second part of this argument Thomas argues that what is supremely such in a given genus is the cause of all other things in that genus. Therefore there is something that is the cause of being, goodness, etc., for all other beings, and this we call God. Much discussion has centered on Thomas’s claim that the more and less are said of different things insofar as they approach something that is such to the maximum degree. Some find this insufficient to justify the conclusion that a maximum must exist, and would here insert an appeal to efficient causality and his theory of participation. If certan entities share or participate in such a perfection only to a limited degree, they must receive that perfection from something else. While more satisfactory from a philosophical perspective, such an insertion seems to change the argument of the fourth way significantly. The fifth way is based on the way things in the universe are governed. Thomas observes that certain things that lack the ability to know, i.e., natural bodies, act for an end. This follows from the fact that they always or at least usually act in the same way to attain that which is best. For Thomas this indicates that they reach their ends by “intention” and not merely from chance. And this in turn implies that they are directed to their ends by some knowing and intelligent being. Hence some intelligent being exists that orders natural things to their ends. This argument rests on final causality and should not be confused with any based on order and design. Aquinas’s frequently repeated denial that in this life we can know what God is should here be recalled. If we can know that God exists and what he is not, we cannot know what he is see, e.g., SCG I, c. 30. Even when we apply the names of pure perfections to God, we first discover such perfections in limited fashion in creatures. What the names of such perfections are intended to signify may indeed be free from all imperfection, but every such name carries with it some deficiency in the way in which it signifies. When a name such as ‘goodness’, for instance, is signified abstractly e.g., ‘God is goodness’, this abstract way of signifying suggests that goodness does not subsist in itself. When such a name is signified concretely e.g., ‘God is good’, this concrete way of signifying implies some kind of composition between God and his goodness. Hence while such names are to be affirmed of God as regards that which they signify, the way in which they signify is to be denied of him. This final point sets the stage for Thomas to apply his theory of analogy to the divine names. Names of pure perfections such as ‘good’, ‘true’, ‘being’, etc., cannot be applied to God with Aquinas, Saint Thomas Aquinas, Saint Thomas 39   39 exactly the same meaning they have when affirmed of creatures univocally, nor with entirely different meanings equivocally. Hence they are affirmed of God and of creatures by an analogy based on the relationship that obtains between a creature viewed as an effect and God its uncaused cause. Because some minimum degree of similarity must obtain between any effect and its cause, Thomas is convinced that in some way a caused perfection imitates and participates in God, its uncaused and unparticipated source. Because no caused effect can ever be equal to its uncreated cause, every perfection that we affirm of God is realized in him in a way different from the way we discover it in creatures. This dissimilarity is so great that we can never have quidditative knowledge of God in this life know what God is. But the similarity is sufficient for us to conclude that what we understand by a perfection such as goodness in creatures is present in God in unrestricted fashion. Even though Thomas’s identification of the kind of analogy to be used in predicating divine names underwent some development, in mature works such as On the Power of God qu. 7, a. 7, SCG I c.34, and ST I qu. 13, a. 5, he identifies this as the analogy of “one to another,” rather than as the analogy of “many to one.” In none of these works does he propose using the analogy of “proportionality” that he had previously defended in On Truth qu. 2, a. 11. Theological virtues. While Aquinas is convinced that human reason can arrive at knowledge that God exists and at meaningful predication of the divine names, he does not think the majority of human beings will actually succeed in such an effort SCG I, c. 4; ST IIIIae, qu. 2, a. 4. Hence he concludes that it was fitting for God to reveal such truths to mankind along with others that purely philosophical inquiry could never discover even in principle. Acceptance of the truth of divine revelation presupposes the gift of the theological virtue of faith in the believer. Faith is an infused virtue by reason of which we accept on God’s authority what he has revealed to us. To believe is an act of the intellect that assents to divine truth as a result of a command on the part of the human will, a will that itself is moved by God through grace ST II IIae, qu. 2, a. 9. For Thomas the theological virtues, having God the ultimate end as their object, are prior to all other virtues whether natural or infused. Because the ultimate end must be present in the intellect before it is present to the will, and because the ultimate end is present in the will by reason of hope and charity the other two theological virtues, in this respect faith is prior to hope and charity. Hope is the theological virtue through which we trust that with divine assistance we will attain the infinite good  eternal enjoyment of God ST IIIIae, qu. 17, aa. 12. In the order of generation, hope is prior to charity; but in the order of perfection charity is prior both to hope and faith. While neither faith nor hope will remain in those who reach the eternal vision of God in the life to come, charity will endure in the blessed. It is a virtue or habitual form that is infused into the soul by God and that inclines us to love him for his own sake. If charity is more excellent than faith or hope ST II IIae, qu. 23, a. 6, through charity the acts of all other virtues are ordered to God, their ultimate end qu. 23, a. 8.  Aquino -- Aquinismo“If followers of William are called Occamists, followers of a Saint should surely call themselves “Aquinistae”! -- neo-Thomismas opposed to palaeo-Thomism --, a philosophical-theological movement in the nineteenth and twentieth centuries manifesting a revival of interest in Aquinas. It was stimulated by Pope Leo XIII’s encyclical Aeterni Patris 1879 calling for a renewed emphasis on the teaching of Thomistic principles to meet the intellectual and social challenges of modernity. The movement reached its peak in the 0s, though its influence continues to be seen in organizations such as the  Catholic Philosophical Association. Among its major figures are Joseph Kleutgen, Désiré Mercier, Joseph Maréchal, Pierre Rousselot, Réginald Garrigou-LaGrange, Martin Grabmann, M.-D. Chenu, Jacques Maritain, Étienne Gilson, Yves R. Simon, Josef Pieper, Karl Rahner, Cornelio Fabro, Emerich Coreth, Bernard Lonergan, and W. Norris Clarke. Few, if any, of these figures have described themselves as NeoThomists; some explicitly rejected the designation. Neo-Thomists have little in common except their commitment to Aquinas and his relevance to the contemporary world. Their interest produced a more historically accurate understanding of Aquinas and his contribution to medieval thought Grabmann, Gilson, Chenu, including a previously ignored use of the Platonic metaphysics of participation Fabro. This richer understanding of Aquinas, as forging a creative synthesis in the midst of competing traditions, has made arguing for his relevance easier. Those Neo-Thomists who were suspicious of modernity produced fresh readings of Aquinas’s texts applied to contemporary problems Pieper, Gilson. Their influence can be seen in the revival of virtue theory and the work of Alasdair MacIntyre. Others sought to develop Aquinas’s thought with the aid of later Thomists Maritain, Simon and incorporated the interpretations of Counter-Reformation Thomists, such as Cajetan and Jean Poinsot, to produce more sophisticated, and controversial, accounts of the intelligence, intentionality, semiotics, and practical knowledge. Those Neo-Thomists willing to engage modern thought on its own terms interpreted modern philosophy sympathetically using the principles of Aquinas Maréchal, Lonergan, Clarke, seeking dialogue rather than confrontation. However, some readings of Aquinas are so thoroughly integrated into modern philosophy that they can seem assimilated Rahner, Coreth; their highly individualized metaphysics inspired as much by other philosophical influences, especially Heidegger, as Aquinas. Some of the labels currently used among Neo-Thomists suggest a division in the movement over critical, postKantian methodology. ‘Existential Thomism’ is used for those who emphasize both the real distinction between essence and existence and the role of the sensible in the mind’s first grasp of being. ‘Transcendental Thomism’ applies to figures like Maréchal, Rousselot, Rahner, and Coreth who rely upon the inherent dynamism of the mind toward the real, rooted in Aquinas’s theory of the active intellect, from which to deduce their metaphysics of being.  Dedicatio. Dilecto sibi praeposito Lovaniensi frater Thomas de Aquino salutem et verae sapientiae incrementa. Diligentiae tuae, qua in iuvenili aetate non vanitati sed sapientiae intendis, studio provocatus, et desiderio satisfacere cupiens, libro Aristotelis, qui peri hermeneias dicitur, multis obscuritatibus involuto, inter multiplices occupationum mearum sollicitudines, expositionem adhibere curavi, hoc gerens in animo sic altiora pro posse perfectioribus exhibere, ut tamen iunioribus proficiendi auxilia tradere non recusem. Suscipiat ergo studiositas tua praesentis expositionis munus exiguum, ex quo si profeceris, provocare me poteris ad maiora. 1 Sicut dicit philosophus in III de anima, duplex est operatio intellectus: una quidem, quae dicitur indivisibilium intelligentia, per quam scilicet intellectus apprehendit essentiam uniuscuiusque rei in seipsa; alia est operatio intellectus scilicet componentis et dividentis. Additur autem et tertia operatio, scilicet ratiocinandi, secundum quod ratio procedit a notis ad inquisitionem ignotorum. Harum autem operationum prima ordinatur ad secundam: quia non potest esse compositio et divisio, nisi simplicium apprehensorum. Secunda vero ordinatur ad tertiam: quia videlicet oportet quod ex aliquo vero cognito, cui intellectus assentiat, procedatur ad certitudinem accipiendam de aliquibus ignotis. There is a twofold operation of the intellect, as the Philosopher says in III De anima [6: 430a 26]. One is the understanding of simple objects, that is, the operation by which the intellect apprebends just the essence of a thing alone; the other is the operation of composing and dividing. There is also a third operation, that of reasoning, by which reason proceeds from what is known to the investigation of things that are unknown. The first of these operations is ordered to the second, for there cannot be composition and division unless things have already been apprehended simply. The second, in turn, is ordered to the third, for clearly we must proceed from some known truth to which the intellect assents in order to have certitude about something not yet known. Aquinas pr. 2 Cum autem logica dicatur rationalis scientia, necesse est quod eius consideratio versetur circa ea quae pertinent ad tres praedictas operationes rationis. De his igitur quae pertinent ad primam operationem intellectus, idest de his quae simplici intellectu concipiuntur, determinat Aristoteles in libro praedicamentorum. De his vero, quae pertinent ad secundam operationem, scilicet de enunciatione affirmativa et negativa, determinat philosophus in libro perihermeneias. De his vero quae pertinent ad tertiam operationem determinat in libro priorum et in consequentibus, in quibus agitur de syllogismo simpliciter et de diversis syllogismorum et argumentationum speciebus, quibus ratio de uno procedit ad aliud. Et ideo secundum praedictum ordinem trium operationum, liber praedicamentorum ordinatur ad librum perihermeneias, qui ordinatur ad librum priorum et sequentes. 2. Since logic is called rational science it must direct its consideration to the things that belong to the three operations of reason we have mentioned. Accordingly, Aristotle treats those belonging to the first operation of the intellect, i.e., those conceived by simple understanding, in the book Praedicamentorum; those belonging to the second operation, i.e., affirmative and negative enunciation, in the book Perihermeneias; those belonging to the third operation in the book Priorum and the books following it in which he treats the syllogism absolutely, the different kinds of syllogism, and the species of argumentation by which reason proceeds from one thing to another. And since the three operations of reason are ordered to each other so are the books: the Praedicamenta to the Perihermeneias and the Perihermeneias to the Priora and the books following it. Aquinas pr. 3. Dicitur ergo liber iste, qui prae manibus habetur, perihermeneias, quasi de interpretatione. Dicitur autem interpretatio, secundum Boethium, vox significativa, quae per se aliquid significat, sive sit complexa sive incomplexa. Unde coniunctiones et praepositiones et alia huiusmodi non dicuntur interpretationes, quia non per se aliquid significant. Similiter etiam voces signi-ficantes naturaliter, non ex proposito aut cum imaginatione aliquid significandi, sicut sunt voces brutorum animalium, interpretationes dici non possunt. Qui enim interpretatur aliquid exponere intendit. Et ideo sola nomina et verba et orationes dicuntur interpretationes, de quibus in hoc libro determinatur. Sed tamen nomen et verbum magis interpretationis principia esse videntur, quam interpretationes. Ille enim interpretari videtur, qui exponit aliquid esse verum vel falsum. Et ideo sola oratio enunciativa, in qua verum vel falsum invenitur, interpretatio vocatur. Caeterae vero orationes, ut optativa et imperativa, magis ordinantur ad exprimendum affectum, quam ad interpretandum id quod in intellectu habetur. Intitulatur ergo liber iste de interpretatione, ac si dicetur de enunciativa oratione: in qua verum vel falsum invenitur. Non autem hic agitur de nomine et verbo, nisi in quantum sunt partes enunciationis. Est enim proprium uniuscuiusque scientiae partes subiecti tradere, sicut et passiones. Patet igitur ad quam partem philosophiae pertineat liber iste, et quae sit necessitas istius, et quem ordinem teneat inter logicae libros.3. The one we are now examining is named Perihermeneias, that is, On Interpretation. Interpretation, according to Boethius, is "significant vocal sound —whether complex or incomplex — which signifies something by itself.” Conjunctions, then, and prepositions and other words of this kind are not called interpretations since they do not signify anything by themselves. Nor can sounds signifying naturally but not from purpose or in connection with a mental image of signifying something—such as the sounds of brute animals—be called interpretations, for one who in terprets intends to explain something. Therefore only names and verbs and speech are called interpretations and these Aristotle treats in this book. The name and verb, however, seem to be principles of interpretation rather than interpretations, for one who interprets seems to explain something as either true or false. Therefore, only enunciative speech in which truth or falsity is found is called interpretation. Other kinds of speech, such as optatives and imperatives, are ordered rather to expressing volition than to interpreting what is in the intellect. This book, then, is entitled On Interpretation, that is to say, On Enunciative Speech in which truth or falsity is found. The name and verb are treated only insofar as they are parts of the enunciation; for it is proper to a science to treat the parts of its subject as well as its properties. It is clear, then, to which part of philosophy this book belongs, what its necessity is, and what its place is among the books on logic. I. 1. Praemittit autem huic operi philosophus prooemium, in quo sigillatim exponit ea, quae in hoc libro sunt tractanda. Et quia omnis scientia praemittit ea, quae de principiis sunt; partes autem compositorum sunt eorum principia; ideo oportet intendenti tractare de enunciatione praemittere de partibus eius. Unde dicit: primum oportet constituere, idest definire quid sit nomen et quid sit verbum. In Graeco habetur, primum oportet poni et idem significat. Quia enim demonstrationes definitiones praesupponunt, ex quibus concludunt, merito dicuntur positiones. Et ideo praemittuntur hic solae definitiones eorum, de quibus agendum est: quia ex definitionibus alia cognoscuntur. The Philosopher begins this work with an introduction in which he points out one by one the things that are to be treated. For, since every science begins with a treatment of the principles, and the principles of composite things are their parts, one who intends to treat enunciation must begin with its parts, Therefore Aristotle begins by saying: First we must determine, i.e., define, what a name is and what a verb is. In the Greek text it is First we must posit, which signifies the same thing, for demonstrations presuppose definitions, from which they conclude, and hence definitions are rightly called "positions.” This is the reason he only points out here the definitions of the things to be treated; for from definitions other things are known. 2. Si quis autem quaerat, cum in libro praedicamentorum de simplicibus dictum sit, quae fuit necessitas ut hic rursum de nomine et verbo determinaretur. Ad hoc dicendum quod simplicium dictionum triplex potest esse consideratio. Una quidem, secundum quod absolute significant simplices intellectus, et sic earum consideratio pertinet ad librum praedicamentorum. Alio modo, secundum rationem, prout sunt partes enunciationis. Et sic determinatur de eis in hoc libro; et ideo traduntur sub ratione nominis et verbi: de quorum ratione est quod significent aliquid cum tempore vel sine tempore, et alia huiusmodi, quae pertinent ad rationem dictionum, secundum quod constituunt enunciationem. Tertio modo, considerantur secundum quod ex eis constituitur ordo syllogisticus, et sic determinatur de eis sub ratione terminorum in libro priorum. It might be asked why it is necessary to treat simple things again, i.e., the name and the verb, for they were treated in the book Praedicamentorum. In answer to this we should say that simple words can be considered in three ways: first, as they signify simple intellection absolutely, which is the consideration proper to the book Praedicamentorum; secondly, according to their function as parts of the enunciation, which is the way they are considered in this book. Hence, they are treated here under the formality of the name and the verb, and under this formality they signify something with time or without time and other things of the kind that belong to the formality of words as they are components of an enunciation. Finally, simple words may be considered as they are components of a syllogistic ordering. They are treated then under the formality of terms and this Aristotle does in the book Priorum. 3 Potest iterum dubitari quare, praetermissis aliis orationis partibus, de solo nomine et verbo determinet. Ad quod dicendum est quod, quia de simplici enunciatione determinare intendit, sufficit ut solas illas partes enunciationis pertractet, ex quibus ex necessitate simplex oratio constat. Potest autem ex solo nomine et verbo simplex enunciatio fieri, non autem ex aliis orationis partibus sine his; et ideo sufficiens ei fuit de his duabus determinare. Vel potest dici quod sola nomina et verba sunt principales orationis partes. Sub nominibus enim comprehenduntur pronomina, quae, etsi non nominant naturam, personam tamen determinant, et ideo loco nominum ponuntur: sub verbo vero participium, quod consignificat tempus: quamvis et cum nomine convenientiam habeat. Alia vero sunt magis colligationes partium orationis, significantes habitudinem unius ad aliam, quam orationis partes; sicut clavi et alia huiusmodi non sunt partes navis, sed partium navis coniunctiones. It might be asked why he treats only the name and verb and omits the other parts of speech. The reason could be that Aristotle intends to establish rules about the simple enunciation and for this it is sufficient to consider only the parts of the enunciation that are necessary for simple speech. A simple enunciation can be formed from just a name and a verb, but it cannot be formed from other parts of speech without these. Therefore, it is sufficient to treat these two.On the other hand, the reason could be that names and verbs are the principal parts of speech. Pronouns, which do not name a nature but determine a person-and therefore are put in place of names-are comprehended under names. The participle-althougb it has similarities with the name-signifies with time and is therefore comprehended under the verb. The others are things that unite the parts of speech. They signify relations of one part to another rather than as parts of speech; as nails and other parts of this kind are not parts of a ship, but connect the parts of a ship. 4 His igitur praemissis quasi principiis, subiungit de his, quae pertinent ad principalem intentionem, dicens: postea quid negatio et quid affirmatio, quae sunt enunciationis partes: non quidem integrales, sicut nomen et verbum (alioquin oporteret omnem enunciationem ex affirmatione et negatione compositam esse), sed partes subiectivae, idest species. Quod quidem nunc supponatur, posterius autem manifestabitur. After he has proposed these parts [the name and the verb] as principles, Aristotle states what he principally intends to establish:... then what negation is and affirmation. These, too, are parts of the enunciation, not integral parts however, as are the name and the verb—otherwise every enunciation would have to be formed from an affirmation and negation—but subjective parts, i.e., species. This is supposed here but will be proved later. 5 Sed potest dubitari: cum enunciatio dividatur in categoricam et hypotheticam, quare de his non facit mentionem, sicut de affirmatione et negatione. Et potest dici quod hypothetica enunciatio ex pluribus categoricis componitur. Unde non differunt nisi secundum differentiam unius et multi. Vel potest dici, et melius, quod hypothetica enunciatio non continet absolutam veritatem, cuius cognitio requiritur in demonstratione, ad quam liber iste principaliter ordinatur; sed significat aliquid verum esse ex suppositione: quod non sufficit in scientiis demonstrativis, nisi confirmetur per absolutam veritatem simplicis enunciationis. Et ideo Aristoteles praetermisit tractatum de hypotheticis enunciationibus et syllogismis. Subdit autem, et enunciatio, quae est genus negationis et affirmationis; et oratio, quae est genus enunciationis. Since enunciation is divided into categorical and hypothetical, it might be asked why he does not list these as well as affirmation and negation. In reply to this we could say that Aristotle has not added these because the hypothetical enunciation is composed of many categorical propositions and hence categorical and hypothetical only differ according to the difference of one and many.Or we could say—and this would be a better reason—that the hypothetical enunciation does not contain absolute truth, the knowledge of which is required in demonstration, to which this book is principally ordered; rather, it signifies something as true by supposition, which does not suffice for demonstrative sciences unless it is confirmed by the absolute truth of the simple enunciation. This is the reason Aristotle does not treat either hypothetical enunciations or syllogisms. He adds, and the enunciation, which is the genus of negation and affirmation; and speech, which is the genus of enunciation.  6 Si quis ulterius quaerat, quare non facit ulterius mentionem de voce, dicendum est quod vox est quoddam naturale; unde pertinet ad considerationem naturalis philosophiae, ut patet in secundo de anima, et in ultimo de generatione animalium. Unde etiam non est proprie orationis genus, sed assumitur ad constitutionem orationis, sicut res naturales ad constitutionem artificialium. If it should be asked why, besides these, he does not mention vocal sound, it is because vocal sound is something natural and therefore belongs to the consideration of natural philosophy, as is evident in II De Anima [8: 420b 5-421a 6] and at the end of De generatione animalium [ch. 8]. Also, since it is something natural, vocal sound is not properly the genus of speech but is presupposed for the forming of speech, as natural things are presupposed for the formation of artificial things. 7 Videtur autem ordo enunciationis esse praeposterus. Nam affirmatio naturaliter est prior negatione, et iis prior est enunciatio, sicut genus. Et per consequens oratio enunciatione. Sed dicendum quod, quia a partibus inceperat enumerare, procedit a partibus ad totum. Negationem autem, quae divisionem continet, eadem ratione praeponit affirmationi, quae consistit in compositione: quia divisio magis accedit ad partes, compositio vero magis accedit ad totum. Vel potest dici, secundum quosdam, quod praemittitur negatio, quia in iis quae possunt esse et non esse, prius est non esse, quod significat negatio, quam esse, quod significat affirmatio. Sed tamen, quia sunt species ex aequo dividentes genus, sunt simul natura; unde non refert quod eorum praeponatur. In this introduction, however, Aristotle seems to have inverted the order of the enunciation, for affirmation is naturally prior to negation and enunciation prior to these as a genus; and consequently, speech to enunciation. We could say in reply to this that he began to enumerate from the parts and consequently he proceeds from the parts to the whole. He puts negation, which contains division, before affirmation, which consists of composition, for the same reason: division is closer to the parts, composition closer to the whole. Or we could say, as some do, that he puts negation first because in those things that can be and not be, non-being, which negation signifies, is prior to being, which affirmation signifies. Aristotle, however, does not refer to the fact that one of them is placed before the other, for they are species equally dividing a genus and are therefore simultaneous according to nature. Praemisso prooemio, philosophus accedit ad propositum exequendum. Et quia ea, de quibus promiserat se dicturum, sunt voces signi-ficativae complexae vel incomplexae, ideo praemittit tractatum de sign-ificatione vocum. Et deinde de vocibus signi-ficativis determinat de quibus in prooemio se dicturum promiserat. Et hoc ibi:. Nomen ergo est vox significativa et cetera. Circa primum duo facit. Pprimo, determinat qualis sit sign-ificatio vocum. Scundo, ostendit differentiam significationum vocum complexarum et incomplexarum. Ibi: est autem quemadmodum et cetera. Circa primum duo facit. Primo quidem, praemittit ordinem signi-ficationis vocum. Secundo, ostendit qualis sit vocum signi-ficatio, utrum sit ex natura vel *ex impositione* [ex positione, ex arte non ex natura – signo ex natura – signo ex arte, segno da natura, segno d’arte --. Ibi: et quemadmodum nec litterae et cetera. After his introduction the Philosopher begins to investigate the things he has proposed. Since the things he promised to speak of are either complex or incomplex significant vocal sounds, he prefaces this with a treatment of the signification of vocal sounds; then he takes up the significant vocal sounds he proposed in the introduction where he says, A name, then, is a vocal sound significant by convention, without time, etc. In regard to the signification of vocal sounds he first determines what kind of signification vocal sound has and then shows the difference between the signification of complex and incomplex vocal sounds where he says, As sometimes there is thought in the soul, etc. With respect to the first point, he presents the order of the signification of vocal sounds and then shows what kind of signification vocal sound has, i.e., whether it is from nature or by imposition. This he does where he says, And just as letters are not the same for all men, etc. 2 Est ergo considerandum quod circa primum tria proponit, ex quorum uno intelligitur quartum. Aristoteles proponit enim scripturam, voces et animae passiones, ex quibus intelliguntur res. Nam passio est ex im-pressione alicuius agentis. Et sic passiones animae originem habent ab ipsis rebus [teoria causale della percezione]. Et si quidem homo esset naturaliter animal solitarium, sufficerent sibi animae passiones, quibus ipsis rebus conformaretur, ut earum *notitiam* [nota, notitia – notizia – notatura --]  in se haberet. Sed quia homo est animal naturaliter politicum et sociale [chi ama la comunicazione!], necesse fuit quod conceptiones unius hominis *innotescerent* [co-gnoscere] [informare, notificare, essibire, per influire] aliis, quod fit per vocem. Et ideo necesse fuit esse voces signi-ficativas, ad hoc quod homines ad invicem conviverent. Unde illi, qui sunt diversarum linguarum, non possunt bene convivere ad invicem. Rursum si homo uteretur sola cognitione sensitiva, quae respicit solum ad hic et nunc, sufficeret sibi ad convivendum aliis vox signi-ficativa, sicut et caeteris animalibus, quae per quasdam voces, suas conceptiones invicem sibi manifestant. Sed quia homo utitur etiam intellectuali cognitione, quae abstrahit ab hic et nunc. Consequitur ipsum sollicitudo non solum de praesentibus secundum locum et tempus, sed etiam de his quae distant loco et futura sunt tempore. Unde ut homo conceptiones suas etiam his qui distant secundum locum et his qui venturi sunt in futuro tempore manifestet, necessarius fuit usus scripturae. Apropos of the order of signification of vocal sounds he proposes three things, from one of which a fourth is understood. He proposes writing, vocal sounds, and passions of the soul; things is understood from the latter, for passion is from the impression of something acting, and hence passions of the soul have their origin from things. Now if man were by nature a solitary animal the passions of the soul by which he was conformed to things so as to have knowledge of them would be sufficient for him; but since he is by nature a political and social animal it was necessary that his conceptions be made known to others. This he does through vocal sound. Therefore there had to be significant vocal sounds in order that men might live together. Whence those who speak different languages find it difficult to live together in social unity. Again, if man had only sensitive cognition, which is of the here and now, such significant vocal sounds as the other animals use to manifest their conceptions to each other would be sufficient for him to live with others. But man also has the advantage of intellectual cognition, which abstracts from the here and now, and as a consequence, is concerned with things distant in place and future in time as well as things present according to time and place. Hence the use of writing was necessary so that he might manifest his conceptions to those who are distant according to place and to those who will come in future time. 3. Sed quia logica ordinatur ad cognitionem de rebus sumendam, signi-ficatio vocum, quae est *immediate* [senza medio, non-mediata] ipsis conceptionibus intellectus, pertinet ad principalem considerationem ipsius. Signi-ficatio autem litterarum, tanquam magis remota [mediate], non pertinet ad eius considerationem, sed magis ad considerationem grammatici e non filosofi. Et ideo exponens ordinem signi-ficationum non incipit a litteris, sed a vocibus. Quarum primo signi-ficationem exponens, dicit: sunt ergo ea, quae sunt in voce, notae, idest, signa earum passionum quae sunt in anima. Dicit autem ergo, quasi ex praemissis concludens. Qquia supra dixerat determinandum esse de nomine et verbo et aliis praedictis. Haec autem sunt voces signi-ficativae. Ergo oportet vocum significationem exponere. However, since logic is ordered to obtaining knowledge about things, the signification of vocal sounds, which is immediate to the conceptions of the intellect, is its principal consideration. The signification of written signs, being more remote, belongs to the consideration of the grammarian rather than the logician. Aristotle therefore begins his explanation of the order of signification from vocal sounds, not written signs. First he explains the signification of vocal sounds: Therefore those that are in vocal sound are signs of passions in the soul. He says "therefore” as if concluding from premises, because he has already said that we must establish what a name is, and a verb and the other things he mentioned; but these are significant vocal sounds; therefore, signification of vocal sounds must be explained. 4. Utitur autem hoc modo loquendi, ut dicat, ea quae sunt in voce, et non, voces, ut quasi continuatim loquatur cum praedictis. Dixerat enim dicendum esse de nomine et verbo et aliis huiusmodi. Haec autem tripliciter habent esse. Uno quidem modo, in conceptione intellectus. Alio modo, in prolatione vocis. Tertio modo, in conscriptione litterarum. Dicit ergo, ea quae sunt in voce etc. Ac si dicat, nomina et verba et alia consequentia, quae tantum sunt in voce, sunt notae. Vel, quia non omnes voces sunt signi-ficativae, et earum quaedam sunt signi-ficativae *naturaliter*, quae longe sunt a ratione nominis et verbi et aliorum consequentium. Ut appropriet suum dictum ad ea de quibus intendit, ideo dicit, ea quae sunt in voce, idest quae continentur sub voce, sicut partes sub toto. Vel, quia vox est quoddam naturale, nomen autem et verbum signi-ficant *ex institutione humana*, quae advenit rei naturali sicut materiae, ut forma lecti ligno. Ideo ad *de-signandum* [DE-SIGNARE, desegno] nomina et verba et alia consequentia dicit, ea quae sunt in voce, ac si de lecto diceretur, ea quae sunt in ligno. When he says "Those that are in vocal sound,” and not "vocal sounds,” his mode of speaking implies a continuity with what he has just been saying, namely, we must define the name and the verb, etc. Now these have being in three ways: in the conception of the intellect, in the utterance of the voice, and in the writing of letters. He could therefore mean when he says "Those that are in vocal sound,” etc., names and verbs and the other things we are going to define, insofar as they are in vocal sound, are signs. On the other hand, he may be speaking in this way because not all vocal sounds are significant, and of those that are, some are significant naturally and hence are different in nature from the name and the verb and the other things to be defined. Therefore, to adapt what he has said to the things of which he intends to speak he says, "Those that are in vocal sound,” i.e., that are contained under vocal sound as parts under a whole. There could be still another reason for his mode of speaking. Vocal sound is something natural. The name and verb, on the other hand, signify by human institution, that is, the signification is added to the natural thing as a form to matter, as the form of a bed is added to wood. Therefore, to designate names and verbs and the other things he is going to define he says, "Those that are in vocal sound,” in the same way he would say of a bed, "that which is in wood.” 5. Circa id autem quod dicit, earum quae sunt in anima passionum, considerandum est quod passiones animae communiter dici solent appetitus *sensibilis* affectiones, sicut ira, gaudium et alia huiusmodi, ut dicitur in II Ethicorum. Et verum est quod huiusmodi passiones significant naturaliter quaedam voces hominum, ut gemitus infirmorum [infirmi], et aliorum animalium, ut dicitur in I politicae. Sed nunc sermo est de vocibus significativis *ex institutione* humana. Et ideo oportet passiones animae hic intelligere intellectus conceptiones, quas nomina et verba et orationes significant immediate, secundum sententiam Aristotelis. Non enim potest esse quod significent immediate ipsas res, ut ex ipso modo significandi apparet. Significat enim hoc nomen ‘homo’ naturam humanam [homo] in abstractione a singularibus. Unde non potest esse quod significet immediate hominem singularem. Unde Platonici posuerunt quod significaret ipsam *ideam* [hominis] separatam. Sed quia hoc secundum suam abstractionem non subsistit realiter secundum sententiam Aristotelis, sed est in solo intellectu. Ideo necesse fuit Aristoteli dicere quod voces significant intellectus conceptiones immediate [IN-MEDIATA, NON-MEDIATA – senza medio] et eis mediantibus [MEDIATA -- medio] res. U segna [mediatamente] che piove non che CREDE che piove.  When he speaks of passions in the soul we are apt to think of the affections of the sensitive appetite, such as anger, joy, and the other passions that are customarily and commonly called passions of the soul, as is the case in II Ethicorum [5: 1105b 21]. It is true that some of the vocal sounds man makes signify passions of this kind naturally, such as the groans of the sick and the sounds of other animals, as is said in I Politicae [2: 1253a 10-14]. But here Aristotle is speaking of vocal sounds that are significant by human institution. Therefore "passions in the soul” must be understood here as conceptions of the intellect, and names, verbs, and speech, signify these conceptions of the intellect immediately according to the teaching of Aristotle. They cannot immediately signify things, as is clear from the mode of signifying, for the name "man” signifies human nature in abstraction from singulars; hence it is impossible that it immediately signify a singular man. The Platonists for this reason held that it signified the separated idea of man. But because in Aristotle’s teaching man in the abstract does not really subsist, but is only in the mind, it was necessary for Aristotle to say that vocal sounds signify the conceptions of the intellect immediately and things by means of them. 6. Sed quia non est consuetum quod conceptiones intellectus Aristoteles nominet passiones. Ideo Andronicus posuit hunc librum non esse Aristotelis. Sed manifeste invenitur in 1 de anima quod passiones animae vocat omnes animae *operations* [judicate/volere – accetare]. Unde et ipsa conceptio intellectus passio dici potest. Vel quia intelligere nostrum non est sine “phantasmate” [sing. fantasma – etym. – fendere, offendere, manifestare, diafano]. Quod non est sine corporali [del corpo] passione. Unde et *imaginativam* philosophus in III de anima vocat passivum [non activum] intellectum. Vel quia extenso nomine passionis ad omnem receptionem, etiam ipsum intelligere intellectus possibilis [passibilis] quoddam *pati* est, ut dicitur in III de anima. Utitur autem potius nomine passionum, quam intellectuum: tum quia ex aliqua animae passione provenit, puta *ex amore* vel odio, ut homo interiorem conceptum per vocem alteri significare velit. Tum etiam quia significatio vocum refertur ad conceptionem intellectus, secundum quod oritur a rebus per modum cuiusdam *impressionis* [im-primere – ex-primere] vel passionis. Since Aristotle did not customarily speak of conceptions of the intellect as passions, Andronicus took the position that this book was not Aristotle’s. In I De anima, however, it is obvious that he calls all of the operations of the soul "passions” of the soul. Whence even the conception of the intellect can be called a passion and this either because we do not understand without a phantasm, which requires corporeal passion (for which reason the Philosopher calls the imaginative power the passive intellect) [De Anima III, 5: 430a 25]; or because by extending the name "passion” to every reception, the understanding of the possible intellect is also a kind of undergoing, as is said in III De anima [4: 429b 29]. Aristotle uses the name "passion,” rather than "understanding,” however, for two reasons: first, because man wills to signify an interior conception to another through vocal sound as a result of some passion of the soul, such as love or hate; secondly, because the signification of vocal sound is referred to the conception of the intellect inasmuch as the conception arises from things by way of a kind of impression or passion. 7. Secundo, cum dicit: et ea quae scribuntur etc., agit de signi-ficatione Scripturae: et secundum Alexandrum hoc inducit ad manifestandum praecedentem sententiam per modum similitudinis, ut sit sensus. Ita ea quae sunt in voce sunt signa passionum animae, sicut et litterae sunt signa vocum. Quod etiam manifestat per sequentia, cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc.; inducens hoc quasi signum praecedentis. Quod enim litterae significent voces, significatur per hoc, quod, sicut sunt diversae voces apud diversos, ita et diversae litterae. Et secundum hanc expositionem, ideo non dixit, et litterae eorum quae sunt in voce, sed ea quae scribuntur. Quia dicuntur litterae etiam in prolatione et Scriptura, quamvis magis proprie, secundum quod sunt in Scriptura, dicantur litterae; secundum autem quod sunt in prolatione, dicantur elementa vocis. Sed quia Aristoteles non dicit, sicut et ea quae scribuntur, sed continuam narrationem facit, melius est ut dicatur, sicut Porphyrius exposuit, quod Aristoteles procedit ulterius ad complendum ordinem significationis. Postquam enim dixerat quod *nomina* [Fido -- denotatum] et verba [-- is shaggy -- attributum], quae sunt in voce, sunt *signa* eorum quae sunt *in* *anima*, continuatim subdit quod nomina et verba quae scribuntur, signa sunt eorum nominum et verborum quae sunt in voce. When he says, and those that are written are signs of those in vocal sound, he treats of the signification of writing. According to Alexander he introduces this to make the preceding clause evident by means of a similitude; and the meaning is: those that are in vocal sound are signs of the passions of the soul in the way in which letters are of vocal sound; then he goes On to manifest this point where he says, And just as letters are not the same for all men so neither are vocal sounds the same—by introducing this as a sign of the preceding. For when he says in effect, just as there are diverse vocal sounds among diverse peoples so there are diverse letters, he is signifying that letters signify vocal. sounds. And according to this exposition Aristotle said those that are written are signs... and not, letters are signs of those that are in vocal sound, because they are called letters in both speech and writing, alt bough they are more properly called letters in writing; in speech they are called elements of vocal sound. Aristotle, however, does not say, just as those that are written, but continues with his account. Therefore it is better to say as Porphyry does, that Aristotle adds this to complete the order of signification. For after he says that names and verbs in vocal sound are signs of those [names and verbs – ‘Fido is shaggy’ denotative – attributive – the S is P -- in the soul, he adds—in continuity with this—that names and verbs that are written are signs of the names and verbs that are in vocal sound. 8. Deinde cum dicit: et quemadmodum nec litterae etc., ostendit differentiam praemissorum signi-ficantium et signi-ficatorum, quantum ad hoc, quod est esse secundum naturam, vel non esse. Et circa hoc tria facit. Primo enim, ponit quoddam signum, quo manifestatur quod nec voces nec litterae naturaliter significant. Ea enim, quae naturaliter significant sunt eadem apud omnes. Significatio autem litterarum et vocum, de quibus nunc agimus, non est eadem apud omnes. Sed hoc quidem apud nullos unquam dubitatum fuit quantum ad litteras. Quarum non solum *ratio significandi est ex impositione* [positione], sed etiam ipsarum formatio fit *per artem* [per arte ma non ‘artificiale’ – signo di natura, signo di arte, signum naturae, signum artis, signum naturalis – signum artis – segno artato -- --. [non per naturam]. Voces autem naturaliter formantur; unde et apud quosdam dubitatum fuit, utrum naturaliter significent. Sed Aristoteles hic determinat ex similitudine litterarum, quae sicut non sunt eaedem apud omnes, ita nec voces. Unde manifeste relinquitur quod sicut nec litterae, ita nec voces naturaliter significant, sed *ex institutione* humana. Voces autem illae, quae naturaliter signi-FICANT, sicut gemitus infirmorum [infirmi] et alia huiusmodi, sunt *eadem* apud omnes. Then where he says, And just as letters are not the same for all men so neither are vocal sounds the same, he shows that the foresaid things differ as signified and signifying inasmuch as they are either according to nature or not. He makes three points here. He first posits a sign to show that neither vocal sounds nor letters signify naturally; things that signify naturally are the same among all men; but the signification of letters and vocal sounds, which is the point at issue here, is not the same among all men. There has never been any question about this in regard to letters, for their character of signifying is from imposition and their very formation is through art. Vocal sounds, however, are formed naturally and hence there is a question as to whether they signify naturally. Aristotle determines this by comparison with letters: these are not the same among all men, and so neither are vocal sounds the same. Consequently, like letters, vocal sounds do not signify naturally but by human institution. The vocal sounds that do signify naturally, such as groans of the sick and others of this kind, are the same among all men.  9. Secundo, ibi. Quorum autem etc., ostendit passiones animae naturaliter esse, sicut et res, per hoc quod eaedem sunt apud omnes. Unde dicit. Quorum autem. Idest sicut passiones animae sunt eaedem omnibus (quorum primorum, idest quarum passionum primarum, hae, scilicet voces, sunt *notae*, idest *signa*; comparantur enim passiones animae ad voces, sicut primum ad secundum. Voces enim non proferuntur, nisi ad ex-primendum [exprimere] in-teriores [interior/exterior] animae passiones), et res etiam eaedem, scilicet sunt apud omnes, quorum, idest quarum rerum, hae, scilicet passiones animae sunt similitudines. Ubi attendendum est quod litteras dixit esse notas, idest signa vocum, et voces passionum animae similiter. Passiones autem animae dicit esse similitudines rerum. Et hoc ideo, quia res non cognoscitur ab anima nisi per aliquam sui similitudinem existentem vel in sensu vel in intellectu. Litterae autem ita sunt signa vocum, et voces passionum, quod non attenditur ibi aliqua ratio similitudinis, sed sola ratio *institutionis*, sicut et in multis aliis signis. Ut *tuba* est signum [sola ratio institutionis] belli [notifica la partenza dalla battaglia]. In passionibus autem animae oportet attendi rationem similitudinis ad exprimendas res, quia naturaliter eas designant, non ex institutione. Secondly, when he says, but the passions of the soul, of which vocal sounds are the first signs, are the same for all, he shows that passions of the soul exist naturally, just as things exist naturally, for they are the same among all men. For, he says, but the passions of the soul, i.e., just as the passions of the soul are the same for all men; of which first, i.e., of which passions, being first, these, namely, vocal sounds, are tokens [cf. teach] --,” i.e., signs” (for passions of the soul are compared to vocal sounds as first to second since vocal sounds are produced *only* to express interior passions of the soul), so also the things... are the same, i.e., are the same among all, of which, i.e., of which things, passions of the soul are likenesses. Notice he says here that letters are signs, i.e., signs of vocal sounds, and similarly vocal sounds are signs of passions of the soul, but that passions of the soul are likenesses of things. This is because a thing is not known by the soul unless there is some likeness of the thing existing either in the sense or in the intellect. Now letters are signs of vocal sounds and vocal sounds of passions in such a way that we do not attend to any idea of likeness in regard to them but *only one [idea] of institution, as is the case in regard to many other signs, for example, the trumpet as a sign of war. But in the passions of the soul we have to take into account the idea of a likeness to the things represented, since passions of the soul designate things naturally, not by institution. 10 Obiiciunt autem quidam, ostendere volentes contra hoc quod dicit passiones animae, quas significant voces, esse omnibus easdem. Primo quidem, quia diversi diversas sententias habent de rebus, et ita non videntur esse eaedem apud omnes animae passiones. Ad quod respondet Boethius quod Aristoteles hic nominat passiones animae conceptiones intellectus, qui numquam decipitur; et ita oportet eius conceptiones esse apud omnes easdem. Quia, si quis a vero discordat, hic non intelligit. Sed quia etiam in intellectu potest esse falsum, secundum quod componit et dividit, non autem secundum quod cognoscit quod quid est, idest essentiam rei, ut dicitur in III de anima; referendum est hoc ad simplices intellectus conceptiones (quas significant voces incomplexae), quae sunt eaedem apud omnes: quia, si quis vere intelligit quid est [homo] [viz. animale razionale], quodcunque aliud aliquid, quam [hominem] apprehendat, non intelligit hominem. Huiusmodi autem simplices conceptiones intellectus sunt, quas primo voces significant. Unde dicitur in IV metaphysicae quod ratio, quam significat nomen, est definitio. Et ideo *signanter* dicit. Quorum primorum hae *notae* sunt, ut scilicet referatur ad primas conceptiones a vocibus primo signi-ficatas. There are some who object to Aristotle’s position that passions of the soul, which vocal sounds signify, are the same for all men. Their argument against it is as follows. Different men have different opinions about things. Therefore, passions of the soul do not seem to be the same among all men. Boethius in reply to this objection says that here Aristotle is using ‘passions of the soul’ to denote conceptions of the intellect, and since the intellect is never deceived, conceptions of the intellect must be the same among all men. For if someone is at variance with what is true, in this instance he does not understand. However, since what is false can also be in the intellect, not as it *knows* what a thing is, i.e., the essence of a thing, but as it composes and divides, as is said in III De anima [6: 430a 26]. Aristotle’s statement should be referred to the simple conceptions of the intellect — that are signified by the incomplex vocal sounds — which are the same among all men. For if someone truly understands what man [homo[ is [viz. animale razionale], whatever else than man he apprehends he does not understand *as* man. Simple conceptions of the intellect, which vocal sounds first signify, are of this kind. This is why Aristotle says in IV Metaphysicae [IV, 4: 1006b 4] that the notion which the name signifies is the definition.” And this is the reason Aristotle expressly says, ‘of which first [passions] these are signs [notae]’, I.e., so that this will be referred to the first conceptions [conceptiones] first signified by vocal sounds. 11. Sed adhuc obiiciunt aliqui de nominibus aequi-vocis, in quibus eiusdem vocis non est eadem passio, quae significatur apud omnes. Et respondet ad hoc Porphyrius quod unus homo, qui vocem profert, ad unam intellectus conceptionem signi-ficandam eam refert. Et si aliquis alius, cui loquitur, aliquid aliud intelligat, ille qui loquitur, se exponendo, faciet quod referet intellectum ad idem. Sed melius dicendum est quod intentio Aristotelis non est asserere *identitatem* conceptionis animae per comparationem ad vocem, ut scilicet unius vocis una sit conception. Quia voces sunt diversae apud diversos. Sed intendit asserere identitatem conceptionum animae per comparationem ad res, quas similiter dicit esse easdem. The equivocal name is given as another objection to this position, for in the case of an equivocal name the same vocal sound does *not* signify the same passion among all men. Porphyry answers this by pointing out that a man who utters a vocal sound *intends* it to signify one conception of the intellect. If the person to whom he is speaking understands something else by it, the one who is speaking, by explaining himself, will make the one to whom he is speaking refer his understanding to the same thing. However it is better to say that it is not Aristotle’s intention to maintain an identity of the conception of the soul in relation to a vocal sound such that there is one conception in relation to one vocal sound, for vocal sounds are different among different peoples. Rather, he intends to maintain an identity of the conceptions of the soul in relation to things, which things he also says are the same. 12 Tertio, ibi: de his itaque etc., excusat se a diligentiori harum consideratione: quia quales sint *animae passiones*, et quomodo sint rerum similitudines, dictum est in libro de anima. Non enim hoc pertinet ad logicum negocium, sed ad naturale. Thirdly when he says, This has been discussed, however, in our study of the soul, etc., he excuses himself from a further consideration of these things, for the nature of the passions of the soul and the way in which they are likenesses of things does not pertain to logic but to philosophy of nature and has already been treated in the book De anima [III, 4-8]. III. 1. Postquam philosophus tradidit ordinem signi-ficationis vocum, hic agit de diversa vocum signi-ficatione. Quarum quaedam significant verum vel falsum, quaedam non. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit differentiam. Secundo, manifestat eam; ibi: circa compositionem enim et cetera. Quia vero conceptiones intellectus prae-ambulae sunt ordine naturae vocibus, quae *ad eas exprimendas* [exprimere] proferuntur [pro-ferere], ideo ex similitudine differentiae, quae est circa intellectum, assignat differentiam, quae est circa signi-ficationes vocum. Ut scilicet haec manifestatio non solum sit ex simili, sed etiam ex causa quam imitantur effectus. After the Philosopher has treated the order of the signification of vocal sounds, he goes on to discuss a diversity in the signification of vocal sounds, i.e., some of them signify the true or the false, others do not. He first states the difference and then manifests it where he says, for in composition and division there is truth and falsity. Now because in the order of nature conceptions of the intellect precede vocal sounds, which are uttered to express them, he assigns the difference in respect to the significations of vocal sounds from a likeness to the difference in intellection. Thus the manifestation is from a likeness and at the same time from the cause which the effects imitate. 2. Est ergo considerandum quod, sicut in principio dictum est, duplex est operatio intellectus, ut traditur in III de anima. In quarum una non invenitur verum et falsum, in altera autem invenitur. Et hoc est quod dicit quod in anima aliquoties est intellectus sine vero et falso, aliquoties autem ex necessitate habet alterum horum. Et quia voces significativae [notae, signa, vestigial] formantur ad exprimendas – exprimere -- conceptiones – conceptus -- intellectus, ideo ad hoc quod *signum* [signans – segno -- segnante] conformetur [conformatur] signato [segnato], necesse est quod etiam vocum significativarum similiter quaedam significent sine vero et falso, quaedam autem cum vero et falso. The operation of the intellect is twofold, as was said in the beginning, and as is explained in III De anima [6: 430a 26]. Now truth and falsity is found in one of these operations but not in the other. This is what Aristotle says at the beginning of this portion of the text, i.e., that in the soul sometimes there is thought without truth and falsity, but sometimes of necessity it has one or the other of these. And since significant vocal sounds are formed to express these conceptions of the intellect, it is necessary that some significant vocal sounds signify without truth and falsity, others with truth and falsity—in order that the sign be conformed to what is signified. 3 Deinde cum dicit: circa compositionem etc., manifestat quod dixerat. Et primo, quantum ad id quod dixerat de intellectu; secundo, quantum ad id quod dixerat de assimilatione vocum ad intellectum; ibi: nomina igitur ipsa et verba et cetera. Ad ostendendum igitur quod intellectus quandoque est sine vero et falso, quandoque autem cum altero horum, dicit primo quod veritas et falsitas est circa compositionem et divisionem. Ubi oportet intelligere quod una duarum operationum intellectus est indivisibilium intelligentia: in quantum scilicet intellectus intelligit absolute cuiusque rei quidditatem sive essentiam per seipsam, puta quid est homo vel quid album vel quid aliud huiusmodi. Alia vero operatio intellectus est, secundum quod huiusmodi simplicia concepta simul componit et dividit. Dicit ergo quod in hac secunda operatione intellectus, idest componentis et dividentis, invenitur veritas et falsitas: relinquens quod in prima operatione non invenitur, ut etiam traditur in III de anima. Then when he says, for in composition and division there is truth and falsity, he manifests what he has just said: first with respect to what he has said about thought; secondly, with respect to what he has said about the likeness of vocal sounds to thought, where he says Names and verbs, then are like understanding without composition or division, etc. To show that sometimes there is thought without truth or falsity and sometimes it is accompanied by one of these, he says first that truth and falsity concern composition and division. To understand this we must note again that one of the two operations of the intellect is the understanding of what is indivisible. This the intellect does when it understands the quiddity or essence of a thing absolutely, for instance, what man is or what white is or what something else of this kind is. The other operation is the one in which it composes and divides simple concepts of this kind. He says that in this second operation of the intellect, i.e., composing and dividing, truth and falsity is found; the conclusion being that it is not found in the first, as he also says in III De anima [6: 430a 26]. 4 Sed circa hoc primo videtur esse dubium: quia cum divisio fiat per resolutionem ad indivisibilia sive simplicia, videtur quod sicut in simplicibus non est veritas vel falsitas, ita nec in divisione. Sed dicendum est quod cum conceptiones intellectus sint similitudines rerum, ea quae circa intellectum sunt dupliciter considerari et nominari possunt. Uno modo, secundum se: alio modo, secundum rationes rerum quarum sunt similitudines. Sicut imago Herculis secundum se quidem dicitur et est cuprum; in quantum autem est similitudo Herculis nominatur homo. Sic etiam, si consideremus ea quae sunt circa intellectum secundum se, semper est compositio, ubi est veritas et falsitas; quae nunquam invenitur in intellectu, nisi per hoc quod intellectus comparat unum simplicem conceptum alteri. Sed si referatur ad rem, quandoque dicitur compositio, quandoque dicitur divisio. Compositio quidem, quando intellectus comparat unum conceptum alteri, quasi apprehendens coniunctionem aut identitatem rerum, quarum sunt conceptiones; divisio autem, quando sic comparat unum conceptum alteri, ut apprehendat res esse diversas. Et per hunc etiam modum in vocibus affirmatio dicitur compositio, in quantum coniunctionem ex parte rei significat; negatio vero dicitur divisio, in quantum significat rerum separationem. There seems to be a difficulty about this point, for division is made by resolution to what is indivisible, or simple, and therefore it seems that just as truth and falsity is not in simple things, so neither is it in division. To answer this it should be pointed out that the conceptions of the intellect are likenesses of things and therefore the things that are in the intellect can be considered and named in two ways: according to themselves, and according to the nature of the things of which they are the likenesses. For just as a statue—say of Hercules—in itself is called and is bronze but as it is a likeness of Hercules is named man, so if we consider the things that are in the intellect in themselves, there is always composition where there is truth and falsity, for they are never found in the intellect except as it compares one simple concept with another. But if the composition is referred to reality, it is sometimes called composition, sometimes division: composition when the intellect compares one concept to another as though apprehending a conjunction or identity of the things of which they are conceptions; division, when it so compares one concept with another that it apprehends the things to be diverse. In vocal sound, therefore, affirmation is called composition inasmuch as it signifies a conjunction on the part of the thing and negation is called division inasmuch as it signifies the separation of things. 5 Ulterius autem videtur quod non solum in compositione et divisione veritas consistat. Primo quidem, quia etiam res dicitur vera vel falsa, sicut dicitur aurum verum vel falsum. Dicitur etiam quod ens et verum convertuntur. Unde videtur quod etiam simplex conceptio intellectus, quae est similitudo rei, non careat veritate et falsitate. Praeterea, philosophus dicit in Lib. de anima quod sensus propriorum sensibilium semper est verus; sensus autem non componit vel dividit; non ergo in sola compositione vel divisione est veritas. Item, in intellectu divino nulla est compositio, ut probatur in XII metaphysicae; et tamen ibi est prima et summa veritas; non ergo veritas est solum circa compositionem et divisionem. There is still another objection in relation to this point. It seems that truth is not in composition and division alone, for a thing is also said to be true or false. For instance, gold is said to be true gold or false gold. Furthermore, being and true are said to be convertible. It seems, therefore, that the simple conception of the intellect, which is a likeness of the thing, also has truth and falsity. Again, the Philosopher says in his book De anima [II, 6: 418a 15], that the sensation of proper sensibles is always true. But the sense does not compose or divide. Therefore, truth is not in composition and division exclusively. Moreover, in the divine intellect there is no composition, as is proved in XII Metaphysicae [9: 1074b 15–1075a 11]. But the first and highest truth is in the divine intellect. Therefore, truth is not in composition and division exclusively. 6 Ad huiusmodi igitur evidentiam considerandum est quod veritas in aliquo invenitur dupliciter: uno modo, sicut in eo quod est verum: alio modo, sicut in dicente vel cognoscente verum. Invenitur autem veritas sicut in eo quod est verum tam in simplicibus, quam in compositis; sed sicut in dicente vel cognoscente verum, non invenitur nisi secundum compositionem et divisionem. Quod quidem sic patet. To answer these difficulties the following considerations are necessary. Truth is found in something in two ways: as it is in that which is true, and as it is in the one speaking or knowing truth. Truth as it is in that which is true is found in both simple things and composite things, but truth in the one speaking or knowing truth is found only according to composition and division. This will become clear in what follows. 7 Verum enim, ut philosophus dicit in VI Ethicorum, est bonum intellectus. Unde de quocumque dicatur verum, oportet quod hoc sit per respectum ad intellectum. Comparantur autem ad intellectum voces quidem sicut signa, res autem sicut ea quorum intellectus sunt similitudines. Considerandum autem quod aliqua res comparatur ad intellectum dupliciter. Uno quidem modo, sicut mensura ad mensuratum, et sic comparantur res naturales ad intellectum speculativum humanum. Et ideo intellectus dicitur verus secundum quod conformatur rei, falsus autem secundum quod discordat a re. Res autem naturalis non dicitur esse vera per comparationem ad intellectum nostrum, sicut posuerunt quidam antiqui naturales, existimantes rerum veritatem esse solum in hoc, quod est videri: secundum hoc enim sequeretur quod contradictoria essent simul vera, quia contradictoria cadunt sub diversorum opinionibus. Dicuntur tamen res aliquae verae vel falsae per comparationem ad intellectum nostrum, non essentialiter vel formaliter, sed effective, in quantum scilicet natae sunt facere de se veram vel falsam existimationem; et secundum hoc dicitur aurum verum vel falsum. Alio autem modo, res comparantur ad intellectum, sicut mensuratum ad mensuram, ut patet in intellectu practico, qui est causa rerum. Unde opus artificis dicitur esse verum, in quantum attingit ad rationem artis; falsum vero, in quantum deficit a ratione artis. Truth, as the Philosopher says in VI Ethicorum [2: 1139a 28-30], is the good of the intellect. Hence, anything that is said to be true is such by reference to intellect. Now vocal sounds are related to thought as signs, but things are related to thought as that of which thoughts are likenesses. It must be noted, however, that a thing is related to thought in two ways: in one way as the measure to the measured, and this is the way natural things are related to the human speculative intellect. Whence thought is said to be true insofar as it is conformed to the thing, but false insofar as it is not in conformity with the thing. However, a natural thing is not said to be true in relation to our thought in the way it was taught by certain ancient natural philosophers who supposed the truth of things to be only in what they seemed to be. According to this view it would follow that contradictories could be at once true, since the opinions of different men can be contradictory. Nevertheless, some things are said to be true or false in relation to our thought—not essentially or formally, but effectively—insofar as they are so constituted naturally as to cause a true or false estimation of themselves. It is in this way that gold is said to be true or false. In another way, things are compared to thought as measured to the measure, as is evident in the practical intellect, which is a cause of things. In this way, the work of an artisan is said to be true insofar as it achieves the conception in the mind of the artist, and false insofar as it falls short of that conception. 8 Et quia omnia etiam naturalia comparantur ad intellectum divinum, sicut artificiata ad artem, consequens est ut quaelibet res dicatur esse vera secundum quod habet propriam formam, secundum quam imitatur artem divinam. Nam falsum aurum est verum aurichalcum. Et hoc modo ens et verum convertuntur, quia quaelibet res naturalis per suam formam arti divinae conformatur. Unde philosophus in I physicae, formam nominat quoddam divinum. Now all natural things are related to the divine intellect as artifacts to art and therefore a thing is said to be true insofar as it has its own form, according to which it represents divine art; false gold, for example, is true copper. It is in terms of this that being and true are converted, since any natural thing is conformed to divine art through its form. For this reason the Philosopher in I Physicae [9: 192a 17] says that form is something divine. 9. Et sicut res dicitur vera per comparationem ad suam mensuram, ita etiam et sensus vel intellectus, cuius mensura est res extra animam. Unde sensus dicitur verus, quando per formam suam conformatur rei extra animam existenti. Et sic intelligitur quod sensus proprii sensibilis sit verus. Et hoc etiam modo intellectus apprehendens quod quid est absque compositione et divisione, semper est verus, ut dicitur in III de anima. Est autem considerandum quod quamvis sensus proprii obiecti sit verus, non tamen cognoscit hoc esse verum. Non enim potest cognoscere habitudinem conformitatis suae ad rem, sed solam rem apprehendit; intellectus autem potest huiusmodi habitudinem conformitatis cognoscere; et ideo solus intellectus potest cognoscere veritatem. Unde et philosophus dicit in VI metaphysicae quod veritas est solum in mente, sicut scilicet in cognoscente veritatem. Cognoscere autem praedictam conformitatis habitudinem nihil est aliud quam iudicare ita esse in re vel non esse: quod est componere et dividere; et ideo intellectus non cognoscit veritatem, nisi componendo vel dividendo per suum iudicium. Quod quidem iudicium, si consonet rebus, erit verum, puta cum intellectus iudicat rem esse quod est, vel non esse quod non est. Falsum autem quando dissonat a re, puta cum iudicat non esse quod est, vel esse quod non est. Unde patet quod veritas et falsitas sicut in cognoscente et dicente non est nisi circa compositionem et divisionem. Et hoc modo philosophus loquitur hic. Et quia voces sunt signa intellectuum, erit vox vera quae significat verum intellectum, falsa autem quae significat falsum intellectum: quamvis vox, in quantum est res quaedam, dicatur vera sicut et aliae res. Unde haec vox, homo est asinus, est vere vox et vere signum; sed quia est signum falsi, ideo dicitur falsa. And just as a thing is said to be true by comparison to its measure, so also is sensation or thought, whose measure is the thing outside of the soul. Accordingly, sensation is said to be true when the sense through its form is in conformity with the thing existing outside of the a soul. It is in this way that the sensation of proper sensibles is true, and the intellect apprehending what a thing is apart from composition and division is always true, as is said in III De anima. It should be noted, however, that although the sensation of the proper object is true the sense does not perceive the sensation to be true, for it cannot know its relationship of conformity with the thing but only apprehends the thing. The intellect, on the other hand, can know its relationship of conformity and therefore only the intellect can know truth. This is the reason the Philosopher says in VI Metaphysicae [4: 1027b 26] that truth is only in the mind, that is to say, in one knowing truth. To know this relationship of conformity is to judge that a thing is such or is not, which is to compose and divide; therefore, the intellect does not know truth except by composing and dividing through its judgment. If the judgment is in accordance with things it will be true, i.e., when the intellect judges a thing to be what it is or not to be what it is not. The judgment will be false when it is not in accordance with the thing, i.e., when it judges that what is, is not, or that what is not, is. It is evident from this that truth and falsity as it is in the one knowing and speaking is had only in composition and division. This is what the Philosopher is speaking of here. And since vocal sounds are signs of thought, that vocal sound will be true which signifies true thought, false which signifies false thought, although vocal sound insofar as it is a real thing is said to be true in the same way other things are. Thus the vocal sound "Man is an ass” is truly vocal sound and truly a sign, but because it is a sign of something false it is said to be false. 10 Sciendum est autem quod philosophus de veritate hic loquitur secundum quod pertinet ad intellectum humanum, qui iudicat de conformitate rerum et intellectus componendo et dividendo. Sed iudicium intellectus divini de hoc est absque compositione et divisione: quia sicut etiam intellectus noster intelligit materialia immaterialiter, ita etiam intellectus divinus cognoscit compositionem et divisionem simpliciter. It should be noted that the Philosopher is speaking of truth here as it relates to the human intellect, which judges of the conformity of things and thought by composing and dividing. However, the judgment of the divine intellect concerning this is without composition and division, for just as our intellect understands material things immaterially, so the divine intellect knows composition and division simply.” Deinde cum dicit: nomina igitur ipsa et verba etc., manifestat quod dixerat de similitudine vocum ad intellectum. Et primo, manifestat propositum. Secundo, probat per signum. Ibi: huius autem signum et cetera. Concludit ergo ex praemissis quod, cum solum circa compositionem et divisionem sit veritas et falsitas in intellectu, consequens est quod ipsa nomina et verba, divisim accepta, assimilentur intellectui qui est sine compositione et divisione; sicut cum homo vel album dicitur, si nihil aliud addatur: non enim verum adhuc vel falsum est; sed postea quando additur esse vel non esse, fit verum vel falsum. When he says, Names and verbs, then, are like thought without composition or division, he manifests what he has said about the likeness of vocal sounds to thought. Next he proves it by a sign when he says, A sign of this is that "goatstag” signifies something but is neither true nor false, etc. Here he concludes from what has been said that since there is truth and falsity in the intellect only when there is composition or division, it follows that names and verbs, taken separately, are like thought which is without composition and division; as when we say "man” or "white,” and nothing else is added. For these are neither true nor false at this point, but when "to be” or "not to be” is added they be come true or false. Nec est instantia de eo, qui per unicum nomen veram responsionem dat ad interrogationem factam; ut cum quaerenti: quid natat in mari? Aliquis respondet, piscis. Nam intelligitur verbum quod fuit in interrogatione positum. Et sicut nomen per se positum non significat verum vel falsum, ita nec verbum per se dictum. Nec est instantia de verbo primae et secundae personae, et de verbo exceptae actionis: quia in his intelligitur certus et determinatus nominativus. Unde est *implicita* -- im-plicata – implicatura – implicitura -- compositio, licet non explicita – ex-plicata – explicatura – explicitura --.  Although one might think so, the case of someone giving a,, single name as a true response to a question is not an instance that can be raised against this position; for example, suppose someone asks, "What swims in the sea?” and the answer is "Fish”; this is not opposed to the position Aristotle is taking here, for the verb that was posited in the question is understood. And just as the name said by itself does not signify truth or falsity, so neither does the verb said by itself. The verbs of the first and second person and the intransitive verb” are not instances opposed to this position either, for in these a particular and determined nominative is understood. Consequently there is implicit composition, though not explicit.  13. Deinde cum dicit: signum autem etc., inducit signum ex nomine composito, scilicet “hirco-cervus”, quod componitur ex “hirco” et “cervus” et quod in graeco dicitur “tragelaphos” -- nam “tragos” est ‘hircus’, et “elaphos” ‘cervus’. [Benedetto Croce – Calogero – antifascism – liberaldemocrazia – Berlusconi – ‘che diavolo e un icocerco? Una chimera, ma anche un obggetivo possibile”] Huiusmodi enim nomina significant aliquid, scilicet quosdam conceptus simplices, licet rerum compositarum; et ideo non est verum vel falsum, nisi quando additur esse vel non esse, per quae exprimitur iudicium intellectus. Potest autem addi esse vel non esse, vel secundum praesens tempus, quod est esse vel non esse in actu, et ideo hoc dicitur esse simpliciter; vel secundum tempus praeteritum, aut futurum, quod non est esse simpliciter, sed secundum quid; ut cum dicitur aliquid fuisse vel futurum esse. Signanter autem utitur exemplo ex nomine significante quod non est in rerum natura, in quo statim falsitas apparet, et quod sine compositione et divisione non possit verum vel falsum esse.  Then he says, A sign of this is that "goatstag” signifies something but is neither true nor false unless "to be or "not to be” is added either absolutely or according to time. Here he introduces as a sign the composite name "goatstag,” from "goat” and "stag.” In Greek the word is "tragelaphos,” from "tragos” meaning goat and "elaphos” meaning stag. Now names of this kind signify something, namely, certain simple concepts (although the things they signify are composite), and therefore are not true or false unless "to be” or "not to be” is added, by which a judgment of the intellect is expressed. The "to be” or "not to be” can be added either according to present time, which is to be or not to be in act and for this reason is to be simply; or according to past or future time, which is to be relatively, not simply; as when we say that something has been or will be. Notice that Aristotle expressly uses as an example here a name signifying something that does not exist in reality, in which fictiveness is immediately evident, and which cannot be true or false without composition and division.  IV.  1. Postquam [Aristoteles] philosophus determinavit de ordine significationis vocum, hic accedit ad determinandum de ipsis vocibus signi-ficativis. Et quia principaliter intendit de enunciatione, quae est subiectum huius libri. In qualibet autem scientia oportet praenoscere principia subiecti. Ideo primo, determinat de principiis enunciationis; secundo, de ipsa enunciatione. Ibi: enunciativa vero non omnis et cetera. Circa primum duo facit: primo enim, determinat principia quasi materialia enunciationis, scilicet partes integrales ipsius. Secundo, determinat principium formale, scilicet orationem, quae est enunciationis genus. Ibi: oratio autem est vox signi-ficativa et cetera. Circa primum duo facit. Primo, determinat de nomine, quod signi-ficat rei substantiam. Secundo, determinat de verbo, quod significat actionem vel passionem procedentem a re. Ibi: verbum autem est quod con-significat tempus et cetera. Circa primum tria facit. Primo, definit nomen; secundo, definitionem exponit. Ibi: in nomine enim quod est equiferus etc. Tertio, excludit quaedam, quae perfecte rationem nominis non habent, ibi: non homo vero non est nomen. [“Having determined the order of the signification of vocal sounds, the Philosopher begins here to establish the definitions of the significant vocal sounds. His principal intention is to establish what an enunciation is—which is the subject of this book—but since in any science the principles of the subject must be known first, he begins with the principles of the enunciation and then establishes what an enunciation is where he says, All speech is not enunciative, etc.” With respect to the principles of the enunciation he first determines the nature of the quasi material principles, i.e., its integral parts, and secondly the formal principle, i.e., speech, which is the genus of the enunciation, where he says, Speech is significant vocal sound, etc.” Apropos of the quasi material principles of the enunciation he first establishes that a name signifies the substance of a thing and then that the verb signifies action or passion proceeding from a thing, where he says The verb is that which signifies with time, etc.” In relation to this first point, he first defines the name, and then explains the definition where he says, for in the name "Campbell” the part "bell,” as such, signifies nothing, etc., and finally excludes certain things—those that do not have the definition of the name perfectly—where he says, "Non-man,” however, is not a name, etc.”] 2. Circa primum considerandum est quod definitio ideo dicitur terminus, quia includit totaliter rem. Ita scilicet, quod nihil rei est extra definitionem, cui scilicet definitio non conveniat. Nec aliquid aliud est infra definitionem, cui scilicet definitio conveniat. [“It should be noted in relation to defining the name, that a definition is said to be a limit because it includes a thing totally, i.e., such that nothing of the thing is outside of the definition, that is, there is nothing of the thing to which the definition does not belong; nor is any other thing under the definition, that is, the definition belongs to no other thing.”] 3 Et ideo quinque ponit in definitione nominis. Primo, ponitur vox per modum generis, per quod distinguitur nomen ab omnibus sonis, qui non sunt voces. Nam vox est sonus ab ore animalis prolatus, cum imaginatione quadam, ut dicitur in II de anima. Additur autem prima differentia, scilicet *signi-ficativa*, ad differentiam quarumcumque vocum non significantium, sive sit vox litterata et articulata, sicut “biltris”, sive non litterata et non articulata, sicut sibilus pro nihilo factus. Et quia de signi-ficatione vocum in superioribus actum est, ideo ex praemissis concludit quod nomen est vox signi-ficativa. Aristotle posits five parts in the definition of the name. Vocal sound is given first, as the genus. This distinguishes the name from all sounds that are not vocal; for vocal sound is sound produced from the mouth of an animal and involves a certain kind of mental image, as is said in II De anima [8: 420b 30-34]. The second part is the first difference, i.e., significant, which differentiates the name from any non-significant vocal sound, whether lettered and articulated, such as "biltris,” or non-lettered and non-articulated, as a hissing for no reason. Now since he has already determined the signification of vocal sounds, he concludes from what has been established that a name is a significant vocal sound.  4 Sed cum vox sit quaedam res *naturalis*, nomen autem non est aliquid naturale sed ab hominibus institutum, videtur quod non debuit genus nominis ponere vocem, quae est *ex natura*, sed magis *signum*, quod est *ex institutione*. Ut diceretur: nomen est *signum* vocale. Sicut etiam convenientius definiretur scutella, si quis diceret quod est vas ligneum, quam si quis diceret quod est lignum formatum in vas.  But vocal sound is a natural thing, whereas a name is not natural but instituted by men; it seems, therefore, that Aristotle should have taken sign, which is from institution, as the genus of the name, rather than vocal sound, which is from nature. Then the definition would be: a name is a vocal sign, etc., just as a salver would be more suitably defined as a wooden dish than as wood formed into a dish. 5. Sed dicendum quod *arti-ficialia* sunt quidem in genere substantiae ex parte materiae, in genere autem accidentium ex parte formae. Nam formae *arti-ficialium* accidentia sunt. Nomen ergo signi-ficat formam accidentalem ut concretam subiecto. Cum autem in definitione omnium accidentium oporteat poni subiectum, necesse est quod, si qua nomina accidens in abstracto signi-ficant quod in eorum definitione ponatur accidens in recto, quasi genus, subiectum autem in obliquo, quasi differentia; ut cum dicitur, simitas est curvitas nasi. Si qua vero nomina accidens significant in concreto, in eorum definitione ponitur materia, vel subiectum, quasi genus, et accidens, quasi differentia; ut cum dicitur, simum est nasus curvus. Si igitur nomina rerum *arti-ficialium* significant formas accidentales, ut concretas subiectis *naturalibus*, convenientius est, ut in eorum definitione ponatur res *naturalis* quasi genus, ut dicamus quod scutella est lignum figuratum, et similiter quod nomen est vox signi-ficativa. Secus autem esset, si nomina *arti-ficialium* acciperentur, quasi signi-ficantia ipsas formas arti-ficiales in abstracto. [5. “It should be noted, however, that while it is true that artificial things are in the genus of substance on the part of matter, they are in the genus of accident on the part of form, since the forms of artificial things are accidents. A name, therefore, signifies an accidental form made concrete in a subject. Now the subject must be posited in the definition of every accident; hence, when names signify an accident in the abstract the accident has to be posited directly (i.e., in the nominative case) as a quasi-genus in their definition and the subject posited obliquely (i.e., in an oblique case such as the genitive, dative, or accusative) as a quasi-difference; as for example, when we define snubness as curvedness of the nose. But when names signify an accident ill the concrete, the matter or subject has to be posited in their definition as a quasi-genus and the accident as a quasi-difference, as when we say that a snub nose is a curved nose. Accordingly, if the names of artificial things signify accidental forms as made concrete in *natural* subjects, then it is more appropriate to posit the natural thing in their definition as a quasi-genus. We would say, therefore, that a salver is shaped wood, and likewise, that a name is a significant vocal sound. It would be another matter if names of *artificial* things were taken as signifying artificial forms in the abstract”]. Aristotele ponit secundam differentiam cum dicit: ‘secundum placitum’, idest *secundum institutionem humanam a beneplacito hominis procedentem*. Et per hoc differt nomen a vocibus signi-FICANTIBUS *naturaliter*, sicut sunt *gemitus infirmorum* [gemitus infirmi] et voces brutorum animalium. Ponit tertiam differentiam, scilicet sine tempore, per quod differt nomen a verbo. Sed videtur hoc esse falsum: quia hoc nomen dies vel annus significat tempus. Sed dicendum quod circa tempus tria possunt considerari. Primo quidem, ipsum tempus, secundum quod est res quaedam, et sic potest significari a nomine, sicut quaelibet alia res. Alio modo, potest considerari id, quod tempore mensuratur, in quantum huiusmodi: et quia id quod primo et principaliter tempore mensuratur est motus, in quo consistit actio et passio, ideo verbum quod significat actionem vel passionem, significat cum tempore. Substantia autem secundum se considerata, prout significatur per nomen et pronomen, non habet in quantum huiusmodi ut tempore mensuretur, sed solum secundum quod subiicitur motui, prout per participium significatur. Et ideo verbum et participium significant cum tempore, non autem nomen et pronomen. Tertio modo, potest considerari ipsa habitudo temporis mensurantis; quod significatur per adverbia temporis, ut cras, heri et huiusmodi. The fourth part is the third difference, i.e., without time, which differentiates the name from the verb. This, however, seems to be false, for the name "day” or "year” signifies time. But there are three things that can be considered with respect to time; first, time itself, as it is a certain kind of thing or reality, and then it can be signified by a name just like any other thing; secondly, that which is measured by time, insofar as it is measured by time. Motion, which consists of action and passion, is what is measured first and principally by time, and therefore the verb, which signifies action and passion, signifies with time. Substance considered in itself, which a name or a pronoun signify, is not as such measured by time, but only insofar as it is subjected to motion, and this the participle signifies. The verb and the participle, therefore, signify with time, but not the name and pronoun. The third thing that can be considered is the very relationship of time as it measures. This is signified by adverbs of time such as "tomorrow,” "yesterday,” and others of this kind. 8 Quinto, ponit quartam differentiam cum subdit: cuius nulla pars est significativa separata, scilicet a toto nomine; comparatur tamen ad significationem nominis secundum quod est in toto. Quod ideo est, quia significatio est quasi forma nominis; nulla autem pars separata habet formam totius, sicut manus separata ab homine non habet formam humanam. Et per hoc distinguitur nomen ab oratione, cuius pars significat separata; ut cum dicitur, homo iustus. The fifth part is the fourth difference, no part of which is significant separately, that is, separated from the whole name; but it is related to the signification of the name according as it is in the whole. The reason for this is that signification is a quasi-form of the name. But no separated part has the form of the whole; just as the hand separated from the man does not have the human form. This difference distinguishes the name from speech, some parts of which signify separately, as for example in "just man.” 9 Deinde cum dicit: in nomine enim quod est etc., manifestat praemissam definitionem. Et primo, quantum ad ultimam particulam; secundo, quantum ad tertiam; ibi: secundum vero placitum et cetera. Nam primae duae particulae manifestae sunt ex praemissis; tertia autem particula, scilicet sine tempore, manifestabitur in sequentibus in tractatu de verbo. Circa primum duo facit: primo, manifestat propositum per nomina composita; secundo, ostendit circa hoc differentiam inter nomina simplicia et composita; ibi: at vero nonquemadmodum et cetera. Manifestat ergo primo quod pars nominis separata nihil significat, per nomina composita, in quibus hoc magis videtur. In hoc enim nomine quod est equiferus, haec pars ferus, per se nihil significat sicut significat in hac oratione, quae est equus ferus. Cuius ratio est quod unum nomen imponitur ad significandum unum simplicem intellectum; aliud autem est id a quo imponitur nomen ad significandum, ab eo quod nomen significat; sicut hoc nomen lapis imponitur a laesione pedis, quam non significat: quod tamen imponitur ad significandum conceptum cuiusdam rei. Et inde est quod pars nominis compositi, quod imponitur ad significandum conceptum simplicem, non significat partem conceptionis compositae, a qua imponitur nomen ad significandum. Sed oratio significat ipsam conceptionem compositam: unde pars orationis significat partem conceptionis compositae. When he says, for in the name "Campbell” the part "bell” as such signifies nothing, etc., he explains the definition. First he explains the last part of the definition; secondly, the third part, by convention. The first two parts were explained in what preceded, and the fourth part, without time, will be explained later in the section on the verb. And first he explains the last part by means of a composite name; then he shows what the difference is between simple and composite names where he says, However the case is not exactly the same in simple names and composite names, etc. First, then, he shows that a part separated from a name signifies nothing. To do this he uses a composite name because the point is more striking there. For in the name "Campbell” the part "bell” per se signifies nothing, although it does signify something in the phrase "camp bell.” The reason for this is that one name is imposed to signify one simple conception; but that from which a name is imposed to signify is different from that which a name signifies. For example, the name "pedigree”, The Latin here is lapis, from laesione pedis. To bring out the point St. Thomas is making herean equivalent English word of Latin derivation, i.e., "pedigree,” has been used. Close is imposed from pedis and grus [crane’s foot] which it does not signify, to signify the concept of a certain thing. Hence, a part of the composite name—which composite name is imposed to signify a simple concept—does not signify a part of the composite conception from which the name is imposed to signify. Speech, on the other hand, does signify a composite conception. Hence, a part of speech signifies a part of the composite conception. 10. Deinde cum dicit: at vero non etc., ostendit quantum ad hoc differentiam inter nomina simplicia et composita, et dicit quod non ita se habet in nominibus simplicibus, sicut et in compositis: quia in simplicibus pars nullo modo est significativa, neque secundum veritatem, neque secundum apparentiam; sed in compositis vult quidem, idest apparentiam habet significandi; nihil tamen pars eius significat, ut dictum est de nomine equiferus. Haec autem ratio differentiae est, quia nomen simplex sicut imponitur ad significandum conceptum simplicem, ita etiam imponitur ad significandum ab aliquo simplici conceptu; nomen vero compositum imponitur a composita conceptione, ex qua habet apparentiam quod pars eius significet. When he says, However, the case is not exactly the same in simple names and composite names, etc., he shows that there is a difference between simple and composite names in regard to their parts not signifying separately. Simple names are not the same as composite names in this respect because in simple names a part is in no way significant, either according to truth or according to appearance, but in composite names the part has meaning, i.e., has the appearance of signifying; yet a part of it signifies nothing, as is said of the name "breakfast.” The reason for this difference is that the simple name is imposed to signify a simple concept and is also imposed from a simple concept; but the composite name is imposed from a composite conception, and hence has the appearance that a part of it signifies. 11. Deinde cum dicit: “secundum placitum”, etc., manifestat tertiam partem praedictae definitionis; et dicit quod ideo dictum est quod nomen “significat secundum placitum”, quia nullum nomen est “naturaliter”. Ex hoc enim est nomen, quod significat: non autem significat *naturaliter*, sed *ex institutione*. Et hoc est quod subdit: sed quando fit nota, idest quando imponitur ad significandum. Id enim quod naturaliter significat *non fit* [cfr. signi-FICARE], sed naturaliter est signum. Et hoc *signi-ficat* cum dicit. Illitterati enim soni, ut ferarum, quia scilicet litteris *signi-FICARI* non possunt. Et dicit potius sonos quam voces, quia quaedam animalia non habent vocem, eo quod carent pulmone, sed tantum quibusdam sonis proprias *passiones* *naturaliter* *signi-FICANT*. Nihil autem horum sonorum est nomen. Ex quo manifeste datur intelligi quod nomen non significat naturaliter. -Sciendum tamen est quod circa hoc fuit diversa quorumdam opinio. Quidam enim dixerunt quod nomina nullo modo naturaliter significant: nec differt quae res quo nomine significentur. Alii vero dixerunt quod nomina omnino naturaliter significant, quasi nomina sint naturales similitudines rerum. Quidam vero dixerunt quod nomina non naturaliter significant quantum ad hoc, quod eorum significatio non est a natura, ut Aristoteles hic intendit; quantum vero ad hoc naturaliter significant quod eorum significatio congruit naturis rerum, ut Plato dixit. Nec obstat quod una res multis nominibus significatur: quia unius rei possunt esse multae similitudines; et similiter ex diversis proprietatibus possunt uni rei multa diversa nomina imponi. Non est autem intelligendum quod dicit: quorum nihil est nomen, quasi soni animalium non habeant nomina: nominantur enim quibusdam nominibus, sicut dicitur rugitus leonis et mugitus bovis; sed quia nullus talis sonus est nomen, ut dictum est. However, there were diverse opinions about this. Some men said that names in no way signify naturally and that it makes no difference which things are signified by which names. Others said that names signify naturally in every way, as if names were natural likenesses of things. Still others said names do not signify naturally, i.e., insofar as their signification is not from nature, as Aristotle maintains here, but that names do signify naturally in the sense that their signification corresponds to the natures of things, as Plato held. The fact that one thing is signified by many names is not in opposition to Aristotle’s position here, for there can be many likenesses of one thing; and similarly, from diverse properties many diverse names can be imposed on one thing. When Aristotle says, but none of them is a name, he does not mean that the sounds of animals are not named, for we do have names for them; "roaring,” for example, is said of the sound made by a lion, and "lowing” of that of a cow. What he means is that no such sound is a name. 13 Deinde cum dicit: non homo vero etc., excludit quaedam a nominis ratione. Et primo, nomen infinitum; secundo, casus nominum; ibi: Catonis autem vel Catoni et cetera. Dicit ergo primo quod non homo non est nomen. Omne enim nomen significat aliquam naturam determinatam, ut homo; aut personam determinatam, ut pronomen; aut utrumque determinatum, ut Socrates. Sed hoc quod dico non homo, neque determinatam naturam neque determinatam personam significat. Imponitur enim a negatione hominis, quae aequaliter dicitur de ente, et non ente. Unde non homo potest dici indifferenter, et de eo quod non est in rerum natura; ut si dicamus, Chimaera est non homo, et de eo quod est in rerum natura; sicut cum dicitur, equus est non homo. Si autem imponeretur a privatione, requireret subiectum ad minus existens: sed quia imponitur a negatione, potest dici de ente et de non ente, ut Boethius et Ammonius dicunt. Quia tamen significat per modum nominis, quod potest subiici et praedicari, requiritur ad minus suppositum in apprehensione. Non autem erat nomen positum tempore Aristotelis sub quo huiusmodi dictiones concluderentur. Non enim est oratio, quia pars eius non significat aliquid separata, sicut nec in nominibus compositis; similiter autem non est negatio, id est oratio negativa, quia huiusmodi oratio superaddit negationem affirmationi, quod non contingit hic. Et ideo novum nomen imponit huiusmodi dictioni, vocans eam nomen infinitum propter indeterminationem significationis, ut dictum est. When he says, "Non-man,” however, is not a name, etc., he points out that certain things do not have the nature of a name. First he excludes the infinite name; then the cases of the name where he says, "Of Philo” and "to Philo,” etc. He says that "non-man” is not a name because every name signifies some determinate nature, for example, "man,” or a determinate person in the case of the pronoun, or both determinately, as in "Socrates.” But when we say "non-man” it signifies neither a determinate nature nor a determinate person, because it is imposed from the negation of man, which negation is predicated equally of being and non-being. Consequently, "non-man” can be said indifferently both of that which does not exist in reality, as in "A chimera is non-man,” and of that which does exist in reality, as in "A horse is non-man.” Now if the infinite name were imposed from a privation it would require at least an existing subject, but since it is imposed from a negation, it can be predicated of being and nonbeing, as Boethius and Ammonius say. However, since it signifies in the mode of a name, and can therefore be subjected and predicated, a suppositum is required at least in apprehension. In the time of Aristotle there was no name for words of this kind. They are not speech since a part of such a word does not signify something separately, just as a part of a composite name does not signify separately; and they are not negations, i.e., negative speech, for speech of this kind adds negation to affirmation, which is not the case here. Therefore he imposes a new name for words of this kind, the "infinite name,” because of the indetermination of signification, as has been said. 14 Deinde cum dicit: Catonis autem vel Catoni etc., excludit casus nominis; et dicit quod Catonis vel Catoni et alia huiusmodi non sunt nomina, sed solus nominativus dicitur principaliter nomen, per quem facta est impositio nominis ad aliquid significandum. Huiusmodi autem obliqui vocantur casus nominis: quia quasi cadunt per quamdam declinationis originem a nominativo, qui dicitur rectus eo quod non cadit. Stoici autem dixerunt etiam nominativos dici casus: quos grammatici sequuntur, eo quod cadunt, idest procedunt ab interiori conceptione mentis. Et dicitur rectus, eo quod nihil prohibet aliquid cadens sic cadere, ut rectum stet, sicut stilus qui cadens ligno infigitur. When he says, "Of Philo” and "to Philo” and all such expressions are not names but modes of names, he excludes the cases of names from the nature of the name. The nominative is the one that is said to be a name principally, for the imposition of the name to signify something was made through it. Oblique expressions of the kind cited are called cases of the name because they fall away from the nominative as a kind of source of their declension. On the other hand, the nominative, because it does not fall away, is said to be erect. The Stoics held that even the nominatives were cases (with which the grammarians agree), because they fall, i.e., proceed from the interior conception of the mind; and they said they were also called erect because nothing prevents a thing from falling in such a way that it stands erect, as when a pen falls and is fixed in wood. Aquinas lib. 1 l. 4 n. 15Deinde cum dicit: ratio autem eius etc., ostendit consequenter quomodo se habeant obliqui casus ad nomen; et dicit quod ratio, quam significat nomen, est eadem et in aliis, scilicet casibus nominis; sed in hoc est differentia quod nomen adiunctum cum hoc verbo est vel erit vel fuit semper significat verum vel falsum: quod non contingit in obliquis. Signanter autem inducit exemplum de verbo substantivo: quia sunt quaedam alia verba, scilicet impersonalia, quae cum obliquis significant verum vel falsum; ut cum dicitur, poenitet Socratem, quia actus verbi intelligitur ferri super obliquum; ac si diceretur, poenitentia habet Socratem. Then he says, The definition of these is the same in all other respects as that of the name itself, etc. Here Aristotle shows how oblique cases are related to the name. The definition, as it signifies the name, is the same in the others, namely, in the cases of the name. But they differ in this respect: the name joined to the verb "is” or "will be” or "has been” always signifies the true or false; in oblique cases this is not so. It is significant that the substantive verb is the one he uses as an example, for there are other verbs, i.e., impersonal verbs, that do signify the true or false when joined with a name in an oblique case, as in "It grieves Socrates,” because the act of the verb is understood to be carried over to the oblique cases, as though what were said were, "Grief possesses Socrates.” Aquinas lib. 1 l. 4 n. 16Sed contra: si nomen infinitum et casus non sunt nomina, inconvenienter data est praemissa nominis definitio, quae istis convenit. Sed dicendum, secundum Ammonium, quod supra communius definit nomen, postmodum vero significationem nominis arctat subtrahendo haec a nomine. Vel dicendum quod praemissa definitio non simpliciter convenit his: nomen enim infinitum nihil determinatum significat, neque casus nominis significat secundum primum placitum instituentis, ut dictum est. However, an objection could be made against Aristotle’s position in this portion of his text. If the infinite name and the cases of the name are not names, then the definition of the name (which belongs to these) is not consistently presented. There are two ways of answering this objection. We could say, as Ammonius does, that Aristotle defines the name broadly, and afterward limits the signification of the name by subtracting these from it. Or, we could say that the definition Aristotle has given does not belong to these absolutely, since the infinite name signifies nothing determinate, and the cases of the name do not signify according to the first intent of the one instituting the name, as has been said. V. 1. Postquam philosophus determinavit de nomine: hic determinat de verbo. Et circa hoc tria facit: primo, definit verbum; secundo, excludit quaedam a ratione verbi; ibi: non currit autem, et non laborat etc.; tertio, ostendit convenientiam verbi ad nomen; ibi: ipsa quidem secundum se dicta verba, et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit definitionem verbi; secundo exponit eam; ibi: dico autem quoniam consignificat et cetera. After determining the nature of the name the Philosopher now determines the nature of the verb. First he defines the verb; secondly, he excludes certain forms of verbs from the definition, where he says, "Non-matures” and "non-declines” I do not call verbs, etc.; finally, he shows in what the verb and name agree where he says, Verbs in themselves, said alone, are names, etc. First, then, he defines the verb and immediately begins to explain the definition where he says, I mean by "signifies with time,” etc. 2 Est autem considerandum quod Aristoteles, brevitati studens, non ponit in definitione verbi ea quae sunt nomini et verbo communia, relinquens ea intellectui legentis ex his quae dixerat in definitione nominis. Ponit autem tres particulas in definitione verbi: quarum prima distinguit verbum a nomine, in hoc scilicet quod dicit quod consignificat tempus. Dictum est enim in definitione nominis quod nomen significat sine tempore. Secunda vero particula est, per quam distinguitur verbum ab oratione, scilicet cum dicitur: cuius pars nihil extra significat. In order to be brief, Aristotle does not give what is common to the name and the verb in the definition of the verb, but leaves this for the reader to understand from the definition of the name. He posits three elements in the definition of the verb. The first of these distinguishes the verb from the name, for the verb signifies with time, the name without time, as was stated in its definition. The second element, no part of which signifies separately, distinguishes the verb from speech. 3 Sed cum hoc etiam positum sit in definitione nominis, videtur hoc debuisse praetermitti, sicut et quod dictum est, vox significativa ad placitum. Ad quod respondet Ammonius quod in definitione nominis hoc positum est, ut distinguatur nomen ab orationibus, quae componuntur ex nominibus; ut cum dicitur, homo est animal. Quia vero sunt etiam quaedam orationes quae componuntur ex verbis; ut cum dicitur, ambulare est moveri, ut ab his distinguatur verbum, oportuit hoc etiam in definitione verbi iterari. Potest etiam aliter dici quod quia verbum importat compositionem, in qua perficitur oratio verum vel falsum significans, maiorem convenientiam videbatur verbum habere cum oratione, quasi quaedam pars formalis ipsius, quam nomen, quod est quaedam pars materialis et subiectiva orationis; et ideo oportuit iterari. This second element was also given in the definition of the name and therefore it seems that this second element along with vocal sound significant by convention, should have been omitted. Ammonius says in reply to this that Aristotle posited this in the definition of the name to distinguish it from speech which is composed of names, as in "Man is an animal”; but speech may also be composed of verbs, as in "To walk is to move”; therefore, this also bad to be repeated in the definition of the verb to distinguish it from speech. We might also say that since the verb introduces the composition which brings about speech signifying truth or falsity, the verb seems to be more like speech (being a certain formal part of it) than the name which is a material and subjective part of it; therefore this had to be repeated. 4 Tertia vero particula est, per quam distinguitur verbum non solum a nomine, sed etiam a participio quod significat cum tempore; unde dicit: et est semper eorum, quae de altero praedicantur nota, idest signum: quia scilicet nomina et participia possunt poni ex parte subiecti et praedicati, sed verbum semper est ex parte praedicati. The third element distinguishes the verb not only from the name, but also from the participle, which also signifies with time. He makes this distinction when he says, and it is a sign of something said of something else, i.e., names and participles can be posited on the part of the subject and the predicate, but the verb is always posited on the part of the predicate. 5 Sed hoc videtur habere instantiam in verbis infinitivi modi, quae interdum ponuntur ex parte subiecti; ut cum dicitur, ambulare est moveri. Sed dicendum est quod verba infinitivi modi, quando in subiecto ponuntur, habent vim nominis: unde et in Graeco et in vulgari Latina locutione suscipiunt additionem articulorum sicut et nomina. Cuius ratio est quia proprium nominis est, ut significet rem aliquam quasi per se existentem; proprium autem verbi est, ut significet actionem vel passionem. Potest autem actio significari tripliciter: uno modo, per se in abstracto, velut quaedam res, et sic significatur per nomen; ut cum dicitur actio, passio, ambulatio, cursus et similia; alio modo, per modum actionis, ut scilicet est egrediens a substantia et inhaerens ei ut subiecto, et sic significatur per verba aliorum modorum, quae attribuuntur praedicatis. Sed quia etiam ipse processus vel inhaerentia actionis potest apprehendi ab intellectu et significari ut res quaedam, inde est quod ipsa verba infinitivi modi, quae significant ipsam inhaerentiam actionis ad subiectum, possunt accipi ut verba, ratione concretionis, et ut nomina prout significant quasi res quasdam. But it seems that verbs are used as subjects. The verb in the infinitive mode is an instance of this, as in the example, "To walk is to be moving.” Verbs of the infinitive mode, however, have the force of names when they are used as subjects. (Hence in both Greek and ordinary Latin usage articles are added to them as in the case of names.) The reason for this is that it is proper to the name to signify something as existing per se, but proper to the verb to signify action or passion. Now there are three ways of signifying action or passion. It can be signified per se, as a certain thing in the abstract and is thus signified by a name such as "action,” "passion,” "walking,” "running,” and so on. It can also be signified in the mode of an action, i.e., as proceeding from a substance and inhering in it as in a subject; in this way action or passion is signified by the verbs of the different modes attributed to predicates. Finally—and this is the third way in which action or passion can be signified—the very process or inherence of action can be apprehended by the intellect and signified as a thing. Verbs of the infinitive mode signify such inherence of action in a subject and hence can be taken as verbs by reason of concretion, and as names inasmuch as they signify as things. 6 Potest etiam obiici de hoc quod etiam verba aliorum modorum videntur aliquando in subiecto poni; ut cum dicitur, curro est verbum. Sed dicendum est quod in tali locutione, hoc verbum curro, non sumitur formaliter, secundum quod eius significatio refertur ad rem, sed secundum quod materialiter significat ipsam vocem, quae accipitur ut res quaedam. Et ideo tam verba, quam omnes orationis partes, quando ponuntur materialiter, sumuntur in vi nominum. On this point the objection may also be raised that verbs of other modes sometimes seem to be posited as subjects; for example when we say, "‘Matures’is a verb.” In such a statement, however, the verb "matures” is not taken formally according as its signification is referred to a thing, but as it signifies the vocal sound itself materially, which vocal sound is taken as a thing. When posited in this way, i.e., materially, verbs and all parts of speech are taken with the force of names.  7 Deinde cum dicit: dico vero quoniam consignificat etc., exponit definitionem positam. Et primo, quantum ad hoc quod dixerat quod consignificat tempus; secundo, quantum ad hoc quod dixerat quod est nota eorum quae de altero praedicantur, cum dicit: et semper est et cetera. Secundam autem particulam, scilicet: cuius nulla pars extra significat, non exponit, quia supra exposita est in tractatu nominis. Exponit ergo primum quod verbum consignificat tempus, per exemplum; quia videlicet cursus, quia significat actionem non per modum actionis, sed per modum rei per se existentis, non consignificat tempus, eo quod est nomen. Curro vero cum sit verbum significans actionem, consignificat tempus, quia proprium est motus tempore mensurari; actiones autem nobis notae sunt in tempore. Dictum est autem supra quod consignificare tempus est significare aliquid in tempore mensuratum. Unde aliud est significare tempus principaliter, ut rem quamdam, quod potest nomini convenire, aliud autem est significare cum tempore, quod non convenit nomini, sed verbo. Then he says, I mean by "signifies with time” that "maturity,” for example, is a name, but "matures” is a verb, etc.”’ With this he begins to explain the definition of the verb: first in regard to signifies with time; secondly, in regard to the verb being a sign of something said of something else. He does not explain the second part, no part of which signifies separately, because an explanation of it has already been made in connection with the name. First, he shows by an example that the verb signifies with time. "Maturity,” for example, because it signifies action, not in the mode of action but. in the mode of a thing existing per se, does not signify with time, for it is a name. But "matures,” since it is a verb signifying action, signifies with time, because to be measured by time is proper to motion; moreover, actions are known by us in time. We have already mentioned that to signify with time is to signify something measured in time. Hence it is one thing to signify time principally, as a thing, which is appropriate to the name; however, it is another thing to signify with time, which is not proper to the name but to the verb. 8 Deinde cum dicit: et est semper etc., exponit aliam particulam. Ubi notandum est quod quia subiectum enunciationis significatur ut cui inhaeret aliquid, cum verbum significet actionem per modum actionis, de cuius ratione est ut inhaereat, semper ponitur ex parte praedicati, nunquam autem ex parte subiecti, nisi sumatur in vi nominis, ut dictum est. Dicitur ergo verbum semper esse nota eorum quae dicuntur de altero: tum quia verbum semper significat id, quod praedicatur; tum quia in omni praedicatione oportet esse verbum, eo quod verbum importat compositionem, qua praedicatum componitur subiecto. Then he says, Moreover, a verb is always a sign of something that belongs to something, i.e., of something present in a subject. Here he explains the last part of the definition of the verb. It should be noted first that the subject of an enunciation signifies as that in which something inheres. Hence, when the verb signifies action through the mode of action (the nature of which is to inhere) it is always posited on the part of the predicate and never on the part of the subject—unless it is taken with the force of a name, as was said. The verb, therefore, is always said to be a sign of something said of another, and this not only because the verb always signifies that which is predicated but also because there must be a verb in every predication, for the verb introduces the composition by which the predicate is united with the subject. Aquinas lib. 1 l. 5 n. 9Sed dubium videtur quod subditur: ut eorum quae de subiecto vel in subiecto sunt. Videtur enim aliquid dici ut de subiecto, quod essentialiter praedicatur; ut, homo est animal; in subiecto autem, sicut accidens de subiecto praedicatur; ut, homo est albus. Si ergo verba significant actionem vel passionem, quae sunt accidentia, consequens est ut semper significent ea, quae dicuntur ut in subiecto. Frustra igitur dicitur in subiecto vel de subiecto. Et ad hoc dicit Boethius quod utrumque ad idem pertinet. Accidens enim et de subiecto praedicatur, et in subiecto est. Sed quia Aristoteles disiunctione utitur, videtur aliud per utrumque significare. Et ideo potest dici quod cum Aristoteles dicit quod, verbum semper est nota eorum, quae de altero praedicantur, non est sic intelligendum, quasi significata verborum sint quae praedicantur, quia cum praedicatio videatur magis proprie ad compositionem pertinere, ipsa verba sunt quae praedicantur, magis quam significent praedicata. Est ergo intelligendum quod verbum semper est signum quod aliqua praedicentur, quia omnis praedicatio fit per verbum ratione compositionis importatae, sive praedicetur aliquid essentialiter sive accidentaliter. The last phrase of this portion of the text presents a difficulty, namely, "of something belonging to [i.e., of] a subject or in a subject.” For it seems that something is said of a subject when it is predicated essentially, as in "Man is an animal”; but in a subject, when it is an accident that is predicated of a subject, as in "Man is white.” But if verbs signify action or passion (which are accidents), it follows that they always signify what is in a subject. It is useless, therefore, to say "belonging to [i.e., of] a subject or in a subject.” In answer to this Boethius says that both pertain to the same thing, for an accident is predicated of a subject and is also in a subject. Aristotle, however, uses a disjunction, which seems to indicate that he means something different by each. Therefore it could be said in reply to this that when Aristotle says the verb is always a sign of those things that are predicated of another” it is not to be understood as though the things signified by verbs are predicated. For predication seems to pertain more properly to composition; therefore, the verbs themselves are what are predicated, rather than signify predicates.” The verb, then, is always a sign that something is being predicated because all predication is made through the verb by reason of the composition introduced, whether what is being predicated is predicated essentially or accidentally. Aquinas lib. 1 l. 5 n. 10Deinde cum dicit: non currit vero et non laborat etc., excludit quaedam a ratione verbi. Et primo, verbum infinitum; secundo, verba praeteriti temporis vel futuri; ibi: similiter autem curret vel currebat. Dicit ergo primo quod non currit, et non laborat, non proprie dicitur verbum. Est enim proprium verbi significare aliquid per modum actionis vel passionis; quod praedictae dictiones non faciunt: removent enim actionem vel passionem, potius quam aliquam determinatam actionem vel passionem significent. Sed quamvis non proprie possint dici verbum, tamen conveniunt sibi ea quae supra posita sunt in definitione verbi. Quorum primum est quod significat tempus, quia significat agere et pati, quae sicut sunt in tempore, ita privatio eorum; unde et quies tempore mensuratur, ut habetur in VI physicorum. Secundum est quod semper ponitur ex parte praedicati, sicut et verbum: et hoc ideo, quia negatio reducitur ad genus affirmationis. Unde sicut verbum quod significat actionem vel passionem, significat aliquid ut in altero existens, ita praedictae dictiones significant remotionem actionis vel passionis. When he says, "Non-matures” and "non-declines” I do not call verbs, etc., he excludes certain forms of verbs from the definition of the verb. And first he excludes the infinite verb, then the verbs of past and future time. "Non-matures” and "non-declines” cannot strictly speaking be called verbs for it is proper to the verb to signify something in the mode of action or passion. But these words remove action or passion rather than signify a determinate action or passion. Now while they cannot properly be called verbs, all the parts of the definition of the verb apply to them. First of all the verb signifies time, because it signifies to act or to be acted upon; and since these are in time so are their privations; whence rest, too, is measured by time, as is said in VI Physicorum. Again, the infinite verb is always posited on the part of the predicate just as the verb is; the reason is that negation is reduced to the genus of affirmation. Hence, just as the verb, which signifies action or passion, signifies something as existing in another, so the foresaid words signify the remotion of action or passion. 11 Si quis autem obiiciat: si praedictis dictionibus convenit definitio verbi; ergo sunt verba; dicendum est quod definitio verbi supra posita datur de verbo communiter sumpto. Huiusmodi autem dictiones negantur esse verba, quia deficiunt a perfecta ratione verbi. Nec ante Aristotelem erat nomen positum huic generi dictionum a verbis differentium; sed quia huiusmodi dictiones in aliquo cum verbis conveniunt, deficiunt tamen a determinata ratione verbi, ideo vocat ea verba infinita. Et rationem nominis assignat, quia unumquodque eorum indifferenter potest dici de eo quod est, vel de eo quod non est. Sumitur enim negatio apposita non in vi privationis, sed in vi simplicis negationis. Privatio enim supponit determinatum subiectum. Differunt tamen huiusmodi verba a verbis negativis, quia verba infinita sumuntur in vi unius dictionis, verba vero negativa in vi duarum dictionum. Now someone might object that if the definition of the verb applies to the above words, then they are verbs. In answer to this it should be pointed out that the definition which has been given of the verb is the definition of it taken commonly. Insofar as these words fall short of the perfect notion of the verb, they are not called verbs. Before Aristotle’s time a name bad not been imposed for a word that differs from verbs as these do. He calls them infinite verbs because such words agree in some things with verbs and yet fall short of the determinate notion of the verb. The reason for the name, he says, is that an infinite verb can be said indifferently of what is or what is not; for the adjoined negation is taken, not with the force of privation, but with the force of simple negation since privation supposes a determinate subject. Infinite verbs do differ from negative verbs, however, for infinite verbs are taken with the force of one word, negative verbs with the force of two. 12 Deinde cum dicit: similiter autem curret etc., excludit a verbo verba praeteriti et futuri temporis; et dicit quod sicut verba infinita non sunt simpliciter verba, ita etiam curret, quod est futuri temporis, vel currebat, quod est praeteriti temporis, non sunt verba, sed sunt casus verbi. Et differunt in hoc a verbo, quia verbum consignificat praesens tempus, illa vero significant tempus hinc et inde circumstans. Dicit autem signanter praesens tempus, et non simpliciter praesens, ne intelligatur praesens indivisibile, quod est instans: quia in instanti non est motus, nec actio aut passio; sed oportet accipere praesens tempus quod mensurat actionem, quae incepit, et nondum est determinata per actum. Recte autem ea quae consignificant tempus praeteritum vel futurum, non sunt verba proprie dicta: cum enim verbum proprie sit quod significat agere vel pati, hoc est proprie verbum quod significat agere vel pati in actu, quod est agere vel pati simpliciter: sed agere vel pati in praeterito vel futuro est secundum quid. When he says, Likewise, "has matured” and "will mature” are not verbs, but modes of verbs, etc., he excludes verbs of past and future time from the definition. For just as infinite verbs are not verbs absolutely, so "will mature,” which is of future time, and "has matured,” of past time, are not verbs. They are cases of the verb and differ from the verb—which signifies with present time—by signifying time before and after the present. Aristotle expressly says "present time” and not just "present” because he does not mean here the indivisible present which is the instant; for in the instant there is neither movement, nor action, nor passion. Present time is to be taken as the time that measures action which has begun and has not yet been terminated in act. Accordingly, verbs that signify with past or future time are not verbs in the proper sense of the term, for the verb is that which signifies to act or to be acted upon and therefore strictly speaking signifies to act or to be acted upon in act, which is to act or to be acted upon simply, whereas to act or to be acted upon in past or future time is relative. 13 Dicuntur etiam verba praeteriti vel futuri temporis rationabiliter casus verbi, quod consignificat praesens tempus; quia praeteritum vel futurum dicitur per respectum ad praesens. Est enim praeteritum quod fuit praesens, futurum autem quod erit praesens. It is with reason that verbs of past or future time are called cases of the verb signifying with present time, for past or future are said with respect to the present, the past being that which was present, the future, that which will be present. Aquinas lib. 1 l. 5 n. 14Cum autem declinatio verbi varietur per modos, tempora, numeros et personas, variatio quae fit per numerum et personam non constituit casus verbi: quia talis variatio non est ex parte actionis, sed ex parte subiecti; sed variatio quae est per modos et tempora respicit ipsam actionem, et ideo utraque constituit casus verbi. Nam verba imperativi vel optativi modi casus dicuntur, sicut et verba praeteriti vel futuri temporis. Sed verba indicativi modi praesentis temporis non dicuntur casus, cuiuscumque sint personae vel numeri. Although the inflection of the verb is varied by mode, time, number, and person, the variations that are made in number and person do not constitute cases of the verb, the reason being that such variation is on the part of the subject, not on the part of the action. But variation in mode and time refers to the action itself and hence both of these constitute cases of the verb. For verbs of the imperative or optative modes are called cases as well as verbs of past or future time. Verbs of the indicative mode in present time, however, are not called cases, whatever their person and number. 15 Deinde cum dicit: ipsa itaque etc., ostendit convenientiam verborum ad nomina. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: et significant aliquid et cetera. Dicit ergo primo, quod ipsa verba secundum se dicta sunt nomina: quod a quibusdam exponitur de verbis quae sumuntur in vi nominis, ut dictum est, sive sint infinitivi modi; ut cum dico, currere est moveri, sive sint alterius modi; ut cum dico, curro est verbum. Sed haec non videtur esse intentio Aristotelis, quia ad hanc intentionem non respondent sequentia. Et ideo aliter dicendum est quod nomen hic sumitur, prout communiter significat quamlibet dictionem impositam ad significandum aliquam rem. Et quia etiam ipsum agere vel pati est quaedam res, inde est quod et ipsa verba in quantum nominant, idest significant agere vel pati, sub nominibus comprehenduntur communiter acceptis. Nomen autem, prout a verbo distinguitur, significat rem sub determinato modo, prout scilicet potest intelligi ut per se existens. Unde nomina possunt subiici et praedicari. He points out the conformity between verbs and names where he says, Verbs in themselves, said alone, are names. He proposes this first and then manifests it. He says then, first, that verbs said by themselves are names. Some have taken this to mean the verbs that are taken with the force of names, either verbs of the infinitive mode, as in "To run is to be moving,” or verbs of another mode, as in "‘Matures’ is a verb.” But this does not seem to be what Aristotle means, for it does not correspond to what he says next. Therefore "name” must be taken in another way here, i.e., as it commonly signifies any word whatever that is imposed to signify a thing. Now, since to act or to be acted upon is also a certain thing, verbs themselves as they name, i.e., as they signify to act or to be acted upon, are comprehended under names taken commonly. The name as distinguished from the verb signifies the thing under a determinate mode, i.e., according as the thing can be understood as existing per se. This is the reason names can be subjected and predicated. 6 Deinde cum dicit: et significant aliquid etc., probat propositum. Et primo, per hoc quod verba significant aliquid, sicut et nomina; secundo, per hoc quod non significant verum vel falsum, sicut nec nomina; ibi: sed si est, aut non est et cetera. Dicit ergo primo quod in tantum dictum est quod verba sunt nomina, in quantum significant aliquid. Et hoc probat, quia supra dictum est quod voces significativae significant intellectus. Unde proprium vocis significativae est quod generet aliquem intellectum in animo audientis. Et ideo ad ostendendum quod verbum sit vox significativa, assumit quod ille, qui dicit verbum, constituit intellectum in animo audientis. Et ad hoc manifestandum inducit quod ille, qui audit, quiescit. He proves the point he has just made when he says, and signify something, etc., first by showing that verbs, like names, signify something; then by showing that, like names, they do not signify truth or falsity when he says, for the verb is not a sign of the being or nonbeing of a thing. He says first that verbs have been said to be names only insofar as they signify a thing. Then he proves this: it has already been said that significant vocal sound signifies thought; hence it is proper to significant vocal sound to produce something understood in the mind of the one who hears it. To show, then, that a verb is significant vocal sound he assumes that the one who utters a verb brings about understanding in the mind of the one who bears it. The evidence he introduces for this is that the mind of the one who bears it is set at rest. 17 Sed hoc videtur esse falsum: quia sola oratio perfecta facit quiescere intellectum, non autem nomen, neque verbum si per se dicatur. Si enim dicam, homo, suspensus est animus audientis, quid de eo dicere velim; si autem dico, currit, suspensus est eius animus de quo dicam. Sed dicendum est quod cum duplex sit intellectus operatio, ut supra habitum est, ille qui dicit nomen vel verbum secundum se, constituit intellectum quantum ad primam operationem, quae est simplex conceptio alicuius, et secundum hoc, quiescit audiens, qui in suspenso erat antequam nomen vel verbum proferretur et eius prolatio terminaretur; non autem constituit intellectum quantum ad secundam operationem, quae est intellectus componentis et dividentis, ipsum verbum vel nomen per se dictum: nec quantum ad hoc facit quiescere audientem. But what Aristotle says here seems to be false, for it is only perfect speech that makes the intellect rest. The name or the verb, if said by themselves, do not do this. For example, if I say "man,” the mind of the hearer is left in suspense as to what I wish to say about mail; and if I say "runs,” the bearer’s mind is left in suspense as to whom I am speaking of. It should be said in answer to this objection that the operation of the intellect is twofold, as was said above, and therefore the one who utters a name or a verb by itself, determines the intellect with respect to the first operation, which is the simple conception of something. It is in relation to this that the one hearing, whose mind was undetermined before the name or the verb was being uttered and its utterance terminated, is set at rest. Neither the name nor the verb said by itself, however, determines the intellect in respect to the second operation, which is the operation of the intellect composing and dividing; nor do the verb or the name said alone set the hearer’s mind at rest in respect to this operation. 18 Et ideo statim subdit: sed si est, aut non est, nondum significat, idest nondum significat aliquid per modum compositionis et divisionis, aut veri vel falsi. Et hoc est secundum, quod probare intendit. Probat autem consequenter per illa verba, quae maxime videntur significare veritatem vel falsitatem, scilicet ipsum verbum quod est esse, et verbum infinitum quod est non esse; quorum neutrum per se dictum est significativum veritatis vel falsitatis in re; unde multo minus alia. Vel potest intelligi hoc generaliter dici de omnibus verbis. Quia enim dixerat quod verbum non significat si est res vel non est, hoc consequenter manifestat, quia nullum verbum est significativum esse rei vel non esse, idest quod res sit vel non sit. Quamvis enim omne verbum finitum implicet esse, quia currere est currentem esse, et omne verbum infinitum implicet non esse, quia non currere est non currentem esse; tamen nullum verbum significat hoc totum, scilicet rem esse vel non esse. Aristotle therefore immediately adds, but they do not yet signify whether a thing is or is not, i.e., they do not yet signify something by way of composition and division, or by way of truth or falsity. This is the second thing he intends to prove, and he proves it by the verbs that especially seem to signify truth or falsity, namely the verb to be and the infinite verb to non-be, neither of which, said by itself, signifies real truth or falsity; much less so any other verbs. This could also be understood in a more general way, i.e., that here he is speaking of all verbs; for he says that the verb does not signify whether a thing is or is not; he manifests this further, therefore, by saying that no verb is significative of a thing’s being or non-being, i.e., that a thing is or is not. For although every finite verb implies being, for "to run” is "to be running,” and every infinite verb implies nonbeing, for "to non-run” is "to be non-running,” nevertheless no verb signifies the whole, i.e., a thing is or a thing is not. 19 Et hoc consequenter probat per id, de quo magis videtur cum subdit: nec si hoc ipsum est purum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ubi notandum est quod in Graeco habetur: neque si ens ipsum nudum dixeris, ipsum quidem nihil est. Ad probandum enim quod verba non significant rem esse vel non esse, assumpsit id quod est fons et origo ipsius esse, scilicet ipsum ens, de quo dicit quod nihil est (ut Alexander exponit), quia ens aequivoce dicitur de decem praedicamentis; omne autem aequivocum per se positum nihil significat, nisi aliquid addatur quod determinet eius significationem; unde nec ipsum est per se dictum significat quod est vel non est. Sed haec expositio non videtur conveniens, tum quia ens non dicitur proprie aequivoce, sed secundum prius et posterius; unde simpliciter dictum intelligitur de eo, quod per prius dicitur: tum etiam, quia dictio aequivoca non nihil significat, sed multa significat; et quandoque hoc, quandoque illud per ipsam accipitur: tum etiam, quia talis expositio non multum facit ad intentionem praesentem. Unde Porphyrius aliter exposuit quod hoc ipsum ens non significat naturam alicuius rei, sicut hoc nomen homo vel sapiens, sed solum designat quamdam coniunctionem; unde subdit quod consignificat quamdam compositionem, quam sine compositis non est intelligere. Sed neque hoc convenienter videtur dici: quia si non significaret aliquam rem, sed solum coniunctionem, non esset neque nomen, neque verbum, sicut nec praepositiones aut coniunctiones. Et ideo aliter exponendum est, sicut Ammonius exponit, quod ipsum ens nihil est, idest non significat verum vel falsum. Et rationem huius assignat, cum subdit: consignificat autem quamdam compositionem. Nec accipitur hic, ut ipse dicit, consignificat, sicut cum dicebatur quod verbum consignificat tempus, sed consignificat, idest cum alio significat, scilicet alii adiunctum compositionem significat, quae non potest intelligi sine extremis compositionis. Sed quia hoc commune est omnibus nominibus et verbis, non videtur haec expositio esse secundum intentionem Aristotelis, qui assumpsit ipsum ens quasi quoddam speciale. He proves this point from something in which it will be clearer when he adds, Nor would it be a sign of the being or nonbeing of a thing if you were to say "is” alone, for it is nothing. It should be noted that the Greek text has the word "being” in place of "is” here. In order to prove that verbs do not signify that a thing is or is not, he takes the source and origin of to be [esse], i.e., being [ens] itself, of which he says, it is nothing. Alexander explains this passage in the following way: Aristotle says being itself is nothing because "being” [ens] is said equivocally of the ten predicaments; now an equivocal name used by itself signifies nothing unless something is added to determine its signification; hence, "is” [est] said by itself does not signify what is or is not. But this explanation is not appropriate for this text. In the first place "being” is not, strictly speaking, said equivocally but according to the prior and posterior. Consequently, said absolutely, it is understood of that of which it is said primarily. Secondly, an equivocal word does not signify nothing, but many things, sometimes being taken for one, sometimes for another. Thirdly, such an explanation does not have much application here. Porphyry explains this passage in another way. He says that "being” [ens] itself does not signify the nature of a thing as the name "man” or "wise” do, but only designates a certain conjunction and this is why Aristotle adds, it signifies with a composition, which cannot be conceived apart from the things composing it. This explanation does not seem to be consistent with the text either, for if "being” itself does not signify a thing, but only a conjunction, it, like prepositions and conjunctions, is neither a name nor a verb. Therefore Ammonius thought this should be explained in another way. He says "being itself is nothing” means that it does not signify truth or falsity. And the reason for this is given when Aristotle says, it signifies with a composition. The "signifies with,” according to Ammonius, does not mean what it does when it is said that the verb signifies with time; "signifies with,” means here signifies with something, i.e., joined to another it signifies composition, which cannot be understood without the extremes of the composition. But this explanation does not seem to be in accordance with the intention of Aristotle, for it is common to all names and verbs not to signify truth or falsity, whereas Aristotle takes "being” here as though it were something special. Aquinas lib. 1 l. 5 n. 20 Et ideo ut magis sequamur verba Aristotelis considerandum est quod ipse dixerat quod verbum non significat rem esse vel non esse, sed nec ipsum ens significat rem esse vel non esse. Et hoc est quod dicit, nihil est, idest non significat aliquid esse. Etenim hoc maxime videbatur de hoc quod dico ens: quia ens nihil est aliud quam quod est. Et sic videtur et rem significare, per hoc quod dico quod et esse, per hoc quod dico est. Et si quidem haec dictio ens significaret esse principaliter, sicut significat rem quae habet esse, procul dubio significaret aliquid esse. Sed ipsam compositionem, quae importatur in hoc quod dico est, non principaliter significat, sed consignificat eam in quantum significat rem habentem esse. Unde talis consignificatio compositionis non sufficit ad veritatem vel falsitatem: quia compositio, in qua consistit veritas et falsitas, non potest intelligi, nisi secundum quod innectit extrema compositionis. Therefore in order to understand what Aristotle is saying we should note that he has just said that the verb does not signify that a thing exists or does not exist [rem esse vel non esse]; nor does "being” [ens] signify that a thing exists or does not exist. This is what he means when he says, it is nothing, i.e., it does not signify that a thing exists. This is indeed most clearly seen in saying "being” [ens], because being is nothing other than that which is. And thus we see that it signifies both a thing, when I say "that which,” and existence [esse] when I say "is” [est]. If the word "being” [ens] as signifying a thing having existence were to signify existence [esse] principally, without a doubt it would signify that a thing exists. But the word "being” [ens] does not principally signify the composition that is implied in saying "is” [est]; rather, it signifies with composition inasmuch as it signifies the thing having existence. Such signifying with composition is not sufficient for truth or falsity; for the composition in which truth and falsity consists cannot be understood unless it connects the extremes of a composition. 21 Si vero dicatur, nec ipsum esse, ut libri nostri habent, planior est sensus. Quod enim nullum verbum significat rem esse vel non esse, probat per hoc verbum est, quod secundum se dictum, non significat aliquid esse, licet significet esse. Et quia hoc ipsum esse videtur compositio quaedam, et ita hoc verbum est, quod significat esse, potest videri significare compositionem, in qua sit verum vel falsum; ad hoc excludendum subdit quod illa compositio, quam significat hoc verbum est, non potest intelligi sine componentibus: quia dependet eius intellectus ab extremis, quae si non apponantur, non est perfectus intellectus compositionis, ut possit in ea esse verum, vel falsum. If in place of what Aristotle says we say nor would "to be” itself [nec ipsum esse], as it is in our texts, the meaning is clearer. For Aristotle proves through the verb "is” [est] that no verb signifies that a thing exists or does not exist, since "is” said by itself does not signify that a thing exists, although it signifies existence. And because to be itself seems to be a kind of composition, so also the verb "is” [est], which signifies to be, can seem to signify the composition in which there is truth or falsity. To exclude this Aristotle adds that the composition which the verb "is” signifies cannot be understood without the composing things. The reason for this is that an understanding of the composition which "is” signifies depends on the extremes, and unless they are added, understanding of the composition is not complete and hence cannot be true or false. 22 Ideo autem dicit quod hoc verbum est consignificat compositionem, quia non eam principaliter significat, sed ex consequenti; significat enim primo illud quod cadit in intellectu per modum actualitatis absolute: nam est, simpliciter dictum, significat in actu esse; et ideo significat per modum verbi. Quia vero actualitas, quam principaliter significat hoc verbum est, est communiter actualitas omnis formae, vel actus substantialis vel accidentalis, inde est quod cum volumus significare quamcumque formam vel actum actualiter inesse alicui subiecto, significamus illud per hoc verbum est, vel simpliciter vel secundum quid: simpliciter quidem secundum praesens tempus; secundum quid autem secundum alia tempora. Et ideo ex consequenti hoc verbum est significat compositionem. Therefore he says that the verb "is” signifies with composition; for it does not signify composition principally but consequently. it primarily signifies that which is perceived in the mode of actuality absolutely; for "is” said simply, signifies to be in act, and therefore signifies in the mode of a verb. However, the actuality which the verb "is” principally signifies is the actuality of every form commonly, whether substantial or accidental. Hence, when we wish to signify that any form or act is actually in some subject we signify it through the verb "is,” either absolutely or relatively; absolutely, according to present time, relatively, according to other times; and for this reason the verb "is” signifies composition, not principally, but consequently. VI. 1. Postquam philosophus determinavit de nomine et de verbo, quae sunt principia materialia enunciationis, utpote partes eius existentes; nunc determinat de oratione, quae est principium formale enunciationis, utpote genus eius existens. Et circa hoc tria facit: primo enim, proponit definitionem orationis; secundo, exponit eam; ibi: dico autem ut homo etc.; tertio, excludit errorem; ibi: est autem oratio omnis et cetera. Having established and explained the definition of the name and the verb, which are the material principles of the enunciation inasmuch as they are its parts, the Philosopher now determines and explains what speech is, which is the formal principle of the enunciation inasmuch as it is its genus. First he proposes the definition of speech; then he explains it where he says, Let me explain. The word "animal” signifies something, etc.; finally, he excludes an error where he says, But all speech is significant—not just as an instrument, however, etc.  2 Circa primum considerandum est quod philosophus in definitione orationis primo ponit illud in quo oratio convenit cum nomine et verbo, cum dicit: oratio est vox significativa, quod etiam posuit in definitione nominis, et probavit de verbo quod aliquid significet. Non autem posuit in eius definitione, quia supponebat ex eo quod positum erat in definitione nominis, studens brevitati, ne idem frequenter iteraret. Iterat tamen hoc in definitione orationis, quia significatio orationis differt a significatione nominis et verbi, quia nomen vel verbum significat simplicem intellectum, oratio vero significat intellectum compositum. In defining speech the Philosopher first states what it has in common with the name and verb where he says, Speech is significant vocal sound. This was posited in the definition of the name but not repeated in the case of the verb, because it was supposed from the definition of the name. This was done for the sake of brevity and to avoid repetition; but subsequently he did prove that the verb signifies something. He repeats this, however, in the definition of speech because the signification of speech differs from that of the name and the verb; for the name and the verb signify simple thought, whereas speech signifies composite thought. 3 Secundo autem ponit id, in quo oratio differt a nomine et verbo, cum dicit: cuius partium aliquid significativum est separatim. Supra enim dictum est quod pars nominis non significat aliquid per se separatum, sed solum quod est coniunctum ex duabus partibus. Signanter autem non dicit: cuius pars est significativa aliquid separata, sed cuius aliquid partium est significativum, propter negationes et alia syncategoremata, quae secundum se non significant aliquid absolutum, sed solum habitudinem unius ad alterum. Sed quia duplex est significatio vocis, una quae refertur ad intellectum compositum, alia quae refertur ad intellectum simplicem; prima significatio competit orationi, secunda non competit orationi, sed parti orationis. Unde subdit: ut dictio, non ut affirmatio. Quasi dicat: pars orationis est significativa, sicut dictio significat, puta ut nomen et verbum, non sicut affirmatio, quae componitur ex nomine et verbo. Facit autem mentionem solum de affirmatione et non de negatione, quia negatio secundum vocem superaddit affirmationi; unde si pars orationis propter sui simplicitatem non significat aliquid, ut affirmatio, multo minus ut negatio. Secondly, he posits what differentiates speech from the name and verb when he says, of which some of the parts are significant separately; for a part of a name taken separately does not signify anything per se, except in the case of a name composed of two parts, as he said above. Note that he says, of which some of the parts are significant, and not, a part of which is significant separately; this is to exclude negations and the other words used to unite categorical words, which do not in themselves signify something absolutely, but only the relationship of one thing to another. Then because the signification of vocal sound is twofold, one being referred to composite thought, the other to simple thought (the first belonging to speech, the second, not to speech but to a part of speech), he adds, as words but not as an affirmation. What he means is that a part of speech signifies in the way a word signifies, a name or a verb, for instance; it does not signify in the way an affirmation signifies, which is composed of a name and a verb. He only mentions affirmation because negation adds something to affirmation as far as vocal sound is concerned for if a part of speech, since it is simple, does not signify as an affirmation, it will not signify as a negation. 4 Sed contra hanc definitionem Aspasius obiicit quod videtur non omnibus partibus orationis convenire. Sunt enim quaedam orationes, quarum partes significant aliquid ut affirmatio; ut puta, si sol lucet super terram, dies est; et sic de multis. Et ad hoc respondet Porphyrius quod in quocumque genere invenitur prius et posterius, debet definiri id quod prius est. Sicut cum datur definitio alicuius speciei, puta hominis, intelligitur definitio de eo quod est in actu, non de eo quod est in potentia; et ideo quia in genere orationis prius est oratio simplex, inde est quod Aristoteles prius definivit orationem simplicem. Vel potest dici, secundum Alexandrum et Ammonium, quod hic definitur oratio in communi. Unde debet poni in hac definitione id quod est commune orationi simplici et compositae. Habere autem partes significantes aliquid ut affirmatio, competit soli orationi, compositae; sed habere partes significantes aliquid per modum dictionis, et non per modum affirmationis, est commune orationi simplici et compositae. Et ideo hoc debuit poni in definitione orationis. Et secundum hoc non debet intelligi esse de ratione orationis quod pars eius non sit affirmatio: sed quia de ratione orationis est quod pars eius sit aliquid quod significat per modum dictionis, et non per modum affirmationis. Et in idem redit solutio Porphyrii quantum ad sensum, licet quantum ad verba parumper differat. Quia enim Aristoteles frequenter ponit dicere pro affirmare, ne dictio pro affirmatione sumatur, subdit quod pars orationis significat ut dictio, et addit non ut affirmatio: quasi diceret, secundum sensum Porphyrii, non accipiatur nunc dictio secundum quod idem est quod affirmatio. Philosophus autem, qui dicitur Ioannes grammaticus, voluit quod haec definitio orationis daretur solum de oratione perfecta, eo quod partes non videntur esse nisi alicuius perfecti, sicut omnes partes domus referuntur ad domum: et ideo secundum ipsum sola oratio perfecta habet partes significativas. Sed tamen hic decipiebatur, quia quamvis omnes partes referantur principaliter ad totum perfectum, quaedam tamen partes referuntur ad ipsum immediate, sicut paries et tectum ad domum, et membra organica ad animal: quaedam vero mediantibus partibus principalibus quarum sunt partes; sicut lapides referuntur ad domum mediante pariete; nervi autem et ossa ad animal mediantibus membris organicis, scilicet manu et pede et huiusmodi. Sic ergo omnes partes orationis principaliter referuntur ad orationem perfectam, cuius pars est oratio imperfecta, quae etiam ipsa habet partes significantes. Unde ista definitio convenit tam orationi perfectae, quam imperfectae. Aspasius objects to this definition because it does not seem to belong to all parts of speech. There is a kind of speech he says, in which some of the parts signify as an affirmation; for instance, "If the sun shines over the earth, it is day,” and so in many other examples. Porphyry says in reply to this objection that in whatever genus there is something prior and posterior, it is the prior thing that has to be defined. For example, when we give the definition of a species—say, of man—the definition is understood of that which is in act, not of that which is in potency. Since, then, in the genus of speech, simple speech is prior, Aristotle defines it first. Or, we can answer the objection in the way Alexander and Ammonious do. They say that speech is defined here commonly. Hence what is common to simple and composite speech ought to be stated in the definition. Now to have parts signifying something as an affirmation belongs only to composite speech, but to have parts signifying something in the mode of a word and not in the mode of an affirmation is common to simple and composite speech. Therefore this had to be posited in the definition of speech. We should not conclude, however, that it is of the nature of speech that its part not be an affirmation, but rather that it is of the nature of speech that its parts be something that signify in the manner of words and not in the manner of an affirmation. Porphyry’s solution reduces to the same thing as far as meaning is concerned, although it is a little different verbally. Aristotle frequently uses "to say” for "to affirm,” and hence to prevent "word” from being taken as "affirmation” when he says that a part of speech signifies as a word, he immediately adds, not as an affirmation, meaning—according to Porphyry’s view—"word” is not taken here in the sense in which it is the same as "affirmation.” A philosopher called John the Grammarian thought that this definition could only apply to perfect speech because there only seem to be parts in the case of something perfect, or complete; for example, a house to which all of the parts are referred. Therefore only perfect speech has significant parts. He was in error on this point, however, for while it is true that all the parts are referred principally to the perfect, or complete whole, some parts are referred to it immediately, for example, the walls and roof to a house and organic members to an animal; others, however, are referred to it through the principal parts of which they are parts; stones, for example, to the house by the mediate wall, and nerves and bones to the animal by the mediate organic members like the hand and the foot, etc. In the case of speech, therefore, all of the parts are principally referred to perfect speech, a part of which is imperfect speech, which also has significant parts. Hence this definition belongs both to perfect and to imperfect speech. Aquinas lib. 1 l. 6 n. 5Deinde cum dicit: dico autem ut homo etc., exponit propositam definitionem. Et primo, manifestat verum esse quod dicitur; secundo, excludit falsum intellectum; ibi: sed non una hominis syllaba et cetera. Exponit ergo quod dixerat aliquid partium orationis esse significativum, sicut hoc nomen homo, quod est pars orationis, significat aliquid, sed non significat ut affirmatio aut negatio, quia non significat esse vel non esse. Et hoc dico non in actu, sed solum in potentia. Potest enim aliquid addi, per cuius additionem fit affirmatio vel negatio, scilicet si addatur ei verbum. When he says, Let me explain. The word "animal” signifies something, etc., he elucidates the definition. First he shows that what he says is true; secondly, he excludes a false understanding of it where he says, But one syllable of "animal” does not signify anything, etc. He explains that when he says some parts of speech are significant, he means that some of the parts signify something in the way the name "animal,” which is a part of speech, signifies something and yet does not signify as an affirmation or negation, because it does not signify to be or not to be. By this I mean it does not signify affirmation or negation in act, but only in potency; for it is possible to add something that will make it an affirmation or negation, i.e., a verb. 6 Deinde cum dicit: sed non una hominis etc., excludit falsum intellectum. Et posset hoc referri ad immediate dictum, ut sit sensus quod nomen erit affirmatio vel negatio, si quid ei addatur, sed non si addatur ei una nominis syllaba. Sed quia huic sensui non conveniunt verba sequentia, oportet quod referatur ad id, quod supra dictum est in definitione orationis, scilicet quod aliquid partium eius sit significativum separatim. Sed quia pars alicuius totius dicitur proprie illud, quod immediate venit ad constitutionem totius, non autem pars partis; ideo hoc intelligendum est de partibus ex quibus immediate constituitur oratio, scilicet de nomine et verbo, non autem de partibus nominis vel verbi, quae sunt syllabae vel litterae. Et ideo dicitur quod pars orationis est significativa separata, non tamen talis pars, quae est una nominis syllaba. Et hoc manifestat in syllabis, quae quandoque possunt esse dictiones per se significantes: sicut hoc quod dico rex, quandoque est una dictio per se significans; in quantum vero accipitur ut una quaedam syllaba huius nominis sorex, soricis, non significat aliquid per se, sed est vox sola. Dictio enim quaedam est composita ex pluribus vocibus, tamen in significando habet simplicitatem, in quantum scilicet significat simplicem intellectum. Et ideo in quantum est vox composita, potest habere partem quae sit vox, inquantum autem est simplex in significando, non potest habere partem significantem. Unde syllabae quidem sunt voces, sed non sunt voces per se significantes. Sciendum tamen quod in nominibus compositis, quae imponuntur ad significandum rem simplicem ex aliquo intellectu composito, partes secundum apparentiam aliquid significant, licet non secundum veritatem. Et ideo subdit quod in duplicibus, idest in nominibus compositis, syllabae quae possunt esse dictiones, in compositione nominis venientes, significant aliquid, scilicet in ipso composito et secundum quod sunt dictiones; non autem significant aliquid secundum se, prout sunt huiusmodi nominis partes, sed eo modo, sicut supra dictum est. He excludes a false understanding of what has been said by his next statement. But one syllable of "animal” does not signify anything. This could be referred to what has just been said and the meaning would be that the name will be an affirmation or negation if something is added to it, but not if what is added is one syllable of a name. However, what he says next is not compatible with this meaning and therefore these words should be referred to what was stated earlier in defining speech, namely, to some parts of which are significant separately. Now, since what is properly called a part of a whole is that which contributes immediately to the formation of the whole, and not that which is a part of a part, "some parts” should be understood as the parts from which speech is immediately formed, i.e., the name and verb, and not as parts of the name or verb, which are syllables or letters. Hence, what is being said here is that a part of speech is significant separately but not such a part as the syllable of a name. He manifests this by means of syllables that sometimes can be words signifying per se. "Owl,” for example, is sometimes one word signifying per se. When taken as a syllable of the name "fowl,” however, it does not signify something per se but is only a vocal sound. For a word is composed of many vocal sounds, but it has simplicity in signifying insofar as it signifies simple thought. Hence, a word inasmuch as it is a composite vocal sound can have a part which is a vocal sound, but inasmuch as it is simple in signifying it cannot have a signifying part. Whence syllables are indeed vocal sounds, but they are not vocal sounds signifying per se. In contrast to this it should be noted that in composite names, which are imposed to signify a simple thing from some composite understanding, the parts appear to signify something, although according to truth they do not. For this reason he adds that in compound words, i.e., composite names, the syllables may be words contributing to the composition of a name, and therefore signify something, namely, in the composite, and according as they are words; but as parts of this kind of name they do not signify something per se, but in the way that has already been explained. 7 Deinde cum dicit: est autem oratio etc., excludit quemdam errorem. Fuerunt enim aliqui dicentes quod oratio et eius partes significant naturaliter, non ad placitum. Ad probandum autem hoc utebantur tali ratione. Virtutis naturalis oportet esse naturalia instrumenta: quia natura non deficit in necessariis; potentia autem interpretativa est naturalis homini; ergo instrumenta eius sunt naturalia. Instrumentum autem eius est oratio, quia per orationem virtus interpretativa interpretatur mentis conceptum: hoc enim dicimus instrumentum, quo agens operatur. Ergo oratio est aliquid naturale, non ex institutione humana significans, sed naturaliter. Then he says, But all speech is significant—not just as an instrument, however, etc. Here he excludes the error of those who said that speech and its parts signify naturally rather than by convention. To prove their point they used the following argument. The instruments of a natural power must themselves be natural, for nature does not fail in regard to what is necessary; but the interpretive power is natural to man; therefore, its instruments are natural. Now the instrument of the interpretive power is speech since it is through speech that expression is given to the conception of the mind; for we mean by an instrument that by which an agent operates. Therefore, speech is something natural, signifying, not from human institution, but naturally. Aquinas lib. 1 l. 6 n. 8Huic autem rationi, quae dicitur esse Platonis in Lib. qui intitulatur Cratylus, Aristoteles obviando dicit quod omnis oratio est significativa, non sicut instrumentum virtutis, scilicet naturalis: quia instrumenta naturalia virtutis interpretativae sunt guttur et pulmo, quibus formatur vox, et lingua et dentes et labia, quibus litterati ac articulati soni distinguuntur; oratio autem et partes eius sunt sicut effectus virtutis interpretativae per instrumenta praedicta. Sicut enim virtus motiva utitur naturalibus instrumentis, sicut brachiis et manibus ad faciendum opera artificialia, ita virtus interpretativa utitur gutture et aliis instrumentis naturalibus ad faciendum orationem. Unde oratio et partes eius non sunt res naturales, sed quidam artificiales effectus. Et ideo subdit quod oratio significat ad placitum, idest secundum institutionem humanae rationis et voluntatis, ut supra dictum est, sicut et omnia artificialia causantur ex humana voluntate et ratione. Sciendum tamen quod, si virtutem interpretativam non attribuamus virtuti motivae, sed rationi; sic non est virtus naturalis, sed supra omnem naturam corpoream: quia intellectus non est actus alicuius corporis, sicut probatur in III de anima. Ipsa autem ratio est, quae movet virtutem corporalem motivam ad opera artificialia, quibus etiam ut instrumentis utitur ratio: non sunt autem instrumenta alicuius virtutis corporalis. Et hoc modo ratio potest etiam uti oratione et eius partibus, quasi instrumentis: quamvis non naturaliter significent. Aristotle refutes this argument, which is said to be that of Plato in the Cratylus, when he says that all speech is significant, but not as an instrument of a power, that is, of a natural power; for the natural instruments of the interpretive power are the throat and lungs, by which vocal sound is formed, and the tongue, teeth and lips by which letters and articulate sounds are formulated. Rather, speech and its parts are effects of the interpretative power through the aforesaid instruments. For just as the motive power uses natural instruments such as arms and hands to make an artificial work, so the interpretative power uses the throat and other natural instruments to make speech. Hence, speech and its parts are not natural things, but certain artificial effects. This is the reason Aristotle adds here that speech signifies by convention, i.e., according to the ordinance of human will and reason. It should be noted, however, that if we do not attribute the interpretative power to a motive power, but to reason, then it is not a natural power but is beyond every corporeal nature, since thought is not an act of the body, as is proved in III De anima [4: 429a 10]. Moreover, it is reason itself that moves the corporeal motive power to make artificial works, which reason then uses as instruments; and thus artificial works are not instruments of a corporeal power. Reason can also use speech and its parts in this way, i.e., as instruments, although they do not signify naturally. Postquam philosophus determinavit de principiis enunciationis, hic incipit determinare de ipsa enunciatione. Et dividitur pars haec in duas: in prima, determinat de enunciatione absolute; in secunda, de diversitate enunciationum, quae provenit secundum ea quae simplici enunciationi adduntur; et hoc in secundo libro; ibi: quoniam autem est de aliquo affirmatio et cetera. Prima autem pars dividitur in partes tres. In prima, definit enunciationem; in secunda, dividit eam; ibi: est autem una prima oratio etc., in tertia, agit de oppositione partium eius ad invicem; ibi: quoniam autem est enunciare et cetera. Circa primum tria facit: primo, ponit definitionem enunciationis; secundo, ostendit quod per hanc definitionem differt enunciatio ab aliis speciebus orationis; ibi: non autem in omnibus etc.; tertio, ostendit quod de sola enunciatione est tractandum, ibi: et caeterae quidemrelinquantur. Having defined the principles of the enunciation, the Philosopher now begins to treat the enunciation itself. This is divided into two parts. In the first he examines the enunciation absolutely; in the second the diversity of enunciations resulting from an addition to the simple enunciation. The latter is treated in the second book, where he says, Since an affirmation signifies something about a subject, etc.”’ The first part, on the enunciation absolutely, is divided into three parts. In the first he defines enunciation; in the second he divides it where he says, First affirmation, then negation, is enunciative speech that is one, etc.;” in the third he treats of the opposition of its parts to each other, where he says, Since it is possible to enunciate that what belongs to a subject does not belong to it, etc. In the portion of the text treated in this lesson, which is concerned with the definition of enunciation, he first states the definition, then shows that this definition differentiates the enunciation from other species of speech, where he says, Truth and falsity is not present in all speech however, etc., and finally indicates that only the enunciation is to be treated in this book where he says, Let us therefore consider enunciative speech, etc. 2 Circa primum considerandum est quod oratio, quamvis non sit instrumentum alicuius virtutis naturaliter operantis, est tamen instrumentum rationis, ut supra dictum est. Omne autem instrumentum oportet definiri ex suo fine, qui est usus instrumenti: usus autem orationis, sicut et omnis vocis significativae est significare conceptionem intellectus, ut supra dictum est: duae autem sunt operationes intellectus, in quarum una non invenitur veritas et falsitas, in alia autem invenitur verum vel falsum. Et ideo orationem enunciativam definit ex significatione veri et falsi, dicens quod non omnis oratio est enunciativa, sed in qua verum vel falsum est. Ubi considerandum est quod Aristoteles mirabili brevitate usus, et divisionem orationis innuit in hoc quod dicit: non omnis oratio est enunciativa, et definitionem enunciationis in hoc quod dicit: sed in qua verum vel falsum est: ut intelligatur quod haec sit definitio enunciationis, enunciatio est oratio, in qua verum vel falsum est. The point has just been made that speech, although it is not an instrument of a power operating naturally, is nevertheless an instrument of reason. Now every instrument is defined by its end, which is the use of the instrument. The use of speech, as of every significant vocal sound, is to signify a conception of the intellect. But there are two operations of the intellect. In one truth and falsity is found, in the other not. Aristotle therefore defines enunciative speech by the signification of the true and false: Yet not all speech is enunciative; but only speech in which there is truth or falsity. Note with what remarkable brevity he signifies the division of speech by Yet not all speech is enunciative, and the definition by, but only speech in which there is truth or falsity. This, then, is to be understood as the definition of the enunciation: speech in which there is truth and falsity. 3 Dicitur autem in enunciatione esse verum vel falsum, sicut in signo intellectus veri vel falsi: sed sicut in subiecto est verum vel falsum in mente, ut dicitur in VI metaphysicae, in re autem sicut in causa: quia ut dicitur in libro praedicamentorum, ab eo quod res est vel non est, oratio vera vel falsa est. True or false is said to be in the enunciation as in a sign of true or false thought; but true or false is in the mind as in a subject (as is said in VI Metaphysicae), and in the thing as in a cause (as is said in the book Predicamentorum [5: 4a 35–4b 9])—for it is from the facts of the case, i.e., from a thing’s being so or not being so, that speech is true or false. 4 Deinde cum dicit: non autem in omnibus etc., ostendit quod per hanc definitionem enunciatio differt ab aliis orationibus. Et quidem de orationibus imperfectis manifestum est quod non significant verum vel falsum, quia cum non faciant perfectum sensum in animo audientis, manifestum est quod perfecte non exprimunt iudicium rationis, in quo consistit verum vel falsum. His igitur praetermissis, sciendum est quod perfectae orationis, quae complet sententiam, quinque sunt species, videlicet enunciativa, deprecativa, imperativa, interrogativa et vocativa. (Non tamen intelligendum est quod solum nomen vocativi casus sit vocativa oratio: quia oportet aliquid partium orationis significare aliquid separatim, sicut supra dictum est; sed per vocativum provocatur, sive excitatur animus audientis ad attendendum; non autem est vocativa oratio nisi plura coniungantur; ut cum dico, o bone Petre). Harum autem orationum sola enunciativa est, in qua invenitur verum vel falsum, quia ipsa sola absolute significat conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum. Next he shows that this definition differentiates the enunciation from other speech, when he says, Truth or falsity is not present in all speech however, etc. In the case of imperfect or incomplete speech it is clear that it does not signify the true or false, since it does not make complete sense to the mind of the hearer and therefore does not completely express a judgment of reason in which the true or false consists. Having made this point, however, it must be noted that there are five species of perfect speech that are complete in meaning: enunciative, deprecative, imperative, interrogative, and vocative. (Apropos of the latter it should be noted that a name alone in the vocative case is not vocative speech, for some of the parts must signify something separately, as was said above. So, although the mind of the hearer is provoked or aroused to attention by a name in the vocative case, there is not vocative speech, unless many words are joined together, as in "O good Peter!”) Of these species of speech the enunciative is the only one in which there is truth or falsity, for it alone signifies the conception of the intellect absolutely and it is in this that there is truth or falsity. 5 Sed quia intellectus vel ratio, non solum concipit in seipso veritatem rei tantum, sed etiam ad eius officium pertinet secundum suum conceptum alia dirigere et ordinare; ideo necesse fuit quod sicut per enunciativam orationem significatur ipse mentis conceptus, ita etiam essent aliquae aliae orationes significantes ordinem rationis, secundum quam alia diriguntur. Dirigitur autem ex ratione unius hominis alius homo ad tria: primo quidem, ad attendendum mente; et ad hoc pertinet vocativa oratio: secundo, ad respondendum voce; et ad hoc pertinet oratio interrogativa: tertio, ad exequendum in opere; et ad hoc pertinet quantum ad inferiores oratio imperativa; quantum autem ad superiores oratio deprecativa, ad quam reducitur oratio optativa: quia respectu superioris, homo non habet vim motivam, nisi per expressionem sui desiderii. Quia igitur istae quatuor orationis species non significant ipsum conceptum intellectus, in quo est verum vel falsum, sed quemdam ordinem ad hoc consequentem; inde est quod in nulla earum invenitur verum vel falsum, sed solum in enunciativa, quae significat id quod mens de rebus concipit. Et inde est quod omnes modi orationum, in quibus invenitur verum vel falsum, sub enunciatione continentur: quam quidam dicunt indicativam vel suppositivam. Dubitativa autem ad interrogativam reducitur, sicut et optativa ad deprecativam. But the intellect, or reason, does not just conceive the truth of a thing. It also belongs to its office to direct and order others in accordance with what it conceives. Therefore, besides enunciative speech, which signifies the concept of the mind, there had to be other kinds of speech to signify the order of reason by which others are directed. Now, one man is directed by the reason of another in regard to three things: first, to attend with his mind, and vocative speech relates to this; second, to respond with his voice, and interrogative speech relates to this; third, to execute a work, and in relation to this, imperative speech is used with regard to inferiors, deprecative with regard to superiors. Optative speech is reduced to the latter, for a man does not have the power to move a superior except by the expression of his desire. These four species of speech do not signify the conception of the intellect in which there is truth or falsity, but a certain order following upon this. Consequently truth or falsity is not found in any of them, but only in enunciative speech, which signifies what the mind conceives from things. It follows that all the modes of speech in which the true or false is found are contained under the enunciation, which some call indicative or suppositive. The dubitative, it should be noted, is reduced to the interrogative, as the optative is to the deprecative. 6 Deinde cum dicit: caeterae igitur relinquantur etc., ostendit quod de sola enunciativa est agendum; et dicit quod aliae quatuor orationis species sunt relinquendae, quantum pertinet ad praesentem intentionem: quia earum consideratio convenientior est rhetoricae vel poeticae scientiae. Sed enunciativa oratio praesentis considerationis est. Cuius ratio est, quia consideratio huius libri directe ordinatur ad scientiam demonstrativam, in qua animus hominis per rationem inducitur ad consentiendum vero ex his quae sunt propria rei; et ideo demonstrator non utitur ad suum finem nisi enunciativis orationibus, significantibus res secundum quod earum veritas est in anima. Sed rhetor et poeta inducunt ad assentiendum ei quod intendunt, non solum per ea quae sunt propria rei, sed etiam per dispositiones audientis. Unde rhetores et poetae plerumque movere auditores nituntur provocando eos ad aliquas passiones, ut philosophus dicit in sua rhetorica. Et ideo consideratio dictarum specierum orationis, quae pertinet ad ordinationem audientis in aliquid, cadit proprie sub consideratione rhetoricae vel poeticae, ratione sui significati; ad considerationem autem grammatici, prout consideratur in eis congrua vocum constructio. Then Aristotle says, Let us therefore consider enunciative speech, etc. Here he points out that only enunciative speech is to be treated; the other four species must be omitted as far as the present intention is concerned, because their investigation belongs rather to the sciences of rhetoric or poetics. Enunciative speech belongs to the present consideration and for the following reason: this book is ordered directly to demonstrative science, in which the mind of man is led by an act of reasoning to assent to truth from those things that are proper to the thing; to this end the demonstrator uses only enunciative speech, which signifies things according as truth about them is in the mind. The rhetorician and the poet, on the other hand, induce assent to what they intend not only through what is proper to the thing but also through the dispositions of the hearer. Hence, rhetoricians and poets for the most part strive to move their auditors by arousing certain passions in them, as the Philosopher says in his Rhetorica. This kind of speech, therefore, which is concerned with the ordination of the hearer toward something, belongs to the consideration of rhetoric or poetics by reason of its intent, but to the consideration of the grammarian as regards a suitable construction of the vocal sounds. VIII. 1. Postquam philosophus definivit enunciationem, hic dividit eam. Et dividitur in duas partes: in prima, ponit divisionem enunciationis; in secunda, manifestat eam; ibi: necesse est autem et cetera. Having defined the enunciation the Philosopher now divides it. First he gives the division, and then manifests it where he says, Every enunciative speech however, must contain a verb, etc. 2 Circa primum considerandum est quod Aristoteles sub breviloquio duas divisiones enunciationis ponit. Quarum una est quod enunciationum quaedam est una simplex, quaedam est coniunctione una. Sicut etiam in rebus, quae sunt extra animam, aliquid est unum simplex sicut indivisibile vel continuum, aliquid est unum colligatione aut compositione aut ordine. Quia enim ens et unum convertuntur, necesse est sicut omnem rem, ita et omnem enunciationem aliqualiter esse unam. It should be noted that Aristotle in his concise way gives two divisions of the enunciation. The first is the division into one simply and one by conjunction. This parallels things outside of the soul where there is also something one simply, for instance the indivisible or the continuum, and something one either by aggregation or composition or order. In fact, since being and one are convertible, every enunciation must in some way be one, just as every thing is. 3 Alia vero subdivisio enunciationis est quod si enunciatio sit una, aut est affirmativa aut negativa. Enunciatio autem affirmativa prior est negativa, triplici ratione, secundum tria quae supra posita sunt: ubi dictum est quod vox est signum intellectus, et intellectus est signum rei. Ex parte igitur vocis, affirmativa enunciatio est prior negativa, quia est simplicior: negativa enim enunciatio addit supra affirmativam particulam negativam. Ex parte etiam intellectus affirmativa enunciatio, quae significat compositionem intellectus, est prior negativa, quae significat divisionem eiusdem: divisio enim naturaliter posterior est compositione, nam non est divisio nisi compositorum, sicut non est corruptio nisi generatorum. Ex parte etiam rei, affirmativa enunciatio, quae significat esse, prior est negativa, quae significat non esse: sicut habitus naturaliter prior est privatione. The other is a subdivision of the enunciation: the division of it as it is one into affirmative and negative. The affirmative enunciation is prior to the negative for three reasons, which are related to three things already stated. It was said that vocal sound is a sign of thought and thought a sign of the thing. Accordingly, with respect to vocal sound, affirmative enunciation is prior to negative because it is simpler, for the negative enunciation adds a negative particle to the affirmative. With respect to thought, the affirmative enunciation, which signifies composition by the intellect, is prior to the negative, which signifies division, for division is posterior by nature to composition since division is only of composite things—just as corruption is only of generated things. With respect to the thing, the affirmative enunciation, which signifies to be is prior to the negative, which signifies not to be, as the having of something is naturally prior to the privation of it. 4 Dicit ergo quod oratio enunciativa una et prima est affirmatio, idest affirmativa enunciatio. Et contra hoc quod dixerat prima, subdit: deinde negatio, idest negativa oratio, quia est posterior affirmativa, ut dictum est. Contra id autem quod dixerat una, scilicet simpliciter, subdit quod quaedam aliae sunt unae, non simpliciter, sed coniunctione unae. What he says, then, is this: Affirmation, i.e., affirmative enunciation, is one and the first enunciative speech. And in opposition to first he adds, then negation, i.e., negative speech, for it is posterior to affirmative, as we have said. In Opposition to one, i.e., one simply, he adds, certain others are one, not simply, but one by conjunction. 5 Ex hoc autem quod hic dicitur argumentatur Alexander quod divisio enunciationis in affirmationem et negationem non est divisio generis in species, sed divisio nominis multiplicis in sua significata. Genus enim univoce praedicatur de suis speciebus, non secundum prius et posterius: unde Aristoteles noluit quod ens esset genus commune omnium, quia per prius praedicatur de substantia, quam de novem generibus accidentium. From what Aristotle says here Alexander argues that the division of enunciation into affirmation and negation is Dot a division of a genus into species, but a division of a multiple name into its meanings; for a genus is not predicated according to the prior and posterior, but is predicated univocally of its species; this is the reason Aristotle would not grant that being is a common genus of all things, for it is predicated first of substance, and then of the nine genera of accidents. 6 Sed dicendum quod unum dividentium aliquod commune potest esse prius altero dupliciter: uno modo, secundum proprias rationes, aut naturas dividentium; alio modo, secundum participationem rationis illius communis quod in ea dividitur. Primum autem non tollit univocationem generis, ut manifestum est in numeris, in quibus binarius secundum propriam rationem naturaliter est prior ternario; sed tamen aequaliter participant rationem generis sui, scilicet numeri: ita enim est ternarius multitudo mensurata per unum, sicut et binarius. Sed secundum impedit univocationem generis. Et propter hoc ens non potest esse genus substantiae et accidentis: quia in ipsa ratione entis, substantia, quae est ens per se, prioritatem habet respectu accidentis, quod est ens per aliud et in alio. Sic ergo affirmatio secundum propriam rationem prior est negatione; tamen aequaliter participant rationem enunciationis, quam supra posuit, videlicet quod enunciatio est oratio in qua verum vel falsum est. However, in the division of that which is common, one of the dividing members can be prior to another in two ways: according to the proper notions” or natures of the dividing members, or according to the participation of that common notion that is divided in them. The first of these does not destroy the univocity of a genus, as is evident in numbers. Twoness, according to its proper notion, is naturally prior to threeness, yet they equally participate in the notion of their genus, i.e., number; for both a multitude consisting of three and a multitude consisting of two is measured by one. The second, however, does impede the univocity of a genus. This is why being cannot be the genus of substance and accident, for in the very notion of being, substance, which is being per se, has priority in respect to accident, which is being through another and in another. Applying this distinction to the matter at hand, we see that affirmation is prior to negation in the first way, i.e., according to its notion, yet they equally participate in the definition Aristotle has given of the enunciation, i.e., speech in which there is truth or falsity. 7 Deinde cum dicit: necesse est autem etc., manifestat propositas divisiones. Et primo, manifestat primam, scilicet quod enunciatio vel est una simpliciter vel coniunctione una; secundo, manifestat secundam, scilicet quod enunciatio simpliciter una vel est affirmativa vel negativa; ibi: est autem simplex enunciatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, praemittit quaedam, quae sunt necessaria ad propositum manifestandum; secundo, manifestat propositum; ibi: est autem una oratio et cetera. Where he says, Every enunciative speech, however, must contain a verb or a mode of the verb, etc., he explains the divisions. He gives two explanations, one of the division of enunciation into one simply and one by conjunction, the second of the division of the enunciation which is one simply into affirmative or negative. The latter explanation begins where he says, A simple enunciation is vocal sound signifying that something belongs or does not belong to a subject, etc. Before he explains the first division, i.e., into one simply and one by conjunction, he states certain things that are necessary for the evidence of the explanation, and then explains the division where he says, Enunciative speech is one when it signifies one thing, etc. 8 Circa primum duo facit: primo, dicit quod omnem orationem enunciativam oportet constare ex verbo quod est praesentis temporis, vel ex casu verbi quod est praeteriti vel futuri. Tacet autem de verbo infinito, quia eumdem usum habet in enunciatione sicut et verbum negativum. Manifestat autem quod dixerat per hoc, quod non solum nomen unum sine verbo non facit orationem perfectam enunciativam, sed nec etiam oratio imperfecta. Definitio enim oratio quaedam est, et tamen si ad rationem hominis, idest definitionem non addatur aut est, quod est verbum, aut erat, aut fuit, quae sunt casus verbi, aut aliquid huiusmodi, idest aliquod aliud verbum seu casus verbi, nondum est oratio enunciativa. He states the first thing that is necessary for his explanation when he says that every enunciative speech must contain a verb in present time, or a case of the verb, i.e., in past or future time. (The infinite verb is not mentioned because it has the same function in the enunciation as the negative verb.) To manifest this he shows that one name, without a verb, does not even constitute imperfect enunciative speech, let alone perfect speech. Definition, he points out, is a certain kind of speech, and yet if the verb "is” or modes of the verb such as "was” or "has been” or something of the kind, is not added to the notion of man, i.e., to the definition, it is not enunciative speech. 9 Potest autem esse dubitatio: cum enunciatio constet ex nomine et verbo, quare non facit mentionem de nomine, sicut de verbo? Ad quod tripliciter responderi potest. Primo quidem, quia nulla oratio enunciativa invenitur sine verbo vel casu verbi; invenitur autem aliqua enunciatio sine nomine, puta cum nos utimur infinitivis verborum loco nominum; ut cum dicitur, currere est moveri. Secundo et melius, quia, sicut supra dictum est, verbum est nota eorum quae de altero praedicantur. Praedicatum autem est principalior pars enunciationis, eo quod est pars formalis et completiva ipsius. Unde vocatur apud Graecos propositio categorica, idest praedicativa. Denominatio autem fit a forma, quae dat speciem rei. Et ideo potius fecit mentionem de verbo tanquam de parte principaliori et formaliori. Cuius signum est, quia enunciatio categorica dicitur affirmativa vel negativa solum ratione verbi, quod affirmatur vel negatur; sicut etiam conditionalis dicitur affirmativa vel negativa, eo quod affirmatur vel negatur coniunctio a qua denominatur. Tertio, potest dici, et adhuc melius, quod non erat intentio Aristotelis ostendere quod nomen vel verbum non sufficiant ad enunciationem complendam: hoc enim supra manifestavit tam de nomine quam de verbo. Sed quia dixerat quod quaedam enunciatio est una simpliciter, quaedam autem coniunctione una; posset aliquis intelligere quod illa quae est una simpliciter careret omni compositione: sed ipse hoc excludit per hoc quod in omni enunciatione oportet esse verbum, quod importat compositionem, quam non est intelligere sine compositis, sicut supra dictum est. Nomen autem non importat compositionem, et ideo non exigit praesens intentio ut de nomine faceret mentionem, sed solum de verbo. But, one might ask, why mention the verb and not the name, for the enunciation consists of a name and a verb? This can be answered in three ways. First of all because enunciative speech is not attained without a verb or a mode of the verb, but it is without a name, for instance, when infinitive forms of the verb are used in place of names, as in "To run is to be moving.” A second and better reason for speaking only of the verb is that the verb is a sign of what is predicated of another. Now the predicate is the principal part of the enunciation because it is the formal part and completes it. This is the reason the Greeks called the enunciation a categorical, i.e., predicative, proposition. It should also be noted that denomination is made from the form which gives species to the thing. He speaks of the verb, then, but not the name, because it is the more principal and formal part of the enunciation. A sign of this is that the categorical enunciation is said to be affirmative or negative solely by reason of the verb being affirmed or denied, and the conditional enunciation is said to be affirmative or negative by reason of the conjunction by which it is denominated being affirmed or denied. A third and even better reason is that Aristotle did not intend to show that the name or verb is not sufficient for a complete enunciation, for he explained this earlier. Rather, he is excluding a misunderstanding that might arise from his saying that one kind of enunciation is one simply and another kind is one by conjunction. Some might think this means that the kind that is one simply, lacks all composition. But he excludes this by saying that there must be a verb in every enunciation; for the verb implies composition and composition cannot be understood apart from the things composed, as he said earlier.” The name, on the other hand, does not imply composition and therefore did not have to be mentioned. 10 Secundo; ibi: quare autem etc., ostendit aliud quod est necessarium ad manifestationem propositi, scilicet quod hoc quod dico, animal gressibile bipes, quae est definitio hominis, est unum et non multa. Et eadem ratio est de omnibus aliis definitionibus. Sed huiusmodi rationem assignare dicit esse alterius negocii. Pertinet enim ad metaphysicum; unde in VII et in VIII metaphysicae ratio huius assignatur: quia scilicet differentia advenit generi non per accidens sed per se, tanquam determinativa ipsius, per modum quo materia determinatur per formam. Nam a materia sumitur genus, a forma autem differentia. Unde sicut ex forma et materia fit vere unum et non multa, ita ex genere et differentia. The other, point necessary for the evidence of the first division is made where he says, but then the question arises as to why the definition "terrestrial biped animal” is something one, etc. He indicates by this that "terrestrial biped animal,” which is a definition of man, is one and not many. The reason it is one is the same as in the case of all definitions but, he says, to assign the reason belongs to another subject of inquiry. It belongs, in fact, to metaphysics and he assigns the reason in VII and VIII Metaphysicae which is this: the difference does not accrue to the genus accidentally but per se and is determinative of it in the way in which form determines matter; for the genus is taken from matter, the difference from form. Whence, just as one thing—not many—comes to be from form and matter, so one thing comes to be from the genus and difference. 11 Excludit autem quamdam rationem huius unitatis, quam quis posset suspicari, ut scilicet propter hoc definitio dicatur unum, quia partes eius sunt propinquae, idest sine aliqua interpositione coniunctionis vel morae. Et quidem non interruptio locutionis necessaria est ad unitatem definitionis, quia si interponeretur coniunctio partibus definitionis, iam secunda non determinaret primam, sed significarentur ut actu multae in locutione: et idem operatur interpositio morae, qua utuntur rhetores loco coniunctionis. Unde ad unitatem definitionis requiritur quod partes eius proferantur sine coniunctione et interpolatione: quia etiam in re naturali, cuius est definitio, nihil cadit medium inter materiam et formam: sed praedicta non interruptio non sufficit ad unitatem definitionis, quia contingit etiam hanc continuitatem prolationis servari in his, quae non sunt simpliciter unum, sed per accidens; ut si dicam, homo albus musicus. Sic igitur Aristoteles valde subtiliter manifestavit quod absoluta unitas enunciationis non impeditur, neque per compositionem quam importat verbum, neque per multitudinem nominum ex quibus constat definitio. Et est eadem ratio utrobique, nam praedicatum comparatur ad subiectum ut forma ad materiam, et similiter differentia ad genus: ex forma autem et materia fit unum simpliciter. The reason for the unity of this definition might be supposed by some to be only that of juxtaposition of the parts, i.e., that "terrestrial biped animal” is said to be one only because the parts are side by side without conjunction or pause. But he excludes such a notion of its unity. Now it is true that non-interruption of locution is necessary for the unity of a definition, for if a conjunction were put between the parts the second part would not determine the first immediately and the many in locution would consequently signify many in act. The pause used by rhetoricians in place of a conjunction would do the same thing. Whence it is a requirement for the unity of a definition that its parts be uttered without conjunction and interpolation, the reason being that in the natural thing, whose definition it is, nothing mediates between matter and form. However, non-interruption of locution is not the only thing that is needed for unity of the definition, for there can be continuity of utterance in regard to things that are not one simply, but are accidentally, as in white musical man.” Aristotle has therefore manifested very subtly that absolute unity of the enunciation is not impeded either by the composition which the verb implies or by the multitude of names from which a definition is established. And the reason is the same in both cases, i.e., the predicate is related to the subject as form to matter, as is the difference to a genus; but from form and matter a thing that is one simply comes into existence. 12 Deinde cum dicit: est autem una oratio etc., accedit ad manifestandam praedictam divisionem. Et primo, manifestat ipsum commune quod dividitur, quod est enunciatio una; secundo, manifestat partes divisionis secundum proprias rationes; ibi: harum autem haec simplex et cetera. Circa primum duo facit: primo, manifestat ipsam divisionem; secundo, concludit quod ab utroque membro divisionis nomen et verbum excluduntur; ibi: nomen ergo et verbum et cetera. Opponitur autem unitati pluralitas; et ideo enunciationis unitatem manifestat per modos pluralitatis. He begins to explain the division when he says, Enunciative speech is one when it signifies one thing, etc. First he makes the common thing that is divided evident, i.e., the enunciation as it is one; secondly, he makes the parts of the division evident according to their own proper notions, where he says, Of enunciations that are one, simple enunciation is one kind, etc. After he has made the division of the common thing evident, i.e., enunciation, he then concludes that the name and the verb are excluded from each member of the division where he says, Let us call the name or the verb a word only, etc. Now plurality is opposed to unity. Therefore he is going to manifest the unity of the enunciation through the modes of plurality. 13 Dicit ergo primo quod enunciatio dicitur vel una absolute, scilicet quae unum de uno significat, vel una secundum quid, scilicet quae est coniunctione una. Per oppositum autem est intelligendum quod enunciationes plures sunt, vel ex eo quod plura significant et non unum: quod opponitur primo modo unitatis; vel ex eo quod absque coniunctione proferuntur: et tales opponuntur secundo modo unitatis. He begins his explanation by saying that enunciation is either one absolutely, i.e., it signifies one thing said of one thing, or one relatively, i.e., it is one by conjunction. In opposition to these are the enunciations that are many, either because they signify not one but many things, which is opposed to the first mode of unity or because they are uttered without a connecting particle, which is opposed to the second mode of unity. 14 Circa quod considerandum est, secundum Boethium, quod unitas et pluralitas orationis refertur ad significatum; simplex autem et compositum attenditur secundum ipsas voces. Et ideo enunciatio quandoque est una et simplex puta cum solum ex nomine et verbo componitur in unum significatum; ut cum dico, homo est albus. Est etiam quandoque una oratio, sed composita, quae quidem unam rem significat, sed tamen composita est vel ex pluribus terminis; sicut si dicam, animal rationale mortale currit, vel ex pluribus enunciationibus, sicut in conditionalibus, quae quidem unum significant et non multa. Similiter autem quandoque in enunciatione est pluralitas cum simplicitate, puta cum in oratione ponitur aliquod nomen multa significans; ut si dicam, canis latrat, haec oratio plures est, quia plura significat, et tamen simplex est. Quandoque vero in enunciatione est pluralitas et compositio, puta cum ponuntur plura in subiecto vel in praedicato, ex quibus non fit unum, sive interveniat coniunctio sive non; puta si dicam, homo albus musicus disputat: et similiter est si coniungantur plures enunciationes, sive cum coniunctione sive sine coniunctione; ut si dicam, Socrates currit, Plato disputat. Et secundum hoc sensus litterae est quod enunciatio una est illa, quae unum de uno significat, non solum si sit simplex, sed etiam si sit coniunctione una. Et similiter enunciationes plures dicuntur quae plura et non unum significant: non solum quando interponitur aliqua coniunctio, vel inter nomina vel verba, vel etiam inter ipsas enunciationes; sed etiam si vel inconiunctione, idest absque aliqua interposita coniunctione plura significat, vel quia est unum nomen aequivocum, multa significans, vel quia ponuntur plura nomina absque coniunctione, ex quorum significatis non fit unum; ut si dicam, homo albus grammaticus logicus currit. Boethius interprets this passage in the following way. "Unity” and "plurality” of speech refers to what is signified, whereas "simple” and "composite” is related to the vocal sounds. Accordingly, an enunciation is sometimes one and simple, namely, when one thing is signified by the composition of name and verb, as in "Man is white.” Sometimes it is one and composite. In this case it signifies one thing, but is composed either from many terms, as in "A mortal rational animal is running,” or from many enunciations, as in conditionals that signify one thing and not many. On the other hand, sometimes there is plurality along with simplicity, namely, when a name signifying many things is used, as in "The dog barks,” in which case the enunciation is many because it signifies many things [i.e., it signifies equivocally], but it is simple as far as vocal sound is concerned. But sometimes there is plurality and composition, namely, when many things are posited on the part of the subject or predicate from which one thing does not result, whether a conjunction intervenes or not, as in "The musical white man is arguing.” This is also the case if there are many enunciations joined together, with or without connecting particles as in "Socrates runs, Plato discusses. According to this exposition the meaning of the passage in question is this: an enunciation is one when it signifies one thing said of one thing, and this is the case whether the enunciation is one simply or is one by conjunction; an enunciation is many when it signifies not one but many things, and this not only when a conjunction is inserted between either the names or verbs or between the enunciations themselves, but even if there are many things that are not conjoined. In the latter case they signify many things either because an equivocal name is used or because many names signifying many things from which one thing does not result are used without conjunctions, as in "The white grammatical logical man is running.” Sed haec expositio non videtur esse secundum intentionem Aristotelis. Primo quidem, quia per disiunctionem, quam interponit, videtur distinguere inter orationem unum significantem, et orationem quae est coniunctione una. Secundo, quia supra dixerat quod est unum quoddam et non multa, animal gressibile bipes. Quod autem est coniunctione unum, non est unum et non multa, sed est unum ex multis. Et ideo melius videtur dicendum quod Aristoteles, quia supra dixerat aliquam enunciationem esse unam et aliquam coniunctione unam, vult hic manifestare quae sit una. Et quia supra dixerat quod multa nomina simul coniuncta sunt unum, sicut animal gressibile bipes, dicit consequenter quod enunciatio est iudicanda una non ex unitate nominis, sed ex unitate significati, etiam si sint plura nomina quae unum significent. Vel si sit aliqua enunciatio una quae multa significet, non erit una simpliciter, sed coniunctione una. Et secundum hoc, haec enunciatio, animal gressibile bipes est risibile, non est una quasi coniunctione una, sicut in prima expositione dicebatur, sed quia unum significat. However, this exposition does not seem to be what Aristotle had in mind. First of all the disjunction he inserts seems to indicate that he is distinguishing between speech signifying one thing and speech which is one by conjunction. In the second place, he has just said that terrestrial biped animal is something one and not many. Moreover, what is one by conjunction is not one, and not many, but one from many. Hence it seems better to say that since he has already said that one kind of enunciation is one simply and another kind is one by conjunction be is showing here what one enunciation is. Having said, then, that many names joined together are something one as in the example "terrestrial biped animal,” he goes on to say that an enunciation is to be judged as one, not from the unity of the name but from the unity of what is signified, even if there are many names signifying the one thing; and if an enunciation which signifies many things is one, it will not be one simply, but one by conjunction. Hence, the enunciation "A terrestrial biped animal is risible,” is not one in the sense of one by conjunction as the first exposition would have it, but because it signifies one thing. 16 Et quia oppositum per oppositum manifestatur, consequenter ostendit quae sunt plures enunciationes, et ponit duos modos pluralitatis. Primus est, quod plures dicuntur enunciationes quae plura significant. Contingit autem aliqua plura significari in aliquo uno communi; sicut cum dico, animal est sensibile, sub hoc uno communi, quod est animal, multa continentur, et tamen haec enunciatio est una et non plures. Et ideo addit et non unum. Sed melius est ut dicatur hoc esse additum propter definitionem, quae multa significat quae sunt unum: et hic modus pluralitatis opponitur primo modo unitatis. Secundus modus pluralitatis est, quando non solum enunciationes plura significant, sed etiam illa plura nullatenus coniunguntur, et hic modus pluralitatis opponitur secundo modo unitatis. Et secundum hoc patet quod secundus modus unitatis non opponitur primo modo pluralitatis. Ea autem quae non sunt opposita, possunt simul esse. Unde manifestum est, enunciationem quae est una coniunctione, esse etiam plures: plures in quantum significat plura et non unum. Secundum hoc ergo possumus accipere tres modos enunciationis. Nam quaedam est simpliciter una, in quantum unum significat; quaedam est simpliciter plures, in quantum plura significat, sed est una secundum quid, in quantum est coniunctione una; quaedam sunt simpliciter plures, quae neque significant unum, neque coniunctione aliqua uniuntur. Ideo autem Aristoteles quatuor ponit et non solum tria, quia quandoque est enunciatio plures, quia plura significat, non tamen est coniunctione una, puta si ponatur ibi nomen multa significans. Then — because an opposite is manifested through an opposite — he goes on to show which enunciations are many, and he posits two modes of plurality. Enunciations are said to be many which signify many things. Many things may be signified in some one common thing however; when I say, for example, "An animal is a sentient being,” many things are contained under the one common thing, animal, but such an enunciation is still one, not many. Therefore Aristotle adds, and not one. It would be better to say, however, that the and not one is added because of definition, which signifies many things that are one. The mode of plurality he has spoken of thus far is opposed to the first mode of unity. The second mode of plurality covers enunciations that not only signify many things but many that are in no way joined together. This mode is opposed to the second mode of unity. Thus it is evident that the second mode of unity is not opposed to the first mode of plurality. Now those things that are not opposed can be together. Therefore, the enunciation that is one by conjunction is also many many insofar as it signifies many and not one. According to this understanding of the text there are three modes of the enunciation: the enunciation that is one simply inasmuch as it signifies one thing; the enunciation that is many simply inasmuch as it signifies many things, but is one relatively inasmuch as it is one by conjunction; finally, the enunciations that are many simply—those that do not signify one thing and are not united by any conjunction. Aristotle posits four kinds of enunciation rather than three, for an enunciation is sometimes many because it signifies many things, and yet is not one by conjunction; a case in point would be an enunciation in which a name signifying many things is used. 17 Deinde cum dicit: nomen ergo et verbum etc., excludit ab unitate orationis nomen et verbum. Dixerat enim quod enunciatio una est, quae unum significat: posset autem aliquis intelligere, quod sic unum significaret sicut nomen et verbum unum significant. Et ideo ad hoc excludendum subdit: nomen ergo, et verbum dictio sit sola, idest ita sit dictio, quod non enunciatio. Et videtur, ex modo loquendi, quod ipse imposuerit hoc nomen ad significandum partes enunciationis. Quod autem nomen et verbum dictio sit sola manifestat per hoc, quod non potest dici quod ille enunciet, qui sic aliquid significat voce, sicut nomen, vel verbum significat. Et ad hoc manifestandum innuit duos modos utendi enunciatione. Quandoque enim utimur ipsa quasi ad interrogata respondentes; puta si quaeratur, quis sit in scholis? Respondemus, magister. Quandoque autem utimur ea propria sponte, nullo interrogante; sicut cum dicimus, Petrus currit. Dicit ergo, quod ille qui significat aliquid unum nomine vel verbo, non enunciat vel sicut ille qui respondet aliquo interrogante, vel sicut ille qui profert enunciationem non aliquo interrogante, sed ipso proferente sponte. Introduxit autem hoc, quia simplex nomen vel verbum, quando respondetur ad interrogationem, videtur verum vel falsum significare: quod est proprium enunciationis. Sed hoc non competit nomini vel verbo, nisi secundum quod intelligitur coniunctum cum alia parte proposita in interrogatione. Ut si quaerenti, quis legit in scholis? Respondeatur, magister, subintelligitur, ibi legit. Si ergo ille qui enunciat aliquid nomine vel verbo non enunciat, manifestum est quod enunciatio non sic unum significat, sicut nomen vel verbum. Hoc autem inducit sicut conclusionem eius quod supra praemisit: necesse est omnem orationem enunciativam ex verbo esse vel ex casu verbi. Where he says, Let us call the name or the verb a word only, etc., he excludes the name and the verb from the unity of speech. His reason for making this point is that his statement, "an enunciation is one inasmuch as it signifies one thing,” might be taken to mean that an enunciation signifies one thing in the same way the name or verb signify one thing. To prevent such a misunderstanding he says, Let us call the name or the verb a word only, i.e., a locution which is not an enunciation. From his mode of speaking it would seem that Aristotle himself imposed the name "phasis” [word] to signify such parts of the enunciation. Then he shows that a name or verb is only a word by pointing out that we do not say that a person is enunciating when be signifies something in vocal sound in the way in which a name or verb signifies. To manifest this he suggests two ways of using the enunciation. Sometimes we use it to reply to questions; for example if someone asks "Who is it who discusses,” we answer "The teacher.” At other times we use the enunciation, not in reply to a question, but of our own accord, as when we say "Peter is running.” What Aristotle is saying, then, is that the person who signifies something one by a name or a verb is not enunciating in the way in which either the person who replies to a question or who utters an enunciation of his own accord is enunciating. He introduces this point because the simple name or verb, when used in reply to a question seems to signify truth or falsity and truth or falsity is what is proper to the enunciation. Truth and falsity is not proper, however, to the name or verb unless it is understood as joined to another part proposed in a question; if someone should ask, for example, "Who reads in the schools,” we would answer, "The teacher,” understanding also, "reads there.” If, then, something expressed by a name or verb is not an enunciation, it is evident that the enunciation does not signify one thing in the same way as the name or verb signify one thing. Aristotle draws this by way of a conclusion from, Every enunciative speech must contain a verb or a mode of the verb, which was stated earlier. 18 Deinde cum dicit: harum autem haec simplex etc., manifestat praemissam divisionem secundum rationes partium. Dixerat enim quod una enunciatio est quae unum de uno significat, et alia est quae est coniunctione una. Ratio autem huius divisionis est ex eo quod unum natum est dividi per simplex et compositum. Et ideo dicit: harum autem, scilicet enunciationum, in quibus dividitur unum, haec dicitur una, vel quia significat unum simpliciter, vel quia una est coniunctione. Haec quidem simplex enunciatio est, quae scilicet unum significat. Sed ne intelligatur quod sic significet unum, sicut nomen vel verbum, ad excludendum hoc subdit: ut aliquid de aliquo, idest per modum compositionis, vel aliquid ab aliquo, idest per modum divisionis. Haec autem ex his coniuncta, quae scilicet dicitur coniunctione una, est velut oratio iam composita: quasi dicat hoc modo, enunciationis unitas dividitur in duo praemissa, sicut aliquod unum dividitur in simplex et compositum. Then when he says, Of enunciations that are one, simple enunciation is one kind, etc., he manifests the division of enunciation by the natures of the parts. He has said that the enunciation is one when it signifies one thing or is one by conjunction. The basis of this division is the nature of one, which is such that it can be divided into simple and composite. Hence, Aristotle says, Of these, i.e., enunciations into which one is divided, which are said to be one either because the enunciation signifies one thing simply or because it is one by conjunction, simple enunciation is one kind, i.e., the enunciation that signifies one thing. And to exclude the understanding of this as signifying one thing in the same way as the name or the verb signifies one thing he adds, something affirmed of something, i.e., by way of composition, or something denied of something, i.e., by way of division. The other kind—the enunciation that is said to be one by conjunction—is composite, i.e., speech composed of these simple enunciations. In other words, he is saying that the unity of the enunciation is divided into simple and composite, just as one is divided into simple and composite. 19 Deinde cum dicit: est autem simplex etc., manifestat secundam divisionem enunciationis, secundum videlicet quod enunciatio dividitur in affirmationem et negationem. Haec autem divisio primo quidem convenit enunciationi simplici; ex consequenti autem convenit compositae enunciationi; et ideo ad insinuandum rationem praedictae divisionis dicit quod simplex enunciatio est vox significativa de eo quod est aliquid: quod pertinet ad affirmationem; vel non est aliquid: quod pertinet ad negationem. Et ne hoc intelligatur solum secundum praesens tempus, subdit: quemadmodum tempora sunt divisa, idest similiter hoc habet locum in aliis temporibus sicut et in praesenti. He manifests the second division of the enunciation where he says, A simple enunciation is vocal sound signifying that something belongs or does not belong to a subject, i.e., the division of enunciation into affirmation and negation. This is a division that belongs primarily to the simple enunciation and consequently to the composite enunciation; therefore, in order to suggest the basis of the division he says that a simple enunciation is vocal sound signifying that something belongs to a subject, which pertains to affirmation, or does not belong to a subject, which pertains to negation. And to make it clear that this is not to be understood only of present time he adds, according to the divisions of time, i.e., this holds for other times as well as the present. Alexander autem existimavit quod Aristoteles hic definiret enunciationem; et quia in definitione enunciationis videtur ponere affirmationem et negationem, volebat hic accipere quod enunciatio non esset genus affirmationis et negationis, quia species nunquam ponitur in definitione generis. Id autem quod non univoce praedicatur de multis (quia scilicet non significat aliquid unum, quod sit unum commune multis), non potest notificari nisi per illa multa quae significantur. Et inde est quod quia unum non dicitur aequivoce de simplici et composito, sed per prius et posterius, Aristoteles in praecedentibus semper ad notificandum unitatem enunciationis usus est utroque. Quia ergo videtur uti affirmatione et negatione ad notificandum enunciationem, volebat Alexander accipere quod enunciatio non dicitur de affirmatione et negatione univoce sicut genus de suis speciebus. Alexander thought that Aristotle was defining the enunciation here and because he seems to put affirmation and negation in the "definition” he took this to mean that enunciation is not the genus of affirmation and negation, for the species is never posited in the definition of the genus. Now what is not predicated univocally of many (namely, because it does not signify something one that is common to many) cannot be made known except through the many that are signified. "One” is not said equivocally of the simple and composite, but primarily and consequently, and hence Aristotle always used both "simple” and "composite” in the preceding reasoning to make the unity of the enunciation known. Now, here he seems to use affirmation and negation to make the enunciation known; therefore, Alexander took this to mean that enunciation is not said of affirmation and negation univocally as a genus of its species. 21 Sed contrarium apparet ex hoc, quod philosophus consequenter utitur nomine enunciationis ut genere, cum in definitione affirmationis et negationis subdit quod, affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, scilicet per modum compositionis, negatio vero est enunciatio alicuius ab aliquo, scilicet per modum divisionis. Nomine autem aequivoco non consuevimus uti ad notificandum significata eius. Et ideo Boethius dicit quod Aristoteles suo modo breviloquio utens, simul usus est et definitione et divisione eius: ita ut quod dicit de eo quod est aliquid vel non est, non referatur ad definitionem enunciationis, sed ad eius divisionem. Sed quia differentiae divisivae generis non cadunt in eius definitione, nec hoc solum quod dicitur vox significativa, sufficiens est definitio enunciationis; melius dici potest secundum Porphyrium, quod hoc totum quod dicitur vox significativa de eo quod est, vel de eo quod non est, est definitio enunciationis. Nec tamen ponitur affirmatio et negatio in definitione enunciationis sed virtus affirmationis et negationis, scilicet significatum eius, quod est esse vel non esse, quod est naturaliter prius enunciatione. Affirmationem autem et negationem postea definivit per terminos utriusque cum dixit: affirmationem esse enunciationem alicuius de aliquo, et negationem enunciationem alicuius ab aliquo. Sed sicut in definitione generis non debent poni species, ita nec ea quae sunt propria specierum. Cum igitur significare esse sit proprium affirmationis, et significare non esse sit proprium negationis, melius videtur dicendum, secundum Ammonium, quod hic non definitur enunciatio, sed solum dividitur. Supra enim posita est definitio, cum dictum est quod enunciatio est oratio in qua est verum vel falsum. In qua quidem definitione nulla mentio facta est nec de affirmatione, nec de negatione. Est autem considerandum quod artificiosissime procedit: dividit enim genus non in species, sed in differentias specificas. Non enim dicit quod enunciatio est affirmatio vel negatio, sed vox significativa de eo quod est, quae est differentia specifica affirmationis, vel de eo quod non est, in quo tangitur differentia specifica negationis. Et ideo ex differentiis adiunctis generi constituit definitionem speciei, cum subdit: quod affirmatio est enunciatio alicuius de aliquo, per quod significatur esse; et negatio est enunciatio alicuius ab aliquo quod significat non esse. But the contrary appears to be the case, for the Philosopher subsequently uses the name "enunciation” as a genus when in defining affirmation and negation he says, Affirmation is the enunciation of something about something, i.e., by way of composition; negation is the enunciation of something separated from something, i.e., by way of division. Moreover, it is not customary to use an equivocal name to make known the things it signifies. Boethius for this reason says that Aristotle with his customary brevity is using both the definition and its division at once. Therefore when he says that something belongs or does not belong to a subject he is not referring to the definition of enunciation but to its division. However, since the differences dividing a genus do not fall in its definition and since vocal sound signifying is not a sufficient definition of the enunciation, Porphyry thought it would be better to say that the whole expression, vocal sound signifying that something belongs or does not belong to a subject, is the definition of the enunciation. According to his exposition this is not affirmation and negation that is posited in the definition, but capacity for affirmation and negation, i.e., what the enunciation is a sign of, which is to be or not to be, which is prior in nature to the enunciation. Then immediately following this he defines affirmation and negation in terms of themselves when he says, Affirmation is the enunciation of something about something; negation the enunciation of something separated from something. But just as the species should not be stated in the definition of the genus, so neither should the properties of the species. Now to signify to be is the property of the affirmation, and to signify not to be the property of the negation. Therefore Ammonius thought it would be better to say that the enunciation was not defined here, but only divided. For the definition was posited above when it was said that the enunciation is speech in which there is truth or falsity—in which definition no mention is made of either affirmation or negation. It should be noticed, however, that Aristotle proceeds very skillfully here, for he divides the genus, not into species, but into specific differences. He does not say that the enunciation is an affirmation or negation, but vocal sound signifying that something belongs to a subject, which is the specific difference of affirmation, or does not belong to a subject, which is the specific difference of negation. Then when he adds, Affirmation is the enunciation of something about something which signifies to be, and negation is the enunciation of something separated from something, which signifies not to be, he establishes the definition of the species by joining the differences to the genus. IX. 1. Posita divisione enunciationis, hic agit de oppositione partium enunciationis, scilicet affirmationis et negationis. Et quia enunciationem esse dixerat orationem, in qua est verum vel falsum, primo, ostendit qualiter enunciationes ad invicem opponantur; secundo, movet quamdam dubitationem circa praedeterminata et solvit; ibi: in his ergo quae sunt et quae facta sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter una enunciatio opponatur alteri; secundo, ostendit quod tantum una opponitur uni; ibi: manifestum est et cetera. Prima autem pars dividitur in duas partes: in prima, determinat de oppositione affirmationis et negationis absolute; in secunda, ostendit quomodo huiusmodi oppositio diversificatur ex parte subiecti; ibi: quoniam autem sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod omni affirmationi est negatio opposita et e converso; secundo, manifestat oppositionem affirmationis et negationis absolute; ibi: et sit hoccontradictio et cetera.Having mad e the division of the enunciation, Aristotle now deals with the opposition of the parts of the enunciation, i.e., the opposition of affirmation and negation. He has already said that the enunciation is speech in which there is truth or falsity; therefore, he first shows how enunciations are opposed to each other; secondly, he raises a doubt about some things previously determined and then resolves it where he says, In enunciations about that which is or has taken place, etc. He not only shows how one enunciation is opposed to another, but that only one is opposed to one, where he says, It is evident also that there is one negation of one affirmation. In showing how one enunciation is opposed to another, he first treats of the opposition of affirmation and negation absolutely, and then shows in what way opposition of this kind is diversified on the part of the subject where he says, Since some of the things we are concerned with are universal and others singular, etc. With respect to the opposition of affirmation and negation absolutely, he first shows that there is a negation opposed to every affirmation and vice versa, and then where he says, We will call this opposed affirmation and negation "contradiction,” he explains the opposition of affirmation and negation absolutely. 2 Circa primum considerandum est quod ad ostendendum suum propositum philosophus assumit duplicem diversitatem enunciationis: quarum prima est ex ipsa forma vel modo enunciandi, secundum quod dictum est quod enunciatio vel est affirmativa, per quam scilicet enunciatur aliquid esse, vel est negativa per quam significatur aliquid non esse; secunda diversitas est per comparationem ad rem, ex qua dependet veritas et falsitas intellectus et enunciationis. Cum enim enunciatur aliquid esse vel non esse secundum congruentiam rei, est oratio vera; alioquin est oratio falsa. In relation to the first point, that there is a negation opposed to every affirmation and vice versa, the Philosopher assumes a twofold diversity of enunciation. The first arises from the very form or mode of enunciating. According to this diversity, enunciation is either affirmative—in which it is enunciated that something is — or negative — in which it is signified that something is not. The second is the diversity that arises by comparison to reality. Truth and falsity of thought and of the enunciation depend upon this comparison, for when it is enunciated that something is or is not, if there is agreement with reality, there is true speech; otherwise there is false speech. 3 Sic igitur quatuor modis potest variari enunciatio, secundum permixtionem harum duarum divisionum. Uno modo, quia id quod est in re enunciatur ita esse sicut in re est: quod pertinet ad affirmationem veram; puta cum Socrates currit, dicimus Socratem currere. Alio modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re non est: quod pertinet ad negationem veram; ut cum dicitur, Aethiops albus non est. Tertio modo, cum enunciatur aliquid esse quod in re non est: quod pertinet ad affirmationem falsam; ut cum dicitur, corvus est albus. Quarto modo, cum enunciatur aliquid non esse quod in re est: quod pertinet ad negationem falsam; ut cum dicitur, nix non est alba. Philosophus autem, ut a minoribus ad potiora procedat, falsas veris praeponit: inter quas negativam praemittit affirmativae, cum dicit quod contingit enunciare quod est, scilicet in rerum natura, non esse. Secundo autem, ponit affirmativam falsam cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, esse. Tertio autem, ponit affirmativam veram, quae opponitur negativae falsae, quam primo posuit, cum dicit: et quod est, scilicet in rerum natura, esse. Quarto autem, ponit negativam veram, quae opponitur affirmationi falsae, cum dicit: et quod non est, scilicet in rerum natura, non esse. The enunciation can therefore be varied in four ways according to a combination of these two divisions: in the first way, what is in reality is enunciated to be as it is in reality. This is characteristic of true affirmation. For example, when Socrates runs, we say, "Socrates is running.” In the second way, it is enunciated that something is not what in reality it is not. This is characteristic of true negation, as when we say, "An Ethiopian is not white.” In the third way, it is enunciated that something is what in reality it is not. This is characteristic of a false affirmation, as in "The raven is white.” In the fourth way, it is enunciated that something is not what it is in reality. This is characteristic of a false negation, as in "Snow is not white.” In order to proceed from the weaker to the stronger the Philosopher puts the false before the true, and among these he states the negative before the affirmative. He begins, then, with the false negative; it is possible to enunciate, that what is, namely, in reality, is not. Secondly, he posits the false affirmative, and that what is not, namely, in reality, is. Thirdly, he posits the true affirmative—which is opposed to the false negative he gave first—and that what is, namely, in reality, is. Fourthly, he posits the true negative—which is opposed to the false affirmative—and that what is not, namely, in reality, is not. Aquinas lib. 1 l. 9 n. 4Non est autem intelligendum quod hoc quod dixit: quod est et quod non est, sit referendum ad solam existentiam vel non existentiam subiecti, sed ad hoc quod res significata per praedicatum insit vel non insit rei significatae per subiectum. Nam cum dicitur, corvus est albus, significatur quod non est, esse, quamvis ipse corvus sit res existens. In saying what is and what is not, Aristotle is not referring only to the existence or nonexistence of a subject. What he is saying is that the reality signified by the predicate is in or is not in the reality signified by the subject. For what is signified in saying, "The raven is white,” is that what is not, is, although the raven itself is an existing thing. 5 Et sicut istae quatuor differentiae enunciationum inveniuntur in propositionibus, in quibus ponitur verbum praesentis temporis, ita etiam inveniuntur in enunciationibus in quibus ponuntur verba praeteriti vel futuri temporis. Supra enim dixit quod necesse est enunciationem constare ex verbo vel ex casu verbi. Et hoc est quod subdit: quod similiter contingit, scilicet variari diversimode enunciationem circa ea, quae sunt extra praesens tempus, idest circa praeterita vel futura, quae sunt quodammodo extrinseca respectu praesentis, quia praesens est medium praeteriti et futuri. These four differences of enunciations are found in propositions in which there is a verb of present time and also in enunciations in which there are verbs of past or future time. He said earlier that every enunciative speech must contain a verb or a mode of the verb. Here he makes this point in relation to the four differences of enunciations: similarly it is possible to enunciate these, i.e., that the enunciation be varied in diverse ways in regard to those times outside of the present, i.e., with respect to the past or future, which are in a certain way extrinsic in respect to the present, since the present is between the past and the future. 6 Et quia ita est, contingit omne quod quis affirmaverit negare, et omne quod quis negaverit affirmare: quod quidem manifestum est ex praemissis. Non enim potest affirmari nisi vel quod est in rerum natura secundum aliquod trium temporum, vel quod non est; et hoc totum contingit negare. Unde manifestum est quod omne quod affirmatur potest negari, et e converso. Et quia affirmatio et negatio opposita sunt secundum se, utpote ex opposito contradictoriae, consequens est quod quaelibet affirmatio habeat negationem sibi oppositam et e converso. Cuius contrarium illo solo modo posset contingere, si aliqua affirmatio affirmaret aliquid, quod negatio negare non posset. Since there are these four differences of enunciation in past and future time as well as in present time, it is possible to deny everything that is affirmed and to affirm everything that is denied. This is evident from the premises, for it is only possible to affirm either that which is in reality according to past, present, or future time, or that which is not; and it is possible to deny all of this. It is clear, then, that everything that is affirmed can be denied or vice versa. Now, since affirmation and negation are per se opposed, i.e., in an opposition of contradiction, it follows that any affirmation would have a negation opposed to it, and conversely. The contrary of this could happen only if an affirmation could affirm something that the negation could not deny. 7 Deinde cum dicit: et sit hoc contradictio etc., manifestat quae sit absoluta oppositio affirmationis et negationis. Et primo, manifestat eam per nomen; secundo, per definitionem; ibi: dico autem et cetera. Dicit ergo primo quod cum cuilibet affirmationi opponatur negatio, et e converso, oppositioni huiusmodi imponatur nomen hoc, quod dicatur contradictio. Per hoc enim quod dicitur, et sit hoc contradictio, datur intelligi quod ipsum nomen contradictionis ipse imposuerit oppositioni affirmationis et negationis, ut Ammonius dicit. When he says, We will call this opposed affirmation and negation "contradiction,” he explains what absolute opposition of affirmation and negation is. He does this first through the name; secondly, through the definition where he says, I mean by "opposed” the enunciation of the same thing of the same subject, etc. "Contradiction,” he says, is the name imposed for the kind of opposition in which a negation is opposed to an affirmation and conversely. By saying We will call this "contradiction,” we are given to understand—as Ammonius points out—that he has himself imposed the name "contradiction” for the opposition of affirmation and negation. 8 Deinde cum dicit: dico autem opponi etc., definit contradictionem. Quia vero, ut dictum est, contradictio est oppositio affirmationis et negationis, illa requiruntur ad contradictionem, quae requiruntur ad oppositionem affirmationis et negationis. Oportet autem opposita esse circa idem. Et quia enunciatio constituitur ex subiecto et praedicato, requiritur ad contradictionem primo quidem quod affirmatio et negatio sint eiusdem praedicati: si enim dicatur, Plato currit, Plato non disputat, non est contradictio; secundo, requiritur quod sint de eodem subiecto: si enim dicatur, Socrates currit, Plato non currit, non est contradictio. Tertio, requiritur quod identitas subiecti et praedicati non solum sit secundum nomen, sed sit simul secundum rem et nomen. Nam si non sit idem nomen, manifestum est quod non sit una et eadem enunciatio. Similiter autem ad hoc quod sit enunciatio una, requiritur identitas rei: dictum est enim supra quod enunciatio una est, quae unum de uno significat; et ideo subdit: non autem aequivoce, idest non sufficit identitas nominis cum diversitate rei, quae facit aequivocationem. Then he defines contradiction when he says, I mean by "opposed” the enunciation of the same thing of the same subject, etc. Since contradiction is the opposition of affirmation and negation, as he has said, whatever is required for the opposition of affirmation and negation is required for contradiction. Now, opposites must be about the same thing and since the enunciation is made up of a subject and predicate the first requirement for contradiction is affirmation and negation of the same predicate, for if we say "Plato runs” and "Plato does not discuss,” there is no contradiction. The second is that the affirmation and negation be of the same subject, for if we say "Socrates runs” and "Plato does not run,” there is no contradiction. The third requirement is identity of subject and predicate not only according to name but according to the thing and the name at once; for clearly, if the same name is not used there is not one and the same enunciation; similarly there must be identity of the thing, for as was said above, the enunciation is one when it signifies one thing said of one thing.”’ This is why he adds, not equivocally however, for identity of name with diversity of the thing—which is equivocation—is not sufficient for contradiction. Aquinas lib. 1 l. 9 n. 9Sunt autem et quaedam alia in contradictione observanda ad hoc quod tollatur omnis diversitas, praeter eam quae est affirmationis et negationis: non enim esset oppositio si non omnino idem negaret negatio quod affirmavit affirmatio. Haec autem diversitas potest secundum quatuor considerari. Uno quidem modo, secundum diversas partes subiecti: non enim est contradictio si dicatur, Aethiops est albus dente et non est albus pede. Secundo, si sit diversus modus ex parte praedicati: non enim est contradictio si dicatur, Socrates currit tarde et non movetur velociter; vel si dicatur, ovum est animal in potentia et non est animal in actu. Tertio, si sit diversitas ex parte mensurae, puta loci vel temporis; non enim est contradictio si dicatur, pluit in Gallia et non pluit in Italia; aut, pluit heri, hodie non pluit. Quarto, si sit diversitas ex habitudine ad aliquid extrinsecum; puta si dicatur, decem homines esse plures quoad domum, non autem quoad forum. Et haec omnia designat cum subdit: et quaecumque caetera talium determinavimus, idest determinare consuevimus in disputationibus contra sophisticas importunitates, idest contra importunas et litigiosas oppositiones sophistarum, de quibus plenius facit mentionem in I elenchorum. There are also certain other things that must be observed with respect to contradiction in order that all diversity be destroyed except the diversity of affirmation and negation, for if the negation does not deny in every way the same thing that the affirmation affirms there will not be opposition. Inquiry can be made about this diversity in respect to four things: first, are there diverse parts of the subject, for if we say "An Ethiopian is white as to teeth” and "An Ethiopian is not white as to foot,” there is no contradiction; secondly, is there a diverse mode on the part of the predicate, for there is no contradiction if we say "Socrates runs slowly” and "Socrates is not moving swiftly,” or "An egg is an animal in potency” and "An egg is not an animal in act”; thirdly, is there diversity on the part of measure, for instance, of place or time, for there is no contradiction if we say "It is raining in Gaul” and "It is not raining in Italy,” or "It rained yesterday” and "It did not rain today”; fourthly, is there diversity from a relationship to something extrinsic, as when we say "Ten men are many in respect to a house, but not in respect to a court house.” Aristotle designates all of these when he adds, nor in any of the other ways that we have distinguished, i.e., that it is usual to determine in disputations against the specious difficulties of the sophists, i.e., against the fallacious and quarrelsome objections of the sophists, which he mentions more fully in I Elenchorum [5: 166b 28–167a 36]. X. 1 Quia philosophus dixerat oppositionem affirmationis et negationis esse contradictionem, quae est eiusdem de eodem, consequenter intendit distinguere diversas oppositiones affirmationis et negationis, ut cognoscatur quae sit vera contradictio. Et circa hoc duo facit: primo, praemittit quamdam divisionem enunciationum necessariam ad praedictam differentiam oppositionum assignandam; secundo, manifestat propositum; ibi: si ergo universaliter et cetera. Praemittit autem divisionem enunciationum quae sumitur secundum differentiam subiecti. Unde circa primum duo facit: primo, dividit subiectum enunciationum; secundo, concludit divisionem enunciationum, ibi: necesse est enunciare et cetera. The Philosopher has just said that contradiction is the opposition of the affirmation and negation of the same thing of the same subject. Following upon this he distinguishes the diverse oppositions of affirmation and negation, the purpose being to know what true contradiction is. He first states a division of enunciation which is necessary in order to assign the difference of these oppositions; then he begins to manifest the different oppositions where he says, If, then, it is universally enunciated of a universal that something belongs or does not belong to it, etc. The division he gives is taken from the difference of the subject and therefore he divides the subject of enunciations first; then he concludes with the division of enunciation, where he says, we have to enunciate either of a universal or of a singular, etc. 2 Subiectum autem enunciationis est nomen vel aliquid loco nominis sumptum. Nomen autem est vox significativa ad placitum simplicis intellectus, quod est similitudo rei; et ideo subiectum enunciationis distinguit per divisionem rerum, et dicit quod rerum quaedam sunt universalia, quaedam sunt singularia. Manifestat autem membra divisionis dupliciter: primo quidem per definitionem, quia universale est quod est aptum natum de pluribus praedicari, singulare vero quod non est aptum natum praedicari de pluribus, sed de uno solo; secundo, manifestat per exemplum cum subdit quod homo est universale, Plato autem singulare. Now the subject of an enunciation is a name or something taken in place of a name. A name is a vocal sound significant by convention of simple thought, which, in turn, is a likeness of the thing. Hence, Aristotle distinguishes the subject of enunciation by a division of things; and he says that of things, some are universals, others singulars. He then explains the members of this division in two ways. First he defines them. Then he manifests them by example when he says, "man” is universal, "Plato” singular. 3 Accidit autem dubitatio circa hanc divisionem, quia, sicut probat philosophus in VII metaphysicae, universale non est aliquid extra res existens. Item, in praedicamentis dicitur quod secundae substantiae non sunt nisi in primis, quae sunt singulares. Non ergo videtur esse conveniens divisio rerum per universalia et singularia: quia nullae res videntur esse universales, sed omnes sunt singulares. There is a difficulty about this division, for the Philosopher proves in VII Metaphysicae [14: 1039a 23] that the universal is not something existing outside of the thing; and in the Predicamenta [5: 2a 11] he says that second substances are only in first substances, i.e., singulars. Therefore, the division of things into universals and singulars does not seem to be consistent, since according to him there are no things that are universal; on the contrary, all things are singular. 4 Dicendum est autem quod hic dividuntur res secundum quod significantur per nomina, quae subiiciuntur in enunciationibus: dictum est autem supra quod nomina non significant res nisi mediante intellectu; et ideo oportet quod divisio ista rerum accipiatur secundum quod res cadunt in intellectu. Ea vero quae sunt coniuncta in rebus intellectus potest distinguere, quando unum eorum non cadit in ratione alterius. In qualibet autem re singulari est considerare aliquid quod est proprium illi rei, in quantum est haec res, sicut Socrati vel Platoni in quantum est hic homo; et aliquid est considerare in ea, in quo convenit cum aliis quibusdam rebus, sicut quod Socrates est animal, aut homo, aut rationalis, aut risibilis, aut albus. Quando igitur res denominatur ab eo quod convenit illi soli rei in quantum est haec res, huiusmodi nomen dicitur significare aliquid singulare; quando autem denominatur res ab eo quod est commune sibi et multis aliis, nomen huiusmodi dicitur significare universale, quia scilicet nomen significat naturam sive dispositionem aliquam, quae est communis multis. Quia igitur hanc divisionem dedit de rebus non absolute secundum quod sunt extra animam, sed secundum quod referuntur ad intellectum, non definivit universale et singulare secundum aliquid quod pertinet ad rem, puta si diceret quod universale extra animam, quod pertinet ad opinionem Platonis, sed per actum animae intellectivae, quod est praedicari de multis vel de uno solo. The things divided here, however, are things as signified by names—which names are subjects of enunciations. Now, Aristotle has already said that names signify things only through the mediation of the intellect; therefore, this division must be taken as a division of things as apprehended by the intellect. Now in fact, whatever is joined together in things can be distinguished by the intellect when one of them does not belong to the notion of the other. In any singular thing, we can consider what is proper to the thing insofar as it is this thing, for instance, what is proper to Socrates or to Plato insofar as he is this man. We can also consider that in which it agrees with certain other things, as, that Socrates is an animal, or man, or rational, or risible, or white. Accordingly, when a thing is denominated from what belongs only to this thing insofar as it is this thing, the name is said to signify a singular. When a thing is denominated from what is common to it and to many others, the name is said to signify a universal since it signifies a nature or some disposition which is common to many. Immediately after giving this division of things, then—not of things absolutely as they are outside of the soul, but as they are referred to the intellect—Aristotle defines the universal and the singular through the act of the intellective soul, as that which is such as to be predicated of many or of only one, and not according to anything that pertains to the thing, that is, as if he were affirming such a universal outside of the soul, an opinion relating to Plato’s teaching. 5 Est autem considerandum quod intellectus apprehendit rem intellectam secundum propriam essentiam, seu definitionem: unde et in III de anima dicitur quod obiectum proprium intellectus est quod quid est. Contingit autem quandoque quod propria ratio alicuius formae intellectae non repugnat ei quod est esse in pluribus, sed hoc impeditur ab aliquo alio, sive sit aliquid accidentaliter adveniens, puta si omnibus hominibus morientibus unus solus remaneret, sive sit propter conditionem materiae, sicut est unus tantum sol, non quod repugnet rationi solari esse in pluribus secundum conditionem formae ipsius, sed quia non est alia materia susceptiva talis formae; et ideo non dixit quod universale est quod praedicatur de pluribus, sed quod aptum natum est praedicari de pluribus. There is a further point we should consider in relation to this portion of the text. The intellect apprehends the thing—understood according to the thing’s essence or definition. This is the reason Aristotle says in III De anima [4:429b 10] that the proper object of the intellect is what the thing essentially is. Now, sometimes the proper nature of some understood form is not repugnant to being in many but is impeded by something else, either by something occurring accidentally (for instance if all men but one were to die) or because of the condition of matter; the sun, for instance, is only one, not because it is repugnant to the notion of the sun to be in many according to the condition of its form, but because there is no other matter capable of receiving such a form. This is the reason Aristotle did not say that the universal is that which is predicated of many, but that which is of such a nature as to be predicated of many. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 6Cum autem omnis forma, quae nata est recipi in materia quantum est de se, communicabilis sit multis materiis; dupliciter potest contingere quod id quod significatur per nomen, non sit aptum natum praedicari de pluribus. Uno modo, quia nomen significat formam secundum quod terminata est ad hanc materiam, sicut hoc nomen Socrates vel Plato, quod significat naturam humanam prout est in hac materia. Alio modo, secundum quod nomen significat formam, quae non est nata in materia recipi, unde oportet quod per se remaneat una et singularis; sicut albedo, si esset forma non existens in materia, esset una sola, unde esset singularis: et propter hoc philosophus dicit in VII Metaphys. quod si essent species rerum separatae, sicut posuit Plato, essent individua. Now, since every form which is so constituted as to be received in matter is communicable to many matters, there are two ways in which what is signified by a name may not be of such a nature as to be predicated of many: in one way, because a name signifies a form as terminated in this matter, as in the case of the name "Socrates” or "Plato,” which signifies human nature as it is in this matter; in another way, because a name signifies a form which is not constituted to be received in matter and consequently must remain per se one and singular. Whiteness, for example, would be only one if it were a form not a existing in matter, and consequently singular. This is the reason the Philosopher says in VII Metaphysicae [6: 1045a 36–1045b 7] that if there were separated species of things, as Plato held, they would be individuals. 7 Potest autem obiici quod hoc nomen Socrates vel Plato est natum de pluribus praedicari, quia nihil prohibet multos esse, qui vocentur hoc nomine. Sed ad hoc patet responsio, si attendantur verba Aristotelis. Ipse enim non divisit nomina in universale et particulare, sed res. Et ideo intelligendum est quod universale dicitur quando, non solum nomen potest de pluribus praedicari, sed id, quod significatur per nomen, est natum in pluribus inveniri; hoc autem non contingit in praedictis nominibus: nam hoc nomen Socrates vel Plato significat naturam humanam secundum quod est in hac materia. Si vero hoc nomen imponatur alteri homini significabit naturam humanam in alia materia; et sic eius erit alia significatio; unde non erit universale, sed aequivocum. It could be objected that the name "Socrates” or "Plato” is of such a kind as to be predicated of many, since there is nothing to prevent their being applied to many. The response to this objection is evident if we consider Aristotle’s words. Notice that he divides things into universal and particular, not names. It should be understood from this that what is said to be universal not only has a name that can be predicated of many but what is signified by the name is of such a nature as to be found in many. Now this is not the case in the above-mentioned names, for the name "Socrates” or "Plato” signifies human nature as it is in this matter. If one of these names is imposed on another man it will signify human nature in other matter and thus another signification of it. Consequently, it will be equivocal, not universal. 8 Deinde cum dicit: necesse est autem enunciare etc., concludit divisionem enunciationis. Quia enim semper enunciatur aliquid de aliqua re; rerum autem quaedam sunt universalia, quaedam singularia; necesse est quod quandoque enuncietur aliquid inesse vel non inesse alicui universalium, quandoque vero alicui singularium. Et est suspensiva constructio usque huc, et est sensus: quoniam autem sunt haec quidem rerum etc., necesse est enunciare et cetera. When he says, we have to enunciate either of a universal or of a singular that something belongs or does not belong to it, he infers the division of the enunciation. Since something is always enunciated of some thing, and of things some are universals and some singulars, it follows that sometimes it will be enunciated that something belongs or does not belong to something universal, sometimes to something singular. The construction of the sentence was interrupted by the explanation of universal and singular but now we can see the meaning: Since some of the things we are concerned with are universal and others singular... we have to enunciate either of a universal or of a singular that something belongs or does not belong to it. 9 Est autem considerandum quod de universali aliquid enunciatur quatuor modis. Nam universale potest uno modo considerari quasi separatum a singularibus, sive per se subsistens, ut Plato posuit, sive, secundum sententiam Aristotelis, secundum esse quod habet in intellectu. Et sic potest ei aliquid attribui dupliciter. Quandoque enim attribuitur ei sic considerato aliquid, quod pertinet ad solam operationem intellectus, ut si dicatur quod homo est praedicabile de multis, sive universale, sive species. Huiusmodi enim intentiones format intellectus attribuens eas naturae intellectae, secundum quod comparat ipsam ad res, quae sunt extra animam. Quandoque vero attribuitur aliquid universali sic considerato, quod scilicet apprehenditur ab intellectu ut unum, tamen id quod attribuitur ei non pertinet ad actum intellectus, sed ad esse, quod habet natura apprehensa in rebus, quae sunt extra animam, puta si dicatur quod homo est dignissima creaturarum. Hoc enim convenit naturae humanae etiam secundum quod est in singularibus. Nam quilibet homo singularis dignior est omnibus creaturis irrationalibus; sed tamen omnes homines singulares non sunt unus homo extra animam, sed solum in acceptione intellectus; et per hunc modum attribuitur ei praedicatum, scilicet ut uni rei. Alio autem modo attribuitur universali, prout est in singularibus, et hoc dupliciter. Quandoque quidem ratione ipsius naturae universalis, puta cum attribuitur ei aliquid quod ad essentiam eius pertinet, vel quod consequitur principia essentialia; ut cum dicitur, homo est animal, vel homo est risibilis. Quandoque autem attribuitur ei aliquid ratione singularis in quo invenitur, puta cum attribuitur ei aliquid quod pertinet ad actionem individui; ut cum dicitur, homo ambulat. Singulari autem attribuitur aliquid tripliciter: uno modo, secundum quod cadit in apprehensione; ut cum dicitur, Socrates est singulare, vel praedicabile de uno solo. Quandoque autem, ratione naturae communis; ut cum dicitur, Socrates est animal. Quandoque autem, ratione sui ipsius; ut cum dicitur, Socrates ambulat. Et totidem etiam modis negationes variantur: quia omne quod contingit affirmare, contingit negare, ut supra dictum est. In relation to the point being made here we have to consider the four ways in which something is enunciated of the universal. On the one band, the universal can be considered as though separated from singulars, whether subsisting per se as Plato held or according to the being it has in the intellect as Aristotle held; considered thus, something can be attributed to it in two ways. Sometimes we attribute something to it which pertains only to the operation of the intellect; for example when we say, "Man,” whether the universal or the species, "is predicable” of many. For the intellect forms intentions of this kind, attributing them to the nature understood according as it compares the nature to the things outside of the mind. But sometimes we attribute something to the universal thus considered (i.e., as it is apprehended by the intellect as one) which does not belong to the act of the intellect but to the being that the nature apprehended has in things outside of the soul; for example, when we say "Man is the noblest of creatures.” For this truly belongs to human nature as it is in singulars, since any single man is more noble than all irrational creatures; yet all singular men are not one man outside of the mind, but only in the apprehension of the intellect; and the predicate is attributed to it in this way, i.e., as to one thing. On the other hand, we attribute something to the universal as in singulars in another way, and this is twofold: sometimes it is in view of the universal nature itself; for instance, when we attribute something to it that belongs to its essence, or follows upon the essential principles, as in "Man is an animal,” or "Man is risible.” Sometimes it is in view of the singular in which the universal is found; for instance, when we attribute something to the universal that pertains to the action of the individual, as in "Man walks. Moreover, something is attributed to the singular in three ways: in one way, as it is subject to the intellect, as when we say "Socrates is a singular,” or "predicable of only one”; in another way, by reason of the common nature, as when we say "Socrates is an animal”; in the third way, by reason of itself, as when we say "Socrates is walking.” The negations are varied in the same number of ways, since everything that can be affirmed can also be denied, as was said above. 10 Est autem haec tertia divisio enunciationis quam ponit philosophus. Prima namque fuit quod enunciationum quaedam est una simpliciter, quaedam vero coniunctione una. Quae quidem est divisio analogi in ea de quibus praedicatur secundum prius et posterius: sic enim unum dividitur secundum prius in simplex et per posterius in compositum. Alia vero fuit divisio enunciationis in affirmationem et negationem. Quae quidem est divisio generis in species, quia sumitur secundum differentiam praedicati ad quod fertur negatio; praedicatum autem est pars formalis enunciationis; et ideo huiusmodi divisio dicitur pertinere ad qualitatem enunciationis, qualitatem, inquam, essentialem, secundum quod differentia significat quale quid. Tertia autem est huiusmodi divisio, quae sumitur secundum differentiam subiecti, quod praedicatur de pluribus vel de uno solo, et ideo dicitur pertinere ad quantitatem enunciationis, nam et quantitas consequitur materiam. This is the third division the Philosopher has given of the enunciation. The first was the division of the enunciation into one simply and one by conjunction. This is an analogous division into those things of which one is predicated primarily and consequently, for one is divided according to the prior and posterior into simple and composite. The second was the division of enunciation into affirmation and negation. This is a division of genus into species, for it is taken from the difference of the predicate to which a negation is added. The predicate is the formal part of the enunciation and hence such a division is said to pertain to the quality of the enunciation. By "quality” I mean essential quality, for in this case the difference signifies the quality of the essence. The third division is based upon the difference of the subject as predicated of many or of only one, and is therefore a division that pertains to the quantity of the enunciation, for quantity follows upon matter. 11 Deinde cum dicit: si ergo universaliter etc., ostendit quomodo enunciationes diversimode opponantur secundum diversitatem subiecti. Et circa hoc duo facit: primo, distinguit diversos modos oppositionum in ipsis enunciationibus; secundo, ostendit quomodo diversae oppositiones diversimode se habent ad verum et falsum; ibi: quocirca hasquidem impossibile est et cetera.Aristotle shows next how enunciations are opposed in diverse ways according to the diversity of the subject when he says, If, then, it is universally enunciated of a universal that something belongs or does not belong to it, etc. He first distinguishes the diverse modes of opposition in enunciations; secondly, he shows how these diverse oppositions are related in different ways to truth and falsity where he says, Hence in the case of the latter it is impossible that both be at once true, etc. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 12Circa primum considerandum est quod cum universale possit considerari in abstractione a singularibus vel secundum quod est in ipsis singularibus, secundum hoc diversimode aliquid ei attribuitur, ut supra dictum est. Ad designandum autem diversos modos attributionis inventae sunt quaedam dictiones, quae possunt dici determinationes vel signa, quibus designatur quod aliquid de universali, hoc aut illo modo praedicetur. Sed quia non est ab omnibus communiter apprehensum quod universalia extra singularia subsistant, ideo communis usus loquendi non habet aliquam dictionem ad designandum illum modum praedicandi, prout aliquid dicitur in abstractione a singularibus. Sed Plato, qui posuit universalia extra singularia subsistere, adinvenit aliquas determinationes, quibus designaretur quomodo aliquid attribuitur universali, prout est extra singularia, et vocabat universale separatum subsistens extra singularia quantum ad speciem hominis, per se hominem vel ipsum hominem et similiter in aliis universalibus. Sed universale secundum quod est in singularibus cadit in communi apprehensione hominum; et ideo adinventae sunt quaedam dictiones ad significandum modum attribuendi aliquid universali sic accepto. First, then, he distinguishes the diverse modes of opposition and since these depend upon a diversity in the subject we must first consider the latter diversity. Now the universal can be considered either in abstraction from singulars or as it is in singulars, and by reason of this something is attributed in diverse modes to the universal, as we have already said. To designate diverse modes of attribution certain words have been conceived which may be called determinations or signs and which designate that something is predicated in this or that mode. But first we should note that since it is not commonly apprehended by all men that universals subsist outside of singulars there is no word in common speech to designate the mode of predicating in which something is said of a universal thus in abstraction from singulars. Plato, who held that universals subsist outside of singulars, did, however, invent certain determinations to designate the way in which something is attributed to the universal as it is outside of singulars. With respect to the species man he called the separated universal subsisting outside of singulars "man per se”’or "man itself,” and he designated other such universals in like manner. The universal as it is in singulars, however, does fall within the common apprehension of men and accordingly certain words have been conceived to signify the mode of attributing something to the universal taken in this way. 13 Sicut autem supra dictum est, quandoque aliquid attribuitur universali ratione ipsius naturae universalis; et ideo hoc dicitur praedicari de eo universaliter, quia scilicet ei convenit secundum totam multitudinem in qua invenitur; et ad hoc designandum in affirmativis praedicationibus adinventa est haec dictio, omnis, quae designat quod praedicatum attribuitur subiecto universali quantum ad totum id quod sub subiecto continetur. In negativis autem praedicationibus adinventa est haec dictio, nullus, per quam significatur quod praedicatum removetur a subiecto universali secundum totum id quod continetur sub eo. Unde nullus dicitur quasi non ullus, et in Graeco dicitur, udis quasi nec unus, quia nec unum solum est accipere sub subiecto universali a quo praedicatum non removeatur. Quandoque autem attribuitur universali aliquid vel removetur ab eo ratione particularis; et ad hoc designandum, in affirmativis quidem adinventa est haec dictio, aliquis vel quidam, per quam designatur quod praedicatum attribuitur subiecto universali ratione ipsius particularis; sed quia non determinate significat formam alicuius singularis, sub quadam indeterminatione singulare designat; unde et dicitur individuum vagum. In negativis autem non est aliqua dictio posita, sed possumus accipere, non omnis; ut sicut, nullus, universaliter removet, eo quod significat quasi diceretur, non ullus, idest, non aliquis, ita etiam, non omnis, particulariter removeat, in quantum excludit universalem affirmationem. As was said above, sometimes something is attributed to the universal in view of the universal nature itself; for this reason it is said to be predicated of the universal universally, i.e., that it belongs to the universal according to the whole multitude in which it is found. The word "every” has been devised to designate this in affirmative predications. It designates that the predicate is attributed to the universal subject with respect to the whole of what is contained under the subject. In negative predications the word "no” has been devised to signify that the predicate is removed from the universal subject according to the whole of what is contained under it. Hence, saying nullus in Latin is like saying non ullus [not any] and in Greek??de?? [none] is like??de e?? [not one], for not a single one is understood under the universal subject from which the predicate is not removed. Sometimes something is either attributed to or removed from the universal in view of the particular. To designate this in affirmative enunciations, the word "some,” or "a certain one,” has been devised. We designate by this that the predicate is attributed to the universal subject by reason of the particular. "Some,” or "a certain one,” however, does not signify the form of any singular determinately, rather, it designates the singular under a certain indetermination. The singular so designated is therefore called the vague individual. In negative enunciations there is no designated word, but "not all” can be used. just as "no,” then, removes universally, for it signifies the same thing as if we were to say "not any,” (i.e., "not some”) so also "not all” removes particularly inasmuch as it excludes universal affirmation. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 14Sic igitur tria sunt genera affirmationum in quibus aliquid de universali praedicatur. Una quidem est, in qua de universali praedicatur aliquid universaliter; ut cum dicitur, omnis homo est animal. Alia, in qua aliquid praedicatur de universali particulariter; ut cum dicitur, quidam homo est albus. Tertia vero est, in qua aliquid de universali praedicatur absque determinatione universalitatis vel particularitatis; unde huiusmodi enunciatio solet vocari indefinita. Totidem autem sunt negationes oppositae. There are, therefore, three kinds of affirmations in which something is predicated of a universal: in one, something is predicated of the universal universally, as in "Every man is an animal”; in another, something is predicated of the universal particularly, as in "Some man is white.” The third is the affirmation in which something is predicated of the universal without a determination of universality or particularity. Enunciations of this kind are customarily called indefinite. There are the same number of opposed negations. De singulari autem quamvis aliquid diversa ratione praedicetur, ut supra dictum est, tamen totum refertur ad singularitatem ipsius, quia etiam natura universalis in ipso singulari individuatur; et ideo nihil refert quantum ad naturam singularitatis, utrum aliquid praedicetur de eo ratione universalis naturae; ut cum dicitur, Socrates est homo, vel conveniat ei ratione singularitatis. In the case of the singular, although something is predicated of it in a different respect, as was said above, nevertheless the whole is referred to its singularity because the universal nature is individuated in the singular; therefore it makes no difference as far as the nature of singularity is concerned whether something is predicated of the singular by reason of the universal nature, as in "Socrates is a man,” or belongs to it by reason of its singularity. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 16Si igitur tribus praedictis enunciationibus addatur singularis, erunt quatuor modi enunciationis ad quantitatem ipsius pertinentes, scilicet universalis, singularis, indefinitus et particularis. If we add the singular to the three already mentioned there will be four modes of enunciation pertaining to quantity: universal singular, indefinite, and particular. 17 Sic igitur secundum has differentias Aristoteles assignat diversas oppositiones enunciationum adinvicem. Et primo, secundum differentiam universalium ad indefinitas; secundo, secundum differentiam universalium ad particulares; ibi: opponi autem affirmationem et cetera. Circa primum tria facit: primo, agit de oppositione propositionum universalium adinvicem; secundo, de oppositione indefinitarum; ibi: quando autem in universalibus etc.; tertio, excludit dubitationem; ibi: in eo vero quod et cetera. Aristotle assigns the diverse oppositions of enunciations according to these differences. The first opposition is based on the difference of universals and indefinites; the second bn the difference of universals and particulars, the latter being treated where he says, Affirmation is opposed to negation in the way I call contradictory, etc. With respect to the first opposition, the one between universals and indefinites, the opposition of universal propositions to each other is treated first, and then the opposition of indefinite enunciations where he says, On the other hand, when the enunciations are of a universal but not universally enunciated, etc. Finally he precludes a possible question where he says, In the predicate, however, the universal universally predicated is not true, etc. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 18Dicit ergo primo quod si aliquis enunciet de subiecto universali universaliter, idest secundum continentiam suae universalitatis, quoniam est, idest affirmative, aut non est, idest negative, erunt contrariae enunciationes; ut si dicatur, omnis homo est albus, nullus homo est albus. Huius autem ratio est, quia contraria dicuntur quae maxime a se distant: non enim dicitur aliquid nigrum ex hoc solum quod non est album, sed super hoc quod est non esse album, quod significat communiter remotionem albi, addit nigrum extremam distantiam ab albo. Sic igitur id quod affirmatur per hanc enunciationem, omnis homo est albus, removetur per hanc negationem, non omnis homo est albus. Oportet ergo quod negatio removeat modum quo praedicatum dicitur de subiecto, quem designat haec dictio, omnis. Sed super hanc remotionem addit haec enunciatio, nullus homo est albus, totalem remotionem, quae est extrema distantia a primo; quod pertinet ad rationem contrarietatis. Et ideo convenienter hanc oppositionem dicit contrarietatem. He says first, then, that if someone enunciates universally of a universal subject, i.e., according to the content of its universality, that it is, i.e., affirmatively, or is not, i.e., negatively, these enunciations will be contrary; as when we say, "Every man is white,” "No man is white.” And the reason is that the things that are most distant from each other are said to be contraries. For a thing is not said to be black only because it is not white but because over and beyond not being white—which signifies the remotion of white commonly—it is, in addition, black, the extreme in distance from white. What is affirmed by the enunciation "Every man is white” then, is removed by the negation "Not every man is white”; the negation, therefore, removes the mode in which the predicate is said of the subject which the word "every” designates. But over and beyond this remotion, the enunciation "No man is white” which is most distant from "Every man is white,” adds total remotion, and this belongs to the notion of contrariety. He therefore appropriately calls this opposition contrariety. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 19Deinde cum dicit: quando autem etc., ostendit qualis sit oppositio affirmationis et negationis in indefinitis. Et primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum per exempla; ibi: dico autem non universaliter etc.; tertio, assignat rationem manifestationis; ibi: cum enim universale sit homo et cetera. Dicit ergo primo quod quando de universalibus subiectis affirmatur aliquid vel negatur non tamen universaliter, non sunt contrariae enunciationes, sed illa quae significantur contingit esse contraria. Deinde cum dicit: dico autem non universaliter etc., manifestat per exempla. Ubi considerandum est quod non dixerat quando in universalibus particulariter, sed non universaliter. Non enim intendit de particularibus enunciationibus, sed de solis indefinitis. Et hoc manifestat per exempla quae ponit, dicens fieri in universalibus subiectis non universalem enunciationem; cum dicitur, est albus homo, non est albus homo. Et rationem huius expositionis ostendit, quia homo, qui subiicitur, est universale, sed tamen praedicatum non universaliter de eo praedicatur, quia non apponitur haec dictio, omnis: quae non significat ipsum universale, sed modum universalitatis, prout scilicet praedicatum dicitur universaliter de subiecto; et ideo addita subiecto universali, semper significat quod aliquid de eo dicatur universaliter. Tota autem haec expositio refertur ad hoc quod dixerat: quando in universalibus non universaliter enunciatur, non sunt contrariae. When he says, On the other hand, when the enunciations are of a universal but not universally enunciated, etc., he shows what kind of opposition there is between affirmation and negation in indefinite enunciations. First he states the point; he then manifests it by an example when he says, I mean by "enunciated of a universal but not universally,” etc. Finally he gives the reason for this when he says, For while "man” is a universal, it is not used as universal, etc. He says first, then, that when something is affirmed or denied of a universal subject, but not universally, the enunciations are not contrary but the things that are signified may be contraries. He clarifies this with examples where he says, I mean by "enunciated of a universal but not universally,” etc. Note in relation to this that what he said just before this was "when... of universals but not universally enunciated” and not, "when... of universals particularly,” the reason being that he only intends to speak of indefinite enunciations, not of particulars. This he manifests by the examples he gives. When we say "Man is white” and "Man is not white,” the universal subjects do not make them universal enunciations. He gives as the reason for this, that although man, which stands as the subject, is universal, the predicate is not predicated of it universally because the word "every” is not added, which does not itself signify the universal, but the mode of universality, i.e., that the predicate is said universally of the subject. Therefore when "every” is added to the universal subject it always signifies that something is said of it universally. This whole exposition relates to his saying, On the other hand, when the enunciations are of a universal but not universally enunciated, they are not contraries. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 20Sed hoc quod additur: quae autem significantur contingit esse contraria, non est expositum, quamvis obscuritatem contineat; et ideo a diversis diversimode exponitur. Quidam enim hoc referre voluerunt ad contrarietatem veritatis et falsitatis, quae competit huiusmodi enunciationibus. Contingit enim quandoque has simul esse veras, homo est albus, homo non est albus; et sic non sunt contrariae, quia contraria mutuo se tollunt. Contingit tamen quandoque unam earum esse veram et alteram esse falsam; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal; et sic ratione significati videntur habere quamdam contrarietatem. Sed hoc non videtur ad propositum pertinere, tum quia philosophus nondum hic loquitur de veritate et falsitate enunciationum; tum etiam quia hoc ipsum posset de particularibus enunciationibus dici. Immediately after this he adds, although it is possible for the things signified to be contraries, and in spite of the fact that this is obscure he does not explain it. It has therefore been interpreted in different ways. Some related it to the contrariety of truth and falsity proper to enunciations of this kind, For such enunciations may be simultaneously true, as in "Man is white” and "Man is not white,” and thus not be contraries, for contraries mutually destroy each other. On the other hand, one may be true and the other false, as in "Man is an animal” and "Man is not an animal,” and thus by reason of what is signified seem to have a certain kind of contrariety. But this does not seem to be related to what Aristotle has said: first, because the Philosopher has not yet taken up the point of truth and falsity of enunciations; secondly, because this very thing can also be said of particular enunciations. Alii vero, sequentes Porphyrium, referunt hoc ad contrarietatem praedicati. Contingit enim quandoque quod praedicatum negatur de subiecto propter hoc quod inest ei contrarium; sicut si dicatur, homo non est albus, quia est niger; et sic id quod significatur per hoc quod dicitur, non est albus, potest esse contrarium. Non tamen semper: removetur enim aliquid a subiecto, etiam si contrarium non insit, sed aliquid medium inter contraria; ut cum dicitur, aliquis non est albus, quia est pallidus; vel quia inest ei privatio actus vel habitus seu potentiae; ut cum dicitur, aliquis non est videns, quia est carens potentia visiva, aut habet impedimentum ne videat, vel etiam quia non est aptus natus videre; puta si dicatur, lapis non videt. Sic igitur illa, quae significantur contingit esse contraria, sed ipsae enunciationes non sunt contrariae, quia ut in fine huius libri dicetur, non sunt contrariae opiniones quae sunt de contrariis, sicut opinio quod aliquid sit bonum, et illa quae est, quod aliquid non est bonum. Others, following Porphyry, relate this to the contrariety of the predicate. For sometimes the predicate may be denied of the subject because of the presence of the contrary in it, as when we say, "Man is not white” because he is black; thus it could be the contrary that is signified by "is not white.” This is not always the case, however, for we remove something from a subject even when it is not a contrary that is present in it but some mean between contraries, as in saying, "So-and-so is not white” because he is pale; or when there is a privation of act or habit or potency, as in saying, "So-and-so is non-seeing” because he lacks the power of sight or has an impediment so that he cannot see, or even because something is not of such a nature as to see, as in saying, "A stone does not see.” It is therefore possible for the things signified to be contraries, but the enunciations themselves not to be; for as is said near the end of this book, opinions that are about contraries are not contrary,”’ for example, an opinion that something is good and an opinion that something is evil. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 22Sed nec hoc videtur ad propositum Aristotelis pertinere, quia non agit hic de contrarietate rerum vel opinionum, sed de contrarietate enunciationum: et ideo magis videtur hic sequenda expositio Alexandri. Secundum quam dicendum est quod in indefinitis enunciationibus non determinatur utrum praedicatum attribuatur subiecto universaliter (quod faceret contrarietatem enunciationum), aut particulariter (quod non faceret contrarietatem enunciationum); et ideo huiusmodi enunciationes indefinitae non sunt contrariae secundum modum quo proferuntur. Contingit tamen quandoque ratione significati eas habere contrarietatem, puta, cum attribuitur aliquid universali ratione naturae universalis, quamvis non apponatur signum universale; ut cum dicitur, homo est animal, homo non est animal: quia hae enunciationes eamdem habent vim ratione significati; ac si diceretur, omnis homo est animal, nullus homo est animal. This does not seem to relate to what Aristotle has proposed either, for he is not treating here of contrariety of things or opinions, but of contrariety of enunciations. For this reason it seems better here to follow the exposition of Alexander. According to his exposition, in indefinite enunciations it is not determined whether the predicate is attributed to the subject universally (which would constitute contrariety of enunciations), or particularly (which would not constitute contrariety of enunciations). Accordingly, enunciations of this kind are not contrary in mode of expression. However, sometimes they have contrariety by reason of what is signified, i.e., when something is attributed to a universal in virtue of the universal nature although the universal sign is not added, as in "Man is an animal” and "Man is not an animal,” for in virtue of what is signified these enunciations have the same force as "Every man is an animal” and "No man is an animal.” Aquinas lib. 1 l. 10 n. 23Deinde cum dicit: in eo vero quod etc., removet quoddam quod posset esse dubium. Quia enim posuerat quamdam diversitatem in oppositione enunciationum ex hoc quod universale sumitur a parte subiecti universaliter vel non universaliter, posset aliquis credere quod similis diversitas nasceretur ex parte praedicati, ex hoc scilicet quod universale praedicari posset et universaliter et non universaliter; et ideo ad hoc excludendum dicit quod in eo quod praedicatur aliquod universale, non est verum quod praedicetur universale universaliter. Cuius quidem duplex esse potest ratio. Una quidem, quia talis modus praedicandi videtur repugnare praedicato secundum propriam rationem quam habet in enunciatione. Dictum est enim supra quod praedicatum est quasi pars formalis enunciationis, subiectum autem est pars materialis ipsius: cum autem aliquod universale profertur universaliter, ipsum universale sumitur secundum habitudinem quam habet ad singularia, quae sub se continet; sicut et quando universale profertur particulariter, sumitur secundum habitudinem quam habet ad aliquod contentorum sub se; et sic utrumque pertinet ad materialem determinationem universalis: et ideo neque signum universale neque particulare convenienter additur praedicato, sed magis subiecto: convenientius enim dicitur, nullus homo est asinus, quam, omnis homo est nullus asinus; et similiter convenientius dicitur, aliquis homo est albus, quam, homo est aliquid album. Invenitur autem quandoque a philosophis signum particulare appositum praedicato, ad insinuandum quod praedicatum est in plus quam subiectum, et hoc praecipue cum, habito genere, investigant differentias completivas speciei, sicut in II de anima dicitur quod anima est actus quidam. Alia vero ratio potest accipi ex parte veritatis enunciationis; et ista specialiter habet locum in affirmationibus quae falsae essent si praedicatum universaliter praedicaretur. Et ideo manifestans id quod posuerat, subiungit quod nulla affirmatio est in qua, scilicet vere, de universali praedicato universaliter praedicetur, idest in qua universali praedicato utitur ad universaliter praedicandum; ut si diceretur, omnis homo est omne animal. Oportet enim, secundum praedicta, quod hoc praedicatum animal, secundum singula quae sub ipso continentur, praedicaretur de singulis quae continentur sub homine; et hoc non potest esse verum, neque si praedicatum sit in plus quam subiectum, neque si praedicatum sit convertibile cum eo. Oporteret enim quod quilibet unus homo esset animalia omnia, aut omnia risibilia: quae repugnant rationi singularis, quod accipitur sub universali. When he says, But as regards the predicate the universal universally predicated is not true, etc., he precludes a certain difficulty. He has already stated that there is a diversity in the opposition of enunciations because of the universal being taken either universally or not universally on the part of the subject. Someone might think, as a consequence, that a similar diversity would arise on the part of the predicate, i.e., that the universal could be predicated both universally and not universally. To exclude this he says that in the case in which a universal is predicated it is not true that the universal is predicated universally. There are two reasons for this. The first is that such a mode of predicating seems to be repugnant to the predicate in relation to its status in the enunciation; for, as has been said, the predicate is a quasi-formal part of the enunciation, while the subject is a material part of it. Now when a universal is asserted universally the universal itself is taken according to the relationship it has to the singulars contained under it, and when it is asserted particularly the universal is taken according to the relationship it has to some one of what is contained under it. Thus both pertain to the material determination of the universal. This is why it is not appropriate to add either the universal or particular sign to the predicate, but rather to the subject; for it is more appropriate to say, "No man is an ass” than "Every man is no ass”; andlikewise, to say, "Some man is white” than, "Man is some white.” However, sometimes philosophers put the particular sign next to the predicate to indicate that the predicate is in more than the subject, and this especially when they have a genus in mind and are investigating the differences which complete the species. There is an instance of this in II De anima [1:412a 22] where Aristotle says that the soul is a certain act.”’ The other reason is related to the truth of enunciations. This has a special place in affirmations, which would be false if the predicate were predicated universally. Hence to manifest what he has stated, he adds, for there is no affirmation in which, i.e., truly, a universal predicate will be predicated universally, i.e., in which a universal predicate is used to predicate universally, for example, "Every man is every animal.” If this could be done, the predicate "animal” according to the singulars contained under it would have to be predicated of the singulars contained under "man”; but such predication could not be true, whether the predicate is in more than the subject or is convertible with the subject; for then any one man would have to be all animals or all risible beings, which is repugnant to the notion of the singular, which is taken tinder the universal. Aquinas lib. 1 l. 10 n. 24Nec est instantia si dicatur quod haec est vera, omnis homo est omnis disciplinae susceptivus: disciplina enim non praedicatur de homine, sed susceptivum disciplinae; repugnaret autem veritati si diceretur, omnis homo est omne susceptivum disciplinae. The truth of the enunciation "Every man is susceptible of every discipline” is not an instance that can be used as an objection to this position, for it is not "discipline” that is predicated of man but "susceptible of discipline.” It would be repugnant to truth if it were said that "Every man is everything susceptible of discipline.” 25 Signum autem universale negativum, vel particulare affirmativum, etsi convenientius ponantur ex parte subiecti, non tamen repugnat veritati etiam si ponantur ex parte praedicati. Contingit enim huiusmodi enunciationes in aliqua materia esse veras: haec enim est vera, omnis homo nullus lapis est; et similiter haec est vera, omnis homo aliquod animal est. Sed haec, omnis homo omne animal est, in quacumque materia proferatur, falsa est. Sunt autem quaedam aliae tales enunciationes semper falsae; sicut ista, aliquis homo omne animal est (quae habet eamdem causam falsitatis cum hac, omnis homo omne animal est); et si quae aliae similes, sunt semper falsae: in omnibus enim eadem ratio est. Et ideo per hoc quod philosophus reprobavit istam, omnis homo omne animal est, dedit intelligere omnes consimiles esse improbandas. On the other hand, although the negative universal sign or the particular affirmative sign are more appropriately posited on the part of the subject, it is not repugnant to truth if they are posited on the part of the predicate, for such enunciations may be true in some matter. The enunciation "Every man is no stone,” for example, is true, and so is "Every man is some animal.” But the enunciation "Every man is every animal,” in whatever matter it occurs, is false. There are other enunciations of this kind that are always false, such as, "Some man is every animal” (which is false for the same reason as "Every man is every animal” is false). And if there are any others like these, they are always false; and the reason is the same in every case. And, therefore, in rejecting the enunciation "Every man is every animal,” the Philosopher meant it to be understood that all similar enunciations are to be rejected. XI. 1. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum, comparando universales enunciationes ad indefinitas, hic determinat de oppositione enunciationum comparando universales ad particulares. Circa quod considerandum est quod potest duplex oppositio in his notari: una quidem universalis ad particularem, et hanc primo tangit; alia vero universalis ad universalem, et hanc tangit secundo; ibi: contrariae vero et cetera. Now that he has determined the opposition of enunciations by comparing universal enunciations with indefinite enunciations, Aristotle determines the opposition of enunciations by comparing universals to particulars. It should be noted that there is a twofold opposition in these enunciations, one of universal to particular, and he touches upon this first; the other is the opposition of universal to universal, and this he takes up next, where he says, They are opposed contrarily when the universal affirmation is opposed to the universal negation, etc. 2 Particularis vero affirmativa et particularis negativa, non habent proprie loquendo oppositionem, quia oppositio attenditur circa idem subiectum; subiectum autem particularis enunciationis est universale particulariter sumptum, non pro aliquo determinato singulari, sed indeterminate pro quocumque; et ideo, cum de universali particulariter sumpto aliquid affirmatur vel negatur, ipse modus enunciandi non habet quod affirmatio et negatio sint de eodem: quod requiritur ad oppositionem affirmationis et negationis, secundum praemissa. The particular affirmative and particular negative do not have opposition properly speaking, because opposition is concerned with the same subject. But the subject of a particular enunciation is the universal taken particularly, not for a determinate singular but indeterminately for any singular. For this reason, when something is affirmed or denied of the universal particularly taken, the mode of enunciating is not such that the affirmation and negation are of the same thing; hence what is required for the opposition of affirmation and negation is lacking. 3 Dicit ergo primo quod enunciatio, quae universale significat, scilicet universaliter, opponitur contradictorie ei, quae non significat universaliter sed particulariter, si una earum sit affirmativa, altera vero sit negativa (sive universalis sit affirmativa et particularis negativa, sive e converso); ut cum dicitur, omnis homo est albus, non omnis homo est albus: hoc enim quod dico, non omnis, ponitur loco signi particularis negativi; unde aequipollet ei quae est, quidam homo non est albus; sicut et nullus, quod idem significat ac si diceretur, non ullus vel non quidam, est signum universale negativum. Unde hae duae, quidam homo est albus (quae est particularis affirmativa), nullus homo est albus (quae est universalis negativa), sunt contradictoriae. First he says that the enunciation that signifies the universal, i.e., universally, is opposed contradictorily to the one that does not signify universally but particularly, if one of them is affirmative and the other negative (whether the universal is affirmative and the particular negative or conversely), as in "Every man is white,” "Not every man is white.” For, the "not every” is used in place of the particular negative sign; consequently, "Not every man is white” is equivalent to "Some man is not white.” In a parallel way "no,” which signifies the same thing as "not any” or "not some,” is the universal negative sign; consequently, the two enunciations, "Some man is white,” which is the particular affirmative, and "No man is white,” which is the universal negative, are contradictories. 4 Cuius ratio est quia contradictio consistit in sola remotione affirmationis per negationem; universalis autem affirmativa removetur per solam negationem particularis, nec aliquid aliud ex necessitate ad hoc exigitur; particularis autem affirmativa removeri non potest nisi per universalem negativam, quia iam dictum est quod particularis affirmativa non proprie opponitur particulari negativae. Unde relinquitur quod universali affirmativae contradictorie opponitur particularis negativa, et particulari affirmativae universalis negativa. The reason for this is that contradiction consists in the mere removal of the affirmation by a negation. Now the universal affirmative is removed by merely the negation of the particular and nothing else is required of necessity; but the particular affirmative can only be removed by the universal negative because, as has already been said, the particular negative is not properly opposed to the particular affirmative. Consequently, the particular negative is opposed contradictorily to the universal affirmative and the universal negative to the particular affirmative. 5 Deinde cum dicit: contrariae vero etc., tangit oppositionem universalium enunciationum; et dicit quod universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae; sicut, omnis homo est iustus, nullus homo est iustus, quia scilicet universalis negativa non solum removet universalem affirmativam, sed etiam designat extremam distantiam, in quantum negat totum quod affirmatio ponit; et hoc pertinet ad rationem contrarietatis; et ideo particularis affirmativa et negativa se habent sicut medium inter contraria. When he says, They are opposed contrarily when the universal affirmation is opposed to the universal negation, etc., he touches on the opposition of universal enunciations. The universal affirmative and universal negative, he says, are contraries, as in "Every man is just... No man is just”; for the universal negative not only removes the universal affirmative but also designates an extreme of distance between them inasmuch as it denies the whole that the affirmation posits; and this belongs to the notion of contrariety. The particular affirmative and particular negative, for this reason, are related as a mean between contraries. 6 Deinde cum dicit: quocirca has quidem etc., ostendit quomodo se habeant affirmatio et negatio oppositae ad verum et falsum. Et primo, quantum ad contrarias; secundo, quantum ad contradictorias; ibi: quaecumque igiturcontradictiones etc.; tertio, quantum ad ea quae videntur contradictoria, et non sunt; ibi: quaecumque autem in universalibus et cetera. Dicit ergo primo quod quia universalis affirmativa et universalis negativa sunt contrariae, impossibile est quod sint simul verae. Contraria enim mutuo se expellunt. Sed particulares, quae contradictorie opponuntur universalibus contrariis, possunt simul verificari in eodem; sicut, non omnis homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, omnis homo est albus, et, quidam homo est albus, quae contradictorie opponitur huic, nullus homo est albus. Et huiusmodi etiam simile invenitur in contrarietate rerum: nam album et nigrum numquam simul esse possunt in eodem, sed remotiones albi et nigri simul possunt esse: potest enim aliquid esse neque album neque nigrum, sicut patet in eo quod est pallidum. Et similiter contrariae enunciationes non possunt simul esse verae, sed earum contradictoriae, a quibus removentur, simul possunt esse verae. He shows how the opposed affirmation and negation are related to truth and falsity when he says, Hence in the case of the latter it is impossible that both be at once true, etc. He shows this first in regard to contraries; secondly, in regard to contradictories, where he says, Whenever there are contradictions with respect to universal signifying universally, etc.; thirdly, in regard to those that seem contradictory but are not, where he says, But when the contradictions are of universals not signifying universally, etc. First, he says that because the universal affirmative and universal negative are contraries, it is impossible for them to be simultaneously true, for contraries mutually remove each other. However, the particular enunciations that are contradictorily opposed to the universal contraries, can be verified at the same time in the same thing, for example, "Not every man is white” (which is opposed contradictorily to "Every man is white”) and "Some man is white” (which is opposed contradictorily to "No man is white”). A parallel to this is found in the contrariety of things, for white and black can never be in the same thing at the same time; but the remotion of white and black can be in the same thing at the same time, for a thing may be neither white nor black, as is evident in something yellow. In a similar way, contrary enunciations cannot be at once true, but their contradictories, by which they are removed, can be true simultaneously. 7 Deinde cum dicit: quaecumque igitur contradictiones etc., ostendit qualiter veritas et falsitas se habeant in contradictoriis. Circa quod considerandum est quod, sicut dictum est supra, in contradictoriis negatio non plus facit, nisi quod removet affirmationem. Quod contingit dupliciter. Uno modo, quando est altera earum universalis, altera particularis, ut supra dictum est. Alio modo, quando utraque est singularis: quia tunc negatio ex necessitate refertur ad idem (quod non contingit in particularibus et indefinitis), nec potest se in plus extendere nisi ut removeat affirmationem. Et ideo singularis affirmativa semper contradicit singulari negativae, supposita identitate praedicati et subiecti. Et ideo dicit quod, sive accipiamus contradictionem universalium universaliter, scilicet quantum ad unam earum, sive singularium enunciationum, semper necesse est quod una sit vera et altera falsa. Neque enim contingit esse simul veras aut simul falsas, quia verum nihil aliud est, nisi quando dicitur esse quod est, aut non esse quod non est; falsum autem, quando dicitur esse quod non est, aut non esse quod est, ut patet ex IV metaphysicorum. Then he says, Whenever there are contradictions with respect to universals signifying universally, one must be true and the other false, etc. Here he shows how truth and falsity are related in contradictories. As was said above, in contradictories the negation does no more than remove the affirmation, and this in two ways: in one way when one of them is universal, the other particular; in another way when each is singular. In the case of the singular, the negation is necessarily referred to the same thing—which is not the case in particulars and indefinites—and cannot extend to more than removing the affirmation. Accordingly, the singular affirmative is always contradictory to the singular negative, the identity of subject and predicate being supposed. Aristotle says, therefore, that whether we take the contradiction of universals universally (i.e., one of the universals being taken universally) or the contradiction of singular enunciations, one of them must always be true and the other false. It is not possible for them to be at once true or at once false because to be true is nothing other than to say of what is, that it is, or of what is not that it is not; to be false, to say of what is not, that it is, or of what is, that it is not, as is evident in IV Metaphysicorum [7: 1011b 25]. 8 Deinde cum dicit: quaecumque autem universalium etc., ostendit qualiter se habeant veritas et falsitas in his, quae videntur esse contradictoria, sed non sunt. Et circa hoc tria facit: primo proponit quod intendit; secundo, probat propositum; ibi: si enim turpis non probus etc.; tertio, excludit id quod facere posset dubitationem; ibi: videbitur autem subito inconveniens et cetera. Circa primum considerandum est quod affirmatio et negatio in indefinitis propositionibus videntur contradictorie opponi propter hoc, quod est unum subiectum non determinatum per signum particulare, et ideo videtur affirmatio et negatio esse de eodem. Sed ad hoc removendum philosophus dicit quod quaecumque affirmative et negative dicuntur de universalibus non universaliter sumptis, non semper oportet quod unum sit verum, et aliud sit falsum, sed possunt simul esse vera. Simul enim est verum dicere quod homo est albus, et, homo non est albus, et quod homo est probus, et, homo non est probus. When he says, But when the contradictions are of universals not signifying universally, etc., he shows how truth and falsity are related to enunciations that seem to be contradictory, but are not. First he proposes how they are related; then he proves it where he says, For if he is ugly, he is not beautiful, etc.; finally, he excludes a possible difficulty where he says, At first sight this might seem paradoxical, etc. With respect to the first point we should note that affirmation and negation in indefinite propositions seem to be opposed contradictorily because there is one subject in both of them and it is not determined by a particular sign. Hence, the affirmation and negation seem to be about the same thing. To exclude this, the Philosopher says that in the case of affirmative and negative enunciations of universals not taken universally, one need not always be true and the other false, but they can be at once true. For it is true to say both that "Man is white” and that "Man is not white,” and that "Man is honorable” and "Man is not honorable. 9 In quo quidem, ut Ammonius refert, aliqui Aristoteli contradixerunt ponentes quod indefinita negativa semper sit accipienda pro universali negativa. Et hoc astruebant primo quidem tali ratione: quia indefinita, cum sit indeterminata, se habet in ratione materiae; materia autem secundum se considerata, magis trahitur ad id quod indignius est; dignior autem est universalis affirmativa, quam particularis affirmativa; et ideo indefinitam affirmativam dicunt esse sumendam pro particulari affirmativa: sed negativam universalem, quae totum destruit, dicunt esse indigniorem particulari negativa, quae destruit partem, sicut universalis corruptio peior est quam particularis; et ideo dicunt quod indefinita negativa sumenda est pro universali negativa. Ad quod etiam inducunt quod philosophi, et etiam ipse Aristoteles utitur indefinitis negativis pro universalibus; sicut dicitur in libro Physic. quod non est motus praeter res; et in libro de anima, quod non est sensus praeter quinque. Sed istae rationes non concludunt. Quod enim primo dicitur quod materia secundum se sumpta sumitur pro peiori, verum est secundum sententiam Platonis, qui non distinguebat privationem a materia, non autem est verum secundum Aristotelem, qui dicit in Lib. I Physic. quod malum et turpe et alia huiusmodi ad defectum pertinentia non dicuntur de materia nisi per accidens. Et ideo non oportet quod indefinita semper stet pro peiori. Dato etiam quod indefinita necesse sit sumi pro peiori, non oportet quod sumatur pro universali negativa; quia sicut in genere affirmationis, universalis affirmativa est potior particulari, utpote particularem affirmativam continens; ita etiam in genere negationum universalis negativa potior est. Oportet autem in unoquoque genere considerare id quod est potius in genere illo, non autem id quod est potius simpliciter. Ulterius etiam, dato quod particularis negativa esset potior omnibus modis, non tamen adhuc ratio sequeretur: non enim ideo indefinita affirmativa sumitur pro particulari affirmativa, quia sit indignior, sed quia de universali potest aliquid affirmari ratione suiipsius, vel ratione partis contentae sub eo; unde sufficit ad veritatem eius quod praedicatum uni parti conveniat (quod designatur per signum particulare); et ideo veritas particularis affirmativae sufficit ad veritatem indefinitae affirmativae. Et simili ratione veritas particularis negativae sufficit ad veritatem indefinitae negativae, quia similiter potest aliquid negari de universali vel ratione suiipsius, vel ratione suae partis. Utuntur autem quandoque philosophi indefinitis negativis pro universalibus in his, quae per se removentur ab universalibus; sicut et utuntur indefinitis affirmativis pro universalibus in his, quae per se de universalibus praedicantur. On this point, as Ammonius reports, some men, maintaining that the indefinite negative is always to be taken for the universal negative, have taken a position contradictory to Aristotle’s. They argued their position in the following way. The indefinite, since it is indeterminate, partakes of the nature of matter; but matter considered in itself is regarded as what is less worthy. Now the universal affirmative is more worthy than the particular affirmative and therefore they said that the indefinite affirmative was to be taken for the particular affirmative. But, they said, the universal negative, which destroys the whole, is less worthy than the particular negative, which destroys the part (just as universal corruption is worse than particular corruption); therefore, they said that the indefinite negative was to be taken for the universal negative. They went on to say in support of their position that philosophers, and even Aristotle himself, used indefinite negatives as universals. Thus, in the book Physicorum [III, 1: 200b 32] Aristotle says that there is not movement apart from the thing; and in the book De anima [III, 1: 424b 20], that there are not more than five senses. However, these reasons are not cogent. What they say about matter—that considered in itself it is taken for what is less worthy—is true according to the opinion of Plato, who did not distinguish privation from matter; however, it is not true according to Aristotle, who says in I Physicae [9: 192a 3 & 192a 22], that the evil and ugly and other things of this kind pertaining to defect, are said of matter only accidentally. Therefore the indefinite need not stand always for the more ignoble. Even supposing it is necessary that the indefinite be taken for the less worthy, it ought not to be taken for the universal negative; for just as the universal affirmative is more powerful than the particular in the genus of affirmation, as containing the particular affirmative, so also the universal negative is more powerful in the genus of negations. Now in each genus one must consider what is more powerful in that genus, not what is more powerful simply. Further, if we took the position that the particular negative is more powerful than all other modes, the reasoning still would not follow, for the indefinite affirmative is not taken for the particular affirmative because it is less worthy, but because something can be affirmed of the universal by reason of itself, or by reason of the part contained under it; whence it suffices for the truth of the particular affirmative that the predicate belongs to one part (which is designated by the particular sign); for this reason the truth of the particular affirmative suffices for the truth of the indefinite affirmative. For a similar reason the truth of the particular negative suffices for the truth of the indefinite negative, because in like manner, something can be denied of a universal either by reason of itself, or by reason of its part. Apropos of the examples cited for their argument, it should be noted that philosophers sometimes use indefinite negatives for universals in the case of things that are per se removed from universals; and they use indefinite affirmatives for universals in the case of things that are per se predicated of universals. 10 Deinde cum dicit: si enim turpis est etc., probat propositum per id, quod est ab omnibus concessum. Omnes enim concedunt quod indefinita affirmativa verificatur, si particularis affirmativa sit vera. Contingit autem accipi duas affirmativas indefinitas, quarum una includit negationem alterius, puta cum sunt opposita praedicata: quae quidem oppositio potest contingere dupliciter. Uno modo, secundum perfectam contrarietatem, sicut turpis, idest inhonestus, opponitur probo, idest honesto, et foedus, idest deformis secundum corpus, opponitur pulchro. Sed per quam rationem ista affirmativa est vera, homo est probus, quodam homine existente probo, per eamdem rationem ista est vera, homo est turpis, quodam homine existente turpi. Sunt ergo istae duae verae simul, homo est probus, homo est turpis; sed ad hanc, homo est turpis, sequitur ista, homo non est probus; ergo istae duae sunt simul verae, homo est probus, homo non est probus: et eadem ratione istae duae, homo est pulcher, homo non est pulcher. Alia autem oppositio attenditur secundum perfectum et imperfectum, sicut moveri opponitur ad motum esse, et fieri ad factum esse: unde ad fieri sequitur non esse eius quod fit in permanentibus, quorum esse est perfectum; secus autem est in successivis, quorum esse est imperfectum. Sic ergo haec est vera, homo est albus, quodam homine existente albo; et pari ratione, quia quidam homo fit albus, haec est vera, homo fit albus; ad quam sequitur, homo non est albus. Ergo istae duae sunt simul verae, homo est albus, homo non est albus. When he says, For if he is ugly, he is not beautiful, etc., he proves what he has proposed by something conceded by everyone, namely, that the indefinite affirmative is verified if the particular affirmative is true. We may take two indefinite affirmatives, one of which includes the negation of the other, as for example when they have opposed predicates. Now this opposition can happen in two ways. It can be according to perfect contrariety, as shameful (i.e., dishonorable) is opposed to worthy (i.e., honorable) and ugly (i.e., deformed in body) is opposed to beautiful. But the reasoning by which the affirmative enunciation, "Man is worthy,” is true, i.e., by some worthy man existing, is the same as the reasoning by which "Man is shameful” is true, i.e., by a shameful man existing. Therefore these two enunciations are at once true, "Man is worthy” and "Man is shameful.” But the enunciation, "Man is not worthy,” follows upon "Man is shameful.” Therefore the two enunciations, " Man is worthy,” and "Man is not worthy,” are at once true; and by the same reasoning these two, "Man is beautiful” and "Man is not beautiful.” The other opposition is according to the complete and incomplete, as to be in movement is opposed to to have been moved, and becoming to to have become. Whence the non-being of that which is coming to be in permanent things, whose being is complete, follows upon the becoming but this is not so in successive things, whose being is incomplete. Thus, "Man is white” is true by the fact that a white man exists; by the same reasoning, because a man is becoming white, the enunciation "Man is becoming white” is true, upon which follows, "Man is not white.” Therefore, the two enunciations, "Man is white” and "Man is not white” are at once true. 11 Deinde cum dicit: videbitur autem etc., excludit id quod faceret dubitationem circa praedicta; et dicit quod subito, id est primo aspectu videtur hoc esse inconveniens, quod dictum est; quia hoc quod dico, homo non est albus, videtur idem significare cum hoc quod est, nullus homo est albus. Sed ipse hoc removet dicens quod neque idem significant neque ex necessitate sunt simul vera, sicut ex praedictis manifestum est. Then when he says, At first sight this might seem paradoxical, etc., he excludes what might present a difficulty in relation to what has been said. At first sight, he says, what has been stated seems to be inconsistent; for "Man is not white” seems to signify the same thing as "No man is white.” But he rejects this when he says that they neither signify the same thing, nor are they at once true necessarily, as is evident from what has been said. XII. 1. Postquam philosophus distinxit diversos modos oppositionum in enunciationibus, nunc intendit ostendere quod uni affirmationi una negatio opponitur, et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod uni affirmationi una negatio opponitur; secundo, ostendit quae sit una affirmatio vel negatio, ibi: una autem affirmatio et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quod intendit; secundo, manifestat propositum; ibi: hoc enim idem etc.; tertio, epilogat quae dicta sunt; ibi: manifestum est ergo et cetera. Having distinguished the diverse modes of opposition in enunciations, the Philosopher now proposes to show that there is one negation opposed to one affirmation. First he shows that there is one negation opposed to one affirmation; then he manifests what one affirmation and negation are, where he says, Affirmation or negation is one when one thing is signified of one thing, etc. With respect to what he intends to do he first proposes the point; then he manifests it where he says, for the negation must deny the same thing that the affirmation affirms, etc. Finally, he gives a summary of what has been said, where he says, We have said that there is one negation opposed contradictorily to one affirmation, etc.  2 Dicit ergo primo, manifestum esse quod unius affirmationis est una negatio sola. Et hoc quidem fuit necessarium hic dicere: quia cum posuerit plura oppositionum genera, videbatur quod uni affirmationi duae negationes opponerentur; sicut huic affirmativae, omnis homo est albus, videtur, secundum praedicta, haec negativa opponi, nullus homo est albus, et haec, quidam homo non est albus. Sed si quis recte consideret huius affirmativae, omnis homo est albus, negativa est sola ista, quidam homo non est albus, quae solummodo removet ipsam, ut patet ex sua aequipollenti, quae est, non omnis homo est albus. Universalis vero negativa includit quidem in suo intellectu negationem universalis affirmativae, in quantum includit particularem negativam, sed supra hoc aliquid addit, in quantum scilicet importat non solum remotionem universalitatis, sed removet quamlibet partem eius. Et sic patet quod sola una est negatio universalis affirmationis: et idem apparet in aliis. He says, then, that it is evident that there is only one negation of one affirmation. It is necessary to make this point here because he has posited many kinds of opposition and it might appear that two negations are opposed to one affirmation. Thus it might seem that the negative enunciations, "No man is white” and "Some man is not white” are both opposed to the affirmative enunciation, "Every man is white.” But if one carefully examines what has been said it will be evident that the only negative opposed to "Every man is white” is "Some man is not white,” which merely removes it, as is clear from its equivalent, "Not every man is white.” It is true that the negation of the universal affirmative is included in the understanding of the universal negative inasmuch as the universal negative includes the particular negative, but the universal negative adds something over and beyond this inasmuch as it not only brings about the removal of universality but removes every part of it. Thus it is evident that there is only one negation of a universal affirmation, and the same thing is evident in the others. 3 Deinde cum dicit: hoc enim etc., manifestat propositum: et primo, per rationem; secundo, per exempla; ibi: dico autem, ut est Socrates albus. Ratio autem sumitur ex hoc, quod supra dictum est quod negatio opponitur affirmationi, quae est eiusdem de eodem: ex quo hic accipitur quod oportet negationem negare illud idem praedicatum, quod affirmatio affirmavit et de eodem subiecto, sive illud subiectum sit aliquid singulare, sive aliquid universale, vel universaliter, vel non universaliter sumptum; sed hoc non contingit fieri nisi uno modo, ita scilicet ut negatio neget id quod affirmatio posuit, et nihil aliud; ergo uni affirmationi opponitur una sola negatio. When he says, for the negation must deny the same thing that the affirmation affirms, etc., he manifests what he has said: first, from reason; secondly, by example. The reasoning is taken from what has already been said, namely, that negation is opposed to affirmation when the enunciations are of the same thing of the same subject. Here he says that the negation must deny the same predicate the affirmation affirms, and of the same subject, whether that subject he something singular or something universal, either taken universally or not taken universally. But this can only be done in one way, i.e., when the negation denies what the affirmation posits, and nothing else. Therefore there is only one negation opposed to one affirmation. 4 Deinde cum dicit: dico autem, ut est etc., manifestat propositum per exempla. Et primo, in singularibus: huic enim affirmationi, Socrates est albus, haec sola opponitur, Socrates non est albus, tanquam eius propria negatio. Si vero esset aliud praedicatum vel aliud subiectum, non esset negatio opposita, sed omnino diversa; sicut ista, Socrates non est musicus, non opponitur ei quae est, Socrates est albus; neque etiam illa quae est, Plato est albus, huic quae est, Socrates non est albus. Secundo, manifestat idem quando subiectum affirmationis est universale universaliter sumptum; sicut huic affirmationi, omnis homo est albus, opponitur sicut propria eius negatio, non omnis homo est albus, quae aequipollet particulari negativae. Tertio, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale particulariter sumptum: et dicit quod huic affirmationi, aliquis homo est albus, opponitur tanquam eius propria negatio, nullus homo est albus. Nam nullus dicitur, quasi non ullus, idest, non aliquis. Quarto, ponit exemplum quando affirmationis subiectum est universale indefinite sumptum et dicit quod isti affirmationi, homo est albus, opponitur tanquam propria eius negatio illa quae est, non est homo albus. In manifesting this by example, where he says, For example, the negation of "Socrates is white,” etc., he first takes examples of singulars. Thus, "Socrates is not white” is the proper negation opposed to "Socrates is white.” If there were another predicate or another subject, it would not be the opposed negation, but wholly different. For example, "Socrates is not musical” is not opposed to "Socrates is white,” nor is "Plato is white” opposed to "Socrates is not white.” Then he manifests the same thing in an affirmation with a universal universally taken as the subject. Thus, "Not every man is white,” which is equivalent to the particular negative, is the proper negation opposed to the affirmation, "Every man is white.” Thirdly, he gives an example in which the subject of the affirmation is a universal taken particularly. The proper negation opposed to the affirmation "Some man is white” is "No man is white,” for to say "no” is to say "not any,” i.e., "not some.” Finally, he gives as an example enunciations in which the subject of the affirmation is the universal taken indefinitely; "Man is not white” is the proper negation opposed to the affirmation "Man is white.” 