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Sunday, May 19, 2024

Grice e Scipione

 1 9 (Scipione): Quando giunsi in Africa in qualità di tribuno militare, come sapete, presentandomi agli ordini del console Manio Manilio alla quarta legione, non chiedevo altro che di incontrare Massinissa, un re molto amico della nostra famiglia, per fondati motivi. Non appena mi trovai al suo cospetto, il vecchio, abbracciandomi, scoppiò in lacrime; poi, dopo qualche attimo, levò gli occhi al cielo e disse:

«Sono grato a te, Sole eccelso', come pure a voi, altri dèi celesti, perché, prima di migrare da questa vita, vedo nel mio regno e sotto il mio tetto Publio Cornelio Scipione, al cui nome mi sento rinascere; a tal punto non è mai svanito dal mio cuore il ricordo di quell'uomo eccezionale e davvero invitto».

Quindi io gli chiesi notizie del suo regno, egli mi domandò della nostra repubblica: così, tra le tante parole spese da parte mia e sua, trascorse quella nostra giornata.

(9) Scipio: "Cum in Africam venissem M.' Manilio consuli ad quartam legionem tribunus, ut scitis, militum, nihil mihi fuit potius, quam ut Masinissam convenirem regem, familiae nostrae iustis de causis amicissimum. Ad quem ut veni, complexus me senex collacrimavit aliquantoque post suspexit ad caelum et: 'Grates', inquit,

'tibi ago, summe Sol, vobisque, reliqui Caelites, quod, antequam ex hac vita migro, conspicio in meo regno et his tectis P. Cornelium Scipionem, cuius ego nomine ipso recreor; ita numquam ex animo meo discedit illius optimi atque invictissimi viri memoria.' Deinde ego illum de suo regno, ille me de nostra re publica percontatus est, multisque verbis ultro citroque habitis ille nobis consumptus est dies.

10 Poi, dopo essere stati accolti con un banchetto regale, prolungammo la nostra conversazione fino a tarda notte, mentre il vecchio non parlava di altro che dell'Africano e ricordava non solo tutte le sue imprese, ma anche i suoi detti. In seguito, quando ci congedammo per andare a dormire, un sonno più profondo del solito s'impadroni di me, stanco sia per il viaggio sia per la veglia fino a notte fonda.

Quand'ecco che (credo, a dire il vero, che dipendesse dall'argomento della nostra discussione: accade infatti generalmente che i nostri pensieri e le conversazioni producano durante il sonno un qualcosa di simile a ciò che Ennio dice a proposito di Omero, al quale, è evidente, di solito pensava da sveglio e del quale discuteva) m'apparve l'Africano, nell'aspetto che mi era noto più dal suo ritratto che dalle sue fattezze reali; non appena lo riconobbi, un brivido davvero mi percorse; ma quello disse: «Sta' sereno, deponi il tuo timore, Scipione, e tramanda alla memoria le parole che ti dirò».

(10) Post autem apparatu regio accepti sermonem in multam noctem produximus, cum senex nihil nisi de Africano loqueretur omniaque eius non facta solum, sed etiam dicta meminisset. Deinde, ut cubitum discessimus, me et de via fessum, et qui ad multam noctem vigilassem, artior, quam solebat, somnus

complexus est.

Hic mihi-credo equidem ex hoc, quod eramus locuti; fit enim fere, ut cogitationes

sermonesque nostri pariant aliquid in somno tale, quale de Homero scribit Ennius,

de quo videlicet

saepissime vigilans solebat cogitare et loqui-Africanus se ostendit ea forma, quae mihi ex imagine eius quam ex ipso erat notior; quem ubi agnovi, equidem cohorrui, sed ille: 'Ades,' inquit, 'animo et omitte timorem, Scipio, et, quae dicam, trade memoriae!

Il 11 «Vedi, laggiù, la città che, costretta per mio tramite a ubbidire al popolo romano, rinnova le

guevari in epo e di s lies unima nid e ads indica Cassediala quasi di un udeo

Non stupisce l'invocazione al Sole, che è la massima divinità per le popolazioni orientali: i Numidi, che si vantavano discendenti dai Persiani (cfr. Sallustio, Bellum lugurthinum 18, 4-12), erano molto devoti al culto solare.

