Grice e Labeone: il diritto romano -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo
italiano. Ha larga cultura filosofica uno dei maggiori giuristi dell'età d’OTTAVIANO.
Si ignora se segue un indirizzo determinato. Giunse fino alla pretura, ma
rifiuta il consolato offertogli d’Ottaviano perchè conseguito prima di lui da
persona meno anziana. Appartenne al partito repubblicano. Scruve CCCC
saggi di cui restano frammenti. Si ricordano fra gli altri: "De
iure pontificio" -- in almeno XV libri, diversi "Commentarii
giuridici", 7davd, "Responsae", in almeno XV
libri, "Librì posteriores", in almeno XL libri. S'interessò anche
di studi logico-grammaticali. Grice: “Logico-grammatical stuff is my
thing, as was Labeone’s. My example is “Fido is shaggy,” Labeone’s was not!” --
Marco Antistio Labeone.
Grice e Labriola: l’implicatura conversazionale --
filosofia italiana – Luigi Speranza (Cassino).
Filosofo italiano. Grice: “Labriola
is good; he reminds me of pinko Oxford!” -- Essential Italian philosopher -- Con
particolari interessi nel campo del marxismo. Nacque da Francesco Saverio,
insegnante ginnasiale di lettere. Il padre, oriundo di Brienza, e nipote
diretto di PAGANO. Si iscrive alla facoltà di filosofia di Napoli, città
nella quale la famiglia si e trasferita. Qui studia con VERA e SPAVENTA, il cui
appoggio gli procura un posto di applicato di pubblica sicurezza nella segreteria
del prefetto. Scrive Una risposta alla prolusione di Zeller, un saggio in
cui osteggia il CRITICISMO contro ogni ipotesi di un ritorno a Kant. Rivendica
l'attualità dell'hegelismo. Consegue il diploma di abilitazione e insegna nel
ginnasio Principe Umberto di Napoli. Il suo saggio, premiato dall'Napoli, sull'”Origine
e natura delle passioni”: una significativa presa di distanze dall'idealismo in
favore del materialismo. Scrive “La dottrina di Socrate secondo Senofonte,
Platone ed Aristotele”, premiata dalla
Reale Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli. Consegue la libera
docenza in filosofia e si mette in aspettativa in attesa di ottenere un
incarico nell'università. Scrive la dissertazione “Esposizione critica della
dottrina di VICO” e collabora con il "Basler Nachrichten", al quale
invia corrispondenze politiche, al quotidiano napoletano "Il
Piccolo", fondato e diretto da Zerbi, futuro deputato e leader dell'Unione
liberale, un gruppo politico al quale L. aderisce. Entra anche nella redazione
della "Gazzetta di Napoli" e dell'Unità Nazionale, diretta da Bonghi,
al Monitore di Bologna e alla Nazione di Firenze, nella quale escono le sue X
Lettere napoletane. Si dichiara herbartiano in psicologia e in morale,
pubblicando a Napoli i saggi Della libertà morale, dedicata a Graf e Morale e
religione. Trasferitosi a Roma, supera il concorso alla cattedra di filosofia a Roma.
Pubblica il saggio Dell'insegnamento della storia.” Divienne direttore del
Museo di istruzione e di educazione. Sono anni in cui L. mostra un particolare
impegno verso il miglioramento del livello professionale degli insegnanti e la
diffusione dell'istruzione di base della popolazione, inteso come primo passo
per una maggiore democrazia del paese. A questo scopo s'informa sug’ordinamenti
scolastici dei paesi europei. Pubblica gli Appunti sull'insegnamento secondario
privato in altri stati e l'Ordinamento della scuola popolare in diversi paesi.
Contemporaneamente L. abbandona le convinzioni politiche di moderato liberalismo
per approdare a posizioni radicali. Oltre alla lotta all'analfabetismo, auspica
l'intervento dello stato nell'economia, una politica sociale di assistenza ai
poveri, il suffragio universale che permetta anche a candidati operai l'ingresso
al parlamento. Ottiene la cattedra di filosofia a Roma e inizia un corso sul socialismo.
A seguito di notizie che danno imminente la stipula del concordato con il
Vaticano, L. tiene a Roma la conferenza Della Chiesa e dello stato a proposito
della conciliazione, considerando una minaccia per la libertà di pensiero ogni
accordo con la Chiesa, temendone l'ingerenza nella vita pubblica italiana. Il quotidiano romano La Tribuna pubblica una sua
lettera in cui, tra l'altro, scrive di essere teoricamente socialista ed
avversario esplicito delle dottrine cattoliche e nella conferenza Della scuola
popolare, auspica l'ABOLIZIONE DELL’INSEGNAMENTO RELIGIOSO. Sul giornale Il
Messaggero, depreca l'uso della forza pubblica contro le manifestazioni. Tiene
agl’operai di Terni un discorso su Le idee della democrazia e le presenti
condizioni dell'Italia, in cui afferma di impegnarsi personalmente in politica
e dichiara di desiderare un governo del popolo mediante il popolo stesso e la
formazione di un grande partito popolare. Scrive che i parlamenti, come forma
transitoria della vita democratica d'origine borghese, spariranno col trionfo
del proletario e tiene nel Circolo operaio romano di studi sociali il discorso
Del socialismo commemorando la comune di Parigi. L. saluta il congresso
della social-democrazia tedesca a Halle scrivendo che il proletariato militante
procede sicuro sulla via che mena diritto alla socializzazione dei mezzi di
produzione ed l'abolizione del presente sistema di salariato, fidando solo nei
suoi propri mezzi e nelle sue proprie forze. Entra in rapporto epistolare con
Engels, che conosce a Zurigo, e con i maggiori dirigenti socialisti europei,
Kautsky, Liebknecht, Bebel, Lafargue, mentre rimprove a TURATI, il più
prestigioso leader socialista italiano e direttore della rivista Critica
sociale, superficialità teorica e arrendevolezza nei confronti degl’avversari
politici. Vuole che il partito socialista, che deve nascere ufficialmente con
il congresso di Genova, sia un partito d’operai e non di intellettuali
positivisti borghesi. Vede nei fasci siciliani un concreto esempio di
socialismo popolare e rivoluzionario e lamenta che il marxismo non riesca a
essere compreso in Italia (cf. GRICE, MARXISMO ONTOLOGICO). Fa lezione
sul manifesto di Marx ed Engels e scrive a quest'ultimo, di star facendo un corso
sulla genesi del socialismo ma di non riuscire a risolversi a scriverne un
saggio per l'ignoranza su tanti fatti, persone, teorie, etc, che sono tante
fasi, tanti momenti né sentiti né conosciuti in Italia, come ribadisce a Adler
che il marxismo non piglia piede in Italia. Su sollecitazione di Sorel,
scrive In memoria del Manifesto dei comunisti, sulla concezione materialistica
della storia, che esce sulla rivista del Sorel, Le Devenir social; lo spedisce
a Engels, ricevendone le lodi. Anche CROCE che ne promuove la stampa in
Italiane è influenzato tanto da attraversare il suo pur breve periodo di
adesione al marxismo. Nei due anni successivi L. scrive altri due saggi, Del
materialismo storico, dilucidazione preliminare e Discorrendo di socialismo e
di FILOSOFIA. È sepolto presso il cimitero acattolico di
Roma. Schematicamente, possiamo suddividere il percorso filosofico e
politico di L. in tre diversi momenti: innanzitutto fu propugnatore
dell'idealismo hegeliano, influenzato da SPAVENTA, del quale e allievo a Napoli. Successivamente, possiamo
distinguere una fase contrassegnata dal rifiuto dell'idealismo in nome del
realismo herbartiano. Infine, il momento in cui aderisce pienamente al
marxismo. L'approccio di L. al marxismo è influenzato da Hegel e Herbart,
per cui è più aperto dell'approccio di marxisti ortodossi come Kautsky. Egli
vide il marxismo non come una schematizzazione ideologica ed autonoma dalla
storia, ma piuttosto come una filosofia auto-sufficiente per capire la
struttura economica della società e le conseguenti relazioni umane. E
necessario aderire alla realtà sociale del proprio tempo storico se il marxismo
vuole considerare la complessità dei processi sociali e la varietà di forze
operanti nella storia. Il marxismo dove essere inteso come una teoria critica,
nel senso che esso non asserisce verità eterne ed immutabili ed è pronto ad
interpretare le contraddizioni sociali secondo le diverse fasi storiche, avendo
al centro della sua analisi il lavoro e le condizioni dei lavoratori e dunque
la concreta e materiale prassi umana. La sua descrizione del marxismo come
filosofia della prassi e ripresa nei Quaderni dal carcere di GRAMSCI. In
pedagogia L. avvertì l'esigenza collettiva dei tempi nuovi, il bisogno di una
scuola popolare che servisse da reale tessuto connettivo dell'Italia
post-unitaria, una lotta dunque per la civiltà, mezzo e fine dell'evoluzione
morale e complessiva delle classi sub-alterne. Nella monografia Dell'insegnamento
della storia, dedicata alle più importanti questioni della pedagogia generale,
L. aveva asserito la centralità dell'educazione alla socialità. Il metodo
pedagogico dove essere quello della ricerca critica e di DIBATTITO e di
sperimentazione, unica via capace di condurre alla padronanza del pensiero
logico-razionale e in grado di formare personalità aperte alla ricerca e al
confronto (non a caso i primi studi di L. Sono stati rivolti a Socrate e al
metodo socratico. Traducendo in un linguaggio pedagogico moderno, per L. e
necessaria un'attenzione maggiore ai pre-requisiti logici piuttosto che alla
struttura interna disciplinare, che comunque va indagata attraverso quella che
egli chiama un'epi-genesi analitica. Celebre e una sua conferenza tenuta
nell'Aula Magna dell'Roma, discorso sollecitato dalla stessa Società degli
Insegnanti della capitale, che poi ne cura la pubblicazione in opuscolo. E
necessario dare concretezza a piani di istituzioni scolastiche entro le quali
le didattiche si sviluppassero non da una deduzione della teoria, ma come
risultato di lotte politiche, di ideali sociali, di tradizioni storiche, di
condizioni ambientali. Per L. proprio l'azione dell'ambiente storico sociale
sugli uomini e la loro reazione ad esso costituiscono il tema dell'educazione.
Per cui le idee non cascano dal cielo. Il metodo deve partire dalla prassi,
dalla pratica e non dalle idee, dai principi astratti. Il nucleo
essenziale della pedagogia della prassi sta nella percezione della connessione
dell'opera educativa con le condizioni dello sviluppo economico-sociale.
Trockij conosce con entusiasmo i saggi di Labriola, quando e detenuto nel
carcere di Odessa. Egli scrive nelle sue memorie che come pochi scrittori
latini, L. possede la dialettica materialistica, se non nella politica, dov'e
impacciato, certo nel campo della FILOSOFIA della storia. Sotto quel
dilettantismo brillante c'e vera profondità. L. liquida egregiamente la teoria
dei fattori molteplici che popolano l'olimpo della storia guidando di lassù i
nostri destini. Trockij aggiunge che dopo anni continua a rimanergli in mente
il ritornello Le idee non cascano dal cielo. Altri saggi: Una risposta alla
prolusione di Zeller, Origine e natura delle passioni secondo l’Etica di
Spinoza, La dottrina di Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele,
Napoli, Stamperia della Regia Università, Della libertà morale, Napoli, Ferrante-Strada,
Morale e religione, Napoli, Ferrante, Dell'insegnamento della storia. Studio pedagogico,
Roma, Loescher, L'ordinamento della scuola popolare in diversi paesi. Note,
Roma, Tip. eredi Botta, I problemi della
filosofia della storia. Prelezione letta nella Roma, Roma, Loescher, 1Della
scuola popolare. Conferenza tenuta nell'aula magna della Università, Roma,
Fratelli Centenari, Al comitato per la commemorazione di BRUNO in Pisa.
Lettera, Roma, Aldina, Del socialismo. Conferenza, Roma, Perino, Proletariato e
radicali. Lettera a Socci a proposito del Congresso democratico, Roma, La CO-OPERATIVA;
Saggi intorno alla concezione materialistica della storia I, In memoria del
manifesto dei comunisti, Roma, Loescher, Del materialismo storico.
Dilucidazione preliminare, Roma, Loescher, Discorrendo di socialismo e di
FILOSOFIA. Lettere a Sorel, Roma, Loescher, CROCE, Bari, Laterza, Da un secolo all'altro. Considerazioni
retrospettive e presagi, Bologna, Cappelli, L'università e la libertà della
scienza, Napoli, Veraldi, A proposito della crisi del marxismo, "Rivista
italiana di sociologia", Scritti varii editi e inediti di filosofia e
politica, raccolti e pubblicati da Croce, Bari, Laterza, Socrate, Croce, Bari,
Laterza, La concezione materialistica della storia, con un'aggiunta di Croce
sulla critica del marxismo in Italia, Bari, Laterza, re prelezioni sulla storia
e il materialismo storico; In memoria del Manifesto dei comunisti, Brescia,
Studio Editoriale Vivi, Lettere a Engels, Roma, Rinascita, Democrazia e
socialismo in Italia, Milano, Cooperativa del libro popolare, Opere, Pane, I,
Scritti e appunti su Zeller e su Spinoza, Milano, Feltrinelli, La dottrina di
Socrate secondo Senofonte, Platone ed Aristotele, Milano, Feltrinelli, Ricerche
sul problema della libertà e altri scritti di filosofia, Milano, Feltrinelli, Scritti
di pedagogia e di politica scolastica, Bertoni Jovine, Roma, Riuniti, Saggi sul
materialismo storico, Gerratana e Guerra, Roma, Riuniti, introduzione e cura di
Santucci, Il materialismo storico, antologia sistematica Poni, Firenze, Le
Monnier, Pedagogia e società. Antologia degli scritti educativi, scelta e
introduzioni di Marchi, Firenze, La nuova Italia, Scritti politici. Gerratana,
Bari, Laterza, Opere, Sbarberi, Napoli, Rossi, Scritti filosofici e politici, Sbarberi,
Torino, Einaudi, Lettere a Croce. Napoli, Istituto italiano per gli studi
storici, Dal secolo XIX al secolo XX. Dall'era della concorrenza al monopolio.
Nascita e lotte del socialismo. IV saggio della concezione materialistica della
storia, Lecce, Milella, Scritti liberali, Bari, De Donato, Scritti pedagogici,
Siciliani De Cumis, Torino, POMBA, Epistolario Roma, Riuniti, Roma, Riuniti,
Roma, Riuniti, Lettere inedite. Roma,
Istituto storico italiano per l'età moderna e contemporanea, La politica
italiana Corrispondenze alle “Basler Nachrichten”, a cura e con introduzione di
Miccolis, Napoli, Bibliopolis, Del materialismo storico e altri scritti,
Milano, M&B Publishing, Del socialismo e altri scritti politici, Milano, UNICOPLI,
Bruno. Scritti editi e inediti Napoli, Bibliopolis, Fra Dolcino, Pisa, Edizioni
della Normale,. Tutti gli scritti
filosofici e di teoria dell'educazione, Milano, Bompiani Il pensiero occidentale,.
Edizione nazionale La casa editrice Bibliopolis ha in corso di pubblicazione
l'edizione nazionale delle opere di L., istituita con decreto del Ministero per
i Beni e le Attività Culturali, Tra Hegel e Spinoza. Scritti, Savorelli e Zanardo, Bibliopolis, I problemi della
filosofia della storia e recensioni Cacciatore e Martirano, Bibliopolis, Da un secolo
all'altro. Miccolis e Savorelli, Bibliopolis, archividifamiglia-sapienza.beniculturali.
Trotzkij, La mia vita, Fiorilli, L. Ricordi «Nuova Antologia», Berti, Per uno studio della
vita e del pensiero di L., Roma, Ernesto Ragionieri, Socialdemocrazia tedesca e
socialisti italiani: Milano, Luigi Cortesi, La costituzione del Partito socialista
italiano, Milano, Sergio Neri, Antonio Labriola educatore e pedagogista,
Modena, 1968. Luigi Dal Pane, Antonio Labriola, la vita e il pensiero, Bologna,
Demiro Marchi, La pedagogia di Antonio Labriola, Firenze, Luigi Dal Pane,
Antonio Labriola nella politica e nella cultura italiana, Torino, Stefano
Poggi, Antonio Labriola. Herbartismo e scienze dello spirito alle origini del marxismo
italiano, Milano, Giuseppe Trebisacce, Marxismo e educazione in Antonio
Labriola, Roma, Filippo Turati, Socialismo e riformismo nella storia d'Italia.
Scritti politici, Milano, 1979. Nicola Siciliani de Cumis, Scritti liberali,
Bari, Stefano Poggi, Introduzione a Labriola, Roma-Bari, Beatrice Centi,
Antonio Labriola. Dalla filosofia di Herbart al materialismo storico, Bari, Livorsi,
Turati. Cinquant'anni di socialismo italiano, Milano, Franco Sbarberi,
Ordinamento politico e società nel marxismo di Antonio Labriola, Milano, Antonio
Areddu, Sulle lettere di Antonio Labriola a Croce, Firenze, Renzo Martinelli,
Antonio Labriola, Roma, Antonio Areddu, A. Labriola e B. Croce nelle vicende
del marxismo teorico italiano, in “Behemoth”,Antonio Areddu, L. e B. Croce
nelle vicende del marxismo teorico italiano, in “Behemoth”, X, Luca Michelini,
"Antonio Labriola e la scienza economica. Marxismo e marginalismo",
in "Marginalismo e socialismo nell'Italia liberale M. Guidi e L. Michelini, Annali della
Fondazione Feltrinelli, Milano, Alberto Burgio, Antonio Labriola nella storia e
nella cultura della nuova Italia, Macerata, Antonio Areddu, Il pensiero di A.
Labriola, "Il Cronista", L. e la sua Università. Mostra documentaria
per i Settecento anni della “Sapienza” A cento anni dalla morte di Antonio
Labriola, Nicola Siciliani de Cumis, Roma, Nicola D'Antuono, Saggio
introduttivo e commento a A. Labriola, Discorrendo di socialismo e filosofia,
Bologna, Nicola Siciliani de Cumis, Antonio Labriola e «La Sapienza». Tra testi,
contesti, pretesti, con la collaborazione di A. Sanzo e D. Scalzo, Roma, 2007.
Stefano Miccolis, Antonio Labriola. Saggi per una biografia politica,
Alessandro Savorelli e Stefania Miccolis, Milano,. Nicola Siciliani de Cumis,
Labriola dopo Labriola. Tra nuove carte d'archivio, ricerche, didattica,
Postfazione di G. Mastroianni, Pisa,. Alessandro Sanzo, Studi su Antonio
Labriola e il Museo d'Istruzione e di educazione, Roma,, Alessandro Sanzo, L'opera pedagogico-museale
di Antonio Labriola. Carte d'archivio e prospettive euristiche, Roma, Pietro
Mandré. Antonio Labriola, in Dizionario di storia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana,. Antonio Labriola, su Enciclopedia Britannica, Encyclopædia
Britannica, Inc. Antonio Labriola, in Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Opere di Antonio Labriola, su Liber
Liber. Opere di L., su openMLOL,
Horizons Unlimited srl. Opere di Antonio Labriola,. Opere di Antonio Labriola,
su Progetto Gutenberg. L'Archivio
Antonio Labriola, su marxists.org. Alberto Burgio, Antonio Labriola, in Il
contributo italiano alla storia del Pensiero: Filosofia, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana,. Roma. La personalità storica di Socrate Socrate o gli Ateniesi.
Educazione e sviluppo della coscienza di Socrate. Carattere di Socrate. Osservazioni
su le fonti. Orizzonte delia coscienza socratica Posizione di Socrate nella storia della
religione. Elementi della coscienza di Socrate. Del valore filosofico di
Socrate. Formalismo logico. Determinazione del valore del formalismo logico. Limitazione
del sapere umano. Socrate e i Solisti. Pretesa soggettività di Socrate. Preteso
misticismo di Socrate. Del metodo di Socrate. Presupposti storici e psicologici.
Motivo e sviluppo del metodo socratico. Imprecisione formale del metodo
socratico. Della differenza fra rappresentazione e concetto, e del principio
d'identità. Dell' etica socratica in generale, e del concetto del bene. Conoscere
e volere. Equazione fra volere c sapere (ptù&i cautdv). Fondamento della
pedagogia socratica. Le forme concrete della vita elica È Socrale un
riformatore? L’individuo e le sue relazioni domC5tiche. L’ individuo e lo stato. Vili. Delle virtù. Generalità.
Il concetto delle virtù nell'orizzonte socratico. Identificazione della virtù e
del sapere. Ignoranza degli elementi naturali. Del bene, della felicità c del
sapere. Del bone. Della felicità. Del
sapere. Del divino e dell’anima umana nell’orizzonte socratico. Il Concetto del
divino. II concetto dell’ anima. Riepilogo e conclusione La personalità
storica di Socrate. Socrate e gli Ateniesi. Educazione e sviluppo della
coscienza di Socrate. Carattere di Socrate. Osservazioni su
le fonti. Orizzonte della coscienza socratica. Posizione di Socrate nella
storia della religione. Elementi della coscienza di Socrate. Del
valore filosofico di Socrate. Formalismo logico. Determinazione del valore del
forma- lismo logicoLimitazione del sapere umano. Socrate e i Sofisti. Pretesa
soggettività di Socrate. Preteso misticismo di Socrate. Del metodo di Socrate. Presupposti
storici e psicologici. Motivo e sviluppo del metodo socratico. Imprecisione
formale del metodo socratico. Della differenza fra rappresentazione
e concetto, p^^- e del principio d'identità. Dell'etica socratica i?i
generale, e del concetto del bene. Conoscere e volere. Equazione
fra volere e sapere (yvttjtì-t. aauxóv). Fondamento della pedagogia
socratica. Le forme concrete della vita etica . È Socrate un riformatore?
L'individuo e le sue relazioni domestiche L'individuo e lo Stato. Delle
viriti. Generalità. Il concetto delle virtù nell'orizzonte socratico. Identificazione
della virtù e del sapere. Ignoranza degli elementi naturali. Del bene,
della felicità e del sapere. Del bene. Della felicità. Del sapere. Del
divino e dell'anima umana nell'orizzonte socratico. Il Concetto del divino. Il
concetto dell'anima. Formalismo logico. Senofonte e Platone (') mettono in
bocca agl'interlocutori di Socrate questa notevole accusa, ch'egli solesse
ripeter sempre le me- desime cose, e sempre nel medesimo modo, interrompendo il
libero corso all'esposizione dell'avversario. Socrate in fatti non sapea
esprimere il suo pensiero in un discorso con- cepito in forma oratoria, alla
maniera di Gor- gia e di Protagora suoi interlocutori, né potea vagare in tutto
il campo dello scibile come Ippia il polistore, o adattarsi alla maniera
sdegnosa e virulenta di Callide e Trasimaco: una certa innata sobrietà di
spirito, ed una moderazione a tutta pruova, che era divenuta natura, lo
conteneano in certi limiti costanti, ai quali egli cercava ridurre i suoi
uditori. Questo fare era monotono, ed avea l'aria di pedanteria: tanto più,
perchè rinunziare al mezzo tanto potente della persuasione ora- (i) Sen. Meni.
IV, 4, 6. Plat. Gorg. p. 490 E. Strùmpell fa rilevare molto vivamente la
differenza che correa fra i Sofisti e Socrate, nell'uso del ragionamento
formale. toria non potea non sembrar cosa strana in una democrazia, dove tutte
le pubbliche fac- cende dipendeano dall'arte della parola. Ma tornava forse
Socrate di continuo all'afferma- zione di questa o quella massima morale, per
ripeterla ogni istante, ed improntarla nell'ani- mo degli uditori ? (') Era
egli forse un mora- lista bello e compiuto, che catechizza e pre- dica; o tenea
forse in serbo uno schema logico, che andava applicando ad ogni sorta di qui-
stioni ? Nulla di tutto ciò. Il suo discorso ca- dea sopra oggetti
disparatissimi, e quali l'oc- casione prossima li venisse offrendo: nessuno
studio nella scelta degli argomenti potea di- sporre il suo animo alla
ripetizione monotona delle medesime cose, né dalla sua occupazione dialogica
risultò mai un complesso di pronun- ziati, che prendessero forma di massime e
di precetti. Le condizioni stesse della coltura etica ed artistica non
consentiano, che a quel tempo si potesse apprendere, come avvenne (i) Zeller ha
molto bene criticata l'opinione or- dinaria, che fa di Socrate un moralista
popolare; ma noi non ci accordiamo con lui nella determinazione del valore
filosofico del dialogo socra- tico; la qual cosa abbiamo voluto dire qui
recisamente, per evitare ogni ulteriore polemica. più tardi, le
relazioni morali nell'astratta uni- versalità della massima, o formulare netta-
mente una esigenza logica; tanto è vero, che i discepoli o seguaci che voglia
dirsi di Socrate ebbero più a sviluppare, ciascuno per proprio conto, i pfermi
che avean raccolto dalle acci- dentali conversazioni del maestro, che a di-
scutere sul valore positivo di questo o quel principio ('). Quella monotonia
notata dagli avversari non concerneva che l'esigenza della formale evidenza e
certezza del discorso; ed era quindi l'intenzionale ritorno ai medesimi
presuppo- sti, nel lato formale d'ogni quistione. Ma questo formalismo non
apparisce ancora in Socrate come già isolato, e distinto dall'og- getto della
ricerca, e come presente alla co- scienza del filosofo per sé ed
obbiettivamente; perchè agisce solo come reale esigenza di [Vedi su questo
punto Hermann: Gescìiichte ecc.; e lo stesso autore Prof. Ritler's Dar-
stellung der sokratischeti Systeme, Heidelberg, Hegel è stato uno dei primi a
riconoscere l'importanza delle scuole socratiche per la determinazione del
prin- cipio filosofico di Socrate, e cfr. Biese: Die Philosophie des
Aristoicles, colui, che ragionando avverte per la prima volta, che il
ragionamento dev'essere conse- guente, fondato ed evidente. La maniera corretta
e cosciente del ragio- nare è nella nostra coltura filosofica cosa troppo
ovvia, e la nostra educazione ci for- nisce ben presto dello schema logico
della definizione, della pruova ecc., in guisa, che possiamo al tempo stesso
indurre, dedurre, ed argomentare perfettamente, ed aver co- scienza della forma
logica per sé stessa, e studiarla nei suoi caratteri e nel suo valore : ma
tutto ciò era allora impossibile. In So- crate l'esigenza del sapere esatto e
formal- mente corretto è ancora un semplice atto di personale energia, un
bisogno intrinseco di certezza e di acquiescenza alla normalità di una opinione
chiaramente concepita, un la- voro che si compie per la necessaria coeffi-
cienza dei vari elementi etici della coltura e della tradizione, e non può
ancora presen- tarsi allo spirito come un dato di estrinseca evidenza. Se noi
ci sforziamo per poco di rappre- sentarci il mondo, secondo l'immagine, che la
coscienza anche più colta dei contempo- ranei di Socrate ne avea espressa nella
storia, nella poesia, nelle leggende, nelle mas- sime e nei detti dei sapienti;
e se guardiamo poi quanta differenza corra da quella pienezza ed
inconsapevolezza d' intuizione, alle aporie della ricerca, solo allora
intendiamo quanta profondità filosofica fosse nelle ricerche di Socrate, e la
parsimonia stessa dei mezzi da lui adoperati diverrà più degna di ammira-
zione, perchè è pruova evidente della ener- gia, con la quale egli seppe
avvertire la ne- cessità di correggere ad una stregua costante tutte le
incertezze della conoscenza ordina- ria, e fermarsi poi ed insistere tutta la
vita nel criterio acquistato. I presupposti logici, ai quali tutte le qui-
stioni del dialogo socratico sono riducibili, consistono nella epagoge e nella
definizione; e noi cercheremo in séguito di esporre il modo, come queste due
funzioni si sono spie- gate in quell'orizzonte scientifico che Socrate s'era
tracciato. Per ora basterà aver notato, come questa è la prima volta che nello
spi- rito umano si sia fatto palese il bisogno, che prima di determinare la
natura, il fine, ed il valore degli oggetti, bisogna acquistare una coscienza
precisa ed inalterabile delle condi- zioni in cui deve trovarsi la conoscenza,
per- Labriola — Socrate. !Hl<^3 che possa dirsi certa ed evidente.
Tutto quello che la speculazione posteriore ha strettamente designato come
elemento logico del sapere, e che ha cercato successivamente di sceve- rare
dalla natura immediata e dalle condi- zioni incerte e fluttuanti del soggetto
pen- sante, apparisce nella sfera della ricerca so- cratica come qualcosa di
affatto connaturato con le esigenze pratiche di colui che ricer- cava; e senza
isolarsi dai motivi che l'aveano praticamente prodotto, acquistò un grado di
sufficiente evidenza nella coscienza, tanto da rimanere, non solo principio
efficace in So- crate, ma costante centro ed impulso di ogni posteriore
attività scientifica ('). (i) Indem die Philosophie des Sokrates kein Zuriick-
ziehen aus dem Dasein und der Gegenwart in die freien reinen Regionen des
Gedankens, sondern aus einem Stucke mit seineni I-eben ist, so schreitet sie
nicht zu einem Systeme fort etc. Hegel, op. cit., p. 51. Da questo e da altri
luoghi può scorgersi, come Hegel avesse un concetto più schietto della
filosofia socratica, di quello che hanno formulato molti scrittori posteriori,
non escluso lo Zeller; il quale, sebbene dica di non volerlo, parla sempre in
una maniera troppo astratta del principio del sapere, e ricade nell'errore di
Schleier- macher e di Brandis. Determinazione del valore del formalismo
logico La caratteristica, che noi abbiamo data dell'attività filosofica di
Socrate in generale, pare risponda a quello che già s'è detto da altri; e che
non serva se non a rifermare un'opinione corrente, secondo la quale So- crate
sarebbe stato il primo che avesse avuta una chiara coscienza del valore del
sapere ('). Si è, infatti, detto più volte, che l'idea del sapere sia la
scoverta di Socrate, e che ces- sando per opera sua la esclusiva ricerca del
mondo naturale, la filosofia fosse divenuta la scienza dell'idea, del soggetto,
dello spirito e così via (^). Senza la pretensione della novità, noi riteniamo
per erronee una gran parte di quelle caratteristiche; e perchè at- tribuiscono
a Socrate una consapevolezza maggiore di quella ch'egli s'avesse, e perchè
devono poi fare molte congetture per spiegare ed intendere la natura dell'etica
socratica. Ba- Per es. Schleiermacher. La forma più esagerata è quella del
Ròtscher, il quale parla di Socrate come d'un filosofo moderno, op. cit.,
passim. sterà notare solo questo, che partendosi dalla supposizione, che
Socrate avesse avuto co- scienza del sapere preso per sé stesso, come forma o
attività in generale, non solo si cade nell'inconveniente di non poter trovare
un solo luogo di Senofonte che confermi questa opi- nione, ma si è poi obbligati
a fare una qui- stione oziosa su la natura empirica o a priori del sapere
socratico, che non c'è motivo al mondo per proporsela; e, in ultimo, si è poi
costretti a ritenere, che Socrate abbia in virtù di una scelta, e per certe
ragioni teoretiche, limitato le sue ricerche all'etica ('); mentre la
repugnanza contro le indagini naturali deve in lui ammettersi, non come un
risultato dei criteri logici che applicava, ma invece come una prima e semplice
esigenza delle sue con- vinzioni religiose. Abbiamo invero detto, che il valore
filo- sofico di Socrate consiste nella esigenza di un sapere normale e certo;
ma la forma li- mitativa, con la quale abbiamo espressa que- sta opinione,
esclude di fatto tutte le caratte- ristiche alle quali può in apparenza sembrare
(i) Vedi specialmente il Bòhringer, op. cit., p. 2 e seg. che ci
avviciniamo. Che il sapere figuri allora per la prima volta come una potenza
deter- minata, e serva a correggere l'opinione e la tradizione, ed a condurre
come norma sicura la ricerca del filosofo in tutte le complica- zioni e le
incertezze del dialogo, ciò non vuol dire, che il concetto del sapere abbia
rag- giunta una tale importanza ed obbiettività, da segnare esso stesso il
termine e lo scopo della ricerca. E quando in fine, dal confronto di Socrate
coi precedenti tentativi filosofici si vuole arguire la consapevolezza che egli
ha potuto raggiungere della sua posizione storica ('), si viene a confondere
due ordini di criteri del tutto diversi perchè dal giudizio che noi riportiamo
su la importanza di una personalità storica, non può indursi qual grado di
consapevolezza quella persona stessa abbia raggiunto. Il valore filosofico di
Socrate sta in rela- zióne diretta con l'orizzonte della sua co- (L'Alberti
specialmente fa di Socrate un filosofo dotato di una piena coscienza del
proprio valore sto- rico; e non potea evitare un simile errore, dal momento che
s'era proposto di seguire il dialogo platonico come un documento biografico;
vedi op. cit., p, 13 e seg. scienza; nel quale noi abbiamo rinvenuti mo- tivi
di natura più immediata, più complessa, e più personale di quelli che conducono
esclu- sivamente alla conoscenza speculativa. Questa determinazione intrinseca
della sua attività ci fornisce ora di mezzi sufficienti, per rifare indirettamente,
e mediante la congettura, il processo genetico della sua coscienza filoso-
fica, che è stato impossibile d'intendere su la semplice testimonianza delle
fonti storiche. Socrate non occupa immediatamente un posto nella storia della
filosofia, mercè l'ac- cettazione o la critica di una tradizione teo- retica; e
per questa ragione stessa non arrivò all'affermazione astratta del principio
logico della certezza, come regolativo della ricerca e correttivo del conoscere
comune ed incon- sapevole. Le condizioni speciali del suo ca- rattere lo aveano
predisposto a sentire prò-, fondamente il bisogno di una religione intima e
depurata dalle esteriorità della tradizione; e di una certezza etica che lo
tenesse libero dalle fluttuazioni dei momentanei interessi e delle opinioni
correnti: e quella naturale pre- disposizione toccò il suo soddisfacimento in
un concetto della divinità, che riconosceva insiememente la bellezza ed armonia
del mondo, e la libertà umana come predeter- minata al bene. La costanza,
la fermezza d'animo, il naturale sentimento del giusto, la morale certezza
della inalterabilità della legge, la perpetua acquiescenza al corso delle cose
perchè riconosciuto provvidenziale, — tutte queste tendenze sollecitarono la
sua in- telligenza, predisposta alla riflessione, a cer- care una norma
costante dei giudizi, e tro- vatala egli persistette ad applicarla come stregua
alla condotta morale sua propria, e dei suoi concittadini. E scorgendo egli,
che il materiale delle opinioni e dei giudizi etici, qual era raccolto nella
lingua e nella tradi- zione ed espresso nella coscienza politica dei
contemporanei, se a prima vista potea avere il suo fondamento nelle costanti
con- dizioni della natura umana, non corrispondeva sempre a quel grado di
consapevolezza, che le sue abitudini riflessive gli aveano reso connaturale, il
bisogno di fare entrare nel- l'animo altrui l'intimità e lo spirito di con-
seguenza lo fece divenire maestro di morale, ed educatore della gioventù. In
questa nostra maniera d'intendere l'at- tività filosofica di Socrate trovano un
posto na- turale alcune opinioni, che incontestabilmente gli appartengono,
e che altrimenti non sa- rebbero spiegabili ; ed, oltre a ciò, molte quistioni,
che si son sollevate su la dottrina socratica, rimansfono escluse di fatto.
Tocche- remo alcuni di questi punti. Nel concetto che Socrate s'era fatto
dello Stato apparisce, più vivamente che in qua- lunque altra delle sue
definizioni, il contrasto (i) Meni., II, 4, 6 e seg.; id., 6, 21-29. (2) Vedi
il Jacobs, Vermischte Schrifteii, voi. II, p. 251: Jene Sitte enthalt ebeti so,
wie die Liebe zum andern Geschlechte, alle Elèmente des Edelsten und des
Nichtswiirdigsten, des Lasters, des Besten und des Schlechtesten in
sich. che correa fra la novità
delle sue filosofiche esiorenze e la naturale tendenza alla conser- vazione
delle sostanziali relazioni della vita etica, che in lui era sussidiata dal
convinci- mento religioso e da una profonda abnega- zione. Il principio normativo
della consape- volezza non gli consentiva di ammettere che la potenza, o il
dritto ereditario, o la scelta del popolo mediante i voti potessero costi-
tuire la capacità dell'individuo a trattare le faccende dello Stato ('). Solo
la piena coscienza della propria capacità e la speciale cono- scenza delle
faccende da trattare possono e devono invogliare l'individuo ad una legit- tima
ambizione politica (^); e questa diviene per sé stessa un dovere, quando è
sorretta dal fermo convincimento, che l'attitudine e la specifica intelligenza
dell'individuo rispondono alle normali esigenze della vita politica. Al-
l'attuazione pratica di questa massima solea Socrate disporre i suoi uditori,
sviluppando nel loro animo il bisogno di acquistare una chiara e perfetta
notizia degli obblighi spe- (i) Mem., e Plat. Apol. (2) Mem., Ili, 6; e IV, 2,
6 e seg. SOCRATE ciali che spettano a questo o a quello fra gli
amministratori dello Stato, e riassumeva tutta la sua politica nel principio
che solo chi sa deve e può fare, ossia che il potere sta nel sapere. L'importanza
di questa massima in- novatrice ci fa apparire l'attività socratica in una
manifesta opposizione con tutti i concetti tradizionali della politica greca,
perchè, in virtù di essa, il dritto ereditario della monar- chia e
dell'aristocrazia, ed il concetto demo- cratico della maoraioranza erano recisi
nella loro radice e subordinati alla necessità di una generale rettificazione
di tutte le forme sociali dal punto di vista della consapevo- lezza. Ma pur
nondimeno la cosa non andava tant'oltre, e noi non sappiamo scorgere in tutto
questo l'esigenza o il presentimento di una radicale riforma dello Stato, o,
come altri ha detto, di una teoria sociale fondata sul principio della
conoscenza esatta. Il sa- pere, di cui parlava Socrate, non era qualcosa di
distinto dalla conoscenza empirica dei vari rami della pubblica
amministrazione, e non era costituito in un insieme di teorie univer- sali e
scientifiche. Egli non potea quindi, come più tardi fece Platone, ideare la
costituzione di uno Stato, in cui la coordinazione e subordinazione delle sfere
sociali fossero determi- nate dal concetto psicologico della gradazione della
conoscenza. Il suo concetto non ha co- lorito e carattere esclusivo di una
tendenza filosofica, che voglia imporsi alle pratiche esi- genze della vita per
regolarle a sua posta; ma rimane subordinato alla varietà estrinseca delle
sfere sociali, e non ne sconosce la ori- ginalità per farla rientrare nei
confini di uno schema astratto. Di qui procede, che, mal- grado l'apparenza di
una dichiarata riforma, Socrate riconobbe l'ubbidienza alle leggi come
impreteribile ('); e, fedele all'antico principio ellenico della sostanzialità
dello Stato, fece dipendere il bene dell'individuo da quello della comunità. E
considerando la sua attività filosofica come parte integrale dei suoi doveri di
cittadino morì nel rispetto alle leggi, e nel convincimento, che la condanna
pronun- ziata contro di lui non fosse che una legittima manifestazione
dell'attività dello Stato. L'opposizione fra il vecchio e il nuovo, fra il concetto
sostanziale e l'esigenza di una per- [Mem., IV, 6, 6. (2) Mem., HI, 7, 9. (3)
Mem., IV, 4, 4: Plat. Apol., 34 D e seg.; e cfr. Phaed., 98 C e seg.
sonale sodisfazione nello Stato, si chiarì mag- giormente nelle scuole
socratiche; e specialmente in Platone, il cui ideale politico non deve essere
inteso, né come ripristinazione dello Stato dorico, né come un segno precursore
del Cristianesimo (^), ma conviene sia spiegato come un progresso teoretico del
principio enunciato da Socrate, che il potere deve consistere nel sapere. Che i
concetti da noi più sopra esposti non avessero una tendenza dichiaratamente
riformatrice, apparisce ancora di più dal modo del tutto pratico come Senofonte
introduce il suo eroe a discutere con questo o quello dell'esercizio speciale
delle diverse arti, che conferiscono al pubblico bene o al manteni- mento delle
sociali relazioni. Una sola è l'idea fondamentale di tutti quei dialoghi:
rettificare mediante la definizione il concetto del fine cui l'attività è
rivolta, per far convergere tutti gli sforzi dell' individuo all'acquisto di
una norma costante, che ne regoli la pratica senza (i) Come vuole Hermann. Come
vuole Baur. Vedi su questa quistione lo Zeller, Der Plato7iische Staat, in
seiner Bedeutung fiìr die Folgezeit, nei citati Vortràge ecc., pp. 62-82
incertezza e divagazioni. Sotto questo riguardo il calzolaio e lo
scultore, il pastore e l'arconte, il marinaio ed il generale ecc., perquantovarie
le loro occupazioni e diversi i finì cui sono rivolti, devono tutti convenire
nella norma dell'esercizio metodico delle loro funzioni, e sostituire alla
pratica istintiva, tradizionale ed incosciente la norma del sapere. Senza
entrare nella specializzata esposizione di questo o quel dialogo, perchè in
tutti gli svariati casi non rileveremmo che una sola con- clusione, basterà qui
dire che Socrate è stato il primo, che abbia nettamente formulata l'esigenza di
una tecnica speciale delle arti e ravvisata la necessità, che a capo di ogni
pratica occupazione deve esser collocata la riflessione normativa: e, per le
cose già espo- ste, non fa mestieri che chiariamo meglio questo pensiero,
perchè altri non creda, che egli intendesse conciliare la pratica e la teo-
ria, l'arte e la scienza. E qui cade in acconcio di osservare che la meraviglia,
con la quale molti hanno ri- guardato il dialogo che Senofonte riferisce con la
meretrice Teodota ('), non ha fonda- (i) Mem., Ili, cap. ii, mento che
nella natura delle nostre morali convinzioni. Quel dialogo, che non deve essere
addotto a provare che la principale preoccupazione di Socrate fosse la ricerca
dei concetti ('), né può essere inteso come interamente derisorio, perchè
l'ironia è un momento ofenerale della conversazione socratica, mo- stra, a
nostro parere, che il mestiere della meretrice potesse anch'esso nei suoi
elementi affettivi venir subordinato al criterio socratico di un esercizio
normale e riflesso. Quel- l'arte non destava allora gli scrupoli esage- rati,
che noi moderni siamo soliti di provare contro ogni divagazione della natura
dalla norma assoluta di una morale precettistica. Anzi, per le speciali
condizioni della famiglia greca, sviluppava soventi nelle donne libere un grado
di cultura superiore di gran lunga (i) Come fa Zeller. Questa è l'opinione di
Brandis: Enhvickelungen ecc., Vedi su questo argomento Hermann:
Privatalterthilmer, con tutte le autorità ivi addotte, e specialmente John :
The Hellenes, the history of the mannei's of the ancient Greeks, LE FORME
CONCRETE DELLA VITA ETICA a quello della donna legalmente ritenuta nelle
angustie del gineceo. E a terminare questo schizzo della coscienza politica e
sociale di Socrate osser- veremo, che egli, col rilevare l' importanza
dell'attività cosciente, nobilitò il concetto del lavoro, facendone uno degli
elementi costitutivi dello stato e della famiglia. Questa veduta era allora
qualcosa di nuovo, perchè diretta a reagire contro un pregiudizio, fon- dato
nella costituzione sociale dell'antica Gre- cia e già da gran tempo invalso,
che facea considerare come indegna dell'uomo libero la produzione ottenuta col
lavoro manuale. Se Socrate abbia o no superato il particolarismo ellenico, e se
ritenesse per giusta come vuole Senofonte, o per ingiusta come vuole Platone
p), l'offesa arrecata al nemico, nella grande incertezza dei criteri seguiti
dai vari espositori noi non sappiamo affermare. Ad ogni modo, l'autorità di
Senofonte ci par- [V. Jacobs, “Vertnischte Schriften”. Meni. Crit., e Rep.. Questa
è anche l'opinione dello Zeller.] rebbe da preferire, e la maniera arbitraria
come si è voluto da alcuni interpetrarla ci pare infondata e priva di ogni
verosomi- glianza ('). (i) Il Meiners: Geschichte der Wissenschaften, pone una
distinzione arbitraria fra il male arrecato sensibilmente all'inimico, e quello
che può toccare il suo benessere interno, negando che quest’ultimo sia incluso
nel xaxcòj iioistv di Senofonte. Né meno infondata è la supposizione del
Brandis, secondo la quale Senofonte non avrebbe espresso interamente il
pensiero di Socrate. Strumpell tenta supplire Senofonte col Gorgia. Antonio
Labriola. Labriola. Keywords: implicature, comunismo, socialismo, partito
socialista italiano, il vico di Labriola, il Bruno di Labriola, Labriola su
Herbart, Labriola su Zeller, comune, sociale, filosofia della storia,
dialettica socratica, fra dulcino, carteggio con Croce, all’origine del
socialismo comunismo materialista in Italia – l’avvento creative del comunismo
in Italia. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e Labriola," “Grice e
il Vico di Labriola” per il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library,
Villa Speranza, Liguria, Italia.
Grice
e Lacida: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A
Pythagorean, according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.
Grice
e Lacrate: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Lugi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A
Pythagorean, according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.
Grice
e Lacrito: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo italiano. A
Pythagorean, according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di Calcide.
Grice
e Lafeonte: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Metaponto). Filosofo
italiano. A Pythagorean, according to Giamblico di Calcide (“Vita di
Pitagora”).
Grice e
Lagalla: l’implicatura conversazoinale della teoria geocentrica – la terra al
centro del universo – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Padula).
Filosofo italiano. Grice: “I love Lagalla: the fact that he was an Aristotelian
when everybody in Florence was a Platonist!” Figlio di un alto funzionario
della burocrazia vice-reale. Studia filosofia. Perdette i genitori ed e affidato
alla tutela di uno zio paterno, che lo avvia agli studi di filosofia. Volle
trasferirsi a Napoli per proseguire nella sua formazione. Si iscrive ai corsi
di filosofia dello Studio ed ebbe come maestri Stillabota, Vivoli e Longo.
Affidato dal Collegio degli archiatri a Provenzale e Caro per un periodo di
tirocinio, sembra vi si fosse condotto con una tale competenza da meritare i
gradi accademici nulla pecuniarum solutione. Grazie a Longo, divenne
l'ufficiale sanitario di una squadra navale pontificia di stanza a Napoli, con
la quale si dirigge verso le coste laziali, per giungere poi a Roma. A Roma
consegue una laurea, in seguito alla
quale entra al servizio di Santori, per il cui interessamento ottenne da
Clemente VIII l'incarico di lettore di filosofia presso la Sapienza. Cura per
Facciottola stampa di un commento ad Aristotele, “De immortalitate animae ex
sententia Aristotelis VII”, manifestazione
di un interesse verso la questione dell'anima, intorno alla quale L. si
interrogò per buona parte della sua vita intellettuale e che contribuì ad
attirargli sospetti di eterodossia. Altre saggi: “La circuncisione di Cristo”. Al
problema dell'anima L. dedica corsi della lettura ordinaria di filosofia, che
tenne alla Sapienza. Queste lezioni sono raccolte in “De anima commentarii”. Allo stesso argomento
è dedicato un saggio dato alle stampe da L., il “De immortalitate animorum ex
Aristotelis sententia libri III” (Roma). L., pur riaffermando le posizioni
della tradizione d’AQUINO sulla questione dell'anima umana, secondo le quali
l'anima intellettiva è “forma informans” del corpo ed è molteplice, accetta
quelle di Alessandro di Afrodisia a proposito dell'animazione dei cieli,
ritenendo che non abbiano l'intelligenza come forma assistente che li muove
eternamente, ma piuttosto come forma informante. Morto Santori, s’avvicina ad Aldobrandini, entrando al suo
servizio. Conosce Cesi, al quale e legato da una cordiale amicizia. Se questa
non da luogo a un'ascrizione all'Accademia dei Lincei, malgrado una precisa
richiesta da parte di L., e solo a causa della sua marcata professione
aristotelica Cesi lo presenta comunque a GALILEI quando quest'ultimo si reca a
Roma per sottoporre il suo telescopio e le scoperte con esso realizzate al
giudizio degli autorevoli astronomi del collegio romano, nonché di influenti
membri della Curia pontificia e dello stesso Paolo V. Ne derivarono alcuni
incontri, durante i quali L., incuriosito dall'occhialino galileiano, lo
sperimenta ed e intrattenuto da Galilei con l'esibizione delle pietre lucifere
di Bologna. Da ciò che vide, trasse spunto per due saggi, pubblicati in De
phoenomenis in orbe Lunae novi telescopii usu a d. GALILEI nunc iterum
suscitatis physica disputatio nec non de luce et lumine altera disputatio (Venezia). Atteso con impazienza da Galilei, che e costantemente
informato da Cesi dei progressi nella composizione, il saggio delude l'ambiente
linceo. Nel primo dei due saggi, pur
difendendo la verità ottica di ciò che mostra il telescopio, cerca di spiegare
l'irregolare -- la scabrosità della superficie lunare, detta perfetta da
Aristotele -- come prodotto del regolare, attraverso una sorta di estensione di
un principio di regolarità -- invariabilità dei cieli e dei corpi e fenomeni
inclusi in essi -- cui risponde l'intera fisica celeste aristotelica. Le
asperità lunari dovevano dunque consistere in parti più dense d’etere, più
opache alla luce, e in parti meno dense, più chiare. Nel secondo saggio L.
racconta una discussione sulla natura della luce avuta con Galilei, Cesi, Misiani
e Clementi: dopo aver ribadito che la luce non è una sostanza, ma un accidente
o una qualità reale, tratta delle pietre lucifere e, contro l'interpretazione
di Galilei, osserva che la luminescenza delle pietre non è una proprietà del
minerale non trattato, ma una conseguenza del processo di calcificazione, che
rende la pietra porosa e in grado di assorbire una certa quantità di fuoco e di
luce, poi lentamente rilasciata. Con ciò esclude che possa essere il prodotto
della riflessione della luce solare sulla terra da parte della luna. A proposito del primo dei due saggi, Galilei
medita di fornire una risposta pubblica, sollecitata dallo stesso L., di cui le
note di lettura al volume in questione, sembrano essere il lavoro preparatorio.
Tale risposta non arriva, ma i rapporti tra i due divennero più stretti, forse
per effetto di un lento avvicinamento delle rispettive posizioni scientifiche.
In occasione dell'osservazione di una cometa, scrive il Tractatus “de metheoro
quod die nona novembris anni presentisin urbe apparuit sopra collem Pincium” e
poiché quest'opera pare, in alcuni punti, accogliere le posizioni di Galilei, e
attaccato di scarso aristotelismo. Si convence così a chiedere a Galilei e a
Cesi il sostegno per una lettura a Psa. Pur non mancando l'occasione (la morte
di Papazzoni aveva reso vacante un posto), non se ne fa niente, ma anche in
questo caso i rapporti tra i tre uomini rimasero saldi. Aumenta intanto la sua
insofferenza verso gl’ambienti romani che lo guardavano con crescente sospetto.
La sua “De coelo animato disputatio” e in Germania, per l'interessamento d’Allacci.
Non rinuncia a coltivare la speranza di ottenere un adeguato incarico al di
fuori della capitale pontificia, tanto da valutare con attenzione la proposta di
trasferirsi alla corte di Sigismondo III. Le compromesse condizioni di salute
(soffriva di una malattia urinaria, forse una ipertrofia prostatica con
complicanze) e il timore che l'inclemente clima polacco potesse peggiorarle lo
portarono a rifiutare. Continua a praticare
la filosofia, e segue il suo protettore Aldobrandini in diversi viaggi in vari
luoghi d'Italia. Gli è stato dedicato il cratere L. sulla Luna. Altre saggi: “De phaenomenis in orbe lunae novi telescopii
usu nunc iterum suscitatis” (Venezia); “De metheoro quod die nona novembris
anni presentisin urbe apparuit sopra collem Pincium”; “De luce et lumine altera
disputatio”; “De immortalitate animorum ex Aristotelis Sententia”(Roma); Biblioteca
apost. Vaticana, Barb. lat.; cfr. Kristeller; cfr. Edizione naz. delle opera, Firenze,
Biblioteca, Galil., Favaro, nell'ed. naz. delle opere di Galilei, X indica una
stampa apparentemente irreperibile, Roma; ma Heidelbergae. Dizionario biografico
degli italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Giano Nicio Eritreo
[Gian Vittorio Rossi], Pinacotheca imaginum illustrium doctrinae vel ingenii
laude virorum, I, Coloniae Agrippina, Leone Allacci, Vita, Parigi, T. Alfani,
Istoria degli anni santi” (Napoli); “Dizionario istorico” (Napoli); F. Colangelo, Storia dei filosofi e dei
matematici napolitani, Napoli Stefano Gradi, Leonis Allatii vita, in Novae
patrum bibliothecae, A. Mai, Romae, E. Wohlwill, V. Spampanato, “Bruno” (Messina);
G. Crescenzo, Dizionario storico-biografico degli illustri e benemeriti salernitani,
Salerno); “I maestri della Sapienza di Roma, E. Conte, Roma, ad ind.; M. Bucciantini,
Contro Galileo, Firenze, Italo Gallo, Figure e momenti della cultura
salernitana dall'umanesimo ad oggi, Salerno, Paul Oskar Kristeller, Iter Italicum, Lettere
del Lagalla, o di altri con notizie su di lui, si trovano nell'Edizione
nazionale delle opere diGalilei, a cura di A. Favaro, Firenze, ad indices, è
pubblicato il “De phoenomenis in orbe Lunae” con postille di Galilei); G.
Gabrieli, Carteggio linceo, Roma. CoMLOL, Grice: “The more I read secondary
bibliography about this one qualifying as ‘napoletano’ – la ‘filosofia
napoletana’ ‘il filosofo napoletano’ – the less I’m inclined to consider him
Italian!” -- Iulius Caesar Lagalla. Giulio Cesare Lagalla. “Un aristotelico che
dialogava con Galilei”. Lagalla. Keywords: implicatura, the earth is flat; la
terra e al centro dell’universo, la pietra di Bologna, la kryptonite, la luna, l’immortalita
dell’anima, animo, spirare, peripatetici, licei, sublunary, lunary. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Lagalla” – The Swimming-Pool Library. Lagalla.
Grice e Lamisco: la diaspora di Crotone –
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean and friend of Archita di Taranto.
When Plato runs into trouble in Siracusa, Archita sent L. to rescue him – which
takes him ‘two weeks and a half.’
Grice e
Lamanna: l’implicatura conversazionale del risorgimento fiorentino – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Matera). Filosofo italiano. Grice: “I like Lamanna – a very systematic
philosopher especially interested in the longitudinal history of philosophy –
he wrote on economics during controversial times, too!” Linceo. Fa i primi
studi in seminario e poi nel Liceo classico della sua città. Si trasfere a
Firenze, laureandosi con Sarlo. Insegna a Messina e Firenze. Pubblica un
commento alla dottrina. Autore di un fortunato manuale di storia della
filosofia. Membro dell'Accademia nazionale dei Lincei. Diresse la "Collana
di Filosofia" delle Edizioni Morano di Napoli. Stabilito, per L., che la
religiosità e un'esigenza naturale dello spirito umano, egli rileva le
contraddizioni percepite dalla coscienza fra l'”essere” (“is”) e il dover
essere (“ought”) -- fra l'esigenza di una realtà concepita come razionalità e
ordine, e la percezione di una realtà che appare irrazionale e disordinata,
così come fra la concezione dell'assolutezza dello spirito e la concreta
limitatezza della realtà umana. Da queste contraddizioni deduce la necessità
dell'esistenza di Dio. Analoga antinomia gli sembra esistere tra morale e
politica che a suo avviso può essere risolta trasportando nell'attività pratica
la riconosciuta razionalità dell'ordine trascendente e divino, che è di per sé
bene assoluto. In questo modo l'operare umano si fa etico ossia, secondo L.,
realmente politico, realizzandosi concretamente nell'ordinamento giuridico e,
così come nell'operare razionale si concreta la vita morale, da questa si
raggiunge l'armonia in cui consiste la bellezza. Altri saggi: “Lo spirito –
l’ispirante” (Firenze), Kant, Milano, “La polizia di Platone e gl’uomini”,
Milano, “Filosofi italici d’eta antica” (Firenze); La filosofia, Firenze); “Il bene
per il bene” (Firenze); “Il regno di fini” (Firenze); Scritti storici e pensieri
sulla storia, Padova; Piovani (Torino); Piovani, Tra etica e storia, Napoli); Martano,
L'esperienza speculative, in «Filosofia», Calò, Il pensiero, Napoli, Calò, Studi
e testimonianze, Matera, Dizionario biografico degli Italiani, Istituto dell'Enciclopedia
italiana Treccani. Grice: “Lamanna was concerned about the idea of the state,
which is not an easy thing. More specifically, the concept of the ITALIAN
state. In his history of philosophy for ‘i licei classici’, he rewrote his
Manuale di filosofia into a ‘Sommario’. – The history goes smoothly up to Kant.
The third volume is about MUSSOLINI. He is the only philosopher he cares to
capitalize. He also capitalizes fascism into FASCISMO, which is odd seeing that
his main source is Mussolini’s own entry for ‘fascismo’ in the Treccani which
does not give it such a status. The third volume is ITALO-CENTRIC, from VICO
onwards, FARLINGIERI, and notably GENTILE to end with MUSSOLINI. The idea is
presented by L. as a ‘riconstruzione dello stato’ – we are talking of the
‘stato moderno’ – il stato liberale borghese is in ruins – and although he
plays with the ‘socialist state’ he does not consider it within the realm of
the proper history of philosophy when he talks of French illuminism. So his
concern is wht the idea of the state in the liberal party – the philosophy of
the laissez-faire. It provides NEGATIVE freedom. Freedom from the other. And
there is competition. Also, as he notes, liberalism lies in that the ‘condizioni
iniziali’ are hardly ‘equal’ for every member of society, so that liberalism
only pays lip service to ‘liberale’. With the socialist state, the problem is
the opposite: the state becomes a gestore – and there is this idea of an
endless dialectic among the classes. So how does Mussolini reconstruct all
this. He calls it ‘stato fascista’ – Had L. continued from Kant to Fichte and
Hegel, the student would be more prepared! Mussolini’s idea of the state is
Hegel’s – it is the NAZIONE-STATO. While Mussolini speaks of the ‘individui’ of
this nazione, he means the Italians (not the Jews, etc.). SO this NAZIONE
however, is MORE than the sum of its individui. Individui come and go – but the
state remains. The state becomes governo. Mussolini’s prose is machist and
homosocial, and Lamanna has to lower down the rhetoric, but nothing is said
about Germany. It is ITALY which is seen as proposing this new or novel idea of
the state (after la rivoluzione fascista) with a Kantian approach. Since L. has
only read Kant seriously, he applies Kantian categories here: Mussolini’s
fascist state gives each individual POSITIVE freedom – to be a slave to the
CAPO or Duce who ‘knows’ how to command. L. quotes from CICERONE to the effect
that it is obeying the law that makes us free. The emphasis is constantly on the
azione or prassi, which is understandable since the pupils are supposed to
learn about philosophy. So where is the dotttina? Mussolini is candid about
this. When ‘I all started it’ I did not know where I was going. It was the
ANTI-PARTY movement --. L. provides the editorial. During the ventennio, this
action, which is the INSTINCTIVE FORCE OF THE SPIRIT OF THE NATION, becomes
legalistic, a party is formed, and indeed a government (polizia, politeia)
established. But Mussolini accepts castes in society. Even the religion, a
civil religion, is subdued and one can very well be allowed to worthip the God
of the Heroes. It is an ‘etica guerriera’ and it targets the male – virtu,
andreia. Being commanded by one know knows is a privilege. Ths is interesting
because this is conceived after the temporary successes in Africa – Mussolini
romano e africano – and before the problems of the second world war. For the
first time, Italians FEEL they are part of a NATION. The seeds are in the
Risorgimento, but this got stuck with a liberal kind of state, which only
provides negative freedom, anyway, and where the initial conditions are unequal. Lo stato fascista does not play with
parlamentarism, so Congress is closed, and the only party is the national
party. Jews are excluded from PUBLIC service -- even if some wrote panegirici
for fascism, like Mondolfo. The philosophical foundations are found in Hegel.
If Hegel concentrated all in the Kaiser of Prussia, Mussolini does so with himself.
GENTILE did not really help, although he was the official voice of fascist
philosophy --. The student of philosophy then is taught the lessons of history
(philosophy is IDENTIFIED with its history) and indoctrinated in the final
stages into a particular IDEOLOGY. The tone is catechistic, and there is no
idea of dissent. L. however emphasises that the stato fascista still recognizes
the indidivuality and the personality of each member – as the stato comunista
or socialista would not!” Eustachio Paolo Lamanna. E[ustachio] P. Lamanna. E.
Paolo Lamanna. E. P. Lamanna. Lamanna. Keywords: il risorgimento fiorentino,
Mussolini nella storia della filosofia. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Lamanna” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Lami: l’implicatura conversazionale della ragione dei antichi romani – la
tradizione della polizia romana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice:
“I like Lami; he has written interesting approaches to Plato and Aristotle.” Si
laurea e insegna a Roma. Altri saggi: "La ragione degli antichi” (Giuffrè,
Roma); "La politica di Platone” (Rubettino, Cosenza); "Tra utopia e
utopismo" (Cerchio, Rimini) "Qui ed ora -- per una filosofia
dell'eterno presente" (Cerchio, Rimini); "Il libro Manifesto – in
difesa dell’oggettività" (Heliopolis, Pesaro); G. Sessa, "Voegelin --
Ordine e Storia” (Angeli, Roma, Filosofia politica Filosofia della storia nuova
destra. Letteratura e Tradizione//miro renzaglia.org letteratura-tradizione-il-resoconto/
Scuola Romana di Filosofia Politica//centro studi la runa Fondazione Julius Evola.
E’ davvero difficile per me, ricordare L. In questi giorni, ho dovuto farlo più
volte, intervenendo a pubbliche commemorazioni della Sua memoria, a cominciare
da domenica quando, in un gelido pomeriggio invernale, improvvisa e
sorprendente, ci è giunta la notizia della Sua dipartita, durante la presentazione
di un libro, alla quale avrebbe dovuto essere presente, come relatore, anche
lui. Immediatamente, il pensiero è corso al nostro primo incontro, quando
io, giovane studente di filosofia, lo conobbi in qualità di assistente di Noce.
Fin da allora, non si trattò di un semplice rapporto professionale, in quanto
Lami seppe trasmettere a noi giovani che lo frequentavamo, l’amore per il
sapere autentico, quello che si tramuta in testimonianza, in vita. Mi coinvolse
immediatamente in un progetto ambizioso: quello di introdurre in un paese
dominato culturalmente dalla Sinistra, il filosofo della storia Voegelin,
allora praticamente sconosciuto. Il risultato di questa ricerca, alla quale
ebbi l’onore e il piacere di partecipare in prima persona, assieme a Borghi e
pochi altri, si concretizzò nella pubblicazione di una serie di antologie
voegeliniane (qui è bene rinviare a Voegelin: un interprete del totalitarismo,
Astra), che fecero ampiamente discutere. Il merito maggiore, conseguito da
Lami, in questo ambito di studi, fu di individuare nel filosofo
austro-americano, un diagnosta della crisi della modernità. In particolare,
attraverso l’analisi e la traduzione di Ordine e storia, opera monumentale,
Egli presentò l’esperienza classica della ragione, quale unica terapia
possibile delle devianze neo-gnostiche contemporanee (si veda, prefazione a VOEGELIN,
Israele e rivelazione, Aracne, ma anche L., Introduzione a Voegelin,
Giuffré). Fece propria, in modo critico e originale, l’eredità di Noce,
secondo modalità più profonde rispetto a chi, tra i suoi presunti discepoli,
scelse, come il Maestro, una via di fede. La cosa, è facilmente deducibile
dalla lettura dell’organica monografia che egli dedicò al filosofo cattolico
(Introduzione a Augusto Del Noce, Pellicani), da cui si evincono tanto la
gratitudine per il discepolato e per gli insegnamenti ricevuti, sostanziati da
un metodo rigoroso d’analisi quanto le differenze speculative essenziali,
dovute alla valorizzazione filosofica, propria di Lami, delle qualità virtuose
dei singoli, nell’ambito pratico-politico. A questa scelta, che peraltro
individua, nello specifico, il campo d’indagine della scuola romana di filosofia
politica, che a Lui faceva e fa, tuttora, riferimento, hanno fortemente
contribuito gli interessi per gli autori dimenticati del novecento. Tra essi, TILGHER
e EVOLA. Al primo dedica un volume significativo (TILGHER, un pensatore
liberale, Seam), nel quale evidenzia il tema della pluralità delle morali, come
caratterizzante il pensatore napoletano. Ciò, secondo L., lo avvicinava al
filosofo tradizionalista, poiché il suo pensiero, individua effettive vie
realizzative in grado di determinare le tipologie umane dell’eroe, del santo,
dell’asceta, del saggio e del dotto. Sul secondo da alle stampe la prima
monografia filosofica: Introduzione a Evola. Un passo per la vita e un passo
per il pensiero, Volpe. Inoltre, quale collaboratore della Fondazione Evola, cura
diversi volumi della “Biblioteca evoliana” nei quali, come pochi, è riuscito a
contestualizzare storicamente l’opera del filosofo romano e a coglierne il
valore, in un lavoro esegetico sempre aperto alla comparazione. E’
proprio Evola, l’autore attorno al quale si sono dipanate, nel corso degli
anni, le nostre discussioni. Mi pare, infatti, che Egli leggesse EVOLA,
tentando, almeno su certi aspetti, di andare, con gli strumenti della
tradizione platonico-aristotelica, oltre le posizioni consuete a quest’ultimo,
interpretando, al medesimo tempo, la consolidata lettura di matrice cristiana
del pensiero classico, alla luce dell’esegesi evoliana. Stigmatizza sempre
negativamente l’abbandono, dovuto all’irruzione della visione del mondo
ebraico-cristiana, della dimensione civico-virtuosa, sulla quale la civiltà
romana tanto insiste. La cosa, è particolarmente chiara nello studio dedicato a
questo specifico tema (Socrate Platone Aristotele, Rubbettino), nel quale tenta
di presentare il simbolo epocale del mondo antico, la “vita contemplativa”,
come realizzantesi pienamente nella dimensione della Città, a testimoniare
della contrapposizione tra tensione utopica tradizionale, e scacco utopistico,
tipicamente moderno. Tema questo, attorno al quale spese le sue energie
intellettuali nel recente volume Tra utopia e utopismo (Il Cerchio).
Corrispondere a quella che è stata la via da lui indicata, ad un tempo ideale
ed esistenziale, a quella che egli definiva una filosofia dei pochi, del divino
e dell’ordine, è compito complesso e gravoso, al quale comunque, chi come me,
gli è stato vicino, non può permettersi il lusso di sottrarsi. Sarà la memoria
della Sua luce interiore, che accendeva anche negli studenti della “Sapienza”,
o in chi lo ascoltava nelle innumerevoli occasioni culturali per le quali tanto
lavorava, dai Convegni alle presentazioni librarie, a sostenerci nella Sua
assenza. Ma, più in particolare, l’idea di una tradizione sempre viva e
presente, che si realizza, addirittura nella comunanza dei vivi e dei morti,
come Roma (ma non solo) ci ha insegnato, e che rappresenta il suo testamento
spirituale più prezioso (al riguardo si veda, Qui e ora. Per una filosofia
dell’eterno presente, Il Cerchio. L’università di Roma, con Lui ha perso una
delle ultime personalità carismatiche, in grado di fare Scuola. Personalmente,
non posso che ringraziarlo per avermi onorato, in questo mondo, della Sua
amicizia, rara e preziosa: quella di un Signore. Tratto da Area. Grice:
“Lami touches some crucial points. For one, he criticizes Jowett for
mistranslating Plato. What Plato wrote is fair and simple, ‘Police’ – Politeia
--. Lami as a Roman hates the Pope – who does he think he is? The Papal dynasty
is take in that they cannot reproduce. So we must go to the civil-political
organization of the Romans, as seen from the the heroic ‘eta’ of Romolo. La
citta. La Civilta. La tradizione. La tradizione una. Espressione varie e
tradizione una. With the birth of
Christ, Roman words acquired new implicatures, for bad. Pagan started to mean
‘heathen’, and ‘ethnicus’ (ennico) more or less the same. Of course the old
Romans were anything but PAGAN or heathen – they did almost EVERYTHING for
Marzio, to whom they dedicated the downtown gym! (Campo Marzio). Lami knows all
this – and more --. Gian Franco Lami. Lami. Keywords: la ragione degl’antichi, Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lami” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Lampria: la diaspora di Crotone --
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto).
Filosofo italiano. Tutor of Aristosseno di Taranto, although he seems to have
taught him music rather than philosophy.
Grice e
Landi – semiotica economica – prinzipio di economia dello sforzo razionale -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Milano). Filosofo italiano. Grice:
“I would call Landi a Griceian; but he’d call me a Landian!” Studioso della
dottrina del ‘segno,’ vis-à-vis- scienze umane e antropologia, apportato un
notevole contributo agli sviluppi alla semantica (senso) e la pragmatica
(prassi, pratica – ragione pratica) -- crt, cercando di unificare la dialettica
romana e fiorentina con quella oxoniense.
Diplomato al Regio Liceo Ginnasio Alessandro Manzoni, si laurea a Milano.
Studia a Pavia. Insegna a Padova, Lecce. Riceve, e Trieste. La sua opera si può
suddividere in tre fasi. La prima riguarda studi su la prassi (ragione pratica),
nonché l'analisi dei processi di “segno.” La seconda fase propone una teoria
della “produzione” del segno intendendola come teoria del lavoro cui fondamento
è l'omologia tra la teoria del segno e so-miscalled aeco-nomia. (cf. Grice, P. E.
R. E.). La terza fase studia l'intricato rapporto tra il segno e la ideologia e
teorizza l'”alienazione” dell’usuario del segno (ego/alter/alien). Opere: Pratica
communicativa (Bocca, Milano); “Segno” (Manni, Lecce); “Significato, comunicazione
e parlare comune,” – cfr. Grice, “SignificARE, communicARE, impiegare,
implicARE, -- ‘common’ is Landi for Grice’s ‘ordinary’ as opposed to
extra-ordinario. Marsilio, Padova. La semiotica e “Segnare” come lavoro e mercato, -- cf. Grice
against an utilitarian and pro a Kantian account of the rational effort – but
remarks in the “Retrospective Epilogue” about his concern with ‘rationality’ as
being co-operative. And Grice’s remarks about the independence of the two
thesis: semiosis as rational and semiosis as cooperatively rational. Bompiani,
Milano, Segno ed ideologia (Bompiani, Milano), “Segnare” (Bompiani, Milano); “Ideologia”
(Mondadori, Milano); “Metodica filosofica e semiotica -- scienza dei segni, o
teoria? – cf. Grice on philosophical psychology,’ folk science of psychology –
ceteris paribus – ‘law’ of the science of psychology --. The laws of psychology
– “That’s why we call them ‘psycho-logical’ concepts, or theoretical terms, --
psychological theory --. Theory Th. (Bompiani,
Milano). Cf. Grice on the boundaries of ‘mean,’ and the idea of ‘consequence,’
y is a consequence of x, x means y. Il corpo del testo tra riproduzione sociale
ed eccedenza, Scritti su G. Ryle e la filosofia analitica” (il Poligrafo,
Padova); “Semiotica Filosofia del linguaggio
su ferrucciorossilandi.c om. Grice: “Landi takes economics seriously, as
did Aristotle – unfortunately, those researching onto Landi hardly quote from
Aristotle!” “While the Italians think that Landi is being very Original, we at
Oxford don’t! Game theory, strategy theory, and efficiency theory are all basic
to ‘oeconomica’ in most pragmatic models of efficient communication – “Information
is like money!” – Cf. la teoria del valore e le formulae dell’egoismo,
l’altruismo o non-egoismo, Meinong. Teoria formale del valore. I valori
egoistici risultano espressi con le lettere T e e te1 Hay Ja, Un Un,, Tv Uy.
Gli valori altruistici sono espresso con le lettere: i. I valori neutrali sono
espresso colle lettere : Ym. Siccome non si propone di dare una teoria compiuta
dei fatti concomitanti di questo o quello valore, ma solo di ANALIZZARE tal
unicasi va speciali, così, quando
adopera i simboli senza l'indice soscritto, intende significare il valore
egoistico – con la lettere ‘e’ sottoittesa. Questi simboli possono esprimere
questo o quello BENE, ma anche questa o quella volizione a questo o quello BENE
riferentisi. Per indicare una volizione, si adopera il stesso segno *fra
parentesi quadratti*. Infine, si suppone, di regola ceteris paribus,che la
circostanza concomitante sia sempre una sola, la quale, insieme alla volizione,
formi ciò che chiamamo il “bi-nomio” della volizione. Se le circostanze sono
più, allora si forma un “poli-nomio” della volizione. La precedenza di una
lettera in un binomio o un polimonioindica il valore principale, sia desiderato
o sia attuato. In che modo i fatti concomitanti del valore sono connessi collo
scopo della volizione? Siccome ogni scopo di volizione è anche un oggetto di
valutazione, la domanda può formularsi così. Come i valori possono entrare in
connessione tra loro? Si noti però che la connessione deve stabilirsi prima del
cominciamento della volizione, giacchè questa volizione deve tenerne conto. Le
co-esistenze casuali restano naturalmente escluse. Tra lo scopo dellla
volizione e l'oggetto della valutazione concomitante possono correre varie
relazioni. C’e una relazione d’identità. Ciò che il artista o un politico come Mussolini crea non
soddisfa lui SOL tanto, apparirà sempre in qualche modo come un BENEFICATORE di
tutta una sfera di uomini – la nazione italiana. C’e una relazione di
CO-ESISTENZA di più qualità di una stessa cosa, o anche di più cose. Per
esempio, un tale VUOL comprare un piano che ha (+) un bel tono. Ma il piano ha
anche (-) una cattiva meccanica. O un cane da guardia molto vigile (+), il
quale però morde (-). O una macchina automobile che lavora bene (+), ma che fa
rumore e fumo (-) ,ecc. C’e un nesso causale, nelle sue due forme: a) lo scopo
è CAUSA di conseguenze valutabili. Il politico chi, per esempio, promuove il
movimento e l' industria dei forestieri, mira ad arricchire la sua nazione (+),
ma anche la de-moralizz (-). b) lo scopo non si può raggiungere che come EFFETO
di dati valori morali. Per esempio: un fabbricante per . Ora torniamo
alla domanda principale. In che modo il valore morale di una valutazione
dipende dai valori concomitanti, e,in caso di un simple bi-nomio della volunta,
dal valore concomitante? Abbiamo distinto quattro categorie di valori, “g”,
“T”, “u”, e “u”, le quali si applicano anche ai fatti concomitanti. Però il
caso u si può omettere, perchè non accadrà mai, CHE SI VOGLIA UN PROPRIO
NON-VALORE PER sè stesso. Rimangono così tre possibilità, le quali, liberamente
combinate, dànno *dodici* casi che costituiscono la tavola dei valori. Per
l'esame di questi casi bisogna pensare che ad un oggetto di volizione si
aggiungano gli altri come fatti concomitanti, e osservare le variazioni di
valore che questo intervento produce. La VOLIZIONE ‘POSITIVAMENTE ALTRUISTICA’
(benevolenza e beneficenza) è data da una formula. Il momento più importante è
qui l'associazione della circostanza concomitante u, IL PROPRIO DANNO. È
evidente che l'aggiunta di questo secondo momento accresce il valore di (i) e
di tanto, quanto più grande sarà il sacrificio proprio. Indicando il valore con
“W” ,si avrà dunque: W(ru) > WV. Se invece si aggiunge “u”, IL DANNO ALTRUI,
sia dello stesso beneficato (quando il beneficio produce pure un MALE al
beneficato), sia di persone estranee al rapporto (quando per beneficare uno si
danneggia altri), allora il valore della volizione con questa circostanza
concomitante diventerà minore. E la formula sarà: W(ru) < W(r). Se la
circostanza concomitante è pure in favore del beneficato, allora la formula
sarà indubbiamente: guadagnare di più deve migliorare la condizione
materiale dei suoi operai. W (rr)> Wr. glianze. Invece
L’AGGIUNTA DEL VANTAGGIO PROPRIO AL BENE ALTRUI nè diminuisce, nè aumenta il
valore. La volizione egoistica è espressa dalla formula, la modificazione più
grave qui si ha, quando al caso si aggiunge la circostanza del MALE ALTRUI. Allora si avrà: W(gu)<W(9).
Se la circostanza concomitante è invece “r”, il valore della volizione
egoistica si eleva: W(gr) > W(g). Che poi alla volizione egoistica si
aggiunga la circostanza secon aria di un ALTRO PROPRIO VANTAGGIO (plusvalia) o
anche di un proprio danno, non modifica il valore di (g). Si avranno quindi le
due egua W (99)= W (g)= 0 W(gu)= W(9)=0. Così pure si aumenta il non-valore, se
oltre al danno principale si aggiungono altri danni. Epperò: W (UU)< W (U).
Per quanto il caso sia inusitato, si può prevedere anche, che al male altrui si
associ una qualche conseguenza buona, indiretta, W (rg)= Wr. La volizione
altruistica negativa o anti-altruistica è espressa con una formula. Se per attuare
il danno altrui, si fa anche il danno proprio u, questa circostanza aggrava il
male e aumenta il non-valore: W (uu) < W (u). W(UY) > W(u). Il fatto
concomitante della propria utilità non aggiunge nè toglie al valore della
volizione principale anti-altruistica. Si avrà quindi l'eguaglianza: W (ug)= W
u. La somma dei risultati ottenuti si può disporre in un Quadro. W(rr) >
W(v)? W(gr )> W(g)? W(ur)> W (U)? W(yg)=W(r) W(99)=W(g)=0 W(ug)=W(U)
W(ru)<W(Y) W(gu)<W(g) W(UU)<WU) W(ru)>W(V) W(gu)=W(g)=0 W(uu)<W(U).
Da questo quadro si rileva che le circostanze concomitanti con segno negativo
non sono più feconde di effetti di quelle con segno positivo. Di queste ultime,
“g” non modifica nulla, e “r” non dà risultati sicuri, come indica il punto
interrogativo. L'influenza dei fatti concomitanti si può dunque riassumere
così. Agisce aumentando debolmente il valore. ‘g’ non modifica nulla. ‘u’
diminuisce grandemente il valore. ‘u’ opera secondo lo scopo della volizione --
ora aumentando, ora diminuendo e ora non-modificando il valore. Si è già detto
che sarebbe uni-laterale il voler giudicare del valore morale di una volizione
dallo scopo ;che però, in quanto lo scopo prende parte alla determinazione del
valore, l'altruismo positivo è buono, L’EGOISMO è INDIFFERENTE. L’altruismo
NEGATIVO (malevolenza e maleficenza) è cattivo. Ora è importante constatare,
che il senso in cui i tre momenti valutativi operano sui fatti concomitanti è
completamente lo stesso La validità della tavola dei valori, dianzi
tracciata, ma pure prevista. Allora il non-valore si ridurrà, nel modo
indicato dalla in-eguaglianza: subisce variazioni, se cambia la qualità della
volizione? Itendendo per qualità la differenza tra appetizione e repulsione,
che però non deve equipararsi a una contra-posizione logica tra affermazione e
negazione, i cui termini si escludano a vicenda, ma considerarsi come una
doppia possibilità psicologica, di cui l'una abbia altret tanta realtà
indipendente, quanto l'altra. Un'analisi della NOLIZIONE mostra, che esse si comportano
egualmente come la volizione, solo che si applicano di regola ai valori “T”,
“u” ed “u”, RITTENENDOSI ASSURDO (IRRAZIONALE) IL NON VOLVERE IL PROPRIO
VANTAGGIO ‘g’. Indicando le nolizioni con (T) (ū) (T) = (non- T) = (U) (U =
(non-- U) = ( ) (ū)=(non u) = (g). Lo stato subbiettivo di rappresentazioni ed
i predisposizioni anteriore alla volizione è indicato con il concetto di
“Progetto”. E siccome in questo stato abbiamo supposta anche la cognizione
delle circostanze concomitanti valutabili, così al binomio della volizione o al
polinomio della volizione corrisponde un binomio o un polinomio del progetto.
Per indicare questi stati si adopera gli stessi simboli *senza la parentesi
quadratti*. Osservando le volizioni in rapporto agli stati predisposizionali,
l'analisi delle valutazioni dei fatti concomitanti può rendersi più
esatta. (ū) si possono fare le seguenti sostituzioni, che aiutano a
trovare il corrispondente valore nella tavola relativa alle volizioni. Si
ponga, per esempio, un bi-nomio iniziale della volizione “uu”, che esprima il
mio desiderio di far male, al momento opportuno, a una persona, ma che non mi
sia possible evitare, ciò facendo, conseguenze dannose pe rme,u. Se ildesiderio
di non danneggiarmi prevale, allora non si avrà più il binomio (uu), ma l'altro
(ūr), il quale dice che la volizione è risultata nel senso di non volere il
male proprio, pur ammettendo che questa volizione abbia per circostanza
concomitante y, cioè il bene altrui. In forma positiva la volizione finale sarà
(gr). E così da una situazione iniziale negativa “vu” si riesce nella opposta
gr (1). Questi sono i co-ordinati fra loro due bi-nomi di progetti, dai quali
procedano due volizioni formalmente concordanti. Anche i due bi-nomi di queste
volizioni saranno coordinati fra loro. Essaminemo la coppia dei due binomi
yu-gu, dei binomi, cioè, che hanno la maggiore importanza pratica. Il primo
bi-nomio esprime l'altrui bene col proprio danno. Il secondo bi-nomio esprime
il bene proprio col danno altrui. Nel primo rientrano, nel senso o grado
*massimale*, tutte le occasioni in cui si può affermare la grandezza morale di
un uomo (magnanimita). Nel senso o grado minimale, i casi della più comune
fedeltà al proprio dovere (to do one’s duty). La sezione di linea dei valori
morali che comprende il MERITORIO e IL CORRETTO è tutta espressa da questo
bi-nomio del Progetto. Laddove la sezione che va dal punto d'INDIFFERENZA al
TOLLERABILE e al RIPROVEVOLE corrisponde alla negazione di questo binomio del
progretto. Nel binomio “gu” sono espressi tutti i casi che vanno dal più SANO
EGOISMO alle negazioni più delittuose dell'altruismo. Reciprocamente, la
rinunzia a siffatte volizioni va dal semplicemente dove ROSO ALL’EROICO. Le
volizioni che procedono da questi due bi-nomi comprendono adunque tutte le
quattro classi di valori, caratterizzati in principio. I due bi-nomi anzidetti
suppongono un CONFLITTO (non coooperazione) fra l'interesse proprio e
l'interesse altrui. È evidente che dalla grandezza di questi interessi, dalla
portata di “g” e di “Y”, dipende il valore morale della valutazione. I momenti
“u” e “u” s'intendono compresi nella negazione di “g” e “y”. Intanto è certo
che il VALORE EGOISTICO in cui “g” è congiunto con “u” , “W(gu)”, si trova
sempre al di sotto del zero della scala, ed ha segno negativo. Mentre il valore
altruistico in cui è congiunto con “u”, “W(ru)”, si trova al di sopra del zero
ed ha segno positivo. Ciò posto, la funzione valutativa tra i termini dei
due binomi dei pogretti si può scoprire agevolmente con una semplice
osservazione. Sacrificare un piccolo interesse proprio a un grande interesse
altrui ha un VALORE POSITIVO MINORE che il sacrificare a un piccolo interesse
altrui un grande interesse proprio. D'altra parte chi non pospone a un grande
interesse altrui un piccolo interesse proprio produce un non-valore morale più
basso, che non colui il quale per una utilità propria rilevante non tien conto
di utilità altrui tras curabili. Questo abbozzo di una LEGGE del valore si può
esprimere nelle formule, nelle quali “C” e “C'” indicano le costanti
proporzionali sconosciute, condizionate dalla qualità delle due unità “g” e
“r”. Nell'applicazione di queste due formule all'esperienza si rendono
necessarie talune modificazioni. Se poniamo I valori “r” o “g” eguali ai limiti
0 e 0 ,allora i calcoli diventano molto esatti. Per g per g. L’ESPERIENZA NON è
però SEMPRE D’ACCORDO CON QUESTE FORMULE. Ognuno ammetterà che l'adoperarsi
nell'interesse altrui si accosti l punto morale d’INDIFFERENZA, quanto più
grande è quest'inteesse; e che il trascurarlo divenga nella stessa misura
RIPROVEVOLE, “u” pposto costante e limitato l'interesse proprio da sacrificare.
È F , 1 W(ru) = Cg -0 Y Y g W (gu) = - C per r = 00 per r = 0 lim W (ru)
= 0, lim W(ru)= 0, lim W (ru)= 0 limW(ru)= 0, lim W (gu) = - 0 0 limW (gu)= 0
lim W (gu)= 0 lim W (gu)= – 00. pure evidente, che la trascuranza di un
interesse altrui diviene tanto più INDIFFERENTE quanto più IRRILEVANTE è questo
interesse. Epperò non si ammetterà da tutti, che il valore dell'altruismo di venga
allora infinito, come nella seconda formula. Osservando però bene, questi casi
non rientrano nel campo della morale. Si contrasterà pure che il valore del
sacrificio di un bene proprio per l'altrui, cresca colla grandezza del bene
sacrificato (formula terza). Ma l'esperienza prova che l'esitazione al
sacrificio si fa maggiore quanto più grande è il bene cui si sta per
rinunziare. Invece è da riconoscersi che non è esatta la quarta formula. Non si
può negare ogni valore al bene che si fa ad altri, solo perchè NON si determina
un CONFLITTO con un bene proprio. Le formule anzidette si debbono mitigare
nella loro assolutezza, perchè si accostino di più alla realtà. Per far ciò,
basta attenuare il valore di “g”, il che si può ottenere aggiungendo a “g” ogni
volta una costante “c” o “c '”. Queste
formule non modificano i limiti funzionali dianzi ottenuti, ponendo r = 00, T =
0 0 g = 00. Cambia bensì la formula del quarto limite. Se g= 0: lim W (ru) = C,
lim W(gu) = - ' Sin qui abbiamo considerato l'una variabile IN-DIPENDENTE
dall'altra. Che avverrà però, se le variazioni si compiranno in entrambe le
variabili congiuntamente, supponendo che “r” e “g” rimangano uguali fra loro
per grandezza di valore? Sostituendo a “g” il simbolo “r”, le formule
diverranno altri. Si avranno così le formule. Tr W (ru) = 0 9 + c g +di e Y W(gu)= W(gu)=-C' ito Y W(ru)= C y- to' .
Da questo risulta che il non-valore deve crescere e diminuire nello stesso
senso o grado limite di “r” e “g”, e il valore in senso o grado di limite contrario.
Consultando l'esperienza, si può riscontrare agevolmente che un oggetto, per
esempio un dono, abbia lo stesso valore per chi lo dà e per chi lo riceve. Ora
si domanda, regalare di più avrà un valore più alto o più basso del regalare di
meno? Senza dubbio più alto. E se si contrapponga vita a vita, CHI SACRIFICHI
LA PROPRIA VITA per conservare quella di un altro, suscita di fatto grande
ammirazione. QUESTO è però IL CONTRARIO DI ciò che quelle formule esprimono. O
“c” corre adunque correggere le formule e per far ciò introducemo un esponente
di “g”, più grande dell'unità, e lo indicamo colle lettere “k” e “k'”. Le due
formule diverranno così, rimettendo “y” al posto di “r”. Sicchè si avranno i
seguenti limiti. A questo punto, il concetto di limite non hanno più bisogno di
alcun'altra correzione. Per semplicità di espressione ponendo C= 1ek =2, la
formula del binomio divienne W(gu)= T. È questa una formula a discuttere. .
g2+1 ghto Y gkilt o W(gu)= W (ru)= C per r= 9 perr= g= 0 T g2+1 W (ru)= e Y e
limW(ru)=00 lim W(gu) = 0 limW(ru)=0 limW(gv)=0. Preliminarmente non si ne
ricava alcune conseguenze. Ogni pr getto offre a colui, che dovrà reagire con
una volizione,l a doppia possibilità di fare o di tralasciare. Le due volizioni
staranno, secondo la formula principale or ora ricavata, in un
rapporto di RECIPROCITà negativa, per ciò che ri guarda il loro valore morale.
In secondo luogo, siccome una volizione di grande valore (positivo o negativo)
o e MERITORIA O RIPROVEVOLE. Quella volizione di piccolo valore o e CORRETTA o
TOLLERABILE, così potrà dirsi in generale che quanto PIù DISTANTI sono il
NUMERATORE E IL DE-NOMINATORE della formula in una scala ordinale (1, 2, 3, …
n), tanto più il valore della volizione e indicato dalle parti estreme
superiore o inferiore della linea dei valori. Quanto più vicini o meno distanti
sono invece quei numeri, tanto più l'indice del valore cadde verso il punto di
mezzo di detta linea. La formula si applica inoltre anche ai casi di una
volizione I cui scopo non siano accompagnati da circostanze concomitanti. Basta
ridurla. W(9)=0(1). UU. Mentre la prima coppia esprime il caso di CONFLITTO
D’INTERESSI, la caratteristica della seconda formula è la CONCOORDANZA O
INTERSEZZIONE O COOPERAZIONE O CONDIVIZIONE gl'interessi propri con gli altrui,
positive, o, come nella guerra o il duello, negativi. Se il progetto offre l'occasione di
congiungere con la mia utilità l'altrui, o se mi rappresenta un pericolo altrui
nel quale scorgo un pericolo mio, la volizione corrispondente e espressa con
(gr). V'è però anche la rappresentazione del desiderio di un male altrui, cui
si associa anche la previsione di un danno proprio. La corrispondente volizione
e espressa con “(uu)”. Il conflitto qui non esiste fra “g” e “y”, ma fra “g”
e”v”, cio è fra “g” e -Y Questa riflessione ci fa subito applicare al caso
attuale la formula principale del primo binomio. Così, go+1 Y. W(uu)= W (Y)=
>. Passamo ora ad esaminare un'altra
coppia di binomi: gr g+1 1 T (go+
1)r. Mantenendo anche in questo caso il principio della RECIPROCITà negativa
dei due binomi di progetto, l'altro binomio diverrà epperò la seconda formula
principale così ottenuta e (1): W(uu)= -(g2+ 1)r. Le costanze rilevate in
queste formule dimostrano sufficientemente che il valore morale è in relazione
tanto con lo scopo principale della volizione quanto con i fatti valutabili
concomitanti, com’era di sperare! Ferruccio Rossi-Landi. Landi. Keywords:
implicature. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Landi,” The Swimming-Pool Library,
Villa SPeranza, Luigi Speranza, “Grice e Rossi-Landi a Oxford.” Luigi Speranza,
“Grice’s principle of economy of rational effort and Rossi-Landi’s economical
semiotics.” Luigi Speranza, “Grice and Rossi-Landi: over-informativeness and
excess: the implicature” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Landino: l’implicatura conversazionale della sforziade degl’italiani -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice:
“I love the way a philosopher can be judged by his fellow citizens and by furriners:
Landino’s “De Anima” fascinates the Germans, for example! While his poetry
fascinates the Americans, as I Tatti testifies!” Nacque da una famiglia
originaria di Pratovecchio, nel Casentino, e compì gli studi in materie
letterarie e giuridiche a Volterra. Gli venne affidata presso lo Studio
fiorentino la cattedra di oratoria e poetica che era stata del suo maestro
Marsuppini: L., sostenuto dai Medici, e stato avversato da non pochi personaggi
in vista, come Rinuccini e Acciaiuoli. Tra i suoi allievi ci furono Poliziano e
FICINO (si veda). In quel periodo ricopre anche incarichi pubblici, facendo
parte della segreteria di Parte guelfa e della prima Cancelleria. Tra i suoi
viaggi, spicca quello a Roma. La sua Xandra e una raccolta di componimenti
dedicata inizialmente ad Alberti e de' Medici. In campo filosofico scrisse III dialoghi:
il De anima, le Disputationes Camaldulenses e il De vera nobilitate. La maggiore fama nei
secoli di L. e però legata alla sua attività di commentatore dei classici. Diede
alle stampe il Comento sopra la Comedia di ALIGHIERI, su ORAZIO e su VIRGILIO.
Traduttore dal latino in fiorentino della Storia natural di PLINIO e la
Sforziade di Simonetta Il volgarizzamento pliniano e un vero e proprio evento.
Per la prima volta la plebe puo leggere la più importante e vasta enciclopedia
del mondo romano -- tra i suoi lettori Pulci, Colombo e Vinci. Per i meriti
acquisiti, la signoria fiorentina gli assegna una torre nel Casentino e una
pensione. Venne ritratto tra illustri fiorentini a lui contemporanei da
Ghirlandaio nella Cappella Tornabuoni di Santa Maria Novella. Altri saggi: “Orazione
alla Signoria fiorentina incipit della Historia naturale tradocta di
lingua latina in fiorentina”; Xandra, “De anima”; “Disputationes Camaldulenses;
“De vera nobilitated”; “Comento sopra la Comedia di Dante”; “Commento a Orazio”;
“Commento all’epopea eroica di Virgilio”; “Historia naturale di Caio Plinio
Secondo tradocta di lingua latina in fiorentina
al serenissimo Ferdinando re di Napoli”; “Orazione alla Signoria
fiorentina quando presenta il suo Commento di Dante, Firenze, Niccolò di
Lorenzo, Formulario di epistole, Firenze, Bartolomeo de' Libri. Il testo si può
leggere in edizione critica. Carmina omnia ex codicibus manuscriptis primum edidit
A. Perosa (Firenze); “Disputationes Camaldulenses” Lohe (Firenze, Sansoni); C “De
vera nobilitate, M. T. Liaci, (Firenze, Olschki); R. Cardini, La critica del Landino”
(Firenze, Sansoni). Dallo stesso studioso è stata allestita la raccolta: C.
Landino, Scritti critici e teorici, Cardini, Roma, Bulzoni, Comento sopra la
Comedia, I-IVProcaccioli, Roma, Salerno editrice, Questo commento è stato solo
parzialmente edito (la sezione relativa all'Ars poetica): Cristoforo Landino,
In Quinti Horatii Flacci Artem poeticam ad Pisones interpretationes, G. Bugada,
Firenze, Sismel, R. Fubini, Quattrocento fiorentino. Politica, diplomazia,
cultura, Pisa, R. M. Comanducci, Nota sulla versione landiniana della Sforziade
di Giovanni Simonetta, «Interpres» Uno studio complessivo, sia filologico sia
storico-culturale, dell'opera in A. Antonazzo, Il volgarizzamento pliniano” (Messina,
Centro di Studi Umanistici). Questo testo proviene in parte dalla relativa voce
del progetto Mille anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto
Museo di Storia della Scienza di Firenze, Orazio, “Artem poeticam ad Pisones
interpretationes. G. Bugada, Firenze, Sismel-Società internazionale per lo
studio del Medioevo latino, Galluzzo, Enciclopedia Dantesca, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia italiana Treccani, Dizionario Biografico degli Italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, A. Antonazzo, Il volgarizzamento pliniano Messina,
di Studi Umanistici, Treccani Enciclopedie
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario
biografico degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Lee Sorensen. ALCUIN,
Ratisbona. Liba secundus u aut Eandetn otionanft in anibus denrchedas. Ars
enim natnratn quoad ua Itt feropq imitatur. Sed nefeio quo pado cum de
eqmalo quod iti vita Kiriorio iMispa natura nucttigadum nobis
propofuannus:iam fecundo in naturam rela« bor.lta^ bacomifla ad illud
tademrueamusipcimunique omnibus PHILOSOPHIS omnibmi cbtifiianis audoribus non in
eo quod ab ad ione proueninfcdin fo» h ratione coUocemus. Non enim quid
fadum iinfed qua mente fadum animad uettunt. Quapropter quatuor ueluti
principia ponunt. Cum enim fe nobis ilu quid offert: mouctuc ea te fic
oblata uis quzdam animorum nofttorums ut illam cognoscat: tandem p
decernit aliud bonum efTc aliud contra maium. Quapto ptrrcumiam feferes
obtuleritrcum iam fecundo loco (it de ea iudicium fadumt adtamr tertio
loco uoluntast ut hoc quidem fequamur. Illud vero fugiamus. Qua quidem
uoluntate ita iubente motus poftremo in corpora infurgut : ut id
tncmbraezc quantur quod noiunusancea de creuerit.Ncffi igitur a duobus
illis ptimisprindpiisnetp ab boc poftremo uitiumfpedatur:led a voluntate
qua in ordine tertiam pofuimust. Non enim eo Verres pcccauit quod tabulz
ftgnac ac reliqua ftculorum preriofilTima fupeliez illi fefe of Ferreti Non
rurfus quia iudica ret forefibi ex ufu huiufccmodi ornatu abundaretfcd
quia rapere uoluit cu uf«p adeocz fola uoluntate res pendat: ut etiam ft
non rapuerit :tamen quia rapere uo luerit fitelus commifllim fitx Non
enim interfecerit ne an non interfecerit: fed uo lueiitne interficere in
culpa eft:Defueruntuires. P.CIodio quominus Annium Milonem oeddere pof Tetx.
Qua quidem in re fi naturz uitium quzras t pcccauit ea uis:quzmentis
propofitum non implcuit:fi uero ad morem teconuertas non aduscorpord
motus fed uoluntatis adus crimen concipit: Dicetur iure homi dda Clodius
quia Milonem uoluit ocddere: Fac autem ocddifte cum minime ta men
uoluerit exddere ftarim crimine abfoluetur. Qui enim non ex uoluntate:
fed uel ex infirmitate uirium quas modo pofiii vel ex insdiia rem quampiam
c6 mittunnii non modo culpa carent: uCTum etiam cdmiseratione fzpistime
digni putanmr. Quis enim cum illud de Cephalo in procrin legit etiam fi
fabulosum putetmon iolum illum crimine liberat: Sed fumma
infupercomifetatione profe quituRcum animadvertat hominem ex infdria dum
feram uulnerarc putat: ca tifiimam fibi coniugem percu Eiffeteuius morte in summum
moerorem acludu paulo postcafuruseifett Vides igitur auolutatisadu ueluti
a fua origine uitium in monbus flum: Verum cum iam conftet imbedllitatem
adionis prouenire ex infirmitate primi agentis rem hanc planius
exponendam cenfeo: Videamus ita in quo defidatuoluntas ante commifllim
fadnus. Qui quidem defedusfibi a natura non erinfemperenimadbzrct/ femp pcccaret:ne
rurfus eftcafu bc for luna:eflet enim extra nos. Est igitur
uOluurius.S'ed ut uideasundeifit error boc aedpe. Visdus rd quz agit ab
eo agente perficittu quod fupra fe eft: Donec enim id quod fecundo loco
agit perfeuerat in ordine primi agentis munus fuum abfo lute
peragit:Sinautemao illo declinet nullum iam remedium eflqn aut fiatim aut
paulo poftdefidattin gyrum uertitutdrculus qui manu humana torquef. Hic idem fi
nunu dedinet a mom ceflabit. Ergo igitur ut ad rem redeam nupa dicebam
duo cflic pdndpiarquae uoluntatcm aateire ntt Res quz fefe nobis oSu a :
k [ t Oerumniobonp nttitt K uii gucdam ilfas oblatu
fufdpiatt At cum qiiicgd bnhi!!»ttb£ A Ut moueri poffifaliguidhabeat
proprium a quo moucaturmoo omnis pcrap et di uis omnem appetitum mouebit.
Nim quz fmlibilia percipit cum dutaiatape petitum qui a renfibus e(i
mouere ualai Ratio autem proprie uoluntatem mouc biti Rurfuscum latio varia
bonorum genera percipere poiritcuiuilibetautcm & proprius finist Etit
uoluntatis quoque pprius nnis k primum quo moueatiu n5 bonum
quodlibetifed certum aliquod ac pncfizum.Siigit" mensnofira acuolo
tas perceptione eius rati6ismoueac7quz tedum bonorum malotu iudiciui B
teneat reda indeadio exorictur. Sinautem ab iis ezorit" quz falfo fenfuum
iudb do bona efle deaeta Tunticum minime flnt bona Ibtim peccat in uiu
6tmorib9 uoluntas. Peiueriio igit" ordinis qui est ad rationem et ad
proprium finem gignit peccatum in adione. Ad rationem quidem cum ad
fubium fec fiis perceptionem voluntas fertunin id quod fi rede pcrfpidas
bonum non efiifcd quia fuis ilicee brisrcnrusdemulfitia Dillis bonum iudicatat.
Efirurrus cum ratio ipfa minime decepta id bonum efle decemittquod uere
bonum dici potcft.Hcx tamen tepore aut hocmodo bonum efie negatur. Voluntas
tamen in id fertur nu llam ordinis tanonem babens.huiufccmodi igitut ordinis
per uerfio uoluntaria eih pptc reaqi uitio non carets Loquacior fortalTc fum q
par cfi in natura mali. Addam tamen ex iis argumentationibus quibus
demonftracum efimalum nullam efienda am eflesati ob eam tem per fe
fubfifierenon polle: facile animaduerti id aliquo in bono feroper efle
oportere: Verum idem hac quoip ratione probatur. Cum malum dicimus priuationem
dicimus:hoc enim iam conuicnPnuatio autem ipla K foima qua res priuatut
in eodem funt.ld autem quod formz fubiidtur huiuTce modi cil ut fua
natius facultate formam fufeipere ualeat. Hoc autem quis bona negabit cum
eodem in genere et ipsa sive facultas sive potentia Scadus qui inde cll
omnino confilhnt. Prxterea malum ta folum ratione malum didiT quia nev
cct. At non ncKct malo. ElTc enim bonum fi malo pemitirm afiFcrrct. Nocet
igitur bono. Nonautefi de rei forma loquamur noceret nifi in eoelTet. Quzenimcz
citas polyphcmo nocebitinifi fit in polyphemo excitas. Verum cum uulum
boa no opponatur quo pado utn idem erit fubiedum.oppofiro 9 t enim
altc/alte tum pellinhoc fi dicas ita tibi refpondebo.Quicquid ens did
poteft idem 8C boa num dicitunNon autem abfurdum cll ut non ens in ente
fit:quzlibct enim ptia uatio in aliqua elTentia c(l:quz cll ens tamen non
efi in ente fibi oppofito. Si enim czeitatem dico hoc non eos comune
quide minime eft ut uifum ubi^ tola lat:Ergo non ell in uifu uelud in fuo
fubicdo fcd in animaote. Q_ux quide om nia eo teduntiut non pofliit iu
fummum malum inueniri:ut inuenitur fummn bonum.Quod enim fummum malum
fututum fit id fine alicuius boni cofora tio elTc oportet. At nullum
malum a bono omnino feparatu efle inuehies. C^ua doquidem ut paulo ante
ofiendimus fuas in bono radices malu egit: & in eo luu ut Ita loquar
fundamentum iedt:Ptztctea fi mihi dabis aliquid fummum malis fututum effe
id ita fua eflentia malum futurum erit/ut fua eflenda fummum bo num clfc
uidemus. At malum eflentiam nullam babae iam demonfiratu efi. Ita quod
ptiouUD pdndpiii eft eus cflcpo^too cogn ellet pti IaP.Vitg«M.AIl^o.Liba
tettius cipranificflct caura iitidepcadcrettt Dafiautcaurambotiucfre
dirimus. A 4 de & boc^uTa enim qux per fe caufa diatunfcmpcr prior
eft illa quz per accidens caula dicitur. At malum non efi caufa niri per
accidens.Non igitur inuenimr (u Inum malum.Hatc funt quae de plurimis
longecp «ccllenrioribus quz Leo Baptista memoriter diluride ac copiose in
tantorum uirotum confriTu difputauit t mcminil Te ualui.ln quibus cum
abunde Laurentio fatilTadum efletxfol^ ia me* ridiemalccndi(ret:nos omnes
ita adbottante Mariotto hofpite libeta Mimo to» Kzimusiillumf fecuti ad
tefidenda corpora difi:ellimus. L. CAMALDVLENSLVM DISPVTATIONVM AD
ILLVSTREM FEDERICVM VRBINATVM PRINCIPEM IN P. VIRGILIO MARONIS ALLEGORIAS.
Um Satuissem cum fermonem illustrissime Federice litteris mandate quem
Leo BAPTISTA Albertus no sine summa oiumquia et erunt admirarione: at(^ftu
porede iis Homeris habuiflct inqbus.
VIRGILIO j fundiflimam illam fcietiam i occultatcqua fummu bois bonum
diuinitus defcribit et quU uia ad id Hcircamur mirificc exprimit: uercbar
ne in nonui 1 holum reprehcnlionem incidcrem:qui cunria ex fui ingenii
imbecillitate tnericntcs et Maronem ipfum nihil przter fabellas:quibus
ociofas auditoru au icsdcledaret cdmctum rae credant et nos pro arbitrio
nodro quz dicimus ottu uia finxilTe exifiimcnt. Qui quidetn fi quid poctz
fint: fi quam eorum origo ue tufia appareat fecum teputentifi q magna/q
uaria dodrina plurimi in eo artifii< rioflorucrint confidcTcnncogoofccnt profedoid
quod grauil Timorum PHILOSOPHORUM iudido comprobatum uidemus nullum efie
feriptorum genus : qui autmagnitudine cloquentiz.aut divinitate iapictiz
poetis pates fuerintr Qua quidem ce ARISTOTELE virum excellenti ingenio et
doctrina pofi PLATONE om nino singulari motum crediderimrut eofdem prifds
temporibus theologos poe tafi} fuine a£btmet;Et profedo fi poesis ipsa
quid sit diligentius inturamur: fad k erit nofle non cfle illam unam ex
iis artibusrquas noflri maiores quoniam reli quis excellentiores funt libctales
appcllarunnin quarum una altera ue fiqui 0 o lucrunttin maximo funt femper
pretio habiti:fed cfi res quzdam diuiniortquz universas illas compledcns
certis quibufdam nu meris aftridatcerris quibufdam pedibus
ptogrcdienstuariifi luminibus ac floribus diftinda quzcutp homines qjotnt
quaecn norint: quzeu contemplati fuerint: ea miris figmetis exoractr atip
in alias quasdam spedes traducattut cum aliud quippii multo
inferiusimul (09 humilius narrare uideantur:aut cum metas fabellas ad
ceflantium aures ob kftmdas ludere credantur:tum maxime cxcclla quzdatfic
in ipfo diuinitaris fbn tctecondita pTonunt: Quo quidem gratilTimo errore
tandem animaduerfo au ditoc non Colum in fummam rerum cognitionem
deucniat: fed mira eriam uolu ptatccz figmento pctfundatuc. Quam quidem
temdiuinam potius s humani f iii fn. cfle cu! potius f
Platoni credidcrimnilr rnim in lonr dicit pot ffm non arte yana tradi;f<d divino
furore npftras tnentesirrepne.ln co aurem qui phxdrua infcnbitur/cum tria
alia diuini furoris genera expliraflet/quaitum furoretn quc poeticum elfe
uult/huiurcemodi([ni fallor^fentcntia exprimir. Rcfeit enim da
ibcxleftibusredibusucr farcntur animi no(lri/ et cius harmonix quxinxtema dei
mente confiftitiK eius quxcxlorum motibus conficitur/illos participes
fuit fe. Verum cum deinde monalium rerum cupiditate degrauati propterca
ad ia feriora iam deuoluti corporibus incluti tint:tunc terrenis artubus
ac monbodia membris impeditos uix eos concentus qui humano artiHno
comparantur auribus padperc poflerqui et Ii a cxledi harmonia longe
abfintinihilominus quoni om ucluti fimulacra quxdam ac imagines illius
funt nos in tacitam quadam ex Icftium recordationem
inducuntiacardcntiifiroa cupiditate ad antiquam patrw am reuolandi
inflammanciut ueram ipfam muficam/cuius hxc adumbrata ima go lit pnofcamus.interim
uero quo ad pemiolcdilT mum corporis carcerem noa bis licet/bac noftra
illam imitari cdtedimus non uocum modulationibus ueluti uulgares quidi et
leviores mulici cofucueruntrquos aunu frufus demulcete posse no negauerimtquicq
aut prxterea prxihre posse no cocedor Sed grauiori quo« dam iudicio
diuinam harmonia imitati/ pfundos inrimof mentis fenfus elega ti arminc
exprimutsat divino furore concitati res frpe adeo mirabilesiadcoq fupra
humanas uires cofticutas gradi spiritu proferunt: ut cum paulo poft furoc
ille iam refedetitifeipfosadmirentVat obllupercant. Quapropter non folum
auribus adulant ifed fuaui nedarc et diuina ambrolia mentes demulcet hi
igic diuini uates funt/& faai mufarum facerdotesihi iure optimo
fandti ab Ennio ap E elbnt": his folum
diuiniiuscocefl'umeft/ut carmine modo iocude fuauiteripla entitmodo
grauiter alteq; furgetitmodo uchemeti impetu ruerirmodo in leda ti amnis
morem fluetiinonunq copiofe exundantiinonunq breuiicr atqt copref fef
gredicnti quocui uelint auditorem rapiat.quiobrcm quonia diuimor uche
metior^ in iilis spiritus infurgitiab huiufmodi ueheroeria uates appcllant. Grxa
dautipfos poetasdixeruntteo quod apud illos facere figniriut. At dices fonafle
none 8C reliqui feriptores fuo libto poetx id eft effedores iuie dici
poiTunt ( poflunt illi quide. Veru quoniam hi foii et dicedo limul &
intelligedo ni reliquos oes longe fuperant/nomen id quod oibus
feriptoribus comune etie opottuitsucluti fuum ac pprium fibi
uedicauerunt. Et piedo quicuqi uates boc noie digni fueriitiii fupra
humanamuim aliqd pofle uili funticuius rei teftimoe DIO elTe poflunt
prifei illi uiri:quos poetas fuifliecoflatinam apud hebrxos Moy fes uir
bello inuidus:qui 6C xgyptios ab xthiopibus SC ab xg 3 tptiis hebrxos
lib^; rauitmdne cius ucrlibusiuerlibus enim uolume cofalplitiocm
diuinitate cofai plitiocm diuinitate coplexus cft.uir adeo prifeus/u t
cum odoginta iam natus an nos iudxos e leruitute educeretrCecrops athrnis
r aret. Nam qux ea fint qux Idumxus lob fuiscanninibus madauit:ormine ex
iis chriflianis qui paulo dudi ores babet latere puto. At hic ut ex libro
fuo coiedari licet tertia xtate poli iftael tutPcftincc nuc {>fcqr
quata qliaue fint qux catminib^^Oauid regis:q d^iiJii Si Jonumis i qux
dcutctonomiuquc Ibix catico codnent" tEgregiu dno inudu cotitinuab
dekiceps ferie r<rfiiper rctetitum: ut iion modo poete: verum exteri 9uo(^
rcriptorcs quicutK remaliguam maiorem litteris mandarent: eam ua tiis Hgmentis/uariisfigurarum
integumentis obfcurarent: putabant enim fo teii negodumdifibcilius
ccdderent: ut fi: gux rciip(i{rent: maiorcmeflent dignitatem audoritatemc^
habitura: 8C 9U1 percepiffent: guoniam non fine la^ borc at(^ induftria
id afreguerenturtea pluris elTe faduros.maiorem inde uoluptatem
percepturos fi guz ipfi tenerent minime fibi cum indodis commu
ciaclfent.Hac igitur ratione a fandis facrifi^ rebus profanos arcebant
non inuidiamoti sed ut aliquod inter follertem at mentem diferimen
appareret: cum non idem ociofusguod studiosus affeguetetur: sic enim dC
premia guz dodis debentur folis illis proponebantur exteri ut iifdem
artibus quando leKguis noD prohccrent niterentur fummopere accendebantur.
Difficultate enim inopia rei mortalium ingenia acuuntur: uindt onmia la
bor impro bus: & du ris um ens in rebus egeftas 2 Quam guiiguam
feribendi ratione grxid guoi^lccutimntfguortim & Orpheum thracem:&
atheniefem museum et thebanum Linum antiguiflimos fuiffe accepimus: Verum
Lini Mufei^ uiz uciligia eztant: Orphd autem poemata in quibus multa deui
diuinainecpau ca dererumnatura continentur 2 ad eam quam diaimus formam
confcnptitaf fe/fadle efl cognofeere 2 de reliquis uero qui deinceps
doruerunt/nihil dicam: Fabularum enim figtUenta quibus aut deorum/aut
rerum naturam /aut ea gu» ad uitam & mores pertinent obfcuriusquidem
sed maxima cum dignitate exprimunt: rem manifeffam reddunt. Qua propter cui
mirum uideatur: fi otnnisxtas:omnesnationes. Omnesguialigua
ufguamdodrinacxcelluerint: poc tasfemper maximi fecerint.Nam ut reliquos
adprzfens omittamq multos q maximos in philofophia locos Aristotele tanms
uir poetarum tcflimonio cot roboranquibus quidem nifi tatu tribuifletmunqua
netpde poetis duosme^ de arte poetica tres libros accuratiffime
confaipfiflet. Quanti autem hoc bomi num genus PLATONE fadat: ipfe in
libro de re.p.fadle offendit: q uoniam n ihil uei jbementius mentis
intima penetrare/qua poefim affirma. At dicet aliquis no ne in libro de
legibus idem PLATONE poefim reiidendam ccnfctmufquam ille hoc. Sed eam
rdidenda dmonet: qux more tragico pturbatos animos imitatur;qux uee to
laudes canit deoru:patria inffituta defcribitimores edocet: probosuiros
extol ]it:iroprobos deprimit/aedpiendam iubet. Deni nonullis in lods
aliquod poe tarum genus uitupetari ab hoc philofopho inuenias. Poesim
autem ipfam qua donout diuina mex tollit quas quidem res cum diligentius
fecu reputauerint qui confilium noftrum damnantifentetiam illos fuam
immutaturos exiffimo: qui tamen si nos carpere uoluerint: potius
temeritatis arguantiquoniam ea qux fupranoftrasuires funt/aggreffi
fuerimus: qua aliquid quod Maro non uidc tit 2 nos uidif Te putent 2 Ego
autem quauis non tantum mihi arrogem: ut hu ius poetx diuinitatem fatis
pro dignitate explicare pofIim:non tamen inutile fii turum putauirH noff
ra indufiria quantulacunc ea fit/dodiores uicos ad tnaioif ra de ENEIDE
demonftranda exdtar 02 qui cum nos non omnia potuiffeintelli indigo oiK
no otn&mq ioiufta aduerfus nos induti utbca ca coi nim lutun erga
Iiuiurcemodi dodris» cupidos adtadiS errata Uoftra conS gant i ii qua
detint addant t Qua quide in re non modo emendari me xquo animo fctam: r<d
ultro iam nunc omnes qui hoc polTunt ut id faciant uebemc ter oro. dam m
maxi me propriu m hominis p utem» 8t quod jpfe. uiderit U> ter aliis
oftendet er & qu od ne^t fiudipie adijj^ercum in hoc fibi Ipii in il
lo reliquis profuturus iitu o 6c uitam inftitui s ut fic quicquid in me efi
iiberalif fime effundamtfl Canullo mortalium quz mihi delint/fumere
dedigner:ad que autem nofha hrc potius qualiacun<p imt fcribamiquam ad
te iUui^ime Fcde tice:qui & Maronis pra; terca KeTos & udiofiirimusrem
perfuetist & cum reliqui iulue principes in eo omnem indufiriam
ponannut quamaximos fibi tbc£uitos comparent i auri^ at^ argenti aceruus
magis magifi^ indies aefcatitu maxu mam tuarum opum partem in mularum
& eorum qui mulas colunt omsmen ta liberalissime effuns: ut iam
quemadmodum Homericus ille Agamenon coniidebat/fi decem aliifibi Nefimesadeircntiforeut
breui Troiam apturus eflett fienospro comperto habeamus fi Itali populi
non diam decem ut iliet fcd duos przteta Federicos haberent t brevi
futurum ut universa ITALIA alterz Athenz futun fitr feddeczteris alio locoi
Non enim in hunc fermonem hoc tempore uemmus t ut quequam arpamus t fcd
ut te fic dc litteratis hominibus meritum quamaiimispof Tumus laudibus
profequamuri qui quauisfolus ex omnibus qui in imperio confiituti funt has
parta tuearis : amen iu late patet tua in oes litteratos liberalitas. Ut
non pauciora ez a fiC poetae BC ontorat & om niuffl rerum feriptora
prouenturi fintsqua ii fuerint t quos olim Nicolaus lUe quintus pontifex
mazimus:quem omnes uidimus fuis pulcherrimis muneris bus/ac maximis
pretniisprouoauittqui quidem tuo beneficioad ftudia czdta ti:8t fibi
gloriam fua dodrina fua eloquentia ucndiabunt.6: te ulem roufape E
atronu etiam tuc cum multorum principum qui et nuc uiuunt/& olim
regna« ut fama fepulta iacebit in xtema femper^ recenti memoria uiuum
retinebut. Veru haec quoniam omni luce clariora fu Dt; longiusprofequenda
non cenfeot Praefertim cu ipfa iam ra postuletaut diuinum dodimmi uiti
Baptiftz Termone ego quantum memoria repetere poteto Tuo ordine
referam.Ille enim cum bci> ne mane ad confuctum locum ueniflemus : 8i
min audiendi cupiditate inflam mati ab eius ore Tummo cum filentio penderemus
huiufccmodi principio dil/ putationem exorfus cfi|£)um eius poctz mentem
tibi Laurenti aperiri cupias r qui uel ex omnibus re^onibusaquarum babiatorcshifioriacognofant
suci cxotnnibus lzculis squkadnofhamur memoriam acriptorum beneficio
per uenerintsfi non primus primo tamen par aequalif (^ exifiatsno poflfum
meo oea tionbingreflu tantzrei magnitudine non penitus pctturbaii. Ncmo
modome diocri fit dodrina imbutus hunc uirn ui ac copia dicendi ipfnn ut
ita loquar eloquentia fuperare unquam dubitauit.Nam cumtraindidionefiue
figurae rrnt sive charaderasin quotum uno fiquis excelluerit maximam fit
glot L - am adeptus. Quis non uidetnon folum in lingulis fuis uoluminibus
fiivmlos adimplet Verum paucis liepe uctfibtis ita omnacofudific aepennL:
fcuific/ut miro quodam temperamento u clotifidiucifcuoc Bcoocctu Mluaf^ t«a Z iotl dk\ M aia uFdi £ IIBD mu
DCMI mat vtik lia cnlK lioilfl olis a tpai KSoa 10
ik lOa B oulip icbui> nft» none flbfr
qSiQ 011 ipiB’ bSlfimu cottfiaabt incredibilefli auribus voluptate
pariat. Ex quatuor aut riie& di generibus ita opus contcxitiut ne ocio
copiame negocio brevitas defit. Vi dcbis quxdarua sic dtatc at<j
ariditate placerctquzdamuetoueluri flofculis ib lufhau at diftint Sa
deledare.Sunt deni^ eunda eo attifido confirudaiut un# deoiaadoe
elocutionis genus exempla potius qbincrumas/fcriptum DulIum invenias. Adde
ad haec cognitionem hifioriatai Adde quadili gentissimus and» quitaristt
oonmodonofliaturctuifed &grzcaru &omm nationu inuelliga#
torcxriterittqptil conjmuaborumobretuatiinmus fueritiq elegata quxdain
Boua ex fe fotmaucritiqua f pric omniu uim tenuerit. Prxterco ius duile:
omit loiuspontiridu nihil dicodeiurcauguratqus; oiaita tenuitaitnonab
aliis accepilTeifed ipfc conftituiOie uideatue. Hzc igitur & cotum limilia
fi a me tibi ex« pheanda pctaestac ut fifiguk» in eo poeta locos
diligeorius apetiiem contende tes: 8C operofum fimul & difiidle mihi
negociu imponetes. Quis enim illa pub chetrima cxcdlentiiliinaf/ac fummo
artifido tccondita non ludicct: fed funt ta nicri a multis iifdcm^
dodisuitis patefada. Quod aute petis id & multo diviiuuscftt Kmagisinobrcuro
UtetiKanullo quod ego quide rdam/badenus fua ferie patcfadum.quod ne
gtimaricus nc tbetot nouerit.fed fi ex intimis FILOSOFI arcanis eruendum.
Vis enim nolTe quid per fua illa enigmata de Ae ncaectrotibusidc dus
hominis in italia profei^one fibi Maro uoluerit.Q^ua qua (untnonulli/qui
di ea quae paulo ante dicebam promaximb admirentutt at^ in ipfis fuma
abfolutam^ poetx laudem contineri putent: nihil maius in eo uate fuicent.
Quos tamen fi roges quid fibi in ea te VIRGILIO perficere uolue riti Hometumimitandu
fibi propofum eafibtmabut: Addent^ ne^ ingeniu ne dodrinamtquo minus id
pilare pofTet fibi defuifreiQ^uod nobis cu dederint fuccubat penitus
necefle efl. Habemus enim ^ut gramaiicope iiinita pene tutba omitta multoseofde
grauifTimos PHILOSOPHOS tqu i Homerii ocm zgypriopi dodrina
haufilTctca^ more illote uariis hgmetis adubraffe cotcdat. Qua in fen
tcnria nili ARISTOTELE fuiiret nunqua homeriaru ambiguitatii libros fex scripfif
fet. Na quid Balilius Bi dodrinz magnitudie/K mo^ fanditate magnus coo
minatus de homine fentianfacileefi iudicare:qui tota Homeri pocfim laude/
uittutis continete dixit /fccutus ut puto Anaxagoram Claxomeniiitqui
quidem idem de hoc poeta a Sirmauit t Arcbefiias ucto mediz academiz
inudor tra OMERO tribuitiut nunqua fe iniedu tecepcritiquin prius aliquid ex eo
legerit: Sed & inlucem le ad amauum ite dicebatiquo hin dus legendi
maior copia daretur, yctum quid reliquos nunc colligamtcum unius PLATONE
testimonio nihil fit, quod probari non polTitlls igitur in eo uolumine
quod de summo bono scripsit omnes artes huc diuinz fiue humanz illz fint in
unum Homeri poema uciuti r in proprium receptaculum confluxifle afHrmat.
Quamobrem animaduettens Mato dodrinam huius hominis ex egyptiorum sacerdotum
fontibus bauftam fimillimamcum Platonicist quorum Qud iofifTimus fuit rauonem
babere eam uTadeo admiratus dl:ut idem in fuo ENEA efficere uolucrit :
quod ille antea in Vlyxc finxerat^ Q_uaproptet pulcherrimis poeticif:^
figmentis eum nobis unw i^oiinai qui pluri, a^ aux^nis u itiis pauwim
expiatusue dckeps 'ir»v I f •*/ .«MI inr ;
iRft. mitis uiituHbiu Illuftratus id quod fummahotmnibdliaeStquoiI^
tufi & pl ip6t/ tatnnlal^ equnec^ VcTdcu illud mrera diuinanunfpcca msnullusafTequii latione
conlidcre a PLATONE didioirctylimul SC illud didicit co antbt minime
perueniripofle/q animi nofhiuirtutibns illissquz deuiu K moribus funtex
piati penitus reddantur. Cum SOCRATE i pfe puru impuioiittiogetc fas
c$/cfle neget. Quapropcet non folumflnes bonoru nobis miririceezpreiritt Verum
etiam qua uia qua ue ratione eo cuadere tandem homini liceat
demonftrauitt Ne qua pars eius philofophia; qui gtxd ethicen/nos de vita et
moribus nomp namus: prxtermitteretur:in ea enim nos nihil aliud quammus
nili primum bo notum malorum^ iincstdeindeof Scia quibusueluti uia quadam
ad eosdem ducamur. Laboriofum omnino negodum/at^ omni difficultate
plcnum: divinum tamen & quo uno foelix limul atip fapiens homo
effidaturtdeo^ iungaf Soli enim fapienti fas eft ufi adeo deo c6iungi:ut
nihil quod feparcr/intercink ce poflit. Deus enim ueritas eft .Q^uis aut
nefdat qui uerum mente non pettin gat/eum lapientem efle minime poiTet^os
autem cum quatuor lint qu 2 in feru ptoris mente aperienda inue(tigemus in
rem nolfram futurum puto: ut certos ia terminos drcufaibamus: quos in
poeta interpretando egredi non liceat. ES igitur cum id quod geffum Iit
quxrimus: quam hilforiamappelbnt/ut cum le gimus apud Matonem haud ptocul
inde dtx Meda indiue^ qoadrigxdiSa lerant.C^uxrimus itidem non quid geSum
litifed qua ratione geSum nt:ut eS illud At tu didis albanemanetes. Nam
eoloco dcmonfhat propter eadifcerptu a quadrigis elTcalbanorum regem
/quoniam illein fide non manlilTet.hic gta&« dethimologiam dictuit. Quxrimus
et tertio in loco an ea qux dicantur pu^ gnantia inter fe lintr Alibi
enim didt ChriSus patrem fe maiorem efle:alibi ego &pater Idem fumus.
Quapropter cum ita interpteumur/ bxc ut minime intec fediiridereo ()endamus.
Analogiam sequimur. Interpretamur postremo aliquod per allegoriam quod
tunc sit cum non qux uaba SIGNIFICANT INTELLIGIMUS sed quiddam ALIUD SUB
FIGURA OBSCURATUM. Scribunt poetx Amphionis lyra motos m lapides ut fua
fponte in thebanorum moenium flruduram coirettper quod figmentu quid
aliud intelligimus:nili fapientillimi viri eloquentia esse dum eifer ut BOEZIO
populi qui hadenus ad omne rone ueluti lapides Supidi: K aduetfus oem
humanitate durilfimi czi(ferent:e fyluis ac luflris in duitatem
uenirentrac poSremo legibus qux ad comunem ufum latx cfTennultro fefe
rubiicerct. Nos igitur reliqua tria genera hoc tempore omittemus:at(^ in
ipfa fola allegoria uet fabimur:ut quid per Troia(n: quidpCTxneam:quid
per ITALIA reliqua^ huiu& modifibiuelituideamus. froixigit"
oritur ENEA rperquautberedeut puo to prima bois asutem intelligemus.in
qua cu ro adhuc ois cofopita (lufolus fen fusregnat: At ipli
mottales/quia ea xtate fapientia ne furpicaot' quide ea fola fibi
proponut qux philofophi prima naturx appellat. Ni cu oe aial (ibi a
natura comendatu (it:in primis feipfum diligit:deinde o^s corporis partes
ita integras: ualidafip hne cupit ut ufui (imul fit pulchritudini fibi
(int: maxime autem uohi ptatibus demulcetur flc quauis animum fefimul
corpur^efTe intelligattat Utru faluum
efb cupiautamen in iis qux in animo apetenda funt/ quoniam BOO dbm plane ilhcog Oolat minus
laboratsea autem quz corpori corporeilm uoiuptanBus conducunt/anxie
expetit. Sunt enimflbi abipfoortu iamnotissima. QuaptopteiT cum in hac
zutcnaturxui potius trahamur/g nofharum adionum domini efTeualeamusmel
minimum uc omnino nullum uirtuduw do^ locum relinguamus:cum que agimus
eanccuoiuntariaflnt: neccum de ledu aliquo fiant. Ita in puero virtutem
e(1'e nemo dicet. Verum ubi iam pro gtcflu ztatis rationis lumine aliquo
illufirari indpit mens noftra s tum demum tanm in nobis conlilii
apparet:uta prauisreda difcerncrcualeamus. Eft enim iam ad illud PITAGORICA
litterxbiuium pcrucntum/fic iatnuitzne Tciuseiton utcil apud P um. Deduxit
trepidas ramofa in compita mentes. Vnde cum di fceflciimus nccefle efitut
uel reda pergamus : uel in finifira deiledamus . Nam quz deinceps
agimus/quoniam ceru quadi ratione agimus/fi reda fuerint uit tutitfin contra
uitioadlcribuntur. Troiz igitur 8t Aeneas limul fit Parisa/un tur. Verum
alter quoniam Venerem Paladi ideft uirtuti f uoluptatem ante« poni
neceife efitut una cum Troia pereat. Alter autem ducematie Venere fe ab
omni incendio explicat. Quod quid aliud intelligamus/nifi cos/ qui magno amore
inflammati ad uen cognitionem impclluntur omnia facile confer qui pofle.
Qua propter Venerem diuinum amorem rede interpretabimur. Sed tu LAVRENTl
ncfdo quid iam diu uclle dicere uiderisiCupio quidem inquit LAVRENTIVS t
Ni uerear perpetuum tux disputationis filum intec nimpae.lmmo potius iflo
modo inquit BAPTISTA: Nam cum uniuerfus hiefermo non ad oflentandum
ingenium neq; ad gloriam comparandam a nobis infticutus fit : fed ut
honeflifiimx- uoluntati tux obtemperem: fit fi quid in me dodrinx efi/id
libenter cfiFundam : interroga : inter peilaiobiice: confuta pro arbitrio
tuo.Hac enim uia id quod quxrimus verum dilucidius apparebit. Vtar quod mihi
permittis arbitrio inquit LAVRENTIVS utrum id non tui confutandi sed mei
erudiendi caula . Miror igitur cur tu Venerem amorem interpreteris eum
prafertim amorem : qui non modo cadus verum etiam divinus fit. Ego enim Venerem
non folum apud poetas : fed etiam apud reliquos feriptoresita fumptam
uideo: ut per eam nonnifi maris foeminz^ coniundionem fignificarc
uelinr.hinc illud Terentianum, e Cerere fit Bac chouenaemfrigefceretEt ipfc
in bucolicis: Parta mez uenerifunt munera. Quapropter fi uenerem pro
huiufce modi'coniundioneponas:quxbadenua dixidi/ea omnia inter fe pugnate
uidebuntur . Sed eft fit aliud qu^ nifi tu mi< ili petfpicuum reddas
ego minime explicare ualeam. Qui enim fit ut cum duo fintuiri Aeneas at^
Paris: Alter quoniam Palladi Venerem prxponattnecefle fit ut una cum Troia
pereat : Alter ueto quoniam prxeipienti Veneri obtempe reriomne periculum
incolumis cuadat. Ego enim non uideo cur fi bona fit Ve nus Paridi
noccat:fi mala prqfit ENEA. Qux quidem dum cogito/in eorum potius
Icntenciam labor:qui rem omnem ad eam flellam qux hoc nomine ap
pellet'':flt ad ipfam bidoria referut: Putat enim qd* te no fugit/qua hora a
Troia ITALIA versus jificifcerct Aeneas:librz fignu qd* domiciliu ucnetis
6ad nfm hoc hcaifpcpu afiacdifli^lpfam Y^ete in medio czlo loui fuide
roniundam. Quibus oibus poftendebat" foelidtas illi tegtia^ per
muliere peruentufoioJo' uem enim regnU ptzeflc non ra odo OMERO
SIGNIFICAT qui reges ; id enim eS a loue nutritos rcribit. Sed &
mathematici ide ditant. Salutareenini omnino Itduse Qsquonia inter Saturni
frigus K Marcis ardorem colloatu opti moeemperamento Iit: 8i propterea
eundis euentibus profpcrum. Nam cum ui tam noftram praxipue sol et luna
gubernet: iccirco lupitet omnium nobis fa luberrimus eihquia foli per
omnes numeros/iunzautem per plurimos coniuo dus eft. Refecunr etiam in
initio mundanzfabricziouem in ariete dotniciiio tuncafcendcnte fui/Te.
Volunt illum inducere leges/caliicatem/mirericordiam in egenos K
calamitate opprelTos. Veridicos homines fadt/& vere amicos fine
fraude fine dolo: Saturni fzuitiam frangit fiCquzcun^ ille mala
infert:hicaut tollit aut minuit. Quapropterfcite Petii us Satutnumip
grauem nolito loue frihgimu s una: Oeni^ fi in alicuius ortu fe bene
habeaticum ille hominem for tunatumreddit.bfinimehzc dilpliccnt inquit
BAPTISTA. Sunt enim ex 15 ma dodtina eruta: 8C hifioriz uehementer
accommodata. Verum cum omnis nofira difputatio nullam hilloriz ratione
habeat i Sed eam qui totiens gtzco uabo allegoriam nomino/exprimete
conetut/non uideo cur ea qua adhibui in terpretatio iure amitti non
pofiit : Si enim iis omilTis quz de ENEA deqj cztctis troianis prifei
faiptores tradidere/pro arbitrio licuifiet poetz non modo finge te:fed SL
peruertere & addere & fubtrahere.Si deni^ nulla hifioriz ratione
liabi ta id folum tentaret quo pado per ENEA cum nobis uirum informaret:
qui ta dem fapiens beatufqj citet futurus/nonueneremfortafiefed cupidinem
aliud ue numen pofuiflet. Sed cum ita poeticum figmentum profequi
inSituifiet: ut tamen ab hilloria non difccderet:cum Aenez matrem fuilTe
& exilii ducem naviganti filio fc przQitilTe Vennem Icgil Tenfuit cx iis
quz aderant res perficiedat non autem nomina fingenda. Hoc enim plus
negocii poetz cll qua reliquis qui alio figmento rem obfcurateuolunc.
Illi enim ab omni hiftoria foluti pro arbitrio ea cominifcuntunquz magis
rei fuzjpromendz quadrent. Quodut ! )lanius teneas/unum de multis
excmplicaula proponendum cenfeo. Placuitil I primo huius fabulz audori
ollendcrc quz in tempore ex materia gignuntur: ea omnia in interitum
cadae quatuor dutaxat clementis exceptis: quz principia (unt oibus rebus
generadis Duos igitut comentus ell deos Saturnii at Opima & illum
temporis fjmbolu obtinere uoluittquod gtzcu nomen indicat. Chronos enim qui
Saturnus ell ab eo fubtrada harpitatioe deducifrquem ipfi chro non
appellant. At quis ntfdat tempus grzce chronon dici. Per Saturnum igitut
teropus: per Opim fiuerhcamterram intelligit. Addit deinde Saturnu pmnes
quos de thearufccpilTct filios uoralTe prztcr loue lunonc Neptunnu Plutonem. Qua
fabula exprimit omnia quz ex materia funt prartctipla quatuoc elementa
tempore conteri: at in interitum deduci. Quorfum igitur hzc ne reliquum
fabulz profequar : nempe utintelligas licuilTe huic homini pro arbitrio
quzeum^ uolebat fingere: ut quod de rerum procreatione sentiebat: commode
exprimeret : cum nihil aliud prztcr phyfices particulam fibi propofuiflc.
Maroni autcih longe alia rado cfi: qui cum ENEA res io laudem' I II Litxr
tertius AngulH ezoritatidas t ft librum iprum omnibus
poeddsluminibasitluftrandum fibi fumpfiflet t non iis qux ipfe uio
ingenio digeret t (ed iis quz hiftoria porrigit banc fuprcmam ingemi fui
laudem comparat . Mirus profedo uir qui non ex op tads fed ex datis ha
opus intexat : ut cum hiftonam minime deferat :pet eam rame illaedibili
integumento humanam fcelicitatem exprimatiHabcs^ut opinor^qua ratione
uenaem pro diuino amore ponae coadus iit. Quod ita tamen rede pro cedit
< ut ni£ ab iniquis reprehendi non poiTit. Videmus enim Platonem in eo
fa mone quem phatdtum nominat : Aphr^iten/quaic nos uenaem
nuncupamus: oqn lafouololum sed & diuino amori ptaxiTci Verum quam
uenerem piatonie cua poeta Aenez matrem eife uoluerit : faale
intelligemus ii quzdam paulo altu uscx ipso PLATONE repetamus.
PauCmiasigiturin fympofio duas ueneres comme morat/aketam czlcfiem vulgarem
alraam . prinum autem czio natam refert: cui nulla mater iit. Quod cum
lingit eam intelligentiam iignihcat/quz in angeli me te poiita amore
ingenito ad dei pulchntudinem intelligendam rapirur/quam quo numprocula bomnifflaterizcon
fortiolitiinc matre prodiidam dicit. Secudam uao uenaem mundi animz
tribuitiita ut patre loue : matre uero Dione eam na» tam feribat. Manat
enim ab ea ui quz in anima mundi eft : & uim creat quz infe« hora bzc
omnia gignat & mundi fyluam fubeat: Vtra igitur fibi ingenito amo ce
rapitur czlefiia ilU ad dei pulchritudinem intuendam : hzc uao ut eandem
pul chritudinem e fylua conforma. Sed hzc parum ad rem. Animus autem
noda cum&ip Ge similes quafdamuires habeat inteliigendi at y gignendi
duas itidem ueiiera habaedicitur/quas gemini comitentur cupidines. Cum
enim corporea puichnmdo oculis nodtis obiicitucrmcns noftra^quz piima
uenus eft}eam non quia corporea litillcd quia limulaaum divini decori
admiratunar diligitiea quz ueluu uia quadam ad czlos effenur: Gignendi
aurem uis: quz fecunda uenus ell formam gignae huic limilem concupifcir uapropter
uterqi amor iure dicitur utaltcr contemplandz altergignendz pulchficudinis
defidcrium fit. Nemo igU tur nifi totius rationis expas fit duos iflos
amores damnare audebit t cum uta qj humanz naturz neceflariusfit: Nerp
enim diu efremortalium genus finefo bolis propagatione t neij ruifus
beneefte fmcueri inuefligatione potait. Prza ttantiuri igimr illa ucnae
duce in italiam perucnire potuit zneasi Ac dices cui hzc fecunda fi
bonacfl paridi nocuit: quia illa male ufuscfl. Vir enimgignen di autdior
quam reda ratio didatfitin ea re plus quam oportet occupatus /in Ibiis
corporas uoluputibus meretur. Quo fit ut 6i primam quz ad fummutn bonum
dudt omninn deferat : & fecunda pcffime abutatur : proptaearp in om
nes animi petturbanones incidat: ueritater^ defpctata mifaq^ efifedusin
omne indignitatem dcfccndat Efi ut dixi diuious amor fi Platoni credimus
dcfideti« um redeundi a corporea pulchritudine ad diuinam contemplandam:
Non ta uencum diuinam defidetamus eam quz oculis
pcrcipitur/contemnimus.Nam qui aliquid appetit hunc illius quom rei :
quam appetit imagine delcdari ne« ceffe cfi. Verum funt quidam ita hebeti
ingenio: ut mentem a fcnfibus nullo modo feuocate poffint: hi ueiam
pulchritudinem non norunt. Huiufccmodi igitui amot adultctinus cfl /
& a uao degenoans: quem lafduia ac pcocadtas frtnpff
cotnit3tnr:quem diffiniunt cupidinem eius uoluptatist que e cotpdo rea
Forma percipitur rrede qux dicunt cum ardorem animi in fuo cotporetnot
tui in alieno uiuenns i quod fecums poeta quidam dixit J, I Plato ucio ait
illum natum ab humanis morbis follicitudineqi plenum . At quis non
uideat illum nerp confilium in fe nc modum ullum habere. InefTci^ in
coiniurias/furpi# dones/ ac reliquas illas omnes peftes : quas fidelis
Feruus Terentiano phzdtix prudenter oftcndit. Habes(urputn^dupliccm
amorem verum illum fidiuino: de quo paulo ante dicebam /& hunc falfum
& adulterinum: & qui uetoamo ri talis fit qualem aut amico
adulatorem: aut medico coquum efifeuidemus: cui quidem cum fe totum
dedidiffet Paris uiia cum Troia periit. ENEA autem cz lelii illo duce
paulatim ex troiano incendio ideftex corporearum uoluputum ardore fe
expediens li non reda nauigatione id enim humanz condidoni : aut nunquam
aut raro conceditur: ut eodem rempore licfiulcitiam exuat. &rapiens
efficiatur: tamen poft multos errores in luliamad ueram fapieutiam
pcrucnit. Quam quidem nauigationem cumfudorislabonfi^ plcniliima
fit/nemouna quam nili fummoillius amore inccnfus difficultatem omnem perferre
paratus fit penitus perficiet. Amor enim uerus/ut apud eundem Platonem
offendit Eriximachi oratio omnium naturalium rerum creator effat feruator
: eo emn fimilia omnia ad eaquz fibi fimilia funt perhenni concordia
ttahuntur.Effitt dem omnium maximorum artium magiffer. Nemo enim aut
artem inuenitiaut ab alio inurntam addifcit : nili inueftigationis
obiedatio/K difeendi cupido ia dtet uam quidem rem fi non apette offendit
: obfcudus tamen ut poeta rummos efl SIGNIFICAT noffer VIRGILIO. Cum enim
in georgicis fe uen cognidonem reliquis rebus prxponere dicat difficultatem
ipfamfumma amoris ui fu peraturum his ueibis demonffrat. Me uero pnmum
dulces ante omnia mulas Quarum sacra fero ingenti pnculfus amore
Accipiant . Ingenti ergoamotela« boies fummos:quiin factis mufarum/ id
eff in rerum cognitione fubeuodi funt fe laturum affirmat |0 uinus enim
amor/nii aliud meditatur: nil molicurmui Ia alia in re laborat t nihil
tentat: nihil nititur /nili utiam corporex pulcbritudinis afpedu concitus
addiuinam nos pulchritudinem rapiat. Dum enim cor/ porcis tenebris
demetfi funt animi noffti diuin i non recognofeunt : nifi umbris & simulacris
quibuf damtqux fefenoffris lentibus obiidunt . Q^uam quidem rem non folum
exprefferunt prifei ex grzcia pbilofophi : in quibus Pythagoram EMPEDOCLE DI
GIRGENTI Heraclitum sed longe ante alios Platonem enumerare poC fiim tSed
Bi chrifhani ab eadem fententia minime difcedunt: Nam & Paulus &
qui Pauli auditor fuit Dionysius areopagita cxleffuac diuina : qux in
fetu fus non cadunt/pet ea qux fenfibus percipiuntur /cerni uolunt. Inxc
eff igu tur illa uera uenus: qux mentem noffram ad diuina erigit: qua
matre quisoc Idat natum xneam nomen abeo quod effxneos id eff a laude
dedudum. Vb rum enim ad omnia magna dCexccIfa natum: quis non fummis
laudibus proe fequaturf Verum &ipfea uolunrate delinitusdrca Troiz
defenfionem laborat Xioiamco impdiuatuturztin quibus, voluptates corpotex
plurimum uigent/ Liba totius intoprctari licet : prima enim
>tate’cum ipfa ratio non dum fe exdtare : ft fuas ui CCS EXPLICARE poflit
/ etiam qui magni at^ admirandi uiri futuri funt uoluptate de mulcentur:
prima naturas ueluri fumma admirantur: di quoniam diuina qux fint nem
nouaunt : beatiflimam eam uitam putant: per quam uoluptate frui lice at *
Hi igitur quid fummurn bemum rit: nondum compei tum habent: Veni cum
illius acquirendi fummo ardore inflammentunpaulatim bxc omnia qux dixi
pri ma tiaturx aduca momentaneai efle animaduertunt. Habet enim hanc irim
ue tus amor : ut paulo ante dixi
ut mentem ucbementn exacuat : magifterep illi re cum inuenieodarum
paulatim fit t ut nibil eam latae poflit. Qua propta egre ei llud qi
£Ulete poifit atuanton : Deinde cum nihil dfficik puta / modo re amata
potiatur : omnes labores tolaat: omnes difficultates fupetat . Hxc eff uenus
illa non uulgaris ; qux materix admixta utm haba gnendi/fed illa cxicflis
ab omtii materia remota : qux a mente noflra eft : ipfamq; mentem excitat;&
Iu* cem illi liiam nobis badenus incognita in node id enim efl in nofita
infritia oflen dit t fc^ deam &taurfeenim indicans fua diuinitatem
demonftrat: admonet non peme feruari Troiam id eft originem corporis qux
necefle eft ut pneat . Hxc eadem oftendit uoluptates cotporeas non Tolum
ab ipa lacena id eft a feipfts/ut in beftema difputatione diximus
cotrumpi: sed ab lunone a Pallade at a exteris di is: Nam deos Troiam
populati quis ignoret f Divina enim omnia uoluptatibus aduafantuc. Sed in
primis Pallas . Hxc enim sapientix symbolum obtinet. Sapientia autem non folum
uoluptates contemnit: verum eriam (fummopae exhore ret. eft quod de
lunone quifquam dubita : qux quamuis regnomm dea ha be Oiiriproptaca in
hxc caduca ac mottalia magis ptopenfa uideatur: tamen cumlidmmes
imperandi aipiditate nullum labotem pafetre recufent t omnibus
uoluptatibus bellum indiaint: modo eo perueniant unde poflint reliquis
impe* ritare: Deos autem minime uida ENEA dum pronoluptate pugnat .
Nubium cni Biteilebtis cnnnis ei ptorpedus eripitur . Sunt enim animi
noftri ita a deo aea diutfuapte natura facile omnem utritatem confequantur.
Sed a materia corpo* ea quam philofopfaifyluam appellant: omnia nobis mala
proueniunt.llla enim tardat heb^t at^ pemirbat mentes noftras:: at tenebris
obfcutat. Sioiim ex in fritia omnia uitia ptoueniunt: Quaproptcr &
Chty lippus & reliqui ftoici perturintiones omnes a fallis opinionibus
oriri dicunt :(^uodtamai longe ante feoferat MERCURIO ille: quem grxciob
ingenii diuinitatem Trimaxinnimappeihnt. Siigitur omnia uitia ex infritia
ptoueniunt. Infrit ia autem ex corpotea calu ginecft/ut PLATONE putat
/erunt omnia uitia a corpore. Quam caufam prxeipu* am fuH&idixerini /
ut is quem paulo ante nominaui Meteutius fyluam malignita temappella: fedderylua
commodiordifputandi locuspaulopoft dabitur. Pugnat igitur xneas pro uita
uoluptuofa: illat demerfus deos uidae nequit. Verum cuminhuiufcemodi
miferia non delit amor neri inueftigandi valet ipfe amot mentem excitare:
ut feco Uigens tenebras difaitiat:flt uideat quibus numinibus Trcria
cuertatur. Ducetp eodem amore pa medias flammas at^ hoftes ita tutum
anipit. Et profedo uolenti ad tes arduas profleifri / hinc mira
quxdam'uoluptatum : qux defoendx funt cupiditas ucluti flamma quxdam illinc
laborum difiS* cultatutntp terror / qui aduerfus honeftatem afliduo pugnet fefe
opponfit. Quz omnia ducente Venere Araex cedunt. Nam niii amor abfit :
netp ram blandas oo luptatescontcmnere>ne<^ tam duras difficultates
fuperare pofTemus. Venit igu tur domum ut familiam omnem componat : at^
inde ex urbe proficifatur. Ridit enim in fe ipfum animus t omnef^ fuas uires :
at<p uirtutcs gux uariz funnad profcAionem / id enim eif ad ueri
cognitionem quam Troix nunquam afTeque^ retur: fuo ordine componit omnia^
(ibi ex uoto fuccederent: (1 pater filium fe qui uelit.Verum negat ANCHISE
fe ex Troia difcefTurum» Hoc ueroquid (ibi ue lit : (i me roges ego (ic
puto. ENEA huiufcemodi parentibus natus efi: ut Venus dea: ANCHISE
mortalis (it : homo enim ex animo qui immortalis diuinufip eftiK ex
corporemortali Kcito in interitum cafuroconftactMmsigitur originem fuam
femperfufpicit: ad eamcp redire cupiens Troiam auidiflime dcferit . Senfus
au« tcm qui a corpore funt corporea incorporeis pratponunt . Hinc igitur
alTiduum atrox<^ certamen illud exoritur rpiritusaduerfus carnem ut
noftti dicunt t cum mens totum hominem ad diuina trahae conetur t BC
fenfus in potefiatem tedige« re / 8 C fibi obtemperantes reddere cupiat .
Contra uao fenfus feculcnto elementa rum potu ebrii / 8 C lahea obliuione
grauati nihil nili caducum & tenenum cupi» unr ANCHISE igitur id efi
tenenus pata i 8 i ea qux a chrilHanis uabo parum tri» tofcnfualitas
appellatur 2 Troiam fedeferturum negat .Mauult enim perire fen» fus /
quam uoluptate priuari. Mox tamen cum filium omnemq; domum t id eft totum
hominem periturum audiat 2 cump cxleftibus monihis meliora moneatur 2 mutat
fententiam/ab ENEA^ fublatus exportatur : molliltitna enim bxc at« ^
eneruata animi pars ad fummum bonum nunquam fat t fed i pfa potius
inficr» tur . Hxc de ancbife j ENEA autem cum iam incendii 2 armorumcp
pericula eua» ftlVct ; atep incolumis urbem e(Tct egrelTus : ingentem
comitum afduxilfc nouo# rum inuenit ad miransnumaumtqui quidem undi^
conuenerant animis opi» buf^ parati in quafcunt^ uriit pelago deducere
tereas.t & rede quidem. Nani ca tandcmcferuitio incendioi uoluptatum
fumus liberatit e(f<^ iam animus redi uaiqtinueniendiauidus/tum plunmx
animorum uires 2 quxhadenus ignauia torprbant :ucbementa excitantur2 8 C
bene in(fitutammentcra quocunt uocae uerit / fequuntur. Quo quidem
tempore ne a redo itinere omnino aberraret xneas / Iam iugis fummx
Turgebat luciret idx t Ducebattp diem . Eff enim ludBtr uenerisfydust
quodurfolem lunamip omittam 2 omnium quinque fteliarum quas nolfri
aratiles grxei planctas uocitantt lucidiflimumlitizodiacum autem odo ac
quadraginta diebus fupra trecentos perficit / nunquam a fole longius fex
& quadraginta unius (igni partibus difcedens . Verum/quoniam modo
pcxcedit/ modo TubTequitur 2 folem non eandem (lellam fed duas eife prifei
crcdidcrunttpti mum autem Pytbagoram extitiffe ferunt :qui in eo apud
grxeos unum depreben derit .Cum igitur folem prxuenit lucifer dicitur :
uefperus autem cum fubfequi» tur . Rede autem lucifer prxuius foli eff .
Stella enim uennis/is enim amor efi ue ri inueniendi / ei exoritur 2 qui
iam uiram uoluptari obnoxiam deferir 2 dudt^ di em 2 nam rationem excitat
talis amor / cuius luce illuSrati uetum noffe ualeamus. Apparet autem a
idamonu id eft a pulchritudine.Idos eoimapudgntos formam figaificat. Amor autem
apud Platonem pulchittudioisdefideri um diffii S , Quapropter in
ipfo pudor nos a turpibus auoc^: cupiditas ucro czcellen quztj boneiia
rapit . Fertur igitur ENEA duce m are exui in alt um incertus quo fata
ferant ubi iiftae detur . Q uz omnia non fine fumma fapientia a poeta
ponuntur: facile enim cognofeit Troiam relinquendam : & fummi boni
princi' panun uoluptati minime esse tradendum. In qua autem re fummum
bonum coii tiatnondum cognofcit.lureigitur exui appellatur. Nam ab eoquod
habuit cie dus eft : ne^ dum id quod ucluti proprium poflideat inuenit .
Mari autem fermt quia animi nofiri quocun^ moucantw nulla alia re niii
appetitu mouentur : qui quam fimilis mari iit paulo poft aperiam ii pauca
prius de appetitu dixeto^ft igi^ tur fenfus & uis quzdam in animis
nofiris t quam cogitandi nominant : cui bono tum malorum iudicium a
natura demandatum efi, Non nunquam autem ita iudicat buiufcemodi uis : ut
nihil prarter fenfus refpiciens : 8L ueluti illorum illc« cebris attrada
& uoiuptatis oblato ptzmio corrupta quod pecudis bonum eft i{v fa
hominis bonum decernat. Si autem eadem cogitandi uis falutari rationis
lumi ne illuftretur et eius norma dirigatur : non id bonum eife iudicat /
quo fenfus de mulcentur ; fed quod reda didat ratio: quod uemm (implexi^
bonum cui iit ne« ^interire ne^ corrumpi pofiit. Cum igitur huiufcemodi
uis bcx bonum illud ucro malum elfedeacuerit excitatur in nobis alia
quzdam uis quz ad bonum afei Icendum / malum^ declinandum infurgat .
Huncautem appetitum omnes ap« pellant . Sed &, eum duplicem efle
oportetialtrtum qui ab eo iudicio quod folus fenlus fcdt femper pendeat :
nibil^ cum ratione expetat: alterum qui nihil omni no sequitur t niii
quod ratio prius pra^epent : primum illum libidinem : hunc fe eundum
uoluptatem nuncupamus. uaptopter erit appetitus quo animi honii num
ad bonum afdicendum maium declinandum
moucantur redus quU demiiaratione/contraii a fenfu.Quaptopter pulcherrimo
enygmate diuinus Elato cum animum noibum ueluti cunum pofuilTet : aurigam
ilii duofep equos adiungit . Nam ueluti equis currus trahitur : iic
animus ab appetitu duatur. Fe.< mnt autem equi non fuo arbitrio : fed
imperio aurigz a quo reguntur eodem pa» do appetitus nihil ex fe agendum
decernit . Sed quod iam ab aii a ui deaetu m eli fequitur. Quarc autem
equorum alterum album pulchettimum^ i at^ hono« tis cupidum : Bi qui non
minis ui<^ / sed cohortatione ratione regatur. Alterum nigrum
inglorium & contumacem hnzerit ex iis quz paulo ante a me de duplici
appetitu dicebantur perfpicuum eft. ExprefVit enim per bonum rationalem :
per B^um ucro irrationalem appetitum quo animus fertur: at<^ hzc de
appetitu : quem quidem mari limillimumelTe quis negaueritr Videmus enim
mareftnuL» lis uentis uetbcretur fedatum tranquiliumtp perdurare. Sin
autem diuerfistun datur uentis: in geauiflimas turbulentiflimaftp tcmpeftates
infurgir : Sed hzc eadem in appetitu dcprzhendastFac illum uacarc a
pcttutbationibust nihil ni fi rede appetet : Fac rurfus iliis uehementer
uezari : quos iam ftudus quasuc procellas intuebere: Quapropter
illud elegannflime u^tio^ irarum 6)s d^t (ftu. Illud autem tibi fortalTc
occurren/ quod non bene iis quz diximus cohzrere uideatur : Nam fi
radonali appethufertur zneas : fi iam uitam uoluptu g iiofatn
damnault t unde nunc illud quod patnx liHota lachrimajupotfutnij^KliQ
quit . Q_uod enim odifle iatn coeperimus: id non lachrimantes : fed Izti fugcR
fo letnus t Sed uoluic Virgilius primum a uolupcatc ad uirtutem difcelTum
demoo' I firare . In quo cum temperati non dum fed continentes fimus :
agimus illud qui> I dem t fed cum diu uoluptati aifueti illius
illecebris demulceamur t non nili zgte , ab ea diuellimur : imitemur^
fenes tioianos: qui cum ELENA ut grxconun tro> ianorumtp certamen
fpedarct mcenia confcendilTet admirabatur cum (hiporemu lieris
pulchritudinem t ea^ uehementer deledabantur : uetum tantorum maltv rum
illam caufam eflie animiduertentcs : abeat dicebant potius Helena: quamp
pter illam pereat Troia . Quod ut plaiuus intelligas. Qucmadmodnm tordnk
do uirtus eft / qua dura omnis ar^ afpera inuido animo ferimus : lic
tempcran» tia aduerfus uoluptates armamur : in qua quoniam iam habitum
contraximus li ne ulla difficultate aut moleffia negocium conficimus.
Quod li habitus nem dum contratSus Iit: Si tamen illud idem efficere
tentamus t tandem^ effiamusfi nitimum quoddam 6C uiriuti proximum
nancifeimur ut nondum temperantes effedi tamen abftineamus quamuis xgre
& non line luda: Quz contmenna di citur in qua li diu exerceamur :
paulatim temperantiam acquirimus: htij uirtus id quod hadenus uirtus non
erat : fed ingrelfus ad virtutem. Hoc igitut intcrcft
intcttempcrantiamfii contincntiam. Namquam uisutrai^ idem przdet:conti«
nens tamen eo detenor eft quia cum dolore ablhnetmec ctt fatis Armus
aduerfus uoluptates Tempuans uero bene uolens Iztufk^ abffinet.quod li
itidem de ineo Anente intemperantem inuelliges: facile ell uidere quanto
a temperantia condoe da fuperatur i tanto incontinmte ipfum intemperantem
pemitioliorem elfe: I na continens enim quia non dum in uitii habitu ell
rationem difeemit : prindpiui Knct:pugnatm aduerfus malum: fed tadem
magnitudine cupiditatis & fui animi imbecillitate uidusucluticmtiuus
in feruitutem rapitur . Vetum uc qua; uctbts adumbro ea exemplo
exprediora reddantur t dicimus continenum a pruicipiofii ilTc DIDONE quz
quamuis Acnez amore teneretur : tamen adeo lunliter repua gnat/utmori
malit :q pudorem uiolare. Incontinens autem paulo polf redditui cum
fororis oratione uida pudorem foluit . Prius enim fortiufcula adhuc ita
pua gnabat : ut uidrix cuaderet. Deinde eneruats omnino pugnando
fuccumbit.pua gnatenim incontinens/fedfupaatur. Intemperans autem in
habitu uitiiconftitutus omnem rationem amiDti ne pugnat aduerfuscupiditates:
quin illis uo» lens gaudmfqi obtemperat: quippe in quo adeo deprauamm Iit
iudidumtut qdf tnalum fit bonum rlTe dicat. Sed ut iam ad inffitutum
redeamus : non dum tem' perantia munitus erat zneas: nuper enim ea ratio
in homine uluxcrat: ut uolupts tum fordes intueri poffet : nei^ rurfus
tempeians : aut incontinensinon enim io de fe expedilTet. Sed cum
hincilleccbrx uoluptatum traherent : illinc honefti uui pulchritudo ad
omnia excclfa cum erigeret/demuiccbatur quidem a uoluptate cam
feolibusfuauilTtmam iudicabat : non potccatip non zgte ab ea diuelli.51i
da enim adulatrix voluptas efi.uehementcr fenlibus applaudit: ut etiam
gcQ’tolioiit animi qui funt illa capiantur .lu cnim fuauiter nos irrepit aut
totos pau lanm occupctt Smgjt igitm comn ucac ft guis lachiimaiu taincta littcin
tioiaiu ti s h P U Ii 9 si Q lu ia K a» 10 k liu tic adi li] tu »1I» bi » m inii tta ip DOi tUU) aoi pqai V» 'Z tiO*iJuti idtai am i&:l» oap jiua riKil apoi at(p tdib ;iup» ib<# ico^ Jki» «0 lolf J0t 0 'Df> 0f Libettmiiu Klinquittquonii
c6tines. Quod H unam tcpnitii adcptua fuifTn no lacbrimSs fcd lema
reliquidet : po<ta enim non ipfum a principio sapientem fingit:£C una
uircure ornatum t (icd cum qui a perturbationibus animum uendica» K
cupiens fe paulatim a uitiis redimat t k poft uarios errores in italiam id
eft aducram fapicatiam pnumiat» Nam quznos de continentia dc^
incontinen eia diximusan quibus fenfus pugnat U ratioiuidiTim^
uincuntacuincunmr. eadem de reliquis uitiis ac uirtunbusintelligas mtn
quas mediae funtaffcdio nes nullo adhuc habitu latis Hrmxifcdquz modo ad
has modo ad illaimpel lantiquisfortadeinuiu ciuiiiin qua quz ad bonum tendunt
incohau potius quam pctfcda lepenas non nulli uittutes nominarent . Sed
profici fcatur iam no &r Acncastuerum quo tandem exui pn altum
feretur: Nempe in thraciamre^ gionem patrue fininmam/fiC terram Matd
confcaatamnnquanupn Polynco ftoc holpitem fuum POLIDORO ut auro potiretur
interemerati Erit autem aua titia; fjtnbolum thtada.Nam ipfe paulo poft:
Fuge littus auarum . Vnum cum duplex auaritix genus fit. Eft enim auarus
8C iis qui inde rapit unde minime con ucnitideis qui cui dandum eft ei minime
dat.primum illud genus perthraciam cxpdmimroi enim in illa Mars colitur -quisncldt
habendi cupi ditate plurima a mortalibus bella geri. Sed ne Polyneftor
borpitisintcrfedots6( Tuorum bo» Domm raptor quicquam expreftius quam
auaritiam rapinaft^ denoubit Cur igi tur prima inthraciam ENEA nauigatioeftrQ^uiacuma
uolupute difceftimus at<j non dum uerae uirtutis habitum contraximus
facile ex ilia in aliam cupidita« tcminadimusiinfurgitip habendi
libidoibeatilTimam enim uitam multi feade< ptos putantifi opibus
maximifip diuitiis reliquos mortales fupecet:Qua cupidi tace inflammati
non dubitant non modo nefaria: uerum etiam laboribus pericu lil^
refcitiftima bella fuTciper e. Ingens profedo ftultitia:6i ab coanimo
profeda: qui & fi uoluptates contempferitcnihil adhuc altum furapete
poiTit.Habet enim auaritia pccuniz ftudiumiquam nemo unquam fapiens
optauit. Nihil enim illa mobiliusinihil quod magis fottunz temeritati
fubiiciatar. Quapropter rede Sa luftius auahtiam ita malis uenenis
imbutam dixittut animum cotpufij uirilc cf< foemineuquando quidem Si
ad omnem humilitatem infimaTqi fordes dcTcende tccogic:& inomnem crudelita
temproreuili(Iimainfurgete.lpra enim perfidia am pctiuriumip edocet:cot
fraudibus: linguam mendaciis:manum uenenis/fer.» to in aliorum pemitiem
inftruit. Apud eam quid fandum efle poteft: cum ho.*tes quoip qu Polydori
exemplo docet poeta minime incolumes fint. Nemi nem tamen mirari oportet
fi Ancas fapientiz quidem cupidus minime tamen ad buc fapiens in
huiurcemodiuitiumprolapTus fit. plurima enim inuiu humana
Uidemusiquzquauis caduca momcntaneaip finntamen morulcs pro maximis
admirantur: quz quidem omnia cum ucnalia efteuideantipecuniz prz czte^
ris ftudent.Q_uotus enim quifi^ repetitur: qui non putet quod genus
ficfoc mm regina pecunia donat t quis non totus commouetur : cum auditi
Si b^ ne numatum decorat fuadela Venus. Verum qui duce Venere fertur Si
tna gnarum rerum amore incenius cfi/pauladm errorem recognoliit.
uitiumip abominans Xfaradz auariflimutn lictas fugit, At^ cum iam fecundo
deceptus i deinceps turpi Timum mirerrimumep iudicet Apollinem: cuius
oracula ue riiTima e(Te audient confulendum iudicac: Retur enim (i ex
illius dei ptxut pris uitam inftituat futurum. ut mifet ciTe non pofTit.
Qua proptei naviga donem in delum fumit: per Apollinem autem qui fol cft: quid
aliud quam lapientiam intelligemusf^Nam ut id omittam quod ut fole eunda
qux in lien fum cadunt illuftrantur:(ic lapientia illuftiatus animus
eunda profpicete ua. leat uideamus reliquam eius plancta: naturam. Sed
illud in primis. Nam cum Heraclitus fontem caelefiis luds appellat. CICERONE
ueto ducem carterorum lu« minum ea ratione dixit: quoniam fui luminis
maiellate praecedit: dixh itidem ptindpem dixit moderatorem: Nam SC ita
eminet/ ut ptopterea quod buiut> modi folus appareat fol uodtetur :
curfus reliquorum recurfuf^ipre mode ramr. Nam certa fptii
diffinitio eS ad quod cum quaim erratica ftdia recc' deos a fole
peruenerit tanquam ultedus accedere prohioeatur agitur retro. Rurfus
autem cum certam partem recedendo attigerit : ad diredi curfuscon fueta
reuocatur.Q^uapropter non iniuria & mens mundi cor czliapri«
fcisdidus ell:Quz omnianon ne fapientiz quadrant Non ne fapien^ tia
reliquas animi uires przcedit : non ne illis moderatur C Quin etiam li
uim huius fyderis diligentius aduertas iurc datur fapientiz dicetur: Nam
ut a Saturno ratiodnandi a loue agendi uim : ut a Marte animorum uehe«
mentiam at^ calorem aedpimus; uta Venere deliderii motum fumimus: &
quod loquimur atqi intcrptztamur a Mercurio cft: ut deni^ a luna quod grz
ci phyticon idcll gignendi augendic^ uim habemus; (ic ipfe fol quod friamus:
quod^ opinemur nobis prxllat : Sed hzc de Apolline. Deli autem nomen S
ipfumnon nihil ad rem affert, grzce enim manifeflum flgnificat. Loca enim
quibus fapientia przfidet : clara femper manifefta^ fuat.Q_uod autem
tot»> us infulz Anius imperet: qui & rex hominuni & deorum
facerdos iittnonca ret ratione : Sapientia enim humanarum rerum
cognitionem continet. Qua ptopternihilnouum fapienti accidere poteft:
quippe qui omnia iam percepo> rit : quam quidem rem nomen regis
oftendit. Anius enim didtut quali id elf (inc nouo . Hic igitur
hofpitio Aeneam fufdpit: SC pio* fedoipfa fapientia animi nolfti aluntur
. Veneratur autem templa : at^ ea retn pia quz faxo uetullo conftuida
fint.Nam quid obfecro te: aut flabilius im* mobiliufi^ : aut antiquius
ipfa fapientia deprehenditur : quam fapientiflimus ille omnium bebrzorum
S^omon ab initio Si ante fzcula creatam fxcula aea ta effe uerilfime
didt.Sed tu quid me o LAVRENTI fubridens fpedas.Non polfum inquit
LAVRENTIVS dodillimorum uirotum ingenia non admirati lztuf(|:quz a
principio de hifioiia decp allegoria dixilli mecu repeto :Q_^uis enim non
obfiupefcat huius poetz confilium .Q_uicum apud Cioatiumueri
umlegilTetinDelo aram elfc Apollinis genitoris: in qua nullum animal
facrifi atur: quam Pythagoram ueluti inuiolatam adorauiffe fetunt :
legiffct eti^ am Sc apud Epaphum : Delon ne antea nem pofiea tettz motu
uexatam: femper eodem manere luo legiifet: & apud Thucydidem non
mirum esse fi przlidio tebgionis tuta infula femper fit : cum teucreruia
locotumfibi acccficrit Liber tertius coBtltiuafax Ieiurdetn
firmitate: Cum igitur bacc legilTet itafcnblt/ ut eodem tempore ex
antiquitate hifioriam eruatiponit enim Aeneam Tolis przcibui deum
uenerari:K templa antiquo Taxo confirudaefTe/ficbxc cum ponit fimul ea
affert quz PER ALLEGORIAM Tapientiz conueniant. Dices quid in cacteris :
hoc idem. Sed nefdoquo pado hic me locus in quo hifioria non minus qua
allegoria latet:mul to magis mouinSed perge obTcaomolo enim mea
interpellatione mihi ipfi audi endi cupidiffimo moleftiam ex mora afferre.
Datur igitur ab Apolline oraculu inquit BAPTISTA z Dardanidx duri quz uos
a fiirpe parentumzPrima tulit tel^ Ius eadem uos ubere Izto Accipiet
reduces:antiquam exquirite matremz Hic do# mus znez eundis dominabitur
oris:Et nati natorum 8C qui nafeentur ab illis. Q_uo quidem oraculo quid
diuinius excogitari poffit non reperio:Q^uid enim faomini salutarius: quid
conducibiliusefi: qu3 originem Tuam noffexin quam cu redire potuerit /tum
demum fit futurus beatiffimus: Dixit igitur pluribus/ne a poeta difcederet
Maroxquod grzci duobus tm uerbis expediutx qui omnium ora# culorum quz
Apollini tribuuntur maximum effeuolunt i«r</7>> V
nofceteipfumx Verum ut haxea nobis planius explicenturx Omnesquicuh^un#
quam de fummo bono ferip Terunt philofophi in eo fi non uerbis re Taltem con
Ira Teruntxutbenebeate^ uiuere fit apte conuenienterq; naturz uiuere t
Verum ubicoiamdeuenturn efl/ut fit hominis natura diffinienda : tunc
innumerabi# les pemitiofilTimi^ errores emanant: cum animorum nofirorum
ui ignorata plufquampar efi corpori attribuatur. Nam cum ex animo
corpore^ conflare bomo dicatur . & alterum brutum/caducumt^ at(^
facile in interitum pronuma Alter mcorrufmbiiis immortalis diuinuft
fitxpaud omnino ita mentem a fcnfi# busfeuocat: ut feanimi nobilitate
imniortales cogoofcant: corpufcp in nulla pene parte habendum
cenTeant.praedpitur ergo Troianis ut eo reuertantur de originem ducunt .
Duplex autem illis origo efi.Nam Teucer Scamandri cu# iufdam filius
profedus ex creta infula in Phrygiam uenit; 62 una cum Dardano Kgnau:t ;
Dardanus autem prius SCipfe in Phrygiam ueneratatnon ex creta: ut ille
fed ex italia: nec mortali patre natusxfed ex deo loue. Veniunt igitur
am# bo in Phrygiam id efl in uitam: & pnmam ztatem quam perTroiam fignificari
di ximusxfed hic a czlo ille a mortali. Ad huius enim animantis quem
hominem dicimus compofitionem animus a cziefii corpus a mortali patre
prouenit.Qua propter cum primam nofiram onginem inquirere nos Apollo
iubeticuius ora# culum efl Nqfce te ip Tum : non quid corpus fitxquid ue
illi conducat inuefiiga# re iubct.Sed quid animus fit 8C quo pado
fecundum animi natutam uiuere fodi ces effepoflimus inquirendum
mandatxQ^uam quidem rem ut ezpreflius fignifi caietannquam didtxEfi enim
animus fi non tempore/ut Platonid uolunt digni tate Tua at(^ excellentia
prior: Optimum igitur oraculum: Sed quid prodeft fi illud male
interpretatur ANCHISE . Hic mortalis Aenez parens omnia ad lenfns
referens ibi (edes collocandas cenfet ubi prima corporis origo fit. quafl
prima naturz non animi fed corporis fpedanda fint t Quaraobrem non ia
Italiam fed in Cretam enauigandum proponit: qua in infula multa mala
Tubi# bui fint Ttoiani. Nam cum (ummum bonum non iis quae animum: fed
quaa In.P,Vtrg. M.AlIego. corpus fpcdcnt natura noftra
ignorata reponimus necefle eft/guoniaft illa pati> io po(Hnpe(lem/ac
demum in interitum cafuraiint/ut non bearirredmiferi fiu turi
(imus:TuIerunt ergo prxrium ob ftuitiriam Troiani:gui in italiam nauiga»
te iulTi actam ptticrint. Si enim in italiam.i.in originem animi redeant
Troiam percipiunt cognitionem rerum diuinarum in qua fola flabiles &
manfuras feda inueniuBt ; Hic enim domus Aenea; eundis dominabitur
oris:Et nati rutorum & qui nafeantur ab illis . In aeta enim nullum
e(l Aenex imperium. Na corpus ne^ fe nerp aliud mouet:fed iners brutum:
8C line fenfu iacetrnec quicquara Ii ne animi auxilio ualet.ln italia
uero imperium latepatet.Corports enim domina tor & redor eft
animusrin nullam^ nin uolens fauitutem cadit . Cunda autem fue cognitioni
rabiiciu Se enim pafe uideticum autem deum cognofccie tem/ ptat fuz
menris acie ad fuperiora erigimr. Colidaado oia fpedat: Rimatut
occulta. Videt abfeiitia:breuicp temporis momento uniuerTas mundi oras
anv bit:Defcendit ad interiora: Afcendit cxlum . Adxret deo: in quo efl
patria fua:Et ? uoniam imorulis eft hxc femper facit : Quapropta
eius imperiu eft aeterna: ixcaprincipioqua uisdiuiniscflentmomtiprxcepris
cognoicere no potuerat Troiani: Nunc uao calamitates eipaticognofamt. Epimetheo
quidem ferius: Sed uidete quxfo quam admirabili ingenio reliqua
profequaturt. Cum pefie labo rarent Troiani danmatfuam oraculi
interpretationem Anchifes.Nam poftqui diutius debaccliatus eft homo dum
fenfibus obtemperans omnem fpem in rebus caducis reponit/tandem ufu Si
experientia dodior redditus animadueftit no fua« fifle acta
Apollincm.i.nunqua pofleefte homines beatos ex iis qux mortalia
fntt Cenfaigimr alibi quxrendamfoelicitatenuVenmi non dum tanta metiris
arie ualenut qua inrcconliftat discernerc poiritr Na
humiproftratusanimus/St fieri gi nitatur tamen corpote'obrutus qu x
in/cxcclfo collocata funt non nili poft mui tum tempus difeemit: At dii
penates eadem dicent qux didurus efliet ApolIotPu tabantenim antiqui deos
penates elfe ex animisiuotummatoTumtqui clari ilhi^ ftref(^ multis
egregtiftp uirtutibus fuilTent quali deos domcfticos: Ergo Si hos animoru
noftro excellentiores uires intapretabimur:quales funt ratio intelle# dus
atqr intelligentia. Qux hadenus furentibus fenlibust Si omnia tumultu co
plentibus nihil fanuiudicare poterat: Nunc autcpoftquamfuograui damnoeu
pertus eft homo fenfuu iudicium falfum elfe illos a tribunali quod tumultuo &oc
cupaucrant deiicit:& luris dicundi potcftatem iisjuiribus quas paulo ante
nomii> nauipermittinillx autem cum iam fcnlibus parentioribus ut atuc:quippequipu
dorc confufi nihil amplius audeant/K cum eorum iudicium diuturnus iam
ufus at^ experientia confutauerinparaciam non amplius prxeipne
deaeucrintrfc a tumulm colligunt:at (pfeipfascxdtant:fumma ( contentioeruftitix
nebulis fua luce fugatis mentem ab iniquiffimo fenfuum iudido prouocauit
ita a aetenfi domicilio abfoluunt : ut tamen italicam profedionem fuo
dcacto 'edicant, ii dunt^ proptnea fux fententix ftandum: quoniam eadem iubeant
quxipfe Apollo a quo mittuntur didurus fit: Et profcdomcns nostra multatum
rerum usu iam dodior reddita multa, ex fe cognofdt: qux fapientia
ptxdpere con sueuitt Nec ucto quempiam moveatli deorum pcnatii oratione
pct fu ad catut Andrifas I t ( II P nudfi D B B< P> h Jrj-B
SNitn ubi ndo pneualerc iitn crprrit : appetitus Hli rubiicitun MuItS iatn
profeoe nintdii pcnatess quiquz obfcunus Apollo SIGNIFICAT prrfpicue
enodaruntt docent«piniuIuadrcrum diuinarum cognitionem enauigandum rfle:
Beatus profedo ENEA (i decretis ftarett (i quod bonum efTe cognouit:id
ita mordicus arriperet ut nulla re inde po(Tet auclli:Non enim totiens a
redo curfu deiicere^ s Veru non is adhuc uir eft qui conftanti habitu in
hisobdurauerit:& per (uma t& perantiam a rerum moruliu
cupiditatibus sit penitus purgatustfed inter contine tia; at(^
incontinentiz uarios frudus uacillans fzpe cum ad aliquod Tparium fuo
uento procelTerit: nauisfubito a redo curfu deiicitur . Non enim is
gubernator clauum tenet qui fummo nauigandi artiBdo arperrimam etiam
tempeftatetn fupcrarcualeattfed Palinurus t qui poftquam ceruleus fupra
caputaftiiit imber nodem hyememt^fercns.poftquam inhorruit unda tenebris
: poftquam conti» nuouenti uoluiit maretmagna^ rurguntzquora:& quz
fequuntur.ipfe diem nodemt^ negat difcernereczios nec raeminifTeuiz:
Diximus a ptindpio foloap petitu moueri aniraumtdiximus itidem duplicem
e(Te appetitum alterum qui a fblis feniibus ex dtetutitationi^
aduerfeturidicatnttp libidotalterum qui ratione pareat:uoluntaf(^iure
nuncupetur. Qui quidem sinauiprzfuifTetiporerat ea am aduafantibus uentis
iter redum tenere, oed przFuit Palinurustis enim eft qui folisfeniibasob temperatiuirefij
aduerfus uentosinterprxtari poteft enimgrzce retro uentis didtur quali qui
in contrarium refetat. Hic igitur infurgcntibus
pertutbationibus/uehementioriburi^ cupiditatibus uelutitcncbiis animuminuoluetibuscum
ipfenulla rationis luce illuRracus (it dicsano dibus ideft ucrumafairodifcerncrenrgat.
Magna profedo hominum ioldtiatmazima^ fenruum perturbatio qui ita rationi
aduerfanturi ut quauisil la fzpe infarg.it t ut animum ab illorum nefaria
tyrannide feruituteq; eripiattipfa uclutiiulbirima regina ueramuelit
inducere libertatemitamen cum nondum uiresfuasrecupetaueritm Dpercp a
diuturno exilio reuerfa a paucis fuorum ciuin cognofeatur fzpe antea qua
dus regni quod (ibi iure dcbctur polfeinonem recu» peret ab lilis
repellitunquippe qui multos iam annos tyrannidum tenentes omni
largitionum genere appetitum corruperint : illum cp adeo demulfcrinttur
malit io feruitute uolaptuofc degere qua honorifice in libertate
laborare. uamob» temcum acbrainterillos przliac6mittantur:difcedic
fzpeuida ratio, lllicnim parere rccuCiDS Palinurus nihil sanum fentit :
Eiufcp ilultitiaatcptrmeiitate cd» mittirurtuc dedituto curfu t quem
penates dii prasceperantin (Itophadas infu» lasdeclinetur. Hunc autem
locum nos ni fallor auaritizuitium redeinterprzta bimur/non illud tamen
quo inde rapimus tunde minime conuenitiid enim nobis Thrada ddignauit.
Verum aliud quod tunc patratur: cum ex iis qux iam peperimus minime illis
(ubuenimus : quibus tus naturacp ac humanz fo detatis uinculum
fubueniendum poftulat . Oodus enim'iam Fragilitate rerum buroanarum
Aeneas ad diuina ratione id efflagitante ferebatur. Sed appetitus aduerfus
illam adhuc contumax ftaredeaetis non potuit. Verum ad ea quae uulgus
admiratur rurfus conuerfus diuitias cupit. At quoniam multum de pti*
fiuufcritateitniautufuctaUndui nc rapiaisilJafibicompatatecoBteodit: fcd
In.P.Vitg.M.AIIego. per (oBUS fordes plus qustn psr eft
parto pacens nullo libmlitatis munere fiigiei DC(p (ibi nc(^ Tuis
beneficus eft.Q_ux quidem cum facit fe parcum non auarutn
prsdicatiprzfert enim fpeciem boni uiri cum peflfimus Ar. Q_uaproptcrnon
io« iuna harpyz ipfz uirginea facie Angunturdimulanc enim
pudorcmimodtfHaou robrietatem^iomneri^ uirtutesprzfe ferunt. At earu
ucntris ptoluuies fcedifli< tna eft.Q_uisenim
po(TetauaritizfordesexpIicare:quis qui turpis hominis di uitis eiufdemtp
tenacis uita fdt latis referrer Cum furor bau d dubius s cum ftene As
manifefta At egenus uiuereiut diues moriaris. Quid miru igitur A earum fu
des palidafcmperc fame & macilenta AtiNarahuiulizmodi homines iure tanta •
locomparamussqui inter aquas.interi^ uaria poma confbtutus Ati tamen at^
fameconAdturiNam ut cumulus diuitiarum acrcatiprcinterim ruum/utillete« .
centianus Gcta defraudans genium partis abfbnct ac timet uti: Quod autem
ua ds Angantur manibus ratione non aretiNihil enim remittunt quod femel
ctpe> nntauarii Q_uinfunt adeoperaino A auarinxundiut hominem ad dtuma
qua dam natum ab alnlTimis curis ad hzcinfenoratrahantifiC uelutide
czioin terras K e lucidis fjderibus in profudilTima tartara trudant.
Auertit enim nos at^ feuo« cat habendi cupiditas a cognitione carum reru
quibus folis Axiiz animus ciTe po( At. Sapienter igitur adiugit.TrilHus
baudillis mdiltunec fzuior ulla peAisidtjia deum ftygiis fefe extulit
undis: Non autc Aulta rado poetas impulittut ex Thau« inante patre: matre
Helcdraoceani Alia natas harpyas fabulentur.Thauroan« tem tede
admiratione dicemus grzci enim admiran dicunt. Cu cnimobfumma fiultitiam
diuicias maxima bona putemus cum aut bona non Antaut minima bonaiproptcreaq^
illas adrairamut:cuenit:utcx ca admiratione cupiditas habendi
nosinflamct.Ncmo enim cupit caquz negligit:at(j contenv nit.Suntautem ex
eamatrequzAt Oceani Aiia:Nam liquis maieriam diuinarn diligentius
conAderct:omnia mari Amillima in ea uidebit.Vt enim mare in afli' duo
motu cAicundac^ inco facilem ifcentunat^ pcnurbanturaAc diuitiis ai<jf
opibus nihil Auxibilius inuenias:multiq) tumultus ac fzui Aima bella inde
ezota tur. Hz igitur c£.'n paflim armenta gtegcfij pafcant : nihil inde Abi
ad ncccAiu tem fumunt. nihil aliis rumerepermittunqvcrumfiC ab hocquoq^
regenereaua tinz quando^ explicat uir fummi boni acquiredi cupidus. Relin
querat olim uo luptates.indderat in rapinasiquibusquo^ damnatis otacuium
confuliti A quo accipitnofceteipfum:in quo errat Ancbifcscum ea ad corpus
refcrctrquz de ani tno przcipiebanturicauturqi ruo damno fadus errorem
cognofat: con Alium inutat:rclida(^ creta tendit in lauum . Verum rurfus
perturbationibus uexatus animus ad diuicias rutfus refluit: non tamen ad
eas quas rapinis ut hadeoust fed quas nimis fordida pat Amonia comparet:
Sed & boc quo<^ uinum effc cognofccns / proptetea^ damnans < ad
Helenum per hoftcsproAafatui. bes igitur quare in harpyarum infulam
delatum mixcrit Aeneam y?^uod ue^ IO ab ip As uefd prohiberetur iam
parariscpulis inde efliqnia eam uim habet auarina/ ut qui etiam dinflimi
Antfame penrequamuci minimam acerui par« Aculam imminuae malint JAcmis
tamen eas pepulerunt Troiani: Nam di aua AAacxifflbcdllitateat^ builitate
animi tuliaf':qiiz ci cAiut&fctia & tnulict«' i-% « % % t ik tltl
I- 1 II- 1- i j mii oa* iff Liber
toriiu <aIcgux'tninori animo runtauarioresTemp^e pncbeact/tunc Fadle
pellitur fi foitemgcn ercfum^ fumamus animum ^6Ilcedit e fitopbadibus
a;neas t fed non prius quam cnfle a ccleno oraculum aedpiat < mendax
omnino uates Bc in E s fubdola } & quz uctborum firepitu
honorem inde incutere uelit unde ni timendum : bed profedo hoc morbo
laborant auari i Nam fi quando ho« ncOa quzdam SC una ratio lilos ad divina
exploranda erigat < propterea^ huma na bzcfiC mortalia
negligendafuadeatrihtiminfuigit ex auaritia metus si rem noftram
familiarem negiigentius curemus fore ut (i fame pereundum x Sed ne«
fiauot fiuItilTimt homines quam paucis natura contenta (it i quam facile t
quam minimo fumptu eius diuitiz comparentur: Efi autem fames iis timenda
qui in anesqui infinitas cupiditates & quz ne^ neceifariz ne<^
naturales lint fibi exple das propofuaint quorum uotago um lata tam
profunda efi : ut nulla auri ui t nullo gemmatum iapillorumtp cumulo
repleri queat . Qui autem ita uitam ia* fiituerunt > ut fola fe
uirtute bntos putent : animum^ non corpus ditandum ^ ponant : his omnia
femper abunde adaunt t Q_uam quidem rcm:quo tibi pia* nius exprimam : at^
adeo potius oculis fubiiaam.ptopone tibi duos diuetlifii^ mz quidem
fottunz/fedeiufdem pene ztatis utros Alexadrum macedonumte gem/&
Cynicum Liogenem utrum ditiorem iuch'cabis:uide quid dicas. Maximi
Alexandro thc Ciuri erant plurimi tobu Riflimi^ exerdtus (ibi militabant :
Imperium latilTimum poflidebat. Innumerz pene nationes acpopuli ex Europa
A(ia* ^uedigales huic erant.Diogene autem quid potcftangu (liusexcogitari:
qui prz tet rimofum illud uas e figulo acceptum : quo l'e recipetet ut e
frigore calorctp tuf tuselletnetuguriolum quidem haberet : quem eodem
panno in utroi^ folftirio obfitum confpiccrcs : cuius auda olera etiam
nullo file alperfa beati (limorum re gum dapes fuperarent. Vttum igitur
horum ditiorem Laurenti iudicabisr Ego q dem inquit LAVRENTlVS h a
deptauatilTima confuetudine : quz altera pene in nobis natura cfl
dirce{l'eto/& rem totam fenfiiu iudicio exclufo rationi cogno»
lixndam tradam beablfimum Diogenem:miferrimum Alexandrum proferre no
dubitabo . Vehementer enim iis aifentior : qui in diuitiis penfiiandis non
quam tum tuii^ adiit : fed quam abunde id quod adeft fibi futurum (it
animaduerien» dum cenfent.Si emm is diues eft cuius cupiditanbus adeo
fatis fupercp fadum (it ut nihil pczterea defidcret quis Diogene ditior
:qui cum (lue pafiurem (iue arato rem quendam cauis manibus aquam e fonte
ad potum haurientem uidiifet : po culum quod ad eundem ufum hdile gerebat
ueluti fuperuacaneum abnaedum putiuu . Q^uis rutfus Alexandro pauperior :
qui podquam a Democrito ut p\i to PHILOSOPHO plureselfe mundos audiuaat :
lamentari non crilauit tanquam nulla ratione diues effici poffet nili
illos prius imperio fuo adiecilfcif Rede o Lau tenti de utro^fentis
inquit BAPTISTA. Q^uamobtem cum idem rex motus animi tranquilliute quam
in Cynico cognouerat ita pronuciaiTcticupcrem Diogenes e(Te nifi cifem
Alexander : magna ex parte fiultitiam fuam indicauit : cum in fummis
opibus zgere : quam in fumma inopia ditefeae mallet . Quamobte difeant
homines quam paucis natura contenta fic s quod cum didicennttoracu# ium a
Cclcno zditum &cile tldcbunt:quamuis ipla ut otadoni liiz fidem
faciat diat fe ca pronunciare guz Phabo pater otnnipoteos flbi Pbccbus Apollo pn« dixit . Natn rempn
auari qui funt : uiriutn quo laborant fallis uirtutum limula» cbtis tegere
conantur. NatnquzmoEraauaritia eftream patlimoniatn uocants & aut
deorum t aut maximorum uirorum audoritate famem timendam pctfua» dete
conantur. Oolofa profedo cupiditas et quz cos etiam quos prudendotes
putamus fzpe decipiat . Aduerfus cuius fraudes illud unicum remedium cft
nof fe ea quz hominum ftultilfima cupido ad uitam degendam neceffaria
putabnoa modo nihil peodelTc i fed omnium noftrorum malorum caulam
exiiiae. Deferens igitur Harpyarum infulam Aeneas ad Helenum enauigatrEll
au» tem Helenus 8C uates K conduis«|Q_uapropccr rede ilium dicemus
ingeni» tam nobis rationem & ueri lumen quod natura in nobis
refulget,: quod nos fallis bonis decepti confulhnus ut in redam uiam ab
erroribus reducat» Ipfe autem uates uera przdicere poteft : fed ditfidle
eft ad illum petuenitei cum Iit itet pn medios hoftes tenendum : Nam 8i
fenfus omnes 8i apped» tus fenlibus obtempetans uolentibus nobis in uetum
iudidum delcendcrc (em» per aduerfantur:,At(p adeo nobis confultantibus
obfirepunt: ut uix radonem adire & uera bona a fallis fecetnerc
poflimus. Verum cum ad Helenum perucne rimus iuuat cualilfe tot urbes
argolicas medios fu^m ten uilfe pa hgges : Supe» rads emm
perturbationibus iratiquilla'quTdai^ r^nquitut mens: in qua lecxd tans
lux radonis nobis ucrum oftendit : Q^uo dodior fada mens agnofeit itali»
am t quam propinquam elfe putabat uia inuia longe diuidi: multum^ matis
ef fedreueundumi & ad inferos defeendendum antea quam quietas in
Italia fedu collocet : uz quidem omnia quanta ratione dicantur ; faulius
cS mente coo pledi quam uerbis exprimeret poliquam enim animus non dico
profligatis /fed magna ex parte repreitis uitiis per medios / ut diximus
hoftes in lumen luz luca defeeudit Itum demum aduertitfummum bonum: quod
in propinquo coUo« catum habemus putabat poculabclleioporterei^ nos amplo
dreuitu Mariamo ftris obfelfa peraauigare : Nam inter ipfam
contemplationem: hanc quam ui uimus uiuminteriacet is quem iam totiens
appetitum nomino uelutiturbulcn liifimum mare: quod fcyllacharibdifcp
pernitiofiirima monlha infeftum red» dant: Si tamen eft pei hzc loca
enauigandum li IN ITALIAM VENIRE nolumus : Oi» ximus enim a principio (i
rede memini nulla alia ui nilT appetitu animum motuti .Sed quoniam de duobus
iis monftris dicitur a poeta : facile eft ex ipfis fabulis quid fibi
uelit coniedari. Nam cum eas foeminas rapaci fhmas fuilfe memorizf
proditum Iit : non ne per eas commode exprimi animi nimias cupiditates
dice» mus : quarum prindpes luxuriem at^ auaritiam eife nemo dubitat .
Scjlla e^o s glauco adamata ucneteasuoluptates exprimet: quz maxime rebus
nofttis fio» rcndbus uigent: Nam quod eius uniunia pubes m canes
latrantes conuerlafu/? uantum ad negodum faciat : fadle eft cognofccre.
Chanbdim ueroipli quof Icrculiboucs quondam fubripereaufam quis non
intelligat limulai tum nobis auandz refene : 8I qnoniam ab ca non ita in rebus
fxliatei fuccedenubus ut gemur quemadmodum a libidine. Sed tunc potius
cumnimi sanguftiis diuida nun terminis incluli uidemur: ac ob eam oufam
minime nobis noUxa placent
ii •p. a MI ia Bi itk iw “!f
lab ipoK imi». okib! abii
l{DKd biW uocA \^2Dli
.qmX (uitbi SUID* jniisi^uin®^ iCID# aajb crlb<
jola* OUfl^ 1^1^' amba* mfia eKccT^ eflcopinaiaut t
iccirco dextrum a fcylla : Icuum a cbarybdi latus obfi dcri Mato dixit
(quoniam altera in rebus quas aduetfas putamus t altaa in iis quibus
uebcmenter dele Aamur : nimis nos urget. Quz cum Baptifta dixiflct : at^
refumendi fpiritus caufa aliquantulum obdcuiflet. Admiror inquit Laurendus tam
magnx tam^ reconditx dodrinz diuinitatem . Verum quanto me iffa tnagis
deleant / tanto magis cupio : ne minima quidc m in tota re mibi dubita»
donem relinqui . (tai^ utar ea quam mihi conceiTi^ libertate uel licentia
potius : At^ ut iamioulligas quid illud (it (quod nili tibi aliter
uideamr/ planius heri cupio . Odenderas a principio ea ratione politum
ellc a Marone Troiam zneam cekquifle t quoniam lam uir ille corporeas
uoluptates contempriflet t per thraci» amuero at^ dropbadas utrun^ auaridx
genus exprelTum cfTe uoluidi : Cur igi» tur (i buiufccmodi iam uitia
exuerat Aeneas ( rurfusnunc ut illa uitet ab Heleno monetur C Dcle&at
me tua interrogado o Laurend inquit BAPTISTA t Oden» dit cnimmaion quodam
iudicio quam idbxc xtas gerere foleat te ea qux dixi c6 fideralTe: Veium
quo omnia tibi plane pateant: memineris non eum uinim a Virglio [VIRGILIO]
produci AENEAM Aeneam: in quo uirtutum habitus conoboratus fit. fcdqui
pro uirtuteaduetfus uida ita pugnet tut non (inemulta difficultate per
continen dam uincat : nonnunquam etiam uelud incondnensuincatur.Q^ui
ueroin Ita liam id enim ed ad diurnarum retum inueibgarionem uentuius ed/
huic non fa dsed : ut continens fit . Nam quamuis condnentia a
cupiditatibus arceatitamen S uoniam in affiduo certamine uerfatur:non
przdat eam animis nodris tranquil tatcm/quaadrestamexcclfascognofccndas
opus ed Quimobrcm egenus ipfa temperantia uirrute undi^abfoluta: & in
ipfo pene cerdo uirtutum ordine corroborata qua qui inlbudi
fuirt/nonfolumonuies cupiditates Tupc Tantiue» lum edam illatum penitus
obiiuiftuntut . H oc autem habitu nemo mortalium fe corroboratum in
confidat : nili plurimis afliduif^ adionibus prius ad eum co fequendum fe
exercuerit : Q_^ux res line longioris temporis interuallo effici nem
poted . Huiufcemodi igitur temporis moram VIRGILIUS poetice quidem fed
opd me tamc exprelTic : cum dixit : Prxdat trinaaii moeras ludrare
pachtnni. Ceffan tem longos/ Sedteunfledere curfus. Quod autem moneat ut
eo quem dixi ha» bieurn fe con firmet xneas uerfus unus indicio elTe
pet^d . Adiungit enim quam fcmel informem uadouidilfefub antro rcy1lam. Quamobrem
icdiflime uni» uerfum locum concludemus neminem poffeipram dminitatem
attingere : nili perlongum prius intefuallumeuih: quem dixi habitum ita
contraxerit: ut non modo non rapiatur a fcjlla : fed ne femel quidem
ipfam uideat . uod quid ali nd fibi nuit : nili ita obiiuifeatut
cupiditatum omnlumtut nunquam illx in con ipedum
fuxmentisredeantrperpulchrc per^ commode omnia ida inquit LAVRENTIVS. Verum
quid tibi paulo ante explicare libuerit: triplici illo ordine oir tutnm
non plane intclIigo.Res inquit BAPTISTA huiufcemodi ed : qux &: Iz pe
alias maximo tibi ufui & prxfcnti fermoni apprime neceffaria futura
linOiui» nus enim Plato cum uirtutes de uita Sl motibus eafdem quas
exteri pofuilTet:ita sd podremum illas diueilis Gue ordinibus Gue
generibus didinguit :.ut alia qua dam ratione ab iis illas coli odendat :
qui ccetus ac duitates adamant t alia ab iia h ii i I
qui omnan mortalitatem dedifcnc cupimtes/ft humanatum rerum odio taoii •d
fula diurna rognofccnda eriguntur : alia poftrcmo ab iis qui ab omni
iamc6« tagionc expiati in folis diuinis ueriinturtprimas igitur ciuiles
dixir/fecundas pw gatorias/ac tertias animi iam puigati.Eft enim triplex
hominum rcAe & ex ratitv oe uiuenbum ordo.Horum trium inferior eft
eoru qui io fudali acciuili uita dt gentes rerum publicarum
adminiftrationem fufcipiut.His {iximi fed m ercdioti gradu confiituti ii
funtiqui a publicis adionibus ueluti tepcftuoflsiac procellolis Kin qbus
fortuna; temeritas oino dominet'' :fe in portum tranqllitatis trafferuot
& a turba io odum fe tecipietes/ quirta uitam degutinon ita tn ut no aliqd
adhne tefictaduerfus quod Iudadumlit. Supremo autIocoeoscerncsqui penitusa
re« rum humanatu concurfitionerac tumultu remoti nihil cuius panitcdum sit
/c& mittut.Eft autem oibus his ordinibus hoc c6munr/ut uirtute dure
ciida ad boni redi^ normam dirigati Verum qa in uita duili
cupiditaribusiac pturbationibus omnia tumultuant hifip non oiu xgre
refifti^ rdicunt in ea hoium genere uiitm tesi Dcohataspotiusqabfolutast
Quaproptetidinill bptadcntiac6tendit/utm bil agatuticuius non
polTit ratio (^tem probabilis reddi i Fortitudo uero animd fupra omne
piculum at<p moetum affett : & nihil nifi turpia timenda admonet.