5 Sed videtur hoc esse contra id, quod supra dictum est quod negativa indefinita verificatur simul cum indefinita affirmativa; negatio autem non potest verificari simul cum sua opposita affirmatione, quia non contingit de eodem affirmare et negare. Sed ad hoc dicendum quod oportet quod hic dicitur intelligi quando negatio ad idem refertur quod affirmatio continebat; et hoc potest esse dupliciter: uno modo, quando affirmatur aliquid inesse homini ratione sui ipsius (quod est per se de eodem praedicari), et hoc ipsum negatio negat; alio modo, quando aliquid affirmatur de universali ratione sui singularis, et pro eodem de eo negatur. The last example used to manifest his point seems to be contrary to what he has already said, namely, that the indefinite negative and the indefinite affirmative can be simultaneously verified; but a negation and its opposite affirmation cannot be simultaneously verified, since it is not possible to affirm and deny of the same subject. But what Aristotle is saying here must be understood of the negation when it is referred to the same thing the affirmation contained, and this is possible in two ways: in one way, when something is affirmed to belong to man by reason of what he is (which is per se to be predicated of the same thing), and this very thing the negation denies; secondly, when something is affirmed of the universal by reason of its singular, and the same thing is denied of it. 6 Deinde cum dicit: quod igitur una affirmatio etc., epilogat quae dicta sunt, et concludit manifestum esse ex praedictis quod uni affirmationi opponitur una negatio; et quod oppositarum affirmationum et negationum aliae sunt contrariae, aliae contradictoriae; et dictum est quae sint utraeque. Tacet autem de subcontrariis, quia non sunt recte oppositae, ut supra dictum est. Dictum est etiam quod non omnis contradictio est vera vel falsa; et sumitur hic large contradictio pro qualicumque oppositione affirmationis et negationis: nam in his quae sunt vere contradictoriae semper una est vera, et altera falsa. Quare autem in quibusdam oppositis hoc non verificetur, dictum est supra; quia scilicet quaedam non sunt contradictoriae, sed contrariae, quae possunt simul esse falsae. Contingit etiam affirmationem et negationem non proprie opponi; et ideo contingit eas esse veras simul. Dictum est autem quando altera semper est vera, altera autem falsa, quia scilicet in his quae vere sunt contradictoria. He concludes by summarizing what has been said: We have said that there is one negation opposed contradictorily to one affirmation, etc. He considers it evident from what has been said that one negation is opposed to one affirmation; and that of opposite affirmations and negations, one kind are contraries, the other contradictories; and that what each kind is has been stated. He does not speak of subcontraries because it is not accurate to say that they are opposites, as was said above. He also says here that it has been shown that not every contradiction is true or false, "contradiction” being taken here broadly for any kind of opposition of affirmation and negation; for in enunciations that are truly contradictory one is always true and the other false. The reason why this may not be verified in some kinds of opposites has already been stated, namely, because some are not contradictories but contraries, and these can be false at the same time. It is also possible for affirmation and negation not to be properly opposed and consequently to be true at the same time. It has been stated, however, when one is always true and the other false, namely, in those that are truly contradictories. 7 Deinde cum dicit: una autem affirmatio etc., ostendit quae sit affirmatio vel negatio una. Quod quidem iam supra dixerat, ubi habitum est quod una est enunciatio, quae unum significat; sed quia enunciatio, in qua aliquid praedicatur de aliquo universali universaliter vel non universaliter, multa sub se continet, intendit ostendere quod per hoc non impeditur unitas enunciationis. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit quod unitas enunciationis non impeditur per multitudinem, quae continetur sub universali, cuius ratio una est; secundo, ostendit quod impeditur unitas enunciationis per multitudinem, quae continetur sub sola nominis unitate; ibi: si vero duobus et cetera. Dicit ergo primo quod una est affirmatio vel negatio cum unum significatur de uno, sive illud unum quod subiicitur sit universale universaliter sumptum sive non sit aliquid tale, sed sit universale particulariter sumptum vel indefinite, aut etiam si subiectum sit singulare. Et exemplificat de diversis sicut universalis ista affirmativa est una, omnis homo est albus; et similiter particularis negativa quae est eius negatio, scilicet non est omnis homo albus. Et subdit alia exempla, quae sunt manifesta. In fine autem apponit quamdam conditionem, quae requiritur ad hoc quod quaelibet harum sit una, si scilicet album, quod est praedicatum, significat unum: nam sola multitudo praedicati impediret unitatem enunciationis. Ideo autem universalis propositio una est, quamvis sub se multitudinem singularium comprehendat, quia praedicatum non attribuitur multis singularibus, secundum quod sunt in se divisa, sed secundum quod uniuntur in uno communi. The Philosopher explains what one affirmation or negation is where he says, Affirmation or negation is one when one thing is signified of one thing, etc. He did in fact state this earlier when he said that an enunciation is one when it signifies one thing, but because the enunciation in which something is predicated of a universal, either universally or not universally, contains under it many things, he is going to show here that unity of enunciation is not impeded by this. First he shows that unity of enunciation is not impeded by the multitude contained under the universal, whose notion is one. Then he shows that unity of enunciation is impeded by the multitude contained under the unity of a name only, where he says, But if one name is imposed for two things, etc. He says, then, that an affirmation or negation is one when one thing is signified of one thing, whether the one thing that is subjected be a universal taken universally, or not, i.e., it may be a universal taken particularly or indefinitely, or even a singular. He gives examples of the differ6nt kinds: such as, the universal affirmative "Every man is white” and the particular negative, which is its negation, "Not every man is white,” each of which is one. There are other examples which are evident. At the end he states a condition that is required for any of them to be one, i.e., provided the "white,” which is the predicate, signifies one thing; for a multiple predicate with a subject signifying one thing would also impede the unity of an enunciation. The universal proposition is therefore one, even though it comprehends a multitude of singulars under it, for the predicate is not attributed to many singulars according as each is divided from the other, but according as they are united in one common thing. 8 Deinde cum dicit: si vero duobus etc., ostendit quod sola unitas nominis non sufficit ad unitatem enunciationis. Et circa hoc quatuor facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exemplificat; ibi: ut si quis ponat etc.; tertio, probat; ibi: nihil enim differt etc.; quarto, infert corollarium ex dictis; ibi: quare nec in his et cetera. Dicit ergo primo quod si unum nomen imponatur duabus rebus, ex quibus non fit unum, non est affirmatio una. Quod autem dicit, ex quibus non fit unum, potest intelligi dupliciter. Uno modo, ad excludendum hoc quod multa continentur sub uno universali, sicut homo et equus sub animali: hoc enim nomen animal significat utrumque, non secundum quod sunt multa et differentia ad invicem, sed secundum quod uniuntur in natura generis. Alio modo, et melius, ad excludendum hoc quod ex multis partibus fit unum, sive sint partes rationis, sicut sunt genus et differentia, quae sunt partes definitionis: sive sint partes integrales alicuius compositi, sicut ex lapidibus et lignis fit domus. Si ergo sit tale praedicatum quod attribuatur rei, requiritur ad unitatem enunciationis quod illa multa quae significantur, concurrant in unum secundum aliquem dictorum modorum; unde non sufficeret sola unitas vocis. Si vero sit tale praedicatum quod referatur ad vocem, sufficiet unitas vocis; ut si dicam, canis est nomen. When he says, But if one name is imposed for two things, he shows that unity of name alone does not suffice for unity of an enunciation. He first makes the point; secondly, he gives an example, where he says, if someone were to impose the name "cloak” on horse and man, etc.; thirdly, he proves it where he says, For this is no different from saying "Horse and man is white,” etc.; finally, he infers a corollary from what has been said, where he says, Consequently, in such enunciations, it is not necessary, etc. If one name is imposed for two things, he says, from which one thing is not formed, there is not one affirmation. The from which one thing is not formed can be understood in two ways. It can be understood as excluding the many that are contained under one universal, as man and horse under animal, for the name "animal” signifies both,.not as they are many and different from each other but as they are united in the nature of the genus. It can also be understood—and this would be more accurate—as excluding the many parts from which something one is formed, whether the parts of the notion as known, as the genus and the difference, which are parts of the definition, or the integral parts of some composite, as the stones and wood from which a house is made. If, then, there is such a predicate which is attributed to a thing, the many that are signified must concur in one thing according to some of the modes mentioned in order that there be one enunciation; unity of vocal sound alone would not suffice. However, if there is such a predicate which is referred to vocal sound, unity of vocal sound would suffice, as in "‘Dog’is a name.” 9 Deinde cum dicit: ut si quis etc., exemplificat quod dictum est, ut si aliquis hoc nomen tunica imponat ad significandum hominem et equum: et sic, si dicam, tunica est alba, non est affirmatio una, neque negatio una. Deinde cum dicit: nihil enim differt etc., probat quod dixerat tali ratione. Si tunica significat hominem et equum, nihil differt si dicatur, tunica est alba, aut si dicatur, homo est albus, et, equus est albus; sed istae, homo est albus, et equus est albus, significant multa et sunt plures enunciationes; ergo etiam ista, tunica est alba, multa significat. Et hoc si significet hominem et equum ut res diversas: si vero significet hominem et equum ut componentia unam rem, nihil significat, quia non est aliqua res quae componatur ex homine et equo. Quod autem dicit quod non differt dicere, tunica est alba, et, homo est albus, et, equus est albus, non est intelligendum quantum ad veritatem et falsitatem. Nam haec copulativa, homo est albus et equus est albus, non potest esse vera nisi utraque pars sit vera: sed haec, tunica est alba, praedicta positione facta, potest esse vera etiam altera existente falsa; alioquin non oporteret distinguere multiplices propositiones ad solvendum rationes sophisticas. Sed hoc est intelligendum quantum ad unitatem et multiplicitatem. Nam sicut cum dicitur, homo est albus et equus est albus, non invenitur aliqua una res cui attribuatur praedicatum; ita etiam nec cum dicitur, tunica est alba. He gives an example of what he means where he says, For example, if someone were to impose the name "cloak,” etc. That is, if someone were to impose the name "cloak” to signify man and horse and then said, "Cloak is white,” there would not be one affirmation, nor would there be one negation. He proves this where he says, For this is no different from saying, etc. His argument is as follows. If "cloak” signifies man and horse there is no difference between saying "Cloak is white” and saying, "Man is white, and, Horse is white.” But "Man is white, and, horse is white” signify many and are many enunciations. Therefore, the enunciation, "Cloak is white,” signifies many things. This is the case if "cloak” signifies man and horse as diverse things; but if it signifies man and horse as one thing, it signifies nothing, for there is not any thing composed of man and horse. When Aristotle says that there is no difference between saying "Cloak is white” and, "Man is white, and, horse is white,” it is not to be understood with respect to truth and falsity. For the copulative enunciation "Man is white and horse is white” cannot be true unless each part is true; but the enunciation "Cloak is white,” under the condition given, can be true even when one is false; otherwise it would not be necessary to distinguish multiple propositions to solve sophistic arguments. Rather, it is to be understood with respect to unity and multiplicity, for just as in "Man is white and horse is white” there is not some one thing to which the predicate is attributed, so also in "Cloak is white.” 10 Deinde cum dicit: quare nec in his etc., concludit ex praemissis quod nec in his affirmationibus et negationibus, quae utuntur subiecto aequivoco, semper oportet unam esse veram et aliam falsam, quia scilicet negatio potest aliud negare quam affirmatio affirmet. When he says, Consequently, it is not necessary in such enunciations, etc., he concludes from what has been said that in affirmations and negations that use an equivocal subject, one need not always be true and the other false since the negation may deny something other than the affirmation affirms. XIII. 1. Postquam philosophus determinavit de oppositione enunciationum et ostendit quomodo dividunt verum et falsum oppositae enunciationes; hic inquirit de quodam quod poterat esse dubium, utrum scilicet id quod dictum est similiter inveniatur in omnibus enunciationibus vel non. Et circa hoc duo facit: primo, proponit dissimilitudinem; secundo, probat eam; ibi: nam si omnis affirmatio et cetera. Now that he, has treated opposition of enunciations and has shown the way in which opposed enunciations divide truth and falsity, the Philosopher inquires about a question that might arise, namely, whether what has been said is found to be so in all enunciations or not. And first he proposes a dissimilarity in enunciations with regard to dividing truth and falsity, then proves it where he says, For if every affirmation or negation is true or false, etc. 2 Circa primum considerandum est quod philosophus in praemissis triplicem divisionem enunciationum assignavit, quarum prima fuit secundum unitatem enunciationis, prout scilicet enunciatio est una simpliciter vel coniunctione una; secunda fuit secundum qualitatem, prout scilicet enunciatio est affirmativa vel negativa; tertia fuit secundum quantitatem, utpote quod enunciatio quaedam est universalis, quaedam particularis, quaedam indefinita et quaedam singularis. In relation to the dissimilarity which he intends to prove we should recall that the Philosopher has given three divisions of the enunciation. The first was in relation to the unity of enunciation, and according to this it is divided into one simply and one by conjunction; the second was in relation to quality, and according to this it is divided into affirmative and negative; the third was in relation to quantity, and according to this it is either universal, particular, indefinite, or singular. 3 Tangitur autem hic quarta divisio enunciationum secundum tempus. Nam quaedam est de praesenti, quaedam de praeterito, quaedam de futuro; et haec etiam divisio potest accipi ex his quae supra dicta sunt: dictum est enim supra quod necesse est omnem enunciationem esse ex verbo vel ex casu verbi; verbum autem est quod consignificat praesens tempus; casus autem verbi sunt, qui consignificant tempus praeteritum vel futurum. Potest autem accipi quinta divisio enunciationum secundum materiam, quae quidem divisio attenditur secundum habitudinem praedicati ad subiectum: nam si praedicatum per se insit subiecto, dicetur esse enunciatio in materia necessaria vel naturali; ut cum dicitur, homo est animal, vel, homo est risibile. Si vero praedicatum per se repugnet subiecto quasi excludens rationem ipsius, dicetur enunciatio esse in materia impossibili sive remota; ut cum dicitur, homo est asinus. Si vero medio modo se habeat praedicatum ad subiectum, ut scilicet nec per se repugnet subiecto, nec per se insit, dicetur enunciatio esse in materia possibili sive contingenti. Here he treats of a fourth division of enunciation, a division according to time. Some enunciations are about the present, some about the past, some about the future. This division could be seen in what Aristotle has already said, namely, that every enunciation must have a verb or a mode of a verb, the verb being that which signifies the present time, the modes with past or future time. In addition, a fifth division of the enunciation can be made, a division in regard to matter. It is taken from the relationship of the predicate to the subject. If the predicate is per se in the subject, it will be said to be an enunciation in necessary or natural matter. Examples of this are "Man is an animal” and "Man is risible.” If the predicate is per se repugnant to the subject, as excluding the notion of it, it is said to be an enunciation in impossible or remote matter; for example, the enunciation "Man is an ass.” If the predicate is related to the subject in a way midway between these two, being neither per se repugnant to the subject nor per se in it, the enunciation is said to be in possible or contingent matter. 4 His igitur enunciationum differentiis consideratis, non similiter se habet iudicium de veritate et falsitate in omnibus. Unde philosophus dicit, ex praemissis concludens, quod in his quae sunt, idest in propositionibus de praesenti, et in his quae facta sunt, idest in enunciationibus de praeterito, necesse est quod affirmatio vel negatio determinate sit vera vel falsa. Diversificatur tamen hoc, secundum diversam quantitatem enunciationis; nam in enunciationibus, in quibus de universalibus subiectis aliquid universaliter praedicatur, necesse est quod semper una sit vera, scilicet affirmativa vel negativa, et altera falsa, quae scilicet ei opponitur. Dictum est enim supra quod negatio enunciationis universalis in qua aliquid universaliter praedicatur, est negativa non universalis, sed particularis, et e converso universalis negativa non est directe negatio universalis affirmativae, sed particularis; et sic oportet, secundum praedicta, quod semper una earum sit vera et altera falsa in quacumque materia. Et eadem ratio est in enunciationibus singularibus, quae etiam contradictorie opponuntur, ut supra habitum est. Sed in enunciationibus, in quibus aliquid praedicatur de universali non universaliter, non est necesse quod semper una sit vera et altera sit falsa, qui possunt ambae esse simul verae, ut supra ostensum est. Given these differences of enunciations, the judgment of truth and falsity is not alike in all. Accordingly, the Philosopher says, as a conclusion from what has been established: In enunciations about that which is, i.e., in propositions about the present, or has taken place, i.e., in enunciations about the past, the affirmation or the negation must be determinately true or false. However, this differs according to the different quantity of the enunciations. In enunciations in which something is universally predicated of universal subjects, one must always be true, either the affirmative or negative, and the other false, i.e., the one opposed to it. For as was said above, the negation of a universal enunciation in which something is predicated universally, is not the universal negative, but the particular negative, and conversely, the universal negative is not directly the negation of the universal affirmative, but the particular negative. According to the foregoing, then, one of these must always be true and the other false in any matter whatever. And the same is the case in singular enunciations, which are also opposed contradictorily. However, in enunciations in which something is predicated of a universal but not universally, it is not necessary that one always be true and the other false, for both could be at once true. 5 Et hoc quidem ita se habet quantum ad propositiones, quae sunt de praeterito vel de praesenti: sed si accipiamus enunciationes, quae sunt de futuro, etiam similiter se habent quantum ad oppositiones, quae sunt de universalibus vel universaliter vel non universaliter sumptis. Nam in materia necessaria omnes affirmativae determinate sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus; negativae vero falsae. In materia autem impossibili, e contrario. In contingenti vero universales sunt falsae et particulares sunt verae, ita in futuris sicut in praeteritis et praesentibus. In indefinitis autem, utraque simul est vera in futuris sicut in praesentibus vel praeteritis. The case as it was just stated has to do with propositions about the past or the present. Enunciations about the future that are of universals taken either universally or not universally are also related in the same way in regard to oppositions. In necessary matter all affirmative enunciations are determinately true; this holds for enunciations in future time as well as in past and present time; and negative enunciations are determinately false. In impossible matter the contrary is the case. In contingent matter, however, universal enunciations are false and particular enunciations true. This is the case in enunciations about the future as well as those of the past and present. In indefinite enunciations, both are at once true in future enunciations as well as in those of the present or the past. 6 Sed in singularibus et futuris est quaedam dissimilitudo. Nam in praeteritis et praesentibus necesse est quod altera oppositarum determinate sit vera et altera falsa in quacumque materia; sed in singularibus quae sunt de futuro hoc non est necesse, quod una determinate sit vera et altera falsa. Et hoc quidem dicitur quantum ad materiam contingentem: nam quantum ad materiam necessariam et impossibilem similis ratio est in futuris singularibus, sicut in praesentibus et praeteritis. Nec tamen Aristoteles mentionem fecit de materia contingenti, quia illa proprie ad singularia pertinent quae contingenter eveniunt, quae autem per se insunt vel repugnant, attribuuntur singularibus secundum universalium rationes. Circa hoc igitur versatur tota praesens intentio: utrum in enunciationibus singularibus de futuro in materia contingenti necesse sit quod determinate una oppositarum sit vera et altera falsa. In singular future enunciations, however, there is a difference. In past and present singular enunciations, one of the opposites must be determinately true and the other false in any matter whatsoever, but in singulars that are about the future, it is not necessary that one be determinately true and the other false. This holds with respect to contingent matter; with respect to necessary and impossible matter the rule is the same as in enunciations about the present and the past. Aristotle has not mentioned contingent matter until now because those things that take place contingently pertain exclusively to singulars, whereas those that per se belong or are repugnant are attributed to singulars according to the notions of their universals. Aristotle is therefore wholly concerned here with this question: whether in singular enunciations about the future in contingent matter it is necessary that one of the opposites be determinately true and the other determinately false. 7 Deinde cum dicit: nam si omnis affirmatio etc., probat praemissam differentiam. Et circa hoc duo facit: primo, probat propositum ducendo ad inconveniens; secundo, ostendit illa esse impossibilia quae sequuntur; ibi: quare ergo contingunt inconvenientia et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit quod in singularibus et futuris non semper potest determinate attribui veritas alteri oppositorum; secundo, ostendit quod non potest esse quod utraque veritate careat; ibi: at vero nequequoniam et cetera. Circa primum ponit duas rationes, in quarum prima ponit quamdam consequentiam, scilicet quod si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera vel falsa ita in singularibus et futuris sicut in aliis, consequens est quod omnia necesse sit vel determinate esse vel non esse. Deinde cum dicit: quare si hic quidem etc. vel, si itaque hic quidem, ut habetur in Graeco, probat consequentiam praedictam. Ponamus enim quod sint duo homines, quorum unus dicat aliquid esse futurum, puta quod Socrates curret, alius vero dicat hoc idem ipsum non esse futurum; supposita praemissa positione, scilicet quod in singularibus et futuris contingit alteram esse veram, scilicet vel affirmativam vel negativam, sequetur quod necesse sit quod alter eorum verum dicat, non autem uterque: quia non potest esse quod in singularibus propositionibus futuris utraque sit simul vera, scilicet affirmativa et negativa: sed hoc habet locum solum in indefinitis. Ex hoc autem quod necesse est alterum eorum verum dicere, sequitur quod necesse sit determinate vel esse vel non esse. Et hoc probat consequenter: quia ista duo se convertibiliter consequuntur, scilicet quod verum sit id quod dicitur, et quod ita sit in re. Et hoc est quod manifestat consequenter dicens quod si verum est dicere quod album sit, de necessitate sequitur quod ita sit in re; et si verum est negare, ex necessitate sequitur quod ita non sit. Et e converso: quia si ita est in re vel non est, ex necessitate sequitur quod sit verum affirmare vel negare. Et eadem etiam convertibilitas apparet in falso: quia, si aliquis mentitur falsum dicens, ex necessitate sequitur quod non ita sit in re, sicut ipse affirmat vel negat; et e converso, si non est ita in re sicut ipse affirmat vel negat, sequitur quod affirmans vel negans mentiatur. He proves that there is a difference between these opposites and the others where he says, For if every affirmation or negation is true or false, etc. First he proves it by showing that the opposite position leads to what is unlikely; secondly, he shows that what follows from this position is impossible, where he says, These absurd consequences and others like them, etc. In his proof he first shows that in enunciations about future singulars, truth cannot always be determinately attributed to one of the opposites, and then he shows that both cannot lack truth, where he says, But still it is not possible to say that neither is true, etc. He gives two arguments with respect to the first point. In the first of these he states a certain consequence, namely, that if every affirmation or negation is determinately true or false, in future singulars as in the others, it follows that all things must determinately be or not be. He proves this consequence where he says, wherefore, if one person says, etc.,or as it is in the Greek, for if one person says something will be, etc.”’ Let us suppose, he argues, that there are two men, one of whom says something will take place in the future, for instance, that Socrates will run, and the other says this same thing will not take place. If the foregoing position is supposed—that in singular future enunciations one of them will be true, either the affirmative or the negative it would follow that only one of them is saying what is true, because in singular future propositions both cannot be at once true, that is, both the affirmative and the negative. This occurs only in indefinite propositions. Moreover, from the fact that one of them must be speaking the truth, it follows that it must determinately be or not be. Then he proves this from the fact that these two follow upon each other convertibly, namely, truth is that which is said and which is so in reality. And this is what he manifests when he says that, if it is true to say that a thing is white, it necessarily follows that it is so in reality; and if it is true to deny it, it necessarily follows that it is not so. And conversely, for if it is so in reality, or is not, it necessarily follows that it is true to affirm or deny it. The same convertibility is also evident in what is false, for if someone lies, saying what is false, it necessarily follows that in reality it is not as he affirms or denies it to be; and conversely, if it is not in reality as he affirms or denies it to be, it follows that in affirming or denying it he lies. 8. Est ergo processus huius rationis talis. Si necesse est quod omnis affirmatio vel negatio in singularibus et futuris sit vera vel falsa, necesse est quod omnis affirmans vel negans determinate dicat verum vel falsum. Ex hoc autem sequitur quod omne necesse sit esse vel non esse. Ergo, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, necesse est omnia determinate esse vel non esse. Ex hoc concludit ulterius quod omnia sint ex necessitate. Per quod triplex genus contingentium excluditur. The process of Aristotle’s reasoning is as follows. If it is necessary that every affirmation or negation about future singulars is true or false, it is necessary that everyone who affirms or denies, determinately says what is true or false. From this it follows that it is necessary that everything be or not be. Therefore, if every affirmation or negation is determinately true, it is necessary that everything determinately be or not be. From this he concludes further that all things are of necessity. This would exclude the three kinds of contingent things. 9 Quaedam enim contingunt ut in paucioribus, quae accidunt a casu vel fortuna. Quaedam vero se habent ad utrumlibet, quia scilicet non magis se habent ad unam partem, quam ad aliam, et ista procedunt ex electione. Quaedam vero eveniunt ut in pluribus; sicut hominem canescere in senectute, quod causatur ex natura. Si autem omnia ex necessitate evenirent, nihil horum contingentium esset. Et ideo dicit nihil est quantum ad ipsam permanentiam eorum quae permanent contingenter; neque fit quantum ad productionem eorum quae contingenter causantur; nec casu quantum ad ea quae sunt in minori parte, sive in paucioribus; nec utrumlibet quantum ad ea quae se habent aequaliter ad utrumque, scilicet esse vel non esse, et ad neutrum horum sunt determinata: quod significat cum subdit, nec erit, nec non erit. De eo enim quod est magis determinatum ad unam partem possumus determinate verum dicere quod hoc erit vel non erit, sicut medicus de convalescente vere dicit, iste sanabitur, licet forte ex aliquo accidente eius sanitas impediatur. Unde et philosophus dicit in II de generatione quod futurus quis incedere, non incedet. De eo enim qui habet propositum determinatum ad incedendum, vere potest dici quod ipse incedet, licet per aliquod accidens impediatur eius incessus. Sed eius quod est ad utrumlibet proprium est quod, quia non determinatur magis ad unum quam ad alterum, non possit de eo determinate dici, neque quod erit, neque quod non erit. Quomodo autem sequatur quod nihil sit ad utrumlibet ex praemissa hypothesi, manifestat subdens quod, si omnis affirmatio vel negatio determinate sit vera, oportet quod vel ille qui affirmat vel ille qui negat dicat verum; et sic tollitur id quod est ad utrumlibet: quia, si esse aliquid ad utrumlibet, similiter se haberet ad hoc quod fieret vel non fieret, et non magis ad unum quam ad alterum. Est autem considerandum quod philosophus non excludit hic expresse contingens quod est ut in pluribus, duplici ratione. Primo quidem, quia tale contingens non excludit quin altera oppositarum enunciationum determinate sit vera et altera falsa, ut dictum est. Secundo, quia remoto contingenti quod est in paucioribus, quod a casu accidit, removetur per consequens contingens quod est ut in pluribus: nihil enim differt id quod est in pluribus ab eo quod est in paucioribus, nisi quod deficit in minori parte. The three kinds of contingent things are these: some, the ones that happen by chance or fortune, happen infrequently; others are in determinate to either of two alternatives because they are not inclined more to one part than to another, and these proceed from choice; still others occur for the most part, for example, men becoming gray in old age, which is caused by nature. If, however, everything took place of necessity, there would be none of these kinds of contingent things. Therefore, Aristotle says, nothing is with respect to the very permanence of those things that are contingently permanent; or takes place with respect to those that are caused contingently; by chance with respect to those that take place for the least part, or infrequently; or is indeterminate to either of two alternatives with respect to those that are related equally to either of two, i.e., to being or to nonbeing, and are determined to neither of these, which he signifies when he adds, or will be, or will not be. For of that which is more determined to one part we can truly and determinately say that it will be or will not be, as for example, the physician truly says of the convalescent, "He will be restored to health,” although perchance by some accident his cure may be impeded. The Philosopher makes this same point when he says in II De generatione [11: 337b 7], "A man about to walk might not walk.” For it can be truly said of someone who has the determined intention to walk that he will walk, although by some accident his walking might be impeded. But in the case of that which is indeterminate to either of two, it cannot determinately be said of it either that it will be or that it will not be, for it is proper to it not to be determined more to one than to another. Then he manifests how it follows from the foregoing hypothesis that nothing is indeterminate to either of two when he adds that if every affirmation or negation is determinately true, then either the one who affirms or the one who denies must be speaking the truth. That which is indeterminate to either of two is therefore destroyed, for if there is something indeterminate to either of two, it would be related alike to taking place or not taking place, and no more to one than to the other. It should be, noted that the Philosopher is not expressly excluding the contingent that is for the most part. There are two reasons for this. In the first place, this kind of contingency still excludes the determinate truth of one of the opposite enunciations and the falsity of the other, as has been said. Secondly, when the contingent that is infrequent, i.e., that which takes place by chance, is removed, the contingent that is for the most part is removed as a consequence, for there is no difference between that which is for the most part and that which is infrequent except that the former fails for the least part. 10 Deinde cum dicit: amplius si est album etc., ponit secundam rationem ad ostendendum praedictam dissimilitudinem, ducendo ad impossibile. Si enim similiter se habet veritas et falsitas in praesentibus et futuris, sequitur ut quidquid verum est de praesenti, etiam fuerit verum de futuro, eo modo quo est verum de praesenti. Sed determinate nunc est verum dicere de aliquo singulari quod est album; ergo primo, idest antequam illud fieret album, erat verum dicere quoniam hoc erit album. Sed eadem ratio videtur esse in propinquo et in remoto; ergo si ante unum diem verum fuit dicere quod hoc erit album, sequitur quod semper fuit verum dicere de quolibet eorum, quae facta sunt, quod erit. Si autem semper est verum dicere de praesenti quoniam est, vel de futuro quoniam erit, non potest hoc non esse vel non futurum esse. Cuius consequentiae ratio patet, quia ista duo sunt incompossibilia, quod aliquid vere dicatur esse, et quod non sit. Nam hoc includitur in significatione veri, ut sit id quod dicitur. Si ergo ponitur verum esse id quod dicitur de praesenti vel de futuro, non potest esse quin illud sit praesens vel futurum. Sed quod non potest non fieri idem significat cum eo quod est impossibile non fieri. Et quod impossibile est non fieri idem significat cum eo quod est necesse fieri, ut in secundo plenius dicetur. Sequitur ergo ex praemissis quod omnia, quae futura sunt, necesse est fieri. Ex quo sequitur ulterius, quod nihil sit neque ad utrumlibet neque a casu, quia illud quod accidit a casu non est ex necessitate, sed ut in paucioribus; hoc autem relinquit pro inconvenienti; ergo et primum est falsum, scilicet quod omne quod est verum esse, verum fuerit determinate dicere esse futurum. When he says, Furthermore, on such a supposition, if something is now white, it was true to say formerly that it will be white, etc., he gives a second argument to show the dissimilarity of enunciations about future singulars. This argument is by reduction to the impossible. If truth and falsity. are related in like manner in present and in future enunciations, it follows that whatever is true of the present was also true of the future, in the way in which it is true of the present. But it is now determinately true to say of some singular that it is white; therefore formerly, i.e., before it became white, it was true to say that this will be white. Now the same reasoning seems to hold for the proximate and the remote. Therefore, if yesterday it was true to say that this will be white, it follows that it was always true to say of anything that has taken place that it will be. And if it is always true to say of the present that it is, or of the future that it will be, it is not possible that this not be, or, that it will not be. The reason for this consequence is evident, for these two cannot stand together, that something truly be said to be, and that it not be; for this is included in the signification of the true, that that which is said, is. If therefore that which is said concerning the present or the future is posited to be true, it is not possible that this not be in the present or future. But that which cannot not take place signifies the same thing as that which is impossible not to take place. And that which is impossible not to take place signifies the same thing as that which necessarily takes place, as will be explained more fully in the second book. It follows, therefore, that all things that are future must necessarily take place. From this it follows further, that there is nothing that is indeterminate to either of two or that takes place by chance, for what happens by chance does not take place of necessity but happens infrequently. But this is unlikely. Therefore the first proposition is false, i.e., that of everything of which it is true that it is, it was determinately true to say that it would be. 11 Ad cuius evidentiam considerandum est quod cum verum hoc significet ut dicatur aliquid esse quod est, hoc modo est aliquid verum, quo habet esse. Cum autem aliquid est in praesenti habet esse in seipso, et ideo vere potest dici de eo quod est: sed quamdiu aliquid est futurum, nondum est in seipso, est tamen aliqualiter in sua causa: quod quidem contingit tripliciter. Uno modo, ut sic sit in sua causa ut ex necessitate ex ea proveniat; et tunc determinate habet esse in sua causa; unde determinate potest dici de eo quod erit. Alio modo, aliquid est in sua causa, ut quae habet inclinationem ad suum effectum, quae tamen impediri potest; unde et hoc determinatum est in sua causa, sed mutabiliter; et sic de hoc vere dici potest, hoc erit, sed non per omnimodam certitudinem. Tertio, aliquid est in sua causa pure in potentia, quae etiam non magis est determinata ad unum quam ad aliud; unde relinquitur quod nullo modo potest de aliquo eorum determinate dici quod sit futurum, sed quod sit vel non sit. For clarification of this point, we must consider the following. Since "true” signifies that something is said to be what it is, something is true in the manner in which it has being. Now, when something is in the present it exists in itself, and hence it can be truly said of it that it is. But as long as something is future, it does not yet exist in itself, but it is in a certain way in its cause, and this in a threefold way. It may be in its cause in such a way that it comes from it necessarily. In this case it has being determinately in its cause, and therefore it can be determinately said of it that it will be. In another way, something is in its cause as it has an inclination to its effect but can be impeded. This, then, is determined in its cause, but changeably, and hence it can be truly a said of it that it will be but not with complete certainty. Thirdly, something is in its cause purely in potency. This is the case in which the cause is as yet not determined more to one thing than to another, and consequently it cannot in any way be said determinately of these that it is going to be, but that it is or is not going to be. 12 Deinde cum dicit: at vero neque quoniam etc., ostendit quod veritas non omnino deest in singularibus futuris utrique oppositorum; et primo, proponit quod intendit dicens quod sicut non est verum dicere quod in talibus alterum oppositorum sit verum determinate, sic non est verum dicere quod non utrumque sit verum; ut si quod dicamus, neque erit, neque non erit. Secundo, ibi: primum enim cum sit etc., probat propositum duabus rationibus. Quarum prima talis est: affirmatio et negatio dividunt verum et falsum, quod patet ex definitione veri et falsi: nam nihil aliud est verum quam esse quod est, vel non esse quod non est; et nihil aliud est falsum quam esse quod non est, vel non esse quod est; et sic oportet quod si affirmatio sit falsa, quod negatio sit vera; et e converso. Sed secundum praedictam positionem affirmatio est falsa, qua dicitur, hoc erit; nec tamen negatio est vera: et similiter negatio erit falsa, affirmatione non existente vera; ergo praedicta positio est impossibilis, scilicet quod veritas desit utrique oppositorum. Secundam rationem ponit; ibi: ad haec si verum est et cetera. Quae talis est: si verum est dicere aliquid, sequitur quod illud sit; puta si verum est dicere quod aliquid sit magnum et album, sequitur utraque esse. Et ita de futuro sicut de praesenti: sequitur enim esse cras, si verum est dicere quod erit cras. Si ergo vera est praedicta positio dicens quod neque cras erit, neque non erit, oportebit neque fieri, neque non fieri: quod est contra rationem eius quod est ad utrumlibet, quia quod est ad utrumlibet se habet ad alterutrum; ut navale bellum cras erit, vel non erit. Et ita ex hoc sequitur idem inconveniens quod in praemissis. Then Aristotle says, But still it is not possible to say that neither is true, etc. Here he shows that truth is not altogether lacking to both of the opposites in singular future enunciations. First he says that just as it is not true to say that in such enunciations one of the opposites is determinately true, so it is not true to say that neither is true; as if we could say that a thing neither will take place nor will not take place. Then when he says, In the first place, though the affirmation be false, etc., he gives two arguments to prove his point. The first is as follows. Affirmation and negation divide the true and the false. This is evident from the definition of true and false, for to be true is to be what in fact is, or not to be what in fact is not; and to be false is to be what in fact is not, or not to be what in fact is. Consequently, if the affirmation is false, the negation must be true, and conversely. But if the position is taken that neither is true, the affirmation, "This will be” is false, yet the negation is not true; likewise the negation will be false and the affirmation not be true. Therefore, the aforesaid position is impossible, i.e., that truth is lacking to both of the opposites. The second argument begins where he says, Secondly, if it is true to say that a thing is white and large, etc. The argument is as follows. If it is true to say something, it follows that it is. For example, if it is true to say that something is large and white, it follows that it is both. And this is so of the future as of the present, for if it is true to say that it will be tomorrow, it follows that it will be tomorrow. Therefore, if the position that it neither will be or not be tomorrow is true, it will be necessary that it neither happen nor not happen, which is contrary to the nature of that which is indeterminate to either of two, for that which is indeterminate to either of two is related to either; for example, a naval battle will take place tomorrow, or will not. The same unlikely things follow, then, from this as from the first argument. XIV. 1. Ostenderat superius philosophus ducendo ad inconveniens quod non est similiter verum vel falsum determinate in altero oppositorum in singularibus et futuris, sicut supra de aliis enunciationibus dixerat; nunc autem ostendit inconvenientia ad quae adduxerat esse impossibilia. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit impossibilia ea quae sequebantur; secundo, concludit quomodo circa haec se veritas habeat; ibi: igitur esse quod est et cetera. The Philosopher has shown—by leading the opposite position to what is unlikely—that in singular future enunciations truth or falsity is not determinately in one of the opposites, as it is in other enunciations. Now he is going to show that the unlikely things to which it has led are impossibilities. First he shows that the things that followed are impossibilities; then he concludes what the truth is, where he says, Now that which is, when it is, necessarily is, etc. 2 Circa primum tria facit: primo, ponit inconvenientia quae sequuntur; secundo, ostendit haec inconvenientia ex praedicta positione sequi; ibi: nihil enim prohibet etc.; tertio, ostendit esse impossibilia inconvenientia memorata; ibi: quod si haecpossibilia non sunt et cetera. Dicit ergo primo, ex praedictis rationibus concludens, quod haec inconvenientia sequuntur, si ponatur quod necesse sit oppositarum enunciationum alteram determinate esse veram et alteram esse falsam similiter in singularibus sicut in universalibus, quod scilicet nihil in his quae fiunt sit ad utrumlibet, sed omnia sint et fiant ex necessitate. Et ex hoc ulterius inducit alia duo inconvenientia. Quorum primum est quod non oportebit de aliquo consiliari: probatum est enim in III Ethicorum quod consilium non est de his, quae sunt ex necessitate, sed solum de contingentibus, quae possunt esse et non esse. Secundum inconveniens est quod omnes actiones humanae, quae sunt propter aliquem finem (puta negotiatio, quae est propter divitias acquirendas), erunt superfluae: quia si omnia ex necessitate eveniunt, sive operemur sive non operemur erit quod intendimus. Sed hoc est contra intentionem hominum, quia ea intentione videntur consiliari et negotiari ut, si haec faciant, erit talis finis, si autem faciunt aliquid aliud, erit alius finis. With respect to the impossibilities that follow he first states the unlikely things that follow from the opposite position, then shows that these follow from the aforesaid position, where he says, For nothing prevents one person from saying that this will be so in ten thousand years, etc. Finally he shows that these are impossibilities where he says, But these things appear to be impossible, etc. He says, then, concluding from the preceding reasoning, that these unlikely things follow—if the position is taken that of opposed enunciations one of the two must be determinately true and the other false in the same way in singular as in universal enunciations—namely, that in things that come about nothing is indeterminate to either of two, but all things are and take place of necessity. From this he infers two other unlikely things that follow. First, it will not be necessary to deliberate about anything; whereas he proved in III Ethicorum that counsel is not concerned with things that take place necessarily but only with contingent things, i.e., things which can be or not be. Secondly, all human actions that are for the sake of some end (for example, a business transaction to acquire riches) will be superfluous, because what we intend will take place whether we take pains to bring it about or not—if all things come about of necessity. This, however, is in opposition to the intention of men, for they seem to deliberate and to transact business with the intention that if they do this there will be such a result, but if they do something else, there will be another result. 3 Deinde cum dicit: nihil enim prohibet etc., probat quod dicta inconvenientia consequantur ex dicta positione. Et circa hoc duo facit: primo, ostendit praedicta inconvenientia sequi, quodam possibili posito; secundo, ostendit quod eadem inconvenientia sequantur etiam si illud non ponatur; ibi: at nec hoc differt et cetera. Dicit ergo primo, non esse impossibile quod ante mille annos, quando nihil apud homines erat praecogitatum, vel praeordinatum de his quae nunc aguntur, unus dixerit quod hoc erit, puta quod civitas talis subverteretur, alius autem dixerit quod hoc non erit. Sed si omnis affirmatio vel negatio determinate est vera, necesse est quod alter eorum determinate verum dixerit; ergo necesse fuit alterum eorum ex necessitate evenire; et eadem ratio est in omnibus aliis; ergo omnia ex necessitate eveniunt. Where he says, For nothing prevents one person from saying that this will be so in ten thousand years, etc., he proves that the said unlikely things follow from the said position. First he shows that the unlikely things follow from the positing of a certain possibility; then he shows that the same unlikely things follow even if that possibility is not posited, where he says, Moreover, it makes no difference whether people have actually made the contradictory statements or not, etc. He says, then, that it is not impossible that a thousand years before, when men neither knew nor ordained any of the things that are taking place now, a man said, "This will be,” for example, that such a state would be overthrown, and another man said, "This will not be.” But if every affirmation or negation is determinately true, one of them must have spoken the truth. Therefore one of them had to take place of necessity; and this same reasoning holds for all other things. Therefore everything takes place of necessity. Deinde cum dicit: at vero neque hoc differt etc., ostendit quod idem sequitur si illud possibile non ponatur. Nihil enim differt, quantum ad rerum existentiam vel eventum, si uno affirmante hoc esse futurum, alius negaverit vel non negaverit; ita enim se habebit res si hoc factum fuerit, sicut si hoc non factum fuerit. Non enim propter nostrum affirmare vel negare mutatur cursus rerum, ut sit aliquid vel non sit: quia veritas nostrae enunciationis non est causa existentiae rerum, sed potius e converso. Similiter etiam non differt quantum ad eventum eius quod nunc agitur, utrum fuerit affirmatum vel negatum ante millesimum annum vel ante quodcumque tempus. Sic ergo, si in quocumque tempore praeterito, ita se habebat veritas enunciationum, ut necesse esset quod alterum oppositorum vere diceretur; et ad hoc quod necesse est aliquid vere dici sequitur quod necesse sit illud esse vel fieri; consequens est quod unumquodque eorum quae fiunt, sic se habeat ut ex necessitate fiat. Et huiusmodi consequentiae rationem assignat per hoc, quod si ponatur aliquem vere dicere quod hoc erit, non potest non futurum esse. Sicut supposito quod sit homo, non potest non esse animal rationale mortale. Hoc enim significatur, cum dicitur aliquid vere dici, scilicet quod ita sit ut dicitur. Eadem autem habitudo est eorum, quae nunc dicuntur, ad ea quae futura sunt, quae erat eorum, quae prius dicebantur, ad ea quae sunt praesentia vel praeterita; et ita omnia ex necessitate acciderunt, et accidunt, et accident, quia quod nunc factum est, utpote in praesenti vel in praeterito existens, semper verum erat dicere, quoniam erit futurum.Then he shows that the same thing follows if this possibility is not posited where he says, Moreover, it makes no difference whether people have actually made the contradictory statements or not, etc. It makes no difference in relation to the existence or outcome of things whether a person denies that this is going to take place when it is affirmed, or not; for as was previously said, the event will either take place or not whether the affirmation and denial have been made or not. That something is or is not does not result from a change in the course of things to correspond to our affirmation or denial, for the truth of our enunciation is not the cause of the existence of things, but rather the converse. Nor does it make any difference to the outcome of what is now being done whether it was affirmed or denied a thousand years before, or at any other time before. Therefore, if in all past time, the truth of enunciations was such that one of the opposites had to have been truly said and if upon the necessity of something being truly said it follows that this must be or take place, it will follow that everything that takes place is such that it takes place of necessity. The reason he assigns for this consequence is the following. If it is posited that someone truly says this will be, it is not possible that it will not be, just as having supposed that man is, he cannot not be a rational mortal animal. For to be truly said means that it is such as is said. Moreover, the relationship of what is said. now to what will be is the same as the relationship of what was said previously to what is in the present or the past. Therefore, all things have necessarily happened, and they are necessarily happening, and they will necessarily happen, for of what is accomplished now, as existing in the present or in the past, it was always true to say that it would be. 5 Deinde cum dicit: quod si haec possibilia non sunt etc., ostendit praedicta esse impossibilia: et primo, per rationem; secundo, per exempla sensibilia; ibi: et multa nobis manifesta et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit propositum in rebus humanis; secundo, etiam in aliis rebus; ibi: et quoniam est omnino et cetera. Quantum autem ad res humanas ostendit esse impossibilia quae dicta sunt, per hoc quod homo manifeste videtur esse principium eorum futurorum, quae agit quasi dominus existens suorum actuum, et in sua potestate habens agere vel non agere; quod quidem principium si removeatur, tollitur totus ordo conversationis humanae, et omnia principia philosophiae moralis. Hoc enim sublato non erit aliqua utilitas persuasionis, nec comminationis, nec punitionis aut remunerationis, quibus homines alliciuntur ad bona et retrahuntur a malis, et sic evacuatur tota civilis scientia. Hoc ergo philosophus accipit pro principio manifesto quod homo sit principium futurorum; non est autem futurorum principium nisi per hoc quod consiliatur et facit aliquid: ea enim quae agunt absque consilio non habent dominium sui actus, quasi libere iudicantes de his quae sunt agenda, sed quodam naturali instinctu moventur ad agendum, ut patet in animalibus brutis. Unde impossibile est quod supra conclusum est quod non oporteat nos negotiari vel consiliari. Et sic etiam impossibile est illud ex quo sequebatur, scilicet quod omnia ex necessitate eveniant. When he says, But these things appear to be impossible, etc., he shows that what has been said is impossible. He shows this first by reason, secondly by sensible examples, where he says, We can point to many clear instances of this, etc. First he argues that the position taken is impossible in relation to human affairs, for clearly man seems to be the principle of the future things that he does insofar as he is the master of his own actions and has the power to act or not to act. Indeed, to reject this principle would be to do away with the whole order of human association and all the principles of moral philosophy. For men are attracted to good and withdrawn from evil by persuasion and threat, and by punishment and reward; but rejection of this principle would make these useless and thus nullify the whole of civil science. Here the Philosopher accepts it as an evident principle that man is the principle of future things. However, he is not the principle of future things unless he deliberates about a thing and then does it. In those things that men do without deliberation they do not have dominion over their acts, i.e., they do not judge freely about things to be done, but are moved to act by a kind of natural instinct such as is evident in the case of brute animals. Hence, the conclusion that it is not necessary for us to take pains about something or to deliberate is impossible; likewise what it followed from is impossible, i.e., that all things take place of necessity. Aquinas lib. 1 l. 14 n. 6Deinde cum dicit: et quoniam est omnino etc., ostendit idem etiam in aliis rebus. Manifestum est enim etiam in rebus naturalibus esse quaedam, quae non semper actu sunt; ergo in eis contingit esse et non esse: alioquin vel semper essent, vel semper non essent. Id autem quod non est, incipit esse aliquid per hoc quod fit illud; sicut id quod non est album, incipit esse album per hoc quod fit album. Si autem non fiat album permanet non ens album. Ergo in quibus contingit esse et non esse, contingit etiam fieri et non fieri. Non ergo talia ex necessitate sunt vel fiunt, sed est in eis natura possibilitatis, per quam se habent ad fieri et non fieri, esse et non esse. Then he shows that this is also the case in other things where he says, and that universally in the things not always in act, there is a potentiality to be and not to be, etc. In natural things, too, it is evident that there are some things not always in act; it is therefore possible for them to be or not be, otherwise they would either always be or always not be. Now that which is not begins to be something by becoming it; as for example, that which is not white begins to be white by becoming white. But if it does not become white it continues not to be white. Therefore, in things that have the possibility of being and not being, there is also the possibility of becoming and not becoming. Such things neither are nor come to be of necessity but there is in them the kind of possibility which disposes them to becoming and not becoming, to being and not being. 7 Deinde cum dicit: ac multa nobis manifesta etc., ostendit propositum per sensibilia exempla. Sit enim, puta, vestis nova; manifestum est quod eam possibile est incidi, quia nihil obviat incisioni, nec ex parte agentis nec ex parte patientis. Probat autem quod simul cum hoc quod possibile est eam incidi, possibile est etiam eam non incidi, eodem modo quo supra probavit duas indefinitas oppositas esse simul veras, scilicet per assumptionem contrarii. Sicut enim possibile est istam vestem incidi, ita possibile est eam exteri, idest vetustate corrumpi; sed si exteritur non inciditur; ergo utrumque possibile est, scilicet eam incidi et non incidi. Et ex hoc universaliter concludit quod in aliis futuris, quae non sunt in actu semper, sed sunt in potentia, hoc manifestum est quod non omnia ex necessitate sunt vel fiunt, sed eorum quaedam sunt ad utrumlibet, quae non se habent magis ad affirmationem quam ad negationem; alia vero sunt in quibus alterum eorum contingit ut in pluribus, sed tamen contingit etiam ut in paucioribus quod altera pars sit vera, et non alia, quae scilicet contingit ut in pluribus. Next he shows the impossibility of what was said by examples perceptible to the senses, where he says, We can point to many clear instances of this, etc. Take a new garment for example. It is evident that it is possible to cut it, for nothing stands in the way of cutting it either on the part of the agent or the patient. He proves it is at once possible that it be cut and that it not be cut in the same way he has already proved that two opposed indefinite enunciations are at once true, i.e., by the assumption of contraries. just as it is possible that the garment be cut, so it is possible that it wear out, i.e., be corrupted in the course of time. But if it wears out it is not cut. Therefore both are possible, i.e., that it be cut and that it not be cut. From this he concludes universally in regard to other future things which are not always in act, but are in potency, that not all are or take place of necessity; some are indeterminate to either of two, and therefore are not related any more to affirmation than to negation; there are others in which one possibility happens for the most part, although it is possible, but for the least part, that the other part be true, and not the part which happens for the most part. 8 Est autem considerandum quod, sicut Boethius dicit hic in commento, circa possibile et necessarium diversimode aliqui sunt opinati. Quidam enim distinxerunt ea secundum eventum, sicut Diodorus, qui dixit illud esse impossibile quod nunquam erit; necessarium vero quod semper erit; possibile vero quod quandoque erit, quandoque non erit. Stoici vero distinxerunt haec secundum exteriora prohibentia. Dixerunt enim necessarium esse illud quod non potest prohiberi quin sit verum; impossibile vero quod semper prohibetur a veritate; possibile vero quod potest prohiberi vel non prohiberi. Utraque autem distinctio videtur esse incompetens. Nam prima distinctio est a posteriori: non enim ideo aliquid est necessarium, quia semper erit; sed potius ideo semper erit, quia est necessarium: et idem patet in aliis. Secunda autem assignatio est ab exteriori et quasi per accidens: non enim ideo aliquid est necessarium, quia non habet impedimentum, sed quia est necessarium, ideo impedimentum habere non potest. Et ideo alii melius ista distinxerunt secundum naturam rerum, ut scilicet dicatur illud necessarium, quod in sua natura determinatum est solum ad esse; impossibile autem quod est determinatum solum ad non esse; possibile autem quod ad neutrum est omnino determinatum, sive se habeat magis ad unum quam ad alterum, sive se habeat aequaliter ad utrumque, quod dicitur contingens ad utrumlibet. Et hoc est quod Boethius attribuit Philoni. Sed manifeste haec est sententia Aristotelis in hoc loco. Assignat enim rationem possibilitatis et contingentiae, in his quidem quae sunt a nobis ex eo quod sumus consiliativi, in aliis autem ex eo quod materia est in potentia ad utrumque oppositorum. With regard to this question about the possible and the necessary, there have been different opinions, as Boethius says in his Commentary, and these will have to be considered. Some who distinguished them according to result—for example, Diodorus—said that the impossible is that which never will be, the necessary, that which always will be, and the possible, that which sometimes will be, sometimes not. The Stoics distinguished them according to exterior restraints. They said the necessary was that which could not be prevented from being true, the impossible, that which is always prevented from being true, and the possible, that which can be prevented or not be prevented. However, the distinctions in both of those cases seem to be inadequate. The first distinctions are a posteriori, for something is not necessary because it always will be, but rather, it always will be because it is necessary; this holds for the possible as well as the impossible. The second designation is taken from what is external and accidental, for something is not necessary because it does not have an impediment, but it does not have an impediment because it is necessary. Others distinguished these better by basing their distinction on the nature of things. They said that the necessary is that which in its nature is determined only to being, the impossible, that which is determined only to nonbeing, and the possible, that which is not altogether determined to either, whether related more to one than to another or related equally to both. The latter is known as that which is indeterminate to either of two. Boethius attributes these distinctions to Philo. However, this is clearly the opinion of Aristotle here, for he gives as the reason for the possibility and contingency in the things we do the fact that we deliberate, and in other things the fact that matter is in potency to either it of two opposites. 9 Sed videtur haec ratio non esse sufficiens. Sicut enim in corporibus corruptibilibus materia invenitur in potentia se habens ad esse et non esse, ita etiam in corporibus caelestibus invenitur potentia ad diversa ubi, et tamen nihil in eis evenit contingenter, sed solum ex necessitate. Unde dicendum est quod possibilitas materiae ad utrumque, si communiter loquamur, non est sufficiens ratio contingentiae, nisi etiam addatur ex parte potentiae activae quod non sit omnino determinata ad unum; alioquin si ita sit determinata ad unum quod impediri non potest, consequens est quod ex necessitate reducat in actum potentiam passivam eodem modo. But this reasoning does not seem to be adequate either. While it is true that in corruptible bodies matter is in potency to being and nonbeing, and in celestial bodies there is potency to diverse location; nevertheless nothing happens contingently in celestial bodies, but only of necessity. Consequently, we have to say that the potentiality of matter to either of two, if we are speaking generally, does not suffice as a reason for contingency unless we add on the part of the active potency that it is not wholly determined to one; for if it is so determined to one that it cannot be impeded, it follows that it necessarily reduces into act the passive potency in the same mode. 10 Hoc igitur quidam attendentes posuerunt quod potentia, quae est in ipsis rebus naturalibus, sortitur necessitatem ex aliqua causa determinata ad unum quam dixerunt fatum. Quorum Stoici posuerunt fatum in quadam serie, seu connexione causarum, supponentes quod omne quod in hoc mundo accidit habet causam; causa autem posita, necesse est effectum poni. Et si una causa per se non sufficit, multae causae ad hoc concurrentes accipiunt rationem unius causae sufficientis; et ita concludebant quod omnia ex necessitate eveniunt. Considering this, some maintained that the very potency which is in natural things receives necessity from some cause determined to one. This cause they called fate. The Stoics, for example, held that fate was to be found in a series or interconnection of causes on the assumption that everything that happens has a cause; but when a cause has been posited the effect is posited of necessity, and if one per se cause does not suffice, many causes concurring for this take on the nature of one sufficient cause; so, they concluded, everything happens of necessity. 11 Sed hanc rationem solvit Aristoteles in VI metaphysicae interimens utramque propositionum assumptarum. Dicit enim quod non omne quod fit habet causam, sed solum illud quod est per se. Sed illud quod est per accidens non habet causam; quia proprie non est ens, sed magis ordinatur cum non ente, ut etiam Plato dixit. Unde esse musicum habet causam, et similiter esse album; sed hoc quod est, album esse musicum, non habet causam: et idem est in omnibus aliis huiusmodi. Similiter etiam haec est falsa, quod posita causa etiam sufficienti, necesse est effectum poni: non enim omnis causa est talis (etiamsi sufficiens sit) quod eius effectus impediri non possit; sicut ignis est sufficiens causa combustionis lignorum, sed tamen per effusionem aquae impeditur combustio. Aristotle refutes this reasoning in VI Metaphysicae [2: 1026a 33] by destroying each of the assumed propositions. He says there that not everything that takes place has a cause, but only what is per se has a cause. What is accidental does not have a cause, for it is not properly being but is more like nonbeing, as Plato also held. Whence, to be musical has a cause and likewise to be white, but to be musical white does not have a cause; and the same is the case with all others of this kind. It is also false that when a cause has been posited—even a sufficient one—the effect must be posited, for not every cause (even if it is sufficient) is such that its effect cannot be impeded. For example, fire is a sufficient cause of the combustion of wood, but if water is poured on it the combustion is impeded. 12 Si autem utraque propositionum praedictarum esset vera, infallibiliter sequeretur omnia ex necessitate contingere. Quia si quilibet effectus habet causam, esset effectum (qui est futurus post quinque dies, aut post quantumcumque tempus) reducere in aliquam causam priorem: et sic quousque esset devenire ad causam, quae nunc est in praesenti, vel iam fuit in praeterito; si autem causa posita, necesse est effectum poni, per ordinem causarum deveniret necessitas usque ad ultimum effectum. Puta, si comedit salsa, sitiet: si sitiet, exibit domum ad bibendum: si exibit domum, occidetur a latronibus. Quia ergo iam comedit salsa, necesse est eum occidi. Et ideo Aristoteles ad hoc excludendum ostendit utramque praedictarum propositionum esse falsam, ut dictum est. However, if both of the aforesaid propositions were true, it would follow infallibly that everything happens necessarily. For if every effect has a cause, then it would be possible to reduce an effect (which is going to take place in five days or whatever time) to some prior cause, and so on until it reaches a cause which is now in the present or already has been in the past. Moreover, if when the cause is posited it is necessary that the effect be posited, the necessity would reach through an order of causes all the way to the ultimate effect. For instance, if someone eats salty food, he will be thirsty; if he is thirsty, he will go outside to drink; if he goes outside to drink, he will be killed by robbers. Therefore, once he has eaten salty food, it is necessary that he be killed. To exclude this position, Aristotle shows that both of these propositions are false. 13 Obiiciunt autem quidam contra hoc, dicentes quod omne per accidens reducitur ad aliquid per se, et ita oportet effectum qui est per accidens reduci in causam per se. Sed non attendunt quod id quod est per accidens reducitur ad per se, in quantum accidit ei quod est per se, sicut musicum accidit Socrati, et omne accidens alicui subiecto per se existenti. Et similiter omne quod in aliquo effectu est per accidens consideratur circa aliquem effectum per se: qui quantum ad id quod per se est habet causam per se, quantum autem ad id quod inest ei per accidens non habet causam per se, sed causam per accidens. Oportet enim effectum proportionaliter referre ad causam suam, ut in II physicorum et in V methaphysicae dicitur. However, some persons object to this on the grounds that everything accidental is reduced to something per se and therefore an effect that is accidental must be reduced to a per se cause. Those who argue in this way fail to take into account that the accidental is reduced to the per se inasmuch as it is accidental to that which is per se; for example, musical is accidental to Socrates, and every accident to some subject existing per se. Similarly, everything accidental in some effect is considered in relation to some per se effect, which effect, in relation to that which is per se, has a per se cause, but in relation to what is in it accidentally does not have a per se cause but an accidental one. The reason for this is that the effect must be proportionately referred to its cause, as is said in II Physicorum [3: 195b 25-28] and in V Metaphysicae [2: 1013b 28]. 14 Quidam vero non attendentes differentiam effectuum per accidens et per se, tentaverunt reducere omnes effectus hic inferius provenientes in aliquam causam per se, quam ponebant esse virtutem caelestium corporum in qua ponebant fatum, dicentes nihil aliud esse fatum quam vim positionis syderum. Sed ex hac causa non potest provenire necessitas in omnibus quae hic aguntur. Multa enim hic fiunt ex intellectu et voluntate, quae per se et directe non subduntur virtuti caelestium corporum: cum enim intellectus sive ratio et voluntas quae est in ratione, non sint actus organi corporalis, ut probatur in libro de anima, impossibile est quod directe subdantur intellectus seu ratio et voluntas virtuti caelestium corporum: nulla enim vis corporalis potest agere per se, nisi in rem corpoream. Vires autem sensitivae in quantum sunt actus organorum corporalium per accidens subduntur actioni caelestium corporum. Unde philosophus in libro de anima opinionem ponentium voluntatem hominis subiici motui caeli adscribit his, qui non ponebant intellectum differre a sensu. Indirecte tamen vis caelestium corporum redundat ad intellectum et voluntatem, in quantum scilicet intellectus et voluntas utuntur viribus sensitivis. Manifestum autem est quod passiones virium sensitivarum non inferunt necessitatem rationi et voluntati. Nam continens habet pravas concupiscentias, sed non deducitur, ut patet per philosophum in VII Ethicorum. Sic igitur ex virtute caelestium corporum non provenit necessitas in his quae per rationem et voluntatem fiunt. Similiter nec in aliis corporalibus effectibus rerum corruptibilium, in quibus multa per accidens eveniunt. Id autem quod est per accidens non potest reduci ut in causam per se in aliquam virtutem naturalem, quia virtus naturae se habet ad unum; quod autem est per accidens non est unum; unde et supra dictum est quod haec enunciatio non est una, Socrates est albus musicus, quia non significat unum. Et ideo philosophus dicit in libro de somno et vigilia quod multa, quorum signa praeexistunt in corporibus caelestibus, puta in imbribus et tempestatibus, non eveniunt, quia scilicet impediuntur per accidens. Et quamvis illud etiam impedimentum secundum se consideratum reducatur in aliquam causam caelestem; tamen concursus horum, cum sit per accidens, non potest reduci in aliquam causam naturaliter agentem. Some, however, not considering the difference between accidental and per se effects, tried to reduce all the effects that come about in this world to some per se cause. They posited as this cause the power of the heavenly bodies and assumed fate to be dependent on this power—fate being, according to them, nothing else but the power of the position of the constellations. But such a cause cannot bring about necessity in all the things accomplished in this world, since many things come about from intellect and will, which are not subject per se and directly to the power of the heavenly bodies. For the intellect, or reason, and the will which is in reason, are not acts of a corporeal organ (as is proved in the treatise De anima [III, 4: 429a 18]) and consequently cannot be directly subject to the power of the heavenly bodies, since a corporeal force, of itself, can only act on a corporeal thing. The sensitive powers, on the other hand, inasmuch as they are acts of corporeal organs, are accidentally subject to the action of the heavenly bodies. Hence, the Philosopher in his book De anima [III, 3: 427a 21] ascribes the opinion that the will of man is subject to the movement of the heavens to those who hold the position that the intellect does not differ from sense. The power of the heavenly bodies, however, does indirectly redound to the intellect and will inasmuch as the aq intellect and will use the sensitive powers. But clearly the passions of the sensitive powers do not induce necessity of reason and will, for the continent man has wrong desires but is not seduced by them, as is shown in VII Ethicorum [3: 1146a 5]. Therefore, we may conclude that the power of the heavenly bodies does not bring about necessity in the things done through reason and will. This is also the case in other corporeal effects of corruptible things, in which many things happen accidentally. What is accidental cannot be reduced to a per se cause in a natural power because the power of nature is directed to some one thing; but what is accidental is not one; whence it was said above that the enunciation "Socrates is a white musical being” is not one because it does not signify one thing. This is the reason the Philosopher says in the book De somno et vigilia [object] Close that many things of which the signs pre-exist in the heavenly bodies—for example in storm clouds and tempests—do not take place because they are accidentally impeded. And although this impediment considered as such is reduced to some celestial cause, the concurrence of these, since it is accidental, cannot be reduced to a cause acting naturally. 15 Sed considerandum est quod id quod est per accidens potest ab intellectu accipi ut unum, sicut album esse musicum, quod quamvis secundum se non sit unum, tamen intellectus ut unum accipit, in quantum scilicet componendo format enunciationem unam. Et secundum hoc contingit id, quod secundum se per accidens evenit et casualiter, reduci in aliquem intellectum praeordinantem; sicut concursus duorum servorum ad certum locum est per accidens et casualis quantum ad eos, cum unus eorum ignoret de alio; potest tamen esse per se intentus a domino, qui utrumque mittit ad hoc quod in certo loco sibi occurrant. However, what is accidental can be taken as one by the intellect. For example, "the white is musical,” which as such is not one, the intellect takes as one, i.e., insofar as it forms one enunciation by composing. And in accordance with this it is possible to reduce what in itself happens accidentally and fortuitously to a preordaining intellect For example, the meeting of two servants at a certain place may be accidental and fortuitous with respect to them, since neither knew the other would be there, but be per se intended by their master who sent each of them to encounter the other in a certain place. 16 Et secundum hoc aliqui posuerunt omnia quaecumque in hoc mundo aguntur, etiam quae videntur fortuita vel casualia, reduci in ordinem providentiae divinae, ex qua dicebant dependere fatum. Et hoc quidem aliqui stulti negaverunt, iudicantes de intellectu divino ad modum intellectus nostri, qui singularia non cognoscit. Hoc autem est falsum: nam intelligere divinum et velle eius est ipsum esse ipsius. Unde sicut esse eius sua virtute comprehendit omne illud quod quocumque modo est, in quantum scilicet est per participationem ipsius; ita etiam suum intelligere et suum intelligibile comprehendit omnem cognitionem et omne cognoscibile; et suum velle et suum volitum comprehendit omnem appetitum et omne appetibile quod est bonum; ut, scilicet ex hoc ipso quod aliquid est cognoscibile cadat sub eius cognitione, et ex hoc ipso quod est bonum cadat sub eius voluntate: sicut ex hoc ipso quod est ens, aliquid cadit sub eius virtute activa, quam ipse perfecte comprehendit, cum sit per intellectum agens. Accordingly, some have maintained that everything whatever that is effected in this world—even the things that seem fortuitous and casual—is reduced to the order of divine providence on which they said fate depends. Other foolish men have denied this, judging of the Divine Intellect in the mode of our intellect which does not know singulars. But the position of the latter is false, for His divine thinking and willing is His very being. Hence, just as His being by its power comprehends all that is in any way (i.e., inasmuch as it is through participation of Him) so also His thinking and what He thinks comprehend all knowing and everything knowable, and His willing and what He wills comprehend all desiring and every desirable good; in other words, whatever is knowable falls under His knowledge and whatever is good falls under His will, just as whatever is falls under His active power, which He comprehends perfectly, since He acts by His intellect. 17 Sed si providentia divina sit per se causa omnium quae in hoc mundo accidunt, saltem bonorum, videtur quod omnia ex necessitate accidant. Primo quidem ex parte scientiae eius: non enim potest eius scientia falli; et ita ea quae ipse scit, videtur quod necesse sit evenire. Secundo ex parte voluntatis: voluntas enim Dei inefficax esse non potest; videtur ergo quod omnia quae vult, ex necessitate eveniant. It may be objected, however, that if Divine Providence is the per se cause of everything that happens in this world, at least of good things, it would look as though everything takes place of necessity: first on the part of His knowledge, for His knowledge cannot be fallible, and so it would seem that what He knows happens necessarily; secondly, on the part of the will, for the will of God cannot be inefficacious; it would seem, therefore, that everything He wills happens of necessity. 18 Procedunt autem hae obiectiones ex eo quod cognitio divini intellectus et operatio divinae voluntatis pensantur ad modum eorum, quae in nobis sunt, cum tamen multo dissimiliter se habeant. These objections arise from judging of the cognition of the divine intellect and the operation of the divine will in the way in which these are in us, when in fact they are very dissimilar. 19 Nam primo quidem ex parte cognitionis vel scientiae considerandum est quod ad cognoscendum ea quae secundum ordinem temporis eveniunt, aliter se habet vis cognoscitiva, quae sub ordine temporis aliqualiter continetur, aliter illa quae totaliter est extra ordinem temporis. Cuius exemplum conveniens accipi potest ex ordine loci: nam secundum philosophum in IV physicorum, secundum prius et posterius in magnitudine est prius et posterius in motu et per consequens in tempore. Si ergo sint multi homines per viam aliquam transeuntes, quilibet eorum qui sub ordine transeuntium continetur habet cognitionem de praecedentibus et subsequentibus, in quantum sunt praecedentes et subsequentes; quod pertinet ad ordinem loci. Et ideo quilibet eorum videt eos, qui iuxta se sunt et aliquos eorum qui eos praecedunt; eos autem qui post se sunt videre non potest. Si autem esset aliquis extra totum ordinem transeuntium, utpote in aliqua excelsa turri constitutus, unde posset totam viam videre, videret quidem simul omnes in via existentes, non sub ratione praecedentis et subsequentis (in comparatione scilicet ad eius intuitum), sed simul omnes videret, et quomodo unus eorum alium praecedit. Quia igitur cognitio nostra cadit sub ordine temporis, vel per se vel per accidens (unde et anima in componendo et dividendo necesse habet adiungere tempus, ut dicitur in III de anima), consequens est quod sub eius cognitione cadant res sub ratione praesentis, praeteriti et futuri. Et ideo praesentia cognoscit tanquam actu existentia et sensu aliqualiter perceptibilia; praeterita autem cognoscit ut memorata; futura autem non cognoscit in seipsis, quia nondum sunt, sed cognoscere ea potest in causis suis: per certitudinem quidem, si totaliter in causis suis sint determinata, ut ex quibus de necessitate evenient; per coniecturam autem, si non sint sic determinata quin impediri possint, sicut quae sunt ut in pluribus; nullo autem modo, si in suis causis sunt omnino in potentia non magis determinata ad unum quam ad aliud, sicut quae sunt ad utrumlibet. Non enim est aliquid cognoscibile secundum quod est in potentia, sed solum secundum quod est in actu, ut patet per philosophum in IX metaphysicae. On the part of cognition or knowledge it should be noted that in knowing things that take place according to the order of time, the cognitive power that is contained in any way under the order of time is related to them in another way than the cognitive power that is totally outside of the order of time. The order of place provides a suitable example of this. According to the Philosopher in IV Physicorum [11:219a 14], before and after in movement, and consequently in time, corresponds to before and after in magnitude. Therefore, if there arc many men passing along some road, any one of those in the ranks has knowledge of those preceding and following as preceding and following, which pertains to the order of place. Hence any one of them sees those who are next to him and some of those who precede him; but he cannot see those who follow behind him. If, however, there were someone outside of the whole order of those passing along the road, for instance, stationed in some high tower where he could see the whole road, he would at once see all those who were on the road—not under the formality of preceding and subsequent (i.e., in relation to his view) but all at the same time and how one precedes another. Now, our cognition falls under the order of time, either per se or accidentally; whence the soul in composing and dividing necessarily includes time, as is said in III De anima [6: 430a 32]. Consequently, things are subject to our cognition under the aspect of present, past, and future. Hence the soul knows present things as existing in act and perceptible by sense in some way; past things it knows as remembered; future things are not known in themselves because they do not yet exist, but can be known in their causes—with certitude if they are totally determined in their causes so that they will take place of necessity; by conjecture if they are not so determined that they cannot be impeded, as in the case of those things that are for the most part; in no way if in their causes they are wholly in potency, i.e., not more determined to one than to another, as in the case of those that are indeterminate to either of two. The reason for this is that a thing is not knowable according as it is in potency, but only according as it is in act, as the Philosopher shows in IX Metaphysicae [9: 1051a 22]. 20 Sed Deus est omnino extra ordinem temporis, quasi in arce aeternitatis constitutus, quae est tota simul, cui subiacet totus temporis decursus secundum unum et simplicem eius intuitum; et ideo uno intuitu videt omnia quae aguntur secundum temporis decursum, et unumquodque secundum quod est in seipso existens, non quasi sibi futurum quantum ad eius intuitum prout est in solo ordine suarum causarum (quamvis et ipsum ordinem causarum videat), sed omnino aeternaliter sic videt unumquodque eorum quae sunt in quocumque tempore, sicut oculus humanus videt Socratem sedere in seipso, non in causa sua. God, however, is wholly outside the order of time, stationed as it were at the summit of eternity, which is wholly simultaneous, and to Him the whole course of time is subjected in one simple intuition. For this reason, He sees in one glance everything that is effected in the evolution of time, and each thing as it is in itself, and it is not future to Him in relation to His view as it is in the order of its causes alone (although He also sees the very order of the causes), but each of the things that are in whatever time is seen wholly eternally as the human eye sees Socrates sitting, not in its causes but in itself. 21 Ex hoc autem quod homo videt Socratem sedere, non tollitur eius contingentia quae respicit ordinem causae ad effectum; tamen certissime et infallibiliter videt oculus hominis Socratem sedere dum sedet, quia unumquodque prout est in seipso iam determinatum est. Sic igitur relinquitur, quod Deus certissime et infallibiliter cognoscat omnia quae fiunt in tempore; et tamen ea quae in tempore eveniunt non sunt vel fiunt ex necessitate, sed contingenter. Now from the fact that man sees Socrates sitting, the contingency of his sitting which concerns the order of cause to effect, is not destroyed; yet the eye of man most certainly and infallibly sees Socrates sitting while he is sitting, since each thing as it is in itself is already determined. Hence it follows that God knows all things that take place in time most certainly and infallibly, and yet the things that happen in time neither are nor take place of necessity, but contingently. 22 Similiter ex parte voluntatis divinae differentia est attendenda. Nam voluntas divina est intelligenda ut extra ordinem entium existens, velut causa quaedam profundens totum ens et omnes eius differentias. Sunt autem differentiae entis possibile et necessarium; et ideo ex ipsa voluntate divina originantur necessitas et contingentia in rebus et distinctio utriusque secundum rationem proximarum causarum: ad effectus enim, quos voluit necessarios esse, disposuit causas necessarias; ad effectus autem, quos voluit esse contingentes, ordinavit causas contingenter agentes, idest potentes deficere. Et secundum harum conditionem causarum, effectus dicuntur vel necessarii vel contingentes, quamvis omnes dependeant a voluntate divina, sicut a prima causa, quae transcendit ordinem necessitatis et contingentiae. Hoc autem non potest dici de voluntate humana, nec de aliqua alia causa: quia omnis alia causa cadit iam sub ordine necessitatis vel contingentiae; et ideo oportet quod vel ipsa causa possit deficere, vel effectus eius non sit contingens, sed necessarius. Voluntas autem divina indeficiens est; tamen non omnes effectus eius sunt necessarii, sed quidam contingentes. There is likewise a difference to be noted on the part of the divine Will, for the divine will must be understood as existing outside of the order of beings, as a cause producing the whole of being and all its differences. Now the possible and the necessary are differences of being, an(] therefore necessity and contingency in things and the distinction of each according to the nature of their proximate causes originate from the divine will itself, for He disposes necessary causes for the effects that He wills to be necessary, and He ordains causes acting contingently (i.e., able to fail) for the effects that He wills to be contingent. And according to the condition of these causes, effects are called either necessary or contingent, although all depend on the divine will as on a first cause, which transcends the order of necessity and contingency. This, however, cannot be said of the human will, nor of any other cause, for every other cause already falls under the order of necessity or contingency; hence, either the cause itself must be able to fail or, if not, its effect is not contingent, but necessary. The divine will, on the other hand, is unfailing; yet not all its effects are necessary, but some are contingent. 23 Similiter autem aliam radicem contingentiae, quam hic philosophus ponit ex hoc quod sumus consiliativi, aliqui subvertere nituntur, volentes ostendere quod voluntas in eligendo ex necessitate movetur ab appetibili. Cum enim bonum sit obiectum voluntatis, non potest (ut videtur) ab hoc divertere quin appetat illud quod sibi videtur bonum; sicut nec ratio ab hoc potest divertere quin assentiat ei quod sibi videtur verum. Et ita videtur quod electio consilium consequens semper ex necessitate proveniat; et sic omnia, quorum nos principium sumus per consilium et electionem, ex necessitate provenient. Some men, in their desire to show that the will in choosing is necessarily moved by the desirable, argued in such a way as to destroy the other root of contingency the Philosopher posits here, based on our deliberation. Since the good is the object of the will, they argue, it cannot (as is evident) be diverted so as not to seek that which seems good to it; as also it is not possible to divert reason so that it does not assent to that which seems true to it. So it seems that choice, which follows upon deliberation, always takes place of necessity; thus all things of which we are the principle through deliberation and choice, will take place of necessity. 24 Sed dicendum est quod similis differentia attendenda est circa bonum, sicut circa verum. Est autem quoddam verum, quod est per se notum, sicut prima principia indemonstrabilia, quibus ex necessitate intellectus assentit; sunt autem quaedam vera non per se nota, sed per alia. Horum autem duplex est conditio: quaedam enim ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod non possunt esse falsa, principiis existentibus veris, sicut sunt omnes conclusiones demonstrationum. Et huiusmodi veris ex necessitate assentit intellectus, postquam perceperit ordinem eorum ad principia, non autem prius. Quaedam autem sunt, quae non ex necessitate consequuntur ex principiis, ita scilicet quod possent esse falsa principiis existentibus veris; sicut sunt opinabilia, quibus non ex necessitate assentit intellectus, quamvis ex aliquo motivo magis inclinetur in unam partem quam in aliam. Ita etiam est quoddam bonum quod est propter se appetibile, sicut felicitas, quae habet rationem ultimi finis; et huiusmodi bono ex necessitate inhaeret voluntas: naturali enim quadam necessitate omnes appetunt esse felices. Quaedam vero sunt bona, quae sunt appetibilia propter finem, quae comparantur ad finem sicut conclusiones ad principium, ut patet per philosophum in II physicorum. Si igitur essent aliqua bona, quibus non existentibus, non posset aliquis esse felix, haec etiam essent ex necessitate appetibilia et maxime apud eum, qui talem ordinem perciperet; et forte talia sunt esse, vivere et intelligere et si qua alia sunt similia. Sed particularia bona, in quibus humani actus consistunt, non sunt talia, nec sub ea ratione apprehenduntur ut sine quibus felicitas esse non possit, puta, comedere hunc cibum vel illum, aut abstinere ab eo: habent tamen in se unde moveant appetitum, secundum aliquod bonum consideratum in eis. Et ideo voluntas non ex necessitate inducitur ad haec eligenda. Et propter hoc philosophus signanter radicem contingentiae in his quae fiunt a nobis assignavit ex parte consilii, quod est eorum quae sunt ad finem et tamen non sunt determinata. In his enim in quibus media sunt determinata, non est opus consilio, ut dicitur in III Ethicorum. Et haec quidem dicta sunt ad salvandum radices contingentiae, quas hic Aristoteles ponit, quamvis videantur logici negotii modum excedere. In regard to this point there is a similar diversity with respect to the good and with respect to the true that must be noted. There are some truths that are known per se, such as the first indemonstrable principles; these the intellect assents to of necessity. There are others, however, which are not known per se, but through other truths. The condition of these is twofold. Some follow necessarily from the principles, i.e., so that they cannot be false when the principles are true. This is the case with all the conclusions of demonstrations, and the intellect assents necessarily to truths of this kind after it has perceived their order to the principles, but not before. There are others that do not follow necessarily from the principles, and these can be false even though the principles be true. This is the case with things about which there can be opinion. To these the intellect does not assent necessarily, although it may be inclined by some motive more to one side than another. Similarly, there is a good that is desirable for its own sake, such as happiness, which has the nature of an ultimate end. The will necessarily adheres to a good of this kind, for all men seek to be happy by a certain kind of natural necessity. There are other good things that are desirable for the sake of the end. These are related to the end as conclusions are to principles. The Philosopher makes this point clear in II Physicorum [7: 198a 35]. If, then, there were some good things without the existence of which one could not be happy, these would be desirable of necessity, and especially by the person who perceives such an order. Perhaps to be, to live, and to think, and other similar things, if there are any, are of this kind. However, particular good things with which human acts are concerned are not of this kind nor are they apprehended as bein,r such that without tbeni happiness is impossible, for instance, to eat this food or that, or abstain from it. Such things, nevertheless, do have in them that whereby they move the appetite according to some good considered in them. The will, therefore, is not induced to choose these of necessity. And on this account the Philosopher expressly designates the root of the contingency of things effected by us on the part of deliberation—which is concerned with those things that are for the end and yet are not determined. In those things in which the means are determined there is no need for deliberation, as is said in III Ethicorum [3: 1112a 30–1113a 14]. These things have been stated to save the roots of contingency that Aristotle posits here, although they may seem to exceed the mode of logical matter. XV. 1 Postquam philosophus ostendit esse impossibilia ea, quae ex praedictis rationibus sequebantur; hic, remotis impossibilibus, concludit veritatem. Et circa hoc duo facit: quia enim argumentando ad impossibile, processerat ab enunciationibus ad res, et iam removerat inconvenientia quae circa res sequebantur; nunc, ordine converso, primo ostendit qualiter se habeat veritas circa res; secundo, qualiter se habeat veritas circa enunciationes; ibi: quare quoniam orationes verae sunt et cetera. Circa primum duo facit: primo, ostendit qualiter se habeant veritas et necessitas circa res absolute consideratas; secundo, qualiter se habeant circa eas per comparationem ad sua opposita; ibi: et in contradictione eadem ratio est et cetera. Now that the Philosopher has shown the impossibilities that follow from the foresaid arguments, he concludes what the truth is on this point. In arguing to the impossibility of the position, he proceeded from enunciations to things, and has already rejected the unlikely consequences in respect to things. Now, in the converse order, he first shows the way in which there is truth about things; secondly, the way in which there is truth in enunciations, where he says, And so, since speech is true as it corresponds to things, etc. With respect to truth about things be first shows the way in which there is truth and necessity about things absolutely considered; secondly, the way in which there is truth and necessity about things through a comparing of their opposites, where he says, And this is also the case with respect to contradiction, etc. 2 Dicit ergo primo, quasi ex praemissis concludens, quod si praedicta sunt inconvenientia, ut scilicet omnia ex necessitate eveniant, oportet dicere ita se habere circa res, scilicet quod omne quod est necesse est esse quando est, et omne quod non est necesse est non esse quando non est. Et haec necessitas fundatur super hoc principium: impossibile est simul esse et non esse: si enim aliquid est, impossibile est illud simul non esse; ergo necesse est tunc illud esse. Nam impossibile non esse idem significat ei quod est necesse esse, ut in secundo dicetur. Et similiter, si aliquid non est, impossibile est illud simul esse; ergo necesse est non esse, quia etiam idem significant. Et ideo manifeste verum est quod omne quod est necesse est esse quando est; et omne quod non est necesse est non esse pro illo tempore quando non est: et haec est necessitas non absoluta, sed ex suppositione. Unde non potest simpliciter et absolute dici quod omne quod est, necesse est esse, et omne quod non est, necesse est non esse: quia non idem significant quod omne ens, quando est, sit ex necessitate, et quod omne ens simpliciter sit ex necessitate; nam primum significat necessitatem ex suppositione, secundum autem necessitatem absolutam. Et quod dictum est de esse, intelligendum est similiter de non esse; quia aliud est simpliciter ex necessitate non esse et aliud est ex necessitate non esse quando non est. Et per hoc videtur Aristoteles excludere id quod supra dictum est, quod si in his, quae sunt, alterum determinate est verum, quod etiam antequam fieret alterum determinate esset futurum. 2. He begins, then, as though concluding from premises: if the foresaid things are unlikely (namely, that all things take place of necessity), then the case with respect to things must be this: everything that is must be when it is, and everything that is not, necessarily not be when it is not. This necessity is founded on the principle that it is impossible at once to be and not be; for if something is, it is impossible that it at the same time not be; therefore it is necessary that it be at that time. For "impossible not to be” signifies the same thing as "necessary to be,” as Aristotle says in the second book. Similarly, if something is not, it is impossible that it at the same time be. Therefore it is necessary that it not be, for they also signify the same thing. Clearly it is true, then, that everything that is must be when it is, and everything that is not must not be when it is not. This is not absolute necessity, but necessity by supposition. Consequently, it cannot be said absolutely and simply that everything that is must be, and that everything that is not must not be. For "every being, when it is, necessarily is” does not signify the same thing as "every being necessarily is, simply. The first signifies necessity by supposition, the second, absolute necessity. What has been said about to be must be understood to apply also to not to be, for "necessarily not to be simply” and "necessarily not to be when it is not” are also different. By this Aristotle seems to exclude what was said above, namely, that if in those things that are, one of the two is determinately true, then even before it takes place one of the two would determinately be going to be. 3 Deinde cum dicit: et in contradictione etc., ostendit quomodo se habeant veritas et necessitas circa res per comparationem ad sua opposita: et dicit quod eadem ratio est in contradictione, quae est in suppositione. Sicut enim illud quod non est absolute necessarium, fit necessarium ex suppositione eiusdem, quia necesse est esse quando est; ita etiam quod non est in se necessarium absolute fit necessarium per disiunctionem oppositi, quia necesse est de unoquoque quod sit vel non sit, et quod futurum sit aut non sit, et hoc sub disiunctione: et haec necessitas fundatur super hoc principium quod, impossibile est contradictoria simul esse vera vel falsa. Unde impossibile est neque esse neque non esse; ergo necesse est vel esse vel non esse. Non tamen si divisim alterum accipiatur, necesse est illud esse absolute. Et hoc manifestat per exemplum: quia necessarium est navale bellum esse futurum cras vel non esse; sed non est necesse navale bellum futurum esse cras; similiter etiam non est necessarium non esse futurum, quia hoc pertinet ad necessitatem absolutam; sed necesse est quod vel sit futurum cras vel non sit futurum: hoc enim pertinet ad necessitatem quae est sub disiunctione. 3. He shows how truth and necessity is had about things through the comparing of their opposites where he says, This is also the case with respect to contradiction, etc. The reasoning is the same, he says, in respect to contradiction and in respect to supposition. For just as that which is not absolutely necessary becomes necessary by supposition of the same (for it must be when it is), so also what in itself is not necessary absolutely, becomes necessary through the disjunction of the opposite, for of each thing it is necessary that it is or is not, and that it will or will not be in the future, and this under disjunction. This necessity is founded upon the principle that it is impossible for contradictories to be at once true and false. Accordingly, it is impossible that a thing neither be nor not be; therefore it is necessary that it either be or not be. However if one of these is taken separately [i.e., divisively], it is not necessary that that one be absolutely. This he manifests by example: it is necessary that there will be or will not be a naval battle tomorrow; but it is not necessary that a naval battle will take place tomorrow, nor is it necessary that it will not take place, for this pertains to absolute necessity. It is necessary, however, that it will take place or will not take place tomorrow. This pertains to the necessity which is under disjunction. 4 Deinde cum dicit: quare quoniam etc. ex eo quod se habet circa res, ostendit qualiter se habeat circa orationes. Et primo, ostendit quomodo uniformiter se habet in veritate orationum, sicut circa esse rerum et non esse; secundo, finaliter concludit veritatem totius dubitationis; ibi: quare manifestum et cetera. Dicit ergo primo quod, quia hoc modo se habent orationes enunciativae ad veritatem sicut et res ad esse vel non esse (quia ex eo quod res est vel non est, oratio est vera vel falsa), consequens est quod in omnibus rebus quae ita se habent ut sint ad utrumlibet, et quaecumque ita se habent quod contradictoria eorum qualitercumque contingere possunt, sive aequaliter sive alterum ut in pluribus, ex necessitate sequitur quod etiam similiter se habeat contradictio enunciationum. Et exponit consequenter quae sint illae res, quarum contradictoria contingere queant; et dicit huiusmodi esse quae neque semper sunt, sicut necessaria, neque semper non sunt, sicut impossibilia, sed quandoque sunt et quandoque non sunt. Et ulterius manifestat quomodo similiter se habeat in contradictoriis enunciationibus; et dicit quod harum enunciationum, quae sunt de contingentibus, necesse est quod sub disiunctione altera pars contradictionis sit vera vel falsa; non tamen haec vel illa determinate, sed se habet ad utrumlibet. Et si contingat quod altera pars contradictionis magis sit vera, sicut accidit in contingentibus quae sunt ut in pluribus, non tamen ex hoc necesse est quod ex necessitate altera earum determinate sit vera vel falsa. Then when he says, And so, since speech is true as it corresponds to things, etc., he shows how truth in speech corresponds to the way things are. First he shows in what way truth of speech conforms to the being and nonbeing of things; secondly, and finally, he arrives at the truth of the whole question, where he says, Therefore it is clear that it is not necessary that of every affirmation and negation of opposites, one is true and one false, etc. He says, then, that enunciative speech is related to truth in the way the thing is to being or nonbeing (for from the fact that a thing is or is not, speech is true or false). It follows, therefore, that when things are such as to be indeterminate to either of two, and when they are such that their contradictories could happen in whichever way, whether equally or one for the most part, the contradiction of enunciations must also be such. He explains next what the things are in which contradictories can happen. They are those that neither always are (i.e., the necessary), nor always are not (i.e., the impossible), but sometimes are and some times are not. He shows further how this is maintained in contradictory enunciations. In those enunciations that are about contingent things, one part of the contradiction must be true or false tinder disjunction; but it is related to either, not to this or that determinately. If it should turn out that one part of the contradiction is more true, as happens in contingents that are for the most part, it is nevertheless not necessary on this account that one of them is determinately true or false. 5 Deinde cum dicit: quare manifestum est etc., concludit principale intentum et dicit manifestum esse ex praedictis quod non est necesse in omni genere affirmationum et negationum oppositarum, alteram determinate esse veram et alteram esse falsam: quia non eodem modo se habet veritas et falsitas in his quae sunt iam de praesenti et in his quae non sunt, sed possunt esse vel non esse. Sed hoc modo se habet in utriusque, sicut dictum est, quia scilicet in his quae sunt necesse est determinate alterum esse verum et alterum falsum: quod non contingit in futuris quae possunt esse et non esse. Et sic terminatur primus liber. 5. Then he says, Therefore, it is clear that it is not necessary that of every affirmation and negation of opposites, one is true and one, false, etc. This is the conclusion he principally intended. It is evident from what has been said that it is not necessary in every genus of affirmation and negation of opposites that one is determinately true and the other false, for truth and falsity is not had in the same way in regard to things that are already in the present and those that are not but which could be or not be. The position in regard to each has been explained. In those that are, it is necessary that one of them be determinately true and the other false; in things that are future, which could be or not be, the case is not the same. The first book ends with this. lib. 2 l. 1 n. 1Postquam philosophus in primo libro determinavit de enunciatione simpliciter considerata; hic determinat de enunciatione, secundum quod diversificatur per aliquid sibi additum. Possunt autem tria in enunciatione considerari: primo, ipsae dictiones, quae praedicantur vel subiiciuntur in enunciatione, quas supra distinxit per nomina et verba; secundo, ipsa compositio, secundum quam est verum vel falsum in enunciatione affirmativa vel negativa; tertio, ipsa oppositio unius enunciationis ad aliam. Dividitur ergo haec pars in tres partes: in prima, ostendit quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad dictiones in subiecto vel praedicato positas; secundo, quid accidat enunciationi ex hoc quod aliquid additur ad determinandum veritatem vel falsitatem compositionis; ibi: his vero determinatis etc.; tertio, solvit quamdam dubitationem circa oppositiones enunciationum provenientem ex eo, quod additur aliquid simplici enunciationi; ibi: utrum autem contraria est affirmatio et cetera. Est autem considerandum quod additio facta ad praedicatum vel subiectum quandoque tollit unitatem enunciationis, quandoque vero non tollit, sicut additio negationis infinitantis dictionem. Circa primum ergo duo facit: primo, ostendit quid accidat enunciationibus ex additione negationis infinitantis dictionem; secundo, ostendit quid accidat circa enunciationem ex additione tollente unitatem; ibi: at vero unum de pluribus et cetera. Circa primum duo facit: primo, determinat de enunciationibus simplicissimis, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur tantum ex parte subiecti; secundo, determinat de enunciationibus, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur non solum ex parte subiecti, sed etiam ex parte praedicati; ibi: quando autem est tertium adiacens et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit rationes quasdam distinguendi tales enunciationes; secundo, ponit earum distinctionem et ordinem; ibi: quare prima est affirmatio et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit rationes distinguendi enunciationes ex parte nominum; secundo, ostendit quod non potest esse eadem ratio distinguendi ex parte verborum; ibi: praeter verbum autem et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit rationes distinguendi enunciationes; secundo, exponit quod dixerat; ibi: nomen autem dictum est etc.; tertio, concludit intentum; ibi: erit omnis affirmatio et cetera. 1. In the first book, the Philosopher has dealt with the enunciation considered simply. Now he is going to treat of the enunciation as it is diversified by the addition of something to it. There are three things that can be considered in the enunciation: first, the words that are predicated or subjected, which he has already distinguished into names and verbs; secondly, the composition, according to which there is truth or falsity in the affirmative or negative enunciation; finally, the opposition of one enunciation to another. This book is divided into three parts which are related to these three things in the enunciation. In the first, he shows what happens to the enunciation when something is added to the words posited as the subject or predicate; in the second, what happens when something is added to determine the truth or falsity of the composition. He begins this where he says, Having determined these things, we must consider in what way negations and affirmations of the possible and not possible, etc. In the third part he solves a question that arises about the oppositions of enunciations in which something is added to the simple enunciation. This he takes up where he says, There is a question as to whether the contrary of an affirmation is a negation, or whether the contrary of an affirmation is another affirmation, etc. With respect to additions made to the words used in the enunciation, it should be noted that an addition made to the predicate or the subject sometimes destroys the unity of the enunciation, and sometimes not, the latter being the case in which the addition is a negative making a word infinite. Consequently, he first shows what happens to the enunciation when the added negation makes a word infinite. Secondly, he shows what happens when an addition destroys the unity of the enunciation where he says, Neither the affirmation nor the negation which affirms or denies one predicate of many subjects or many predicates of one subject is one, unless something one is constituted from the many, etc. In relation to the first point he first investigates the simplest of enunciations, in which a finite or infinite name is posited only on the part of the subject. Then he considers the enunciation in which a finite or infinite name is posited not only on the part of the subject, but also on the part of the predicate, where he says, But when "is” is predicated as a third element in the enunciation, etc. Apropos of these simple enunciations, he proposes certain grounds for distinguishing such enunciations and then gives their distinction and order where he says, Therefore the primary affirmation and negation is "Man is,” "Man is not,” etc. And first he gives the grounds for distinguishing enunciations on the part of the name; secondly, he shows that there are not the same grounds for a distinction on the part of the verb, where he says, There can be no affirmation or negation without a verb, etc. First, then, he proposes the grounds for distinguishing these enunciations; secondly, he explains this where he says, we have already stated what a name is, etc.; finally, he arrives at the conclusion he intended where he says, every affirmation will be made up of a name and a verb, or an infinite name and a verb. 2 Resumit ergo illud, quod supra dictum est de definitione affirmationis, quod scilicet affirmatio est enunciatio significans aliquid de aliquo; et, quia verbum est proprie nota eorum quae de altero praedicantur, consequens est ut illud, de quo aliquid dicitur, pertineat ad nomen; nomen autem est vel finitum vel infinitum; et ideo, quasi concludens subdit quod quia affirmatio significat aliquid de aliquo, consequens est ut hoc, de quo significatur, scilicet subiectum affirmationis, sit vel nomen, scilicet finitum (quod proprie dicitur nomen, ut in primo dictum est), vel innominatum, idest infinitum nomen: quod dicitur innominatum, quia ipsum non nominat aliquid cum aliqua forma determinata, sed solum removet determinationem formae. Et ne aliquis diceret quod id quod in affirmatione subiicitur est simul nomen et innominatum, ad hoc excludendum subdit quod id quod est, scilicet praedicatum, in affirmatione, scilicet una, de qua nunc loquimur, oportet esse unum et de uno subiecto; et sic oportet quod subiectum talis affirmationis sit vel nomen, vel nomen infinitum. First of all, he goes back to what was said above in defining affirmation, namely, that affirmation is an enunciation signifying something about something; and, since it is peculiar to the verb to be a sign of what is predicated of another, it follows that that about which something is said pertains to the name; but the name is either finite or infinite; therefore, as if drawing a conclusion, he says that since affirmation signifies something about something it follows that that about which something is signified, i.e., the subject of an affirmation, is either a finite name (which is properly called a name), or unnamed, i.e., an infinite name. It is called "unnamed” because it does not name something with a determinate form but removes the determination of form. And lest anyone think that what is subjected in an affirmation is at once a name and unnamed, he adds, and one thing must be signified about one thing in an affirmation, i.e., in the enunciation, of which we are speaking now; and hence the subject of such an affirmation must be either the name or the infinite name. 3 Deinde cum dicit: nomen autem etc., exponit quod dixerat, et dicit quod supra dictum est quid sit nomen, et quid sit innominatum, idest infinitum nomen: quia, non homo, non est nomen, sed est infinitum nomen, sicut, non currit, non est verbum, sed infinitum verbum. Interponit autem quoddam, quod valet ad dubitationis remotionem, videlicet quod nomen infinitum quodam modo significat unum. Non enim significat simpliciter unum, sicut nomen finitum, quod significat unam formam generis vel speciei aut etiam individui, sed in quantum significat negationem formae alicuius, in qua negatione multa conveniunt, sicut in quodam uno secundum rationem. Unum enim eodem modo dicitur aliquid, sicut et ens; unde sicut ipsum non ens dicitur ens, non quidem simpliciter, sed secundum quid, idest secundum rationem, ut patet in IV metaphysicae, ita etiam negatio est unum secundum quid, scilicet secundum rationem. Introducit autem hoc, ne aliquis dicat quod affirmatio, in qua subiicitur nomen infinitum, non significet unum de uno, quasi nomen infinitum non significet unum. When he says, we have already stated what a name is, etc., he relates what he has previously said. We have already stated, he says, what a name is and what that which is unnamed is, i.e., the infinite name. "Non-man” is not a name but an infinite name, and "non-runs” is not a verb but an infinite verb. Then he interposes a point that is useful for the preclusion of a difficulty, i.e., that an infinite name in a certain way does signify one thing. It does not signify one thing simply as the finite name does, which signifies one form of a genus or species, or even of an individual; rather it signifies one thing insofar as it signifies the negation of a form, in which negation many things are united, as in something one according to reason. For something is said to be one in the same way it is said to be a being. Hence, just as nonbeing is said to be being, not simply, but according to something, i.e., according to reason, as is evident in IV Metaphysicae, so also a negation is one according to something, i.e., according to reason. Aristotle introduces this point so that no one will say that an affirmation in which an infinite name is the subject does not signify one thing about one subject on the grounds that an infinite name does not signify something one. 4 Deinde cum dicit: erit omnis affirmatio etc., concludit propositum scilicet quod duplex est modus affirmationis. Quaedam enim est affirmatio, quae constat ex nomine et verbo; quaedam autem est quae constat ex infinito nomine et verbo. Et hoc sequitur ex hoc quod supra dictum est quod hoc, de quo affirmatio aliquid significat, vel est nomen vel innominatum. Et eadem differentia potest accipi ex parte negationis, quia de quocunque contingit affirmare, contingit et negare, ut in primo habitum est. When he says, every affirmation will be made up of a name and a verb or an infinite name and a verb, he concludes that the mode of affirmation is twofold. One consists of a name and a verb, the other of an infinite name and a verb. This follows from what has been said, namely, that that about which an affirmation signifies something is either a name or unnamed. The same difference can be taken on the part of negation, for of whatever something can be affirmed it can be denied, as was said in the first book. 5 Deinde cum dicit: praeter verbum etc., ostendit quod differentia enunciationum non potest sumi ex parte verbi. Dictum est enim supra quod, praeter verbum nulla est affirmatio vel negatio. Potest enim praeter nomen esse aliqua affirmatio vel negatio, videlicet si ponatur loco nominis infinitum nomen: loco autem verbi in enunciatione non potest poni infinitum verbum, duplici ratione. Primo quidem, quia infinitum verbum constituitur per additionem infinitae particulae, quae quidem addita verbo per se dicto, idest extra enunciationem posito, removet ipsum absolute, sicut addita nomini, removet formam nominis absolute: et ideo extra enunciationem potest accipi verbum infinitum per modum unius dictionis, sicut et nomen infinitum. Sed quando negatio additur verbo in enunciatione posito, negatio illa removet verbum ab aliquo, et sic facit enunciationem negativam: quod non accidit ex parte nominis. Non enim enunciatio efficitur negativa nisi per hoc quod negatur compositio, quae importatur in verbo: et ideo verbum infinitum in enunciatione positum fit verbum negativum. Secundo, quia in nullo variatur veritas enunciationis, sive utamur negativa particula ut infinitante verbum vel ut faciente negativam enunciationem; et ideo accipitur semper in simpliciori intellectu, prout est magis in promptu. Et inde est quod non diversificavit affirmationem per hoc, quod sit ex verbo vel infinito verbo, sicut diversificavit per hoc, quod est ex nomine vel infinito nomine. Est autem considerandum quod in nominibus et in verbis praeter differentiam finiti et infiniti est differentia recti et obliqui. Casus enim nominum, etiam verbo addito, non constituunt enunciationem significantem verum vel falsum, ut in primo habitum est: quia in obliquo nomine non concluditur ipse rectus, sed in casibus verbi includitur ipsum verbum praesentis temporis. Praeteritum enim et futurum, quae significant casus verbi, dicuntur per respectum ad praesens. Unde si dicatur, hoc erit, idem est ac si diceretur, hoc est futurum; hoc fuit, hoc est praeteritum. Et propter hoc, ex casu verbi et nomine fit enunciatio. Et ideo subiungit quod sive dicatur est, sive erit, sive fuit, vel quaecumque alia huiusmodi verba, sunt de numero praedictorum verborum, sine quibus non potest fieri enunciatio: quia omnia consignificant tempus, et alia tempora dicuntur per respectum ad praesens. When he says, There can be no affirmation or negation without a verb, etc., he intends to show that enunciations cannot be differentiated on the part of the verb. He made the point earlier that there is no affirmation or negation without a verb. However there can be an affirmation or negation without a name, i.e., when an infinite name is posited in place of a name.” An infinite verb, on the other hand, cannot be posited in an enunciation in place of a verb, and this for two reasons. First of all, the infinite verb is constituted by the addition of an infinite particle which, when added to a verb said by itself (i.e., posited outside of the enunciation), removes it absolutely, just as it removes the form of the name absolutely when added to it. Therefore, outside of the enunciation, the infinite verb, as well as the infinite name, can be taken in the mode of one word. But when a negation is added to the verb in an enunciation it removes the verb from something and thus makes the enunciation negative, which is not the case with respect to the name. For an enunciation is made negative by denying the composition which the verb introduces; hence, an infinite verb posited in the enunciation becomes a negative verb. Secondly, whichever way we use the negative particle, whether as making the verb infinite or as making a negative enunciation, the truth of the enunciation is not changed. The negative particle, therefore, is always taken in the more absolute sense, as being clearer. This, then, is why Aristotle does not diversify the affirmation as made up of a verb or infinite verb, but as made up of a name or an infinite name. It should also be noted that besides the difference of finite and infinite there is the difference of nominative and oblique cases. The cases of names even with a verb added do not constitute an enunciation signifying truth or falsity, as was said in the first book, for the nominative is not included in an oblique name. The verb of present time, however, is included in the cases of the verb, for the past and future, which the cases of the verb signify, are said with respect to the present. Whence, ‘if we say, "This will be,” it is the same as if we were to say, "This is future”; and "This has been” the same as "This is past.” A name, then, and a case of the verb do constitute an enunciation. Therefore Aristotle adds that "is,” or "will be,” or "was,” or any other verb of this kind that we use are of the number of the foresaid verbs without which an enunciation cannot be made, since they all signify with time and past and future time are said with respect to the present. 6 Deinde cum dicit: quare prima erit affirmatio etc., concludit ex praemissis distinctionem enunciationum in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, in quibus triplex differentia intelligi potest: una quidem, secundum affirmationem et negationem; alia, secundum subiectum finitum et infinitum; tertia, secundum subiectum universaliter, vel non universaliter positum. Nomen autem finitum est ratione prius infinito sicut affirmatio prior est negatione; unde primam affirmationem ponit, homo est, et primam negationem, homo non est. Deinde ponit secundam affirmationem, non homo est, secundam autem negationem, non homo non est. Ulterius autem ponit illas enunciationes in quibus subiectum universaliter ponitur, quae sunt quatuor, sicut et illae in quibus est subiectum non universaliter positum. Praetermisit autem ponere exemplum de enunciationibus, in quibus subiicitur singulare, ut, Socrates est, Socrates non est, quia singularibus nominibus non additur aliquod signum. Unde in huiusmodi enunciationibus non potest omnis differentia inveniri. Similiter etiam praetermittit exemplificare de enunciationibus, quarum subiecta particulariter ponuntur, quia tale subiectum quodammodo eamdem vim habet cum subiecto universali, non universaliter sumpto. Non ponit autem aliquam differentiam ex parte verbi, quae posset sumi secundum casus verbi, quia sicut ipse dicit, in extrinsecis temporibus, idest in praeterito et in futuro, quae circumstant praesens, est eadem ratio sicut et in praesenti, ut iam dictum est. When he says, Therefore the primary affirmation and negation is, etc., he infers from the premises the distinction of enunciations in which the finite and infinite name is posited only on the part of the subject. Among these there is a threefold difference to be noted: the first, according to affirmation and negation; the second, according to finite and infinite subject; the third, according as the subject is posited universally or not universally. Now the finite name is prior in notion to the infinite name just as affirmation is prior to negation. Accordingly, he posits "Man is” as the first affirmation and "Man is not” as the first negation. Then he posits the second affirmation, "Non-man is,” and the second negation, "Non-man is not.” Finally he posits the enunciations in which the subject is universally posited. These are four, as are those in which the subject is not universally posited. The reason he does not give examples of the enunciation with a singular subject, such as "Socrates is” and "Socrates is not,” is that no sign is added to singular names, and hence not every difference can be found in them. Nor does he give examples of the enunciation in which the subject is taken particularly, for such a subject in a certain way has the same force as a universal subject not universally taken. He does not posit any difference on the part of the verb according to its cases because, as he himself says, affirmations and negations in regard to extrinsic times, i.e., past and future time which surround the prcsent, are similar to these, as has already been said. II. 1 Postquam philosophus distinxit enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur solum ex parte subiecti, hic accedit ad distinguendum illas enunciationes, in quibus nomen finitum vel infinitum ponitur ex parte subiecti et ex parte praedicati. Et circa hoc duo facit; primo, distinguit huiusmodi enunciationes; secundo, manifestat quaedam quae circa eas dubia esse possent; ibi: quoniam vero contrariaest et cetera. Circa primum duo facit: primo, agit de enunciationibus in quibus nomen praedicatur cum hoc verbo, est; secundo de enunciationibus in quibus alia verba ponuntur; ibi: in his vero in quibus et cetera. Distinguit autem huiusmodi enunciationes sicut et primas, secundum triplicem differentiam ex parte subiecti consideratam: primo namque, agit de enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum non universaliter sumptum; secundo de illis in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum; ibi: similiter autem se habent etc.; tertio, de illis in quibus subiicitur nomen infinitum; ibi: aliae autem habent ad id quod est non homo et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit diversitatem oppositionis talium enunciationum; secundo, concludit earum numerum et ponit earum habitudinem; ibi: quare quatuor etc.; tertio, exemplificat; ibi: intelligimus vero et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exponit quoddam quod dixerat; ibi: dico autem et cetera. After distinguishing enunciations in which either a finite or an infinite name is posited only on the part of the subject, the Philosopher begins here to distinguish enunciations in which either a finite or an infinite name is posited as the subject and as the predicate. First he distinguishes these enunciations, and then he manifests certain things that might be doubtful in relation to them where he says, Since the negation contrary to "Every animal is just,” is the one signifying "No animal is just,” etc. With respect to their distinction he first deals with enunciations in which the name is predicated with the verb "is”; secondly, with those in which other verbs are used, where he says, In enunciations in which "is” does not join the predicate to the subject, for example, when the verb "matures” or "walks” is used, etc.” He distinguishes these enunciations as he did the primary enunciations, according to a threefold difference on the part of the subject, first treating those in which the subject is a finite name not taken universally, secondly, those in which the subject is a finite name taken universally where he says, The same is the case when the affirmation is of a name taken universally, etc.” Thirdly, he treats those in which an infinite name is the subject, where he says, and there are two other pairs, if something is added to non-man” as a subject, etc. With respect to the first enunciations [in which the subject is a finite name not taken universally] he proposes a diversity of oppositions and then concludes as to their number and states their relationship, where he says, In this case, therefore, there will be four enunciations, etc. Finally, he exemplifies this with a table. Aquinas lib. 2 l. 2 n. 2Circa primum duo oportet intelligere: primo quidem, quid est hoc quod dicit, est tertium adiacens praedicatur. Ad cuius evidentiam considerandum est quod hoc verbum est quandoque in enunciatione praedicatur secundum se; ut cum dicitur, Socrates est: per quod nihil aliud intendimus significare, quam quod Socrates sit in rerum natura. Quandoque vero non praedicatur per se, quasi principale praedicatum, sed quasi coniunctum principali praedicato ad connectendum ipsum subiecto; sicut cum dicitur, Socrates est albus, non est intentio loquentis ut asserat Socratem esse in rerum natura, sed ut attribuat ei albedinem mediante hoc verbo, est; et ideo in talibus, est, praedicatur ut adiacens principali praedicato. Et dicitur esse tertium, non quia sit tertium praedicatum, sed quia est tertia dictio posita in enunciatione, quae simul cum nomine praedicato facit unum praedicatum, ut sic enunciatio dividatur in duas partes et non in tres. In relation to the first point two things have to be understood. First, what is meant by "is” is predicated as a third element in the enunciation. To clarify this we must note that the verb "is” itself is sometimes predicated in an enunciation, as in "Socrates is.” By this we intend to signify that Socrates really is. Sometimes, however, "is” is not predicated as the principal predicate, but is joined to the principal predicate to connect it to the subject, as in "Socrates is white.” Here the intention is not to assert that Socrates really is, but to attribute whiteness to him by means of the verb "is.” Hence, in such enunciations "is” is predicated as added to the principal predicate. It is said to be third, not because it is a third predicate, but because it is a third word posited in the enunciation, which together with the name predicated makes one predicate. The enunciation is thus divided into two parts and not three. Considerandum est quid est hoc, quod dicit quod quando est, eo modo quo dictum est, tertium adiacens praedicatur, dupliciter dicuntur oppositiones. Circa quod considerandum est quod in praemissis enunciationibus, in quibus nomen ponebatur solum ex parte subiecti, secundum quodlibet subiectum erat una oppositio; puta si subiectum erat nomen finitum non universaliter sumptum, erat sola una oppositio, scilicet est homo, non est homo. Sed quando est tertium adiacens praedicatur, oportet esse duas oppositiones eodem subiecto existente secundum differentiam nominis praedicati, quod potest esse finitum vel infinitum; sicut haec est una oppositio, homo est iustus, homo non est iustus: alia vero oppositio est, homo est non iustus, homo non est non iustus. Non enim negatio fit nisi per appositionem negativae particulae ad hoc verbum est, quod est nota praedicationis. Secondly, we must consider what he means by when "is” is predicated as a third element in the enunciation, in the mode in which we have explained, there are two oppositions. In the enunciations already treated, in which the name is posited only on the part of the subject, there was one opposition in relation to any subject. For example, if the subject was a finite name not taken universally there was only one opposition, "Man is,” "Man is not.” But when "is” is predicated in addition there are two oppositions with regard to the same subject corresponding to the difference of the predicate name, which can be finite or infinite. There is the opposition of "Man is just,” "Man is not just,” and the opposition, "Man is non-just,” "Man is not non-just.” For the negation is effected by applying the negative particle to the verb "is,” which is a sign of a predication. 4 Deinde cum dicit: dico autem, ut est iustus etc., exponit quod dixerat, est tertium adiacens, et dicit quod cum dicitur, homo est iustus, hoc verbum est, adiacet, scilicet praedicato, tamquam tertium nomen vel verbum in affirmatione. Potest enim ipsum est, dici nomen, prout quaelibet dictio nomen dicitur, et sic est tertium nomen, idest tertia dictio. Sed quia secundum communem usum loquendi, dictio significans tempus magis dicitur verbum quam nomen, propter hoc addit, vel verbum, quasi dicat, ad hoc quod sit tertium, non refert utrum dicatur nomen vel verbum.When he says, I mean by this that in an enunciation such as"Man is just,” etc., he explains what he means by when "is” is predicated as a third element in the enunciation. When we say "Man is just,” the verb "is” is added to the predicate as a third name or verb in the affirmation. Now "is,” like any other word, may be called a name, and thus it is a third name, i.e., word. But because, according to common usage, a word signifying time is called a verb rather than a name Aristotle adds here, or verb, as if to say that with respect to the fact that it is a third thing, it does not matter whether it is called a name or a verb. 5 Deinde cum dicit: quare quatuor erunt etc., concludit numerum enunciationum. Et primo, ponit conclusionem numeri; secundo, ponit earum habitudinem; ibi: quarum duae quidem etc.; tertio, rationem numeri explicat; ibi: dico autem quoniam est et cetera. Dicit ergo primo quod quia duae sunt oppositiones, quando est tertium adiacens praedicatur, cum omnis oppositio sit inter duas enunciationes, consequens est quod sint quatuor enunciationes illae in quibus est, tertium adiacens, praedicatur, subiecto finito non universaliter sumpto. Deinde cum dicit: quarum duae quidem etc., ostendit habitudinem praedictarum enunciationum ad invicem; et dicit quod duae dictarum enunciationum se habent ad affirmationem et negationem secundum consequentiam, sive secundum correlationem, aut analogiam, ut in Graeco habetur, sicut privationes; aliae vero duae minime. Quod quia breviter et obscure dictum est, diversimode a diversis expositum est. He goes on to say, In this case, therefore, there will be four enunciations, etc. Here he concludes to the number of the enunciations, first giving the number, and then their relationship where he says, two of which will correspond in their sequence, in respect of affirmation and negation, with the privations but two will not. Finally, he explains the reason for the number where he says, I mean that the "is” will be added either to "just” or to "non-just,” etc. He says first, then, that since there are two oppositions when "is” is predicated as a third element in the enunciation, and since every opposition is between two enunciations, it follows that there are four enunciations in which "is” is predicated as a third element when the subject is finite and is not taken universally. When he says, two of which will correspond in their sequence, etc., he shows their relationship. Two of these enunciations are related to affirmation and negation according to consequence (or according to correlation or proportion, as it is in the Greek) like privations; the other two are not. Because this is said so briefly and obscurely, it has been explained in diverse ways. 6 Ad cuius evidentiam considerandum est quod tripliciter nomen potest praedicari in huiusmodi enunciationibus. Quandoque enim praedicatur nomen finitum, secundum quod assumuntur duae enunciationes, una affirmativa et altera negativa, scilicet homo est iustus, et homo non est iustus; quae dicuntur simplices. Quandoque vero praedicatur nomen infinitum, secundum quod etiam assumuntur duae aliae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus; quae dicuntur infinitae. Quandoque vero praedicatur nomen privativum, secundum quod etiam sumuntur duae aliae, scilicet homo est iniustus, homo non est iniustus; quae dicuntur privativae. Before we take up the various explanations of this passage there is a general point in relation to it that needs to be clarified. In this kind of enunciation a name can be predicated in three ways. We can predicate a finite name and by this we obtain two enunciations, one affirmative and one negative, "Man is just” and "Man is not just.” These are called simple enunciations. Or, we can predicate an infinite name and by this we obtain two other enunciations, "Man is non-just” and "Man is not non-just,” These are called infinite enunciations. Finally, we can predicate a privative name and again we will have two, "Man is unjust” and "Man is not unjust.” These are called privative. 7 Quidam ergo sic exposuerunt, quod duae enunciationes earum, quas praemiserat scilicet illae, quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem, quae sunt de praedicato finito secundum consequentiam vel analogiam, sicut privationes, idest sicut illae, quae sunt de praedicato privativo. Illae enim duae, quae sunt de praedicato infinito, se habent secundum consequentiam ad illas, quae sunt de finito praedicato secundum transpositionem quandam, scilicet affirmatio ad negationem et negatio ad affirmationem. Nam homo est non iustus, quae est affirmatio de infinito praedicato, respondet secundum consequentiam negativae de praedicato finito, huic scilicet homo non est iustus. Negativa vero de infinito praedicato, scilicet homo non est non iustus, affirmativae de finito praedicato, huic scilicet homo est iustus. Propter quod Theophrastus vocabat eas, quae sunt de infinito praedicato, transpositas. Et similiter etiam affirmativa de privativo praedicato respondet secundum consequentiam negativae de finito praedicato, scilicet haec, homo est iniustus, ei quae est, homo non est iustus. Negativa vero affirmativae, scilicet haec, homo non est iniustus, ei quae est, homo est iustus. Disponatur ergo in figura. Et in prima quidem linea ponantur illae, quae sunt de finito praedicato, scilicet homo est iustus, homo non est iustus. In secunda autem linea, negativa de infinito praedicato sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa. In tertia vero, negativa de privativo praedicato similiter sub affirmativa de finito et affirmativa sub negativa: ut patet in subscripta figura. (Figura). Sic ergo duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, se habent ad affirmationem et negationem de finito praedicato, sicut privationes, idest sicut illae quae sunt de privativo praedicato. Sed duae aliae quae sunt de infinito subiecto, scilicet non homo est iustus, non homo non est iustus, manifestum est quod non habent similem consequentiam. Et hoc modo exposuit herminus hoc quod dicitur, duae vero, minime, referens hoc ad illas quae sunt de infinito subiecto. Sed hoc manifeste est contra litteram. Nam cum praemisisset quatuor enunciationes, duas scilicet de finito praedicato et duas de infinito, subiungit quasi illas subdividens, quarum duae quidem et cetera. Duae vero, minime; ubi datur intelligi quod utraeque duae intelligantur in praemissis. Illae autem quae sunt de infinito subiecto non includuntur in praemissis, sed de his postea dicetur. Unde manifestum est quod de eis nunc non loquitur. Now the passage in question has been explained by some in the following way. Two of the enunciations he has given, those with an infinite predicate, are related to the affirmation and negation of the finite predicate according to consequence or analogy, as are privations, i.e., as those with a privative predicate. For the two with an infinite predicate are related according to consequence to those with a finite predicate but in a transposed way, namely, affirmation to negation and negation to affirmation. That is, "Man is non-just,” the affirmation of the infinite predicate, corresponds according to consequence to the negative of the finite predicate, i.e., to "Man is not just”; the negative of the infinite predicate, "Man is not non-just,” corresponds to the affirmative of the finite predicate, i.e., to "Man is just.” Theophrastus for this reason called those with the infinite predicate, "transposed.” The affirmative with a privative predicate also corresponds according to consequence to the negative with a finite predicate, i.e., "Man is unjust” to "Man is not just”; and the negative of the privative predicate to the affirmative of the finite predicate, "Man is not unjust” to "Man is just.” These enunciations can therefore be placed in a table in the following way: Man is just Man is not non-just Man is not unjust Man is not just Man is non-just Man is unjust This makes it clear that two, those with the infinite predicate, are related to the affirmation and negation of the finite predicate in the way privations are, i.e., as those that have a privative predicate. It is also evident that there are two others that do not have a similar consequence, i.e., those with an infinite subject, "Non-man is just” and "Non-man is not just.” This is the way Herminus explained the words but two will not, i.e., by referring it to enunciations with an infinite subject. This, however, is clearly contrary to the words of Aristotle, for after giving the four enunciations, two with a finite predicate and two with an infinite predicate, he adds two of which... but two will not, as though he were subdividing them, which can only mean that both pairs are comprised in what he is saying. He does not include among these the ones with an infinite subject but will mention them later. It is clear, then, that he is not speaking of these here. 8 Et ideo, ut Ammonius dicit, alii aliter exposuerunt, dicentes quod praedictarum quatuor propositionum duae, scilicet quae sunt de infinito praedicato, sic se habent ad affirmationem et negationem, idest ad ipsam speciem affirmationis et negationis, ut privationes, idest ut privativae affirmationes seu negationes. Haec enim affirmatio, homo est non iustus, non est simpliciter affirmatio, sed secundum quid, quasi secundum privationem affirmatio; sicut homo mortuus non est homo simpliciter, sed secundum privationem; et idem dicendum est de negativa, quae est de infinito praedicato. Duae vero, quae sunt de finito praedicato, non se habent ad speciem affirmationis et negationis secundum privationem, sed simpliciter. Haec enim, homo est iustus, est simpliciter affirmativa, et haec, homo non est iustus, est simpliciter negativa. Sed nec hic sensus convenit verbis Aristotelis. Dicit enim infra: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt disposita; ubi nihil invenitur ad hunc sensum pertinens. Et ideo Ammonius ex his, quae in fine I priorum dicuntur de propositionibus, quae sunt de finito vel infinito vel privativo praedicato, alium sensum accipit. Since this exposition is not consonant with Aristotle’s words, others, Ammonius says, have explained this in another way. According to them, two of the four propositions, those of the infinite predicate, are related to affirmation and negation, i.e., to the species itself of affirmation and negation, as privations, that is, as privative affirmations and negations. For the affirmation, "Man is non-just,” is not an affirmation simply, but relatively, as though according to privation; as a dead man is not a man simply, but according to privation. The same thing applies to the negative enunciation with an infinite predicate. However, the two enunciations having finite predicates are not related to the species of affirmation and negation according to privation, but simply, for the enunciation "Man is just” is simply affirmative and "Man is not just” is simply negative. But this meaning does not correspond to the words of Aristotle either, for he says further on: This, then, is the way these are arranged, as we have said in the Analytics, but there is nothing in that text pertaining to this meaning. Ammonius, therefore, interprets this differently and in accordance with what is said at the end of I Priorum [46: 51b 5] about propositions having a finite or infinite or privative predicate. Aquinas lib. 2 l. 2 n. 9 Ad cuius evidentiam considerandum est quod, sicut ipse dicit, enunciatio aliqua virtute se habet ad illud, de quo totum id quod in enunciatione significatur vere praedicari potest: sicut haec enunciatio, homo est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere potest dici quod est homo iustus; et similiter haec enunciatio, homo non est iustus, se habet ad omnia illa, de quorum quolibet vere dici potest quod non est homo iustus. Secundum ergo hunc modum loquendi, manifestum est quod simplex negativa in plus est quam affirmativa infinita, quae ei correspondet. Nam, quod sit homo non iustus, vere potest dici de quolibet homine, qui non habet habitum iustitiae; sed quod non sit homo iustus, potest dici non solum de homine non habente habitum iustitiae, sed etiam de eo qui penitus non est homo: haec enim est vera, lignum non est homo iustus; tamen haec est falsa, lignum est homo non iustus. Et ita negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita; sicut etiam animal est in plus quam homo, quia de pluribus verificatur. Simili etiam ratione, negativa simplex est in plus quam affirmativa privativa: quia de eo quod non est homo non potest dici quod sit homo iniustus. Sed affirmativa infinita est in plus quam affirmativa privativa: potest enim dici de puero et de quocumque homine nondum habente habitum virtutis aut vitii quod sit homo non iustus, non tamen de aliquo eorum vere dici potest quod sit homo iniustus. Affirmativa vero simplex in minus est quam negativa infinita: quia quod non sit homo non iustus potest dici non solum de homine iusto, sed etiam de eo quod penitus non est homo. Similiter etiam negativa privativa in plus est quam negativa infinita. Nam, quod non sit homo iniustus, potest dici non solum de homine habente habitum iustitiae, sed de eo quod penitus non est homo, de quorum quolibet potest dici quod non sit homo non iustus: sed ulterius potest dici de omnibus hominibus, qui nec habent habitum iustitiae neque habent habitum iniustitiae. To make Ammonius’ explanation clear, it must be noted that, as Aristotle himself says, the enunciation, by some power, is related to that of which the whole of what is signified in the enunciation can be truly predicated. The enunciation, "Man is just,” for example, is related to all those of which in any way "is a just man” can be truly said. So, too, the enunciation "Man is not just” is related to all those of which in any way "is not a just man” can be truly said. According to this mode of speaking it is evident, then, that the simple negative is wider than the infinite affirmative which corresponds to it. Thus, "is a non-just man” can truly be said of any man who does not have the habit of justice; but "is not a just man” can be said not only of a man not having the habit of justice, but also of what is not a man at all. For example, it is true to say "Wood is not a just man,” but false to say, "Wood is a non-just man.” The simple negative, then, is wider than the infinite affirmative-just as animal is wider than man, since it is verified of more. For a similar reason the simple negative is wider than the privative affirmative, for "is an unjust man” cannot be said of what is not man. But the infinite affirmative is wider than the private affirmative, for "is a non-just man” can be truly said of a boy or of any man not yet having a habit of virtue or vice, but "is an unjust man” cannot. And the simple affirmative is narrower than the infinite negative, for "is not a non-just man” can be said not only of a just man, but also of what is not man at all. Similarly, the privative negative is wider than the infinite negative. For "is not an unjust man” can be said not only of a man having the habit of justice and of what is not man at all—of which "is not a non-just man” can be said—but over and beyond this can be said about all men who neither have the habit of justice nor the habit of injustice. 10 His igitur visis, facile est exponere praesentem litteram hoc modo. Quarum, scilicet quatuor enunciationum praedictarum, duae quidem, scilicet infinitae, se habebunt ad affirmationem et negationem, idest ad duas simplices, quarum una est affirmativa et altera negativa, secundum consequentiam, idest in modo consequendi ad eas, ut privationes, idest sicut duae privativae: quia scilicet, sicut ad simplicem affirmativam sequitur negativa infinita, et non convertitur (eo quod negativa infinita est in plus), ita etiam ad simplicem affirmativam sequitur negativa privativa, quae est in plus, et non convertitur. Sed sicut simplex negativa sequitur ad infinitam affirmativam; quae est in minus, et non convertitur; ita etiam negativa simplex sequitur ad privativam affirmativam, quae est in minus, et non convertitur. Ex quo patet quod eadem est habitudo in consequendo infinitarum ad simplices quae est etiam privativarum. With these points in mind it is easy to explain the present sentence in Aristotle. Two of which, i.e., the infinites, will be related to the simple affirmation and negation according to consequence, i.e., in their mode of following upon the two simple enunciations, the infinitives will be related as are privations, i.e., as the two privative enunciations. For just as the infinite negative follows upon the simple affirmative, and.is not convertible with it (because the infinite negative is wider), so also the privative negative which is wider follows upon the simple affirmative and is not convertible. But just as the simple negative follows upon the infinite affirmative, which is narrower and is not convertible with it, so also the simple negative follows upon the privative affirmative, which is narrower and is not convertible. From this it is clear that there is the same relationship, with respect to consequence, of infinites to simple enunciations as there is of privatives. 11 Sequitur, duae autem, scilicet simplices, quae relinquuntur, remotis duabus, scilicet infinitis, a quatuor praemissis, minime, idest non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad eas; quia videlicet, ex una parte simplex affirmativa est in minus quam negativa infinita, sed negativa privativa est in plus quam negativa infinita: ex alia vero parte, negativa simplex est in plus quam affirmativa infinita, sed affirmativa privativa est in minus quam infinita affirmativa. Sic ergo patet quod simplices non ita se habent ad infinitas in consequendo, sicut privativae se habent ad infinitas. He goes on to say, but two, i.e., the simple entinciations that are left after the two infinite enunciations have been taken care of, will not, i.e., are not related to infinites according to consequence as privatives are related to them, because, on the one hand, the simple affirmative is narrower than the infinite negative, and the privative negative wider than the infinite negative; and on the other hand, the simple negative is wider than the infinite affirmative, and the privative affirmative narrower than the infinite affirmative. Thus it is clear that simple entinciations are riot related to infinites in respect to consequence as privatives are related to infinites. 12 Quamvis autem secundum hoc littera philosophi subtiliter exponatur, tamen videtur esse aliquantulum expositio extorta. Nam littera philosophi videtur sonare diversas habitudines non esse attendendas respectu diversorum; sicut in praedicta expositione primo accipitur similitudo habitudinis ad simplices, et postea dissimilitudo habitudinis respectu infinitarum. Et ideo simplicior et magis conveniens litterae Aristotelis est expositio Porphyrii quam Boethius ponit; secundum quam expositionem attenditur similitudo et dissimilitudo secundum consequentiam affirmativarum ad negativas. Unde dicit: quarum, scilicet quatuor praemissarum, duae quidem, scilicet affirmativae, quarum una est simplex et alia infinita, se habebunt secundum consequentiam ad affirmationem et negationem; ut scilicet ad unam affirmativam sequatur alterius negativa. Nam ad affirmativam simplicem sequitur negativa infinita; et ad affirmativam infinitam sequitur negativa simplex. Duae vero, scilicet negativae, minime, idest non ita se habent ad affirmativas, ut scilicet ex negativis sequantur affirmativae, sicut ex affirmativis sequebantur negativae. Et quantum ad utrumque similiter se habent privativae sicut infinitae. But although this explains the words of the Philosopher in a subtle manner the explanation appears a bit forced. For the words of the Philosopher seem to say that diverse relationships will not apply in respect to diverse things; however, in the exposition we have just seen, first there is an explanation of a similitude of relationship to simple enunciations and then an explanation of a dissimilitude of relationship in respect to infinites. The simpler exposition of this passage of Aristotle by Porphyry, which Boethius gives, is therefore more apposite. According to Porphyry’s explanation there is similitude and dissimilitude according to consequence of affirmatives and negatives. Thus Aristotle is saying: Of which, i.e., the four enunciations we are discussing, two, i.e., affirmatives, one simple and the other infinite, will be related according to consequence in regard to affirmation and negation, i.e., so that upon one affirmative follows the other negative, for the infinite negative follows upon the simple affirmative and the simple negative upon the infinite affirmative. But two, i.e., the negatives, will not, i.e., are not so related to affirmatives, i.e., so that affirmatives follow from negatives. And with respect to both, privatives are related in the same way as the infinites. Aquinas lib. 2 l. 2 n. 13Deinde cum dicit: dico autem quoniam etc., manifestat quoddam quod supra dixerat, scilicet quod sint quatuor praedictae enunciationes: loquimur enim nunc de enunciationibus, in quibus hoc verbum est solum praedicatur secundum quod est adiacens alicui nomini finito vel infinito: puta secundum quod adiacet iusto; ut cum dicitur, homo est iustus, vel secundum quod adiacet non iusto; ut cum dicitur, homo est non iustus. Et quia in neutra harum negatio apponitur ad verbum, consequens est quod utraque sit affirmativa. Omni autem affirmationi opponitur negatio, ut supra in primo ostensum est. Relinquitur ergo quod praedictis duabus enunciationibus affirmativis respondet duae aliae negativae. Et sic consequens est quod sint quatuor simplices enunciationes. Then Aristotle says, I mean that the "is” will be added either to "just” or to "non-just,” etc. Here he shows how, under these circumstances, we get four enunciations. We are speaking now of enunciations in which the verb "is” is predicated as added to some finite or infinite name, for instance as it adjoins "just” in "Man is just,” or "non-just” in "Man is non-just.” Now since the negation is not applied to the verb in either of these, each is affirmative. However, there is a negation opposed to every affirmation as was shown in the first book. Therefore, two negatives correspond to the two foresaid affirmative enunciations, making four simple enunciations. 14 Deinde cum dicit: intelligimus vero etc., manifestat quod supra dictum est per quandam figuralem descriptionem. Dicit enim quod id, quod in supradictis dictum est, intelligi potest ex sequenti subscriptione. Sit enim quaedam quadrata figura, in cuius uno angulo describatur haec enunciatio, homo est iustus, et ex opposito describatur eius negatio quae est, homo non est iustus; sub quibus scribantur duae aliae infinitae, scilicet homo est non iustus, homo non est non iustus. (Figura). In qua descriptione apparet quod hoc verbum est, affirmativum vel negativum, adiacet iusto et non iusto. Et secundum hoc diversificantur quatuor enunciationes. Then he says, The following diagram will make this clear. Here he manifests what he has said by a diagrammatic description; for, as he says, what has been stated can be understood from the following diagram. Take a four-sided figure and in one corner write the enunciation "Man is just.” Opposite it write its negation "Man is not just,” and under these the two infinite enunciations, "Man is non-just,” "Man is not non-just.” Man is just Man is not non-just Man is not just Man is non-just It is evident from this table that the verb "is” whether affirmative or negative is adjoined to "just” and "non-just.” It is according to this that the four enunciations are diversified. 15 Ultimo autem concludit quod praedictae enunciationes disponuntur secundum ordinem consequentiae, prout dictum est in resolutoriis, idest in I priorum. Alia littera habet: dico autem, quoniam est aut homini aut non homini adiacebit, et in figura, est, hoc loco homini et non homini adiacebit. Quod quidem non est intelligendum, ut homo, et non homo accipiatur ex parte subiecti, non enim nunc agitur de enunciationibus quae sunt de infinito subiecto. Unde oportet quod homo et non homo accipiantur ex parte praedicati. Sed quia philosophus exemplificat de enunciationibus in quibus ex parte praedicati ponitur iustum et non iustum, visum est Alexandro, quod praedicta littera sit corrupta. Quibusdam aliis videtur quod possit sustineri et quod signanter Aristoteles nomina in exemplis variaverit, ut ostenderet quod non differt in quibuscunque nominibus ponantur exempla. Finally, he concludes that these enunciations are disposed aaccording to an order of consequence that he has stated in the Analytics, i.e., in I Priorum [46: 51b 5]. There is a variant reading of a previous portion of this text, namely, I mean that "is” will be added either to "man” or to non-man,” and in the diagram "is” is added to "man” and "non-man. This cannot be understood to mean that "man” and "non-man” are taken on the part of the subject; for Aristotle is not treating here of enunciations with an infinite subject and hence "man” and "non-man” must be taken on the part of the predicate. This variant text seemed to Alexander to be corrupt, for the Philosopher has been explicating enunciations in which "just” and "non-just” are posited on the part of the predicate. Others think it can be sustained and that Aristotle has intentionally varied the names to show that it makes no difference what names are used in the examples. III. 1 Postquam philosophus distinxit enunciationes in quibus subiicitur nomen infinitum non universaliter sumptum, hic intendit distinguere enunciationes, in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum. Et circa hoc tria facit: primo, ponit similitudinem istarum enunciationum ad infinitas supra positas; secundo, ostendit dissimilitudinem earumdem; ibi: sed non similiter etc.; tertio, concludit numerum oppositionum inter dictas enunciationes; ibi: hae duae igitur et cetera. Dicit ergo primo quod similes sunt enunciationes, in quibus est nominis universaliter sumpti affirmatio. Having distinguished enunciations in which the subject is an infinite name not taken universally, Aristotle now distinguishes enunciations in which the subject is a finite name taken universally. He first proposes a similarity between these enunciations and the infinite enunciations already discussed, and then shows their difference where he says, But it is not possible, in the same way as in the former case, that those on the diagonal both be true, etc. Finally, he concludes with the number of oppositions there are between these enunciations where he says, These two pairs, then, are opposed, etc. He says first, then, that enunciations in which the affirmation is of a name taken universally are similar to those already discussed. 2 Quoad primum notandum est quod in enunciationibus indefinitis supra positis erant duae oppositiones et quatuor enunciationes, et affirmativae inferebant negativas, et non inferebantur ab eis, ut patet tam in expositione Ammonii, quam Porphyrii. Ita in enunciationibus in quibus subiicitur nomen finitum universaliter sumptum inveniuntur duae oppositiones et quatuor enunciationes: et affirmativae inferunt negativas et non e contra. Unde similiter se habent enunciationes supradictae, si nominis in subiecto sumpti fiat affirmatio universaliter. Fient enim tunc quatuor enunciationes: duae de praedicato finito, scilicet omnis homo est iustus, et eius negatio quae est non omnis homo est iustus; et duae de praedicato infinito, scilicet omnis homo est non iustus, et eius negatio quae est, non omnis homo est non iustus. Et quia quaelibet affirmatio cum sua negatione unam integrat oppositionem, duae efficiuntur oppositiones, sicut et de indefinitis dictum est. Nec obstat quod de enunciationibus universalibus loquens particulares inseruit; quoniam sicut supra de indefinitis et suis negationibus sermonem fecit, ita nunc de affirmationibus universalibus sermonem faciens de earum negationibus est coactus loqui. Negatio siquidem universalis affirmativae non est universalis negativa, sed particularis negativa, ut in I libro habitum est. It is to be noted in relation to Aristotle’s first point that in indefinite enunciations there were two oppositions and four enunciations, the affirmatives inferring the negatives and not being inferred by them, as is clear in the exposition of Ammonius as well as of Porphyry. In enunciations in which the finite name universally taken is the subject there are also two oppositions and four eminciations, the affirmatives inferring the negatives and not the contrary. Hence, enunciations are related in a similar way if the affirmation is made universally of the name taken as the subject. For again, four enunciations will be made, two with a finite predicate-"Every man is just,” and its negation, "Not every man is just”-and two with an infinite predicate-"Every man is non-just” and its negation, "Not every man is non-just.” And since any affirmation together with its negation makes one whole opposition, two oppositions are made, as was also said of indefinite enunciations. There might seem to be an objection to his use of particulars when speaking of universal enunciations, but this cannot be objected to, for just as in dealing with indefinite enunciations he spoke of their negations, so now in dealing with universal affirmatives be is forced to speak of their negations. The negation of the universal affirmative, however, is not the do universal but the particular negative as was stated in the first book. Cajetanus lib. 2 l. 3 n. 3Quod autem similis sit consequentia in istis et supradictis indefinitis patet exemplariter. Et ne multa loquendo res clara prolixitate obtenebretur, formetur primo figura de indefinitis, quae supra posita est in expositione Porphyrii, scilicet ex una parte ponatur affirmativa finita, et sub ea negativa infinita, et sub ista negativa privativa. Ex altera parte primo negativa finita, et sub ea affirmativa infinita, et sub ea affirmativa privativa. Deinde sub illa figura formetur alia figura similis illi universaliter: ponatur scilicet ex una parte universalis affirmativa de praedicato finito, et sub ea particularis negativa de praedicato infinito, et ad complementum similitudinis sub ista particularis negativa de praedicato privativo; ex altera vero parte ponatur primo particularis negativa de praedicato infinito, et sub ea universalis affirmativa de praedicato finito, et sub ista universalis affirmativa de praedicato privativo, hoc modo: (Figura). Quibus ita dispositis, exerceatur consequentia semper in ista proxima figura, sicut supra in indefinitis exercita est: sive sequendo expositionem Ammonii, ut infinitae se habeant ad finitas, sicut privativae se habent ad ipsas finitas; finitae autem non se habeant ad infinitas medias, sicut privativae se habent ad ipsas infinitas: sive sectando expositionem Porphyrii, ut affirmativae inferant negativas, et non e contra. Utrique enim expositioni suprascriptae deserviunt figurae, ut patet diligenter indaganti. Similiter ergo se habent enunciationes istae universales ad indefinitas in tribus, scilicet in numero propositionum, et numero oppositionum, et modo consequentiae. A table will make it evident that the consequence is similar in these and in indefinite eminciations. And lest what is clear be made obscure by prolixity let us first make a diagram of the indefinites posited in the last lesson, based upon the exposition of Porphyry. Place the finite affirmative on one side and under it the infinite negative, and under this the privative negative. On the other side put the finite negative first, under it the infinite affirmative, and under this the privative affirmative. Then under this diagram make another similar to it but of universals. On one side put the universal affirmative of the finite predicate, under it the particular negative of the infinite predicate, and to complete the parallel put the particular negative of the privative predicate under this. On the other side, first put the particular negative of the infinite predicate, under it the universal affirmative of the finite predicate,” and under this the universal affirmative of the privative predicate. Thus: DIAGRAM OF THE INDEFINITES Man is just Man is not just Man is not non-just Man is non-just Man is not unjust Man is unjust DIAGRAM OF THE UNIVERSALS Every man is just Not every man is just. Not every man is non-just Every man is non-just Not every man is unjust Every man is unjust In this disposition of enunciations, the consequence always follows in the second diagram just as it followed in regard to indefinites in the first diagram. This is true if we follow the exposition of Ammonius in which infinites are related to finites as privatives are related to the same finites, and the finites not related to the infinite middle enunciatious as privatives are related to those infinites. It is equally true if we follow the exposition of Porphyry, in which affirmatives infer negatives and not vice versa. That the tables serve both expositions will be clear to one studying them. These universal enunciations, therefore, are related in like manner to indefinite entinciations in three things: the number of propositions, the number of oppositions, and the mode of consequence. 4 Deinde cum dicit: sed non similiter angulares etc., ponit dissimilitudinem inter istas universales et supradictas indefinitas, in hoc quod angulares non similiter contingit veras esse. Quae verba primo exponenda sunt secundum eam, quam credimus esse ad mentem Aristotelis, expositionem; deinde secundum alios. Angulares enunciationes in utraque figura suprascripta vocat eas quae sunt diametraliter oppositae, scilicet affirmativam finitam ex uno angulo, et affirmativam infinitam sive privativam ex alio angulo: et similiter negativam finitam ex uno angulo, et negativam infinitam vel privativam ex alio angulo. When he says, But it is not possible, in the same way as in the former case, that those on the diagonal both be true, etc., he proposes a difference between the universals and the indefinites, i.e., that it is not possible for the diagonals to be true in the case of universals. First we will explain these words according to the exposition we believe Aristotle had in mind, then according to the opinion of others. Aristotle means by diagonal eminciations those that are diametrically opposed in the diagram above, i.e., the finite affirmative in one corner and the infinite affirmative or the privative in the other; and the finite negative in one corner and the, infinite negative or privative in the other. 5 Enunciationes ergo in qualitate similes angulares vocatae, eo quod angulares, idest diametraliter distant, dissimilis veritatis sunt apud indefinitas et universales. Angulares enim indefinitae tam in diametro affirmationum, quam in diametro negationum possunt esse simul verae, ut patet in suprascripta figura indefinitarum. Et hoc intellige in materia contingenti. Angulares vero in figura universalium non sic se habent, quoniam angulares secundum diametrum affirmationum impossibile est esse simul veras in quacumque materia. Angulares autem secundum diametrum negationum quandoque possunt esse simul verae, quando scilicet fiunt in materia contingenti: in materia enim necessaria et remota impossibile est esse ambas veras. Haec est Boethii, quam veram credimus, expositio. Enunciations that are similar in quality, and called diagonal because diametrically distant, are dissimilar in truth, tben, in the case of indefinites and universals. The indefinites on the corners, both oil the diagonal of affirmations and the diagonal of negations can be simultaneously true, as is evident in the table of the indefinite entinciations. This is to be understood in regard to contingent matter. But diagonals of universals are not so related, for angtilars on the diagonal of affirmations cannot be simultaneously true in any matter. Those on the diagonal of negations, however, can sometimes be true simultaneously, i.e., when they are in contingerlt matter. In necessary and rernote matter it is impossible for both of these to be true. This is the exposition of Boethitis, which we believe to be the true one. 6 Herminus autem, Boethio referente, aliter exponit. Licet enim ponat similitudinem inter universales et indefinitas quoad numerum enunciationum et oppositionum, oppositiones tamen aliter accipit in universalibus et aliter in indefinitis. Oppositiones siquidem indefinitarum numerat sicut et nos numeravimus, alteram scilicet inter finitas affirmativam et negativam, et alteram inter infinitas affirmativam et negativam, quemadmodum nos fecimus. Universalium vero non sic numerat oppositiones, sed alteram sumit inter universalem affirmativam finitam et particularem negativam finitam, scilicet omnis homo est iustus, non omnis homo est iustus, et alteram inter eamdem universalem affirmativam finitam et universalem affirmativam infinitam, scilicet omnis homo est iustus, omnis homo est non iustus. Inter has enim est contrarietas, inter illas vero contradictio. Dissimilitudinem etiam universalium ad indefinitas aliter ponit. Non enim nobiscum fundat dissimilitudinem inter angulares universalium et indefinitarum supra differentiam quae est inter angulares universalium affirmativas et negativas, sed supra differentiam quae est inter ipsas universalium angulares inter se ex utraque parte. Format namque talem figuram, in qua ex una parte sub universali affirmativa finita, universalis affirmativa infinita est; et ex alia parte sub particulari negativa finita, particularis negativa infinita ponitur; sicque angulares sunt disparis qualitatis, et similiter indefinitarum figuram format hoc modo: (Figura). Quibus ita dispositis, ait in hoc stare dissimilitudinem, quod angulares indefinitarum mutuo se invicem compellunt ad veritatis sequelam, ita quod unius angularis veritas suae angularis veritatem infert undecumque incipias. Universalium vero angulares non se mutuo compellunt ad veritatem, sed ex altera parte necessitas deficit illationis. Si enim incipias ab aliquo universalium et ad suam angularem procedas, veritas universalis non ita potest esse simul cum veritate angularis, quod compellit eam ad veritatem: quia si universalis est vera, sua universalis contraria erit falsa: non enim possunt esse simul verae. Et si ista universalis contraria est falsa, sua contradictoria particularis, quae est angularis primae universalis assumptae, erit necessario vera: impossibile est enim contradictorias esse simul falsas. Si autem incipias e converso ab aliqua particularium et ad suam angularem procedas, veritas particularis ita potest stare cum veritate suae angularis, quod tamen non necessario infert eius veritatem: quia licet sequatur: particularis est vera; ergo sua universalis contradictoria est falsa; non tamen sequitur ultra: ista universalis contradictoria est falsa; ergo sua universalis contraria, quae est angularis particularis assumpti, est vera. Possunt enim contrariae esse simul falsae. Herminus, however, according to Boethius, explains this in another way. He takes the oppositions in one way in universals and in another in indefinites, although he holds that there is a likeness between universals and indefinites with respect to the n timber of enunciations and of oppositions. He arrives at the oppositions of indefinites we have, i.e., one between the affirmative and negative finites, and the other between the affirmative and negative infinites. But he disposes the oppositions of universals in another way, taking one between the finite universal affirmative and finite particular negative, "Every man is just” and "Not every man is just,” and the other between the same finite universal affirmative and the infinite universal affirmative, "Every man is just” and "Every man is non-just.” Between the latter there is contrariety, between the former contradiction. He also proposes the dissimilarity between universals and indefinites in another way. He does not base the dissimilarity between diagonals of universals and indefinites on the difference between affirinative and negative diagonals of universals, as we do, but on the difference between the diagonals of universals on both sides among themselves. Hence he forms his diagram in this way: under the finite universal affirmative be places the infinite universal affirmative, and on the other side, under the finite particular negative the infinite particular negative. Thus the diagonals are of different quality. He also diagrams the indefinites in this way. Every man is just? contradictories? Not every man is just contraries subcontraries Every man is non-just? contradictories? Not every man is non-just Man is just Man is non-just Man is not just Man is not non-just With enunciations disposed in this way he says their difference is this: that in indefinite enunciations, one on the diagonal is true as a necessary consequence of the truth of the other, so that the truth of one enunciation infers the truth of its diagonal from wherever you begin * But there is no such mutual necessary consequence in universals—from the truth of one on a diagonal to the other—since the necessity of inference fails in part. If you begin from any of the universals and proceed to its diagonal, the truth of the universal cannot be simultaneous with the truth of its diagonal so as to compel it to truth. For if the universal is true its universal contrary will be false, since they cannot be at once true; and if this universal contrary is false, its particular contradictory, which is the diagonal of the first universal assumed, will necessarily be true, since it is impossible for contradictories to be at once false; but if, conversely, you begin with a particular enunciation and proceed to its diagonal, the truth of the particular can so stand with the truth of its diagonal that it does not infer its truth necessarily. For this follows: the particular is true, therefore its universal contradictory is false. But this does not follow: this universal contradictory is false, therefore its universal contrary, which is the diagonal of the particular assumed, is true. For contraries can be at once false. 7 Sed videtur expositio ista deficere ab Aristotelis mente quoad modum sumendi oppositiones. Non enim intendit hic loqui de oppositione quae est inter finitas et infinitas, sed de ea quae est inter finitas inter se, et infinitas inter se. Si enim de utroque modo oppositionis exponere volumus, iam non duas, sed tres oppositiones inveniemus: primam inter finitas, secundam inter infinitas, tertiam quam ipse herminus dixit inter finitam et infinitam. Figura etiam quam formavit, conformis non est ei, quam Aristoteles in fine I priorum formavit, ad quam nos remisit, cum dixit: haec igitur quemadmodum in resolutoriis dictum est, sic sunt disposita. In Aristotelis namque figura, angulares sunt affirmativae affirmativis, et negativae negativis. But the way in which oppositions are taken in this exposition does not seem to be what Aristotle had in mind. He did not intend to speak here of the opposition between finites and infinites, but of the opposition between finites themselves and infinites themselves. For if we meant to explain each mode of opposition, there would not be two but three oppositions: first, between finites; second, between infinites; and third, the one Herminus states between finite and infinite. Even the diagram Herminus makes is not like the one Aristotle makes at the end of I Priorum, to which Aristotle himself referred us in the last lesson when he said, This, then, is the way these are arranged, as we have said in the Analytics; for in Aristotle’s diagram affirmatives are diagonal to affirmatives and negatives to negatives. 8 Deinde cum dicit: hae igitur duae etc., concludit numerum propositionum. Et potest dupliciter exponi; primo, ut ly hae demonstret universales, et sic est sensus, quod hae universales finitae et infinitae habent duas oppositiones, quas supra declaravimus; secundo, potest exponi ut ly hae demonstret enunciationes finitas et infinitas quoad praedicatum sive universales sive indefinitas, et tunc est sensus, quod hae enunciationes supradictae habent duas oppositiones, alteram inter affirmationem finitam et eius negationem, alteram inter affirmationem infinitam et eius negationem. Placet autem mihi magis secunda expositio, quoniam brevitas cui Aristoteles studebat, replicationem non exigebat, sed potius quia enunciationes finitas et infinitas quoad praedicatum secundum diversas quantitates enumeraverat, ad duas oppositiones omnes reducere, terminando earum tractatum, voluit. Then Aristotle says, These two pairs, then, are opposed, etc. Here he concludes to the number of propositions. What he says here can be interpreted in two ways. In the first way, "these” designates universals, and thus the meaning is that the finite and infinite universals have two oppositions, which we have explained above. In the second, "these” designates enunciations which are finite and infinite with respect to the predicate, whether universal or indefinite, and then the meaning is that these enunciations have two oppositions, one between the finite affirmation and its negation and the other between the infinite affirmation and its negation. The second exposition seems more satisfactory to me, for the brevity for which, Aristotle strove allows for no repetition; hence, in terminating his treatment of the enunciations he had enumerated—those with a finite and infinite predicate according to diverse quantities—he meant to reduce all the oppositions to two.  9 Deinde cum dicit: aliae autem ad id quod est etc., intendit declarare diversitatem enunciationum de tertio adiacente, in quibus subiicitur nomen infinitum. Et circa hoc tria facit: primo, proponit et distinguit eas; secundo, ostendit quod non dantur plures supradictis; ibi: magis autem etc.; tertio, ostendit habitudinem istarum ad alias; ibi: hae autem extra et cetera. Ad evidentiam primi advertendum est tres esse species enunciationum de inesse, in quibus explicite ponitur hoc verbum est. Quaedam sunt, quae subiecto sive finito sive infinito nihil habent additum ultra verbum, ut, homo est, non homo est. Quaedam vero sunt quae subiecto finito habent, praeter verbum, aliquid additum sive finitum sive infinitum, ut, homo est iustus, homo est non iustus. Quaedam autem sunt quae subiecto infinito, praeter verbum, habent aliquid additum sive finitum sive infinitum, ut, non homo est iustus, non homo est non iustus. Et quia de primis iam determinatum est, ideo de ultimis tractare volens, ait: aliae autem sunt, quae habent aliquid, scilicet praedicatum, additum supra verbum est, ad id quod est, non homo, quasi ad subiectum, idest ad subiectum infinitum. Dixit autem quasi, quia sicut nomen infinitum deficit a ratione nominis, ita deficit a ratione subiecti. Significatum siquidem nominis infiniti non proprie substernitur compositioni cum praedicato quam importat, est, tertium adiacens. Enumerat quoque quatuor enunciationes et duas oppositiones in hoc ordine, sicut in superioribus fecit. Distinguit etiam istas ex finitate vel infinitate praedicata. Unde primo, ponit oppositiones inter affirmativam et negativam habentes subiectum infinitum et praedicatum finitum, dicens: ut, non homo est iustus, non homo non est iustus. Secundo, ponit oppositionem alteram inter affirmativam et negativam, habentes subiectum infinitum et praedicatum infinitum, dicens: ut, non homo est non iustus, non homo non est non iustus. When he says, and there, are two other pairs if something is added to "non-man” as a subject, etc., he shows the diversity of enunciations when "is” is added as a third element and the subject is an infinite name. First, he proposes and distinguishes them; secondly, he shows that there are no more opposites than these where he says, There will be no more opposites than these; thirdly, he shows the relationship of these to the others where he says, The latter, however, are separate from the former and distinct from them, etc. With respect to the first point, it should be noted that there are three species of absolute [de inesse] enunciations in which the verb "is” is posited explicitly. Some have nothing added to the subject—which can be either finite or infinite—beyond the verb, as in "Man is,” "Non-man is.” Some have, besides the verb, something either finite or infinite added to a finite subject, as in "Man is just,” "Man is non-just.” Finally, some have, besides the verb, something either finite or infinite added to an infinite subject, as in "Non-man is just,” "Non-man is non-just.” He has already treated the first two and now intends to take tip the last ones. And there are two other pairs, he says, that have something, namely a predicate. added beside the verb "is” to "non-man” as if to a subject, i.e., to an infinite subject. He says "as if” because the infinite name falls short of the notion of a subject insofar as it falls short of the notion of a name. Indeed, the signification of an infinite name is not properly submitted to composition with the predicate, which "is,” the third element added, introduces. Aristotle enumerates four enunciations and two oppositions in this order as he did in the former. In addition he distinguishes these from the former finiteness and infinity. First, he posits the opposition between affirmative and negative enunciations with an infinite subject and a finite predicate, "Non-man is just,” "Non-man is not just.” Then he posits another opposition between those with an infinite subject and an infinite predicate, "Non-man is non-just,” "Non-man is not non-just. 10 Deinde cum dicit: magis autem plures etc., ostendit quod non dantur plures oppositiones enunciationum supradictis. Ubi notandum est quod enunciationes de inesse, in quibus explicite ponitur hoc verbum est, sive secundum, sive tertium adiacens, de quibus loquimur, non possunt esse plures quam duodecim supra positae; et consequenter oppositiones earum secundum affirmationem et negationem non sunt nisi sex. Cum enim in tres ordines divisae sint enunciationes, scilicet in illas de secundo adiacente, in illas de tertio subiecti finiti, et in illas de tertio subiecti infiniti, et in quolibet ordine sint quatuor enunciationes; fiunt omnes enunciationes duodecim, et oppositiones sex. Et quoniam subiectum earum in quolibet ordine potest quadrupliciter quantificari, scilicet universalitate, particularitate, et singularitate et indefinitione; ideo istae duodecim multiplicantur in quadraginta octo. Quater enim duodecim quadraginta octo faciunt. Nec possibile est plures his imaginari. Et licet Aristoteles nonnisi viginti harum expresserit, octo in primo ordine, octo in secundo, et quatuor in tertio, attamen per eas reliquas voluit intelligi. Sunt autem sic enumerandae et ordinandae secundum singulos ordines, ut affirmationi negatio prima ex opposito situetur, ut oppositionis intentum clarius videatur. Et sic contra universalem affirmativam non est ordinanda universalis negativa, sed particularis negativa, quae est illius negatio; et e converso, contra particularem affirmativam non est ordinanda particularis negativa, sed universalis negativa quae est eius negatio. Ad clarius autem intuendum numerum, coordinandae sunt omnes, quae sunt similis quantitatis, simul in recta linea, distinctis tamen ordinibus tribus supradictis. Quod ut clarius elucescat, in hac subscripta videatur figura: (Figura). Quod autem plures his non sint, ex eo patet quod non contingit pluribus modis variari subiectum et praedicatum penes finitum et infinitum, nec pluribus modis variantur finitum et infinitum subiectum. Nulla enim enunciatio de secundo adiacente potest variari penes praedicatum finitum vel infinitum, sed tantum penes subiectum quod sufficienter factum apparet. Enunciationes autem de tertio adiacente quadrupliciter variari possunt, quia aut sunt subiecti et praedicati finiti, aut utriusque infiniti, aut subiecti finiti et praedicati infiniti, aut subiecti infiniti et praedicati finiti. Quarum nullam praetermissam esse superior docet figura. Then he says, There will be no more opposites than these. Here he points out that there are no more oppositions of enunciations than the ones be has already given. We should note, then, that simple [or absolute] enunciations—of which we have been speaking—in which the verb "is” is explicitly posited whether it is the second or third element added, cannot be more than the twelve posited. Consequently, their oppositions according to affirmation and negation are only six. For enunciations are divided into three orders: those with the second element added, those with the third element added to a finite subject, and those with the third element added to an infinite subject; and in any order there are four enunciations. And since their subject in any order can be quantified in four ways, i.e., by universality, particularity, singularity, and indefiniteness, these twelve will be increased to fortyeight (four twelves being forty-eight). Nor is it possible to imagine more than these. Aristotle has only expressed twenty of these, eight in the first order, eight in the second, and four in the third, but through them be intended the rest to be understood. They are to be enumerated and disposed according to each order so that the primary negation is placed opposite an affirmation in order to make the relation of opposition more evident. Thus, the universal negative should not be ordered as opposite to the universal affirmative, but the particular negative, which is its negation. Conversely, the particular negative should not be ordered as opposite to the particular affirmative, but the universal negative, which is its negation. For a clearer look at their number all those of similar quantity should be co-ordered in a straight line and in the three distinct orders given above. The following diagram will make this clear. FIRST ORDER Socrates is Socrates is not Non-Socrates is Non-Socrates is not Some man is Some man is not Some non-man is Some non-man is not Man is Man is not Non-man is Non-man is not Every man is No man is Every non-man is No non-man is SECOND ORDER Socrates is just Socrates is not just Socrates is non-just Socrates is not non-just Some man is just Some man is not just Some man is non-just Some man is not non-just Man is just Man is not just Man is non-just Man is not non-just Every man is just No man is just Every man is non-just No man is non-just THIRD ORDER Non-Socrates is just Non-Socrates is not just Non-Socrates is non-just Non-Socrates is not non-just Some non-man is just Some non-man is not just Some non-man is non-just Some non-man is not non-just Non-man is just Non-man is not just Non-man is non-just Non-man is not non-just Every non-man is just No non-man is just Every non-man is non-just No non-man is non-just It is evident that there are no more than these, for the subject and the predicate cannot be varied in any other way with respect to finite and infinite. Nor can the finite and infinite subject be varied in any other way, for the enunciation with a second adjoining element cannot be varied with a finite and infinite predicate but only in respect to the subject. This is clear enough. But enunciations with a third adjoining element can be varied in four ways: they may have either a finite subject and predicate, or an infinite subject and predicate, or a finite subject and infinite predicate, or an infinite subject and finite predicate. These variations are all evident in the above table. 11 Deinde cum dicit: hae autem extra illas etc., ostendit habitudinem harum quas in tertio ordine numeravimus ad illas, quae in secundo sitae sunt ordine, et dicit quod istae sunt extra illas, quia non sequuntur ad illas, nec e converso. Et rationem assignans subdit: ut nomine utentes eo quod est non homo, idest ideo istae sunt extra illas, quia istae utuntur nomine infinito loco nominis, dum omnes habent subiectum infinitum. Notanter autem dixit enunciationes subiecti infiniti uti ut nomine, infinito nomine, quia cum subiici in enunciatione proprium sit nominis, praedicari autem commune nomini et verbo, omne subiectum enunciationis ut nomen subiicitur. Then when he says, The latter, however, are separate from the former and distinct from them, etc., he shows the relationship of those we have put in the third order to those in the second order. The former, he says, are distinct from the latter because they do not follow upon the latter, nor conversely. He assigns the reason when he adds: because of the use of "non-man” as a name, i.e., the former are separate from the latter because the former use an infinite name in place of a name, since they all have an infinite subject. It should be noted that he says enunciations of an infinite subject use an infinite name as a name; for to be subjected in an enunciation is proper to a name, to be predicated common to a name and a verb, and therefore every subject of an enunciation is subjected as a name. 12 Deinde cum dicit: in his vero in quibus est etc., determinat de enunciationibus in quibus ponuntur verba adiectiva. Et circa hoc tria facit: primo, distinguit eas; secundo, respondet cuidam tacitae quaestioni; ibi: non enim dicendum est etc.; tertio, concludit earum conditiones; ibi: ergo et caetera eadem et cetera. Ad evidentiam primi resumendum est, quod inter enunciationes in quibus ponitur est secundum adiacens, et eas in quibus ponitur est tertium adiacens talis est differentia quod in illis, quae sunt de secundo adiacente, simpliciter fiunt oppositiones, scilicet ex parte subiecti tantum variati per finitum et infinitum; in his vero, quae habent est tertium adiacens dupliciter fiunt oppositiones, scilicet et ex parte praedicati et ex parte subiecti, quia utrumque variari potest per finitum et infinitum. Unde unum ordinem tantum enunciationum de secundo adiacente fecimus, habentem quatuor enunciationes diversimode quantificatas et duas oppositiones. Enunciationes autem de tertio adiacente oportuit partiri in duos ordines, quia sunt in eis quatuor oppositiones et octo enunciationes, ut supra dictum est. Considerandum quoque est quod enunciationes, in quibus ponuntur verba adiectiva, quoad significatum aequivalent enunciationibus de tertio adiacente, resoluto verbo adiectivo in proprium participium et est, quod semper fieri licet, quia in omni verbo adiectivo clauditur verbum substantivum. Unde idem significant ista, omnis homo currit, quod ista, omnis homo est currens. Propter quod Boethius vocat enunciationes cum verbo adiectivo de secundo adiacente secundum vocem, de tertio autem secundum potestatem, quia potest resolvi in tertium adiacens, cui aequivalet. Quoad numerum autem enunciationum et oppositionum, enunciationes verbi adiectivi formaliter sumptae non aequivalent illis de tertio adiacente, sed aequivalent enunciationibus, in quibus ponitur est secundum adiacens. Non possunt enim fieri oppositiones dupliciter in enunciationibus adiectivis, scilicet ex parte subiecti et praedicati, sicut fiebant in substantivis de tertio adiacente, quia verbum, quod praedicatur in adiectivis, infinitari non potest. Sed oppositiones adiectivarum fiunt simpliciter, scilicet ex parte subiecti tantum variati per infinitum et finitum diversimode quantificati, sicut fieri didicimus supra in enunciationibus substantivis de secundo adiacente, eadem ducti ratione, quia praeter verbum nulla est affirmatio vel negatio, sicut praeter nomen esse potest. Quia autem in praesenti tractatu non de significationibus, sed de numero enunciationum et oppositionum sermo intenditur, ideo Aristoteles determinat diversificandas esse enunciationes adiectivas secundum modum, quo distinctae sunt enunciationes in quibus ponitur est secundum adiacens. Et ait quod in his enunciationibus, in quibus non contingit poni hoc verbum est formaliter, sed aliquod aliud, ut, currit, vel, ambulat, idest in enunciationibus adiectivis, idem faciunt quoad numerum oppositionum et enunciationum sic posita, scilicet nomen et verbum, ac si est secundum adiacens subiecto nomini adderetur. Habent enim et istae adiectivae, sicut illae, in quibus ponitur est, duas oppositiones tantum, alteram inter finitas, ut, omnis homo currit, omnis homo non currit, alteram inter infinitas quoad subiectum, ut, omnis non homo currit, omnis non homo non currit. Next he takes up enunciations in which adjective verbs are posited, when he says, In enunciations in which "is” does not join the predicate to the subject, etc. First, he distinguishes these adjective verbs; secondly, he answers an implied question where he says, We must not say "non-every man,” etc.; thirdly, he concludes with their conditions where he says, All else in the enunciations in which "is” does not join the predicate to the subject will be the same, etc. It is necessary to note here that there is a difference between enunciations in which "is” is posited as a second adjoining element and those in which it is posited as a third element. In those with "is” as a second element oppositions are simple, i.e., varied only on the part of the subject by finite and infinite. In those having "is” as a third element oppositions are made in two ways—on the part of the predicate and on the part of the subject—for both can be varied by finite and infinite. Hence we made only one order of enunciations with "is” as the second element. It had four enunciations quantified in diverse ways, and two oppositions. But enunciations with "is” as a third element must be divided into two orders, because in them there are four oppositions and eight enunciations, as we said above. Enunciations with adjective verbs are made equivalent in signification to enunciations with "is” as the third element by resolving the adjective verb into its proper participle and "is,” which may always be done because a substantive verb is contained in every adjective verb. For example, "Every man runs” signifies the same thing as "Every man is running.” Because of this Boethius calls enunciations having an adjective verb "eminciations of the second adjoining element according to vocal sound, but of the third adjoining element according to power.” He designates them in this manner because they can be resolved into enunciations with a third adjoining element to which they are equivalent. With respect to the number and oppositions of enunciations, those with an adjective verb, formally taken, are not equivalent to those with a third adjoining element but to those in which "is” is posited as the second element. For oppositions cannot be made in two ways in adjectival enunciations as they are in the case of substantival enunciations with a third adjoining element, namely, on the part of the subject and predicate, because the verb which is predicated in adjectival enunciations cannot be made infinite. Hence oppositions of adjectival enunciations are made simply, i.e., only by the subject quantified in diverse ways being varied by finite and infinite, as was done above in substantival enunciations with a second adjoining element, and for the same reason, i.e., there can be no affirmation or negation without a verb but there can be without a name. Since the present treatment is not of significations but of the number of enunciations and oppositions, Aristotle determines that adjectival enunciations are to be diversified according to the mode in which enunciations with "is” as the second adjoining element are distinguished. And he says that in enunciations in which the verb "is” is not posited formally, but some other verb, such as "matures” or "walks,” i.e., in adjectival enunciations, the name and verb form the same scheme with respect to the number of oppositions and enunciations as when is as a second adjoining element is added to the name as a subject. For these adjectival enunciations, like the ones in which "is” is posited, have only two oppositions, one between the finites, as in "Every man runs,” "Not every man runs,” the other between the infinites with respect to subject, as in "Every non-man runs,” "Not every non-man runs.” 13 Deinde cum dicit: non enim dicendum est etc., respondet tacitae quaestioni. Et circa hoc facit duo: primo, ponit solutionem quaestionis; deinde, probat eam; ibi: manifestum est autem et cetera. Est ergo quaestio talis: cur negatio infinitans numquam addita est supra signo universali aut particulari, ut puta, cum vellemus infinitare istam, omnis homo currit, cur non sic infinitata est, non omnis homo currit, sed sic, omnis non homo currit? Huic namque quaestioni respondet, dicens quod quia nomen infinitabile debet significare aliquid universale, vel singulare; omnis autem et similia signa non significant aliquid universale aut singulare, sed quoniam universaliter aut particulariter; ideo non est dicendum, non omnis homo, si infinitare volumus (licet debeat dici, si negare quantitatem enunciationis quaerimus), sed negatio infinitans ad ly homo, quod significat aliquid universale, addenda est, et dicendum, omnis non homo. Then he answers an implied question when he says, We, must not say "non-every man” but must add the negation to man, etc. First he states the solution of the question, then he proves it where he says, This is evident from the following, etc. The question is this: Why is the negation that makes a word infinite never added to the universal or particular sign? For example, when we wish to make "Every man runs” infinite, why do we do it in this way "Every non-man runs,” and not in this, "Non-every man runs.” He answers the question by saying that to be capable of being made infinite a name has to signify something universal or singular. "Every” and similar signs, however, do not signify something universal or singular, but that something is taken universally or particularly. Therefore, we should not say "non-every man” if we wish to infinitize (although it may be used if we wish to deny the quantity of an enunciation), but must add the infinitizing negation to "man,” which signifies something universal, and say "every non-man.” 14 Deinde cum dicit: manifestum est autem ex eo quod est etc., probat hoc quod dictum est, scilicet quod omnis et similia non significant aliquod universale, sed quoniam universaliter tali ratione. Illud, in quo differunt enunciationes praecise differentes per habere et non habere ly omnis, est non universale aliquod, sed quoniam universaliter; sed illud in quo differunt enunciationes praecise differentes per habere et non habere ly omnis, est significatum per ly omnis; ergo significatum per ly omnis est non aliquid universale, sed quoniam universaliter. Minor huius rationis, tacita in textu, ex se clara est. Id enim in quo, caeteris paribus, habentia a non habentibus aliquem terminum differunt, significatum est illius termini. Maior vero in littera exemplariter declaratur sic. Illae enunciationes homo currit, et omnis homo currit, praecise differunt ex hoc, quod in una est ly omnis, et in altera non. Tamen non ita differunt ex hoc, quod una sit universalis, alia non universalis. Utraque enim habet subiectum universale, scilicet ly homo, sed differunt, quia in ea, ubi ponitur ly omnis, enunciatur de subiecto universaliter, in altera autem non universaliter. Cum enim dico, homo currit, cursum attribuo homini universali, sive communi, sed non pro tota humana universitate; cum autem dico, omnis homo currit, cursum inesse homini pro omnibus inferioribus significo. Simili modo declarari potest de tribus aliis, quae in textu adducuntur, scilicet, homo non currit, respectu suae universalis universaliter, omnis homo non currit: et sic de aliis. Relinquitur ergo, quod, omnis et nullus et similia signa nullum universale significant, sed tantummodo significant, quoniam universaliter de homine affirmant vel negant. Where he says, This is evident from the following, etc., he proves that "every” and similar words do not signify a universal but that a universal is taken universally. His argument is the following: That by which enunciations having or not having the "every” differ is not the universal; rather, they differ in that the universal is taken universally. But that by which enunciations having and not having the "every” differ is signified by the "every.” Therefore, that which is signified by the "every” is not a universal but that the universal is taken universally. The minor of the argument is evident, though not explicitly given in the text: that in which the having of some term differs from the not having of it, other things being equal, is the signification of that term. The major is made evident by examples. The enunciations "Man matures” and "Every man matures” differ precisely by the fact that in one there is an "every,” in the other not. However, they do not differ in such a way by this that one is universal, the other not universal, for both have the universal subject, "man”; they differ because in the one in which "every” is posited, the enunciation is of the subject universally, but in the other not universally. For when I say, "Man matures,” I attribute maturing to "man” as universal or common but not to man as to the whole human race; when I say, "Every man matures,” however, I signify maturing to be present to man according to all the inferiors. This is evident, too, in the three other examples of enunciations in Aristotle’s text. For example, "Non-man matures” when its universal is taken universally becomes "Every non-man matures,” and so of the others. It follows, therefore, that "every” and "no” and similar signs do not signify a universal but only signify that they affirm or deny of man universally. 15 Notato hic duo: primum est quod non dixit omnis et nullus significat universaliter, sed quoniam universaliter; secundum est, quod addit, de homine affirmant vel negant. Primi ratio est, quia signum distributivum non significat modum ipsum universalitatis aut particularitatis absolute, sed applicatum termino distributo. Cum enim dico, omnis homo, ly omnis denotat universitatem applicari illi termino homo, ita quod Aristoteles dicens quod omnis significat quoniam universaliter, per ly quoniam insinuavit applicationem universalitatis importatam in ly omnis in actu exercito, sicut et in I posteriorum, in definitione scire applicationem causae notavit per illud verbum quoniam, dicens: scire est rem per causam cognoscere, et quoniam illius est causa. Ratio autem secundi insinuat differentiam inter terminos categorematicos et syncategorematicos. Illi siquidem ponunt significata supra terminos absolute; isti autem ponunt significata sua supra terminos in ordine ad praedicata. Cum enim dicitur, homo albus, ly albus denominat hominem in seipso absque respectu ad aliquod sibi addendum. Cum vero dicitur, omnis homo, ly omnis etsi hominem distribuat, non tamen distributio intellectum firmat, nisi in ordine ad aliquod praedicatum intelligatur. Cuius signum est, quia, cum dicimus, omnis homo currit, non intendimus distribuere hominem pro tota sua universitate absolute, sed in ordine ad cursum. Cum autem dicimus, albus homo currit, determinamus hominem in seipso esse album et non in ordine ad cursum. Quia ergo omnis et nullus, sicut et alia syncategoremata, nil aliud in enunciatione faciunt, nisi quia determinant subiectum in ordine ad praedicatum, et hoc sine affirmatione et negatione fieri nequit; ideo dixit quod nil aliud significant, nisi quoniam universaliter de nomine, idest de subiecto, affirmant vel negant, idest affirmationem vel negationem fieri determinant, ac per hoc a categorematicis ea separavit. Potest etiam referri hoc quod dixit, affirmant vel negant, ad ipsa signa, scilicet omnis et nullus, quorum alterum positive distribuit, alterum removendo. Two things should be noted here: first, that Aristotle does not say "every” and "no” signify universally, but that the universal is taken universally; secondly, that he adds, they affirm or deny of man. The reason for the first is that the distributive sign does not signify the mode of universality or of particularity absolutely, but the mode applied to a distributed term. When I say, "every man” the "every” denotes that universality is applied to the term "man.” Hence, when Aristotle says "every” signifies that a universal is taken universally, by the "that” he conveys the application in actual exercise of the universality denoted by the "every,” just as in I Posteriorum [2: 71b 10] in the definition of "to know,” namely, To know scientifically is to know a thing through its cause and that this is its cause, he signifies by the word "that” the application of the cause. The reason for the second is to imply the difference between categorematic and syneategorematic terms. The former apply what is signified to the terms absolutely; the latter apply what they signify to the terms in relation to the predicates. For example, in "white man” the "white” denominates man in himself apart from any regard to something to be added; but in "every man,” although the "every” distributes man,” the distribution does not confirm the intellect unless it is under stood in relation to some predicate. A sign of this is that when we say "Every man runs” we do not intend to distribute "man” in its whole universality absolutely, but only in relation to "running.” When we say "White man runs,” on the other hand, we designate man in himself as "white” and not in relation to "running.” Therefore, since "every” and "no” and the other syncategorematic terms do nothing except determine the subject in relation to the predicate in the enunciation, and this cannot be done without affirmation and negation, Aristotle says that they only signify that the affirmation or negation is of a name, i.e., of a subject, universally, i.e., they prescribe the affirmation or negation that is being formed, and by this he separates them from categorematic terms. They affirm, or deny can also be referred to the signs themselves i.e., "every” and "no,” one of which distributes positively, the other distributes by removing. 16 Deinde cum dicit: ergo et caetera eadem etc., concludit adiectivarum enunciationum conditiones. Dixerat enim quod adiectivae enunciationes idem faciunt quoad oppositionum numerum, quod substantivae de secundo adiacente; et hoc declaraverat, oppositionum numero exemplariter subiuncto. Et quia ad hanc convenientiam sequitur convenientia quoad finitationem praedicatorum, et quoad diversam subiectorum quantitatem, et earum multiplicationem ex ductu quaternarii in seipsum, et si qua sunt huiusmodi enumerata; ideo concludit: ergo et caetera, quae in illis servanda erant, eadem, idest similia istis apponenda sunt. When he says All else in enunciations in which "is”does not join the predicate to the subject, etc., he concludes the treatment of the conditions of adjectival enunciations. He has already stated that adjectival enunciations are the same with respect to the number of oppositions as substantival enunciations with "is” as the second element, and has clarified this by a table showing the number of oppositions. Now, since upon this conformity follows conformity both with respect to finiteness of predicates and with respect to the diverse quantity of subjects, and also-if any enunciations of this kind are enumerated—their multiplication in sets of four, he concludes, Therefore also the other things, which are to be observed in them, are to be considered the same, i.e., similar to these. IV. 1. Postquam determinatum est de diversitate enunciationum, hic intendit removere quaedam dubia circa praedicta. Et circa hoc facit sex secundum numerum dubiorum, quae suis patebunt locis. Quia ergo supra dixerat quod in universalibus non similiter contingit angulares esse simul veras, quia affirmativae angulares non possunt esse simul verae, negativae autem sic; poterat quispiam dubitare, quae est causa huius diversitatis. Ideo nunc illius dicti causam intendit assignare talem, quia, scilicet, angulares affirmativae sunt contrariae inter se; contrarias autem in nulla materia contingit esse simul veras. Angulares autem negativae sunt subcontrariae illis oppositae; subcontrarias autem contingit esse simul veras. Et circa haec duo facit: primo, declarat conditiones contrariarum et subcontrariarum; secundo, quod angulares affirmativae sint contrariae et quod angulares negativae sint subcontrariae; ibi: sequuntur vero et cetera. Dicit ergo resumendo: quoniam in primo dictum est quod enunciatio negativa contraria illi affirmativae universali, scilicet, omne animal est iustum, est ista, nullum animal est iustum; manifestum est quod istae non possunt simul, idest in eodem tempore, neque in eodem ipso, idest de eodem subiecto esse verae. His vero oppositae, idest subcontrariae inter se, possunt esse simul verae aliquando, scilicet in materia contingenti, ut, quoddam animal est iustum, non omne animal est iustum. Having treated the diversity of enunciations Aristotle now answers certain questions about them. He takes up six points related to the number of difficulties. These will become evident as we come to them. Since he has said that in universal enunciations the diagonals in one case cannot be at once true but can be in another, for the diagonal affirmatives cannot be at once true but the negatives can,” someone might raise a question as to the cause of this diversity. Therefore, it is his intention now to assign the cause of this: namely, that the diagonal affirmatives are contrary to each other, and contraries cannot be at once true in any matter; but the diagonal negatives are subcontraries opposed to these and can be at once true. In relation to this he first states the conditions for contraries and subcontraries. Then he shows that diagonal affirmatives are contraries and that diagonal negatives are subcontraries where he says, Now the enunciation "No man is just” follows upon the enunciation "Every man is nonjust,” etc. By way of resumé, therefore, he says that in the first book it was said that the negative enunciation contrary to the universal affirmative "Every animal is just” is "No animal is just.” It is evident that these cannot be at once true, i.e., at the same time, nor of the same thing, i.e., of the same subject. But the opposites of these, i.e., the subcontraries, can sometimes be at once true, i.e., in contingent matter, as in "Some animal is just” and "Not every animal is just.” 2 Deinde cum dicit: sequuntur vero etc., declarat quod angulares affirmativae supra positae sint contrariae, negativae vero subcontrariae. Et primum quidem ex eo quod universalis affirmativa infinita et universalis negativa simplex aequipollent; et consequenter utraque earum est contraria universali affirmativae simplici, quae est altera angularis. Unde dicit quod hanc universalem negativam finitam, nullus homo est iustus, sequitur aequipollenter illa universalis affirmativa infinita, omnis homo est non iustus. Secundum vero declarat ex eo quod particularis affirmativa finita et particularis negativa infinita aequipollent. Et consequenter utraque earum est subcontraria particulari negativae simplici, quae est altera angularis, ut in figura supra posita inspicere potes. Unde subdit quod illam particularem affirmativam finitam, aliquis homo est iustus, opposita sequitur aequipollenter (opposita intellige non istius particularis, sed illius universalis affirmativae infinitae), non omnis homo est non iustus. Haec enim est contradictoria eius. Ut autem clare videatur quomodo supra dictae enunciationes sint aequipollentes, formetur figura quadrata, in cuius uno angulo ponatur universalis negativa finita, et sub ea contradictoria particularis affirmativa finita; ex alia vero parte locetur universalis affirmativa infinita, et sub ea contradictoria particularis negativa infinita, noteturque contradictio inter angulares et collaterales inter se, hoc modo: (Figura). His siquidem sic dispositis, patet primo ipsarum universalium mutua consequentia in veritate et falsitate, quia si altera earum est vera, sua angularis contradictoria est falsa; et si ista est falsa, sua collateralis contradictoria, quae est altera universalis, erit vera, et similiter procedit quoad falsitatem particularium. Deinde eodem modo manifestatur mutua sequela. Si enim altera earum est vera, sua angularis contradictoria est falsa, ista autem existente falsa, sua contradictoria collateralis, quae est altera particularis erit vera; simili quoque modo procedendum est quoad falsitatem. When he says, Now the enunciation, "No man is just” follows upon the enunciation "Every man is nonjust,” etc., he shows that the diagonal affirmatives previously posited are contraries, the negatives subcontraries. First he manifests this from the fact that the infinite universal affirmative and the simple universal negative are equal in meaning, and consequently each of them is contrary to the simple universal affirmative, which is the other diagonal. Hence, he says that the infinite universal affirmative "Every man is non-just” follows upon the finite universal negative "No man is just,” equivalently. Secondly he shows this from the fact that the finite particular affirmative and the infinite particular negative are equal in meaning, and consequently each of these is subcontrary to the simple particular negative, which is the other diagonal. This you can see in the previous diagram. He says, then, that the opposite "Not every man is non-just” follows upon the finite particular "Some man is just” equivalently (understand "the opposite” not of this particular but of the infinite universal affirmative, for this is its contradictory). In order to see clearly how these enunciations are equivalent, make a four-sided figure, putting the finite universal negative in one corner and under it the contradictory, the finite particular affirmative. On the other side, put the infinite universal affirmative and under it the contradictory, the infinite particular negative. Now indicate the contradiction between diagonals and the contradiction between collaterals. No man is just equivalents Every man is non-just contradictories contradictories Some man is just equivalents Not every man is non-just This arrangement makes the mutual consequence of the universals in truth and falsity evident, for if one of them is true, its diagonal contradictory is false; and if this is false, its collateral contradictory, which is the other universal, will be true. With respect to the falsity of the particulars the procedure is the same. Their mutual consequence is made evident in the same way, for if one of them is true, its diagonal contradictory is false, and if this is false, its contradictory collateral, which is the other particular, will be true; the procedure is the same with respect to falsity. 3 Sed est hic unum dubium. In I enim priorum, in fine, Aristoteles ex proposito determinat non esse idem iudicium de universali negativa et universali affirmativa infinita; et superius in hoc secundo, super illo verbo: quarum duae se habent secundum consequentiam, duae vero minime, Ammonius, Porphyrius, Boethius et sanctus Thomas dixerunt quod negativa simplex sequitur affirmativam infinitam, sed non e converso. Ad hoc dicendum est, secundum Albertum, quod negativam finitam sequitur affirmativa infinita subiecto constante; negativa vero simplex sequitur affirmativam absolute. Unde utrumque dictum verificatur, et quod inter eas est mutua consequentia cum subiecti constantia, et quod inter eas non est mutua consequentia absolute. Potest dici secundo, quod supra locuti sumus de infinita enunciatione quoad suum totalem significatum ad formam praedicati reductum; et secundum hoc, quia negativa finita est superior affirmativa infinita, ideo non erat mutua consequentia: hic autem loquimur de ipsa infinita formaliter sumpta. Unde s. Thomas tunc adducendo Ammonii expositionem dixit, secundum hunc modum loquendi: negativa simplex, in plus est quam affirmativa infinita. Textus vero I priorum ultra praedicta loquitur de finita et infinita in ordine ad syllogismum. Manifestum est autem quod universalis affirmativa sive finita sive infinita non concluditur nisi in primo primae. Universalis autem negativa quaecumque concluditur et in secundo primae, et primo et secundo secundae. However, a question arises with respect to this. At the end of I Priorum [46: 51b 5], Aristotle determines from what he has proposed that the judgment of the universal negative and the infinite universal affirmative is not the same. Furthermore, in the second book of the present work, in relation to the phrase Of which two are related according to consequence, two are not. Ammonius, Porphyry, Boethius, and St. Thomas say that the simple negative follows upon the infinite affirmative and not conversely.” Albert answers this latter difficulty by pointing out that the infinite affirmative follows upon the finite negative when the subject is constant, but the simple negative follows upon the affirmative absolutely. Hence both positions are verified, for with a constant subject there is a mutual consequence between them, but there is not a mutual consequence between them absolutely. We could also answer this difficulty in this way. In Book II, Lesson 2 we were speaking of the infinite enunciation with the whole of what it signified reduced to the form of the predicate, and according to this there was not a mutual consequence, since the finite negative is superior to the infinite affirmative. But here we are speaking of the infinite itself formally taken. Hence St. Thomas, when he introduced the exposition of Ammonius in his commentary on the above passage, said that according to this mode of speaking the simple negative is wider than the infinite affirmative. In the above mentioned text in I Priorum [46: 52a 36], Aristotle is speaking of finite and infinite enunciations in relation to the syllogism. It is evident, however, that the universal affirmative, whether finite or infinite is only inferred in the first mode of the first figure, while any universal negative whatever is inferred in the second mode of the first figure and in the first and second modes of the second figure. 4 Deinde cum dicit: manifestum est autem etc., movet secundum dubium de vario situ negationis, an scilicet quoad veritatem et falsitatem differat praeponere et postponere negationem. Oritur autem haec dubitatio, quia dictum est nunc quod non refert quoad veritatem si dicatur, omnis homo est non iustus, aut si dicatur, omnis homo non est iustus; et tamen in altera postponitur negatio, in altera praeponitur, licet multum referat quoad affirmationem et negationem. Hanc, inquam, dubitationem solvere intendens cum distinctione, respondet quod in singularibus enunciationibus eiusdem veritatis sunt singularis negatio et infinita affirmatio eiusdem, in universalibus autem non est sic. Si enim est vera negatio ipsius universalis non oportet quod sit vera infinita affirmatio universalis. Negatio enim universalis est particularis contradictoria, qua existente vera, non est necesse suam subalternam, quae est contraria suae contradictoriae esse veram. Possunt enim duae contrariae esse simul falsae. Unde dicit quod in singularibus enunciationibus manifestum est quod, si est verum negare interrogatum, idest, si est vera negatio enunciationis singularis, de qua facta est interrogatio, verum etiam est affirmare, idest, vera erit affirmatio infinita eiusdem singularis. Verbi gratia: putasne Socrates est sapiens? Si vera est ista responsio, non; Socrates igitur non sapiens est, idest, vera erit ista affirmatio infinita, Socrates est non sapiens. In universalibus vero non est vera, quae similiter dicitur, idest, ex veritate negationis universalis affirmativae interrogatae non sequitur vera universalis affirmativa infinita, quae similis est quoad quantitatem et qualitatem enunciationi quaesitae; vera autem est eius negatio, idest, sed ex veritate responsionis negativae sequitur veram esse eius, scilicet universalis quaesitae negationem, idest, particularem negativam. Verbi gratia: putasne omnis homo est sapiens? Si vera est ista responsio, non; affirmativa similis interrogatae quam quis ex hac responsione inferre intentaret est illa: igitur omnis homo est non sapiens. Haec autem non sequitur ex illa negatione. Falsum est enim hoc, scilicet quod sequitur ex illa responsione; sed inferendum est, igitur non omnis homo sapiens est. Et ratio utriusque est, quia haec particularis ultimo illata est opposita, idest contradictoria illi universali interrogatae quam respondens falsificavit; et ideo oportet quod sit vera. Contradictoriarum enim si una est falsa, reliqua est vera. Illa vero, scilicet universalis affirmativa infinita primo illata, est contraria illi eidem universali interrogatae. Non est autem opus quod si universalium altera sit falsa, quod reliqua sit vera. In promptu est autem causa huius diversitatis inter singulares et universales. In singularibus enim varius negationis situs non variat quantitatem enunciationis; in universalibus autem variat, ut patet. Ideo fit ut non sit eadem veritas negantium universalem in quarum altera praeponitur, in altera autem postponitur negatio, ut de se patet. When he says, And it is also clear with respect to the singular that if a question is asked and a negative answer is the true one, there is also a true affirmation, etc., he presents a difficulty relating to the varying position of the negation, i.e., whether there is a difference as to truth and falsity when the negation is a part of the predicate or a part of the verb. This difficulty arises from what he has just said, namely, that it is of no consequence as to truth or falsity whether you say, "Every man is non-just” or "Every man is not just”; yet in one case the negation is a part of the predicate, in the other part of the copula, and this makes a great deal of difference with respect to affirmation and negation. To solve this problem Aristotle makes a distinction: in singular enunciations, the singular negation and infinite affirmation of the same subject are of the same truth, but in universals this is not so. For if the negation of the universal is true it is not necessary that the infinite affirmation of the universal is true. The negation of the universal is the contradictory particular, but if it is true [i.e., the contradictory particular] it is not necessary that the subaltern, which is the contrary of the contradictory, be true, for two contraries can be at once false. Hence he says that in singular enunciations it is evident that if it is true to deny the thing asked, i.e., if the negation of a singular enunciation, which has been made into an interrogation, is true, there will also be a true affirmation, i.e., the infinite affirmation of the same singular will be true. For example, if the question "Do you think Socrates is wise?” has "No” as a true response, then "Socrates is non-wise,” i.e., the infinite affirmation "Socrates is non-wise” will be true. But in the case of universals the affirmative inference is not true, i.e., from the truth of a negation to a universal affirmative question, the truth of the infinite universal affirmative (which is similar in quantity and quality to the enunciation asked) does not follow. But the negation is true, i.e., from the truth of the negative response it follows that its negation is true, i.e., the negation of the universal asked, which is the particular negative. Consider, for example, the question "Do you think every man is wise?” If the response "No” is true, one would be tempted to infer the affirmative similar to the question asked, i.e., then "Every man is non-wise.” This, however, does not follow from the negation, for this is false as it follows from that response. Rather, what must be inferred is "Then not every man is wise.” And the reason for both is that the particular enunciation inferred last is the opposite, i.e., the contradictory of the universal question, which, being falsified by the negative response, makes the contradictory of the universal affirmative true, for of contradictories, if one is false the other is true. The infinite universal affirmative first inferred, however, is contrary to the same universal question. Should it not also be true? No, because it is not necessary in the case of universals that if one is false the other is true. The cause of the diversity between singulars and universals is now clear. In singulars the varying position of the negation does not vary the quantity of the enunciation ‘ but in universals it does. Therefore there is not the same truth in enunciations denying a universal when in one the negation is a part of the predicate and in the other a part of the verb. Cajetanus lib. 2 l. 4 n. 5Deinde cum dicit: illae vero secundum infinitaetc., solvit tertiam dubitationem, an infinita nomina vel verba sint negationes. Insurgit autem hoc dubium, quia dictum est quod aequipollent negativa et infinita. Et rursus dictum est nunc quod non refert in singularibus praeponere et postponere negationem: si enim infinitum nomen est negatio, tunc enunciatio, habens subiectum infinitum vel praedicatum, erit negativa et non affirmativa. Hanc dubitationem solvit per interpretationem, probando quod nec nomina nec verba infinita sint negationes, licet videantur. Unde duo circa hoc facit: primo, proponit solutionem dicens: illae vero, scilicet dictiones, contraiacentes: verbi gratia: non homo, et, homo non iustus et iustus. Vel sic: illae vero, scilicet dictiones, secundum infinita, idest secundum infinitorum naturam, iacentes contra nomina et verba (utpote quae removentes quidem nomina et verba significant, ut non homo et non iustus et non currit, quae opponuntur contra ly homo ly iustus et ly currit), illae, inquam, dictiones infinitae videbuntur prima facie esse quasi negationes sine nomine et verbo ex eo quod comparatae nominibus et verbis contra quae iacent, ea removent, sed non sunt secundum veritatem. Dixit sine nomine et verbo quia nomen infinitum, nominis natura caret, et verbum infinitum verbi natura non possidet. Dixit quasi, quia nec nomen infinitum a nominis ratione, nec verbum infinitum a verbi proprietate omnino semota sunt. Unde, si negationes apparent, videbuntur sine nomine et verbo non omnino sed quasi. Deinde probat distinctiones infinitas non esse negationes tali ratione. Semper est necesse negationem esse veram vel falsam, quia negatio est enunciatio alicuius ab aliquo; nomen autem infinitum non dicit verum vel falsum; igitur dictio infinita non est negatio. Minorem declarat, quia qui dixit, non homo, nihil magis de homine dixit quam qui dixit, homo. Et quoad significatum quidem clarissimum est: non homo, namque, nihil addit supra hominem, imo removet hominem. Quoad veritatis vero vel falsitatis conceptum, nihil magis profuit qui dixit, non homo, quam qui dixit, homo, si aliquid aliud non addatur, imo minus verus vel falsus fuit, idest magis remotus a veritate et falsitate, qui dixit, non homo, quam qui dixit, homo: quia tam veritas quam falsitas in compositione consistit; compositioni autem vicinior est dictio finita, quae aliquid ponit, quam dictio infinita, quae nec ponit, nec componit, idest nec positionem nec compositionem importat. Then he says, The antitheses in infinite names and verbs, as in " non-man” and "nonjust,” might seem to be negations without a name or a verb, etc. Here he raises the third difficulty, i.e., whether infinite names or verbs are negations. This question arises from his having said that the negative and infinite are equivalent and from having just said that in singular enunciations it makes no difference whether the negative is a part of the predicate or a part of the verb. For if the infinite name is a negation, then the enunciation having an infinite subject or predicate will be negative and not affirmative. He resolves this question by an interpretation which proves that neither infinite names nor verbs are negations although they seem to be. First he proposes the solution saying, The antitheses in infinite names and verbs, i.e., words contraposed, e.g., "non-man,” and "non-just man” and "just man”; or this may be read as, Those (namely, words) corresponding to infinites, i.e., corresponding to the nature of infinites, placed in opposition to names or verbs (namely, removing what the names and verbs signify, as in "non-man,” "non-just,” and "non-runs,” which are opposed to "man,” "just” and "runs”), would seem at first sight to be quasi-negations without Dame and verb, because, as related to the names and verbs before which they are placed, they remove them; they are not truly negations however. He says without a name or a verb because the infinite name lacks the nature of a name and the infinite verb does not have the nature of a verb. He says quasi because the infinite name does not fall short of the notion of the name in every way, nor the infinite verb of the nature of the verb. Hence, if it is thought that they are negations, they will be regarded as without a name or a verb, not in every way but as though they were without a name or a verb. He proves that infinitizing signs of separation are not negations by pointing out that it is always necessary for the negation to be true or false since a negation is an enunciation of something separated from something. The infinite name, however, does not assert what is true or false. Therefore the infinite word is not a negation. He manifests the minor when he says that the one who says "non-man” says nothing more of man than the one who says "man.” Clearly this is so with respect to what is signified, for "non-man” adds nothing beyond "man”; rather, it removes "man.” Moreover, with respect to a conception of truth or falsity, it is of no more use to say "non-man” than to say "man” if something else is not added; rather, it is less true or false, i.e., one who says non-man is more removed from truth and falsity than one who says man,” for both truth and falsity depend on composition, and the finite word which posits something is closer to composition than the infinite word, which neither posits nor composes, i.e., it implies neither positing nor composition. 6 Deinde cum dicit: significat autem etc., respondet quartae dubitationi, quomodo scilicet intelligatur illud verbum supradictum de enunciationibus habentibus subiectum infinitum: hae autem extra illas, ipsae secundum se erunt. Et ait quod intelligitur quantum ad significati consequentiam, et non solum quantum ad ipsas enunciationes formaliter. Unde duas habentes subiectum infinitum, universalem scilicet affirmativam et universalem negativam adducens, ait quod neutra earum significat idem alicui illarum, scilicet habentium subiectum finitum. Haec enim universalis affirmativa, omnis non homo est iustus, nulli habenti subiectum finitum significat idem: non enim significat idem quod ista, omnis homo est iustus; neque quod ista, omnis homo est non iustus. Similiter opposita negatio et universalis negativa habens subiectum infinitum, quae est contrarie opposita supradictae, scilicet omnis non homo non est iustus, nulli illarum de subiecto finito significat idem. Et hoc clarum est ex diversitate subiecti in istis et in illis. When he says, Moreover, "Every non-man is just does not signify the same thing as any of the other enunciations, etc., he answers a fourth difficulty, i.e., how the earlier statement concerning enunciations having an infinite subject is to be understood. The statement was that these stand by themselves and are distinct from the former [in consequence of using the name "non-man”]. This is to be understood not just with respect to the enunciations themselves formally, but with respect to the consequence of what is signified. Hence, giving two examples of enunciations with an infinite subject, the universal affirmative and universal negative,” he says that neither of these signifies the same thing as any of those, namely of those having a finite subject. The universal affirmative "Every non-man is just” does not signify the same thing as any of the enunciations with a finite subject; for it does not signify "Every man is just” nor "Every man is non-just.” Nor do the opposite negation, or the universal negative having an infinite subject which is contrarily opposed to the universal affirmative, signify the same thing as enunciations with a finite subject; i.e., "Not every non-man is just” and "No non-man is just,” do not signify the same thing as any of those with a finite subject. This is evident from the diversity of subject in the latter and the former. Cajetanus lib. 2 l. 4 n. 7Deinde cum dicit: illa vero quae est etc., respondet quintae quaestioni, an scilicet inter enunciationes de subiecto infinito sit aliqua consequentia. Oritur autem dubitatio haec ex eo, quod superius est inter eas ad invicem assignata consequentia. Ait ergo quod etiam inter istas est consequentia. Nam universalis affirmativa de subiecto, et praedicato infinitis et universalis negativa de subiecto infinito, praedicato vero finito, aequipollent. Ista namque, omnis non homo est non iustus, idem significat illi, nullus non homo est iustus. Idem autem est iudicium de particularibus indefinitis et singularibus similibus supradictis. Cuiuscunque enim quantitatis sint, semper affirmativa de utroque extremo infinita et negativa subiecti quidem infiniti, praedicati autem finiti, aequipollent, ut facile potes exemplis videre. Unde Aristoteles universales exprimens, caeteras ex illis intelligi voluit. When he says, But "Every non-man is non-just” signifies the same thing as "No non-man is just,” he answers a fifth difficulty, i.e., is there a consequence among enunciations with an infinite subject? This question arises from the fact that consequences were assigned among them earlier.” He says, therefore, that there is a consequence even among these, for the universal affirmative with an infinite subject and predicate and the universal negative with an infinite subject but a finite predicate are equivalent, i.e., "Every non-man is non-just” signifies the same thing as "No non-man is just.” This is also the case in particular infinites and singulars which are similar to the foresaid, for no matter what their quantity, the affirmative with both extremes infinite and the negative with an infinite subject and a finite predicate are always equivalent, as may be easily seen by examples. Hence, Aristotle in giving the universals intends the others to be understood from these. Cajetanus lib. 2 l. 4 n. 8Deinde cum dicit: transposita vero nomina etc., solvit sextam dubitationem, an propter nominum vel verborum transpositionem varietur enunciationis significatio. Oritur autem haec quaestio ex eo, quod docuit transpositionem negationis variare enunciationis significationem. Aliud enim dixit significare, omnis homo non est iustus, et aliud, non omnis homo est iustus. Ex hoc, inquam, dubitatur, an similiter contingat circa nominum transpositionem, quod ipsa transposita enunciationem varient, sicut negatio transposita. Et circa hoc duo facit: primo, ponit solutionem dicens, quod transposita nomina et verba idem significant: verbi gratia, idem significat, est albus homo, et, est homo albus, ubi est transpositio nominum. Similiter transposita verba idem significant, ut, est albus homo, et, homo albus est. When he says, When the names and verbs are transposed, the enunciations signify the same thing, etc., he resolves a sixth difficulty: whether the signification of the enunciation is varied because of the transposition of names or verbs. This question arises from his having shown that the transposition of the negation varies the signification of the enunciation. "Every man is non-just,” he said, does not signify the same thing as "Not every man is just.” This raises the question as to whether a similar thing happens when we transpose names. Would this vary the enunciation as the transposed negation does? First he states the solution, saying that transposed names and verbs signify the same thing, e.g., "Man is white” signifies the same thing as "White is man.” Transposed verbs also signify the same thing, as in "Man is white” and "Man white is.” Cajetanus lib. 2 l. 4 n. 9Deinde cum dicit: nam si hoc non est etc., probat praedictam solutionem ex numero negationum contradictoriarum ducendo ad impossibile, tali ratione. Si hoc non est, idest si nomina transposita diversificant enunciationem, eiusdem affirmationis erunt duae negationes; sed ostensum est in I libro, quod una tantum est negatio unius affirmationis; ergo a destructione consequentis ad destructionem antecedentis transposita nomina non variant enunciationem. Ad probationis autem consequentiae claritatem formetur figura, ubi ex uno latere locentur ambae suprapositae affirmationes, transpositis nominibus; et ex altero contraponantur duae negativae, similes illis quoad terminos et eorum positiones. Deinde, aliquantulo interiecto spatio, sub affirmativis ponatur affirmatio infiniti subiecti, et sub negativis illius negatio. Et notetur contradictio inter primam affirmationem et duas negationes primas, et inter secundam affirmationem et omnes tres negationes, ita tamen quod inter ipsam et infimam negationem notetur contradictio non vera, sed imaginaria. Notetur quoque contradictio inter tertiam affirmationem et tertiam negationem inter se. Hoc modo: (Figura). His ita dispositis, probat consequentiam Aristoteles sic. Illius affirmationis, est albus homo, negatio est, non est albus homo; illius autem secundae affirmationis, quae est, est homo albus, si ista affirmatio non est eadem illi supradictae affirmationi, scilicet, est albus homo, propter nominum transpositionem, negatio erit altera istarum, scilicet aut, non est non homo albus, aut, non est homo albus. Sed utraque habet affirmationem oppositam alia ab illa assignatam, scilicet, est homo albus. Nam altera quidem dictarum negationum, scilicet, non est non homo albus, negatio est illius quae dicit, est non homo albus; alia vero, scilicet, non est homo albus, negatio est eius affirmationis, quae dicit, est albus homo, quae fuit prima affirmatio. Ergo quaecunque dictarum negationum afferatur contradictoria illi mediae, sequitur quod sint duae unius, idest quod unius negationis sint duae affirmationes, et quod unius affirmationis sint duae negationes: quod est impossibile. Et hoc, ut dictum est, sequitur stante hypothesi erronea, quod illae affirmationes sint propter nominum transpositionem diversae. Then he proves the solution from the number of contradictory negations when he says, For if this is not the case there will be more than one negation of the same enunciation, etc. He does this by a reduction to the impossible and his reasoning is as follows. If this is not so, i.e., if transposed names diversify enunciations, there will be two negations of the same affirmation. But in the first book it was shown that there is only one negation of one affirmation. Going, then, from the destruction of the consequent to the destruction of the antecedent, transposed names do not vary the enunciation. To clarify the proof of the consequent, make a figure in which both of the affirmations posited above, with the names transposed are located on one side. Put the two negatives similar to them in respect to terms and position on the opposite side. Then leaving a little space, under the affirmatives put the affirmation with an infinite subject and under the negatives the negation of it. Mark the contradiction between the first affirmation and the first two negations and between the second affirmation and all three negations, but in the latter case mark the contradiction between it and the lowest negation as not true but imaginary. Mark, also, the contradiction between the third affirmation and negation. (1) Man is white - contradictories - Man is not white (2) White is man – contradictories - White is not man (3) Non-man is white - contradictories - Non-man is not white Now we can see how Aristotle proves the consequent. The negation of the affirmation "Man is white” is "Man is not white.” But if the second affirmation, "White is man,” is not the same as "Man is white,” because of the transposition of the names, its negation, [i.e., of "White is man”] will be either of these two: "Non-man is not white,” or "White is not man.” But each of these has another opposed affirmation than that assigned, namely, than "White is man.” For one of the negations, namely, "Non-man is not white,” is the negation of "Non-man is white”; the other, "White is not man” is the negation of the affirmation "Man is white,” which was the first affirmation. Therefore whatever negation is given as contradictory to the middle enunciation, it follows that there are two of one, i.e., two affirmations of one negation, and two negations of one affirmation, which is impossible. And this, as has been said, follows upon an erroneously set up hypothesis, i.e., that these affirmations are diverse because of the transposition of names. 10 Adverte hic primo quod Aristoteles per illas duas negationes, non est non homo albus, et, non est homo albus, sub disiunctione sumptas ad inveniendam negationem illius affirmationis, est homo albus, caeteras intellexit, quasi diceret: aut negatio talis affirmationis acceptabitur illa quae est vere eius negatio, aut quaecunque extranea negatio ponetur; et quodlibet dicatur, semper, stante hypothesi, sequitur unius affirmationis esse plures negationes, unam veram quae est contradictoria suae comparis habentis nomina transposita, et alteram quam tu ut distinctam acceptas, vel falso imaginaris; et e contra multarum affirmationum esse unicam negationem, ut patet in opposita figura. Ex quacunque enim illarum quatuor incipias, duas sibi oppositas aspicis. Unde notanter concludit indeterminate: quare erunt duae unius. Notice first that Aristotle through these two negations, "Non-man is not white” and "White is not man,” taken under disjunction to find the negation of the affirmation "Man is white,” has comprehended other things. It is as though he said: The negation which will be taken will either be the true negation of such an affirmation or some extraneous negation; and whichever is taken, it always follows, given the hypothesis, that there are many negations of one affirmation—one which is the contradictory of it, having equal truth with the one having its name transposed, and the other which you accept as distinct, or you imagine falsely. And conversely, there is a single negation of many affirmations, as is clear in the diagram. Hence, from whichever of these four you begin, you see two opposed to it. It is significant, therefore, that Aristotle concludes indeterminately: Therefore, there will be two [negations] of one [affirmation]. 11 Nota secundo quod Aristoteles contempsit probare quod contradictoria primae affirmationis sit contradictoria secundae, et similiter quod contradictoria secundae affirmationis sit contradictoria primae. Hoc enim accepit tamquam per se notum, ex eo quod non possunt simul esse verae neque simul falsae, ut manifeste patet praeposito sibi termino singulari. Non stant enim simul aliquo modo istae duae, Socrates est albus homo, Socrates non est homo albus. Nec turberis quod eas non singulares proposuit. Noverat enim supra dictum esse in primo quae affirmatio et negatio sint contradictoriae et quae non, et ideo non fuit sollicitus de exemplorum claritate. Liquet ergo ex eo quod negationes affirmationum de nominibus transpositis non sunt diversae quod nec ipsae affirmationes sunt diversae et sic nomina et verba transposita idem significant. Note secondly that Aristotle does not consider it important to prove that the contradictory of the first affirmation is the contradictory of the second, and similarly that the contradictory of the second affirmation is the contradictory of the first. This he accepts as self-evident since they can neither be true at the same time nor false at the same time. This is manifestly clear when a singular term is placed first, for "Socrates is a white man” and "Socrates is not a white man” cannot be maintained at the same time in any mode. You should not be disturbed by the fact that he does not propose these singulars here, for he was undoubtedly aware that he had already stated in the first book which affirmation and negation are contradictories and which not and for this reason felt that a careful elaboration of the examples was not necessary here. It is therefore evident that since negations of affirmations with transposed names are not diverse the affirmations themselves are not diverse, and hence transposed names and verbs signify the same thing. 12 Occurrit autem dubium circa hoc, quia non videtur verum quod nominibus transpositis eadem sit affirmatio. Non enim valet: omnis homo est animal; ergo omne animal est homo. Similiter, transposito verbo, non valet: homo est animal rationale; ergo homo animal rationale est, de secundo adiacente. Licet enim nugatio committatur, tamen non sequitur primam. Ad hoc est dicendum quod sicut in rebus naturalibus est duplex transmutatio, scilicet localis, scilicet de loco ad locum, et formalis de forma ad formam; ita in enunciationibus est duplex transmutatio, situalis scilicet, quando terminus praepositus postponitur, et e converso, et formalis, quando terminus, qui erat praedicatum efficitur subiectum, et e converso vel quomodolibet, simpliciter et cetera. Et sicut quandoque fit in naturalibus transmutatio pure localis, puta quando res transfertur de loco ad locum, nulla alia variatione facta; quandoque autem fit transmutatio secundum locum, non pura sed cum variatione formali, sicut quando transit de loco frigido ad locum calidum: ita in enunciationibus quandoque fit transmutatio pure situalis, quando scilicet nomen vel verbum solo situ vocali variatur; quandoque autem fit transmutatio situalis et formalis simul, sicut contingit cum praedicatum fit subiectum, vel cum verbum tertium adiacens fit secundum. Et quoniam hic intendit Aristoteles de transmutatione nominum et verborum pure situali, ut transpositionis vocabulum praesefert, ideo dixit quod transposita nomina et verba idem significant, insinuare volens quod, si nihil aliud praeter transpositionem nominis vel verbi accidat in enunciatione, eadem manet oratio. Unde patet responsio ad instantias. Manifestum est namque quod in utraque non sola transpositio fit, sed transmutatio de subiecto in praedicatum, vel de tertio adiacente in secundum. Et per hoc patet responsio ad similia. A doubt does arise, however, about the point Aristotle is making here, for it does not seem true that with transposed names the affirmation is the same. This, for example, is not valid: "Every man is an animal”; therefore, "Every animal is a man.” Nor is the following example with a transposed verb valid: "Man is a rational animal and (taking "is” as the second element), therefore "Man animal rational is”; for although it is nugatory as a whole combination, nevertheless it does not follow upon the first. The answer to this is as follows. just as there is a twofold transmutation in natural things, i.e., local, from place to place, and formal, from form to form, so in enunciations there is a twofold transmutation: a positional transmutation when a term placed before is placed after, and conversely, and a formal transmutation when a term that was a predicate is made a subject, and conversely, or in whatever mode, simply, etc. And just as in natural things sometimes a purely local transmutation is made (for instance, when a thing is transferred from place to place, with no other variation made) and sometimes a transmutation is made according to place—not simply but with a formal variation (as when a thing passes from a cold place to a hot place), so in enunciations a transmutation is sometimes made which is purely positional, i.e., when the name and verb are varied only in vocal position, and sometimes a transmutation is made which is at once formal and positional, as when the predicate becomes the subject, or the verb which is the third element added becomes the second. Aristotle’s purpose here was to treat of the purely positional transmutation of names and verbs, as the vocabulary of the transposition indicates; when he says, then, that transposed names and verbs signify the same thing, he intends to imply that if nothing other than the transposition of name and verb takes place in the enunciation, what is said remains the same. Hence, the response to the present objection is clear, for in both examples there is not only a transposition but a transmutation of subject to predicate in one case, and from an enunciation with a third element to one with a second element in the other. The response to similar questions is evident from this. V. 1. Postquam Aristoteles determinavit diversitatem enunciationis unius provenientem ex additione negationis infinitatis, hic intendit determinare quid accidat enunciationi ex hoc quod additur aliquid subiecto vel praedicato tollens eius unitatem. Et circa hoc duo facit: quia primo, determinat diversitatem earum; secundo, consequentias earum; ibi: quoniam vero haec quidem et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit earum diversitatem; secundo, probat omnes enunciationes esse plures; ibi: si ergo dialectica et cetera. Dicit ergo quoad primum, resumendo quod in primo dictum fuerat, quod affirmare vel negare unum de pluribus, vel plura de uno, si ex illis pluribus non fit unum, non est enunciatio una affirmativa vel negativa. Et declarando quomodo intelligatur unum debere esse subiectum aut praedicatum, subdit quod unum dico non si nomen unum impositum sit, idest ex unitate nominis, sed ex unitate significati. Cum enim plura conveniunt in uno nomine, ita quod ex eis non fiat unum illius nominis significatum, tunc solum vocis unitas est. Cum autem unum nomen pluribus impositum est, sive partibus subiectivis, sive integralibus, ut eadem significatione concludat, tunc et vocis et significati unitas est, et enunciationis unitas non impeditur. After the Philosopher has treated the diversity in an enunciation arising from the addition of the infinite negation, he explains what happens to an enunciation when something is added to the subject or predicate which takes away its unity. He first determines their diversity, and then proves that all the enunciations are many where he says, In fact, if dialectical interrogation is a request for an answer, etc. Secondly, he determines their consequences, where he says, Some things predicated separately are such that they unite to form one predicate, etc. He begins by taking up something he said in the first book: there is not one affirmative enunciation nor one negative enunciation when one thing is affirmed or denied of many or many of one, if one thing is not constituted from the many. Then he explains what he means by the subject or predicate having to be one where he says, I do not use "one” of those things which, although one name may be imposed, do not constitute something one, i.e., a subject or predicate is one, not from the unity of the name, but from the unity of what is signified. For when many things are brought together under one name in such a way that what is signified by that name is not one, then the unity is only one of vocal sound. But when one name has been imposed for many, whether for subjective or for integral parts, so that it encloses them in the same signification, then there is unity both of vocal sound and what is signified. In the latter case, unity of the enunciation is not impeded. 2 Secundum quod subiungit: ut homo est fortasse animal et mansuetum et bipes obscuritate non caret. Potest enim intelligi ut sit exemplum ab opposito, quasi diceret: unum dico non ex unitate nominis impositi pluribus ex quibus non fit tale unum, quemadmodum homo est unum quoddam ex animali et mansueto et bipede, partibus suae definitionis. Et ne quis crederet quod hae essent verae definitionis nominis partes, interposuit, fortasse. Porphyrius autem, Boethio referente et approbante, separat has textus particulas, dicens quod Aristoteles hucusque declaravit enunciationem illam esse plures, in qua plura subiicerentur uni, vel de uno praedicarentur plura, ex quibus non fit unum. In istis autem verbis: ut homo est fortasse etc., intendit declarare enunciationem aliquam esse plures, in qua plura ex quibus fit unum subiiciuntur vel praedicantur; sicut cum dicitur, homo est animal et mansuetum et bipes, copula interiecta, vel morula, ut oratores faciunt. Ideo autem addidisse aiunt, fortasse, ut insinuaret hoc contingere posse, necessarium autem non esse. Then he adds, For example, man probably is an animal and biped and civilized. This, however, is obscure, for it can be understood as all example of the opposite, as if he were saying, "I do not mean by ‘one’ such a ‘one’ as the unity of the name imposed upon many from which one thing is not constituted, for instance, ‘man’ as ‘one’ from the parts of the definition, animal and civilized and biped.” And to prevent anyone from thinking these are true parts of the definition of the name he interposes perhaps. Porphyry, however, referred to with approval by Boethius, separates these parts of the text. He says Aristotle first states that that enunciation is many in which many are subjected to one, or many are predicated of one, when one thing is not constituted from these. And when he says, For example, man perhaps is, etc., he intends to show that an enunciation is many when many from which one thing is constituted are subjected or predicated, as in the example "Man is an animal and civilized and biped,” with copulas interjected or a pause such as orators make. He added perhaps, they say, to imply that this could happen, but it need not. 3 Possumus in eamdem Porphyrii, Boethii et Alberti sententiam incidentes subtilius textum introducere, ut quatuor hic faciat. Et primo quidem, resumit quae sit enunciatio in communi dicens: enunciatio plures est, in qua unum de pluribus, vel plura de uno enunciantur. Si tamen ex illis pluribus non fit unum, ut in primo dictum et expositum fuit. Deinde dilucidat illum terminum de uno, sive unum, dicens: dico autem unum, idest, unum nomen voco, non propter unitatem vocis, sed significationis, ut supra dictum est. Deinde tertio, dividendo declarat, et declarando dividit, quot modis contingit unum nomen imponi pluribus ex quibus non fit unum, ut ex hoc diversitatem enunciationis multiplicis insinuet. Et ponit duos modos, quorum prior est, quando unum nomen imponitur pluribus ex quibus fit unum, non tamen in quantum ex eis fit unum. Tunc enim, licet materialiter et per accidens loquendo nomen imponatur pluribus ex quibus fit unum, formaliter tamen et per se loquendo nomen unum imponitur pluribus, ex quibus non fit unum: quia imponitur eis non in quantum ex eis est unum, ut fortasse est hoc nomen, homo, impositum ad significandum animal et mansuetum et bipes, idest, partes suae definitionis, non in quantum adunantur in unam hominis naturam per modum actus et potentiae, sed ut distinctae sint inter se actualitates. Et insinuavit quod accipit partes definitionis ut distinctas per illam coniunctionem, et per illud quoque adversative additum: sed si ex his unum fit, quasi diceret, cum hoc tamen stat quod ex eis unum fit. Addidit autem, fortasse, quia hoc nomen, homo, non est impositum ad significandum partes sui definitivas, ut distinctae sunt. Sed si impositum esset aut imponeretur, esset unum nomen pluribus impositum ex quibus non fit unum. Et quia idem iudicium est de tali nomine, et illis pluribus; ideo similiter illae plures partes definitivae possunt dupliciter accipi. Uno modo, per modum actualis et possibilis, et sic unum faciunt; et sic formaliter loquendo vocantur plura, ex quibus fit unum, et pronunciandae sunt continuata oratione, et faciunt enunciationem unam dicendo, animal rationale mortale currit. Est enim ista una sicut et ista, homo currit. Alio modo, accipiuntur praedictae definitionis partes ut distinctae sunt inter se actualitates, et sic non faciunt unum: ex duobus enim actibus ut sic, non fit unum, ut dicitur VII metaphysicae; et sic faciunt enunciationes plures et pronunciandae sunt vel cum pausa, vel coniunctione interposita, dicendo, homo est animal et mansuetum et bipes; sive, homo est animal, mansuetum, bipes, rhetorico more. Quaelibet enim istarum est enunciatio multiplex. Et similiter ista, Socrates est homo, si homo est impositum ad illa, ut distinctae actualitates sunt, significandum. Secundus autem modus, quo unum nomen impositum est pluribus ex quibus non fit unum, subiungitur, cum dicit: ex albo autem et homine et ambulante etc., idest, alio modo hoc fit, quando unum nomen imponitur pluribus, ex quibus non potest fieri unum, qualia sunt: homo, album, et ambulans. Cum enim ex his nullo modo possit fieri aliqua una natura, sicut poterat fieri ex partibus definitivis, clare liquet quod nomen aliquod si eis imponeretur, esset nomen non unum significans, ut in primo dictum fuit de hoc nomine, tunica, imposito homini et equo. While agreeing with the opinion of Porphyry, Boethius, and Albert, we think a more subtle construction can be made of the text. According to it Aristotle makes four points here. First, he reviews what an enunciation is in general when he says, The enunciation is many in which one is enunciated of many or many of one, unless from the many something one is constituted... as he stated and explained in the first book. Secondly, he clarifies the term "one,” when he says, I do not use "one” of those things, etc., i.e., I call a name one, not by reason of the unity of vocal sound, but of signification, as was said above. Thirdly, he manifests (by dividing) and divides (by manifesting) the number of ways in which one name may be imposed on many things from which one thing is not constituted. From this he implies the diversity of the multiple enunciation. And he posits two ways in which one name may be imposed on many things from which one thing is not constituted: first, when one name is imposed upon many things from which one thing is constituted but not as one thing is constituted from them. In this case, materially and accidentally speaking, the name is imposed on many from which one thing is constituted, but it is formally and per se imposed on many from which one thing is not constituted; for it is not imposed upon them in the respect in which they constitute one thing; as perhaps the name "man” is imposed to signify animal and civilized and biped (i.e., parts of its definition) not as they are united in the one nature of man in the mode of act and potency, but as they are themselves distinct actualities. Aristotle implies that he is taking these parts of the definition as distinct by the conjunctions and by also adding adversatively, but if there is something one formed from these, Neither the Greek nor the Latin text of Aristotle has the "if” that Cajetan puts into this phrase.The correct reading is "...but there is something one formed from these.” Close as if to say, "when however it holds that one thing is constituted from these.” He adds perhaps because the name "man” is not imposed to signify its definitive parts as they are distinct. But if it had been so imposed or were imposed, it would be one name imposed on many things from which no one thing is constituted. And since the judgment with respect to such a name and those many things is the same, the many definitive parts can also be taken in two ways: first, in the mode of the actual and possible, and thus they constitute one thing, and formally speaking are called many from which one thing is constituted, and they are to be pronounced in continuous speech and they make one enunciation, for example, "A mortal rational animal is running.” For this is one enunciation, just as is "Man is running.” In the second way, the foresaid parts of the definition are taken as they are distinct actualities, and thus they do not constitute one thing, for one thing is not constituted from two acts as such, as Aristotle says in VII Metaphysicae [13: 1039a 5]. In this case they constitute many enunciations and are pronounced either with conjunctions interposed or with a pause in the rhetorical manner, for example, "Man is an animal and civilized and biped” or "Man is an animal–civilized–biped.” Each of these is a multiple enunciation. And so is the enunciation, "Socrates is a man” if "man” is imposed to signify animal, civilized, and biped as they are distinct actualities. Aristotle takes up the second way in which one name is imposed on many from which one thing is not constituted where he says, whereas from "white” and "man” and "walking” there is not [something one formed]. Since in no way can any one nature be constituted from "man,” white,” and "walking” (as there can be from the definitive parts), it is evident that if a name were imposed on these it would be a name that does not signify one thing, as was said in the first book of the name "cloak” imposed for man and horse. 4 Habemus ergo enunciationis pluris seu multiplicis duos modos, quorum, quia uterque fit dupliciter, efficiuntur quatuor modi. Primus est, quando subiicitur vel praedicatur unum nomen impositum pluribus, ex quibus fit unum, non in quantum sunt unum; secundus est, quando ipsa plura ex quibus fit unum, in quantum sunt distinctae actualitates, subiiciuntur vel praedicantur; tertius est, quando ibi est unum nomen impositum pluribus ex quibus non fit unum; quartus est, quando ista plura ex quibus non fit unum, subiiciuntur vel praedicantur. Et notato quod cum enunciatio secundum membra divisionis illius, qua divisa est, in unam et plures, quadrupliciter variari possit, scilicet cum unum de uno praedicatur, vel unum de pluribus, vel plura de uno, vel plura de pluribus; postremum sub silentio praeterivit, quia vel eius pluralitas de se clara est, vel quia, ut inquit Albertus, non intendebat nisi de enunciatione, quae aliquo modo una est, tractare. Demum concludit totam sententiam, dicens: quare nec si aliquis affirmet unum de his pluribus, erit affirmatio una secundum rem: sed vocaliter quidem erit una, significative autem non una, sed multae fient affirmationes. Nec si e converso de uno ista plura affirmabuntur, fiet affirmatio una. Ista namque, homo est albus, ambulans et musicus, importat tres affirmationes, scilicet, homo est albus et est ambulans et est musicus, ut patet ex illius contradictione. Triplex enim negatio illi opponitur correspondens triplici affirmationi positae. We have, therefore, two modes of the many (i.e., the multiple enunciation) and since both are constituted in two ways, there will be four modes: first, when one name imposed on many from which one thing is constituted is subjected or predicated as though the name stands for many; the second, when the many from one which one thing is constituted are subjected or predicated as distinct actualities; the third, when one name is imposed for a many from which nothing one is constituted; the fourth, when many which do not constitute one thing are subjected or predicated. Note that the enunciation, according to the members of the division by which it has been divided into one and many, can be varied in four ways, i.e., one is predicated of one, one of many, many of one, and many of many. Aristotle has not spoken of the last one, either because its plurality is clear enough or because, as Albert says, he only intends to treat of the enunciation which is one in some way. Finally [fourthly], he concludes with this summary: Consequently, if someone affirms something one of these latter there will not be one affirmation according to the thing: vocally it will be one; significatively, it will not be one, but many. And conversely, if the many are affirmed of one subject, there will not be one affirmation. For example, "Man is white, walking, and musical” implies three affirmations, i.e., "Man is white” and "is walking” and "is musical,” as is clear from its contradiction, for a threefold negation is opposed to it, corresponding to the threefold affirmation. 5 Deinde cum dicit: si ergo dialectica etc., probat a posteriori supradictas enunciationes esse plures. Circa quod duo facit: primo, ponit rationem ipsam ad hoc probandum per modum consequentiae; deinde probat antecedens dictae consequentiae; ibi: dictum est autem de his et cetera. Quoad primum talem rationem inducit. Si interrogatio dialectica est petitio responsionis, quae sit propositio vel altera pars contradictionis, nulli enunciationum supradictarum interrogative formatae erit responsio una; ergo nec ipsa interrogatio est una, sed plures. Cuius rationis primo ponit antecedens: si ergo et cetera. Ad huius intelligendos terminos nota quod idem sonant enunciatio, interrogatio et responsio. Cum enim dicitur, caelum est animatum, in quantum enunciat praedicatum de subiecto, enunciatio vocatur; in quantum autem quaerendo proponitur, interrogatio; ut vero quaesito redditur, responsio appellatur. Idem ergo erit probare non esse responsionem unam, et interrogationem non esse unam, et enunciationem non esse unam. Adverte secundo interrogationem esse duplicem. Quaedam enim est utram partem contradictionis eligendam proponens; et haec vocatur dialectica, quia dialecticus habet viam ex probabilibus ad utramque contradictionis partem probandam. Altera vero determinatam ad unum responsionem exoptat; et haec est interrogatio demonstrativa, eo quod demonstrator in unum determinate tendit. Considera ulterius quod interrogationi dialecticae dupliciter responderi potest. Uno modo, consentiendo interrogationi, sive affirmative sive negative; ut si quis petat, caelum est animatum? Et respondeatur, est; vel, Deus non movetur? Et respondeatur, non: talis responsio vocatur propositio. Alio modo, potest responderi interimendo; ut si quis petat, caelum est animatum? Et respondeatur, non; vel Deus non movetur? Et respondeatur, movetur: talis responsio vocatur contradictionis altera pars, eo quod affirmationi negatio redditur et negationi affirmatio. Interrogatio ergo dialectica est petitio annuentis responsionis, quae est propositio, vel contradicentis, quae est altera pars contradictionis secundum supradictam Boethii expositionem. Then when he says, In fact, if dialectical interrogation is a request for an answer, etc., he proves a posteriori that the foresaid enunciations are many. First he states an argument to prove this by way of the consequent; then he proves the antecedent of the given consequent where he says, But we have spoken about these things in the Topics, etc. Now if dialectical questioning is a request for an answer, either a proposition or one part of a contradiction, none of the foresaid enunciations, put in the form of a question, will have one answer. Therefore, the question is not one, but many. Aristotle first states the antecedent of the argument, if dialectical interrogation is a request for an answer, etc. To understand this it should be noted that an enunciation, a question, and an answer sound the same. For when we say, "The region of heaven is animated,” we call it an enunciation inasmuch as it enunciates a predicate of a subject, but when it is proposed to obtain an answer we call it an interrogation, and as applied to what was asked we call it a response. Therefore, to prove that there is not one response or one question or one enunciation will be the same thing. It should also be noted that interrogation is twofold. One proposes either of the two parts of a contradiction to choose from. This is called dialectical interrogation because the dialectician knows the way to prove either part of a contradiction from probable positions. The other kind of interrogation seeks one determinate response. This is the demonstrative interrogation, for the demonstrator proceeds determinately toward a single alternative. Note, finally, that it is possible to reply to a dialectical question in two ways. We may consent to the question, either affirmatively or negatively; for example, when someone asks, "Is the region of heaven animated,” we may respond, "It is,” or to the question "Is not God moved,” we may say, "No.” Such a response is called a proposition. The second way of replying is by destroying; for example, when someone asks "Is the region of heaven animated?” and we respond, "No,” or to the question, "Is not God moved?” we respond, "He is moved.” Such a response is called the other part of a contradiction, because a negation is given to an affirmation and an affirmation to a negation. Dialectical interrogation, then, according to the exposition just given, which is that of Boethius, is a request for the admission of a response which is a proposition, or which is one part of a contradiction. 6 Deinde subdit probationem consequentiae, cum ait: propositio vero unius contradictionis est et cetera. Ubi notandum est quod si responsio dialectica posset esse plures, non sequeretur quod responsio enunciationis multiplicis non posset esse dialectica; sed si responsio dialectica non potest esse nisi una enunciatio, tunc recte sequitur quod responsio enunciationis pluris, non est responsio dialectica, quae una est. Notandum etiam quod si enunciatio aliqua plurium contradictionum pars est, una non esse comprobatur: una enim uni tantum contradicit. Si autem unius solum contradictionis pars est, una est eadem ratione, quia scilicet unius affirmationis unica est negatio, et e converso. Probat ergo Aristoteles consequentiam ex eo quod propositio, idest responsio dialectica unius contradictionis est, idest una enunciatio est affirmativa vel negativa. Ex hoc enim, ut iam dictum est, sequitur quod nullius enunciationis multiplicis sit responsio dialectica, et consequenter nec una responsio sit. Nec praetereas quod cum propositionem, vel alteram partem contradictionis, responsionemque praeposuerit dialecticae interrogationis, de sola propositione subiunxit, quod est una; quod ideo fecit, quia illius alterius vocabulum ipsum unitatem praeferebat. Cum enim alteram contradictionis partem audis, unam affirmationem vel negationem statim intelligis. Adiunxit autem antecedenti ly ergo, vel insinuans hoc esse aliunde sumptum, ut postmodum in speciali explicabit, vel, permutato situ, notam consequentiae huius inter antecedens et consequens locandam, antecedenti praeposuit; sicut si diceretur, si ergo Socrates currit, movetur; pro eo quod dici deberet, si Socrates currit, ergo movetur. Sequitur deinde consequens: non erit una responsio ad hoc; et infert principalem conclusionem subdens, quod neque una erit interrogatio et cetera. Si enim responsio non potest esse una, nec interrogatio ipsa una erit. He adds the proof of the consequent when he says, and a proposition is a part of one contradiction. In relation to this it should be noted that if a dialectical response could be many, it would not follow that a response to a multiple enunciation would not be dialectical. However, if the dialectical response can only be one enunciation then it follows that a response to a plural enunciation is not a dialectical response, for it is one [i.e., it inclines to one part of a contradiction at a time]. It should also be noted that if an enunciation is a part of many contradictions, it is thereby proven not to be one, for one contradicts only one. But if an enunciation is a part of only one contradiction, it is one by the same reasoning, i.e., because there is only one negation of one affirmation, and conversely. Hence Aristotle proves the consequent from the fact that the proposition, i.e., the dialectical response, is a part of one contradiction, i.e., it is one affirmative or one negative enunciation. It follows from this, as has been said, that there is no dialectical response of a multiple enunciation, and consequently not one response. It should not be overlooked that when he designates a proposition or one part of a contradiction as the response to a dialectical interrogation, it is only of the proposition that he adds that it is one, because the very wording shows the unity of the other. For when you hear one part of a contradiction, you immediately understand one affirmation or negation. He puts the "therefore” with the antecedent, either implying that this is taken from another place and he will explain in particular afterward, or having changed the structure, he places the sign of the consequent, which should be between the antecedent and consequent before the antecedent, as when one says, "Therefore if Socrates runs, he is moved,” for "If Socrates runs, therefore he is moved.” Then the consequent follows: there will not be one answer to this, etc.; and the inference of the principal conclusion, for there would not be a single question. For if the response cannot be one, the question will not be one. 7 Quod autem addidit: nec si sit vera, eiusmodi est. Posset aliquis credere, quod licet interrogationi pluri non possit dari responsio una, quando id de quo quaestio fit non potest de omnibus illis pluribus affirmari vel negari (ut cum quaeritur, canis est animal? Quia non potest vere de omnibus responderi, est, propter caeleste sidus, nec vere de omnibus responderi, non est, propter canem latrabilem, nulla possit dari responsio una); attamen quando id quod sub interrogatione cadit potest vere de omnibus affirmari aut negari, tunc potest dari responsio una; ut si quaeratur, canis est substantia? Quia potest vere de omnibus responderi, est, quia esse substantiam omnibus canibus convenit, unica responsio dari possit. Hanc erroneam existimationem removet dicens: nec si sit vera, idest, et dato quod responsio data enunciationi multiplici de omnibus verificetur, nihilominus non est una, quia unum non significat, nec unius contradictionis est pars, sed plures responsio illa habet contradictorias, ut de se patet. He adds, even if there is a true answer, because someone might think that although one response cannot be given to a plural interrogation when the question concerns something that cannot be affirmed or denied of all of the many (for example, when someone asks, "Is a dog an animal?” no one response can be given, for we cannot truly say of every dog that it is an animal because of the star by that name; nor can we truly say of every dog that it is not an animal, because of the barking dog), nevertheless one response could be given when that which falls tinder the interrogation can be truly said of all. For example, when someone asks, "Is a dog a substance?” a single response can be given because it can truly he said of every dog that it is a substance, for to be a substance belongs to all dogs. Aristotle adds the phrase, even if there is a true answer, to remove such an erroneous judgment. For even if the response to the multiple enunciation is verified of all, it is nonetheless not one, since it does not signify one thing, nor is it a part of one contradiction. Rather, as is evident, this response has many contradictories. 8 Deinde cum dicit: dictum est autem de his in Topicis etc., probat antecedens dupliciter: primo, auctoritate eorum quae dicta sunt in Topicis; secundo, a signo. Et circa hoc duo facit. Primo, ponit ipsum signum, dicens: quod similiter etc., cum auctoritate topicorum, manifestum est, scilicet, antecedens assumptum, scilicet quod dialectica interrogatio est petitio responsionis affirmativae vel negativae. Quoniam nec ipsum quid est, idest ex eo quod nec ipsa quaestio quid est, est interrogatio dialectica: verbi gratia; si quis quaerat, quid est animal? Talis non quaerit dialectice. Deinde subiungit probationem assumpti, scilicet quod ipsum quid est, non est quaestio dialectica; et intendit quod quia interrogatio dialectica optionem respondenti offerre debet, utram velit contradictionis partem, et ipsa quaestio quid est talem libertatem non proponit (quia cum dicimus, quid est animal? Respondentem ad definitionis assignationem coarctamus, quae non solum ad unum determinata est, sed etiam omni parte contradictionis caret, cum nec esse, nec non esse dicat); ideo ipsa quaestio quid est, non est dialectica interrogatio. Unde dicit: oportet enim ex data, idest ex proposita interrogatione dialectica, hunc respondentem eligere posse utram velit contradictionis partem, quam contradictionis utramque partem interrogantem oportet determinare, idest determinate proponere, hoc modo: utrum hoc animal sit homo an non: ubi evidenter apparet optionem respondenti offerri. Habes ergo pro signo cum quaestio dialectica petat responsionem propositionis, vel alterius contradictionis partem, elongationem quaestionis quid est a quaestionibus dialecticis. Where he says, But we have spoken about these things in the Topics, etc., he proves the antecedent in two ways. First, he proves it on the basis of what was said in the Topics; secondly, by a sign. The sign is given first where he says, Similarly it is clear that the question "What is it?” is not a dialectical one, etc. That is, given the doctrine in the Topics, it is clear (i.e., assuming the antecedent that the dialectical interrogation is a request for an affirmative or negative response) that the question "What is it?” is not a dialectical interrogation, e.g., when someone asks, "What is an animal?” he does not interrogate dialectically. Secondly, he gives the proof of what was assumed, namely, that the question "What is it?” is not a dialectical question. He states that a dialectical interrogation must offer to the one responding the option of whichever part of the contradiction he wishes. The question "What is it?” does not offer such liberty, for in saying "What is an animal?” the one responding is forced to assign a definition, and a definition is not only determined to one but is also entirely devoid of contradiction, since it affirms neither being nor non-being. Therefore, the question "What is it?” is not a dialectical interrogation. Whence he says, For the dialectical interrogation must provide, i.e., from the proposed dialectical interrogation the one responding must be able to choose whichever part of the contradiction he wishes, which parts of the contradiction the interrogator must specify, i.e., he must propose the question in this way: "Is this animal man or not?” wherein the wording of the question clearly offers an option to the one answering. Therefore, you have as a sign that a dialectical question is seeking a response of a proposition or of one part of a contradiction, the setting apart of the question "What is it?” from dialectical questions. VI. 1 Postquam declaravit diversitatem multiplicis enunciationis, intendit determinare de earum consequentiis. Et circa hoc duo facit, secundum duas dubitationes quas solvit. Secunda incipit; ibi: verum autem est dicere et cetera. Circa primum tria facit: primo, proponit quaestionem; secundo, ostendit rationabilitatem quaestionis; ibi: si enim quoniam etc.; tertio, solvit eam; ibi: eorum igitur et cetera. Est ergo dubitatio prima: quare ex aliquibus divisim praedicatis de uno sequitur enunciatio, in qua illamet unita praedicantur de eodem, et ex aliquibus non. Unde haec diversitas oritur? Verbi gratia; ex istis, Socrates est animal et est bipes; sequitur, ergo Socrates est animal bipes; et similiter ex istis, Socrates est homo et est albus; sequitur, ergo Socrates est homo albus. Ex illis vero, Socrates est bonus, et est citharoedus; non sequitur, ergo est bonus citharoedus. Unde proponens quaestionem inquit: quoniam vero haec, scilicet praedicta, ita praedicantur composita, idest coniuncta, ut unum sit praedicamentum quae extra praedicantur, idest, ut ex eis extra praedicatis unite fiat praedicatio, alia vero praedicata non sunt talia, quae est inter differentia; unde talis innascitur diversitas? Et subdit exempla iam adducta, et ad propositum applicata: quorum primum continet praedicata ex quibus fit unum per se, scilicet, animal et bipes, genus et differentia; secundum autem praedicata ex quibus fit unum per accidens, scilicet, homo albus; tertium vero praedicata ex quibus neque unum per se neque unum per accidens inter se fieri sequitur; ut, citharoedus et bonus, ut declarabitur. Having explained the diversity of the multiple enunciation Aristotle now proposes to determine the consequences of this. He treats this in relation to two questions which he solves. The second begins where he says, On the other hand, it is also true to say predicates of something singly, etc. With respect to the other question, first he proposes it, then he shows that the question is a reasonable one where he says, For if we hold that whenever each is truly said of a subject, both together must also be true, many absurdities will follow, etc. Finally, he solves it where he says, Those things that are predicated—taken in relation to that to which they are joined in predication, etc. The first question is this: Why is it that from some things predicated divisively of a subject an enunciation follows in which they are predicated of the same subject unitedly, and from others not? What is the reason for this diversity? For example, from "Socrates is an animal and he is biped” follows, "Therefore, Socrates is a biped animal”; and similarly, from "Socrates is a man and he is white” follows, "Therefore, Socrates is a white man.” But from "Socrates is good and he is a lute player,” the enunciation, "Therefore, he is a good lute player” does not follow. Hence in proposing the question Aristotle says, Some things, i.e., predicates, are so predicated when combined, that there is one predicate from what is predicated separately, i.e., from some things that are predicated separately, a united predication is made but from others this is riot so. What is the difference between these; whence does such a diversity arise? He adds the examples which we have already cited and applied to the question. Of these examples, the first contains predicates from which something one per se is formed, i.e., "animal” and "biped,” a genus and difference; the second contains predicates from which something accidentally one is formed, namely, "white man”; the third contains predicates from which neither one per se nor one accidentally is formed, "lute player” and "good,” as will be explained. Cajetanus lib. 2 l. 6 n. 2Deinde cum dicit: si enim quoniam etc., declarat veritatem diversitatis positae, ex qua rationabilis redditur quaestio: si namque inter praedicata non esset talis diversitas, irrationabilis esset dubitatio. Ostendit autem hoc ratione ducente ad inconveniens, nugationem scilicet. Et quia nugatio duobus modis committitur, scilicet explicite et implicite; ideo primo deducit ad nugationem explicitam, secundo ad implicitam; ibi: amplius, si Socrateset cetera. Ait ergo quod si nulla est inter quaecumque praedicata differentia, sed de quolibet indifferenter censetur quod quia alterutrum separatum dicitur, quod utrumque coniunctim dicatur, multa inconvenientia sequentur. De aliquo enim homine, puta Socrate, verum est separatim dicere quod, homo est, et albus est; quare et omne, idest et coniunctim dicetur, Socrates est homo albus. Rursus et de eodem Socrate potest dici separatim quod, est homo albus, et quod, est albus; quare et omne, idest, igitur coniunctim dicetur, Socrates est homo albus albus: ubi manifesta est nugatio. Rursus si de eodem Socrate iterum dicas separatim quod, est homo albus albus, verum dices et congrue quod est albus, et secundum hoc, si iterum hoc repetes separatim, a veritate simili non discedes, et sic in infinitum sequetur, Socrates est homo albus, albus, albus in infinitum. Simile quod ostenditur in alio exemplo. Si quis de Socrate dicat quod, est musicus, albus, ambulans, cum possit et separatim dicere quod, est musicus, et quod, est albus, et quod, est ambulans; sequetur, Socrates est musicus, albus, ambulans, musicus, albus, ambulans. Et quia pluries separatim, in eodem tamen tempore, enunciari potest, procedit nugatio sine fine. Deinde deducit ad implicitam nugationem, dicens, cum de Socrate vere dici possit separatim quod, est homo, et quod, est bipes, si coniunctim inferre licet, sequetur quod, Socrates sit homo bipes. Ubi est implicita nugatio. Bipes enim circumloquens differentiam hominis actu et intellectu clauditur in hominis ratione. Unde ponendo loco hominis suam rationem (quod fieri licet, ut docet Aristoteles II topicorum), apparebit manifeste nugatio. Dicetur enim: Socrates est homo, idest, animal bipes, bipes. Quoniam ergo plurima inconvenientia sequuntur si quis ponat complexiones, idest, adunationes praedicatorum fieri simpliciter, idest, absque diversitate aliqua, manifestum est ex dictis; quomodo autem faciendum est, nunc, idest, in sequentibus dicemus. Et nota quod iste textus non habetur uniformiter apud omnes quoad verba, sed quia sententia non discrepat, legat quicunque ut vult. When he says, For if we hold that whenever each is truly said of a subject, both together must also be true, etc., he shows that there truly is such a diversity among predicates and in so doing renders the question reasonable, for if there were not such a diversity among predicates the question would be pointless. He shows this by reasoning lead-ing to an absurdity, i.e., to something nugatory. Now, something nugatory is effected in two ways, explicitly and implicitly. Therefore, he first makes a deduction to the explicitly nugatory, secondly to the implicitly, where he says, Furthermore, if Socrates is Socrates and a man, Socrates is a Socrates man, etc. If, he says, there is no difference between predicates, and it is supposed of any of them indifferently that because both are said separately both may he said conjointly, many absurdities will follow. For of some man, say Socrates, it is true to say separately that he is a man and he is white; therefore both -together, i.e., we may also say conjointly, "Socrates is a white man.” Again, of the same Socrates we can say separately that he is a white man and that he is white, and both together, i.e., therefore conjointly, "Socrates is a white white man.” Here the nugatory expression is evident. Further, if of the same Socrates that you again say separately is a white white man it will be true and consistent to say that he is white, and according to this, if again repeating this separately, you will not deviate from a similar truth, and this will follow to infinity, then Socrates is a white white white man to infinity. The same thing can be shown by another example, If someone says of Socrates that he is musical, white, and walking, since it is also possible to say separately that he is musical, and that he is white, and that he is walking, it will follow that Socrates is musical, white, walking, musical, white, walking. And since these can be enunciated many times separately, yet at the same time, the nugatory statement proceeds without end. Then he makes a deduction to the implicitly nugatory. Since it can be truly said of Socrates separately that he is man and that he is biped, it will follow that Socrates is a biped man, if it is licit to infer conjointly. This is implicitly nugatory because the "biped,” which indirectly expresses the difference of man in act and in understanding, is included in the notion of man. Hence, if we posit the definition of man in place of "man” (which it is licit to do, as Aristotle teaches in II Topicorum [2: 110a 5]) the nugatory character of the enunciation will be evident, for when we say "Socrates is a biped man,” we are saying "Socrates is a biped biped animal.” From what has been said it is evident that many absurdities follow if anyone proposes that combinations, i.e., unions of predicates, be made simply, i.e., without any distinction. Now, i.e., in what follows, we will state how this must be settled. This particular text is not uniformly worded in the manuscripts, but since no discrepancy of thought is involved one may read it as he wishes. 3 Deinde cum dicit: eorum igitur etc., solvit propositam quaestionem. Et circa hoc duo facit: primo, respondet instantiis in ipsa propositione quaestionis adductis; secundo, satisfacit instantiis in probatione positis; ibi: amplius nec quaecumqueet cetera. Circa primum duo facit: primo namque, declarat veritatem; secundo, applicat ad propositas instantias; ibi: quocirca et cetera. Determinat ergo dubitationem tali distinctione. Praedicatorum sive subiectorum plurium duo sunt genera: quaedam sunt per accidens, quaedam per se. Si per accidens, hoc dupliciter contingit, vel quia ambo dicuntur per accidens de uno tertio, vel quia alterum de altero mutuo per accidens praedicatur. Quando illa plura divisim praedicata sunt per accidens quovis modo, ex eis non sequitur coniunctim praedicatum; quando autem sunt per se, tum ex eis sequitur coniuncte praedicatum. Unde continuando se ad praecedentia ait: eorum igitur quae praedicantur, et de quibus praedicantur, idest subiectorum, quaecumque dicuntur secundum accidens (et per hoc innuit oppositum membrum, scilicet per se), vel de eodem, idest accidentaliter concurrunt ad unius tertii denominationem, vel alterutrum de altero, idest accidentaliter mutuo se denominant (et per hoc ponit membra duplicis divisionis), haec, scilicet plura per accidens, non erunt unum, idest non inferent praedicationem coniunctam. When he says, Those things that are predicated—taken in relation to that to which they are joined in predication, etc., he solves the proposed question. First he makes an answer with respect to the instances cited in proposing the question; secondly, he solves the problem as related to the instances posited in his proof where he says, Furthermore, predicates that are present in one another cannot be combined simply. In relation to the first answer, he states the true position first and then applies it to the instances where he says, This is the reason "good” and "shoemaker” cannot be combined simply, etc. He settles the question with this distinction: there are two kinds of multiple predicates and subjects. Some are accidental, some per se. If they are accidental this occurs in two ways, either because both are said accidentally of a third thing or because they are predicated of each other accidentally. Now when the many predicated divisively are in any way accidental, a conjoined predicate does not follow from them; but when they are per se, a conjoined predicate does follow from them. In answering the question, therefore, Aristotle connects what he is saying with what has gone before: Of those things that are predicated and those of which they are predicated, i.e., subjects, whichever are said accidentally (by which he intimates the opposite member, i.e., per se), either of the same subject, i.e., they unite accidentally for the denomination of one third thing, or of one another, i.e., they denominate each other accidentally (and by this he posits the members of a two-fold division), these (i.e., these many accidentally) will not be one, i.e., do not produce a conjoined predication. 4 Et explanat utrumque horum exemplariter. Et primo, primum, quando scilicet illa plura per accidens dicuntur de tertio, dicens: ut si homo albus est et musicus divisim. Sed non est idem, idest non sequitur adunatim, ergo homo est musicus albus. Utraque enim sunt accidentia eidem tertio. Deinde explanat secundum, quando solum illa plura per accidens de se mutuo praedicantur, subdens: nec si album musicum verum est dicere, idest, et etiamsi de se invicem ista praedicantur per accidens ratione subiecti in quo uniuntur, ut dicatur, homo est albus, et est musicus, et album est musicum, non tamen sequitur quod album musicum unite praedicetur, dicendo, ergo homo est albus musicus. Et causam assignat, quia album dicitur de musico per accidens, et e converso. He explains both of these by examples. First, the many said accidentally of a third; for example, man is white and musical divisively. But they are not the same, i.e., it does not follow unitedly that "Man is musical white” for both are accidental to the same third thing. Then he explains the second member by an example. In it the many are predicated only of one another. Even if it were true to say white is musical, i.e., even if these are predicated accidentally of each other by reason of the subject in which they are united, so that we may say "Man is white and he is musical, and white is musical,” it still does not follow that "musical white” is predicated as a unity when we say, "Therefore, man is musical white.” He gives as the cause of this that "white” is said of "musical” accidentally and conversely. 5 Notandum est hic quod cum duo membra per accidens enumerasset, unico tamen exemplo utrumque membrum explanavit, ut insinuaret quod distinctio illa non erat in diversa praedicata per accidens, sed in eadem diversimode comparata; album enim et musicum, comparata ad hominem, sub primo cadunt membro; comparata autem inter se, sub secundo. Diversitatem ergo comparationis pluralitate membrorum, identitatem autem praedicatorum unitate exempli astruxit. It must be noted here that although he has enumerated two accidental members, he explains both members by this single example so as to imply that the distinction is not one of different accidental predicates, but of the same predicates compared in different ways. "White” and "musical” compared to "man” fall under the first member, but compared with each other, under the second. Hence he has provided diversity of comparison by the plurality of the members, but identity of predicates by the unity of the example. 6 Advertendum est ulterius, ad evidentiam divisionis factae in littera, quod, secundum accidens, potest dupliciter accipi. Uno modo, ut distinguitur contra perseitatem posterioristicam, et sic non sumitur hic: quoniam cum dicitur plura praedicata secundum accidens, aut ly secundum accidens determinaret coniunctionem inter se, et sic manifeste esset falsa regula; quoniam inter prima praedicata, animal bipes, seu, animal rationale, est praedicatio secundum accidens hoc modo (differentia enim in nullo modo perseitatis praedicatur de genere, et tamen Aristoteles in textu dicit ea non esse praedicata per accidens, et asserit quod est optima illatio, est animal et bipes, ergo est animal bipes); aut determinaret coniunctionem illarum ad subiectum, et sic etiam inveniretur falsitas in regula: bene namque dicitur, paries est coloratus, et est visibilis, et tamen coloratum visibile non per se inest parieti. Alio modo, accipitur ly secundum accidens, ut distinguitur contra hoc quod dico, ratione sui, seu, non propter aliud, et sic idem sonat, quod, per aliud: et hoc modo accipitur hic. Quaecunque enim sunt talis naturae quod non ratione sui iunguntur, sed propter aliud, ab illatione coniuncta deficere necesse est, ex eo quod coniuncta illatio unum alteri substernit, et ratione sui ea adunata denotat ut potentiam et actum. Est ergo sensus divisionis, quod praedicatorum plurium, quaedam sunt per accidens, quaedam per se, idest, quaedam adunantur inter se ratione sui, quaedam propter aliud. Ea quae per se uniuntur inferunt coniunctum, ea autem quae propter aliud, nequaquam. To make this division evident it must also be noted that accidentally can be taken in two ways. It may be taken as it is distinguished from "posterioristic perseity.” This is not the way it is taken here, for "many predicates accidentally” would then mean that the "accidentally” determines a conjunction between predicates, and thus the rule would clearly be false, for the first predicates he gave as examples are predicated accidentally in this way, namely, "biped animal,” or "rational animal” (for a difference is not predicated of a genus in any mode of perseity, and yet Aristotle says in the text that these are not predicated accidentally, and has asserted that "He is an animal and biped, therefore he is a biped animal” is a good inference). Or it would mean that the "accidentally” determines a conjunction of the predicates with the subject, and thus also the rule would be false, for it is valid to say, "The wall is colored and it is visible,” yet visible colored is not per se in the wall. Accidentally” taken in the second way is distinguished from what I call "on its own account,” i.e., not because of something else; "accidentally” then means "through another.” This is the way it is taken here, for whatever are of such a nature that they are joined because of something else, and not on their own account, do not admit of conjoined inference, because a conjoined inference subjects one to the other, and denotes the things united on their own account as potency and act. Therefore, the sense of the division is this: of many predicates, some are accidental, some per se, i.e., some are united among themselves on their own account, some on account of another. Those that are per se united infer conjointly; those that are united on account of another do not infer conjointly in any way. 7 Deinde cum dicit: quocirca nec citharoedusetc., applicat declaratam veritatem ad partes quaestionis. Et primo, ad secundam partem, quia scilicet non sequitur: est bonus et est citharoedus; ergo est bonus citharoedus, dicens: quocirca nec citharoedus bonus etc.; secundo, ad aliam partem quaestionis, quare sequebatur: est animal et est bipes; ergo est animal bipes: et ait: sed animal bipes et cetera. Et subiungit huius ultimi dicti causam, quia, animal bipes, non sunt praedicata secundum accidens coniuncta inter se aut in tertio, sed per se. Et per hoc explanavit alterum membrum primae divisionis, quod adhuc positum non fuerat explicite. Adverte quod Aristoteles, eamdem tenens sententiam de citharoedo et bono et musico et albo, conclusit quod album et musicum non inferunt coniunctum praedicatum; ideo nec citharoedus et bonus inferunt citharoedus bonus simpliciter, idest coniuncte. Est autem ratio dicti, quia licet musica et albedo dissimiles sint bonitati et arti citharisticae in hoc, quod bonitas nata est denominare et subiectum tertium, puta hominem et ipsam artem citharisticam (propter quod falsitas manifeste cernitur, quando dicitur: est bonus et citharoedus; ergo bonus citharoedus), musica vero et albedo subiectum tertium natae sunt denominare tantum, et non se invicem (propter quod latentior est casus cum proceditur: est albus et est musicus; ergo est musicus albus), licet, inquam, in hoc sint dissimiles, et propter istam dissimilitudinem processus Aristotelis minus sufficiens videatur; attamen similes sunt in hoc quod, si servetur identitas omnimoda praedicatorum quam servari oportet, si illamet divisa debent inferri coniunctim, sicut musica non denominat albedinem, neque contra, ita nec bonitas, de qua fit sermo, cum dicitur, homo est bonus, denominat artem citharisticam, neque e converso. Cum enim bonum sit aequivocum, licet a consilio, alia ratione dicitur de perfectione citharoedi, et alia de perfectione hominis. Quando namque dicimus, Socrates est bonus, intelligimus bonitatem moralem, quae est hominis bonitas simpliciter (analogum siquidem simpliciter positum sumitur pro potiori); cum autem infertur, citharoedus bonus, non bonitatem moris sed artis praedicas: unde terminorum identitas non salvatur; sufficienter igitur et subtiliter Aristoteles eamdem de utrisque protulit sententiam, quia eadem est haec, et ibi ratio et cetera. When he says, This is the reason "good” and "shoemaker” cannot be combined simply, etc., he applies the truth he has stated to the parts of the question. He applies it first to the second part, i.e., why this does not follow: "He is good and he is a shoemaker, therefore he is a good shoemaker.” Then he applies it to the other part of the question, i.e., why this follows: "He is an animal and he is biped, therefore he is a biped animal.” He adds the reason in the case of the latter: "biped” and "animal” are not predicates accidentally conjoined among themselves, nor in a third thing, but per se. This also explains the other member of the first division which has not yet been explicitly posited. Notice that he maintains the same judgment is to be made about lute player and good, and musical and white. He has concluded that "white” and "musical” do not infer a conjoined predicate; hence neither do "lute player” and "good” infer "good lute player” simply, i.e., conjointly. There is a reason for saying this. For although there is a difference between musical and white, and goodness and the art of luteplaying, they are also similar. Let us consider their difference first. Goodness is of such a nature that it denominates both a third subject, namely, man, and the art of lute-playing. This is the reason the falsity is clearly discernible when we say "He is good and a lute player, therefore he is a good lute player.” Musical and whiteness, on the other band, are of such a nature that they denominate only a third subject, and not each other, and hence, the error is less obvious in "He is white and be is musical, therefore he is musical white.” Now it is this difference that makes Aristotle’s process of reasoning appear somewhat inconclusive. However, they are similar. For if identity of predicates is kept in every way that is required for the same things divided to be inferred conjointly, then, just as "musical” does not denominate "whiteness,” nor the contrary, so neither does "goodness,” of which we are speaking when we say "Man is good,” denominate the art of lute-playing,,nor conversely. For "good” is equivocal—by choice though—and therefore is said of the perfection of the lute player by means of one notion and of the perfection of man by means of another. For example, when we say, "Socrates is good” we understand moral goodness, which is the goodness of man absolutely (for the analogous term posited simply, stands for what is mainly so); but when good lute player is inferred, it is not the goodness of morality that is predicated but the goodness of art; whence identity of the terms is not saved. Therefore, Aristotle has adequately and subtly expressed the same judgment about both, i.e., "white” and "musical,” and "good” and "lute player,” for the reason here is the same as there. Nec praetereundum est quod, cum tres consequentias adduxit quaestionem proponendo, scilicet; est animal et bipes; ergo est animal bipes: et, est homo et albus; ergo est homo albus: et, est citharoedus et bonus; ergo est homo albus: et, est citharoedus et bonus; ergo est bonus citharoedus; et duas primas posuerat esse bonas, tertiam vero non; huius diversitatis causam inquirere volens, cur solvendo quaestionem nullo modo meminerit secundae consequentiae, sed tantum primae et tertiae. Indiscussum namque reliquit an illa consequentia sit bona an mala. Et ad hoc videtur mihi dicendum quod ex his paucis verbis etiam illius consequentiae naturam insinuavit. Profundioris enim sensus textus capax apparet cum dixit quod, non sunt unum album et musicum etc., ut scilicet non tantum indicet quod expositum est, sed etiam eius causam, ex qua natura secundae consequentiae elucescit. Causa namque quare album et musicum non inferunt coniunctam praedicationem est, quia in praedicatione coniuncta oportet alteram partem alteri supponi, ut potentiam actui, ad hoc ut ex eis fiat aliquo modo unum, et altera a reliqua denominetur (hoc enim vis coniunctae praedicationis requirit, ut supra diximus de partibus definitionis); album autem et musicum secundum se non faciunt unum per se, ut patet, neque unum per accidens. Licet enim ipsa ut adunantur in subiecto uno sint unum subiecto per accidens, tamen ipsamet quae adunantur in uno, tertio subiecto, non faciunt inter se unum per accidens: tum quia neutrum informat alterum (quod requiritur ad unitatem per accidens aliquorum inter se, licet non in tertio); tum quia non considerata subiecti unitate, quae est extra eorum rationes, nulla remanet inter ea unitatis causa. Dicens ergo quod album et musicum non sunt unum, scilicet inter se, aliquo modo, causam expressit quare coniunctim non infertur ex eis praedicatum. Et quia oppositorum eadem est disciplina, insinuavit per illamet verba bonitatem illius consequentiae. Ex eo enim quod homo et albus se habent sicut potentia et actus (et ita albedo informet, denominet atque unum faciat cum homine ratione sui), sequitur quod ex divisis potest inferri coniuncta praedicatio; ut dicatur: est homo et albus; ergo est homo albus. Sicut per oppositum dicebatur quod ideo musicum et album non inferunt coniunctum praedicatum quia neutrum alterum informabat. There is another point that must be mentioned. Aristotle in proposing the question draws three consequences: "He is an animal and biped, therefore he is a biped animal” and "He is a man and white, therefore he is a white man” and "He is a lute player and good, therefore he is a good lute player.” Then he states that the first two consequences are good, the third not. His intention was to inquire into the cause of this diversity, but in solving the question he mentions only the first and third consequences, leaving the goodness or badness of the second consequence undiscussed. Why is this? I would say in answer to this that in these few words he has also implied the nature of the second consequence, for there is a more profound meaning to the statement in the text that whiteness and being musical is not one. It is a meaning that not only indicates what has already been explained but also its cause, and from this the nature of the second consequence is apparent. For the reason "white” and "musical” do not infer a conjoined predication is that in conjoined predication one part must be subjected to the other as potency to act such that in some way one thing is formed from them and one is denominated from the other (for the force of the conjoined predication requires this, as we have said above concerning the parts of the definition). "White” and "musical,” however, do not in themselves form one thing per se, as is evident, nor do they form one thing accidentally. For while it is true that as united in a subject they are one in subject accidentally, nevertheless things that are united in one third subject do not form one thing accidentally among themselves: first, because neither informs the other (which is required for accidental unity of things among themselves, although not in a third thing); secondly, because, considered apart from the unity of a subject, which is outside of their notions, there is no cause of unity between them. Therefore, when Aristotle says that whiteness and being musical are not one, i.e., among themselves, in some measure he expresses the reason why a predicate is not conjointly inferred from them. And since the same discipline extends to opposites, the goodness of the second consequence is implied by these words. That is, man and white are related as potency and act (and so, on its own account whiteness informs, denominates, and forms one thing with ‘man’); therefore from these taken divisively a conjoined predication can be inferred, i.e., "He is man and white, therefore be is a white man”; just as, in the opposite case, it was said that "musical” and "white” do not infer a conjoined predicate because neither informs the other. 9 Nec obstat quod album faciat unum per accidens cum homine: non enim dictum est quod unitas per accidens aliquorum impedit ex diversis inferre coniunctum, sed quod unitas per accidens aliquorum ratione tertii tantum est illa quae impedit. Talia enim quae non sunt unum per accidens nisi ratione tertii, inter se nullam habent unitatem; et propterea non potest inferri coniunctum, ut dictum est, quod unitatem importat. Illa vero quae sunt unum per accidens ratione sui, seu inter se, ut, homo albus, cum coniuncta accipiuntur, unitate necessaria non carent, quia inter se unitatem habent. Notanter autem apposui ly tantum: quoniam si aliqua duo sunt unum per accidens, ratione tertii subiecti scilicet, sed non tantum ex hoc habent unitatem, sed etiam ratione sui, ex hoc quod alterum reliquum informat, ex istis divisis non prohibetur inferri coniunctum. Verbi gratia, optime dicitur: est quantum et est coloratum; ergo est quantum coloratum: quia color informat quantitatem. There is no opposition between the position just stated and the fact that white forms an accidental unity with man. For we did not say that accidental unity of certain things impedes inferring a conjunction from divided things,” but that accidental unity of certain things only by reason of a third thing is the one that impedes. Things that are one accidentally only by reason of a third thing have no unity among them selves; and for this reason a conjunction, which implies unity, cannot be inferred, as we have said. But things that are one accidentally on their own account, i.e., among themselves, as for example, "white man,” when taken conjointly, have the necessary unity because they have unity among themselves. Notice that I have added "only.” The reason is that if any two C are one accidentally, namely, by reason of a third subject, and they not only have unity from this but also on their own account (because one informs the other), then from these taken divisively a conjoined inference can be made. For example, we can infer, "It is a quantity and it is colored, therefore it is a colored quantity,” because color informs quantity. Cajetanus lib. 2 l. 6 n. 10Potes autem credere quod secunda illa consequentia, quam non explicite confirmavit Aristoteles respondendo, sit bona et ex eo quod ipse proponendo quaestionem asseruit bonam, et ex eo quod nulla instantia reperitur. Insinuavit autem et Aristoteles quod sola talis unitas impedit illationem coniunctam, quando dixit quaecumque secundum accidens dicuntur vel de eodem vel alterutrum de altero. Cum enim dixit, secundum accidens de eodem, unitatem eorum ex sola adunatione in tertio posuit (sola enim haec per accidens praedicantur de eodem, ut dictum est); cum autem addidit, vel alterutrum de altero, mutuam accidentalitatem ponens, ex nulla parte inter se unitatem reliquit. Utraque ergo per accidens adducta praedicata, in tertio scilicet vel alterutrum, quae impediant illationem coniunctam, nonnisi in tertio unitatem habent. You can hold as true that this second consequence is good even though Aristotle has not explicitly confirmed it by returning to it, both from the fact that in proposing the question he has claimed it as good and also because there is no instance opposed to it. Moreover, Aristotle has implied that it is only such unity that impedes the conjoined inference where he says: which are said accidentally, either of the same subject or of one another. By accidentally of the same subject, he posits their unity to be only from union in a third thing (for only these are predicated accidentally of the same subject, as was said). When he adds, or of one another—positing mutual accidentality—no unity at all is left between them. Therefore, both kinds of accidental predicates, namely, in a third thing or in one another, that impede a conjoined inference have unity only in a third thing. 