L'uso del verbo migrare, in riferimento al passaggio dell'anima dalla dimora terrena a un'altra vita dopo la morte, è uno dei motivi di fondo del Somnium e risponde al concetto platonico della ustoiknols o aronuía ('cambiamento di dimora' o di luogo'), secondo cui l'anima sopravvive alla morte del corpo, trasferendosi da un luogo terreno a uno ultraterreno (cfr.

Platone, Apologia Socratis 41a; Phaedo 61e).

È il primo dei tanti accenni alla verticale distanza che separa la terra dal piano celeste, nel quale si trovano i due

Scipioni.

La quadruplice aggettivazione (de excelso et pleno stellarum, inlustri et claro quodam loco) insiste sull'abbagliante effetto luministico e stende un alone di mistero sulla vera ubicazione della zona del cielo che ospita i due personaggi. Solo più avanti dalle parole di Scipione si capirà che si tratta della Via Lattea (3, 16). I due livelli, terreno e celeste, apparentemente segnati dalla mancanza assoluta di contatto, sono in realtà in opposizione dialettica. In tutto il


semplice, ma entro i prossimi due anni la abbatterai come console e ne otterrai, per tuo personale merito, quel soprannome che fino a oggi hai ereditato da noi. Quando poi avrai distrutto Cartagine, celebrato il trionfo, rivestito la carica di censore e percorso, in qualità di legato, l'Egitto, la Siria, l'Asia, la Grecia, verrai scelto, benché assente, come console per la seconda volta e porterai a termine una guerra importantissima: raderai al suolo Numanzia. Ma, dopo che sul carro trionfale sarai giunto al

Campidoglio, troverai la repubblica sconvolta dai piani di mio nipote».

(11) Videsne illam urbem, quae parere populo Romano coacta per me renovat pristina bella nec potest quiescere?' Ostendebat autem Carthaginem de excelso et pleno stellarum, illustri et claro quodam loco. 'Ad quam tu oppugnandam nunc venis paene miles. Hanc hoc biennio consul evertes, eritque cognomen id tibi per te partum, quod habes adhuc a nobis hereditarium. Cum autem Carthaginem deleveris, triumphum egeris censorque fueris et obieris legatus Aegyptum, Syriam, Asiam, Graeciam, deligere iterum consul absens bellumque maximum conficies, Numantiam exscindes. Sed cum eris curru in Capitolium invectus, offendes

rem publicam consiliis perturbatam nepotis mei.

12 «Allora occorrerà che tu, Africano, mostri alla patria la luce del tuo coraggio, della tua indole, del tuo senno. Ma per quel frangente vedo un bivio, per così dire, sulla strada del tuo destino. Quando la tua età avrà infatti compiuto per otto volte sette*

giri di andata e ritorno del sole e questi due numeri -

ciascuno dei quali, per ragioni diverse, è considerato perfetto - avranno segnato, nel volgere naturale del tempo, la somma d'anni per te fatale, tutta la città a te solo e al tuo nome si rivolgerà, su di te il senato, su di te tutti gli uomini perbene, su di te gli alleati, su di te i Latini poseranno lo sguardo, tu sarai il solo nel quale possa trovare sostegno la salvezza della città; insomma, tu dovrai, nelle vesti di dittatore, rendere stabile lo Stato, a patto che tu riesca a sottrarti alle empie mani dei tuoi parenti».

A questo punto, poiché Lelio aveva levato un grido e tutti gli altri avevano cominciato a gemere più vivamente, Scipione, sorridendo: «St! Vi prego», disse, «non risvegliatemi dal mio sonno e ascoltate ancora per un momento il resto».

(12) Hic tu, Africane, ostendas oportebit patriae lumen animi, ingenii consiliique tui. Sed eius temporis

converent duoque hi numer, uorum utegue planus aier aiera de causa haour, Clicutu natural summam

tibi fatalem confecerint, in te unum atque in tuum nomen se tota convertet civitas; te senatus, te omnes boni, te socii, te Latini intuebuntur; tu eris unus, in quo nitatur civitatis salus, ac, ne multa, dictator rem publicam constituas oportet, si impias propinquorum manus effugeris."

Hic cum exclamasset Laelius ingemuissentque vehementius ceteri: "St! Quaeso", inquit, "Ne me ex somno excitetis et parumper audite cetera!