Tcm{watia autem oftedit fola honefta appeicdainulla in re moderationis
legnn excellcdamioea cupiditates iugo ronisrubiidendasiluftitta; poftre moptesfuni:
ut unicuimruumredd»’' iutx quoiureoesuiuant .lnrccudoautilioh>iumgene
tctqui ea it ronea negodo in odum uendicat/ut liberius poflit rerum
diuinaium conicplationi incubcrcifunget munetefuoprudciiafifpretis oibus
mortalibus rebus &cxleflium collatione pro nihilo habitis omni cura
omnim cogitatione ad diuina copuertat" . Temperitia autem cum ea
folum nobis cdce(Utit/bne qui* busferuari uita non polTiticaitera omnia
fcueriffimoiudidocontenendarf^upeii datp pronuciabit. Sed necaberit
fortiiudo qu* afliduo pridpiatiut nullum meo moduminullumlaboreminullu
periculum horrefeamus/quo minus redo 8£w petuo^uti**' - j 1 n- ». tuo^ut
ita loquar)curfu ad cxlcftia & ad origine fuam icdat animus.Diccs q d
luIhtia.Hoc jifcdo minus libi imponctiut reliquarum uinutu cofenfum in hu iulcemodi
ppoAtum firdatilfti quo^utrupiarcsaduafuspturbationcspugnit fcd fadiius
fupcratsfei^ paulatim expi .tos reddunt. Quapropter uirtutes ipCrin illis
purgatoriz appellantur. Verum audi iam tertium illud eorum genus/quota
animi ab omni uitiorumlabe ^cul ab Ant. Hi igit' in eo prudentiam
exered/non ut deledu quodam habito diuma terrenb prxferantifed iit illa
fola nofcantifuU J ueluti nibil aliud At intueantur. Adhibent autem
temperantura non ut cupitates coberceatifed lilas penitus ignorent.Eadem ratio
erit fortitudinis.llla eni pernitbariones non uincicifed ignorati Quin
opubic dura at^ horreuda Abi of ferrirnon ut uidoriamaiTequacurired ut in
eorum obliuione perpetua riimiuts 'ifidiligentetinfpides/ fadiecognofcesidabhelenoadmo
petduret. Quxomniaf ^ neri xneam
non pofle illum fedes in Italia qetas ftabi colloare/niA priiis ad
boc tertium uirtutum genus peruenerit : (^uid ergo hadenus: nonne
Troiam deftrueiatjacthradam ftrophadefipteliquerat. Defenieiatquidemjred
nondum $mca uitia fugiflct illa dcdilutc poterat Jiunc autem non ut
Moliirnt^iP Liber tettiai «Birittaib^ deponatt^od tam
feceratered ita de tnte deleat: ita perpetue obK tuooi roaadntut nunquam
eorum memoria illum rubeat:Cu autem prz omni bus rcbua iterum at(p iterum
1 unonem pbcandam moneatsqua quidem adua •imte Italiam nunqua podturua
(itmdnc nobis documentum eftroaximum nui Ium ex innumeris uahif^ uitus
eflieta quo etiam ii qui ad quzip ezceifa eriguiu lur t scgriiu liberetur
quam ab bonorum imperii^ cupiditate.Fadle eft enim cd temnere uoluptatesa
qui iam maiora mente conccpit.Diuittasuero &li fpecie maximorum
bonorum a principio nobis oftendantipoftrcmo tamen ab excelle tianimo
negiiguotur.Atucrohooorcsmagiftratus& imperia quoniam exedi' lens quodda
& eminens in fe cotinere uidetuunfpecie decori at<p magnifici ztu*
mum etiam excclfum deripiuntiNamcum cupiat ille fefe qua proximii deo red
deretanimaduertac autem nulla alia te nos magis deo fimiles efle qua dandis
bc ncficiisiNt^ hzc przftari ab hominibus pofle nifi in fumma reru
poteftate coo flinitifintiaocenduuruebcmenti quadam cupnditate ut
reliquos antecedat: Eft enim natura nobis iditu/utfcnm (upiores in rebus
oibus euadere cupiamusi Ce dcrcauteautfuccumbeieturpimmumputemus.Q_uz
quidem naturalis cupv» ditas nifi reda ronc temperer in ambitione ac
pofttcmo in tyrannide nos rapit: in qua muka aduerius humanitatem audelia
tetra nefariaip comitthnus : cu natura ipla nifi deprauata fuerit
ad magnanimitatem erigat nos ad fupetbiam ft dominatum omnia rapimus.Hinc
fraudes:hinc czdes : hinc reliqua imania
fiagitiainfurgunt.Q^uibustcbusipfam humanitatem exuri in truculcntilTima
monfiu conueitimur.Non igitur fine fiimma lapinia ad Cyclopum littora ht Dti
dedudt diuinus poctatut ofiendat qui magna quzdam & cxccifa petuntten
nulla certaratio anima reganfefe falli & pro animi magnitudine in
imanitaicla bi.Scd hzcquocp loca miferia ad fc fugientis uiri admonitus
qua primu cifugit ENEA. Quid enim aliud nobis cxprciTius
cfiFmgerc:at^ipfis(^ucica loquar oculis fubuccrc potcfi ambitio larofiC fumma
efferitate deteflandam 1)^300103 uitam quam cyciops Polipbemu$:qui procul
ab omni hominum confortio hu manis carnibus paicatur^^ inter luflra
feraru fola uita agat . Nonne enim iure Andropophagos tfic enim eos
appellant grzci qui humanis arnibus uefeun' nmilloscl Te dicemus: non qui
carentia iam anima corpora id enim multo ma gnto Uerandumefiiinfuas
epulas conucTruntifed qui uiuentes omnibus ctu» oatibuscrudelil Timc
exeduntiqui ut aut tytannidem|fibi comparentiaut iam cd paratamtut cnturioptimum
queipuirum & iufhzqui ac libertatis amatoicm lzuifiiimemteTficiuat. Q_ui
utfcelerariirimi uori compotcsc £ Ficiantut:aonmo do fingulos homines
ttuddanttfed totam urbem:ne^ folum totam urbemifed integras nationes
ferroigni fameij populantuncun^ libidini militari fubiid imttQ_ui nc^
agris cultoribus fpoliaietne^ hominum pecudum^ przdas abi gete uomturiqui
pueros tcncraf uirgines ex parentum complexu aut ad mor tcmautad libidinemrapiunnqui
caftarum mationara pudicitiam expugnat: qui publica acpriuata faaa
ptofanacpzdificia funditus cuertunt:S qui modo in florcnrifiinu re
publica ampIifTimum dignitatis gradum fumma cu gloria ob tincbantitot
nunc oibux foituius lpoliatos mmiraritni feruttutc abducunu V'
I.4 In.P .Virg-M.AIIego. uos igitur cydo^quos leftrigonas cum
iftorum imani fcttida cofErcnaif Quimobrtm uir iummi boni cupidus qui
antea non bene infttcuta animi (oi magnitudine quacun^ uia ad honores
imperia^ nitebaturmunc demum tam nefariam crudelitatem quam primum eam
nouit deteftatunnouit autem a ma dlenta rqualenci<| achemenide forma
per quii lapiens poeU omnes calatnittla quz ex tyrannide generi humano
perueniunt s latenter (ignilicauiticum dues paulo ante omnibus
ampiifhmotum honorum gradibus honefiati/ ad rern ino piam cxtremai^
famem cdpellunturicum illudiis mortis moetu latere ct^un^t Rclida
enim ariffmu patna ignobililfimis obfcurilbmirip lods exulant: Qua:
quidem miferia edam li in graium hominem & Aenex hodem cadatitame non
poted ipfequi uit bonusauc fu aut elTe dudat ad fummul tyrannidis odium
no impelli*Q_udigitur Maronis fapiendam noniureadmiretun qui uirumm
ita liamuentutum maria at^adiaceda littora tam horrendis mondris obfefla
ita caute dreuire iubetiut illis omnibus euitads in Siciliam incolumis perueniat
un de breuidiffius curfus in italia dc.Fadle enim ed homni qui fe ab omni
ii auari» dxfpcde cxpediucntomnemip iniuditiaatipei Fentate exuedtiadreru
magnis rum cognitionem edgi iprxfctdm fi iam in Sidliam uenerit.Ed aut
Sidlia nue in(u Ia olim uero italix coiumdai Bt condnends parstfed uenit
medio in pontus K undis hefpenum (iculo latus abfddittarua^ Si utbes
littore didudas angudo interluit zdu.lta enim abimortali
deoapnndpioaeataed diuinitas animoti nodrorumiut una cademi^ dt pars
infedot rdniside qua paulo pod ent didin^ dius difputandum di parte
rupertori.Scd quoniaipfa ,in agendis rebua uerfaf drea ea quz loco 6i
tempore citcdfcnpta adiduam mutadonem redpiunt euenit ut interucnientibus
Uanis pettutbadonibusi quibus prudenda decepta (xpe pto bonis mala
cligitiratio ipfa inferior illis uelun uehemcdlTimit fludibus alfiduO
percu(riabitaliatandem diuellacur:6 (aruperiodradonead appedtum defid>
at Q_uz omnia quauis ita fint unde tamen breuiot ciufusad italiam.i.ad
eo»' teplatiunciquz m ipfa ratione fupedod polita ediquaa ratione
inferiod quz per Siciliam lignidcatur nihil repedes przferdm humato
patenteique nos mol bticm quanda eneruata homini a fenfibus
prouenienteinterpraetati fumus.NS quam enim ad ueram contemplationem
deuenicmusinifi pdus ipafut ebddia notum uerbo utar)fenfualitasnon modo
earinda uerii eria penitus fepulta in nobis fuerit. Q_uapropterli rede
animaduerds de Anchife mocte meminit poeta de fepultura non meminittno
enim in iuliam ed uenturus.ln quinto ueto libto celebratur funusiut demu
fepuito Anchife in italiam cotenderc lice «.Apparatis itai^ rebus oibus
Aeneas ex dciliafoluens paulo pod italix pot/ tus fubite fperat.Ne(p
fuilfet a fua fpe deceptus (i lunonem aduerdiTimam . bi dea ex Heleni
przcepto antea placauiffct.Odendimus paulo ante lunonoa honopi impcriiij
cupiditate expnmeredn qua quidc « fi Aeneas ita fe geiatiut nihil
iniude/nihil audeliter in reru adminidtadone aduius fit.faocenima Po
lyphemo fuga indicauit nihilominus cum in confpedu Italix iam fiti& in
li nunc pene fpeculandi conditurus: Animadueitat^ non poife in rerum
diuiu nuncognidonedcucnidsnifi humana haec omnia cotenat/nidtut ille
quidf Liber tettiiu rem perficere . Std appetitus qui nou dum
ratione fubiedus fit omnino ro> pugaat: faKU 9 argumentationibus
perfuadet noncireaurneg]igendoihono« tes/autimpia relinquenda .Percomodeo
tnqiUate inquit LAVRENTfVS tC ad rem uehementer appofitx.Sed unum efl de
quo SC fi fortafTe confentanea fu fpicer > tamen fentendam tuam
uehementer cupiam.Na quid fibi obfecro uult ^fficilis ilia & apprime
moiofa dea luno. Si enim manentibus TroixTtoianis iiafcebaturscur
deinceps iifdem illis in italiam enauigatibus adeo boftili animo
aductlatunan fortaiTequiautracp uiuambltiofoK imperii cupido aduerfa Et.
ifibne ipfum inquit BAPTISTA. Atnbitiois enim dea olim Aenex irafeebatun
quiuoluptatibus dclinitui nihil honorificum quacreretmunc autem rurfus
ira fdtnncum uideat illum ad altiora quxdam eredum ea qux exteri mortales
in admiratione habentsotnnino contemnere. Omittens enim illa que
primum gradum in uita duili tenent non motulia amplius ifed immortalia
quxrin mi rifice ictura poeta.Vix e confpedu SicuIx telluris in
altum Veb dabant Ixd j K fpumas falis xre ruebant. Cum luno xtemum
feruaru fub pedore uulnus: quae deinceps fequuntur: Ratio enim uiuendiiqux
honoribus inferuit cum animadueitatfc ab Aenea deferiia quo olimquo^cu
ille uoluptatemtociu amaret negleda fuaatyuehementadolet.Cognofcit enim fi
ROMANUM IMPERIUM ed fhtuutur foreiut fua Carthago ruituta Et: Quisenimnon
intelligat E ad c6tcplationem:qui ptxftanti ingenio funt uiti
accefferint/ illos ciuiles actio.* nes ccdercrturos. Oolet igitur St
pfeotiiniutia admonita pteiitotutcminifdt. Manet enim alta mente
repoEum ludicium paridisfpretx^ iniuria formx. Et genus inuifum
& RATTO GANIMEDE ONORE. Qux quidem fabulx E diligentius conEderentur nihil
aliud nobis prader de* ditauoluptanbusuitam referct: Nam Paridis ludicium
in quo lunonl Venus prxferturiquid aliud cefeasniEuitx honorum cupide
molle enetuata^ 8 (uo luptatibusaddidam prxponi: Genus autc
inuifum.i.louis Eledtxt^ adulteri' um:acpoSremo RATTO GANIMEDE nemo modo
mediocriter eruditus Et alia traduccuHisigituraccenla luno naufragio
Troianos perdere tentat. Verunx ne noseaquxfubhuiufcemodi tempeftatis
Egmento recondita funt ulla ex pattelateant: neuequidluno: quidxolusiquid
neptunnus Ebi uelit incogni' tum relinquatur:pauca de animorum noEroruui
at<^ natura repetenda funt. Illud tamen pmonebo cuenireiut eadem ad
multos locos enodandos adhiben da Ent t Q_u« E fcmel a’me expteEa exteris
deiceps in locis ueluti ia cognita file tioptacanc luideo me qd* fumopete
cupio breuitati inferulturu.Sed rurfus cu eodieteprKc/E Ecagamus/duplextibionusipo
Eturus Emieritenim eode tpe 8C memoria qd alibi didum Et repetendum: K
quod interim perpetuo orationis filo contexif' : Ene ulla
inteccapedine:percipiendum malo loquacior etk/q oomittere ne ingeniu
eodem mometuo in plura diEradum:ucl minima difpu lationis paidcula
incogmta ptaucrmlttcre cogaturiCum igitur ad id quod pro Ia.P. VIRGILIO M^IIfgo* tPrn/f
<«•’<»' «*• 'v'»^ prium noSnim^ tft:quod(^ a noftrz
onginls diuimtate traximus t id eSsdt» tiocinandum/ad concemplandum/ad
intelligendum mgitDut:eam animi pai> tcmadhibcmus:quamgrzci nos mentem
nuncupamus. Verum hae mutiifed przcipuc Platonici chriffiani
FILOSOFI duplicem elTe uolueruntt 4 alteracu inrctiorem quam rationem
appcllant:diuiniorem alteram & fuperioro TIfct. qu- i
4eIIedumnuncupant.QU3propterfapienter Auicena animos noftroi ur t alterum
lanu duplici ore inllgnitos e(Te dizitiut hoc furfum uerTum ptia r .na
altilTima per (apientiam rufpiciamus.lllo uero res mortales &
adioneshua manas per prudentiam adminifhemus. Diuiditur igitur mens in
duo rurfum in tapientiara/deorfum in prudendamrquz Ht reda rerum
agendarum ratio qua iiinuirumfiC mulieremrutuirrupcnor iit
®at:Mulier inferior 8l
regatUR Quapropteregregiei!lud:^lioieiliniquitas uiriiqui mulier
bencfadensrnd ^ enim przponitur iniquitas uiriliszquitari muliebri: Sed commode
exprimitut I 'tedius eum agereiquideiideriorerumczieftium raptus plurima
corporis &fo cialis uitz commoda negligat: quz res uideturiniquatquam
eum : qui ut nuW Ium uitae ciuilis officium deferat:czlcftium rerum curam
omittit : (^uz cura ita (intiuideamus quz a Marone dicuntur: Nrmpe zoium
lunonis przdbus uentostquoslouis iulTu regere debet/in mare cmififTeiqua
tempeflate obrui poterant Troiani nili illis aNeptunno rubuentumfuilTct. Quo
in loco fi ui tz ciuilis cupiditas (it luno commode zoium inferiorem:
neptunum uerofu« periorem hominis rationem interprztabimur. Non igitur
mirum liabhono» rumae imperii ardentilTima cupiditate ratio illa inferior
(lediturrattp de fuo gradu deiieiiur. Referunt fabulz zoium
uentisprzpolitum aloueefleiut iuC> TuAioillos BC intra carcerem
cohiberet&indeemmcreceru quadam lege ualc4 at. Quamobrem celfa fedet
znius arce Seeprta unfDS mpHit^ apimos: K teinperatiras:_8£,iilud N i
faciat maria ac terra stcilumq: profundum. Quippc fei^tfec^ rapidi :
uertantep per auras. Et profrd Ot&infiituti funt animi noflri ^etum
omnium fumnioatcfiitcdotut cum Iit in nobis ea pars quz ad tes
afeifeendas fugiendaf^ inlurgit: przponatur libi ea rationis particula :
quz infenor cum(it:adres omnes agendas rede appetitum moueat. Ratio auum
- Iplis mortalibus indita non a corpore efttfcd aloue.Hzciguurdumfuo
co ditori obtemperat celfa arce fedet:quia nihil humile cogitat: fed
quztp aigre^ gia: attp excelfa meditatur : teneti^ fceptra.Nam totius uitzadminifttatianein
habet: mollit^ animos /& temperat itas: cum nimiis cupidiutibui
appetii tum cohercet : at^ inna modelliz fines continet : Sin autem ita
lunonis blan>' ditiis demulceaturiut fuz naturz propriz^ originis
immemot rerum rettena rum cupiditatibus irretiatur/ totum lilife przbet :
eiult^ iuffu non autem lo uisuentos/hi enim
penuibationcsrunt/emittit.llli uao mare quem apped<> tum cflic
diximus paulo ante tranquillum ex diuafispartibus ferientes bor« tendas
tempeflatcs excitant: hebetant enim tadonis adem honorum cupidi tatesrquz
uelud nubibus obdudauerum bonum a falfo non difccrnitiip fumcp appedmm :
qui a fenfibus originem dudt: non modo non refhnguit ardaemractum ultro
inflamat: &gcntemiunonisinimicaseaautcft mens no / » Liba totius
Itlbullu Qanitn rnunicotit^tm:diuinatuin autftn cupida/mratiis
perturbati poibusobtuae nititur.Scd rcaeo ad lunonemillla enim cum
tecencitiiuriaanti / MUm (H)i uulnus refrkafictiira plena in zoiiatn
tendit. Kimbofum in patriam loca fceta furentibus auibis.
Cidlidaomnino dea guz regionem ad ea quzcupiebatpaHcienda fibi
deligat nott'ignotauic:Cum enim raum humanarum amor nos ad diuinarum
cogniti onem abfttabae nititurrin zoiiam patriam uento^rad enim eft in
appeti tum p tuibationibus expofitum ueniat necefle efi. Verum iouis
iuflli hoc regnum zoio commiffum cds Nam ri deo obtempaemus rationi fempa
obtemperabit appeti tU&Redifljme enim Platonicum illud bpnp uiro
legem deum ellr : malo autem bbidincm: Quaobrem huiulcemodi
rarionemdeprauare aggreditur Iuno:& ue iuriti qui caufz (iiz
diflFiduntrfit fallis rationibus perfuadae/& largitionibus cor tumpae
iudices patanttita ipla zolum adoriturteonaturep oftendere zquum elTc
4tillc gentem fibi INIMICAM ITALIAM attingne prohibeat. Perfuade^ zolustfe^
cn da M iulTu lunonis fadurum redpit:Q_uin quicqd imperii habet/id omne a
iu BoUe tecognofcit.Nam nili inflametur appetitus cupiditate rerum
terrenaruiatrp illp uduti mare ucntls turbet rminime uideretur indigere
uita nofira impio ratio tus.Hocigi^ padotromnia lunoni debere ratio
fatetur ueluriquz(^nifi pturba lioaesaflint^aibil habeat in quo fuum
impium exerceatrac decepta cupiditate ea tum raum quas magnas putatmentis
habenas remittit/ac mare perturbattquoni •tUturbulemimis cupiditatibus
appetitum codut.Quibuszneasqui ad cxle^ Bium rerum contcplarioncm
tedit/adeo labo paiculorut^ magnitudine infrio giturtuta
jppolitodciiciat" :Et ^fedo cum appetitus quo folo animus moueturr
ftquonosad fummum bonum duci oportet/aKonosrapiat/infurgit atrorilTima
iUa tempeftasrin qua eripiunt fubito nubes czlui^ diemt^ teucroru ex oculis .
Na qui paulo ante tranqllo appetitu adrpeculationemfaebant"tinfurgentibuspaturi
Mtionibus adeo illis oixzcant" :ut quicqd luminis a
rdnepueniebat/peniti» tollat tVnde fit ut nox atra ponto incubet.
Appetitus enim qui hadenus luce rationis illul habac nuc illa amilTa in
tenebris uetfatur. Adeot^ zfi uat hoc maretuc lii aqlone fetuntur/hzc enim
elatio quzdam elliquz a rebus fecundis profluit. Alii in fummo fludu
pendentmam fupra fuas uires difficilia ardua^ aggrediens tes amdi
foliciti perpaua expedatione pendet. Alii terram inter fludus tangens
tcsabipfa fortuna dnedi mifetiarum cumulo obruuntur.Sunt deniip qui in
fas alatcntiacontorqurantur. Nam multi cum impetu perturbationum ad
huiuf^ cemodi cupiditates explendas ternae ferunturiin uariatp pericula
fibi improuifa inddunt. Sunt poftremo quos auaricia ueluri in fyrtes
ttahat.Nam quis non uis daefle aiam quorum nauis demergatur. Vnde utre
omnino apparent rari nan tes in gurgite uaftoiNam ex inumera mortalium
turbaiquos perturbationum p cclh]dcmagit: paud emagae ualentiFado enim
habitu pauci ad portum enare pofluntiprzfertim cum ipfe gubernator a
temone tcuulfus imo in przceptls deie dus in profundum ruitiCum enim ea
animi pars quz uitz regedz przpolita eft fuaiicde deiidtur/adum iam de
uniuafa te cite quis non putarHzc autem otns Iliacum lunonis zoli^ culpa
acddiftenttinterim Neptunnus commotus graui* i In. P.VIRGILIO M.
AIlego. tate t<tnpcfta^sf>Ia'd(]uin caput ex fumma unda
cxtuIk. N(ptaliutn mum macia deum cfTe finxerunt: Dico aut fummumiguia
alia quo^smaf^o» mina extann&ptofcdo plutea uires appetitui
prxfantimouet' enimilfe iudit» fcnfuumrmouct" tonis inferionsifummum
tamen impium fupioii ronirefenu tur. haec igif r^tio quam nuc neptrai
nomine (ignifiat poeta cum oibuspturba« tionibus rapi uexariip
uideat:caput e fumma unda ueiuti ex fpecula rifetttVnde ipfius appetitus
fludus jicellafip animaduertes aium illius furore in pram pinum rapi
cognofcitinei^ folum tcpe(htemfmtit:fed etiam ipfam lunonisdolisexdta tam
intucc :Nouit enim reda ratio aium ita afFedum:,ppterea in hasmiferiasitw
ddiffeiquonia falfa bonop: fpe decepta inferior ratio urntos no modo non
cohi> buerit: fed ultro emiferinC^uamobre utfubitn tato malo remedi
uni affecat cuje zephyrui^iac reliquos uctos ad feconuocas grauirer
increpariqui impio titanum fanguineorti/deo^i regnum
infeftareaudeanReferut enim fabuix uctos Aftrd filios fuilTei Aftreum aut
unum ex iis titanibus eifedicunquiimani impietate ad« uerfus deos
imortales temeratiu bellum fumere lint aufi.Hxcigi^ in fabulis rcr>
periesi Non aut CICERONEM reliquofip dodiflimos uirosaudiamusiquidoa ali
ud cum diis bellum gerere qnaturxnolhx repugnare interptabimur;Q_ua qui
dem re quid magis temeratiu rflepolTit non rcperio:nam queadmodutn cosUi
demum fapietes Bi dicimus Sc frntimus:qui naturam optimam ducem fequund
ita illos (hiltos temerariofep putabimus:qui ab ea oino dcfcifcut.lure igic'
uentM c titanibus ortos iinxeruuquonia ptuibjtioncs a temerario
fempi&nalurc repu gnante iudicio pueniunt. Audax igitur facinus
comittunt perturbationes i qux flultitia 6i temeritate humana gente
appetitum diuinitatis nolhx id eft tonis itm perio fubiedum turbare
audeant.Quaraobrcm iufte a neptuno obiurganifues ti:fu(lcc^ impium pelagi
fibi uedicat ncptunus/cum in bene inftituto animo hw iufcrmodi illud e(fc
oporteat ut folo mentis iudicio moueatur. Ad huiufccmodi igitur fentemiam
commode polfe ttanffcrri xolum/at^ neptunum putaui. Qod (1 qua in parte
fatis tibi fadum non e(l:aut li quid in mentem urnitiquod aptius IcKo
quadret:promas illud licet: Nihil enim c(l quod uereatis:aut pudore
impe< diaris:Nam neminem ex omnibus qui uiuuntiuucnics/qui aut xquiori
animo refutari patiatur:q ego fero/aut auidiusqucxlnefcicntaddifcat: Necp
eft etiam quod dicas huiufccmodi fenem ego adolefcens. Vidi enim multos
ex iis qui & ha bentur & funt dodiflimi nonnunq admonitu etiam
indodilTimi hominis in at rum rerum cognitionem ueni(Te:in quam fuo
ingenio tam diuturno nunquatD tempore hadenus uenerant.Ego inquit
Laurentius quid aliis euenerit ncfaoiiiu hi tamen nunq tantum arrogabo.
Verum quia accidere in tanta rerum copia at^ uirictatc dodilTimis
quibufc^ folet/ut cum plurima eodem tempore fefe med of ferant: nonnulla
fint:qux fic fi non explicent" :facile umen Sc reliquorum fimilitudine
percipi pofiint.Sint etiam & alia qux quamuis enucleate planecp
ediflicrae turihcbetiori tamen ingenio qui funt illa minime
confequant":utar ea quam mi hi pamittis licentia:& quoniam de
confugio xoIi:at(^ deiopex nihil a te didum cftipetam nifi id omnino
inutile ducas:ut fi quid ea in fabella fitiquod ad rcno< fisata
confciat/nobis explices. At dices n unquid tibi m mentem uenit i ac
edam Liber tertiuf nthinu Horib^tne(!erat!ges« Vcnicqdetn. Kamaiffi
nKo adiuiDis ad humana abducenda cftinullum pene maius przmium proponi
pote(l:g pulchrum cafiu m coniugium:inde enim cupiditas ilia naturalis:quz
eft coniundionis maris SC fttminaeezpIetur. Lndefoboliseft |> pagatio:quxquidem
non fotum uoluptatiii tuul ac ufui nobis cd;uetuffl etiam pofteritati
confulit/ut etia morrui aliquo mo do ih illis uiuamus.Ulbucipfum inquit
BAPTI5TA nec modo |>po(itx quxlH oni rationem habcas quicq eft
prxterea defiderandum.Nam id hoc in loco aperi amiquod alio paulo pofi
foret aperiedum*Prifci igit" illi qui de deoni natura
fcii» pferunritria ibeologiz genera pofuerutiunum fabulofum/quod grzci
mithicon nomtnant:quo quidem populum ociofum in theatro oblec rent:
Alterum nata rale/idenimeft phy ficonrper quod comode
uimnaturxexprimuntiut cum per iatumumhlios omnes przter illos
quatuoruorantem tempus nebis denotant: itodii quatuor elementa
ezcipias:omniafua edacitate confumit.Tertium uero iccirco
ciuiJeappcllant:quia inde ad benebeareqj uiuendum przcepta promatur
Coofueuerc igitur poetx quibus nihil dodius reperias/hzc omnia ita
confundere:at<p m unum comifcereiut optimo quodam temperameto eodem tempore
& aures fummauoluptacedemulceant:& mentem recondita dodrina
alantiac nos adredum at^ honeftum & ad ipfum fummum bonum deducant:
Nos aur quo ciam A hzc omnia exadius in Marone ^fequi uoIuiiremus:nimis
operofum ne godum |poni uidebat" duobus primis generibus obmiiTis
intra ciuilis generis ca cellos difputationem noAram mcluAmus.Q_uapropter
illud paululumtqd mo* do de fabula decerpferas/noftro operi conducet: Nam
reliqua phy Acen fpedanr. Dicunt enim Pbccbi Aurorzi^ Alias.xiiii.fuiiTe
eafcp lunoni nymphas attributas exiliorum enim intcrptatione luno aer cA*
Aeri autem feptem quzdam attributa fuiit.Septem itidem in aere ignum''. Quz
omnia ipAus folis tunc maxime cum in noftro hcmifpcrio ueriat :opera
proucniunt.Sed ut de primis priori loco dica tur eft aeris ut leuisAt:ut
mobilis:utcalidus:ut humidus: utferenus: uttacitum P Utlpirabilisxbasigic
ueluti feptem nymphas finxerunt poctz:earutn autem quz in aere gignunt pi
imam ponunt quz Ins appellac'':Cui etiam attnbuut tres ueiu li minittras
pluuiam grandinem niuem.ln his enim contingit ut nubes fuli oppo Dat :fcd
eft id^ut ita loquar^nubiu corpus ut alia fui parte denfum/ut alia denii^
us/alu den Aflunum At.Q_^uapropter a prima fubrubeus/a fecuda ccruleus/a
ter<« tia niger color perucnitx Contra ucro partes quz in ca purz funt
croceumiquz ue ro puriores uindemxquz poftremo puriftimz album colorem
remittuntibzc igi tur piima ex alus feptem nympha eftxquam deinde fex
fequutur phy thon come.* ta fulmen ronitruumxcxhalatio ac
tcrremotustdeqbusfuo ordine difpacarc no grauereniuriniii ex tnbus illis
quz dixi generibus ciuile folum profequi conftitu il Temus: Vaum cum
uoies bzc probe & quid qua ratione gignantur:
faci* ]ccognofccs.Sunteniminiisquzmeteora appellanturab Ariftotele quidem
pr acute:ab Aiberto uero cui magno cognomen eft etiam aperte petferipta. Quod
autem dciopeam omnium pulcherrimam fe daturam pollicetur luno ratione no
carenEft enim ca in aere facies quz ferenitas didtur.(^uz res autein magis io
cu pidiutem tcruin humanarum trahere zolumpotetauqDamfctena czii facies ;
p 1 1 I'. Perplacent ifiainquic LAVRENTlVSs at ita
perplacentuit nihil in iis prxt» rea deiideretn:perplacent quo^ quz tu de
ratione appetitu^ diziftitfed uide at pugnantia
Ioquaris.Natn(ire^tnemini/tu paulo ante xoluminferioiemratu
netnelTcuoIuiditnuncncptunum fuperiorem ponis:redeutru^:Verumcn hic impetiutn
fibi non autrtn illi datum dicattnon uideo cur zolo quotp non conoe
datur:ut mare uel io mittendis uel coheteendis uentis:aut extollat aut fcdett
No co inficias inquit Baptifta pertinere ad hanc inferiorem rationrmiut
cum deage dis rebus iudicium habeat/ipfa appetitum & ad raquz
afeifeenda funtimpellati & ab iis quzfunt fugienda auocet.Vcrum
quemadmodum in bene inlhtutare publica fupremus quidam
magifiratuscreaturicuiusatbitrio £d ii omnia getan^t alii tamen aifunt
minores magiQratusiquibus fingulis fmgula committantunili totius uitz
imperium in mente confi(ht:ita tamen ut infenor ratio appetitui ea Ic ge
propolita (itsut nihil niii rede iudicet.Q_^uod ii illecebris rerum
humanatum decepta non rede fentiat:fcd iint eius iudteta falfa/adeft
fupremus ille magifha* tus ad quem prouocare liceat:Q_uapropter rede
faipcura eil zoium no niii clau fo carcere regnare: quoniam in uita hac
communi ac ciuili potius cohibetur appe titus ui quadam rationistquam
quietus tranquilluf^ tcddatur:non enim in bo nas affcdionesconucrtuntur:red
potius moderatione cohercenturjRatio autm fuperior cum caput ex undis
exculittemiiTamt^ a lunonc hiemem cognouitteun da in tranquillitatem
redigit. Emittit enim raput ex undis cum fe a corporea mo letqua hadenus
obruta opprimebatur ucndicans ipfa fe excitaUat^afeniibus fe uocattquo
tempore non folum cognofeit qua hieme opprimatur zneasne in Ita liam
tendat:uerum etiam tantorum malorum caufam lunonem id eft rerum bu
manarum cupiditatem ei1'einteliigit;(^uamobrem uentos qprimumanutire*
mouet : Nam uacuuspertutbationibus appetitus rationi obtemperantior reddi
tut lllofq) ut deterreat maiores poenas fibi daturos minitatur: quam illi
ab Aenea acceperint: nec iniuria . Nam appetitus a perturbationibus inuafusad
tempus uexatur « Intelligentia autem illa fuprrma fi imperium fibi
uendicae tit/ quoniam fummo lumine animus illufiratus nunquam deinceps
nec ded pitut:nec labitur : neccfle eft ut perturbationes: quarum
genitrix falfa opinio fuerat in nobis penitus fepultz reddantur. Q_uapropter
non fimili pasnaco milTa uenti Neptuno luent. Sed undz quz fequantur .
Remotis uentis ou bes dirperfas in unum colligit Neptunnus: at«^ colledas
fugat: Efi enimboc intelligcntiz:ut a principio fingulas falfas opiniones
profequatur : in unum congerat : atq^ demum confutet: quibus confutatis
tum demum folis lUe ce: ea enim efi ueri cognitio eunda iiluftrantur. Q^uio
81 dmothoe & totos naues a fcopulis abducunt. Cimothoe per undas
currens fi gtzcum uerbum aduertas faale interpretatur. Triton autem neptunni
tubicen babetur. Iftaigi tur duo numina afcopulis cupiditatum naues reducuntr
quia cum tedum DOuerimus/uana relinquimus. Scientiam autem autnofiro ingenio al
Tequimun cum id fua uclodtatc pet eunda difeunat t aut dodtina aliunde
accepta pd«' IIs I a :v t Ii* :lil i i M d nit ai fli iib idi &bi m Ml ItM
IS it alti nbi lii» IStl' uti
«m 110 0» 1» ufl «I (i ‘i? iit tf tnumilludd
motlioesuelodtasciprimir hoc autem tnton signifiat. Mam ut Cubidaes fuo
przconio mandata prindpis manifcfti Qtidc dodrina quid ucriras
4ieIitaperit: quod autem prorpcrocurfu per pacatum mare utatur neptunus
fadleprobatur.Nam cum pacatus eftab omnibus perturbationibus appetitus
ita per eum labitur ratioiut nufquam ofFendat.Diximus de tempeftate.Nuc
ad reliqua pergamus: Neptuni beneficio ex tam manifefto peri culo erepti
Troiani cum fefu fradi(p Italiam utpote longinquam terram contingere
pofTe defperatent:extemporaneo ac^ minime przmeditato confiiio ad propinquum
carebam ginenfium littus uela dirigunt: puto uosmeminifTeitaliam
fpecu!ationis:cartha ginem adionis figuram habere. Quapropter id nunc
exprimit poeta quod in humana uita fxpe ufu ucnire uidemus sSunt enim
multi:qui cum ne in uoi luptatcne^ in diuitiisnet^ poftremo in honoribus
fummum bonum inueni^ ant ad ueri cognitionem fefe conferant; Verum cum fe
humana omnia Facile poircconcemncrci& reorfum ab hominum coctu
contemplationi incumbere cxiftimenniamtp rem aggrediantur uix illam
reliquerunt cum tantum relidam tum rerum defiderium infurgitiadeo ex
recordatione tantarum illecebrarum cffeminanrur: utrurfusin fumma spcrruibationes
incidant : qux quauts tan« dem fumma ratione fedentur:adeo tamen defefTi
defacigatit^ relinquuntur ant mi nodriteum non fine difficultate tam
horrendam tcmpdiatem euaferintiut latis fupert^egiffe putent fi
focietatem humanam incolentes qux immania 8i humano generi pernitiofa
funtuitia effugiant. Virtutes autem fi non exadas; ati^perfcdas/incohatas
tamen retineantifi: cum difficultate dus uitzqux in ucnfpeculatione pofitaefideccrreantut:animaduettantqux
hutufccmodi ui^ tz genus humanam pene imbecillitatem excedere cum
Arifioteles maius aliV quid quam hominem effe qui hzec poffir affirmet
fecum fic ratiocinantur.Non- parum erit uoluptatum incendia euafiffe :
Thracenfium rapinas euicaffe : hac harpyarum fordes & Cyclopum
immanitatem refugiffe . Nunc ucro fi id non. pofiumus: quod diuinitatis
potiusiquam humanitatis effe uidetunillud quis reprehendet ut in hominum
locierate ad quam colend >m tucndamiaugendam ^ nati fumustuerfati
prudenter iufte fortiter deniqi ac temperate uiuamus/ pa rati pro pania
ac parentibus nullum laboreminullum periculum deuicemus.. In omnes qui
nobis fangumeconiundifunt pietatem obferuemus: Ciuibus nofiris aut egenis
liberaliterfubucniamus: aut errantibus redam uiam demo- firemusiaut
iniuriaoppreffos confiiio opera gratia audontate noffra fub«'
leuemus.Speculationem ucro magnarum rerum in maturiorem zratem anp
inipfam fenedutem: quz a multis perturbationibus i quibus huiufcemodf
uita maxime impeditur liberior effefolcC reiiciamusiquamquidem fententt
am iis quz de Hyfach magni Abraz filio dicuntur : tueri fe poffe
confidunt: Nam quod de patriarcha lilo legitur egreffum effe ad
meditandum in agrum inclinata iam die ita interpretantur exiffc illum a
corporeis fenfibus adme ditandum in agrum quafi feorfum ab humana frequentia
inclinata iam die/ id enim efi circa fenedutem iam femore fanguinis
ceffante.Conanr prztereii Cuamcaufam grauiffimotu uiioium teffimonio
corroborareiqui ufutn potius lQ. P.Virg.M.AIIcgo< triqaam
aufamunde bonum (it confidcrantesadionem contemplationi aiw teponunt.
Pcxfcrtim in uiridiori aetate: in qua philofophum agere, dicere rem
publicam adminiftrare militare at^ imperare iubemtoftenduntip Platon ip
tum uakdioribus annis K nauigationes io (Iciliam : & (iudia in Dione
exerciM retSencfccotem autem in academia circa ueri inqai(itione
quieuilTe: Xen ophi» tem quorp adolefccntem in rebus agendis fummopere
laudant:Srn:m ueto in fpcculatione admirantur: & beatum propter odum
putant: Q_ui n etiam mub tos ut fapiendorex fierent plurimos populos
paagrafle oftedunt : Q^iuproptct K Homerus Vlyxem fapientem propterea
dicit:quod multorum hominum ut bes ac mores nouerit:Huiurcemodi igitur ac
plura alia in unum collig^es/qux tu fummo artificio ac prudentia nudius
tertius cum hoc genus uiucdi laudibus efferes enumerabas fpeculandi
propofimm in feriorem ztatem rdiciunt i at^ ad res ciuilcs agendas
interim fe conuertunt:Q_uod quidem uitx genus qui ui tuperabit/is profedo
iuflam ut ab om nibus uituperetur caufam prxbebit.Sunt enim fua (ibi
qutxp muneraiSt plutima quidem at^ przclaraiquibus (i rede fu
gaturi&czteris utilitatem ficfibi gloriam tranquillitaremip quoad
imbedllitai bumana patitur (ine controuer(ia pariet:Q_uapropter non (ine
fumma ratione tutus tranquillnfip portus in caithaginen(i littore
defcribituricuius formam li< tum^quzfo diligentius infpidte.Eftenim in
fece(fu longo locus:quem infula portum ef&datiMortalium enim uita
continentem: ea enim terra eft quz marU nis fludibus minus e(f expolita
nufquam hibct.lnfulam autem habet zfiuinti busafliduofurentibafip undis
undu^perculVam.Sed quz tamen ita fua mole beteat: ut aduerfus omnem
uentorum undarumip impetu immobilis fimpcr obduret : Nam cum hzc quz momentanea
funt: & tamen (f ultitia humana bo na putantur fortunz temeritad
fubieda (inticut^ amore fui mentes humanas in Cendant conficerent profedo
nos nili infula in medio mari (imus : quz quauis unditp mari
mndaturitamen uirtutibus (fabilita non mergitur.Eif autem in 16
gofccefTuiNam animus uirtutibus aduerfus fortunz impetus munitus procul a
perturbationibus feiunduscft.lllz enim obiedu laterum repelluntur. Cu
hin: fortitudo contra res aducrfasihinc temperantia aduerfus res fecundas
opponar i rede^ uafte rupes appellantur. Virtus enim in diffidli luco
polita etf.Aode qtf ita medium tenet:ut quocunt^ te inde araoueas:ad
extrema peiuemi ndutn liu unde tanquie piti rupe labatis gemini^
minamurinczlum fcopuli. Nam non folum noUra prudentia freti res magnas
aggredimur. Vei um multo magu
diuinoconfilioconfili.NcctemetedidumeQfubrcopulorumuettice zquota tuta
li(ere. Nam appetitus duplid lumine illuftratus ab omni feniper pemiiba
tione liba cfi.C^uod autem defupafczna corrufeis filuis6t atrum nemus horrenti
umbra imminettnon caret rationeiNullo enim in homine prudenti' am
inueniasiqut earum rerum quas fua temeritate fortuna uafat cuentus pem
tus przuideaticum tortam^ diuerfis caiibus cxponamuriut pcrfzpe Si quz
nocitura (int fummis uotis expaamusi6C ea quzfieuenircnt falutiufui ef
fcntiueluti noxia omni indufltna fugiamus tOeni^ in aduafa fronteaquz
dulces depizbcnduntur.Nam cum procul a uatiaium cupiditatum
fludilMis Liber totius botiSftifflunezur^ buiufcctnodi uita:quz (ioo
beata omntae e quieta tamen 'tcanquiUa^ (it.H uiufcemodi igitur pottum
Tubcunt: qui fuprema diu fedati ac poRrrmo difficultate deteriti fe in
uitam focialc contccucnin qua ciuilibus uirtutibua exculticuinuerrentuc
laudem non medioaem reportanti longe ta« en ab ea diuinitate qua quairimus
abfunt. Quod aute feptem nauibus huc iubicritiquodi^ reliquos c (copulo
profpiciens requirerenquod detnu focioru inopiam raritu uinoij
rublenaunic buc pertinent ut intclligamus eu qui rc pu« bJicamadminiflrandam
fumat oes labores omnia incdmodafubire oportera ut illoru quz fuz fidei
cdmifTi funt falutem incolumitatcmi^ conrcruet. Qua riptopter fit Acate$(^ea
enim principis cura efl^ igneexcitabit/ id eft dcfides ad tes
agendasaccendetiutquz ad uidumncceffana funt minime defintifit fcopulos
Buendens abrentes requiretiquos (i tutari non poterit iis qui afTunt
confulitiillo tnm^ inopiam cu fublcuauerit etiam oratione confolabituc:optimif(^
pcepds ita in^oet/ut admoneat non effe huiufcemodi hoc uitz genus ut m eo
fedes & gere uelimusiSed effe omnes labores ac difFiculutes
fuperandas /ut in italia per ucniamusiubi demum fedes quietas muenietiubi
etiam Troia reforgetiNam cu uitauoluptuofaibiquzreretur eaaderat uoluptas
iquza fenfibusprofeda cor porca edet fit caduca: fit qua (latim
poenitentia fequebatur.In italia autem uolua ptasfuma
prouenictadiuinaturaum fpeculatione.quz uera fimplexcp fituo luptas quz
perpetuaiquae ztema qua nullus moeror fubfequac .Hzc enim opti tni
principis adminidratio eft:na cu u ideat ciuile adione humanz indigencizt
non aute ei quz io nobis efl diuinicati inferuiteiita in illa uerfabic :utcu
quz ad mottaliu inopiineceflaria funt uidetinfuotutame animos ad diuina
etigatt iubebit^ eos aduerfusfortunzcafus durare: fit fe rebus
fecundisquas in latio inucniet feruare.O diuinum ingeaiu.O uitu inter
ratidimos uitos omnino ex cellencemifit poetz nomine.uere dignumiqui non
chridianus omnia tamc chri dianopr ueridimz dodrinz fimi liima
proKrat.lege apodolu Paulu. libet enim unum hinc ex omnibus ucluti nodrz
religionis caput nominareiqui uitam hu manam ad huiufcemodi notmam
dirigitiut ne^ corporis necedatia fubtrahen da:flt uero inuedigando
femper uacandu cenfeat.Q_uid enim ille fufe late de Cmbinquod hic
poeticis an gudiis non coardetiMiraprofedo restut fingula pe ne uerba
longidimas e platonicaiaridotelicac^ re publica:fentetias ampledi ua
IcantiSed nolo quod quidem hadenusnur quainfeci:itaexade hunc IcKum
profequi:ut reliqua deinceps aut omittenda:aut ea celeritate
przteruolanda fintiut idem nobis eueniatiquod longam piduram in
citatiiTimo curfu per« (piciennbus euenire folet.Ii enim in puado
teraporisicum id etiam magnope tecontendanticolorcs notare uix
poffuntiliniamenta autemifit corporu fimu Iaera fit quam grzci fjmettiam
nominant ne uix quidem. Q_uapropter relu quaadtnaiusocium
differantun^Oratio autem Venerisad iouemrurfuftp lo« uisad Venerem meram
textus (criem continere placet.lnferuiut enim omnia poetico f)gmento:ita
tamen:ut non nihil de mathematicis decerpat Maro: fit unde luboyt
familiam in primis autem AGUSTUM (OTTAVIANO) Augudu laudet.Nam quz ad
allegori am tcfcitc uoluffius iude folu accetfenda cefeo unde duc^.fiu
fpote fcquanf In. P. Virg.M. AIItgo. Sin 3utc ui
ingenii inuitamuntur/twtu de grauitateruaamittunttatridtada pene
reddaqtuttluc^ omittamus anxias interprxtationes:ea(p folumaflim»
tnus/quz non modo in abdico non latentsfed ultro Tefe quxrehtibus offerant.
Quod autem paulo ante ad mathematica pertinere dixi pauds quidem fcd ,uc
temporu anguSiz ferebat no oino obfcurz in principio expolitu clTe
puto.Ita^ teuertor ad Acnea^lc enim per node plurima mete repeti ftatuit
ut prima illa ccfceret loco^t natura diUgctius exploraretSt hoics ne an
ferz teneit inucdigarc. Q_uibus untibus qualem oporteat eife rei publicz
adminiftratorem egregie, a {timit. At^ in primis illud bomericd
approbat. Q_uis enim cui tot mortalium cura c6mi£Qi Iit uu'
uerfam nodem fomno impendet. Id aurem fumma (apientia didum omnes
fatebuntunEft cnim’optimi principis uel praecipuum munus cum loca inculta
uideaciut homines ne an ferz inhabitent iibi exquirendum proponat. Na qui
uitam ciuilem diligenter intueturmaria hominum ingenia;uaria fiudia
uario^ q motes inueniet. Sunt enim qui redo honefto^
r(mperincubant:ciuili con cordiz faueancsLibertatem (aluam
eflecupiantmeroinc plufqua leges intepui blia ualete uelint.Iniuria
oppreflbs fubleuent. Superbiam fcditiolorumciuid deiedam cupiant.
Maieftatem publicam pro uiribus augeant.Religionem de« ni^iac iufticia
omnibus rebus przferat.Hi igitur iure hoics appellari polTunt: quoniam
humanz naturz officia non deferunt.Contra autem plurimos repeti as/quotum
pctulantifTima libido nihil fandum/nihil pudicum relinquat: pluri mos qui
fuma auaritia acccli/omnia uenalia habeat:& aut ueluti uulpeculz do
lisiinftdiif^p incautos decipiat:auc uiribus fuperiores cum iTnt opibus quo
fit honoribus eos anteite uelint:quibus fapientia ac uirtute longe
fintintetioress buiufccmodi igitur uitiis deprauati homines quauis
effigiem mebra:^ humana retineant/tamen quoniam mores ferinos
induerunt/no amplius hominesifed immaniffimz ferz putandi
funt.Q^uapropter in humanis coetibus longe plura funt illa;quz uitiorum
uepretis at<^ fenticetis unq inculu hortent: quam ea quz ingenuis
artibus prxclarifd^ uirtutibus exculta nitefeant: progreditur igif Aeneas
ut fingula diligenter exploretinon temere tamen:fed Acacem tidiffima
comitem fecum ducit:8( armis inffrudusincedit:Nam quis unquam rede re
publicam admini(lrauit:cuius animus aut cura ac diligentia uacuus fit:aut
for tiCudinecareat. Iliis enim quz agenda funt multo antea przuidemus.bac
au tem nequid ex iis quz magna ac przclara puidimus ob moetu infedu
relinqua turtcfiffimusiCum igitur rciedo in aliud tempus contemplationis
propoiito adeiuilem uitam digrediatur Aeneas:Sit^& in ea multum
elaboridd/opus eft ut & duce matre ad illam perueniat.Nifi enim amote
catum reru quz age dz funt calefcat animus aduerfustantos:tam^uarios
labores obtorpeatnc.> ceffe eft.Fit ergo illi obuiam mater no tamen
cofeffa dea/qualif(^ uideri czlieo lis & quanta foletiEam enim fe tuc
offendit cu filium a uoluptate eo cdtilio ab ducebat/ut ad fumu
tenderct:Q_uo tempore oportebat ed inflamari amote di uinaru rerutqui
& ipfe diuinus ab omni materia 8C corpore jicul abfit. Hic adt catum
reru amote incendit" : quz corpotez Bi magna ex parte
mataiademafz Liber lotiui
li io “!• lA ab ife «pg bb aS sua tsb mt
s'4U *. utii at». ia? r i*f
a O liii ga< 'fb fihhQuapro{iter non deam
confcf Taafed humana fotma di RiffluTata
fefe filio offcit:ftin (yiuaotueiiatriziIIi appartt. Quem quidem locu
planius uobis nf primamati pauca omnino necniu ea qux nrcriTaria funt
prius de fylua rxpofur^io.Omnium tetum qux funt redum quendam ordinem eiiflere
: Trifmegiftus Homerus ac PLATONE oftenderunt: Atm ut quot fentirent
dilucidius exprimeret au ream cathenama naturx fonte ad innmam ufep Fecem
demitti finxeruntiqua fa> is gradibus eunda connedanturteuius origo
cifentia dei cum (it eo ordiue proce ditut ut fecundo in loco
potentiaztertio fap'entia:at<p quarto uoluntas collocet t bxc fequitur
fatum attp illud anima munditdeinceps funt cxieltes demonest (iit
xtbnriifunt aereisfunt bumedeitfunt deni^ terreni. VItima autem omnium by
le^quam nos fyluamdidmus^in infimo refideti Poifem fingula non fine
fum< mo ufu atip voluptate oratione mea profequi. Sed quoniam
difputatidi noftrx neceflarianon funt brcuitaticonfuIam. Quamobrem
exteris obmiffis deu prin apium lyluam extremum in catbena ponemus.Nihil
igitur deo fuperius . Nihil fjlua interius.nibil hocprxftantius.nihil
illa uilius . Media uero inferiora fupe« nntta fupetioribusuincuntur. Eft
igitur deus & fyluathxc autem niatetia efttex qua omnia corpora funt
. Vt enim lignarius faber materiam ex qua eunda fadat luam habet .
Continet enim illa rude adhuc lignum s K informe: Sed quo tamen innata fibi
facultate formas omnes redpere ualeatifaber autem in quafcun^ uult formas
illud tradudt tcadem ratione ad deum materia eft.Deus enim for
masomncsabxtcmitate complexuseft. Materia uero fi illius naturam infpicias
formam nullam certam expreffam habet. Verum innata fibi recipiendi
faculta te t & ut ita loquar confufe omnes continere uidetur. Materiam
uero quia matet fit didtur. Ceus autem pater: forma uero prole$.Deus enim
dat.fylua redpit. *fotma nafeitur . Q^uapropter rede Trifmegifhis patrem
matremtp xtemos: pro lem uero mortalem didt . Mater cfi materia quia
finum prxfiat. Deus gignit : 8C oeat : ac fua quidem ui . fila autem ex
alterius immiztione condpit .Condpit au teminfufione fpiritus diuinitquam
animam mundi nominat Tnfmegiffus t Q_ux res eum mouet: ut deo ofiidum
patris tribuat : quoniam infundit: SyU ux uero mattis t quia a deo
condpiat: Animam denicp mundi uim feminis hsb> bere dicit : quia a deo
ipfa infpiretur in fylux gremium. Prxtereo plurima nomi aatquibus
uariasfyluxproprietatesexprimit:Illaenim nihil ad hxcqux agi« mus: Sxpe
umen totam materiam appellat malignitatem :ne« iniuria.lpfa eni Iblacau Qefitutresmintentumcadant.
Namquod a materia feparatum efit id nunquam interit: Nunquam enim quod
fibi contrarium fit capiti fed illud fu« gitat femper at^ declinat: Quod
vero fylux gremio continetur: iccirco in la^ teritumiabitur: quoniam
fylua/cum ad omnes quas qualitates appellant xque
lebabeatcuenittutuelutialtera Helenaintra teda uocet Menelaum:ac limina
pandat. Num dum foimas illis quas hadenus receperat contrarias admittit:
fc« cile fit ut cxtemx irrumpentes domefticasextinguant.Q^uapropter quis
illam malignam non dixerit t qux familiares fotmas prodatiignotas
admittat: K uelu ti fufiepri iam in fuam fide m clientis caufam deferens
: aduerfariiqi fufcipies per timtnam perfidiam p eaoiaticeruf i Tardat
etiam & perturbat noftras mctesfyb k rn.P.Virg. M.AIIego «
Ui t omae ab ea uiHum nunat. Viaa enim mfcitia igaotatioa [«St
At ignorationem ipfam cz craflitudine caligine^ corporis prouenire &
Plato S plaeri^ cz iis qui grauiflimi habetur philofophi audorcs
funt.Huiurcemedi igi tur rationcmotus diuinus Maro cum rerum
humaiurum:8;qua; corpore no a rent:proptrrca^ in uariis erroribus
uerrenmr:amore inflametui is qui in re pu> blica princeps effe
cupittuenerem Tub mortali forma inducit Sc in tpia lylua:guo niam eunda
quz agimus in materia demerla funt illam ponit.Nec temere umv tricis
habitu ezomat : Eas enim feras de quibus paulo ante dizimus fibi infedai
das proponiuquifuis cibus rcdcconrulturuseO.Acneas tamen non nihil diuir
nitatisin ea etiam iic diiTimulante cognofcit.nam Si (i populorum
temperatocai circa humanas adiones uerfenturuamen quoniam honelhim redum^
tuentor eodem illo amoroquo hzc caduca appetimus / originem nollram
diuinam eflie fcntimus.cum enim reIigioncm:cum luditiam: cum animi
magnitudinem atb amamus : uerfantur hzc profedo circa adiones .Sed tamen
quis non uideat illa a diuinitate proiteifei C Eft tamen oratio uenetis
non ut dcz : fcd ut hominb: K tamen nefeio quam diuinitatem redolens :
Nam cum Carthaginem proficiid lii adeat:argumentationibusab humana
prudentia profedis utitur: Nam K quz de hilioria Didonis eruit : ea omnia
falutis fpem afferunt : Si cum aliquid funp rum przdicitmon ut deaifcd ut
augut ex cygnorum uolatu przdicit . Illud aute fumma fapientia
czcogitauit poeta : ut in orationis fine fe deam manifeftatet Ve nus :
Nam cum in uita ciuili quz reda Si honefta funt diu coluerimus ez illotn
pulchritudine ad diuina quotum hzc ueluti (imulaaa funt erigimur.His
igitur rationibus a matre perfuafus Carthaginem tendit oblitus tamen
tenebris : ne illi us conatus aliquis impediret . Et profedo fic fe res habet
. Nam qui magna pru< dentia przditi funt uiri cztnam multitudinem quam
adminiftrandam fufeipi unt ita ad redum honefl um^ trahunt : ut fua conlilia
fzpilTime tegant:quz q> dem fi palam facerent autzmulor uminuidia: aut
dulcorum infcicia impediti illa ad ezitum minime perducerent: Vtenim
prudentes medici zgrotos(^qucv tum libido nihil falubre ezpetit])perrzpe
fallunt : Sic optimi prinapes fimutan^ do aut dilTimulando fua conlilia
occulcant . Nam ut cztera obmittam nonne qui leges tuleruntiquo maior ei
audoritas inelfet/fua conlilia alicui deo actnbu^ erunt fCunda enim ez
Egerie nymphz przceptis Numa Pompilius facere finiu labatilusciuile Spatthanorumez
Apollinis fententia faiplifife iinzit Licurgust Q uicquid Zautrades apud
Atimafpos conltituitid a bono numine accepilTedi cwt.Zamolzis autem
quzcuis Scythis tradiditiin Vedam reculitxNam q mul ta q difBdlia inter
tumultus militares rede ad ninidrauit.Q_. Sertorius cum fe ii la a Diana
per ceruam accepilfe diditarct tSed nimis multa dere przfertim ta tna
nifeda: Carthaginem ueto e loco fuperiore cernunt: quoniam ut nudius
quo^ tertius difputatum ed nuquam optimis indituris Si legibus temperata erit res pub.nili
qui illi przfunt eunda qu aut przcipiunt aut prohibent ad eotu qax per
rerum magnatum speculation emuideritu regulam ac normam sapiennllb tne diligant.
Cum autem Carthaginen lium operam indudriam circa urbem difiandam
dclaibit/nonnc pauciflimis ueifibug onuiia colligit: quae^iia9 c*\Ili «f m ii m ta ai l
U U Kl ii M ib gia \tt\ th ‘S ipn iii^ F! jpb (f ob 09 0* xb s 3 ib <1 Liber'tertiui edam
(apfari( Cine de re pub. latprerut)t:noa ni/i pluribus libris exprimuntur tamum enim ea
parant ibiis aduarus ho(tiles impetus tuti (t nt: uibus V^^fe contra
czliiniurias priuatisx difidisfedefenduntiHzcenim duoprx^ fiant ut duitas
efle pofiit.Poft bzc uero ad iura & magilhatus fe conuertunt : ut
nonmodoe/Te fed quod proprium hominis e/l i cede bonefte^ e/Teualeant:
Quoniam autem ad magnificentiam & ad liberaliutem &ad uim propulfan^dam
publicz opes in primis utiles funtipottus optimi/efiiciundi ratio habetur
t Poftrcmo autem (icznz ac theatri cura non negligitunubi & corpora
ad ualitudi nem &robur exetceri:& animi publicis priuatifi^
negodis defatigatiihonefii/Ti* mis ludis relaxati pofiint: Qua autem
mente & quo confilio illos apibus com« paraucrit : quzfo diligentius
animaduertite t Si enim huius inferti naturam con fideretis nihil illo
aut induflria ac folertiaacuriusraut a/Tiduo labore indefe/Tius (eperietis
Ouccm in primis habent quem fequanturt cuius impenum nuquam
contemnannlabores inter fefumma zquitatediftribuuntiSummaconcordia 8C
opera fua fadunt & boftes arcent. Quicquid quzrituriid omne in comune
qux iituri Quz quidem omnia fi in rem pu.aliquam tranfferasiplatonicam
ciuitate cxmfiitues. Erat autem in media urbe templum lunoni facrumiut
ofiendatur ni bil oportere in re pub.antiquius religione eife • Et
quoniam primx in uita cluili przces funt/utimperium non folum
conferueturifcd etiam augeaturmo fuit ab re templum ipfum lunoniiqux
imperiorum dea habeturiomni cultu confcaare longior fim:at<p etiam
minutior/q tantz rei conueniat fi fingula quz in templo depida erantiquz
a regina adminiftrabantur : quz ab opificibus efiiciebanf idU
fiindiusrefetamiMultactiara in Ilionei at Didonis
orationecontinentur:plu« ra in congtefTu zneziplurima in conuiuio Si in
coiimdione hofpitalitacis deprz hendasiquibus uita fiatufi^ ciuilis
expnmituriQ^uoniam uero nouerat fapictif fimus uatrs primordia rerum pub.&
imperiorum uirtutibus niti: Veriiep effe Sa« lufiianum illud fi imperia
iifdem artibus retineientur/quibus acquirunturind ef fe tot mutationes
habituras res humanastiedreo primum regis reginzq; congref fum
ateligione/a bberalitate/St abomni genere uirtutum profidfci uult.Srd ita
paulatim in deterius labantur/ut quz pudidflima fuerat mulier/K in re
pub.ad« minifiranda uigiIantiiTima:turpi amore uida in odum lafciuiamip
labat ui« bus omnibus oftenditur q fadle rebus fecundis humanz
mentis a labore in libi« dinem declinent.Q_^uotiiam autem uirtutes tn uiu
fodali potius inchoatz q ab Iblutz funtiHic autem ita de uita duili
agituriut uelit exprimere quod paulo an te dicebam fundameta rerum.p.qux
ex paruis aefeunt/habere meliora initia / q exitus; iccirco reginam a
prindpio in omni re temperatam pofuit:paulo uero po fiea amote infutgente
paulatim ex temperantia in continentiam labitur: pofire» mouida amore
incontinens iu redditur:ut demum in fummam intemperaiui» aminddat, Moueturautemaprindpio
Dido/ut znramamet/non solum uittute quam urum in uita cotemplationi dedita
intuemur:Sed iis qux humanis cm tibus non folum bona uerum etiam fumma
bona babentunC^uis enim in ge« neris nobiliutemiquis formx dignitatemiat^
excellentiamrquis deni^ multo ornatu infignetn orationem inter fumma non
enumaetiCurn in foro/cum in fe t lo P. Virg.M. Allego oituhzc
BOB fapieBtum ftatcmfed populari trutina pondereBtarfX^uofliia utro ta
uica comuni pmulti hitcreii quibus cofulroribus utaris. Muiti cnitn aut
tnalo exrinplo motiiaut rorum quos caros habrnt non res fuationibus impui
n ad praua raoum^ snon fuit abfonum ut Didonrm fororis hortatu impudici
fadam inducat. Mifere enim amis mulier plurimu iam de eo animi robore rt*
mittens: quod inteperata hadenus apparueratcontinctem in primis uabis qux
ad fotorem facit fefe oftedit;Nam quis amore urgeaiT /atgre quidem fed
tameilli reftftitiSororis autem oratio ex uita comuni uniuerCi fumif i Non
enim ex philo fophia fumptis argumctationibusifrd aut uoluptate
ppoiitasaut ihcetu earu te* rum quxtantopeietimendxnon funtiniedoiaut fpc
nec firma necfolidapror pofita in fuam fentctiam adducere conaftut deniip
fpem det dubiz meri: foluat qi pudorem. Qua quidem re acciditi ut uidam
in incotinentiam probbertt:ln ea uero cum uerfaretunpaulatim impudica
confuetudine eo redada eftsut nulla amplius obflantr pudore furriuum
amorem minime mediteturifed impudenUi ma tffeda turpem libidinem honefto
nomine appellet: In qbus omnibus quid aliud teneat/quid conat' diuinius
poeta/nill ut Didonem grauifTimum nobis ex cmplar ^ponat/quatum
detrimetum iis qui fub imperio luiit j>ueniat/cum prin cipum mentes
pro induftria ac labore luxuria at<pignauiairrepai:lila enim qua:
paulo ante extetnos at<j peregrinos non nili breuiter ac demilTo uultu
alloqueba tut:Cuius religio fumma in deos/liberalitas in
hofpites/cofilium in urbis ex *dv ficmone/iuftitia in fuos ad czlum
ferebat ;qu* in publico nili aut diuiu* aut pu blicz rei caufa cofpici
nefariu facinus putabat. Cuius aius pudore munitus aboi pturbatione liber
pfcuerabatmuc eo furore agitat ut tota urbe ames uaget :aut li domi fine
amato fecorineat ucluti li fola fit/ar^ aboibusdeferta fummomaro*
letabefcat. Publica aut opa ita negligat/ut qu* badenus fua curatfuifip
fupnbust quz fuoyt ciuium labore ac (ludio fumma cum celeritate erigebant
iniicimperfe da interruptatp pendeat; Aeneas aut cuius cdfilium italiam
fibi propofuerat/ue* tum difficultate rerum defatigatus Canhaginem no ut
illic fcdes ponereufed ut claffem reficeret digtefliis fuerat illecebris
Didonis illedus fipofuum ^fiafcmdi abiiat:Nec deefl I uno.Qu ne res
tomanz oriantur/ Aenez Didonifi^ coniugi um Carthagine facicdum curet.
Verum cum id fine uenais opera pfia nonpop (et: Venus aut filium non
Carthagine uerfari:(ed in Italiam enauigare cupetihac deam dolis aggtedif
lunoiut quz Catthaginen fiom caula faceret: eaoia Aenez beneficio fieri
uiderent .Q_uz cum dicit Maro diuina pene lapientia uitam foa
alrmdepingitiinquacumita quidam excelfoanimoucrfenfiut humana cotem
nentes ex hoc primo uirtutum genere paulo pofl in eas uenturi fmtiquas purgatorias
appellatiat^ inde ad illas tandem quz funt animi purgati puenire
conten dantitn illecebris rerum terrenaru ita molliunt" lutczlefhum
quas fibi folasppo fuetant/peneobliuifcanf. Libido enim imperadi ENEA
Didoni coniugete: id aut eft uiru excellete regno przficere cupit:Sed rem
pficere non ualct nifi alfeotv atur eius amor: Amor autem aiaduertit
huiuiccmodi coniudione no Aenez/ftd Didoni cofuli /no enim animis hotum
ad maiota natistfed ipfi impio condodt» ptzfiat Dobisad uctam fapicmiatn
^ ficild/quam in adioni^ uciDwfcd - Liber tertius
cetum sdtnitiiftratioa (apientibusii deferatur adum iit de rebus
hutnatirs opor trtifta quauis falia e(recogoofcat:quae libido regnandi
perfuadet tjmen ailin titur;iiuc iam illa inetitusllt ifiueeorum quibus
confulendum cft mifaicordia motus sCcldiratur autem huiufcemodi
matamonium in venatione: de qua quid femiremptulo ante latis ut opinor
uobisdiludde explicaui: Quodaute in fpelunca loco fubtercaneo
conuenerint:quidnam aliud indicare crediderim/ nifi cos qui honores/qui
opes/qui imperia quzrunt intra corporeas caducafc^
tesanimuminclufumgerererCuicdnubio prarter tellurem &lunonem;prxtet
nemorum bibitarrices nymphas uides numen nullum afiFuilTe: Q^uz omnia iis
quz de fpelunca diceba apte quadrare uideotunirrentus igitur Didonis amo
K Aeneas abeundi propolitum abiidt:& hieme quam longa eft in fummo
lu<» zu conterere non pudet.Hoc uero quid libi aliud uult nili
egregios quo<^ uiros interdum a redo curfu ambitione aduerti:&
honorum imperii^ uoluptate de« linitos hiemis afperitatem& enauigandi
in italiam dilhculcatcm exhoirefcerc» Q^uapropter nili diuinitusfubuentum
Iit excellentilfimzatc^ immortales bo^ mmumuirtutes tam pemiriofapefte
pereunt; Id ingenii at<^ beneiiciiin Circe fuilTe fcruntxut Vlyxis
fodos in uana monllra tranlFormaret: Illam tamen ica in luam potclhtem
ttaduxifle Vlyxem audimusiut Forma priftina fociis fit relhtu*'
ta.Neccgoid admiratus fuerim.Excello enim animo qui funt corporeas
Iibidi^ ties fadle contcnunt; Quin & cos qui illis dediti funt rede
monendo a tanra fer uitute in libertatem uendicant. At lu Donemfuperare
ranOimi mortales potuco tunt:Nam qui imperandi cupiditate non
tangiturxeum omnem iam humanitas tem ruperalfe &ad dioinitatem
proxime accemfTe crediderim:Q_^uapropter ena quos in fumma admiratione
habemus: cos ita frangi huiufcemodi cupiditate ui
demusxutrelidauerauictuteinligniaulrtutisueJuti umbram fedentut: Fadle
enim ell Sardanapalli aut Heliogabali molliflimas delitiasacluxum
cotenere: At^ adeo odilTctCum uero nobisaut Alexandrum
macedonemtautlulmcz*' larem proponimus eorum res geftas:in quibus utrum a
uero cedo^ difcedcre fzpe uidemustra glonz cupiditate admiramur:ut illud
ex Euryde impium oma nmo& dignum eo rege a quo profertur interdum
approbare non dubitemus; putem uf^ homini conducere li regnandi caufa iu$
uiolet : Q_uz quide res una mouit poctas/ut Herculem quem fapiente
ferunt:&; rebus a fe przclanl Time ge ftisczlumafile daircuoluntpriusomniamonllradomaire/qua
lunouis fzuitu amfuperal Telingeceac.Illa enim non mater fed iniuftilTima
nouerca magnord uiioium rede dicitur* Non enim mortaliuroCut plzriq^
credunt } fed czleftiu rerum cupiditas eas uirtutes parit quibus ad
fummum bonum peruenire licet: (^uor^uide nili placata prius iunone id
autem intelligjmus aid fedara ambi dooeallcqui no potuit HercuIes:Q_,uis igitur
hoc Aenz non condonaueritxac potius quis illius no comifercanli Dondu in
italiaexillensxtis eoimeft fumaru uirtutu habitus.fcd in ipfo curriculo
ut illhuc^Edfcai:’' adhuc coftitutusiu luno nis dolis apiat"' :uc
matnmoniu cu Didone initu fedibus libi a fatis cocel&s ppch»
nat;& colilio abeudi abiedo arces Carchag^s fudaretac teda nouare iftituac
t pur^ puea^ SC ento lapillis aon^umtquasqu impetti Uignia funt gelbrc gaudeat: In. P.Virg.M.AlIego*Non
eft o LAVRENTI non inqui eft hutnan* itnbedllitatls.red cmol damfacul»ti «qua tamen condmo no Ora arduum-.tatntp
«xcelfum tetum culmen ‘U»**®* BAPTl ST Ai K (imul fuo ordine de reliqui*
difpuututui uidaetut Mani^ hofpes nofter fiuuilTimus tum ex diei fpatio
in iis qu* hai^u* dida effcni civ fum^oitum ex multitudine eorum qux
adhuc dicenda quum lucis effet in ea di fputatione abfuroptum in
colligens non pertmtam in 3uitruauifl'. miuiri:utcontrac6modumual. tudinem<jno
(bam^qu.b^^?uidiuapudmeeriris: mibiomnid.ligentu«nfuJ endi^!^ difputatio
longius ptoducaturi Atquiegoitidm. nqmtLAVK£NW^ idem cenfebaraifed
ne tanti uiti oratione moleftii« intapell«em/pudore i^ diebar prxfenim cu
te o Manotte tuas partes fuo tepore equide mquit MariottusiK fimul fua
lolita feftiuitate BAPTISTAM manuap prehendem/nos ad cellulas ubi menfx
paratx erant reduxu. R URISrOPHORI L. FLORENTINI CAMALDVLENSIa vM
niivTASvM laVSTREMFEDERlCVM
VRBINA- jKSrJbER ^IaRIVS 1N.P. VIRGILIO
MARONIS allegorias incipit feliciter, S Eruenerat iam
fuperior libet Inclyte ac Inuii Si^me Fedence in quotundaro hominum
manus 1 qui cum dofli linti dry aiffimi quocp & haberi 8£ dici
uolunti Qui quidem quauis 'de Maronis Aeneide antehac longe aliter dC
fenfiffent/8: pri* 'dicahenticouiai tamen ut puto iis argumentanonibus :
qux I nobis in probamio illius libri expofitx fuerantimulta in eo
F li rnnfcrinta elTe necate non audentiSed ea huiufcemodi el
fe Jowmduntiut non ad ethicen ut nos longa oratione difputauimus s fed a
J IhvSferendafint:ptoferunt 5 ad id qued defendere cupiunt
probandum fcriptoresqui paulo antenoararoxtatcm fueiut minime
illiiteratosiqui non J L/indel Mos« acute & doaeinmpretati naturam
tetum il is exponi conttn los inde locos K ac „fpondendum ctnfemus/ut
multa in eam qua diA SmriorisquoJdieifermonenosdixifl-ememiniyirgilm
nlura deorum genera inueniffet s confulto ita fcnpfifle fl£ A Fmmffeuteademilla
& aduitammottfip: 8 Caduimnaturas:Kad wriuruoluputtm f
eferantur.Verum cum confilium mettmij
tcstotafufceftacftnoircuolumusiidcenfco femper ipfo
hn«qu3nf.bie.ration. fcriptotpropomt: ^um fipttahuj omnuiniiri ludingttut»
ipfcqcquid narrat iqcqd tctninv 1 1 Ir £ I- 8- r K P B-t.-« .
Libet ii iuiatnr referat. Hoc oun ita fit quis non uideat ea quae
ille ttadiutamdegett» M damt& ad fununum bonum acquirendum
(^dantia fcripfit no iccirco fcripfiC' B Cuquo naturz uim ezprimeret.Sed
contra cum iugi:perpctua^ oratione ea pro (eqiutut m quibus & uitia
damnet<& uirtutis pulchritudinem eztoIlat.& ad ue I»
riinuefligationem perducat/ nonnullaadiunxifTe&omandi & deledandi
cao Ia b qua: fint ab ipfa phyfice repedta s Q_uz omnia cum non propter
fe t fed eoru li quae dixi caula confaipfetit equis non uidet id
fulcepti operis primum efle feu ^ malis ultimum dicere > quod nos
hefiemo fermone perpetuo quodam filo ita ia intezuimusrut
nibilineointerruptumquzn poiTis. Nam ad idquodaptinci Sh pio przpofituffi
cfl omnia deducuntur Si fcquentia iis quz antecmerunt/uebe menta
cobzTcnt:Q_uapropta quz ab iis quorum audoiitate nituntur/ad pby
fictnrclata funtminime damno. Nam quauisca ne multa fmtine^intafc haaliud
cz alio pendat > ut non potius membra quzdam diuulfaequam integrn
corpus uideantur t tamen non incommode traducuntur : ne<j fententiz
nofoz ccpognantiScd fac repugnare an plus apud me reda rado qua iliorum
audori^ tas ualebitrprzferdmcumfi audoriute certandum fit eos proferte
poifimus/ quorum fplendoteiiti uclud folis luce noduz hebetentur : Nam ut
omicta eos quos diligendilimus omnium grammadeorum Seruius fingulos
libros in fiogu los huius poctz locos commemorat: ut taceam quzaMacrobio
exceliend inta platonicos phiiofophotut nihil diam de iisquz&adiuo Hieronymo
& a di. uo Augufiino in hanc fententiam apud Maronem interpretantur :
nonne e noftris Oantbcm uirum omni dodnna excultum grauilTimum audorem
faabe« mus: qui eius idneris quo mundum omnem ab imis tartaris ad
fuprzmum ufi^ czhimpcragcatiine olibiillum ducem fingit/in quofummum
hominis bona paquitens/miro quodam ingenio uniam Aeneida imitandam
proponiciut cu paua omnino inde excerpae uideatur: nunquam tamen (i
diligentius infpicie . mus ab a difcedat : Nam nonne fiatim a principio
ea quz de medio ztatis tem ) 3ore:quz de fyluatquz de tribus
ferisrquz de montis fublimiiam folis radiis il uftntoconfa ipfit:binc
omnia funt. Mitto caetera: quz ita abdita in Oantfais poemate funt:ut non
nili a paucis iifdem^ dodiffimis
dcptzhendi pofiint. przponit igitur libi ducem Maronem in u re quz ad
fummum bonum.non au tcmadpbyiiccrpedetifeduideo me nimis cunofum in eo
fuilfe : quod paruo omnino nodo confutari poterat. Quapropter ego
inilitutum repetam. Tu autem indyte atip inuidilTime Fedence ut cztera
fuperiora fic Si ilh quz in ultima quaru diei duputationc
continentur/diligentillime leges . Multa enim illic inuenies propta quz
te cum dTc : qui Si nunc es Si fempet fuifti fummo» pae
lactahacict^norcef^ ex deo confilium tuum fuilfe : quos a primis annia
bpientiz amore flagrans ita te bonarum artium fludiisaddiafti: ut quanto
ta dic tua ztas grauior fitttanto ardentius illis incumbastnam quod
reliqui prin» dpes apprime regium ducunt:ut aut multo odo uanifip ludis
mircelcit:aut au cupiis ucnarionibuf^ oe tempus tcrant:tu ne libero quide
homine nili relaxan dimtaduai aula dignu efle duxiflitred oportac eum qui
aliis imperaturus fit nWB omni dodrina excultu itddaaquq no fibi folatfed
& iis qui fuz fidei co} In. P.Virg.M.AIIegflu mifll rantjK
dum «fit agit «emplo: «dum fapienter inontt pncepto maplo limum prodifft
po(Tit. Qui rigis munus clTe ducat non alieno labore ueluri fu cus
inter apes alisfed pro aliorum falute laborare uiinnoaiosabiniuriupro
hibtrr/fceleftorura<j petulantiam compnmeretoibuafe «quum prxbere
curcts Hrc autem folaphilofophia nobis pracftat. A FILOSOFIA enim
habrmuatui pie uiuamus tui pietatem ocmabhominemuft« ab omni
fcelereabibneaniust b uapropter uere iliud ufurpabat Ariftoteles fe id a FILOSOFIA
afleculum efle/ Ut ea beneuolens/ cumuolupute
ficerettquzmaliuinlegumatufaccrectv I gunrurtbonis enimCut piato ait)lex
deus eatmalis autsm libido.huiufcctnodi Igitur fludia teita
exculturo/ita omni ex parte expolitum reddiderunt/ut cum a inultis quod
crimen fortunx eft imperiis finibus fupereristiis tamen uirtutibiisi
finequibus nemoun quamiedeimperauit/omnesexcedas.Sed cartera omoa quibus
ex mortali humuculo te immotulem ducem reddidifli ad prxfw omit to> Ptxcipuam
autem in mnfaium ac philofophix cultores benignitate tacinii prxterire
nullo modo polTumtium animaduertam te ea in reiure omnibus prx ferri
poffe.Scimus in tata admiratione apud antiquos fuifle Ptolomxu philadel
phum ut ptxclariffimorum faiptorum laudibus etiam poft tot fiecula florentit
fima fama celebretur.Et profedo fingulatis fuit in eo rege iuftina mitabilifip
cie mentia.In te autem militarimec uirtus illi/nec fortuna unquam
drfuinSed nb bil in fuis omnibus aaionibusmagisextolliturtqua quod regnum
fuM libera liffimu oibus litteratis hofpitiu efle uoluerit . Tantu autem
iis qui aliquid fcripfif (ent debere putauittut Demetrio phalereo no
folum philofopbo grauiflimotfed oratori copiofilTimo negocium dcdentsut
fibi ad quin^ faltem milia librorum in fuam bibliothecam congerenda curaret.
Q_ua quidem io re quos furoptus fe cetitttunc optime conieiSati
poterimustcum uidetimus quantu in fola mofaya lege elaboraueriti ut illam
interpretadam ac in grxeam linguam conuenendam abhebrxisinterprctatetur. Primo
enimoesiudzos quifuperionbusbelliscapti in fuo regno fetuirent diligmter
inudligandosiat tingulos uicrnis drachmu redimendos/& in patriam
incolumes diraittedosmandauit: quorum numerus adeo ingens fuinut foluta
fint a rege fexcenta ulenu fupta fexaginta milia. Dtf inde legatos ad
Eleazatum iudxorum pontificem uitos sumx audori tatis mifit Arifteaside
quo paulo ante dixi & Andtea prxfcdumfuuiMifitptxterea men< hm
auteam/craterefej ac phialas donaria in hierofolymitano templo ponendi.
Mateiia uero hoium uaforum fuit auri quinquagintatargenti uetofeptuaginta
ulenuigemmatum autem atqj lapillotum quibus uafa omab dilUnctatp funt/ ad
quinm milia adhibuit/qui omnes mira elfentmagnitudine. Q_ux liberalit« adeo
accepta gratacp Eleazaro fuittut duos ac feptuaginu ftatim ad regem mi'
fent i non plxbeos illos quidem/fed ex principibus dodiflimis ita elrdos/ut
ex fingulis tribus fenos fumeret s qui legem dei in grxeam linguam
Ptolotnxo conuerterent. Q^uorfum igitur hxef Nempe ut intelligant qui
diligennus rem confiderauennt Magnificentiam tuam erga dodrinas noOra
tempelb' tt non minorem efle / quam oLm Ptolomxi fuerit s Hoc enim folis
luce cla/ liua apparebit ; Si Imperium Imperio 1 Si Sumptus
Sumptibus conferantur. Libtt guattui nfeaumnonfdl amutiiuerrz xgyptiopulentiitiimum
regnum poHidebat/un^ dcaurt argenti^ inaedibilisuis proue Diretired Tyriz
quo^ ac phcnictz tnaxi^ mam partem ucdigalem babcbat.Tuos autem bnes nemo
ignorat. Adde quod quo tempore Ptolomeus regnauit/plurimos A(ia at Europa
prineipes habuit • qui poetas t qui pbilofophos/qui oratores/qui
hiftoricos benore opibufi^ bone rent:ut & li fuo ingenito (hidio illa
faceret magna tamen cx parte emulatione quadam excitari uidereturme quos
opibus uinccoatxabiifdem huiufcemodi glo tix genere fuperaretur.Tua uero
benignitas in ea tempora ineidir/ur nili ardeUi* tilbmafittfacile czterorumprincipum
auaritia extinguaturxQ^uaproptcr nulla omnino eorum munerum quz in mulas
con fers/gratia noftro fzculo eft bahim' daxinquo neminem reperias ex iis
qui nunc imperat:cu*us exemplo excitari pof» lis.Sed quicqd estes
autemres omnino przcIarifTima/id omnetuo ingenio;'U3 innata humanitate cs.Nam
ab aliorum moribus procul dircedens/unieum te exemplar ofiFersrquem &
ad fummam liberaliutem czteraf<^ omnes redas adid aes/&ad ueri
inueftigarionem reliqui fcquantur.lta enim uirtuiem adamas: ut illam non
glona dudus/fed eius amore alledus ampledaris.Euenit rame ut qud admodum
umbra corpus (emper fequitur: etiam li id corpus non quzrarxHc < ua
pie iuHe/clementeti^/ac fortiter fada non adumbrata quzdam & inanisiTed
foli da cxprclTa^ gloria fcquatutx Scd res polhilatxutiam ad noftriim
heroa rrutrra^ murxin cuius adionibus tu mores tuos ac uitx inlliiutum
facile recognofces. Co ucneramus igitur eodem in loco bene mane quarta
huius difputationis dic. AN ^ cum miro deliderio BaptiHz fermonem
expetere uultu gcftucp fignificarcm^ illexurquz explicaturus eilet iis
quziamdida fuerant commodius annedrrrt: buiuiinodi difputatiotii fux
prindpium adhibuit. Vidimus badenus dodilTimi uiri qua piudmiia ac animi
magnitudine omnibus iis fotdibusxqux a corpore^ ueniunt fc explicauerit
zneasxNamne troiz periret: 8C corporeis uoluptanbus pe nitusobruerctucmon
dubitauit exui in altum ferri quis incertus quo fata ferret: pod hzc
thracenfes rapinas uc eas primum cognouit mira celeritate effugit. Ar« ^
mox in rebus dubiis a fapicnria conlilium coepir : deceptufi]^ Anchife
interprz tatione.Namquz a corpore funt facile corporea fequunuir.uitam
duilem in Oeta fibi propofuit * Sed nec piguit errore cognito uela uentis
iam tertio dare .Delatu!^ mlhropbadasaducrfusharpyarumauaritiam inuidus
pugnauit. Nec per medios hoftes ad Helenum enauigare foimidauit:
Prztereoqua prudentia qua animi przdantia iam ab hcleno dodior reddirus
immanitatem cyciopu de<< ciinauem : qua indudria ac celeritate
fcyllz charibdif^ mondra euirauenr : quo fiudio atramentis ardore defundo
iam in licilta parente nauigationem in lra.< liam rufeeperit. Verum cum
lunonis dolis :zoli<^ ac uentorumuiribus parcis fc non pollet:
celTicilIequidim conlilio ad ueri inucdigationemin aliud trm
pusreicdoinaphricam eo animo diuertit: ut quam primum per tnaris id
edap> petitus tempellarem liceret : in Italiam tenderet Verum in
ditione aduerlilTimz dezconditutus : & amore Didonis delinitus/Vide
quid pTolfit ambitio: quantu ^ ad mentes maximorum etiam uirorum
euertendas ual eat / regnandi i nquam cupiditate dclmitus is qui reliquos
iam perturbationes ac uirufupctauerant di<« In.P.
Virg.M.Allego. uinil Tifflumcoafiliatnio Italiam
enauigandiomiiTtttotum^rein eo dednatt ut regnum carthaginmfium
coSabiliret : perrcueraflctcp in errore ni(i acczpifb a Mercurio non
placere loui ur pulchram urbem uxorius extruat . Regni autem & rerum
Tuarum obliuifcatur : Prxcipitur enim homini a fumrno deo ut ad fu« am originem
rcuertiuelitrQ^ux praecepta nobis dodrina quam litteratilTmKv rum uirorum
uel Termonibus uel libris accipimus i facile tradit . Rede igitur ar«
guitur arncM/quod uxods urbis t ea enim eft uita in adione polita
adminifbatio nem TuTcepeiit . Suiautem regni 8c totius contemplationis
qua Tola mentes hu> manz regnant Iit oblitus : Maximei^ hoc urgetur/ut
Ii tantarum rerum gloria ip fum non mouet i Afcanio Taltem
tuerediTuccefloricp Tuo conTulat < cui regnum lulia; t ac romana
tellus debetur: quo in loco quidnam aliud ATcanium intelligcmus nili futuram
ztemami^ uitam: qua: huic breui Atmomentanea; Tuccedit. Nam li dum intra
bzccorpu Tculauer Tanturanimino lhitantisrerum terrenarii illecebris
demulcenturiut carleflium contemplationem de Terant/ memineriot 11 in
futuram uitam uitiotum labe inquinati & nulla dodrina exculti
migraaerint foce ut nulla unquam ueritatis luce illuftren tur: Q uapropter
regnabit Aiani< us:nuIIuT<^Tuoimpecioiiniseritnilieoapatre dmaudecur
i futura enim uita ab hac quam uiuimus ea rationeiquam oftendi iure gigni
dicitur : ab eadem^ li focdida 6i uitiis tenebriTcj inuoluta Iit: tanto
bono denaudatur. Sin contra manebit fcelix at^ a:tcma : Nam
Hic domus xnez totis dominabitur oris. Et nati natorum & qui
nafcentur ab illo: Q_uzquidem mandata cum acczpilTetzneas: quid
mirum li uehementercom< motus Iit : Erat enim in eo animus qui excclTa
Temper TuTpiceret. Ita^ Te tandem excitas cupit qptimum abire: &
terras quamuis dulces relinquere. Alluetusenim poteftatibus at^ imperio
uirfi£ dulcedine captus non line dificultate diTcedit. Sed cum ucrum
bonum ab eo quod falTa opinione bonum putat" diTcetneteptv
tueritiillud tamen anteponit: Cum uero poli diuturnam conTuItationem
inla« lutata inTcia^ Didone diTcederedecemat. Nouerat enim no efle pal Turam
illum diTcedete fi IdlTct/egregie admonet cum ab huiuTcemodi rebus animum
abduce re uolumus non efle molliores animi partes confulendas: Ted clam
illis uela in Ita Itam facienda: Talia enim bzc Tunttut quanto blandius
ea appellemus : quato^ familiarius Talutemus/tanto maiori contumacia
aduerTcntur . Sentit tamen d(v los regina :&iniquo animo fert uita
ciuilis a uiro excellenti deTeritpradcrtitn li non fit alius Tapiens/qui
Icxro illius Tuccedat.binc illz quzrelz nulla libizx znca robolcmfuperciTe.
Quamobrem ratio inferior quam mulierem appellari diximus huiuTcemodi
argumentationibus uirum egregium in uita ciuili retinereitt a speculandi
propofito auertete nititur i Primum enim ita urget ut quzrat quo modo eam
deiicrete Tublbncatia qua tam ardenter ametur. Amat enim ucbementer virum
excellentem vita duilis. lllius enim cunfiliis imperia non modo paran
tur/& parta con Teruanfuriuetum etiam augentur. Sed nec illud retinet non Tet'
uate illumlidcm quam dederat. Suavitare enim imperandi iam totum Te
adminiHtarioni dederat zneasi Quio di Te moritiuam Tidc Teipture docet; Nccinub 1i I I I t t t P u 9 0 9 u n I» P“ ca nii da ttico: iKg da dd od R.! dia b&' ht loj on IBU' «nI 1« tii AV u tua 8“ liii Ml LlOfi Odi ns
ilii ntoi iU IIlBl' lO* loli
niii jA«< Dlli
tffll*' yb BD^ a<? J»!*Libo gimttu to alito
eucf UKloIcb Namdcflituta a uimite agendi facultas pereat necefle
cft: Dctcnetezdif&cukate hiemalis navigationis. (^uare (Tgnifiantut
labores ma^ jdmi t quos (i in Italiam uenite uolumus fubituri
fumus.pofiremo in hoc uche>< mentet mlifiit/li reuotetetur ad
Ttinam Bl ad uitam uoluptuol^ t non tamen illi efle concedendum: ut
honores relinqueret t multo autem minus cum loca fi bi incognita petat t
nondum enim nouerat Ipeculandi uitam. Dcmum ad
c6mi< fetarionemconuer{alachriinaseffundit.connubium, incoeptum ad
memoriam reducit . Q^uicquid fuaue oUm a fe acczpiflict exprobat:& ne
domum labent em dcioatobuftatur. Pofluntenim uchementercommoueri mitiora
ingcniaicuia parcntes/cum liberi aattiif (anguine coniundi/cum amici/cum
patM ne dcfci' ratrogantrne incoeptam fcxictatem relinquat przfertim cum
uer^umfitineim perium a bonis uiris defiitutum/aut Pigmaleonis
auaritiaiaut larbc tyram*de in« uadaf .Q^uodtunemagu ucnoemur cum alius
(apies qui (ibi fucceclat no telin quaf sQuz quidem omnia cum rerum
agedatum rado animis noSris obiidatr non pollumus non uebemeto
comoueriiSuccurnt enim platonicum illud quo quttum generi humano debramus
/grauifiimeadmonetiut humanitate eruere uideamur/fi humani
focietatedeferamusiucru cum aladuettatmagnus uir men tem fola eficiqua
boies fumus; ea no agendo fed cognoiicedo pcrhdrid^ louis
pcaneptucfieimotusmanetiat obnixus curas fub corde prraut.habet aut
quo|> pofitu opnme tueri poiTittNon enim inficiaf bene ^meriti ciTe
reginam. Quis enim no uideat magna humanx hnbecillitad adiumeta ab hcK
uitx genere fue* nirc:(^um BC polliceffe illius recordaturu dum fpintus
hos reget attus: Nam eu derua abfoludflimu appellabimus:qui iu in
fpecmadone dum uiuit uetfef : ut uicifliW cum ccs poftulat agat.Etgo no
fugit a uita agedi < fed inde recedit: qa cu ea no cotraxerat
matriffioniu.Non enim nati fumus ut drea mortalia uerfemur: illif{^
coniugamur.Sed neceiCtatis caufa efi illis in(iftcdum:ut tanta opere impd
damus:quantnad fodctatcconfcruandam fat fit:quaptopter (i Dido Carthagine
deledac :hoc autem efifi in adione inferior rado libenter uerfaf liceat: fit
fuperi^ ori Italia dclcdan poflem mulca ciufdcm otadonis ad eadem fentendam
trilTa^ ce. Sed fit aliquid ex mera hiftoda didumiRcIiqua ueto qux ad
plurimos uerfus dicunmt:eam uhn babet/ut libidinofum K corruptum amorem
detefienf :at^ tantxfceminx grauifiimocxcmplo nosadmooeat:ut tam
mrpem/tam pctnitio.« (am pefie fugiamus:comode aut eunda qux a PauEmia in
platonis fympofio de tutpi amore dida funtiad bde locum ttan(Feremus:ex
quibus pauca qux a nobis cum de Paride uerba fcdmus dida funt : memoria
(i repeteris intelligeris umSu mum effe Ptoperrianum illudi Durius in
terris nihil efi quod uiuat amate .Q^d* autem magno pedore curas
pcrCmfcrit xneas: fit tamen mens immota man ferit/ oftendic uirum qui
deorum prxeepris parete deacuerittiam ab inconrinenria in quam Didonis
illecebris ptol^fus fuerat/ad continendam redi(rc:tt quis amore
urgetetuntamen hone&umuoIuptariprxpofui(re.Oidonis ueto interitus
nobis pcrfpicue oflendit perire ncceffe c& eas res publicas qux a
fapientibua deferanf. Non tamen aberrabimus fi amandum at^ amentium
furorem cxtrcmainij de* f^aarionem huiulcemodi exde oilendi putemus.
Aeneas igitur deorum admi}« 1 ti In. P.Virg M. Allego»
nitu in Italiam enaiugat. Verum infurgente uentopt u! palinurus nauis
gubertia tor negat ea tcpeftate Italiam pe Q poiTc.anenticur zneasiut in
Sidliam in qua in fula extindus parens nondum debitis exequi is
oraatusiacebat/dcfledat. ^uo in loco quid fibi palinurusuelitline
ncgocioex iisquz de illo paulo fupra expt’ fi cogDolcerepotcttsicum enim
huiufcemodi appetitus facile pturbationib^ob tuar' inon modo a tedo cuifu
auertic' :fed znea( haec aut excelleris uiri mens eft} pctixpc infuam
femetiam trahiteut ad patre» hanc autem imbecillitatem quama corpore
cotrahit aius iam ciTe diximustbeet intelligere ad patrem inq/quis iam de
fundum redeat»(i uero ad memoriam ea teuocaueris qua: de ficilia lam
diximux non ab re cftipfistroianisiut in eam infulam redeaaundebreuifiima
(it in lulia nauigatio»Poeta tamen cuius cofiliumefi no folii ut
grauiffimas res j>ferat:fedil
Iaauatiaiocudiutciuafpergat:uttcdiumtrifiitia« pfundarum rerum comites
penitus amoueat/uaria ludopt genera interponit.Hzc igit' iu
adminiriobantut abznea ut paulo poft oibus ablolutisin Italiam elfct
foluturus.luno uerocui^in troianos o^um/nec ulla calamitas/ncc tpis
diuturnitas explere poterat : qa quo illosltaliz j>pinquiorcscerneret:eomagisaccenderet'
oblatam occafionem non 5 rztermittit:Cum enim feorfum a uiris
imbecille mulierum genus deliderio ta< em quiefcedi mcedius cofpicare^
pa irim illis ut naucs incedat pfuaden Q_uz qdem (ic accipiteirerum
terrenarum cupiditas no uiros/nam pars fupior rationis non facile his
rebus frangit':fed ipfam inferiotenr tonem a fupiori dUluudam p fuadetiut
rerum magnatum ^poficotcicdo tedium longioris nauigationisrefii
giaud^ubieficonfidcaCiMuUetcsigit quibus inglorium odumlongccarius (iu q
honelius labor prijtiio ambiguz miferuminter amorem pizfenris tertz
fatifq| uocatia regni malignis mare oculis ifpiciut.Namcum ratio
tnfmocquzafupe* tiocipfuaU illam ad quxqj xgregij Tequit' nuceaabfente paularimfenfuumiiiei
cebris cncruac' idoncc tadtm uidi fc iliupi potefiati pmittat.Naucs igi^
mulieres inwcn dioafrumei caduriunt. Hoccumdicicportauolutatcquz ad res
magnas, ferebatur incendiocupidiutum perire
o(lcdit:pen(rrtauttoticlanisnifi Eumci Ius piculum (fatim ad zn eam
reiuliffeciErat enim Eumelus uir ad mulierum cu fiodiam telidusiNam huic
parti inferioti metis acerrimus qdam cofeietiz remoc fus/cui bonaceda^
cuiz fimp funt ftmp adcfiiHzcgtzce fynderelis didturuis (.nobis ingenita
qua animus Sc ad bonefta crigiturtK a turpibus tefugit»Hacau lem nomen
ipfum uii i ajpertc demondrat; enim boni cura facir
leinterptabimr»Hicigit^Iapfaiam in facinus muKere
temaduitutefcrt:Q_uo nuncio percepto primus Afeanius ad iiaues eripiendas
aduolat: ASCANIO autem celer robuduli^ magno animo prxditus
Aen»iiliuscft:quemiuceiatetptc tari licet uigotem quendam ex ip(j mente
natum: Hic autem nullo tenore pto liibemr qum contra pericula pnmus
feratur: Sequuntur reliqui t fed io primis zncas: At mulieres uiris
cogitis incoepti poenicet t A uiro enim feiunda muli* er aduerfus
appetitum minime repugnat <Q_uod (i tutfus uiro coniungattirt iam
robufbor fada/ SC ueluti e tenebris erepta tum demum acata iam cetatt/Sl
a lunonedcIuCam e(fe dolet pudet^: Non tamen incendium facile tolli^a
Nam optusalunoaeappeunuiacop^cueut ut uoluntatcmsquae, nobis ad
(uo»; tti «di r S 5 1? S B jr 3 .te e Liber quarttu
inutn bonum euehit/omnino perdat: fir^ mifera in bomine diftradio t eu
atio ratio dutat:aIio appetitus rapiat i Q^uo in loco cum mms noRra fe
tanto cer« tamini imparem cognofcattnititur illa quidem fuis uinbus/fed
limul etiam di uinum auxilium implorat id autem impetrare meretur. Nam
qui ita deu prae atur/utiaterimipfe quoad ualeat libi non delinis adeo
minime derenc. Nam quodaSaluRiofcribiturnecprzcibusnec fuppliciis
mulieribus auxilia deo« cum pararitrededidumell. Non enim inerti ac
delidi/ K qui in fummam rr^ tum defperationem prolapfus nihil contra
pericula parat auxiliatur deus. At qui magno aduetfus difih^ltatea animo
infurgit:qui nihil inaufum: nihil in« tentatumrelinquitiquincc periculis
terreturmec laboribus torpelattis profo* do fe dignum f^tcuius S dii d
homines commirereantur. Q_uapropter fapi« enter Aeneas ciun nec uires
beroumtnec aquarum uis infufa prodelTrt: ad prx* cesconucrtiturtauxilio impetratotcum
iam quatuor naufsai Tumpraeeirentt teliquz ab incendio feruantun Cum
autem naurs ad totam turbam tranfuehen dam deeflimt terat fenis nautz
conliliumutimbeallior turba in Sicilia reiin' quctctursutbfm illis
habitanda conderctur:hoc confilium oraculum paternum louis enim iulfu
locutus cR patens/ex ancipiti ratum hrmumt^ rcddidit:Q_ue iocum nili uos
aliter cenrcatis/itaintcrpreubimoi. Ad diuinarum rerum fpecuo lationem
fola mens omni uirtutum robore iam fuffulta acceditiReliquzenim animi
uires quz imbecilliores funt naues/illz enim fune uoluntas/quibus illuc
ucbantur incendio amifcrc: Q_uaproptcrreuocanda cR mens a frafibusihocau
tem confilium ab. eo uiroprohcifciturtcuimagi Rra Pallas fueritteR enim a
fapi entu dodus: Approbatur autem ab Anchife fed iam fcpulto; Nam qui a
ra« bonetamfubadiruntfcnrus/facilein eius dicionem conccdunr/ przfemm
lo> ue iu iubencct conuertutur^ in rationem hoc ordinc/ut ratio ipfa
etiam fupeno remlocumarcendensaf Ficiacurintellcdus: llleautem£(iprein
altiorem gradu cuadens intclligcntia redditur. AR intelligentia in deum
comutatur . Hmuic&> modi igitur cofilio at^ oraculo utimrAenas.Non
tamen prius e lidlia foluict qua lacta pie tite faaatinorat enim qua
laboriofitquiip periculis plena lic h\u iuCccmodi nauigaboiNoueratquancz
molis erat romanam condere gentetSed nec Venus quicqui interea
remittitiquinuehementer pro faluce hlii anxia oia drcufpiciat.ln primis
autem Neptunum rogattac mare tranquillum reddauNa amor quo ad fummum
bonum rapimur fupiemam in bomine rationem horta tur/ut appetitum m fua
poteRate cemtineat: N epcun us om nia benign illima pol bcctuciNihii enim
denegat ipfa mens amori ad redum eam excitanti : Neqi ell ptocula
ratione/quod oRendat Venerema fuo regnoottamtlTetEReaim Ne« ptuncu regnum
marciquod quidem ducn ab illo regitur/ctanquillu eR. In hoc czii uitilia
lada dum agitanturifpumam gignunt ex qua oritur Venus . Supte« ma ergo
ratio appetitum intra fe continens in quem uiriliaczliiiccirco decide»,
re didmus/quia in appetit um a ratione adminiihatum uls quzdam cziitus ca
dittquz in eo agitata diuinarum rerum amorem proaeat t uod autem
oes prztcr unum Pahnuru incol umes in italiam peruenturos promittit i no
ne cz oxtdia^ut aiunt gtaxi^philofopbia erutu cR: Nam clalli in Italiam
tendenti In. P.Vtrg.M.AIl(go. flurimeaductbtut appetitus /qiii a folofenAi
profedustulul altum (iifpic^ Quapropter rquadiu claiG prxfuitinunquam
ttaliam tangere potuerunt Tnv unuSedundema Tomno opptcfTus mari
cztinguitur.Nam poftquam rado acarime ad contemplationem
conuettitur:& caducorum curam reliquit: Nt< hil ex iis qux fenTum petmuicere
pofltnt/appetiturt Vnde uniuetfus Uleappcdi» tuspaulatimiapituctac
fopmisezdnguitur: Cial Csautcmcnamline fuoguber tutore tuta fcrtuc
Neptuni promiiTis donec ad fyrenum fcopuJos deueniretrlbi autem fluitate
ciuncarpiiTet Aeneas temonem capiens nauem in undis noAur« nistezitiNam
animus nofler cum iam fibiitaliam propofucrit fccurus fertur/ donec in
uoluptatumfcopulos incidattTuncetum temonem capiat oportet ap pedtus
tationalis Tquiaduerfantibus uoluptatibuscaiitra obflfism Eztmdoigw cur
Palinuro Aeneas tandem poli diuturnos enores euboids allabitur oris
.In iuliam enim ucntumcll ad quam gubernatore Palinuro nunquam
perueiuflet 1 ingrefli funt Jn quo non idem curnit quod in
cartbagine Aeneasslam portum ingrefli funt :In quo non idem curnit
quod in cartbagine a portu euenifleoflcndit poeta. Ulic enimnaues'ficli
procul a rabiat fluduum in tranquillo efle uideremurmulla tamc nant
anchora alligatx. Quapropter qua quam non omnino ucxabantuRin aliquo
tamen erant motu.1^ autem anebo ra fundabat naucs: quo oflenditur eas
ueluti fundamento nhex lint flabiles hx« rcrcoportere.Summum enim illud
bonum:quod in negociola & duiliuita a philoiophis ponitur: 8t
flinbuiufcemodireceflupofltumflt/utprocuia fotttu nx procellis uirtutum
benefido abflc:non tamen ita conflabilitum cfltquin la« bcfadan
poflit:Q_ui autem oi.'':} vum rerum libi contemplationem finem lU timum
propofuit/bic iu in tuto ac folido rationes fuascollocauit:ut nulla ui di
tnouere poirit.Nam aduentusin italiam oflendit habitum uirtutum um
con<< tradumiu:utaptopoiitauitanonfit difcefliirus Aeneas/non tame
earum uit tutumtquxfuntanimiiampurgatit Namnihil fibi diffidle iam
proponeretur/ fed earum quas dicunt purgatorias.Q^uod quidem propolitum
iam conflabis litum fortitudo fit animi robur non deferitinec ipfe ardor
rd aggrediendx. Q^uam quidem rem tunc ezpnmit cum ait luuenum manus
emicat ardens Lic tus in befpcrium: Manus enim indicat omnes animi uires
cocurreretqux e me« dio iam fublato Palinuro fefe menti ultro
fubieceranti quod autem ardens fit concurfus uehemcntiamindicatiNe^ ab te
efl quod fit manus iuucnum.Ofle dit enim animi bene affedi uires nnllo
fenio in quo tedium torpor^ ficigna«. uia efle (olet unquam
aflid:Q_uapropter non lento palTu rem agit/fed emican Verum quia dum in
corpore ezulat animus:quauis fe totum fpecuiatioai dc^ dati non potefl
tamen non curare neceflariat ea’ enumerat poeta quxnonuo luptatem fenfus:
fed incolumitatem uitx rcfpiciant. Nam quxnt parsfemi nafiamis ObfttuIainuenisfilicupatsdela
feratu Teda rapit filuasinucta^ flu mina moftratiinferiorcs igitur animi
uires bxcagut. ENEA aut quo nobis m& exprimit" i Arces quibus
altus Apollo prxfidctsHotridxip procul feaeta fybil» kc: Antru imane
petitt(^uod cu fadtad rea diutnas cdtcpladas erigit t Na qui aliquid figurarum
inuolucris fcribuntibuiufce modi rpeculatioes per excelfu loca aprimBt. yadc
illud e p(almoi(^uis afccdct ia mdee duif A et illud = b Sj K n n i»
la Ap OL ttl d bt ttn
lut % dt.QURI bii iO ni£ fid «w
Ots sed| iae N «I K Liber quartus Nam cum in ui^tum
in contemplatione pofitarum finis uerum fit/ quo fapi^ Clite
efficimurtreiSe omnino folem huic rpeculationi mopolicumeflediiitNa ut
nox tenebrz infcitiam arguunt :ita lucis dator fol ueriratcm fignificat: Cuius
exemplum fecutus ciuis noder Damhes cum ab ignorarione rerum ad ue- ri
cognitionem progrefiiim ponit fe ez node filua<]^egreflum montem cuius
iu ga foleilluilrata fint/afcendere reflatur. Addit pratterea antrum ibi
efle Sybii« be magnam cui mentem animum^ Delius infpitac uates aperitrp
futura. (^u£ quidem locum ut diluddius-ezpritnamus pauca prius de Sybilla
percurr^mt mox ad rem de qua agitur redibo. Conflat igimt Sybillasapud
grzcoseas mu» iieres urxitati folitas t qtiz furore diuinb afflatz futura
praedicerent t Eft autem Sybilla quafi id enim efl dei fentennatquoniam
dei conlilium fitn tuitura & enim aeoles deum dicunt : quem
reliqui graeci nomnantt Quanquam (iimtquiuelint fatidicam muiiaem apud Ociphos
bocno mine appellatamta qua demdereliquz futurorum confcia: cognommatz
linn faas exuariis regionibus' decem fuifle colligit. M. Vano :Q_uas ego
omnes fi quid ad rem pertinacatbitearertfuo ordine proiequi non
grauarenSed ut ui> ^.nihil ad hoc de quo nunc agitur iQ^uamobccm fatis
fuerit uidifle Sybil lam facile rerum diuinarumdoi^inam interprztari.hzc
autem nobis ca qux Apollini nota fumifine mendacio przdicitt Nam
fapientiam uericatcmtp ape» m.quodueto antium ponitiexprimic ucritatem m
obfcuto latete . Nrtpreme» tetriuiz lucos Apollini templo adiungit: luna
enim corpulenta uebementei cflifiC reliquis lyderibus inferior .
Q_uapropca rerum humanarum quz diuinis longe inferiores funt/figuram iutc
habdne : 1 lia enim lucis przpouitur: res au» tcmhumanzin fylua
obrutzfunt: non enim corpore carent:& utiuna afoie lumen recipit t
ita Si ipfz quiequid habent a diuinis habent . Collige ergo cu lapientia
non modo diuiturumterum/fcd etiam humanarum faentialit re» de Apollinis
templo Dianz lucum adiungi. Templum dtumatum rerum lo»cus efl. fylua
macenanotat.Templum laoius zdiheium deo (aaumiin quo res
fdlasdiuinasagimustab reliquis abftinemus t quoniam cum illud mgrcdi»
muria negoaisceflamustfiC foli contemplationi incumbimus.Trmplum aute a
Ozdalo conditum ponit t Q^uid igitui aliud efl zdilicare templum Apollini
nifi reddere fe idoneum ad fapientiam capiendam.Q_uod quidem tunc dcnii^
fadmusicum ab omni corporea labe purum animum ad contemplanda diuina
tranfferimus.hocautem Ozdalusuiromnibus optimisaitibusinflrudus fa»
cuepotefliin quo tantum ingenium fucriciut Si DzdaIaCitce& tellus
dzdala a poetis tunc maxime dicatuticum maximum ingenium
oflendercuolunt.Ve» tutantem non mariinontetrainec ad meridiem infimam
nobis mudi panemt fcd per fublimem acrem ad reptetrionemiNibil enim
humileinihil terrenum fit in camente/quz ad fpecuUtionem fertur I fed ad
fublimia czlefliai]p engaturt Efl autem primus fpeculandi ingteiTus a
uitiis. primam enim cogniuonem efie oportet circa mali naturam /ut
ualcamus ab eo abAinere. Nam nifi ex» piati a uitiis fuerimus i nunquam
diuina attingemus t Vt enim idem fiepu ut icfctam/ negat Dauid
quenquamalcendctepoflc in montem domini/nifi
Ia.P.Virg-M.AlIfgo. cum qui fit innoces ihanibus 8C mudo corde:(^uapp
in foribus per qmt etat in templum aditus homicidiu Androgei: Adulterium
Pafipbzs& Icari faftus i|>onic .Hzc ergo a principio fpeculatur
Aeneas.In uitiorutn autem cognitione 'non cft diutius imoradu.Nam Si
(latim ea noile oportet: & ftatim a noris dilco dere.Rede igitur^
fjrbillaquaiamprarmilTus Acatesacceriieratadmonef Acne asine in tali
fpedaculo Idgius tepus cdterat:Nam excellentiores quoep uiri uad is
uoluptatu illecebris alledi labercnt :hi(i.eoru cura BC Ihidio eam elTent
adrpd dodrinamtqua monemur ut paululu illud uitae ac temporis:quod humanz
ra dcoDccfrum eft non nili magnis & excellis rebus conterendii
ducamus.Hocau tem inter egregiu uiru ac ftuliumintere&.Nam alter li
femel labatur/non facile furiet Altet liquonia corpore uac
animuspauluquandotpeuia deflexerit/ flattm adeft ab Achate accerlita
fjbillatquzad redudeducattledmira profedo poetz ingeniu:qui
fapientiamipGm Tua fapientia nos edocettprima ita<^ dodri na ea efl ut
purgati mundicp templum ingrediamur : Deinde oflenditquiuis mens nollra
quzdam Tua SC a fummo deo fibi indiU ui cognofeere poflit:eogai tionem
tamen diuinarum retum huiufcemodi eflexut nili diuino lumine extu
.tusillulVremur:illamcondperenonpoirimus:Hoccum fit/quis non uidetprz
cibus & ficrificus rem efle a deo petendam: Elegit autem feptem
hoftiastquonii Teptenarium numerum multi pnilofophorum perfediflimum
putauenmttpro ptereatp fapientiz attribuitur:8t uirgo ac pallas
appellatur: Sacrificat igitur fepte qmrapientiioptat: Ne(p temere didum
efl quo late ducut aditus cctu:hoftiace tum:per aditas enim multiplicem
uariamt^ dodrinam expim!t:quaad fapien riam ducamuriHoQiiueroquz quidem
uenientibus:refe opponunt non pat uam in re difficultatem
oflenduntiHateautem non ante patebut : quam id prz dbus ab imo pedore
fufls impetrauerimus.Sumo enim animi ardore & mente illi penitus
deuota fapientia acquiritur: Vt aute Gpientiam aflequamuri promit tit le
templu Pbcebo & Dianz fadurum:fed de templo paulo fupra dixi:huc ue
to quare illud de folido mamiote Fadurum fe pollicetur / breuibus
expediam: marmor res dura ell:ac mirus in eo 6i candor & fplrndor
apparet: Vnde ab eo quod gratei fplendere dicunt nomen fumpflt:
C^uz omnia in ea mente/quz ad Ipcculationem erigitur infint nrcefle eft:Brit
cn m folida ut quemadmodum inunis fludibus fua duririz ita obfllHt feopu^
lusutipfe integer maneat/illi ucto illidantur:difruprir<^/rclidant:ltcmens
nui lis perturbation bus frangaturifed illas frangat: dicimus przterea
aliquid ez fo lido marmore clTe.cumnon marmoreis cruftis externe
exornatum fit ; fed tota cx tnaimore conftet.O uapropter 8i buiurcemodi
mentem efle oportetiut no figna quzdam quibumpientiam exoptet
przfeTat:rcd tota exardefcensilli fetn per incumbanErit itidem fummo
candore nitens: ut nulla fit corporea labe polluta.Q_uo enim
padofplendore carere poflit ea meos cum fapimtiam na qua perceptura
fit:nifi prius multis dodrinis illuflrec%Teplu uero Pbcebo Dia nzip
ponir:qa^ut mo diceba ^ & diuinayt & buanape reru cognitio cft rapictia
Dies aut fcftosfoli Apollini illituit:qauenis cultus foKs diuinis
debctur.polfi ctt & S jbilJz penetndia: in qbus fuz fortes 8C arcana
codanf : Na nifi alta totte I^bct giMrtus. rcpofita maneant ea qax per dodnnam
acquirimus 'ueluti rianai puelfa; alHduo labonbimus:ne<p unquam
pcrforarum uas adimplere uaI(bimus:Q_uapr(v pter 6C uiri ledi fortibus
przponendi funt t Nam excellentes funt uires animi ad bbendx : quibusiqux
didicerimus optime mandentur : Curadum autem in pri Inis ne refponla frondibus
(dipta tradantur: Sed ore pronuntient ur:Non enim JibcUisfiCcommcnUrioIi SCT
edmdafuntquzaddircimus: fed menti: Ne^ ruro (iuleuium flultilium^ rerum eQ
quaerenda dodrina ueluti qui in dialedicorum fuperfluis apdunculis/ac
uanis amphibologiis/autlnanibus fabellis omne pen e tempusterunt:
Vereautem illud didumeftfybillam circa principiuih nondum pbcebi padentem
eflie : Ea enim principium nondum pheebi patientem effe: Ea enim quz
cognitu difficillima funt/fuidpete non ualent noftra ingeniola donec
Apollonis enim eff neritas nos componat : ea enim inffrudis omnia Facilia
redo •duntut : Sed audi quid dicat Ijbilla . O tandem magnis pelagi
defunde periclis: Sed toris grauiora manent : Nihil grauius nihil uerius:
Qui enim omiffa ciuili uitaad eam peruenitiquz in contemplandis
rebuspolitaeffiille relido pelago^ io contipentem fefe recepit : Vita
enim quz in adionibus uerfatur: fluduati ma ti fimiliima eff : Videmus
enim omnia quz in ea aguntur : fottunz procellis ezo polita effe :
Contemplatio autem cum ad ea uertatup : quz eodem femper fe mo do habent:
ne^ in intoitum cadunt in folido hzret: Magnis itacp pelagi pericuo
lisiadatus eft zneas prius quam longis erroribus circumadus diuerfa
horrendao ^ maris monffra uitare potuerit: Diffeile enim fuit ut troianum
incendium ino columis ruaderet : laborioTum ut audelitate atep auaritia
deterritus e tbracia abi ret : In commodum ut ambiguitate oraculi
deceptus in trinacenfem pedem incio deret . Q_uisautem barpyarum foedam
illuuiem non abhomineturrQ_uamuis iter ad Helenum per medios hofies non
formidet . Q_uh cyclopum immanitao tenonconffematurrMariaautemlicula ita
caute obire: utneue Ttyllam neue •baiybdim conrpidati^^ tempeftati a
lunone zolo^ ezeitatz ita refidere:ne nau &agium faciat non hominis
fed herois eff . prztereo quz in fodis in africano Kt« tore paffus eff :
quas ilh fraudes luno parauerit : quo amoris uinculo Dido illiga •erit :
prztereo quz in Sidlia ex incendio nauium damna acczperit: uz om«
nia gtauia ac tunc periculis plena cum perpeffus fuerit: quo nammodoin Italia
duriora paffurus eff : Non tamen procul a uero aberat fybilla : Cum enim a
com muniuitaac hominum coetu te in folitudinem ucndicaueris : tunc
acriores quaf dam uduti faces carum rcrum/quas rcliquiffi memoria admouet
: & illarum de Gdepo acenimi infurgunt morius : At^ cum obliuioni iam
eam mandaffe puta tnus : tum maxime illuum ingeminant curz : rurfufip
refurgens fzuit amor':ut nili firmiffimaancbotaiuuesfundauerit/uideatur
in Afncamrenaaigaturuve Non enim 6C li firmum fit propofitum minime inde
difccderc: tamen ceffat ccr« tamen cum aliud illecebrzolimadzuitz aliud
przfens confiliumfuadeat. Ve» tutin Italiam Aeneas:uenim eo
uimitumgcnerequipurgatoriz appellantur a quibus antea quam penitus expiau
fit mens necefle eff ut acerrimum beliu quc« adsetidum nofftt aiunt
fpiritus aduerfus carnem gerat : Nam quanto magis hzc l^ta humanam
imbedllitatem funt: tantnniainri pcriculoaggtcdimUC.Hu<i
tn la. P.Virg. M^Ahcg Of inaHani enim rodctitemcum
deferimus/aut in ferinam lutam per tninian U atram bilem degeneramuc/aut
heroico robore fupra hominem erigiimjt. Qua propter intenogatus quidam qui
in littore folusuagabaturquicum loquerctot rcrpondi(Tet<p mecuni
loquor* Atqui uide inquit ille ut cum bono homine 1» quaris/& rede
quidem t Non enhn facile SCIPIONE inueniaaqui nunquam mi nus folua elTet
quam cum folui • propter huiufccraodi igitur difficultates ah Sj>
bilJa fore/ut cum in Italiam uenerint dardanida;/ii enim uiri tegregii funt /
nolA uenilTc. Inuenientenimaliumin latio Achillem.inuenientK lunonemaquV
bus non mediocriter uezandi Hnt i Ambitio enim quz ut in lunone ita ia
bello cofo uiro etprimitur quemadmodum troia; & uoluptati
aduerfabatui i fic & fpc culationi quam fibi przfcrri egre patitur
aduerfabitur : Eft autem ex dea natui achillcs / quia diuiiu qux damgenerolitas
in animis noftnsiolita eft t qiuenctni ni parere i omnibus autem imperare
uclit > Hzc ft reda ratione excolatur/ueram fortitudinem parit i lin
autem contra rationem elata omnia in fuam libidinem coouertere
tenet/ambitionein creat t & regnandi cupiditatem t Q^uaproptet tt ft
uehementer degenerer a dea tamen id eft adiuina animi ui origiuem
du.itsNd autem eatolum t quz ucnturanntptzdicitSfbilla : uerum ftcaufain
tantorum malorum profert: Ait cnimuttroiamcuertuntnuptiz mulieris eatdnz:
lic ft in Italia lauinz coniugium bellum acerrimum concitabit t
coniungitur cztemz mulieri animus nofter cum omilla uirtute rebus caducis
deledatur . Q^uapio* pter uoluptas paridis troiam euertit . In Italia
uero cum nondum cupidiutem tc rum humanarum deponere ualeat animus bella
excitantur afpcta illa quidem / fed non in quibus ueluti apud troiam
ruocumbatt fed unde uidor triumphafiy parto regno redeat . Accommodate ut
mihi uidentur omnia hzc inquitAt illud quare didum fit : fed npn ueniiTc ualcnt
non intelligo.NI (i eum qui iam ad fpeculationem peruencrit firmo iam
propolito ce oportet cur illum peenitentia fequatur non uideo t Non enim
infiaot uirum etiam grauem in huiufermodi ftabili propoliro acri fzpe
morfu affici : non tamen ita magnoaf fici puto ut ad pmnitentiam
redigatur i nifi fortalTe hoc didum fu : ut multa per quandam hipctbolcm
t (icenim grzci rupcriationcin appellant / dici confueuere ut ex iis
unbis quibus peenitentia (ignificatur non peenitentiam fed fumma diC>
ficultatemoftcndcreti Ifthuc ipfum inquit BAPTi&TA : uerum uidramus
qd rerpondeat zneas : nempe id quod qui uera dodrina imbuti fuot femper
obfer^ uant : Ait enim fe ita ptzmeditaium uenifle : ut antea fecum animo
omnia euoi uerit . uz enim ante a nobis ptouifa funt ea id fpatium
przbenr/ut antea qui ucniant uel cuitari poflint uel faltem ne
tantum Izdant prouideri : Cum animus ipfefuasuires colligens
tobuftioraduerfus difficuitates reddatur: Nam queme admodum ii boftes
incautos ac nihil tale metuentes inuadamus quamuis 81 Itv co & numero
auperiores flnt facile illos fuperamus. Contra uero uel exiguz eo* piz ii
fpatium ad ea paranda affit: quz prziio conducant lulidii Timo ezcrcitiB
pares fzpe inueniunturific & nos finobifcum cogitauerimus/ quamuis
multa per corporis cogitationem accidere pofTint/ animos tamen czleM
femine oetoa atfi focotdi» ignauixy Ide dederint: aullis laboribus t
nullis
difticultatibiill ul iJi M Stl eu P ffli «I IV.N a id ni ifi m M k d Pf Liber
quartus nuDa foitunz iniutia modo uelintimpediri pofle quo minus in
originem fuam redeant inui<3i ab omni perturbationum prxiio euademus .
Ha»; fecum cu iam diumcditatus effetarneasnonpetitnuncdemumiila doceri. Verum
in limine contemplandarum rerum poAtus ad inferos deduci orat. Quo in
loco quid G* bi ueiit amez ad infaos dcfcenfus conabor paucis abfoluere i
Si pnus quid infer bus fit : Si quot modis ad eum deficendatur breuiter
demonfhaueto : Infemiim igitur plurimis ante chriQianum nomen fzculis no
folumhebrziuerum etiam cgyptii pofuerunt . Q_uz autem poft chtiftum natu
noftra religio fine ulla dubitatione de inferis de^ peenis t quas apud inferos
nocentutn animz luunt / af> firmat ea omnia ab hebrzis ni fallor
accaqrimus.Q^uz uero zgyptiorum monu mentis mandata funt ea primus ad
grzcos tranftulit Orpheus . Hzc deinde fu« is figmentis auxerut plaui^ ez
grzcorum poetis / quorum principes Homerum H^odumtEurypidem t
Arifiophanemm e(Tc uidemus . Q_uos deinde fecuti e nofirisfuntptzter
Maronem / Ouidius mlmonenfis/ biex bifpania Statius Pa» piniusacLucanus :
&quem plzri^ florenrinum fuilfe putant Claudianus: At ii omnes inferomm
ledes fubterraneas elTe & ad cctrum ufip : qui locus in fpe ta
infimus efi portendi aedidetunt: Q_uapropter fpeluncas quafdam ac terrx
hiatus przfemm fi ignem fumum ue euomant ingrmum ad inferos n5 line mu
liercularum ac rotius uulgi fummo afTenfu fabulati funt . Nam & in laconica
re< gionc Tenanis mons eft circa finem malei promontorii / e cuius
profundiifimo antro quoniam fpiritu id agente fhepitus auditur: facile
fuit uulgo petfuadere inde ad inferos defcendi.Acberufia autem palus in
epiro no procul ab beraclea abargiuo ut fauntHerculedidafpccum habet per
quam cerberum tricipitem Plutonis canem ab Hercule edudum crediderit
antiquitas : Nam de auemo lz> cu nihil efi quod referam:
uulgataenimresefi&a pizrifi^ decantata. Ac de poe tishadmus . Plato
uero eadem difciplina : qua & Orpheus imbutus ita fingula
ptofequicur/ut nihil aliud inferorum locum animis noflris efle ueiit quam
cor» pus ipfiim quo ueluti carcere includuntur . Ipfe em'm animos a fummo
deo ae* atos ponit : Q^ui quidem fuapte natura dudi In deum parentem fuum
conuer tuntur. Nec mirum . Nihil enim eft quod in originem luam cum
pollit non re uetutur. Videmus enim(^ut loco exepli hoc ponam}ignem
huc^ut ita loquar^ tenenum/quia fuperiotis ui ac femine genitus efl fuz
naturz impulfu ad fuperi ora erigi . Conuerfi autem in deum animi eius
radiis ita illuflrantur ut ubi hade nus eorum efientia per fe ueluti
informis fuerat : nunc ilb fulgore conformet' : fit 9 miro quodam modo ut
intra animi eifentiam receptus fulgor no ueluti ez^ terna quzclam Si
aduentitia res in ea refideat : fed ad illius capacitatem tradus ob
foinor quidem reddatur : 8C a fe ipfe degeneret : mend autem proprius ac
nattis talis efiiciatur.Q^uaptopter hoc duce in fui ipfius at^ omnium quz
infra fe ezi ftunt: ea enim corpora funt: cognitionem animus uenit: Deum
uero Si aav> ra quz fupra fe apparent: hoc lumine non cernit. Qui enim
fi iamconnamra« le fibi fadum efl ea quz fupra naturam fuam funt/illo
continget : I d tamen men ti noftrz przfiat : Nam per primam hanc ueluti
fcintillam deo propinquior fz> da aliud accipit lumen & clarius
quidem/quo iam czlefiiumquo^ Si fuperna* m ii ~ f l Ia.
P. Virg.M. Allego. nim remm cognitionem accipiat . Sed hxc te
LAVRENTI latere mmitne puto: Sunt enim non folum dode ac diftinde/fcd
omnino dilucide a Marfilio noftro in iis dialogis explicata : quos ille in
Platonis rympolium confaiptos fub tuo no mine zdidit : Q^uos quidem cum
quia ad te funt t tum maxime quoniam pluri mis acfeledilTimis rebus
abundant familiariflimosribi elTe cupio t Sunt illi quidem inquit Verum
przcipue locus ifte menti noftrzhzretsin quo geminum in nobis lumen
elucere demofttat : naturale unum & ingenitum ut dicebas : diuinum
alterum & infufum/quibus limul iundis animi noftri uelu ti geminis
fulFulti alis/totum hunc ruperiorem mundum pcruoLue poiTunt: Ad dit^li
diuino illo femper utantur fore t ut frmpet diuinis bxreant. Infimus autem hic
tctrz locus animante in quo ratio fit canturus uideatur.Q_uod nefiat
efrediuinainflitutumprouidentiatutanimusfui omnino potens flt:ualeat<p
pro fiio arbitrio uel utro<p fimul lumine cum libuerit uti : uel altero
(bIo:propte rea<^ fieri ut natura duce ad natiuum lumen conuerfus fe s
uirefi^ fuas : quz ad fabricandum corpus fpedant/diuino lumine ad
przfensomiflblolum confide.' tet : illafcp in corpore conflruendo
exercere cupiat . Rede ac memoriter tenes inquit Baptifla s confifHt igitur in
czio ut Platoni quem poeta fequitur/placere ui.< demus animus noder
ipfius diuinz naturz contemplatione pcifiuens : Verum il la quam dicebas
cupiditate infedus & ipQi cogitationis mole degrauatus in infe» ra
defeendere indpit .Verum quoniam cum de inferni finibus ex fententia
Plato nisquzritur non fimpicx apud eius philofophi fedatores opinio
cdtnoscam boc tempote fequemur :quam & animorum rationi magis
congruam putamust & dodiotibus magis placere cernimus . Hi igitur
bipartitum mundum ponunt. Nam fupremum czium quod Aplanes uocitatur
dellis^ut cd apud poeta^ardetibus aptum fuperorum regionem ede uolu erunt
:eofq) campos elyfios ac beato Tum infulas nominarunt : Saturni uero
fpera ac fex reliquz quz fub illa funtrrut fufep quicquid fpatii inter
lunam terramc^interiacetripfami^ tenam inferis at^ tribuerunt : Altiffima
igitur pars illa qua uel fubdentatur diuina uel condant/ne dar uocatur i
di deorum potus ede ctedimr . Inferiorem uero Icthzum/ac horni num pomm
dicunt r in hunc enim cum a fupetiori czIo per cancrum ea enim ho minum
porta diciturrprolapfa fuerit anima in ipfius hyles quz elcmctorum ma^
terta ed tumultum incidit: quo in loco noui potus ebrietate degrauata&
ueluri temulenta effedadiuinorum obliuifcitur : terrenatum^ rerum cupiditate
ilie« da ita per fubiedas fperas dclabitur : ut ex lingulis czlotum
ordinibus aliquem cotum motuumtquibusufuradeincepsfitin corporibus
acquirat:Nam ab ea quam faturniamdellam nominant ratioanandi&
intelligendia loue agendi a marte audendi uim abducit : fol uero ut fciat
ut etiam opinetur illi cocedittMox a Venere excepta defiderii motum
mutuatur : Inde per mercurii ac lunz czlos de fcendens ab illo
pronunciandi interpretandii^ ab hac plantandi & augendi uires
acquirit : Ac podremo ad terram ueluti ad centrumtquo gtauia omnia
feruntur delata:6C corpus quafi carcerem uel potius fepulchmm ingreda
iurc apud inferos relegata didtur: Moritur enim in corpore anima uelut in
fepulchto demerfar non ita tamen t ut fauiufccmodi morte extinguatur :
licd ut ad tempus obtusturt Liber quartus quabdo quidem illius
diuinitarem noxia corpora tardatititertenishcbetaat artus moribunda^
metnbra.-habes^fed breuiter^quid Platonidinf^um pu tcnt:& quem
animatum ad ipfum defcenfum ponant» Nam^ de tartaris fabii^ lanturpoetzea
omnia animam in corpore pati manifeftum eft . In materiam enim protrada
nouam fyluz ebrietatem haurit cum illam ueluti flumine dema gaturtFIumen
autem ipfum non line exadarationeinquatuor flumina ac flj giam paludem
deducunt. Lethzu achaonta ftygem cocytum ac phegechotu> tenitMateriz
enim admixta anima eunda quz in czlis uidaat obliuifcitur. Quaproptaiure
lethzum nomen ab eo quod elt. ficenimobbuifei grzd dicunt potare
finxerunt. Ex hoc autem Achaon ma« nat: quzrcs gaudii priuationem denotat:
quafi Nam quod in dd contemplatione purus exiflens animus gaudium
aedpiebattidom ne ex obliuione amitdttquo quidem amiflbt flyx
quamfadletriflitiam intere pretaberis exonaturneccite
efttftygisdemumpoflrema zfluaria coitum e£fi.< dunb Quis enim ex
triftitia in ludum non cadat: te autem non fugit id grz cos dicere: quod
latini lugae interpretantur. Ex diu tumo autem ludu in furoris infaniz^
ardorem inddere roIemustquemphe. gethontem nominant. Ex hyle igitur unico
flumine mala hzcomnja eueniV unt: Quapropternon fine fummadodrina ex
letham reliqua fluenta deriua ci finxeruntrfed hzc in Phzdone a Soaate
latius explicantur : N obis autem de multis puea ad bunclocumtranffnenda
fuerunt :at(^ ea fola quibus defeen fus ad inferos ex Platonis fententia
perfpicuus redderetur: Noflri autem qui ita a deo animas aeari redifljme
fentiunt: ut eodem momento & creentur fi; fuis corporibus
infundanturrnon eas in hoc inferiori mundo uerfari uoluerut: ut commifla
purgarent: Quid enim fi ante corpus non fuerant : extra corpus peccare potuaunnfedutfuisrcdis
adionibus: quas omnino liberas habent cz« Io aliquando frui mererentur .
Conceflit enim nobis deus : ut noflro arbitrio Ii' bere utaemur:non ut
per nequitiam delinqueremus: fed ut per religionem fi; iuflitiam nobis
fummum bonum acquireremus: Verum cum perfummam fiultiriam illud
negligcntes corporeis tetrife^ uoluptatibus dciiniti maximis ua nilc
fceleribus coinquinemur oportuit efle locum ubi a corpore digreflx buiuf
cemodi animz fuorumfadnorumdebitiflimasposnaspcrderet.Himcautc lo cum
arca terrz centru maxime eflie uoluerut:Na cu fi; propheta eripuit deus
ani ma mea de iofernoinferiori dixerit fi; ipfc humani generis faluatorfe
triduo in corde terrxfuturuadmouerit facile couincitur centru eflctNihilenim
eflcctro infcrius:quin fi; ita in medio terrz confiflittut in medio
animante cor efle uide musiQ_ua in parte fi; tenebras exteriores/quonia a
luce remotiflimz fint:fi; de tiu flridorc quonia nulla folis uis illuc
defeendat efle nemo negauerit.Erit igitur in terrz cerro infernus:fed ita
erit ut etia ex iis quz fapietiflime a Gregorio colli gunc ad aere uflp
huc ex terrz fi; aquz caligine cralTioreptcdat^.Acrp deiferno hadenus ad
illu aut aias defcedere oe fere hominu genus dixit. Sed tn aliud alii
fentiut.Na przdpitatio illaaioru afuptcmoczloin hzc corpora ad inferos de
fccofuscdea Platone acdicuitCbriflianiuaofczleflo^ animasc
fuiscoipotL In.P.Vtrg.M. Allego. busad inferos trahi admonent.
Dicimus itidem uiuentes homines cuminid tialabuntur/ad inferos rueret
Sunt quoc^ qui credant magicis artibus 6: cat minibus fieri uelutidefcenfus
quidam/ut inde euocarianimx poflint. Verum praeter bos
quatuordefccfusqnrus quicftnonuideir omittendus: Na £( ad in« feros
tendimus/cum lumen rationis noftrx ac induihiam in mali ac omnium oitiorum
naturam fpeculandamdeiidmus. Ego igitur libenter de te feifeitoro
Laurenti cum haec omnia perceperis quid putes hoc Aenezdetcenfu Virgilu
um exprimere uoIuifleTlamdudum quid agas uideo o Baprifta inquit Laurcntius/ac
pro eo maximas tibi gratias habeo: Quis enim non uideatuni. Uetfamhanc difpuutionem
nonfolum meisptzabusdatam/uerum etiam a me fratremij meum erudiendum
elaboratam : 'Nam fiCli caeteri t qui afTunt omnes mirifice tua otatione
deledcnturt tamen eft eorum ztas ac dodrina huiufcemodi t ut etiam fine
duceipfi per fe hzc omnia cognofeere ualeant. Hos igitur duos erudiendos
cum fuiceperis : propterea^ rede netan fecus quz hadenus difputafii
teneamus / nofie cupias fine ulla cundationequaxd. rogaueris / cerpondebo:
fic enim & errata facile emendare poteris : 8i fiqd rede teneo id
tuoiudicio confirmatum firmius hzrebit. Petit igitur afybilla quam tu iam
dodrinam interprztatus es/ut ad inferos K ad parentem dedo.> cat:
Q_uod cum petit oftendit mentem przmonfitante ipfa dodtina in fem fualitatem
defcendece . Vult enim nitia quz ab ea funt penitus cognofeere: fed uide
quantum tibi ex hac difputatione debeam : nam non folum effeciftt ut hzc
a Marone diuinitusdida tenerem: fed fimilitudine rerum admonitus ia
quidfibi nofierquoi^ Oanthesuoluerit facile coniedor. fed de hoc alias:
Tu ueto fi placet ad reliqua perge: Rede tu quidem inquit
Baptifiainterprztaris; Me autem tuum ifiud ingenium ac iudicium fummopere
deledant: Verum audiquidilli auaterefpondeatut.ln primis enim defcenfum
ad infetosnul'. lius negocii eiTc demon(lrat:cum nodes diefc^ datis ianua
pateat : Q^uod pro fedo nimis etiam q utilem uerum efi: Naracum procliues
ut fenexquo<^Te rentianus conquzritur a labore ad libidinem fimus /
facile in uitium labimur. RcdilTime^ illud ab Hefiodo Redifiime quo^
6i illud uel claufis oculis illuc defeendi: Nam fiue delinquendo in
uitia labimur ? [uoniam id per llultitiam fit: llultitia autem
rariflimi carent; quid obfccrote acilius inuenies : fiue:fed t^iquos
defcenfus nunc mifibs facio : quorum pro cliuitas pcrfpicue apparet : Id
autem de quo nunc agitur : quis non uidet . Mentem ipfam ac rationem
facile in cognitionem fcnfuum dcfcendcre.Ma ximum autem fit periculum ne
dum cicca lingulas corporis uoluptates uer.> famur / ita illarum
illecebris demulceamur / ut irretiti hzreamus : Facile igi.> tur
fenfus defeendit mens / non autem facile a fenfibus rcuocatur.Id enim
eftab inferis redite: pauci enim quos zquus amauit lupiter: aut ardens euexitad
ztheca uirtus diis geniti pomere : Tria ut uides hominum gene<a ra
ponit quibus liceat ad fuperos reuerti: Sed nos prius de duobus
pofirei> mis dicemus : cenfet Plato quod paulo fupta explicatiur
demonfirauimus animos nofitos rerum terrenarum cupiditate degrauatos incorpora
dcfixt> Liber giiaituf Jcre : (Quapropter qui prius
imbroda nedare<p ueTccbantunid enim eft deo 'fiuebantur t atqi inde
mirum gaudium Tumebat t nunc letheum rpoti in re» lum omnium obliuione
mnli Tunt.CQuod (i intra corpus conftitutus ani^ musillius cogitatione ac
fordibus inquineturttamdeoiis tenebris obducitur/ utnulla deinceps fpes
(it ad Tuperiorem lucem redeundi: Sin autem TcipTuni infccoIKgms integre
cafte^ degat: 6ecorporis quoad potedeonfotrium de* clinet ipauladmcz illa
obliuione qua ueluti crapubuino(p opprtlTus obdor» tniTccbat
Teexatansualet libi geminas illas quas iam totiens nomino alascom patate.
Illis autem fuffultus facile ex inferis reiilit: &ad Tuperos rediens iii
re gionemfuam reuolattper duas igitur alas totidem uittutum genera
intclligi mus /& eas quz uitx adiones emendant: quas uno nomine
iuftitiam nun» cupatt&eas quibus in ueri cognitionem ducimur: quas
iure optimo religio» nem nominat. Illud igitur pauci quos ardens cuexit
ad aethera uinus:alam primam exprimit : & uittutes qux de uita &
motibus Tunt intelligit: cumde indeaddit diis geniti potuere SIGNIFICAT alam
secundam :at<pipfam rrligionem quamexuirtutious iisquxad uerum ducunt
conftare uul: Placo : Hxc itaip auntopbilofopho mutuatur Maro cuius
quidem dodrinx non nihil ex ma» thematicorum fcntentia ita addidit : ut
nei^ ius Tuum ac libertatem animis adi merctmeip cxleftia corpora fuaui
priuaret:Nam li animis nolitis uimnecef» Utatcmqi f/dera afferre
dicamus/non modo id in religione noflra impium eiitr fed 6t a Tummorum FILOSOFI
dodrina abhorrens : Verum ut intelli» gas ntip hoc a Platonico dogmate
alienum elfe / refert ille in Thimxo ratio» naiis animi effedionem nulli
nili deotribuendamiquoniam ipfe eiTentiam ac ^ rationem animorum
noftrorumcreat.Corpus autem ac exteras animi par» tcstuteaeffqux
concupifeit flC qux irafdCur nos ab animo mundi mutuarie Q_uapco{aer St
li mens ipTa nolha nullo fyderum imperio fubieda Iit : tamen quia nullam
adionrm ex iis unde uirtutes uitiam manant nili per fenTus ac ap» petitum
exercet: Illis autem quoniam a corpore funt uacias aut ad uirtutes affe»
dionesiauc in uitfa prcKliuitates inferunt fydera /permulti interelTe uidet ur
quo fydere nati fimus:Nr<^ folum ad bxcqux ad uicam & mores
pertinere diximusr ucrum d ad ea qux fpeculationem K ueri cognition cm
refpiciunn Nam li on» nes omnium animi eadem natura funtiunde nili a
corpore eritrquod alii inge» nioiudicio ac memoria excellentilTimir xillanttln
aliis hxcnulla appareanc: cu autem omnis nofira cognitio ab iis qux
efficiuntur ad cfficientiatn:& ab iis qux loco 8C tempore nrcufcribu Dtur
ad infinira initium fumatrmulta obiicinir dif» licultas animis noftristut
intelligentiamut feientiam ut fapientiam alTequanturt cumuircsillx:qux
paulo ante dicebama membrotum : quibus ueluti inftru» mentis utuntur
deprauatione bebercant : nei^ fe explicare poflint: cura igi» lurapud
Platonem ruumlegilfet Maro nili geminas illas alas recuperemus ad Superos
redite non poffe : Cum itidem illarum recuperationem a fyderibus caquam
oilendi ratione impediri aniroaduerterctiut a loue xquoamarrmur opus ciTe
ofiendit . Hoc autem nihil aliud eft / nili ut benignitate fydaun»ffcdionca ad
icdaa adiooa acdpctcmt^Natacum plancutum uuia uiafit ,1 In.P. Virg- M.
Allego. Videmus iouis natura hulufcemodt elTc: ut quos ille in fuo
ortu benigfle a(^e dt illi ad iuftitiam ac religionem proni reddinturrita
ut ad eas quas diximus alas recuperandas impelbtr colligamusigiturnetnincmabinferis
rcmeate/nili al^s recuperet : id autem non clTe fadlc nili iis qui
benignitateiiderum adfupera eti guntur . Sed quid tu.L.Marfilium intuens
clanculum rubmurmuraftit Nempe id Tolum refpondit.L.quod paucis ante
diebus cum T imxum Platonis in maoi bus babetet:mibi de anima mundi
dixerat Marlilius > Cautius inquit.B. mihi progrediendum elTe
uideorcum res nobis non modo cum dodo : V erum etiam cum mcmoriolo
litifed quod de mundi anima dicis/id 6L uerum huic lo> co
apprime quadrat : cenfet enim PLATONE rationis fementem a deo
fadamianitnof ^ nodros ab ipfo aeatos/ac deinde mundi animz ueltiendos
corpore traditos: ut £2 corpore uedircntur:& eius pedilTequis uiribus
informarentur: Aequum enim fuit:ut quoniam concupiTcibilis irafcibilifi^
appetitus (alutis corporis gra na func:ii ab eodem nobis darenturtqui nos
corporibus inclulilfct: Vetumquia faz partes lubricz funtipat fuit: ut
qui nobis illasin deterius facile labeutcs dedif fet idem ipfe aliqua ex
parte aberrotibustueretur: labenter<jfubdetatct.Q_u3' propter iuflit
illi fummus pater/ut quando ipfetccirco animis nodris caufaffl
obiiuionisptzditiir<t:quoniam luteo corpore circundederit hominibus
fulgo, rcmueriutis infunderet. Huiufcemodi ita^ przccpbs obtemperans
mundi animus eos omnes quibus zquus ell/aut fomniis oraculis &
portentis autio. terao quodam motu Si ad futuri prouirionrm:6t ad diuinz
legis cognido. nem perducit : ut eo duce alas
recupctcmus.Huncautemmundianimumue tetes theologia qui illos fccuti funt
Platoiuci fzpe louem appellant. Hinc pbcus lupitet inquit pnmogenitus
eft: Iupiter nouiflimus; lupiter capui:Iupb ter mediu.Vniuctfa autem e
loue nata funtihinchinc illud lupitet eft quodeo. uides quodeun^ moueris i
Q_uin Si ipfe Maro A ioue principium mufz io. uis omnia plena. Sunt enim
omnia plena animo munducum ijle ita totus in to to mundo fl£ in qualibet
parte totus : ubi uigeantutnoftrianimiin fuison. pufculis : Hic deniip
czlumueluti citharam continens harmoniam cfificit ex di uerforum czlorum
fanis: quas cum mufas appcllentiute louisiiliz dicuntur eiremufz:Q_uantam
igitur dodrinamMato tribus uerfibusincluferit/ facili, tis mente concipio
: quamuerbis exprimam. Rede igitur pauci quos zquus amauitlupiter: aut
ardens euexit adzthera uictus. RedefiC illud tenent nia liluz: Ab hyle
enim(^ ut fupra dcmolhauimus ) eS omnis nodra duldtia & omnibus
ahimisconugio: quibus impediantur ne ad fuperos redeant. Ve tum de
remeandi difficultatibus badenus: Deinceps nero eas exponit rationa
quibus ita tuto defeendamus ut pateat reditus: Aures autem
lamusfapientiam nobis indicat dne quanonedfpcculado eligendarum
agendarum^ rerum iu dex . Ne mireris aurum fapientiz fymbolum apud hunc
poetam obtinere cum plzii^ idem faiptotes fecerint: Vndeillud bpiens
aurum & multitudo gfmmarum Si uas pretiofum labia fdentiz: Aunim enim
eft fapientiz uigor at(j fulgor. Ndium cx metallis auro pretiofius eft. Nibl in
rebus entia pluris facieadum. Fulget maxime aunim. Nihil (apimciacll endi^ i (i 01 ik IXI BS XD u m uv mt Bd: od Nx m HC pn ioqi iHgg imcttdi di
dux BOC (jB) da. Bidi BUi liuBi
Btit imt « D! feuii Uni
OlC Wl D« Lib«r guartui £iu. Nulla eni^oe exeditur aurum:
Nulla rea imminuit fapietitiam t Nullis lordibu saurum coinquinatur t
Nullis maculis Tapicntia deturpatur t Sed latet arbore opaca: mulus cnim
ac uariisinfeitiz tenebris ita obruitur uerumft luco ca cnimcorpons^uc
ita ioquar^bebetudo eft ita tegitur t ut difficile omnino (it illud
erueretScite enim Si a Ocmocrito ufurpabatur natur^n in profundo ueri^
tatem demer(i(fe : Non tamen prius in hanc contemplationem defeendere uaW
mus : quam aureum ramum deccrpfciimus . Proferpina enim ad fe ire quempi^
am (ine huiuCcemodi munere uetat . Efi enim profeipina ipfa animi pars quz
ni bil przter lenfus contina : ad quam (i (ine fapientia accederemus
nullum przte» rearemediumdarcturiquomuiusdenobisadum ei Tet.llla enim
irretiti nulla unquam effet fpes redeundi . Rede Si illud piimo^ auulfo
non deficit alter au« reus I fe ip(a enim alitur (apientu : at<p
cuenit inueffigando/ut aliud uerum ali< ud aperiat: nec quicquam
percipiatur: quod ubi perceptum (it ad aliud percipi* endum non diKat :
Illud autem quis non uideat de uero uenifime didum elTe . Nam alte
inuefliganduse(l.diuina enim &czleffia(^(i ueru inuenire uolumus^ non
infima hzc at^ aduca infpicienda funt : omnis enim dodrina a frientia ex iis
efi: quz nullis terminis circunictipta funt&in interitum non
cadunt:lubet ptzterea iam repertum rite a nobis carpi : & iure quidem
ita iubet . Nam nili cer* so quodam otdine pergamus/nibil unquam
proficiemus; Addit enim poffremu illum facile te fecututum i (i a fatis
uoceris : fin autem non uoceris : nec uiribus tunc nec duro ferro
polfeconuelli.Virtutibus enim quz mores corrigunt Si quz tedum zquumij
relpiciunt ualct omnes ira animum a fordibus purgareiut mu di e corporis
migrent : Ad fupremam autem illam rerum cognitione uenire pau ds ommno
datur : at^ iis (blis qui a facis uocantur . (Quapropter rede (i te fata
uocant : Q^uod tamen ut planius exprimam /uolunt Platonici deum poft fe
ip* fum cognolcere . Deinde omnes reliquas res : Tertio autem loco ea
eunda effice lequz cognouit : Poftrema ergo hzea fecunda : Secunda rurfus
a prima depen* det . Namomnes res ptodudt quia illas nouit : Nouit autem
nulla alia ratione : nili quia fe iplum in quo omnia funt contemplatur .
Huiufcemodi itaip ordine rria illa in deo ponunt iu ut pdmam fapientiam :
Secundam prouidentia : Ter* tium fatum nominent . Chnffiam autem cum haec
eadem (nt fallor^fentiant:Fa ti tamen nomen uiz ponere audent : non quia
Platoni irafcanturifed cum uidif fent clfe quafdam in pbilofophia
familias : quz eam fato necelTitatem imponat: ut nullam io adionibus
nobis decernendi libertatem relinquant fati nome odif fe uidentur. At nos
eum quem paulo ante dixi philofophum fecuti dicamus de* um retum caufas
id cft fe ipfum confiderare : Ddnde ortum ordinem : ac deni ^
gubematiunem rerum quas compleditur intueri t (Q uz ddneeps ita omnia
excquitut ut nullo mexio ualeat impediri i (Quam quidem rem fatum dicunt:
Q_uod fi ita eff uon abeiiant qui dicunt rationem ac ordinem rerum : quam
ita mente dd prouidentiam dicunt in rebus mobilibus ac loco Si tempore
dteuioi* pds fatum did.Te itaip fi f^ta concelTcriiu camus aureus uolens
fadiifcp feque^ c Datur igitur pauos Si id diuino quodam extra fortem
munere ab ipfa dei proui dendatcuiusconfilium ferutati nefas bomini
efirReduscoim dotdnus & reda Jn.P. Virg. M.AIIfgO*
confiliacius t fed qux mortali ingenio cotnprzhendi non poirint.Q_uis
rniffl adeo temerarius: ut noiTe contendat cur loanni: cur Pauioapoftolu
caapcruc« rit dominus : quz multis fandifrimisuirts& multa dodrina
illuftratis detegere coluerit : Q_uod exemplum late patet & ad omnes
qui in aliquo dodrinz gene te laborauerint ttanffetri poteft t ut cum
multa eodem (ludio dagrauerint t eatu dem^ operam ac laborem impenderint
alii fummum in eaatte attigerint: aliis autem uix in poftiemis confidere
licuerit . Habes quid aureus ramus meo iudb cio fibi uelit : Q^uod autrm
ad miferi funus pertinet (ic accipe . Mileri odiufa Ia us rede
interpietatur . Q^u ipropter erit eadem inanis quzdam gloria-Snt enim
fummo odio digm qui uiitutrm negligunt : unde folida exprrflai]^ manat
glo> tia . Honores ueto ac reliqua uirtutisiDfigniaredantur:Q_u 'm qui
in uita ct» Ulli res egregias adoriuntur in primis captare cunfueueiunt.
Hi cn<m non redi honedii^ amote : fed gloriz cupiditate laborant: quam
dum aSequi cupitmuS rem publicam fzpc perdunt x&infummumouium odium
incidunt: Egregie igitur luuenalis. Tanto maior famz (itis ed quam
uirtutts. Huiurccmodiigb' tur uiri animi excellentiam (iue a natura fibi
in litam/(iue indudna/atcp exetaca Cone comparatam penitus corrumpunt.
Non enim uirtutera ammt.^cd uita tutis infignia i qua; fzpius malis quam
bonis exhibentur . inanis igitur atip ad» umbrata gloria in rerum
publicarum adminidrationc exceliintioribus ferop ada hatret . Q_
uaproptet Hedoris quotj comitem mifernum fuille tingit . bi enim caritate
patriz magis quam cupidine gloriz moucretur huiufctmodi uiri beatifa
(Ima; omnino ciTent ciuitates : quibus illi przcfTcntiQ^ut igitur ad uitiorum
fpe culationrm ea gratia tendit: ut fe ab illis explicet : cum in primts
hu.ufcimodi gloriam abiiccre necciTe ed :Q_uaproptcr rede eo tempore
roifcrnus extinguitut quo zneas a fybilla prxeepta accipit . I nitium enim
ueri inuedigandi a onlctni m tcritu optime funiitiir : Ncc tamen fatis
fuerat illum extingui :nift etiam fepelu tur : ut nufq jam urdigium
illius appareat : nec unquam reuiuifcat : Q_^uud au tem illum tubicine
fuiiVc dicit : optime quadrat . Ed cnira huiufccmudi hutni« num : ut rrs
a fe gedas quam latilVimc diuulgmt : Si fuo przconio ommbus ofle dant :
Ed prztcrea zoii uentorum regis filius:Nam nibil uentoltus ed illi qui ne
gleda uirtute tc folida & cxprelfa adumbratam quandam & penitus inanem
glo riam aucupentur: unde & tumidi & inflati Si uentoli dicuntur
. Rede Si nlud quo non przdanrior alter aere ciere uiros martemtp
accendere cantu.Q_^uid eni aut Ninum aut Cyrum aut Xerfem ut hos folos de
innumeris aflaticis regibus te feram : quid qua;fo aliud impulit : ut non
contenti patriis Enibus multis popu/ lis ac nationibus beilum inferrent ;
Q_ uid apud grzcos fpartanos aut athenieo' fescxcitauit ut magnam Aftx
partem ruoimpetioadiungerent: QuidHvnni' bali ruafit ut bifpaousgalliift^
fubadisromam orbis caput peteret: i^uidapud njod(os.L. Syllam prius ac. C.Marium:
Deinde luIiuro Czfartm.CD.^PompC'' ium ac podrcmo Odauium K.M. Antonium
eo furore accendit ut ciuiltfaogui occunt^ replerentur nili infanz quzdam
famz cupiditas. Cum gloriam miis rebus quzrerent: quz dolidil Timum
uulgus dupefeere quidem cogant i fapicn Us autem ad iuihfumam
indignaiioncm fummum^ odium concuent t at Q C*1 Gi d DCt
BIB I» '1 ip» a» K*» , tUH cnu
cpi)iii 100 ad siil itd
id* ^1 afi \0 «? |lP< <« Liber
guartui mo tnodo ipfe malus non Ct huiufnmodi uiros bonos dixerit. Sed
quid (i o{v dtni que^ m hominum Ibcictatc uiti : ac pro re publica emoti
ptomptiilimi prz ter id quod patriz caritate in manifedifTimam mortem
ruebant igloriz quoq; cu piditate extremum cafum zquiore animo ferebant :
uis enim ftbi perfuadeat aut Thcmifiocicm athenicnrcm in nauali
prziio apud Salamina gcflu t aut Epa« minundamin ea uidoria qua de
Lacedzmoniis potitus efiraut Spartanum Leo eidam in tbctmopylisuirilitcr
pugnantem nihil de gloria cogitaffe. Ego enim oet^ Brutum lingulari
certamine aduerfus regis exulis filium concurrentem : ne a Sczuolam tanti
animi confiantia dexteram exurentem: ne<^ Decios illos in co jf^ifimos
hoftes iiruentes : ne^ innumerabiles alios qui patnz libertatem fuz nitz
prztulerunt famam quam de fe pofieritati teliduri elTent nihil unquam fe*
dlTe arbitror. Sed nos in re omnibus manifefla nimium fortaffe moramur.
Ita« ^ redeo ad mifemum qui cum tritonem deum prouocare audeat : iute
demens appellari pofTittQ^uid enim fiultius quam (i inanis hzc gloria a
caducis ac cito perituris tebus ptofeda audeat fe illi : quz uera eft
& a diuinis rebus proficifeitur E fumtnam temeritatem
zquiperare.Q^uapropter facile ab ea obruitur. Sed cad rem noftiamtReliqua
autem quz circa funusdeferibuntur hidoriz attp aurium uoluptati
concedantur . Geminas autem columbas geminas illas alas qs d o
fupra diximus intellige . Illas enim ducibus ad contemplandas res tendit
: t autem uoluaes ucnetis: quia oportet illas elTe ab ardenti amore : Nec
iniu tia matrem inuocat : Nam tantam difficultatem nili rapiat amor
facile fugiut ho mines < Illz autem non femel aut uno impetu/fed
paulatim uolando ad locu du eunt : Non enim hominis ell omnia momento
uidete : fed ratiocinando gtada« timacognitisad incognita
uenire:Seduidcquidfequatur:inde ubiuenere ad fauces graue olentis
aueroi. Tollunt fe celeres liquidum^ per aera lapfz:
Sedibus oputis geminz fuper arbore fidunt: Nam quz ad
cantarum raum cognitionem duces fe przbent/eas rerum terrena^ tum
contagionem id enim ell auerni teter odor celerrimo uolatu effugere opor«
tet. Duplex igitur uirtutum genus nos ad ueritatem ducit: quam fine mora
ra.> pit zneas / ut eius luce ea quz per infernum obrcutiffima funt
cernere pofTit.De ioiprio ucro auerni naturalem lod litu demonftrat. Ne
efl quod faaa ab znea petada in feriem noflrz fentenriz digerere
laboremus . Inferuiens enim fuo ar.> gumento poeta eorum lacrorum quz
ad ncaomantiam adhibeant ueteres expli cat. Q_^um autem zneas nudo enfe
Iter aifumere lubeat 6C fi hoc in Ilfdem facris obferuare confucuerint :
tamen admonetur ipfe ut robuflo animo rem arduam acediatur . Aeneas ita^
ducem haud timidis uadentem pafltbus zquat.Nam quis non uideat : quod
dodrina aliqua nobis oftendit id quam celerrime quam oiligentillime effe
arripiendum. Erat autem iter per obfcura : uel quia ut dixi ue ritatem in
obfcuto ab&rufit natura : uel quia uitiorum fedes procul a luce funt:
Q_ui enim rationis lumine illuflratut : is & uerum cognofeit /dc rede agit:
illam autem qui amiferint fua natura ignorata in ultia Incidunt •
Appellat przterea do plutonis uacuas & inania regna . Q^uo quid
ucrius dici poteftfEfi enim u ii 1 1 I!’,! i;l I
* i'i In. P.Vir g.M, Allego. nudiuftertius manifeiHs
rationibus ronuidum mala uitiatp nihil omnino ef fe; quando quidem nihil
afFcrant/fcd bonum pellant. Hoc cum prudens ue hemenf^ uates Perfius
intelligeTctrgrauilTime in eam exclamationem proru/ pit/O curas hominum
/O quantum eft in rebus inane :Vt autem quale eflet ad uin'a initium
expreflius poneret oftendit in tantis tenebris non nihil tamen lucis
apparuilTe.Nam 6C Amentis carcitate in uitium labamur a tamen circa
principia non omne penitus lumen tollitur: Prius enim incontinentes
cAicif mur quam intemperantiam cadamns.Miro autem iudidoquz
fequunturin inferorum ingreAii ponit: Si enim exfententia eius quem
fequitur Platonis deicenfum animorum in fua corpora defaibit / manifcAum
eA animum qui badenus omnium horum malorum expers fuerat in ea nunc omnia
corporis contagione incidere : Omnes enim perturbationes inde fentit:
Luduenimea riA^ angitur. Impendentia timet imotbos laboreAp experitur :
fame anp ege^ ftate urgetur : omnibus denitp quas ille enumerat
calamitatibus prxmitur : quas a corpore liber expertus unquam fuerat. Sin
autem prolapfum animor rum in uitia huiufcemodi defcenfu interpretari
uolumus non multum diuer fa ratio erit : Q_ua; enim res tanta ucloatate
commilTum facinus confequb tur quam fadi pernitentia . Q_u.r autem
pernitet is Ane ludu effe non po# teA . Adde quod confeientix Aim ulis
affiduo purgatur neceAe eA : Vrgent enim illum a Aidux curx : qux ueluti
ultrices furix poenas Aagiriorum feueriAune extinguunt: uod quam dode
quam eleganter quam expteAe pofuetit lu' urnalis quxfo recordamini .
Exemplo enim inquit ille quocunip malo cotn* mittitur ipA difplicct
autori prima hxc eA ultio: quod feiudicenemo nocens abfoluitur. Ac paulo
poA; Nam fcoclus intra fc quicun^ cogitat ullum fadt crimen habet. cedo A
conata peregi perpetua anxietas nec menfx tempore cef fat . lure igitur
ultrices curx funt in ucAibulo poAtx : Nec mirabimur A paU lentes
habitent morbi oim Aoicorum acutiflimas argumentationes intelli^^ mus.
Aiunt enim quemadmodum temperantia fedeat appetitiones: &cmcit ut
illx redx rationi pareant iconfcruat^ conAderata iudida mentis : Ac huic
inimicam intemperantiam eiTcieamcp omnem animi Aatum inflammare cd
turbare ac incitare : eoq; pado omnes ex ea perturbationes gigni . Nam
ue» luti cum fanguis in corpore corruptus eA: aut pituitabilis uere
redundat morbi xgrotationcr(p nafeuntur: Ac prauarum perturbationum
diAotunta animum fanitate fpoliat : uehementerep petturbat : ex
perturbationibus ue» ro morbi conAciuntur qux illi uocant : deinde
xgrotationes qux appellantur. Quapropter perturbatio quia
inconAanter turbide^ fe iadant opiniones in motu femper cA . Verum cum iam
huiufcemodi furor ac mentis concitatio inueterauerit : &tan quam in
uenis medullif^ infederit : tum exiAit motbus at^ xgrotatio.Na cum ex
falfa quadam opinione qux plus tribuat diuitiis quam tribuendum At
pecuniarum cupiditate inflammemur : nec adhibeatur continuo Socrati» a
quxdam medicina : qux cupiditatem extinguat manat illa in uenas efficit»
^ cum morbum at^ atgrotationem quam auaritiam nuncupamus. Rede to Liber
quartus ^detn demorbis ut mibi uideris inquit Laurentius &|ad
locum eiplicandum appoiitet Non enim philofophi folum / ut tu probe demondraui:
Sed & oratores BC poetx non corporis folum fed & animi fcpiflime
morbos di« eunt . Ergo ut morbos inquit Baptifta ad animum ita SC fene
Autem reAe refe ternus. Nam cum ipfe adcmrobur<p mentis ueluti
iuuentutem admireritt& ignauia ac torpore quodam ueluti fenio
tabefeit/ facile in uitia: ha;c autem motsanimotum eS/ eum adere uidemus
. Mala autem fuada fames quidnam aliud quaauaritiadefignat: qua homines
ad omne facinus impelluntur.' Q_ua; nam enim res alia nobis fuadet aut
iniuftilfimts bellis innoxios populos iacef (iere I aut caidesiK rapinas
exercere: aut inlatroaniis grafTati:aut uenena pa« rate: aut fidem
fallne: aut patriam at^ dues prodete:ni(i auri facta famesf Quod quidem
fi ita cft eodem quo<^ in loco erit ponenda turpis zgefias.Cii cnim
homines paupertatem: quam nemo fapiens turpem exifiimauit turpilTk mam
putent :eam^ ueluti fummum malum exhorreant /nihil repugnat: nui Ius
pudor obftat quin quo illam fugiant/ omnia uenalia habeant /nec abfunt
tembile suifuformzletum^ labof^: Namquialuccexulcsinhistcncbrisuer fiintur: nihil
praeter defidio fumooum quaerunt: Nec meminerunt homines adagendum ati^
fpeculandum natos nullum laborem/qui quidem honefta^ dadiunAusfitelfe
fugiendum: De lato ucto fic accipe. Philosophi qui dt« ca prudentis
acquifitioncmuerfanturanimaduettunt corpus fi fociumad rem agendam
afiumatut maximo fibi eflie impedimento: Sensus cnim qui a.cor< pore
funt nihil in feueritatis: nihil fincen/utrcAe dc his rebus iudiute uale«
ant in fe continent ; Ex quo fit ut animus fi illis ad inueftigandum
utatnrtfzpe dedpiatur:& illorum illecebris ebrius nihil ptofpiciat .
Q_uapropter mentem quam maxime pofliint a fenfibus: BC a corpore
feuocant. Aic cnim in eo qui phe don inferibitut Plato nos tum denii^
beatos futuros fi a corporeis abfirahamur: ac deo fimiles reddamur . Hoc
autem quid aliud qua mori effe dicemusrQ^ua propter fijhuiufcemodi uiri
dum uiuunt mori medicantur: uenientem nemor tem illos trepidaturos
cenftbis.''Stulti autem qui nihil przter corpus nouerut: iniquifiimo
animo illud difiblui patientur.ReAe igitur is quem totiens nomi* no Plato
[PLATONE] ut illos philosophos sic istos philosomatos appellat. Quz omnia
ca probe nofiet Maro non illas terribiles formas elfeifed uideri
terribiles dixit.Re fiquaueroquz enumerantur &fopor& mala mentis
gaudia ac poftremo bcU luni/funz BC difeordia ad eandem rationem quicun^
uel mediocri ingenio uir fuenc facile referet . Nam qui in uitio eft is
tanquun fomnolentus ad omnem honefiam rationem obtorpefeitrNe^ ullam
uoluptatem nifide rebus turpi.» bus capit . bellum autem ac difeordiam
non modo cum aliis : fed fecum geritt cum aliud libido aliud auatitia
fibi uelit.Oefidia illum ad odum : ambitio uero ad labores aduocet.Q_ua
animi difira Aide ueluti furiis exagitatur.in ultimi au tem deferiptione
idem quod BC paulo fupra ofienderac pulcherrimo nuc ac om nino poetico
figmeco depigit. Ipfa enim in medio polita magnu fpariu occupat:
fhiAaautnulluprzbctifedfola umbra nosdeleAattfic turpe facinus ea no«
bisonditiquz nihil folidi habcatifiCquzcu magna uideant /nihil finttut
phip Ia.P.Virg.M.Mlego. gii zfopi ncmplo telido
corpore umbram fedemur > Q^uod eo quo^ ezprcC> fius notat ciun
addat in Hngulis frondibus (Togula inlidere fomnia: at^ ea quidem uana:
Nihil leuius/nihil mutabilius eft frondibus: Ea autem in qui< bus
fummum bonum reponunt ftulti:& quorum gratia rapinas fraudesmul
taipalia flagitia patrant: ut honores diuitias ac reliqua alTequantur: in qua
fot tunastemeriute pofTta Ht/SCqua facile mutentur at^ defluant: nemo eft
qui ignoret: Q_uz etiamuanisfomniis uerilTime comparantur. Sunt eodem
in loco plurima monflra non temere polita: Nam (i ca monflra dicimus
qux przternaturx legem eueniunt/ eunda flagitia ueio nomine monflra
appellax buntur / cum pmer rationis legem qua lola homines fumus
exoriantur.Me fito autem Ixionis filii putantur centauri : nam ille
contempta iuftitia abm« pto^ humanitatis uinculo populos libetos iugo
tyrannidis oppre(Tu:Q_ua^ propter eius cogitationes apnneipio aliquid
humanitatis przferentes inim« manitatemat^ eficriutemquandam tandem
degenerant: Non infdte igitur Plutarchus dimonflrat / huiufcemodi homines
tanquam fimulachro uirtu» tis adhzrentes/ nihil ITncerum/nihil tedum/fed
mixta omnia at<p nota face* re: Cum fuam quif^ uoluptatem
fequatur/fummis petturbationibus ad fu* os impetus delatus: Prolixior
limqua rerum multitudo poflulat: 11 utran^ fcyllam profequar:in iift^
nimias cupiditates exprimi oftendam: nam Hy* dra ad dolos fraudefi^
referti facile potcft.Fuit enim Hydra Platone tcllefo* phiflaalidillimus:
nam cuueri inuelligandi duplex modus fitpetuetas alter alter pa
fophiftiasrationeshydracauillofasatq} deceptricesargumentationes ponimus:
Cuius uno capite czfo plura renafeantur . Nam una confutata r»> tione
ille fuis argutiis plurimos fubiungit. Hanc autem Hercules igne idefl ingenii
feruore extinguit.Nei^ eft quod & hoc inter monftra enumerandum
negesi Namut uera dialedica ab omnibus dodiflimisfummoperefemperap
probata eft t lic hanc captiofam grauilTimi femper uiti abhominati fuot : Chi
* meram aut ad iracundiam iGorgones ad uoluptatum illecebras/ quibus
ftul* d in faxum conuati iccirco dicuntur / quia nimis illas
obftupefcunt.Prudca tes uero & Palladis zgide 8i Mercurii gladio
facile interimunt refetn quis no uideat : Briarei autem ac reliquorum qui
aduetfus deos bella gelferunt / fabu lamrcdilfime interpretatur Cicero
/cum id nihil aliud lic qua bene monenti naturz repugnate : Gerion uero
11 grzcum nomen interpreteris / terrz litem exprimet . Lis autem zterna
eft terrz id eft corporis aduerfus fpiritum.Ecitita ^ Gerion pars
elfccminatior animi a fenfibus ptofeda : quz in homine uitio fo uniuerfz
animz imperat. Q_uaproptet quoniam funt ttes animz par** tes / tribus
illum infulis impcralfe fabulantur : cuius canis iccirco biceps cfit quia
cupidiute llmul & timore laborat . His igitur monftris pettenefa* dus
ENEA uim parabat. At Sybilla hominem cotnmouefadens ea omnia
fimulachrauanacfleoftendit: llIa^ non ui fupcranda/fed radone cognolizn
da: cognita^ fugienda iubet. Poft huiufcemodi monftra ad Acherontem Si
cocytum deuenitunde quibus fluminibus Si 11 paulo fupta didum llt:ea tame
alia quadi tone ptofequamut.A cdcupilcentia nfa uelud a fonte manat
aqua: que ttygnu palude cffidt.Ne a concupifeentia primu j>uenit
cogrtatio/drnide adioquapeccamus: Achcronpo(lhzccoDatatiorfluuiusc(l:nain
per cum tt* ptimirur motusad dagitiarhic autem poft cogitationem
excitatunNrqt prerer rationem cft quod illum ingenti tumultu ferri Seneca
dicat: Non entm poteft animus Itnefirepitu reludantis confeientiz in
facinus ferti:Q^uoniam autem fauiufccmodi peccandi deliberatione uoluntas
in uitium traniitsiccirco in hoc flumine nauiculamnautamipponunt.Poftuero
buiufcemodi tranlltum id au tem cft poli peccatum/fequitur mceror/quem
refert ipfa flyx.pollrrmo maior ludus qui eft cocytus . Vt igitur ponatur
ante oculos illa^ut ita loquar} grada^ tioiprimolocoeliconfcientiz
motustfecundo deliberatio fufapiendi flagitiit poft hanc maeror ac demum
maior ludus:primum ita^ ac tertium (lyx fignifi» cat/fecundum
Acherontquattum cocytus .Sumopere me hzc deled.<nc inquit LAVRENTlVS.nerpme
offendit quod eofdem fluuios nonaduna/fed ad piares rationes ttanfFeras.
Videmus enim & grauiflimosin nollra theologia lo
cosuariismodisadodilTimisuiris intcrprctari. Habes igiturdrfluminibus in
quitBAPTlSTA:Nunc quid libi Charon uelit/confiderandu cenfeorNara
portitor has horrendas aquas: & flumina feruat terribili fqualote
charonicui plunma mento Canicies inculta iacet.uerum ut res fuo ordine
progrediatur/ non nautam folum: fed £Cniuem limul intcrprerabimurtSit
igitur nauis uolu> tas:licnautalibeteuoluntatisaibitriuni: Nauis
lurfus cocoinfuum cu fumdi ngitur.Hiceledionrm exprimittipra enim
eiedionc libetum aibitrium uolun tatem dirigit t Q_oin U per uela
eziefles incliuadones non erit abfurdum incel Iigere: Nam quo czii
inclinant/id libenter eligimusmili illis fefe ratio opponat: cuius tanta
uisell/ut etiam fyderibusdominetur.Pergrata hzc funt quz dicis inquit
LAVREntius. Video enim te chrillianorum dogma retinere: ut tamen
mathematicos oinonoirrideasiScdfequereobrecrotSenex cll chaio inquit bA
PTlSTA tqmaiali no tepore ut Platonici:quosfequic poeta/uolut dignitate
faltem & origine prior cil corpore. Adde qdzternacfl:zcemitate aut nthil
ana tiquius:Q_uaproptcr Si, arbitnu libetu in illis zternu:Sed auda deo
uiridili^ fc ncdustqanuquamdeficit.Ellaut terribili fqualore &ex
humeris fordidustili amidusdepcndet.Q_uz omnia ad corpus tediflime ni
fallor referuncut : cor« pus enim ucluti ueltimemum ellanimz: quod
alfiduo mutatur ueterafeit: actz dem tabefcit.Addit duplicem oculis
flimmam:quia liberi cll arbitrii ad utmta ucliiflcdi/dC ad rationis
fulgotem/8t ad cupiditatum ardorem.non temere au tcmncc tine exadilTima
quadam ratione herebi nodifip flliusell Charon: Ce£ Iffcnim nox in nobis
quz nihil aliud ell nili ipiz ten(brz/quz abinfeinapro iieniut/nulla erit
cofultatioe opus:mens enim fumu bonu perfpicue nofccrcta &in illud
line ulla dubitatione ferret .nuquam enim eligimus nccelTatia/ac fub lata
dubitatide ois confultatio celTat :Q_ uapropter qui iam in tertio uirtutu gea
&erefunt:quas purgati animi appellani/ii prudentia in repe deledu no utunc'
t led przter ea quz lut uera bona nihil nouetutiea^ fola mtuent . Herebus
igi tur.quud uerbu grzce ab obfcuritate originem ducit:ita lefc rationi
opponit Utopuslit cofuitatioci (^uoniauao Cutmdd Keba}acmodeacccllarii&cota la
.P.Virg.M.AIlego» fuUc:opottuit bancuim ea libertate donatam
clTerut aut de plutibua unum/aut de uno <tt ne agendum pro fuo
arbitrio deccrtut. Hoc (i itaefta gratia didtuc Charon«Nibil enim iibaius
cft gratia cum fua fponteproueniattnon autem a cuiufquam merito
debcatur.Q_uaproptei cogi nullo pado uultsat(^ ea de au« fa cum Aeneam
pet tacitum nemus ucnite uidetific prior alIoquitur:Q_uiiiquit cs armatus
qui noiha ad iimina tcdis/Fare age quid uenias idbinc & comprime grclTum>Nam
cum etiam rationem ad (c ucnire uideat liberum arbitri ums Non ante illam
admiaere uult-quam difcutiat diligentius quid fibi agendu fit.Q^ua»
ptopter addiuNcc uero aladcm me Tum laetatus euntem accepilte lacu > quu
ne ad uirtutem quidem trahi uult liberum arbitrium . Verum antea
confultat i Et pofi confultarionem deledum adhibet. Quam quidem rem
animaduettensff billa; (Luimrubiicin Nuilxbci Dndiznccuimtelaferunt;&:
ut appareat illum con cogi/fcd per confuitatiomm peifuaderi aureum ramum
oftcndittllleaute ad uifam fapientiam libenter conuetticur: fiC de natura
hadenus.Nauis uero a czruleo colore confiatilile autem ex albo nigrocp
conEcitur.Conteplator enim inter iofeitiam at^ cognitionem uerfatur.Non
enim mouetur quifpiam ad in» ueftigandum luli aliquid uideat: Rurfus cum
omnia in ea re uidcrit definit fpe culari. Eadem fere ranone futilis
hngitunperceptis enim percipienda adneditt Si autem futilis &,
timofa.Nam antea quam habeatur perfeda rerum cognitio/ non ctit ita
perpetua rerum fenes/ ut nullum intermedium relinquat: Animas uao quas ut
Aeneam recipiat e naui pellit:omnes animorum affedus qui ratio ni
aduerlantur interpretandas opinor. Sed uos fortafie nimis cutiofam
nimir(^ ineptam huiurccmodi interpretationem exifiimabitisicum ita minute
etiam tni nmiaptofcquar. An tute cutiofum aut ifia minuta appellas inquit
LAVRENTlVS: quxetiamli nimis ingeniofe elicienda el Tentidigna tamen funt io
qui» buscJaboresi Nuncuerocum fe ultro offerant/quis ea repudietr Q^uin
igitur ptofequetetfiC qyz difputationi noftrx quadrant ne przteri. At^ in
pnmis quid libi Cerberus uclit/nobis apeiiiNam &quod cymba
gemuetitifiCquodrimofa inultam paludem acceperit : ego nifi tu aliter
fentias fic accipio/ut in altero fpeca lationis diificultatemiin altero
terrenarum uolupratum illecebras : qux furtim dum uitia fpeculamut
interfluunt/exprimere uolueritiPromptum pa immortalem deum ingenium/^ ad omnia
uerfanle in te elTe uideo LA VTENTi in» quit bAPTlSTAtnei^ commodius ifia
meintapretari potuiflie fateor: Ad cer betu autem de quo audire cupis
/paulo poftucniam:Interim pauca qux omi(< fafunt/percutramus: Ad
nautam omnes confluunt animxtomant^ pnmx tranl Huuiumpottariitelt dunt^
manus tipz ulterioris amore: Hic iguur con» curfushocut puto
fignificatomnes natura fdre. cupimus: natura autem non omnes admittit:
quia liberum menns arbitrium non omnes ad.fpcculatiooe adtmttit : nam
quod in humatorum animx cenmm annos uagentutt de zgf* ptiorumconfuctudinc
tradum: 6c Seruius & Seneca affirmant i Q^uam rem deinde Orpheus^ad
inferos tranfiulit: Vehementer uero quadrat Palinurum a fybilla feuere
calbgari: nefas enim efi cum appetitum ad ueriinuefligatio» bem
ttaduccre/qui aducHiis rationem contumax fit r Sed redeo ad Aenca;^ at at 0
jlU, DI ii a a » 0 3 i i Liboguartuf
tat) jcm charon ad ahetam lipam iocolumetn traducit.Ipfd «tiim poft
diutumu catamen rationis Kappetttus in fpeculationtm tradudtur.Q_uo in
loroaio^ uutn adunfus fc bellum cxdtari Tentit, Cerberus enim ha;c ingens
latratu regna tnfaud petfoiutaduerforecubans immanis in antro.Scd
animaduerte qua par» 1)0 negodo omnia a Sybilla pacata reddanturrOffam
enim latranri cani porngit Qua uorata ille in fomnum inndit.Q_uaptoptet
occupat zneas aditum cufto« de (iepultotCerberum igitur ea fortalTe
ratione tridpitem poetae tradideruttguo* biam illum terram gux trifanam
diuiditur /interpretantur. dicuntcp grzce quali Omnia enim corpora
uoratterra:quado quidem io ea omnia reddunt.Si i^‘tut terra eft cerberus :
quis non uideat porta noflrum per cciberi latratus noftri corporis
indigentiam exprimere uoIuifTe . Cu enim ad rerum magnarum cognitionem
eriginiunhoc profedo agimustut men tem quoad dus fieri potefi a fenfibus
reucKemusremoritp dircamustnon tamen ex buiulcemodi mortis comentarione
intereat corpus neerfle putestred cft illius ratio babenda.Reclamat enim
ne fibi neceflaria fubnahastlnmrgit^ trifaud lar ttam.Tribus enim rebus
indiget dbo potu ac fomnotin quibus nifi fatis illi a no bis fiat adeo
obflrepct/ut nihil egregium meditari (inat. Cuamobrem nullo par
donegligenda e(l cura corporisrlimplicitcr tamen modelle ac omnino
fobrie/re fidendumtut cum laboribus ruperetTepoflit: nimio tamen luxu
contumax adr uerfus animum non reddaturtpaucis enim natura contenta eft :
at<p ea huiufcer modi funt/ut fine labore: fine fumptu facile
comparentur. Nam ne fortafte ad ea re me te reuocare ardas quibus Ginicus
cotctuscfti^oflincuicmdumolusnul 10 etiam lalecoditum fuauilTimas epulas
prxbere pofnttaudi ea quibus uolupta* tum patronus Epicurus acquiefdt
:Num ipfe minus uiliflimo panno:quam aut purpurea aut ccKdna ucfte a
frigore defendi rxiftimat.nu fitim nifi chio aut aete 11
uinoatinguitnum famem nifi exquiritiflimisregiin^ dapibus fedari pofte pu
tat: Epicurus inquam qui in corporis uoluptatefummum bonum ponit nullu
aliud pulmentum in coenaptzta famem ac fitim quzfiuit : quem etiam legimP
ad panem raro quicquam prztn cafeum addere folitum.Ficedulas autem ac par
Uoncsreliqua(| ilb flagitia quz & Maaobius in pontificalibus Tuorum
tempope ccenisdeteiiaturt&nosno ftratempeftatein romanorum przfulum
dipibus fir nefumma indignatione ac gemitu meminifte non poflumus ueluti
pemitiofilTi mamonftra exhorrebat: Qua quidem in te ego terni LAVRENTI
ficut inc zr teris temperantiz partibus iumma laude dignum puto;Nam przter
id quod plu timos iamannos utiunfiurarum articulorum dolores efFugias:uinum
non bi bis nonne pro miraculo haberi poteft/ut tu in tanta mum omnium
affluentia: in tanto urbis noftrz luxutin frequentibus
lautiflimir^proptaalTiduashofpita liutcs BC aebra fodalitia tuz domus
conuiuiis nihil intuum uidum nifi fimplex ac populare fumas: Q_uzdum
cogito redeunt mihi ad memoriam ea quo quzdeFederico Vrbinatumprindpcnon
folum audiui:fed etiam propter antir quumhofpitiumfl Cueteremamidtia
fzpiflimeuidi:Inquoduce & fiplurimz aliz^ ea magnitudine uirtutes
elucefcant/ut ueluti folis radiis minora fydera Oiancfcunt t ita hzc
illatum fplendote obruatuntamen quis non obftupefcat ta Id.P. Virg.M.AlIego;
tiu Meorinaum acrobrirtitf modicamincaftrisubiuJrtrolrt Wtn
f*t« inopia nullu inter fumtnfi duce ac extremos lyxas & alones d.(c^«
, elTe patn tfed domi quocj ac in aulatin qua cu ota ornamenta pana
fefe offerantmec uiq aut liberalitas/autmagnificeoa defideret s tamc
difcubent* illo nulli aut palalaSo aut nometano/fed Bi philofopho &
oraton ocw relin^ tur.lpfe enim a primis annis uini prciflT.mus
fuiticuius ufum paulatim inteitendo eo progtelTus eft/ut iam diu illud
omiferit/nemo eQ qm communioni epulis/nerao qui fimplidoribus
uefcatur/quibus dum corpons U.TO r fiaui(rimisinterimd Wu«o™“‘l'fP»°"J'l?“perfipefii
dum lingulis annis ualitudinis oaanduj raufa romanos
aumnmos Sfugiensadillum diuertor:uidearmihia Sardanapall.c«rn.sm AIano.conu.-
uium inddiffe/K ad aliquem foaaticum hofpitem deueniftim quo pnfc*
con. tinentix ueftigia tam uehementer me deledat/quamm notoojir hominum
qui rubris nigrifqj galeris:ac niueis riciniis totius fanditatis doannam
phtent luxm lafciuiam exaritat.Pudet enim pudet mi Uurenti pigetip
noftroju «orumm m totius rei publicx chriftianx curiam in qua integra
religione maximaij dodnia nonnullos optimos patres K tanto fenatu dignos
elTe non negaueom/iis homu nibus aditum quotidie patere uideamiquos ego
tunc demum fenatorium ordi. nem romx iure obtinere cenferem/li
Heliogabalus ib inferis redudus rurfusim peraret. Verum cu hxcme alio in
loco deploralTe meminenm agamus quod iltat. AtcB naturam noftram minimis
cotetam effe intelligamus.Q_uod cu expnmere cupet Maro Sybillam quxueradodhinaeft
inducit offam in qua & andu 8Cb^ mefcens fimul alimetum
fit/Cerbero porrigetem/qua faale & fihm? I*' det:& in fomnu
inddat.Aureu pfedo prxceptu.Nam qui aut Uutiflimis epulis corpori
indulgetiaut uaria uina exqrit ipfa crapula at(j ebrietate « c^us contu
max fibi reddit/8J animi aciem ita hcbetat/ut nihil altu fufpicere poflit .
Upt^ quidem funt ifta qux dids inqt LAVRENTlVS. Verum de Cerberonon
idem TOCtas omnes fentire uideoiMaro enim eum canem ita latratem
inducit/ut non egredi fed ingredi cupientibus aduerfet":cuius qdem
rei rationem optime a te ex Mfitam effe intelligo. Nam huiufcemodi
corporis indigentia non iis allatrat qui corpus curadum redeutifed iis
qui illo negUao ad ueri cognitione £0“«“^ ItacK ut dixi ego qd Maro
fibiuelit plane tenere uideot; Veru cum apud Heli» dum poetam ut te non
fugit nobiliflimum legerim Cerberum uenieti busauda auribufm
blandiriiExire ucro nemine patiiln infidiis enim delitefcesjqucmcua extra
ianuam offendatiftatim morfu laniat s no intelligo quo nam modo hxcoi no
inter fe diuctfa non fint nifi fortaffe alium ad inferos defccfum um Maro
exprimere uoluerit.Ingeniofe tu quidem inquit ® dit enim ad infaos
xneasiqa in uitiopr cognitione tcdit:Q_uod fi ita eu ingit™ enti
aduerfabic Cerberusrodit enim hxc corpusiFac aut aliu no ut imU nan^
cognofcat inferos petereifed in ipfa uitia labi auribus 8i cauda bladiet
Cnbe^ qppe qui illu ingredi cupiatiNam qd aliud moliunt' iquid aliud
conant perd» boies nifi ut tridpitisbelluac non folii indigeti*
fatiffadatifed oes uoluptates plcanuQ^uod fi ide ifti nonunq pdita uita
reliqua «id enim eft infaos egteoi* - >4^».Liba guam»
tcnctit tuc latrat tunr mordtt canis.Rrde igtt'’ addubitaftt.Rrdt us aut
dubitatio orm fuluifii.brd ut ad Maronis cci bttutn rrdcam facile ille
(imp KnlTtnis rpuHs arquieuits Acneasautnn celer ripam cuaditsNon enim
lente K cum fegritie bacc adtunda funcfcd omni contentione at<]t
ardore captiTcnda. Q_uc niam aut or* do in rebus huiufccmodi cft ut primo
uitia cognolcanf. Cognita deinde effuga» lunut pofirtmo illis purgati
rerum diuinatum in quibus fummumbrnum con fidit idonei contemplatores
eifiriamur/erat illi totius bumanz uitz curfus mrn< te repetendus/ut
peripicuc intelligeret no folum quato fe fcelere adnngit qui no biliore
fui parte neglcda in uno corpore:& in iis qux a corpore fum
uoluptatib? fpem omnem reponunt. Veium etiam quata miferia opptimanf. Earo
enim uir tutum armis quibus folis uidenes euadne potuilTi nt penitus
exuti nudelilTimis fortunzidibus nudos fefe obticiunt/& ut ca»era
aduerfa/qux innumera quoti« die aeddunt omittam /mortem ipfara qux
lingulis borarum momentis impedet uelub lummum omnium maloium
rxlKHret.Q_ui quidem matus enam Ii nui la alia ptutbanone adiaans ipfe
unus nos nunq refpirare linit.Q_uaprnpter hac iirpeipfosmfantesin pnmo
uitz limine petere oftedit.Hac & in fontibus p uim mferri edocet. Hac
& libi iplis eos afferre demonfiratiqui adeo imbecillo animo fimt/ut
grauilTimis quibufdam ptutbationibus fe pares gerere nequeat. Q^ux q dem omnia
diUgenter intuens xneas decernit tadem hoc in primis fapienti prx«
fiandum elTe ut culpa uacet/mortem autem ipfam inter naturx munera eoumc
ret/cum cz ea no folum nihil mali nobis id eft animis noftris eueni» / fed
contra fummum bonum/quonia a tam tetro carcercfoluti in noftram nanira
rcdeam5’. Qua qdem ratione faceti cogemur amice at<^ indulgentet cu
illis efle adum qui antea ad buUifcemodi miferiis erepti Itnt/quam in
casinciderint diuind omni nomunus illudincIcobim/ttbito Dcalunonecollatumtquipfofuma
in ipfam deam arqi in matrem pietate moetemcofecuti fint/Cxtenlt^ omnibus
natienb bus ac populis fapietiotescl Te traufosputabimus/ii enim populi
in thracia funt qui fuorum onum multis lachrimis ac lamentationibus
excipiunttquot mala il« hsin uica cucnmra line enumerares. Obitum uero
omni genere lattitix ^ fcquua tur.Cogitant enim quot erunisq uariisgrauibufip
fortunx cafibus morte libera ti fint.Huiufcetoodi igitur rationibus
paulanm xneas moetum mortis deponit: Q_uin fi aur fe aut quempiam bonum
uiium fupplicio morte ue per fummaiiv iuiiam peti uidcbit non duliilHme
ur Xanthippe illa de (bcrate falrc merenti hoc cucnitetdicet.Scd quod
uetumefferapientes norunt Ihilti uero negant a nrmi« ne nifi a fe ipfo
quenq Izdi polTc affirmabitmetp quicq quod turpitudine careac in malis
cuumerabiti^uin Kfoaatica argumentatione couincctquicuipiniue
fiecrudeliterip in aiiuiu «gerit non illum fed fcipfum iniuria alficere.Eos
autem omni odio infcdandosducct/qui animum immortalem fiuptr natura
itaro* bulium/ut humana omnia contencre polTit adeo fua ftulttria
enenuuerittadeo £ taua confuetudinc imbecillum reddittut famineo amore
incefus in eum pau» tim furorem ptolapfus fittut fibi ipfc manus
atruleritiK morte q fummum tC> fetnalum putabatiid quo urgebatur malum
effugere tentauerit . Q_ua quidem in te pnmum ignauiam ai<f incttiam
cotum damnat:quia fua culp in eum Lbt o ii
In.P.V;rg.MtAIkgo. dinofum atnortin inciderint quem Plato ab humani»
morbis natum affirmat: quoniam illi eofoli afficiant qui uentri ac fomno
dediti: et diuinitate fua quam aroris denlis tenebris obrui pemuferut
penitus obliti nihil praeter caduca : & aut morbo aut aetate cito
perituram corporis fortnaih reTpidunn Q^uamobrem bis pcccant.Nam 8C a
principio Tuo deiidioro ocio ac libidinofa lafduia effedum e(l ut in rem
follidtudine plenam inciderint. Deinde cum morbum fua culpa cotn dum
diutius pati ncqueant:fumma fc impietate afttingunt qui a fummo deo in
coipus ueluti in cuftodiam mifii in iuflu ipiius illud deferunt.Specula^ poii
bax extremam eorum hominum inlaniam/qui cum perfummam iuffitiam
intrati/ quillo fccuro^ odo degere poflient/per fummara tame inturiam ac
impietate pa cem pcrturbare/ac omnia mifcere maluerut.Nam aut nulb
iniuria affedi ipfi ul tto auatitia ambitione ueimpulfi ferto igni fraude
nihil tale merentes laceiletut/ aut ipii lacelTiti nihil de iure quod
hominis pprium eft difeeptantes ad uim qux faamm ed fe contulerunt: Hinc
genus humanum cui pa edeordiam in fummo odo uiuere licuaat affiduo
mifccri uidcmusiHinc multarum regionum popula dones fiC infinito;:
mortalium catdes oriri aiaduertimusmt cum undi^ quzeu^ nobis calamitates
eueniut colligerimus:nulla homini q homo acerbior pedis in.> ueniat :
Vides igit q exada lapietia hasc oia poeticis ligmetis exponantur .
quidem quoniam huiufccmodi clVe animaduertit/ut & cum fcelae dant/ fit po£
fint etiam uido carere/placuit ut una ac limplid cdmunit^ uia irecur.Cum
autea Deipheebo iam difccirum fuerit/quonia eam iam fefc contcplanda
offerut / quz aut penitus flagitiofa (int/aut pcul ab omni fcelae folam
uittutem continet du plicem iam efle uiam oportetrut altera in itnidram
ad ui tia defledaturcAltera uf to indutt^tnaduirmtesdcueniat^Hociglt
inquit LAVRENTIVS fitPytba goram illum exprimac uoluiife acdiderimtqui
littaam yadinuenit.Q_uod no latuit Perfiuspoeta/cuius cdillud.Et uitz
nefeiusenor C5eduxit trepidas ramola incompita mentes» Ifrhuc ipfum
inquit BAPTlSTA.Sed uideamus quzfequa/tur. Æneas fub rupe (inidra mcenia iata
uidet triplid circudata muto, fetifica p/ fcdu tartarotum
defcriptio.Locus enim exprimendus iam edin quo uarialole/ ta puniantut. Hzc
grzci tartara ab eo quod ed tarattiiid enim cd pettutbatetex p
turbationibus enim uitia oriunc .‘cademi^ paturbatam femper peccatoris
meo» tem tencntilnduduntur autem triplici muroiquia non una ac fimplid
uia fcd tri plia peccamus.ptimo enim quodam folo animi motu ab deprauata
uoldtatc fce Ius condpimus.Secundo deinceps loco accedit adus.Q_ui
podtetno iteeum at/ iterum muItoticnf(^ repetitus habitum
obdudt.Q^uamobrcmhzctria in tat taris iure expreflit poaa quz procul a
uiro beato edic tedatur laaoruffl cartniiid uates.Ille enim fiatim a
principio dc ordif. Beatus uir/qui non abiit in condlio i
piotum.Videsiammotum primumanimi adrcclus.Ocindc fit in uia pacatora non
dctit.Q__uid enim aliud uia cd nid ipfa adioreitquz depius repaita nd am
piius in motu ed:fed iam fedcmdbi ponit fit redda in habitu iam
coadabilito. Rcde igit fit in cathedra pedilentiz non fcdit.Q_uod autem
flammifluo phlege thontbis flumine tartara ambiant" :minimc abfurde
dixit . Odendit enim aidp/ cem itacundiz: fit arumotum zdus quibus id
hominum genus alGduo torretuta Tantum fnim tH uittoruu odium/ut & qui
illis delcdati lutif tandftn pcraitoi tiamdcdudi
uitaniprattcTitan]datnncnt:urhcinrntn(^ oderim i fibi uno ipfia aetnime
iraiiantur . Nam tu donum cblTes tranfifTc dies luretn palufttttn:Ca
ptiui tamen unico habitus dnnui inuiti trahuntur at(^ ira furore^
exeduntur. Q^uapfciptcr tapidus flammis ambit torrentibus omnis t Tartareus
phlegethon. Nulla cnun fomax/nulb fabrorum oflirina magis exxfluat quam
feeleratorum mens» Nam Taxa a flumine contorta oflendunt quam graues quam
molefli flnt buiufccmodi motus ati^ «agitationes. Addit ad ba;c portam
munitifilma fit foli do adamante columnas: quibus locum ita munitum
redditiut net^uirorumne ^ czluolarum ui efitingi poflit. Quid ergo flbi
uult dodiffimus uir: Nempe hoc ut puto uiros flagitiofos ac permtos cum
in tartara deuenerint. Id autem eft cutn longo habitu fcclaum mancipia
cfFcdi fint/nullis uirorum monitisi nullis diuinis ptxccptiss nulla deniipfyderum
clemmtiainde eripi pofleiQ^uaprcs' pter iute tales homines fit larini
perditos it grxd afotos appellant.Erit igitur in quit LAVRENTl VS
amifliim in illis liberum mentis arbitrium / ut fit fl uelint aduirtutem
redire nequeant. Video fit in hoc ingenii tui acumen inquit BAPTi bTA .
Nam breui interrogatiuncula illa omniaconcitafli : quz a grauiflimis phr
lofophis de uoluntario dem inuoluntario quzri folent . ua quidem in re no
folum ingenium laudo/ redconfilium quotp uehrmenter approbo .Nam
cum multa liefe tibi offerant tquzfloc cuiufquam auxilio ipfe tibi
foluere polTis/ea tamen ab alio dici mauis/ut fit raodeftizquod nihil
tibi arroges: fit igmiiquod prudenter interroges flmul laudem feras .
Verum facile ita huic loco occurretur li dicemus non uoluiife poetam
ineuitabilem neceflitatrm/red eam difficultate quz impoflibilitati
proxima (it demonflrare.Sed fac etiam(^(T placet)omnrtn ex cidendi
facultatem adimere . Non tamen dicemus flagitia quz committunt in^
uoluntariacffe.quando illorum principium uoluntaiium ruit . Nouitenimin#
continens peccate curo adulterium committit: potefl^abflinerefi uult.
Peccat igitur uolcDS donecafliduishuiufcemodi deprauatis adionibiTs eo
perueniat/ut contrada iam intemperantia etiam fi uelit abfhnerc non
poffit/non tamen inui.' tus dicetur peccaffe/quamuis tunc nolit quoniam
licuerat a principio/modo uo luiffet in firmum illum intemperantiz habitum
non deuenireK^ uaproprer no magis inuituspeccaffe dicetur/q qui fua
fponte in quempiam lapidem iaciat de^ inde
pOEnitcntiadudusteuocatetfipoffet lapidem : qui per aerem fertur quoni
amnoUer hominem ferire. Ferit igitur fi! bene uolens : quoniam initium a
fua uoluntatc fuit. Sed hzclatiusapud Ariflotelem in libro de moribus
difputata inuenies . Itatp redeo ad zneam : qui ut uides urbem ipfam non
ihgredit . Nam qui uitiafpeculanmrnon uniantur interuitia
.lllorumuerouimat^ naturam a S)rbilla(^nam eunda edocet dodrina^penitus
intelligit . Procul tamen in limi ne Tyfiphonem uidet.ponit igitur furias
in limine tartari/de quib^plzra<]p quz a poetis finguntur
uelutinotiffima omittam . Plane aurem conflat placuiffe pri (as
foiptonbus quicuni^ maiori flagidofeobflrinxetint a furiis uexari t ut in
Horcfhs Alcmconifi^ matricidio uidemus . Q^uo in loco quidnam aliud expri
tount furiz : nifi inquietudinem aepotius uexationem quandam turbulentif
In.P.Virg.M.AUego. Narorima hxttd uluo quod fe ludia
neroonoanaabfolmtur. VtminU cts/ut mdida/ ut d«d<cus/ ut infamiam
effugias ; nemo uident : nemo a^ienfc Q
uitcftisdtaripolTitadcfttamen Sp& confciennaiquxu “*8«* Sicium rapit .
|au.ff.mum tcftimonium dior i comnncjt ^am «jb cod*,; U^uenaled.fc^^
ilU flacellai hi fcrpentum moifus quibus fun* nos «agitant. Habes de
tun t S aurem Ufcelera. at, V «auilf.ma«iftunt a principio
enumexat . Impietatem in S in homincs.Nam & tianiam prolem
flurni naulo ante dicebam / confaentix cruciatum
dodioreinterpretantu^ ?e enm ueluti Ceuiffmus fcelcrum uindearqux
flagitio obnoxujU^ i^ na affiduo nmarur : & dum commilli in
mentem dia corrodit /curafm afliduo excitat /nec eefpirandi fpanum
ueroK fxioncm tyrannidis exemplar effe uuir/quo* Upfura cadenti
imminet affimiUs: Nunquam enim fine pe^ione uiuunt . (^uod & Dionyfius ille
iyracufanus Uamodi tamilun L illum beanffimum putanti probe oftendit /
cum illam ita int« ^s epulas ac pretiofa unguenta coliocaflct /ur
umen metu fupta caput equina feta pendentis nulla poffet uoluptate
a la . mSlto rnelius\ofcunt h^ines quam detur modo impeni
acquirendi fa tasttuitate fciant.Ncc ueto diffiale eft intelligne quid
ftbi te ora paratx regifico luxu; cur furiatum maxima luxta
ptohil^t contmgae menfas ; Neq, emm uerius neq, «prelf.us Le
potuittqux in eam homines dementiam protrabit/ut cumpluniM^
geffeS/tum maxime fame per, re malint quam congefta fe &
pulchre Orarius Tantalo illos comptat / qui apud in miiima aquarum pomotumtp
copia fm fame^ torqueatur. Pulchre em am^ illud tCongefiis undiq,
Ciccis indormis inhians & tanq^uain SI coceti* j pidi» unquam
gaudete ubellis. Magna ptofedo nutn da qw non norunt harum rerum
poffelTioncm non propter fe ntef illatum ufum.6 uapropttrbonailia
nontede/uuliaautemtecteappmus. Sed nimis mulu quando multis iamin locis de
auanua diximus /i «deliqua uidcamu* : Saxum enim ingens ii uoluum i. Quotum
uiu per Itm mam mftriamin eo uerfaturiutCcmpcr ea prtantitamohn “ir
««/qux aut nativam aut fortunam suam confbtuu efficere nequeant i o^el^
eoii« conatus irtiti mefficacefij fint.Rourum uao udus dettndi pendere
nmw‘ Kdicuntur.quinibilranonefiiconfilM) ptzuidcnteiinihil P‘“^, deo
fe fortunx conimittilnt/ut eius cafibusuelun inter eutyp fludibus ucw
affiduo totentur.ne« uittutem ullam habent in quatn ueluu in tutum ttanq him potturo
W^tteapoepofli Bu Huiufcemodiigitutu Ut tactchqnaquxpItt r- Liber
guaitiu rimi uaria^ fuot edocet Aeneam Sybilla / dodum^ flattci ut feiUis
«pii> ct admonet : ut punis campos clyfios ingredi poflit . ms igitur
Matontm a Platonis dogmate difcedcrc diat. lllc enim cumfummum bonum in
di' uinarumtetum cognitione pofuiiretiproptetea^ ccnittctomniuuiuium
gr^ nete excellere cum opottae : qui cum Iit futurus beatus / tamen ab
iis in< dpiendum cITc oftcndit qua: Ant in uiu & moribus poliiz .
Cum enim dv uioa / quae puriflima 6i ab omni labe corporea impolluta lunt
impurus nr-< mo attingere ualeatt pcrhuiufccmodi uirtutes expiemur
neccire cU/ illis ctjita tL uitia cogDolicimust SC cognita abhominamunat
puiilliau ndiu i.xlo^ fiia ac immortalia egredi poAumusiHac igitur
ratione iinpuilus Maio cum ad tummum bonum perducae honunem uelitt ira
Acnram iiiflicuendum curati ut primo uitia omnia edoceat/ deinde illis
cum opiaium ad campos clyAos perducat. Cognita enim uitiorum turpitudine
totum odium Boa inepuiquz quidem prima omnino lapientia cft. Audirus cnim
ad il« km/cA,ut fiulritia careamus . Sed tu nefcioquid mirabundus tecum
animo ooluisiifibuc ipfnm inquit LAVRENT1VS. Stduide.quantum tibi
extua diTputationc debeam. Dum cnim mihi planum icddeie Maronem
ttnusi id^ efficis eodem tempore in noAri duis diuinum poema induds .
Nunc cnim demum pcrfpido quid Abi uclit Oanihcs / qui piimum ad inferos
de< (cendattat^ inde emergens, nullam aliam uiamniA pcrpurgato iialocaadca;
Ium inucniat : Made uiitutis adolcfccns inquit liAPTlSTAi qui non ea ib
lumquz dicam Si A diffidlia Ant facile acapias. Seu quadam Aaulitudiueou
dusinde ad alia accedas/ut cum ilk maximam laudem ex diiigcntiilin<a qua «
dam ingenii atrihd^ plena imitatione alVccutus At : tu quoqi
uuuciedio<> acm laudem mcrcaris.qui bzc omnia/quanquam uebemcutcr
dilliuiuJata lint in illo poeta rccognofcas. Ego uero inquit.L. quantum
cx huc merear ipfciu« dicabis tqtianquam ueriorne nimio in me amureiaplus
noAiutnlioc ingcnk um longe pluru facias/ qua oportet.iliud tamen Si A
alicnuni a ptopolito fcf<t mone uideatur/non omittam .Tu autem quod
dicam ea laiiunc amc dida aedas ueliin / non ut meum ueluti decretum in
tanta icponam / fed ut iudtci' iitntuum quod ego onmium reliquorum ludicioaotcponomcu
uerbis elici am • Ego a prima pene puetma cx uiaufqi patentis m Aituio
adeo famibate uni uctfum opusAorentim poecz mihi reddidi / ut pauci
omnino Ant in eu lod quos ego Aquando illi huiufecmudi oblcdamcntt gciius
rcquitcter.t/ non fa« cilc ad uubum exprimerem. Sed quid poteram puer ex
um dtumo uacc ptet maa uerba pcteipcre.Nunc autem cum uniuetfum rci
argurocniu mciice peu curro tumma admirauone cius uiii ingenium
ptofequor.Na oi lu upexe fuo te xendo pauca onuiino Ala de uirgiliaiu teia
mutuari uideac ttameii mde oia pe ne Ant.l uiobtcmnuncnd demum
inteiligo/quod nos cx Cict-roms peepto IzpenufflccoLidinus admonete folct
cc in aliquo imitadu diligctcm oino u* dooe adhibcnda.Nci^ enim id
agendum uri idem funus qui fuut miquos imi tamut.Scd cotum ita iimilcs :
ut ipla Amilitudo uix illa quidem neq oiA a do dia iatcUigauit.Sed tu A
uidetut ad inceptum tedi. Cum igitut inquit. & la.P
.Virg.M.Allcgo. omnibus iam uidis expiatum Aeneam ad eamm rerum
cognitionem Mato deduAurus elTettqua; in casiis funt noncxlum fed elyfios
ampos nominat. Miro profedo ingenio u3tes/& qui eodem tempore &
figmento fu o Kuerita tiin(eruiat:Nam& (i apud inferos poetarum more
heroas relcgalTct i tamen nt hzc omnia de czio ilium fentire
animaduertamus largiorem ztherem : ac fuum folem fua^ fydera illis
tribuit / ut cum a figmento nufquam difcedat philofophizumen ucritatem
profequatur . Nos autem (i quos uirosilleincz ios reponat diligentius
confiderabimusiea omnia quz primo difputationis die de utroi^uitz genere
a nobis erporiiafunt acubflime ilium elTe complexum animaduertemus / ut K
qui in rerum cognitione reIigiofe/8; qui in adionu bus ac uitaduiliiufte
uafati Hnt digni omnino exiftant: qui in czlumuelu« ti in originem fuam
redeant i Q_uapropter BC Orpheum Si Mufeum ac reli> quos qui cafti
fuerunt facerdotes : qui phoebo digna locuti uerum reliquis ape rite
potueruntsqui uaharum aitiu inuentioneuitam cxcultiorem reddiderunt
tanquam fpeculatores cotnmemorat. Nei^ tamen eosobmittit qui aut
piisar< mis aut confilio opera induftriaat^ audoritate rem publicam
dcfendcruntiK in duiliacfocialiuita ueifati funt.Huiufcemodi ita<^
animos ab omni cor« porea contagione expiatos cum fimplidlfimz 8C omnino
incorporez naturas fint : SC maximarum rerum capaces exiftant mullis
locorum anguftiis arcuferi ptos nullis regionum terminis inclufos eum
animaduettac / fcd liberrime per omnes mundi oras uagareuideat: ita
Mufeum loquentem indudt: ut often. dat nulli e(fe certam domum Quin &
cum ita fenoit quz gratia cunumiarmo rum^uiuis fuit quz cura nitentes
pafcere equus eadem fequitur tellure repo* flos, demonfkat non clTe
fcimroemoremeotu quz et divinus Plato t placo, nicus CICERONE de animis
noftrisfentit.Cenfent emm adminift ratores terum.p. cum in czium recepti
fuerint regendorum hominum curam non deponere. Net^folumii quiiuflepieqt
uixerunt eodem audore iifdcm (ludiis detinen. tur corpore exuti t quibus
dum uita manebat deledabantur: Verum llagttio. forum quotp animi quoniam
multum ex fordibus quibus intta corpora fe fadauerunt/ fecum inde trahunt
a prilhnis curis difcederc nequeunt. Vidt« ftis ni fallor longum quidem
iter ac difficultatibus erroribufi^ plenum: fed quo tandem uir uirtutis
amator finem diu concupitum attigent. Per uari. 05 enimcafus pertot
diferimina rerum initaliam tendam s OC in quietas f&. des deuenit
Aeneas. Quem quidem fi imitabimur nos corporeis pedibus liberati / SC
nitido uirtutum fonte irrigari eodem uitz genere SC dum intra hzc corpora
uerfabuntur animi nofiri gaudebimus /& cum inde uoiucrint innoftram
originem reuerfi zterno zuo fruemur. Q uz cum ita a BAPTi.STA dida fuilTcnt :
ut difputationi finem impofuiffe uideretur/nihil polfutn inquit
LAVRENTIVS in ram longo fetmone defiderare.Nam a principio ad hunc uf^
locum ita perpetuo tenore difputatio perduda edtut nihil aut inter*
niptu/aut diuulfum/aut ptzcipicatu t in quu inter mediu aliquod rclidn
omif fum ue fit qri poffu.Sut eni oia mirabili fetie colligata/& eo
ordiecotextaiut ni hil inde demi pofTintiquin quz tcliquutur manca fmt
futuraiK nihil addi qrf J M M S IJ i J i-S rg.§S l-l 1 t-i t 1 1^4"S
fi-lltt quidem 6 ab/it /multopere requlreudu uideat’. Ignoscens tamen
nimiz cupidi tari no(trz/ri td nunc rcquiram:quod cu uehementer mihi
planum reddi cupii idne^badcnusateez porituintclligisnc locuinquo
deinceps exponi poflit teKdu uidei:Ezpefiabam enim non modo fufpenfo
uerum etiam anxio animo quid tu de iis fenrircsrquz furpiciens Anchifes
fuo ordine pandit. T u ueto dum rcbqua inter dirputandum fuis quz^ lods
difiribuis/illa no ueluti familiaria io iufteeiedarfcdtanqua aliena rine
ulla iniuria czclufa procul a tua difputatione amouifti . Qua propter
incertus fum quid agam:Nam ne<^ audeo te longa ora rione defatigatum
quicquaprztercarogareme is quz fcire cupio zquo aiu^ mopoilu carere. Hic
arridens BAPTISTA meminiife inquit te oportet o Lau miri nos huiufcemodi
terminis aniuetram quzfiionem drcurcripiifre : ut quz ambagibus
quibufdam/atip allegoriz figmentis obfcurata effent aperienda pro
poncremusim autem ea tequins quz fuis uerbis fine ullo figmento enarramr.