11 Deinde cum dicit: amplius nec etc., satisfacit instantiis in probatione adductis, et in illis in quibus explicita committebatur nugatio, et in illis in quibus implicita; et ait quod non solum inferre ex divisis coniunctum non licet quando praedicata illa sunt per accidens, sed nec etiam quaecunque insunt in alio: idest, sed nec hoc licet quando praedicata includunt se, ita quod unum includatur in significato formali alterius intrinsece, sive explicite, ut album in albo, sive implicite, ut animal et bipes in homine. Quare neque album frequenter dictum divisim infert coniunctum, neque homo divisim ab animali vel bipede enunciatum, animal bipes, coniunctum cum homine infert; ut dicatur, ergo Socrates est homo bipes, vel animal homo. Insunt enim in hominis ratione, animal et bipes actu et intellectu, licet implicite. Stat ergo solutio quaestionis in hoc, quod unitas plurium per accidens in tertio tantum et nugatio, impediunt ex divisis inferri coniunctum; et consequenter, ubi neutrum horum invenitur, ex divisis licebit inferre coniunctum. Et hoc intellige quando divisae sunt simul verae de eodem et cetera. Then when he says, Furthermore, predicates that are present in one another cannot be combined simply, etc., he gives the solution for the instances (both the explicitly nugatory and the implicitly nugatory) cited in the proof. It is not only not licit, he says, to infer a union from divided predicates when these are accidental, but it is not licit when the predicates are present in one another. That is, it is not licit to infer a conjoined predicate from divided predicates when the predicates include one another in such a way that one is included in the formal signification of another intrinsically, or explicitly, as "white” in white,” or implicitly, as "animal” and "biped” in "man.” Therefore, white” said repeatedly and divisively does not infer a conjoined predication, nor does "man” divisively enunciated from "animal” or "biped” infer "biped” or "animal” conjoined with man, such that we could say, "Therefore, Socrates is a biped-man” or "animal-man.” For animal and biped are included in the notion of man in act and in understanding, although implicitly. The solution of the question, then, is this: the inferring of a conjunction from divided predicates is impeded when there is unity of the many accidentally only in a third thing and when there is a nugatory result. Consequently, where neither of these is found it will be licit to infer a conjunction from divided predicates. It is to be understood that this applies when the divided predicates are at once true of the same subject. VII. 1. Postquam expedita est prima dubitatio, tractat secundam dubitationem. Et circa hoc tria facit: primo, movet ipsam quaestionem; secundo, solvit eam; ibi: sed quando in adiecto etc., tertio, ex hoc excludit quemdam errorem; ibi: quod autem non est et cetera. Est ergo quaestio: an ex enunciatione habente praedicatum coniunctum, liceat inferre enunciationes dividentes illud coniunctum; et est quaestio contraria superiori. Ibi enim quaesitum est an ex divisis inferatur coniunctum; hic autem quaeritur an ex coniuncto sequantur divisa. Unde movendo quaestionem dicit: verum autemaliquando est dicere de aliquo et simpliciter, idest divisim, quod scilicet prius dicebatur coniunctim, ut quemdam hominem album esse hominem, aut quoddam album hominem album esse, idest ut ex ista, Socrates est homo albus, sequitur divisim, ergo Socrates est homo, ergo Socrates est albus. Non autem semper, idest aliquando autem ex coniuncto non inferri potest divisim; non enim sequitur, Socrates est bonus citharoedus, ergo est bonus. Unde haec est differentia, quod quandoque licet et quandoque non. Et adverte quod notanter adduxit exemplum de homine albo, inferendo utramque partem divisim, ut insinuaret quod intentio quaestionis est investigare quando ex coniuncto potest utraque pars divisim inferri, et non quando altera tantum. Aristotle now takes up the second question in relation to multiple enunciations. He first presents it, and then solves it where he says, When something opposed is present in the adjunct, from which a contradiction follows, it will not be true to predicate them singly, but false, etc. Finally, he excludes an error where he says, In the case of non-being, however, it is not true to say that because it is a matter of opinion, it is something, etc. The second question is this: Is it licit to infer from an enunciation having a conjoined predication, enunciations dividing that conjunction? This question is the contrary of the first question. The first asked whether a conjoined predicate could be inferred from divided predicates; the present one asks whether divided predicates follow from conjoined predicates. When he presents the question he says, on the other hand, it is also true to say predicates of something singly, i.e., what was previously said conjointly may be said divisively; for example, that some white man is a man, or that some white man is white. That is, from "Socrates is a white man,” follows divisively, "Therefore Socrates is a man,” "There fore Socrates is white.” However, this is not always the case, i.e., some times it is not possible to infer divisively from conjoined predicates, for this does not follow: "Socrates is a good lute player, therefore he is good.” Hence, sometimes it is licit, sometimes not. Note that in inferring each part divisively he takes as an ex ample "white man.” This is significant, for by it he means to imply that his intention is to investigate when each part can be inferred divisively from a conjoined predicate, and not when only one of the two can be inferred. 2 Deinde cum dicit: sed quando in adiecto etc., solvit quaestionem. Et duo facit: primo, respondet parti negativae quaestionis, quando scilicet non licet; secundo, ibi: quare in quantiscumque etc., respondet parti affirmativae, quando scilicet licet. Circa primum considerandum quod quia dupliciter contingit fieri praedicatum coniunctum, uno modo ex oppositis, alio modo ex non oppositis, ideo duo facit: primo, ostendit quod numquam ex praedicato coniuncto ex oppositis possunt inferri eius partes divisim; secundo, quod nec hoc licet universaliter in praedicato coniuncto ex non oppositis, ibi: vel etiam quando et cetera. Ait ergo quod quando in termino adiecto inest aliquid de numero oppositorum, ad quae sequitur contradictio inter ipsos terminos, non verum est, scilicet inferre divisim, sed falsum. Verbi gratia cum dicitur, Caesar est homo mortuus, non sequitur, ergo est homo: quia ly mortuus, adiacens homini, oppositionem habet ad hominem, quam sequitur contradictio inter hominem et mortuum: si enim est homo, non est mortuus, quia non est corpus inanimatum; et si est mortuus, non est homo, quia mortuum est corpus inanimatum. Quando autem non inest, scilicet talis oppositio, verum est, scilicet inferre divisim. Ratio autem quare, quando est oppositio in adiecto, non sequitur illatio divisa est, quia alter terminus ex adiecti oppositione corrumpitur in ipsa enunciatione coniuncta. Corruptum autem seipsum absque corruptione non infert, quod illatio divisa sonaret. When he says, When something opposed is present in the adjunct, etc., he solves the question, first by responding to the negative part of the question, i.e., when it is not licit; secondly, to the affirmative part, i.e., when it is licit, where he says, Therefore, in whatever predications no contrariety is present when definitions are put in place of the names, and wherein predicates are predicated per se and not accidentally, etc. It should be noted, in relation to the negative part of the question, that a conjoined predicate may be formed in two ways: from opposites and from non-opposites. Therefore, he shows first that the parts in a conjoined predicate of opposites can never be inferred divisively. Secondly, he shows that this is not licit universally in a conjoined predicate of non-opposites, where he says, Or, rather, when something opposed is present in it, it is never true; but when something opposed is not present, it is not always true. Aristotle says, then, that when something that is an opposite is contained in the adjacent term, which results in a contradiction between the terms themselves, it is not true, namely, to infer divisively, but false. For example, when we say, "Caesar is a dead man,” it does not follow, "Therefore he is a man,” because the contradiction between 11 man” and "dead” which results from adding the "dead” to "man” is opposed to man, for if he is a man he is not dead, because he is not an inanimate body; and if he is dead he is not a man, because as dead he is an inanimate body. When something opposed is not present, i.e., there is no such opposition, it is true, i.e., it is true to infer divisively. The reason a divided inference does not follow when there is opposition in the added term is that in a conjoined enunciation the other term is destroyed by the opposition of the added term. But that which has been destroyed is not inferred apart from the destruction, which is what the divided inference would signify. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 3Dubitatur hic primo circa id quod supponitur, quomodo possit vere dici, Caesar est homo mortuus, cum enunciatio non possit esse vera, in qua duo contradictoria simul de aliquo praedicantur. Hoc enim est primum principium. Homo autem et mortuus, ut in littera dicitur, contradictoriam oppositionem includunt, quia in homine includitur vita, in mortuo non vita. Dubitatur secundo circa ipsam consequentiam, quam reprobat Aristoteles: videtur enim optima. Cum enim ex enunciatione praedicante duo contradictoria possit utrumque inferri (quia aequivalet copulativae), aut neutrum (quia destruit seipsam), et enunciatio supradicta terminos oppositos contradictorie praedicet, videtur sequi utraque pars, quia falsum est neutram sequi. Two questions arise at this point. The first concerns something assumed here: how can it ever be true to make such a statement as "Caesar is a dead man,” since an enunciation cannot be true in which two contradictories are predicated at the same time of something (for this is a first principle). But "man” and "dead,” as is said in the text, include contradictory opposition, for in man is included life, and in dead, non-life. The second question concerns the consequent that Aristotle rejects, which appears to be good. The enunciation given as an example predicates terms that are opposed contradictorily. But from an enunciation predicating two contradictory terms, either both can be inferred (because it is equivalent to a copulative enunciation), or neither (because it destroys itself); therefore both parts seem to follow, since it is false that neither follows. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 4Ad hoc simul dicitur quod aliud est loqui de duobus terminis secundum se, et aliud de eis ut unum stat sub determinatione alterius. Primo namque modo, homo et mortuus, contradictionem inter se habent, et impossibile est quod simul in eodem inveniantur. Secundo autem modo, homo et mortuus, non opponuntur, quia homo transmutatus iam per determinationem corruptivam importatam in ly mortuus, non stat pro suo significato secundum se, sed secundum exigentiam termini additi, a quo suum significatum distractum est. Ad utrunque autem insinuandum Aristoteles duo dixit, et quod habent oppositionem quam sequitur contradictio, attendens significata eorum secundum se, et quod etiam ex eis formatur una vera enunciatio cum dicitur, Socrates est homo mortuus, attendens coniunctionem eorum alterius corruptivam. Unde patet quid dicendum sit ad dubitationes. Ad utramque siquidem dicitur, quod non enunciantur duo contradictoria simul de eodem, sed terminus ut stat sub distractione, seu transmutatione alterius, cui secundum se esset contradictorius. These two questions can be answered simultaneously. It is one thing to speak of two terms in themselves, and another to speak of them as one stands under the determination of another. Taken in the first way, "man” and "dead” have a contradiction between them and it is impossible that they be found in the same thing at the same time. In the second way, however, "man” and "dead” are not opposed, since "man,” changed by the destructive element introduced by "dead,” no longer stands for what it signifies as such, but as determined by the term added, by which what is signified is removed. Aristotle, in order to imply both, says two things: that they have the opposition upon which contradiction follows if you regard what they signify in themselves; and, that one true enunciation is formed from them as in "Socrates is a dead man,” if you regard their conjunction as destructive of one of them. Accordingly, the answer to the two questions is evident. In a case such as this two contradictories are not enunciated of the same thing at the same time, but one term as it stands under dissolution or transmutation from the other, to which by itself it would be contradictory. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 5Dubitatur quoque circa id quod ait: inest aliquid oppositorum quae consequitur contradictio; superflue enim videtur addi illa particula, quae consequitur contradictio. Omnia enim opposita consequitur contradictio, ut patet discurrendo in singulis; pater enim est non filius, et album non nigrum, et videns non caecum et cetera. Et ad hoc dicendum est quod opposita possunt dupliciter accipi: uno modo formaliter, idest secundum sua significata; alio modo denominative, seu subiective. Verbi gratia, pater et filius possunt accipi pro paternitate et filiatione, et possunt accipi pro eo qui denominatur pater vel filius. Rursus cum omnis distinctio fiat oppositione aliqua, ut dicitur in X metaphysicae, supponatur omnino distincta esse opposita. Dicendum ergo est quod, licet ad omnia opposita seu distincta contradictio sequatur inter se formaliter sumpta, non tamen ad omnia opposita sequitur contradictio inter ipsa denominative sumpta. Quamvis enim pater et filius mutuam sui negationem inferant inter se formaliter, quia paternitas est non filiatio, et filiatio est non paternitas; in relatione tamen ad denominatum, contradictionem non necessario inferunt. Non enim sequitur, Socrates est pater; ergo non est filius; nec e converso. Ut persuaderet igitur Aristoteles quod non quaecunque opposita colligata impediunt divisam illationem (quia non illa quae habent contradictionem annexam formaliter tantum, sed illa quae habent contradictionem et formaliter et secundum rem denominatam), addidit: quae consequitur contradictio, in tertio scilicet denominato. Et usus est satis congrue vocabulo, scilicet, consequitur: contradictio enim ista in tertio est quodammodo extra ipsa opposita. There is also a question about something else that Aristotle says, namely, something opposed is present... from which a contradiction follows. The phrase from which a contradiction follows seems to be superfluous, for contradiction follows upon all opposites, as is evident in discoursing about singulars; for a father is not a son, and white is not black, and one seeing is not blind, etc. Opposites, however, can be taken in two ways: formally, i.e., according to what they signify, and denominatively, or subjectively. For example, father and son can be taken for paternity and filiation, or they can be taken for the one who is denominated a father or a son. But, again, since every distinction is made by some opposition, as is said in X Metaphysicae [3: 1054a 20], it could be supposed that opposites are wholly distinct. It must be pointed out, therefore, that although contradiction follows between all opposites or distinct things formally taken, nevertheless, contradiction does not follow upon all opposites denominatively taken. Father and son formally taken infer a mutual negation of one another, for paternity is not filiation and filiation is not paternity, but in respect to what is denominated they do not necessarily infer a contradiction. It does not follow, for example, that "Socrates is a father; therefore he is not a son,” nor conversely. Aristotle, therefore, in order to establish that not all combined opposites prevent a divided inference (since those having a contradiction applying only formally do not prevent a divided inference, but those having a contradiction both formally and according to the thing denominated do prevent a divided inference) adds, from which a contradiction follows, namely, in the third thing denominated. And appropriately enough he uses the word follows, for the contradiction in " the third thing denominated is in a certain way outside of the opposites themselves. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 6Deinde cum dicit: vel etiam quando est etc., declarat quod ex non oppositis in tertio coniunctis secundum unum praedicatum, non universaliter possunt inferri partes divisim. Et primo, hoc proponit quasi emendans quod immediate dixerat, subiungens: vel etiam quando est, scilicet oppositio inter terminos coniunctos, falsum est semper, scilicet inferre divisim; quasi diceret: dixi quod quando inest oppositio, non verum sed falsum est inferre divisim; quando autem non inest talis oppositio, verum est inferre divisim. Vel etiam ut melius dicatur, quod quando est oppositio, falsum est semper, quando autem non inest talis oppositio, non semper verum est. Et sic modificavit supradicta addendo ly semper, et, non semper. Et subdens exemplum quod non semper ex non oppositis sequatur divisio, ait: ut, Homerus est aliquid ut poeta; ergo etiam est? Non. Ex hoc coniuncto, est poeta, de Homero enunciato, altera pars, ergo Homerus est, non sequitur; et tamen clarum est quod istae duae partes colligatae, est et poeta, non habent oppositionem, ad quam sequitur contradictio. Igitur non semper ex non oppositis coniunctis illatio divisa tenet et cetera. When he says, Or, rather, when something opposed is present in it, it is never true, etc., he explains that the parts cannot universally be inferred divisively in the case of a conjoined predicate in which there is a non-opposite as the third thing denominated. He proposes this—Or, rather, when something opposed is contained in it, i.e., opposition between the terms conjoined—as if amending what he has just said, namely, it is always false, i.e., to infer divisively. What he is saying, then, is this: I have said that when there is inherent opposition it is not true but false to infer divisively; but when there is not such opposition it is true to infer divisively; or, even better, when there is opposition it is always false but when there is not such opposition it is not always true. That is, he modifies what he first said by the addition of "always” and "not always.” Then he adds an example to show that division does not always follow from non-opposites: For example, Homer is something, say, a poet. Is it therefore true to say also that Homer "is,” or not? From the conjoined predicate, is a poet, enunciated of Homer, one part, Therefore Homer is, does not follow; yet it is evident that these two conjoined parts, "is” and "poet,” do not have the opposition upon which contradiction follows. Therefore, in the case of conjoined non-opposites a divided inference does not always hold. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 7Deinde cum dicit: secundum accidens etc., probat hoc, quod modo dictum est, ex eo quod altera pars istius compositi, scilicet, est, in antecedente coniuncto praedicatur de Homero secundum accidens, idest ratione alterius, quoniam, scilicet poeta, praedicatur de Homero, et non praedicatur secundum se ly est de Homero; quod tamen infertur, cum concluditur: ergo Homerus est. Considerandum est hic quod ad solvendam illam conclusionem negativam, scilicet,- non semper ex non oppositis coniunctis infertur divisim,- sufficit unam instantiam suae oppositae universali affirmativae afferre. Et hoc fecit Aristoteles adducendo illud genus enunciationum, in quo altera pars coniuncti est aliquid pertinens ad actum animae. Loquimur enim modo de Homero vivente in poematibus suis in mentibus hominum. In his siquidem enunciationibus partes coniunctae non sunt oppositae in tertio, et tamen non licet inferre utramque partem divisim. Committitur enim fallacia secundum quid ad simpliciter. Non enim valet, Caesar est laudatus, ergo est: et simile est de esse in effectu dependente in conservari. Quomodo autem intelligenda sit ratio ad hoc adducta ab Aristotele in sequenti particula dicetur. When he says, The "is” here is predicated accidentally of Homer, he proves what he has said. One part of this composite, namely, "is,” is predicated of Homer in the antecedent conjunction accidentally, i.e., by reason of another, namely, with regard to the "poet” which is predicated of Homer; it is not predicated as such of Homer. Nevertheless, this is what is inferred when one concludes "Therefore Homer is.” To validate his negative conclusion, namely, that it is not always true to infer divisively from conjoined non-opposites, it was sufficient to give one instance of the opposite of the universal affirmative. To do this Aristotle introduces that genus of enunciation in which one part of the conjunction is something pertaining to an act of the mind (for we are speaking only of Homer living in his poems in the minds of men). In such enunciations the parts conjoined are not opposed in the third thing denominated; nevertheless it is not licit to infer each part divisively, for the fallacy of going from the relative to the absolute will be committed. For example, it is not valid to say, "Caesar is praiseworthy, therefore he is,” which is a parallel case, i.e., of an effect whose existence requires maintenance. Aristotle will explain in the following sections of the text how the reasoning in the above text is to be understood. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 8Deinde cum dicit: quare in quantiscunque etc., respondet parti affirmativae quaestionis, quando scilicet ex coniunctis licet inferre divisim. Et ponit duas conditiones oppositas supradictis debere convenire in unum, ad hoc ut possit fieri talis consequentia; scilicet, quod nulla inter partes coniuncti oppositio sit, et quod secundum se praedicentur. Unde dicit inferendo ex dictis: quare in quantiscunque praedicamentis, idest praedicatis ordine quodam adunatis, neque contrarietas aliqua, in cuius ratione ponitur contradictio in tertio (contraria enim sunt quae mutuo se ab eodem expellunt), aut universaliter nulla oppositio inest, ex qua scilicet sequatur contradictio in tertio, si definitiones pro nominibus sumantur. Dixit hoc, quia licet in quibusdam non appareat oppositio, solis nominibus positis, sicut, homo mortuus, et in quibusdam appareat, ut, vivum mortuum; hoc tamen non obstante, si, positis nominum definitionibus loco nominum, oppositio appareat, inter opposita collocamus. Sicut, verbi gratia, homo mortuus, licet oppositionem non praeseferat, tamen si loco hominis et mortui eorum definitionibus utamur, videbitur contradictio. Dicemus enim corpus animatum rationale, corpus inanimatum irrationale. In quantiscunque, inquam, coniunctis nulla est oppositio, et secundum se, et non secundum accidens praedicantur, in his verum erit dicere et simpliciter, idest divisim quod fuerat coniunctim enunciatum. When he says, Therefore, in whatever predications no contrariety is present when definitions are put in place of the names, etc., he replies to the affirmative part of the question, i.e., when it is licit to infer divisively from conjoined predicates. He maintains that two conditions—opposed to what has been said earlier in this portion of the text—must combine in one enunciation in order that such a consequence be effected: there must be no opposition between the parts conjoined, and they must be predicated per se. He says, then, inferring from what has been said: Therefore, in whatever predicaments, i.e., predicates joined in a certain order, no contrariety, in virtue of which contradiction is posited in the third thing denominated (for contraries mutually remove each other from the same thing), is present, or universally, no opposition is present, i.e., upon which a contradiction follows in the third thing denominated, when definitions are taken in place of the names.... He says this because it may be the case that the opposition is not apparent from the names alone, as in "dead man,” and again it may be, as in "living dead,” but whether apparent or not it will be evident that we are putting together opposites if we posit the definitions of the names in place of the names. For example, in the case of "dead man,” if we replace "man” and "dead,” with their definitions, the contradiction will be evident, for what we are saying is "rational animate body, irrational inanimate body.” In whatever conjoined predicates, then, there is no opposition, and wherein predicates are predicated per se and not accidentally, in these it will also be true to predicate them singly, i.e., say divisively what had been enunciated conjointly. Cajetanus lib. 2 l. 7 n. 9Ad evidentiam secundae conditionis hic positae, nota quod ly secundum se potest dupliciter accipi: uno modo positive, et sic dicit perseitatem primi, secundi, universaliter, quarti modi; alio modo negative, et sic idem sonat quod non per aliud. Rursus considerandum est quod cum Aristoteles dixit de praedicato coniuncto quod, secundum se praedicetur, ly secundum se potest ad tria referri, scilicet, ad partes coniuncti inter se, ad totum coniunctum respectu subiecti, et ad partes coniuncti respectu subiecti. Si ergo accipiatur ly secundum se positive, licet non falsus, extraneus tamen a mente Aristotelis reperitur sensus ad quodcunque illorum trium referatur. Licet enim valeat, est homo risibilis, ergo est homo et est risibilis, et, est animal rationale, ergo est animal et est rationale; tamen his oppositae inferunt similes consequentias. Dicimus enim, est albus musicus, ergo est musicus et est albus: ubi nulla est perseitas, sed est coniunctio per accidens, tam inter partes inter se, quam inter totum et subiectum, quam etiam inter partes et subiectum. Liquet igitur quod non accipit Aristoteles ly secundum se positive, ex eo quod vana fuisset talis additio, quae ab oppositis non facit in hoc differentiam. Ad quid enim addidit, secundum se, et non, secundum accidens, si tam illae quae sunt secundum se, modo exposito, quam illae quae sunt secundum accidens ex coniuncto, inferunt divisum? Si vero accipiatur secundum se, negative, idest, non per aliud, et referatur ad partes coniuncti inter se, falsa invenitur regula. Nam non licet dicere, est bonus citharoedus; ergo est bonus et citharoedus; et tamen ars citharizandi et bonitas eius sine medio coniunguntur. Et similiter contingit, si referatur ad totum coniunctum respectu subiecti, ut in eodem exemplo apparet. Totum enim hoc, citharoedus bonus, non propter aliud convenit homini; et tamen non infert, ut dictum est, divisionem. Superest ergo ut ad partem coniuncti respectu subiecti referatur, et sit sensus: quando aliqua coniunctim praedicata, secundum se, idest, non per aliud, praedicantur, idest, quod utraque pars praedicatur de subiecto non propter alteram, sed propter seipsam et subiectum, tunc ex coniuncto infertur divisa praedicatio. In order to make this second condition clear, it should be noted that "per se” can be taken in two ways: positively, and thus it refers to "perseity” of the first, of the second, and of the fourth mode universally; or negatively, and thus it means the same as not through something else. It should also be noted that when Aristotle says of a conjoined predicate that it is predicated "per se,” the "per se” can be referred to three things: to the parts of the conjunction among themselves, to the whole conjunction with respect to the subject, and to the parts of the conjoined predicate with respect to the subject. Now if "per se” is taken positively, although it will not be false, nevertheless in reference to any of these three the meaning will be found to be foreign to the mind of Aristotle. For, although these are valid: "He is a risible man, therefore he is man and he is risible” and "He is a rational animal, therefore he is animal and he is rational,” nevertheless the opposite kind of predication infers consequences in a similar way. For example, there is no 11 perseity” in "He is a white musician, therefore he is white and he is a musician”; rather, there is an accidental conjunction, not only between the parts among themselves and between the whole and the subject, but even between the parts and the subject. It is evident, therefore, that Aristotle is not taking "per se” positively, for an addition that does not differentiate this kind of predication from the opposed kind of predication would be useless. Why add "per se and not accidentally,” if both those that are per se in the way explained and those that are conjoined accidentally infer divisively? If "per se” is taken negatively, i.e., as not through another, and is referred to the parts of the conjoined predicate among themselves, the rule is found to be false. It is not licit, for example, to say, "He is a good lute player, therefore he is good and a lute player”; yet the art of lute-playing and its goodness are conjoined without anything as a medium. And the case is the same if it is referred to the whole conjoined predicate with respect to the subject, as is clear in the same example, for the whole, "good lute player,” does not belong to man on account of another, and yet it does not infer the division, as has already been said. Therefore, "per se” is referred to the parts of the conjoined predicate with respect to the subject and the meaning is: when the predicates are conjointly predicated per se, i.e., not through another, i.e., each part is predicated of the subject, not on account of another but on account of itself and the subject, then a divided predication is inferred from the conjoined predication. 10 Et hoc modo exponunt Averroes et Boethius; et vera invenitur regula, ut inductive facile manifestari potest, et ratio ipsa suadet. Si enim partes alicuius coniuncti praedicati ita inhaerent subiecto quod neutra propter alteram insit, earum separatio nihil habet quod veritatem impediat divisarum. Est et verbis Aristotelis consonus sensus iste. Quoniam et per hoc distinguit inter enunciationes ex quibus coniunctum infert divisam praedicationem, et eas quibus haec non inest consequentia. Istae siquidem ultra habentes oppositiones in adiecto, sunt habentes praedicatum coniunctum, cuius una partium alterius est ita determinatio, quod nonnisi per illam subiectum respicit, sicut apparet in exemplo ab Aristotele adducto, Homerus est poeta. Est siquidem ibi non respicit Homerum ratione ipsius Homeri, sed praecise ratione poesis relictae; et ideo non licet inferre, ergo Homerus est. Et simile est in negativis. Si quis enim dicat, Socrates non est paries, non licet inferre, ergo Socrates non est, eadem ratione, quia esse non est negatum de Socrate, sed de pariete in Socrate. This is the way in which Averroes and Boethius explain this and, explained in this way, a true rule is found, as can easily be manifested inductively; moreover, the reasoning is compelling. For, if the parts of some conjoined predicate so inhere in the subject that neither is in it on account of another, their separation produces nothing that could impede the truth of the divided predicates. And this meaning is consonant with the words of Aristotle, for by this he also distinguishes between enunciations in which the conjoined predicate infers a divided predicate, and those in which this consequence is not inherent. For besides the predicates having opposition in the additional determining element, there are those with a conjoined predicate wherein one part is a determination of the other in such a way that only through it does it regard the subject, as is evident in Aristotle’s example, "Homer is a poet.” The "is” does not regard Homer by reason of Homer himself, but precisely by reason of the poetry he left. Hence it is not licit to infer, "Therefore Homer is.” The same is true with respect to negative enunciations of this type, for it is not licit to infer from "Socrates is not a wall,” "Therefore Socrates is not.” And the reason is the same: "to be” is not denied of Socrates, but of "wallness” in Socrates. 11 Et per hoc patet qualiter sit intelligenda ratio in textu superiore adducta. Accipitur enim ibi, secundum se negative, modo hic exposito, et secundum accidens, idest propter aliud. In eadem ergo significatione est usus ly secundum accidens, solvendo hanc et praecedentem quaestionem: utrobique enim intellexit secundum accidens, idest, propter aliud, coniuncta, sed ad diversa retulit. Ibi namque ly secundum accidens determinabat coniunctionem duorum praedicatorum inter se; hic vero determinat partem coniuncti praedicati in ordine ad subiectum. Unde ibi, album et musicum, inter ea quae secundum accidens sunt, numerabantur; hic autem non. Accordingly, it is evident how the reasoning in the text above is to be understood. "Per se” is taken negatively in the way explained here, and "accidentally” as "on account of another.” The "accidentally” is used with the same signification in solving this and the preceding question. In both he understands "accidentally” to mean conjoined on account of another, but it is referred to diverse things. In the preceding question "accidentally” determines the way in which two predicates are conjoined among themselves; in the latter question it determines the way in which the part of the conjoined predicate is ordered to the subject. Hence, in the former, "white” and "musician” are numbered among the things that are accidental, but in the latter they are not. 12 Sed occurrit circa hanc expositionem dubitatio non parva. Si enim ideo non licet ex coniuncto inferre divisim, quia altera pars coniuncti non respicit subiectum propter se, sed propter alteram partem (ut dixit Aristoteles de ista enunciatione, Homerus est poeta), sequetur quod numquam a tertio adiacente ad secundum erit bona consequentia: quia in omni enunciatione de tertio adiacente, est respicit subiectum propter praedicatum et non propter se et cetera. This exposition seems a bit dubious, however. For if it is not licit to infer divisively from a conjoined predicate because one part of the conjoined predicate does not regard the subject on account of itself but on account of another part (as Aristotle says of the enunciation, "Homer is a poet”), it will follow that there will never be a good consequence from the third determinant to the second, since in every enunciation with a third determinant, "is” regards the subject on account of the predicate and not on account of itself. 13 Ad huius difficultatis evidentiam, nota primo hanc distinctionem. Aliud est tractare regulam, quando ex tertio adiacente infertur secundum et quando non, et aliud quando ex coniuncto fit illatio divisa et quando non. Illa siquidem est extra propositum, istam autem venamur. Illa compatitur varietatem terminorum, ista non. Si namque unus terminorum, qui est altera pars coniuncti, secundum significationem seu suppositionem varietur in separatione, non infertur ex coniuncto praedicato illudmet divisim, sed aliud. Nota secundo hanc propositionem: cum ex tertio adiacente infertur secundum, non servatur identitas terminorum. Liquet ista quoad illum terminum, est. Dictum siquidem fuit supra a sancto Thoma, quod aliud importat est secundum adiacens, et aliud est tertium adiacens. Illud namque importat actum essendi simpliciter, hoc autem habitudinem inhaerentiae vel identitatis praedicati ad subiectum. Fit ergo varietas unius termini cum ex tertio adiacente infertur secundum, et consequenter non fit illatio divisi ex coniuncto. Unde praelucet responsio ad obiectionem, quod, licet ex tertio adiacente quandoque possit inferri secundum, numquam tamen ex tertio adiacente licet inferri secundum tamquam ex coniuncto divisum, quia inferri non potest divisim, cuius altera pars ipsa divisione perit. Negetur ergo consequentia obiectionis et ad probationem dicatur quod, optime concludit quod talis illatio est illicita infra limites illationum, quae ex coniuncto divisionem inducunt, de quibus hic Aristoteles loquitur. To make this difficulty clear, we must first note a distinction. It is one thing to treat of the rule when inferring a second determinant from a third determinant, and when not; it is quite another thing when a divided inference is made from a conjoined predicate, and when not. The former is an additional point; the latter is the question we have been inquiring about. The former is compatible with variety of the terms, the latter not. For if one of the terms which is one part of a conjoined predicate will be varied according to signification, or supposition when taken separately, it is not inferred divisively from the conjoined predicate, but the other is. Secondly, note this proposition: when a second determinant is inferred from a third, identity of the terms is not kept. This is evident with respect to the term "is.” Indeed, St. Thomas said above that "is” as the second determinant implies one thing and "is” as the third determinant another. The former implies the act of being simply, the latter implies the relationship of inherence, or identity of the predicate with the subject. Therefore, when the second determinant is inferred from the third, one term is varied and consequently an inference is not made of the divided from the conjoined. Accordingly, the response to the objection is clear, for although the second determinant can sometimes be inferred from the third, it is never licit for the second to be inferred from the third as divided from conjoined, because you cannot infer divisively when one part is destroyed by that very division. Therefore, let the consequence of the objection be denied and for proof let it be said that the conclusion that such an inference is illicit under the limits of inferences which induce division from a conjoined predicate-is good, for this is what Aristotle is speaking of here. 14 Sed contra hoc instatur. Quia etiam tanquam ex coniuncto divisa fit illatio, Socrates est albus, ergo est, per locum a parte in modo ad suum totum, ubi non fit varietas terminorum. Et ad hoc dicitur quod licet homo albus sit pars in modo hominis (quia nihil minuit de hominis ratione albedo, sed ponit hominem simpliciter), tamen est album non est pars in modo ipsius est, eo quod pars in modo est universale cum conditione non minuente, ponente illud simpliciter. Clarum est autem quod album minuit rationem ipsius est, et non ponit ipsum simpliciter: contrahit enim ad esse secundum quid. Unde apud philosophos, cum fit aliquid album, non dicitur generari, sed generari secundum quid. But the objection is raised against this that in the case of "Socrates is white, therefore be is,” a divided inference can be made as from a conjoined predicate, in virtue of the argument that we can go from what is in the mode of part to its whole as long as the terms remain the same. The answer to this is as follows. It is true that white man is a part in the mode of man (because white diminishes nothing of the notion of man but posits man simply); is white, however, is not a part in the mode of is, because a part in the mode of its whole is a universal, the condition not diminishing the positing of it simply. But it is evident that white diminishes the notion of is, and does not posit it simply, for it contracts it to relative being. Whence when something becomes white, philosophers do not say that it is generated, but generated relatively. 15 Sed instatur adhuc quia secundum hoc, dicendo, est animal, ergo est, fit illatio divisa per eumdem locum. Animal enim non minuit rationem ipsius est. Ad hoc est dicendum quod ly est, si dicat veritatem propositionis, manifeste peccatur a secundum quid ad simpliciter. Si autem dicat actum essendi, illatio est bona, sed non est de tertio, sed de secundo adiacente. In accordance with this, the objection is raised that in saying "It is an animal, therefore it is,” a divided inference is made in virtue of the same argument; for animal does not diminish the notion of is itself. The answer to this is that if the is asserts the truth of a proposition, the fallacy is committed of going from the relative to the absolute; if the is asserts the act of being, the inference is good, but it is of the second determinant, not of the third. 16 Potest ulterius dubitari circa principale: quia sequitur, est quantum coloratum, ergo est quantum, et, est coloratum; et tamen coloratum respicit subiectum mediante quantitate: ergo non videtur recta expositio supra adducta. Ad hoc et similia dicendum est quod coloratum non ita inest subiecto per quantitatem quod sit eius determinatio et ratione talis determinationis subiectum denominet, sicut bonitas artem citharisticam determinat; cum dicitur, est citharoedus bonus; sed potius subiectum ipsum primo coloratum denominatur, quantum vero secundario coloratum dicitur, licet color media quantitate suscipiatur. Unde notanter supra diximus, quod tunc altera pars coniuncti praedicatur per accidens, quando praecise denominat subiectum, quia denominat alteram partem. Quod nec in similibus instantiis invenitur. There is another doubt, this time about the principle in the exposition; for this follows, "It is a colored quantity, therefore it is a quantity and it is colored”; but "colored” regards the subject through the medium of quantity; therefore the exposition given above does not seem to be correct. The answer to this and to similar objections is that "colored” is not so present in a subject by means of quantity that it is its determination, and by reason of such a determination denominates the subject; as goodness,” for instance, determines the art of lute-playing when we say "He is a good lute player.” Rather, the subject itself is first denominated "colored” and quantity is called "colored” secondarily, although color is received through the medium of quantity. Hence, we made a point of saying earlier that one part of a conjoined predicate is predicated accidentally when it denominates the subject precisely because it denominates the other part.93 This is not the case here nor in similar instances. 17 Deinde cum dicit: quod autem non est etc., excludit quorumdam errorem qui, quod non est, esse tali syllogismo concludere satagebant: quod est, opinabile est. Quod non est, est opinabile. Ergo quod non est, est. Hunc siquidem processum elidit Aristoteles destruendo primam propositionem, quae partem coniuncti in subiecto divisim praedicat, ac si diceret: est opinabile, ergo est. Unde assumendo subiectum conclusionis illorum ait: quod autem non est; et addit medium eorum, quoniam opinabile est; et subdit maiorem extremitatem, non est verum dicere, esse aliquid. Et causam assignat, quia talis opinatio non propterea est, quia illud sit, sed potius quia non est. When he says, In the case of non-being, however, it is not true to say that it is something, etc., he excludes the error of those who were satisfied to conclude that what is not, is. This is the syllogism they use: "That which is, is ‘opinionable’; that which is not, is ‘opinionable’; therefore what is not, is.” Aristotle destroys this process of reasoning by destroying the first proposition, which predicates divisively a part of what is conjoined in the subject, as if it said "It is ‘opinionable,’ therefore it is.” Hence, assuming the subject of their conclusion, he says, In the case of that which is not, however; and he adds their middle term, because it is a matter of opinion; then he adds the major extreme, it is not true to say that it is something. He then assigns the cause: it is not because it is but rather because it is not, that there is such opinion. VIII. 1 Postquam determinatum est de enunciationibus, quarum partibus aliud additur tam remanente quam variata unitate, hic intendit declarare quid accidat enunciationi, ex eo quod aliquid additur, non suis partibus, sed compositioni eius. Et circa hoc duo facit: primo, determinat de oppositione earum; secundo, de consequentiis; ibi: consequentiae vero et cetera. Circa primum duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, exequitur; ibi: nam si eorum et cetera. Proponit ergo quod iam perspiciendum est, quomodo se habeant affirmationes et negationes enunciationum de possibili et non possibili et cetera. Et causam subdit: habent enim multas dubitationes speciales. Sed antequam ulterius procedatur, quoniam de enunciationibus, quae modales vocantur, sermo inchoatur, praelibandum est esse quasdam modales enunciationes, et qui et quot sunt modi reddentes propositiones modales; et quid earum sit subiectum et quid praedicatum; et quid sit ipsa enunciatio modalis; quisque sit ordo earum ad praecedentes; et quae necessitas sit specialem faciendi tractatum de his. Now that he has treated enunciations in which something added to the parts leaves the unity intact on the one hand, and varies it on the other, Aristotle begins to explain what happens to the enunciation when something is added, not to its parts, but to its composition. First, he explains their opposition; secondly, he treats of the consequences of their opposition where he says, Logical sequences result from modals ordered thus, etc. With respect to the first point, he proposes the question he intends to consider and then begins his consideration where he says, Let us grant that of mutually related enunciations, contradictories are those opposed to each other, etc. He proposes that we must now investigate the way in which affirmations and negations of the possible and not possible are related. He gives the reason when he adds, for the question has many special difficulties. However, before we proceed with the consideration of enunciations that are called modal, we must first see that there are such things as modal enunciations, and which and how many modes render propositions modal; we must also know what their subject is and their predicate, what the modal enunciation itself is, what the order is between modal enunciations and the enunciations already treated, and finally, why a special treatment of them is necessary. 2 Quia ergo possumus dupliciter de rebus loqui; uno modo, componendo rem unam cum alia, alio modo, compositionem factam declarando qualis sit, insurgunt duo enunciationum genera; quaedam scilicet enunciantes aliquid inesse vel non inesse alteri, et hae vocantur de inesse, de quibus superius habitus est sermo; quaedam vero enunciantes modum compositionis praedicati cum subiecto, et hae vocantur modales, a principaliori parte sua, modo scilicet. Cum enim dicitur, Socratem currere est possibile, non enunciatur cursus de Socrate, sed qualis sit compositio cursus cum Socrate, scilicet possibilis. Signanter autem dixi modum compositionis, quoniam modus in enunciatione positus duplex est. Quidam enim determinat verbum, vel ratione significati ipsius verbi ut Socrates currit velociter, vel ratione temporis consignificati, ut Socrates currit hodie; quidam autem determinat compositionem ipsam praedicati cum subiecto; sicut cum dicitur, Socratem currere est possibile. In illis namque determinatur qualis cursus insit Socrati, vel quando; in hac autem, qualis sit coniunctio cursus cum Socrate. Modi ergo non illi qui rem verbi, sed qui compositionem determinant, modales enunciationes reddunt, eo quod compositio veluti forma totius totam enunciationem continet. We can speak about things in two ways: in one, composing one thing with another; in the other, declaring the kind of composition that exists between the two things. To signify these two ways of speaking about things we form two kinds of enunciations. One kind enunciates that something belongs or does not belong to something. These are called absolute [de inesse] enunciations; these we have already discussed. The other enunciates the mode of composition of the predicate with the subject. These are called modal, from their principal part, the mode. For when we say, "That Socrates run is possible,” it is not the running of Socrates that is enunciated but the kind of composition there is between running and Socrates-in this case, possible. I have said "mode of composition” expressly, for there are two kinds of mode posited in the enunciation. One modifies the verb, either with respect to what it signifies, as in "Socrates runs swiftly,” or with respect to the time signified along with the verb, as in "Socrates runs today.” The other kind modifies the very composition of the predicate with the subject, as in the example, "That Socrates run is possible.” The former determines how or when running is in Socrates; the latter determines the kind of conjunction there is between running and Socrates. The former, which affects the actuality of the verb, does not make a modal enunciation. Only the modes that affect the composition make a modal enunciation, the reason being that the composition, as the form of the whole, contains the whole enunciation. 3 Sunt autem huiusmodi modi quatuor proprie loquendo, scilicet possibile et impossibile, necessarium et contingens. Verum namque et falsum, licet supra compositionem cadant cum dicitur, Socratem currere est verum, vel hominem esse quadrupedem est falsum, attamen modificare proprie non videntur compositionem ipsam. Quia modificari proprie dicitur aliquid, quando redditur aliquale, non quando fit secundum suam substantiam. Compositio autem quando dicitur vera, non aliqualis proponitur, sed quod est: nihil enim aliud est dicere, Socratem currere est verum, quam quod compositio cursus cum Socrate est. Et similiter quando est falsa, nihil aliud dicitur, quam quod non est: nam nihil aliud est dicere, Socratem currere est falsum, quam quod compositio cursus cum Socrate non est. Quando vero compositio dicitur possibilis aut contingens, iam non ipsam esse, sed ipsam aliqualem esse dicimus: cum siquidem dicitur, Socratem currere est possibile, non substantificamus compositionem cursus cum Socrate, sed qualificamus, asserentes illam esse possibilem. Unde Aristoteles hic modos proponens, veri et falsi nullo modo meminit, licet infra verum et non verum inferat, propter causam ibi assignandam. This kind of mode, properly speaking, is fourfold: possible, impossible, necessary, and contingent. True and false are not included because, strictly speaking, they do not seem to modify the composition even though they fall upon the composition itself, as is evident in "That Socrates runs is true,” and "That man is four-footed is false.” For something is said to be modified in the proper sense of the term when it is caused to be in a certain way, not when it comes to be according to its substance. Now, when a composition is said to be true it is not proposed that it is in a certain way, but that it is. To say, "That Socrates runs is true,” for example, is to say that the composition of running with Socrates is. The case is similar when it is false, for what is said is that it is not; for example, to say, "That Socrates runs is false” is to say that the composition of running with Socrates is not. On the other hand, when the composition is said to be possible or contingent, we are not saying that it is but that it is in a certain way. For example, when we say, "That Socrates run is possible,” we do not make the composition of running with Socrates substantial, but we qualify it, asserting that it is possible. Consequently, Aristotle in proposing the modes, does not mention the true and false at all, although later on he infers the true and the not true, and assigns the reason for it where he does this. 4 Et quia enunciatio modalis duas in se continet compositiones, alteram inter partes dicti, alteram inter dictum et modum, intelligendum est eam compositionem modificari, idest, quae est inter partes dicti, non eam quae est inter modum et dictum. Quod sic perpendi potest. Huius enunciationis modalis, Socratem esse album est possibile, duae sunt partes; altera est, Socratem esse album, altera est, possibile. Prima dictum vocatur, eo quod est id quod dicitur per eius indicativam, scilicet, Socrates est albus: qui enim profert hanc, Socrates est albus, nihil aliud dicit nisi Socratem esse album: secunda vocatur modus, eo quod modi adiectio est. Prima compositionem quandam in se continet ex Socrate et albo; secunda pars primae opposita compositionem aliquam sonat ex dicti compositione et modo. Prima rursus pars, licet omnia habeat propria, subiectum scilicet, et praedicatum, copulam et compositionem, tota tamen subiectum est modalis enunciationis; secunda autem est praedicatum. Dicti ergo compositio subiicitur et modificatur in enunciatione modali. Qui enim dicit, Socratem esse album est possibile, non significat qualis est coniunctio possibilitatis cum hoc dicto, Socratem esse album, sed insinuat qualis sit compositio partium dicti inter se, scilicet albi cum Socrate, scilicet quod est compositio possibilis. Non dicit igitur enunciatio modalis aliquid inesse, vel non inesse, sed dicti potius modum enunciat. Nec proprie componit secundum significatum, quia compositionis non est compositio, sed rerum compositioni modum apponit. Unde nihil aliud est enunciatio modalis, quam enunciatio dicti modificativa. Since the modal enunciation contains two compositions, one between the parts of what is said, the other between what is said and the mode, it must be understood that it is the former composition that is modified, i.e., the composition between the parts of what is said, not the composition between what is said and the mode. This can be seen in an example. In the modal enunciation, "That Socrates be white is possible,” there are two parts: one, "That Socrates be white,” the other, "is possible.” The first is called the dictum because it is that which is asserted by the indicative, namely, "Socrates is white”; for in saying "Socrates is white” we are simply saying, "That Socrates be white.” The second part is called the mode because it is the addition of a restriction. The first part of the modal enunciation consists of a certain composition of Socrates and white; the second part, opposed to the first, 4 indicates a composition from the composition of dictum and mode. Again, the first part, although it has all the properties of an enunciation—subject, predicate, copula, and composition—is, in its entirety, the subject of the modal enunciation; the second part, the mode, is the predicate. In a modal enunciation, therefore, the composition of the dictum is subjected and modified; for when we say, "That Socrates be white is possible,” it does not signify the kind of conjunction of possibility there is with the dictum "That Socrates be white,” but it implies the kind of composition there is of the parts of the dictum among themselves, i.e., of white with Socrates, namely, that it is a possible composition. The modal enunciation, therefore, does not say that something is present in or not present in a subject, but rather, it enunciates a mode of the dictum. Nor properly speaking does it compose according to what is signified, since it is not a composition of the composition; rather, it adds a mode to the composition of the things. Hence the modal enunciation is simply an enunciation in which the dictum is modified. 5 Nec propterea censenda est enunciatio plures modalis, quia omnia duplicata habeat: quoniam unum modum de unica compositione enunciat, licet illius compositionis plures sint partes. Plura enim illa ad dicti compositionem concurrentia, veluti plura ex quibus fit unum subiectum concurrunt, de quibus dictum est supra quod enunciationis unitatem non impediunt. Sicut nec cum dicitur, domus est alba, est enunciatio multiplex, licet domus ex multis consurgat partibus. Because the modal enunciation has everything duplicated, it must not on that account be thought to be many. It enunciates one mode of only one composition, although there are many parts of that composition. The many concurring for the composition of the dictum are like the many that concur to make one subject, of which it was said above that it does not impede the unity of the enunciation.” The enunciation, "The house is white,” is also a case in point, for it is not multiple, although a house is built of many parts. 6 Merito autem est, post enunciationes de inesse, de modalibus tractandum, quia partes naturaliter sunt toto priores, et cognitio totius ex partium cognitione dependet; et specialis sermo de his est habendus, quia proprias habet difficultates. Notavit quoque Aristoteles in textu multa. Horum ordinem scilicet, cum dixit: his vero determinatis etc.; modos qui et quot sunt, cum eos expressit et inseruit; variationem eiusdem modi, per affirmationem et negationem, cum dixit: possibile et non possibile, contingens et non contingens; necessitatem cum addidit: habent enim multas dubitationes proprias et cetera. Modal enunciations are rightly treated after the absolute enunciation, for parts are naturally prior to the whole, and knowledge of the whole depends on knowledge of the parts. Moreover, a special discussion of them was necessary because the modal enunciation has its own peculiar difficulties. Aristotle indicates in his text many of the things we have taken up here: the order of modal enunciations, when he says, Having determined these things, etc.; what and how many modes there are when he expresses and lists them, the variation of the same mode by affirmation and negation when he says, the possible and not possible, contingent and not contingent; the necessity of treating them, when he adds, for they have many difficulties of their own. 7 Deinde cum dicit: nam si eorum etc., exequitur tractatum de oppositione modalium. Et circa hoc duo facit: primo, movendo quaestionem arguit ad partes; secundo, determinat veritatem; ibi: contingit autem et cetera. Est autem dubitatio: an in enunciationibus modalibus fiat contradictio negatione apposita ad verbum dicti, quod dicit rem; an non, sed potius negatione apposita ad modum qui qualificat. Et primo, arguit ad partem affirmativam, quod scilicet addenda sit negatio ad verbum; secundo, ad partem negativam, quod non apponenda sit negatio ipsi verbo; ibi: videtur autem et cetera. Then he investigates the opposition of modal enunciations, where he says, Let us grant that of those things that are combined, contradictories are those opposed to each other by being related in a certain way according to "to be” and "not to be,” etc. First, he presents the question and in so doing gives arguments for the parts; secondly, he determines the truth, where he says, For it follows from what we have said, either that the same thing is asserted and denied at once of the same subject, etc. The question with respect to the opposition of modals is this: Is a contradiction made in modal enunciations by a negation added to the verb of the dictum, which expresses what is; or is it not, but rather by a negation added to the mode which qualifies? Aristotle first argues for the affirmative part, that the negation must be added to the verb; then he argues for the negative part, that the negation must not be added to the verb, where he says, However it seems that the same thing is possible to be and possible not to be, etc. 8 Intendit ergo primo tale argumentum; si complexorum contradictiones attenduntur penes esse et non esse (ut patet inductive in enunciationibus substantivis de secundo adiacente et de tertio, et in adiectivis), contradictionesque omnium hoc modo sumendae sunt, contradictoria huius, possibile esse, erit, possibile non esse, et non illa, non possibile esse. Et consequenter apponenda est negatio verbo, ad sumendam oppositionem in modalibus. Patet consequentia, quia cum dicitur, possibile esse, et, possibile non esse, negatio cadit supra esse. Unde dicit: nam si eorum, quae complectuntur, idest complexorum, illae sibi invicem sunt oppositae contradictiones, quae secundum esse vel non esse disponuntur, idest in quarum una affirmatur esse, et in altera negatur. His first argument is this. If of combined things, contradictions are those related according to "to be” and "not to be” (as is clear inductively in substantive enunciations with a second determinant, in those with a third determinant, and in adjectival enunciations) and all contradictions must be obtained in this way, the contradictory of "possible to be” will be "possible not to be,” and not, "not possible to be.” Consequently, the negation must be added to the verb to get opposition in modal enunciations. The consequence is clear, for when we say "possible to be” and possible not to be” the negation falls on "to be.” Accordingly, he says, Let us grant that of those things that are combined, i.e., of complex things, contradictions are those opposed to each other which are disposed according to "to be” and "not to be,” i.e., in one of which "to be” is affirmed and in the other denied. 9 Et subdit inductionem, inchoans a secundo adiacente: ut, eius enunciationis quae est, esse hominem, idest, homo est, negatio est, non esse hominem, ubi verbum negatur, idest, homo non est; et non est eius negatio ea quae est, esse non hominem, idest, non homo est: haec enim non est negativa, sed affirmativa de subiecto infinito, quae simul est vera cum illa prima, scilicet, homo est. He goes on to give an induction, beginning with an enunciation having a second determinant. The negation of "Man is,” is, "Man is not,” in which the verb is negated. The negation of "Man is,” is not, "Non-man is,” for this is not the negative but the affirmative of the infinite subject, which is true at the same time as the first enunciation, "Man is.” Cajetanus lib. 2 l. 8 n. 10Deinde prosequitur inductionem in substantivis de tertio adiacente: ut, eius quae est, esse album hominem idest, ut illius enunciationis, homo est albus, negatio est, non esse album hominem, ubi verbum negatur, idest, homo non est albus; et non est negatio illius ea, quae est, esse non album hominem, idest, homo est non albus. Haec enim non est negativa, sed affirmativa de praedicato infinito. Et quia istae duae affirmativae de praedicato finito et infinito non possunt de eodem verificari, propterea quia sunt de praedicatis oppositis, posset aliquis credere quod sint contradictoriae; et ideo ad hunc errorem tollendum interponit rationem probantem quod hae duae non sunt contradictoriae. Est autem ratio talis. Contradictoriorum talis est natura quod de omnibus aut dictio, idest affirmatio aut negatio verificatur. Inter contradictoria siquidem nullum potest inveniri medium; sed hae duae enunciationes, scilicet, est homo albus, et, est homo non albus, sunt contradictoriae per se; ergo sunt talis naturae quod de omnibus altera verificatur. Et sic, cum de ligno sit falsum dicere, est homo albus, erit verum dicere de eo, scilicet ligno, esse non album hominem, idest, lignum est homo non albus. Quod est manifeste falsum: lignum enim neque est homo albus, neque est homo non albus. Restat ergo ex quo utraque est simul falsa de eodem, quod non sit inter eas contradictio. Sed contradictio fit quando negatio apponitur verbo. He continues the induction with substantive enunciations having a third determinant. The negation of the enunciation "Man is white” is "Man is not white,” in which the verb is negated. The negation is not "Man is nonwhite,” for this is not the negative, but the affirmative of the infinite predicate. Now it might be thought that the affirmatives of the finite and infinite predicates are contradictories since they cannot be verified of the same thing because of their opposed predicates. To obviate this error, Aristotle interposes an argument proving that these two are not contradictories. The nature of contradictories, he reasons, is such that either the assertion, i.e., the affirmation, or the negation, is verified of anything, for between contradictories no middle is possible. Now the two enunciations, that something "is white man” and "is nonwhite man” are per se contradictories. Therefore, they are of such a nature that one of them is verified of anything. For example, it is false to say "is white man” of wood; hence "is nonwhite man” will be true to say of it, namely of wood, i.e., "Wood is nonwhite man.” This is manifestly false, for wood is neither white man nor nonwhite man. Consequently, there is not a contradiction in the case in which each is at once false of the same subject. Therefore, contradiction is effected when the negation is added to the verb. 11 Deinde prosequitur inductionem in enunciationibus adiectivi verbi, dicens: quod si hoc modo, scilicet supradicto, accipitur contradictio, et in quantiscunque enunciationibus esse non ponitur explicite, idem faciet quoad oppositionem sumendam, id quod pro esse dicitur (idest verbum adiectivum, quod locum ipsius esse tenet, pro quanto, propter eius veritatem in se inclusam, copulae officium facit), ut eius enunciationis quae est, homo ambulat, negatio est, non ea quae dicit, non homo ambulat (haec enim est affirmativa de subiecto infinito), sed negatio illius est, homo non ambulat; sicut et in illis de verbo substantivo, negatio verbo addenda erat. Nihil enim differt dicere verbo adiectivo, homo ambulat, vel substantivo, homo est ambulans. He continues his induction with enunciations having an adjective verb: Now if the case is as we have stated it, i.e., contradiction is taken as said above, then in enunciations in which "to be” is not the determining word added (explicitly), that which is said in place of "to be” will effect the same thing with respect to the opposition obtained (i.e., the adjective verb that occupies the place of "to be,” inasmuch as the truth of "to be” is included in it, effects the function of the copula). For example, the negation of the enunciation "Man walks” is not, "Non-man walks” (for this is the affirmative of the infinite subject) but "Man is not walking.” In this case, as in that of the substantive verb, the negation must be added to the verb, for there is no difference between using the adjective verb, as in "Man walks,” and using the substantive verb, as in "Man is walking.” 12 Deinde ponit secundam partem inductionis dicens: et si hoc modo in omnibus sumenda est contradictio, scilicet, apponendo negationem ad esse, concluditur quod et eius enunciationis, quae dicit, possibile esse, negatio est, possibile non esse, et non illa quae dicit, non possibile esse. Patet conclusionis sequela: quia in illa, possibile non esse, negatio apponitur verbo; in ista autem non. Dixit autem in principio huius rationis: eorum quae complectuntur, idest complexorum, contradictiones fiunt secundum esse et non esse, ad differentiam incomplexorum quorum oppositio non fit negatione dicente non esse, sed ipsi incomplexo apposita, ut, homo, et, non homo, legit, et non legit. Then he posits the second part of the induction: And if this is always the case, i.e., that contradiction must be gotten by adding the negation to "to be,” we must conclude that the negation of the enunciation that asserts "Possible to be” is "possible not to be,” and not, "not possible to be.” The consequent of the conclusion is evident, for in "possible not to be” the negation is added to the verb, in "not possible to be,” it is not. At the beginning of this argument, Aristotle said, Of those things that are combined, i.e., complex things, the contradictions are effected according to "to be” and "not to be.” He said this in reference to the difference between complex and incomplex things, for opposition in the latter is not made by the negation expressing "not to be,” but by adding the negative to the incomplex thing itself, as in "man” and "non-man,” "reads” and "non-reads.” Cajetanus lib. 2 l. 8 n. 13Deinde cum dicit: videtur autem idem etc., arguit ad quaestionis partem negativam (scilicet quod ad sumendam contradictionem in modalibus non addenda est negatio verbo), tali ratione. Impossibile est duas contradictorias esse simul veras de eodem; sed supradictae, scilicet, possibile esse, et, possibile non esse, simul verificantur de eodem; ergo istae non sunt contradictoriae: igitur contradictio modalium non attenditur penes verbi negationem. Huius rationis primo ponitur in littera minor cum sua probatione; secundo maior; tertio conclusio. Minor quidem cum dicit: videtur autem idem possibile esse, et, non possibile esse. Sicut verbi gratia, omne quod est possibile dividi est etiam possibile non dividi, et quod est possibile ambulare est etiam possibile non ambulare. Ratio autem huius minoris est, quoniam omne quod sic possibile est (sicut, scilicet, est possibile ambulare et dividi), non semper actu est: non enim semper actualiter ambulat, qui ambulare potest; nec semper actu dividitur, quod dividi potest. Quare inerit etiam negatio possibilis, idest, ergo non solum possibilis est affirmatio, sed etiam negatio eiusdem. Adverte quod quia possibile est multiplex, ut infra dicetur, ideo notanter Aristoteles addidit ly sic, assumens, quod sic possibile est, non semper actu est. Non enim de omni possibili verum est dicere quod non semper actu est, sed de aliquo, eo scilicet quod est sic possibile, quemadmodum ambulare et dividi. Nota ulterius quod quia tale possibile habet duas conditiones, scilicet quod potest actu esse et quod non semper actu est, sequitur necessario quod de eo simul est verum dicere, possibile esse, et, non esse. Ex eo enim quod potest actu esse, sequitur quod sit possibile esse; ex eo vero quod non semper actu est, sequitur quod sit possibile non esse. Quod enim non semper est, potest non esse. Bene ergo intulit Aristoteles ex his duobus: quare inerit etiam negatio possibilis et non solum affirmatio; potest igitur et non ambulare, quod est ambulabile, et non videri, quod est visibile. Maior vero subiungitur, cum ait: at vero impossibile est de eodem veras esse contradictiones. Infertur quoque ultimo conclusio: non est igitur ista (scilicet, possibile non esse) negatio illius, quae dicit, possibile esse: quia sunt simul verae de eodem. Caveto autem ne ex isto textu putes possibile, ut est modus, debere semper accipi pro possibili ad utrumlibet: quoniam hoc infra declarabitur esse falsum; sed considera quod satis fuit intendenti declarare quod in modalibus non sumitur contradictio ex verbi negatione, afferre instantiam in una modali, quae continetur sub modalibus de possibili. When he says, However, it seems that the same thing is possible to be and possible not to be, etc., he argues for the negative part of the question, namely, to get a contradiction in modals the negation should not be added to the verb. His reasoning is the following: It is impossible for two contradictories to be true at once of the same subject; but "possible to be” and "possible not to be” are verified at once of the same thing; therefore, these are not contradictories. Consequently, contradiction of the modals is not obtained by negation of the verb. In this reasoning, the minor is posited first, with its proof; secondly, the major; finally, the conclusion. The minor is: However, it seems that the same thing is possible to be and possible not to be. For instance, everything that has the possibility of being divided also has the possibility of not being divided, and that which has the possibility of walking also has the possibility of not walking. The proof of this minor is that everything that is possible in this way (as are possible to walk and to be divided) is not always in act; for he who is able to walk is not always actually walking, nor is that which can be divided always divided. And so the negation of the possible will also be inherent in it, i.e., therefore not only is the affirmation possible but also the negation. Notice that since the possible is manifold, as will be said further on, Aristotle explicitly adds "in this way” when he assumes here that that which is possible is not always in act. For it is not true to say of every possible that it is not always in act, but only of some, namely, those that are possible in the way in which to walk and to be divided are possible. Note also that "possible in this way” has two conditions: that it is able to be in act, and that it is not always in act. It follows necessarily, then, that it is true to say of it simultaneously that it is both possible to be and possible not to be. From the fact that it can be in act it follows that it is possible to be; from the fact that it is not always in act it follows that it is possible not to be, for that which not always is, is able not to be. Aristotle, then, rightly infers from these two: and so the negation of the possible will also be inherent in it; and not just the affirmation, for that which could walk could also not walk and that which could be seen not be seen. The major is: But it is impossible that contradictions in respect to the same thing be true. The final conclusion inferred is: Therefore, the negation of "possible to be” is not, "possible not to be” because they are true at once of the same thing. In relation to this part of the text, be careful not to suppose that possible as it is a mode, is always to be taken for possible to either of two alternatives, for this will be shown to be false later on. If you consider the matter carefully you will see that it was enough for his intention to give as an instance one modal contained under the modals of the possible in order to show that contradiction in modals is not obtained by negation of the verb. 14 Deinde cum dicit: contingit autem unum ex his etc., determinat veritatem huius dubitationis. Et quia duo petebat, scilicet, an contradictio modalium ex negatione verbi fiat an non, et, an potius ex negatione modi; ideo primo, determinat veritatem primae petitionis, quod scilicet contradictio harum non fit negatione verbi; secundo determinat veritatem secundae petitionis, quod scilicet fiat modalium contradictio ex negatione modi; ibi: est ergo negatioet cetera. Dicit ergo quod propter supradictas rationes evenit unum ex his duobus, quae conclusimus determinare, aut idem ipsum, idest, unum et idem dicere, idest affirmare et negare simul de eodem: idest, aut quod duo contradictoria simul verificantur de eodem, ut prima ratio conclusit; aut affirmationes vel negationes modalium, quae opponuntur contradictorie, fieri non secundum esse vel non esse, idest, aut contradictio modalium non fiat ex negatione verbi, ut secunda ratio conclusit. Si ergo illud est impossibile, scilicet quod duo contradictoria possunt simul esse vera de eodem, hoc, scilicet quod contradictio modalium non fiat secundum verbi negationem, erit magis eligendum. Impossibilia enim semper vitanda sunt. Ex ipso autem modo loquendi innuit quod utrique earum aliquid obstat. Sed quia primo obstat impossibilitas quae acceptari non potest, secundo autem nihil aliud obstat nisi quod negatio supra enunciationis copulam cadere debet, si negativa fieri debet enunciatio, et hoc aliter fieri potest quam negando dicti verbum, ut infra declarabitur; ideo hoc secundum, scilicet quod contradictio modalium non fiat secundum negationem verbi, eligendum est: primum vero est omnino abiiciendum. Aristotle establishes the truth with respect to this difficulty where he says, For it follows from what we have said, either that the same thing is asserted and denied at once of the same subject, etc. Since he is investigating two things, i.e., whether contradiction of modals is made by the negation of the verb or not; and, whether it is not rather by negation of the mode, he first determines the truth in relation to the first question, namely, that contradiction of modals is not made by negation of the verb; then he determines the truth in relation to the second, namely, that contradiction of modals is made by negation of the mode, where he says, Therefore, the negation of "possible to be” is "not possible to be,” etc. Hence he says that because of the foresaid reasoning one of these two follows: first, that either the same thing, i.e., one and the same thing is said, i.e., is asserted and denied at once of the same subject, i.e., either two contradictories are verified at once of the same thing, as the first argument concluded; or secondly, that assertions and denials of modals, which are opposed contradictorily are not made by the addition of "to be” or "not to be,” i.e., contradiction of modals is not made by the negation of the verb, as the second argument concluded. If the former alternative is impossible, namely, that two contradictories can be true of the same thing at once, the latter, that contradiction of modals is not made according to negation of the verb, must obtain, for impossible things must always be avoided. His mode of speaking here indicates that there is some obstacle to each alternative. But since in the first the obstacle is an impossibility that cannot be accepted, while in the second the only obstacle is that the negation must fall upon the copula of the enunciation if a negative enunciation is to be formed, and this can be done otherwise than by denying the verb of the dictum, as will be shown later on, then the second alternative must be chosen, i.e., that the contradiction of modals is not made according to negation of the verb, and the first alternative is to be rejected. IX. 1. Determinat ubi ponenda sit negatio ad assumendam modalium contradictionem. Et circa hoc quatuor facit: primo, determinat veritatem summarie; secundo, assignat determinatae veritatis rationem, quae dicitur rationi ad oppositum inductae; ibi: fiunt enim etc.; tertio, explanat eamdem veritatem in omnibus modalibus; ibi: eius veroetc.; quarto, universalem regulam concludit; ibi: universaliter vero et cetera. Quia igitur negatio aut verbo aut modo apponenda est, et quod verbo non addenda est, declaratum est per locum a divisione; concludendo determinat: est ergo negatio eius quae est possibile esse, ea quae est non possibile esse, in qua negatur modus. Et eadem est ratio in enunciationibus de contingenti. Huius enim, quae est, contingens esse, negatio est, non contingens esse. Et in aliis, scilicet de necesse et impossibile idem est iudicium. Aristotle now determines where the negation must be placed in order to obtain contradiction in modals. He first determines the truth summarily; secondly, he presents the argument for the truth of the position, which is also the answer to the reasoning induced for the opposite position, where he says, For just as "to be” and "not to be” are the determining additions in the former, and the things subjected are "white” and "man,” etc.; thirdly, he makes this truth evident in all the modals, where he says, The negation, then, of "possible not to be” is "not possible not to be,” etc.; fourthly, he arrives at a universal rule where he says, And universally, as has been said, "to be” and "not to be must be posited as the subject, etc. Since the negation must be added either to the verb or to the mode and it was shown above in virtue of an argument from division that it is not to be added to the verb, he concludes: Therefore, the negation of "possible to be” is "not possible to be”, that is, the mode is negated. The reasoning is the same with respect to enunciations of the contingent, for the negation of "contingent to be” is "not contingent to be.” And the judgment is the same in the others, i.e., the necessary and the impossible. Cajetanus lib. 2 l. 9 n. 2Deinde cum dicit: fiunt enim in illis appositiones etc., subdit huius veritatis rationem talem. Ad sumendam contradictionem inter aliquas enunciationes oportet ponere negationem super appositione, idest coniunctione praedicati cum subiecto; sed in modalibus appositiones sunt modi; ergo in modalibus negatio apponenda est modo, ut fiat contradictio. Huius rationis, maiore subintellecta, minor ponitur in littera per secundam similitudinem ad illas de inesse. Et dicitur quod quemadmodum in illis enunciationibus de inesse appositiones, idest praedicationes, sunt esse et non esse, idest verba significativa esse vel non esse (verbum enim semper est nota eorum quae de altero praedicantur), subiective vero appositionibus res sunt, quibus esse vel non esse apponitur, ut album, cum dicitur, album est, vel homo, cum dicitur, homo est; eodem modo hoc in loco in modalibus accidit: esse quidem subiectum fit, idest dictum significans esse vel non esse subiecti locum tenet; contingere vero et posse oppositiones, idest modi, praedicationes sunt. Et quemadmodum in illis de inesse penes esse et non esse veritatem vel falsitatem determinavimus, ita in istis modalibus penes modos. Hoc est enim quod subdit, determinantes, scilicet, fiunt ipsi modi veritatem, quemadmodum in illis esse et non esse, eam determinat. When he says, For just as "to be” and "not to be” are the determining additions in the former, and the things subjected are "white” and "man,” etc., he gives the argument for the truth of his position. To obtain contradiction among any enunciations the negation must be applied to the determining addition, i.e., to the word that joins the predicate with the subject; but in modals the determining additions are the modes; therefore, to get a contradiction in modals, the negation must be added to the mode. The major of the argument is subsumed; the minor is stated in Aristotle’s wording by a further similitude to absolute enunciations. In absolute enunciations the determining additions, i.e., the predications, are "to be” and "not to be,” i.e., the verb signifying "to be” or "not to be” (for the verb is always a sign of those things that are predicated of another). The things subjected to the determining additions, i.e., to which to be” and "not to be” are applied, are "white,” in "White is, "or man,” in "Man is.” This happens in modals in the same way but in a manner appropriate to them. "To be” is as the subject, i.e., the dictum signifying "to be” or "not to be” holds the place of the subject; "is possible” and "is contingent,” i.e., the modes, are the predicates. And just as in absolute enunciations we determine truth or falsity with "to be” and "not to be,” so in modals with the modes. He makes this point when he says, determining additions, i.e., these modes effect truth just as "to be” and "not to be” determine truth and falsity in the others. 3. Et sic patet responsio ad argumentum in oppositum primo adductum, concludens quod negatio verbo apponenda sit, sicut illis de inesse. Dicitur enim quod cum modalis enunciet modum de dicto sicut enunciatio de inesse, esse vel esse tale, puta esse album de subiecto, eumdem locum tenet modus hic, quem ibi verbum; et consequenter super idem proportionaliter cadit negatio hic et ibi. Eadem enim, ut dictum est, proportio est modi ad dictum, quae est verbi ad subiectum. Rursus cum veritas et falsitas affirmationem et negationem sequantur, penes idem attendenda est affirmatio vel negatio enunciationis, et veritas vel falsitas eiusdem; sicut autem in enunciationibus de inesse veritas vel falsitas esse vel non esse consequitur, ita in modalibus modum. Illa namque modalis est vera quae sic modificat dictum sicut dicti compositio patitur, sicut illa de inesse est vera, quae sic significat esse sicut est. Est ergo negatio modo hic apponenda, sicut ibi verbo, cum sit eadem utriusque vis quoad veritatem et falsitatem enunciationis. Adverte quod modos, appositiones, idest, praedicationes vocavit, sicut esse in illis de inesse, intelligens per modum totum praedicatum enunciationis modalis, puta, est possibile. In cuius signum modos ipsos verbaliter protulit dicens: contingere vero et posse appositiones sunt. Contingit enim et potest, totum praedicatum modalis continent. Thus the response to the argument for the opposite position, which he gave first, is evident. That argument concluded that the negation should be added to the verb as it is in absolute enunciations. But since the modal enunciates a mode of a dictum—as the absolute enunciation enunciates "to be” or "not to be” such, for instance, "to be white” of a subject—the mode holds the same place here that the verb does there. Consequently, the negation falls upon the same thing proportionally here and there, for the proportion of mode to dictum is the same as the proportion of verb to subject. Again, since truth and falsity follow upon affirmation and negation, the affirmation and negation of an enunciation and its truth and falsity must be controlled by the same thing. In absolute enunciations truth and falsity follow upon "to be” or "not to be,” hence in the modals they follow upon the mode; for that modal is true which modifies the dictum as the composition of the dictum permits, just as that absolute enunciation is true which signifies that something is as it is. Therefore, negation is added here to the mode just as it is added there to the verb, since the power of each is the same with respect to the truth and falsity of an enunciation. Notice that he calls the modes "determining additions,” i.e., predications—as "to be” is in absolute enunciations—understanding by the mode the whole predicate of the modal enunciation, for example, "is possible.” As a sign of this he expresses the modes themselves verbally when he says, "is possible” and "is contingent” are determining additions. For "is contingent” and "is possible” comprise the whole predicate of the modal enunciation. Cajetanus lib. 2 l. 9 n. 4Deinde cum dicit: eius vero quod est possibile est non esse etc., explanat determinatam veritatem in omnibus modalibus, scilicet de possibili, et necessario, et impossibili. Contingens convertitur cum possibili. Et quia quilibet modus facit duas modales affirmativas, alteram habentem dictum affirmatum, et alteram habentem dictum negatum; ideo explanat in singulis modis quae cuiusque affirmationis negatio sit. Et primo in illis de possibili. Et quia primae affirmativae de possibili (quae scilicet habet dictum affirmatum) scilicet possibile esse, negatio assignata fuit, non possibile esse; ideo ad reliquam affirmativam de possibili transiens ait: eius vero, quae est possibile non esse (ubi dictum negatur) negatio est non possibile non esse. Et hoc consequenter probat per hoc quod contradictoria huius, possibile non esse, aut est, possibile esse, aut illa, quam diximus, scilicet, non possibile non esse. Sed illa, scilicet, possibile esse, non est eius contradictoria. Non enim sunt sibi invicem contradicentes, possibile esse, et, possibile non esse, quia possunt simul esse verae. Unde et sequi sese invicem putabuntur: quoniam, ut supra dictum fuit, idem est, possibile esse, et, non esse, et consequenter sicut ad, posse esse, sequitur, posse non esse, ita e contra ad, posse non esse, sequitur, posse esse; sed contradictoria illius, possibile esse, quae non potest simul esse vera est, non possibile esse: hae enim, ut dictum est, opponuntur. Remanet ergo quod huius negatio, possibile non esse, sit illa, non possibile non esse: hae namque simul nunquam sunt verae vel falsae. Dixit quod possibile esse et non esse sequi se invicem putabuntur, et non dixit quod se invicem consequuntur: quia secundum veritatem universaliter non sequuntur se, sed particulariter tantum, ut infra dicetur; propter quod putabitur quod simpliciter se invicem sequantur. Deinde declarat hoc idem in illis de necessario. Et primo, in affirmativa habente dictum affirmatum, dicens: similiter eius quae est, necessarium esse, negatio non est ea, quae dicit necessarium non esse, ubi modus non negatur, sed ea quae est, non necessarium esse. Deinde subdit de affirmativa de necessario habente dictum negatum, et ait: eius vero, quae est, necessarium non esse, negatio est ea, quae dicit, non necessarium non esse. Deinde transit ad illas de impossibili, eumdem ordinem servans, et inquit: et eius, quae dicit, impossibile esse, negatio non est ea quae dicit, impossibile non esse, sed, non impossibile esse: ubi iam modus negatur. Alterius vero affirmativae, quae est, impossibile non esse, negatio est ea quae dicit non impossibile non esse. Et sic semper modo negatio addenda est. When he says, The negation, then, of "possible not to be” is [not, "not possible to be” but] "not possible not to be,” etc., he makes this truth evident in all the modals, i.e., the possible, the necessary, and the impossible (the contingent being convertible with the possible). And since any mode makes two modal affirmatives, one having an affirmed dictum and the other having a negated dictum, he shows what the negation of each affirmation is in each mode. First he takes those of the possible. The negation of the first affirmative of the possible (the one with an affirmed dictum), i.e., "possible to be,” was assigned as "not possible to be.” Hence, going on to the remaining affirmative of the possible he says, The negation, then, of "possible not to be” [wherein the dictum is negated] is, "not possible not to be.” Then he a proves this. The contradictory of "possible not to be” is either "Possible to be” or "not possible not to be.” But the former, i.e., "possible to be,” is not the contradictory of "possible not to be,” for they can be at once true. Hence they are also thought to follow upon each other, for, as was said above, the same thing is possible to be and not to be. Consequently, just as "possible not to be” follows upon "possible to be,” so conversely "possible to be” follows upon "possible not to be.” But the contradictory of "possible to be,” which cannot be true at the same time, is "not possible to be,” for these, as has been said, are opposed. Therefore, the negation of "possible not to be” is, "not possible not to be,” for these are never at once true or false. Note that he says, Wherefore "possible to be” and "possible not to be” would appear to be consequent to each other, and not that they do follow upon each other, for it is not true that they follow upon each other universally, but only particularly (as will be said later); this is the reason they appear to follow upon each other simply. Then he manifests the same thing in the modals of the necessary, and first in the affirmative with an affirmed dictum: The case is the same with respect to the necessary. The negation of "necessary to be” is not, "necessary not to be” (in which the mode is not negated) but, "not necessary to be.” Next he adds the affirmative of the necessary with a negated dictum: and the negation of "necessary not to be is "not necessary not to be.” Next, he takes up the impossible, keeping the same order. The negation of "impossible to be” is not, "impossible not to be” but, "not impossible to be,” in which the mode is negated. The negation of the other affirmative, "impossible not to be” is "not impossible not to be.” The negation, therefore, is always added to the mode. Cajetanus lib. 2 l. 9 n. 5Deinde cum dicit: universaliter vero etc., concludit regulam universalem dicens quod, quemadmodum dictum est, dicta importantia esse et non esse oportet ponere in modalibus ut subiecta, negationem vero et affirmationem hoc, idest contradictionis oppositionem, facientem, oportet apponere tantummodo ad suum eumdem modum, non ad diversos modos. Debet namque illemet modus negari, qui prius affirmabatur, si contradictio esse debet. Et exemplariter explanans quomodo hoc fiat, subdit: et oportet putare has esse oppositas dictiones, idest affirmationes et negationes in modalibus, possibile et non possibile, contingens et non contingens. Item cum dixit negationem alio tantum modo ad modum apponi debere, non exclusit modi copulam, sed dictum. Hoc enim est singulare in modalibus quod eamdem oppositionem facit, negatio modo addita, et eius verbo. Contradictorie enim opponitur huic, possibile est esse, non solum illa, non possibile est esse, sed ista, possibile non est esse; meminit autem modi potius, et propter hoc quod nunc diximus, ut scilicet insinuaret quod negatio verbo modi postposita, modo autem praeposita, idem facit ac si modali verbo praeponeretur, et quia, cum modo numquam caret modalis enunciatio, semper negatio supra modum poni potest. Non autem sic de eius verbo: verbo enim modi carere contingit modalem, ut cum dicitur, Socrates currit necessario; et ideo semper verbo negatio aptari potest. Quod autem in fine addidit, verum et non verum, insinuat, praeter quatuor praedictos modos, alios inveniri, qui etiam compositionem enunciationis determinant, puta, verum et non verum, falsum et non falsum: quos tamen inter modos supra non posuit, quia, ut declaratum fuit, non proprie modificant. Then he says, And universally, as has been said, "to be”and "not to be” must be posited as the subject, and those that produce affirmation and negation must be joined to "to be” and "not to be,” etc. Here he concludes with the universal rule. As has been said, the dictums denoting "to be” and "not to be” must be posited in the modals as subjects, and the one making this an affirmation and negation, i.e., the opposition of contradiction, must be added only to the selfsame mode, not to diverse modes, for the selfsame mode which was previously affirmed must be denied if there is to be a contradiction. He gives examples of how this is to be done when he adds, And these are the words that are to be considered opposed, i.e., affirmations and negations in modals, possible–not possible, contingent–not contingent. Moreover, when he said elsewhere but in another way that the negation must be applied only to the mode, he did not exclude the copula of the mode, but the copula of the dictum. For it is unique to modals that the same opposition is made by adding a negation to the mode and to its verb. The contradictory of "is possible to be,” for instance, is not only "is not possible to be,” but also "not is possible to be.” There are two reasons, however, for his mentioning the mode rather than the verb: first, for the reason we have just given, namely, so as to imply that the negation placed after the verb of the mode, the mode having been put first, accomplishes the same thing as if it were placed before the modal verb; and secondly, because the modal enunciation is never without a mode; hence the negation can always be put on the mode. However, it cannot always be put on the verb of a mode, for the modal enunciation may lack the verb of a mode as for example in "Socrates runs necessarily,” in which case the negation can always be adapted to the verb. In adding "true” and "not true” at the end he implies that besides the four modes mentioned previously there are others that also determine the composition of the enunciation, for example, "true” and "not true,” "false” and "not false”; nevertheless he did not posit these among the modes first given because, as was shown, they do not properly modify. X. 1. Postquam determinavit de oppositione modalium, hic determinare intendit de consequentiis earum. Et circa hoc duo facit: primo, tradit veritatem; secundo, movet quandam dubitationem circa determinata; ibi: dubitabit autem et cetera. Circa primum duo facit: primo, ponit consequentias earum secundum opinionem aliorum; secundo, examinando et corrigendo dictam opinionem, determinat veritatem; ibi: ergo impossibile et cetera. Having established the opposition of modals, Aristotle now intends to determine their consequents. He first presents the true doctrine; then, he raises a difficulty where he says, But it may be questioned whether "Possible to be follows upon "necessary to be,” etc. In presenting the true doctrine, he first posits the consequents of the opposition of modals according to the opinion of others; secondly, he determines the truth by examining and correcting their opinion, where he says, Now the impossible and the not impossible follow contradictorily upon the contingent and the possible and the not contingent and the not possible, but inversely, etc. 2 Quoad primum considerandum est quod cum quilibet modus faciat duas affirmationes, ut dictum fuit, et duabus affirmationibus opponantur duae negationes, ut etiam dictum fuit in primo; secundum quemlibet modum fient quatuor enunciationes, duae scilicet affirmativae et duae negativae. Cum autem modi sint quatuor, efficientur sexdecim modales: quaternarius enim in seipsum ductus sexdecim constituit. Et quoniam apud omnes, quaelibet cuiusque modi, undecumque incipias, habet unam tantum cuiusque modi se consequentem, ideo ad assignandas consequentias modalium, singulas ex singulis modis accipere oportet et ad consequentiae ordinem inter se adunare. Before we consider these consequents according to the opinion of others, we must first note that since any mode makes two affirmations and there are two negations opposed to these, there will be four enunciations according to any one mode, two affirmatives and two negatives. And since there are four modes, there will be sixteen modals. Among these sixteen, anyone of each mode, from wherever you begin, has only one of each mode following upon it. Hence, to assign the consequents of the modals, we have to take one from each mode and arrange them among themselves to form an order of consequents. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 3Et hoc modo fecerunt antiqui, de quibus inquit Aristoteles: consequentiae vero fiunt secundum infrascriptum ordinem, antiquis ita ponentibus. Formaverunt enim quatuor ordines modalium, in quorum quolibet omnes quae se consequuntur collocaverunt. Ut autem confusio vitetur, vocetur, cum Averroe, de caetero, in quolibet modo, affirmativa de dicto, et modo, affirmativa simplex; affirmativa autem de modo et negativa de dicto, affirmativa declinata; negativa vero de modo et non dicto, negativa simplex; negativa autem de utroque, negativa declinata: ita quod modi affirmationem vel negationem simplicitas, dicti vero declinatio denominet. Dixerunt ergo antiqui quod affirmationem simplicem de possibili, scilicet, possibile est esse, sequitur affirmativa simplex de contingenti, scilicet, contingens est esse (contingens enim convertitur cum possibili); et negativa simplex de impossibili, scilicet, non impossibile esse; et similiter negativa simplex de necessario, scilicet, non necesse est esse. Et hic est primus ordo modalium consequentium se. In secundo autem dixerunt quod affirmativas declinatas de possibili et contingenti, scilicet, possibile non esse, et, contingens non esse, sequuntur negativae declinatae de necessario et impossibili, scilicet, non necessarium non esse, et, non impossibile non esse. In tertio vero ordine dixerunt quod negativas simplices de possibili et contingenti, scilicet, non possibile esse, non contingens esse, sequuntur affirmativa declinata de necessario, scilicet, necesse non esse, et affirmativa simplex de impossibili, scilicet, impossibile esse. In quarto demum ordine dixerunt quod negativas declinatas de possibili et contingenti, scilicet, non possibile non esse, et, non contingens non esse, sequuntur affirmativa simplex de necessario, scilicet, necesse esse, et affirmativa declinata de impossibili, scilicet, impossibile est non esse. The modals were ordered in this way by the ancients. They disposed them in four orders placing together in each order those that were a consequent to each other. Aristotle speaks of this order when he says, Logical consequents follow according to the order in the table below, which is the way in which the ancients posited them. Henceforth, however, to avoid confusion let us call the affirmative of dictum and mode in any one mode, the simple affirmative, as it is by Averroes, among others; affirmative of mode and negative of dictum, the declined affirmative; negative of mode and not of dictum, the simple negative; negative of both mode and dictum, the declined negative. Hence, simplicity of mode designates affirmation or negation, and so, too, does declination of dictum. The ancients said, then, that simple affirmation of the contingent, i.e., "contingent to be” follows upon simple affirmation of the possible, i.e., "Possible to be” (for the contingent is converted with the possible); the simple negative of the impossible also follows upon this, i.e., "not impossible to be”; and the simple negative of the necessary, i.e., "not necessary to be.” This is the first order of modal consequents. In the second order they said that the declined negatives of the necessary and impossible, i.e., "not necessary not to be” and "not impossible not to be,” follow upon the declined affirmative of the possible and the contingent, i.e., "possible not to be” and "contingent not to be.” In the third order, according to them, the declined affirmative of the necessary, i.e., "necessary not to be,” and the simple affirmative of of the impossible, i.e., "impossible to be,” follow upon the simple negatives of the possible and the contingent, i.e., "not possible to be” and not contingent to be.” Finally, in the fourth order, the simple affirmative of the necessary, i.e., "necessary to be,” and the declined affirmative of the impossible, i.e., "impossible not to be,” follow upon the declined negatives of the possible and the contingent, i.e., "not possible not to be” and "not contingent not to be.” 4 Consideretur autem ex subscriptione appositae figurae, quemadmodum dicimus, ut clarius elucescat depictum. Consequentiae enunciationum modalium secundum quatuor ordines ab antiquis positae et ordinatae. (Figura). To make this ordering more evident, let us consider it with the help of the following table. CONSEQUENTS OF MODAL ENUNCIATIONS IN THE FOUR ORDERS POSITED AND ORDERED BY THE ANCIENTS FIRST ORDER It is possible to be It is contingent to be It is not impossible to be It is not necessary to be SECOND ORDER It is possible not to be It is contingent not to be It is not impossible not to be It is not necessary not to be It is not possible to be It is not contingent to be It is impossible to be It is necessary not to be FOURTH ORDER It is not possible not to be It is not contingent not to be It is impossible not to be It is necessary to be Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 5Deinde cum dicit: ergo impossibile et non impossibile etc., examinando dictam opinionem, determinat veritatem. Et circa hoc duo facit: quia primo examinat consequentias earum de impossibili; secundo, illarum de necessario; ibi: necessarium autem et cetera. Unde ex praemissa opinione concludens et approbans, dicit: ergo istae, scilicet, impossibile, et, non impossibile, sequuntur illas, scilicet, contingens et possibile, non contingens, et, non possibile, sequuntur, inquam, contradictorie, idest ita ut contradictoriae de impossibili contradictorias de possibili et contingenti consequantur, sed conversim, idest, sed non ita quod affirmatio affirmationem et negatio negationem sequatur, sed conversim, scilicet, quod affirmationem negatio et negationem affirmatio. Et explanans hoc ait: illud enim quod est possibile esse, idest affirmationem possibilis negatio sequitur impossibilis, idest, non impossibile esse; negationem vero possibilis affirmatio sequitur impossibilis. Illud enim quod est, non possibile esse, sequitur ista, impossibile est esse; haec autem, scilicet, impossibile esse, affirmatio est; illa vero, scilicet, non possibile esse, negatio est: hic siquidem modus negatur; ibi, non. Bene igitur dixerunt antiqui in quolibet ordine quoad consequentias illarum de impossibili, quia, ut in suprascripta figura apparet, semper ex affirmatione possibilis negationem impossibilis, et ex negatione possibilis affirmationem impossibilis inferunt.When he says, Now the impossible and the not impossible follow contradictorily upon the contingent and the possible and the not contingent and the not possible, but inversely, etc., he determines the truth by examining the foresaid opinion. First, he examines the consequents of enunciations predicating impossibility; secondly, those predicating necessity, where he says, Now we must consider how enunciations predicating necessity are related to these, etc. From the opinion advanced, then, he concludes with approval that the impossible and the not impossible follow upon the contingent and the possible and the not contingent and the not possible, contradictorily, i.e., the contradictories of the impossible follow upon the contradictories of the possible and the contingent, but inversely, i.e., not so that affirmation follows upon affirmation and negation upon negation, but inversely, i.e., negation follows upon affirmation and affirmation upon negation. He explains this when he says, The negation of "impossible to be” follows upon "possible to be,” i.e., the negation of the impossible, i.e., "not impossible to be,” follows upon the affirmation of the possible, and the affirmation of the impossible follows upon the negation of the possible. For the affirmation, "impossible to be” follows upon the negation, "not possible to be.” In the latter the mode is negated, in the former it is not. Therefore, the ancients were right in saying that in any order, the consequences of enunciations predicating impossibility are as follows: from affirmation of the possible, negation of the impossible is inferred; and from negation of the possible, affirmation of the impossible is inferred. This is apparent in the diagram. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 6Deinde cum dicit: necessarium autem etc., intendit examinando determinare consequentias de necessario. Et circa hoc duo facit: primo examinat dicta antiquorum; secundo, determinat veritatem intentam; ibi: at vero neque necessarium et cetera. Circa primum quatuor facit. Primo, declarat quid bene et quid male dictum sit ab antiquis in hac re. Ubi attendendum est quod cum quatuor sint enunciationes de necessario, ut dictum est, differentes inter se secundum quantitatem et qualitatem, adeo ut unam integrent figuram oppositionis iuxta morem illarum de inesse; duae earum sunt contrariae inter se, duae autem illis contrariis contradictoriae, ut patet in hac figura. (Figura). Quia ergo antiqui universales contrarias bene intulerunt ex aliis, contradictorias autem earum, scilicet particulares, male intulerunt; ideo dicit quod considerandum restat de his, quae sunt de necessario, qualiter se habeant in consequendo illas de possibili et non possibili. Manifestum est autem ex dicendis quod non eodem modo istae de necessario illas de possibili consequuntur, quo easdem sequuntur illae de impossibili. Nam omnes enunciationes de impossibili recte illatae sunt ab antiquis. Enunciationes autem de necessario non omnes recte inferuntur: sed duae earum, quae sunt contrariae, scilicet, necesse est esse, et, necesse est non esse, sequuntur, idest recta consequentia deducuntur ab antiquis, in tertio scilicet et quarto ordine; reliquae autem duae de necessario, scilicet, non necesse non esse, et, non necesse esse, quae sunt contradictoriae supradictis, sunt extra consequentias illarum, in secundo scilicet et primo ordine. Unde antiqui in tertio et quarto ordine omnia recte fecerunt; in primo autem et in secundo peccaverunt, non quoad omnia, sed quoad enunciationes de necessario tantum. When he says, Now we must consider how enunciations predicating necessity are related to these, etc., he proposes an examination of the consequents of enunciations predicating necessity in order to determine the truth about them. First he examines what was said by the ancients; secondly, he determines the truth, where he says, But in fact neither " necessary to be” nor "necessary not to be” follow upon "possible to be,” etc. In his examination of the ancients, Aristotle makes four points. First, he shows what was well said by the ancients and what was badly said. It must be noted in regard to this that, as we have said, there are four enunciations predicating necessity, which differ among themselves in quantity and quality, and hence they make up a diagram of opposition in the manner of the absolute enunciations. Two of them are contrary to each other, and two are contradictory to these contraries, as is clear in the diagram below. necessary to be contraries necessary not to be not necessary not to be subcontraries not necessary to be Now the ancients correctly inferred the universal contraries from the possibles, contingents, and impossibles, but incorrectly inferred their contradictories, namely, particulars. This is the reason Aristotle says that it remains to be considered how enunciations predicating necessity are related consequentially to the possible and not possible. From what Aristotle says, it is clear that those predicating necessity do not follow upon the possibles in the same way as those predicating impossibility follow upon the possibles, for all of the enunciations predicating impossibility were correctly inferred by the ancients, but those predicating necessity were not. Two of them, the contraries, "necessary to be” and "necessary not to be,” follow, i.e., correct consequents were deduced by the ancients in the third and fourth orders; the remaining two, "not necessary not to be” and "not necessary to be,” which are contradictories of the contraries, are outside of the consequents of these, i.e., in the second and first orders. Hence, the ancients represented everything correctly in the third and fourth orders, but in the first and second they erred, not with respect to all things, but only with respect to enunciations predicating necessity. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 7Secundo cum dicit: non enim est negatio eius etc., respondet cuidam tacitae obiectioni, qua defendi posset consequentia enunciationis de necessario in primo ordine ab antiquis facta. Est autem obiectio tacita talis. Non possibile esse, et, necesse non esse, convertibiliter se sequuntur in tertio ordine iam approbato; ergo, possibile esse, et, non necesse esse, invicem se sequi debent in primo ordine. Tenet consequentia: quia duorum convertibiliter se sequentium contradictoria mutuo se sequuntur; sed illae duae tertii ordinis convertibiliter se sequuntur, et istae duae primi ordinis sunt earum contradictoriae; ergo istae primi ordinis, scilicet, possibile esse, et, non necesse esse, mutuo se sequuntur. Huic, inquam, obiectioni respondet Aristoteles hic interimendo minorem quoad hoc quod assumit, quod scilicet necessaria primi ordinis et necessaria tertii ordinis sunt contradictoriae. Unde dicit: non enim est negatio eius quod est, necesse non esse (quae erat in tertio ordine), illa quae dicit, non necesse est esse, quae sita erat in primo ordine. Et causam subdit, quia contingit utrasque simul esse veras in eodem; quod contradictoriis repugnat. Illud enim idem, quod est necessarium non esse, non est necessarium esse. Necessarium siquidem est hominem non esse lignum et non necessarium est hominem esse lignum. Adverte quod, ut infra patebit, istae duae de necessario, quas posuerunt antiqui in primo et tertio ordine, sunt subalternae (et ideo sunt simul verae), et deberent esse contradictoriae; et ideo erraverunt antiqui. Secondly, he says, For the negation of "necessary not to be” is not "not necessary to be,” since both may be true of the same subject, etc. Here he replies to a tacit objection. This reply could be used to defend the consequent of the enunciation of the necessary made by the ancients in the first order. The tacit objection is this: "not possible to be” and "necessary not to be” follow convertibly in the third order which has already been shown to be correct; therefore, "possible to be” and "not necessary to be” ought to follow upon each other in the first order. The consequent holds; for the contradictories of two that convertibly follow upon each other, mutually follow upon each other; but those two follow upon each other convertibly in the third order and these two in the first order are their contradictories; therefore, those of the first order, i.e., "possible to be” and "not necessary to be,” mutually follow upon each other. Aristotle replies here to this objection by destroying what was assumed in the minor, i.e., that the necessary of the first order and the necessary of the third order are contradictories. He says, For the negation of "necessary not to be” (which is in the third order) is not "not necessary to be” (which has been placed in the first order). He also gives the reason: it is possible for both to be true at once of the same subject, which is repugnant to contradictories. For the same thing which is necessary not to be, is not necessary to be; for example, it is necessary that man not be wood and it is not necessary that man be wood. Notice, as will be clear later, that these two which the ancients posited in the first and third orders, are subalterns and therefore are at once true, whereas they should be contradictories; hence the ancients were in error. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 8Boethius autem et Averroes non reprehensive legunt tam hanc, quam praecedentem textus particulam, sed narrative utramque simul iungentes. Narrare enim aiunt Aristotelem qualitatem suprascriptae figurae quoad consequentiam illarum de necessario, postquam narravit quo modo se habuerint illae de impossibili, et dicere quod secundum praescriptam figuram non eodem modo sequuntur illas de possibili illae de necessario, quo sequuntur illae de impossibili. Nam contradictorias de possibili contradictoriae de impossibili sequuntur, licet conversim; contradictoriae autem de necessario non dicuntur sequi illas contradictorias de possibili, sed potius eas sequi dicuntur contrariae de necessario: non inter se contrariae, sed hoc modo, quod affirmationem possibilis negatio de necessario sequi dicitur, negationem vero possibilis non affirmatio de necessario sequi ponitur, quae sit contradictoria illi negativae quae ponebatur sequi ad possibilem, sed talis affirmationis de necessario contrario. Et quod hoc ita fiat in illa figura ut dicimus, patet ex primo et tertio ordine, quorum capita sunt negatio et affirmatio possibilis, et extrema sunt, non necesse esse, et, necesse non esse. Hae siquidem non sunt contradictoriae. Non enim est negatio eius, quae est, necesse non esse, non necesse esse (quoniam contingit eas simul verificari de eodem), sed illa scilicet, necesse non esse, est contraria contradictoriae huius, scilicet, non necesse esse, quae est, necesse est esse. Sed quia sequenti litterae magis consona est introductio nostra, quae etiam Alberto consentit, et extorte videtur ab aliis exponi ly contrariae, ideo prima, iudicio meo, acceptanda est expositio et ad antiquorum reprehensionem referendus est textus. Boethius and Averroes read both this and the preceding part of the text, not reprovingly, but as explanatorily joined together. They say Aristotle explains the quality of the above table with respect to the consequents of enunciations predicating necessity after he has explained in what way those predicating impossibility are related. What Aristotle is saying, then, is that those of the necessary do not follow those of the possible in the same way as those of the impossible follow upon the possible. For contradictories of the impossible follow upon contradictories of the possible, although inversely; but contradictories of the necessary are not said to follow the contradictories of the possible, but rather the contraries of the necessary follow upon them. It is not the contraries among themselves that follow, but contraries in this way: the negation of the necessary is said to follow upon the affirmation of the possible; but what follows on the negation of this possible is not the affirmation of the necessary contradictory to that negative of the necessary following upon the possible, but the contrary of such an affirmation of the necessary. That this is the case is evident in the first and third orders. The sources are negation and affirmation of the possible, and the extremes are "not necessary to be” and "necessary not to be.” But these are not contradictories, for the negation of "necessary not to be” is not "not necessary to be,” for it is possible for them to be at once true of the same thing. "Necessary not to be” is the contrary of the contradictory of "not necessary to be,” which contradictory is "necessary to be.” In my judgment, however, the first exposition should be accepted and this portion of the text taken as a reproof of the ancients, because the contraries seem to be explained in a forced way by others, whereas our introduction is more in accord with what follows in the next part of the text; in addition, it agrees with Albert’s interpretation. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 9Tertio cum dicit: causa autem cur etc., manifestat id quod praemiserat, scilicet, quod non simili modo ad illas de possibili sequuntur illae de impossibili et illae de necessario. Antiquorum enim hoc peccatum fuit tam in primo quam in secundo ordine, et quod simili modo intulerunt illas de impossibili et necessario. In primo siquidem ordine, sicut posuerunt negativam simplicem de impossibili, ita posuerunt negativam simplicem de necessario, et similiter in secundo ordine utranque negativam declinatam locaverunt. Hoc ergo quare peccatum sit, et causa autem quare necessarium non sequitur possibile, similiter, idest, eodem modo cum caeteris, scilicet, de impossibili, est, quoniam impossibile redditur idem valens necessario, idest, aequivalet necessario, contrarie, idest, contrario modo sumptum, et non eodem modo. Nam si, hoc esse est impossibile, non inferemus, ergo hoc esse est necesse, sed, hoc non esse est necesse. Quia ergo impossibile et necesse mutuo se sequuntur, quando dicta eorum contrario modo sumuntur, et non quando dicta eorum simili modo sumuntur, sequitur quod non eodem modo ad possibile se habeant impossibile et necessarium, sed contrario modo. Nam ad id possibile quod sequitur dictum affirmatum de impossibili, sequitur dictum negatum de necessario; et e contrario. Quare autem hoc accidit infra dicetur. Erraverunt igitur antiqui quod similes enunciationes de impossibili et necessario in primo et in secundo ordine locaverunt. Thirdly, he says, Now the reason why enunciations predicating necessity do not follow in the same way as the others, etc. Here Aristotle shows why enunciations predicating impossibility and necessity do not follow in a similar way upon those predicating possibility. This was the error made by the ancients in both the first and second orders, for in the first order they posited the simple negative of the impossible, and in a similar way the simple negative of the necessary, and in the second order their declined negatives, the reason being that they inferred those predicating impossibility and necessity in a similar way. The cause of this error, then, and the reason why enunciations predicating necessity do not follow the possible in the same way, i.e., in a similar mode, as the others, i.e., as the impossibles, is that the impossible expresses the same meaning as the necessary, i.e., is equivalent to the necessary, contrarily, i.e., taken in a contrary mode, and not in the same mode. For if something is impossible to be, we do not infer, therefore it is necessary to be, but it is necessary not to be. Since, therefore, the impossible and necessary mutually follow each other when their dictums are taken in a contrary mode—and not when their dictums are taken in a similar mode — it follows that the impossible and necessary are not related in the same way to the possible, but in a contrary way. For the negated dictum of the necessary follows upon that possible which follows the affirmed dictum of the impossible, and contrarily. Why this is so will be explained later. Therefore, the ancients erred when they located similar enunciations of the impossible and necessary in the first and in the second orders. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 10 Hinc apparet quod supra posita nostra expositio conformior est Aristoteli. Cum enim hunc textum induxerit ad manifestandum illa verba: manifestum est autem quoniam non eodem modo, etc., eo accipiendo sunt sensu illa verba, quo hic per causam manifestantur. Liquet autem quod hic redditur causa dissimilitudinis verae inter necessarias et impossibiles in consequendo possibiles, et non dissimilitudinis falso opinatae ab antiquis: quoniam ex vera causa nonnisi verum concluditur. Ergo reprehendendo antiquos, veram dissimilitudinem inter necessarias, et impossibiles in consequendo possibiles, quam non servaverunt illi, proposuisse tunc intelligendum est, et nunc eam manifestasse. Quod autem dissimilitudo illa, quam antiqui posuerunt inter necessarias et impossibiles, sit falso posita, ex infra dicendis patebit. Ostendetur enim quod contradictorias de possibili contradictoriae de necessario sequuntur conversim; et quod in hoc non differunt ab his quae sunt de impossibili, sed differunt in hoc quod modo diximus, quod possibilium et impossibilium se consequentium dictum est similiter, possibilium autem et necessariorum, se invicem consequentium dictum est contrarium, ut infra clara luce videbitur. Hence it appears that our exposition is more in conformity with Aristotle. For he introduced this text to manifest these words: It is evident that the case here is not the same, etc. By taking this meaning, then, these words are made clear through the cause. Moreover, it is evident that here the cause is given of a true dissimilitude between necessaries and impossibles in following the possibles, and not of a dissimilitude falsely held by the ancients, for from a true cause only the truth is concluded. Therefore in reproving the ancients it must be understood that a true dissimilitude between the necessary and impossible in following the possible, which they did not beed, has been proposed, and now has been made manifest. It will be clear from what will be said later that the dissimilitude posited by the ancients between the necessary and impossible is falsely posited, for it will be shown that contradictories of the necessary follow contradictories of the possible inversely, and that in this they do not differ from enunciations predicating impossibility. They do differ, however, in the way we have indicated, i.e., the dictum of the possibles and of the impossibles following on them is similar, but the dictum of the possibles and of the necessaries following on them is contrary, as will be seen clearly later. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 11 Quarto cum dicit: aut certe impossibile est etc., manifestat aliud quod proposuerat, scilicet, quod contradictoriae de necessario male situatae sint secundum consequentiam ab antiquis, qui contradictiones necessarii ita ordinaverunt. In primo ordine posuerunt contradictoriam negationem, necesse esse, idest, non necesse esse; et in secundo contradictoriam negationem, necesse non esse, idest, non necesse non esse. Et probat hunc consequentiae modum esse malum in primo ordine. Cognita enim malitia primi, facile est secundi ordinis agnoscere defectum. Probat autem hoc tali ratione ducente ad impossibile. Ad necessarium esse sequitur possibile esse: aliter sequeretur non possibile esse, quod manifeste implicat; ad possibile esse sequitur non impossibile esse, ut patet; ad non impossibile esse, secundum antiquos, sequitur in primo ordine non necessarium esse; ergo de primo ad ultimum, ad necessarium esse sequitur non necessarium esse: quod est inconveniens, quia est manifesta implicatio contradictionis. Relinquitur ergo quod male dictum sit, quod non necessarium esse consequatur in primo ordine. Ait ergo et certe impossibile est poni sic secundum consequentiam, ut antiqui posuerunt, necessarii contradictiones, idest illas duas enunciationes de necessario, quae sunt negationes contradictoriae aliarum duarum de necessario. Nam ad id quod est, necessarium esse, sequitur, possibile est esse: nam si non, idest quoniam si hanc negaveris consequentiam, negatio possibilis sequitur illam, scilicet, necesse esse. Necesse est enim de necessario aut dicere, idest affirmare possibile, aut negare possibile: de quolibet enim est affirmatio vel negatio vera. Quare si dicas quod, ad necesse esse, non sequitur, possibile esse, sed, non possibile est esse; cum haec aequivaleat illi quae dicit, impossibile est esse, relinquitur quod ad, necesse esse, sequitur, impossibile esse, et idem erit, necesse esse et impossibile esse: quod est inconveniens. Bona ergo erat prima illatio, scilicet, necesse est esse, ergo possibile est esse. Tunc ultra. Illud quod est, possibile esse, sequitur, non impossibile esse, ut patet in primo ordine. Ad hoc vero, scilicet, non impossibile esse, secundum antiquos eodem primo ordine, sequitur, non necesse est esse (quare contingit de primo ad ultimum); ad id quod est, necessarium esse, sequitur, non necessarium esse: quod est inconveniens, immo impossibile. Fourthly, when he says, Or is it impossible to arrange the contradictions of enunciations predicating necessity in this way? he manifests another point he had proposed, namely, that contradictories of enunciations predicating necessity were badly placed according to consequence by the ancients when they ordered them thus: the contradictory negation to "necessary to be,” i.e., "not necessary to be,” in the first order, and the contradictory negation to "necessary not to be,” i.e., "not necessary not to be,” in the second. Aristotle only proves that this mode of consequence is incorrect in the first order, for when this is known the mistake in the second order is readily seen. He does this by an argument leading to an impossibility. "Possible to be” follows upon "necessary to be”; otherwise "not possible to be” would follow, which it manifestly implies. "Not impossible to be” follows upon "possible to be” as is evident, and, according to the ancients, in the first order, "not necessary to be” follows upon "not impossible to be.” Therefore, from first to last, "not necessary to be” follows upon "necessary to be,” which is inadmissible because there is an obvious implication of contradiction. Therefore, it is erroneous to say that "not necessary to be” follows in the first order. He says, then, that in fact it is impossible to posit contradictions of the necessary according to consequence as the ancients posited them, i.e., in the first order the contradictory negation of "necessary to be,” i.e., "not necessary to be” and in the second the contradictory negation of "necessary not to be,” i.e., "not necessary not to be.” For "possible to be” follows upon "necessary to be”; if not, i.e., if you deny this consequence, the negation of the possible follows upon "necessary to be,” since the possible must either be asserted of the necessary or denied, the reason being that of anything there is a true affirmation or a true negation. Therefore, if you say that "possible to be” does not follow upon "necessary to be,” but "not possible to be” does follow, then, since the latter is equivalent to the former, i.e., "not possible to be” to "impossible to be,” "impossible to be” follows upon "necessary to be” and the same thing will be "necessary to be” and "impossible to be,” which cannot be admitted. Consequently, the first inference was good, i.e., "It is necessary to be, therefore it is possible to be.” But again, "possible to be” follows upon "not impossible to be,” as is evident in the first order, and according to the ancients, "not necessary to be” follows upon "not impossible to be” in the same first order. Therefore, from first to last we arrive at this: "not necessary to be” follows upon "necessary to be,” which is unlikely, not to say impossible. 12 Dubitatur hic: quia in I priorum dicitur quod ad possibile sequitur non necessarium, hic autem dicitur oppositum. Ad hoc est dicendum quod possibile sumitur dupliciter. Uno modo in communi, et sic est quoddam superius ad necessarium et contingens ad utrunque, sicut animal ad hominem et bovem; et sic ad possibile non sequitur non necessarium, sicut ad animal non sequitur non homo. Alio modo sumitur possibile pro una parte possibilis in communi, idest pro possibili seu contingenti, scilicet ad utrunque, scilicet quod potest esse et non esse; et sic ad possibile sequitur non necessarium. Quod enim potest esse et non esse, non necessarium est esse, et similiter non necessarium est non esse. Loquimur ergo hic de possibili in communi, ibi vero in speciali. There is a doubt about this, for in I Priorum [13: 32a 28 and 32b 15], it is said that the not necessary follows upon the possible, while here the opposite is said. The possible, however, is taken in two ways: commonly, and thus it is superior to the necessary and the contingent to either of two alternatives, as is the case with animal in relation to man and cow; taken in this way, the not necessary does not follow upon the possible, just as not-man does not follow upon animal. In another way the possible is taken for one part of the possible commonly, i.e., for the possible or contingent to either of two alternatives, namely, for what can be and not be. The not necessary follows upon the possible taken in this way, for what can be and not be is not necessary to be, and likewise is not necessary not to be. In the Prior Analytics, then, Aristotle is speaking of the possible in particular; here of the possible commonly. 13 Deinde cum dicit: at vero neque necessarium etc., determinat veritatem intentam. Et circa hoc tria facit: primo, determinat quae enunciatio de necessario sequatur ad possibile; secundo, ordinat consequentias omnium modalium; ibi: sequuntur enim et cetera. Quoad primum, sicut duabus viis reprehendit antiquos, ita ex illis duobus motivis intentum probat. Et intendit quod, ad possibile esse, sequitur, non necesse non esse. Primum motivum est per locum a divisione. Ad, possibile esse, non sequitur (ut probatum est), non necesse esse, at vero neque, necesse esse, neque, necesse non esse. Reliquum est ergo ut sequatur ad eam, non necesse non esse: non enim dantur plures enunciationes de necessario. Huius communis divisionis primo proponit reliqua duo membra excludenda, dicens: at vero neque necessarium esse, neque necessarium non esse, sequitur ad possibile non esse; secundo probat hoc sic. Nullum formale consequens minuit suum antecedens: tunc enim oppositum consequentis staret cum antecedente; sed utrumque horum, scilicet, necesse esse, et, necesse non esse, minuit possibile esse; ergo, et cetera. Unde, tacita maiore, ponit minoris probationem dicens: illi enim, scilicet, possibile esse, utraque, scilicet, esse et non esse, contingit accidere; horum autem, scilicet, necesse esse et necesse non esse, utrumlibet verum fuerit, non erunt illa duo, scilicet, esse et non esse, vera simul in potentia. Et primum horum explanans ait: cum dico, possibile esse, simul est possibile esse et non esse. Quoad secundum vero subdit. Si vero dicas, necesse esse vel necesse non esse, non remanet utrumque, scilicet, esse et non esse, possibile: si enim necesse est esse, possibilitas ad non esse excluditur; et si necesse est non esse, possibilitas ad esse removetur. Utrumque ergo istorum minuit illud antecedens, possibile esse, quoniam ad esse et non esse se extendit, et cetera. Tertio subdit conclusionem: relinquitur ergo quod, non necessarium non esse, comes est ei quae dicit, possibile esse; et consequenter haec ponenda erit in primo ordine. When he says, But in fact neither "necessary to be” nor "necessary not to be” follow upon "possible to be,” etc., he determines the truth. First he determines which enunciation of the necessary follows upon the possible; secondly, he orders the consequents of all of the modals, where he says, Thus, these contradictions also follow in the way indicated, etc. Aristotle has reproved the ancients in two ways; on the basis of these two he now proves which enunciation of the necessary follows upon the possible. What he intends to show is that "not necessary not to be” follows upon "possible to be.” The first argument is taken from a locus of division. "Not necessary to be” does not follow upon possible to be” (as has been proved), but neither does "necessary to be” nor "necessary not to be.” Therefore, "not necessary not to be” follows upon "possible to be,” since there are no more enunciations of the necessary. He first proposes the remaining two members that are to be excluded from this common division: But in fact neither "necessary to be” nor "necessary not to be” follow upon "possible to be.” Then he proves this: no formal consequent diminishes its antecedent, for if it did, the opposite of the consequent would stand with the antecedent; but both of these, namely, "necessary to be” and "necessary not to be,” diminish possible to be”; therefore, etc. The major is therefore implied and he gives the proof of the minor when he says that "possible to be” admits of two possibilities, namely, "to be” and "not to be”; but of these, namely, "necessary to be” and "necessary not to be” (whichever should be true), these two, "to be” and "not to be,” will not be true at the same time in potency. He explains the first point thus: when I say "possible to be” it is at once possible to be and not to be. With respect to the second, he adds: if you should say, "necessary to be” or "necessary not to be,” both do not remain, i.e., possible to be and not to be do not remain, for if a thing is necessary to be, possibility not to be is excluded, and if it is necessary not to be, possibility to be is removed. Both of these, then, diminish the antecedent, possible to be, for it is extended to "to be” and "not to be,” etc. Thirdly, he concludes: it remains, therefore, that "not necessary not to be” accompanies "possible to be,” and consequently will have to be placed in the first order. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 14 Occurrit in hac parte dubium circa hoc quod dicit quod, ad possibile non sequitur necessarium, cum superius dixerit quod ad ipsum non sequitur non necessarium. Cum enim necessarium et non necessarium sint contradictoria opposita, et de quolibet sit affirmatio vel negatio vera, non videtur posse evadi quin ad possibile sequatur necessarium, vel, non necessarium. Et cum non sequatur necessarium, sequetur non necessarium, ut dicebant antiqui. Augetur et dubitatio ex eo quod Aristoteles nunc usus est tali argumentationis modo, volens probare quod ad necessarium sequatur possibile. Dixit enim: nam si non negatio possibilis consequatur. Necesse est enim aut dicere aut negare. A difficulty arises at this point with respect to his saying that the necessary does not follow upon the possible, since he has also said that the not necessary does not follow upon it. For the necessary and the not necessary are opposed contradictorily, and since of anything there is a true affirmation or negation, it seems impossible to avoid the conclusion that either the necessary or the not necessary follows upon the possible; and since the necessary does not follow, the not necessary must follow, as the ancients said. Furthermore, the difficulty is augmented by the fact that Aristotle just used such a mode of argumentation when, to prove that the possible follows upon the necessary, he said, for if not, the negation will follow; for it is necessary either to affirm or deny. 15. Pro solutione huius, oportet reminisci habitudinis quae est inter possibile et necessarium, quod scilicet possibile est superius ad necessarium, et attendere quod superius potestate continet suum inferius et eius oppositum, ita quod neutrum eorum actualiter sibi vindicat, sed utrunque potest sibi contingere; sicut animali potest accidere homo et non homo: et consequenter inspicere debes quod, eadem est proportio superioris ad habendum affirmationem et negationem unius inferioris, quae est alicuius subiecti ad affirmativam et negativam futuri contingentis. Utrobique enim neutrum habetur, et salvatur potentia ad utrumlibet. Unde, sicut in futuris contingentibus nec affirmatio nec negatio est determinate vera, sed sub disiunctione altera est necessario vera, ut in fine primi conclusum est; ita nec affirmatio nec negatio inferioris sequitur determinate affirmationem vel negationem superioris, sed sub disiunctione altera sequitur necessario. Unde non valet, est animal, ergo est homo, neque, ergo non est homo, sed, ergo est homo vel non est homo. Quia ergo possibile superius est ad necessarium, ideo optime determinavit Aristoteles neutram contradictionis partem de necessario determinate sequi ad possibile. Non tamen dixit quod sub disiunctione neutra sequatur; hoc enim est contra illud primum principium: de quolibet est affirmatio vera vel falsa. Ad id autem quod additur, ex eadem trahitur radice responsio. Quia enim necessarium inferius est ad possibile, et inferius non in potentia sed in actu includit suum superius, necesse est ad inferius determinate sequi suum superius: aliter determinate sequetur eius contradictorium. Unde per dissimilem habitudinem, quae est inter necessarium et possibile et non possibile, ex una parte, et inter possibile et necessarium et non necessarium, ex altera parte, ibi optimus fuit processus ad alteram contradictionis partem determinate, et hic optimus ad neutram determinate. In order to resolve this, we must recall the relationship between the possible and the necessary, namely, that the possible is superior to the necessary. Now the superior potentially contains its own inferior and the opposite of it in such a way that neither of them is actually appropriated by the superior, but each is possible to it; as in the case of man and not-man in relation to animal. We must also consider that the proportion of the superior as related to the affirmation and negation of one inferior is the same (which is the proportion of some subject to the affirmative and negative of a future contingent), for it is had by neither of the two, and the potency to either is kept. Accordingly, as in future contingents neither the affirmation nor the negation is determinately true, but under disjunction one is necessarily true (as was concluded at the end of the first book), so neither the affirmation nor negation of the inferior follows upon the affirmation or negation of the superior determinately, but under disjunction one follows necessarily. This, for instance, is not valid: "It is animal, therefore it is man,” nor is "therefore it is not man” valid, but, "therefore it is man or it is not man.” Since, then, the possible is superior to the necessary, Aristotle has correctly determined that neither part of the contradiction of the necessary determinately follows upon the possible. However, he has not said that under disjunction neither follows; for this would be opposed to the first principle, that of anything there is a true or false affirmation. The response to what was added, beginning with "Furthermore, the difficulty is augmented,” etc., is based upon the same point. Since the necessary is inferior to the possible, and the inferior does not include its superior in potency but in act, the superior must follow determinately upon the inferior; otherwise the contradiction of it would follow determinately. Hence, because of the dissimilar relationship between the necessary and the possible and not possible on the one hand, and between the possible and the necessary and not necessary on the other, the movement of the earlier argument to one part of the contradiction determinately was quite right, and the movement here to neither determinately was quite right. 16. Oritur quoque alia dubitatiuncula. Videtur enim quod Aristoteles difformiter accipiat ly possibile in praecedenti textu et in isto. Ibi enim accipit ipsum in communi, ut sequitur ad necessarium; hic videtur accipere ipsum specialiter pro possibili ad utrumlibet, quia dicit quod possibile est simul potens esse et non esse. Et ad hoc dicendum est quod uniformiter usus est possibili. Nec eius verba obstant: quoniam et de possibili in communi verum est dicere quod potest sibi utrunque accidere, scilicet, esse et non esse: tum quia quidquid verificatur de suo inferiori, verificatur etiam de suo superiori, licet non eodem modo; tum quia possibile in communi neutram contradictionis partem sibi determinat, et consequenter utranque sibi advenire compatitur, licet non asserat potentiam ad utranque partem, quemadmodum possibile ad utrunque. There is another slight difficulty, for it seems that Aristotle takes the possible in a different way in the preceding text and in this. There he takes it commonly as it follows upon the necessary; here he seems to take it specifically for the possible that is indifferent to alternatives, since he says that the possible is at once possible to be and not to be. But in fact Aristotle has used the possible uniformly. Nor are his words at variance, for it is also true to say of the possible as common that it admits of both possibilities, i.e., of "to be” and "not to be”; first, because whatever is verified of its inferior is verified also of its superior, although not in the same mode; secondly, because the possible as common determines neither part of the contradiction to itself and consequently admits of either happening, although it does not affirm a potency to each part, as does the possible to either of two alternatives. 17. Secundum motivum ad idem, correspondens tacitae obiectioni antiquorum quam supra exclusit, addit cum subdit: hoc enim verum est et cetera. Ubi notandum quod Aristoteles sub illa maiore adducta pro antiquis (scilicet, convertibiliter se consequentium contradictoria se mutuo consequuntur), subsumit minorem: sed horum convertibiliter se sequentium in tertio ordine (scilicet, non possibile esse et necesse non esse), contradictoria sunt, possibile esse et non necesse non esse (quoniam modi negatione eis opponuntur); ergo istae duae (scilicet, possibile esse et non necesse non esse) se consequuntur et in primo locandae sunt ordine. Unde motivum tangens ait: hoc enim, quod dictum est, verum est, idest verum esse ostenditur, et de necesse non esse, idest, et ex illius, scilicet, non necesse non esse, opposita, quae est, necesse non esse. Vel, hoc enim, scilicet, non necesse non esse, verum est, scilicet, contradictorium illius de necesse non esse. Et minorem subdens ait: haec enim, scilicet, non necesse non esse, fit contradictio eius, quae convertibiliter sequitur, non possibile esse. Et explanans hoc in terminis subdit. Illud enim, non possibile esse, quod est caput tertii ordinis, sequitur hoc de impossibili, scilicet, impossibile esse, et haec de necessario, scilicet, necesse non esse, cuius negatio seu contradictoria est, non necesse non esse. Et quia, caeteris paribus, modus negatur, et illa, possibile esse, est (subauditur) contradictoria illius, scilicet, non possibile; igitur ista duo mutuo se consequuntur, scilicet, possibile esse, et, non necesse non esse, tamquam contradictoria duorum se mutuo consequentium. The second grounds for proving the same thing corresponds to the tacit objection of the ancients he excluded above: For this, he says, is true also with respect to "necessary to be,” etc. It should be noted here that Aristotle subsumes under the major cited as a proof for the position of the ancients (namely, contradictories of consequences convertibly following each other mutually follow upon each other) this minor: but the contradictories of those following upon each other convertibly in the third order (i.e., of "not possible to be” and "necessary not to be”) are "possible to be” and "not necessary not to be” (for they are opposed to them by negation of mode); therefore, these two (i.e., "possible to be” and "not necessary not to be”) follow upon each other and are to be placed in the first order. Hence, with respect to the basis of the above argument, he says, For this, i.e., what has been said, is true, i.e., is shown to be true, also with respect to "necessary not to be,” i.e., of the opposite of "not necessary not to be,” i.e., "necessary not to be.” Or, For this, namely, not necessary not to be,” is true, namely, is the true contradictory of necessary not to be.” He gives the minor when he says, For "not necessary not to be” is the contradictory of what follows upon "not possible to be.” Then he states this explicitly: for "not possible to be,” which is the source of the third order is followed by this impossible, namely, "impossible to be,” and by this one of the necessary, namely, "necessary not to be,” of which the negation or contradictory is "not necessary not to be.” And since, other things being equal, the mode is negated, and, "possible to be” is (it is understood) the contradictory of "not possible to be,” therefore, these two mutually follow upon each other, namely, "possible to be” and "not necessary not to be,” as contradictories of the two mutually following upon each other. Cajetanus lib. 2 l. 10 n. 18 Deinde cum dicit: sequuntur enim etc., ordinat omnes consequentias modalium secundum opinionem propriam; et ait quod, hae contradictiones, scilicet, de necessario, sequuntur illas de possibili, secundum modum praedictum et approbatum illarum de impossibili. Sicut enim contradictorias de possibili contradictoriae de impossibili sequuntur, licet conversim; ita contradictorias de possibili contradictoriae de necessario sequuntur conversim: licet in hoc, ut dictum est, dissimilitudo sit quod, contradictoriarum de possibili et impossibili similiter est dictum, contradictoriarum autem de possibili et necessario contrarium est dictum, ut in sequenti videtur figura: consequentiae enunciationum modalium secundum quatuor ordines ab Aristotele positae et ordinatae. (Figura). Ubi vides quod nulla est inter Aristotelem et antiquos differentia, nisi in duobus primis ordinibus quoad illas de necessario. Praepostero namque situ usi sunt antiqui, eam de necessario, quae locanda erat in primo ordine, in secundo ponentes, et eam quae in secundo ponenda erat, in primo locantes. Et aspice quoque quod convertibiliter se consequentium semper contradictoria se consequi ordinavit. Singulis enim tertii ordinis singulae primi ordinis contradictoriae sunt; et similiter singulae quarti ordinis singulis, quae in secundo sunt, contradictoriae sunt. Quod antiqui non observarunt. When he says, Thus, these contradictions also follow in the way indicated, etc., he orders all of the consequents of modals according to his own opinion. He says, then, that these contradictions, namely, of the necessary, follow those of the possible, according to the foresaid and approved mode of those of the impossible. For just as contradictories of the impossible follow upon contradictories of the possible, although inversely, so contradictories of the necessary follow contradictories of the possible inversely. In the latter, however, as has been said, there is a dissimilarity in that the dictum of the contradictories of the possible and impossible is similar, but the dictum of the contradictories of the possible and necessary is contrary. This can be seen in the following table. CONSEQUENTS OF MODAL ENUNCIATIONS POSITED AND ORDERED BY ARISTOTLE ACCORDING TO FOUR ORDERS FIRST ORDER It is possible to be It is contingent to be It is not impossible to be It is not necessary to be SECOND ORDER It is possible not to be It is contingent not to be It is not impossible not to be It is not necessary not to be It is not possible to be It is not contingent to be It is impossible to be It is necessary not to be FOURTH ORDER It is not possible not to be It is not contingent not to be It is impossible not to be It is necessary to be Here you see that there is no difference between Aristotle and the ancients except in the first two orders with respect to those of the necessary. The ancients inverted the position of these, placing the necessary that should have been placed in the first order in the second order, and the one that should have been in the second in the first. Notice, too, that he has ordered them in such a way that the contradictories of those following upon each other convertibly, always follow each other, for each one in the first order is the contradictory of each one in the third order, and similarly, each of the fourth order the contradictory of each in the second. This the ancients did not observe. XI. 1. Postquam Aristoteles declaravit modalium consequentias, hic movet quandam dubitationem circa unum eorum quae determinata sunt, scilicet quod possibile sequitur ad necesse. Et duo facit: quia primo dubitationem absolvit; secundo, ex determinata quaestione alium ordinem earumdem consequentiarum modalibus statuit; ibi: et est fortasse et cetera. Circa primum duo facit: primo, movet quaestionem; secundo, determinat eam; ibi: manifestum est et cetera. Movet ergo quaestionem: primo dicens: dubitabit autem aliquis si ad id quod est necesse esse sequatur possibile esse; et secundo, arguit ad partem affirmativam subdens: nam si non sequatur, contradictoria eius sequetur, scilicet non possibile esse, ut supra deductum est: quia de quolibet est affirmatio vel negatio vera. Et si quis dicat hanc, scilicet, non possibile esse, non esse contradictoriam illius, scilicet, possibile esse, et propterea subterfugiendum velit argumentum, et dicere quod neutra harum sequitur ad necesse esse; talis licet falsum dicat, tamen concedatur sibi, quoniam necesse erit ipsum dicere illius contradictoriam fore, possibile non esse. Oportet namque aut non possibile esse aut possibile non esse, esse contradictoriam, possibile esse; et tunc in eumdem redibit errorem, quoniam utraeque, scilicet, non possibile esse et possibile non esse, falsae sunt de eo quod est, necesse esse. Et consequenter ad ipsum neutra sequi potest. Nulla enim enunciatio sequitur ad illam, cuius veritatem destruit. Relinquitur ergo quod, ad necesse esse sequitur possibile esse. Now that he has explained the consequents of modals, Aristotle raises a question about one of the points that has already been determined, namely, that the possible follows upon the necessary. He first raises the question and then settles it where he says, It is evident by now that not every possibility of being or walking is one that admits of opposites, etc. Secondly, he establishes another order of the same consequents from the determination of the present question, where he says Indeed the necessary and not necessary may well be the principle of all that is or is not, etc. First, then, he raises the question: But it may be questioned whether "Possible to be follows upon "necessary to be.” Secondly, he argues to the affirmative part: Yet if not, the contradictory, "not possible to be,” would have to follow, as was deduced earlier, for either the affirmation or the negation is true of anything. And if someone should say "not possible to be” is not the contradictory of "possible to be,” because he wants to avoid the conclusion by saying that neither of these follows upon "necessary to be,” this may be conceded, although what he says is false. But then he will have to say that the contradictory of "possible to be” is "possible not to be,” for the contradictory of "possible to be” has to be either "not possible to be” or "possible not to be.” But if he says this, he will fall into another error, for it is false to say it is not possible to be of that which is necessary to be, and it is false to say it is possible not to be. Consequently, neither follows upon it, for no enunciation follows upon an enunciation whose truth it destroys. Therefore, "possible to be” follows upon "necessary to be.” 2. Tertio, arguit ad partem negativam cum subdit: at vero rursus etc., et intendit talem rationem. Si ad necesse esse sequitur possibile esse, cum ad possibile sequatur possibile non esse (per conversionem in oppositam qualitatem, ut dicitur in I priorum, quia idem est possibile esse et non esse), sequetur de primo ad ultimum quod necesse est possibile non esse: quod est falsum manifeste. Unde oppositionis hypothesim subdit: at vero rursus videtur idem possibile esse et non esse, ut domus, et possibile incidi et non incidi, ut vestis. Quare de primo ad ultimum necesse esse, erit contingens non esse. Hoc autem est falsum. Ergo hypothesis illa, scilicet, quod possibile sequatur ad necesse, est falsa. Thirdly, he argues to the negative part where he says, On the other hand, it seems possible for the same thing to be cut and not to be cut, etc. His argument is as follows: If "possible to be” follows upon "necessary to be,” then, since "possible not to be” follows upon the possible (through conversion to the opposite quality, as is said in I Priorum [13: 32a 31], for the same thing is possible to be and not to be), from first to last it will follow that the necessary is possible not to be, which is clearly false. In this argument, Aristotle supplies a hypothesis opposed to the position that possible to be follows upon necessary to be: On the other hand, it seems possible for the same thing to be cut and not to be cut, for instance a garment, and to be and not to be, for instance a house. Therefore, from first to last, necessary to be will be possible not to be. But this is false. Therefore, the hypothesis that the possible follows upon the necessary is false. 3. Deinde cum dicit: manifestum est autemetc., respondet dubitationi. Et primo, declarat veritatem simpliciter; secundo, applicat ad propositum; ibi: hoc igitur possibile et cetera. Proponit ergo primo ipsam veritatem declarandam, dicens: manifestum est autem, ex dicendis, quod non omne possibile esse vel ambulare, idest operari: idest, non omne possibile secundum actum primum vel secundum ad opposita valet, idest ad opposita viam habet, sed est invenire aliqua possibilia, in quibus non sit verum dicere quod possunt in opposita. Deinde, quia possibile a potentia nascitur, manifestat qualiter se habeat potentia ipsa ad opposita: ex hoc enim clarum erit quomodo possibile se habeat ad opposita. Et circa hoc duo facit: primo manifestat hoc in potentiis eiusdem rationis; secundo, in his quae aequivoce dicuntur potentiae; ibi: quaedam vero potentiae et cetera. Circa primum tria facit: quia primo manifestat qualiter potentia irrationalis se habeat ad opposita; et ait quod potentia irrationalis non potest in opposita. When he says, It is evident by now that not every possibility of being or walking, etc., he answers the question he proposed. First, he manifests the truth simply, then applies it to the question where he says, So it is not true to say the latter possible of what is necessary simply, etc. First, then, he proposes the truth he is going to explain: It is evident by now that not every possibility of being or walking, i.e., of operating; that is, not everything possible according to first or second act admits of opposites, i.e., has access to opposites; there are some possibles of which it is not true to say that they are capable of opposites. Then, since the possible arises from potency, he manifests how potency is related to opposites; for it will be clear from this bow the possible is related to opposites. First he manifests this in potencies having the same notion; secondly, in those that are called potencies equivocally where he says, But some are called potentialities equivocally, etc. With respect to the way in which potencies of the same specific notion are related to opposites, he does three things. First of all he manifests how an irrational potency is related to opposites; an irrational potency, he says, is not a potency that is capable of opposites. Cajetanus lib. 2 l. 11 n. 4Ubi notandum est quod, sicut dicitur IX Metaphys., potentia activa, cum nihil aliud sit quam principium quo in aliud agimus, dividitur in potentiam rationalem et irrationalem. Potentia rationalis est, quae cum ratione et electione operatur; sicut ars medicinae, qua medicus cognoscens quid sanando expediat infirmo, et volens applicat remedia. Potentia autem irrationalis vocatur illa, quae non ex ratione et libertate operatur, sed ex naturali sua dispositione; sicut calor ignis potentia irrationalis est, quia calefacit, non ut cognoscit et vult, sed ut natura sua exigit. Assignatur autem ibidem duplex differentia proposito deserviens inter istas potentias. Prima est quod activa potentia irrationalis non potest duo opposita, sed est determinata ad unum oppositorum, sive sumatur oppositum contradictorie sive contrarie. Verbi gratia: calor non potest calefacere et non calefacere, quae sunt contradictorie opposita, neque potest calefacere et frigefacere, quae sunt contraria, sed ad calefactionem determinatus est. Et hoc intellige per se, quia per accidens calor frigefacere potest, vel resolvendo materiam caloris, humidum scilicet, vel per antiperistasin contrarii. Et similiter potest non calefacere per accidens, scilicet si calefactibile deest. Potentia autem rationalis potest in opposita et contradictorie et contrarie. Arte siquidem medicinae potest medicus adhibere remedia et non adhibere, quae sunt contradictoria; et adhibere remedia sana et nociva, quae sunt contraria. Secunda differentia est quod potentia activa irrationalis, praesente passo, necessario operatur, deductis impedimentis: calor enim calefactibile sibi praesens calefacit necessario, si nihil impediat; potentia autem rationalis, passo praesente, non necessario operatur: praesente siquidem infirmo, non cogitur medicus remedia adhibere. It must be noted in this connection that active potency, since it is the principle by which we act on something else, is divided into rational and irrational potency, as is said in IX Metaphysicae [2: 1046a 36]. Rational potency operates in connection with reason and choice; for example, the art of medicine by which the physician, knowing and willing what is expedient in healing an illness, applies a remedy. Irrational potency operates according to its own natural disposition, not according to reason and liberty; for example, the heat of fire is an irrational potency, because it heats, not as it knows and wills, but as its nature requires. In the Metaphysics, a twofold difference between these potencies is assigned which is relevant here. The first is that an irrational active potency is not capable of two opposites, but is determined to one opposite, whether "opposite” is taken contradictorily or contrarily; e.g., heat cannot heat and not heat, which are opposed contradictorily; nor can it heat and cool, which are contraries, but is deter mined to heating. Understand this per se, for heat can cool accidentally, either by destroying the matter of heat, namely, the humid, or through alternation of the contrary. It also has the potentiality not to heat accidentally, if that which can be heated is lacking. A rational potency, on the other hand, is capable of opposites, both contradictorily and contrarily; for by the art of medicine the physician can employ a remedy and not employ it, which are contradictories, and employ healing and harmful remedies, which are contraries. The second difference is that an irrational active potency necessarily operates when a subject is present and impediments are with drawn; for heat necessarily heats when a subject that can be heated is present, and nothing impedes it. A rational potency, however, does not necessarily operate when a subject is present; e.g., when a sick man is present the physician is not forced to employ a remedy. 5. Dimittantur autem metaphysico harum differentiarum rationes et ad textum redeamus. Ubi narrans quomodo se habeat potentia irrationalis ad oppositum, ait: et primum quidem, scilicet, non est verum dicere quod sit potentia ad opposita in his quae possunt non secundum rationem, idest, in his quorum posse est per potentias irrationales; ut ignis calefactivus est, idest, potens calefacere, et habet vim, idest, potentiam istam irrationalem. Ignis siquidem non potest frigefacere; neque in eius potestate est calefacere et non calefacere. Quod autem dixit primum ordinem, nota, ad secundum genus possibilis infra dicendum, in quo etiam non invenitur potentia ad opposita. The reasons for these differences are given in the Metaphysics, but let us return to the text. Explaining bow an irrational potency is related to opposites, he says, First of all, this is not true, i.e., it is not true to say that there is a potency to opposites in those which are not according to reason, i.e., whose power is through irrational potencies; as fire which is calefactive, i.e., capable of heating, has this power, i.e., this irrational potentiality, since it is not able to cool, nor is it in its power 4 to heat and not to heat. Note that he speaks here of a first kind. This is in relation to a second genus of the possible which he will speak of later, in which there is not a potency to opposites either. 6. Secundo, manifestat quomodo potentia rationalis se habeat ad opposita, intendens quod potentia rationalis potest in opposita. Unde subdit: ergo potestates secundum rationem, idest rationales, ipsae eaedem sunt contrariorum, non solum duorum, sed etiam plurimorum, ut arte medicinae medicus plurima iuga contrariorum adhibere potest, et a multarum operationum contradictionibus abstinere potest. Praeposuit autem ly ergo, ut hoc consequi ex dictis insinuaret: cum enim oppositorum oppositae sint proprietates, et potentia irrationalis ex eo quod irrationalis ad opposita non se extendat; oportet potentiam rationalem ad opposita viam habere, eo quod rationalis sit. Secondly, he shows how a rational potency is related to opposites, i.e., it is capable of opposites: Therefore potentialities that are in conjunction with reason, i.e., rational potencies, are capable of contraries, not only of two, but even of many; for example, a physician by the art of medicine can employ many pairs of contraries and he can abstain from doing or not doing many things. He begins with "therefore” so as to imply that this follows from what has been said.”’ The argument would be: properties of opposites are opposites; an irrational potency, because it is irrational, does not extend itself to opposites; therefore a rational potency, because it is rational, has access to opposites. Cajetanus lib. 2 l. 11 n. 7Tertio, explanat id quod dixit de potentiis irrationalibus, propter causam infra assignandam ab ipso; et intendit quod illud quod dixit de potentia irrationali, scilicet quod non potest in opposita, non est verum universaliter, sed particulariter. Ubi nota quod potentia irrationalis dividitur in potentiam activam, quae est principium faciendi, et potentiam passivam, quae est principium patiendi: verbi gratia, potentia ad calorem dividitur in posse calefacere, et in posse calefieri. In potentiis activis irrationalibus verum est quod non possunt in opposita, ut declaratum est; in potentiis autem passivis non est verum. Illud enim quod potest calefieri, potest etiam frigefieri, quia eadem est materia, seu potentia passiva contrariorum, ut dicitur in II de caelo et mundo, et potest non calefieri, quia idem est subiectum privationis et formae, ut dicitur in I Physic. Et propter hoc ergo explanando, ait: irrationales vero potentiae non omnes a posse in opposita excludi intelligendae sunt, sed illae quae sunt quemadmodum potentia ignis calefactiva (ignem enim non posse non calefacere manifestum est), et universaliter, quaecunque alia sunt talis potentiae, quod semper agunt, idest quod quantum est ex se non possunt non agere, sed ad semper agendum ex sua forma necessitantur. Huiusmodi autem sunt, ut declaravimus, omnes potentiae activae irrationales. Alia vero sunt talis conditionis quod etiam secundum irrationales potentias, scilicet passivas, simul possunt in quaedam opposita, ut aer potest calefieri et frigefieri. Quod vero ait, simul, cadit supra ly possunt, et non supra ly opposita; et est sensus, quod simul aliquid habet potentiam passivam ad utrunque oppositorum, et non quod habeat potentiam passivam ad utrunque oppositorum simul habendum. Opposita namque impossibile est haberi simul. Unde et dici solet et bene, quod in huiusmodi est simultas potentiae, non potentia simultatis. Irrationalis igitur potentia non secundum totum suum ambitum a posse in opposita excluditur, sed secundum partem eius, secundum potentias scilicet activas. Thirdly, he explains what he has said about irrational potencies. He will assign the reason for doing this later. He makes the point that what he has said about irrational potentiality, i.e., that it is not capable of opposites, is not true universally, but particularly. It should be noted here that irrational potency is divided into active potency, which is the principle of acting, and passive potency, which is the principle of being acted upon; e.g., potency to heat is divided into potentiality to heat and potentiality to be heated. Now it is true that active irrational potencies are not capable of opposites, as was explained. This is not true, however, of passive potencies, for what can be heated can also be cooled, because the mat ter is the same, i.e., the passive potency of contraries, as is said in II De caelo et mundo [7: 286a 23]. It can also not be heated, since the subject of privation and of form is the same, as is said in I Physic [7: 189b 32]. Therefore, in explaining about irrational potencies, he says, But not all irrational potentialities should be understood to be excluded from the capacity of opposites. Those like the potentiality of fire to heat are to be excluded (for it is evident that fire cannot not heat) I and universally, whatever others are potencies of such a kind that they always act, i.e., the ones that of themselves cannot not act, but are necessitated by their form always to act. All active irrational potencies are of this kind, as we have explained. There are others, however, of such a condition that even though they are irrational potencies (i.e., passive) are simultaneously capable of certain opposites; for example, air can be heated and cooled. "Simultaneously” modifies "are capable” and not "opposites.” What he means is that the thing simultaneously has a passive potency to each opposite, and not that it has a passive potency to have both opposites simultaneously, for it is impossible to have opposites at one and the same time. Hence it is customary and correct to say that in these there is simultaneity of potency, not potency of simultaneity. Therefore, irrational potency is excluded from the capacity of opposites, not completely, but according to its part, namely, according to active potencies. 8. Quia autem videbatur superflue addidisse differentias inter activas et passivas irrationales, quia sat erat proposito ostendisse quod non omnis potentia oppositorum est; ideo subdit quod hoc idcirco dictum est, ut notum fiat quoniam nedum non omnis potestas oppositorum est, loquendo de potentia communissime, sed neque quaecunque potentiae dicuntur secundum eamdem speciem ad opposita possunt. Potentiae siquidem irrationales omnes sub una specie irrationalis potentiae concluduntur, et tamen non omnes in opposita possunt, sed passive tantum. Non supervacanea ergo fuit differentia inter passivas et activas irrationales, sed necessaria ad declarandum quod non omnes potentiae eiusdem speciei possunt in opposita. Potest et ly hoc demonstrare utranque differentiam, scilicet, inter rationales et irrationales, et inter irrationales activas et passivas inter se; et tunc est sensus, quod hoc ideo fecimus, ut ostenderemus quod non omnis potestas, quae scilicet secundum eamdem rationem potentiae physicae dicitur, quia scilicet potest in aliquid ut rationalis et irrationalis, neque etiam omnis potestas, quae sub eadem specie continetur, ut irrationalis activa et passiva sub specie irrationalis, ad opposita potest. Because it might seem superfluous to have added the differences between active and passive irrational potencies, since enough had already been said to show that not every potency is of opposites, Aristotle gives the reason for this. It was not only to make it known that not every potency is of opposites, speaking of potency most commonly, but also that not all that are called potencies according to the same species are capable of opposites. For all irrational potencies are included under one species of irrational potency, and yet not all are capable of opposites, but only the passive potencies. It was not superfluous, therefore, to point out the difference between passive and active irrational potencies, since this was necessary in order to show that not all potencies of the same species are capable of opposites. " This” in the phrase "this has been said” could designate each difference, the one between rational and irrational potencies, and the one between active and passive irrational potencies. The meaning is, then, that we have said this to show that not every potentiality which is said according to the same notion of physical power—namely, because it can be in something as rational and irrational—not even every potentiality which is contained under the same species, as active and passive under the species irrational, is capable of opposites. Intendit declarare quomodo illae quae aequivocae dicuntur potentiae, se habeant ad opposita. Et circa hoc duo facit: primo, declarat naturam talis potentiae; secundo, ponit differentiam et convenientiam inter ipsas et supradictas, ibi: et haec quidem et cetera. Ad evidentiam primi advertendum est quod V et IX Metaphys., Aristoteles dividit potentiam in potentias, quae eadem ratione potentiae dicuntur, et in potentias, quae non ea ratione qua praedictae potentiae nomen habent, sed alia. Et has appellat aequivoce potentias. Sub primo membro comprehenduntur omnes potentiae activae, et passivae, et rationales, et irrationales. Quaecunque enim posse dicuntur per potentiam activam vel passivam quam habeant, eadem ratione potentiae sunt, quia scilicet est in eis vis principiata alicuius activae vel passivae. Sub secundo autem membro comprehenduntur potentiae mathematicales et logicales. Mathematica potentia est, qua lineam posse dicimus in quadratum, et eo quod in semetipsam ducta quadratum constituit. Logica potentia est, qua duo termini coniungi absque contradictione in enunciatione possunt. Sub logica quoque potentia continetur quae ea ratione potentia dicitur, quia est. Hae vero merito aequivoce a primis potentiae dicuntur, eo quod istae nullam virtutem activam vel passivam praedicant; et quod possibile istis modis dicitur, non ea ratione possibile appellatur quia aliquis habeat virtutem ad hoc agendum vel patiendum, sicut in primis. Unde cum potentiae habentes se ad opposita sint activae vel passivae, istae quae aequivocae potestates dicuntur ad opposita non se habent. De his ergo loquens ait: quaedam vero potestates aequivocae sunt, et ideo ad opposita non se habent. Aristotle now proposes to show in what way potencies that are called equivocal are related to opposites. He first explains the nature of this kind of potency, and then gives the difference and agreement all between these and the foresaid, where he says, This latter potentiality is only in that which is movable, but the former is also in the immovable, etc. In V and IX Metaphysicae [V, 12: 1019a 15; 12, 1: 1046a 4], Aristotle divides potency into those that are called potencies for the same reason, and those that have the name potency for another reason than the aforesaid potencies. The latter are named "potencies” equivocally. Under the first member are included all active and passive, rational and irrational potencies, for whatever are said to be possible through the active or passive potency they have, are potencies for the same reason, i.e., because there is in them the originative force of something active or passive. Mathematical and logical potencies are included under the second member of this division. That by which a line can lead to a square we call a mathematical potency, for a line constitutes a square when protracted back to itself. That by which two terms can be joined in an enunciation without contradiction is a logical potency. Logical potency also comprises that which is called "potency” because it is. The latter [mathematical and logical potencies] are named from the former equivocally because they predicate no active or passive capacity; and what is said to be possible in these ways is not termed possible in virtue of having the capacity to do or undergo as in the first case. Hence, since the potencies related to opposites are active or passive, the ones that are called potentialities equivocally are not related to opposites. These, then, are the potencies he speaks of when he says But some are called potentialities equivocally, and therefore they are not related to opposites. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 2Deinde declarans qualis sit ista potestas aequivoce dicta, subdit divisionem usitatam possibilis per quam hoc scitur, dicens: possibile enim non uno modo dicitur, sed duobus. Et uno quidem modo dicitur possibile eo quod verum est ut in actu, idest ut actualiter est; ut, possibile est ambulare, quando ambulat iam: et omnino, idest universaliter possibile est esse, quoniam est actu iam quod possibile dicitur. Secundo modo autem possibile dicitur aliquid non ea ratione quia est actualiter, sed quia forsitan aget, idest quia potest agere; ut possibile est ambulare, quoniam ambulabit. Ubi advertendum est quod ex divisione bimembri possibilis divisionem supra positam potentiae declaravit a posteriori. Possibile enim a potentia dicitur: sub primo siquidem membro possibilis innuit potentias aequivoce; sub secundo autem potentias univoce, activas scilicet et passivas. Intendebat ergo quod quia possibile dupliciter dicitur, quod etiam potestas duplex est. Declaravit autem potestates aequivocas ex uno earum membro tantum, scilicet ex his quae dicuntur possibilia quia sunt, quia hoc sat erat suo proposito. To clarify the kind of potency that is called equivocal, he gives the usual division of the possible through which this is known. "Possible,” he says, is not said in one way, but in two. Something is said to be possible because it is true as in act, i.e., inasmuch as it actually is; for example, it is possible to walk when one is already walking, and in gene eral, i.e., universally, that is said to be possible which is possible to be because it is already in act. Something is said to be possible in the second way, not because it actually is, but because it is about to act, i.e., because it can act; for instance, it is possible for someone to walk because be is about to walk. Notice here that by this two-membered division of the possible he makes the division of potency posited above evident a posteriori, for the possible is named from potency. Under the first member of the possible he signifies potencies equivocally; under the second, potencies univocally, i.e., active and passive potencies. He means to show, then, that since possible is said in two ways, potentiality is also twofold. He explains equivocal potentialities in terms of only one member, namely, those that are called possible because they are, since this was sufficient for his purpose. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 3Deinde cum dicit: et haec quidem etc., assignat differentiam inter utranque potentiam, et ait quod potentia haec ultimo dicta physica, est in solis illis rebus, quae sunt mobiles; illa autem est et in rebus mobilibus et immobilibus. Possibile siquidem a potentia dictum eo quod possit agere, non tamen agit, inveniri non potest absque mutabilitate eius, quod sic posse dicitur. Si enim nunc potest agere et non agit, si agere debet, oportet quod mPombaur de otio ad operationem. Id autem quod possibile dicitur eo quod est, nullam mutabilitatem exigit in eo quod sic possibile dicitur. Esse namque in actu, quod talem possibilitatem fundat, invenitur et in rebus necessariis, et in immutabilibus, et in rebus mobilibus. Possibile ergo hoc, quod logicum vocatur, communius est illo quod physicum appellari solet. When he says, This latter potentiality is only in that which is movable, but the former is also in the immovable, etc., he specifies the difference between each potency. This last potency, he says, [possible because it can be] which is called physical potency, is only in things that are movable; but the former is in movable and immovable things. The possible that is named from the potency which can act, but is not yet acting, cannot be found without the mutability of that which is said to be possible in this way. For if that which can act now and is not acting, should act, it is necessary that it be changed from rest to operation. On the other hand, that which is called possible because it is, requires no mutability in that which is said to be possible in this way, for to be in act, which is the basis of such a possibility, is found in necessary things, in immutable things, and in mobile things. Therefore, the possible which is called logical, is more common than the one we customarily call physical. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 4Deinde subdit convenientiam inter utrunque possibile, dicens quod in utrisque potestatibus et possibilibus verum est non impossibile esse, scilicet, ipsum ambulare, quod iam actu ambulat seu agit, et quod iam ambulabile est; idest, in hoc conveniunt quod, sive dicatur possibile ex eo quod actu est, sive ex eo quod potest esse, de utroque verificatur non impossibile; et consequenter necessario verificatur possibile, quoniam ad non impossibile sequitur possibile. Hoc est secundum genus possibilis, respectu cuius Aristoteles supra dixit: et primum quidem etc., in quo non invenitur via ad utrunque oppositorum, hoc, inquam, est possibile quod iam actu est. Quod enim tali ratione possibile dicitur, iam determinatum est ex eo quod actu esse suppositum est. Non ergo possibile omne ad utrunque possibile est, sive loquamur de possibili physice, sive logice.Then he shows that there is a correspondence between these possibles when he adds that not impossible to be is true of both of these potentialities and possibles, e.g., to walk is not impossible for that which is already walking in act, i.e., acting, and it is not impossible for that which could now walk; that is, they agree in that not impossible is verified of both—of either what is said to be possible from the fact that it is in act or of what is said to be possible from the fact that it could be. Consequently, the necessary is verified as possible, for possible follows upon not impossible. The possible that is already in act is the second genus of the possible in which access is not found to both opposites, of which Aristotle spoke when he said, First of all this is not true of the potentialities which are not according to reason, etc. For that which is said to be possible because it is already in act is already determined, since it is supposed as being in act. Therefore, not every possible is the possible of alternatives, whether we speak of the physical possible or the logical. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 5Deinde cum dicit: sic igitur possibile etc., applicat determinatam veritatem ad propositum. Et primo, concludendo ex dictis, declarat habitudinem utriusque possibilis ad necessarium, dicens quod hoc ergo possibile, scilicet physicum quod est in solis mobilibus, non est verum dicere et praedicare de necessario simpliciter: quia quod simpliciter necessarium est, non potest aliter esse. Possibile autem physicum potest sic et aliter esse, ut dictum est. Addit autem ly simpliciter, quoniam necessarium est multiplex. Quoddam enim est ad bene esse, quoddam ex suppositione: de quibus non est nostrum tractare, sed solummodo id insinuare. Quod ut praeservaret se ab illis modis necessarii qui non perfecte et omnino habent necessarii rationem, apposuit ly simpliciter. De tali enim necessario possibile physicum non verificatur. Alterum autem possibile logicum, quod in rebus immobilibus invenitur, verum est de illo enunciare, quoniam nihil necessitatis adimit. Et per hoc solvitur ratio inducta ad partem negativam quaestionis. Peccabat siquidem in hoc, quod ex necessario inferebat possibile ad utrunque quod convertitur in oppositam qualitatem. When he says, So it is not true to say the latter possible of what is necessary simply, etc., he applies the truth he has determined to what has been proposed. First, by way of a conclusion from what has been said, he shows the relationship of each possible to the necessary. So, he says, it is not true to say and predicate this possible, namely physical, which is only in mobile things, of the necessary simply, because what is necessary simply cannot be otherwise. The physical possible, however, can be thus and otherwise, as has been said. He adds "simply” because the necessary is manifold. There is the necessary for well-being and there is also the necessary from supposition, but it is not our business to treat these, only to indicate them. In order, then, to avoid the modes of the necessary that do not have the notion of the necessary perfectly and in every way, he adds "simply.” Now the physical possible is not verified of this kind of necessary [i.e., of the necessary simply], but it is true to enunciate the logical possible, the one found in immovable things, of the necessary, since it takes away nothing of the necessity. The argument introduced for the negative part of this question”’ is destroyed by this. The error in that argument was the inference—by way of conversion into the opposite quality—of the possible to both alternatives from the necessary. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 6Deinde respondet quaestioni formaliter intendens quod affirmativa pars quaestionis tenenda sit, quod scilicet ad necessarium sequitur possibile; et assignat causam. Quia ad partem subiectivam sequitur constructive suum totum universale; sed necessarium est pars subiectiva possibilis: quia possibile dividitur in logicum et physicum, et sub logico comprehenditur necessarium; ergo ad necessarium sequitur possibile. Unde dicit: quare, quoniam partem, scilicet subiectivam, suum totum universale sequitur, illud quod ex necessitate est, idest necessarium, tamquam partem subiectivam, consequitur posse esse, idest possibile, tamquam totum universale. Sed non omnino, idest sed non ita quod omnis species possibilis sequatur; sicut ad hominem sequitur animal, sed non omnino, idest non secundum omnes suas partes subiectivas sequitur ad hominem: non enim valet: est homo, ergo est animal irrationale. Et per hoc confirmata ratione adducta ad partem affirmativam, expressius solvit rationem adductam ad partem negativam, quae peccabat secundum fallaciam consequentis, inferens ex necessario possibile, descendendo ad unam possibilis speciem, ut de se patet. Then he replies to the question formally. He states that the affirmative part of the question must be held, namely, that the possible follows upon the necessary. Next, he assigns the cause. The whole universal follows constructively upon its subjective part; but the necessary is a subjective part of the possible, because the possible is divided into logical and physical and under the logical is comprehended the necessary; therefore, the possible follows upon the necessary. Hence he says, Therefore, since the universal follows upon the part, i.e., since the whole universal follows upon its subjective part, to be possible to be, i.e., possible, as the whole universal, follows upon that which necessarily is, i.e., necessary, as a subjective part. He adds: though not every kind of possible does, i.e., not every species of the possible follows; just as animal follows upon man, but not in every way, i.e., it does not follow upon man according to all its subjective parts, for it is not valid to say, "He is a man, therefore he is an irrational animal.” By this proof of the validity of the affirmative part, Aristotle has explicitly destroyed the reasoning adduced for the negative part, which, as is evident, erred according to the fallacy of the consequent in inferring the possible from the necessary by descending to one species of the possible. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 7Deinde cum dicit: et est fortasse quidem etc., ordinat easdem modalium consequentias alio situ, praeponendo necessarium omnibus aliis modis. Et circa hoc duo facit: primo, proponit quod intendit; secundo, assignat causam dicti ordinis; ibi: manifestum est autem et cetera. Dicit ergo: et est fortasse principium omnium enunciationum modalium vel esse vel non esse, idest, affirmativarum vel negativarum, necessarium et non necessarium. Et oportet considerare alia, scilicet, possibile contingere et impossibile esse, sicut horum, scilicet, necessarii et non necessarii, consequentia, hoc modo: consequentiae enunciationum modalium secundum quatuor ordines alio convenienti situ ab Aristotele positae et ordinatae: (Figura). Vides autem hic nihil immutatum, nisi quod necessariae quae ultimum locum tenebant, primum sortitae sunt. Quod vero dixit fortasse, non dubitantis, sed absque determinata ratione rem proponentis est. When he says, Indeed the necessary and not necessary may well be the principle of all that is or is not, etc., he disposes the same consequences of modals in another arrangement, placing the necessary before all the other modes. First he proposes the order of modals and then assigns the cause of the order where he says, It is evident, then, from what has been said that that which necessarily is, actually is, etc. Indeed, he says, the necessary and not necessary may well be the principle of the "to be” or "not to be” of all modal enunciations, i.e., the necessary and not necessary is the principle of affirmatives or negatives. And the others, i.e., the possible, contingent, and impossible to be must be considered as consequent to these, i.e., to the necessary and not necessary. THE CONSEQUENTS OF MODAL ENUNCIATIONS ACCORDING TO THE FOUR ORDERS, POSITED AND DISPOSED BY ARISTOTLE IN ANOTHER APPROPRIATE ARRANGEMENT FIRST ORDER It is necessary to be It is not possible not to be It is not contingent not to be It is impossible not to be SECOND ORDER It is necessary not to be It is not possible to be It is not contingent to be It is impossible to be It is not necessary to be It is possible not to be It is contingent not to be It is not impossible not to be FOURTH ORDER It is not necessary not to be It is possible to be It is contingent to be It is not impossible to be Nothing is changed here except the enunciations predicating necessity. They have been allotted the first place, whereas in the former table they were placed last. When he says "may well be,” it is not because he is in any doubt, but because he is proposing this here without a determinate proof. 8. Deinde cum dicit: manifestum est autemetc., intendit assignare causam dicti ordinis. Et primo, assignat causam, quare praeposuerit necessarium possibili tali ratione. Sempiternum est prius temporali; sed necessarium dicit sempiternitatem (quia dicit esse in actu, excludendo omnem mutabilitatem, et consequenter temporalitatem, quae sine motu non est imaginabilis), possibile autem dicit temporalitatem (quia non excludit quin possit esse et non esse); ergo necesse merito prius ponitur quam possibile. Unde dicit, proponendo minorem: manifestum est autem ex his quae dicta sunt etc., tractando de necessario: quoniam id quod ex necessitate est, secundum actum est totaliter, scilicet quia omnem excludit mutabilitatem et potentiam ad oppositum: si enim mutari posset in oppositum aliquo modo, iam non esset necessarium. Deinde subdit maiorem per modum antecedentis conditionalis: quare si priora sunt sempiterna temporalibus et cetera. Ultimo ponit conclusionem: et quae actu sunt omnino, scilicet necessaria, priora sunt potestate, idest possibilibus, quae omnino actu esse non possunt, licet compatiantur. When he says, It is evident, then, from what has been said that that which necessarily is, actually is, etc., he gives the cause of this order. First he gives the reason for placing the necessary before the possible: the sempiternal is prior to the temporal; but "necessary” signifies sempiternal (because it signifies "to be in act,” excluding all mutability and consequently temporality, which is not imaginable without movement) and the possible signifies temporality (since it does not exclude the possibility of being and not being); therefore, the necessary is rightly placed before the possible. He proposes the minor of this argument when he says, It is evident, then, from what has been said in treating the necessary, that that which necessarily is, is totally in act, since it excludes all mutability and potency to the opposite—for if it could be changed into the opposite in any way, then it would not be necessary. Next he gives the major, which is in the mode of an antecedent conditional: and if eternal things are prior to temporal, etc. Finally, he posits the conclusion: those that are wholly in act in every way, namely necessary, are prior to the potential, i.e., to possibles, which do not have being in act wholly although they are compatible with it. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 9Deinde cum dicit: et hae quidem etc., assignat causam totius ordinis a se inter modales statuti, tali ratione. Universi triplex est gradus. Quaedam sunt actu sine potestate, idest sine admixta potentia, ut primae substantiae, non illae quas in praesenti diximus primas, eo quod principaliter et maxime substent, sed illae quae sunt primae, quia omnium rerum sunt causae, intelligentiae scilicet. Alia sunt actu cum possibilitate, ut omnia mobilia, quae secundum id quod habent de actu sunt priora natura seipsis secundum id quod habent de potentia, licet e contra sit, aspiciendo ordinem temporis. Sunt enim secundum id quod habent de potentia priora tempore seipsis secundum id quod habent de actu. Verbi gratia, Socrates prius secundum tempus poterat esse philosophus, deinde fuit actualiter philosophus. Potentia ergo praecedit actum secundum ordinem temporis in Socrate, ordine autem naturae, perfectionis et dignitatis e converso contingit. Prior enim secundum dignitatem, idest dignior et perfectior habebatur Socrates cum philosophus actualiter erat, quam cum philosophus esse poterat. Praeposterus est igitur ordo potentiae et actus in unomet, utroque ordine, scilicet, naturae et temporis attento. Alia vero nunquam sunt actu sed potestate tantum, ut motus, tempus, infinita divisio magnitudinis, et infinita augmentatio numeri. Haec enim, ut IX Metaphys. dicitur, nunquam exeunt in actum, quoniam eorum rationi repugnat. Nunquam enim aliquid horum ita est quin aliquid eius expectetur, et consequenter nunquam esse potest nisi in potentia. Sed de his alio tractandum est loco. Then he says, Some things are actualities without potentiality, namely, the primary substances, etc. Here he assigns the cause of the whole order established among modals. The grades of the universe are threefold. Some things are in act without potentiality, i.e., not combined with potency. These are the primary substances—not those we have called "first” in the present work because they principally and especially sustain—but those that are first because they are the causes of all things, namely, the Intelligences. In others, act is accompanied with possibility, as is the case with all mobile things, which, according to what they have of act, are prior in nature to themselves according to what they have of potency, although the contrary is the case in regard to the order of time. According to what they have of potency they are prior in time to themselves according to what they have of act. For example, according to time, Socrates first was able to be a philosopher, then he actually was a philosopher. In Socrates therefore, potency precedes act according to the order of time. The converse is the case, however, in the order of nature, perfection, and dignity, for when he actually was a philosopher, Socrates was regarded as prior according to dignity, i.e., more worthy and more perfect than when he was potentially a philosopher. Hence, when we consider each order, i.e., nature and time, in one and the same thing, the order of potency and act is reversed. Others never are in act but are only in potency, e.g., motion, time, the infinite division of magnitude, and the infinite augmentation of number. These, as is said in IX Metaphysicae [6: 1048b 9-17], never terminate in act, for it is repugnant to their nature. None of them is ever such that something of it is not expected, and consequently they can only be in potency. These, however, must be treated in another place. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 10 Nunc haec ideo dicta sint ut, inspecto ordine universi, appareat quod illum imitati sumus in nostro ordine. Posuimus siquidem primo necessarium, quod sonat actu esse sine potestate seu mutabilitate, imitando primum gradum universi. Locavimus secundo loco possibile et contingens, quorum utrunque sonat actum cum possibilitate, et sic servatur conformitas ad secundum gradum universi. Praeposuimus autem possibile et non contingens, quia possibile respicit actum, contingens autem secundum vim nominis respicit defectum causae, qui ad potentiam pertinet: defectus enim potentiam sequitur; et ex hoc conforme est secundae parti universi, in qua actus est prior potentia secundum naturam, licet non secundum tempus. Ultimum autem locum impossibili reservavimus, eo quod sonat nunquam fore, sicut et ultima universi pars dicta est illa, quae nunquam actu est. Pulcherrimus igitur ordo statutus est, quando divinus est observatus. This has been said so that once the order of the universe has been seen it should appear that we were imitating it in our present ordering. The necessary, which signifies "to be in act” without potentiality or mutability, has been placed first, in imitation of the first grade of the universe. We have put the possible and contingent, both of which signify act with possibility, in second place in conformity with the second grade of the universe. The possible has been Placed before the contingent because the possible relates to act whereas the contingent, as the force of the name suggests, relates to the defect of a cause-which pertains to potency, for defect follows upon potency. The order of these is similar to the order in the second part of the universe, where act is prior to potency according to nature, though not according to time. We have reserved the last place for the impossible because it signifies what never will be, just as the last part of the universe is said to be that which is never in act. Thus, a beautifully proportioned order is established when the divine is observed. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 11 Quia autem suppositae modalium consequentiae nil aliud sunt quam aequipollentiae earum, quae ob varium negationis situm, qualitatem, vel quantitatem, vel utranque mutantis, fiunt; ideo ad completam notitiam consequentium se modalium, de earum qualitate et quantitate pauca admodum necessaria dicenda sunt. Quoniam igitur natura totius ex partium naturis consurgit, sciendum est quod subiectum enunciationis modalis et dicit esse vel non esse, et est dictum unicum, et continet in se subiectum dicti; praedicatum autem modalis enunciationis, modus scilicet, et totale praedicatum est (quia explicite vel implicite verbum continet, quod est semper nota eorum quae de altero praedicantur: propter quod Aristoteles dixit quod modus est ipsa appositio), et continet in se vim distributivam secundum partes temporis. Necessarium enim et impossibile distribuunt in omne tempus vel simpliciter vel tale; possibile autem et contingens pro aliquo tempore in communi. Since the consequents of modals, i.e., those placed under each other, are their equivalents in meaning, and these are produced by the varying position of the negation changing the quality or quantity or both, a few things must be said about their quality and quantity to complete our knowledge of them. The nature of the whole arises from the parts, and therefore we should note the following things about the parts of the modal enunciation. The subject of the modal enunciation asserts to be or not to be, and is a singular dictum, and contains in itself the subject of the dictum. The predicate of a modal enunciation, namely, the mode, is the total predicate (since it explicitly or implicitly contains the verb, which is always a sign of something predicated of another, for which reason Aristotle says that the mode is a determining addition) and contains in itself distributive force according to the parts of time. The necessary and impossible distribute in all time either simply or in a limited way; the possible and contingent distribute according to some time commonly. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 12 Nascitur autem ex his quinque conditionibus duplex in qualibet modali qualitas, et triplex quantitas. Ex eo enim quod tam subiectum quam praedicatum modalis verbum in se habet, duplex qualitas fit, quarum altera vocatur qualitas dicti, altera qualitas modi. Unde et supra dictum est aliquam esse affirmativam de modo et non de dicto, et e converso. Ex eo vero quod subiectum modalis continet in se subiectum dicti, una quantitas consurgit, quae vocatur quantitas subiecti dicti: et haec distinguitur in universalem, particularem et singularem, sicut et quantitas illarum de inesse. Possumus enim dicere, Socratem, quemdam hominem, vel omnem hominem, vel nullum hominem, possibile est currere. Ex eo autem quod subiectum unius modalis dictum unum est, consurgit alia quantitas, vocata quantitas dicti; et haec unica est singularitas: secundum omne enim dictum cuiusque modalis singulare est istius universalis, scilicet dictum. Quod ex eo liquet quod cum dicimus, hominem esse album est possibile, exponitur sic, hoc dictum, hominem esse album, est possibile. Hoc dictum autem singulare est, sicut et, hic homo. Propterea et dicitur quod omnis modalis est singularis quoad dictum, licet quoad subiectum dicti sit universalis vel particularis. Ex eo autem quod praedicatum modalis, modus scilicet, vim distributivam habet, alia quantitas consurgit vocata quantitas modi seu modalis; et haec distinguitur in universalem et particularem. As a consequence of these five conditions there is a twofold quality and a threefold quantity in any modal. The twofold quality results from the fact that both the subject and the predicate of a modal have a verb in them. One of these is called the quality of the dictum, the other the quality of the mode. This is why it was said above that there is an enunciation which is affirmative of mode and not of dictum, and conversely. Of the threefold quantity of a modal enunciation, one arises from the fact that the subject of the modal contains in it the subject of the dictum. This is called the quantity of the subject of the dictum, and is distinguished into universal, particular, and singular, as in the case of the quantity of an absolute enunciation. For we can say: "That ‘Socrates,’ ‘some man,’ ‘every man,”’ or "‘no man,’ run is possible’ " The second quantity is that of the dictum, which arises from the fact that the subject of one modal is one dictum. This is a unique singularity, for every dictum of a modal is the singular of that universal, i.e.,dictum. "That man be white is possible” means "This dictum, ‘that man be white,’ is possible.” "This dictum” is singular in quantity, just as "this man” is. Hence, every modal is singular with respect to dictum, although with respect to the subject of the dictum it is universal or particular. The third quantity is that of the mode, or modal quantity, which arises from the fact that the predicate of the modal, i.e., the mode, has distributive force. This is distinguished into universal and particular. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 13 Ubi diligenter duo attendenda sunt. Primum est quod hoc est singulare in modalibus, quod praedicatum simpliciter quantificat propositionem modalem, sicut et simpliciter qualificat. Sicut enim illa est simpliciter affirmativa, in qua modus affirmatur, et illa negativa, in qua modus negatur; ita illa est simpliciter universalis cuius modus est universalis, et illa particularis cuius modus est particularis. Et hoc quia modalis modi naturam sequitur. Secundum attendendum (quod est causa istius primi) est, quod praedicatum modalis, scilicet modus, non habet solam habitudinem praedicati respectu sui subiecti, scilicet esse et non esse, sed habitudinem syncategorematis distributivi, sed non secundum quantitatem partium subiectivarum ipsius subiecti, sed secundum quantitatem partium temporis eiusdem. Et merito. Sicut enim quia subiecti enunciationis de inesse propria quantitas est penes divisionem vel indivisionem ipsius subiecti (quia est nomen quod significat per modum substantiae, cuius quantitas est per divisionem continui: ideo signum quantificans in illis distribuit secundum partes subiectivas), ita quia subiecti enunciationis modalis propria quantitas est tempus (quia est verbum quod significat per modum motus, cuius propria quantitas est tempus), ideo modus quantificans distribuit ipsum suum subiectum, scilicet, esse vel non esse, secundum partes temporis. Unde subtiliter inspicienti apparebit quod quantitas ista modalis proprii subiecti modalis enunciationis quantitas est, scilicet, ipsius esse vel non esse. Ita quod illa modalis est simpliciter universalis, cuius proprium subiectum distribuitur pro omni tempore: vel simpliciter, ut, hominem esse animal est necessarium vel impossibile; vel accepto, ut, hominem currere hodie, vel, dum currit, est necessarium vel impossibile. Illa vero est particularis, in qua non pro omni, sed aliquo tempore distributio fit in communi tantum; ut, hominem esse animal, est possibile vel contingens. Est ergo et ista modalis quantitas subiecti sui passio (sicut et universaliter quantitas se tenet ex parte materiae), sed derivatur a modo, non in quantum praedicatum est (quod, ut sic, tenetur formaliter), sed in quantum syncategorematis officio fungitur, quod habet ex eo quod proprie modus est. Now, there are two things about modal enunciations that must be carefully noted. The first—which is peculiar to modals—is that the predicate quantifies the modal proposition simply, as it also qualifies it simply. For just as the modal enunciation in which the mode is affirmed is affirmative simply, and negative when the mode is negated, so the modal enunciation in which the mode is universal is universal simply and particular in which the mode is particular. The reason for this is that the modal follows the nature of the mode. The second thing to be noted (which is the cause of the first) is that the predicate of a modal, i.e., the mode, not only has the relationship of a predicate to its subject (i.e., to "to be” and "not to be”), but also has the relationship to the subject, of a distributive syncategorematic term, which has the effect of distributing the subject, not according to the quantity of its subjective parts, but according to the quantity of the parts of its time. And rightly so, for just as the proper quantity of the subject of an absolute enunciation varies according to the division or lack of division of its subject (since the subject is a name which signifies in the mode of substance, whose quantity is from the division of the continuous, and therefore the quantifying sign distributes according to the subjective parts), so, because the proper quantity of the subject of a modal enunciation is time (since the subject is a verb, which signifies in the mode of movement, whose proper quantity is time), the quantifying mode distributes the subject, i.e., "to be” or "not to be” according to the parts of time. Hence, we arrive at the subtle point that the quantity of the modal is the quantity of the proper subject of the modal enunciation, namely, of "to be” or "not to be.” Therefore, a modal enunciation is universal simply when the proper subject is distributed throughout all time, either simply, as in "That man is an animal is necessary or impossible,” or taken in a limited way, as in "That man is running today,” or "while he is running, is necessary or impossible.” A modal enunciation is particular in which "to be” or "not to be” is distributed, not throughout all time, but commonly throughout some time, as in "That man is an animal is possible or contingent.” This modal quantity is therefore also a property of its subject (in that, universally, quantity comes from the matter) but is derived from the mode, not insofar as it is a predicate (because, as such, it is understood formally), but insofar as it performs a syncategorematic function, which it has in virtue of the fact that it is properly a mode. Cajetanus lib. 2 l. 12 n. 14 Sunt igitur modalium (de propria earum quantitate loquendo) aliae universales affirmativae, ut illae de necessario, quia distribuunt ad semper esse; aliae universales negativae, ut illae de impossibili, quia distribuunt ad nunquam esse; aliae particulares affirmativae, ut illae de possibili et contingenti, quia distribuunt utrunque ad aliquando esse; aliae particulares negativae, ut illae de non necesse et non impossibili, quia distribuunt ad aliquando non esse: sicut in illis de inesse, omnis, nullus, quidam, non omnis, non nullus, similem faciunt diversitatem. Et quia, ut dictum est, haec quantitas modalium est inquantum modales sunt, et de his, inquantum huiusmodi, praesens tractatus fit ab Aristotele; idcirco aequipollentiae, seu consequentiae earum, ordinatae sunt negationis vario situ, quemadmodum aequipollentiae illarum de inesse: ut scilicet, negatio praeposita modo faciat aequipollere suae contradictoriae; negatio autem modo postposita, posita autem dicti verbo, suae aequipollere contrariae facit; praeposita vero et postposita suae subalternae, ut videre potes in consequentiarum figura ultimo ab Aristotele formata. In qua, tali praeformata oppositionum figura, clare videbis omnes se mutuo consequentes, secundum alteram trium regularum aequipollere, et consequenter, totum primum ordinem secundo contrarium, tertio contradictorium, quarto vero subalternum. (Figura). Therefore, with respect to their proper quantity, some modals are universal affirmatives, i.e., those of the necessary because they distribute "to be” to all time. Others are universal negatives, i.e., those of the impossible because they distribute "to be” to no time. Still others are particular affirmatives, i.e., those signifying the possible and contingent, for both of these distribute "to be” to some time. Finally, there are particular negatives, i.e., those of the not necessary and not impossible, for they distribute "not to be” to some time. This is similar to the diversity in absolute enunciations from the use of "every,” "no” "some,” not all,” and "not none.” Now, since this quantity belongs to modals insofar as they are modals, as has been said, and since Aristotle is now considering them in this particular respect, the modal enunciations that are equivalent, i.e., their consequents, are ordered by the different location of the negation, as is the case with absolute enunciations that are equivalent. A negative placed before the mode makes an enunciation equivalent to its contradictory; placed after the mode, i.e., with the verb of the dictum, makes it equivalent to its contrary; placed before and after the mode makes it equivalent to its subaltern, as you can see in the last table of consequents given by Aristotle. In that table of oppositions, you see all the mutual consequents, according to one of the three rules for making enunciations equivalent. Consequently, the whole first order of equivalent enunciations is contrary to the second, contradictory to the third, and the fourth is subalternated to it. Necessary to be - contraries - Impossible to be subalterns subalterns Possible to be - subcontraries - Contingent not to be TABLE OF OPPOSITION OF EQUIPOLLENT MODALS This table is not Cajetan’s but is a full arrangement of the orders of modal enunciations asdeveloped in this lesson. Close I Universal Affirmatives It is necessary to be It is not possible not to be It is not contingent not to be It is impossible not to be contraries II Universal Negatives It is necessary not to be It is not possible to be It is not contingent to be It is impossible to be subalterns subalterns IV Particular Affirmatives It is not necessary not to be It is possible to be It is contingent to be It is not impossible to be subcontraries III Particular Negatives It is not necessary to be It is possible not to be It is contingent not to be It is not impossible not to be. XIII. 1 Postquam determinatum est de enunciatione secundum quod diversificatur tam ex additione facta ad terminos, quam ad compositionem eius, hic secundum divisionem a s. Thoma in principio huius secundi factam, intendit Aristoteles tractare quandam quaestionem circa oppositiones enunciationum provenientes ex eo quod additur aliquid simplici enunciationi. Et circa hoc quatuor facit: primo, movet quaestionem secundo, declarat quod haec quaestio dependet ab una alia quaestione praetractanda; ibi: nam si ea, quae sunt in voce etc.; tertio, determinat illam aliam quaestionem; ibi: nam arbitrari etc.; quarto, redit ad respondendum quaestioni primo motae; ibi: quare si in opinione et cetera. Quaestio quam movere intendit est: utrum affirmativae enunciationi contraria sit negatio eiusdem praedicati, an affirmatio de praedicato contrario seu privativo? Unde dicit: utrum contraria est affirmatio negationi contradictoriae, scilicet, et universaliter oratio affirmativa orationi negativae; ut, affirmativa oratio quae dicit, omnis homo est iustus, illi contraria sit orationi negativae, nullus homo est iustus, aut illi, omnis homo est iniustus, quae est affirmativa de praedicato privativo? Et similiter ista affirmatio, Callias est iustus, est ne contraria illi contradictoriae negationi, Callias non est iustus, aut illi, Callias est iniustus, quae est affirmativa de praedicato privativo? Now that he has treated the enunciation as it is diversified by an addition made to the terms and by an addition made to its composition (which is the division of the text made by St. Thomas at the beginning of the second book), Aristotle takes up another question about oppositions of enunciations. This question concerns the oppositions that result from something added to the simple enunciation. First he asks the question; secondly, he shows that this question depends upon another, which must be treated first, where he says, For if those things that are in vocal sound are determined by those in the intellect, etc.; third, he settles the latter question where he says, It is false, course, to suppose that opinions are to be defined as contrary because they are about contraries, etc.; finally, he replies to the first question where he says, If, therefore, this is the case with respect to opinion, and affirmations and negations in vocal sound are signs of those in the soul, etc. The first question he raises is this: is the contrary of an affirmative enunciation the negation of the same predicate or the affirmation of a contrary or privative predicate? Hence he says, There is a question as to whether the contrary of an affirmation is the contradictory negation, and universally, whether affirmative speech is contrary to negative speech. For instance, is affirmative speech which says "Every man is just,” contrary to negative speech which says "No man is just,” or to the affirmative of the privative predicate, "Every man is unjust”? And similarly, is the affirmation "Callias is just” contrary to the contradictory negation, "Callias is not just” or is it contrary to "Callias is unjust,” the affirmative of the privative predicate? Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 2Ad evidentiam tituli huius quaestionis, quia hactenus indiscusse ab aliis est relictus, considerare oportet quod cum in enunciatione sint duo, scilicet ipsa enunciatio seu significatio et modus enunciandi seu significandi, duplex inter enunciationes fieri potest oppositio, una ratione ipsius enunciationis, altera ratione modi enunciandi. Si modos enunciandi attendimus, duas species oppositionis in latitudine enunciationum inveniemus, contrarietatem scilicet et contradictionem. Divisae enim superius sunt enunciationes oppositae in contrarias et contradictorias. Contradictio inter enunciationes ratione modi enunciandi est quando idem praedicatur de eodem subiecto contradictorio modo enunciandi; ut sicut unum contradictorium nil ponit, sed alterum tantum destruit, ita una enunciatio nil asserit, sed id tantum quod altera enunciabat destruit. Huiusmodi autem sunt omnes quae contradictoriae vocantur, scilicet, omnis homo est iustus, non omnis homo est iustus, Socrates est iustus, Socrates non est iustus, ut de se patet. Et ex hoc provenit quod non possunt simul verae aut falsae esse, sicut nec duo contradictoria. Contrarietas vero inter enunciationes ratione modi enunciandi est quando idem praedicatur de eodem subiecto contrario modo enunciandi; ut sicut unum contrariorum ponit materiam sibi et reliquo communem in extrema distantia sub illo genere, ut patet de albo et nigro, ita una enunciatio ponit subiectum commune sibi et suae oppositae in extrema distantia sub illo praedicato. Huiusmodi quoque sunt omnes illae quae contrariae in figura appellantur, scilicet, omnis homo est iustus, omnis homo non est iustus. Hae enim faciunt subiectum, scilicet hominem, maxime distare sub iustitia, dum illa enunciat iustitiam inesse homini, non quocunque modo, sed universaliter; ista autem enunciat iustitiam abesse homini, non qualitercunque, sed universaliter. Maior enim distantia esse non potest quam ea, quae est inter totam universitatem habere aliquid et nullum de universitate habere illud. Et ex hoc provenit quod non possunt esse simul verae, sicut nec contraria possunt eidem simul inesse; et quod possunt esse simul falsae, sicut et contraria simul non inesse eidem possunt. Si vero ipsam enunciationem sive eius significationem attendamus secundum unam tantum oppositionis speciem, in tota latitudine enunciationum reperiemus contrarietatem, scilicet secundum veritatem et falsitatem: quia duarum enunciationum significationes entia positiva sunt, ac per hoc neque contradictorie neque privative opponi possunt, quia utriusque oppositionis alterum extremum est formaliter non ens. Et cum nec relative opponantur, ut clarum est, restat ut nonnisi contrarie opponi possunt. Since this question has not been discussed by others, we must begin by noting that there are two things in an enunciation, namely, the enunciation itself, i.e., the signification, and the mode of enunciating or signifying. Hence, a twofold opposition can be made between enunciations, one by reason of the enunciation itself, the other by reason of the mode of enunciating. If we consider the modes of enunciating, we find two species of opposition among enunciations, namely, contrariety and contradiction. This point was made earlier when opposed enunciations were divided into contraries and contradictories. There is contradiction by reason of mode of enunciating when the same thing is predicated of the same subject in a contradictory mode; so that just as one of a pair of contradictories posits nothing but only destroys the other, so one enunciation 4 asserts nothing, but only destroys what the other was enunciating. All enunciations that are called contradictories are of this kind; e.g., "Every man is just,” "Not every man is just”; "Socrates is just,” "Socrates is not just.” It follows from this that they cannot be at once true or false, just as two contradictories cannot be at once. There is contrariety between enunciations by reason of mode of enunciating when the same thing is predicated of the same subject in a contrary mode of enunciating; so that just as one of a pair of contraries posits matter common to itself and to the other which is at the extreme distance under that genus—as is evident for instance in white and black—so one enunciation posits a subject common to itself and its opposite at the extreme distance under that predicate. All the enunciations in the diagram that are called contrary are of this kind, for example, "Every man is just,” "No man is just.” These make the subject "man” distant to the greatest degree possible under justice, one enunciating justice to be in man, not in any way, but universally, the other enunciating justice to be absent from man, not in any way, but universally. For no distance can be greater than the distance between the total number of things having something and none of the total number of things having that thing. It follows that contrary enunciations cannot be at once true, just as contraries cannot be in the same thing at once. They can, however, be false at the same time, just as it is possible that contraries not be in the same thing at the same time. If we consider the enunciation itself (viz., its signification) according to only one species of opposition, we will find in the whole range of enunciations an opposition of contrariety, i.e., an opposition according to truth and falsity. The reason for this is that the significations of two enunciations are positive, and accordingly cannot be opposed either contradictorily or privatively because the other extreme of both of these oppositions is formally non-being. And since significations are not opposed relatively, as is evident, the only way they can be opposed is contrarily. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 3Consistit autem ista contrarietas in hoc quod duarum enunciationum altera alteram non compatitur vel in veritate vel in falsitate, praesuppositis semper conditionibus contrariorum, scilicet quod fiant circa idem et in eodem tempore. Patere quoque potest talem oppositionem esse contrarietatem ex natura conceptionum animae componentis et dividentis, quarum singulae sunt enunciationes. Conceptiones siquidem animae adaequatae nullo alio modo opponuntur conceptionibus inadaequatis nisi contrarie, et ipsae conceptiones inadaequatae, si se mutuo expellunt, contrariae quoque dicuntur. Unde verum et falsum, contrarie opponi probatur a s. Thoma in I parte, qu. 17. Sicut ergo hic, ita et in enunciationibus ipsae significationes adaequatae contrarie opponuntur inadaequatis, idest verae falsis; et ipsae inadaequatae, idest falsae, contrarie quoque opponuntur inter se, si contingat quod se non compatiantur, salvis semper contrariorum conditionibus. Est igitur in enunciationibus duplex contrarietas, una ratione modi, altera ratione significationis, et unica contradictio, scilicet ratione modi. Et, ut confusio vitetur, prima contrarietas vocetur contrarietas modalis, secunda contrarietas formalis. Contradictio autem non ad confusionis vitationem quia unica est, sed ad proprietatis expressionem contradictio modalis vocari potest. Invenitur autem contrarietas formalis enunciationum inter omnes contradictorias, quia contradictoriarum altera alteram semper excludit; et inter omnes contrarias modaliter quoad veritatem, quia non possunt esse simul verae, licet non inveniatur inter omnes quoad falsitatem, quia possunt esse simul falsae. The contrariety spoken of here consists in this: of two enunciations one is not compatible with the other either in truth or falsity—presupposing always the conditions for contraries, that they are about the same thing and at once. It can be shown that such opposition is contrariety from the nature of the conceptions of the soul when composing and dividing, each of which is an enunciation. Adequate conceptions of the soul are opposed to inadequate conceptions only contrarily, and inadequate conceptions, if each cancels the other, are also called contraries. It is from this that St. Thomas proves, in [Summa theologiae] part I, question 17, that the true and false are contrarily opposed. Therefore, as in the conceptions of the soul, so in enunciations, adequate significations are contrarily opposed to inadequate, i.e., true to false; and the inadequate, i.e., the false, are also contrarily opposed among themselves if it happens that they are not compatible, supposing always the conditions for contraries. There is, therefore, in enunciations a twofold contrariety, one by reason of mode, the other by reason of signification, and only one contradiction, that by reason of mode. To avoid confusion, let us call the first contrariety modal and the second formal. We may call contradiction modal—not to avoid confusion since it is unique—but for propriety of expression. Formal contrariety is found between all contradictory enunciations, since one contradictory always excludes the other. It is also found between all modally contrary enunciations in regard to truth, since they cannot be at once true. However it is not found between the latter in regard to falsity, since they can be at once false. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 4Quia igitur Aristoteles in hac quaestione loquitur de contrarietate enunciationum quae se extendit ad contrarias modaliter, et contradictorias, ut patet in principio et in fine quaestionis (in principio quidem, quia proponit utrasque contradictorias dicens: affirmatio negationi etc.; et contrarias modaliter dicens: et oratio orationi etc., unde et exempla utrarunque statim subdit, ut patet in littera. In fine vero, quia ibi expresse quam conclusit esse contrariam affirmativae universali verae dividit, in contrariam modaliter universalem negativam, scilicet, et contradictoriam: quae divisio falsitate non careret, nisi conclusisset contrariam formaliter, ut de se patet), quia, inquam, sic accipit contrarietatem, ideo de contrarietate formali enunciationum quaestio intelligenda est. Et est quaestio valde subtilis, necessaria et adhuc nullo modo superius tacta. Est igitur titulus quaestionis; utrum affirmativae verae contraria formaliter sit negativa falsa eiusdem praedicati, aut affirmativa falsa de praedicato, vel contrario? Et sic patet quis sit sensus tituli, et quare non movet quaestionem de quacunque alia oppositione enunciationum (quia scilicet nulla alia in eis formaliter invenitur), et quod accipit contrarietatem proprie et strictissime, licet talis contrarietas inveniatur inter contradictorias modaliter et contrarias modaliter. Dictum vero fuit a s. Thoma provenire hanc dubitationem ex eo quod additur aliquid simplici enunciationi, quia si tantum simplices, idest, de secundo adiacente enunciationes attendantur, non habet haec quaestio radicem. Quia autem simplici enunciationi, idest subiecto et verbo substantivo, additur aliquid, scilicet praedicatum, nascitur dubitatio circa oppositionem, an illud additum in contrariis debeat esse illudmet praedicatum, negatione apposita verbo, an debeat esse praedicatum contrarium seu privativum, absque negatione praeposita verbo. Aristotle in this question is speaking of the contrariety of enunciations that extends to contraries modally and to contradictories. This is evident from what he says in the beginning and at the end of the question. In the beginning, he proposes both contradictories when he says, an affirmation... to a negation, etc.; and contraries modally, when he says, and in the case of speech whether the one saying... is opposed to the one saying... etc. It is evident, too, from the examples immediately added. At the end, he explicitly divides what he has concluded to be contrary to a true universal affirmative, into the modally contrary universal negative and the contradictory. It is clear at once that this division would be false unless it comprised the contrary formally. Since he takes contrariety in this way the question must be understood with respect to formal contrariety of enunciations. This is a very subtle question and one that has to be treated and has not been thus far. The question, therefore, is this: whether the formal contrary of the true affirmative is the false negative of the same predicate or the false affirmative of the privative predicate, i.e., of the contrary. The meaning of the question is now clear, and it is evident why he does not ask about any other oppositions of enunciations-no other opposition is found in them formally. It is also evident that he is taking contrariety properly and strictly, notwithstanding the fact that such contrariety is found among contradictories modally and contraries modally. St. Thomas has already pointed out that this question arises from the fact that something is added to the simple enunciation, for as it far as simple enunciations are concerned, i.e., those with only a second determinant, there is no occasion for the question. When, however, something is added, namely a predicate, to the simple enunciation, i.e., to the subject and the substantive verb, the question arises as to whether what ought to be added in contrary enunciations is the selfsame predicate with a negation added to the verb or a contrary, i.e., privative, predicate without a negation added to the verb. 5. Deinde cum dicit: nam siea etc., declarat unde sumenda sit decisio huius quaestionis. Et duo facit: quia primo declarat quod haec quaestio dependet ex una alia quaestione, ex illa scilicet: utrum opinio, idest conceptio animae, in secunda operatione intellectus, vera, contraria sit opinioni falsae negativae eiusdem praedicati, an falsae affirmativae contrarii sive privativi. Et assignat causam, quare illa quaestio dependet ex ista, quia scilicet enunciationes vocales sequuntur mentales, ut effectus adaequati causas proprias, et ut significata signa adaequata, et consequenter similis est in hoc utraque natura. Unde inchoans ab hac causa ait: nam si ea quae sunt in voce sequuntur ea, quae sunt in anima, ut dictum est in principio I libri, et illic, idest in anima, opinio contrarii praedicati circa idem subiectum est contraria illi alteri, quae affirmat reliquum contrarium de eodem (cuiusmodi sunt istae mentales enunciationes, omnis homo est iustus, omnis homo est iniustus); si ita inquam est, etiam et in his affirmationibus quae sunt in voce, idest vocaliter sumptis, necesse est similiter se habere, ut scilicet sint contrariae duae affirmativae de eodem subiecto et praedicatis contrariis. Quod si neque illic, idest in anima, opinatio contrarii praedicati, contrarietatem inter mentales enunciationes constituit, nec affirmatio vocalis affirmationi vocali contraria erit de contrario praedicato, sed magis affirmationi contraria erit negatio eiusdem praedicati. When Aristotle says, For if those things that are in vocal sound are determined by those in the intellect, etc.; he shows where we have to begin in order to settle this question. First he shows that the question depends on another question, namely, whether a true opinion (i.e., a conception of the soul in the second operation of the intellect) is contrary to a false negative opinion of the same predicate, or to a false affirmative of the contrary, i.e., privative, predicate. Then he gives the reason why the former question depends on this. Vocal enunciations follow upon mental as adequate effects upon proper causes and as the signified upon adequate signs. So, in this the nature of each is similar. He begins, then, with the reason for this dependence: For if those things that are in vocal sound are determined by those in the intellect (as was said in the beginning of the first book) and if in the soul, those opinions are contrary which affirm contrary predicates about the same subject, (for example, the mental enunciations, "Every man is just, "Every man is unjust”), then in affirmations that are in vocal sound, the case must be the same. The contraries will be two affirmatives about the same subject with contrary predicates. But if in the soul this is not the case, i.e., that opinions with contrary predicates constitute contrariety in mental enunciations, then the contrary of a vocal affirmation will not be a vocal affirmation with a contrary predicate. Rather, the contrary of an affirmation will be the negation of the same predicate. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 6Dependet ergo mota quaestio ex ista alia sicut effectus ex causa. Propterea et concludendo addit secundum, quod scilicet de hac quaestione prius tractandum est, ut ex causa cognita effectus innotescat dicens: quare considerandum est, opinio vera cui opinioni falsae contraria est: utrum negationi falsae an certe ei affirmationi falsae, quae contrarium esse opinatur. Et ut exemplariter proponatur, dico hoc modo: sunt tres opiniones de bono, puta vita: quaedam enim est ipsius boni opinio vera, quoniam bonum est, puta, quod vita sit bona; alia vero falsa negativa, scilicet, quoniam bonum non est, puta, quod vita non sit bona; alia item falsa affirmativa contrarii, scilicet, quoniam malum est, puta, quod vita sit mala. Quaeritur ergo quae harum falsarum contraria est verae? The first question, then, depends on this question as an effect upon its cause. For this reason, and by way of a conclusion to what he has just been saying, he adds the second question, which must be treated first so that once the cause is known the effect will be known: We must therefore consider to which false opinion the true opinion is contrary, whether it is to the false negation or to the false affirmation that it is to be judged contrary. Then in order to propose the question by examples he says: what I mean is this; there are three opinions of a good, for instance, of life. One is a true opinion, that it is good, for instance, that life is good. The other is a false negative, that it is not good, for instance, that life is not good. Still another, likewise false, is the affirmative of the contrary, that it is evil, for instance, that life is evil. The question is, then, which of these false opinions is contrary to the true one. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 7Quod autem subdidit: et si est una, secundum quam contraria est, tripliciter legi potest. Primo, dubitative, ut sit pars quaestionis; et tunc est sensus: quaeritur quae harum falsarum contraria est verae: et simul quaeritur, si est tantum una harum falsarum secundum quam fiat contraria ipsi verae: quia cum unum uni sit contrarium, ut dicitur in X metaphysicae, quaerendo quae harum sit contraria, quaeremus etiam an una earum sit contraria. Alio modo, potest legi adversative, ut sit sensus: quaeritur quae harum sit contraria; quamquam sciamus quod non utraque sed una earum est secundum quam fit contrarietas. Tertio modo, potest legi dividendo hanc particulam, et si est una, ab illa sequenti, secundum quam contraria est; et tunc prima pars expressive, secunda vero dubitative legitur; et est sensus: quaeritur quae harum falsarum contraria est verae, non solum si istae duae falsae inter se differunt in consequendo, sed etiam si utraque est una, idest alteri indivisibiliter unita, quaeritur secundum quam fit contrarietas. Et hoc modo exponit Boethius, dicens quod Aristoteles apposuit haec verba propter contraria immediata, in quibus non differt contrarium a privativo. Inter contraria enim mediata et immediata haec est differentia, quod in immediatis a privativo contrarium non infertur. Non enim valet, corpus colorabile est non album, ergo est nigrum: potest enim esse rubrum. In immediatis autem valet; verbi gratia: animal est non sanum, ergo infirmum; numerus est non par, ergo impar. Voluit ergo Aristoteles exprimere quod nunc, cum quaerimus quae harum falsarum, scilicet negativae et affirmativae contrarii, sit contraria affirmativae verae, quaerimus universaliter sive illae duae falsae indivisibiliter se sequantur, sive non. Then he adds, the question, and if there is one, is either one the contrary. This passage can be read in three ways. It can be read inquiringly so that it is a part of the question, and then the meaning is: which of these false opinions is contrary to the true opinion, and, is there one of these by which the contrary to the true one is effected? For since one is contrary to one other, as is said in X Metaphysicae [1: 1055a 19], in asking which of these is the contrary we are also asking whether one of them is the contrary. This can also be read adversatively, and then the meaning is: which of these is the contrary, given that we know it is not both but one by which the contrariety is effected? This can be read in a third way by dividing the first clause, "and if it is one” from the second clause, "is either one the contrary.” The first part is then read assertively, the second inquiringly, and the meaning is: which of these two false opinions is contrary to the true opinion if the two false opinions differ as to consequence, and also if both are one, i.e., united to each other indivisibly? Boethius explains this passage in the last way. He says that Aristotle adds these words because of immediate contraries in which the contrary does not differ from the privative. For the difference between mediate and immediate contraries is that in the former the contrary is not inferred from the privative. For example, this is not valid: "A colored body is not white, therefore it is black”—for it could be red. In immediate contraries, on the other hand, it is valid to infer the contrary from the privative; e.g., "An animal is not healthy, therefore it is number is not even, therefore it is odd.” Therefore, Aristotle intends to show here that when we ask which of these false opinions, i.e., negative and affirmative contraries, is contrary to the true affirmative, we are asking universally whether these two false opinions follow each other indivisibly or not. 8. Deinde cum dicit: nam arbitrari, prosequitur hanc secundam quaestionem. Et circa hoc quatuor facit. Primo, declarat quod contrarietas opinionum non attenditur penes contrarietatem materiae, circa quam versantur, sed potius penes oppositionem veri vel falsi; secundo, declarat quod non penes quaecunque opposita secundum veritatem et falsitatem est contrarietas opinionum; ibi: si ergo boni etc.; tertio, determinat quod contrarietas opinionum attenditur penes per se primo opposita secundum veritatem et falsitatem tribus rationibus; ibi: sed in quibus primo fallacia etc.; quarto declarat hanc determinationem inveniri in omnibus veram; ibi: manifestum est igitur et cetera. Dicit ergo proponens intentam conclusionem, quod falsum est arbitrari opiniones definiri seu determinari debere contrarias ex eo quod contrariorum obiectorum sunt. Et adducit ad hoc duplicem rationem. Prima est: opiniones contrariae non sunt eadem opinio; sed contrariorum eadem est fortasse opinio; ergo opiniones non sunt contrariae ex hoc quod contrariorum sunt. Secunda est: opiniones contrariae non sunt simul verae; sed opiniones contrariorum, sive plures, sive una, sunt simul verae quandoque; ergo opiniones non sunt contrariae ex hoc quod contrariorum sunt. Harum rationum, suppositis maioribus, ponit utriusque minoris declarationem simul, dicens: boni enim, quoniam bonum est, et mali, quoniam malum est, eadem fortasse opinio est, quoad primam. Et subdit esse vera, sive plures sive una sit, quoad secundam. Utitur autem dubitativo adverbio et disiunctione, quia non est determinandi locus an contrariorum eadem sit opinio, et quia aliquo modo est eadem et aliquo modo non. Si enim loquamur de habituali opinione, sic eadem est; si autem de actuali, sic non eadem est. Alia siquidem mentalis compositio actualiter fit, concipiendo bonum esse bonum, et alia concipiendo malum esse malum, licet eodem habitu utrunque cognoscamus, illud per se primo, et hoc secundario, ut dicitur IX metaphysicae. Deinde subdit quod ista quae ad declarationem minorum sumpta sunt, scilicet bonum et malum, contraria sunt etiam contrarietate sumpta stricte in moralibus, ac per hoc congrua usi sumus declaratione. Ultimo inducit conclusionem. Sed non in eo quod contrariorum opiniones sunt, contrariae sunt, sed magis in eo quod contrariae, idest, sed potius censendae sunt opiniones contrariae ex eo quod contrariae adverbialiter, scilicet contrario modo, idest vere et false enunciant. Et sic patet primum. When he says, It is false, of course, to suppose that opinions are to be defined as contrary because they are about contraries, etc., he proceeds with the second question. First he shows that contrariety of opinions is not determined by the contrariety of the matter involved, but rather by the opposition of true and false; secondly, he shows that there is not contrariety of opinions in just any opposites according to truth and falsity, where he says, Now if there is the opinion of that which is good, that it is good, and the opinion that it is not good, etc.; third, he determines that contrariety of opinions is concerned with the per se first opposites; according to truth and falsity, for three reasons, where he says, Rather, those opinions in which there is fallacy must be posited as contrary to true opinions, etc.; finally, he shows that this determination is true of all, where he says, It is evident that it will make no difference if we posit the affirmation universally, for the universal negation will be the contrary, etc. Aristotle says, then, proposing the conclusion he intends to prove, that it is false to suppose that opinions are to be defined or determined as contrary because they are about contrary objects. He gives two arguments for this. Contrary opinions are not the same opinion; but opinions about contraries are probably the same opinion; therefore, opinions are not contrary from the fact that they are about contraries. And, contrary opinions are not simultaneously true; but opinions about contraries, whether many or one, are sometimes true simultaneously; therefore, opinions are not contraries because they are about contraries. Having supposed the majors of these arguments, he posits a manifestation of each minor at the same time. In relation to the first argument, he says, for the opinion of that which is good, that it is good, and of that which is evil, that it is evil are probably the same. In relation to the second argument he adds: and, whether many or one, are true. He uses "probably,” an adverb expressing doubt and disjunction, because this is not the place to determine whether the opinion of contraries is the same opinion, and, because in some way the opinion is the same and in some way not. In the case of habitual opinion, the opinion of contraries is the same, but in the case of an actual opinion it is not. One mental composition is actually made in conceiving that a good is good and another in conceiving that an evil is evil, although we know both by the same habit, the former per se and first, the latter secondarily, as is said in IX Metaphysicae [4: 1051a 4]. Then he adds that good and evil—which are used for the manifestation of the minor—are contraries even when the contrariety is taken strictly in moral matters; and so in using this our exposition is apposite. Finally, he draws the conclusion: however, opinions are not contraries because they are about contraries, but rather because they are contraries, i.e., opinions are to be considered as contrary from the fact that they enunciate contrarily, adverbially, i.e., in a contrary mode, i.e., they enunciate truly and falsely. Thus the first argument is clear. Cajetanus lib. 2 l. 13 n. 9Si ergo boni et cetera. Quia dixerat quod contrarietas opinionum accipitur secundum oppositionem veritatis et falsitatis earum, declarat modo quod non quaecunque secundum veritatem et falsitatem oppositae opiniones sunt contrariae, tali ratione. De bono, puta, de iustitia, quatuor possunt opiniones haberi, scilicet quod iustitia est bona, et quod non est bona, et quod est fugibilis, et quod est non appetibilis. Quarum prima est vera, reliquae sunt falsae. Inter quas haec est diversitas quod, prima negat idem praedicatum quod vera affirmabat; secunda affirmat aliquid aliud quod bono non inest; tertia negat id quod bono inest, non tamen illud quod vera affirmabat. Tunc sic. Si omnes opiniones secundum veritatem et falsitatem sunt contrariae, tunc uni, scilicet verae opinioni non solum multa sunt contraria, sed etiam infinita: quod est impossibile, quia unum uni est contrarium. Tenet consequentia, quia possunt infinitae imaginari opiniones falsae de una re similes ultimis falsis opinionibus adductis, affirmantes, scilicet ea quae non insunt illi, et negantes ea quae illi quocunque modo coniuncta sunt: utraque namque indeterminata esse et absque numero constat. Possumus enim opinari quod iustitia est quantitas, quod est relatio, quod est hoc et illud; et similiter opinari quod iustitia non sit qualitas, non sit appetibilis, non sit habitus. Unde ex supradictis in propositione quaestionis, inferens pluralitatem falsarum contra unam veram, ait: si ergo est opinatio vera boni, puta iustitiae, quoniam est bonum; et si est etiam falsa opinatio negans idem, scilicet, quoniam non est quid bonum; est vero et tertia opinatio falsa quoque, affirmans aliquid aliud inesse illi, quod non inest nec inesse potest, puta, quod iustitia sit fugibilis, quod sit illicita; et hinc intelligitur quarta falsa quoque, quae scilicet negat aliquid aliud ab eo quod vera opinio affirmat inesse iustitiae, quod tamen inest, ut puta quod non sit qualitas, quod non sit virtus; si ita inquam est, nulla aliarum falsarum ponenda est contraria opinioni verae. Et exponens quid demonstret per ly aliarum, subdit: neque quaecunque opinio opinatur esse quod non est, ut tertii ordinis opiniones faciunt: neque quaecunque opinio opinatur non esse quod est, ut quarti ordinis opiniones significant. Et causam subdit: infinitae enim utraeque sunt, et quae esse opinantur quod non est, et quae non esse quod est, ut supra declaratum fuit. Non ergo quaecunque opiniones oppositae secundum veritatem et falsitatem contrariae sunt. Et sic patet secundum.When he says, Now, if there is the opinion of that which is good, that it is good, and the opinion that it is not good, etc., he takes up the second point. Since he has just said that contrariety of opinions is taken according to their opposition of truth and falsity, he goes on to show that not just any opposites according to truth and falsity are contraries. This is his argument. Four opinions can be held about a good, for instance justice: that justice is good, that it is not good, that it is avoidable, that it is not desirable. Of these, the first is true, the rest false. The three false ones are diverse. The first denies the same predicate the true one affirmed; the second affirms something which does not belong to the good; the third denies what belongs to the good, but something other than the true one affirmed. Now if all opinions opposed as to truth and falsity are contraries, then not only are there many contraries to one true opinion, but an infinite number. But this is impossible, for one is contrary to one other. The consequence holds because infinite false opinions about one thing, similar to those cited, can be imagined; such opinions would affirm of it what does not belong to it and deny what is joined to it in some way. Both kinds are indeterminate and without number. We can think, for instance, that justice is a quantity, that it is a relation, that it is this and that; and likewise we can think that it is not a quality, is not desirable, is not a habit. Hence, from what was said above in proposing the question, Aristotle infers a plurality of false opinions opposed to one true opinion: Now if there is the opinion of that which is good, for instance justice, that it is good, and there is a false opinion denying the same thing, namely, that it is not good, and besides these a third opinion, false also, affirming that some other thing belongs to justice that does not belong and cannot belong to it (for instance, that justice is avoidable, that it is illicit) and a fourth opinion, also false, that denies something other than the true opinion affirms, something, however, which does belong to justice (for instance, that it is not a quality, that it is not a virtue), none of these other false enunciations are to be posited as the contrary of the true opinion. To explain what he is designating by "of these others,” he adds, neither those purporting that what is not, is, as opinions of the third order do, nor those purporting that what is, is not, as opinions of the fourth order signify. Then he adds the reason these cannot be posited as the contrary of the true opinion: for both the opinions that that is which is not, and that which is not, is, are infinite, as was shown above. Therefore, not just any opinions opposed according to truth and falsity are contraries. Thus the second argument is clear. XIV. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 1Quia subtili indagatione ostendit quod nec materiae contrarietas, nec veri falsique qualiscunque oppositio contrarietatem opinionum constituit, sed quod aliqua veri falsique oppositio id facit, ideo nunc determinare intendit qualis sit illa veri falsique oppositio, quae opinionum contrarietatem constituit. Ex hoc enim directe quaestioni satisfit. Et intendit quod sola oppositio opinionum secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem etc. constituit contrarietatem earum. Unde intendit probare istam conclusionem per quam ad quaesitum respondet: opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt contrariae; et consequenter illae, quae sunt oppositae secundum affirmationem contrariorum praedicatorum de eodem, non sunt contrariae, quia sic affirmativa vera haberet duas contrarias, quod est impossibile. Unum enim uni est contrarium.Aristotle has just completed a subtle investigation in which he has shown that contrariety of matter does not constitute contrariety of opinion, nor does just any kind of opposition of true and false, but some opposition of true and false does. Now he intends to determine what kind of opposition of true and false it is that constitutes contrariety of opinions, for this will answer the question directly. He maintains that only opposition of opinions according to affirmation and negation of the same thing of the same thing, etc., constitutes their contrariety. Accordingly, as the response to the question, he intends to prove the following conclusion: opinions opposed according to affirmation and negation of the same thing of the same thing are contraries; and consequently, opinions opposed according to affirmation of contrary predicates of the same subject are not contraries, for if these were contraries, the true affirmative would have two contraries, which is impossible, since one is contrary to one other. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 2Probat autem istam conclusionem tribus rationibus. Prima est: opiniones in quibus primo est fallacia sunt contrariae; opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt in quibus primo est fallacia; ergo opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem sunt contrariae. Sensus maioris est: opiniones quae primo ordine naturae sunt termini fallaciae, idest deceptionis seu erroris, sunt contrariae: sunt enim, cum quis fallitur seu errat, duo termini, scilicet a quo declinat, et ad quem labitur. Huius rationis in littera primo ponitur maior, cum dicitur: sed in quibus primo fallacia est; adversative enim continuans sermonem supradictis, insinuavit non tot enumeratas opiniones esse contrarias, sed eas in quibus primo fallacia est modo exposito. Deinde subdit probationem minoris talem: eadem proportionaliter sunt, ex quibus sunt generationes et ex quibus sunt fallaciae; sed generationes sunt ex oppositis secundum affirmationem et negationem; ergo et fallaciae sunt ex oppositis secundum affirmationem et negationem. Quod erat assumptum in minore. Unde ponens maiorem huius prosyllogismi, ait: haec autem, scilicet fallacia, est ex his, scilicet terminis, proportionaliter tamen, ex quibus sunt et generationes. Et subsumit minorem: ex oppositis vero, scilicet secundum affirmationem et negationem, et generationes fiunt. Et demum concludit: quare etiam fallacia, scilicet, est ex oppositis secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem. Aristotle uses three arguments to prove this conclusion. The first one is as follows: Those opinions in which there is fallacy first are contraries. Opinions opposed according to affirmation and negation of the same predicate of the same subject are those in which there is fallacy first. Therefore, these are contraries. The sense of the major is this: Opinions which first in the order of nature are the limits of fallacy, i.e., of deception or error, are contraries; for when someone is deceived or errs, there are two limits, the one from which he turns away and the one toward which he turns. In the text the major of the argument is posited first: Rather, those opinions in which there is fallacy must be posited as contrary to true opinions. By uniting this part of the text adversatively with what was said previously, Aristotle implies that not just any of the number of opinions enumerated are contraries, but those in which there is fallacy first in the manner we have explained. Then he gives this proof of the minor: those things from which generations are and from which fallacies are, are the same proportionally; generations are from opposites according to affirmation and negation; therefore fallacies, too, are from opposites according to affirmation and negation (which was assumed in the minor). Hence he posits the major of this prosyllogism: Now the things from which fallacies arise, namely, limits, are the things from which generations arise—proportionally however. Under it he posits the minor: but generations are from opposites, i.e., according to affirmation and negation. Finally, he concludes, therefore also fallacies, i.e., they are from opposites according to affirmation and negation of the same thing of the same thing. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 3Ad evidentiam huius probationis scito quod idem faciunt in processu intellectus cognitio et fallacia seu error, quod in processu naturae generatio et corruptio. Sicut namque perfectiones naturales generationibus acquiruntur, corruptionibus desinunt; ita cognitione perfectiones intellectuales acquiruntur, erroribus autem seu deceptionibus amittuntur. Et ideo, sicut tam generatio quam corruptio est inter affirmationem et negationem, ut proprios terminos, ut dicit V Physic.; ita tam cognoscere aliquid, quam falli circa illud, est inter affirmationem et negationem, ut proprios terminos: ita quod id ad quod primo attingit cognoscens aliquid in secunda operatione intellectus est veritatis affirmatio, et quod per se primo abiicitur est illius negatio. Et similiter quod per se primo perdit qui fallitur est veritatis affirmatio, et quod primo incurrit est veritatis negatio. Recte ergo dixit quod iidem sunt termini inter quos primo est generatio, et illi inter quos est primo fallacia, quia utrobique termini sunt affirmatio et negatio. This proof will be more evident from the following: Knowledge and fallacy, or error, bring about the same thing in the intellect’s progression as generation and corruption do in nature’s progression. For just as natural perfections are acquired by generations and perish by corruptions, so intellectual perfections are acquired by knowledge and lost by errors or deceptions. Accordingly, just as generation and corruption are between affirmation and negation as proper terms, as is said in V Physicae [1:224b 35] so both to know something and to be deceived about it is between affirmation and negation as proper terms. Consequently, what one who knows attains first in the second operation of the intellect is affirmation of the truth, and what he rejects per se and first is the negation of it. In like manner, what he who is deceived loses per se and first is affirmation of the truth, and acquires first is negation of the truth. Therefore Aristotle is correct in maintaining that the terms between which there is generation first and between which there is fallacy first are the same, because with respect to both, the terms are affirmation and negation. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 4Deinde cum dicit: si ergo quod bonum est etc., intendit probare maiorem principalis rationis. Et quia iam declaravit quod ea, in quibus primo est fallacia, sunt affirmatio et negatio, ideo utitur, loco maioris probandae, scilicet, opiniones in quibus primo est fallacia, sunt contrariae, sua conclusione, scilicet, opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem eiusdem sunt contrariae. Aequivalere enim iam declaratum est. Fecit autem hoc consuetae brevitati studens, quoniam sic procedendo, et probat maiorem, et respondet directe quaestioni, et applicat ad propositum simul. Probat ergo loco maioris conclusionem principaliter intentam quaestionis, hanc, scilicet: opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem eiusdem sunt contrariae; et non illae, quae sunt oppositae secundum contrariorum affirmationem de eodem. Et intendit talem rationem. Opinio vera et eius magis falsa sunt contrariae opiniones; oppositae secundum affirmationem et negationem sunt vera et eius magis falsa; ergo opiniones oppositae secundum affirmationem et negationem sunt contrariae. Maior probatur ex eo quod, quae plurimum distant circa idem sunt contraria; vera autem et eius magis falsa plurimum distant circa idem, ut patet. Minor vero probatur ex eo quod opposita secundum negationem eiusdem de eodem est per se falsa respectu suae affirmationis verae. Opinio autem per se falsa magis falsa est quacunque alia. Unumquodque enim quod est per se tale, magis tale est quolibet quod est per aliud tale. When he says, Now, if that which is good is both good and not evil, the former per se, the latter accidentally, etc., he intends to prove the major of the principal argument. He has already shown that the opinions in which there is fallacy first are affirmation and negation, and therefore in place of the major to be proved (i.e., opinions in which it there is fallacy first are contraries) he uses his conclusion—which has already been shown to be equivalent—that opinions opposed according to affirmation and negation of the same thing are contraries. Thus with his customary brevity he at once proves the major, responds directly to the question, and applies it to what he has proposed. In place of the major, then, he proves the conclusion principally intended, i.e., that opinions opposed according to affirmation and negation of the same thing are contraries, and not those opposed according to affirmation of contraries about the same thing. His argument is as follows: A true opinion and the opinion that is more false in respect to it are contrary opinions, but opinions opposed according to affirmation and negation are the true opinion and the opinion that is more false in respect to it; therefore, opinions opposed according to affirmation and negation are contraries. The major is proved thus: those things that are most distant in respect to the same thing are contraries; but the true and the more false are most distant in respect to the same thing, as is clear. The proof of the minor is that the opposite according to negation of the same thing of the same thing is per se false in relation to the true affirmation of it. But a per se false opinion is more false than any other, since each thing that is per se such is more such than anything that is such by reason of something else. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 5Unde ad suprapositas opiniones in propositione quaestionis rediens, ut ex illis exemplariter clarius intentum ostendat, a probatione minoris inchoat tali modo. Sint quatuor opiniones, duae verae, scilicet, bonum est bonum, bonum non est malum, et duae falsae, scilicet, bonum non est bonum, et, bonum est malum. Clarum est autem quod prima vera est ratione sui, secunda autem est vera secundum accidens, idest, ratione alterius, quia scilicet non esse malum est coniunctum ipsi bono: ideo enim ista est vera, bonum non est malum, quia bonum est bonum, et non e contra; ergo prima quae est secundum se vera, est magis vera quam secunda: quia in unoquoque genere quae secundum se est vera est magis vera. Illae autem duae falsae eodem modo censendae sunt, quod scilicet magis falsa est, quae secundum se est falsa. Unde quia prima earum, scilicet, bonum non est bonum, quae est negativa, est per se et non ratione alterius falsa, relata ad illam affirmativam, bonum est bonum; et secunda, scilicet, bonum est malum, quae est affirmativa contrarii, ad eamdem relata est falsa per accidens, idest ratione alterius (ista enim, scilicet, bonum est malum, non immediate falsificatur ab illa vera, scilicet bonum est bonum, sed mediante illa alia falsa, scilicet, bonum non est bonum); idcirco magis falsa respectu affirmationis verae est negatio eiusdem quam affirmatio contrarii. Quod erat assumptum in minore. Accordingly, returning to the opinions already given in proposing the question so as to show his intention more clearly by example, he begins with the proof of the minor. There are four opinions, of which two are true, "A good is good,” "A good is not evil”; two are false, "A good is not good” and "A good is evil.” It is evident that the first is true by reason of itself, the second accidentally, i.e., by reason of another, for not to be evil is added to that which is good. Hence, "A good is not evil” is true because a good is good, and not contrarily. Therefore, the first of these opinions, which is per se true, is more true than the second, for in each genus that which per se is true is more true. The two false opinions are to be judged in the same way. The more false is the one that is per se false. The first of them, the negative, "A good is not good,” in relation to the affirmative, "A good is good,” is per se false, not false by reason of another. The second, the affirmative of the contrary, "A good is evil,” in relation to the same opinion, is false accidentally, i.e., by reason of another (for "A good is evil” is not immediately falsified by the true opinion, "A good is good,” but mediately through the other false opinion "A good is not good”). Therefore, the negation of the same thing is more false in respect to a trite affirmation than the affirmation of a contrary. This was assumed in the minor. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 6Unde rediens ad supra positas (ut dictum est) opiniones, infert primas duas veras opiniones dicens: si ergo quod bonum est et bonum est et non est malum, et hoc quidem, scilicet quod dicit prima opinio, est verum secundum se, idest ratione sui; illud vero, scilicet quod dicit secunda opinio, est verum secundum accidens, quia accidit, idest, coniunctum est ei, scilicet bono, malum non esse. In unoquoque autem ordine magis vera est illa quae secundum se est vera. Etiam igitur falsa magis est quae secundum se falsa est: siquidem et vera huius est naturae, ut declaratum est, quod scilicet magis vera est, quae secundum se est vera. Ergo illarum duarum opinionum falsarum in quaestione propositarum, scilicet, bonum non est bonum, et, bonum est malum, ea quae est dicens, quoniam non est bonum quod bonum est, idest negativa; scilicet, bonum non est bonum, est consistens falsa secundum se, idest, ratione sui continet in seipsa falsitatem; illa vero reliqua falsa opinio, quae est dicens, quoniam malum est, idest, affirmativa contraria, scilicet, bonum est malum, eius, quae est, idest, illius affirmationis dicentis, bonum est bonum, secundum accidens, idest, ratione alterius falsa est. Deinde subdit ipsam minorem: quare erit magis falsa de bono, opinio negationis, quam contrarii. Deinde ponit maiorem dicens quod, semper magis falsus circa singula est ille qui habet contrariam opinionem, ac si dixisset, verae opinioni magis falsa est contraria. Quod assumptum erat in maiore. Et eius probationem subdit, quia contrarium est de numero eorum quae circa idem plurimum differunt. Nihil enim plus differt a vera opinione quam magis falsa circa illam. As was pointed out above, Aristotle returns to the opinions already posited, and infers the first two true opinions: Now if that which is good is both good and not evil, and if what the first opinion says is true per se, i.e., by reason of itself, and what the second opinion says is trite accidentally (since it is accidental to it, i.e., added to it, that is, to the good, not to be evil) and if in each order that which is per se true is more true, then that which is per se false is more false, since, as has been shown, the true also is of this nature, namely, that the more true is that which per se is true. Therefore, of the two false opinions proposed in the question, namely, "A good is not good,” and "A good is evil,” the one saying that what is good is not good, namely, the negative, is an opinion positing what is per se false, i.e., by reason of itself it contains falsity in it. The other false opinion, the one saying it is evil, namely, the affirmative contrary in respect to it, i.e., in respect to the affirmation saying that a good is good, is false accidentally, i.e., by reason of another. Then he gives the minor: Therefore, the opinion of the negation of the good will be more false than the opinion affirming a contrary. Next, he posits the major, the one who holds the contrary judgment about each thing is most mistaken, i.e., in relation to the true judgment the contrary is more false. This was assumed in the major. He gives as the proof of this, for contraries are those that differ most with respect to the same thing, for nothing differs more from a true opinion than the more false opinion in respect to it. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 7Ultimo directe applicat ad quaestionem dicens: quod si (pro, quia) harum falsarum, scilicet, negationis eiusdem et affirmationis contrarii, altera est contraria verae affirmationi, opinio vero contradictionis, idest, negationis eiusdem de eodem, magis est contraria secundum falsitatem, idest, magis est falsa, manifestum est quoniam haec, scilicet opinio falsa negationis, erit contraria affirmationi verae, et e contra. Illa vero opinio quae est dicens, quoniam malum est quod bonum est, idest, affirmatio contrarii, non contraria sed implicita est, idest, sed implicans in se verae contrariam, scilicet, bonum non est bonum. Etenim necesse est ipsum opinantem affirmationem contrarii opinari, quoniam idem de quo affirmat contrarium non est bonum. Oportet siquidem si quis opinatur quod vita est mala, quod opinetur quod vita non sit bona. Hoc enim necessario sequitur ad illud, et non e converso; et ideo affirmatio contrarii implicita dicitur. Negatio autem eiusdem de eodem implicita non est. Et sic finitur prima ratio. Finally, he directly approaches the question. If (for "since”), then, of two opinions (namely, false opinions—the negation of the same thing and the affirmation of a contrary), one is the contrary of the true affirmation, and, the contradictory opinion, i.e., the negation of the same thing of the same thing, is more contrary according to falsity, i.e., is more false, it is evident that the false opinion of negation will be contrary to the true affirmation, and conversely. The opinion saying that what is good is evil, i.e., the affirmation of a contrary, is not the contrary but implies it, i.e., it implies in itself the opinion contrary to the true opinion, i.e., "A good is not good.” The reason for this is that the one conceiving the affirmation of a contrary must conceive that the same thing of which he affirms the contrary, is not good. If, for example, someone conceives that life is evil, he must conceive that life is not good, for the former necessarily follows upon the latter and not conversely. Hence, affirmation of a contrary is said to be implicative, but negation of the same thing of the same thing is not implicative. This concludes the first argument. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 8Notandum est hic primo quod ista regula generalis tradita hic ab Aristotele de contrarietate opinionum, quod scilicet contrariae opiniones sunt quae opponuntur secundum affirmationem et negationem eiusdem de eodem, et in se et in assumptis ad eius probationem propositionibus scrupulosa est. Unde multa hic insurgunt dubia. Primum est quia cum oppositio secundum affirmationem et negationem non constituat contrarietatem sed contradictionem apud omnes philosophos, quomodo Aristoteles opiniones oppositas secundum affirmationem et negationem ex hoc contrarias ponat. Augetur et dubitatio quia dixit quod ea in quibus primo est fallacia sunt contraria, et tamen subdit quod sunt oppositae sicut termini generationis, quos constat contradictorie opponi. Nec dubitatione caret quomodo sit verum id quod supra diximus ex intentione s. Thomae, quod nullae duae opiniones opponantur contradictorie, cum hic expresse dicitur aliquas opponi secundum affirmationem et negationem. Dubium secundo insurgit circa id quod assumpsit, quod contraria cuiusque verae est per se falsa. Hoc enim non videtur verum. Nam contraria istius verae, Socrates est albus, est ista, Socrates non est albus, secundum determinata; et tamen non est per se falsa. Sicut namque sua opposita affirmatio est per accidens vera, ita ista est per accidens falsa. Accidit enim isti enunciationi falsitas. Potest enim mutari in veram, quia est in materia contingenti. Dubium est tertio circa id quod dixit: magis vero contradictionis est contraria. Ex hoc enim videtur velle quod utraque, scilicet, opinio negationis et contrarii, sit contraria verae affirmationi; et consequenter vel uni duo ponit contraria, vel non loquitur de contrarietate proprie sumpta: cuius oppositum supra ostendimus. The general rule about the contrariety of opinions that Aristotle has given here (namely, that contrary opinions are those opposed according to affirmation and negation of the same thing of the same thing) is accurate both in itself and in the propositions assumed for its proof. Many questions may arise, however, as a consequence of this doctrine and its proof. First of all, all philosophers hold that opposition according to affirmation and negation constitutes contradiction, not contrariety. How, then, can Aristotle maintain that opinions opposed in this way are contraries? The difficulty is augmented by the fact that he has said that those opinions in which there is fallacy first are contraries, yet he adds that they are opposed as the terms of generation are, which he establishes to be opposed contradictorily. In addition, there is a difficulty as to the way in which the assertion of St. Thomas, which we used above, is true, namely, that no two opinions are opposed contradictorily, since here it is explicitly said that some are opposed according to affirmation and negation. The second uestion involves his assumption that the contrary of each true opinion is per se false. This does not seem to be true, for according to what was determined previously, the contrary of the true opinion "Socrates is white” is "Socrates is not white.” But this is not per se false, for the opposed affirmation is true accidentally, and hence its negation is false accidentally. Falsity is accidental to such an enunciation because, being in contingent matter, it can be changed into a true one. A third difficulty arises from the fact that Aristotle says the contradictory opinion is nwre contrary. He seems to be proposing, according to this, that both the opinion of the negation and of a contrary are contrary to a true affirmation. Consequently, he is either positing two opinions contrary to one or he is not taking contrariety strictly, although we showed above that he was taking contrariety properly and strictly. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 9Ad evidentiam omnium, quae primo loco adducuntur, sciendum quod opiniones seu conceptiones intellectuales, in secunda operatione de quibus loquimur, possunt tripliciter accipi: uno modo, secundum id quod sunt absolute; alio modo, secundum ea quae repraesentant absolute; tertio, secundum ea quae repraesentant, ut sunt in ipsis opinionibus. Primo membro omisso, quia non est praesentis speculationis, scito quod si accipiantur secundo modo secundum repraesentata, sic invenitur inter eas et contradictionis, et privationis, et contrarietatis oppositio. Ista siquidem mentalis enunciatio, Socrates est videns, secundum id quod repraesentat opponitur illi, Socrates non est videns, contradictorie; privative autem illi, Socrates est caecus; contrarie autem illi, Socrates est luscus; si accipiantur secundum repraesentata. Ut enim dicitur in postpraedicamentis, non solum caecitas est privatio visus, sed etiam caecum esse est privatio huius quod est esse videntem, et sic de aliis. Si vero accipiantur opiniones tertio modo, scilicet, prout repraesentata per eas sunt in ipsis, sic nulla oppositio inter eas invenitur nisi contrarietas: quoniam sive opposita contradictorie sive privative sive contrarie repraesententur, ut sunt in opinionibus, illius tantum oppositionis capaces sunt, quae inter duo entia realia inveniri potest. Opiniones namque realia entia sunt. Regulare enim est quod quidquid convenit alicui secundum esse quod habet in alio, secundum modum et naturam illius in quo est sibi convenit, et non secundum quod exigeret natura propria. Inter entia autem realia contrarietas sola formaliter reperitur. Taceo nunc de oppositione relativa. Opiniones ergo hoc modo sumptae, si oppositae sunt, contrarietatem sapiunt, sed non omnes proprie contrariae sunt, sed illae quae plurimum differunt circa idem veritate et falsitate. Has autem probavit Aristoteles esse opiniones affirmationis et negationis eiusdem de eodem. Istae igitur verae contrariae sunt. Reliquae vero per reductionem ad has contrariae dicuntur. In order to answer all of the difficulties in regard to the first argument it must be noted that opinions, or intellectual conceptions in the second operation, can be taken in three ways: (1) according to what they are absolutely; (2) according to the things they represent absolutely, (3) according to the things they represent, as they are in opinions. We will omit the first since it does not belong to the present consideration. If they are taken in the second way, i.e., according to the things represented, there can be opposition of contradiction, of privation, and of contrariety among them. The mental enunciation "Socrates sees,” according to what it represents, is opposed contradictorily to. Socrates does not see”; privatively to "Socrates is blind”; contrarily to "Socrates is purblind.” Aristotle points out the reason for this in the Postpredicamenta [Categ. 10: 12a 35]: not only is blindness privation of sight but to be blind is also a privation of to be seeing, and so of others. Opinions taken in the third way, i.e., as the things represented through opinions are in the opinions, have no opposition except contrariety; for opposites as they are in opinions, whether represented contradictorily or privatively or contrarily, only admit of the opposition that can be found between two real beings, for opinions are real beings. The rule is that whatever belongs to something according to the being which it has in another, belongs to it according to the mode and nature of that in which it is, and not according to what its own nature would require. Now, between real beings only contrariety is found formally. (I am omitting here the consideration of relative opposition.) Therefore, opinions taken in this mode, if they are opposed, represent contrariety, although not all are contraries properly. Only those differing most in respect to truth and falsity about the same thing are contraries properly. Now Aristotle proved that these are - judgments affirming and denying the same thing of the same thing. Therefore, these are the true contraries. The rest are called contraries by reduction to these. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 10 Ex his patet quid ad obiecta dicendum sit. Fatemur enim quod affirmatio et negatio in seipsis contradictionem constituunt; in opinionibus vero existentes contrarietatem inter illas causant propter extremam distantiam, quam ponunt inter entia realia, opinionem scilicet veram et opinionem falsam circa idem. Stantque ista duo simul quod ea, in quibus primo est fallacia, sint opposita ut termini generationis, et tamen sint contraria utendo supradicta distinctione: sunt enim opposita contradictorie ut termini generationis secundum repraesentata; sunt autem contraria, secundum quod habent in seipsis illa contradictoria. Unde plurimum differunt. Liquet quoque ex hoc quod nulla est dissentio inter dicta Aristotelis et s. Thomae, quia opiniones aliquas opponi secundum affirmationem et negationem verum esse confitemur, si ad repraesentata nos convertimus, ut hic dicitur. From this the answer to the objections is clear. We grant that affirmation and negation in themselves constitute contradiction. In actual judgments,”’ affirmation and negation cause contrariety between opinions because of the extreme distance they posit between real beings, namely, true opinion and false opinion in respect to the same thing. And these two stand at the same time: those in which there is fallacy first are opposed as the terms of generation are and yet they are contraries by the use of the foresaid distinction—for they are opposed contradictorily as terms of generation according to the things represented, but they are contraries insofar as they have in themselves those contradictories and hence differ most. It is also evident that there is no disagreement between Aristotle and St. Thomas, for we have shown that it is true that some opinions are opposed according to affirmation and negation if we consider the things represented, as is said here. 11. Tu autem qui perspicacioris ac provectioris ingenii es compos, hinc habeto quod inter ipsas opiniones oppositas quidam tantum motus est, eo quod de affirmato in affirmatum mutatio fit: inter ipsas vero secundum repraesentata, similitudo quaedam generationis et corruptionis invenitur, dum inter affirmationem et negationem mutatio clauditur. Unde et fallacia sive error quandoque et motus et mutationis rationem habet diversa respiciendo, quando scilicet ex vera in per se falsam, vel e converso, quis mutat opinionem; quandoque autem solam mutationem imitatur, quando scilicet absque praeopinata veritate ipsam falsam offendit quis opinionem; quandoque vero motus undique rationem possidet, quando scilicet ex vera affirmatione in falsam circa idem contrarii affirmationem transit. Quia tamen prima ut quis fallatur radix est oppositio affirmationis et negationis, merito ea in quibus primo est fallacia, sicut generationis terminos opponi dixit. It will be noted, however, by those of you who are more penetrating and advanced in your thinking, that between opposite opinions there is something of true motion when a change is made from the affirmed to the affirmed; but according to the order of representation there is a certain similitude to generation and corruption so long as the change is bounded by affirmation and negation. Consequently, fallacy or error may be regarded in different ways. Sometimes it has the aspect of both movement and change. This is the case when someone changes his opinion from a true one to one that is per se false, or conversely. Sometimes change alone is imitated. This happens when someone arrives at a false opinion apart from a former true opinion. Sometimes, however, there is movement in every respect. This is the case when reason passes from the true affirmation to the false affirmation of a contrary about the same thing. However, since the first root of being in error is the opposition of affirmation and negation, Aristotle is correct in saying that those in which there is fallacy first are opposed as are the terms of generation. 12. Ad dubium secundo loco adductum dico quod peccatur ibi secundum aequivocationem illius termini per se falsa, seu per se vera. Opinio enim et similiter enunciatio potest dici dupliciter per se vera seu falsa. Uno modo, in seipsa, sicut sunt omnes verae secundum illos modos perseitatis qui enumerantur I posteriorum, et similiter falsae secundum illosmet modos, ut, homo non est animal. Et hoc modo non accipitur in hac regula de contrarietate opinionum et enunciationum opinio per se vera aut falsa, ut efficaciter obiectio adducta concludit. Si enim ad contrarietatem opinionum hoc exigeretur non possent esse opiniones contrariae in materia contingenti: quod est falsissimum. Alio modo potest dici opinio sive enunciatio per se vera aut falsa respectu suae oppositae. Per se vera quidem respectu suae falsae, et per se falsa respectu suae verae. Et tunc nihil aliud est dicere, est per se vera respectu illius, nisi quod ratione sui et non alterius verificatur ex falsitate illius. Et similiter cum dicitur, est per se falsa respectu illius, intenditur quod ratione sui et non alterius falsificatur ex illius veritate. Verbi gratia; istius verae, Socrates currit, non est per se falsa, Socrates sedet, quia falsitas eius non immediate sequitur ex illa, sed mediante ista alia falsa, Socrates non currit, quae est per se illius falsa, quia ratione sui et non per aliquod medium ex illius veritate falsificatur, ut patet. Et similiter istius falsae, Socrates est quadrupes, non est per se vera ista, Socrates est bipes, quia non per seipsam veritas istius illam falsificat, sed mediante ista, Socrates non est quadrupes, quae est per se vera respectu illius: propter seipsam enim falsitate istius verificatur, ut de se patet. Et hoc secundo modo utimur istis terminis tradentes regulam de contrarietate opinionum et enunciationum. Invenitur siquidem sic universaliter vera in omni materia regula dicens quod, vera et eius per se falsa, et falsa et eius per se vera, sunt contrariae. Unde patet responsio ad obiectionem, quia procedit accipiendo ly per se vera, et per se falsa primo modo. With respect to the second question, I say that there is an equivocation of the term "per se false” and "per se true” in the objection. Opinion, as well as enunciation, can be called per se true or false in two ways. It can be called per se true in itself. This is the case in respect to all opinions and enunciations that are in accordance with the modes of perseity enumerated in I Posteriorum [4: 73a; 34–73b 15]. Similarly, they can be said to be per se false according to the same modes. An example of this would be "Man is not an animal.” Per se true or false is not taken in this mode in the rule about contrariety of opinions and enunciations, as the objection concludes. For if this were needed for contrariety of opinions there could not be contrary opinions in contingent matter, which is false. Secondly, an opinion or enunciation can be said to be per se true or false in respect to its opposite: per se true with respect to its opposite false opinion, and per se false with respect to its opposite true opinion. Accordingly, to say that an opinion is per se true in respect to its opposite is to say that on its own account and not on account of another it is verified by the falsity of its opposite. Similarly, to say that an opinion is per se false in respect to its opposite means that on its own account and not on account of another it is falsified by the truth of the opposite. For example, the opinion that is per se false in respect to the true opinion "Socrates is running "is not, "Socrates is sitting,” since the falsity of the latter does not immediately follow from the former, but mediately from the false opinion, "Socrates is not running.” It is the latter opinion that is per se false in relation to "Socrates is running,” since it is falsified on its own account by the truth of the opinion "Socrates is running,” and not through an intermediary. Similarly, the per se true opinion in respect to the false opinion "Socrates is four-footed” is not, "Socrates is two-footed,” for the truth of the latter does not by itself make the former false; rather, it is through "Socrates is not four-footed” as a medium, which is per se true in respect to "Socrates is four-footed”; for "Socrates is not four-footed” is verified on its own account by the falsity of "Socrates is four-footed,” as is evident. We are using "per se true” and "per se false” in this second mode in propounding the rule concerning contrariety of opinions and enunciations. Thus the rule that the true opinion and the per se false opinion in relation to it and the false opinion and the per se true in relation to it are contraries, is universally true in all matter. Consequently, the response to the objection is clear, for it results from taking "per se true” and "per se false” in the first mode. 13. Ad ultimum dubium dicitur quod, quia inter opiniones ad se invicem pertinentes nulla alia est oppositio nisi contrarietas, coactus fuit Aristoteles (volens terminis specialibus uti) dicere quod una est magis contraria quam altera, insinuans quidem quod utraque contrarietatis oppositionem habet respectu illius verae. Determinat tamen immediate quod tantum una earum, scilicet negationis opinio, contraria est affirmationi verae. Subdit enim: manifestum est quoniam haec contraria erit. Duo ergo dixit, et quod utraque, tam scilicet negatio eiusdem quam affirmatio contrarii, contrariatur affirmationi verae, et quod una tantum earum, negatio scilicet, est contraria. Et utrunque est verum. Illud quidem, quia, ut dictum est, ambae contrarietates oppositione contra affirmationem moliuntur; sed difformiter, quia opinio negationis primo et per se contrariatur, affirmationis vero contrarii opinio secundario et per accidens, idest per aliud, ratione scilicet negativae opinionis, ut declaratum est: sicut etiam in naturalibus albo contrariantur et nigrum et rubrum, sed illud primo, hoc reductive, ut reducitur scilicet ad nigrum illud inducendo, ut dicitur V Physic. Secundum autem dictum simpliciter verum est, quoniam simpliciter contraria non sunt nisi extrema unius latitudinis, quae maxime distant; extrema autem unius distantiae non sunt nisi duo. Et ideo cum inter pertinentes ad se invicem opiniones unum extremum teneat affirmatio vera, reliquum uni tantum falsae dandum est, illi scilicet quae maxime a vera distat. Hanc autem negativam opinionem esse probatum est. Haec igitur una tantum contraria est illi, simpliciter loquendo. Caeterae enim oppositae ratione istius contrariantur, ut de mediis dictum est. Non ergo uni plura contraria posuit, nec de contrarietate large loquutus est, ut obiiciendo dicebatur. The answer to the third difficulty is the following. Since there is no other opposition but contrariety between opinions pertaining to each other, Aristotle (since he chose to use limited terms) has been forced to say that one is more contrary than another, which implies that both have opposition of contrariety in respect to a true opinion. However, he determines immediately that only one of them, the negative opinion, is contrary to a true affirmation, when he adds, it is evident that it must be the contrary. What he says, then, is that each, i.e., both negation of the same thing and affirmation of a contrary, is contrary to a true affirmation, and that only one of them, i.e., the negation, is contrary. Both of these statements are true, for both contrarieties are caused by an opposition contrary to the affirmation, as was said, but not uniformly. The opinion of negation is contrary first and per se, the opinion of affirmation of a contrary, secondarily and accidentally, i.e., through another, namely, by reason of the negative opinion, as has already been shown. There is a parallel to this in natural things: both black and red are contrary to white, the former first, the latter reductively, i.e., inasmuch as red is reduced to black in a motion from white to red, as is said in V Physicorum [5: 229b 15]. However, the second statement, i.e., that only one of them, the negation, is contrary, is true simply, for the most distant extremes of one extent are contraries absolutely. Nov,, there are only two extremes of one distance and since between opinions pertaining to each other true affirmation is at one extreme, the remaining extreme must be granted to only one false opinion, i.e., to the one that is most distant from the true opinion. This has been proved to be the negative opinion. Only this one, then, is contrary to that absolutely speaking. Other opposites are contrary by reason of this one, as was said of those in between. Therefore, Aristotle has not posited many opinions contrary to one, nor used contrariety in a broad sense, both of which were maintained by the objector. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 14 Deinde cum dicit: amplius si etiam etc., probat idem, scilicet quod affirmationi contraria est negatio eiusdem, et non affirmatio contrarii secunda ratione, dicens: si in aliis materiis oportet opiniones se habere similiter, idest, eodem modo, ita quod contrariae in aliis materiis sunt affirmatio et negatio eiusdem; et hoc, scilicet quod diximus de boni et mali opinionibus, videtur esse bene dictum, quod scilicet contraria affirmationi boni non est affirmatio mali, sed negatio boni. Et probat hanc consequentiam subdens: aut enim ubique, idest, in omni materia, ea quae est contradictionis altera pars censenda est contraria suae affirmationi, aut nusquam, idest, aut in nulla materia. Si enim est una ars generalis accipiendi contrariam opinionem, oportet quod ubique et in omni materia uno et eodem modo accipiatur contraria opinio. Et consequenter, si in aliqua materia negatio eiusdem de eodem affirmationi est contraria, in omni materia negatio eiusdem de eodem contraria erit affirmationi. Deinde intendens concludere a positione antecedentis, affirmat antecedens ex sua causa, dicens quod illae materiae quibus non inest contrarium, ut substantia et quantitas, quibus, ut in praedicamentis dicitur, nihil est contrarium. De his quidem est per se falsa ea, quae est opinioni verae opposita contradictorie, ut qui putat hominem, puta Socratem non esse hominem, per se falsus est respectu putantis, Socratem esse hominem. Deinde affirmando ipsum antecedens formaliter, directe concludit intentum a positione antecedentis ad positionem consequentis dicens: si ergo hae, scilicet, affirmatio et negatio in materia carente contrario, sunt contrariae, et omnes aliae contradictiones contrariae censendae sunt. When Aristotle says, Further, if this necessarily holds in a similar way in till other cases it would seen that what we have said is correct, etc., he gives the second argument to prove that the negation of the same thing is contrary to the affirmation, and not the affirmation of a contrary. If opinions are necessarily related in a similar way, i.e., in the same way, in other matter, that is, in such a way that affirmation and negation of the same thing are contraries in other matter, it would seem that what we have said about the opinions of that which is good and that which is evil is correct, i.e., that the contrary of the affirmation of that which is good is not the affirmation of evil but the negation of good. He proves this consequence when he adds: for the opposition of contradiction either holds everywhere or nowhere, i.e., in every matter one part of a contradiction must be judged contrary to its affirmation—or never, i.e., in no matter. For if there is a general art which deals with contrary opinions, contrary Opinions must be taken everywhere and in every matter in one and the same mode. Consequently, if in any matter, negation of the same thing of the same thin- is the contrary of the affirmation, then in all matter negation of the same thing of the same thing will be the contrary of the affirmation. Since he intends in his proof to conclude from the position of the antecedent, Aristotle affirms the antecedent through its cause: in matter in which there is not a contrary, such as substance and quantity, which have no contraries, as is said in the Predicamcnta [Categ. 5: 3b 24; 6: 5b 10], the one contradictorily opposed to the true opinion is per se false. For example, he who thinks that man, for instance Socrates, is not man, is per se mistaken with regard to one who thinks that Socrates is man. Then he affirms the antecedent formally and concludes directly from the position of the antecedent to the position of the consequent. If then these, namely, affirmation and negation in matter which lacks a contrary, are contraries, all other contradictions must be judged to be contraries. 15. Deinde cum dicit: amplius similiter etc., probat idem tertia ratione, quae talis est: sic se habent istae duae opiniones de bono, scilicet, bonum est bonum, et, bonum non est bonum, sicut se habent istae duae de non bono, scilicet, non bonum non est bonum, et, non bonum est bonum. Utrobique enim salvatur oppositio contradictionis. Et primae utriusque combinationis sunt verae, secundae autem falsae. Unde proponens hanc maiorem quoad primas veras utriusque combinationis ait: similiter se habet opinio boni, quoniam bonum est, et non boni quoniam non est bonum. Et subdit quoad secundas utriusque falsas: et super has opinio boni quoniam non est bonum, et non boni quoniam est bonum. Haec est maior. Sed illi verae opinioni de non bono, scilicet, non bonum non est bonum, contraria non est, non bonum est malum, nec bonum non est malum, quae sunt de praedicato contrario, sed illa, non bonum est bonum, quae est eius contradictoria; ergo et illi verae opinioni de bono, scilicet, bonum est bonum, contraria erit sua contradictoria, scilicet, bonum non est bonum, et non affirmatio contrarii, scilicet, bonum est malum. Unde subdit minorem supradictam dicens: illi ergo verae opinioni non boni, quae est dicens quoniam scilicet non bonum non est bonum, quae est contraria. Non enim est sibi contraria ea opinio, quae dicit affirmativae praedicatum contrarium, scilicet, quod non bonum est malum: quia istae duae aliquando erunt simul verae. Nunquam autem vera opinio verae contraria est. Quod autem istae duae aliquando simul sint verae, patet ex hoc quod quoddam non bonum malum est: iniustitia enim quoddam non bonum est, et malum. Quare contingeret contrarias esse simul veras: quod est impossibile. At vero nec supradictae verae opinioni contraria est illa opinio, quae est dicens praedicatum contrarium negativae, scilicet, non bonum non est malum, eadem ratione, quia simul et hae erunt verae. Chimaera enim est quoddam non bonum, de qua verum est simul dicere quod non est bona, et quod non est mala. Relinquitur ergo tertia pars minoris quod ei opinioni verae quae, est dicens quoniam non bonum non est bonum, contraria est ea opinio non boni, quae est dicens quod est bonum, quae est contradictoria illius. Deinde subdit conclusionem intentam: quare et ei opinioni boni, quae dicit bonum est bonum, contraria est ea boni opinio, quae dicit quod bonum non est bonum, idest, sua contradictoria. Contradictiones ergo contrariae in omni materia censendae sunt. Then he says, Again, the opinions of that which is good, that it is good and of that which is not good, that it is not good, are parallel. This begins the third argument to prove the same thing. The two opinions of that which is good, that it is good, and that it is not good, are related in the same way as the two opinions of that which is not good, that it is not good and that it is good; i.e., the opposition of contradiction is kept in both. The first opinion of each combination is true, the second false. Hence with respect to the first true opinions of each combination he proposes this major: Again, the opinions of that which is good, that it is good, and of that which is not good, that it is not good, are parallel. With respect to the second false judgment of each combination he adds: so also are the opinions of that which is good, that it is not good, and of that which is not good, that it is good. This is the major. But the contrary of the true opinion of that which is not good, namely, the true opinion "That which is not good is not good,” is not, "That which is not good is evil,” nor "That which is not good is not evil,” which have a contrary predicate, but the opinion that that which is not good is good, which is its contradictory. Therefore, the contrary of the true opinion of that which is good, namely, the true opinion "That which is good is good,” will also be its contradictory, "That which is good is not good,” and not the affirmation of the contrary "That which is good is evil.” Hence he adds the minor which we have already stated: What, then, would be the contrary of the true opinion asserting that that which is not good is not good? The contrary of it is not the opinion which asserts the contrary predicate affirmatively, "That which is not good is evil,” because these two are sometimes at once true. But a true opinion is never contrary to a true opinion. That these two are sometimes at once true is evident from the fact that some things that are not good are evil. Take injustice; it is something not good, and it is evil. Therefore, contraries would be true at one and the same time, which is impossible. But neither is the contrary of the above true opinion the one asserting the contrary predicate negatively, "That which is not good is not evil,” and for the same reason. These will also be true at the same time. For example, a chimera is something not good, and it is true to say of it simultaneously that it is not good and that it is not evil. There remains the third part of the minor: the contrary of the true opinion that that which is not good is not good is the opinion that it is good, which is the contradictory of it. Then he concludes as he intended: the opinion that a good is not good is contrary to the opinion that a good is good, i.e., its contradictory. Therefore, it must be judged that contradictions are contraries in every matter. 16. Deinde cum dicit: manifestum est igitur etc., declarat determinatam veritatem extendi ad cuiusque quantitatis opiniones. Et quia de indefinitis, et particularibus, et singularibus iam dictum est, eo quod idem evidenter apparet de eis in hac re iudicium (indefinitae enim et particulares nisi pro eisdem supponant sicut singulares, per modum affirmationis et negationis non opponuntur, quia simul verae sunt); ideo ad eas, quae universalis quantitatis sunt se transfert, dicens, manifestum esse quod nihil interest quoad propositam quaestionem, si universaliter ponamus affirmationes. Huic enim, scilicet, universali affirmationi, contraria est universalis negatio, et non universalis affirmatio de contrario; ut opinioni quae opinatur, quoniam omne bonum est bonum, contraria est, nihil horum, quae bona sunt, idest, nullum bonum est bonum. Et declarat hoc ex quid nominis universalis affirmativae, dicens: nam eius quae est boni, quoniam bonum est, si universaliter sit bonum: idest, istius opinionis universalis, omne bonum est bonum, eadem est, idest, aequivalens, illa quae opinatur, quidquid est bonum est bonum; et consequenter sua negatio contraria est illa quam dixi, nihil horum quae bona sunt bonum est, idest, nullum bonum est bonum. Similiter autem se habet in non bono: quia affirmationi universali de non bono reddenda est negatio universalis eiusdem, sicut de bono dictum est. He then says, It is evident that it will make no difference if we posit the affirmation universally, etc. Here he shows that the truth he has determined is extended to opinions of every quantity. The case has already been stated in respect to indefinites, particulars, and singulars. On this point their status is alike, for indefinites and particulars, unless they stand for the same thing, as is the case in singulars, are not opposed by way of affirmation and negation, since they are at once true. Therefore he turns his attention to those of universal quantity. It is evident, he says, that it will make no difference with respect to the proposed question if we posit the affirmations universally, for the contrary of the universal affirmative is the universal negative, and not the universal affirmation of a contrary. For example, the contrary of the opinion that everything that is good is good is the opinion that nothing that is good (i.e., no good) is good. He manifests this by the nominal definition of universal affirmative: for the opinion that that which is good is good, if the good is universal, i.e., the universal opinion "Every good is good,” is the same, i.e., is equivalent to the opinion that whatever is good is good. Consequently, its negation is the contrary I have stated, "Nothing which is good is good,” i.e., "No good is good.” The case is similar with respect to the not good. The universal negation of the not good is opposed to the universal affirmation of the not good, as we have stated with respect to the good. 17. Deinde cum dicit: quare si in opinione sic se habet etc., revertitur ad respondendum quaestioni primo motae, terminata iam secunda, ex qua illa dependet. Et circa hoc duo facit: quia primo respondet quaestioni; secundo, declarat quoddam dictum in praecedenti solutione; ibi: manifestum est autem quoniam et cetera. Circa primum duo facit. Primo, directe respondet quaestioni, dicens: quare si in opinione sic se habet contrarietas, ut dictum est; et affirmationes et negationes quae sunt in voce, notae sunt eorum, idest, affirmationum et negationum quae sunt in anima; manifestum est quoniam affirmationi, idest, enunciationi affirmativae, contraria erit negatio circa idem, idest, enunciatio negativa eiusdem de eodem, et non enunciatio affirmativa contrarii. Et sic patet responsio ad primam quaestionem, qua quaerebatur, an enunciationi affirmativae contraria sit sua negativa, an affirmativa contraria. Responsum est enim quod negativa est contraria. Secundo, dividit negationem contrariam affirmationi, idest, negationem universalem et contradictoriam, dicens: universalis, scilicet, negatio, affirmationi contraria est et cetera. Ut exemplariter dicatur, ei enunciationi universali affirmativae quae est, omne bonum est bonum, vel, omnis homo est bonus, contraria est universalis negativa, ea scilicet, nullum bonum est bonum, vel, nullus homo est bonus: singula singulis referendo. Contradictoria autem negatio, contraria illi universali affirmationi est, aut, non omnis homo est bonus, aut, non omne bonum est bonum, singulis singula similiter referendo. Et sic posuit utrunque divisionis membrum, et declaravit. Then he says, If, therefore, this is the case with respect to opinion, and. affirmations and negations in vocal sound are signs of those in the soul, etc. With this he returns to the question first advanced, to reply to it, for he has now completed the second on which the first depends. He first replies to the question, then manifests a point in the solution of a preceding difficulty where he says, It is evident, too, that true cannot be contrary to true, either in opinion or in contradiction, etc. First, then, he replies directly to the question: If, therefore, contrariety is such in the case of opinions, and affirmations and negations in vocal sound are signs of affirmations and negations in the soul, it is evident that the contrary of the affirmation, i.e., of the affirmative, enunciation, is the negation of the same subject. In other words, the negative enunciation of the same predicate of the same subject will be the contrary, and not the affirmative enunciation of a contrary. Thus the response to the first question—whether the contrary of the affirmative enunciation is its negative or the contrary affirmative—is clear. The answer is that the negative is the contrary. Next, he divides negation as it is contrary to affirmation, i.e., into the universal negation, and the contradictory: The universal, i.e., negation, is contrary to the affirmation, etc. In order to state this division by way of example he relates one enunciation to one enunciation: the contrary of the universal affirmative enunciation "Every good is’ good” or "Every man is good,” is the universal negative "No good is good” or "No man is good.” Again, relating one to one, he says that the contradictory negation contrary to the universal affirmation is "Not every man is good” or "Not everything good is good.” Thus he posits both members of the division and makes the division evident. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 18 Sed est hic dubitatio non dissimulanda. Si enim affirmationi universali contraria est duplex negatio, universalis scilicet et contradictoria, vel uni duo sunt contraria, vel contrarietate large utitur Aristoteles: cuius oppositum supra declaravimus. Augetur et dubitatio: quia in praecedenti textu dixit Aristoteles quod, nihil interest si universalem negationem faciamus ita contrariam universali affirmationi, sicut singularem singulari. Et ita declinari non potest quin affirmationi universali duae sint negationes contrariae, eo modo quo hic loquitur de contrarietate Aristoteles. A difficulty arises at this point which we cannot disregard. If the contrary of the universal affirmative is a twofold negation, namely, the universal and the contradictory, either there are two contraries to one affirmation or Aristotle is using contrariety in a broad sense, although we showed that this was not the case apropos of an earlier passage of the text. The difficulty is augmented by the fact that Aristotle said in the passage immediately preceding that it makes no difference if we take the universal negation as contrary to the universal affirmation, i.e., as one of its negations. Hence, the conclusion cannot be avoided that in the mode in which Aristotle speaks of contrariety here, there are two contrary negations to the universal affirmative. Cajetanus lib. 2 l. 14 n. 19 Ad huius evidentiam notandum est quod, aliud est loqui de contrarietate quae est inter negationem alicuius universalis affirmativae in ordine ad affirmationem contrarii de eodem, et aliud est loqui de illamet universali negativa in ordine ad negationem eiusdem affirmativae contradictoriam. Verbi gratia: sint quatuor enunciationes, quarum nunc meminimus, scilicet, universalis affirmativa, contradictoria, universalis negativa, et universalis affirmatio contrarii, sic dispositae in eadem linea recta: omnis homo est iustus, non omnis homo est iustus, omnis homo non est iustus, omnis homo est iniustus: et intuere quod licet primae omnes reliquae aliquo modo contrarientur, magna tamen differentia est inter primae et cuiusque earum contrarietatem. Ultima enim, scilicet affirmatio contrarii, primae contrariatur ratione universalis negationis, quae ante ipsam sita est: quia non per se sed ratione illius falsa est, ut probavit Aristoteles, quia implicita est. Tertia autem, idest universalis negatio, non per se sed ratione secundae, scilicet negationis contradictoriae, contrariatur primae eadem ratione, quia, scilicet, non est per se falsa illius affirmationis veritate, sed implicita: continet enim negationem contradictoriam, scilicet, non omnis homo est iustus, mediante qua falsificatur ab affirmationis veritate, quia simpliciter et prior est falsitas negationis contradictoriae falsitate negationis universalis: totum namque compositius et posterius est partibus. Est ergo inter has tres falsas ordo, ita quod affirmationi verae contradictoria negatio simpliciter sola est contraria, quia est simpliciter respectu illius per se falsa; affirmativa autem contrarii est per accidens contraria, quia est per accidens falsa; universalis vero negatio, tamquam medium sapiens utriusque extremi naturam, relata ad contrarii affirmationem est per se contraria et per se falsa, relata autem ad negationem contradictoriam est per accidens falsa et contraria. Sicut rubrum ad nigrum est album, et ad album est nigrum, ut dicitur in V physicorum. Aliud igitur est loqui de negatione universali in ordine ad affirmationem contrarii, et aliud in ordine ad negationem contradictoriam. Si enim primo modo loquamur, sic negatio universalis per se contraria et per se falsa est; si autem secundo modo, non est per se falsa, nec contraria affirmationi. To clear up this difficulty we must note that it is one thing to speak of the contrariety there is between the negation of some universal affirmative in relation to the affirmation of a contrary, and another to speak of that same universal negative in relation to the negation contradictory to the same affirmative. For example, the four enunciations of which we are now speaking are the universal affirmative, the contradictory, the universal negative, and the universal affirmation of a contrary: "Every man is just,” "Not every man is just,” "No man is just,” "Every man is unjust.” Notice that although all the rest are contrary to the first in some way, there is a great difference between the contrariety of each to the first. The last one, the affirmation of a contrary, is contrary to the first by reason of the preceding universal negation, for it is false, not per se but by reason of that negation, i.e., it is implicative, as Aristotle has already proved. The third, the universal negation, is not per se contrary to the first either. It is contrary by reason of the second, the contradictory negation, and for the same reason, i.e., it is not per se false in respect to the truth of the affirmation but is implicative, for it contains the contradictory negation "Not every man is just,” by means of which it is made false in respect to the truth of the affirmation. The reason for this is that the falsity of the contradictory negation is prior absolutely to the falsity of the universal negation, for the whole is more composite and posterior as compared to its parts. There is, therefore, an order among these three false enunciations. Only the contradictory negation is simply contrary to the true affirmation, for it is per se false simply in respect to the affirmation; the affirmative of the contrary is per accidens contrary, since it is per accidens false; the universal negation, which is a medium partaking of the nature of each extreme, is per se contrary and per se false as related to the affirmation of a contrary, but is per accidens false and per accidens contrary as related to the contradictory negation; just as red in a motion from red to black takes the place of white, and in a motion from red to white takes the place of black, as is said in V Physicorum [5: 229b 15]. Therefore, it is one thing to speak of the universal negation in relation to affirmation of a contrary and another to speak of it in relation to the contradictory negation. If we are speaking of it in the first way, the universal negation is per se contrary and per se false; if in the second, it is not per se false or contrary to the affirmation. 20. Quia ergo agitur ab Aristotele nunc quaestio, inter affirmationem contrarii et negationem quae earum contraria sit affirmationi verae, et non agitur quaestio ipsarum negationum inter se, quae, scilicet, earum contraria sit illi affirmationi, ut patet in toto processu quaestionis; ideo Aristoteles indistincte dixit quod utraque negatio est contraria affirmationi verae, et non affirmatio contrarii. Intendens per hoc declarare diversitatem quae est inter affirmationem contrarii et negationem in hoc quod verae affirmationi contrariantur, et non intendens dicere quod utraque negatio est simpliciter contraria. Hoc enim in dubitatione non est quaesitum, sed illud tantum. Et similiter dixit quod nihil interest si quis ponat negationem universalem: nihil enim interest quoad hoc, quod affirmatio contrarii ostendatur non contraria affirmationi verae, quod inquirimus. Plurimum autem interesset, si negationes ipsas inter se discutere vellemus quae earum esset affirmationi contraria. Sic ergo patet quod subtilissime Aristoteles locutus de vera contrarietate enunciationum, unam uni contrariam posuit in omni materia et quantitate, dum simpliciter contrarias contradictiones asseruit. Since Aristotle is now treating the question as to which is the contrary of a true affirmation, affirmation of a contrary or the negation, and not the question as to which of the negations is contrary to a true affirmation—as is clear in the whole progression of the question—bis answer is that both negations are contrary to the true affirmation without distinction, and that affirmation of a contrary is not. His intention is to manifest the diversity between the negation, and the affirmation of a contrary, inasmuch as they are contrary to a true affirmation. He does not intend to say that both negations are contrary simply, for this is not the difficulty in question here, but the former is. With respect to his saying that it makes no difference if we posit the universal negation, the same point applies, for in regard to showing that affirmation of a contrary is not contrary to a true affirmation, which is the question at issue here, it makes no difference which negation is posited. It would make a great deal of difference, however, if we wished to discuss which negation was contrary to a true affirmation. It is evident, then, that Aristotle’s discussion of the true contrariety of enunciations is very subtle, for he has posited one to one contraries in every matter and quantity, and affirmed that contradictions are contraries simply. 21. Deinde cum dicit: manifestum est autem etc., resumit quoddam dictum ut probet illud, dicens manifestum est autem ex dicendis quod non contingit veram verae contrariam esse, nec in opinione mentali, nec in contradictione, idest, vocali enunciatione. Et causam subdit: quia contraria sunt quae circa idem opposita sunt; et consequenter enunciationes et opiniones verae circa diversa contrariae esse non possunt. Circa idem autem contingit simul omnes veras enunciationes et opiniones verificari, sicut et significata vel repraesentata earum simul illi insunt: aliter verae tunc non sunt. Et consequenter omnes verae enunciationes et opiniones circa idem contrariae non sunt, quia contraria non contingit eidem simul inesse. Nullum ergo verum sive sit circa idem, sive sit circa aliud, est alteri vero contrarium. Et sic finitur expositio huius libri perihermenias. When he says, It is evident, too, that true cannot be contrary to true, either in opinion or in contradiction, etc., he returns to a statement he has already made in order to prove it. It is evident, too, from what has been said, that true cannot be contrary to true, either in opinion or in contradiction, i.e., in vocal enunciation. He gives as the cause of this that contraries are opposites about the same thing; consequently, true enunciations and opinions about diverse things cannot be contraries. However, it is possible for all true enunciations and opinions about the same thing to be verified at the same time, inasmuch as the things signified or represented by them belong to the same thing at the same time; otherwise they are not true. Consequently, not all true enunciations and opinions about the same thing are contraries, for it is not possible for contraries to be in the same thing at the same time. Therefore, no true opinion or enunciation, whether it is about the same thing or is about another is contrary to another. – [ XI. 6. The third part is the second difference, i.e., by convention, namely, according to human institution deriving from the will of man. This differentiates names from vocal sounds signifying naturally, such as the groans of the sick and the vocal sounds of brute animals] [?][11 Then Aristotle says, ‘by convention’ is added because nothing is *by nature* a name, etc. Here Aristotle explains the third part of the definition. The reason it is said that the name signifies by convention [ad placitum ex institutione], he says, is that no name exists naturally. For it is a name because it signifies; it does not signify naturally however, but by institution [ex institutione]. This Aristotle adds when he says, but it is a name when it is *made* a sign, i.e., when it is imposed to signify. For that which signifies naturally is not made a sign, but is a sign naturally. he explains this when he says: for unlettered sounds, such as those of the brutes designate, etc., i.e., since they cannot be signified by letters. He says sounds rather than vocal sounds because some animals—those without lungs—do not have vocal sounds. Such animals signify proper passions by some kind of non-vocal sound which signifies naturally. But none of these sounds of the brutes is a name. We are given to understand from this that a name does not signify naturally.] Aquino. Keywords: Peri hermeneias, de interpretation, Austin/Grice, “De interpretation” nota, notare, notante, notato, denotato – denotare -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Aquino: grammatici speculative, per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. Refs.: Grice, “Intentionality in Aquino,” Speranza, “Grice and Aquino on the taxonomy of intentions.”