Somnium è ribadita la svalutazione della vita terrena; eppure, per una determinata categoria di uomini, la terra acquista un valore imprescindibile come palestra in cui ci si educa al disprezzo dei valori mondani in vista della vita eterna. Simbolo concreto del contatto, arduo ma possibile, tra i due piani, è la figura di Scipione Emiliano, che più volte verrà rimproverato dal nonno adottivo proprio perché non si decide a staccare gli occhi dal mondo terreno per contemplare l'ordine universale.

L'Emiliano incarna la contraddizione dialettica tra contingente e assoluto, tra presente e futuro, mentre l'Africano, che pure in vita era stato uno spirito attivo come il nipote, adesso, nella nuova dimensione, si dimostra ormai del tutto distaccato dalle

vane passioni terrene.

* Il numero era, nella dottrina pitagorica, essenza e modello di tutta la realtà. Va notato innanzi tutto che il cinquantasei, prodotto di un numero dispari (sette) per un numero pari (otto), costituisce già di per sé un numero perfetto, perché i pitagorici ritenevano che il dispari rappresentasse il maschio e il pari la femmina (Macrobio, Somnium Scipionis I 6, 1). II sette, numero sacro nel mondo orientale (e sono note le inclinazioni orientaleggianti delle dottrine pitagoriche), era ritenuto plenus, perfetto: somma del tre (triangolo) e del quattro (quadrato), ritornava in natura nelle sfere planetarie, nel numero delle stelle dell'Orsa Maggiore, ecc. Per questo motivo Cicerone, sempre nel Somnium (5, 18), lo definisce rerum omnium fere nodus. Anche l'otto, che rappresentava per i pitagorici la "giustizia" (Macrobio, Somnium Scipionis 1 5, 16 sgg.), è considerato plenus, benché numero pari (secondo i pitagorici, il numero perfetto era dispari), perché rappresenta il primo numero prodotto da devazione alla terza potenza e raffigura schematicamente gli otto punti che consentono di individuare nello spazio la figura solida di un cubo (cfr. sempre ivi, 15, 10; 5, 15).


III 13 «Ma perché tu, Africano, sia più sollecito nel difendere lo Stato, tieni ben presente quanto segue: per tutti gli uomini che abbiano conservato gli ordinamenti della patria, si siano adoperati per essa, l'abbiano resa potente, è assicurato in cielo un luogo ben definito, dove da beati fruiscono di una vita sempiterna. A quel sommo dio che regge tutto l'universo, nulla di ciò che accade in terra è infatti più caro delle unioni e aggregazioni di uomini, associate sulla base del diritto, che vanno sotto il nome di città: coloro che le reggono e ne custodiscono gli ordinamenti partono da questa zona del cielo e poi vi ritornano?».

(13) 'Sed

quo sis,

Africane, alacrior ad tutandam rem

conservaverint,

publicam, sic habeto, omnibus, qui patriam

adiuverint, auxerint, certum esse in caelo definitum locum, ubi beati aevo sempiterno

fruantur; nihil est enim illi principi deo, qui omnem mundum regit, quod quidem in terris fiat, acceptius quam concilia coetusque hominum iure sociati, quae civitates appellantur; harum retores et conservatores hinc

profecti huc revertuntur.'

14 Ed io, benché fossi sgomento non tanto dal timore della morte, quanto dall'idea del tradimento dei miei, gli chiesi tuttavia se fossero ancora in vita egli stesso e mio padre Paolo e gli altri che noi riteniamo estinti. «Al contrario», disse, «sono vivi costoro che sono volati via dalle catene del corpo come da una prigione®, mentre la vostra, che è chiamata vita, è in realtà morte'. Non scorgi tuo padre Paolo, che ti viene incontro?». Non appena lo vidi, versai davvero un fiume di lacrime, mentre egli, abbracciandomi e baciandomi, cercava di frenare il mio pianto.

(14) Hic ego, etsi eram perterritus non tam mortis metu quam insidiarum a meis, quaesivi tamen, viveretne ipse et Paulus pater et alii, quos nos exstinctos arbitraremur. 'Immo vero', inquit, 'hi vivunt, qui e corporum vinculis tamquam e carcere evolaverunt, vestra vero, quae dicitur, vita mors est. Quin tu aspicis ad te

5 Per comprendere il significato dell'aggettivo beati, si rimanda alla definizione che ne dà Cicerone in Tusculanae disputationes V 10, 29: 'esenti da dolore fisico o morale'.