Ego tamen non ita exada ratione tecum agam/utquodexpado debetur/id fo Ium
enumerem t Sed prauerid gratis aliquid in ea hbcraliiatc accedere uolo :
Id igitur quod Maro ut Principio czlum ac tenasicampofcp liquentes. Lucentenv
^globum lanzritania^a(ha:Spiritus intus alit : huiufcemodi eri utftoicora
de diis opinionem refetat:Longum effe fi nunc omnium antiquorum philofo«
photum de diis immortalibus fententias referam: Q^uz quidem tam diuetfx ta^
inter fe aduerfz funt/ut totidem pene reperiantur/quot funt eorum qui
feri pfciuntcapita: Nonenimfingulzfolumfamilizfingulas fmccrias
excogitari. Sed fzpe inter fe eiufdem fedz uiri uehementer de re ipfa
diffentiunt. Verum ut reliqua ad przfcnsmiffa faciam & ad ea quz
przfenti inquifitioni confentanca funt deucniam:plzri^ ffoicotum:fed
przfertim eorum princeps Zeno uniuer« fum mundi globum mentem &
ratione &fummafapientiaprzdita habere ae« didaunt /eam^ effe ignem quendam
purissimum ac tenuimmu . At ueluti ani mi noftri per fui corporis
particulas oes diffunduntur/ita illu per oia mundi me bta ueluti geniule
femen unde eunda procreantur penetrarciquippe qoi uigot fcmeni^ fit omniu
procreandorum. Virgilius igitur qua uis ui reliquis a Platone fuo nunqua
difcedat tamc cum uidiffet Chiylippu in eo quem de natura deope limpfic
libro Orphei mufd Hefiodi at^ Homeri fabellas ita interpretari ut ide
prifcosolim poetas fenliffeconeturoftendereiquod multis pofiea annis
(loici fenferuntifbtuithacinreneab iis poetis quorum fimilis effe
cupiebat diftiml> Iis putaretur ipse PORTICUM fulcire ac floicis
adhauere.Na Platonis longe alia fententia eff. Ponit enim deu penitus
incorporeum:at^ extia omnem materia omnem mundum inipfoczlidorfo exiflentem.
Qua propteeillu hypcrcof mlon appellatiquoniam eifentia sua supra cxli
uerricem mancaticum tamen ui ac providentia nufquam abfit.fed omnia
circufpiciens etiam minima curet.In phzdro enim ait. Magnus in czio
lupiter citans alatum curtum inccditJ^mua exoinanscunda.Eodem^ in libro
demonftrat locum illum neminem adhuc laudaiTe poetaiummec unquam pro
dignitate laudaturum.Q^uaroobrem cum Platonici deum eztta mundum
ponantiquibus etiam Ariflotelici alfentiuntutt Stoici aut illu per omne
ut dixi mundum diffundat, qs no uiderit Virgilium /i in. P. Virg.
W. AII fgo. cutn dcutn quctn in potticu uiderat dcfcriplii Tcnnimorip
noftros illius partica bs elfe a Chrjiippo acccpilTe.Cu autem
prouidcntiam dci multis in loas prafe quatutinufquara a Phtune
difcedit.Non enim idem omnes rendum.Quzras fottaUe quid de mundo sentiat PLATO
[PLATONE]. Ccufet quidem animam eu babcrc/a qua reliquorum animantium
animz (int. bominum autem animos abeo deo que paulo ante dixi creah:££
ratione exornari uultiCorpus autem atip cacterasoes vires quas praner ratione
mia bi seiTefamus bomiiaiabanimo mundi elTe (ai bit.EQ enim lile dei
uicatiusicuirjlua uniuetla ueluti fua prouinda denudata Imltai^ illi uita
moturai prxbet/non fuaui autfacultate ledquicquidagitid uelun dei
in(humentuagit.Oeclinat igitur paululum de uia Matotat a Pia/ tonefuo discedit.
Cum autem dei prouidentiaplunmis locis profcquicuri illi totus
adbzret.Non enim idem omnesfentiunt.Sunten:minfortunz qui calt bus omnia
ponantiK nullo credat mundum rectore moueti.Q^ua in sententia Leucippum
abdaitem/eiufe conduc Oemoctimm: Protagoram quo^S Theodorum ac Epicurum
repenasi^unt itidem qui Andotelem fecuti non ita odofum deu ponauut nibil
omnino curare dicant. Illius tamen prouidentia Iu nz orbem
dclcenderenoaeduntiSunt deni^K tettiiqui fitliuniucifumper tingere illam uelint
maxima tamen dutaxat curatr/mininu ucro omnino negli gere opinent. At
Piato ut eunda a deo fada putat/ ftc eunda illum curare exifti mau Atipbzcdedeo.Otbeucto
quo uiallim animos nodtos ab inferis ad coc pustat inde rurfus ad inferos
tranfirefaibit ab academia cftc non negamus: Verum si latius de re
buiufccmodi dilTcrendum propofuilTcmusiextant multo diuiniota quz a tato
philosopho de aiope corpore difcclTu pferre poiTimustSed difficile oino
eff um breui tempore res arduas longa diligende otadone explicandas
bisanguftiis includere ltaij quod roluminffat idagamus lnuenies igitur
apud Platonicos cu mille annos apud inferos fuciint animi bominn ad
corpora illosredireiatijinde uidffim ad inferos remeate.ldi^ totiens facere
do nec duodedm anno^ milia tranliednt. Hunc enim orbe perfedu
extChmat.Na eo fpado penitus purgari aios CTcduti^ptcrea^ poffe illos tu
demu purgatos/in fuam origine et adezicifes fedes reduc: Q_uod iiquis
fuerit qui pbilofophiz fe dcdacibuic ta fadiis purgado obumit:ut aceat ei
poft tria annopt milia ad fupe ros euolate: Adduc ena fiqs teligiofc oino
uixeritieu ante mille annos H purga/ ti/S purgatu (fatim in fua origine
redire: Eff prztcrea quemagnu annu appcl/ ]at:quc cuc finiri aedunt cum
fol una cu luna ac quin^ reliquis enatilibusffel lis ad eade zodiaci
parte rcdieiint. Exado igitur boc tpis circmtu:quc et si vatta sit dodoru
de illo uiro ru sententia rex tamen ac triginta millibus annoruconfi ci
plzrii^ acdidere.ccafec Plotinus omniu bominu animas ad eunde uitz babi
tu rcditutas.Hzcigif'& qualia (int/& quid facicnda/fadleexco libro
perapi cs/que nodu expolitu in manibus hic noffet Matfilius habet: nec
adhuc edidit. Vciu ego cum apud ipfum inbgbinenffdiueniffcm/cafuin cu
incides aperui locof quofdam fuma cum
uoluptate percurri. Res omnino magna eff LA V/ tcd/fl( magnis
ingcniuinbus ttadata Sprotfus digna in qua labores. Poterit nitn no tolum
maxima ac pulcherrima et homini fe ipfum noffc cupiend per
quartus aeeelTariatedocercrcdmrummatn quo admirationem rapere.
Scnbit enim non phyticcCut plxri solent sed metaphyiicc de animoru
noftroru immorta litate/utplane poffit de ea re omnem dubitationem
amouere. Quem librum cu Icges/&ha;c quz deMaronereqiuris:&plzra^
alia quz nos paulo antediuinif fima cfle non rumusmentiti/facilec^nofces.
Qux quidem res facit ut in iis quzpo (hilafiibre uiorquelles /forta(»fuerim.l^hil
tamen eft quod breuitad ^cenfeas. Nam cum ea requireres/quz nullis eius
difputationis quam pepige camus cancellis includerentur/poteram illa meo
iurefilentio przterire. Itacpid facile fi forte obiidatur diluam. Apud vos
vero dodif Timi viri quomodome purgem non invenio.Video enim dum
pofiulanti LAVRENTIO nihil d&> ncgo/duplids errati culpam
inddifle.Nam quid me aut loquadus fingi poteft/ qui quarto iam die ea
eruditifiimis aunbus uefiris inculcare non delinam : quae quadodrina
efiis/uobisqua mihi notiora fint: aut aud adusex cogitari quiim
praemeditatus ad differendum de iis rebus accelferim quzado dilfiinis iifdci
diuprz meditads uids uix faris eleganter pro sua dignitate explicari folcant. Im
mo quid humanius/quid tua fadiitate dignius refpondit Alamanus effid potu
Itqua meanobisodofis dilferere quz tamen magnis vehementer cp urgentia bus
occupationibus przponere non dubitaremus.Nos autem inquit Petrus ac
daiolus uolo enim et pro fratre meo refpondecc ne optare quidem id aulielfe tnuss
quod ultro nobis arridens fortuna attulitiut tu tali przditusfapientia at ELOQUENTIA
VIR ea deduplid quzftione primis duobus diebus breuiter per. Ipicueiabfoluteip
in unum congereresrquz non nili per fummum laborem: (i> mam
indufiriamex multis ac uariis fcnptoribus cruipolfunt . Nam Maro nis
diligentifiima at^ multiplid dodrina referta interpretatio in qua tertio
ac quarto iam die uetfarisitum quia pulcherrima tum quia inaudita accidit
no mi nori Ihiporetqua deledationc nos alfecit. Non polfut fatis pro fua
dignitate lau dariquzatedidafunt inquit Antonius: Sed utinam Baptifia
quoniam reli quamztatem Romzcon fumpfilb hanc tandem fenedutem patriz uel
optao ticodonare uei illa tanquaafuociue exigenti corpore uelisutfzpius te
de magnis rebus difputantem audientes ciues tui dodiores indies meliorefc
reddantur. Verum has ego huius Marci partes ee ducoiTe enim pro ea quz illi
tecu intercedit nec clfitudine modo nitat facile in sua sententia tradudurum
confido. Quin ifihuc ia diu ago inquit Marcusinec prius defina qua aut
ronibus impc' travero aut praecibus ezotnaueto aut defatigando extorfero. Sed
ut confido muItum meineateiuuabit LAVRENTll acluliani ingeniu acftudiu. NI
cu inultu iam in litteris uter pfeccrit: fitr multatu tetu addifceda^
ardentiffima cupiditasrcu cztera illis & a natura 8C a fortuna
adiumeta ad re perficiendam abunde aifintind pariet'' ille diu adolescentibus
quos cariflimos habet operam sua desiderari. At q liceat md iqt BAPTIfta
ego talib5’adolescentibus ounq deerot Sed furgamus ii/SC qm primo mane
uobis e in urbe redeudu.intellexifti cni pau lo an uurcriu publicis Ifis
accctfiri quod reliquu diei eft ualimdini ipedamus. Quzftionu Canuldulefiu
Cbrifiophori Landini [LANDINO] florentini QuaitifiC ultimi libri Finis.
Cum Priuilegio. -Z.sisqfc "Moibc scof. Questo lavoro porta
nuovi elementi allo studio delle complesse vicende inerenti i RERVM GESTARVM
FRANCISCI SPHORTIAE commentarii di Giovanni Simonetta e il relativo
volgarizzamento, la sforziada di Cristoforo LANDINO. Nel saggio introduttivo si
indagano gli aspetti biografici, storici e filologici riguardanti le due opere,
partendo proprio da SIMONETTA, attivo nella cancelleria di SFORZA assieme al
piú noto fratello Cicco Simonetta, e ricostruendo la storia testuale dei
Commentarii dalle loro origini agli emendamenti eseguiti dall’umanista POZZO in
vista dell’editio princeps, senza trascurare le vicende editoriali e le prime
reazioni all’opera. Punto di forza dell’analisi è l’aver ritrovato e studiato
nel dettaglio il manoscritto originale, nonché esemplare di dedica, dei
Commentarii, già noto a SORANZO il secolo scorso quale codice Castelbarco.
L’attenzione si sposta quindi da Milano a Firenze, entrando nell’officina
testuale di Cristoforo LANDINO per sondare la sforziada dal punto di vista
metodologico e contenutistico, con un conseguente particolare riguardo per le
vicende successive all’invio del manoscritto di dedica (copiato da Tommaso
Baldinotti) a Milano, dove il testo viene sottoposto dal Simonetta a numerosi
interventi visibili ancora oggi. Chiude la parte introduttiva un capitolo che
vuole delineare la storia dello sviluppo dei commentarii come genere nel quadro
storiografico dalle origini alla fine del Quattrocento. A seguire il lettore
troverà l’edizione critica della sforziada in veste integrale, corredata di un
approfondito apparato comprensivo degli interventi che ne testimoniano la
ricezione a Milano. Grice: “Perhaps more interesting than the fact that he
loved the Achilleid, and commented on the Eneide, is that he sold the sforzeide
– sull’eroe Milanese, l’invitto Francesco Sforza! Howell in I Medici. Cristoforo
Landino. Cristoforo Landino. Grice: “I love Landino; for one he wrote the first
Italian philosophical dialogue, “Disputationes” – for another, I love the setting!” Landino. Keywords:
dialettica fiorentina – implicatura fiorentina – la Sforziada di Simonetta. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Landino” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Landucci: l’implicatura conversazionale -- i misteri del delitto Gentile e le
bestie senza stato di Vespucci – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Sarzana). Filosofo italiano. Grice: “If I had in Hardie a wonderful mentor to
Aristotle, I missed Landucci’s mentoring me into Kant!” – Si laurea a Pisa con
Luporini. Insegna a Firenze. Altri saggi: “Cultura e ideologia in Sanctis” (Milano,
Feltrinelli); “I filosofi e i selvaggi” (Bari, Laterza); “L’origine della
scienza sociale” (Firenze, Sansoni); “La co-scienza e la storia” (Firenze, Nuova
Italia); “La contraddizione” (Firenze, Nuova Italia); “Teodicea” (Napoli,
Bibliopolis); “La Critica della ragion pratica” (Roma, NIS), Sull'etica di Kant, Milano, Guerini, La mente
in Cartesio, Milano, F. Angeli, I
filosofi e Dio, Roma-Bari, Laterza, La doppia verità: conflitti di ragione e
fede tra Medioevo e prima modernità, Milano, Feltrinelli, A. Gnoli, Intervista,
"Repubblica", Scheda biografica su Einaudi. Sergio Landucci. Grice:
“Basically, Landucci covers all the topics of my interests, including that of
the alleged ambiguity in Kant’s idea of a ‘reason’!” UCCI, UCCI SENTO ODOR DI L.
– I MISTERI DEL DELITTO GENTILE, IL LEGAME CON LUPORINI, IL '68 IN CATTEDRA
("FUMMO INVASI DAGLI ANALFABETI") IL GRANDE FILOSOFO SI RACCONTA: “MI
PIACEREBBE SCRIVERE UN saggio SULLA DEMENZA SENILE CHE STA ATTANAGLIANDO L'
OCCIDENTE. RICORDO UNA FRASE CHE DICE: "GRANDEZZA È CIÒ CHE NOI NON
SIAMO". HO LA SENSAZIONE CHE L'ABBIAMO DIMENTICATA…” Gnoli per
Robinson-la Repubblica landucci LANDUCCI Per molto tempo il
suo nome è rimasto associato a un grande libro che quando apparve nei primi
anni Settanta fu come una meteora, tanto sembrò strano nel panorama delle cose
che allora si pubblicavano. Sto parlando de I filosofi e i selvaggi (uscì
allora per l' editore Laterza ed è stato ripubblicato, e aggiornato, qualche
mese fa da Einaudi). La sua lettura mi colpì allora e mi rimanda all' oggi
con i "selvaggi", sempre meno variopinti ed esotici, spinti dalla
disperazione ad abbandonare le loro terre martoriate. Il paragone turba L..
Seduto nello studiolo mi guarda con la sua faccia triste. Sono venuto a Firenze
per incontrarlo. Si stupisce e quasi si scusa per il fastidio che mi avrebbe
arrecato: è un uomo timido, deluso, gentile ma altresì con un retrogusto di
indefinita rabbia. Landucci è stato allievo di Luporini, ha insegnato all'
università di Firenze, subendone, dice, tutti i contraccolpi politici: «Divenni
ordinario. Quasi immediatamente percepii un generale clima di ostilità e
rassegnazione. Con una rapidità incredibile la facoltà di filosofia adottò una
selezione alla rovescia: vennero avanti a passo di carica gli analfabeti, i
carichi didattici furono alleggeriti, i ruoli stravolti. Ho vissuto
tremendamente male gli anni dell' insegnamento e decisi per la pensione anticipate.
È stato così frustrante il lavoro universitario? «Lo è stato certamente
per uno come me. Mi consideravo, come si diceva allora, un "cane
sciolto". Mi stupì constatare che la facoltà si era ridotta a una grande
cellula del Pci, su cui si incistò dopo il '68 la contestazione
studentesca». I punti di riferimento furono però due grandi personalità
di sinistra: Garin e Luporini. «Maestri indiscussi. Mi chiedo
tuttavia quanto sia stata acuta la loro vista politica. Garin fu il grande
interprete di una filosofia come sapere storico, il suo storicismo era
totalmente in sintonia con le posizioni culturali del Pci. Quanto a Luporini c'
era un inquietudine ben maggiore che lo portò a misurarsi e a simpatizzare con
le ragioni degli studenti. Non stigmatizzo il loro magistero, cui peraltro devo
moltissimo, sostengo semplicemente che furono anni in cui la politica prese il
sopravvento. Era lo spirito del tempo. Ne facevo parte anch' io, ma senza
tessere o bandiere. Del resto non sono mai stato iscritto a nulla. Giunsi all'
Università di Firenze nel 1960, come libero assistente, chiamato da Luporini. Quali
erano i vostri rapporti? E mio professore a Pisa e con lui mi laureai. Mi
affascinava quest' uomo che andò in Germania a occuparsi di esistenzialismo e
seguì i corsi di Heidegger». Credo sia stato uno dei pochi italiani a
frequentarne i seminari. C' è un episodio rivelatore del rapporto con HEIDEGGER
Quando il filosofo tedesco pronuncial il famigerato discorso con cui si
insediava da Rettore a Friburgo, Luporini restò sconcertato da quell' adesione
al regime. Qualche giorno dopo incontrandolo gli comunicò che lascia Friburgo
per Berlino. Heidegger gli chiese perché. Lui rispose che era interessato ai
corsi di Hartmann. Il maestro lo liquida con un ironico "tanti
auguri"».A proposito di filosofi si è spesso detto che il vecchio lupo,
così era soprannominato Luporini, fosse rimasto l' ultimo a sapere i dettagli
dell' omicidio Gentile. Lei è a conoscenza di qualche particolare? « C' è
innanzitutto da ribadire il legame che Luporini ebbe con Gentile, il quale lo
chiamò come lettore di tedesco a Pisa, in sostituzione di Oscar Kristeller,
ebreo che dovette riparare negli Stati Uniti dopo le leggi razziali. GENTILE aiuta
Kristeller, come pure tanti antifascisti che si rifugiarono alla Treccani e
all' Università, fornendogli soldi e assistenza. Poi chiama Luporini alle due
di notte dicendogli di decidere in fretta perché altrimenti sarebbe venuto
qualcuno dalla Germania, quasi certamente un insegnante di fede nazista».Questo
è lo sfondo. Poi cosa accadde? Quando la situazione precipita. Luporini va
a casa di Gentile e lo scongiura di non entrare nella Repubblica Sociale. Gli
dice. Professore c' è gente che non aspetta altro per ucciderla. GENTILE
aderisce alla Rsi e viene ucciso in un attentato. Si è detto che Luporini conosce
i mandanti e gl’esecutori dell' omicidio. Credo che il vecchio lupo non sa
nulla, o almeno nulla di diretto. Ci e una sua dichiarazione radiofonica in tal
senso, ma credo e il frutto di un fraintendimento. La frase di L. e
questa: Cose che forse non si possono ancora dire. Cosa le fa supporre che e
frutto di equivoco? Il fatto che accreditasse la versione offerta da
Mattei, che sull' argomento cambia più volte opinione. Fino a sostenere che
dietro quell' omicidio ci e BANDINELLI. Mai uno straccio di prova. Credo si sia
perfino inventata che fu lei a indicare al commando gappista la figura di GENTILE,
che non ha mai conosciuto. Poi c' è la testimonianza della moglie di LUPORINI
Maria Bianca Gallinaro, la quale mi disse sconsolata che la storia che Luporini
sapesse era solo una leggenda, del tutto infondata». Possibile che non ci
fosse un grano di verità? « La sola cosa che riesco a pensare è che LUPORINI
e emotivamente coinvolto. Dopo l' attentato, GENTILE e trasportato moribondo
all' ospedale. Il fratello della signora, medico al Careggi, chiama LUPORINI dicendogli
se vuole vedere per l' ultima volta GENTILE. E lui anda e vede il filosofo in
fin di vita. Non credo sia stato un bello spettacolo. Questo è tutto. Dopo
quella dichiarazione radiofonica mi permisi di consigliare Luporini a non
pronunciare più quella frase».E lui? « Non so se fu una mia impressione
ma gli lessi negli occhi un certo imbarazzo». Negli anni di Pisa chi
frequentava? «Tra le persone che hanno avuto un peso: CANTIMORI e TIMPANARO.
Di quest' ultimo divenni grande amico». So che Cantimori incuteva una
certa paura per il modo di fare lezione e interrogare. «A me, che non
sono stato suo scolaro, suscitava tenerezza». Cosa pensa della sua vita
ideologica piuttosto travagliata? « Se allude al passaggio dal fascismo
al comunismo non saprei cosa pensare. Come ad altri intellettuali gli è mancato
il pensiero liberale. Era dominato dai fatti e dall' idea che la storia sia
guidata dal potere. Usce dal Pci. Non solo per i noti episodi di Ungheria ma
perché non ne poteva più del partito. Era un sopravvissuto a se stesso. Cosa
intende? Deluso. Era convinto che io fossi una specie di longa manus del
Pci, non gli ho mai dato la soddisfazione di smentirlo. A volte con ironia
diceva: "Landucci, è vero che non basta dire viva la bandiera rossa per
essere intelligenti?". Gli ultimi anni della sua vita li passò a insegnare
a Firenze, in un ambiente che non lo amava. Prima di morire andò a Princeton
per un ciclo di lezioni e quando tornò gli dissi: "Le ha fatto bene stare
lontano da Firenze". Sì, rispose, ho evitato la noia». Poi c' è TIMPANARO.
«Era stato allievo di PASQUALI, ma invece di inseguire la carriera
universitaria, divenne un outsider della cultura. Motiva la sua scelta con una
certa difficoltà a parlare in pubblico. Ma io so che aveva orrore della
professione accademica. Ebbe rapporti difficili con il mondo e bellissimi con
le persone che amava. Per lungo tempo mi considerò tra queste. Solo negli
ultimi anni scese tra noi il silenzio. Non digerì, non accettò o forse non
seppe accogliere il fatto che mi fossi separato da mia moglie. Ma la vita va
dove deve andare e a volte non ci possiamo fare niente. Da lui ho appreso il
rigore filologico. Fu grandissimo nelle questioni leopardiane e in tutta la
riflessione sul materialismo. Ma anche sorprendentemente originale nella
lettura di Freud. È strano, ma ogni volta che penso alla vita di chiunque, mi
chiedo quanta parte vi avrà avuta il caso. Le coincidenze prese o mancate, per
lo più senza rendersene conto». Per lei il caso è stato così
incisivo? Direi che il caso domina fin dalla famiglia di origine: un
ambiente che non scegliamo, e nel quale ci troviamo gettati». La sua
famiglia com' era? « Papà avvocato, ma frustrato perché ricopriva un
impiego modesto. Mia madre maestra. Vivevamo a Sarzana. Ricordo un padre
anziano e la mamma che gli proibì di venire a prenderci a scuola, me e mio
fratello, per paura che lo scambiassero per il nonno. Lo vivevo come un uomo di
altri tempi. Anche nel lessico ricordava la belle époque. Invece di autista
dice chauffeur, vis à vis a posto di specchio e quando chiedeva l'asciugamano
dice passami il Amava il melodramma italiano. Invece, melodrammatica di suo e
mia madre. Risultato: ho sempre detestato la musica lirica! Forse perfino più
di quanto non abbia detestato che mi chiamassero Sergio». ROUSSEAU
Dà l' impressione di un uomo provato dalla vita. Sono molto amareggiato
dalla mia vita professionale e privata. Non ho né la forza né la voglia di
entrare nei dettagli, ma ho l' impressione di essere stato irriso e torturato
dalla vita. Il lavoro nelle biblioteche di mezza Europa e negli archivi è stata
la mia droga, la mia unica grazia. Non ho avuto nessun successo ma almeno mi ha
consentito di vivere». Non è vero, il suo libro sui "
Filosofi e i selvaggi" è un grande libro. «Non diciamo sciocchezze,
troppo carico di note, di troppe citazioni in originale e, in fondo, di inutile
erudizione. La sola cosa che ricordo è una stroncatura di Diaz. Scriverlo, fu
un' idea casuale. Un libro nato senza nessun presupposto. Diciamo che mi
appassionava Montaigne». È il primo ad accorgersi della figura del
selvaggio e a prenderne le difese. « Non è il primo, ma in qualche modo
rovescia la posizione di Amerigo Vespucci che presenta i selvaggi simili alle
bestie. Diversamente da Colombo che sposa la tesi antica del mito del buon
selvaggio. Montaigne dice che il selvaggio non ha Stato, non ha costrizioni,
non ha religione, non ha falsità, è privo cioè di tutti quei caratteri che
soffocano la civiltà occidentale».È la scena che prevarrà? «È solo una
tesi che a Montaigne serve per screditare la chiesa e gli stati. Gli eccidi, la
violenza, il terrore che scuotono l' Europa delle guerre di religione e che
culminano nella notte di San Bartolomeo, sono messi in contrapposizione con la
mitezza del selvaggio ». È una tesi che riprenderà Rousseau. «Fino a
un certo punto, anche perché il suo selvaggio è un uomo felice ma violento. Non
conosce la corruzione né è posseduto dalla brama di potere, ma è
sostanzialmente un individuo aggressivo. Chi porterà alle estreme conseguenze
questa impostazione è Hobbes che rovescia la costruzione di
Montaigne Hobbes parla di uno "stato di natura". firenze FIRENZE Dove tutti si fanno la guerra e dove
la vita delle persone è permanentemente in pericolo. L' immagine di questa
condizione brutale Hobbes la ricava dalle descrizioni che vengono fatte dei
selvaggi di America. Si può dire che l' Occidente fin dall' antichità si sia
servito di questo mito con le peggiori intenzioni? « È passata l' idea,
con qualche eccezione, che fossero troppo diversi da noi per ogni ipotetica
assimilazione». Al punto che ancora oggi questa diversità è vissuta come
una minaccia di contagio e sostituzione? Qualcuno, come lei sa, ha perfino
parlato di "uomo bianco" in pericolo di estinzione. «Nelle fasi
di grave fibrillazione sociale, quando il discredito si abbatte su ogni aspetto
della vita politica, il delirio - come strumento patologico - rischia di
trionfare. Mi pare di poter dire che è quanto sta accadendo e che contribuisce
ahimè ai miei stati depressivi. Sono convinto che non ci sia nessuna
giustificazione al male né all' imbecillità. Ho scritto un libro contro la
teodicea, mi piacerebbe scriverne uno sulla demenza senile che sta
attanagliando l' Occidente. Ma non credo di averne più la forza. Mi
resta questa infelicità che è come un che sovrasta le mie parole che non so più
maneggiare con delicatezza. Ricordo una frase che Luporini aveva ripreso dal
vecchio Burckhardt, è bellissima. Dice: "Grandezza è ciò che noi non
siamo". Ho la sensazione che l' abbiamo troppo spesso ignorata o, peggio
ancora, dimenticata». Grice: “Landucci has aptly explored the concept of
the ‘barbarian’. It all starts with Montaigne, an anarchist – he assumes a fake
philosophical position just to justify his anarchisms: savages are fun, happy,
and they have no state! Vespucci moe or less thought the same, but for
different reasons. Just like an ape doesn’t have a state, Vespucci says, so a
savage!” -- Landucci. Keywords: i misteri del delitto Gentile. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Landucci” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Latini: l’implicatura conversazionale -- l’implicatura rettorica di Publio e
Cicerone -- implicatura – filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. Grice: “Latini reminds me of Hardie; he was Aligheri’s mentor;
Hardie mine!” -- Grice: “People say it all starts with Alighieri; but the real
‘filosofo’ behind Alighieri surely is Burnetto – he has chapters on ‘Platone,’
‘Aristotele,’ and the rest of them.” «Poi
si rivolse, e parve di coloro che corrono a Verona il drappo verde per la
campagna; e parve di costoro quelli che vince, non colui che perde»
(Divina Commedia). Figlio di Buonaccorso e nipote di Latino Latini, appartenente
ad una nobile famiglia. Le fonti storiche e una serie di documenti autografi
testimoniano la sua attiva partecipazione alla vita politica di Firenze. Come
egli stesso narra nel Tesoretto, fu inviato dai suoi concittadini alla corte di
Alfonso X per richiedere il suo aiuto in favore dei guelfi. Tuttavia, la
notizia della vittoria dei ghibellini a Montaperti lo costrinse all'esilio in Francia. I cambiamenti politici
conseguenti alla vittoria di Carlo I da Benevento sconsentirono il suo ritorno in Italia. Fu risarcito del torto
subito, con il titolo di Segretario del Consiglio della repubblica, stimato ed
onorato dai suoi concittadini. La sua influenza divenne tale che a
partire si trova a malapena nella storia di Firenze un avvenimento pubblico
importante al quale non abbia preso parte. Contribuì notevolmente alla
riconciliazione temporanea tra guelfi e ghibellini detta "pace di
Latino". PPresiedette il congresso dei sindaci in cui fu decisa la
rovina di Pisa. Elevato alla dignità di Priore. Questi magistrati, in numero di
dodici, erano stati previsti nella costituzione. La sua parola si fa
frequentemente sentire nei Consigli generali della repubblica. Era uno degli
arringatori, od oratori, più frequentemente designati. Nel Canto XV
dell'Inferno Dante lo incontra tra i sodomiti, violenti contro Dio nella
natura. Siamo nel terzo girone del settimo cerchio; Dante e Virgilio camminano
su un piano rialzato rispetto alla landa desolata in cui i dannati procedono.
Alighieri, che era stato allievo di Latini, è profondamente scosso, e non
nasconde verso il maestro una persistente ammirazione. Latini è il primo nella
Commedia a toccare fisicamente Alighieri, tirandolo per la veste. Altre
opera:“Il Tesoretto,” poema (incompiuto o mutilo) scritto in volgare
fiorentino, in settenari a rima baciata, narrato in prima persona. L'autore definisce l'opera Tesoro, ma il nome “Tesoretto”
è presente già nei manoscritti più antichi,
presumibilmente per distinguerla dalle traduzioni italiane del “Tresor”.
Il protagonista, sconfortato dalla notizia della disfatta di Montaperti, si
perde in una "selva diversa". Nella sua peregrinazione si imbatte
nelle personificazioni della Natura e delle Virtù, che gli illustrano la
composizione del Mondo e i modelli di comportamento cortesi. Il “Tesoretto” si
interrompe nel momento in cui il protagonista incontra Tolomeo, che sta per
spiegargli i fondamenti dell'astronomia. Influenzato da un lato dal
romanzo cortese, dall'altro dai poemi allegorici, realizza un'opera che da una
parte della critica è ritenuta tra i precursori diretti della Commedia (Venezia,
Melchiorre Sessa il Vecchio); “Li livres dou Tresor” e la più celebre, scritta
durante l'esilio in Francia, in lingua vernaculare, perche "è la parlata
più dilettevole e più comune tra tutte le lingue.” Consta di tre libri e
risulta la prima enciclopedia volgare in senso proprio. Altri testimoni sono
stati segnalati in seguito da Squillacioti, Divizia e Giola. Il primo
libro tratta dell’origine di tutto. Tra gl’argomenti affrontati vi sono
un'ampia storia universale, dalle vicende dell'Antico e del Nuovo Testamento
alla battaglia di Montaperti, elementi di medicina, fisica, astronomia,
geografia, e architettura, e un bestiario. Si trova, in questo primo libro, una
delle menzioni più antiche che conosciamo di una bussola e l'indicazione della
sfericità della terra. Nel secondo libro si tratta dei vizi e delle virtù,
attingendo sostanzialmente dall'Etica Nicomachea. Il terzo libro riguarda
principalmente la retorica. Utilizza come fonti Platone, Aristotele, Senofane, il
romano Publio Vegezio e Cicerone. Altre opera: è inoltre autore di un
altro breve poemetto, “il Favolello”, di una “Rettorica” volgarizzamento e
commento del De inventione di Cicerone, nonché dei volgarizzamenti di tre
orazioni ciceroniane (Pro Ligario, Pro Marcello, Pro rege Deiòtaro). Jauss,
Alterità e modernità della letteratura medievale, Boringhieri S. Sarteschi, Dal
"Tesoretto" alla "Commedia": considerazioni su alcune
riprese dantesche dal testo di Latini, in "Rassegna di letteratura
italiana", B. Latini, Tresor; G. Beltrami Squillacioti Torri e S. Vatteroni”
(Torino, Einaudi); A. D'Agostino, Itinerari e forme della prosa, in Storia
della letteratura italiana” (Roma, Salerno); Tresor. Beltrami, Squillacioti,
Torri, Plinio, Torino). Aggiunte (e una sottrazione) al censimento dei codici
delle versioni italiane del "Tresor”, Medioevo romanzo, La tradizione dei volgarizzamenti toscani del
Tresor con un'edizione critica della redazione alfa. Verona. Edizione del
volgarizzamento toscano. La colonna
posta dove è stata riscoperta la sua tomba, Santa Maria Maggiore; “Livres dou
Tresor” (Vineggia, per Gioan Antonio & fratelli da Sabbio, ad instanza di N.
Garanta & Francesco da Salo); Dizionario biografico degli italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Tesoretto. In G. Contini, Poeti del
Duecento, Ricciardi, Milano. A scuola con ser Brunetto. Indagini sulla
ricezione dal Medioevo al Rinascimento. Atti del convegno di studi, Basilea, I.
Maffia Scariati, Firenze, Galluzzo, D'Arco Silvio Avalle, Ai luoghi di delizia
pieni, Ricciardi, Milano, A. Carrannante, "Implicazioni dantesche:
Brunetto Latini (Inf. XV)", "L'Alighieri", Enciclopedia
dantesca, ad vocem, Istituto dell'Enciclopedia Italiana Treccani, Roma, P. Fornari,
Dante e Brunetto, Co-Op, Varese, Poi in: Pro Dantis virtute et honore, Co-Op
Varese, L. Frati, Brunetto Latini
speziale, "Il giornale dantesco", F. Maggini, La «Rettorica» Latini,
Firenze, Galletti e Cocci, U. Marchesini, Due studi biografici, Atti
dell'Istituto Veneto", "La posizione del Latini nel canto XV
dell'Inferno dantesco"). Merlo, E se Dante avesse collocato Brunetto
Latini tra gli uomini irreligiosi e non tra i sodomiti?, "La cultura",
Poi in: Saggi glottologici e letterari, Hoepli, Milano, Fausto Montanari, "Cultura
e scuola", Antonio Padula, Il Pataffio, Dante Alighieri, Milano, Roma e
Napoli, Manlio Pastore Stocchi, Delusione e giustizia nel canto XV
dell'Inferno, "Lettere italiane"(poi in: Letture classensi, Longo, Ravenna; "Representations", R.
Santangelo, "Tutti cherci e litterati grandi e di gran fama": "Il
sogno della farfalla. Rivista di psicoanalisi", M. Scherillo, Alcuni
capitoli della biografia di Dante, Loescher, Torino Thor Sundby, Della vita e
delle opera (Monnier, Firenze); Alighieri Storia di Firenze Divina Commedia, Il
Favolello Il Tesoretto. Treccan Enciclopedie
Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana, sRegesta Imperii, su opac.regesta-imperii.de. Portal,
su florin.ms. G. Orto, L.. Tommaso Giartosio, Dante e Brunetto Latini. Tratto
da: Perché non possiamo non dirci. Letteratura, omosessualità, mondo,
Feltrinelli, Milano, Concordanze del libro del Tesoretto, su classicis tranieri,
Li livres dou trésor, ed. par Polycarpe Chabaille, Paris M. Giacomelli. La
rettorica. Qui comincia lo 'usegnamento di rettorica, lo quale è
ritratto in vulgare de' libri di Tullio e di molti filosofi per ser
Burnetto Latino da Firenze. Là dove è la lettera grossa si è il testo di
Tullio, e la lettera sottile sono le parole de lo sponitore. Incomincia il
prologo. Sovente e molto ò io pensato in me medesimo se la copia del
DICERE e lo sommo studio dell’ELOQUENZA àe fatto più bene o più male agl’uomini
et alle città. Però che quando considero li dannaggii del nostro comune e
raccolgo nell' animo l’antiche aversitadi delle grandissime città, veggio
che non picciola parte di danni v’è messa per uomini molto parlanti sanza
sapienza. Qui parla lo sponitore. RETTORICA èe SCIENZA di due manière. Una
la quale insegna dire, e di questa tratta Tulio nel suo saggio. L’altra
insegna dittare, e di questa, perciò che esso non ne trattò cosi del tutto
apertamente, si nne tratterà lo sponitore nel processo del saggio, in suo
luogo e tempo come si converrà. Rettorica s' insegna in due modi, altressì
come l’altre scienzie, cioè di fuori e dentro.Verbigrazia: Di fuori
s'insegna dimostrando che è rettorica e di che generazione, e quale sua
materia e lo suo officio e le sue parti e lo suo propio strumento e la
fine e lo suo artifice. Ed in questo modo tratta BOEZIO nel quarto della
Topica. Dentro s'insegna questa arte quando si dimostra che sia da
fare sopra LA MATERIA DEL DIRE e del dittare, ciò viene a dire come
si debbia fare lo exordio e la narrazione e L’ALTRE PARTI DELLA DICIERIA o
della pistola, cioè d'una lettera dittata. Ed in ciascuno di questi due modi ne
tratta Tulio in questo suo saggio. Ma in perciò che Tulio non dimostra che
sia rettorica né quale è '1 suo artefice, sì vuole lo sponitore per
più chiarire l'opera dicere l'uno e l'altro. Ed èe rettorica una scienzia DI
BENE DIRE, ciò è rettorica quella scienzia per la quale noi saperne ORNATAMENTE
dire e dittare. Inn altra guisa è così diffinita. Rettorica è scienzia di
ben dire sopra la causa proposta, cioè per la quale noi sapemo ornatamente
dire sopra la quistione aposta. Anco àe una più piena difiìnizione in
questo modo. Rettorica è scienza d'usare piena e PERFETTA ELOQUENZA nelle
publiche cause e nelle private. Ciò viene a dire scienzia per la quale noi
sapemo parlare pienamente e perfettamente nelle publiche e nelle private
questioni. E certo quelli parla pienamente e perfettamente che nella sua
diceria mette parole adorne, piene di buone sentenzie.
Publiche questioni son quelle nelle quali si tratta il
convenentre d'alcuna città o comunanza di genti. Private sono
quelle nelle quali si tratta il convenentre d'alcuna spiciale persona. E
ttutta volta è lo 'ntendimento dello sponitore che queste parole sopra '1
dittare altressì come sopra '1 dire siano, advegna che tal puote sapere
bene dittare che non àe ardimento o scienzia di profiferere le sue parole
davanti alle genti; ma chi bene sa dire puote bene sapere dittare.
Avemo detto che è rettorica, or diremo chi è lo suo artifice. Dico che è
doppio, uno è rector e l'altro è orator. Verbigi-azia. Rector è quelli che
'nsegna questa scienzia SECONDO LE REGOLE e comandamenti dell'arte.
Orator è colui che poi che elli àe bene appresa l'arte, sì l’usa
in dire ed in dittare sopra le questione apposte, sì come sono li
buoni parlatori e dittatori, sì come fue maestro Piero dalle Vigne, il quale
perciò fue agozetto di Federigo II imperadore di Roma e tutto sire di lui e
dello 'mperio. Onde dice Vittorino che orator, cioè lo parlatore, è uomo
buono e bene insegnato di dire, lo quale usa piena e perfetta eloquenza nelle
cause publiche e private. Ora àe detto lo sponitore che è rettorica, e del
suo artifice, cioè di colui che la mette in opera, l'uno insegnando
l'altro dicendo. Ornai vuole dicere chi è l'autore, cioè il trovatore di
questo saggui, e che fue LA SUA INTENZIONE in questo saggio, e di che tratta, e
la cagione per che lo saggio è composto e che utilitade e che tittolo à
questo saggio. L' autore di questa opera è doppio. Uno che di tutti
i detti de' filosofi che fuoro davanti lui e dalla viva fonte del suo
ingegno fece suo libro di rettorica, ciò fue Marco Tulio Cicerone, il più
sapientissimo de' romani. Il secondo è Brunetto de’ Latini, cittadino di
Firenze, il quale mise tutto suo studio e suo intendimento ad isponere e
chiarire ciò che Tulio dice. Ed esso è quella persona cui questo saggio
appella sponitore, cioè ched ispone e fae intendere, per lo suo propio detto e
de' filosofi e maestri che sono passati, il saggio di Tulio, e tanto più
quanto all'arte bisogna di quel che fue intralasciato nel saggio di Tulio,
sì come il buono intenditore potràe intendere avanti. La sua
intenzione fue in questa opera dare insegnamento a colui per cui amore e' si
mette a fare questo trattato de parlare ornatamente sopra ciascuna questione
proposta. Et e' tratta secondo la forma del saggio di CICERONE di tutte
le parti generali di rettorica. Verbigrazia. L’invenzione, cioè, il trovamento
di ciò che bisogna sopradire alla materia proposta; e dell'altre iiij° secondo
che sono nel secondo saggio che CICERONE fa ad Erennio suo amico, sopra le
quali il conto dirà ciò che ssi converrà. La cagione per che questo saggio
è fatto si è cotale, che Latini, per cagione della guerra la quale
fue traile parti di Firenze, fue isbandito della terra quando la sua parte
guelfa, la quale si tenea col papa e colla chiesa di Roma, fue cacciata e
sbandita della terra. E poi si n'anda in Francia per procurare le sue
vicende, e là trova uno suo amico della sua città e della sua
parte, molto ricco d'avere, ben costumato e pieno de grande
senno, che Ili fece molto onore e grande utilitade, e perciò l'apella suo
porto, sì come in molte parti di questo saggio pare apertamente; et era
parlatore molto buono naturalmente, e molto disidera di sapere ciò che' savi
aveano detto intorno alla rettorica; e per lo suo amore Latini, lo quale
era l)uono intenditore di lettera et era molto intento allo studio di
rettorica, si mette a fare questo saggio, nella quale mette innanzi il
testo di Tulio per maggiore fermezza, e poi mette e giugne di sua
scienzia e dell'altrui quello che fa mistieri. L' utilitade di
questo saggio è grandissima, però che ciascuno che sa bene ciò che
comanda lo libro e l'arte, sì sa dire interamente sopra la questione
apposta. E in questo punto si parte elli da questa materia e ritorna al
propio intendimento del testo. In questa parte dice lo sponitore che
CICERONE, vogliendo che rettorica fosse amata e tenuta cara, la quale al
suo tempo e avuta per neente, mise davanti suo prolago in guisa di bene savi,
nel quale purga quelle cose che pareano a lui gravose. Che si come dice BOEZIO
nel commento sopra la Topica, chiunque scrive d'alcuna materia dee prima
purgare ciò che pare a lui che sia grave; e così fa CICERONE, che purga
tre cose gravose. Primieramente i mali che veniano per copia di dire. Apresso
la sentenza di Platone, e poi la sentenza d'Aristotele. La sentenza di Platone e
che rettorica non è arte, ma è NATURA per ciò che vede MOLTI BUONI
DICITORI PER NATURA e non per insegnamento d'arte. La sentenza
d'Aristotile fa cotale, che rettorica è ARTE, ma REA, per ciò che per eloquenza
parca che fosse a venuto più male che bene a' comuni e a' divisi. Onde CICERONE
purgando questi tre gravi articoli procede in questo modo. Che in prima
dice che sovente e molto ae pensato che effetto proviene d'eloquenza.
Nella seconda parte pruova lo bene e '1 male chende venia e qual più.
Nella terza parte dice tre cose. In prima , dice che pare a lui di
sapienzia; apresso dice che pare a lui d' eloquenzia. E poi dice che pare
a lui di sapienza ed eloquenzia congiunte insieme. Nella quarta parte sì
mette le pruove sopra questi tre articoli che sono detti, e conclude che
noi dovemo studiare in rettorica, recando a ciò molti argomenti, li quali
muovono d' onesto e d' utile e lo possibile e necessario. Nella quinta
parte mostra di che e come egli tratta in questo saggio. E poi che nel
suo cuminciamento dice come molte fiate e lungo tempo pensa del bene e
del male che fosse advenuto, immantenente dice del male
per accordarsi a' pensamenti delli uomini che si ricordano più d'uno
nuovo male che di molti beni antichi; e cosi Tulio, mostrando di non
ricordarsi delli antichi beni, s' infigne di biasraare questa scienzia per
potere più di sicuro lodare e difendere. E per le sue propie parole che
sono scritte nel testo di sopra potemo intendere apertamente che in
queste medesime parole ove dice che i mali che per eloquenza sono advenuti e
che non si possono celare, in quelle medesime la difende abassando e
menimando la malizia. Che là dove dice dannaggi si suona che siano lievi
danni de' quali poco cura la gente. E là dove dice del nostro comune
altressì abassa del male, acciò che più cura l'uomo del propio danno che del
comune; e dicendo NOSTRO comune intendo ROMA, però che Cicerone e cittadino di
Roma nuovo e di non grande altezza; ma per lo suo senno fue in sì
alto stato che TUTTA ROMA si tenea alla sua parola, e fue al tempo
di Catellina, di Pompeio e di Giulio Cesare, e per lo bene della terra fue al
tutto contrario a Catellina. Et poi nella guerra di Pompeio e di Giulio
Cesare si tenne con Pompeio, sicome tutti ' savi eh' amano lo stato
di Roma. E forse l'appella nostro comune però che ROMA èe capo del
mondo e comune d'ogne uomo. Et là dove dice l'antiche adversitadi
altressì abassa il male, acciò che delli antichi danni poco curiamo. Et
là dove dice grandissime cittadi altressì abassa '1 male, però che,
sì come dice il buono poeta LUCANO, non è conceduto alle
grandissime cose durare lungamente; e l'altro dice che le grandissime cose rovinano.
E così non pare che eloquenza sia la cagione (iel male che viene alle
grandissime città. E là dove dice che danni sono advenuti per nomini
molto parlanti 'sanza sapienza, manifestamente abassa '1 male e difende
rettorica, dicendo che '1 male è per cagione di molti parlanti ne'
quali non regna senno. E non dice che il male sia per eloquenza, che
dice Vittorino. Questa parola eloquenza suona bene. E del bene non puote male
nascere. Questo è bello colore rettorico, difendere quando mostra di biasmare ed
accusax'e quando pare che dica lode. E questo modo di parlare àe nome INSINUAZIONE,
O IMPLICATURA, del quale dice il saggio in suo luogo. Et qui si parte il
conto da quella prima parte del prologo nella quale CICERONE dice il suo
pensamento ed dice li mali avenuti, e ritorna alla seconda parte nella
quale dimostra de' beni che sono pervenuti per eloquenza. Sì come quando
ordino di ritrarre dell'anticiie scritte le cose che sono fatte lontane
dalla nostra ricordanza per loro antichezza, intendo che eloquenza
congiunta con ragione d'animo, cioè con sapienza, piìie agevolemente àe potuto
conquistare e mettere inn opera ad edifficare cittadi, a stutare molte
battaglie, fare fermissime compagnie et anovare santissime amicizie. Poi che Cicerone
divisa li mali che sono per eloquenza, sì divisa in questa parte li beni, e CONTA
PIU BENI CHE MALI perciò che più intende alle lode. E nota che dice son messe ordinatamente
acciò che prima si raunaro gli uomini in- sieme a vivere ad una ragione
et a buoni costumi et a multiplicare d' avere ; e poi che furo divenuti
ricchi montò tra lloro invidia e per la 'nvidia le guerre e le
battaglie. Poi li savi parladori astutaro le battaglie, et apresso gl’uomini
fecero compagnie usando e mercatando insieme; e di queste compagnie
cuminciaro a ffare ferme amicizie per eloquenzia e per sapienzia. 3. Ma
ssi come dice e signifficano queste parole, per più chiarire l'opera è
bene convenevole di dimostrare qui che è cittade e che è compagno e che
è 15. amico e che è sapienzia e che è eloquenzia, perciò che
Ilo sponitore non vuole lasciare un solo motto donde non dica tutto
lo 'ntendimento. Che è cittade. Cittade èe uno raunamento di gente
fatto per vivere a ragione; onde non sono detti cittadini 20. d'uno
medesimo comune perchè siano insieme accolti dentro ad uno muro, ma quelli che
insieme sono acolti a vivere ad una ragione. Che è compagno. Compagno
è quelli che per alcuno patto si congiugne con un altro ad alcuna cosa
fare; e di questi dice Vittorino che se sono fermi, per eloquenzia poi
divegnono fermissimi. Che è amico. Amico è quelli che per uso di
simile vita si congiugne con un altro per amore insto e
fedele. Verbigrazia: Acciò che alcuni siano amici conviene che siano
d'una vita e d'una costumanza, e però dice «per uso di simile vita » ; e
dice « giusto amore » perchè non sia a cagione di luxuria o d' altre
laide opere ; e dice « fedele i'-in compimento dell'altre
parole ecc. Jf' cioè hediDcar .»/ aslroppiarc, m a storpiare caunano,
corretto poi in raunarono — Af ad avere una ragione, m "al avere una
medesima ragione M l'uno, -If' fuor {cfr. Tesor., vii, 54) — il' montò
loro M-m parlando anno attutato - le guerre — il.' M forme amicitio, »»
forme d'amie— i^:mdichono— i^.- m dimostrare quello — io.- Af' 7 che
sapientla 7 che eloq. .»/' volle intralasciare de genti — V-m raccolti - SI: m
rachollì - 25: M son — S7 : M-m che è coiiipannia — M' si i> — 28 : .V
ad un altro — 3U' por- ciò — 31 . .tf ' conduco insto am. fcerlo per
scambio dell'abbreviatura di et con quella di con) U ad altre amore » perchè
non sia per gnadagneria o solo per utilitade, ma sia per constante vertude. Et
cosi pare manife- mente che quella amistade eh' è per utilitade e per
dilet- tamento nonn è verace, ma partesi da che '1 diletto e l'uttilitade
menoma. Che è sajoiemia. Sapienzia è comprendere la verità delle
cose si come elle sono. Che è eloquenzia. Eloquenzia è sapere dire
addome parole guernite di buone sentenzie. 10. TnUio. Et così
me lungamente pensante la ragione stessa mi mena in questa fermissima
sentenza, che sapienzia sanza eloquenzia sia poco utile a le cittadi, et
eloquenzia sanza sapienza è spessamente molto dampnosa e nulla fiata
utile. Per la qual cosa, se alcuno in- l.ó. tralascia li
dirittissimi et onestissimi studii di ragione e d'officio e consuma tutta
sua opera in usare sola parladura, cert' elli èe citta- dino inutile al
sé e periglioso alla sua cittade et al paese. Ma quelli il quale s' arma
sie d'eloquenzia che non possa guerriere contra il bene del paese, ma
possa per esso pugnare, questo mi pare uomo e 20. cittadino
utilissimo et amicissimo alle sue (>) et alle publiche ragioni.
Lo sponitore. Poi che CICERONE ha dette le prime due parti del
suo prologo, si comincia la III parte, nella quale dice tre cose.
Imprima dico che pare a llui di sapienzia, infino là dove 25. dice : «
Per la qual cosa ». Et quivi comincia la seconda, nella quale dice che
pare a llui d'eloquenzia, infino là ove dice : « Ma quello il quale s'
arma ». Et quivi comincia la terza, ne la quale dice che pare a llui
dell'una e dell'altra giunte insieme. 3: M' om. e — 4:
M- pdesi — m diloclamento 7 l'util., .tf' l'utilitade 1 diloclo — 8-9:
.»/ ad ongno parole, m ogni paroleM-m om. sia.... sapienza — i-J : M' om. molto
^ i5: M-m lassa indireotissimi (m idireuissimi) — IG: M-m sola la
parlatura — 18: 3l-m sama — .)/ giuriare, m ingiuriare — Ì9-20.- .1/
luiomo cittadino, »i mi pare cittadino — .V-»i a' suoi — .?3 • .1/
conincìa — S4 : M insini, .)/' inlìn là ove (cfr. Tcsnr.. xi, 1074) — So:
yr-ìii dice jiarla — M-m qui - 26: M insino — m là dove —M-m la (|ual
dice. (1) Questa lezione è oonfennata dal § 5 del coniuiento: «
utile a ssè et al suo paese. Onde dice Vittorino: Se noi volemo mettere
avac- ciamente in opera alcuna cosa nelle cittadi, sì ne conviene
avere sapienzia giunta con eloquenzia, però che sai)ienzia sempre è
tarda. Et questo appare manifestamente in alcuno V 5. savio che non sia
parlatore, dal quale se noi domandassimo uno consiglio certe noUo darebbe
tosto cosìe come se fosse bene parlante. Ma se fosse savio e parlante
inmantenente ne farebbe credibile di quel che volesse. 3. Et in ciò
che dice Tulio di coloro che 'ntralasciano li studii di ragione e d'
officio, intendo là dove dice « ragione » la sapienzia, e là dove dice «
officio » intendo le vertudi, ciò sono prodezza, giustizia e l'altre
vertudi le quali anno officio di mettere in opera che noi siamo discreti
e giusti e bene costumati. Et però chi ssi parte da sapienzia e da le
vertudi e studia 15. pure in dire le parole, di lui adviene cotale
frutto che, però che non sente quel medesimo che dice, conviene che di
lui avegna male e danno a ssè et al paese, però che non sa trattare
le propie utilitadi uè Ile (i) comuni in questo tempo e luogo et ordine
che conviene. 5. Adunque colui che ssi mette 1' arme d' eloquenzia è
utile a ssè et al suo paese. Per questa arme intendo la eloquenzia, e per
sapienzia intendo la forza; che sì come coli' arme ci difendiamo
da' nemici e colla forza sostenemo 1' arme, tutto altressì per eloquenzia
difendemo noi la nostra causa dall'aversario 2.5. e per sapienzia
ne sostenemo (2) di dire quello che a noi potesse tenere danno. Et in
questa parte è detta la terzia parte del prologo di Tulio. 6. Dunque vae
il conto alla quarta parte del prologo, per provare ciò eh' è detto
da- vanti et a conducere che noi dovemo studiare in rettorica
i : M Lande — M' avacciatamente, ma L avacciamente — S: m si cci
conv. — 0; m ODI. cosio, M e' noi darebb»; cos'i tosto M' credibile
quello, m di quello — .)/' disse — 10: .Vi om. il 2' & — 12: .»/' et
altro — 13: .»f' che non siano — i4.- .V-m dall'altre ver- tufli — 15:m
adiviene — 16 : jn a lini : solo L nelle
; (jli altri mss. e S nelli (.)/' nel!) -- 19: M Adunque che colui — 22:
M-m torma — M ne dil'ondono, m noi ci difendiamo — 23: il l'armi - 23-24:
Af difendo — m così altresì la eloquenzia difendo noi dal nostro aversario
la nostra cliausa — 25: m om. ne; S non sostenemo — 26: m a noi potesse
ave- jjire (li danno, .V che noi potessimo tenere danno — 28-29: m
dinanzi e; Jfi om. et. (1) Cos'i richiede il senso; la lezione
nelli ò nata certamente dall'aver preso l'aggettivo comuni per un
sostantivo. (2) Intendo ne sostenemo = « ci tratteniamo, ci
asteniamo », coni' è richiesto dal senso e secondo gli esempii citati dal
Vocabolario della Crusca. per avere eloquenzia e sapienzia: e sopra ciò
reca Tulio molti argomenti, li quali debbono e possono così essere,
e tali che conviene che sia pur così, e di tali eh' è onesta cosa
pur di cosi essere ; e sopra ciò ecco il testo di Tulio CICERONE in
lettera grossa, e poi seguisce la disposta in lettera sot- tile secondo
la forma del libro. Tullio CICERONE. Dunque se noi volemo considerare
il principio d'eloquenzia la quale sia pervenuta in uomo per arte o per
studio o per usanza lo. per forza dì natura, noi troveremo che sia
nato d'onestissime cagioni e che ssia mosso d'ottima ragione, (e. li)
Acciò che fue un tempo che in tutte parti isvagavano gli uomini per li
campi in guisa di bestie e conduceano lor vita in modo di fiere, e
facea ciascuno quasi tutte cose per forza di corpo e non per
ragione l.j. d'animo; et ancora in quello tempo la divina religione
né umano officio non erano avuti in reverenzia. Neuno uomo avea veduto
le- gittimo managio, nessuno avea connosciuti certi figliuoli, né
aveano pensato che utilitade fosse mantenere ragione et agguallianza. E
così per errore e per nescìtade la cieca e folle ardita signorìa
dell'animo, cioè la cupìditade, per mettere in opera sé medesima misusava
le forze del corpo con aiuto dì pessimi seguitatori. Lo
sponitore. In questa parte del prologo vogliendo Tulio CICERONE dimostrare
che ELOQUENZA nasce e muove jper cagione e 2.5. per ragione ottima
et onestissima, sì dice come in alcuno tempo erano gli uomini rozzi
e nessci come bestie; e del- 3: ìl-m tale — .1/' jdii' che
cosi sia - 4 : m pure ili dovere così essere-, .1/' de pur essere — .5 J/
' la spositione — 9-tO: .»/' o per l'orca di natura o per usanca — H: m
d'ottime chagioni 7 ragione — 12: il-m in tempo — 13: it^ lor vita per li
campi in modo de bestie 7 de fiere — 14: i/' om. e [non p. r.| —M
maritaggio — M iihylosofi, m lilo- safi — 18: M j gualianoa - 19: il^-L
ignoranza, m necessitade — .»A' la cieca la folle 7 ardita — 20: M-m per
mette — M-m (fuivi susavano, l. masusavano — 21:31' seguitori — 23: M-1U
nm. quarta — 24: m om. e per ragione — 26: il' nefa, m noscii. l'uomo
dicono li filosofi, e la santa scrittura il conferma, che egli è
fermamento di corpo e d' anima razionale, la quale anima per la ragione
eh' è in lei àe intero conoscimento delle cose. 2. Onde dice Vittorino:
Sì come menoma la forza 5. del vino per la propietade del vasello nel
quale è messo, cosie r anima muta la sua forza per la propietade di
quello corpo a cui ella si congiunge. Et però, se quel corpo è mal
di- sposto e compressionato di mali homori, la anima per gra- vezza
del corpo perde la conoscenza delle cose, sì che appena puote discernere
bene da male, sì come in tempo passato neir anime di molti le W quali
erano agravate de' pesi de' corpi, e però quelli uomini erano sì falsi
et indiscreti che non conosceano Dio né lloro medesimi. Onde
misusavano le forze del corpo uccidendo l'uno l'altro, tol- 15.
liendo le cose per forza e per furto, luxuriando malamente, non
connoscendo i loi'o proprii figliuoli né avendo legittime mogli. Ma
tuttavolta la natura, cioè la divina disposi- zione, non avea sparta
quella bestialitade in tutti gli uomini igualmente; ma fue alcuno savio e molto
bello dici- 20. tore il quale, vedendo che gli uomini erano acconci
a ragionare, usò di parlare a lloro per recarli a divina conno- scenza,
cioè ad amare Idio e '1 proximo, sì come lo sponi- tore dicerà per
innanzi in suo luogo; e perciò dice Tulio nel testo di sopra che
eloquenzia ebbe cominciamento per 25. onestissime cagioni e
dirittissime ragioni, cioè per amare Idio e '1 proximo, che sanza ciò l'
umana gente non arebbe durato. 4. Et là dove dice il testo che gli uomini
isvaga- vano per li campi intendo che non aveano case né luogo,
1: M' i figluoli (corretto poi lilosofi) — M' sucra — S : M' eh
ehi ì\ l'ormato — 3: in- tero è in M'-L; il lùlo (incerto?), m inerito —
4: M Ondee — 7 : m al (|uale — 8: M-m mali hiiomini — 9: m per la
gravezza — .«' de corpo iO: M bone dal mali', hi il bone dal male — il:
M'-L animo — .V-m i quali erano agravate, M'-L li quali orano aggravati — i2: W
del peso de corpi, L de' pesi del corpo V in lor medesimo — 14: lU-m Ivi
susavano — 18: M-m nonn ào — M bestilitade — 10: M' oiii. savio o — SI: W
tralloro — 23: M' qa\ dinanzi - S4: W e cornine, >S ha cornine. — 26-27: »l'
non averla durata, L non avrìa durato — i« K colà. (1) È lezione
congetìurale, ma l'unica possìbile : le quali si cambiò facilmente in li
quali (o i quali) per effetto del molti che precedeva, e da li quali,
natural- mente, venne in M'-L anche il maschile angraoati invece di
aggravate. Che si tratti solo delle animo risulta da tutto il periodo, e
in particolare dallo parole - la anima per gravezza del corpo ».
ma andavano qua e là come bestie. 5. Et là dove dice che viveano
come fiere intendo che mangiavano carne cruda, erbe crude et altri cibi
come le fiere. 6. Et là dove dice « tutte cose quasi faceauo per forza e
non per ragione » 5. intendo che dice « quasi » che non faceano però
tutte cose per forza, ma alquante ne faceano per ragione e per
senno, cioè favellare, disidejare et altre cose che ssi muovono
dall' animo. Et là dove dice che divina religione non era reverita
intendo che non sapeano che Dio (D fosse. Et là dove dice dell' umano
ofiìcio intendo che non sa- peano vivere a buoni costumi e non conosceano
prudenzia né giustizia né l'altre virtudi. Et là dove dice che non
mauteneano ragione intendo « ragione » cioè giustizia, della quale dicono
i libri della legge che giustizia è perpetua e 15. ferma volontade
d'animo che dae a ciascuno sua ragione. Et là dove dice « aguaglianza »
intendo quella ragione che dae igual i)ena al grande et al piccolo sopra
li eguali fatti. Et là doye dice « cupiditade » intendo quel vizio
eh' è contrario di temperanza; e questo vizio ne -conduce 20. a
disidei-are alcuna cosa la quale noi non dovemo volere, et inforza nel
nostro animo un mal signoraggio, il quale noi permette rifrenare da' rei
movimenti. 12. Et là dove dice « nescitade » intendo eh' è nnone
connoscere utile et inutile; e però dice eh' è cupidità cieca per lo non
sapere, 25. e che non conosce il prode e '1 danno. 13. Et là dove
dice « folle ardita » intendo che folli arditi sono uomini matti e
ratti a ffare cose che non sono da ffare. 14. Et là dove dice « misusava
le forze del corpo » intendo misusare cioè i-2: M-m om. Et
là.... come licre — 3 : M erbi ciiiili, .1/' 7 erbe crude — 4-6: m l'a-
ceano quasi per forza; poi, saltando al 2° forza, continua: ma al([uanle ecc. —
7: .i/'-L dice quasi perciò ke ne faciano | tutte cose per forza 7 non
per ragione intendo Ice dice quasi, ma alquante ne faceano M' che muovono
— 9: M-m chi idio — 11: .1/' ne prudenza — 14: m' de legge — 14-15: m'
ferma 7 perpetua voluntà — /": .1/ egual — 18: M' mìsfacti — M
lae — .V quello e poi rasura su cui altra mano scrisse apetito, t quello
che contrario, S quello appetite V om. noi - 22: M-m non permette M-m
necessilade, .V ignoranza che non conosce il prode ol danno ~ m intendo
che non è — m dal danno — 27: .M-m e tratti, L orati — 2é?: J/ emusavano,
jiiemisusavano — .u misusere, .V' misure, L misusare — m che misusare è
usare. Cioè « che Dio esistesse ». Così mi par preferibile per il senso; e
la lezione di M-m è facilmente spiegabile da un che Mio diventato eh'
idio, chi dio; è vero però che le ragioni paleografiche varrebbero anche
per il caso inverso. usare in mala parte ; che dice Vittorino che forza
di corpo ci è data da Dio per usarla in fare cose utili et oneste,
ma coloro faceano tutto il contrario. Ora à detto lo sponi- tore
sopra '1 testo di Tulio le cagioni per le quali eloquenzia cominciò a parere.
Omai dicerae in che modo appario e come si trasse innanzi. Nel quale
tempo lue uno uomo grande e savio, il quale cognobbe che materia e quanto
aconciamento avea nelli animi delli uomini a grandissime cose chi Ili
potesse dirizzare e megliorare per comandamenti. Donde costrinse e raunò
in uno luogo quelli uomini che allora erano sparti per le campora e
partiti per le nascosaglie silvestre ; et inducendo loro a ssapere le
cose utili et oneste, tutto che alla prima paresse loro gravi per loro
disusanza, poi T udirò 15. studiosamente per la ragione e per bel
dire; e ssì Ili arecò umili e mansueti dalla fierezza e dalla crudeltà
che aveano. Lo sjaonitore. 1. In questa i)arte vuole
Tulio dimostrare da cui e come cominciò eloquenzia et in che cose ; et è
la tema cotale 20. In quel tempo che Ila gente vivea così
malamente, fue un uomo grande per eloquenzia e savio per sapienzia, il
quale cognobbe che materia, cioè la ragione che l' uomo àe in sé
naturalmente per la quale puote l' uomo intendere e ragio nare, e
l'acconciamento a fare grandissime cose, cioè a ttenere i)ace et amare
Idio e '1 proximo, a ffai-e cittadi, castella e magioni e bel costume, et
a ttenere iustitia et a vivere ordinatamente se fosse chi Ili potesse
dirizzare, cioè ritrarre da bestiale vita, e mellioi-are per
comanda- menti, cioè per insegnamenti e per leggi e statuti che Ili
2: M' om. ci — 3-4: M-iii Or o della la sposilione — 5: M-m
loninciò (hi coro). 7 pare — M' oggimai — 6: M-m apparve — 8: il' uno
buono — iO: 31' adrinure — 12: M-m per campora — 12-13: M-w le nascose
selve 13: M-m et facciendo loro as- sapere — 14: M' grave - L'i: M' si Hi
recò — 16: M' crudelilà — 23: M-m nm. l'uomo — 24 : M-m el lo
ncomincianiento, L el chominciamenlo — 25: M'el ad amare ~ 26: M'
7datener — 27: M' chi le polesse adrifrure - m om. potesse — 28: M' enirare da
b. v. afrenasse (1). 2. Et qui cade una quistione, che
potrebbe alcuno dicere: « Come si potieno melliorare, da che non
erano buoni? >. A cciò rispondo che naturalmente era la ragione
dell'anima buona; adunque si potea migliorare nel 5. modo eh' è detto. 3.
Donde questo savio costrinse - e dice che i « costrinse » però che non si
voleano raunare - e raunò - e dice « raunò » poi che elli vollero. Che '1
savio uomo fece tanto per senno e per eloquenzia, mostrando belle
ragioni, assegnando utilitade e metendo del suo in 10. dare
mangiare e belle cene e belli desinari et altri piaceri, che ssi raunaro
e patiero d'udire le sue parole. Et elli in- segnava loro le cose utili
dicendo: « State bene insieme, aiuti l'uno l'altro, e sarete sicuri e
forti; fate cittadi e ville *. Et insegnava loro le cose oneste dicendo :
« Il pic- 15. colo onori il grande, il figliuolo tema il suo padre
» etc. Et tutto che, dalla prima, a questi che viveano bestial-
mente paresser gravi amonimenti di vivere a ragione et ad ordine, acciò
eh' elli erano liberi e franchi naturalmente e non si voleano mettere a
signoraggio, poi, udendo il bel dire 20. del savio uomo e
considerando per ragione che larga e li- bera licenzia di mal fare
ritornava in lor gi"ave destruzione et in periglio de l'umana
generazione, udirò e miser cura a intendere lui. Et in questa maniera il
savio uomo li ri- trasse di loro fierezza e di loro crudeltade - e dice «
fierezza » perciò che viveano come fiere; e dice « crudeltade » perciò
che '1 padre e '1 figliuolo non si conosceano, anzi uccidea l'uno l'altro
- e feceli umili e mansueti, cioè vo- lontarosi di ragioni e di virtudi e
partitori (2) dal male. 1 : m rafrenasse, S affrenassono —
J/ " Et acade, L e ecci una (\. — 2 : il poneno (cerio per falsa
lettura di potieno; cfr. Wiese in Zeilsch. f. Rom. Pini., VII, 330, g i33), m
il' poteano — 4: m dunque — 6: it-iii om. che i — 9: W l'utilitade — i^l'
metendo '1 suo - 10: m mangiare cene e desinari 19: il sottomettere —
20-23: it-m om. e considerando.... il savio uomo — 23-24: m si ritrassono
— 24: il lore fier., M' lor fior, — me dalloro crud. — 24-25: H-m om. e
dice.... crudeltade — 26: il' e li figluoli (ma L el figliuolo) - 28: il'
partito, l. e'dipirtironsi, s partiti. (1) Parrebbe preferibile la
lezióne di &'; ma è significativo il fatto che tutti i mss. abbiano
il singolare. Invece di condannarlo come corruzione comune, basta pensare
che sostantivi astratti come « insegnamenti, leggi e statuti » siano con-
siderati formanti un complesso unico, sì da farli equivalere al singolare
(p.es. «ciò»); e quest'uso del verbo è attestato da un altro passo di
Brunetto, IO, 3, e dal Varchi, Ercolano, ediz. Bottari (Firenze Senza
ricorrere ai facili accomodamenti, conservo la lezione di M inten- dendo
« partitore » in senso riflessivo : « colui che si parte, che si allontana ».
Cfr. Manuzzi. Or à detto CICERONE chi cominciò eloquenzia et intra cui
e come; or dicerà per che ragione, eanza la quale non potea ciò
fare. Tullio. Per la qual cosa pare a me che Ha
sapienzia tacita e povera di parole non arebbe potuto fare tanto,
che così subitamente fossero quelli uomini dipartiti dall'antica e lunga
usanza et informati in diverse ragioni di vita. Lo
sponitore. In questa parte dice Tulio la ragione sanza la quale
non si potea fare ciò che fece '1 savio uomo; e dice sapienzia tacita
quella di coloro che non danno insegnamento per parole ma per opera, come fanno
' romiti. Et dice « povera di parole » per coloro che '1 lor senno
non sanno addornar di parole belle e piene di sentenze a ffar
credere ad altri il suo parere. Et per questo potemo intendere che picciola
forza è quella di sapienzia s'ella nonn è congiunta con eloquenzia, e
potemo connoscere che sopra tutte cose è grande sapienzia congiunta con
eloquenzia. Et là dove dice « così subitamente » intendo che quello
savio uomo arebbe bene potuto fare queste cose per sapien- zia, ma non cosi
avaccio né così subitamente come fece abiendo eloquenzia e sapienzia. Et
là dove dice « in di- verse ragioni di vita » intendo che uno fece
cavalieri, un 25. altro fece cherico, e così fece d'altri
mistieri. Tullio. 7. Et così, poi che Ile cittadi e le
ville fuoron fatte, impreser gli uomini aver fede, tener giustizia et
usarsi ad obedire l'uno l'altro per propia volontarie et a sofferire pena
et affanno non solamente 2 : M-m om. e come — sanza (luale —
5: M-m Per ((ualcosa - 7 : M' luioniiiii quelli — 13: M' i romiti, m li
romiti — 14: M-m alloro senno, L in loro senno — i7: M-m om. che — i9: M'
giunta — 22: Af' si avaccio — 23: M-m om. e sapienzia — 28: m ad avere
lede 7 tenere.... adusarsi — M l'uno a l'altro. A qualcuno e sapienzia
potrà sembrare un'aggiunta arbitraria; ma siccome non è inutile,
preferisco mantenerlo. per la comune utilitade, ma voler morire per essa
mantenere. La qual cosa non s'arebbe potuta fare d) se gli uomini non
avessor po- tuto dimostrare e fare credere per parole, cioè per
eloquenzia, ciò che trovavano e pensavano per sapienzia. 8. Et certo chi
avea forza e 5. podere sopra altri molti non averla patito divenire pare
di coloro ch'elli potea segnoreggiare, se non l'avesse mosso sennata e soave
parladura; tanto era loro allegra la primiera usanza, la quale era tanto
durata lungamente che parea et era in loro convertita in natura. Donde
pare a me che così anticamente e da prima nasceo e mosse eloquenzia, e poi
s'innalzò in altissime utilitadi delli uo- mini nelle vicende di pace e
di guerra. Lo sponitore. I. In questa parte dice Tulio
che cciò che sapienzia non avrebbe messo in compimento per sé sola, ella
fece 15. avendo in compagnia eloquenzia; e però la tema èe
cotale: Si come detto è davanti, fuoro gli uomini raunati et inse-
gnati di ben fare e d'amarsi insieme, e però fecero cittadi e ville; poi
che Ile cittadi fuor fatte impresero ad avere fede. Di questa parola
intendo che coloro anno fede che 20. non ingannano altrui e che non
vogliono che lite né di- scordia sia nelle cittadi, e se vi fosse sì la
mettono in pace. Et fede, sì come dice un savio, è Ila speranza della
cosa promessa; e dice la legge che fede è quella che promette l'uno
e l'altro l'attende. Ma Tulio medesimo dice in un altro libro delli offici
che fede è fondamento di giiistizia, veritade in parlare e fermezza delle
promesse; e questa ée quella virtude eh' é appellata lealtade. E così
sommata- mente loda Tulio eloquenzia con sapienzia congiunta, che
2: ilf'-£ potuto - M' om. non — 4: Jlf> Certo — 5: M-m vinavea
charebbono potuto divenire paii — 6: M-m chelli poteano, M^-L cui potea —
M-m santa — 7: M^-L allegrezza — 8-9 : M era converita la loro natura, m
era convertila in loro natura — 9 : m onde — 14-15: M^ il fece in
compagnia d'eloquentia.... si ò cotale —M-m detto oe dinanci 19: 3/'
fede, 7 di q. p. — PO : M^ om. e o discordia — 21-22: M-m in pace et in
fede — m om. è - 23: M^ quello, ma L quella — 26: M-m et intermezza — M'
de- lenpromesse — 27: M legheltade (?«a cfr. Texor., XVII, 15) — M
somatamente, m asommatam. congiunta con sapienzia. (1) Sarà
certo da legger così, e non sarebbe si sarebbe, poiché di quest'uso dell'
ausiliare avere presso gli antichi non mancano esempli sicuri : cfr. la
nota di M. Barbi nella sua ediz. della Vita Nuova, 2, e ciò che aggiunse
il Parodi in Bullett. della Soc. Bant., N. S., XXI, 67-68. Lo stesso si
dica per s'areb- hono del commento, sanza ciò le grandissime cose non
s'arebbono potute met- tere in compimento, e dice che poi àe molto de ben
fatto in guerra et in pace. Et per questa parola intendo che tutti
i convenenti de' comuni e delle speciali persone corrono per due stati o
di pace o di guerra, e nell' uno e nell'altro bi- sogna la nostra
rettorica sì al postutto, che sanza lei non si potrebbono
mantenere. Tullio. Ma poi che Ili uomini, malamente seguendo
la vìrtude sanza 10. ragione d'officio, apresero copia di parlare, usaro
et inforzaro tutto loro ingegno in malizia, per che convenne che ile
cittadi sine gua- stassero e li uomini si comprendessero di quella
ruggine, (e. Ili) Et poi che detto avemo la cumincianza del bene,
contiamo come cuminciò questo male. Poi che CICERONE avea detto
davanti i beni che sono advenuti per eloquenzia, in questa parte dice i
mali che sono advenuti per lei sola sanza sapienzia; ma perciò che
Ila sua intentione è più in laudarla, sì appone elli il male a coloro che
Ila misusano e non a Ilei. 2. Et sopra ciò la tema è cotale: Furono
uomini folli sanza discrezione, li quali, vegga ndo che alquanti erano in
grande onoranza e montati in alto stato per lo bell.o parlare ch'usavano
se- condo li comandamenti di questa arte, sì studiaroO solo
in parlare e tralasciare lo studio di sapienzia, e divennero sì
copiosi in dire che, per l'abondanza del molto parlare sanza condimento
di senno, che (2) cumìnciaro a mettere cioè — 2: M-in che
poi {ni, om. poi) a molli a Dio ben facto — -J: M om. duri stali — i 1 : M
conviene, M' conveiiia — IS: M-m om. e li uomini si compren- dessero —
13: M \a cunincianza (e cluininciò)3/' il cuminciamento — 16: m ave...
dinanzi — 18: M^ dopo advenuti ripete per eloquenlia in quesUi
parte (ma ri son trticiie di etpun- zione) — 19: m om. elli — 20: M El
perciii — 24: M' il comandamento.... studiavano — 25 : ilf
intralassai-o, m e lasciaro - 20: M' de molto — m om. elio. (1)
Invece di si studiavo credo preferibile studiavo in senso assoluto, come
già si è trovato, 3, § e studia puro in dire le parole. Sintatticamente
questo che ò pleonastico; ma ò attestato da ambedue le famiglie di codici
e non costituisce una rarità per il nostro volgare antico (anzi, per
Brunetto stesso, cfr. IO, 1: avegna che ma tutta volta). sedizione
e distruggi mento nelle cittadi e ne' comuni et a corrompere la vita
degli uomini; e questo divenia però ch'ellino aveano sembianza e vista di
sapienzia, della quale erano tutti nudi e vani. 3. Et dice Vittorino che
eloquenzia 5. sola èe appellata « la vista », perciò che ella fae parere
che sapienzia sia in coloro ne' quali ella non fae dimoro. Et
queste sono quelle persone che per avere li onori e F utti- litadi delle
comunanze parlano sanza sentimento di bene; così turbano le cittadi et
usano la gente a perversi costumi. Et poi dice Tulio: Da che noi avemo
contato '1 principio del bene, cioè de' beni che avenuti erano per
eloquenzia, si è convenevole di mettere in conto la 'ncumincianza
del male chende seguitò. Et dice in questo modo nel testo:
Tullio tratta della comincianza del male 15. adveniito per
eloquenzia. Et certo molto mi pare verisimile: in alcuno tempo gli
uomini che non erano parlatori et uomini meno che savi non usa- vano
tramettersi delle publiche vicende, e che W gli uomini grandi e savi
parlieri non si trametteano delle cause private. E con ciò 20.
fosse cosa che sovrani uomini regessero le grandissime cose, io mi penso
che furo altri uomini callidi e vezzati i quali avennero a trattare le
picciole controversie delle private persone; nelle quali controversie
adusandosi gli uomini spessamente a stare fermi nella bugia incon- tra la
verità, imperseveramento di parlare nutricò arditanza 25. 11. Sì
che per le 'ngiurie de' cittadini convenne per necessitade che'
maggiori si contraparassono agli arditi e che ciascuno atoriasse le sue
bisogne; e così, parendo molte fiate che quello eh' avea impresa sola
eloquenzia sanza sapienzia fosse pare o talora più innanzi che quello che
avea eloquenzia congiunta con sapienzia, i-2: m nelle loro
ciltadi — M' om. et a corr.... uomini — 2: m avenia — 3 kelli aveano
sombianca de giusta sap. — 4: m om. Et — 6: M' li quali — 7: M' questi — 10: m
om. Et — 11: M' bone kavenuto era - 12: 1/' il cominciamento — i3: Jlf
chende seguita, j/i che ne seguita - 16: M et certo mo, la Certo modo M
meno di savi, m ch'erano meno che savi — 17-18: M-m non sapeano, L non
osavano — M-m om. e — 19: Jlf sin- trametteano dele cose — 21: M-m om.
uomini — M verrali — 3f' vennero — 22: M' om. delle pr.... controversie —
23: M-m om. spessamente — 24: M' il persev. - 26: M' aiutasse m adornasse
— 29: M' giunta. (1) Un costrutto più regolare si avrebbe
sopprimendo il che o inserendone un altro dopo verisimile; appunto. per
questo conservo' il che, non sembrando proba- bile che un copista volesse
complicare di suo. Questa maggiore libertà sintattica non è nuova.
aveni'a che, per giudicio di moltitudine di gente e di sé medesimo
paresse essere degno di reggiere le publiche cose. E certo non
ingiustamente, poi che' folli arditi impronti pervennero ad avere reggimenti
delle comunanze, grandissime e miserissime tempestanze adveniano molto
sovente; per la qual cosa cadde eloquenzia in tanto odio et invidia che
gli uomini d'altissimo ingegno, quasi per scampare di torbida tempestade
in sicuro porto, così fuggiendo la discordiosa e tumultuosa vita si
ritrassero ad al- cuno altro queto studio. Per la qual cosa pare che per
la loro posa li altri dritti et onesti studii molto perseverati vennero in
onore. Ma questo studio di rettorica fue abandonato quasi da tutti loro,
e perciò tornò a neente, in tal tempo quando più inforzatamente si dovea
mantenere e più studiosamente crescere; perciò che quando più
indegnamente la presumptione e l'ardire de' folli impronti manimettea e
guastava la cosa onestissima e dirittissima con troppo gravoso danno dei
comune, allora era più degna cosa contrastare e consigliare la cosa
publica. Della qual cosa non fugìo il nostro Catone né Lelius né, al ver
dire, il loro discepolo Àffricano, né i Gracchi nepoti d' Àffricano, ne'
quali uomini era sovrana virtude et altoritade acresciuta per la loro
sovrana virtude; sì che la loro eloquenzia era grande adornamento di loro
et aiuto e mantenimento della comunanza. Lo
sponitore. In questa parte divisa Tulio come divennero quelli due
mali, cioè turbare il buono stato delle cittadi e corrompere la buona vita e
costumanza delli uomini; et avegna che '1 suo testo sia recato in sie
piane parole che molto fae da intendere tutti, ma tutta volta lo
sponitore dirae alcune parole per più chiarezza. 2. Et è la tema cotale:
La elo- 1 : M-m avogiia — 2: M per essoi-o degno d'essere 7
di reggiere, M' paresse degno de reggere — 3: M' poi ke fuor iaiditi in
pronti, m enpronti — 4-5 : M' pervennero i reggìm. — 7 de miserissime
tempeste — spessamente — 7 : M' lempcstande — * : M-m la discordia (m
echontumulosa) — 9 : Tutti i mss. questo, S posato - M-m possa — i i : itf '
do tutto loro " i4: M dì [olii — 18-19: M ne nelilio - M-m om. nò i
G. n. d'AII'ricano — Jlf' erano sovrane vertudi — 26: M' la vita 7 la
buona costumanca - 27: M< suo stato — m in se — 28: itf' om. tutti, ma
— M' alcuna parola — S9: Af' Et la tema 6 cotale. De la el. ecc. È
possibile tanto la lezione di Af quanto quella di m; ma proferisco questa
perchè corrisponde alle parole del commento, § 6: « pareano essere
degni». Il testo latino ha studium aliquod quieUtm. Lo scambio di queto
por questo era facilissimo, e forse risalo r.llo iirimo copio.
quenzia mise in sì alto stato i parladori savi e guerniti di senno, che
per loro si reggeano le cittadi e le comunanze e le cose publiche, avendo
le signorie e li officii e li onori e le grandi cose, e non si
trametteano delle cause private, cioè 5. delle vicende delli uomini
speciali, né di fare lavoriere né altre picciole cose. Ma erano altri uomini di
due maniere: l'una che non erano parlatori, l'autra che non aveano
sa- pienzia, ma erano gridatori e favellatori molto grandi; e
questi non si trametteano delle cose publiche, cioè delle signorie e delli
officii e delle grandi cose del comune, ma impigliavansi a trattare le
picciole cose delle private per- sone, cioè delli speciali uomini. 3.
Intra' quali furono alcuni calidi e vezzati - cioè per la fraude e per la
malizia che in loro regnava parea ch'avesse in loro sapienzia-; e
questi s' ausarono tanto a parlare che, per molta usanza di dire
parole e di gridare sopra le vicende delle speciali persone, montare in
ardimento e presero audacia di favellare in guisa d'eloquenzia tanto e sì
malamente che teneano la menzogna e la fallacia ferma contra la veritade.
Onde, per li grandi mali che di ciò adveniano, convenne che' grandi,
ciò sono i savi parladori che reggeano le grandi cose, venissero et
abassassero a trattare le picciole vicende di speciali persone, per
difendere i loro amici e per conta- stare a quelli arditi. Et nota che
arditi sono di due ma- 25. niere : l' una che pigliano a fifare di
grandi cose con prove- dimento di ragione, e questi sono savi; li altri
che pigliano a ffare le grandi cose sanza provedenza di ragione, e
questi sono folli arditi. 5. Donde in questo contrastare i buoni e
savi parlavano giustamente, ma i folli arditi, che non aveano 30.
studiato in sapienzia ma pure in eloquenzia, gridavano e garriano a
grandi boci e non si vergognavano di mentire e di dire torto palese;
sicché spessamente pareano pari di senno e di parlare e talvolta
migliori. Sì che per sentenza 4 : M' om. e non s. t. d.
cause — 5: M-m ont.aò — 6: m odaltre p. o. — 7
M< parliei-i — iO: M' de comuni dele piccole cose cioè che jier
la lYaude ecc. parean (/^ parea) cavassero sapienlia— lo.- 3f< pei' la
molta — 17: M^ presero baldanza — 19: M' con- tro alla verità — 20: A/'
ohi. che d. e. adveniano — m avenia savi e parladori — m le cittadi — 23:
M' appilgliano a taro le g. e. — 26: M^ om. di ragione — L l'altra — 27:
L provedimento — 31-32: Me dire,moHi. mentire e di — 33:M' talocta m. visi che
p.s Cosi leggo con M, piuttosto che lavogarie di ilf' o lavorìi di m:
oltre a lavareria, il Manuzzi registra esempii di lavoriera.
del popolo, la quale è sentenzia vana perciò che non muove da ragione, e
per sentenza di sé medesimo, la quale è per neente, pareano essere degni
di covernare le publiche e le grandi cose, e così furo messi a reggere le
cittadi et alli 5. officii et onori delle comunanze. Et poi che cciò
avenne, non fue meraviglia se nelle cittadi veniano grandissime e
miserissime tempestadi. Et nota che dice « grandissime » per la quantità
e che duraro lungamente, e dice « mise- rissime » per la qualitade,
ch'erano aspre e perilliose chende 10. moriano le persone ; e dice
« tempestanza » per similitudine, che sì come la nave dimora in fortuna
di mare e talvolta crescono (i) in tanto che perisce, così dimora la
cittade per le discordie, et alla fiata montano sicché periscono in
sé medesime e patono distruzione. « Per la qual cosa eloquenzia cadde in
tanto odio et invidia »... Et nota che odio non é altro se nno ira
invecchiata; e così i buoni savi erano stati lungamente irosi, veggiendo
i folli arditi segnoreggiare le cittadi. Et invidia è aflizione che omo
àe per altrui bene; donde i buoni savi aveano molta aflizione per coloro
ch'erano segnori delle grandi cose et erano in onore. 8. Et perciò
li buoni d'altissimo ingegno si ritrassero di quelle cose ad altri
queti studii per scampare della tumultuosa vita in sicuro porto. Et nota:
là dove dice « altissimo ingegno » dimostra bene eh' arebboro potuto e
saputo contrastare a' folli arditi, e perciò che no '1 fecero furo bene da
riprendere. Et in ciò che dice « queti studi » intendo l' altre scienze
di filosofia, sì come trattare le nature delle divine cose e delle
terrene, e sì come l'etica, che tratta le virtudi e le costumanze; et
appellali « queti studii » che non trattano di parlare in comune, e perciò che
ssi stavano partiti dal remore delle genti. Et appella « vita tumultuosa
» che 2: Jl/i per ragione ~ 4: M furoro, M^ fuoro — 7 : M-m
ismisuratissime ~ 8: SI durano, m duravano quantitade.... s\ elione
moriano - 10: M' tempestade — 14: M' medesimo ~ 15: m om. Et — 16: m
buoni e savi — 18: m om. Et — m i'uomo... l'al- trui — SO: M> et in
lionore erano — m ad altre — M-m questi, M' certi —om. Et noia la dove — 25 :
M-m non fecero — 26 : Tutti i mss questi — 27 : M de trattare — 28: M-m
sicome dice che l. — 29: M^ appellasi, L appellansi — mss. questi Cosi hanno
tutti i codici; ma forse dopo crescono è andato perduto un sog- getto,
richiesto dal senso o dalla sintassi, come i venti o l'onde (abbiamo anche
altrove la prova che le due famiglie di codici risalgono a un capostipite già
corrotto). Pure non sarebbe impossibile sottintendere dal precedente
fortuna un soggetto le fortune. spessamente l'iiuo uomo assaliva
l'altro in cittade coll'arme e talvolta l'uccideva. 9. Et poi che' savi
intralassar lo studio d'eloquenzia, ella tornò ad neente e non fue curata
uè pre- giata. Ma l'altre scienzie di filosofia, nelle quali
studiaro, montaro in grande onore. Et ora riprende Tulio questi savi
e dice che fecior questo a quel tempo che eloquenzia avea più grande
bisogno per lo male che faceano i folli arditi nelle cittadi, e perchè
guastavano la cosa onestis- sima e dirittissima, cioè eloquenzia che ssi
pertiene alle cose oneste e diritte. U. Dalla qual cosa non fugio il
nostro Catone né quelli altri savi ch'amavano drittamente il co-
mune et aveano senno e parlatura; ma dimoraro fermi a consigliare et a
difendere il comune da'garritori folli ar- diti; e però montaro in onore
et in istato sì grande che le loro dicerie erano tenute sentenze, e perciò
dice che in loro era autoritade, che autoritade èe una dignitade
degna d' onore e di temenza. Ma da questo si muove il conto e
ritorna a conchiudere per ragioni utili et oneste e pos- sibili e
necessare che dovemo studiare in eloquenzia, lodala in molte guise. CICERONE
conclude che sia da studiare in rettorica. Per la qual cosa, al mio animo,
non perciò meno è da mettere studio in eloquenzia s' alquanti la misusano
in publiclie et in private cose; ma tanto più clie ' malvagi non abbiano
troppo di podere con grave danno de' buoni e con generale distruzione di
tutti. Maximamente cun ciò sia la verità che rettorica è una cosa la
quale molto s'appartiene a tutte cose, è publiche e private, e per essa
diviene la vita sicura, onesta, inlustre e iocunda; e per essa medesima
molte utilitadi avengono in comune se fia presta la modonatrice di
tutte cose, cioè sapienzia; e per lei medesima abonda a coloro che
H'acqui- stano lode, onore, dignitade; e per essa medesima anno li
amici certissimo e sicurissimo aiutorio. 1: M-m spesse
volte — 2: m tralassaro — 8: m le chose honestissime — 10: M (Iride, m
diritte — 3f' Dela q. e. — 11: M' dirittamente, m om. — 12: M' dimorato y
f.: M 7 folli arditi, £ e da f. a. — 14: M^ J montaro perciò — 18: m e
torna, M 7 condoura tornerà per ragioni, L e mosterrà per rag. — Jlf-;»
honesti ~ 19: M -m ne- cessarie— 20: m lodarla — ^3: M* misuna, corretto
poi misusa — 27: M' molto pertièno devegna — 28: M> y hon. 7 illustra
7 gioconia, m illustra — 29: M sia — 31: M^-m 7 honore 7 dignitade.
La tema di questo testo è cotale, (H che dice Tulio: Se alquanti di mala
maniera usano malamente eloquenzia, non rimane pertanto che 11' uomo non
debbia studiare in 5. eloquenzia, al mio animo (cioè per mia sentenza),
acciò che ' rei uomini non abbiano podere di malfare a' buoni né di
fare generale distruzione di tutti. Et nota che di- strutti sono coloro
che soleano essere in alto stato et in ricchezza e poi divennero in tanta
miseria che vanno men- 10. dicando. 2. Et poi dice le lode di
rettorica, come tocca al comune et al diviso, e come per lei diviene
l'uomo sicuro, cioè che sicuramente puote gire a trattare le cause, et
ap- pena troverai (2) chi '1 sappia contradiare ; e dice chende
diviene la vita « onesta », cioè laudato intra coloro che '1 15.
cognoscono; e dice «illustre», cioè laudato intra li strani; e dice «
ioconda », cioè vita piacevole, però che ' savi par- lieri molto
piacciono ad sé et altrui. 3. Et altressi molto bene n'aviene alle comunanze
jier eloquenzia, a questa con- dizione : se sapienzia sia presta, cioè se
ella sia adiunta con eloquenzia. Et dice che sapienzia è amodenatrice di
tutte cose però che ella sae antivedere e porre a tutte cose certo
modo e certo fine. 4. Et poi dice che questi che anno elo- quenzia giunta
con sapienzia sono laudati, temuti et amati; e dice che Ili amici loro
possono di loro avere aiutorio sicurissimo, però che appena fie chi Ili sappia
contrastare, poiché sanno parlare a compimento di senno. Et dice «
cer- tissimo » però che '1 buono e '1 savio uomo non si lascia M-m
Lo testo èe cotale, M'-L La tema de questo è cotale — 3: M' aliijuanti —
6: M' de fare male — 7: m om. nota — 9: il' divegnono — 11: M huomo siguro
— 13: M' troverà — 14: M-m laudata.... che cognoscono — 15: M' illustra,
L illustro — 17: A/' ad altri — M-m nm. Et altressi e n— 19: Hin presta —
M' giunta — 21 :M siae ad intivedere, m a ad antivedere — 22: m om. Et —
23: M^ 7 temuti — 25: m Tia chelli sappia, M' fie chelli il sappia — 37:
M non so lascia. Anche la lezione di ilf è possibile, ma forse nacque da
un accomodamento arbitrario del testo già corrotto. Invece quella di M' è
spiegabilissima collomissione della parola testo (la somiglianza con questo
rese più facile l' errore) e riceve conforma dal principio del capitolo
seguente, con quell'uniformità di espressione che è caratteristica di
tutto il commento. (2) Troverai è preferibile come « lectio
difflcillor ». Del resto anche in M' po- trebbe trattarsi non di troverà,
ma troverà'. corrompere per amore ne per prezzo né per altra simile
cosa. Et qui si parte il conto e fae nn' ultima conclusione in questo
modo: Tullio conclude in somma. Et però pare a me che gli uomini, i
quali in molte cose sono minori e più fievoli che Ile bestie, in
questa una cosa l'avanzano, che possono parlare ; e donque pare che colui
conquista cosa nobile et altissima il quale sormonta li altri uomini in
quella me- desima cosa per la quale gli uomini avanzano le
bestie. La tema in questo testo è cotale : La veritade è che gli
uomini in molte cose sono minori che Ile bestie e più fievoli, acciò che
sanza fallo il leofante e molti altri animali sono più grandi del corpo che
nonn è l'uomo; e certo il leone e molte altre bestie sono più forti della
persona che ir uomo; e più ancora che in tutti e cinque ' sensi
sono certi animali che avanzano lo senso dell'uomo. Che sanza fallo
lo porco salvatico avanza l'uomo d'udire e '1 lupo cerviere del vedere e la
scimmia del saporare, e l'avóltore 20. dell' anasare ad odorare, e
'1 ragnol del toccare. Ma in questa una cosa avanza 1' uomo tutte le
bestie et animali, che elli sa parlare. Donque quello uomo acquista bene
la sovrana cosa di tutte le buone, che di ben parlare soprastae
alli altri uomini. 25. Tullio dice di che elli tratterà-
16. Et questa altissima cosa, cioè eloquenzia, non si acquista
solamente per natura né solamente per usanza, ma per insegnamento d'arte
altressi. Donque non è disavenante di vedere ciò che dicono coloro i quali
sopra ciò ne lasciaro alquanti comandamenti. Ma anzi S: il-m
un'altra condictione — 7 : M' costui — il-m conquesta — 8: M-m la quale;
om. li — 9 : )» om. cosa e gli uomini — 11: il' de questo t. M' molti
huomini.... minori 7 più fievoli chelle bestie — 15: U-m om. altre — 16:
M' che tucti — 19-20: M-m 7 l'avóltore dell'odore, M']j lavoltoio
delanasare adodorare, L del savorare e odorare, S et l'avoltoio del
nasare et d'odorare — M-M' 7 rangnol, m il rangnolo (ohi. tulli gli e), L a
ra- gnolo — M'-L ne! toccare — 22: M' chelli sanno - 25: M dico che {ma
cfr. ^ \) — 27 : M' per la natura — 2S: M-m nm. d'arte — 29: m
certi. che noi diciamo ciò che ssi comanda in rettorica, pare che sia
a trattare del genere d' essa arte e del suo officio e della fine e
della materia e delle sue parti; imperochè sapute e cognosciute
queste cose, più di legieri e più isbrigatamente potrà l'animo di
ciascuno 5. considerare la ragione e ia via dell'arte. Lo
sponitore. 1. Poi che Tulio avea lodata Rettorica et era
soprastato alle sue commendazioni in molte maniere, sì ricomincia
nel suo testo per dire di che cose elli tratterà nel suo libro. 10.
Ma prima dice alcuni belli dimostramenti, perchè l'animo di ciascuno sia
più intendente di quello che seguirà, e così pone fine al suo prolago e
viene al fatto in questo modo: Tullio ae fiìiito il prolago, e
comincia a dire di eloquenzia. Una ragione è delle cittadi la quale
richiede et è 15. di molte cose e di grandi, intra Ile quali è una grande
et ampia parte l' artificiosa eloquenzia, la quale è appellata Rettorica.
Che al ver dire né cci acordiamo con quelli che non credono che Ila
scienzia delle cittadi abbia bisogno d'eloquenzia, e molto ne discordiamo
da coloro che pensano ch'ella del tutto si tegna in forza et in arte
del 20. parladore. Per la qual cosa questa arte di rettorica porremo in
quel genere che noi diciamo ch'ella sia parte della civile scienzia,
cioè della scienzia delle cittadi. Lo sponitore.
I. In questa parte del testo procede Tulio a
dimosti-are ordinatamente ciò che elli avea promesso nella fine del
pro- lago. Et primamente comincia a dicere il genere di questa
arte. Ma anzi che Ho sponitore vada innanzi sì vuole fare intendere che è
genere, perchè l' altre parole siano meglio intese. Ogne cosa quasi o è
generale, sicché comprende molte altre cose, o è parte di quella
generale. Onde questa 1-2: M' (la tratto, poi corr. da
trattar.; — 3: M-m generalmente della decta- arte — 3: m però che - 4:
M-m più diligente, M' nm. più — 8: M A rinconincia — 11 : M' (luelle, ma
L quello — 14-13: M'-L richiede molte cose grandi — 16: M-m cai ver diro
— 18: M-m abbiano — 30: M-m [lorromo quel genero — SG: m quella — S8: M-m
y perchè — 29: M ìì quasi generale, m è quasi geu. — 30: M onde jvirte
quella gen. parola, cioè « uomo », è generale, per ciò che
comprende molti, cioè Piero e Joanni etc, ma questa parola, cioè «
Piero, » è una parte- A questa somiglianza, per dire più in volgare, si puote
intendere genere cioè la schiatta; che 5. chi dice « i Tosinghi »
comprende tutti coloro di quella schiatta, ma chi dice « Davizzo » non
comprende se no una parte, cioè un uomo di quella schiatta. 3. Onde Tulio
dice di rettorica sotto quale genere si comprende, per meglio
mostrare il fondamento e Ila natura sua. Et dice così che Ila 10.
ragione delle cittadi, cioè il reggimento e Ila vita del co- mune e delle
speciali persone, richiede molte e grandi cose, in questo modo: che è in
fatti e 'n detti. 4. In fatti è la ra- gione delle cittadi sì come l'arte
W de' fabbri, de' sartori, de' pannar! e l' altre arti che si fanno con
mani e con piedi. In detti è la rettorica e l'altre scienze che sono in
parlare. Adonque la scienza del governamento delle cittadi è cosa
generale sotto la quale si comprende rettorica, cioè l'arte del bene
parlare. Ma anzi che Ilo sponitore vada più innanzi, pensando che Ha scienza
delle cittadi è parte d' un altro generale che muove di filosofia, sì
vuole elli dire un poco che è filosofia, per provare la nobilitade e
l'altezza della scienzia di covernare le cittadi. Et provedendo ciò
ssi pruova l'altezza di rettorica. 6. Filosofia è quella sovrana
cosa la quale comprende sotto sé tutte le scienze; et è questo uno nome
composto di due nomi greci : il primo nome si è phylos, e vale
tanto a dire quanto « amore », il secondo nome è sophya, e
vale - tanto a dire quanto « sapienzia ». Onde FILOSOFIA tanto
vale a dire come « amore della sapienzia » ; per la qual cosa
neuno 30. puote essere filosofo se non ama la sapienzia tanto eh'
elli intralasci tutte altre cose e dia ogne studio et opera ad
avere intera sapienzia. Onde dice uno savio cotale difiì- /
M-m cioè che comprende — 2: Af' nm. o J cioè Piero — 5: M' ovi. chi —
4-6: m om. tutto il passo da che « quella schiatla — 8: m om. per — 9: M^
demostrare — 10: jU' i reggimenti — 12: M-m om. che b — 13: Af ' l'arti
(ma anche L l'arto) — m e de'pan- nali, .)/ 7 de sartori de panni —
16-17: m o parte d'un altro generale — 1M' de ben p. — 20: M in podio —
22: m om. della scienzia, 3/' niii. della scienzia l'al- tezza — 25: M
sotto di sé — 26: m fue fdos, .W filis — 27 : m om. nome — 29: M^ de la
scienza — 31: M-m tuote l'altre — J/' 7 da ~ 32: M-m. ad amare —' M'
Donde. (1) Anche arte potrebbe essere qui un plurale, come in
Tesar., X, 39-40; però lo ronde poco probabile la forma arti che subito
segue. La lezione amare di M-m fu certo suggerita dai precedenti amore e
ama, e basterebbe a farla rifiutare la ripetizione di concetto a cui si
riduce. nizione di filosofia : ch'ella è inquisizione delle naturali
cose e connoscimento delle divine et umane cose, quanto a uomo è
possibile d' interpetrare. Un altro savio dice che filosofia è onestade
di vita, studio di ben vivere, rimembranza della morte e spregio del
secolo. Et sappie che diflfinizione d'una cosa è dicere ciò che quella
cosa è, per tali parole che non si convegnano ad un' altra cosa, e che se
tu le rivolvi tuttavia signiffichino quella cosa. Per bene chiarire
sia questo l'exemplo nella diffinizione dell'uomo, la quale 10. è
questa: « L'uomo è animale razionale mortale ». Certo queste parole si
convegnono sì all'uomo che non si puote intendere d'altro, né di bestia,
né d'uccello, né di pescie, però che in essi nonn à ragione; onde se tue
rivolvi le parole e di' cosi : « (/he è animale razionale e mortale ?
certo non si puote d' altro intendere se non dell' uomo. Or è vero che
anticamente per nescietà delli uomini furon mosse tre quistioni delle
quali dubitavano, e uon senza cagione, però che sopr'esse tre questioni
si girano tutte le scienzie. La p-rima quistione era che dovesse
l'uomo 20. fare e che lasciare. La seconda quistione era per che
ra- gione dovesse quel fare e quell'altro lasciare. La terza
quistione era di sapere le nature di tutte cose che sono. Et perciò che
le questioni fuoro tre, sì convenne che' savi filosofi (2) partissero
filosofia in tre scienzie, cioè Teorica, 25. Pratica e Logica, si
come dimostra questo arbore. i: M inquistione, m
inquestione, L inqulslione — 2: M^ quando — 3: M enpossib'ile — (5: Mss.
quella cosa 7 per t. p. — 8: if-M' le rivuoli, L le rivolgi — il' el per bene
— .9-/0: if' lo quale questo, L la i[ualo questo — 16: m necessità, M'
neccssiladc — 16-17: .¥' luiomini in esse (L messe) — 18: sospeso, cnrr.
sopresse — 19: .1/' liuomo — 20: m la seconda che lasciare — 20-21: lU-m
om. la 2" quistione — 22.: M-m om. quistione — M-iii la natura — m
tutte le oliose - 23: M-m Et però quelle quistioni furono tre — 23-24 : M
si convenne i savi phylosoi)hy che partissero — jf > si conviene -^ 23: M
mn. e. (1) Si potrebbe anche leggere (con una costruzione più
regolare ma con una coordinazione poco opportuna) ciò eh' è quella cosa,
e per tali parole ecc. (2) Questa lezione ò comune a codici di
ambedue le famiglie, e perciò la pre- ferisco a quella di M, che pure si
può difendere facendo transitivo conreìtne e intendendo i -savi filosofi
come complem. oggetto. Et la prima di queste scienze, cioè pratica, è
per dimostrare la prima questione, cioè che debbia uomo fare e che
lasciai'e. La seconda scienzia, cioè logica, è per di- mostrare la
seconda quistione, cioè per che ragione dovesse quel fare e quello altro
lasciare. 10. Et questa scienza, cioè logica, sì ae tre parti, cioè
dialetica, efidica, soffistica. La prima tratta di questionare e
disputare l'uno coli' altro, e questa è dialetica; la seconda insegna
provare il detto del- l' uno (1) dell' altro per veraci argomenti, e
questa èe efi- dica; la terza insegna provare il detto dell'uno e
dell'altro per argomenti frodosi o per infinte provanze, e questa è
sofistica. Et questa divisione pare in questo arbore. La tex'za scienzia,
cioè teorica, si è per dimostrare le nature di tutte cose che sono, le
quali nature sono tre; 15. e però conviene che questa una scienza, cioè
teorica, sia pai'tita in tre scienzie, ciò sono Teologia, Fisica e
Mate- matica, sì come dimostra questo arbore. 4: m
cioè la ragione — 6: m sollislicha, epidicha, M' eflidica (un'altra mano
aggiunse sotìslicha) — 7: i/' tractare.... contra l'altro - 9:m, ìt', l e
dell'altro — i 1 : if infinite — M' argomenti frodolenti 7 jier infinita
pruova — 12: m apare. (1) Conservo invece di e, comune a quasi
tutti i codici, appunto per la sua singolarità e perchè sembra indicare
una differenza tra l'efldica e la sofistica- la prima dimostra la verità
di una delle due parti, la seconda pretende dimo- strare l'una e l'altra
parte. Onde la prima di queste tre scienze, cioè teologia, la quale
è appellata divinitade, si tratta la natura delle cose incorporali le
quali non conversano in traile corpora, sì come Dio e le divine cose. La
seconda scienzia, cioè 5. fisica, sì tratta le nature delle cose
corporali, si come sono animali e He cose che anno corpo; e di questa
scienzia fue ritratta l'.arte di medicina, che, poi che fue connosciuta
la natura dell'uomo e delli animali e de' loro cibi e dell'erbe e
delle cose, assai bene poteano li savi argomentare la sa- io, nezza e
curare la malizia. La terza scienzia, cioè matematica, sì tratta le nature de
le cose incorporali le quali sono intorno le corpora; e queste nature
sono quattro, e perciò conviene che matematica sia partita in quattro
scienze, ciò sono arismetrica, musica, geometria et astronomia, sì
come 15. appare in questo arbore: La prima scienzia, cioè
arismetrica, tratta de' conti e de'nomeri, sì come l'abaco e più
fondatamente. La seconda scienza, cioè musica, tratta di concordare voci
e suoni. La terza, cioè geometria, tratta delle misure e delle proporzioni.
La IV scienza, cioè astronomia, tratta della disposizione del cielo e
delle stelle. Or si torna il conto dello sponitore di questo libro
alla prima parte di filosofia, della quale è lungamente ta- ciuto, e
dicerà tanto d'essa prima parte, cioè di pratica, 25. che pervegna
a dire della gloriosa Rettorica. E sì come fue detto già indietro, questa
pratica è quella scienza che dimostra che ssia da ffare e che da
lasciare, e questo è di 3:m traile corpora — 7: #' dela
mudicina — 9: M' assai poteo bone argomentare isani — 10-13 : M-m mltnno
da matematica di l. 10 a l. 13 sia partita (m si e) — 16: m om. scien-
7.ia — 17: M' noveri — 18: M [a musica — SO: M astorlomia — M' tracta Io
sponilore — 22: Af' si ritorna (L ritorna), m Ora torna lo spoiiiloro
alla prima p. — 33: m ae, Jtf' oo — 24: m della prima parte — 25: m
perverrà. tre maniere: i>erciò conviene che di questa una
siano tre scienze, cioè sono Etica, Iconoiiiica e Politica, sì come
mostra la figura di questo arbore : La prima di queste, cioè etica, sì è
insegnamento di 5. bene vivere e costumatamente, e dà connoscimento
delle cose oneste e dell'utili e del lor contrario; e questo fa per
assennamento di quatro vertudi, ciò sono prndenzia, iusti- zia, fortitudo
e temperanza, e per divieto de' vizi, ciò sono superbia, invidia, ira,
avarizia, gula e luxuria; e così dimoio, stra etica clie sia da tenere e che da
lasciai-e jier vivere virtuosamente. 16. La seconda scienza, cioè iconomica,
sì 'nsegna che ssia da ffare e che da lasciare per covernare e
reggere il propio avere e la propia famiglia. La terza scienza, cioè
politica, sì 'nsegna fare e mantenere e reggere 15. le cittadi e le
comunanze, e questa, sì come davanti è pro- vato, è in due guise, cioè in
fatti et in detti, sì come si vede in questo arbore:
18. Quella maniera eh' è in fatti sì sono l'arti e' magi- sterii che in
cittadi si fanno, (i) come fabbri e drappieri e li 1 : M-m
però clic convion(3 — 3.m am. la ligura — ;>: Af' accostumatamente M' om.
ira — 10: M^ da necnto — 1 1: m virtmliosamonte — 13: m avere, la patria
e la famiglia — 14: m fare, mantenere 7 r. — 16: M-M' 7 in due guise — M'
in detti. 18: m om. tutto il g 18 — M' 7 mestieri — 19 : M che cittadini
fanno (lì Si rimane incerti fra le due lezioni, perchè il senso è
il medesimo e anclie paleograficamente la differenza è lieve: forse ì
citladisi oxìgìno (i) cittadini'! Adot- tiamo la lezione un po' più
diffìcile. altri artieri, sanza i quali la cittade non
potrebbe durare. Quella eh' è in detti è quella scien^ia che ss' adopera
colla lingua solamente; et in questa si contiene tre scienze, ciò
sono Grramatica, Dialettica, Rettorica, si come dimostra 5. questo altro
albore: Et che ciò sia la verità dice lo sponitore che gra- matica
è intrata e fondamento di tutte le liberali arti et insegna drittamente
parlare e drittamente scrivere, cioè per parole propie sanza barbarismo e
sanza sologismo. Adunque sanza gramatica non potrebbe alcuno bene dire né
bene dittare. La seconda scienza, cioè dialetica, sì pruova le sue parole
per argomenti che danno fede alle sue parole; e certo chi vuole bene dire
e bene dittare conviene che mo- stri ragioni per che, sicché le sue
parole abbiano provanza Ib. in tal guisa che Ili uditori le credano
e diano fede a cciò che dice. La terza S(!Ìenza ciò è Rettorica, la quale
truova et adorna le parole avenanti alla materia, per le quali
l'udi- tore s'accheta e crede e sta contento e muovesi a volere ciò
eh' è detto. Adonque le tre scienze sono bisogno a 20. parlare et
al dittare, che sanza loro sarebbe neente, acciò che '1 buono dicitore e
dittatore de' sì dire e scrivere a diritto e per sì propie parole che sia
inteso, e questo fae gra- matica; e dee le sue parole provare e mostrare
ragioni (2), 1 : Af ' artefici sanza quali le cittadi non
potrebbero durare — 3: M^ ] questa si con- tiene — 6: m Et choncio sia la
v., L Et cliome ciò sia — 7: M' l'arti liberali — 9: M- m om. e sanza
sologismo; t-S silogismo — 10: M' om. alcuno — I-i: M ragione si che le
s. p. — pruova — i7 : M-m advoncnti — 18-19 : M' per bisogno al parliere et al
dicta- tore — S3: M-m mostrare con ragiono, L mostrare por ragione
Non credo necessario, data l' impossibilità di distinguer la grafia dei
copisti da quella dell' autore, ristabilire la forma esatta solecismo; la
stranezza della pa- rola spiega pure l'omissione di M-m e lo sproposito
di L-S. (2) Che questa sia la giusta lezione è confermato dal §
precedente, 1.16 («ra- gioni per che ») ; e si noti che mostrare con
ragione o per ragione equivarrebbe a provare. e questo fae
dialetica; e dee sì mettere et addornare il suo dire che, i)oi che 11'
uditore crede, che stia contento e faccia quello eh' e' vuole, e questo
fa Rettorica. Or dice lo sponitore che Ha civile scienza, cioè la covernatrice
delle cit- 5. tadi, la quale èe in detti si divide in due: che ll'una è
co llite e l'altra sanza lite. Quella co llite si è quella che sisi fa
do- mandando e rispondendo, si come dialetica, rettoi'ica e lege;
quella eh' è sanza lite si fa domandando e rispondendo, ma non per lite,
ma per dare alla gente insegnamento e via di 10; ben fare, sì come
sono i detti de' poeti che anno messo inii iscritta l'antiche storie, le
grandi battaglie e l'altre vicende che muovono li animi a ben fare.
Altressì quella civile scienzia eh' è con lite è di due maniere, eh' è
ll'una artifi- ciosa, l'altra non artificiosa. Artificiosa è quella nella
quale il parliere che connosce bene la natura e Ilo stato della
materia, vi reca suso argomenti secondo che ssi conviene, e questo è in
dialetica et in rettorica. Quella che non è artificiale è quella nella
quale si recano argomenti pur per altoritade, si come legge, sopra la
quale non si reca neuna 2'^ pruova né ragione per che, se non tanto
l' altoritade dello 'mperadore che Ila fece. Et di questa che non è
artificiale dice BOEZIO nella Topica eh' è sanza arte e sanza parte
di ragione. Alla fine conclude Tulio e dice che Rettorica è parte
della civile scienzia. Ma Vittorino sponendo quella 25. parola dice
che rettorica è la maggiore parte della civile scienzia; e dice «
maggiore » per lo grande effetto di lei, che certo per rettorica potemo
noi muovere tutto '1 popolo, tutto '1 consiglio, il padre contra '1
figliuolo, l'amico centra l'amico, e poi li rega(i) in pace e a
benevoglienza. Or è detto 30. del genere; omai dicerà Tulio dello
oflfizio di rettorica e del fine. 1: M ordinare, m e
iliraeltero e ordinare lo siidire — 3: M^ cliolll stea — 5: M-m si vede in
due — 7: M' y reclorica — 9: M' a. lo genti — i 1 : m-M in iscripto — M'
7 le g. b. 7 altro vicende — IS : M-m alla (certo da ((Ila), M' (|UOSta
civ. — 13-14: mchS l'ima e art. 7 l'altro non art., 3f' l'unaarl. l'altra
none art. (X non art.) — 16: m su argomenti che crede ohe si chenvieno, S
secóndo la cosa — 19: M sopralla quale — 21 : J/' di que- sta non
artificiosa — S6: m e M' alFecto, ma L el'ctto — S8 : m M' contro al f. —
wchontro all'amico, M' contra amico. — 29: m li reca, Af' recalgli a pace
7 benev., L-S recarli a p. Q n h. — 80 : m M' oggimai. (1)
Con libertà non nuova alla nostra ling'.ia antica, si può sottintendere
il soggetto, « rettorica », dalle parole « per rettorica » che precedono.
La lezione ? ecarli, appunto perchè piii semplice e chiara, mi par da
scartare : non si vedrebbe CICERONE dice che è l'ufficio di questa
arte. 18. Officio di questa arte pare che sia dicere
appostatamente per fare credere, fine è far credere per lo dire. Intra
11' ufficio e Ila fine èe cotale divisamente : che nell'officio si
considera quello che 5. conviene alla fine e nella fine si considera
quello che conviene al- l'officio. Come noi dicemo l'ufficio del medico
curare apostatamente per sanare, il suo fine dicemo sanare per le
medicine, e così quello che noi dicemo officio di rettorica e quello che
noi dicemo fine in- tenderemo dicendo che officio sia quello che dee fare
il parliere, e dicendo che Ila fine sia quello per cui cagione eili
dice. In questa parte àe detto Tulio che è l'officio di que- sta
arte e che è lo suo fine; e perciò che '1 testo è molto aperto, sì sine
passerà lo spouitore brevemente. Et dice 15. cotale diffinizione :
officio è dicere appostatamente per fare credere. Et nota che dice « appostatamente
», cioè ornare parole di buone sentenze dette secondo che comanda
que- st'arte; e questo dice per divisare il parlare di questo di-
citore dal parlare de' gramatici, che non curanq d'ornare 20.
parole. E dice « per far credere », cioè dicere sì composta- mente che ir
uditore creda ciò che ssi dice. Et questo dice per divisare il detto de'
poeti, che curano più di dire belle pai-ole che di fare credere. 2. L'
altra diffinizione è del fine. Et dice che fine è far credere per lo
dire. Et certo chi 25. considera la verità In questa arte e'
troverà che tutto lo 'ntendimento del parliere è di far credere le sue
parole all'uditore. Donque questo è la fine, cioè far credere; che
2: M* om. ilk'Oi'O — 3: M-M' 7 lar — M-m per 1 udire - 3-4: M' om.
Inlra 11' udicio e ripete è cotale ilivisumento che no l'ollicio — M 7 è
colalo — 0: m il' e curare — 9: t in- tenderemo cli6 olicio è quello ecc.
— m om. e — JO: il ella, mi e la — i3 : .tf' et che il lino — 15: il
apostamonle — M-m saltano dal l'ai ^ apposlatanicnto. — 10: .tf-m-.l/'
or- nate — 20: m diro si ornatamente et cliom))ost. — 21 : M-m mn. Kl
c|uesto dice - 23: M-m che farle credere - 24: M-m per 1 udire — 23: M 7
troverà - 26: M' del parlare la ragione per cui fu mutata negli
altri codici, mentre ò facile ammettere che sia derivata da recahjli di M
'. Quoista poi, a sua volta, non è che una variante di ìi reca, con una
estensione del pronome enclitico a cui contraddice la cosiddetta legge
del Mussafla (cfr., anche per Dante, in Bull. d. Soc. Dani., N. S., XIV,
90-91) 'mmantenenle che l'uomo crede ciò eli' è detto si
rivolve (1) lo suo animo a volere et a ffare ciò che '1 dicitore
intende. 3. Ma dice Boezio nel quarto della Topica che '1 fine di
que- sta arte è doppio, uno nel parladore et un altro nell'uditore.
5. Il parladore sempre desidera questo fine in sé: che dica bene e che
sia tenuto d' aver bene detto. Neil' uditore è questo fine: che '1
dicitore a questo intende, che nell'udi- tore sia cotale fine che creda
quello che dice; e questo fine non desidera sempre IL PARLATORE sì come
quello di sopra. 10. 4. Et per mostrare bene che è l' officio e che
è il fine e che divisamento àe dall'uno all'altro, sì dice Tulio che
officio è quello che '1 parliere de' fare nel suo parlamento
secondo lo 'nsegnamento di questa arte. Ma fine è quello per cui
cagione il parlieri dice compostamente; e certo questa cagione e questo fine
nonn è altro se non fare credere ciò che dice. Et di ciò pone exemplo del
medico, e dice che Ilo officio del medico è medicare compostamente
per guerire r amalato; la fine del medico èe sanare lo 'nfermo per
lo suo medicare. Già è detto sofficientemente dell' officio e
della fine di rettorica; omai procederàe il conto a dire della
materia. Materia di questa arte dicemo che ssia quella nella quale
tutta l'arte e Ilo savere che dell'arte s'apprende dimora. Come se noi
dicemo che Ile malizie e le fedite sono materia del medico, perciò che
'ntorno quelle è ogne medicina, altressì dicemo che quelle cose sopra le
quali s'adopera questa arte et il savere eh' è appreso (2) dell'arte sono
materia di rettorica; le quali cose alcuni pensaro che 1 : M
sinvolve, m si involve, M^-L si muove — S : M' quello olio. — 9 : M-m
considera — 10: M' om. l)ene — 15: M-m non ae altro — m se none a
faro — 16: Af ' in ciò — 17-18 : M Olii, è medicare.... del medico — 19:
M-m Già ae d. s. (mi s. d.) — 20: M' del fine — ogimai procederà
Tulio a dire — S,4: m e tutta l'arte — Jlf ' e sapere — S3: M-m le
malizie, cioè le malattie (glossa) — 87: M e savere — tulli i inss,
apresso Questa è senza dubbio la lezione richiesta dal senso e giustificabile
con ragioni paleografiche: un siriuolue in cui ri è parso un n ha
originato il sinvolve di M; da questo, per correzione arbitraria, è nato
si muore di Mi L. Invece di si rivolve lo suo animo (soggetto) si può anche intendere « (l'uomo)
si rivolve lo suo animo », ma forse l'espressione riesce meno
naturale. (2) La correzione è suggerita dalle parole precedenti : «
lo savere che dell'arte s'apprende». Il testo latino ha facuUas
oratoria. fossero piusori et altri meno. Che GORGIA DI LEONZIO, che fue
quasi il più antichissimo rettorico, e in oppinione che IL PARLATORE puo
molto bene dire di tutte cose. Et questi pare che dea a questa arte
grandissima materia sanza fine. Ma Aristotile, il quale diede a questa 5.
arte molti aiuti et adornamenti, extimò che II' officio del PARLATORE sia sopra
tre generazioni di cose, ciò sono dimostrativo, diliberativo e
giudiciale. Lo sponitore. 1. In questa parte dice Tulio che
materia di rettorica 10. è quella cosa per cui cagione furo pensati
e trovati li co- mandamenti di questa arte, e per cui cagione
s'adoperala scienzia clie 11' uomo apprende per quelli
comandamenti. Così fuoro trovati li comandamenti di medicina e gli
ado- peramenti per le infertadi e per le ferute; et insomma
15. quella è Ila materia sopr' alla quale conviene dicere. Et sopra
ciò fue trovata questa arte per dare insegnamento di ben dire secondo che
Ila materia richiede e per fare che ir uditore creda. Et di questo è
stata diiferenzia tra' savi : che molti furo che diceano che materia
puote 20. essere ogne cosa sopr' alla quale convenisse parlare. Et
se questo fosse vero, donque sarebbe questa arte sanza fine, che
non puote essere; e di questi fue uno savio, GORGIA DI LEONZIO, antichissimo
rettorico; et in ciò che Tulio l'appella antichissimo sì dimostra che non sia
da credere. Ma Aristotile, a cui è molto da credere, perciò che
diede molti aiuti et adornamenti a questa arte in perciò che fece uno
libro d' invenzione et un altro della parladura, dice che rettorica èe
sopra tre maniere di cose, e catuua maniera èe genei'ale delle sue parti;
e queste sono dimo- 30. strativo, diliberativo e iudiciale, come in
questi cercoletti apiiare : 2: m cliel parlaro — 3:
M-m che (loggia (w dohbia) aiiiiistare — 6: M' generi — 7: M-m
giiulicalivo - IS: M-m et per (incili comamlamenti. Af' aiiiirondo per qua
com., S per qiialnni|ue com. (t bene) -- 13-14: M-m et por lo
adoperamenlo et por lo inf. — M' fedito — 15: m. M'-L sopra la quale —
19: M' dissero — ?0: m sopra la ipiale l'uomo chonviene parlare, M' sopra
la (pialo — SS: M-m di questo — S3-S4: M' 1 aix.'l- lava — S6: M-m (lice
molti aiuti — M' in ciò che, m però che — S7: Mdinvctione, hi d'in-
votione - S8: M-m materie — M' de cosa {ma L S di cose) — M^ ciasouna —
30-31: M-m om. come ecc. e la figura. Et a questa sentenzia
s'accorda Tulio, e sopra queste tre maniere è tutta l'arte di rettorica.
4. Ma ben puote essere oh' e' maestri in questo punto fanno divisamente
intra dire e dittare; che pare che Ila materia di dittare sia si
generale che quasi sopra ogne cosa si possa fare pistola, cioè man-
dare lettera. Ma dire non si puote per modo di rettorica se non delle
dette tre maniere, perciò che Tulio CICERONE reca tutta la rettorica in
quistione di parole. Et intendo che quistione è una diceria nella quale
àe molte parole sie impigliate che ssine puote sostenere l'una parte e
l'altra, cioè provare si e no' per atrebuti, cioè per propietadi del
fatto o della persona. Et ecco l' exemplo in questa diceria che fie proposta
in questo modo: È da sbandire in exilio Marco Tulio Cicero no, che
davanti (i) al popolo di ROMA fece anegare molti ROMANI a tempo che '1
comune era in dubbio? In questa proposta à due parti, una del sì et
un'altra del no. Quella del sì è cotale : « Cicero è da sbandire, perciò
che à fatta la cotale cosa *. Quella del no è cotale: « Non è da
sbandire, che ricordando pure lo nome signififica buona cosa 20. et
isbandire et exìlio (2) sìgnifBca mala cosa, e non è da cre- dere che
buono uomo faccia quello che ssia da sbandire degno né de exìlio ». 6.
Grià è detto che è la materia di quest'arte, et afferma Tulio la sentenza
d'Aristotile. Et però che elli l' àe confermata, sì dicerà di catuna dì
quelle 25. tre maniere sì compiutamente che per lui e per lo
sponì- 1 : m sachosta — 2: Mi tucta — 3:m tra dire od. —
4:mL del dittare ~ 5 : M' si puote — 6: M' lectoro — 7 : 3f ' se non le
docte — om. perciò — m tutta rettorica — 9: M' ov'a — il: M-m et por
atrebuti, M' per ai trebuti — m cioè i)roiiietadi — 12: M sie o fie, m
Ila, M'-L fu - 14: m om. Cicero — M^ Cicerone che davanti il p. — 15: M'
al tempo — 16: M imposta — 19: M' il suo nome ò buona cosa — 20: M' in
exilio — 21-22: m dongno da sb., M' dengno di sbandire in oxilio — 24:
J/' la conferma Non e' è dubbio
sul testo, in cui la tradizione manoscritta è concorde; quanto
all'interpretazione cfr. Maggini, La Rettorica italiana di B. L., ediz. cit.,
p. 34. Che et e non in sia la lezione originaria è comprovato dal
seguente né de exilio (cambiato da M< in exilio per analogia colla
prima alterazione). tore potrà quelli per cui è fatto questo libro
intendere la materia, lo movimento e la natura di rettorica. Ma ben
guardi d'intendere ciò che dice questo trattato e di Connoscere ciò che in esso
si contiene, che altrimenti non po- trebbe intendere quello che viene
innanzi; e dicerà prima del dimostrativo. Del dimostr amento. Dimostrativo
è quello che ssi reca in laude o in vituperio d'una certa personale. In
questa parte dice CICERONE che, con ciò sia cosa che Ile cause e Ile
quistioni sopr' alcuna vicenda indella quale l'uno afferma e l'altro
niega siano di tre maniere, sì inse- gna Tulio avanti quale causa è
dimostrativa. Ma lo sponi- 15. tore non lascerà intanto che non
dica la natura e Ila radice di tutte e tre, oltx'e che dice il testo di
Tulio; et in ciò dicerà chi è la persona del parliere che dice sopra la
causa, e dicerà che è il fatto della causa. La persona del par- liere
è quella che viene in causa per lo suo detto o per lo 20. suo
fatto: et intendo « suo detto » quello ch'elli disse o che ssi crede
ragionevolemente ch'elli abbia detto, avegna che detto noll'abbia;
altressì intendo «fatto» quello che fece o che ssi crede ragionevolemente
che elli abbia fatto, avegna che fatto non sia. 3. Il fatto della causa è
quel detto o quel fatto per lo quale alcuno viene in causa e questione; et
in ciò sia cotale exemplo: Dice Pompeio a Catellina: « Tu fai tra-
1: in poUà collii —è: M' c\ inovini. ~ 5: .W Jioooia, L ilice ora
— 6: i/del dimoslratio, m (Iella dimostrationo — 8: S si moslra — 13-14:
il' sia in ti-o maniero.... tulio avanti, m Tulio inprima — M-m cosa —
il' sia doni. — 13: m oni. e la radice - lS-19: il-m Persona del ]). 7
quella — 19-20: il' per lo suo facto o per lo suo dello, m per lo s. d. e per
lo s. f. intondo suo detto e latto (pielli (nni-he il (iiielli) - SS:
il-m e così intondo quello — S4 : il' ijucl detto — SS- il' et in
ipiest., m. ohi. — L siae -- 41 - dimento nel
comune di Roma». Et Catellina risponde: « Non fo ». In questo convenente
Pompeio e Catellina sono le persone de'parlieri; e la causa è questa: «Tu
fai tradi- mento » — « Non fo »; e chiamasi causa però che 11' uno
ap- 5. pone e dice parole contra l'altro e mettelo in lite. 4. Et
per maggiore chiarezza dicerà lo sponitore che èe dimostra- mento e
che deliberazione e che iudicamento, e così sopra che è ciascuna maniera
di rettorica. Dimostramento. Dimostramento è una maniera
di cause tale che per sua propietade il parliere dimostra ch'al-
cuna cosa sia onesta o disonèsta, e per questo mostra che è da laudare e
che da vituperare; e questa causa dimostrativa è doppia: una speciale et
un'altra che non si puote partire. La speciale dimostrativa è quella nella
quale i parlieri si sforzano di provare una cosa essere onesta o
disonesta, non nominando alcuna certa persona; et intendo certa
per- sona a dire delli uomini e delle cittadi e delle battaglie e
di cotali certe cose e determinate tra Ile genti, non intendo dell'altezza
del cielo né della grandezza del sole o della 20. luna, che questa
quistione non pertiene a rettorica. Et di questa causa speciale
dimostrativa sia cotale exemplo : « Il forte uomo è da laudare Dice
l'altro: Non è, anzi è da vituperare. E di questo nasce quistione, se '1
forte è degno di lode o di vituperio, e perciò èe dimostrativa, ma
25. non nomina certa persona, e perciò è speciale. 8. La causa
dimostrativa che non si puote partire è quella nella quale i parlieri
vogliono mostrare alcuna cosa sia onesta o diso- nesta nominando certa
persona, in questo modo. CICERONE è degno di lode. Dice l’altro. Non è. E
di questo nasce quistione, se sia da lodare o da vituperare. Et
questa quistione comprende due tempi : presente e pre- terito. Che al ver
dire di ciò che 11' uomo fae presentemente è lodato biasmato, et altressì
di ciò che fece ne' tempi pas- sati. 9. Et sopra ciò dicono 1' antiche
storie di Roma che 35. questa causa dimostrativa si solca trattare
in Campo Marzio, 5: 3/' perciò maggioro — 7 : ìlt' cheo...
cheo (ma L clie... che) - saprà che è — 10: M' per sue propietadi il
parladore — 14: M' i parladori — m spellale o dimostrativa — 16: M' nm.
et intendo certa persona, vi om. et — 17: M' et dele ciltadi — 18: m
cliase diterminate — 19: M-m et della gr. — 20: m non apartiene — ^i :?» om.
speciale — M-m dimostrata — M k cotale lessemplo - So: M-m om. è — 27: M'
alcuna persona essere M-m di tre
tempi — m pres., preter. e luturo — 32: M-m Et al ver dire — 33 : M-m om.
di - 42 - nel quale s'asemblava la comunanza a
llodare alcuna per- sona ch'era degna d'avere dignitade e signoria et a
bia- smare quella che non era degna. E già è ben detto della causa
dimostrativa; sì dicerà il maestro della causa deli- 5. berativa.
Del diliber amento. 21. Diiiberativo è quello il quale, messo
(^' a contendere et a dimandare tra' cittadini, riceve detto per
sentenzia. In questa parte dice Tulio che causa diliberativa è quella
eh' è messa e detta a' cittadini a contendere il lor pareri et a
domandare a lloro quello che nne sentono; e sopra ciò si dicono molte et
isvai'iate sentenze, perchè alla fine si possa prendere la migliore (2).
2. Et questo modo di 15. causare è quello che fanno tutto die i signori
e le podestà delle genti, che raunano li consillieri per diliberare
che ssia da fFare sopra alcuna vicenda e che da non fare; e quasi
ciascuno dice la sua sentenza, sicché alla fine si prende quella che pare
migliore. 3. Et in ciò sia questo 20. exemplo che propone il senatore:
« E da mandare oste in Macedonia? » Dice l'uno sì e l'altro no. Et così
diliberano qual sia lo meglio, e prendesi 1' una sentenza. Et
questa quistione si considera pure nel tempo futuro, che al ver
dire sopra le cose future prende l'uomo consiglio e dili- 25. bera
che ssia da fare e che noe. 4. Et questa causa dilibe- rativa è doppia:
una speciale et un'altra che non si puote partire. 5. Speciale è quella
nella quale si considera d'ai cuna cosa s' ella è utile o s' eli' è
dannosa, non nominando 1-3: M alcuno cli'era dengno — om. e
signoria.... degna — 6: Tutti i mss. omesso, S è messo — H : M-m che in
essa - m M' i loro pareri, L illoro pareri — 12: M' da loro - 13: M-m
dicono — 14: M-m lo migliore — 15: M-m cassare (M 7 quello) — 16:
M-m raunavano — 17: M-m non daffare — 20: M' ressom])ro — M-m che pone
-22: M' il migliore — 24: m nel tempo futuro — ilf ' iirendo huomo(»nn L S
l'uomo) M-m Questa ì; causa, cioè cosa, diliberativa 7 doppia,. L e
delib. e doppia — m una e spetiale — M-m om. che — 27: M-m alcuna cosa —
28: M-m om. sellò (1) Il testo latino non lascia alcun dubbio. La
stessa corruzione, comune a tutti i codici, è nel successivo § 22 (e
posto), e il costrutto insolito la rendeva facile. (2) Anche la
lezione lo migliore è buona, ma preferisco quella di M' perchè
corrisponde esattamente alla fino del § 2. alcuna certa
persona. Et ecco l'essempio: Dice uno: “Pace è da tenere intra cristiani.”.
Dice l'altro: « Non è ». Et di ciò nasce causa diliberativa speciale, se
Ila pace è da tenere o no. L'altra che non si può partire è quella nella
quale 5. i dicitori studiano di provare e' alcuna cosa sia utile o
dan- nosa, nominando certe persone, in questo modo: Dice l'uno: «
Pace è da tenere intra Melanesi e Cremonesi. Dice l'altro: «Non è». Et già è
detto della causa diliberativa; omai dicerae il maestro del iudiciale. Ma
questo sia conto a ciascuno, che Ila propietade della diliberazione èe
mostrare che ssia utile e che dannoso in alcuno convenentre. Et questa diliberativa
si solca trattare nel senato, e prima diliberavano li savi privatamente
che era utile e che no e poi si recava il loro consiglio in parlamento e
quivi si fermava la loro sentenza, e talvolta si ne prendea un'altra
migliore. Judiciale è quello il quale, posto In iudicio, à in sé
accu- sazione e difensione o petizione e recusazione. La natura di
iudicamento si è una forma la quale si conviene al parladore per cagione
di mostrare la iustizia e la 'niustizia d'alcuna cosa, cioè per mostrare
d'una cosa s' ella è insta o centra iustizia, in cotal modo : che uno
ac-cusa un altro e l’accusato si difende elli medesimo o un altro per
lui; overo che uno fa sua petizione e domanda guidardone per alcuna cosa
eh' elli abbia ben fatta, et un altro recusa e dice che non è da
guidardonare, e talvolta dice. Anzi è degno di pena. Et questa causa si
pone in iudicio, cioè in corte davante a' indici, acciò eh' elli
indichino tra Ile parti quale àe iustizia; e questo si fae in corte
palese in saputa delle genti, acciò che Ila pena del S. in
Iva — 3: M-m e so la p. — 4: M' L'altra la quale — 7 : Ai da melanesi, m
tra mei. - Af ' e li crem. — M-m l'altro dice — *: J/ E già detto — U-m
cosa — 9 : M ' oggi- mai dicera del giudioiale - 10: ;»/' om. a ciascuno
— m e damostrare — 12: m ohe prima 14: m om. e — m M' in loro consiglio
(ma L illoro cons.) — 14-15: A/' in loro sententia si fermava — 18:
Tuttiimss. e [tosto — i9: m accnsatione, difensione, pctitiono — Tutta mas.
recusatione {ma cfr. testo latino) — 24: m chontro a iust. — m om. che — V e
medesimo, L elli med. — 27: m fatta bene — 28: m om. e dice — 32: m traile
genti. malfattore dia exemplo di non malfare, e '1 guidardone de'
benfattori sia exemplo agli altri di ben fare. Et sopra questa materia
dice uno savio: « I buoni si guardano di peccare per amore della vertude,
i malvagi si guardano 5. per paura della pena ». 3. Et è questa causa
iudiciale doppia: una speciale et un' altra che non si puote partire. Speciale
è quella nella quale il pai'lierc si sforza di mostrare alcuna cosa che ssia
insta o iniusta, non nominando certa persona; in questo modo: « Il ladro
èe da 'mpendere, 10. perchè commette furto ». Dice l'altro: « Non è
». 4. Quella che non si puote partire è quella nella quale il parliere
si sforza di mostrare una cosa essere iusta o no, nominando certa
persona; in questo modo: « È da impendere Guido eh' à fatto furto, o no?
» Od « E da guidardonare GIULIO Cesare eh' à conquistata Francia, o no? Et
tutte que ste cause iudiciali si considerano sopra'1 tempo preterito perciò
che di ciò che l’uomo à fatto in arrietro è guidardonato o punito. CICERONE
dice la sua sentenzia della materia di rettorica riprende quella d'
Ermagoras. Et sì come porta la nostra oppinione, l'arte del parliere
(0 e la sua sctenzia è di questa materia partita in tre. (cai). VI)
Che certo non pare che Ermagoras attenda quello che dice ne attenda
C^) ciò che promette, acciò che dovide la materia di questa arte in
causa 25. et in questione. 1 : VI exempro allo
genti — -V far malo — M il guidardone — S: M' tini benfacloro — m om. VA
— 4: M' o li malvagi seno guardano — 6: U' et una che — 7: il' il
dicitore - 9: M-m om. modo — m è da mpichare — 10: M' un altro — 12-15:
M-m om. ila nominando alla fine del paragrafo — i6: il-m om. si — i7: m
per adietro — i8:m pulito SI : M-m parlare, M' parladore, L parlatore —M
Amagoras Che sia da legger cosi dimostra non tanto la variante di
M' quanto, specialmente, il trovare nel § 1 del commento lo stesso errore di Mm
di fronte a parliere di M'. Conservo, coi codici, i due attenda,
quantunque il tosto latino abbia nel primo caso attendere e nel secondo
intellUjere: qui ci aspetteremmo dunque in- tenda, e l'alterazione, per
analogia col primo verbo, sarebbe spiegabilissima. Ma anello con attenda
il senso va bene; e forse una prova della somiglianza sostan- ziale per
l'autore fra attendere e intendere si ha nel § 7 del commento, dove,
riferendosi a questo passo, i due verbi sono invertiti di posto: «non pare
che Ermagoras intendesse quello che dicea, nò che considerasse (=
attendesse) quello che promettea. Poi elle Tulio àe detto davanti le tre
partite della materia di rettorica sì come fue oppiuione d'Aristotile,
in questa parte conferma Tulio la sentej^izia d'Aristotile; e 5.
dice che pare a llui quel medesimo, e riprende la sentenzia d'Ermagoras, il
quale diceva che Ila materia del par- liere è di due partite, cioè causa
e quistione. Ma certo e' dovea così riprendere coloro che giungeano alla
materia di quest'arte confortameuto e disconfortamento e consola-
lo, mento; e lui riprende Tulio nominatamente perciò ch'elli era più
novello e però dovea elli essere più sottile, e ri- prendelo ancora però
che ssi traea più innanzi dell'arte; e riprendendo lui pare che riprenda
li altri. Ma però che Tulio CICERONE non disfina (D lo riprendimento
delli altri, si vuole lo sponitore chiarire il loro fallimento, e dice
così: 3. Vero è che, si come mostrato è qua in adietro, l' officio del
parliere si è parlare appostatamente per fare credere, e questo far
credere è sopra quelle cose che sono in lite, e' ancora non sono
pervenute all' anima ; ma chi vuole considerai e il vero, e' troverà che
confortameuto e disconfortamento sono solamente sopra quelle cose che già
sono pervenute all' anima. Verbigrazia: Lo sponitore avea propensato
di fare questo libro, ma per negligenzia lo intralasciava; onde da
questa negligenzia il potea bene alcuno ritrattare per confortameuto, e questo
conforto viene sopra cosa la quale era già pervenuta all'anima, cioè la
negli- genzia.Et se alcuno disconforta un altro che avea pro- posto
di malfare, tanto che ssinde rimane, altressi viene lo sconforto in cosa
la quale era già pervenuta all' anima. Adunque è provato che conforto né
disconforto non pos- 1 : m dinanzi — 3: L dico e conferma —
4: M-m la sciencia — 6-7 : M-m parlaro — 10: M'-L non mattamente —li: M-m
om. elli — 14: m diffina (o anche disfina), ilf'-/y non examina delli
altri — m om. si — 16: M^ in qua dietro — m del parlare — 17: M-m om. si
— 18: M' et che ancora, m e anchora — SO: M' et trovare — 21: m om. già -
S3 : L pensato, S per pensato — 23: M lo tralassava, m lo lasciava — 24: M'
bene ritrarre alcuno, w lo potea alchuno ritrarre - 27 : vi sconforta —
30: M-m sconforto Manuzzi registra disfinire per « compiere » e anclie
por « dichiarare », che mi sembra qui il senso piìi adatto.
(2) Non mancano esempii (cfr. Manuzzi, s. v.) che permettono di
mantenm-e questa parola in senso di «ritrarre», come appunto sostituirono
gh altri mss. altì- sono essere materia di questa arte. 5. Ma
consolamento puote anzi essere materia del parliere, perciò che
puote venire sopra cosa e' ancora non sia pervenuta all' anima.
Verbigrazia: Uno uomo ferma nel suo cuore di menare dolorosa vita per la
morte d' una persona cui elli ama sopra tutte cose. Ma un savio lo consola,
tanto elle propone d'avere allegrezza, la quale non era ancora
pervenuta all'anima. Ma perciò che in questo consolamento non ha lite,
perciò che '1 consolato non si difende né non allega ragioni contra il
consolatore, non puote essere ma- teria di questa arte. 6. Or è ben vero
che altri dissen che dimostrazione non era materia di questa arte, anzi
era materia di poete, però eh' a' poete s' apartiene di lodare e di
vituperare altrui. Et avegna che CICERONE no Ili riprenda nominatamente, assai
si puote intendere la riprensione di loro in ciò eh' e' conferma la
sentenza d'Aristotile che disse che dimostrazione e deliberazione e
iudicazione sono materia di questa arte. Et sopra ciò nota che dimostrazione
per- tiene a' poeti et a' parlieri, ma in diversi modi : che '
poeti lodano e biasmano sanza lite, che non è chi dica contra, e '1
parlieri loda e vitupera con lite, che è chi dice contra il suo dire. Et
perciò dice Tulio che non pare che Erma- goras intendesse quello che
dicea, né che considerasse quello che prometea, dicendo che tutte cause e
questioni 25. proverebbe per rettorica. Or dicerà Tulio le
rii)rensioni d' Ermagora sopra causa e sopra questione. Tullio
seguita Ermagoras della causa, etc. Causa dice che ssìa quella cosa nella
quale abbia contro- versia posta in dicere con interposizione di certe
persone; le quali 30. noi medesimo dicemo che è materia dell' arte e, sì
come detto avemo dinanzi, che sono tre parti : iudiciale, dimostrativo e
deliberativo. 2: M' innanzi — del parlatore — 3: m non 6
jiervenuta — 5-6: M ellamava — 6-7 : III lo chonsolò, M' il consola tutto
sì clid iiropone — 8: M-m che questo cons. — .9: in e non allega — i3: m
di poota.... a poeti, M' de poeti... ali poeti — M' o di vit. — i-i: M
nelle, m non le, M' non gli — i6: M' elicgli conferma — 17: m dim., dilib.
et iiivochationo — 19: M' ali poeti et ali pailadori— 5i : M II parlieri,
»i 11 parlieri?, 3/« E! parladore — m pero che è chi dicha chontro al suo
dire — S-1: A/' chelgli prom. — 26: m e questione, M' sopra questioni —
30: m nm. medesimo — itf' nm. o Sponitore. 1. Poi che
Tulio avea detto che Ei-magoras non intese se stesso dicendo che causa e
questione sono materia di questa scienzia, sì dice in questa parte che
Ermagoras 5. dicea che fosse causa. 2. Et causa appella una cosa
della quale molti sono in controversia, perciò che 11' uno ne sente
uno intendimento e l'altro ne trae un'altra diversa intenzione; sicché
sopr' a cciò contendono di parole met- tendo e nominando alcuna certa
persona, che non si possa 10. partire e che propiamente e
determinatamente si partenga alle civili questioni. 3. Et di questo dice
Tulio che ss' ac- corda co llui, che ciò àe elli detto davanti per sé e
per Aristotile; ma dicerà omai com' elli errò in questione. Qtd
rijivende Tullio Ermagoì as- Questione apella quella
che àe in se controversia posta in dicere sanza interposizione di
certe persone, a questo modo: Che èe bene fuori d'onestade? Sono li senni
(i) veri? Chente è la forma del mondo? Chente è la grandezza del sole? Le
quali questioni inten- demo tutti leggiermente essere lontane
dall'officio del parliere; 20. che molto n' è grande mattezza e
forseneria somettere al parliere in guisa di picciole cose quelle nelle
quali noi troviamo essere con- sumata la somma dello 'ngegno de' filosofi
con grandissima fatica. Sponitore. 1. Ora dice Tulio
che Ermagoras appellava questione 25. quella cosa sopra la quale
era controversia intra molti, sicché contendeano di parole l'uno
contra l'altro non no- 5 M diceva - m ch'era chausa — 7: M^
e un altro ne trae altra d. i., M na {sic) trae, m ne atrae — 8: M-m
contendemo — 10: M' nominatamente — m sautenga — 13: Jf' oggimai — 15: M'
la quale ae — 16-17: M' che ben — M-iii li senni vari — M' om. h — M-m la
l'ama — 19: M-m del parlare — 20: M-m oiii. raaltozza, ilf ' om. e for-
seneria — JZ-w parlare, M' parladore — SI: l/Tiusta,//i in vista— 24 ^/-w
appella- lo: M' era questione — m tra molti — 26: M ne contendeano
(1) Traduce il latino sensus con una forma che ritorna anche nel commento;
è la stessa fusione, o confusione, cho troviamo nel francese. minando
certa persona la quale propiamente s'apartenesse alle civili questioni.
2. Et in ciò pone cotale exemplo: «Che è bene fuori d'onestade?» Grande
contraversia fue intra' fi- losofi qual fosse il sovrano bene in vita: et
erano molti 5. che diceano d'onestade, e questi fuoro i parepatetici;
altri erano che diceano di volontade, e questi sono epicurii. 3.
Altressì fue questione se ' senni sono veri, perciò che alcuna fiata
s'ingannano, che se noi credemo che ricalco sia oro sanza fallo s'
inganna il nostro senno. Altressì fue questione della forma del mondo,
però eh' alcuni filosofi provavano che '1 mondo è tondo, altri dicono eh'
è lungo, o otangolo(l\ o quadrato. 5. Altressì era questione della grandezza
del sole, che alcuni dicono che’l sole è otto tanti che Ila terra, altri
più et altri meno. Et questa misura si sforzalo, vano di cogliere i maestri di
geometria misurando la terra, e per essa misura ritraeano quella del
sole. Et perciò mostra Tulio che Ermagora non intese quello che
dicea, ch'assai legiei'mente s'intende che queste cotali questioni
non toccano l'ufficio del parliere. Et nota che dice officio però che ben
potrebbe essere che '1 parliere fosse FILOSOFO, e così toccherebbe bene a
lini trattare di quelle questioni, ma ciò non arebbe per officio di
rettorica ma di FILOSOFIAf. Donque ben è fuori della mente e vano di senno
quelli che dice che'1 parliere possa o debbia trattare di queste
questioni, nelle quali tutto tempo si consumano et affaticano I FILOSOFI.
Or à provato Tulio che Ermagoras non intese quello che disse. Ornai
proverà come non attese quello che promise, in ciò che promettea di
trattare per rettorica ogne causa et ogne questione. 8. Et ciò fae a
guisa de' savi, i 1 : 3/' sì plenesse - 3: M-m fuori con
lioneslade, M'-l di l'iiuri 7 lioii. 4' ili l'uori d'hon. — .W grande
(juostione — mi traili lilosali — -I : m «m. et — 5 : .V diceano hon. —
M-m OHI. questi fuoro — il pai'ei)atoiici, .W parclieiialetici — 6: il' diceano
volontade (S ugg. cioè piacere) — 7: M-m se songni - 8: M' chel ricalco —
9: S il nostro senti- mento — iO: il perciò — id: il' diceano — IS: il
Hangolo ('/), "i troangholo, .W'-i triangolo, S otangolo — m quadro
— i3: il' cotanti che terra, i cotanti chella terj-a —16: m ritraevano la
misura d. s. — 17: il' che elgli diceva. Kt assai ecc. — S3: M' Dunque
ben — M' chi dice — 24: M' debbia parlare — 25: M' et faticano — S7: il-m
non inteso — 28: M-m perche (> rectorica — 29: M-m di savi (1)
La lezione di M ò incerta, ma sembra spiegata e confermata da quella di S
che risalo all'altra famiglia di codici ; un segno male interpretato come
abbre- viatura di ri può aver suggerito la lezione triangolo. Il commento
di Vittorino a questo passo non parla nò di triangolo né di
ottangolo. (2) Il latino Ila in ca. - 49 —
quali vogliendo mostrare la loro sapienzia sì 11' apongono ad
alcuna arte per la quale non si puote provare; come s' alcuno volesse
trattare d' una questione di dialetica et aponessela a gramatica, per la
quale non si pruova né ssi 5. potrebbe provare, e ciò mosterrebbe usando
per argomenti la sua sapienzia; e sopr'a cciò ecco '1 testo di
Tulio. Tullio dice in somma ciò ch'elli avea detto
davanti. Che se Ermagoras avesse in queste cose avuto gran savere
acquistato per istudio e per insegnamento, parrebbe ch'elli, usando la sua
scienzia, avesse ordinata una falsa cosa dell'arte del parliere, e non
avesse sposto quello che puote l'arte ma quello che potea elli. Ma ora è
quella forza nell'uomo ch'alcuno li tolga più tosto retto- rica che
no-lli concedesse filosofia. Ma perciò l' arte che fece non mi pare del
tutto malmendosa, ch'assai pare ch'elli abbia in essad) locate cose elette
ingegnosamente e diligentemente ritratte delle antiche arti, et alcuna
v'àe messo di nuovo; ma molto è piccola cosa dire del- l'arte sì come
fece elli, e molto è grandissima parlare per l'arte, la qual cosa noi
vedemo ch'esso non poteo fare. Per la qual cosa pare a noi che materia di
rettorica è quella che disse Aristotile, della 20. quale noi avemo
detto qua indietro. In questa parte dice CICERONE che se Ermagoras fosse
stato bene savio, sicché potesse trattare le quistioni e le cause,
parrebbe eh' avesse detto falso, cioè che avesse dato al parliere quello
officio che nonn é suo; e così non avrebbe mostrata la forza dell'arte,
ma averebbe mostrata la sua. Ma ora è quella forza nell'uomo, cioè tal
fue questo Ermagoras, che neuno che dicesse eh' e' non sappia rettorica
nolli concederae che sia FILOSOFO. Ma perciò l'arte 1 : 3f
siila pongono — 3: m trattare una q. — 4-5: M' per la quale non si porla
provare — M' om. per argomenti — 9: M^ o \)ev insegnamento parendo— 10: »i
ordinato — M-m del parlare — 11 : M-m non avesse posto (»m in et n.) — M'
([nello puote — 13: M' che fece nolli cono. — 14-15: M-m messe, A/' in
esse — M-m ^ locate le cose («4 nm. le cose) 7 lecte — 17: M dell'arti,
in delle urti — itf' grandissimo — 18: Jl/ potea, M' ]jotero — 19: ni sia
quella. M' qua in adietro — S4: M-m ciò — M' cavesse detto — 25: Af a
parliere — 28: M' ch'olii — 28-29: S che non lu veruno che dicesse
ch'elli non sappia retorica non dirà giù che egli sia philosopho
(1) Il testo latino ha in ea. che fece non pare in
tutto rea ». In questa parola il cuo- pre (1) Tulio e dimostra eh' elli
avrebbe bene ijotuto dire X^egio. Et dice « non è del tutto rea » perciò
eh' elli àe messo nel suo libro con molta diligenzia e con ingegno
li 5. comandamenti delli altri maestri di questa arte, et alcuna
cosa nuova v' agiunse. Et qui pare che Tulio lo lodi là ove il vitupera,
dicendo che fosse furo in perciò che delle scritte d' altri maestri fece
il suo libro. Ma molto è picciola cosa dire dell' arte, ciò viene a dire
eh' al parliere non s'apartiene dare insegnamenti dell'arte, sì come fece
Ermagora, ma apartiensi a llui in tutte guise parlare secondo li
'nsegnamenti e comandamenti dell" arte, la qual cosa non seppe fare
esso. 5. Adonque è da tenere la sentenzia d'Ari- stotile, che dice che
materia di questa arte è dimostrativo, deliberativo e iudiciale. Et ornai
è detto sofficientemente e diligentemente del genere, cioè generalmente,
dell' officio e della fine di rettorica; or sì dicerà il conto delle
sue parti, sì come Tulio promise nel suo testo qua indietro.Tullio CICERONE
dice le parti di rettorica. 20. 27. Le parti sono queste, sì come i
più dicono: Inventio, di- spositio, elocutio, memoria e
pronuntiatio. Lo sponitore. Cinque parti dice Tulio che
sono et assegna ragione per che, e quella ragione metterà lo
sponitore in suo luogo. 25. Ma prima dicerà le ragioni che nne
mostra BOEZIO nel quarto della Topica, che dice che se alcuna di
queste cin- 1-2: S scuopre — 4: M' con non molto.... ingegni
i com. — 6: J/' vi giiingnesse — i>f-»i la dove — 7:M* fosse ladro — m
poro che dello dette scritte - 8-9: M' delli altri — om. Ma... arte — m
cosa a dire — 10: M-m a dire — 12 : m egli noi seppe fare — 14 : m dice
materia — 15-17 : M' Et oggimai ae solTicientemento detto del genere, dell'
officio et del (ine dì rectorica. Si dicerà l'autore déle sue parti — M
sulficientemcnte dilig. — m ora dirà — 20;mLLQ parti di rettoriclia — M'
inveutione, dispositione, ccc — 24: S questa — M-m che dico se
alcuna Cioè «lo difonde». La lezione scuopre di S sarà nata da un
ilcuopre letto iscuopre; come senso si ridurrebbe a una ripetizione di
dimostra. que ijarti falla nella diceria, non è mai compiuta; e se
queste parti sono in una diceria o inn una lettera, certo l'arte di
rettorica vi fie altressì. 2. Un'altra ragione n'ase- giia BOEZIO: che
però sono sue parti perchè esse la 'INFORMANO E ORDINANO e la fanno tutta
essere, altressì come '1 fondamento, la i)ai'ete e '1 tetto sono parti
d'una casa sì che la fanno essere, e s' alcuna ne fallisse non sarebbe
la casa compiuta. Et dice Tulio che queste sono le parti di
rettorica sì come i più dicono, i)erò che furo alcuni che diceano che
memoria non è parte di rettorica perciò che non è scienzia, et altri
diceano che dispositio non è parte d' essa arte. Et così va oltre Cicerone
e dicerà di ciascuna parte perse, e primieramente dicerà della
'uvenzione, sì come di piti degna; e veramente è più degna, però
15. ch'ella puote essere e stare sanza l'altre, ma l'altre non
possono essere sanza lei. Tullio dice della invenzione. Inventio è
apensamento a trovare cose vere o verisimili le quali facciano la causa
acconcia a provare. Dice CICERONE che invenzione è quella scienzia per la
quale noi sapemo trovare cose vere, cioè argomenti necessarii - e
nota « necessarii », cioè a dire che conviene che pure cosi sia - e
sapemo trovare cose VERISIMILI, cioè argomenti ac- 25. conci a
provare che così sia, per li quali argomenti veri e verisimili si possa
provare e fare credere il detto o '1 fatto d'alcuna persona, la quale si
difenda o che dica in- contro ad un' altra. 2. E questo puote così
intendere il porto dello sponitore. Verbigrazia: Aviene una materia
30. sopra la quale conviene dire parole, o difendendo 1' una
i: .W manca — 3: m vi (ia, M' vi l'u - 3-4: M' dice Boelius, che poroiù —
5: m fannola tutta essere, Af' li fanno essere tutto alti-essi ecc. — 6:
M' son parte — 8 : m om. Et — 10: m non era ~ 11: M^ dispositlone — 12:
M-m dell'arte — 13: m primamente - 16: m essere o stare — 18: M'
invontione (e coù semiire) — m pensamento — il' overo simili — 19: il-m
la cosa — S3: SI' om. a dire — 23-24: m pure che cos'i sia. E sap- piano
— M' nm. acconci ~ 26: M-m el facto - 27-28: m chontro ad un altra
- 52 - parte o dicendo centra l'altra; o per aventura sia
materia sopra la quale si conviene dittare in lettera. Non sia don-
que la lingua pronta a parlare né la mano presta alla penna, ma consideri
che '1 savio mette alla bilancia le sue parole 5. tutto avanti clie Ile
metta in dire né inn iscritta. 3. Con- sideri ancora che '1 buono
difficiatore e maestro poi che propone di fare una casa, primieramente et
anzi che metta le mani a farla, sì pensa nella sua mente il modo della
casa e truova nel suo extimare come la casa sia migliore; e poi
10. eh' elli àe tutto questo trovato per lo suo pensamento, sì
comincia lo suo lavorio. Tutto altressi dee fare il buono rettorico:
pensare diligentemente la natura della sua ma- teria, e sopra essa
trovare argomenti veri o verisimili sì che possa provare e fare credere
ciò che dice. 4. Et già 15. é detto quello che è inventio. Ora
procederà il conto a dire quello che è dispositio.
Dice Tullio de dispositio. Dispositio èe assettamento delle cose trovate
per ordine. Perciò che trovare argomenti per provare e FAR CREDERE il suo
dire non vale neente chi no Ili sae asettare per ordine, cioè mettere
ciascuno argomento in quella parte e luogo che ssi conviene, per più
affermamento della sua parte, sì dice Tulio che è dispositio. 2. E dice
eh' è quella 25. scienzia per la quale noi sapemo ordinare li
argomenti trovati in luogo convenevole, cioè i fermi argomenti nel
principio, i deboli nel mezzo, i fermissimi, co' quali non si possa
contrastare lievemente, nella fine. Cosi fae il difficatore della casa,
che poi eh' elli àe trovato il modo 1 : m chontro all'altra
- 2 .• M sopralla ([ualo - M' oiii. don(|uo - 3: in o la mano alla penna
- 5: m tutto prima, S tutto - m o in iscritta, M' o in iscriptura — 6-S:.il
diliciatore prima che metta lo mani a lare — mr=.)/, ma o maestro - 9: m
Poi - 10: M' U suo la- voro — i3: M-m si veri che possa - 14-16: M E già
liecto, mi Ora e detto - M' om- quello - M-m Ora procederà il conto
quello che è spositio, .«' Si procederà il conto a dire che k
dispositione - SO: m diro il suo criMloro - Sfì: M trovai - ,W-»i ohi. i, m om.
argo- pienti — 27: M' ali (piali nella sua mente, elli
ordina il fondamento in quel luogo che ssi conviene, e ila parete e '1
tetto, e poi 1' uscia e camere e caminate, et a ciascuna dà il suo luogo.
4. Già è detto che è dispositio; or diceva il conto che è elocutio.
5. Tullio dice della locuzione. 30. Elocutio è aconciamento
di parole e di sentenzie avenanti alla invenzione.
Sponitore. I. Perciò che neente vale trovare od ordinare chi
non sae ornare lo suo dire e mettere parole piacevoli e piene di
buone sentenze secondo che ssi conviene alla materia trovata, sì dice
Tulio che è elocutio. Et dice che è quella scienzia per la quale noi
sapemo giungere ornamento di parole e di sentenze a quello che noi avemo
trovato et ordinato. E nota che ornamento di parole èe una dignitade la
quale proviene per alcuna delle parole della diceria, per la quale tutta
la diceria risplende. Verbigrazia. Il grande valore che in voi regna mi
dà grande SPERANZA del vostro aiuto. Certo questa parola, cioè “regna”,
fa tutte risplendere l'altre parole che ivi sono. Altressì nota che
ornamento di sentenze è una dignitade la quale proviene di ciò che in una
diceria si giugne una sentenza con un'altra con piacevole dilettamente.
Verbigrazia. In queste parole di Salamene. Melliori sono le ferite dell'amico
che frodosi basci del nemico. Et già è detto che è elocutio, cioè
apparecchiamento di parole e di sentenzie che facciano la diceria piacevole et
ordinata di parole e di sentenzie. Omai procederà il conto alla quarta parte di
rettorica, cioè memoria. i-2: m in quello che si chonvienc
et il luogo.... l'ascia, charaere3: M^ cam- minate, ciascuna in suo
luogo. Et già ecc. — 0-7: M-m avenonti alla ntentione (anche S
intenliono) — 9: M om. od — 10: M' sa adornare il suo dire — 15: m om. E
- 16: M dignità della quale, m M' dignità la quale pervieneSO: M' vi sono
— SI m ,»f' perviene — 22 .- M-m om. Ai — M un'altra seutenfa con un
altro, m in un'altra diceria si giungne un'altra sententia chon un altro
piacevole dil. — 23: M-m dice Salamene — 25: M' li frodolenli basci — m
om. Et — 26-27: M om. e di sentenzie, m om. piacevole el; M om. che....
parole Ambedue le lezioni sono possibili; ma con quella di M si spiega
meglio una pretesa correzione in dice (chi avrebbe pensato, invece, a
cambiare dice indi?), mentre poi il verbo dice renderebbe superflua
l'espressione in queste parole. Dice Tulio della memoria. Memoria è
fermo ricevimento nell'animo delle cose e delle parole e dell'ordinamento
d'esse. Et perciò che neente vale trovare, ordinare o acon-
ciare le parole, se noi nolle ritenemo nella memoria sicché ci'nde
ricordi quando volemo dire o dittare, sì dice Tulio che è memoria. Onde
nota che memoria èe di due maniere: una naturale et un'altra artificiale.
La naturale è quella forza dell'anima per la quale noi sapemo ritenere a
memoria QUELLO CHE NO APRENDEMO PER ALCUNO SENNO SEL CORPO. Artificiale è
quella scienzia la quale s'acquista per insegnamenti delli FILOSOFI, per li
quali bene impresi noi possiamo ritenere a memoria le cose che avemo udite o
trovate o APRESE PER ALCUNO DE’ SENNI DEL CORPO e di questa memoria
artificiale dice Tulio eh' è parte di rettorica. Et dice che memoria è
quella scienzia per la quale noi fermiamo nell'animo le cose e le parole
eh' avemo trovate et ordinate, sicché noi ci 'nde ricordiamo quando siemo
a dire. Et già é detto che è memoria; si dicerà il conto la quinta et
ultima parte di rettorica, cioè pronuntiatio. Dice CICERONE della
pronunziagione. Pronuntiatio è avenimento della persona e della voce
secondo la dignitade delle cose e delle parole. Et al ver dire poco vale
trovare, ordinare, ornare parole et avere memoria chi non sae profFerere
e dicere le sue parole con avenimento. Et perciò alla fine dice
Tulio Però che niente — ot acconciai-e — 7: w» cene, Af' cine — M volere —
9:mom, et — il: M' senso — IS: M' quella memoria — i-i: J»/' udito — i5:
4f' sensi — 16-, m nnu Et — i8 : m olle parole — i9: M' noi vegnamo a
dire — SO- « ultra parte, hi ora dirà il conto la quinta jiarte, .W"
il maestro - S6 : m o ornare — 27: in a chi non sae prollbrere o
diro -òs- che è pronuntiatio; e dice eh' è quella
scienzia per la quale noi sapemo profferere le nostre parole et amisurare
et accordare la voce e '1 portamento della persona e delle membra secondo la
qualitade del fatto e secondo la condizione della diceria. Che chi vuole
considerare il vero, altro modo vuole nelle voci e nel corpo parlando di
dolore che di letizia, et altro di pace che di guerra, ('he '1
parliere che vuole somuovere il populo a guerra dee parlare ad alta
voce per franche parole e vittoriose, et avere argoglioso advenimento di
persona e niquitosa ciera contra ' nemici. Et se Ila condizione richiede che
debbia parlamentare a cavallo, si dee elli avere cavallo di grande
rigoglio, sì che quando il segnore parla il suo cavallo gridi et
anatrisca e razzi la terra col piede e levi la polvere e soffi per e nari
e faccia tutta romire la piazza, sicché paia che coninci lo stormo e sia
nella battaglia. Et in questo punto non pare che ssi disvegna a la fiata
levare la mano o per mostrare abondante animo o quasi per minaccia de'
nemici. Tutto altrimenti dee in fatto di pace avere umile advenimento del
corpo, la ciera amorevole, LA VOCE SOAVE, la parola paceffica, le mani
chete; e’1 suo cavallo dee essere chetissimo e pieno di tanta posa e' sì
guernito di soavitade che sopr'a llui NON SI UMOVA UN SOL PELO, ma elli
medesimo paia factore della pace. Et così in letizia de' 1
parlatore tenere LA TESTA LEVATA, il viso allegro e tutte sue parole
e viste SIGNIFICHINO allegrezza. Ma parlando in dolore sia LA TESTA
INCHINATA, il viso triste e li occhi pieni di lagrime e tutte sue parole
e viste dolorose, sicché ciascuno sembiante per sé e ciascuno motto per sé
muova l'animo dell’uditore a piangere et a dolore. Et già é detto delle V
parti sustanziali di rettorica interamente secondo l'oppinione di Tulio,
e sì come lo sponitore le puote fare meglio intendere al suo porto; sì
ritorna Tulio a scusare sé medesimo di ciò che non àe mostrato ragione
perché 2: m e misurare ~ 5: M' che a chi vuole — 0: M' noia
boce — 7 : M' parlare, m Il parliere — 8: m smuovere — i/' om. il populo
— 11 : M parlantare, m p-are — 12: m mn. elli — 14-15: M' delle nari, vi
sozzi le anari — 16: il' incominci — 17: M-m om. per — 19-20: M' humili
avenimenti — m nel chorpo — 21 : M' le parole pacefiche — 22 : L di tanta
jwssa — 24 : M' om. Et — mss. del parlatore — 25 : M-m levata in suso -
il' le sue parole — 26: il-m e signilichino — 27: m chinata, il' inchina, L
inchinata — 28 : M-m parole iuste e dolorose — 29: il' muove — 30: m
piangerò a dolore. Ora è detto — 31 : il' sustanziali parti — 32: M' il
puote — 56 — quello sia genere et ofifìcio e
fine di rettorica sì com' elli àe fatto della materia e delle parti, e
dice in questo modo. Tullio dice che tratterà della materia e delle
parti. Oramai dette brievemente queste cose, atermineremo in 5 altro
tempo le ragioni per le quali noi potessimo dimostrare il genere e
IPofficio e Ila fine di quest'arte, però che bisognano di molte parole e
non sono di tanta opera a mostrare la propietade e Ile comandamenta
dell'arte. Ma colui che scrive l'arte rettorica pare a noi che 'I
convenga scrivere dell'altre due, cioè della maio teria e delle parti. E io
perciò voglio trattare della materia e delle parti congiuntamente.
Adunque si dee considerare più intentivamente chente in tutti generi
delle cause debbia essere inventio, la quale è principessa di tutte le
parti. In questa parte dice Tulio che non vuole ora provare perchè quello
sia genere di rettorica che detto è davante, né Ilo officio né Ila fine,
però che vorrebbe lunglie parole e non sono di molto frutto, e però l'
atermina nel- r altro libro nel quale tratta sopr' a cciò; et in
questo presente libro tratta della materia, cioè dimostrazione,
deliberazione e iudicazione, et altressì tratta delle pai'ti, cioè
inventio, dispositio, elocutio, memoria e pronuntiatio. Et di tutte queste
tratterà insieme e comunemente. Ma però che inventio è la più degna
parte, sì dicerà CICERONE chente ella dee essere in ciascuno genere di
rettorica, cioè come noi dovemo trovare quando la materia sia di
causa dimostrativa, e quando sia deliberativa, e quando sia iudiciale; e
tratterà si comunemente che mosterrà come sia da trovare in catuna di
queste cause, e come 30. ordinare e come ornare la diceria, e come
tenere a me- moria e come profferere le sue parole. 1
: M-m quella — 4 : M' Ogimai — 7 : M admostrare, ni a dimostrare — M' le
pro- picladi — 9: M-m che convenga - iO-H : M-m om. K io.... congiuntamente
— IS: M-m chente e — i3: Af' do tutte l'arti — 16: M-m quella, M -L quel
— M' detto davanti — 18: M' lo termina — 20: M-m dimostrative — 23: M'
congiuntamente; m om. e — 24: M-m om. SI dicerà Tulio — i'S : M' om. sia
— congiuntamente — S9: Af' come iu e. d. q. e. sa da trovare — 30: iii
nm. e come ornare Lo sponitore parla all' amico suo. Perciò lo sponitore
priega '1 suo porto, poi ch'elli àe impresa altezza di tanta opera come
questa èe, che a llui piaccia di si dare l'animo a cciò eh' è detto
davanti, spezialmente in connoscere il dimostrativo e '1 deliberativo e '1
iudiciale che sono il fondamento di tutta l'arte, e poi a quel che siegue
per innanzi, eh' elli intenda tutto '1 libro di tal guisa che, per
lo buono aprendimento e per lo bel dire che farà secondo lo 'nsegnamento
dell' arte, il libro e lo sponitore ne riceve- JO. ranno perpetua
laude. Della constitnzione e delle quattro sue parti. 34. (e.
Vili) Ogne cosa la quale àe alcuna controversia in diceria o in questione
contiene in se questione di fatto o di nome di genere o d'azione; e noi
quella questione delia quale nasce la causa apelliamo constituzione. E
constitnzione è quella eh' è prima pugna delle cause, la quale muove dal
contastamento della intenzione in questo modo. Facesti. Non feci, o Feci
per ragione. Poi che CICERONE àe detto di mostrare e trattare della
invenzione e della materia insieme, sì mostra lo sponitore in che
ordine trattò de l'inventio; ma per maggiore chiarezza dicerà tutto avanti in
che significazione si prendono queste parole, cioè causa, controversia,
constituzione e stato. Causa vale tanto a dire quanto il detto o '1 fatto
d' alcuno, per lo quale è messo in lite, ed è appellato causa tutto '1
processo dell' una e dell' altra parte. Et appellasi causa tutta la
diceria e la contenzione cominciando al prolago e tìniendo alla
conclusione; donde dice uomo: 3: M-m di darli l'animo —
7-10: M^ chel baono — ben dire — per tua laude, M-m dello sponitore, M ne
rlcevemo, m ne riceva - 13: m o questione, ilf ' om. contiene in se
questione — 14 : M-m di quella — 15: M^ constitutione ò la prima pugna — 21 :
M' om. insieme — M' mosterra, ma L mostra — SS : M delinventia, m della
inventia, M^ della inventione — 23: m tutto innanzi — Af' mi. si prendono
— S7 : M' dell'una parte 7 del- l'altra — 28: M-m la 'nlentione — M' dal
prol. La mia causa è giusta, cioè, la mia parte è giusta. Controversia
vale a dire tanto come causa, e viene a dire “controversare” cioè usare
l'uno coli' altro di diverse ragioni e contrarie. Questione tant' è a
dire come '1primo detto di colui che comincia contra un altro e '1 secondo
detto di colui che ssi difende. Et appellasi quistione una diceria
nella quale àe due parti messe in guisa di dubitazione, et appellasi
questione per l'una e per l'altra parte della questione. Constituzione si
prende et intende in quelle medesime significazioni che sono dette davanti.
Stato è appellato il detto e '1 fatto'l) dell'aversario, però che'
parliere stanno a provare quel detto o quel fatto; e questo
medesimo è appellato constituzione perciò che '1 parliere
constituisce et ordina la sua ragione e la sua parte di quel detto o
di quel fatto. Et per ciò è appellato “CONTRO-VERSIA” che diversi
diversamente sentono di quel detto o di quel fatto. Qui dice lo sponitore
come Tullio tratterà della Invenzione. Et poi che Ilo sponitore àe dette
le significazioni di queste parole, dicerà in chente ordine Tulio tratta della
'nvenzione. Et certo primieramente insegna invenire e trovare quelle
questioni le quale trattano i parlieri, et appellale constituzioni e dice
la proprietade di constituzione e dividela in parti. Nel secondo luogo mostra
qual causa sia simpla, cioè di due divisioni, e qual sia composta, cioè
di quattro o di più. Nel terzo luogo mostra qual contraversia sia in
scritta e quale in dicere. Nel quarto luogo mostra quelle cose che nascono
di constituzione, cioè la diceria nella quale àe due divisioni e ragioni,
e Ila giudicazione e '1 fermamento. Nel quinto luogo mostra in che guisa si
debbono trattare le parti della diceria secondo rettorica. Nel VI luogo
mostra quante sono esse parti e quali e che sia da ffare in ciascuna. Et
disponesi cosi 2 : Af' vale quasi tanto — 3: M' controversia
— centra l'altro diverse ragioni — 4:M' k tanto a dire — M-m come primo —
5: m e secondo — 7: M-m parti in essere — M dn- bitatione sanfa
dubitatione — 9: M' i s'intende — 10: m dinanzi — J8: m om. VA- IO: M' sì
dicerà oggimai — 20: L a trovare — 23: m In quattro parti — M-m dimostra
- M qual cosa, m ciualo luogho — 26 : M-m sia scripta - 28 : M'-L e la ragiono
el iu- dicamento el fermamente — 29: m dimostra — 31: M luorao (tic) .—
32: M' ciascuno M Kt diponesi, m ('dispensi, M'-L Et dispone
Ci aspetteremmo o 'l fatto, anche per uniformità colle frasi seguenti ;
ma la concordia dei codici per e lascia incerti sulla conesiione, che non
è neppure indispensabile per il senso. — 59 —
il testo di Tulio per fare intendere onde procedono le qui- stioni
che toccano al parliere di questa ai'te. Ogne cosa la quale àe in sé CONTRO-VERSIA,
cioè della quale i diversi diversamente sentono sicché alcuna cosa dicono sopr'
a cciò con inquisizione, cioè per sapere se alcuna delle parti è vera o
falsa, sì à' in sé que- stione di fatto, cioè questione la quale muove di
ciò che alcun fatto è apposto altrui. Verbigrazia : Dice l'uno contra
l'altro. Tu mettesti fuoco nel Campidoglio. Et esso risponde. Non misi. Di
questo nasce una cotale questione, se elli fece questo fatto o no, et è
appellata questione di fatto per quello fatto che a llui è apposto,
etc. Od è questione di nome, cioè che l’una parte appone un nome a
un fatto (D e l'altra parte n'appone un altro. Verbigrazia: Alcuno à
furato d'una chiesa uno cavallo o altra cosa che non sia sagrata. Dice l’una
parte contra lui. Tu ài commesso sacrilegio. Dice l'altro. Non sacrilegio, ma
furto. Et nota che sacrilegio è molto peggiore che furto, perciò che
colui commette sacrilegio che fura cosa sacrata di luogo sacrato. Donde
di questo nasce una questione del nome di quel fatto, cioè se dee avere
nome furto sacrilegio, e però è appellata QUESTIONE DEL NOME. Od è
questione del genere, cioè della qualitade d'alcuno fatto, in ciò che l’una
parte appone a quel fatto una qualitade e l' altra un' altra. Verbigrazia :
Dice F uno. Questi uccise la madre iustamente perciò ch'ella avea morto
il suo padre. Dice l'altro. Non è vero, ma iniustamente l'à fatt; e
di ciò nasce cotal questione di questa qualitade. Se l'à fatto iustamente o
iniustamente, e perciò è appellata questione di genere, cioè della qualità d'un
fatto e di che maniera sia. Od è questione d'azione, cioè
viene a dire che contiene questione la quale procede di
ciò, e' alcuna azione si muta d'
un luogo ad altro e d'un tempo ad altro. Verbigrazia : Dice uno
contra un altro. Tu m' ài M' diversi — 6: M' se l'una parte — 8:
3f' un facto — 8-9: M' uno contra un altro — M' Elgli, mie— 12-13: m che
6 allui aposto, il/' perche il facto che allui e e apposto da questione
ecc. — M-m Onde questione — i4 : M-m in nome o in facto, M' ialla dal 1°
al 2° appone — 18: m M' oin. Et — M' peggio — 20: m Onde — 21: M' del
nome del facto — 22: m di nome — 23: M-m Onde — m di genere — 25: M-m l'altro
— 28: iW' OHI. e — 29: M-m om. se l'à fatto — 30: M' o di che m. - 31 :
M-m Onde — mcioò che viene — 32-34: M' dico calcuna ad un altro — om.
e.... ad altro — uno a un altro È
lezione congetturale, ma sicura, come dimostra l'espressione analoga del §
16. furato un cavallo »; et esso risponde: « Vero è, ma non tine
rispondo in questo tempo, perciò che ttu se' mio servo, o perciò eh' è
tempo feriato, o perciò eh' io non debbo rispon- derti in questa corte,
ma in quella della mia terra. Onde di questo procede una questione, la
quale Tulio dice che è d'azione, cioè se colui dee rispondere o no. Et
dice Tulio che tutte le quistioni che sono dette davanti sono
appellate constituzioni, cioè c'anno questo nome. Et dice che
constituzione è la prima pugna delle cause, cioè quello sopra che da
prima contendono i parlieri, cioè il detto dell'uno e '1 detto
dell'altro, e questo sopra che de prima contendono i parlieri si è il
nascimento, cioè che muove del contrastamento della intenzione, cioè del
detto di colui che ssi difende contra le parole
dell'accusatore. Onde contastamento è appellato el primo detto del
difensore e intentione è appellata il primo detto dello accusatore. Et pare che
il nascimento della constituzione vegna della difensione ch'è della
accusa, non che nasca della difensione, ma perciò che del detto del difenditore
si puote cognoscere se Ila causa o Ila questione è di fatto o di genere o
di nome o d'azione, sì come appare nelli exempli che sono messi
davanti. Et omai dicerà Tulio le nomora
e Ile divisioni e Ile proprietadi e He cagioni di tutte le dette
questioni. Del fatto, et è detto congettìirale. Quando la
controversia è di fatto, perciò che Ila causa si ferma per congetture, sì
à nome constituzione congetturale. In questa parte dice Tulio che quando
la contenzione è per alcuno fatto che sia apposto ad altrui, sì come
davanti si dice, sì conviene eh' ella sia provata per con-
1 : M' 0(1 cigli, VI et e — 3: m e però ch'io — M' rispondere — 6 : M' se
quelli — m OHI. Et — 10: M i parliero, vi quello dello quale contendono
da prima — 14: M di- fontu — 15: m M' il primo — 16: M' appellato - 17:
M-m che nascimento — 19: M' owi. del — 23-24: M' om. e Ilo cagioni, mn
scrive le detto | cagioni I (piestioni — SS: Moni. è — 26-27: M-vi om. è
— per cometlere — 30: M' apposto altrui gettare, cioè per suspezioni e
per presunzioni. Verbigrazia: Dice uno contra un altro. Veramente tu
uccidesti Aiaces, ch'io ti trovai e VIDI TRAIERE IL COLTELLO DEL SUO
CORPO. Et questa è faticosa questione, ciò dice Vittorino, perciò 5. che
a provarla si faticano molto i parlieri, perciò ch'al- tressì ferme
ragioni si possono inducere per l’una parte come per 1' altra. E poi eh'
è detto della constituzione di fatto, sì dicerà Tulio di quella eh' è di
nome. Del nome, et è appellata ilifjìnitiva. Quando è la
controversia del nome, perciò che Ila forza della parola si
conviene diffinire per parole, sì è nominata diffi- nitiva. In
questa parte dice Tulio che quando la conten- 15 zione è del nome
del fatto, cioè come quel fatto eh' è apposto altrui abbia nome, quella
questione si è diffinitiva perciò che Ila forza, cioè la significazione
di quella parola e di quel nome si conviene diffinire, cioè aprire e
rispia- nare che viene a dire e che significa, non per exempli
ma per parole brevi e chiare et intendevole.Verbigrazia. Un uomo è
accusato che tolse uno calice d' uno luogo sacrato et è Ili apposto che sia
sacrilegio, et esso si difende dicendo che non è sacrilegio ma furto. Or
sopra questa controversia si è tutta la questione per lo nome di questo
fatto: è sacrilegio o furto? Onde per sapere la veritade si conviene
diffinire l'uno nome e l’altro, cioè dire la signifficazione e Ilo 'ntendimento
di ciascuno nome, e poi che fie chiarito per le parole quello che '1 nome
significa, assai bene si potrà intendere e provai e qual nome si XJonga
a 30. quel fatto. Et poi eh' è detto del nome, sì dicerà
Tulio del genere. 3: m e viJili trarre, M' ol ti vidi
trarre — 5-6: M'-L acciò che altress'i (L altre si) f. r. se ne possono —
7: in ora. E — *: m om. sì — W: M' la controversia è — ii: M'-L appellata
— 13: M-m om. è — 3f ' 7 ilei facto — 16: M' om sì — 17:M' che ella
airorca — M-m a quella parola - 21-22: M' del luogo sacro — 23: M' ma e
furto — 24-25: AT» se questo facto è sacrilegio furto — 26: m l'altro —
M-m dare - 28: M-m che nome — 30: m om. Ei e si Dice Tullio
del genere, et è appellato generale. Quando è quistione della cosa qual
sia, perciò clie Ila. controversia è della forza e del genere del fatto,
sì è vocata constituzione generale. In questa parte dice Tulio che quando
è questione della cosa quale ella sia, perciò che Ila controversia è
della forza del fatto, cioè della quantitade, e della comparazione
et altressì del genere, cioè della qualitade d'esso fatto, si è 10.
vocata constituzione generale. Verbigrazia. La quantitade del fatto si è cotale
questione : se uno à fatto tanto quanto un altro, si come fue questione SE
CICERONE AVEA TANTO SERVITO AL COMUNE ROMA QUANTO CATONE. La comparazione del
fatbo si è cotale: di due partiti qual sia migliore, si come fue questione
quando i ROMANI presono Cartagine QUAL ERA MEGLIO TRA DISFARLA O
LASCIARLA. Il genere del fatto si è questione della qualità del fatto sì
come davanti fue messo F exemplo, cioè se colui che fece il fatto
fece iustamente o iniustamente. Dice Tullio dell'azione, et è
appellata translativa. Ma quando la causa pende di ciò che non pare che
quella persona che ssi conviene muova la questione, o non la muove contra
cui si conviene, o non appo coloro che ssi conviene.d) o non in tempo che
ssi conviene, o non di quella lege o di quel peccato o di quella pena che
ssi conviene, quella constituzione à nome translativa, però che ir azione
bisogna d' avere translazione e tramutamento. 8: M-m o decta
forfa — 9: M-m sia — M' aiiiiellala — H : M-m senno - 14. m do fatto —
i7: M-m qualità — 2'1: A/' l'accusa — 24: M convenne, M-m nm. o non
(1) La frase o non appo coloro che ssi conviene manca in tutti i codici,
ma si ricava dal latino aid non apud qiios e dal § 4 dol commento.
In questa parte dice CICERONE della controversia dell'azione, che quando
sopr'acciò è Ila questione e' si conviene che l’azione si tramuti in
tutto o in parte, e perciò à nome translativa, cioè trarautativa. Et
questo è o puote essere Ijer sette maniere, le quali sono nominate nel
testo, cioè: 2. Quando non muove la questione quella persona a cui
la conviene di muovere. Verbigrazia: Dice uno scoiaio contra ad un
altro. Tu se' venuto troppo tardi a scuola. Et esso dice. A te no'nde
rispondo, che non ti si conviene muovermi questione di ciò, ma conviensi
al nostro maestro. O non muove la questione contra quella persona che ssi
conviene. Verbigrazia. Fue trovato che in ROMA si trattava tradimento e
fue alcuno che ll'aponea contra GIULIO Cesare, et esso dicea. Contra me
non si conviene muovere di ciò questione, ma contra CATELLINA CATILLINA che
l’ àe fatto e fa tutta fiata ». non muove la questione appo coloro
che ssi conviene, cioè davanti a quelle persone che dee. Verbigrazia :
Fue accusato il vescovo di simonia davanti al re di Navarra. Il vescovo dice. Tu
non m'accusi davante a giudice eh' io debbia rispondere, ma io son
bene tenuto di ciò e d'altro davante l'appostolico. O non muove la
quistione in quel tempo che ssi conviene. Verbigrazia. Uno fue accusato il
giorno di Pasqua. Esso dicea. Non rispondo ora di questo, perciò che oggi non
è tempo d' attendere a cotali convenenti» non muove questione a
quella lege che ssi conviene. Verbigrazia : Uno cittadino di ROMA era in
Parigi e volea piatire contra uno francesco secondo la legge di Roma; ma
quel francesco dice 3: Jtf -HI 7 si conviene, 3/' om. — 5:
Af 7 puote, m e questo puole essere — M' in sette m. — 7-8: m si conviene
— M' in contro a un altro — 9-iO: M' Ed elgli, m et elli — M-m om. ti —
12: M-m muovere, M' muove questione — i4: Af alcuna —16: m questione di
ciò, M' di ciò non si conv. m. q. — ' 17: m tuttavia — M-m contra coloro
— 18-19: M' che si dee.... Il vescovo fu acc. — 21: M davante a giudici,
m /> davanti a giudici, M' davanti giudice - 24: m della Pasqua — egli
— 25: M' non ti rispondo ora di ciò — 26: m M' da rispondere — 29: M' la
legge romana — m il Francesco (1) Questa è la lezione miglioro per
il senso, né si trova una valida ragione per considerarla arbitraria,
quantunque dalle due famiglie di codici sembri risultare un da rispondere: sarà
stato determinato dal rispondo con cui comincia la frase che non dee rispondere
a quella legge ma a quella di Francia. O non muove la questione di quel
peccato che ssi conviene. Verbigrazia. Fue accusato uno, che non
avea il membro masculino, ch'avesse corrotta una vergine; esso dice.
Io non risponderò di questo peccato -- non muove questione di quella pena
che ssi conviene. Verbigrazia. Fue uno accusato ch'avea morto uno gallo et
erali apposto che perciò dovea perdere la testa; esso dicea: Non
rispondo a questa pena, perciò che non tocca a questo peccato. Donde tutte
queste questioni sono translative, cioè che ssi tramutano in altro fatto
e stato, tal fiata in tutto e tal fiata in parte, si come appare nelli
exempli di sopra. Dice Tullio se l'una delle dette quattro cose non
fosse non sarebbe causa. E così conviene che ssia l' una di queste
inn ogne maniera di cause, perciò che in qual causa no 'nde fosse alcuna,
certo in quella non porrebbe avere contraversia, e perciò conviene
che non sia tenuta causa. Poi che CICERONE àe divisate le parti
della constituzione et àe detto che e come è ciascuna di quelle parti e
le loro nomerà, sì vuole Tulio provare che quando l'una di queste
questioni, che sono del fatto o del nome o della qualità del tramutare
l'azione, non è intra parlieri, certo intra loro non puote essere
controversia ; e poi che 'ntra loro non à controversia, certo il fatto
sopra il quale dicessero parole non sarebbe causa, e così non sarebbe
materia di questa arte, cioè che non sarebbe dimostrativo né diliberativo
né iudiciale. 2. Et provando questo sì dimostra Tulio i: i
non si dee — 4-5: m M' Klgli dico -- 7: M' Fue accusalo uno — 8: M' nm_
perciò - m egli dice — M' non li lispondo — 9: M' non tocclia (piosto peccato —
ti: M' in altro slato, m om. e stalo - J2:M' paro — 16: M' luna de
ipicste sia - 17: M tn i|ualcosa, m in quale chosa - SS : M-M^ 7 ciascuna
- S3: m provare Tulio - S3-S6: M-m om. ^ — m tralloro - 30: m quando
([U'-sto che Ile predette cose in questa arte sono si congiunte
in- sieme che qualuuiiue causa è dimostrativa o deliberativa o
iudiciale sì conviene che sia constituzione o del fatto o del nome o
della qualitade o dell' azione, et e converso che 5. qualunque
constituzione è del fatto o del nome o della qualità o dell'azione sì
conviene che sia dimostrativa o deliberativa o iudiciale. Et omai
perseverra Tulio sua ma- teria per dicere di ciascuna parte per sé.
Del fatto. La contraversia del fatto si puote distribuire in tutti
tempi: che ssi puote fare quistione che è essuto fatto, in questo modo. Ulisse
uccise Aiace o no ? Et puotesi fare questione che ssi fa ora, in questo
modo Sono i Fregelliani in buono animo verso lo comune o no ? Et puotesi
fare questione che ssi farà, in questo 15. modo : Se noi lasciamo
Cartagine intera, everranne bene al comune no? In questa pai'te dice CICERONE
che Ila CONTRO-VERSIA la quale è di fatto che ssia apposto ad altrui, la
quale àe nome constituzione congetturale sì come fue detto in
adietro e messo in exempli, sì puote essere in tutti tempi, cioè
preterito, presente e futuro. Nel PRETERITO pone Tulio r exemplo della MORTE
D’AIACE, che fue cotale. Stando l'assedio di Troia sì fue morto il buon
Achille, et apresso la sua morte fue grande questione delle sue
armi intra Ulisse et Aiace. Et certo Ulisse fue, secondo che
contano le storie, il più savio uomo de' Greci e '1 milìor parliere,
sicché per lo grande senno che i-llui regnava e per lo bene dire niettea
in compimento le grandi vicende, alle quali altre non sapea pervenire, e
perciò adoperò e' più di male contra' Troiani per lo suo senno che non
fecero M dimoslraliva — 3: M' constitutione del facto — 4-6: M-m
om. ot e conweiso.... dell'azione — 7 : M' Et oggimai perseguita — 10: M'
in dui tempi — 11: m clie exututo — 13: M* de buono animo — 14: m om. che
ssi farà — 15: M-m, L in terra — ikf' aver- ranne, m e veramente bene —
S3 : M' Tulio la morto — 24: M* a Troia — 26-27: M' secondo che recitano
le storie, fue M-m et niilior — 29: M* per .ben dire — 30: Mie quali, m
le quali oltre non sapeano — M adopio 7, m adoppio più, M' adopero elgli M' in contro a — la non fé, L non fece
quasi tutta l'oste per arme, et alla fine si parve
uianifestameute, eh' elli fue trovatore del cavallo per lo quale fue Troia
perduta e tradita; ma veramente in guerra non si 5. fatigava molto con
arme e non era di gran prodezza, ma tuttavolta dimandava che Ili fossono CONCEDUTTE
L’ARMI D'ACHILLE, e dicea che nn'era degno e ch'avea in quella guerra ben
fatta l'opera perchè etc Et dall' altra parte Aiaces era uno cavaliere franco
e prode all'arme, di gran guisa, ma non era pieno di grande senno e sanza
molto** (D francamente avea portate l'armi in quella guerra, e
perciò domandava l'armi d'Achille e dicea che non si conveniano ad ULISSE.
Onde alla fine l'armi furono concedute ad Ulisse, per la qual cosa montò
tra lloro TANTA INVIDIA che divennero nemici mortali ; et in questo mezzo
tempo e morto Aiaces e fue della sua morte ACCUSATO Ulixes, et esso
si difendea e negava ; e di questo sì era QUESTIONE DI FATTO in preterito, cioè
che già era fatto in tempo passato. Inol presente tempo mette Tulio l'
exemplo de' Fragellani, che furo una gente i quali fui'ono accusati in ROMA eh'
elli aveano male animo contra il comune. Et elli si difendeano e diceano che
11' aveano buono e dritto ; e di ciò si era QUESTIONE DI FATTO PRESENTE,
cioè se sono ora presentemente di buono animo o no. Nel FUTURO mette CICERONE l’exemplo
di CARTAGINE, la quale fue una delle più nobili cittadi e delle più
poderose del mondo, e tenne guerra contro a ROMA, sì eh' alla fine I
ROMANI vinsero e presero la terra ; e furo alcuni che voleano che Ila
cittade si disfacesse per lo bene di Roma, ET ALTRI CONSIGLIARO DEL NO perciò
che '1 meglio ne potrebbe advenire s' ella rimanesse intera, e di ciò è QUESTIONE
DEL TEMPO FUTURO, cioè se bene o male n'averrà se Cartagine rimanesse
intera o s'ella si disfacesse. Ma poi che Tulio à detto della
controversia del fatto, sì dicerà di quella del nome in questo
modo. i: M' ne non era. — 6: M' ben dengno — 7 : M' ben
l'opera perchè, L bene adope- rato perchè — 9: m orti, e sanza molto —
10: M-m provale — 14: m iim. mezzo — 15 : m 7 dela sua morte fue aco. —
16-17 : M-m onde di questo era già (piestione... in perciò che già ecc.
(vi om. in perciò) — 18: M' Fregiani — 19: M' che fuoro accusati — SO:
SI' comune de Roma — 22 : m om. si — S6: M incontra — S7 : m om. e — M'
vollero (ma L voleano) — 28: m om. et — M' di no m pero che meglo ne potrebbe loro
intervenire M-m, L in terra — Af' e
questo nel tempo futuro — M-m che bene — 31: M, L'in terra (1) Così
hanno i mss. e perfino la stampa, ma evidentemente manca qualche parola
(anzi itf " dopo molto lascia uno spazio bianco), come dire o parlare.
Basti averlo notato, senza pretendere d' indovinare. Del nome. Controversia
del nome è quando lo fatto è conceduto, ma è questione di quello eh' è
fatto in che nome sia appellato; et in questo conviene che sia controversia
del nome, perciò che non s'accordano della cosa; non che del fatto non
sia bene certo, ma che quello ch'è fatto non pare all'uno quello eh' all'
altro, e perciò l'uno l'appella d'un nome e l'altro d'un altro. Per la
qual cosa in questa maniera la cosa dee essere diffinita per parole e
breve- mente discritta, come se alcuno à tolta una cosa sacrata d'uno
luogo privato, se dee essere giudicato furo o sacrilego, che certo
in essa questione conviene difinire l'uno e l'altro, che sia furo e
che sacrilego, e mostrare per sua discrezione che Ila cosa conviene avere
altro nome che quello che dicono li aversarii. In questa parte dice CICERONE
della controversia del nome ; e perciò che di questo è molto detto
davanti, sì siue trapassa lo sponitore brevemente, dicendo solamente
la tema del testo, sopra '1 quale il caso è cotale: Roberto accusa
Gualtieri ch'elli àe malamente tolta una cosa sacrata, si come UNO CALICE o
altra simile cosa la quale sia diputata a' divini mistieri, e dice che
Ila tolse d'uno luogo privato, cioè d'una casa o d'altro luogo non
sacrato. Viene l'accusato e confessa il fatto. Dice l'accusatore. Tu
ài fatto sacrilegio. Dice l'accusato. Non ò fatto sacrilegio, ma
furto. Et così sono in concordia del fatto, ma non della cosa, cioè della
proprietade per la quale si possa sapere che nome abbia questo fatto, perciò
eh' all' accusatore pare una, che dice ch'è SACRILEGIO, et all'accusato
pare un' altra, che dice eh' è FURTO. Onde in questa maniera di
CONTROVERSIA si conviene che '1 PARLIERE che dice sopra questa materia
dififinisca e faccia conto IN BREVI PAROLE 3 : it 7 (li
questo — 9 : M-m distrecta —10: M- sacrato — M-m per furto o per sacrilegio, L
furto sacrilegio —11: M-m con l'altro — m furto — 12: M-m che sacrilegio, A/'
che sia sacrilego — il/' scriptione — 16:Mom. detto — M' nm. si — 18: m
sopralla quale - J/' Uberto : M' tolto — 19 : m cosa simile — SI: M-m ad
veruno mistieri (m mistiere) — 23-24: M il l'atto. Et dice laccusato — m
Non o, ma furto — 27-28: m però chellachusatorc... una diosa — 2H-29: M-m
om. sacrilegio.... cli'ò — 30: jV' jjarladore — 3t: M' didinita
- G8 - che cosa è SACRILEGIO e che è FURTO; e così dee
mostrare come questo fatto non à quel nome che dice l'aversario. Ed
è detto della CONTROVERSIA del nome; omai dicerà Tulio CICERONE di quella
del genere, in questo modo : 5. Del genere. ^Z.
(e. IX) Controversia del genere è quando il fatto è conceduto e
sono certi del nome d' esso fatto, ma è questione della quantitade
del fatto o del modo o della qualitade, in questo modo : giusto
ingiusto - utile o inutile - e tutte cose nelle quali è questione chente sia
quel fatto. In questa parte dice Tulio CICERONE della questione del
genere, e di questa è tanto detto dinanzi che 'n poche parole di-
morerà lo sponitore ; e dice che quella controversia è del genere nella quale Y
accusato confessa il fatto et è in con- cordia coir accusatore del nome
d' esso fatto, ma sono in discordia della quantitade del fatto, cioè se
grande o pic- colo o molto o poco. Verbigrazia. Un gran romano
quando dovea cacciare i nemici del suo comune si fuge. E accusato eh' ha fatto
danno e male alla inaestà di Roma; l'accusato confessa il fatto e '1 nome
del facto. Dice l'accusatore. Questo è grande DANNO. Dice l'accusato : « Non è grande, ma PICCOLO.