 

Grice ed Arangio – colloquio – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo Italiano. Grice: “We have Flores, we have Ruiz, we have Enriques – reminds me of Alan Montefiore! I like Vladimiro Arangio – my favourite is by far his philosoophising on Socrates’s ‘Sofista’ – he distinguishes between what he calls ‘Socratic dialogue’ (mine) and ‘dialogo sofistico’!” -- Vladimiro Arangio-Ruiz (Napoli) filosofo, grecista e accademico italiano. Fu il primo preside del Liceo scientifico Alessandro Tassoni di Modena, istituito nel 1923, a seguito della riforma Gentile.  Nacque a Napoli nel 1887 da Gaetano, professore di diritto costituzionale, e da Clementina Cavicchia. Frequentò a Firenze il corso di lettere nell'Istituto di studi superiori dal 1905 al 1910 e si laureò con una tesi su Il coro nella tragedia greca in letteratura greca con Girolamo Vitelli, filologo, grecista, papirologo e senatore del Regno d'Italia.  Vladimiro appartenne a una illustre famiglia di giuristi: il fratello Vincenzo Arangio-Ruiz fu uno dei maggiori studiosi di diritto romano, ordinario all'Napoli e alla Sapienza di Roma. Contravvenendo alla tradizione di famiglia, Vladimiro preferì dedicarsi agli studi filosofici e fu professore alla Scuola normale superiore di Pisa e alla facoltà di Magistero di Firenze.  Insegnò nei ginnasi di Stato e fu ufficiale d'artiglieria nella Prima guerra mondiale dove venne ferito. Nel 1921 si laureò per la seconda volta, in filosofia con Piero Martinetti, discutendo la tesi Conoscenza e moralità. In gioventù aveva sentito fortemente l'influenza del giovane poeta e filosofo Carlo Michelstaedter, esponente importante della filosofia europea del primo Novecento, del quale pubblicherà gli scritti.  Si propose una funzione critica ricostruttiva  dell'idealismo storicistico e dell'attualismo di Giovanni Gentile da cui trasse ispirazione per sviluppare il suo "moralismo assoluto". Contrariamente alla dottrina gentiliana che dichiarava l'attualismo coincidente con la "vita dello Stato", Arangio Ruiz credeva che invece fosse identificabile con il comportamento morale individuale poiché la politica non è che un aspetto particolare della legge morale per sua natura universale.  Fra le sue opere si ricordano. “Prose morali”; “Umanità dell'arte.”  Il Liceo "Tassoni" tra storia e innovazione.  Fonte: Dizionario di filosofia, riferimenti in.  Fabrizio Meroi, «Carlo Michelstaedter» in Il contributo italiano alla storia del PensieroFilosofia, Roma Istituto dell'Enciclopedia Italiana,.  Ricostruzione filosofica, in Arch. di filosofia, X[1940]20  Carlo Michelstaedter Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Vladimiro Arangio-Ruiz  Vladimiro Arangio-Ruiz, su Treccani Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Vladimiro Arangio-Ruiz, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Vladimiro Arangio-Ruiz, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Filosofia Filosofo del XX secolo Grecisti italianiAccademici italiani Professore. Vladimiro Arangio-Ruiz. Arangio. Keywords: colloqui. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Arrangio” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Arato – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Arato achieved fame as a dramatic poet, but he was also a pupilof Zenone. He wrote a celebrated surviving poem, Phenomena, dealing with astronomy and meteorology. It was widely read – and Cicero commented it. It may have been used by Lucrezio. Arato depicts the universe as a rational and organized system bearing the hallmark of its divine creator. Kidd, Aratus, Cambridge.