In quest'affermazione dell'Africano si rivela il nucleo concettuale del Somnium Scipionis: a chi ha acquisito grandi meriti nei confronti della patria è riservata la salvezza eterna e la possibilità di condurre una vita beata in un determinato spazio celeste, la Via Lattea. Innanzi tutto va sottolineato che il premio ultraterreno è qui previsto per una ben precisa categoria di persone, che Cicerone prima indica con una perifrasi qui patriam conservaverint, adiuverint, auxerint e che poi vengono con maggior precisione definiti rectores et conservatores. Vale la pena di analizzare in dettaglio il significato di ciascun termine. Il verbo conservare, ripreso poi da conservatores, era già stato impiegato in apertura del De re publica:

«Non c'è infatti attività in cui la virtù umana si avvicini alla potenza divina più che il fondare nuove città o il conservare quelle già fondate» (17, 12). Il significato è mantenere gli ordinamenti che uno Stato ha assunto e preservare il sistema da ogni rischio di destabilizzazione. Adtuvare e augere invece, posti in climax ascendente con efficace omeoteleuto, indicano rispettivamente la capacità di adoperarsi perché lo Stato raggiunga i suoi fini (cfr. Philippicae VIII 10, 30) e l'impegno a renderlo sempre più potente. Quanto al sostantivo rectores, potrebbe essere accostato alla figura del dio «regolatore dell'universo» di cui l'autore parla anche poche righe prima (qui omnem mundum regit). Nel pensiero politico ciceroniano è centrale l'idea secondo cui chi governa non fa che svolgere una precisa funzione di arbiter super partes: ciò vale, con perfetto parallelismo, tanto per il princeps civitatis quanto per la divinità che è rector ac moderator mundi (cfr. De natura deorum II 35, 90; Tusculanae disputations I 28, 70; De finibus IV 5, 11).

Si riprende il concetto della morte come ritorno dell'anima alla sede di partenza, in una visione circolare del moto dell'anima dal cielo alla terra e quindi ancora al cielo. La matrice, pitagorica, viene probabilmente filtrata dai dialoghi di

Platone.

• Secondo i pitagorici, il corpo era carcere o tomba dell'anima (coua oñua, cfr. Platone, Gorgias 493a; Cratylus 400c), che lì espiava in attesa della purificazione. Scopo dell'anima è dunque di liberarsi dai vincoli terreni e corporali per salire al cielo. Il concetto ricorre con insistenza nel Somnium mediante tutta una serie di immagini che riportano alla sfera della prigionia: qui si parla di corporum vincla (cfr. Platone, Phaedo 67d), di carcer, di evolare (in armonia con il concetto dell'anima alata, cfr. Platone, Phaedrus 246d-256c; Phaedo 70a); più avanti (3, 15), Cicerone usa l'espressione corporis custodis liberare, riprendendo poco sotto la stessa immagine del corpo come «sentinella» dell'anima: retinendus animus est in custodia corporis; e ancora, poco dopo (3, 16), dice corpore laxati.

' L'immagine della vita come morte o, viceversa, della morte come compiuta realizzazione della vera vita ritorna anche in Tusculanae disputationes 131, 75 e potrebbe derivare dalla coincidenza dei contrari tipica di Eraclito (fr. 62 Diels-Kranz)

o ancora essere collegata con il processo di svalutazione della vita terrena che compie Socrate nei dialoghi platonici.prohibebat.



venientem Paulum patrem?' Quem ut vidi, equidem vim lacrimarum profudi, ille autem me complexus atque

osculans flere prohibebat.




15 E io, non appena riuscii a trattenere le lacrime e potei riprendere a parlare: «Ti prego», dissi, «padre mio santissimo e ottimo: se questa è la vera vita, a quanto sento dire dall'Africano, come mai indugio sulla terra? Perché non mi affretto a raggiungervi qui?»'°

• «No», rispose. «Se non ti avrà liberato dal

carcere del corpo quel dio cui appartiene tutto lo spazio celeste" che vedi, non può accadere che per te sia praticabile l'accesso a questo luogo. Gli uomini sono stati infatti generati col seguente impegno, di custodire quella sfera là, chiamata terra, che tu scorgi al centro di questo spazio celeste; a loro viene fornita l'anima dai fuochi sempiterni cui voi date nome di costellazioni e stelle, quei globi sferici che, animati da menti divine" , compiono le loro circonvoluzioni e orbite con velocità sorprendente. Anche tu, dunque, Publio, come tutti gli uomini pii, devi tenere l'anima sotto la sorveglianza del corpo, né sei tenuto a migrare dalla vita degli uomini senza il consenso del dio da cui l'avete ricevuta, perché non sembri che intendiate esimervi dal compito umano assegnato dalla divinità.