Ed è la discordia tra loro della quantità, cioè se quel male è grande o
piccolo. O sono in discordia del modo, cioè della comparazione del fatto, sì
come fue detto qua indietro nell'exemplo di Cartagine, qual fosse la
migliore parte tra disfare o lasciare. O sono in discordia della qualitade del
fatto, sì comepare in exemplo d'ORESTE che uccide la sua madre, ed e
accusato che l’ha morta ingiustamente. Ed ORESTE si difende e dice che l'à
morta giustamente, ma bene con- OM, 8:
M'in modo della qualitndo — 9: m o non giusto — 12: M' tracia — i3: M-m
detto — VI di questo — M die poclie p. — m dimora, Af' <limorra - 16-17: M'
ohi. ma sono.... del fatto — 20: M-m t>m. e male — S3: M-m nm. Ed —
So: >/' Or sono, M-m OHI. - 26: M' nm. si - 27 : M' o disfare - 2S :
M-m quantitade - 29 : M' nelexemplo di ((uestl , M-vi dotesles — 30-.il :
m nm. ot esso... GIUSTAMENTE giustamente, M' nm. si - M-m cliellavea
- 69 — fessa il fatto e 1 nome del fatto; ma sono in
discordia della qualità, cioè se 11' àe fatto GIUSTAMENTE O
INGIUSTAMENTE. Ben è vero che Tulio CICERONE non mette in exemplo della
quàntitade nel testo, né della comparazione, se non solamente della
5. qualitade ; e questo fae perciò che più sovente ne vien tra Ile mani
che non fanno l'altre, e perciò dice che tutte cose nelle quali si
confessa il fatto e '1 nome del fatto, ma è questione della qualità
d'esso fatto, sì è controversia del genere. E poi che Tullio CICERONE à
detto di questa questione del genere secondo il suo parimento, sì procede
immantenente a riprendere Ermagoras dell'errore suo in questa
controversia del genere. A questo genere Ermagoras sottopuose IV parti, ciò sono
DELIBERATIVO, DEMONSTRATIVO, IUDICIALE, E NEGOZIALE. Il quale suo
fallimento non mezanamente pare che ssia da riprendere, ma in breve,
perciò che sse noi ci ne passiamo così tacendo fosse pensato che noi lo
seguissimo sanza cagione; o se lungamente soprastessimo in ciò, paia che
noi facessimo dimoro et impedimento agli altri insegnamenti. Se deliberamento e
dimostramento sono generi delle cause, non possono essere diritte parti
d'alcuno genere di causa, perciò che una medesima cosa puote bene essere
genere d'una e parte d'un' altra, ma non puote essere parte e genere
d'una me- desima. Et certo deliberamento e dimostramento sono genera
delle cause. Ma o non è alcuno genere di cause, o è pur iudiciale
sola- mente, è iudiciale e dimostrativo e deliberativo. Dicere che
non sia alcun genere di cause, con ciò sia cosa eh' e' medesimo dice
che Ile cause sono molte e sopra esse dà insegnamento, è grande
forseneria. Un genere, cioè pur iudiciale solamente, non puote
essere, acciò che diliberamento e dimostramento non sono simili intra
lloro e molto si discordano dal genere iudiciale, e ciascuno à suo
fine al quale si dee ritornare. Adunque è certo che tutti e tre son
ge- neri delle cause, e così deliberamento e dimostramento non
possono 4: M> nel testo exemiilo - 5: M' in tra le mani —
iO: m om. secondo il suo pari- mente — M mantenente — 13: M-m II (juale
lue — i7 : 3/' nm. i)erciò — cene passas- simo — 18: m stessomo - 19: M'
dimora, m imped. 7 dimoro — 20: M-m dim. — 22 : m M' causa — M-m genere 7
parte d' una medesima - 23 : M' Ma none, vi Ma anno ale. — 26: M-m om. e
deliberativo — 27: M' ch'elli - 28: M' essi... inseffnamenti — 28-29 : M
7 grandi; fors (?), m 7 grande forma, M' 7 grandi mattezze. Genere ere. — .12
: M 7 certo — 3:i : M' de cause... dimost. 7 del. essere a
diritto tenute parti d'alcuno genere dì causa. Dunque ma- lamente disse
ch'elli fossero parte della constituzione del genere. 46. (e. X) Et
s'elle non possono essere tenute diritte parti della causa del genere,
molto meno fien tenute parti della diritta parte della causa; e parte
della causa è ogne constituzione; donde no la causa alla constituzione,
ma la constituzione s'acconcia alla causa. Ma dimostramento e
diliberamento non possono essere tenute diritte parti della causa del
genere, perciò che sono generi: donque molto meno debbono essere tenuti
parte di quello ch'esso dice. Appresso ciò, se Ila constituzione et essa e
ciascuna parte della con- stituzione è difensione contra quello eh' è
apposto, conviene che quella che no è difensione non sia constituzione ne
parte di constituzione. Et certo deliberamento e dimostramento non sono
constituzione. Dunque se constituzione et ella e la sua parte è
difensione contra quello eh' è apposto, il dimostramento e '1
diliberamento non è constituzione ne parte di constituzione. Ma piace a
Itui che ssia difensione. Dunque conviene che Ili piaccia che non sia
constituzione, né parte di constituzione. Et in altrettale isconvenevile
fie condotto, se esso dica che constituzione sia la prima confermazione
dell' accusatore o Ila prima preghiera del difenditore ; e così
seguiranno lui tutti questi sconvenevoli. Appresso ciò, la causa
congettu- rale, cioè di fatto, non puote d'una medesima parte inn un
medesimo genere essere congetturale e diffinitiva ; et altressì la diffinitiva
causa non puote essere d'una medesima parte inn uno medesimo genere
diffinitiva e translativa. Et al postutto neuna constituzione ne parte di
constituzione puote avere e tenere la sua forza et altrui; perciò che
ciascuna è considerata semplicemente per sua natura ; se l'altra si
prende, il nomerò delle constituzioni si radoppia, non si cresce la forza
della constituzione. Veramente la causa deliberativa insieme d'una
medesima parte in un medesimo genere suole avere la constituzione
congetturale e generale e diffinitiva e translativa, et alla fiata una e
talvolta piusori. Adunque, essa non è constituzione né parte di
constituzione. Et questo medesimo suole usatamente advenire della causa
dimostrativa. Adunque sì come noi avemo detto 3,5. davanti, questi,
cioè deliberamento e dimostramento, sono generi delle cause e non parti
d'alcuna constituzione. 1 : M' a diricto essere tenute parte
— 5: M-tn om. parto delln causa ì- — vi om. no - 7: JV' tenuti — 9 : m
tenute parti, il/' im. tenuti — M-m cliossi dice — iO: M-m chella const.
— 11: M-m ? difensione — M' (piella - IS: M-m non sia la constitutione —
13: m om. Et — 14: M 1 dunque le const., m Dunque la const. — 15: M' nm.
e '1 dilibera- mento — 16-18: m om. i due periodi — ^0 : m seguiteranno -
l' 1 : M-m si convenevoli - 23: M'^ diffinitiva, m chon dilf. — 25 : M-m
om. e translativa - 26: M-m om. nk - M' ne te- nere — 2S: m il novero —
il/ sic radoppia — 31: m coniotturalc generale — 32: i wim. illusori
— (i Lo sponitore. I. In questa parte dice
Tulio che Ermagoras dicea che Ila controversia del genere avea quattro
parti sotto sé, ciò sono deliberativo, demostrativo, iudiciale e
negoziale; della 5. qual cosa Tulio lo riprende in tutte guise, e mostra
molte ragioni come Ermagoras errava malamente, e questo pruova
manifestamente per argomenti dialetici: che dimostramento e deliberamento
sono generi delle cause si che Ile cause sono parti di loro; e poiché
sono generi, cioè il tutto delle 10. cause, non possono essere
parte delle cause, acciò ch'una cosa non puote essere tutto d'una cosa e
parte di quella medesima. 2. Et così per molte ragioni o vuoli
argomenti conclude Tulio che Ermagoras avea mal detto, e poi se-
guentemente dice la sua sentenza : quali sono le parti della constituzione
del genere, cioè della quantitade e del modo e della qualitade del fatto,
sì come qui dinanzi fue detto. Et in ciò incomincia la sentenzia di
Tullio in questo modo : Le parti della constituzione
generale. 20. ^S. (e. XI) Questa constituzione del genere pare a
noi ch'ab- bia due parti : Iudiciale e negoziale. Lo
sponitore. 1. Poi che Tullio àe ripresa l' oppinione d'
Ermagoras delle quattro parti, si dice la sua sentenza e dice che
sono 25. pur due parti, cioè quelle altre due che dicea Ermagoras:
iudiciale e negoziale ; et immantenente detta la sua sen- tenza, la quale
vince quella d' Ermagoras e d'ogn' altro, sì dice e dimostra che è
iudiciale e che è negoziale, in questo modo 4: M' dimostrativo,
deliberativo ecc. — 6: M-m provava — 9: m genero — 10: M el acciò — 11 :
M-m tiicta — 13:M^ conchiude Tulio Ermagoras avere — 17 : il/' comincia —
23 : m ripreso — 28: M' che e iuridiciale {e cosi sempre), M-m che iudiciale 7
che {ni om. che) negotiale ludiciale è quella nella quale si
questiona la natura dì dritto e d' iguaglianza e la ragione di guiderdone
o di pena. Sponitore. 5. 1. La iudiciale coustituzioue
è quella nella quale per diritto, cioè per ragione provenuta per
usanza e per igual- lianza, cioè per ragione naturale o per ragione
scritta, si questiona sopra la quantitade o sopra la comparazione o
sopra la qualitade d'un fatto, per sapere se quel fatto è giusto o
ingiusto o buono o reo. Altressì è iudiciale quella nella quale è questione
d'alcuno per sapere s'egli è degno di pena o di merito. Verbigrazia. Alobroges
è degno d'avere merito di ciò che manifestò la congiurazione di
Catenina? e questionasi del sì o del no. Et anche questo exemplo. È
Giraldo degno di pena di ciò che commise furto ? e questionasi del si o
del no. Et poi che à detto Tulio del iudiciale, si dicerà dell'altra
parte, cioè della negoziale. Negoziale è quella nella quale si
considera chente ragione sìa per usanza civile o per equitade, sopra alla
quale diligenzia sono messi i savi di ragione. Dice CICERONE che
quella constituzione è appellata negoziale nella quale si considera per usanza
civile, cioè per quella ragione la quale i cittadini o paesani sono
usati di tenere i-lloro uso o in loi'o costuduti, o per equitade,
cioè per legi scritte, chente ragioni debbiano essere sopra
quella 2: m quello nel (juale — 3: M'-L ella ragione di
diritlo, S di merito — 6: m perve- nuta — 8.me sopra la comp. — 9: m se
questo giusto —il: M^ si questiona d'alcuno selglie ecc. — 12-14: m o di
morte — M-m o alabroges di Catenina et questionisi del si et del no (m di
si o di no), L e questo exemplo —16: m quistionìsi... om. Et — A/ 7 del
no — 16-17: M' Tulio a detto dela giuridicialo — 20: M' Di negotiale — 26: M'
om. paesani — 27 : M' i loro costuduti m illoro chostuduli, M' in loro
constituti — M-m equalitade — S8 : M' cliente ragione
debbia constituzione. 2. Et intra la iudiciale e la negoziale àe
co- tale differenzia : che Ila iudiciale tratta sopra le cose pas-
sate et intorno le leggi scritte e trovate ; ma la negoziale intende
intorno le presenti e future (1) et intorno le legi et 5. usanze che
saranno scritte e trovate.Et questa è di molta fatica, perciò che'
parlieri s'affaticano di grande guisa a provarla et a formare nuove
ragioni et usanze allegando in ciò ragioni da simile o da contrario. Et
questa questione si tratta davante a' savi di legge e di ragione, ma in
provare la iudiciale basta dicere pur quello che Ila ragione ne dice. 4.
Et poi che Tulio à detto che è la iudiciale e che è la negoziale, sì
dicerà delle parti della iudiciale per meglio dimostrare lo 'ntendimento
di ciascuno capitolo dell' Arte. Di due parti di Iudiciale.
La iudiciale dividesi in due parti, ciò sono assoluta et
assuntiva. In questa parte dice Tulio che quella questione la quale è
iudiciale, sì come davanti è mostrato, sì à due parti. Una eh' è
appellata assoluta e l'altra la quale è appellata assuntiva ; e dicerà di
catuna per sé. 3 : M interno — 4: i mss. futuro — M' il
presente — 8 : m in se ragioni — 9 : M assaivi, m si tratta da savi — 10:
M pur di quello — 16: M' si divido — 21 : M' luna la quale è appellata -
M-m e assunptiva Per quanto la lezione di -Jf' (il presente e futuro)
sembri ottima, prefe- risco ricorrere alla lieve correzione di futuro in
future.: M* ha tendenza a cam- biare, e quindi non è improbabile che,
trovando già l'errato futuro, abbia voluto accordare con esso l'aggettivo
precedente, le presenti. Non saprei invece come spiegare un cambiamento
inutile in M-m. Assoluta è quella che in sé stessa contiene questione
o di ragione o d' ingiuria. Dice CICERONE che quella questione
iudiciale del genere èe appellata assoluta la quale in sé medesima
è disciolta e dilibera, sì che sanza niuna giunta di fuori contiene
in sé questione sopra la qualitade o sopra la quantitade o sopra la
comparazione del fatto, il qual fatto si cognosce s'egli é di ragione o
d'ingiuria, cioè se quel fatto é giusto o ingiusto o buono o' reo, sì
come in questo exemplo donde fue cotale questione. Verbigrazia : Fecero
quelli da Teba giusto o ingiusto quando per segnale della loro vittoria
fe- cero un trofeo di metallo? Et certo questo fatto, cioè fare un
trofeo di metallo per segnale di vittoria, piace per sé sanza neuna
giunta et in sé contiene forza della pruova, perciò ch'era cotale
usanza. Assuntiva è quella che per sé non dà alcuna ferma cosa a
difendere, ma di fuori prende alcuna difensione ; e le sue parti
sono quattro : concedere, rimuovere lo peccato, riferire lo peccato
e comparazione. S:M-m slesso — 7: M-m nm. ai — fi:
M-m «m. o sopra la (luantilude — 7 invece ili 0—9: M' in f|uel facto —
12: M-m Ino - »« di Teba — 14-13: m et cerio questo trofeo fatto faro per
sengnale della loro Victoria jiiuce per so medesimo — 16: M' la forfa — 1
9 : M-m ohi. olio per sé non dà alcuna CICERONE dice che quella
constituzione è appellata assuntiva della quale nasce questione, la quale in sé
non à fermezza per difendersi da quello peccato eli' è allui appo-
5. sto, ma d'un altro fatto di fuori da quello prende argomento da difendersi;
si come nella questione d'Orestes, che fue accusato eh' avea morta la sua
madre, et elli dicea che ll'avea morta giustamente. Et certo il suo dire
parca crudel fatto, sì che queste parole per sé non anno difensione
com'elli l'abbia fatto giustamente, ma prende sua difen- sione d'un altro
fatto di fuori e dice: « Io l'uccisi giusta- mente, perciò ch'ella uccise
il mio padre ». Et così pare che con questa giunta piaccia la sua
ragione. Efc questa co- tale questione assuntìva à quattro parti, delle
quali il testo 15. dicerà di catuna perfettamente per sé.
Concedere e concessione è quando l'accusato non difende quello eh'
è fatto ma addomanda che ssia perdonato ; e questa si divide in due
parti, ciò sono purgazione e preghiera. 20. Sponitore.
I. Poi che Tulio avea detto che è e quale la questione assuntìva e
com' ella si divide in quattro parti, sì vuole di- cere di ciascuna per
sé divisatamente perchè '1 convenentre sia più aperto. 2. Et
primieramente dice che é concedere, e dice che quella constituzione é
appellata concessione quando l'accusato concede il peccato e confessa
d'averlo fatto, ma domanda che ssia perdonato ; e questo puote es-
sere in due maniere: o per purgazione o jjer preghiera, e di ciascuna di
queste dirà Tulio partitamente, e prima 30. della purgazione.
3: M> non àe in se — 5: M' di quello — 7 : M' Pt elli rispondea
— 8-iO: M-m om. Kt certo.... giustamente — i4: M' nm. assuntìva — 15: M'
per se perfectamente — 17: M' o concessione - 18 : 3f ' domanda chelgli
sia p. — m. 7 questo — 21 : m che e quale, M' che 7 quale 6 — 23: m di
chatuna — 24: M-m concede — 26: m confessa il pechato d'averlo facto
Purgazione è quando il fatto si concede ma la colpa si ri- muove, e
questa sì à tre parti : imprudenzia, caso e necessitade. Dice CICERONE che
quella maniera di concedere la quale è per purgazione sì è et
aviene quando l'accusato confessa, ma lievasi la colpa e dice che quel
fatto non fue sua colpa ; e questo puote fare in tre maniere, delle quali
è prima Imprudenzia, cioè non sapere. 2. Verbigrazia : Mercatanti
10. fiorentini passavano in nave per andare oltramare. Sorvenne
loro crudel fortuna di tempo che Ili mise in pericolosa paura, per la quale
si botaro che s' elli scampassero e per- venissero a porto che elli
offerrebboro delle loro cose a quello deo che là fosse, et e' medesimi F
adorrebbero. Alla fine arrivaro ad uno porto nel quale era adorato
Malcometto ed era tenuto deo. Questi mercatanti l' adoraro come idio e
feciorli grande offerta. Or furono accusati ch'aveano fatto contra la
legge ; la qual cosa bene confessavano, ma allegavano imprudenzia, cioè
che non sapeano, e perciò 20. diceano che fosse perdonato. Et di
ciò era questione, se doveano essere puniti o no. 3. La seconda maniera è
caso, cioè impedimento eh' adiviene, sì che non si puote fare
quello che ssi dee fare. Verbigrazia : Un mercatante caur- sino avea
inprontato da uno francesco una quantità di pe- 25. cunia a pagare
in Parigi a certo termine et a certa pena. 6: M-m om. b — 7
: M-m imi. non — 8: M' Kl puotesi l'art! — o In prima — tO: M per mare
oltramare, di passavano per maro in nave — Jf sopravenne — li: mi miseli,
JV/' om. che — 14: M' edelgli medesimi — 15: M' Macliometlo, m Maometto — 17:
M' fecero grande oHerta. Fiioro ecc., m mii. Or — 19: M' noi sapeano —
21: m puliti — S4 : m inprontato moneta da uno franeesclio
Avenne che '1 debitore, portando la moneta, trovò il fiume di
Rodano si malamente cresciuto che non poteo passare né essere al termine
che era ordinato. Colui che dovea avere domandava la pena, l' altro
confessava bene eh' avea 5. fallito del termine, ma non per sua colpa, se
non che '1 caso era advenuto ch'avea impedimentitotU la sua venuta, e
però dicea che Ila pena non dovea pagare; e di ciò è questione, se
Ila dovea pagare o no. La III maniera è necessitade, cioè che conviene che
ssia così et altro non potea fare. Verbigrazia : Statuto era in
Costantinopoli che qualunque nave viniziana arrivasse nel porto loro, la
nave e ciò che entro vi fosse si publicasse al segnore. Avenne che
merca- tanti genovesi allogare una nave di Vinegia e passaro con
grande carico d'avere. Convenne che per impeto di tempo per forza di
venti, centra' quali non si poteano pa- rare, pervennero nel porto e fue
presa la nave e le cose per lo segnore. Ben confessavano li mercatanti
che Ila nave era veniziana, ma per necessitade erano venuti in esso
porto, e però diceano che non doveano perdere le cose ; e di ciò era
questione, se Ile doveano perdere o no. Tutto altressì i Veniziani, cui
fue la nave, raddomandavano la nave o la valenza; i mercatanti diceano
che l'amenda non dovea es- sere domandata, perciò che per necessitade e
non per volontade erano iti in quel porto. Et poi' che Tullio àe detto
della purgazione e delle sue parti, si dicerà della preghiera. Preghiera è
quando l'accusato confessa ch'elli àe commesso quel peccato e confessa
che 11' àe fatto pensatamente, ma sì domanda che Ili sia perdonato, la
qual cosa molte rade fiate puote advenire. 1 : M-m avieno —
S : M-m polea — 3: M' a. termine ordinato — 5 : M' al termine - 5-6: M
impedimento, M* ma nel caso era avennlo 7 avea impedimentita — il: M' nel
loro porto — 13: m una nave viniziana, 3/' una nave de Viniziani 7 passavano —
14-15: M per un tempo per impetto 7 per f., if ' per impedimento, m di
vento — 18: M^ in quel porlo — SO: M' ora la questione — m dovea — 22: M'
che por lamenda — 24 :m om. Et — 28-29: m domandasi — M' om. molto
(1) Questa lezione di w è confermata da impedimentita di Jf*, cioè
dall'altra fami- glia di codici. Lo scambio, avvenuto in M, con
impedimento era facilissimo e lo favoriva il fatto che il senso restava
quasi il medesimo : « la sua venuta avea avuto impedi- mento ^>.
Così leggo con w, poiché in if e ilf ' il passo è manifestamente guasto
(impedimento è correzione arbitraria), mentre l'espressione impeto di tempo,
ana- loga, a quella del § 2 fortuna di tempo, può bene corrispondere alla
magna tempestas di cui parla l'esempio ciceroniano {De Inv., II, 98) sul
quale è modellato il nostro CICERONE dimostra in questa picciola parte del
testo che cosa è appellata preghiera in questa arte. Et dice che
allotta è questione di preghiera quando l'accusato confessa 5. e dice che
fece quel peccato che gli è aposto e ricognosce che ir à fatto
pensatamente, ma tutta volta domanda per- dono. 2. Onde nota che questa
preghiera puote essere in due maniere, o aperta o ascosa. Verbigrazia :
In questo modo è la preghiera aperta : Dice l' accusato. Io
confesso bene ch'io feci questo fatto, ma prego vi per amore e per
reverenza di Dio che voi mi perdoniate ». La preghiera ascosa è in questo
modo : « Io confesso eh' io feci questo fatto e non domando che voi mi
perdoniate ; ma se voi ripensaste quanto bene e come grande onore i' òe
fatto al comune, ben sarebbe degna cosa che mi fosse perdonato ». 3.
Ma ssì dice Tullio che queste preghiere possono adve- nire rade volte,
(l) spezialmente davante a' giudici che sono giurati a lege sie che non
anno podere di perdonare. Ben puote alcuna fiata lo 'mperadore e '1
sanato avere prove- 20. denza in perdonare gravi misfatti, sì come
poteano li anziani del popolo di Firenze ch'aveano podere di gravare e di
disgravale secondo lo loro parimento. Et poi che Tullio àe detto della
prima parte della constituzione as- suntiva, cioè della concessione e che
cosa è concedere, et à delle due maniere di concedere detto, cioè di
purgazione e di preghiera, sì dicerà della seconda parte, cioè
rimuo- vere lo peccato. Rimuovere lo peccato è quando l'accusato si
sforza di rimuovere quel peccato da se e da sua colpa e metterlo sopra
un S : M' mostra — 5 : M' elicigli lece — 6' : M'
nppensatainentc — 8 : M' nascosa — 14: M' om. bene — 17 : M^ fiato (ma L
volte) — li ([uali sono — 18: M noniianno — 19: m prudenzia — SS: m
eclisgravare, M> 7 disgravare — ni lo loro parere, L illoro pa- rere,
S il loro piacimento — m om. Et — So: M' m e a detto delle duo maniere ecc.
- 30 : M' mettelo (ma L metterlo) (1) Conservo volte appunto
perchè questa parola in itf è meno frequente di fiate Q non si può
considerare correzione arbitraria; invece fiate sarà stato sosti- tuito
per uniformità col testo tradotto (v. pag. preced., 1. 29). altro per
forza e per podestà di lui ; la qual cosa si puote fare in due guise: o
mettere la colpa o mettere lo fatto sopr'altrui. Et certo la colpa e la
cagione si mette sopra altrui dicendo che quel sia fatto per sua forza e
per sua podestade. Il fatto si mette sopr'altrui 5. dicendo che dovea un
altro e potea fare quel fatto. In questo luogo dice CICERONE eh' è
rimuovere lo peccato e come si puote fare, et è cotale il caso : Uno è
accu- sato d'uno malificio, et elli vegnendo a sua defensione si
leva da ssè quel maleficio e mettelo sopra un altro, o dice bene che 11'
à fatto, ma un altro cli'avea in lui forza e si- gnoria il costrinse a
ffare quel male ; e questo rimovimento del peccato dice Tullio che ssi
puote fare in due guise : l'una si mette la colpa e la cagione sopra un
altro, l'altra 15. si mette il fatto sopra altrui. Et certo la
colpa e la cagione si mette sopì'' altrui quando l'accusato dice che elli
à fatto quel male per colpa d'alcuno il quale à sopra lui forza e
signoria. Verbigrazia. Il comune di Firenze elesse ambasciadori e fue
loro comandato che prendessero la paga 20. dal camarlingo per loro
dispensa et immantenente andas- sero alla presenzia di messer lo papa per
contradiare il passamento de' cavalieri che veniano di Cicilia in
Toscana contra Firenze. Questi ambasciadori domandare il paga-
mento e '1 signore no '1 fece dare, e'I camarlingo medesimo negò la
pecunia, sicché li ambasciadori non andaro e' ca- valieri vennero. Della
qual cosa questi ambasciadori fuorono accusati, ma elli si levaro la colpa e la
cagione e 3: m la chosa — 7: Af' die e rimuovere — 9: M' do
malilicio - i4 : m luna mette, M' l'una si e mettere — ^5: M' si e
mettere — m om. Kt - 20: Af inmanlenenente, it/' incontanente — 21 : m
cliontradire - 23: M-m domandano — 24: M m il segnore — m e il
chamarlengo — 25: m il nego di dare la pecliunia — 26:m li anbasciadori — 27
:M' si levano miseria sopra '1 signore e sopra '1 camarlingo, i
quali aveano la forza e la seguoria e non fecero lo pagamento. 3.
Mettere il fatto sopr' altrui è quando l'accusato dice ch'egli quel fatto
non fece e non ebbe colpa né cagione 5. del fare, ma dice che alcuno
altro l'à fatto et ebbevi colpa e cagione, mostrando che quell'altro
sopra cui elli il mette dovea e potea fare quel male. Verbigrazia :
Catone e Catenina andavano da ROMA a Kieti, et incontrarono uno parente di
Catone, a cui Catellina portava grande maialo, voglienza per cagione della
coniurazione di Roma, e perciò in mezzo della via l'uccise. Né Catone non
avea podere di difenderlo, perciò eh' era malato di suo corpo, ma
rimase intorno al morto per ordinare sua sopultura. Et Catellina si
n'andò inn altra parte molto avaccio e celatamente. In questo mezzo genti che
passavano [per la via] per lo camino trovaro il morto di novello, e Catone
intorno lui, sì PENSARO CERTAMENTE CHE CATONE AVESSE FATTO IL MALIFICIO, e
perciò fue esso ACCUSATO di quella morte; ond'elli in sua defensione
levava da ssè quel fatto dicendo che fatto noll'avea e che no'l dovea fare,
perciò ch'ERA SUO PARENTE, e dicea che noU'arebbe potuto fare, perciò eh'
elli era malato di sua persona. Et così recava il fatto e LA COLPA SOPRA
CATELLINA, perciò che '1 dovea fare come di suo nemico e poteal fare, eh'
era sano e forte e di reo animo. Et poi che Tulio àe insegnato rimuovere
lo peccato, sì insegnerà in questa altra partita riferire il peccato.
Ttillio dice che è riferire il peccato. 58. Riferire
il peccato è quando si dice che ssia fatto per ragione, in perciò che
alcuno avea tutto avanti fatto a liuì 30. ingiuria. i
: m 7 al chamai-lingo — 4-ò: M om. ch'egli... ma dice — m nel fare — 5 : Af '
che un altro — 9: VI om. grande — 12 : m di suo corpo malato — 15: M^
gente — J/' m om. per la via - 16: m il novello morto — 18 : M' tn fu
elgli - 1!) : M' chelgli facto — 20-Sl : m avea nel dovea fare — o?n. e
dicea che — Jlf ' ohe noi potea fare ~ ohi. elli — 23: m pero chelli
dovea fare — 25: M-m om. si — M' insegna — 26: M' jxirte — M-m refre-
nare (sempre) — : vi pero che — da\anti (1) Le parole per la via
sono con tutta probabilità una glossa o una variante di per lo camino;
infatti mancano in codici delle due famiglie. 81
Lo sponitore. I. Dice Tullio che riferire il peccato è
allora quando l'accusato dice ch'elli àe fatto a ragione quello di che
elli é accusato, perciò e' a Uui fue prima fatta tale ingiuria che dovea
a rragione prendere tale vengianza, sì come apare neir exemplo d'
Orestes, che fue accusato della morte di sua madre, et esso dicea che
ll'avea morta a ragione, perciò che primieramente avea ella fatta a llui
ingiuria, cioè ch'avea morto il padre d' Oreste; e di questo nasce cotale
questione se Oreste fece quel fatto a ragione o no. Et poi che Tullio àe
insegnato riferire lo peccato, sì insegnerà ornai che è
comparazione. CICERONE dice che è comparazione. Comparazione è quando
alcuno altro fatto si contende cfie fue diritto et utile, e dicesi che
quello del quale è fatta la ripren- sione fue commesso perchè quell'altro
si potesse fare. In questo luogo dice CICERONE che quella questione è
appellata comparazione nella quale l'accusato dice ch'à fatto quello eh' è
a llui apposto, i^er cagione di poter fare un altro fatto utile e
diritto. Verbigrazia : Marco Tullio, stando nel più alto officio di ROMA,
sentìo che coniurazione si facea per lo male del comune, ma non potea
sapere chi né come. Alla fine diede dell'avere del comune in grande
quantitade 25. ad una donna la qiiale avea nome Fulvia, et era
amica per amore di Quinto Curio, il quale era sapitore del tradimento
; e per lei trovò e seppe dinanzi tutte le cose in tale ma- niera
eh' elli difese la cittade e '1 comune della molt'alta tradigione. Ma
alla fine fue ripreso ch'elli avea troppo ma- 2 : M' allocta
— 4 : M' facla prima — 5 : M' prenderne (ma L prendere) tale vendctla —
pare — 6: M' dela sua madre — 8: m prima — J/' facto, m aliai fatto - iO: m
om. El — 14: M-m quanto un altro — 16: M' per quell'altro - 18: JW in
questa parte — 19: M-m che facto — 26: M^ ora parteDce — 28: M' dela
mortalo lamente dispeso l'avere di Roma. Et elli in
defensione di sé dicea che quelle spese avea fatte per fare un altro
fatto utile e diritto, cioè per scampare la terra di tanta distruzione, e
quello scampamento non potea fare sanza 5. quella dispesa; e cosi mostra
che '1 fatto del quale elli è ripreso fue fatto per bene. Et poi che
Tullio àe detto delle quattro parti della constituzione assùntiva, la
quale è parte della iudiciale sì come pare davanti nel trattato della
con- stituzione del genere, sì ridicerà elli brevemente sopra
la questione traslativa, della quale fue assai detto in adietro, per
dire alcuna cosa che là fue intralasciata. Come Ermagoras fue trovatore
della questione translativa. Nella IV questione, la quale noi appelliamo
translativa, certo la controversia d'essa questione è quando si tenciona
a cui convegna fare la questione, o con cui od in che modo, o
davante a cui, per quale ragione, o in che tempo ; e sanza fallo tuttora
è controversia o per mutare o per indebolire l'azione. Et credesi
che Ermagoras fue trovatore di questa constituzione; non che molti
antichi parlieri non l' usassero spessamente, ma perciò che Ili scrittori
20. dell'arte non pensaro che fosse delle capitane e non la misero
in conto delle constituzioni. Ma poi che da llui fue trovata, molti
l'anno biasimata, i quali noi pensamo e' anno fallito non pur in
pru- denzia;(i) che certo manifesta cosa è che sono impediti per
invidia e per maltrattamento. Questo testo di Tullio è assai aperto
in sé medesimo, e spezialmente perciò che della questione o
constituzione translativa è assai sufficientemente trattato indietro
in i : M' l'avere del comune — 3:3/' diiicto 7 utile - 4: M'
non si pelea fare — 7: M< om. assiintiva - 8: M' iuridiciale — //: M-m
che ella l'uo translassala — lS:M-m emargonis — 13: M Uela quarta q. (e
punto ilnpn translativa) — 15-1 (!: M' davanti cui — M-m sanfa follia —
19: M' parladori — 23: M' cambiano - S4 : M' per mal. (1) La
traduzione non è esatta, poicliè il testo latino dice: quos non tamim-
prudentia falli indamus (res enim perspìcua est) quam invidia atque
óbtrectatione quadam inipediri. Si potrebbe proporre per congettura non
per imprudenzia ; ma non sembra contraddirvi il 8 -3 del commento
parlando di '' alquanti che non erano bene savi ,, ? altra
parte di questo libro, e là sono divisati molti exempli per dimostrare
come si tramuta 1' azione quando non muove la questione quelli che dee, o
centra cui dee, o in- nanzi cui dee, o per la ragione che dee, o nel
tempo che . 5. dee. Z.Sicchè al postutto in(i) questa translativa
conviene che sempre sia : o per tramutare l' azione in tutto, come
ap- pare indietro nell'exemplo di colui che risponde all'aver-
sario suo: « Io non ti risponderò di questo fatto né ora né giamai »; e
così in tutto tramuta l'azione dell'aversario etc. O é per indebolire
l'azione in parte ma non del tutto, si come appare nell' exemplo di colui
che risponde all' aver- sario suo : « Io ti risponderò di questo fatto,
ma non in questo tempo» o «non davante a queste persone». Et dice
Tullio che Ermagora fue trovatore della translativa constituzione, cioè che Ha
mise nel conto delle quatro constituzioni sì come detto fue inn adietro. Et di
ciò fue ripreso da alquanti che non erano bene savi e che aveano
invidia e maltrattamento contra lui. Nota che invidia è dolore
dell'altrui bene, e maltrattamento è dicere male d'altrui. Tullio dice che
davanti diceva exempli in ciascuna maniera di constituzioni. Già
avemo disposte le constituzioni e le loro parti; ma li axempli di
ciascuna maniera parrà che noi possiamo meglio divisare quando noi
daremo copia di ciascuno de' loro argomenti; perciò 25. ch'allotta
sarà più chiara la ragione d'argomentare, quando l'exemplo si potrà
a mano a mano aconciare al genere della causa. Vogliendo Tullio passare al
processo del suo libro, brievemente ripete ciò eh' à detto avanti,
dicendo che dimo- 2: M-m si traclava — 3: M^ che dee conLra
cui dee ~ 6: M come pare — 8: M' non ti rispondo — iO: M-m Oo, M' Onde —
M imparte — m non in tutto — H : M' pare — 13 : Mi dinanzi a ([. — 14: M
translatore, m traslatotore — 15: M^ìa conto —17: 3f dal- quanti — 18 :
M-m male tractamento con altrui — 21: M-m construclioni — 22: M exposte
le e. 7 loro parti — 24: Mi di loro argomenti — 25: M' de l'argomentare — 26:m
della cosa — 29: M ke detto, m che detto — Jlf ' dinanzi (1)
L'essere attestato in da tutti i codici rende esitanti a toglierlo, come
la sintassi e il senso sembrano richiedere. Forse si può sottintendere
dal periodo pre- cedente la parola questione : " conviene che sia
questione in questa transla- tiva „ ecc. strato à che sono le
constituzioni e le loro parti, ma in altra parte porrà certi exempli in
ciascuno genere delle cause, cioè nel deliberativo e nel dimostrativo e
nel iudiciale, quando ti'atterà il libro di ciascuno in suo stato. E da
cciò si parte il conto e torna a trattare secondo che ssi con-
viene all' ordine del libro per insegnamento dell' arte. Qual cai/sa sia
simpla e quale congitmta. Poi eh' è trovata la constituzìone della causa,
ìmmantenente ne piace di considerare se Ila causa è simpla o congiunta.
Et s'ella è congiunta, si conviene considerare se ella è congiunta di
piusori questioni o d'alcuna comparazione. Apresso al trattato nel quale
Tullio àe insegnato tro- vare le constituzioni e le sue parti, si vuole
insegnare qual causa sia simpla, cioè pur d'uno fatto e qiiale sia con-
giunta, cioè di due o di più fatti, e quale sia congiunta d'alcuna
comparazione, e di ciascuna dice exemplo in questo modo :
Della causa simpla. Simpla è quella la quale contiene In sé una
questione assoluta in questo modo: « Stanzieremo noi battaglia
contra coloro di Corinto o non ? ». Dice CICERONE che quella causa è
simpla la quale è pur d'uno fatto e che non è se non d'una questione
solamente. Verbigrazia : La città di Corinto non stava ubidiente
a Roma, onde i consoli di Roma misero a consiglio se paresse
2 : M-m om. parte — m delle cose — 4-5 : J/' Et di ciò si diparte
l'autore, m 7 accio — 8: M mantenente, m inmantanento — 9: m simplice (sempre
cos'i) M' sedella — li: M-m compi^ratione — 13: M' il tractato — 15: M
(|ualcosa, «i quale chosa — /*: M< l'exeni- plo — 21: M' m (pielli —
25 : vi iliinn chosa — SO : M-m <m. stava — A/' ali Romani loi-o
di mandare oste a fai"e la battaglia centra loro, o no. Et così vedi
che causa simpla è pur d'una questione del sì o del no. Della
causa congiunta. 5. 64. Congiunta di piusori questioni è quella
nella quale sì dimanda di piusori cose in questo modo: « È
Cartagine da disfare da renderla a' Cartagiartesi, o è da menare inn
altra parte loro abitamento ? Poi che Tullio à detto della causa simpla,
sì dice della congiunta, dicendo che quella causa è congiunta nella
quale àe due o tre o quattro o più questioni. Verbigrazia : I Romani
vinsero a forza d'arme la città di CARTAGINE, et erano alcuni che diceano
che al postutto si disfacesse; altri diceano che Ila cittade fosse renduta
agli uomini della terra, altri diceano che Ila cittade si dovesse mutare
di quel luogo et abitare in altra parte. E così vedi che questa
causa è congiunta di tre questioni che sono dette. Della causa
congiunta di comparazione. Dì comparazione è quella nella quale
contendendo si que- stiona qual sia il meglio o qual sia finissimo,
in questo modo : « È da mandare oste in Macedonia contra Filippo inn
aiuto a' com- pagni, è da tenere in Italia per avere grandissima copia di
genti contra Anibal ? Poi che Tullio avea detto della causa la quale è
con- giunta di piusori questioni, sì dice di quella causa eh' è
congiunta di comparazione di due o di tre o di quattro o i :
M-m o fare — 2 : M^ om. Et — Jlf om. b — 5 : M' om. questioni — 6 : m di
più sore — 7 : M' da. rendere a Cartaginesi — 12 : m due tre o quattro
questioni — J3: m per forza — om. la cittade di — J4: M' elio a! postutto
diceano cliella si disfacesse — 17: M-m om. che — 18: m essere coniunta
di tre (luestioni dette — 21: 3/' o quale finis- simo — 22: M' incontro a
Filippo — 28: M-m di due, di tre — m om. o di quattro (1)
Certamente il traduttore ha frainteso il latino an eo colonia deducatur.
di più cose, nella quale si considera qual partito sia il mi-
gliore de' due o di tre o di più, e se tutti sono buoni e l'uno migliore
che 11' altro, per sape];e qual sia finissimo, cioè il sovrano di tutti.
Verbigrazia : I Romani aveano mandata oste in Macedonia contrà Filippo re
di quello paese, et in quello medesimo tempo attendeano alla guerra
d'Anibal, che venia contra loro ad oste. Onde alcuni savi di Roma diceano
che '1 migliore consiglio era mandare gente in Macedonia, per attare
l'altra loro oste la quale 10. era in questa contrada; altri diceano che
maggior senno era di ritenere la gente in Italia, per adunare
grandissima oste contra Anibal ; e così contendeano qual fosse il
mi- gliore o '1 finissimo partito : o tenere o mandare la gente.
Della contraversia inn iscritto et in ragionamento. 15. 66.
Poi è da pensare se Ila controversia è in scritta o è in
ragionamento. Lo sponitore. 1. Apresso ciò che
Tulio à dimostrato qual causa è sim- pla e quale è congiunta e quale di
comf)arazione, sì vuole 20. fare intendere quale contraversia nasce
et aviene di cose e di parole scritte, e qual nasce pur di ragionamento,
cioè di dire parole e di cose che non sono scritte ; e cosi vuole CICERONE
aj)ertamente insegnare per rettorica ciò e' altre de' dire a ciascun
ponto di tutte le cause che possano inter- 25, venire ; e perciò
dicerà della scritta per sé e del ragiona- mento per sé, e di ciascuno
partitamente in questo modo : Della contraversia che nasce di cose
scritte. 67. Contraversia inn iscritta è quella che nasce d'alcuna
qua- litade di scrittura Ce. XIII). Et certo le maniere di questa
che 30. sono partite delle constituzioni sono cinque : Che talvolta
pare che Ile i-2: m sia ihigloru ili lUie ecc. — il/' o Ire
o iiifi — •/: iV/' ohi. cion il sovrano — 5: M'-L (li i|iielli del
paoso, S di c|iielli paesi 7: m om. ad oste — * : hi elio mogio — iO: m
J/i in ipiella contrada — il : M' om. di — m a rilenore gente — 12 : M
contra nibal, i» contro ad Anibal — 15: M-m e scripla, If' e in scriplo o
in ragionamento — /*' : M-m i|ual cosa — 19: m quale e — 22: M-m om. dire
e che non sono scritte — 23: M' mo- strare - 24: m possono — 25: M'E cosi
— 29: M da. questa — 30:M' dale constilutioni parole medesimo iU siano
discordanti dalla sentenzia dello scrittore ; e talvolta pare che due
legi o più discordino intra sé stesse; e talvolta pare che quello eh' è
scritto signiffichi due cose o più ; e talvolta pare che di quello ch'è
scritto si truovi altro che non è 5. scritto ; e talvolta pare che ssi
questioni in che sia la forza della parola, quasi come in diffinitiva
constituzione. Per la qual cosa noi nominiamo la prima di queste maniere
di scritto e di sentenzia; il secondo appelliamo di legi contrarie, la
terza apelliamo dubiosa, la quarta appelliamo dì ragionevole, la quinta
apelliamo diffinitiva. Poi che CICERONE à dimostrato qual causa sia pur d' un
fatto o di più, immantenente vuole dimostrare qual con- traversia è in
scritta e quale in ragionamento; et in questo dice primieramente di
quella ch'è inn iscritto, cioè che 15. nasce d'alcuna scrittura. Et
questo puote essere in cinque modi. Il primo modo è appellato di scritto
e di sentenza, pei'ciò che Ile parole che sono scritte non pare che
suonino come fue lo 'ntendimento di colui che Ile scrisse. Verbi-
grazia: Una lege era nella cittade di Lucca, nella quale erano scritte
queste parole: « Chiunque aprirà la porta della cittade di notte, in
tempo di guerra, sia punito nella testa ». Avenne che uno cavaliere
l'aperse per mettere dentro cavalieri e genti che veniano inn aiuto a
Lucca, e perciò fue accusato che dovea perdere la testa secondo la
legge scritta. L'accusato si difendea dicendo che Ila sentenzia e lo
'ntendimento di colui che scrisse e fece la legge fue che chi aprisse la
porta per male fosse punito ; e cosi pare che Ile parole scritte non
siano accordanti alla sentenzia dello scrittore, e di ciò nasce
controversia intra loro, se si debbia tenere la scritta o la sentenza.
La seconda maniera è apiiellata di contrarie leggi, perciò che
1 : M' m medesime — m dalle sententie — 2: me téilora -- M' si
discordino — 3: M' significa — 4: M-m o talvolta — M' che nono che scripto
— 6: M-m nm. in — A/' mdilTì- nitiva ([uestione — 11: M-m qual cosa — 13:
M-m e Sbripta - m e in ragionamento — 14 : m primamente — 18 : M om. fue
— 20: M ai)iira, m apira — 21 : M-m om. in tempo di guerra — M' si sia
punito della testa — 23: M' si difende — 30: m se si dee — M' lo scritto
— 31 : M' om. maniera (1) Cfr. p. 46, 1. 30: nai medesimo.
— 88 - pare che due leggi o più discordino intra sé
stesse. Ver- bigrazia : Una legge era cotale, che chiunque uccidesse
il tiranno prendesse del senato cheunque merito volesse. Et nota
che tiranno è detto quelli che per forza di suo 5. corpo o d'avere o di
gente sottomette altrui al suo podere. Un'altra legge dice che, morto il
tiranno, dovessero essere uccisi cinque de' pili prossimani parenti. Or
avenne che una femina uccide il suo marito, il quale era tiranno, e
domanda al senato per guidardone e per nierito un suo figlio. LA PRIMA
LEGGE concede che ssia dato, l'altra comanda CHE SIA MORTO. E così sono due
leggi contrarie, e perciò nasce questione se alla femina debbia essere
renduto il suo figliuolo o se debbia essere morto. La terza maniera è
apellata DUBBIOSA, perciò che pare che quel eh' è scritto SIGNIFICHI DUE
COSE O PIU. Verbigrazia. Alessandro
fa testamento nel quale fa scrivere così. Io comando che colui eh' è mia
reda dia a Cassandro C vaselli d'oro e quali esso vorrà. Api^esso la
morte d'Alessandro venne Cassandro e domanda C vaselli al suo volere e
che a llui piacessero. Dice la reda. Io ti debbo dare que'ch'io
vorrò. Et cosi di quella parola scritta nel testamento, cioè, i quali esso vorrà, si è dubbiosa a intendere
del cui volere ALESSANDRO DICE; e di ciò nasce questione intra
loro. La quarta maniera è appellata RAGIONEVOLE, perciò che di quello eh'
è discritto si truova e se ne ritrae altro CHE NON E SCRITTO O DETTO. Verbigrazia
: Marcello entra nella chiesa di Santo Petro di Roma e ruppe il
crocifixo, e taglia le imagini di là entro. E accusato, ma non si
truova neuna legge scritta sopra così fatto malificio, né convenevole non
era che nne scampasse sanza pena. E perciò il suo adversario ritraeva
d'altre leggi scritte quella pena che ssi convenia a Marcello
ragionevolemente. La quinta maniera é appellata DIFFINITIVA, perciò che
pare che ssi questioni LA FORZA D’UNA PAROLA scritta, sicché conviene i
: M' si discordino - M stesso — m tralloro - 5 : M^ di genti - 6-7: m L
essere morti - Jl/' om. de' — 7 : M'-L una femina il suo marito....
uccise — 9 : m e merito — 10: M' che le sia dato, l'altra leggie — iS: m
nasce controversia — Mm sella femina — 13: m se dee — 14-15: M' che lo
scritto — i6: Jtf' cos'i scrivere — 1 7 : M-m om. coUii eh' è — 18: M' i
quali — 19: M' cento vaselli d'oro — 20: J/' la rede. [o ti voglio dare -
m om. dare - S3: M' 7 cosi - S5: M' che scripto - S6 : M-m Martello - S7 :
M' San Piero — 38 : M-m om. Fue accusato - /. trovava — 29-30 : m alcuna
legge.... colalo maliflcio, e convenevole non era che scampasse — 32 :M'
che si conviene — Mm Martello — 89 — che quella
parola sia diffinita e dicasi il proprio intendi- mento di quella parola.
Verbigrazia : Dice una legge. Se '1 signore della nave n'abandona per fortuna
di tempo ed un altro va a governarla e scampa la nave, sia sua. Avenne
che una nave di Pisa venne in Tunisi e presso al porto sorvenne sì forte
tempesta nel mare, che '1 signore usce della nave et entra inn una
picciola barca. Un altro ch'era malato rimase nella nave e tennesi tanto
là entro che '1 mare torna in bonaccia, e la nave campa in terra. E
perciò dicea che la nave e sua secondo la legge, perciò che '1 segnore
l'abandona et esso l'avea difesa. Il segnore dicea che perch'elli entra
nella picciola barca non abandona perciò la nave ; e cosi era questione
intra loro sopra questa PAROLA dell'ABBANDONO della nave ; e per
15. sapere LA FORZA d'essa parola conviene che ssi difinisca e
dicasi il proprio intendimento. 6. Già à detto Tullio di quella
contraversia la quale è in iscritta e delle sue cinque parti. Omai dicerà
di quella contraversia eh' è in ragio- namento. 20. Della
contraversia la quale nasce di ragionamento. 68. Ragionamento è
quando tutta la questione è inn alcuno argomento e non inn
ìscrittura. Quella è contraversia in ragionamento nella quale non si
considera alcuna cosa che ssia per scrittura, ma prendesi argomento e
pruova per parole FUORI DI SCRITTA a dimostrare che dee essere sopra quella
questione. Verbigrazia : Dice Anibaldo che Italia è migliore paese che
Frància. Dice Lodoigo che no. E di ciò era questione ti'a lloro, e perciò
conviene recare argomenti in ragionando per mostrare che nne dee essere,
e questo senza scritta acciò che sopra questo no è legge né
scrittura. 3: m om. della nave — M' labandona — S : M' de
Pisani — M-m di Tunisi — 6 : M sovenne, m venne, L sopravenne — M^ di
mare — 7-8 : M' usci di fuori — un altro corse a governare la nave — 9: m
campo intera —11: m et egli — 12: m pichola nave — 13: 3f' non avoa
abbandonata perciò 1. n., m non pero elli abandonava la grande — 14: M'
di questa parola, m sopra questo abandono — 15: M-m la forma — m ripete
conviene — 16: m dicha — 22: m e none — 24 : M' Qurlla controversia 6 in
rag. — 28: M' Anibal — 29 : m lodovico, M'-L loodico, S dice l'altro,
dico che no — 31 : m 7 questo e senza scritta Delle IV parti della
causa. Adunque, poi che considerato è il genere della causa e
cognosciuta la constituzione et inteso quale è simpla e quale è con-
giunta, e veduto quale contraversia è di scritto e di ragionamento, 5.
ornai fie da vedere quale è la quistione e quale è la ragione e quale è
il giudicamento e quale è il fermamento della causa ; le quali cose tutte
convengono muovere della constituzione. In questa parte dice CICERONE
che poi ch'elli à insa- lo, gnato che è lo genere delle cause, cioè
dimostrativo e diliberativo e giudiciale, et à fatto cognoscere che è la
constituzione, cioè e qual sia congetturale e quale diffinitiva e quale
translativa e quale negoziale, et à fatto intendere quale è simpla e
quale congiunta, cioè qual contiene in sé una questione o più, et à fatto
vedere qual contraversia è inn iscritto e quale in ragionamento, sì come
tutti questi insegnamenti paionsi adietro là dove lo sponitore l'à
messo inn iscritto e trattato di ciascuno sufficientemente, ornai
vuole CICERONE procedere e dimostrare apertamente qual sia 20. la
questione e la ragione e '1 giudicamento e '1 fermamento della causa ; le
quali cose tutte muovono e nascono della constituzione, ciò viene a dire
che la constituzione è il cominciamento di queste cose. Questione è
quella contraversia la quale s'ingenera del contastamento delle
cause in questo modo : « Non facesti a ragione - Io feci a ragione».
Questo è contastamento delle cause nella quaied) 2: m om.
6—3: m om. cognosciuta — M intesto — Af' qual congiunta — 4: M-m quale
conti'aversia <ii scripto — m o di ragionamento — 5: A/' oggimai sarà — 5-6:
M' ha sulo il primn b — M-m il confermamento — 6-7: M-m 7 tucte i|UOSte
cose le quali conv. - 9: M chelle, m chebbe asengnato, M' che elgli 10:
M' diliberativo, ilimostrativo — i2: in cioè qual sia — 13: M-m a facto
cognoscere — 14: m quale simplice - 17: M' amaeslra- menti — M paio
sàdietro, Mi-L jiaiono in adiotro — 18: M 7 tracio — 22: M-m um. ciò V. a
d. e. la constituzione — 25 : M -L Di (|uistione — m si genera — 26-27 : M' de
cause — M-m om. a — M' il contrastamento ~ L nele quali, S nel
quale (1) Evidentemente dovrebbe dire nel quale; ma appunto per
questo non saprei spiegare come alterazione volontaria né come svista il
nella quale (dato tanto da M quanto da ikf'), e lo crederei piuttosto
dovuto a una distratta traduzione del latino Causarum haec est
conflictio, in qua constitiUio constai. è la constituzìone, e di questa
nasce contraversia la quale noi ap- pelliamo questione, in questo modo:
se fatto l'à a ragione o no. Lo sponitore. 1. Nel testo
il quale è detto davanti insegna Tullio 5. cognoscere e sapere che è la
questione; et in ciò dice che questione è quella che ssi conviene
considerare sopr' a cciò di che le parti tencionano, e così s'ingenera
del contasta- mento delle parti, cioè di quello che 11' uno appone e
l'altro difende. Verbigrazia : Dice la parte che appone all'altra .
10. « Tu non ài fatta i-agione, che tu prendesti il mio cavallo »;
e la parte che ssi difende risponde e dice : « Si, feci ra- gione Or è la
causa ordinata, cioè che ciascuna parte à detto, l'una accusando e
l'altra difendendo, e questa è ap- pellata constituzione. Sopra questo si
conviene sapere se 15. n'accusato à fatta ragione o no. Questo è
quello che Tullio appella questione. Dunque potemo intendere che
quando le parti anno detto e quando l'accusatore àe apposto in.
contra l'aversario suo e l'accusato àe risposto o negando o confessando,
sì è la causa cominciata et ordinata ; e però 20. infine a questo
punto èe appellata constituzione, cioè viene a dire che Ila causa è
cominciata et ordinata ; da quinci innanzi, se l'accusato niega e
diféndesi, si conviene che ssi connosca se Ila sua defensione è dritta o
no, cioè quando dice : « Io feci ragione » conviensi trovare s' elli à
fatto 25. ragione o no, e questa è appellata questione. 3. Et
perciò che la scusa dell'accusato, a dire pur così semplicemente: «
Io feci ragione », non vale neente se non ne mostra ra- gione per che e
come, insegnerà Tullio immantenente che ragione sia. 30. Di
ragione. 71. Ragione è quella che contiene la causa, la quale se
ne fosse tolta non rimarrebbe alcuna cosa in contraversia. In
questo modo mo sterremo, per cagione d'insegnare, un leggieri e
manifesto 4: M-m nel quale - 6: M' 6 quella — m sopra quello
— 10: M' facto ragione — i5: M dopo ragione ripete che tu prendesti il
mio cavallo — 13: m luna luna — M' {(uesto — 15: M^ m facto — 15-16: M'
Et questo.... comune questione — 17: M-m posto — 19: M S l'accusa - SO:
M' m ciò viene a dire — SS: M-m om. sì — S4: M' facta — S5: M' e facta
questione — S6: M-m om. Et - l'accusa — S7 : M' m se non mostra — S8 : M'
si insegnerà — 31 : m se non fosse — 3S : M' non vi rim. — 33: M-m d'insegnare
leg- gere manifesto exemplo exemplo. Se Orestres fosse
accusato di matricidio et elli non dicesse: « Io il feci a ragione,
perciò eli' ella avea morto il mio padre », non avrebbe difensione; e se
non l'avesse non sarebbe contraversia. Dunque la ragione dì questa causa
è eh' ella uccise Agamenon. 5. Lo sponitore. 1. Si come
appare nel testo di Tulio, ragione è quella clie sostiene la causa in tal
modo che, chi non assegna e mostra la ragione della sua causa, certo non
sarà contro- versia, cioè non à difensione; e cosi la causa
dell'aversario IO. rimane ferma e non à contastamento. 2.
Verbigrazia: Vero fue che Ila madre d'Orestres uccise Agamenon suo
marito e padre d'Orestres ; per la qual cosa Orestres, per movi-
mento di dolore, fece matricidio, cioè che uccise la madre. Fue accusato
di matricidio, et elli confessa, ma dice che '1 15. fece a ragione;
se non dice perchè e come, la sua difen- sione non vale neente, e se la
difensione non vale neente non è contraversia né questione. 3. Ma se dice
cosi : « Io lo feci a ragione perciò ch'ella uccise il mio padre »,
sì mantiene la sua causa e vale la sua difensa, mostrando la
20. ragione e la cagione perch'elli fece il matricidio. Et poi che CICERONE
à dimostrato che è questione e che ragione, sì dimosterrà che è
giudicamento. Giudicamento è quella contraversia la quale nasce de lo
'nde- 25. bolire e del confirmare la ragione. Et in ciò sia quel
medesimo exemplo della ragione che noi aven detta poco davanti : « Ella avea
morto il mio padre ». Dice il savio: « Sanza te figliuolo convenia eh'
essa madre fosse uccisa ; perciò che 'I suo fatto si potea bene punire
sanza tuo perverso adoperamento ». (e. XIV) Di questo 30. mostramento
della ragione nasce quella somma controversia la quale noi appelliamo
giudicamento, la quale è cotale: se fosse diritta cosa che Orestres
uccidesse la madre, perciò ch'ella avea morto il suo padre.
i : m di martecidio — 2 : M-m om. ella — 4 : M-ni chelluccise a ragione —
7-8 : M' mostra 7 assegna ragione — 10: M' m 0111. Vero — 13: M' om.
cioè.... di matricidio — 16: M-m om. e so la difensione non vale neente
(A/' ef))unge neente) —19: m difesa — 20: m om. El — 22: M-m dimostra —
24: M' om. quella — M-m ohi. nasce — 25: M-m in ciò a quel med. — 26: M'
aveino dello — 27 : M' Dice l'avversario — 2S: M-m si potrà — 29 : M'
sanila il tuo p. — — 31 : M' se fu Cicerone dice e insegna che è
ragione; et perciò che della ragione nasce il giudicamento, sì tratta
egli del giudicamento per dimostrare come e quando et in che 5.
luogo sia. Verbigrazia : L'accusato assegna ragione perchè fece quel
fatto e conferma la sua difensa per quella ra- gione. L'accusatore dice
contra questa difensa et indebo- lisce la ragione dell'accusato, linde di
ciò che conferma l'uno et inforza la sua difensione e l'altro la
infievolisce 10. e falla debole, sì ne nasce una questione la quale
è appel- lata giudicamento, perciò che quando ella è provata si puote
giudicare. 2. Et in ciò sia quel medesimo exemplo di sopra : Orestres
assegna la ragione per la quale elli uccise Clitemesta sua madre: perciò
ch'ella avea morto 15. Agamenon ; e così conferma la sua
defensione. Ma contra lui dice l'aversario. Tu non la dovei punire né non
con- venia ad te punirla di ciò, ma altre la dovea e potea pu- nire
sanza tua perversità, e sanza tua così crudele opera, come del figliuolo
uccidere sua madre ». Et così indebolia la ragione d' ORESTE e mettealo in
vituperoso abominio, e sopra questo, cioè sopra '1 confermamento e sopra
lo 'nde- bolimento della ragione, nasce questione la quale è appel-
lata giudicamento perciò che ssi puote giudicare. 3. Et omai à detto
Tullio che è questione e che è ragione e che è 25. giudicamento ;
sì dicerà che è fermamento. Del fermamento. 73.
Fermamento è il firmissimo et appostissimo argomento al giudicamento,
come se Orestres volesse dire che ll'animo il quale la madre avea contra
il suo padre, quel medesimo avea contra lui 30. e contra le sue sorelle e
contra il reame e contra l'alto pregio della sua ingenerazione e della
sua familia, sicché in tutte guise doveano i suoi figliuoli prendere in
lei la pena. 2: M-m om. è — 3-4: M-m che deliboragione nasce
del iuilicamento por dimostrare ecc. — 5: M' om. sia — M' assegno —7:3/'
quella — 3/ difesa — 8-10: M' che rimo con- ferma 7 inforfa la sua
ragione.... fa debole — M-m isforca — m la indebolisce — IS : m a quello
med. — 13: M' assegna ragione — 16: M 7 non convenia, m e non si convenia
— 17: m 7 convenia punirla — 18-19: M' om. tua e del — m la sua madre —
21-22: M< sopra confermamento dela ragione — 23: m om. Et — 24: M i
ohe ragione, m nm. — 27: M-m om. è — 30: M' \n serocchie.... l'altro
pregio Poi che Tullio aè dimostrato che è questione e ra-
gione e giudicamento, sì dice in questa parte che è fer- mamento. E certo
lo 'nsegnamento suo è molto ordinata- 5. , mente : che
primieramente è questione intra Ile parti sopr'alcuna cosa la qual'è
aposta ad uno e detto sopra lui che non à fatto bene o ragione, et elli
in sua difesa dice ch'à fatto bene o ragione, e di questo nasce la
questione, cioè se esso à fatto ragione o no. Apresso dice
l'accusato 10. la cagione per la quale elli avea ragione di fare ciò,
e questa è appellata ragione. Et quando l'accusato à detta la
ragione, il suo adversario dice contra quella ragione et indebolisce
quello dove l'accusato ferma la ragione, e questa è appellata
giudicamento. 15 Fermamento. Poi che Ila questione del giudicamento
è nata, si conviene che ll'accusato tragga innanzi i fermissimi
argo- menti bene apposti contra il giudicamento. Verbigrazia :
Orestres à detto che uccise la madre perciò ch'ella avea morto il padre,
e così assegna la ragione perch'elli l'uccise; il suo adversario mettendolo
in questione di giudicamento dice c'a llui non si convenia ma ad altrui,
e così indebo- lisce la sua ragione. 3. Or conviene che Orestres dica
ma- nifesti argomenti, e dice così. Tutto altressì coni' ella
25. uccise il suo marito mio padre, così avea ella conceputo
d'uccidere me e le mie sorelle, cui ella avea ingenerate di suo corpo, e
mettere il nostro regno a distruzione et abassare l'altezza del nostro
sangue, e mettere in periglio la nostra famiglia ». Ed in questi
argomenti accoglie fermissima defensione della sua ragione contra il
giudicamento, e dice: « Perciò ch'ella fece così disperato maleficio
et 2: M-m ragione 7 ((iiestione (m nm. 7) — 3: M' s\ dicerà
(mn S dico) — 5: M-m que- stioni — 6: M' sopralcuna causa la qua'.e
appella ad uno 7 detto contra lui — 8: Mhii om. ch'à fatto bene ragione —
9: M' se elgli, m selli — M' a l'acto a ragione — H : M\ m* detto — i3;Jf
fermava — i4: m questo e apellato - 17:,AV nelaccusalo trarre — 18: M»
appostati - i9: M' clielgli uccise.... chella uccise — SI: A/ niente dolo - S3:
M' om. sua — JW i fermissimi argomenti — 29: M 7 dinquesti, »i 7 in
<juesti, 3/' 7 di questi La rubrica di M (clie di regola seguo) ha qui
ludicamento, certo per effetto della parola precedente. avea
pensato di fare cotanta crudelitade, sì fue al postutto convenevole che
Ili suoi propii figliuoli ne le dessero pena e non altri >. Et questi
sono fermissimi argomenti ne' quali dice che '1 fatto della madre fue
crudele, superbo e mali- 5. zioso. 4. Et nota che quel fatto è appellato
superbo il quale alcuno adopera centra' maggiori, sì come quella fece
ucci- dendo il re Agamenon. Et quello è crudele fatto il quale
alcuno adopera contra' suoi, sì come quella fece contra la sua famiglia.
Et quello è malizioso fatto il quale è molto 10. fuori d'uso, sì
com'è contra naturale usanza ch'alcuna fe- mina uccida il suo marito e
figliuoli e distrugga un alto reame. 5. Onde questi fermissimi argomenti
e' quali l'ac- cusato mette davanti per confermare le sue ragioni et
incontra lo 'ndebolimento che facea l'aversario, sì è ap- 15.
pellato fei'mamento. In quale constiti izione non à
gindicamento. Et certo neil'altre constituzioni si truovano giudicamenti
a questo medesimo modo ; ma nella congetturale constituzione,
perciò che in essa non s'asegna ragione (acciò che '1 fatto non si
concede) 20. non puote giudicamento nascere per dimostranza di ragione; e
però conviene che questione sia quel medesimo che giudicamento: «
fatto è, nonn è fatto, sé fatto o no ». Che al vero dire, quante
consti- tuzioni lor parti sono nella causa, conviene che vi si
truovino altrettante questioni, ragioni, giudicamenti e fermamenti.
25. Lo sponitore. 1. In questa parte del testo dice Tullio
che, sì come per lui è stato detto davanti, così si possono trovare
giu- dicamenti inn ogne constituzione; salvo che nella consti-
tuzione congetturale, della quale è molto trattato inn 30. adietro,
perciò che in essa l'accusato nonn asegna (i) neuna 1 : Af' avea pensala
cotanta crudeltade — 2: M nelle, ÌU-L lene dessero — 3 : Mi lor- lissimi
argomenti — 5: m nel quale — 7 : M Tde agnzenò {sic), m i ro Agamenon — m ohi.
è — 8: M' luomo adopera — 9: m om. è ambedue le volte — il : A/ un altro
— IS-i^-.M' om. et, 7» e contro allo — i7 : M' ì giudicamenti — 22: Mi se
facto e. no ~ quante questioni — 26 : m om. che — 28 : vi nella
questione (1) Si potrebbe anche leggere non n' asegna; ma in M' è
scritto qui e qual- che riga più sotto non assegna, mentre la grafia col
doppio n 6 frequente in M (cfr. pag. seg., 1. 6, nonn abisogna).
ragione, anzi niega, al postutto non ne puote nascere giu-
dicamento. 2. Verbigrazia : Uno accusò Ulixes ch'elli avea morto Aiaces.
Dice Ulixes : « Non feci » et cosi nega quel fatto che gli è apposto. Et
perciò non conviene che sopra '1 5. suo negare assegni alcuna ragione. Et
poi che nonn asegna ragione, il suo adversario nonn abisogna d'
indebolire la ragione dell'accusato. Dunque nonde puote nascere
giudi- camento ; e perciò conviene che in queste constituzioni
congetturali la questione e lo giudicamento siano ad una 10. cosa: che là
ove dice l'accusatore « Tu uccidesti » et Ulixes dice « Non uccisi », la
questione e '1 giudicamento fie sopi-a questo, cioè se ll'uccise o no. 3,
Poi dice CICERONE che quante constituzioni à una causa, altrettante v'à
questioni e ra- gioni e giudicamenti e fermamenti. Dell'altre parti della
causa. 75. Trovate nella causa tutte queste cose, son poi da
consi- derare ciascuna parte della causa ; eh' al ver dire non si dee
pur pensare prima ciò che ssi dee dicere in prima ; perciò che se
le parole che sono da dire in prima tu vuoli inforzatamente
congiungere 20. et adunare colla causa, conviene che d'esse medesime
traghe quelle che sono da dire poi. Sponitore.
1. Or dice Tullio : Dacché '1 parliere connosce la causa et àe
inteso ciò eh' elli n' àe insegnato per tutto il libro 25. insine a
questo luogo, quando alcuna causa viene sopra la quale convegna che dica,
sì dee il buono parliere pensare con molta diligenzia e considerare nella
sua mente, anzi che cominci a dire, tutte le parti della sua causa
insieme e non divise. Che s'elli pensasse in prima pur quella che
4: m chelli fu aposto - 6: M' non a bisogno, m non a ragione — 8:
M-m om. e — 9: M-m la constituzione — i 1 : M' sie sopra q., m fla — i3:
M-m otn. v'à — 17: M-m e al ver dire — 18: M' in prima quello — M-m om.
dicere — S che è da dire inprlma — 19: M-m om. in prima — M' tu le
vuoigli — M isforcatamonte, m sforfatamenie congiun- gnerle — 20: M' i
raunaro — M-m elio esse medesime — S4: M'-L tutto il titolo, i' tutto il
telo (tic) — S8: i/' causa sua — S9: M' pur quello che sia da dire (Z. aggiunge
in prima) prima sia da dire e non pensasse ch'elli dovesse dire
poi, senza fallo il suo cominciamento si discorderebbe dal mezzo et
il mezzo dalla fine. 2. Ma chi accorda bene le sue parole colla natura
della causa et in innanzi pensa che ssi con- venga dire davanti e che
poi, certo la comincianza fie tale che nne nascerà ordinatamente il mezzo
e la fine. Tutto altressì fae il buono drappiere, che non pensa prima
pur della lana, ma considera tutto il drappo insieme anzi che Ilo
cominci, e de' aver (D la lana e '1 coloi*e e la grandezza del drappo, e
provedesi di tutte cose che sono mistieri, e poi comincia e fae il
drappo. Di VI parti della diceria. Per la qual cosa, quando il
giudicamento e quelli argo- menti che bisognano di trovare al
giudicamento saranno diligente- 15. mente trovati secondo l'arte e
trattati con cura e con cogitatione, ancora sono da ordinare l'altre
parti della diceria, le quali pare a nnoi ai tutto che siano sei :
Exordio, narrazione, partigione, confer- mamento, riprensione e
conclusione. Sjtoììitore. 20 _ I. Poi che Tullio
sufficientemente à dimostrato la chiarezza delle cause et àe comandato che '1
buono parliere innanzi pensi tutte le parti della causa per accordare
il mezzo e la fine colla comincianza del suo dire, si che sia l'una
parola nata dell'altra, sì dice esso medesimo che poi 25. che tutto
questo eh' è fatto,(3) e trovato il giudicamento della 1 :
M' che sia da dire poi —4: M' m om. in — 5 : M' la incomincianca, m il
comin- ciamento — 6: M' che nostera (corr. moslera), L mosterra, S mostra
— 7: if ' in prima — 9-10: M' anzi che cominci.... accio mestieri — m
sono mestiere — 11: M^ i\ suo drappo ordinatamente, L affare il s. d.
ordinatamente — 14 : M^ che si bisognano -17: M' che sono sei....
petitione invece di partigione — 20 : M^ a sofficientemente dem. — S3: M'
el Dne con la incomincianpa — M-m om. sì — 24: M om. nata — 25: M^-L
questo e facto (1) Tutti i codici hanno 7 daver 7 davere, che può
esser nato facilmente dall'aver preso il de' per la preposizione di.
Tanto il senso quanto la sintassi sa- rebbero poco chiari leggendo e
d'aver. (2) Preferisco la lezione di M perchè non è probabile che
la parola ordinata- mente, che si trovava in evidenza in fine al
discorso, sia sfuggita al copista. Forse l'aggiunta If' (L) fu
determinata AaW ordinatamente di poche righe prima. (3) Cioè "
dopo che tutto questo è fatto „ . Per il che pleonastico cfr. p. 20, n.
2, p. 21, n. 1 e qui dopo p. 99, 1. 18. Le lezioni di M^ e di L si spiegano
con quelle di M-m, ma non viceversa. causa e ciò che vi bisogna secondo
i comandamenti di ret- torica (i quali si convengono trattare con molto
studio e con grande deliberazione) ; anco sopra tutto questo si
con- vengojio pensare l'altre parti della diceria, delle quali non
5. è detto neente, e sono sei ; e di ciascuna per sé tratterà il libro
interamente. Lo sponitore chiarisce tutto ciò eh' è detto inn
adietro. Et sopra questo punto, anzi che '1 conto vada più innanzi,
piace allo sponitore di pregare il suo porto, per cui amere è composto il
presente libro non sanza grande afanno di spirito, che '1 suo intendimento
sia chiaro e lo 'ngegno aprenditore, e la memoria ritenente a
intendere le parole che son dette inn adietro e quelle che
seguitano per innanzi, sì che sia, come desidera, dittatore perfetto
e 15. nobile parladore, della quale scienzia questo libro è
lu- miera e fontana. 3. Et avegna che '1 libro tratti pur sopra
controversie et insegni parlare sopra le cose che sono in tendone, et
insegna cognoscere le cause e Ile questioni, e per mettere exempli dice
sovente dell'accusato e dell' ac- 20. cusatore, penserebbe per
aventura un grosso intenditore che Tullio parlasse delle piatora che sono
in corte, e non d'altro. 4. Ma ben conosce lo sponitore che '1 suo
amico è guernito di tanto conoscimento ch'elli intende e vede la
propria intenzione del libro, e che Ile piatora s'aparten- 25. gono
a trattare ai segnori legisti ; e che rettorica insegna dire
appostatamente sopra la causa proposta, la qual causa no è pur di piatora
né pur tra accusato et accusatore, ma é sopra l'altre vicende, sì coinè
di sapere dire inn amba- sciarie et in consigli de' signori e delle
comunanze et in 30. sapere componere una lettera bene dittata. 5.
Et se Tullio dice che nelle dicerie intra le parti sono le constituzioni
e questioni e ragioni e giudicamento e fermamento, ben si dee
pensare un buono intenditore che tuttodie ragionano le 1: M'
Olii, vi — S: vi làlluro — 3: M liberalione - M ancora, m aiicir — 4 : m
le IKirli — 5: M-m oiii. per sé — 8-9: Mi cliel maestro.... più avanti —
iO: m questo libro — i3: m mii. clie son — M' seguiranno — i4: in per lo
innanzi — i8: vi insegni — o»n. o dinanzi a per — i9:m exenpro — 20: M-vi
7 penserebbe — .?;: if' trattasse — S2:m ha bene — 24-2.^: Af si
pertegnono - m 7 a singnorì — M-m le giustitio — 26- M' ap- postamento —
M' in sapere — 2M 7 nele comunanze, (L e dello), mi delle co- munanze —
31 : m trailo parti - 32: M-m im. e ragioni, e l'ermamento — m ohi. si
— 99 - genti insieme di diverse materie, nelle quali
adiviene sovente che ir uno ne dice il suo parere e dicelo in un suo modo
e l'altro dice il contrario, sì che sono in tencione ; e r uno appone e
l'altro difende, e perciò quelli che appone 5. contra l'alti-o è
appellato accusatore e quelli che difende èe appellato accusato, e quello
sopra che contendono è ap- pellata causa. Onde se l’uno appone e l'altro
niega, al postutto di questo non puote nascere questione se non di
sapere se quella cosa che niega elli l'à fatta o detta o no. Ma quando
l'uno appone e l'altro difende, sì è la causa incominciata et ordinata
tra lloro. Et questo è la constituzione della quale nasce la questione, cioè se
Ila sua difesa è a ragione o no; e poi ciascuno contende come pare a
llui per confermare le sue parole e per indebolire quelle del'altro, sì
come appare per adietro nel trattato della questione e della ragione e del
giudicamento e del fermamento. Onde non sia credenza d'alcuno che, sì come
dicono li exempli messi inn adietro, che ORESTE e accusato in corte
della morte di sua madre ; ma le genti ne contendeano intra loro, che 11' uno
dicea che non avea fatto né bene né ragione, e questo è appellato
accusatore, un altro dicea in defensione d'Orestes ch'elli avea fatto
bene e ragione, e questo è appellato nel libro accusato. De consiglieri. Così
aviene intra' consiglieiù de' signori e delle comunanze, che poi che sono
aserablati per consigliare sopra alcuna vicenda, cioè sopra alcuna causa
la quale è messa e proposta davanti loro, all'uno pare una cosa et
all'altro pare un'altra; e cosi è già fatta la constituzione della
causa, 30. cioè eh' è cominciata la tencione tra lloro, e di ciò
nasce questione s' elli à ben consigliato o no. Et questo è quello
che Tullio appella questione. 9. Et perciò l' uno, poi ch'elli àe detto e
consigliato quello che llui ne pare, immante- 2 : M ndicc —
M' di.cela — m in suo modo ~ 3 : M' in contentione ~ 4: M n lalti-o
appone, m laltio appone — M-m quel — 6: M quello che, m quello di che — 7-9: m
om. al postutto.... che nioga — M che quella cosa — M' selgli la facta —
il : m cominciata — M' intra loro 7 questa — 13: M-m è ragione - 16: M
om. il 1" e 3° e, hì il 1" e S° - 20 : m tralloro — dicea
chelli — 21 : m o ragione — 22: m ave fatto — 25: M' adiviene - mi tra
cons. — 27: M-m. e in essa — 28: m davanti a loro — M-m om. cosa et — 30:
M' lantentione — 31 : M-m selli alta consigliato — m che allui nente assegna la
ragione per la quale il suo consiglio èe buono e diritto. Et questo è
quello che Tullio appella ragione. 10. Et poi ch'elli àe assegnata la
cagione e la ra- gione per che, si sforza di mostrare perchè s'alcuno
consigliasse o facesse il contrario come sarebbe male e non diritto ; e
così infievolisce la partita che è contra il suo consiglio; e questo è
quello che CICERONE lappella GIUDICAMENTO. Et poi ch'elli àe indebolita la
contraria parte, sì raccoglie tutti i fermissimi argomenti e le forti
ragioni 10. che puote trovare per più indebolire l'altra parte e
per confermare la sua ragione ; e questo è quello che Tullio
appella fermamente. 12. Et certo queste quattro parti, cioè questione,
ragione, giudicamento e fermamento, possono essere tutte nella diceria
dell'uno de' parlatori, sì come appare in ciò eh' è detto di sopra. Et
puote bene essere la sua diceria pur dell'una, cioè pur infine alla
questione, dicendo il suo parere e non assegnando sopra ciò altra
ragione. Et puote bene essere pur di due, cioè dicendo il suo parere et
assegnando ragione per che. Et puote bene essere pur di tre, cioè dicendo
il suo parere et assegnando ragione per che et indebolendo la contraria
parte. Et puote essere di tutte e quattro sì come fue dimostrato di
sopra. 13. Quest' è la diceria del primo parliere. E poi ch'elli à
consigliato e posto fine al suo dire, immantenente si leva 25. un
altro consigliere e dice tutto il contrario che àe detto colui davanti ;
e così è fatta la constituzione, cioè la causa ordinata, e cominciata la
tenciouB ; e sopra i loro detti, che sono varii e diversi, nasce
questione, se colui avea bene consigliato o no. Poi dimostra la ragione
perchè il suo 30. consiglio è migliore. Apresso indebolisce il
detto e '1 con- siglio di colui ch'avea detto dinanzi da llui ; e poi
ricon- ferma il consiglio suo per tutti i più fermi argomenti che
può trovare. Adunque le predette quattro cose o parti possono essere nel
detto del primo parliere e nel detto 35. del secondo e di ciascuno
parlamentare. 14. Cosie usata- 3-4: M' la ragione 7 la
cagione.... clie s'olciin — 6: M' a diriclo — m la parie — 8:m om Et -
i5: M-m cagione, ragione ecc. — i4: 3f' d'uno — y5:3f'pare— i 6 : 3f-m om.
cioè pur — 17: m pero — M' altre ragioni — 18-19: M-m ohi. pur ~ M-m in
suo parere as- sengnanJo perche — SO: M' il suo pare — 21 : M^ la
contraria partita - SS: m di tulli e q. — 25-26: Jlf' tutto il contrario
di colui ca detto davanti — 27 : M' lunlcntione — m la tencionc sopra —
S8: M' om. sono -- M 7 se colui — 31-32: in rilennu — 3/' il suo
consiglio — 33: M' ([uattro jiarti — 33: M' ciascuno che vuole parlamentare mente
adviene che due persone si tramettono lettere l' uno all'altro o in
latino o in proxa o in rima o in volgare o inn altro, nelle quali
contendono d'alcuna cosa, e così fanno tencione. Altressi uno amante
chiamando merzè alla sua donna dice parole e ragioni molte, et ella si
difende in suo dire et inforza le sue ragioni et indebolisce quelle
del pregatore. In questi et in molti altri exempli si puote assai bene
intendere che Ha rettorica di Tullio non è pure ad insegnare piategiare
alle corti di ragione, avegna che neuno possa buono advocato essere né
perfetto (2) se non favella secondo l'arte di rettorica. 15.
Et ben è vero ohe Ilo 'nsegnamento ch'è scritto inn adietro pare che ssia
molto intorno quelle vicende che sono in tencione et in contraversia tra
alcune persone, le 15. quali contendano insieme 1' uno incontra l'altro;
e potrebbe alcuno dicere che molte fiate uno manda lettera ad altro
nela quale non pare che tendoni centra lui (altressi come uno ama per
amore e fa canzoni e versi della sua donna, nella quale non à tencione
alcuna intra llui e la donna), é di ciò riprenderebbe il libro e
biasmerebbe Tullio e lo sponitore medesimo di ciò che non dessero
insegnamento sopra ciò, maximamente a dittare lettere, le quali si
co- stumano e bisognano più sovente et a più genti, che non fanno
l'aringhiere e parlare intra genti. 16. Ma chi volesse bene considerare
la propietà d'una lettera o d'una can- zone, ben potrebbe apertamente
vedere che colui che Ila fa o che Ila manda intende ad alcuna cosa che
vuole che 1: m adiviene - 3: M^ om. o inn altro ~ 6: m slorza — 7 :
m i molti — 9: m in insegnare - M' piatire — 10: M-m neuno buono advocato
possa essere perfetto— 11: M della rectorica — 13 : «i intorno a (pielle
— 15 : m chontendono — M' conlra.... 7 parebbo — 16: Mi molte volte manda
Inno lectere alaltro, m molto volte uno manda lettere a un altro (ma
ambedue nela (piale) — 17 : M che contenda tencioni — 18: 1/' per amore,
fa e, L uno che ama per amore fa e. — 19: m tra lui — 23: M-m om. et —
24: m traile genti (1) Le parole inn altro, che
sembrano inutili, non possono essere un'ag- giunta di copisti, ai quali
invece doveva venir fatto di ometterle, come in M* e in i.Dando a volgare
il senso limitato di volgare italico, si intende l'altro per gli altri
linguaggi, specialmente il provenzale e il francese. Brunetto vuol dire
che la rettorica di CICERONE non serve solo ai legisti, quantunque nessuno
possa divenire valente avvocato, e tanto meno perfetto, senza averla
studiata. Questa è l'idea espressa dalla lezione di ilf • ; con quella di
M-m, più semplice a prima vista, non si spiega la relazione fra buono e perfetto
sia fatta per colui a cui e' la manda. Et questo i)uote essere o pregando
o domandando o comandando o minac- ciando o confortando o consigliando ;
e in ciascuno di questi modi puote quelli a cui vae la lettera o la
canzone 5. o negare o difendersi per alcuna scusa. Ma quelli che
manda la sua lettera guernisce di parole ornate e piene di sentenzia e di
fermi argomenti, sì come crede poter muovere l'animo di colui a non
negare, e, s'elli avesse alcuna scusa, come la possa indebolire o
instornare in tutto. Dunque è una tendone tacita intra loro, e così
sono quasi tutte le lettere e canzoni d'amore in modo di ten- done
o tacita o espressa ; e se cosi no è, Tullio dice manifestamente, intorno '1
principio di questo libro, che non sarebbe di rettorica. Ma tuttavolta, o
tencione o no tencione che sia, CICERONE medesimo, luogo innanzi, isforza
i suoi insegnamenti in parlare et in dittare secondo la rettorica ; e là
dove Tullio sine pasasse o paresse che dica pur insegnamenti sopra dire
tencionando, lo sponitore isforzerà lo suo poco ingegno in dire tanto e
sì intende- 20. volemente che '1 suo amico potrà bene intendere l'
una materia e l'altra. 18. Et ecco Tullio che incomincia a dire di
quelle partite della diceria o d'una lettera dittata, delle quali non
avea detto neente in adietro: e queste parti sono sei, sì come apare in
questo arbore. I e. 2 ^'Olii'
/^M/ 25. Queste sono le sei parti che Tullio mostra
certamente che sono nella diceria o nella pistola, specialmente
in i: m per cholui che la manda — 2: M' essere pregando — 3:
M-m o in — 6: Jf' manda guernisce la sua lederà d'ornati^ parole — il : M
tucto lelcrre, m tutte lettere o clianzoni, M' o lo cannoni - iS: M-m o e
tacita (mi o e sjirexa) - 13: m inloruo al pr. - 14-15: M' o di tenciono
o di non tencione — da quello luogo innanci inforfa — 16: M' IH secondo
rothorica ~ 18: M^ insegnauiento - 19: M' islbiva - intendevole - 21: M'
m comincia — 22 : M' ohi. o duna lettera dittala - 23: M indietro - 24: il'
pare in ipiesto albero - Nello gchetna M' ha l" l>roomio, 3»
Divisione, ó" Uisjwnsionc - SO: M-m 7 nella pistola (ma c/r. l.
22) quelle che sono tencionando, sì come appare nel detto
dello sponitore qui adietro ; e, sì come detto fue in altra parte di
questo libro, Tullio reca tutta la rettorica alle cause le quali sono in
contraversia et in tencione. Et ben . dice tutto a certo che Ile parole
che non si dicono per tencione d'una parte incontra un'altra non sono per
forma né per arte di rettorica. 19. Ma perciò che Ila pistola, cioè
la lettera dettata, spessamente non è per modo di tencionare né di contendere,
anzi è uno presente che uno manda ad un altro, nel quale la mente favella
et é udito colui che tace e di lontana terra dimanda et acquista la
grazia, la grazia ne 'nforza e l'amore ne fiorisce, e molte cose
mette inn iscritta le quali si temerebbe e non saprebbe dire a lingua in
presenzia; sì dirae lo sponitore un poco dell'oppinione de' savi e della
sua medesima in quella parte di rettorica ch'apartene a dittare, si come
promise al co- minciamento di questo libro. 20. Et dice che dittare é
un dritto et ornato trattamento di ciascuna cosa, convene volemente
aconcio a quella cosa. Questa è la diffinizione del dittare, e perciò
conviene intendere ciascuna parola d'essa diffinizione. Unde nota che
dice « dritto trattamento » perciò che Ile parole che ssi mettono inn una
lettera dit- tata debbono essere messe a dritto, sicché s'accordi il
nome col verbo, e '1 MASCUNINO [sic MASCHILE -- MASCULINO] e '1 feminino,
e lo singulare e '1 plurale, e la prima persona e la seconda e la terza, e
l'altre cose che ssi 'nsegnano in gramatica, delle quali lo
sponitore dirà un poco in quella parte del libro che fie i)iù
avenente; e questo dritto trattamento si richiede in tutte le parti
di rettorica dicendo e dittando. 21. Et dice « ornato trat- 30.
tamento » perciò che tutta la pistola dee essere guernita di parole
avenanti e piacevoli e piene di buone sentenze; et anche questo ornato si
richiede in tutte le i)arti di ret- torica, sì come fue detto inn adietro
sopra '1 testo di Tullio. 22. Et dice « trattamento di ciascuna cosa »
perciò che, 35. si come dice Boezio, ogne cosa proposta a dire
puote 1:M' pare — 4:M oin. sono — m le quali e In contr. e
tencione. Et dico — 5-6: M' non sodono — m om. per te.ncione — a un altro
— 8 : M'de tencione — iO : M' 7 ae udito —il: M' om. la grazia — 12-13: M
la gra — M' sinlorca — m/ molte cose — M' m in iscriptura — Mi non, ma L
e non — 14: m lo sponitore dira uno pocho — 16: M' om. di relto- rica —
19: M-m aconcia a quella cosa, !/'-/> a quella cosa aconcia — 23: M-m adietro,
M' a diricto — 24-25: M' m el mascolino (m il maschulino)col leminino — 3/' el
plurale el singulare — M-m pulare — 27 : m fia M' in tutte parti — 33 :
M-m nel lesto — 34 : m om. Et — 35 : m si puote essere
materia del dittatore ; et in questo si divisa dalla sentenzia di CICERONE,
che dice che Ila materia del parliere non è se non in tre cose, ciò sono
dimostrativo, deliberativo e iudiciale. Et dice « convenevolemente
aconcio a quella cosa » perciò che conviene al dittatore asettare le
parole sue alla sua materia. Et ben potrebbe il dittatore dicere
parole diritte et ornate, ma non varrebbero neente s'elle non fossero
aconcie alla materia. 23. Così è divisato il dit- tatore da cciò che dice
Tullio; e perciò di queste due 10. materie, cioè del dire e del
dittare, e dello 'nsegnamento dell'uno e dell'altro potrà l'amico dello
sponitore prendere la dritta via. Et per questo divisamento conviene che
Ile parti della pistola si divisino da queste della diceria che
Tullio à detto che sono sei, ciò sono : exordio, narrazione, partizione,
conferm amento, riprensione e conclusione. 24. 1. E oppinione di Tullio
che exordio sia la prima parte della diceria, il quale apparecchia
l'animo dell' uditore a l'altre parole che rimagnono a dire, e questo è
appellato prologo della gente. //. Et dice che narrazione è quella
20. parte della diceria nella quale si dicono le cose che sono
essute o che non sono essute, come se essute fossoro ; e questo è quando
uomo dice il fatto sopra '1 quale esso ferma la forma della sua diceria.
E dice che è partigione quando IL PARILERE à narrato e contato il fatto
et 25. e' si viene partiendo la sua, ragione e quella
dell'aversario e dice : « Questo fue cosi, e quest'altro così » ; et in
questo modo acoglie quelle partite che sono a lini più utili e pivi
contrarie all'aversario, et afficcale all'animo dell' uditore ; et allora
pare ch'ai tutto abbia detto tutto '1 fatto. IV. Et 30. dice che
confermamento è quella parte della diceria nella quale il parlieri reca
argomenti et assegna ragioni per le quali agiugne fede et altoritade alla
sua causa. F. Et dice che riprensione (1) è quella parte della diceria
nella quale il 5: Mi agoisare — 6: m om. Et — 7 : M' non
varrebbe — 8: M' j cosi e divisato da ciò — 10: Jf maniere — i3: M^ da
quelle — i6: M' Et oppinione di Tulio e, m Op- pinione di Tulio e — M
exordìa — 18: M rimagnono udite, m om. a dire — 21 : M is- sate — 22: M 1
quando — M^ m l'uomo — om. esso 23 M'
forma la sua diceria — 25 : M' edesso viene partendo, m e viene
ripetendo.... del chonpagno — 28 -. M7 nfììcale (?), m e ficliale, M' 7
afficcalle — 29: M' paro cabbia detto — m detto il fatto - 30 : M' con-
fermagione — 33: i mss. responsione — M-m 7 quella (1) Non esito a
scostarmi dai codici per la concorde lezione degli altri luoghi, che
corrisponde al latino reprehensio. Il passaggio da reprensione a responsione
è facilissimo attraverso un repensione. I)arliere reca
cagioni e ragioni et argomenti per li quali attuta e menoma et indebolisce
il confermamento dell'aver- sario. VI. Et dice che conclusione è Ila fine
e '1 termine di tutta la diceria. 25. Queste sono le sei parti che
dice 5. Tullio che sono e debbono essere nella diceria; e di cia-
scuna tratterà qua innanzi il libro sofficientemente. Ma in questo eh' è
detto puote uomo bene intendere che queste sei medesime possono convenire
inn una pistola, di tal ma- teria puote ella essere. Ma tuttavolta, di
qualunque materia 10. sia, nelle tre di queste sei parti s'accorda
bene la pistola colla diceria, cioè nello exordio, narrazione e nella
con- clusione; ma ll'altre tre, cioè partigione, confermamento e
reprensione, possono più lievemente rimanere e non avere luogo nella
pistola. Tutto altressì la pistola àe V parti, delle quali l'una può bene
rimanere e non avere luogo nella diceria, cioè «salutatio»; l'autra, cioè
«petitio», avegnachè Tulio no Ila nominasse in tra Ile parti della
diceria, sì vi puote e dee avere luogo in tal maniera ch'ap- pena pare
che diceria possa essere sanza petizione. Dunque 20. le parti della
pistola sono cinque, ciò sono salutazione, exordio, narrazione, petizione
e conclusione, sì come ap- pare in questo arbore :
26. Et se alcuno domandasse per qual cagione Tullio in- tralasciò la
salutazione e non ne trattò nel suo libro, certo 25. lo sponitore ne
renderà bene ragione in questo modo. Certa cosa è che Tullio nel suo
libro tratta delle dicerie che ssi l-S: m ragioni 7 cagioni
— Jlf' l'aiingatore — wn. cagioni e — per li ifiiali allassa - M-m il
fermamente — 3 : 3/' il line — 4-5 : m Questo.... che Tulio dico che debbono
essere — 6 : M' m illibro qua innanzi — 7 : jn luomo -- Af ' om. bone — m
che tutte 7 queste sei — 8-9 : M tal maniera — M-m da qualunque, M^ de
([ualunque — li : 3f' in exordio — M' m 7 conclusione —12: M' om. tre e
soitiiuisce di\hione rt partigione M salta dal lo al 2" aver luogo —
22: M' pare 'in questo albero — 24: ilf intrallassò, m lasciò — 25: Af'
ne renda, L ne rende - 26: M^ cliellibro di Tulio tracia —
106 - fanno in presenzia, nelle quali non bisogna di contare'!)
il nome del parlieri né dell' uditore. Ma nella pistola bisogna di
mettere le nomora del mandante e del ricevente, c'altri- mente non si
puote sapere a certo né l'uno né l'altro. Apresso ciò, la salutazione
pare che sia dell'exordio ; che sanza fallo chi saluta altrui 'per
lettera già pare che co- minci suo exordio. Et Tullio trattòe dello
exordio com- piutamente, non curò di divisare della salutazione né
distendere il suo conto intorno le saluti, maximamente perciò che pare che
rechi tutta la rettorica a parlare et in controversia tencionando. Et in perciò
furo alcuni che diceano che Ila salutazione non era parte della
pistolaj ma era un titolo fuor del fatto. Et io dico che la salu-
tazione è porta della pistola, la quale ordinatamente chiarisce le nomora e'
meriti delle persone e l'affezione del mandante. Et nota che dice «
porta, cioè entrata della pistola, e che chiarisce le nomora, cioè del
mandante e del ricevente; e dice i meriti delle persone, cioè il
grado e l'ordine suo, sì come a dire: Innocenzio papa, Federigo
Imperadore, Acchilles cavaliere, Oddofredi Judice, e cosi dell'altre
gradora. Et dice « ordinata- mente », cioè che mette il nome e '1 grado
di ciascuno come s'a viene; e dice «l'affezione del mandante», cioè
com'elli manda al ricevente salute o altra parola di bene, o per
25. aventura di male, secondo la sua affezione, cioè secondo la sua
volontade. 28. Adunque pare manifestamente che Ila salutazione è così
parte della pistola come l' occhio del- l' uomo. Et se l'occhio è nobile
membro del corpo dell'uomo, dunque la salutazione é nobile parte della
pistola, c'altressi 30. allumina tutta la lettera come l'occhio
allumina l'uomo. Et al ver dire, la pistola nella quale non à salutazione
è altrettale come la casa che non à porta né entrata e come '1
1 : M-m bisogna contare — S-3 : M' nome del dicitore — M-m bisogna
mettere - M 7 dell' uditore 7 del ricevente, m om. 7 del ricevente — M-m
7 altrimente — 4: M' non si porrebbe — 7-9: M-m om. dello exordio — non
curo divisare salutalione 7 distemdere - ìli intorno alle salutationi —
10: M' om. et — 11-12: M' Et jìerciò funro — ciie saluta- lione — 15: m e
mèli — 16: m om. Et -17: M-m om. 1° e, hi 01». cioè — S3 : M' om. di — 24
: M' 7 altra — 2,5 : M eirectione — m om. secondo la sua afTezione cioè — 26:
M' parte (ma t espunto) — 28 : M 3/' om. dell'uomo, m om. del corpo (A
completo) — 29: iW' e la salutatione n. p. — m e altres'i — 32 : il/' ne
jiorta (1) La lezione bisogna contare darebbe piuttosto il senso di
« conviene dire », mentre qui si richiede un «c'è bisogno di dire».
- Itì7 - corpo vivo che non à occhi. Et perciò falla
chi dice che salutazione è un titolo fuor del fatto; anzi si scrive e s'
in- chiude W e sugella dentro ; ma '1 titolo della pistola è la
soprascritta di fuori, la quale dice a cui sia data la lettera. Ben dico
c'alcuna volta il mandante non scrive la salu- tazione, o per celare le
persone se Ila lettera pervenisse ad altrui o per alcun' altra cosa o
cagione. (2) Né non dico che tutta fiata convenga salutare, ma o per
desiderio d'amore, o per solazzo, talora (3) si mandano altre parole
che 10. portano più incarnamento e giuoco che non fa a dire
pur salute. Et a' maggiori non dee uomo mandare salute, ma altre
parole che significhino reverenzia e devozione; e tal- volta no scrivemo
a' nemici altro che Ile nomora e tacemo la salute, o per aventura mettemo
alcuna altra parola che 15. significa indegnamento o conforto di
ben fare o altra cosa; sì come fa il papa che scrivendo a' giudei o ad
altri uomini che non sono della nostra catholica fede o a' nemici
della Santa Chiesa tace la salute, e talvolta mette in quel luogo
spirito di più sano consiglio o connoscere la via della veritade o
ahundare inn opera di pietade et altre simili cose. Adunque provedere dee
il buono dittatore che, si- milemente come saluta l'uno uomo l'antro
trovandolo in persona, così il dee salutare in lettera mettendo et ador-
nando parole secondo che la condizione del ricevente richiede. Che quando uomo
va davante a messer lo papa o davante ad imperadore o a alti-o segnore
ecclesiastico o seculare, certo elli va con molta reverenzia et inchina
la testa, et alla fiata si mette in terra ginocchioni per basciare
2-3: M' anche — M-ìn si richiude — M' ma titolo — M 7 \a. s. — 5
•m iscrive salu- tatione — 6-7: M' venisse ilata altrui per alcuna
cagione — Mo per cagione dalcunaltra cosa cagione ; m id., ma oiii.
cagione — 8-9 : M^-L ma ora per d. d'a. or (ina L 0) per s. si man- dano,
M-m per solazzo di loro si mandano — il: M' a maggiore — M-m non debbono - 12:
M* che significanza abbiano di revercntia 7 dev. — 13-14: M' a nomici non
scrivemo — M-m 7 per aventura —16: M-m il papa scrivendo... om. altri
—19: M-m di chonnoscere — M' conoscere via de veritade— 20: M' opere (mai
opera) — om. altre — 21 il/' dee
prevedere — 22 M' un huomo un
altro— ^ó:ni Quando luomo — 26:M' davanti imperadore od altro, >« davante a
lom- j)eradore — 27 : Jf certo e va - ^S: in M una macchia cunpre in — M'
ginocohione in terra (1) S'inchiude è più esatto di si
richiude. Lo scambio fra n e l'i occorre altre volte: cfr. p. 37, n.
1. (2) In 3f e' è qualcosa di troppo. Non importa dire che m ha
accomodato di suo, perchè la parola cagione come finale è confermata da
M'; forse 1' errore nacque dall'avere scritto subito pei- cagione e voler
poi rimediare. (3) Scrivo così per avere un senso, ma non presumo
davvero di avere indo- vinato; potrebbe anche mancare qualche
parola. il piede al papa o allo 'mperadore. Tutto altressì dee lo
dettatore nominare lo ricevente e la sua dignitade coij parole di sua
onoranza e metterlo dinanzi ; apresso dee nominare sé medesimo e la sua
dignitade, e poi dee scri- 5. vere la sua affezione, cioè quello che
desidera che venga a colui che riceve la lettera, sì come salute o altro
che sia avenante, tuttavolta guardando che questa affezione sia di
quella guisa e di quelle parole che ssi convegnono al man- dante et al
ricevente. 31. Che quando noi scrivemo a' magio, giori di noi o di nostro
paraggio o di minore grado, noi dovemo mandare tali parole che ssiano
accordanti alle persone et allo stato loro. Et non pertanto eh' io abbia
detto che '1 nome del maggiore si de' mettere dinanzi e del pare
altressì, io oe ben veduto alcuna fiata che grandi 15. principi e signori
scrivendo a mercatanti o ad altri minori , mettono dinanzi il nome di
colui a cui mandano, e questo è contra l'arte ; ma fannolo per conseguire
alcuna utilitade. Perciò sia il dittatore accorto et adveduto in fare la
saluta- zione avenante e convenevole d'ogne canto, sicché in essa
me- 20. desima conquisti la grazia e la benivoglienza del
ricevente, sì come noi dimostramo avanti secondo la rettorica di CICERONE. Et
bene è questa materia sopr'alla quale lo sponitore po- trebbe lungamente
dire e non sanza grande utilitade. Ma considerando che Ila subtilitade
perché '1 verbo non si mette 25. nella salutazione, e che "1 nome
del mandante si mette in terza persona per significamento di maggiore
umilitade, e che tal fiata si scrive pur la primiera lettera del
nome, par che tocchi più a' dittatori IN LATINO che’n VOLGARE, sene
passex'à lo sponitore brevemente e seguirà la materia di Tullio per dicere
dell'altre parti della diceria e di quelle della pistola, sì come porta
l'ordine. Et in questo luogo si parte il conto della salutazione, e dirà
dell' exordio in due guise. L’una secondo ciò che nne dice Tullio e
che i : M' y allomperudoi'o — S-3: M-m dignilailo corporale
di — m aggiunge di reve- renza 7 ^ 4: M^ nm. S" e — 3: M-m
oirectione — ([nella — 7 : m tuttavia — M' guani ino clic l'airectione —
9-10: M' ali maggiori — M-m ili nostro .grado — i2: M' alloro slato — M-m
om. ch'io abbia dolio — i3: in il nome — M' si debbia — 13-16: m sengnori
— M-m scrivono -- m e mellone — M' elgli mandano — 17: Af-w por sognile —
18: mom. et adveduto — 19: M' dongiii jìarle — 20: M-mnm.ìa grazia e —
21-SS: il/' dimoslor- remo, m dimostraiiio davanti — Af' m Et bene
cpiesta — 24: JZ-m uhella subtitade, A/' che sotti! itude — 23: M<- in
salutalione 7 perche! nome — 26: M-m utilitade — 27: M' 7 per- che....
pur una lederà — m la prima — 28: m om. in Ialino — 31-32: L Et in questa
parte — ilf' dala salutalione — 33: M' om. ci6 — 109 -
pare che ss'apartegna a diceria, l'altra secondo che ssi con- viene
ad una lettera dittata et ad una medesima diceria, oltre quello che porta
il testo di Tullio. Exordio. 5. 77. Et perciò che
exordio dee essere principe di tutti, e noi primieramente daremo
insegnamenti in fare exordio. Vogliendo CICERONE trattare dell' exordio
prima che dell'altre parti della diceria, sì ll'apella principe
dell'altre 10. parti tutte ; e certo è de ragione (i) : l' una perciò che
ssi mette e si dice tuttora davanti a l'autre, l'altra perciò che
nel exordio pare che noi aconciamo et apparecchiamo r animo dell' uditore
ad intendere tutto ciò che noi vo- lemo dire di poi. 15.
Dell' exordio. 78. (e. XV) Exordio è un detto el quale acquista
convene- volemente 1' animo dell' uditore all' altre parole che sono a
dire ; la qual cosa averrà se farà l' uditore benivolo, intento e
docile. Per la qual cosa chi vorrà bene exordire la sua causa, ad lui
20. conviene diligentemente procedere e conoscere davanti la qualitade
della causa. Lo sponitore. 1. Poi che Tullio avea
contate le parti della diceria, sì vuole in questa parte trattare
di ciascuna per se divi- 25. satamente, e prima dello exordio, del
quale tratta in questo 2 : Af' e la diceria medesima — 3: m
oltre a quello — 5 : M-mom.e — 6: M' oxordii — iO: m nm. tutte — M-m
certo e (m a) ragione, L e certo eglie ragione — 10-li M' luna pei che, m
luna che — M-m 7 davanti si dice — 13-14 : m quello die noi poi volerne diro
— M' dire poi — 18: m dolce (cosi sempre in seguito) M' converrà — om.
procedere e — 24 : M' divisamente, ma L divisatamente Questa
lezione è quella che spiega meglio le altre: soppresso il de, nacque è
ragione di M, che m, colla pretesa di accomodare,' peggiorò in a ragione;
la variante di L deriva certo dal non aver inteso il significato di de
ragione (= se- condo ragione). - no -
modo: Primieramente dice che è exordio, mostrando che tre cose
dovemo noi lare nell'exordio, cioè fare che 11' udi- tore davanti cui noi
dicemo sia inver noi benivolente et intento e docile a cciò che noi
volemo dire. Et perciò ne 5. conviene connoscere la qualitade del
convenente sopra '1 quale noi dovemo dire o dittare. 2. Nel secondo luogo
divide l'exordio in due parti, cioè principio et « insinuatio », e
mo- strane in qual convenentre noi dovemo usare principio et in
quale « insinuatio ». 3. Nel terzo luogo ne fa intendere 10. donde
noi potemo trarre le ragioni per acquistare beni- voglienza et intenzione
e docilitade, e come noi dovemo queste tre usare in quello exordio eh' è
appellato principio e come in quello eh' è appellato « insinuatio ». 4.
Nel quarto luogo pone le virtù e' vizi dell'exordio. Et perciò dice
15. che exordio è uno adornamento di parole le quali il par- lieri
e '1 dittatore propone davanti nel cominciamento del suo dire in maniera
di prolago, per lo quale si sforza di dire e di fare sì che l'uditore sia
benivolo verso lui, cioè che Ili piaccia esso e '1 suo parlamento, e
procacciasi di dire e di fare sì che l'uditore sia intento a llui et al
suo detto; similemente si studia di dire e di fai'e sì che l’uditore sia
docile, cioè che pi'enda et intenda la forza delle parole. 6. Et perciò
dico che immantenente che 11' uditore è docile sicché voglia intendere e
connoscere la natura 25. del fatto e la forza delle parole, sì è
elli intento ; ma perchè l' uditore sia intento a udire, puote bene
essere che non sia docile ad intendere. Et di ciascuno di questi tre dirà
il conto quando verrà il suo luogo. 7. Ma perciò che '1 par- liere
che non conosce dinanzi di che maniera e di cliente 30.
ingenerazione sia la sua causa non puote bene advenire alle tre cose che
sono dette inn adietro, cioè che 11' uditore sia benivolo, intento e
docile, si dicei'à Tullio quante e quali sono le generazioni delle cause,
in questo modo: 1 : m Prima — MM' nm. è — 2-3 : m liiditore
sia inverso noi benivolo intonlo 7 dolco a quello ecc. — 4-5: m ci
conviene — 7-8: m nm. et — e mostra — 9: M' nensegna, L insegna dove —
JO: M' potremo — ii: M' ,allenlione - 13: M nm. in — 15: m i parlieri, M'
il parladore —17: M' perla (piai cosa — 19: ni jiiaoci il suo p. —
procliac- cisi — 20 : M-m 7 fare sicché — m attento — 21 : M' 7 fare — 22
: il/' ciò che imprenda — «1 le parole — ^.5: hi nm. e la l'orza delle
i>arole - 26: m che non 0—27: M' ohi. tre — 28-29: M' vorrà suo luogo
— chel dicitore — 7 di che ìnjj. - Ili -
Qualitadi delle cause. 79. Le qualitadi delle cause sono
cinque: onesto, mirabile vile, dubitoso et oscuro.
Sponitore. 5. I. In questa picciola parte nomina Tullio le
qualitadi delle cause, cioè di quante generazioni sono le
dicerie. Et s' alcuno m' aponesse che Tullio dice contra ciò che
esso medesimo avea detto in adietro, cioè che le generazioni e le
qualitadi sono tre, deliberativo, dimostrativo e iudiciale, 10. et
or dice che sono cinque, cioè onesto, mirabile, vile, du- bitoso et
oscuro, io risponderei che Ile primiere tre sono qualitadi substanziali
sie incarnate alhi causa che non si possono variare. Onde quella causa
eh' è deliberativa non puote essere non deliberativa, e quella eh' è
dimostrativa 15. non puote essere non dimostrativa ; altressì dico
della iudi- ciale. 2. Ma quella causa eh' è onesta puote bene essere
non onesta, e quella eh' è mirabile puote essere non mirabile, e
così dico della vile e della dubbiosa e della oscura. Adunque sono queste
qualitadi accidentali che possono 20. essere e non essere; ma le
prime tre sono substanziali che non si possono mutare.
Dell'onesta. 80. Onesta qualitade di causa è quella la quale
incontanente, sanza nostro exordio, piace all'animo dell'uditore.
25. Lo sponitore. I. Quella causa è onesta sopr'alla quale
dicendo parole, immantenente, sanza fare prolago, l' animo dell' uditore
si muove a credere et a piacere le parole che '1 parliere dice
sopra '1 convenente ; et in questo non fa bisogno usare pa-
3: M' dubbioso — 7 : M' m cholgli medesimo — 8: M-m om. elio - M^ li
generi — 10: M' dubbioso — 1 1: m io rispondo che le prime tre — 13 -.M'
puole — 13-14: M-m ml- lann dal lo al S° deliberativa — 15 : M-m essere
dimostrativa — 17 : L bone essere bene non mir. — 19: M-m om. queste —
23: M incontenenlo — 27: M-m mantenente iole per acquistare
la benivoglienza dell'uditore, perciò che ll'onestade della causa l'à già
acquistata per sua di- gnitade, sì come nella causa di colui che accusa
il furo o che difende il padre o l'orfano o le vedove o le
chiese. Mirabile è quello dal quale è straniato l'animo di colui che
de' audìre. Quella causa è appellata mirabile la quale è di tale 10.
convenente che dispiace all'uditore, perciò eh' è di sozza e di crudele
operazione. Et perciò l'animo dell'uditore è centra noi et è straniato
dalla nostra parte; et in questo abisogna d'acquistare benivolenzia sì
che l'uditore intenda, sì come nella causa di colui c'avesse morto il suo
padre 15. o fatto furto o incendio. 2. Dunque potemo intendere che
una medesima causa puote essere onesta e mirabile : onesta dall'una
parte, cioè di colui che difende il suo padre, mi- rabile dall'altra
parte, cioè di colui medesimo che è coutra la sua madre propia. E di
questo uno exemplo si puote 20. intendere tutti i somiglianti. Vile
è quello del quale non cura l'uditore e non pare che sia da mettere
grande opera a intendere. Lo sponitore. 25. 1. Quella
causa è appellata vile la quale è di picciolo convenente, sì che
non pare che ne sia molto da curare e l'uditore non sine travaglia molto
ad intendere, sì come la causa d' una gallina o d'altra cosa che sia di
poco valere. Et in questa causa dovemo noi procacciare di fare sì
che 30. ir uditore sia intento alle nostre parole.
1: M' om. la — id: M' o l'uiiiino - i2: vi e straniato — i3: M' bisogna —
14: M-m om. nella oanaa di colui c'avcsso morto — 15: M a facto, m a
l'atto — 19: M\a sua iiropria madre — 26: M-m om. ne — 27 : M' non si
maraviglia — 28: hi di jioclio valoro, Jt/' de piccolo valoro — 89: Mi
nm. di l'are si Dubitoso è quello nel quale o la sentenzia è dubia
o la causa è In parte onesta et In parte è sozza e disonesta,
sicché Ingenera benlvolenzla e offenslone. Quella causa è appellata
dubitosa nella quale l'uditore non è certo a che la cosa debbia pervenire o a
che sentenzia alla fine torni, sì come nella causa d'Orestes che
dicea ch'avea morta la sua madi e giustamente per due 10. ragioni :
1' una perciò ch'ella avea morto il suo padre, l'altra perciò che '1 deo
APOLLO glile comandò. Onde l'uditore non è certo la quale di queste due
cagioni cagia in sentenzia. Altressì è dubitosa quella causa nella quale
àe parte d'onestade e perciò piace all'uditore, et àe parte di
diso- 15 nestade e perciò dispiace all' uditore, si come nella
causa de filio: O d'un furo che fue accusato d'un furto e '1 suo
figliuolo si sforzava (ii difenderlo in tutte guise. Certo la causa era
onesta quanto in difender lo padre, ma era diso- nesta quanto in
difendere lo furo. 20. Dell'oscuro. 84. Oscuro è quello
nel quale l' uditore è tardo, o per aventura la causa è Iv^plgllata di
convenentl troppo malagevoli a conoscere. Dice CICERONE che quella causa
è appellata oscura nella 25. quale l'uditore è tardo, cioè che non
intende ciò che portano le parole del dicitore sì bene ne sì tosto
come si conviene, perciò che non è forse ben savio o forse eh' è
fatigato per 2: M-m eia sentenzia — 3: M' in parte socca —
4: M-m o offensione — 7-8: M' o in clie sententia torni ala fino 10: m il
suo marito — li: M chel deo apellollil, m chello lio appello il, M^-L che
dio appello glile comando — 13: M' quella parte dove parte — 16: M do
fili?, *i demi?, Mi-L dun figluolo dun ladro - do furto, el figUiolo ~ 17 : m
s\ sforza — 19: M' lo furto — 24: ino oschura apellata — 23-26: 3f-»i portava
— del dicta- tore - M' om. nò, L e si tosto, m o si tosto ~ 27:M' om. il
1" forse — M-m 7 forse - faligata (1) L'abbreviatura insolita
ài M e m porta a supporre una formula giuridica latina, quantunque tale
abbreviatura non sembri equivalere proprio a un de filio (la lezione di
M'-L è certamente secondaria). forse nella sigla si nasconde qualche nome
proprio? li detti d'altri parlieri che aveano detto innanzi; o per
aventura la causa è impigliata di cose e di ragioni che sono oscure e
malagevoli ad intendere. Della divisione dell' exordio.
5. 85. Et perciò che Ile qualitadi delle cause sono tanto diverse,
sì convene che li exordii siano diversi e dispari e non simili in
ciascuna qualitade di cause; per la qua! cosa exordio si divide in due
parti, ciò sono principio et « insinuatio ». Lo sponitore.
10. I. Perciò - dice Tullio - che le generazioni e le quali-
tadi delle cause sono tanto diverse, cioè che sono in cinque modi
sì come detto è qui di sopra, e l'uno modo non è accordante all'altro, sì
conviene che in ciascuna qualità di cause et in catuno de' detti cinque
modi abbia suo modo 15. di fare exordio, tale che ssi convegna alla
qualitade so- pr'alla quale noi dovemo parlamentare o dittare. 2, Et
vogliendo Tullio insegnare ciò apertamente, sì dice che exordio è di due
maniere : una eh' è appellata principio et un'altra ch'jè appellata «
insinuatio » ; e di ciascuna dirà elli 20. interamente. E così
dovemo e potemo sapere che le cause sopra le quali dice alcuno parlieri o
sopra le quali scrive alcuno dittatore sono cinque, cioè sono: onesto,
mirabile, vile, dubitoso et oscuro, sì come apare in adietro. Et
sopra tutte qualitadi sono due modi de exordio e non più, cioè
25. principio et « insinuatio ». Principio è un detto il quale
apertamente et in poche parole fa l'uditore benivolo o docile o
intento. Quella maniera de exordio è appellata principio
quando il parlieri o '1 dittatore quasi incontanente alla
1 : M^ parladori — 3: M' mn. oscuro o — fi: m diversi, dispari — 7:m di
cose — 8:M' cioè principio 7 insiniiatione (sempre) — / i : m dolio cose
— M' dele qualitadi sono tante divei-se -- Melo che sono— 13: M'
coU'altro — i4-i5: M' si abbia s. m. in fare — A/' «hi.cìò — 18-19: m una
che apjinllala ins. 7 una che ajiiiollata pr., M' uno che sajiplla pr. 7 un
altro che apellnlo ins.,7 di ciascuno — 21 : vi .ilchimo parlinre dice —
M-m 7 sopra — M' dice alcuno dictalon» — 22: M-m honesta - 23: M* jiare —
31 : M' il dicitore ol dictatore — M-m incontenonte comincianza
del suo dire, sanza molte parole e sanza neuno infingimento ma parlando
tutto fuori et apertamente, fa l'animo dell'uditore benvolente a llui et
alla sua causa, o talora il fa docile o intento, si come fece Pompeio par-
5. landò a' Romani sopra '1 convenente della guerra con Julio Cesare, che
fece tale exordio : « Perciò che noi avemo il diritto dalla ifostra parte
e combattemo per difendere la nostra ragione e del nostro comune, si
dovemo noi avere sicura spei'anza che li dii saranno in nostro adiuto ».
Dell' insinuatio. Insinuatio è un detto il quale, con infingimento
parlando dintorno, covertamente entra nell’animo dell'uditore. CICERONE
dice che quella maniera de exordio è apellata « insinuatio » quando il
parlieri o '1 dittatore fa dinanzi un lungo prolago di parole coverte,
infingendo di volere ciò che non vuole, o di non volere quello che dee
volere, e così va dintorno con molte parole per sorprendere l'animo
dell'uditore sì che sia benevolo o docile o intento; sì come disse Sino
parlando a coloro che riteneano la sua persona in gravosi tormenti: «
Insin a oi"a v'ò io pregato che mi traeste di tante pene ; oimai non
dimando se non la morte, ma grandissimi tesauri avrei dato a chi m'
avesse scam- pato ». Et in questo modo covertamente s'infingea di
non 25. volere quello che volea, per venire in animo di loro che
Ilo scampassero per avere, da che mercè non valea. 2. Et cosie à
divisato il conto che è principio e che è «insinuatio»; omai dicerà quale
di questi due modi de exordio dovemo usare in ciascuno de' cinque modi
delle cause, cioè nell'onesto, 30. nel vile, nel mirabile, nel
dubitoso e nell' oscuro. i: M' alancomincianza — m sanza
alcliuno - 2-- M' om. et — 3: M' benivolente, m benivolo — M^ o ala sua
causa : m come fé — 5-6: M' a Romani parlando del convenente, — cotale —
9: M diede saranno — IS: m intorno — 15: M-m i parlieri, M' il parliere —
M o dictatore — 17 : m quello che non vuole — iW' in (juello che vuole —
20-21 : L Sitio — m teneano... gravi tormenti — 2S: M' oggimai non domando io
— 23: M' dati — wi dato chi — 26: m merco domandare — 27: M' a divisatoli
maestro — 28 : M-m (|uali — M' noi dovemo — 29: M' de cause, M in
ciascuno di delle causo, m in ciascheduna delle chause (1)
Per tutte le citazioni di autori classici, che da questo punto alla fine
son molto frequenti, rimando al mio studio su La «Rettorica» italiana di
Brunetto Latini pp. 35-50; ivi son ricercate e discusse le fonti di
questi esempii, e così riesce anche piti facile rendersi conto della
costituzione del testo. Della mirabile. 88. Nella
mirabile generazione di causa, se il'uditore non fosse al tutto turbato
contra noi, ben potemo acquistare benivoglienza per principio. Ma s'ei
troppo malamente fosse straniato ver noi, allora 5. ne conviene
rifuggire a « insinuatio », in però che volere così isbri- gatamente pace
e benivoglienza dalle persone adirate non solamente non si truova, ma
cresce et infiamasi l'odio. Lo sponitore. 1. Inn
adietro è bene detto che quella causa è appel- lo, lata mirabile la quale
è di rea operazione, sicché pare che dispiaccia all'uditore. Et perciò
dice Tullio CICERONE che quando la nostra causa è mirabile puote bene
essere alcuna fiata che Il'uditore non sia del tutto coruccioso contra
noi. Et allora potemo noi acquistare la sua benivolenza per quel
modo 15. de exordio eh' è appellato principio, cioè dicendo un breve
prologo in parole aperte e poche. 2. Ma se 11' uditore fosse adiroso e
curicciato contra noi malamente, certo in quel caso ne conviene ritornare
ad altro modo de exordio, cioè « insi- nuatio », e fare un bel prologo di
parole infinte e coverte, 20. sicché noi possiamo mitigare l' animo suo
et acquistare la sua benivolenza e ritornare in suo piacere. Ch'ai ver
dire, quando l' uditore èe adirato e curiccioso, chi volesse acqui-
stare da llui pace così subitamente per poche et aperte parole dicendo il
fatto tutto fuori, certo non la troverebbe, 25. ma crescerebbe l' ira et
infiamerebbe l' odio ; e perciò dee andare dintorno et entrarli sotto
covertamente. Della causa vile. 89. Nella causa la
quale è di vile convenente, per cagione di trarrela di vilanza e di dispetto,
ne conviene fare l'uditore intento. S : M-m Della mirabile — ?» e
solluditoro — 3 : M^ del tutto — 4 : 3/' se — m se troppo fosse crucciato
— 5: Mi fuggire — m ci conviene.... chosi di presente - 7: m crescesi —
9: M-m ubiamo detto — i2: M^ alcuna volta — 13: m crucciato — 14: M'
potremo (ma L lìotemo) — 15: M-m in breve — 17 : M' iroso 7 crucciato
verso noi, m adirato contra noi molto, — 18: m tornarne — M alaltro modo
—19: M-m nni. fare — converte — M iulì- nito — 20: M' otii. la — SS: M^
cruccioso, m crucciato — S3: in per i)Oclie )iaroIo 7 aperte — S6: M-m
darò dintorno — M entrali, M' intrarli, wi rilrarlo sottilmente sotto
coverta — S8 : M e diviene convenente m udiviene e. — S9 : M' trarla de
viltanca 7 de dispregio Quando la nostra causa ella è vile, cioè di
piccolo convenente sicché l' uditore poco cura d' intendere, allora
ne conviene usare principio et in esso fare che 11' uditore 5. sia
intento alle nostre parole; e questo potenio ben fare traendola di
viltanza e facciendola grande et innalzandola, sì come fece Virgilio
volendo trattare de l'api: «Io dicerò cose molto meravigliose e grandi
delle picciole api ». Della dubbiosa qualità. Nella dubbiosa
qualità di causa, se Ila sentenza è dubbia si conviene incominciare
l'exordio dalla sentenzia medesima. Ma se Ila causa è in parte onesta e
in parte disonesta si conviene acqui- stare benivolenzia, sicché paia che
tutta la causa ritorni in onesta qualitade. La causa dubitosa, si
come fue detto in adietro, èe in due maniere: 1' una che Ila sentenzia è
dubbia, sì come apare nelF exemplo d' Orestes, che per due ragioni e
cagioni dicea ch'avea ben fatto d'uccidere la madre. Et in quel
caso 20. dovea elli incuninciare il suo exordio da quella
ragione dalla quale (0 elli più ferma nel suo animo di voler pro-
vare, e per la quale crede avere la sentenzia inn aiuto. 2. Ma se '1
convenente è dubitoso perciò che sia in parte onesto et in parte
disonesto, in quello caso dee il buono parlieri neir exordio acquistare la benivolenzia dell'
uditore per principio, sicché tutta la causa paia che sia onesta. 2:
M' m om. ella — m cioè di vile convenente 7 di picciolo — ,9: 3f'
-Ldelontendere — 4-5 : M 7 mezzo, m e mezzo a fare... atento — 6: m
vilanza, >/' vllezza 7 inalr. et f. g. — 7 : m tràre — 8: M' om. molto
— iO: M' Dela dubitosa — li: m cominciare — i2 : M-in om. è in parte
onesta — M' parte lionesla 7 parlo dis. — i7 : M-m cliella causa — hi
dub- biosa — i8: M> om. apare — cagioni 7 ragioni — m om. 7 cagioni —
19-20 : m in questo dovea elli com. — 21 : M' la (juale — 22: M-m 7 per
qua! (?;i om. 7) — M' sigli crede davere — 23: m om. sia — M'-L
honesta.... disonesta — 25: M' acquistare nelexordio benivolenca
daluditore — M libenivolentia — 26 : M-m om. che sia (1) Cioè «
fondandof3i sulla quale egli si propone di dimostrare la sua causa. L'oscurità
della frase ha determinato la falsa correzione in ilf'. La causa
onesta. Quando la causa fie onesta, o potemo intralasciare lo prin-
cipio, 0, se ne pare convenevole, comincieremo alla narrazione o dalla
legge, o d' alcuna fermissima ragione della nostra diceria. 5. A\a se ne
piace usare principio, dovemo usare le parti di benivo- glienza per
accrescere quella che è. Quando il conveniente sopra '1 quale ne conviene
dire è onesto, certo per la natura del fatto propia avemo noi
la benivoglienza dell'uditore sanza altro adornamento di parole. Perciò
quando noi venimo a dire noi potemo bene intralasciare lo principio e non
fare neuno exordio né prolago di parole, e cominciare la nostra diceria
alla nar- razione, cioè pur dire lo fatto; e bene potemo cominciare
da quella legge che tocca alla nostra materia o da quella ragione che sia
più fermo argomento e più certo. Ma se nne piace usare ijrincipio e fare
alcuno prologo, certo noi lo potemo bene, non per acquistare benivolenza
ma per crescere quella che v' è. Et perciò in detto caso il nostro
20. principio dee essere in parole apropiate a benivolenza.
Della causa ohscura. (e.
XVI) Nella causa la quale è oscura conviene che nel nostro principio noi
facciamo che ir uditore sia docile. Lo sponitore. 25.
1. In adietro fue dimostrato qual causa e quando sia oscura. Et
perciò dice Tullio che nella causa la quale sia 2 : M' m tia
— 3 : i« / Se ci paro — -i : M-m o alla legge, J/' o data leggo — M o
alcuna, )/i adalcluina, Mi o dalcuna — 5: Miw paro, m non paro — 6 : il/i
om. che h - 9: M-m nm. certo - facto pro])io — iO: M-m sanja molto
ailorn. — i i : Mi j perciò — M noi doviamo a dire, m noi doviamo diro —
i2: m alchuno oxordio — 13-15: M-m no comin- ciare ~ M' 1 cominciare do
quella legge - M-m o a ([uolla ragione — 16: M' la (jualo sia — 18: M'
ben faro — 19: M-m il docto, M' in (juesto caso — 25: M' mostrato (|ualo
causa e 7 (juando sia (ma L ([uando sia) — 26: M' la quale e (Cioè
«quando cominciamo a parlare». L'accordo di Jlf e JVf ' ronde sicuro a
dire, e con questo si escludo la lezione, buona in apparenza, di m {doviamo
dire) come evidente accomodamento di M. oscura all' uditore a
intendere noi dovemo usare quella parte de exoi'dio la quale è appellata
principio, et in quello dovemo noi si dire che 11' uditore sia docile,
cioè ch'elli intenda e ch'elli senta la natura del fatto, in que-
5. sto modo: che noi diremo in poche parole sommatamente la sustanzia del
fatto dell' una parte e dell' altra. Et poi che noi vedremo che U'
uditore sia apparecchiato in via d' intendere (1) il fatto, noi andremo
innanzi a dire la nostra ragione sì come si conviene al fatto.
10. Le ragioni delle cose. 93. Et perciò che infìn ad ora noi
avemo detto che ssi con- viene fare nell' exordio, oimai rimane a
dimostrare per quali ra- gioni ciascuna cosa si possa fare.
Sponito7-e. Infino a questo luogo à insegnato Tullio tutto ciò
che ssi conviene dire o fare nello exordio; e perciò ch'elli
àe detto in quale exordio ed in qual causa ne conviene usare parole
per acquistare benivolenza, sì vuole elli da qui in- nanzi mostrare le
ragioni come si puote ciò fare ; e questo 20. insegnamento fa bene
di sapere. De' quattro luoghi della temperanza. 94.
Benivolenza s' acquista di quatro luogora : dalla nostra persona, da
quella de' nostri adversarii, da quella dell! giudici e dalla
causa. Lo sponitore. In questa parte insegna CICERONE acquistare
benivo- lenza, e perciò ch'ella non si puote avere se non per
quello che ss' apartiene alle persone et al fatto, sì dice che
quattro luogora sono dalle quali muove benivolenza. Il primo luogp
i: if-»» om. all'uditore a intendere — 2.M^As lexordio — 4: Af'
chela intenda et senta - 5: m dopo diremo r(pe(e in ([uesto modo — 6:m la
natura — om. Et — 7-8: 3f' apparecchiato
intendere, m-L appareccliiato a intendere — 12: m a mostrare — 15: M-m
In ipiosto luogo — om. tutto - 17: M-m 7 di qual causa, M' iu quale
causa, i e in quale causa — M-m luoghi, della nostra p. — 27-28: M' da
quello... alla persona (1) L' espressione certamente è ridondante
{in via sembra quasi una variante di apparecchiato), e perciò quasi tutti
i testi l' hanno ridotta alla forma pili sem- plice e comune. Il segno 7
di M' deriva da una errata lettura di a, che anche in quel codice ha una
forma simile alla nota tironiana. si è la nostra persona e di
coloro per cui noi dicemo. Il secondo luogo si è la persona de' nostri
adversarii e di coloro contra cui noi dicemo. Il terzo luogo si è la
persona de' giudici, cioè la persona (l) di coloro davanti da cui
noi 5. dicemo. Il quarto luogo si è la causa e '1 fatto e '1 conve-
nente sopra '1 quale noi dicemo. E di ciascuno di questi dicerà il conto
ordinatamente e sofficientemente. Tallio sopra lo lìvolago.
Dalla nostra persona se noi dicemo sanza superbia de' 10. nostri fatti e
de' nostri officii; e se noi ne leviamo le colpe che nne sono apposte e
le disoneste sospeccioni; e se noi contiamo i mali che nne sono advenuti
et li 'ncrescimenti che nne sono pre- senti; e se noi usiamo preghiera o
scongiuramento umile et inclino. Sponitore. 1.
Conquistare benivolenza dalla nostra persona si è dicere della
persona nostra, o di coloro per cui noi dicemo, quelle pertenenze perle
quali l' uditore sia benivolo verso noi. Et sappie che certe cose s'
apartengono alle persone e certe alla causa; e di queste pertinenze
tratterà il conto 20. sofficientemente, e fie molto bella et utile
materia ad impren- dere. Et qui pone Tullio quattro modi d'acquistare
benivo- lenza dalla nostra persona. 2. Il i)rimo modo si è se noi
di- cemo sanza soperbia, dolcemente e cortesemente, de' no- stri
fatti e de' nostri officii. Et intendi (2) che dice « fatti » 25
quelli che noi facemo non per distretta di leggo o per forza, ma per
movimento di natura. Et così dicendo Dido 1 : m Olii, si —
2: M-m om. luogo — m ohi. si — 5 : m om. si — J : M-in om. la jiersoiia — Afiia
coloro — m davanti a chui, il/' davanti cui — 5: M^ il facto — m om. ól
convonento — 6-7 : M' om. di questi — dioera lautore — m om. e
soBìcientemento — 9-10: M-m Alla nostra p. — di nostri faoti — Ai' lo
nostre colpo — 12: il/' che sono presenti —
M' i scongiura- mento — 16: M^ dola nostra persona 7 di coloro —
17: m aparlenentle — 20: m om. suflicientementc — M-mom. materia — 22: m
om. moiio — 2-i:M-m intende, L intendo — 25: m diciamo per distretta —
26: M-m dicendo didio (1) Le parole la persona sono superflue, e
perciò a prima vista si preferirebbe la lozione di M-m; ma è molto più
probabile l'omissione di parole inutili che la loro aggiunta in
Af'. (2) Scrivo cosi per analogia col § 4; ma anche la lezione di
Mm, intende, potrebbe conservarsi come una forma di 2" persona dell'
imperativo (per la desi- nenza e non mancano esempii). d' Eneas
acquistò la benivolenza degli uditori: « Io » dice ella, « accolsi e
ricevetti in sicura magione colui eh' era cacciato iu periglio di mare,
et quasi anzi eh' io udisse il nome suo li diedi il mio reame ». Et cosi
dice che ella 5. si mosse a pietade sopra Eneas quando elli fugia
dalla distruzione di Troia. 3. Et al ver dire noi avemo merzè e
pietade delle strane genti per natura, non per distretta. Ma offici sono
quelle cose le quali noi facemo per distretta, non per movimento di
natura. Onde dice Tullio che dell'uno 10. e dell'altro dovemo dire
temperatamente sanza superbia. 4. Il secondo modo si è se noi ne leviamo
da dosso a noi et a' nostri le colpe e le disoneste sospeccioni che cci
sono messe et apposte sopra; et intendi che colpe sono appellati
que' peccati che sono apposti altrui apertamente davanti al viso, sì come
fue apposto a Boezio eh' elli avea composte lettere del tradimento dello
'mperadore. Il quale pec- cato removeo elli per una pertenenza di sua
persona, cioè per sapienza, dicendo cosi. Delle lettere composte
falsamente che convien dire ? la froda delle quali sarebbe mani-
20. festamente paruta se noi fossimo essuti alla confessione dell'
accusatore ». 5. Le disoneste sospeccioni sono le colpe eh' altre pensa
in centra ad un altro, ma nolle pone davante al viso, sì come molti
pensavano che Boezio adorasse i do- moni per desiderio d'avere le
dignitadi; e questa sospeccione 25. si levò elli parlando alla
Filosofìa, che disse: « Mentirò che pensaro ch'io sozzasse la mia
coscienza per sacrilegio (o per parlamento de' mali spiriti). Ma tu,
filosofìa, commessa in me cacciavi del mio animo ogne desiderio delle
mortali cose ».• Et così parve che volesse dire: « Poi che in me avea
sapien- 30. zìa, non era da credere che in me fosse così laido
fallimento ». Tutto altressì Elena, voglìendosi levare la sospeccione
che '1 suo marito avea dì lei, disse: «Elli che ssi fida in me
della vita, dubita per la mia biltade; ma cui assicura pro- dezza non
dovrebbe impaurire l'altrui bellezza ». 6. Il terzo 1 : M'
deluditore — 2: S m sicuro porto — 4: M' il suo nomo — Mìi dica — m il
roame mio — 5: A/' dela — 7: m M' 7 non — 0: m L ^ non por m. — 13-14: m
ci sono aposto (om. sopra) — M' appellate.... apjioste — 16: M \e lectoro
— 17: M' elgli rimovca — ciò fu — 18: M' falsamente composte — 20-21 :
M-m jiartita ....stati.... dellaccusato — 22: m centra un altro — ^f'
appone — 25: m parlando olii — 25-27: M-m Mentita chi solcasse — om. per
sacrilegio.... spiriti — 28: cacciavi (il latino ha pellebas) è solo in
L; M-m chaccia, Jf' cacciava con un i aggiunto tra v e a, s caccia via —
29: M-m paro — 31 : m schusare 7 levare — 33: m della biltade mia
modo è se noi contiamo i mali elie sono advenuti e li 'ncre-
scimenti che sono presenti. Così Boezio, contando ciò ch'ave- nuto era,
acquistò la benivolenza dell'uditore dicendo: « Per guidardone della
verace vertude sofferò pene di falso incol- 5. pamento ». Et Dido,
dicendo i suoi mali dopo il dipartimento d'Eneas, acquistò la benivolenza
per la sua misa ventura, e disse : « Io sono cacciata et abandono il mio
paese e Ila casa del mio marito e vo fuggendo i)er gravosi cammini in
caccia de' nemici». Altressì Julio Cesare, vedendosi in perillio di
10. guerra, contò i mali c'a llui poteano advenire, per confortare
i suoi a battaglia, e disse: «Ponete mente alle pene di Ce- sare,
guardate le catene e pensate che questa testa è presta a' ferri e' membri
a spezzamento». Altro modo è se noi usiamo preghiera o scongiuramento
umile et inclino, 15. cioè devotamente e con reverenza chiamare
merzede con grande umilitade. Et intendi che preghiera è appellata
sanza congiuramento. Verbigrazia : Pompeio, vegiendosi alla pugna della
mortai guerra di Cesare, confortando i suoi di battaglia disse: «Io vi
priego de' miei ultimi fatti 20. e delli anni della mia fine,
perchè non mi convenga essere servo in vecchiezza, il quale sono usato di
segnoreggiare in giovane etade » (0. Et queste pi'eghiere talfiata
sono aperte, sì come quelle di Pompeio, talfiata sono ascose, sì
come quelle di Dido in queste parole ch'ella mandò ad 25. Eneas:
«Io » disse ella « non dico queste parole perch'io ti creda potere
muovere; ma poi ch'io ao perduto il buon 4 : M-m fossero
peno — 5 : M-m Et dicio dicondo — 6-7: m dicendo — M-m chaccialo — 8: M
el mio marito, m om. - 9: M Tullio Cosarn, m Tulio corr. in .Tulio — 12-13 : itf'
epresso — li membri — M 7 membri, m 7 i membri — La sprezzamento — 14:
M-m 7 scongiura- mento — Mi panclino, m e parlino, M'-L o incliino - 13:
m om. cioè — chiamando — 19: m abattagla — 20: M delli anni ilelli amici
lino, m delli anni /siche — 21: M servo in vilezza la (piale, m servo 7
in vilczza il quale — 22-23: M-m om. sono aperte, m anlhe il 2° talfiata
— 24: M di diedi — 26: M' o perduto, m chio perduto (l) Il testo di
Lucano (Fars., VII, 380), da cui è tradotto questo esempio, ha ultima
fata deprecar, tutti i codici della Eettorica portano ultimi fatti. Non
credo che si possa pensare a uno sbaglio dei copisti, perchè un latinismo
come fati (che del resto qui non sarebbe traduzione esatta) manca di ogni
probabilità in quel tempo; sarà dunque da risalire a un'alterazione
facilissima del latino, ultima facta, che certo riusciva più
intelligibile della frase poetica originale. Quanto al servo in
vecchiezza (che corrisponde a ne discam servire senex), se po- tesse
supporsi una forma vegliezza {eelUczza) si spiegherebbe meglio come sia nato
l'erroneo vilezza; ma è chiaro che la parola servo risvegliò l'idea di
«condizione vile, meschina». pregio e la castitade del corpo
e dell' animo, non è gran cosa a perdere le parole e le cose vili ». 8.
Ma scongiura- mento è quando noi preghiamo alcuna persona per Dio o
per anima o per avere o per parenti o per altro modo di 5. scongiurare,
sì come DIDONE fece ad Eneas: Io ti priego, dice ella, per tuo padre, per le
lance e per le saette de' tuoi fratelli e per li compagnoni che teco
fuggirò, per li dei o per l'altezza di Troia, etc. Or à detto il conto del primo luogo
donde muove la BENEVOLENZA, cioè 10. della nostra persona e di coloro che
sono a noi ; ornai dirà il secondo luogo, cioè della persona delli
adversarii e di coloro contra cui noi dicemo. Dalla persona delli
aversarìi se no! li mettemo inn odio 15. invidia o in dispetto.
Lo sponitore. 1. Acquistai'e benivolenza dalla persona de'
nostri ad- versarii si è dire delle loro persone quelle pertenenze per
le quali l' uditore sia a noi benivolo et contra 1' aversario 20.
malivolo; et a cciò fare pone Tulio tre modi: Il primo modo è dicere le
pertenenze delle loro persone per le quali siano inn odio dell'uditori;
il secondo che siano in loro invidia; il terzo che siano in loro
dispetto; e di cia- scuno di questi tre modi dirà il testo bene et
interamente. 25. Tullio. 97. Inn odio saranno messi
dicendo com' ellino anno fatta alcuna cosa isnaturatamente o
superbiamente o crudelmente o ma- liziosamente. M om. a — 711 lo chose
vili 7 le i»arole — 4: M' o per parenti por avere — m oin. rli
scongiurare — 6-7 : M' per lo tuo padre 7 per le 1. 7 [jor le s. de tuoi f.,
per li compagniper saette di tuoi I"., m per le saette de tuoi parianti 7
per li compagni - 8-0 : M' om. etc. — Et ora a detto il maestro — om. la
— Ì0:m dalla nostra parte — YS: 3i' odindispregio — 19: M-m om. a noi M'
deluditore.... in invidia. Et il ter^^o che sia — m loro in invidia....
loro in dispetto — 26-27: M' comelgli anno alcuna cosa facta — vi 0»». isnatur.
e o maliziosamente Noi potemo i nostri adversarii mettere
ina odio del- l' uditore se noi dicemo eh' elli anno alcuna cosa fatta
isna- turalmeute, contra l'ordine di natura, si come mangiare 5.
.calane umana et altre simili cose delle quali lo sponitore si tace
presentemente. O se noi dicemo eh' elli abian fatto superbiamente, cioè
non temendo né curando de' signori né de' maggiori, avendoli per neente.
O se noi dicemo ch'elli abbiano fatto crudelmente, cioè non avendo pietà
né mise- 10. ricordia de' suoi minori né di persone povere, inferme
o mi- sere. se noi dicemo ch'elli abbiano fatto maliziosamente,
cioè cosa falsa e rea, disleale, disusata e contra buono uso. 2. Et di
tutto questo avemo exemplo nelle parole che BOEZIO dice contra NERONE imperadore.
Ben sapemo quante ruine fece ARDENDO ROMA, tagliando i parenti et
uccidendo il fratello e sparando la madre. Altressì fue malizioso
fatto il qual racconta Euripide di Medea, che sta scapigliata tra'
monimenti e ricogliea ossa di morti. 3. Omai à detto lo sponitore sopra
'1 testo di Tullio come noi potemo met- 20. tere il nostro
adversario in odio et in malavoglienza del- l' uditore. Da quinci innanzi
dicerà come noi li potemo mettere in loro invidia.
Tullio. In invidia dicendo la loro forza, la potenza, le
ricchezze, 2.5. il parentado e le pecunie, e la loro fiera maniera da non
sofferire, e come più si confidano in queste cose che nella loro
causa. Sponitore. 1. Noi potemo conducere i nostri
adversarii in invidia et in disdegno dell' uditore se noi contiamo la
foi'za del 3-4: M' chaWi ahh'ia. {poi aggiunto no dalla
stessa maria) — isnaluratamente contra online M' tace ora presentemente — m al
])rosonte — M-m 7 se noi dicemo che labian — 7-8: M tenendo M^ 7 non
venerando de sig,... 7 avendoli, m curando.... do maggiori — M-m 3/' che-
labbiano — 9-10: m misericordia.... di persone M' 7 misero — M-m Et se
dicemo cliollabbiano — 12: Af' cosa rea falsa et disleale 7 disusata
contra b. u., m om. cosa — o disleale 7 contro a b. u. — 13: M' exemplo
avemo — lo : M' uccidendo i parenti, talgllaiido il fratello — M-m i
fratelli — 17 : S Euripide — M-m di medici — IS: M corresse moni- menti
in moUimenti — 20: m om. in odio et - Af' in malavoglienca — 21-22: M Da ipii
- 3f' diceremo.... li potremo mettere loro in invidia — 24 : M-m om. In
—26: M' si lidano — 28-29: Af' i nostri avorsari conducere
....degliuditori Cfr. Magoini, La ReUorica italiana di B. L., pp.
Bl-52. corpo e dell' animo loro ad arme e senza arme, et la
po- tenza, cioè le dignitadi e le signorie, e le ricchezze, cioè
servi, ancille e posessioni, e '1 parentado, cioè schiatta, lignaggio e
parenti e seguito di genti, e le pecunie, cioè 5. denari, auro et
argento, in cotal modo che noi diremo come ' nostri adversarii usano
queste cose malamente et increscevolemente con male e con superbia, tanto
che sof- ferire non si puote. 2. Cosi disse Salustio a' Romani : «
Ben dico che Catenina è estratto d'alto lignaggio et à grande
IO. forza di cuore e di corpo, ma tutto suo podere usa in tra-
dimenti e distruzioni di terre e di genti ». Così disse Ca- tenina centra
' Romani : « Appo loro sono li onori e le potenzie, ma a nnoi anno
lasciati i pericoli e le povertadi >. 3. Et ora è detto della invidia
contra i nostri adversarii; sì dicerà il conto come noi li potemo mettere
in dispetto. Tullio. In dispetto degli uditori saranno messi
dicendo che siano sanza arte, neghettosì, lenti, e clie studiano in cose
disusate e sono oziosi in iuxuria. 20. Sponitore.
I. Noi potemo mettere i nostri adversarii in dispetto degli
uditori, cioè farli tenei'e a vile et a neente, se noi diremo che sono
uomini nescii sanza arte e sanza senno, da neuno uopo e da neuna cosa; o
che sono neghettosì, 25. che tuttora si stanno e dormono e non sì
muovono se non come per sonno; o diremo che sono lenti e tardi a
tutte cose; o diremo che studiano in cose che non sono da neuno uso
né d'alcuna utilitade; o diremo che sono oziosi in Iu- xuria dando forza
et opera in troppo mangiare, in nebriare, 30. in meretrici, in
giuoco et in taverne. 2. Et ora à detto il 2-5: Af' om. e le
signorie, poi continua: E le pecunie, ciò sono i danari e seni 7 an-
celle 7 possessioni. ¥A parentado... di genti, in cotal modo ecc. — 6: M' come
i nostri aversarii — 11 : M^ in tradimento 7 distructione de terra 7
<le gente, m in tradimenti distructioni — 12: M-in a Romani — 13 : m
lasciato — 14: M iì detta — L'i : M' o»i noi — in dispregio (l. 17 idem)
17: M' om. degli uditori — 18: M disulate — 19: M octosi, m ottosi — 22:
M' om. degli uditori — 23: 3f' siano, m sieno — M' sanza sonno? sanza arte di
neuno huopo - 24: m om. da neuno uopo e — 25 : m si stanno, dormono - 26:
M' per sonno/ 7 diceremo, L per sogno — 27-28 : m alclumo uso — M ' 7
dicoremo — 29-30: M' de troppo mangiare .T ebriare. in puttane — m 7 in
bere — M in cliaverne M' a decto luditore come — )?t om. Et
- 126 — conto come noi potemo acqnistare la benivolienza
dell'udi- tore dalla persona de' nostri adversarii mettendoli inn
odio et in invidia et in dispetto, et à insegnato come si puote ciò
fare. Ornai tornerà alla materia per dire come s' acqui- 5. sta
benivolenzia dalla persona dell' uditore, e questo è il terzo
luogo. La benivolenza dell'uditore. lOO. Dalla persona
dell'uditori s'acquista benivolenza dicendo che tutte cose sono usati di
fare fortemente e saviamente e man- 10. suetamente, e dicendo quanto sia
di coloro onesta credenza e quanto sia attesa la sentenza e l'autoritade
loro. Lo sponitore, (i) ' 1. Noi potemo acquistare la
benivolenza delli uditori dicendo le buone pertenenze delle loro persone
e lodando 15. le loro opere per fortezza e per franchezza e per
prodezza, per senno e per mansuetudine, cioè per misurata
umilitade, é dicendo come la gente crede di loro tutto bene et one-
stade, e come la gente aspetta la loro sentenza sopra que- sto fatto,
credendo fermamente che fie si giusta e di tanta 20. autoritade che
in perpetuo si debbia così oservare nei si- mili convenenti. Di forte
fatto Tulio lodò Cesare dicendo: « Tu ài domate le genti barbare e vinte
molte terre e sot- toposti ricchi paesi per tua fortezza». 3. Di senno il
lodò e' medesimo parlando di Marco Marcello: «Tu nell'ira,
25. la quale è molto nemica di consellio, ti ritenesti a consel-
lio ». Di mansueto fatto il lodò Tulio dicendo: « Tu nella vittoria, la
quale naturalmente adduce superbia, ritenesti mansuetudine ». 5. D'
onesta credenza il lodò Tallio in 2-3: M' in odio
deluditore, M innodio 7 invidia, m in odio, in invidia — M-m om. si — 8:
Jf' m delludilore {ma il testo auditorum) ~ 9: M' sono usi — M-m 7
suavomento {m nm. 7) 10 : i mss., ambedue le volte, quando — M' di loro —
li: M-m intesa — 13: M-m om. delli uditori — M^ deluditore — 14: M'
dicendo che buone M-m om. e per
fran- chezza — M' 7 per senno — 17: m M' om. e — 19: Jtf' credendo che la
loro sententia sia si giusta — m che sia — SO: M-m ne in simili, M'-L ne
simili — 23-84: m e lodo, M' il lodano 7 medesimo parlano — m marche
metcllo M-m om. molto — Af tu ritenesti a consellio, m tu ritenesti
consiglio — 26: M ilio Tullio tu ecc., m di mansueto fatto /7 nella
vittoria — 27 : M adato, m adato, L odduce — 28: m om. credenza il lodò
Tullio (1) In tutti 1 codici l'interpunzione di questo passo è
variamente errata, né metterebbe conto darne notizia. questo
modo: Cesare volle alcuna fiata male a Tullio, ma tutta volta lo ritenne
in sua corte; e non pertanto Tullio CICERONE era sì turbato in sé medesimo
che non potea intendere a rettorica si come solea, insin a tanto che GIULIO
CESARE non li 5. rendeo sua grazia. Et in ciò disse Tullio. Tu ài
renduto a me et alla mia primiera vita l’usanza che tolta m' era,
ma in tutto ciò m'avevi lasciata alcuna insegna per bene sperare »; e
questo dicea perchè l'avea ritenuto in corte, sicché tuttora avea buona
credenza. 6. D' attendere la sua 10. buona sentenza lodò Tullio
Cesare parlando di Marco Mar- cello: «La sentenza eh' é ora attesa da te
sopra questo con- venente non tocca pure ad una cosa, ma à ad convenire
(D a tutte le somiglianti, perciò che quello che voi giudicarete di
lui atterranno tutti li altri per loro ». 7. Or é detto come 15.
s'acquista benivolenzia dalle persone delli uditori; sì dirà Tullio coni'
ella s'acquista dalle cose. La benivolenza delle cose. Da
esse cose se noi per lode innalzeremo la nostra causa, per dispetto
abasseretno quella delii adversarii. 20. Sponitore. 1.
Noi potemo avere la benivolenza dell'uditori da esse cose, cioè da quelle
sopra le quali sono le dicerie, dicendo le pertenenze di quelle cose in
loda della nostra parte et in dispetto et in abassamento dell' altra; sì
come disse 25. Pompeio confortando la sua gente alla guerra di Cesare
: « La nostra causa piena di diritto e di giustizia, perciò eh'
ella è migliore che quella de' nemici, ne dà ferma spe- 4 :
M' om. non — 6: M-m la causa dm t. — i a me la mia primiera vila e liisanza
— 7: tutti, eccetto L, m'avea — M-m la sua insegna — 8 : M' 7 in questo
(?«re i et ((uesto) — 9: M' buona speranna — 10: M-m lodo Cesare di
Tullio - IS: M-m ma ad {m a) con- venire, M-L ma dee convenire - 14: Mt
per lui — i5: 3f' dele persone — i8:M-mom. so — L sar|uista bonivoglienza
se noi ecc. (ma nel latino manca) —19: M' m 7 per disp. — 21 : M'
deluditofo, m delli uditori — 24 : m nm. in dispetto — M-m om. idi — 25: M
confer- mando la sua gente — 26: m M'-L e piena — Lo pero chella — 27 : m
forma speranza (1) Aggiungo un' a, che nella scrittura del
codice può considerarsi fusa (come avviene nella pronunzia) con quella
precedente di ma con quella seguente di ad. Bel resto basterebbe anche «
convenire, quasi come un futuro (« converrà ») scomposto nei suoi
elementi. - 128 — ranza d'avere Dio in nostro
adiuto(i)». 2, Et ornai à divisato il conto le quattro luogora delle
quali si coglie et acquista la benivoglienza, molto apertamente et a
compimento; sì ritornerà a dire come noi potemo fare l'uditore
intento. Di fare V uditore intento. 102. Intenti li faremo
dimostrando che in ciò che noi diremo siano cose grandi o nuove o non
credevoli, o che quelle cose toc- cano a tutti a coloro che 11' odono o
ad alquanti uomini illustri, ai dei immortali, a grandissimo stato del
comune, o se noi prof- 10. terremo di contare brevemente la nostra causa,
o se noi propor- remo la giudicazione, o le giudicazioni se sono
piusori. Avendo Tullio dato intero insegnamento d'acquistare la
benivolenza di quelle persone davante cui noi 15. proponemo le
nostre parole, sì che l' animo s' adirizzi et invìi in piacere di noi e
della nostra causa e che siano contrarii e malevoglienti a'nostri
adversarìi, sì vuole Tullio medesimo in questa parte del suo testo
insegnare come noi I)otemo del nostro exordio, cioè nel prologo e nel
cominciamento del nostro dire, fare intenti coloro che noi odono, sì che
vogliano achetare i loro animi e stare a udire la nostra diceria; e di
questo potemo noi fare in molti modi de' quali sono specificati nel testo
dinanti, et in altri simili casi. 2. Et posso ben dire manifestamente che
ciascuna per- 25. sona sarà intenta e starà ad intendere se io nel
mio comin- 1: m nm. Et — 3 : 3f' nm. la — hi odi. molto — 4: m alento —
8-9: A/' o aliquanlì.... o ali iilii imm. o a — M |)iQrRremo, vi
protreremo {lat. pollicebimur) — iO: M-m owi. bre- vemente — VI
proiroromo la giuil. — i3 •M-m Quamlo Tullio a dato — 14: — J/tlavento —
— 7/1 (lavante a cimi — 13-16: 3/' loro siiivii 7 dlrirvi — 17: vi malagevoli —
19: M' nel nostro exorilio — vi nm. nel coniiiiciamento — 21 : 3f' si che
noi vogliamo — 32-23: 3f ' Et questo.... i (jua'.i.... davanti — vi om.
el — 25: M-m sono noi mio com. (1) Cfr. Lucano, Phars., VII, 349:
" Causa iubet melior superos sperare secun- dos „. Solo la lezione
di M corrisponde anche per la forma sintattica. (2) Si rimano
alquanto in dubbio sulla lezione da preferire, perchè tra un Avendo e un
Quando la differenza grafica ò lieve, data la somiglianza di una forma di
A con Q. Ma il gerundio Avendo, con una costruzione meno comune, più
difficilmente può esser dovuto a un copista; d'altra parte il quando in
senso di " dopo che „ non è dell'uso di Brunetto, clie adopra
continuamente la formula " Poi che Tullio ha detto „ "ha insegnato
,, (S'intende clie l'inserzione di a davanti a dato diveniva necessaria
leggendo Quando). -ciamento dico eli' io voglia trattare di cose grandi e
d'alta materia, sì come fece il buono autore recitando la storia
d'Alexandro, che disse nel suo cominciamento : « Io diviserò e conterò
così alto convenente come di colui che conquistò ó. il mondo tutto
e miselo in sua signoria ». 3. Altressì fie inteso s' io dico eh' io
voglia trattare di cose nuove e con- tare novelle e dire eh' è avenuto o
puote advenire per le novitadi che fatte sono, sì come disse Catellina :
« Poi che Ila forza del comune è divenuta alle mani della minuta
10. gente et in podere del populo grasso, noi nobili, noi (i)
potenti a cui si convengono li onori, siemo divenuti vile populo sanza
onore e sanza grazia e sanza autoritade ». 4. Altressì fie intento s' io
dico eh' io voglia trattare di cose non credevoli, sì come '1 santo che
disse : « Il mio 15. dire sarà della benedetta donna la quale
ingenerò e par- turio figliuolo essendo tuttavolta intera vergine
davanti e poi »; la quale è cosa non credevole, i^erciò che pare
es- sere centra natura. Et si come diceano i Greci: « Non era cosa
da credere che Paris avesse tanto folle ardimento che 20. venisse
'n essa terra (2) a rapire Elena ». 5. Altressì fie intento s'io dico che
'1 convenente sopra '1 quale dee essere il mio parlamento a tutti tocca
od a coloro che 11' odono, sì come disse Gate parlando della
congiurazione di Catellina: « Con- giurato anno i nobilissimi cittadini incendere
e distruggere 1 : M traclai-e cose, m cliio voglia di
trattare chosa grande — 2 : M actoro, m attor.j — 4-5: M' recontcro....
conquise.... 7 mise — 5-6: M' fia inlento sic dica.... 7 contrario no-
velle - 7: M' 7 puote — 9: M storca — m e venuta.... gente minuta — 10: m M'-L
non potenti — iy : J>f' noi a cui — 13: M Altre si — 14-15: M'-L
sicome disse il santo che disse - i II mio dotto — 16: M' partorie il
figluplo — M^ -j di. poi — M-m om. la quale.... natura — 19: M-m oni.
folle — m om. che venisse — SO: M nessa terra, m in essa terra, M'-L nela
nostra terra — M arape — 22: M' tocclia a tutti coloro -- 24: M' anno
nob. citt. dincendore (1) Nonostante l'accordo di tutti gli altri
codici, mi attengo a M, la cui lezione è confermata dal testo di
Sallustio: " omnes, strenui, boni, nobiles atque igno- biles „ ecc.
Brunetto non traduce esattamente, ma vuol mettere in rilievo la dignità
delle persone, e perciò ripete il noi; forse questa parola in qualcuno
dei primi apografi fu scritta no (no') e quindi scambiata colla
negazione: non potenti. Favoriva l'errore anche il tono insolito della
frase " noi nobili, noi potenti ,., mentre le parole " in
podere del populo grasso „ inducevano a considerare " non potenti „
i nobili. (•2) Intendo in essa terra (come scrive m), cioè "
nella patria stessa „ , in ipsa terra. Leggendo con 21f » nella nostra
terra si avrebbe lo stesso senso in forma più chiara; ma non saprei
allora spiegare la variante di M-m. È possibile che, omesso il nostra, un
nella sia stato letto nessa, che a prima vista non dà senso ? Invece
nulla di più facile del caso inverso, e.ssendo l's di forma allungata cosi
simile a l.— iso- la patria nostra, e '1 lor capitano ne sta sopra capo.
Adun- que dovete compensare clie voi dovete sentenziare de' cru-
delissimi cittadini che sono presi dentro nella cittade » Altressì fie intento
s' io dico clie Ila mia diceria tocca 5. ad alquanti uomini illustri,
cioè uomini di grande pregio e d'alta nominanza in traile genti sì
come disse Pompeio parlando della battaglia civile: « Sappiate che l'arme
de' ne- mici sono appostate per abbattere l'alto e glorioso sanato
». Altressì fie inteso s'io dico che Ile mie parole toccano a'dei,
10. si come fue detto di Catellina poi ch'elli ebbe conceputo di fare
cotanta iniquità: «Ma elli gridava ch'appena i dei di sopra potrebbero
ornai trarre il populo delle sue mani » (2). Altressì fie intento s' io
dico nel principio di dire la mia causa brevemente et in poche parole, sì
come disse il poeta 15. per contare la storia di Troia: «Io dirò la
somma, come Elena fue rapita per solo inganno e come Troia per solo
inganno fue presa et abattuta ». 9. Altressì fie intento s'io nel mio
exordio propongo la giudicazione una o più, cioè quella sopra che io
voglio fondare il mio dire e fermerò 20. la mia provanza, sì come
fece Orestes dicendo: « Io pro- verò che giustamente uccisi la mia madre,
imperciò che dio Apollo il mi à comandato, perciò che uccise il mio
padre». IO. Et di tutti modi per fare l'uditore intento potemo noi
coUiere exempli in queste parole che disse Tullio a Cesare parlando per
Marco Marcello: « Tanta 1 : M-m 7 lor — M' ne sopra capo —
2-3 : m dovete pensare, Mi pensale — M-m esmarn {m esimare) de
nobilissimi citi. — M' ohe sono dentro ala cittade (anche m dentro alla) M fue,
m (la — 5-6: M' cioè de gr. — M-m 7 da tale nominanca — 7 : M-m che
latine —M-m sano, M' senato M' fia intonto O-ll: M-m poi chelll anno
conceputo di faie tanti iniipii mali gridava (m om. gridava) M apena ornai —3f'
nel cominciamento — 14: Jf' o in jioclie parole M' om. Io dirò.... e come
Troia, M om. Troia [spazio bianco) m diclio 7 propongo nel mio exordio Mi sopra
che infomliiro il mio dire e fondata — m sopralla quale —M-m che io
ajmllo il mio comandato, 3f' chol dio Appello lo ma com. (/.. lo mavea), 7
perciò cliella m atento M' exemiilo M-m om. a — M' parlando a lui Questo
periodo è d'incerta lezione, male varianti registrate in nota sono palesi
accomodamenti, specialmente il pensate di Jtf ' per evitare la
ripetizione di dovete; co.si esmare esimare può esser nato da una sigla
di sentenziare (0 si tratterà di fmare, fermare?). Glie sia poi da
leggere crudelissimi cittadini ò con- fermato, oltre che dal senso, dalla
parola hostibiis che vi corrisponde i\el tosto di Sallustio ; nobilissimi
ò derivato dalla frase del periodo precedente. La lezione di M., che è tutta
accettabile, dà ragione degli errori di Mm: il primo elli parve plurale,
e quindi si fece elli anno; il ma unito con Mi divenne mali e portò con
sé altri cambiamenti. Ma non giurerei che tutto sia genuino"
mansuetudine e cosi inaudita e non usata pietade e cosi incredebile e
quasi divina sapienzia in nessuno modo mi posso io(l) tacere nò sofferire
ch'io non dica». Et poi che Tullio à pienamente insegnato come per le
nostre parole 5. noi potemo fare intento l'uditore, si dirà come noi il
po- terne fare docile. Come l'uditore sia docile.
Docili faremo li uditori se noi proporremo apertamente e brevemente
la somma della causa, cioè in che sia la contraversia. E certo quando tu
il vuoti fare docile conviene che tu insieme lo facci attento, in
però che quelli è di grande guisa docile il quale è
intentissimamente apparecchiato d'udire. Quelle persone davanti cui io
debbo parlare posso io fare docili, cioè intenditori, da tal fatto: se io
nel mio exordio, alla 'ncviminciata della mia aringhiera, tocco un poco
d^l fatto sopra '1 quale io dicerò, cioè brevemente et aper- tamente
dicendo la somma della causa, cioè quel punto nel quale è la forza della
contenzione e della controversia. Cosi fece Saiustio docile Tulio
dicendo: « Con ciò sia cosa ch'io in te non truovi modo né misura,
brevemente risponderò, che se tu ài presa alcuna volontade in mal dire,
che tu la perda in mal udire ». 2. Questo et altri molti exempli potrei
io mettere per fare l'uditore docile, si come buono intenditore puote
vedere e sapere in ciò eh' è detto davanti. Et perciò che '1 conto à
trattato inn adietro di due maniere exordii, cioè di principio e
d'insinuazione, et àe divisato M consuetudine, m sollicituiline, L
inmansuetudine —L nm. lo e cosi. M man- dila. M-m mi possono, M-L io
posso — m om. Et. M' luditore intento, M nm. l'uditore. 8: M' Docile
l'aremo luditore M-m proi)onemo — iO:
Af' Et credo quando tu vuoli. m nm. è attentissimamente. m davanti a chui
docile cioè intenditori de tutto
il facto M-m sarò nel mio ex. M'
incomincianza. M arrincliiera, M' aringheria — m cominciamo 7 toccho Af' om.
dicendo nel quale e la contentione. M' om. cosa (ma non L). m o misura. M'
ti li- spondo M' om. Io. m om. e sapere. M' doxordio [È chiaro che
posso io fu dall'archetipo di M-m trasformato in possono perchè tutti i
sostantivi che precedono parvero soggetti e non complementi og- getti ; e
vi dovè contribuire una falsa lettura (cfr. un caso simile in 128, 23,
seno per se io). La lezione di M'-L è solo un facile accomodamento.
ciò che ssi conviene fare e dire nel principio per fare l'uditore
benivolo, docile et intento, sì dirà lo 'nsegnamento della INSINUAZIONE in
questo modo. Oramai pare che sia a dire come si conviene trattare
le insinuazioni. INSINUAZIONE è da usare quando la qualitade della causa
è mirabile, cioè, sì come detto avemo inn adietro, quando l'animo
dell'uditore è contrario a noi. E questo adiviene massimamente per tre cagioni:
o che nella causa è alcuna ladiezza, o coloro 10. e' anno detto davanti
pare ch'abbiano alcuna cosa fatta credere al- l'uditore, se in quel tempo
si dà luogo alle parole, perciò che quelli cui conviene udire sono già
udendo fatigati; acciò che di questa una cosa, non meno che per le due
primiere, sovente s'of- fende l'animo dell'uditore. In adietro è
detto sofficientemente come noi potemo acquistare la benivolenza
dell" uditore e farlo docile et in- tento in quella maniera de
exordio la quale è appellata principio. Oramai è convenevole d' insegnare
queste mede- 20. sime cose nell'autra maniera de exordio la quale è
appellata « insinuatio ». 2. Et ben è detto qua indietro che « insinuatio
» è uno modo di dicere parole coverte e infinte in luogo di
prologo. Et perciò dice Tullio che questo tal prologo in- daurato dovemo
noi usare quando la nostra causa è laida 25. e disonesta inn alcuna
guisa, la qual causa è appellata mi- rabile, sì come pare in adietro là
dove fue detto che sono cinque qualità U) di cause, cioè onesta,
mirabile, vile, du- biosa et oscura. 3. E buonamente nelle quattro ne
potemo noi passare per principio; ma in questa una, cioè mirabile,
1 : M cioè — M' om. fare e — S : M-m om. s\ — 6: 3f ' della
ìnsinualiono — 7: m ohi. s'i — 8 • M-m 7 di questo diviene — iS: L Kt di
questa — Iti: M-m a detto — 20: W nella maniera — 2i : m Bono dotto — S3:
M-m cai prologo (m prolago danrato), 3/' cotale prolagoS6: M-m nm. in
adiotro M modi ([ualità (hi qui è corroso, vin lo spazio fa supporre lo
slesso), M'-L qualitadi dolio cause M'
cioè nollamirabile Conservo la parola qualità attestata da ambedue
le tradizioni, tanto più Clio anche prima Brunetto usa lo stesso
vocabolo. In M abbiamo modi qualità. Probabilmente si tratta di una
sostituziono o variante, che venne poi introdotta nel testo (a mono clie
non si voglia supporre un modi o qualità). ne conviene usare INSINUAZIONE
[IMPLICATURA – “He hasn’t been to prison yet” – “He has beautiful handwriting”]
per sotrarre l’animo dell’uditore e tornare in piacere di lui ed in grazia quel
che pare essere in suo odio. Adunque ne conviene vedere in quanti e
quali casi la nostra causa puote essere mirabile, e poi vedere come noi
potemo contraparare a ciascuno. E sono tre casi. Primo caso si è quando
sie nella causa alcuna ladiezza per cagione di mala persona o di mala
cosa. Che al vero dire molto si turba l'animo dell'uditore contra il reo
uomo e per una malvagia cosa. Il secondo caso è quando il parlieri ch'à
detto davanti à sie et in tal guisa proposta la sua causa, eh' è INTRATA
NELL’ANIMO dell'uditore e pare già che Ha creda sì come cosa vera; per la
quale cosa r uditore, poi che comincia a credere alle parole che ir
una parte propone et extima che Ila sua causa sia vera, apena si puote
riducere a credere la causa dell'altra parte, anzi sine strana et allunga.
Il terzo caso è d'altra maniera che sovente aviene che quelle persone davanti
cui noi dovemo proporre la nostra causa e dire i nostri convenenti anno
lungamente udito e stati A INTENDERE ALTRI e' anno detto assai e molto, prima
di noi, DONDE L’ANIMO dell' uditore è fatigato sì che non vuole né agrada
lui d'intendere le nostre parole; e questa è una cagione che
offende l'animo dell'uditore non meno che 11' altre due Et perciò
conviene a buon parliere mettere rimedi di parole incontra ciascuno caso
contrario, secondo lo 'nsegnamento di Tulio. Della laidezza della
causa. Se la laidezza della causa mette l'offensione, conviene mettere
per colui da cui nasce l'offensione un altro uomo che sia amato, o per la
cosa nella quale s'offende un'altra cosa che sia provata, o per la cosa
uomo o per l'uomo cosa, sicché L'ANIMO dell'uditore si ritragga da quello che
'nnodia in quello ch'elli ama. Et infingerti di non difendere quello che
pensano che tu voglie difendere, e così, poi che l’uditore sie più
allenito, entrare in difendere a poco a poco e dicere che quelle cose, le quali
indegnano L’AVERSARII, a noi medesimi paiono non degne. Et poi che tu
avrai allenito colui che ode, dei dimostrare che quelle cose non
pertiene atte neente, e negare che tu non dirai alcuna cosa dell'
aversarii, ne questo ne quello, sì eh' apertamente tu non danneggi coloro
che sono amati, ma oscuramente facciendolo allunghi quanto puoi da
lloro la volontade dell'uditore; e proferere la sentenzia d'altri in
somiglianti cose, o altoritade che sia degna d'essere seguita; et apresso
dimostrare che presentemente si tratta simile cosa, o maggiore minore. In
questa parte dice Tullio CICERONE che, SE l’uditore è turbato contra noi per
cagione della causa nostra che sia o che paia laida per cagione di mala
persona o di mala cosa, ALLORA DOVEMO NOI USARE INSINUAZIONE NELLE NOSTRE
PAROLE in tal maniera che in luogo della persona contra cui pare CORUCCIATO
L’ANIMO dell'uditore noi dovemo recare un'altra persona amata e piacevole
all'uditore, sì che per cagione e per coverta della persona amata e buona
noi appaghiamo L’ANIMO dell'uditore e ritraiallo del coruccio ch'avea contra la
persona che lui semblava rea. Si come fece AIACE nella causa della
tendone che fue intra lui et ULISSE per l'arme eh' erano state d'Achille.
Et tutto fosse AIACE un valente uomo dell'arme, non era molto amato dalla gente
né tenuto di buona maniera. Ma ULISSE, per lo grande senno che in lui
regna, e molto amato. Onde AIACE, volendosi contraparare, nel suo dicere
ricorda com' elli era NATO DI TELAMONE, il quale altra fiata prese Troia al
tempo del forte ERCOLE. E così mette la persona avanti amata e
graziosa in luogo di sé ed in suo aiuto, per piacerne alla gente e
per avere buona causa. E quando la causa è laida per cagione di mala
cosa, si dovemo noi recare NEL NOSTRO PARLAMENTO un’altra cosa buona e
piacevole. Si come fa CATILLINA scusandosi della congiurazione che fa in ROMA,
che mise una giusta cosa per coprire quella rea, dicendo. Elli è stata mia
usanza di prendere ad atare li miseri nelle loro cause. Brunetto Latini. Latini.
Keywords: rettorica, le fonte della retorica di Latini: Cicerone e Publio Vegezio,
insinuazione, parlari, parlatore, controversia, auditore, animo dell’auditore,
modo, essempio di Roma antica, Giulio Cesare – rettorica oratoria togata –
sacrilegio o furto --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Latini” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Laurino: l’implicatura
conversazionale dei longobardi – filosofia italiana – Luigi Speranza (Laurino). Filosofo italiano. Duca di Aquara e di Laurino,
appartenente alla nobile famiglia napoletana degli Spinelli. Allievo di VICO,
si forma al Clementino a Roma e poi all'Accademia di Loreto. Ritornato a
Napoli, divenne amico di vari illuministi napoletani, quali FILANGIERI (si
veda) e Galiani. Autore di vari saggi di stampo illuministico. Le
“Riflessioni filosfiche” rappresenta un tentativo di metodo geometrico. Si
oppone alle teorie di Broggia. Fa attivamente parte della massoneria
napoletana, all'epoca diretta dal principe di Sansevero, Raimondo di
Sangro. Cavalerie del Real Ordine di San Gennaro. A Napoli, fa
ristrutturare il palazzo di famiglia, il palazzo Spinelli di Laurino,
trasformandolo in una suggestiva realizzazione. Muore a Napoli e venne sepolto
nella cappella di famiglia nella chiesa di Santa Caterina a Formiello. Altri
saggi: “Degl’affetti degl’uomini”, Napoli, Muzio; “Della moneta” (Napoli); “Cronologia
dei re di Napoli,” Napoli, Bisogni; “Del nobile”, Porsile; “Lettera nella quale
si dimostra non esser nota di falsità, che nel diploma di fondazione della
chiesa di Bagnara si ritrovi l'anno 1085 segnato coll'indizione sesta correndo
l'ottava del computo volgare; Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. -- ria che forma la materia del presente saggio: E metodo
col quale questa siè composto. I tutte le città e popoli dell'Italia ciascuno ha
la sua particular forma di governo prima che sussestato vinto da’ ROMANI. Ed anche
dopo ciò, molte delle città medesime, quantunque al popolo di ROMA veramente
ubbedissero. Pure così fatti nomi, e tale forma aveano di domestica polizia, che
libere in certo modo facevanle apparire. Ma essendo stata dalla legge giulia a
ciascuna di quelle LA ROMANA CITTADINANZA conceduta che non da tutte senza con
Trans 1 AN 1x IN line ill SAGGIO TAVOLA CRONOLOGICA compongono DI NAPOLI. Dalla
venuta de LONGOBARDI in Italia fino che quelle terre sono da NORMANNI della
Puglia conquistate. PROΟEMIO trasto è accettata, e la quale da Marco Aurelio ANTONINO
Antonino Caracalla è all'intiero orbe romano distesa, col vanto di esser parte
del capo, a Roma, ed a coloro, che la ressero, sono tutte senza alcuna
dubitazione, anche nell'aspetto, sottoposte. [tem Civitati ante ferret CICERONE
pro Bal CICERONE PRO BALBAM, Edit.Ve. bon. Edit.Venet. L. inorbeff. de Stat. hom.
L., Roma. Sigon. de Antiquo Jur. Ital. Ad bomnib. Rutil. Numan. itinerar. In quo
magna contention Heracliensium, Aloja Ins: DE’ PRINCIPI E PIÙ RAGUARDEVO LI
UFFICIALI, che anno signoreggiato, e retto le PROVINCIE, ch’ora: Ι Mich. Fiaschino
Inven. e C.I. REGNO DI, Strabon. Geograph. Edit. Parifienf. Parsin Civitatibus fæderisfui
liberta e Neapolitanorum fuit, cum magna I LL ]. Transferita però la sede del ROMANO IMPERATORE in Costantinopoli, varie BARBARE
NAZIONI con più fortuna di quello, che aveano fattosotto LA ROMANA REPUBLICA, invadero
l'Italia molte volte, e distrusfero. Radagasio Re de’ GOTI con MM armati,
cagiona danni gravissimi all'Italia. Ma in Toscana da Stilicone resta con tutto
il suo esercito vinto e sconfitto. Alarico ed Ataulfo re di que' medesimi BARBARI
che ove Alarico dimora circa II anni, ed ove muore, avidamente sacchegiarono. Attila
re degl’UNNI in così fatta maniera quella parte dell'Italia av'egliera entrato,
devasta, che IL FLAGELLO DI DIO è nominato. Genserico re de’ vandali chiamato
dall'Africa d’Eudossia moglie di Valentiniano III imperatore, per vendicarsi di
Massimo, che avea costui ucciso, e lei ignara in prima dell'infame
assassinamento, sposata, ed occupato d’Occidente l'Impero; viene in Italia, ne
scorre molte provincie, DEVASTA LA NOSTRA CAMPANIA e molte città di essa avendo
distrutte, in Cartagine carico di preda se ne ritorna. E finalmente Odoacre co’suoi
Eruli, e Turcilingi, INVADE TUTTA L’ITALIA e Re de Goti, che nella PANNONIA,
ove egli no dimora, aveano cominciato a tumultuare, gli concede l'Italia,
acciocchè ne avesse Odoacre discacciato. Ovvero, come altri vogliono, lo stesso
TEODORICO senza la concessione dell'imperadore
in vase quella provincia, ne discaccia Odoacre, che poscia uccise, e re se ne fa
nominare -- Histor, Miscell. est cod. Ambrosiin. in Philostorg, hist.
Ecclesiast. Ma Prosper. Aquitan. Chron.; Augut. De Civit. Dei, Marcellin. Chron.
In Sirmond. Philostorg. hist. Eccl. In Vauclid. Chron. Idatius in Chron.
Isidor. Chron. Goth. in rebo Got., Langobard. Jornand. de reb. Get. Agnel.
Pontific. Raven. in S. Joan . Evagr. Schol. hist., Valef Ital. Murat, Cassiod.
in Conf. Boet. Conf.] per essersi fermati poi nell'Occidente si dillero VESTRO-GOTI.
A modo di locuste Roma II volte, ed una gran parte delle nostre Provincie -- Histor.
Miscell. ex cod. Ambro. Olympiod. In Photii Biblioth. Jian, in Murat. Rer. Ital.,
Sigebert. Chrona Jornand. de reb.Goth. Histor. Miscell. ex cod. Ambros. Axon.Valesian.
Sigebert, Procop. De bella Gotb. -- Re, e circa anni pacificamente la possiede.
quista, se ne titola colle proprie forze da quella l'imperatore Zenone vedendo
di non poterlo Teodorico. Perchè discacciare, evolendosi render benevolo bella
parie del suo impero la con Regi non. -- Chron. Histor. Miscell. Paul, Disc, de
Gest. Langob. ex cod. Ambrosian., i Reginou. Chron. Socrat. hist. Ecclesiasi., Jornand.de
reb.Goth. de re- Anon. Cuspiniana Eusippiusin vita S. Severini. znor. success.
Anon Valesian. rer. Ital. Munic. Marcellin. Chron. in Sirmond. L. de Tironib.
C. Theodos. Z fimus Jornand. de reb. Goth. e Idat. Chron .in Du-chesn. de
regnur, success., Prosper. Aquitan. Chron. Procop.de belio Goth. Marcellin. Coron.
in Sirmonds. Casiodor. Chron. Edit. Spicil. Ravenn. histor.Ven., Isidor, Chron.
Goth. Aimon. de Gest. Francor. Sozomen. histor. Ecclesiast. Sigebert. Chron.in an.Vales.
la to Marii Aventic. Chron. in Duchesne, Evagr. Scholast. hist. Eccl. Histor. Miscell.
ex cod. Ambros. in Valef. Histor. Miscell. ex cod. Ambros. In rer. Sigebert. Chron.
Prosper. Aquit. Chron, in Du-Chefne Marii Aventicenf. Chron.in Du-Chesne, pa I
Anon. Cuspin. --. Ma dopo di avere e codesto principe, ed alcuni suoi
successori in tal regno per molti anni signoreggiato; circa l'anno della
salutifera divina incarnazione l'imperadore GIUSTINIANO delibera di toglierlo a
codėsti barbari, col pretesto, che Teodato re di essi non avea vendicata la
morte daia ad Amalasunta già loro Reina; perchè vi manda Belisario, che in
breve tempo occupa conquistato. n cosi fatia espedizione furono in ajuto de' Greci
i Longobardi nazione che nella Pannonia dimorava: i quali dopo , che fu l'Italia
pacificata , ivi, e d in casa degli Amici più difordini commettevano, che
contro gl'inimici farenon avrebbono potuto, perchè Narsete caricandoli di doni,
contenti nel loro paese oltre a ciòavea discacciato dall'Italia i francesi, che
sotto il lur Duca Bucelino tutta, o quasi tutta, presa, e devasiata l'aveano; perchè
egli era rimastoin nome dell'Iinperadore, Supremo Governadore di quella
Provincia , che avea all' Impero restituita: quando perque'nembi, che da'più
vili, e fecciəsiluoghi alzandosi nelle Corri, oscurano gli astri più luminosi ,
e più chiari , ad istanza de’ Romani fu datal Governo da Giustino che è succeduto
a Giustiniano Imperatore, rimosso: e dall'ingiuria unendo il disprezzo perchè egli
era Eu. le se vissuto, non avrebbe potuto distrigare. Ed alla minaccia segue
l'effetto, dappoichè ritiratosi in Napoli, stimola co’ [Melli Comorimurtom
Marcellini Chronic. Aimon, de Gest. Francor.
Joan. Diac. Chron. Jornand. de regnor. Success. Landul. Sagac. additam.
Ad Miscell. Procop. DE BELL. GOTH. De bell. Goth. Aimon. de Gestis Franccr. Agath.
de bell. Goth. Gregor. Mag. Dial. Excerpt. ex Agat. hist. Aiuion. De Gesti Francor.
Anast. Biblioth. Invita Joan. III. Paul.
Disco de Gest. Langobard.] eunuco l'imperatrice Sofia gli scrive che fosse andato
in Costantinopoli a dispensar la lana alle fanciulle; alla qual cosa si dice,
che Narfete sdegnato risposto avesse, che tal tela egli lo avrebbe ordita, ch’ella
mentre avesse vis i longobardi a
conquistare l'Italia copiosa di tutte le naturali ricchezze, la sterile
Pannonia abbandonando. Il quale in vito allegri que’ BARBARI sotto il loro re
Albuino vennero abbracciando in Italia. Nello spazio di VII anni la maggior
parte colla [ut citm puellis in Gynaceo. Gregor. Turon. histor. lanarum faceret
pensa dividere. Anast. Biblioth. in Benedict. I. Landul. Sagac. additam. ad
Miscellap. Aimon. de Gest. Francor.] delle armi ne conquistarono. Forza è fama
Ed indi sì inanzi estesero leloro, che Autariuno de loro Re fino conquiste, che
in Regio fusse pervenuto, e che avendo e dindi parte dell'Italia, éd iessa il rimanente
dall'Eunuco Narsete, che a Belisario succede, dopo xvini, anni di asprissima
guerra è interamente [Aimon. de Gest. Francorum] la Sicilia rimandolli. Avea
Narsete vinto i Goti , ed eziandio gl’unni [Histor. Miscell. Aimon . de Gest.
Francor. Isidor. Hispal. Marius Aventic. Aimon. de Gestis Franc. Procop. de bell.
Gotb. Paul. Diac. Paul. Diac. Gregor. Turon. hist. Histor. Miscell. Paul. Diac.
Joan. Diac. Chron. excerpt. Cron. per Fredeg. Scholaft. Landul. Sagac. additam.
ad Miscell. pa hist. Miscell. Aimon.de Gest. Franc. Paul. Diac. Sigebertus,
alii. Joan. Diaz. Chron.] ivi ivi tra le onde del mare una colonna ritrovato
l'avesse collasta per cossa, ed avesse detto, fin qui saranno de’ Longobardi i
confini. Delle terre occupate da Longobardi in Italia se ne forma un Regno il
quale poscia ha alcuni re francesi, e dopo essi altri di diverse nazioni. È
l'Italia in tempo de’ Re Longobardi in II Principati solamente divisa, in
quello dei longobardi, ed in quello de Greci. Ma passato il Regno a Carlo Magno,
surse in quella bella parte del mondo il principato di Benevento, da cui non
molti anni dopo nacque quello di Salerno, e finalmente quello di Capua. Nel
tempo de’ quali Principati per le guerre, che arsero fra di loro furono in
trodotti nelle nostre parti i saraceni, i quali non però, comeche molte terre
avessero conquistate, a varii capitani ubbedirono, almeno pressodi noi non mai
e uno stato formarono. Ed i medesimi Principati di Benevento e di Salerno e di
Capua durarono finchè sono da Normanni che nella Puglia sonsi stabiliti,
interamente conquistati. Imperochè alcuni pellegrini di codesta nazione
ritornando dopo da terra Santa ov'erano andati per la fede a guerreggiare, ajutarono
il Principe di Salerno da’ saraceni assediato; e rimandati da costui a casa con
grandissimi doni, allettarono a venire nelle nostre Parti i Paesani loro, i
quali discesivi, ed ora al soldo del uno de’ nostri Principi, ora a quello dell'altro
rimanendo, alla fine s’istabilirono nel luogo che diceasi in Octaba, e la Città
d'Aversa ivi edificarono. Uno di loro, chiamato Rainolfo per capo, conte, o sia
console stabilendovi. Impresero i Greci in quel tempo di liberare la Sicilia da
saraceni che la tenea no per quasi II secoli sottoposta, ed è capo dell'esercito
greco Maniaco, il quale chiama a’ suoi soldi una parte de Normanni, che sono in
Aversa fermati, e costorovi andarono. Mi dopo qualche tempo disgustati della
sua avarizia, abbandonandolo se ne ritornarono a casa. La qual cosa avendo
conosciuto un certo Auduino a’ Gieci ribelle, propose a Rainulfo di mandare una
parte della sua gente in Puglia a torla al Greco Imperatore, che vi
signoreggiava ed a cosi fattari chiesta Rainulfo acconsentendo, un buon numero de’
suoi capitani e i mandovvi, i quali avendo di repente occupata Melfi città di
quella provincia, ed indi altre terre; fissarono in Melfi la sede loro e
diedero principi o ad un altro Principato, che continuoffi sotto i figliuoli di
Tancredi, Conte d’Altavilla, Gentil-uomo anche egli Normanno -- i quali in varii
tempi nelle no il suo Principato. Ma I Normanni, ch'eransi stabiliti in Melfiforto
i Figliuoli di Tancredi, di ben altre conquiste saziarono la loro ambizione.
Conquistarono tutte le terre, che i Greci aveano in quele nostre Parti. Tolsero
a’Saraceni la Sicilia ed a’ longobardi il Principato di Benevento e di Salerno,
e fino a'lo ro medesimi nazionali il Principato di Capua, siccome finalmente da
una gran parte del ducato di Spoleti i Re d'Italia discacciarono e di tutti
così fatti principati un regno essendosi formato in sul principio Regno di
Sicilia del Ducato di Puglia in didi Sicilia, e l'altro di Napoli è nominato.
Di tutte le cose qui sopra sommariamente esposte, la parte più intrigata ed
oscura è quella che vien compresa dalla SECONDA VENUTA de’ Longobardi in
ltalia, finchèle nostre Provincie da’ Normanni, stabiliti nella Puglia, inun
solcor po forono ridotte .xii )1 e stre parti poi vennero . In tanto I Successori
di Rainulfo aveano tolto a’Longobardi la Città di Capua, ed Puglia, e di
Calabria, e del Principato di Capua fi diske, ed in di in II Regni diviso, uno fu
detto di Trinacria alcuna volta ed pl , è detto, ed il quale per anni è de LONGOBARDI,
o fia d'Italia discese Carlo Signoreggiato. Ma verso da re di quella nazione il
re Desiderio ultimo re Longo in quella Provincia, ed avendo preso Magno, senza
mutarne la natura il Regno bardo, trasfere nella sua persona sopradetto che
Regno I va. [Paul. Diac. Paul Diacon. Supplem.
Longobar. varj Principati, i quali in così fatto spazio di tempo, siccome si è
veduto, te la natural forma diesse fide e a gran fatica, e molto dubbio sa mente
indovinare. De’ Principati che sursero nelle Provincie le quali ora compongono
il Regno di Napoli, in tempi così dubbiosi ed oscuri, io ho deliberato di scrivere
in una Tavola Cronologica i Principi , ed i più ragguardevoli Officiali, gl’anni
de loro Regni ed ufficii, e delle loro morti, i loro matrimonii; e
sommariamente i fatti, che quelli o sovrani od in alcuna maniera dipendenti o tributarii
posso dimostrare ei diritti delle loro signorie anno stabilito. Ed oltre a 7
ciò dellistesi Principati una, per quanto io ho potuto esatta e particolare
Geografia. E nella Tavola Cronologica io hor accolto tutto ciò che da' varii
filosofi, o Sincroni, o quasi Sincroni, o molto antichi nella proposta materia
si legge scritto, e narrato, come che discordie gli no siano tra loro ramente
appariscano. Senza volerli corregere, ove avesli potuto, o concordare; di
esaminare ne’ loro cetti il vero, o a me medesimo in altro tempo, o a d’altrui,
che mi voglia in ciò precedere, riserbando. Contentandomi per orà di fornire
solamente secondi semi di un’esatta e diffusa storia delle nostra li cose me
Geografia non va ancora sotto il Torchio, in un foglio quella parte di essa
ch'è necessaria alla presente opera, esponere, e dimostrare ho voluto e dalla Tavola
dame scritta il titolo di SAGGIO ho apposto, conoscendo che in essa moltissime
altre cose essere potrebbono a diritta ragione, o d’altri, o da me stesso
pervenisse a' principi l'Impero in ciaseuno de' detti Principati; e quale fuffe
la natura degl’ufficii, a cui in essi il reggimento di Terre cra affidato,
presso il Popolo, o presso una parte di esso, o presso un solo uomo. Dice
Cicerone. “Respublica res est populi.” Cum bene, ac juste geritur, sive ab uno rege.
La seconda perchè suole essere degl’optimati: ARISTOCRAZIA. E l'ultima si
chiama “MONARCHIA,” osia REGNO, il qual nome non perde quantunque eomi, due, o
tre. Principi regnino in essa collegati, com'è avvenuta sovente tra Romani Imperadori
e quasi sempre tra Principi Longobardi, de quali noi descriviamo la Serie;
imperocchè una tal forma di stato essendo molto più distante dall'aristocrazia che
dalla monarchia dalla più vicina piuttosto che dalla più lontana, dee prender esenza
alcun fallo il suo nome. Ed oltre aciò quello ch'è stra-ordinario non dee caggionar
nell’arti divisione regolare. Nè codesti pochi principi costituiscono un collegio
legittimo, in cui ciascuno la sentenza della maggior parte dee seguitare. Ma
ognuno riguardo alla sua amministrazione libero senza alcun fallo rimane.
Scrive Ubero. Monarchiam esse Io note, e più oscure. Ed acciocchè il tutto con
chiarezza si abbia ad intendere, dappoichè la promessa. Quali siano le varie
forme di governo, ed i varj modi di acquistare i regni -- fursero in quella
felice parte del mondo, ora si aggrandirono, ora si diminuiropo, ora dalle potenze
maggiori furono interamente absorti, e quasi distrutti. Tal volta in essi si
viddero eliggersi i principi, tal volta si viddero in essi succedere a’ padri i
figliuoli nella signoria. Quei, che vi regnavano, furono soventi sia te uccisi,
ed i privati il loro luogo occupando, trasmisero a’ loro Posteri l'iniquamente acquistato
Impero. I BARBARI chiamati per difesa di alcuni sistabilirono per ruina di
tutti -- e desolazione. In fine la faccia dell'Italia divenne in que tempi assai
diversa da quello ch'è prima, e che è poi, e la sua Geografia non mai stabile osservossi,
e costante. Nè di tutti così varii, e moltiplici accidenti vi fu chi la storia
distintamente scrivesse. Ma da pochi e quali a frammenti quelli, e BARBARAMENTE
sono esposti, o piuttosto accennati. E le opere de’ filosofi di quei tempi da sin egli genti Copistifurono traseritte, che
spesse fia , > ) 9 > no . in un'altra Edizione, che sene facesse, aggiunte.
Ma prima di ogni altra cosa io ho reputato di far manifesto per quali ragioni di
codeste forme di regimenti con voci greche. La prima si dice “DEMO-CRAZIA”,
feve a paucis optimatibes, sive ab universo populo CICERONE, DE REPUBBLICA. Edit.
Venoye. Se unius imperium solo satis vocabuli argumento constat. Qicod tamen
ita præci Je captari nolim, rat quasi escumque plures in uno regno romini esostitere,
toties Reipublicæ formam mutaris tatuamus. Neque enim recte existimaturus videtur
qui in Romano imperia si quando plures OTTAVIANO fuere, PRINCIPATVM defiisse
contenderet. Cum enim longius ila societas imperantium ab ARISTO-CRATIA, quam a
monarchia distet, confentaneum est, ut ab ea specie, cui proxima est,
appellatio petatur. Ita Lacedemoniis II Reges fuerunt – DIA-ARCHIA --, id que
Regnum vocabatur nec non verum fuisset Regnum,fi potestas vere summa fuisset. Præter
quod extra ordinarius, atque ut ita loquar, accidentalis ile plurium concursus plerumque
habetur. Unde formas peculiares DYARCHIAS out TRI-ARCHIAS in Artem introducere nec congrueret,
neque expediret; tamet si fatendum monarchiæ vocabulum tunc elleminus commodum.
Accedit, quod isti Condomini, ut hivelbis similes a Germanis Jurisconfultis
appellantur, non constituant collegium, adeoque nec mus plurium sententiam
sequi compellatur. Nam ut hocjuris fit, opus est. parto, Condomini autem
Imperium Civitatis habent eodem jure, quo plures eandem remi fine tractatus Societatis
pro indiviso tenent. Quo casu notum est; quemque liberum Juc partis arbitrium,
nec reliqucrum consensui obnoxium, retinere la 28. ff. c o m m .divid. Altri
poi vi aggiungono IV altre forti d’imperi, cioè i III sopra-detti, quando sono corrotii,
ovvero ingiusti, ed il IV da’ due oda III già esposti insieme uniti. Ma
CICERONE stesso con diritta ragione afferma che ne’corrotti imperi la repubblica
non più esiste. Onde di ella non possono essere così fatti imperi. Cum vero in iustus
est Rex, quem tyrannum voca:aut injufti optimates, quorum consensus factio est.
Aut in justus ipse Populus cui nomen usitatum mullum reperio nisi ut etiam ipsum
“tyrannum” appellem. Non jam vitiosa, rola, dappoiche essa nulla alla mia
intenzione può giovare. Or, nella monarchia, o sia nel regno, abbia avuto egli
il suo principio dalla FORZA, o dal volere de cittadini, o dall'utile, o dalla paura
stimolari, abbiano questi la facoltà di stabilire solamente i regnanti, o di conferirle
anche l'impero. Aliter, dice Ubero, ediam etro instituunt, qui imperium
immediate a deo esse volunt. Hi negant, imperium ullo modo a voluntate populi
perdere, nec a civibus quicquam juris ad imperantes manare nec adeo causam monarchie,
aut ullius in civitate potestatis esse populum, quos inter Ziegle rus ad Grotium
Ethidictum P. Apostoliano bisali quoties adduetum, quod imperium sit humanæ
creationis, interpretantur, quod sit hominibus proprium, vel ratione cause
instrumentalis, quia per homines exercetur utuntur argumentis e sacris, de potestate
solvendi ligandi sacramenta administrandi, quce ministro ecclefice competit. Quem
ad modum igirur populus eligen dopaftorem non confert potestate millam nec conferre
potest, quia non habet eam ipse, nihil que agit, quamut personam eleectam potestatia
deo immediati proficiscenti applicet. Sic etiam populu, quando eligit regem,
non confert pote [Huber. de Jur. Civit. Gudling. De Jur. Nat. ac Gent.] omnino
nulla respublica est, quoniam non est res populi sed cum tyrannus eam factiove capesat.
Nec ipse populus iam opulus est, si sit in justus, quoniam nonest multitude juris
consensu et utilitatis communione sociata. E Bodino egregiamente dimostra che
il composto di alcuno o di tutte le suddette III forme d'impero non può una città,
o sia republica che tale sia secondo il fine che si è proposto, cio è la pace ed
il giusto, costituire. Onde Gudlingio ebbea dire. Talem rei publice speciem qui
appellant “mixtam”, ferendi quadantenus sunt. Si mixtum idem fonet atque
irregulare, della qual cosa io non faccio più pa. [Edit. Ven. C. edit. Francf.
an. Hobbes de CICERONE fragm. DE REPUBLICA. Bodino de Republ.] fta Cive. Bodino
de Republ. Hobbes de Civ. Huber. Edit. Francf.] statem imperandi, sed personam
electam producit eamque abhibet exercitio potestatis illia deo immediate conferendse
ego qualis, quanta in ordinee juse fe debeat. Necquo minus populus imperium
retineat, si id expedire judicet, deus intercesit. Multo minus quo parte mali quam
imperii reservaret, umquam prohibuit; quodde ministerio ecclesiæ institutoque
matrimonii nullo moda affirmare licet. Nel regno dico, a sia nella monarchia i principi
anno II sorti di diritti. L’una, che ne costituisce l'impero in mezzo a' Popoli
loro. L’altra, che determina il modo di averlo -- o sia per la quale il principe
regna, o l’impero pofliede che modo di acquistarlo si può anche direttamente
chiamare. Altera cautio est, dice Grozio, aliud efede requærere aliud ese modo
habendi, quod non in corporalibus tantum sed et in in corporalibus procedit (2)
Ed. Ubero:Poft Species Monarchie fequuntur modi,quibus. Regna acquiruntur. Hi
funt velordi narii, vel extra-ordinarii. Priores duo sunt electio, do successio
Extra-ordinarii per inde duo, matrimonium O jus belli. De jure belli o
matrimonio dié tum quod satis sit, in superioribus. De forte nihil quidem, sed
nec rarisime i nu fu est, aut pro electione fungitur; ut olim apud Per fasin
Dario H. Staspide. E Gudlingio. Id queri dignum, an per duret vita O anima civitatis
una, etiam fi vel electio obtineat, vel successio. Et putem id contingentibus
ad numerandum que unitatem nec efficient pror sus, nec tollunt. Scilicet electio
et successio per Jonas tangit, non autem modum regnandi definit, nec illum impedit
imperanti dominica in subjectos, tamquam in servos proprios potestas competit. Appellatur
etiam Dominatus. La qual forma di Regno se giudico, che mai si possa ritrovare
fra gl’uonini, salvo la teo-crazia, bene del suo popolo, e non già di lui, dee ordinare
le cose. Scrive Bodino. Rex est, qui summa potestate constitutus naturæ legibus
non minus obsequentem se præbet, quam sibi subditos, quorum libertatem, ac rerum
domini ac eque ac fucetuctur, fore confilit. Subditorum libertatem, ac rerum dominationem.
adjecimus -- ut Jus Soc., Gent. Huber. De Jur. Civit. Gudling. de Jur. Nat. ac.
Gent. Guiling, pergo Nat. Ac Gent. c. vel collate. Nec sequitur, cedunt e populi
elientis voluntate. Primeva succedere videntur. Riguardando la prima di codeile
II sorti di diritti ne procedono III forme di reggimento, osiano: di monarchie
una in cui il regnante de’ Corpi, Beni de’ Cittadini dispoticamente dispone, e che
perciò Erile o, o lia “barbarica” vien nominata, scrivendo Ubero. Dominatus
finitur, quod sit imperium, quo princeps sibi subjectis ut pater familias servis
imperat, omnium quetam quod ad o civilium naturam maxime ab effectibus vesti mandammo,
rerum moralium, cuius limites excedere non licet imperii formam, et tenorem Si Deuscertam,
electionem persone fatemur ejus juris vim in fringerenon populis, præscripserit
potest auferre jus ligandi e Solvendi suispa pole, quam cætus fidelium invito
adimere potest. Sed hoc de magis uxor viro principatum domus storibus aut non legimus
esse determinatum. Hatenus quidem de imperio civitatis a deo, cui omnis anima
debeat bere aliquem ese ordinem imperandi, atque parendi ef ita ex cestise subiecto
non tamen res quam corpora dominus existens, actiones publicas ad suam præcipue
utilitatem dirigit. Ed Arrigo Koehlero: Imperium dominicum seu despoticum
dicitur osia governo di dio. E l’altra delle suddette forme di monarchia è
quella, nella quale il Principe pel [Grot. De Jur. bell. Ac pac. Huber. de Jur.
Civit.] tum promover. Imo successi opere nec mul ab antecedente electione pendet.
Unde qui luc o de' in quo nec sequitur, ita pergit Zieglerus, homines ab initio
Sponte adanéti in s ocietatem civilem coierunt ex hoc ortum habet potestas civilis.
Ergo talis potestas origine est humana. Sic enim per indeliceret argumentari. Adam
et Evas ponte adducticcierunt in matrimonium. Ergo matrimonium institutione NON
est divinum. Huber. De Jur. Civit. Heinr. Toebl. Jus Soc., ut Regis, ac Domini
distinctionem certam adhiberemus. Ed essa dicesi civile – leggendosi in Ubero. Nobis igitur plures monarchie species
non sunt considerande, quam hee duce, Regnum, & Dominatus, five Imperium, ut
ARISTOTELE DAL LIZIO loquitier, außacidendo, aut Baplaponèv. Regnum verum et
plenum est, ubi princeps habet summam, liberam potestatem faciendi in civitate quod
ere a petita., qui ed appresso. Ex his
tertia resultat differentia, a fine diverso ristabiliti, est utilitas regnantis.
Quae nec ipsa tamen absque commodo subjectorum potest custodiri. Ex his relique
differentie, inter dominum, &. Reczorem, servos ac cives, de quibus
Claudius ad Meherdatem apud Tacitum [TACITO (si veda) Annal. quæque similia per
se intelliguntur. Ed anche comune; Scrive Kochlero: Imperium civile est jus præscribendi
ea, quæ ad commune civitatis bonum promovendum faciunt. Eiusmodi imperium civile
dicitur commune ad amplificationem boni civitatis communis tendat. E la terza
delle II sopra-dette forme composta che mista vien detta. Scrivendo Grozio. Quisibi
singulos subjicere potest servitute personali, nihil mirum est f li i d o
universos sive ili Civitas fuerunt, sive Civitatis pars, subjicere sibi potest
subjectione sive mere civili, sive mere herili, suve MIXTA. Riguardando poi la
seconda forte degl’esposti diritti sorgono III altre forme di nellaquale il principe
regna per elezione del suo popolo forma dicesi ELETTIVA. La II, in cui il principe
riceve l’impero per legge generale dello stesso suo popolo o per CONSUETUDINE da
questo ricevuta, per trasmetterlo poi a colui, che dalla medesima legge, viene
stabilito; sia egli il primogenito del preterito regnante, o calui, che
glinacque nel regno. Sia egli il FIGLIUOLO LEGITTIMO del PRINCIPE; ossia, il
NATURALE, maschio, della stessa sua famiglia o dell'altrui; favorisca
finalmente quella legge ipiù vecchi della Prosapia , o la linea del primo nato,
la qual forma di regno da tutti sichia ma SUCCESSIVA, ed a molti una specie
della prima, cio è una diversa sorte d’ELEZIONE essere si crede. Dappoichè scrive
Ubero: Plane, origine cujufqueci vitatis inspecta, nullum non regnum ex voluntate
populiortum, fuit electivum. Sed diversitas est in Regno Civili ordinaliter
utilitas subjectorum. Quamquam illa fine commodo imperantium obtineri non potest.
In Dominatu originalis Scopus Impe una parte di esso ma pel tempo della sua vita
solamente. Venga co tale ELEZIONE, fatta o espressamente, o per via di sorte, o
di deputati. E codesta electionis et successionis deincep sorta est, cum quædam
ex imperiis ita funt delata principibus, ut identidem fedes vacua per electionem
repleretur. Quædam it aut successio secundum ordinem certum propinqui sanguinis
ab uno in alium devolveretur, ex prescripto Legis. Hanc quidem vocant electionis
speciem. Quo modo Althusius in Polit. qui negant, ullum dari imperiumjure
familie hereditarium, sed totum a populo dependens, quod G' in Anglia multi
opinantur. Si dicerent, successione mele nihil, quamele &tionis primevæ continuationem,
nihil errarent. Atfijus Imperiinum quam a populis alienari velint, resreditad STATUM
[STATO] disputationis supra aliquotie speractze. Qua per electionem, ipsum jus Imperii
independenter alienari posse probavimus, ad vitam, vel etiam pro heredi bus. Quie
tunc est successio, non amplius a primis eligentibus dependens, sed familie
propria, per actum alienationis. Gudlingio: Id quæri dignum, an perduret vita
in anima civitatis una, etiam sive lelečžic obtineat, vel successio. Bodin. De Republ. Grot. De jur. bell. ac. pac. Regni. La prima,
3 Huber. De jur. Civit., Koehler, de Jur. Soc. Gent.Spe-o sia di princ: de jur.
Nat. ac Gent. Huber. de jur. Civit. Gudlingio, communi videbitur, Salva tamen civium
libertate, proprietate rerum cim.V. de Imp. Civ. cum Et xvii et putem id
contingentibus ad numerandunt, quæ unitatem nec efficiunt prorsus, nectollunt. Scilicet
eleftin, o luccelio personas tangit non autem modum regnandi definit, nec illum
impedit, nec multum promovet ; imo fuccessio pene ab suo. Antecessore , ed ha l’arbitrio
di lasciarlo a chi più gli piaccia, come della sua eredità privata fare ei
potrebbe. E così fatti Regni diconfi EREDITARII. In tutte codeste cinque forme di
regni sono comprese, siccome sarebbe agevole il dimostrare, tutte le
differenze, che de' supremi Imperi delle monarchie si sogliono fare. Ele quali
Ubero per modo di quistioni propone: Junt qui ex alisquo querebus differentiam
fu m m e potestatis colligunt. Primo enim sotto posti. Ma quando vennero in Italia
vi fondarono il regno, che è detto de Longobardi, osia dell'ITALIA e dil quale,
e sotto i re loro, e sotto i re francesi, edi altre nazioni finchè dura è sempre ELETTIVO. Che EREDITARIO è il Principato
di Benevento. Che fimile a lui è il Principato di Salerno. Che non diverso da essi
in tal cosa il Principato di Capua esser si vidde. Ma da poichè il più delle volte
difficil cosa è il determinare daloro principii espo fie forme de sopradetti principati.