 

Grice ed Arcais – filosofia italiana – Luigi Speranza (Cervignano del Freiuli). Filosofo italiano. Grice: “As Mikos says about the English, ‘de’ adds prestige as in ‘de Grys’ – same with Italians and ‘d’Arcais,’ after four pescherie owned by one ancestor. – d’Arcais has been described as a ‘quaresmalitsa,’ who had the unfortune of being tutored by an atheist! Asa  good stoicp philosopher, he endured it!’ Direttore della rivista MicroMega. È stato collaboratore de la Repubblica, il Fatto Quotidiano, El País, Frankfurter Allgemeine Zeitung e Gazeta Wyborcza.  Ha sempre unito l’attività di studioso, il lavoro editoriale e l’impegno civile. Educazione intensamente cattolica. Abbandona la fede nella primavera del 1961. Maturità scientifica. Maturità classica. Si iscrive al partito comunista (e federazione giovanile) entrando all’università. Nel 1964 è segretario del Circolo universitario comunista e nell’estate frequenta la scuola centrale di partito “Marabini” a Bologna. Si laurea con una tesi su “Marx interprete di Adamo Smith” e ne sarà a lungo uno degli assistenti. Espulso dal Pci, è uno degli animatori del movimento studentesco del Sessantotto. Pubblica la rivista “Soviet”. Nel 1976/7 la rivista “Il Leviatano”. -- è l’organizzatore del convegno internazionale di tre giorni che apre la “Biennale del dissenso” della presidenza Ripa di Meana.  Viene chiamato a fondare e dirigere il “Centro culturale Mondoperaio” dal segretario del Psi Bettino Craxi (alleato delle sinistre di Giolitti e Lombardi). Prima iniziativa, il convegno internazionale “Marxismo, leninismo, socialismo”, relatori Cornelius Castoriadis, Gilles Martinet e Rudi Dutschke. Rompe con Craxi nel gennaio del 1980 quando questi cambia politica, spezza l’alleanza con Giolitti e Lombardi, torna al governo con la Dc.  Nel 1986 fonda insieme a Giorgio Ruffolo la rivista “MicroMega” (Ruffolo ne uscirà nel 1992, per contrasti su “Mani pulite”). Fonda la “sinistra dei club” per partecipare alla fondazione del Pds, che dovrebbe aprirsi alla società civile sulle ceneri dell’ex Pci. Lo abbandona un anno dopo, viste le promesse non mantenute. Nell’inverno 2000 è protagonista di una controversia pubblica col cardinal Ratzinger al Teatro Quirino di Roma. Nel 2002 organizza insieme a Nanni Moretti, Olivia Sleiter e Pancho Pardi la grande manifestazione dei “girotondi” del 14 settembre a piazza san Giovanni a Roma. Paolo Flores d'Arcais è "radicalmente ateo".  Inizia presto ad occuparsi di politica nell'organizzazione giovanile del Partito Comunista Italiano, ma presto viene espulso dalla FGCI per la sua prolungata e grave attività frazionistica, cioè per la sua doppia militanza nella FGCI e nella Quarta Internazionale trotskista. Allievo e amico di Lucio Colletti, dopo esser stato uno dei protagonisti del "Sessantotto" romano, approda a posizioni di riformismo radicale e verso la fine degli anni settanta ha una breve ma vivida intesa con Bettino Craxi e Claudio Martelli, dai quali, tuttavia, si distacca ben presto.  Nel 1991 aderisce al Partito Democratico della Sinistra di Achille Occhetto entrando nella Direzione del movimento, da cui però fuoriesce due anni dopo poiché favorevole alla guerra del Golfo a differenza della linea maggioritaria del partito. Tra i promotori della breve stagione dei girotondi, tenta di proporre una lista di suoi candidati alle primarie dell'Ulivo per le elezioni politiche dma come lui stesso deve ammettere "realizza un fallimento pieno e perfetto" raccogliendo appena 130 adesioni alla sua idea. Il 25 marzo 2008 annuncia su MicroMega che nelle elezioni politiche del 2008 avrebbe votato per il Partito Democratico in funzione anti-berlusconiana. Il 29 gennaio 2009 decide di ritentare in politica prospettando il "Partito dei Senza Partito" insieme ad Antonio Di Pietro ed Andrea Camilleri per partecipare alle elezioni europee del 2009 ma, il 12 marzo dello stesso anno, viene annunciato il mancato accordo fra i tre. Per le elezioni politiche del  ha dichiarato di votare la lista Rivoluzione Civile di Antonio Ingroia. Successivamente non nasconde le sue simpatie per il Movimento 5 Stelle per il quale dichiara di votare. Tuttavia in seguito all'alleanza tra il Movimento 5 Stelle e la Lega si dice deluso dal Movimento, accusando in particolare Luigi Di Maio di avere tradito le promesse agli elettori.  Altre opere: “Il maggio rosso di Parigi. Cronologia e documenti delle lotte studentesche e operaie in Francia, a cura di, Padova, Marsilio); “Il piccolo sinistrese illustrato, con Giampiero Mughini, Milano, SugarCo); “Il dubbio e la certezza. Nei dintorni del marxismo e oltre (Milano, SugarCo); “L'esistenzialismo libertario di Hannah Arendt, in Hannah Arendt, Politica e menzogna, Milano, SugarCo); “Oltre il PCI. Per un partito libertario e riformista, Genova, Marietti); “Esistenza e libertà. A partire da Hannah Arendt, Genova, Marietti); “L'albero e la foresta. Il partito democratico della sinistra nel sistema politico italiano, con Umberto Curi, Milano, FrancoAngeli); “La rimozione permanente. Il futuro della sinistra e la critica del comunismo. Scritti; Genova, Marietti, 1991. Etica senza fede, Torino, Einaudi); “Il disincanto tradito, Torino, Bollati Boringhieri); “Hannah Arendt. Esistenza e libertà, Roma, Donzelli); “Gobetti, liberale del futuro, in Piero Gobetti, La rivoluzione liberale. Saggio sulla lotta politica in Italia, Torino, Einaudi); “Il populismo italiano da Craxi a Berlusconi. Dieci anni di regime nelle analisi di MicroMega, Roma, Donzelli); “L'individuo libertario. Percorsi di filosofia morale e politica nell'orizzonte del finite” (Torino, Einaudi); “ Il sovrano e il dissidente, ovvero La democrazia presa sul serio. Saggio di filosofia politica per cittadini esigenti, Milano, Garzanti); “Dio esiste? Un confronto su verità, fede, ateismo, moderato da Gad Lerner, con Joseph Ratzinger, Roma, Somedia Gruppo editoriale L'Espresso); “Il ventennio populista. Da Craxi a Berlusconi (passando per D'Alema?), Roma, Fazi); “Hannah Arendt. Esistenza e libertà, autenticità e politica, Roma, Fazi); “Atei o credenti? Filosofia, politica, etica, scienza”; “Roma, Fazi,  Dio? Ateismo della ragione e ragioni della fede, con Angelo Scola, Venezia, Marsilio); “Itinerario di un eretico” (Lugano, ADV); “A chi appartiene la tua vita? Una riflessione filosofica su etica, testamento biologico, eutanasia e diritti civili nell'epoca oscurantista di Ratzinger e Berlusconi, Milano); “Ponte alle Grazie, 2009.  978-88-6220-068-4. Albert Camus filosofo del futuro, Torino, Codice); “La sfida oscurantista di Joseph Ratzinger, Milano, Ponte alle Grazie); “Gesù. L'invenzione del Dio cristiano, Torino, Add); “Macerie. Ascesa e declino di un regime, Roma, Aliberti); “Perché oggi, in Ernesto Rossi, Contro l'industria dei partiti, Milano, Chiarelettere); Democrazia! Libertà privata e libertà in rivolta, Torino, Add); “Il caso o la speranza? Un dibattito senza diplomazia” (Milano, Garzanti); “La Guerra del Sacro. Terrorismo, laicità e democrazia radicale, Milano, Raffaello Cortina Editore); “Questione di vita e di morte, Einaudi, Vele. Note  cfr., uno per tutti, il suo volume (a quattro mani con il cardinale Angelo Scola) "Dio? Ateismo della ragione e ragioni della fede"Marsilio editore, 2008  Dal sito di MicroMega  Articolo de El País, tradotto in italiano Archiviato il 30 giugno  in.  Elezioni Per chi votano Travaglio, Guzzanti, Scanzi, ecc. Tra Rivoluzione Civile e il Movimento 5 Stelle  La Repubblica,  Flores d'Arcais: “Il Movimento 5 Stelle non esiste più”, su micromega-online. 24 aprile.  MicroMega (periodico). reccaniEnciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Paolo Flores d'Arcais, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.  Registrazioni di Paolo Flores d'Arcais, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Sito ufficiale di MicroMega. Undici riflessioni sui movimenti, i MicroMega. Intervista a D'Arcais sul ventennale della rivista. Il blog di Paolo Flores d'Arcais, su ilfattoquotidiano. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani del XXI secoloGiornalisti italiani del XX secoloGiornalisti italiani Professore1944Nati l'11 luglio Cervignano del FriuliDirettori di periodici italianiFilosofi atei. Arcais. Paolo Flores d’Arcais. Keywords: giudeo, portughese, Flores – arcais, d’arcais, piamontese.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Arcais” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Arceas – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Arceas is cited by Giamblico in his “Vita di Pitagora” as a follower of the sect that originated in Crotona.