(15) Atque ut ego primum fletu represso loqui posse coepi: 'Quaeso', inquam, 'pater sanctissime atque

volle.

quoniam haec est vita, ut Africanum audio dicere, quid moror in terris? Quin huc ad vos venire propero?' 'Non est ita,' inquit ille. 'Nisi enim deus is, cuius hoc templum est omne, quod conspicis, istis te corporis custodiis liberaverit, huc tibi aditus patere non potest. Homines enim sunt hac lege generati, qui tuerentur illum globum, quem in hoc templo medium vides, quae terra dicitur, iisque animus datus est ex illis sempiternis ignibus, quae sidera et stellas vocatis, quae globosae et rotundae, divinis animatae mentibus, circulos suos orbesque conficiunt celeritate mirabili. Quare et tibi, Publi, et piis omnibus retinendus animus est in custodia corporis nec iniussu eius, a quo ille est vobis datus, ex hominum vita migrandum est, ne munus humanum assignatum a deo defugisse videamini.


16 Ma allo stesso modo, Scipione, sull'esempio di questo tuo avo e come me che ti ho generato, coltiva la giustizia e il rispetto, valori che, già grandi se nutriti verso i genitori e i parenti, giungono al vertice quando riguardano la patria; una vita simile è la via che conduce al cielo e a questa adunanza di uomini che hanno già terminato la propria esistenza terrena e che, liberatisi del corpo, abitano il luogo che vedi» - si trattava, appunto, di una fascia risplendente tra le fiamme, dal candore abbagliante -, «che voi, come avete appreso dai Greci, denominate Via Lattea». Da qui, a me che contemplavo l'universo, tutto pareva magnifico e meraviglioso. C'erano, tra l'altro, stelle che non vediamo mai dalle nostre regioni terrene; inoltre, le dimensioni di tutti i corpi celesti erano maggiori di quanto avessimo mai creduto; tra di essi, il più piccolo era l'astro che, essendo il più lontano dalla volta celeste e il più vicino alla terra, brillava di luce riflessa. I volumi delle stelle, poi, superavano nettamente le dimensioni della

" L'ipotesi del suicidio quale immediato raggiungimento di un bene superiore e liberazione dal carcere corporale, formulata già da Cebete nel Fedone platonico, era respinta con decisione da Socrate, convinto che l'uomo fosse al servizio della divinità, arbitra suprema del nostro destino. Il rifiuto del suicidio, in aperta polemica con i precetti dello stoicismo, parte dal presupposto della vita concepita come munus humanum adsignatum a deo: l'uomo deve assolvere fino in fondo il compito che gli e stato assegnato dalla divinita e non può arrogarsi un diritto che travalica 1 suoi limiti. Le stesse considerazioni, espressamente attribuite dall'autore a Pitagora, ritornano anche in Cato Maior de senectute 20, 73.

Il sostantivo templum, qui nella valenza di 'spazio celeste', afferisce al linguaggio sacrale ed è connesso etimologicamente col greco tépevos (radice di téuvo, 'tagliare'): indica uno spazio circoscritto, definito e consacrato alla divinità.

  1. Viene ripresa la teoria geocentrica (cfr. anche Tusculanae disputationes I 17, 40; 28, 68), che, già presente in Anassimandro, era stata sviluppata in particolare da Platone (Phaedo 108b; Timaeus 38d) e poi dalla cosmologia di Aristotele (De caelo 296a). Il primo a sostenere la teoria eliocentrica fu invece il grande astronomo Aristarco di Samo, vissuto nel IV-III secolo a.c.
  2. L'idea degli astri animati da menti divine, con spirito affine all'anima umana che da lì discende, è pitagorica (cfr.

Diogene Laerzio, VIII 27) ed è ripresa da Platone nel Timeo (38e). Non è escluso però che qui Cicerone risenta anche dell'influsso del panteismo stoico (cfr. ad es. Tusculanae disputationes 119, 43; De natura deorum II 15, 41).


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