Quindi è, che ne conviene sovente immitare
i più saggi investigatori del vero nelle produzioni della natura : iquali non
potendo vedere le occulte caggioni di essa, da’ continui, e costanti effetti
loro, quando esterna violenza non li disturbi, sicuramente le deducono. Scrive Newton
tra quelli filosofi senza alcunfallo il più famoso. Ideo que EFFECTUUM
NATURALIUM EIUSDEM GENERIS E ÆDEM SUNT CAUSÆ. Uti respirationis in homine doo
in bestia. Descensus Lapidum in Europa in qualitates corporum, que intendi o
remitti o nequeunt, queque corporibus omnibres competunt , in quibus
experimenta instituere Ticet nun, a sibi semper consona. Extensio corporum non
nisi per sensus innotescit, nec in omnibus sentitur. Sed quia sensibilibus
omnibus competit, de universis affirmatur. Corpora plura dura este experimur;
Oritur autem durities totius a duritie par tium, et in de non horum tantum corporum
quæ fentiuntur, sed aliorum etiam omnium particulas indivisas es se duras
merito concludimus. Corpora omnia impe netrabilia es se non ratione; sed sensu
colligimus. Que tractamus impenetrabilia; Lucis in igne culinari do in sole;
reflexionis lucis in ter America ra in Planetis inveniuntur, in deo oncliedimus
IMPENETRABILITATEM efe proprietatem corporum universorum. Corpora omniam obilia
efle et viribus quibusdam, quas viresiner tiæ vocamus, perseverare inmotu, velquiete,
ex hifce corporum visorum proprietatibus colligimus. Extenso, Durities, IMPENETRABILITAS,
Mobilitas,& Vis [Gudling., de jur.Nat., ac Gent.; Huber. De jur. Civit. antecedente
electione pendet; unde qui succedunt, e populi eligentis voluntatepri meva succedere
videntur. E finalmente la terza nella quale il principe possiede il regno per
volere del git [Or dichiarari nella maniera sopradetta l'esposte cose io dico che
i lombardi sono inprima nella Pannonia ad un Regno EREDITARIO vel plu , pro qualitatibus
corporum universorum habende sunt TES CORPORUM NONNISI. Nam QUALIT A PER
EXPERIMENT AINNOTESCUNT OQUE GENERALES STATUENDÆ, IDE MENTIS GENERALITER SUNT
QUOTQUOT CUMEXPERI. possunt QUADRANT. De quemimi non possunt auferri. Certe
contra experimentorum tenorem fomnia non funt , nec a Nature analogia
recedendum temere confingendo est, cum ea simplex esse soleato, qua forma
Reipublice Civitas gubernetur, Monarchia tant plurium dispoticum, an Civile regnum
Patrimorium imperio. Et in Monarchia , sit ne Populo volente an invitofit
conftitutum . Eligantur, niale, anquasi fructuarium, an perpetua sit potestas. Non
an successionegaudeant imperantes.Temporalis Imperii variarivi parvitate vel
magnitudine civitatum jus jummi nullis quoque Species hominum judicia sæpe
perstrin fum. Denique, nominum titulorumque interesse pu iner inertie totius,
oritur ab extensione , duritie , impenetrabilitate viribus inertice partium:
inde concludimus omnes omnium corporumpartes minimas extendi, et durasele, o
impenetrabiles et mobiles viribus inertice præditas. E nella festa maniera scrive
Ubero, che s'abbiada giudicare nelle cose morali, e civili. Sed ego ita existi morerum
moralinm, civilium NATURAM maxime ab effectibus cefti mandam. Perchè quando non
ne è conceduto di avere documento dell'istituzione delle repubbliche, osia de'Principati,
di cui ragioniamo. Da quello, che si è veduto sempre accadere in essi, quando
estraneecaggioni l'ordine naturale non abbiano sconvolto, l'istituzioni
suddette possiamo dirittamente argomentare. Egli è vero non però, che non di
leggieri gl' Imperi Ereditari da Successori con regola cosi fatta si possono
distinguere, imperocchè io alcuna forte di regni successivi all' ultimo
Regnante succedono i figliuoli, od i più stretti Congionti ; E lo stesso
avvienene Regni Ereditarjquandocoluisenza Testamento, o senza nomina real. cuno
Estraneo Erede lascia di vivere la vita. Più folto bujo quellume fidee prendere,
che si può, comechè picciolo, ed incerto egli e. Il Regno de’ Longobardi fu
prima Successivo, a Ereditario, ed che, usciti dalla Scandinavia, provincia detta
VAGINA GENTIUM, abitarono di qua dal Danubio ed I quali WINILI erano chiamati furono
poscia detti LOMBARDI, o dalle finte o dalle vere LUNGHE loro BARBE, ovvero ,
secondo scrive Guntero, che altri affermino da’ popoli della Sassonia detti
Bardi. Furono costoro inprimada Duchi eposcia da Refignoreggiati; ed il regno
loro finchè rimasero nel loro paese, e sempre ereditario, ovvero successivo. Newton,
Philus. Natur.princ.Ma Gregor. Turon. Excerp. Chron. ex Reg Fredeg. Schol. hist.
Miscell. Paul. Diac. de Gefie Langob.. Gunt. mobilitate, 9 appreso elettivo non potendosi
che LA NATURALE INCHINAZIONE DEL SANGUE a figliuoli ed a Cogionti, gli Estran gli
abbia permesso diante porre. Scrivendo GROZIO: Succeflio ab intefiato, de qua agimus,
nihil aliud est, quam tacitum testamentum ex voluntatis conjectura. Quintilianus
pater in declamatione: Proximum locum a testamentis habent propinqui: et ita, si
intestatus qui sacfine liberis decefferit. Non quoniam utique jufium fit, ad hos
per venire bona de functorum. Sed quoniam reliéta et velutin medio posita nulli
propius videntur contingere. Quod de bonis noviter quæsitis diximusex NATURALITER
proximis deferri , idem locum habebit in bonis paternis avitisque, finecipsiaquibusvenerunt,
nec eorum liberi extent ita ut gratie Philuf. edit. Ami. Paulo Diac. De Gest. Langob.,
istelod. Huber., de jur. Civ., Reginon. Chron. inprinc. de RegnoWi., Grot. De jur.
bell. Ac pac. nilorum. Constant. Porphyrog. De Themat. Gregor.Turon.Excerp.Chron.exc
Otto Frifingens. De Geft. Friderici Impe credere De Popoli Q. Agle relatiólocum noninveniat. Ondeda Equali essettinonsi
possono argomentare diverse cagioni. Ma nel. Grice: “This conceptual analysis
of the noble is complicated – noble is the male who merits recognition from his
community.” Nono duca di Laurino. Troiano Spinelli, duca di Aquara e di
Laurino. Troiano Spinelli di Laurino. Spinelli di Laurino. Laurino. Keywords:
implicatura, analisi geometrico della’economia razionale, Broggio, lombardia,
lombarda, lunga barba. Refs.: Luigi
Speranza, “Grice e Laurino” – The Swimming-Pool Library. Laurino.
Grice e
Lazzarelli: l’implicatura conversazionale -- ermetico-esoterica -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (San Severino Marche).
Filosofo italiano. Grice: “I would call Lazzarelli a Pythagorean; most Italian
philosophers are, as most English philosophers are Lockean!” -- Grice: “I would
call Lazzarelli what Italians call ‘un filosofo ermetico.’ He certainly flouts
all my desiderata for conversational clarity!” Il documento più importante per
ricostruire la vita di L. è “Vita L.” scritta da Filippo L. e indirizzato
all'umanista Colocci. L. e educato e vive a Campli, in Abruzzo, dove frequenta
la biblioteca del Convento di San Bernardino da Siena, che egli cita nella sua
opera i Fasti Christianae Religionis. Riceve da Sforza un premio per un poema sulla
battaglia di San Flaviano. Ha contatti con i più importanti filosofi dell'epoca
ed e seguace dell'ermetismo. Raccolse il Pimander di FICINO, l'Asclepio e tre
trattati sull'ermetismo realizzando una versione che amplia il corpus testi ermetici.
Autore di saggi a carattere ermetico come il “Crater Hermetis,” in sintonia con
il sincretismo religioso dei suoi tempi e in anticipo sulla filosofia di PICO
(si veda), con la fusione del cabalistico e il cristiano, ma anche di poemetti
a carattere allegorico come l'”Inno a Prometeo” o didascalico-allegorici come
il “Bombyx”. Altri saggi: “De apparatu Patavini hastiludii, Padova; “De
gentilium deorum imaginibus”, dedicato a Borso d'Este e a Federico da
Montefeltro; “Fasti christianae religionis” dedicato a Sisto IV, Ferdinando I d'Aragona e Carlo VIII, Bertolini,
Napoli; Epistola Enoch, Brini, in Testi umanistici sull'ermetico”, Roma; “Diffinitiones
Asclepii”; De bombyce, Lancellotti,
Aesii; “Crater Hermetis edito in Pimander Mercurii Trismegisti liber de
sapientia et potestate Dei; “Asclepius eiusdem Mercurii liber de voluntate
divina”; “ Item Crater Hermetis a Lazarelo Septempedano” (Parigi); Vademecum ( Brini,
in Testi umanistici sull'ermetico”, Roma); “Un carme per la morte della
duchessa d'Atri, Biblioteca del Seminario di Padova; “Carmen bucolicum” (Biblioteca
universitaria di Breslavia, Milich Collection); carmi di occasione -- tra cui i
versi che gli valsero l'incoronazione) (Biblioteca nazionale di Napoli);
epigrammi sullo Pseudo Dionigi l'Areopagita. Il testo dell'opera può essere
letto in M. Meloni ,"Lodovico Lazzarelli umanista settempedano e il “De
Gentilium deorum imaginibus”, in Studia picena, pubblicato in appendice a C.
Vasoli, Temi e fonti della tradizione ermetica in S. Champier, in Umanesimo e
esoterismo, l’esoterico E. Castelli, Padova, pG. Roellenbleck, Opusculum de
Bombyce, anche in edizione moderna integrale in C. Moreschini,
Dall'"Asclepius" al "Crater Hermetis" -- studi
sull'ermetismo latino tardo-antico e rinascimentale, Pisa, Dizionario Biografico
degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana, Filosofia ermetica, Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Opere, L.. rivista
Campli Nostra Notizie. L. Nacque di nobile famiglia di Campli. La tradizionale
data di nascita è stata recentemente corretta da Tenerelli sulla base di
un'annotazione manoscritta che si legge nella biografia del L. composta dal
fratello Filippo (meglio trascritta da Meloni) e della notizia d'archivio
riferita da Aleandri, secondo cui il padre risulta già morto. L. stesso ama definirsi
"Septempedanus", dal nome dell'antica colonia romana che sorgeva nei
pressi dell'odierna San Severino Marche. Alla morte del padre, L. si
trasfere a Campli, presso Teramo, dove riceve la prima educazione e - stando
alla citata biografia, non immune da toni agiografici, scritta subito dopo la
morte - egli dimostra precocemente inclinazioni filosofiche, tanto da comporre un
carme sulla battaglia di San Flaviano che gli merita le lodi di Sforza, signore
di Pesaro, oltre che l'appellativo di "antiquorum poetarum
simia". L'episodio è il primo di una serie di testimonianze che
permettono di ricostruire alcune tappe, peraltro dalla cronologia, della vita
fitta di spostamenti condotta dal L. E dapprima ad Atri, con l'ufficio di istitutore
del figlio del signore della città, Capuano, dove compose un carme esametrico
per la morte della duchessa Balzo, indirizzato con un'epistola accompagnatoria
al fratello Filippo, allora studente di diritto a Padova, che, nella sua
biografia, la define "sententiis quidem refertam quam optimis ultra eius
aetatem". E a Teramo presso Campano, "ut eiusdem Campani fratrem
amoenioribus artibus inficeret simulque ut ipse viri familiaritate doctior
fieret" (Lancellotti), dove si applica allo studio della filosofia. Il
fratello riferisce di essere stato testimone a Teramo di una sua disputa con un
tal Vitale ebreo, che nega la Trinità, e che sarebbe stato vinto anche grazie
all'allegazione da parte del L. di autorità talmudiche. Di qui passa a Venezia,
dove perfeziona lo studio del latino alla scuola di Merula. Il componimento
esametrico De apparatu Patavini hastiludii, scritto in occasione dei giochi e
nel quale i componenti dell'Accademia padovana dei giuristi sono comparati a
personaggi mitici, rivela una buona dimestichezza con l'ambiente accademico
patavino. Forse su suggerimento di Merula compose un Carmen bucolicum,
costituito da X egloghe dedicate ai principali misteri della vita di Cristo:
l'avvento preannunciato dai profeti, la natività della Vergine, l'incarnazione
del Verbo, la nascita, la passione e la morte, la discesa agli inferi, la
resurrezione, l'ascesa al cielo, la discesa dello Spirito Santo, l'assunzione
di Maria Vergine. Al soggiorno in Veneto è inoltre legato il più importante
riconoscimento pubblico dell'attività poetica del L., l'incoronazione per mano
dell'imperatore Federico III, nella chiesa di S. Marco a Pordenone.
Secondo il racconto del fratello, L. si reca presso l'imperatore, di passaggio
nel suo viaggio verso Roma, e, colta un'occasione propizia, gli avrebbe
declamato un suo carme esametrico, accolto con plauso dall'imperatore che
spontaneamente gli avrebbe conferito l'alloro poetico. L. stesso celebra poco
più tardi l'evento nell'egloga Laurea. Una serie di stampe, del tipo dei
tarocchi del Mantegna, acquistata in una bottega di Venezia, fornì al L. lo
stimolo per la composizione dei due libri De gentilium deorum imaginibus,
poemetto di carattere mitologico-astrologico. I più rilevanti testimoni
dell'opera sono due manoscritti della Biblioteca apostolica Vaticana (Urb.
lat., 716, 717), entrambi di elegante fattura e corredati da una serie di
sontuose miniature (che ricordano, appunto, la tipologia mantegnesca dei
tarocchi). I due codici sono dedicati a Federico di Montefeltro, ma la dedica
del ms. 716 è vergata in modo evidente su una dedica precedente abrasa, che
Augusto Campana è riuscito a leggere parzialmente, quanto basta però per
riconoscervi il nome di Borso d'Este. È così possibile datare il manufatto, e
quindi l'ultimazione dell'opera, al lasso di tempo dall’assunzione del titolo
ducale di Ferrara da parte di Borso alla sua morte. Anche all'interno del testo
il nome di Borso è sistematicamente sostituito con quello di Federico e i
passi relativi sono adattati al nuovo dedicatario. Il ms. è portatore di una
seconda redazione, fin dall'inizio dedicata a Federico già insignito del titolo
ducale di Urbino, quindi posteriore. Meloni ipotizza che si possa riconoscere
in quest'ultimo il codice originariamente pervenuto a Urbino e che il ms. 716
vi sia giunto più tardi, non solo riconfezionato come si è detto, ma anche
corredato di un ulteriore carme finale di congratulazioni per la guarigione di
Federico da una grave malattia, attribuibile alle conseguenze dell'incidente
occorso al duca nel novembre 1477. L'originaria dedica a Borso d'Este è
perfettamente congruente con la cultura astrologica praticata a Ferrara, ma non
estranea neppure alla corte urbinate. L'opera amplifica la consuetudine di
"appropriare", nel gioco praticato a corte, dei versi alle carte,
secondo il modello dei tarocchi boiardeschi. Ma iL. intende riscattare dall'uso
ludico le antiche immagini delle carte, diffuse anche presso il volgo, che
"triumphos / appellat tactu commaculatque rudi / priscorum formas et simulachra
deorum", per restituirle alla loro funzione astrologica e sapienziale di
rivelare il vero "obliquis figuris", poiché "invenere suis
corrispondentia rebus / signa olim vates et simulachra deum, / quae nunc pro
nihilo reputant, gens indiga sensus, / sacrilegi et ludis asseruere suis.. Nel
primo libro sono presentate e descritte, in successione, le sfere celesti,
dalla Prima causa alla Luna, con l'aggiunta di un carme conclusivo dedicato
alla Musica come prodotto delle sfere celesti. Dei pianeti, identificati con
gli dei antichi, sono descritte le immagini, indicate le rispettive domus (i
segni zodiacali), sinteticamente narrati i principali miti che hanno come
protagonista il dio eponimo, fornite essenziali notizie astronomiche e
illustrati gli influssi astrologici. Il secondo libro presenta le immagini
della Poesia, di Apollo e delle nove Muse, di Pallade, Giunone, Nettuno,
Plutone e, infine, della Vittoria (alla quale è dedicato un carme in versi
eroici, mentre tutti gli altri sono in distici elegiaci). Nei due codici
urbinati, come si è detto, la descrizione verbale trova riscontro e
integrazione nel ricco apparato iconografico che, a sua volta, può aver
ispirato elementi decorativi del palazzo ducale di Urbino. La vicenda
compositiva del poemetto probabilmente si compì durante il soggiorno di L. a
Camerino, dove era stato chiamato da Giulio Cesare da Varano per attendere
all'educazione del nipote Fabrizio. L. intraprese quindi la stesura di un nuovo
ambizioso poema, i Fasti Christianae religionis, che portò a compimento in una
prima redazione a Roma, dove si recò al seguito di Lorenzo Zane, patriarca di
Antiochia, presso il quale approfondì gli studi astronomici e
astrologici. La composizione del poema è dai biografi (e, in primis, dal
fratello) addotta a documento dell'ortodossia religiosa del L., contro i
sospetti di esercitare arti magiche: "Quidam, livore atque invidia
perfusi, et palam et in occulto Lodovicum criminari coeperunt, dicentes ipsum
negromanticis magicisque artibus, sive praecantationibus, operari" (Vita
Lodovici, p. 7). L. avrebbe, in effetti, compiuti alcuni esorcismi, vaticini e
guarigioni, ma sempre attraverso il segno della Croce e la mediazione
dell'assistenza divina. Bertolini ha ricostruito la complessa vicenda compositiva
dei Fasti sulla base delle testimonianze manoscritte superstiti (tra cui il ms.
Vat. lat., autografo, nel quale si depositano varie fasi redazionali) e delle
indicazioni cronologiche interne, che permettono di riconoscere tre redazioni:
una prima, dedicata al pontefice Sisto IV, compiuta entro il 1480; una seconda
dedicata al re di Napoli Ferdinando d'Aragona e a suo figlio Alfonso duca di
Calabria, compiuta immediatamente dopo, entro il 1482; una terza più tarda,
dedicata al re di Francia Carlo VIII, probabilmente abbandonata dopo il
fallimento dell'impresa italiana del sovrano. Si tratta di un vasto poema in
sedici libri, costruito secondo il modello del Fastiovidiani. Sono descritte e
celebrate le ricorrenze liturgiche cristiane secondo la loro successione nel
calendario; vengono inoltre introdotte osservazioni di carattere astronomico e
saltuarie indicazioni relative alle attività agricole. I primi tre libri
celebrano le feste mobili del calendario liturgico, i dodici successivi sono
dedicati ai singoli mesi, cominciando da marzo, l'ultimo tratta del Giudizio
finale. Il poema ricevette onorata accoglienza da parte
dell'ambiente romano, come dimostrano i due epigrammi del Platina e di Paolo
Marsi riferiti dal fratello Filippo e pubblicati dal Lancellotti, nei quali il
poeta è celebrato come una sorta di OVIDIO (si veda) reincarnato. Al Platina
sono anche indirizzati un paio di epigrammi del L., il secondo dei quali in
morte. Secondo Foà, al 1481 daterebbe la conoscenza con Correggio, alla
quale lo stesso L. attribuisce un ruolo fondamentale per la propria conversione
alle dottrine ermetiche. L'episodio più noto relativo al rapporto fra i due e
al quale il L. stesso fa emblematicamente riferimento risale però all'11 apr.
1484, domenica delle palme, sotto il pontificato di Sisto IV, quando assistette
all'apparizione romana di Giovanni da Correggio che, a cavallo e coronato di
spine, attraversò la città e, pur privo di qualsiasi istruzione grammaticale e
retorica, predicò al popolo compiendo atti e riti simbolici e manifestando una
sapienza teologica dovuta a una sorta di mistica ispirazione che gli valse
anche incontri con il pontefice e vari prelati. Gli studi di Kristeller
hanno infatti dimostrato l'appartenenza al L. dell'Epistola Enoch de admiranda ac
portendenti apparitione novi atque divini prophetae ad omne humanum genus, dove
è diffusamente narrato il viaggio romano di Giovanni da Correggio seguito da
una dichiarazione dell'autore di piena adesione e di conversione: "quod
novae ac tantae rei sacramentale mysterium ego attonitis aspiciens oculis,
mecumque ipse attente et ex totis animi viribus tunc revolvens, ne diuturnior
obesset mora, relictis Parnasi collibus ceterisque omnibus, ad montem Syon
primus eum sum protinus insequutus" (ed. Brini). Con lo stesso
pseudonimo di Enoch il L. firmò anche alcuni epigrammi dedicati agli scritti
dello Pseudo Dionigi l'Areopagita e, soprattutto, le prefazioni ai testi
contenuti nel ms. II.D.I.4 della Biblioteca comunale degli Ardenti di Viterbo,
una raccolta completa del corpus ermetico nella traduzione di Marsilio Ficino,
integrato dall'Asclepius attribuito ad Apuleio e dalle Definitiones Asclepii
(ignote a Ficino perché mancanti nel suo codice), tradotte per la prima volta
dallo stesso Lazzarelli. Nelle tre prefazioni, una delle quali in versi, il L.
indirizza la sua opera di raccoglitore e traduttore a Giovanni da Correggio,
nel tono solenne e sacrale dell'iniziato, affermando il sincretismo tra
teologia cristiana e teologia ermetica, sostenendo, contro Ficino, la maggiore
antichità di Ermete Trismegisto rispetto a Mosè e presentando la propria
conversione dalla poesia agli studi sacri come una vera e propria
rigenerazione: "quondam poeta nunc autem per novam regenerationem verae
sapientiae filius" (Kristeller). L. entra quindi in rapporto
con Colocci quando questi, avendo con sé
il nipote Angelo, si trovava nel Regno di Napoli come governatore di Ascoli
Satriano. Secondo Fanelli, i Colocci passarono nel Regno di Napoli: poco prima
andrebbero dunque collocate la composizione e la stampa del poemetto del L. De
bombyce, dedicato "ad Angelum Colotium honestae indolis
puerum". La datazione dell'opera è controversa e il più recente
editore, Roellenbleck, ne propone una molto più alta, che peraltro non si
concilia con la tematica ermetica del poemetto né con l'anno di nascita di
Colocci, che pare dovesse avere un'età idonea a essere prescelto come lettore
esemplare ("lege sollicito mea carmina visu"), vero e proprio filius
da rigenerare (l'appellativo di puer può avere un'estensione molto ampia). Il
Bombyx si presenta, infatti, come un poemetto didascalico dedicato
all'allevamento del baco da seta, ma teso a svelarne, sulla traccia di analogie
già suggerite da s. Basilio, la simbologia cristologica e a farne il simbolo di
una rigenerazione alla quale tutti gli esseri umani sono chiamati, compiuta la
quale potranno a loro volta generare una prole divina: "Surgite,
terrigenae, bombycum exempla sequuti. Linquite corporeos sensus, mens candida
regnet Sancta palingenesis vos complectatur et orti / rursus humo coelum
penitus penetrate relicta Gignite divinam repetito semine prolem. Quo pacto id
fieri possit, mox forte docebo, hic
gradus aethereo primus statuatur Olympo. L'ulteriore opera dedicata al tema
della generazione divina, annunciata in chiusura del Bombyx, può forse essere
riconosciuta nel De summa hominis dignitate dialogus qui inscribitur Crater
Hermetis. Si tratta di un dialogo nel quale sono inseriti alcuni componimenti
poetici, di vario metro, nei momenti di maggiore intensità d'ispirazione e di
proclamata esaltazione mistica. Gli interlocutori sono lo stesso L., che ha
ruolo di maestro, e il re di Napoli Ferdinando d'Aragona, dopo che, ormai
vecchio, ha ceduto il governo dello stato al primogenito Alfonso II. Queste
indicazioni permettono di collocare l'azione, e anche la composizione, tra il
1492 e la morte del re. Il recente editore, Moreschini, ha anche
riconosciuto due redazioni dell'opera, la più antica testimoniata dal ms. della
Biblioteca nazionale di Napoli, la seriore dalla stampa procurata da J. Lefèvre d'Étaples a Parigi. La
differenza più evidente tra le due redazioni consiste nella presenza, nella
prima, di un terzo interlocutore, PONTANO, con il ruolo, secondario ma non
indifferente, di affiancare il re, discepolo entusiasta e convinto, come poeta
desideroso di approfondire anche verità filosofiche e teologiche. L'origine del
titolo è in un passo del Corpus Hermeticum in cui si parla di un crater inviato
d’Ermete sulla terra affinché in esso gli uomini possano battezzarsi e ricevere
così l'intelletto che li rende capaci di partecipare alla gnosi. A conclusione
dell'opera il L. si autorappresenta come colto da una sublime ispirazione che
lo rende capace di rivelare il mistero della generazione di anime divine da
parte del vero uomo, che ha raggiunto la pienezza della conoscenza e che si
rende così simile a un dio. Moreschini osserva come nella seconda redazione il
L. eviti di rendere troppo espliciti i rapporti tra ermetismo e cristianesimo
(lo stesso titolo, nella prima redazione, recitava: … qui inscribitur via
Christi et crater Hermetis), attenuando, per esempio, le argomentazioni che
tendevano ad attribuire all'ermetismo priorità cronologica (e anche genetica)
nei confronti di ebraismo e cristianesimo. Lo scritto manifesta inoltre ampie
conoscenze cabalistiche e talmudiche, che tradizionalmente si ritenevano
patrimonio, in quegli anni, del solo Giovanni Pico della Mirandola.
Ultima opera del L. sembrano essere i De mathesi et astrologia libri, segnalati
da LANCELLOTTI, che invano ne cerca copia presso gl’eredi del filosofo. Brini
ne propone, ma senza indizi veramente probanti, l'identificazione con un
trattato di alchimia, conservato nel ms. 984 della Biblioteca Riccardiana di
Firenze: una raccolta di preparazioni alchimistiche tratte daLullo e da altri,
presentate da L. con un breve testo introduttivo che si apre con un epigramma
di sei distici. Il L. stesso, definendo questo suo libro vademecum, ne indica
il contenuto: "agemus in hoc libro Vade mecum […] de alchimia que est
naturalis magia et vocatur astrologia terrestris. In questa scienza dichiara di
essere stato istruito "a Joane Ricardi de Branchis de Belgica provincia
[…] qui in hoc fuit magister meus currente ab incarnatione verbi" (ed.
Brini). Nella sua biografia il fratello attribuisce al L. capacità
divinatorie attraverso il sogno -- habebat somnia, quae potius visiones, sive
oracula dici potuissent" (Vita Lodovici, p. 10) - e in sogno il L. avrebbe
anche antiveduta la propria morte, intervenuta a San Severino a pochi giorni di
distanza da quella del fratello Girolamo. Delle opere del L. sono a
stampa: De apparatu Patavini hastiludii, Patavii 1629; De gentilium deorum
imaginibus, a cura di W.J. O'Neal, Lewiston, NY; Fasti Christianae religionis,
a cura di M. Bertolini, Napoli 1991; Epistola Enoch, Venezia, cfr. Indice
generale degli incunaboli [IGI], VI, p. 225), ora a cura di M. Brini, in Testi
umanistici sull'ermetismo, Roma; la traduzione delle Diffinitiones Asclepii in
appendice a Vasoli, Temi e fonti della tradizione ermetica in uno scritto di
Symphorien Champier, in Umanesimo e esoterismo, a cura di E. Castelli, Padova;
le prefazioni del ms. II.D.I.4 della Biblioteca comunale degli Ardenti di
Viterbo in appendice a P.O. Kristeller, Marsilio Ficino e L.. Contributo alla
diffusione delle idee ermetiche nel Rinascimento, in Annali della R. Scuola
superiore di Pisa, quindi in Id., Studies in Renaissance thought and letters,
Roma; De bombyce [Roma, Eucharius Silber, s.d.] (IGI) quindi in Bombix. Accesserunt
ipsius aliorumque poetarum carmina, a cura di Lancellotti, Aesii, e ora in G.
Roellenbleck, Ludovico Lazzarelli Opusculum de Bombyce, in Literatur und
Spiritualität. Hans Sckommodau zum siebzigsten Geburtstag, a cura di
Rheinfelder, Christophorov, Müller-Bochat, München; Crater Hermetis nel corpus
di testi ermetici raccolti da J. Lefèvre d'Étaples: Pimander Mercurii
Trismegisti liber de sapientia et potestate Dei. Asclepius eiusdem Mercurii
liber de voluntate divina. Item Crater Hermetis a Lazarelo Septempedano,
Parisiis, in officina Henrici Stephani, quindi, in edizione moderna,
parzialmente, a cura di Brini in Testi umanistici sull'ermetismo, e,
integralmente, in C. Moreschini, Il "Crater Hermetis" di L., in Id.,
Dall'"Asclepius" al "Crater Hermetis". Studi sull'ermetismo
latino tardo-antico e rinascimentale, Pisa, Vademecum, a cura di Brini, in
Testi umanistici sull'ermetismo. Ampie sillogi di scritti del L., frutto di
compilazioni sette-sono contenute nei mss. della Biblioteca comunale di San
Severino Marche; il carme per la morte della duchessa d'Atri è conservato nel
ms. della Biblioteca del Seminario di Padova (cfr. A. Tissoni Benvenuti, Uno
sconosciuto testimone delle egloghe di Calpurnio e Nemesiano, in ITALIA
medioevale e umanistica. Il codice unico del Carmenbucolicum si trova nella
Biblioteca universitaria di Breslavia, Milich Collection; una silloge di carmi
di occasione (tra cui i versi che gli valsero l'incoronazione) è nel ms. V. E.
della Biblioteca nazionale di Napoli. Gli epigrammi sullo Pseudo Dionigi
l'Areopagita si leggono nel ms. W.344 della Walters Art Gallery di
Baltimora. Fonti e Bibl.: San Severino Marche, Biblioteca comunale, Mss.;
due copie di Lazzarelli, Vita L. Septempedani poetae laureati per Philippum
fratrem ad Angelum Colotium, da cui deriva in gran parte la biografia premessa
da G.F. Lancellotti al poemetto del L. Bombix…, cit., Aesii; Vecchietti - Moro,
Biblioteca picena, V, Osimo, Lancetti, Memorie intorno ai poeti laureati d'ogni
tempo e d'ogni nazione, Milano, Aleandri, La famiglia L. di Sanseverino
(Marche), in Giorn. araldico genealogico diplomatico italiano, Ohly, Ioannes
"Mercurius" Corrigiensis, in Beiträge zur Inkunabelkunde, Thorndike,
A history of magic and experimental science, V, New York, Donati, Le fonti
iconografiche di alcuni manoscritti urbinati della Biblioteca Vaticana, in La
Bibliofilia, vi è riferita la lettura di Campana della dedica del ms. Urb. lat.
Kristeller, Lodovico L. e Giovanni da Correggio, due ermetici del Quattrocento,
e il manoscritto II.D.I.4 della Biblioteca comunale degli Ardenti di Viterbo,
in Biblioteca degli Ardenti della città di Viterbo. Studi e ricerche, a cura di
Pepponi, Viterbo, Delz, Ein unbekannter Brief von Pomponius Laetus, in Italia
medioevale e umanistica, Ubaldini, Vita di mons. Angelo Colocci, a cura di V.
Fanelli, Città del Vaticano, Moreschini, Il "Crater Hermetis" di L.,
in Res publica litterarum, Sosti, Il "Crater Hermetis" di L. L., in
Quaderni dell'Istituto sul Rinascimento meridionale, Tenerelli, L. ed il
rinascimento filosofico italiano, Bari, Saci, L. L. da Elicona a Sion, Roma; Foà,
Giovanni da Correggio, in Diz. biogr. degli Italiani, LV, Roma, Walker, Magia
spirituale e magia demoniaca da Ficino a Campanella, Torino, Meloni, L. L.
umanista settempedano e il "De gentilium deorum imaginibus", in
Studia picena; Kristeller, Iter Italicum, ad indices; Rep. fontium hist. Medii
Aevi, VII, pp. 159-161.Luigi Lazzarelli. Lodovico Lazzarelli. Ludovico
Lazzarelli. Lazarelli. Keyword: implicatura ermetica, mascolinita romana,
religione officiale romana, campo marzio, marte, dio della guerra, marte come
pianeta, il simbolismo di marte nell’arte e la filosofia, marte e apollo, marte
e Nietzsche --. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lazzarelli” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Leanace: la setta di Sibari -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Sibari). FIlosofo
italiano. Pythagorean. Giamblico.
Grice e
Lecaldano: l’implicatura conversazionale della traspatia – l’impassibile di Cicerone
-- filosofia italiana – Luigi Speranza
(Treviso). Filosofo italiano. Grice: “Lecaldano is interested in altruism as
the basis for morality; I’m interested in morality as the basis for altruism;
he ain’t Kantian; I am!” -- Grice: “I love Lecaldano; perhaps because he is an
Italian, he focused on Scots! His analyses of Smith and Hume on ‘sympathy’ is
‘simpatico,’ as the Italians say.” Grice: “Lecaldano engages in the kind of
linguistic botanising I do when I reflect on ‘cooperation’ versus ‘benevolence’
versus ‘empathy’ versus ‘sympathy’ versus ‘compassion.’ Unlike Lecaldano, I end
up with a rationality-based account of cooperativeness – or rather a narrowing
of ‘co-operation’ to ‘rational co-operation’ – there are others!” Si laurea a
Roma, insegna a Siena e Roma. Fonda La Società Italiana di Filosofia Analitica
(“to keep us apart from non-analytics like Plato!”). Membro della Società Filosofica
Italiana. Le riflessioni di L. spaziano dalla storia della filosofia morale
sino alle discussioni contemporanee sulla bioetica. Avvalendosi anche del
rigore concettuale della filosofia analitica, indirizza la sua ricerca alla
ricostruzione storiografica della morale, con particolare riferimento ai
filosofi scozzesi (Hume, Smith). Ha inoltre indagato criticamente i problemi
della meta-etica. In bio-etica, L. si prefigge l'obiettivo di una
chiarificazione delle implicazioni morali legate alle bio-tecnologie, che
sfocia in una prospettiva laica per la pacifica gestione del conflitto morale che
le "tecnologie della vita" hanno prodotto. Saggi: “Le analisi del
linguaggio morale – “Buono" e "dovere" (Roma, Ateneo), “La
fallacia naturalista” (Roma, Laterza); “La lume della ragione, gl’iluminati””
(Torino, Loescher), “Lo scetticismo” (Roma, Laterza); “Etica, Torino, POMBA); “Bio-etica:
la scelta morale” (Roma, Laterza); “La morale” (Gaeta, Bibliotheca); “Dizionario
di bio-etica” (Roma, Laterza); “Un'etica secolare – senza Dio” (Roma, Laterza);
“Prima lezione di Filosofia Morale” (Roma, Laterza); “Simpatia, impassibile” (Milano,
Cortina); “Senza Dio – gl’atei romani” (Bologna, Mulino); -- la religione
officiale in Roma antica – “Sul senso della vita, Bologna, Mulino); “Bioetica
Comitato Nazionale per la Bioetica Biotecnologie); “La bioetica. Il punto di
vista morale di L. sulla nascita, la cura e la morte di Corchia. Riflessioni di
L. sul Senso della Vita In Riflessioni. I significati di simpatia tra
conversazione comune e letteratura “La molteplicità di usi di
simpatia” È possibile riconoscere diversi significati nel termine
simpatia che di solito è accompagnato da un significato positivo, anche
se in realtà è possibile estendere il suo significato fino a usarlo
con connotazione negativa. Nel dizionario troviamo distinte 13 accezioni
del termine, dall’attrazione sentimentale alla condivisione di un
atteggiamento o posizione politica. Come nota Hume, è molto difficile parlare
delle operazioni della nostra mente in termini del tutto esatti, perché
il linguaggio comune raramente fa delle sottili distinzioni. Il termine “simpatia”
viene compreso dalla gran parte delle persone, ma paga la sua ampia
diffusione con l'indeterminazione che ad esso si accompagna. E enorme
l'utilizzazione che ha avuto la simpatia, sia in forma implicita che
esplicita. Hunt suggerisce che la nozione di simpatia sia la prosecuzione di
quella che nei testi illuministi viene analizzata come simpatia; Hunt,
poi, privilegia la simpatia assimilata alla compassione. Già nel
diciottesimo secolo Rousseau, assimilando la simpatia e la compassione,
la considerava una forma di pietà suscitata solo da pene e dolori. Mentre
Hume e Smith la considerano come la capacità, più sviluppata negli uomini
che negli animali, di partecipare attivamente alle condizioni altrui, sia
dolorose che gioiose. E’ illuminante la tesi di Hunt secondo cui il
rafforzarsi della simpatia fra gli esseri umani nella cultura europea (reso
possibile dai romanzi) portò a riconoscere l'eguaglianza di molti esseri
umani che fino a quel momento erano stati emarginati. Molti romanzi in
secoli successivi accesero le emozioni e la partecipazione simpatetica
del pubblico.Verosimilmente anche molta della forza espressiva del cinema
può essere identificata nella capacità di quest'arte di rendere conto, con le
sue tecniche, degli stati d'animo e della trasformazione delle emozioni
dei personaggi. (discorso su Kundera) “Un percorso di
approfondimento” Lo sforzo di conoscere il funzionamento della simpatia
si connette con la questione relativa a quanto la simpatia si debba
ritenere essenziale per la genesi della pratica morale diffusa tra gli esseri
umani. Cercheremo di capire se la simpatia sia necessaria o meno per la
moralità ed esporremo le argomentazioni pro e contro questa tesi. Fermo restando
che la simpatia può essere considerata necessaria per la nostra vita
etica, ma non sufficiente. Simpatia può riferirsi a un'attitudine
conoscitiva tramite la quale riusciamo a cogliere le condizioni mentali altrui,
oppure a una reazione affettiva ed emotiva nei confronti dei sentimenti
altrui. Concordando con Stueber, andremo verso la simpatia intesa come
preoccupazione per le altre persone e le loro menti. Vi sono due criteri in
base ai quali individuare tipi diversi di simpatia: Da una parte
quello che considera la simpatia come un'operazione mentale semplice e
istintiva, un contagio emozionale automatico; 2. Dall'altra quello
che considera la simpatia come un processo psicologico più complicato e
che comporta un minimo di riflessione. L'impostazione adeguata è
quella che non confonde i due livelli di simpatia e non semplifica le
cose, presentando una concezione riduttiva. Insisteremo inoltre sulla
connessione tra simpatia e la pratica non solo della moralità, ma della
giustizia, della politica, così come sulla sua incidenza nelle forme di
civilizzazione. Prenderemo le distanze dall'esportazione della simpatia sul
piano normativo che vede in essa ciò che è necessario e sufficiente per
la costruzione di una moralità umana. La nozione di simpatia ha una lunga
tradizione nella storia della filosofia. La prima importante nozione di
simpatia è quella che le riconosce una forza cosmica che tiene insieme tutte le
cose del mondo. Nella cultura classica greca e latina, la simpatia
utilizzata per richiamare una connessione armonica che unisce fra loro
esseri umani e realtà naturali. Inoltre, la nozione di simpatia nella
filosofia antica viene usata per richiamare un processo che si sviluppa nel
mondo fisico e solo secondariamente in quello umano, infatti gli stoici
si riferiscono ad una simpatia universale per indicare l'affinità
oggettiva esistente fra tutte le cose. Gli stoici sono importanti per
l'influenza che ebbero sui moderni interessati alla simpatia come Hume e
Smith. In Plotino troviamo un'immagine che verrà ripresa da Hume. Questo
concetto naturalistico della simpatia è il fondamento della magia e verrà
ripreso dai maghi del Rinascimento. Nella cultura antica la simpatia ha
un'estensione prevalentemente cosmologica e ontologica, identificandosi con un fenomeno
universale e con la forza che tiene insieme tutte le cose in una relazione
automatica. Fin dall'antichità, quindi, la simpatia ha un'accezione
positiva. Prima del passaggio alla modernità c'è un'importante
innovazione nell'uso della simpatia ad opera di Assisi, che nel “Cantico
delle creature” chiama suoi fratelli e sorelle, animali, piante, ma anche il
sole, la luna, l'acqua e il fuoco. Questo atteggiamento è “empatia”
(oriente e Schopenhauer) “Una relazione attiva fra due poli” La
simpatia conquista il suo posto come forza dinamica della natura umana. Critica
a Hobbes che negava qualsiasi presenza di empatia nell'uomo, visto come
essenzialmente egoista. Significativi qui sono Shaftesbury e Hutchenson
che però, pur riconoscendo agli esseri umani un grado di apertura
affettiva l'uno verso l'altro non ne avevano realizzato quella
completa soggettivizzazione che troviamo in Hume e Smith. Shaftesbury,
infatti, con l'impostazione platonizzante tende a considerare la simpatia
come una trama che si estende al di là del mondo umano, creando armonia
fra vite umane ed ordine universale. Hutchenson, invece, preferisce il
termine simpatia quello di “senso pubblico”, facendo riferimento ad un contagio
emotivo. Hume contesterà ad Hutchenson una trattazione della simpatia erronea
perché incapace di cogliere il suo collegamento con l'immaginazione e la
riflessione. Ciò non toglie che le analisi di Hutchenson siano tornate
attuali. Troviamo la trattazione più approfondita dell'idea di simpatia e si
può individuare nelle analisi di Hume e Smith due diverse concezioni che
influenzeranno molti pensatori. Hume e Smith concordano nel considerare la
simpatia solo come un dato della natura della psicologia umana e non una
forza cosmica. Per Hume la simpatia è un principio psicologico
che permette la comunicazione e la partecipazione fra gli esseri umani;
per Smith è altresì un principio psicologico, ma tende a distinguere fra
ciò che possiamo approvare e ciò che dobbiamo disapprovare. Queste
diversità tra i due autori incidono sulla connessione fra simpatia e
moralità: Smith la concepisce come necessaria e sufficiente, Hume solo
necessaria ma non sufficiente. Hume dedica alla simpatia molte analisi nel
“Trattato sulla natura umana”, in cui troviamo una linea interpretativa
ben riconoscibile che sarà illuminante. La simpatia viene considerata da Hume
un principio costitutivo della vita umana ed egli fissa due punti
fondamentali. La simpatia non riguarda le relazioni fra cose o oggetti, ma solo
quelle fra esseri umani, nonostante coinvolga anche relazioni con gli
animali e tra loro stessi; Nella natura umana esiste una gran tendenza a
prestare agli oggetti esterni le stesse emozioni che osserviamo in noi
stessi -- tendenza che si manifesta nei bambini, nei poeti e nei filosofi. L'estensione
della simpatia anche al rapporto tra uomini e animali ed alla condotta di
questi ultimi, è evidente che la simpatia si manifesta anche negl’animali
suscitando le stesse emozioni provocate nella nostra specie. Hume distingue
due livelli di simpatia: quella istintiva e automatica presente fin dall'
infanzia, riscontrabile anche negli animali e quella che opera in modo
indiretto, ricorrendo all'immaginazione riflessiva e non immediata che
genera i sentimenti morali. A quest'ultima forma di simpatia può essere
ricondotto la trattazione della questione sul coincidere tra morale e
simpatia. Hume offre una lunga analisi per spiegare che la simpatia non è in
grado di rendere conto della distinzione che facciamo tra virtù e
vizio. Nella teoria dei sentimenti morali, Smith presenta una concezione
della simpatia alternativa a quella di Hume. Infatti, a Smith non
interessa la simpatia come contagio emozionale, ma anzi la identifica
come una specie di emozione che si prova quando si concorda con le emozioni e
passioni altrui. Provare simpatia per qualcuno significa provare piacere
su nel condividere emotivamente la risposta che l'altro dà alla
situazione. In Smith, approvare moralmente una condotta significa
simpatizzare con essa. Per Smith la simpatia si presenta come uno stato
complesso e articolato: vi è un primo stadio che è la capacità di
ricostruire la passione e condotta dell'altro, o spiacevole se comporta
sofferenza o piacevole se provoca gioia; un secondo stadio dato
dall'approvazione o disapprovazione che si dà della condotta altrui;
infine, uno stadio in cui si troverà un piacere simpatetico, se le nostre
approvazioni concordano e un dispiacere se discordano. Considerando la simpatia
come approvazione, Smith cattura una nozione più determinata di quella
generica analizzata da Hume, ma molto più aperta per ciò che riguarda il
ruolo che gioca in essa l'immaginazione. La simpatia come approvazione
morale in Smith si allarga ad includere in ogni relazione simpatetica
l'intervento di uno spettatore immaginario capace di far valere le
esigenze di una più completa ricerca delle informazioni rilevanti.
Concezione diversa la possiamo trovare in Rousseau, il quale si riferisce alla
simpatia col ter. Grice: “While his research on sympathy is erudite, he shows
little sympathy! As far as his philosophy of laicity (an Italian obsession) is
concerned, he forgets for Romans religio WAS a matter of state – those who did
not submit were thrown to the lions!” – Grice: “Lecaldano fails to recognize,
but then he would, being a post-Lateran-pact traumatized Italian – that not
only religion was for the romans in the ‘eta antica’ a matter of state, but
that the STATE was a matter of religion. This was well perceived by that branch
of fascism who culticated the ‘paganismo’ which is a misnomer and only applies
to the birth of Christ! I would hardly say a Roman in ‘eta antica’ saw himself
as ‘ethnic, ‘ethnicus, ennico, a pagan, or heathen!” Eugenio Lecaldano. Keywords: simpatia,
simpatico, antipatico, compassione, compassivo, empatia, impassibile,
transpatia, patia, patico, il patico, diapatia. Psi-transmission. Grice:
“Scheler uses ‘transpathy,’ but then he would use anything!” filosofi italiani
della simpatia, croce, l’intersoggetivo, simpatia ed amore, empatia,
impassibile, im- negative, im- enfatico – teorie della simpatia morale in
Italia --. Lecaldano. Keywords: illuminati e illuministi --. Refs.: transpatia,
dia-pathia, trans-passione – trans-passio. Luigi Speranza, “Grice e Lecaldano”
– The Swimming-Pool Library.
Grice e Lelio: il portico romano -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Ha fama
soprattutto per l’intima amicizia che lo lega all’Africano Minore. Conosce
i tre filosofi inviati a Roma, ma e attirato principalmente da Diogene, del
Portico. In seguito L. ha rapporto con Panezio e ne diffuse la dottrina
nell’aristocrazia romana.Come legato di Scipione, C. L. partecipa alla guerra
contro i punici e si distinge nell’assedio di Cartagine, ottenendo in premio la
pretura. Appartenne agl’auguri è diviene console. Nelle lotte civili
determinate dall'azione di Tiberio GRACCO (si veda), L. si schiera contro
questo e i suoi fautori. E ammirato, se non come oratore, come uomo
politico, e dove il soprannome di "sapiente" datogli
dall’aristocrazia, al suo atteggiamento politico più che ad altro. Console
della repubblica romana. Filosofo del portico, politico e militare
romano. E uno dei migliori amici e più stretti collaboratori di Publio
Cornelio SCIPIONE (si veda) Africano, che
segue durante la guerra punica come prefetto della flotta, legato e
questore. Si distingue particolarmente nella conquista di Cartagine e in
seguito, nella campagna contro Siface e nella decisiva battaglia di Zama. Dopo
un viaggio di XXXVII giorni, partito da Tarraco in Spagna, in seguito alla
presa di Carthago, raggiunse a Roma. Quando entra in città insieme ad una
grande schiera di prigionieri attira l'attenzione del popolo che si riversa
lungo le strade al suo passaggio. Il giorno seguente venne ricevuto in senato,
dove racconta che Cartagine e presa in una sol giorno. Oltre a questa notizia
rifere che sono state riprese alcune delle città che si sono ribellate ai romani,
mentre altre sono state accolte come nuove alleate. I prigionieri riferirono
cose analoghe a quelle comunicate in precedenza dalla lettera di Marco Valerio
Messalla, secondo il quale Asdrubale Barca si sta preparando per passare con un
grande esercito in Italia, tanto da destare preoccupazioni nei senatori, visto
che a stento si e riusciti a resistere ad Annibale ed al suo esercito. L. rifere
degli stessi argomenti anche all'assemblea del popolo. Alla fine il senato
decreta che venissero ordinate per un giorno pubbliche cerimonie di
ringraziamento a GIOVE CAPITOLINO per l'esito felice della guerra e ordina a
Lelio di far ritorno dal suo comandante SCIPIONE il prima possibile, con le
stesse navi con cui e venuto. Dopo la fine della guerra e edile plebeo, pretore
e console e fornisce importanti informazioni sulla vita dell'amico SCIPIONE Africano,
a Polibio. L. è il padre di L. SAPIENTE, console insieme a Quinto Servilio
Cepione. Smith, Dictionary of greek and roman biography and mythology, The
Ancient Library.Polibio, Livio. Polibio. Appiano di Alessandria, Historia
Romana. Livio, Ab Urbe condita libri. Polibio, Storie, Strabone, Geografia.
Brizzi, Storia di Roma, dalle origini ad Azio, Bologna, Patron; Piganiol, Le
conquiste dei romani, Milano, Saggiatore; Scullard, Storia del mondo romano.
Dalla fondazione di Roma alla distruzione di Cartagine, Milano, BUR, L,, in
Who's Who in The Roman World, Londra, Routledge, Romanzi storici Posteguillo,
L'Africano, Casale Monferrato, Piemme; Posteguillo, Invicta Legio, Casale
Monferrato, Piemme, L., Enciclopedia Britannica. Predecessore Console romano Successore
Manio Acilio Glabrione e Publio Cornelio Scipione Nasica con Lucio Cornelio
Scipione Asiatico Gneo Manlio Vulsone e Marco Fulvio Nobiliore; guerra punica,
guerra romano-siriaca ("Guerra contro Antioco III") Antica
Roma Portale Biografie Categorie: Politici romani Militari romani Militari.
Consoli repubblicani romani Laelii Persone della seconda guerra punica. A statesman
and orator who takes a keen interest in philosophy, becoming an acquaintance of
members of the Porch like Diogene and Panazio. He was given the nickname
‘sapiens’ (know it all). According to CICERONE, this was not because L. knew it
all, but because of his self control in matters of judicial sentencing. Cicerone
greatly admires him and featured him in a number of his philosophical works. Gaio
Lelio. Lelio.
Grice e Leocide: la diaspora di Crotone. Roma
– filosofia italiana– Luigi Speranza (Metaponto). Filosofo
italiano. A Pythagorean, according to the “Vita di Pitagora” by Giamblico di
Calcide.
Grice e Leofronte: la setta di Crotone –
Roma – filosofia italiana– Luigi Seranza (Crotone).
Filosofo italiano. A Pythagorean, according to the Vita di Pitagora by
Giamblico di Calcide.
Grice e Leone: la diaspora di Crotone –
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Metaponto). FIlosofo italiano. A Pythagorean, according to the Vita di
Pitagora by Giamblico di Calcide. Alcmaeon di Crotone dedicates a ‘saggio’ to
him.
Grice e Leonzio: la diaspora di Crotone --
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto).
Filosofo italiano. A Pythagorean, according to The Vita di Pitagora di
Giamblico di Calcide.
Grice e Lettine: all’isola – la diaspora
di Crotona – Roma – filosofia italiana – Luigi Spearnza
(Siracusa). Filosofo italiano. A Pythagorean, according to “Vita di Pitagora”
by Giamblico di Calcide.
Grice e Libanio: la setta di Giuliano -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Supports Giuliano in his attempt to revive paganism (a charming
letter survives) – “but he is also a friend and teacher of many Christians, can
you believe it?” – Loeb.
Grice e Liberale: il portico romano -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. Not to be confused with Liberace, he is staying at Lyons (Lugdunum)
at the time it was destroyed by fire. A dear friend of Seneca. He follows the
Porch. In his eulogy, Seneca declaims: “While he is accustomed to dealing with
everyday difficulties, a catastrophe, unexpected, and of such magnitude, is more than he could handle.” Ebuzio
Liberale.
Grice e Licenzio: il filosofo poeta – Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo
italiano. – A pupil of Agostino. He achieves a reputation of a poet. Licenzio.
Grice e
Livi: l’implicatura conversazionale del consenso sociale – filosofia italiana –
l’aporia: se cristiano, non filosofo. Luigi Speranza (Prato).
Filosofo italiano. Grice: “Livi is one of the few Italian philosophers who have
taken Moore’s ‘common-sense’ seriously!” – Grice: “The way Livi justifies
common-sense, not unlike Moore, is via a principle of ‘coherence’” Allievo di Gilson,
collabora con Fabro, Noce edAgazzi. Inizia la scuola filosofica del senso
comune, rappresentata dalla Common-Sense Association, che ha come organo
ufficiale la rivista "SENSVS COMMVNIS” – cf. Grice on Malcolm, Moore -- . Alethic
Logic". Tra i suoi numerosi discepoli o estimatori vi sono Renzi, autore
di importanti saggi di Storia della Metafisica, Bettetini, Arecchi,
Spatola, Covino ed Arzillo. Fondatore di
Vinci, membro associato della Accademia d’AQUINO, decano e professore emerito
della Facoltà di Filosofia della Pontificia Università Lateranense. Firma con
Giovanni Paolo II alcune parti dell'enciclica Fides et ratio. «Senso
comune» è il termine utilizzato da Livi – apres Malcolm, Moore e Grice -- in
chiave anti-cartesiana per individuare le certezze naturali e incontrovertibili
possedute da ogni uomo. Non si tratta di una facoltà o di strutture cognitive a
priori, ma di un sistema organico di certezze universali e necessarie che
derivano dall'esperienza immediata e sono la condizione di possibilità di ogni
ulteriore certezza. – cf. Grice, “Common Sense” --. Grice, “Common Sense and
Ordinary Language,” “Common Sense and Scepticism” --. Ha per primo precisato
quali siano queste certezze e ha provato con il metodo della presupposizione
che esse sono in effetti il fondamento della conoscenza umana. Il senso comune
comprende dunque l'evidenza dell'esistenza del mondo come insieme di enti in
movimento; l'evidenza dell'io, come soggetto che si coglie nell'atto di
conoscere il mondo; l'evidenza di altri come propri simili; l'evidenza di una
legge morale che regola i rapporti di libertà e responsabilità tra i soggetti;
l'evidenza di Dio come fondamento razionale della realtà, prima causa e ultimo
fine, conosciuto nella sua esistenza indubitabile grazie a una inferenza
immediata e spontanea, la quale lascia però inattingibile il mistero della sua
essenza, che è la Trascendenza in senso proprio. Queste certezze sono a
fondamento di un sistema di logica aletica su base olistica. Tra gli
studi recenti sul sistema della logica aletica elaborato da lui vanno ricordati
i saggi di AGAZZI, "Valori e limiti del senso comune" (Angeli, Milano),
Ottonello ("L.", in "Profili", Marsilio, Venezia ),
Vassallo ("La riabilitazione del SENSO COMUNE", in "Memoria e
progresso", Fede & Cultura, Verona), di Arzillo, “Il fondamento del
giudizio -- una proposta teoretica a partire dalla filosofia del SENSO COMUNE (Vinci,
Roma ); Renzi, La logica aletica e la sua funzione critica -- analisi della
proposta di L. (Vinci, Roma). Hanno scritto su L. anche Andolfo, storico della filosofia
antica, Sacchi, Cottier, Fisichella, Galeazzi, Pangallo e Possenti. Da Gilson,
Fabro ed Agazzi ha appreso ad affrontare i problemi essenziali della
speculazione metafisica in dialogo con grandi filosofi antichi (Platone,
Aristotele, la Scesi, Agostino), del Medioevo (Anselmo, Aquino, Scoto) e
dell'età moderna (VICO, Kierkegaard, Rosmini-Serbati). Convinto assertore del
metodo realistico di interpretazione dell'esperienza, ne ha difeso le ragioni
utilizzando sistematicamente gli strumenti dialettici offerti dai filosofi
della scuola analitica. Suoi critici più intransigenti sono stati, da una parte,
l’idealista Severino, e dall'altra il caposcuola del pensiero debole, Vattimo. Altri
saggi: “Cistiano e filosofo -- il problema (L'Aquila: Japadre); “Cristiano e comunista” (Torre del
Benaco: Colibrì); “Filosofia del SENSO COMUNE -- Logica della scienza (Milano:
Ares); “IL SENSO COMUNE tra razionalismo e la scesi in VICO” (Milano: Massimo);
“Lessico filosofico latino” (Milano: Ares); “Il principio di coerenza – SENSO
COMUNE e logica epistemica” (Roma: Armando); “Aquino: filosofo” (Milano:
Mondadori); “La filosofia in eta antica” (Roma: Alighieri); “Dizionario storico
della filosofia, Roma: Alighieri); “La ricerca della verità” (Roma, Vinci, Verità
del pensiero (Fondamenti di logica aletica) Roma: Laterano); “Razionalità della
fede nella Rivelazione -- Un'analisi filosofica alla luce della logica aletica”
(Roma: Vinci); “La ricerca della verità -- Dal SENSO COMUNE alla dialettica” (Roma:
Vinci); L'epistemologia d’AQUINO e le sue fonti” (Napoli: Comunicazioni ); “SENSO
COMUNE e logica aletica” (Roma: Vinci); “Perché interessa la filosofia e perché
se ne studia la storia” (Roma: Vinci); “Storia sociale della filosofia in eta
antica: aspetti sociali”, La filosofia antica e medioevale; moderna;
contemporanea, L'Ottocento; Il Novecento, Roma: Alighieri); “Logica
della testimonianza - quando credere è ragionevole” (Roma: Lateran); “SENSO
COMUNE e metafisica -- sullo statuto epistemologico della filosofia prima” (Roma:
Vinci); “Nuovo Dizionario storico della filosofia” (Roma, Alighieri); “Premesse
razionali della fede. Filosofi e teologi a confronto sui praeambula fidei” (Roma:
Lateran); “Etica dell'imprenditore. Le decisioni aziendali, i criteri di
valutazione e la dottirna sociale della chiesa” (Roma: Vinci); Dizionario
critico della filosofia, Roma: Alighieri); “Teologia come braccio della
metafisica speziale” (Bologna: Edizioni Studio Domenicano); “IL SENSO COMUNE al
vaglio della critica” (Roma: Vinci); “Filosofia del SENSO COMUNE. Logica della
scienza e della fede” (Roma: Vinci); “Vera e falsa teologia. Come distinguere
l'autentica scienza della fede da un'equivoca "filosofia religiosa" (Roma:
Vinci); “L'istanza critica, Roma: Vinci); “La certezza della verità. Il sistema
della logica aletica e il procedimento della giustificazione epistemica” (Roma:
Vinci); “Dogma e pastorale. L'ermeneutica del Magistero, dal Vaticano II al
Sinodo sulla famiglia, Roma:Vinci,. Le leggi del pensiero. Come la verità viene
al soggetto” (Roma: Vinci,. Teologia e Magistero” (Roma: Vinci); “Vera e falsa
teologia. Come distinguere l'autentica scienza della fede da un'equivoca
"filosofia religiosa", su Gli
equivoci della teologia morale dopo l’amoris Laetitia” (Roma: Vinci); “Aquino filosofo” in Piolanti, AQUINO nella
storia della filosofia” (Roma: Vaticana); “La filosofia di Gilson",
in Piolanti, Gilson, filosofo, Roma: Vaticana,
"L'unità dell'ESPERIENZA nella
gnoseologia in AQUINO", in Piolanti "Noetica, critica e metafisica in
chiave tomistica", Roma: Vaticana); “SENSO COMUNE e unità delle
scienze"[cf. Grice, Einhiet Wissenschaft] in Martinez "Unità e autonomia del
sapere: il dibattito", Rome: Armando, Ledda, In memoriam: Corrispondenza
Romana, antoniolivi.Vinci, su editriceleonardo ISCA Commonsense Association ca-news; fidesetratio.
Ilgiudiziocattolico. Antonio Livi. Keywords: ‘il senso commune in Vico” – Grice
develops a sceptical defence in his early “Common sense and scepticism,”
“mainly motivated by what he sees as a ‘cavalier attitude’ to the sceptic by,
of all people, Malcolm.” – Grice: “I’m not sure Livi would agree with my idea,
but I think he would – certainly Vico took the sceptic challenge possibly most
seriously than anyone and Livi is an expert on Vico. Vico’s line of defense
lies on the connection, conceptual he thinks, between ‘common sense’ and
‘consenso’: therefore, Malcolm and I have to reach a consensus that we are
going to use ‘know’ for things like ‘I know that s is p,’ say, there is cheese
on the table, there is a mermaid on the table. Etc. And that “if I’m not
dreaming” may not always be a conversationally appropriate defeater!” – Livi.
Keywords: consenso sociale, amoris laetitia, Letizia dell’amore -- Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Livi” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Leonzi – (Leonzio) Georgia di Leonzi
Grice e
Leoni: l’implicatura conversazionale – filosofia italiana – il vincolo mi fa
libero -- Luigi Speranza (Ancona). Filosofo italiano. Grice:
“I love Bruno Leoni; my balance between the principle of conversational
self-love and the principle of conversational benevolence is what all his
philosophy is about!” – Grice: “Leoni has technical concepts here: his is an
individualism, i. e. subjectivisim, and he believes that the ‘scambio’ or
‘inter-subjective,’ inter-individual exchange’ is ‘spontaneous – he calls it
‘ordine spontaneo.’ He doesn;’t see it necessarily as ethical or meta-ethical –
but descriptive; similarly I speak of conversational maxims as different from
‘moral’ maxims!” “La situazione paradossale del nostro tempo è che siamo
governati da uomini non, come pretenderebbe la classica teoria aristotelica,
perché non siamo governati dal diritto, ma esattamente perché lo siamo. Vive a Torino,
Pavia, e la Sardegna. Per la sua filosofia, viene associato ad un modello
liberale e anti-statalista della società. All'interno della filosofia, si inserisce nella tradizione del liberalismo
classico. Allievo di SOLARI, di cui e pure assistente volontario, e collega di
Firpo, insegna a Pavia. Nel corso del conflitto, fa parte di A Force,
un'organizzazione segreta alleata incaricata di recuperare prigionieri e
salvare soldati. Insegna filosofia e ricoprendo l'incarico di preside della
facoltà di Scienze Politiche. Muore in circostanze tragiche, ucciso. Un
collaboratore del suo studio legale, Quero, di professione tipografo ma che
svolge amministrazioni di condomini e palazzi, ha perpetrato truffe e sottrazioni
di denaro. Quando se ne accorse e minaccia di denunciarlo, Quero lo assassina
colpendolo ripetutamente alla testa e nascose poi il corpo in un garage,
inscenando un sequestro di persona, ma venne subito scoperto. Negli anni della
ricostruzione postbellica, mentre in tutti i paesi europei si affermavano
politiche economiche di stampo statalista, anda contro-corrente sostenendo il
liberalismo, che ormai quasi più nessuno e pronto a difendere. L. critica la
logica dell'intervento pubblico mentre esalta la superiore razionalità e
legittimità degli ordini che emergono dal basso, per effetto del concorso delle
volontà dei singoli individui. Fondatore di Il Politico, svolge
ugualmente un'intensa attività pubblicistica, soprattutto scrivendo corsivi per
Il Sole 24 ORE. Membro della Societa Mont Pelerin di cui fu segretario e poi
presidente, il filosofo torinese e pure molto impegnato nel Centro di Studi
Metodologici della città piemontese e, in seguito, nel Centro di Ricerca e
Documentazione Einaudi. Filosofo poliedrico (giurista e filosofo, ma anche
appassionato cultore della scienza politica e della teoria economica, oltre che
della storia delle dottrine politiche), L. Promuove le idee liberali
all'interno della filosofia italiana: proponendo temi ed autori del liberalismo
contemporaneo, ma soprattutto aprendo prospettive ad una concezione della
società centrata sulla proprietà privata e il libero mercato. Per comprendere
quanto sia stata importante la sua azione tesa a favorire una migliore
conoscenza delle tesi più innovative, è sufficiente scorrere l'indice della
rivista da lui diretta, Il Politico, in cui da spazio ad autori spesso a quel
tempo poco noti, ma desti segnare le scienze economiche. Con i suoi saggi,
inoltre, L. apre la strada a molti orientamenti: dalla Teoria della scelta
pubblica all'Analisi economica del diritto -- filoni di ricerca che esaminano
la politica ed il diritto con gli strumenti dell'economia -- fino all'indagine
interdisciplinare di quelle istituzionitra cui il diritto che si sviluppano non
già sulla base di decisioni imposte dall'alto, ma grazie ad un'intrinseca
capacità di auto-generarsi ed evolvere dal basso. E stato quasi
dimenticato: soprattutto in Italia. Il suo saggio più conosciuta (frutto di
lezioni ). L’ndividualismo integrale di L. risulta ben poco in sintonia con la
cultura del suo tempo. Il liberalismo dell'autore di Freedom and the Law è
pervaso da quella cultura che egli assimila in profondità grazie all'intensa
frequentazione di alcuni tra i maggiori filosofi di quell'universo
intellettuale. Inoltre, segue sempre con il massimo interesse i
protagonisti della scuola austriaca -- Mises e Hayek, soprattutto -- cheanche
se europei proprio in America hanno scritto alcuni dei loro maggiori contributi
e in quel contesto hanno trovato folte schiere di allievi. In questo senso,
bisogna rilevare che il percorso filosofico di L. e stato molto differente
senza la Societa Mont Pelerin, nei cui convegni egli ha l'opportunità di
entrare in contatto con filosofi e scuole di pensiero estranei al clima
dominante nell'Italia. In effetti, l'associazione fondata da Hayek ha
rappresentato un'occasione di scambi e approfondimenti per quanti cercano
interlocutori radicati nella cultura del liberalismo. Dimenticato o quasi
in Italia, la filosofia di L. continua a vivere fuori dei nostri confinigrazie
alle iniziative, ai saggi dei suoi amici e, oltre a loro, all'interesse che i
suoi saggi suscitano nelle nuove generazioni di studiosi liberali. La
situazione è cambiata sotto più punti di vista. Grazie soprattutto alla pubblicazione
de “La libertà e la legge,” filosofi di vario orientamento sono tor riflettere
sulle pagine del torinese, dando vita ad
una vera e propria riscoperta che sta producendo numerosi frutti e grazie alla
quale si va finalmente riconoscendo a L. la sua giusta posizione tra i maggiori
filosofi del liberalismo. Oggi. non è
più considerato semplicisticamente un epigono di Hayek o un semplice ripetitore
delle sue tesi. In questo senso, è interessante rilevare che perfino filosofi
lontani dalle posizioni liberali e libertarian di L. avvertano sempre più il
carattere innovativo della sua filosofia, che nell'ambito della filosofia del
diritto ha saputo offrire una prospettiva alternativa ai modelli kelseniani del
normativismo dominante e all'ispirazione social-democratica che ancora prevale
all'interno delle scienze sociali. In particolare, mentre il diritto è
stato ripetutamente identificato con la semplice volontà degli uomini al
potere, uno dei contributi maggiori di L. è quello di aver indicato un altro
modo di guardare alla norma giuridica, sforzandosi di cogliere ciò che vi è
oltre la volontà dei politici e ben oltre la stessa legislazione. Per questa
ragione, si guarda alla teoria di L. come ad una radicale alternativa rispetto al
normativismo formulato da Kelsen, più volte criticato da L.. Quella di L.,
per giunta, è ancora oggi una proposta teorica talmente liberale da indurre più
di uno studioso a parlare di “La liberta e la legge” come di un classico della
tradizione libertariana, al cui interno sono racchiuse idee e intuizioni che
restiamo ben lontani dall'aver compreso e sviluppato in tutte le loro
potenzialità. Al fine di tenere viva la lezione dell'autore è stato
fondato l'Istituto L., con sedi a Torino e a Milano, animato da Lottieri,
Mingardi e Stagnaro, che si propone di affermare, all'interno del dibattito filosofico,
i principii liberali difesi da L, stesso e di promuovere la conoscenza della
filosofia di L. e, in generale, delle teorie liberali e libertariana. Altri
saggi:“Lo stato” (Mannelli, Rubbettino); “Filosofia del diritto” (Mannelli,
Rubbettino); “La libertà e la legge, InMacerata, Liberilibri); “Scienza
politica e teoria del diritto” (Milano, Giuffrè); “Le pretese e i poteri: le
radici individuali del diritto e della politica” (Milano, Società Aperta); “La
sovranità del consumatore” (Roma, Ideazione);
“La libertà del lavoro” collana IBL “Diritto, Mercato, Libertà”,
Treviglio Mannelli, Facco Rubbettino, “Il
diritto come pretesa, A. Masala (Macerata, Liberi); Il pensiero politico
moderno e contemporaneo, Masala, Bassani, Macerata, Liberi libri, Istituto L.. L'idea di uno stato privo di co-ercizioni
nella filosofia del diritto; Un "austriaco" di adozione Articolo su l'Unità. Il Luogo dei Ricordi di
O. Quero, su in mia memoria. Tra i pochissimi, in Italia, che hanno continuato
a sviluppare le ricerche di L. è da ricordare Stoppino. Per merito di Cubeddu,
che ha anche dedicato molti saggi e articoli alla teoria leoniana. E necessario liberarelo dall'ombra di Hayek,
rendendo in tal modo possibile una più adeguata valutazione delle sue tesi e
del suo originalissimo contributo all'elaborazione di una filosofia coerente
con i principi del liberalismo e con i suoi stessi esiti libertari. Masala, Il
liberalismo (Mannelli, Rubbettino); saggio su L.. Masala La teoria politica (Mannelli, Rubbettino); Lottieri,
“Libertà e stato” in Masala, cur., La teoria politica; Mannelli, Rubbettino; Lottieri,
Le ragioni del diritto. Libertà e ordine giuridico”, Mannelli, Rubbettino; Approfondisce
il tema di un libertarismo non ancora compiutamente espresso in L., ma già
ampiamente riconoscibile nelle sue tesi fondamentali. Favaro, L..
Dell'irrazionalità della legge per la spontaneità dell'ordinamento, della
Collana “L'ircocervo. Saggi per una storia filosofica del pensiero giuridico e
politico italiano”, Napoli, ESI, Gulisano, Tra positivismo e gius-naturalismo.
Il diritto evolutivo, Foedrus. Gulisano, La teoria empirica di L. La centralità
dell'approccio metodologico, Biblioteca delle liberta. riscoprire.bruno.l.Bruno
Leoni. Leoni. Keywords: implicatura, freedom, il concetto di ‘freedom’ in Grice
e il liberalism italiano – il concetto di Freiheit in Kant e la tradizione
liberale, Croce, Enaudi, il partito liberale italiano, partito nazionale
fascista, protezionismo, fascismo, storia d’italia, storia del liberalismo
italiano, libero e vincolato, libero e fozato, libero e spontaneo -- Refs: Luigi Speranza, “Grice e Leoni” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e
Leoni: l’implicatura conversazionale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Spoleto).
Filosofo italiano. Grice: “In Italy, they like ‘renaissance men,’ but there’s a
peril in that: Leoni was a philosopher and a physician (to Medici) – when he
died, Medici did, Leoni was accused of malpractice (poisoning), strangled to
death, and thrown into a ditch. Categorie: philosophers in ditch – Thales,
Leoni.” Di famiglia aristocratica, studia a Roma. Insegna a Padova e Pisa. E qui che ha modo di entrare in contatto con
la cerchia di filosofi che gravitano attorno a Lorenzo de’ Medici, a Firenze. Ha
contatti e una fitta corrispondenza con Ficino e Pico. Venne considerato uno
dei più valenti filosofi. I più illustri personaggi e sovrani dell'epoca, come
il duca di Calabria, il re di Napoli, Ludovico il Moro, forse anche IInnocenzo
VIII, richiedeno le sue cure, tanto che divenne il medico personale dello
stesso Lorenzo de Medici. All'indomani
della morte di Lorenzo de Medici venne ingiustamente sospettato di essere stato
il responsabile del suo avvelenamento, e venne quindi strangolato e gettato in
un pozzo il giorno seguente. Diverse fonti dell'epoca sostengono che il mandante dell'uccisione di
L. e il figlio di Lorenzo, Piero il Fatuo. F. Bacchelli, Dizionario Biografico
degl’Italiani, riferimenti in. Dagli
Annali di Mugnoni da Trevi, trascriz. Pirri (Estratto dall'Archivio per la
Storia Ecclesiastica dell'Umbria. Era adpresso del dicto Lorenzo uno
excellentissimo et famosissimo medico de grandissima scientia in FILOSOFIA,
nominato magistro Pierleone de leonardo da Spolitj, reputato el più singulare
valente homo in dicte scientie che ogie dì viva. E questo uomo in tanto prezzo
adpresso del dicto Lorenzo che, senza quisto clarissimo doctore, non podiva
stare. E conducto ad Pisa ad legere, ha mille ducatj de provisione per anno:
poj e conducto ad Padova, ha mille et ducento ducatj per anno. Ad Pisa stecte annj
ad legere e similemente ad Padova. Dagli Annali di Mugnoni da Trevi, trascriz.
D.Pietro Pirri (Estratto dall'Archivio per la Storia Ecclesiastica dell'Umbria.
Lorenzo se amala, mandò per luj, e anda a Firenze. E questo mastro L. de tanta
scientia, che predisse la morte sua essere infra IV misi. E anda mal voluntierj
ad Firenze. Tandem jonto ad Firenze trova Lorenzo stare male: sono lì
clarissimj medicj et valentj et excellentj: poj ce venne el medico del duca de
Milano: et predice mastro L. la morte de Lorenzo. Ipso non presta mai et non se
mestecù in alcuna medicina ne potione sue. Il cronista forse vuol dire che L,
non s'ingerì affatto in ciò che riguarda l'assistenza sanitaria dell'infermo,
limitando l'opera sua alla pura DIAGNOSI della malattia ed a consultazioni
astrologiche. E con ciò vuole, forse, velatamente intendere che niente ha a che
vedere L. con quelle strane pozioni a base di gemme e perle triturate
somministrate da un altro medico, il Piacentino, le quali, attese le lesioni
viscerali che tormentano il paziente, servirono forse ad accelerarne il
tracollo -- ma solo ipso in consulendo et predicendo. Tandem venendo alla morte
Lorenzo, Perino, figliolo del dicto Lorenzo, homo de poca prudentia, reputato
homo bestiale e senza prudentia, ordina che el dicto mastro L. fosse morto.
Lorenzo e in villa ad uno suo casale, e lì tucto dì sta mastro L. Essendo morto
Lorenzo, et lì insino alla sera stando mastro L., volendo tornare luj allu
solito loco, e menato per uno Carlo o vero Alberto martellj ad uno suo casale,
et lì e strangulato dicto mastro L., et buctato in uno pozo. Poj e retracto e
portato in Firenze, e retenuto il suo corpo con guardia et veneratione assai.
Et de tanto tradimento et iniusta morte se ne dolse tucta la città, perché la
bona memoria de Lorenzo ama questo uomo più che uomo vivesse, et tucti li
secretj soj sapiva, savio, sapientissimo e pieno de verità, bontà et
integrità." Nella sua "Storia
della Letteratura Italiana" Tiraboschi, Firenze, Landi, riporta fonti
dell'epoca, fra cui Ammirato. Cavossi voce che egli vi si fosse gittato da se
medesimo ma si rinvenne esservi gittato da altri, secondo dice Cambi, da due
famigliari di Lorenzo. Lo stesso testo riporta le affermazioni di Sanazzaro, il
quale non nomina l'autore di questo misfatto. Ma è chiaro abbastanza ch'ei
parla di Pietro de Medici, figliuol di Lorenzo, e di Allegretti, storico senese
contemporaneo di L., che riporta. L. da Spoleto, che lo medica (si riferisce a
Lorenzo) e gittato in un pozzo, perché e detto, che l'avvelena, nientedimeno si
conclude per molti non esser vero. Dizionario Biografico degl’Italiani, Roma,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana, Corti: Sannazaro. Branca V: Dizionario critico
della letteratura italiana. POMBA, Torino, Cotta, Klien: I Medici in rete, Olschki,
Firenze, C. Dionisotti, “Appunti sulle rime del Sannazaro”, Giornale storico della
Letteratura italiana, Mauro, Opere volgari, Laterza, Bari; Montevecchi, Storie
fiorentine, Rizzoli, Milano; Nibby, Analisi storico-topografica-antiquaria
della carta de' dintorni di Roma, Belle Arti, Roma, Orio, Le iscrittioni poste
sotto le vere imagini de gli huomini famosi il lettere, Torrentino, Firenze, Pesenti,
Professori e promotori di medicina nello Studio di Padova, Repertorio bio-bibliografico, Radetti, Un'aggiunta
alla biblioteca di L. In.: Rinascimento: Rivista dell'Istituto Nazionale di
Studi sul Rinascimento, Firenze, Ranalli: Istorie Fiorentine con l'aggiunte di
Ammirato il giovane, Batelli, Firenze, Rotzoll M.: Pierleone da Spoleto: vita e
opere di un medico del Rinascimento. Olschki, Firenze. Sansi: Storia del comune
di Spoleto dal secolo XII al XVII: seguita da alcune memorie dei tempi posteriori. Pierleone Leoni, Piero Leoni, Pierleone, Pier
Leone. Leone. Keywords. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Leoni” – The
Swimming-Pool Library. Leoni.
Grice e Leopardi: l’implicatura
conversazionale del favoloso – Leopardi fascista -- filosofia italiana – Luigi
Speranza (Recanati). Filosofo
italiano. Grice: “Oddly, Leopardi’s philosophical semantics is negative;
admittedly, he is wedded to the Fido-‘Fido’ theory of meaning, so he thinks,
pretty much like the first Vitters, that language is a prison. Man has a need
for ‘non-linguistic thought,’ to think without naming – without
conceptualizing! The oddest philosophy of language for Italy’s greatest poet,
one would first think!” -- Grice: “One
could write a whole dissertation on Leopardi’s implicata – not I My favourite
expression would be ‘gli infiniti silenzi’” -- Grice: “While there is a
philosophical griceianism, seeing that my theories were stolen by
non-philosophers, there is ‘leopardismo filosofico,’ seeing that he wasn’t
one!” -- essential Italian philosopher, and founder of a whole movement,
‘leopardismo.’ Il
conte Giacomo Leopardi, al battesimo Giacomo Taldegardo Francesco di Sales
Saverio Pietro Leopardi (Recanati), filosofo. È ritenuto il maggior poeta dell'Ottocento
italiano e una delle più importanti figure della letteratura mondiale, nonché
una delle principali del romanticismo letterario; la profondità della sua
riflessione sull'esistenza e sulla condizione umanadi ispirazione sensista e
materialistane fa anche un filosofo di spessore. La straordinaria qualità
lirica della sua poesia lo ha reso un protagonista centrale nel panorama
letterario e culturale europeo e internazionale, con ricadute che vanno molto
oltre la sua epoca. Leopardi, intellettuale dalla vastissima cultura,
inizialmente sostenitore del classicismo, ispirato alle opere dell'antichità
greco-romana, ammirata tramite le letture e le traduzioni di Mosco, Lucrezio,
Epitteto, Luciano ed altri, approdò al Romanticismo dopo la scoperta dei poeti
romantici europei, quali Byron, Shelley, Chateaubriand, Foscolo, divenendone un
esponente principale, pur non volendo mai definirsi romantico. Le sue posizioni
materialistederivate principalmente dall'Illuminismosi formarono invece sulla
lettura di FILOSOFI come il barone d'Holbach, VERRI e Condillac, a cui egli
unisce però il proprio pessimismo, originariamente probabile effetto di una
grave patologia che lo affliggeva ma sviluppatesi successivamente in un
compiuto sistema filosofico. Muore di edema polmonare o scompenso cardiaco,
durante la grande epidemia di colera di Napoli. Il dibattito sull'opera
leopardiana, specialmente in relazione al pensiero esistenzialista fra gli anni
trenta e cinquanta, ha portato gli esegeti ad approfondire l'analisi filosofica
dei contenuti e significati dei suoi testi. Per quanto resi specialmente nelle
opere in prosa, essi trovano precise corrispondenze a livello lirico in una
linea unitaria di atteggiamento esistenziale. Riflessione filosofica ed empito
poetico fanno sì che Leopardi, al pari di Schopenhauer, Kierkegaard, Nietzsche
e più tardi di Kafka, possa essere visto come un esistenzialista o almeno un
precursore dell'Esistenzialismo. L. nacque a Recanati, nello Stato
pontificio (oggi in provincia di Macerata, nelle Marche), da una delle più
nobili famiglie del paese, primo di dieci figli. Quelli che arrivarono all'età
adulta furono, oltre a Giacomo, Carlo, Paolina, Luigi, e Pierfrancesco. I
genitori erano cugini fra di loro. Il padre, il conte Monaldo, figlio del conte
Giacomo e della marchesa Virginia Mosca di Pesaro, era uomo amante degli studi
e d'idee reazionarie; la madre, la marchesa Adelaide Antici, era una donna
energica, molto religiosa fino alla superstizione, legata alle convenzioni
sociali e ad un concetto profondo di dignità della famiglia, motivo di
sofferenza per il giovane Giacomo che non ricevette tutto l'affetto di cui
sentiva il bisogno. In conseguenza di alcune speculazioni azzardate fatte
dal marito, la marchesa prese in mano un patrimonio familiare fortemente
indebitato, riuscendo a rimetterlo in sesto solo grazie a una rigida economia
domestica. La rigidità della madre, contrastante con la tenerezza del padre, i
sacrifici economici e i pregiudizi nobiliari pesarono sul giovane
Giacomo. Fino al termine dell'infanzia Giacomo crebbe comunque allegro,
giocando volentieri con i suoi fratelli, soprattutto con Carlo e Paolina che
erano più vicini a lui d'età e che amava intrattenere con racconti ricchi di
fervida fantasia. La formazione giovanile La casa natale Ricevette
la prima educazione, come da tradizione familiare, da due precettori, Torres e Sanchini
che influirono sulla sua prima formazione con metodi improntati alla scuola
gesuitica. Tali metodi erano incentrati non solo sullo studio del latino, della
teologia e della filosofia, ma anche su una formazione scientifica di buon
livello contenutistico e metodologico. Nel Museo leopardiano a Recanati è
conservato, infatti, il frontespizio di un trattatello sulla chimica, composto
insieme al fratello Carlo. I momenti significativi delle sue attività di
studio, che si svolgono all'interno del nucleo familiare, sono da rintracciare
nei saggi finali, nei componimenti letterari da donare al padre in occasione
delle feste natalizie, la stesura di quaderni molto ordinati ed accurati e qualche
composizione di carattere religioso da recitare in occasione della riunione
della Congregazione dei nobili. Il ruolo avuto dai precettori non impedì,
comunque, al giovane Leopardi di intraprendere un suo personale percorso di
studi avvalendosi della biblioteca paterna molto fornita (oltre ventimila
volumi) e di altre biblioteche recanatesi, come quella degli Antici, dei
Roberti e probabilmente da quella di Vogel, esule in Italia in seguito alla
Rivoluzione francese e giunto a Recanati come membro onorario della cattedrale
della cittadina. Compone il sonetto intitolato La morte di Ettore che, come lui
stesso scrive nell'Indice delle produzioni di me L. è da considerarsi una composizione.
Da questi anni ha inizio la produzione di tutti quegli scritti chiamati
puerili. La produzione dei puerili Puerili e abbozzi vari Il corpus delle
opere cosiddette puerili dimostra come il giovane Leopardi sapesse scrivere in
latino fin dall'età di nove-dieci anni e padroneggiare i metodi di
versificazione italiana in voga nel Settecento, come la metrica barbara di
Fantoni, oltre ad avere una passione per le burle in versi dirette al precettore
e ai fratelli. Iniziò lo studio della filosofia e due anni dopo, come sintesi
della sua formazione giovanile, scrisse le Dissertazioni filosofiche che
riguardano argomenti di logica, filosofia, morale, fisica teorica e
sperimentale (astronomia, gravitazione, idrodinamica, teoria dell'elettricità,
eccetera). Tra queste è nota la Dissertazione sopra l'anima delle bestie. Con
la presentazione pubblica del suo saggio di studi che discusse davanti ad
esaminatori di vari ordini religiosi ed al vescovo, si può far concludere il
periodo della sua prima formazione che è soprattutto di tipo sei-settecentesco
ed evidenzia l'amore per l'erudizione oltre che uno spiccato gusto arcadico. Si
immerse totalmente in uno "studio matto e disperatissimo" espressione
da lui stesso coniata, che assorbì tutte le sue energie e che recò gravi danni
alla sua salute. Apprese perfettamente il latino (sebbene si considerasse
sempre "poco inclinato a tradurre" da questa lingua in italiano) e,
senza l'aiuto di maestri, il greco. Seppure in modo più sommario apprese anche
altre lingue: l'ebraico, il francese, l'inglese, lo spagnolo e il tedesco
(nello Zibaldone si trovano inoltre cenni ad altre lingue antiche, come il
sanscrito). Nel frattempo cessa la formazione dell'abate Sanchini, il quale
ritenne inutile continuare la formazione del giovane che ne sapeva ormai più di
lui. Risalgono a questi anni la Storia dell'astronomia, il Saggio sopra gli
errori popolari degli antichi, diversi discorsi su scrittori classici, alcune
traduzioni poetiche, alcuni versi e tre tragedie, mai rappresentate durante la
sua vita, La virtù indiana, Pompeo in Egitto e Maria Antonietta (rimasta
incompiuta). Per quanto riguarda la compilazione della Storia dell'astronomia
Leopardi si avvalse di numerose fonti: il testo di base fu sicuramente la
Storia dell’astronomia di Bailly, ridotta in compendio dal signor Francesco
Milizia, a partire dalle Histoires del celebre astronomo francese Jean Sylvain
Bailly. L'opera termina con la scoperta del pianeta Urano da parte di Herschel.
Invece il lavoro di Leopardi presenta ulteriori aggiornamenti, come ad esempio
la scoperta di Cerere, Pallade, Giunone e della cometa. Per l'elaborazione del
suo testo, L. fece uso, anche, dell’Abrégé d’astronomie di Jérôme Lalande
(presente nella biblioteca di casa L.), del Dictionnaire de Physique di
Aimé-Henri Paulian e delle storie di matematica inserite nel Tacquet e nel
Wolff. Inoltre Leopardi adoperò diverse opere generali come la Storia della
letteratura italiana di Tiraboschi, gli Scrittori d’Italia di Mazzuchelli e
varie raccolte biografiche di alcuni ordini religiosi: Wadding per i
francescani, Quétif e Échard per i domenicani e così via. L'elenco di questi
testi dimostra l’erudizione raggiunta dal giovane Leopardi. Nella Storia
dell'astronomia Leopardi lasciò anche trasparire i limiti del suo interesse per
la matematica. Nulla, probabilmente sapeva a proposito dei logaritmi (ai quali
invece il Bailly-Milizia aveva dedicato due pagine illustratrici), e
sull'argomento si limitò a scrivere che «Enrico Briggs avendo udita la
invenzione de’ logaritmi fatta da Neper» aveva pubblicato un’opera al riguardo.
Probabilmente infatti Leopardi non studiò mai i logaritmi, così come si arrestò
alla geometria cartesiana e al calcolo differenziale. Iniziò nello stesso periodo anche le prime
pubblicazioni e lavorò alle traduzioni dal latino e dal greco, dimostrando
sempre di più il suo interesse per l'attività filologica. Sono questi anche gli
anni dedicati alle traduzioni dal latino e dal greco, corredate di discorsi
introduttivi e di note, tra i quali gli Scherzi epigrammatici, tradotti dal
greco e pubblicati in occasione delle nozze Santacroce-Torre da Frattini di
Reca, la Batracomiomachia e pubblicata su «Lo Spettatore italiano», gli idilli
di Mosco, il Saggio di traduzioni dell'Odissea, la Traduzione del libro secondo
dell'Eneide, il Moretum (un poemetto pseudo-virgiliano), e la Titanomachia di
Esiodo, pubblicata su «Lo Spettatore italiano». La conversione letteraria:
dall'erudizione al bello Tra Si avverte in Leopardi un forte cambiamento,
frutto di una profonda crisi spirituale, che lo porterà ad abbandonare
l'erudizione per dedicarsi alla poesia. Egli si rivolge, pertanto, ai classici
non più come ad arido materiale adatto a considerazioni filologiche, ma come a
modelli di poesia da studiare. Seguiranno le letture di autori moderni come
Alfieri, Parini,Foscolo e Vincenzo Monti, che serviranno a maturare la sua
sensibilità romantica. Ben presto egli legge I dolori del giovane Werther di
Goethe, le opere di Chateaubriand, di Byron, di Madame de Staël. In questo modo
L. inizia a liberarsi dall'educazione paterna accademica e sterile, a rendersi
conto della ristrettezza della cultura recanatese ed a porre le basi per
liberarsi dai condizionamenti familiari. Appartengono a questo periodo alcune
poesie significative come Le Rimembranze, L'Appressamento della morte e l'Inno
a Nettuno, nonché la celebre e non pubblicata Lettera ai compilatori della
Biblioteca Italiana, indirizzata ai redattori della rivista milanese, in
risposta alla lettera Sulla maniera e utilità delle traduzioni di Madame de
Staël, apparsa sul primo numero, nel gennaio dello stesso anno. Destinato dal
padre alla carriera ecclesiastica per la sua fragile salute, rifiuterà di intraprendere
questa strada. Fu colpito da alcuni seri problemi fisici di tipo reumatico e
disagi psicologici che egli attribuì almeno in partecome la presunta
scoliosiall'eccessivo studio, isolamento ed immobilità in posizioni scomode
delle lunghe giornate passate nella biblioteca di Monaldo. La malattia esordì
con affezione polmonare e febbre e in seguito gli causò la deviazione della
spina dorsale (da cui la doppia "gobba"), con dolore e conseguenti
problemi cardiaci, circolatori, gastrointestinali (forse colite ulcerosa o
malattia di Crohn) e respiratori (asma e tosse), una crescita stentata,
problemi neurologici alle gambe (debolezza, parestesia con freddo intenso),
alle braccia ed alla vista, disturbi disparati e stanchezza continua. Era
convinto di essere sul punto di morire. Il marchese Filippo Solari di Loreto
scrive poco dopo a Monaldo L.i: «L'ho lasciato sano e dritto, lo trovo dopo
cinque anni consunto e scontorto, con avanti e dietro qualcosa di veramente
orribile.» Egli stesso si ispira a questi seri problemi di salute, di cui
parlerà anche a Giordani, per la lunga cantica L'appressamento della morte e,
anni dopo, per Le ricordanze, in cui ripensa a questo e definisce la sua
malattia come un "cieco malor", cioè un male di non chiara origine,
che gli fa pensare al suicidio assieme all'angusto ambiente: «Mi sedetti colà
su la fontana / Pensoso di cessar dentro quell'acque la speme e il dolor mio.
Poscia, per cieco malor, condotto della vita in forse, piansi la bella
giovanezza, e il fiore de' miei poveri dì, che sì per tempo cadeva. L'ipotesi
più accreditata per lungo tempo (diffusa e sostenuta da medici di Recanati e da
Citati) è che Leopardi soffrisse della malattia di Pott (gli studiosi scartano
la diagnosi dell'epoca, più volte riproposta anche nel Novecento, di una
normale scoliosi dell'età evolutiva), cioè tubercolosi ossea o spondilite
tubercolare, oppure dalla spondilite anchilosante (secondo Sganzerla), una
sindrome reumatica autoimmune che porta a una progressiva ossificazione dei
legamenti vertebrali con deformazione e rigidità del rachide, uniti ad ampi
disturbi infiammatori sistemici, oculari e neurologici-compressivi in casi
gravi, il tutto unitamente a problemi nervosi. Alcune di queste sindromi hanno
predisposizione genetica, derivabile dal matrimonio tra consanguinei dei
genitori. Tutti i fratelli L. furono deboli di salute, con l'eccezione di
Carlo, forse però sterile, e Paolina, la quale presentava solo una leggera
asimmetria del viso. Citati afferma che avesse anche dei disturbi urinari e di
probabile impotenza, e sarebbero stati questi, più che l'aspetto fisico (a cui
poteva ovviare essendo un nobile benestante) la causa del suo rapporto
difficile con le donne e la sessualità. Nel decennio seguente l'apparire dei
disturbi, alcuni medici fiorentini, come altri medici consultati in gioventù, a
parte la deformità fisica asserirannoprobabilmente in maniera erroneache
numerosi disturbi del Leopardi erano dovuti a neurastenia di origine
psicologica (sempre in questo periodo comincia a soffrire di crisi depressive
che taluni attribuiscono all'impatto psicologico della malattia fisica), come
lui stesso a tratti sostenne, anche contro il parere di numerosi dottori.
«Ma io non aveva appena vent’anni, quando da quella infermità di nervi e di
viscere, che privandomi della mia vita, non mi dà speranza della morte, quel
mio solo bene mi fu ridotto a meno che a mezzo; poi, due anni prima dei trenta,
mi è stato tolto del tutto, e credo oramai per sempre.» (Lettera
dedicatoria dei Canti, agli amici di Toscana) Secondo il neurologo Sganzerla,
propositore della tesi sulla spondilite al posto della tubercolosi, L. non
mostrava invece alcun segno di vera depressione psicotica, sfatando il mito
sostenuto da Citati e dai lombrosiani come Patrizi e Sergi. Queste patologie
comunque, se non condizionarono il suo pensiero in maniera diretta (come
ribadito spesso da L.), influenzarono comunque il suo pessimismo filosofico e
lo spinsero a indagare le cause della sofferenza umana e il significato della
vita da una prospettiva originale, divenendo, come affermato dal critico
Sebastiano Timpanaro, "un formidabile strumento conoscitivo". Dopo
il primo passo verso il distacco dall'ambiente giovanile e con la maturazione
di una nuova ideologia e sensibilità che lo portò a scoprire il bello in senso
non arcaico, ma neoclassico, si annuncia quel passaggio dalla poesia di
immaginazione degli antichi alla poesia sentimentale che il poeta definì
l'unica ricca di riflessioni e convincimenti filosofici. E per Leopardi, che
giunto alle soglie dei diciannove anni aveva avvertito, in tutta la sua
intensità, il peso dei suoi mali e della condizione infelice che ne derivava,
un anno decisivo che determinò nel suo animo profondi mutamenti. Consapevole
ormai del suo desiderio di gloria ed insofferente dell'angusto confine in cui,
fino a quel momento, era stato costretto a vivere, sentì l'urgente desiderio di
uscire, in qualche modo, dall'ambiente recanatese. Gli avvenimenti seguenti
incideranno sulla sua vita e sulla sua attività intellettuale in modo
determinante. In questo periodo è anche la prima formulazione della
"teoria del piacere", una concezione filosofica postulata da Leopardi
nel corso della sua vita. La maggior parte della teorizzazione di tale
concezione è contenuta nello Zibaldone, in cui il poeta cerca di esporre in
modo organico la sua visione delle passioni umane. Il lavoro di sviluppo del
pensiero leopardiano in questi termini avviene. Scrisve al classicista Giordani
che aveva letto la traduzione leopardiana del II libro dell'Eneide e, avendo
compreso la grandezza del giovane, lo aveva incoraggiato. Ebbero inizio così
una fitta corrispondenza ed un rapporto di amicizia che durerà nel tempo. In
una delle prime lettere scritte al nuovo amico, il giovane Leopardi sfogherà il
suo malessere non con atteggiamento remissivo, ma polemico ed aggressive. Mi
ritengono un ragazzo, e i più ci aggiungono i titoli di saccentuzzo, di
filosofo, di eremita, e che so io. Di maniera che s'io m'arrischio di
confortare chicchessia a comprare un libro, o mi risponde con una risata, o mi
si mette in sul serio e mi dice che non è più quel tempo. Unico divertimento in
Recanati è lo studio: unico divertimento è quello che mi ammazza: tutto il
resto è noia» Egli vuole uscire da quel "centro dell'inciviltà e
dell'ignoranza europea" perché sa che al di fuori c'è quella vita alla
quale egli si è preparato ad inserirsi con impegno e con studio profondo. Fissa
le prime osservazioni all'interno di un diario di pensiero che prenderà poi il
nome di Zibaldone, in dicembre si innamorerà della cugina, provando per la
prima volta il sentimento d'amore. Pietro Giordani riconosce l'abilità di
scrittura di Leopardi e lo incita a dedicarsi alla scrittura; inoltre lo
presenta all'ambiente del periodico «Biblioteca Italiana» e lo fa partecipare
al dibattito culturale tra classicisti e romantici. L. difende la cultura
classica e ringrazia Dio di aver incontrato Giordani che reputa l'unica persona
che riesce a comprenderlo. Il primo amore «Oimè, se quest'è amor, com'ei
travaglia!» (Il primo amore, v.3) Geltrude Cassi Lazzari con i
figli, illustrazione di Chiarini per la Vita di Giacomo Leopardi. Inizia a
compilare lo Zibaldone, nel quale registrerà le sue riflessioni, le note
filologiche e gli spunti di opere. Lesse la vita di Alfieri e compilò il
sonetto "Letta la vita scritta da esso" che toccava i temi della
gloria e della fama. Un altro avvenimento lo colpì profondamente: l'incontro,
nel dicembre dello stesso anno, con Geltrude Cassi Lazzari, una cugina di
Monaldo, che fu ospite presso la famiglia per alcuni giorni e per la quale
provò un amore inespresso. Scrisse in questa occasione il "Diario del
primo amore" e l'"Elegia I" che verrà in seguito inclusa nei
"Canti" con il titolo "Il primo amore". La posizione di
Leopardi verso il Romanticismo, che stava suscitando in quegli anni forti
polemiche ed aveva ispirato la pubblicazione del Conciliatore, va maturando e
se ne possono avvertire le tracce in numerosi passi dello Zibaldone ed in due
saggi, la Lettera ai Sigg. compilatori della "Biblioteca italiana", in
risposta a quella di Madama la baronessa di Staël, ed il Discorso di un
italiano attorno alla poesia romantica, scritto in risposta alle Osservazioni
di Di Breme sul Giaurro di Byron. Le due opere mostrano l'avversione, sul piano
più strettamente concettuale, al Romanticismo. La posizione di Leopardi rimane
fondamentalmente montiana e neoclassica. Tuttavia, come si vedrà, quello che
professava sulla pagina critica si rivelerà, poi, profondamente diverso dai
risultati ottenuti nella poesia dove i temi e lo spirito saranno, invece,
perfettamente in sintonia con la mentalità romantica. Aveva, intanto, scritto
le due canzoni ispirate a motivi patriottici All'Italia e Sopra il monumento di
Dante che stanno ad attestare il suo spirito liberale e la sua adesione a quel
tipo di letteratura di impegno civile che aveva appreso dal Giordani. Il suo
materialismo ateo si pone in contrapposizione al Romanticismo cattolico
predominante, dal quale lo separavano notevolmente anche il suo rifiuto di ogni
speranza di progresso nella conquista della libertà politica e dell'unità
nazionale, la sua mancanza di interesse per una visione storicistica del
passato e per le esigenze di popolarità e di realismo nei contenuti e nella
lingua. E il naufragar m'è dolce in questo mare.» (L., L'infinito. Si
riacutizzarono i problemi agli occhi.Tra il luglio e l'agosto progettò la fuga
e cercò di procurarsi un passaporto per il Lombardo-Veneto, da un amico di
famiglia, il conte Ajano, ma il padre lo venne a sapere e il progetto di fuga
fallì. Fu nei mesi di depressione che seguirono che il L. elaborò le prime basi
della sua filosofia e, riflettendo sulla vanità delle speranze e
l'ineluttabilità del dolore, scoprì la nullità delle cose e del dolore stesso.
Iniziò intanto la composizione di quei canti che verranno in seguito pubblicati
con il titolo di Idilli e scrisse L'infinito, La sera del dì di festa, Alla
luna (originariamente, i titoli di queste ultime erano La sera del giorno festivo
e La ricordanza), La vita solitaria, Il sogno, Lo spavento notturno. Sono i
cosiddetti "primi idilli" o "piccoli idilli". Qui
confluirono i rimpianti per la giovinezza perduta e la presa di coscienza
dell'impossibilità di essere felici. Ottenne dai genitori il permesso di
recarsi a Roma, dove rimase dal novembre all'aprile dell'anno successivo,
ospite dello zio materno, Carlo Antici. A L. Roma apparve squallida e modesta al
confronto con l'immagine idealizzata che egli si era figurata studiando i
classici. Lo colpirono la corruzione della Curia e l'alto numero di prostitute
che gli fece abbandonare l'immagine idealizzata della donna, come scrive in una
lettera al fratello Carlo. Rimase invece entusiasta della tomba di Torquato
Tasso, al quale si sentiva accomunato dall'innata infelicità (verso il Tasso,
che renderà protagonista di una delle Operette morali, sarà debitore a livello
stilistico e nella scelta di alcuni nomi più famosi dei suoi componimenti, come
Nerina e Silvia, tratti dall'Aminta). Nell'ambiente culturale romano Leopardi
visse isolato e frequentò solamente studiosi stranieri, tra cui i filologi
Christian Bunsen (poi ministro del regno di Prussia e fondatore dell'Istituto
di Archeologia a Roma) e Niebuhr; quest'ultimo si interessò per farlo entrare
nella carriera dell'amministrazione pontificia, ma L. rifiutò. Ritorna a
Recanati dopo aver constatato che il mondo al di fuori di esso non era quello
sperato. Tornato a Recanati, L. si dedicò alle canzoni di contenuto filosofico
o dottrinale compose buona parte delle Operette morali. Lontano da Recanati:
Milano, Bologna, Firenze, Pisa. Il poeta, invitato dall'editore Antonio
Fortunato Stella, si recò a Milano con l'incarico di dirigere l'edizione
completa delle opere di Cicerone ed altre edizioni di classici latini e
italiani. A Milano, però, egli non rimase a lungo perché il clima gli era
dannoso alla salute e l'ambiente culturale, troppo polarizzato intorno al Monti,
gli recava noia. Ritratto di Leopardi a metà degli anni '30, da alcuni indicato
come una realistica proto-fotografia, probabilmente una riproduzione in
eliografia (o altri tipi) di un'incisione; in alternativa realizzata con la
tecnica della camera oscura da artista: tramite bulino oppure immagine fissata
secondo il metodo di Joseph Nicéphore Niépce (sali d'argento o bitume e lunga
esposizione). Recanati, casa L.. Decise, così, di trasferirsi a Bologna dove
visse (al numero 33 di via Santo Stefano), tranne una breve permanenza a Reca mantenendosi
con l'assegno mensile dello Stella e dando lezioni private. Nell'ambiente
bolognese Leopardi conobbe il conte Carlo Pepoli, patriota e letterato, al
quale dedicò un'epistola in versi intitolata Al conte Carlo Pepoli che lesse nell'Accademia
dei Felsinei. Nell'autunno iniziò a compilare, per ordine di Stella, una
"Crestomazia", antologia di prosatori italiani dal Trecento al
Settecento alla quale fece seguito una "Crestomazia" poetica. A
Bologna conobbe anche la contessa Teresa Carniani Malvezzi, della quale si
innamorò senza essere corrisposto. Leopardi frequentò i Malvezzi per quasi un
anno, ma poi la donna lo allontanò spinta anche dal marito, mal tollerante del
fatto che il poeta si trattenesse con la moglie fino alla mezzanotte.Leopardi
si sfoga in una lettera ad un corrispondente, usando parole molto dure verso di
lei. Uscivano intanto presso Stella le sue Operette morali. Frequentò anche la
casa del medico Giacomo Tommasini e strinse amicizia con la moglie Antonietta,
patriota, e la figlia Adelaide (coniugata Maestri), sue ammiratrici,con la
famiglia Brighenti e la cantante modenese Rosa Simonazzi Padovani. Leopardi in
un ritratto postumo del 1845 (olio su tavola), commissionato da Antonio Ranieri
al giovane pittore Domenico Morelli sulla base della maschera mortuaria, del
ritratto di L. sul letto di morte di Angelini e delle descrizioni fisiche fatte
da Ranieri, da Paolina, sorella di quest'ultimo; Morelli vi lavorò per molto
tempo, a causa delle insistenze di Ranieri sui particolari, ma alla fine il
quadro venne ritenuto, dal Ranieri stesso e da altri testimoni, come il più
fedele e realistico dei ritratti di Leopardi, con l'aspetto che aveva verso la
fine della sua vita, soprattutto nei tratti del volto, oltre che il vestiario e
l'acconciatura che portava negli anni napoletani; i critici hanno però
argomentato che sia un ritratto comunque "idealizzato", in quanto Morelli
non vide mai Leopardi dal vivo, ma solo nella maschera mortuaria in gesso e nei
ritratti eseguiti da altri. Nel giugno dello stesso anno si trasferì a Firenze,
dove conobbe il gruppo di letterati appartenenti al circolo Vieusseux tra i
quali Capponi, Niccolini (amico e corrispondente di Foscolo allora esiliato a
Londra), Colletta, Tommaseo ed anche Manzoni, che si trovava a Firenze per
rivedere dal punto di vista linguistico i suoi Promessi Sposi. Divenne amico
particolarmente del Colletta, ma fu in buoni rapporti anche con Capponi e
Manzoni, sebbene quest'ultimo non condividesse le idee di L. Fu invece
conflittuale il rapporto col Tommaseo, cattolico liberale, ma fortemente
avverso al razionalismo ed al materialismo, il quale giunse a provare una forte
avversione per Leopardi, attaccandolo ripetutamente su vari giornali (anche se
riconosceva l'abilità stilistica nella prosa); Tommaseo arrivò a denigrare
Leopardi per il suo aspetto fisico (cosa che farà, però solo in lettere private
rivolte ad altri, anche il Capponi stesso irritato per la Palinodia). Leopardi
risponderà nel 1836 con un epigramma diretto contro Tommaseo, oltre che
nell'ottava strofa della detta Palinodia. Al marchese Gino Capponi. Si recò a
Pisa, dove rimase. Qui strinse un'affettuosa amicizia con la giovane cognata
del padrone del pensionato, Teresa Lucignani, a cui dedica una breve lirica
rimasta a lungo inedita. Grazie all'inverno mite, la sua salute migliorò e
Leopardi tornò alla poesia, che tace (con l'eccezione della poco riuscita
epistola in versi Al conte Carlo Pepoli e del Coro di lo studio di Ruysch
contenuto nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie delle Operette
morali); compose la canzonetta in strofe metastasiane Il Risorgimento e il
canto A Silvia (figura forse ispirata, secondo i critici che si basano su
appunti dello Zibaldone e dichiarazioni del fratello Carlo, alla figlia del
cocchiere di Monaldo, morta giovane, Fattorini), inaugurando il periodo
creativo detto dei Canti "pisano-recanatesi", chiamati anche
"grandi idilli", in cui il poeta si cimenta nella cosiddetta canzone
libera o leopardiana, il cui primo sperimentatore era stato Alessandro Guidi,
dalla cui lettura ne era venuto a conoscenza. Vaghe stelle dell'orsa, io non
credea tornare ancor per uso a contemplarvi» (Le ricordanze) Il periodo
di benessere era finito ed il poeta, colpito nuovamente dalle sofferenze e
dall'aggravarsi del disturbo agli occhi, fu costretto a sciogliere il contratto
con Stella e già durante l'estate del '28 si recò a Firenze nella speranza di
riuscire a vivere in modo indipendente. Chiese aiuto ad alcuni amici:
Tommasini,il più bello, gli propose una cattedra di Mineralogia e Zoologia a
Milano, ma il compenso era troppo basso e la materia poco consona alle
conoscenze di Leopardi; Bunsen gli offrì la possibilità di una cattedra a Bonn
o Berlino, ma il poeta dovette subito declinare l'invito, poiché il clima
tedesco era troppo rigido e freddo per la sua salute malferma. Leopardi allora
progettò di mantenersi con un lavoro qualsiasi, ma le sue condizioni di salute
non gli permisero nemmeno questo e fu quindi costretto a ritornare a Recanati,
dove rimase. In questi «sedici mesi di notte orribile. Si dedica nuovamente
alla poesia e scrisse alcune delle sue liriche più importanti, tra cui Le
ricordanze (la cui ultima parte è dedicata ad una giovane recanatese morta poco
prima, Maria Belardinelli, da L. chiamata Nerina), La quiete dopo la tempesta,
Il sabato del villaggio, Il passero solitario (forse su un abbozzo giovanile) e
il Canto notturno di un pastore errante dell'Asia. Queste poesie, a lungo
denominate dai critici "grandi idilli" o anche "secondi
idilli", sono ora conosciute, insieme ad A Silvia anche come "canti
pisano-recanatesi". In questo
periodo l'insofferenza per la sua città natale, da lui definita "natio
borgo selvaggio", aumenta, proporzionalmente all'avversione per i
recanatesi (gente zotica, vil), che lo ritenevano un intellettuale superbo, tanto
che anche i ragazzini del paese, secondo testimonianze postume, cantavano in
sua presenza canzoncine denigranti del tipo: "Gobbus esto fammi un
canestro, fammelo cupo gobbo fottuto. A Firenze dal Perì l'inganno estremo,
ch'eterno io mi credei.» (A se stesso). Fanny Targioni Tozzetti Intanto, il
Colletta, al quale il poeta scriveva della sua vita infelice, gli offrì, grazie
ad una sottoscrizione degli "amici di Toscana", l'opportunità di
tornare a Firenze, dove fu eletto socio dell'Accademia della Crusca. Per
mantenersi accettò la sottoscrizione e progettò un giornale che avrebbe curato
quasi da solo, Lo spettatore fiorentino, ma che non realizzerà a causa della
burocrazia e del timore della censura. A Firenze cura un'edizione dei
"Canti", partecipò ai convegni dei liberali fiorentini e strinse
infine una salda amicizia col giovane esule napoletano Antonio Ranieri, futuro
senatore del Regno d'Italia, che durerà fino alla morte. Grazie alla fama di
personalità liberale, fu eletto deputato dell'assemblea del governo provvisorio
di Bologna (sorto dai moti), su designazione del Pubblico Consiglio di
Recanati, ma non fa in tempo ad accettare la nomina (peraltro mai richiesta)
che gli austriaci restaurano il governo pontificio. I genitori decidono infine
di concedergli un modesto assegno mensile che gli permette di sopravvivere;
Leopardi accetta ma, reputandolo umiliante, decide di non tornare mai più a
Recanati. Risale sempre a questo periodo la forte passione amorosa per Fanny
Targioni Tozzetti (terzo e ultimo amore secondo i biografi, dopo la Cassi
Lazzari e la Malvezzi), moglie del medico fiorentino Antonio Targioni Tozzetti
e forse amante di Ranieri, conclusasi in una delusione, che gli ispirò il
cosiddetto "ciclo di Aspasia", una raccolta di poesie che contiene:
Il pensiero dominante, Amore e morte, Consalvo (in cui l'amore è visto ancora
positivamente), la drammatica e scarna A se stesso e Aspasia. In questa
raccolta si manifestò il Leopardi più disilluso e disperato, orfano anche di
quella tristezza nostalgica degli Idilli, nella perdita dell'ultima illusione
che gli era rimasta, quella dell'amore (l'inganno estremo).[108] Aspasia,
seppur piena di rancore e sarcasmo contro Fanny, è considerata l'unica poesia
d'amore (seppur per un amore ormai finito) scritta per una donna che egli
frequentò realmente e intimamente, anche se solo in maniera romantica e
intellettiva (per parte di lui; lei lo descrisse sempre come un amico e dopo la
morte come una persona "disgraziata" a cui non voleva dare alcuna
illusione); tuttavia nei primi versi, contenenti la descrizione fisica e
caratteriale della Targioni, presentata come una "donna fatale", si
nota anche una tensione erotica molto rara in Leopardi, il quale ribadisce
ripetutamente il fascino esteriore esercitato dalla nobildonna. L'identificazione
della donna con l'Aspasia poetica è data, più che dalle lettere di Leopardi,
dalle affermazioni di Ranieri nei Sette anni di sodalizio e da alcune lettere
tra lui e la Targioni Tozzetti. Tuttavia, se Aspasia accenna anche a toni
polemici e misogini, in cui Leopardi si dice felice di essersi perlomeno
liberato della dipendenza affettiva verso l'amica, che descrive quasi come un
servilismo morale di cui si vergogna, un giogo ormai spezzato, in una lettera a
Fanny dei primi tempi si scorgono invece le riflessioni sull'amore e la morte
del periodo, che trovano l'esatta corrispondenza con alcuni versi di Consalvo e
con Amore e morte: «E pure certamente l'amore e la morte sono le sole cose belle
che ha il mondo, e le sole solissime degne di essere desiderate. Pensiamo, se
l'amore fa l'uomo infelice, che faranno le altre cose che non sono né belle né
degne dell'uomo. Ranieri da Bologna mi aveva chiesto più volte le vostre nuove:
gli spedii la vostra letterina subito ierlaltro. Addio, bella e graziosa Fanny.
Appena ardisco pregarvi di comandarmi, sapendo che non posso nulla. Ma se, come
si dice, il desiderio e la volontà danno valore, potete stimarmi attissimo ad
ubbidirvi. Ricordatemi alle bambine, e credetemi sempre vostro.» (Lettera
da Roma) «Due cose belle ha il mondo: / amore e morte. All'una il ciel mi guida
/ in sul fior dell'età; nell'altro, assai / fortunato mi tengo.»
(Consalvo) Lo spostamento del Consalvo nei Canti molto precedenti al ciclo,
avvenuto dall'edizione napoletana, ha fatto pensare che il personaggio di
Elvira sia ispirato anche a Teresa Carniani Malvezzi e non solo a Fanny. Per
circa 4 anni frequenta molto spesso casa Targioni, cercando di avvicinarsi alla
padrona di casa procurandole moltissimi autografi di scrittori e personaggi
famosi, che lei collezionava. In questo periodo Leopardi diviene amico anche
della contessa Carlotta Lenzoni de' Medici di Ottajano, affascinata dalla
grandezza intellettuale del poeta e conosciuta nel 1827, ma poi se ne
allontanò. Secondo un'opinione minoritaria, la donna descritta negativamente
come Aspasia sarebbe stata la Lenzoni. Si reca a Roma con Ranieri per ritornare
a Firenze e nel corso di questo anno scrisse i due ultimi dialoghi delle
"Operette", Il Dialogo di un venditore d'almanacchi e di un
passeggere e il Dialogo di Tristano e di un amico. Continuò a corrispondere
epistolarmente per un periodo con la Targioni Tozzetti, seppure in maniera più
fredda e distaccata. Quando Ranieri tornò a Napoli, tra i due iniziò una
fitta corrispondenza che ha fatto a taluni ritenere che tra Leopardi e Ranieri
vi fosse un rapporto amoroso. Pietro Citati però precisa che si sarebbe
trattato di un semplice e intenso affetto "platonico" assai diffuso
nel XIX secolo, senza traccia di omosessualità, come quello rivolto a suo tempo
al Giordani. In una di queste lettere il poeta scrive a Ranieri: Antonio
Ranieri, tra gli anni '40 e '60 «Ranieri mio, tu non mi abbandonerai però mai,
né ti raffredderai nell'amarmi. Io non voglio che tu ti sacrifichi per me, anzi
desidero ardentemente che tu provvegga prima d'ogni cosa al tuo benessere; ma
qualunque partito tu pigli, tu disporrai le cose in modo che noi viviamo l'uno
per l'altro, o almeno io per te, sola ed ultima mia speranza. Addio, anima mia.
Ti stringo al mio cuore, che in ogni evento possibile e non possibile, sarà
eternamente tuo. Dopo aver ottenuto il modesto assegno dalla famiglia, partì
per Napoli con Ranieri sperando che il clima mite di quella città potesse
giovare alla sua salute. Sugli anni a Napoli, Ranieri dichiarò: «Quivi
Leopardi, mentre che io, lasciatone il mio antico letto, dormiva in una camera
non mia (cosa che, nelle consuetudini del paese, massime in quei tempi, toccava
quasi lo scandalo), per dormire accanto a lui, ebbe, una notte, la strana
allucinazione, che la signora di casa avesse fatto disegno sopra una sua
cassetta, nella quale egli non riponeva mai altro che non nettissimi arnesi da
ravviare i capelli, e le cesoie. Pare infatti che la padrona di casa volesse
cacciarli, per timore che Leopardi fosse portatore di tubercolosi polmonare
infettiva e lui stesso sosteneva, invece, che la donna volesse rubargli oggetti
di sua proprietà, mentre Ranieri credeva che soffrisse di paranoie, e non ci
faceva caso. Ricevette visita da August von Platen, che nel suo diario scrisse.
«Leopardi ist klein und bucklicht, sein Gesicht bleich und leidend er den Tag
zur Nacht macht und umgekehrt führt er allerdings ein trauriges Leben. Bei
näherer Bekanntschaft verschwindet jedoch alles die Feinheit seiner klassischen
Bildung und das Gemütliche seines Wesens nehmen für ihn ein. Leopardi è piccolo
e gobbo, il viso ha pallido e sofferente fa del giorno notte e viceversa conduce
una delle più miserevoli vite che si possano immaginare. Tuttavia, conoscendolo
più da vicino la finezza della sua educazione classica e la cordialità del suo
fare dispongon l'animo in suo favore. Busto del poeta presente a Villa
Doria d'Angri Intanto le Operette morali subirono una nuova censura da parte
delle autorità borboniche, a cui seguirà la messa all'Indice dei libri proibiti
dopo la censura pontificia, a causa delle idee materialiste esposte in alcuni
"dialoghi". Leopardi così ne parlava in una lettera a Sinner: «La mia
filosofia è dispiaciuta ai preti, i quali e qui e in tutto il mondo, sotto un
nome o sotto un altro, possono ancora e potranno eternamente tutto». Durante
gli anni trascorsi a Napoli si dedicò alla stesura dei Pensieri, che raccolse
probabilmente riprendendo molti appunti già scritti nello Zibaldone, e riprese
i Paralipomeni della Batracomiomachia che, iniziati nel 1831, aveva interrotto.
A quest'ultima opera lavorò, assistito dal Ranieri, fino agli ultimi giorni di
vita. Di quest'opera incompiuta, in ottave, ampiamente influenzata sia dallo
pseudo Omero della Batracomiomachia, (che già Leopardi aveva tradotta in
gioventù, e di cui continua la trama) che dal poema Gli animali parlanti di
Giovanni Battista Casti, rimane autografo il solo primo canto. Ranieri affermò
sempre che gli altri, di sua mano, furono scritti sotto dettatura del Leopardi.
Le ultime ottave sarebbero state dettate da Leopardi morente poco dopo aver
terminato l'ultima poesia, Il tramonto della luna. Qualche dubbio può nascere,
se si pensa che Ranieri investì soldi dopo la morte del poeta per farli
pubblicare come autentici, con poco successo finanziario. Quando a Napoli
scoppiò l'epidemia di colera, Leopardi si recò con Ranieri e la sorella di
questi, Paolina, nella Villa Ferrigni a Torre del Greco, dove rimase
dall'estate di quell'anno al febbraio del 1837 e dove scrisse La ginestra o il
fiore del deserto. Paolina Ranieri assisterà, personalmente e con profondo
affetto, Leopardi nei suoi ultimi anni, all'aggravamento delle sue condizioni
fisiche. Paolina e l'unica donna che lo amò, sebbene si trattasse di un amore
fraterno. A Napoli Leopardi lavora incessantemente, nonostante la salute in
peggioramento, componendo varie liriche e satire; non segue le raccomandazioni
dei medici, e conduce una vita abbastanza sregolata per una persona dalla
salute fragile come la sua: dorme di giorno, si alza al pomeriggio e sta
sveglio la notte, mangia molti dolci (particolarmente sorbetti e gelati), talvolta
frequenta la mensa pubblica (anche durante il periodo del colera) e beve
moltissimi caffè. La morte Leopardi sul letto di morte, ritratto a matita
di Tito Angelini, anch'esso simile alla maschera mortuaria e quindi molto
realistico e verosimile In Campania egli compose gli ultimi Canti La ginestra o
il fiore del deserto (il suo testamento poetico, nel quale si coglie
l'invocazione ad una fraterna solidarietà contro l'oppressione della natura) e
Il tramonto della luna (compiuto solo poche ore prima di morire). Progettava
anche di tornare a Recanati, per vedere il padre, o partire per la Francia. Leopardi
aveva infatti intenzione di riconciliarsi umanamente col padre di persona (il
tono delle lettere a Monaldo diventa molto affettuoso negli ultimi tempi, dal
formale e nobiliare "signor padre" e al voi delle lettere giovanili
passa all'incipit "carissimo papà" e al tu). In questo periodo
cominciò ad ignorare le prescrizioni, pensando che non potesse comunque
decidere il suo destino. In una lettera al conte Leopardi, una delle ultime di
Giacomo, il poeta avverte la morte come imminente e spera che avvenga, non sopportando
più i suoi mali. Ritorna a Napoli con Ranieri e la sorella, ma le sue
condizioni si aggravarono verso maggio, anche se non in modo tale da far
sospettare ai medici o a Ranieri il reale stato di salute. L. si sentì
male al termine di un pranzo (che abitualmente consumava all'inconsueto orario
delle 17); quel mattino, aveva mangiato circa un chilo e mezzo di confetti
cannellini comprati da Paolina Ranieri in occasione dell'onomastico di Antonio
e bevuto una cioccolata, poi una minestra calda e una limonata (o granita
fredda) verso sera. Fu colpito da malore
poco prima di partire per Villa Carafa d'Andria Ferrigni, come era stato
programmato, e nonostante l'intervento del medico l'asma peggiorò e poche ore
dopo il poeta morì. Secondo la testimonianza di Antonio Ranieri, Leopardi si
spense alle ore 21 fra le sue braccia. Le sue ultime parole furono "Addio,
Totonno, non veggo più luce". La morte fu dichiarata all'ufficio dello
stato civile il giorno successivo da Giuseppe e Lucio Ranieri, i quali fecero
registrare l'indirizzo del decesso (vico Pero 2, nel territorio della
parrocchia della SS. Annunziata a Fonseca) e indicarono che il fatto era avvenuto
"alle ore venti". Tre giorni dopo il decesso, Antonio Ranieri
pubblicò un necrologio sul giornale Il Progresso. La morte del poeta è stata
analizzata da studiosi di medicina già a partire dall'inizio del XX secolo.
Molte sono state le ipotesi, dalla più accreditata, pericardite acuta con
conseguente scompenso, oppure scompenso cardiorespiratorio dovuto a cuore polmonare
e cardiomiopatia, seguite a problemi polmonari e reumatici cronici, a quelle
più fantasiose[146], fino al colera stesso.Nessuna delle tesi alternative,
tuttavia, è riuscita a smentire il referto ufficiale, diffuso dall'amico
Antonio Ranieri: idropisia polmonare ("idropisia di cuore" o
idropericardio), il che è comunque verosimile, dati i suoi problemi
respiratori, dovuti alla deformazione della colonna vertebrale; è anche
possibile che l'edema fosse una delle conseguenze dei problemi cronici di cui
soffriva, e che la causa principale fosse un problema cardiaco, forse
accelerata da una forma fulminante di colera che avrebbe ucciso il debilitato
Leopardi (che notoriamente soffriva di disturbi cronici all'apparato
gastrointestinale, i quali potevano mascherare la gastroenterite colerosa) in
poche ore. Leopardi era morto all'età di quasi 39 anni, in un periodo in cui il
colera stava colpendo la città di Napoli. Grazie ad Antonio Ranieri, che fece
interessare della questione il ministro di Polizia, le sue spogliequesta la
versione accettata dalla maggioranza dei biografinon furono gettate in una
fossa comune, come le severe norme igieniche richiedevano a causa
dell'epidemia, ma inumate nella cripta e poi, dopo una breve riesumazione alla
presenza di Ranieri che volle anche aprire la cassa, nell'atrio della chiesa di
San Vitale Martire (oggi Chiesa del Buon Pastore), sulla via di Pozzuoli presso
Fuorigrotta. La lapide, spostata poi con la tomba, fu dettata da Pietro
Giordani: «Al conte Giacomo Leopardi recanatese filologo ammirato fuori
d'Italia scrittore di filosofia e di poesie altissimo da paragonare solamente
coi greci che finì di XXXIX anni la vita per continue malattie miserissima fece
Ranieri per sette anni fino all'estrema ora congiunto all'amico adorato.” Il
ministro avrebbe accettato la richiesta del Ranieri solo dopo che un chirurgo,
non il medico curante Mannella, ebbe eseguita una sorta di sommaria autopsia
per poter dichiarare che la morte non fu dovuta a colera. In realtà fin
dall'inizio il racconto di Ranieri era apparso pieno di contraddizioni e molti
furono i dubbi che avvolsero quanto egli aveva dichiarato, anche perché le sue
versioni furono molte e diverse a seconda dell'interlocutore, facendo
sospettare che il corpo del poeta fosse finito nelle fosse comuni del cimitero
delle Fontanelle, o in quello dei colerosi (o nell'attiguo cimitero delle 366
Fosse), destinati in quel periodo ai morti per colera o per altre cause, come
attesta il registro delle sepolture della chiesa della SS. Annunziata a Fonseca
di Napoli (riportante la dicitura "cimitero dei colerosi" e
"sepolto id.") o addirittura occultate nella casa di vico Pero, e che
Ranieri avesse inscenato, per un motivo recondito, un funerale a bara vuota,
con la partecipazione dei suoi fratelli, del chirurgo e di un parroco
compiacente a cui avrebbe regalato dei pesci freschi. La lapide
originale, traslata nel parco Vergiliano Comunque, Ranieri continuò ad
affermare che le ossa erano nell'atrio della chiesa di S. Vitale e che il
certificato d'inumazione fosse un falso redatto dal parroco su richiesta del
ministro di Polizia, onde aggirare la legge sulle sepolture in tempo di
epidemia. Nel 1898 avvenne una prima ricognizione; secondo il senatore
Mariotti, smentito da altri, durante i lavori di restauro di alcuni anni prima,
un muratore ruppe inavvertitamente la cassa, danneggiata dalla troppa umidità,
frantumando le ossa e provocando la perdita di parte dei resti contenuti, forse
gettati nell'ossario comune o addirittura con i calcinacci, mescolando i resti
con altre ossa. La tomba di L. (Parco Vergiliano a Piedigrotta o Parco
della Tomba di Virgilio, Napoli). Alla presenza dei rappresentanti regi e del
comune di Napoli, venne effettuata la ricognizione ufficiale delle spoglie del
recanatese e nella cassa (in realtà un mobile adattato allo scopo clandestino
dai fratelli Ranieri), troppo piccola per contenere lo scheletro di un uomo con
doppia gibbosità, vennero rinvenuti soltanto frammenti d'ossa (tra cui residui
delle costole, delle vertebre recanti segni di deformità, e un femore sinistro
intero, forse troppo lungo per una persona di bassa statura, e un altro femore
a pezzi), una tavola di legno (con cui gli operai avevano tentato di riparare
il danno alla cassa), una scarpa col tacco e alcuni stracci, mentre nessuna
traccia vi era del cranio e del resto dello scheletro, per cui in seguito si
arrivò anche a formulare la teoria di un suo trafugamento da parte di studiosi
lombrosiani di frenologia amici del Ranieri. Nonostante i dubbi, la questione
venne ben presto chiusa; secondo l'incaricato professor Zuccarelli, era
plausibile che quelli fossero parte dei resti di Leopardi. Il medico parla
esplicitamente di aver rinvenuto una parte di rachide e una di sterno entrambe
deviate. Alcuni, pur pensando ad un'effettiva morte per colera, credettero
comunque che Ranieri fosse riuscito davvero nell'intento di salvare il corpo
dalla fossa comune corrompendo, se non il ministro, perlomeno dei funzionari
incaricati. La scarpa ritrovata, o quello che ne rimaneva, venne poi acquistata
dal tenore Beniamino Gigli, concittadino di Leopardi, e donata alla città di
Recanati.Dopo vari tentativi di traslare i presunti resti a Recanati o a
Firenze nella basilica di Santa Croce accanto a quelli di grandi italiani del
passato, la cassa, per volontà di Benito Mussolini che esaudì una richiesta
dell'Accademia d'Italia, venne con regio decreto di Vittorio Emanuele III che
ne stabiliva l'identificazione, riesumata di nuovo e spostata al Parco
Vergiliano a Piedigrotta (altrimenti detto Parco della tomba di Virgilio) nel
quartiere Mergellinail luogo fu dichiarato monumento nazionaledove tuttora
sorge appunto il secondo sepolcro del poeta, eretto quello stesso anno; nei
pressi venne traslata anche la lapide originale, mentre parte del monumento
venne portata a Recanati. Questa versione è quella sostenuta ufficialmente dal
Centro Nazionale Studi Leopardiani. Nel 2004 venne anche chiesta (da parte
dello studioso leonardiano Silvano Vinceti, che si è occupato anche della
riesumazione e identificazione dei resti di Caravaggio, Boiardo, Pico della
Mirandola e Monna Lisa) la terza riesumazione, onde verificare se quei pochi
resti fossero davvero di Leopardi tramite l'esame del DNA e del mtDNA,
comparato con quello degli attuali eredi dei conti L. (Vanni Leopardi e la
figlia Olimpia, discendenti diretti del fratello minore del poeta
Pierfrancesco) e dei marchesi Antici, ma la richiesta fu respinta, sia dalla
Soprintendenza sia dalla famiglia Leopardi (tramite la contessa Anna del
Pero-Leopardi, vedova del conte Pierfrancesco "Franco" Leopardi e
madre di Vanni). La posizione ufficiale della famiglia Leopardi (esplicitata
dal 1898 in poi) e della Fondazione Casa Leopardi da loro presieduta
(presidente fino al conte Vanni
Leopardi) è invece che i resti nel parco Vergiliano non siano comunque del
poeta e Ranieri abbia mentito, che il corpo si trovi alle Fontanelle e che
quindi la riesumazione sia inutile, occorrendo altresì rispettare la tomba-cenotafio
lì situata. Un altro membro della famiglia, chiamato anche lui Pierfrancesco,
si è invece detto disponibile. Tale esame non è stato finora
autorizzato. «Cantare il dolore fu per lui rimedio al dolore, cantare la
disperazione salvezza dalla disperazione, cantare l'infelicità fu per lui, e
non per gioco di parole, l'unica felicità. n quei canti veramente divini il
Leopardi trasformò l'angoscia in contemplativa dolcezza, il lamento in musica
soave, il rimpianto dei giorni morti in visioni di splendore.» (Papini,
Felicità di Giacomo Leopardi) Il pensiero di Leopardi è caratterizzato,
attraverso le fasi del suo pessimismo, dall'ambivalenza tra l'aspetto
lirico-ascetico della sua poetica, che lo spinge a credere nelle «illusioni» e
lusinghe della natura, e la razionalità speculativo-teorica presente nelle sue
riflessioni filosofiche, che invece considera vane quelle illusioni, negando ad
esse qualunque contenuto ontologico. La contraddizione tra anelito alla vita e
disillusione, tra sentimento e ragione, tra filosofia del sì e filosofia del no, era del resto ben presente allo stesso
Leopardi, il quale, secondo Karl Vossler, si adoperò costantemente per
ricomporle, non rassegnandosi mai allo scetticismo, convinto che la vera
filosofia dovesse in ogni caso mantenere i legami con l'immaginazione e la
poesia. Come ha rilevato De Sanctis. Leopardi non crede al progresso, e te lo
fa desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni
l'amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio inesausto. È
scettico e ti fa credente; e mentre non crede possibile un avvenire men triste
per la patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t'infiamma a
nobili fatti. Francesco De Sanctis, Schopenhauer e Leopardi,Luoghi leopardiani
A Recanati Targa della piazzuola del Sabato del Villaggio Palazzo
Leopardi: è la casa natale del poeta. Tuttora il palazzo è abitato dai
discendenti e aperto al pubblico. Esso venne ristrutturato nelle forme attuali
dall'architetto Carlo Orazio Leopardi verso la metà del XVIII secolo.
L'ambiente più suggestivo è senza dubbio la biblioteca, che custodisce oltre
20.000 volumi, tra cui incunaboli ed antichi volumi, raccolti dal padre del poeta,
Monaldo Leopardi. Piazzuola del Sabato del Villaggio: sulla quale si affaccia
Palazzo Leopardi. Ivi si trova la casa di Silvia e la chiesa di Santa Maria in
Montemorello, nel cui fonte battesimale fu battezzato Giacomo Leopardi nel
1798. Colle dell'Infinito: è la sommità del Monte Tabor da cui si domina un
panorama vastissimo verso le montagne e che ispirò l'omonima poesia composta
dal poeta a soli 21 anni. All'interno del parco si trova il Centro Mondiale
della Poesia e della Cultura, sede di convegni, seminari, conferenze e
manifestazioni culturali. Il Colle dell'Infinito è diventato un Bene del Fai
aperto a tutti. Palazzo Antici-Mattei:
casa della madre di Leopardi, Adelaide Antici Mattei, edificio dalle linee
semplici ed eleganti con iscrizioni in latino. Torre del Passero Solitario: nel
cortile del chiostro di Sant'Agostino è visibile la torre, decapitata da un
fulmine e resa celebre dalla poesia Il passero solitario. Chiesa di San
Leopardo (XIX secolo): venne fatta edificare dalla famiglia Leopardi insieme e
nei pressi della villa affidando la progettazione all'architetto Gaetano Koch.
La cripta, a cui si accede esternamente, è la tomba gentilizia della famiglia
Leopardi. Chiesa di Santa Maria di Varano (XV secolo): costruita nel 1450 per i
Minori Osservanti insieme al Convento annesso, dal 1873, cacciati i frati e
abbattuti due lati del convento, l'orto divenne quello che ancora è il civico
cimitero di Recanati. Vi si conserva ancora il pozzo di San Giacomo della Marca
ed affreschi nelle lunette del portico. All'interno è la tomba di famiglia dei
Leopardi ove sono sepolti Monaldo e Paolina, Altrove Spoleto, Albergo della
Posta (corso Garibaldi), Palazzo Antici
Mattei (Roma, via Michelangelo Caetani), dove fu ospite.Roma, tomba del Tasso
in Sant'Onofrio al Gianicolo, "uno dei posti più belli della terra, in
mezzo agli aranci e ai lecci". Bologna ("ospitalissima"),
convento di San Francesco (piazza Malpighi), primo soggiorno bolognese. Casa
dell'editore Anton Fortunato Stella, vicino al Teatro alla Scala a Milano
("veramente insociale") (Casa Badini, vicino al teatro del Corso
(oggi via Santo Stefano, 33) a Bologna ("tutto è bello, e niente magnifico").
Locanda della Pace, via del Corso, a Bologna, Ravenna (qui si vive quietissimi),
ospite del marchese Antonio Cavalli. Firenze, "sporchissima e fetidissima
città", Locanda della Fonte, nei pressi del mercato del grano e di Palazzo
Vecchio Targa sull'ultimo domicilio di Leopardi a Napoli Casa delle sorelle
Busdraghi, via del Fosso (oggi via Verdi), Firenze. Palazzo Buondelmonti,
abitazione di Giovan Pietro Vieusseux, a Firenze. Pisa ("una
beatitudine"), via Fagiuoli (casa Soderini). Il Lungarno pisano ("spettacolo
così ampio, così magnifico, così gaio, così ridente, che innamora").
"Una certa strada deliziosa" da lui battezzata "Via delle
Rimembranze", dove va a passeggiare a Pisa (lettera a Paolina Leopardi).
Levane, Camucia e Perugia, di passaggio. Roma (città oziosa, dissipata, senza
metodo), via dei Condotti 81 (spendo qui un abisso), con Ranieri. Napoli,
piazza Ferdinando; poi Strada nuova di Santa Maria Ognibene (casa Cammarota);
poi vico Pero (tre appartamenti affittati con Ranieri e la sorella di lui
Paolina). Villa Ferrigni, detta villa delle Ginestre, a Torre del Greco, alle
pendici dello "sterminator Vesevo". Opere di Giacomo Leopardi.
Copertina della prima edizione dello Zibaldone di pensieri. Epistolario Di
Giacomo Leopardi ci sono rimaste oltre novecento lettere, composte nell'arco di
una vita e indirizzate a circa cento destinatari, tra amici e familiari
(soprattutto al padre e al fratello Carlo). L'intero corpus epistolare di
Leopardi è raccolto dall'Epistolario, che malgrado le origini si può leggere
come un'opera autonoma: questa raccolta di prose private, infatti, costituisce
un fondamentale documento non solo per seguire le vicende biografiche del
poeta, ma anche per comprendere l'evoluzione del suo pensiero, dei suoi stati
d'animo e delle sue riflessioni culturali. L. prese parte all'acceso dibattito
culturale innescato dalla pubblicazione del saggio Sulla maniera e utilità
delle traduzioni di Madame de Staël: questa polemica vide schierarsi da una
parte i difensori del classicismo, quali Pietro Giordani, e dall'altra i
sostenitori della nuova poetica romantica. Leopardi, amico del Giordani,
si allineò alle tesi classiciste, mettendo per iscritto il proprio pensiero
nella Lettera ai compositori della Biblioteca italiana e nel Discorso di un
italiano intorno alla poesia romantica, rimasti entrambi inediti sino al 1906.
Nella prima Leopardi, pur riconoscendo la bontà dell'intervento dell'autrice
ginevrina, assume una posizione contraria alle istanze della lettera, nella quale
si invitava il popolo italiano ad aprirsi alle nuove letterature europee.
Secondo il poeta di Recanati, infatti, si tratta di un «vanissimo consiglio»,
essendo la letteratura italiana quella più vicina alle uniche letterature
universalmente valide, ovvero quella greca e quella latina. Nel Discorso,
invece, Leopardi approfondì la sua riflessione poetica in merito al dibattito,
introducendo temi che poi diverranno centrali della poesia leopardiana, come
l'opposizione tra i concetti di «natura» e civilizzazione. Zibaldone Lo
Zibaldone di pensieri è una raccolta di 4526 pagine autografe nelle quali
Leopardi depositò ragionamenti e brevi scritti sugli argomenti più vari.
Inizialmente l'opera non era dotata dell'organicità di un testo letterario,
essendo semplicemente il frutto di una scrittura immediata, di getto: Leopardi
iniziò a datare i singoli testi solo a partire dal 1820, così da orientarsi
agevolmente nel mare magnum di appunti (da lui definiti un «immenso
scartafaccio»), arrivando perfino a stilare due indici. Il Discorso sopra lo
stato presente dei costumi degl'italiani Il Discorso sopra lo stato presente
dei costumi degl'italiani, composto a Recanati e rimasto inedito, è un breve
trattato filosofico dove Leopardi analizza le peculiarità che
contraddistinguono la società italiana, e le compara con il carattere, la
mentalità e la moralità delle altre nazioni d'Europa. Alla fine dell'opera
Leopardi giunge all'amara conclusione che l'Italia, dilaniata da un esasperato
individualismo, è troppo poco civile per godere dei benefici del progresso
(come in Francia, Germania ed Inghilterra), ma troppo civile per godere dei
benefici dello «stato di natura», come accadeva nelle nazioni meno sviluppate,
quali Portogallo, Spagna e Russia. Secondo manoscritto autografo dell'Infinito
Le Operette morali, per usare le parole dello stesso poeta, sono un «libro di
sogni poetici, d’invenzioni e di capricci malinconici»: è ancora Leopardi a
descrivere la propria opera in una lettera indirizzata all'editore Stella,
sottolineando «quel tuono ironico che regna in esse» e specificando che
Timandro ed Eleandro sono una specie di prefazione, ed un’apologia dell’opera
contro i filosofi moderni». Le Operette, oggi considerate la più alta
espressione del pensiero leopardiano, racchiudono l'essenza del pessimismo del
poeta, trattando argomenti quali la condizione esistenziale dell'uomo, la
tristezza, la gloria, la morte e l'indifferenza della Natura. I Canti,
considerati il capolavoro di Leopardi, racchiudono trentasei liriche composte
da Leopardi. Tra i componimenti poetici inclusi nei Canti ricordiamo Sopra il
monumento di Dante, l'Ultimo canto di Saffo, Il passero solitario, La sera del
dì di festa, Alla luna, A Silvia, il Canto notturno di un pastore errante
dell'Asia, Il sabato del villaggio, La ginestra e infine L'infinito, uno dei
testi più rappresentativi della poetica leopardiana. Le ultime opere
Durante gli anni napoletani Leopardi scrisse due opere, i Paralipomeni della
Batracomiomachia e I nuovi credenti. Il primo è un poemetto in ottave con protagonisti
animali: «Paralipomeni», infatti, significa «continuazione» mentre
Batracomiomachia è battaglia dei topi e delle rane, ovvero un'opera
pseudoomerica che Leopardi aveva tradotto in gioventù. Dietro la finzione
comica Leopardi qui stigmatizza il fallimento dei moti rivoluzionari
napoletani. I topi infatti, simboleggiano i liberali, generosi ma velleitari,
mentre le rane sono i conservatori papalini, che non esitano a chiamare a sé i
granchi-austriaci, feroci e stupidi. nuovi credenti, invece, sono un capitolo
satirico in terza rima dove Leopardi esprime una spietata satira contro gli
esponenti dello spiritualismo napoletano, dei quali condanna la religiosità di
facciata e lo sciocco ottimismo. Parole d'autore A Giacomo Leopardi si devono
numerosi neologismi divenuti patrimonio diffuso (perlomeno in un linguaggio
colto e sorvegliato), come "erompere", "fratricida",
"improbo", "incombere",Al suo tempo, questa vena creativa
di Leopardi non fu apprezzata e fu oggetto degli strali di un atteggiamento purista
che opponeva resistenze all'adozione, e all'accoglimento nei lessici, di
neologismi d'uso forgiati in epoca successiva all'«aureo Trecento» In un caso,
un frutto della sua creatività, "procombere", gli guadagnò accuse
postume mossegli da Niccolò Tommaseo, coautore del Dizionario della lingua italiana.
Poesia e musica A sé stesso, romanza, versi di Giacomo Leopardi, musica di
Francesco Paolo Frontini, Milano, Edizioni Ricordi.Coro di morti, versi di G.
Leopardi (dal Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, Operette morali),
musica di Goffredo Petrassi, per coro e strumenti. Tre liriche di Goffredo
Petrassi, per baritono e pianoforte, testi di Leopardi, Foscolo e Montale. Epistolario
di Giacomo Leopardi. Leopardi nell'immaginario collettivo Il fatto che l'opera
di Leopardi sia stata e sia ogni anno oggetto dello studio di migliaia di
studenti ha determinato (come per Dante) che molte locuzioni delle sue opere
siano divenute d'uso corrente. Fra le principali: studio matto e
disperatissimo (in: lettera a Pietro Giordani e Zibaldone di pensieri); passata è la
tempesta... (in: La quiete dopo la tempesta, 1829); che fai tu, luna, in ciel?
dimmi, che fai... (in: Canto notturno di un pastore errante dell'Asia); natio
borgo selvaggio... (in: Le ricordanze); la donzelletta vien dalla campagna...
(in: Il sabato del villaggio); godi, fanciullo mio; stato soave... (in: Il
sabato del villaggio);...e naufragar m'è dolce in questo mare (in: L'infinito).
Il pittore e scultore maceratese Valeriano Trubbiani realizzò una serie di 12
pirografie sul tema Viaggi e transiti, dedicata ai viaggi del poeta nelle varie
città della penisola: Recanati, Macerata, Roma, Bologna, Pisa, Firenze, Milano,
Napoli. Tali opere sono esposte nel CARTCentro permanente per la Documentazione
dell'Arte Contemporanea di Falconara Marittima, che conserva anche altre opere
di Trubbiani dedicate a Leopardi: 10 disegni originali realizzati sul
tema "Leopardi figurativo", 8 incisioni a colori, una scultura del
1990 in rame, bronzo e argento con il Poeta pensoso in osservazione di un
gregge di pecore (“Move la greggia oltre pel campo e vede greggi”, ispirata al
Canto notturno di un pastore errante dell'Asia, un'installazione scultorea
sulla Batracomiomachia ("battaglia dei topi e delle rane") ispirata
ai Paralipomeni della Batracomiomachia leopardiani. L'ispirazione prodotta in
Trubbiani dall'opera leopardiana è raccontata dall'artista nel breve documentario
"Le Marche di Leopardi", patrocinato dalla Regione Marche.
Leopardi nella musica pop italiana Leopardi è citato nella Canzone per Piero
di Guccini e in Stai bene lì di Renato
Zero; i suoi versi sono citati anche nei titoli di Canto notturno (di un
pastore errante dell'aria) e Il cielo capovolto (ultimo canto di Saffo),
entrambe di Roberto Vecchioni. Giorgio Gaber, nella canzone
"Benvenuto il luogo dove", contenuto nell'album "Gaber" del
1984, dedicata all'Italia, parla della penisola come il luogo "dove i
poeti sono nati tutti a Recanati. Opere cinematografiche su Leopardi Dialogo di
un venditore di almanacchi e di un passeggiere, cortometraggio di Ermanno Olmi.
Pisa, donne e Leopardi (), mediometraggio di Roberto Merlino. L. è interpretato
da Orazio Cioffi; Il giovane favoloso, film di Mario Martone. Leopardi è interpretato
da Germano. Vari brani del film sono presenti nel programma
televisivo"Leopardi, il rivoluzionario" di Mancini, puntata della rubrica
"Il tempo e la storia"; "Le Marche di Leopardi", breve
documentario diretto da Alessandro Scilitani, patrocinato dalla Regione Marche.
Video in rete su Leopardi "Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo
Mancini, puntata della rubrica televisiva "Il tempo e la storia" con
Massimo Bernardini e lo storico Lucio Villari; "Giacomo Leopardi e
l`importanza di Recanati", per Rai Storia, vita e opere di Giacomo
Leopardi nel commento del critico teatrale Guido Davico Bonino. L’attore
Umberto Ceriani legge: L'infinito, La sera del dì di festa, Alla luna, La vita
solitaria; "Ecco il vero Colle dell'Infinito descritto da L."]:
Guzzini del Centro Studi Leopardiani mostra l'itinerario che il Poeta compiva
per recarsi dalla propria abitazione al punto di osservazione del paesaggio che
gli ispirò L'infinito; "Marche, le scoprirai all'infinito", spot
turistico della Regione Marche con il noto attore statunitense Dustin Hoffman
che tenta di recitare in italiano L'infinito. Regia di Giampiero Solari;
"A casa di Giacomo Leopardi", intervista di Pippo Baudo alla contessa
Olimpia Leopardi all'interno del Palazzo Leopardi di Recanati; "Un
Leopardi inedito" raccontato da Novella Bellucci e Franco D'Intino nella
puntata di "Visionari" programma televisivo condotto da Corrado
Augias su Rai 3. "L'arte di essere fragilicome Leopardi può salvarti la
vita", intervista allo scrittore Alessandro D'Avenia sul suo omonimo libro
e spettacolo teatrale. Inoltre, sono pubblicate in rete numerose
letture/interpretazioni dei principali canti leopardiani da parte dei più
importanti attori italiani. Fra questi si possono ascoltare: Gassman:
L'infinito, A Silvia, La sera del dì di festa, Amore e Morte, La quiete dopo la
tempest, A se stesso; Carmelo Bene: L'infinito, Passero solitario, La ginestra
(o Il fiore del deserto) Alla luna, La
sera del dì di festa, Il sabato del villaggio, Le ricordanze, Canto notturno di
un pastore errante dell'Asia, Inno ad Arimane, Amore e Morte; Foà: L'infinito,
Passero solitario, A Silvia, Il sabato del villaggio, La sera del dì di festa, Canto
notturno di un pastore errante dell'Asia, Le ricordanze, La ginestra (o Il
fiore del deserto), Il tramonto della luna, All'Italia, Alla luna; Giorgio
Albertazzi: L'infinito; Nando Gazzolo: L'infinito; Gabriele Lavia:
L'infinito, Lavia dice Leopardi; Alberto
Lupo: Ultimo canto di Saffo; Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di
Mario Martone: L'infinito], parte de La ginestra (o Il fiore del deserto) la
prima parte de La sera del dì di festa, un brano di Amore e Morte, l'ultima
parte di Aspasia. Leopardi "testimonial" della Regione Marche La
Regione Marche, dopo aver più volte utilizzato l'immagine del poeta recanatese
per la promozione turistica del proprio territorio ed anche della propria
offerta enological commissionò una discussa campagna pubblicitaria attraverso
un video, per la regia di Giampiero Solari, trasmesso sui principali canali
televisivi italiani ed anche esteri, con protagonista il noto attore
statunitense Dustin Hoffman[236], già conoscitore delle Marche per aver
interpretato ad Ascoli Piceno il film di Pietro Germi "Alfredo,
Alfredo", assieme ad una giovane Stefania Sandrelli. Questa la
descrizione della sceneggiatura dello spot per la promozione della stagione
turistica: «Un uomo legge una delle poesie più note della letteratura
italiano, l’Infinito di Giacomo Leopardi, la cui emozionalità è strettamente
legata alle visioni, alle luci, ai colori della terra marchigiana. L’uomo legge
la poesia camminando, cerca di capire e pronunciare bene la lingua non stando
fermo, dietro una scrivania, ma immergendosi nella terra che ha visto nascere
questo capolavoro; legge, riprova, si arrabbia, vuole assolutamente penetrare
la lingua, il sentimento di questa poesia, l’anima di questa terra e riprova e
riprova. Nel sottofondo le note sublimi del Tancredi di Rossini, che
accompagnano il silenzio di questa meditazione nuova che l’uomo cerca per sé:
l’uomo cerca emozioni, vuole fare un’esperienza nuova, e leggere l’Infinito
nelle Marche che l’hanno generato è un’esperienza nuova, formidabile, ma
difficile e faticosa. Ma ne vale la pena. Provare e alla fine sorridere, la
poesia è mia, le Marche sono la mia meta faticosamente conosciuta, capita e
raggiunta.» (dal comunicato stampa della Regione Marche) Nello spot Hoffman
tenta di recitare i versi dell'Infinito in un italiano "condito" dal
suo marcato accento californiano. Un accento tanto forte e straniante da
suscitare numerose critiche all'operato della Regione. Tra queste, quella di
Mina[239], che nella sua rubrica sulle pagine de "La Stampa", ebbe a
scrivere: «Leopardi bisogna meritarselo. Sarebbe andato benissimo anche
Oliver Hardy. Al quale, paradossalmente, in questa demoralizzante
«performance», mi sembra che assomigli. Non so come l'avrebbe fatta Ollio. Non
peggio, credo... Sentire la nostra potente, meravigliosa lingua strapazzata dal
pur bravo divo americano mi ha rigettato giù nella nostra condizione di
sempiterna colonia... il mondo della pubblicità è un mondo di matti. A volte
geniale, ma più spesso volgare e irrispettoso. Dustin Hoffman, from Los
Angeles, sarà pure un nome che tira, ma non li avevamo noi degli attori al suo
livello? E che parlano l’italiano? E che conoscono la musica dell’andamento di
un’esposizione poetica?» (Mina Mazzini) Al contrario, l'operazione
promozionale fu elogiata da Rienzo, linguista e critico letterario, da
Francesco Sabatini e Francesco Erspamer, rispettivamente presidente onorario e
presidente emerito dell’Accademia della Crusca; quest'ultimo commentò lo spot
con queste parole: «Sprovincializza la lingua italiana» Comunque sia, lo scopo
perseguito fu raggiunto: anche grazie alle polemiche, la versione non
definitiva del video della Regione Marche, inserito su YouTube, totalizzò quasi
21.200 visualizzazioni in tutto il mondo solo nella prima settimana.
Visto il successo del, Dustin Hoffman fu confermato per la campagna
promozionale della stagione turistica. Niente più lettura dei versi
leopardiani, ma, come sottolineò Grasso sul "Corriere della Sera",
nella nuova edizione «il volto del testimonial diventa più importante
dell’oggetto da reclamizzare. Attraverso gli scatti di Bryan Adams, si snoda un
racconto tutto personale: i cinque sensi di Dustin Hoffman dichiarano infinito
amore per le suggestioni concrete che la regione riesce a offrire: la
gastronomia, l’arte, la musica, i vini e i paesaggi. Nella campagna
promozionale del Dustin Hoffman fu
sostituito dall'attore marchigiano Neri Marcorè. Continuò comunque
l'utilizzo a scopi promozionali dell'immagine di Leopardi: sull'onda del
successo del film "Il giovane favoloso", diretto dal registra Mario
Martone e interpretato dall'attore Germano, la Regione mise in campo una serie
di iniziative per promuovere la visione del film e di conseguenza del
territorio marchigiano che ne aveva ospitato le location, tra cui un
"movie-tour", consentito gratuitamente a tutti gli spettatori muniti
del biglietto del cinema. La Regione ha patrocinato la realizzazione di un
breve documentario, "Le Marche di Leopardi", diretto da Alessandro
Scilitani, nel quale l'assessore alla cultura dell'epoca tratteggiava il
riepilogo delle iniziative regionali per valorizzare la figura del poeta
recanatese. Seguono una breve biografia di Leopardi, con le immagini di
Recanati, e gli interventi di vari operatori culturali marchigiani che,
rifacendosi a veri o presunti collegamenti con la vita ed il pensiero del
Poeta, introducono ad altri importanti personaggi nati o presenti nella Regione
(Gioacchino Rossini, Antonio Canova, Terenzio Mamiani, Valeriano Trubbiani,
Osvaldo Licini), il tutto "condito" dalle musiche di musicisti
marchigiani (Giovan Battista Pergolesi, Gaspare Spontini) e da squarci
paesaggistici di varie località della regione.Opere biografiche su Leopardi
Giacomo Leopardi, Puerili e abbozzi vari, Bari, G. Laterza & f.i,Antonio
Ranieri, Sette anni di sodalizio con Leopardi, Milano-Napoli: Ricciardi, 1920;
poi Milano: Garzanti, (con una nota di Alberto Arbasino); Milano: Mursia
(Raffaella Bertazzoli); Milano: SE, Mario Picchi, Storie di casa Leopardi,
Milano: Camunia; poi Milano: Rizzoli, 1990 Renato Minore, Leopardi. L'infanzia,
le città, gli amori, Milano: Bompiani, Rolando Damiani, Album Leopardi, Milano:
Mondadori «I Meridiani», Attilio Brilli, In viaggio con Leopardi, Bologna:
Il Mulino, Rolando Damiani, All'apparir del vero. Vita di Giacomo Leopardi,
Milano: Mondadori «Oscar Saggi» Marcello D'Orta, All'apparir del vero: il
mistero della conversione e della morte di L., Piemme,. Pietro Citati,
Leopardi, Milano, Mondadori,. Il Centro Nazionale di Studi Leopardiani nel
primo centenario della morte del poeta, fu istituito a Reca Centro Nazionale di
Studi Leopardiani. Esso ha come scopo la promozione di ricerche e studi
su Giacomo Leopardi in campo storico, biografico, critico, linguistico, filologico,
artistico, filosofico. Roberto Tanoni, L'aspetto di Giacomo Leopardi, Effettivamente
il titolo di conte con cui Leopardi veniva talvolta appellato, e che egli
stesso usava, in quanto primogenito dei conti Leopardi, era un "titolo di
cortesia", in quanto il vero titolo nobiliare era ancora in capo a
Monaldo, finché fu in vita. Uno
sconosciuto: l'ateo filantropo barone d'Holbach, su elapsus. ). Giulio Ferroni, La poesia del dolore: Giacomo
Leopardi, su emsf.rai). Forse la
malattia di Pott o la spondilite anchilosante. Erik Pietro Sganzerla,
Malattia e morte di L.. Osservazioni critiche e nuova interpretazione
diagnostica con documenti inediti, Booktime,: «Questo libretto rende giustizia
a un uomo che soffriva di numerosi problemi fisici, che ebbe una vita non
felice e una cartella clinica in cui sono posti in evidenza i sintomi e il loro
decorso temporale, l’età d’esordio della progressiva deformità spinale e dei
problemi visivi e gastrointestinali, l’influenza delle condizioni psichiche e
ambientali nell’accentuazione o remissione dei segnali. altamente probabile la
diagnosi di Spondilite Anchilopoietica Giovanile»; viene poi sostenuto che
Leopardi «affetto da una pneumopatia restrittiva con insufficienza respiratoria
cronica, aggravata da episodi infettivi intercorrenti, sia morto per uno
scompenso cardiorespiratorio terminale in paziente affetto da cuore polmonare e
possibile miocardiopatia. Questo io conosco e sento, che degli eterni giri, Che
dell'esser mio frale, qualche bene o contento avrà fors'altri; a me la vita è
male» (L., Canto notturno di un pastore errante dell'Asia) Renato Minore, Leopardi. L'infanzia, le città,
gli amori, Milano, Lettera di G. Leopardi (Recanati) a Pietro Colletta
(Livorno), ed atteso ancora che il patrimonio di casa mia, benché sia de'
maggiori di queste parti, è sommerso nei debiti. Emilio Cecchi e Natalino Sapegno, Storia
della letteratura italiana. Milano L'Ottocento Zibaldone «Il Chimico italiano. Rossella Lalli, Si
spegne la contessa Leopardi, erede e custode della memoria del poeta, newnotizie,Scritti
vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane, Firenze, successori Le
Monnier, Maria Corti in «Giacomo Leopardi. Tutti gli scritti inediti, rari e
editi», Milano, Bompiani 1972
Citati20-25. Cecchi, Sapegno, oGiuseppe
BonghiBiografia di L., su classicitaliani. Lettera a Pietro Giordani a Milano,
Recanati,in Epistolario di Giacomo Leopardi con le iscrizioni greche triopee da
lui tradotte e lettere di Pietro Giordani e Pietro Colletta all'Autore,
raccolto e ordinato da Prospero Viani,
I, Napoli, Lettera all'Avv. Pietro Brighenti a Bologna, Recanati, in
Epistolario di L. con le iscrizioni ecc. Il padre Monaldo lo vide parlare, con
sorpresa, in questa lingua con un rabbino di Ancona, secondo quanto riportato
dallo storico Lucio Villari nella trasmissione RAI Il tempo e la storia di
Massimo Bernardini (puntata "Leopardi, il rivoluzionario", 15 ottobre,
RaiTre-RaiStoria) Sarà la lingua
utilizzata nelle lettere allo Jacopssen
Il programma delle celebrazioni leopardiane, su giornale. regione. marche.
Il sanscrito nella teoria linguistica di Giacomo Leopardi, in Leopardi e
l'Oriente. Atti del Convegno Internazionale, Recanati a c. di F. Mignini, Macerata, Provincia di
Macerata, M. T. Borgato, L. Pepe, Leopardi e le scienze matematiche, 5-8. Aimé-Henri
Paulian su data.bnf.fr. Un episodio
della sua vita farà da spunto a una delle Operette morali, Il Parini ovvero
della gloria Cecchi, Sapegno, Spesso
nell'epistolario afferma di soffrire il freddo e di coprirsi le gambe con una
coperta di lana. C 33 esegg. Giuseppe Bortone, Il "morire
giovane" in L.i, su moscati..: "frequenti mi occorrono febbri
maligne, catarri e sputi di sangue…" scrive nel testo Alessandro Livi, giacomo leopardi, le
malattie ed i misteri sulla morte e sepoltura, alessandrolivistudiomedico,
Paolo Signore, Giacomo Leopardi: il genio di Recanati favoloso e malato, su
Rotari Club Fermo, «Di contenti,
d'angosce e di desio, / Morte chiamai più volte, e lungamente / Mi sedetti colà
su la fontana / Pensoso di cessar dentro quell'acque / La speme e il dolor mio.
Poscia, per cieco Malor, condotto della vita in forse, / Piansi la bella
giovanezza, e il fiore / De' miei poveri dì, che sì per tempo Cadeva: e spesso
all'ore tarde, assiso / Sul conscio letto, dolorosamente / Alla fioca lucerna
poetando, / Lamentai co' silenzi e con la notte / Il fuggitivo spirto, ed a me
stesso / In sul languir cantai funereo canto» (Le ricordanze, L. torrese, su
torreomnia. Giuseppe Sergi e Giovanni Pascoli furono i primi a ipotizzare la
malattia, "diagnosi" ripresa poi da Pietro Citati e altri, e
considerata probabile causa della deformità fisica e dei problemi di salute di
Leopardi anche da una ricerca scientifica condotta nel 2005 da due medici
pediatri recanatesi, Edoardo Bartolotta e Sergio Beccacece. Es. sindrome della cauda equina Alcuni propongono altre diagnosi: diabete
giovanile con retinopatia e neuropatia, tracoma oculare con sindrome di Scheuermann
alla schiena e disturbo bipolare, sindrome di Ehlers-Danlos di tipo
cifoscoliotico, rachitismo e neuropatia periferica originate da celiachia o
malassorbimento, sifilide congenita con tabe dorsale (Ranieri, negli anni
napoletani, arrivò a pensaresalvo poi smentireaffermando che Leopardi morì
vergine (cosa dibattuta), a pag. 99 di Sette anni di sodalizio con Giacomo
Leopardi che avesse contratto la sifilide o che l'avesse ereditata dal padre.
cfr. R. Di Ferdinando, L'amarezza del lauro. Storia clinica di Giacomo
Leopardi, Cappelli, Bologna, Con un'analisi postuma molto contestata poiché
basata sulle teorie pseudoscientifiche dell'antropologia criminale e della
frenologia, Cesare Lombroso e i suoi allievi Patrizi e Giuseppe Sergi
affermarono che Leopardi aveva l'epilessia, e avesse disturbi ereditari come
tutta la sua famiglia. Cfr.: M_ L_Patrizi.
Prof. M. L. Patrizi, Saggio psico-antropologico su L. e la sua famiglia,
Torino, Fratelli Bocca Editori, M_L_Patrizi. G. Chiarini, Vita di G.
Leopardi453. E. Galavotti, Letterati
italiani Lettera di Paolina Leopardi a G.P. Vieusseux, G. Leopardi, Lettera ad
Adelaide Maestri, Lettera ad Antonietta Tommasini, G. Leopardi, Zibaldone,
autografo, Scritti vari inediti di Giacomo Leopardi dalle carte napoletane, cUn'analisi
critica del Discorso, insieme a un saggio sui Paralipomeni alla Batracomiomachia
si trova in: Riccardo Bonavita, Leopardi: Descrizione di una battaglia, Nino
Aragno Ed., Torino, Aldo Giudice, Giovanni Bruni, Problemi e scrittori della
letteratura italiana, 3, tomo 1,
Paravia, Cfr. pag. 118 del ms. dello Zibaldone, con pensiero. Dove privato
dell'uso della vista, e della continua distrazione della lettura, cominciai a
sentire la mia infelicità in un modo assai più tenebroso. Cecchi,
Sapegno Lasciando da parte lo spirito e la letteratura, di cui vi parlerò altra
volta (avendo già conosciuto non pochi letterati di Roma), mi ristringerò
solamente alle donne, e alla fortuna che voi forse credete che sia facile di
far con esse nelle città grandi. V'assicuro che è propriamente tutto il
contrario. Al passeggio, in Chiesa, andando per le strade, non trovate una
befana che vi guardi. Trattando, è così difficile il fermare una donna in Roma
come a Recanati, anzi molto più, a cagione dell'eccessiva frivolezza e
dissipatezza di queste bestie femminine, che oltre di ciò non ispirano un
interesse al mondo, sono piene d'ipocrisia, non amano altro che il girare e divertirsi
non si sa come, non (omissis) (credetemi) se non con quelle infinite difficoltà
che si provano negli altri paesi. Il tutto si riduce alle donne pubbliche, le
quali trovo ora che sono molto più circospette d'una volta, e in ogni modo sono
così pericolose come sapete.» Il passo omesso dalla pubblicazione
dell'epistolario venne censurato alla prima edizione ed è stato ripristinato
solo in edizioni recenti, come quella dei Meridiani, poiché troppo esplicito
("non la danno"); cfr. Il senso di Leopardi per la donna di città. Pierluigi
Panza, La casa di Silvia (amata da Leopardi) restaurata e aperta, in Corriere
della Sera L'eliografia, metodo di riproduzione messo a punto da Joseph
Nicéphore Niépce fu da questi usato per la prima fotografia (precedente di 13
anni il dagherrotipo). Bonghi, Biografia
di Leopardi, su classicitaliani. La donna nelle parole di Leopardi, su
casatea.com. Paolo Ruffilli, Introduzione alle Operette morali, Garzanti Citati 226 e segg. Bortolo Martinelli, Leopardi oggi: incontri
per il bicentenario della nascita del poeta: Brescia, Salò, Orzinuovi, Vita e
Pensiero, Fotografia della maschera
(JPG), Centro Nazionale di Studi Leopardiani Recanati. 1º gennaio (archiviato il 1º gennaio ). Donatella Donati, Leopardi a Napoli, Centro
nazionale di studi leopardiani Centro mondiale della poesia e della cultura
"G.Leopardi"Recanati Città della poesia, Per lui scrisse la celebre
Palinodia al marchese Gino Capponi
Niccolini era già stato l'ispiratore del personaggio di Lorenzo Alderani
delle Ultime lettere di Jacopo Ortis
«Ora bisogna che io scriva a quel maledetto gobbo, che s'è messo in capo
di coglionarmi» (Lettera di Gino Capponi a Gian Pietro Vieusseux) Una stroncatura per L. Archiviato in.; mentre fu più meditato e indulgente il
giudizio dato dal Capponi stesso, in tarda età, sulla poesia e su Leopardi
stesso. Introduzione alla Palinodia L., Epigramma contro il Tommaseo, su fregnani.
Giuseppe Bonghi, Analisi di "A Silvia", su classicitaliani.Carlo
Leopardi così ricordava, su ilgiardinodigiacomo. wordpress.com. Cfr. lettera di
G. Leopardi (Recanati) a Colletta (Livorno), in cui dichiara di aver percepito
venti scudi romani (diciannove fiorentini) al mese. Lettera aColletta dcome citato in Marco
Moneta, L'officina delle aporie: Leopardi e la riflessione sul male negli anni
dello Zibaldone, FrancoAngeli, Milano, in CitaTO Luperini, Cataldi, Marchiani,
La scrittura e l'interpretazione, Palermo, Palumbo, Le ricordanze, v. 30. Gente che m'odia e fugge, per invidia non
già, che non mi tiene maggior di sé, ma perché tale estima ch'io mi tenga in
cor mio, in Le ricordanze, Camillo Antona-Traversi, I genitori di Giacomo
Leopardi: scaramucce e battaglie, Recanati, A. Simboli, Cecchi, Sapegno. L., in
Catalogo degli Accademici, Accademia della Crusca. CNote ad Aspasia, nei Canti, edizione
Garzanti Donne fatali 2: Giacomo
Leopardi e Aspasia"Io non ho mai sentito tanto di vivere quanto amando...",
su sulromanzo. "Tu vivi / bella non
solo ancor, ma bella tanto, / al parer mio, che tutte l'altre
avanzi"Aspasia, G. Sarra, Dizionario Biografico degli Italiani,
riferimenti e link in. Giovanni Mèstica,
Gli amori di G. Leopardi, in Fanfulla della domenica, (Fonte DBI). Altri ritengono che il canto
alluda piuttosto alla sola Fanny Targioni Tozzetti, tra questi, Giovanni Iorio
nel commento ai Canti, edizione Signorelli, Roma. Leopardi: dama invaghita del
poeta non fu ricambiata ma evitata, su adnkronos.com. 1M. de Rubris, Confidenze
di Massimo d'Azeglio. Dal carteggio con Tozzetti, Milano, Arnoldo Mondadori, Paolo
Abbate, La vita erotica di L., C.I. Edizioni, Napoli. Orto, Sempre caro mi fu,
pubblicato in "Babilonia" Robert Aldrich e Garry Wotherspoon, Who's
who in gay and lesbian history, 1, ad
vocem Leopardi gay? Vietato dirlo, su ricerca.
repubblica. Simone D'Andrea, Normalmente diverso, su L.. Epistolario,
BrioschiLandi, Sansoni Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con L., Garzanti,
Milano. D'Orta12. Cfr. anche la lettera di Stanislao Gatteschi a Monaldo Leopardi
in L. Epistolario, Brioschi Landi, Sansoni È stravagantissimo nelle
abitudini del vivere. Si leva verso le due pomeridiane, mangia ad orari
irregolari, va a letto verso il fare del giorno. La sua vita non può esser
longeva per i complicati mali onde è gravato." e Antonio Ranieri, Sette anni
di sodalizio con L., Garzanti, 1 "Durante tutta la sua vita, egli fece,
appresso a poco, della notte giorno, e viceversa." Traduzione in Michele Scherillo, Vita di
Giacomo Leopardi, Greco Editori, Milano, Epistolario, lettera. Leopardi e le
donne una storia tormentata, su ricerca.repubblica. Moro, Ranieri Paola (Paolina),
su treccani. 2 D'Orta25. L. Il poeta
della sofferenza, su archivio storico. corriere. Teorie alternative sulla morte
del conte L. sono state trattate e documentate negli studi condotti da Cesaro
(cfr. Sfrondando gli allori della poesia)
Lettera di Antonio Ranieri a Fanny Targioni-Tozzetti, Napoli Confronta
anche Citati, Leopardi, Mondadori,, Milano, Secondo originale dell'atto di
morte di L., su dl.antenati.san.beniculturali.
Il Progresso delle Scienze, delle Lettere e delle Arti, Napoli dalla Tipografia
Plautina, cfr. anche Notizia della morte
del Conte Giacomo Leopardi Angelo Fregnani Ad esempio cibo avariato,
congestione, coma diabetico o indigestione
Cenni storiciFu un'indigestione a causare la morte di Leopardi?, su
spaghettitaliani.com. Napoli e Leopardi, su ildelsud.org. Ecco i confetti che
uccisero Leopardi. Al Suor Orsola la collezione Ruggiero, su corrieredelmezzogiorno.corriere.
in Lettera di Ranieri a Fanny Targioni-Tozzetti, Napoli, 1 idem in Lettera di
A. R. a Monaldo Leopardi, Napoli, in Opere inedite di Giacomo Leopardi, G.
Cugnoni, I, Halle, Max Niemeyer Editore,
Nuovi documenti intorno alla vita e agli scritti di Giacomo Leopardi, G.
Piergili, Firenze, Le Monnier, in.;
"Idrotorace" in Lettera di A. R. a De Sinner, Napoli, idropisia di
petto" dice Paolina L. in una lettera a Marianna Brighenti Biografia sulla Treccani, su treccani. are
LB, Matthay MA. Acute pulmonary edema. N Engl J Med Giovanni Bonsignore, Bellia
Vincenzo, Malattie dell'apparato respiratorio terza edizione, Milano,
McGraw-Hill, Picchi, Storie di casa Leopardi, BUR, Dalla foto pubblicata qui,
su rete.comuni-italiani. Cfr. anche Effemeridi scientifiche e letterarie per la
Sicilia, Palermo, dalla tipografia di Filippo Solli, Opere di Pietro
Giordani, Scritti editi e postumi di
Pietro Giordani, VI, pubblicati da
Antonio Gussalli, Milano presso Francesco Sanvito, Riproduzione, che presenta
lieve variazione di testo, sotto forma di disegno in Opere di Giacomo Leopardi,
edizione accresciuta, ordinata e corretta secondo l'ultimo intendimento dell'autore,
da Antonio Ranieri, Firenze, Successori
Le Monnier, 1889, fuori testo Archiviato il 10 ottobre in..
Pasquale Stanzione, Giacomo LeopardiUna tomba vuota a Fuorigrotta, su
pasqualestanzione. Foto del Registro (JPG), su pasquale stanzione. Ingrandimento
(JPG), su pasqualestanzione.Nuove scoperte su Leopardi? Occorre cautela in. da
Cronache maceratesi Garofano, Gruppioni, Vinceti Delitti e misteri del
passato: Sei casi da RIS dall'agguato a Giulio Cesare all'omicidio di Pier
Paolo Pasolini, Rizzoli PIER FRANCESCO L.: SONO DISPONIBILE ALLA PROVA DEL DNA,
MA I RECANATESI SONO D’ACCORDO? Loretta
Marcon, Un giallo a Napoli. La seconda morte di L., Guida,,Ida Palisi,
Leopardi, strane ipotesi su morte e sepoltura, “Il Mattino di Napoli”,
recensione a: Loretta Marcon, Un giallo a Napoli. La seconda morte di Giacomo
Leopardi, Guida, Picchi, Storie di casa L. Si riporta anche il verbale
ufficiale delle persone presenti. E' vuota la tomba di Leopardi. Guerra
sulla riesumazione dei resti, su ricerca.repubblica. La Vita L., sito gestito dal CNSL Si torna a parlare dei resti di L., nato
comitato per l'esumazione dal sacello del parco Virgiliano di Napoli, su ilcittadinodirecanati.
Il ritratto della pinacoteca di Recanati, su cdn.studenti.stbm. In Opera Omnia,
Milano, Mondadori, Cfr. in proposito
anche gli studi che il filosofo Gentile ha dedicato a L., in particolare:
Manzoni e L.: saggi critici (Milano, Treves, Poesia e filosofia di Giacomo Leopardi
(Firenze, Sansoni). Paolo Emilio
Castagnola, Osservazioni intorno ai Pensieri di Giacomo Leopardi, pag. 26, Tipografia
del Mediatore, Gino Tellini, Filologia e storiografia. Da Tasso al
Novecento, Roma, Ed. di Storia e
Letteratura, Sebastian Neumeister, Giacomo Leopardi e la percezione estetica
del mondo Peter Lang, In Saggi critici, Russo,
Bari, Laterza Chiese e Santuari Comune di Recanati, su comune.recanati.mc. Per L., su pergiacomo leopardi.altervista.org.
Tutte le indicazioni su luoghi e viaggi sono prese da Attilio Brilli, In
viaggio con Leopardi, Il Mulino, Bologna Tra virgolette le parole di Leopardi,
tratte da sue lettere. Marta Sambugar, Gabriella Sarà, Visibile parlare,
da Leopardi a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Marta Sambugar, Gabriella Sarà,
Visibile parlare, da Leopardi a Ungaretti, Milano, RCS Libri, Operette morali,
su internetculturale. Sambugar, Sarà, Visibile parlare, da Leopardi a
Ungaretti, Milano, RCS Libri, Marri, Neologismi Enciclopedia dell'Italiano (),
Istituto dell'Enciclopedia italiana.
Catalogo della mostra "Viaggi e transiti opere leopardiane di
Valeriano Trubbiani" realizzata in occasione dell'inaugurazione del Centro
culturale "Pergoli" di Falconara Marittima Comune di Falconara
Marittima, Aniballi Grafiche, Ancona, Vedi la scheda dedicata al CARTCentro
permanente per la Documentazione dell'Arte Contemporanea di Falconara Marittima
nel sito "La memoria dei luoghi" del Sistema Museale della Provincia
di Ancona: CARTCentro permanente per la documentazione dell'Arte contemporanea,
su Associazione "Sistema Museale della Provincia di Ancona".
"Le Marche di Leopardi", breve documentario diretto da Alessandro
Scilitani, patrocinato dalla Regione Marche: youtube.com /watch?v= Km1EK0MH6Sg ascolta la canzone nel sito della Fondazione
Giorgio Gaber:// Giorgio gaber/ discografia-album/ benvenuto-il- luogo-dove-testo
Archiviato il 6 settembre in. vedi il testo dell'Operetta morale in Operette
_morali /Dialogo _di_ un_ venditore_ d%27 almanacchi_ e_di_un_passeggere. Il
corto metraggio di Ermanno Olmi Dialogo di un venditore di almanacchi e di un
passeggiere: youtube. com/ watch? v=hiJOBK JZNaU Il cortometraggio di Ermanno Olmi Dialogo di
un venditore di almanacchi e di un passeggiere è inoltre visibile all'interno
del programma "Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini,
puntata della rubrica televisiva di Rai Storia "Il tempo e la storia"
con Massimo Bernardini e lo storico Villari://raistoria.rai/articoli/leopardi- il-rivoluzionario/25794/default.aspx
"Leopardi, il rivoluzionario" di Giancarlo Mancini, puntata della
rubrica "Il tempo e la storia" con Bernardini e lo storico Lucio
Villari://raistoria.rai/articoli/leopardi-il-rivoluzionario/ 25794 /default.aspx
in. Rai Storia, "Giacomo Leopardi e
l`importanza di Recanati"://raiscuola.rai/articoli/ giacomo-leopardi-parte-prima/3205/default.aspx
Archiviato l'8 settembre in. Nel sito web de "La Stampa",
Guzzini del Centro Studi Leopardiani
mostra l'itinerario che il Poeta compiva per recarsi dalla propria abitazione
al punto di osservazione del paesaggio che gli ispirò L'infinito:// lastampa//07/16/
multimedia/ societa/ viaggi/ecco-il-vero- colle-dellinfinito- descritto-da-giacomo-leopardi-fncjkba7fEJyVoUSrazy1H/
pagina.html. Lo spot turistico sulle Marche con Dustin Hoffman con la regia di
Giampiero Solari: youtube."A casa di Giacomo Leopardi", intervista di
Pippo Baudo alla contessa Olimpia Leopardi all'interno del Palazzo Leopardi di
Recanati: youtube. com/watch?v=oNlkBu0E
"Un Leopardi inedito" raccontato da Novella Bellucci e Franco
D'Intino nella puntata di "Visionari" del 15 giugno, programma
televisivo condotto da Augias su Rai 3: youtube. com/watch? v=KwFnKv0T BaI Intervista allo scrittore Alessandro D'Avenia
sul suo libro e spettacolo teatrale “L'arte di essere fragilicome Leopardi può
salvarti la vita” nel sito di RepubblicaTv (): youtube.com/watch?v=oX Gh3g6lQsM Vittorio Gassman interpreta L'infinito, su
youtube.com. Gassman interpreta A Silvia: youtube. com/watch?v=7hEbvxBi2ZQ Archiviato il
29 marzo in. Vittorio Gassman interpreta La sera del dì di
festa: youtube. com/watch?v=TPpCs6tws_U Gassman interpreta Amore e Morte: youtube
Gassman interpreta La quiete dopo la tempesta: youtube.com/watch?v=- 8jasZDrV2U
Gassman interpreta A se stesso: youtube .com/watch?v=F0lhF2s_5s4 Bene interpreta L'infinito: youtube.co Carmelo Bene interpreta Passero solitario:
youtube. com/ watch?v=IZz Qbnzpaok
Carmelo Bene interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube. com
/watch?v=ZqzVXF3Fx4Y C. Bene interpreta
Alla luna: youtube.com/watch?v= v9Iria UNWQk
Carmelo Bene interpreta La sera del dì di festa: youtube.com/ watch?v=qydGUiV1wwI Carmelo Bene interpreta Il sabato del
villaggio: youtube. com/watch?v=vI9PJfCtWw4
Carmelo Bene interpreta Le ricordanze: youtube. com/watch ?v=jyB0eM9AOoM Bene interpreta Canto notturno di un pastore
errante dell'Asia: youtube Carmelo Bene interpreta Inno ad Arimane:
youtube.com/ watch?v=f2-QAubKbLE vedi su
Inno ad Arimane: Canti_ (superiori )# Le_ posizioni_ contro _ l.27 ottimismo _progressista
Archiviato il 15 settembre in. leggi il testo di Inno ad Arimane
init.wikisource.org/wiki/ Puerili_(Leopardi) /Ad_Arimane Archiviato il 15
settembre in. Bene interpreta Amore e Morte:
youtube.com/watch?v=epYU4-n2jGw Foà
interpreta L'infinito: youtube Arnoldo Foà interpreta Passero solitario:
youtube.com/watch?v= nOr3Qbceuhg Foà interpreta
A Silvia: youtube Arnoldo Foà interpreta Il sabato del villaggio: youtube. com/watch?v=kmk_gd-48XE Foà interpreta La sera del dì di festa:
youtube.com/watch?v=aWOJfMZeCVo Foà
interpreta Canto notturno di un pastore errante dell'Asia: youtube Arnoldo Foà
interpreta Le ricordanze: youtube.com /watch?v= hL 855FC_juA Foà interpreta La
ginestra (o Il fiore del deserto): youtube.com/ watch?v= zB nDqu8X5fk Arnoldo Foà interpreta Il tramonto della
luna: youtube Arnoldo Foà interpreta All'Italia: youtube. com/watch?v=iN HqhHiIqok Arnoldo Foà interpreta Alla luna: youtube. Com
/watch?v=oxzCzwR05WE Albertazzi interpreta L'infinito: youtube. com/watch?v= BLmhOx6IuCw Archiviato il 1º giugno in. Gazzolo interpreta L'infinito: youtube. com/watch?v=Te8tyDDsh2A
Lavia interpreta L'infinito: youtube.com/ watch?v=oSV7eBa-_Ao Lavia discetta sull'opera di Leopardi, prima
della "dizione" delle opere di Leopardi: youtube Alberto Lupo
interpreta Ultimo canto di Saffo: youtube Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di
M. Martone, interpreta L'infinito: youtube.com/watch?v=jIvz Qvi75rQ Germano, nel film Il giovane favoloso di
Martone, interpreta La ginestra (o Il fiore del deserto): youtube IGHm4 Elio Germano, nel film Il giovane favoloso di
M.n Martone, interpreta la pri ma parte de La sera del dì di festa:
youtube.com/watch?v NgI8uekF6H4 Germano,
nel film Il giovane favoloso di Mario Martone, interpreta un brano di Amore e
Morte: youtube Germano, nel film Il giovane favoloso di Mario Martone,
interpreta l'ultima parte di Aspasia: youtube nito», su corriere,/ turismo.marche/
Portals/1/Leopardi/ Leopardi%2 0nel%20mondo.pd Il backstage dello spot
promozionale della Regione Marche con Dustin Hoffman ed il regista Giampiero
Solari: youtube.com/ watch?v=zi- UJTIBatM
La stroncatura di Mina allo spot della Regione Marche: you tube.co riportato
in: "Il cittadino di Recanati", Anche Mina nella sua rubrica su
"La Stampa" affonda lo spot con L'infinito, su ilcittadinodirecanati,
"Il Resto del Carlino" Ancona, "Leopardi bisogna
meritarselo" Mina critica lo spot della Regione, su ilrestodelcarlino,"Il
Resto del Carlino" Ancona, Spot di Hoffman, su YouTube 21 mila
visualizzazioni, su il resto del carlino, Dustin Hoffman ancora sponsor delle
Marche. Ma sembra lo spot di se stesso, su blitzquotidiano. 6 settembre (archiviato il 6 settembre ). vedi la serie di spot "Le Marche non ti
abbandonano mai" interpretati dall'attore marchigiano Neri Marcorè, con la
regia di Rovero Impiglia e Giacomo Cagnelli: youtube Marco Minnucci, La regione
Marche rispedisce Dustin Hoffman in America e pone fine allo stupro di
Leopardi, su qelsi, su Giacomo Leopardi.
Edizioni delle opere Giacomo Leopardi, [Opere. Poesia], Bari, G. Laterza, Epistolario
Epistolario di Giacomo Leopardi, Francesco Moroncini, Firenze: Le Monnier, Lettere,
Sergio Solmi e Raffaella Solmi, Milano-Napoli: Ricciardi, poi Torino: Einaudi
«Classici Ricciardi» Il Monarca delle Indie. Corrispondenza tra Giacomo e
Monaldo L., Graziella Pulce, introduzione di Giorgio Manganelli, Milano:
Adelphi «Biblioteca» Franco Brioschi e Patrizia Landi, Torino: Bollati
Boringhieri, Damiani, Milano: Arnoldo Mondadori Editore «I Meridiani», Zibaldone
Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, Giosuè Carducci e altri,
Firenze: Le Monnier, Pensieri di varia filosofia, Ferdinando Santoro, Lanciano:
Carabba, Attraverso lo Zibaldone, Piccoli, Torino: Pomba scelto e annotato con introduzione e indice
analitico Giuseppe De Robertis, Firenze: Le Monnier, Il testamento letterario,
pensieri scelti, annotati e ordinati in sei capitoli da «La Ronda», Roma: La
Ronda, con prefazione e note di Flavio Colutta, Milano: Sonzogno, Opere, volume
III: Zibaldone scelto, Giuseppe De Robertis, Milano: Rizzoli, Francesco Flora, Milano: Mondadori, in
Antologia leopardiana: Canti, Operette morali, Pensieri, Zibaldone ed
Epistolario, Giuseppe Morpurgo, Torino: Lattes, in Opere, Sergio Solmi e
Raffaella Solmi, Milano-Napoli: Ricciardi, poi parzialmente Torino: Einaudi,
«Classici di Ricciardi», in Tutte le opere, introduzione e cura di Walter
Binni, con la collaborazione di Enrico Ghidetti, Firenze: Sansoni); Moroni,
saggi introduttivi di Sergio Solmi e Giuseppe De Robertis, Milano: Mondadori
«Oscar» (con uno scritto di Giuseppe Ungaretti) e edizione fotografica
dell'autografo con gli indici e lo schedario, Emilio Peruzzi, Pisa: Scuola
normale superiore, Il testamento letterario, pensieri dello Zibaldone scelti
annotati e ordinati da Vincenzo Cardarelli, con una premessa di P. Buscaroli,
Torino: Fogoli, Pensieri anarchici scelti Francesco Biondolillo, Napoli:
Procaccini, edizione critica e annotata Giuseppe Pacella, Milano: Garzanti «I
Libri della Spiga», Damiani, Milano: Mondadori, «I Meridiani», Teoria del
piacere, scelta di pensieri con note, introduzione e postfazione di Vincenzo
Gueglio, Milano: Greco e Greco, edizione tematica stabilita sugli indici
leopardiani, Fabiana Cacciapuoti, prefazione di Antonio Prete, Roma: Donzelli
Editore, Lucio Felici, premessa di Emanuele Trevi, indici filologici di Marco
Dondero, indice tematico e analitico di Dondero e Wanda Marra, Roma: Newton
Compton, «Mammut», Tutto e nulla, antologia Mario Andrea Rigoni, Milano:
Rizzoli «BUR», edizione critica Fiorenza Ceragioli e Monica Ballerini, Bologna:
Zanichelli, Canti con note per cura di Francesco Moroncini, Leopardi, Giacomo,
Canti: commentati da lui stesso, Palermo: R. Sandron, Gallo e Garboli, Torino:
Einaudi, Poesie e prose. Poesie, Mario A. Rigoni, Milano: Mondadori «I
Meridiani», n Tutte le poesie e tutte le prose, Lucio Felici, Roma: Newton
Compton, «Mammut», Canti e poesie disperse, ed. critica Franco Gavazzeni (con
C. AnimosiItalia, M.M. Lombardi, F. Lucchesini, R. Pestarino, S. Rosini), Firenze:
Accademia della Crusca, Giacomo Leopardi, Canti, Bari, G. Laterza e Figli, Operette
Morali L. Operette morali; edizione critica di Francesco Moroncini, Bologna:
Cappelli, 1929 introduzione cura di Antonio Prete, Milano: Feltrinelli
«Universale economica classici», Milano: Mursia, in Poesie e prose. Prose,
Rolando Damiani, Milano: Mondadori «Meridiani», in Tutte le poesie e tutte le
prose, Emanuele Trevi, Roma: Newton Compton, «Mammut», poi da sole nella collana «GTE», Giacomo
Leopardi, Operette morali, Bari, Laterza, Pensieri Giacomo Leopardi, Pensieri,
Bari, G. Laterza e Figli Edit. Tip., introduzione cura di Antonio Prete,
Milano: Feltrinelli «UEF classici», 1994 Crestomazia italiana Giulio Bollati e
G. Savoca, Torino: Einaudi, «Nuova Universale Einaudi», Memorie del primo amore
Cesare Galimberti, Milano: Adelphi, Epistolario di Giacomo Leopardi Leopardi
(famiglia) Opere Pensiero e poetica di L. TreccaniEnciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
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Inc. L., su The Encyclopedia of Science Fiction. Giacomo Leopardi, in Dizionario biografico
degli italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. accademicidellacrusca.org, Accademia della
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Episcopale Italiana. Opere di Giacomo
Leopardi, su Liber Liber. Opere di L.,
su openMLOL, Horizons Unlimited srl.Progetto Gutenberg. Audiolibri di L., su
LibriVox. L., su Goodreads. italiana di
L., su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com.
Spartiti o libretti di Giacomo Leopardi, su International Music Score Library
Project, Project Petrucci LLC. Centro
nazionale di studi leopardiani Recanati, su centro studileopardiani. Classici
Italiani e opere complete interbooks.eu
Lo Zibaldone, su rodoni.ch. I canti di L. dai manoscritti autografi della Biblioteca
Nazionale di Napoli, su bnnonline. Il Pessimismo in Leopardi e Schopenhauer
[collegamento interrotto], su gheminga. Opere integrali in più volumi dalla
collana digitalizzata "Scrittori d'Italia" Laterza Opere di Giacomo
Leopardi, testi con concordanze, lista delle parole e lista di frequenza
Leopardi: Dialogo di un Fisico e di un Metafisico. Arte di prolungare la vita o
arte della felicità?, su giornaledifilosofia.net. Concordanze delle Lettere su
classicistranieri.com. Autobiografia (Monaldo Leopardi)/Monaldo Leopardi, la
satira a servizio della fede, su totustuus.biz. Nietzsche e Leopardi a
confronto, su agenziaimpronta.net. Leopardi ottimista: un mito del Novecento,
su cle.ens-lyon.fr 10 gennaio ). Angelini, "Sereno in L.", su
cesareangelini. Buonofiglio, "L'inquietudine ritmica dell'in(de)finito",
su academia.edu. Il primo di questi scritti usci nella Rassegna bibliografica
della letteratura italiana d’Ancona,. Il secondo nella Critica. Il
terzo nella stessa Critica. Tutti e tre furono riprodotti nei Frammenti
di Estetica e Letteratura, Lanciano, Carabba, Si ha alle stampe un’
Esposizione del sistema filosofico di Giacomo Leopardi *. E una
dissertazione di laurea, e reca infatti l’impronta comune a tutti i
lavori giovanili. L’inesperienza apparisce nello stesso titolo del libro,
un po’ troppo prosaico, e incongruo col contenuto del libro, che
non vuol essere propriamente un’esposizione fatta dall’autore del sistema
filosofico del Leopardi; ma appunto questo sistema, portato innanzi al lettore
con le stesse parole del Leopardi; non volendo l’autore da parte
sua aggiungervi se non prefazione, note ed epilogo. Metodo anche questo
alquanto ingenuo e da scrittore che non vede ancora la necessità, chi
voglia rappresentare nella sua unità logica e nell’organismo delle sue
parti il pensiero d’un filosofo, d’appropriarsi questo pensiero, entrarvi
dentro, mettendosi allo stesso punto di vista del filosofo, e quindi in
grado di rielaborare il suo pensiero, chiarendolo con le attinenze storiche
a cui è legato, e con le dilucidazioni intrinseche di cui logicamente è
suscettibile, salvo a mostrarne, ove occorra, la inconsistenza: in modo
che l’esposizione riesca una vita nuova del sistema filosofico nella
mente dell’espositore. GATTI, Esposizione del sistema filosofico di L.,
saggio sullo Zibaldone” (Firenze, Le Monnier). Lavoro difficile, certo, e che
non riesce felicemente se non agli scrittori provetti; ma che nessuno
ordinaria¬ mente crede di potere schivare, se non limiti il proprio
ufficio a quello di semplice editore; e tutti ne escono alla meglio,
esponendo i vari sistemi come ciascuno li ha intesi. L’autore
di questo libro, invece, ha voluto mettere insieme i passi dello
Zibaldone leopardiano, mostrando come fil filo un pensiero si svolgesse
dall’altro; e dove la connessione non appariva evidente nelle parole
del testo, ha supplito di suo i legamenti opportuni, ma continuando a
parlare, in prima persona, a nome del Leopardi: proprio come se questi avesse
riordinata e organizzata quella copiosa congerie di riflessioni già via
via segnate sulla carta a schiarimento del proprio pensiero e a
sfogo della sua malinconia. Né ha lontanamente sospettato il rischio, e stavo
per dire la responsabilità, a cui andava incontro, facendo parlare per la
sua bocca lui, il Leopardi. Ha creduto che nello Zibaldone stesse,
pezzo per pezzo, tutto un sistema; e non ha saputo resistere al seducente
disegno d’innalzare, con la semplice composizione degli stessi materiali
leopardiani, la statua del filosofo sul piedestallo finora vuoto. Laddove
è chiaro che, se anche nei pensieri inediti del L. fosse implicito un
sistema perfetto di filosofia, la via di ritro- varvelo e dimostrarvelo
non poteva essere questa scelta dall’autore. Ma veniamo
all’argomento. L’autore, come già altri, ha creduto che, se le opere
edite ci avevan dato il Leopardi poeta, questi inediti Pensieri di varia
filosofia e di bella letteratura venuti ultimamente in luce, ci
scopris¬ sero il Leopardi filosofo. Questa era anche la tesi dello
Zumbini nel suo studio Attraverso lo Zilbaldone, da cui il nuovo studioso
manifestamente prende le mosse, distinguendo due fasi principali della
filosofia pessimistica del Leopardi: nella prima delle quali il dolore
sarebbe conseguenza della civiltà; nella seconda, della stessa
natura; donde prima una concezione storica del pessi- niismo, e poi una
concezione cosmica. Ma lo Zumbini non insisteva sul valore sistematico di
questa filosofia leopardiana; e, d’altra parte, nel secondo volume
dei suoi Studi sul Leopardi, esaminando le Operette morali, veniva
in realtà a mostrare come tutto il succo di quelle riflessioni dello
Zibaldone, le conclusioni di quel lungo soliloquio che Leopardi aveva
fatto seco stesso per iscritto, fossero appunto condensate nelle
Operette. Gatti, invece, ha esagerato fuor di misura la tesi dello
Zumbini, cominciando col cancellare quelle differenze cronologiche, che
lo Zumbini aveva badato bene a mantenere tra i vari Pensieri (datati, com’ è
noto, dal L.) : cancellarle a disegno, per poter adoperare i singoli
pensieri liberamente come parti integranti d’un sistema logico. Ora, lo
Zibaldone comprende centinaia e centinaia di pensieri annotati come si
formavano giorno per giorno nella mente del Leopardi attraverso ben
(juindici anni periodo lungo per ogni vita, lunghissimo per quella
del Leopai'di, che in 39 anni forse non visse meno che il Manzoni in 78.
Esso è anzi il diario degli anni in cui si svolse la vita morale del
poeta, e offre perciò, com’ è stato notato, un riscontro a tutti i
sentimenti, a tutti i pensieri già noti dai canti e dalle prose da lui
stesso pubblicate. Ed è chiaro che, se in questi sette volumi abbiamo,
per dir così, i segreti documenti di tutto il lavorìo intimo di quello
spirito, non potremo apprezzarli nel loro giusto valore, se prescindiamo
dalle loro rispettive date; perché a chi scrive ogni giorno le
proprie riflessioni, la verità è quasi la verità di quel giorno: e quel
lavoro di sistemazione e organizzazione, per cui di tutti i pensieri
slegati si possa fare un tutto coerente, manca. Gentile, ifa»
2 ont e Leopardi. Il Gatti protesta che non va imputato a sua «poca
accortezza qualche salto anacronico, a dir così, facile a rilevarsi, che
qua e là avvicinerà pensieri cronologicamente molto lontani fra loro ». E
la sua ragione sarebbe questa : «Tali salti, mentre da un lato ci
forniscono ancora una prova evidentissima e incontrastabile della
profonda ripugnanza.... provata dal Leopardi per una concezione cosmica
del dolore, rivelano nettamente, d’altronde, il proposito nell’Autore di
rifare spesso a ritroso coll’ im¬ maginazione la via già percorsa dal
pensiero allo scopo di viemmeglio assicurarsi che non battesse falsa
strada, e così riprendere, sempre jiiù sicuro di sé, il cammino,
allorché quella linea immaginaria d’orientamento non gli avrà mostrata
altra via da battere per giungere alla mèta prefìssa». Cioè, se ho capito
bene; a dilucidazione di pensieri anteriori il Gatti stima di poter
addurre pensieri di un tempo più avanzato, anche quando occorra
ammettere avvenuto nell’ intervallo un cambiamento sostanziale di
pensiero, iierché il Leopardi rifà talvolta con l’immaginazione la via
già percorsa col pensiero, e già superata. Ci sarebbero certi « pensieri
di ritorno », o « ritorni immaginari », per cui, secondo il Gatti,
non bisogna credere che il L. contraddica al suo pensiero posteriormente
acquisito, anzi lo lasci intatto, ma, per certa ripugnanza sentimentale
alle più accoranti verità, per un bisogno del cuore ili certi
temperamenti, torni per un momento agli ameni inganni, o alla mezza
filosofia d’una volta. Ma per immaginario che sia, un ritorno siffatto
nella mente del Leopardi, se noi crediamo di poter fissare questa nella
coerenza di certi pen¬ sieri definitivi, è evidente che non può essere
altro che una contraddizione. Di che, qua e là, il Gatti è
costretto, quasi suo malgrado, ad accorgersi, e a cercarvi una sanatoria.
Sanatoria inutile, se egli avesse rinunziato a pretendere dal Leopardi,
nelle sue stesse intime confessioni, queU’unità sistematica che non era nella
natura di tali confessioni. E non era neppure nella natura
dello spirito del Leopardi, che fu un poeta, un grande, un divino poeta,
ma non fu un vero e proprio filosofo. Che fa che egli abbia tante
volte protestato di possedere una sua filosofia ? Allo stesso modo del
Leopardi, più o meno, chiunque si ritiene in grado di giudicare dei
sistemi dei filosofi, ossia di mettersi, non dico alla pari, ma al di sopra
di costoro, e insomma di affermare una filosofia propria che possa
aver ragione di quei sistemi. E dal proprio punto di vista chiunque, così
facendo, ha ragione; e aveva ragione il Leopardi ; perché in fondo a ogni
mente umana, sopra tutto in fondo a quella dei grandi poeti, è
incontestabile l’esistenza di una filosofia: e però è lecito parlare così di
una filo.sofia del Leopardi, come di una filo¬ sofia del Manzoni,
dell’Ariosto, di Shakespeare, di Omero. Ma questa filosofia dei poeti non
è la filosofia dei filosofi, e bisogna trattarla, per non snaturarla e
non distruggerla, con molta delicatezza. Una delle differenze più
notabili tra la filosofia dei poeti e quella dei filosofi è che il poeta
può averne una, se è capace di averla, in ogni singola poesia;
laddove il filosofo che dice e disdice, e muta sempre la sua dottrina,
non ha nessuna dottrina. Il L. è in pieno diritto, come poeta, di
affrontare il problema del dolore, sempre da capo, con nuovo animo, con
considerazioni nuove, da un nuovo aspetto, ora maledicendo alla
virtù, ora inneggiando all’amore onde l’umana compagnia deve
stringersi contro il fato. Ogni poesia, ogni prosa del Leo¬ pardi è
infatti una situazione d’animo nuova; quindi una nuova vista dello stesso
dolore che domina l’anima del poeta; un nuovo concetto, una filosofia
nuova, che solo trascurando le differenze essenziali, che in una
poesia e in una prosa del genere di quelle del Leopardi son tutto, si può
rappresentare come sempre identica. Egli è che il poeta,
checché si proponga e dica di aver fatto, non espone propriamente una
filosofia: ma esprime soltanto un suo stato d animo, occupato,
deter¬ minato e quasi colorito da certi pensieri dominanti. Abbozza
in se medesimo (e quindi in un diario intimo) una filosofia provvisoriamente
sufficiente ad appagare i bisogni della propria ragione (che non sono poi
grandi in uno spirito prevalentemente poetico); e questa filosofia, in
quanto profondamente sentita, in quanto vita della propria anima, diventa
materia di poesia. Di poesia anche in prosa; perché, in sostanza la prosa
leopardiana è anch’essa poesia, cioè espressione piena di certi
stati d’animo del Poeta, diversi da quelU manifestati nei Canti per
lo sforzo che nella prosa come nei Paralipomeni il Leopardi fa di
costringere il sentimento spontaneo dentro r intenzione ironica,
satirica, che gli fece appunto pre- f0rire la prosa al verso. Ma in
realtà, nelle Operette come nei Canti c’ è Leopardi con la sua filosofia
tetra e col suo candore, col suo disprezzo degli uomini e col suo
grande amore per essi; con tutte quelle contraddizioni, che altri ha
studiosamente cercate in lui, e che sono il vero segno caratteristico del
suo spirito poetico e non filosofico. La filosofia vera e propria non deve aver
niente del¬ l’anima individuale di chi la costruisce. Essa è una
liberazione assoluta compiuta dal filosofo dai limiti della soggettività;
è una contemplazione, diciamo così, d’una verità eterna, in cui il
filosofo, come persona particolare, si dimentica di se stesso, e dei suoi
dolori, e di tutte le tendenze affettive dell’animo suo. La filosofia di
Spinoza, la cui \dta e il cui animo han parecchi punti di somiglianza con
quelli del Leopardi non presenta nes- Cfr. Tocco, Biografia di Spinoza,
nella Rivista d’ Italia, asuna traccia, non offre nessuno indizio di
sentimenti personali. K veramente una visione del mondo sub specie
aeternitatis, come egli diceva, in cui la personalità del filosofo
scompare. La filosofia dei poeti, si potrebbe dire, scompare nell’animo
dei poeti stessi; l’animo dei filosofi. invece, scompare nella loro filosofia.
Onde una volta noi abbiamo innanzi una persona determinata, viva in
tutto l’agitarsi dell’animo suo; un’altra volta, un si¬ stema di
concetti, in sé. Certo, tra le due filosofie non c’ è un taglio
netto, che divida i filosofi dai poeti; ma il pessimismo leopar¬
diano è, come è stato tante volte osservato, così imprgnato di elementi
ottimistici, così logicamente frammen¬ tario e contradittorio, e d’altra
parte così poeticamente coerente e vivo, che lo scambio non è possibile.
Noi pos¬ siamo studiare, dunque, la sua filosofia, ma come vita del
suo spirito, materia della sua poesia. Studio, ripeto, molto delicato;
perché in esso non bisogna mai lasciarsi sfuggire che la realtà vera, a
cui bisogna aver l’occhio, non è questa filosofia in se medesima,
astratta materia della poesia, ma la poesia appunto, in cui quella
filosofia è per acquistare la vita che uno spirito poetico è capace
di comunicarle. La filosofia quindi va studiata per inten¬ dere la
poesia, e valutata in quanto poesia, per quella vita poetica che riuscì a
vivere nello spirito del Poeta. La pubblicaizione dello Zibaldone
ha fortemente contribuito a fare smarrire questo criterio. Ci s’ è
trovata innanzi la materia grezza della poesia leopardiana, quella
tal filosofia, che il Leopardi rimuginava dentro se stesso, e che, per
quanto confidata a uno Zibaldone, non aveva pregato nessuno di mettere in
pubblico: quella filosofia, che egli destinava a far materia di
espressione più per¬ fetta, cioè di opera poetica; e che infatti divenne
in parte materia di canti e di dialoghi (com’ è stato osservato, ma
merita di essere particolarmente studiato). E dimenticando che pel L.
tutti questi materiali non avevano valore per sé, ma l’avrebbero
acquistato soltanto quando egli li avrebbe trasformati, qualcuno
s’è detto : o eccoci finalmente innanzi la filosofia del L.! — No, questi
sono i detriti della sua poesia: tutto ciò che la sua forza poetica non
avvivò, non tra¬ sfigurò, o rinnovò interamente, avvivandolo e
trasfigu¬ randolo nel suo canto e nella sua satira. E produce
davvero una strana impressione il proce¬ dimento seguito dal dott. Gatti,
che riferisce nel testo certe informi osservazioni dello Zibaldone, e a
sussidio di esse, in nota, luoghi delle Operette o versi dei Canti,
in cui gli stessi pensieri assursero a forma artistica. Il perfetto fatto
servire all’imperfetto; la poesia ridotta a documento d’un suo documento!