 

Grice ed Archedemo – Roma – filosofia italiana – Luig Speranza (Siracusa). Filosofo italiano. Archedemo was a Pythagorean and a pupil of Archita di Taranto. He became a friend of PLATONE, and accommodated him for a while at his home. Senocrate wrote a saggio entitled “Archedemo; ovvero, della giustizia” which refers to him.

 

Grice ed Archemaco – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Giamblico di Calcide – in his “Vita di Pitagora” -- lists Archemaco as a member of the sect that originated at Crotona.

 

Grice ed Archibugi – PAX ROMANA – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “I would hardly call Archibugi a philosopher, but he did compile a thing ‘filosofi per la pace’ none of them Italian! So much for ‘pax romana’!” – Grice: “Strawson does call Archibugi a ‘filosofo,’ though!” --  DanieleArchibugi (Roma), filosofo. Nell'ambito della teoria politica, ha sviluppato, insieme a David Held, l'idea di una democrazia cosmopolita. Ha anche lavorato su diversi aspetti della globalizzazione, ed in particolare sulla globalizzazione dell'innovazione e del cambiamento tecnologico.  Dopo una non assidua frequentazione del Liceo Sperimentale della Bufalotta, si è laureato con lode alla Facoltà di Economia e Commercio dell'Roma La Sapienza con Federico Caffè. Ha conseguito il dottorato di ricerca presso lo Science Policy Research Unit dell'Università del Sussex, dove ha lavorato con Christopher Freeman e Keith Pavitt. Ha insegnato alle Università del Sussex, Madrid, Napoli, Roma La Sapienza e Roma Luiss, Cambridge, London School of Economics and Political Science e Harvard. Ha anche tenuto corsi presso università asiatiche quali la Ritsumeikan University di Kyoto e la SWEFE University di Chengdu.  Nel 2006 è stato nominato Professore Onorario presso l'Università del Sussex e nel  Membro d'Onore del Réseaux de Recherche sur l'Innovation.  Dirigente presso il Consiglio Nazionale delle Ricerche a Roma, è Professore di Innovation, Governance and Public Policy presso l'Londra, Birkbeck College.  Dal 1997 al 2002 è stato Commissario dell'Autorità sui servizi pubblici locali di Roma, eletto a larga maggioranza dal Consiglio Comunale.  La democrazia cosmopolita Il progetto della democrazia cosmopolita o cosmopolitica si interroga sulla possibilità di applicare alcune norme e valori della democrazia anche nelle relazioni internazionali. La necessità deriva dal fatto che la globalizzazione economica e sociale ha reso gli stati sempre più vulnerabili e che decisioni importanti per loro sono prese al di fuori dal processo democratico. La soluzione proposta dalla democrazia cosmopolita è sviluppare istituzioni sovra-statali che siano capaci di affrontare democraticamente problemi comuni quali l'ambiente, la sicurezza, le migrazioni, il commercio estero e i flussi finanziari. La democrazia cosmopolita guarda con fiducia alle organizzazioni internazionali, e desidera rafforzare al loro interno il controllo dei cittadini, cui va dato un peso politico parallelo e autonomo rispetto a quello che già hanno i loro governi. A livello politico, Archibugi ha sostenuto la limitazione del potere di veto nel Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite e la formazione di un'Assemblea Parlamentare Mondiale. Ha invece ritenuto insoddisfacenti e anti-democratici i vertici inter-governativi quali il G7, G8 and G20. Ha anche preso posizione contro l'idea di una Lega delle democrazie sostenendo che una riforma democratica delle Nazioni Unite riuscirebbe assai meglio a soddisfare le medesime istanze.  Giustizia globale Fautore della responsabilità individuale dei governanti nel caso di crimini internazionali, Archibugi ha anche attivamente sostenuto, sin dalla caduta del muro di Berlino, la creazione di una Corte penale internazionale, collaborando sia con i giuristi della Commissione del diritto internazionale delle Nazioni Unite sia con il governo italiano. Nel corso degli anni, la sua posizione è diventata sempre più scettica per l'incapacità dei tribunali internazionali di incriminare i più forti. Ha, quindi, preso posizione a favore di altri strumenti quasi-giudiziari come le Commissioni per la verità e la riconciliazione e i Tribunali d'opinione.   Globalizzazione della tecnologia Archibugi ha proposto una tassonomia della globalizzazione della tecnologia che distingue fra tre meccanismi di trasmissione della conoscenza: sfruttamento internazionale delle innovazioni, generazione globale delle innovazioni e collaborazioni globali nella scienza e nella tecnologia..  Come Presidente di un Gruppo di Esperti dello Spazio di Ricerca Europeo della Commissione europea dedicato alla collaborazione internazionale nella scienza e nella tecnologia, Archibugi ha indicato che il declino demografico dell'Europa, combinato con la scarsa vocazione delle nuove generazioni per le scienze, genererà una drastica carenza di lavoratori qualificati in meno di una generazione. Questo metterà in pericolo il livello di benessere della popolazione europea in aree cruciali come la ricerca medica, le tecnologie dell'informazione e le industrie ad alta tecnologia. Ha così sostenuto di rivedere radicalmente la politica dell'immigrazione europea in maniera di accogliere e formare in un decennio almeno due milioni di studenti dai paesi emergenti e in via di sviluppo, qualificandoli in discipline quali le scienze e l'ingegneria.  Economia della ricostruzione dopo le crisi economiche Da studioso dei cicli economici, Archibugi ha combinato la prospettiva keynesiana derivata dai suoi mentori Federico Caffè, Hyman Minsky e Nicholas Kaldor con quella schumpeteriana derivata da Christopher Freeman e dallo Science Policy Research Unit dell'Università del Sussex. Combinando le due prospettive, Archibugi ha sostenuto che per uscire da una crisi, un paese deve investire nei settori emergenti e che, in assenza di spirito imprenditoriale del settore privato, il settore pubblico deve avere la capacità manageriale di sfruttare le opportunità scientifiche e tecnologiche, anche a salvaguardia dei beni pubblici.  Relazioni familiari Figlio dell'urbanista Franco Archibugi e della poetessa Muzi Epifani, ha numerosi fratelli e sorelle, tra cui la regista Francesca Archibugi e il politologo Mathias Koenig-Archibugi, con il quale frequentemente collabora nei suoi studi. I fratelli maggiori del nonno di suo nonno furono Francesco e Alessandro Archibugi, volontari del Battaglione universitario della Sapienza e la difesa della Repubblica Romana (1849).   Note  D. Archibugi è stato uno degli ultimi e più vicini allievi di Federico Caffè. Partecipò attivamente alle sue ricerche dopo la misteriosa scomparsa. Cfr. D. Archibugi, I ragazzi che cercarono il Prof. Caffè, La Repubblica, 8 aprile. Si veda anche Fabrizio Peronaci, La scomparsa di Federico Caffè. «Un genio anche nell’addio. Come lui solo Majorana», intervista a Daniele Archibugi, Corriere, 10 novembre.  Membres d'honneur du Réseaux de Recherche sur l'Innovation  Consiglio Nazionale delle Ricerche, Istituto di Ricerca sulla Popolazione e le Politiche Sociali  Birkbeck College, Department of Management  Tom Cassauwers, Interview with Daniele Archibugi, E-INTERNATIONAL RELATIONS, 14 settembre.  Campaign for the Establishment of a United Nations Parliamentary Assembly Copia archiviata, su en.unpacampaign.org. 10 ottobre 2009 22 agosto 2009).  D. Archibugi, The G20 is a luxury we can't afford, The Guardian, Saturday 28 March 2008.  D. Archibugi, A League of Democracies or a Democratic United Nations Archiviato il 24 luglio  in., Harvard International Review, Ottobre 2008.  Intervista su Delitto e castigo nella società globale. Crimini e processi internazionali, Letture.org..  Daniele Archibugi e Alice Pease, Delitto e castigo nella società globale. Crimini e processi internazionali, Castelvecchi, Roma,.  Daniele Archibugi, La giustizia penale internazionale tra passato e futuro, Questione Giustizia, 27 gennaio.  Daniele Archibugi and Jonathan Michie, The Globalization of Technology: A New Taxonomy, "Cambridge Journal of Economics",  19, no. 1, 1995,  121-140,  Daniele Archibugi (Chair) Opening to the World. Opening to the World: International Cooperation in Science and Technology Archiviato il 25 luglio  in., European Research Area, 2008,  D. Archibugi e A. Filippetti, Innovation and Economic Crisis. Innovation and Economic Crisis. Lessons and Prospects from the Economic Downturn, Routledge, London,.  D. Archibugi, A. Filippetti & M. Frenz, Investment in innovation for European recovery: a public policy priority, Science & Public Policy, November.  Daniele Archibugi, «Generare imprese europee per la ricostruzione: la lezione Airbus», Il Sole 24 Ore, 5 Maggio.  Floriana Bulfon, «Nuovi imprenditori e lavoratori soddisfatti: solo così dopo il virus l'Italia sarà migliore. Intervista a Daniele Archibugi», L'Espresso, 14 Aprile.  Daniele Archibugi, Mathias Koenig-Archibugi, Raffaele Marchetti, Global Democracy. Normative and Empirical Perspectives, Cambridge University Press, Cambridge,. Nell'ambito degli studi sull'organizzazione internazionale, ha pubblicato: “Filosofi per la pace” (Editori Riuniti); “Cosmopolis. È possibile una democrazia sovra-nazionale?” (Manifestolibri); “Il futuro delle Nazioni Unite” (Edizioni Lavoro); “Diritti umani e democrazia cosmopolitica” (Feltrinelli); “Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica” (Il Saggiatore); “Delitto e castigo nella società globale. Crimini e processi internazionali, (Castelvecchi); “Cambiamento tecnologico e sviluppo industriale, (Franco Angeli); “Economia globale e innovazione” (Donzelli). “Il triangolo dei servizi pubblici, (Marsilio). “Relazione sulla ricerca e l'innovazione in Italia. Analisi e dati di politica della scienza e della tecnologia, seconda edizione (CNR Edizioni, ).  daniele archibugi.org.  Opere di Daniele Archibugi, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.  Registrazioni di Daniele Archibugi, su RadioRadicale, Radio Radicale.  Sito CNR-IRPPS, Commessa Globalizzazione. Determinanti e impatto economico, tecnologico e politico. University of London, Birkbeck College, Home Page Daniele Archibugi. University of London, Birkbeck College, Intervista su "The Global Commonwealth of Citizens" Intervista della LA7 a Daniele Archibugi Sull'innovazione tecnologica, (video). Intervista alla trasmissione Mapperò, SAT2000, sulla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, (video), Parte prima; Parte seconda; Parte terza. Dibattito presso la London School of Economics "È possibile una democrazia globale?" (video in inglese)://globaldemo.org/film/1255[collegamento interrotto] Intervista a LA7 su "Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica",. Intervista a TG3 Linea Notte su "Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica" Intervista a TG2 Punto IT su "Cittadini del mondo. Verso una democrazia cosmopolitica", 15 giugno 2009. Discorso su Secrets, Lies and Power, Berlino, European Alternatives, 18 giugno. Intervista sul volume The Handbook of Global Science, Technology and Innovation, Londra, Birkbeck College, Lo Stato dell`ArteQuale futuro per l’Europa?, Trasmissione Rai5, conduce Maurizio Ferraris, con Daniele Archibugi e Alessandro Politi, 14 luglio. Quante storie Rai3I grandi crimini contro l'umanità, intervista di Corrado Augias a Daniele Archibugi, Crime and Global Justice, Book Launch alla London School of Economics and Political Science, 28 Febbraio, podcast con Gerry Simpson, Christine Chinkin, Richard Falk e Mary Kaldor. Daniele Archibugi, Do we Need a Global Criminal Justice?, Conferenza alla City University of New York, 9 Aprile. Daniele Archibugi, "Cosmopolitan democracy as a method of addressing controversies", IAJLJ CONFERENCE "CONTROVERSIAL MULTICULTURALISM", Roma, Novembre,. Daniele Archibugi, "What is the difference between invention and innovation?", Birkbeck College University of London, 28 Ottobre. Presentazione della Relazione sulla ricerca e l'innovazione in Italia, Roma, Consiglio Nazionale delle Ricerche, 15 ottobre  Filosofi della politica, Filosofi italiani del XXI secolo. Daniele Archibugi. Keywords: PAX ROMANA, due citadini del mondo. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Archibugi” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Archippo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Archippus, a correspondent of Plinio Minore, pleaded exemtion one from jury service on the grounds that “he was a philosopher” and produced letters from Domiziano testifying to that fact, and to his good character. It emerged later that he had been previously been sentenced to hard labour in the mines for forgery, which might cast some doubt on the authenticity of the letters. Although some were keen to see him back in the mines, he was generally popular.

 

Grice ed Archippo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Archippo was a follower of Pythagoras. While living in Crotona, he nearly lost his life when those opposed to the Pythagoreans set fire to a house in which he was attending a meeting.

 

Grice ed Archita – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide, Archita was a pupil of Pythagoras. According to Suda, Archita taught Empedocle di Girgentu, which is IMPOSSIBLE – But the reference may be to THIS Archita, who also seems to have come from Taranto, although some question whether such an individual ever existed.

 

Grice ed Arcidiacono – sintropia, entropia, ed informazione – filosofia italiana – Luigi Speranza (Acireale). Filosofo italiano. Grice: “I like Arcidiacono, and Floridi should pay more attention to him; after all he what Austin called an ‘Oxonian myopist’! I love him!”  “It took me a while to digest Aricidiacono’s non-intentional use of ‘inform,’ but I suppose he rather follows Shannon than Plato!” “Arcidiacono pays due attention to Aristotle’s ‘finalismo,’ and as an Italian, he gives proper due to Plionio – ‘il vecchio,’ as Arcidiacono comically calls him – Strawson: “As if Pliny the Younger were not now part of ‘storia vecchia’!” – Grice: “In any case, give me Salvatore anyday – his brother, Giuseppe, cannot qualify as a philosopher!” – Grice: “And another good thing, too, Arcidiacono, the ‘filosofo’ brough Fantappie as a hashtag in ‘filosofia’!” Grice: “As Arcidiacono notes, Fantappie, not being a filosofo, committed the usual mispellinggs – ‘syntropia,’ rightly corrected to ‘sintropia’ by the philosophy-educated philosopher Salvatore Arcidiacono!” Nato e, per una sorprendente coincidenza, morto lo stesso anno del fratello gemello Giuseppe, divise con quest'ultimo anche gli impegni di ricerca. Laureatosi a Catania. Insegna a Catania. Perfeziona la Teoria unitaria del mondo fisico e biologico, collegandola ai più moderni sviluppi della biologia teorica e molecolare. Da supporto teorico speculativo nel campo della chimica e della fisica teorica. Elabora una formulazione mediate della teoria sintropica nonché della Teoria degli universi. Saggio “Visione unitaria dell'Universo”. “Spazio, tempo, universe”.  Altre opere: Visione unitaria dell'Universo” (UCIIM, Roma); “Spazio, tempo, universe” (Edizioni del fuoco, Roma); “Materia e Vita” (Massimo, Milano); “Ordine e Sintropia la vita e il suo mistero” (ed. Studium Christi, Roma); “L'evoluzione sintropica” (Accademia degli zelanti e dei dafnici, Acireale); “Creazione, evoluzione, principio antropico” (ed. Il fuoco-Studium Christi); “Entropia, sintropia, informazione. Una nuova teoria unitaria della fisica, chimica e biologia” (ed. Di Renzo, Roma); “L'evoluzione dopo Darwin. La teoria sintropica dell'evoluzione, ed. Di Renzo, Roma); “Problemi e dibattiti di biologia teorica, ed. Di Renzo, Roma. Licata, Teoria degli Universi e Sintropia Archiviato il 17 settembre  in.  vedi pag 103 di L'accoglienza delle idee di Pierre Teilhard de Chardin nella cultura italiana, Scapini, Demetrio Sodi Pallares, Terapia metabolica delle cardiopatie. Nuovo approccio terapeutico PICCIN, Padova Vannini, 2005.  L'accoglienza delle idee di Pierre Teilhard de Chardin nella cultura italiana degli anni 1955-Salvatore Arcidiacono, Nuevas ideas para la evolución biològica, articolo su Folia humanistica, Barcellona, novembre 1982, n. 238.  Revue internationale Pierre Teilhard de Chardin, Edizioni 85-98, Ministère de l'éducation nationale et de la culture Belgique, Editore Société Pierre Teilhard de Chardin, Vannini, From mechanical to life causation,, Syntropy, (WC ACNP) Felicita Scapini, La logica dell'evoluzione dei viventiSpunti di riflessione, in Atti del XII Convegno del Gruppo italiano di biologia evoluzionistica Firenze, Firenze, University press, Fantappié Giuseppe Arcidiacono Sintropia  Biografia sul sito del suo editore, su direnzo 9 luglio ). V D M Filosofia della scienza 266416940  Filosofi. Salvatore Arcidiacono. Keywords: sintropia, entropia, ed informazione; sintropia, antropia, entropia. arcidiacono — l’implicatura del principio antropico — biologia filosofica — filosofia della vita — fissisismo — naturalismo — finalismo — vivere — vivente — ominazione — animazione — definizione del vivente como movente autonomo — il fine —Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Arcidiacono” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Arco – GRAVITAS – filosofia italiana – Luigi Speranza (Teano). Filosofo italiano. Grice: “I should like Arco; but he is a priest and I’m C. of E.; on top, I love to say that philosophy ought to be FUN, provided it’s MY FUN – not Arco’s – so I find Arco’s ‘dictionary of philosophical ‘umorismo,’ or filosofia ‘umoristica’ frivolous, and unworthy of Roman gravitas!” Nato nella frazione Fontanelle entra fra i Salesiani di Don Bosco e fu ordinato sacerdote a Roma. Consegue a Napoli la laurea in filosofia. Per la sua preparazione filosofica, nonché per la profondità della sua filosofiai, è considerato tra i maggiori filosofi italiani. Per lungo tempo è stato professore di filosofia presso gli Istituti Salesiani di Don Bosco.  Ricoverato all'ospedale “San Leonardo” di Castellammare di Stabia, per un blocco renale, e ritornato a Pacognano di Vico Equense dopo aver superato la crisi, è morto novantaquattrenne. Uomo di anima sensibile e di infinita fede ha trascorso molto della sua vita scrivendo, interessandosi di agiografia. È stato protagonista televisivo sulla prima rete nazionale con il programma: Tempo dello Spirito.  Intensa e vasta la sua opera letteraria.  Altre opere: “Bartolo Longo e la sua intimità con Dio”; “Don Bosco si diverte”; Sorgenti di gioia; Gesù sotterra un chicco di grano; Giorgio La Pira e il risorto; “Fiori di sapienza. Dizionarietto di saggezza”; “La Donna del Sanctus; Papa Giovanni beato. La parola agli atti processuali; Quando la teologia prende fuoco. Giuseppe Quadrio sacerdote salesiano; Don Bosco nella luce del Risorto; Don Bosco sorridente entra in casa vostra”; “Così Don Bosco amò i giovani”; “Il Padre Nostro”; “Ma c'è poi questo Dio; Nota bene; Sorgenti di Gioia; L'Ave Maria inno dell'amore filiale; Il Beato Filippo Rinaldi copia vivente di Don Bosco; “La sorgente eterna dell'amore”; “Noi esistiamo perché Dio Padre ci ama; Stile di Serenità; La Gioia a Portata di Mano; Ridi e sorridi da saggio; Il Beato Bartolo Longo; Dolcezza e speranza nostra; Dio ci ama con cuore d'uomo; Il Padre nostro; La Leva del Mondo: la preghiera; Sant'Eustachio; Il Cristo in cui Spero; Giorgio La Pira Profeta e testimone del Risorto; Serva di Dio Elisabetta Jacobucci Francesca Alcantarina; Beata Maria della Passione; Il Servo di Dio B. Longo; Papa Giovanni Beato; Così ridono i saggi; Fiori di sapienza; Il segreto di papa Giovanni; S.Alfonso amico del popolo; La Donna del Sanctus; Il Sacro nome ti chiama per nome; La Leva del Mondo: la preghiera; Il monumento alla Pace Universale del beato Bartolo Longo; Il Salesiano è fatto così; Messaggio di Teilhard De Chardin. Intuizioni e idee madri (Elledici Torino); Un esploratore della felicità: biografia del Servo di Dio Giacomo Gaglione, Apostolato della Sofferenza. Citazionio su Adolfo L'Arco  La comunità di Pacognano ricorda don Adolfo L'Arco di Raffaele Meazza, Il Giornale di Napoli, sito "Positano news", Identities Biografie  Biografie:  di   Biografie Categorie: Religiosi italianiTeologi italianiFilosofi italiani Professore Teano Vico Equense. Adolfo L’Arco. Arco. Keywords: gravitas, hagiography; if he has religious faith, he is not a philosopher. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Arco” – The Swimming-Pool Library

 