Ecco un esempio di filosofia documentata con poesia. In un pensiero
Leopardi s era domandato. Che vale per noi questa «miracolosa e
stupenda opera della natura, e l’immensa egualmente che artificiosa
macchina e mole dei mondi? A che serve, dunque, questo infinito e
misterioso spettacolo dell’esistenza e della vita delle cose », se « né
resistenza e vita nostra, né quella degli altri esseri giova
veramente nulla a noi, non valendoci punto ad esser felici ? ed essendo
per noi l’esistenza, così nostra come universale, scompagnata dalla
felicità, eh’ è la perfezione e il fine dell’esistenza, anzi l’unica
utilità che resistenza rechi a quello ch’esiste ?» Qui, in verità c’ e
tutta la Idosofia del Leopardi. Ma che significano queste sue
interrogazioni ? Esse non possono aver altro significato che questo, che,
non sapendo concepire il fine dell’esistenza umana [ Zibald., Queste giunture frapposte alle parole del
Leopardi sono del Gatti, che riassumo e in questo caso mi pare modifichi
leggermente il senso del testo. e mondiale se non come felicità, e
non vedendo, d’altronde, che tal fine sia o possa mai esser raggiunto,
egli, Giacomo Leopardi, finisce col non sapersi più spiegare quale
possa essere il fine di quest’universo, che pur nella sua artificiosa
costruzione e nella sua vasta armonia farebbe pensare a un’ intima
finalità. Qui non è affermata una verità obbiettiva; è bensì manifestata
la situazione personale del poeta: situazione, che sarà jierfettamente
espressa quando il Leopardi ci dirà tutta la risonanza che questo suo
ondeggiare tra il concetto di una finalità eudemonistica universale e il
dubbio suUa validità di tal concetto ha neU’animo suo; quando da questo
suo per¬ petuo ondeggiare (che non è filosofia, ma atteggiamento
filosofico, o filosofia soltanto iniziale e potenziale), egli sarà
ispirato al Canto notturno di un pastore errante dell’Asia che il Gatti reca a
confronto e conforto di quelle note dello Zibaldone. Nel Canto notturno
Leopardi dice con l’energia della fantasia commossa quello che nelle note
fugaci del diario era sommariamente accennato, quasi appunto o traccia del
canto. E quando miro in cielo arder le stelle. Dico fra
me pensando: A che tante facelle ? Che fa l’aria
infinita, e quel profondo Infinito seren ? che vuol dir questa
Solitudine immensa? ed io che sono? Cosi meco ragiono: e della
stanza Smisurata e superba, E dell' innumerabile
famiglia; Poi di tanto adoprar, di tanti moti D’ogni celeste, ogni
terrena cosa. Girando senza posa. Per tornar sempre là
donde son mosse; Uso alcuno, alcun frutto Indovinar non so.
Qui veramente c’ è l’anima tormentata dal dubbio che non ci sia un
fine nel mondo; e non è il dubbio astratto di un filosofo, ma il dubbio
che irrompe neH’anima di un poeta, che mira in cielo arder le stelle,
quasi tante faci accese a illuminare il mondo; e sente l’infinità
dell’aria, il sereno profondo infinito (elementi di grande commozione,
com’ è noto, per Leopardi), e l’immensità della solitudine attorno alla propria
persona non dimen¬ ticata {ed io che sono P) né dimenticabUe perché
palpitante; ecc. Qui c’è, non più il germe d’una filosofia, ma l’uomo
Leopardi, intero, con l’ansia e il terrore che gh desta lo spettacolo
dell’ infinito misterioso, muto al dolore di lui che vi si sente dentro
smarrito. C’ è anche, innegabilmente, un dubbio filosofico : semphce
dubbio («qualche bene o contento avrà /o;'s’altri. Forse s’avess’
io l’ale.... più febee sarei, o forse erra dal vero b mio pensiero, Forse
in qual forma.... è funesto a chi nasce il dì natale); ma come elemento o
momento della lirica grande. La pubblicazione dello
Zibaldone, badiamo bene, è stata, in fondo, una certa quale
indelicatezza, che nessun onesto avrebbe giustificato, vivo il Leopardi,
e che non si permise infatti il Ranieri, intimo del Poeta e conscio
deUe sue intenzioni e del valore da lui attribuito al proprio diario. Ognuno
che scriva e stampi, pubblica soltanto queUo che gli par compiuto secondo
il fine a cui, più o meno consapevolmente, mira scrivendo. Un poeta
non beenzia al pubbbeo le tracce e gli abbozzi delle sue poesie.
Anzi, questi antecedenti naturali del suo prodotto artistico, ha un certo
schivo pudore di mostrarli al pubbbeo: sono il suo segreto. Sono infatti cosa
sua perso¬ nale; laddove quello che egli crede arte, gb par bene
appartenga, o possa appartenere, a tutti gb spiriti. Certo, r interesse
storico, il legittimo e nobile desiderio d’intendere le opere del genio,
mediante la conoscenza più larga che sia possibile della sua anima,
bastano a giu¬ stificare la pubblicazione di siffatti abbozzi, come
degb epistolari intimi, che svelano, senza riguardi, i più
gelosi segreti delle persone, le quali a un certo punto si finisce
col credere che appartengano agli altri più che a se stesse. Ma questa
giustificazione non deve farci dimenticare che gli abbozzi del poeta,
sono abbozzi delle sue poesie, come gli appunti provvisori del filosofo
sono antecedenti spesso superati e rifiutati della sua filosofia. Ad ogni
modo non si dovrà mai pretendere d’attribuire ad essi altro valore
che di sussidio a intendere quelle opere, che rappresen¬ tano la
conclusione definitiva del poeta e del filosofo. Tutto questo, si
potrebbe osservare, sarà un bel discorso; ma è troppo generale ed astratto.
Bisogna vedere al fatto, se il Leopardi, dopo gli studi di Gatti,
ci apparisca nello Zibaldone un vero filosofo. Potrei ri¬ spondere con un
altro discorso astratto, sostenendo che è ben difficile che uno stesso
genio possa essere insieme poeta e filosofo; richiedendosi alla poesia
un’attività, che la filosofia necessariamente combatte e mortifica.
Ma penso a Dante: unico, secondo me, e se non sempre, quasi
costantemente mirabilissimo esempio dell’energia, onde è capace lo
spirito umano, di individualizzare e stringere nella fantasia e nel
sentimento di un’anima singolarmente potente il sistema più
intellettuahsticamente universale ed astratto che la storia della
filosofia ci presenti: penso a quella fusione e unità quasi sempre
perfetta d’un sistema miracolosamente vario e armonico di fantasmi che
son pure astratti concetti: unità, che non si finisce e non si finirà mai
di studiare nella Divina Commedia ». E preferisco perciò una risposta particolare
e concreta, che è questa. Tutto il mio discorso generale io r ho fatto
appunto a proposito del Leopardi, dopo Alla quale per questo rispetto non
credo si possa paragonare, ma a distanza grandissima, altro che il Faust:
dove l’unità dell’opera, come arte e come filosofia, rimase lungi
dall’esser raggiunta. aver letto attentamente il saggio di Gatti.
Libro, che non ò certo inutile, perché molti schiarimenti
particolari a concetti del Leopardi da uno studio così attento e
minuzioso dei Pensieri si hanno; c molti istruttiva raffronti, oltre quelli già
fatti dal Losacco e dal Giani, vi sono opportunamente istituiti tra
pensieri del Leopardi e luoghi di Helvétius, di Rousseau, di Maupertuis e
degli altri autori del Poeta; ma insufficiente a dimostrarci la
tesi che il Gatti s’era proposta, che nella mente del Leopardi si fosse
organizzato un sistema filosofico; atto anzi a dimostrare il contrario,
per lo stesso esame accurato che ci dà dei Pensieri leopardiani con
l’intento di cavarne un sistema. 11 sistema non c’ è. C’ è la travagliosa
meditazione sui fantasmi del Poeta; ci sono le accorate riflessioni, che
gli suggerirono quei jiroblemi che furono il tormento e la musa perpetua
del suo spirito: ma non più di questo. Il Leopardi lo ritroveremo sempre
nel disperato lamento de’ suoi canti e nel sorriso amaris¬ simo e
pur soave delle prose. 11 materialismo della sua metafisica, il
sensismo della sua gnoseologia, lo scetticismo finale della sua
epistemologia, l’eudemonismo pessimistico della sua etica sono nei
pensieri inediti, come in tutti gli altri scritti già noti, i motivi
costanti del breve filosofare leoparebano : ma sono spunti filosofici,
anzi che principii d’un pensiero sistematico; sono credenze d’uno spirito
addolorato, anzi che veri teoremi di un organismo speculativo. Le
sue pretese dimostrazioni non vanno mai al di là dell’osser¬
vazione empirica; e non servono ad altro che a dirci come vedev^a le cose
Giacomo Leopardi. In lui non trovi né anche una critica della
ragione, come in Montaigne o in Pascal, a cui per molti riguardi
somiglia. Ma un prendere di qua e di là proposizioni contestabili, e
accettarle come verità assiomatiche e principii di deduzioni
pessimistiche. Passione v^era per a speculazione il Leopardi non ebbe mai.
Non studiò nessun grande sistema filosofico: egli, conoscitore e
stu¬ dioso dei classici, non si sforzò mai d’intendere il pen¬
siero di Platone e di Aristotele. La sua storia della filo¬ sofia antica
ò tratta da Diogene Laerzio, da Plutarco o altri dossografi. Del Medio
Evo non studia nessuna filsofia. Di Cartesio, di Spinoza, di Hume non conosce
neppur nulla. Lesse Locke, ma come si leggeva. Di Leibniz sorrise come
Voltaire, non so¬ spettando in alcun modo la profondità del suo
pensiero Ebbe una vernice di cultura filosofica, come l’avevano
allora tutti i letterati; ed ebbe velleità di filosofo; ma la sua vera
indole, quella che noi dobbiamo guardare in lui, è r indole poetica,
convinti che fuori della sua poesia il suo pensiero, a considerarlo nel valore
filosofico, è molto mediocre. Non entrerò nei particolari della
esposizione di Gatti. Ma non voglio tacere che quella filosofia pratica
edilicatrice, che egli, conZumbini, giirstamente mette in rilievo di
contro alle conseguenze negative della sua filosofia teoretica, non ha
niente che vedere coll’odierna filosofia prammatistica, a cui egli
studiosamente la rac¬ costa, per dimostrare così la modernità del
pensiero leopardiano. Quella filosofia pratica è il retaggio dello
scetticismo da Pirrone in poi: il quale ha contrapposto sempre la vita
alla scienza, e salvata almeno quella dal naufragio di questa.
Salvataggio operato ora con la na¬ tura, ora col sentimento, ora con la
volontà, e in generale con un principio irrazionale, o concepito come
tale, che, appunto perciò, non contraddice aUo scetticismo
fondamentale. Leopardi ricorre all’ immaginazione e a un certo qual senso
dell’animo, che fan contrappeso agli argomenti dolorosi della ragione e
bastano a confortarci a vivere. Né anche questo principio, del resto, è
sviluppato. Certo, esso non giova a chi presuma di vedere nel Recanatese
un precursore del James e degli altri pram- matisti d’oggi, i quali non
sono scettici, benché in realtà abbiano una dottrina negativa del
conoscere; non vedono nell’attività pratica un surrogato dell’attività
teoretica: ma unificano le due attività, e immedesimano la verità
con l’utile, in modo che quel che giova credere, sia esso stesso il vero;
laddove quel che gioverebbe credere, secondo Leopardi, sarebbe né più né
meno che un’ illu¬ sione. La differenza tra Leopardi e James è la
differenza profonda tra lo scetticismo di tutti i tempi e il nuovo
prammatismo, che si professa dottrina essenzialmente dommatica e
positiva. Gli studi del Gatti furono ripresi da Giulio A. Levi *, uno
degl’ ingegni più fini tra gh studiosi di letteratura italiana, e dei più
valenti e competenti interpreti del pensiero leopardiano; ma con
altro criterio e altro intendimento. E io son lieto di leg¬ gere al
principio del suo libro le seguenti parole; «Fu tentato da Pasquale
Gatti, e parzialmente dal Cantella, di ordinare e comporre in un sistema
filosofico i pensieri dello Zibaldone leopardiano; con esito che non
poteva essere altro che infelice; quando si pensi che sono riflessioni
scritte giorno per giorno, senza disegno prestabilito, per lo spazio di
circa quindici anni, da quando prima il poeta adolescente cominciò a
voler pensare col suo cervello, fino aUa sua piena maturità. Che fu uno
degli argomenti principali che a suo tempo io opposi al tentativo di
GATTI. E sono interamente d’accordo con LEVI che lo Zibaldone, con gli
ondeggiamenti e gli sforzi speculativi di cui ci conserva i documenti, può
esser materia alla storia (anzi, alla preistoria) del pensiero del poeta,
la cui forma definitiva va piuttosto cercata nei prodotti più maturi,
dove parve all’autore d’avere impressa l’orma definitiva del suo spirito, nei
Canti e nelle Operette. Questa è, in sostanza, l’idea centrale del saggio
del Levi, e conferma pienamente il mio giudizio sul va¬ lore e sull’
interesse dello Zibaldone. Questa idea bensì nel libro del Levi non
apparisce netta e ferma quanto si potrebbe desiderare, costretta
com’ è dall’autore ad andare in compagnia di certi prin- cipii direttivi,
che oscurano, a mio avviso, la visione esatta di taluni momenti dello
sviluppo del pensiero leopardiano e turbano il giudizio sulla sua forma
ultima. Cosi, quando comincia a notare che io ho ecceduto « negando a
priori allo Zibaldone ogni interesse speculativo, per la qualità stessa
dell’autore; il quale sarebbe bensì un osservatore acuto, ma troppo
essenzialmente poeta, dominato interamente dal sentimento, e perciò di
pensiero incoerente, mutevole e spesso contradittorio », egli, da una
parte, esagera e àltera il mio giudizio sullo Zibaldone e, in generale, su
tutta l’opera del L.; e dall’altra, accenna a un concetto (che non manca
su¬ bito dopo di dichiarare esplicitamente), il quale non gli può
consentire una ricostruzione storica non arbitra¬ riamente soggettiva, ma
razionalmente giustificabile del pensiero leopardiano. In primo
luogo, non è esatto che io abbia negato o voglia negare ogni interesse
speculativo allo Zibaldone e tanto meno alle poesie e alle Operette
morali', anzi sono disposto a riconoscere che tutta la poesia del
Leopardi non abbia altro contenuto, in tutte le sue forme e in
tutti i suoi gradi, che il problema speculativo, nei termini, s’intende,
in cui egli poteva e doveva porlo. Quel che ho negato e nego è; i) che
nello Zibaldone ci sia del pensiero del Leopardi qualche cosa di più che
non fosse negli scritti da lui pubblicati; qualche cosa che, dal
punto di vista del L., fosse già pervenuto a quel punto di maturità
spirituale, di verità, in cui il Leopardi s’acquetò, a giudicare dalle opere
con cui egli stesso volle entrare nella nostra letteratura; qualche cosa
che possa nello Zibaldone farci vedere nulla di diverso {si parva
licei componere magnis) da quelle note, onde ognuno di noi si prepara ai
suoi lavori, e che, compiuti questi, quando ci pare d'averne spremuto
bene tutto il succo, si buttano al fuoco; e tanto più volentieri, quando
dalle note alla stesura dei nostri scritti le idee nostre si siano
venute correggendo e integrando in più logica compat¬ tezza ' ; 2) che si
possa adeguatamente valutare la grandezza del Leopardi, facendogli il conto del
tanto di verità speculativa che è nella sua poesia: poiché, a prescindere da
ogni dottrina sulla natura della poesia, basta considerare le critiche
profonde e ineluttabili, onde quella verità fu superata da uno spirito,
che ebbe inizialmente una profonda simpatia congeniale col L., il
Gioberti (specialmente nella Teorica del sovrannaturale. Levi scrive: «
Fii detto che la pubblicazione del Diario sia stata un'indelicatezza,
quando il Leopardi medesimo di questa pubblicazione non aveva pregato
nessuno. Oh si, sarebbe un indeli¬ catezza esporre quelle cose agli occhi
bene aperti d’un pubblico di pedanti, i cjuali spiegherebbero con trionfo
gli errori del grand'uomo che si viene formando. Ma chi ha già imparato
ad amarlo e a vene¬ rarlo, può accostarsi senza scrupoli a tutte quante
le sue reliquie... ». Se il Levi con le prime parole si riferisce a quel
che scrissi io nella Rass. bibl. tett. U., mi rincresce di dovergli rispondere che
egli non ha inteso lo spirito della mia affer¬ mazione. La quale mirava
soltanto a chiarire che dello Zibaldone non ci si può servire se non come
di documento della formazione del pensiero del L., la cui forma ultima dobbiamo
per altro cercare sempre nelle opere che da <iuegli abbozzi trasse
l'autore, e pubblicò egli stesso come sole degne di sé. nel Gesuita
e nella Protologia), in pagine che il Levi non anteporrebbe di certo né
pur a quelle dello Zibaldone. L vero che « nei sistemi filosofici
le parti più caduche sono spesso quelle dovute alle esigenze di sistema
». Ma ciò non dimostra che la filosofia non è sistema, anzi di¬
mostra che è: perché gli errori di questo genere non si scoiarono dal
critico se non come errori della costruzione del sistema, ossia come
divergenze dalla costruzione che, secondo lui, sarebbe più conforme alle
verità fondamen¬ tali intuite d<al filosofo. E se U critico non rifacesse
per suo conto la costruzione del sistema, non avrebbe modo di
discernere nel sistema criticato il vero dal falso, nato dunque non dal
sistema, ma dal falso sistema. Giacché un giudizio che affermasse
immediatamente : questo è vero, e questo è falso, senza dimostrazione di
sorta, non credo che pel Levi sarebbe un giudizio per davvero. E
vero, d’altra parte, che la coerenza del pensiero non è privilegio dei
filosofi, di contro ai yioeti; se per filosofi s’intende i filosofi
storicamente esistenti, Socrate, Platone, Aristotele ecc., e per poeti quelli
che sono realmente vissuti o vivranno. Omero, Dante, Shakespeare,
ecc. Per tutti costoro, non c’ è dubbio, secondo me, Iliacos intra
muros peccatur et extra. D’incoerenze, di maglie rotte nel sistema, ce n’
è state, e ce ne sarà sempre, da una parte e dall’altra. Ma noi non
possiamo parlare di Omero poeta e di Platone filosofo senza un
concetto del poeta e del filosofo, e cioè della poesia e della filosofia:
le quali, come funzioni dello spirito, trascendono la storia, che è la
concretezza stessa della realtà spirituale. E soltanto alla poesia e alla
filosofia come funzioni trascendentali dello spirito si possono assegnare
caratteri distinti, dei quali quello che è della poesia in quanto
tale non sarà della filosofia, e per converso. Nella storia tutte
le funzioni concorrono in un’unità concreta, in cui il poeta, essendo
anche filosofo, partecipa del carattere dello spirito che è filosofia; e
il filosofo, essendo pure poeta, partecipa del carattere dello
spirito che è poesia, sempre. E la rigida e salda distinzione delle
funzioni astratte cede il luogo alla plastica e mobile distinzione della
storia, che fa essa stessa la divisione dei grandi spiriti nelle due
schiere dei poeti e dei filosofi, secondo che negli uni prevale il
momento poetico e negli altri il momento filosofico; onde la distinzione
e però la categorizzazione del giudizio critico sono poi, ogni
volta, funzioni di giudizio storico, concreto. Perché il Leopardi
va considerato come poeta, e non come filosofo ? Perché, se conosco il
Leopardi storico, quale si formò e quale si espresse nel suo canto, io ci
vedo bensì dentro una filosofia; ma questa filosofia la vedo chiusa,
compressa, fusa e assorbita nella intuizione immediata che questo spirito ha
della sua personalità materiata di cosiffatta filosofia; per cui dico che
egli non rappresenta una filosofia, ma la sua anima; e poiché il suo
occhio è tutto intento alla risonanza tutta soggettiva, in cui vive per
lui un certo, oscuro, vago e frammentario concetto del mondo, la verità è
per lui, e dev’essere per me che lo giudico, non in questo concetto, ma
nella vita di esso, in quella tale risonanza, nella sua Urica. Beninteso
che, per quanto oscuro, vago e frammentario, quel concetto sarà pure un concetto,
che avrà una chiarezza e saldezza organica sufficiente alla logicità
dello spirito lirico, e quindi per lui assoluta. E non ci sono principii
astratti ed estrastorici che pos¬ sano segnare a priori i limiti della
filosoficità del concetto che vive neUa Urica del poeta. Ma ciò non
toglie che la distinzione non perda mai la sua ragion d’essere, e
che non si possa mai trascurare, volendo rilevare, a volta a volta,
il valore deUo spirito rispetto alle sue forme es- senziaU ed assolute.
Ma, dice Levi, «la grandezza in tutte le sue forme è in fondo una sola,
grandezza morale ed umana; e se è suprema esigenza etica che la nostra
vita sia azione, ed abbia un senso; non sarà fuor di luogo nei poeti,
di cui sentiamo la grandezza, sospettare qualche cosa di più che la
passività del sentimento, o l’attività dell’espressione: sospettare e cercare
un’attività etica con un suo senso determinato e costante ». Ond’egli si
propone di cercare negli scritti del Leopardi «per quah vie egli
giunse alla sua profonda intuizione, e potè prendere un atteg¬
giamento interiore costante e sicuro di fronte all’uni¬ verso Ebbene,
tutto questo è molto vago perché possa servire di criterio alla storia
del pensiero di un poeta. Se la grandezza in tutte le sue forme è una
sola soltanto « in fondo », bisogna pure che si rispettino le
differenze tra le varie forme, in cui unicamente è possibile che quello che è
in fondo venga su, e si manifesti, e assuma così una forma storica
determinata. E se è suprema esigenza etica che la nostra vita sia
azione, posto, com’ è necessario, che le suddette forme della I
grandezza, o, più modestamente, dello spirito, siano più d’una, oltre la
suprema esigenza etica, ci saranno (dato pure c non concesso che questa
sia la radice di tutte) altre esigenze supreme : come quella che la vita
sia poesia, e che la vita sia filosofia; le quah, se il Levi ci
riflette bene, s’avvedrà che non sono meno supreme, anche per la
sua posizione, in cui l’azione è fondamentalmente un ^ atteggiamento
dell’uomo di fronte all’universo : poiché ; quest’atteggiamento o è
un pensiero, o l’imphca; e questo pensiero, dovendo essere una
filosofia, non può non essere anche una poesia. In realtà, quel che cerca
il Levi nel poeta, non è la ! soddisfazione di una esigenza etica,
bensì una metafisica, I una rivelazione della ragione dell’esser nostro o
del regno soprannaturale dei fini: e con l’occhio a questa
mèta. Gentile, Manzoni e L.] pur accennando qua e là all’ identità del
valore poetico e del valore del contenuto filosofico della poesia,
egli non si propone nemmeno, in nessun punto del suo libro, il
problema dei rapporti tra arte e filosofia, e non mira quasi mai al
giudizio estetico dell’arte leopardiana; ma si restringe a tracciare la
linea di svolgimento del pensiero che c’ è dentro, e che egli crede abbia
assunto la sua forma finale in una specie di individualismo
romantico corrispondente alle tendenze dello stesso Levi. Dirò
bensì che la distinzione tra arte e filosofia accenna a svanire nel
pensiero dell’autore appunto pel concetto meramente estetico, più che
etico, di questa filosofia romantica a cui egli aderisce: quantunque pur
in questo concetto la differenza permanga e obblighi il Levi a far violenza,
qua e là, al pensiero del Leopardi per dargli queUa sistematicità, che è
necessaria anche a una filosofia individualistica. Il risultato
degli studi del Levi, in breve, è questo. Nel pensiero del Leopardi
si devono distinguere due periodi; uno come di distruzione e dissoluzione
dell’uomo, l’altro di affermazione e ricostruzione dell’uomo
stesso; il quale allora si contrappone aUa natura pessimistici^- !
mente e agnosticamente concepita in cui termina il primo periodo, e si
aderge in tutta la sua grandezza, che è la j sua stessa infeUcità, o
piuttosto la coscienza della sua p infelicità. 11 primo periodo
terminerebbe verso la fine | del 1823, e sarebbe rappresentato,
sostanzialmente, dallo 1 Zibaldone', il secondo comincerebbe, presso a
poco, nel J gennaio 1824, quando il Leopardi pose mano alle Operette
morali', a proposito delle quali il Levi scrive giusta- # mente ; « Fa
onore al buon gusto e al senso critico del 1 Leopardi l’aver lasciato da
parte tutto quello ch’egU l sentiva estremamente ipotetico nelle sue
teorie inrorno jS alla storia dell’ incivilimento e agli intenti dcUa
natura, ?. e l’aver esposto definitivamente per il pubblico solo il
nocciolo essenziale dei suoi pensieri intorno alla virtù e alla felicità
umana. Insomma, anche pel Levi, lo Zibaldone è il periodo jelle indagini
e dei tentativi (de’ suoi sette volumi i primi sei giungono al 23 aprile
1824): il periodo, in cui il Leopardi cerca tuttavia se stesso, e ancora
non si ri¬ trova qual era nella sua giovinezza e all’ inizio del
suo speculare: «pieno d’ardore per la virtù, e assetato di
felicità, di bellezza e di grandezza ». La riflessione, in questo
periodo, che comincia intorno al ’20, si stringe addosso a quest’ ideali,
che erano la vita dello spirito leopardiano; e non riesce a
giustificarli, anzi h corrode e distrugge. Che cosa è il bello ? e il
bene ? e il vero ? e il talento ? Movendo dal sensismo, che negava lo
spi¬ rito e non vedeva altro che la natura, tutti i valori dello
spirito si dileguano facilmente dagli occhi del giovane pensatore, poiché
perdono tutti la loro assolutezza, la loro apriorità. Ma da ultimo la
vita stessa, che prende in lui il dolore di questo dileguo di tutti gl’
ideah, si desta nell'esser suo di coscienza, e prorompe in una
espressione ingenua della verità disconosciuta: espressione, che
ferma giustamente l’attenzione del Levi; e giustamente gli fa
segnare questo momento come principio d’un nuovo periodo dello
svolgimento del Leopardi, ma comincia ad essere interpretata alla stregua
del difettoso concetto che egli ha delle attinenze della poesia con la
filosofia, e a far deviare quindi tutta la sua interpretazione del
secondo periodo. 11 Leopardi, il 27 novembre 1823, scriveva nel
suo Diario : « Bisogna accuratamente distinguere la forza dciranima
dalla forza del corpo. L’amor proprio risiede neH’animo. L’uomo è tanto
più infelice generalmente quanto è più forte e viva in lui quella parte
che si chiama Storia, anima. Che la parte detta corporale sia più
forte, ciò per se medesimo non fa ch’egli sia più infelice, né ac¬
cresce il suo amor proprio. Nel totale e sotto il più dei rispetti
[l’infelicità e l’amor proprio] sono in ragione inversa della forza
propriamente corporale.... La vita è il sentimento dell’esistenza. — La
materia (cioè quella parte delle cose e dell’uomo che noi più
pecuharmente chiamiamo materia) non vive, e il materiale non può
esser vivo e non ha che far colla vita, ma solamente coll’esistenza, la
quale, considerata senza vita, non è capace di amor proprio, né d’
infelicità. Quello che in questo luogo il Leopardi chiama sen¬ timento
vitale, o vita», avverte esattamente il T.evi, « è manifestamente
la coscienza ». Ma continua : « Di qui innanzi egli negherà ancora in
astratto la nozione metafisica dello spirito (al che egli ha avuto cura
di tenersi aperta la strada colle circonlocuzioni quella parte dell’uomo
che noi chiamiamo spirituale ’ e ' quella parte delle cose e dell’uomo
che noi più peculiarmente chiamiamo materia'). A questo lo movevano il
suo bisogno di concretezza, e l’avversione a tutto 1 accattato e il
falso ch’ei sentiva negli entusiasmi spiritualistici dei romantici. Ma,
praticamente, rispetto a sé e rispetto all’uomo in generale, egli ha
fermato con suffi¬ ciente sicurezza la nozione di ciò che in esso è
di natura spirituale e della sua dignità». Ora qui è il piincipio
del maggiore equivoco, in cui si dibatte poi il Levi in tutta la sua
interpretazione del Leopardi. Nel luogo citato del Diario c’ è la coscienza
della vita, ma non c è la coscienza (il concetto) di questa coscienza; il
Leopardi sente la pro¬ pria grandezza come uomo sugh animaU e sugli
esseri inferiori, e la propria grandezza come Leopardi sugli uomini
comuni, come potenza di essere infehce. ma non pone mente che egli è
grande, non perché infelice, ma perché conscio della sua infelicità ;
cioè non vede 1 esser cuo nella coscienza che si eleva al di sopra del
dolore, e lo impietra, nell’arte; e però non si può a niun patto
asserire che possegga la nozione della propria natura spi¬ rituale e
della propria dignità di contro alla natura. Infatti il possederla
praticamente (e soltanto praticamente) come vuole il Levi, che significa
se non che non la pos¬ siede come nozione, bensì con quella immediatezza onde
10 spirito ha, qualunque sistema si professi, coscienza di sé ? Che
se egli ne raggiungesse la nozione, il suo pessimismo, che è il contenuto della
sua poesia (attualità reale del suo spirito), sarebbe superato; poiché
sarebbe risoluto nella poesia diventata essa stessa contenuto od
oggetto dello spirito consapevole della propria vittoria sulla natura,
come opposizione e limite dello spirito, e quindi sorgente dell’
infelicità. Il pessimismo è assolutamente inconciliabile col
con¬ cetto del valore dello spirito; e questa è la vera e pro¬
fonda ripugnanza che prova il L., — pur quando intravvede nella vivacità
stessa della sua spiritualità l’essenza propria del reale, che è
sentimento, com’egli s’esprime, dell'esistenza ad affermare quella realtà
che non ha posto nella visione pessimistica del mondo in cui si
chiude e fissa l’anima sua; e però ricorre a quelle circonlocuzioni «
quella parte dell’uomo che noi chia¬ miamo spirituale » ecc. ;
circonlocuzioni, che sono la patente documentazione del fatto, che il Leopardi
non si solleva al concetto dell’essenza dello spirito. Che se
questo concetto si fosse rivelato comunque alla sua mente, con
tutta la sua « avversione all’accattato e al falso che ei sentiva negli
entusiasmi spiritualistici dei romantici », con tutto « il suo bisogno di
concretezza », come avrebbe potuto egh chiudere gli occhi alla luce, e
non vedere che 11 sentimento dell’esistenza, non essendo
materia..., non è materia, e che la presunta concretezza della materia
come tale non è altro che un’astrazione, dal momento che essa non ci può
esser nota altrimenti che pel senti¬ mento che ne ha il vivente ?
Orbene questa contraddizione intrinseca tra il senti¬ mento, non
elevato a concetto, dell’umana grandezza, e il concetto (contenuto della
poesia leopardiana) della nullità dell’uomo di fronte alla natura e
quindi della fa¬ talità assoluta del dolore, questa è la grande
situazione poetica del Leopardi rappresentata così splendidamente
dal De Sanctis nel saggio sullo Schopenhauer » : « L. produce l’effetto
contrario a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa
desiderare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni
l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio
inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi
accostartegli, che non cerchi innanzi di raccoglierti e purilìcarti, perché non
abbi ad arrossire al suo cospetto. È scettico, e ti fa credente; e mentre
non crede possibile un avvenire men tristo per la patria comune, ti
desta in seno un vivo amore per quella e t’infiamma a nobili fatti. Ha
così basso concetto dell’umanità, e la sua anima alta, gentile e pura la
onora e la nobilita ». Appunto, questo flagrante contrasto tra il suo
concetto e la sua anima è la forma e il valore speciale della sua
poesia: ma non perviene mai a distinta coscienza degli opposti motivi che
vi concorrono senza scoppiare dentro il contenuto (astrattamente
considerato come filosofia) in manifesta contraddizione logica, come
avviene nella Ginestra: con quanto vantaggio della poesia non so.
Certo, la forma leopardiana si regge sull’equilibrio di questi opposti
motivi, che sono la personalità del poeta e il suo mondo pessimistico:
equilibrio che si mantiene perfettamente, per esempio nell’ Ultimo canto
di Saffo, ‘ Saggi critici, à nel canto A
Silvia, nel Canto notturno e, in modo tipico, nei versi All' infinito,
dove la personalità si dimentica nel suo mondo, lo pervade e ne è la
forma poetica : laddove, appena vi si contrapponga, come parte di
contenuto (che qui coscienza che il poeta ha di se medesimo) accanto
al¬ l'altra parte affatto ahena, tende necessariamente a spezzare
l’unità del fantasma, che è la logica del pensiero poetico. Di tale
contrasto il Levi, poeteggiando anche lui per interpretare il Leopardi,
non vedo abbia chiara coscienza; e però scambia la forma col contenuto
dell’arte leopar¬ diana, e vede una filosofìa (quella con cui piace a
lui d’interpretare l'anima umana) dov’ è soltanto l’anima, e cioè
la poesia del Leopardi. Tralascio i bei capitoli, che il Levi
consacra alla storia della concezione storica del pessimismo, quale si
disegna già nella critica dello Stato e della civiltà, della
scienza e della filosofia e nella teoria delle illusioni attraverso
10 stesso Zibaldone per trovare in fine la sua espressione nei
primi canti; Nelle nozze della sorella Paolina, A un vincitore nel
pallone. Bruto minore. Ultimo canto di Saffo, Alla primavera e Inno ai
Patriarchi. ’E vengo al secondo periodo. 11 Levi studia gl’ indizi della
coscienza che il Leopardi comincia ad acquistare della propria
grandezza dopo la dimora che fa in Roma: coscienza culminante da ultimo,
in questa nota del Diario: «Ninna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la
potenza dell’umano intelletto, che il poter l’uomo conoscere e
interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza....
E veramente quanto gli esseri più son grandi, quale sopra tutti gli
esseri terrestri è l’uomo, tanto sono più capaci della conoscenza, e del
sentimento della propria piccolezza » ». Quindi s’inizia il secondo
periodo, il cui ' Zibald.] pensiero il Levi vede maturarsi tutto
nelle prose {Storia del genere umano, Dialogo della Natura e di un'Anima,
Dialogo della Natura e di un Islandese, Frammento apocrifo di Stratone) e
nelle note sincrone dello Zibaldone. In questo secondo periodo
dall’uomo il Leopardi ritrae la causa del dolore universale nella natura;
alla concezione storica del pessimismo sottentra quella cosmica; ma di fronte
alla natura ineso¬ rabile artefice del nostro doloroso destino e
imperscruta¬ bile prosecutricc di fini divergenti dai fini
dell’uomo s’accampa questo con la coscienza del proprio valore:
dell’uomo, secondo intende il Levi, in quanto individuo, e pur creatore
del suo valore nel virile disdegno d’ogni illusione, nella magnanima
sfida al Potere ascoso: nel¬ l’affermazione, insomma, di sé come
coscienza del dolore. Onde il Leopardi acquista una serenità, una
sicurezza ignota a quell’angoscioso piegarsi e stridere dell’anima
sotto il dolore, che è l’atteggiamento del primo jieriodo. Questo mi
pare, se ho bene inteso il cenno più che esposizione del Levi, il suo modo
d’intendere questa forma suprema dello spirito leopardiano. Ma
contro questa interpretazione vedo due princijiali difficoltà, la prima
delle quali confesso di proporre con qualche esitazione, perché non sono
sicuro di cogliere interamente il pensiero del Levi. Ed è che non vedo
i documenti dell’ interpretazione del Levi per ciò che riguarda
l’individualità dell’uomo, che in questo secondo periodo starebbe di
contro alla natura. Nell’allegoria dell’Amore, alla fine della Storia del
genere umano, la designazione dei « cuori più teneri e più gentiU, delle persone
più generose e magnanime », che vengono a provare « piuttosto verità che
rassomiglianza di beatitudine », comprende bensì il L., anzi rappresenta
soltanto il L.: ma non come individuo che crea se stesso, col suo
valore. Non è coscienza del dovere dell’ individuo. che può nello
spirito vincere l’avversa natura e toccare (juindi la beatitudine da
questa contesagli ; ma è l’im- niediata condizione spirituale del Poeta,
la cui serenità estetica si diffonde per tutta la Storia e ne placa il
dolore. 11 ragionamento dimostra la vanità delle illusioni, e di
ogni desiderio della felicità ignota e aliena alla natura dell’universo,
e l’amarezza dei frutti del sapere; ma della beatitudine che spira
intorno al nume, figliuolo di Venere celeste, non v’ è giustificazione,
né quindi concetto. « Dove egli si posa, dintorno a quello si aggirano,
invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già segregate
dalla consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce per questo
effetto in sulla terra, permettendolo Giove, né potendo essere vietato
dalla Verità, quantunque ini- micissima a quei fantasmi. Qui dunque c’ è
l’anima che non s’arrende alla verità; ma non la verità, come
concetto dell’anima. E l’anima è appunto quella dolce serenità che si
diffonde per tutta la prosa: ossia la forma, la poe.sia, non il
contenuto, la filosofia, del pensiero leo¬ pardiano.
Altrettanto, mulatis mutandis, ' mi pare sia da osservare di quella
individualità che il Levi vede nelle varie prose al di sopra del
pessimismo cosmico, fino a Tristano che non si sottomette alla sua
infelicità, né piega il capo al destino, né viene seco a patti, come
fanno gli altri uomini. L'affermazione di Tristano è piuttosto
negazione: « E ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra
ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità, con quanta credo
fermamente che non sia desiderata al mondo se non da pochissimi. In altri
tempi ho invidiato.... quelli che hanno un gran concetto di se medesimi;
e volentieri mi sarei cambiato con alcuno di loro. Oggi non invidio
più né stolti né savi.... Invidio i morti, e solamente con loro mi
cambierei. In secondo luogo, di questo disdegnoso gusto, o come altrimenti
si manifesti la vittoria dell'uomo sulla natura, perché e come potrà farsi
una caratteristica del secondo periodo se nel primo periodo resta, per
esempio, il Bruto minore col « prode » di cedere inesperto, che
guerreggia teco Guerra mortale, eterna, o fato indegno;
e resta 1 ’ Ultimo canto di Saffo, in cui l’uomo si erge magnanimo
contro i numi e l’empia sorte, e, conscio della propria grandezza al di
sopra del « velo indegno », emenda il crudo fallo del cieco dispensator
dei casi ? Però credo che nell’esame dei canti del secondo
pe¬ riodo, cui è consacrato l’ultimo capitolo dell’acuto e
suggestivo studio del Levi, la poesia leopardiana sia più d’una volta
tormentata affinché risponda docilmente ai preconcetti filosofici
costruttivi dell'autore. Nel Risorgi¬ mento sarebbe celebrata « con
gioconda sicurezza la superiorità della vita affettiva sulla conoscenza e su
tutto, e la forza invitta con cui l’io profondo si afferma, non
ostante la contraddizione di tutto l’universo ». Ma, se il Leopardi
canta: Proprii mi diede i palpiti Natura, e i dolci
inganni; Sopire in me gli affanni L’ingenita virtù.
Non l’annullàr, non vinsela Il fato e la sventura; Non
con la vista impura L'infausta verità . . . Pur sento in me
rivivere Gl’ inganni aperti e noti; E de’ suoi proprii
moti Si maraviglia il sen. la chiave, l’intonazione della
poesia è in questo mera- vigharsi dell’animo di fronte al risorgimento
dell’ ingenita virtù: a questo miraeoi novo, che, appunto perché
tale. j^on è menomamente sicura coscienza della superiorità
della vita affettiva sulla conoscenza. Data la sicurezza, perché
meravigliarsi ? E se togliete questa meraviglia, questo stupore innanzi
al subito rianimarsi del mondo al risorgere del vecchio cuore, la poesia
è svanita. Un altro esempio significativo. Nei versi .4 se
stesso, secondo il Levi, « ancora una volta si sfoga riaffermando,
disperatamente, ma pure ancora superbissimamente, l’as¬ soluta solitudine
della sua grandezza » ; e cita i versi ; Non vai cosa nessuna
I moti tuoi, né di .so.spiri è degna La terra. Amaro e noia
La vita, altro mai nulla; e fango è il mondo. Ma dov’ è qui
la solitudine della grandezza, se il Leo¬ pardi vi nega ogni finalità ai
moti stessi del cuore, se cioè non crede che il cuore possa aspirare a
nulla, e tutti i versi sono uno schiacciamento del cuore stanco
sotto r immane fatalità ? Infine : « La Ginestra », dice il
Levi, « è da taluni, non senza un po’ di retorica, esaltata per il suo
conte¬ nuto morale; da altri è trovata troppo arida e raziocinativa. A me
sembra una cosa grande, anche per quella maschia e dantesca sprezzatura,
onde il poeta non rifugge, per rispetto all’ intento morale, dall’
interrompere la sua melodiosa poesia colle pagine ossute di ragionamenti
in versi. Certo le parti più belle sono le meditazioni intorno all’
immensità dell’universo e alla piccolezza dell’uomo, eppoi la
straordinaria descrizione delle eruzioni vesu¬ viane. La bellezza di
questa nasce da cosa molto più alta che non sia l’eccellenza espressiva :
e questa è l’in¬ tensità tragica del pensiero universale simboleggiato,
e la potenza di una personalità, che si colloca di fronte alla
natura, e ne abbraccia e comprende la terribile grandezza senza lasciarsene
opprimere ». — Ma io direi che la Ginestra non può esser cosa
grande per la cosiddetta sprezzatura dantesca d’interrompere la
poesia con pagine di ragionamenti. Se vi sono ragiona¬ menti che
interrompono davvero la poesia, il Leopardi, mi pare, sarebbe stato più
grande non interrompendo la sua poesia; dato che la grandezza della
poesia non possa essere altro die il carattere eccellente di una
poesia, tanto più poetica, di certo, quanto più ò fusa e una, e
tutta poetica. Vero è che soltanto la retorica può persua¬ dere ad
esaltare la Ginestra per il suo contenuto morale; poiché questa parte
appunto (oltre che la polemica contro la filosofia del secolo XIX e
contro il Mamiani) è quella in cui è compromesso l’equilibrio lirico
della poesia; ma mi pare anche un errore staccare la bellezza delle
meditazioni sul contrasto tra la grandezza sterminata dell’universo e la
piccolezza deU’uomo, o ciucila della descrizione dell’eruzione,
dall’organismo, dalla vita di tutta la ])oesia, dove é la vera e sola
bellezza, da cui le altre particolari sono irradiate: e che è, credo, la
bellezza della ginestra, del fior gentile, immagine del Leo¬ pardi, che,
mentre tutto intorno una mina involve, al cielo Di
dolcis.simo odor manda un profumo. Che il deserto consola: l'espressione
più delicata della divina poesia leojìardiana. E dove il Levi afferma con
intenzione, che la bellezza non so se della descrizione delle eruzioni
vesuviane o se di tutta la Ginestra, « nasce da cosa molto più alta
che non sia l’eccellenza espressiva » alludendo a una dottrina estetica,
che dice altrove di non poter accettare, noterò che egli mostra di non
aver forse compreso che s’intende in questa dottrina per espressione :
perché l’intensità tragica che egli vi contrappone non è niente di
diverso dalla espressione, se di questa intensità tragica intende
parlare in quanto la vede nella Ginestra] poiché l’espres¬ sione
va cercata nell’atteggiamento individuale che lo spirito assume di fronte
a una certa materia, e questa, quindi, in lui. Ma c’ è poi
quella personalità, che si colloca di fronte alla natura.... senza
lasciarsene opprimere ? — Qui sa¬ rebbe il proprio della interpretazione
del Levi. Né supplicazioni codarde, né forsennato orgoglio. Ma la
ginestra non supplica semplicemente perché, più saggia dell’uomo,
non crede sue stirpi immortali, e sa pertanto che supph- cherebbe indarno
al futuro oppressore. Non c’ è, dunque, né pur qui, l’individuo che si
contrappone alla crudel possanza, ma la serenità pacata della coscienza
della sua inesorabihtà ; insensibiUtà di saggio antico, più che
affermazione romantica dell’umana personalità. In conchiusione,
anche al nuovo schema filosofico la poesia leopardiana si sottrae e
repugna, per richiudersi sempre ostinata nella naturai veste del suo
pathos lirico. ^l//o scritto precedente il prof. Levi rispose con
alcune osservazioni ingegnose ^ a cui fu replicato con la seguente
lettera : Egregio Professore, Mi par difficile
discutere delle interpretazioni parti¬ colari di questa o quella poesia o
altro documento del pensiero leopardiano senza rimettere in discussione
il concetto generale e quindi i canoni critici del Suo lavoro.
Perché le mie osservazioni singole non miravano a con¬ futare singole
opinioni e determinati giudizi, né a mo¬ strare piccole infedeltà ed
inesattezze, sì bene a far vedere in atto r illegittimità del criterio
fondamentale con cui aveva Ella ricostruito la sostanza dello spirito
leo- [Si possono leggere nella Critica,] pardiano. Così, nella risjiosta
che Ella dà a talune delle mie critiche particolari, mi pare si sia
lasciato sfuggire r intento generale e il significato complessivo del
mio articolo. Per esempio, perché, pur consentendo che nel luogo
citato dello Zibaldone con vita o sentimento dell’esistenza H L. intenda
la coscienza, 10 negavo che si dimostrasse la coscienza, ossia il
concetto, della coscienza ? Perché questo concetto, in quanto tale,
in quanto parte di una generale intuizione del mondo, era ciò di cui Ella
aveva bisogno per cominciare a vedere nel Leopardi la filosofia
individualistica, in cui Ella intende riporre l’essenza della più alta poesia
leopardiana. Con ciò io non dovevo attribuire al L. soltanto
11 possesso immediato della coscienza (com’Ella mi fa dire), che
sarebbe stato invero troppo poco: ma solo un senso vago o, se vuole, una
nozione imperfetta, o magari un concetto, che però non era un vero
concetto, della coscienza. Il Leoparch insomma vede lì la coscienza,
ma non la pensa; sicché per lui pensatore questa coscienza è come
se non fosse ; e non può dirsi perciò, che « praticamente, rispetto a sé e
rispetto all’uomo in generale, egli ha fermato con sufficiente sicurezza
la nozione di ciò che in esso è di natura spirituale e della sua dignità
». Il senso della spiritualità e della dignità spirituale di sé e
dell’uomo in generale sì; e questo appunto io dicevo essere non il
contenuto (la filosofia, il concetto) della poesia leopardiana, ma la
forma (la poesia, la lirica, l’espressione della personalità del poeta,
superiore alla sua filosofia). Così, sarà verissimo che il
Leopardi si creda infelice perché grande, piuttosto che grande jierché
infelice. Ma questo non ha che vedere con la mia osservazione che,
se egli avesse avuto il concetto della coscienza, avrebbe veduto la
propria grandezza in un grado spiri¬ tuale che è al di sopra del dolore e
della infelicità. La coscienza per lui era la stessa sensibilità, non la
coscienza vera e propria, il superamento della sensibilità, la filosofia
del dolore, che, come filosofia e quindi oggettivazione e vi¬ sione
sub specie aeterni del dolore stesso, non può non liberare da esso il
soggetto. Nel Dialogo della Natura e di un Anima il Leopardi, phi che far
dipendere l’infe¬ licità dalla grandezza, identifica l’una con l’altra.
L’Anima domanda Ma, dimmi, eccellenza e infehcità straordi¬ naria
sono sostanzialmente una cosa stessa? o quando sieno due cose, non le
potresti tu scompagnare l’una dall’altra?» e la Natura risponde; Nelle
anime degli uomini, e proporzionatamente in quelle di tutti i
generi di animah, si può dire che l’una e l’altra cosa sieno quasi
il medesimo : perché l’eccellenza delle anime importa maggiore intensione
della loro vita; la qual cosa im¬ porta maggior sentimento dell’ infelicità
propria ; che è come se io dicessi maggiore infelicità ». Dove è
chiaro che la infelicità maggiore è maggiore sensibilità, cioè
eccellenza, grandezza spirituale: perché l’infelicità è tale in quanto è
sentimento di essa, cioè quella vita, nella cui intensione consiste l’eccellenza
dell’animale. E però Leopardi deve ad ogni modo commisurare la
propria grandezza con la propria infelicità ; ciò che egli non
avrebbe fatto, se avesse fermato con sicurezza, sia pure praticamente, la
nozione della vera realtà spirituale, che in lui spontaneamente s’afferma
quando, come per esempio nella sua lettera del 15 febbraio 1828, tra i «
mag¬ giori frutti » che si proponeva e sperava da’ suoi versi
annoverava «il piacere che si jirova in gustare e apprezzare i propri! lavori,
e contemplare da sé, compiacendosene, le bellezze e i pregi di un figliuolo
proprio, non con altra soddisfazione, che di aver fatta una cosa bella
al mondo ; sia essa o non sia conosciuta per tale da altrui. Dove c’ è
quel dolore impietrato, di cui io parlavo come dell’unica forma possibile
del dolore in quanto contenuto della coscienza « ; ma di questa coscienza,
e quindi di quella vita del dolore che non è più dolore nella vita
dello spirito il Leopardi non ha coscienza. E però il contrasto
interiore che io vedo nella poesia del Leopardi è identico a quello che
ci vedeva il De Sanctis, anche se, nel passo citato da me, rappresentato
da un solo aspetto; il contrasto tra la ricchezza spirituale della
personalità del poeta e la povertà, per non dire negazione, di ogni sostanzialità
spirituale, propria del con¬ tenuto della sua poesia. Del
Dialogo di Tristano e di un amico non è esatto che il primo periodo
citato da me sia ; « E ardisco desiderare la morte ecc. ». Le parole precedenti
erano state pur da me riferite immediatamente prima fino a Tristano
che non si sottomette alla sua infelicità, né piega il capo al destino,
né viene seco a patti, come fanno gli altri uomini » Ma queste parole non
potevano impedirmi di vedere in quel che segue, e in cui confluisce il
pensiero di quelle stesse parole, e però in tutto il Dia¬ logo, una
negazione piuttosto che un’affermazione: e negazione non soltanto, come Ella
dice, della propria per¬ sona empirica; perché la morte, pel Leopardi,
non di¬ strugge soltanto la persona empirica, ma tutto l’essere
dell’ mdividuo. Mi piace ricordare la felice osservazione di Sanctis
{Studio sul Leopardi). Leopardi ha la forza di sottoporrei il suo
stato morale alla riflessione e analizzarlo e generalizzarlo, e fab¬
bricarvi su uno stato conforme del genere umano. Ed aveva anche la forza
di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini e melodie, e fondarvi su
una poesia nuova. Egli può poetizzare sino il .suicidio, e appunto perché
può trasferirlo nella sua anima di artista e immaginare] Bruto e Saffo,
non c’ è pericolo che voglia imitarU. Anzi, se ci sono stati momenti di
felicità, sono stati appunto questi. Chi più felice del poeta o del
filosofo nell'atto del lavoro ? — L’anima, attirata nella contemplazione,
esaltata dalla ispirazione, ride negli occhi, illumina la
faccia. Quanto alla differenza di disposizione spirituale tra ;j
pruto minore, per esempio, e il Dialogo tra Plotino e Porfirio o VAmore e
morte, dove si anela alla morte, ma la si attende serenamente, deposto
ogni disperato pen¬ siero di suicidio, non occorre negarla per non
vedere né anche nei componimenti più tardi quella coscienza jel
valore della propria individualità, che Ella ci vede. ^'el detto Dialogo
non si cela, almeno io non riesco a scorgere, « quella robusta fede nella
grandezza umana, riconosciuta possibile sempre, perché bastevole a
se stessa ». Se l’essere dell’uomo è la sua vita, quivi si dice che
«la vita è cosa di tanto piccolo rilievo, che l’uomo, in quanto a sé, non
dovrebbe esser molto sollecito né di ritenerla né di lasciarla ». E, se
non m’inganno, la nota fondamentale del dialogo è nelle ragioni della
tol¬ lerabilità della vita, per misera che sia: le quali ragioni
sono bensì la critica del pessimismo materialistico del Leopardi, ma
restano nella forma di sentimento, baste¬ vole a conferire al dialogo
quell’ intonazione affettuosa che gli è propria, e sono veramente
l’opposto di quella affermazione dell’ individualità dello spirito, di
cui si va in cerca : « Aver per nulla il dolore della disgiunzione
e della perdita dei parenti, degl’intrinsechi, dei compagni; 0 non
essere atto a sentire di sì fatta cosa dolore alcuno; non è di sapiente,
ma di barbaro. Non far ninna stima di addolorare colla uccisione propria
gli amici e i do¬ mestici; è di non curante d’altrui, e di troppo
curante di se medesimo. E in vero, colui che si uccide da se stesso
non ha cura né pensiero alcuno degli altri; non cerca se non la utilità
propria; si gitta, per così dire, dietro alle spalle i suoi prossimi, e
tutto il genere umano; tanto che in questa azione del privarsi di vita,
apparisce il più schietto, il più sordido, o certo il men bello e
men liberale amore di se medesimo, che si trovi al mondo». Se
prendessimo atto di questa critica del suicidio — che. risolvendosi in
una serie di asserzioni, vale certo come effusione di stati immediati
deU’animo, ma non come filosofìa — che filosofia diverrebbe questa del
Poeta che ha ragionato sempresul presupposto che la vita dell’uomo
sia racchiusa nella sua sensibilità, e che tutto il mondo all’uomo non si
rappresenti se non nella breve sfera del piacere e del dolore suo
individuale ? Ma, d’altra parte, senza questa contraddizione interna tra
la filosofia dominante nel dialogo e il senso affettuoso onde il poeta è
avvinto ai suoi prossimi e a tutto il genere umano (cfr. la Ginestra) e
che pervade tutta la conversazione intima di Plotino con Porfirio, dove
se n’andrebbe la poesia del commovente dialogo ? Nell’
intendere come ho inteso il Risorgimento posso sbagliarmi; e la sicurezza
con cui Ella crede si debba intendere altrimenti, mi fa dubitare forte
del mio giu¬ dizio. Ma la ragione che mi oppone non mi riesce molto
persuasiva; c’è, di sicuro, nella poesia una risposta alle domande: «Chi
dalla grave, immemore Quiete or mi ridesta ? Che virtù nova è questa ?...
Chi mi ridona il piangere Dopo cotanto oblio ? » ecc. ; Da
te, mio cor, quest’ultimo Spirto e l’ardor natio. Ogni conforto
mio Solo da te mi vien; ed è vero che nella quartina
precedente l’accento maggiore è nel terzo verso. Ma è anche vero che questa
risposta è la soluzione del problema, in cui consiste la poesia :
l’inaspettato, il miracoloso risorgimento del vec¬ chio cuore. E quindi
il sentimento che regge tutta la poesia mi pare la meraviglia. Ragione,
invece. Ella ha certamente nel correggere il significato da me attribuito
‘ In un periodo ora non più ristampato dello scritto
precedente. agli ultimi versi del canto A se siesso; ma pur
dopo la correzione, il significato del canto non è punto favorevole alla
tesi dell’affermazione della propria grandezza, gi a quella del grido
della disperazione, comune a quasi tutta la poesia leopardiana. E
nella Ginestra chi negherà il motivo da Lei richia- luato, della personahtà
del Poeta che non si lascia opprimere dalla crudel possanza della natura ? Ma
bisogna vedere quanto questo motivo sia attenuato qui dall’umile
coscienza delle proprie sorti («che con franca hngua. Confessa il mal che ci fu
dato in sorte, E il basso stato e frale...; ma non eretto Con forsennato
orgoglio inver le stelle. Né sul deserto.... » ecc.), e quasi rammoUito
e sciolto nell’amore con cui l’animo abbraccia tutti gli uomini fra
sé confederati, e nella poesia consolatrice che, commiserando i danni
altrui, manda al cielo, come la ginestra, un profumo di dolcissimo amore,
che consola il deserto. Anche la ginestra, che piegherà il suo capo
innocente sotto il fascio mortai, insino allora non piegherà indarno
codardamente supplicando innanzi al futuro oppressor; ma ciò non toglie nulla
alla gentilezza del fiore di tristi lochi e dal mondo abbandonati
amante, né alla solenne rassegnata pacatezza del vero sapiente
cantata dal Leopardi. Certamente, tutte queste cose meriterebbero
di essere chiarite con un’anahsi più accurata degli scritti leopar¬
diani; e io voglio sperare che questa discussione possa invogliar Lei,
che ha studiato tutte le cose del nostro grande Poeta con tanto acume e
con tanto amore, a non staccarsene senza prima avervi gittate su la luce
di nuove ricerche. Maestro di vita Giacomo Leopardi ? Il prof.
Bertacchi > si è proposto appunto di « raccogliere dagli scritti
di Giacomo Leopardi e di comporre in multiforme unità gli elementi
dell’opera sua nei quali parlino più alto le feconde ragioni della vita»:
«quanto di sereno o di mcn ; triste ricorre neUe pagine del Nostro;
quanto di attivo e di energico, pur nello stesso dolore, risulta dal
senti- j mento, e dal pensiero di lui.... allo scopo di integrar,
^ se pos’sibUe, la figura del grande Scrittore ». Per dire la '
cosa più semplicemente e chiaramente, egli intende illu- | j strare tutti
gli elementi ottimistici propri della poesia .‘1 leopardiana. 1;
Elementi che non mancano certamente nella detta 'i poesia; e
costituiscono la singolare caratteristica del suo j pessimismo, come già
osservava sessant’anm fa il De San- ' ctis nel suo dialogo sullo
Schopenhauer (dopo che allo stesso concetto aveva accennato un ventennio
prima * Alessandro Poerio, in una sua lirica rimasta inedita); , e
conferiscono infatti agli scritti di questo dolente e de- I solato
pessimista un’alta virtù educativa e consolatrice. | E molti studi
diligentissimi furono fatti in questo senso i da Negri, nelle sue
Divagazioni, che pare siano t rimaste ignote al Bertacchi. Ma c’è
ottimismo e ottimismo; e la ricerca del Bertacchi mi pare avviata m una J
direzione, che potrà condurre a falsificare interamente il , carattere
dello spirito leopardiano, attribuendogli un ot- l timismo edonistico od
estetico, che solo un lettore di-A proposito del libro di Bertacchi, Un
rft vita-. Sag^o leopardiano, Il poeta e la natura, Bologna,
/a nichelli, igi?- stratto e superficiale può vedere in
alcuni aspetti della sua sublime poesia. Giacché l’ottimismo del Leopardi
è la fede e l’esaltazione della virtù, della grandezza e della
lenza dello spirito, di quelle necessarie illusioni, come egli le chiama,
a cui non trova posto nel mondo, guar¬ dato come cieco crudele meccanismo
naturale; ma che non perciò egli abbandona, anzi afferma sempre più
vigorosamente: di guisa che il suo mondo triste e doloroso viene da ultimo
purificato e rasserenato in questa intuizione schiettamente
spiritualistica. La quale, d’altra parte, non a\Tebbe il suo proprio
particolar significato, disgiunta dalla negazione pessimistica della vita
dei piaceri e delle gioie naturah, che ne è come la base o il contenuto.
In questa contraddizione intima tra la natura cattiva e lo spirito buono
che in sé accoglie la visione di cotesta natura, consiste proprio la
radice, da cui trae alimento tutta la poesia del Leopardi; per intender
la quale non bisogna lasciarsi sfuggire né l’uno né l’altro dei due
elementi contradittorii. 11 Bertacchi invece crede di poter quasi cogliere
in fallo il Poeta ogni volta che il vivo senso delle bel¬ lezze naturali
(poiché in questa prima parte egli studia il Poeta in rapporto con la
natura) fa lampeggiare dentro ai suoi canti una sensazione di letizia;
per modo che, contro r intenzione del Poeta, la sua poesia tratto
tratto scoprirebbe nella stessa realtà naturale ravvivata dal¬
l’anima dello stesso Poeta le ragioni della vita; ossia una fonte di
dolcezza, a cui il Poeta inconsapevole pur seppe attingere. Poiché, per
lui, « vita è sentire e far sentire il bello e il sereno di natura; vita
ravvisare e creare le fide corrispondenze con essa », e poi «
l’uscirle incontro così, con gli occhi luminosi di gioia o impre¬
gnati di pianto, narrarle le anime nostre, consenta o contrasti essa con
noi, moltiplicarci, nel suo cospetto, di atteggiamenti e di modi,
circuirla di umani argomenti. ] dedurre dal suo stesso sensibile le
conchiusioni jiiù nostre e i significati inattesi » ecc., e il Poeta
studiato « ne’ suoi fedeli commerci con la natura esteriore »
apparirebbe maestro di vita «spirito vigile e attivo. ])ronto a
fecondarsi d’intorno e a moltiplicarsi le cose » che sdoppia e
ingrandisce e abbellisce con la sua fantasia. Insomma la vita di cui
sarebbe maestro il Leopardi è una vita di piacere | del piacere procurato
dalla intuizione estetica della natura. Tesi in parte ingenua
e oziosa, in parte falsa. Perché se si volesse dire soltanto che il
Leopardi insegna a guardare esteticamente la natura e in generale a dar
vita estetica al mondo sensibile, questo sarebbe verissimo, ma così
del Leopardi come, più o meno, di ogni grande poeta; e non c’ è nessun
bisogno di dimostrare questa tautologia, che un’opera d’arte, qualunque
essa sia, è rappresenta¬ zione estetica; e quel che può avere un
interesse e un significato, è dimostrare nel caso particolare in che
modo un artista rappresenti il suo mondo. Ma la tesi di Bertacchi ha in
più la pretesa d’indicare attraverso questo vagheggiamento fantastico
della bella natura una vita diversa da quella apparsa triste al Poeta:
quasi che questi ne avesse avuto innanzi due, una bella e luminosa e 1
altra squaUida e buia, e gli occhi di lui, senza ch’egli se ne
accorgesse, fossero attratti più dalla prima, e la luce di questa
s’effondesse sull’altra. Che è una pretesa affatto erronea; e
giustificabile soltanto col criterio dal Bertacchi candidamente esposto
fin dalla prima pagina del suo libro, come norma fondamentale del suo
metodo critico. Quivi infatti dice essere «comunissima sentenza
che l’opera d’uno scrittore non valga solo per sé, ma anche per il
modo diverso ond’essa, quasi, si adatta a ciascuno di noi », poiché «
spesso dalla parola d’un autore, acco- r stata alle anime
nostre, si svolgono sensi ulteriori che l’autore non previde, ma che le
affinità degli spiriti e le somiglianze dei casi vi sanno naturalmente
ritrovare.... Il creatore è creato a sua volta, è rinnovato via via
di significazioni e di uffici ». Sicché il Leopardi maestro di vita
è il L. dei sensi ulteriori e non il L. storico; il Leopardi creato più che il
creatore: creato, s’intende, in questo caso, dal Bertacchi. 11 quale,
una volta sul punto di creare, non è più legato da nessuno dei
vincoli onde ogni critico e storico è legato alle opere che intende
interpretare; e può scegliere tra gli scritti leopardiani quelli soli o
di alcuni di essi quelle parti soltanto, in cui meglio può vedere
adombrata l’imma- I gine del maestro di vita che desidera
raffigurare. Così comincerà con lo scartare le prose ; perché «
nella voluta terribile aridità » di queste, « il pensatore sinistro
svolge i suoi tristi argomenti, e noi non abbiamo agio di aggiungervi
nulla del nostro » (nessun senso tiUeriore !) ; «egh non suscita in noi
altro moto che non sia d’atten¬ zione a quella sua logica amara ». E il
Bertacchi vuol dire che lì c’ è il pensiero del Leopardi, e non c’ è la
na¬ tura nei suoi aspetti suscitatori d’immagini belle: il che non
è poi vero, se si considerano almeno la Storia del genere umano, il
Dialogo della Natura e di un Islandese, La Scommessa di Prometeo e V
Elogio degli Uccelli. Pel Bertacchi le Operette morali sono filosofia e
non poesia. — Da scartare poi le poesie in cui il Poeta
«trasferisce nel canto quella materia medesima», malgrado «la maggior
seduzione portata dall’onda del verso, dal periodar musicale, dalle pur
rare imagini che infiorano il discorso qua e là ». E con questi caratteri
il Bertacchi non si pe¬ rita di designare, oltre 1 ’ Epistola al Pepoli,
la Palinodia ed / miovi credenti, canti come II pensiero dominante.
Amore e morte, il Bassorilievo antico e il Ritratto di bella donna ;
definite « Uriche anch’esse di pensiero e infuse di sentimento » ! —
Scartate, almeno questa volta, le poesie in cui il Leopardi parla bensì
diretto al nostro cuore {Sogno, Consalvo, A se stesso, Aspasia), ma
can¬ tando se stesso non esce dall’ambito umano e sdegna ogni
elemento esteriore : giacché « chi legge, anche in tal caso, è legato
alla parola del poeta, e solo la rielabora in sé in quanto essa gli desti
nel cuore un moto di passioni consimili che il cuore abbia provato esso stesso
». — Da escludersi infine i canti civili {AW Italia, Monumento di
ALIGHIERI, Ad .-l. Mai, Alla sorella Paolina, A un vinci¬ tore nel
pallone) ; sempre per lo stesso motivo, che « si resta, sebbene con
ampiezza maggiore nell’ordine
voluto dal poeta ». Restano le altre poesie, dove il Leopardi « canta
all’aperto » ed effonde il canto dell’anima al cospetto della natura:
«vive con la natura, o almeno, nella natura. E questa natura, poi, è
quasi sempre serena ». Qui il ])oeta Bertacchi, creatore del
creatore, può spaziare a suo agio nel vasto cielo dei sensi
ulteriori. Ecco; «1 paesaggi campestri, le scene umili o grandi in
cui si veniva a comporre l’anima del dolente poeta, sono sempre evocati
nei loro aspetti più belli ; soleg¬ giati sono i suoi giorni; le sue
notti sono stellate e inargentate di luna. La pioggia, che appar malinconica in
un dei giovanili b'ranintenti, e procellosa in un altro, riappare in Vita
solitaria con fresca dolcezza mattutina, attraversata dal sole che entro
vi trema sorgendo». E questa presenza della natura « non è senza effetto
per noi ». Creare qui si può. « Egli, il poeta, potrà bene, contro
ogni serena bellezza, accampar le sue tristi fortune, o le innate
sventure di tutto il genere umano, o l’arcano terribile dell’esistenza;
noi potremmo bene, com’ei vuole, seguirlo nei suoi tristi argomenti,
veder quella bella natura velarsi del dolore di lui, sentir vivo il
contrasto che si agita tra quel poeta e quel mondo: ma, poi, non
possiamo impedire che alcunché di quel bello, di quel sereno che egli
evoca, si apprenda alle anime nostre, e festi in noi quasi a sé, quasi
distinto dai sensi che il poeta vi associa, congiungendosi, anzi, dentro
di noi con quante visioni di giorni dorati e di pure notti profonde vi
si raccolsero negli anni ». Che sarà — anche, come si sarà avver-
t^ito, neh’ onda del verso — una poesia bertacchiana, un senso ulteriore,
che il Leopardi non ci mise (come il Dante della novella sacchettiana),
ma non ha più niente che vedere colla poesia del L. E dove pare si
accenni a un giudizio critico, non può essere altro che una vaga e
soggettiva impressione priva d’ogni valore. Così il Bertacchi ci
dirà che nel Sabato del villaggio e nella Quiete dopo la tempesta « il
poeta ha compromesso il filosofo versandoci con troppa pienezza nel
cuore tutta la poesia soave, tutta l’ondata di vita che trabocca dalle
ore descritteci » ». Che, come giudizio, è un errore, perché tutta quella
poesia traboccante è l’incar¬ nazione deU’ idea stessa del filosofo, che
nel Sabato non si esibisce già nella sentenza finale (« Questo di sette
è il più gradito giorno, Pien di speme e di gioia; Diman tristezza
e noia Recheran l’ore »), ma vive in tutta la rappresentazione
precedente: dove tutta la gioia è la gioia d’una speranza guardata coi
mesti occhi della provata delusione: è la soavità della fanciullezza ma
non quale la sente il fanciullo, bensì come la rimpiange l’uomo già
esperto della vita, in cui ad una ad una si son dile¬ guate le speranze
lusingatrici della prima età. E bisogna non vedere questa pietosa
malinconia, che prorompe da ultimo, ma s’annunzia già dalla malinconica
donzelletta tornante dalla fatica dei campi sul calar del sole,
cioè chiudere gli occhi su tutta la poesia, per parlare d’un
dualismo tra poeta e filosofo, e d’un poeta che prende la mano al
filosofo. O. c., p. IO. Altro esempio, o L'idillio A llu Lufiu e 1
altro La vtla, solitaria..., pur movendo da uno stato di tristezza,
la¬ sciano tanto agio alle malie naturali, da non permettere a
queUa di farsi vero dolore, la mantengono in una so¬ spensione
fluttuante, nella quale diresti che il poeta sia perplesso sul proprio
stato » >. Ora, il breve idiUio Alla \ luna non fluttua punto, ma
esprime nettissimamente il piacere deUa ricordanza sia pur nel noverare
l’età del proprio dolore; il grato «rimembrar delle passate cose,
ancor che triste, e che l’affanno duri». E la Vita solitaria fluttua
soltanto agli occhi di chi non vegga l’umtà e la sintesi che ne è tema
(neU’anima, s’intende, del poeta, e quindi in ogni parte della sua
poesia) tra la fresca c solenne beUezza della natura e il sospirante
solingo muto, che non trova in essa pietà (« E tu pur volgi Dai
miseri lo sguardo; e tu, sdegnando le sciagure e gh affanni,
alla reina FeUcità servi, o natura »). Ma in tutto il
volumetto non si trova una pagina in cui propriamente il Bertacchi affisi
la poesia del L. invece di vagare nei suoi cari sensi ulteriori.
Dei quali a volte sente come il bisogno di scusarsi, dicendo per
esempio delle Ricordanze che, dopo avere sentito col poe¬ ta, «poi è
naturale, è umano che noi, da parte nostra, riviviamo tutti quei sensi di
vita che, sia pure a cagione di rimpianto, quivi il poeta rievoca; che
essi nell’anima nostra, non afflitta da quelle cagioni, lascino pure
qualcosa della originaria dolcezza; è umano che le stelle dell Orsa
e le lucciole del giardino e il canto della rana remota e j viah odorati
e i cipressi e il chiaror delle nevi si aggiungano, come sorte da noi, alle
sensazioni già nostre, ai retaggi deU’essere nostro»». Umano,
troppo umano, certamente. Ma che lavoro sarà questo ? Sarà poesia
sulla poesia ? Dovrebbe essere. Ma la poesia, per dir la verità, non so
vederla nella prosa agghindata, saltellante e retoricamente sonante del
Ber- tacchi. « Ma il dono che L. fece a se stesso ed a noi, godendo
e mettendoci a parte di tante scene serene, non è il significato maggiore della
complessa sua opera, cede, per importanza, alla virtù ivi profusa
di vivere della natura e di comunicare con essa, quali ne siano gli
aspetti, quali ne siano gli effetti ». « Corrispondenza tra la natura e lui,
che era in se stessa, per lui, elemento e ahmento di vita ». « Quelle
mitologie che, sia pure fingendo e trasfigurando, ci definiscono innanzi
la visione delle cose, non le sgombrano forse di quell’aura
d’arcano e di vago che è tanto cara al poeta, conforme all’ inconscio e
aU’ ignoto onde è come infusa ed effusa la fanciullezza dei singoli, la
giovinezza dei popoli ». «Momenti e motivi reali, più che di pura idea,
sono que’ tocchi ed accenni di cui venimmo parlando; son temi di
canto, perché ci son dati da tale che tutto era uso ad avvolgere in aura
di poesia.... i temi son temi e temi che, comunque, ci attestano come la
stessa malia delle sensazioni infinite fosse cagione per lui a meglio
indugiar sulle cose ed a sorprenderle meglio ne’ loro attimi sacri »
». Né sarà poesia la ritmica prosa, in cui il Bertacchi ama
troppo spesso cullarsi per jiagine e pagine, dove forse i sensi ulteriori
gli soccorrono più lenti alla fan¬ tasia. Ecco, per un esempio, la chiusa
d’un capitolo. Come Saffo e Bruto, pur la Ginestra e il Pastor, le grandi
liriche sorelle nate dalle notti d’ Italia, aggiungono alle notti
medesime qualcosa che prima non c’era. Molti di noi certamente, in
qualche grande ora deU’anima, guardando i cieli notturni, sentirono ripioversi
in cuore un’eco di quei canti stellati, e ripensando al poeta
congiunto da quei canti a quei cieli, ridissero a se medesimi. Egli
è passato di là ». Squarci, dunque, di eloquenza, anzi di oratoria
ritmica ; alla quale potranno non mancare gli ammiratori; ma in cui non
direi che sia ricreato i] L.. Proprio il L. ! Meglio, molto meglio
che quest’oratoria si volgesse a qualche altro tema di risonanze
ulteriori: per esempio a un Cavallotti. Prolusione al Corso di letture
leopardiane che il Comitato della Dante Alighieri di Macerata istituì nel
1927 presso quella Università; nella cui Aula Magna questo discorso venne
pronunaiato il 13 feb¬ braio '27; quindi pubblicato nella Nuova Antologia.
A inaugurare oggi in Italia un corso perpetuo di letture leopardiane c’ è
da essere assaliti da un certo sgomento, per la responsabilità che si
assume. E ciò per un doppio motivo. L’uno, il più ovvio, è che il L. si
rajjpresenta generalmente come un maestro di pessimismo; ed alzare una
cattedra a illustrazione del suo pensiero e della sua poesia può parere
perciò tutt’altro che opportuno in un paese che ha bisogno di reagire
a vecchie e radicate tradizioni d’indifferentismo e scetti¬ cismo e
di allargare il petto ad energici sentimenti di fiducia nelle proprie
forze e ad alte convinzioni di fede nella vita che è chiamato a vivere.
Oggi sopra tutto, che il popolo italiano è raccolto nella coscienza di
grandi doveri da assolvere e nel senso della necessità di rifare
nella disciplina, nel lavoro, negli ordinamenti civili, nella educazione
della gioventù a maschi propositi e metodi di vita l’antica fibra del
carattere nazionale. E sarebbe questo il momento di diffondere nei
giovani e nel popolo gli ammaestramenti pessimistici del poeta, la cui
poesia non si gusta senza sentire con lui tutta la miseria di
questa vita e l’inanità d’ogni sforzo che si faccia per medicarla?
Motivo grave di esitazione e titubanza; ma che, lo confesso, non
turba tanto l’animo mio quanto l’altro che vi si aggiunge a far temere un
pericolo nella istitu¬ zione che oggi si inaugura. Giacché chi abbia
anche una elementare conoscenza della poesia leopardiana, sa bene
che il suo pessimismo non ha mai fiaccato, anzi ha rinvigorito gli animi; e
lungi dallo spegnere, ha infiam¬ mato nei cuori la fede nella vita, nella
virtù e negl’ ideali che fanno degna e feconda la vita umana degl
individui e dei popoh. Ma il più preoccupante sospetto è che L., come già
altri poeti e sopra tutto Dante, argo¬ mento di letture pel pubbhco,
diventi anche lui materia di quel malfamato genere letterario che troppo
è stato coltivato negh ultimi tempi dagl’ Italiani, e che dicesi
delle «conferenze»; genere che vorremmo avesse fatto il suo tempo, e
potesse ormai relegarsi tra le smesse abi¬ tudini dell’anteguerra.
Giacché bisogna che gl’ Italiani si persuadano che, se si vuol far
davvero, e stare tra le grandi Potenze, ed essere un popolo vivo, serio,
temibile, realmente concorrente con gli altri popoli che sono alla
testa della civiltà nel dominio del mondo materiale e morale, bisogna
romperla col passato. Dico col jiassato dell’accademia e della
«letteratura», dei sonetti e delle cicalate, degli eleganti ozi e
trattenimenti per dame e colti signori in cerca di onesti passatempi, più
o meno noiosi; in cui ogni argomento era buono purché legger¬
mente, discretamente, spiritosamente trattato, o agitato con oratoria
adatta a mover gli affetti e guadagnare gli applausi: ma in cui né
dicitore mai, né ascoltatori debbano sentirsi impegnati, pel solo fatto
di parlare o di ascoltare, a sentire seriamente, schiettamente, con
tutta l’anima, e a pensare, a trarre da quel che si dice o si
apiilaudisce, conseguenze che siano norme di con¬ dotta e quasi cambiali
che prima o poi scadranno e si dovranno scontare. La conferenza, si sa,
non è un discorso da comizio, in cui oratore e pubblico, in buona fede, e
anche in mala fede, compiono un’azione e si pre¬ parano a compierne
altre; e non vuol essere una predica, che debba edificare un uditorio di
fedeli. L’ ideale è che nessuno vi sbadigh ma neppure vi s interessi
tropjio, nessuno vi si riscaldi; e a trattenimento finito, ognuno
Si ge ne torni a casa con lo stesso animo — vuoto con
è venuto alla conferenza. Ideale vecchio per gl’ Italiani.
Sorse e si sviluppò durante il Rinascimento, quando dall’umanista
venne fuori il letterato, e nacquero, fungaia che si estese rapi¬
damente per tutto il suolo del bel Paese, tutte quelle accademie dai nomi
strani e burleschi che attestavano es«i stessi la frivolezza dei
propositi e la spensieratezza jegli studiosi perditempo che \’i si
riunivano; accademie, che pullularono in tutte le città e borghi d’
Italia dalla nietà del Cinquecento in poi, e di cui molte ancora
resi¬ stono al sorriso, al sarcasmo e al fastidio degli spiriti
nioderni e alla storia, e vivacchiano oscuramente sul margine dei bilanci
dello Stato nelle provincie e anche nelle maggiori città ricche di
tradizioni letterarie, a danno delie istituzioni più utili e più serie.
All’ombra delle ac¬ cademie vegetò tutta la vecchia cultura italiana,
esanime e priva d’un profondo contenuto e interesse religioso,
morale, filosofico, umano; poesia senza ispirazione, filo¬ sofia alla
moda, erudizione per l’erudizione, scienza per la scienza, nessuna fiassione,
né anche nella letteratura politica, che legasse il pensiero alla persona
e la persona al suo pensiero. Una repubblica delle lettere, in cui
l’uomo non era cittadino della sua patria, né padre della sua
famiglia, né credente della sua religione, ma puro spirito innamorato di
astratte forme, senza attinenza con la pratica della vita e con la realtà
degl’ interessi personali. Cultura intellettualistica, di cervelli magari
pieni zeppi di notizie peregrine e di squisite nozioni e
raffinatezze di arte, ma senz’anima, senza cuore, senza né odi né
amori. Cultura estranea alla vita; che era poi vita senza cultura,
cioè senza riflessione e senza idealità ; la vita degli uomini proni alla
frivolità e agl’ interessi particolari, chiusi ad ogni alto e generoso
sentimento e ad ogni idea la cui attuazione richiedesse fatica e
sforzo. Gentile, MaiXrZoni e L.. Chi non conosce queste debolezze
dello spirito italiana nei secoli della decadenza ? Chi non sa che 1’
Italia ^ risorta tra le nazioni quando s’ è vergognata di quella
cultura e di quella letteratura, e con Parini ed Allieri ha cominciato a
sentire che il poeta dev’essere pur uoiuo e che poesia, come ogni altra
forma d’ingegno, vuoi dire pure volontà, carattere, umanità ? Chi non sa
che j)ur dopo la miracolosa risurrezione di quest’attesa fra le
genti, come fu delta 1’ Italia, si sentì che essa sarebbe stata una
creazione effimera ed insignificante senza gl; Italiani ? Cioè senza
Italiani che cominciassero a unire e a fondere insieme quel che avevan
sempre diviso, l’in. teUigenza e la volontà, la letteratura e la vita, la
scienza e gl’ interessi concreti e attuali deH’uomo, facendola
finita jier sempre con l’accademismo e con la rettorica e con tutta la
vecchia sapienza scettica dell’ « altro è il dire e altro è il fare »,
per cominciare a prender sul serio tutto, a lavorare tenacemente, a
sentire come proprio r interesse comune, a stringere la propria sorte a
quella della patria, a sentirla perciò questa patria come intima a
sé e tale da meritare che per lei si viva e che per lei si muoia ? Chi
non sa che la vecchia Italia rifatta di fuori si doveva pur rifare di
dentro? Questa almeno l’aspirazione del Risorgimento. Ma venuto meno
lo slancio morale di quell’età eroica, tale aspirazione si attenuò e fu
meno sentita; e nei riposati tempi di pace e di raccoglimento succeduti
al periodo agitato della rivoluzione e della formazione del Regno,
certi vecchi spiriti dell’anima italiana tornarono a galla; nel rifiorire
della cultura (che certamente molto s’avvantaggiò di quei decennii ultimi del
secolo scorso, in cui r Italia parve godersi le prospere condizioni
acquistate con l’unità) risorse con gioia l’antico gusto idillico c
arcadico della letteratura, della cultura intellettualistica ed elegante;
e da Firenze, centro di questa rifioritura letagraria, fecero epoca le
conferenze prima sulla vita italiana e ]50Ì sulla Divina Commedia. L’esem]no fu
imitato jn tutte le principali città, e i conferenzieri più
brillanti f celebrati viaggiavano da una tribuna all’altra recando
j„ giro le loro arguzie, i loro motti ed aneddoti, le loro pagine
patetiche e scintillanti, a gran diletto, si diceva, del lor^^ pubblico
di dilettanti di cultura a buon mercato. Perché a certe conferenze, con
certi nomi, di dire che l’ora é lunga a passare pochi hanno il
coraggio. L. non può esser materia di conferenze. Vi si
ribella la pudica delicatezza della sua anima sensibilissima, che cerca i
luoghi solinghi e i silenzi della notte dove il suo canto possa spandersi
in una religiosa elevazione di tutto il cuore verso l’eterno e l’infinito;
dove il pastore po.ssa interrogare la luna, e l’uomo stare a fronte
della natura, e ragionare tra sé e sé de’ più gelosi segreti del suo
cuore. Vi si ribella la religiosa austerità del suo spirito tormentato
dal mistero del dolore universale. Non amerebbe egli, schivo com’era e
orgoglioso della sua solitaria grandezza, mostrarsi al pubblico e
far suonare la sua voce esile e tremante di commozione in mezzo a
un numeroso uditorio distratto e proclive a mondani pensieri e a cure di
frivola oziosità o di vanità letteraria. No, quanti amano il
Poeta, non tollereranno che anche L. venga alle mani dei pedanti, dei
letterati, dei conferenzieri; e che ei diventi materia e pretesto
di vane esercitazioni onde gli animi si alienino dai problemi che
fanno yiensoso ogni uomo che viva e rifletta sulla sua vita con vigilante
coscienza morale. E io inizio questo corso formulando il voto e, per
cyuanto è da me, fermando il programma, che qui sia sempre vivo e presente L. poeta, che è il L. degli uomini, e non
Leopardi dei letterati, degli accademici, dei curiosi, dei pettegoli e dei
perditempo. Giacché L. fu anche un erudito ap. passionatissimo ;
anzi, ricorderete, si rovinò la comples. sione e si precluse la via a
ogni godimento della vita per la furia con cui nella età più giovanile si
gettò sugli studi per puro amore di sapere. Per molti anni aspirò,
finché la perduta salute e la vista indebohta non gli ebbero create
difficoltà insormontabili, ad essere un filologo consumato. Delle
questioni letterarie, un tempo delizia degli accademici, fu anche lui
studiosissimo, ancorché ironicamente guardasse dall’alto, per la
coscienza che ebbe del suo più squisito gusto e della sua più perfetta
dottrina, le accademie italiane antiche e recenti. Ma la sua anima non si
chiuse né nella filologia, né nella letteratura. Se ne servì come di
strumenti a vedere e sentire più addentro nel proprio animo, e di grado
in grado elevarsi alla sua forma di poetare. Egli (e la prova più
manifesta è in quel suo diario dello Zibaldone) visse sempre raccolto e
concentrato in se stesso: osservando la vita, studiando gli uomini,
speculando sulla natura e sull’anima umana, indagando i destini dei
mortali e le forme onde l’uomo rifrange nel suo cuore e nel suo
iiensiero la luce di tutte le cose, da cui si vede attorniato. Il
suo pensiero è una continua, commossa meditazione su se stesso, in
forma che ora rimane un filosofema, ora assurge a fantasma, e vibra e rifulge
agli interni occhi trepidanti. Leopardi, con diversa temperie
spirituale e cultura diversissima, è dell’età stessa del Manzoni : figlio
di quella nuova Italia che guarda la vita religiosamente, e ne
sente il valore e la serietà; profondamente differente da quella
anteriore aH’Alfieri e al Farmi, quando i poeti italiani cominciarono ad
accorgersi che nella stessa poesia c’è il vuoto se non c’è tutto l’uomo;
l’uomo, che è legaio da intìniti vincoli e in tutti gl’ istanti
della sua vita a una divina realtà, governata da leggi che domano
e annientano ogni arbitraria velleità dei singoli; a una realtà, in
cui il singolo uomo viene a trovarsi nascendo da cui si diparte morendo,
ma in cui deve inserire e jnserisce, con 0 senza frutto e vantaggio, ogni
sua azione, ogni suo gesto, ogni sua parola, ogni suo pensiero o
sen¬ timento, durante tutta la vita, dal dì della nascita a quello
jella morte. Anche Leopardi, razionalista e irrisore di superstizioni e
di dommi, è uno spirito profondamente religioso, sempre faccia a faccia
del destino: incapace di abbandonarsi a qualsiasi sorta di dilettantismo,
e di prendere alla leggiera i problemi della vita. Sul suo viso è
sempre un sorriso di austera, solenne mestizia, e si scorge il pacato
accoramento dell’uomo che non riesce a distrarsi in vani divertimenti,
neppure nel mondo subbiettivo del pensiero e dell’ imaginazione : tutto
preso dalla considerazione ine\'itabile del mondo, in cui l’uomo, ed
egli in particolare, si sforza di vincere il dolore. Per questa sua
costituzionale religiosità Leopardi non fu soltanto un poeta, ma fu anche
un filosofo, allo stesso titolo e per la stessa ragione di MANZONI. Bisogna
intendersi. Se domandate ai filosofi, diciam così, di professione, ai
filosofi cioè che tengono a distinguersi dal resto degli uomini, essi vi
risponderanno che Leopardi filosofo non fu, non ebbe un sistema; e le
idee speculative che si formò per la lettura dei filosofi recenti
più affini al suo modo di sentire, non ebbero da lui svolgimento e impronta
personale, perché non furono fecon¬ date da una sua speciale ispirazione.
Accettò, riecheggiò, Ria senza elaborare quel che accettò, senza
svilupparlo, ordinarlo e potenziarlo a nuova forma sua propria di verità.
In una storia della filosofia ei perciò non può trovar posto; quantunque
di lui non si possa non parlare di stesamente in un quadro della cultura
filosofica della prima metà del secolo passato. In questo senso,
d’accordo, Leopardi non fu un filosofo. Ma c' è un altro senso in
cui si deve parlare della filosofia; ed è quello poi per cui la stessa
filosofia dei filosofi è una cosa seria, va rispettata, e può
interessare tutti gli uomini, e non essere una malinconica
fantasti¬ cheria di gente che viva fuori del mondo. Ed è quello per
cui c’ è la filosofia di quelli che inventano nuovi sistemi filosofici; ma c’è
anche la filosofia di quelh che, senza inventarne, li cercano questi
sistemi nei libri dove sono esposti, e leggono questi libri, li studiano,
ne fanno prò, li gustano, han bisogno di farsene nutrimento e forza
dello spirito, in cerca di risposta a domande che sorgono spontanee dal
fondo della loro anima, insistenti, invincibili, e che essi perciò non
saprebbero reprimere e far tacere. Talvolta questi filosofi-lettori
sentono il pungolo dei problemi dei filosofi-autori, e fanno perciò ressa
intorno a costoro, jjer averne soddisfazione ai bisogni da cui sono senza
tregua assillati. Giacché, insomma, la filo¬ sofia, come la poesia, non è
privilegio né monopoho dei pochi quos aequus amavit luppiter] ma è in
fondo allo spirito umano, e quindi nell’animo di tutti. Soltanto,
c’ è chi si distrae e corre e si disperde per le cose e gl’ interessi
esteriori, senza mai per altro dissiparsi a tal punto nelle esteriorità
da non portare in tutto l’accento, per quanto leggiero, della sua
personalità; e c’ è chi si ripiega e raccoglie in sé, e dentro di sé
cerca, trova e coltiva il germe della sua vita e del suo mondo.
In questo senso più largo e fondamentale il Leopardi fu squisitamente
filosofo: e stette sempre anche lui con gli occhi intenti, ansiosi, sopra
il mistero della vita, quale ad ogni uomo che sente e che pensa esso si
presenta in jiìczzo a tutte le idee quotidiane, di tra il confuso agitarsi
passioni svariate che gli tumultuano incessantemente pel cuore. Giacché
ogni uomo che sente, non può vivere così spensierato e abbandonato all’
istinto da non av¬ vertire che la sua vita non scorre tranquilla
com’acqua sopr^ un letto già scavato e terso. Sono sempre ostacoli
da superare, bisogni da soddisfare, desideri! non ancora appagati e
ondeggianti tra la speranza e il timore; e la gioia offuscata sempre dal
dolore, che, vinto, risorge in mezzo allo stesso ]ùacere; e nell’alterna
vicenda di vittorie e sconfitte, cadute e risorgimenti, speranze e
disinganni, giubilo e scoramento, in fondo, alla fine, uno sparire
totale di tutto, un disseccarsi e inaridirsi definitivo della sorgente
stessa, a cui l’uomo accosta ad ora ad ora le sue labbra assetate; il
nulla, la morte. La morte, che ci atterrisce prima di colpirci, toghendoci per
sempre e an¬ nientando intorno a noi tante delle nostre persone
care, con cui ci era comune la vita, in guisa che la morte loro ci
pare la morte di una parte di noi. E che è questa morte ? e che questa
vita che precipita fatalmente nella morte ? Che è questo bisogno di cui
viviamo, di non arrenderci a questo fato, che infrange ad una ad
una tutte le nostre speranze, disperde tutte le nostre gioie, ci
priva di tutti i nostri beni, ci chiude dentro mille osta¬ coli. ci
combatte, c’ insegue, ci sbarra la via, e non ci concede tregua finché
non ci abbatta per sempre ? Nascere è entrare in una lotta, che di giorno
in giorno richiede sempre nuove e maggiori forze, e una volontà
sempre più agguerrita, per vincere una battaglia sempre più aspra.
Svegliarsi ogni mattina è, presto o tardi, pronti 0 lenti, rispondere
all’appello delle cose, della natura, del destino, che ci attende, e ci
spinge a nuove fatiche per soddisfare i nuovi bisogni che riempiranno
tutta la no¬ stra giornata. Per gli uni la vita sarà più facile, o
men difficile: ma per tutti è una scala, che bisogna salire; salire
sempre; da un gradino all’altro: sempre più senza fermarsi mai. Ma,
appena l’uomo che ha un cuore, sente quest affanno e scorge, anche da
lungi, la tragedia e la catastrofe” non può non interrogarsi e riflettere
se a questa lotta ché par destinata a una sconfitta assoluta egli abbia
forz. sufficienti, o se non sia un’ illusione questa jier cui egfi
confida a volta a volta di poter affrontare la lotta stessa per
conquistarsela la sua gioia, e farsi insomma una vita sua, quale ei la
vagheggia, filiera dai mali la cui minaccia mette in moto la sua
attività; e se egli non debba aprire gli occhi, e riconoscersi vittima
del giuoco inesorabile della natura, granello di polvere sperduto nel
turbine, o ruota di un ingranaggio universale, il cui combinato
movimento non s’arresterà né devierà mai, e dentro i] quale ogni sforzo
di volontà non può essere, esso mede¬ simo, al pari delle idee e dei
sentimenti che lo solleci¬ tano, se non un necessario effetto di una
causa necessaria predeterminato ab eterno in eterno. £ il mondo, in
cui si svolge la nostra vita, una realtà massiccia, tutta chiusa
neUa sua natura e nelle sue leggi, immodificabile, e noi dentro di esso,
tutt’uno con tutte le altre cose, anche noi mossi dalla forza
irresistibile del destino ? 0 siamo noi veramente capaci di metterci di
fronte a ciuesto mondo, modificarlo con la nostra opera, con la
nostra volontà, e al di sopra delle ferree leggi del meccanismo
naturale col nostro amore, con l’impeto dell’animo no¬ stro innamorato
dell’ ideale, instaurare una legge che sia la norma del bene e di un
mondo spirituale dotato di un valore assoluto ? E se non fosse possibile
questo mondo superiore, in cui il bene si distingue dal male, e c è
una verità che si oppone all’errore, come si potrebbe pensare lo stesso
mondo inferiore e quella natura spie¬ tata tutta chiusa nel suo meccanismo,
la cui afferma¬ zione implica che si ritenga vera? E se a questo
mondo superiore, alla cui esistenza occorre l’attività libera dello
spirito che sceglie il bene e si apprende alla verità resping^n*^ contrario, se
ne contrappone un altro che è la nepzione della hbertà, come si farà ad
ammettere che sia libera la natura umana, circondata e condizio¬
nata da una natura che è l’opposto della hbertà ? Pensieri, che il
filosofo più esperto mette in formule stringenti, e scruta a fondo; ma
che confusamente, e non perciò meno tormentosamente, affiorano in
ogni umana coscienza, e ora vi gettano lo sgomento, ora v’ infondono la
fede di cui ogni uomo ha bisogno per non fermarsi e cadere. Giacché 1
uomo non dà un passo senza credere di poterlo dare; senza pensare che c’è
una mèta innanzi a lui da raggiungere, e che quella è la via buona
per giungervi. E quando questa convinzione gli manchi, e gli manchi del
tutto, allora non gli resta che rifugiarsi nell’ Èrebo, come la misera
Saffo. O la fede, o la morte. Ci sono mezzi termini, ma per gh uomini che
pensano e sentono poco, e perciò si cUstraggono. Nessuno invece sentì mai
cosi acutamente come il nostro Leo¬ pardi. nessuno vi pensò mai con tanta
insistenza, e ne trasse espressioni di tanta umanità. Poiché il
Leopardi se fu un filosofo in largo senso, fu poi, viceversa, un
poeta in senso stretto. Il che vuol dire, che le sue convinzioni
filosofiche non gli rimasero nella testa; ma gli scesero al cuore, e \'i
si abbarbicarono, e furono la sua persona, lui stesso, la sua anima, 1
immediato sentimento, in cui \ibrò a volta a volta tutto il suo cuore. La
sua concezione della vita, come or ora vedremo, si chiuse in poche
idee, ma queste si fusero e colarono ardenti sulla stessa fiamma
della sua passione viva, e quindi fiammeggiarono in accenti e fantasmi di
poesia. La quale questo ha di proprio, a differenza della scienza ragionata e
del sapere speculativo; che in questi il pensiero si spersonahzza e
si stende in una tela universale, che ogni intelligenza può SÌ ritenere, e
far sua, e viverne anche, ma elevandosi sopra di sé e quasi uscendo da
sé, e mediandosi, cioè svolgendosi, e quasi aprendo e dilatando il nucleo
vivente della sua individualità, in guisa da parere che non senta
più né affetti, né passioni, né gioie, né dolori, assorta nella
contemplazione del suo oggetto. Laddove la poesia, lungi dall’alienare da
sé il soggetto, lo stringe a se stesso, e lo fa vedere immediatamente
così come esso è, dentro di se medesimo, chiuso nel suo sentire, fremente
nel brivido della sua subbiettiva interiorità, nel suo essere e nel
suo atteggiamento non ancora mediato, sviluppato, riflesso, ragionato e
disindividuato. Lo scienziato cerca e trova la verità che è di tutti,
astrattamente obbiettiva, in guisa che non par più né anche spettacolo di
occhi umani od oggetto conformato alla mente che lo pensa; e il
poeta in^’ece non cerca e non trova se non se stesso: l'amore o
qual’altra passione gli detta dentro le parole in cui egli si esjirime. In
questa immediatezza, spontaneità e quasi naturalità dello spirito poetico è il
segreto della miracolosa potenza della poesia, raffigurata dagli antichi
nella virtù incantatrice della lira di Orfeo, che traeva a sé e trascinava
non pure gli uomini che riflettono, ma le fiere che solo sentono. Perciò
la poesia, quantunque richieda anch’essa cultura e finezza spirituale,
risultato di studio e di educazione, s’appiglia al cuore dei semplici e
delle moltitudini, invade gli animi, conquide e trae seco non per
virtù di persuasivi e irresistibili raziocinii, ma, appunto, d’un tratto,
immediatamente, quasi per divino miracolo. Perciò Tefficacia e la virtù
diffusiva dell’arte è senza paragone superiore a quella della
filosofia. Perciò quella filosofia, che fu nel Leopardi
sentimento e diventò sublime poesia, ha una potenza infinitamente
maggiore di qualunque più sistematica filosofia; e se si chiudesse nel
gretto circolo di una concezione pessimistica della vita, non sarebbe, a dir
vero, prudente accorgimento di educatori del popolo italiano erigere qui
una cattedra a commento ed esaltazione di essa. I filosofi, per
raggiungere la loro verità, devono salire l’erta faticosa del monte; e giunti
alla cima, vi restano per solito in una solitudine magnanima, anche a
malgrado della moltitudine che dal basso sogguarda e sogghigna. I
poeti si traggono dietro il popolo, toccandone il cuore anche
lievemente, con quella loro arte che « tutto fa, nulla si scopre ». Leopardi
è tra essi; ma materia del suo canto è la sua filosofia. E qual è
dunque il contenuto di questa sua filosofia ? Quello che abbiamo già
detto dei problemi filosofici, che spontaneamente sorgono dal fondo del
pensiero umano, ci apre la via a chiarire le idee che furono la vita
intellettuale e sentimentale del nostro Poeta. 11 quale su quei problemi
martellò il suo pensiero; e di quei problemi vagheggiò soluzioni, che
scossero profondamente il suo animo. E sono i problemi fondamentah o
massimi della filosofia: che è pensiero umano derivante dal bisogno
di assicurare all’uomo la fede che gli è indispensabile per vivere: la
fede nella propria libertà; ossia nella possibilità che egli ha, e deve avere,
di esercitare un suo giudizio, di conoscere una verità, di agire, e farsi
un suo mondo, conforme cioè alle sue aspirazioni e a’ suoi ideali e
non dibattersi vanamente in una rete di illusioni e di sforzi infecondi.
Bisogno, rispetto al quale ogni filo¬ sofia materiahstica, evidentemente,
è una filosofia fallita; la quale, logicamente, se l’uomo non si
risolvesse da ultimo a non lasciarsi più guidare dalla logica e ad
abbandonarsi all’ istinto, dovrebbe condurre l’uomo, come ho detto, al
suicidio. Ora Giacomo Leopardi, ogni volta che si trovò a fare di
proposito una professione di fede, fu esplicito nel manifestare la sua
adesione alla filosofia sensualistica e materialistica; e il Frammento
apocrifo di Stratone di Lampsaco, inserito nelle Operette morali, è
una dichiarazione del suo proprio pensiero, quale, per altro, si ripercuote
in una buona metà de’ suoi scritti in prosa e in verso. Poiché da per
tutto egh si vede innanzi quella natura simbolicamente rappresentata nel
Dialogo della Natura e di un Islandese', la quale non sa e non si cura
dei desiderii né delle sofferenze umane; natura grande, enorme, infinita,
la quale racchiude in sé tutto, e non conosce perciò l’uomo che pretende
di contrapporsele, di deviarla dal suo corso, piegarla alle proprie
tendenze, conformarla a quei fantasmi di una vita bella ideale, che egli
si finge e pretende di far valere in concorrenza della dura, quadrata
realtà che lo fronteggia. Questa perciò, conosciuta che sia, spezza ogni
umana velleità, e aggioga l’uomo al dominio universale delle leggi di
natura: dove non c’è bene né male, ma tutto è necessario, tutto accade
perché, data la causa che lo determina, non può non accadere; e la stessa
necessità ha ogni umano pensiero o volere, che non deriva da un principio
autonomo, che si faccia centro di una vita superiore e indipendente,
avente in sé la propria misura, ma è effetto del generale meccanismo, che
si abbatte sulla così detta anima umana attraverso le sensazioni e gh
appetiti che queste producono. Filosofia materialistica, dunque. Ma è
questa, in conclusione, la filosofia del Leopardi ? Io \’i invito a
riflettere che c’ è due modi di giungere a conclusioni ma¬ terialistiche
: uno proprio degh spiriti poco sensibih, che, raggiunte quelle
conclusioni, vi si rassegnano: le trovano inevitabili, e si fanno un
dovere, il cui adempimento non costa a loro grande fatica, di accettarle
senza reazione di sorta; e l’altro invece proprio di quegli altri, che
se non trovano la via di affrancarsene, e scoprirne l’errore e la
manchevolezza, ne soffrono, e vi reagiscono contro, e vi si ribellano con
tutta la forza del loro sentimento, che ò come dire della loro stessa
personalità. I secondi non riescono ad affisarsi tanto nella visione di
quella natura che è opposta alle esigenze morali proprie dell’uomo, da
restarvi come assorbiti, dimenticandosi af¬ fatto di queste esigenze, e
cioè della lor propria natura. Il loro tormento, la loro angoscia nasce
appunto da questo stridente contrasto, di cui essi infine vengono a
fare l’esperienza, e a vivere. La realtà finale, al cui cospetto
vengono a trovarsi, non è una sola, ma duplice: da una parte, la natura
disumana, in cui tutte le luci onde s’il¬ lumina la via dello spirito si
spengono; e dall’altra, questa realtà fiammeggiante e splendida, che arde
dentro di loro, e alla cui luce, infine, essi comunque guardano e
vedono la prima. Giacché anche questa è oggetto di una affermazione, in
cui lo spirito umano manifesta la fede che ha nelle proprie forze e nella
propria capacità di distinguere il vero dal falso, e di appigliarsi al
primo in quanto esso è opposto al secondo. La realtà che è lì di
fronte allo spirito, è sì quella realtà naturale, materiale, meccanica,
chiusa e impervia ad ogni idealità, inconciliabile con qualsiasi concetto di
libertà; ma il contrapporsi di essa allo spirito importa pure l’opporsi
dello spirito ad essa: dello spirito, che è una realtà dotata di
attributi contrari a quelli con cui vien pensata l’altra. E per ammettere
questa, bisogna ammettere prima quella ; senza la quale mancherebbe lo
stesso pensiero, a cui si chiede tale ammissione. E chi dice pensiero,
dice libertà. Dunque ? Siamo liberi ? Possiamo cioè col nostro
pensiero, con la nostra volontà, crearci il mondo che ci sorride
alle menti innamorate; il mondo della verità, delle cose belle e buone, a
cui il nostro cuore tende con irresistibile slancio ? E come spiegar
l’ali, onde noi vorremmo in- nalzarci nel libero cielo dell’ ideale, se
esse urtano sul muro di bronzo di questa materiale natura, che ci
attornia e stringe da tutte le parti, dalla nascita alla morte ?
Ecco l’esperienza del Leopardi, ecco la sua lìlosofìa, che è molto
]ùù complessa del semjjlicismo materialistico; ed essa è il reale
contenuto della poesia leopardiana: quella filosofia fatta sentimento e
persona, che ho detto esser materia al canto del Poeta recanatese. 11
quale non si rassegna alla pura affermazione materialistica, perché
la ricca e sensibilissima vita morale che gli riempie il cuore, è la
negazione del materialismo; e poi perché egli è un poeta, e come ogni
poeta crede nel suo mondo, lo prende sul serio; e questo suo mondo è la
])rova più luminosa della sua capacità creatrice e della sua
libertà. Si consideri che questo è uno dei caratteri principali
dell’arte : che laddove l’uomo pratico, lo scienziato, l’uomo religioso,
lo stesso filosofo può sentirsi legato a una realtà che prcesiste alla
sua azione, alla sua ricerca scientifica, alla sua preghiera o alla sua
speculazione, che è in sé quello che è, con le sue leggi, a cui l’uomo
deve arren¬ dersi e subordinarsi, l’artista crea il suo mondo e,
prescindendo nella sua fantasia dalla realtà preesistente, celebra la sua
assoluta libertà, arbitro della nuova realtà che egli si finge, e in cui
vive, e si aliena dal mondo naturale dell’uomo comune e della sua stessa vita
ordinaria: sì che il suo sogno diventa a lui cosa salda, e si slarga
a orizzonti infiniti, e gli fa sentire il gusto deH’cterno e del
divino. La poesia del Leopardi ribocca e freme di tre¬ pidante tenerezza
per le vaghe immagini figlie dell’arte sua: per quelle dolci parvenze che
un po’ gli sorridono e poi, a un tratto, lo abbandonano rapite via dalla
corrente di quella disumana realtà, che ignora il dolore che essa cagiona
ai cuori teneri e gentili. E insieme con le immagini belle, gli arridono
tutte quelle che una volta egli dice le « beate larve », familiari agli
uomini non ancora giunti alla conoscenza del tristo vero, ossia non
ancora spinti dalla malsana riflessione alla disperazione (ji quella mezza
filosofia, che è il materialismo: le beate lar\e, che allietano e
confortano la vita agli uomini, nelle antiche età, e nei primi anni della
fanciullezza e della gioventù quando non ancora si sono appressate
le labbra all’amaro calice della vita; e nelle prime ore del
mattino, (juando incomincia il giorno e Tuomo non ha riassaporato per
anco la realtà, e se ne foggia con 1’ immaginazione una che lo anima e alletta
alla nuova fatica. Le beate larve delle illusioni naturali e necessarie :
di tutte, cioè, le idee che formano il pregio della vita, e che
quella filosofia materialistica non potrà giustificare come dotate
di un legittimo fondamento, e pur non potrà sradicare dallo spirito
umano. Perche illusione la virtù ? Perché illusione ogni idea
onde ebbe pregio il mondo ? Perché la vita che noi cono¬ sciamo, risponde
il Leopardi, ne è la negazione. Ricordate il dialoghetto di un venditore
d’almanacchi e di un passeggere ? L’almanacco promette per l’anno nuovo
tante cose belle; ma il passeggere è scettico; «quella vita eh’ è
una cosa bella non è la vita che si conosce, ma (jueUa che non si conosce
; non la vita passata, ma la vita futura ». La quale però un giorno sarà
passata, e allora si conoscerà, e apparirà quale sarà aneli'essa, una volta
sperimentata; brutta, come tutta la vita passata. 11 futuro è il mondo
che vi finge lo spirito; il mondo, dice Leopardi, delle illusioni. Lì è la
virtù che vince il male e trionfa; lì è il sacrifizio dell'uomo per
l’uomo; lì è l’amore; lì è la fede e l’amicizia; lì è la gioia, ecc. Ma
quello non è il mondo reale. Infatti il futuro bisogna che avvenga,
e diventi passato. La realtà realizzata, quale noi possiamo averla
innanzi a noi, ed effettivamente conoscerla, quella ci disillude, e ci
dimostra che la virtù è un nome vano. e che tutte le più vaghe speranze e
gl’ ideali più cari finiscono nel nulla. Tant’ è che Tuomo
conchiuda o per condannare come semplici ombre fallaci tutte le
illusioni, e dire che la vita non si può governare se non in rapporto al
reale all’esistente, al mondo qual è (che è poi il passato); o per
risolversi animosamente a dir no a questo mondo reale (che è il passato
senza futuro) e a governarsi con l’occhio all’avvenire, dove lo trae la
sua natura di es¬ sere pensante, e perciò creatore di ideali e
vagheggiatore di una vita superiore a quella puramente naturale. E
Leo¬ pardi dice questo no con tutta la forza del suo animo, con
tutto r impeto della sua possente poesia. Egli è tutto proteso verso il
futuro, verso l’ideale, e torce con coscienza prometeica lo sguardo dalla legge
fatale che incatena l’uomo come essere naturale alla ferrata necessità di
morte. Egli, di cedere inesperto, disprezza il brutto poter che ascoso a
comun danno impera e V infinita vanità del tutto. Per lui
Nobil natura è quella Ch’a sollevar s’ardisce Gli occhi
mortali incontra Al comun fato. E quanto a sé non cederà
certo ; e alla morte può dire : Erta la fronte, armato,
E renitente al fato. I.a man che flagellando si colora
Nel mio sangue innocente Non ricolmar di lode. Non
benedir.... Solo aspettar sereno Quel dì eh’ io pieghi
addormentato il volto Nel tuo virgineo seno. Egli è conscio
dell’ invitta potenza dell’anima umana pur nell’estrema miseria. Vivi,
dice la Natura all’Anima jn uno de’ suoi dialoghi; vivi, e sii grande e
infelice. Infelice perché grande; perché sentire la infehcità è
solo jelle anime grandi, che con la loro gagharda natura si
jnettono al di sopra del mondo, che le fa soffrire, e regnano sovrane in quella
superiore realtà che è propria dello spirito. Leopardi sa che la
grandezza del suo dolore si commisura alla grandezza del suo pensiero che
lo sente e analizza e ne fa materia al suo altissimo canto; e che
un’anima volgare e torpida non saprebbe provare tutto il dolore del
Poeta, che il volgo infatti non intende e irride. Leopardi sa che la
coscienza dell’umana miseria è già segno di grandezza. Sa che ancor che
tristo, ha suoi di¬ letti il vero: che l'acerbo vero, a investigarlo, dà
un amaro gusto che piace. E poi quando l’anima, disillusa e stanca
della vita che non mantiene mai le sue promesse, si ri¬ duca infatti
all’estremo della infelicità, che non è la di¬ sperazione, ma la noia
>, la morte ncUa vita, non dolore né piacere, ma il sentimento della
nullità, questo terri¬ bile privilegio degli uomini, a cui la natura non
ha provveduto perché non ha neppur sospettato che l’uomo vi potesse
cadere; quella noia che, a simiglianza dell’aria «la quale riempie tutti
gl’intervalli degh altri oggetti, e corre subito a stare là donde questi
si partono, se altri oggetti non gli rimpiazzino », « corre sempre e
immedia¬ tamente a riempire tutti i vuoti che lasciano negli animi
de’ viventi il piacere e il dispiacere » ’ ; ebbene, anche allora l’anima
non cade, non è vinta. Giacché, secondo Leopardi, « la noia è in qualche
modo il più sublime dei sentimenti umani. Il non potere essere
soddisfatto da ’ « La disperazione è molto, ma molto più piacevole della
noia. La natura ha provveduto, ha medicato tutti i nostri mali
possibili, anche i più crudeli ed estremi, anche la morte, a tutti ha
misto del bene, a tutti.... fuorché alla noia» (Zibald.).
Zibald., — Giuntile, Manzoni e Leopardi. alcuna cosa
terrena, né, per dir così, dalla terra intera; considerare l’ampiezza
inestimabile dello spazio, il nu¬ mero e la mole maravigliosa dei mondi,
e trovare che tutto è poco e piccino alla capacità dell’animo
proprio; immaginarsi il numero dei mondi infinito, e 1 universo
infinito, e sentire che l’animo e il desiderio nostro sarebbe ancora più
grande che sì fatto universo; e sempre accu- sg^re le cose
d’insufficienza e di nullità, e patire manca¬ mento e vóto, e pero noia,
pare a me il maggior segno di grandezza e di nobiltà, che si vegga della
natura umana. Perciò la noia è poco nota agh uomini di nes¬ sun
momento, e pochissimo o nulla agli altri animali » Su tutte le delusioni, su
tutti i dolori, su tutte le miserie, al di sopra della mole sterminata di
quest’uni¬ verso, in cui s’infrangono tutte le speranze e si spen¬
gono tutti gl’ideah, l’infinità dello spirito. Quindi la hbertà, quindi
la possibilità di crearsi una vita superiore degna delle più nobili
aspirazioni connaturate all’animo umano. Anche pel Leopardi, poca scienza
pregiudica e mortifica, ma molta scienza ravviva e ringaghardisce
la fede di cui l’uomo ha bisogno per vivere. E questa natura, che
la mezza filosofia del materialista ci rappresenta in voley mutyignu, è
pur quella natura che mette nel¬ l’animo nostro le illusioni; e se non
sopravvenga la riflessione e l’opera dcU’ irrequieto ingegno dell’uomo
non più contento delle condizioni naturali della vita che egli
dapprima vive istintivamente, conforta l’uomo con l’amore, con la pietà,
con tutti gli affetti gentili che riempiono il cuore di dolci
consolazioni e di magnanimi ardimenti. Pensieri, N. 68. Questa natura
che governa Tuomo, madre benigna e pia nell’età dei Patriarchi, nei tempi
oscuri e favolosi del genere umano, e risorge amorosa nella prima età
di ciascun uomo a infondergli con la virtù del caro imma¬ ginare la
speranza nel futuro a cui egli va incontro; questa natura, che nell’amore
torna sempre a rinverdire le speranze, e che ci fa conoscere una « verità
piuttosto che rassomighanza di beatitudine»; essa torna da capo,
quando l’uomo ha tutto conosciuto il tristo vero e vuo¬ tato il calice
amaro, torna a confortare l’uomo, amica e consolatrice. La natura del
materialista è via; ma non è punto di partenza, né punto d’arrivo. 11
savio torna fanciullo, e alla fine, come al principio, l’uomo è
alla presenza di un mondo il quale non è quello del meccanismo, che tutto
travolge e distrugge quanto a lui è più caro, ma quello del pensiero,
dello spirito umano, dell’amore, della virtù. Onde ai suggerimenti egoistici
della filosofia (nel Dialogo di Plotino e di Porfirio) che indurrebbe il
filosofo al suicidio, Plotino può rispondere : <iPorgiamo orecchio
piuttosto alla natura che alla ragione»'. alla natura primitiva « madre
nostra e dell’universo », la quale ci ha infuso un certo senso
dell’animo, che è amore degli altri e che ferma la mano al suicida
ricordandogli la famigha, gli amici e quanti si dorrebbero della sua
morte. Perciò a Porfirio, il filosofo che vorrebbe togliersi la vita, il
filosofo più savio, il maestro, Plotino dirà: Viviamo, e
confortiamoci a vicenda; non ricusiamo di portare quella parte che il destino
ci ha stabilita dei mali della nostra specie ! Sì bene attendiamo a
tenerci compagnia l’un l’altro; e andiamoci incoraggiando e dando mano e
soccorso scambievolmente; per compiere nel miglior modo questa
fatica della vita.E quando la morte verrà, allora non ci dorremo :
e anche in quell’ultimo tempo gli amici e i compagni ci conforteranno:
e ci rallegrerà il pensiero che, poi che saremo spenti, cosi molte volte
ci ricorderanno, e ci ameranno ancora. Perciò Sanctis paragonando
Schopenhauer a Leopardi, notava questo grande divario tra n
filosofo tedesco e il poeta italiano: che questi quanto più mette in
luce il deserto desolante e disamabile della vita, tanto più ce la fa
amare; quanto più dichiara illusione la virtù, tanto più ce ne accende
vivo nel petto il desiderio e il bisogno. Perciò la lettura del Leopardi
non sarà mai pericolosa, anzi salutare e corroborante a chi saprà
leg- gergh nel fondo dell’anima. E di lui può dirsi che preso per
metà è il più nero dei pessimisti; preso tutto intero, è uno dei più sani
e vigorosi ottimisti che ci possano apprendere il segreto della vita
operosa e feconda. La morte, anche la morte, il simbolo della
fatalità avversa che opprime ogni sforzo umano, e che pare mi¬
nacci sempre da lungi e ammonisca della inanità d’ogni speranza e d’ogni
fatica, e della nullità della vita a cui ci sentiamo tutti legati, la
stessa morte al Poeta, nella maturità piena della sua poesia, quando il
suo animo ha più nettamente ravvisato e sentito nel profondo la sua
verità, e quasi toccato il fondo di se stesso, diventa germana di Amore,
che è pel Leopardi, come s’ è veduto, ciò che dà verità più che
rassomiglianza di beatitudine. Fratelli, a un tempo stesso. Amore e
Morte Ingenerò la sorte. Cose quaggiù si belle
Altre il mondo non ha, non han le stelle. Morte diviene una
bellissima fanciulla, dolce a vedere; e gode accompagnar sovente Amore:
E sorvolano insiem la via mortale. Primi conforti d’ogni
saggio core. Non vedo che abbia attirata l'attenzione della
critica, come merita, uno studio recente del prof. Cirillo Berardi,
Ottimismo leopardiano, Treviso, bongo e Zoppelli, Il Poeta sente che Quando
noveUamente Nasce nel cor profondo Un amoroso affetto.
Languido e stanco insiem con esso in petto Un desiderio di morir si
sente: Come, non so: ma tale D’amor vero e possente è
il primo effetto. Il Poeta vuol rendersi ragione di questa
coincidenza, e non vi riesce. Ma ben sente che quando si ama, non
ha più valore la vita naturale dell’ inditdduo chiuso nei suoi
limiti, di là dai quah spazia quell’ infinita natura che fiacca ogni
umana possa. Che anzi l’individuo per l’amore scopre che la sua vera vita
è di là da questi hmiti; e che bisogna ch’egli perciò muoia a se
medesimo, e spezzi r involucro della sua individuahtà naturale, centro
di ogni egoismo, per attingere la vera vita. Perciò la morte opti
gran dolore, ogni gran male annulla. Perciò la morte è liberatrice,
affrancando lo spirito umano dai vincoli onde ogni uomo è da natura
incatenato a se medesimo, chiuso in sé, in mezzo agli altri esseri e
forze naturali, incapace di libertà e di virtù. Amare è redimersi,
en¬ trare nel mondo morale, che è il mondo della libertà.
Questo il concetto che il Poeta sentì e visse: questa la materia
del suo canto. Formiamo oggi l’augurio, che attraverso il corso di queste
letture, che inauguriamo, tale concetto apparisca in luce sempre più
chiara. Pubblicato la prima volta negli Annali delle Università toscane
(Pisa) e come proemio alla edizione con note delle Operette morali di G.
L., da me curata, Bologna, Zanichelli, Se si volesse considerare le Operette morali
come una raccolta delle varie parti, in cui il libro è diviso,
sarebbe tutt’altro che agevole stabilirne la cronologia. Certo, non
sarebbe consentito di starsene alle indicazioni fornite con perentoria
precisione dallo stesso autore innanzi alla terza edizione iniziata a
Napoli. Queste Operette », egli diceva, « composte nel 1824, pubblicate
la prima volta a Milano, ristampate in Firenze coll’aggiunta del
Dialogo di un Venditore di almanacchi e di un Passeggere, e di quello di
Tristano e di un Amico; tornano ora alla luce ricorrette
notabilmente, ed accresciute del Frammento apocrifo di Stratone da
Lampsaco, del Copernico e del Dialogo di Plotino e di Porfirio. Intanto, non tutte le Operette furono
pub¬ blicate la prima volta a Milano; giacché tre di esse, come «
primo saggio », avevano visto la luce a Firenze nel gennaio 1826, nell’
Antologia e quell’anno stesso erano state riprodotte a Milano nel Nuovo
Ricoglitore. Ed è pur vero che tutte le Operette, ad eccezione di quelle
che nella notizia testé riferita sono assegnate dall’autore furori
composte; perché l’autografo originale, che è tra le carte leopardiane
della Biblioteca Nazionale di Napoli, ce ne Scritti letterari, ed.
Mestica, li, fa sicura testimonianza con
le date apposte alle operette singole, e tutte correnti dal 19 gennaio al
13 dicembre di quell’anno Ma si dovrebbe pure distinguere il tempo
in cui ciascuno scritto fu steso, da quello in cui prima fu concepito, o
ne cadde il motivo fondamentale e inspi¬ ratore nell’animo del Leopardi.
Giacché con qual fonda¬ mento si toglierebbe l’una o l’altra delle
Operette a docu¬ mento di quel periodo spirituale che si suole infatti
atribuire agli anni tra il canto Alla sua donna con i Frammenti dal greco di
Simonide (apparte¬ nenti probabilmente a quello stesso tempo), e
l’epistola Al Conte Pepoli o II Risorgimento, se quei pensieri che sono
caratteristici delle Operette risalgono ad epoca più remota ? Fu già
osservato j che negli Abbozzi e appunti per opere da comporre, che
sono fra le carte napoletane, «scritti in piccoli foglietti staccati
senza indicazione di tempo » 3 , è segnato un Ecco le singole date, già
in parte pubblicate dal Chiarini, Vita di G. Leopardi, Firenze, Barbèra,
e da me riscontrate tutte sul manoscritto autografo (che si conserva
tra le Carte della Biblioteca Nazionale di Napoli): Storia del genere
umano); Dialogo d' Ercole e di Atlante; Dialogo della Moda e della Morte;
Proposta di premi; Dialogo di un Lettore di umanità e di Sallustio;
Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo ; Dialogo di Malamhruno e di
Farfarello; Dialogo della Natura e di un’.dnima; Dialogo della Terra e della
Luna; La scommessa di Prometeo; Dialogo di un Fisico e di un Metafisico;
Dialogo della Natura e di un Islandese; Dialogo di Tasso e del suo
Genio familiare (i-io giugno); Dialogo di Timandro e di Eleandro; Il Parini,
ovvero della gloria; Dialogo di Ruysck e
delle sue Mummie; Detti me¬ morabili di Ottonieri. Dialogo di Colombo e
di Gutierrez); Elogio degli
Uccelli; Cantico del Gallo silvestre; Note, Da N. Serban, L. et la France, Paris,
Champion, I Avvertenza premessa agli Scritti vari ined. di G. L. dalle
carte napoletane, Firenze, Le Monnier, Dialogo della natura e dell’uomo,
sul proposito di quella parlata della natura, all’uomo, che Volney le
mette in bocca nelle Ruines sulla fine, o vero nel Catéchisme » dialogo,
che si trova nelle Operette col titolo di Dialogo della Natura e di
un'Anima) il quale, dunque, al tempo di quell’appunto non era scritto.
Pure nello stesso foglietto, segue un « TrattateUo degli errori popolari
degli antichi Greci e Romani » (che non può essere la stessa cosa
del Saggio), e quindi subito dopo: « Comento e ri¬ flessioni sopra
diversi luoghi di diversi autori, sull’andare di quelle ch’io fo in un
capitolo del F. Ottonieri»; ossia nel penultimo capitolo dei Detti
memorabili, che è delle ultime operette del '24. Ora, se questi appunti
sono per¬ tanto da ascrivere ad epoca posteriore a tale data, in
qual modo spiegarsi che del suo Dialogo della Natura e di un’Anima
l’autore parlasse come di opera da com¬ porre ? O egli non aveva neppur
composti i Detti me¬ morabili, e si riferiva ai materiali che vi avrebbe
messi a profitto, e che già, come vedremo, possedeva ?
Comunque, in altra serie di appunti, relativi, come par probabile,
a dialoghi tuttavia da scrivere, e tutti segnati nel medesimo foglietto,
s’incontrano, tra gli altri, i seguenti argomenti: Salto di Leucade)
Egesia pisitanato) Natura ed Anima) Tasso e Genio) Galan¬ tuomo e
mondo) Il sole e l’ora prima, o Copernico. Ed ecco, da capo, il Dialogo
della Natura e di un’Anima, ma ac¬ canto a un altro dialogo. Galantuomo e
mondo, che l’autore abbozzò nel 1822, per tornarvi sopra nel '24, senza
con¬ durlo tuttavia a termine e la sua prima idea pertanto deve
risalire. E secondo lo stesso docu¬ mento, contemporanei sono i disegni
primitivi di altre [Vedi abbozzo negli Scritti vari, Il foglietto
relativo, riscontrato per me dall’amico prof. V. Spampanato, è nelle
Carte leo¬ pardiane della Bibl. Nazionale di Napoli, nel pacchetto X,
fase. 12. io8 quattro operette, due del '24 e due del '27.
Giacché, oltre il Dialogo del Tasso e del suo Genio e il Copernico,
qui son pure facilmente ravvisabili in Egesia pisitanato la prima idea
del Dialogo di Plotino e di Porfirio > ; e nel Salto di Leucade quella
del Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez e in Misénore e
Filénore quella del Dialogo di Timandro e Eleandro 3. E il
documento certamente dimostra che del Plotino e del Copernico,
scritti entrambi, come s’ è veduto, nel '27, non solo il concetto, ma
anche la forma in cui il concetto si ])re- sentò alla mente del Leopardi,
non è posteriore alle Operette. E c’ è altro. Stando alla
cronologia dataci dai docu¬ menti, r Ottonieri fu composto nell’ultimo
mese d’estate del 1824; ma un’anahsi molto accurata dei singoli
Detti, riscontrati coi Pensieri di varia filosofia e di bella
lette¬ ratura, ha dimostrato, in modo incontestabile, che in questo
scritto « liberamente il Leopardi raccolse dal suo Zibaldone gh appunti
più singolari e umoristici; certo intendendo a una vaga e libera
somiglianza e rispecchiamento delle proprie opinioni, ma più col fine di
pubblicare qualche parte del materiale accumulato giorno per giorno».
Sicché s’è creduto poter conchiudere che nell’ Ottonieri al
Leopardi « venne fatto un centone, non un’operetta come le altre organicamente
intessuta » 4. Scegliamo infatti un paio d’esempi, tra i tanti che si
potrebbero riferire. Nel cap. Ili dell’ Ottonieri si legge :
> Egesia infatti è ricordato nel Plotino. Cfr. quel che dice di questo Salto
il Colombo e Pensieri. Questo dialogo
infatti originariamente recava il titolo di Dia¬ logo di Filénore e di
Misénore. Luiso, Sui Pensieri di L., nella Rassegna Nazionale.
Dice che la negligenza e l’inconsideratezza sono causa di
commettere infinite cose crudeli o malvage; e spessissimo hanno apparenza
di malvagità o crudeltà; come, a cagione di esempio, in uno che
trattenendosi fuori di casa in qualche suo passatempo, lascia i servi in
luogo scoperto infracidare alla pioggia; non per animo duro e spietato,
ma non pensandovi, o non misurando colla mente il loro disagio. E stimava
che negli uomini l’incon¬ sideratezza sia molto più comune della
malvagità, della inu¬ manità e simili; e da quella abbia origine un
numero assai mag¬ giore di cattive opere; e che una grandissima parte
delle azioni e dei portamenti degli uomini che si attribuiscono a
qualche pessima qualità morale, non sieno veramente altro che
incon¬ siderati. Idee che fin dall’ ii settembre 1820 il
Leopardi aveva sbozzate nello Zibaldone dei suoi Pensieri,
scrivendo: La negligenza e l’irriflessione spessissimo ha
l’apparenza e produce gh effetti della malvagità e brutaUtà. E merita di
esser considerata come una delle principali cagioni della tristizia
degli uomini e delle azioni. Passeggiando con un amico assai filosofo
c sensibile, vedemmo un giovinastro che con un gros.so bastone, passando,
sbadatamente e come per giuoco, menò un buon colpo a un povero cane che
se ne stava pe’ fatti suoi senza infastidir nessuno. E parve segno
all’amico di pessimo carattere in quel giovane. A me parve segno di
brutale irriflessione. Questa molte volte c’induce a far cose
dannosissime e penosissime altrui, senza che ce ne accorgiamo (parlo
anche della vita più ordinaria e giornaliera, come di un padrone che per
trascuraggine lasci pe¬ nare il suo servitore alla pioggia ecc.), e
avvedutici, ce ne duole; molte altre volte, come nel caso detto di sopra,
sappiamo bene quello che facciamo, ma non ci curiamo di considerarlo e lo
fac¬ ciamo cosi alla buona; considerandolo bene, noi non lo faremmo.
Così la trascuranza prende tutto l’aspetto e produce lo stessis¬ simo
effetto della malvagità e crudeltà, non ostante che ogni volta che tu
rifletti, fossi molto alieno dalla volontà di produrre quel tale effetto,
e che la malvagità e crudeltà non abbia che fare col tuo
carattere Pensieri di varia filosofia e di bella letteratura, no
Voltando appena pagina, nell’ Ottonieri si torna a leggere;
Ho udito anche riferire come sua, questa sentenza. Noi siamo
inclinati e soliti a presupporre, in quelli coi quali ci avviene di
conversare, molta acutezza e maestria per iscorgere i nostri pregi veri,
o che noi c’ immaginiamo, e per conoscere la bellezza o qualunque altra
virtù d’ogni nostro detto o fatto; come ancora molta profondità, ed un
abito grande di meditare, e molta me¬ moria, per considerare esse virtù
ed essi pregi, e tenerli poi sem¬ pre a mente: eziandio che in rispetto
ad ogni altra cosa, o non iscopriamo in coloro queste tali parti, o non
confessiamo tra noi di scoprirvele. E anche questo pensiero,
quantunque in forma com¬ pendiata a mo’ di appunto, era già nello
Zibaldone; Noi supponiamo sempre negli altri una grande e
straordi¬ naria penetrazione per rilevare i nostri pregi, veri o
immaginari che sieno, e profondità di riflessione per considerarli,
quando anche ricusiamo di riconoscere in loro queste qualità rispetto
a qualunque altra cosa. E il numero di simili riscontri è
tale che pochi sono i luoghi dell’ Ottonieri di cui non si trovi la prima
prova nei Pensieri degh anni anteriori. Non sarà dunque da dire che
nel ’24 l’autore abbia dato soltanto la forma defini¬ tiva a questa
operetta, facendone, come ad altri è sem¬ brato, un centone di sue
osservazioni di tre e quattro anni prima ? Né la domanda vale
unicamente per l’ Ottonieri. Anche del Parini è stato notato che la
sostanza è già nei Pensieri [ b Caratteristico questo luogo del
cap. IX, dove l’autore fa dire al Parini; Come città piccole
mancano per lo più di mezzi e di sussidi onde altri venga all’eccellenza
nelle lettere e nelle dottrine; e * V. tra gli altri B. Zumbini,
Studi sul L., Firenze, Barbèra, 1902- 04, II, 42; e Losacco, in Giorn.
stor. letter. Hai., come tutto il raro e il pregevole concorre e si aduna nelle
città grandi; perciò le piccole.... sogliono tenere tanto basso
conto, non solo della dottrina e della sapienza, ma della stes.sa
fama che alcuno si ha procacciata con questi mezzi, che l’una e
l'altre in quei luoghi non sono pur materia d’invidia. E se per
caso qualche persona riguardevole o anche straordinaria d’ingegno e
di studi, si trova abitare in luogo piccolo. Tesservi al tutto unica, non
tanto non le accresce pregio, ma le nuoce in modo, che spesse volte,
quando anche famosa al di fuori, ella è, nella consuetudine di quegli
uomini, la più negletta e oscura persona del luogo.... E tanto egli è
lungi da potere essere onorato in simili luoghi, che bene spesso egli vi
è riputato maggiore che non è in fatti, né perciò tenuto in alcuna stima.
Al tempo che, giovanetto, io mi riduceva talvolta nel mio piccolo
Bosisio; conosciutosi per la terra eh’ io soleva attendere agli studi, e
mi esercitava alcun poco nello scrivere; i terrazzani mi riputavano
poeta, filosofo, fisico, matematico, medico, legista, teologo, e perito
di tutte le lingue del mondo; e m’interrogavano, senza fare una
menoma differenza, sopra qualunque punto di qual si sia disciplina o
fa¬ vella intervenisse per alcun accidente nel ragionare. E non per
questa loro opinione mi stimavano da molto; anzi mi credevano minore
assai di tutti gli uomini dotti degli altri luoghi. Ma se io li lasciava
venire in dubbio che la mia dottrina fosse pure un poco meno smisurata
che essi non pensavano, io scadeva ancora moltissimo nel loro concetto, e
all’ultimo si persuadevano che essa mia dottrina non si stendesse niente
più che la loro. Mirabile pagina, piena di verità. Ma essa trae
origine da riflessioni jiersonali e autobiografiche già dal
Leopardi segnate sulla carta fin dall’ottobre 1820;
Spessissimo quelli che sono incapaci di giudicare di un pregio, se
ne formeranno un concetto molto più grande che non dovrebbero, lo crederanno
maggiore assolutamente, e contuttociò la stima che ne faranno sarà
infinitamente minor del giusto, sicché relativamente considereranno quel
tal pregio come molto minore. Nella mia patria, dove sapevano eh’ io ero
dedito agli studi, credevano eh’ io possedessi tutte le lingue e
m’interrogavano indifferentemente sopra qualunque di esse. Mi stimavano
poeta, rettorico, fisico, matematico, politico, medico, teologo ecc.,
insomma enciclopedicissimo. E non perciò mi credevano una gran cosa, e
per T ignoranza, non sapendo che cosa sia un letterato. non mi credevano
paragonabile ai letterati forestieri, malgrado la detta opinione che
avevano di me. Anzi uno di coloro, volendo lodarmi, un giorno mi disse: A
voi non disconverrebbe di vivere qualche tempo in una buona città, perché
quasi quasi possiamo dire che siate un letterato. Ma, s’ io mostravo che
le mie cognizioni fossero un poco minori ch’essi non credevano, la loro
stima scemava ancora e non poco, e finalmente io passavo per uno
del loro grado Né soltanto la cronologia diventa un problema
di difficile soluzione, una volta sulla via di siffatti riscontri.
I quali però non sono possibili se non dove si consideri ciascun elemento
del pensiero del Leopardi astratto dalla forma che esso ha nelle Of
erette. Che se si guarda a questa, è facile scorgere, per esempio, la
superficialità del giudizio, che abbiamo ricordato, per cui l ’Ottonieri
non sarebbe nient’altro che un centone di luoghi dello Zibaldme. E si
badi, d’altra parte, a non prendere né anche questa forma in astratto,
quasi la forma speciale del tale passo delle Operette, il quale abbia un
antecedente più o meno prossimo nello Zibaldone (quantunque, pur
così intesa, essa sia sempre nei due casi profondamente diversa). Anche
questa è una forma astratta; perché la vera forma assunta in concreto da
ciascuna parte di un’opera è quella tal forma soltanto in relazione
con tutta l’opera, in conseguenza del motivo fondamentale, ossia di
quel certo atteggiamento spirituale, in cui l’autore si trovò
componendola. Sicché un centone si può certamente trovare anche in un’opera che
abbia una salda e vivente unità organica, ma solo pel fatto che si
pre¬ scinda da questa unità, e si cominci a indagarne il con¬
tenuto, decomposto meccanicamente nelle singole parti, Pensieri, dalla cui
somma a chi se ne lasci sfuggire lo spirito pare che l’opera risulti. Che
è quello che è stato fatto per le prose leopardiane da tutti i critici
che se ne sono oc¬ cupati, ora considerando e giudicando le singole
operette ad una ad una, ora sminuzzando Cuna o l’altra di esse in
una serie di frammenti facilmente rintracciabili in altri scritti, in
verso e in prosa, dello stesso L. (dando l’idea d’un Leopardi che ripeta
inutilmente se stesso), o in precedenti scrittori, massime francesi
del secolo XVIII (in confronto dei quali poi tutta l’origina¬ lità
dello scrittore svanirebbe). Il maggior critico che il L. abbia avuto, il
De Sanctis; se ha sdegnato ogni ricerca analitica e mortificante di fonti
e confronti, fermo nella dottrina, che è sua gloria, dell’
inseparabilità del contenuto dalla forma nell’opera d’arte, e perciò
della necessità di cercare il valore e la vita di quest’opera
nell’accento personale, nell’ impronta propria, onde ogni vero artista
trasfigura la sua materia; non s’è guardato tuttavia né pur lui, di
cercare la vita nelle parti, la cui serie forma il contenuto del libro,
anzi che nel tutto, nell unità, dove soltanto può essere l’anima e
l’origina¬ lità dello scrittore. E ha creduto di poter cercare, per
così dire, un Leopardi in ciascuna delle operette, presa a sé, invece di
cercare il Leopardi di tutte le operette, che sono un’opera sola.
In primo luogo, sta di fatto che, ad eccezione del Venditore di
almanacchi e del Tristano, con cui nel '32 l’autore volle tornare a
suggellare il pensiero delle Ope¬ rette, tutte le altre pullularono
dall’animo del Leopardi nello stesso tempo, da un medesimo germe d’idee e
di sentimenti, da una stessa vita. Abbiamo visto che il Copernico e
il Plotino erano già in mente al poeta quand’ei vagheggiava il suo Tasso,
il Colombo e fin lo stesso Ti- mandro; e meditava insomma quegli stessi
pensieri, che presero corpo nelle Operette del '24; con le quah
infatti, poiché nel '27 l’ebbe scritte, l’autore sentì che dovevano
accompagnarsi. 11 all’amico De Sinner, che gh chiedeva scritti inediti da
potersi pubblicare a Parigi, scriveva : « Ho bensì due dialoghi da essere
aggiunti alle Operette, l’uno di Plotino e Porfirio sopra il
suicidio, l’altro di Copernico sopra la nullità del genere umano.
Di queste due prose voi siete il padrone di chsporre a vostro piacere:
solo bisogna eh’ io abbia il tempo di farle copiare, e di rivedere la
copia. Esse non potrebbero facilmente pubbhcarsi in Italia » '. Ma
avvertiva subito, che da soU questi dialoghi non potevano andare; e
tornava a scrivere al De Sinner: «Dubito che le mie due prose inedite
abbiano un interesse sufficiente per comparir separate dal corpo delle
Operette morali, al quale erano destinate»*. Quanto al Frammento
apocrifo di Stratone da Lampsaco, esso è del ’25; cioè immediatamente
posteriore alle altre prose compagne; anteriore ad ogni tentativo fatto
dall’autore per pubbli¬ care le Operette. Alle quali, nelle edizioni
parziali e totali fattene a Firenze e a Milano, era ovvio che l’autore
non potesse pensare ad includerlo a causa del crudo mate¬ rialismo
che vi è professato, c che le Censure non avreb¬ bero lasciato
passare. Ma, lasciando per ora da parte queste cinque ope¬
rette [Stratone, Copernico, Plotino, Venditore d’almanacchi e Tristano)
che vennero successivamente ad aggiungersi alle prime venti, è certo che
queste venti, composte tutte di seguito in un anno di lavoro felice,
furono dall’autore scritte e considerate come parti d’un solo tutto. E
quando ebbe in ordine il suo manoscritto completo, escluse che le
singole operette potessero venire in luce alla spic¬ ciolata. Nel
novembre del ’25 sperò poterle pubblicare Epistolario, Firenze, Le
Monnier, * Epistolario, nella raccolta delle sue Opere, che un editore
amico vo¬ leva fare allora in Bologna; e, andato a monte quel di¬
segno, fece assegnamento sugli aiuti efficaci del Giordani, al quale
consegnò il manoscritto affinché gli trovasse un editore: con tanto
desiderio di vedere stampata la sua opera, che scrive impaziente a Papadopoli
: « I miei Dialoghi si stamperanno presto, perché se Giordani, che ha il
manoscritto a Firenze, non ci pensa punto, come credo, io me lo farò
rendere, e lo manderò a Milano » >. Ma da Firenze scrivevagh il
Vieus- seux il 1° marzo : « Giordani, usando della facoltà lasciatagli, mi
passò il bel manoscritto che gli avevate confidato, dal quale abbiamo
estratto alcuni dialoghi, che troverete riferiti nel n. 61 dell’Antologia,
ora pubbhcato, eh’ io ho il piacere di mandarvi. Graditelo come un pegno
del mio fervido desiderio di vedere il mio giornale spesso fregiato
del vostro nome; e più del nome ancora, dei vostri eccel¬ lenti scritti.
Sento che queste Operette morali verranno probabilmente pubbhcate costà,
e ne godo assai pel pubblico, e per voi, tanto più che sembrano meglio
fatte per comparire riunite in una raccolta, che spartite in un
giornale » ». Quella prima pubblicazione, dunque, non fu altro che un
saggio. Del quale il 5 lugho il Leopardi scri¬ veva all’amico Puccinotti:
«I miei Dialoghi stampati ntW Antologia non avevano ad essere altro che
un saggio, e però furono così pochi e brevi ». E soggiungeva 1 « La
scelta fu fatta dal Giordani, che senza mia saputa mise l’ultimo per
primo » 3 ; affermando così che tra i dialoghi c’era un ordine, e
ciascuno doveva tenere il suo posto. Proponendo pertanto la stampa
dell’opera intera al¬ l’editore Stella di Milano, gli scriveva: « Ha ella
veduto [Lett. del 9 nov. al fratello Carlo, in Epist., II, 47. »
Nell' Epist. del L. 3 Epist., II, 142-43. il numero 6i dell’
An tologia, gennaio 1826 ? E pene¬ trato, ed ha avuto corso in cotesti
Stati ? Vi ha ella ve¬ duto il Saggio delle mie Operette morali ? Le
parlai già. in Milano di questo mio mano¬ scritto. Ne abbiamo
pubblicato questo saggio in Firenze per provare se il manoscritto
passerebbe in Lombardia. Giudica ella che faccia a proposito per lei ?...
Tutte le altre operette sono del genere del Saggio, se non che ve
ne ha parecchie di un tono più piacevole. Del resto, in quel manoscritto
consiste, si può dire, il frutto della mia vita finora passata, e io 1’
ho più caro de’ miei occhi » '. Questa lettera è del 12 marzo ’26. 11 22 di
quel mese lo Stella rispondeva : « Ho letto il Saggio ; ed ella ha
ben ragione d’amar cotanto quel suo manoscritto ». 11 fascicolo
dell’Antologia era stato ammesso dalla Censura, ma l’editore non credeva di
poterne tuttavia sperare altresì l’approvazione per la stampa Avrebbe
provato: intanto gli facesse sapere la mole del manoscritto. E il
Leopardi subito a riscrivergli, il 26 : « Confesso che mi sento molto
lusingato e superbo del voto favorevole che ella accorda alle predilette
mie Operette morali. 11 manoscritto è di 311 pagine, precisamente della forma
del ms. d’Isocrate che le ho spedito, scrittura egualmente fitta di
mio carattere. Sarei ben contento se ella volesse e potesse esserne
l’editore.... La prego a darmi una ri¬ sposta concreta in questo
proposito tosto ch’ella potrà » i. Lo Stella, per saggiare le
disposizioni della Censura milanese, chiese licenza di ristampare nel suo Nuovo
Ri¬ coglitore i dialoghi usciti nell’ A ntologia ; « de’ quali »,
scriveva all’autore il 1° aprile, « poi formerò un opuscolo a parte che
mi farà strada a pubblicar tutte queste, da 0 . c., Lei chiamate
Operette, che lo saranno per la mole, non pel pregio certamente » «.
Perciò il 7 il L. affret- tavasi a mandargli la nota dei molti errori
incorsi nella stampa fiorentina, insistendo nel desiderio che lo
Stella assumesse Tedizione del libro intero ; che il 26 si
disponeva a inviargli : « Debbo però pregarla caldamente di una
cosa. Mi dicono che costì la Censura non restituisce i manoscritti che
non passano. Mi contenterei assai più di perder la testa che questo
manoscritto, e però la sup¬ plico a non avventurarlo formalmente alla
Censura senza una assoluta certezza, o che esso sia per passare, o
che sarà restituito in ogni caso » ^ E il prezioso manoscritto
partì infatti sulla fine del mese per Milano 3, e lo Stella j)oté informare l’autore d’averlo ricevuto.
poi gli scriveva; « Nei brevi ritagli di tempo che mi restano, vo
leggendo le Operette sue morali, le quali quanto mi allettano....
altrettanto temo che trovar deb¬ bono degli ostacoli per la Censura.
Forse il rimedio potrebbe esser quello di darle prima nel Ricoglitore, per
poi stamparle a parte, e in fine fare una nuova edizione di tutte
in piccola forma » 4. Ancora uno smembramento delle care Operette ? La
proposta ferì al vivo l’animo del Leopardi, che, a volta di corriere, il
31 rispose: «Se a far passare costì le Operette morali non v’ è altro
mezzo che stamparle nel Ricoglitore, assolutamente e istante- mente
la prego ad aver la bontà di rimandarmi il mano¬ scritto al più presto
possibile. O potrò pubblicarle altrove, o preferisco di tenerle sempre
inedite al dispiacer di vedere un’opera che mi costa fatiche infinite,
pubbli¬ cata a brani.... » 5. Furono infatti pubblicate in volume
l’anno seguente, come l’autore ardentemente desiderava,
conscio dell’organicità del corpo di tutte le venti ope¬ rette, nate come
venti capitoli di un’opera sola. All’unità della quale ei
certamente mirò nell’ordina¬ mento definitivo che fece delle singole
parti, quando le ebbe condotte a termine tutte. Abbiamo veduto come
tenesse a rilevare e attribuire al Giordani l’inversione avvenuta nei tre
dialoghi ceduti dlVAntologia. Il Ti- mandro doveva essere l’ultimo, egli
avA^erte. Infatti era stato scritto dopo il Tasso-, ma era stato pure
scritto prima del Colombo. Anzi nell’ordine cronologico • era
quattordicesimo, sui venti del 1824: ma evidentemente fin da principio
era destinato al ventesimo o, comunque, ultimo posto, che tenne nella
edizione milanese del '27. È invero un’apologià del libro; e l’apologià
non poteva essere se non la conclusione e il giudizio, che,
nell’atto di Ucenziare il libro, l’autore voleva se ne facesse. Ma,
nel passaggio dall’ordine cronologico a quello ideale che il Leopardi
ebbe da ultimo ragione di preferire, non sol¬ tanto il Timandro venne
spostato. Infatti tra il Dialogo di un Fisico e di un Metafisico e il
Dialogo della Natura e di un Islandese, scritti successivamente, con un
solo giorno di riposo tra l’uno e l’altro, parve opportuno
frammettere il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, a cui
il Leopardi pose mano appena finito quello della Natura e di tm
Islandese. È ovvio che senza una ragione né anche quest’ordine sarebbe
mutato; ed è ovvio Mtresì che la ragione non potrà consistere se
non negli scambievoh rapporti da cui questi dialoghi eran legati,
agli occhi di chi li scrisse. Va da sé poi che i vari scritti devono per
lo più esser nati già con questi rap¬ porti, l’un dopo l’altro, secondo
che il pensiero germoghava via via nella sua spontaneità organica; ma
dove Cfr. sopra, p. io6, n. i. una ripresa di idee già non
sufficientemente svolte, e il risorgere di un’ ispirazione che era parsa
esaurita, traeva l’autore a tornéire su se stesso, è pur naturale che
l’ordine cronologico non corrispondesse più allo svolgimento e alla
coerenza del pensiero. Così il Tasso, scritto appena levata la mano dall’
Islandese, nasce come un anello che salda questo dialogo a quello del
Fisico col Metafisico; e se l’autore scrive il Timandro, bisogna
pensare che, saldato così l’ Islandese agli ante¬ cedenti dell’opera,
egli dovè per un momento credere esaurito il suo tema; credere perciò di
potersi arrestare a quella fiera rappresentazione finale AtW Islandese:
e quindi volgersi indietro a giudicare e difendere il libro.
Passarono infatti dodici giorni senza che si sentisse riattirato verso il suo
lavoro, ripreso il 6 luglio col Panni, e condotto innanzi a sbalzi fino
alla fine dell’anno, quando fu compiuto il Cantico del Gallo silvestre ;
altre sei operette in tutto, che s’ è condotti a pensare formino un
gruppo distinto, nato da questo risorgimento, seguito al Ti¬
mandro, del motivo ispiratore delle operette. III. Ma
tutto ciò, si può dire, non prova nulla per l’or¬ ganismo e unità
dell’opera leopardiana, se questa unità non si trova effettivamente nel
suo intimo. Ed è vero. Com’ è pur vero che quando tale unità fosse messa
bene in luce con lo studio interno del hbro, potrebbe anche
apparire inutile tutto questo preambolo, indirizzato ad argomentare che
l’unità ci doveva essere. Ma è infine non meno vero che non si trova quel
che non si cerca; e che l’unità delle Operette leopardiane, ritenute
general¬ mente una semplice raccolta, aumentabile (con la Comparazione
delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto, come tutti fanno), o
riducibile (come pure han creduto gli autori delle varie scelte di prose
leopardiane) non si è mai indagata, perché si sono ignorati o trascurati
tutti questi indizi di un disegno, che lo stesso autore ritenne
essenziale. Intanto, lo spostamento osservato del Timandro
epilogo, in origine, delle Operette, ci ha condotto a scor¬ gere un
gruppo, che non è forse il solo tra questi singoli scritti, così come
vennero quasi rampollando Tuno dall’altro. Sottraendo, oltre il Timandro,
destinato ad epi¬ logo, la Storia del genere umano, che, ])er il suo
distacco formale dal resto dell’opera (è la sola infatti che abbia
la forma di un mito), e la sua rajipresentazione complessiva, in iscorcio, di
tutto il destino del genere umano a parte a parte ritratto poscia nelle
varie prose, si può a ragione considerare come un prologo; le diciotto
operette intermedie, formanti il corpo del libro, si distribuiscono
naturalmente in tre gruppi, di sei ciascuno, come tre ritmi attraverso i
quali passa l’animo del Leopardi. Innanzi al terzo, nato, come s’ è
veduto, da una ripresa dell’ ispirazione originaria, si spiega il
secondo, che comincia col Dialogo della Natura e di un’Anima e si compie,
(]uasi ritornando al suo principio, con l’altro Dialogo della Natura e di
un Islandese. Precede, e inizia la tri¬ logia, un primo grujipo, aperto
dal Dialogo d’Ercole e di Atlante e conchiuso da un dialogo parallelo, in
cui all’eroe classico della potenza e della forza. Ercole, sot¬
tentra un eroe della potenza dello spirito immaginato dalle superstizioni
moderne, un mago, Malambruno, dialogante con un Atlante spirituale, un diavolo.
Farfarello. Disposizione simmetrica, sulla quale non giova certo
insistere troppo, ma che non può apparire arbitraria o fortuita quando si
osservino gl’ intimi rapporti spirituali onde sono insieme congiunte e
connesse, in tale ordina¬ mento, le diverse operette.
Ascoltiamo dalle parole stesse del Leopardi la nota fondamentale di
ciascuna operetta; e vediamo se le varie note degli scritti appartenenti
a ciascun gruppo non for¬ niino per avventura un solo ritmo. Cominciamo
dal primo gruppo. Ercole va a trovare Atlante per addossarsi
qualche Qja il peso della Terra, come aveva fatto già parecchi
secoli fa, tanto che Atlante pigli fiato e si riposi un poco. j(a la
Terra da allora è diventata leggerissima; e quando Ercole se la reca
sulla mano, scopre un’altra novità più nieravigliosa. L’altra volta che
l’aveva portata, gli « bat¬ teva forte sul dosso, come fa il cuore degh
animali; e metteva un rombo continuo, che pareva un vespaio. Ma ora
quanto al battere, si rassomiglia a un orinolo che abbia rotta la molla
»; e quanto al ronzare, Ercole non vi ode uno zitto. E già gran tempo,
dice Atlante, « che il mondo finì di fare ogni moto o ogni romore
sensibile; e io per me stetti con grandissimo sospetto che fosse
morto, aspettandomi di giorno in giorno che m’infettasse col puzzo; e
pensava come e in che luogo lo potessi sep¬ pellire, e l’epitaffio che
gli dovessi porre ». È lo stesso grido, come si vede, de La sera del dì
di festa'. Kcco è fuggito 11 dì festivo, ed al festivo
il giorno Volgar succede, e se ne porta il tempo Ogni umano
accidente. Or dov’ è il suono Di quei popoli antichi ? Or dov’ è il
grido De’ nostri avi famosi, e il grande impero Di quella Roma, e
l’armi, e il fragorio Che n’andò per la terra e l’oceano ?
Tutto è pace e silenzio, e tutto posa li mondo, e più di lor non si
ragiona. Perché questo silenzio e questa morte ? Ecco che la
Moda, sorella germana della Morte, vien a dirlo essa questo perché alla
Morte stessa: poiché i soh frivoli e accidiosi costumi dei nuovi tempi
possono spiegare i « lacci dell’antico sopor » che, pel Poeta, non
stringono soltanto «l’itale menti»; i costumi «di questo secol
morto, al quale incombe tanta nebbia di tedio », e pgj. cui il Poeta
domandava agli eroi già dimenticati e ri¬ scoperti dai filologi, « se in
tutto non siam periti » t La Moda spiega infatti aUa Morte: «A poco per
volta ma il più in questi ultimi tempi, io per favorirti ho mandato in
disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovano al ben
essere corporale, e introdottone o recato in pregio innumerabih che
abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita. Oltre di questo ho
messo nel mondo tali ordini e tali costumi, che la vita stessa,
così per rispetto del corpo come dell’animo, è più morta che viva; tanto
che questo secolo si può dire con verità che sia proprio il secolo della
morte ». Morti gli uomini, spenta la forza dei corpi,
infranto il vigore degli animi. In compenso, si fabbricano mac¬
chine, e H secol morto può dirsi «l’età delle macchine». L’Accademia dei
SUlografi ne fa la satira nel suo bizzarro bando di concorso per
l’invenzione di tre macchine, che restituiscano al mondo quel che agli
occhi del Poeta costituisce il pregio maggiore della vita, anzi la vita
stessa, quale fu una volta: ramicizia, lo spirito delle opere virtuose e
magnanime, e la donna: quella donna, che fu r ideale degli spiriti
gentili, e fu pur ora cantata come la « sua donna » da esso il Leopardi
: Forse tu l’innocente Secol beasti che dall’oro ha
nome. Or leve intra la gente Anima voli ? o te la sorte
avara Ch’a noi t’asconde, agli avvenir prepara ? Viva
mirarti ornai Nulla spene m’avanza 3 . ' Sopra il monumento
di Dante (rSrS), vv. 3-4. » Ad Angelo Mai 3 Alla sua donna.
fbbene, una macchina ne adempia gli uffici, essendo
«espedientissimo che gh uomini si rimuovano dai negozi jjeUa vita il più
che si possa, e che a poco a poco diano luogo, sottentrando le macchine
in loro scambio ». Questa I la morte dell’uomo ; la morte dell’amicizia e
dell’amore, la morte degh ideali che già fecero virtuoso e magna¬
nimo l’uomo antico, finito con Bruto minore; il quale non può
sopravvivere alla maledizione scaghata alla stolta virtù, che ei respinge
da sé nelle cave nebbie e nei campi dell’ inquiete larve. Onde se un
romano, e 5Ìa Catihna, può credere, secondo Sallustio, d’infiam¬
mare i soci alla battaglia, parlando ad essi non solo delle ricchezze, ma
dell’onore, della gloria, della libertà, della patria, affidate alle loro
destre, un moderno lettore d’uma¬ nità non può senza peccato d’ipocrisia
vedere nel testo di Sallustio quella gradazione ascendente che il
luogo, a norma di rettorica, richiederebbe. La patria ? Non si
trova più se non nel vocabolario. La libertà ? Guai a proferir questo
nome. Di essa, dice il Leopardi, che ne sa anche lui qualche cosa « non
si ha da far conto ». La gloria ? Piacerebbe, se non costasse incomodo e
fatica. Insomma, la ricchezza è il solo vero bene: è quella cosa
«che gh uomini per ottenerla sono pronti a dare in ogni occasione la
patria, la hbertà, la gloria, l’onore ». Sicché il testo è da restituire,
per travestirlo alla moderna, fa¬ cendo dire a Catilina: Et quum proelinm
inibitis, memi- neritis, vos gloriam, decus, divitias, fraeterea
spectacula, epulas, scorta, animam denique vestram in dextris
vestris portare. Animam vestram, la vita: quella vita, che
non hanno ! Quella \dta, che Sabazio, l’eterno Dioniso, dio della
vita [Ancona, nel Fanfulla della domenica del 29 novembre
*895: G. Carducci, Degli spiriti e delle forme nella poesia di G. L.,
Bologna, Zanichelli, 1898, pp. 207-08. e della morte, è in sospetto anche
lui sia cessata da un pezzo in qua; e però manda su dalle viscere della
terra uno spiritello, uno Gnomo, ad accertarsene. E uno spi rito
dell’aria, un Folletto, può dirgli infatti che «gjj uomini sono tutti
morti e la razza è perduta ». Mancati tutti: «parte guerreggiando tra
loro, parte navigando parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi
nori pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte
stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando
in mille cose; in fine, studiando tutte le vie di far contro la propria
natura » ; studiandole tutte con queir « irrequieto ingegno, demenza
maggiore » che « (juel- l’antico error », di cui « grido antico ragiona
», onde fu negletta la mano dell’altrice natura, come il Leopardi
aveva appreso dal Rousseau. Oh contra il nostro Scellerato ardimento
inermi regni Della saggia natura ! Morto l’uomo; e «le altre cose....
ancora durano e procedono come prima ». E l’uomo che presumeva il
mondo tutto fatto e mantenuto per lui solo ! Il Folletto invece crede
fosse fatto e mantenuto per i folletti; come lo Gnomo per gli gnomi ! La
vanità umana pareggia essa la nullità dell’uomo. Ecco, gli uomini « sono
tutti spariti, la terra non sente che le manchi nuUa, e i fiumi non
sono stanchi di correre.... e le stelle e i pianeti non mancano di
nascere e di tramontare... ». La saggia, l’altrice natura non si commuove
allo sterminio di sé a cui l'uomo è tratto dal suo ardimento.
Fu certo, fu {né d’error vano e d’ombra L’aonio canto e della fama
il grido Pasce l’avida plebe) amica un tempo » Inno ai
Patriarchi. Al sangue nostro e dilettosa e cara Questa
misera piaggia, ed aurea corse Nostra caduca età. Non che di latte
Onda rigasse intemerata il fianco Delle balze materne, o con le greggi
Mista la tigre ai consueti ovili Né guidasse per gioco i lupi al
fonte Il pastorei; ma di suo fato ignara E degli affanni suoi, vota
d'affanno Visse l’umana stirpe. Amica è la natura a chi sta contento
della vita spontanea e irrifiessa, qual’ è appunto la vita della natura.
Lo svegliarsi dell’ intelligenza (scellerato ardimento !) è il principio
della perdizione. E invano l’uomo cercherà col pensiero di restaurare la
sua vita e riconquistare la dilettosa e cara piaggia d’un tempo! Faust lo
sa* *; Malambruno che mvoca gli spiriti d’abisso, che vengano con
piena potestà di usare tutte le forze d’inferno in suo servigio, lo
riapprende da Farfarello, impotente a farlo felice un momento di tempo.
La felicità è la vita che si V’iva sentendo che mette conto di viverla: è
la vita col suo valore. E il Leopardi pare la intenda come un
diletto infinito ; il cui bisogno nasce dall’ infinito amore che
ogni uomo ha di se stesso, ma non può esser soddisfatto mai, perché
nessun diletto è infinito, nessun piacere tale che appaghi il nostro
desiderio naturale. Onde il vivere sen¬ tendo la vita è infelicità; e
questa non è interrotta se non dal sonno, o da uno sfinimento o altro che
sospenda l’uso dei sensi: non mai cessa mentre sentiamo la nostra
vita ; e se vivere è sentire, « assolutamente parlando », il non vivere è
meglio del vivere. La vita non ha valore. È, a rigore, l’ultima
conclu- * Malambruno è Faust, non Manfredo, come mostra d'
intendere il Losacco, Leopardiana, in Giornale storico della letteratura
italiana, sione di quella premessa, che la felicità o valore della
vita consista nel diletto; il quale non può essere altro che limitato, e
quindi mai mero diletto, senza mistura di amarezza. Tale il
concetto del primo gruppo delle Operette, che pone l’animo del poeta in
faccia alla morte e al nulla: ossia al vuoto della vita, non più degna
d'esser vissuta: poiché degna sarebbe la vita inconscia, e la vita
dell’uomo è senso, coscienza. La vita nella felicità è la natura; e
l’uomo se ne dilunga ogni giorno più con la civiltà, con r irrequieto
ingegno, che assottiglia la vita, e la consuma. Ed ecco il problema
e il tormento dell’anima del Leopardi: l’uomo in faccia alla natura. La natura,
che è quella del dialogo dello Gnomo e del Folletto; e l’uomo, che
è, non quella ciurmaglia già spenta, da cui lo Gnomo avrebbe caro >
che uno risuscitasse per sapere quello che egli penserebbe della già sua
vantata grandezza: è anzi quest’uno, Malambruno, che pensa e vede tutti
gli uo¬ mini morti e la natura viva, muta, indifferente. Pro¬ blema
affrontato nel Dialogo della Natura e di un’Anima, il primo del nuovo
gruppo, dove la natura dice all’anima, dandole la vita: «Va’, figliuola
mia prediletta, che tale sarai tenuta e chiamata per lungo ordine di
secoli. Vivi, e sii grande e infelice ». Giacché, come poi le
spiegherà, « nelle anime degli uomini, e proporzionatamente in
quelle di tutti i generi di animali, si può dire che l’una e
l’altra cosa sieno quasi il medesimo: perché l’eccellenza delle
I « Ben avrei caro che uno o due di quella ciurmaglia risuscitas¬
sero, e sapere quello che penserebbero vedendo che le altre co.se, ben¬
ché sia dileguato il genere umano, ancora durano e procedono come prima,
dove si credevano che tutto il mondo fosse fatto e mantenuto per loro
soli » (Operette morali, ed. Gentile, Zanichelli, Bologna). jjiinie
importa maggior sentimento dell’ infelicità pro- ria; che è come se io
dicessi maggiore infelicità»; e l’uomo « ha maggior copia di vita, e
maggior sentimento, che niun altro animale; per essere di tutti i viventi
il niù perfetto »; e però è il più infelice. E il meglio è per
l’anima spogliarsi della propria umanità, o almeno delle (loti che
possono nobilitarla, e farsi « conforme al più stupido e insensato
spirito umano » che la natura abbia jjjai prodotto in alcun tempo.
Di guisa che quella morte dell’umanità, che nei dia¬ loghi del
primo gruppo poteva parere una colpa dei degeneri nepoti, ecco, apparisce il destino
dell’uomo : la cui storia non può avere altra conchiusione che la
rinunzia alla propria umanità. La quale, dice il poeta col suo amaro
sorriso, scacciata dalla Terra, non si rifugia e raccoglie nella Luna,
come immaginò l’Ariosto di tutto ciò che ciascun uomo va perdendo. La
Luna, a cui la Terra, nel dialogo che da esse s’intitola, ne
domanda, non solo la convince che l’immaginazione ariostesca è
semplice immaginazione, ma in tutto il dialogo dimostra che il linguaggio
umano e relativo allo stato degli uomini, che la Terra usa, non ha
significato fuori di questa: e che insomma non ha base in natura quello
che gli uomini considerano pregio della loro ^^ta, e che, non
trovandolo fondato in natura, riconoscono quindi mera illusione.
Ma il concetto più direttamente è trattato nella Scommessa di
Prometeo: scommessa perduta con Momo (che è lo stesso spirito satirico
pessimista con cui Leopardi guarda la
\'ita nella sua vanità).'Perduta, perché Prometeo deve confessare che
alla prova il suo genere umano, che avrebbe dovuto essere il più perfetto
genere dell’universo, « la migliore opera degl’ immortali », gli
era fallito, dimostrandosi, dallo stato selvaggio degli antro-
pofagi a quello più incivilito dei suicidi per tedio della vita, il più
sciagurato e imperfetto. Prometeo paga la scommessa senza volerne sapere più
oltre, quando a Londra vede gran moltitudine affollarsi innanzi a una
porta ed entra, e scorge «sopra un letto un uomo disteso su! pino,
che aveva nella ritta una pistola; ferito nel petto e morto; e accanto a
lui giacere due fanciullini, mede¬ simamente morti»: sciagurato padre,
che per dispera- zione ha ucciso prima i figliuoli e poi se stesso:
(juan- tunque fosse ricchissimo, e stimato, e non curante di amore,
e favorito in corte: ma caduto in disperazione «per tedio della vita,
secondo che ha lasciato scritto. Il tedio della vita ! Ecco la scoperta che si
è fatta andando in cerca di quella felicità, di cui si pose il problema
nel primo dialogo di questo secondo gruppo. E i due seguenti dialoghi
hanno questo argomento. Il Dialogo di un Fisico e di un Metafisico
dimostra la vita non essere bene da se medesima, e non esser vero che
ciascuno la desideri e l’ami naturalmente: ma la desidera ed ama
come « istrumento o subbietto » della felicità, che è ciò che veramente
vale. E questa, guardata più da vicino, consistere nell’efficacia e copia
delle sensazioni, nelle affezioni e passioni e operazioni, e insomma, non
nel puro essere, ma nella sensazione dell’essere e nel far essere
(come ben si può dire) l’essere stesso. Non l’inerzia e la vuota durata,
ma la mobilità, la vivacità, il gran numero e la gagliardia delle
impressioni, e cioè il tempo pieno, questo è l’oggetto dei nostri
desiderii: e la vita degli uomini « fu sempre non dirò felice, ma tanto
meno infelice, quanto più fortemente agitata, e in maggior parte
occupata, senza dolore né disagio ». La vita vacua, che è la vita «piena
d’ozio e di tedio», è morte; anzi peggio della morte, che è senza senso. Infine,
dice lo stesso Metafisico (che ha cominciato negando che la felicità
sia vivere), «la vita debb’esser viva»: cioè la vera felicita, in
fondo, è sì nella vita ; ma la vita (il Leopardi così sente) non è vita;
è la morte; quella morte di cui s’ è acquistata la certezza nelle operette del
primo gruppo; e che non è pura morte, ma la morte sentita; la morte
nella coscienza dell’uomo che non conosce altra realtà che l’eterna
natura, di là dall’opera sua, e non può sperare perciò di far nulla che abbia
valore. La morte è dolore perché è tedio: quel \moto dove dovrebbe essere
il pieno; la morte al posto della vita. E questo tedio è la
malattia, il segreto tormento del Tasso, che ne ragiona col suo Genio:
del Tasso già dal ’zo, quando fu scritta la canzone Ad Angelo Mai,
apparso al Leopardi come suo spirito gemello, al par di lui « mi¬
serando esemplo di sciagura » : O Torquato, o Torquato, a noi
l'eccelsa Tua niente allora, il pianto A te, non altro, preparava
il cielo. Oh misero Torquato ! il dolce canto Non valse a
consolarti o a sciorre il gelo Onde l’alma t’avean, ch’era sì
calda. Cinta l’odio e l’immondo Livor privato e de’
tiranni. .Amore, Amor, di nostra vita ultimo inganno.
T’abbandonava. Ombra reale e salda Ti parve il nulla, e il mondo
Inabitata piaggia. Tasso medesimo, che non trova nel mondo altro
più che il nulla, e si rifugia nei sogni e nel vago inunaginare, dal
quale più duro bensì gli riesce il ritorno alla realtà; questo Torquato
parla nel Dialogo del Tasso e del suo Genio ', e non si lagna già del
dolore, ma della noia, che sola lo affligge e lo uccide. La quale gli
pare abbia la stessa natura dcU’aria: «riempie tutti gli spazi
interposti alle altre cose materiali, e tutti i vani contenuti in
ciascuna di loro; e donde un corpo si parte, e altro non gh sottentra,
quivi ella succede immediatamente. Così tutti gl’ intervalli della vita
umana frapposti ai piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E
però. come nel mondo materiale, secondo i Peripatetici, non
si dà vóto alcuno; così nella vita nostra non si dà vóto»; e poiché
piacere non si trova, la vita è composta parte di dolore parte di noia. E
la vita tutta uguale monotona del povero prigioniero — immagine d’ogni
uomo di fronte alla immutabile natura — si viene via via votando
cosi del piacere come del dolore, e riempiendo tutta della
tristezza soffocante del tedio. L’uomo prigioniero della natura
ritorna ncll’ultinio dialogo del gruppo, in cui si presenta da capo la
Natura a render conto di sé all’uomo: al povero Islandese, che la
vicn fuggendo per tutte le parti della terra, e se la vede sempre
innanzi, addosso, incubo schiacciante: e l’ha innanzi, prima di morire,
in effigie di donna, di forme smisurate, seduta in terra, col busto
ritto, ap¬ poggiato il dosso e il gomito a una montagna; viva, di
volto tra bello e terribile, occhi e capelli nerissimi, con 10
sguardo fisso e intento. Perché, le chiede il povero errante, tu sei «
carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi figliuoli e, per dir così,
del tuo sangue e delle tue viscere », e « per niuna cagione, non lasci
mai d’incalzarci, finché ci opprimi ? Se io vi diletto o vi be¬ nedico,
io non lo so », risponde la Natura. La vita del¬ l’universo è un circolo
perpetuo di produzione e distru¬ zione. — Ma, riprende 1’ Islandese,
poiché chi è distrutto patisce, e chi distrugge sarà distrutto, « dimmi
quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova
cotesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con
morte di tutte le cose che lo compongono ? E prima di aver la risposta 1’
Islandese è mangiato dai leoni, già così rifiniti e maceri dall’
inedia, che con quel pasto si tennero in vita ancora per quel
giorno, e non più. Questa Natura, che non sa il bene e il male dell’uomo,
è la Natura che al principio ha detto aU’anima: — Sii grande, e infelice.
La vita infatti È infelicità, in quanto è noia; e noia è, perché
vuota; e non può non esser vuota, se l’uomo è di fronte a questa
Matura terribile nel cui perpetuo giro esso rientra, molecola ignorata, e senza
valore, non appena con la sua coscienza si stacchi dalle cose, e vi si
contrapponga. L’uomo dunque è veramente infelice, come s’è detto
nel primo dialogo, perché con la sua attività (che è l’anima, il sentire)
non ha posto nella natura, che è poi tutto. Perciò l’anima è vuota, e la
vita è tedio. V. E qui potè parere al Leopardi, come
osservammo, di aver esaurito il proprio tema; e, prevedendo le
facili critiche, che non sarebbero mancate al piccolo e doloroso
libro, ritenne opportuno difenderlo col Timandro. Ma poi considerò
che la sua dimostrazione non era veramente perfetta. Il dolce canto non
era valso a consolare Torquato; ma potrebbe dunque il canto consolare
Panimo addolorato ? Gino Capponi, l’amico del Tommaseo, che fu giudice sempre
acerbo e ingiusto al grande Recanatese b scrisse una volta. L.comincia
uno de’ suoi Dialoghi, inducendo la natura che scara¬ venta nel mondo
un’anima con queste parole: — Vi\d e sii grande ed infelice. — Io per me
credo proprio il rovescio, e che le anime nostre non sieno infelici se
non in quanto sono esse piccole.... £ cosa facile esser grandi
uomini, se basti a ciò essere infehci, ed L. insegnò a molti la via della
infelicità; ma non l’aveva imparata egh quando produsse quelle canzoni
per cui Acerbo e ingiusto anche nel giudizio, che pur contiene
sensazioni profonde di alcuni aspetti dell'arte leopardiana, raccolto nel
volume La donna, Milano, .Agnelli, Vedi i miei Albori della nuova
Italia, Lanciano, Carabba, -
Scritti ed. ed ined., Firenze, Barbèra,-- sta in alto il nome suo »>. E il
De Sanctis doveva osser\’are più tardi: «Quel suo nullismo nelle azioni e
nei lini della vita, che lo rendeva inetto al fare e al godere, era
riem¬ piuto dalla colta e acuta intelligenza e dalla ricca im¬
maginazione, che gli procuravano uno svago e gli fa, cevano materia di
diletto quello stesso soffrire. Egli aveva la forza di sottoporre il suo
stato morale alla riflessione e analizzarlo e generalizzarlo, e
fabbricarvi su uno stato conforme del genere umano. Ed aveva anche la
forza di poetizzarlo, e cavarne impressioni e immagini e melodie, e
fondarvi su una poesia nuova. Egli può poetizzare sino il suicidio, e
appunto perché può trasferirlo nella sua anima di artista e immaginare
Bruto e Saffo, non c’è pericolo che voglia imitarli. Anzi, se ci sono
stati mo¬ menti di felicità, sono stati appunto questi. Chi più
felice del poeta o del filosofo nell’atto del lavoro ? » >. Ma
né il Capponi, né il De Sanctis avvertivano cosa sfuggita al
Leopardi. È suo questo pensiero vero e pro¬ fondo ; « L’uomo si disannoia
per lo stesso sentimento vivo della noia universale e necessaria ». E suo
è ciuesto altro che lo precede ; « Hanno questo di proprio le opere
di genio, che, quando anche rappresentino al vivo la nul¬ lità delle
cose, quando anche dimostrino evidentemente e facciano sentire 1
inevitabile infelicità della vita, quando anche esprimano le più
terribili disperazioni, tuttavia ad un animo grande, che si trovi anche
in uno stato di estremo abbattimento, disinganno, nullità, noia e
sco¬ raggiamento della vita o nelle più acerbe e mortifere
disgrazie.... servono sempre di consolazione, raccendono l’entusiasmo; e
non trattando né rappresentando altro che la morte, gh rendono, almeno
momentaneamente, quella vita che aveva perduta » I Studio su L.. Napoli,
Morano, Pensieri. Cfr. lett. M avveggo ora bene che, spente che sieno le
passioni, non resta negli studi aura
Ebbene, sentire ripullular questa vita, che il razio¬ cinio aveva
dimostrata morta, era pur sentire il bisogno (ji riprendere la
dimostrazione. Il Leopardi non affronta nelle Operette, né in altro dei
suoi scritti, il problema di questa vita incoercibile che risorge dalla
sua più fiera negazione. Ma sente oscuramente questa diificoltà,
non superata nei primi due gruppi de’ suoi dialoghi. Tutto
l’argomentare della sua filosofia non genera la convin¬ zione che ne
dovrebbe deri\ are: la convinzione che arma la mano di Bruto contro se
stesso, e fa gittare dalla mi¬ sera Saffo « il velo indegno », per
rifuggirsi ignudo animo a Dite, e così emendare il crudo fallo del
destino. L’amor della vita non è vinto: la Natura ha detto all’Anima
che le infinite difficoltà e miserie, a cui vanno incontro i grandi, «
sono ricompensate abbondantemente dalla fama, dalle lodi e dagli onori
che frutta a questi egregi spiriti la loro grandezza, e dalla durabilità
della ricor¬ danza che essi lasciano di sé ai loro posteri ».
Ebbene, questa gloria, che già non arride all’anima, quando natura
gliel’addita, questa gloria abbelliva pure agli occhi del Leopardi questo
mondo di morti, in cui gli sembrava di vivere. Filippo Ottonieri, che è
lui stesso, potrà esser « vissuto ozioso e disutile, e morto senza
fama », come dice il suo epitaffio, ma sentiva bene d’esser « nato alle
opere virtuose e alla gloria ». Questa gloria, che è il premio della
grandezza e la sublime consolazione dei grandi infehci, che tanto più saran
grandi quanto più sentiranno la loro infehcità, e più quindi
saranno infelici, è la lode che nell’animo degli altri e pei secoli
riecheggia la lode stessa che il grande tributa egli alla loute e
fondamento di piacere che una vana curiosità, la soddisfazione della
quale ha pur molta forza di dilettare: cosa che per Taddietro, finché mi
è rimasta nel cuore l'ultima scintilla, io non potevo comprendere, Epist,,-- propria
grandezza nella coscienza felice del suo genio. La sua sostanza è
veramente in questa lode interna e soggettiva: la sua esteriorità è in
quella eco che si ripercuote lontano, e ferma, e pare consolidi il valore
onde il genio vede illuminata la propria opera. Leopardi, nudrito
la mente dei concetti classici e delle idee mate¬ rialistiche del sec.
XVIII, cerca la realtà di questa gloria, in cui lo spirito attinge la
propria liberazione da tutte le miserie, in quella eco esterna, in quel
consenso che in fatto altri verrà tributando alla nostra grandezza.
E perciò si trova in faccia al problema del valore tuttavia
superstite della grandezza spirituale, veduto in questa forma; l’anima
grande e infelice è destinata essa alla gloria ? o la speranza è fallace,
come tutte quelle che ei rimpiangerà dileguate nelle Ricordanze? ' Ed
ecco il Farmi, che tante difficoltà mostra opporsi all’acquisto di
questa gloria, specialmente nell’età moderna e nel mondo presente, da
farla apparire mèta inattingibile. Talché vien meno anche questa
aspettazione, e al grande non rimane che seguire il suo fato, dove che
egli lo tragga, con animo forte, adoprandosi nella virtù, perché la
na¬ tura stessa lo fece nascere alle lettere e alle dottrine.
Dileguata quest’ultima consolazione, la sola che si possa chiedere
alla stessa eccellenza dell’animo, quando altra realtà, e fonte eventuale
di gioia, non si vegga da quella che l’animo mira esterna a se stesso,
qual porto rimane allo stanco spirito umano ? Vivere infeUce ?
Dovecanterà: O speranze, speranze; ameni inganni Della mia
prima età ! sempre, parlando. Ritorno a voi; ché per andar di
tempo. Per variar d'alletti e di pensieri, Obbliarvi non so.
Fantasmi, intendo, Son la gloria e l’onor; diletti e beni Mero
desio; non ha la vita un frutto. Inutile miseria. E sia; ma
se non si può né anche farsi un monumento della propria infelicità
? Sola nel mondo, eterna, a cui si volve Ogni creata
cosa. In te, morte, si posa Nostra ignuda natura.
Lieta no, ma sicura Dall'antico dolor. La risposta viene
dai morti, che si sveghano per un quarto d’ora nello studio di Ruysch, e
cantano, e descrivono questa loro sicurezza dall’antico dolor, nella
quale vivono immortah; senza speme, ma non in desio, come le anime
del limbo dantesco: Profonda notte Nella confusa mente
Il pensier grave oscura; Alla speme, al desio, l’arido spirto
Lena mancar si sente: Così d’affanno e di temenza è sciolto,
E l’età vote e lente Senza tedio consuma. Vita vuota, dunque,
anche quella: ma senza senti¬ mento. Vero porto, in cui il povero Islandese
finalmente avrà pace, e in cui si può giungere in un languore di
sensi senza patimento, com’ è degli ultimi istanti della vita,
quando sopravvive solo un senso « non molto dissimile dal diletto che è
cagionato agli uomini dal languore del sonno, nel tempo che si vengono
addormentando ». Dolce morte hberatrice ! Ma prima che la morte ci
abbia sciolti dal tedio ? — Filosofare, come Filippo Ot- tonieri, il
socratico, che « spesso, come Socrate, s’intrat¬ teneva una buona parte
del giorno ragionando filosoficamente ora con uno ora con altro, e massime con
alcuni suoi familiari, sopra qualunque materia gli era sommini¬
strata dall’occasione ». E per tal modo filosofava sempre. non per farne
trattati (ché, al pari di Socrate, non credeva giovasse mettere la filosofìa in
iscritto e irrigidir]^ in formule che non risponderanno piti ai mutevoli
bisogni dell’animo), ma per intendere senza pregiudizi e senza illusioni
la vita, e adattarvisi da saggio, tralasciando ogni vana querimonia: come
aveva detto Spinoza: non ridere, non liigere, neque detestari, sed
intelligere. Questo r ideale dell’ Ottonieri, che vivrà ozioso e disutile
e morrà senza fama, ma « non ignaro della natura né della fortuna
sua »>. E con la sua pacata magnanimità e la sua bonaria ironia
rinnoverà l’immagine di Socrate anche in questa modesta, anzi umile
coscienza del sa¬ pere, e quindi, per lui, del potere umano. L’
Ottonieri vuol essere quasi la filosofia delle Operette fatta vita e
persona. Ma, oltre la filosofia, non v’ è altro rimedio alla noia
? Sì : c’ è la rupe di Leucade. Ce lo insegna Colombo, in una bella notte
vegliata sull’oceano .stermi¬ nato e inesplorato col fido Gutierrez,
confidando all’amico che anche in lui vacilla la fede e che, in verità, «
ha posto la vita sua e de’ compagni sul fondamento d’una sem- phee
opinione speculativa » che può fallirgli. Ma, egli soggiunge, « quando
altro frutto non venga da questa navigazione, a me ]iare che ella ci sia
profittevolissima in quanto che per un tempo essa ci tiene liberi dalla
noia, ci fa cara la vita, ci fa prege\'oli molte cose che
altrimenti non avremmo in considerazione. Scrivono gli antichi,
come avrai letto o udito, che gli amanti infehei, gittan- dosi dal sasso
di Santa Maura (che allora si diceva di Leucade) giù nella marina, e scampandone,
restavano, per grazia di Apollo, liberi dalla passione amorosa. Io
non so se egli si. debba credere che ottenessero questo effetto; ma so
bene che, usciti di quel pericolo, avranno per un poco di tempo, anco
senza il favore di Apollo, avuta cara la vita, che prima avevano in odio;
o pure avuta più cara e più pregiata che innanzi. Ciascuna
pavigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla fxipe di Leucade. E
navigazione è ogni rischio della vita, ogni azione eroica. O filosofare,
dunque, come Ot- tonieri; o navigare come Colombo, e far guerra al
tedio, P riafferrarsi insomma alla vita, finché la morte non ce ne
liberi. E lo stesso giorno * che finiva di scrivere il
Dialogo a Colombo e Gutierrez
Leopardi, nel fervore dell’animo commosso da questa
coscienza del valore e quasi gusto della vita riconquistato mercé
l’attività, — di questa grandezza felice, — mette mano al bellissimo Elogio
degli uccelli: Urica stupenda, sgor- gatagU dal pieno petto, al guizzo
d’una immagine Ucta e ridente: di queste creature amiche delle
campagne verdi, delle vallette fertili e delle acque pure e
lucenti, del paese bello e dei soli splendidi, delle arie
cristalline e dolci e di tutto ciò che è ameno e leggiadro, e rasserena
e allegra gli animi; e che, col perpetuo movimento e col canto che è un
riso, sono simbolo di quella vita piena d’impressioni, che non conosce
tedio, anzi è tutta una gioia. E ci fanno amar la natura, che ebbe un
pensiero d’amore, assegnando a un medesimo genere d’animali il
canto e il volo ; « in guisa che quelli che avevano a ri¬ creare gU altri
viventi colla voce, fossero per l’ordinario in luogo alto ; donde ella si
spandesse all’ intorno per maggiore spazio, e pervenisse a maggior numero
di uditori ». Così viva è r intuizione della gioia gentile che il poeta
riceve da questa vaga immagine degU ucceUi, che è già appagato il
desiderio finale di questo Elogio: lo vorrei, per un poco di tempo, essere
convertito in uccello, per provare quella contentezza e letizia della
loro vita ». Non ha cantato qui anch’egU la gioia ? Cfr. Pens. E un favoloso uccello, il Gallo silvestre, di
cui parlano alcuni scrittori ebrei, che sta sulla terra coi piedi, e
tocca colla cresta e col becco il cielo, con un altro cantico vi¬
brante gli dirà Tultima parola di questa filosofia della vita, attenuando
bensì il tono della lirica precedente, c smorzando l'entusiasmo, al quale
mai come in questo caso s’era abbandonata l’anima del poeta; e
additandogli anzi lontano il pauroso nulla di tutte le cose, e la
morte a cui ogni parte deH’universo s’affretta infaticabilmente, ma
pur rasserenandogli l’animo con la fresca sensazione del puro e frizzante
aer mattutino, ravvivatore e rin- francatore. Sensazione già nota al
Poeta: La mattutina pioggia, allor che l'ale Battendo esulta
nella chiusa stanza La gallinella, ed al balcon s’affaccia
L’abitator de’ campi, e il sol che nasce I suoi tremuli rai fra le
cadenti Stille saetta, alla capanna mia Dolcemente picchiando, mi
risveglia; E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo Degli
augelli sussurro, e l’aura fresca, E le ridenti piagge
benedico. Canta il Gallo silvestre per destare i mortali dal sonno;
« Il dì rinasce : torna la verità in sulla terra, e parton- sene le
immagini vane. Sorgete; ripigliatevi la soma della vita : riducetevi dal
mondo falso nel vero ». La fiera soma! Meglio, meglio dormire, e non
destarsi; ma verrà la morte a liberar dalla vita. « Ad ogni modo », dice il
Gallo, la terribile voce che riempie di sé il mondo, c canta questa corsa
universale alla morte, « ad ogni modo, il primo tempo del giorno suol
essere ai viventi il più comportabile. Pochi in sullo svegliarsi
ritrovano nella loro mente pensieri dilettosi e lieti; ma quasi tutti se
ne La Vita solitaria
producono e formano di presente; giacché gli animi in quell’ora eziandio
senza materia alcuna speciale e de¬ terminata, inclinano sopra tutto alla
giocondità, o sono disposti più che negli altri tempi alla pazienza dei
mali. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto dal sonno, tro- vavasi
occupato dalla disperazione; destandosi, accetta uovamente neU’anima la
speranza, quantunque ella in niun modo se gli convenga ». Ed ecco,
dunque, la spe¬ ranza risorgere ogni giorno, anche se la sera finì
nella disperazione ; e se il Gallo silvestre paragona la vita
dell'universo al giorno, che comincia col mattino ma va alla notte, e
alla vita umana che muove dalla heta gio¬ vinezza incontro alla vecchiaia
e alla morte: e se ter¬ mina annunziando che tempo verrà, che la stessa
natura sarà spenta, e « un silenzio nudo e una quiete altissima
empieranno lo spazio immenso »; il dolce gusto della spe¬ ranza mattutina
e giovanile non è distrutto: perché quel tempo è molto remoto e (secondo
avvertì più tardi l’autore in una nota della seconda edizione) non
verrà mai: e la vita mortale ritorna sempre dalla notte al mat¬
tino, e la speranza risorge, e la vita rinasce di continuo. Le operette
dunque del terzo gruppo ricostruiscono, nella misura e nel modo che si
può secondo il Leopardi, quello che le prime dodici hanno abbattuto.
Ricostrui¬ scono, movendo dall’estrema mina in cui è caduta anche
la speranza della gloria, nel Parini. Il quale lega il terzo gruppo ai
precedenti; e fu ritirato dopo le prime due edizioni verso il principio,
e attratto nell’orbita del se¬ condo gruppo, poiché tra la Storia del
genere umano e il Timandro l’autore non voUe più il Sallustio] e lo
ri¬ fiutò e gli sostituì il Frammento di Stratone, collocato al
diciannovesimo posto, innanzi al Timandro. Allora il gruppo ricomprese il
Dialogo della Natura e di un'Anima e il secondo II Parini. E il
Frammento, lì sulla fine del- l’opera, innanzi all’epilogo apologetico,
fu come l’interpretazione metafisica che da ultimo il pensiero, ripie¬
gatosi su se medesimo, diede della propria intuizione filosofica:
concezione, sullo stile delle teorie cosmolo¬ giche greche più antiche,
di un universo go\'ernato da pure leggi meccaniche, com’era quello che
giaceva in fondo a ogni concetto pessimistico del Leopardi; onde si
tenta suggellare, nell’ intenzione del Poeta, l’immagine di quella Natura
che eternamente passa, e che negli ul¬ timi detti del Gallo silvestre è
rimasta «arcano mirabile e spaventoso ». Si noti che il
Sallustio fu conservato tra le venti ope¬ rette primitive anche
nell’edizione di Firenze del '34. quantunque in questa fossero aggiunti i
due nuovi dialoghi del Venditore d’Almanacchi e di Tristano] e si noti
che in questa edizione invece non potè entrare il Frammento di
Stratone molto probabilmente per le difficoltà già ac¬ cennate, derivanti
dalla materia di esso, poiché è il solo scritto crudamente
materialistico, che sia tra le Operette. 11 che, se si pensa pure al
fatto che il Frammento fu scritto verso il maggio del '25 • (quando il
Leopardi aveva tut¬ tavia presso di sé il manoscritto delle Operette, e
a\ rebbe già fin d’aUora pensato ad incorporarvelo, se questa
aggiunta non avesse disordinato il disegno simmetrico del hbro), dimostra
all’evidenza che i dialoghi fiorentini della stampa del ’34, che sappiamo
scritti a Firenze due anni prima, formano un nuovo gruppo a sé, che si
viene ad aggiungere alle prhnitive operette, senza fondervisi: come
avverrà del Frammento, appena l’autore crederà potere e dover tralasciare
il Sallustio, e sostituirlo. Perché tralasciarlo ? « Forse »,
risponde il Mestica I Cfr. Chi.\rini, O.C., Scritti letter. di G.
L., perché gli parve troppo scolastico e di materia non [
abbastanza originale, sebbene i pensieri in esso conte¬ nuti siano
conformi al suo filosofare ». « Il dialogo ha poco movimento e scarso
valore artistico », osserva lo Zingafelli ' : « l’invenzione è misera, e
sull’attrattiva dello strano e del fantastico prevale nel lettore un
senso d’incredulità. Per queste ragioni l’autore dovette rifiutarlo, e
forse anche per rispetto a Sallustio medesimo. Forse anche col passar
degli anni, il Leopardi non credè più che tutta la grandezza antica
perisse con Bruto e per opera di Cesare e dei cesariani ». Più si è
accostato al L vero questa volta il Della Giovanna > : « Forse egli si
sarà I pentito delle parole crudissime che usa parlando della I
libertà e della patria. È ben vero che anche altrove egli f lamenta
la mancanza d’amor patrio e di libertà, ma in modo più vago ». Il
Sallustio, in questo cinico pessimismo, contraddice al motivo
fondamentale delle Operette: logico nell’ordine di pensieri da cui sorse,
ma ripugnante a quei sentimenti più profondi, onde la personahtà del
poeta abbraccia in sé e contiene, e tempera quindi e solleva a un
suo particolar significato, siffatti pensieri. I quali non sono qui un
sistema filosofico astratto, ma l’alimento segreto di un’anima che si
riversa ed esprime in una poesia di grande respiro, la quale in tutta la
sua unità risuona all’anima del lettore come una musica, secondo
che osservò un amico del poeta, il Montani i, appena I operette
morali di L., ’ Le prose morali di L.Vedi la sua recensione
ncWAntologia del gennaioche incomincia; «Non vi è mai avvenuto una sera
d’opera nuova, di entrare in teatro a sinfonia cominciata, e imaginandovi
un motivo musicale diverso dal vero, trovar men bello e men
significante ciò che poi dee sembrarvi meraviglioso ? — Quando
VAntologia, or son due anni, pubblicò un saggio dell’operette del L.
ancora inedite.... io non ne fui che leggermente colpito; mi mancava il
motivo della musica. Intesone il motivo, al pubblicarsi delle operette
insieme unite, mi parve d'aver acquistato nuovo orecchio e nuovo sentimento.
E ne scrissi al Giordani, ch’era a Pisa, ov’oggi è il L., il quale allora
stava potè leggere tutta la collana delle Operette. Questo rrio
tivo fondamentale facilmente si riconosce nel preI^^]i^^ e nell’epilogo,
onde è inquadrata nella sua naturale cor nice la trilogia delle operette
: ossia nella Storia del genere umano e nel Timandro: due operette, che
sono affatto estranee a qucUo spirito, che si può dir proprio di
tutte le altre, ad eccezione dell’ Elogio degli uccelli, dove ji^re
qua e là s’insinua a frenare l’impeto Urico di gioia e d’entusiasmo; a
quello spirito, che si può definire con le parole stesse con cui il
Leopardi ritrae se medesimo in una lettera al Giordani (del tempo in cui forse raggiunse nel
Frammento di Stratone l’estremo termine di questo suo stato d’animo) : «
Quanto al ge¬ nere degli studi che io fo, come sono mutato da quel
che io fui, così gli studi sono mutati. Ogni cosa che tenga di affettuoso
e di eloquente mi annoia, mi sa di scherzo e di fanciullaggine ridicola.
Non cerco altro più fuorché il vero, che ho già tanto odiato e detestato.
Mi compiaccio di sempre meglio scoprire e toccar con mano la
miseria degli uomini e delle cose, e di inorridire freddamente,
speculando questo arcano infelice e terribile della vita dell’universo ».
Lo stesso animo, non altrettanto feli¬ cemente, ma con maggior abbandono,
esprimerà tut¬ tavia, nel ’26, nell’ Epistola al Pepoli : Ben
mille volte Fortunato colui che la caduca Virtù del caro immaginar
non perde Per volger d’anni; a cui serbare eterna La gioventù del
cor diedero i fati qui nel più quieto degli alberghi (già ridotto d’allegra
gente a’ di del Boccaccio), dicendogli che dalla porta di questo alla
camera del suo amico più non salirei che a cappello cavato. Le operette
del L. sono musica altamente melanconica... ». La recensione contiene più
d’una osservazione notabile.
SuU’amicizia del L. col Montani, vedi G. Mestica, Studi
leopardiani, Firenze, Le Mounier,
(si ricordi il Cantico del Gallo silvestre)] Della prima stagione i
dolci inganni Mancar già sento, e dileguar dagli occhi Le dilettoso
immagini, che tanto Amai, che sempre inlino all’ora estrema Mi
fieno, a ricordar, bramate e piante. Or quando al tutto irrigidito
e freddo Questo petto sarà, né degli aprichi Campi il sereno e
solitario riso. Né degli augelli mattutini il canto Di
primavera, né per colli e piagge Sotto limpido ciel tacita luna
Commoverammi il cor; quando mi fia Ogni bel tate o di natura o
d’arte. Fatta inanime e muta; ogni alto senso. Ogni
tenero affetto, ignoto o strano; Del mio solo conforto allor
mendico. Altri studi men dolci, in eh’ io riponga L’ingrato avanzo
della ferrea vita, Eleggerò. L’acerbo vero, i ciechi Destini
investigar delle mortaU E dell’eteme cose.. In questo specolar gh ozi
traendo Verrò: che conosciuto, ancor che tristo. Ila suoi
diletti il vero. Questo era stato il suo ideale nelle Operette]
speculare, scoprire, frugare la miseria degli uomini e di tutto, e
inorridire, ma con petto irrigidito e freddo. Se non che nel '25, nel
caldo ancora dell’opera, poteva credere di aver raggiunto già questo
stato d’animo; l’anno dopo egli, più ingenuamente, o meglio con maggior
consapevolezza, sente che il suo petto sarà forse un giorno, non è
ancora, al tutto irrigidito e freddo; non è eterna la gioventù del cuore,
né in lui, né in altri, ma non è ancora del tutto tramontata. Così nelle
Operette il freddo inorridire e il disprezzo d’ogni cosa che tenga di
affettuoso e di eloquente è un desiderio, un programma, un propo sito; ma
non è, né può essere il suo stile, poiché né ogni bellezza ancora gli è
inanime e muta, né ogni alto senso ogni tenero affetto ignoto e strano. E
questo sente liené e proclama il Poeta nel dialogo di Timandro e di
Elean- dro; dove a Timandro che, secondo la filosofia di moda fa
alta stima dell’uomo e del progresso di cui egli è capace' ed è insomma
un ottimista, il pessimista, che sente invece per l’uomo un’alta pietà, il
futuro cantore della Ginestra protesta di non essere un Timone (per
quanto non abbia sdegnato la parte di Momo di fronte a Prometeo) ; «
Sono nato ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto può
mai cadere in anima viva Oggi, benché non sono ancora, come vedete, in
età naturalmente fredda, né forse anco tepida » (aveva appena ventisei
anni !) ; « non mi vergogno a dire che non amo nessuno, fuorché me
stesso, per necessità di natura, e il meno che mi è pos¬ sibile ». Dove
ognun vede che realmente certo invinciliile pudore arresta Eleandro
innanzi alla conseguenza delle sue dottrine; e si ripigha subito infatti:
« Contuttociò sono solito e pronto a eleggere di patire piuttosto io,
che esser cagione di patimento ad altri. E di questo, per poca
notizia che abbiate de’ miei costumi, credo mi possiate essere testimonio
». L’amore degli altri si ribella alla negazione che se n’ è voluto fare, e
s’appella all’ intima e irreprimibile attestazione del cuore. Altro
che freddezza e petto irrigidito! E da ultimo Eleandro conchiude; «Se ne’
miei scritti io ricordo alcune verità dure e triste, o per isfogo
deU’animo, o per consolarmene col riso, e non per altro ; io non lascio
tuttavia negli stessi libri di deplorare, sconsigUare e riprendere lo
studio di quel misero e freddo vero, la cognizione del quale è
fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo, [Ed
ecco perché, scritto il dialogo, sentì di non doverlo più inti¬ tolare,
come aveva pensato da principio, di Misinore e Filénore : egli non era
davvero quell’odiatore dell’uorao (ixio-TjVcop) che poteva parere; né vero
Filénore poteva dirsi l’ottimista. iniquità e disonestà di azioni,
e perversità di costumi: laddove, per lo contrario, lodo ed esalto quelle
opinioni, benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti,
magnanimi, \nrtuosi, e utili al bene comune o privato; quelle
immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che danno pregio alla vdta;
le illusioni naturali dell’animo ; e in line gli errori antichi, diversi
assai dagh errori bar¬ bari; i quali, solamente, e non quelli, sarebbero
dovuti cadere per opera della civiltà moderna e della filosofia
». Dunque, ogni alto senso e tenero affetto, destato da queste
illusioni, non sarà spiegabile nel mondo a cui si volgono gh occhi del
Leopardi, il mondo di Stratone da Lampsaco, o la natura dell’ Islandese,
— come non è spiegabile nel mondo che solo esiste per la scienza;
ma non perciò è ignorato, o è divenuto estraneo al cuore del Poeta.
11 quale non è Timandro, ma è bene Eleandro; e a dispetto di quella
natura, che è il vero, ama gli uomini e la virtù, dichiarandola
un’illusione, ma naturale, e quindi vera, quantunque contradittoria a
quell’altra na¬ tura, che non conosce né amore, né bene. Inorridire
fred¬ damente, sì; ma inorridire, ed elevarsi quindi al di sopra
della universale miseria, sentita come tale, e non assentirvi, non
semplicemente intelligere, come Spinoza avrebbe voluto. Così
nella Storia del genere umano, vero preludio alla sinfonia delle
Operette, quando l’uomo è pervenuto all’ uno fondo di cotesta miseria,
rappresentato dall’ap- parire in terra della Verità, spunta egualmente
una divina pietà al soccorso dell’ infelicità intollerabile dei
mortali : « La pietà, la quale negli animi dei celesti non è mai spenta,
commosse, non è gran tempo, la volontà di Giove sopra tanta infehcità; e
massime sopra quella di alcuni uomini singolari per finezza d’
intelletto, con¬ giunta a nobiltà di costumi e integrità di vita; i quali
egli vedeva essere comunemente oppressi ed afflitti più IO. —
(‘tKSTli.y.. iicnz* ni r L'-'p ’rtìi. che alcun altro, dalla
potenza e dalla dura dominazione di quel genio»: ossia appunto, della
Verità. Giove, «compassionando alla nostra somma infelicità, propose agjj
immortali se alcuno di loro fosse per indurre l’animo a visitare, come
avevano usato in antico, e racconsolare in tanto travaglio questa loro
progenie, e particolarmente quelli che dimostravano essere, quanto a se,
indegni della sciagura universale». Tacciono tutti gli altri Dei¬
ma si offre Amore, figliuolo di Venere Celeste, «questo massimo iddio »,
che « non prima si volse a visitare i mortali, che eglino fossero
sottoposti all’ imperio della Verità ». Di rado egli scende, e poco si
ferma, e perché la gente umana ne è generalmente indegna, e perché
gli Dei molestissimamente sopportano la sua lontananza. EgU è dunque
premio, che l’uomo conquista con la sua grandezza. La quale perciò è
condannata sì all’ infelicità del vero; ma è pur redenta e beatificata da
Amore. « Quando viene in sulla terra, sceglie i cuori più teneri e
più gentih delle persone più generose e magnanime; e quivi siede per
breve spazio; diffondendovi sì pellegrina e mirabile soavità, ed
empiendoh di affetti sì nobili, e di tanta virtù e fortezza, che eglino
allora provano, cosa al tutto nuova nel genere umano, piuttosto verità
che rassomiglianza di beatitudine. Rarissimamente congiunge due
cuori insieme, abbracciando l’uno e l’altro a un medesimo tempo, e inducendo
scambievole ardore e desiderio in ambedue; benché pregatone con
grandissima istanza da tutti coloro che egli occupa: ma Giove non
gli consente di compiacerli, trattone alcuni pochi; perché la felicità
che nasce da tale beneficio, è di troppo breve intervallo superata dalla
divina. A ogni modo, l’essere pieni del suo nume vince per se qualunque
più fortunata condizione fosse in alcun uomo ai migliori tempi. Ed
ecco perché il Poeta inorridisce, sia pur freddamente, allo spettacolo
del tristo vero. La sua anima è calda (iel divino beneficio di Amore. Né
può in lui la verità (quella mezza verità) contro le sacre illusioni, che
né egli può respingere, né altri egli ha consigliato mai a
respingere. « Dove egli si posa, dintorno a quello si ag¬ girano,
invisibili a tutti gli altri, le stupende larve, già segregate dalla
consuetudine umana; le quali esso Dio riconduce per questo effetto in
sulla terra, permettendolo Giove, né potendo essere vietato dalla Verità,
quantunque inimicissima a quei fantasmi, e nell’animo grandemente
offesa del loro ritorno: ma non è dato alla natura dei geni di
contrastare agli Dei ». Non può, cioè, la nostra logica non render l’arme
all’arcano, che resta pel Poeta questa natura, la quale mette in cuore il
bisogno della virtfi, e la fa apparire poi stolta a Bruto. Infine,
quella stessa giovinezza e freschezza mattinale, arrisa e ringa¬
gliardita dalla speranza, ecco, risorge per x’irtù di questo Amore ; « E
siccome i fati lo dotarono di fanciullezza eterna, quindi esso,
convenientemente a questa sua natura, adempie per qualche modo quel primo voto
degli uomini, che fu di essere tornati alla condizione della puerizia.