Grice ed Ardigò – filosofia italiana – Luigi Speranza (Casteldidone). Filosofo italiano. Grice: “I love Ardigo – but I have a few qualms – his “Opere filosofiche’ is improperly indexed! The man wrote zillions! My attention was first caught by  minor editorial note: “’La morale dei positivisti’ was reprinted a few years later after its first edition as divided into two parts, “la morale’ proper and ‘Sociologia’ – Since I have used philosophical biology and philosophical psychology, Ardigo is indeed into ‘philosophical sociology’ – As he notes, ‘sociology’ is today’s philosophese for Aristotelian politics – politica – re publica romana – And being a positivist, Ardigo provides some good background – which will later be ‘refuted’ by the neo-idealists that opposed this sort of philosophy – to the idea of two organisms (two pirots) interacting --. While I speak of conversational egoism as balanced by conversational tu-ism; Ardigo, less of an altruist, and who laughs at the ‘ridiculous’ sensist conception of ‘simpatia’ – speaks of two principles: the principle of egoism, or prepotence, found amoung brutal animals – and the principle of what he calls ANTI-EGOSIM, found in the civil Italian gentleman – the word ‘civile’ is crucial, as in Castiglione, ‘discorso,’ or ‘conversazione’ civile.  If Wilson found it offensive when Chomsky spoke of two ideal communicadtors, this is no problem for the positivist – As Ardigo notes, an Italian will not behave conversationally in the same way when conversing with some he regards as below his station  -- that’s why he (and later I adopted the same guideline) uses ‘Romolo’ and ‘Remo’ (rather than Jack and Jill, since there is a gender issue here) as  communicators. As he puts it, ‘the fact that Romolo eventually kills his ‘fratello’ is hardly relevant from a positivist point of view – surely we don’t require ANTI-EGOSIM to hold indefeafeasibly, I would disagree with Ardigo’s dismissal of Remo’s murder – ‘l’assassinio di Remo’ – I discussed this with Hardie – in English, and, after a ten-minute pause, all I got from him was, ‘what do you mean by ‘of’?’” -- Essential Italian philosopher. Grice: “It’s amazing Ardigo found psychology a science, and a positive one, too!” – Altre opere: “La psicologia come scienza positive”; “Scritti vari”; “Venti canti di H. Heine tradotti 100 percent.svg  di Heinrich Heine (1922), traduzione dal tedesco (1908) Testi su Roberto Ardigò. Per le onoranze a Roberto Ardigò 100 percent.svg  di Mario Rapisardi. Gemeinsame Normdatei  data.bnf.fr  Comité des travaux historiques et scientifiques  Brockhaus Enzyklopädie  Dizionario Biografico degli Italiani Categorie:  Casteldidone Mantova 1828 1920 28 gennaio 15 settembreAutoriAutori del XIX secoloAutori del XX secoloAutori italiani del XIX secoloAutori italiani del XX secoloReligiosiFilosofiPedagogistiReligiosi del XIX secoloReligiosi del XX secoloFilosofi del XIX secoloFilosofi del XX secoloPedagogisti del XIX secoloPedagogisti del XX secoloAutori italianiReligiosi italianiFilosofi italianiPedagogisti italianiAutori citati in opere pubblicateAutori presenti sul Dizionario Biografico degli Italiani Refs.: Grice, “Ardigò and a positivisitic morality,”  Luigi Speranza, "Grice ed Ardigò," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa Grice, Liguria, Italia. ARE. Ricerca Roberto Ardigò psicologo, filosofo e pedagogista italiano, Lingua Segui Modifica «L'inconoscibile di oggi è il conosciuto di domani.»  (Roberto Ardigò[1]) Roberto Felice Ardigò (Casteldidone, 28 gennaio1828 – Mantova, 15 settembre 1920) è stato uno psicologo, filosofo e pedagogista italiano.   Roberto Felice Ardigò Biografia Modifica Roberto Felice[2] Ardigò nacque a Casteldidone, in provincia di Cremona, il 28 gennaio 1828, da Ferdinando Ardigò e Angela Tabaglio. A causa delle difficoltà economiche della famiglia, un tempo agiata, si dovette spostare a Mantova, dove il padre trovò lavoro presso i cognati. La madre era profondamente religiosa, mentre il padre sostanzialmente indifferente in materia. Egli ne avrà sempre profondo rispetto e un forte legame, come anche con la sorella.[3]  Studi teologici Modifica Studiò a Mantova, per poi iscriversi nel 1845 al liceo del Seminario vescovile. Nel 1848 ottiene un posto gratuito nel seminario di Milano, ma in seguito ai moti risorgimentali é costretto a rientrare a Mantova. Il suo successivo tentativo di arruolarsi nell'esercito di Guglielmo Pepe è frustrato da una febbre malarica che lo colpisce alla vigilia della battaglia di Goito. Proseguì poi gli studi teologici. Dopo la morte dei genitori, fu accolto a casa sua da Mons. Luigi Martini, rettore del Seminario mantovano. In quegli anni il Seminario era investito dalla congiura patriottica che porterà al supplizio dei Martiri di Belfiore, dei quali ben tre erano sacerdoti, tra cui il leader della congiura Don Enrico Tazzoli, insegnante presso lo stesso Seminario.   Ardigò fu infine ordinato sacerdote. L'insegnamento positivista, la sospensione e la scomunica Modifica Nel 1870 pubblicò La psicologia come scienza positiva e nel 1876 tentò di istituire presso il Liceo di Mantova, dove insegnava[4], un Gabinetto per le ricerche psicologiche.[3] Nel metodo di insegnamento, poi, privilegiava il personale e diretto coinvolgimento degli allievi, sollecitandoli al libero dialogo, con una attenta analisi di brani critici e dei filosofi, cosa non troppo gradita alle gerarchie ecclesiastiche e al Ministero dell'Istruzione.  Già preda di una crisi religiosa molto forte, che lo portò infine a divenire ateo[5], tutta questa polemica lo condusse appunto a smettere l'abito ecclesiastico nel 1871, a 41 anni, dopo aver aderito ormai completamente alle posizioni positiviste ed evoluzioniste, che andavano nettamente in contrasto ai dettami della Chiesa cattolica del tempo, e aver attaccato apertamente il dogma dell'infallibilità papale.[3]  Alla fine, Ardigò venne anche scomunicato, ultimo atto della polemica contro la Chiesa di cui aveva fatto parte.[6][7]  Professore universitario Modifica  Casteldidone, lapide sulla casa natale In totale insegnò storia della filosofia all'Università di Padova per 28 anni dal 1881. Considerato tra i padri della psicologia scientifica italiana[8] per aver promosso una concezione scientifica della psicologia, concepì una complessa teoria della percezione e del pensiero che non ebbe completa dimostrazione sperimentale. Nel 1882 Ardigò svolse uno dei suoi maggiori esperimenti in campo psicologico sperimentale, sulle condizioni dell'adattamento visivo su prismi ottici.[3] Diverse furono le materie che insegnò nei lunghi anni d'insegnamento universitario fino alla data del 1º giugno 1909 quando fu collocato a riposo. Fu, altresì, preside della facoltà di filosofia e lettere dal 1899 al 1902.[3]  Il 31 maggio 1908 divenne socio dell'Accademia delle scienze di Torino.[9]  Il 16 ottobre 1913 fu nominato senatore del Regnoma fu impossibilitato a raggiungere Roma per il giuramento.[3]  Durante la sua vita elogiò Giuseppe Mazzini[10] e Giuseppe Garibaldi[11], criticò la massoneria[12] (in quanto la riteneva non necessaria in uno stato ormai libero) ed espresse idee fortemente repubblicane.[13]  Ultimi anni e suicidio Modifica Negli ultimi anni di vita, isolato dall'ambiente intellettuale, ma non dai suoi discepoli più stretti, soffrì di gravi problemi fisici e depressivi (acuiti dalla morte della sorella Olimpia, che viveva a casa sua, nel 1907), che lo condussero a un primo tentativo di suicidio a Padova nel 1918 (dopo aver appreso della disfatta di Caporetto e della morte di molti giovani italiani), fallito perché la ferita non era grave[3], ma che si sarebbe ripetuto il 27 agosto 1920[14], questa volta riuscendo nel suo intento: Ardigò morì infatti suicida all'età di 92 anni nella sua ultima sistemazione a Mantova a casa Nievo, abitazione che era stata di Ippolito Nievo. Si autoinflisse una ferita colpendosi con un rasoio (o una roncola) arrugginito alla gola.[15] Le testimonianze dell'epoca riferiscono che venne trovato seduto alla scrivania, con la barba bianca del tutto sporca di sangue (barba che gli fu tagliata dai soccorritori ed è tuttora conservata come cimelio nella sala blindata della Biblioteca di Mantova[15]); soccorso dai medici, perse comunque conoscenza dopo aver ribadito le sue intenzioni, e morì due settimane dopo, il 15 settembre.[3][15]  Ricezione dell'opera di Ardigò Modifica Il tragico atto finale della sua vita venne usato dai suoi detrattori - clericali o neoidealisti - per screditare il positivismo in declino o visto come un gesto di demenza senile, e non come un atto di un uomo ormai stanco a livello psicofisico, che aveva dato tutto e vissuto la sua lunga vita secondo coscienza, quale in effetti era. D'altra parte, seppur il sistema di Ardigò non era anti-idealistico, furono gli idealisti ad attaccarlo filosoficamente, seguiti dai marxisti di inizio secolo, come Antonio Gramsci, talvolta paragonandolo agli esiti più deleteri del positivismo, come l'antropologia criminale di Cesare Lombroso (risultata poi non scientifica), determinando l'oblio parziale delle sue opere, tra i maggiori libri filosofici tra il periodo illuminista (con l'esclusione delle opere filosofiche di Giacomo Leopardi) e il neoidealismo di Croce e Gentile. Con lo sviluppo del positivismo logico e la riscoperta del positivismo, si è avuta una lenta rivalutazione di Ardigò, il maggiore esponente italiano del movimento, assieme a Maria Montessori e, come lei, tra i fondatori della pedagogia e della psicologia moderna[3][16][17], oltre che uno dei maggiori pensatori laici della cultura italiana tra XIX e XX secolo.[18]  Commemorazioni Modifica Sulla sua casa venne apposta una lapide, quando ancora egli era in vita:  «(Mantova) (in una pergamena). Indagatore sapiente dei fenomeni del pensiero e del sentimento. Assertore impavido della naturale formazione e dell'unità molteplice della vita. La Società magistrale Mantovana, col plauso degl'insegnanti elementari d'Italia, della Società filosofica dei professori di Morale e di Pedagogia, festeggiando l'ottantesimo compleanno del Maestro sublime, augura con fervidi voti che la nuova generazione cresca degna di lui nel culto della scienza, nell'apostolato della verità.»  (Epigrafe di Mario Rapisardi) La città di Monza gli ha dedicato una scuola media inferiore e una strada. Anche Milano gli ha dedicato una strada in zona Forlanini, così come Roma che gli ha dedicato una piazza tra il quartiere dell'EUR e la Via Laurentina.  I libri della sua biblioteca personale sono conservati presso la Biblioteca universitaria di Padova.[3]  PensieroModifica  Mantova, lapide commemorativa Il suo pensiero mosse dalla conoscenza dei classici teologici e filosofici, come Agostino d'Ippona e Tommaso d'Aquino (poi abbandonati), all'adesione al razionalismo e al positivismo di Auguste Comte ed Herbert Spencer (con cui ebbe una corrispondenza epistolare, ma di cui non condivide né il darwinismo sociale, né il ruolo marginale da questi attribuito alla filosofia), passando attraverso il naturalismo del Rinascimento, come quello panteistico di Giordano Bruno.[19] D'altra parte, del sapere magico-ermetico della filosofia cinquecentesca della natura, da Bruno stesso a Bernardino Telesio, non vi è alcun residuo nella filosofia positiva di Ardigò, che prova disinteresse e disprezzo per la rinascita romantico-idealista della filosofia, a cui, dopo la "conversione laica", contrappone la vera filosofia scientifica.[19]  Caratteri della «filosofia positiva» di Ardigò Modifica L'originalità della sua filosofia si distanzia tanto dall'enciclopedismo naturalistico quanto dal tradizionale spirito di sistema, aprioristico, deduttivistico, dogmatico.[19] La filosofia trova la sua specificità nel fondamento del fatto (fisico o psichico) e nell'argomentazione induttiva, contro le deduzioni a priori, metafisiche, che non hanno fondamento nell'esperienza come la deduzione logico-matematica.[20]   Auguste Comte Una filosofia, che accetti metodo scientifico e voglia dirsi scientifica, rifiuta quindi le tesi metafisiche, le entità trascendenti inverificabili, accetta le ipotesi da verificare. Contro l'astratto razionalismo metafisico della filosofia, è andato emergendo, secondo Ardigò, dapprima il naturalismo rinascimentale, che ha trovato seguito nell'empirismo, nell'illuminismo e nel sensismo, fino al darwinismo e al positivismo.[20]  Una filosofia positiva non può nutrire certezze definitive (se vuol essere portatrice di tesi riformulabili come le teorie scientifiche) e non può essere un sistema unitario e dogmatico.[20] Ardigò propone una filosofia che, perduto l'ambito delle scienze naturali positive, si specifica in autonomia come scienza dei fatti psichici (psicologia) e dei fatti sociali (sociologia).[20]  Psicologia, pedagogia e sociologia positive Modifica I suoi contributi nell'ambito delle scienze sono importanti per l'impostazione generale. Interessanti sono le sue idee sull'evoluzione intesa come passaggio dall'indistinto al distinto, ma anche condizionata dal caso e caratterizzata dal ritmo. Non tutto dunque è lineare e meccanico. Ardigò fu uno dei primi psicologi moderni, anche se non nel senso di terapeuta, ruolo che sarà ricoperto dagli psicoanalisti e dagli psichiatri, ma nel senso di formatore pedagogico e professionale, oltre che di teorico e studioso della psiche, come Henri Bergson.[21]  Ardigò insistette sulla necessità di una psicologia ed una pedagogia scientifiche, soffermandosi sul ruolo delle abitudini. L'educazione infatti sul piano naturale può essere ricondotta all'acquisizione di comportamenti sedimentati e certi; questo significa il passaggio da una pedagogia metafisica ed astratta ad una pedagogia intesa come scienza dell'educazione.[21]  L'Io, l'Indistinto e la nascita della coscienza Seguendo comunque l'assioma comtiano che "non ci può essere scienza se non di fatti" (anche se Comte riconduce la psicologia alla filosofia e alla medicina, oltre che alla sociologia), egli conia inoltre il termine di "confluenza mentale".[22]  Teorie pedagogiche Modifica Ardigò dice:   «la pedagogia è la scienza dell'educazione, per questo l'uomo può acquisire le abitudini di persona civile, di buon cittadino.»  Per Ardigò dunque non tutte le abitudini sono educative. Dal punto di vista didattico privilegiò l'intuizione, il metodo oggettivo, la lezione delle cose, il passaggio dal noto all'ignoto, insegnando poche cose alla volta, ritornando più volte sulle cose spiegate e facendo continue applicazioni di teorie e casi nuovi. Egli rivalutò la funzione del gioco, il quale permette al bambino l'occasione di vedere e toccare gli oggetti, riconoscerne le proprietà e le somiglianze, favorendo lo sviluppo fisico, il quale va d'accordo con quello mentale. Proprio in riferimento al gioco, Ardigò criticò le idee di Fröbel.[23]  Il problema di Ardigò fu quello di coniugare la formazione di giuste abitudini con la libertà e l'autonomia propugnata dai Giardini d'infanzia di Fröbel.[23]   Charles Darwin Natura ed evoluzionismo Modifica Il sistema ardigoiano si configura come un “naturalismo” evoluzionistico (da lui chiamato però realismo positivo) che cresce sulla consapevolezza delle scienze e della tecnica, e si regge sotto una solida epistemologia, mentre si rivolge anche alla morale, sottraendola al riduzionismo naturalistico e meccanicistico, riservando alla psicologia la funzione di sovrintendere al tutto.[24] Se tutto ciò che esiste è un fatto naturale, dal cosmo al cervello umano, dai vegetali ai minerali, non esiste e non può esistere un Ente trascendente metafisico e non è pensabile alcun progetto finalistico che permetta una comprensione teleologica della Natura; ad essa ci si può avvicinare solo con spirito scientifico.[24]L'ignoto di Ardigò non trascende l'esperienza, non ne è causa prima e soprannaturale, per cui il suo immanentismo non finisce mai nello spiritualismo a-scientifico e irrazionalistico (accusa spesso rivolta da Benedetto Croce ai positivisti).[24] Un motivo di originalità è offerto dal tentativo di attenuare il determinismo e meccanicismo evoluzionistico e positivistico tramite la dottrina della casualità. La realtà è per lui continuo passaggio dall'Indistinto al distinto, e i distinti sono la coscienza umana e il mondo esterno, frutto entrambi dalle sensazioni e da quell'Indistinto dalla quale procedono per «autosintesi ed eterosintesi».[24]  Riflessione morale Modifica Egli punta a far rinascere un'etica laica, naturalistica, non prescrittiva, che pone l'uomo davanti alle scelte, dandogli strumenti conoscitivi per una scelta razionale.[25] Rimane estraneo però alla questione sociale e alle istanze socialiste (nonostante la collaborazione con Turati), e, ancor prima, anarchiche, ampiamente diffuse in Italia, come isolato è anche rispetto alla politica.[26]  Le idealità sociali o massime morali si distinguono in[27]:  naturali, perché frutto solamente dell'evoluzione della specie e della psiche individuale sociali vere e proprie, cioè etico-giuridiche perché determinate dalla convivenza; esse devono la propria oggettività alla loro «genesi (...) individuata nello sviluppo “materiale” dell'uomo (biologico, fisico, ecc.) e (...) si esprimono storicamente in istituzioni (come la famiglia, lo Stato) le quali disciplinano e orientano le azioni umane».[27] Va detto che la riflessione ‘di periodo’ ardigoiana sulla moralità e sulle idealità sociali “nell’idea della giustizia” mostra l’intento di fondare in Italia la sociologia come scienza sulla cauta possibilità di concepire nella società la morale senza la religione (Roberto Ardigò, La morale dei positivisti, Milano, Natale Battezzati, 1879, XXI, p. 290 e sg.). Il progetto di Roberto Ardigò si concretizza maggiormente nelle pretese di fondare un sapere laico in grado di confrontarsi con le sfere dell’etica e della filosofia speculativa, senza che quest’ultima possa vantare ex ante una alleanza “forte” di filosofia e religione e senza avere avuto un confronto con i temi messi in campo dalla scienza e dai suoi più immediati avanzamenti, così e come mostrano proprio i primi passi dell’idea di formare un sapere sociologico autonomizzato dalle sfere dell’eticità (Guglielmo Rinzivillo, Ardigò e la prima sociologia in Italia, su “Scienzasocietà” n.50, A. IX maggio-agosto 1991, pp. 25 –31). In questo senso l’impresa di Ardigò di confrontarsi direttamente con il sapere speculativo risulta essere l’unica nel suo genere al cospetto del positivismo di fine secolo XIX (Guglielmo Rinzivillo, La scienza e l’oggetto. Autocritica del sapere strategico, Milano, Franco Angeli, 2010, ristampa 2012, II, ISBN 9788856824872 ). Ma il tentativo di formare una scuola si infrange nella ripresa sia europea dello spiritualismo che più nostrana dell’idealismo e nella contestazione delle dottrine filosofiche di seguaci come Giovanni Marchesini e Giuseppe Tarozzi (Mariantonella Portale, Giovanni Marchesini e la “Rivista di Filosofia e Scienze Affini”. La crisi del positivismo italiano, Milano, Franco Angeli, 2010, ISBN 8856825643) Altre opere: “Discorso sulla difesa dalla inondazione”; “Pomponazzi”; “La psicologia come scienza positive” – cf. Grice psicologia filosofica --; “La formazione naturale nel fatto del sistema solare”; “La morale dei positivisti”; “Sociologia”; “Il fatto psicologico della percezione”; “Il vero”; “La scienza della educazione”; “La ragione”; “L'unità della coscienza”; “La nuova filosofia dei valori”; “Canti di Heine(1922), traduzione dal tedesco Raccolta delle opere, “Filosofia” (Padova, Draghi). Citato in: Alberto Bonetti, Massimo Mazzoni, L'Università degli studi di Firenze nel centenario della nascita di Giuseppe Occhialini (1907-1993), Firenze University Press, 2007, pag. 90, nota ^ Ardigò, Roberto ^ a b c d e f g h i j k Marco Paolo Allegri, Il realismo positivo di Roberto Ardigò. L'apogeo teoretico del positivismo Archiviato il 10 dicembre 2014 in Internet Archive. Guido Cimino e Renato Foschi, Percorsi di storia della psicologia italiana, Kappa, 2015, p. 26, ISBN 8865142162. ^ Antonio Dal Covolo, Roberto Ardigò. Dal sacerdozio all'ateismo ^ Ardigò su Chi era costui? ^ Ardigò e il sistema positivistico, dal sito della Congregazione per il Clero del Vaticano ^ Luccio Riccardo, Breve storia della psicologia italiana. Psicologia Contemporanea, Roberto ARDIGO', su www.accademiadellescienze.it. URL consultato il 16 luglio 2020. ^ Numero unico, Mazzini, giugno 1905, Milano). ^ Discorso commemorativo pronunciato sul Monumento dei Martiri il 5 giugno 1882 in piazza Sordello. Dal giornale Il Mincio, 11 giugno 1882. ^ Egregio Sig. Genovesi. Rispondo subito alla di Lei lettera, che convengo interamente con Lei che dice giustamente che La Massoneria in uno stato libero è un non senso: e che a combattere l'oscurantismo è più efficace l'opera indefessa ed aperta di educazione e di elevazione civile che non l'opera tenebrosa e nascosta di una setta: e che coll'esistenza di questa la gran massa popolare non può che perdere la fiducia nella giustizia pubblica del proprio paese, nell'idea che la massoneria sia poi in fine una associazione di interesse pei soci a danno di quelli che non vi appartengono. E fortuna per me che alle scomuniche sono avvezzo, e nulla temo perché nulla spero. ^ Lettera del 20 febbraio 1879 in Lettere edite ed inedite, a cura di W. Büttemeyer, 1° vol., 1990, p. 191. ^ Ardigò, Roberto - Il Contributo italiano alla storia del Pensiero – Filosofia (2012) di Alessandro Savorelli, Treccani ^ a b c Roberto Ardigò 1828-1920 (PDF ), su lnx.societapalazzoducalemantova.it. URL consultato il 17 novembre 2014 (archiviato dall' url originale  il 29 novembre 2014). ^ La cultura filosofica italiana dal 1945 al 1980, Lampi di stampa, 2000, p. 159 ^ Wilhelm Büttemeyer, Roberto Ardigò e la psicologia moderna, Firenze, La Nuova Italia, 1969 ^ Veniero Accreman, La morale della storia, Guaraldi, Giovanni Landucci, Roberto Ardigò e la "seconda rivoluzione scientifica", ed Franco Angeli, RIVISTA DI STORIA DELLA FILOSOFIA, 1991 ^ a b c d Marco Paolo Allegri, Il realismo positivo di Roberto Ardigò. L'apogeo teoretico del positivismo Archiviato il 10 dicembre 2014 in Internet Archive., pagg. 24-25 ^ a b A. Groppali e G. 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Francesco Bonatelli, Roberto Ardigò e Giuseppe Zamboni, Padova, Poligrafo. Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata Roberto Ardigò, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata Alessandro Bortone, ARDIGÒ, Roberto, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 4, Istituto dell'Enciclopedia Italiana,Opere di Roberto Ardigò, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Modifica su Wikidata (EN ) Opere di Roberto Ardigò, su Open Library, Internet Archive  consultabili nell'Archivio di Storia della Psicologia, su archiviodistoria.psicologia1.uniroma1.it. URL consultato il 16 dicembre 2011 (archiviato dall' url originale  l'11 luglio 2012). Alessandro Savorelli, Il contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Altre opere: Pietro Pomponazzi. La psicologia come scienza positiva. La formazione naturale del sistema solare. L’inconoscibile di H. Spencer e il Positivismo. La religione di T. Mamiani. Lo studio della Storia della filosofia.  La Morale dei Positivisti. Relatività della Logica umana. La coscienza vecchia e le idee nuove. Empirismo e scienza.  Sociologia. Il compito della filosofia e la sua perennità. II fatto psicologico della Percezione. Il Vero. La Ragione. La scienza sperimentale del pensiero. Il mio insegnamento della filosofia nel R. Liceo di Mantova.  L’Unità della coscienza. L’Inconoscibile di H. Spencer e il Noumeno di E. Kant. Il meccanismo dell’intelligenza e l’ispirazione geniale. L’indistinto e il distinto nella formazione naturale. Note eticosociologiche — Articoli pedagogici. Il Pensiero e la Cosa. L’idealismo della vecchia speculazione e il Realismo della filosofia positiva. La formazione naturale e la dinamica della psiche. Saggio di una ricostruzione scientifica della psicologia. La perennità del Positivismo. Monismo metafisico e monismo scientifico.  La filosofia nel campo del sapere. Atto riflesso e atto volontario. I tre momenti critici nella storia della Gnostica della filosofia moderna. Il sogno della veglia. Tesi metafisica, ipotesi scientifica e fatto accertato. Il quadruplice problema della Gnostica. Guardando il rosso di una rosa. La nuova filosofia dei valori. Una pretesa pregiudiziale contro il Positivismo. L’Inconscio — A. Comte, H. Spencer e un positivista italiano. Infinito e indefinito.  Fisico e psichico contrapposti. Repetita juvant. I presupposti Massimi Problemi. Il Positivismo nelle scienze esatte e nelle sperimentali. L’individuo. Estema, idea, logismo. Le forme ascendenti della realtà come cosa e come azione e i diritti veri dello spirito. Lo spirito aspetto specifico culminante della Energia in funzione nell’organismo animale. La meteora mentale. Filosofia e positivismo. La ragione scientifica del dovere. La filosofia vagabonda. L’intelligenza. Altre opere: SCRITTI VARI  RACCOLTI E ORDINATI DA GIOVANNI MARCHESINI  Le Monnier scuola - nuovo FIRENZE  FELICE LE MONNIER. Prefazione; opere filosofiche; Polemiche; La confessione; Sulla storia della confessione esposta nel n. 181 della Favilla dal sig. Eugenio Pettoello. Il prete professore Ardigò e la confessione. Calunnie. Risposta del prete professore R. Ardigò alla lettera del sig. Luigi De Sanctis inserita nel n. 217 della Favilla. Dichiarazione ai lettori. Lettera dell'illustre De Sanctis. Articolo comunicato. La psicologia positiva e i problemi della filosofia. Dialogo. Il filosofo e un ignorante. Il liberalismo di R. Ardigò. Contro la massoneria. R. Ardigò e A. Fouillée. Discorsi. Garibaldi. Discorso di commemorazione. Per il 70° anniversario. Le Ancelle della carità al Civico Spedale. I programmi e l’ordine dell’insegnamento. Il cultore vero della scienza. La gerarchia dei godimenti. La libertà del sentimento religioso. L’unità internazionale. La filosofia col nuovo regolamento universitario. La scuola classica e la filosofia. Divisi dalle religioni, la scienza ci riunirà. Il dolore morale nella società. La polarizzazione del lavoro mentale. La breccia di Porta Pia. Il significato morale del XX Settembre. Le immagini rovesciate. Il metodo del lavoro intellettuale di R. Ardigò. La formazione inconscia delle convinzioni. La condizione fisica della coscienza. Lettere 100%.svg  Lettera 1 100%.svg  Lettera. Giudizi e pensieri. Giudizi. Pensieri. Versi. Uno scherzo in un'ora allegra. Intecta fronde quies. Venti canti di H. Heine. Schöne Wiege meiner Leiden. Warte, warte, wilder Schiffsmann. Berg und Burgen schaun herunter. Der Traurige. Zwei Brüder. Die Grenadiere. Auf Flügeln des Gesanges. Liebste, sollst mir heute sagen. Mein süsses Lieb, wenn du im Grab. Ich weiss nicht was soll es bedeuten. Mein Herz, mein Herz ist traurig wie der Mond sich leuchtend dränget auf dem Hardenberge. Der Hirtenknabe. Nachts in der Kajüte. SOCIOLOGIA. Dedica. Avvertenza. Il potere civile; La reazione dell' individuo e   quella della società; il Diritto intemazionale; Machiavellismo politico; l’ideale della società umana; le giustizie sociali; L'Idealità sociale impulsiva del  volere individuale è una giustizia; L'Idealità sociale è una giustizia potenziale; diritto positivo e diritto naturale; triplice ufficio del potere; giustizia e diritto nella convenienza; la giustizia; la Giustizia legale (seconda forma dell' ufficio del Potere) è  una gradazione evolutiva superiore di un indistinto inferiore da cui emerge; dall'indistinto della prepotenza  (principio egoistico) nasce il  distinto della giustizia (principio anti-egoistico) che è la  risultante dinamica di quella; la formazione della giustizia  nel senso proprio va colla  formazione del potere onde  è l’espressione; la giustizia è la forza specifica   dell' organismo sociale; la gradazione della giustizia; dovere giuridico e dovere  morale; obbligatorietà e trascendenza  imperativa del dovere nella  coscienza morale; atteggiamento vario della giustizia e coefficienti relative; funzione della giustizia morale; l'autorità; criterio positivo del diritto e  del dovere; i diritti dell'uomo sopra le altre cose della natura; i diritti dell'uomo sopra se  stesso; suicidio; il diritto d’autorità; l’autorità nel diritto naturale; la dottrina positiva dell'autorità e del diritto è liberale; Gl’attti benefici nell' etica tradizionale; gl’atti benefici nel positivismo; falsa apparenza di paralogismo; la virtù, il merito, il premio; l’ordine morale; il bene sociale; il fatto del diritto (diversità,  specie, coordinazione) e il suo  ideale; il diritto è in virtù di se stesso; il diritto è la facoltà del bene  sociale; l'esercizio del diritto è la funzione del bene  sociale; il diritto costa una contribuzione; le unità minime, le unità medie e l’unità massima nel corpo  sociale; la selezione interorganica nella  evoluzione formatrice dello  Stato Come risulti spiegata la prima  forma dell' ufficio del Potere,  e anche la terza: e stabilito  r assunto del libro  Conclusione. SOCIOLOGIA Atxyj^ 8vo|ia oòx dEv ^Seaav, el xaOxa fJ “Non ci sarebbe l’idea della giustizia se non fossero i supplizi.” -- Eraclito di Efeso presso Clem. Strom. IV, j.. ALL’ILLUSTRE PROFESSORE ENRICO FERRI IL QUALE PRIMEGGIANDO FRA I MAESTRI DELLA SCIENZA NUOVA DEL DIRITTO PENALE SI COMPIACE DI RICORDARE CHE ALL’INDIRIZZO POSITIVO DELLA SUA MENTE FECONDISSIMA NON FURONO ESTRANEE LE LEZIONI DEL SUO ANTICO MAESTRO L'AUTORE DEDICA QUESTO SAGGIO IN SEGNO DI FRATERNO AFFETTO. AVVERTENZA. Questa sociologia costitue una parte della morale dei Positivisti. Fu in ogni parte o ritoccata o rifatta. Non vi si trattano tutte le questioni introdotte e discusse generalmente nei saggi di sociologia; ma solo la fondamentale: quella cioè della formazione naturale del fatto speciale caratteristico dell' organismo sociale, ossia della giustizia. E, relativamente a questo fatto, non dà una riproduzione pitc meno manipolata delle idee messe in voga dai filosofi più celebrati di questa materia. Qualunque ne sia il valore, chi scrive presenta qui il frutto della sua riflessione solitaria; e non recente, ma di vecchia data, e già matura fin da quando lo esponeva ai filosofi di Mantova, pei quali divenne germe e stimolo ad elaborazioni ed applicazionidi merito nel campo della filosofia. Restringendosi poi la trattazione, come qui è divisato, al fatto della giustizia, con ciò la sociologia tiene a mantenersi nel campo, che le spetta in proprio, e pel quale riesce una disciplina a sé e distinta da tute le altre. È un errore capitale quello comunissimo di fare della sociologia un ammasso di tutte le dottrine riguardanti i fenomeni svariatissimi, che suppongono l’ambiente della società umana, A tale stregua la cosmologia dovrebbe constare di tutte le dottrine riguardanti i fenomeni svariatissimi, che suppongono l’ambiente dell’universo visibile. A questo modo si dà ragione a quelli che persistono a *negare* alla sociologia filosofica la qualità di disciplina autonoma. Una sub-disciplina filosofica è un tutto a sé, che si pone e si distingue da quello di tutte le altre, come la specialità del fatto che essa considera. E, nel caso nostro, la sociologia filosofica, o la psicologia filosofica dell’intersoggetivita, si pone e si distingue, come la specialità del fatto della giustizia, nel quale è la ragione diretta dell'organismo sociale; a quel modo che nel fatto della gravitazione è la ragione diretta della mutua dipendenza delle masse astrali, considerata dalla cosmologia filosofica. Così, essendoci il fatto Fisico si dà la Fisica; essendoci il fatto chimico si dà la chimica; essendoci il fatto psichico, si dà la psicologia filosofica, e via discorrendo per ogni sub-disciplina. Si restring la presente trattazione allo studio della formazione naturale della giustizia, e limitandosi a considerare il fatto di essa in generale, e non estendendosi a considerarlo in particolare nelle molte e diverse forme svariate, che si munifesiano, funzionando la giustizia nelle differenti comàiìmzioni secondarie pnllulanti ed armonizza nèi nella totalità malto complessa dell’organismo sociale. Ed è solo in qneslo senso, die fuesta trattazione non aòòraccia tutto r amèito della So- etologia j. co7icernendo solo la sua farle introduttiva e fondamentaie. Esaurita la prima edizione di questo quarto Volume delie Opere filosofiche, e anche la seconda, nella quale tra stata introd^itta qualche piccola correzione ed aggiunta, colia presente terza questa Sociologia comparisce nella sua edizione quinta. Questa trattazione deWdi Sociologia suppone e completa quella della morale dei positivisti. La suppone, in quanto nella morale medesima è presentata l’analisi della attitudine etico-civile umana, ed è esposta la teoria positiva della responsabilità sotto tutti i suoi aspetti e rapporti. La completa, in quanto studia la formaziofie della attitudine etico-civile suddetta. Specialmente sotto V di-- spetto e il rapporto della sua obbligatorietà si interna che esterna.  Ma questa della sociologia è poi, come tale, una trattazione distinta da quella della morale. La morale ha per oggetto suo speciale e proprio la attitudine etica e quindi la virtu individuale. La sociologia ha per suo oggetto la costituzione della società civile e quindi la gitistizia che ne è la funzione caratteristica. Il punto di partenza del nostro ragionamento è la questione proposta dalla morale dei posttivisti. Il concetto della responsabilità (de- finito precedentemente come l'astratto delle sanzioni, onde la società reagisce, rintuzzandola, contro l’azione propriamente umana individuale) fosse manchevole, non estendendosi quanto la moralità, e quindi fosse da ripudiarsi. E ciò per la considerazione che sembrerebbe così la responsabilità riferirsi solamente agli atti intesi nel concetto stretto del giusto, cioè ai pochi atti esterni, aventi importanza per l’ordine sociale, commessi in misura e in circostanze determinate,  discorso basta notare il fatto, la cui spiegazione si lascia alla fisiologia. Come l’apparato nervoso delF organismo biologico vi si forma a poco a poco per naturale svolgimento e trasformazione di una parte degli elementi prima omogenei della sostanza viva, cosi l'apparato del P<:7/^r^ nell’organismo dello stato vi si forma a poco a poco per  naturale selezione ed adattamento dì alcuni fra gli individui del *consorzio* umano informe primitivo. Del pari, come la funzione speciale dell' apparato  nervoso si è in esso determinata per Io svolgimento e la trasformazione della attività vitale generica della sostanza  animale, cosi la specialità della reazione del potere non  è altro che una distinzione, operatasi a poco a poco e di  mano in mano che andava formandosi, della reazione istintiva comune degli individui eslegi del *consorzio* umano primitivo. E, come l’attività nuova speciale sovrapposta e dominante dell' apparato nervoso dell'animale superiore  sviluppato non vi sopprime l’attività iniziale semplice e comune del materiale biologico, la quale vi persiste allato e al disotto dell' attività nervosa, che la regola, così la reazione del potere, svoltasi naturalmente collo svolgersi dell' organismo sociale, non vi sopprime la reazione  istintiva detta sopra, la quale quindi persiste nello Stato  civile allato e al disotto della reazione del Potere, che  la regola.  E cosi nello Stato vengono a riscontrarsi contempo-   è assai opportuno studiare ulteriormente, e sotto /r^r df~  versi aspeliì, l'analogia notata fra T organismo dell' ani-  male superiore e quello della Società civile. Nel corpo di un animale, anche di organizzazione superiore (e quindi massimamente in quello dell' uomo), ogni parte viva ha in sé la ragione della propria attivita puramente vegetativa, che ha luogo quindi indipendentemente dal concorso diretto della funzionalità nervosa centrale. Ma questa funzionalità nervosa centrale può intervenire ad impedire tanto o quanto la detta attività puramente vegetativa della parte subordinata, A far ciò l’uomo, nel caso che la parte si ammali e quindi la sua attività vegetativa si renda anormale, si sforza (valendosi dell' apparecchio nervoso sovrastante alle parti) di limitare l’anormalità e di contrastame gli  effetti perniciosi sulle altre. Mettiamo, sostituendo la medicina al cibo, o tralasciando di mangiare e di adoperare se possibile la parte malata, o operando su di essa,  o staccandola in caso estremo dal resto del corpo. Quindi, l’intervento della funzionalità centrale qui sarebbe puramente negativa; cioè solo di impedire tanto  o quanto l’attività vegetativa; la quale, nella parte, sorge  in virtù della propria natura dì questa, e non potrebbe esservi creata ed infusa dalla medesima funzionalità centrale. Un fatto analogo si osserva nel corpo della società civile. In questo corpo sì riscontrano due generi di reazione sociale, quello della convenienza, proprio di ciascun individuo e nascente direttamente dall’urto degli individui fra di loro, indipendentemente dalla sovrapposizione ad essi del potere al  quale sono subordinati; e quello della giusto, proprio  di questo potere. La reazione di convenienza tra individuo e individuo tende con forza ad assumere, e spesso assume effettivamente forme irregolari nocive e atte a turbare in misura  più o meno grande il buon assetto della società. Ed è qui che intervitìne la reazione del giusto per parte del potere sovrapposto. Ma con effetto solo di impedire  e limitare, per quanto possibile, la irregolarità della  rea zione della convenienza. Si che questa, funzionando pure  per forza e legge propria, non ecceda però la forma e  la misura compatibile coll’andamento migliore del corpo sociale. Le parti singole dell'animale sono coordinate insieme mediante una funzione, che sì aggiunge alle particolari di esse e loro sovrasta, dominandole e subordinandole nel sistema complessivo deir individuo. Questa  funzione centralizzatrice ha una efficienza negativa, na ne ha anche una positive, ed è  quella di produrre il concerto delle parti nell’attività  dell’individuo totale. Coè, la vìta propriamente detta, elevantesi sulla semplice vegetazione di ciascuna parte,  adattata e resa ubbidiente alle esigenze della vita medesima, e quindi, per cosi dire, ingentilitane. Cosi anche nella societa. Nella quale la funzione assodante del potere si sovrappone a quelle degli due *associate*, ed è puramente negativa o di limitazione per rispetto a queste, ma è positiva per rispetto a se stessa, in quanto cioè si pone e produce un  effetto speciale suo proprio, che si risolve soprattutto  in quello della moralizzazione dell' uomo nello Stato  civile.  Annunciamo qui solo il fatto, la cui spiegazione det-  tagliata risulterà dal corso della trattazione. L' individuo eslege è pronto ad impiegare a proprio  vantaggio, come T istinto naturale lo sospinge, tutta la  forza materiale onde dispone; e ad elidere e a togliere  di mezzo il più debole. Il che impedirebbe la formazione  della società e il concerto civile delle sue parti. Perchè tale concerto sia possibile è necessario che sopravvenga neir umano consorzio una forza superiore, la  quale, in nome e colla mira dell'interesse di tutti, rin-  tuzzi e contenga la forza esuberante e trasmodante dei  singoli più forti o irregolarmente operanti, e renda cosi  attuabile lo sviluppo e l’esercizio pieno e non impedito, e tranquillo, e benefico delle attitudini di ogni elemento, onde è costituito il corpo sociale. L' istinto della reazione individuale, per sé, rappre-  senterebbe il princìpio egoistico antisociale. Invece il Po-  ^ tere subordinante rappresenta T Idealità sociale ossia il  principio morale antiegoistico. L' individuo nella Società diventa morale in quanto,  ridotto dalla coazione della Giustizia a riconoscere il  principio antiegoistico rappresentato dal Potere associante,  vi si uniforma, ingentilendosi, rinunciando alla tendenza  di usare la violenza rispetto agli altri, contenendosi nei  limiti permessi dal Potere, cooperando con esso al Bene  comune.   La costituzione quindi della Società umana, fino al  grado di un' alta Civiltà, è possibile, perchè la psiche  umana, a preferenza di quelle dei bruti, è atta alla for-  mazione caratteristica della Idealità sociale, come è di-  mostrato nella Morale dei Positivisti (i).   Nella macchina fisiologica dell' animale non si dà  potenza centralizzatrice delle parti senza un organo di-  stinto da esse, che ne sia investito e la possegga. La  forza centralizzatrice poi, in un animale, è in ragione della  massa di questo organo; come la massa stessa è in ra-  gione del bisogno (2) della forza occorrente per dominare  le parti. E inoltre neir animale la materia dell' organo  centralizzante è presa dalle parti stesse centralizzate per  via di un processo di selezione naturale, come dimostra  la embriologia e la zoologia comparata. E secondo il  principio generale, da me tante volte ricordato, del pas-  saggio dall' indistinto al distinto (3).     (i) Vedi specialmente il Capo III della terza Parte del Libro  primo; e la Parte seconda del Libro secondo. Per questa espressione bisogno vedi la nota alla pag. 17 del  volume ILI di queste Op, fil.  Per la teoria dell' indistinto e del distinto vedi la Fortnazione  naturale nel fatto del sistema solare y nel Voi. II di queste Op, fil.    Cosi nella Società» La coordinazione delle partì com-  ponenti e la relativa reazione della Giustizia non vi può  aver luogo senza che vi sia costituito un ordine di per*  sone investito del Potere occorrente all'uopo, e fornito  dei mezzi sufficienti all' effetto. Tale ordine di persone si stabilisce nella Società per  la legge suddetta della selezione naturale, come già ac-  cennammo sopra; e di ciò parleremo in seguito più a  lungo,   E r ordine sovraiieggiante nella Società deve essere  in ragione della forza occorrente a produrre Teifetto di  contenere le parti nella associazione dello Stato. Più in queste è la resistenza alla coordinazione so-  ciale, come nella barbarie o nella depravazione, quando  ha ana grande prevalenza T egoismo (o perchè le Idea-  lità sociali non sono ancora progredite nella loro forma-  zione, o perchè abitudini prave sottentrate le paralizzano),  e più il Potere centrale è poderoso e A'iolento, e ha quindi  il carattere di Potere militare. E la Giustizia allora as-  sume la forma del fato inesorabile e crudele, che sforza  ad agire colla violenza necessitante.   E, nel caso che manchi nel Potere la forza suffi-  ciente, la Società si trova in quello stato di organizza-  zione imperfetta che si osserva negli animali inferiori  aggruppati in masse, che sono piuttosto delle colonie  che non degli individui propriamente detti.   Se invece poca o nuila è la renitenza alla coordina-  zione sociale, come nelle Società adulte, colte e virtuose.  quando le Idealità sociali negli individui sì sono già for-  mate e si mantengono impulsive, allora il Potere centrale assume il carattere di un semplice arbitro morale fra gli  individui associati. E la Giustizia qui perde il carattere  della violenza^ assumendo invece quello di una sentenza  vera ed equa, che ottiene il rispetto e T assentimento col  solo essere enunciata. E si conferma ciò che dicemmo al-  trove del regno del fato e del regno della Giustizia fra  gli uomini (i),   E discende anche dalle cose dette che, siccome il  dispotismo militare è proprio dello stato della barbarie,  così invece il governo repubblicano è proprio dello stato  della cultura più compita; intendendo per questo governo  (idealmente) un governo formatosi per la selezione natu-  rale più propria dell' uomo, ossia razionale; e di persone  funzionanti quasi come semplici arbitri morali; e rap-  presentanti U Idealità sociali ammesse dagli individui  associati, che sono disposti per ciò a rispettarle, senza  bisogno di coazione e di violenza.  Le cose dette hanno una conferma da ciò che  si riferisce al Diritto internazionale, e servono a chia-  rirne ÌL fatto e la teoria. •   1 diversi Stati tra loro indipendenti sono come degli   (i) Nella Morale dei Positivisti, Per es. Gap. II della Parte IV  del Libro li, al numero i6 (pag. 399 del voi. Ili di queste Op, fil,  nella edijE. del tSSs^ e 432 dell' ediz. del 1893 e del 1901, e 432 Del-  l' ediz, dei 1908).     3"«|P).individui non co-ordinati l’uno con l’altro sopra i quali vige la ragione del  più forte, poiché l' idealità sociale co-ordinante non è realizzata in un potere effettivo sovrastante, che si faccia  valere; e quindi vi campeggiano sole attività egoistiche  dei singoli, staccati V uno dall' altro.   Ma, essendo il principio della socialità naturale al-  l' uomo, come per esso tendono a stare uniti gli individui  nella Società più semplice della famiglia, e questa e le  altre unità sociali più o meno grandi tendono a colle*  garsi organicamente nelle unità dello Stato, cosi gli Stati  tendono poi a riunirsi fra di loro: e, parzialmente, in  gruppi di Stati; e, totalmente, nella unità universale della  umanità intera.   E da ciò si vede che il Diritto di uno Stato è rela-  tivo al pari di quello dell' individuo, che ne fa parte;  per la ragione che, come il Diritto di questo viene a sof-  frire una limitazione e una rettificazione col prevalere su  di esso del Diritto del Potere dello Stato particolare che  se lo subordina, così anche il Diritto di questo è limita-  bile e rettificabile nella sua subordinazione all'organismo  più grande, del quale tende a far parte.   E cosi dicasi della Giustizia, che è la funzione del  Potere.   Nella Giustizia del Potere si riassumono tanto o  quanto, diventando la Legge propriamente detta, o al-  meno (se non ne sono in tutto sostituiti) vi si appuntano  come tollerati, o permessi, o anche incoraggiati, certi  atti di iniziativa degli individui ispirati dalla Idealità so-  ciale, tendenti a frenare o vendicare la reazione istintiva irregolare: avverantisi già nel consorzio umano non  ancora sviluppatosi nell'organismo sociale civile, e per-  duranti in questo, o produeentisi nella condizione della  Civiltà. Il padre che governa la famiglia, il forte gene-  roso che difende il debole, V associazione che si prefigge  scopi umanitari, e via dicendo, ne sono esempi. Qui ab-  biamo le virtualità della Giustizia, che ne preparano  r avvenimento, o la riforma miglioratrice, nella Giustizia  di fatto dello Stato. E questa Giustizia di fatto di uno  Stato è soggetta a limitazioni e rettificazioni ulteriori,  per via di una Giustizia più ideale, in quanto uno Stato  può subordinarsi alle unità sociali maggiori, delle quali  dicemmo, e quindi alla Legge loro. Data la riunione effettiva di più Stati in una  unità sociale maggiore che li comprenda, e della quale  essi siano le parti componenti, in questa si avrà il Po-  tere distinto o specifico coordinante, del quale abbiamo  parlato sopra, col carattere della Giustizia, di fronte alle  funzionalità particolari degli Stati componenti; la reazione diretta dei quali per ciò fra di loro avrà il carat-  tere della Convenienza, mentre V uno non potrà valersi  della forza materiale contro T altro, sia in sostegno del  proprio Diritto, sia in offesa dell' altrui, ma dovrà la-  sciarne r uso al Potere internazionale sovrastante.   Il Diritto internazionale quindi non è effettivamente  un Diritto, se non ha il detto carattere, della Giustizia.  E non ha questo carattere, se non esiste un organo reale,  colla forza sufficiente all'uopo, per esercitarla pratica-  mente. La storia ci presenta diverse forme di questo potere intemazionale o egemmiico, che dir si voglia. Ma  sempre più o meno imperfette. Per esempio quello esercitato dalla madre patria sopra gli Stati delle colonie,  che ne furono fondate. O quello di uno Stato più forte  sopra altri più deboli soggiogati colle armi, o ridotti a  protettorato, o confederati, O quello di una autorità re-  ligiosa sui popoli che la riconoscono. O quello risultante  da una lega, più o meno precaria, per iscopi determinati. Le forme suddette, come già accennammo, sono  forme di egemonia imperfette, o per la loro ristrettezza  e precarietà, o perchè non abbastanza potenti per farsi  valere, o perchè una tirannia di im forte su molti deboli,   E per ciò disfatte o da disfarsi col progredire della  Società. La quale invece tende ad una consociazione più  ideale degli Stati fra di loro. Ma a quale? Poiché, e questa non deve essere  per mezzo di uno Stato più forte che soggioghici altri  più deboli, e tuttavia la consociazione, colla Giustizia so-  vrastante relativa, non è una vera realtà organica se non  esiste effettivamente il potere che la eserciti.   La risposta alla domanda si ha in ciò che dicemmo  costituire il governo più perfetto, ossia del vero regno  della Giustizia, cioè n^W Aròiiraio.   L'Arbitrato o l'Anfizionia internazionale. E come si  va già disegnando sempre più concretamente nel fatto  dei trattati internazionali aventi forza esecutiva, e del  consenso moralmente giusto e fortemente efficace, che si  va stabilendo nel gruppo degli Stati più civili circa te  questioni sociali di interesse universale, e che influisce  anche sopra la legislazione interna dei singoli Stati, Solo     — ac-  quando esista realmente, in forma ben determinata e colla  forza necessaria di farsi valere, questa Anfizionia, potrà  esistere un Diritto internazionale veramente tale. Dico, quando esista questa Anfizionia. Fogniamo sul  fare della autorità centrale elvetica o degli Stati Uniti  di America.  E dico, quando questa Anfizionia sia un Potere veramente efficace. Il che non può essere, se non pel pro-  gresso sociale dei singoli Stati dipendenti; come T Arbi-  trato efficace fra gli individui non è possibile che a misura che questi si perfezionano moralmente, come dimo-  strammo.  E in effetto il progresso sociale degli Stati ci-  vili è già riuscito a stabilire delle legislazioni, o comuni,  o concordanti, colle rappresentanze e coi mezzi di esecuzione rispettivi, in ordine ai rapporti di interesse non  politico; come sarebbero il Commercio, T Industria, la  Navigazione» le Comunicazioni, i Diritti privati, le Monete^ le Misure, la Scienza. E tende ad estendere sempre  più questo genere di Giustizia universale, sia colle Com-  pagnie internazionali riconosciute per imprese di interesse  della Civiltà generale, sia coi Congressi pure internazio-  nali per altre sue esigenze, come sarebbe p. e. l'Igiene. Lontana ancora è T epoca della unione politica in  discorso. Ma va facendosene sempre più forte V aspira-  zione, che è già T anima del partito politico dell' internazionalismo, e che per la forza delle cose deve ormai  essere confessata più o meno dagli stessi governi.   Queir epoca è lontana; ma arriverà una qualche  volta; e cioè quando nei singoli Stati saranno state rimosse le cause che la ritardano: quelle cause precisa-  mente che la Civiltà attuale tende a rimuovere: e che saranno rimosse quando ogni Stato avrà ottenuto il suo as-  setto naturale giusto rispetto all' Estero nella sua circo-  scrizione etnografica, nella sua sicurezza, nel suo equili-  brio cogli altri Stati. Anche la questione del Machiavellismo politico  trova la sua risposta nei principj da noi indicati; riu-  scendo cosi in pari tempo a riconfermarne la verità. La reazione dell'individuo nella rozzezza eslege  del consorzio ancora selvaggio non è una reazione morale.  Non lo è, né di fatto, né di diritto.   Non di fatto, perché il suo movente é il puro istinto  egoistico, pronto senza ritegno al danno altrui, indiffe-  rente all'uso di tutti i mezzi di riuscire: fino alla violenza più spietata, fino all' inganno più vile e sfacciato. Non di diritto, perché, mancando l'ordinamento so-  ciale e la Giustizia del Potere che ne é il prodotto, non  si ha ancora la ragione, onde le reazioni umane siano  giudicate col criterio della moralità.  In una condizione analoga si trova il Potere  nello Stato non progredito nella Civiltà. In tale condizione si rivela nel Potere ciò che si  chiama il Machiavellismo. Il Machiavellismo del Potere può divenire, nel fatto, una impossibilità e, nel diritto, una immoralità, solo in  forza di una Giustizia relativa che lo impedisca e lo ri-  provi,   E come?  Per rispondere bisogna distinguere la reazione del  Potere di uno Stato per rispetto al Potere di altri Stati,  e quella del medesimo per rispetto ai propri subordinati.  Nel caso della reazione del Potere di uno Stato  per rispetto agli altri Stati è evidente che, se esso non è  tutelato nella sua esistenza da una forza internazionale  equa e^ nella sua tendenza a vantaggiarsi sugli altri e a  soperchiarli, non è frenato dalla medesima, non farà dif-  ferenza tra mezzo e mezzo che giovi al suo intento; e  il danno altrui lo procurerà come bene suo proprio. Il ricorrere ai mezzi opportuni all' intento, nel caso  in discorso, come non ne è impedito dalla Giustizia in-  ternazionale, che non esiste, cosi non è nemmeno ripro-  vato,   E per ciò il ^lachiavellismo del Potere nella sua rea-  zione cogli altri Stati viene ad essere una possibilità di  fatto, senza essere ancora una immoralità di diritto. Ciò è dimostrato storicamente nelle formazioni in-  ternazionali imperfette di epoche e regioni diverse. Valga  r esempio dei vari Stati della Grecia antica, collegati  tanto o quanto fra loro, e insieme isolati dalle genti non  greche; alle quali, considerate per ciò come barbare, ne-  gavano i riguardi che pure si avevano fra loro. E valga  r altro esempio delle religioni abbraccianti diversi Stati,  i quali insieme per ciò di fronte agli altri, considerati  siccome infedeli, si credevano sciolti da ogni freno di  procedimento. Nel caso della reazione del Potere per rispetto  ai propri sudditi è da considerare che la sua condizione  in uno Stato progredito nella Civiltà è ben diversa da  quella che la precede. Qui il Potere non è ancora divenuto la semplice e-  spressione del volere di tutti che lo pone, lo regola, lo  sancisce, come la Giustizia che lo rigfuarda. Ma è ancora  solo la conquista machiavellica di una casta, di una fa-  miglia, di una persona, lottanti per conservarlo con tutti  i mezzi atti all' uopo di fronte alle altre caste, ad altre  famiglie, ad altre persone dello Stato medesimo, con una  reazione quindi come tra individuo e individuo prima  della costituzione definitiva di una Giustizia superiore al  di sopra di essi. Nel caso in discorso è notevole il fenomeno  del concetto della Giustizia divina, che si pensa sovra-  stare alla stessa persona del Principe (come spiegheremo  in seguito); in modo che le sue azioni, quantunque fuori  d* ogni Legge, tuttavia vengono considerate dal punto di  vista della moralità: onde il suo Machiavellismo, persi-  stendo di fatto, viene a cessare in qualche modo di esi-  stere di diritto.   Questo fenomeno non è un argomento contro il nostro principio, ma a favore di esso. La Giustizia perfetta accompagnante lo stesso svi-  luppo iniziale dell'organismo sociale, informa natural-  mente la coscienza di quelli che ne fanno parte. E que-  sti, ignorando come si è formata veramente, la immaginano una entità assoluta preesistente alla Società e pro-  pria del nume divino. E cosi la si pensa valere, nella lotta fra i competi-  tori del Potere, al di sopra e delle imprese degli emuli e  di quelle del vincitore.   In effetto però il Potere conquistato dallo stesso vin-  citore lo emancipa dalla Giustizia, che esso esercita sopra  gli altri, e (massimamente se la lotta è eccitata da idee  sociali nuove) si fa autore di una Giustizia nuova che  deroga quella anteriore creduta divina; e questa per con-  segfuenza non serve più quale criterio di moralità delle  azioni del Potere medesimo. Di che luminosamente ci  ammaestra la storia nei contrasti multiformi col Potere  sacerdotale sostituito da quello militare, e tra questo e  il civile che gli sottentra nella Civiltà più avanzata.   Il conòetto quindi della Giustizia divina né valse da  sé a impedire nel fatto il Machiavellismo del Potere, né  a riprovarlo nel diritto.  Parlando però di impedimento del Machiavellismo non abbiamo inteso di un impedimento assoluto,  ma solo relativo. La forza della Giustizia, che si stabi-  lìsce nella Civiltà avanzata, anche al di sopra del Potere  di uno Stato, ne impedisce il Machiavellismo tanto o  quanto; ma non mai affatto. La cosa qui è precisamente come nelle reazioni ini-  que tra cittadino e cittadino, che la Legge dello Stato  tende ad impedire: ed impedisce realmente tanto o quanto  ma non mai del tutto. Dalle cose dette importa soprattutto che si  raccolga V importanza suprema, in ordine alla moralità,  dello sviluppo dell' organismo sociale sopra indicato. Come accennammo (e lo dimostreremo più largamente  in seguito) lo sviluppo del consorzio umano nello Stato  ha per effetto la moralità privata. La Civiltà che per-  feziona r organismo dello Stato all' interno, e promuove  r associazione civile degli Stati ha per effetto la moralità  politica. La Giustizia (e quindi la Responsabilità, che  è un suo correlativo) non è perfettamente tale nell'organismo civile se in questo non si ha la libertà ù.^\\^ parti  coordinatevi, e la distinzione netta del Potere e delle sue  attribuzioni.   Importa fissare in modo preciso in che consista, teo-  ricamente, la libertà.   La libertà consiste in ciò, che la parte coordinata  neir organismo sociale vi possa funzionare secondo la di^  sposizione naturale onde è atta a funzionare. E, in base  a tale disposizione, imprescrivibilmente. E, tanto relativamente a se stessa, quanto nel reagire all' azione collaterale delle altre parti.   S' intende bene che la disposizione naturale onde la  parte è atta a funzionare, traente con sé il diritto impre-  scrivibile alla funzione relativa, deve essere quella del-  l' uomo socialmente perfezionato; e quindi in tutto razionale in ordine alla convivenza e alla collaborazione cogli  altri nel consorzio civilmente perfetto. Ma la reazione della parte verso le altre deve essere  tale che non le impedisca. Che altrimenti si avrebbe eli-  sione di attività nelle parti impedite, e quindi lesione in  queste della loro libertà.   È questa una condizione essenzialissima perchè esista  realmente nell'organismo sociale la libertà vera e per-  fetta delle sue parti.   Ora tale condizione importa che la reazione della  parte sulla parte si limiti a quella della pura Conve-  nienza, che esclude la violenza dell' uno suir altro. E cosi questa esclusione,. ossia questo limite nega-  tivo, viene ad essere essenziale al concetto della libertà.  Sicché questa è determinata positivamente dalla attività  intrinseca dell' operante che ne è fornito, e negativamente  dalla rimozione della violenza estrinseca che la impedi-  rebbe nella sua sfera di coordinazione.  Il limite negativo suddetto della libertà ne  porta seco di necessità anche uno positivo, per la ragione  che la rimozione degli impedimenti estrinseci alle libertà  delle parti non si può ottenere se non mediante la costituzione di una forza superiore a tutte, sufficiente all'uopo.   La coazione, colla quale questa forza deve reagire,  per lo scopo detto, sopra le parti subordinate, non eli-  mina la libertà, come sarebbe la coazione tra parte e  parte.   Come notammo sopra, la coazione della parte come  tale è egoistica, e quindi a vantaggio della parte che la  esercita e a danno della parte che la soffre; mentre la coazione del Potere sovrastante alle parti è antiegoistica,  vantaggiosa alla Società, e quindi diretta a salvare nella  integrità della sua attitudine e funzione la disposizione  naturale di ogni sua parte.  La forza superiore del Potere essendo richie-  sta dalle esigenze delle stesse libertà delle parti subor-  dinate» queste devono concorrere a costituirla con una  parte della loro attivitàt sottoponendola quindi alla ne-  cessità della organizzazione sociale.   Qui, come dicemmo, abbiamo un limite positivo della  libertà delle parti costitutive della società; ma, siccome  è posto da esse liberamente (mentre l'organizzazione so-  ciale è una spontaneità naturale del consorzio umano nel  quale si produce)» allo scopo di sussistere, torna poi sem-  pre che la libertà delle parti medesime rimane on primo  ed un assoluto da cui tutto in ultimo dipende nella società.   Dal bisogno stesso della libertà adunque di-  pende anche il Potere subordinante. E con ciò è legiitimaiù. E quindi anche determinato in ciò che deve essere.   Determinato nel corpo che ne è investito, il quale  non deve essere una delle stesse parti coordinate, perchè  con ciò essa si troverebbe nel caso sopra indicato ed e*  sclusOf della parte che impedisce V altra*   Determinato nella azione che deve esercitare, che è  quella precisa richiesta dai due limiti «opra detti, cioè^  quello di porsi, onde essere in caso dì funzionare, e non  più; e quello di impedire la violenza della parte sulla  parte, e non più-  Ciò posto r ideale della Società umana richiede  le ragioni che seguono. L' autonomia perfetta delle parti, che cioè  ognuno sia veramente un arbitrio, come dicemmo nella  Morale dei Positivisti (i). E precisamente quel tanto che  si trova di poter essere realmente.   Secondo. Nessuna esecutività diretta o violenta del  volere dell' una sull' altra. Sicché la reazione loro sia  quella della Convenienza, scevra da costringimento ma-  teriale.   Terzo. Costituzione distinta del Potere, al quale solo  competa la esecutività coattiva sopra le parti subordinate.   Quarto. U ordine del Potere derivante dal corpo  dello Stato per selezione naturale degli ottimi, in dipen-  denza dal volere stesso delle parti che vi si subordinano;  e in virtù delle Idealità sociali proprie delle stesse, e  quindi non altro che allo scopo della tutela delle auto-  nomie coordinate nella Società, e della stessa loro coor-  dinazione nella medesima.   Quinto. Giusta e stabile organizzazione e subordina-  zioue delle parti corrispondente alla stabile giusta orga-  nizzazione ed efficacia d' azione del Potere. Ma il fatto concreto delle Società storiche del-  l' umanità si presenta assia vario e complesso. E lo stesso (i) Libro I, Parte II, Capo IV, (Pag. 113 del voi. Ili dì queste  Op, fU. nella ediz. del 1883, 118 della ed. del 1893 e del 1901, 122  della ediz. del 1908).  Ideale generico di queste Società non sì può rettamente  comprendere senza lo studio diretto del fatto medesimo.   E noi qui lo tenteremo, prendendo le mosse dalla  stessa analogia, alla quale ricorremmo sopra, tra V orga-  nismo sociale e V organismo biologico. Nelle specie infime degli animali le parti del  corpo sono omogenee ed indistinte, o pressoché tali. E  somiglia a questo indistinto preorganico della zoologia  r indistinto preorganico sociale delle truppe o coacerva-  zioni disordinate delle popolazioni selvaggie.   Nelle specie animali che seguono alle infime nella  scala zoologica si ha una prima distinzione di formazione:  cioè una moltitudine di parti distinte, congiunte insieme  in colonie, nelle quali non è ancora costituito un apparato  speciale distinto unico atto a subordinarle insieme nella  unità più perfetta dell' individuo. E a ciò somiglia il fatto dei primordi di una formazione sociale, nei quali,  sul suolo medesimo e coi soli rapporti della vicinanza, e  della parità maggiore o minore delle idee, dei costuiri e  della discendenza comune, si trovano a contatto, in un  certo numero, le tribù o i pìccoli Stati indipendenti gli  uni degli altri.   Nelle specie animali superiori, per una distinzione ulteriore (onde si forma la diversità dei tessuti e uno di  questi, il nervoso, resta con una speciale superiorità verso  gli altri in quanto, formando un sistema solo di tutte le  sue diramazioni nate in ogni parte, associa cosi colla u-  nità del suo lavoro i lavori di tutte le unità singole su  cui domina), si arriva alla unità organica propriamente  detta, che non è più quella della massa informemente  coacervata, né quella delle semplici colonie delle unità  distinte, ma quella dell' individuo complete, E somiglia  a questa distinzione progredita quella della Società ci-  vile, formatasi in seguito alla distinzione delle tribù in  caste, e al predominio della più forte e intelligente sulle  altre, e alla trasformazione successiva della sua tirannia  nel Potere regolare, moderatore delle unità sociali con-  federate.  Nel processo evolutivo di distinzione della  formazione biologica l’apparato, onde si unificano le parti  neir organismo assai complesso dell' animale, sorge dalle  intimità della sostanza viva. La quale però non risente l’effetto proprio dell' apparato stesso, uscito dal proprio  seno, se non a misura che si è formato effettivamente.  Lo stesso avviene nel processo evolutivo di distinzione  della formazione sociale. Il Potere subordinante, e quindi  ciò che si dice la Legge e la Giustizia, e la relativa Re-  sponsabilità dell' individuo verso di esse, nasce dalla  stessa virtù intima delle parti associate; ossia in ultimo,  degli individui umani. E accennammo già come; e spie-  gheremo più a lungo in segfuito. Nasce cioè in virtù delle  Idealità sociali (i), che sono un fenomeno psichico pro-  prio dell' individuo.   Ma r individuo non ne ha coscienza distinta se non  dopo che, pel processo naturale indicato, e inconscia-  mente per lui, il Potere stesso si è costituito.   Ed ecco come l' individuo è il fattore della Legge,  della Giustizia, della Responsonilità; e, nello stesso tempo,  (i) Su ciò verte in generale tutto il Libro I della Maiale dei po-  sitivisti, e in particolare il suo Capo III della Parte III.  queste suppongono l’evoluzione sociale già avvenuta, e  vi sono risentite siccome la correlazione dell' individuo  subordinato col potere sovraneggiante.   E con ciò siamo ora in grado di rilevare ancora m.e-  glio, e una volta di più, la verità, già illustrata nella  Morale dei Positivisti (i), del concetto della morale degli  antichi e di Aristotele in ispecie, che la consideravano  correlativa essenzialmente alla Società formata; e la fal-  sità del concetto ascetico-scolastico, che la considera sic-  come indipendente dalla Società stessa, fondandosi sul  fenomeno sopra indicato (2) del concetto della Gitistizia  divina. Ma la coordinazione e subordinazione, nel corpo  sociale come neir animale, e in qualunque altra unità or-  ganica naturale, non è cosi semplice quale, per chiarezza  e preparazione del discorso ulteriore, sopra abbiamo supposto.  Non è cosi semplice. Vale a dire non è puramente  un certo numero di parti, proprio eguali ed equipollenti,  concertate per la dipendenza diretta unica e sola di o-  gnuna da un centro immediato di tutte unico e solo;  come, per esempio, i raggi di un cerchio dal punto di  mezzo, dal quale si dipartono uniformemente con ugua-  glianza di lunghezza e di divergenza. E invece immensamente più complessa. Gl’elementi fondamentali ed ultimi del corpo so-  ciale sono gli individui umani, i quali formano, in gruppi  di pochi, degli organismi sociali elementari distinti; que- (1) Capo V della Parte III del Libro I. (2) N. 6 del l III.    sti piccoli organismi elementari poi si coordinano come  parti di associazioni e di organismi superiori; i quali alla  loro volta di nuovo si aggruppano in complessi maggiori. E la serie di tali ordini maggiori, che ne abbracciano  dei minori, è ben lunga. Come è anche il caso dell' animale superiore, soprat-  tutto dell'umano, nel quale ogni arto ed ogni viscere è  già un complesso ottenuto per una certa serie di combi-  nazioni di gruppi minori; e gli arti e i visceri sono insieme collegati dai centri del midollo spinale, al quale  poi sono sovrapposti gli altri centri superiori del cervel-  letto e dei lobi cerebrali, dipendenti alla loro volta dal-  E qui possiamo venire a una conseguenza im- portantissima circa i diversi aspetti che assume nella So- cietà civile ciò che dicemmo in genere, la Giustizia; e quindi anche la Responsabilità. Data la serie delle subordinazioni dette sopra, solo degli estremi si potrà dire che siano assolutamente, T in- fimo, la piura Convenienza, e il sommo, la piura Giustizia. Non COSI dei medii. Qualunque dei quali non sarà asso- lutamente, né la Giustizia, né la Convenienza; ma con-   incoata, e si compia solo in virtù del Tribunale dello Stato.  E cosi il Potere dello Stato, per rispetto all' eser-  cizio della Giustizia subordinata della associazione particolare, no permette solo quello che non danneggia l'assetto generale della Società o il Diritto dei soggetti in  quanto questi sono enti, oltreché della essociazione par-  ticolare, anche in pari tempo della totale.   Il che fa sì che la Giustizia propria dei Poteri su-  bordinati, col progredire della Società, va sempre più av-  vicinandosi a ciò che chiamammo sopra V arbitrato, E  che rispteade massimamente in quello paterno del buon  padre di famiglia.  Spieghiamoci meglio.  Nelle popolazioni selvaggie l’individuo è vindice di se stesso, o dei propri voleri, al di sopra dei quali non è costituito ancora, per la  imperfezione della associazione in cui vive, nessun potere giudicatore. E vindice dei propri voleri, anche se violatori della  libertà dell’altro. La costituzione di. un Potere superiore. nelle Società  progredite, che si assume la vendetta delle violazioni  della libertà individuale, togliendo la esecutività co-attiva al *volere dell' individuo sopra l’altro*, assicura la libertà di ambi. Tanto la cosa è cosi che, se per poco vien meno  questo Potere superiore, torna subito all' individuo la ne-  cessità e quindi il Diritto della propria vendetta. Come  nel caso che una persona appartenente ad una società civile si trovasse fra una popolazione selvaggia, o sopra una nave in alto mare e quindi fuori della portata del  Potere vendicatore, o assalito senza scampo immediato  da malfattori, o in un momento di anarchia dello Stato  in cui vive. Nel primo embrione di Società, in quello mettiamo  di una famiglia isolg-ta dal resto degli uomini, le contese  tra i fratelli le giudica e le vendica il padre, che ne è  il capo naturale. E la sua vendetta è illimitata e senza  responsabilità verso nessuno.   Nessuno per ciò gli impedisce o gli contende il Di-  ritto anche sulla vita dei figli e della moglie.   Non così però, coordinate che siano le famiglie sotto  un Potere superiore nella città che le abbraccia in una società sola. In questa città il Potere superiore tende a  limitare il Potere del padre al puro necessario per l'esi-  stenza, il ben essere, la prosperità della famiglia come  tale; e veglia a che il padre non eserciti verso i suoi  dipendenti altro Potere che questo, che però in pari  tempo concorre ad assicurare: e vendica su di lui ogni  eccesso od abuso del potere. E da ciò consegue naturalmente, che se ne restringa  sempre più la esecutività, e che si converta in semplice  arbitrato; nel quale può soprattutto, e da sé sola, per la  propria impulsività morale, la Idealità sociale, nella quale  consiste la Legge, nel cui nome l'arbitrato si esercita. Ed ecco quindi l’effetto naturale del progresso  della evoluzione sociale: salvare e garantire sempre più le autonomie naturali. Stabilire sempre più distintamente il compito dei Po-  teri subordinanti; e impedirne gli eccessi e gli abusi.   Rendere quindi con ciò più evidenti le Idealità s(h  ciali, e rafforzarne la impulsività, e ridurle alla condi-  zione di Poteri efficaci senza uso di violenza e quali sem-  plici arbitrati. Come più volte, e per varie g^ise, dedu-  cemmo sopra.  Il quale eflFetto, che il Potere si converta in  semplice arbitrato, lo riscontrammo anche nello stesso  Potere, solo provvisoriamente supremo, di un singolo  Stato.   Solo provvisoriamente supremo. Perchè notammo,  che lo Stato tende a coordinarsi naturalmente nei colle-  gamenti intemazionali di più Stati.   E per la stessa legge; mentre dimostrammo, che il  Potere di uno Stato va sempre perdendo del violento, e  avvicinandosi alla natura puramente persuasiva della Idea-  lità, che si impone da sé, in conseguenza di una forza  estema e superiore ad esso; cioè del potere inter-nazionale, tendente ad impedire gli atti di lesa umanità nei  singoli Stati intemazionalmente collegati o altrimenti, e  il loro Machiavellismo.   Come emerge poi luminosamente anche dalla storia  politico-sociale contemporanea.   Un saggio storico eloquentissimo di un Po-  tere superiore convertitosi in semplice arbitrato si ha nel  fatto della Chiesa Romana, e in seguito all' abolizione di  ciò che in essa si chiamava il braccio secolare.   Si verificò in questa conversione, per questo lato,  r Ideale della Società umana, sopra da noi chiamato anche  il regno (razionale) della Giustizia sottentrante a quello irrazionale del fato; ossia il regno del concorso libero  o autonomico delle parti costituenti; e non eteronomico(\)y  ossia p>er violenza materiale esercitata sopra di esse da  una forza, non morale, ma bruta.  E questo arbitrato sociale non è poi altro in  fine se non lo stesso arbitrato della volontà dell' indi-  viduo sopra se stesso, onde emana, come più volte di-  cemmo.   Ne emana, e quindi ne ha in sé le ragioni costitu-  tive. Nel medesimo tempo però, per le ragioni già ripe-  tute, lo stesso arbitrio individuale non finisce di diven-  tare ciò che deve essere (vale a dire una forza che muove  per la impulsività pura delle Idealità sociali), se non a  misura che, idealizzandosi nel modo anzidetto, si perfe-  Circa r Autonomia e la Eteronomia, vedi la Morale dei Po-  siiivisti, Lib. I, Parte II, Capo IV (Pag. 113 del volume III di queste Opere filosofiche nella ediz. del 1885, 118 della ed. del 1883 e del  1901, e 122 della previa edizione).  seziona il Potere sociale al quale V individuo è subordi-  nato.   Onde poi lo studio dell' arbitrio sociale subordinante  serve indirettamente a far conoscere la natura dell'arbi-  trio deir individuo umano.   E siccome lo studio da noi qui fatto dell' arbitrio  sociale subordinante ci ha condotto al concetto di una  Legge© che si impone colla sola evidenza della propria  Giustizia, con ciò abbiamo una nuova prova della nostra  dottrina (esposta nella Morale dei Positivisti). L'idealità sociale impulsiva del volere individuale  è una Giustizia.   Ed ora poi dalle cose dette possiamo ricavare  la conseguenza, alla quale mirava tutto il lungo discorso  fin qui fatto sopra la distinzione e la genesi della Convenienza e della Giustizia. L' Idealità sociale è la stessa Legge che si stabilisce  nella Società. E la Legge è la Giustizia in quanto im-  porta una Responsabilità dei subordinati verso il Potere.  L' idealità sociale (impulsiva della volontà dell' indi-  viduo, com' è dimostrato nella Morale dei Positivisti) si  viene formando nella psiche dell' individuo convivente  nella Società per effetto di questa convivenza. Per ciò di-  ciamo che r Idealità sociale è infine nuli' altro che l'm-  pronta, nella psiche singola di un dato uomo, della Legge  o del Volere sociale subordinante. Nello stesso luogo indicato nella nota precedente.  Da ciò consegne poi che l’Idealità sociale nella psi-  che o nella mente dell' uomo, in cui si è formata nel  modo ora detto, non si presenta come una semplice ve-  rità logica, dipendente da una propria speculazione teo-  rica, ma si come qualche cosa che si impone; cioè come  una Legge che la domina da una altezza superiore, e ac^  compagnata dalla minaccia di una Sanzione vendicatrice;  ossia, non come una semplice idealità qualunque, ma come  una Giustizia. Ed ecco scoperto il nostro gran difficile.   La Giustizia non può essere che la legge del potere subordinante: e tuttavia la Idealità sociale, impul-  siva del volere dell' individuo e nascente in lui per la  evoluzione intima e propria della sua psiche, è pure una  Giustizia.   I due asserti parevano contradditorj; e invece sono veri  ambedue, accordandosi tra di loro e spiegandosi a vicenda. Si spiegano a vicenda.   Da una parte, non è possibile il fatto della Legge  del Potere subordinante senza il lavoro psichico dei di-  versi individui che compongono la Società.   Dall' altra, le stesse attitudini dell' individuo sono  però massimamente gridate nel loro funzionamento natu-  rale dall' ordine delle cose della Società in cui vive. E  quindi le Idealità sociali dell' individuo devono assumere  nella sua mente la forma della Legge subordinante che  domina nella Società che lo involge: devono essere nella  sua mente come 1' eco o la soggettivazione o il pensiero  del fatto oggettivo reale dell'ambiente che determina il  suo lavoro intimo. Il valore scientifico della detta soluzione della  difficoltà propostaci è tanto maggiore in quanto V indu-  zione sociologica qui conferma pienamente V induzione  psicologica, che nella Morale dei Positivisti ci portò alla  medesima conclusione.   Alla conclusione cioè, che la morale individuale è es--  senzialmente dipendente dalla morale sociale; e che VE-  tica è un ramo della Politica, come diceva Aristotile,  ossia della Sociologia, come si dice adesso.   E che il principio dei Metafisici, che sia l'Etica che  crei la Sociologia (e non il contrario), è falso.   Falso, come, in ogni altro ramo della scienza, il cre-  dere che il fatto complesso della natura sia determinato  direttamente dalle azioni indipendenti dei singoli compo-  nenti, e non che V azione di ogni componente sia essa  stessa determinata dal suo rapporto col resto della na-  tura; come ho spiegato nel libro della Formazione natila  rale nel fatto del sistema solare (i), dove dimostrai che  la legge di una formazione naturale qualunque è questa:  che un fatto singolo è il punto nel quale si intersecano le  due linee infinite dello Spazio (o delle cose tutte quante esistenti) e del Tempo (o delle azioni tutte quante succedutesi).   E godo adesso di avere illustrato quella legge gene-  rale col rilevarne la verifica anche n^Wz. formazione etica.   La quale ha questo carattere, di apparire nella co-  scienza individua siccome una Giustizia. E la Giustizia  implica un ambiente esterno alla coscienza stessa, dal  quale sia determinata. Del quale principio poi (e gioverà notarlo qui  ancora, quantunque, la cosa, V abbiamo accennata altre  volte precedentemente) è prova positiva diretta il fatto  storico (superiore a qualunque eccezione, e accertabile  nel modo più evidente) che nmt non fu possìòtle di ira-  vare in una coscienza individuale una Idealità elica, ossia  un principio di Giuslizia, di formazione inconsapevole,  £he non corrispondesse al fatto della Legge sociale real-  mente riabilitasi neir amòiente nel quale la coscienza  stessa fu educata. Proprio come sopra nessuna bocca  d'uomo parlante fu mai possibile una parola inconsapevolmente appresa, che a lui non abbia insegnato la So-  cietà dei parlanti fra i quali crebbe. E come in tutte le cose le diversità degli ambienti  creano le varietà e le specie delle individualità dipen*  denti, cosi le Varietà e le Specie eliche fra gli uomini  sono create storicamente dagli ambienti sociali vari e di-  versi, ai quali essi appartengono; e per quella stessa  leg^ge dell’ordine e del Caso, che in ogni parte della na-  tura si verifica nella produzione delle Varietà e delle  Specie delle cose, come dimostrai nel libro testé citato. Che più? La stessa teoria dei metafisicici for-  nisce un argomento in appoggio della nostra.   Anche il Metafisico ha trovato nella coscienza umana  Una serie di Idealità, direttive del volere, con questo ca-  rattere della Giustizia o della Obbligatorietà; e ha argo-  mentato che, per ciò stesso, ossia per tale carattere della  obbligatorietà, era giocoforza ricorrere a qualchecosa di  esterno alla coscienza medesima, onde quelle Idealità le  fossero dettate, e di fronte ad essa sancite.   Se non che il Metafisico non si è apposto nella de-  terminazione giusta di questo esterno. Ossia il suo esterno  non è quello distinto e vero del Positivista, che è quanto  dire V ambiente sociale; ma T indistinto, anzi il confuso  della speculazione volgare antiscientifica, ossia dio. Non si è apposto qui il Metafisico, come non si è  apposto neir assegnare T esterno onde dipende la produ-  zione della pianta e dell' animale, che il Positivista ha  trovato essere la stessa natura (i) e il Metafisico ha cre-  duto fosse il volere diretto della divinità. L' Idealità etica è una Legjge obbligante, ossia una  Giustizia. Dunque, ha detto il Metafisico, tale Idealità è  prima una realtà fuori dell' uomo, ossia è un pensiero di  dio. E da esso è dettata in modo misterioso all' uomo. Vale a dire lo stesso pensiero divino di quella Idealità  è riflettuto nella mente umana, come in uno specchio il  raggio di luce che lo illumini da un corpo per sé luminoso. L' Idealità etica è una Legge obbligante. E non lo  sarebbe realmente se non importasse una Sanzione. Dun-  que, ha detto il Metafisico, lo stesso dio ha decretato  quella sanzione e la applica in un modo misterioso. Un  castigo misterioso è preparato in una vita misteriosa av-  venire a quelli che trasgrediscono la Legge stessa. Non sarà inutile qui di avvertire che, pel significato dì questa  parola natura, mi riferisco alla spiegazione che ne do negli 'altri  miei libri, e specialmente in quello della Formazione naturale nel  fatto del Sistema solare: e per la quale intendo solamente le proprietà  inerenti alle stesse cose. Sicché è ridicola affatto V osservazione di  certi miei accusatori superficialissimi^ che io con questa parola non  faccia altro che sostituire al soprannaturale, chiamato dio dai metafisici, un* altro soprannaturale chiamato natura.  Dal che si rileva, che la Metafisica ha notato giu-  stamente la relatività della Giustizia data nella coscienza  verso una esteriorità che renda ragione delle qualità ca-  ratteristiche della Giustizia medesima quali la osserva-  zione le riscontra nel fatto della coscienza stessa. Solo  ha sbagliato nel projettare questo fatto. Ha sbagliato la  Metafisica nel projettare V individuo cosciente sul fondo  della esteriorità immaginaria e fallace della divinità^ an-  ziché su quello della esteriorità positiva e vera della  Società,   Ha sbagliato qui la Metafisica, come negli altri  campi dello scibile la scienza vecchia in genere. Per  esempio, V astronomia tolemmaica, che aveva ragione nel  distinguere i fatti dei movimenti dei corpi celesti, ma  errò nella loro projezione. Proiettandoli essa secondo la  ragione del suo falso supposto che la Terra fosse immo-  bile, le osservazioni vere condussero ad un disegno falso  del movimento cosmico reale. Per render vero questo di-  segno r astronomia copernicana non ha avuto bisogno di  altro che di projettare le figure medesime del movimento  sidereo, notate dai tolemmaici, secondo una ragione pro-  spettica diversa; cioè secondo la ragione della immobi-  lità del Sole, e della mobilità della Terra intorno ad  esso. E così qui possiamo riconfermare il nostro asserto  per ciò che dicemmo in un capitolo della Morale dei  Positivisti (i), dove accennammo alla genesi storica della (i) Capo VII della Parte I del Libro I, n. 8 (Pag. 70 del Voi.  Ili di queste Opere filosofiche nella ediz. del 1885, 72 dell' ed.  del 1893 e del 1901, e 75 dell'ediz. del 1908).    stessa Idea della Giustizia divina nel terzo stadio della  evoluzione del sentimento religioso. L’Idealità sociale è gia Giustizia potenziale. La Giustizia adunque, secondo le cose dette,  ha due lati essenziali correlativi V uno air altro; correla-  tivi come r individuo e la Società. Due lati: dalla parte della Società, ossia come un  fatto verificatosi persistentemente nel Potere che la eser-  cita sugli individui dipendenti: e per questo rispetto spe-  cialmente si chiama Giustizia. E dalla parte dell* indi-  viduo nel quale è, non qualchecosa di statico, come nel  Potere, ma una potenzialità, ossia qualche cosa di dinamico: e per questo rispetto specialmente si chiama Idea-  lità sociale.   Capitale questo carattere della Giustizia o dell'Idea-  lità sociale dell' individuo. E positivamente certo: poiché  corrisponde alla osservazione del fatto. E che non si può  spiegare se non per le vie onde qui lo scoprimmo. E  senza del quale poi è impossibile chiarire le diverse  forme delle reazioni sociali, e quindi delle responsabilità corrispondenti al principj etici dominanti nella coscienza individuale. E in che consiste questa ragione dinamica o questa  Potenzialità? Ossia in che modo la Giustizia nella co-  scienza individuale è una Giustizia potenziale?  Nell’individuo non può esistere distintamente  in un determinato modo il concetto della Giustizia so-  ciale obbligante, e correlativa ad una Sanzione, se non  per effetto sull'individuo stesso della vita sociale com-  plessiva, della quale esso faccia parte. Questo si: ma è  pur vero che, come la Società è V opera degli individui  che r hanno costituita, cosi la Giustizia che vi domina si  deve in ultimo alle loro disposizioni psicologico-morali,  che ne sono la potenzialità inconsapevole.   Secondo. Una volta che la Giustizia sociale è dive-  nuta, pel processo naturale inconsapevole della forma-  zione della Società, un fatto statico atto ad informare di  sé la coscienza dell' individuo vivente sotto il suo re-  gfime, questa coscienza concorre a mantenerla nell'essere  suo. E ciò più o meno consapevolmente. Così, per esempio,  il maestro di musica di una data epoca è in possesso della  sua arte perchè questa vi si era naturalmente maturata; e  cosi potè essere da lui appresa nella forma che vi aveva.  Egli poi serve in pari tempo a mantenerne la tradizione. La applicazione della Sanzione sociale in virtù  della detta consapevolezza viene ad essere reclamata dallo  stesso pensiero della Giustizia vivente nella coscienza in-  dividuale. E quindi la detta applicazione è una soddis-  fazione della stessa coscienza individuale. E tanto, che  la Sanzione medesima essendo applicata, mentre soddisfa  il reclamo della coscienza individuale, nello stesso tempo  la rafferma e la rende più viva e sentita, come osser-  vammo nella Morale dei Positivisti (Libro II, Parte IV, Capo II, n. 17 (pag. 400 e seg. del Voi.  Ili di queste Opere filosofiche nella ediz. del 1885, 423 dell' ed.  del 1893 e del 1901, e 433 delPediz. del 1908). La coscienza individuale diventa per tal modo  giudice in primo appello, o potenziale, dei fatti e degli  ordinamenti della Socteià complessiva. E giudice delle parti coordinate nella Società^   Settimo, E giudice di se stessa. Ed ecco, in questa  ultima cerchia, la Giustizia sociale divenuta Giustizia  etica.  La Giustizia sociale cosi nell'individuo lo rende  un giudice potenziale verso tre termini: la Società stessa,  le altre parti coordinate (ossia ciò che anche si dice, il  prossimo), e se stesso.   Come giudice potenziale verso la Società coopera  nella produzione del Potere e nella riduzione di esso alla  sua forma giusta.   Come giudice potenziale verso il prossimo si atteggia  nella reazione che dicemmo della Convenienza.   Come giudice potenziale verso se stesso si manifesta  nel fatto intimo del rimorso per la colpa e della compiacenza morale per la virtù,   Resta che si considerino un poco queste tre  specie di giudizi del tribunale individuale della coscienza  di ciascun uomo,   E, per ora, la prima e la seconda.  E cominciando dalla prima, ossia del giudizio del-  l' individuo verso il Potere sovrastante. Nello sviluppo normale della vita sociale la  ragione della Autorità subordinante e la sua fissazione  in un Potere effettivamente affidato ad un dato ordine di  persone va producendosi di continuo inconsciamente (quan-  tunque in modo inegualissimo dall' uno all' altro) nella  psiche dei singoli individui. E perciò fu da noi detta  sopra, non statica, ma dinamica.   Vi si va producendo di continuo secondo che la com-  partecipazione precedente degli individui stessi li ha  messi in grado di procedere, dalla formazione psichica  acquistata inconsciamente nella matrice sociale educativa,  ad una formazione ulteriore.   E con un lavoro, che si svolge si nei singoli indi-  vidui, ma nello stesso tempo, per la comunanza della vita  morale, si aiuta nel formarsi del lavoro simultaneo degli  altri.   Inegualissimamente, abbiamo detto, nei singoli indi-  vidui. Ma colla consapevolezza del consentimento nella  formazione stessa della massa sociale. In modo che la formazione medesima, quantunque  inegualissima nei singoli, determina una tendenza com-  plessiva, che ha la potenza unica e grande corrispondente  alla somma delle individuali.   Potenza che si attesta con un effetto proporzionato:  cioè colla creazione del Potere sociale, che rappresenta  quella Idealità sociale onde è l’effetto (come già di-  cemmo), o col perfezionamento del Potere già esistente,  in corrispondenza col perfezionamento delle stesse Idea-  lità sociali.   Per tal modo il Potere, come è una manifestazione  spontanea della vita sociale, nella quale concorrono i sin-  goli individui inconsciamente, e prorompe quindi da tale  inconscio concorso irresistibilmente, cioè pel processo in-  vincibile della natura, e diventa coscienza dell'individuo  solo dopo che si è manifestato nella realtà sociale pròdotta dal processo medesimo, così è potenzialmente prima  neir individuo.   Ne viene, che V individuo stesso, una volta che ha  potuto cosi accorgersi dell' Idealità sociale produttrice del  Potere sociale (accorgersene cioè dopo la sua manifesta-  zione comune in esso operatasi), s' accorge insieme di due  cose. Che cioè la detta Idealità ha all' estemo per suo  corrispondente il Potere stabilito nella Società, ed è nata  dentro di sé: e che vi è nata col carattere di una Giu-  stizia; vale a dire con quel carattere col quale apparisce  all' individuo quando arriva ad averne la coscienza. E  tanto, che l' individuo sfesso per tale Idealità concepita  come Giustizia giudica lo stesso fatto esterno del Potere:  ossia rileva come corrisponde o meno al principio di  Giustizia della propria coscienza, e pone astrattamente  una Responsabilità dello stesso Potere verso esso principio. Ed è ciò precisamente che notammo sopra, parlando  del Machiavellismo polìtico nel suo riguardo all' in-  terno, e del fenomeno storico del concetto della Giustizia  divina.  Il che poi spiega un altro fatto della evo-  luzione sociale. Quello cioè che, a misura che una Società  progredisce nella cultura e nella umanità, diminuisce ciò  che si dice il Diritto del più forte, é cresce ciò che si  dice il Diritto dell' uomo, e l’ordinamento sociale va  sempre più diventando elettivo.   Che è mai il Diritto dell' uomo, che si attesta di  fronte al Diritto del Potere subordinante, se non la sud-  detta coscienza individuale della Idealità sociale, onde il potere medesimo nasce e vige? Si: è proprio la suddetta  coscienza individuale, che ne è il giudice potenziale, po-  nendolo, fissandone i confini, e creandone la responsabi-  lità in modo. astratto verso se stessa.  Questo Diritto, la coscienza lo trova in sé, in seguito  al fenomeno sociale corrispondente verificatosi; a quel  modo che la coscienza dell'arbitrio sopra le proprie gambe  si ha solo dopo che si è fatto Tuso volontario delle  gambe medesime. E l’arbitrio la causa onde si muovono le gambe; ma  solo r effetto seguito del movimento rende avvertita la  coscienza di tal suo potere.   E ciò è proprio di ogni genere di coscienza.  Per esempio, dell' arte. Che sa dell'arte l'uomo prima  di avere prodotto un' opera d' arte? U opera riuscita inconsciamente estetica gli rivela il suo potere estetico. E  dair opera medesima che 1' uomo ricava la coscienza e la  regola dell' arte in genere e la mossa a progredire nel  correggere e migliorare la precedente, e a giudicarne.  E di mano in mano che la coscienza della Idealità  sociale va facendosi nella generalità distinta e forte e  impulsiva in proporzione dell* atto umano, anche la creazione del potere si sottrae al caso della forza brutale e  si fa dipendente dalle deliberazioni dirette degli indi-  vidui associati: tanto più razionali e libere dalla violenza,  quanto più la massa degli individui stessi è umanizzata.  Onde, se la selezione naturale è la legge secondo la  quale negli organismi in genere si crea il loro apparec-  chio centralizzatore, nell'organismo sociale, per la crea-  zione del Potere, che è il suo apparecchio centralizzatore. "TW^W^^PP^la selezione naturale si specifica nella forma superiore  della ciezìofie,  E anche in ciò toma il principio già ricordato del  procedimento progressivo della Società nel suo sviluppo:  cioè del regno della Giustizia razionale, che si va sempre  più sostituendo a quello del fato: analogo al procedi-  mento generico della natura, che neir uomo tanto più è  diventata psiche quanto più ha cessato di essere cosa meramente _^ica. Tutto ciò nel processo sociale di evoluzione  normale. E nell'anormale?  Xeir anormale si genera un movimento periferico  contrastante la funzionalità centrale, che non armonizza  colle Idealità sociali già formate negli individui sotto-  posti. Un movimento contrastante che può andare fino  alla distruzione della funzionalità esistente, e quindi alla  sostituzione di un'altra che armonizzi colle dette Idealità,  ossia colla Giustizia potenziale degli individui medesimi.  E questo il processo della rivoluzione.  Succede in questa un fatto analogo a quello fisiolo-  gico della passione, nella quale una eccitazione insolita  invadente le parti subordinate dell' organismo sopraffa i  centri, sostituendo quindi il proprio impulso a quello  normale dell'apparato volitivo libero.  E tale processo anormale della rivoluzione, nel fondo,  è quello stesso normale detto sopra della evoluzione. Poi-  ché anche in questo il Governo sociale è determinato dal  consenso delle parti subordinate. La differenza sta solo  in ciò, che nel processo normale della evoluzione il centro  si presta, cedendo, ad atteggiarsi secondo le esigenze della Giustizia potenziale; e nell'anormale della rivohi-  none no. In una parola, le forze che agiscono sono le  stesse, e gli eflFetti diversi dipendono dalla diversità dei  rapporti delle forze medesime. La rivoluzione sociale propriamente detta dunque suppone una condizione avanzata di cultura mo-  rale dei membri della Società.  Più è questa cultura morale e più è irresistibile la  forza rivoluzionaria.  Ma più questa forza è irresistibile e più la sua anione è  moderata e procede per moto evolutivo anziché sovversivo-  In modo che, nel massimo della cultura, e quindi  della irresistibilità, e conseguentemente della modera-  zione, il moto rivoluzionario coincide con quello normale  progressivamente riformante detto sopra.  Q, — Perchè non si incorra in un equivoco circa il  principio sopra stabilito, bisogna ricordare qui esatta-  mente il concetto da noi posto a fondamento di tutto il  nostro discorso; ossia quello della Giustizia potenziale,  che infine è la stessa Idealfià sociale an^iegoùHca; la  quale nella umanità perfezionata è impulsiva irresistibil-  mente della volontà individuale.  Onde r individuo rivoluzionario per eccellenza è, non  Tuomo di poca levatura, nel quale la mente e il volere  si acconciano a ciò che impera esternamente» trovando  tutto buono; ma il Sapiente, quale fu da noi definito  nella Morale dei positivisti (i).  (D Libro I, Parte li. Capo IV, w. 17 (^ag^ lay del Voi. Ili di  queste Ofté re filosofiche nella ed, dei iS85, 132 dell* ed* del J&93  e deJ 1901, e 136 dell" ed. del 1908). Il sapiente, come ivi dicemmo, è quello nella co-  scienza del quale le Idealità sociali antiegoistiche si sono  espresse colla massima evidenza, e acquistarono la mas-  sima impulsività sul volere. Onde è ciò che si dice un  carattere. Esso è per questo nella impossibilità di patteg-  giare cogli ordinamenti riprovati dalla potenzialità della  Giustizia imperante nella sua coscienza: anche se il patteg-  giare gli porti soddisfazioni egoistiche. Ed è anche nella  impossibilità di non isforzarsi secondo la potenzialità me-  desima; anche se il farlo gli porti danni personali. Questi  egli li incontra senza impensierirsene e tranquillamente  come Cristo e Socrate, e tutti i cosi detti martiri delle idee.  Sublimemente questo fatto nel cristianesimo primi-  tivo è stato espresso nel principio, che òisogna ubbidire  prima a dio poi agli tcomini, E il principio, come è  chiaro dopo le cose dette, è in tutto vero, quando alla  espressione dio, che indica indistintamente una realtà  giusta, si sostituisca quella di Giustizia potenziale, che  indica distintamente la realtà stessa. E discende poi da ultimo dalle cose dette  anche la conseguenza, essere la teoria della rivoluzione  del positivismo diametralmente opposta alla vecchia della  Metafisica, espressa soprattutto oella dottrina del contratto  sociale di Spinoza e di Rousseau.  Il contratto sociale è falso per la storia naturale della  umanità.  Per la storia naturale dell' umanità è vera invece  un' altra legge: la legge della naturalità della società  umana, formantesi spontaneamente, e inconsci gli indi-  vidui subordinativi.  Nella dottrina di Spinoza e di Rousseau il moto rivoluzionario è determinato dall' individuo che si pone  come un assoluto; e quindi è affatto egoistico; e quindi  tende a disfare la Società. Nella dottrina positivistica invece il moto rivoluzionario è determinato dall'individuo siccome ordinato naturalmente alla Società; ossia è determinato dall’idealità che vi hanno relazione. E quindi è essenzialmente  ant-iegoistico o altruistico – l’amore dell’altro, la benevolenza, la beneficenza: e conseguentemente tende, non a disfare la  diada sociale, rna a migliorarla. Consideriamo ora il giudizio del tribunale indi-  viduale della coscienza di ciascun uomo verso le parti  coordinate nella Società, ossia verso di ciò che si chiama il prossimo. Nel che tocchiamo di un argomento di importanza principalissima tanto dal lato sociologico quanto dal lato  morale propriamente detto.  E la nostra considerazione, cominciando in questi  due ultimi paragrafi del primo Capo del libro, sarà prò-  segpiita nel seguente. La Idealità sociale è una formazione naturale della  psiche individuale umana: e tale Idealità è impulsiva del  volere: e per esso gli atti liberi dell' uomo sono antiegoi-  stici e quindi morali.  E (come indicammo anche qui nei paragrafi precedenti) la Idealità sociale agisce sopra il volere dell'uomo  presentandosegli nella forma della Giustizia; vale adire  come qualchecosa che ha rapporto con una Sanzione: ossia  è una legge che importa la Responsabilità del volere  verso di essa.  La Giustizia onde è dettata e autorizzata Téizione del  volere ne costituisce il Diritto,  La Giustizia che importa verso di se la Responsabi-  lità del volere ne costituisce il Dovere a).  Ed ecco in che modo la Idealità sociale, che è una  formazione naturale spontanea dell* individuo, è in pari  tempo, e un concetto mentale, e un motivo pratico (ossia  una forza che determina T atto volontario), e una Giusti-  zia, e una Legge, e un diritto, e un dovere.  L' essere umano, unico o collettivo, in quanto  r azione ne è determinata dalla Giustizia, è una Persona,  Il genere poi della Personalità varia secondo il genere  del rapporto creato dalla Giustizia medesima.  Considerando qui il rapporto di subordinare nell'or-  ganismo sociale, si ha la Personalità del Potere. Consi-  derando il rapporto di esservi subordinato, si ha la personalità della parte sociale sottoposta che, in ultimo, è  r individuo. Pel potere la Giustizia è la stessa Legge dello Stato.  Per r individuo è la stessa Idealità sociale che in lui si  forma e che chiamammo Giustizia potenziale.  In virtù della Legge il Potere costringe il subordi-  (i) Vedi la Morale dei Positivisti; per es. Libro I, Parte II,  Capo IV, n. 15 e 16 (Pag. 125 del Voi. Ili di queste Opere filosofiche  nella ediz. del 1885, 131, 132 dell* ediz. del 1893 e del 1901 e pag.  135» 136 nella ediz. del 1908).  - nato alla osservanza della Idealità sociale. E quindi il  Potere ha un Diritto sul subordinato, e il subordinato ha  un Dovere verso il Potere. E il Diritto del Potere qui è  positivo.  Ma in virtù della Giustizia potenziale anche il subordinato ha una azione sopra lo stesso potere. E per tale rispetto quindi  il potere ha un *dovere* verso il subordinato; e questo  ha un *diritto* verso il Potere. E il *diritto* del subordinato qui è *naturale*. Ed ecco il concetto vero del diritto naturale, creatore e gfiudice del positivo e vendicatore sopra lo stesso potere delle ragioni del subordinato.  E cosi, per asserire lo stesso diritto naturale, non  occorre punto uscire dall’uomo, e riferirsi ad una divinità e ad una Legge da essa emanata.  Questo diritto naturale appartiene all'essere umano,  malgrado che in esso non possa formarsi al di fuori  della Società e senza che V Idealità sociale della psiche  singola siasi prima convertita nella Legge positiva del  Potere. Essendo poi il Diritto positivo lo stesso fatto  del Potere che si è costituito efifettivamente in una data  Società, con ciò si spiega come possa essere più o meno  in contraddizione col Diritto naturale, preso siccome la  Giustizia potenziale astratta, desunta dallo studio compa-  rativo dei fatti sociali, e rappresentante quindi un ideale,  che solo imperfettamente si trovi realizzato nelle singole  formazioni storiche della Società umana.  Ed essendo il Diritto positivo stesso una formazione naturale della totalità sociale, che diventa qual' è col pas-  sare dall' indistinto al distinto (per la legge comune ad  ogni formazione naturale), cosi si spiega come, prima di  essere un codice scritto, è stato una consuetudine sorta  per inconscia spontaneità; e come la stessa consuetudine,  che seguita a sorgere pure per inconscia spontaneità an- che dopo la fissazione del codice, possa a poco a poco  avere prevalenza, come diritto, sopra la legge positiva. Il Diritto naturale, oltre comprendere la ragione, imperante nel subordinato, di creatore, giudice e  vindice verso il Potere sovrastante, ne ha in sé anche  un' altra.  Vale a dire ha in sé anche la ragione di ciò che de-  signammo sopra col nome di Convenienza, che riguarda  i rapporti dei subordinati tra di loro, e non ha esecuti-  vità propriamente detta. Ora é da dire di questa più chiaramente e precisela  mente, se e come sia o no una Giustizia, e quindi appar-  tenga alla Moralità; poiché la Moralità non si può con-  cepirla se non con una Sanzione e con una Responsabilità; e quindi in ordine ad una Legge sovrastante: cioè  come una Giustizia.  Domanderemo e risponderemo di nuovo: Quale é l’ufficio del Potere? L'ufficio del Potere è triplice. Dì stabìlii-si aella Società a spese delle  sue partì.  Secondo. Di difendere l’autonomia di ciascheduna  dalla violenza delle altre. Dì dispensare nell'effetto del mij^Uoramenta  delle parti quella forza coniane dell* ambiente sociale  che opera per esso Potere. In tutte e tre le suddette forme del suo ufficio il  Potere esercita sulle parti un Diritto, come abbiamo  detto. E la ragione della azione del Potere è quindi una  Giustizia, ossia è col legata ad una Sanzione, E ciò perchè  esiste una Responsabilità per parte dei subordinati verso  di essa azione, se mai violassero gli ordini stabiliti.  E il Diritto medesimo lo dicemmo un Diritto positivo.  Ma questo Diritto positivo dimostrammo sopra di-  pendere in ultima analisi dal Diritto potenziale o dalle  Idealità mentali degli individui» Onde, in ultima analisi,  potenzialmente la Giustizia non è altro che le stesse Idea-  lità mentali. La Giustizia dunque si estende quanto la potenzialità  della Idealità sociale, formantesi nella psiche singola dell’uomo per la sua partecipazione alla vita comune della  Società; nella quale si cova, per cosi dire, il germe in-  dividuale, si che si maturi in lui la disposkione naturale  al civile coasorzio. Maturazione questa che importa tutte  tre le forme suddette dell' ufficio del Potere, se non che il Potere stesso non è tutto l’effetto di tale maturazione; ma solo una parte* Quella cioè,  che si potrebbe chiamare V effetto più disHnéù.  Oltre sififatta parte ne resta un'altra; e più estesa  ancora: ed è quella che non si matura nel fatto di un  Potere legale, ma rimane neW indistinto di ciò che chia-  miamo la Convenienza. E la Convenienza la diciamo un indistinto appunto per-  chè il Potere non è altro che un distinto che si forma poste-  riormente da essa per una elaborazione più compiuta.   Ne /iene che, se il Potere è il Diritto distinto, e  quindi la sua ragione una Giustizia distinta, (e cosi la  Sanzione e la Responsabilità) la Convenienza è invece un  Diritto indistinto, e quindi anche una Giustizia indistinta. Una Giustizia indistinta si, ma pur sempre una Giustizia.  Ed ecco come il concetto della Giustizia, e  quindi della Legge morale (col suo rapporto ad una San-  zione e con una Responsabilità) si allarga oltre la sfera  delle prescrizioni del codice pubblico e si estende a tutte  le relazioni libere tra individuo e individuo. E come  questa Legge morale extralegale sia anch'essa puramente  una formazione naturale della psiche dell'uomo civile. E  quindi non occorra per ispiegarla ricorrere al sogno della  Legge eterna della divinità. E il farlo sia un errore ana-  logo a quello della vecchia astronomia che, il moto della  Luna intorno alla Terra, lo spiegava col comando dato alla  Luna da dio di girare cosi intorno alla Terra, e non per via  della stessa naturale evoluzione cosmica; e, la virtù dell'a-  cido di intaccare il metallo, lo spiegava colla proprietà in-  taccatrice capricciosamente concessa da dio all'acido, e non  per via della stessa disposizione intima degli atomi compo-  nenti la molecola dell'acido e del metallo, onde dipende na-  turalmente ossia necessariamente, il fatto chimico suddetto. La Giustizia legale (seconda forma dell' ufficio del Po-  tere) è una gradazione evolutiva superiore di un in-  distinto inferiore da cui emerge.  Ma la cosa ha bisogno di essere dilucidata  meglio e con esempj più concreti.   K per ordine. Cioè secondo le tre forme dette sopra  deir ufficio del Potere. E comincieremo dalla seconda, di difendere l’autonomia di ciascheduna parte della Società dalla violenza delle altre. La difesa dell' individuo subordinato, assunta  dal Potere, importa che questo lo guardi dalle ofifese  degli altri, e faccia che V ofifensore risarcisca T ofifeso; e  che gli arbitrj singoli nella loro attività si equilibrino  vicendevolmente in modo che la limitazione imposta a  ciascheduno sia la minima necessaria, la minima indi-  spa usabile ad ottenere la coordinazione giusta nella So-  cietà, richiedente la collaborazione egualmente non im-  pedita di tutte le sue parti.   Ma tale difesa, assunta dal Potere, della libertà e  del Diritto individuale non si pud estendere a tutti asso-  iuiamente i fatti sociali verificantisi attorno ad un indi"  viduo. Non a tutti, di gran lunga. Non a tutti, che sono  infinitamente molti. Ma solo ad alcuni pochi. A quei  pochi solamente che è strettamente richiesto dalla esi-  stenza del corpo sociale.   E la difesa in discorso, circa i detti pochi fatti, è  propria di quella che si chiama la Giustizia legale, o po-  sitiva, o distinta. Quanto poi agli altri infiniti fatti rimanenti ha luogo  il fenomeno sociale della Convenienza, che dicemmo es-  sere pure una Giustizia; ma non legale, o positiva, o distinta: sibbene potenziale, o indistinta, o morale. Quella della convenienza è anch' essa una Giustizia, come la legale.  Ma indistinta. E per la ragione che, nel fondo, V una e  r altra sono la cosa medesima, e si differenziano tra loro  solamente come il distinto dall' indistinto. E tanto che,  provenendo nelle formazioni naturali il distinto dall' in-  distinto, qui nella Società la reazione della Giustizia le-  gale non è altro infine se non una forma evolutiva supe-  riore della stessa reazione della Convenienza. Anzi di più. Come l'idealità sociale della psiche umana è sola-  mente una forma evolutiva superiore di un indistinto che si trova già nei bruti, cosi la Giustizia legale si collega  nelle sue gradazioni formative, non solo con quella della  Convenienza propria dell' uomo, ma anche con quella del  semplice talento egoistico osservabile nelle reazioni tra  bruto e bruto. E mettiamo in chiaro la cosa.   La reazione tra bruto e bruto è V effetto di un im-  pulso istintivo quasi affatto egoistico. Ma non del tutto,  poiché (come osservai più volte nella Morale dei Positivisti (i) in certi istinti socievoli dei bruti fa capolino  qualche cosa di antiegoistico. L' istinto egoistico del bruto si continua anche nell’uomo; nel quale però va emergendo l'impulso antiegoi-  stico a misura che si sviluppano in Fui le formazioni psi-  chiche superiori (2); in modo che nell' individuo umano  vivente nella Società apparisce la reazione della convenienza, che è mista di talento egoistico e di ragione an-  tiegoistica.   Quindi nella reazione della Convenienza si ha una  forma di passaggio dal talento egoistico del bruto alla  ragione dello schietto antiegoismo della Giustizia legale.  E questa è il divenuto della Convenienza, come la Con-  venienza è il divenuto del talento egoistico del bruto. E in effetto infinite sono le gradazioni della reazione  della Convenienza; da quella che rasenta la brutale del     (i) Per es. Libro I, Parte III. Capo III, n. 6 (Pag. 149  del Voi. III di queste Op, fil. nella ediz. del 1885, 156 dell' ediz.  del 1893 e del 1901 e 161 dell'ediz. del 1908. Ciò è dimostrato in tutto il corso della Morale dei Positivisti,  essendone V assunto fondamentale.     l^WU IP  I     puro egoismo, a quella che tocca la più nobile del puro  antiegoismo.  Infine, se si guarda una medesima Società nel suo  progresso storico dallo stato della barbarie a quello della  civiltà, e se si guardano le diverse condizioni degli in-  dividui di una medesima Società in un dato tempo. Per  la legge, più volte indicata, che nella formazione natu-  rale i diversi del coesistente sono T immagine dei diversi  del successivo. E in oltre, da una parte, nelle Società imperfette il  talento egoistico si riscontra nello stesso Potere, e dal-  l' altra, la Convenienza, a misura che si spoglia dell' e-  goismo, si fa più antiegoistica e tende a diventare una  Giustizia legale. E la Giustizia legale da prima è stata sempre e da  per tutto una Convenienza radicatasi neir uso e final-  mente stabilitasi come legalità.   §n.   Dall'indistinto della Prepotenza (principio egoistico) nasce  il distinto della giustizia (principio anti-egoistico) che  è la risultante dinamica di quella,  per rendere evidente la verità dell'asserto, che  la Giustizia emerge, come formazione superiore, dal ta-  lento egoistico precorso, giova vedere come succede il  fatto.  Il più forte è prepotente verso il più debole.  E la Prepotenza è precisamente l'espressione del talento egoistico in opposizione colla ragione antiegoistica, o della Idealità sociale, o della Giustizia. Ne viene che l’adulto è prepotente col fanciullo, l’uomo colla donna, il robusto col debole, il ricco col  povero. Fra gli uomini sempre si verifica tale prepotenza, ma in gradazioni infinitamente diverse: da un massimo  ad un minimo. Cioè in ragione inversa dell’idealità anti-egoistica contrastante, ossia in ragione inversa della  civiltà. E ciò, tanto considerando la successione dei momenti del progresso di incivilimento, quanto considerando  gli elementi più o meno inciviliti di una medesima società. Considerando gli elementi più o meno inciviliti di  una medesima Società, la prepotenza dell' adulto del ro-  busto del maschio del ricco e via discorrendo è sempre  maggiore fra le persone rozze e minore fra le colte. E  in queste per la ragione del maggiore sviluppo delle  Idealità sociali contrastanti. Le Idealità sociali si impon-  gono alle persone colte per la semplice abitudine che ab-  biano di concepirle. Ai rozzi possono imporsi quando,  neir atto che essi inveiscono con Prepotenza, esse bale-  nano neir atteggiamento disapprovante e minaccioso di  vendetta degli altri uomini. Cioè, alle persone rozze, nelle  quali, le Idealità sociali non sono ancora una coscienza  ben forte e distinta, queste frenano il talento egoistico  nella forma di volere sociale con qualche maniera di San-  zione; e alle persone colte non occorre la manifestazione  estema vendicatrice, perchè in esse V imperiosità della  ragione della Società è diventata una loro coscienza, che  rinasce efficace senza la espressione materiale esterna del volere sociale. Ed ecco come avviene il passaggio Del-  l' individuo dalla disposizione egoistica del bruto alla an-  tiegoistica dell' uomo civile.   Considerando poi i momenti successivi di formazione  di una medesima Società, la Prepotenza degli individui  si vede a poco a poco eliminata dalla formazione contra-  stante del Potere; il quale, per esempio, ha tolto, in tutto  o in parte, le Prepotenze dell' arbitrio assoluto del padre  di famiglia sui figli e sulla moglie, della schiavitù sotto  le diverse sue forme, dei privilegi dei nobili, della infe-  riorità della donna, e via discorrendo.   Quando il Potere non era ancora riuscito a elimi-  nare queste Prepotenze anche la coscienza comune non  sentiva distintamente la ingiustizia loro. Mentre questa  ingiustizia vi è divenuta evidentissima in seguito al fatto  della Legge che le ha inibite. Questo fatto ha reso l'ingiustizia medesima evidente al segno, che nella coscienza  di tutti gli individui della società civile le Prepotenze  suddette appariscono delle vere impossibilità, non solo  per gli altri, ma anche pel proprio volere; cioè, nel vo-  lere, formatasi pienamente l' Idealità sociale antiegoistica  corrispondente, questa riusci ad ottenervi una forza assoluta di impulsività. E con ciò si ha la prova di fatto, e  della dottrina nostra generale circa la Moralità esposta  nella Morale dei Positivisti, e della dottrina qui toccata  del divenire della Idealità impulsiva: e della Giustizia  legale distinta dalla Giustizia indistinta della Convenienza. Ancora, le persone civili sono meno manesche delle rozze.  Onde, come fra queste è facilissima e pronta la vendetta dell' offesa, così fra quelle- riesce invece e difficilissima e  tarda. E ciò nulla ostante la persona civile ha esigenze infinitamente maggiori e più sottili verso le altre, e nello  stesso tempo assai più raramente offende. E la cosa parrebbe assurda. E lo è colla teoria vec-  chia della ragione degli atti morali. Ma si spiega chiaris-  simamente colla positiva. Il rozzo reagisce direttamente colle proprie mani, e  punisce l’offesa atrocemente: tuttavia è offeso ad ogni  poco. E basta udire, per convincersene, le ingiurie che  due persone rozze si scagliano colla massima facilità. Dunque T idea dell' utile non è quella che insegna il contegno dell' uomo. Il rozzo è più religioso del civile; e tuttavia con ciò  non è più rispettoso del Diritto altrui. Dunque 1' idea  religiosa non è la ragione della Giustizia. Immensamente più che nel rozzo è estesa l'idea del  proprio diritto nell' uomo civile, il quale dell' offesa recatagli si risente nel suo intimo assai più ohe il primo. Ciò dipende dalla più progredita formazione psichica dell' uomo civile. E questa dal beneficio più largamente produto della influenza formatrice dell' ambiente sociale. Il risentirsi poi più forte dell' offesa porta seco una  tendenza più forte a reagire. Ma nell’uomo civile anche la reazione (quantunque  più fortemente disposta) ha il carattere della umanità più  progredita. Quella dell' uomo civile è una reazione non  di egoistica e brutale Prepotenza: cioè non è fatta di  propria autorità e di propria mano. E invece una reazione fatta in nome di qualche cosa che trascende l'individuo; vale a dire in nome di una Idealità sociale rico-  nosciuta come tale. In nome insomma di ciò che si chiama  la pubblica opinione. E questa pubblica opinione, diventata la coscienza  della persona civile, che la trae al risentimento; ed è a  questa medesima pubblica opinione che è lasciato l'in-  carico della vendetta: in modo che l’offensore è responsabile deir offesa verso la stessa pubblica opinione ven-  dicatrice, la quale per ciò viene ad essere una Giustizia.  E conseguentemente una Gitistizia viene ad essere pure  la coscienza individuale, che ne segue la morale impulsività. Una Giustizia indistinta, che precorre e prepara  alla distinta o legale. E come?  La pubblica opinione si forma nel cozzo delle parti  della Società fra di loro, onde nascono le diverse Idea-  lità sociali relative. Questa pubblica opinione si annuncia prima vaga-  mente nelle parole e negli atti accidentali degli individui. A poco a poco si stabilisce nei detti e nei pro-  verbi e nelle usanze e consuetudini comuni.  Un pò' alla volta poi crea i suoi rappresentanti di-  retti. Da questi quelli del Potere. Ma con ciò, che il  Potere non può assorbirli in sé tutti. Onde, sotto tale  rapporto, il Potere deve considerarsi siccome il vertice  di una piramide, nel quale va a collimare una infinità di  piani sempre più allargantisi di sotto, cioè una serie di  associazioni giudicatrici subordinate. Costante e organica è questa legge della for-  mazione sociale.   Da prima è V individuo che si fa giustizia da se  stesso. Nel che però non si ha la Giustizia vera, ma an-  cora solo la Prepotenza. Poi più persone aventi speciali interessi comuni si  associano in modo tacito e anche espresso in vista di  essi; e nella associazione si va costituendo naturalmente  r arbitrio collettivo sopra le contestazioni che la riguar-  dano; nel quale è già quindi un principio di vera Giu-  stizia, quantunque ancora più o meno indeterminata o in-  distinta. Da ultimo il Potere supremo della Società si arroga  il giudizio nelle contese, fissandone precisamente i ter-  mini; ed ecco il meno della Prepotenza e il più dell' an-  tiegoismo e della Giustizia. E questa è la Giustizia di-  stinta, derivata per evoluzione dalla indistinta, come questa lo è dal talento più egoistico dell' individuo. E nella nostra attuale Società la legge mede-  sima apparisce nella sua massima evidenza.   Vediamo costituirvisi dei giuri al di fuori del Po-  tere legale; i quali, in nome di una pubblica opinione  (che è il loro codice) pronunciano dei verdetti, vendica-  tori almeno iniziali delle violazioni della opinione stessa,  e che quindi ne sono la Sanzione sociale diretta. Giusta, ossia antiegoistica, perchè sociale e non individuale o di  Prepotenza. Sanzione producente una Responsabilità pei  violatori delle Idealità sociali corrispondenti; e quindi  atta ad innalzare le Idealità stesse nelle coscienze di tutti  al grado di vera Giustizia; tanto più distinte quanto più stabile e ordinato e ripetuto e normale è l'esercizio del  suo ufficio. E anche quando non è eliminata ancora del  tutto nella vendetta V azione diretta della persona, che  ne ha da essere soddisfatta, si può tuttavia palesare l'in-  tervento subordinante di una autorità superiore all'indi-  viduo.   Come nel duello; nel quale la ragione di intimarlo  e di accettarlo deve essere sancita dal codice della opinione corrente ad esso relativa, e giudicata 1' applicabi-  lità al caso particolare da padrini, e questi devono pre-  senziare r esecuzione.   Nel duello si ha quindi una certa Giustizia, quan-  tunque molto imperfetta. Imperfetta, perchè vi si mantiene ancora troppo 1' eccessivo e il brutale dell' atto di  Prepotenza dell' individuo di vendicarsi colle sue mani.  Imperfetta ancora perchè 1' autorità che vi si intromette  non è riconosciuta come tale dalla Legge.  Il fatto del duello qui ricordato toma poi op-  portuno per confermare, colle particolarità da esso of-  ferte, la verità delle cose suesposte.   L* opinione, che vige nei paesi civili di. oggi in re-  lazione al duello, è una formazione storica della nostra  Società. Perchè, se, da una parte, esso ha la sua causa  generale in alcune ragioni costanti di ogni formazione  sociale, dall' altra però, le formalità che lo accompagnano  accusano la sua provenienza per trasformazione storica  dalla consuetudine di un tempo dei cosi detti giudizi di  dio, E da ciò si vede, come sia vero che la Giustizia  (anche quella naturale o potenziale o etema che dir si  voglia), quanto alla forma precisa colla quale è effettiva-  mente in una data Società o coscienza, è una accidenta"  lità storica. Come la produzione di un dato frutto di una  data pianta. L’opinione circa il duello non è qualchecosa di fis-  sato e sancito dal Potere legittimo, che T infligga inde-  clinabilmente anche a chi vi si rifiuti. Ma ciò non toglie  che r opinione stessa abbia una forza; e tale da imporsi  quantunque gravosissima, alla volontà. E da ciò si vede  che la Giustizia ha già una effettività piena di efficacia  anche nella forma indefinita della spontaneità vaga della  opinione pubblica. Ma r opinione circa il duello, appunto perchè ancora  in quello stadio della vaga spontaneità sociale, non ma-  turata e non maturabile in una Legge del Potere che la  stabilisca per tutta la Società, vi si restringe ad un certo  ordine di persone. E (cosa curiosissima) per questo or-  dine di persone è divenuta una idea di una impulsività  potente, certa, indeclinabile, atta a tenerlo sotto il proprio  impero, mentre per gli altri, esenti dalle influenze onde  è insinuata, è come se non esistesse. E tanto che, dove  presso gli uni è moralmente spregevole e disonorato chi  non si attiene alle prescrizioni della opinione favorevole  al duello, per gli altri è cosa ridicola e stolta il tenerne  conto. L' opinione relativa al duello associa delle conse-  guenze esecutive gravissime a fatti riguardanti V onore.  L' onore, che è un semplice rapporto mentale dell' indi-  viduo colla Società. E da ciò si vede che neir uomo, per  lo sviluppo speciale onde la sua psiche è capace, si  Voi. IV. 6    creano delle entità di un ordine superiore, che sono impossibili pel bruto e si trovano solo inizialmente e quindi  poco avvertite nelle Società rozze e nelle classi sociali  meno colte. Delle entità aventi per base, non il benes-  sere materiale dell* individuo, che è l'espressione del puro  egoismo, ma il benessere degli spiriti associati, che è  r espressione della ragione antiegoistica. Qui insomma  r individuo si trova necessitato perfino al sacrificio vo-  lontario della vita in omaggio di un' idea che lo padro-  neggia. L' opinione relativa al duello tende (come tutte le  altre opinioni, con tendenza positiva o negativa) a diven-  tare una Legge della Società. Questa tendenza in parte  è riuscita, in quanto esistono già delle disposizioni posi-  tive di Legge che riguardano il duello. Ma in parte non  è riuscita. Ora T analisi accurata della tendenza medesima e di ciò che n' è riuscito e non riuscito ci raggua-  glia circa il processo naturale, onde la Giustizia indi-  stinta, ossia la Convenienza, si fa la Giustizia distinta,  ossia la Legge positiva. Il Potere ha emanato delle disposizioni relative al  duello. Ciò ha potuto fare solo in seguito all'essersi que-  sto fenomeno sociale fissato a poco a poco nelle sue  forme precise, che presentarono 1' occasione alla opinione  pubblica di manifestarsi nel senso del partito adottato  nella Legge.   Ma, delle disposizioni stesse prese una volta dall'au-  torità in relazione al duello, altre rimasero poi anche in  seguito perchè trovate rispondenti allo scopo sociale, di  non impedire in modo nocivo il corso inevitabile di certe reazioni di Convenienza j altre invece dovettero essere  smesse come inopportune e quindi contrastate nella prova  dalla coscienza dei cittadini, cioè dalla Giustìzia poten-  ziale che, come dicemmo tante volte, è Tarbitro naturale  di ogni Legge sociale.   Il Potere però, nella reazione anche esecutiva del  duello, non ha potuto sosHiuirsi ialalmenie, come è la  sua tendenza in generale per rapporto a qualsiasi esecu-  tività forzata delle reazioni dirette tra individuo e indi-  viduo. E ciò ci istruisce praticamente di due cose, che già  osservammo sopra. Vale a dire:   Primo. Che nel Potere non si può appuntare se  non una parte delle reazioni tra indivìduo e individuo;  come nel cervello non arrivano direttamente dei fili ner-  vosi che governino immediatamente tutti i punti della  massa del corpo: ai quali invece in gran parte il cer-  vello fa sentire la sua influenza solo per J' azione che  esercita sopra centri secondari, aventi però anch' essi una  propria azione, che si compie in parte senza rintervento  degli organi cerebrali.   Secondo. Che, se una tendenza reale dell' individuo  non può essere soddisfatta intéramente dalT intervento  del Potere, Tindividuo cerca la soddisfazione da se; come  in un assalto improvviso dì un assassino, dove, non po-  lendo la forza pubblica difendere il cittadino, a questo  è concesso il Diritto anche dell' uccisione a propria di-  fesa.   Per cui si arguisce, che il fatto ancora incivile ed  anomalo del duello non sarà evitato nella civiltà, se non quando in questa le questioni circa V onore potranno es-  sere risolte appieno giuridicamente, sia modificandosi l'o-  pinione pubblica relativa, sia trovata in base a questa  una legislazione atta all' effetto. Vedemmo fin qui come la Giustizia legale, af-  fatto antiegoistica, del Potere sorga dalla potenziale della  coscienza degli individui, che ha per base una Idealità  sociale antiegoistica non ancora divenuta una Legge, e  nello stadio tuttavia solamente di opinione più o.meno  comune.   Resta ora a chiarire come questa Giustizia poten-  ziale, avente per base una Idealità antiegoistica, si svolga  anch' essa alla sua volta da una forma ancora più im-  perfetta di tendenza dell' uomo, cioè dal talento brutale  egoistico della Prepotenza. La reazione del semplice talento brutale, o  della Prepotenza, per la concorrenza dei prepotenti di  pari forza, diventa Equipollenza: e quindi Giustizia,   Non occorre per ciò che intervenga un elemento  nuovo. Il diverso, anzi 1' opposto, della Giustizia si ot-  tiene per la semplice reduplicazione dell' identico della  Prepotenza elementare dell' individuo. Per la legge universale dell' emergere del diverso distinto  dair identico indistinto per la reduplicazione dei molti identici (prima  distinzione dell* indistinto uno), che ha luogo in tutte le formazioni  naturali. Come ho dimostrato nello scritto sulla Formazione naturale  nel fatto del sistema solare (Voi. II di queste Opere filosofiche)^ e  come dimostrerò nei libri relativi alla Formazione del pensiero (nei  voi. V, VI e VII di queste stesse Op, fil.) Così nella formazione  chimica la materia identica diventa gli opposti deir acido e della  base dopo che, distintasi in atomi diversi, questi poi si reduplicano  e si aggruppano variamente. La Prepotenza è la coscienza che l' individuo ha acquistato del fatto della propria Attività  che esso ha esperimentato; e la Giustizia è la coscienza  che neir individuo stesso ha dovuto formarsi del fatto  della Equipollenza degli altri individui dato dalla espe-  ricìiza delle Prepotenze concorrenti nella Società. Sicché nel bruto la psiche non arriva alla trasfor-  mazione in discorso, perchè in esso, non essendo un es-  sere sociale, non si può formare la coscienza successiva  a quella della Prepotenza come nell* uomo, che è un essere sociale (Onde poi raccogliamo la conferma di un altro dei grandi principi  da noi già spiegati della Formazione naturale: vale a dire che la  Cosa è il molteplice preso nella coesistenza dei singoli, e la Forza è  lo stesso molteplice preso nella loro successione. Sicché Cosa e Forza  non sono che distinzioni di un identico indistinto: il quale, preso  nello schema della coesistenza, è la Cosa, e, preso nello schema  della successione, è la Forza. — La Giustizia o T idealità sociale,  come apparisce dalle cose dette nel libro, suppone una successione  di fatti; ed è assurda senza questa supposizione. Ma nello stesso  tempo, potendo questi fatti succedentisi essere presenti contempo-  raneamente al pensiero, pel lavoro suo descritto nella Morale dei  Positivisti^ è una entità (Cosa) del pensiero, ed è una virtù efficiente  (Forza) nella dinamica morale (Impulsività dell* idea). E qui dobbiamo notare una cosa curiosissima, spiegabile solo  colla nostra teoria della identità, nel fondo, della Cosa che è, e della  Forza onde essa agisce.  L' Idealità sociale è impulsiva del volere umano in quanto gli  si presenta siccome una Giustizia, vale a dire in quanto gli fa pro-  spettare una Sanzione; ossia lo avverte della sua responsabilità. E tuttavia, a misura che V Idealità sociale si fa più viva e abituale,  diviene invece più vago il presentimento pauroso delle relative  conseguenze di punizione per parte della reazione sociale. Anzi il  massimo della impulsività dell' Idealità sociale (nel Sapiente e nel  Regno della Giustizia, come dicemmo nella Morale dei Positivisti)  va col minimo del presentimento pauroso della punizione sanzionatrice.  Il concetto umano della Giustizia si forma da  quello della Prepotenza per V equilibrio di molti prepo-  tenti nella loro concorrenza sociale.   La filosofia tradizionale (o la filosofia sana, come la  chiamano) spiega la Giustizia ponendola siccome lo stesso  comando di dio. La spiega così: aggiungendo molto ingenuamente  alla sua spiegazione V avvertenza, che la Giustizia, ri-  mane distrutta assolutamente tosto che si rimova la di-  vinità e il suo volere assoluto.   E invece la verità è precisamente il contrario. La  Giustizia» in questo volere divino, è V opposto, ossia la  negazione, della Giustizia come tale. Come ne è l'oppo-  sto e la negazione la Prepotenza come tale.   Il volere di dio è la Prepotenza innalzata al grado  dèlia Prepotenza assoluta.   E il bello si è che la stessa filosofia tradizionale ha  dovuto accorgersi de IT inconveniente, tanto o quanto, an-  ch' essa, senza intenderlo distintamente. Poiché ha dovuto  maritare, nella sua dottrina della ragione della Giustizia,  il principio del volere divino con quello della conoscenza  che dio debba avere dell' essere intimo delle cose, e  della necessità onde il suo volere sìa costretto assolu-   Egli è come dire, che è V ordine dei fatti sociali, il quale è  diventalo un inrro ordine ideale, presente al pensiero in un suo atto  intuitivo momentaneo: qiTasi forza fissatavisi dal di fuori come  sommi» unica di efileni ng^i untisi a poco a poco l’uno all' altro. Proprio come la proprietà attuale, onde una sostanza è atta ad  agire in un dato momento con una data intensità dì forza, sì è for-  mata in questa per la addizione successiva, mettiamo, dì un certo  numero di \:alorie, entratevi dal di fuori a poco a poco V una dopo  V altra.     -tamente (se ha da essere giicsto) a regolarsi nel suo comando secondo le esigenze della essenza da sé cono-  sciuta appieno della cosa, alla quale impartisce il co-  mando.   In questo secondo principio maritato al primo è stata  riconosciuta implicitamente, in qtuilche maniera, tardi,  imperfettamente, confusamente e con una contraddizione  col primo principio la verità di ciò che dimostrammo;  ossia della derivazione della Giustizia dallo stesso uomo  per effetto della sua convivenza sociale.   Imperfettamente, dicemmo. E la dottrina teologica  della predestinazione n' è testimonio. E tardi: cioè a misura che lo studio dei fatti guidò  al presentimento confuso della verità contenuta nella  dottrina positiva. Tanto che la storia della idea di dio  ce lo presenta prima coir impero capriccioso, dispotico,  appassionato, mutabile del tiranno prepotente. E succes-  sivamente con una mitigazione del capriccio e della prepotenza, quale era suggerita dal fatto della legislazione  sociale in lui oggettivata, che venne diventando sempre  più giusta per T equi librar visi sempre maggiore degli  elementi componenti.  Come si è detto, nell'individuo non coordi-  nato nella Società si ha la sua autonomia che si goverua  colla Prepotenza.   una risul- tante dinamica di esse, per le considerazioni che seguono. Con uno straniero, e soprattutto con un barbaro, o con un selvaggio, un uomo in generale non sente il dovere della Giustizia come con un altro uomo della sua stessa Società. Perfino si dà che in faccia ad un uomo di razza diversa si atteggi ne' suoi sentimenti come in faccia ad un bruto o ad una fiera. E la cosa è naturalissima. La sua Società è in lotta colla popolazione alla quale appartiene queir uomo. La sua Società quindi si atteggia verso di essa e verso i suoi Componenti come un prepotente; ed egli pure. Anche se non è in lotta, dal momento che 1' offesa recata al(Il  Nel che si verifica la legge generale di tutta la natura, che  r ambiente è necessario all' ottenimento di una formazione, mettiamo la nebulosa solare alla formazione di un pianeta, o 1* ambiente vege- tativo alla formazione di un seme; ma una volta ottenuta la forma- zione questa funziona come tale anche indipendentemente dalle con- dizioni onde emerse. Mettiamo la forma e la solidità di un pianeta, e la virtù vegetativa specifica del seme. ^'^''PfliW^^IF lontano selvaggio non è vendicata dal tribunale del pro- prio paese, né di nessuno, queir offesa stessa non appa- risce un attentato vero e proprio contro la Giustizia. Che se ci sono degli uomini che sentono la Giustizia  anche per gli estranei, fossero anche dei selvaggi, questo  succede solo per quelli nei quali il sentimento della Giu-  stizia, prodotto prima nel modo che spiegammo, è diven-  tato una forma perfetta e assolutamente dominante della  psiche, e che agisce da sé e senza il bisogno più del co-  stringimento dell' ambiente produttore, e con una sponta-  neità esuberante. Ancora, nella stessa Società un gentiluomo è molto cauto  nelle sue relazioni coi stcoi pari. Non lo è egualmente  trattando con persone di condizione inferiore.E ciò perchè co' suoi pari le conseguenze speciali del  suo contegno (quelle mettiamo di un duello) hanno indotto  un ordine di Convenienza che non occorre per gli altri,  relativamente ai quale le conseguenze non hanno la me-  desima gravità.   In una parola, chi sta sopra è prepotente cogli infe-  riori, e non co' suoi pari, coi quali è più giusto. La formazione della Giustizia nel senso proprio va colla  formazione del Potere onde è l' espressione. L’idea della Giustizia non nasce se non dietro  i fatti determinati prodottisi effettivamente nelle reazioni  degli associati.  Dico, dietro i fatti determinati. Non prima di essi.   contenuta.   Per questo il Potere (nel senso da noi qui inteso)  è eminentemente la Giustizia, che i poeti rappresentarono  colla bilancia in mano (1* equipollenza giusta degli arbi-  trj) e colla spada nell' altra (la forza onde si determina  r equilibrio tra arbitrio e arbitrio). E lo è perfettamente  esso solo.   Lo è eminentemente in quanto dispone di una forza  che costringe e determina i soggetti alla osservanza della  Idealità sociale, o giusta, che dir si voglia.  Lo è perfettamente esso solo, in quanto a sé solo ri-  serba il costringimento violento alla osservanza della me-  desima Idealità giusta.   Onde viene poi che la Giustizia propriamente detta  si restringe agli atti che possono cadere sotto la direzione  del Potere, e non comprende quelli che ne sono esenti:  i quali per ciò rimangono la sola Convenienza.   E su tutto ciò non cade dubbio. Il furto, per esem-  pio, dove non e' é un Potere che lo inibisca, non é un  delitto. È solo un atto pericoloso e che esige del corag-  gio e della avvedutezza in chi lo commette. Dove e' é un Potere, che proibisca sì il furto, ma sia  impotente a impedirlo, il furto stesso é un delitto vago  e non grave.   Dove il Potere lo impedisce effettivamente e lo col-  pisce con forti punizioni è un delitto grave.   E può essere un delitto di varie specie se la puni-  zione è varia.   Per esempio, il furto del privato a danno del privato, che importa la prigionia del ladro, è perciò un de-  litto infamante. Il furto invece di un privato che non paga  un diritto della pubblica finanza, onde incorra solamente  in una multa pecuniaria, non è più infamante, a motivo  che la punizione non è la prigionia ma la multa.  La quale forza poi del Potere, onde è mante-  nuta violentemente V osservanza della Legge, in due ma-  niere è dispensata. '   Direttamente cioè dal Potere, stesso per V otteni-  mento delle condizioni occorrenti alla vita sociale, e indi-  rettamente quando esso è domandato per interesse pro-  prio delle parti individualmente offese.   E da ciò due forme di Giustizia. Questa seconda più  sentita dagli individui meno educati e quindi più egoisti;  la prima più sentita dai più eletti e quindi meno egoisti.  L' avaro si commuove per la infrazione della Legge. della  proprietà individuale, che è per esso la Giustizia per ec-  cellenza. Il virtuoso si commuove per una disposizione po-  litica antiliberale, preoccupandosi soprattutto della Giu-  stizia in se stessa. La circostanza di questa forza materiale occor-  rente al Potere ci conduce a scoprire una legge fonda-  mentale della Sociologia, ossia della formazione naturale  deir organismo e della vita sociale.   Nel Potere, per costituire questa sua forza, sono as-  sorbite delle forze prese dal corpo sociale: e in ima certa  misura (i). Così la forza propria del cervello, onde sono     (i) Ci limitiamo qui a notare il fatto. Quale sia questa misura,  e come sia variabile fra estremi assai distanti secondo le condizioni  e gli stadj storici di una Società, deve essere lasciato a uno studio  regolate le funzioni del corpo di un uomo, è costituita  dalle forze prestate dal sangue del corpo medesimo in  una misura, che non può essere oltre certi limiti.   Ora una quantità determinata di forza non può pro-  durre se non un effetto limitato, proporzionato ad essa.  Ne viene che, se la Società è mcipiente o selvaggia o  rozza, tutta la forza rimanendo impegnata nel costringere  gli individui a osservare la Legge fondamentale della esi-  stenza sociale, il Potere rimane senza altra forza da di-  sporre per la produzione nella Società di miglioramenti  ulteriori (i).   Ma quando in seguito si sono introdotte, colla ripetizione degli atti violenti di coercizione sociale, le abitu-  dini giuste, queste producono poi V effetto della osser-  vanza della Legge per parte dei soggetti da sé; e la-  sciano la forza del Potere disimpegnata e quindi disponi-  bile per altri usi, per altri lavori, per indurre altre abitu-  dini superiori; insomma pel progresso ulteriore della vita  sociale. Cosi nel corpo dell' uomo. Nel bambino il cervello è  tutto impegnato nel produrre le abitudini dell' esercizio  delle membra; e pogniamo anche in quelle di leggere e  scrivere. Prodotte queste abitudini iniziali, resta disponi-     particolare, che può da sé fornire materia per una scienza spcciaU,  E per noi basta notare, che la misura in discorso va crescendo in  ragione che progredisce V organizzazione sociale; analogamente a  quanto si osserva negli organismi biologici, nei quali cresce la pro-  porzione del cervello in ragione che si fa maggiore la centralizzazione  degli organi.   (i) Ciò si ripete nel caso di una guerra, che assorbisca le risorse  del Governo; e nel caso di anarchia che le dissipi.   bile per altri esercizi. Mettiamo per la cultura propria-  mente detta. E ottenute le abitudini di questa cultura, ri-  mane poi libero per V esercizio di una professione parti-  colare. E cosi via.   E insomma la questione dell' immagazzinamento delle  forze. Un' abitudine in un individuo è la forza che, por-  tata sopra di lui una lunga serie di volte, vi si è imma-  gazzinata in questa forma. Come nella produzione delle  proprietà delle sostanze chimiche dalle più semplici alle  più complicate. Come nella produzione della pianta dal  seme fino al frutto maturatone.   Onde la Giustizia, che va producendosi nelle coscienze  dei singoli uomini raccolti nella Società civile è )' imma-  gazzinamento lento e progressivo della forza dispensata  dal Potere nei singoli atti infiniti del suo esercizio, e im-  pressa e ricevuta in quelle coscienze volta per volta. An-  che nel fatto del concetto della Giustizia, come in ogni  fatto distinto della natura, si ha una forza o un rifmo  persistente, ottenuto per la fissazione di una forza appli-  cata dall' ambiente e divenuto 1' essere costitutivo di ciò  in cui si è formato (i), ossia dell' uomo civile come tale. Il che poi dimostra che anche la Società, come  ogni altra formazione naturale, è una formazione che  nasce, progredisce e muore.   Quando nasce, è la violenza che tende a produrre il  fatto e il sentimento della Giustizia.   Quando progredisce, è la forza del Potere che si di-  I) Si allude alla Legge della Formazione naturale \A\\\q\X.^ ^o^x?i  accennata.    spensa ad ottenere ordini sempre più alti di azioni e di  idee giuste.   Quando muore è V organismo vecchio, che non si  presta più al mantenimento di questa forza comune orga-  nicamente subordinante del Potere. Come (per una forma  dì questa morte) nella famìglia vien meno il potere su-  bordinante del padre quando la personalità adulta dei figli  non si presta più alla coordinazione di essi sotto la tu-  tela del capo della famiglia.  Se non che, riguardo alle Società che muoiono,  vale del pari ancora la relativa legge naturale di ogni  altra formazione, per la quale la morte «di un organismo  non è mai totale, restando tuttavia i ritmi singoli pro-  dotti dallo stesso organismo mentre era vivo. Come nel  seme della pianta, che resta alla morte di questa. Come  nelle idee, che restano per gli uomini succedenti a quelli  che le hanno trovate.   Sicché il mondo greco e il mondo romano, per es.,  sono morti come quelle date formazioni sociali, ma re-  starono le idee della Giustizia umana nate nel loro seno.  Restarono come germi, o magazzini di forza già elabo-  rata. E dei quali si giovarono le Società europee venute  dopo, che non dovettero ricominciare da capo (ossia dalla  condizione infima dell' uomo preistorico) il lavoro della  organizzazione sociale.  La giustizia è la forza specifica dell'organismo sociale. Siccome poi V organismo e la vita sociale si  spiegano per la Giustizia che vi si produce, cosi la teoria   «T-     della formazione naturale della vita sociale è anche nello  stesso tempo la teorìa della formazione naturale della  Giustizia. La quale per ciò è una formazione naturale,  come il Sistema solare, come un Minerale, come un Ve-  getale, come un animale, come una Goccia di Rugiada,  come un qualunque Pensiero di un uomo.   È cioè la Giustizia una formazione naturale della  Società; come, ad esempio, si direbbe che la vegetazione  è una formazione naturale del nostro Pianeta.   Ed è la Giustizia la forza specifica della società medesima. Ne è la forza specifica, come si direbbe che V affi-  nità è la forza specifica delle sostanze chimiche, la vita  delle organiche, la psiche degli animali.   Nessuna affinità, o vita, o psiche, senza sostanza chi-  mica, organismo vivo, animale. Del pari nessuna Giusti-  zia senza Società umana.   L* affinità, la vita, la psiche scaturiscono dalle stesse  forze onde esistono i loro soggetti; e ne rappresentano  la risultante, che, come tale, si distingue specificamente  dalle forze producenti medesime. E cosi la Giustizia sca-  turisce dalle stesse autonomie prepotenti degli individui,  ed è la specie distinta di essere risultante naturalmente  dal loro contemperarsi insieme. La società quindi, come tale, è tanto più per-  fetta quanto più è forte V idea della Giustizia formatasi  nei consociati; ossia quanto più questi sono morali: sic-  ché meno sia uopo concorrere colla forza materiale al-  l' ottenimento dell* ordine sociale.   D che equivale al dire che T Idealità sociale sia più  Voi. IV. 7    impulsiva da se stessa nella psiche di ciascheduno, e  quindi il regno della Gitcstizia {adoperando la nostra so-  lita espressione) si sostituisca a quello del Fato o della  Prepotenza.   In modo analogo una sostanza chimica è tanto più  stabile e perfetta quanto più V Affinità degli atomi vi è  grande» e la rende atta a mantenersi nell' essere suo in-  dipendentemente dalle circostanze fisiche esterne della  temperatura, delP ambiente, della compressione e via di-  cendo, che suppliscano colla loro azione al difetto della  forza di coesione intima dei componenti. La costituzione dell'organismo sociale, e quindi  la sostituzione della Giustizia alla Prepotenza, produce  la incolumità dei consociati. La incolumità, che non è  altro appunto se non la elisione della Prepotenza oflFen-  dente.  Questa incolumità ha due fattori:   Primo. La forza materiale disposta nelle mani del  Potere per far valere violentemente la Legge contro la  Prepotenza non domata delle parti subordinate.   Secondo. Il sentimento del Dovere formantesi negli  individui associati nel modo detto sopra. Ora, siccome questo sentimento del Dovere (o questa  Idealità sociale impulsiva, che torna lo stesso) è una vera  forza traente l' individuo a vincere la propria tendenza  egoistica della Prepotenza, e a segfuire la ragione an-  tiegoistica della Giustizia o della Legge, cosi le due  forze suddette, del Potere di fuori e del Dovere di dentro  collimanti a produrre V incolumità dei consociati e in^e-  granfisi vicendevolmente nella intensità sufficiente al-  l' uopo, si troveranno concorrervi in ragione inversa.   Meno è il sentimento del Dovere sviluppatosi nei  singoli individui, e più dovrà essere la forza materiale  usata dal Potere. E viceversa, più il sentimento del Do-  vere, e meno la forza materiale.   E ciò, sia normalmente, sia accidentalmente; e per  certi momenti critici sociali, e per certe Idealità.   La incolumità  poi del cittadino importa un  complesso di condizioni sue particolari molte e diverse,  cominciando dalla fondamentale della salvezza della vita  materiale e andando fino alle più delicate (proprie delle  condizioni sociali più perfette) del rispetto morale vicen-  devole negli atti anche più comuni della vita.   Il Potere supremo della Società non può (come altre  volte avvertimmo) provvedere per tutte le dette condi-  zioni della incolumità del cittadino: ma deve necessaria-  mente intervenire almeno per le fondamentali. Da ciò consegue che l’azione materiale sulla persona del cit-   Chi consideri tutte le possibili reazioni tra uomo e  uomo in una Società di leggeri può rilevare due cose  molto importanti pel discorso che facciamo qui. Cioè:  Primo. La varietà infinita delle azioni di un uomo  atte a destare in qualunque modo la attenzione di un  altro. Fogniamo, partendo da un assassinio e venendo  fino ad uno sbadiglio. Nella quale varietà, come è chiaro  da sé, si hanno delle vere diflFerenze di generi e di specie.  Secondo. Il sentimento nascente in un uomo, per  reazione, in seguito all' azione da lui osservata in un  altro. E di tale sentimento abbiamo parlato nella Morale  dei Positivisti (i), mostrando quanto sia variato e come  formi una serie di sentimenti diversi, anzi una scala in  ordine di nobiltà.  Ora, per le cose dette, ripetendosi e le azioni e i  sentimenti accompagnanti le reazioni che le susseguono,  si producono un po' alia volta e si fissano nella psiche,  come sue potenzialità, delle Idealità sociali corisppndenti.  Le quali per ciò sono costituite dalla rappresentazione  della azione e dalla reazione effettiva conseguente: onde  sono Idealità impulsive del volere, ossia Giustizie. La mente si confonde pensando alle varietà possibili  ad emergere in ragione di tale processo. I pochi ele-  menti del chimico, si sa a quale infinita varietà di for-  mazioni di sostanze si prestano: le poche note musicali,  a quale infinita varietà di composizioni musicali; le poche  lettere dell' alfabeto, a quale infinita varietà di suoni ar-     (i) Libro I, Parte I, Capo III (Pag. 21 e segg. del Voi. Ili di  queste Op, fil. nella ediz. del 1885, del 1893 e 1901, e pag. 22 nel-  l'Ediz. del 1908).     I20   ticolati. Or che sarà della varietà delle formazioni psichiche  della Giustizia, pensando anche solo alla varietà dei senti-  menti componibili colle rappresentazioni degli atti sociali? Per farcene una qualche idea prendiamo un esempio.   Neir uomo, fra i molti sentimenti onde è capace, si  ha anche quello caratteristico corrispondente alla espres-  sione del ridere. È questo si può connettere con un nu-  mero senza fine di rappresentazioni di atti, dando ori-  gine cosi al genere delle Idealità comiche; le quali nes-  suno ignora quanto siano potenti neir indirizzo della vita  e nell'impero della volontà; mentre è pur vero che il  timore del ridicolo ha talvolta più efficacia che non il  timore del carcere e della multa.   Il fatto, pel mondo morale, è analogo a quello di  una sostanza che, potendosi combinare con tutte le altre  nel mondo materiale, è atta a determinarvi un atteggia-  mento particolare per tutto T essere suo. Il nostro mondo,  per esempio, sarebbe un mondo aflFatto diverso da quello  che è, se gli mancasse il ferro. E cosi dicasi degli orga-  nismi in genere se mancasse, mettiamo, il potassio che  concorre a formarli, essendovi quindi un ministro della vitcu   Allo stesso modo V atteggiamento morale dell'uomo,  quale è al presente, verrebbe meno, se mancasse il coef-  ficiente del riso, che concorre a formarlo, essendovi quindi  con ciò anche esso un ministro del bene.   Il quale ragionamento poi va ripetuto per tutti i  sentimenti umani ad uno ad uno, che sono altrettanti  coefficienti dell* Idealità sociale direttiva delle azioni u-  mane, attivandola sotto la forma di generi speciali dì  Idealità o di Giustizie.  E della varietà inesauribile di queste, per tale via ottenute, è un saggio V arte, che nella scultura, nella pit- tura, nella poesia, nella prosa, riproduce dalla coscienza, in tante forme, gli atteggiamenti morali dell' uomo. In tante forme li ha riprodotti, e in tante ancora, senza fine, è atta a riprodurla 3. — E i sentimenti umani riescono cosi coefScienti della Giustizia, perchè un sentimento, qualunque sia, essendo la reazione corrispondente ad un atto, ne è anche la Sanzione; e chi commette V azione atta a susci- tare un sentimento incontra una Responsabilità in ordine ad esso.  Anche ciò è essenziale al concetto naturale vero e  pieno della Responsabilità umana.   Anche ciò quindi appartiene all' ordine naturale della  Giustizia nella varietà delle sue formazioni. Il restringere 1* ordine della Giustizia a quei pòchi  atti ai quali si rìduceva una volta, e che si abbraccia-  vano nei dieci comandamenti del decalogo, è eflFetto di  nna grossolana e non scientifica idea della cosa. Come  il restringere che fa il volgo dell' idea dell' animale a  quelli che sono forniti di occhi e di gambe per camminare: e il restringere l' idea del vegetale a quelli soltanto  che hanno le foglie verdi.   La scienza ha trovato animali anche senz' occhi e  fissi alle pietre; e vegetali senza foglie e senza verde. E  cosi trova delle Giustizie senza la Sanzione del carcere  e della multa. La restrizione suddetta corrisponde insomma perfet-  tamente a quella che fa il volgo e fecero gli antichi delle  specie degli animali, credute poche e sempre quelle e mo-  dellate a priori sugli esemplari fatti passare da dio in  rivista davanti ad Adamo nel paradiso terrestre.   E dipende dalla stessa ignoranza della legge della  formazione naturale. Poche, dicevano, e sempre quelle, le specie degli ani-  mali; e create direttamente da dio, e mostrate ad Adamo  al principio del mondo nel paradiso terrestre. E cosi,  poche e sempre quelle le specie della Giustizia, impresse  da dio direttamente neir anima di ogni uomo che nasce  e scritte sulle tavole di Mosè dalla cima del monte Sinai [cfr. Grice, ’10 comandi’, decalogo] La scienza sbugiardò V idea meschìnissima quanto  alle specie degli animali. Sbugiarda col positivismo l'idea  meschinissima quanto alla Giustizia. Non dio, autore delle  specie degli animali; ma la natura: e le specie, un nu-  mero stragrande; e non fisse, ma variabili; e variabili  accidentalissimamente. E cosi, non dio autore delle specie  della Giustizia, ma la natura: e queste specie, un numero  stragrande e immensamente differenziato; e non fisse, ma  variabili; e variabili accidentalissimamente.  L'idealità sociale, ossia la giustizia morale,  formata che sia nella coscienza dell' individuo, vi fun-  ziona come una forza speciale, nel senso antiegoistico  chiarito nella Morale dei Positivisti; e vi produce un  doppio effetto, secondo che si applica al giudizio e alla  direzione delle azioni individuali proprie, ovvero al giu-  dìzio e alla direzione delle azioni degli altri.   Da questo secondo effetto dipende la vitalità intrin-  seci e vera della Società, considerata siccome un organismo naturale nel senso proprio della parola. Perchè la  Giustizia, parlando nella coscienza dell' individuo, è la  potenzialità indistinta onde originano i distinti dei Po-  teri sociali effettivi e delle Leggi da essi emananti; e  perchè la Giustizia potenziale degli individui associati  collabora a rendere efficace l’opera del potere e della  legge sociale. E come se si dicesse che un organismo, pogniamo  vegetante, si sviluppa nei suoi organi caratteristici mercè  la vitalità delle parti componenti: e che poi T attività  di questi organi speciali è operativa de' suoi effetti par-  ticolari sopra le parti mercè il concorso della vitalità che  si mantiene nelle parti stesse. Sempre insomma la legge  generale della formazione naturale, che l' indistinto non  cessi mai di sottostare al distinto, e di offrire cosi la ra-  gione naturale e del suo essere e del suo operare.   Cosi si osserva che una legge in un paese rimane  senza efficacia e come lettera morta se, a farla valere, è  solo il Potere, e non lo ajutano di conserva le singole  coscienze dei cittadini; le quali, accogliendo in sé la  forza viva già formata della Giustizia morale, ne ricevono  un impulso atto a muoverle alla disapprovsizione degli atti  contrari alla Legge e a concorrere per quanto possono a  farla valere.  E, quanto sia vero ciò che affermiamo, lo di-  mostrano i fatti sociali tutti quanti. Anche, per esempio.     r interesse vivissimo onde si tien dietro allo svolgimento  di un processo criminale, pur dei paesi lontani, pure re-  lativo a persone che non ci riguardano punto, né diret-  tamente, ne indirettamente.   Che più? Tanto è viva e potente nell'uomo T idea  della Giustizia antiegoistica, che egli non può stare che  non ne provi V eflFetto più vivo anche pei fatti immagi-  nari delle fole, dei racconti, delle poesie, dei drammi.  Data r immaginazione di un fatto, al quale sia applica-  cabile l'idea della Giustizia, questa per legge psicologica  indeclinabile si ridesta nella mente, e col suo naturale  atteggiamento: come in tutte le altre associazioni men-  tali. In ciò la spiegazione della vivezza della voluttà,  onde si leggono o si odono i suddetti racconti, e si as-  siste ai drammi. E la vivezza di tale voluttà è il termo-  metro che prova la presenza nella coscienza della idea  efficace della Giustizia e ne ne misura l' intensità.  La punizione materiale, vendicatrice della Giu-  stizia, sarà necessaria quindi in ragione inversa della ef-  fettuazione nella coscienza della Idealità sociale giusta.  Meno sarà questa, e più dovrà essere la severità e la  prontezza della pena materiale, che n' è la Sanzione. Il  che, come altrove dicemmo, si fa per due scopi: per  quello di supplire, colla impulsività dall' esterno della  minaccia del castigo, al difetto della impulsività dall* in-  terno della Idealità sociale direttrice dell'azione: e per  quello di giovare a produrre questa impulsività nel!' in-  dividuo. Onde, più questa è già prodotta, e meno occorre  di coazione a supplirla.   E al massimo assoluto della produzione della detta  impulsività corrisponderà V assenza del bisogno della coa-  zione materiale e la sufficienza per la Moralità del puro  fatto psichico della idea e della disposizione della Giu-  stizia, e del giudizio mentale dettatone di approvazione  e disapprovazione dell' atto relativo.   Ciò nel rapporto dinamico tra chi detta la Legge e  chi ne è obbligato ad eseguirla.   Ma e' è di più. La effettuazione della Idealità della Giustizia, in ra-  gione che più avviene, più paralizza il suo contrario,  onde deriva; cioè la Prepotenza. E quindi i sentimenti  nei quali questa si esprime: come è, tra gli altri, quello  della vendetta considerata quale sodisf azione egoistica.   E più invece ravviva i sentimenti antiegoistici, come  quello della benevolenza altrui. Ravviva cioè i sentimenti  che, nella Morale dei Positivisti (i), distinguemmo colla  denominazione di pietosi, dopo avere dimostrato che la  Pietà è il carattere del sentire dell' uomo in corrispon-  denza della sua formazione caratteristica della Idealità  sociale.   Per conseguenza, la stessa pena materiale, a misura  che una Società diventa civile, va perdendo del carattere  di una vendetta espiatoria ed appassionata, assumendo  quello di un semplice rimedio; che si applica a malin-  cuore e con sentimento di compassione essendocene il  bisogno e per questo bisogno solamente.   E in generale, questa qualità della assenza del carat-  (i) Libro I, Parte III, Capo III, n. 7 (Pag. 150, 151 del Voi.  Ili di queste Op, fil, nella ediz. del 1885, e pag. 158, 159 nella  ediz. del 1893 e del 1901, e pag. 163, 164 nella ediz. del 1908) e altrove.    tere appassionatamente vendicativo e di pura espiazione  si trova nella Società assai più nella reazione del Potere,  che rappresenta maggiormente V Idealità antiegoistica, di  quello che nella reazione della Convenienza, nella quale  assai più rimane dell' egoismo e della Prepotenza.   E, negli atti stessi della Convenienza, la vendetta  appassionata, egoistica, prepotente, è più o meno in ra-  gione che è più o meno eflFettuata V idea della Giustizia  neir individuo reagente.   Ossia, in una parola, quantunque la Giustizia im-  plichi la Responsabilità, e questa una Sanzione o una  vendetta punitrice, tuttavia, compiuta che sia come for-  mazione psichica individuale essa Giustizia, vi si dissi"  mula o vi si fa latente la vendetta relativa: a quello  stesso modo che, formata che siasi in una sostanza la  sua affinità chimica per la trasformazione in questa di un  certo numero di calorie, il fenomeno propriamente ter-  mico vi si dissimula e non si manifesta più in una tem-  peratura misurabile col termometro.  E torna cosi, anche nello studio della Respon-  sabilità e del carattere della Idealità sociale come Giu-  stizia, il principio più volte illustrato nella Morale dei  Positivisti per altre vie (i), del regno della Giustizia sot-  tentrante nella Società, di mano in mano che questa si  perfeziona, al regno del fato.   E torna ad apparire del pari il carattere speciale  deir uomo formato sotto V influenza dell' ambiente o del-     (i) Libro II, Parte IV. Capo II, n. 16 (Pag. 399 del Voi. Ili  di queste Op, fil. nella ediz. del 1885, e pag. 422, 423 nella ediz.  del 1893 e del 1901, e pag 432, 433, nella ediz. del 1908) e altrove.     PPipm>yi^"imtVi- k^i.J»^-» -pr^\»y-^r* t-^»t-«- ^vv --.. vt-w-    l'organismo sociale: ossia dell' uomo virtuoso, o sapiente,  che dir si voglia.   Per lui basta, ed è tutto, V idea della Giustizia; e  il giudizio che fa egli stesso di se medesimo in virtù di  essa: e al di fuori e al di sopra di ogni punizione mate-  riale. Come dice Dante di Virgilio:   El mi parea da sé stesso rimorso,  O dignitosa coscienza e netta,  Come t' è picciol fallo amaro morso!   E, relativamente al malvagio che lo oflFende, in ra-  gione della offesa, anziché il sentimento della vendetta,  cresce in lui quello della pietà. Come in quel divino cro-  cefisso, al quale, negli spasimi di dolore cagionatigli dalla  più atroce delle ingiustizie col più atroce dei supplizi,  l'offesa immensa non riusci che a trargli dall'anima la  preghiera sublime: Padre, perdgna a questi miei crocifis-  sori, perchè non sanno quello che si facciano. Abbiamo parlato di quello  che, sulla fine del primo, avevamo chiamato il secondo  degli uffici del Potere.   Resta dunque a parlare del primo di questi uffici,  che dicemmo essere di stabilirsi nella Società a spese  delle sue parti; e del terzo che dicemmo essere di di-  spensare nell'effetto del miglioramento delle parti  quella forza comune dell' ambiente sociale che opera  per esso Potere.   E lo faremo, cominciando la illustrazione divisata in  questo Capo e nel seguente, e compiendola nelF ultimo.   2. — La Giustizia propriamente detta non è tutta la  moralità.   Questa Giustizia, cóme vedemmo, riguarda la ifuo-  lumità delle parti sociali. E quindi è il solo lato nega-  tivo della Moralità.   Ma la Moralità ha anche i suoi lati positivi: come  quelli indicati dalle parole Diritto e Autorità; e quello   dei mezzi onde si costituisce e vive il Potere, organo  della Società; e quello del Premio della virtù.   Anche di questi lati positivi quindi (e sotto il punto  di vista prefissoci (i) della Responsabilità) si deve chia-  rire la formazione naturale. Con ciò potrà rimanere spie-  gato appieno il fatto naturale della Moralità, e la ragione  della Responsabilità potrà apparire sotto tutti i suoi  aspetti reali.   §11.   Criterio positivo del Diritto e del Dovere. Il Diritto (come dimostrammo nel luogo più  volte citato della Morale dei Positivisti) è la stessa  potenza libera che si avvera rielT essere umano. Considerato questo essere isolatamente, il Diritto,  come dicemmo sopra, coincide colla Prepotenza; e di-  venta il Diritto sociale antiegoistico e giusto (o il Diritto  propriamente detto) in quanto è ridotto in limiti deter-  minati dal contrasto della potenza opposta degli altri uo-  mini consociati.   Vale a dire: la potenzialità astratta dell' individuo,  nella condizione eflFettiva del suo esercizio (cioè di fronte  alle reazioni delle potenzialità degli altri), diventa una  potenzialità reale determinatamente limitata dalla effi-  cienza contrastante delle potenzialità degli altri uomini. 12) Libro I, Parte II, Capo IV. n. 15 ecc. (pag. 125 del Voi.  nidi queste Op, ftl. nell' ediz. del 1885, e 131 dell' edìz. del  JS93 e del 1901, e pag. 135 nelle ediz. del 1908).   Voi. IV. 9     Tf^r»*   Con che però resta sempre il principio, che il Di-  ritto di un uomo è ciò che esso può fare.   Resta sempre; per la ragione xche, posto V uomo di  fronte agli altri, e rimanendone elisa per tale relazione  una parte della potenzialità, la potenzialità sua effettiva  non è tutta V astratta, ma solamente quella che residua  dalla elisione sofferta.   E, per togliere ogni dubbio su ciò, basta V osserva-  zione del fatto che, cambiandosi le condizioni e i rap-  porti dinamici, onde dipende la elisione di una parte  della potenzialità di un individuo, questa torna attiva, e  con ciò torna Diritto. Il potere di staccare un frutto ma-  turo da un albero non è Diritto dove il contrasto del  possesso altrui impedisce di esercitarlo; ma tolto questo  contrasto (portandoci, mettiamo, in una regione nella  quale le piante sono proprietà comune) lo stesso potere  di staccare il frutto torna Diritto, per la sola ragione che  non ha più T impedimento al suo esercizio del possesso  altrui. Il Diritto quindi, come dicemmo pure nello  stesso luogo della Morale dei Positivisti, se in astratto  è identico per ogni uomo, (essendo Tuomo in astratto  identico all' uomo) nella realtà per ogni uomo è diverso,  per la ragione che la potenzialità di un uomo differisce  sempre nel caso pratico da quella di un altro: quella  del maschio, ad esempio, da quella della femmina; quella  dell' adulto, del sano, del civile, del colto, dell' educato,  dell' uomo di genio, da quella del bambino, del malato,  del selvaggio, dell' ineducato, dell' imbecille; e via dicendo.     wyfmwii^i ' P Jl >»u-.ry -  l’uomo ha nella natura in forza del suo arbitrio in quanto è deter-  minato dalla Idealità lituana che è la Idealità sociale. Qui colla  spiegazione della formazione della Giustizia (o dell' Idealità sociale)  spieghiamo anche la formazione del Diritto, e quindi ne indichiamo le condizioni dettagliatamente, che si possono riassumere nel quadro che segue: A) Arbitrio umano libero. Non il potere generico della cosa sulla cosa. Non quello della persona in condizione irresponsabile. B) Arbitrio libero di un uomo (sulla cosa o sull* uomo) in con- fronto colla reazione delVarbitrio libero dell* altro uomo. Non dove non si pone questa reazione: e in quanto è regolata dalP Idealità so- ciale. E in ordine a ciò: Arbitrio libero di un uomo in confronto con una reazione pos-  sibile. E qui Diritto potenziale o naturale. Arbitrio libero di un uomo in confronto con una reazione  reale. E qui Diritto di fatto o positivo^ nelle diverse forme di questo.  il Diritto può essere nello stesso tempo un Dovere, e non  che deòòa.   E perchè questa differenza fra Diritto e Diritto?   Rispondendo, apparirà insieme come e quanto con-  vengano fra loro le definizioni apparentemente diverse da  noi date del Diritto nella Morale dei Positivisti (nel  luogo sopra citato), dove dicemmo che è in se stesso la  Giustizia, o la Legge o la Idealità sociale, e qui, dove  diciamo che è un potere libero implicante una Respon-  sabilità verso una Sanzione che ne salva V esercizio. Nel caso di chi mangia la propria mela, M impulsi-  vità traente all' azione è data, non dalla Idealità sociale  «  antiegoistica, ma dall' istinto egoistico, o da quella che  dicemmo la Prepotenza, precedente T Idealità morale propriamente detta. Trattandosi di questa Prepotenza, la Re-  sponsabilità r accompagna solo in quanto la limita, e non  in quanto la produca. E quindi la stessa Responsabilità ha con essa un rapporto unico. E. per ciò non può  aver che il nome di Diritto, ossia si può pensare soltanto  che r esercizio ne è reso incolume dalla Responsabilità  che lo salva.  In vece, nel caso del padre che educa il figlio, T im-  pulsività traente all' azione è data dalla Idealità sociale  antiegoistica, ossia da qualche cosa che è già una Giu-  stizia, implicante quindi T elemento della Responsabilità.  Da ciò proviene che il potere del padre di educare il  figlio sia fra due rapporti: fra quello di eserizio incolume,  in quanto è salvaguardato da una Sanzione sociale relativa, onde è Diritto; e quello che il padre è alla sua  volta obbligato, pure per una Sanzione sociale relativa.  ad avere in sé la Idealità della sua disposizione o del  suo potere di educare il figlio, onde è Dovere.   In una parola, il potere egoistico, non derivando  estrinsecamente dall' ordinamento sociale, ma dalla stessa  spontaneità dell' individuo, non può importare se non la  Responsabilità di chi volesse impedirlo. E quindi è solo  un Diritto. Mentre invece il potere antiegoistico, deri-  vando come tale dall' ordinamento sociale, che lo ingenera per mezzo della relativa Sanzione, impòrta due Re-  sponsabilità. Una per chi non lo rispettasse: onde gli  corrisponde il Dovere in un altro. Ed una seconda per  chi non lo avesse e non lo esercitasse: onde, sotto questo  rispetto, è un Dovere esso stesso. Dunque il Diritto è sempre una potenzialità  che importa una Responsabilità, secondo la definizione  che qui ne abbiamo dato. Ma questa potenzialità può es-  sere determinata da una Legge, o Giustizia, o Idealità  sociale, secondo che importava la definizione data nella  Morale dei Positivisti,  In questo secondo caso, come ivi dicemmo, il Diritto  è nello stesso tempo un Dovere. Non cosi quando la po-  tenzialità è di un ordine estramorale.  8. — E cosi siamo arrivati, per mezzo della analisi  positiva del fatto umano e sociale, a scoprire // criterio  positivo del Diritto e del Dovere.  Con questo criterio (e non altrimenti) si possono ri-  solvere i problemi che li riguardano; e specialmente i  quattro fondamentali che seguono: circa i Diritti dell' uomo sopra le altre cose  della natura. Circa i Diritti dell' uomo sopra se stesso.  Circa i Diritti di Autorità.  Circa il Diritto, non di Giustizia, ma di Carità o Beneficenza, che dir si voglia. Nell'esempio innanzi citato di uno che pigli  dei pesci notammo, che il Diritto di chi lo fa è solo per  quanto il fatto riguardi altri uomini, e non per quanto  riguarda i pesci.  Coi pesci, che prende, l'uomo ha il semplice rapporto  generale della cosa colla cosa, quale è quello, pogniamo,  della foglia verde oscillante al sole e rubante all'atmo-  sfera la molecola di acido carbonico che vi nuota dentro  e si imbatte alla portata delle boccuccie predatrici.  In confronto col pesce 1' uomo non ha né Diritto né  Dovere. Esso, in forza del potere onde é fornito, ne usa  e ne abusa senza offesa della Moralità, che é estranea a  tale ordine di azioni. E nessuno dice reo di colpa e im-  morale, né il pescatore di professione che trae dall'acqua  il pesce e ne contempla impassibile gli spasimi dell'asfis-  sia, onde muore dibattendosi convulsivamente sulla secca  arena, e lo piglia cosi per procacciarsi da vivere; né il  pescatore dilettante, che gli infligge quel martirio per  semplice spasso.  Ma nella Civiltà progredita si può arrivare fino al  punto di estendere il carattere del Dovere anche alla  detta azione dell' uomo in rapporto col pesce. La Zoofilia  - 138 -  (che è una tendenza della Civiltà progredita) cosi parle-  rebbe in proposito air uomo; — Il pesce, prendilo pure:  x:hè ti abbisogna per vivere. Ma nel farlo non eccedere  i limiti della stretta necessità. Prendilo per quanto ti oc-  corre, o per mangiarlo, o perchè ti è di danno o di pe-  ricolo il viver suo. Altrimenti rispetta in lui il godi-  mento della propria vita. E, dovendo prenderlo, fa ia  modo che avvenga col minore suo dolore possibile. E tutto  ciò consideralo siccome un tuo Dovere verso il pesce.  E, un Dovere analogo, i moralisti più delicati oggi  lo stabilirebbero, non solo pei pesci, ma anche per tutti  gli altri animali; e non solo per gli animali, ma anche  per le piante; e non solo per le piante, ma anche per le  cose inanimate senza distinzione. Stabilirebbero cioè quel-  la ordine quarto di Doveri, che chiamano dei Doveri del-  l' uomo verso le cose della najtura: essendo V ordine primo,  secondo loro, quello dei doveri verso dio; il secondo,  quello dei Doveri, verso se stesso; il terzo, quello dei  Doveri verso il prossimo. E come ciò? E giusta tale estensione dell'idea  del dovere? E, se giusta, non si avrebbe con ciò una  smentita alla nostra dottrina della formazione naturale  deir idea del dovere?  Dicemmo che la effettuazione della Idealità  della Giustizia, in ragione che più avviene, più para-  lizza il suo contrario,., e più invece ravviva i sentimenti  antiegoistici, che distinguemmo col nome di pietosi, caratteristici del sentire dell' uomo in corrispondenza colla  sua formazione della Idealità sociale. In ordine a ciò, parlando in ispecie della Idealità  sociale della famiglia, nella Morale dei Positivisti (i) scri-  vemmo quanto segne: — Questa Idealità diversifica se-  condo le varietà umane. Rozza fra le rozze, gentile fra  le gentili; portante a illimitato uso di potere nelle So-  cietà embrionali, ristretta alla mera necessità dell* alleva-  mento, dell' educazione, e dei riguardi necessari, nelle So-  cietà più perfette; e cosi via per altre diversità e grada-  zioni senza numero. Sicché si può dire, che, se dal bruto  air uomo r idealità in discorso si umanizza, questa uma-  nizzazione è neir uomo stesso maggiore o minore. E, dove  è minore, vediamo T effetto, e nella forma ancor fiera del  sentimento relativo, e nella sua limitazione, restringen-  dosi, o alla nazione, o allo stato, o ^alla tribù, o ad un  semplice branco di uomini. Mentre, dove è maggiore, ve-  diamo Teffetto, e nella gentilezza del sentimento, e nella  sua estensione, che abbraccia tutti quanti gli uomini, per  quanto diversi e immeritevoli: e travalica anche il con--  fine dell'umanità, e si presta a che l'uomo sia pietoso anche  cogli animali inferiori, e perfino cogli esseri inanimati,  La pietà cosi estesa, o in genere Tappi icazione  del potere proprio verso le cose 7iei limiti del necessario  e del ragionevole, è una moralità indiretta, e non una mralità diretta. Che questa è solo quella che dipende  immediatamente dalla reazione tra uomo e uomo; e che  quindi ha per correlativo una Sanzione sociale e conseguentemente ne implica la Respc^nsabilità.  (i) Libro I, Parte III, Capo III, 11. 6 (|)a^. 149, 150 del voi.  lU di queste Op. fiL nella ediz. del 1885, e pag'. 156, 157 nel!' ediz.  del 1893 e del 1901, e pag. 161, 162 nella ediz. del 1908). Onde storicamente (nella successione dei periodi della  evoluzione della Moralità umana), e statisticamente (nei  gradi di evoluzione della Moralità propria dei diversi  ordini costitutivi di una stessa Società) da prima si ha  solamente la Moralità diretta, o che riguarda V uomo e  non le cose.  Le genti più rozze oggi e, fra le genti più colte, le  persone che lo sono meno, né sentono né sospettano  neanco che la Moralità possa riferirsi anche agli atti relativi ai bruti e alle cose inanimate. Il decalogo mosaico,  sintesi dei precetti morali di uno stadio evolutivo antico  e non ancora perfetto della Moralità, non ne fa cenno  nemmeno esso.  Ma, sviluppatasi più fortemente col progredire della civiltà nel sentimento pio la espressione della Idealità  antiegoistica, questa dovette risentirsi e muovere ogniqual-  volta nella rappresentatività umana si fossero avute anche  solo delle analogie coi fatti umani eccitatori dello stesso  sentimento pio.  E ciò per la legge generale della attività psichica,  la quale importa che la rappresentazione somigliante (os-  sia il ritmo analogo dell' attività centripeta) determini  affetti e volizioni somiglianti (ossia ritmi analoghi dell’attività riflessa).  Mansuefatto l’uomo per l’effetto dell' ambiente sociale, e reso più umano, e cresciuta in lui la potenza pietosa, questa dovette scuotersi al palpito, non solo delle viscere del fratello immolato dalla ferocia dell' assassino, ma (per somiglianza della cosa) anche di quelle dell’agnello semivivo sul lastrico del pubblico macello. Do-  ||Wli|ILP!iWWiJi,iS"iWii vette scuotersi perfino alla dilaniazione dei ramoscelli  vivi di una pianta, onde il pensiero è tratto per analogia a rappresentarsela con un senso di dolore. Come quando Goethe canta di una pianticella di rosa. Der wilde Knabe brach* s  Rdslein auf der Heiden;  Ròslein wehrte sich und sùach,  Hai/ ihm dock kein Weh und Ach !  Mussi* es eben leiden,  E siccome il senso della pietà è, come dicemmo, il  sentimento riassuntivo dell’idealità antiegoistica, ossia  doverosa, cosi il concetto vago del dovere, colla sua imperatività astratta e quindi misteriosamente indefinita, dovette associarsi anche alla Pietà sentita in causa dell’analogia per T agnello e per la rosa; e conseguente-  mente si dovette indirettamente o per riflesso, la ragione  del Dovere, estenderla anche al rispetto di un animale e  di una pianta.  Ed è ciò che confusamente presentirono quei vecchi  sensisti che posero la facoltà immaginaria del senso della  Moralità, o queir altra misteriosa della *simpatia* o compassione. Ma la cosa può andare anche più oltre.  Il sentimento pio medesimo, rimanendo offeso in chi  è testimonio della azione spietata, compiuta da una per-  sona o sopra un bruto o sopra un' altra cosa, e perciò  in lui risentendosi, può far sì che egli si esprima ripro-  vando r azione offendente. Tale espressione riprovatrice sarebbe una vera San-  zione vendicatrice della resizione di Convenienza, e che  — 142 —  potrebbe essere assunta dal Potere, quando esso (come è  possibile, anzi probabile, an2i in gran parte si è già  fatto (i) progredendo la Civiltà) convertisse in Legge  pubblica il giudizio privato divenuto comune. Come è notissimo, in tutti si può dire i paesi civili si sono  formate delle società per la difesa degli animali, e si sono fatte  delle confederazioni di esse anche internazionali, e si tengono di  tratto in tratto dei congressi dei loro rappresentanti. E si sono anche  fatte delle leggi proibitive degli eccessi contro le povere bestie. E  credo opportuno riportare (jui tradotto un tratto a proposito del  Konversations Lexikon del Brockhaus (Lipsia, 1895 voi. 15, pag.  844) — La legislazione più antica contro quelli che maltrattano gli  animali ci è presentata dall' Inghilterra dove essi erano puniti fino  dal secolo passato. Seguì una serie di leggi per la protezione degli  animali domestici, per la proibizione delle giostre delle fiere, per la  limitazione delle vivisezioni. Relativamente presto anche la Germania  dettò leggi nello stesso senso; oltre le misure di polizia, il codice  penale sassone del 30 marzo 1838 indisse la prescrizione generale per  la quale si deferivano alle autorità di polizia le punizioni per gli  eccessi dell' uso anche legittimo degli animali. Seguirono tosto la  Prussia, il Wtirtemberg, ecc. con prescrizioni in parte più estese.  Al presente vige un paragrafo del codice penale dell' Impero, col  quale è punito con una multa che va fino ai 150 marchi, o col  carcere, chi pubblicamente o in modo da fare scandalo con malvagità  d' animo tormenta o tratta male gli animali. Oltre ciò sono in vigore  nei diversi stati delle ordinanze speciali delle autorità amministrative  proibitive di particolari maltrattamenti degli animali e in favore di  un contegno ad essi favorevole, e in specialità con prescrizioni circa  il trasporto degli animali, i cani da tiro, la macejleria, il sopraccarico  dei carri ecc. Nell'Austria, oltre certe ordinanze speciali delle autorità,  ha valore di legge 1* ordinanza ministeriale del 15 febbraio 1855, che  dichiara punibile il maltrattamento degli animali che desti pubblico  scandalo; in Francia la cosidetta legge Grammont del 2 luglio 1850  per la protezione degli animali domestici, ecc. I rappresentanti delle  società per la difesa degli animali tendono a che la punibilità si  estenda maggiormente e non si limiti a restrizioni fissate, come per  esempio la pubblicità def maltrattamento. Di tale tendenza pare ab-  biano tenuto conto la Svizzera, 1' Italia (art. 491 del Codice penale  del 1889), il Belgio (Codice penale del 1867), l'America del Nord, ecc.  ^i Nel qual caso poi si avrebbe una doverosità diretta  formatasi da una indiretta. E con una Sanzione e una  Responsabilità, non misteriosa e indefinita e vaga, ma  determinata.  E lo stesso avviene poi per molte altre dell’idealità morali. E anche per un altro verso V esercizio del po-  tere di un uomo sulle cose può finire coir essere gover-  nato da una doverosità. Come dove uno, che possiede un  podere e potrebbe farne lo strazio che volesse, è tratte-  nuto dair idea di non lasciare i figli senza pane. Nel  quale ordine di idee cade il fatto della legislazione sulla  interdizione dei prodighi. E per altri versi ancora; e per moltissimi. Ogniqual-  volta cioè r esercizio del potere, di un uomo sulle cose  offende, o affetta in qualsiasi maniera, il senso e l’appreziazione dell’altro e ne provoca una reazione, incontrandone quindi una sanzione e la responsabilità. E in tale ordine di casi è da notarsi che certi atti  fisiologici necessari ed inevitabili, ma incomodi o al senso  esterno o al sentimento estetico, importano una dovero-  sità solo in quanto sono compiuti da un uomo alla pre-  senza di altri e non in quanto sono fatti in disparte e  in segreto. Fatta però V abitudine di considerare gli atti mede-  simi fatti alla presenza degli altri come illeciti, V idea  della loro sconvenienza si associa poi ad essi • tanto o  quanto. anche compiendoli nascostamente. E quindi l'uomo,  a misura che diventa civile e moralmente più perfetto,  si studia o di evitarli più che è possibile o, non poten-. I !ij.i«pj  dolo assolutamente, di eseguirli nel modo meno inde-  coroso.  Ciò conferma anche la dottrina positiva già da noi  accennata (i) della formazione naturale dei Doveri del-  l' uomo verso se stesso.  E spiega in pari tempo il fatto curioso delle an-  tiche Moralità religiose, che consideravano alcuni fatti  fisiologicamente necessari dell'uomo, anche compiuti in-  segreto, impuri e tali da inquinarlo, e richiedenti quindi  i riti della purificazione,  7. — Secondo le idee religiose T arbitrio sulle cose  sarebbe una concessione di dio, creatore e quindi proprie- tario di esse: e in forza di questa concessione l'arbitrio medesimo sarebbe intero ed assoluto ed esente dalla restrizione doverosa sopra chiarita di un trattamento umano  e di un uso razionale, mancando il precetto divino rela-  tivo, che solo, secondo le idee stesse, può stabilire la ra-  gione del Dovere.  E da ciò si vede che il positivismo, anziché distrug-  gere la Moralità, è atto invece ad allargarla più che non  lo faccia la religione. La quale anzi, nella sua gelosia  pel monopolio arrogatosi della morale, si irrita e si im-  penna per questo eccesso (come essa lo chiama) di Mora-  lità positiva della Società moderna più colta, che vuol  essere buona anche colle bestie e coi fiori.  La religione si sente in ciò moralmente soverchiata,  e se ne vendica chiamando questa bontà, che essa non  sente e non può insegnare, cosa diabolica e perversa.  (i) Vedi sopra Capo II, J VI, n. 14, e la nota (2) relativa. Si teme che, perduta la religiosità, V uomo tor-  nerà alla ferocia brutale della prepotenza egoistica; e  non si vede che invece il positivismo è ancora più umano  e morale che non la religione.  Cosi si lamenta che la Civiltà vada distruggendo la  ingenuità santa dei tempi antichi; e non si vede che' i  santi ingenui dei vecchi tempi, perfino le matrone pa-  trizie e venerabili, erano, verso le stesse persone umane  degli schiavi, più fieri e crudeli che il rozzo mulattiere  colla sua bestia ricalcitrante, e il ragazzo ineducato col-  r insetto che strazia senza pietà.   L' uomo del positivismo non si umilia irragionevol-  mente col credere che V uso delle cose, sulle quali sente  di avere un potere, sia una concessione gratuita e capric-  ciosa che gli sia stata consentita dal talento o dalla mi-  sericordia di qualcheduno. Ed è orgoglioso di ritenere  cosa sua ciò che egli è in gprado di appropriarsi: anche  i mari, le montagfne, il vapore, V elettricità, che non sono  enumerati nel rogito di consegna del paradiso terrestre.  Ma ciò non impedisce che egli agisca verso le cose con  meno insolenza dell' uomo religioso e con maggiore mitezza.  Il proposito del positivista non è quello avaramente  egoistico del moralista della religione, che dice a se  stesso: — Queste cose dio me le ha date in proprietà: dunque perchè non ne caverò per me tutto il pro-  fitto possibile? Il suo proposito è quello retto, onesto,  morale della razionalità, di servirsi cioè delle cose pel  bene in genere, proprio od altrui; fosse pur anco solo il  bene delle cose che non sono lo stesso uomo.  Voi. IV. IO  ' ^ Pel moralista della religione le cose sono una pro-  prietà, onde dio, che le ha create e può quindi disporre  a suo talento, lo ha investito, col controsenso che abbia  ancora a sudare per raccogliere i frutti del campo, e lot-  tare contro la rabbia, molte volte fatale, delle bestie fe-  roci. Il moralista del positivismo invece, fiero di se stesso,  audace, generoso come Giapeto, non riconosce donatori.  Egli si sente- padrone della natura come frutto della siia  conquista faticosa; e, come un duellante cavalleresco, al-  l' elemento immite della natura dice: Eccoci alla prova;  se varrai più di me soccomberò io; sarai tu a soccom-  bere, se sarò io il vincitore.  Ma si dice dal moralista religioso, che un Do-  vere originato nel modo da noi detto sopra non è pro-  priamente un Dovere: e che, se V ha fatto V uomo, esso  può anche disfarlo.  Secondo il moralista religioso il Dovere propriamente  detto è quello che non è abbandonato alla balia del ta-  lento mutabile e capriccioso dell'uomo: onde è neces-  sario che sia un comando di dio, al quale non è possi-  bile sottrarsi.  E in tale credenza è secondato dalla falsa idea, pur  generale ancora fra gli stessi positivisti, che le buone  azioni in genere, e in ispecie la pietà verso i bruti e la  ragionevolezza neir uso delle cose, siano naturalità irre-  sponsabili, al pari, mettiamo, degli effetti delle cause fi-  siche sui corpi: disconoscendosi cosi, per ispiegare i fatti  in discorso, la loro natura morale, che è pure una realtà  attestata sperimentalmente.  Il positivismo (malgrado i positivisti che sbagliano) vita futura, conchiudono generalmente che l'uomo da nulla  è obbligato ad avere rispetto alla propria vita, poiché, suicidatosi, rimane senza efficacia qualunque minaccia che la Società ponesse a trattenerlo. E che quindi sia V uomo anche moralmente padrone assoluto della propria vita, e possa disporne come gli talenta. Queste sono due soluzioni opposte ed estreme. False  ambedue, perchè dedotte da una idea del Dovere scien-  tificamente non vera.  Una doverosità diretta, relativamente al suici-  dio, certo che non si può trovarla, poiché, né ha nes-  suna presa sul suicida una minaccia di punizione per  parte della Società sulla di lui persona, che se ne sot-  trae col suicidio stesso, né é ammissibile l' idea della  Legge divina e della immortalità dell' anima.  E, assolutamente parlando, quanto alla conservazione della propria esistenza, V uomo potrebbe considerarsi nella condizione estramorale indicata sopra parlando degli  atti deir uomo sopra le cose della natura. E quindi, come  non si ascrive a merito il tendere, nelle condizioni nor-  mali dell'animo, a conservarsi in vita, e neanche a tirare  il respiro (quantunque a ciò si possa concorrere anche  colla volontà), cosi il suicidio potrebbe essere riguardato  semplicemente quale effetto naturale di condizioni anor-  mali dell' animo di un uomo, come il tossire delle con-  dizioni anormali degli organi della respirazione.  Ma, se non una doverosità diretta, si può bene  avere, circa il suicidio e la conservazione della propria  vita, una doverosità indiretta; per la ragione che molte  e diverse Idealità morali doverose, connesse col fatto  della conservazione della vita, possono essere presenti  imperativamente (ossia con una impulsività morale o do-  verosa) nella coscienza disposta al suicidio; e rivestirne  la deliberazione del carattere della reità morale.  Mettiamo un padre disposto a suicidarsi, che pensi  di creare, facendolo, la infelicità materiale e morale der  figli superstiti. O uno che pensi danneggiare suicidan-  dosi dei creditori onesti, che si sono fidati di lui e lo  hanno beneficato prestandogli del denaro, che avrebbe  potuto pagare almeno in parte continuando a vivere. E  cosi via per moltissimi altri casi consimili (i).   (i) Molto istruttivo per questo è il noto dramma di Paolo Ferrari,  intitolato // Suicidio^ nel quale, come le tirate spiritualistiche sono  freddure senza fondamento scientifico, senza sugo e ridicole, che è  strano che egli creda che si possano prendere sul serio, cosi invece  è pieno di verità e di effetto il quadro delle conseguenze nella fa-  miglia superstite del suicida. Onde poi si deduce che anche nei casi nei quali la  doverosità affetta, per impedirla, la deliberazione del sui-  cidio, questa doverosità non è sempre la stessa, ma varia  secondo il numero, la importanza e la qualità delle ra-  gioni morali intervenienti. Cosi, se un corpo insipido per  sé acquista un sapore da sostanze che glielo danno, que-  sto suo sapore varia secondo la diversità delle sostanze  dalle quali Io riceve. Tanto è vero poi che la doverosità non è in-  trinseca al suicidio per se stesso, e gli è. conferita, quando  si dà che Io accompagni, da ragioni morali intervenienti  diverse secondo i casi, che si può pensare Inter venirvene  anche di opposte; e tanto da produrre perfino la dove-  rosità contraria, ossia quella puranco di commetterlo.  E invero tutti quanti i ragionamenti ingegnosissimi  architettati da certi moralisti non poterono mai togliere  r aureola di eroismo virtuoso onde risplende la memoria  di Lucrezia romana e di Catone uticense.  Dicemmo, che la doverosità può associarsi al  fatto del suicidio, e contrastarlo quindi nella coscienza  morale in quanto si dà accidentalmente la circostanza  che, commettendosi da un uomo, restino inadempiuti dei  Doveri che gli incombono e sono da lui apprezzati.  E per ciò affermammo che la doverosità stessa viene  così a riguardare il suicidio, non per sé, ma indiretta-  mente.  Se non che è pur vero che anche una doverosità  diretta, atta a contrastare da sé la deliberazione di com-  metterlo, si accompagni al suicidio. E per ciò per una  Sanzione che minacci, non la persona viva (che non può  I- "II* PF.I 'darsi come dicemmo), ma la sua fama dopo la morte. La  paura di nuocere alla propria fama col suicidio può trat-  tenere tanto o quanto un uomo dal commetterlo, e in tal  caso esisterebbe per quest' uomo una doverosità diretta  impeditiva del suicidio. E sono due gli ordini dei motivi che possono deter-  minare questa Sanzione per la quale la Società può ven-  dicarsi del suicidio sopra la memoria del suicidato.  Il primo è quello delle doverosità indirette accen- nate sopra. E per esse viene ad avverarsi così ciò che si disse al numero 5 del paragrafo precedente della dove- rosità indiretta occasione della diretta. Il secondo è quello della opinione sfavorevole che  domini in una Società o in una classe di persone ri- guardo all'atto der suicidio, fondata sopra la idea che  sia una irreligiosità abbominevole o una rivelazione di  debolezza d' animo o di alterazione delle facoltà mentali.  La doverosità diretta dipendente da una San-  zione sociale, determinata da questo secondo ordine di  motivi, è una doverosità accidentale e temporanea, e non  normale e durevole, come si richiede pel Dovere assolu-  tamente tale.   E in vero T opinione relativa al suicidio, non sem-  pre, non dapertutto, si trova ad esso sfavorevole. Quante  volte, e presso quanti invece il suicidio è solo ragione  di compassione, come per una disgrazia non colpevole, o  è anche una ragione di lode!  La disapprovazione motivata dalle idee religiose vien  meno con queste. Si danno circostanze nelle quali il sui-  cidio si riveste del carattere di atto eroicamente lodevole,  come nei citati di Lucrezia romana e di Catone uticense.  Si danno condizioni e periodi dello stato di una Società,  che fanno considerare il suicidio siccome una fatalità ir-  responsabile.  Che più? Se uno è colto a commettere una azione  criminosa, la gente si avventa sdegnata contro il delin-  quente e si presta in aiuto della pubblica autorità ven-  dicatrice. Si corre invece a salvare dalla morte chi è in  procinto di darsela, e con senso, non di sdegno, ma di  pietà,  Tutto giorno si moralizza sul suicidio a fine  di impedirlo, ritenendosi di danno alla Società in gene-  rale e a certe sue istituzioni in particolare. Ma si mora-  lizza inutilmente. Le ragioni che si fanno campeggiare  sono inefficaci per mancanza di solidità intrinseca. Il fatto  si ripete ugualmente, come la febbre curata coli* acqua  fresca. E il male, riguardo alla Società, non è tanto nella  perdita dei suicidi, che in generale non costituiscono la  sua parte più attiva e sana, ma nelle condizioni stesse  della Società, che, se sono favorevoli al suicidio, con ciò  dimostrano di essere non buone e da migliorarsi.  Per le cose dette certo si scandolezzeranno  molti. E crederanno di avervi trovato un capo d' accusa  ineccepibile contro T etica del positivismo, per sostenere  che essa è esiziale alla Moralità dell' individuo e del  corpo sociale. Ma noi rideremo dello scandalo; ingenuo,  se chi lo prova è un pusillo; e ipocrisia, se chi lo pre-  testa è un accorto. E diremo: Acquietatevi, che né la  Moralità individuale, né la Società avranno danno nes-  suno. Anzi ne avranno vantaggio.  L' esperienza dimostra che anche tra i credenti in  una fede, che riprova assolutamente il suicìdio, si danno  di quelli che lo commettono. Sicché non si può soste-  nere che la religiosità valga ad impedirli. Quanto alla  minaccia dell' eterno castigo il credente suicida, o la af-  fronta disperatamente, o trova modo di persuadersi di po-  terlo evitare. Tanto che si sa di suicidi cattolici che si  confessano prima di darsi la morte. E nei credenti, se  si ha il ritegno della paura della pena avvenire, non si  ha poi queir altro, del non credente, dell'orrore di metter  fine per sempre alla esistenza, che per questo non si pro-  lunga oltre la vita attuale. E se si disse, che i credenti  un tempo si trattenevano molte volte dal suicidarsi per  r idea di essere sepolti fuori del cimitero consacrato, non  è men vero che ora possa altrettanto l'idea del biasimo  che può restare alla loro memoria.   Abbastanza ha provveduto la natura coli' istinto  strapotente della vita alla conservazione dell' umanità,  malgrado i mali gravissimi che ne accompagnano la esi-  stenza.   La disperazione che porta al suicidio non si mani-  festa con frequenza allarmante se non in certe condizioni  morbose sociali; e ne è il sintomo. Si manifesta per ef-  fetto delle condizioni medesime, regnino o non regnino  le religiose credenze. Ed avviene pel morbo, onde il sui-  cidio è il sintomo, come per tutti gli altri morbi; che,  se non producono la morte, le loro crisi stesse ajutano  la guarigione, sia segnalandoli alla cura da applicarsi,  sia promovendo una reazione salutare.   Quando in una Società si verificano frequenti suicidi     HW"*^ »    è certo ch^ la pubblica opinione si scuote dalla sua indifferenza per le cause dalle quali essi dipendono. E  finisce per rendere giustizia alla protesta contro di lei  di quelli, ai quali fu fatale lo sdegno contro la sua durezza.   E i singoli individui sono avvertiti e ammaestrati  circa i pericoli fatali di certe posizioni e circa gli effetti  funesti di certi indirizzi della vita, perchè li evitino e si  ravvedano intanto che il male può essere ancora scon-  giurato.  Il Diritto suppone l'Autorità; ossia è Diritto  solo in quanto è autorizzato ad esserlo. Ma la stessa Au-  torità è tale solo in quanto è un Diritto. E lo stesso Di-  ritto, qualunque esso sia, è in se stesso una Autorità.   Questi asserti sono altrettanti principj fondamentali  positivamente veri; quantunque la loro enunciazione ab-  bia r apparenza di un circolo vizioso.   Come dicemmo sopra tante volte (i), il Diritto per  essere veramente tale (e non semplicemente la potenza di  fare, comune ad ogni cosa che agisce), deve corrispon-  dere ad una Sanzione che ne assicuri V esercizio, con-  forme air Idealità sociale o giusta: e importare quindi  una Responsabilità morale. Ora la potenza che stabilisce  questa Sanzione, e verso la quale esiste questa Respon-   (E si veda per tutte la nota al n. 5 del § II di questo Capo III ) sabilità, è ciò che si chiama una Autorità. Onde è chiaro  essere il Diritto un correlativo della Autorità, e quindi  supporla necessariamente.   Potrebbe sembrare a prima giunta che questa  dottrina fosse identica alla vecchia religiosa e politica  circa TAutorità e la dipendenza da essa del Diritto. Ma  tra quella e la nostra corre una differenza di opposizione  perfetta.   La vecchia dottrina religiosa della Autorità insegna,  che ogni Diritto dell* uomo risulta da una concessione gra-  tuita di dio: che il Diritto, assolutamente parlando, non  l'ha se non dio: che T uomo di suo ha solo il Dovere:  che quindi, quando si dice di un uomo che ha un Di-  ritto verso un altro, la cosa va intesa cosi, che dio ha  imposto a questo il Dovere di fare o rispettare o lasciar  fare una cosa che lo stesso dio vuole che sia pertinenza  del primo.   Politicamente poi la stessa dottrina insegna che il  capo dello Stato è investito divinamente (e ciò significa  la consacrazione e la incoronazione con rito religioso per  parte del sacerdozio) di un potere sopra tutti i cittadini;  che esso ne è il sovrano per volere diretto di dio (onde  il titolo Per la grazia di dio) e indipendentemente dal  volere loro e da qualunque ragione naturale di Giustizia  o di bene comune (onde il precetto religioso: Obedite  praepositis vestris etiam discolis)\ e che quindi i citta-  dini, per lo stesso arbitrario volere divino, non sono altro  che sudditi. La scienza ha fatto ragione del principio religioso;  r evoluzione storica sociale del politico.     IP^II^KIIV idn,»»^ij5'tr«'isnfc#«^--xj' Il principio religioso è il solito fenomeno psicolo-  gico volgare, onde, concepito V astratto di un ordine na-  turale di fatti, il medesimo astratto è pensato come una  realtà fuori degli stessi fatti e come causa di essi. Gli  esseri viventi, ad esempio, danno V astratto dalla vt^a,  che non è se non la forma caratteristica speciale che li  distingue dai non viventi. Pel fenomeno psicologico sud-  detto si fece di questa vita una realtà atta ad introdursi  in questi esseri che lo possiedono e a renderli vivi con  ciò. Cosi fu fatto per V Autorità. Per una illusione ana-  loga; separata mentalmente dalla funzionalità sociale, onde  è un aspetto, fu collocata in dio, e di là si è fatta valere  a cagionare la funzionalità medesima.   E qui, come è ben noto, ci troviamo col solito abbaglio, del metodo metafisico, che spiega la cosa e il  fatto colla stessa cosa e collo stesso fatto. Come nel de-  rivare gli effetti fisiologici dell'Oppio dalla sua Virtù  dormitiva: per citare lo stesso esempio addotto da Pa-  squale Villari nel suo scritto intitolato e La Filosofa po-  sitiva e il Metodo storico » pubblicato fino dal gennaio  1806 nel Politecnico di Milano, e che io qui ricordo per-  chè egli fu il primo che ponesse la questione del Posi-  tivismo (nel senso che ha oggi) in Italia, e perchè una  grande influenza anch' esso ebbe sopra V indirizzo delle  riflessioni che finirono a produrre l'ordine attuale delle  mie idee filosofiche. Parlando poi della applicazione politica dello stesso principio religioso basterà osservare  come per essa il Potere è concepito, non come Giustizia,  ma come Prepotenza ed Usurpazione; onde si ha la Pre-  potenza, ossia r Ingiustizia, eretta alla dignità di principio inorale. Il che è bene scandaloso in una dottrina  che pretende di essere la salvaguardia unica possibile  della Moralità.   E questa applicazione politica del principio religioso  si trova poi corrispondere precisamente ad uno stadio  arretrato della evoluzione.   Il contrasto sociale (dal quale, come dimostrammo,  dipende la riduzione della Prepotenza e la sua trasfor-  mazione in Giustizia) si attestò da prima nell' impero  della religfiosità e della sua rappresentanza, cioè in quella  del sacerdozio. E allora si disse, il sovrano avere il po-  tere da dio, ed essere responsabile verso di lui dell'uso  di esso; e il sacerdozio si atteggiò a creatore e giudice  del sovrano in nome di dio.   Poi, venuta meno per le ragioni storiche la forza ef-  fettiva del sacerdozio nella Società, e quindi il peso del  suo contrasto, la sovranità se ne emancipò, e il legitti-  mismo di ortodosso divenne eterodosso; cioè, riconoscendo  ancora T esser suo dal cielo, autore e giudice della so-  vranità della terra, sottrasse però questa alla elezione e  al foro sacerdotale.  Incontrastabile veramente è il principio della  filosofia etica tradizionale, che il Diritto suppone la Autorità e che quindi questa si richiede pure per la Mo-  ralità.  Ma si ragiona falsamente dicendo, che il Positivismo  viene a distruggere la Moralità, dal momento che toglie  di mezzo l'Autorità; sicché per salvare la Moralità si  debba necessariamente tornare alla filosofia tradizionale,  che sola possa stabilire il principio della Autorità.  L'Autorità, il Positivismo, la pone anch' esso; e con  certezza, poiché ne trova il fatto nella Società e nella  psiche deir uomo civile, e ne dà la spiegazione partendo  dalla osservazione di ciò che succede realmente. E cosi  la fissa scientificamente ne' suoi termini veri e giusti, e  la garantisce dal dubbio (fatale sempre in materia di mo-  rale), e da ogni falsa, e dannosa, e immorale interpreta-  zione e applicazione.  L'Autorità, che la filosofia tradizionale fa venire dal  cielo, è un sogno antiscientifico ed involgente una con-  traddizione.   Come avvertimmo un' altra volta (i), il comando di-  vino imponente il Dovere all' uomo è un principio im-  morale della Moralità, mentre in fondo è la tirannia, o  l'ingiustizia, in grado infinito. E mostrarono d'essersene  accorti gli stessi metafisici quando concedettero, che il  comando divino abbia da essere non ripugnante alla es-  senza stessa delle cose, per cui riesca giusto, e dio che  ne usa debba chiamarsi santo. La stessa condizione po-  sero anche per la sua Autorità; e cosi, ammettendo una  dipendenza di essa dalla essenza delle cose, fecero di  questa il primo e di dio il secondo, e quindi vennero a  disautorarlo.   E r ammettere la condizione in discorso è poi infine  un riconoscere in modo indistinto la verità della nostra  dottrina, per la quale l'Autorità, non è un assoluto,. xm,  un relativo.   Cioè l'Autorità è il relativo di qualche cosa che si  impone moralmente; vale a dire con una Responsabilità   (i) Sopra Capo II, § II, n. ii.    ..LUI «IVI   verso una Sanzione, e quuidi verso una reausione libera  od umana: insomma verso la Sanzione sociale. Per cui  l'Autorità non può nascere se non nella Società degli uomini, e non può essere se non una formazione naturale  della sua attività organica. Ma questa dottrina del positivismo circa l'Au-  torità pare anch' essa contradditoria alla sua volta.   Un Potere, come si disse, è una Autorità in quanto  conviene con una Idealità sociale ed è giudicabile se-  condo questa; e quindi il suo esercizio è passibile di  una Responsabilità verso un Tribunale che dispone di  una Sanzione per far valere i principj secondo i quali  sentenzia.   Ora, siccome tale è precisamente anche il Diritto,  cosi l'Autorità viene ad essere anch' essa un Diritto.   Ma se l'Autorità è un Diritto, e il Diritto lion è tale  se non per l'Autorità subordinante che lo riconosca e lo  sancisca, come potrà darsi l'Autorità, non potendo essere  che il subordinante sia nello stesso tempo il subordinato?  Per rispondere alla difficoltà basta richiamare  quanto fu detto sopra (i) della Giustizia effettiva o giu-  ridica, o del corpo sociale; e della potenziale, o dell' in-  dividuo.   Ciò che sancisce l'Autorità suprema dello Stato è in  genere l' indistinto delle coscienze individuali, che ve-  demmo sopra come esista e come operi. E che, in modo  via via più distinto, si concreta nelle prerogative proprie  della gerarchia sociale (I) Capo I. i VII.    E COSI è tolta la contradd^ione obbiettata.   Il Diritto del subordinato è sancito dalla Autorità  stabilita nella Società. Il Diritto di questa Autorità è  sancito anch' esso da qualche cosa. Ma non da un' altra  Autorità superiore a quella della Società, che non può  darsi: sibbene dalla potenzialità morale del corpo sociale  collettivo (o delle coscienze individuali) che si forma ed  esiste e funziona ed è efficace in r^ione e a misura che  vige l'ordinamento effettivo della Società. E questo vero è attestato dal fatto storico co-  stante della Società umana, nella quale sempre si è ma-  nifestato questo processo; da una parte, della Autorità  stabilita che sancisce il Diritto del subordinato; e dal-  l'altra, della coscienza comune dei subordinati che san-  cisce il Diritto della Autorità stabilita.   Questo fatto è evidentissimo nella costituzione delle  Società moderne più avanzate, nelle quali é già ricono-  sciuta anche legalmente la dipendenza del Governo, in  tutte le sue parti, dal beneplacito dei cittadini. In tutte  le sue parti; mentre ormai la irresponsabilità, o si limita  alla sola persona del capo supremo, o è tolta affatto  anche per questa.   All' infuori del potere tirannico della forza e della  violenza di certe Società informi, che non è ancora l'Au-  torità giusta propriamente detta, ma la Prepotenza in-  giusta, nei governi teocratici la potenzialità morale del  corpo sociale collettivo si manifesta nella istituzione e  dipendenza del Potere dalla religione. E nei governi as-  soluti laici la potenzialità stessa si manifesta nella dipendenza del Potere sovrano, che pure ivi ha luogo, da  qualche cosa; come dalle consuetudini, dalle caste, dagli  ottimati e via discorrendo.   7. — Ed è poi confermato il vero medesimo dalla  distinzione, che sempre fu riconosciuta, fra il Diritto  reale e il potenziale; ossia, che è lo stesso, fra il Diritto  positivo e il naturale.   Poiché, scientificamente parlando, che è mai il Diritto naturale, se non la potenzialità morale propria degli individui componenti la So-  cietà. Il nostro ragionamento ci ha condotto:  Primo, a scoprire la vera indole del Diritto naturale.  Secondo, a spiegare con ciò V origine e la natura   vera della Autorità sociale. A darci il criterio per istabilire i rapporti del  Diritto naturale col positivo, tanto storici quanto ideali.   2. — Il Diritto positivo è, come già dicemmo più  volte, il Potere quale è costituito e funziona nella Società  umana; il Potere dei subordinanti e quello dei subordinati,  in quanto è riconosciuto fissato e garantito dal primo.     (i) Vedi in proposito: Morale dei Positivisti Libro I, Parte li.  Capo IV. n. 15 e segg. (pag. 125 e segg. del Voi. Ili di queste  Op. fil, nella edizione del 1885, e pag. 131 e segg. nella ediz. del  1893 e del 1901, e pag. 135 e segg. nella ediz. del 1908), e Parte HI,  Capo I (pag. 129 e segg. del medesimo nella ediz. del 1885, e pag.  135 e segg. nella ediz. del 1893 e del 1901, e pag. 139 e seg. nella  ediz. del 1908). — E questa Sociologia Capo I J VII (principalmente  n. 6) e J Vili (principalmente n. 3 e 4), e Capo II.? 11, nota al n. 5.   Il Diritto naturale non è altro che il potenziale.  Ossia quello che corrisponde alle Idealità sociali, o giu-  ste, o morali. £ alle Idealità sociali universe: tanto a  quelle che si sono già avverate nella psiche e nella co-  scienza umana, quanto a quelle che non vi si sono an-  cora avverate, ma vi si possono avverare quandochesia.   Dalle quali definizioni enaerge che il Diritto positivo è determinato e giu-  stificato dal naturale; che il Diritto naturale è imprescrivibile, ed  ha un valore trascenclente assoluto, corrispondendo al va--  lore trascendente assoluto della natura onde è il prodotto:  come una forza o una specie naturale qualunque, che  l'uomo trova nella realtà e deve subirvi e riconoscervi; che il Diritto naturale è universale, come la  natura umana, allo svolgimento proprio della quale cor-  risponde.   Quarto, che il Diritto naturale è infinito.   Il Diritto naturale è infinito, nel senso posi-  tivo della parola, spiegato nella Morale dei Positivisti (i).   Infinito cioè nel senso, che è una potenzialità inter-  minabile nelle serie e nelle forme de' suoi svolgimenti.  Una potenzialità indistinta atta a determinarsi nei fatti  dei Diritti distinti che si verificano via via senza fine,  come i fatti in genere nella natura per la sua forza ine-  sauribile. E non mica un pensiero, o un sistema di pen-  sieri, già determinato e fissato in tutto il suo contenuto  (Libro II, Parte III, Capo I (pag. 255 e segg. del Voi. Ili  di queste Op. fil,, neir ediz. del 1885 e pag. 268 nell'ediz. del 1893  e del 1901, e pag. 275 nella ediz. del 1908).  e in una forma unica, nella mente di dio, come dà la  filosofìa tradizionale.   La quale immiserisce meschinissimamente il concetto  del Diritto. Come immiserisce meschinissimamente il con-  cetto delle specie naturali delle piante e degli animali,  riducendole ad un numero chiuso di archetipi fissi pre-  stabiliti in una mente creatrice.   Come realtà attuale, già distinta nella sua forma di  Diritto, questo è un fatto accidentale; è il risultato del  caso dell'incontro fortuito delle reazioni particolari che  ne determinarono la effettuazione reale, analogamente a  ciò che avviene per ogtii fenomeno naturale, e come nella  Formazione naturale nel fatto del sistema solare dimo-  strai importare la legge universale della Formazione na-  turale. Ma esso Diritto poteva realizzarsi in un infinito  numero di altri modi; come era possibile un infinito altro  numero di accidenti (i) nella coincidenza produttrice della  serie degli eventi e della serie delle condizioni dell'uomo,  in cui si avverò la coincidenza. E, del pari, resta sempre  infinito il numero dei momenti evolutivi ulteriori, per la  stessa ragione, e perchè V attività naturale resta sempre  inesauribile, e non si arresta al punto al quale è arrivata  in un dato momento.  Dalle quali cose poi emerge che tra il Diritto  positivo e il naturale vi deve sempre essere lotta. Tanto  è lungi che il positivo (come discenderebbe dalle dot-  trine dell' etica tradizionale) sia T acquietamento defini-  tivo del naturale; e che questo, eflFettuatolo, riposi in     (i) Vedi la Parte IV dello stesso libro.    -   quello, e solo debba stare in guardia contro i principj  contrari (sia delle passioni ree dell' uomo, sia di potenze  sovrannaturali perverse) tendenti a disturbare V assetto  etico definitivo del mondo.   Eterna è la lotta fra il «Diritto positivo e il Diritto  naturale. E non effetto della reità di nessuno, ma dello  stesso Processo del Bene. Il Diritto naturale lavora continuamente a trasfor-  mare il talento della Prepotenza egoistica, che rimane  nella Autorità vigente, in ijome della Idealità antiegoi-  stica. E la trasformazione, incominciata sopra il massimo  della Prepotenza, e continuata pei gradi insensibili infi-  niti della sua diminuzione, non è mai compiuta total-  mente.   Il Diritto positivo di un dato momento è sempre in  arretrato verso le Idealità sociali più progredite, già al-  beggianti nelle coscienze sociali. E la evoluzione di que-  ste Idealità, che, nate, si ribellano subito al Diritto po-  sitivo discordante per riformarlo ad immagine di se stesse,  è una evoluzione che mai non cessa. L’Autorità del subordinante e in pari tempo, un suo Diritto. Soggiungiamo ora che anche il Diritto del subor-  dinato è, esso pure, una Autorità nel vero senso della  parola.   Il Diritto del subordinato è si riconosciuto dalla Au-  torità del subordinante, mai non è da questa creato. Esso  esiste per sé in virtù del fatto del suo comparire nella  coscienza individuale. Se questo fatto non si avesse, l'Au-  torità del subordinante non potrebbe fare che fosse il Diritto relativo. Dato che sia il fatto, la stessa Autorità  non può esimersi dall' ammettere il Diritto.   Il Diritto del subordinante quindi si impone per que-  sto verso all'Autorità del subordinante, e perciò è esso  stesso una Autorità. Oltreché poi ogni Diritto, anche di  un subordinato, è sempre tanto o quanto subordinante,  cioè atto a determinare dei Doveri e dei Diritti corre-  lativi.   E questa dottrina della autorevolezza intrinseca del  Diritto del subordinato (santo pel subordinante, come  l'Autorità di questo è santa pel subordinato), era sentita  nella coscienza etica degli antichi, malgrado il falso loro  riferimento della cosa, quando all' ordine iniquo del prin-  cipe tendente a violare il Diritto naturale del suddito,  questo rispondeva: Se il principe comanda ciò che dio  proibisce, o proibisce ciò che dio comanda, l' ordine e il  divieto del principe non hanno valore per la coscienza. La dottrina positiva dell'Autorità e del Diritto è liberale.   Questa dottrina (che è quella del liberalismo  positivo) contrasta a due estremi opposti; esiziali 1' uno  e r altro alla Moralità vera. A quello del Nichilismo del  Diritto individuale della dottrina etico-religiosa dei me-  tafisici; e a quello del dichilismo deldiritto del Potere  di un certo socialismo materialistico. Il Diritto naturale e l'Autorità del Potere, che  lo riconosce, sono fatti naturali della Società, correlativi  ruoo all'altro. Onde» sopprimendo T uno di essi, sì sop-  prime anche V altro. Il Nichilismo materialistico dunque,  annullando l'Autorità del Potere viene ad annullare lo  «tesso Diritto individuale, che vorrebbe rimanesse col carattere di Diritto unico ed assoluto*   Il Diritto individuale è un effetto dell' organismo so-  ciale; e tanto che» tolto questo organismo, né potrebbe  formarsi, né perdurare, esistendo di già; come la fun-  zione e il prodotto speciale di un viscere particolare non  è segregabile dall* organismo deir animale e dai centri  nervosi superiori, onde è determinata e regolata V atti-  vità di ogni sua parte. Si form<\ il viscere a misura che  si formarono i centri regolatori; si mantiene finché si  mantengono i rapporti di dipendenza da essi. E analogo  è il caso del Diritto individuale nel suo rapporto coli' Au-  torità centrale.   E dunque liberale la dottrina positiva che, mante*  nendo TAutorità subordinante, può mantenere anche il  Diritto dell' individuo. E, per conseguenza, illiberale è  quella del Nichilismo materialistico, poiché, distruggendo  questa Autorità, finisce con ciò a distruggere anche que*  sto Diritto.  Ma la stessa dottrina positiva combatte, nel  medesimo tempo, il principio illiberale del Nichilismo  teistico, dal quale non è riconosciuto nelT individuo un  Dìntto propriamente detto, o proveniente dal suo essere  stesso; ed è insegtiato essere il Diritto una concessione  gratuita di dio, che egli possa dare e togliere a suo pia-  dmento, e lasciare anche alla balia degli usurpatori della  sovranità, nei quali si debba in ogni caso riconoscere una Autorità che non emani dal corpo sociale e sia ir-  responsabile verso di esso.   Il positivismo combatte questo principio, stabilendo  l'Autorità originariamente ed inalienaòilmente risiedente  neir individuo di esercitare il suo naturale imperio sopra  le cose, sopra di sé, sopra gli altri. E mostrando, come  la dipendenza dell' individuo dal Potere subordinante non  è quella dello schiavo, che è costretto colla violenza dal  padrone, e ne eseguisce i comandi suo malgrado, e col-  r ira incitante alla vendetta; ma è quella liberale di chi  fa con persuasione e con amore. E ciò perchè, l'Autorità  giusta subordinante, l'individuo la pone esso stesso pel  Bene di tutti; anche se importa un sacrificio per parte  propria: la pone, la coltiva, la difende come cosa, pro-  pria, anzi come suo proprio Diritto. Proponemmo quattro problemi fondamentali da  risolvere secondo il criterio positivo del Diritto e del Do-  vere prima indicato.   Dei primi tre problemi abbiamo trattato nei paragrafi  successivi del Capo medesimo. Tratteremo in questo del  quarto, cioè circa il Diritto, non di Giustizia, ma di Carità Beneficenza, che dir si voglia.  Fin qui il nostro libro ha voluto soddisfare a  due dei tre suoi intendimenti; cioè di dimostrcure che la  Moralità, come è spiegata nella filosofia positiva, com-  prende, non solo gli atti della Gitistizia propriamente  detta, ma anche:   Primo. Gli atti infiniti offensivi non contemplati e  uon contemplabili dalla Legge. I quali perciò, esclusi  dal campo della Giustizia propriamente detta, vanno at-  tribuiti a queir altro della pura Convenienza. Gli atti sindacabili soltanto dalla coscienza  intima dell' individuo in cui si avverano, e producenti la  sola reazione del Rimorso intemo. Trattando ora del quarto problema suddetto,  vedremo di soddisfare al terzo degli intenti propostici,  vale a dire di mostrare, che la Moralità, come è spie-  gata nella filosofia positiva, comprende anche;   Terzo. Gli atti virtuosi, che V individuo potrebbe fare  e sarebbe bene facesse, e non è costretto a fare. Ossia  quegli atti, che non si attribuiscono né alla Giustizia né  alla Convenienza, ma alla Carità, come dicevano i mo-  ralisti vecchi, o alla Filantropia o Beneficenza, come di-  rebbero i nuovi.  Gli atti benefici nell* Etica tradizionale.  E noto che nell' Etica tradizionale si stabiliscono due ordini diversi di atti buoni:  Quelli ai quali uno é tenuto per poter essere senza  colpa, che si dicono atti di Giustizia; e si riassumono  nel detto: Non fare agli altri ciò che non vuoi che sia  fatto a te. Che é quindi un vero Precetto,   E quelli che uno può tralasciare senza diventare con  ciò colpevole, che si dicono atti di Carità o di Beneficenza, e si riassumono nel detto: Fa agli altri ciò che  vorresti fosse fatto a te. Che è quindi propriamente, non  un Precetto, ma un Consiglio, Ed è noto che 1' osservanza dei primi si dice pro-  durre la semplice Onestà morale; e la semplice Esenzione dalla punizione. E che la pratica dei secondi pro-  duce anche una Perfezione morale; e quindi il Merito di  un premio.   Ed è noto ancora che, tra i pronunciati morali ap-  partenenti alla categoria dei Consigli miranti alla mag-  giore Perfezione morale, se ne pongono anche di quelli  relativi, non al bene da farsi agli altri, ma alla nobilita-  zione interna della Persona morale. Il principio del Bene morale non prescritto, e  quindi n&n obbligatorio o gratuito (che è un principio ve-  rissimo, anzi è il principio morale per eccellenza), l'Etica  tradizionale, e non potè mai riuscire a dedurlo rigorosa-  mente, ed è, nel sistema di essa, contradditorio. E regge  solo nella dottrina dell'Etica positiva. E ciò malgrado sembri a tutta prima che questa,,  posta la dipendenza da essa stabilita del fatto morale  dalla Sanzione costringente, conduca ad una conseguenza  affatto opposta; a quella cioè di togliere di mezzo quello  che ora chiamammo (ed è senza dubbio) il principio mo-  rale per eccellenza.  L' Etica teologico-metafisica tradizionale si è  accorta dell' imbroglio che sta nella sua dottrina; e ha  cercato di cavarsene colla sua solita gherminella (rilevata  stupendamente dal Mefistofele del Faust di Goethe) di un  vocabolo equivoco. Cioè col vocabolo Consiglio contrap-  posto a quello di Precetto.   Il Bene morale obbligatorio (ha detto V Etica teolo-  gico-metafisica tradizionale) è il Precetto di dio, che non  si può non seguire: il Bene morale gratuito invece è il  suo Consiglio, che l'uomo può anche non seguire. Ma ciò non è altro, come dicemmo, che una  gherminella. La mentalità divina del Bene morale, onde partono  i metafisici in discorso, derivandone tanto il Precetto  quanto il Consiglio, sta, secondo loro, colla ragione di-  vina dell' Ordine morale.  Ora si può domandare:  L' Ordine morale metafisico, ragione del Bene, è esso  esigenza assoluta dell' essere proprio delle cose che ri-  guarda? E allora è necessario che sia Precetto tutto  il Bene. O sta invece che l'Ordine morale sia il puro bene-  placito di dio, il quale possa stabilirlo arbitrariamente  in un dato modo, e di due sorta, cioè uno da esigersi  inesorabilmente, e un altro da consigliarsi soltanto e  quindi da permettere che sia anche violato da chi voglia? E allora il Bene morale, anche quello prescritto,  non ha un valore assoluto; e si può supporre che dio po-  tesse non averlo voluto, come si suppone dagli stessi me-  tafisici, che egli potesse non aver voluto creare il mondo.  Si può supporre insomma, che il male sia male solo perchè dio r ha decretato, e che egli avesse potuto decre-  tare che non lo fosse. Il che sarebbe la distruzione pili  radicale immaginabile della Moralità. E da questo dilemma non si scappa. Cosa ben curiosa e ridicola il sistema etico  della filosofia sana, anche da questo punto di vistai   Secondo questa filosofia sana un uomo sa che dio io  consiglia ad un Bene che egli potrebbe fare benissimo;  e sa che con ciò darebbe soddisfazione a lui che deve amare sopra ogni cosa: ma quest' uomo non si cura, né  del Bene per sé, né dell'autorità di dio che lo invita a  farlo, né del dispiacere che gli reca trascurandolo; e ciò  per la preferenza data a un proprio interesse egoistico  contrario: e tuttavia il medesimo uomo rimane dopo tutto  questo esente da colpa, e nella grazia dello stesso dio  cosi postergato.  L' imbroglio e V assurdo della distinzione tra  il Precetto e il Consiglio dipende dalla distinzione falsa,  posta dai moralisti in discorso nella stessa ragione di-  vina del Bene morale, del Bene doveroso e di quello non  doveroso, corrispondente all' altra distinzione falsa, di un  Ordine morale che dio voglia necessariamente e di uri  Ordine morale che egli voglia arbitrariamente; e che è  la conseguenza di un principio ontologico fondamentale  erroneo circa le leggi dell' essere e della causalità in ge-  nerale e della provvidenza in particolare. Nel principio ontologico al quale alludiamo si accoz-  zano, in modo confuso e contradditorio, il necessario e  r arbitrario, come nell' Etica corrispondente la Moralità  determinata dalla ragione assoluta dell' essere e quella  determinata dalla ragione di un comando arbitrario. E  per un processo logico analogo.   Il concetto del necessario e dell'assoluto deriva dalla  osservazione della costanza delle leggi naturali dove que-  ste appariscono a tutti. Il concetto dell' accidentale e del-  l'arbitrario deriva dalla osservazione dei fatti, che nella  apparenza non si connettono necessariamente a cause na-  turali, onde si attribuiscono all' intervento diretto volta  per volta dell' arbitrio divino; come, pel volgo, la piog-      colare della povertà (che anzi questa sublimità per sé la  povertà non V ha niente affatto, se non ha invece la qua-  lità opposta); ma bensì se mai fosse V effetto inevitabile  di una azione o giusta o caritatevole, sì che uno non a-  vesse potuto rimaner giusto se non si fosse rassegnato ad  incontrare la povertà, o avesse sofferto perfino di subirla  per un maggior bene altrui.E così la povertà volontaria può essere anche pel po- sitivista una cosa sublime ed eroica. Mentre in caso di- verso egli la direbbe una stoltezza ridicola e riprovevole. Che se pel religioso la elezione della povertà non è una stoltezza, ciò dipende unicamente dalla circostanza che egli la riferisce ad uno scopo; cioè a quello di gua-  dagnare con essa il paradiso. Ma, se cessa così di essf re una stoltezza, riesce però un atto al tutto egoistico e quindi ancora tutt' altro che eroicamente morale.  E merita una speciale considerazione a questo proposito la dottrina relativa alla elemosina e al dare a prestito. Ho un ricco, fatto proprio secondo lo spirito dell'E- tica sana teologico-metafisica. Egli crede fermamente che  r esser lui nato ricco e destinato, senza lavorare, a go-   di ogni genere, mentre il povero non ha da coprirsi a- vendo freddo; se il ricco ha a sua disposizione palazzi e ville, quando il povero manca di un tetto qualsiasi; se il ricco imbandisce la propria mensa di cibi e vini costo- sissimi con profusione, dove il povero manca della stessa  polenta; se il ricco ha cavalli e cocchi e servi che lo  ajutano a fare niente, mentre il povero si stima fortunato  che altri gli offra per carità un lavoro che lo esaurisce senza compensarlo; se al ricco si offrono tutti i pia-  ceri da vicino e da lontano (poiché non gli bastano quelli  che può dargli il suo paese e gli occorrono anche quelli che solo si trovano altrove), e questi gli sono sempre  perdonati quand' anche affatto eccessivi e corrompenti e illeciti e scandalosi, quando il povero ne è privo al tutto ed è barbaramente rimproverato pur dei pochissimi e grami che gli sia dato di procurarsi; se fa tutto questo il ricco, non solo crede, secondo la sua sana morale (che sempre ha cura di contrapporre ad un' altra diversa, detta da lui empia e sovversiva) di far uso di un Diritto concessogli da dio per un gusto particolare di predilezione, ma crede poi anche di adempiere ad nn Dovere: a quel Dovere che si chiama il Dovere di vivere secondo il proprio stalo.   Or bene questo ricco, fatto secondo lo spirito dell’Etica sana teologico-metafisica, riconosce fra i Doveri  del proprio stato anche quello della elemosina, ritenendo che coir adempirlo diventi, non solo buono (che lo è già senza la elemosina), ma ottimo, ed in modo perfetto ed  eroico. Ed è assai bello vedere come il nostro ricco  intenda la detta elemosina. C è da rilevarne proprio la  sublimila della morale onde ha lo spirito. Prima di tutto, se egli si trova padrone di una so-  stanza vistosissima ereditata nascendo (quanta fatica,  quanto studio, e quanto merito!), la sua proprietà è cosa  sacra, qualunque ne sia la origine antica: anche se in  questa origine fu accumulata colla frode e colla rapina.  È cosa sacra, che gli viene da dio stesso. E, se deve contribuire una parte piccola e superflua per lui dell' aver  suo, per concorrere alle spese dello Stato che glielo di-  fende, o per dare un pane insufficiente a chi si logora la-  vorando penosamente per lui, che nulla fa e solò consuma  godendo e corrompendo, egli intende, nella goffaggine su-  perlativa del suo pensiero, che T operaio, che suda per la  scarsissima paga, e il funzionario pubblico, che si sacri-  fica pel meschino stipendio, della paga e dello stipendio  debbano arrossire come di suoi compassionevoli e gratuiti  donativi, e debbano riconoscere che, se faticando assai  hanno poco da mangiare, anche questo poco è tutta gene-  rosità sua, per la quale si compiaccia di largirlo, privandosi di una piccola parte di ciò che gli sovrabbonda. Ma va più in là l’eroismo della sua generosità di  dare del superfluo a chi non ha di proprio se non il dovere di lavorare (quando. gliene danno) e di soffrire. Va  più in là; poiché, oltre pagare le imposte che non può  frodare, oltre angariare V operajo coir avarissimo com-  penso dei servigi avutine, esercita anche la viriti dell’eielosina. Non già impoverirsi per ciò. E nemmeno restringere  di nulla gli scialacqui demoralizzanti. Oibò! Sarebbe questo un venir meno ai Doveri del proprio stato. E nem-  meno impiegarvi una, anche piccola, parte delle super-  fluità più riprovevoli. Tanto non occorre; e di gran  lunga.   Se, per cavarsi un capriccio stimato come un nulla,  il nostro ricco non bada a spendere un migliaio di lire,  una lira sola è anche troppo gettarla, come si farebbe  di un osso ad un cane, ad un vecchio cadente per la fame. Un pugno di monete di rame, ecco quanto basta per a-  dempiere al Dovere di perfezione della elemosina, per es-  sere morale in grado superlativo ed eroico, per acquistare  il merito -di un posto riservato in paradiso.  Poiché anche quelle miserabili monete di rame della  elemosina non si intende mica s'abbiano a gettare gratis. Né anche per sogno! Anche da esse, quantunque non  abbiano un valore apprezzabile per chi le getta, deve ve-  nire un vantaggio: e un vantaggio assai grande; devono  fruttare nientemeno che una felicità eterna in un'altra vita. E la cosa va di suo piede. Il povero, la cui vita fu  uno strazio continuo, é ben giusto e naturale che vada  poi air inferno, essendo infine, un povero, un malvagio  mascalzone; mentre il ricco, che ha sempre goduto senza  nessun merito, deve essere premiato colla beatitudine del  cielo, essen'do infine, un ricco, una persona buona. Un pugno di piccole monete di rame; ecco dunque  la limosina del ricco, secondo l'Etica sana. Un pugno di  piccole monete di rame date all' impazzata ad una turba  degradata di accattoni che le implorino, facendo ressa e  alzando le mani supplichevoli, intorno al castello minac-  cioso e al cocchio superbo, di chi le getta loro col piglio del disprezzo. E questa turba di accattoni degradati é poi neces-  sario, secondo la stessa Eti.ca sana, che ci sia anch'essa.  Altrimenti come sarebbe possibile al ricco di avere il  vantaggio di procacciarsi il paradiso a si buon mercato,  e di far risplendere, al di sopra dei languenti per inopia,  r orgoglio stupido della ricchezza in tutta la forza della  sua brutalità? Onde, nel pensiero del nostro ricco (fatto secondo ìct  spirito dell'Etica sana), è cosa immoralissima e sovver-  siva del Bene, che altri, come il positivista, cerchi di to-  gliere dalla Società T ignominia dell'accattonaggio: che  consigli la Società a provvedere, non in apparenza ma in  realtà, V impotente, 1' ammalato, il disgraziato: e senza  degradarlo, e con un soccorso che apparisca un Diritto  riconosciuto in chi lo riceve, e non una elemosina che lo  avvilisca; che faccia opera affinchè il povero sia educato  in modo da sentire il danno e la vergogna di accattare  il pane poltrendo neir ozio; e il vantaggio e la soddisfa-  zione confortevole di guadagnarselo nobilmente col pro-  prio lavoro.  E, il sommo della immoralità della condotta del po-  sitivista, il nostro ricco la riscontra poi in questo; che,  se si dà il caso dell' incontro di un infelice bisognoso di  soccorso, egli, il positivista, glielo porga per puro sen-  timento antiegoistico di umanità, senza pensare punto allo  interesse, né del paradiso né di nient' altro, da ricavarne;  e lo faccia senza avvilire chi riceve, comportandosi con  esso come il fratello col fratello; e nell' intento, non di  perpetuarne lo stato miserabile, che faccia risaltare meglio-  il proprio più decoroso, ma di agevolargli la via per u-  scirne al più presto, diventando un suo pari.  Dopo tutto però bisogna confessare che il no-  stro ricco, fatto secondo lo spirito dell' Etica sana, è  logico.  Ma le conseguenze pratiche di tale sua logica ser-  vono assai bene per farne apprezzare i principj. Come,  al contrario, la verità dei principj positivi apparisce nelle conseguenze opposte or ora accennate, eminentemente (ed  esse sole) buone e morali.  Certo si deve ammettere, che nella Società (pur pre-  valendo nelle dottrine dei maestri di morale il concetto  teologico-metafisico sopra descritto) si fece strada a poco  a poco, e per, la condotta individuale e per la direzione  delle cose pubbliche, V idea della beneficenza propugnata  dal positivismo, fondata sulla benevolenza effettiva che  r uomo, diventato buono, ha pe' suoi simili, stimati tutti  avere gli stessi Diritti ai beneficj della vita e della So-  cietà; alla quale perciò incomba il debito di provvedere  normalmente, più che sia possibile utile e morale, per gli  infelici.  Ma giò è V effetto della stessa natura, che opera se-  condo le sue leggi invincibilmente, senza e malgrado le  teorie dei filosofi. E qui pure, come in tutto il resto dei fatti  etici, essa natura ha dimostrato, che la Moralità non si  attacca materialmente ad un atto determinato circa. il  quale dio abbia detto: Questo atto voglio che sia un atto  buono. E ha dimostrato che la Moralità consiste invece  nella stessa disposizione antiegoistica dell' animo, creata  dal vivere sociale; e per la quale V atto materiale (che  per sé non è moralmente né buono né cattivo) diventa  buono, se la disposizione relativa dell' animo è buona, e  cattivo, se cattiva, E ha dimostrato che non occorre, che  un atto buono sia stato prescritto positivamente da nes-  suno, perchè si introduca nella pratica morale degli uo-  mini, e che questi lo eseguiscono anche senza e prima che  sia stato prescritto. Che anzi la prescrizione positiva medesima è pur essa non altro che V effetto della disposi-  zione potenziale degli individui precedentemente forma-  tasi neir animo moralizzato, nel modo sopra descritto.  Un discorso analogo si può fare circa il dare  a prestito. L' Etica religiosa, computandolo fra gli atti di  beneficenza e volendo quindi che, se altri lo eseguisce,  abbia da, poterlo fare solamente sotto questo riguardo, e  conseguentemente senza interesse, ne sopprime la funzione  vitalissima per la prosperità commerciale ed industriale  nel meccanismo economico sociale; lasciando più libero  il campo alle imprese esiziali degli usurai; sottraendo il  capitale all'ingegno e all'operosità dei volonterosi; re-  stringendo le fonti del benessere pubblico e quindi della Moralità comune.   E allora non sarà colpa l'approfittarne per contravvenirla:  e Vufficio del galantuomo sarà tulio nello studio di elu^  dere la Legge, E vi riuscirà, più o meno sempre, es-  sendo verissimo V adagio: Fatta la Legge, trovato V in-  ganno. Ed ecco il galantuomo inappuntabile dell'Etica sana. Quanto diverso, e più veramente galantuomo,  quello del positivismo, che l'Etica sana dice sovversione,  distruzione, negazione della Moralità.  Lo scopo dell' attività umana congegnata insieme nell’organismo sociale è di produrre nella coscienza degli  individui la Idealità morale antiegoistica, atta a muoverne  la volontà a fare il Bene. Fino a che l'individuo, questa  Idealità, non ha potuto formarsela, è un infelice da com-  passionarsi, come il selvaggio che non ha appreso da una  Società colta a procurarsi ciò che forma il benessere e il  decoro di un uomo. Si faccia dunque ogni sforzo per  isvolgerne le facoltà etiche onde egli goda del bene di  avere il carattere dell' essere morale. — • 2og — Una volta che Tuomo sia tale, egli fa il Bene in virtù della Idealità, che è viva in lui e impulsiva per sé del suo volere. Impulsiva per sé: tanto pel Bene della Giustizia propriamente detta quanto per quello della beneficenza. Impulsiva sempre; ogni volta che si presenti V occa-  sione di ravvivarsi nella coscienza. Operatrice del Bene nella stessa misura della sua im-  palsività, ossia del suo esserci. Impulsiva finalmente pel solo fatto di esserci; e senza  la scappatoja immorale del difettò, o nella promulgazione della Legge, o nella sua redazione negli articoli del co"  dice. Poiché, come dimostrammo già più volte, l'Idealità  morale, essendo essa la Giustizia potenziale, non segue  (come vaneggia la filosofia da noi riprovata), ma precede  la Legge propriamente detta; e quindi esiste nella coscienza (ancor prima della redazione scritta di una Legge  e della sua promulgazione) un suo dettato e una sua an-  nunciazione, che integra qualunque difetto della redazione  e della promulgazione positiva; e conseguentemente im-  pedisce che la Legge e il suo spirito siano ipocritamente  dissimulati e dolosamente elusi.  Il Bene di perfezione non obbligatoria, la vecchia Etica teologico-filosofica, lo ravvisò anche negli  stessi atti della Giustizia propriamente detta.  E in vero essa insegna, come notammi^ altrove, che,  se la volontà si decide a questi atti unicamente perchè  premuta dalla minaccia del castigo sancito per essi, si ha  solo la Giustizia e non la perfezione; e la perfezione si  raggiunge, eseguendo gli atti della Giustizia indipendentemente dalla minaccia del castigo e per la pura soddis-  fazione di fare le cose giuste.  Ed è giustissima questa distinzione fra il primo e il secondo genere della deliberazione volontaria rispetto ad un medesimo atto obbligatorio. E l'etica positiva la ri- pete e la mantiene anche per conto suo. E ne approfitta per argomentarne ad hominem contro TEtica vecchia. Poi- ché questa colla distinzione in discorso (che è una prova della verità dei principj della nostra Etica sperimentale) mette a nudo il proprio difetto per gli artificj, ai quali deve ricorrere affine di conciliarla colle sue teoriche; e per le incongfruenze che, malgrado gli artificj stessi, vi risultano. Notiamo, per esempio, l’incongruenza relativa alla distinzione tra T atto di rigorosa Giustizia e V atto gra- tuito, al quale essa annette il carattere di perfezione mo- rale. Qui non si tratta più di un Bene supererogatorio, e tuttavia vi trova il carattere della stessa perfezione. La quale incongruenza svanisce subito partendo dai principj da noi esposti dell'Etica positiva. L' essenza dell' atto morale propriamente tale, ossia di perfezione, di un'atto che ecceda l' efifetto diretto della minaccia del castigo, consiste, come dicemmo, nella atti- tudine del volere a esegfuire V atto indipendentemente dalla eccitazione esterna della Sanzione del castigo minacciato. E questa attitudine si ha quando, per effetto appunto della applicazione della eccitazione esterna mede- sima, a poco a poco si ingenerò e si rinforzò la dispo- sizione psichica impulsiva per sé; e tanto, che, divenuta questa una autonomia morale, ha da sé quanto basta per agire, senza bisogno di esservi ajutata dalla eccitazione della minaccia esteriore. Il che in qualche maniera é ammesso anche dall' E- tica vecchia, che pur riconosce la detta spontaneità mo- rale, ricorrendo però per ispiegarla al sogno della grazia di dio, che sostituisca il timore del castigo all' uopo di muovere la volontà al Bene. Coi principj dell'Etica positiva é dunque spiegata nel modo più ovvio e conseguente 1' analogia che corre tra r atto della stretta Giustizia eseguito per pura bontà d' animo, e l' atto della beneficenza in pari modo prodotto; e come ambedue possano avere cosi egualmente il carat- tere della Moralità perfetta. Molto più che è precisamente la spontaneità di operare la Giustizia (ossia lo Giustizia potenziale) che, precedendola, promuove la legislazione positiva colla rela- tiva Sanzione costringente (come dimostrammo). Ed é la stessa spontaneità che ne mantiene il vigore. Chi ha in sé l'amore alla Giustizia si fa autore diretto o indiretto della Legge, la difende, e concorre a renderla efficace e a vendicarla, se violata. E non impegna persé la forza del Potere, lasciandola disponibile interamente all' utile comune della Società. Dalle quali cose si trae un nuovo argomento in favore del principio etico positivo in confronto col me- tafisico tradizionale. Nella formazione della Moralità umana, secondo le cose dette, va considerato il momento disponente alla for- mazione stessa, e il momento della Moralità già attuata neir animo. Il momento disponente si ha nel cedere che fa il volere alla eccitazione che le viene esternamente dalla Sanzione della Legge. Il momento della Moralità già attuata si ha nella spontaneità acquistata dallo stesso volere air azione giusta e buona senza il bisogno della suddetta eccitazione. Or bene: il principio etico metafisico, onde la ragione deir atto morale è riferita al motivo della pena e del premio, contempla la Moralità nel Momento dispo- nente, vale a dire quando essa non è ancora la Moralità già fatta: dove il principio etico positivo, pel quale la ragione dell' atto è nell' Idealità sociale impulsiva per sé, contempla la Moralità proprio nel momento nel quale essa esiste veramente nella disposizione effettiva del volere. § VII. La virtic, il merito e il premio. Ora poi, esposte le quattro considerazioni pro- posteci, e confermata cosi e chiarita pienamente la dot- trina positiva riguardante gli atti cosidetti di carità o beneficenza, possiamo anche iritendere più compiutamente e precisamente, che sia ciò che si chiama la viriti e il me-' rito, nel loro senso distinto e proprio. Pl'lt.l.J * — Tr"»T' ^r- Il merito è la proprietà della virtù, come tale; e non del semplice atto morale. E la virtù è una disposizione esistente realmente nel- l'uomo virtuoso. Il che, come sia, è chiaro dalle cose dette sopra. Cosi la scienza è V attitudine particolare dello scien; ziato. Ed essendo la virtù una disposizione reale dell'uomo virtuoso, questo per ciò è un essere diverso dall'uomo non virtuoso; poiché in questo secondo non esiste la potenza etica, che esiste nel primo. E questo vero è stato riconosciuto (quantunque con- fusamente e in contraddizione col loro principio (i)) dai moralisti della chiesa, in quanto per essi il merito e la virtù richiedono la presenza nell'anima di una attività spe- ciale, vale a dire di ciò che da loro è chiamato, la grazia. Se qualcheduno osservasse che noi, col ricor- rere alle dottrine dei teologi cattolici per trarne una con- ferma dei dettati del positivismo, tiriamo in campo inse- gnamenti già abbandonati dalla stessa filosofia etico-me- tafisica che combattiamo, e che quindi facciamo opera inutile (come anche oppugnando il dogma della grazia, che è voler sfondare una porta aperta, non credendo ad esso oramai più nessuno dei moralisti metafisici non teo- logi), soggiungeremo che la teoria dei metafisici non teo- logi non è che un riflesso sparuto della dottrina teolo- (r) Vedi Morale dei Positivisti Libro li, Parte I, Capo II, n. 26, 27 e 28 (pag. 224 e segg. del Voi. Ili di queste _Op, fil, nella ediz. del 1885, e pag. 234 e segg. nella edìz. del 1893 e del 1901, e pag. 241 e segg. nella ediz. del 1908). • ^'••^'^'^gica patristico-scolastica precedente; e che ne ha eredi- tato i difetti perdendone i pregi; rimanendo cosi una su- perficialità destituita anche di quel valore scientifico, che bisogna pure riconoscere, anzi ammirare, nellametafisica ecclesiastica. Gli autori della quale furono grandi pensatori che, se non poterono arrivare alla soluzione positiva del pro- blema morale (ed era impossibile al loro tempo e nelle loro circostanze), ne ebbero però dei presentimenti. E il principale fra questi pensatori fu S. Agostino vescovo di Ippona, il cui genio potè a ragione essere messo allato a quello del divino Platone. La dottrina della grazia, relativamente al fatto morale, è analoga alla dottrina della forza creativa, rela- tivamente al fatto fisico. Il corpo agisce fisicamente perchè ha in sé la pro- prietà di farlo. Del pari T uomo agisce moralmente per- chè ha in sé la proprietà di agire cosi. Per ispiegare V azione fisica gli antichi supponevano la produzione della proprietà relativa nel corpo per parte della onnipotenza divina. E così davano una ragione della azione fisica stessa quantunque falsa. Il positivismo (come dimostrai nel libro della Formazione naturale nel fatto del sistema solare) trova che la proprietà del corpo di agire fisicamente è la stessa sua costituzione naturale. E così spiega Y azione fisica in modo analogo a quello degli antichi: ma colla differenza che, dove questi considerano la proprietà introdotta nel corpo arbitrariamente da dio nel crearlo (che è contro l' insegnamento del fatto), il positivista considera la proprietà connaturale al corpo medesimo. Nella evoluzione scientifica, onde si passò dalla spie- gazione antica della azione fisica alla positiva attuale, tra quella e questa si formò una spiegazione ibrida e con- tradditoria; la quale, da una parte, riconosceva V appar- tenenza della proprietà al corpo, proclamandola quindi una naturalità; e, dall'altra, riconosceva ancora dio quale primo autore di ogni naturalità; il che è una incon- gruenza scientifica, ed è il vizio capitale della dottrina teistica, come si trova ad esempio nel sistema del padre Secchi.Tale e quale la storia della evoluzione della dottrina etica. La virtù, o la proprietà psichica specifica dell'uomo morale, i teologi cattolici la supponevano un dono santo e sovrannaturale di dio. Il positivismo invece trova che tale proprietà santa è la stessa costituzione che potè acqui- stare la psiche umana per 1* azione esercitata sovr' essa dalla Società; ed è quindi una naturalità nel senso asso- luto della parola. La dottrina ibrida intermedia dei me- tafisici non teologi rende confuso econtraddittorio il con- cetto, pur semplice e chiaro, escogitato dai teologi, della proprietà etica infusa come grazia diviua. Rende, dico, confuso e contradditorio questo concetto in quanto, da una parte, negano V intervento diretto dell' azione divina sulla volontà, e, dall'altra, ne mantengono la indiretta. Il merito è l' indice della virtù. Esso è quindi per ogni atto virtuoso in ragione inversa dell'intervento del motivo estemo nella spinta alla deliberazione volon- taria. Appunto come la virtù, la quale, essendo la pro- pensione ad astenersi dal Male e a fare il Bene ingene- ratasi neir animo per le vie già indicate, tanto più ha in W-Vfl«-JJJ «.P., —sé di intensità quanto meno ha bisogno di essere mossa dal costringimento della minaccia del castigo e dall'ade» scamento della prospettiva di un vantaggio. Per conseguenza, minimo è il merito nelle azioni buone dipendenti al tutto dalla diretta efficacia della loro Sanzione esteriore: come in quelle che si fanno perchè imposte dalle Leggi positive. Ed è massimo nelle azioni buone per nulla determinate da motivo di fuori: come in quelle del Bene gratuito o supererogatorio, o di carità e beneficenza, per le quali, o non esiste Sanzione positiva determinata, o, esistendo, non si considera da chi le fa. Ma la stessa osservanza della Legge avente 4a sua Sanzione può in un uomo, indipendentemente dal ri- gfuardo della Sanzione stessa, essere determinatadallavirtùformatasi in lui di eseguirla solo perchè giusta, come vedemmo sopra nella osservazione quarta, E così anche per questa osservanza può aversi un grado di me- rito: e per questo distinguersi nella Società il semplice galantuomo (o quello che non può essere messo in pri-» gione perchè non fu còlto a delinquere) dall' uomo virtuoso, che è stimato non disposto a mancare agli obblighi del cittadino anche aboliti il Tribunale e il carcere. L' uomo, per la formazione che in lui si veri* fichi della energia morale o della virtù, diventa un essere fornito di una eccellenzaparticolare; cioè della eccellenza dignità o prerogativa d’essere morale. E il fatto è analogo a quello, per esempio, della for- mazione della energia vitale nel corpo materiale, per la quale questo si distingue fra le cose come ESSERE VIVENTE. Il premio, in relazione alla Moralità, o è una sua causa, o è un suo effetto. Come causa è la Sanzione allettatrice della quale par- lammo nel paragrafo quarto al numero sette. E con ciò si comprende percliè alla osservanza della Legge imposta colla minaccia di una Sanzione punitrice, ed eseguita per evitarla, non si addica la ragione di un premio, ma solo la esenzione dal castigo. Con questo la Società si difende dalla offesa dell' individuo; dal quale si procura invece l'opera utile della beneficenza colla offerta di un van- taggio. Dove è da considerare che la offerta stessa, fa- cendosi più per r utile dell' azione che per la sua Mora- lità, non si differenzia da quella che si fa in generale per la prestazione dell' opera volontaria da chi la desidera, cominciando dai premj dei concorsi riguardanti o un libro, una cosa d' arte, o una invenzione scientifica, meccanica, industriale, o un' impresa, e venendo fino allo stipendio dell'impiegato e alla mercede giornaliera dell' operajo. Come semplice effetto il premio è la conseguenza spontanea del merito; ed è l’espressione onde altri lo riconosce. Sotto questo riguardo anche la semplice osserva- vanza della Legge punitrice può avere una ragione di premio, se V osservanza avviene nel senso detto sopra al numero sei, parlando dell'' uomo virtuoso. E il premio consiate in questo caso, oltreché nella stima comune, anche in ciò, che questo uomo virtuoso è considerato siccome il rappresentante nato della Legge e del Diritto, come spiegheremo meglio in seguito. Il premio conseguente al merito della virtù è una naturalità non determinata positivamente. In generale si restringe alla stima e alla venerazione degli uomini pel virtuoso; la quale non è altro che la reazione spontanea sociale di fronte al Bene morale, e quindi si produce negli uomini in ragione che sono buoni, ossia bene di- sposti moralmente. Ma alla detta stim^ e venerazione si possono accompagnare anche vantaggi di posizione so- ciale e di benessere materiale. La mancanza del premio o della espressione del riconoscimento del merito, quando si verifica, è una ingiustizia, ma non distoglie dalla virtù chi ha la pro- prietà di averla; essendoché la virtù è per sé, e basta a se stessa. E non si addice il nome di virtù a quella disposi- zione a fare il Bene che sia determinata proprio dalla sola idea di averne la rimunerazione; secondo V osserva- zione sublime del Vangelo su quelli che fanno il Bene per essere veduti e rimeritati dagli altri.Esso dice di loro giustissimamente, che rimangono così senza il merito della virtù, essendo già pagati per quello che hanno fatto egoisticamente in vista della ricompensa. Il che però non vuol dire che il virtuoso non ap- prezzi la lode e T ammirazione altrui e non se ne soddisfi. Nobilissimo sentimento é questo di fare stima e di sod- disfarsi del giudizio morale degli uomini che apprezzano e ammirano la virtù; e più che di vantaggi materiali anche grandi. E di ciò parlai nel mio Discorso su Pietro Pomponazzi, dicendo del pensatore, che esso « ama la so- litudine. Ma non perchè sia privo di sentimenti benevoli, che anzi in lui si trovano più generosi; mentre nulla tanto disavvezza dall' egoismo, quanto la scuola delle idee. ^^P".  E nemmeno perchè non apprezzi la stima e la lode degli uomini; che, invece, in nessuno la passione della gloria è più viva, che in lui. E, nobilmente altero della sua oscurità, solo egli rinuncia sdegnosamente all' onore, che si acquista colle umili arti.  Sciolto cosi il problema propostoci, riguardante r azione benefattrice e la virtù che porta ad essa, gioverà fermarci a considerare il fatto dell' Ordine morale, e la naturalità della sua formazione. Circa la FORMAZIONE NATURALE NEL FATTO DELL' ORDINE MORALE, in quanto questo fatto è un Ordine, alle cose dette alla fine del Capo prece- dente (2) e a quelle più generali esposte nel libro della FORMAZIONE NATURALE NEL FATTO DEL SISTEMA SOLARE {3) e nel lavoro s\x\Y Inconosciòile di H, Spen- cer (4), qui ci proponiamo di aggiungerne una nuova. 3. — L' insufficienza e quindi la falsità del principio assoluto, che un Ordine qualunque naturale presupponga (i) Vedi pag. 51 del Voi. I di queste Op, fil, nella ediz. del 1S82, ^ P3&- 54 nell'edìz. del 1908). (2) \ VII. Vedi sopratutto V Appendice sul Caso (pag^. 271 e s%%%. del Voi. II di queste Op, flL nell'ediz. del 1884, pag. 287 e segg. nel- l'ediz. del 1899, e pag. 295 e segg. nell'ediz. del 1908). (4) Specialmente al J VII (pag. 353 e segg. dello stesso vo- lume neir ediz. del 1884, pag. 375 e segg. nella ediz. del 1899, e pag. 383 e segg nell'ediz. del 1908J. una Mente, che lo abbia concepito anteriormente e pre- disposto, emerge: Primo. Dalla considerazione che ciò che si chiama, la mente, è il fatto stesso della formazione psichica umana svolgentesi da ciò che non è ancor tale: onde la stessa Mente è per tal verso, essa pure, un effetto, come tutti gli altri avvenimenti naturali. Secondo. Dalla considerazione che, se la Mente (sorta per graduale isvolgimento da ciò che non era tale), è an- ch' essa la causa dell' Ordine che è subordinato alla sua efficienzaspecifica, sono del pari cause di Ordini subor- dinati propri anche tutte le altre formazioni naturali: anche quelle puramente meccaniche e fisiche. Sicché la il- lazione che 5i fa per la Mente, come ragione dell'Ordine, vale tanto quanto la illazione identica che si faccia per l'agente puramente fisico e meccanico. E in effetto, se r analisi del fatto mentale vi discopre gli elementi e le ragioni della sua efficienza ordinatrice, anche l'analisi del fatto puramente fisico e meccanico vi rintraccia pure gli elementi e le ragioni della sua analoga efficienza ordina- trice. Né più, né meno. Terzo. Dalla considerazione che I' efficienza ordina- trice della Mente, da una parte, si estende solo alla sfera dell' ambiente da essa abbracciato, e quindi è impotente al di fuori di questa; e, dall'altra, essa stessa suppone un ambiente maggiore nel quale si forma e che la fa es- sere: un ambiente che é, non una Mente, ma qualchecosa di puramente meccanico e fisico. Sicché, paragonando in- sieme le due formazioni ordinatrici (cioè la formazione meccanico-fisica, e quella della Mente), la prima è più ampia della seconda e quindi superiore ed anteriore ad essa. Quarto. Dalla considerazione che l'Ordine, che realmente si trova esistere in un dato punto della natura e in un dato momento del tempo, non è V effettuazione di un disegno, nel quale fosse stabilita la serie degli atti occorrenti alla effettuazione stessa, fino all'ultimo, cioè a quello del compimento dell' Ordine contemplato. No. Nella linea del tempo questo ordine ha la sua ragione in un primo che è fuori della Mente: cioè nelle stesse possibi- lità di svolgimento verso un Ordine proprie dell' essere naturale attivo. Nella linea dello spazio poi 1' Ordine in discorso ha tante ragioni quanti sono gli incontri fortuiti subiti dall' essere naturale attivo nel corso del suo svol- gimento; in modo che ad ogni incontro lo svolgimento stesso devia accidentalmente dalla sua direzione prece- dente, e quindi V ordine ultimo non corrisponde più alla virtualità Iniziale dell' essere che si svolge, ma solo a quella diversissima e puramente casuale portata dall' in- contro ultimamente subito. In una parola, la Mente, né pone il disegno dell' Ordine, che è già nell' essere natu- rale stesso, né lo eseguisce come l' aveva disegnato, poi- ché la esecuzione sempre ne differisce per opera degli agenti naturali casualmente concorrenti. Fra i quali può benissimo essere anche la mente stessa (che è pure una attività naturale), ma 'solo con analoga accidentale effi- cienza. Ciò fu già chiarito a lungo e dimostrato con argomenti positivi nelle trattazioni sopra citate. Ora faremo un ragionamento che suppone i suddetti. ne discende e li completa: ed è poi senz' altro la semplice constatazione logica del fatto dato dalla osservazione. La teoria metafisica, onde si pone in una Mente la ragione dell' Ordine delle cose, è basata sopra i due falsi supposti, che il disegno finale della Mente preceda al tutto la esecuzione estema, e che l'adattamento delle parti nel tutto reale effettuato sia stato determinato dal concetto medesimo di esso tutto; sicché questo sia asso- lutamente un fine e le parti siano assolutamente mezzi; e non il contrario. Il secondo falso supposto deriva dalla osservazione superficiale ed illudente della specie già formata, che ap- parisce come un ultimo, ossia come un fine. Anche perchè la specie è di una stabilità relativamente grandissima per rispetto alla esperienza dell' uomo. Egli, trovandone già r esistenza anteriormente alle mutazioni conosciute, la im- magina realizzata nella sua interezza attuale fino dal suo principio: e, non essendogli dato di essere testimonio del suo trapasso in una specie nuova, ritiene che sia desti- nata a durare inalterata fin che dura il mondo. E cosi si forma il proprio concetto della specie, che, o sia come è, o non sia punto. E, siccome la esistenza di una specie im- plica quella delle parti onde risulta, cosi l'uomo pensa che queste non siano altro che i mezzi necessari al fine di essa, e quindi siano il trovato ingegnoso di una Mente; la quale, formatasi da prima il disegno della specie, sia passata poi a divisare le parti occorrenti alla sua realiz- zazione. Il primo falso supposto poi deriva dalla esperienza del fatto della Idealità dell' arte, che è qualchecosa di re- lativamente compiuto e fisso, e che si comunica qual' è da uomo a uomo: e in un modo che uno avendone la co- gnizione e segtiendone la rappresentazione mentale, è atto ad eseguire addirittura, senza tentennamenti e prove im- perfette, un' opera definitiva, predisponendo e coordinando all'uopo tutto ciò che si esige. perchè riesca nella realtà quale si concepisce. I metafisici fanno i due detti falsi supposti, commettendo T errore di considerare il tempo della osser- vazione siccome una eternità, nella quale non sia diffe- renza tra un momento e V altro della esistenza; mentre invece nella durata reale i momenti sono effettivamente diversi l'uno dall'altro, ed essa nei precedenti va diven- tando ciò che risulta poi nei successivi, cessando in que- sti quello che era nei primi. L'essere naturale esiste trasformandosi (i); e, nella linea infinita del tempo, solo per un tratto di questo si trova in una forma che svanisce col venire del successivo. La specie è questa forma, instabile come il tempo del quale è figlia. Si muta insensibilmente nel mentre che pare persista la medesima, come il posto del Sole in cielo che sembra fermo a chi lo guarda. E ciò vale tanto per la specie, quale complesso di parti, quanto per la parte coordinata nella specie. L' una e l' altra soggiace del pari al fato del mutamento. E cosi n) Vedi per ciò 1* Osservazione III del libro della Formazione naiuraie nel fatto del Sistema solare e sopratutto il J X (p-ig. 193 del Voi. II di queste Op, fil. nella ediz. del 1884, pag. 204 nella ediz. del 1899, e pag. 209 nella ediz. del 1908). la parte viene ad essere, non solo un mezzo, ma anche un fine, come la specie; e questa, non solo un fine, ma anche un mezzo, come la parte. Molto più che nella na- tura nessuna cosa è tanto una specie, che non sia nello stesso tempo semplice parte in una specie più grande; e nessuna cosa tanto è una parte che non sia nello stesso tempo una specie per sé. E nella natura medesima non è la esigenza a priori di una specie, destinata ad esistere, che abbia determi- nato il farsi delle parti occorrenti alla sua esistenza, se- condo il divisamento precorso di una mente ragionatrice: ma è la esistenza avveratasi delle stesse parti costitutrici che ha determinato la formazione della specie, quale si trova in effetto nella realtà. Se le cause naturali relative (indipendentemente af- fatto da un concetto della specie che non era prima della esistenza reale di essa) non avessero prodotto le parti costitutive della specie, questa non si sarebbe realizzata. E se le cause naturali avessero prodotto le parti in modo diverso, la specie si sarebbe realizzata diversamente. La coordinazione quindi delle parti alla specie, come del mezzo al fine, è una coordinazione a posteriori. Non può esistere la specie qual' è senza le parti occorrenti; e se esiste la specie è solo pel caso avvenuto della formazione delle parti richiestevi. Per ciò, se la parte è il mezzo a cui consegue il fine della specie, questo mezzo non è un effetto (come è sup- posto nella teoria metafisica della Mente che è determi- nata a ricorrervi dalla necessità del fine della specie); ma è la stessa causa della specie. E quindi, se si vuol chiamare la specie un fine, ciò va inteso come dell' effetto che segue la sua causa, e non viceversa, come nella teoria che ripudiamo. Così, se si avverasse che il tronco di un albero per un accidente qualunque cadesse sopra un altro tronco in modo da stare sovr' esso in bilico, e questo fatto dello stare in bilico lo si prendesse come un fine, apparireb- bero mezzi per ottenerlo la esistenza sotto il caduto di queir altro tronco colla sua sufficiente resistenza a non piegarsi e rompersi, e T esservi dato sopra il tronco in bilico col centro della sua gravità. Ma qui il detto fine, nessuno lo direbbe la causa precedente del fatto; nessuno direbbe i detti mezzi degli effettivenuti dopo, ossia di- visati e predisposti da una Mente consecutivamente al pensiero di avere un tronco in bilico sopra un altro. Non altrimenti è la cosa nel fatto della Idea- lità e dell'Arte umana, e in genere di tutto ciò che si chiama il disegno ordinatore della Mente. La Mente e il suo disegno sono fatti della natura, analoghi a tutti gli altri in essa verificantisi nella sfera biologica e nella inorganica; e quindi soggetti alle stesse leggi: sono casualità, come la produzione di una specie o la caduta or ora accennata di un albero sopra un altro. Quando un dato disegno è già un fatto compiuto, al- lora certo può rimanere un certo tempo come è riuscito; ed essere trasmesso da uomo ad uomo; e servire per pro- durre addirittura l’opera corrispondente, e per predisporre e coordinarvi le parti come mezzi al fine dell'opera stessa; e in modo che questo fine venga ad essere proprio la causa di dovere divisare i mezzi relativi, e il divisamento di questi mezzi venga ad essere l’effetto di aver voluto r opera. Ma ciò non succede soltanto per la mente e pel suo disegno: che succede lo stesso anche per la specie fisica, una volta che sìa g^ià un fatto compiuto. Una volta che esista g^à la gallina, essa potrà pro- durre un' altra gallina. Cosi un bruco nato da un altro potrà fare un bozzolo simile a quello che faceva il suoprocreatore. Un uomo, arrivato a comporre nella sua Mente il di- segno di una locomotiva a vapore, ha potuto costruirne una reale: i meccanici in seguito poterono imparare quel disegno e costruirne delle altre. Non potè succedere che la gallina procreasse altre galline prima che se ne formasse la specie. E lo stesso del bruco. E lo stesso dell' uomo. Non potè succedere che questo costruisse la locomotiva a vapore prima che se ne fosse formato il disegno nella sua Mente. E come la specie della gallina e quella del bruco non proruppero tali e quali dal nulla, secondo la cre- denza di un tempo, ma furono la riuscita ultima di una serie lunghissima di gradazioni di svolgimento dell'essere, che prima non era né gallina né bruco, cosi il disegno della locomotiva a vapore della Mente umana, fu la riu- scita ultima di un lavoro del suo pensiero, che prima non era quel disegno. Né divèrsa nel fondo è la legge della formazione nelle specie biologiche della gallina e del bruco e nel di- segno della mente umana. E analoga nei due casi è la ra- gione della potenza di produrre la cosa a propria immagine e somiglianza, e di fare che nella cosa stessa corri- spondano allo scopo dell' essere suo i mezzi impiegativi. £ quindi un libro che narri la storia della invenzione di una macchina è analogo a quello che esponga la evolu- zione formativa di una specie naturale. E, se, come di- cono i teisti, dio è 1' autore della natura, questa non se- rebbe altro che il libro nel quale si può leggere ciò che esso è arrivato a inventarvi, una cosa dopo l'altra, a poco a poco. Ma dobbiamo dimostrare e chiarire meglio la cosa. Un uomo ha fatto bollire dell'acqua in un vaso. Ne ha visto sortire del vapore. Per caso copre il vaso mente ritenta l' esperimento, e il vapore solleva il co- perchio. E l'uomo pensa allora: — Dunque il vapore è una forza: e non si potrebbe adoperarla a produrre un qualche lavoro? Sì certo. E si prova ad applicare al coperchio del vaso un' asta, la quale, alzandosi il coper- chio, trasmette il suo movimento ad un corpo che essa urta. Ma il movimento così è in un solo senso; e l' uomo immagina che si potrebbe averlo nei due contrarj di va e vieni. E che perciò sarebbe necessario che il vapore spingesse il coperchio una volta al disotto e un' altra al disopra. E quindi studia e trova il modo di far passare il vapore dal vaso dell' acqua bollente, per un foro in un cilindro, nel quale sforzi il coperchio medesimo ora al di- sopra e ora al disotto. E allora gli soccorre V idea di ap- plicare r asta, moventesi avanti e indietro, ad una ruota per farla girare. E vi riesce praticando un foro all'estre- mità libera dell' asta e applicandolo ad una caviglia fissata vicino al centro della ruota. Ed ecco inventata la locomotiva a vapore. Ecco tutto. Il disegno della locomotiva a vapore, la Mente non lo creò con un suo fiat. Quel disegno in essa è r esito faticoso e lento di una serie di operazioni succedutevi r una dopo T altra; e determinatevi da una serie di accidentalità che la trassero fino al compimento della sua invenzione, che riusci una sorpresa per la mente stessa che si trovò di esservi arrivata. Analogo è il processo di tutte le formazioni mentali. La Psicologia positiva lo dimostra nel suo studio della FORMAZIONE NATURALE NEL FATTO DEL PENSIERO in genere, e logico in ispecie; su di che spero di pubblicare presto un mio lavoro g^à pressoché ulti- mato (i). L'Estetica positiva lo dimostra nel suo studio della FORMAZIONE NATURALE NEL FATTO DEL- L'ARTE, che mi duole assai non avere potuto ancora pre- sentare in un libro pel quale ho già preparato tutti i materiali. L'Etica sociologica positiva lo dimostra nel suo studio (i) Cosi ho scritto e ripetuto nelle edizioni precedenti, quando aveva ancora la fiducia di poter ultimare il lavoro. La speranza ora è quasi svanita. La circostanza di essere impegnato otto mesi del- l' anno per le lezioni mi lasciò sempre poco tempo per ciò che avrei voluto fare fuori di esse. Gran parte del materiale preparato per la Formazione naturale nel fatto del Pensiero mi ha servito pei tre libri del Vero^ della Ragione e della Unità della Coscienza, E questi quindi possono supplire tanto o quanto invece del libro promesso; che poi non ha cessato di preoccuparmi, come apparisce dai lavori sull'argo- mento pubblicati nei Volumi IX e X di queste Op, fU, Ptll —  della FORMAZIONE NATURALE NEL FATTO DELL’ORDINE MORALE, che è l' oggetto della presente trattazione. 10. — Ora è noto come la scienza oggi, illuminata e messa sulla strada dal genio di Darwin, dimostri av- venire allo stesso modo la FORMAZIONE NATURALE NEL FATTO DELLA SPECIE organica: e per ciò mi devo rimettere ai libri che uq trattano. Anche qui si rileva lo stesso processo di formazione, indicato per V invenzione del disegno della locomotiva a vapore nella Mente umana, pei lenti e accidentali ingran- dimenti e tramutamenti di struttura e conseguentemente di funzione: la stessa ragione, onde la formazione già ot- tenuta è riprodotta nella forma raggiunta. E per la stessa legge, da me formulata nel libro della Formazione naturale più volte citato, del ritmo che lentamente si trasforma per gli urti esterni non concor- danti, e indefinitamente si conserva in quanto non è di- sturbato, e si trapianta fuori di sé, applicato come forza ad un altro essere atto a riceverla. Ciò posto, riepiloghiamo il nostro ragiona- mento. Il piano mentale è un meccanismo o apparato psico- logico riuscito per aggiunte e modificazioni cernali suc- cessive, indipendenti da un proposito consapevole del sog- getto pensante, e occasionato dalle azioni e reazioni ac- cidentalmente verificatesi tra esso soggetto e le cose ate. Vedi Formazione naturale nel fatto del Sistema Solare ^ Os- servaz. Ili, J XIV.a impressionarlo,come la specie della gallina è un mec-- canisfno o apparato fisiologico riuscito per aggiunte e mo- dificazioni casuali occasionate dalle azioni e reazioni dell' ambiente in cui si è formata. L' apparato psicologico del piano mentale serve alla produzione di un' opera a sua immagine e somiglianza: come l'apparato fisiologico della specie della gallina serve alla produzione di un individuo nuovo della specie mede- sima. Il fatto è come di uno stromento che 1' arte della natura (cioè del complesso delle cause che esistono in essa) ha preparato, nel primo caso entro la psiche deU r uomo, nel secondo caso entro la vita della gallina, per produrre 1' opera relativa (i). Dunque nel disegno della mente ciò che si chiama il fitte di esso (poniamo per la locomotiva a vapore di muoversi della macchina sulla ferrovia colla forza di tra- scinarsi dietro il treno attaccatovi) non è un primo, che la Mente si sia proposta e che abbia motivato per essa il divisamento, al quale sia quindi venuta solo dopo, delle sue parti, come deimezzi necessari al conseguimento del fine medesimo: nel che si fa consistere la ragione di dover (i) Nel Capo I della Parte II del Libro I della Morale dei Positivisti, numero 3 ho mostrato potersi definire la Psiche: Un mondo possibile^ che si presenta coyne il piano dell* opera a chi ha da pro- durne uno reale. E precedentemente vi è dimostrata la casualità della formazione del stessa psiche. Una cosa affatto analoga è V energia specifica di un agente naturale fisico qualunque. Tale energia è un ordine di proprietà costituite nella cosa per la stessa ragione della casualità della sua formazione, le quali vengono ad essere la possi- bilità degli effetti che la cosa è atta a produrre, e precisamente di un ordine di eff*etti corrispondente all' ordine delle proprietà dalle quali dipendono. Fra la psiche e V agente puramente fisico nel ri- ricorrere alla Mentalità per ispiegare il fatto dell’ordine, inteso quale divisamento dei mezzi necessari al conseguimento di un fine. Nel disegno della mente, ciò che si chiama il fine non è un primo, ma un ultimo, che vi si verifica posteriormente, perchè prima vi si è verificata la cogni- zione dei mezzi. Nel fatto particolare della concezione del disegno della locomotiva a vapore allo scopo di trascinare il treno ferroviario, la Mente che vi è arrivata possedeva già la cognizione della forza del vapore; e del modo di farlo agire sopra uno stantuffo si che ne risultasse un movi- mento di va e vieni sopra un'asta; e del modo di con- vertire il movimento rettilineo dell' asta in quello circo- lare di una ruota; e la cognizione, che un peso, gravi- tando sopra ruote che lo portino è girino su guide di ferro, si trasloca con esse. Solo dopo ciò, solo dopo che la Mente era già pervenuta alla cognizione di questi mezzi, ad esso potè sovvenire V applicabilità loro al fine di avere un motore di un treno ferroviario. L'Ordine adunque anche nella Mente è un risultato accidentale di concorrenze casuali nel quale i mezzi non spetto in discorso si ha la sola differenza, che nella prima l'ordine mentale, causa dell'ordine delle opere, mettiamo dell* uomo, è accom- pagnato dalla coscienza di sé, mentre nel secondo 1' ordine delle proprietà attive, causa dell' ordine de' suoi effetti, non è fornito di tale coscienza. Ma ciò non influisce punto ad alterare la natura del processo della estrinsecazione, per così esprimermi, della attività. Cosciente o non cosciente, V attività funziona in un agente sempre e necessariamente nel modo onde è atta a funzionare, ossiasecondo lacostituzione propria dell'attività stessa nella intimità dell'agente che la esercita. L  sono determinati dal fine, ma è questo determinato dai mezzi. E tanto, che supporre il contrario è supporre ima impossibilità o un assurdo della dinamica della natura. E cesi la tantovantata scoperta di Anassagora, che V Or- dine dell'universo importi una Mente ordinatrice, vale quella del suo predecessore Talete, che si argomentò di ritenere doversi V attrazione della calamita pel ferro ad un' anima che vivesse in essa, e ne determinasse questo effetto curioso. Se qualcheduno qui credesse di sfuggire alla nostra conclusione, osservando che il pensiero che si at- tribuisce a dio non è come il pensiero dell' uomo, sul quale noi facemmo la nostra argomentazione, risponde- remmo due cose: Primo. O il pensiero attribuito a dio è qualche cosa di analogo al pensiero dell'uomo, e allora l'argomenta- zione fatta su questo vale anche per quello: o non è una cosa analoga, e allora non si può dire che sia un pen- siero. Perchè a noi, quando diciamo, pensiero, è impossi- bile concepire altro che non sia lo stesso nostro pensiero. E poi non si può ancora in nessuna maniera fondarvi sopra r argomentazione relativa all' Ordine, dal momento che questa è suggerita precisamente (quantunque per sem- plice illusione) dal fatto dello stesso pensiero umano. Secondo. Lo stesso fatto della natura poi smentisce direttamente la supposizione della obiezione. E in che modo? Si disse: Concepì dio il disegno del mondo e poi lo esegui creandolo: e tale subitoqualedoveva es- sere poi sempre a gloria sua; e quindi coli' uomo, dotato per ciò da lui, non solo del senso come il bruto, ma anche della ragione e del libero volere, che lo rendes- sero atto a conoscerlo e a rendergli omaggio e culto spontaneo. E il sistema era logico. Non aveva che il piccolo di- fetto di essere basato sul falso supposto che il mondo at- tuale sia una formazione che persista immutabilmente: tale al suo primo principio, tale ancora fin che ne dura la esistenza. Ma la scienza s'è avveduta che la formazione quale ora si presenta, l'uomo compreso, è una fasetransitoria della esistenza. E con ciò ha distrutto il sogno che fosse r opera definitiva, nella quale si fosse realizzato appuntino il disegno di una Mente divina. La scienza s' è avveduta, che lo stato attuale delle cose è dovuto ad un processo continuo di formazione ana- logo a quello delle idee e dell' arte dell' uomo, e che que- sto processo è determinato dalla attività  intrinseca delle stesse coseche si formano, e dal caso delle reazioni delle cose fra di loro. E con ciò ha distrutto il sogno che siano r Ordine preveduto come fine in una divina idea. I teisti, smentiti così nel campo degli Ordini della natura fisica, si restrinsero a sostenere il loro prin- cipio della preordinazione della Mente divina, nel campo dell' ORDINE MORALE; e credettero che quivi sareb- bero rim£isti eternamente inoppugnabili. Ma ahi! che anche qui la scienza li ha seguiti e ha messo in evidenza la insostenibilità della loro tesi.La scienza positiva dell' Etica sociologfica ha sco- perto, come vedemmo, 1' analogia perfetta che corre tra la formazione naturale in genere e quella della Giustizia e del Bene morale in tutte le sue forme. Ha scoperto quindi che tutto ciò che si riferisce all' Ordine morale, e r Ordine morale medesimo, sono il prodottolento e pro- gressivo {e vario secondo le dccidentalitàaccompagnanti) della attività intrinseca dell' essere umano e delle reazioni degli individui nella convivenza della Società.  Il fatto del Diritto (diversità, specie, coordinazione) e il suo Ideale. Circa la diversità del Diritto tra individuo e individuo, in ragione della potenzialità non ugnale dal- l' uno air altro, alle cose dette nel libro della Morale dei Positivisti {\) e superiormente in questo {2), un'altra im* portantissima qui ora torna la opportunità di aggfiungerne. La diversità in discorso dipende in parte dalla stessa costituzione fisico^psichica colla quale uno nasce; e per questo riguardo si potrebbe chiamarla diversità ini- zicUe; e in parte (grandissima) è il prodotto della convi- venza sociale: e per questo altro riguardo si potrebbe (i) Libro I, Parte II, Capo IV, n. 15 ecc. (pag. 125 del Voi. ITI di queste Op, fil. nella ediz. del 1885, e pag. 131 nella ediz. del 1893 e del 1901 e pag. 135 nella ediz. del 1908). (2) Capo III, J II, n. 3. pi L I «IP^« chiamarla diversità riuscita. La quale poi alla sua volta influisce pur anche indirettamente sulla disposizione ini- ziale della nascita. L' argomento della diversità del diritto, considerata sotto il secondo degli aspetti ora indicati, è vastissimo: ma noi qui lo toccheremo solo per ciò che occorre allo scopo della nostra trattazione. Le specialità di condizione di un uomo, dipen- denti dalla sua relazione e convivenza cogli altri uomini uniti in Società, sono moltissime; come ognuno sa. Per esempio, la ricchezza, la parentela, la clientela, gli ade- renti, gli amici, i conoscenti, T ufficio, il grado, la cultura, il merito, le idee, e via discorrendo. Queste specialità di condizione sono nello stesso tempo altrettante specialità di attitudini e di potenza del- l' uomo. E quindi anche, secondo le cose stabilite sopra, altrettante specialità di Diritti di esso. Si verifica perciò nell'organismo sociale la legge di tutti gli organismi, per la quale V elemento, che, con- siderato in astratto e fuori dell' orgfanismo, è uniforme, una volta entrato a farne parte, si diversifica per opera dell'organismo medesimo; poiché questo, fra le moltis- sime funzioni delle quali un elemento ha primitivamente la potenzialità indistinta, lo dispone e lo destina ad una data funzione distinta. Che è ciò che si chiama anche il fenomeno della divisione del lavoro, ed è nello stesso tempo ciò che altrove (i) dicemmo corrispondere alla (i) Per esempio, nella Formazione naturale nel fatto del sistema solarCy Osservazione III, § V (nel Voi. II di queste Op, fil,). wf^'^vmmmifm^gg^ della varietà, onde si spiega T attitudine alla esi- stenza e alla virtù formativa nella natura in generale e negli organismi in particolare. Così vediamo che gli atomi polivalenti del carbonio si costituiscono, negli organismi degli animali e delle piante, in una serie di forme diverse di radicali: in una serie tanto più notevole per numero e varietà, quanto più complicato e perfetto è V organismo costruitone. Nell'organismo sociale poi i suoi radicali (per ado- perare questa espressione) o le sue varietà elementari co- stitutive, o attitudini distinte di funzione, onde emerge r essere suo complessivo quale organismo sociale, sono precisamente le specialità di condizione dell' uomo sopra accennate: ossia quelle specialità di potenza, che l'uomo vi assume: ossia le specialità dei Diritti, I quali Diritti, nell' organismo sociale, in pari tempo, e lo costituiscono, e ne sono determinati. In modo che la Società si può chiamare la procreatrice dei Diritti, Come la pianta è la. procreatrice delle sostanze speciali necessarie alla sua vita particolare; le quali, nello stesso tempo, e la costituiscono e ne sono determinate. I diritti individuali, per tal modo nascenti e vigenti in una Società, sono in numero immensamente gratide: e perchè i fatti determinati sono moltissimi, e perchè questi si connettono insieme in maniere differen- tissime, e perchè le attitudini emergenti si diversificano all' infinito secondo le condizioni infinitamente diverse nelle quali si verificano. Tuttavia si deve avere nella Società umana, in quanto è un organismo speciale dato, una certa costanza nel nu- - 238 - mero e nella qualità dei generi secondo i quali si pos- sono classificare i Diritti. Allo stesso modo che nell'or- ganismo vegetale, per esempio, si ha una certa costanza nel numero e nella qualità dei generi delle sostante com- ponenti. La quale costanza però non sarà mai quella delle Idee^ eternamente immutabili, di Platone; né quella delle specie, sempre le medesime dopo la creazione, dei vecchi naturalisti; né quella dei Diritti ab eterno ed immutabil- mente stabiliti dal verbo divino, dell'etica metafisica: ma sarà solo, come dicemmo, una certa costanza; e si che, da una parte, ammetta una lenta trasformazione secondo i tempi le circostanze e i casi e, dall'altra, nella realtà si verifichi sempre con qualche diversità, come il tipo di un uomo o di una foglia, che non si effettua mai lo stesso in ogni uomo, in ogni foglia. Il Diritto, che si forma nel modo suddetto, è il Fatto del Diritto; ma non il suo Ideale, Un uomo esercita la propria potenza in quanto l'ha e in quanto glaltriglielo permettono, o gli detta la Idealità sociale: che torna lo stesso, dal momento che la Idealità sociale non è che 1' astratto della reazione altrui e quindi del permesso dato dagli altri di agire. £ la forma della reazione altrui e quindi della Idealità sociale, nella loro tendenza a ridurre e trasformare la prepotenza egoistica originaria dell' arbitrio individuale nella Giu- stizia antiegoistica del suo concc«:so nel lavoro social- mente utile, sono continuamente in via di progressivo mu- tamento; come spiegammo sopra, e come esige, secondo che pure avvertimmo più volte, la legge universale della ^'«ifannipiiij I ^^Formazione naturale applicata al caso particolare della Formazione etico-sociale.6. — Un uomo esercita la propria potenza in quanto r ha e gli altri glielo permettono, o gli detta V Idealità sociale regolante il suo operare. Ecco il Fatto del Diritto. La reazione sociale, e quindi V Idealità mentale con- seguente diretttiva dell' azione umana, va sempre trasfor- mando r arbitrio individuale dalla sua originaria prepo- tenzaegoistica nella Giustizia antiegoistica. £ questa Giustizia antiegoistica, alla quale tende la detta forza trasformatrice, è T Ideale del Diritto. Ma questo Ideale è un termine al quale si può andare avvicinandosi sempre più, senza che si effettui però mai perfettamente. E da ciò consegue: Primo. Che V Ideale assoluto del Diritto non esiste realmente. Sicché è una assurdità il concetto di un ordi- namento morale definitivo, come porta la dottrina meta- fisica della istituzione morale per parte di un legislatore divino, che la fissasse una volta per sempre, e nei ter- mini di una sognata Giustizia assoluta e quindi irrefor-mabile. Secondo. Che il fatto del Diritto è sempre una Giti^ stizia relativa: e cioè relativa al lavoro di riduzione so- ciale precedente e alla potenza attuale dell' organismo so- ciale derivatone. Ma tale Giustizia, quantunquesolamente relativa quando sia rapportata ad un concetto astratto più perfetto dell' organismo sociale, nella Società in cui vige ha valore come se fosse assoluta, perchè essa giùdica, non in base all' Ideale o di un' altra Società o di una Società possibile più perfetta, ma in base al Fatto che si è già verificato in essa. Terzo. Che ogni Diritto di fatto è nello stesso tempo in parte una prepotenza ingiusta, che si tende ad elimi- nare, e si va sempre più eliminando. E ciò, sia regolando meglio il fatto medesimo, sia, quando occorra, togliendolo del tutto. 8. — Senza questi criteri è affattoinspiegabile la storia del Diritto, e il processo legislativo delle Società. Tale processo, senza questi criteri, apparirebbe, non la Giustizia in azione (come è realmente, e non può non es- sere), ma la ingiustizia incaricata di creare la Giustizia. E con questi criteri poi si spiega il fatto storico della evoluzione sociale procreatrice del Diritto più utile e più giusto. La quale evoluzione quindi, secondo i cri- teri medesimi, si può dire consistere in ciò, che il Diritto dell' avvenire, ossia il Diritto ideale, combatte e vince il Diritto delpassato, ossia il Diritto di fatto. L' Ideale assoluto del Diritto dicemmo che non esiste realmente. E che nella realtà non si ha, dell'Ideale del Diritto, se non una effettuazione incompleta. E da ciò potrebbe altri dedurre, che il Diritto di fatto sia un relativo il quale supponga un assoluto: e che questo assoluto sia l'Ideale o il tipo eternamente deter- minato del Diritto, che la mente o possieda gfià o abbia la possibilità di possedere quandochesia. Ma anche ciò è un errore. L'Ideale del Diritto non è un tipo assoluto o eter- namente determinato, nemmeno come semplice mentalità. L' Idealità del Diritto è, anch' essa, un fatto, come quello del Diritto effettuatosi realmente. U Idealità del Diritto presiede si, come mentalità direttiva, nella pro- duzione del Diritto di fatto, ma è pur sempre un fatto anch' essa. Solo che questa Idealità è un fatto della mente, dove il Diritto effettuatosi realmente è un fatto della co- stituzione già vigente esteriormente in una Società. Ed essendo un fatto ha le proprietà di tutti gli altri fatti jn quanto tali: cioè di essere casuale e quindi relativo. Il tipo ideale del Diritto è come tutti gli altri tipi ideali. Per esempio, come quello del disegno della crea-- zione supposto nella mentedi dio, del quale abbastanza ho discorso nel libro della Formazione naturale, E come, quello dell' arte; mettiamo dell'Architettura: che (per una serie di casualità) è riuscito diverso nell'India, in Egitto, in Roma,in Germania, e via dicendo; e pur nello stesso paese non fu mai identico affatto nemmeno nella stessa epoca, e nemmeno in due soli architetti, anzi nemmeno nello stesso architetto in tutta la sua vita. Il tipo ideale del Diritto, come tutti quanti i tipi ideali, è una formazione mentale, che apparisce un dato momento per una accidentalità che la suggerisce; vi si perfeziona poi in una data maniera per altre accidentalità che guidano la mente a farlo; e un dato momento poi si oblia e si sostituisce con altri diversi e opposti, ancora per delle accidentalità che ve la inducono. E tanto, che il tipo ideale stesso non è quindi deter- minabile a priori, come un vero preesistente inmodofisso e inalterabile nella mente di ognuno: ma solo a poste- riori, cioè come 1' astratto di tutti i tipi conosciuti veri- Vol. IV. 16 ficatisi effettivamente nelle Società umane d* ogni tempo. A quella maniera che il tipo del vegetale non si può avere se non pel confronto mentale fra le forme reali che effettivamente s* è dato che se ne producessero. IO. — Che se altri dicesse che il tipo ideale del Di- ritto è assoluto in quanto è il corrispettivo necessario etico-sociale di una entità reale, cioè dell' uomo e della sua convivenza nella Società (i), risponderemmo: Primo. Che la reale entità stessa, dell' uomo e della sua convivenza nella Società, determinante necessaria- mente il tipo ideale del Diritto, è ancora una somma di accidentalità, che si rileva a posteriori, e non si prefigge a priori. Secondo. Che il tipo ideale del Diritto sipresta al concetto di essere il correspettivo necessario del fatto so- ciale, non come il disegno preesistente di ciò che non è ancora succeduto; ma solo come V astratto rilevato dopo (i) Su ciò ho scritto nella Psicologia come scienza positiva (Voi. I di queste Opev e filosofiche pag. 219, 220) un tratto che stimo op- portono di ripetere anche qui: « Anche nel dire, idealità, il filosofo positivo esprime un concetto armonizzante i veri imperfetti di diverse scuole. La scuola psicologica dà l'idea, come una mera forma del tutto soggettiva, accidentale e variabile del pensiero. La scuola onto- logica le assegna un valore oggettivo, immutabile ed assoluto. La scuola storica ricorre per ispiegarla alle relazioni dell'uomo colle con- dizioni esterne in cui vive, per cui le attribuisce una semioggettività, e la considera, da una parte contro i psicologi, non una creazione fa- cile ed efimera dell' individuo, ma una produzione faticosa,lenta, du- revole della Società, e dall' altra contro gli ontologi, non una intui- zione che la riveli d' un tratto nella sua interezza ed in una forma unica sempre e per tutti, ma una formazione progressiva e varia, che incomincia dall' abbozzo per venire al lavoro sempre più finito; e che riesce con aspetti diversi, secondo le circostanze differenti dalle quali •*-^..r9,rr-fr- ^.-^ — 243 di ciò che è già succeduto. Onde il ricorrervi che fanno i nostri avversari è un circolo vizioso. §n. // Diritto è in virtù di se stesso, gioverà qui ripetere, in forma appropriata a questo punto del nostro discorso, ciò che pursopra sotto vari aspetti dimostrammo. Quello che può un uomo, che fa parte di una So- cietà, è una forza, che vi si pone da sé col solo fatto che r uomo medesimo ne faccia parte; e che vi emerge in quanto non vi è elisa dal contrasto dei consociati. Come già dicemmo più volte. Emergendo la forza di un uomo nella Società, vi è dipende. Or bene anche nel filosofo positivo l' idea è una formazione lenta, progressiva, durevole, non dell' individuo, ma della società, e dipendente dalie esteme condizioni di essa, ma solo in quanto queste condizioni esterne e l'opera sociale giovano a dare eccitamento e rin- forzo al pensiero individuale, il quale è il vero fattore dell' idea, se- condo chedicono giustamente i psicologisti. Ma l' individuo e la so- cietà, producendo l' idea, non fanno opera capricciosa, ed avente solo valore momentaneo e soggettivo. No: tale lavoro ha la sua ragione nella stessa natura per la quale agiscono, come la forma che assume il seme germogliando. E come la forma assunta dal seme per la ger- mogliazione, più che se stessa, rappresenta queir ordine di cose, che ha determinato la formazione della specie vegetale a cui appartiene, cosi r idea di un uomo, più che 1' operazione accidentale, soggettiva, variabilissima di esso, rappresenta, secondo che dicono giustamente gliontologisti, queir ordine assoluto e immutabile, almeno quantola natura, nel quale è la ragione oggettiva del fatto particolare, che consideriamo. Vedi per esempio nel Capo I, dove parlammo della Giustizia potenziale y e nel Capo II, dove parlammo della derivazione della Giustizia dalla prepotenza. ■«T- riconosciuta: o estrale galmente nel tacito consenso degli altri uomini, e nell' uso, e nella esplicita manifestazione dell'opinione pubblica in qualunque modo approvante: o legalmente nelle forme stabilite dal Potere sociale rico- nosciuto come tale. E pel detto riconoscimento la forza in discorso acqui- sta il carattere di Diritto, per la ragione che importa la Responsabilità di chi la lede verso la Società, la quale, col suo riconoscimento, se ne è costituita tutrice e vin- dice. E quindi è falsa V idea che il Diritto emani assolu- tamente dall'Autorità superiore, che lo doni o lo conceda air inferiore. Non emana da essa: esiste potenzialmente prima e indipendentemente e malgrado di essa: si impone da sé: e sforza la stessa Autorità ad ammetterlo col riconoscerlo e sancirlo. E anche questo dicemmo già più volte. Ma ci occorre ora di far notare un fatto essen- ziale alla dottrina della sociologia positiva, non ancor ri- levato: il fatto cioè che il Potere sociale crea pur esso direttamente dei Diritti individuali. E, dato questo, si domanda: come si accorda questo fatto col suddetto principio della emanazione del Diritto dall'individuo e non dalla Società? Facile è la risposta. Il fatto della creazione di un Diritto individuale per parte del Potere sociale si ac- corda col principio in discorso per la ragione che questo Potere, nel caso qui contemplato, può porre il Diritto neir individuo in quanto può fornirlo di una forza; e in quanto questa forza, che l' individuo ha ritratto dal potere che gliel' ha fornita, sia riconoscibile quale Diritto come le altre forze possedute comecchessia dall'individuo medesimo, e dalla società rispettate o difese. In ogni caso il fatto del Diritto di un uomo neir organismo sociale è analogo a quello delle proprietà acquistate dall' elemento materiale quando é entrato a far parte di un organismo; e, per un esempio, dalla molecola combinata nel tutto di una sostanza, che acquista la forza specificamente funzionante della sostanza medesima solo perchè è divenuta V elemento di essa. Nell’organismo chimico di una sostanza V elemento è la molecola, come neir organismo sociale l’elemento è la persona di un uomo. L' organismo intero, neir un caso e neir altro, e' è solo pel rapporto della forza di un ele- mento con quelle degli altri; ossia per orientarla se- condo la coordinazione acconcia di tutte. Il che però non esclude: Primo. Che, coordinandosi nella complessa azione dell' organismo le forze proprie degli elementi, ognuno di questi non ne ceda un tanto a formare delle somme comuni, che poi siano distribuite di nuovo nelle parti in ordine alle esigenze generali dell' organismo. Secondo. Che l' individuo stesso non dipenda (e in quanto giunge all' acquisto di tutte le forze onde riesce rivestito, e in quanto le conserva e ne usa liberamente) dall' ambiente sociale, nel quale trova il mezzo dell'acquisto e della sua gsiranzia. Sicché per questo lato (ma per questo solamente) è vero il principio della derivazione del Diritto neir individuo dalla Società e dal suo Potere direttivo: e come, per esempio, nella sostanza del chimico, nella quale, in virtù della sua costituzione, le forze sono condotte ad assommarsi in certi punti determinati, e in certa maniera; e poi anche V acquisto e la costanza della forza specifica operante negli atomi dipendono dall' es- servi coordinati. Il diritto è la facoltà del bene sociale. L’esercizio del diritto è la funzione del bene sociale. Dalle cose dette apparisce, che il Diritto è la facoltà del Bene sociale; e che l'esercizio del Diritto è la funzione del Bene sociale. E ciò, o solo indirettamente, o anche direttamente. Solo indirettamente, in quanto la facoltà indi- viduale sia puramente V egoismo contenuto nei limiti inof- fensivi per gli altri e producente il Bene dell' individuo investitone; che torna il bene della Società, e perchè è il Bene del suo elemento, e perchè se ne possono giovare e se ne giovano anche gli altri. Come nel fatto di una industria, che arricchisce l'in- dustriale, e quindi anche il paese, e offre nello stesso tempo un utile e un comodo ai consumatori de' suoi pro- dotti. E anche direttamente, in quanto la facoltà in- dividuale sia quella che corrisponde alla Idealità antiegoi- stica; la quale, come si estenda in urla Società adulta e colta e bene ordinata e fiorente, vedemmo sopra; dove anzi dimostrammo che, se si tien conto di tutte le gra- dazioni della Idealità e delle disposizioni antiegoistiche (da una minima che lavori insieme con un massimo di egoismo, ad una massima che lavori insieme ad un mi- nimo diegoismo), si trova in tutto ciò che può fare e fa r individuo sociale. Il Diritto costa una contribuzione, I. — Ma, se, da una parte, l'individuo è investito di una potenza o di un Diritto (del quale usa poi facendo, o indirettamente, o direttamente, il vantaggio altrui) dal- l' altra, la stessa potenza o Diritto costa una contribuzione per parte degli altri. E questa una legge naturale correlativa alla sopra accennata e necessariamente ad essa collegata. Si piglia; ma si deve dare. Si dà; ma si piglia per poter dare. Questa legge dell' organismo sociale non è altro cioè che r applicazione al caso particolare di esso organismo della legge che domina in tutti gli organismi, anzi in tutta la natura, dove una forza, posseduta da un agente che funziona in virtù di essa, è, non una forza creata dal nulla neir agente medesimo, ma comunicata ad esso da altri agenti, che gliela cedono in ragione dei rapporti correnti fra quello che cede e quello che acquista; come ho dimostrato nel libro della Formazione naturale, par- lando del ritmo (i). Il vegetale si appropria l' acido carbonico che lo at- (i) Vedi Formazione naturale nel fatto del sistema solare^ Os- servazione terza. § XIV (nel Voi. II di queste Op. Jil.J. tornia, e con esso mantiene la vita. Gli animali maggiori vivono cibandosi dei minori. Neir organismo di un mam- mifero alcune parti lavorano a preparare il sangue, e le masse nervose ne fanno consumo. Impossibile V attività specifica nervosa, necessaria al funzionamento generale deir organismo e anche a quello particolare delle parti preparanti il sangue, senza la contribuzione di queste alla nutrizione dei nervi mediante la somministrazione del sangue acconciamente preparato e distribuito. 2. — Parlando in particolare deir organismo sociale, la partecipazione al contributo di ciascuna parte è in ra-gione della importanza del Diritto, e quindi della facoltà di produrre il Bene sociale. Più è r importanza del Diritto, e più è la facoltà di produrre il Bene sociale. Più è questa facoltà e più è la partecipazione al contributo delle parti. Come nel resto della natura, dove si trova che le funzioni più elevate de* suoi agenti costano un immagaz- zinamento di forza tanto più grande quanto più distinta è la forma e ìa sfera della efficienza. Risultando cosi una proporzione di equivalenza tra la natura che dà e quella che riceve. E in questo modo, che al più della contri- zione apportata corrisponda il più della importanza della attività emergente. Per la stessa ragione il Diritto di un ordine supe- riore, quello ad esempio di un Giudice, costa una contri- buzione per parte di quelli sui quali ha giurisdizione. Sicché il Giudice mangia dei frutti della terra che essi hanno lavorato, come il sistema nervoso consuma del sangue che fu preparato da altre parti dell'organisme animale. PPP^P"?!'^. Come molto movimento equivale a poco di calore, e molto calore a poco di attività chimica, e molta attività chimica a poco di attività vitale, e molta attività vitale a poco di pensiero; cosi, nell'ordine etico della natura, a molta materialità (intendendo con questa espressione le forme inferiori della esistenza) corrisponde poco di attitudine morale: poiché, nella gradazione delle formazioni naturali e quindi delle equivalenze delle forze, i suoi poli opposti possiamo rappresentarceli, o andando dal movimento meccanico al pensiero, che ne è l'ultima trasformazione (i), o andando dalla materialità alla mora- lità, che è r ultima e più sublime sfera della evoluzione ascendente della natura insensibile e bruta. Naturale è questo fatto della contribuzione delle parti nell'organismo sociale. E quindi, non effetto solo di arbitrio o prepotenza di alcuno, ma necessario; a quel modo che è necessario l'assorbimento del carbonio per parte del vegetale, e il consumo del sangue per parte dei nervi. E naturale il fatto stesso; ed anche giusto, in quanto è, direttamente o indirettamente, consentito ed approvato da quelli che contribuiscono. Ed è consentito ed approvato da questi per la legge, rilevata dagli economisti, della domanda; la quale, come tutti sanno, consiste in ciò, che più una cosa importa a molti e più è domandata; e tanto più si paga quanto più (i) Intendendo questo nel senso della filosofia positiva e non in quello della metafìsica materialistica. Come spiego da per tutto nei miei libri, e più a lungo in quello col titolo V Unità della Coscienza nel VII voi. dì queste Op. fil. iiu^.i'i>nn^  si domanda; ma si paga quanto occorre per averla e non più. Questa legge poi, che determina nei suoi limiti ne- cessari la contribuzione assentita e giusta nell'organismo sociale, è analoga alla fisiologica, onde un tessuto vivo si impadronisce delle sostanze che lo nutrono nei limiti deter- minati dallo stesso bisogno della funzione domandatagli. 4. — E quindi il fatto in discorso deve essere con- siderato come un caso speciale di selezione naturale; che si potrebbe chiamare la selezione etico-sociale. E dalle cose dette si conferma e si chiarisce viemmeglio la dottrina sopra esposta, che il Diritto indi- viduale è pur esso una autorità (i). Poiché, come ve- demmo, il Diritto individuale si impone a tutti quelli che contribuiscono all' essere suo; e agli eguali, che lo rico- noscono e lo rispettano; e agli inferiori, ossia a quelli che, in ragione dei rapporti nascenti dalla sua speciale natura, ne subiscono una dipendenza e una direzione; e al Potere sociale subordinante, in quanto questo non lo crea ma lo riconosce, ed è determinato a riconoscerlo dal fatto stesso di porsi da sé; onde, una volta che si sia posto, viene ad essere realmente Diritto in virtù di se stesso. Le unità minime, le unità medie, e V unità ^ massima nel corpo sociale. L’individuo è V unità minima del composto so- ciale, come r atomo del composto chimico. E, come in (i) Vedi Capo III, specialmente \ V. tutti gli altriorganismi naturali, cosi nel sociale, oltre le unità minime degli individui sociali, e Munita massima dell' intero organismo, si trovano delle unità di mezzo di terzo grado, risultanti di più individui associati parti- colarmente fra loro, o di più di queste associazioni di individui collegate particolarmente in federazioni più grandi. In unaSocietà adulta, fiorente e grande, la vita del tutto si manifesta nelle più svariate e spiccanti differen- ziazionidelle attitudini e conseguentemente dei Diritti individuali, come accennammo or ora. Anzi la grandezza della Società è, alla sua volta, il risultato di tali varietà o specificazioni di attitudini; ovvero di tale divisione di lavoro, verificatavisi: come in ogni altro organismo; per esempio, in quello fisiologico dell' uomo, nel quale la ec- cellenza zoologica sopra gli altri animali dipende da una suddivisione di specificazioni in massimo gradodegli or- gani componenti. In un animale del grado infimo della scala zoologica la sostanza componente (come avvertimmo nel principio del libro) non è né muscolo ne nervo: come in una Società umana primitivissima tutti gli individui sono, mettiamo, dei guardiani d' armenti: e non vi si trova una distinzione di occupazioni, per salire, po- gniamo, da uno che attende a far pascolare le oche ad uno che attende a costruire stromenti di ottica o di astro- nomia. La differenziazione in discorso nella Società più pro-gredita va, si può dire, all' infinito. E non solo nelle u- nità minime degli individui, ma anche nelle combinazioni medie già dette delle associazioni degli individui e delle confederazioni di queste associazioni. Le quali pure, nelle Società adulte fiorenti e grandi, si producono, per cosi dire, anch' esse all' infinito: dalle più comuni, normali, e costanti, come quella della/amiglia, alle più insolite, ac- cidentali ed efimere, come quella ad esempio per dare una volta una festa o uno spettacolo: dalle più piccole, come di due persone in una impresa commerciale, alle più grandi, come di due provincie di uno Stato tra loro consorziate per interessi speciali. Or bene, anche queste unità medie sono (al modo che una data somma, come tale, si distingue dalle sin- gole quantità sommate, considerate ad una ad una) sog- getti distinti in possesso di una facoltà speciale, analoga alla individuale, a somiglianza di ciò che pur si verifica neglialtri organismi naturali: nei quali, per esempio, la cellula nervosa singola ha le sue proprietà particolari, e una data massa distinta di cellule nervose ha un dato uf- ficio distinto fisiologico, che essa esercita in quanto esiste e si conserva nella peculiarità del suo insieme. E siccome poi il possesso di una potenza di fare im- porta il possesso di un Diritto, come dimostrammosopra,cosinellaSocietà si danno i Diritti degli individui e i Diritti delle stssociazioni loro. E questi Diritti delle As- sociazioni hanno le proprietà già notate dei Diritti indi- viduali più quelle dipendenti dalla specialità proporzio- nale della associazione. Delle quali ultime proprietà una massimamente occorre che sia qui messa in rilievo. L' individuo, in astratto, si può considerare siccome un plasma generico, il quale, nell' ambiente sociale e nel circolo della sua vita, secondo le disposizioni già pos- sedute nascendo, e le circostanze accidentali nelle quali viene a cadere, riceve una particolarità di impronta di- stinta e tutta sua. Nel che ha luogo un fatto di selezione naturale: cioè la selezione naturale onde una unità so- ciale si sceme quale individualità distinta fra altre unità. Anche le agglomerazioni di più individui in associa- zioni o totalità distinte sono determinate e foggiate, con grandezze, tendenze e attività particolari, neir ambiente sociale, secondo i bisogni ed i fatti, e costanti e acciden- tali, onde emergono, per una analoga selezione naturale distinguente un composto singolo fra altri composti. Ma in questo composto (o unità media, come sopra lo chiamammo) ha luogo un' altra forma della selezione naturale: cioè quella che, neir interno stesso del com- posto, diflFerenzia edistingue fra loro le parti compo- nenti: e si che esso composto riesca un organismo e non rimanga una semplice agglomerazione inorganica di ele- menti tutti identici fra loro. E questa forma di selezione si potrebbe chiamare selezione interorganica. La unità sociale da noi detta media non è puramente un certo numero di parti addizionate le une alle altre, ma è una collaborazione organica degli individui o dei soda- lizi aggregati insieme; e quindi con diversità di attinenze e di facoltà distribuite fra loro. Altri fanno numero, con- tribuiscono e concorrono a mantenere T associazione: altri invece la rappresentano, la dirigono, ne applicano le forze accumulatevi. E, occorrendovi specialità di lavoro e di ufficio, queste vi sono divise quali negli uni e quali negli altri. E, come è naturale la creazione di queste differenze interorganiche delle parti costitutive delle unità medie, cosi è naturale la selezione interorganica dalla quale di- cemmo che proviene. Questa selezione interorganica, come insegna la os- servazione del fatto, avviene in diverse maniere secondo i casi; ma soprattutto secondo la legge, che riesce a una data facoltà ufficio chi piti vi ha attitudine, o ne ha il merito, e colla condizione del consentimento degli as- sociati. Il fatto del merito, onde uno acquista una preroga- tiva o una particolarità d'ufficio a preferenza di altri, è analogo a quello notato da Darwin della specie preva- lente nella lotta per la esistenza. Il fatto del consentimento degli associati è analogco air altro, pure da Darwin segnalato, dell* efficacia del- l' ambiente nel secondare la trasformazione progressiva dell' essere naturale. L' individuo investito di nna facoltà o di un ufficio in un corpo di individui o di sodalizi viene con ciò ad avere due sorta di facoltà o di Diritti: cioè il Di- ritto fondamentale spettante a lui come parte elementare della Società intera, e il Diritto avventizio, onde è in- vestito come organo speciale della associazione partico- lare a cui appartiene. Il Diritto fondamentale ha il suo rapporto immediato colla costituzione generale delle Società che lo garantisce direttamente a tutti senza distinzione: T avventizio V ha con quella della associazione particolare per la quale e- merge; ed è garantito dal Potere sociale supremo in quanto esso riconosce il Diritto della medesima associa- zione particolare. Se privato si dice ciò che è proprio della unità sociale minima, come tale, e pubblico ciò che è proprio della unità massima, parlando delle unità medie si dirà che hanno un carattere di mezzo tra i due, e gradata- mente; in ragione cioè della importanza loro, intensiva- mente o estensivamente, nella vita sociale complessiva. Il pubblico poi si differenzia in genere dal privato in quanto ha un rapporto diretto col Bene, non indivi- duale, ma sociale; ossia è, non egoistico, ma antiegoistico. La proprietà quindi di ente morale antiegoistico com- peterà massimamente alla unità più glande o allo Stato. E se, come sopra dicemmo, il Diritto in genere è \2l fa- coltà del Bene sociale e il suo esercizio è la funzione del Bene sociale, ciò si avvererà meno pel Diritto privato, più pel Diritto delle associazioni sociali intermedie, e in grado più alto pel Diritto dello Stato. Ma non diremo che per questo Diritto dello Stato il principio si avveri proprio nel grado massimo, per la ragione che, come sopra dicemmo n), uno Stato singolo, o già in effetto, o almeno in potenza, si coordina internazionalmente con altri Stati, anzi con tutte le Società umane esistenti sulla terra. La selezione interorganica nella evoluzione formatrice dello Stato. La legge della selezione interorganica, che si avvera nella costituzione degli organismi delle unità com- (i) Dove parlammo del Diritto internazionale (Capo [, \ II). plesse medie, si avvera poi per le ragioni medesime nella costituzione dell' organismo della unità massima dello Stato. Ed è per essa legge che ha luogo in questo la formazione del Potere onde si esercitano le sue fimzioni subordinanti, che sono poi funzioni del Bene sociale. Questa selezione assume storicamente forme svari atis- sime. Ma anche la varietà è determinata da una ragione costante, che si rivela chiarissimamente nella storia poli- tica degli Stati, e che non è altro che una applicazione del principio nostro fondamentale della formazione etico- sociale, che cioè la prepotenza è V indistinto onde si forma il distinto della Giicstizia, E in vero nello stadio iniziale, o della prepotenza, la selezione formatrice del Potere sociale è dipendente dalla violenza, che a poco a poco si mitiga nella eredità, finché da ultimo è sostituita, prima in parte e poi del tutto, dalla elezione (per parte dei subordinati, e in modo legale e pacifico) dei più degni, in ragione del merito morale e della Giustizia» e non del soprastare materiale della ricchezza o della forza dei muscoli: e si che riesca investito dell' ufficio chi si trova piti atto ad esercitarlo, e che il Potere nella direzione del corpo sociale sia quel premio del virtuoso del quale un' altra volta parlammo nel Capo precedente (i). 2. — Il costante e vivissimo lavoro evolutivo del- l' organismo dello Stato, onde si ha la sua formazione na- turale e il suo sviluppo e isuo progresso, è T applica- zione nel grado massimo del principio della formazione (I) \ VII, numero 8. morale, cioè, dall' indistinto (morale solo virtualmente) della prepotenza e dell' egoismo, al distinto (morale in atto) della Giustizia antiegoistica. Più procede la formazione organica dello Stato e più si estende e arriva in tutte le parti e nel!' intimo di esse la virtù direttiva e moralmente perfezionatrice della So- vranità politica. In modo che, dove prima le parti erano agglomerate e coacervate e tenute in fascio violentemente, a poco a poco vanno organizzandosi vitalmente insieme e finiscono coli' aderire 1' una con V altra, e tutte nel tutto, volontariamente e per liberoconsentimento. Come, per esempio, le molecole di certe sostanze, che fanno sentire la loro affinità e aderiscono insieme a formare un cri- stallo solo in seguito ad una compressione che le sforzò a ravvicinarsi meccanicamente. Il quale processo però va di pari passo con quel- r altro; che le parti stesse subordinate, di mano in mano che si orientano nella armonia politica dello Stato, di- ventando partecipi e collaboratrici della sua vita, reagi- scono sul Potere sovraincombente, rintuzzando la prepo- tenza, che vi fosse, e riducendolo ad una forza giusta e mo- rale; ad una forza, in una parola, diretta al Bene di tutti. 3. — Non è nostro compito (non richiedendolo lo scopo del presente libro) di studiare i modi precisi onde, per la elezione interorganica, e pel processo di distin- zione, si va formando nell' organismo dello Stato bordine del Potere, che riesce un sistema complesso di funzioni speciali esercitate da individui e corpi particolari; e come nasca il fatto, mettiamo, della divisione del Governo in diversi ministeri, e di ciascuno di questi in parecchie Voi. IV. 17  dipendenze, alle quali, variamente e per mez£o di centri subordinati, si rannodano le ultime propag^ni della am-ministrazionepubblica sparse in ogni parte dello Stato. Pel nostro scopo, in riguardo alle specializzazioni ac- cennate degli organi del Potere, basterà fare T osserva- zione (pure importantissima) che, come si distinguono tra loro le amministrazioni pubbliche, e quindi gli c^getti di ciascheduna, e conseguentemente il modo di funzionare (che deve atteggiarsi in conformità dell' intento da otte- nere), cosi si distinguono tra di loro le Sanzioni pub- bliche e legali degli atti sociali relativi; e quindi (si noti bene) le specie di Responsabilità, che neemergono. E da ciò proviene che le forme della Giustizia e quindi della Moralità si specializzano insieme collo spe- cializzarsi della pubblica amministrazione; onde, moral- mente, non sono, per esempio, identiche le azioni degli individui giudicate da un tribunale civile e quellegiudi- cate da una una intendenza di finanza, o da una commis- sione igienica o di belle arti; e per un reato controla proprietà individuale o per uno contro le restrizioni della libertà della stampa, in materia scientifica; e cosi via. Il che non vuol dire però che non si possano tutte le dette azioni ridurre al genere comune delle obbliga- torie nel foro intimo della coscienza, in ragione che Del- l' individuo si è formata, come sopra abbiamo dimostrato, r abitudine virtuosa e propria del saggio; l'abitudine cioè di attribuire universalmente alle Idealità antiegoistiche sociali un valore obbligativo per se, assoluto e indipen- dente dalle specialità di procedura e di Sanzione, che loro corrispondono nella amministrazione governativa. m — Come risuiii spiegata la prima /orina de li* ufficio del Intere, e anche la terza: e stabilito l' assunto del liérù. Ora, facendo, colla proporzione dovuta, al fatto del Diritto del Potere, Tapplicazione del priacipio stabi- lito sopra, che ogni Diritto importa una conirièuzionc, possiamo trovare la verità di quella che sopra, alla fine del Capo I, dicemmo la pritna forma dell' ufficio del Po- tere, cioè: di stabilii*^! nella Società a spese delle sue parti. Et facendo allo stesso fatto» pure colla pro- porzione dovuta, r applicazione dell' altro principio, che il Diritto è la facoltà del Bene^ constatiamo la verità di quella, che ivi stesso chiamammo la terza forma dell' uf- ficio del Potere, cioè: di flÌH|ìensHri^ la forza propriadeir ambiente sociale (cioè le contribuzioni suddette) al migli orauiento delle sue parti. In questo ultimo enunciato poi abbiamo il com- pendio, per cosi dire, di tutta la trattaEione di questo libro, E> in relazione allo stesso enunciato, si verificano, in ragione cho lo Stato si perfeziona in ogni sua parte, i principj che seguono: Primo* Che le contribuzioni di ogni genere, prestate da tutti gli elementi costitutivi dello Stato, diventano li-èeramente consentile. Secondo. Che le contribuzioni medesime si vanno av- vicinando al massimo di ciò che pi4Ò dare ciascuno ^ senza suo esiziale detrimento* ^ i '«.iFI-i-^..' TChe nulla, di ciò che è contribuito, va consur- malo prepotentemente ed egoisticamente da chi è investito del Potere di disporne. Quarto. Che la erogazione medesima è fatta secondo il volere di quelli stessi che contribuiscono. Quinto. E alla tutela dei Diritti di tutti; e dXVotte- nimento della prosperità, e al miglioramento morale. Sesto. E a questo soprattutto. E nella ragione che il miglioramento morale ottenuto, supplendo da sé, come dimostrammo sopra (i), alla tutela dei Diritti e all' otte- nimento della prosperità materiale, lascia per sé disponi- bili mezzi sempre maggiori. E cosi nello Stato siverifica T idea della prov- videnza, che il teista colloca in dio, come in esso colloca il tipo della specie di una pianta, per la solita illusione tante volte notata. E si verifica anche V idea della grazia, immaginata per una simile illusione dalla teologia cattolica siccome emanazione divina, atta a rendere V uomo morale, a far che segua le leggi della Giustizia ed eserciti la beneficenza. La possibilità per 1* individuo di essere morale, di conoscere e seguire la Giustizia, e di essere benefico verso gli altri, si ha, come dimostrammo nel corso del libro, dalla sua convivenza nella Società e dalla proprietà di questo di svolgere e perfezionare le facoltà dell'uomo, e di moralizzarlo. 5. — Onde lo Stato, cosi concepito, viene ad essere l'attuazione pura e compiuta della Idealità sociale, ossia (i) In molti luoghi: per es. Numero 2 del J VI del Capo IV. 201 del principio del Bene an ti egoistico, del Bene morale, in una parola del Bene pel Bene, E quindi lo Stato medesimo riesce la prova concreta ' sperimentale della verità del principio della Morale dei positivisti da noi affermato, chiarito, dimostrato: e una prova evidente, in quanto nel fatto dello Stato il fenomeno individuale si trovaingrandito, E mi spiego. Se, ad esempio, si può dubitare che un atomo materiale preso da sé sia pesante, perchè il peso deir atomo è tanto piccolo che non si può rilevare iso- latamente, il dubbio cessa affatto prendendo una grande congerie di atomi, nella quale i pesi minimi non valu- tabili di ognuno sisommano in un peso valutabile, dal quale si arguisce quello troppo piccolo dei componenti. E, se si può dubitare che una molecola di ferro, consi- derata isolatamente, sia calamitata, il dubbio cessa quando se ne prenda una grande massa. E cosi nel caso nostro. Se si può dubitare che T uomo singolo sia mosso nelle sue azioni da una Idealità sociale antiegoistica, perchè la ragione di questa, nella singola azioneumana di un individuo, si sottrae facilmente alla osservazione, stante il concorso e il contrasto colle ragioni egoistiche, le quali ve la accompagnano, il dubbio è tolto interamente arguendo dal fatto che, appuntandosi i voleri individuali nella totalità dello Stato, ne risulta la incontrastabile sovranità del volere morale, e antiegoistico, che vi os- servammo. Le cose dette nel corso del libro dimostrarono che la Responsabilità, intesa nel senso che sia Vastraito delle Sanzioni,onde la Società reagisce, rintuzzandola, contro V azione propriamente umana individuale, si rife- risce, non solo agli atti della Giustizia propriamente detta, ma anche a tutti gli altri atti  etico-civili dell'uomo; cioè: Primo. Agli atti offensivi non contemplati e non con- templabili dalla Legge. I quali perciò, esclusi dal campo della Giustizia propriamente detta, vanno attribuiti a quel- la altro della puraConvenienza. Secondo. Agli atti sindacabili soltanto dalla coscienza intima dell’individuo in cui si avverano, e producenti la sola reazione del rimorso intemo. Terzo. Agli atti virtuosi, che V individuo potrebbe fare e sarebbe bene facesse, e non fa. Ossia a quegli atti che non si attribuiscono, ne alla Giustizia, né alla Con- venienza, ma alla Carità, come dicevano i moralisti vecchi, o alla Filantropia o Beneficenza, come direbbero inuovi. E cosi è sciolta la questione, propostaci nella Introduzione, come compito di questa nostra Sociologia. Rodrigo Ardigò. Keywords: sociologia. Grice ed Ardigò:  implicatura cooperativa — positivismo filosofico —  biologia filosofica — psicologia filosofica naturalista — il sociale — l’intersoggetivo ——, la morale positivista, il positivism filosofico. La morale e il diritto all’altro – la convivenza sociale – la giustizia, il bene sociale – la benevolenza e la beneficenza – il calcolo ragionale nella convivenza sociale – l’evoluzione sociale – l’organismo sociale – il positivismo filosofico – communicazione e convenienza sociale – l’onesta morale – spettazione di onesta reciproca – Fondazione naturalistica della morale – Fondazione – il fatto sociale – il devere, la regola d’oro, fare all’altro cioe che vorreste fatto a te – consiglio di prudenza – kant – costume – fatto sociale presupposizione del linguaggio -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Ardigò” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Arena – nudi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Ripatransone). Filosofo italiano. Grice: “I like Arena; my favourite of his tracts are one on what he calls, ambiguously, ‘guerriero dello spirito,’ which is pretty naif – wasn’t Aeneas killing for something too, not necessarily ‘spiritus’? – His focus is two orders: the templari and the teutonic order – my other of his favourite trats is  his ‘nudi’ – or ‘gnudi,’ if you mustn’t – when Romolo converses with Romo, they are ‘nudi’ – what they say is what they mean and what they mean is what they say – ‘nakedness’ becomes a philosophical category, as when Strawson says, ‘the naked true.’” “There is no reason why it shouldn’t be a philosophical category, since the etymology is fascinating – vide Clarke, “The naked and the nude,” --  Leonardo Vittorio Arena (Ripatransone), filosofo. Arena insegna "Storia della filosofia contemporanea" presso Urbino. Filosofo e orientalista,ha dedicato in particolare al Buddhismo Zen, al Taoismo e al Sufismo una vasta produzione saggistica; è anche autore di romanzi e traduzioni sui medesimi temi. Insegna tecniche di meditazione tratte da pratiche buddhiste e sufi. Ha collaborato ai programmi religiosi della Radio Svizzera.  Pensiero La sua visione filosofica è esposta principalmente nelle tre opere Nonsense o il senso della vita,Note ai margini del nulla e Sul nudo, dove si propone una sintesi delle grandi correnti filosofiche orientali e occidentali, con particolare riguardo a Nietzsche, Wittgenstein, Zhuāngzǐ e il Buddhismo Chán/Zen.  Il nonsense, come dall'opera Nonsense o il senso della vita, è da intendere come la meta di ogni autentica indagine filosofica, realizzando la "distruzione delle opinioni" sulla scorta del Buddhismo. La filosofia del nonsense non è teoria, bensì non teoria: come la zattera del Buddhismo o la scala di Wittgenstein, serve ad arrivare a una sorta di consapevolezza speciale, per poi essere tranquillamente accantonata. Punto di partenza: non è possibile formulare una filosofia esente da contraddizioni. Nelle pagine di ogni filosofo si cela il tarlo dell'incoerenza. Traendo tutte le conseguenze logiche di ogni filosofia se ne attesta la contraddittorietà.  L'idealismo, base di ogni filosofia, dovrà sfociare nel vuoto e nel nonsense, laddove se ne sviluppi il suo principio-base, che è esistenziale prima ancora che teoretico, secondo cui il mondo è la rappresentazione del soggetto o di una mente cosmica. La posizione del nonsense spinge a riconoscere che le cose stanno proprio così (Tathātā), cioè sono caratterizzate da una nudità che non può essere interpretata o espressa attraverso alcuna dottrina od opinione.  Non c'è senso nascosto, e tutto è già qui, direttamente accessibile nella vita quotidiana all'uomo comune e al Risvegliato, mai così tanto accomunati. Lo strumento del nonsense è l'arte, specialmente la musica e si procede verso la dimensione del non suono, già cara a John Cage, nella sua composizione 4'33", cui Arena dedica una lunga disamina, nella sua opera La durata infinita del non suono. La stessa tematica viene ripresa e ampliata in Il tao del non suono, nonché nell'analisi di alcuni solisti o gruppi di musica contemporanea, come John Lennon, David Sylvian, Brian Eno, Robert Wyatt, Giacinto Scelsi e Ryuichi Sakamoto. Musica e filosofia si intersecano, entrambe sono mezzi di conoscenza, addirittura intercambiabili. Arena è influenzato dalla beat generation, e riconduce parte del suo interesse di lunga data per l'Oriente ai Beatles e ai grandi gruppi rock dei '60 e '70.  Nella poesia, l'haiku esprime lo yugen, un senso di "profondità misteriosa" che convive con la semplicità del "qui e ora". Nonsense implica il superamento degli opposti, quindi permette di giungere alla non dualità, al di là della logica formale di Aristotele, perseguita dall'esorcista del nudo, il quale pretende di cogliere e congelare in una articolazione sistematica il caotico divenire della vita; operazione votata all'insuccesso, e alla contraddittorietà. Come per Nāgārjuna e Wittgenstein, anche per Arena la logica può servire a invalidare sé stessa, ma nella dimensione radicale del kōan, come è concepita nel Chán/Zen. L'insegnamento si trasmette grazie a una sorta di empatia o comunicazione energetica tra maestro e allievo -, di baraka nel senso che il termine acquista nel Sufismo -, veicolata dal silenzio e dal non suono.  Nella sua opera Note ai margini del nulla, Arena riprende la posizione di Bodhidharma, relativa al "non sapere, non distinzione" (fushiki), in direzione epistemologica ed ermeneutica, sottolineando la complessità della diffusione del nonsense nell'ambito del sociale. Egli analizza le concezioni di vari esponenti del pensiero orientale e occidentale, tra cui Max Stirner, Fernando Pessoa e i maestri del Taoismo, specie Zhuāngzi. Il nonsense propone un nichilismo costruttivo, dove le "ragioni" del nulla non vengano concepite attraverso la modalità unilaterale del nihil privativum, negativum od oggettivizzato. Arena rovescia la conclusione del Tractatus Logico-Philosophicus: di tutto ciò su cui si dovrebbe tacere occorre proprio parlare.  Arena propone di sondare il nonsense attraverso il nudo, una comprensione che sfoci nella non comprensione e nel non pensiero, ben più fecondi di quanto la riflessione logico-formale non abbia dato da vedere all'Occidente. Nietzsche, Bob Dylan e i maestri Zen si rivelano, al momento, i suoi principali ispiratori nei toni di una filosofia non accademica, nemica del dogmatismo e della necrofilia della teoresi. La musica elettronica contemporanea sembra particolarmente adatta a sondare la nudità, nei modi della improvvisazione radicale, cui Arena dedica anche un'attività concertistica solista con lo pseudonimo Mu Machine.  Arena ha pubblicato una serie di ebook sull'analisi di maestri e filosofi alla luce delle categorie del nonsense e del nudo, sondandone tratti indipendenti dai "punti nodali", riscontrabili nei compendi od opere manualistiche, e considerando queste figure nella loro alterità: Samuel Beckett, Jacques Derrida, Nietzsche e Wittgenstein rientrano nel novero, ma anche Jacques Lacan (cfr. la voce Opere). Parallelamente, sta sondando le illusioni e i condizionamenti dell'animo, che non lasciano percepire il nudo/nonsense.  La produzione romanzesca è iniziata con La lanterna e la spada, dove Arena analizza la figura di Qinshi Huangdi, il primo imperatore della Cina, famoso per l'unificazione della lingua, del Paese, e il forte impulso dato alla costruzione della Grande Muraglia, ma anche per il rogo dei libri, che ha ispirato Ray Bradbury in Farenheit 451, e varie efferatezze. La produzione letteraria è proseguita con un altro romanzo, L'imperatrice e il dragone (ripubblicato come Il Tao del sesso), in cui si rievoca un'altra figura molto discussa, stavolta nella Cina medioevale, quella di Wu Zhao, la quale regnò per virtù propria, fondatrice di una sua dinastia, e non come semplice imperatrice vedova, altresì famosa per gli eccessi e le passioni sessuali. Anche di questa figura Arena dà un ritratto senza giudizi moralistici ed esaminandone i multiformi aspetti, come per il primo imperatore. In L'Ordine nero, ripubblicato come La svastica sul Tibet, si tratta della spedizione Schaefer, alla ricerca delle origini della razza umana e di ineffabili segreti magici. Nel gruppo di nazisti si trova anche il filosofo Leonard Mayer (personaggio inventato), alla ricerca del segreto della mente. In Il coraggio del samurai, si parla dell'arcano connubio tra samurai e ninja, e dei segreti di questi ultimi, descritti attraverso un gruppo di donne guerriere, la cui sovrana è la misteriosa Padrona, di cui si dice che abbia quattro secoli; si parla anche di Yoshitsune, un samurai del clan dei Minamoto, sfortunato quanto valoroso, ostile al fratello Yoritomo. Nell'ultimo romanzo pubblicato, La corda e il serpente, Arena si discosta dal romanzo storico e scrive un'opera sperimentale, dove la trama è un pretesto, e si nota l'influsso di William Burroughsanche di H.Lovecraft, per certi aspetti: nell'opera si parla di Atlantide, un mondo sommerso, distrutto da una catastrofe; il protagonista L., darà vita a una nuova specie umana.  Arena propone una personale versione della meditazione nella sua opera La Via del risveglio, Manuale di meditazione. Egli prende spunto dal buddhismo, vipassana e Zen, dal sufismo e da Georges Gurdjieff, dalla psicologia analitica di Carl Gustav Jung (il Libro rosso)[25] e dal lavoro sull'ipnosi di Milton Erickson. Una meditazione che conduce talvolta agli stati alterati di coscienza e permette di sviscerare il nudo nonsense, caposaldo della visione filosofica di Arena. Una meditazione che ha il suo supporto nella musica, la quale non ne costituisce solo il sottofondo, ma anche la base per approfondire le intuizioni che ne emergono. "Difficile separare la musica dalla meditazione", scrive Arena, "l'una porta all'altra".[26] Scopo della meditazione è anche attingere il non suono, categoria che Arena aveva sviscerato nei succitati studi su John Cage e Brian Eno. Una meditazione che attinge all'Oriente, ma fa tesoro delle conquiste psicologiche e spirituali dell'Occidente. Per indicare la modalità filosofica della pratica Arena propone una metafora: "La meditazione è premere il pulsante della consapevolezza".[27]  Dopo anni, e non sulla base di un ripensamento quanto di un ampliamento, Arena torna sul nonsense con una nuova riflessione, imperniata sul non sapere alla luce del buddhismo Chan/Zen nel suo complesso (non solo in riferimento a Bodhidharma), e soprattutto da non intendere come non sapere socratico. Il non sapere invita a diminuire la quantità di nozioni, a spogliare la mente dei preconcetti, principio che potrebbe essere il pilastro della scoperta scientifica. Lo anima il non pensiero, attività più affine alla intuizione, che usa la logica ponendola contro se stessa. Anche questa posizione, come quella relativa al nonsense nelle opere precedenti, mira all'acquisizione di un equilibrio psicofisico, all'autorealizzazione, al riparo da dogmatismi ed eurocentrismi. L'incontro con la nudità permetterà, nella solitudine esistenziale, di svelare nuove risorse nel soggetto, un incontro con se stessi fecondo e produttivo, senza entrare in polemica con alcuna visione filosofica, anzi ospitando visioni del mondo contrastanti. La contraddizione, implicita nel nonsense, è foriera di nuovi sviluppi teoretici, e consente di recuperare istanze che, nel pensiero occidentale, erano state sepolte dopo la demonizzazione dei sofisti.[28]   Altre opere: “Nietzsche-Wagner-Schopenhauer” (Fermo); “Il Vaisheshika Sutra di Kanada (Quattroventi) La filosofia di Novalis (Franco Angeli) Comprensione e creatività. La filosofia di Whitehead (Franco Angeli) Novalis, Polline (Studio Editoriale) Antologia della filosofia cinese (Arnoldo Mondadori Editore) Storia del buddhismo Ch'an (Mondadori) Il canto del derviscio [povero mendicanti sufi] (Mondadori) Il Nyaya Sutra di Gautama (Asram Vidya Edizioni) Antologia del Buddhismo Ch'an (Mondadori) Diario Zen (Rizzoli) I maestri (Mondadori) Haiku (Rizzoli); “Al profumo dei pruni. L'armonia e l'incanto degli haiku giapponesi, Rizzoli ). Realtà e linguaggio dell'inconscio (Borla) Novalis, Enrico di Ofterdingen (Mondadori) Vivere il Taoismo (Mondadori) Il Sufismo (Mondadori) Il bimbo e lo scorpione (Mondadori) La grande dottrina e Il Giusto mezzo (opere confuciane) (Rizzoli) La filosofia indiana (Newton) Buddha (Newton) La via buddhista dell'illuminazione (Mondadori) Del nonsense (Quattroventi) Sun-tzu, L'arte della guerra (Rizzoli) Iniziazione all'autorealizzazione. Un percorso verso la consapevolezza (Edizioni Mediterranee) Chuang-tzu, Il vero libro di Nan-hua (Mondadori); Zhuangzi (Rizzoli). Poesia cinese dell'epoca T'ang (Rizzoli) La barriera senza porta (Mondadori) La filosofia cinese (Rizzoli) La storia di Rama (Mondadori) Nei-ching, canone di medicina cinese (Mondadori) I-ching. Il libro delle trasformazioni (Rizzoli) Samurai. Ascesa e declino di una nobile casta di guerrieri (Mondadori) Musashi, Il libro dei cinque anelli (Rizzoli) Kamikaze. L'epopea dei guerrieri suicidi giapponesi (Mondadori); “Hagakure, Il codice dei samurai (Rizzoli) La mente allo specchio (Mondadori) Il sogno della farfalla (Pendragon) Il libro della tranquillità. 100 koan del buddhismo Zen (Mondadori) Sun Pin, La strategia militare (Rizzoli) Dogen, Shobogenzo (Mondadori) Tecniche della meditazione taoista (Rizzoli); “Il tao della meditazione, Rizzoli); I 36 stratagemmi (Rizzoli); I guerrieri dello spirito (Mondadori); La lanterna e la spada (Piemme) Lo spirito del Giappone (Rizzoli) L'imperatrice e il dragone (Piemme) La pagoda magica e altri racconti per trovare la felicità dentro di sé (Piemme); “Il libro nella felicità”; “II pensiero indiano (Mondadori) Orient Pop. La musica dello spirito (Castelvecchi) L'arte della guerra e della strategia (Rizzoli) Il lago incantato. Racconti sull'amore (Piemme) L'ordine nero (Piemme) L'innocenza del Tao (Mondadori); Il maestro e lo sciamano (Piemme, ) Incontri di filosofia. La biblioteca di Babele,  I (Città di Ripatransone). Xunzi, L'arte confuciana della guerra (Rizzoli) Confucio (Mondadori) Il coraggio del samurai (Piemme) Nietzsche in Cina nel XX secolo”; Incontri di filosofia. La filosofia come conoscenza di sé,  II (Città di Ripatransone). Memorie di un funambolo; Note ai margini del nulla; Nonsense o il senso della vita; La durata infinita del non suono (Mimesis) Il pennello e la spada. La Via del samurai (Mondadori, ) Introduzione al Sufismo (ebook, ). Un'ora con Heidegger (Mimesis, ). Introduzione alla storia del Buddhismo Ch'an (ebook, ). Il libro della tranquillità (Congronglu) 100 koan del Buddhismo Zen”; L'arte del governo (Huainanzi) (Rizzoli); “Heidegger, il Tao e lo Zen (ebook, ). Il Tao del sesso: La storia di Wu Zhao; La lanterna e la spade”; “La svastica sul Tibet”; Il libro dei segreti d'amore”; All'ombra del maestro”; Il Tao del non suono”; “La filosofia di David Sylvian. Incursioni nel rock postmoderno (Mimesis); “Ikkyu poeta zen; “La filosofia di Brian Eno. Filosofia per non musicisti (Mimesis); “Novalis come alchimista”; “La filosofia di Robert Wyatt. Dadaismo e voceunlimited (Mimesis). Yogasutra (di Patanjali) (Rizzoli ). Sun-tzu: l'arte della guerra per conoscersi; La barriera senza porta (Wu-men kuan) 100 koan del buddhismo Zen”; “La comprensione negata”; “Buddha: La via del risveglio”; “Nagarjuna: la dottrina della via di mezzo (Zhonglun)”; “Il libro rosso di Jung (ebook, ). La storia di Rama (Ramayana)”; “Sul nudo. Introduzione al Nonsense (Mimesis). Storia del pensiero indiano”; Lacan Zen, L'altra psicoanalisi (Mimesis). Storia del pensiero indiano”; “Oltre il nirvana”; L'altro Derrida”; “Watt, la cosa e il nulla. L'altro Beckett; L'altro Wittgenstein”; “Nietzsche, lo Zen, Bob Dylan. Un'autobiografia”; “ L'altro Nietzsche”; “Una introduzione alla filosofia di John Lennon”; “Scelsi: Oltre l'Occidente, Crac Edizioni. La corda e il serpente, Illusioni, La filosofia di Sakamoto, Il Wabi/Sabi dei colori proibiti, Mimesis. La Via del risveglio, Manuale di meditazione, Milano, Rizzoli. Wenzi, Il vero libro del mistero universale. Un classico della filosofia taoista, Milano, Jouvence. La filosofia di John Lennon. Rock e rivoluzione dello spirito, Milano-Udine, Mimesis. Togliersi le idee. L'ombra del nonsense, Il Tao della pedagogia (selezioni da: Annali Primavere-Autunni di Lu Buwei); Il libro segreto dei ninja: Shoninki; Ikkyu: l'Antibuddha, (poesie in traduzione dal giapponese); Confucio come counselor, Miyamoto Musashi: Dokkodo; Quanti orientali. Oltre il Tao della fisica; Daodejing: Laozi come counselor; Zhuangzi: i capitoli interni; Bhagavad Gita; Qohelet, l'interpretazione "orientale"; Il pensiero giapponese. L'età moderna e contemporanea, Jouvence. La filosofia di Bob Dylan, Mu Machine Collection; Zhuangzi: i capitoli esterni, Mu Machine Collection; Zhuangzi: miscellanea, Mu Machine Collection; La raccolta della roccia blu (i cento koan del Biyanlu), Mu Machine Collection; Basho:Haiku, Mu Machine Collection; Vivere il taoismo, Mu Machine Collection; Il libro rosso di Jung: Liber Primus, Mu Machine Collection, ebook. Storia del pensiero indiano,  II, Mu Machine Collection, Storia del pensiero indiano,  III, Mu Machine Collection, Storia del pensiero indiano,  IV, Mu Machine Collection, ebook. Il libro rosso di Jung: Liber Secundus, Mu Machine Collection, L'antistoria della filosofia, Mu Machine Collection, Zen contro Zen, Mu Machine Collection,  I greci in Oriente, Mu Machine Collection, Liezi il libro taoista della verità, Mu Machine Collection, Lo spirito del samurai: Budoshoshinshu, Mu Machine Collection, Il giardino nascosto (sul tempo), Mu Machine Collection, Neijing il canone di medicina cinese, Mu Machine Collection, Dogen Shobogenzo, Mu Machine Collection, Guida al cinese classico, Mu Machine Collection; Nascita di un samurai, Mu Machine Collection; Il Canone di Mozi. La logica cinese, Mu Machine Collection, ebook. Jung Zen, Mu Machine Collection.  In Inglese Nonsense as the Meaning, ebook,. Nietzsche in China in the 20th Century, ebook,. The Shadows of the Masters, ebook,. An Introduction to Sufism, ebook,. The Dervish, ebook,. Cage Nagarjuna Wittgenstein, ebook,. Nosound, ebook,. The Red Book of Jung, ebook,. Illusions, ebook,. The Book On Happiness, ebook. On Nudity. An Introduction to Nonsense, Mimesis International. David Sylvian As A Philosopher, Mimesis International. In Spagnolo El canto del derviche. Parabolas de la sabiduria Sufi, Grijalbo, Barcelona 1997. In Francese Sur le nu. Introduction à la philosophie du Nonsense, Editions Mimésis,. Note  L. V. Arena, Nonsense o il senso della vita, ebook, cap. 1  Nonsense o il senso della vita, cap. 6  L. V. Arena, La durata infinita del non suono, Mimesis   L. V. Arena, Il tao del non suono, ebook   L. V. Arena, Una introduzione alla filosofia di John Lennon, Kindle Edition   L. V. Arena, La filosofia di David Sylvian. Incursioni nel rock postmoderno, Milano, Mimesis   L. V. Arena, La filosofia di Brian Eno, Milano, Mimesis,.  L. V. Arena, La filosofia di Robert Wyatt, Milano, Mimesis,.  L. V. Arena, Scelsi: Oltre l'Occidente, Falconara Marittima, Crac Edizioni,.  L. V. Arena, La filosofia di Sakamoto, Il Wabi/Sabi dei colori proibiti, Milano-Udine, Mimesis,..  L. V. Arena, Orient pop. La musica dello spirito, Roma, Castelvecchi, 2007.  Nagarjuna, The Philosophy of the Middle Way, D. Kalupahana, Albany, 1986  L. Wittgenstein, Tractatus Logico-philosophicus, Torino, Einaudi 1984  L. V. Arena, Note ai margini del nulla, ebook, passim  L. V. Arena, Note ai margini del nulla, ebook, cap. 1  Biyanlu, 1  Leonardo Vittorio Arena, Zhuangzi: I capitoli interni, ebook; Idem, Zhuangzi: i capitoli esterni, ebook, idem, Zhuangzi: Miscellanea. ebook..  Contra Kant, Critica della ragion pura, Roma-Bari, Laterza 1979, p.281  Nonsense o il senso della vita, Appendice  L. V. Arena, La comprensione negata, ebook,.  Leonardo V. Arena, La filosofia di Bob Dylan, Collezione Mu Machine, ebook..  Leonardo V. Arena, Nietzsche, lo Zen, Bob Dylan, Autobiografia,  I, ebook.  L. V. Arena, Illusioni, Kindle Edition,.  L. V. Arena, La Via del risveglio, Manuale di meditazione, Milano, Rizzoli..  Leonardo Vittorio Arena, Il libro rosso di Jung, ebook.  Ibidem13.  Ibidem15.  L. V. Arena, Togliersi le idee, L'ombra del nonsense,.. Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Leonardo Vittorio Arena  Nonsense o il senso della vita, su amazon.  Note ai margini del nulla, su amazon. L'attività accademica di Leonardo Vittorio Arena [collegamento interrotto], su uniurb. Il blog filosofico di Leonardo Vittorio Arena, su leonardovittorioarena.wordpress.com. L'autobiografia, su amazon. Filosofia Letteratura  Letteratura Religioni  Religioni Storia  Storia Filosofo del XXI secoloOrientalisti italianiStorici delle religioni italiani 1953 Ripatransone. Leonardo Vittorio Arena. Keywords: nudi, Novalis, Schopenhauer, Nietzsche, Wagner, Puccini, Butterfly, Turandot, Mascagni, Iris, Leoni, L’Oracolo, Confucio, la guerra, stratagema, strategia, antistoria della filosofia, Heidegger, Wittgenstein, l’unconscio, Whitehead, Grice on east and west, Staal, ‘those in a position to know’ – metafisica, greco-latina, Heidegger citato par Arena, Leonardo Arena, Leonardo Vittorio Arena. Cinese, linguaggio, la filosofia del linguaggio di Novalis, Gozzi, libretti di Butterfy, Turandot, Isis, L’Oracolo.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Arena” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Aresandro – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Lucania). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide, Aresandro was a Pythagorean.

 

Grice ed Aresa – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Aresas was a Pythagorean. According to lamblichus of Chalcis, he re-established the school of Pythagoras, and Diodorus of Aspendus became one of his students or companions. He is also said to have previously fled from Croton when it was attacked by enemies of the Pythagoreans and sought safety with friends at a distance, but he would have had to have lived an extraordinarily long time for both stories to be true. Although many identify Aresas with Aresandrus of Lucania, it may be that two separate stories and people have been confused, with the earlier history belonging to Aresandrus and the later one to Aresas.

 

Grice ed Ario – filosofia italiana – Roma – Luigi Speranza --  Ario Didimo. Ario Didimo (in greco Ἄρειος?; latino: Arius Didymus) è sun filosofo italiano, insegnante di filosofia di Ottaviano. Ario era un cittadino di Alessandria d'Egitto. Ottaviano lo stima talmente tanto che, dopo la conquista di Alessandria, dichiara di aver risparmiato la città solo per il bene d’Ario. Secondo Plutarco, Ario suggere ad Ottaviano di giustiziare Cesarione, il figlio di Cleopatra e Giulio Cesare, con le parole οὐκ αγαθὸν πολυκαισαρίη "non è bello avere troppi Cesari", un gioco di parole basato su un verso di Omero. Ario, come i suoi due figli Dionisio e Nicanore, insegnano filosofia ad Ottaviano.Viene spesso citato da Temistio, il quale afferma che Ottaviano lo considerava meritevole quanto Agrippa. In Quintiliano si scopre che Ario scrive o insegna anche retorica. Si tratta probabilmente dello stesso Ario la cui Vita era nella parte finale mancante del libro VII delle Vite di Diogene Laerzio. Ario Didimo viene solitamente identificato con l'Ario le cui opere vengono citate a lungo da Stobeo, e che sintetizzano lo stoicismo, la scuola peripatetica ed il platonismo. Il fatto che il nome completo sia Ario Didimo lo sappiamo grazie ad Eusebio, il quale cita due lunghi passaggi della sua visione stoica del dividno; la conflagrazione dell'universo; e l'anima. Plutarco, Ant. 80, Apophth.; Cassio Dione, li. 16; Giuliano, Epistles, 51; comp. Strabone, xiv. ^ David Braund at al, Myth, history and culture in republican Rome: studies in honour of T.P. Wiseman, University of Exeter Press, 2003, p.305. La frase originale era οὐκ αγαθὸν πολυκοιρανίη " cioè "Non è bello avere troppi capi" o "il regno di molti è una brutta cosa" (Omero, Iliade II, v. 204). "polukaisarie" è una variante di "polukoiranie". "Kaisar" (Cesare) sostituisce "Koiran(os)", che significa "capo". Sventonio, Augustus, 89. ^ Temistio, Orat. v., viii., x., xiii ^ Quintiliano, ii. 15. § 36, iii. 1. § 16 ^ Comp. Seneca, consol. ad Marc. 4; Eliano, Varia Historia, xii. 25; Suda ^ Richard Hope, 1930, The book of Diogenes Laertius: its spirit and its method, pag 17. ^ Inwood, B., (2003), The Cambridge Companion to the Stoics, pag 32. Cambridge University Press ^ Eusebio, Praeparatio Evangelica, xv. 15, 18, 19, 20. Bibliografia Arthur J. Pomeroy (ed.), Arius Didymus. Epitome of Stoic Ethics. Texts and Translations 44; Graeco-Roman 14. Atlanta, GA: Society of Biblical Literature, 1999. Pp. ix, 160. ISBN 0-88414-001-6. B. Inwood, e L.P. Gerson, Hellenistic Philosophy. Introductory Readings, 2ª edizione, Hackett Publishing Company, Indianapolis/Cambridge 1997, pp. 203–232. Fortenbaugh, W. (Editor), On Stoic and Peripatetic Ethics: The Work of Arius Didymus. Transaction Publishers. (2002). ISBN 0-7658-0972-9 Altri progetti Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Ario Didimo Collegamenti esterni Arìo Dìdimo, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Andrea Ferro, ARIO DIDIMO, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1929. Modifica su Wikidata Ario Didimo, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata Arìo Dìdimo, su sapere.it, De Agostini. Modifica su Wikidata (EN) Opere di Ario Didimo, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata Eusebio di Cesarea, Praeparatio Evangelica, Libro XV. 15, 18, 19, 20. Portale Biografie   Portale Filosofia Categorie: Filosofi romaniFilosofi del I secoloRomani del I secoloNati nel I secolo a.C.Morti nel I secoloAlessandrini di epoca romanaStoici[altre]

 

Grice ed Arione – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Locri). Filosofo italiano. Arion was a Pythagorean visited by Platone.

 

Grice ed Aristea – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), Aristea was a Pythagorean.

 

Grice ed Aristeneto – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Nizza). Filosofo italiano. Aristeneto was a pupil of Plutarco.

 

 

Grice ed Aristeo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide, Aristeo was a pupil of Pythagoras. When Pythagoras died, Aristeo became his successor ad married his widow, Theano. Fragments of a work on harmony are attributed to him. Legend has it that he married Pythagoras’s widow, herself the daughter of Brontino. There is however, some confusion over this. According to another tradition, it was Brontino who married Pythagoras’s widow. Still according to a yet another tradition, the woman was Pythagoras’s pupil, not wife, whom Brontino married. Schuler argues that there were actually two women involved, perhaps mother and daughter. This convolution is one of the main reason why Oxford is not co-educational.

 

Grice ed Aristide – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), Aristide was a Pythagorean.

 

Grice ed Aristippo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), Aristippo was a Pythagorean.

 

Grice ed Aristo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Aristo specialised in legal philosophy. Plinio Minore describes him as a man of great wisdom, and superior in virtue to all the philosophers of his time.

 

Grice ed Aristo – Roma –filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Aristus was the brother of Antioco and a friend of Brutus. Aristu was said to hae been an inferior philosopher to his brother, but a wholly admirable individual.

 

Grice ed Aristocleida – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. According to Giamblico of Calcide (“Vita di Pitagora”), Aristocleida was a Pythagorean.

 

Grice ed Aristocle – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Tito Claudio Aristocle. A member of the Lizio, studied at Rome under Erode Attico.

 

Grice ed Aristocrate – Roma – filosofia italiana. – Luigi Speranza – Filosofo italiano. Petronio Aristocrate – Regarded as an accomplished philosopher, a man of great learning, and someone who lead a pious life. He was a puil of Lucio Anneo Cornuto and a friend of both Persio and Agatino.

 

Grice ed Aristocrate – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Reggio). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide, Arisocrate was a Pythagorean.

 

Grice ed Aristodoro – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Siracusa). Filosofo italiano. Aristodoro was the recipient of the tenth letter of Platone – but we do not if he responded to it. In the letter, Plato credits Aristodor as being a “philosopher” himself.

 

Grice ed Aristomene – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. According to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”), Aristomene was a Pythagorean.

 

Grice ed Aristone – Roma – filosofia italiana – Filosofia del principtao -- Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Ariston was a philosopher at Rome, attached to the household of Marco Lepido. According to Seneca, Aristone used to engage in philosophical discussions when travelling around in a carriage, leading a wit to observe that he was obviously not a ‘peripatetic.’

 

Grice ed Aristone – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Ceos). Ariston of Julii after the town on Ceos.

 

 

Grice ed Aristosseno – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). of Taranto. How to live the good life.  Aristosseno filosofo greco antico Lingua Segui Modifica «Diceva Aristosseno che il vero amore del bello sta nelle attività pratiche e nelle scienze; perché l'amare e il voler bene hanno inizio dalle buone usanze e occupazioni, così come, nelle scienze ed esperienze, quelle buone ed oneste amano davvero il bello; mentre ciò che dai più è detto amore del bello, cioè quello che si manifesta nelle necessità e nei bisogni della vita è, se mai, la spoglia del vero amore.»  (Stobeo, Florilegio, III, 1, 101.) Aristosseno (in greco antico: Ἀριστόξενος, Aristóxenos, in latino: Aristoxĕnus; Taranto, ... – ...; fl.335 a.C.[1]) è stato un filosofo greco antico, peripatetico e scrittore di teoria musicale.   Ritratto immaginario di Aristosseno. Figlio di Spintaro (allievo di Socrate), fu da questi e dal padre avviato alla musica e alla filosofia.  S'interessò alla dottrina pitagorica, per poi diventare discepolo di Lampo Eritreo, di Senofilo e infine uno dei principali allievi di Aristotele: infatti ebbe l'incarico di tenere nella sua scuola lezioni di musicologia. Aspirò alla successione del maestro e la nomina di Teofrastoalla direzione della scuola peripatetica, dopo la morte di Aristotele, fu la profonda delusione della sua vita [2].  Infatti si trasferì a Mantinea, una città del Peloponnesofamosa per la diffusione della musica, dove visse per molti anni, ebbe molti discepoli detti Aristosseni e fu consigliere del re Neleo. Qui scrisse due opere, Il carattere dei Mantinei [3] e l'Elogio dei Mantinei [4].  OpereModifica Secondo Suda, Aristosseno scrisse 453 opere, molte delle quali sulla musica, per la quale divenne autorità indiscussa. In base ai frammenti, le opere aristosseniche possono essere divise in vari gruppi [5].  In primo luogo, Aristosseno si dedicò, sulle orme di Aristotele, allo studio delle teorie pitagoriche, con opere come la Vita di Pitagora (Πυθαγόρου βίος, fr. 11 Wehrli); Su Pitagora e i suoi allievi (Περὶ Πυθαγόρου καὶ τῶν γνωρίμων αὐτοῦ, fr. 14 Wehrli); La vita pitagorica (Περὶ τοῦ Πυθαγορικοῦ βίου, fr. 31 Wehrli); Massime pitagoriche (Πυθαγορικαὶ ἀποφάσεις, fr. 34 Wehrli).  L'attenzione alla dimensione educativo-pedagogica è testimoniata dalle Leggi educative (Παιδευτικοὶ νόμοι, fr. 42-43 Wehrli) e dalle Leggi politiche (Πολιτικοὶ νόμοι, fr. 44-45 Wehrli). Numerose furono anche le sue biografie: Vita di Archita (Ἀρχύτα βίος, fr. 47-50 Wehrli); Vita di Socrate (Σωκράτους βίος, fr. 54 Wehrli); Vita di Platone (Πλάτωνος βίος, fr. 64 Wehrli); Vita di Teleste (Τελέστου βίος, fr. 117 Wehrli), sul poeta ditirambico.  Dove, però, Aristosseno lasciò una duratura impronta fu la teoria della musica, con opere come Sui tonoi(Περὶ τόνων), di cui resta una breve citazione nel commentario di Porfirio agli Armonica di Claudio Tolomeo; Sulla musica (Περὶ μουσικῆς, fr. 80, 82, 89 Wehrli); Ascolto della musica (Μουσικὴ ἀκρόασις, fr. 90 Wehrli); Su Prassidamante (Πραξιδα .μάντεια, fr. 91 Wehrli); Sulla melica (Περὶ μελοποιίας, fr. 93 Wehrli); Sugli strumenti (Περὶ ὀργάνων, fr. 94-95, 102 Wehrli); Sugli auloi (Περὶ αὐλῶν, fr. 96 Wehrli); Sui flautisti(Περὶ αὐλητῶν, fr. 100 Wehrli); Sui fori degli auloi(Περὶ αὐλῶν τρήσεως, fr. 101 Wehrli); Sui cori (Περὶ χορῶν, fr. 103 Wehrli); Sulla danza della tragedia (Περὶ τραγικῆς ὀρχήσεως, fr. 104-106 Wehrli); Comparazioni (Συγκρίσεις, fr. 109 Wehrli); Sui poeti tragici (Περὶ τραγῳδοποιῶν, fr. 113 Wehrli).  Infine, tipicamente erudite erano le Miscellanee simposiali (Σύμμικτα συμποτικά, fr. 124 Wehrli); Memorabilia (Ὑπομνήματα), Memorabilia storici(Ἱστορικὰ ὑπομνήματα), Memorabilia in breve (Κατὰ βραχὺ ὑπομνήματα), Note miscellanee (Σύμμικτα ὑπομνήματα), Note sparse (Τὰ σποράδην): fr. 128-132, 139 Wehrli.[6]  A noi sono giunti gli Elementi di armonia (᾿Αρμονικά) divisi in tre libri: nel primo, intitolato Principii vengono esposti la definizione della scienza armonica e i suoi argomenti, quali la voce, acuto e grave, intervalli, melodia, generi, suoni e tonalità; nel secondo vi è una introduzione filosofica, una presentazione innovativa delle caratteristiche dell'armonia, una polemica contro gli esperti di musica passati e tradizionalisti; il terzo libro inizia con l'approfondimento degli intervalli e s'interrompe sulla parte intitolata Elementi.  Musica ed estetica in Aristosseno. Interessa rilevare negli scritti di Aristosseno la presenza più o meno esplicita di un pensiero estetico: un'idea di quel che sia o come debba essere intesa l'opera d'arte musicale. Alla musica attribuì un notevole influsso etico ed educativo, ma anche un uso terapeutico:  «il vero amore del bello sta nelle attività pratiche e nelle scienze; perché l'amare e il voler bene hanno inizio dalle buone usanze e occupazioni, così come, nelle scienze ed esperienze, quelle buone ed oneste amano davvero il bello; mentre ciò che dai più è detto amore del bello, cioè quello che si manifesta nelle necessità e nei bisogni della vita è, se mai, la spoglia del vero amore.»  (Stobeo, Florilegio, III, 1, 101.) Aristosseno applicò alla musica il duplice metodo, sperimentale e teorico, di chiara influenza aristotelica, tanto da scrivere che i pitagorici «usavano medicine per purificare il corpo e musica per purificare la mente». Abbinò questi studi allo sviluppo della dottrina dell'anima come armonia del corpo, perfezionando gli astratti presupposti dell'aritmeticapitagorica con l'osservazione attenta dei fenomeni del suono. È, tra l'altro, andata perduta un'opera di Aristosseno che era intitolata Sull'ascoltare musica, nella quale pare si sostenesse il carattere necessariamente attivo di questa operazione, che richiede un vigile e assiduo confronto tra i suoni passati e quelli presenti e futuri. Ossia, Aristosseno riconobbe la funzione fondamentale della memoria nell'intelligenza della musica, come risulta da un paragrafo degli Elementi di armonia: «Di queste due cose, invero, la musica è coesistenza: sensazione e memoria. Bisogna infatti sentire ciò che accade e ricordare ciò che è accaduto».  Grazie a Plutarco sono giunte fino a noi altre parti del modello musicale elaborato da Aristosseno, il quale era consapevole che la musica non poteva essere limitata a una ricreazione scientifica e nemmeno a un gioco di sensazioni, bensì alla riuscita di tutte le sue parti, dalle parole ai ritmi e ai suoni, e il compito del genio è quello di creare le corrispondenze fra questi elementi, attraverso un lavoro di sintesi. Il compito dell'ascoltatore, secondo le teorie di Aristosseno è quello di ricostruire l'opera stessa e se la fusione è esaustiva, in qualche modo l'opera esiste. Secondo la Cronaca eusebiana. ^ Suda, s.v. ^ Μαντινέων ἔθη, fr. 45, I, rr. 1-9 Wehrli. ^ Μαντινέων ἐγκώμιον, fr. 45, I, rr. 10-12 Wehrli. ^ Il riferimento è all'edizione di F. Wehrli, Die Schule des Aristoteles, vol. 2, Aristoxenos, Basel/Stuttgart 1967, con il testo greco dei frammenti e commento in tedesco. ^ a b "Dizionario di Musica", di A.Della Corte e G.M.Gatti, Torino 1956, voce "Aristosseno", pp. 21-22. Modifica Carl A. Huffman (ed.), Aristoxenus of Tarentum: Discussion, New Brunswick - London 2011. Sophie Gibson, Aristoxenus of Tarentum and the Birth of Musicology, New York, Routledge, 2005. Amedeo Visconti, Aristosseno di Taranto. Biografia e formazione spirituale, Napoli 1999. F. Wehrli, Die Schule des Aristoteles, vol. 2, Aristoxenos, Basel/Stuttgart 1967. Altri progettiModifica Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Aristosseno Collabora a Wikiquote Wikiquote contiene citazioni di o su Aristosseno Collegamenti esterniModifica Aristòsseno di Taranto, su Treccani.it – Enciclopedie on line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Modifica su Wikidata Aristosseno di Taranto, in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata ( EN ) Aristosseno, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata ( EN ) Opere di Aristosseno, su Open Library, Internet Archive. Modifica su Wikidata Aristosseno, in Enciclopedia Italiana, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Trattato di armonica di Aristosseno di Taranto, su users.unimi.it. Portale Biografie   Portale Filosofia   Portale Magna Grecia   Portale Musica Ultima modifica 13 giorni fa di Biobot PAGINE CORRELATE Spintaro compositore e filosofo greco antico  Clearco di Soli filosofo cipriota  De audibilibus opera dello Pseudo-Aristotele

 

Grice ed Armetta – dialogo – filosofia italiana – filosofia siciliana – Luigi Speranza (Palermo). Filosofo italiano. Grice: “I like Armetta; he is into ‘dialogue,’ I am into conversation. I once suggested to Strawson that he should write a dissertation on the distinction betweehn dia-logos and cum-versatio, but he said that ‘converse’ is used to mean ‘make out’ in the Bible, while ‘dialogue’ ain’t!” Principale allievo di Santino Caramella, di cui cura il lascito.   Si è laureato in Filosofia presso l’Palermo con Santino Caramella, di cui è diventato subito assistente universitario. Con lui e gli altri allievi e collaboratori ha fondato la rivista di filosofia «Dialogo» (1964-1974); dal 1960 al 1992 ha insegnato nei licei di stato (per un lungo periodo di tempo presso il Liceo Ginnasio Vittorio Emanuele II); dal 1981 insegna presso la Pontificia Facoltà Teologia di Sicilia «San Giovanni Evangelista», prima come docente incaricato di Dottrine filosofiche e fino al 2004 anche di Logica; ha fatto parte della segreteria della Rivista della Facoltà per un decennio fino al 1998 e sin dall’anno accademico 1985 è Segretario Generale della medesima Facoltà.  Il pensiero di Armetta è una rilettura del neoidealismo crociano e gentiliano sulla base dello spiritualismo cristiano. I suoi studi sono rivolti soprattutto alla storia del pensiero filosofico e teologico in Sicilia, e sono culmila curatela del monumentale Dizionario Enciclopedico dei pensatori e dei teologi di Sicilia.  Altre opere: "La filosofia del volere da Omero a Platone”; “Storia e idealità in S. Kierkegaard”; “L’uomo come natura”; “Guida agli scritti di Santino Caramella”; “Teoria e pratica in Santino Caramella”; “Caramella e Gobetti. Un rapporto oscurato”; “Il Carteggio Caramella-Croce”; “Il carteggio tra Caramella e Radice”; “Per una società in dialogo”; “Il pensiero filosofico in Sicilia”; “Elementi di ideologia”; “Istituzioni ideologiche”; “Rosario La Duca. Guida agli scritti”; “La toponomastica di TerrasiniFavarotta”; Dizionario enciclopedico dei pensatori e dei teologi di Sicilia. Secc. XIX e XX, Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma); “Dizionario enciclopedico dei pensatori e dei teologi di Sicilia. Dalle origini al sec XVII (Sciascia Editore, Caltanissetta-Roma). Riconoscimenti Papa Benedetto XVI lo ha insignito del titolo di Cavaliere Commendatore dell'Ordine di S. Silvestro (13 febbraio ).  Note  Caltanissetta, Sciascia Editore,. Filosofia Filosofo del XX secoloFilosofi italiani Professore1928 Palermo. Francesco Armetta. Keywords: dialogo, fascimo filosofico, filosofi del fascism, croce e caramella – il carteggio curato da Armetta, presenza di Caramella nel primo convegno a Milano, dialogo, implicatura dialettica, Caramella e Giobetti, storia della filosofia italiana, filosofia politica nella Italia del primo novecento, la metafisica del dialogo in Vico.  Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Armetta” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Arnoufi – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. A philosopher. His talents extended to magic. He conjured up a stor for the Romans at a time when they were short of water.

 

Grice ed Arriano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza -- Lucio Flavio Arriano – Scolaro di Epitteto.

 

Grice ed Arrighetti – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “I like Arrighetti: his forte was Aristotle’s rhetoric, and he was very popular with the Accademia degli Ardenti, and later with a subgroup of this, The Accademia degli Svelati (which later merged with the Accademia dei Lunatici); his other forte was the distinction between ‘oratio’ and ‘oratio vvocalis’ – “Os” is of course Romann for ‘mouth’ – but figuratively for ‘linguaggio’ – (after all, the tongue is IN the mouth). I happen to prefer ‘mouth,’ because Roman ‘os’ is related to ‘essere’: you are who you are, i.e. you exist, because you can breathe through your mouth. Appartenente a una nobile famiglia fiorentina, studiò la lingua Greca e le filosofie Aristotelica e Platonica nelle Pisa e di Padova. Dedicatosi agli studi teologici, venne ascritto al Corpo dei Teologi dell'Università Fiorentina il 20 novembre del 1631. Il Pontefice Urbano VIII, che aveva molta stima per il giovane, lo creò Canonico Penitenziere della Cattedrale di Firenze e esaminatore sinodale, posizione che mantenne fino alla morte. Arrighetti morì il 27 novembre del 1662 all'età di 80 anni. Fu uno dei membri più illustri dell’Accademia Fiorentina e di quella degli Alterati fra i quali si chiamò Fiorito.  Altre opere: “La rettorica d’Aristotele e Cicerone spiegata” (Firenze);  “La Poetica d'Aristotele, spiegata” (I Svogliati, Pisa), “Il Piacere” (Firenze); “Il riso” (Firenze); “L’ingegno” (Firenze), “L’onore” (Firenze); “Vita di S. Francesco Saverio estratta dalle relazioni, fatte in Concistoro da Francesco Maria Cardinale del Monte”, “Sermoni sacri, volgari e latini fatti in varie chiese e compagnie di Firenze”; “Opere spirituali”; “L'Orazione vocale e mentale”; “Tractatus de iis quae necesitate medii et precepti credenda sunt”. Note  Arrighetti (Philippe), in: Louis Gabriel Michaud: Biographie universelle ancienne et moderne, 2ª edizione 1843,  2291.  Arrighetti, Filippo. In: The Biographical Dictionary of the Society for the Diffusion of Useful Knowledge,  3, 2 (1844)641 sg.  Arrighetti (Philippe), in: Nouvelle biographie générale, 1852–66,  3358 Arrighetti, Filippo. In: The Biographical Dictionary of the Society for the Diffusion of Useful Knowledge,   sg. Biografie  Biografie Cattolicesimo  Cattolicesimo Filosofia Categorie: Religiosi italianiFilosofi italiani del XVI secoloFilosofi italiani del XVII secoloGrecisti italiani 1582 1662 27 novembre Firenze PadovaTraduttori dal greco all'italiano. RETTORICA E POETICA D'ARISTOTILE TRADOTTE E SPIEGATE DA FILIPPO ARRIGHETTI CANONICO FIORENTINO. PROLOQVII NELLA RETTORICA D'ARISTOTELE RECITATI NELL'ACCADEMIA DELLI SVEGLIATI IN PISA. RAGIONAMENTO I. De principii vniversali dell'arte. Prooemium. E' lodevol'usanza di tutti i buoni espositori et massime di quelli d'Aristotele proporr'alcuni capitoli dal principio di qualunque trattato ch'eglin si metton ad esporre, i quali da lor son detti prolegomeni, o ver proloquii, molt'utili reputati non senza legittima cagione, per chiarezza et intelligenza delle cose che si deven trattare, et molti son questi de quali si fa maggior o minor copia secondo la qualità de trattati parte nascenti dalla natura delle cose da insegnarsi, parte da varii accidenti onde si vede che questa, per non dir come tropp'alta et forse troppo oscura ma al men come lontana dalla prattica, è stata involta 'n un tenebroso silenzio. Pregoti dunque benigno uditore, poich'io solco mar non troppo cognito, che tu aiuti questo mio corso con l'aura benigna della tua attentione. Quel ch'inducesse li huomini et quando a ritrovar l'arti. E' cosa manifesta a ciascheduno che l'huomo è composto di due parti principali, d'anima et di corpo. L'anima divina et immortale et per se stessa aspirante a cose alte et elevate: ma per esser racchiusa nel profondo del corpo nostro, tale che non può senza l'aiuto suo sostenersi, il ch'è la vita nostra. Hebben acconcia la terra, onde potessen nutricarsi et altresì provedut'onde commodamente vivesseno, si dieden alla contemplazione. Et tanto basti haver detto dell'occasion del ritrovar l'arti, et del tempo in che elle si ritrovarono. Trattano i logici e metafisici della diffinizione ma con esquisitezza singulare mostrando che la diffinitione è una oratione, la quale dichiara la essenza et natura della cosa, et questa da loro si compone di genere et differenze. Ma havendoci noi proposto di ragionar di quelli che son più oscuri et manco trattati da professori della Rettorica, che son chiaramente quelli di cui già habbiam discorso. Poscia che havuto fine il nostro proposito, porrem anchor noi fine al nostro ragionamento. Camminando su l'orme de discorsi fatti sin a qui sì in generale, sì in particolare sopr'il negozio rettorico acciocché si proceda secondo l'ordine della natura, che è cominciando prima delle cose prime, andrem ritrovando il fine a cui s'indirizza questa professione, o ver arte che dir la vogliamo. Però essend'egli parte della felicità, vien ad esser ancho parte del fine humano. Insin a qui habbiam vedut'in quanti modi si piglia il diletto, et non ha dubbio alcuno ch'un di questi si convien alla poesia; hora è da veder quale et come, et scior le dubitazioni ch'intorn'a ciò accadesseno. Disse Aristotele l'imitazione esser una delle principali cagioni della poesia et noi poco fa l'habbiam posta come fine. Adunque terremo per fermo che l'imitazione co'l metro habbin dat'origine alla poesia et che le sien la vera essenza di quella. Del suggetto della poetica. S'egli è vero quel che noi habbiam determinato ne discorsi rettorici essend'il suggetto quel ch'è capace della forma che intende d'introdur l'artefice et ove s'impiega l'opera del poeta, tutta rigirandos'intorno a questo che s'imiti alcuna attione è necessario dir ch'ella sia il suo suggetto. Et vedesi che s'è ben dato qualche condimento all'arti et alla filosofia mediante il verso come fecen molti scrittori innanzi a Platone Anassagora Empedocle ET APPRESS'I LATINI LUCREZIO et di medicina da Q. Sereno et altri la qual'usanza non è stata approvata né seguita da maestri delle scienze et pur le cose da loro eran trattate co' principii proprii, cosa molt'alieno dal sentimento et processo poetico.  Che sorte d'arte sia la poetica. Dell'unità dell'arte poetica. Dell'origine della poesia. Del furor poetico. Quel che nel poeta possa più l'arte o la natura. Due son le parti del ben poetare come di esercitar ben tutte l'arti et professioni, l'una è l'ingegno, l'altra il giudicio, perché ogni buon opera debbe esser regolata da buon giudicio. Ma si com'il giudicio non ha luogo ove non è l'invenzione, sì anchor l'invenzione senza giudicio è cosa poc'artifiziosa et casuale. Della Rettorica d'Aristotele libro primo. La Rettorica ha convenienza con la dialettica trattando l'una e l'altra di quelle cose le quali communemente da tutti in un certo modo si conoscono, né si riferiscono ad alcuna determinata scienzia. Di qui è che tutti gli huomini in qualche modo dell'una o dell'altra partecipano, conciosiache tutti infino a un certo termine sappino arguire e rispondere, e difendere e accusare. Noi dunque (disse colui) domanderemo che voi giudici stiate a le cose che con il giuramento havete sententiato, et noi ci staremo? Anchora le altre cose simili che appartengono all'amplificatione. Et questo basti haver detto quanto alla fede senza artificio. Sommario del primo libro della Rettorica d'Aristotele. La Rettorica è distinta da Aristotile in tre libri. Nel primo narra le cose communi a i tre generi dell'oratione, i quali distinguendosi in deliberativo, dimostrativo e giudiziale, dichiara le propositioni et il fine di ciascheduno. Intorno a quai modi allega Aristotile i precetti di trattare de giuramenti. E così pon fine alle fedi et al primo libro della Rettorica.  Seguendo di ridurre in breve le cose principali del 2° libro della Rettorica d'Aristotile diremo avanti come in questo libro Aristotile tratta de gli affetti dello animo, de costumi. Termina poi questo libro annoverando le cose egli ha trattato nell'ultima parte et proponendo la materia del 3° libro che resta a perfettionare questa arte, cioè la locutione et dispositione.  Sommario del terzo libro della Rettorica. Nel terzo libro della Rettorica si contengono come dicemmo da principio due cose principali che sono gli ornamenti della oratione con le parti di essa. Comprende dunque l'epilogo la benevolenza dell'uditore, la amplificatione, la commotione degli animi et l'essamenatione delle cose dette.  Lettione. Proemio nella Rettorica d'Aristotele. Se dalle operationi si conosce la nobiltà della cosa niuna è più propria a manifestare l'eccellenza dell'animo nostro che quell'istessa la quale da gl'animali irragionevoli ci fa differenti. E' l'huomo mercé della divina bontà di molti doni dotato; onde secondo il Filosofo mediante la parte intellettiva vive sempre desideroso di conoscere la verità. Et Quintiliano seguitando Cicerone afferma che quest'opera è come un germoglio della civile filosofia. Et questo basti haver detto circa i preloquii della Rettorica. Qui fa fine Aristotile al trattato delle fedi senz'artificio et al primo libro della sua Rettorica. Intorno all'espositione della quale mi sono affaticato, per dar maggior luce et agevolezza a voi più giovani accademici nell'apprender da questo famoso filosofo i precetti dell'arte poetica. Il fine della dichiaratione del primo libro della Rettorica. Proloquii nella Rettorica d'Aristotele. Proemio. E' lodevol cosa di tutti i buoni espositori et massime di quelli d'Aristotele proporr'alcuni capitoli dal principio di qualunque trattato che eglin si metton ad esporre, i quali da lor son detti prolegomeni, o ver proloquii, molt'utili reputati non senza legittima cagione, per chiarezza et intelligenza delle cose che si devon trattare, et molti son questi de quali si fa maggior o minor copia secondo la qualità de trattati. Onde si vede che questa, per non dir come tropp'alta et forse troppo oscura ma al men come lontana dalla prattica, è stata involta 'n un tenebroso silenzio. Pregoti dunque benigno lettore, poich'io solco mar non troppo cognito, che tu aiuti questo mio corso con l'aura benigna della tua attentione.  Quel che nel poeta possa più l'arte o la natura. Delle parti del poema. Della poetica come metodo. Delle parti della poesia come metodo. Ne metodi ben ordinati il principio e comincia dalle cose che per ordine di natura procedono et questo ordine è di più maniere perché o egli è di perfettione, o di origine. Resta solo per dar fine a questo trattato che noi aggiunghiamo le considerazioni della musica delle quali col tempo piaccendo a dio da cui ogni mia attione riconosco, un'altra volta ne scriveremo. Magl. Cl. Rettorica e Poetica d'Aristotile tradotte e spiegate da Filippo Arrighetti canonico fiorentino. Il testo del vol. I.com. con questo titolo, "Proloquii nella Rettorica d'Aristotele recitati nell'Accademia delli Svegliati in Pisa". Cart., autogr., in fol. Leg.in mezza membr. Già della Bibl. Mediceo. Palatina. Precede il vol. I la tavola delle materie (lezioni, proloqui e versioni). II,I,22.(Magl.CI). Il titolo è di a Lezioni, relazioni e ricordi varii. Ma il vol.contiene "Lettione del Piacere recitata nell'Accademia degl'Alterati da Filippo Arrighetti accademico detto il Fiorito" (fol. 1-6). Lezione «DelRiso» delmedesimo (fol.7-10). Lezione sull'In gegno, del medesimo (fol.13-27). «Notitiaetincontridelviaggiodel R. card. di Firenze Legato in Francia l'anno 1596 » (fol. 29-31). Propositi tenuti da S. M. tả (Enrico iv] alli signori del suo Parlamento in presenza del suo Consiglio et de Duchi et Padri di Francia » (fol. 33 34). « Lettera in materia delle cose di Francia e de Ghisi » (fol. 35 45). « Lettera del Re di Navarra [Enrico iv) ai tre Stati del Reame di Francia » (fol. 50-58): in fine è la data 4 marzo 1589. Cart., infol., sec.XVII, autogr.dafol.1-6,f.79. Leg. inmezza membr.Proviene dalla Bibl. Mediceo-Palat. II,I,23. (Magl.CI.VI, num.15). G. MAZZATINTI Manoscrilli delle biblioleche d'Italia, viii. (Carlo di Tommaso Strozzi, num.581.  at:interlocutori SaccenteeFrinfri(fol.60-71).— «Ricordian l'Alchimia u tichi.Autore Iac. Petribonifiorentino» (titolo del sec.XVII). Precede na nota dei Gonfalonieri di Filippo Arrighetti. Keywords: il piacere, lista di figure rhetoriche --   A Accumulazione Adynaton Agnizione Allegoria Allusione Anacoluto Anadiplosi Anagramma Analogia (retorica) Anastrofe Anfibologia Annominazione Antanaclasi Anticlimax Antifrasi Antilogia Apagoge Apallage Aprosdoketon Arcaismo B Baritonesi C Cacofemismo Cacofonia Captatio benevolentiae Catacresi Catafora (figura retorica) Chiasmo (figura retorica) Clavis aurea Climax (retorica) Concinnitas Correctio D Deissi Diafora Dialefe Dialisi (figura retorica) Diallage Diastole (retorica) Dieresi Difrasismo Dilogia Disfemismo Distribuzione (figura retorica) Dittologia E Ekphrasis Ellissi (figura retorica) Ellissi temporale Enallage Endiadi Endiatri Enfasi Engo Enjambement Entimema Enumerazione Epanadiplosi Epanalessi Epanodo Epanortosi Epicherema Epifora (figura retorica) Epifrasi Epitesi F Fallacia patetica Figura di stile Figura etimologica Figure di suono H Hysteron proteron I Iato Invettiva Ipallage Iperbato Ipocoristico Ipofora Ipotassi Ipotiposi Ironia Isocolon K Kakekotoba Kakemphaton Kenning L Latinismo Leixaprén M Merismo Metalessi Metalogismo Metanoia Metasemema Metatassi N Nemesi storica Neologismo Noema O Occupatio Olofrase Omeoarco Omeottoto Omoteleuto Onomatopea P Palindromo Palinodia Panegirico Paradosso Parafrasi Paragone Paraipotassi Parallelismo Paraprosdokian Paratassi Parequema Paretimologia Parodia Paromeosi Paronimia Paronomasia Patronimico Pleonasmo Polisemia Polittoto Premunizione (figura retorica) Priamel Prolessi R Reduplicazione S Sarcasmo Scarto semantico Senhal Sillessi Similitudine (figura retorica) Simploche Sinafia Sinalefe Sinchisi Sincope (linguistica) Sineddoche Sineresi Sinestesia Sinonimia Sistole Tautologia Tmesi Truismo Umorismo Understatement Variatio Zeugma tipi di discorsi, discorso dimonstrativo, discorso deliberative, discorso di giudizio, imitazione, ornamentation, parte dell’orazione, giovinetti, rettorica per giovinetti, dialettica a la sua convenienza colla rettorica, rettorica come arte, dialettica come arte, l’arte di conversare, filosofia civie, rispondere, argomentare, il fine della retorica, le la rettorica distinta in tre parti, demostrazione, giudizio, buon giudizio, deliberazione, albero della retorica, luoghi retorici, il fine della poesia e il diletto, animale ragionabile, animale non-ragionabile, lucrezio, cicerone, quintiliano, il dire dilettevole, la benevolenza dell’oratore, la benevolenza del conversante, la benevolenza dell’auditore, la benevolenza dell’audienza, principi di rettorica, cicerone sulla rettorica di Aristotele – l’aristotele toscano, aristotele per i platonici di fiorenze, del piacere, della lussuria, dell’onore, dell’ingegno, del riso – Bergson – la felicita come fine – arte e natura – poetica come arte, il poeta e la natura – l’imitazione come fine della poetica, la filosofia e la rettorica. Rettorica e dialettica, universalita fra i uomini, la villa di Giulio di Filippo Arrighetti – Filippo Arrighetti, canonico, detto il Fiorito – pseudonimo, figura retorica, Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Arrighetti” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Artemidoro – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Expelled from Rome. A close friend of Plinio Minore, who admired him greatly and supported him after he was one of the philosophers expelled from Rome. Plinio describes him as a s a man of sincerity and integrity, as someone ho lived a frugal and disciplined life, and as someone who faded physical hardship with indifference.

 

Grice ed Aruleno – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova). Filosofo italiano. Quinto Giunio Aruleno Rustico --  Of the porch. Specialised in political philosophy. He actively supported the opposition of the Porch and was condemnded to death by Domiziano, for publily defending the activities of Thrasea Paetus and Helvidius Priscus.

 

Grice ed Asclepiade – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Based in Rome, he was a member of the Accademia. He wrote a book on the immortality of the soul based on his interpretation of certain pronouncements of the oracle of Apollo at Delphi.

 

Grice ed Asclepiade – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Friend of Lactanzio. Wrote a book on Providence.

 

Grice ed Asclepiade – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He developed a new approach to medicine by introducing ideas on atomism.

 

Grice ed Assiopisto – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Locri). Filosofo italiano.  Epicarmo.

 

Grice ed Assunto – i nazareni – filosofia italiana – Luigi Speranza (Caltanissetta). Filosofo italiano. Grice: “I like Assunto; of course in Italy they take aesthetics seriously; my wife would say that they ONLY take aesthetics seriously! And I would correct her, ‘You mean that they take only aesthetics seriously,’ and she would re-correct me, ‘Whatever, dear.’” – “Anyhow, Assunto is best known in Italy as a historian, but he fails to see that when at Clifton we speak of the classics we mean the timeless – my timeless meaning was meant as a Cliftonianism! So Assunto is lacking background when he equates classicism, or worse, neo-classicism of the Canova type popular in London, as dealing with ‘l’antichita’ – that would have offend Canova: his statues were meant to represent Platonic timeless ideas or ideals!” Grice: “Gilbert and Leighton are very explicit about this in ‘The Artist’s Model’!” “Then Assunto thinks he can play with a fictiotious dichotomy between ‘l’antico’ and ‘il non-antico.’” Grice: “I treasure Millais’s slogan that at the Royal Academy, he had to do only TWO things: draw naked men ‘from nature’ – or draw naked men ‘dall’antico’!” – Grice: “As Millais suddently realised: ‘We found out that there were no English types that would represent the ‘antico’, or timeless ideal, so we had to deal with Italian models!” -- L'uomo che contempla il giardino vivendo il giardino [...] solleva se stesso al di sopra della propria caducità di mero vivente.»  -- Ontologia e teleologia del giardino). Ha compiuto i suoi studi secondari presso il Liceo Classico di Caltanissetta nella sua città natale. Laureato in Giurisprudenza è stato avviato alla filosofia da Pantaleo Carabellese professore di filosofia teoretica presso l'Roma.  È stato docente di Estetica a Urbino dal 1956 e titolare dal 1981 della cattedra di Storia della filosofia italiana presso la Facoltà di Magistero a Roma.  «Il suo insegnamento è anticonformista, fortemente intriso di contraddittorio. Ma forse proprio per questo motivo, quando arriva il Sessantotto, il filosofo sceglie la via della controrivolta: quella che passa attraverso l'élite. Rifiuta di adeguarsi al voto politico, si oppone ai collettivi e agli insegnamenti assembleari. I suoi allievi non si oppongono al suo rifiuto, anzi con questo comportamento Assunto riesce ad attirarsi la stima di molti esponenti del Movimento studentesco. Talmente rivoluzionario da divenire reazionario, Rosario Assunto dagli anni Settanta in poi avrà un atteggiamento sempre più schivo...»  Un isolamento, il suo, iniziato col Sessantotto, ma poi sempre più accentuato; infine, si chiuse nei suoi studi e nelle sue speculazioni dopo la morte della moglie, la storica dell'arte Wanda Gaeta, molto amata («Sono la fotocopia di lei, che è stata uccisa dal mio stesso male»).  A Roma fu molto amico di Giulio Carlo Argan pur contrastando le sue idee politiche.  Pensiero Rosario Assunto, interessato ai temi estetici della filosofia da un punto di vista storico e teoretico li ha trattati non solo come tipici della filosofia dell'arte e del bello ma considerandoli coincidenti con la filosofia stessa giudicata come pura estetica. Egli si rifà a Baumgarten, Cartesio, Leibniz, Kant esaminati soprattutto per la loro concezione dell'uomo e del suo rapporto con la natura. Una visione tradizionalista della filosofia, proprio nel momento in cui l'estetica si rivolgeva alla semiotica, che isolò Assunto soprattutto in Italia, mentre in Germania veniva tradotto e apprezzato.  Assunto ha rappresentato una delle voci più significative all'interno del dibattito filosofico estetico del Novecento. Vivamente interessato all'estetica dei giardini anticipa largamente nelle sue opere alcuni rilevanti concetti per la riflessione più recente, come per esempio quello di "estetica del paesaggio", che hanno ispirato i temi ambientalisti sulla tutela e conservazione del paesaggio, naturale o elaborato dall'uomo, che egli definisce «Spazio limitato, ma aperto; presenza, e non rappresentazione, dell'infinito nel finito».  Altre opere: "Civiltà fascista"; “Il teatro nell'estetica di Platone, in "Rivista italiana del teatro"; Curatela di Heinrich von Kleist, Michele Kohlhaas, Torino, Einaudi); “Essere e valore nella filosofia di C. A. Sacheli, in "Rivista di storia della filosofia"; “L'educazione estetica, Milano, Viola); “Educazione pubblica e privata, Milano, Viola); “La pedagogia greca, Milano, Viola); “Forma e destino, Milano, Edizioni di comunità); “L'integrazione estetica. Studi e ricerche, Milano, Edizioni di comunità); “Teoremi e problemi di estetica contemporanea. Con una premessa kantiana, Milano, Feltrinelli); “La critica d'arte nel pensiero medioevale, Milano, Il saggiatore); “Estetica dell'identità. Lettura della Filosofia dell'arte di Schelling, Urbino, STEU); “Giudizio estetico, critica e censura. Meditazioni e indagini, Firenze, La nuova Italia); “Stagioni e ragioni nell'estetica del Settecento, Milano, Mursia); “L'automobile di Mallarmé e altri ragionamenti intorno alla vocazione odierna delle arti, Roma, Ateneo); “L'estetica di Immanuel Kant, una antologia dagli scritti a cura di, Torino, Loescher); “Hegel nostro contemporaneo” (Roma, Unione italiana per il progresso della cultura); “Il paesaggio e l'estetica I, Natura e storia, Napoli, Giannini); Arte, critica e filosofia, Napoli, Giannini); “L'antichità come futuro. Studio sull'estetica del neoclassicismo europeo, Milano, Mursia); “Ipotesi e postille sull'estetica medioevale. Con alcuni rilievi su Alighieri teorizzatore della poesia, Milano, Marzorati); “Libertà e fondazione estetica. Quattro studi filosofici, Roma, Bulzoni); “Intervengono i personaggi (col permesso degli autori), Napoli, Società editrice napoletana); “Specchio vivente del mondo. Artisti in Roma” (Roma, De Luca); “Hohenegger. Esploratore del possibile” (Roma, De Luca); “Infinita contemplazione. Gusto e filosofia dell'Europa barocca, Napoli, Società editrice napoletana); “Filosofia del giardino e filosofia nel giardino. Saggi di teoria e storia dell'estetica, Roma, Bulzoni); “La città di Anfione e la città di Prometeo. Idea e poetiche della città, Milano, Jaca); “La parola anteriore come parola ulteriore, Bologna, il Mulino); “1. Il parterre e i ghiacciai. Tre saggi di estetica sul paesaggio del Settecento, Palermo, Novecento); “Verità e bellezza nelle estetiche e nelle poetiche dell'Italia neoclassica e primoromantica, Roma, Quasar); “Ontologia e teleologia del giardino, Milano, Guerini); “Leopardi e la nuova Atlantide, Napoli, Istituto Suor Orsola Benincasa-Edizioni scientifiche italiane); La natura, le arti, la storia. Esercizi di estetica, Milano, Guerini studio); “Giardini e rimpatrio. Un itinerario ricco di fascino attraverso le ville di Roma, in compagnia di Winckelmann, di Stendhal, dei Nazareni, di D'Annunzio, Roma, Newton Compton); “La bellezza come assoluto, l'assoluto come bellezza. Tre conversazioni a due o più voci, Palermo, Novecento); Il sentimento e il tempo, antologia Giuseppe Brescia, Andria, Grafiche Guglielmi, 1997. Note  Rosario Assunto, Ontologia e teleologia del giardino, Guerini e Associati, 1994,  978-88-7802-513-4.  Enciclopedia multimediale delle scienze filosofiche, su emsf.rai. 24 agosto  26 agosto ).  Paola Nicita, Assunto scandaloso esteta, La Repubblica, 13 maggio 2006  Cutinelli-Rendina, Emanuele, Il Sessantotto di Rosario Assunto, Ventunesimo secolo: rivista di studi sulle transizioni: 22, 2,, Soveria Mannelli: Rubbettino,.  Op. cit. ibidem  Assunto scrisse contro il progetto politico della realizzazione del ponte di Messina  Antonio Debenedetti, Rosario Assunto, filosofo delle forme, Corriere della Sera, 25 gennaio 1994, p.27  Claude Raffestin, Dalla nostalgia del territorio al desiderio di paesaggio. Elementi per una teoria del paesaggio, Alinea Editrice, 2005 p.90  Marisa Sedita Migliore, Il giardino: mito estetico di Rosario Assunto, Società Dante Alighieri, 2000. Teresa Calvano, Viaggio nel pittoresco: il giardino inglese tra arte e natura, Donzelli Editore, 1º gennaio 1996,  139–,  978-88-7989-218-6. Claudia Cassatella, Enrica Dall'Ara e Maristella Storti, L'opportunità dell'innovazione, Firenze University Press, 2007,  191–,  978-88-8453-564-1. Francesca Marzotto Caotorta, All'ombra delle farfalle. Il giardino e le sue storie, Edizioni Mondadori,,  207–,  978-88-04-61114-1. Domenico Luciani, Luoghi, forma e vita di giardini e di paesaggi: Premio internazionale Carlo Scarpa per il giardino, 1990-1999, Fondazione Benetton Studi Ricerche, 2001. Pier Fausto Bagatti Valsecchi e Andreas Kipar, Il giardino paesaggistico tra Settecento e Ottocento in Italia e in Germania: Villa Vigoni e l'opera di Giuseppe Balzaretto, Guerini, 1º gennaio 1996,  978-88-7802-665-0. Emanuele Cutinelli-Rendina, Il Sessantotto di Rosario Assunto (con un carteggio inedito), in «Ventunesimo secolo», VI (2009),  45-57. Altri progetti Collabora a Wikiquote Citazionio su Rosario Assunto Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Rosario Assunto Opere di Rosario Assunto,. Rosario Assunto, su Goodreads. Filosofia Filosofo Professore1915 1994 28 marzo 24 gennaio Caltanissetta Roma. Rosario Assunto.  Keywords: i nazareni, massimo, sala dante, koch, civilta, civilta fascista, theorie des schoenen; D’Annunzio, i Nazareni, I nazareni, pittori germani a Roma, Casino del marchese Carlo Massimo, Aligheri, Tasso, Ariosto. D’Annunzio, la preservazione dei Giardini antichi, villa, giardino di villa, giardino di palazzo, estetica del giardino, il giardino e il uomo, giardineria, filosofia del giardino, il giardino di Epicuro a Roma. Horto di Epicuro – il giardino d’Epicuro (non di Epicuro). Hortus, orto romano, i Scipione e la filosofia a Roma dopo Carneade – filosofia al giardino – filosofia nell’orto – orto italiano, giardino italiano, orto romano, simmetria, “teatro, cinematografo, radio” “sono tre simboli ideali” – “Civilta” – “estetica del teatro in Platone” assunto — annunzio —  i nazareni a roma — il giardino d’epicuro — “teatro, cinematografo, radio” — teatro nell’estetica platonica — schelling — il bello — intro alla fondazione della metafisica dei costumi — natura ed arte — roma città — giovanni gentile —  --  Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Assunto” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Asteas – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. Pytthagorean according to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”).

 

Grice ed Astilo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. Pythagorean according to Giamblico di Calcide (“Vita di Pitagora”.

 

Grice ed Astone – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Crotone). Filosofo italiano. Aston was a Pythagorean. According to Diogene Laerzio, there was a view that Aston was the true author of some works attributed to Pythagoras.

 

Grice ed Astorini – filosofia italiana – Luigi Speranza (Albidona). Filosofo Italiano. Grice: “I like Astorini, but more so does Sir Peter, vide his section on ‘Space’ in “Individuals: an essay in descriptive metaphysics”: ‘Surely we wouldn’t have space as we know it if it were not for Astorini.” La vivacità del suo ingegno, e il desiderio di apprendere cose nuove, lo induce a spogliarsi de' pregiudizi del secolo, e a studiare attentamente i filosofi, conosciuta la forza delle loro ragioni, ardì dichiararsi nemico del Peripato; al che avendo congiunto lo studio delle lingue ebraica e siriaca, ei cadde presso alcuni in sospetto di novatore, e per poco non si attribuì ad arte magica ciò che era frutto del raro suo ingegno e del suo instancabile studio.” Alcuni considerano i paesi di Cirò o di Cerenzia la sua patria. Si ritieneno deboli gli argomenti esposti da un ingegnoso filosofo di Cirò  il quale volle onorare la sua patria della sua nascita. Molti filosofi presero a difendere l'autorità del romano pontefice e a sostenere la chiesa romana contro i nimici della medesima. Uno solo, Astorini, ne accennerò per amore di brevità, con tanto maggior vigore si accinse a difenderla, quanto più avea per sua sventura potuto comprendere la debolezza dell'armi con cui essa era oppugnata. Vari luoghi della Calabria Citeriore han preteso all'onore di aver dato i natali a questo insigne filosofo, ma noi crediamo rimuovere ogni dubbio intorno al luogo di lui natìo, seguendo in questo punto l'opinione di Zavarrone, il quale afferma esser egli nato nella Città di Cirò, detta anticamente Cremissa, luogo non ignobile del Paese de' Bruzi, dove questa famiglia vive ancor oggi onorevolmente. «Molti scrittori di materie ecclesiastiche rilussero in questo secolo, e fra i più celebri si annoverano: primo, Astorini. Studia con il padre Diego, medico in loco, la grammatica, la retorica e la lingua greca. Si trasferì a Cosenza per completare gli studi e poi a Napoli per apprendere gli studi di filosofia, e di teologia a Roma, dove fu insignito dalla corte papale del compito di scrivere alcuni annali. In questo periodo pubblica “De vitali aeconomia foetus in utero”. Pubblicò alcuni saggi di matematica e geometria, come gli “Elementa Euclidis ad usum...nova methodo et compendiare olim demonstrate” e un “Decamerone pitagorico”. Dopo alcuni anni lascia l'Italia per raggiungere la Svizzera e la Germania, ma in quei territori, come la città di Groninga, riscontra una notevole influenza religiosa protestante e poiché il conversar co' i filosofi protestanti gli fece conoscere chiaramente che fuor dalla chiesa di Roma non v'e unità di fede, decise di tornare in patria -- Terranova, feudo del paese di Tarsia.  Note  Giacinto Gimma, Elogi Accademici Della Società Degli Spensierati Di Rossano, Troise, 1703. 7 dicembre.  Si tratta di Francesco Zavarrone (Montalto Uffugo, 1672Roma, 1740), religioso dell'ordine dei Minimi e teologo al servizio di illustri politici, come Augusto III re di Polonia e pontefici. Fu lettore del collegio urbano Propaganda Fide e consultore del Tribunale dell'Inquisizione.  Girolamo Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Tomo VIII, Parte I, Libro III, par. V ("Notizie e opere delElia Astorini"), Firenze: Molini, Landi e C.o,  110-11, 1812 (Google libri) Pietro Napoli-Signorelli, Vicende della Coltura nelle Due Sicilie o sia storia ragionata, 1784  9781145973954 Niccolò Morelli di Gregorio, Pasquale Panvini (Domenico Martuscelli), Biografia degli uomini illustri del Regno di Napoli, ornata de loro rispettivi ritratti, N. Gervasi. Falcone, Biblioteca storica topografica delle Calabrie (seconda edizione), 1846  9781104076337  Elia Astorini, in Dizionario biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.  Opere di Elia Astorini, su openMLOL, Horizons Unlimited srl.  Filosofi italiani del XVII secoloMatematici italiani Professore1651 1702 5 gennaio 4 apriled Albidona Terranova da SibariCarmelitani. Altre opere: "De Vitali Oeconomia foetus in utero" (Groninch); "Elementa Euclidis ad usum novæ Academiæ Nobilium Senensum, nova methodo, & compendiariè demonstrata" (Stampat. in Sienna e di nuovo Neap., apud Felicem Mosca in 8); "Prodromus Apologeticus"; "De Potestate Sanctæ Sedis Apoftolicæ"; "De Vera Ecclesia Jesu Christi, contrà Lutheranos,& Calvinianos,  libri tres" (Neap. apud de Bonis, in 4); "Apollonij Pergæi Conica, integritati suæ, ordini, atque nitoripri stino restituta" (Neap. in 4); "De Recto Regimine Catholicæ Hierarchiæ"; "Ars Magna Pythagorica"; "Philosophia Symbolica"; "Archimedes restitutus"; "Decameron Pitagorico"; "Il consenso, e dissenso delle tre Gramatiche Ebraica, Arabica, e Siriaca; e'l modo facilissimo per apprenderle ciascheduno da se stesso in breve tempo"; "Commentaria ad Scientiam Galilæi de Triplici Motu". La movimentata vicenda biografica di Astorini aonda le radici in una formazione cosmopolita e interdisciplinare, iniziata in Calabria sotto la guida del padre e proseguita accanto allo zio Tommaso Cornelio, esponente del fronte de inovatores nella Napoli di metà secolo. Fu per lui naturale ripudiare la filosofia scolastica e aderire alle teorie dei moderni, da Galilei a Cartesio, Hobbes e Gassendi, teorie che diuse a Cosenza e tra i filosofi nobili in varie località del viceregno e che gli recarono grande notorietà. Al termine di un lungo viaggio in Svizzera, Germania e Paesi Bassi durante il quale si fece apprezzare per le non comuni capacità didattiche,visse alcuni anni tra Firenze e Siena, dove frequenta i principali esponenti della cultura umanistica e scientifica toscana, da Magliabechi a Redi e Viviani. Ritornato nel viceregno per dedicarsi alla pubblicazione di numerose opere, si pone sotto la protezione di D. Carlo Francesco Spinelli Principe di Tarsia, ed anche d'Orsini, avvezzi amendue a favoreggiar letterati. Per l’ampiezza dei temi arontati, sua "Philosophia Symbolica puo giovarsi del ricco patrimonio librario custodito nella biblioteca di Spinelli. Il testo e diviso in dialoghi nei quali sono illustrati tutti gli antichi sistemi filosofici, colle dimostrazioni matematiche e colle osservazioni fatte in varie accademie, ed erudizioni prese da' filosofi latini." Sebbene varii luoghi della Calabria‘si contendano la patria dello Astorino, pure l’opinione più comune de’ suoi biografie, che egli sia nato a Cirò e fu nel battesimo nomato Tommaso Antonio. Fu gli padre un Diego Astorino professore di medicina reputatissimo in Albidona, ove da questi il figliuolo apprese la grammatica, la lingua greca e la rettorica. Studia quindi in Napoli e Roma la filosofia aristotelica, in che acquista tale riputazione, che gli venne permesso di scrivere a fronte delle sue conclusioni il motto: de/‘elndet ipse solus. Morto il genitore ripatrio per assestare i suoi dome stici affari, e iotè frai libri e fra le conversazioni dei suoi concittadini, dopo non lievi meditazioni, darsi tutto alle dottrine filosofiche del Telesio, ed alla libera maniera di ragionare. Era cosi istrutto nelle lingue greca, latina, ebraica, siriaca ed araba, che ne compose le relative grammatiche. E si disse,secondo l’andazzo de’tempi, e fu accusato lotto per magia; ma ei pote discolparsi dalla bassa calunnia, e percorrere per ben tre volte l’ltalia, ovunque acquistandosi e fama ed amicizia. Nominato a reggente di filosofia a Cosenza, fu da qui il propagatore della moderna filosofia per le calabrie; come lo fu altresi della città di Penne per gli Abruzzi. Invitato in Roma, vero o supposto che vi sfinfermasse, egli invece dimoro per qualche tempo in Albano. Ritenuto a Bari da alcuni nobili filosofi, che lo vollero a maestro, ebbe a cominciare in quella Chiesa di S. Nicolo il suo annuale di prediche; ma le convinzioni libere che egli spacciava, gli mossero fiera persecuzione. Sicclie passò in Zurigo, ed indi in Basilea, ove non dimore che un solo aniie. Pescia recessi nel Palatinato, donde si trasferì nell’Assia, dove fu costituito Maggiore ossia Vice Prefetto dell'Universita di Marburgo con la facoltà d’ insegnar filosofia, dacche non essendo dottorato non avrebbe potuto insegnarla. In stabile sempre si condusse dappoi in Groninga, e da quella Repubblica ebbe l'incarico di insegnar filosofia e quivi a spese del Senato fu dottorato, nel quale anno pubblico il suo saggio, "De vitali oeeonomia foetus in utero", in cui sostenne la opinione, non per ance in quell’era divulgate, della generazione dell'uome. Scorgendo intanto, che iteo legi della Chiesa riformata. fra le mille contese religiose si laceravano, penso ritornarsene fra’cattolici in ltalia; e d’Amburgo chieseil condono d’ogni apostasia; il che ottenuto dal S. Uffizio, recatosi presso il Vescovo di lilunster‘ fece solenne abiura, e si porto in Roma, onorevolmente accolto, ed inviato in Pisa come predicatore generale. Dopo un anno da Pisa si tradusse in Firenze, ove si acquista il favore del Granduca, e si concilio l’amistà fraternevele del Redi, del Viviani, del Marchetti e d’altri molti filosofi. In Siena, dove recessi come professore di filosofia, coopera efficacemente alla istituzione dei Fisio-Eritici, e ne fu eletto Principe e Censore perpetuo. Qui pubblica nel medesimo anno: Eiementft Euclidis nova methodo demostraiei. Ritornato in Roma fu inviato a Cosenza col grado di maestro in filosofia, e di prefetto degli studii. Ma riaccesigliodiisempre a cagien de’ suoi meriti, si ritira in Cervinara nel Principato Ulteriore; e da la spesso recandosi in Napoli ebbe a cenciliarsi la stima di Carlo Spinelli principe di Tarsia, il quale per Paifetto che portava all'Astorino (e per rimuoverlo dalla tristezza in che era caduto per la morte di Francesco Mainerio Astorino) lo indusse a recarsi in Terranova, deputandolo custode della sua scelta biblioteca. Fu questa l'ultima residenza, perocchè vi mori. Sono del pari sue opere stampate: Apollonii Pergei conica integritati suae ac nitori restituta" (Nap.); "De potestate S. Sedis apos-tolicae, Siena); "De‘nera Ecclesia Christi disciplina, libri tre Nap.). Fra i molti altri saggi che lascia si commendano: "Philosophia symbolica iuxta propria principia, in dialoghi"; "Ars magna Pythagorica," una specie di enciclopedia scientifico-universale; "Decamerone Pitagorico", in verso,  diviso in dieci giornate, e contenente tutta la filosofia naturale pitagorica in forma di satire in verso sciolto bernesco; "Commentario, ad scientiam Galilaei de tripliei motu"; "Archimedes restitutus"; "De reato reyimine Catholi caelticr archiae; "De vita Christi"; Apologiapro fitte catltolica, che divisava di dedicare a Filippo di Spagna. Parlano con somma lode di questo dotto filosofo il Cimma, il Zavarroni, l’Amato, l'Aceti, il Mazzucchelli, l’(lriglia, il liraboschi, il d’ Alllitto, il Signo relli, i Dizionarii storici, e per tacer‘ di tanti altri,. il Cantù. ASTORINI, Elia. - Nacque il 3 genn. 1651; è incerto se a Cirò, feudo degli Spinelli principi di Tarsia che lo protessero nelle ultime fortunose vicende della sua vita (Zavarroni), o ad Umbriatico oppure ad Albidona (Gimma), dove il padre Diego esercitò la professione di medico e dove sicuramente egli trascorse gli anni dell'adolescenza. Sedicenne, nel 1667, entrò fra i carmelitani dell'antica osservanza, mutando il nome di Tommaso Antonio in quello di Elia. Completò gli studi di filosofia aristotelica a Napoli nel convento dei Carmine Maggiore (dove appartenne all'Accademia degli Incauti) e a Roma quelli di teologia. La morte del padre lo richiamò in Calabria, nell'ambiente familiare.  Stando ai suoi biografi, in questi anni (1670-75) si colloca la sua prima crisi spirituale che investe il campo delle dottrine filosofiche acquisite: un radicale atteggiamento antiperipatetico lo avrebbe indotto a formarsi un sistema eclettico platonico-pitagorico e meccanicistico-materialistico, quest'ultimo ispirato dalla lettura delle opere di Galilei, Gassendi, Cartesio, Mersenne, Hobbes. Più prechaniente. possiamo dire, sulla base degli elementi desumibili da taluni suoi scritti, che egli riprese il pensiero dei suoi conterranei, del famoso "notomista" Marco Aurelio Severino, erede delle speculazioni campanelliane e delle teorie fisiognomiche del Della Porta; di Carlo Musitano, che aveva accolto le posizioni dei "moderni" come elaborate dalla napoletana Accademia degli Investiganti; e soprattutto di Tommaso Comelio, del quale l'A. amò più tardi dichiararsi nipote (cfr. Giornale de, Letterati del 1692..., p. 119).  La crisi non gli impedì tuttavia di raggiungere il sacerdozio nel 1675 e di divenire, nel 1680, reggente degli studi e lettore di filosofia e teologia nel convento dei suo Ordine a Cosenza. Ma i confratelli, nella congregazìone della provincia di Calabria, il 26 aprile dell'anno successivo, gli si ribellarono apertamente chiedendo al generale la sua sostituzione. Rivalità locali, come il contrasto tra l'A. e il provinciale P. T. Puglisi, adombrano l'inquietudine intellettuale del giovane religioso e le resistenze di metodi tradizionali di studio. Sospeso dall'insegnamento, penitenziato nel carcere della curia arcivescovile di Cosenza durante il 1682, l'A. è infine inviato a Roma per un giudìzio definitivo da parte deì superiori dell'Ordine. Dopo un breve ciclo di predicazìone si ritira ad Albano: non si sa se per punizione inflittagli o per motivi di salute. Ha comunque ìnizio adesso il momento più ambiguo e per taluni aspetti più oscuro della sua vita.  Nel 1683 passa a Bari, dove stringe amicizia con G. Tremigliozzi, seguace del gassendista Sebastiano Bartoli e del Cornelio e fondatore in quello stesso anno dell'Accademia dei Coraggiosi, bandìtrice delle nuove dottrine antigaleniche nel settore delle scienze mediche. Partecipò alle polemiche del Tremigliozzi in difesa del Musitano e compose un "epitafio" sulla "materia prima" per quella Nuova Staffetta del Parnaso circa gli affari della medicina...dirizzata all'illustrissima Accademia degli Spensierati di Rossano, Francoforte 1700, che ad opera del Tremigliozzi costituì una convinta difesa del metodo sperimentale degli Investiganti contro la metodologia cartesiana. A Bari conobbe il Gimna, che sarà il suo più diffuso biografo, al quale avrebbe mostrato vari suoi lavori manoscritti (tra essi un'Ars magna trigonometrica di cui si dirà più avanti). Predicò a S. Nicola e visse nel convento carmelitano barese dal quale poco tempo prima era fuggito, apostata in Svizzera, il priore Angelo Rocco. Se dietro esempio del Rocco o per raggiunta maturazione della sua crisi, è certo comunque che di lì a poco l'A., rotto ogni indugio, depose l'abito religioso e riparò anch'egli oltr'Alpe.  Da Zurigo raggiunge Basilea, dove nell'ottobre del 1684 presenzia a esperimenti. di medicina di J. J. Harder (Apiarium observationibus medicis... refertum,Basileae 1687, pp. 28, 47, 110) e dove rimane circa un anno seguendo anche i corsi di teologia di J. R. Wettstein (non si sa se il padre, morto nel 1684, o il figlio succedutogli nello stesso anno sulla cattedra). Sostò nel Palatinato presso il principe elettore Carlo fino alla morte di lui (26 maggio 1685), per trasferirsì poi, nel suo peregrinare da università ad università, a quella di Marburgo dove divìene viceprefetto con facoltà di insegnare filosofia pur non essendo addottorato (stando al Gimma, ma la notizia non trova conferma nel Catalogus professorum Academiae Marburgensis 1527-1910, a cura di F. Gundlach, Marburg 1927). A Marburgo prosegue con fervore gli intrapresi studi di medicina ascoltando le lezioni del rettore J. J. Waldschmiedt. Nel 1686, dopo un breve soggiorno a Brema, è a Groninga: insegna matematica nel collegio dei nobili cadetti francesi e si laurea in medicina, il 1° novembre, con la dissertazione De vitali oeconomia foetus in utero,Groningae 1686 (pubblicata sotto il nome di Tommaso Antonio), che pare sottendere nello studio del problema della fecondazione, oggetto allora di discussione tra "ovisti" e "animalculisti", le preoccupazioni speculative dell'autore, volte sulla scia del Severino e più del Bartoli alla ricerca del "principio" vitale e formativo dell'embrione.  Durante il soggiorno in Olanda, tra il 1686-88, si ha notizia vaga di una sua partecipazione alle polemiche religiose nell'ambito del calvinismo: la difesa che egli assume del cattolicesimo preannunzia un suo più meditato ritorno all'antica fede. Attaccato pubblicamente dai ministri calvinisti, si rifugia ad Amburgo. Qui una sua lettera al S. Uffizio, con la richiesta di poter ritornare in Italia, gli procura una benigna risposta da parte del cardinale Lorenzo Brancati di Lauria e un salvacondotto. Assolto dal vescovo di Münster il 13 dic. 1688, è a Roma il 13 marzo dell'anno successivo.  Riammesso nell'Ordine, predicò a Pìsa e, nel 1690, la quaresima a Firenze. Conobbe allora A. Marchetti, cui dovette unirlo l'interesse per la filosofia "corpuscolare" e che lo presentò al Magliabechi, il Redi, cui lo legò la comune curiosità per il problema della generazione, e il Viviani. là questo, tra il 1691-94, il periodo culturamente più felice dell'Astorii.  Nel 1691, per interessamento del principe Gian Gastone de, Medici, ottiene la cattedra di matematica nella Nuova Accademia dei nobili senesi: per l'insegnamento prepara un'edizione degli Elementa Euclidis ad usum Novae Academiae Nobilium Senensium nova methodo et succincta demonstrata..., Senis 1691,dedicata al principe protettore. Ma la prefazione è indirizzata al Redi, e in essa l'A. chiarisce il proprio metodo ("... etiam proportiones ipsas, quarum nimis longa est series, redigerem. ad acquationes, more Analystarum", p. X) ed esalta la matematica in funzione dello sviluppo delle scienze naturali, concludendo con un elogio della scuola scientifica toscana, dal Galilei al Redi al Torricelli al Viviani al Marchetti al Bellini al Malpighi. Il Redi lo ringraziò (v. lettera del 18 sett. 1691, edita in Gimma, p. 413), promettendo di intervenire nuovamente presso Gian Gastone: il che dovette procurare all'A. la cattedra straordinaria di filosofia naturale nell'università di Siena, che resse dal 5 nov. 1692 al 3 apr. 1694.  Intanto, nel 1691, l'A., con Pirro Maria Gabrielli e Teofilo Grifoni, è tra i fondatori dell'Accademia dei Fisiocritici e ne diviene "principe perpetuo" (v. lettera del Redi al Gabrielli del 6 ott. 1691, in Redi, Opere,VIII, p. 56).Dalle lettere che l'A. indirizzò m questo tomo di tempo al Maghabechi desumiamo molte preziose notizie circa i rapporti tra cultura filosofica e scientifica meridionale e tradizione sperimentale toscana, rinnovando l'A. quell'incontro che per la generazione -precedente era stato compiuto a Pisa dalla scuola iatromeccanica,di G. A. Borelli. Il rapporto ideale tra le due culture è anzi tanto stretto che l'A. teme per quella toscana, le ripercussioni della lotta scoppiata a Napoli contro la filosofia "moderna" (processo degli ateisti): "In Napoli vi sono di gran rumori: mi scrivono che sia stata origine la dottrina di Tomaso Comelio e che già la modernità va sossopra. Mi dispiace per diversi capi, benché io non dubiti esservi framischiate delle calunnie degli emoli aristotelici e galienisti, e molto più mi dispiace per essersi già qui in Siena eretta un'Accademia fisicomedica tutta moderna e per esserne io stato eletto principe perpetuo. L'abbiamo celebrata due volte con l'intervento di tutta la più dotta nobiltà, ma adesso ci siamo raffredati non sapendo dove vadano a terminare le faccende" (al Magliabechi, Siena, novembre 1691). Sotto la guida dell'A. l'Accademia poté tuttavia continuare con tranquillità le riunioni "colla metodo de' Progimnasmi [i Progymnasmata Physica] di Tomaso Comelio" (al Magliabechi, Siena, 15 nov. 1691).  L'A. sperò contemporaneamente di raggiungere una sistemazione migliore: ambì (1691) al titolo di maestro di teologia e sollecitò, tramite il Magliabechi, un intervento del Malpighi, per il momento senza successo (divenne maestro il 13 marzo 1693);compose, mettendo a frutto la sua diretta esperienza del mondo protestante, un Prodromus apologeticus de Potestate sanctae Sedis Apostolicae, Senis 1693,dedicato al cardinale Francesco Maria de' Medici (ristampato in J. T. Roccaberti, Bibliotheca maxima pontificia, XI, Romae 1698),introduzione a una progettata serie di dissertazioni controversistiche, che però non si distacca dalla consueta letteratura dei tempo; dedica tuttavia il meglio della propria attività ancora al settore scientifico, apprestando, tra l'altro, l'edizione delle Coniche di Apollonio, con la quale per suggerimento del Redi e del Viviani intese completare e sistemare l'edizione già apprestata dal Borelli con l'aiuto di Abramo Echellense (Firenze 1661), e stendendo uno scritto di meccanica (Commentaria ad scientiam Galilaei de triplici motu), rimasto inedito.  Ma ai primi del 1694 l'A. lascia quasi improvvisamente Siena per le non buone condizioni economiche, dati gli scarsi proventi che gli venivano dall'insegnamento, e per le sue precarie condizioni di salute. Il 29 maggio 1694 è a Roma; poi a Cosenza, quale prefetto degli studi e successivamente commissario generale nel suo convento di un tempo. Si riaccendono le persecuzioni a suo danno; le vicende sono ancora più oscure che per gli anni 1680-81, ma gli procurano la protezione del principe di Tarsia, F. Spinelli, presso il quale, a Terranova, dimorò nel 1697, e quella del cardinale Vincenzo Maria Orsini (poi Benedetto XIII), allora arcivescovo di Benevento. Il 12 genn. 1697 chiese il trasferimento dalla provincia di Calabria a quella di Terra di Lavoro nel convento di Cervinara e, in un secondo momento, in quello di Mongrassano. Nel giugno 1698 è però di nuovo prefetto degli studi a Cosenza; il 10 settembre priore del convento di Scala e come tale partecipa al capitolo provinciale del maggio 1699. Eletto priore di Mongrassano, non partecipa al capitolo dell'aprile 1701 per le peggiorate condizioni di salute e rinunzia anche alla carica.  Cura nel frattempo a Napoli la stampa dei De vera Ecclesia Iesu Christi contra Lutheranos et Calvinianos libri tres (1700), degli Apollonii Pergaei Conica (1698?, 1702?) e la ristampa degli Elementa Euclidis, Neapoli 1701.  Il nucleo ispiratore dei De vera Ecclesia... libri tres,abbozzati in parte a Siena e dedicati al principe di Tarsia, ha un reale interesse. L'A., come aveva accennato in una lettera al Magliabechi, appare preoccupato di confutare la tesi protestante circa i fondamenti aristotelici della dottrina cattolica e sostenere invece "la identificazione della nuova linea culturale incentrata sull'umanesimo e sul neoplatonismo con il cattolicesimo" (Badaloni). Sulla linea umanistica viene rivendicata anche la continuità del movimento scientifico del '600italiano. Ma tali motivi accennati nella prefazione sono sommersi, nell'opera, da un denso argomentare tradizionale, in cui tuttavia èmessa a frutto dall'A. la conoscenza dell'ebraico e delle lingue orientali.  Nel chiuso ambiente conventuale, dopo l'esperienza in terra tedesca e in Toscana (durante la quale però sembra che l'A. sia stato spinto più dall'esigenza di contatti e di fresche osmosi scientifiche che non da un meditato approfondimento culturale), accanto a un crescente disagio che lo rende insofferente della disciplina dell'Ordine e lo induce a frequenti viaggi a Napoli per sorvegliare la stampa delle sue opere, riaffiorano nell'A. le preoccupazioni proprie di una formazione e di una tradizione meno aperta e duttile: il pesante enciclopedismo e il gusto mnemotecnico della giovinezza prendono nuovamente il sopravvento sull'inteligenza sperimentale della natura, e l'A. dedica gli ultimi anni della sua vita a studi linguistici, condotti con criteri analogico-combinatori, Il consenso e dissenso delle tre Grammatiche ebraica, arabica e siriaca, e 'l modo facilissimo per apprenderle ciascheduno da se stesso in breve tempo (inedito), e ad elaborare o completare una Philosophia symbolica,sorta di enciclopedia pitagorica di cui probabilmente facevano parte opere che dai biografi ci sono indicate con titoli particolari: un'Ars magna pythagorica, un Decamerone pitagorico (esposizione in rime bernesche della filosofia naturale), una Logica pythagorica seu de natura et essentia rerum (lo stesso che l'Ars magna?).  Degli inediti è conosciuta soltanto l'Ars magna in duas divisa Dissertationes Altera De origine rerum altera De ortu et progressu Scientiarum (ms. 336;copia sec. XVIII, pp. 31 con 4 tavv., della Biblioteca Alessandrina di Roma). La copia fu effettuata dall'erudito calabrese Zavarroni per la Raccolta d'opuscoli scientifici e filologici diretta da Angelo Calogerà (cfr. acclusa allo stesso ms. una lettera dello Zavarroni al Calogerà del 21 luglio 1739).Probabilmente il carattere in apparenza bizzarro dello scritto dovette dissuadere gli editori dal darlo alle stampe. Esso, almeno nella copia dello Zavarroni, pare l'introduzione a una serie di Dissertationes e non va tout court identificato con l'Ars magna di cui fa menzione il Gimma. Se il De origine rerum,cioè la prima parte del manoscritto, può in qualche modo connettersi ai primi studi dell'A., a escludere che il De ortu et progressu Scientiarum sia uno scritto giovanile contribuiscono il cenno all'edizione postuma dei Progymnasmata del Comelio (1688),il ricordo del Redi e del Viviani, la notizia degli studi compiuti dall'A. sulla scienza galileiana del triplice moto, la notevole conoscenza che l'A. dimostra degli studi di anatonúa, elementi tutti che presuppongono appunto la sua esperienza culturale in Germania e in Toscana.  La prima parte dell'opera, che vuole essere una guida "ad metam naturalis sapientiae", contiene una critica agli schemi mnemotecnici del Lullo e del Kircher e si svolge nell'elencazione di triadi platonico-pitagoriche, alla cui base v'è il presupposto gnoseologico della possibilità di conseguire verità assolute attraverso l'ordine naturale delle idee (poiché nella natura creata v'è una "triplex virtus", "intellectiva, volitiva et effectrix", ad essa corrisponde una "triplex operatio", "interectio, volitio et impetus"' ecc.). Tale schema conduce ovviamente alla critica decisa della definitio logica aristotelico-scolastica che non attingerebbe alla "quidditas rei" come la definitio methaphysica,vagheggiata dall'autore.  La seconda parte è in sostanza una ripartizione delle scienze ancora su base platonico-pitagorica. Da "Sophia" è esclusa la logica, di cui sì ribadisce il carattere meramente discorsivo; ma a "Sophia" appartengono la metafisica (notevoli i cenni platonizzanti circa il rapporto microcosmo-macrocosmo); la fisica, per la quale l'A. si dilunga nella critica all'aristotelismo e al cartesianesimo e nell'esaltazione della filosofia atomistico-gassendiana e dello sperimentalismo galileiano, pur richiamandosi insieme nettamente alla tradizione filosofica meridionale da Bernardino Telesio a Tommaso Cornelio; la politica, per la quale egli esalta l'insegnamento di Platone; l'etica, per cui continuo è il richiamo al pensiero di Hobbes, ecc.  A questo impasto di vecchio e di nuovo, che contrappunta un momento della cultura meridionale e riflette il travaglio di un pensiero l'A. dedicò dunque lo scorcio estremo dei suoi anni, divisi tra la meditazione filosofica e la occupazione di biblìotecario presso il principe Spinelli, a Terranova di Sibari, dove morì il 4 apr. 1702.   Fonti e Bibl.: Firenze, Bibl. Naz. Centrale, Magl. CI. VIII,171, Elia Astorini lettere ad Ant.Magliabechi da 25 sett. 1691 a 29 maggio 1694...; Giornale de' Letterati del 1692 e primo di Modena, pp. 118-119; Giornale...dell'anno 1693, pp. 244-246; F. Redi, Opere,VIII,Milano 1811, p. 56; G. Gimma, Elogi accademici della società degli Spensierati di Rossano,I,Napoli 1703, pp. 387-413; A. Zavarroni, Bibliotheca calabra, Neapoli 1753, pp. 172-174; G. M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d'Italia,I,2, Brescia 1753, pp. 1194-1196 (riprende dal Gimma); N. Di Cagno-Politi, E. A. filosofo e matematico del sec. XVII,Appunti, 2 ediz., Roma 1890; G. Maugain, Etude sur l'évolution intellectuelle de l'Italie de 1657 à 1750 environ,Paris 1909, pp. 133 s.; A. Grammatico, E. A., O. Carm., insignis disceptator saec. XVII, in Analecta Ord.Carm.,VI(1927-29), pp. 493-515; N. Badaloni Introduzione a G.B. Vico, Milano 1961, p. 225. Elia Astorino. Elia Astorini. Tommaso Antonio Astorini. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Astorini” – The Swimming-Pool Library.

 

Grice ed Ateiniano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Nizza). Filosofo italiano. Marco Ateiniano. Filosofo.

 

Grice ed Atenodoro – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Maestro d’Ottaviano. Atenodoro Cananita. Atenodoro di Tarso Atenodoro di Tarso, o Atenodoro Cananita o Atenodoro Calvo (Cana), è  uno filosofo italiano. Nacque a Cana presso Tarso da un uomo di nome Sandone. Studente di Posidonio di Rodi e maestro dell'imperatore romano Ottaviano Augusto a Apollonia e, in seguito, di diversi esponenti della famiglia imperiale. Pare che segue Ottaviano a Roma. Ottaviano, proprio per i natali dati a maestro di filosofia, allevia la tassazione della città di Tarso. In seguito fa ritorno a Tarso dove aiuta ad eliminare il governo di Boeto e abbozza una nuova costituzione che da vita ad un'oligarchia pro-romana. Dopo la sua morte in suo onore fu tenuto un festival ed un sacrificio annuale a Tarso. Plinio il giovane racconta un episodio secondo il quale Atenodoro prende in affitto una casa a basso prezzo poiché era infestata da un fantasma. Mentre scrive di filosofia a tarda notte, un fantasma incatenato gli apparve e lo invita a seguirlo fino in cortile ove spare. Il giorno successivo, con il permesso dei magistrati della città, Atenodoro fa scavare nel punto in cui il fantasma e scomparso e trova uno scheletro incatenato. Dopo che allo scheletro venne data una degna sepoltura il fantasma non infesta più la casa. Gli vengono attribuite le seguenti opera: un'opera contro le Categorie aristoteliche (sebbene venga talvolta attribuita a Atenodoro Cordilione), una storia di Tarso, un'opera di qualche tipo dedicata a Ottaviano, un'opera intitolata περί σπουδη̃ς και παιδείας ("Sul fervore e la giovinezza"), un'opera intitolata περίπατοι. Nessuna di queste opere ci è pervenuta. Aiuta anche Cicerone nella scrittura del “De Officiis” ed è stato suggerito che la filosofia di Atonodoro possano aver influenzato Seneca e Paolo di Tarso. Note ^ Plutarco: Vita di Publicola 17; Strabone, Geografia, XIV, 5, 14. ^ Pseudo-Luciano, Macrobii, 21. ^ Strabone, Geografia, libro XIV, 5, 14 ^ Pseudo-Luciano, Macrobii, 21, secondo il quale Atenodoro morì a 82 anni. ^ Plinio il giovane, Lettere, libro VII, lettera 27. A Sura ^ Griffin, p. 201. ^ Griffin, p. 201; sempre Griffin, pp. 206-208, ritiene possibile che l'autore di questo trattato sia l'Atenodoro logico stoico menzionato da Diogene Laerzio in Vite dei filosofi, VII, 68. ^ Plutarco: Vita di Publicola 17. Bibliografia (EN) Michael J. Griffin, Which 'Athenodorus' commented on Aristotle's Categories?, in Classical Quarterly, vol. 63, n. 1, 2013, pp. 199-208. Altri progetti Collabora a Wikisource Wikisource contiene una pagina dedicata a Atenodoro Cananita Collabora a Wikimedia Commons Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Atenodoro Cananita Collegamenti esterni Atenodoro di Tarso (figlio di Sandone), in Dizionario di filosofia, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2009. Modifica su Wikidata (EN) Athenodorus Cananites, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia Britannica, Inc. Modifica su Wikidata V · D · M Stoicismo Controllo di autorità VIAF (EN) 42230050 · BAV 495/352589 · CERL cnp00283629 · GND (DE) 102382530 · WorldCat Identities (EN) viaf-42230050   Portale Antica Roma   Portale Biografie   Portale Filosofia Categorie: Storici romaniStorici del I secolo a.C.Storici del I secoloRomani del I secolo a.C.Romani del I secoloNati nel 74 a.C.Morti nel 7Stoici

 

Grice ed Atenodoto – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Porch. Pupil of Musonius Rufus, and a tacher of Marco Cornelio Frontone.

 

Grice ed Attico – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. FIlosofo italiano. best under Pomponio. Tito Pomponio detto il “Attico”.

 

Grice ed Attalo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Attalo (filosofo). Attalo è un filosofo Italiano. Attalo visse a Roma e fu maestro di Seneca che lo stima molto e lo cita spesso come nelle Lettere morali a Lucilio quando scrive, “Come soleva dire il nostro Attalo 'il ricordo degli amici estinti è gradevole come certi frutti sono soavemente aspri.” -- o ancora a proposito dell'avidità dell'uomo che gode senza discernimento dei beni della fortuna come fa il cane che inghiotte voracemente i pezzetti di carne lanciati dal padrone. Così rifacendosi a Attalo, Seneca afferma che una vita senza affanni e senza nessun attacco dalla Fortuna non è tranquillità è bonaccia. “Attalo lo stoico soleva dire 'Preferiamo che la fortuna mi abbia nel suo accampamento piuttosto che tra le mollezze. Subisco la tortura, ma coraggiosamente. Questo è vero bene'” e che procurarsi un amico è più piacevole che averlo poiché, dice Attalo, avviene che «come per un artista è più piacevole dipingere che aver dipinto.” Ed infine da Attalo Seneca reca il supremo insegnamento riferito principalmente all'ingrato che si tormenta e odia il bene ricevuto perché dovrà ri-cambiarlo, ne sminuisce i valore e accresce l'importanza delle offese ricevute. “La malvagità stessa beve la più grande porzione del suo veleno.” Una massima che Attalo ha modo di vedere applicata quando messo al bando da Roma, Lucio Elio Seiano, amico estremamente influente di Tiberio, e infine da questo stesso fatto giustiziare. Note ^ Seneca, Lettere morali a Lucilio, Edizioni Mondadori, 2013 p.64 ^ Seneca, op.cit. p.73 ^ Seneca, op.cit. p.68 ^ Seneca, op.cit. ^ Seneca, op.cit. p.82 ^ Pierre Matthieu, Historie delle prosperità infelici di Elio Seiano, Grillo, 1620 p.48   Portale Biografie   Portale Filosofia Categorie: Filosofi romaniFilosofi del I secoloRomani del I secolo

 

Grice ed Aulo – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Aulo Gellio. under Gellio? Pupil of Lucio Calveno Tauro and Peregrino Proteo. Friend of Erode

 

Grice ed Ausonio – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza – filosofo italiano.

 

Grice ed Avieno – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. Filosofo italiano. Avieno Rufio Festo. Porch. A Distant descendant of Musonio Rufo. Wrote Phenomena.

 

Grice ed Aurano – Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli). Filosofo italiano. Gaio Stallio Aurano followed the doctrine of the Garden.

 

 

Grice ed Azeglio – non si danno doveri reciprochi senza società – filosofia italiana – Luigi Speranza (Torino). Filosofo Italiano. Grice: “I like Azieglo; first he was a marchese, unlike me – second he looked for the fundamental law (or ‘fundamental question,’ as I call it) for the principle of cooperativeness – he finds it’s a natural thing, not a Rousseaunian contractualist thing – so he is a Griceian at heart – on top, he relies on Bentham, to minimise the Kantian rationalism and make it digestibale to those who care about what Azieglo calls ‘amore proprio’ – i. e. conversational self-love as still operating under a wider principle of conversational benevolence.” Coniò il termine giustizia sociale, successivamente ripreso e sviluppato da Antonio Rosmini (1848) nel saggio La Costituzione secondo la giustizia sociale e da John Stuart Mill nel saggio Utilitarianism.  Taparelli d'Azeglio è stato anche uno dei primi teorici del principio di sussidiarietà. Era il quarto degli otto figli di Cesare, conte di Lagnasco e marchese di Montanera, diplomatico della corte di Vittorio Emanuele I, e della contessa Cristina Morozzo di Bianzè. Alla nascita gli fu imposto il nome di Prospero che, divenuto gesuita, cambiò in Luigi. I fratelli Massimo e Roberto furono politici e senatori del Regno.  Maturò la propria vocazione religiosa a seguito di un corso di esercizi spirituali dettati dal venerabile Pio Brunone Lanteri (1759-1830), fondatore della congregazione degli Oblati di Maria Vergine. Studiò nel Collegio Tolomei di Siena e poi nell'Ateneo di Torino fino al 1809. Entrato nel seminario di Torino, quando il padre fu inviato come diplomatico alla corte di Pio VII si trasferì con lui a Roma e fu ammesso nel noviziato dei gesuiti di Sant'Andrea al Quirinale.  Fu ordinato sacerdote nel 1820. Iniziò a studiare negli anni 1824-29 la filosofia di San Tommaso d'Aquino, studio che continuò a Napoli negli anni 1829-32. Nel 1833 fu destinato al Collegio Massimo di Palermo dove insegnò lingua francese per poi assumere la cattedra di diritto naturale.  Nel 1840-1843 pubblicò con i tipi della Stamperia d'Antonio Muratori di Palermo il suo testo più importante, il Saggio teoretico di dritto naturale appoggiato sul fatto, considerato a quel tempo una vera enciclopedia di morale, diritto e scienza politica.  Nel 1850 ricevette da papa Pio IX il permesso di cofondare con il padre Carlo Maria Curci La Civiltà Cattolica, rivista della Compagnia di Gesù, ove scrisse per venti anni per poi assumerne la direzione nell'ultimo periodo della vita. I suoi oltre duecento articoli pubblicati sulla rivista furono tutti caratterizzati da un contenuto tale da meritargli il titolo di «martello delle concezioni liberali»(Antonio Messineo).  Morì a Roma il 21 settembre 1862.  Pensiero Era preoccupato soprattutto dai problemi che nascevano dalla rivoluzione industriale. Il suo insegnamento sociale influenzò papa Leone XIII nella stesura dell'enciclica Rerum novarum sulla condizione dei lavoratori.  Proponeva di riprendere gli insegnamenti della scuola filosofica tomista. A partire dal 1825 portò avanti questa convinzione, ritenendo che la filosofia soggettiva di Cartesio portasse a errori drammatici nella moralità e nella politica. Argomentava che mentre la differenza di opinioni sulle scienze naturali non ha nessun effetto sulla natura, al contrario idee metafisicamente poco chiare sull'umanità possono portare al caos nella società.  A quel tempo la Chiesa cattolica non aveva una visione sistematica chiara sui grandi cambiamenti sociali apparsi all'inizio del secolo XIX in Europa, la qual cosa portava molta confusione tra la gerarchia ecclesiastica e il laicato. In risposta a tale problema, Taparelli applicò, in maniera coerente, i metodi del tomismo alle scienze sociali. Dalle pagine de La Civiltà Cattolica attaccò la tendenza a separare la legge positiva dalla morale e lo "spirito eterodosso" della libertà di coscienza che, a suo avviso, distruggeva l'unità della società.  Termini chiave della sua opera sono socialità e sussidiarietà. Vedeva la società non come un gruppo monolitico di individui, ma come un insieme di varie sub-società disposte in diversi livelli, ciascuna formata da individui. Ogni livello di società ha sia diritti che doveri, ognuno dei quali deve essere riconosciuto e valorizzato. Ogni livello di società deve cooperare razionalmente e non fomentare competizione e conflitti.  Dopo l'istituzione della Società delle Nazioni, Taparelli d'Azeglio ne vanne considerato un precursore. Sua fu l'idea di un'autorità universaleda lui chiamata "etnarchia"con il ruolo di tribunale e di arbitrio, che potesse proteggere ogni nazione dalle minacce esterne. Taparelli d'Azeglio continuò a fungere da autorevole guida al pensiero cattolico in materia di pace e guerra ancora nel Novecento. Altre opere: “Saggio teoretico di diritto naturale appoggiato sul fatto” (Palermo); “Nazione e nazionalità” (Genova, Ponthenier); “La Legge fondamentale d'organizzazione nella società” (Roma, Edizioni di Storia e Letteratura); “La libertà tirannia” “Saggi sul liberalesimo risorgimentale” (Piacenza, Edizioni di Restaurazione Spirituale); “La Civiltà Cattolica). Diritto soggettivo, proprietà e autorità in Luigi Taparelli d'Azeglio, di Alessanfro Biasini, sito della Università Ca Foscari Venezia. Scuola Dottorale d'Ateneo.  The Origins of Social Justice: Taparelli d’Azeglio, su home.isi.org.  Education and Social Justice, J. Zajda, S. Majhanovich, V. Rust, E. Martín Sabina, Springer Science & Business Media, 20061  Vittoria Armando, Il Welfare oltre lo Stato. Profili di storia dello Stato sociale in Italia, tra istituzioni e democrazia Seconda edizione, G. Giappichelli Editore, Georges Minois, La Chiesa e la guerra. Dalla Bibbia all'èra atomica, Bari, Dedalo, 2003493.  L. Pereña, La autoridad internacional en Taparelli, Libreria editrice dell'Università Gregoriana, 1964,  405-432. Studi Pierre Thibault, Savoir et pouvoir. Philosophie thomiste et politique cléricale au XIXe siècle, Québec, Maria Rosa Di Simone, Stato e ordini rappresentativi nel pensiero di Luigi Taparelli d'Azeglio, «Rassegna storica del Risorgimento», Giovanni Miccoli, Chiesa e società in Italia fra Ottocento e Novecento: il mito della cristianità, in Id., Fra mito della cristianità e secolarizzazione, Casale Monferrato, Francesco Traniello, La polemica Gioberti-Taparelli sull'idea di nazione, in Id., Da Gioberti a Moro. Percorsi di una cultura politica, Milano, Francesco Traniello, Religione, Nazione e sovranità nel Risorgimento italiano, «Rivista di storia e letteratura religiosa», Emma Abbate, Luigi Taparelli D'Azeglio e l’istruzione nei collegi gesuitici del XIX secolo, «Archivio storico per le province napoletane», Saggio teoretico di dritto naturale appoggiato sul fatto, 5 voll., Palermo, Stamperia d'Antonio Muratori, 1840-1843. S. T., Per il centenario della nascita delLuigi Taparelli D'azeglio, in Rivista Internazionale di Scienze Sociali e Discipline Ausiliarie, Luigi Di Rosa, Luigi Taparelli. L'altro d'Azeglio, Milano, Cisalpino, Gabriele De Rosa, I Gesuiti in Sicilia e la rivoluzione del '48, con documenti sulla condotta della Compagnia di Gesù e scritti inediti di Luigi Taparelli d'Azeglio, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1963. A. Perego, La «Miscellanea Taparelli», in Divus Thomas,  Gianfranco Legitimo, Sociologi cattolici italiani. 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Ma siccome il fatto di questa convenzione, per confessione di parecchi fra i suoi difensori, non è se non una finzione di diritto, fictio juris, ed io non amo fondar sopra una finzione quanto vi ha di più sacro ed importante nel commercio fra gli uomini, mi vidi astretto a cercare nel *fatto reale* (italici d'Azeglio) altro miglior appoggio. E sì mi parve averlo trovato con nulla più che analizzare la idea che ognuno si forma allorché pronunzia il vocabolo *Società*, o paragonar questa idea collo stato *naturale* in cui ogni uomo trovasi sulla terra. Ecco per qual motivo non credei poter trattare dei *doveri reciprochi* fra gli uomini se prima non li considerava formanti una qualche società. E in verità, come potrebbero esservi *doveri* reciprochi senza relazioni reciproche? Come relazioni senza qualche congiunzione? Come congiuzione senza qualche legge? Come legge senza legislatore e senza autorità? Data poi la congiunzione di molti esseri intelligenti sotto una autorità comune che altro ci manca per costituire una società? Parventi dunque ripugnante la voce di *relazioni extrasociali*, usata dal ch. C. di Haller -- di cui per altro ammiro in molti punti la dottrina --, nù seppi come introdurmi a considerare i doveri reciprochi se prima non no stabiliva *sul fatto* le fondamenta con una attenta osservazione dell’essere sociale. La legge fondamentale del *civico* operar sociale potrebbe dunque ridursi a questa — la socielà (e per essa la autorità) dee far sì che ciascuno *cooperi* a *difendere* e crescere il bene altrui senza sua perdita, anzi con vantaggio proporzionato alla sua cooperazione. Della società in generale. Società suol dirsi una concorde comunicazione di bene fra esseri intelligenti. Società di questi esseri *in istato di tendenza* sarà dunque la *tendenza concorde a fine comune*. E siccome la tendenza intelligente fra uomini dee produrre azione esterna, cosi la società umana potrà definirsi *cooperazione concorde di uomini ad un bene comune*. Prop. I.: Gli uomini tutti hanno nella lor *natura* un elemento di società universale. Prova: Gli uomini tutti sono obbligati a secondare l’ intento del Crea- tore. Or il Creatore vuole da essi *cooperazione concorde a ben comune*. Dunque ec. La minore si prova. Uno è per natura il bene da tutti conosciuto, ed a cui tendono tutti, giacche una è la loro *natura* ossia impulso primitivo. Questo impulso manifesta l'ntento del Creatore. Dunque ec. Diremo questo elemento *dovere di socialità*. Coroll. 1.: Ogni dovere sociale deriva da questo principio *fa il bene altrui*. Giacché la causa che mi obbliga a far ad altri *un* qualche bene è che debbo far loro il bene. Coroll. 2.: Questo è il primo principio *sociale* applicazione del primo principio morale. Coroll. 3: Il precipuo bene di ogni società è la *onestà*, giacché a questa tende precipuamente la *natura umana*. Coroll. 4.: Poiché *ottener il bene* è negli *enti ragionevoli* un *divenir felice*, il fine di universal società è rendere gli *associati* *onestamente felici*. E poiché la felicità dell’uomo consiste *secondo natura* nei beni di *mente* e di *corpo*, *assicurarci* e *crescerci* queste due specie di beni è il fine naturale della società universale. Una società determinata può o abbracciare tutto il fine naturale con mezzo particolare cioè col convivere stabilmente, o abbracciarlo parzialmente. Il *fine* particolare della prima sarà il *convivere* onestamente felice. Della seconda il conseguire quel particolare oggetto per cui ella si associa. Diremo società *completa* quella che abbraccia tutto l'obbietto naturale della umana società, cioè il bene di mente, quello di corpo, o la difesa di entrambi. Incompleta quella che ne abbraccia sol qualche parte. Coroll. 5.: La società è *mezzo*, non fine dell’ individuo. Luigi Tapparelli d’Azeglio, marchese d’Azeglio. Luigi Prospero Tapparelli d’Azeglio, marchese d’Azeglio. Prospero Tapperelli d’Azeglio, marchese d’Azeglio. D’Azeglio. Azeglio. Keywords: non si danno doveri reciprochi senza società, ius naturale, “non si danno doveri reciprochi senza società”, cooperazione, cooperare, fa il bene altrui – onesta, fine, principio della socialita, applicazione del principio della moralita, natura umana, fatto, socieeta totale, societa parziale, definizione di societa in termine di cooperazione, ‘de more geometrico’ – tendenzia impulso naturale all’onesta – societa – azione esterna, esseri ragionabile, esseri intelligente, convivir stabilmente, felice, -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice ed Azeglio” – The Swimming-Pool Library.

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