Perciocché negli animi che egh si elegge ad abitare, suscita e
rinverdisce, per tutto il tempo che egh vi siede, l’infinita speranza e
le belle e care immaginazioni degli anni teneri. Molti mortah, inesjierti
c incapaci de’ suoi diletti, lo scherniscono e mordono tutto giorno, sì
lontano come presente, con isfrenatissima audacia: ma esso non ode
i costoro obbrobri; e quando gli udisse, niun sup- phzio ne prenderebbe:
tanto è da natura magnanimo e mansueto ». Qui non c’ è
satira, né riso, né fredda anahsi; ma la più ferma fede e l’anima stessa
del Poeta, che con la pietà di Giove accenna già da lungi alla pietà di
Elean- dro: e raccoghe in questo suo magnanimo e mansueto amore
tutta la infehcità degli uomini e delle cose, e la purifica e sana nel
gran mare tranquillo del cuore, dove le illusioni rinverdiscono ad ora ad
ora in una perpetua giovinezza; e la vita vera non è quella dell’egoismo
e della barbarie, ma dell’affetto che lega le anime con nodi
divini, e della bellezza, della libertà, della patria, e di tutte le cose
nobili e alte che fan grande l’uomo. Questo amore, che dà piuttosto
verità che rassomiglianza di beatitudine, e ristaura tutta la vita umana,
questo è il vero spirito delle Operette morali. Pes¬ simista, sì, ma alla
Pascal, che disse; L’homme n’est qu’un roscau, le plus faible de la
nature] mais c’est un roseau pen- sant. Il ne faut pas que l’univers
entier s’arme pour l’écraser ; une vapeur, une gcmtte d'eau, suffit pour
le tuer. d/a/s, quand l’univers l’écraiserait, l' homme serait encore
plus noble que ce qui le tue, par ce qu’ il sait qu’ il meiirt, et
l’avantage que l’univers a sur lui] l’univers n’en sait rien\ sicché la
grandeur de l’homme est grande en ce qu’ il se connaU misérable E il
Leopardi nell’agosto del ’23, alla vigilia delle Operette, e quando il
concetto di esse era già maturo ; Niuna cosa maggiormente dimostra la
grandezza e la potenza dell’umano intelletto, ossia 1 altezza e no¬
biltà deH’uomo, che il poter l’uomo conoscere e intera¬ mente comprendere
e fortemente sentire la sua piccolezza. Quando egli considerando la
pluralità dei mondi, si sente essere infinitesima parte di un globo che è
minima parte degh infiniti sistemi che compongono il mondo, e in
questa considerazione stupisce della sua piccolezza e pro¬ fondamente
sentendola e intensamente riguardandola, si confonde quasi col nulla, e
perde quasi se stesso nel pen¬ siero della immensità delle cose, e si
trova come smarrito nella vastità incomprensibile dell’esistenza; allora
con que¬ sto atto e con questo pensiero egli dà la maggior piova
della sua nobiltà, della forza e della immensa capacità della sua
mente, la quale, rinchiusa in sì piccolo e menomo essere. I Pensées,
(Brunschvicg). è jiotuta pervenire a conoscere e intendere cose
tanto superiori alla natura di lui, e può abbracciare e con¬ tener
col pensiero questa immensità medesima della esistenza e delle cose. Questa
coscienza dell’umana grandezza e sovranità sulla trista natura il
Leopardi non smarrì mai; ed è l’anima di tutta la sua poesia, in cui
queste Operette rientrano. E chi voglia intenderle, deve nel loro
insieme e in ogni singola parte che le costituisce, aver l’occhio a
questo punto centrale, da cui s’irradia la luce che tutte le investe e
compenetra. Tutte, ad eccezione del Sallustio, che è negazione fredda,
senza l’orrore, la ri- beUione dell’animo, il dolore, sia pur mascherato
da amaro sorriso, che si diffonde in tutte le altre. E questo parmi
il giusto motivo che indusse l’autore a sopprimerlo. VII.
Quando nel ’27 una nuova ripresa della primitiva ispirazione diede il
Copernico e il Plotino, venutisi quindi ad aggiungere alle prime Operette
già formanti un orga¬ nismo, r ispirazione non era punto mutata. Giacché
il Copernico dimostra, secondo il detto dello stesso autore, la
nullità del genere umano; e la dimostra ripigliando un’ idea che contro i
Timandri medievali attardati aveano già nel Cinque e Seicento svolta
Bruno nella Cena delle ceneri e Galileo nei Massimi sistemi] donde la
conclu¬ sione necessaria che Porfirio ricava nell’altro dialogo
(che sarebbe poi la conclusione rigorosamente logica di tutta la parte
negativa delle Operette) : che sia ragio¬ nevole uccidersi. Ed egh vince
a furia di argomentare (movendo da premesse, che son quel che sono, ma a
lui paiono ben fondate) il suo stesso maestro, Plotino. Ma
Pensieri, Plotino può opporgli una sapienza assai più profonda più vera:
«Sia ragionevole l’uccidersi; sia contro ragion^ 1 accomodar l’animo alla
vita : certamente quello è u ^ atto fiero e inumano. E non dee piacer
più, né vuoP elegger piuttosto di essere secondo ragione un mostr^'
che secondo natura uomo. Perché contro natura e contro umanità il
suicidio ancorché conclusione di logica inesorabile? Porgiam’orecchio,
dice Plotino, «piuttosto aUa natura che alh ragione. E dico a quella
natura primitiva, a quella madre nostra e deU’universo; la quale se bene
non ha mostrato di amarci, e se bene ci ha fatti infelici, tuttavia ci è
stata assai meno inimica e malefica, che non siamo stati noi coir
ingegno proprio, colla curiosità incessabile e smisu¬ rata, colle
speculazioni, coi discorsi, coi sogni, colle opinioni e dottrine misere: e
particolarmente, si è sforzata ella di medicare la nostra infelicità con
occultarcene, o con trasfigurarcene, la maggior parte. E quantunque
sia grande 1 alterazione nostra, e diminuita in noi la jjo- tenza
della natura; pur questa non è ridotta a nulla né siamo noi mutati e
innovati tanto, che non resti in ciascuno gran parte dell’uomo antico. Il
che, mal grado che n’abbia la stoltezza nostra, mai non potrà essere
altrimenti. Ecco, questo che tu nomini error di computo; veramente errore, e
non meno grande che palpabile; pur si commette di continuo; e non dagli
stupidi solamente e dagl’idioti, ma dagl’ingegnosi, dai dotti, dai saggi;
e si commetterà in eterno, se la natura, che ha prodotto questo nostro
genere, essa medesima, e non già il raziocinio e la propria mano degli
uomini, non lo spegne. E credi a me, che non è fastidio della vita,
non disperazione, non senso della nulhtà delle cose, della vanità
deUe cure, della solitudine dell’uomo; non odio del mondo e di se
medesimo, che possa durare assai: benché queste disposizioni dell’animo
sieno ragionevolissime, e le lor contrarie irragionevoli. Ma contuttociò,
passato un poco di tempo, mutata leggermente la disposizion del corpo; a poco a
poco, e spesse volte in un subito, per cagioni menomissime, e appena
possibili a notare; rilassi il gusto della vita, nasce or questa or
quella speranza nuova, e le cose umane ripigliano quella loro apparenza,
e mostransi non indegne di qualche cura; non veramente all’ intelletto,
ma sì, per modo di dire, al senso dell’animo » •. E infine, conclude
Plotino, questo senso, non 1 ’ intelletto, è quello che ci governa.
Sicché è evidente che non la filosofia negativa, che spazia dal
Dialogo d’ Ercole e di Atlante fino al Cantico del Gallo silvestre e al
Frammento di Stratone, e poi nel Copernico, opera di puro intelletto, è
la somma della sapienza leo¬ pardiana; ma questa stessa filosofia in
quanto dichiarata stoltezza dalla natura e da questo « senso dell’animo
». Senso dell'animo, che è sempre amore per il Leopardi.
Giacché non la sola natura ci riattacca alla vita, sì anche un bisogno
d’amore, che a noi spetta di alimentare: « E perché », chiede Plotino, «
anche non vorremo noi avere alcuna considerazione degh amici; dei
congiunti di sangue; dei figliuoli, dei frateUi, dei genitori,
della moglie; delle persone familiari e domestiche, colle quali
siamo usati di vivere da gran tempo; che, morendo, bisogna lasciare per
sempre : e non sentiremo in cuor nostro dolore alcuno di questa
separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, e per la
perdita di persona cara o consueta, e per l’atrocità del caso ? ». E dice
la parola, che si va cercando attraverso tutte le Operette, ma di
cui può dirsi quello stesso che Tacito dell’ imma- Il solo, a mia
notizia, che abbia rilevato l’importanza che questo «senso dell'animo» ha
nel sistema dello spirito leopardiano, come principio di redenzione dal
pessimismo, è stato il prof. Giovanni Negri, nelle sue Divagazioni
leopardiane (6 volumi, Pavia, 1894-99), passim, e specialmente voi. V,
pp. lys-yy. 1gine di Bruto mancante ai funerali della sorella:
prae- fulgebat eo ipso gitoci non visebatiir. « E in vero, colui
che si uccide da se stesso, non ha cura né pensiero alcuno degli
altri; non cerca se non la utilità propria; si gitta per così dire,
dietro alle spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano: tanto che in
questa azione del privarsi della vita, apparisce il più schietto, il più
sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se medesimo,
che si trovi al mondo. Dunque quella grandezza non è infelicità;
perché l’uomo infelice dovrebbe darsi la morte; e si ucciderebbe se
vivesse per la felicità e si attenesse quindi al calcolo dell’utile. Ma
la vera vita è non sembianza, sì verità di beatitudine se è amore, in cui
l’uomo non distingue più sé dagli altri, né agli altri antepone più se
stesso. E questa è la A’irtù, la magnanimità, di cui parla tanto spesso L.,
che non è più il dolore incomportabile che ci fa invidiare i morti, ma
questo amore che ci stringe ai viventi, e ci ammonisce dal fondo del
nostro cuore di uomini, come Plotino con voce tremante di affetto
dice al suo Porfirio: «Viviamo, e confortiamoci a vicenda; non
ricusiamo di portare quella parte che il destino ci ha stabìhta, dei mali
della nostra specie. Sì bene attendiamo a tenerci compagnia l’un l'altro; e
andiamoci incoraggiando e dando mano e soccorso scambievolmente;
per compiere nel miglior modo questa fatica della vita». Questo amore,
che ci regge e riempie la vita, ci conforta la morte e ci abbellisce
l’idea di questo mondo, da cui non spariremo senza sopravvivere. « E
quando la morte verrà, allora non ci dorremo: e anche in quell’ultimo
momento gli amici e i compagni ci conforteranno: e ci rallegrerà il
pensiero che, poi che saremo sjienti, così molte volte ci ricorderanno, e
ci ameranno ancora ». Vili. Amore è la prima e l’ultima
parola delle Operette. Le quali ebbero ancora una ripresa nei due
dialoghi fiorentini: il Venditore d’Almanacchi e Tristano. Nel primo ritorna il
motivo del Cantico del Gallo silvestre. Il venditore d’almanacchi col suo
grido festoso annunzia l’anno nuovo, il tempo che ri¬ comincia, e risveglia
le speranze e promette. Ma il pas¬ seggero in cui s’incontra oppone la
sua fredda riflessione a quell’ impeto di vaghe e indefinite speranze, e
lo conduce a considerare che « quella vita eh’ è una cosa bella, non è la
vita che si conosce, ma quella che non si co¬ nosce ; non la vita
passata, ma la futura ». La vita che si conosce è la passata, mista di
beni e di mali, e a cagione di questi ultimi tale che nessuno vorrebbe
riviverla: vita brutta, dunque. La futura è quella che non si
conosce, e che sarà egualmente brutta quando sarà passata; e
sarebbe perciò non meno brutta, se noi ce la vedessimo venire incontro
quale in effetti sarà. Dunque ? Il Leo¬ pardi non conchiude ; ma la
conclusione è quella che viene dalle Operette: sperare non è ragionevole,
poiché, come cantava il Gallo silvestre, già si corre alla morte;
ma non sperare non si può; perché, è evidente, il futuro sarà
brutto quando sarà passato; ma bello è finché fu¬ turo; né di questo futuro
potrà mai tanto passarne che non ce ne sia sempre dell’altro, in cui
possa rifugiarsi la speranza, o innanzi a cui non possa il Gallo
intonare il suo canto consolatore. E la vita resta sempre con
queste due facce ; a vedersela innanzi, qual’ è, una mi¬ seria disperante;
a viverla, a \'iverci dentro col nostro cuore, i nostri fantasmi, le
nostre speculazioni e il no¬ stro amore, una beatitudine divina. Fu per
Giacomo l’anno della tragica prova della sua fede. Dopo dieci anni tornò
la misera Saffo a rivivere nel suo animo; non però luminosa immagine
della fantasia, come nell’ Ultimo canto, ma vita del cuore stesso di
Giacomo. Bello il tuo manto, o divo cielo, e bella Sei tu,
rorida terra. Airi di cotesta Infinita beltà parte nessuna Alla
misera Saffo i numi e l’empia Sorte non fenno. A’ tuoi superbi
regni Vile, o natura, e grave ospite addetta, E dispregiata
amante, alle vezzose Tue forme il core e le pupille invano
Supplichevole intendo Non meno supplichevole Giacomo guarda ad
Aspasia; onde ricorderà: Or ti vanta, che il puoi. Narra che
prima, E spero ultima certo, il ciglio mio Supplichevol
vedesti, a te dinanzi Me timido, tremante (ardo in ridirlo Di
sdegno e di rossor), me di me privo. Ogni tua voglia, ogni parola,
ogni atto Spiar sommessamente, a’ tuoi superbi Fastidi impallidir. E
cadde l’inganno, e la vita, orba d’affetto e del gentile errore, fu «
notte senza stelle a mezzo U verno ». Ma Saffo proruppe nel grido
disperato ; — Morremo ! -- e violenta cercò l’atra notte e la silente riva.
Leopardi scrisse invece Amore e morte] dove la morte non è più
l’orrido Dite di Saffo, anzi si palesa in tutta la sua gen¬ tilezza fino
alla donzeUa timidetta e schiva. È sorella d’Amore ; 1
Ultimo canto di Saffo. Aspasia. Bellissima fanciulla, Dolce a
veder, non quale La si dipinge la codarda gente. Gode il fanciullo
Amore Accompagnar sovente; E sorvolano insiem la via
mortale. Primi conforti d'ogni saggio core £ la morte
sospirata dall’amante, nel languido e stanco desiderio di morire, che si
sente Quando novellamente Nasce nel cor profondo Un
amoroso affetto, perché già a’ suoi occhi la vita diviene un
deserto: a se la terra Forse il mortale inabitabil fatta Vede
ornai senza quella Nova, sola, infinita Felicità che il suo pensier
figura; Ma per cagion di lei grave procella Presentendo in
suo cor, brama quiete. Brama raccorsi in porto Dinanzi al
fier disio. Che già. rugghiando, intorno intorno oscura.
E a questa morte consolatrice, che insieme con amore è quanto di
bello ha il mondo, a questa morte, senza armare la mano, anzi con umile e
mansueto animo, vol- gesi il Poeta con un sospiro di religiosa
preghiera: Bella morte, pietosa Tu sola al mondo dei
terreni affanni. Se celebrata mai F'osti da me, s’al
tuo divino stato L’onte del volgo ingrato Ricompensar tentai.
• Amore e morte -- Non tardar più, t’inchina A disusati
preghi. Chiudi alla luce ornai Questi occhi tristi, o
dell’età reina. Non già che amore e morte abbian potere di
cancellare la fatale infelicità: né che l’uomo e il Leopardi
abbiano mercé loro, a lodarsi del fato. Quando Morte spiegherà le
penne al suo pregare, lo troverà Erta la fronte, armato,
E renitente al fato. La man che flagellando si colora
Nel suo sangue innocente Non ricolmar di lode. Non benedir. La
morte è consolatrice e liberatrice da questo fato cru¬ dele: ma già
Leopardi aspetta sereno quel dì ch’ei pieghi addormentato il volto nel
vergineo seno di lei; e il fato è vinto nel suo animo gentile da questa
aspettazione: vinto nella stessa vita. E questo è Tanimo di
Tristano; il quale, dopo avere con amara ironia fatta la palinodia
del suo libro, conchiude che il meglio sarebbe di bru¬ ciarlo : « non lo
volendo bruciare, serbarlo come un libro di sogni poetici, d’invenzioni e
di capricci malinconici, ovvero come un’espressione dell’infelicità
dell’autore»; perché, soggiunge al suo amico Tristano, con accento
che viene dal cuore e vibra di commozione, « perché in confidenza, mio caro
amico, io credo febee voi e felici tutti gli altri; ma io, quanto a me,
con licenza vostra e del secolo, sono infebeisshno: e tale mi credo; e
tutti i giornali de’ due mondi non mi persuaderanno il contrario ».
Egb è flagellato dallo stesso fato di Amore e morte. «E di più vi dico
francamente eh’ io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego il
capo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altri uomini; e
ardisco desiderare la morte, e desiderarla sopra ogni altra cosa.... Né
vi parlerei così se non fossi ben certo che, giunta l’ora, il fatto
non ismentirà le mie parole.... In altri tempi ho invidiato gli sciocchi
e gh stolti, e quelli che hanno un gran concetto di se medesimi; e
volentieri mi sarei cam¬ biato con qualcuno di loro. Oggi non in\'idio più
né stolti né savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. In¬
vidio i morti»: i morti di Ruysch, già sicuri àzH’antico dolori E
quest'invidia, questo desiderio intenso della morte, è fiducia confortata
da una speranza che non falhrà, e che già allieta di sé Tanimo sottratto
per lei a quella vita che è dolore: a quella cosa arcana e
stupenda, che i morti di Ruysch possono ricordare senza tema,
poiché è un passato irrevocabile: «Ogni immaginazione piacevole, ogni
pensiero dell’avvenire, ch’io fo, come accade nella mia solitudine, e con
cui vo passando il tempo, consiste nella morte»: che è un avvenire,
adunque, quale il venditore di almanacchi lo prometteva. In
conclusione, ancora una volta, e sempre, l’amore trionfa del dolore,
anche nella morte, che ci libera infine da quella vita che la natura e il
fato danno all’uomo « di cedere inesperto ». Cederebbe il suicida
egoista, non il magnanimo che allarga la sua persona nell’amore, e
guarda sereno alla morte amica che lo sottrarrà, e lo sottrae, alla
miseria di Saffo e dell’ Islandese. Quanta differenza tra la morte di cui
Ercole ragiona con Atlante 0 quella che s’incontra nella Moda, al
principio delle Operette) e questa morte, a cui l’animo si volge desioso
alla fine delle Operette stesse ! Il filo aureo che dall’una conduce all
altra è già nella Storia del genere umano'. Amore figlio di Venere
celeste. Questo scritto fu pubblicato prima nel Messaggero della domenica, poi
nei Frammenti di estetica e letteratura, A proposito del Leopardi toma
sempre in campo la questione delia differenza e del rapporto tra
filosofia e poesia: poiché questo poeta voUe essere, e per certi rispetti
nessuno può negare sia stato infatti un filosofo; ma, d’altra parte, egli
stesso pare abbia voluto distin¬ guere una cosa dall’altra, come res
dissociabiles, e in un libro di prosa volle in forma più sistematica e
più ra¬ zionalmente convincente esporre quel suo pensiero da cui
traeva intanto ispirazione il suo canto nelle poesie. E non importa se non
ci sia una sola delle sue poesie in cui il Leopardi non ragioni la sua
fede e non si sforzi di dimostrare la verità del concetto ch’egli s’era
formato della vita, e che attraverso una determinata situazione
personale, un paesaggio, un ’immagine, si sforza costantemente di mettere in
piena luce. Non importa se nessuna delle prose raccolte nelle Operette
morali si presenti sotto la forma di scolastica dimostrazione e scevra di
quel sentimento, di quella viva commozione, in cui \dbra la
personalità del poeta così nelle Operette come nei Canti. La distinzione
pare tuttavia innegabile, poiché, non po- tenilo altro, se ne fa una
questione di quantità e di più e di meno: affermando che l’elemento
filosofico predomina nelle Operette, e l’elemento hrico nei Canti. E si
crede così di salvare la tesi generale, che bisogna rinunziare alla
filosofia per esser poeti, e viceversa: giacché la loro natura è così
diversa e ripugnante, che l’una non può esser l’altra e una sempre deve
essere sacrificata. Ma io non voglio ora affrontare la questione,
che potrà sembrare tanto teoricamente difficile e dehcata
li. — Gkntilk, Òfamoni e Leopardi.
quanto praticamente inutile e oziosa. Nel caso del Leo¬ pardi la
questione di principio è priva d’ogni interesse, perché il Leopardi,
anche nelle sue prose, è indubbiamente poeta ; temperamento poetico
sempre, che, canti o ragioni, cioè si proponga Luna o l’altra cosa, in
realtà non riesce se non ad esprimere se stesso; a vivere di quella
verità che gli invade l’anima e non gli lascia modo di dubitare e
di assoggettarla a quella più alta razionalità, a quella critica
oggettiva che s’inquadra in un sistema, e in cui consiste propriamente
una filosofia che non vuol dire che non abbia anche lui la sua filosofìa;
ma è una filosofìa fatta vita e persona, fatta vibrazione e ritmo
del suo stesso sentimento, incapace come tale d’acquistare intera
coscienza di sé, e perciò di superarsi. E, cioè, un certo suo
atteggiamento spirituale, che s’effonde nella divina ingenuità della
poesia, e che riesce perciò superiore a quella dottrina che l’autore si
sforza consapevolmente di formulare. Superiore perché, —
ormai è noto agh studiosi più attenti della sua poesia — questa ha pel
poeta un conte¬ nuto pessimistico, e per noi, invece, ha un
contenuto ottimistico. La vita infelice, necessariamente e fatal¬
mente infelice, è ciò che il poeta aveva innanzi agli occhi, vedeva e si
proponeva di cantare. Ma poiché quella \nta che ogni poeta canta non è
quella che ha innanzi agli occhi, bensì quella che ha dentro al cuore, e
però ogni poeta canta non la vita quale egli la vede, ma il cuore
con cui egli la guarda; e poiché il cuore di Giacomo Leo¬ pardi era, come
egli disse una volta, nato ad amare, ed aveva « amato, e forse con tanto
affetto quanto ]iuò mai cadere in anima vdva », così, in realtà, tema del
suo I Vedi ora il mio scritto Arte e religione, nel Giorn. crii.
d. filos- Hai., e nel voi. Dante e
Manzoni, Firenze, Vai- lecchi,-- canto non fu mai quella brutta vita, che
è piena di do¬ lore, ma quell’altra che egli più profondamente
sentiva, redenta dall’amore, la quale «dà piuttosto verità che
rassomiglianza di beatitudine. Poiché appunto qui è il divario tra pessimismo e
ottimismo: che il primo vede la vita quale apparisce nella natura
considerata dal punto di vista materialistico, brutale, sorda ai bisogni
e alle finalità dello spirito, chiusa in sé di contro alle aspirazioni
dell’anima umana biso¬ gnosa di amore e di consenso, ossia di un mondo conforme
alla sua vita e a lei consentaneo; e l’altro invece crede nello spirito,
nel valore de’ suoi ideali, e nell’energia dell’amore che sola è capace
di reahzzare un tale valore. 11 mondo del pessimista è il mondo
dell’egoismo, per cui il dovere e la \nrtù sono mere illusioni, e il
mondo del¬ l'ottimista è il mondo in cui la più salda e vera realtà
è quella che risponde alle esigenze dell’animo. E la verità è
questa: che il Leopardi, pessimista di filosofia, e ijuasi alla
superficie, fu invece ottimista di cuore, e nel profondo dell’animo: tanto più
acutamente pessimista, col progresso della riflessione, e tanto più
altamente e umanamente ottimista. Basta confrontare la canzone All’Italia con
La Ginestra. Di qui la sublime bellezza della sua poesia, dove la
bestemmia e lo strazio della disperazione si smorzano e dissolvono nella
commossa e tenera effusione di un’anima angosciosamente agitata da
un bisogno di amore universale e da un’ incoercibile fede nella
virtù e nella realtà dell’ ideale. Egli non ha la filosofia di questo superiore
ottimismo in cui rimane assor¬ bita la sua iniziale visione pessimistica;
e continua a dire che la sua è sempre la filosofia del Bruto Minore^-,
ma l’anima, che non perviene al concetto filosofico di quella
' storia del genere umano. - Lett. al De Sinner -- realtà
che è per lei la vera e suprema realtà, raggiungo bensì la forma poetica
della sua espressione in modo pieno e perfetto. Se cerchiamo
in lui il filosofo, avremo lo scettico, ironista, materialista piuttosto
mediocre nell’ invenzione, dove riesce facile scoprire quanto egli debba
ai libri che lesse, e come pronto fosse ad attingere dalle fonti
ph, disparate tutto ciò che comunque paresse giovare a con¬ ferma
delle sue idee: mediocre nell'esposizione od ela¬ borazione della
materia, per evidente inesperienza del metodo lìlosofìco e insufficiente
familiarità coi grandi pensatori di tutti i tempi. Ma chi legga il
Leopardi e si fermi a ciò che in lui è mediocre, non ha occhi né
anima per vedere che cosa c’ è propriamente in lui che è vivo ed
eterno e grande: ciò per cui anche a chi pedanteggi la sua poesia
s’impone e suscita un’eco solenne nell’animo. In questo senso bisogna pur
dire che in Leopardi non si deve cercare e non c’ è il filosofo: ma c è
un anima, che rifulge in tutto lo splendore della sua grandissima
uma¬ nità. C’ è insomma il poeta. Anche nelle sue Operette.
Le quali io credo di avere definitivamente dimostrato con argomenti
esterni, at¬ testanti nella maniera più esplicita 1’ intenzione di
esso il Leopardi, e con argomenti interni, desunti dallo svolgimento del
pensiero e dagli evidenti legami onde le singole operette sono congiunte
tra loro per graduali passaggi di atteggiamenti spirituali e di
sentimenti dal primo all’ultimo anello, che non sono una raccolta,
ma un organismo, un tutto unico, che si articola dentro di se
stesso e si conchiude. Si conchiude tra un preludio e un epilogo in una
opera, che è un poema, e non è un trattato: un libro di poesia, anch’esso,
e non di conte¬ nuto didascalico e speculativo. Il quale si compone o ginariamente
di venti capitoli, scritti tutti in un anno di lavoro felice, ma con un
intervallo tra i primi quattordici e gli altri sei: in guisa da suggerire
il sospetto che la ripresa, da cui trasse origine Tultima parte,
svolgendosi in sei capitoli, potesse trovare riscontro nella prima serie:
dalla quale sottraendo il primo e l’ultimo capitolo, quello perché
introduzione e questo perché apologia e conchiusione di tutta la serie,
si ottengono infatti dodici capitoli, che naturalmente si dividono
in due gruppi di sei capitoli ciascuno; e ciascun gruppo è
destinato a svolgere un certo motivo, e quindi forma un ritmo a sé.
Sospetto confermato da alcuni spostamenti dall’autore introdotti nel primitivo
ordine cronologico, e poi costantemente mantenuti, salvo una
sostituzione che nella terza edizione del libro mise uno scritto, per
l’innanzi non potuto mai pubbhcare, al posto di un capitolo del primo
gruppo: capitolo abolito allora perché infatti non armonico né col
gruppo, né con tutta l’opera. La distribuzione, è ovvio, non
può avere se non una importanza relativa. £ ragionevole pensare che
fosse voluta e curata dall’autore. Il quale egualmente non volle
mai rispettare l’ordine cronologico nelle edizioni da lui curate dei
Canti, e diede loro un ordinamento ideale, che per lui aveva un \'alore,
e che per i lettori ed inter¬ preti non può essere perciò trascurabile.
Ma il fatto stesso che tutte e venti le operette furono scritte
successivamente, l’una dopo l’altra, nello stesso periodo di tempo, e
hanno tutte un prologo generale e un unico epilogo, dimostra
evidentemente che i loro singoli gruppi non si possono considerare
separatamente, quasi ognun d’essi formasse un tutto a sé. La
distribuzione del nucleo principale delle Operette in tre gruppi di sei
capitoli ciascuno, con a capo un capitolo introduttivo e in fondo un altro
capitolo conclusivo, può servire soltanto a renderci attenti per leggere
le varie parti del libro cercandovi tre motivi fondamentali che nel
pensiero deU’autore si fondo no in un solo ritmj complessivo, e
formano l’unità organica del libro; e in questo modo può servire quasi di
chiave a un libro, che fino a ieri si leggeva qua e là, scegliendo l’uno
o l’altro capitolo, come se ciascuno stesse da sé. E non occorre
dire che ci vuole discrezione, e non bisogna pretendere un taglio netto
tra un gruppo e l'altro, e una soluzione di continuità che non si sa
perché l’autore avrebbe do¬ vuto introdurre una prima e una seconda volta
nel corso della sua unica opera. Discrezione che non vedo,
per esempio, nel professor Faggi ', quando del Dialogo di Malambrmio e
Farfarello che resta collocato alla fine del primo gruppo e da ser¬
vire quindi come passaggio al secondo, mi domanda: « Ma non potrebbe
stare anche nel secondo, poiché è una affermazione chiara ed esplicita
dell’ infelicità assoluta dell’esistenza, onde si conchiude che,
assoluta- mente parlando, il non vivere è sempre meglio del vivere ? ».
Ma io non avevo eretto nessuna muraglia tra il primo gruppo concluso da
questo dialogo di Malambruno e Farfarello e il secondo aperto da quello
della Natura e di un’Anima: anzi, dopo aver mostrato il pensiero
dominante nel primo gruppo, additavo in Malambruno quell’anima che si
ritrova di fronte alla Natura al prin¬ cipio del nuovo ciclo; e tra i due
dialoghi successivi non un salto, anzi un passaggio naturale e come
insensibile ove non si osservi che quella che nel primo ciclo è una
constatazione, un'osservazione di fatto, diventa nel se¬ condo ciclo il
problema. Il Faggi, tratto forse in inganno da alcune parole [Una
nuova edizione delle fn Operette movali n di G. L., nel Mar¬ zocco -- da
me usate incidentalmente, mi fa dire che la diffe¬ renza tra primo e
secondo periodo in questa trilogia delle Operette consisterebbe, secondo
me, in ciò: che nel primo « r infelicità del genere umano si considera
particolarmente nell’età moderna come effetto più che altro della volontà
pervertita dell’uomo e della civiltà », e nel secondo invece, « questa
infelicità si considera come legge imprescindibile e ineluttabile
dell’umanità o del mondo in genere»; sicché «la Natura, che nella
prima ipotesi apparisce fonte in se ancora inesausta di vita e di
fehcità, apparisce invece nella seconda vero principio di ogni male e di
ogni dolore. Cotesta sarebbe la nota differenza osservata dallo Zumbini
tra la prima fase « storica » del pessimismo leopardiano, e la seconda
metafisica o cosmica. Ma non corrisponde per l’appunto alla distinzione
da me indi¬ cata, tra il concetto del primo e quello del secondo
gruppo delle Operette. Nel primo, io dissi, l’animo del poeta vien
posto in faccia alla morte e al nulla : « ossia al vuoto della vita, non
più degna d’essere vissuta; poiché degna sarebbe la vita inconscia, e la
vita dell’uomo è senso, coscienza. La vita nella fehcità è la natura; e
l’uomo se ne dilunga ogni giorno più con la civiltà, con l’irre¬
quieto ingegno, che assottiglia la vita, e la consuma ». Qui il
pessimismo storico è già superato, e Malam- bruno può dire che «
assolutamente parlando » il non vivere è meglio del vivere. Lo può
affermare, perché la vita umana, fin da principio e per sua natura, è
senso, coscienza, e si è strappata a quell’ ingenuità istintiva e
affatto inconsapevole, che è pura animalità. « Può pa¬ rere », scrissi
io, « che la morte dell’umanità, la sua nul- htà o infelicità sia, nei
dialoghi del primo gruppo, una colpa dei degeneri nepoti » : poiché
infatti civiltà è au¬ mento progressivo di coscienza e di pensiero. Ma in
realtà, fin dalle origini, insieme col sapere, che fa uomo l’uomo.
c’ è già il dolore, ed il destino dell’uomo è fissato. Ma- lambruno
perciò è benissimo al suo luogo alla fine del primo ciclo. Il
secondo ciclo ricava la conseguenza pratica della verità scoperta nel
primo. E si apre infatti col Dialogo della Natura e di un’Anima, nel
quale dalla proporzione del dolore con la grandezza dell’uomo (il cui
progresso e perfezione consiste nell’acquisto di sempre maggior
copia di sentimento che gli fa sentire sempre più acuto il dolore
dell’esistenza) deduce, che dunque è meglio spogliarsi deU’umanità, o
delle doti che la nobilitano, e farsi « conforme al più stupido e
insensato spirito umano che la natura abbia mai prodotto in alcun tempo.
Negare l’umanità, rinunziare a ciò che fa il pregio della \ùta,
rinunziare ad affiatarsi con la Natura indifferente, che ci respinge da
sé, ossia rinunziare alla vita: e rassegnarsi alla vita vuota, al tedio,
all’ inerzia. Laddove il primo ciclo addita aU’uomo l’abisso che con la
coscienza s’è aperto tra lui e la natura, il secondo gli fa sentire il
de¬ stino a cui gli conviene di rassegnarsi, rinunziando a quella
natura che non è per lui, e a quella vita che sol¬ tanto nella natura
potrebbe spiegarsi. Il primo ciclo è una negazione, per così dire
teoretica; il secondo è la negazione pratica, che consegue dalla prima
negazione. La conclusione dovrebbe essere quella di Bruto minore e di
Saffo, il suicidio; non ò però la conclusione del Leopardi, il quale non
finisce con r Ultimo canto di Saffo, ma con la Ginestra. E perché
quella di Bruto non sia la sua conclusione è detto nel terzo ciclo delle
Operette. Il quale svolge questo motivo: che quella vita che certamente
non ha valore, perché è dolore e perciò negazione della vita che noi
vorremmo vivere, ripullula rigogliosa e incoercibile dalla sua
stessa negazione. La \àta è abbarbicata aH’anima umana; e
questa, attraverso le attrattive e le lusinghe della gloria, la
stessa contemplazione della morte liberatrice, porto sicuro da
tutte le tempeste, come la cantano i morti di Ruysch, attraverso una
filosofia che sappia intendere e sorridere con la magnanimità bonaria di
un Ottonieri, attraverso gli stessi rischi in cui la vita si perde e si
riconquista col gusto di una cosa nuova, e in generale attraverso
l’attività, il movimento, la passione e la speranza che non vien mai
meno; ma sopra tutto, attraverso l’amore che ci fa ricercare nell’uomo,
neW’umana compagnia, quello che la natura ci nega anche nella piena
coscienza della propria infelicità fatale e immedicabile, vive e
sente la gioia d’una vita che trionfa del destino fatto all’uomo
dalla natura. Una soluzione dunque del problema della vita nei
tre cicU delle Operette morali c’ è. Ma è una filosofia ? È evidente che
no: perché la via che filosoficamente si do¬ vrebbe seguire per superare
il pessimismo radicale dei primi due cich è, senza dubbio, quella per cui
l’anima dello scrittore si avvia e spontaneamente e vigorosamente
procede nel terzo; ma questo non è una dottrina, bensì 10 slancio
naturale dello spirito che risorge con tutte le sue forze dalla negazione
pessimistica. E il pessimismo, in linea di teoria, rimane la verità
assoluta e insuperabile. Leopardi sente bensì e vive la verità superiore,
ma non riesce a darle forma riflessa e speculativa. Egli spe¬
rimenta in sé ed attesta coi moti del suo animo la po¬ tenza dello spirito,
che anche nell’uomo che s’immagina scliiavo e vittima della natura, trionfa
della forza tirannica e feroce di questo brutto potere, e vive, e
gusta la gioia di questa sua vita in cui consiste la realtà dello
spirito. E in questo balsamo, che il suo animo sparge così su tutte le
piaghe che ha aperte e che ha fissate inorridito, in questa dolcezza che
sana ogni dolore, in quest’ idealità che sopravvive a ogni negazione,
qui la personalità, qui è la poesia del Leopardi. Così, ripeto
nelle Operette, come nei Canti. Si rilegga l’affettuosa parlata di
Eleandro onde si conchiuse da prima tutta la serie delle Operette-, o il
di. scorso di Plotino, con cui il libro tornò ad essere suggei.
lato nelle aggiunte posteriori; e si neghi, se è possibile, che il centro
e l’accento principale dello spirito leojiar- diano è in quel « senso
dell’animo », com’egli dice, che, agli occhi suoi, lega l’uomo all’uomo,
e con l’amore, vincolo soave insieme ed eroico, instaura un ordine morale
inespugnabile a ogni riflessione scettica, e superstite infatti (coni’ è
detto nella Storia del genere umano) a quella fuga di tutti i lieti
fantasmi che è prodotta dal sorgere della verità tra gli uomini. L’animo
del L., come quello di Porfirio, non si scioglie dalla vita, anzi
vi si stringe vieppiù, e la trova, malgrado tutto, degna d’esser vissuta,
per quel che dice appunto Plotino: «E perché non vorremo noi avere alcuna
considerazione degli amici; dei congiunti di sangue; dei figliuoli,
dei fratelli, dei genitori, della moglie; delle persone familiari e
domestiche, colle quali siamo usati di vivere da gran tempo: che morendo,
bisogna lasciare per sempre: e non sentiremo in cuor nostro dolore di
questa separazione; né terremo conto di quello che sentiranno essi, per
la perdita di persona cara e consueta, e per l’atrocità del caso ?
». Questo non è un argomento filosofico, ma un cuore che trema in ogni
parola; e ogni parola si sente come velata dal pianto dell’anima che il
dolore apre ed espande nell’amore. Ma è proprio vero, torna a
domandarmi il profes¬ sor Faggi, che amore sia la prima e l’ultima parola
delle Operette ? Ecco: che la Storia del genere umano faccia
consistere tutto il pregio, la bellezza e la felicità della vita
nell’amore, mi pare sia così chiaro dalle ultime pagine del mito, che nessuno
possa dubitarne. E non vedo che ne dubiti lo stesso Faggi. Il quale
dubita piuttosto che amore sia l’ultima parola del libro. Non gli pare
che sia nella prima forma di questo, quando finiva col Dialogo a
Timandro e di Eleandro\ né che sia nella forma definitiva, quando all’ultimo
posto fu collocato il Dialogo di Tristano e di un Amico. La compassione
di Eleandro, egli dice, « non è amore : tant’ è vero che questo
dialogo dovea dapprincipio intitolarsi Misénore e Filénore, e Mis
nore, cioè odiatore dell’uomo, doveva essere il Leo¬ pardi ». Ma il Faggi
non ha badato che (come avrebbe potuto vedere da tutte le varianti che io
ho tratte dal¬ l’autografo) cotesto titolo, poi mutato dall’autore
nell’altro con cui pubblicò il dialogo, non solo fu ideato quando ancora
il dialogo era da scrivere, ma mantenuto fino alla fine della
composizione del dialogo stesso. Sicché il concetto di Mist'nore è
puntualmente quel medesimo che vediamo incarnato in Eleandro: in chi cioè
non si oppone propriamente all’amatore degli uomini, ma si oppone
soltanto a chi, anzi che Filénore, merita d’esser detto Timandro, perché
eccessivamente valuta, col domma della perfettibilità progressiva, il
potere umano di impa¬ dronirsi della feheità. L’uomo del Leopardi non è
l’uomo vantato e millantato dagl’ illuministi del secolo XVIII e
dai progressisti del suo secolo: l’uomo dalle magnifiche sorti e
progressive del Mamiani: è l’uomo vittima della natura e però degno di
compassione. La compassione non è amore; certo. Ma ne è la
ra¬ dice. E perciò Giove, mosso da pietà, nella Storia del genere
umano, manda Amore fra gli uomini. Perché solo l’amore lenisce i dolori,
per cui si commisera l’infelice; e se Eleandro, dopo aver protestato con
un grido che gli si sprigiona dal più profondo del cuore: «Sono
nato ad amare, ho amato, e forse con tanto affetto quanto può mai
cadere in anima viva », soggiunge. Oggi non mi vergogno a dire che non
amo nessuno, fuorché nie stesso, per necessità di natura, e il meno
possibile»- l’aggiunta è un’asserzione voluta dalla coerenza del
si' sterna pessimistico della vita che Eleandro oppone al dommatico
ottimismo di Timandro; ma si smentisce subito continuando. Con tutto ciò
sono solito e pronto a eleggere di patire piuttosto io, che esser cagione
di pa¬ timenti ad altri ». E questa è compassione, che è pnrg una
sorta di amore. Che se Tristano non sa più pensare se non alla morte
questa morte (come credo di aver chiarito abbastanza col riscontro di
quel dialogo con i canti dell’amore fio¬ rentino, Aspasia e Amore e
morte), non è la disperazione della vita, cantata da Bruto minore e da
Saffo, ma è la bellissima fanciulla che Gode il fanciullo
Amore Accompagnar sovente; la bella morte, pietosa,
sospirata in quel languido e stanco desiderio di morire che sorge col
nascere d’un amoroso affetto. E r ironia, così nel Timandro come nel
Tristano, non è rivolta contro la vita confortata dall’amore, bensì
contro quel volgare ottimismo che parla il fatuo linguaggio di Timandro e
deH’amico di Tristano. Vero è che per leggere Leopardi non bisogna
tanto badare a quello che egli dice, ma al modo piuttosto in cui lo
dice, al tono delle sue parole, in cui propriamente consiste la sua
anima, e quindi la vita e il valore della sua prosa. Che io perciò
desidero considerare più come poesia che come argomentazione. E perciò
non posso accettare quel che il Faggi dice del Dialogo di Tasso e del suo
Genio familiare e dell’ Elogio degli uccelli. Come mai, mi domanda
del primo, «appartiene al secondo gruppo e non al terzo ? Anche questo
dialogo è senza dubbio.... una ricostruzione; e, per questo lato.
vale il Dialogo di Cristoforo Colombo e di Pietro Gutierrez ».
Infatti, egli osserva, « non dee spaventare la differenza che c’ è fra un
uomo chiuso nelle quattro mura d’una prigione e un altro che corre a vele
spiegate 1’ Oceano infinito. 11 Tasso prova nello spirituale colloquio
col suo Genio familiare press’a poco la stessa soddisfazione che il
grande Genovese nel suo fortunoso viaggio. Tutt’e due han trovato la
maniera di fuggire la noia, questa compagna indivisibile dell’esistenza. Quando
altro frutto non ci venga da questa navigazione, dice Cristoforo
Colombo a Pietro Gutierrez, a me pare che ella ci sia profittevolissima
in quanto che per lungo tempo essa ci tiene Uberi dalla noia, ci fa cara
la vita, ci fa pregevoli molte cose che altrimenti non avremmo in
considerazione. E il povero Tasso ha ricevuto tale conforto dalla
con¬ versazione col suo Genio, che, si può ritenere, il consigUo da
questo datogli di ricercarlo, ov’ei lo voglia, in qualche Uquore
generoso, non andrà perduto. Tutt’e due, tra fantasticare o navigare, van
consumando la vita: non con altra utiUtà che di consumarla; che questo è
l’unico frutto che al mondo se ne può avere: e l’unico ‘intento che
l’uomo deve proporsi ogni mattina in sullo svegliarsi ’ ». Ora
tutto ciò, se si guarda alla nota fondamentale dei due dialoghi, non credo
si possa sostenere. Lo spunto del Colombo ci è indicato dallo stesso
Leopardi, che, come io ho mostrato, aveva prima concepito questo
scritto col titolo di Salto di Leucade\ e il senso o nucleo del
dia¬ logo va quindi cercato nel passo che segue alle parole citate
dal Faggi, dove Colombo dice: « Scrivono gU antichi, come avrai letto o
udito, che gli amanti infelici, gittan- dosi dal sasso di Santa Maura
(che allora si diceva di Leucade) giù nella marina, e scampandone,
restavano per grazia di Apollo, liberi dalla passione amorosa. Io
non so se egli si debba credere che ottenessero questo effetto; ma so
bene che, usciti di quel pericolo, avranno per un poco di tempo, anco
senza il favore di Apollo avuta cara la vita, che prima avevano in odio;
o pm-g avuta più cara e più pregiata che innanzi. Ciascuna na
vigazione è, per giudizio mio, quasi un salto dalla rupe di Leucade;
producendo le medesime utihtcà, ma pj(, durevoli che quello non
produrrebbe; al quale, per questo conto, ella è superiore assai. Credesi
comunemente che gli uomini di mare e di guerra, essendo a ogni poco
in pericolo di morire, facciano meno stima della vita pro¬ pria,
che non fanno gli altri della loro. Io per Io stesso rispetto giudico che
la vita si abbia da molto poche per¬ sone in tanto amore e pregio come
da’ navigatori e soldati ». Non il consumai'e la vita è
l'utilità del rischio, a cui Colombo espone sé e i suoi marinai, ma la
gioia di riaf¬ ferrarsi aUa vita che nell’oceano sterminato si teme sfug¬
gita per sempre: il gusto che si prova per ogni piccolo bene, appena ci
paia di averlo perduto, se lo riacqui¬ stiamo. 11 Colombo è questa gioia
del pericolo vinto, ma che bisogna perciò affrontare per vincerlo.
Il Tasso è tutt’altra cosa. Il navigatore pregusta il piacere della
vista di un cantuccio di terra: ma il povero prigioniero non conosce né
spera mutamento alla sua sorte, e lasciando, com’egli dice, anche da
parte i dolori, la noia solo lo uccide. La noia, di cui egli può
parlare perché ne ha esperienza; ma che gh pare il destino universale
degh uomini, quasi la sua prigione fosse simbolo della natura, che
circonda e chiude dentro di sé l’uomo: « A me pare che la noia sia della
natura dell’aria : la (juale riempie tutti gli spazi interposti alle
altre cose matcriah, e tutti i vani contenuti in ciascuna di loro:
e donde un corpo si parte, e l’altro non gli sottentra, quivi ella
succede immediatamente. Così tutti gl’ intervalli della vita umana frapposti ai
piaceri e ai dispiaceri, sono occupati dalla noia. E però, come nel mondo
mate¬ riale, secondo i Peripatetici, non si dà vóto alcuno; così
nella vita nostra non si dà vóto : se non quando la mente per
qualsivoglia causa intermette l’uso del pensiero. Per tutto il resto del
tempo, l’animo, considerato anche in se proprio e come disgiunto dal
corpo, si trova con¬ tenere qualche passione; come quello a cui l’essere
vacuo da ogni piacere e dispiacere, importa essere pieno di noia;
la quale anco è passione, non altrimenti che il dolore e il diletto. Che
egli consumi pure un po’ di tempo nel colloquio col suo Genio, è vero. Ma
lo consuma senza dolcezza, ]ier confermarsi nella convinzione della sua
immedicabile tri¬ stezza: «Senti. La tua conversazione mi riconforta pure
assai. Non che ella interrompa la mia tristezza, ma questa per la più
parte del tempo è come una notte oscurissima, senza luna né stelle ;
mentre son teco, somiglia al bruno dei crepuscoli, piuttosto grato che
molesto. Acciò da ora innanzi io ti possa chiamare o trovare quando
mi bisogni, dimmi dove sei solito di abitare. Il Genio risponderà con amara
ironia che la sua abitazione è in qualche liquore generoso. Ma il Faggi
crede sul serio che ci sia qui un consiglio da prendersi alla lettera ? «
Cruda ironia », scrisse il Della Giovanna, che ebbe pure la strana idea
di cercare negh scritti del Tasso l’eventuale fondamento storico di
questo tratto. Il quale, per chi legga la prosa leopardiana con animo
sensibile all’angoscia desolata che vi è sparsa dentro, non può
significare altro che un realistico strappo che 1 autore vuol dare alla
stessa poetica illusione consolatrice del- r infelice prigioniero.
E porgendo l’orecchio all’accento commosso dello scrittore io
credetti di poter dire 1 Elogio degli uccelli lirica stupenda sgorgata al
Leopardi dal pieno petto al guizzo d’una immagine lieta e ridente, e come un
canto di gioia. No, oppone il Faggi, « è un elogio degli uccelli
un’opera non d’ispirazione, ma, in massima parte (jj riflessione; benché
questa sia ravvivata dal soffio della poesia inerente al soggetto. Il
Leopardi non intendeva di fare altro ». Piuttosto egli penserebbe al
Passero no litario) ma avverte subito da sé il carattere del tutto
estrinseco del ravvicinamento, e nota che « anche quello non è un canto
di gioia ». Anche nell’ Elogio, secondo il Faggi, il Leopardi è filosofo,
e non è poeta. « Non ha creduto di spogliare del tutto la giornea del
filosofo- che anzi egli parla per bocca di un Amelio, filosofo
soli¬ tario come egli dice, che si potrebbe credere il neoplatonico,
scolare di Plotino, se non lo cogliessimo a citare Dante e Tasso.
.Scrive, e ha davanti i suoi libri, soprattutto le opere del Buffon; si difende
in una lunga digres¬ sione sull’origine e la natura del riso,
suggeritagli dall’osservazione che il canto è, come a dire, un riso che
fa l’uccello ; e, intorbidando l’immaginazione lieta e serena in cui l’animo
suo volea riposarsi, si lascia attrarre a considerare il riso umano nello
scettico, nel pazzo e nell’ebbro; che non è più manifestazione sincera, o
spontanea dell’animo, e non ha jùù quindi relazione col canto degli
uccelli ». Donde s’avrebbe a concludere che il Leopardi abbia
voluto scrivere sul serio l’elogio degli uccelli, proponendosi una tesi
ritenuta da senno per vera, e industrian¬ dosi di dimostrarla nel miglior
modo per tale. No, per Dio, non mi prendete alla lettera — ci
ammonirebbe il poeta. Il quale ad altro proposito scriveva al padre
scandalizzato dalle forme pagane di Giacomo : « Io le giuro che l’intenzione
mia fu di far poesia in prosa, come s’usa oggi, e però seguire ora una
mito¬ logia ed ora un’altra ad arbitrio; come si fa in versi, senza
essere perciò creduti pagani, maomettani, buddisti ecc. » Senza essere
creduti perciò zoologi o filosofi, possiamo aggiungere noi. E del resto a
quella conclu¬ sione io non credo che il Faggi abbia voluto andare incontro
intenzionalmente, poiché egli pure vede « l'ima¬ ginazione beta o serena
in cui l’animo del Leopardi volea riposarsi » ; e rispetto alla quale gli
uccelli non sono dav¬ vero gli uccelli dello zoologo; ancorché nella
tessitura dell’ Elogio l’autore si giovi spesso di reminiscenze
delle sue letture del Buffon (che è poi un poeta, anche lui, della
storia naturale) ; ma sono appunto un’ immagine, simbolo di quella vita
piena d’impressioni, che non conosce tedio, anzi è tutta una gioia. La cui
espansione e penetrazione nel cuore del poeta si vede bene dove a
questo si svegha nell’animo un senso di gratitudine verso quella
Provvidenza, che volle il dolce canto degli uccelli a conforto degli
uomini e d’ogni altro vivente. «Certo fu notabile prowedimento della
natura l’assegnare a un medesimo genere di animali il canto e il volo; in
guisa che quelli che avevano a ricreare gli altri viventi colla
voce, fossero per l’ordinario in luogo alto, donde ella si spandesse all’
intorno per maggiore spazio e pervenisse a maggior numero di uditori. E
in guisa che l’aria, la quale si è l’elemento destinato al suono, fosse
popolata di creature vocali e musiche. Veramente molto conforto e
diletto ci porge, e non meno, per mio parere, agli altri animali che agli
uomini, l’udire il canto degli uccelli ». La prosa tranquilla e
contenuta vuol essere nella sua forma esteriore l’eloquio didascalico di
un filosofo, ma tanto più perciò essa fa sentire la dolcezza gioiosa che
vi si agita dentro, con quella stessa mobilità irrequieta, che fa
dal poeta contrapporre all’ozio pigro e sonnolento degli uomini la
vispezza dei volatili. « Gli uccelli per lo con¬ trario, pochissimo
soprastanno in un medesimo luogo; van- I Episiol., lett. . — GENTILE,
Manzoni e Leopardi. no e vengono di continuo senza necessità veruna ;
usano T volare per sollazzo; e talvolta, andati a diporto più cen
tinaia di miglia dal paese dove sogliono praticare, i] medesimo in sul
vespro vi si riducono. Anche nel piccol tempo che soprasseggono in un
luogo, tu non h ved^ stare mai fermi della persona; sempre si volgono
cjua I là, sempre si aggirano, si piegano, si protendono, si croK
lano, si dimenano; con quella \ds]iezza, queU'agUità quella prestezza di
moti indicibile. E con la stessa intenzione del contrasto tra l’espo¬
sizione solenne e dotta del filosofo e il sentimento che ’ deve vibrare
dentro, si spiegano i ricordi anacreontd che il Faggi dice eruditi e
freddi, e che tali vogliono essere infatti, nella conclusione dell’ Elogio, nel
desiderio finale di Amelio: «.... Similmente io vorrei, per un poco
di tempo, essere convertito in uccello, per provare quella contentezza e
letizia della loro vita ». Ultime parole dell’ Elogio, che ne sono quasi
la chiave, e che reca me¬ raviglia non vedere intese esattamente nepjmr
dal Faggi Già il Della Giovanna, che, mi rincresce dirlo, troppo
pedanteggiò irriverentemente nel suo commento erudito ma offuscatore
assai più spesso che rischiaratore del ni¬ tido pensiero leopardiano,
postillò: n Per un poco di tempo. Meno male ! chè dopo la vantata
perfezione degli uccelli, c era da aspettarsi una conclusione meno
restrittiva ». E il Faggi rincara: «Fa quasi sospettare che Amelio non
sia riuscito a convincere pienamente se stesso, o il suo entusiasmo non
sia stato davvero troppo pro¬ fondo ». Come se si trattasse di
convincere! A me pare ci sia un modo più ragionevole d’inten¬
dere quell’inciso; ed è quello che verrà subito in mente ad ognuno, che
rifletta che se il filosofo avesse espresso il desiderio d’essere
convertito per sempre in uccello, avrebbe fatto ridere. Che diamine, il
poeta invidia degh uccelli la contentezza, la letizia; e ora essi non
sono altro per lui, ma né anche la contentezza e la letizia per lui
sono tutto, ed egli ama troppo la propria umanità per essere disposto a
barattarla con esse per sempre. Anche la morte potrebbe essere per lui,
come per Porfirio, la soluzione del problema dell’esistenza. Ma il «senso
del¬ l’animo» lo ammonisce colle parole di Plotino: «In vero, colui
che si uccide da se stesso non ha cura né pensiero alcuno degh altri; non
cerca se non la utilità propria; si gitta, per così dire, dietro alle
spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano; tanto che in questa
azione del privarsi di vita, apparisce il più schietto, il più
sordido, o certo il men bello e men liberale amore di se mede¬ simo
che si trovi al mondo ». Commemorazione tenuta nell’Aula Magna del
Palazzo Comunale di Recanati; e pubblicata nel fascicolo giugno- luglio
dello stesso anno del periodico “Educazione fascista”. Il modo più degno di
commemorare un poeta è quello di entrare nella sua poesia, cioè nel suo
animo, nel mondo dei suoi fantasmi, come egli li vide e li sentì. Gli
elementi della sua biografia, tutti, dalla data di nascita a quella
di morte, i casi della sua vita, le persone e le cose in mezzo alle quali
questa vita si svolse, le idee stesse che egh accolse e che professò, le
correnti spirituali ante¬ cedenti o contemporanee di cui partecipò, sono
semplici generahtà, paragonabili alle note d’un passaporto; le
quah, ove non si accompagnino e precisino con una fo¬ tografia, rimangono
appunto generalità, riferibili a migliaia di persone. Ogni uomo è una
determinata personalità in quanto è un’anima. La quale, quando si conosca
da vicino e cioè per davvero, è singolare e inconfondibile: unica.
E la sua singolarità in fondo consiste non nella periferia del mondo di
cui l’uomo fu centro, ma in quello piuttosto che egli fu, al centro di
questo mondo, col suo modo di reagire a questo mondo che era il suo,
raccolto nel suo pensiero e nel suo sentimento. Due possono nascere nello
stesso anno e nello stesso giorno, vivere nello stesso luogo e quasi
cogli stessi spettacoli dinanzi agli occhi, tra gli stessi uomini e quasi
con le stesse voci negli orecchi; e ricevere la stessa educazione, incorrere
magari nelle stesse malattie, e insomma viv'ere tutta material¬
mente la stessa vita e concorrere perfino nelle stesse idee, ed essere
come due anime gemelle. Eppure ciascuna di queste anime, se vi provate ad
entrare nel suo intern è se stessa, diversa, assolutamente diversa
dall’altra quel certo suo dèmone ascoso, che tratto tratto si senr
nel timbro della voce o lampeggia nelle pupille, svelane!^ subitamente
l’essere dell’indi\dduo : quell’essere eh” ognuno di noi, nella vita,
spia e riesce a scoprire atti e nelle parole delle persone che frequenta.
Quest dèmone interno, sorgente segreta da cui scaturisce in verità
tutta la vita effettiva dell’uomo non soltanto quale essa è, ma quale è
sentita e perciò nel valore che ha, è quello che i filosofi dicono 1’ Io:
il soggetto, che è la base d’ogni individualità umana. Qualcosa
d’inaf¬ ferrabile in se stesso, perché infatti non si manifesta se
non in quanto si realizza nelle concrete determinazioni del carattere,
nel complesso degh atti e delle parole, che formano la trama della vita
dell’ individuo. 11 centro non è rappresentabile se non in rapporto alla
sua circonferenza. Ora questo demone segreto che si cela e si svela
nella vita di ciascun uomo, è la fonte viva dell’ispirazione del
poeta. Il quale non si distingue dagli altri uomini se non jierché riesce
a stampare una più profonda impronta di questa segreta potenza nelle
espressioni del suo essere. E pare che per lui innanzi agli occhi
meravigliati della moltitudine si levi e grandeggi in una solitudine
infinita l’immagine di un’anima divina, creatrice, che di sé fa il
suo universo; e quelli che per gli altri sono sogni e ombre, per la virtù
sua onnipossente son corpi saldi, viventi e luminosi, e riempiono tutta la
immensa scena del mondo che il poeta sostituisce a quello della
comune esperienza. Nel poeta, in quanto tale, tutto ciò che egli
vede e tutto ciò che può dirci è la sua anima, anzi questo dèmone che si
cela nella sua anima. Nel caso di L., quanto difficile cercarla e
tro- v'arla questa scaturigine della sua poesia: e quanto perciò s
e girato e si gira tuttavia intorno al segreto della sua grandezza !
Questa poesia da un secolo e più conquide tutti i cuori, trova la via di
tutte le anime, che sponta¬ neamente si aprono alle soavi commozioni di
essa. Ma studiata lungamente, pertinacemente, ingegnosamente da
mille ingegni, alla luce di mille sistemi e sulla base di mille
preconcetti, analizzata, tormentata dalla preten¬ siosa volontà
indagatrice della critica, impegnata per lo più nella superba impresa di
ricostruire l’arte dagli sparsi frammenti esanimi ottenuti attraverso una
fredda operazione anatomica, essa si è sottratta e sfugge ancora alla
intelligenza riflessa, che si sforza di coglierne l’essenza e chiuderla in una
definizione. Negli ultimi tempi vi si son provati critici di grande
levatura e dottrina; e si sono avuti saggi, di cui non disconoscerò io il
merito insigne. Questi scritti giovano indubbiamente alla comprensione
della poesia leopar¬ diana; ma solo in quanto ne scoprono alcuni
aspetti. 11 loro comune difetto è quello di trascurare la verità,
che io ritengo evidente e indiscutibile, dalla quale ho creduto opportuno
prender le mosse. Trascuranza il cui effetto è questo: che il critico non
sente la necessità di risalire sino alla sorgente da cui la poesia
leopardiana sgorga, e in cui soltanto è possibile scorgere l’unità
della sua ispirazione e rendersi conto della varietà dei motivi in
essa dominanti. Così accade che si aprano i canti e le prose del
Leopardi, e si dica. Nelle prose, manco a dirlo, non c’ è poesia. C’ è
una pretesa filosofia, che è una filosofia per modo di dire. Lambiccatura
di cervello che si sforza di dimostrare sistematicamente uno stato
d’animo personale; e perciò si mette fuori di questo stato d’animo; e
quindi riesce amaro, falso, estraneo al vero e profondo sentire dello
stesso scrittore, e perciò freddo, sofistico. Né filosofia, né poesia.
Nei canti, bisogna distinguere: c’è poesia e non poesia. Vi sono strofe o
versi in cui il poeta trova se stesso e parla serio e commosso; e lì
è il poeta; il poeta le cui parole non si dimenticano e tornano da sé a
risuonare nell’animo, a commuoverci col calore e la passione della vita
che ogni uomo vive e sente. Ma ci sono negli stessi canti poesie giovanili
rettoricamente patriottiche; ci sono poesie filosofiche non meno fredde e
artifiziate delle prose: ci sono pezzi ora- torii, in cui il poeta cerca
l’effetto e pensa al lettore e non si dimentica nello schietto moto della
sua anima Manca qua e là negli stessi canti più felici il caldo di
queir ispirazione, che s’apprende immediatamente all’animo di ogni uomo.
Risorge il ragionatore a freddo che vede il mondo dall’angustissimo foro
che le sciagure fisiche e le tristi condizioni personali gli han lasciato
aperto sulla grande scena della vita, e vien meno il poeta che accoglie
beato nel suo petto la voce naturale del mondo e il vasto respiro delle
cose. — £ fortuna se alla prova di questa critica si salva qualche
frammento della poesia del Leopardi. Ma si salva davvero ? Io
vorrei invitare questi critici a ristampare Leopardi purgandolo da tutte
le scorie della sua poesia, per darcene il fiore, un’antologia;
con¬ tenente i soli pezzi ^'eramente poetici a cui si fa grazia.
Temo che al fatto questa antologia riescirebbe estrema- mente difficile,
se non impossibile: poiché non solo il significato di ciascun verso
risulta dal contesto a cui appartiene, e ogni strofa ha il suo valore nel
complesso del componimento; ma, si sa, ogni parola ha sempre un
accento, in cui è la sua anima e individuahtà; e quell’accento non si può
sentire se non nel ritmo dell’ insieme. Isolare una parola è impresa vana
ed assurda. E se si crede il contrario, ciò accade perché in realtà
quella parola che ci pare di isolare, noi la facciamo nostra e la fondiamo
in un nuovo nesso, in un ritmo da noi creato, in cui non è più la parola
di quel poeta, ma l’espressione del nostro animo. L. non è soltanto
il poeta degl’ idillii, dove il suo petto si allarga e s’inebria del
profumo della na¬ tura, e il suo cuore batte all’unisono col grande
cuore del mondo, commosso dal senso della vita che ride a primavera nei
campi, brilla a notte nel mite chiarore della luna, imporpora il viso
alle fanciulle innamorate, tuona tra le nubi nell’ infuriar della
tempesta, e ridesta ad ora ad ora negli animi stanchi e delusi la
speranza e la dolcezza dell’amore. Il Leopardi è anche Tristano ed Eleandro; ed
è Copernico e Ottonieri; ed è Colombo e Tasso visitato nel mesto carcere
dal suo Genio familiare; ed è Stratone e Plotino; ed è 1’ Islandese al cospetto
della Natura dal volto « mezzo tra bello e terribile »; ed è il gallo silvestre
che sta in sulla terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il
cielo, e riempie del suo canto l’universo e dice di questo « arcano mirabile
e spaventoso dell’esistenza universale » che, « innanzi di essere dichiarato né
inteso, si dileguerà e perderassi ». E insomma il Leopardi pacato e placato
nel sentimento solenne e religioso del dolore e del mistero e della
vanità dell’opera umana, e pur raccolto nell’ intima soavità dell’amore, onde
gh uomini vincono ogni travagho c gustano una beatitudine divina,
ancorché confusa a certo mistico senso del proprio dissolvimento
nella vita universale. Ed è anche il poeta che come italiano vede le colonne e
i simulacri e le ruine della grandezza antica, ma non vede più la gloria e le
armi dei padri; e non sa rivolgersi indietro a (juella schiera
infinita d’immortah, che onorarono già la nostra terra, senza
pianto e disdegno per la presente viltà; e sente in cuore la disperazione
di Bruto per l’impotenza della virtù sconfitta dalla perversa fortuna e
lo strazio della misera Saffo, spregiata amante, vile e grave ospite nei
superbi regni della natura bellissima. Ma non sì che l’animo non gli
si esalti nell’ idea della guerra mortale che il prode di cedere
inesperto, guerreggerà sempre contro l’indegno fato, e in cui anche il
virile animo di Saffo si sentirà sparso a terra il velo indegno, di
emendare il crudo fallo del cieco dispensator dei casi. E anche l’uomo
che si leva col pensiero al di sopra della ferrea vita e sentendo
che conosciuto, ancor che tristo, ha suoi diletti il vero, si compiace
d’investigar Yacerbo vero e i ciechi destini delle mortali e delle eterne
cose] e trae gli ozi in questo specu¬ lare. E in fine l’uomo che si
rifugia con questo altissimo sentimento della invitta potenza del
pensiero umano nella rocca inespugnabile della noia: di questo che
egli dice « in qualche modo il più sublime dei sentimenti umani »,
poiché « il non poter essere soddisfatto da alcuna cosa terrena, né, per
dir così, dalla terra intera; consi¬ derare l’ampiezza inestimabile dello
spazio, n numero e la mole maravighosa dei mondi, e trovare che tutto
è ])oco e piccino alla capacità deU’animo proprio; immaginarsi il numero
dei mondi infinito, e l’universo infinito, e sentire che l’animo e il
desiderio nostro sarebbe ancora più grande che sì fatto universo; e
sempre accusare le cose d’insufficienza e di nullità, e patire
mancamento e vóto, e però noia, pare a me il maggior segno di gran¬
dezza e di nobiltà, che si vegga della natura umana » >. E perciò
anche il Leopardi, nel colmo della sua delusione, può giungere a fermare
in se stesso ogni desiderio e ogni moto, a disprezzare perfino se stesso,
come la natura, il brutto Poter che, ascoso, a comun danno impera, E V
infinita vanità del tutto: e, pur caduto l’incanto che gli fece vedere e
amare in una donna mortale la Dea della sua mente, pur vedendo ormai
nella propria vita una notte senza stelle a mezzo il verno, può trovare
al suo fato Pensieri. mortale bastante conforto e vendetta nella
coscienza di se medesimo: su l’erba Qui
neglùttoso immobile giacendo, Il mar, la terra e il ciel miro, e
sorrido. Se noi rinunciamo a questi ed altrettali motivi
della poesia leopardiana, per restringerci al dolce gusto di quell’
idillico che è la prima e immediata forma di questa poesia, noi avremo sì
elementi di una poesia squisita, ma perderemo la poesia propria del
Leopardi. Nella quale quella prima forma è solo uno degli elementi
del dramma e del fiero contrasto, nella cui superiore soluzione la poesia
leopardiana per l’appunto consiste. L’i dilli o è certo alla base del
Leopardi poeta. Ne risuona il motivo di continuo nell’ Epistolario,
nello Zibaldone, nei Canti, nelle Operette morali. Se volete rendervi
conto della natura dell’ idillio, come il Leopardi r intese e lo sentì,
rileggete l’ Infinito, quei quindici versi che gittano la fantasia del
Poeta al di là della siepe in spazi interminati, sovrumani silenzi e
profondissima quiete: dove l’infinito silenzio e l’eterno assorbono
in sé e annichilano la voce del vento che stormisce tra le piante e
il suono delle lotte e delle fatiche umane: Così tra questa
Immensità s’annega il pensier mio E il naufragar m’ è dolce in questo
mare. L’uomo scioglie il suo pensiero, ond’egli riflettendo
si distingue e si oppone alla natura, e si confonde con essa. Ricordate il
Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, che dice alla sua
greggia: Quando tu siedi all’ombra, sovra l’erbe. Tu .se’
quieta e contenta; E gran parte dell’anno Senza noia consumi
in quello stato. Ed io pur seggo sovra l’erbe, all’ombra,
E un fastidio m’ingombra La mente, ed uno spron quasi mi punge
Si che, sedendo, più che mai son lunge Da trovar pace o loco.
Nell’ Inno ai Patriarchi il Poeta rammenta l'antico mito della
colpa che sottopose Vuman seme alla tiranna Possa de’ morbi e di sciagura
; e attribuisce all’ irrequieto ingegno dell’uomo la prima origine dei
suoi dolori. La noia, la sublime noia, è il privilegio del pensiero.
Finché la riflessione non è sorta, e il pastore errante non è an¬
cora in grado di domandare alla luna il fine di tanti moti, e che
sia Questo viver terreno. Il patir nostro, il sospirar
che sia; Che sia questo morir, questo supremo Scolorar del
sembiante, E perir dalla terra, e venir meno .‘Vd ogni usata,
amante compagnia; egh può esser queto e contento come la sua
greggia. Pensare è distinguersi dalla vita, opporvisi, sentirsene
fuori, cercare e non trovare, sentire la vanità di tutto: non aver più né
contentezza né pace. Il Leopardi intanto sa bene che senza pensiero non c’
è grandezza. Perciò in uno de’ suoi dialoghi la Natura dice a un’Anima. Va’,
figliuola mia prediletta, che tale sarai tenuta e chiamata per lungo
ordine di secoli. Vivi, e sii grande e infelice. Perciò il Poeta dice ai
« nuovi credenti » che non credono al dolore: A voi non tocca
DeU’umana miseria alcuna parte, Ché misera non è la gente sciocca. Dico,
ch’a noia in voi, ch’a doglia alcuna Kon è dagli astri alcun poter
concesso. Non al dolor, perché alla vostra cuna Assiste, e
poi sull’asinina stampa 11 pie’ per ogni via pon la fortuna. E se
talor la vostra vita inciampa. Come ad alcun di voi, d’ogni
cordoglio Il non sentire e il non saper vi scampa. Noia non
puote in voi, ch’a questo scoglio Rompon l’alme ben nate. Ma se il
pensiero è la sorgente del dolore, bisogna pur distinguere tra pensiero e
pensiero. E anche questo è avvertito dal L.. C’ è un pensiero che è la
stessa natura deU’uomo ; deiruomo che sente e crede nell amore e
nella virtù ; che sente e crede nella bellezza della natura e della vita;
che spera e apre l’animo alla gioia delle il¬ lusioni, che tali si
dimostreranno al cimento della espe¬ rienza, ma che la natura stessa
risusciterà sempre dal fondo del cuore umano a rendere amabile o almen
sopportabile la vita. Questo è pensiero. Ma c’ è un altro pensiero, che
si sovrappone a questo primo e lo critica e lo demolisce e lo irride, e,
scoprendone tutte le debolezze e gli arbitrii, gitta lo sconforto nel cuore
umano e lo inonda d’immedicabile amarezza. Non occorre pertanto che
l’uomo si abbrutisca come il gregge per sottrarsi al dolore. Può essergli
simile, e al pari di esso rimaner congiunto con la natura e godere del
benefizio di essa, se si abbandona, per dir così, al pensiero
naturale, e vede la vita con quegli occhi che la natura gh ha dati.
Vive nel suo stesso pensiero la vita spontanea e istintiva che è propria
di tutti gli esseri naturali, senza che questa natura sia sconvolta o
turbata dal suo irrequieto ingegno. Così fa il fanciullo, così tutti gli
spiriti semplici e sani. Questa è la giovinezza sempre rinascente del
genere umano; dell’anima aperta alla speranza e fortificata dalla
fede: dell’anima quale ogni uomo la ritrova in se stesso al mattino sul
primo svegliarsi, all’ inizio d’ogni suo giorno, come d’ogni nuovo
periodo della sua vita « Il primo tempo del giorno », canta anche il
gallo silvestre « suol essere ai viventi il più comportabile. Pochi in
sullo svegliarsi ritrovano nella mente pensieri dilettosi o lieti-
ma quasi tutti se ne producono e formano di presente perocché gli animi
in quell’ora, eziandio senza materia alcuna speciale e determinata,
inclinano sopra tutto alla giocondità, o sono disposti più che negli
altri tempi alla pazienza dei mah. Onde se alcuno, quando fu sopraggiunto
dal sonno, trovavasi occupato daUa disperazione; destandosi, accetta
novamente nell’animo la speranza ciuantunque cUa in niun modo se gli
convenga. Molti infortuni e travagli propri, molte cause di timore o
di affanno, paiono in quel tempo minori assai, che non parvero la
sera innanzi. Spesso ancora, le angosce del dì passato sono volte in
dispregio, e quasi per poco in riso, come effetto di errori e
d’immaginazioni vane. La sera è comparabile alla vecchiaia; per lo
contrario, il principio del mattino somiglia alla giovanezza. Cresce
l’esperienza della vita, sopraggiunge la rifles¬ sione, la speranza
dilegua: sottentra il dolore e la noia: tanto più acuto quello, tanto più
grave questa, quanto più viva fu la speranza e ardente la fede nella
vita. Quindi la grande importanza del momento idillico, o
giovanile, spontaneo, naturale in una poesia che, come quella del
Leopardi, accentua poi il momento negativo del distacco e della
opposizione, che è il momento del dolore. Questo dolore è materiato, si
può dire, dalla stessa dolcezza dell’ idiUio. Odi et amo. La negazione
non avrebbe mai il suo significato lirico se non corrispondesse a
un’affermazione vigorosa e potente. Appunto perché la vita è così bella
agli occhi del Poeta, ed egh ne sente sì forte il fascino nel fondo del suo
cuore, egli si duole tanto di non possederla. Al disperato affetto di
Saffo non arride spet- tacol molle: ma questo spettacolo pur le è fitto
negli occhi e nel petto; Placida notte, e verecondo
raggio Della cadente luna; e tu che spunti Fra la tacita selva in
su la rupe, Nunzio del giorno; oh dilettoso e care Mentre ignote mi
fur l’erinni e il fato. Sembianze agli occhi miei. Del resto questo
molle spettacolo non fugge da’ suoi occhi senza che questi si volgano
desiosi ad altri spettacoli di natura, meglio rispondenti al suo stato d’animo.
Noi r insueto allor gaudio ravviva Quando per l’etra liquido si voi
ve E per li campi trepidanti il flutto Polveroso de’ Noti, e quando
il carro. Grave carro di Giove a noi sul capo. Tonando, il
tenebroso aere divide. Noi per le balze e le profonde valli Natar
giova tra’ nembi, e noi la vasta Fuga de’ greggi sbigottiti, o
d’alto Fiume alla dubbia sponda Il suono e la vittrice ira
dell’onda. Saffo ha l’animo popolato di ridenti immagini di
questa natura di cui ella si vede prole negletta: , Bello il tuo
manto, o divo cielo, e bella Sei tu, rorida terra. A me non
ride L’aprico margo, e dall’eterea porta Il mattutino albor;
me non il canto De’ colorati augelli, e non de’ faggi Il murmure
saluta: e dove all’ombra Degl' inchinati salici dispiega Candido
rivo il puro seno, al mio Lubrico pie’ le flessuose linfe
Disdegnando sottragge, E preme in fuga l’odorate spiagge.
13. — GkktIx<s, Manzoni e heopardi. Bruto minore, fermo già di
morire, percote l’aura sonnolenta di feroci note. Ma tra queste note se
ne odono di soavi, affettuose, per quanto solenni, come queste:
E tu dal mar cui nostro sangue irriga. Candida luna, sorgi,
E l’inquieta notte e la funesta All’ausonio valor campagna
esplori. Cognati petti il vincitor calpesta, Fremono i
poggi, dalle somme vette Roma antica mina; Tu si placida sei
? Tu la nascente Lavinia prole, e gli anni Lieti
vedesti, e i memorandi allori; E tu su l'alpe l'immutato
raggio Tacita verserai quando ne’ danni Del .servo italo
nome. Sotto barbaro piede Rintronerà quella solinga
sede. Ecco tra nudi sassi o in verde ramo E la fera e
l’augello. Del consueto obblio gravido il petto. L’alta
mina ignora e le mutate Sorti del mondo: e come prima il tetto
Rosseggerà del villanello industre. Al mattutino canto
Quel desterà le valli, e per le balze Quella r inferma
plebe Agiterà delle minori belve. D’altra parte, fin da
quando il Poeta ascolta nel suo profondo questa voce antica ed
eternamente giovanile della santa natura e del mondo, contro cui si
volgerà sempre più risentito e dolorante, egli sente nel petto
Nell’ imo petto, grave, salda, immota Come colonna adamantma,
quella noia immortale, di cui parlerà nell’epistola Al Conte Carlo
Pepoli. E nello stesso Infinito, nella Sera del dì di festa e negli altri
piccoli e grandi idilli che altro, in¬ fine, si canta se non il dolore
? Dolce e chiara è la notte e senza vento, E queta sovra
i tetti e in mezzo agli orti Posa la luna, e di lontan rivela Serena
ogni montagna. O donna mia. Già tace ogni sentiero, e pei
balconi Rara traluce la notturna lampa: Tu dormi, che t’accolse
agevol soimo Nelle tue chete stanze; e non ti morde Cura nessuna; e
già non sai né pensi Quanta piaga m’apristi in mezzo al petto.
Tu dormi: io questo ciel, che si benigno Appare in vista, a salutar
m’affaccio, E l’antica natura onnipossente. Che mi fece
all’affanno. A te la speme Nego, mi disse, anche la speme; e
d’altro Non brillin gli occhi tuoi se non di pianto. La serenità, il
dolce chiarore lunare dei primi versi e lo stesso sonno tranquillo e
scevro d’affanni de lla donna formano lo sfondo del quadro, in cui
risalta la personalità di quest’uomo, a cui la speranza è negata e i cui
occhi non brilleranno mai se non di lagrime. L’amarezza di questa
anima desolata nasce dal contrasto. La donna sogna forse a quanti oggi
piacque e quanti piacquero a lei. Fantasmi e sentimenti pieni di
dolcezza; ma sorgono alla mente del Poeta soltanto per fargli sentire che
egli ne è escluso: non io, non già eh’ io speri, .à.1 pensier
ti ricorro. Egli non dorme, non posa, non sogna. Si getta per terra,
grida, freme. E il suo pensiero si insinua nella gioia altrui e vi soffia
dentro il vento della riflessione che l’inaridisce: Ahi, per la
via Odo non lungo il solitario canto Dell’artigian, che riede
a tarda notte. Dopo i sollazzi, al suo povero ostello;
E fieramente mi si stringe il core, A pensar come tutto al
mondo passa, E quasi orma non lascia. L’artigiano
probabilmente non fa questa malinconica riflessione. Probabilmente egli,
come la donna, rimembra i sollazzi del giorno, la cui memoria non è
spenta e basta tuttavia a riempirgli e consolargli l’animo. Ma su
quel mondo festivo e gorgogliante ancora di sensazioni dilet- tose
il Poeta riversa l’angoscia fredda del suo cuore de¬ solato.
E altrettanto si i)uò osservare di tutte queste sue poesie, che il
Leopardi stesso definì idillii, e in cui più forte risuona la corda
dell’animo commosso e vibrante della stessa vita del mondo.
Citerò ancora il primo periodo della Vita solitaria che
comincia; La mattutina pioggia, allor che l’ale Battendo
esulta nella chiusa stanza La gallinella, ed al balcon s’afìaccia
L’abitator de’ campi, e il Sol che nasce I suoi tremiili rai fra le
cadenti Stille saetta, alla capanna mia Dolcemente picchiando, mi
risveglia; E sorgo, e i lievi nugoletti, e il primo Degli
augelli susurro, e l’aura fresca, E le ridenti piagge
benedico; per rivolgersi subito contro le cittadine infauste mura,
e per concludere; In cielo. In terra amico agh
infehci alcuno E rifugio non resta altro che il ferro.
Principio idillico, conclusione tragica. Tragica quanto è idillico
il principio. I due termini si corrispondono e si congiungono insieme in
un nesso inscindibile. Togliete a L. la commozione e l’amore per la
natura, per la vita, per la donna, ])er la bellezza, per la forza
ma¬ gnanima, per l’ardimento generoso, per la virtù, j>er la
patria, per i parenti, per gli amici, per tutto ciò che rende amabile e
santa la vita, e non intenderete più lo strazio delle sue delusioni.
Prescindete dal fermo con¬ vincimento, che la sua filosofìa gli ha
piantato nel petto, della arbitraria soggettività degli ideali in cui
l’uomo, non ancora caduto in preda al pensiero, crede provvidenzialmente;
chiudete gli occhi sull’amarissimo gusto con cui egli, tornando sempre ad
esaminare i suoi pensieri e la vita e il proprio essere e il fato universale
degli uomini, ribadisce sempre quel suo convincimento; e non
potrete più sentire il tumulto con cui il suo cuore s’attacca a questa
vita fallace e il tremito giovanile e sto per dire virgineo con cui tutto
il suo essere si stringe al mondo, che non può, malgrado tutto, non
amare. Leggete II pensiero dominante e V Aspasia, dove culmina l’arte
del Poeta. Quel pensiero, cagion diletta d' infiniti affanni, è
gioia ed è dolore. Quella donna, per cui egli ha vaneg¬ giato, ma il cui
incanto è caduto, risorge nella sua me¬ moria e nel suo cuore superba
visione, sua delizia ed erinni'. e l’angehca sua forma, sempre viva e
presente, torna sempre a imprimergli a forza nel fianco lo strale,
che già lo fece per tanto tempo ululare. L’atteggiamento negativo
ed ostile, quando non si scompagni dal suo contrario, che gli dà vigore e
signi¬ ficato, si può intendere e s’intende anche in quelle forme
di fredda ironia e di affettata irrisione, che assume in qualche raro
tratto dei Canti e in parecchie delle Ope¬ rette morali. Di cui si è
potuto parlar con sì distratta intelligenza da vedervi lampeggiare non so
che sorriso cattivo e sinistro: mentre chi legge ed ama Leopardi, sa
che nulla è più alieno dal suo spirito. Ma questi critici sono i critici
del frammento. Si fermano a una pagina delle Operette leopardiane, e non
curano di guardarne l’insieme; e così si lasciano sfuggire quella vivente
unità organica, da cui esse nacquero tutte ad una ad una, sotto la
stessa ispirazione, nel pensiero e nel sentimento dell’autore. Così
vedono Momo, i sillografi, Stratone; ma non vedono il principio e la fine
del libro. E si lasciano sfuggire il significato e l’accento del mito
iniziale, la Storia del genere umano, vaga immaginazione tutta per-
v'asa di una commozione contenuta e pudica di un amore gentilissimo; come
si lasciano sfuggire le meditazioni finali di Eleandro e di Plotino,
tutte umanità ed affetto. Non vedono perciò lo spirito complessivo e
centrale e quell’onda viva di universale e irresistibile simpatia,
che abbraccia uomini e cose, e in sé scioglie i sentimenti più duri, più
pungenti, più amari, onde l’animo del Poeta è colpito allo spettacolo del
freddo vero. L’incanto della jioesia è qui, in questa unità dei
due opposti motivi, che si fondono insieme e infondono nello
spirito del Leopardi l’impeto della sua lirica sublime. La quale nel
momento stesso che pare prostri gli animi nel più disperato dolore, li
solleva, conforta ed esalta, aspergendoli di non so che affettuosa soa\
ita. Idilho e dolore. L’uomo che vive lietamente e serenamente la
vita; e l’uomo che diffida di essa, e se ne apparta ed estrania; e
fattosene spettatore deluso e sconsolato, sente dentro di sé un vuoto
infinito. Due cuori diversi, ma non posti l’uno accanto all’altro, bensì
unificati in un cuore solo. Questa tragedia, che non è ottimismo, né
])cssi- mismo, ma il commosso e serio concetto della nobiltà, del
valore e della superiore letizia della vita, tremenda insieme e
adorabile, angosciosa e febee : questa è 1 es¬ senza della poesia
leopardiana. In verità, l’origine del dolore è nel pensiero. Ma L. sa, e
soprattutto sperimenta in se stesso, che quel pensiero che ferisce, sana
esso stesso le sue ferite. 11 pensiero che sfronda l’albero della vita di tutte
le sue illusioni, e specula e scopre l’infinita vanità di tutto, è lo
stesso pensiero dentro eh cui quell’albero ad ora ad ora rinverdisce di
nuove fronde. Non si può negare che esso faccia guerra continua alla
nativa confidenza deH’uomo nella natura; ed esso certamente spegne nei cuori la
fede e la speranza. Ecco, da una parte. Saffo supphchevole ; e
dall’altra, il ruscello che al piede della misera donna, la quale tenta
d’immergervisi e sentirne il refrigerio, sottrae disdegnoso le flessuose
acque, e fugge e s’affretta per le piagge odorate. Se non che
questo pensiero devastatore e distruttore della originaria unità
dell’uomo con la natura, è esso stesso una nuov'a natura: è la natura di
quell anima grande perché infelice, e infehee perché grande, onde
il Poeta insuperbisce sopra la turba degli sciocchi. E in verità
sempre che il pensiero non si guardi dal di fuori, ma si pensi, si attui,
si viva, esso non è più nulla di estraneo alla vita, ma è la vita stessa.
E in esso, ancorché rivolto ed affisso alle idee più dolorose e più
aride, rifluisce l’onda della vita e si risveglia il palpito della gioia.
Allora, ecco, il Leopardi acquista coscienza della felicità superiore in
cui si purifica e rinvigorisce il suo spirito attraverso al pensiero e al
canto; poiché (come egli dice) « ninna cosa maggiormente dimostra la
grandezza e la potenza dell’umano intelletto, ossia l’altezza e
nobiltà dell’uomo, che il poter l’uomo conoscere e interamente
comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza. I Pens. di varia filos., Allora
egli sente che lo stesso intìnito, in cui gli è dolce naufragare, è
contenuto nel suo pensiero, che lo abbraccia spaziando più oltre. Allora
egli, piccolo ed esile fiore sull’arida schiena del Vesuvio sterminatore,
s’inebria del profumo della sua poesia, che consola il deserto.
Allora egh ritrova in sé, nel genio che nessuna forza maligna gli
può strappare, nel demone divino e onnipotente che fa insieme la sua
infelicità e la sua grandezza, la gioia e il fervore della vera vita; in
cui, a dispetto dei ragionamenti, risorgono le speranze e si riaccende
l’amcre con cui gli uomini, malgrado tutte le delusioni, si riat¬
taccano alla vita e han la forza di vivere e di morire. A Porfirio che a
conclusione d’un rigoroso ragionamento si vuol togliere la vita, Plotino
ammonisce che « non dee piacer più, né vuoisi elegger piuttosto di essere
secondo ragione un mostro, che secondo natura uomo. Mostro chi non
cerca se non la utilità propria, e si gitta, per cosi dire, dietro alle
spalle i suoi prossimi, e tutto il genere umano. Uomo chi l’amore di se
medesimo pospone al¬ l’amore degli altri. Ma questa natura, che ci fa uomini,
è proprio contraria alla ragione che ci farebbe mostri ? O non ci sono,
per dir così, due ragioni: una, inferiore, che ci trarrebbe al suicidio
attraverso il più sordido amore di noi medesimi, e una superiore, che ci
libera dal giogo di questo amore, e ci fa amare la vita e gli uomini
che ci amano ? Si cliiami ragione o poesia, certo questa non è la
natura primitiva e inconsapevole, ma Tumanità che soffre ed ama e
canta. Quale in notte solinga Sovra campagne inargentate ed
acque. Là 've zefiro aleggia, E mille vaghi
aspetti E ingannevoli obbietti 1 Operette. Fingon l’ombre
lontane Infra Tonde tranquille E rami e siepi e
collinette e ville; Giunta al confin del cielo. Dietro
Apennino od Alpe, o del Tirreno Nell’ infinito seno Scende la
luna; e si scolora il mondo; Spariscon Tombre, ed una
Oscurità la valle e il monte imbruna; Orba la notte resta,
E cantando, con mesta melodia. L’estremo albor della fuggente
luce. Che dianzi gli fu duce. Saluta il carrettier
dalla sua via; Tal si dilegua, e tale Lascia l’età
mortale La giovinezza. La luna è tramontata, e il carrettiere
canta. La giovinezza si dilegua; ma l’uomo resta, e intona il suo canto.
In questo canto, nella sua mesta melodia, è il più alto segno dello
spirito del Poeta. Qui la sua poesia. Conunemorazione centenaria letta
alla R. Accademia Nazionale dei T .inr ei neUa seduta reale e pubbUcata,
oltre che ncgU Atti dell’Accademia, nella Nuova Antologia del i»
lugUo dello stesso anno. Ripubblicata in Poesia e filosofia di
Giacomo Leopardi (Firenze, Sansoni Tra pochi giorni sarà un secolo dalla
morte di L. Secolo, segnatamente per 1’ Italia, pieno di grandi eventi ;
storia mossa e agitata da fedi e interessi in massima parte estranei
all’animo del Leopardi, anzi osteggiati e a volte irrisi da lui. Altra
filosofia, altro uomo. E gli effetti sono stati così cospicui, così
impor¬ tanti, anche secondo il modo di vedere del L., da riuscire
un’aperta condanna delle sue convinzioni e de’ suoi giudizi storici.
Secolo, si può dire, anti-leopardiano, culminante in questa Italia, potente,
imperiale, creazione audace della stessa Italia che alla fantasia
giovanile del Leopardi apparve inerme, anzi di catene carche ambe le
braccia, seduta in terra, negletta e sconsolata, la faccia nascosta tra
le ginocchia, piangente. Eppure lungo questo secolo la fama del
Leopardi è venuta crescendo; s’è dilatata nel mondo, ma in Italia
ha messo radici sempre più profonde nei cuori. L’intelligenza della sua poesia,
della sua anima ha acquistato d’anno in anno, e quasi giorno per giorno,
di penetra¬ zione, di comprensione e di intima simpatia a mano a
mano che gl’ Italiani da prima si svegliavano e in una coscienza più
seria e positiva della vita e de propri doveri e delle proprie forze
risorgevano a dignità civile e politica. Scendevano quindi in campo
contro gli oppres¬ sori e li affrontavano nei congressi, e accordavano
rivoluzione e forze conservatrici dimostrando maturità di accorgimento e
di patriottismo da meravigliare 1 Europa ; e tra audacie e negoziati facevano
dell’ Italia archeologica, letteraria ed artistica una nazione viva,
operante e presente nella storia dell’ Europa e del mondo. Intanto
sentivano il bisogno di farsi un nuovo pensiero, una nuova scienza, una
nuova cultura, adeguata all’altezza dell’assunto politico; e creavano un
esercito nazionale; e sviluppavano, in una più attiva collaborazione alla
vita economica internazionale, le loro industrie e i loro traffici; e
creavano le scuole, organizzando tutto un sistema nuovo di pubblica
istruzione e portando via via la luce neUe menti delle plebi abbandonate
da secoli all’igno¬ ranza e alla superstizione ; e negli esperimenti di
un sistema politico aperto alle lotte e alle competizioni di tutte le
energie individuali si venivano educando al senso e alla tecnica dello
Stato; e infine, in una riscossa della coscienza nazionale che si era
venuta formando negli animi più giovanili in un fermento nuovo d’idee
religiose sociali c filosofiche, si trovavano pronti alla più grande
guerra della storia; combattevano con grande onore, e contribuivano più d’ogni
altra nazione alleata alla vittoria finale. E dopo questa prova stupenda
dell’antico valore, arditamente si accingevano con una pro¬ fonda
rivoluzione politica e sociale a fare una nuova Itaha e una nuova Roma.
Quanto cammino! E quanta vita in quella moribonda Italia, di cui parlava
Leopardi! Eppure, dicevo, il miracoloso progresso di quesb
cento anni, lungi dall’allontanare 1’ Italia dal Leopardi, r ha portata
sempre più vicino a lui, a misurare la sua grandezza. La bibliografia
leopardiana è una delle più ricche tra quante se ne siano formate intorno
ai maggiori poeti e pensatori itaUani, da gareggiare con la
dantesca. Segno visibile del vasto interesse che ha suscitato e su¬
scita la personalità del Leopardi con i suoi scritti e con i casi della sua
vita. Selva foltissima, di grandi alberi che soprastano con le loro alte
cime al vento, da De San- ctis a Carducci e a Pascoli, per non
citare viventi, e di fitta boscaglia pullulante per tutto, ai piedi dei
grossi tronchi. Intorno al L. non pure letterati, deside- sori di
esattamente conoscere tutti i particolari della biografia e dello svolgimento
graduale del genio, e di risol¬ vere tutti i problemi che lo studio di
tal materia fa na¬ scere; ma filosofi e storici della filosofia, poiché
il Leopardi ebbe il gusto degli alti concetti speculativi, e nel
suo stesso vocabolario riecheggiano detti e pensieri di dottrine
celebri a cui egli, a suo modo, aderì; e insieme scienziati (antropologi
e fisiologi) entrati a un tratto in sospetto che certi limiti
nell’orizzonte spirituale del Poeta deri¬ vino da non so qual limite
somatico; sospetto nascente da improvvisate teorie e appoggiato a
improvvisate os¬ servazioni di fatto; ma fecondo tuttavia di
costruzioni e interpretazioni, se oggi cadute di moda, utili
tuttavia a chi voglia farsi un pieno concetto del lavoro compiuto
in questo secolo intorno al Leopardi. Fortunatamente, peraltro, se ci
sono state deviazioni ed eresie critiche e storture di metodi
materialistici suggeriti da pigrizia intellettuale di letterati ottusi, o
da presunzione pseudo¬ scientifica di cervelli rozzi e ignari dei
rudimenti di qual¬ siasi serio concetto intorno ai valori dello spirito,
ci sono stati pur saggi di quella critica magistrale che attraverso
le forme storiche e letterarie e i conseguenti atteggiamenti della
espressione artistica sa scoprire il principio profondo dell’
ispirazione, che è l’anima del poeta e 1 essenza di quell’eterna poesia
che lo fa immortale. Critica che in Italia, in questo secolo, da Leopardi
a noi, ha avuto esempi da fare epoca, e che hanno infatti educato
nel¬ l’universale la coscienza del solo metodo che ci sia per
raggiungere il poeta là dove egli e poeta. Così in questa selva
della letteratura leopardiana noi non abbiamo smarrito il Poeta. Anzi, a
capo di questo secolo anti-leopardiano si può dire che egli sia
stato prima scoperto, e poi veduto più e più giganteggiare come uno
dei più grandi spiriti della storia del mondo, e come il creatore della
più intensa poesia che si sia prodotta mai in Italia. Fu scoperto quando
un nostro grande critico, che lo aveva conosciuto di persona, gentile e
mansueto come era, e molto ne aveva studiato ed amato gh scritti, e
acutamente investigato lo spirito che ci vive dentro, non poteva
paragonarlo allo Schopenhauer senza sentire la infinita differenza tra il
pessimismo amaro del filosofo tedesco e il pessimismo sui generis del
poeta itahano. « Leopardi », diceva, « produce l’effetto contrario a
quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desi¬
derare; non crede alla libertà, e te la fa amare. Chiama illusioni
l’amore, la gloria, la virtù, e te ne accende in petto un desiderio
inesausto. E non puoi lasciarlo, che non ti senta migliore; e non puoi
accostar tigli, che non cerchi innanzi di raccogherti e purificarti,
perché non abbi ad arrossire al suo cospetto. È scettico, e ti fa
credente; e mentre non crede possibile un avvenire men tristo per la
patria comune, ti desta in seno un vivo amore per quella e t’infiamma a
nobili fatti. Ha così basso concetto dell’umanità, e la sua anima alta,
gentile e pura l’onora e la nobilita. E se il destino gli avesse
prolungata la vita infino al Quarantotto, senti che te l’avresti trovato
accanto, confortatore e combattitore. Atteggiamento contradittorio ? Lo aveva
confessato il Leopardi medesimo, in quel libro in cui più
freddamente si provò ad abbattere le umane illusioni, che agli
occhi dell’uomo il quale si affidi allo istinto dell’anima senza
indagare il mistero dell’universo, fanno la vita bella e degna di esser
vissuta, ossia nelle Operette morali. Dove esce candidamente a dire « che
non è fastidio della vita, non disperazione, non senso della nuUità delle
cose, della vanità delle cure, della solitudine dell’uomo; non odio
del mondo e di se medesimo; che possa durare assai; benché queste
disposizioni dell’animo siano ragionevo¬ lissime e le lor contrarie
irragionevoli. Ma contuttociò, passato un poco di tempo, mutata leggermente
la dispo¬ sizione del corpo; a poco a poco, e spesse volte in un
subito, per cagioni menomissime e appena possibih a notare; rilassi il
gusto alla vita, nasce or questa or quella speranza nuova, e le cose
umane ripigliano quella loro apparenza, e mostransi non indegne di qualche
cura; non veramente all’ intelletto, ma sì, per modo di dire, al
senso dell’animo ». Benedetto «senso deU’animo», che salva l’uomo
dal sapiente: l’uomo che non odia e non fugge l’uomo, poiché sente
di dover affermare, come fa L. Sono nato ad amare, ho amato, e forse con
tanto affetto quanto può mai cadere in anima viva », « sohto e pronto a
eleggere di patire piuttosto io, che essere cagione di pati¬ mento agli
altri ». Questo senso dell’animo gh fa dire : <( Se ne’ miei scritti io
ricordo alcune verità dure e triste, o jier isfogo dell’animo, o per
consolarmene col riso, e non per altro; io non lascio tuttavia negli
stessi libri di deplorare, sconsigliare e riprendere lo studio di
(juel misero e freddo vero, la cognizione del quale è fonte o di noncuranza
e infingardaggine, o di bassezza d’animo, iniquità e disonestà di azioni,
o perversità di costumi; laddove, per Io contrario, lodo ed esalto quelle
opinioni, benché false, che generano atti e pensieri nobili, forti,
magnanimi, virtuosi, ed utili al ben comune e privato; quelle
immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che dànno pregio alla vita;
illusioni naturali dell’animo; e infine gli errori antichi, diversi assai
dagli errori barbari; i quali solamente, e non quelli, sarebbero dovuti
cadere per opera della civiltà moderna e della filosofia ». Così
aveva pensato quando scriveva con animo di credente il Saggio sopra gli
errori popolari degli antichi. Così continuava a pensare, da miscredente,
sette anni dopo, nella canzone Alla primavera, o delle favole
antiche. Non si può credere al Poeta, quando, raccogliendo il
succo dell’amarissima esperienza amorosa fiorentina e assaporandone il fiero
gusto, rivolge .4 se stesso nel '33 quegli accenti disperati ed
empi; In noi di cari inganni Non che la speme, il
desiderio è spento. Amaro e noia La vita, altro mai nulla ; e
fango è il mondo. Al gener nostro il fato Non donò che il
morire. Ornai disprezza Te, la natura, il br\itto Poter
che, ascoso, a comun danno impera, E r infinita vanità del
tutto. Momento satanico, ma un solo momento: voce sì
dell’anima leopardiana, ma che il lettore attento non può ascoltare se
non commista in armonia profonda a voci più alte che sgorgano da polle
maggiori; e che lo stesso Poeta ascolta dentro il suo petto come
espressione più schietta della sua propria natura. Alla quale egli
non può rinunziare, convinto che sia da fare « poco stima di quella
poesia che, letta e meditata, non lascia al let¬ tore nell’animo un tal
sentimento nobile, che per mez¬ z’ora gl’ impedisca di ammettere un
pensier vile, e di fare un’azione indegna. Il momento satanico ricorre
spesso nel Leopardi. Ma esso è la prima e fondamentale ribellione di
questa forza incoercibile che egli sente insorgere di dentro a se
medesimo, di fronte e a dispetto della natura, ossia di questo universal
meccanismo che regge il mondo concepito, come L. aveva appreso a
concepirlo, in maniera rigorosamente materialistica: quel mondo in
cui non c’ è posto per la libertà, né quindi per la virtù, né per
l’immortalità; per nulla di ciò che forma l’essenza umana
dell’uomo, e gli conferisce la forza d’una fede, e la fiducia nella sua
forza di contrastare alla natura, di dominarla e farne strumento di una
vita spirituale sem¬ pre più ricca. Lampeggia sì da lungi allo
spirito del Poeta l’im¬ magine enorme e tremenda di quella Natura
disumana, che stritola e annienta l’uomo e tutte le pretese del suo
audace ingegno. Si vegga, p. e., come ella gli si presenta nel Dialogo
della Natura e di un Islandese: dove all’uomo che aveva fuggito quasi
tutto il tempo della sua vita per cento parti la Natura e la fuggiva da
ultimo nel- r interno dell’Africa, sotto la hnca equinoziale, in un
luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno, ecco che gli interviene
qualche cosa di simile che a Vasco di Gama nel passare il Capo di Buona
Speranza; e s’imbatte nella stessa Natura in petto e in persona: «Vide da
lontano un busto grandissimo; che da principio immaginò doveva essere di
pietra, e a somiglianza degli ermi colossali veduti da lui, molti anni
prima neh’ isola di Pasqua. Ma fattosi jiiù da vicino, trovò che era
una forma smisurata di donna seduta in terra, col busto ritto,
appoggiato il dorso e il gomito a una montagna; e non finta ma viva; di
volto mezzo tra bello e terribile, di occhi e capelli nerissimi ; la
quale guardavalo fissamente ». La Natura è infatti qui nelle parti dove
si dimostra più che altrove la sua potenza. E alle molte parole con
cui 1 ’ Islandese si lagna delle tribolazioni che affliggono l’uomo
in questa vita a cui non egli ha chiesto di nascere, risponde breve che «
la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione,
collegate ambedue tra sé di maniera, che ciascheduna serve con¬
tinuamente all’altra, ed alla conservazione del mondo; il quale sempre
che cessasse o l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissoluzione ».
Intanto sopraggiun¬ gono « due leoni, così rifiniti e maceri dall’
inedia, che appena ebbero forza di mangiarsi quell’ Islandese;
come fecero; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per
quel giorno. Ma sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un
fierissimo vento, levatosi mentre che r Islandese parlava, lo stese a
terra, e sopra gh edificò un superbissimo mausoleo di sabbia; sotto il
quale colui disseccato perfettamente, e divenuto una bella mum¬
mia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non
so quale città di Europa. Ma lo stesso tono malinconicamente beffardo
della prosa dimostra con qual animo il Poeta accolga questa
immagine deUa Natura. E spesso gli torna alle labbra una dichiarazione
esphcita: che cioè egli si compiace d’indagare questo mistero enorme
delbumverso non per addolorarsi del disperato destino deU’uomo, anzi
per riderne. L’ideale deUa sua personalità è Ottonieri, filosofo
socratico, che con occhi di lince scopre tutto il vano e il doloroso
della vita, ma ne ragiona con impcrturbabUe pacatezza di savio che sta al
di sopra e al di fuori della vita, e la ironizza. Insomma, l’uomo
Leopardi non fa la fine dell Islan¬ dese; non soggiace aUa natura, pasto
dei leoni o còlto improvvisamente dalla sabbia del deserto. Guarda
dal¬ l’alto e sorride, e sente la propria umanità superiore nell’
intelligenza vittoriosa e nello stesso potere di reagire al fato col
sentimento. £ BRUTO MINORE che dispregia n plebeo il quale, non valendo a
cessare gli oltraggi del destino, si consola con la necessità dei danni,
quasi fosse men duro un male senza riparo o non sentisse dolore chi
è privo di speranza. No, Guerra mortale, eterna, o fato
indegno, Teco il prode guerreggia. Di cedere
inesperto. È Saffo la misera Saffo, misera e magnanima, riso
luta ad emendare il crudo fallo del cieco dispensator de casi. A
quel modo di emenda a cui s’induce Saffo, Leopardi, a pensarci, non potrà
consentire, come sappiamo. Ma per lui resterà sempre, che al fato l’uomo
non devecedere. Resterà sempre la grandezza dell’animo che col
pensiero si leva al di sopra del fato, intende, comprende e
sorride; Che se d'affetti Orba la vita, e di gentili
errori, È notte senza stelle a mezzo il verno. Già del fato
mortale a me bastante E conforto e vendetta è che su l’erba.
Qui neghittoso immobile giacendo. Il mar, la terra e il cielo miro e
sorrido. Grandezza eroica, a cui il petto del Poeta si
allarga allo spegnersi del caldo raggio di amore di donna che fece
battere un momento il suo cuore di speranza e di felicità. Ma questa eroica
grandezza non basta; poco stante, nella piena maturità delle sue
esperienze morali, tornata la calma dopo la tempesta della patita
delusione e del sospettato scherno femminile, egli lascerà venir su
dal cuore la risposta più vera che si deve al cieco dispensator dei
casi. Quando, presso Portici, nel 1836, mirerà i campi cosparsi di ceneri
infeconde e ricoperti d’ impietrata lava, là dove erano state liete ville
e ricche messi e armenti e città famose, e ora tutto intorno una ruma
involve, il suo occhio poserà sul gentile fiore della ginestra,
che, quasi i danni altrui commiscrando, di dolcissimo odor manda un
profumo, che il deserto consola: simbolo della sua poesia, del suo animo,
che da questa spietata empia natura sa che c’ è un conforto e un riparo
nella umana compagnia e nell’amore che la stringe insieme incontro
al destino: Nobil natura è quella Che a sollevar
s'ardisce Gli occhi mortali incontra Al comun fato, e che con
franca lingua, Nulla al ver detraendo. Confessa il mal
che ci fu dato in sorte. E non si rivolge stoltamente contro gli uomini,
ma contro la natura che sola è rea: che de’ mortali
Madre è di parto e di voler matrigna. Costei chiama inimica;
e incontro a questa Congiunta esser pensando. Siccome è il
vero, ed ordinata in pria L'umana compagnia. Tutti fra sé
confederati estima Gh uomini, e tutti abbraccia Con vero amor,
porgendo Valida e pronta ed aspettando aita Negli alterni perigli e
nelle angosce Della guerra comune. Oh l’alta meraviglia del
Leopardi, dopo circa un lustro di sforzi fatti per affisarsi in quel
concetto desolato del mondo che le meditate dottrine gli mettevano
innanzi, e spogliarsi d’ogni personale sentire, e obliarsi nella
speculazione dell’acerbo vero (non più acerbo del resto a chi lo gusti,
poiché conosciuto, come dice lo stesso Poeta, ancor che tristo ha suoi
diletti il vero) ; dopo avere scritto le Operette che sono la filosofia
del Leopardi, ma sono pure un momento essenziale dello svolgimento della
sua poesia; dopo avere scritto il prosaico programma della sua vita
avvenire nell’epistola Al conte Carlo Pepoli; dopo aver preso quel freddo bagno
nella filologia italiana, che furono per lui le cure spese intorno
alle Rime del Petrarca e la compilazione della Crestomazia italiana.
oh l’alta meraviglia, quando si sentì rifluire in petto la vita ! Non che
risorgesse la speranza; non che la natura gli apparisse sott’altra luce;
non che si accorgesse comunque d’errore alcuno ne’ suoi filosofemi.
Ma insomma. Proprii mi diede i palpiti Natura, e i dolci
inganni. Sopirò in me gli affanni L’ingenita virtù ;
Non l'annullàr: non vinsela Il fato e la sventura; Non
con la vista impura L’ infausta verità. Dalle mie vaghe
immagini So ben ch’ella discorda; 50 che natura è
sorda. Che miserar non sa Il mondo, in ogni parte, è proprio qual
egli 1 ’ ha raffigurato nelle Operette: Pur sento in me rivivere
Gl’inganni aperti e noti; E de’ suoi propri moti maraviglia
il sen. Da te. mio cor, quest’ultimo Spirto, e l’ardor
natio. Ogni conforto mio Solo da te mi vien. Saffo ha
ragione quando afferma; Mancano, il sento, aH’anima Alta,
gentile e pura. La sorte, la natura. Il mondo e la beltà.
Saffo però ha dimenticato il suo cuore: Ma, se tu vivi, o
misero. Se non concedi al fato. Non chiamerò
spietato Chi lo spirar mi dà. Ecco, Tanima si calma, torna la
vita con le sue attrattive, con la sua gioia; risorge la poesia. Torna al
cuore del 2 i 6 Poeta Silvia, la giovinetta Silvia
splendente di bellezza negli occhi ridenti e fuggitivi, lieta e pensosa;
toma l’onda di beate speranze, di pensieri soavi che gli riempivano il
petto, al suon della sua voce; quando questa voce gli faceva lasciare gli
studi leggiadri per affacciarsi al balcone della casa paterna:
Mirava il ciel sereno. Le vie dorate e gli orti,
E quindi il mar da lungi, e quindi il monte. Lingua mortai
non dice Ouel eh’ io sentiva in seno. E pur lo aveva detto la
sua lingua, dieci anni prima, in quel capolavoro che è l’idillio scolpito
nei quindici versi de L’ infinito, quando, nel fondo dell’empia matrigna,
della spietata natura, aveva intravvista, sentita, amata un’altra Natura;
l’immensa Natura, verso la quale dal limite stesso della prossima siepe
l’anima è lanciata con un impeto di raccoglimento infuso di mistica
dolcezza: interminati Spazi di là da quella, e
sovrumani Silenzi, e profondissima quiete .... ove per
poco Il cor non si spaura. E come il vento Odo stormir tra queste
piante, io quello Infinito silenzio a questa voce Vo comparando; e
mi sovvien l’eterno, E le morte stagioni, e la presente E
viva, e il suon di lei. Cosi tra questa Immensità s’annega il pensier
mio; E il naufragar m’ è dolce in questo mare. Di
questo momento mistico del Leopardi poco s’è parlato; ed è momento di
grande valore per la compren¬ sione della sua anima, che in
quest’atteggiamento reli¬ gioso placa definitivamente il fiero contrasto
tra la sua indomita soggettività e la realtà onnipotente e
infinita, in cui quella par destinata ad infrangersi. Lo placa in
una situazione idillica che, riportando l’individuo alla natura madre,
infonde in lui la fiducia rinfrancatrice, di cui l’uomo ha bisogno per
vivere, abbandonarsi al¬ l’azione e sentire nel proprio petto il respiro
eterno e r infallibile sostegno divino del tutto. Negli idilli
perciò, com’egh stesso chiamò i primi, e quelli posteriori, i
grandi idilli che dal canto a Silvia vanno a quello del pastore
errante dell’Asia, scritti tra il ’zq e il ’30, anni della più potente
espansione e della lirica più piena e felice del Poeta, è la chiave di
vòlta di tutta la poesia leopardiana. Quando si legge la lettera al
Giordani : « Poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta la finestra della
mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di luna, e sentendo
un’aria tepida e certi cani che abbaiavano da lontano, mi si svegliarono
alcune immagini antiche, e mi parve di sentire un moto nel cuore,
onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando misericordia alla Natura,
la cui voce mi parve di udire dopo tanto tempo »; non si può non essere
com¬ mossi da questo prorompere di così alta vena mistica la cui
scaturigine evidentemente si cela nel centro vivo più remoto della
personalità leopardiana. E allora s’intende l’invocazione ansiosa della
canzone Alla primavera: Vivi tu, vivi, o santa Natura ?
Allora si ode quasi il lento respiro queto e dolce e l’arcana soave
mestizia della Vita solitaria: Talor m’assido in solitaria parte,
Sovra un rialto, al margine d’un lago Di taciturne piante
incoronato. Ivi, quando il meriggio in ciel si volve. La sua
tranquilla imago il sol dipinge. Ed erba o foglia non si crolla al
vento; E non onda incresparsi, e non cicala Strider, né
batter peima augello in ramo, Né farfalla ronzar, né voce o
moto Da presso né da lunge odi né vedi. Tien quelle rive
altissima quiete; Ond’ io quasi me stesso e il mondo obblio
Sedendo immoto; e già mi par che sciolte Giaccian le membra mie, né spirto
o senso Più le coramova, e lor quiete antica Co' silenzi del loco
si confonda. Allora, infine, si scorge il tono vero del Canto del
Pastore, così buio e pur così luminoso, così accorato e pur così sereno,
con i suoi perché disperati, e col suo funereo sigillo (è funesto a chi
nasce il dì natale) e la sua alata poesia : Forse s'avess’ io
l’ale Da volar su le nubi, E noverar le stelle ad una ad
una, O come il tuono errar di giogo in giogo. Più
felice sarei.... Poiché il pastore vede che la sua greggia è beata,
quasi libera d’affanno, e che, sopra tutto, tedio non -prova, a
differenza di lui, che non ha pace anche sedendo sopra l’erba, all’ombra,
poiché un fastidio gl’ ingombra la mente e uno sprone lo punge di dentro
e non gli lascia riposo. E ogni animale giacendo, a bell’agio, ozioso,
si appaga. Vede il pastore che nel seno della natura è la felicità;
e l’affanno nasce dall’opporsi a lei con l’irre¬ quieto ingegno destinato
ad avvolgersi in un insolubile intrigo, in una fatica vana senza speranza.
Tutta la poesia del Leopardi attinge in quel punto mistico del
ritorno alla gran madre la pace e la gioia. Allora egli parla dei
pensieri immensi e dolci sogni che gli ispirò sempre, nello stesso
modesto giardino della casa paterna, « la vista di quel lontano mar, quei
monti azzurri ». Per lui, come pel jiassero solitario, non
sollazzi, né riso, né amore: ma cantare sì, come ruccellino che
dalla vetta della torre antica va cantando, alla campagna, finché non
muore il giorno; ed erra l’armonia per la valle, mentre
Primavera d’intorno Brilla nciraria, e per li campi
esulta. Si ch’a mirarla intenerisce il core.
L'uccellino non si tormenta col pensiero della giovinezza che passa e
della morte che s’avvicina: poiché di natura è frutto ogni sua vaghezza e
in lei non è affanno : e da lei sgorga pure il suo canto; il canto che
aduna nel cuore la dolcezza della primavera che fa brillare l’aria
e esultare le campagne. Anche uomini di alto intelletto, come
Capponi, han voluto dar sulla voce al Leopardi per quel suo con¬
cetto della infehcità che cresce negli uomini in propor¬ zione della loro
grandezza: ossia del loro ingegno e sa¬ pere. Come se questo stesso
lamento non uscisse dalle Sacre Carte ! E gli han voluto far osservare
che felice era certo egh stesso mentre componeva i suoi canti, e
riusciva ad essere L.. Come se non fosse questo il significato di tutta
la poesia leopardiana, e la sorgente del suo irresistibile incanto! L. lo
sapeva bene, e sotto la data del 30 novembre 1828 ne’ suoi Pensieri
annotava: «Felicità da me provata nel tempo del comporre, il miglior tempo eh’
io abbia passato in mia vita, e nel quale mi contenterei di durare finch’
io vivo ! Passar le giornate senz’accorgermene e parermi le ore
cortissime, e meravigliarmi sovente io medesimo di tanta facilità di
passarle ». E nell’agosto del '23 non aveva egli scritto, tra gli stessi
Pensieri, che « ninna cosa maggiormente dimostra la grandezza e la potenza
deU’umano intelletto.... che il poter l’uomo conoscere e
interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza?
Tale il suo canto; il più squisito frutto dell’operare della natura santa
e onnipossente, raccolta, per dir così, a far la più alta prova del suo
potere dentro il genio dell’uomo. Il quale, pertanto, in se stesso,
infine, trova se stesso, scoperta che abbia la fonte della sua
vita: quel divino, che ha in sé e gli colora il mondo delle beate
larve, e lo solleva da questa vicenda perpetua di nascere e di morire, di
fallaci promesse e di v'ane speranze, al regno immortale della vita dello
spirito. E quando scopre questa sorgente, egh è veramente lui, il genio;
e sente l’amore che abbellisce e conforta, e crede nella potenza e
nella grandezza dell’umana intelligenza, e torna ad amare la vita
nobilitata dall’ ideale. E pur con le dolenti parole suggeritegli dallo
spettacolo del mondo esteriore in cui l’uomo rischia di smarrirsi, sente
l’ineffabile gusto dello spirito che si ritrae in se stesso e nel
sentimento del proprio valore, quale si svela al contatto di quella
natura eterna, in cui è il suo principio e con cui perciò deve
immedesimarsi per trovare le radici del suo proprio essere. E il
naufragar m è dolce in questo mare. Qui la grandezza del Poeta; qui
l’incanto della sua poesia, che i giovani amano per l’amore della
giovinezza che vi spira dentro; che gh uomini maturi ed esperti
della vita amano non meno per il lucido specchio che essa offre degli
aspetti dolorosi dell’esistenza, attraverso i quah si deve avere il
coraggio di vivere, malgrado ogni disinganno; che tutti gli uomini,
piccoh e grandi, dotti o ignoranti, considerano come uno dei doni più
preziosi di Dio all’umanità. Piccolo libro, in cui un gran cuore
parla a tutti i cuori, e li unisce (poiché unirsi devono per sedvarsi) in
un sentimento acuto della miseria innegabile della vita e della non meno
innegabile azione dello spirito che affranca da ogni miseria e infonde la
fede per cui si ha la forza di vivere. Piccolo hbro, sacro per gl’
Itahani e per tutti gli uomini, come tutti i libri in cui grandi pensieri
si sono fatti semplici e chiari e perciò faciU, com’ è al passero
solitario il suo perpetuo canto : anima della sua anima. Piccolo libro da
leggere bensì non a brani e frammenti, ma intero, affinché non sia
frainteso, dimostri tutta la sua bellezza e spieghi insieme la sua dolce
virtù consolatrice e animatrice. Conferenza tenuta al Lyceum di Firenze e
pubblicata nel volume di letture Giacomo Leopardi a cura di Blasi (Firenze.
Sansoni). Ripubblicata in Poesia e filosofia di Giacomo Leopardi
(Firenze, Sansoni). A parlare della filosofia di un poeta, e di un grande
poeta, o, che è lo stesso, delle relazioni del pensiero di questo poeta
con la filosofia, un pover uomo, per discreto che voglia essere, si
espone al rischio di toccare un tasto falso e di riuscire uggioso e
molesto fin dalle prime parole. Ripugna infatti al senso poetico di cui
ogni spirito ben¬ nato è più o meno riccamente dotato, questa ricerca
che ha tutta l’aria d’una pretesa pedantesca, illegittima e affatto
arbitraria : questa ricerca di mettere quel che pensa un poeta, sopra
tutto, ripeto, se è un grande poeta, e cioè un poeta vero, quel che egli
riesce a dire, ossia quello che egli sente, e sente profondamente, al
paragone degh astratti schemi in cui ogni filosofia va a finire.
Non già che i poeti non abbiano anch’essi la loro filosofia, un loro
concetto della vita, una loro fede. Oh se 1’ hanno ! Non c’ è uomo che
non ne abbia una. Anzi con la vivezza e col vigore del suo sentire la
sostanza della propria vita spirituale, nessuno così fortemente come il
poeta afferma la propria fede e la oppone ad ogni più meditata
dottrina che si esibisca da coloro che passano per gh autorizzati
interpreti della filosofia; nessuno più di lui è convinto d’avere una sua
filosofia capace di sbaraghare tutte le altre. Ma le battaglie che il
poeta combatte e vince, si svolgono dentro al chiuso della sua fantasia.
E gh pos¬ sono bensì procurare la gioia della vittoria, ma una
gioia tutta soggettiva come di chi in sogno viene a capo del suo
più arduo desiderio e coglie il fiore più bello del giar¬ dino della
vita. E nella storia — che giudica tutti gli individui e le opere loro, perché
con la ragione sovrana prima o poi valuta le ragioni di ciascuno — di
fronte al poeta rimane sempre il filosofo, che scopre le contrad¬
dizioni del primo, il carattere dommatico e gratuito delle sue
asserzioni, l’immediatezza irrazionale della sua fede; e insomma i
difetti e le debolezze del suo pensiero ; e viene così a trovarsi nella
impossibilità di scorgere la grandezza della sua personalità se a
misurarla non adotti un metro diverso. E che cosa di più irriverente e
ottusamente inu¬ mano e brutale che accostarsi ai grandi uomini per
guar¬ darli da tutti i lati, anche da queUi che lasciano scorgere i
loro difetti, e non guardarli mai da quell’unico aspetto in cui rifulge
la loro grandezza ? Fu detto che non c’ è grande uomo per il suo
cameriere; e potrebbe parere che in fine il filosofo sia, per tale
rispetto, il cameriere del poeta; gli spazzola i vestiti, gli allaccia le
scarpe, ma non lo guarda mai in faccia. Oh la servitù
numerosa che sta intorno al poeta ! C’ è il filosofo; ma c’ è anche l’antropologo
e lo psicologo ; c’ è lo storico puro e c’ è il filologo ; schiere e
schiere di scienziati, servitori dalle più vistose livree; i quah,
per quel garbo e quella riservatezza che sono tra i requisiti più elementari
del mestiere che esercitano, non alzano mai gli occhi verso il padrone, per
entrargli nel¬ l’anima e scrutarne la passione, intenderla, sentirla,
parteciparvi. Certo non si permetterebbero mai tanta confidenza!
Nessuna mera^'iglia ]ioi se il poeta guarda dall’alto tutto questo
servitorame, e sta sulle sue, per non confondersi, per salvare se stesso e
\fivere la sua vita supe¬ riore, di cui è geloso come del suo tesoro.
Talora può concedere un sorriso di umana indulgenza o signorile
degnazione; ma il più spesso guarda con que’ suoi acuti occhi che
penetrano negh ascosi pensieri — così labo¬ riosi, così opachi, così
grevi; — e negh angoh della bocca il sorriso diventa ironia, sarcasmo. E
allora la povera filosofia, anche pel poeta, come per tutti gli uomini
che la filosofia assedia, assilla e infastidisce con le sue inces¬
santi inchieste e pretese, diventa materia di satira. Allora, il
Leopardi esce in un’osservazione di gusto volteriano, come questa che è
nello Zibaldone. L’apice del sapere umano e della filosofia consiste a
conoscere la di lei propria inutilità se l’uomo fosse ancora qual era da
principio; consiste a correggere i danni ch’essa medesima ha fatti, a
rimetter l’uomo in quella condizione in cui sarebbe sempre stato
s’ella non fosse mai nata. E perciò solo è utile la som¬ mità della
filosofia, perché ci libera e disinganna dalla filosofia ». Osservazione
che ama ripetere, dandola come un «suo principio»: «La sommità della
sapienza consiste nel conoscere la propria inutihtà, e come gli uomini
sarebbero già sapientissimi s’ella non fosse mai nata: e la sua maggiore
utilità, o almeno il suo primo e proprio scopo, nel ricondurre
l’intelletto umano (s’ è possibile) appresso a poco a quello stato
in cui era prima del di lei nascimento ». E in assai più nitida forma
tornerà a ribadirla infine come uno de’ capisaldi delle sue più profonde
convinzioni, nel ’zq, nel Dialogo di Timandro e di Eleandro: «L’ultima
conclusione che si ricava dalla filosofia vera e perfetta, si è, che non
bi¬ sogna filosofare ». Nei Paralipomeni degli ultimi anni,
anzi degli ultimi giorni della sua vita, più amaramente dirà;
Non è filosofia se non un'arte La qual di ciò che l'uomo è
risoluto Di creder circa a qualsivoglia parte. Come meglio
alla fin 1 ’ è conceduto. Le ragioni assegnando empie le
carte O le orecchie talor per instituto Con più d'ingegno o men,
giusta il potere Che il maestro o l'autor si trova avere.
Eppure, s’ingannerebbe sul vero pensiero del Leo¬ pardi chi si limitasse
a leggere questa sola ottava dei Paralipomeni, come chi si diverte a
ripetere col Petrarca. Povera e nuda vai filosofia, dimenticando o
ignorando che PETRARCA continua; Dice la turba al vii guadagno
intesa. Dopo l’ottava che ho letta, il Leopardi infatti si ripiglia nella
seguente, e precisa, compiendolo, il pen- sier suo in questo modo:
Quella filosofia dico che impera Nel secol nostro senza guerra
alcuna, E che con guerra più o men leggera Ebbe negli altri
non minor fortuna, Fuor nel prossimo a questo, ove, se intera
La mia mente oso dir, portò ciascuna Facoltà nostra a quelle cime il
passo Onde fosto inchinar 1 ’ è forza al basso. La filosofia,
dunque, che il Leopardi schernisce è quella teologica, come allora si
diceva, dommatica, spiritua¬ listica; la filosofia della Restaurazione e
del Romanticismo. La filosofia imperante al suo tempo: non ogni
filosofia. Anzi la filosofia imperante, tutta ottimistica, presuntuosa,
intollerabile alla mentalità leopardiana per¬ ché in contrasto coi fatti
e con le necessità di ogni li¬ bera mente, proveniente, come pur quivi si
dice, da quella Forma di ragionar diritta e sana
Ch’a priori in iscola ancor s'appella, Appo cui ciascun’altra oggi
par vana. La qual per certo alcun principio pone E tutto
l'altro poi a quel piega e compone; cotesta filosofia non è satireggiata
qui propriamente dalla poesia, ma dalla filosofia stessa, o, se si vuole,
da un’altra filosofia. Si tratta deUa filosofia falsa che è combattuta e
debellata dalla vera: ossia da quella che all’au¬ tore par vera. Neanche
si può dire quel che dice MANZONI degli avversari della filosofia respinta in
tutte le sue forme e in generale, quando osserva che anch’essi,
questi avversari della filosofia, senza saperlo, hanno una loro
filosofia, servitori senza livrea. Il Leopardi sa di avere la sua filosofia;
anzi, per cominciare ad intenderci, egli propriamente professa di averne
due. Dico cU più: senza r intelligenza di questa sua duphce filosofia si
rischia di fare, a proposito del Leopardi, di quella esegesi filosofica,
ov\’ero sia di quella filosofia, che s’ è soliti fare, e che s’ è sempre
fatta fin dal tempo del Leopardi; una filosofia infarcita di luoghi
comuni e di massiccia pedaneria: filosofia da camerieri che allacciano le
scarpe e non guardano in faccia. Con la filosofia cosiffatta va a
braccetto una critica che si chiama infatti filosofica, presuntuosa non
meno, tutta chiusa alla intelligenza dell’anima del Poeta e però
della sua poesia. La quale critica io mi permetto di condannare per una ragione
di metodo, che ritengo fonda- mentale. Ed è questa: che l’essenza della
poesia non è nel pensiero del poeta, ma nel sentimento che il poeta
ha del suo pensiero: non è nel mondo che egh vede, ma negh occhi con cui
lo vede e lo accoglie, lo fa vibrare e vivere nel suo interno. Fuori del
quale ogni realtà, sensibile o ideale, è semphce astrattezza inafferrabile.
Lì, nel trepido moto dell’ intimo sentire, in cui il mondo ha il
suo centro di vita, è l’attuahtà di quanto si vede o si pensa, o si può
vedere e pensare; e lì è la sorgente della poesia. Perciò una critica che
innanzi alle Operette morali si ferma allo «spirito angusto, retrivo e
reazionario », cioè alle idee negative che vi spaziano dentro, e per ciò
non riesce a scorgere quanto v’ è di umano e cioè di positivo ed eterno, è
critica radicalmente sbaghata, che scambia le ombre con i corpi saldi.
Poiché le idee, una volta astratte dall’atteggiamento che l’anima
assume verso di esse, ossia dal concreto atto vitale a cui esse
partecipano e da cui traggono il loro significato vivente, sono
pallide ombre che il critico si fingerà astrattamente, ma non {lotrà mai
abbracciare al suo petto. Nel caso del Leopardi poi c’ è di più;
perché, come ho accennato, se egli ha una filosofia tutta negativa,
natu- rahstica e materialistica, che gli sembra inoppugnabile e che
fa materia di assiduo pensare e ispirazione altresì del suo canto, egli
ha la filosofia di cotesta sua filosofia. E in questa filosofia superiore
che è negazione della negazione, e che afferma perciò, come abbiamo udito
da Eleandro, ultima conclusione della filosofia v'era e perfetta esser
quella, che non bisogna filosofare; in questa filosofia superiore è il
senso serio e profondo di quella che a primo aspetto ci è parsa condanna
beffarda della filosofia, giudicata inutile anzi dannosa. Lo
stesso L., teorizzando questa filosofia superiore, in cui fa consistere la cima
della sapienza, la chiama, nello Zibaldone, «ultrafilosofia»: una
filosofia « che conoscendo l’intero e l’intimo delle cose, ci ravvicini
alla natura: filosofia naturale, spon¬ tanea, primitiva, barbara; più che
alle origini, si trova nella maturità della intelhgenza umana. Sentiamo
da capo Eleandro, che nel suo stesso nome vuol essere 1’interprete della
filosofia leopardiana contro la pretensiosa filosofia ottimistica alla
moda di Timandro: «S’ingannano grandemente », egli dice, « quelli che dicono e
predicano che la perfezione dell’uomo consiste nella conoscenza del vero, e
tutti i suoi mali provengono dalle opinioni false e dalla ignoranza, e
che il genere umano allora finalmente sarà febee, quando ciascuno o i
più degli uomini conosceranno il vero, e a norma di quello solo
comporranno e governeranno la loro vita. E queste cose le dicono poco
meno che tutti i filosofi antichi e moderni ». Timandro ha concesso ad
Eleandro che tutti sono infelici; gli ha concesso la necessità
della nostra miseria, e la vanità della vita, e l’imbecillità e
piccolezza della specie umana, e la naturale malvagità degli uomini; gli
ha concesso che in queste verità si assommi la sostanza di tutta la
filosofia; ma deplora egh che tali verità vengano divulgate col solo
frutto di spogliare gli uomini della stima di se medesimi («primo
fondamento della vita onesta, della utile, della gloriosa ») e distorh
dal procurare il loro bene. Ma dunque, ribatte Eleandro, quelle verità che sono
la sostanza di tutta la filosofia, si debbono occultare alla maggior
parte degli uomini; e credo che facilmente consentireste che debbano
essere ignorate o dimenticate da tutti: perché sapute, e ritenute nell’animo,
non possono altro che nuocere. 11 che è quanto dire che la filosofia si debba
estirpare dal mondo. Dunque, non bisogna filosofare, come s’ è
detto. Dunque, incalza Eleandro, « la filosofia primieramente
è inutile, perché a questo effetto di non filosofare non fa di bisogno di
essere filosofo; secondariamente è dannosissima, perché cjuella ultima
conclusione non vi s impara se non alle proprie spese, e imparata che sia,
non si può mettere in opera; non essendo in arbitrio degli uomini
dimenticare le verità conosciute, e dcponenclosi più facilmente qualunque
altro abito che quello di filosofare ». Non si può mettere in
opera. Il che significa che rultrafilosofia — che è la conclusione
perfetta e perciò la vera filosofia — non estirpa e distrugge l’altra,
falsa o insufficiente. La quale, buona o cattiva che sia, è quella
che è: e, una volta piantata nel cervello dell’uomo, vi resta confitta
incrollabilmente, anche suo malgrado, quantunque insieme con essa e al
disopra di essa ci sia una verità certamente più umana e degna
dell’uomo, diretta a ricostruire quel che la prima ha
demolito. Verità ? Se per verità s’intende solamente quel che si
conosce per mezzo deU’esperienza e di quello schietto ragionare che
s’appoggia sempre ai fatti osservati, questa della filosofia superiore
non è verità, ma esigenza dell’animo, e voce misteriosa della più profonda
natura, che la filosofia più tenace e più pervicace non riuscirà
mai a spegnere. Ma se verità è la mèta raggiunta filosofando, questa è la
verità assoluta, perché messaci innanzi dalla stessa filosofia quando sia
riuscita ad elevarsi fino alla sommità della sapienza. Dove, volendo pur
non contraddire alle verità via via accertate e sempre più strettamente
connesse e saldate insieme in irrepugnabile sistema, bisognerà sì
rassegnarsi a dire errori in sem¬ bianza di verità, illusioni, fantasmi,
tutte quelle altre verità che come tali si rappresentano all’uomo il
quale a quella sommità sia pervenuto; e quindi veda rivivere il
mondo nella pienezza rigogliosa della sua vita primitiva, felice, ridente,
soffusa di una divina aura di giovinezza ignara e fidente. L’uomo L. non può
non filosofare; non può non passare attraverso la prima filosofia; ma non
può né anche non giungere infine alla seconda e superiore. Dove egli ritrova
tutto quello che ha perduto. Lo ritrova, s’intende, com’ è possibile
soltanto dopo averlo perduto; poiché dimenticare quel che ha saputo
e sa, non potrà mai ; a quel modo che può tornar fanciullo un uomo che ha
vissuto e sofferto tutte le delusioni e le amarezze del mondo, e può
riacquistare il gusto della virtù chi abbia una volta bevuto al calice
del bene e del male. Chi distingue nel pessimismo leopardiano
due fasi o forme, la prima di un pessimismo storico in cui tutto il
male è frutto dell’ « irrequieto ingegno e dello scellerato ardimento degli
uomini contro gl’ inermi regni della saggia natura (di cui si parla nell’
Inno ai Patriarchi), e l’altra di un pessimismo cosmico che fa gli stessi
uomini vittime incolpevoli della immane natura, si lascia sfuggire
l’unità fondamentale dello spirito del Poeta, dov’ è, ripeto, il segreto
della sua poesia; di quella dolcezza che ci suona dentro alla lettura dei
canti dal primo all’ultimo, e in forma più palese e più sistematicamente
determinata, almeno nell’ intenzione dello scrittore, nelle Operette
morali: dolcezza che vince, per così dire, tutta l’amarezza che negli uni
e nelle altre si riversa nelle più varie forme dell’anima di quest’uomo,
che fu certamente tanto grande quanto infelice, e seppe accogliere nella
vasta onda della sua poesia tutto il dolore del mondo, ma non per
avvol¬ gere il mondo stesso nella tenebra della disperazione, anzi
per illuminarlo coi raggi d’una indomata fede nella vita con i suoi
ideali e con i suoi entusiasmi. La verità è quella che ci viene
apertamente attestata nello stesso disegno delle Operette. Le quali
cominciano col mito delle origini della umanità governate
dall’amore e finiscono nella conclusione di Eleandro. Se ne’ miei
scritti io ricordo alcune verità dure e triste, o per isfogo dell’animo,
o per consolarmene col riso, e non per altro [e dunque egli ha sfogato, e
s’è consolato e ora può parlare con animo pacato e sereno], io non lascio
tuttavia negli stessi libri di deplorare, sconsigliare e riprendere lo
studio di quel misero e freddo vero, la cognizione del quale è
fonte o di noncuranza e infingardaggine, o di bassezza d’animo, iniquità
e disonestà di azioni, e perversità di costumi: laddove, per lo
contrario, lodo ed esalto quelle opinioni, benché false, che generano
atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, ed utili al ben
comune e privato; quelle immaginazioni belle e felici, ancorché vane, che
dànno pregio alla vita; le illusioni naturali dell’animo; e in fine gli
errori antichi, diversi assai dagli errori barbari. i quali solamente, e
non quelli, sarebbero dovuti cadere per opera della civiltà moderna e
della filosofia. E più tardi l’autore aggiungerà il Dialogo di Plotino e
di Porfirio, dove l’accento torna sull’amore come sovrana legge della
vita e rintuzza la volontà suicida dell’egoista giunto al fondo della
disperazione della sua vita senz’amore. Prima parola ed ultima, amore.
Quella stessa che risuona in fondo ai Canti, nella Ginestra. E
contraddice certamente al freddo vero dell’ Epistola al Popoli e dello
Zibaldone, e delle Operette e dei Pensieri e dei Paralipomeni e dei Nuovi
credenti e insomma a tutto il contenuto prosaico della poesia
leopardiana; voglio dire a tutto quel sistema di filosofia che era, nel
vocabolario del Leopardi, la verità in opposizione agli errori: a tutto il
complesso degli insegnamenti di quella filosofia che, per altro, negli stessi
Paralipomeni, dove più espressamente essa viene esaltata, non impedisce al L.
di uscire in quel famoso grido del cuore. Bella virtù, qualor di te
s’awede. Come per lieto avvenimento esulta Lo spirto
mio. Cotesta filosofia, non occorre esporla. Tutti la conoscono. E quella
concezione del mondo, che giustifica un empirismo assoluto. Lo spirito
vuoto; e tutto quello che in esso può mai trovarsi, un derivato meccanico
dall’esterno attraverso i sensi. Quindi lo stesso spirito, il quale da
chi tenga fermo al concetto delle sue esigenze imprescindibili, non può
non raffigurarsi dotato di liberta, e quindi appartenente a quel mondo
dei valori per cui è possibile un pensare logico che sia vero in
opposizione al falso, o un volere buono in contrasto col malvagio,
e un’arte creatrice di bellezza che si libri nel puro aere ideale e
sovrasti alla miseria di tutte le cose brutte; lo stesso spirito, dico,
tratto a sentirsi, nel vuoto assoluto che si trova dentro, nulla: assoluto
nulla, in cui libertà e verità e virtù e bellezza non possono essere, in
fondo, altro che vane larve e falsi miraggi di un’ immaginazione
ingenua e fanciullesca. E il tutto è natura: cioè questa realtà che si
rappresenta a un tratto tutta spiegata ncUo spazio e nel tempo,
materiale, risultante da infinite parti e particelle che si condizionano
a vicenda in guisa che ciascuna sia 0 si muova in conseguenza di tutte le
altre; in un meccanismo universale, dove tutto quel che accade, è
fatale di una necessità che schiaccia e stritola ogni vana pretesa
dell’uomo che si ])rovi a mutare il corso del destino. Tutto. Anche il
sentimento che sboccia nel cuore degli uomini, e che soltanto
l’irriflessione e l’ignoranza ci possono far giudicare buono o cattivo; anche
il giudizio con cui ci s’illude di distinguere il vero dal falso. Anche
la volontà che non sceglie, come si favoleggia, tra bene o male, ma scoppia in
un senso o nell’altro con la stessa cieca necessità del fulmine nelle
tempeste della natura. La natura dunque è tutto, e l’uomo nulla. La
natura, perché meccanica, incomprensibile, opaca, ripugnante a ogni
razionalità (perché la ragione è discriminazione, scelta, libertà). Un
mistero. Così dice cotesta filosofia, come se tutto questo, che
essa dice con tanta sicurezza, fosse possibile; come se cioè fosse
possibile un mondo in cui, se non altro, la verità sia una parola vana, e ci
sia nondimeno posto per l’uomo che, in mezzo a questo universale
meccanismo, nel mistero di questa tenebra profonda e per definizione
invincibile, abbia pure il diritto di affermare che la verità sia proprio
quella che egli asserisce ! Come se fosse possi¬ bile salvare una verità
qualsiasi dal naufragio d’ogni verità. Filosofia dunque
essenzialmente contradditoria, che nei filosofi empiristi, naturalisti,
materialisti, tipo secolo XVIII, è ignara di questa sua immanente
contrad¬ dizione, tra la ragione che si nega e la ragione che per
negarsi rivendica di fatto il proprio potere e valore. Filosofia
accettata dal Leopardi, ma con un’anima che troppo sente le conseguenze
dolorose di essa e troppo è naturalmente dotata di quella forza con cui
lo spirito reagisce ai hmiti che si oppongono alla sua libertà, e
quindi al dolore, per non aver coscienza di tale contraddizione. E
questa coscienza è in lui acutissima. L’uomo, pertanto, che dovrebbe
prostrarsi di fronte alla natura nel senso angoscioso del proprio niente,
non piega, invece, non s’accascia, non rinunzia alle sue verità, anche se
battezzate fantasmi. Il dolore, attraverso la potente reazione di tutto
il suo spirito nel senso gagliardo e tenace con cui l’apprende e lo ferma
nel cristallo della sua divina fantasia, si trasfigura: non è più il
limite della sua forza e della sua libertà; è poesia, cioè umanità; è
grandezza umana, trionfo della potenza creatrice, che è Ubera e
infinita potenza. Qui l’anima di L., qui il fascino deUa sua
poesia. La quale non trae la sua ispirazione centrale dall’astratto
concetto di quel crudo materialismo, che annienta l’uomo e fiacca perciò
ogni velleità di vivere a proprio modo, a norma de’ propri ideaU, in un
mondo qual egU perciò lo vagheggi, liberamente, ma da questo senso
profondo, or cupo e straziante, or placato e sereno, che gli \aene dalla
sua « ultrafilosofia », dal bisogno di respingere come antiumana e
contradditoria alla incoer¬ cibile natura dell’uomo cotesta filosofia
negativa e sof¬ focante. Ora è Bruto minore, nudo di speranza, ma
prode, di cedere inesperti), neUa sua guerra mortale contro il fato
indegno, in atto di sfida magnanima contro il Destino, che egU vince, violento
irrompendo nel Tar¬ taro: e la tiranna Tua destra,
allor che vincitrice il grava. Indomito scrollando si
pompeggia. Quando nell’alto lato l’amaro ferro intride, e
maligno alle nere ombre sorride. Ora è la misera Saffo, grave
ospite di natura, estranea alla infinita beltà di questa, consapevole del
prode ingegno che pur le venne in sorte assegnato, delle proprie
virili imprese, del dotto canto, della virtù insomma che può vantare;
ed ecco, è risoluta di spargere a terra il velo indegno ricevuto da
natura, primo principio della sua infehcità; e morire, ed emendare così
«il crudo fallo del cieco dispensator de’ casi. Ora è il Poeta stesso,
che invoca la morte hberatrice. Ma certo troverai, qual si sia l’ora che
tu le penne al mio pregar dispieghi. Erta la fronte, armato,
E renitente al fato. La man che flagellando si colora Nel mio
sangue innocente Non ricolmar di lode. Non benedir, com’usa
Per antica viltà l’umana gente; Ogni vana speranza onde
consola Sé coi fanciulli il mondo. Ogni conforto stolto Gittar
da me. O che, stanco di sperare e disperare, sente in sé spento
anche il desiderio, e vuol acquetarsi nell’ultima dispera¬ zione e
cliiudersi in un superbo disdegno di se medesimo, della natura e di
questa infinita vanità del tutto. Nel disprezzo del brutto poter che, ascoso, a
comun danno impera. Ora invece, il Poeta s’accosta a questa Natura
mi¬ steriosa, arcana, e si scioglie in un mistico sentimento della
sua vita infinita e divina. Giacché si sa che il naturalismo è stretto parente
della mistica, che ugualmente oppone la realtà all’uomo al punto da non
lasciargli più modo di distinguersene e spingerlo perciò al
desiderio d’immergersi e immedesimarsi col tutto infinito che gli è
davanti e lo attrae. E allora L. ricompone il suo volto dal ghigno della
ribellione, e scioglie il suo dolore, ossia quella sua soggettività
solitaria e disperata di uomo che, perduta la giovinezza, vede intorno a
sé il deserto e il buio della sera e deH’orrida vecchiezza, nella
languida consolazione degli Idilli: de l’infinito, dove il poeta non
canta più il suo dolore, ma il dolce gusto dell’eterno: Così
tra questa Immensità s’annega il pensier mio; E il
naufragar m’ è dolce in questo mare; de La sera del dì di festa,
dove il cuore si stringe A pensar come tutto al mondo passa e
quasi orma non lascia; e il suono delle umane glorie e degl’ imperi
più famosi cede come il canto dell’artigiano che riede a tarda
notte al suo povero ostello poiché la festa è finita: Tutto è
pace e silenzio, e tutto posa Il mondo; e risvegha nella
memoria del poeta una immagine accorante insieme e viva divenutagli
familiare: ed alla tarda notte Un canto che s’udia per li . sentieri
Lontanando morire a poco a poco; de La vita solitaria, dove «
l’altissima quiete » del meriggio presso all’ immoto specchio del lago di
taciturne piante incoronato gli fa obliare se stesso e il mondo: e
già mi par che sciolte Giaccian le membra mie, né spirto o senso
Più le commova, e lor quiete antica Co’ silenzi del loco si
confonda. Estasi; estasi mistica che fa risalire dal petto il
trepido grido dell’angoscia religiosa, che echeggia nel canto Alla
primavera, 0 delle favole antiche: Vivi tu, vivi, o santa Natura
? e quello anche ])iù antico della stupenda lettera al Giordani,
che convien rileggere: «Poche sere addietro, prima di coricarmi, aperta
la finestra della mia stanza, e vedendo un cielo puro e un bel raggio di
luna, e sentendo un’aria tepida e certi cani che abbaiavano da
lontano, mi si svegharono alcune immagini antiche, e mi parve di sentire
un moto nel cuore, onde mi posi a gridare come un forsennato, domandando
misericordia alla natura, la cui voce mi parve di udire dopo tanto
tempo. A questa religione, da cui la filosofia inferiore allontana, riconduce
quella superiore, la ultrafilosofia. Quando L. annota nello Zibaldone
che « la filosofia.... s’ ha per capitai nemica della eeligione, ed
è vero, egli parla, com’ è evidente dal seguito della sua nota, della FILOSOFIA
inferiore. Egli stesso ha il pensiero a una diversa filosofia quando,
sotto la datasegna cjuesto pensiero profondo: «1 tedeschi si strisciano
sempre intorno e appiedi alla verità; di rado l’afferrano con mano
robusta: la seguono indefessamente per tutti gli andirivieni di questo
laberinto della natura, mentre l’uomo caldo di entusiasmo, di sen¬
timento, di fantasia, di genio, e fino di grandi illusioni, situato su di
una eminenza, scorge d’un’occhiata tutto il laberinto, e la verità che
sebben fuggente non se gli può nascondere ». La mano robusta dunque non si
contenta della ragione, ma vuole anche cuore, fede, natura o « senso
dell’animo », genio ; e cioè, non sa che farsi della piccola ragione,
poiché ha bisogno della grande. La quale non s’illude di aver spiegato
tutto quando ha spiegato la natura, e non ha spiegato e si mette in
condizioni di non poter più spiegare l’uomo, e deve rassegnarsi a
dire errori quelle verità che sono fondamento alla \'ita umana. L’uomo,
che è poi colui che si propone il pro¬ blema della natura, e senza del
quale {pertanto il problema stesso non sorgerebbe mai. L’uomo, che quella
mezza filosofia della ragione piccola rinserra e schiaccia nel meccanismo
della natura e condanna alla schiavitù del nulla, ma che risorge in tutta
la sua libertà e nel suo valore infinito appena la grande ragione gh
faccia sentire la sua grandezza nella sua stessa infehcità: « Niuna
cosa » infatti, come si legge nello Zibaldone « maggiormente dimostra la
grandezza e la potenza dell’umano intelletto.... che il poter l’uomo co¬
noscere e interamente comprendere e fortemente sentire la sua piccolezza
» ; e provare la gioia del comporre, del cantare, del pensare, del
sentire. L’infehcità, essa stessa, poiché sentita, intesa, espressa, è
grandezza, eccellenza. E perciò l’uomo non soggiace alla natura, e può
non temere la morte, e può, come la ginestra, consolare il deserto col
profumo del suo divino alito spirituale. Perciò infine il poeta c’
insegna, in una forma lapidaria che fa parere il suo detto quasi
proverbio, che « nessun maggior segno d’essere poco filosofo e poco
savio, che voler savia e filosofica tutta la vita. Verità infatti che merita di
passare in proverbio tra i filosofi. E pel Leopardi vuol dire che nella
vita non c’ è soltanto la filosofia : c’ è altro ancora, che è poi
sempre filosofia. La vera però, che afferra la verità con mano
robusta, non quella falsa che sola par vera all’angusto intelletto del
filosofo chiuso nel bozzolo del suo intel¬ lettualismo. La quale FILOSOFIA,
si ponga mente, una volta, come s’è veduto, il Poeta la chiama
ultrafilosofia; ma non è poi altro propriamente che la sua personalità,
il suo modo di vedere e di sentire la vita, quell’ingenita virtù
che prorompe nel Risorgimento, quando l’anima si risvegliò e rivide
meravigliata salire su dal profondo i palpiti naturali, i dolci inganni,
la speranza, e il sentimento della natura. Meco ritorna a vivere, La
piaggia, il bosco, il monte; Parla al mio core il fonte. Meco favella il
mar ») : quella ingenita virtù, che gli affanni poterono sopire;
Non l’annullàr: non vinsela Il fato e la sventura; Non
con la vista impura l’infausta verità. La virtù da cui sgorga la
poesia; e che è, io dico, la stessa poesia, depurata dalle forme in cui
il pensiero la determina e attua. Giacché io non vorrei che nelle
parole, nelle formule, nei concreti pensieri, come sistematica-
mente si possono comporre ad unità nelle esposizioni che l’autore non
fece delle sue idee, e che, sempre a fatica e non senza arbitrarie
glosse, continuano a imbandirci quei camerieri del Leopardi che sono i
suoi interpreti, pronti a sobbarcarsi a scriver loro sulla FILOSOFIA di L.
i volumi che questi non pensò mai di scrivere; non vorrei, dico, si
ricercasse una vera e formata FILOSOFIA come opera riflessa e logicamente
costruita su’ suoi fondamentali convincimenti e orientamenti Mi perdoni
la grande e austera ombra del Poeta questa parola cara oggi a certi
spiriti spigoUsti e vanitosi, che ogni giorno che il Padre manda in
terra, suonano a stormo per adunar gente e catechizzarla tra un sorriso
mellifluo e un ohibò di pelosa carità, e disporla a cercare con essi
l’orientamento che essi non riescono mai a trovare. Xtnnznni. No. LE
PAROLE, i pensieri più o meno frammentari e sparsi, le sentenze assai
spesso felicemente formulate non possono essere pel critico altro che
accenni, spie dell’anima del filosofo. La cui individualità è
caratterizzata e, propriamente, individuata da un certo atteggiamento, che è la
concreta FILOSOFIA dell'uomo: quella che, conferendo all’uomo un
carattere, non ci spiega tanto le sue parole, spesso espressioni di cose
pensate e non sentite, ma le azioni in cui l’uomo opera come sente
nel suo più intimo essere; là dove egli, arrivi o no ad averne coscienza
in un sistema chiaro e bene organato di idee, è quello che è : quello che
l’uomo nella sua singolare e inconfondibile individualità si mamfesta e si
fa conoscere non per quel che dice ma per il modo in cui lo dice,
non pel contenuto delle sue parole ma pel colore che esse hanno sulla sua
bocca, per l’accento con cui la sua anima vi suona dentro. Stile, essenza
della poesia d’ogni uomo. Sicché, infine, a parlare degnamente
della filosofia del Leopardi, non bisogna ridursi alla parte del
cameriere. Conviene guardare il Poeta negh occhi, dove la pupilla trema
della commozione segreta: ascoltare il suo canto, dove la sua filosofia è
la sua stessa poesia. Giacomo Leopardi. Leopardi.
Keywords: il favoloso. Refs.: Luigi Speranza, "Grice e gli usi di Leopardi
nella filosofia italiana," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool
Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Grice e Leopardi: l’implicatura
conversazionale – 1150 – implicatura – filosofia italiana – Luigi Speranza (Recanati). Filosofo. Grice: “We
don’t have at Oxford a ‘chip off the old block’ as they have in Recanati!” -- Importante esponente del
pensiero controrivoluzionario e padre di Leopardi. Leopardi, targa
commemorativa apposta sui portici di piazza Leopardi a Recanati Figlio
primogenito del conte Giacomo e di Virginia dei marchesi Mosca, nacque in una
delle famiglie più preminenti di Recanati. Rimasto a quattro anni orfano del
padre, crebbe con la madre (che non volle risposarsi per accudire i quattro
figli), gli zii paterni rimasti celibi e i fratelli. Educato in casa dal
precettore Giuseppe Torres, padre gesuita fuggito dalla Spagna a seguito della
cacciata dell'ordine dal regno, ricevette una formazione improntata agli ideali
cristiani, cui rimase fedele per tutto il resto della sua vita. Fu sottoposto
alla tutela di un prozio, non potendo amministrare direttamente il patrimonio
familiare per disposizione testamentaria. Ottenne tuttavia da papa Pio VI la
deroga alla disposizione paterna e, all'età di 18 anni, assunse l'amministrazione
della propria eredità. Dopo un primo
progetto di nozze andato a monte, sposa la marchesa Adelaide Antici, sua
lontana parente. Il matrimonio fu un matrimonio d'amore strenuamente osteggiato
dalla famiglia di Monaldo, in base ad antiche dispute tra casati e per
questioni economiche (mancanza di una dote adeguata), che per manifestare la
propria contrarietà non partecipò al matrimonio, che venne infatti celebrato
nella sala detta "galleria" di palazzo Antici a Recanati. Il patrimonio
di famiglia, dalle mani di Monaldo, passò in quelle della moglie, a causa dei
debiti del prozio che il conte non riusciva a ripianare. Frutto di questa
unione tra opposti caratteri furono numerosi figli: di questi, raggiunsero l'età
adulta Giacomo, Carlo, Paolina, Luigi, e Pierfrancesco. A causa della
impossibilità di gestirli (dovuta alla sua indole caritatevole verso i poveri,
agli sperperi dei parenti e all'invasione giacobina), l'amministrazione dei
beni di famiglia passò nelle mani della consorte, donna energica e severa;
Monaldo poté così dedicarsi totalmente alla sua passione, gli studi e le
lettere. Tra i suoi molti meriti vi è aver grandemente contribuito alla
formazione del nucleo fondamentale della biblioteca di famiglia dei L., nella
quale il giovane Giacomo passò i suoi anni di "studio matto e
disperatissimo" (compresi i libri proibiti per i quali il conte ottenne la
dispensa della Santa Sede, per metterli a disposizione dei figli) e che Monaldo
donò all'intera cittadinanza recanatese, come ricorda la lapide apposta nella
cosiddetta "prima stanza". L'impegno civico Angolo della
biblioteca di palazzo L. con i ritratti di L., Adelaide e Giacomo Il
medico e naturalista britannico Jenner La sua opera è rappresentativa del
concetto di reazione (per es., la demolizione dell'egualitarismo nel Catechismo
sulle rivoluzioni), inoltre gli vanno riconosciuti diversi meriti acquisiti
durante lo svolgersi della sua vita politica, indirizzata nei confronti di
Recanati, città in cui visse. Monaldo fu consigliere comunale a diciotto
anni, governatore della città, amministratore dell'annona. Fu tra coloro che si
mantennero fedeli al papa Pio VI nel periodo dell'occupazione francese.
S'adopera per mantenere tranquilla la popolazione in tumulto contro le forze
dei rivoluzionari francesi e, in accordo con i suoi principî morali e
religiosi, rifiutò di assumere incarichi pubblici durante la Repubblica Romana
e il primo ed effimero Regno d'Italia. Fu gonfaloniere di Recanati, la massima
carica amministrativa, e si occupò della costruzione di strade e di ospedali,
dell'illuminazione notturna, del sostegno ai meno abbienti, della riduzione
delle tasse, del rilancio degli studi pubblici e delle attività teatrali.
Sebbene fosse preoccupato per le conseguenze della meccanizzazione
sull'occupazione, ritenne che le ferrovie e le macchine a vapore fossero
tutt'altro che inconciliabili con una società cristiana. Stimolò inoltre il
diboscamento del suolo, la messa a coltura dei prati, lo stabilimento di case
coloniche e l'applicazione di nuove colture, come il cotone o la patata. Fu
anche il primo a introdurre nello Stato Pontificio il vaccino antivaioloso
dell'inglese Edward Jenner e lo fece sperimentare sui propri figli; poi, da
gonfaloniere, rese obbligatoria la vaccinazione che svolgeva personalmente (in
ciò smentendo la raffigurazione caricaturale di "retrogrado" che
si attribuì ideologicamente alla sua figura da parte della critica
novecentesca). Sostenne anche un progetto per la fondazione di un'università
nella sua città natale, che però alla sua morte non ebbe seguito. Infine,
durante la carestia, fece erogare gratuitamente i medicinali ai più bisognosi e
creò occasioni di lavoro, sia maschile, con la costruzione di strade, sia
femminile, con la tessitura della canapa. Come scrisse una volta, quelle
attività riformatrici non erano in contrasto con le sue idee
controrivoluzionarie; infatti dichiarò: «Oggi si pretende di costruire il mondo
per una eternità e si soffoca ogni residuo e ogni speranza del bene presente
sotto il progetto mostruoso del perfezionamento universale» Morì il
celebre figlio Giacomo: nonostante tra i due i rapporti non fossero distesi, la
perdita gli causò grave dolore. Si spense nella città natale e fu sepolto nella
tomba di famiglia presso la chiesa di Santa Maria in Varano a Recanati. Dei
molti scritti religiosi, storici, letterari, eruditi e filosofici di Leopardi,
i più famosi sono i “Dialoghetti sulle materie correnti” usciti con lo
pseudonimo di "1150", MCL in cifre romane, ovvero le iniziali di
"Monaldo Conte Leopardi". Ebbero immediatamente un grande successo,
ben sei edizioni in cinque mesi, furono tradotti in più lingue e divennero
notissimi nelle corti europee. Il figlio Giacomo, da Roma, ne informa il padre
in una lettera dell'8 marzo: «I Dialoghetti, di cui la ringrazio di
cuore, continuano qui ad essere ricercatissimi. Io non ne ho più in proprietà
se non una copia, la quale però non so quando mi tornerà in mano.» Per
umiltà lasciò i molti guadagni allo stampatore, il Nobili. È probabile che con
quest'opera Monaldo volesse contrapporsi alle Operette morali del figlio, che
giudicava negativamente e riteneva contrarie alla fede cristiana. In essi,
infatti, esprimeva gli ideali della reazione (o anche controrivoluzione). Tra
le tesi sostenute, la necessità della restituzione della città di Avignone al
papato e del ducato di Parma ai Borbone, la critica a Luigi XVIII di Francia
per la concessione della costituzione (che violerebbe il sacro principio
dell'autorità dei re che "non viene dai popoli, ma viene addirittura da
Dio"), la proposta della suddivisione del territorio francese fra
Inghilterra, Spagna, Austria, Russia, Olanda, iera e Piemonte, la difesa della
dominazione turca sul popolo greco, in quegli anni impegnato nella lotta per l'indipendenza.
Risalgono alcune opere di satira politica: Monaldo era infatti ottimo satirico
e disseminava le sue opere di scherzi letterari. Tra esse, il Viaggio di
Pulcinella e le Prediche recitate al popolo liberale da don Muso Duro, curato
nel paese della Verità e nella contrada della Poca Pazienza (versione
digitalizzata). Fu inoltre autore di ricerche erudite, ammonimenti ai fedeli
cattolici e articoli su varie riviste, tra cui si segnalano «La Voce della
Verità» di Modena e «La Voce della Ragione» di Pesaro, che Leopardi stesso
diresse. La rivista ottenne un buon successo, come dimostrano i 2000
abbonamenti sottoscritti in tutta Italia, tuttavia fu soppressa d'autorità. Rimasero
inediti, invece, i suoi Annali recanatesi dalle origini della città ae la sua
Autobiografia: in quest'ultima la prosa di L. si arricchisce di leggerezza,
ironia e umorismo. Negli ultimi anni di vita Monaldo visse appartato (non
amava allontanarsi da Recanati: la sua più lunga assenza dalla casa paterna
consistette in 2 mesi a Roma), deluso dalle caute aperture liberali del governo
pontificio e degli esordi del regno di papa Pio VI. Collaborò al periodico
svizzero Il Cattolico, di Lugano, tornando poi, negli ultimi anni, agli studi
storici su Recanati, coltivati in gioventù. Opere digitalizzate Monaldo
Leopardi, La Santa Casa di Loreto. Discussioni storiche e critiche, Lugano, presso
Francesco Veladini e C. Monaldo Leopardi, Istoria evangelica scritta in latino
con le sole parole dei sacri Evangelisti, spiegata in italiano e dilucidata con
annotazioni, Pesaro, pei tipi di A. Nobili. Monaldo Leopardi, Dialoghetti sulle
materie correnti dell'anno, Leopardi, Prediche recitate al popolo liberale da
don Muso Duro, curato nel paese della verità e nella contrada della poca
pazienza. Rapporto con il figlio ritratto di Giacomo Leopardi. Nonostante
la vulgata dica il contrario, il rapporto con il figlio illustre appare buono:
senz'altro nei primi anni Monaldo dovette essere orgoglioso della precocità del
ragazzo, e nelle opere giovanili di Giacomo, ad esempio il Saggio sopra gli
errori popolari degli antichi, si avverte ancora l'influenza delle idee del
padre. Ben presto, però, i loro spiriti presero strade diametralmente opposte:
la crescente autonomia di pensiero di Giacomo preoccupava Monaldo. La
lettura del carteggio fra i due rivela una relazione affettuosa, soprattutto
negli ultimi anni. La lettera più sincera scritta da Giacomo al padre è quella
che quest'ultimo non lesse mai: si tratta della missiva datata luglio 1819, quando
il poeta progettava la fuga, e che non fu mai spedita, perché egli dovette
rinunciare ai suoi piani. «Mio Signor Padre. Per quanto Ella possa aver
cattiva opinione di quei pochi talenti che il cielo mi ha conceduti, Ella non
potrà negar fede intieramente a quanti uomini stimabili e famosi mi hanno
conosciuto, ed hanno portato di me quel giudizio ch'Ella sa, e ch'io non debbo
ripetere. Era cosa mirabile come ognuno che avesse avuto anche momentanea
cognizione di me, immancabilmente si maravigliasse ch'io vivessi tuttavia in
questa città, e com'Ella sola fra tutti, fosse di contraria opinione, e
persistesse in quella irremovibilmente. Io so che la felicità dell'uomo
consiste nell'esser contento, e però più facilmente potrò esser felice
mendicando, che in mezzo a quanti agi corporali possa godere in questo luogo.
Odio la vile prudenza che ci agghiaccia e lega e rende incapaci d'ogni grande
azione, riducendoci come animali che attendono tranquillamente alla
conservazione di questa infelice vita senz'altro pensiero.» Finalmente,
Giacomo lascia Recanati, per farvi ritorno solo saltuariamente. Da lontano, il
padre assiste alla crescita della sua fama nel mondo intellettuale italiano, ma
non riesce a comprendere la grandezza del figlio: disapprova la pubblicazione
delle Operette morali, scrivendogli in una lettera (perduta) le "cose che
non andavano bene", suggerimenti che nella risposta Giacomo promette di
prendere in considerazione, ma che di fatto non sono mai accolti. La
pubblicazione dei Dialoghetti di L. è causa di attrito fra padre e figlio.
Giacomo Leopardi si trovava a Firenze: nell'ambiente iniziò a circolare la voce
che fosse lui l'autore dell'opera, espressione delle tesi reazionarie, cosa che
egli fu costretto a smentire seccamente sul giornale Antologia di Vieusseux. Si
sfogò poi per lettera con l'amico Melchiorri: «Non voglio più comparire con
questa macchia sul viso. D'aver fatto quell'infame, infamissimo,
scelleratissimo libro. Quasi tutti lo credono mio: perché Leopardi n'è
l'autore, mio padre è sconosciutissimo, io sono conosciuto, dunque l'autore
sono io. Fino il governo m'è divenuto poco amico per causa di quei sozzi,
fanatici dialogacci. A Roma io non potevo più nominarmi o essere nominato in
nessun luogo, che non sentissi dire: ah, l'autore dei dialoghetti.» In
toni decisamente più miti ne scrive poi a L. il 28: «Nell'ultimo numero
dell'Antologia... nel Diario di Roma, e forse in altri Giornali, Ella vedrà o
avrà veduto una mia dichiarazione portante ch'io non sono l'autore dei
Dialoghetti. Ella deve sapere che attesa l'identità del nome e della famiglia,
e atteso l'esser io conosciuto personalmente da molti, il sapersi che quel
libro è di Leopardi l'ha fatto assai generalmente attribuire a me. E
dappertutto si parla di questa mia che alcuni chiamano conversione, ed altri
apostasia, ec. ec. Io ho esitato 4 mesi, e infine mi son deciso a parlare, per
due ragioni. L'una, che mi è parso indegno l'usurpare in certo modo ciò ch'è
dovuto ad altri, o massimamente a Lei. Non son io l'uomo che sopporti di farsi bello
degli altrui meriti. [ L'altra, ch'io non voglio né debbo soffrire di passare
per convertito, né di essere assomigliato al Monti, ec. ec. Io non sono stato
mai né irreligioso, né rivoluzionario di fatto né di massime. Se i miei
principii non sono precisamente quelli che si professano ne' Dialoghetti, e
ch'io rispetto in Lei, ed in chiunque li professa in buona fede, non sono stati
però mai tali, ch'io dovessi né debba né voglia disapprovarli.» Nelle
ultime lettere Giacomo esprime la volontà di rivedere il padre, passando dai
toni formali a quelli affettuosi ("carissimo papà" nell'ultima
lettera). Monaldo sopravvisse 10 anni al figlio. L'incompatibilità fra i
due rimaneva però ancora evidente otto anni dopo la morte di Giacomo, non
accettando lui le idee areligiose del poeta; la sorella di lui, Paolina,
scriveva a Marianna Brighenti: «Di Giacomo poi, della gloria nostra,
abbiam dovuto tacere più che mai tutto quello che di lui veniva fatto di
sapere, come di quello che non combinava punto col pensiero di papà e colle sue
idee. Pertanto, non abbiamo fatto mai parola con lui delle nuove edizioni delle
sue opere, e quando le abbiamo comprate le abbiamo tenute nascoste e le teniamo
ancora, acciocché per cagion nostra non si rinnovi più acerbo il dolore.»
Su richiesta dell'ultimo amico di Leopardi, Antonio Ranieri, pochi giorni dopo
la morte del figlio, Monaldo gli spedì un Memoriale con cenni biografici su
Giacomo, con aneddoti e curiosità, in cui si avverte il dolore per la rottura
fra i due e l'incapacità del padre di capire la direzione intrapresa dal
figlio; il Memoriale si interrompe: "Tutto ciò che riguarda il tratto
successivo è più noto a Lei che a me", scrive infatti. Nonostante ciò,
Monaldo piangerà con dolore la perdita di Giacomo, al punto che quando redigerà
il proprio testamento, alla settima volontà scrisse: «Voglio che ogni
anno in perpetuo si facciano celebrare dieci messe nel giorno anniversario
della mia morte, altre dieci il giorno 14 giugno in cui morì il mio diletto
figlio Giacomo. Manetti, Giacomo L. e la sua famiglia, Bietti, Milano. La
famiglia Leopardi è protagonista del romanzo fantastico di Michele Mari Io
venìa pien d'angoscia a rimirarti. L., di Sandro Petrucci Monaldo In viaggio per Leopardi, Leopardi fu
chiamato alla collaborazione a tale rivista dal suo fondatore, il Principe di
Canosa Antonio Capece Minutolo. Giacomo
Leopardi, Carissimo Signor Padre. Lettere a Monaldo, Venosa, Osanna ed., Giacomo
Leopardi, Il monarca delle Indie. Corrispondenza tra Giacomo e Monaldo
Leopardi, Graziella Pulce, introduzione di Giorgio Manganelli, Milano, Adelphi,Monaldo
Leopardi. La giustizia nei contratti e l'usura. Modena, Soliani, Monaldo
Leopardi, Autobiografia, con un saggio di Giulio Cattaneo, Roma, Dell'Altana
ed., Antonio Ranieri, Sette anni di sodalizio con Giacomo Leopardi, Mursia ed.,
(L'ultimo amico del poeta narra di un
suo incontro con Monaldo mentre era di passaggio a Recanati). Monaldo Leopardi,
Catechismo filosofico e Catechismo sulle rivoluzioni, Fede & Cultura, L.,
Dialoghetti sulle materie correnti e Il viaggio di Pulcinella, in, L'Europa
giudicata da un reazionario. Un confronto sui Dialoghetti di Monaldo Leopardi,
Diabasis, Raponi, Due centenari. A proposito dell'autobiografia di Monaldo
Leopardi, Quaderni del Bicentenario. Pubblicazione periodica per il
bicentenario del trattato di Tolentino, n. 4, Tolentino, Giuseppe Manitta, L..
Percorsi critici e bibliografici, Il Convivio, Anna Maria Trepaoli, Gubbio, i
Leopardi, Recanati: un legame da riscoprire, Perugia, Fabrizio Fabbri editore, Pasquale
Tuscano, Monaldo Leopardi. Uomo, politico, scrittore, Lanciano, Casa Editrice Rocco
Carabba,, Giacomo Leopardi Leopardi (famiglia) Pierfrancesco Leopardi. Monaldo Leopardi, su Treccani Enciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Ferretti, Monaldo Leopardi, in
Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Corno, L. in Dizionario biografico degli
italiani, Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Monaldo Leopardi, su siusa.archivi.beniculturali, Sistema Informativo
Unificato per le Soprintendenze Archivistiche.
Opere di Monaldo Leopardi, su openMLOL, Horizons Unlimited srl. Opere di
Monaldo Leopardi,.Dizionario del pensiero forte, IDISIstituto per la Dottrina e
l'Informazione Sociale, sito "alleanzacattoliga.org". Il conte
Monaldo Leopardi. Monaldo Leopardi, conte di San Leopardo. Cf. Il Leopardi
anti-italiano. che
dopo questa vila comincia un'altra vila, bisogna ripudiare lulli isofismi elutte
le menzogne della filosofia. Queste sono le norme del saggio , questi sono i
doveri del galantuomo, e queste sono le verità proposte, dimostrate e
raccomandate dalla Voce della Ragione. FILOSOFIA Ponam Civitatem hanc in
stur em etinsibilum. La Filosofia e il Cervello. La Filosofia.Già vihodelto chedo
potanti anni di fatiche e di pensieri per accomodare il mondo a mio modo,
questo veccbio con serva ancora certi suoi pregiudizi , e non trovo in esso una
sola cillà la quale sia in lutto e per tullo secondo le mie regole
e secondo il mio cuore. Perciò ho risolutodi fabbricarpe una nuova, e chi
sa che a poco a poco non diventi la capitale di un grande impero. Cer. Tutto
questo va bene, e polete fabbricare e fondare quanto volete, ma come ci entro
io con le vostre fabbriche e con le vostre fondazioni? Fil.Oh Diavolo! volete
che la filosofia vada avanli in una impresa similesenza cervello? LA
CITTÀ a DELLA Il Cervello. In somma, si può sapere cosa volele da me? Cer. Finora
avele sempre operalo senza di me, e potete seguitare a procedere da pazza. Cer.
Fin quì non dite male , ma alla fine dei conli che giudizio è questo vostro con
cui volete mandare sollosopra il mondo? Fil. Oh bella , ognuno ba i suoi gusti
, e de gustibus non est disputandum. Epoiiode sidero diguastare il mondo, perchè
voglio àca comodarne un altro meglio di questo. Cer. Vi darà poi l'animo di fare
un altro mondo migliore del primo? Fil. Proviamoci: cosa sarà? Non si tratta
poi di una gran cosa, e se non riesceci penserà chi vuole. Via cervellaccio
mio, ve nile con me e datemi una mano a fabbricare “Filosofopoli”. Già adesso non
avete altro da fa re, perchè nessuno vi vuole; e al mondo si fa tutto senza di
voi. Cer. Anche questo è vero, e giacchè non si trova più a campare coi savi
sarà meglio accomodarsi al servizio dei malti. Fil. Bravo, bravissimo. Vedrele
che bella città stabiliremo assieme. Ha da essere il regno della età dell'oro,
il paese della cuccagoa, e la vera meraviglia del mondo. come in addietro,
senza curarvi neppure adesso della mia compaggia. Fil. Chi lo dice che ho
operato da pazza e senza cervello? A buon conto io chevole. va guastare il mondo
l'ho mandato sotto sopra, e quelli che avevano obbligo é desiderio di
conservarlo lo hanno mandato e lo mandano soltosopra peggio di m e. Chi vi pare
dunque cbe abbia più cervello, chi guasta quello che vuol guastare, o cbi
guasta quello che vuol conservare? Fil. Oh per questo non dubitale. Sono
cent'anni che ho mandalo fuori gli editti e saccio mille smorfie per chiamare
la gente, co me fa la civella sul mazzuolo per uccellare i merlolli ; sicchè
gli abitatori di “Filosofopoli” non potranno mancare. Anzi ecco qualchedu. no
che si avvicina. Meltiamoci dunque sul sodo , e incominciamo le nostre
operazioni filosofiche e cervello liche. La Filosofia , il Cervello e il
Governo. La Filosofia. Chi siete e cosa volete? Gov. Quanto a questo farete
quello che vi pare, ed io starò nelle vostre mani a rice. vere quella forma che
vorrete darmi, come l'argilla in mano dello stovigliere. Già oggi Cer.
Chi verrà poi ad abitare in questa nuova città ? Il Governo. Io sono il
governo,e domando di essere ammesso nella vostra nuova città , perchè immagino
che non vorrete stabilirla senza governo. Fil. Sicuro che un poco di governo ce
lo vogliamo, almeno pour bien séance, e per servire alle apparenze,e alle
formalilà come l'apparatura nelle feste. Ma intendiamoci bene ; noi non
vogliamo un governo all'antica , il quale pretenda di governare davve ro , ma
bensì un governo filosofico; e vale a dire un ombra , un simulacro , un brodo
di ranocchie e niente di più. questa è una cosa da nulla, ed è più facile
preparare un governo che lavorare un boccale. Fil. E bene ; nella cillà e nel
regno di “Filosofopoli” la vostra forma sarà quella di una monarcbia. Cer.
Bravo! quesla scelta mi piace perchè il governo monarchico è il più naturale e
il più semplice , ed è ancora il più robusto di tullj . Fil. Oibd , oibù ; se
fosse questo non vor remmo saperneniente, e si vede bene che voi v'intendele
poco di filosofia, e non avele una giusta idea del mondo nuovo. Nel mondo
vecchio i monarchi erano certamente forti, rispettatietemuli, perchèsostenevano
diavere ricevuto il loro potere da Dio , e nessuno si azzardava di slendere la
mano contro una au lorità la quale si riputava stabilita per diritto divino. Ma
nel mondo nuovo i monarchi si contenlano di regnare per grazia e volere del
popolo,ricevonoilsalario esilasciano incar. tare dal popolo e conseguentemente
devono essere il trasiullo e lo scherno del popolo.Il governo monarchico
adunque,lavoralo secon do le regole della filosofia, riesce ilpiù comodo e il
più leggiero di tulli, e i filosofi si adallano a lasciarsi governare da un re
falto dal popolo, perchèchipuòfarepuòguastare, ed è più facile sbalzare dal
trono un monar. ca costituzionale, che licenziare dal servizio un gualtero di
cucina.Sentite dunque signor governo , e imparate bene cosa ha da essere il
governo monarchico nella cillà e nel regno della filosofia. Fil. Prima di
tutto, il re ha da essere un re di carta , o vogliamo dire che tulta la sua
autorilà deve consistere in un pezzo di carta , esso medesimo deve riconoscerla
tutta intiera dalla carta, e guai a lui se si allontana un capello da quella
carta. Fil. Inoltre non deve pretendere di dettar le leggi, ma deve riceverle
belle e fatte dalla nazione;e,se si tratti di farne delle nuove, gli è permesso
di mandare i suoi ministri a sfiatarsi e raccomandarsi nella camera dei d e
putati , ma alla fine deve sempre cedere alla voloplà della camera. Quando poi
la camera ha fatto una legge e il re l'ha soltoscritta per amore o per forza ,
e per una semplice for malità , sua maestà di carta deve subito pi gliare la
frusta e andare in piazza a menare le mani facendo eseguire idecreti del
popolo. Gov. Benissimo. Fil. Di più non deve impicciarsi nè bene nè male con la
giustizia,e deve lasciare che i giudici facciano di ogni erba un fascio senza
essere ripresi e molestati da nessuno.Anzi se l'istesso monarca cittadino
riceverà una coltellala ovvero una schioppeltata non potrà far altro che dare
una querela a quell'imper linenle,ese igiudici condanneranno coluia tre giorni di
pane e acqua, il re dovràam mirare e ringraziare la imparzialità e la se verità
della giustizia. Gov. Benissimo. Gov. Dile pure, che iosono qui a ricevere
i vostri comandi. Gov. Benissimo. Fil. Similmente il monarca filosofico
costi. tuzionale non avrà l'ardire d'imporre nessu na tassa , e di toccare un
quattrino senza il beneplacito e la licenza del popolo. Quando ci sarà bisogno
di denari per l'andamento del go verno anderà a domandarli come un pitocco alla
cainera dei deputali , e dopo ricevuli li spenderà bene o male,che questo
importa poco, e sulla revisione dei conti non si guarda tanto in sollile.Se
però la camera non vorrà darglieli ,lascerà che il governo cammini da per sè
stesso, e resterà colle mani incrociale sul petto come fa il cuoco, allorchè il
pa drone non gli dà iquattrini per fare la spesa. Fil. Per ultimo se qualche
volta il popolo vorrà divertirsi un poco con sua maestà, ac . compagnandolo con
le fischiate ovvero con le sassale, dovrà averci pazienza, e se anche in una
giornata gloriosa il popolo vorrà strac ciarelacarta,cambiare la dinastia,edi
scacciare il re con tutta la sua maestà e la Gov. Benissimo. Fil.Siccome
poi lacartaaccordaalmonar ca il diritto di far grazia, il re cittadino de ve
sapere che quel dirillo gli viene accordato per burla , e che egli pad usarne
soltanto a beneplacilo e a capriccio del popolo. Percið se itribunali
condanneranno giustamente uno scellerato il quale sia benveduto dal popolo, sua
maestà di carta lo dovrà liberare , e se condanneranno ingiustamente un
innocente malveduto dal popolo , sua maestà di carta dovrà farlo impiccare.
Gov. Benissimo. sua inviolabilità, il monarca cittadino dovrà andarsene col
bordone in mano , e avere di caro e grazia di salvare la pelle,perchè alla five
dei conti nell'impero della Filosofia la careta, il trono , il governo, tutto è
del popolo, e ilmonarca costituzionale è un bawboccio vestito dareper servire di
passatempo al popolo. Gov. Benissimo,benissimo,ameraviglia;e vado subito nella
cillà a preparare uo trono di cartone per Pulcinella l.monarca cittadino di “Filosofopoli”.
Fil.Cosa nedilecompare Cervello? Vi pare cbe abbiamo stabilito una monarchia
vera mente solida , dignitosa e utile al buon reg gimento dei popoli? Fil. Sappiatechecisivapensando,eforse
col progresso dell'incivilimento si troverà il modo di fare una macchina che
muova la le. sta e ci serva da re,senza bisogno di pagare un re cilladino , il
quale non è poi tanto a buon mercato quaplo si crede. Intanto però bisogna
contentarsi di un re costituzionale, fin. chè non si può averne un altro lutto
affallo di legno. Ma zillo che si accosta altra gente per veoire a populare
ilregno della Filosofia. Cer. Mi pare cbe quando i monarchi filo sofici
debbano essere lavorali sopra queslo m o dello , un re dipinlo ,ovvero un re di
paglia potrebbe servire nello stesso modo. La Filosofia. Chi siete, e cosa
volete? La Giustizia. Io sono la Giustizia e domando di essere ammessa nella
vostra nuova cillà. Fil. Cosa ne dite compare Cervello ? non si potrebbe fare a
meno di questa femmina? Fil. Alcuni litiganti , i quali hanno inolla pratica
dei tribunali,mi banno assicuratoche considerando bene certe giustizie
presenti, sa rebbe meglio cavare a sorte la vincita e la perdita delle
cause,ovvero giuocarsi alla morra il torto e la ragione. Così almeno si ri
sparmierebbero le spese. Cer. Con questo metodo pazzo e scellerato si
confonderebbero il giusto con l'ingiusto, l'innocente col reo,e il galanluomo
con l'as sassino. Giu . Parlate pura giacchè sono venula a p La Filosofia
, il Cervello, a la Giustizia.Cer. Come! vorreste stabilire una città ed un governo
senza tribunale e senza giustizia? Fil. Questo sarebbe poco male perchè ora mai
lulle queste cose sono tanto confuse che non se ne raceapezza più niente.
Considero però che se non ci fosse qualche cosa,chia mata giustizia , gli
avvocati e i procuratori resterebbero in camicia, e questo non si ac
comoderebbe con le idee filosofiche sulla dif fusione dei godimenti e dei
beni.È d'uopo dunque per un altro poco adattarsi al siste ma antico , e perciò
venile avanli madonna Giustizia e facciamo i nostri palli. posta
per imparare cosa deve essere la giu. stizia nel paese della filosofia. Fil.
Prima di tutto lenetevi bene in m e n te che i liberali tauto palesi come
occulli non devono avere mai lorlo,e la giustizia deve essere una vera
cortigiana consacrata e ven. dula sfacciatamente al servizio dei liberali.
Giu.Benissimo,ed io mi venderò e mi prostituiròin verecondamente per compiacere
iliberali.Ma ditemi un poco:come ho da fare per favorirli nelle cause, quando
stan no evidentissimamente dalla parte del torto ? Giu. Quei giudici però i
quali procederan no con ingiustizia manifesta potranno essere discacciati e
puniti. 102 re che questo non è proibilo ; e non manca il modo di
stancare e assassinare un povero liligante buttando la polvere sugli occhi al
mondo, e sostenendo che si opera per la giustizia.Se però qualcbe volta vi
troverelealle strelle , rinunziale pure a qualunque pudo re,invocate ilnome di Dio,egiudicatenel
nome del diavolo,purchè la villoria sia sem pre assicurala per i liberali. pu.
Fil. Finchè potete conservare cerle appa renze e salvare la capra e l'orto ,
falelo Fil.Non dubitatediquesto,eigiudicinon temano di niente quando sono
protetti dai liberali. Primieramenle nel regno della filo sofia i giudicisono
una potenza assolutache non dipende da nessuno ; e poi i liberali si mellono
per tutto , e coperlamente , ovvero scopertamente comandano in lulli i
dicasteri, sicchè alla fine del conto lutto si fa a modo loro , e a
chiunque la prende con essi toc cano sempre la mazza e le corna. Giu.Ho capilo:
e lasciatevi servire.Segui tale pure la vostra lezione. Fil. Inoltre se
s'incontrano a litigare un uomo indifferenle e un inimico dei liberali, dale
sempre ragione all'uomo indifferente an corchè fosse uù ruffiano, ovvero un
capo la dro , e date sempre lorlo agl'inimici dei li. berali , acciocchè quesla
capaglia impari a rispettare la filosofia e la liberalilà. Fil. In questi casi
potete consollare i vo stri affelli privali, ovvero ilvostro interesse; potete
farvi merito con qualche Ciprigna ;e in somma fale pure quello che vi pare, che
alla filosofia non gliene importa niente.Cosa ne dile compare Cervello ? Fil.Questo
sarebbe un partito troppo gras. so per i galantuomini i quali giuocherebbero
alla pari,enelregno filosoficoiliberalihan. no da godere sempre qualche
vantaggio. A vete capito bene madonna Giustizia ? Giu. Ho capito anche questo e
non mi al lonlanerò dai vostri suggerimenti : ma come si dovrà procedere in
parilà di circostanze o sia quando s'incontrany a litigare due uo. mini
indifferenti , ovvero due liberali ? Cer. Vedo bene che hanno ragione quelli
iquali desiderano, che ildirillo eiltorlo si estraggano allasorte oppure
vengano giuo catiallamorra.Difalliquando la Giustizia non ha da essere
veramente giustizia è m e glio ridurla al giuoco della bianca e della nera
. Giu. Ho capito benissimo,e fascialevi per servire. E nelle cause
criminali come dovrò regofarmi ? Fil. Generalmente parlando lenele sempre per
la parte dei malfaltori,e ricordalevi che nel regno della filosofia non si
vuole la m a n naia del boia , e piuttosto si gradisce ilcol tello degli
assassini. Se la giustizia dovesse essere quella di una volta non si trovereb
bero le gloriose giornate, e noi vogliamo sla re allegramente, e non vogliamo
morire di malinconia. Nei casi poi particolari regolate vi come vi bo già detto
per la giustizia ci vile. Se alcuno abballe una croce , Salegli grazia eseun altroguardatortolabaq
diera di tre colori, ammazzatelo.Se uno be stemmia ovvero calpesla il
Sacramento , te. neteloin prigione mezz'ora,quando pon pos siate faredimeoo; eseunaltrodicemez
za parola contro la carta, fatelo fucilare. Se laluno prende a calci un prete,
un frale, vescovo dite che non ci è luogo a procedere; e se i preli , i frali,
i vescovi negano la se poltura ecclesiastica a qualche scomunicato mandateli in
galera o fateli scorticare.Se il re viene accusato a dirillo,o a torlo di ave
re fatto una sconcordanza , caccialelo in esi. lio, ovvero tagliategli la
testa, e se ilpopolo prende a sassale il re e si ribella contro il re ,
distribuite le pensioni e le decorazioni ai capi dei sollevali. In somma
regolatevi in modo da far conoscere che nel regno del la fi'osofia tutto è
permesso fuorcbè toc care colla puola delle dila i liberali e la fi
Giu . H o capitotullo benissimo, e vado a stabilire i tribunali e a
portare in trionfo la giustizia nel regno della filosofia. Fil. Vedo bene
compare mio che i miei ordinamenti fondamentali non incontrano trop. po il
vostro genio; ma finchè sarele un cer vello all'anlica tullo pieno di
pregiudizi, nonvimetterele livellocoilumidelsecolo, c non potrele figurare nel
regno della filoso. fia. Speriamo però che a poco a poco ancho il cervello
perderà il cervello , e allora le dottrine e le pratiche della filosofia si
diran no regolale col cervello. Fraltanlo diamo u. dienza agli altri che
vengono per abitare nel. la nostra nuova cillà. L a Filosofia, il Cervello e la
Proprietà . La Filosofia. Certamente ebe nel inio regno ci hanno da essere i
proprielari,ma anche 105 1 losofia. Se poi talvolta doveste per rispetto
umano proferire qualchecondanna nou viaf fliggete per questo, perchè ire
dominati na. scostamente dai liberali faranno sempre la grazia , e non ci sarà
mai pericolo , che la scure del manigoldo ardisea di toccare il col lo di un
liberale. La Proprietà. Io sono la Proprietà e vengo a stabilirmi nel vostro
puovo impero,imma ginando che anche nel vostro regno ci do. vranno essere i
proprietari, e non vorrela che sia pieno lullo quanto di mascalzoni. Pro.
Mi pare cbe non ci sia gran cosa da rinnovare intorno alla proprietà , e lulle
le leggi devono consistere in questo, che ognu. no possa tenere e godere
tranquillamente ilsuo. Fil. Sopra cid ci sarebbe qualche cosa da dire , m a
siccome ancora non siamo arrivati al punto , basterà stabilire per adesso alcu
ne misure e alcuni miglioramenti preliminari. Cer. E che ! vorreste forse che
nei vostri paesi la proprietà non fosse più proprietà,e il proprietario non
fosse più il padrone delle proprie sostanze? Cosa pensereste di fare per
introdurre nel vostro nuovo impero anche questo sproposito ? Fil. Si potrebbe
benissimo stabilire una di visione generale dei beni ovvero una legge agrarja ,
intorno alla quale sono già tantise. coli che sospirano lutti i disperati e
tutli i falliti del mondo,ma per quanto la filosofia propenda per questo
partito definitivo , l'in civilimento ancora non è giunto al segno, e il mondo
non è ancora maluro per tanta fe licità. Basta dunque per ora che tutte le leg
gi , tutti i regolamenti e tutte le pratiche go. vernative tendano a procurare
lamaggiordif fusione de'beni. Pro. Cosa si avrà da fare perchè i beni si
diffondano e diventino come una nebbia di cui abbia ognuno la sua porzione
uguale ? 106 voi signora Proprietà dovrete adattarvi alle regole
fondamentali della Olosofia, Fil. Parlando in generale si deve sempre avere in
mira di spogliare iricchi,i signori e i benestanti; e di arricchire
i cialtroni , e a questo scopo salulare e filosofico devono essere sempre
diretle la politica e l'arte dei governanti. Parlandopoi inparticolare,a desso
vi dard alcuni precetti con l'osservanza dei quali si è fallogià ungrancammino,
e si arriverà quanto prima all'incivilimento completo del genere umano. Cer.
Stiamo a sentire queste altre filosofi cbe buscarale. Cer.E che bene verrà da
questo volontario dissipamento? Fil.Ne verranno due risultati filosofici di una
importanza incredibile. Primieramente il governo scialacquando il denaro dello
Sta to senza misuraesenzagiudizio,dovrà imporre tasse gravissime , e siccome
alla fi ne Fil.Prima di tuttosideve ingannareilgo verno per farlo spendere
come un matto e butlare iquattrini da tutte le parti, inducen dolo a fare tutti
gli spropositi possibili e a scegliere tuiti imodi di amministrazione più
rovinosi e più dispendiosi. dei conli le tasse si pagano sempre da chi ha,il
denaro delle tasse levato per forza a chi ba >, anderà naturalmente in mano
di chinonba, conchela diffusione dei beniver rà egregiamente
aiutata.Secondariamente poi con questo scialacquo del pubblico denaro, e con
questo scorticamento dei benestanti si dif fonderà immancabilmente il
malcontento nel popolo,e la filosofiaci avrà un gusto matto, perchè di un
popolo scontento si fa presto a faroe un popolo liberale e ribelle. Avele ca
pito,signora Proprietà? Pro. Ho capito a meraviglia, e passate ad
un altro precello. Fil. Il secondo precello filosofico consiste in questo , che
bisogna stabilire nello Sta. to un diluvio veramente spaventoso d'impie gati
ancorchè sieno inutili e non debbano far altro che grattarsi la pancia e
divorare la so stanza della nazione.Più ce ne sono e più bi sogna amniellerne;
e invece di pigliare a calci nelle natiche tulta quella canaglia che asse-, dia
le anticamere , perchè si oslina a voler vivere nell'ozio e nella opulenza a
spalle dei mincbioni , se gli impieghi non bastano per contentare lulli questi
parassiti bisogna crear ne degli altri.Fra i postulanli poi sidevono sempre
preferire i più indegni , i più asini e i più lemerari, e così si deve correre
ra pidissimamente verso la diffusione universale dei beni, e verso il
perfezionamento filoso fico della civillà. Cer. Quelli però che governano lo
Stalo non si contenteranno che venga così manomesso e saccheggiato . Fil. Messo
in molo una volta l'appelilo de. gli ingordi e dei poltroni , diffusa l'idea
che tulli gli sfaccendali e spiantali devono mantenersi a carico dello Stato ,
e rotto l'argi ne al torrenle scandaloso delle raccoman . dazioni , igoverni e
i ministri del governo verranno strascinati da quella piena , e non potranno
più impedire l'assassinio di tutte le proprielà e ladiffusione dei beni.La più
bella di luttesarà poi,cbe quellistessi,iqualide clamano contro questo
disordine e sono vera 108 mente affezionati allo Stato, daranno
mano al l'assassinio economico dello Stato. Imperciocchè tutli i grandi hanno
la loro affezioncella pri vata,ed hanno qualcheduno che li mena pel paso sicchè
in gražia della affezioncella e del condottiere nasale, lulli metteranno avanti
qualche loro protello , tutti diranno che quella è la eccezione della regola ,
e tulli"daranno mano perchè la pubblica finanza si dilapidi sempre di
più.Costui dovrà essere provvedulo perchè altempo delle rivoltenonsi è rivol
tato, e colui che si adoperò per fare una ri voluzione deve essere provveduto,
acciocchè non simaneggiper farneun'altra;questode ve essere impiegalo perchè
furono impiegali ilpadre,ilnonno eilbisnonno,e lasua fa miglia ha acquistato il
privilegio di vivere a spalle del pubblico, e quello devee ssere impiegato
perchè non ebbe mai niente , e non è dovere che nel giorno della cuccagna un
galantuomo rimangacoldenteasciulto.Ilme rito dell'individuo e il bisogno dello Stato
non dovranno contarsi per niente; le petizioni, i clamori e le raccomandazioni
assordiranno l'aria; il ministero non saprà più dove dare la testa,e le
sostanze di chi ha anderanno per amore o per forza , a depositarsi nella pan
cia di chi non ha. Pro. Vedo bene che questo sarà un ottimo metodo per operare
la diffusione dei beni , o sia per assassinare le proprietà del pabbli co e dei
privali;ma se mai la multiplicazione inutile degli impieghi non bastasse per sa
- tollare l'ingordigiadi tutti gli infingardi e sfacciali, non vi sarebbe
qualche altro modo da contentare questa povera gente ? Fil. Sicuramente che ci
è un altro modo ancora più efficace del primo, e questo con siste
nell'acconsentire senza riserva a tutte le invereconde domande delle pensioni e
delle giubilazioni. Appena un impiegato vuole ri tirarsi a casa per vivere da
vero poltrone, e produce l'altestato di un medico per provare che patisce di
pedignoni ; ovvero di raffred dori, non importa che quel pelulante abbia
prestato un servizio di pochi mesi,non im porla che sia un giovanotto, ovvero
un uomo sano e robuslo ; e non importa che lascian do un impiego per mentita
impotenza, assu ma poi sfacciatamente altri incarichi più la boriosi dei primi
, ma subito sideve m a n darlo a casa accordandogli la giubilazione ri chiesta,
con che si ottiene il doppio vantag gio di sprecare quella ginbilazione, e di
avere un posto vacante per provvedere un altro pro tello affamato.Le mogli
poidegli impiegati, i figli degli impiegati, le sorelle degli impie gali,le
mamme e le nonne degli impiegali, gli amici e le amiche dei grandi e dei con
dottieri nasali dei grandi , e sino le zitelle , le vedove e le vecchie ,
pericolate , perico lose, e pericolanti, tulli e tulle devono ave. re una
pensione veramente sprecata,e lulli devono vivere a spalle dello Stato.E avver
tite bene che secondo gli stabilimenti della fi losofia i salari degli impieghi
, e le pensio ni,e legiubilazioninondevono ridursiapic cole cose baslevoli
soltanto a mantenere la vila nella frugalilà,ma gl'impiegati,igiubilati, e
i pensionati devono sguazzare e scialare, d e vono andare in carrozza o almeno
in carret tella, e devono fare i fichi in faccia ai po veri contribuenti
annichiliti e distrulli per la diffusione filosofica dei beni e della proprietà.
Pro. Questi sono gli stabilimenti veramente grandiosi e giganteschi , e ci
voleva proprio un Ercole per immagioare un modo così pron lo per sconquassare
da capo a fondo la pro prielàe mandareperariauno stato.Suppon go che basteranno
queste pratiche e che non avrele altriprecelli da darmi per operare la
diffusione dei beni. Fil.Questi metodi sono senza dubbio effi cacissimi;ma
sitrovaancoraqualchealtra ricelta per arrivare più presto alla dirama zione e
livellazione filosofica dei beni,o sia al disfacimento generale della
proprietà.Una tas sa, per esempio, pazza e spropositata per le funzioni e le
competenze dei notarie dei pro curatori servirà a maraviglia per disossare a
poco apocoilitigantifacendo passareleloro sostanze nelle tasche dei difensori,
e ridurre isignori a piedi mandando incarrozzaino. tari,gli avvocali e i
coriali; e così di mano in mano vi anderd dando aliri non meno gio vevoli e
preziosi suggerimenti. Fraltanto vi raccomando di non perdere di occhio le
casse di risparmio, le quali oggi sembrano una cosa da niente, ma coll'andare
del tempo potrebbero essere di grande uso permettere il mon dosottosopra
mantenere il livellamento sociale. Fil. Sicuramente;equantunque l'artifi
zio sia un poco sollile,potevate sospellarne, vedendo tanto raccomandate queste
cose dai raccomandatori perpetui della filosofia. Udite. mi , siguor Cervello,
e imparate come pen sano quelli che hanno cervello.Idenariche si vanno
depositando dalla plebe nelle casse di risparmio non devono tenersi morti in
quelle casse , m a devono investirsi dandoli a frullo con le convenienti ipoteche
sopra le sostanze possedute dalla proprietà, perlochè ogni b a iocco depositato
nella cassa da un ciallrone diventa un debito della classe dei propriela rii
verso la classe dei cialtroni. Finchè sare mo nei principi gli effetti di
questa mano vra non saranno sensibili,ma quando lecasse di risparmio avranno un
capitale di più m i lioni, e saranno creditrici di tutti i proprie tari e
ancora dello stato , allora si manife steranno le forze di questa nuova occulta
p o tenza,allora si vedranno compenetrale in quel le casse tulle le proprielà ,
e allora si toc cherà con mano che la classe dei ciallroni è diventata la vera
padrona delloStato.Soccor. rere adunque i poveri con elemosine propor zionate,
stabilire imonti d'impreslito per aiu. larli nei loro bisogni,e ricoverarli
nell'ospe dale quando languiscono infermi, queste sono le opere della prudenza
e della carità ; ma dichiararsi i fattori e gli economi di talli i pezzenti ,
aprire un salvadenaro ovvero una Cer.Come!ancbe lecasse di risparmio so no
un mezzo filosofico per arrivare alla dif fusione dei beni ? a banca per
il moltiplico di tutti i mezzi ba iocchi risparmiali alla bellola ovvero rubati
nelle bolteghe, e aiutare la feccia della plebe, perchè monti a cavallo sul
collo delle clas si elevate e diventi formidabile agli stessi go. verni, questo
è propriamente secondo la dol trina della diffusione del potere e dei beni, ed
è la vera quintessenza della filosofica malignità. Cer. Confesso il vero che mi
avele sor preso , e non credeva cbe la filosofia la sa. pesse tanto lunga , e
pensasse di assassina re il mondo anche sotto pretesto di fare la carità ai
poverelli. Ma in conclusione quali saranno i vantaggi sociali che proveranno da
questa dilapidazione universale della proprie tào
vogliamodiredalladiffusionedeibeni? Fil. Compare mio,chiunque sitrovaco. modo
non cerca di mutar posto , 3 e così quelli che stanno bene ed hanno molto da
perdere non sono mai gli amici delle ri volte. Inoltre le ricchezze acquistate
onesla mente e stabiliteda più generazioni nelle fa miglie nobili e benestanti
, rendono per l'or dinario ereditarie in quelle famiglie la buo na educazione e
la buona morale , il deside rio dell'ordine , l'altaccamento al governo e la
considerazione del popolo; e perciò finchè quelle famiglie non sarannoavvilite
e degra date dalla miseria , sarà sempre difficile sol levare il popolo, sovvertire
l'ordine, distrug gere i governi e corrompere totalmente la moralee icostumi della
nazione. Quando però tutte le proprietà sarango livellate, o per meglio
dire quando lulli isignori saranno spiantati; quando le famiglie patrizie e le
classi superiori ridotle incamicia saranno diventate il ludibrio dei mascalzoni
; quan : do sarà scomparsa ogni idea di dignità e di rispello; quando tutti o
quasi tulli a. vranno da guadagnare nei torbidi e nei su surri e quando infine
tolta la barriera della ricchezza e della nobillà , o vogliamo dire tolta la
barriera della aristocrazia, le sassate della plebe potranno arrivarea diril
tura alla'cervice dei re, allora tulto il mondo sarà un perpétuo bordello, sarà
più faci le fare una rivoluzione che cambiarsi un v e stilo , e le gloriose
giornate saranno sempre a libera disposizione della filosofia. Questo e non altro
è quello che si cerca procurando la diffusione dei beni , o vogliamo dire l'as
sassinio di tutte le proprietà. Fil.Capisco quello che volele dire, ma
Cer. Certo che I vostri proponimenti no veramenti giudiziosi e benefici,ed il
ge nere umano vi deve essere sommamente ob bligato che lo abbiate acconciato
per le fesie ; ma in ogni modo levale le proprietà ai possessori presenti
passeranno in di altri; a poco a poco si formeranno altre ricchezze,sorgeranno
nuove famiglie, si costi tuiranno di nuovo le classi distinte e l'aristo
crazia,e ladiffusionedeibeni,ossial'assassi nio filosofico della socielà, non
potranno es sere permanenti e durevoli , perchè l'egua glianza delle proprietà
è in opposizionecon gli ordinamenti della natura. sfasciata da capo a
fondo una casa ci vuole il suo tempo per edificarla di nuovo , sì quando avremo
subissata ben beno la società , non si polrà riorganizzarla in un giorno ; e ci
saranno disordini e pianto per tutti quelli che vivono e per i figliuoli di
quelli che vivono. Sterminate le famiglie il lustri e potenti, degradate le
educazioni e i costumi, distrutte nelle menti del volgo le idee e le abiludini
del rispetto, tolte le proprie là agliattuali possessori per metterle nelle
mani degli usurai, degli ebreie deipidoc. cbiosi arriccbiti, e consegnato il
dominio del mondo all'arbitrio dei sanculotti, non baste ranno cent'anni per
ristabilire le cose, e la filosofia non avrà fatto poco se avrà polulo
assicurare il bordello , il susurro , e la m i seriadi un secolo.Quanto poi ai
secoli successivi, speriamo,che anch'essi avranno iloro filosofi, e non
mancherà chi pensi alla futura prosperità del mondo. Orsù dunque,madama
Proprietà , ci siamo iplesi. Entrate allegra mente nel mio paese, soltoponetevi
ai miei be nefici regolamenti , e ricordatevi che nel re gno
dellafilosofiasidevelavorare con lemani e coi piedi per la diffusione dei beni
e delle proprietà , o sia per assassinare tulle quante le proprielà. La
Filosofia , il Cervello , l'Insegnamento e l'Incivilimento. Fil. Ecco altre
persone che si avvanzano per venire a stabilirsi nella nostra cillà. Cer. Chi è
colui che finge di sludiare e tiene il libro a rovescio? E chi è quell'altro
talto smorfie e vezzisguaiati che rassembra un maestro di ballo? Fil. Questi
sono l'insegnamento e l'incivi limento ; sono fratelli carnali , e amici tan to
sviscerali che non vanno mai uno senza dell'altro. Cer. L'insegnamento
el'incivilimentouna volta erano persone di garbo e godevano buon nome, ma
bisogna dire che l'aria del paese della filosofia abbia la prerogativa di
corrom pere tulle le cose buone, perchè questi due cbe si avanzano hanno la
cera d'impostori e birbanti. Fil. Al contrario:questisonoilfiorede' galan l’uomini
e senza di essi non si potrebbe stabiliregiammaiil regno della Filosofia.Ve
nite avanti , signori, facciamo i nostri patti, e poi andale subito ad
ammaestrare ed inci vilire i Popoli della mia nuova cillà. L'Ins. Parlate
pure perchè noi siamo pron . fi ad eseguire tulli i vostri comandi. Fil. Prima
di tulio bisogna incomincia re dall'insegnamento, giacchè la diffusione de lumi
è quella appunto con cui si olliene Fil.Dibò,oibo.Tutti
vidico,tuttiquanti sonogliuomini, tüllidevonoessereammae strati e civili. Cer. Ma,echicifarà
poilescarpe, Fil.Oh bella! nel nostro paese come in tutti gli altri ci saranno
i calzolari, i cuochi, e i facchini. Cer. E pretendete che gliuominiinciviliti
e genlili si preslino volentieri agli uffizi bassi della società , e che anche
i guatleri , i cia vallini e i mozzi di stalla debbano essere fi. losofi ,
letlerati e dottori ? Fil. Tant'è; questo è il voto prediletto della filosofia,
e senza questo non si può archi scoperà le strade, e chi attenderà alla cucina?
la diffusione della civillà.Voi dunque , signor Josegnamento , dovete mettervi in
testa d'in segnare a tutti di rendere tulti eruditi , let terati e saccenti, e
di fare in modo che non ci resti un solo ignorante e sempliciano in talla la
nostra filosofica dominazione. Cer: Piano un poco, madonna Filosofia, Voi
vorrete dire che si ammaestrino e si coltivi no nelle scienze tutti quelli che
dalla natura, dallalorocondizionee. Dagli ordinamentiso. ciali sono destinati a
trarne vantaggio e di letto per se medesimi,e a rendersiutilicol
lorosapereallasocietà; ma quantoalleclassi del basso volgo che la natura e
lacondizione destino agli esercizi rustici e grossolani , que stinon vorrete
che apprendanoquelledottri ne le quali non servirebbero ad altro che a renderli
oziosi,indocili e scontenti diseme desimi , e gravosi e molesti agli altri.
rivare alla diffusione generale dei lumi,e al l'incivilimento universale
del mondo. Cer. Facciamoci a parlar chiaro. Qualora si giungesse ad ottenere
questo incivilmenlo universale tanto raccomandato dai vostri scon siderati
seguaci , qual utile ne verrebbe per un grandissimo numero d'individui , e qual
utile ne verrebbe per tulto il corpo sociale? Fil. A dirla schiella per
moltissimi indivi dui sarebbe meglio restare nella loro rusticità e semplicità,
giacchè una infarinatura di dot trina non può servire ad altro che ad empir- '
gli la testa di errori e a renderli scontenti del loro basso stalo,e così la
società in generale sarebbe più tranquilla col suo popolo di vil lapi ignoranti
, e col suo popolo di artegiani contenti di sapere quanto basta al rispellivo
mestiere.Quello però che conviene agli indi vidui e alla società non conviene
alla filoso fia , la quale vuole il movimento e non vuole la quiete , vuole il
susurro e lo scandalo, e non l'ordine e la tranquillità. Se predicando
l'incivilimento e la collura tutti gli uomini p o lessero giungere alla vera
sapienza, che con siste nella cognizione della verità e nel do. minio
dellepassioni;ecosìsepotesserogiun gere alla vera civillà cbe consiste nella m
o rigeratezza dei costumi e nella custodia dei modi convenevoli al proprio
grado , la filoso fia non vorrebbe saperne niente e prediche rebbe contro la
diffusione dei lumi e della ci viltà. Siccome però è certo che la grande plu
ralità degli uomini non arriva alle perfezio ni , e che ostacoli insormontabili
naturali e civili si oppongono alla troppa diffusione dei lumi e della civiltà,
così è certa che la propagazione smodera la dell'ammaestramento e
dell'incivilimento empirà il mondo solamente di mezzi dolli , di scioli , di
sapulelli teme rari e presuntuosi, iqualiappunto ci voglio no per secondare la
grand'opera della filoso fia.L'uomo grossolano e di buona fede crede più al
curato che alle pappole dei liberali,e rispellando e temendo il sovrano non
pensa , neppure quando si trova ubriaco , di essere esso stesso un sovrano.Chi
non sa leggere o non presume un poco di letteratura e di ci villà non legge le
gazzelte e non modella il suo modo di pensare sui giornali e sui liber coli
della propaganda;e senza le gazzelle,senza i libercoli e senza igiornali,come si
rendereb bero fuoridimoda iprecettideldecalogo eil calecbismo del Bellarinino ?
e dove si trovereb bero gli uomini e le sassale per atlerrare le croci,per
abballereitroni,eper fareleglo riose giornate?Vedete dunque,carocompare
Cervello,che la filosofia non opera senza cer vello, e che sa ben essa cosa
vuole quando predica la diffusione dei lumi,e della civillà. L'Inc. Orsù , non perdiamo più tempo perchè
io muoro di voglia d'incominciare la mia missione , e di andare a diffondere i
lumi e la sapienza del secolo. Ditemi piutlo sto quali scienze vi piace che
vengano inse goatea preferenza, equalilibricredeleme glio adattati per
affascinare la mente e cor rompere il cuore della gioventù. Fil. Quanto
allescienze, generalmentepar: L'ins. Ho capito bene quanto alle
scienze e lasciatevi pure servire;e quanto ai libri co me dovrò regolarmi? Fil.
Tutti i libri che mettono in ridicolo i preti , i frali, la chiesa e le
pratiche della chiesa;tulli quelli che parlano contro l'aulo rità del Papa e
dei principi; e lulti quelli che trattano scopertamente ovvero copertamen. te
di materie scandalose e lascive lusingando > > . 120 lando , potete
secondare il genio dei giovani, purchè avvertiate sempre di oscurargli la verità
e di allerare nel loro cuore igermi della virtù. Parlando poi specialmente, le
vostre lezioni più frequenti devono essere sulla m e tafisica e su i dirilli
dell'uomo , le quali scienzc adoperate dalla filosofia liberale riescono
benissimo adattate per diffondere le dollrine dell’empielà e per suscitare lospiritodellale.
merità.Sevoinon capilenientedimelafisica, importa poco; purchè viriesca d'imbrogliare
la testa dei vostri allievi,di farli dubitaredi
fattoediridurlianonsapere,seilmondo fu l'opera di un essere necessario,ovverouscì
dai vorlicidelcaso, comeesconoilerniele cinquine del lotto e se essi medesimi
sono animali viventi , oppure ciolloli del torrenle o ravanelli dell'orto. Così
se di dirillo natu. rale e civile non ne sapele un acca, queslo purenon importa
niente, purchèivostridi scepoli ubriacali coi vostri sofismi rimangano persuasi
che la ragione delle genti consiste nella libertà, nell'uguaglianza,nella
sovrani tà del popolo e nel diritto sacro d'insorgere contro i re e di fare le
gloriose giornate.L'Ins. Ho capito tutto a meraviglia, e vado subito a mettere
in pratica le vostre lezioni. Immagino poi che l'ammaestramento dovrà farsi
sempre in lingua volgare. Cer. Come ! Nelle scuole filosofiche non si dovrà più
usare la lingua latina? Fil. Signor no che non si deve usare, per chè questa
lingua già morta è stata abiurata e ripudiata dalla filosofia,e a poco a pocoè
d'uopo sbandirla affallo non solamente dalle scuole, madatutto il commercio
letterario sociale.Che ragioni avele voi,compare Cervello, per desiderare che
venga conservato l'uso della lingua latina? gli appelili e scatenando la
furia delle pas sioni, tutti questi libri generalmente grandi
epiccoli,inversieinprosa,anlichiemo derni, lulti sono altrettanti evangeli
della filosofia, e lulti vi serviranno meravigliosamente per diffondere i lumi,
per incivilire la società, o sia per ridurre iullo il genere umano una massa
abbominevole di corruzione.Per re golarvipoineicasi particolari voi dovete
scegliere un buon giornale letterarioilqualesia scrillo con erudizione e con
grazie per ac cappiare meglio imerlolli,ma ildicuivero fine sia la
rigenerazione filosofioa , o voglia mo direl'assassiniodel mondo. Alloraandate
a colpo sicuro e non polele sbagliare,perchè è quasi impossibile che un libro
lodato da quel giornale non abbia il suo veleno e non possa servirvi in qualche
modo a sollecitare il pervertimento degli uomini. Fil. Questo già s'intende
senza nemmen o parlarne . Cer. Le ragioni che raccomandano la con servazione e
l'esercizio della lingua latina sono mollissime, mavenericorderòdue princi
pali,le quali dovranno venire riconosciule da chiunque non abbia ripudialo
l'uso della ra gione. In primo luogo la lingua latina, essen do la lingua della
chiesa e delle scienze, vie pe inseguata e diffusa in lullo il mondo , serve a
legare tutle le nazioni del mondo coi vincoli religiosi e letterarî, civili,
commer ciali e sociali. Perciò sbandire l'uso di questa lingua universale e
comune sarebbe lostesso che rinnovare la confusione di Babele, e lo gliere alle
nazioni il modo d'iolendersi l'una con l'altra ut non audiat unusquisque vocem
proximi sui. In secondo luogo è necessario appunto l'uso di una lingua morta
per custo dire le tradizioni , i monumenti e le opere delle lingue viventi
,perchè quella si conser va sempre immutabile,passando direttamente dagli
scrilli dei nostri anlichi padri fino al l'intelligenza nostra e alle nostre
calledre, lad dove le lingue volgari regolate dalla moda, allerale dal
mescolamento di voci nuove 0 straniere , e logorate e guastale dall'uso ,
si mulano e s'invecchiano giornalmente,ebasta il corso di pochi secoli per
soltrarle all'intel ligenza comune.Di falli mentre tulli glisco lari intendono
il latino di Cicerone e le ope re scritte in latino dieci secoli addietro dagli
italiani , dai francesi , dai goli e dagli arabi , i libri scritti in ilaliano
e in francese sei o sette secoli addietro sono diventali arabici e golici , e
non si possono intendere senza distil ė Fil.Ma noncapitechelalingualatinac'in
comoda precisamente per questo , e che vo gliamo levarcela di altorno appunto ,
perchè è la lingua dei preli e della chiesa ? Finchè quel corpo gigantesco
della dottrina ecclesia stica resterà in piedi , vantando diciotto se. coli
d’inalterata antichità , i preti e i frati , i vescovi , i papi e i cristiani
ce lo sbatte ranno sempre sul viso ; le dottrine della filosofia saranno sempre
subissatedaquellamas sa; e gli eretici e i filosofi liberali verranno sempre
riconosciuti come apostati e disertori dalla dottrina dei padri e dalla luce
della ve. rilà e della ragione. Quando però la lingua latina non sarà
conosciuta più da nessuno, e quando la bibbia e l'evangelio, la collezione dei
concili e delle decretali, e la bibliotheca patrum avranno servilo per
accendere il fuoco e per involtare il salame, allora saremo tulli del paro; la
parola di un prele edi un papa varrà quanto quella di un filosofo liberale, e
allora si potrà liberamente rigenerare il mondo secondo il gusto della
filosofia. Cer. Non può negarsi che l'angelo della malizia non vi abbia dato un
suggerimento larsi il cervello è senza il soccorso malsicuro dei commenli.
E sevenissedisprezzatoequasi eli minato l'uso della lingua lalina,chi garanti
rebbe l'autenticità e l'intelligenza delle scrit ture divine ? e cosa
diventerebbero i canoni dei concili , i placiti dei pontefici, le opere dei
padri e dei dottori, e tutto il corpo a u gusto e maraviglioso della dottrina
del cristia nesimo ? giudizioso e veramente da suo pari , ma in primo luogo è
assicurato dall'alto che le po lenze alleale dell'inferno e della filosofia non
prevaleranno contro la chiesa e contro le dot trinedellachiesa, e in secondo
luogoi go verni conoscendo l'ulililà della lingua latina e sospettando sulle
trame della filosofia non permetteranno mai l'espressa o tacita abolizione di
quella lingua. Fil. Non sapete che i governi si lasciano menare per il naso, e
che con lutti gli edilti e con tuttele scomuniche il regime degli stati resta
sempre a disposizione dei liberali? An zi in questi ullimitempi on governo il
qua le più di tutti gli altri dovrebbe essere in leressato a sostenere la
lingua latina l'ha discacciata dai tribunali dove aveva regnalo pacificamente
per due dozzine di secoli ,e con ciò le ha dato un grande incamminamen lo verso
l'ultima sua rovina. Cer. Questo certamente è stato un passo falso
carpito dai clamori dei liberali e da quel maledetto giusto mezzo nazionale e
straniero, che presume di salvare la casa aprendo la porta ai ladri :e una tale
concessione rub bata dalla violenza e falta contro la volontà, è appunto una di
quelle riforme che bisogna guastare, se non si vuole che l'ardire della
filosofia e i danni religiosi e sociali diventi.
nosempremaggiori.Siateperòcertachepo co prima o poco dopo le ossa si rimelteran
no al loro poslo, la lingua lalina sarà rista bilita nei tribunali , e con
questo neppure i litiganti faranno nessuna perdita, essendo
indifferente per essi che gli alli giudiziali si facciano in volgare
ovvero in lalino. Fil. Credete forse che i liberali non lo co noscano e che
vogliano la lingua volgare nei tribunali per l'interesse e per ilcomodo dei
litiganti? I litiganti stannoin mano degli avvocati e dei procuratori come gli
ammalati stanno in mano dei medici e degli speziali ; e siccome per gl'infermi
è lull'uno che le ricelte sieno scritte in latino ovvero in vol gare ,
giacchèin qualunque modo bisogna che prendano il beverone sulla parola del dot
tore e sulla fede del farmacista , così litiganti è lo stesso che le citazioni
e le cause si scrivano nell'una ovvero nell'altra lin. gua , giacchè alla fine
dei conti devono sem . pre fidarsi dei loro difensori e dei loro cu riali.
Abbiamo però altre buone ragioni per desiderare sbandita la lingua latina dal
foro : Fil. La prima è quella ragione generale di cui già abbiamo parlato,giacchè
tollialla lingua latina i tribunali si toglie a questa lingua il cinquanta per cento
della sua importanza e della sua familiarità , si rende sempre più sconosciuta
e straniera,e si spin ge a gran passi verso il suo totale deperi mento. L'altra
poi è quella di dilataremag giormente l'incivilimento aprendo la carrie ra
forense, l'accessoai tribunali,a e tutti gli impieghi giudiziali a qualanque
sortadim a scalzoni. Imperciocchè dove gli alti giudi ziali si faranno sempre
in latino, dove ico. dici e i commentari saranno scrilti in la per i Cer.
E quali sono queste ragioni? tino, e dove il foro sarà chiuso per chi non ha
sludiato illatino,icursori,iprocuratori, i curiali , gli avvocati e i
giusdicenti nelle proporzioni rispettive avranno sempre un poco d'educazione e
di dottrina,saranno per sone bennale e non saranno ciallroni cavali dal fango,
e somari calzali e vestiti.Quando però sarà levato l'ostacolo insormontabile di
quella lingua , gl'impegni , le protezioni e la cabala faranno il resto; il
foro, i tribunali e le sedie del pretorio saranno aperte a tutti gli asini e a
lulli i facchini;e la piena del l'incivilimento correrà senza ritegno a diffon
dersi sopra tulla quanta la canaglia sociale. Vedo già, compare Cervello, che le
mie ra gioni vi hanno lasciato a bocca aperta,e per cið senza altre
chiacchiere, voi signor Jo segnamento, andate a prostituirvi in volgare nella
città della filosofia, e a diffondere spie tatamenteilumie la peste sopra
tutteleclassi del popolo; e voi signor Incivilimento, venite avanti a ricevere
la vostra lezione. L'Inc.Eccomi a ricevere le vostre istruzioni e i vostri
comandi. Fil. Prima di tutto dovete avvertire di non lasciarvi sedurre dal
vostro nome, persuaden dovi, che la civillà di adesso non deve essere come
quella di una volta, e che l'incivilimen. tonel regno della filosofia ha da essere
ilfra. tello carnale dell'insegnamento,regolato secon do i precetti della
filosofia. L'Inc.Spiegatevi pure chiaramenteenon mi allontanerò dai vostri
precetti. Fil. Una volta adunque la vera civiltà con. e L'Inc. Ho
capito benissimo,e non dubitate che sarele servila. Fil. Inoltre una volta la
decenza e la m a gnificenza del portamento e del vestiario era no
l'indizioelagaranzia dellaciviltà,ma oggi la decenza e la magnificenza non le
vogliamo più , e la civillà presente deve consistere nel ripudio della decenza
e della magnificenza. Per ciò accreditate pure la moda e lasciate pure
cheigiovaniconsuminoiltempoeildenaro, sludiando sul figurino e riformando il
vestito una volta per settimana,ma quando si viene alla conclusione, un'abito
d'arlecchino , una balla di pelo sul volto e un sigaro nella bocca sieno sempre
il vestito di gala e il gran co slume accreditato dalla civiltà. L'Inc. Ho capito
anche questo e non dubi tate che sarete servita. Fil. Per ultimo,una volta il
modello della civillà erano le corli e igran signori,e ipro.
sistevanell'onesláen el pudore;maoggique ste cose non servono , e al più si
deve con servare l'apparenza dell'onestà e l'affeltazione del pudore. Percið
scansate con qualche cura le inverecondie sfacciate e i discorsi d'oscenità
dichiarata e brutale , predicando per lutti gli angoli che queste riserve sono
il frutto della civiltà , m a rendele poi familiari negli scritti e nei
trattenimenti sociali le allusioni impu diche,ifrizzilascivi,ledanze
seducentiei sali e i motteggi dell'empietà, e queste allu sioni e
questifrizzi,questi motteggi e queste tresche siano per opera vostra il vanto e
il diletto delle più colle e delle più civili società. L'Inc. Hocapito
tullo,vadoaservirviin tutto,efrapocotuttoilmondodivenleràuna gran beltola per
opera della civiltà. Fil. Andate pure , e vi accompagnino cou
lelorobenedizionituttigliangeli custodidella filosofia. N Cervello, la Filosofiae
il Cullo. Fil. Cosane dite,compareCervello?Mi pa re che la nostra fondazione
vada riuscendo a meraviglia, e che la città di Filosofopoli non sarà scarsa di
abitatori. Cer. Credo bene, che coi privilegi accordati dalla filosofia, nel
suo paese non ci sarà scar sezza di cilladini;ma sospello che una selva gressi
dell'incivilimento spingevano ad imitare i modi e le costumanze dei grandi , ma
oggi la civiltà deve consistere nel giusto mezzo , e l'incilimento deve
esercitare il doppio uffizio di esaltare gli umili e di umiliare sempre i
superbi. Voi dunque , andando sempre contro natura,dovele mettere in
tuttiifacchini la vo. glia e la superbia d'imilare i signori , e d o vele
meltere in tutti i signori il prurilo e la viltà d'imitare i facchini , siccbè
queste due estremità sociali s'incontrino nei caffè e nei bordelli, passeggino
a bracciello nelle strade, e avvicinate e amalgamale2,per opera vostra
costituiscano una sola famiglia filosofica,o vo gliamodire,una sola canaglia
sociale.E que. sto è il risullato definitivo cui devono sempre mirare la
diffusione dei lumi e della civillà. abitata dagli orsi sarebbe meglio di
una città regolata con questi principi e conqueste leggi. Fil. Non lo conosco
neppur io,e dubilo che sia qualche mallo,ma adessoloconosceremo. Galantuomo
venite avanti, e dile chi siele e che desiderate. Fil. Cosa sono tutti quegli
imbrogli e tutte quelle vesti nelle quali siele imbacuccato ? Fil. Voi vi
ostinale apensare all'antica, mi la grandissima meraviglia che il n 1 0 vo
pensare del mondo ancora non vada d'ac cordo col cervello.Noi per altrofaremo
tan to e diremo tanlo finché a poco a poco an che il Cervello perderà le sue
abitudini di una volla,enon glidarà l'animodivederelecose con altri occhiali
che con quelli della filosofia. Jilanlo atlendiamo a quelli che seguitano a
presentarsi per entrare nel nostro regno. Cer. Cbi sarà mai costui ilquale
siavan za foggiato in tanti modi, e ammanlalo con lanta varielà di vestiti che
si prenderebbe per un buffone ovvero per una cortegiana? Culto. Io sono il
Culto e vengo a prendere servizio nella vostra nuova cillà. Fil. Veramente i
veri filosofi non sanno che farsi di voi,e quando il mondo sarà lullo il
luminato polrele cercarvi un alloggio nel di zionario della favola . Finlanlo
però che non si olliene una vittoria intiera contro i pregiudi zi volgari vi
terremo come un servitore pro visorio,eservireleper trastullareilpopolo e per
fare ridere le persone civilizzate. Culto.Giacchè oramai per me non sitrova di
meglio, bisognerà contentarsi di questo, e verrò provisoriamente al vostro
servizio. Cullo. Sono gli ordegni,e gli abili del mio mestiere, eliboportati
di diversesorteper adaliarmi a quel Culto che vorrelé stabilire nel vostro
paese. Fil. Quando è così avele falto bene a por tarvi una bottega di ordegni e
un guardaroba di paludamenti,perchè nella città della Filo sofia deve esserci
libertà amplissima per tutti i culti. Cer. Come! Nel vostro paese voleleammel
terci tolti i culii ? Cer. Perchè la veritàèunasola,emet terla del pari con
l'errore è lo stesso che ri pudiarla. Il Cullo consiste nel professare una
religione enell'osservarne iprecetti,lepra tiche e i riti; e siccome una sola
religione può esser vera e tutte le altre devono essere false , così un solo
cullo può essere sauto e gralo a Dio, e lulli gli altri devono essere
allrellanle imposture e mascherate , ridicole agli occhi degli uomini e
oltraggiose alla maestà di Dio. Fil. Per adesso non ho voglia di entrare in
discussioni di leologia e di scandalizzarvi con le doitrine
filosoficheintornoalla religio. ne.Di questoparleremo a suo tempo,ma in tanto
dovele considerare che il fondamento della filosofia liberale è la libertà, che
la principale di tutte le liberlà è quella della coscienza, e che una città
dove non ci fosse la libertà della coscienza e del culto non p o
Fil.Giàsisa, olullio nessuno.Percbè si dovrebbe usare parzialilà e sceglierne
uno. facendo torto agli altri ? trebbe essere la citla della
Filosofia. Orsù dunque, signor Culto, entrate pure nella mia residenza con
tutti i vostri ordegni e con tutti i vostri vestiti: credele quello che vi
pare, operate come vi pare , e incensate quel che vipare,che ditutto questo ame
non im porla niente. Cul. Quando è cosi vengo subito ad inca sarmi nel vostro
slalo,e vi conduco tutto il mio seguito. Fil. Chi è tutta questa gente dalla
quale siele corteggiato? Cul. Sono tulte persone di diverse religio
pi,didiversiculti,lequalivengonoago dere i vostri favori, accettando la
tolleranza e la libertà. Falevi avanti signori un pochi per volta, e venile a
ringraziare la signora Filosofia e a dirle qualche parola sulle vo stre
rispettive dottrine. È giusto che essa sappia che venite a fare in casa sua.
Fil. Queslo veramente non è necessario , percbè nei paesi della filosofia ci è
il datur omnibus , e ciascheduno può fare di ogni er. ba un fascio. Nulladimeno
questa specie di rassegna ci servirà per ridere come le vedu te della lanterna
magica. Chi siele dunque voi cbe venite avanti di tutti ? Tur. lo sono un turco
, e la religione dei turchi è la più comoda di lulle. Pensiamo a mangiare a
bere e dormire, e per l'avveni resaràquelchesarà.Intantoviviamo vo
luttuosamente nei nostri serragli , come vi vono i galli nel pollaio e i becchi
nel peco rile, e la dollrina del padre Maometto ciassicura che troveremo
pollaie pecorili ancora nell'altro mondo , e che l'abbondanza delle galline e
delle pecore sarà il guiderdone del. la virtù. Fil. E pure, compare mio,questa
mi sem bra una religione più comoda e più giusta di tulle le altre. Anzi a
dirla schietta , questa , poco più poco meno , è la religione dei fi losofi
liberali, i quali non sanno capacitarsi, perchè non debba essere accordata alli
due sessi del genere umano quella libertà che si godono ibruti animali.
Esaminate pure e analizzate quanto volete le doltrine e i sofi. smi del secolo
illuminato , il libertinaggio animalesco libera è il compendio di lulti i voti
e lo scopo principale del liberalismo. Per questo mondo un pecorile o vogliamo
dire un serraglio , e per l'altro sarà quel che sarà: in quesso consiste tutto
l'evangelio della filosofia.Voi dunque,signor Turco mio caro, entratepurenellamia
nuova cillà , esercitatevi il vostro culto liberamente, e non dubitale che i
pollai , i pecorili e i porcili non saranno mai perseguitati dalla fi losofia.
E voi che venile appresso chi siete ? Dei. Io sono un Deisla e credo che ci sia
un Dio , ma siccome non so cosa vuole questo Iddio, non m'intrigo nè di culli,nèdi
religioni,nèdicomandamenli,emi vado regolando alla meglio secondo il mio giu
dizio. Cer. Basta non esser bestie per conoscere che questa è una
religioneeuna dottrinada bestie Fil. Anche questa dottrina non mi dispia. ce e
si può accordare molto bene con la fi losofia. Imperciocchè un Dio il quale
cred il mondo per passatempo e poi lo lascia anda re senza pensarci più , e non
gli volge mai nè uno sguardo , nè una parola ; questo Id dio è come se non ci
fosse , si può benissi mo riconoscerlosenzaempirsilatestadipre giudizi , e la
dottrina del Deismo non con trasta con quella del libertinaggio e del pe
corile.Perciò,signor Deista,siateilbeuve nuto con tulli i vostri compagni , ed
entrale pure a stabilirvi vei domini della filosofia. Avanti dunque un altro.
Chi siete? Aleo. lo sono un Ateo e non credo all'esi. stenza di Dio. Non so se
il mondo è elerno ovvero se incomincið casualmente per una combinazione
fortuita della materia ; non so se ha durare sempre questo mondo , ovvero se
col tempo prenderà qualche altra figu ra , e non so cosa sia l'uomo e se finirà
di essere quando finirà di muovere le gambe : ma so che chiudo gli occhi per
non vedere nell'esistenza degli esseri e negli ordini del la natura la mano di
Dio , e a dispetto di tutte l'evidenze e di tutti i raziocini , voglio dire che
non c'è Dio. Fil. Quanto a questo ognuno è libero di credere e di direquello
che gli pare; e inol tre se il Dio dei deisti ha da essere un Dio senza braccia
e senza lingua come se fosse di s'ucco, l'essere Ateo e l'essere Deisla è una m
e desima cosa . Sopra tutto quando la dottrina degli atei ci lascia il pecorile
, o il sarà quel che sarà , può accomodarsi benissimo con la dottrina della
filosofia. Entrate dunque voi pure a godere la tolleranza e la protezione
filosofica, e venga avanti chi siegue.Chi sie te voi? Ido. Io sono tutto al
contrario di quelli che mi hanno preceduto,giacchè insieme coi miei compagni
riconosciamo un diluvio di divini tà e facciamo professione d'idolatria. Noi a
doriamo il sole e la luna, gli animali, i sas si e le piante ; ci facciamo le
divinità di le gno e di cocco , e onoriamo con gli incensi į galli, i sorci e le
lucerte , è fino le cipolle e gli erbaggi dell'orto, Cer.Comare,questo è un
branco dimatli, e immagino che non vorrele riceverli nel vo. stro
paese. Fil. E perchè no ? Questa povera gente non fa nè bene nè male, e se
la idolatria non è secondo i dellami della filosofia, almeno non riesce molesta
alla filosofia. Anzi al Dio M e r curio protettore dei ladri, nel regno dei
filo sofi non mancheranno adoratori ,e a quella cara Venere, deessa della
voluttà si dovreb bero erigere altari in luttiicantonidelmon do. Ditemi un poco
galantuomo : suppongo che la morale di tutti voi sarà abbastanza rilasciata , e
che contro il libertinaggio non ci avrete niente che dire ? Idol. Potete
immaginare cosa debbano es sere la morale e i costumi dove le divinità sono
lavorate nelle botteghe dei falegnami e degli sloviglieri. Nulla dimeno il
fanalismo e l'imposlura si intrudono per lullo sotto lea p Ris. Noi
siamo riformati e protestanti, lu terani, calvinisti, zuingliani,anglicani,
quac queri, puritani, presbiteriani; insomma fra di noi ci è di ogni sorta un
poco, é venia mo astabilireinostricollinellavostranuo. va città. Fil. Immagino
che sarete tuiti quanti per suasi di essere una gabbia di matli , e co
noscerele che essendo una sola la verità, la maggior parte almeno di voi altri
deve esse re lontana dalla verità. Rif. Certo che a parlare sul sodo la veri tà
non può trovarsi fuorchè in una sola dot trina, e lo stesso tollerarci che
facciamo con indifferenza uno con l'altro è una prova che siamo tulli quanti
fuori di strada. Per que. sto se ci mettiamo a predicare e fare i zelanli
ridiamo di noi medesimi e conosciamo di reci tare in commedia, ma l'interesse,
il comodo parenze della pielà, e anche noi abbiamo i nostri sacerdoti e le
nostre vestali, e abbia mo i nostri penitenti e i nostri continenti. Fil. Tanto
peggio per essi ; e poi ognuno ha i suoi gusti, e noi non dobbiamo inquie tarci
se i Bonzi e i Dervis vogliono digiuna re e scorlicarsi in onore delle loro
divinità. Quelle credenze e quelle pratiche religiose che non disturbano la
società devono essere accolte e protette nel regno della filosofia. Andale
dunque tutti liberamente ; incensate quanto vi pare sorci, gatti, porci e
somari, e vivele si cuci della nostra filosofica fraternità. Adesso venga
avanti chi seguita.Che cos'ètutta que sta turba di gente ? Rif. Per
ultimo il nostro clero è disinvol. to e sociale e non intende di rinunziare
alle soddisfazioni della natura ; perlocchè, abbia mo in abbondanza
pretesse,curalesse e ve scovesse, e se fra noi ci fossero il papa e i cardinali
avremmo ancora le papesse e le cardinalesse. Eb. Io sono un Ebreo, e insieme coi
miei compagni vogliamo aprire le nostre sinagoghe nei vostri domini. e
l'impegno ci conservano nel nostro rispet livo partilo, e quanlunque fra di noi
venia mo spesso a capelli siamo sempre d'accordo in quanto a mantenerci
disertori dalla Chiesa romana. Fil. Questo è benissimo fatto,perchèvo lendo
godere i privilegi dell'errore , e non volendo assoggettarsi alle seccature
della ve. rità è d'uopo lenersi lontani da quella dot tora che presame
d'insegnare essa sola la verità. Rif. Inoltre non abbiamo nè scomuniche, nè
frati, nè confessionari, e conoscele bene che questa è una grandissima comodità
per la vila. Fil. Sicurissimamente; e levato quel tram pino del confessionale,
il libertinaggio non si contrasta più da nessuno, Fil. Bravissimi, bravissimi ,
e questo si chiama essere cristiani a buon mercato: pro priamente secondo il
gusto della filosofia. Entrale dunque anche voi col vostro mezzo evangelo ,
perchè lanto è mezzo quanto è niente, e venga avanti chi resta. Fil.
Senlite, figliuoli miei, nel regno della filosofia ci deve essere senza dubbio
il luogo per lulli,ma voi altri giudei avevale tanti pregiudizi e tante
pretensioni che non so se starele d'accordo cogli altri, e non vorrei che mi
melteste sussurri. Eb. Levatevi pure ogni dubbio,perchè gli ebrei di adesso non
sono più di quelli di pri m a , e anche noi abbiamo ripudiato Mosè con tulli li
patriarchi per arruolarci sollo le in segne della Filosofia. Ci resta un poco
di cir concisione, perchè ce la ficcano quando non possiamo parlare, ma questa
non si vede,e in tull'altro siamo una vera canaglia , nata fatta per venire a
figurare nei vostri paesi. Fil.Questo anderebbebene, ma intanto puzzatecenlo miglia
lontano, non vorrei che facesle venire il vomilo a lulli i miei popoli. Eb.
Neppur questo è vero,perchè oggi nei paesi meglio civilizzati noi siamo il
fiore della nobillà, veniamo ammessi nelle corti , portiamo titoli e
decorazioni, trattiamo fami gliarmente coi signori,e se volessimo degnar. cene
faremmo ancora i nostri parentali coi gran signori. Fil.Quando è così entrale
pure anche voi, fate le vostre sinagogbe, circoncidetevi a modo vostro,e non
dubitale che non vimanche ranno libertà e protezione nel regno della fi
losofia. E voi che siete rimasto cbi siete ? Cat. Io sono un cattolico , e
insieme coi miei compagni desideriamo di professare li 137 e per
ultimo Cat. Eperchèmaiinunpaesedovesifa professione di ammettere tutte le
religioni e tulli icalli, la sola religione cattolica dovrà essere esclusa ?
Fil. Perchè voi altri cattolici siete intol leranti. Cat. Ciò non è vero nel
senso in cui voi lo intendele , e non polrete provare in nes sun modo cbe noi
siamo intolleranti. Fil. Non è forse vero che pretendete di es sere i soli a
credere e insegnare la verità , che fuori della vostra chiesa lulli sono p o
veri ciechi deviati dalla strada della salute ? Cat. Questo si chiama essere
conseguenti e non già essere intolleranli ; imperciocchè al di là della verilà
non può trovarsi niente al iro fuorcbè l'errore,e chiunque è persuasodi
trovarsi nella strada della verità deve essere ancora persuaso che quelli i
quali cammina no fuori di quella strada procedono nella via dell'orrcre.Anzi
perconvincersi cheiseguaci delle altre religioni sono lungi dalla verilà basta
solo considerare qualınente essi accor dano che anche fuori delle loro dottrine
si trova la verità. In conclusione poi noi non costringiamo nessuno a
farsicattolico perfor za,compiangiamo enon perseguitiamoquelli che vivono in
un'altra credenza , e neppure ci vendichiamo quando veniamo oltraggiati e
beramente nei paesi della filosofiala religio ne callolica. Fil. Un cattolico! un
cattolico!e avreste la presunzione di stabilire nel regno dei filosofi la fede
e il culto cattolico? e perseguitati ; perlocchè in luogo di essere in
tolleranti , noi fra tulti í credenli siamo i più mansueti e i più tolleranli.
Fil. Inoltre voi vorreste empire lo stato di monache , di frati e di claustrali
di tutti i colori,e queste associazionie corporazioni non vanno a genio della
filosofia. Cat. Ma , se è vero che nei paesi costituiti filosoficamente, ognuno
deve godere amplissi ma liberlà,perchèalcuni uominiealcune donne unanimi nel
pensiero , e animali dallo stesso desiderio , non potranno albergare in una
medesima casa,vestire un medesimo abi to , vivere come gli pare e godere
anch'essi la loro libertà? esegiusta i principi della vostra tolleranza non
podresle escludere dal vostro regno i Bonzi dei Cinesi e dei giappo nesi , e i
Dervis dei maomettani , perchè lo vostre esclusioni saranno riservate privaliva
mente per i soli frati cristiani ? Fil. Tutta la vostra capaglia di frati vuol
vivere senza far niente e campare a spalle degli altri. Cat. I preti e i frati
callolici predicano la parola di Dio, istruiscono la gioventù , so stengono il
ministero del culto , assistono gli infermi , consolano i moribondi e tutto
questo dovrebbe essere qualche cosa ancora agli oc chi della filosofia ; e
quanto al vivere a spe sedeglialtri, forseinostri prelieinostri frati campano
per forza , assassinando i pas saggieri in mezzo alla strada ? forse i predi
canlieisacerdotidellealtrereligioni rice vono il villo e il vestito dalle
nuvole e non 1 $ Fil. E non contate per niente il celibato
del vostro clero il quale naoce alla socielà col l'impedire la molliplicazione
del popolo? Cat.Sarebbefacileildimostrarvichelapro sperità di uno Slalo non
consiste nell'eccessiva moltiplicazione degli abitanti, ma bensì nella giusta
proporzione fra le risorse nazionali e il numero della popolazione. Senza però
entrare in queste discussioni, e seguendo solamente i canoni della libertà ,
forse secondo le regole della filosofia sarà libero ai lurchi di avere cento
mogli, e non sarà libero ai preti callo. lici di vivere senza moglie? E forse
sarà li bero alle infami dicongregarsiaviverein un bordello, e non sarà libero
alle vergini cri sliane di chiudersi in un convento per prega re il Signoree vivere
lontane dal bordello? Fil. Dite pure quanto volele, ma quel vo stro culto è
troppo serio , troppo pubblico , troppo pomposo e solenne, e non può essere mai
gradito nel regno della filosofia. Cat. Nelle terre del paganesimo,e dovela
religione callolica èappena conosciuta, sappia mo contenlarci di esercitare il
nostro culto privatamente,ma inquelleterrecristianein cui la religione
cattolica è la dominante , ov. Vero è la religione dello stato, o al meno è la viene
ad essi somministrato dai rispettivi credenti? O forse ci sarà libertà di
donare ai conventi di Dervise di Bonzi, alle moschee, allepagode, allesinagoghe,
epoifarelaca rità alla chiesa e ai ministri della chiesa sa rà contrario alla
filosofia e ai dellami della natura? religione della maggior parte dei
nazionali, sarà giusto che si eserciti con pubblicilà o con solennità il culto
dominante, ovvero il culto dello stato, o almeno il culto della maggior parte
dei nazionali. E poi non avete voi proclamala la libertà dei culti, e non avele
dichiarato cbe quelle credenze e quelle pratiche religiose le quali non
disturbano la società, devono essere accolte e protette nel regno della
filosofia? Ebbene. Noi stiamo alle vostre parole e non vi domandiamo niente di
più. Fil. Dite pure esfiatatevi quanto volele; in ogni modo. Cer. Ma via,comare
mia ;questa vostra mi Fil. Perchè non vogliovo accordare il libertinaggio.
Tant'è : il libertinaggio è la con clusione di tutti gli argomenti e il
lapisphi. losophorum della filosofia;e chi non l'accorda il libertinaggio avrà
sempre ipimici i filosofi liberali e la filosofia.Voi dunque,signor cat.
tolico, avete inteso, e oramai sapete come vi dovele regolare. Se volete
accordarci que sla bagallella entrate pure nei nostri paesi con tutti i vostri
frati, col vostro cullo e col 1 pare una perfidia, e si vede che volele pro
priamente chiudere gli occhi alla ragione. Fil. Cosavoletefarci?Argomentate pure
e convincetemi di contraddizione quanto vi pare, i filosofi liberali non si
accordano mai coi cattolici , e non li possono vedere. Cer. E perchè tutto
quest'odio e tutto que slo controgenio? Fil. Volete saperlo veramente il
perchè? Cer. Dite pure e sentiamo. vostro evangelo , perchè accomodata quella
piccola differenza tulle queste cose cidaran no poco fastidio e serviranno per
ridere e stareallegramente;ma sevioslinateneivo stri pregiudizi e non volete
accordarci il bru tismo , le terre della filosofia non fanno per voi. Oramai è
venuto il tempo di par lar chiaro; e non c'è più bisogno di pallia menli, di
sutterfugi e di misteri. O libertini o niente. I frati dunque , i preti e i cat
tolici pensino ai casi loro; il mondo capisca una volta questa dottrina, e
inlanto Turchi, atei, deisti, idolatri, scismatici, giu dei e filosofi
liberali, entriamotutti allegra mente della città di FILOSOFOPOLI e por tiamo
in trionfo IL LIBERTINAGGIO, nel regno della filosofia. per si 1, Bert
mert doi efis scar cont dang rita fusi Si aprono le porte della nuova città , o
la sciati di fuori il Cervello e il Culto 'cattolico entra la filosofia
accompagnata da tutto il suo ministero liberale, e viene festeggiata con
allegrissimo Charivari all'usanza di quelli con cui il popolo sovrano accoglie
i suoi rappre sentanti, quando tornano dalla camera dei de putati.La sovranità popolare
in qualità di signora della festa offre lo spettacolo gratuito dellebarricate, distribuisce
un generosorinfre. sco di mattonelle, e dà segno per l'incomincia mento del
ballo. La Giustizia dopo quattro sal ti si lascia cadere le bilance,perde
l'equilibrio, sirompeleanche,evazoppicandoperlasa la appoggiatasulle stampelle.
La Proprietà bal lando ballando viene distribuendo i suoi vestiti con dare a
questo il cappello e a quell'altro la ca rive pres spec sce CAS
un miciuola, finchè restata in pennazza si ritira per non servire di
scandalo. L'Insegnamento fa un ballo equestre a cavallo sull'asino, epoi si
mette in disparte a compitare il libro di Bertoldo. L'incivilimento con un
corleggio n u meroso di guatteri e di facchini vestiti secon do il figurino, fa
la sua danza pippando , e fischiando, e poi corre ai bettolino a rinfrea
scarsicon un bocale.ICultiliberiballanouna contradanza, e poi si mettono a
ridere guara dandosi uno con l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare
il vallz, e con cið la dif fusione del potere, dei beni, dei lumi , e della
civiltà si rende asfatlo completa. Frattanto a r riva il Disinganno
accompagnato dal Cervello, prendono a calci la Filosofia, mandano all'o spedale
dei maiti i filosofi liberali, e così fini sce la comedia. Gli spettatori nel ritornare
a casa vanno dicendo:è stata troppo lunga. llanouna
contradanza, e poi si mettono a ridere guaradandosi uno con l'altro. Il
libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la diffusione del
potere, dei beni, dei lumi , e della civiltà si rende asfatlo completa.
Frattanto a r riva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a calci la
Filosofia, mandano all'o spedale dei maiti i filosofi liberali, e così finisce
la comedia. Gli spettatori nel ritornare acasa vanno dicendo:è stata troppo
lunga. llanouna contradanza, e poi si mettono a ridere guaradandosi uno con
l'altro. Il libertinaggio in vita tutti a ballare il vallz, e con cið la
diffusione del potere, dei beni, dei lumi , e della civiltà si rende asfatlo
completa. Frattanto arriva il Disinganno accompagnato dal Cervello, prendono a
calci la Filosofia, mandano all'ospedale dei maiti i filosofi liberali, e così
finisce la comedia. Gli spettatori nel ritornare a casa vannodicendo:è stata
troppo lunga. La Libertà. La Sovranità. La Costituzione. Il Governo. La
Rivoluzione. I Poleri. La Patria. Conclusione. La Città della Filosofia. La
Filosofia ed il Cervello. L'insegnamentoe l'incivilimento. La Filosofia. La
Civiltà. e la Giustizia. La Società. Lo stato il Governo. L'Uguaglianza. I Diritti
dell'uomo. La Leggiltimità. Le Opinioni. .La Indipendenza e la Proprietà. Il Cervello,
la Filosofia e il Cullo. DROSTE- della Pace fra laChiesa e gli Stati. Considerazioni
sulla rivoluzione. Sulla scomunica contro gl’usurpatori del dominio
ecclesiastico. E sul monopolio universitario. Parenti. Leopardi.
Keywords: 1150. – the coding of a name. The philosophical Leopardi. The
Leopardi fascista – interpretazione fascista da Gentile dell’ultra-filosofia di
Leopardi – l’ultrafilosofia di Leopardi padre. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e
Leopardi” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Lettieri: l’implicatura
conversazionale – filosofia siciliana -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Messina). Filosofo italiano. Grice: “Lettieri rightly contrasts sensualism in the
practical sphere of reason as ‘egoism’ – my ‘principle of conversational
self-love’ – but focuses on benfeficence, and solidarity – as ‘rational’ – my
principle of conversational benevolence, -- or conversational helfpfulness.” Grice:
“I like Lettieri for two reasons: he uses ‘diritto razionale’ which we at
Oxford don’t! – He cherishes the ‘dialogo filosofico’ as a genre as we
Aristotelians at Oxford don’t – he wrote one on ‘l’intuito’ – While he wrote on
‘sensualism,’ he also explored the idea of ‘man’ and ‘ragione,’ or ragiun, as
he put it in his vernacular!” Insegna a Messina. Presidente della Real
Accademia Peloritana dei Pericolanti. Molto apprezzato da Mamiani, Gioberti e Galluppi. Altri saggi: Il
sensualismo – cf. Grice, “Some remarks about the empire of the five senses” –
Austin, “Sense and sensibilia” --, dissertazione, Messina, Capra; “La
fisiologia calunniata di materialismo, Messina, Nobolo; La potenza del pensiero,
Palermo, Console; Etica e diritto naturale, Messina, Amico; L’intuito: dialogo
filosofico, Messina, Arena; L'omu nun avi l'usu di la ragiuni -- cicalata di lu
professuri cav. A. Catara- Lettieri (Messina, Amico; Introduzione alla
filosofia morale e al diritto razionale, -- Grice: “I like the idea of
‘rational’ right!” (Messina, Amico; “La cognizione del dovere -- poche nozioni
dirette all'operaio e ad ogni classe di cittadini” (Messina, Amico; “Ricordi
storici intorno al movimento filosofico in Siciliam Messina, Amico; “L’uomo” Pensieri”
(Messina, Amico; Via Lettieri, Messina. Lettieri basis his moral system on
rationality – solidarity, beneficence and all the conversational principles
appealed by Grice find room in Lettieri’s system – ‘dovere verso l’altri” o “il
prossimo” – The fundamental one is that of equality, as when Chomsky says that
competence is an ideal natuve speaker with another one --. Grice: “Lettieri
would hardly consider hiseself an Italian philosopher, seeing that he wrote a
trattarello on ‘filosofia in Sicilia’ meaning that Italy does not belong to
him, nor does he belong to her!” – Antonio Catara Lettieri. Antono
Catara-Lettieri. Antonio Catara-Lettieri. Lettieri. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lettiere: la
ragione conversazionale” – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Liberatore: l’implicatura conversazionale dell’ULIVO DELLA PACE -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Salerno). Filosofo italiano. Grice:
“One could write a whole dissertation – especially in Italy: their erudition
has no bounds – about Liberatore’s choice of the sign being conventional, ‘ramo
d’olivo’ = pace. It’s so obscure! Aeneas held one, against the Phyrgians – but
did the Phyrgians know? And if Mars is often represented wearing an olive
wreath, one would not think there is a ‘patto’ between Aeneas and the Phyrgian
commander about that!” Grice: “I like
Liberatore – a systematic philosopher, as I am! His logic has the expected
discussion on ‘sign.’ A conventional sign he says is a branch of olive
‘signifying’ peace – as opposed to smoke naturally meaning fire – As a
footnote, one should note that in Noah’s days, the signification of the dove
was ALSO natural – although not strictly ‘factive’ – but then not ALL smoke (e.
g. dry ice smoke) signifies fire, as every actor knows!” “Ma il difetto molto comune degl’economisti è
il mancare di giuste idee filosofiche, e con ciò non ostante voler sovente filosofare.”
Entra nel collegio dei gesuiti di Napoli e chiede di far parte della Compagnia
di Gesù. Insegna filosofia. Fonda a Napoli “La Scienza e la Fede” con lo scopo
di criticare le nuove idee del razionalismo, dell'idealismo e del liberalismo,
dalle pagine del quale venne sostenuta una strenua battaglia in favore del
brigantaggio, interpretato come movimento politico contrario all'unità
d'Italia, ovvero: "La cagione del brigantaggio è politica, cioè l'odio al nuovo
governo". Fonda “La Civiltà” per diffondere AQUINO. Uno degl’estensori
dell'enciclica Rerum Novarum di Leone XIII. Studia Aquino. Pubblica “Corso di
filosofia”. Membro dell'Accademia Romana,. Combatté il razionalismo e
l'ontologismo, così come le idee di SERBATI. Sostenne che il brigantaggio e
la legittima resistenza di un popolo a una conquista non solo territoriale, ma
soprattutto ideologica. Difensore dei diritti della chiesa e studioso dei
problemi della vita cristiana, delle relazioni tra chiesa e stato, tra la
morale e la vita sociale. I filosofi della sua scuola mettono in evidenza
a acutezza dei giudizi, la forza degli argomenti, la sequenza logica del
pensiero, la stretta osservazione dei fatti, la conoscenza dell'uomo e del
mondo, la semplicità ed eleganza dello stile. All'inizio professore e
giudicato da molti nella Chiesa cattolica il più grande filosofo dei suoi
tempi. Si ritenene che vive santamente, e si scorge in lui un profondo spirito
religioso. Considerato uno dei precursori del personalismo economico.
Altri saggi: “Logica, metafisica, etica e diritto naturale, e in
particolare: “Dialoghi filosofici” (Napoli); “Institutiones logicae et metaphysicae”
(Napoli);“Theses ex metaphysica selectae quas suscipit propugnandas Franciscus
Pirenzio in collegio neapolitano S. J. ab. divi Sebastiani Quinto” (Napoli); “Dialogo
sopra l'origine delle idee” (Napoli); “Il panteismo trascendentale: dialogo” (Napoli);
“Il Progresso: dialogo filosofico” (Genova); “Ethicae et juris naturae elementa”
(Napoli); “Elementi di filosofia” (Napoli); “Institutiones philosophicae” (Napoli);
“Della conoscenza intellettuale” (Napoli); “Compendium logicae et metaphysicae”
(Roma); “Sopra la teoria scolastica della composizione sostanziale dei corpi” (Roma);
“Risposta ad una lettera sopra la teoria scolastica della composizione sostanziale
dei corpi” (Roma); “Dell'uomo” (Roma); “La Filosofia di ALIGHIERI”; In Omaggio
a Aligh. dei Cattolici ital. (Roma); “Ethica et ius naturae” (Roma, Typis
civilitatis catholicae); “Lo stato italiano” (Napoli, Real tipografia Giannini);
“Della composizione sostanziale dei corpi” (Napoli, Giannini); “L'auto-crazia dell'ente”
(Napoli); “Degl’universali -- confutazione della filosofia di Serbati” (Roma);
“Principii di economia politica” (Roma, Befani); “La proposta dell'imperatore
germanico di un accordo internazionale in favore degl’operai”; “Le associazioni
operaie”; “Dell'intervenzione governativa nel regolamento del lavoro”; “L'Enciclica
Rerum Novarum di Leone XIII”; “De conditione opificium”; “La civiltà cattolica
spiega nei dettagli il clima di "difesa" in cui la chiesa si sente. Il
ritorno ad Aquino dov’essere orientato alle sue dottrine originarie. Convinto
che dopo di lui ben poco di nuovo ha prodotto il pensiero umano. Brigantaggio. Legittima difesa del Sud. Gli
articoli della "Civiltà Cattolica" introduzione di Turco (Napoli, Giglio); “Per
l'atteggiamento arroccato in difesa della Chiesa vedi ad esempio Sillabo # La
"cupa scia" del Sillabo
Nardini, Manca di verità e si oppone ad AQUINO la soluzione di un alto
problema metafisico abbracciata da L.” (Roma, Pallotta); “Lettere edificanti
della provincia napoletana della Compagnia di Gesù, in La Civiltà cattolica, Civiltà
cattolica:, antologia Rosa, [ma San Giovanni Valdarno] ad ind.; G.
Mellinato, Carteggio inedito L. Cornoldi in lotta per la filosofia di Aquino (Roma,
Volpe, I gesuiti nel Napoletano, Napoli, Dezza, Alle origini del tomismo,
Milano, Devizzi, La critica all'ontologismo, Rivista di filosofia neo-scolastica,
Mirabella, Il pensiero politico di ed il suo contributo ai rapporti tra Chiesa
e Stato, Milano, Scaduto, Il pensiero politico ed il contributo ai rapporti tra
la Chiesa e lo Stato, in Archivum historicum Societatis Iesu, Serbati, Roma G. Rosa,
Storia del movimento cattolico in Italia, Bari ad ind.; Lombardi, La Civiltà
cattolica e la stesura della "Rerum novarum". Nuovi documenti sul
contributo, La Civiltà cattolica, Dante, Storia della "Civiltà cattolica",
Roma Nomenclator literarius theologiae catholicae, Grande antologia filosofica, Milano, C. Curci,
Compagnia di Gesù La Civiltà Cattolica Rerum Novarum Treccani Enciclopedie on
line, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana.Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana., presentazione del libro su La Civiltà Cattolica e
il brigantaggio. Segno – SENNO -- è generalmente tutto ciò che, alla potenza
conoscitiva, ra-ppresenta alcuna cosa da se distinta. Perciò tal denominazione
ben si addice al concetto il quale esprime al vivo e ra-ppresenta alla mente
l'obbietto intorno a cui si aggira. Ma il concetto è interno all'animo e per
pale sarsi di fuora ha bisogno di un segno SENNO esterno. Questo segno SEENO
esterno consiste ne' voicaboli, i quali tra tutti i segni ottennero la
preminenza iq.ordine alla manifestazione delle cose, che internamente
concepiamo. Così il termine mentale, cio è il concetto, e d il termine ora le
cioè il vocabolo, convengono tra loro nella generica ragione di segno o SENNO. Ma
si differenziano grandemente nella ragione specifica. Imperocchè, primieramente
il concetto è segno naturale; il vocabolo è segno – O SENNO -- convenzionale. Dicesi
segno naturale quello che di per sè e per sua natura mena alla cognizione di
un'altra cosa -- come il fumo, per esempio, rispetto al fuoco, e generalmente
ogni effetto, riguardo alla CAUSA. Dicesi segno convenzionale quello, che
ARBITRARIAMENTE o PER PATTO vien
destinato a di-notare alcuna cosa; come il ramo d'olivo si ad opera per il termine
orale, benchè prossimamente significhi (E SENNO DI) il concetto, non dimeno mediante
il concetto significa (E SENNO DI) lo stesso oggetto. Anzi, poi chè da chi
parla è ad operato per di-notare il concetto non subbiettivamente ma
obbiettivamente, cioè in quanto è espressione della cosa percepita. Ne segue
che, quanto alla significazione (SENNO), esso si confonde quasi col concetto, dicuiè
come la veste e l'esterna apparizione. E però la logica a buon diritto tratta
per ora ni un vocabolo è di sua natura connesso con un determinato concetto;
e però tanta varietà di loquela si scorge presso le diverse nazioni. Al
contrario, il concetto di per sè e necessariamente rappresenta l'obbietto, essendo
ne una natural rassomiglianza; e però il discorso mentale è lo stesso appo
tutti. Inoltre il concetto è segno formale; il vocabolo è segno (SENNO) istrumentale.
Ad intendere questa differenza, è necessario osservare, che il vocabolo
permenarci alla conoscenza della cosa significata, ha mestieri d'esser prima dạ
noi compreso. E pero appartiene a quel genere di segni (SENNO), a a cui può applicarsi
la seguente definizione. Segno (SENNO) è ciò che, conosciuto, adduce alla conoscenza
di un'altra cosa. Ma del concetto non è così: giacchè esso, senza bisogno
d'esser prima conosciuto, col solo attuare la mente , ci mena alla conoscenza
del l'obbietto, sicchè questo appunto sia il primo ad essere diretta mente
percepito. Ciò di leggieri apparisce, tanto solo che si consideri che il concetto
non può percepirsi, se non per cognizione riflessa e pel ritorno della mente
sopra sè stessa. Laonde quello che si percepisce per prima e diretta
cognizione, non può essere esso concetto, ma necessariamente è una qualche cosa
diversa dal medesimo. A di-notare per tanto una tal differenza, venne
introdotta la distinzione del segno (SENNO) formale e del segno (SENNO) istrumentale.
Viene l'abuso del linguaggio che è il mezzo dato all'uomo per esternare ad
altrui gl’interni concepimenti dell'animo. L'analisi de’ vocaboli è
ordinariamente un grande aiuto allo spirito per rischiarare le idee, merce chè
essi sovente tengon chiusi sotto la loro spoglia. Ma accade altresì che si
arroghino più di quello che loro di ragion si compele, e tentino non di essere
esaminali e giudicali dall'intelletto, ma manciparselo e deltargli legge a capriccio.
Per diverse maniere principalmente i vocaboli introducono falsi concetti
nell'animo. Per la loro ambiguità e confusione, imperocchè ci ha delle voci
d'incerto significato, le quali han bisogno d'esser determinale nel senso in
cui si tolgono, altrimenti ingenerano concetto vago e mal fermo da cui procedon
poi fallaci giudizii. Tale è a cagion d'esempio la voce natura, la quale suol
prender sia d’esprimere or l'essenza di una cosa, or il mondo sensibile; or
l'autore dell'universo, or tull'altro a talento di co foi che l'usa. Parimente
le idee significate pe' vocaboli sovente sono assai complesse e complicate; e
pero ove non bene si risolvano per via d'analisi ne’loro elementi, son cagione che
si formiun assai confuse ed informe concetto. Secondo, tal volta i vocaboli
vengono ad operati a significar mere negazioni o prodotti arbitrarii della
immaginativa, o semplici ASTRAZIONI ell'animo; come la voce “cecità” , “fortuna”,
“centauro”, “località”, e somiglianti. Oravviene che per difetto di debita considerazione
si cada nella credenza ch'esse esprimano cose positive e reali si nell'essere
che nel modo onde sou concepite. I vocaboli delle cose immateriali son formati
d'ordinario per analogia presa dagli obbietti materiali, e quindi avviene che
talora si confondano le une cogl’altri. Ne'nomi derivati sebbene spesso
l'origine e l'etimologia del vocabolo coincide col senso in che comunemente si
prende, tuttavia non rade volte se ne dilunga. Nel qual caso per mancanza di attenzione
può avvenire che l'una coll'altro si scambi. A queste cause può aggiugnersi la novità
de’ vocaboli di che taluni stranamente si piacciono, e l'uso incostante che
fanno di quelli stessi che fuor di ragione introduceno. La filosofia per quanto
può nell'ad operare il linguaggio non deve scostarsi dall’uso comune, nè
cambiare a capriccio il senso delle voci ricevute o da sè stessa una volta
determinate. Una indebita applicazione de’ mezzi di conoscenza è radice mal nal
ad'errore. Accadecia in prima dal non bene distinguere con quali facoltà dove
l'oggetto concepirsi; come a cagion d'esempio in chi con la fantasia vuole comprender
ciò che allrimenti non si può che con l'intelletto. Dippiù si bada talora più
alla vivacità e felicità della RAPPRESENTANZA, che alla fermezza del motivo che
spinge all'assenso. E così le cose che vivacemente e prestamente feriscono
l'animo più di leggieri si ammettono che allre non fornite di questa dote, ma
più salde per forza di argomenti. Inoltre si procede temerariamente a giudizii
senza prima considerare se l'obbietto è debitamente proposto giusta le leggi e
le condizioni volute dalla natura. Quinci le fallacie de’ sensi, lo scambiarsi
per i principii proposizioni arbitrarie, il formare assiomi illegittimi, il dedurre
conseguenze erronee da sofistici ragionamenti. E perciocchè lo schivar questi mali
richiede la conoscenza del dritto cammino che deve tener la mente per le
vie del vero, passiamo a trattar diligentemente questa materia, alla quale
premettiamo il seguente articolo, che ad essa valga come
d'introduzione. Cum animi nostri sensus cogitationesque animo ipso
lateant, nec per sese ceteris patefiant; homo, qui ad societatem cum aliis
coëundam e nascitur, idoneis mediis a provido naturae Auctore instructus est,
ut ideas suas aliis, quibuscum vivit, manifestet. Haec media SIGNA (SENNI) quaedam
sunt. Sic enim nominantur quaecumque ad res alias innuendas sive natura sive VOLVNTATE
sunt INSTITUTA. Omnibus vere signis, quibus conceptus nostros et affectus animi
patefacimus, maximopere vocabula praestant. Etsi enim suspiria, gemitus, nutus,
sensa animi nostri significent; minime tamen id efficiunt eadem facilitate,
perspicuitate, distinctione ac varietate, quae vocabulorum propria est. Quam
quam non diffitear gestuum loquelam, si vivax sit, vehementius commovere,
propterea quod imaginationem vividius feriat, et rem veluti ponat ob oculos.
Vocabulum definiri potest: vox articulate prolata ad ideam aliquam
significandam. Ex quo intelligitur, ope vocabulorum proxime et immediate
conceptus, vi autem conceptuum ipsa obiecta significari. Ad originem sermonis quod
spectat, nemini dubium est quin, etsi vis loquendi ingenit a nobis sit,
verborum tamen determinatio ab arbitrio generatim pendeat. Secus si quodlibet
determinatum verbum determinatam rem natura sua innueret; qui fieri posset ut
verbum idem apud diversas gentes, quibus certe eadem natura inest, non idem
exprimat? De hoc nulla est controversia; at quaestio in eo est utrum absolutae
necessitatis fuerit ut sermo aliquis primis hominibus a Deo communicaretur, an
homo sermocinandi tantum virtute ornatus sermonem ipse repererit vel saltem
reperire potuerit. Qua de re in contrarias sententias FILOSOFI distrahuntur. Non
nulli enim non modo possibilitatem, sed factum etiam tuentur, atque hominem
sermone destitutum sermonis auctorem fuisse autumant. Alii id neutiquam evenire
potuisse arbitrantur, cum sermo sine usu intelligentiae. efforinari nequeat, et
ad usum intelligentiae sermonem necessarium esse putent. Equidem sic existimo: ad
absolutam possibilitatem quod at tinet, hominem per se potuisse ex insita
propensione et facultate loquendi, quam accepit, determinatum sensum vocibus
quibus dam tribuere, et sic sponte sua efformare sermonem. Quid enim
repugnasset ut homo rem sensibus occurrentem nutu aliquo com mopstraret aliis,
atque ex innata vi loquendi sonum syllabis quibusdam distinctum proferret et ad
commonstratam rem significandam libere determinaret. Expressis autem rebus
sensibilibus, ad insensibiles significandas gradatim pervenire impossibile sane
non erat; cum ad has exprimendas nomina quaedam ex rebus materialibus,
propter analogiam, quam homo inter utrasque per spicit, transferri facile potuissent.
At si non de absoluta et abstracta possibilitate, sed de facto loquimur, rem
aliter contigisse certum est. Nam ex sacris litteris indubie colligimus
elementa sermonis primo homini a Deo tributa esse, quantum saltem sufficeret ad
domesticam societatem, in qua ille conditus est, retinendam. Cuius rei
congruentia vel inde patet, quod si, ut supra dictum est, ad divinam pertinuit
providentiam opportuna scientia instruere protoparen tem; hoc multo magis de
usu sermonis dicendum sit,cuius longe maior necessitas imminebat. An sapienter
cogitari poterit totius generis humani parens et magister, qui quasi principium
et fun damentum constituebatur futurae societatis civilis et sacrae, sine actuali
copia illorum mediorum, quae ad munus hoc adimplen dum tantopere requirebantur.
Accedit, quod eruditorum vestigationes, qui de origine linguarum tractarunt,
huc tandem concludendo devenerunt, ut omnes linguae tamquam dialecti linguae
cuiusdam primitivae, quae perierit, habendae sint. At si sermo inventio esset
humana, singulae familiae, quae diversis populis originem dederunt, linguam
sibi omnino propriam atque ab aliis radicitus discrepantem creavissent. De
utilitate vero, quam ex sermone pro rerum intelligentia mens capit, permulta
fabulati sunt FILOSOFI quidam, in primisque Condillachius. Putarunt enim illum
esse necessarium ad analysim et synthesim idearum habendam, nec sine ipso ideas
generales efformari posse. Quin etiam eo progressi sunt, ut dicerent ipsam
intelligentiam non nisi ex usu loquelae progigni. At enim haec esse ridicula
optimus quisque iudicabit, modo cogitet non posse loquendi usum concipi nisi
iam antea intelligentia sub audiatur. Non enim quia loquimur intelligimus, sed
viceversa quia intelligimus loquimur. Unde bruta, quia intelligentia carent, id
circo loquendi facultate privantur. Quod si intelligentia e sermone non pendet,
poterit illa quidem suis uti viribus ad ideas sive dividendas sive componendas
sive etiam abstrahendas, quin id circo sermo velut causa aut instrumentum
adhibeatur. Sed de hac refusius erit in Metaphysica disputandum. Vera
igitur emolumenta sermonis his continentur. Prae terquam quod ad ideas
communicandas inserviat, ac proinde ve luti vinculum sit societatis;
intellectui subvenit, quatenus loco phantasmatum verba ut signa sensibilia in
imaginatione substituit. Memoriae opitulatur ad ideas semel habitas revocandas.
Mentis attentionem figit detinetque in obiecto, quod exprimit, quae secus ad
alia contemplanda statim raperetur. Mentis opificia conservat, efficitque, ut
illa postquam contemplationis suae partus vocabulis scriptura exaratis ad
retinen dum tradiderit, soluta curis ad nova speculanda impune progredi possit.
Hae potissimum utilitates e sermone in hominem proficiscuntur; ceterae, quae a
nonnullis nimium exaggerantur, sine fundamento ponuntur, et animo humano sunt
dedecori. Denique ad dotes loquendi quod attinet, sermo sit perspicuus,
usitatus, brevis; non ea tamen brevitate, qua obscurior sententia fiat; sed ea,
quam rite descripsit Tullius CICERONE, ubi inquit brevitatem appellanda messe cum
verbum nullum redundat, velcum tantum verborum est, quantum necesse est 1.
ANTICHITÀ PER L'INTELLIGENZA DELL'ISTORIA ROMANA E DEI FILOSOFI LATINI
DELL'ABATE DECLAUSTRE Wwwna IN VENEZIA CO'TORCHI DI GIUSEPPE MOLINARI
MITOLOGICHE SLIEHE HE KOS WIEN HOFBIBLION KA 1 eeeeeeeeexe erele cele ; egli Ateniesi
lee ressero delle statue. Ella fu ancora più celebra ta presso i romani, i
quali le innalzarono il più grande ed il più m a goifico tempioche fosse in
Roma. Questo tempia, le cui rovine ed anche una parte delle volte restano
ancora io piedi, fu cominciato da Agrippina, e poscia compiuto da Vespasiano. Scrive
Giuseppe, che gl'imperadori VESPASIANO e Tito deposero nel tempio della pace le
ricche spoglie, che aveano levate al tempio di Gerusalemme. In questa tempio
della Pace si adunavano quelli che professavano le belle arti per disputervi sopra
le loro prerogative, acciocchè alla presenza della dea restasse bandita qualsi voglia
asprezza pelle loro dispute. Questotem. pio fu rovinato da un incendio al tempo
dell'imperator COMMODO. Presso i greci la Pace veniva rappresentata in questa
maniera. Una dono aportava sulla mano il dio Pluto fanciullo. Presso I Romani poi
si trova per ordinari o rappresentata la Pace con un ramo di ulivo PACIFERA. In
una Medaglia di Marco Aurelio, Minerva viene chiamata “pacifera”; e in una di
Massimino si legge Marte puciferus, qmegli, o quella che porta la pace, PACTIA.Suddito
dei Persiani, al riferire d'Erodoto, essendosi ricoperato a Cuma città greca, i
Persiani non mancarono di mandare a di mandarlo, acciocchè loro fosse
consegnato nelle mani. I Cumeifo . dea P Pace. I Greci e di Romani onoravano
la Pace come una gran qualche volta colle ali, tenendo un caduceo, e con un
serpente ai piedi, Le danno ancora il cornucopia, el'ulivo è il simbolo della
Pace, e il caduceo è il simbolo del Mercurio Negoziatore, per additare la negoziazione,
da cui n'è seguita la Pace. In una medaglia di Antonino Pio tiene in una mano
un ramo di ulivo, e colla sinistra dà fuoco ad alcu di scudi,e corazze, j
PALAMEDE . Figliuolo di Nauplio re dell'isola d'Eubea, coman daya gli
Eubei nell'assedio di Troja. Vi si fece molto stimare per la sua prudenza, pel
suo coraggio, e de sperienza nell'arte militare; e dicono che insegnasse ai
Greci il formare i battagliopi, e lo schierarsi. Gli attribuiscono l'invenzione
di dar la parola delle sentipeļle, quel la di molti giuochi, come dei dadi e
degli scacchi, per servire di trat tenimento ugualmente all'ufficiale e al
soldato nella noja di up lungo assedio. ΡΑ1CHE tott an que 9 be 8Q CO 32
ti 8 $1 AL sto fu çerp ip contapepte ricercare l'oracolo de’ Branchidi, per
sapere come doveano contenersi; el'oracolo rispose, che lo consegnassero. Aristodico,
uno dei principali della città, il quale non era di questo parere, ottenne col
suo credito, che si mandasse un' altra volta ad interrogare l'oracolo, ed egli stesso
si fece mettere nel numero dei deputati. L'oracolo non diede altra risposta,
che quella avea data prima. Poco sod disfatto Aristodico, penso nel passeggi.
The branch of ‘ulivo’ is represented in the reverse of a coin of Antonius Pius
--. Matteo Liberatore. “Segno e cio che, conosciuto, adduce alla conosence di
un’altra cosa” – cf. Eco’s tesi su Aquino. Liberatore. Keywords: implicatura. Refs.:
Luigi Speranza, “Grice e Liberatore” – The Swimming-Pool Library. Liberatore.
Grice e
Liceti: l’implicatura conversazionale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Rapallo).
Filosofo italiano. Grice: “Liceti is
a fascinating philosopher; must say my favourite of his oeuvre is
“Geroglifici,” which as he knows it’s a coded message – the old Egyptian
priests kept this ‘figurata’ away from the plebs!” – Grice: “Alice once
wondered what the good of a piece of philosophy is without ‘illustrations;’
surely Liceti’s beats them all!” Allievo ed erede di CREMONINI (si veda). Nacque
prematuro (6 mesi), venendo alla luce su una nave presa da tempesta lungo le
coste tra Recco e Rapallo. Sempre secondo la tradizione orale suo padre, un
medicoo, lo mise in una scatola di cotone dentro un forno, come si fa per far
schiudere le uova, inventando così il prototipo della moderna incubatrice. Dopo
aver compiuto i primi studi letterari a Rapallo, venne inviato a Bologna per
compiere e approfondire gli studi legati alla FILOSOFIA. Insegna a Pisa.
Padova, e Bologna. Ascritto ai “Ricovrati” (oggi i galileii – degl’Accademia Galileiana di
scienze, lettere ed arti. Quando comparve in cielo una cometa, si
riaccese una controversia analoga a quella suscitata dalla stella nova ma questa volta le difese della teoria
aristotelica furono assunte da L. ed il compito di attaccarla, partito ormai GALILEI
(si veda), e assunto dal suo successore sulla cattedra di matematica, GLORIOSI,
che se la prese appunto con L.. Questi risponde pubblicando un suo De novis
astris et cometis, in cui, oltre a difendere il LIZIO, critica scienziati, tra
i quali anche GALILEI, ma con espressioni molto rispettose e lusinghiere. A
questo saggio GALILEI fa rispondere dal suo amico GIUDICCI col Discorso sulle
comete. Srive saggi di filosofia, tra le quali “De monstruorum causis, natura
et differentiis”, (Padova), con aggiunte
di Blaes, nei quali riprese le soluzioni del LIZIO sul problema delle anomalie
genetiche, e “De spontaneo viventium ortu” nei quali sostenne la generazione
spontanea degl’animali inferiori. Altri saggi importanti per la ricerca sono
“De lucernis antiquorum reconditis” apprezzato da Berigardo, e la “Silloge
Hieroglyphica, sive antiqua schemata gemmarum anularium.” Tratta inoltre la
questione dell'anima delle bestie nel “De feriis altricis animae nemeseticae
disputationes.” I suoi saggi sono chiaramente ispirate al LIZIO, in particolare
gli studi sul problema della generazione vivente e sul cosmo, entrando talvolta
in contrasto con GALILEI, specialmente per quanto riguarda la struttura dei
cieli e della Luna, che L. considera una sfera perfetta e trasparente la cui
luminosità non e un riflesso della luce solare, ma veniva generata al suo
interno. Al centro di questo dissenso cosmologico, c'e, infatti, il tentativo
di spiegare il fenomeno luminescente della pietra di Bologna, che L. considera
un frammento di materia lunare. Alcuni saggi di L. rimasero inediti a causa
delle ampie discussioni riportate sulle novità astronomiche. Nella
congerie immensa dei suoi saggi e commenti va notata la difesa della pietas
d'Aristotele; quella pietas così vivacemente messa in forse alcuni anni più
tardi dal platonicissimo cappuccino Valeriano Magno, che taccia d'a-teismo il
sistema dello Stagirita. L. invece disserta «de gradu pietatis Aristotelis erga
Deum et homines», e nel saggio sua «Philosophi sententiae plurimae, fidelium
auditui durae, salubribus explicationibus emollitae, ad pias aures
accommodantur, illaeso genuino sensu Aristotelis». E ad epigrafe dell'opera sua
si compiace del distico Vulgus Aristotelem gravat impietate, L. Doctorem purgat.
Numquid uterque pius? La città di Padova ed Spinola di Roccaforte rendeno
omaggio al filosofo facendo erigere una statua in marmo scolpita da Rizzi. A
Rapallo vi è dedicata una via. Gli è stato dedicato il cratere “L.” sulla
Luna. Altri saggi: “De centro et circumferentia”’ “De regulari motu
minimaque parallaxi cometarum caelestium disputationes”Vtini, Nicola Schiratti,
Vicetiae, Amadio, Bolzetta, Encyclopaedia ad aram mysticam Nonarii Terrigenae,
Patavii, Crivellari“ Allegoria peripatetica de generatione, amicitia, et
privatione in aristotelicum aenigma elia lelia crispis. Ad aram lemniam
Dosiadae, poëtae vetustissimi et obscurissimi, encyclopaedia, Paris, Cottard; Ad
Syringam publilianam encyclopaedia, Patauii, Pasquato, Bortolo, “Ad Epei Securim
Encyclopaedia Genuensis FILOSOFI ac medici, Bononiae, Monti, “De centro et
circumferentia, Vtini, Schiratti, “De luminis natura et efficientia, Vtini, Schiratti,
“Litheosphorus, siue De lapide Bononiensi lucem in se conceptam ab ambiente
claro mox in tenebris mire conservante, Vtini, Schiratti, “Ad alas amoris divini a Simmia
Rhodio compactas, Patavii, Crivellari,“De lucidis in sublimi ingenuarum
exercitationum liber, Patauii, Crivellari “De Lunae Sub-obscura Luce prope
coniunctiones, “Hieroglyphica”, Patavii, Sebastiano Sardi, “Hydrologiae
peripateticae disputationes”, Vtini, Schiratti, Ad syringam a Syracusio compactam
et inflatam Encyclopaedia, Vtini, Schiratti, Baldassarri, La pietra di Bologna
da Descartes a Spallanzani. Sviluppo di un modello scientifico tra curiosità,
metodo, analogia, esempio e prova empirica, Nel nome di Lazzaro. Saggi di
storia della scienza e delle istituzioni scientifiche, Garin, La filosofia, Milano,
Vallardi, Questo testo proviene in parte dalla relativa voce del progetto Mille
anni di scienza in Italia, opera del Museo Galileo. Istituto Museo di Storia
della Scienza di Firenze, Bartholin, Institutiones anatomicae, Lugduni
Batavorum, Riolan, Opuscula anatomica nova, in Id., Opera anatomica, L Pombaiae
Parisiorum, Bartholin, Epistolarum medicinalium centuria Hafniae (lettere); Vesling,
Observationes anatomicae et epistolae, Hafniae, lettere a L.; Dallari, I rotuli
dei lettori legisti e artisti dello STUDIO BOLOGNESE, Bologna ad ind.; Edizione
delle opere di Galilei, Firenze ad
indices; Acta nationis Germanicae artistarum, Rossetti, Padova, ad ind.; Rossetti,
A Gamba, Padova, ad ind.; Giornale della gloriosissima Accademia Ricovrata, A:
verbali delle adunanze, Gamba, Rossetti,
Trieste ad ind.; Salomoni, Urbis Patavinae inscriptions, Patavii Facciolati, FASTI
GYMNASII PATAVINI, Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Modena, Renan,
Averroès et l'averroïsme, Paris Taruffi, “Storia della teratologia” Bologna, Favaro,
Amici e corrispondenti di Galilei, Gloriosi, in Atti del R. Istituto veneto di
scienze, lettere ed arti, Favaro, Saggio di
dello Studio di Padova, Venezia, Ducceschi, L'epistolario di Severino, Rivista
di storia delle scienze mediche e naturali, Castiglioni, Storia della medicina,
Milano, Ducceschi, Un epistolario inedito di dotti padovani in Atti e memorie
della R. Accademia di scienze lettere ed arti in Padova, Alberti, La prima incubatrice
per prematuri, Minerva medica varia, Boffito, Battaglia di marche tipografiche
di Bella e l'ultima memoria scientifica
dettata da Galilei, in La Bibliofilia, Pesce, La iconografia di L., in Genova.
Rivista del Comune, Geymonat, Galilei, Torino, Rossetti, L'opera di L. in un
manoscritto inedito della Biblioteca del Seminario vescovile di Padova, in
Studia Patavina, Bertolaso, Ricerche d'archivio su alcuni aspetti
dell'insegnamento medico presso Padova, in Acta medicae historiae Patavinae, Ongaro,
Contributi alla biografia di Alpini, Tomba, Gli originali di Galileo in Physis,
Ongaro, L'opera di L., in Atti del Congresso di storia della medicina, Roma, Ongaro,
La generazione e il moto del sangue in Liceti, in Castalia, Rizza, Peiresc e
l'Italia, Torino Simili, Una dedica autografa di Galilei a L. e il clima delle
loro concezioni scientifiche e relazioni epistolari, in Galileo nella storia e
nella filosofia della scienza. Atti del Symposium internazionale, Firenze-Pisa,
Firenze Mirandola, Naudé a Padova. Contributo allo studio del mito italiano, in
Lettere italiane, Castellani, Marangio, I problemi della scienza nel carteggio con
Galilei, Bollettino di storia della filosofia dell'Università degli studi di
Lecce, Marilena Marangio, La disputa sul centro dell'universo nel "De Terra"
di L., Soppelsa, Genesi del metodo galileiano e tramonto dell'aristotelismo
nella Scuola di Padova, Padova, Agosto et al., Rapallo, Berti, Galileo e
l'aristotelismo patavino del suo tempo, in Studia Patavina, Ongaro, Atomismo e
aristotelismo nel pensiero medico-biologico di L., in Scienza e cultura,
Galilei e Morgagni, Padova. Brizzolara, Per una storia degli studi antiquari in
Studi e memorie per la storia dell'Bologna, nZanca, L. e la scienza dei mostri
in Europa, in Atti del Congresso della Società italiana di storia della medicina,
Padova, Trieste, Padova Re, "De lucernis antiquorum reconditis": il
capolavoro calcografico di Schiratti, in Ce fastu? Lohr, Latin Aristotle
commentaries, Firenze, Basso, erudito ed antiquario, con particolare riguardo
agli studi di sfragistica, in Forum Iulii, Basso, "Fortasse licebit".
La marca tipografica di Schiratti e l'impresa accademica di L., in Quaderni
Artisti Cattolici Ellero, Ongaro, La scoperta del condotto pancreatico, in
Scienza e cultura, Poppi, Il "De caelesti substantia" di Ferchio fra
tradizione e innovazione, in Galileo e la cultura padovana, Santinello, Padova,
Kristeller, Iter Italicum, ad indices. Treccani Enciclopedie, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. sapere,
De Agostini, Dizionario biografico degl’italiani, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Ruff. L.. Beerbohm: “Send me a letter; I live in Rapallo.” “How
should I address it.” “Beerbohm, Rapallo” “Do not worry, there is only one
Rapallo.” “Vico L., Rapallo” – “Statua a L. da Rizzi, Spinelli Roccaforte,
Padova.xstril. minnstiii UAiTiO Stjftdsb iupon Ratfatia in IV libros De his,
quidiuvi- P uunt fine alimento. P1?- 1 in quo eaptobatissimisautonbus afferuntur
obferuationes eorum, qui vitra biduu . ab omni obo potuque abftmuere. Abstinentiae
vana: intra fepumam diem conclu- .ffaec. Abfimenu, a iepfmo ad decimum diem
extenfj. Abftmentixi decimo ad vigefiraumdiera protc- fe.cap.£. Abstinentii ad
mensem produAfe. Abstinentiae a primo ad tertium mensem produ- . Ax. c Iehmium
populorum Lucomonae ad quinque me des quotannis mire productum. Abstinentia
Oftimeftns in muliete Patavina. Abstinentia pueli Tufer ad feitumdec unum-
Spiritus non aliaere. Aerem in mitto vivente non ali aere intrinlecus
quoraodocunqucattra Ao.lenem in mitto non abfumerc acrcm. Partes animalis 4
przdommio aereas non ali aere inspirato. nui Aerem hunc, quem inffiramus, non
efle alendo & creari c 'i t. fpintus. Ad nutricationem metaphoricam non semper
cd- sequi veram Rondelctij difficilis alfertio. Soluuntur argumenta quibus nititur
pnor opinio, mensem protradla. Abstinentix ad II annos produAx. Ablhncntix ad III
annos protenf. cap.i Historia puellae Spirenfis quadriennium abftinen- .
tiscap.it. Abftinentt a quarto ad duodecimum annum de- duAx. Abstinenn vitra
duodecim annos longissime pro duA varia exempla. Abstinenti $ diuturnae incerto
temporis spatio ad- i' mentr. Difficultatem
negotii nos retrahere non debere a proposito. Curante omnia oporteatnos aliorum
dogmata de Chatnxleontcm, ac Viperas non ahaere propol i t c tpeudere. inqua
omnesaliorum opiniones examinand breui catalogo numerantur. tn quo examinantur sapientum
virorum opiniones de natura et caudis tam diu- turni lciumj. Opinio Argenteoj et
aliorum exiftimantiu abstmcntcs nomos nutriri aere inlpirato. Cancmlcucm et
Manucodiatam apud Indos non alucrc.Secunda opmio Medici Clariflimt ex Augento,
Si . M a nardo contendentis abstinentt ncftrosalf odoribus, fle
exhala tione aerem obfidente car Examinatur propofita fcntenua, &:
primum often diturnon elfe in topi acre vaporem , ac cxhalationcm.cap.a».
Exhalationem infpiratam vi calori? humant non pofle cogi in fanguincm.St^
alimentum.Exhalationem non alere 1eiunantcs. Expenditurallata opinio demonttrando
primum Non omne fapidu111 alere. caloris aAionein humorem non elle conti- nuam
;caqueiugi, nonidco affiduam clfc debe- re nutricationem, cap.i. intus in
animali aereos non efltjfcd igneos. C. J. aimores proprie non ali.Spmtus in
viuenni corpore r,ou nutriri.Odores non alere,quia non funt miftorum fpccits,
prima ratio Arifiotchs aduerfus PITAGORICI c1phcatur.cap.2d. Secunda ratio
Anftotclis LIZIO demonttrans odores n6 alere , quia per coAioncm a calore non
podint ex odoribus excrementa lcgrcgan. Omne genera sed vnicum ottcnditurj nec
ali omnia qiuecu que diffluunt in viufnteA^" reftauritionc indigent. Acrem
ml piratum pon efle miftum , nec adeo ut fit alendo corpori. Explicantur allata
dogmata Galeni de eo quod ctt ipiritus aere nutriri, J. Alexandri, Nicolai, CICERONE,
ac Thcophraflirii- fla confiderantur.de eo , qupd eft att:m alerem
fpiritus,& calorem; & ad A rittotclis, ac Hippo- cratis ccnfuram
rediguntur.tf. Hippocratis afiettio dc triplici alimento illuftra- tlir Olimpiodori.
ic Platonicorum dogma 'de horni mbus acre, ac radijs folartbus enutritis
expendi tur.cap.primo noridari trianutrinientorum trrfs T Omnealimentum, feuexternum,feuinternumco
coqui deberc, coftioneque aberctementispur- Odorem n aloris ita concoqui non
poffe, vcab excrementis dicatur expurgari quia limplicem, l'eu nutriendo
corpori omnino diflimilcm naturam obtineat, Ab odore vi caloris concoqnenris
nec tenue, nec craflum fegregari excrementum.cap.j». Tertia ratio
Arillotelisoftcndcns odorem nonale requiacoftionea calorenonincraffatur.cajt
Quarta ratio, qua Ariftotcles probae odorem non Ci£,& quandopropemare ambulantes
falfura. re fenrianr, & alsarum faporem quos prope ab- finthii fuccus
agitatur. Tertia opimo doitiilimi Co/lii prxeeptoris exiftf m.mns abflinente»
nofttos aqua enutrita» primumofle- Propoli ta sententia confideratnr, ac Ari ditur
ex autorita te Platonis ^Haiqpupoacmrantoins a,lere, ftotehs, Galeni, &Auicennp
cap Aquamvi calorisnoncraflefcere,ideoqu-everH ahftinentemalerc. Pvrauftas non
ali exhalatione illi connmili crementoarugmeri fine ten^ imminutione, ca.7o.
Plantae non Canemleucm non ali rore, Manucodiatain rore non pafc1. Argumentum
duci non polle a brutomm alimen- to ad nutrimentum hominis. Quo fcnfu verum fit
Quod ftpit nutrit, Exhalationem acri permiftam 116 efle fapidl c 5 t
Exhalationem non efle odoriferam , & Allomos noneffe, quiodoribusnutriantur,
quicqurdFici nusfenfcnt. Democritum , Homerum odonbus vitam libi prorogafle ceu
medicamentis , non vt alimentis. Animo delinquentes odotibus recrearr non ut
ali- mentis,fcd vt medicamentis Hippocratis dogma vulgatum de ctlcir nutncatio
Aqua nihil inefle lcntiatur,nec epota ne per odoratum lUuitratur non poffc in
alendi fubflantiam. effealendocorpori, quianonferaturadmem- Aquam coflione non fienfimile
malendo corpo- bra nutrimentis dicau. Quinto confirmat Ariftotcles odorem non
alere, quia nonnifi per accidens fertur w fontem ali- menti. J. Odor effe
medicamentum , non alimentum texta ratione probatur, Ccnfurare fponfionum
dcraonftratiombus Antro telicisab Argcntcnoallatarum. Respondetur ad argumenta,
quibbs nititur fenten fupenor, ac primum oftendirur exhalatione de terra
Turgentem non ubique pntfto fuiffe ab- ftinentibus, nec effe milium, cap.jd.
Bxhalationetn odore tciro afferam efle , lapidam ri,vt decet alimentum cap.do.
effe Aquam non effe tale mtftom/juale oportet ali roentum.capdr. Aquam effe
vehiculum alimenti, alimenniracap.dx. Satisfit rationibus quibus nititut &
propterea non aliquot primoque decernitur cur ablhnentium hu- aquam potarent;
quoniarmadpiocualbeihc,afpm^c3- mido inftauretur huraidum Aqua nec plantas
ali,nec aquatdia. campf.t Arfu.mcnto, Vium non feruartccaalloroirse
pvarbualnoi:mc*alorem vtcon- humorem non efleaquammec aqueum. Aqua non reftmn
quod aqueume corporibus ef- fluxerit.cap.dd. alimento, &cauf carnem, 5tlac;quxpluatpoftca.
AquaexAnflotelcquomodofit obigratia,fi noneffe.Exhalationem a calore non
condenlan. Exhalationem in acre cogi non poffc infanguine Qua ratione potuerit
animalia pluere,ac fpeciatim vitulum, pifces,ranas,atque lemmer. Hippocratis
dogma illuftratur de cxhalatrone ve Solis attrafta ex animalium corporibus. Rorem
non effe vaporem vi caloris c6crctum,ncc alimentum cicadarum.Mannam non fieri
ex vapore vi caloris dentato in aere,nec folam alere poffc ad Hxbraic* mannas
difcnmcn.Mei non effe purum rorem concretum, nec tale quid fine alio nutrimento
diu pofle hominem fa ftcrilitatis,& pilobus affumatur non vere alit adeo ex igno, Animatu quomodo
conftituantnuurtriantur aqua_> & aqua,vt moucanlur nigonee,ft vere alimentum.
Hippocrati ; cui aqua cap.<8. Quod ex ciborum folidieofrleumaquam ;&
quomodo bis in alimentum nonpondere reljxsndeant Hip- aflumptis excreta in quam
Quomodo, alimentumnon alat mfi dJutumAri* inlpirarcdicuntur abftinentes, necvtnfquerd6
llotcl1.t.miftumnutricationi. aptumac» Rhinuccmvcnto,&aere, autrorenonah. (.lorcnoftr0
.asl.oris, etfifummefr. igi.danon efle pofle genus ahmenti. Aquam non fieri .
putantis abilincntes ali nec humore vt confumptionem tingat exungui ad humoris
pociati : dequevmfu.lctaip.hdcyr. iccundc coctionis ex veneno fit, &
Ariftoteli ve- ineflecaliduro c.7J. redicatur in aqua paucaluemndo idoneum.etfi
ter- Aquam non efle nmoinft cuarmeat, alij fue excrementis, renis partibus ‘
HippocratTi'id.icatur potcntiori- Mulla quomodo folam potantes diutius vi-
qua,&L.curaquamabltincntcs fi uant,qu.momnino , aqua nona-
dicaturommumpotulcn Aqua Celfoqua rationenon alat cap-7d. torum imbrcilhma.li
Quarta opinio Bopaiinnincaiti caloris fumrnam imbc- potuifli aquaob cilhtatcm.
& oftcnditur neque Expenditur prupoiita opinio, allata lententia»
fubflantia cedit no- & Aquam moflratem Tolam non eiTe id,quo alantur.
Fuffragante Hippocrate^cAriflotelc.cap. iox. Lupi fame vrgente cur terram
comedani,fi ea non alumur.Serpentes etfi latentes non ali terra , & cu r
terram comedere dicantur.Bufones terra non vefci communi ,& argumento non
efle ad humanum alimentum demonflran- duin dKcaci. Animantia imbecillo calorepraedita
Columbicurtunbslateribus,&rubricavcTcantur, Aquam notlratcm non continere
milium , quod fi terra nonaluntur.cap.io4. futficiat fuftinendo calori exiguo,
Elephas Ariftoteb quomodo lapidem vorer,ac ter A(Ira,&cauda; regentesmundumquid,&~quo-
ram; devfuOpi)apud Afianos abdinentes commemoratos, neque abfolutcqui bus
exilis calor incft.aqua lola diu viuerc, ac nu- triri potTe.Rclpondciur
argumentis allatam opinionemco- niumcntibus;ac primum dilquimur an calor ex
aqua fpintum gignat, collibeat , animet. cap-7p. modoina quamagant.cap.8a.
Aquahacfentiliquomodononnullanutriri dixe- rit ARISTOTELE. An inter
plantarocunum aqua fola nutriatur, Cicadas excrementis non carere, nec
rhintaccm. Cicadas non ali rorc-cap. 8rf. Rorem non efle aquam Gcco aflcftam
,vt eo nu- triente aquam dicas nutrire.Etfi ros alerct,non tamen ideo alere
polTc aquam. Aquamfolamcalore digetlaranon degenerarein
quoddamtertium,quodiitaluncntumplanta- E» fcrro. St lapide vi calcris^c
fpiritus interni,nul Sitim^acfamemcl Teapetitumalimenti,vtobicdri, lumfuccuin alimentare
uicduc qnccrubiginiim quo fcnlu verum fit: non tamcu ideo aqua nu- alere..
tnet, quzinlitiexpetitur, Terra, &lapides vtmiftafintj quamnoshabeamus
Sapor, et suauitas vt Iitalimenti conditio,&aqua cumplantis fimilitudinem;&curvnitertiofi-
rum. t fapida, luaui Tjuc fit, etfi non
alat, cap.p 1 . Quomodo Anflotcli pituita dicatur altrc permi- tia cum cibo
puro, ablque eo quod aqua; vum tribuatalendi. Theophraflo quomodo plantae
alantur aqua pura, quxverenonalit.Aqua etfi Galeno dicatur bilelccre, cur
infangui- tur, non ideo cx cafblanutrietur. Quomodo Anflotcliaquadicatureilepotiusa-Sexta
opiniododiillimi Medici opinanti steiunan- Cameluscurbibiturusfontempedeturbet;
Struthiocamelusautem curtcrram, ofla,lapides, ferrum comedat; an ca digerat
fibi in alimcniu. Mures farios',& Armadillos, Codertofquc Indi- cos non
oflenderc abflincntibus noflris terram ceflblcinalimcntum Lacertum indicum no
ait arenulis, aut lapillis, etfi ijsonuflum ventriculum gerat. Noii omne mutum
humido pingui fcatcrc ; nec omne bumidum pingue alcrc.Homo terram edeus non
alitur luto facto ex terra, & Taliua/ cupituitain ventriculo exundante, 1 ncm,6d" in alimentum conucru
nequeat. c-P4- queumquid, miltum quamaqua,&Jim- , plex Quomodo inaqua gigni
polfint Arifloteli (lirpes, 6t animalia, cui tamenaqua non alu.Vrricam marinam
non ali aqua lola. Quinta opimo Clanfiimi viri putantis abtfinentes
commemoratos ab terra clanddlmc comcla. tesnoflrosaciboquidemomniabflinuifle;at
vmi potione vfosj vnde alimentum fibi compa- raucrint. Examinatur allata
fentenna oflendendo abflinen- tcs noflros non vlbs , nec enutritos funlcvmo;
folumque vinum alere no pofie partes corpons folidiores; nec fuificere ad
alimentum multo tempore. Expenditurallata fententia, oflcnditurqucprimu
Occurriturargumentisprobantibusabflinentcs abflinentcs noflros terra,&
calce non enutritos, cap 99- Terram, & calcem nulb viucnti, ac pnefertim
nui li homini alimento efle pofle.Allacc , profcillarquc opinionis
fundamentadiri- noflros folovino enutritos, oflcnditurquc pn- mum quomodo, fi
foio fanguine alimur,lolo vi- no ali non poflimus; quod tamen in fanguinem
verti poteflt licet non abiblute id pronuncian- dumiic.cap.no. milia inter lc
non iint neceflano fimilia. Vteademfitaniinabbus materia generationis, alimenti
; vtque mures Thebani e terra nalcan- tui.Hominis etymologia non conuinci nobis
ortum, itviciumcfola terraeflevalere,Cur fi homo a Deo cx terra fola condi uis
efle dica muntur, oflendendo primum ab flinentcsno- Vinum vt fitlinguisterras:
nonomnifanguine., flros non comedille terram, nec ea nutritos, li- cet appeuilc
illam, fuauitcrque comedille pona- tur.nos ah poffc: an vinum fit venenum
cicutz , vt fcrtur.De vmi,& ianguinis mutua proportione Alexan- Abflinentcs
non fuifle malo habitu, & cachexiam non efle abundantiam prauorum
fuccorummcc ncccflano femper fieri ab clu tcrr9.sc prxlercim uoftris
iciunantibus,fi qui fuenutcacheducv Vino folo fi carccratus vixit ad vigmn dies
. li fc- dri placitum explicatur, Vini, lafiis proportio explicaturi &
vtrum ladle lolo totam vitam viuerc p0flimus.nes maxime vtantur Platoni , &
graciles Gale tia ad alimentum. no; nontamenabrt. nentesalipotuifle. Quomodo ex
Galeno quisabfquenutrimentoper Alimentum maxime proprium an' folum ftifficut
alendo corpori; vinumque vt fit alimentum ta- le,quod omni viuenti competat,
brutis przfer- tuu,acplanus,Vlcimum alimentum vule quod fit; an ex vino fo- lo
liat; vtrum omnibus partibus alendis fuf- fic1at.cap.i2d. yinofedari famem non
poflc,fitim pofle; fame fi- inul ac fiti animal angi non pofle; famemque,ac
fitini ad varias partes attinere ;& quid proprie fit fames,ac ficis
explicatur, manens ob virium lecons
imbecillitatem diu fuificerepoflit. cap. Abfiincntes an crcuennt; deque
vnguium,ac pilo rumincrementom abftmentc Confolcnunca. Fetus in vtero vt fimul
non fiat animal, homo; quid ptoprie fit anteaquam humanam induat naturam; nos
non ali vt aluntur plantz; Arifio- telefquc a crimine liberatur,Crudiori fucco &
pituitae cur nullum a natura da- tum fit receptaculum, fcd cum fanguinclaba-
tur.Hippocrati vinum iedare famem vt medicamen- tum,nonvtalimentum; Galenoautemvinum
Olfauaopimo Cardanireferentisabflincntinm. folum nutrire inter alios liquores,
non corpus vmuerfum fufficientcr alere, Septima opinio decernens abflinentes
noftros ali pituita, St loccis crudioribus , qui vltcrion calo- ris aftionc'in
probum alimentum vertantur; quod Magni Alberti placitum recepere
plurimi.cap.isp. Examinatur allata rententia,oflenditurque prirau abilinentes
non fuiffc calore imbecillo, cui fudi nendo ad multum tempus fola pituita
fufficiat. Abflinentes nec pituita craffa.cruditatibufue abu dalfe.ncc
enutritos fuiffc. cap. iji. nofirorum ieiunium in copiam humoris mclan chohci
cx lentis, Si eradi, humoribus exoru. irap. Perpenditur Cardani fententia
demonfirado cauf lasdiuturaj abftinentia: redigendas non ede in aerem^ut in
reliquias ingluuici,aut in mclacho ham.Diluuntur Cardani rationes offendendo
cicadas non aluere; comparatum cx ingluuic non fuffi ccrc ad ieiunium multorum
meiifium,& anno- rum; caudas ifiasinabfiinentibus nofinsnon_. concurrere;
nec humorem melancholicum una cumalijsconditionibus propofitis huius abfti- nen
tia: causam eflc. o Satisfit argumentis communientibus Alberti fen- tcntiam, &
offenditur primovoracitatemnon Nona opinio Bonamicifiatuentisiciunantcsali
neceflimo pendere a frigiditate, nec effe caufsa colliquamentis internarum
partium, cap. ijr. cruditatum, nec habere locum in abifinenubus Perpenditur allata
fententiadcmonflrandoabiti- Ablfincntitim cutem noefle ita euaporationi clau
fiim, vt retrocedant femperdenuo vapores in a- • I11nentum.Vndc oriatur naulia,
mappetentia,6c. ciborum o- dium ,-an hfcomnia fuerint in abflinentibus; &
vtrum a pituita fedari pofTit appeti tus,& fiat femper inertia. Quo fcnfu
Hippocrati, &T Galeno pituitofi dican tur medum ferre prxter conluetum,
&abcs_» vtilitatem pcrcipcre.c Animalia voracia qu* fint Ariflotcli,6t_
quomo- do abundantia pituita minus cibum decoquat, cHippocrati fines cur
ieiunium tolerent,& quomo do frigidi fiaruantur.Auiccnnx vt cibi ncceffitas
fit ad infiaurationem deperditi; vt appetitus dcijciatur,& ocictur; vt
vrii,& latentia bieme alamur, Humorem,qui vomitu reddebatur abftinentibus,
nonfuiffcpartemeius, quoalebamur,Calorem non ncccflano icrnpcr abfumcrchumi-
dum, necnecellarionifi confumprum humniu alimentis rellaurctur, vitam
Citocxtinftam iri. Semina fiirpium extra terram non ali humore in-
ternopituita: corrcfpondente Pullulas pituitz copiam non indicall'e,qua nutrire
nentes noftros non potuiiTc abundare , nec enu- triri colliquamentis.
Explicantur argumenta confirmantia profcilTani opinionem, 5tprimodccc miturquomcdoexfc
mine dixerit Anllotclesfien languinein,offendendo etiam colliquamenta non
nccdlario ven tnculum petere.An obzli gracilibus fuperuiuantin abfiinentia; id
tamen haud fieri quia illi pinguedine liquata nu trantur. Calor na tiuus fime
non intendi offenditur, ficcita te non acui,ncque colliquanuus cfsc in famis,
In fuinma neccffitatc ali menti colliquamenta non confluere ad ftomachum,velur
adeommuno proraptuanum vmuerfi alimenti, c Quo fcnfu Arifioteh colliquamcntum
liat vt ali- mentum tnconcoifium,& an ventriculus fitlo- cus ahmenu
inconcufli. Quomodo Anftotch diuturna fame laborantes
colltquentur,&colliquamentafi adlocumci- bo deftiuatum influxerint, pro
cibo corpori ap-plicentur: & Plutarchi placitum expenditur, Qua ratione
Hippocrati ventriculus vacuus dicatur frui corpore colliquefcentc; ac
partibuscol- liquatishuinor adventriculumdefluat, fi non alimur
colliquamentis..turpuella Germanica, necabfiinensalia. Decima opinion putantiumabflinentesalimcflrui
Appetitus rtlc habeat ad indigentiam, & mdigen fanguims portione ab vtero
materno libi recondita. dita.cap.tdo. Examinatur allata fententia
dcmonftrando ieiu- nantibus alimento non efle menftruura beni- gnum ex vtcro
matris comportatum cap.itfi. Refpondetur argumentis allata; opinionis,demon
Arando fetum in vtcro non litue ; mcnftruum haud fatis ede nutriendis adultis;
nec fium pel- lere. da.. VarioIis,& morbillis origo an fit ex menllruo fan-
guine ab vtero comportato, &_ quomodo, cap.ifj. Vndacima opinio Brafauolz,
aliorumque pu an- num quod circunfcrtur de abfiincntia plurium menfium,V
annorum, fabulofum quid efieo, atque fiAitium. Dccimaquinu opinio exiftimantium
abftinente* noftros non clfe corpora viua,fed cadaucn Dae mombus
afliimpta.Cribratur addufta opinio, dcmonftrando pofie cor poraphyficc viuentia
diu viuere fine alimentis; & a Dxinombus aflumpta cibarijs vti valere
Refpondetur argumentis allatae opinionis, often- dendo quo fcnlii Ariftotcli
fien non poftit vt vi uatur fine alimento; vtrum alimentis vti pofiint viuentia
zquiuocc, fine anima vcgetali Dccimafexta opinio afferentium abftinentes no-
ftros ellc homines, at nonviuere vitam huma- nam, led Datmomam, quz cibis non
indigct,vt ait lamb!ichus.fumptionem pabuli. Expenditur allata opimo,
monftrando quorum- abfiincnti adiuturnaveraxfuerit, quorum Libratur ad dufta opinio,demonftandoDzmo-
mendax, & fabulofa dici potuerit: qualeuc fit alimentum.Soluuntur argumenta
profeiflse opinionis du- fla ex automate veterum, BC iuniorum. Calorem infitum non
refrigerarialimentisintrin- fecusalfumptis.Duodecima opinio Harueti, &
aliorum exiftiman tiumprxfatos homines fraudolenter abftinen- tumfimulafle Examinatur
allata opimo,demonftnndoqui dolo feieinnium fimulauermt ; & qui verea cibis
ab- ftinucrint ; pucllxquc Tufca- hifioria explica- tur. cap. idp. Diluuntur
argumenta virorum fublimium,often- dendo alimentum, refpirationem haud efie ad
vitam fimplicitcrnecellaria, licet eam con- ferucnt.Decimatcrtia opinio eiufdem
Harueti cum alijs dicentis huiufmodi ieiunium a fopranatura- li caufia prodire
, ac miraculofum edo nes non pofle in
rebus phyficis naturz limi- tesegredi; necomnibusabftinentibus, clan- deftinum
alimentum fubminiArailc Tolluntur argumenta fuperioris opinionis mon-
ftrandoquomodoex Iamblicho, Apuleio Damon poftit dfc caula eorum , qua; perti-
nent ad aftiones hominum admirabiles Quaratione Ariftoteli fiant fomnia futurorum-
prxnuncia, &t_attiones hominum referantur innaturam, cafum, <V m
fizmonium-Quo icnfu cx Ariftotelc alimentum ad animatum referatur, & fit
non fecundum accidens, led per fc: ac vtrum per fe includat ncccilitatem.
Dccunafcptima opinio Apponenfi,&poft eum- Rugcni Baccomj cauflam diuturnx
abftmen- tiz referentis in virtutes aftrorum , nuas vo- cant alij peculiares
influentias, a quibus pendet tum magnetis conuerfio ad polum, tum— maris xftus,
tum frigiditas in hxc infera, Expenditur allata opinio , monftrando quale nam
miraculo fitadfcnbendumieiunium, quale naturz vinbus.cap. 17,. Satisfit
rationibus allata; opinionis, declarando quid fit Hippocrati Diuinum m moribus
; ablh nentes non omnes pgrotare ; nec feptioue diei abftinennain effc letalem,
cap. 177. Decimaquarta opinio ex Diogene Laertio, ac De metno fiatuens
ieiunantes clam ali eonfueuifie cxlitus ab Angelis cibo aliquo pretiofifiimo. Perpenditur
adduflt opinio monftrando nonom nes commemoratos abftinentes enutritos effej
czlitus ope A ngelorum clam illis opumum alimentum fuggcrentium. Occurritur
allatis rationibus in oppofitum;& pri- mo explicatur vtrum nutrientis
aninuf quiesa fua operatione fit mors. Quomodo Ariftotcli alimentum 110
fumentia ani malia, &plantzcorrumpantur; Biquaratione
ignisparuusamagnocxtinguatur, finonadcon Ponderatur addufta fententia,
monftrando cauf- lam adeo longi iciunij referendam non efle in- v1rtutcsaftrorum.cap.187.
Diftoluuntur argumenta propoli tx fententix , aC primum Celn, BC Apponenfis au
toritate libra- ta, oftenditur non femper horum notitiam aes lis auipiciandam
efle. Influentias non cflecauflas iciumi.aliorumueeffe ftuum abditorum , ac
fpecianm conucrfiones magnetis ad po!um.Diuturnam abftincntiam , marifque
fluxum, ac refluxum non; communicare m ortu a mo- tu, lumine, aut influentijs
cxli ; led hunc ab exhalationibus de terra turgentibus ; il- lam ab alia caufa
pendere Frigiditatem in his fublunaribus pendere non-
abInfluentijs,fedacriorumimmobilitate,vt verumfitcx ARISTOTELE. Decima
Dcciitiiofliua opinio decernens longioris abfti- nentix caudam referendam ede m
ly mparhiam complexionis cum aere,6c. antipathiam cum_, cibis, cap. ipz.
ludicium promitur de hac opinione, offenditur- que hominis temperamentum eam
cum acre iympathiam non habere , vt fine alimentis illo fudineatur. cap ipj.
Dilfoluuntur argumenta, quibus probatur ieiu- nium pendere a fympathia cum
aere, & antipa- thia cum alimentis; odenditurque vi 1'ympa- t hix aerem non
pode in alimentum cedere, ve- nenum vero polle, c Decimanona opinio cxiltimantium
diuturnotem pore a cibis abdincre proprietatem cdcindiui- dualem.cap.ipy.
Penditur hxc opimo, aperiendo quid Physiologo sentiendum (it de proprietatibus
occultis tum fpccificis, tum quoque indiuidualibus appella- tis.cap. 1 pif.
Soluuntur rationes viri egregii, ac demonftratur autorem problematum non dfe A
phrodifxura; cur odor thuris , & rufarum alios male habeat, alios recreet;
alijsaluum loluat.ahjsaddrin- gat; &T Galeni, Thcopraftique dogma expli-
catur. Vigefima opimo Abulenfis, cui tam longa; abfii- ncntixoneocftex Ecdafi
quaieiunandum , anima quali ii corpore alienata canfucta munia non obeat.
Eiaminaturallata opinio, demondrando Ecffadm non cdccaudam immediatam longioris
ab ftincntix ; ac tandiu ici unantes haud omnes £c flafimpados fuille, cap.rpp.
leant: Porphyrio, & Galeno explicat» cap.iO<5.
Abdincndbusanaliquideffluatecorpore,&quid exire valeat. Vigcdmateriia
Opinio Citefij dicenris diuturne abdmenrix caulfam fuifle conffnftioncm, fiue
comnreffionem vifcerum nihil nutrimenti ad- mittentium. Examinaturo
iniopropolita, demondrandocoar ifiationcin vifcerum iciumj caufsam non ede,
atpotiusctfcftum; nullo quemodofamem, fi- ti mue tollere, fed augere, cap. jop.
Satisfit radonibus propoli tx fententix , aperiendo
quarationearftccinflipeflore,acventremi- nus comedere podit.cap.2 1 o.
Vigefimaq uarta opimo Ioannis Langij exidiman tis longum hoc iciunium a morbo
pendere , ni- mirum a tabe iecons, ac ventriculi ffupore, ac omninoabatrophia. Expenditur
allata fententia,odendendo caudam cur diu viuant aliqui fine cibo non ede
morbo- lamaffeftionem. cap.ir*. Occurritur allatis rationibus , declarando
difieren tiam iciunij fan£torum,& prophanorum: non_> femper ex morbo
intermitti funiiiones vitx: quxue operationis lilio morbum fequatur. cap.i tj.
Vigelimaquinta opinion Qucrcetanireferendsab- ilinenttx caudam in
petrificationcm partium . ventrisimi, &nutricatumaliarumexaere,ac odoribus.Expenditurallata
lentenda offendendo longum ieiunium haud ortum ede a pctnficatione par- tium
naturahum,& a nutricatu aliarum cx aere in vlkiabdinente. Soluuntur allatx
rationes hanc opinionem robo- rantes, de dilcriminc inter Ecdafim,ac fom-
num;VinterEcdafimgrauem,acleuema- gcntes.cap.aoo.
viralianonaerenutrita,necalijsvitamcommu- Vigcfimapriraa opinio Podhij
afferentis homines diu ab alrmemo abdincre , anima illorum pec cataphoram,&
intendorem fomnum vacante a proprijsofficijs. cap.ioi. Examinatur, & improbatur
opinio decernes ab- ftincntiam diuturnam abalto,&t_ profundiori fomno
prodirc. Refpondctur ad argumenta de (omni differen- dis, & de longum
tempus dormientibus, cap.ioj. Vigefimalecunda opinio Benedilti, Montui,&
Mercuriales dicendum caudam longi iciunij ede condri&ionem cutis,
pororumque occlu- fionem quidquain ecorpore diffluere non per- uri
ttentem.cap.2a4. Expenditur allata lententia demondrando vfum, ac necelficatem
alimentorum non ede abfolute indaurationcm deperditi, fcd m alium finem : nec ita
meatus omnes occludi pode,vt nihil ef- fluat ccorpore.cap.105. Soluuntur
Beucdifli, & Montui radones , oflen- dendo cur cxlum alimends non egear;
& quo- modo corpora , c quibus nihil effluat, ali va- nicade. Vigefimafcxta
opinio decernens abdinantes no- ftrosdiufinecibo,potuqueviuercviherbx, ac
medicamendcuiuldamfamem,fiumquepellen tu. Expenditur allata fentenda offendendo
abdinen-' tesnodros nullius hcrbx,autmcdicamenu vir- tute adeo longum
pruduxideiciumum. Occurntur argumentis allatam fentenuam corfir- manubus,
confiderando naturam herbarum,& pharmacorum fitmem dumque pellentium
Vigclimaicptima opinio ex Valeriola referens caudam aiuturnxabdinendxin puram
confue tudmcm.cap.ziO. Expenditur propofita fentenda , offendendo con- tuet
udinem non patere tam longam abffinen- tiatrccap.2 2 r. Satisfit rationibus
viri Clariffimi, offendendo qua rarionemedicamenta,&venenanonagantin_.
aduetos;&quomodofc habeat confuctudo ad cibum, & potum, cap.aaa.
Soluuntur argumenta Quercetani odendendo ab (linentis vilcera naturalia non
fuide petnficata; libri Capita centum Prifatio, inqua& difla dicendis
attexuntur, tam mitti Diftnbuitur viucnrium genus m fuas fpccies fupre
Ariftotcli mus.cap.r. minem Quomodo fe habeant ad alimenta propofira vi-
ucntiura fpecies vniucrfim. cap.z. Semen animalium St in vtero, extra vtrmm .
femper viuere fine alimento, cap.3. In animalium mortalium genere aurelias, 8r
nym phas appellatas nunquam vllo alimento vri: co. paraturque generatio infefli
ex verme cum ge- Ariflotele in tex- pofle Ariflo neratione hominis.cap.4. Semen
plantarum non tota fui vita, fed tamen fine alimento viuere.cap.y. Oua diu fine
alimento viuere, quamuis non diu peratione viuere ex definitionibus nflotcle promulgatis,
Deducitur hoc ipfum cx tngefimo De anima, . o- animae ab A- fexto fecundi vitam
fine alimento viuant. cap.tf Ligna,fcu ramos,&arboresextra humum totam diu
fine Adijcittir his definitio vira in Tamis exarata propofitam iniermiflionem
nis adftruens. naturalibus nutricatio- alimento viuere. cap.7. Stirpes terra
infixas diu, ac fpeciarim tota fine alimento viuere pofle. cap.8. Brutorum
imperfeftioris naturi plurimas hieme Ariftotclihocidemplacuiflcin Moralium,
primo Magnorum diu fine ali mento viuere pofle: ac fpeciarim icuinio,&ortu
brutorum viucnrium intra ioli- diflimos,imperuiofquc lapides copertorum.c. Aues
quampluresdiu abftmere incolumes, c.ro. Pifces diuturnam tolerareabftincnriam.
cap. Tcrrcftrium brutorum perferorum plurima tumumagere ieiunium. cap.r Homines
diu a cibo,potuque abftincrc pofle.c.r Quotuplex,quique caufla dc propofito
nobis in- quirenda fit.Quotuplex,quiquefitcommunisidea vniuerfa- , lilque forma
diuturni abfhncntra. y. E quibufnam fontibus hauriantur argumenta 40. caufla
efficiens urqs abftinentes non ali confirmantia, cap. Homines in diuturno
ieiunio nutriendi Quid.dr' quomodo radicalis humoris a calore na- ^nem
intermittere pofle ratione aninra. Nos diuabftinctes pofle a nutricatione toto
co tf- penitus prohibere peffit. ponstraiiuociari corporis habita rarione. De differentia
originis xt 8. citra vitfdifpendiuhabitaquoqjrationecaloris.c. jr. iqualitatum
mifli, deque Homines diu pofle nutriendi munere priuari ongtne radicalis
humoris. Differentia cflentu tnum squalitatum eflcntia natiui calonsfliumidique
dicalis explicatur. cap4y. 1 Pofle diuturnam nos agere vitam citra nutrica-
tumex ratione vira, fcu viuentis totius, quod ex anima & corpore mediante
calore conftitui. tur. Diu intermini pofle nutricationem abhomine ra- propofi-
tioneipfiusmct nutricationis. Diu pofle intermitti funrtionem alendi ratione
peramentorum, miflorumaqualium tcfcunt; a quibus feiungirur aequalitas humoris
primigeni;, Differentia promulgatarum ipecierum hu , , om- natiui mons
quicalorifubditusefledicitur nino ratione fpirituum. Confirmatur diu fine opera
nutneatus viuerepof- fe homines dc lententia principium autorum, ac pnmum
Hippocratis, Nutricatione diu intermitti ex decreto Ocian diu nos pofle 3
nutriendi munere penes durationcm. cap Qui fitiqualitas impediens confumptionem
Celfi.c.14, ad aures Galeni ex illuftn fentcnria m opere it lotis ait hu-
natiui, SC humidi radicalis reperiri pofle. . & humoris naturalia Quomo-
ffir.- caloris, ... I tvi dicendorum ratio , naturaque proponitur. Liber Tertius,
inquoexrei natura difquiruntur caufisephyficx tara longum ieiunium confti-
tuentes, efficientes, conferuantes, terminantes , ac diftinguetcs cum
generarim, tum fpeciarim. fpecies Hominem diutius nutricatione intermittere
pof- no- 1 6. funflio- diutunra huius abftinentii. ' Aequalitatem virium in
homine diu fcruari pofle. cap. de lc de mente Ariftotelis in y. problemate
prtmit 9. 1 j. diu- frOionis.aif.j6. Ariflotele fuppofuifle,ac potius exprefle
3. Laurentio nutricationem vira ncceflariam non fe.cap.3p. ef- Idipfum
confirmatur ex eodem Galeno Corrtcli/ fententiam approbante, propofi-
Confirmaturhomincmfine aflione alendi ftercpofle conii- diu de mete Galeni
excorni 1 feOionis. ' t.a'phor. Operationem virtutis nutririuse in atrophia ex
Auicemra fententia. cap. quoque pnuatum aflionc nutriendi viuere pofle intextuij.hb.i.dc
Confirmatur id ipfum ex eodem tu 14-e1ufdcmoperis. Nutricationem inviuente
intermitti ho- anima. teleautorein yltimo problemate dteimtt fOio- rir. Confirmatur
hominem pofleabfquenuiricndi dccreuif- fe viuentia funflionem alendi
poffeintcruutte- re,quod ena notauit Auerroes s.dcan. Marcello nutricationem in
viucntibus pofle. t. 5.C.37 intermica
Colligitur forma, 8 idea vniuerfaJit abftincnrra noftrum iciunantium. cap
Quptuplex,qu*qile fit vniuerialis riuo confumpeionem. Quotuplex efle pofllt
*qualitas in — mifto. cap.4?. tarum; ra Difcrimen trium earundem xqualitatum
ratione leuradicah. squalitas quantitatis diferera; vnde mnumcry fpecies 47.
moris radicalis a calore nanuo. Aequalitatem caloris quoad virtutis in homine
inter- te- inno- caloris Quomodo aequalitas virium caloris natiui,
<V tu- midi radicats fit cauda diuturni leiuiuj - Quibus pneferrim xqualitas
virium caloris, & hu- moris fit caudilciunij. Dcijs, qux perfedeftruu
ntaliam ieiunij caudam, proportionem fcdicct 'firium caloris & humo, ris.ac
fpcciatim de er.tnnkcus accidentibus
ptio.cap.yj. Proportionem hanc humidi radicalis ad calorem natiuum,in
qua lente humor a calore confutua- tur,in homine reperiri pofle.
Commcnfurationcm hanc humidi, & caloris in_, homine diu feruan pofle.
Proportio hzc natiui caloris humoris quomo- do Iit: caulla longioris abdinenti.
Quibus prxfertim Iit caulfaieium; liare proportio calons ad humorem, cap.57.
Quomodo fe habeant ad inuiccm propofit* du* humeris radicalis pofle datui
caudas iciumj eo- munes omnibus abdinentibus ab mirio enume- ratis. cap.
Manifcftaturcxhis caudis diuturnum hoc ieiu- nium prodcilci rei naturam
condderanti. cap.tfo. Confirmatur hoc ipfum argumento defumpto a lucernis ve
tudillimis, qux noftris temporibus in fcpulchris ardentes reperiu ntur.
Dexqualiratis propofit intervirescaloris,&hu- morisvaricratecffcnriali.cap.
<5i. Proportionis inter eadem vitf principia propofit* varietas edentulis.
cap.fij. dunt, in quo non podunt intcrmilTum alimenti vfum repetere. De caudis
communibus varietatis, feu differentia rumtemporis,(eudurationismonentislongum
ieiunium a fubiefto defumptis. Dccaudisvarietatis in durahone ieiunij abefB-
cienubus,&" confcruantibus abftinenuam de- promptis.De caudis
varietatis in duratione ieiunij defum- ptisj finientibus, acterminantibusabdinenttf.
Dc fontibus, vnde hauriantur caudae fpeciales va- De interna cauda per fe pnmo
proportionem vi- Dcaltera caudahuiusa Hmirabilisieiunij, quanon numcalons Achumoriseuertente.cap^y.
tollituromnmo, udintardaturhumidiconfum Decaudisper accidenseuertentibus eandemvi.
numcaloris, &humoris proportionemabftine. tis procreatricem. De forma, fiue
idea termini Uhus, in quem definit longum ieiumum. De his.qui coft ieiumum lani
remanent, atque ad interminum ciborum vlum necedano redunt. De his,qui ex longo
iciunio tandem moriuntur. De his,qui ex longo iciunio incidunt in sgritudi-
ncin.a qua conualefcere poliunt redeuntes ad caufli: in producendo iciunio.
Aequalitatem, & proportionem caloris natiui, & Dehis, quiex longiori abdinenriamorbuminci-
rix durationis abdinentue quoad fingulos gra- Quibus abftinenubusaprimogeneretumsqua-
dus. litatis, tum proportionis vinum caloris & hu- Diflribuuntur gndus
iciunorum penes durationis moris interni ieiumum ortum duxerit, varietatem
incerta capita. Decaudisabdinenti*intrafeptunaminclude,qui Quibus abdinentibus
longi ieiunij cauda fit e fe- cundo genere tuin squalitatis, tum proportio-
nis,qu* funteum valido calore. Quibus longs abdinenti caufla fuerit squalitas,
<St proportio vinum humoris, calons medio eris in tertio genere, De
difcriinme trium horum grnerum squalita- tis,ac proportionis virium caloris,
humoris in producendo 1c1un10. Decaudis terminantibus ieiumum generarim.
cap.dS. De caud a per fe tollere valente virium caloris,^ humoris squalitatem,
& odendituream non_. elfe calorcm.ncc humorem,nec animam, fed ex tnnfecus
0ccurlant1a. De caudis per accidens gcncratim euertentibus x- qualitatem virium
caloris, humoris interni cap.70. Explicantur ex ternx cauffr per accidens
xqualita tem propofium deltruentcs. Afferuntur caulis interne per accidens
euerten- tesxqualiutcm virium caloris, &' humon; qua rum vna offenditur
ellc anima. Enucleatur altera interna caulla per accidens hu- lu Imodi squali
tatem deilruens. efl primus gradus longi ieiunij,inter quas nume ratur fanguims
copia in venofo genere , quam-, protulit Bottonnus mfignis Medicus. De caudis
ieiunij ad nonam diem produfti.in qui bus locum habere videtur alienatio ammz a
vi- txmuneribus Ecdadsnuncupata,quamexeo* gitauit Abulenfis.De caulfis abdinenti
ad duodecim dies proroga- te quarum cenfu non rcmouetur caloris im- becillius a
IXxftiflimo Bonainico piopofita. De caudis abdinentix quindecim dicrum.quaru
vna perhibetur ede morbola coadituuo autore Brafauolo. Dccauilis ieiunij
viginri dierum, e quarum nume ro legitur pituitz copia cum Alagno Albcrto;
attexiturquepropomisnoua hidoru longioris abdinenti Canonici Leod1cnfis. De
caudis ieiunij trigrnu dierum, De caudis abdinenti* quadraginta dierum, quas
inter numeratur vim pouo; rluxque mirabiles hidorix longioris ieiunij
lupenonbus adijciun- tur ; & fupcrnaturahs, lanctorumque vnorum abftinentia
explicatur, vfum alimentorum, De caudis. De cauffis ieiuniiblmeflns, intcrquas reponimus
Aquamnonideocf Temiliumalendoaptum, quia meatuumcutis ad ftriaionemcum Bencditto,
tuitu non fentiatur iummefrigida, &gufluper & i Montuo. Cecaufli sic ium»trime
(Iris Aexplicaturquomo- doammali aquzdamlinenutneatuptnguclcat: Adijciturijuc
promulgatu noua longiffimi ieiu nij obicruatio. Decaufia leiunij fcauftns. De
caufTis abflinentiz, quz ad annum integrum- prorugatur. De caums abflinctise
vitra annum praten fac. frater cauflas phy Ii cardudum allatas, tres alias re
pennvalerediuturnihuiusiciuntj procreatri- ccs.cap.pp. Caufiarum propofitarum
ablbnentix comparatio ad inuicem. Oj. c i libri quarti Capita ccnlunt quinque
cipiatur varij liiporis. Aquispermilhnnnonedeacrem. Aqu terramnoncflepermillam,cuiterne
fapo- res mnnt. Aquam motu, ac ventis non incalefccreAcurmo ta dicatur
viua.cap. 1 p. Aqua hieme calida mtfli rationem no habct.c.io. Aquam non
congelalcere,cui nihil iniit caloris, et fi fngote congelatacalorediffluat. Quomodo
aqua frigidiffimaquum fit abexterno frigorevertaturinglaciem. Pratcr qualitates
aituales de genere accidentis meile cuique elemento habituales qualitates de
genere fubllantias, qux funt forma;,ac differen- tia: conflitutnccs.cap.i;.
Vrqualitatcs aftuofz, ac potiffimum frigiditasin Praelatio, in qua notatur
difficultatum explican- darumnatura, &agendorumordo. Platonis allcrtuindeelementorumfirapliatatcct
Liber Quartus, in quo enodantur difKcilia,quz ha /fenus explicatis obftare , ac
obi/ci polTc viden- tur. plicatur.Pilees in pifcims ex lapide eonflruitis no
ali aqua; & Ariilotehs locus explicatur de terra, St aqua, Decere
Philofophum de re aliqua ex profeflb tra- nantem tum omnes aliorum opiniones de
pro- politoexpendere, tumilluflnorestantum: vn- deinnote feuntferibentium fines,officia,crimi-
Pifcibusinvafisvitreis conferuatis, finonaqua-y na Aconemplationum varietates Dicere Phyfiologo
inter expendendas opiniones aliorum, nouasa femctiplb comminifciAvehit alienas
examinare ; exquo putet coguitionum varietas,irordo. Alimentum omne a
viucntibus neccfiario prodi- , re, nec ali ferro llruthiocamelum: quo czno a-
laturanimal,&planta, A mortuis vt nobis alimenta,jugumenta, & femi- na
fuppeditentur apud Hippocratem, exercita- tio cum acutiffimo Scahgero. Exper
inento haud probari aurum putabile pofle nutrire.cap.y.
Hominesfziiololoandiualivaleantvtiiumen- Eondcletiiratio denutricareexaere, &aquapen
ta.cap.d. Venena in alimentum nulla ratione poffe conce- dere. Vt homo Aomnino
animal fuauiter olere valeat fponte nareric.cap.8.
Vtfrigusnoningrediaturoperanaturz; acprzfcr diturad Anflotclis trutnnain. Qui
Nnodo mutatio fit fimplicis in milium, ac vi- cilfiinA' omnino inter oppolita ;
vnde tollitur Olimpiodouratio probans aquam alere, ca. ;8. Aqua fi non alit,
quomodo Annoteli vercdicatut alimentoefle, acproindeilliusmutatiomorbo-
timvtquxcunqueexputrioriunturacaloregi- ia.gnantur.cap.p. Quomodo aqua feruens
remoto calefaciente fc- metipftin tefngcretcap. 10. Abflinen tes a cibo,
potuque omni prius affligi, 8c mori fiti, quam farne. Vt aqua potabilis calore
putrciccre non poffit, at- que amman.cap.i2M Ex putri fbrmaliter animatum
procreari non pof- le. CyprimsA^alijspifciculis fponte natis non efle ortum^ utviftumexaqualbla.
Pilees feu frigida nutriri cur aquafo- Ja viucrc non dicendi, quomodo ex ea
ver- materia denfiori fitintcnfior. Aqua: calorem non olfendia
pclluciditate.c.15. ' Pifciumin
perforatis nauiculis quodnam fitalimf tum. quidinalimentumcedat. Oflrca,
mytulos holuturia non ali aqua^». cap.;o. Lepades,ac mugiles aqua fola non ali.
cap. Sardinas, fitaphyasaquanonali. Plantas marinas lola non ali aqua. cap.;;.
Si vinum,(anguis^ac,cetcnquc liquores nutriant, nonideoaquamalerc.cap.;4.
Anguillas non oriri, nec ali aqua pnth, fcd ca ali js decaulfisobleitari ARISTOTELE.
Aquatilia tum branchias habentia, tum fiflulam flr' fpeciatim tcflacca non ali
aqua ex Anllote- lc.cap. ;d. Niucm non e(Tc aquam mes oriantur, &
nutriantur, lcporefque Plinio. Aquam vino additam quomodo Ariflotcles dicat in
vinum mutari,^ vinum in aquam, qu* m- miflumperfcttigencns, atque adeo matimen-
tumconuertinequit. ) Lentem paluflrem non oriri, neque nutriri ex a- ' ; b
Quomodo putredo Iit propria miflipafficv&aquf conueniat.;. ' iui; Aquam
quomodo calor concoquat Hipoocntr, B ca coitione non vertitur in alimentum, cap-44-
quafola.Vtmx Vtnix efientiam non habeat terra participem ,ac
iptunuiam, exercitatio cura lubuhiiimo Scaligc ru.Qua ratione nix fecunditatem
afferat agris, fi ter- ra particeps, non cft Vtputredoablblutc Iit corruptio
propnj caloris. _ «P47- Cur muta imperferta vmentibus in alimentum ce dere non
valeant , fpeciatim cur aqua nufia cumalimentis nonalat. cap.«3. Vt alimentum
iimplicitcr huuudum efle opor- teat. CurIitioccurratmagi»vinumquamaqua.5 Vt
litis fit defideriuin alimenti. Vtfames quatenu selllenius indigentis, quem_
anunalcin, dicimus, fit affertto lolius oris ventri culi, non ctiain aliarum
partium. cap.fz.. Vt dolorfamem. aclitimprxcedat vcluti caulfa
nonfubicquaturquafieffertus. Cur pi iguedo.fit^adpes alere non pofiit Vt
medulla non Iit alimentum , fed excrementum 0fiium. Ieiuma per •iccidcns.Sr'
apparenter calefacere.ve- rc,ac per fe calorem non acucrc,licet p>er fe
fitim procreent Vt allinentis per fe non refrigeretur vlla ratione-, calor
nauuus.Anflotclis difficilis locus explicatur de refrigerio calor.s ab
alimento.Galeno nem alimentum non refrigerare calortm natiumn, nili per
accidens, fed per fcilluin au- gere. Vtalimentis augeatur caloris innati
gradus, feu qualitas;nonfolamateriacalida exercitatio ; cumdortilfimo Fcrnelio.
cap.do. Vt alimentis non pofiit caloris virtus mtfdi abfq; Vt verne melerei de
ventrtenld , inteftinis f» gant alimentum non expertato fine cortioms. Vt
folia, ttores, frurtus, & femina plantarum pars tes vere non fint, fed
excrementa potius, Vt cx co, ouod
oua,& femina citra nutricatum vi uant,colligere polfimus perferta quoque
anima lia vitam polle traducere ablquc alimentorum vfu. co quod fubicrta calori
materia augeatur. Vt anima nutriens artum habeat immediatum, &
Curnonfintfrequentioresnofiri abfiinentes, fed proprium, in quo edendo no v tat
ur organo cor» porco.cap.dx. Calorem natiuum in nobis,quin etiam ignis riam-
tnamapudnos,nonindigerencccllariohumo- ris,quo vcluti pabulo nutriatur, Cur
calor humorem in milio, & in viuentc prxfer- tim d:palcatur,& intentum
procuret, exercita- tio cum liibtililfiino Scaligcro. Vttn Ecllali ceffct anima
nutriens ab alcndimu- nei4.Vt Ecftafis non Iit priuatio munerum animi intcl
ligeutis, exercitatio cu virodortiliiino, ex Sca- ligero.cap.dd. Vehementi
fiupore^hjsque plurimis de caudis de 1.
Jertabanimopolleomnesnouones,&habitus,
cVtalimentivfusnonfitadrefiaurationemdeper- di ti,fcd ad auocandum calorem a
cita conlum- tione humons: exercitatio cum Magno Al- crto.cCur femen maris in
vtero femina: concipientis no alatur.Vt IcmcnnonIit parsanimati,inquoeff.Vt
ou»iubutntancaliat ammata.<5. raro admodum vilimtur. alimentorum indigentia
infit viuenti quatenus miftumcfi. Cura bliinentesobxqua Jiatemvirium caloris, &
humoris interni iuonantur,feu non femper to- tam vitam degant in ieiunio,fed
plerunque re- deant ad ciborum vfum. Vt agentia fecundum virtutem aequalia
inuicenL. agant.VtexGalenolubfiantiacorporis iVomninohu‘ , midum
[fubltantificum dilfipetur a calore nari- uo,non iolum ab adfcititio,cxerciatio
cum Cardano, rnojC Vt Ariftoteh calor
internus ablumat humidunu, fubfianttficum. Vt cx rei natura non colligatur a
calore natiuo no abfunuhumidumfubfiantificum, <Vprimo quia calor fit anima:
inftrumcntum.cap.pj. Vtcalor non ideo dicatur non confumerc humi- dum quia in
miftu elementa non fine in artu fe cundo,Vquahatibus rtfrartis,fubditil' que
for mx luenti compolitum Vt calormfitusnonideononconliimat partium,
lubfiantiam, quiafitearumtbrma. Vtcalo- Vt facultas alens pofiit a nutriendi
funrtione r1.cocia Cur materia corporis nofiri per alimentum femper non debeat
innouan, vt cenfet Albertus Inhis, quidiua nutriendi munereociantur ftra non
cfie ven triculu m,iecur,& alia membta nutricatui dicata, cap. Vt ratione
caloris animal tiinrtioaem alendi diu intermittere ualeat.V piper, pyrethrum,
finapi, thapfiaque fit homi- t ne cahd10r.Vt viuenti non repugnet nutricationem
intermit- tere, fiucvt animal pofiit abfque nutricatu vi- ucre qua viuens cfi.
Vt tini nutricationis formahter non obrteteius pcrauonis intermifiio. Vtin
atrophia faculas alens penitus ocictur c. o- i Vt cx Galeni fententia nutriendi
funrtio non ' homininccefiaria.1 Vtex Flotini lententia nutricatio iugis '
debeat in corpore viuenris.Vteffcrtui priuatiuo caufla politiua pofiit, afiign*
ri,noTqueid fecerimus in fupenonbus.Vt mors viucntibusconuenut fecundum natura
fcu quomodo interitus viuentibus fit naturalis.
fru- non efie-> Digil qt fit mK cuerti naturae lr| Calor,
definiendo^ non^UfrAr.cap.8*. o Vt calor iniitus igneo pro| iCrefpondcnscoi cum
femetipfo coUlgaturitluod vcgcticficak.re,&hieme tiamehushabeant. aa ,.:j)
mi Ha.t.gMUlCi fsklJlli l"v'i fcwnq..4,..V«m .t {}.{ioli>>* 1. :S
utrori''- » . 1 . 1 ) r tluf. tvi. 11 . 5 . un. l M-k 'V' t -'iiklia^. Ohtvn.i,*!*
i!,» lRttift j 1? ' m. .j.j.il r.cvt • -.• .1 r4 .1 a» c ii t.ojSjva
nm.iinhijjafc. Btiftt remtr.il buUma ttiu^ bi' iV. min vituentCe fiuniftionecs UDt inirn^»
marica Mntehumorem abfumert.dicatur. BnOoniidoaw» rf.u. bkrAt^natnitii<f«iiciuimn
abKfumnantr.rcanp ti noi Vtabmfito calore corpu* non deftru» ex co qwv mA , :
eadem eiuldem rei poffitefie caulia perl^^ac. Yt accidens. Eftpectrum cuiutcaulsas
qoi» noujt,cur noniem tione non refp6 deat, fit humiotim. Perisidemprocrearevaleatc
Calorem in natum radiolihumoriadeocon Perorauototius operu i flriM l‘Ut
'...ftUi -bvt..:; ana.y,ami»1m«i “thVt»Ws0'tV.s. t.\11.a.tm.*"'V;^0•.
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1 ? 9* i >v fp wuiMe''•{! a.l8-t. aavttt '»wj.iW'i'i :.!.wtvers qiR*t .
J.vrf>u » -.*-c tiVa humorem \ .s-u.-ue . K. ,i .1 • i/.XIA'*' 'VtrQ\i,'
"i'. l 9\a.1 .•' . . r’ .av.iii.pi iA.ivr1 .As.ftla,i) ,at ;.. yi
juajm.ih. i1riumdicaviipfuiacunfuaitre Yalcat.0^.1^AwimtarUiAnti«naV.v,?y..«ri*a:Trium
Cupidinum; Voluptuofum tyranni demin Animæ facultas,concupiscibilisvtin anima
vin Amotescur Alatifingantur. Cur Amores Nudifingantur. De Amoristergemini pulchritudine.Amor
curnoncæcus inSchemate fidus. sa, gercnsincacumine volucrem, & caueam De
fructuarborissapientiæ, nostroinSchema Inter.viros altafapientiaprestantes, efequi
nonvocedocerefintapts, fedtantum, Schema Gemme. Sapientium ,sciendi cupidos
edocere valentium, tresesseclasses.Coruicumviro fapientiæ scriptore detegitur
analogia. Schematis Amorumtrium explicatio Medica. Devolumine Mufices, invnguibus
Coruimy ab Alciato, consideracur. Schema Gemma. Explicatio viri eruditi de
Amore nocturnas Amoris origo mirabilis; a Platone polica,de Defrondibus Aoribus
hwnanæsapientiæ. claratur. Amor voluptuolus veergabellicum, & litera Amor fapiêtiæcúrnuduse
fictus. Decer gemina significatione ftellæ prælucen. Amor sapientiæ curalatus, &
quænam finteius cisin Schemate poni caput viripsallentis. Alæ. Quomodo
fapientiæsymbolumsitarboranno Amoris Emblemanoftroperfimile,propofitum voce
tantumodo docere valeant. Schema primç Gemma. De arboris in Schemate piata
coinparatione 16 busomnibus, modo fcriptis. geminos Amoresprobaspassomexercere,
çatirascibilem , & rationalem, Amor cur a veteribus Diuinitatc donatus ,
Explicatio Schematis ab incerto propolica consideratur. Yeiundas. Depriscis Anularium
Gemmarum Sche maribus cxplicandis. Amor sapientiæcur, præteralas,adhibearetiam
brachiamanusque geminas, quibusfuniculo riuin impcriolam tyrannidem exerceat.
Sapientiam apprehendi ab Animo Doctrinę Humanus animus crga sapientiam cur se
habeat sermone vocali discendi cupidos crudi. ente :primumque de biformis
inferoa parte fticicanentis,repræsentat (1.. Inter viros dostos inueniri, qui
non fcriptis Amor sapientiæ cureffictusingemma puellus Supremamonftriparshunana
declaratur. Vt Amor pusio,corporepusilo imocens, arq;moribusfimplex gallumreferente.
pientiacomparatur. ad arborem scientiæ boni & malı, dudum a De
fru&uarborisscientiæboni& mali, primæ uæ inParadiso. xxvi. cantilenas
ad amicam personante perpen duplicisecollarinaltum. Responsio de Veterum Gemmarumex-
Demagnoconatu,ingentiquelabore,quofa plicationcadcunda.Amoris differentiæ tres cxplicatæ.
Cur Amores ætate pueri fingantur a veteri sedulalectione, acintenta Aufcultatione.
Schema Gemme. ditur. Propria proponitur explicatiode viro fapien.
AmorfapientiæcuringemmafiAusefteffigie DeBarbito, seulyradigitishumanispulfara
pusionis,acinfantis. Deo in Paradiso creatam . cedelincatæ. Pror Proposito Schemati comparauraliud
Fabij Septentiam Viricl. hocsensusunprám, nocon cundiatoris, exterminatione
confiftere, SchemaV.Gemmę. uenire Schematis imaginibus, oftendirur. Propria
Schematis explicatio prior eft, de Amico veromọitain Amaci &
defunctime. De Armış offendentibus, Heroico
Amoribel licodatis in Schema re. De Cun&ationebellicaper Amoremftantem
Proponiturexpofitiopropriadeamorę Ca. indicata, tofis: cap.xlvi. postulan.
Amicumverum inaduerfitate dignofces, cile fót: vél Tetbydis, aut Veneris
Amores:vel Ægyptusludens ditur. Prima cxplicatio noftra moralis ,de formola
Peleum ,velVencris ad Anchisen delatione, formofitas, do oscaffo, Şecunda Schematis
explicatio, de Amico Pulchramulier ,permarevitavagarsadare De Amoris bel lici
clypeo hieroglyphicum, Cur Amor istebellicusPedes,non Equesef, Super incrementa
Nili. Amici de funéti memoria femper in corde confer. raptaproponitur, &adhistoricamfidemrc
digitur, Amoris bellici, ro , qui dignoscitur in aduersa fortuna, Schema Gemma,
exarmati,pendicur.indignacionem.cap.liv. Coniugalis Amor armis
offendentibusexpolia. Proprja sententiaproponitur,quæ’est,obocu losooni
Schemate noftro proprietares Amoris irascibilis, fiuemilitaris: primumquede
Schema .Gemme. Index Titulorum, De Amoris bellicivultufæuo, seuero, actan.
Explicatio Schematisacl.Viropropolita, de cumnontoruo,minaçique. De propria significatione
Galeæ incapito dicitiamMatriş-familias. Schema Gemm &. De Amore civili,qui
vocatur Amicitia,vta tri muliere,quæ nimium extra domum vagans ad arbitrium,vel
eft,vel euadit impudica , yanda;& Amantem non redamatum,indi- 143 Propria
explicatio Gemmæ proponitur, de gnabundum extinguerequam affectionem, Schema
Gemmx . Triconepulchram Nympham marinam yo, Aliena Viri cl.explicatio,de Amore
monftran lentematq; lubentemcomplecterte,perqs maria ferentc.redamato, syumAmorem
extinguente per Amorem Heroi cummilitiamagisin conferuatio Secundus eruditi viri
sensus explicatur, & ne Ducis, & Exercitusoportuneceleris, &
cunctantis, quaminhoftium expenditur, moriam eonseruante, Opinio, dicenshocese hieroglyphicum
Amo SecundaŞchematisexplicatio, deAmantenon ris concupiscibilis per visam negociofam
corporemilicisgeneratim. De Amoris belli ciceleritace, perAlaşindica-
CupidineindigneferenteSibifpiculanegari a Venere,proponitur et expenditur,
filius in Schemate noftræ Gemmulæ , IN SchemąGemma Smithi anaexplicatiode
Nereideper falum Amicus vs que ad Aram Amico illicila
busanteadeclaratis,Concupiscibili,Ra. Secunda explication fabulofa, vel Tethydisadrionali,
& irascibili contradistinguitur. Opinio ponons hoc esse symbolum Amorisvo-
Terrinexplicatiophysicade Ægyprolafciui luptuosi, expenditur, entesuperincrementaNilio
Rapina puellas dealiasrespulchrasexponit Propria declaratio prima de Amico
vsque ad Aras., cap.xlviii. Fur & pudica Maire- familias.
piugali,exarmatospiculisoffensjonisperpu bitrium, velimpudicaeft, velimpudicafa.
equo marinoveda, proponitur,& cxpene Sententia virieruditide puella vere a
Tritong tccun&ashumanasr esessevanas, proponi- Secunda cxplicatio,deTijroneraptāpuellam
tur, & explicatur primosensu noftratélubvndasasportāte, Tertia Capicum Operis.
Tertia moralis eft explicatio, depiratis,acpræ- Deoratione Mentalisubhieroglyphiconudæ
mortali. Propria Schematisexplicatio, declarans spe tem et faciem interga versa in,cumligneum scipionem.
cDe forma templi Delphici in Schemate. De consulentis Delphicum oraculum baculo,
Mundi Systema,partesquevniuerfuminte. grantes,explicantur. ASTV'S DEV DITVR
ASTV. In cogniti viri explicatio indicata ex senis datotibus, aliisquemaritimaclasserapienti-
mulierisgenuflexæ,sedentis,& vicumque busresalicnas. Sententia C l . viri,
de primo quadrigarum inuentore proponitur ac expenditur. Oraculorum Diuinorum propriumest,
homini, deEricthonioaPallade, ceu filiofpurio,& tanquam presentes. Schema
Gemma. De Papauere, simulachrosomni,aquoprima De rupe templo Delphico
subiect:. Propria fententia proponitur primumquecal
sumitexordia et inquodimidiumsuædura
giliapatratarum, perenneinin conftantiam. Proprialententiaproponitur,&
confirmatur, impuro proicão. bus euentus
futuros demonftrare Schema Gemme. Aliena declaratioproponitur,& explicatur.
ciarim arborem in lacus propeod ntem ,& hominis cõsulentisoraculumcumpailijpar
De Papilionc,lignificantebreuitatemhuma- næ vitæ.De Simulachro in templo
Delphico. De Canopo , Deo Aepytiorum, superante Iouis figura vesitaptum Terræ hieroglyphicũ.
OratioVocalisatque Mentalisvnacon pirantes Pallas nuda ve fignct ignis
Elementun . Deum flectunt,ob efficaciterexorant. Schema xiv, Gemma. De Mercurij
ligno, Elementum Aeris repræ de Detribus orandi modis antiquis: ftatario,ad
Beneficij, velabrutisaccepsi,Deumefegratum remuneratorem geniculato et sedentario. decoreftantis, ambabusmanibusDeocor
offerentis. Deque antiquo more tenendi Pallijmotus in terga declaratur.
ExplicationoftradeMundi Syftemate,parti tumAquæ.cap.xci. uariælymbolummedium
explicaturdevita Dc Rota,lignantehumanarumactionum,invi. Schema Genoma.
tionishabet humana vita. De Vrnasepulchrali, ad quam terminantur a&iones
omnes humanæ vitæ mortalis. Schema Gemme. Deum Chaldæorum Ignem, viâorem om.
nium aliorum Numinum Gentilitatis. buiqueintegrantibus, proponitur; primum que
Zodiaci declaratur imago, pro toto Cælo.D e oraçione Mentali vereres profanos
egisse. Facici mira versio in tergus explicata. Schema Gemma , corroboratur.
Voca- De Nepturo, repræsentantetotum Elemen D e viribus & proprietatibus
orationis lis, atque Mentalis, Deo
Accendo p orrigen . sentante, Poeta HEROV M FILII NOX £ . autoribus proponitur
& Humana vita eftmorsvndiquemiserysobfella. expenditur. De oratione Vocali,
fignata per mulieremic. miamittam, quædexteralacinian tenet,fini- Schema Gemma,
Explicatio Viri Cl.re&taproponitur,& latius ftraserpentem porrigit. Aras
ab orantibus. Poetabonus,ad Lgraincanerenescius: vel Propria Schemaris explicatio proponitur , de
canere nescio. Secunda Schematis explicatio
depromitur ex pium natura generica ,Proserpinæ Schema Schema Gemm &. ponendis
aprefacilequedislidijstumánimo rum dilceptantium, tum corporca violen:. Noftra explicatiode
Ducisexercituumeripli- Sacrilegus Brenus ad Altaresempli Delphici
ciproprietate. Tertia declaratio nultra de Amoris genitabilis fcibilis et
Rationalis, explicariSchemare. Produnturin Schemate.cap.c. mortem fibi metipfi
sponte conscisceredebuis, Auroranettens Atheraterris,prouchit oria diem .
Schema Gemma. Aurora diejnuncia,celeriterorbem terrarum circuit. cap.ciij.
tiabelligerantur, setranfuerberat. absolute,frustra laboráns. Hesiodo poeta
bono carmita sua ad lyram adagio veçusto
de viro fruftra laborante . PRINCIPATVS ANIMALIVM, Ducis exercituum proprietates:
Amorisgenitalisimperiosapotestas, G Amoris tres differentia, Elementa vitalia.
imperiosapotestate. vel Ampli il regna
benegubernantur, Explicatio viri Cl. de Principatu animalium . altronomo
Lunæ,liderumque seruante, cap.cij. phasesob- De Ajacesemetipsuminterficiente,gladiodu
dum ab He&ore sibi donato terramcum Plutoneraptoremanente,totie dem
supracerráapudmatremdegente,my. Num Sahemapossitintelligi.cap.cix dam
fra&tam supplente,affertur,& expen ditur, Schema Gemma. De Cererisfilia
Proserpina,sexmenses intra Amoris tresdifferentias,Irascibilis,Concupi Elementa
viuentium fcracia,& altricia, terna Anonymisententiade Decio proponitur et cxpenditur,obferuatoris hieroglyphicum. Schema
Gemme, numpoflicimago Schematis interprecari.Explicatio fabulosa , seu poetica viri
do &i de Schema xvij Gemme. De Mercurio Canicipite, Regnum Acgyptium
optimegubernante, Schema Gemench. De viribus Sapientiæ, ac Eloquentiæincom.
Ajaxfurens, ob Achillis armfaibi negata, Schema Gemma. De Catone Veicense, semetipfum
cõfodiente, Proponitur explicatio propria,de Brenno,
Proditoremnunquamplacereviroforti, etiam cui sot vtilis prodirio nesati hoftis,
Schema Gemm. Explicatiovirido &ideCicada,citharæchor Pulchra fæcunditas, a
terracalore rapta,fex menfeslaterintraterraviscera,totidem. que fupra terram in
aere degit, C. Sapientia, don Eloquentia litigantes,atque pugnantesanimos
apsefaciley, componit. Aftrorum Lunariummotuum et phasium Endymione a Diana ad amato.
Propria Schematis explicari o proponitur d e Gallorum Duce facrilego, qui
semetipsum confecerit ad Aram Apollinis in templo Index Titulorum ,
thologiacómunisexplicata.cap.civ.227 Propria explicatio de vegetabilium, feu
stir te, fabulisquerepræsentata,Sapientia, & fortitudine,fagaciqueprudentia
De Bruto, separiter pugione confodiente, Delphico Schema xxvi Gemme. De off Au Cæsarisaccipientiscaput
Pompeij Magni a proditore,qui virum interfecerat, Schema Gemma. Larma. fiueperfona
Dramaticum Poctamoftendit. Sue prijci sacrificabantvbigfingulisfere Dijs vitaprecellentibus,
ta vetusta . AftNo . Schema xxxiv, Gemma,
Schema Gemma. Virtute fortunamsuperari. Dc Qliadrigain Anulosignatorio PlinijSca
cundilunioris ,& Rana fignatoria Mecæna eis. cap.cxiv. tasmaximoperedecet.
Schema xxix.Gemme. cultatibusin columem. Martiales virimulierumraptor esprimi, par:
Centauricuerentis, & fagitcantis tergeminum novelfatuplenum, &excrinsecusoleolisi.
GenerofasindoleseducaridebereabHeroibus ujoueperundum. Lætarin eminemo porterefraude;quum&
ipse consimili capi valeat. cPropriæ fententiæ declaratio, devitæconcemAmpli Dominij
splendornonofuseatsideraviro Virumingenio,probitate,fortitudinequepolen?
thiuminbono Principe, Magnoque Mini, Stro,quem taciturnitas atque celeri.
sememergeredefawienrisfortunediffi Gerimis Anulorum insculpiconsucuisse vultus
gemina, fugax, dprocax, mysticerepre. Jenialacalefti Sagittario. Insignium virorum,
adillorummemoriam, cultum, & imitationem. De Hominisin Alinumtransformationeper
maleficā libidine abutentem myfteriumexplicatur,primumquedeScr
monishumanidifferentia,& velocitace. Veterumsaltatio Iudicrasupervtresplenos,
et extrinfecusvnitosexplicaia. Eodem Hieroglyphico denotari humanæ vitæ naturam
fugacem , geminaquc differentia De vererum ludicra (alcationesuper vtrem vi.
Schema Gemms. Personam non attribui PoetæLyrico,vel Epi- Chiron Centaurus, vtviruina&uofæfimul&
contemplatiuæ vitæperitumindicet adomnia:jeaprecipue Veneriadpuritatem coniugý;
dfæcunduarem prolisinNuprijs. Schema Gemma. Furum ex rapto viuentium antiquitus
condi Schema Genome , De SacrificioSuisapudantiquos. Fraudulenti pari fraudecapiuniør:
do Vitecontemplatricisverumacgenuinum hieroglyphicum. Schema Gemma.
Gandium& Mæror viciffomfibifuccedunt. Schema Gemme. Anonymi sententia perpendicur
de Psyche Pyralidisalasbabente, ansit Animesymbo fomquediffamati. Humani
Sermonis ; do bumana vite natura inactuosapariter& incontemplatrice Schema
Gemmt. Furacisrapacitatistypus,& inftrumen. Virorum infignium imagines Anulis
in fculpifo: litas,adeorum memoriam , culium , Mulierumraptoresprimos,&
paffim fuissevi ros bellicolos. imitationem. Libidinis atque Magia
prauapoteftasingens, Schema Gemma, virtutis, & vitijdistinctam ,maximeque
libi. dinosam. Cole delle proprium fymbolum Dramatici. aprum cducaregenerosa
indolisadolcicencs. cDe Marlya geminatæ tibiæinucntorc fabula menio
latjusexplicato. Schema Gemme. Schema Gemma. tionesexplicatæ. lum absolute.
platricisintimisattributis. Atuosa vita prima species Bigisinludorum Alia Panos
explicatio devniuerfo proponitur.Circensium Schemare currentibus
hieroglyphiceinterpretata. Aftuofa vita secunda species, Moralis&Actiua
lufta Zelotypamulieris indignatio, familjemaeft: nuncupata, Quadrigarum fpectaculomy.
ftice representata. Schema Gemme de Equo Troianoproposita,&expensa: Propria
Schematis explicatio primumque Darctis Phrygij deNaturalicu narratio.
piditatesciendi. Virorum Heroica virtute preftantium vultus
Potentiorumprædeopulenti:Tellurisoccupatio apud antiquos merorieac imitationis ergo
Dilly's Cretensis Ephemeridum inuentio communis receptio. veterum, Achillisi mago
qualis, & curin Schemace. vltionem , Bigarum cursus in stadio ve indicet
Artificum vitam effe&ricem. comprehendere fatagientis. Responsio LICETI denneac
formasuisymboli Schema Gemmik. Sophiftaperimitindocius, adoctisinterficitur in
literario mundo. Quadrigarum cursu signariviram Adiuam,
Naturaliscupidosciendiqu.erielatentesrerum præcipueque Milicarem. que Aduerfus hoftesinbelloiusto,dolis
Schema Gemma , expenduntur. cap.cxli. paratur,ac de singulis tribus censura pro
mulgatur. cap.cxxxiij. interitus , Schema xlvij. Gemma. pafjem effigiatos.
haberi. a fortioribus: Agraria Legis occafio, do ego Amicitia cogens ad iustam
PerfeisimulacrocurfignaueritAlexander, cur vsiveteresin Numis.
Multiplexænigmatis explicatio: & primade potentioribus diripientibus
aliorum opes. De Anulis, quos adsignandum habebat Magnus Alexander. Secunda
Schematis explicatio nostra est,de robustioribus,terræ dominium ,acpofsef
PanosHieroglyphica,deSermone,deque Vniuerfo declarata. Tertia explicatio politica
noftra Schematis, de terræ distributionem ilitibusvi&toribus, per Schema
Gemma Platonica Panos explicatio, de conditionibus, Legem Agrariam ,affertur.
QuartaSchematisexplicationoftraeftphysi. Auctarium. Schema Gemima. ca, de typo
Agriculturæ. Hostium donfau fpecta fempereffedebere.nam. Poetarum &
historicorum communisopinio, Veriores fententiæ deSphinge proponuntur
exalijs,cap.cxlij. Tertiafententia PLINIO, Pausaniæque de Troia- Equo proponitur,
& allatisanteacom Arcana Numinis, & edifta Principumnonime telligentem,
acnonobferuantemmanet Schemaxlij.Gemme.' vis: Agriculturetypus: Ægyptus: Schema
xlvii. Gemma, et PROPIA NATURA SERMONIS HUMANI proponitur.
QuintanoftriSchematis explicacio, de regione fionem fibi occupantibus.
licerarij. inuentis ingenia macerat. Schema x! Gemme . aqueacviribusvtendum .
Aliorum opiniones de Sphingereferuntur,& Propria Schematis explicatio
proponitur de Troiano Equo secundum senfa poetarum Principum,& nonintelligentesoracula.
Index Titulorum, De Schemate noftri Mercurij Pana fugientem caufas, quibus
inuentiscellat, non Sphinxcurinterimatnon obseruantesedi & a Ægypti. Postres
i Poftreina Schematis explicatioest, de Amici- . Crucifixi Predicatores, Pifcatoreshominum:
ciæ , ad vindictam injuriarum cxcrcitum. co. Chiorumantiquain Homerum obseruanti
apu Explicatio prima Smethiæ Gemmæ de Crucie c Explicatio primæ Gemmæ Rhodianæ,
rife, Propria Schematis explicario de Mula Thalia rentis obseruatores cæleftium
luminumn proponitur et comprobatur. Curanti quis acerdotes offerrentali quando la
Secunda explicatio Gemmæ, dehomineforcu crificia Numinisedentes, licibello
Cælaris Augusti nata ,Belisarja. Afferturgenuina declaratio Numi Comitis11 Comica lafcime gaudet fermone Thalia: vel
Sccunda noftra Schematis affertur explicatio dia gentium comparari. Salute
patratum natomarehumanævitænauigante ventose chariftie Sacramento.Schema Gemme.
ad veritatis imaginem. Felicishominis,feu formuaritypus, Nawigans cum ventis in
V'tre conclufis. culo. gentis, hieroglyphico, c UniuersalisIudicijtypus:
Mirabileconuiuium in Deserto; Viros fapientes publicismonumentisefe colendos
Schema. Numifmatis, Schemą liv, Gemm. De Smithiana gemma.cap.clxii, Animo pacato
facrificandum et fupplicandum, Fructuum atque frugum vbertatem concors Schema
Gemma. Concordia, & fidedata, feruataquçmirificam Miles atrocibella fuper ftes
in ærum nofam incidit inopiam fæpiffime duobus piscibus mirifice, Quarta
explication Gemmæ, de Sacrofan&oEu Schema Gemma.
cundoadarbitrium,fincracionis guberna blica.cli, Comparantur Numismati
de-Lazara duo ali Numiab Augustino propositi. rá curba in deserto quinque
panibus et explication viri eruditi de Venere, loco, et Cupidi neproponitur,
cap.clv. Schema Gemma, De Amore fơecundante criainferaelementa. apud homines
promoucri bonorum ome niumybercarem, Schemalvý, Gemma Belisarij et Horatij
[ORAZIO] poetæ paupertas, exinfc Fortiondinis audar facinus, pro patrie næ
calamitatisfere çoinpar exprimitur. Digreffiode Cicuræ medicamentis, &veneno.
Mutij Sczuolæ Romani grande facinus et inli- Responsio deCicutæviribus: &
pri mum , cus non habeat vim ex purgandi cor et eucharistia symbolum. Fixi prædicatoribus
hominum piscatoribus. Schema lv. Gemmila luftriss, loannisde Lazara, De
sepulchrorum differentiis et Homericu. Secunda explicatio Gemmæ , finale
iudiciuin mulo, cap,cliii. Poeta Comici, Lyrici uelafciuiori sactus, Gemma celestium
obferuationivacandum animo curis vacuo, quies centeque corporeprorsus
Expendunturalları Schematis imagines,& sensaViricl.cap.clvi, Aftronomio blernaca,
et Aftrologiludicia, vc exarretieridebcant.cap.clxvii. myftice referentis.Tertia
explication Gemmæ, desaturatainnume de Poerafcu Comico, feulyricolafciua
fupidoMaria,Terras doAeremfæcundans: carmina pangente , cap.clviii, gnis erga
Patriam Pictas atquc fortitudo detegiturinGemma cap.clxi. pora çiçuræplanta : deque duplici genere
Cicutarum, Sale. beat molliendi. etiamproba, plerumque multum nocet fibi , dum
viro coniugi, Cupido au olans a Psyche fibi non morigera ,
Amaritudomunuscælitus datumhumanænaty. Ra ad procreandas multasbonasactiones.
Schema lix. Gemma. Quatuor Nouissimorum explicatio in gemma de mortis memoria,
per anulum schematis De secundonouiffimo, quodeftludicium Dei poftobitum hominum,
perperdentis corum post ludicium luendis a vita de f u n & is per perenni
poft obitum , aut purgationem in cælis possidenda, per Stellam, lunam et cicadam
hieroglyphice signata. Per oratio totius Operis,Caputvlcim n quo agitur
de Monftris generatim. CJ^ Onflri varia ftgnijicatio 5 (02 propria efi, ac
noflri inflituti^. deteoitHr, Monjlri etymologia vulgaris, quaft res eventnras
monjiret^confiitatidr; vem (^ propria proponttur» DeMonjlroriim Hnmanorum reali
existentia, Realts extftentta Monjlrornm irrationalium natH- ram non
eoredientium patefit, OBenditur in fiirpibus etiam revera MonBra contingere, De
Mon''hor Hmcauffis generatim ijtiot ^qu^ecjue fint, Monflrorum caujfa Hnalis
generatim (jtiQtupLex^qucec^He fit. DeMonflrorumcattffaformaligeneratim, quotuplex
quaquefit, De Moniirorum caufiaejfetiricegeneratim,quotaplex, qu&quefit» De
MonflrorHm caiifia effeflricegeneratimtquotuple Xiqucequefit, Propria
Alonfiriffeneratim accepti definitio investigator. Inventa Monfiri
definitioexplicatur.CMonfridivifioin fuas fpeciesfupremasmtiltiplexaffertur, fedaptior
eltgitur In quo fpeciatim agitur de Monftris
tjumanis.Attexensdi6iisdicenda^&dkendorumordinempromulgans.ORige^^ canjfd Mon^f
OYPimh manorumcomm Hmsqti<e^ "wplexejfe valeat. Monftrorum in humana
f^ecie mutilorum realis exiftentia ex Uiflo- ricis elicitur, Origo , (^ prima
caujfa monBri uniformis mutili educitur ex propria materits defe^u. Secunda
caujjfa^ C=f orfgo MonHri mutili oHenditurejfe ex dehilitate, ac defe^uvirtutis
formatricis, Tertiacaufa,(^origoMonBrimutilijlatuiturinangufiiauteri, acloci
f(stum continentis, uarta mutili Monjlricaujfa^(^origoadmateriaineptitudinem redigitUY.
Q^inta Mon(iri mutiLicaujja^ (£ origo eft ex parente itidem trunco. Sexta causa
3 origo Monflri mutili admorhumfoetus attinere dicitur, Monflra muttlaex imaginationis
parentumviexoririnonpojfc Monjiri uniformis excedentis redis exifientia ex
hiHoricis item compro- batur, (tajia, Monjiriexcedentisnatura, G?caujfa. prima
elicitor ex parentum phan- Secunda causa, (^ origo Monjlri excedentis in
materics nimio excejfu ejje perhibetur. Non omnia A^fonjlra excedentia ex materi^srednndantia
ex oririiJed aliquaexcedeniiumfuicaajfamtertio locoin una materiae penuria obtinere.
^jiarta canfa, (^ oriuo Monjlri excedentis infk perfcetattone collocatur,
.^inta caujja , ^ origo Monjlri excedentis rejolvitur in iteratam ejfu^ Jionem
maternifeminis in uterum citrafispeYfQ^tattonem. Sextacauffa, £? origo Monjtri
excedemis pertinet ad anguHiam uteri„ Septima caujfi , c^ origo Adonftri
excedentis ex parentibus monjirofts elicitur. OUava origo , ^ caujfa Monftri
excedentis in vitio nutricationis confiftcre perhibetur„ Nona ratto , (^ canfja
Monftri excedentis monftratnr in animipajfio* nibus parentes aJJicientibHS :
ex^rciiatio cum Cavdano , (^ Parxo. , Decima causa origo MonjiriexcedentisinviolentafKaternicorpo^
ns concnljione reponimr, .U/idecimacmjpi, ^origo Mon^riexcedentisrefertnradmorhnm
foetus, Monjlrorum ancipitis natur^efHbfillentia realis demonflratnr, Jldonftrianctpitisorigo, C^ causa. Communis injtntiaturj
ermturque prima. ex ?nateriet diverfce dcfe^H, ac excejja. Secmda Alondrfancipitisorigo,
caujjaextiteriangufiia, (de" feSiu virtuttsformatricis explicatur Tertia
Monjtnancipitis origo, cau^ainmorhofmtm, ^ffiperfce' tatiom deteqitur^ ^iarta
Mon^ri ancipitis origo, caujsa refertur in materi<e ineptitudinem, iteratammaterntjeminis,
(fanguinisejjluxtoftemaduterum, citra fiper fostationsm, intaMonjlriancipitisorigo,
causa de promitur ex parentum corpore Monjlrojb. Sexta Monjlriancipitisorigoy
Ccaujfaexvehemenii parentum imaginationei vitio nutricationis in faetu enucleator
Mofiflri ancipitis origo , Cscaujja feptima reponitur in arte, peccata
JSfatura^ imitante, ac nonfine ai^ilio Naturiz operante. Mon^ridijformisexi Bentiaexhi
Horicispromalgatur. De Monjlri dijformis natura, caujfis ; primaque illius
origo refoU vitur in malam uteri conformationem Secunda Monjlridijformisorigo, &caujfaJpe5lat
ad malumjitum placenta nuncupatas : cujus ufns explicatur,
TertiadijformisMonfhicaujfa, (^origoexmoladepromitur. arta Monjiridiffhrmisorigo,
(^canjfaofienditurexmotu, ^^inta Monjlri
dijformis origOj (^ caujfa flatuitur imhecillitas fa- cuttatis difcretricis,
yi. S.exta origo, (^ caujfa Monjiri dijformis ad nimiam materiie vifet- ditatem
rediaitur, f^lI. Monflrainformia, dehitammemhrorum figuram non retinentia
reipfa inveniri. Cde Ad onflrovuminformiumorigine,&caujfa; qu^primlmde»
ducitur ex imbecillitatefacultatis formatricis. Secunda Monfirtinformisorigo,
(^caujfj,exanguliiautericolli" gitur.
Tertia informium monfirorum caujfa , (^ origo in motu inordinato
repO" nltur„. arta informis Monflri origoi^ caufpi
d(?prmiturifi mola^ (^ fLicema , tumore utm^concuTYmie virtHtisform^trkn
imhcilliime , acmatem tertceweptimdifie,inta informis Monflri orlgo j ($'
C(^0jj4 ex imMgimtio^e parmtum vehementiexi^ltcatHr» Cap, Sexiatn formis Monftricauffa^
origo innsonflrofo parentedete* gttMY, Septimainformis Monjlriorig QcaajfnrefertmadmenflrmYHm
fliixum tempore conceptus, Monjirienormisexi Hentiapatefit, Monjlra enormia^
& omnino monfira mn ejfe infantcs candidos e fareKtibus JEihioipibws ortos
necviciffm iEthiopum moremgros e cmdidis: (^decolore Aadromeds. Monflri enormis origo, caujfa prima ejje in
imaginatione paren» tHmperhibetur: ^miiltadeaureocri^re Pythagorse
confiderantHr, Secunda Monfirienormisaureofemorecaujfa, origo reponitur tn exhalationeigneadecorporeviveniis
efliMente, Tertia Monfirie normisameofemore caufia, ^origorefblvitHYin morbum
regium,^ana Monfiri enormiter pilofi caujfa i (origo ex craffitiei (^ fuligi*
num copia extruditptr ; ubiplura de cordepilofo Ariftomenis, inta Manflri enormiterpilofi
origo, causa ex parentepariterpih» Jo petenda eft. Sexta Monflri enormiter Upi defcentis
origo et causa ex intempefiei tic materiae ineptttudine dedudtur Mon^rimuiltt formtsineademfpeciefnbf
Mentiapatefit; ubidecapi-'le ytrtli ^ mulieris corpori ajfixo de Hermapbrodttts
mira quadam explaviantur. Monfirimultiformisineadem fpecie^muUerisnempeviritecaputha-
benits origo , ej" cauffa prima ex hetero^e»ea feminis natura educitur j ^
defemi» nis' Vulgo tnwiafculosmutatts; Qfdemn fculisefieminatis, Secund.canfia
ejufdem moftlhi multiformis ^ (^ ori<To excutitur ex de jtdu fminis
m^fcpilei Tenia Monjiri multiformis in eadsmfpecie origo (£ cauJfarefertHf i,id
pdrentumimairin Mionem..^t^ariuorigo, (^cauffaMonfirimuliiformisin eademfpecieadpa
rent^s conjimilem natnram attinef, monfira mnltiformia ^diverfas animulium species
in ecdem genere proxmoreferemta fnonefie figmsnta ^jed in rernmnatura reperiri J^donjlYt
midti formis diverfas animali Hmfpecies in eodem geneYepYO^ ximo referentiSy
canjfa c origo frima depromitur ex apparentia. Secunda causa, G? origo
Jkfanflri , mtiltiplicis fpeciei animalia referen' tts , ex imbecillitate
generantis pendere demon(lrattir, Tertia
canjfa, Cs* origo Adonflri multiformi animalium fpecie elicitur ex deirenerata
fsminis anima in nattiram alienam.arta Aionflri mnltiformis varias animaliam species
referentis origo cmffa ermtm ex materialifostus principio, jtinta Monflri
lotimani hrntalem effigiem habentis orioo scattjfa ex virtnt is alentis vitio
elicitptr, Ssxta hominis monflroseferinaspartes habentisoritroj caujfain
altmentaris materiis vitio reperitar, Septimacanjfa,(^origo Monflrihitmaniferinam
effigiem habentisex morboelicitur. O^avacauffa, origo Monflrihnmaniybrtitorumejfl
gieminmem' bris habentiSfjx imaginatione parentum defttmitHr Nona caufja ,
corigo Alonflri varias animalitim effigies habentis agnofcitnr ex parentzbfis
monflrofs, Decima causa origo Monflri
partes habentisbrtitorum membra (hnmana referentes, explicatur exfeminum
miHione, ac nefaria venere. Dttbitafiones propofltam theoriam. urgentes
diluuntur (prima edn a ex ARISTOTELE , alicubi n^gante monjlrtim fieri ex
animalibus diverfs fpeciei. AlteradubitatiQ Maniliana, G Lucretiana diluitur, negans
qtiiA ejfenobiscommunecumferis, plantis ad invicem {nam Caftronianam ver^
bistemer efttffttltam, non autemrationibusinnixam, latedif cujfimusinopett de Feriis
Aitricis Anim3?, difputat. Tertia dubitatio viri eximii negantis ex variis fpeciebus
poffe ejuid uni tantum parenti congeneum nafci. Exercitatio cum acutiffimo
Delrio. Di in le magis explicatur origo humani monflri ex fera
nafcentis,Vndecima causa et origo Monfiri y varics speciei anirmliumi partes
habentis, ex cacodamonis opera elicitur, Monflra muhiformia fuijfe conflruUa ex
partibus referentibus animantia diverfl qeneris, Monflrihttmani membravHiorumanimalium
habentis origo caujfa prima in apparentiam refertur. Secunda Monfira diverp generis origo S cauffa
ex imbeciUitatsj vtrtutis generamis colligitur. Tertia Monflridmffigemi origo,
emffain Milifate fcrma- tricis repomtnr artacmujfa c origo Monflrimnln gemie cimbecillitatcviv
tmisfeparatricis dedHcttm. inta causa,
erigo Monflri multigenei referturad femims degeneranoncm. Sexta caujfa
Monflri poligenii materice ineptitudo ejfe offenditur. Septima causa origo Monflri
multigeneidejumitur ex debilitate virtmis alentisfoetum, Octava causa origo Monflri diverft genii ex
inepto partium alimento educitur, Nona
cauffa , origo Monflri multigenii ex morbofostus adducitur, Decima caujfa, G?
origo Monflri multtgenii ex parentum imagi' natione hauritur. Vndecima cauflaj
Gf origo Monflri diverft generis adparentes mon Yofosrefertur, Duodecima
causa y origo Monflripoligenii habetur infemitium permifiione, Decima tertia
causa originis Medufaei tapitis in ovogallin s...Decima quarta caujfa origo Monjirimultigeniiadvim
mali Diemonis refertur,
Monftricacodamonis origo explicatur ex causis prius adducis. Vewv&tio totius operis. Licetus. Fortunio
Liceti. Liceti. Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Liceti”
– The Swimming-Pool Library
Grice e Licone: la diaspora di Crotone -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo
italiano. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.
Grice e Licoforonte: la scuola siciliana –
Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Leonzio).
Filosofo italiano. A pupil of GORGIA (si veda) di Leonzio. Primarily a sophist,
he takes positions on philosophical matters. For example, he declares that
being from a noble family is worthless in itself, as its value depends solely
on the esteem in which the family is held. Licofronte. Licofronte.
Grice e
Liguori: l’implicatura conversazionale -- implicatura critica – filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Grice: “Personally, my favourite of
Liguori’s metaphors is ‘the abyss of reason,’ since Speranza has elaborated on
this: it’s Gide’s ‘mise-en-abyme’ no less, which breaks my principle of
‘conversational perspicuity’ – a mise-en-abyme text is just untextable!” -- Grice:
“Liguori has studied the metamorphosis
of language in one of his philosophical noble ancestors!” “I like Liguori: he
has the gift of the gab for metaphor: ‘i baratri della ragione,” “la fucina del
filosofo,” “l’alambicco dell’anima,” “la condizione del senso” ‘il razionale
dello irrazionale” o “le ragione dell’irrazionale” “le ambiguita della
ragione,” “Trasimaco ha ragione” “Giustizia e carita” Ritratto. Frequenta il
liceo classico dell’Istituto Massimo di Roma. Studia alla Sapienza. “Scherzi
della memoria.” Si laurea con la tesi “La scesi giuridica.” Insegna a Lecce ed
Ostuni. Si dedica alla storia della filosofia. Insegna a Bari, Urbino, Ferrara,
Trento, Salento, Torino, Firenze, Lecce, Cassino, Napoli, e Noceto. Con “E il
vero baratro della ragione umana” – cf. H. P. Grice, “Mise-en-abyme
conversazionale” -- viene riconosciuto
come uno studioso di Kant, Graf, LEOPARDI (si veda), e Cartesio. Tratta Positivismo di Sergi, Lombroso, Morselli e Vignoli; della scesi di RENSI
(si veda) ponendolo in critica relazione tra LEOPARDI (si veda) e PIRANDELLO
(si veda). Scrive di de' Liguori e di Benedictis, detto l'Aletino. Collabora con
l'Istituto Italiano per gli Studi filosofici di Napoli. Tenne rapporti epistolari
con GARIN, BOBBIO, Augias, Binni, Donini, Ferrarotti e Timpanaro. Fonda ad
Ostuni il Circolo Culturale “Sic et Non”, cui aderiscono e collaborano
note personalità della politica e della cultura quali Donini, Fiore, Radice, matematico e fondatore e direttore di
“Riforma della scuola” e docenti delle Bari, Roma e Lecce. “Sic et Non” si
impegna in complesse battaglie civili come quella per un dialogo tra marxisti e
cattolici, ed altre incombenti questioni sociali come la campagna per il
divorzio. Stringe intese, oltre che con moti uomini politici e studiosi di
chiara fama, con il gruppo dei cattolici del Gallo di Genova e coi fiorentini
seguaci di Giorgio La Pira, i quali si riunivano intorno alla rivista “Testimonianze”
diretta da Balducci e Zolo, nonché con i ragazzi della Scuola di Barbiana,
diretta da Don Lorenzo Milani. Manifesto editoriale del "Sic et Non"
è la rivista Presenza, da lui diretta, che testimonia questa attività politica
allora pionieristica per una piccola provincia del Sud Italia. I sette numeri
pubblicati della rivista Presenza, e altra documentazione di tale impegno
politico, sono attualmente depositati presso la Biblioteca di Ostuni intitolata
a Trinchera e comunque ampiamente documentati nell'unico saggio autobiografico
dello stesso autore. Critica e commenti sull'opera di L. Carteggio con
illustri studiosi Bobbio: Il saggio mi pare di grande interesse, per l’ampiezza
e la serietà della ricerca su un tema, se non sbaglio, mai scandagliato a
fondo, eppure importante nell'ambito più vasto della storia della filosofia
positiva, della critica letteraria e della cultura torinese (argomento a me
particolarmente caro). Sono convinto che si tratta di un lavoro di prim'ordine,
che rende giustizia a uno studioso e a uno scrittore (e poeta) che è stato sì,
ricordato più volte dai suoi discepoli, ma è stato poi dimenticato dagli
storici. Credo che questo libro sia un effettivo contributo alla migliore di
quel periodo della nostra storia che la cultura idealistica aveva disdegnato:
un contributo di cui soprattutto noi piemontesi dobbiamo essere grati».
Sebastiano Timpanaro: «Mi sembra, e non lo dico per adulazione, ma con piena
sincerità, un'opera di livello davvero eccezionalmente alto, per la
caratterizzazione del protagonista e di tutto il suo ambiente, per tutto ciò
che finora ignoto essa porta alla luce. E’ venuto fuori cosi un lavoro che
molto di rado accade di leggere». Donini: “Mi pare, ad un primo esame,
fondamentale per la conoscenza del periodo ancora poco conosciuto. Apprezzo
moltissimo tale metodo di indagine e la serietà della documentazione. Uno
studio di questo genere è certamente costato decenni di intensa documentazione.
Oldrini: ho letto subito il volume su
Graf così ricco e con non poco profitto. Quando l’autore, in un punto se la
prende con gli storici della filosofia italiana che trascurano Graf, anzi noni
menzionano affatto, mi sento in colpa; e tanto più in quanto io, studioso della
cultura napoletana, mi son lasciato sfuggire quei nessi di Graf con Napoli che
il volume di L. illustra con tanta passione». Contorbia: “poche volte accade di
fare i conti con un libro così fatto, stratificato, totalizzante; ad apertura
di pagina si avverte l’impegno, il grado di coinvolgimento appassionato con cui
lei ha condotto avanti negli anni una così impegnativa ricerca peculiare, quasi
il centro della sua esistenza intellettuale, il punto di arrivo (e a un tempo
di partenza) di un confronto che è culturale ma anche morale e politico.La
qualità di un tale lavoro, mi pare, fuori dell’ordinario». Valli: «L’autore ha
consegnato alla critica e alla conoscenza uno studio così complesso da poter
essere considerato un esaustivo panorama della cultura del secondo Ottocento
italiano e non solo italiano]». Recensioni di illustri studiosi Rossi, “L'autore…
ha fatto emergere un quadro ricco e articolato dove accanto alle ombre brillano
alcune luci importanti». Recensione sulla rivista «Panorama» riguardante
il di de Liguori Materialismo inquieto,
edito da Laterza. Cosmacini, «Il lavoro di L. è largamente meritorio oltreché
ampiamente documentato». Recensione uscita su «Il Corriere della sera»
riguardante il di L. Materialismo
inquieto, edito da Laterza. Marti::Dalle appassionate e diuturne indagini
dell’autore su Graf e il suo tempo è venuto fuori il ponderoso, massiccio
volume, che ho ricevuto come caro e preziosissimo dono. Davvero lusinghiera la
“presentazione” di un grande Maestro come Garin, e accattivante e simpatica
l’”Avvertenza”. Tutto il resto è da leggere». Recensione al volume di L. su
Graf, Giornale storico della letteratura italiana. Augias: «Quella di De
Liguori è infatti una storia meridionale che parte da una finzione narrativa di
gusto classico ma così classico da poterla ritrovare in alcuni capolavori tanto
celebri che non vale nemmeno la pena di citarli. Saggi: “Trasimaco ha ragione” (La
Rassegna pugliese); “Giustizia e carità” “fra filosofia e vita” Ivi “Lo scetticismo
giuridico di Rensi” (Rivista di Filosofia del diritto); “Una moderna
enciclopedia del sapere, Rassegna pugliese, II“Efirov e la filosofia italiana,
«Problemi», “Un Leopardi anti-progressivo” (Dimensioni); In tema di materialismo
comunista, Ivi, “Gioberti e la filosofia leopardiana -- momenti del conflitto
tra l’ideologia cattolico borghese e la protesta leopardiana” (Problemi); “Un
episodio di solitudine. Rassegna di studi su Graf,” Ivi “Leopardi e i gesuiti
-- appunti per la storia della censura leopardiana, Rassegna della Letteratura
italiana, Quel povero “Diavolo” di Graf, «Giornale critico della Filosofia
italiana», Le «Scandalose razzie». Scienza, politica, fede in Graf Ivi, Scetticismo
e religiosità in una rivista militante: «Pietre» in, La filosofia italiana
attraverso le riviste, A. Verri, Micella, Lecce, “La condizione del senso”; “Per una
riconsiderazione della lettura grafiana di Leopardi” «La Rassegna della Lett.
It.», Il mito e la storia” – “Le ragioni dell’irrazionale in Graf, «Problemi»,
Quella «dubitante religiosità». Graf e il modernismo, «Giornale cr. della fil.
It.», Doria tra platonismo e riformismo, «GCFI», Il sodalizio Labriola-Graf negli
anni della loro formazione «Studi Piemontesi»,
Un anti-cartesiano di Terra d’Otranto: Benedictis, in, Miscellanea di
Storia Ligure, Genova); “Materialismo e positivism -- questioni di metodo” (Facoltà
di Filosofia, Bari); “Aletino e le polemiche anti-cartesiane a Napoli” (Rivista
di storia della filosofia); “L’araba fenice: ossia la filosofia nella
secondaria, «Idee», “E il vero baratro della ragione umana” – “Graf e la
cultura” Prefazione diGarin, Lacaita, Manduria,
“Le ambiguità della ragione” – cf. Grice: ‘the equi-vocality of ‘reason’
Grice: “Liguori has a taste for unnecessary plurals: the abysses – the
ambiguities -- ” -- «Idee», “Per la storia della psico-fisica in Italia”; “Il materialismo
psico-fisico e il dibattito sulle teorie parallelistiche in Italia -- Masci e Faggi
«Teorie e modelli», “Di una rinnovata attenzione al materialism” (Idee); “Mito
e scienza nell’antropologia e nella storiografia del positivismo italiano”; “La
filosofia tra tecnica e mito, Atti del Convegno della SFI, Assisi, Porziuncola); Dimensioni», Livorno, Materialismo
inquieto. Vicende dello scientismo in Italia nell’età del positivism” (Laterza
Bari); “Tommasi e la filosofia zoologica di Siciliani, Rileggere Siciliani, G.
Invitto e N. Paparella, Capone, LecceI Presupposti epistemologici e immagine
della scienza in Morselli e Graf, Filosofia e politica a Genova nell’età del
positivismo, Atti del Conv. dell’Associazione filosofica Ligure-- Cofrancesco,
Compagnia dei Librai, Genova, pMaterialismo e scienze dell’uomo; Kant e
la religiosità filosofica di Martinetti, iA partire da Kant; L’eredità della
“Critica della ragion pura”, A. Fabris e L. Baccelli. Introduzione di Marcucci,
Angeli, Milano, Materialismo e scienze dell’uomo -- Il dibattito su scienze e
filosofia, Lacaita, Manduria, La fondazione razionale della fede in Martinetti,
Dimensioni, Livorno, Darwinismo e teorie dell’evoluzione nella prospettiva
monistica di Morselli, Il nucleo filosofico
della scienza, Cimino, Congedo, Galatina, L’immagine della donna nel paradigma
positivistico della degenerazione, Morelli. Emancipazione e democrazia, G.
Conti Odorisio, Scientif. Ital., Napoli, La cultura filosofica in Torino, Rivista
di filosofia», Presupposti torinesi della singolarità filosofica di Martinetti,
«Studi Piemontesi», E’ possibile la
storia dello scetticismo?, “Segni e comprensione»”; “ filosofi delle
bancarelle». Per la critica della storiografia filosofica, «Lavoro critico», Il sentiero dei perplessi -- scetticismo,
nichilismo e critica della religione in Italia da Nietzsche a Pirandello, La
città del Sole, Napoli, La reazione a Cartesio in Napoli, Giovambattista De
Benedictis, «GCFI», La revisione della storiografia sul mezzogiorno, «Segni e comprensione»,
Positivismo e letteratura. Antologia di testi, con Introd. e note, Graphis
Bari, La lezione scettica di Rensi, Critica liberale,- La psicofisica in
Italia, La psicologia in Italia, a cura
di Cimino e Dazzi, Led, Milano, Vignoli e la psicologia animale e comparata,
Ivi, Pensatori dell’area torinese --Percorsi», Quaderni del Centro Frassati,
Torino, Il ritorno di Stratone. Per la collocazione del materialismo
leopardiano, in Biscuso e Gallo, Leopardi anti-italiano, Manifesto libri, Roma,
Kant e le scienze della natura -- in margine alle lezioni kantiane di Geografia
fisica, in Filosofia, Lecce, Lacaita Manduria, Cattaneo, Psicologia delle menti
associate, G. de L., Riuniti, Roma, Antropologia, psicologia comparata e
scienze naturali in Vignoli, «Teorie e modelli», Geymonat, Treccani. Antropologia e tassonomia
in Kant. Da Blumembach a Buffon, Atti del Convegno sulla Geo-fisica kantiana,
Congedo Lecce, Antropologia, psicologia comparata e scienze naturali in Vignoli,
«Teorie e modelli», Cronache di
filosofia del diritto in Italia. Sforza e i suoi corrispondenti, in «Quaderni
di Storia dell’Torino», Per Mucciarelli:
positivismo psicologia e storia, «Segni e comprensione», Geymonat e il
“materialismo verso il basso”, GCFI, Il materialismo di Timpanaro, «Critica
liberale», Lettere di Timpanaro a Liguori,
in Il Ponte, Da Teofrasto a Stratone. L’itinerario filosofico di Leopardi,
«Quaderni materialisti», Labriola e Graf -- Principio e fine di un sodalizio di
vita e di pensiero, in Labriola e la sua università. Mostra documentaria per
settecento anni della “Sapienza” Aracne, Roma, A. Graf, Memorie, Introduzione,
commento e cura, “Gli Arsilli”, Edizioni dell’Orso, Alessandria Un catalogo per
Labriola, «Critica Sociologica», Utilità dell’inutile. Dalla elaborazione
concettuale alla programmazione e alla costruzione di un catalogo, «Itinerari»,
I Gesuiti. Le polemiche sui riti confuciani tra l’Aletino e i missionari
domenicani, «Studi filosofici»,Le «imbrogliate bestemmie germaniche». Moleschott
e la medicina materialistica, «Physis», La fucina del filosofo. «Segni e
comprensione», Filosofia teologia e fisica di Cartesio nella Difesa della Terza
lettera apologetica dell’Aletino, «Il Cannocchiale», Liguori e la filosofia del
suo tempo: Spinoza, Bayle, Hobbes e Locke, Rivista di Storia della Filosofia, “Libido
Sciendi”. Immagini dell’empietà nell’apologetica cattolica tra Sei e Settecento
(da Magalotti a Valsecchi), GCFI, Scherzi della memoria. Mappa di un itinerario
non turistico tra politica e cultura in una provincia del Sud, Prefazione di Ferrarotti;
Postafazione di Cumis, Salvatore Sciascia, Medicina e filosofia in Italia tra
evoluzionismo e scientismo. Da Tommasi a Morse, «Il cannocchiale»,, L’ ”il lambicco dell’anima”.
Note sul Mind body problem in Italia nell’età del positivismo, in Anima, mente
e cervello. Alle origini del problema mente-corpo, P. Quintili, Unicopoli, L’ateo smascherato. Immagini dell’ateismo e
del materialismo nell’apologetica cattolica da Cartesio a Kant, Le Monnier
/Università, Le sorelle Vadalà. Quattro storie più una, Romanzo con pefazione
di C. Augias Movimedia, Lecce, Pensatori dell’area torinese tra i due secoli,
in Quaderni Noce, Marco, Lungro di Cosenza, Ateismo e filosofia.
Considerazioni sull’ateismo latente nel pensiero moderno e sul rapporto tra
fede e ragione, «Il Cannocchiale», Le metamorfosi del linguaggio nella
controversistica e nella pratica missionaria, Le metamorfosi dei linguaggi, Borghero
e Loretelli, Edizioni di Storia e
letteratura, Roma, Dannazione e redenzione dell'Eros. Soggetti e figure
dell'emarginazione: la donna come oggetto determinante nella invenzione
cattolica del peccato di lussuria in «Bollettino della Società filosofica
italiana», Le cose che non sono, in
«Critica Liberale», Prefazione di E. Garin, Manduria (TA), Bari,
Roma, Lacaita, Gemoynat Treccani, Le Carteggio privato (corrispondenza
autografa) tra L. e i singoli autori citati
Rossi, Viaggio nel Positivismo, in Panorama, Arnoldo Mondadori, L.,
Materialismo inquieto. Vicende dello scientismo in Italia nell’età del
positivism, Bari, Roma, Laterza, Giorgio Cosmacini, Povero medico condannato al
materialismo, in Corriere della Sera, Marti,
Recensione a I baratri della ragione in
Giornale storico della letteratura italiana, Le sorelle Vadalà. Quattro storie
più una, [Romanzo], Prefazione di Augias, Lecce, Movimedia. Dannazione e
redenzione dell’eros. Soggetti e figure dell’emarginazione: la donna come
oggetto determinante nell’invenzione cattolica del “peccato” di lussuria di L. Il
Cristianesimo ha maledetto la carne, ha infamato l’amore. L’atto vario e molteplice
nei modi, ma uno nel principio, per il quale le creature si riproducono e a cui
gli antichi avevano preposta una della maggiori fra le divinità dell’Olimpo, è,
agli occhi del cristiano, essenzialmente malvagio e turpe e la malvagità e
turpitudine sua possono a mala pena, nella progenitura d’Adamo, essere emendate
dal sacramento. Il celibato è pel cristiano, se non altro in teoria, condizione
di vita assai più pregevole e degna che non il coniugio e la continenza è virtù
che va tra le maggiori. A. Graf1. L. examines the story of Eros, from ancient
Greece to the age of Enlightenment, and tries to underline relevant connections
with other events of thought and religious traditions as well as European
popular customs. The ideological conflict with Christian ethics and Catholic
church is particularly highlighted thanks to a specific textu- al analysis,
particularly during 17th and 18th centuries. Keywords: Subjects and Figures of
Marginalization, Woman Condi- tion, Ethics and Christianity, St. Alphonsus M.
de’ Liguori. 1 A. Graf, Il Diavolo, Treves, cur. Perrone, introduzione di
Firpo, Salerno, Roma. Avverto l’eventuale lettore che il saggio che segue ha
natura meramente divulgativa e di mera indicazione didattica nei confronti dei
docenti di discipline storico-filosofiche. Nasce dall’assemblaggio di appunti
per il canovaccio di uno spettacolo tenutosi a Parma al Teatro del Vicolo, dal
titolo Eros e Poesia. M’è d’obbligo infine rimandare sull’argomento che qui
espongo, agli interventi di alta e corretta divulgazione, curati per Rai
Educational, di Argentieri, Curi e Moravia, in Enciclopedia Multimediale delle
Scienze Filosofiche. Raccolta e catalogazione dei materiali Non partiamo dalla
consueta e abusata presunzione ontologica; non diciamo che le cose sono,
piuttosto ci limitiamo, cartesianamente, a scoprire in noi il pensiero e, col
pensiero il corpo e la sua capacità di rapportarci ad altri corpi attraverso
quelli che chiamiamo i sensi. Ci hanno preceduto i sensi sti: nulla è
dentro la nostra mente che non ci viene fornito dai sensi. E così la fantasia,
la logica, la ragione, la fede altro non sono che gli strumenti più raffinati
di un corpo tra i corpi (materia) che, come l’infima creatura che emette
pseudopodi, procede dal coacervato all’ameba e arriva all’uo- mo, cuspide di
presunzione, anelito più che sensata pregnanza di vita.. Non lasciamoci
impressionare dai prodotti di questo strumentario intellettuale: arti,
religioni, presenze invisibili, futurologie improbabili, paradisi perduti o
escatologici disegni, virtualità effimere come sogni, denunciate già dal fol-
le di Danimarca una volta per tutte. Sono sirene lusingatrici di contro al cui
canto ammaliante hanno ancora buona validità i tappi di cera nelle orecchie
usati da Odisseo, navigante curioso, per escludere i suoi compagni2. Qualcuno
sostiene che le cose non sono se non create. Qui noi non soste- niamo
l’inesistenza delle cose: in tal caso dovremmo postulare e ammettere la
trascendenza, laddove noi riteniamo l’oltre una autonoma creazione (se vogliamo
mantenere il termine) del nostro pensiero. Abbiamo raggiunto (a livello di
pensiero puro, non certo di pensiero soggettivo) un tale grado di evoluzione da
creare dal niente, come aveva, in termini tutti romanti- ci, spiegato Fichte
enunciando i tre celebri principi della sua dottrina della scienza! Ma gli
sviluppi delle neuroscienze, in particolare, hanno reso sterili tali tentativi
di esplicazione del reale. Idealismo e religione fanno a gara a rincorrersi
nella loro foga di raggiungere la verità eterna! Meglio perciò rinchiudere i
filosofi nel trittico che si sono costruiti con secolare pazienza della
Metafisica, Teodicea e Ontologia. Che farnetichino in eterno sull’ori- gine
dell’anima, sul rapporto col corpo e sul destino futuro della umanità. Si
potrà, una volta sgombrato il terreno dalla zavorra, procedere in modo più
lineare, ordinato ed onesto alla diagnosi del male di vivere: del nascere e
morire. Tolta di mezzo la pretesa razionalità e la scientificità teologica (e
teleologica) con la sua saccenteria, gli strumenti dei sensi come la fantasia,
la fede, la ragione potranno riprendere legittimamente la loro funzione di
guida o di orientamento. Se partiamo dalla nostra “condizione umana” (senza
scomodare Mal- reau) vera e concreta, viene prepotente in ballo, la nostra
sensualità, prima ancora che la nostra sensitività. Avvertiti da Freud, che va
ascoltato con la 2 Vedi quanto scrive, Berto, L’esistenza non è logica. Dal
quadrato rotondo ai mondi impossibili, Laterza, Roma. 30 dovuta prudenza
filosofica, ci accorgiamo facilmente che è l’eros la molla privilegiata delle
nostre azioni o inazioni. Tanto è vero che sul terreno della storia è con
l’eros che il Cristianesimo ha ingaggiato fin dalle sue prime origini la sua
battaglia aperta, dagli erotici furori degli anacoreti fino ai ra- ziocinanti
dogmatismi teologici dei nostri giorni. Conviene delinearne un breve profilo.
Profilo storico dell’Eros in Occidente. Dal mito di Venere a Maria Vergine È
proprio nel mondo romano, e in quella che gli storici designano come età
tardo-antica, che si compie una storica metamorfosi della mitologia pa- gana:
il suo graduale trasferimento da religione delle classi colte e dominanti a
religione dei campi (pagi = pagani), della plebe rurale. Indicativo tra tutti
il passaggio di Venere, dea della bellezza, dell’amore e della fecondità, da un
canto, a quella di Demonio, Lucifero (portatore di luce), stella del mattino,
per i suoi referenti legati alla sessualità, e, dall’altro, a quella della
Vergine Maria, madre di Gesù Bisogna ricordare che mentre avanza il
Cristianesimo, il mito di Roma non solo permane ma, sotto mutate spoglie,
cresce e si svolge fino ai nostri giorni. Perde la sua valenza politica, la sua
forza sugli eventi immediati ma guadagna nell’immaginario. Entra a far parte
del grande patrimonio del- la memoria collettiva. Ma in tale processo, se perde
i suoi caratteri storici, obbiettivi, acquista una rinnovata immagine
fantastica, rispondente alle esigenze delle masse. Soprattutto il Medioevo
trasforma Roma, i suoi dei, la sua cultura in nuova mitologia sincretica, mista
di elementi tradiziona- li e di apporti nuovi conferiti dalle differenti
popolazioni d’Europa, attinti soprattutto alla nuova fede cristiana che diventa
l’amalgama di germane- simo, usanze barbariche, romanità, orientalismi, ecc.
Roma continuava ad avere un suo primato nell’immaginario o mondo incantato dei
miti e delle leggende3, come l’aveva avuto in quello, storico, politico
culturale e civile. Ricordiamo l’accorato rimpianto di Rutilio Namaziano
Fecisti patriam diversis gentibus unam. Urbem fecisti quae prius orbis erat
Nella cultura illuministica, tra Settecento e Ottocento, il mito di Roma si
veste di forme neo classiche. Goethe, Winkelmann, e Byron che 3 Cfr. F. Denis,
Le monde enchanté,. Cosmographie et histoire naturelle fantastiques du Moyen
Âge, richiamato da Graf, Miti, leggende e superstizioni del Medio Evo, 2 voll.,
Loe- scher, Torino. Ma vedi, dello stesso, Roma nella memoria e nelle
immaginazioni del Medio evo, 2 voll., Loescher, Torino ne fa la patria ideale delle genti Oh Rome!
My country! City of the soul! The orphans of th heart must turne to thee, Lon
mother of dead impires! Tale trasformazione della mitologia classica, porta con
sé naturalmente un radicale cambiamento della maniera di concepire l’amore e di
vivere l’e- ros. L’amore tra uomo e donna acquista differenti valenze e si
prepara quella teorizzazione dell’amore tutto spirituale che verrà dommatizzato
e praticato per tutto il Medioevo e, nella forma più angelicata e sublime, da
Dante al Petrarca, ...quel dolce di Calliope labbro che amore nudo in Grecia e
nudo in Roma, d’un velo candidissimo adornando, rendeva in grembo a Venere
celeste. Dilagheranno per tutta Europa fenomeni di sessuofobia completamente
ignoti alla società greca e latina, quale ad es. il fenomeno dell’ascetismo.
Sorgerà la figura, del tutto nuova e inconcepibile per il mondo classico,
dell’anacoreta e, d’altro canto, l’immagine del peccato prenderà aspetto dia-
bolico orripilante, venendo a popolare tutta una nuova mitologia di presen- ze
infernali che accompagnano e turbano la vita degli uomini del Medioevo. Molte e
varie le rappresentazioni tipiche della diabolicità mostruosa, frutto, in
particolare, del peccato di lussuria, quali il mosaico nel Battistero di Fi-
renze, opera popolaresca di Coppo di Marcovaldo che tanto impressionò Dante
fanciullo, il poema predantesco di Bonvesin della Riva, Il libro delle tre
scritture o il De Babilonia di Giacomino da Verona e i vari “precursori” di
Dante, fino alle allucinate raffigurazioni de il Giardino delle delizie di
Bosch al Museo del Prado4. Ma che accadeva? Venere, scacciata, veniva
ugualmente a tentare gli sciagurati che volevano sfuggirle, quali monaci ed
asceti; e, come ci ricorda sempre Graf, «invadeva le loro celle ugualmente,
immagine vagheggiata e detestata a un tempo». Siamo nell’epoca delle
tentazioni. Ecco l’autorevolis- sima testimonianza di San Girolamo, il grande
dottore della Chiesa, autore indiscutibile della Volgata, l’edizione ufficiale
della Sacra Scrittura, in una sua lettera alla vergine Eustochia: Si ricordi,
Villari, Alcune leggende e tradizioni che illustrano la Divina Commedia,
«Annali delle Univ. Toscane», Pisa. Soprattutto, A. D’Ancona, I precursori di
Dante, Sansoni, Firenze. Per ulteriori e dettagliati riferimenti, cfr. il mio,
I baratri della ragione. Graf e la cultura del secondo Ottocento, prefazione di
Garin, Lacaita, Manduria. Oh quante volte, essendo io nel deserto, in quella
vasta solitudine arsa dal sole, che porge ai monaci orrenda abitazione,
immaginavo d’essere tra le delizie di Roma! Sedeva solo, piena l’anima
d’amarezza, vestito di turpe sacco e fatto nelle carni simile a un Etiope. Non
passava giorno, senza lagrime, senza gemiti e quando mi vinceva, mio malgrado,
il sonno, m’era letto la nuda terra. E quell’io, che per timor dell’inferno
m’era dannato a tal vita e a non avere altra compagnia che di scorpioni e di
fiere, spesso m’im- maginava d’essere in mezzo a schiere di fanciulle danzanti.
Il mio volto era fatto pallido dai digiuni, ma nel frigido corpo l’anima ardeva
di desideri e nell’uomo, quanto alla carne già morto, divampavano gli incendi
della libidine. E qui l’iconografia sacra ha lavorato sul santo, riempiendo di
San Girolami, atteggiati in guise diverse, tele, altari, absidi, pale, trittici
per tutto il medioevo e il Rinascimento. Da Dürer a Caravaggio, da Cima da
Conegliano a Masolino, da Masaccio a Tiziano, dalle tentazioni di Giovanni
Girolamo Savoldo al Perugino, fino alla compostezza gotico-geometrica di Antonello,
ecc.Si assiste ad una evoluzione storica dell’eros, che si arricchisce, per
così dire, dell’idea stessa del peccato. Simboleggiato dal frutto proibito,
l’atto carnale tra Adamo ed Eva nel Paradiso terrestre viene stigmatizzato come
peccato originale, una sorta di marchio che da quel momento in poi mac- chierà
ogni creatura. Homo vulneratus est naturaliter, sanziona definitiva- mente San
Paolo! Anche se la dottrina della chiesa troverà il modo di recu- perare in
positivo quella ferita, quella malattia costituzionale, con il concet- to
dell’agape, nel quale l’eros si diluisce in amicizia includente la mediazione
del Cristo. Ma la cosa più sorprendente è che Venere, simbolo dell’amore
carnale, cantata da Lucrezio, poeta epicureo, come colei che presiede alla
bellezza della fecondazione sia di piante che di animali, e perciò come voluttà
d’uo- mini e di dei, subisce nel corso della storia differenti e impensabili
metamor- fosi. Da un canto, come quasi tutte le divinità pagane, trapassa a
popolare la mitologia cristiana di nuove figure positive e negative, arrivando
a iden- tificarsi dapprima con il Demonio in persona, poi con la stella
portatrice di luce, (Lucifero, angelo caduto e stella del mattino); infine,
fattasi mite e mise- ricordiosa, gradualmente perdendo i suoi più accesi
caratteri erotici di beltà voluttuosa, assurge addirittura al ruolo di Maria
Vergine, concepita senza peccato, Madre di Gesù, figlio unigenito di Dio! Siamo
di fronte a un fenomeno storico noto agli storici e agli antropologi come
sincretismo religioso 5 Trad. fedele di Graf da Gerolamo, Epistolae, in
Patrologia latina, cur. Migne, Parigi. Cfr. Graf, Il Diavolo, cit.,per cui le
divinità pagane continuano una loro vita, si direbbe più dimessa e quasi
nascosta, nei pagi, nelle campagne tra la povera gente, trasformandosi, e
sovente confondendosi, coi santi e le divinità della nuova religione ebraica e cristiana.
Ne è un esempio la favola di Tanhäuser, il cavaliere francone di cui la dea
Venere si innamora. È nel mondo romano in sfacelo che gli dei di Roma – GIOVE
CAPITOLINO -- si avviano alla loro metamorfosi -- quello che non e accaduto
agli dei ellenici. Da un canto si rintanano nei pagi, nei campi, tra la povera
gente di campagna e ne continuano a propiziare raccolti, a combattere carestie
ad aiutare la gente misera nelle quotidiane disgrazie che affliggevano gl’umili
e gl’indifesi. Dall’altro lato, in questa storica trasformazione, raccolgono in
loro tutto il male esecrabile del mondo antico: il turpe, il diabolico,
l’illecito, il peccaminoso del mondo romano. Soprattutto l’osceno -- ciò che è
dietro alla scena e, pertanto, non è visibile -- e il sensuale nei rapporti
amorosi. Gli dei di ROMA si trasformano così in demoni. Si passa dalla
celebrazione dell’amore fisico, cantato dai poeti, da OVIDIO (si veda), Catullo
(i neoteroi) a LUCREZIO (si veda), che lo inserisce nel fluire e divenire dei
fenomeni naturali, alla definitiva divaricazione della sessualità dall’amore
spirituale, come aspetti di una passionalità di differente e contrapposta
natura. Si ricordi l’inno a Venere di LUCREZIO: AENEADVM GENITRIX HOMINVM
DIVOMQVAE VOLVPTAS ALMA VENUS CAELI SVBTER LABENTIA SIGNA QUAE MARE NAVIGERVM
QVAE TERRAS FRUGIFERENTES CONCELEBRAS PER TE QUONIAN GENVS OMNE ANIMANTVM
CONCIPITVR VISITQVAE EXORTVM LVMINA SOLIS. Ma ecco come espone Graf, storico
dei miti romani, la sottile trasformazione degli dei di Roma -- quelli stessi
che VIRGILIO, guida d’ALIGHIERI, chiama falsi e bugiardi -- in divinità o potenze demoniache. I numi
che hanno altari e templi non muoiono, non dileguano. Si trasformano in demoni,
perdendo alcuni l’antica formosità seduttrice, serbando tutti la gravità
antica, accrescendola. GIOVE DEL CAMPIDOGLIO, Giunone, Diana, Apollo, MERCURIO,
Nettuno, Vulcano, Cerbero e fauni e satiri sopravvivono al culto che loro e
reso, ricompaiono fra le tenebre dell’inferno, ingombrano di strani terrori le
menti, provocano fantasie e leggende paurose. Diana, mutata in demonio
meridiano, invade i disaccorti troppo obliosi di lor salute, e la notte, pei
silenzi dei cieli stellati, si trarrà dietro a volo le [6 G. Paris, Legendes du
Moyen Age, Hachette, Paris, dove esamina la storia e la diffusione della
leggenda (La légende de Tanuhäuser). Fonte delle varianti della stessa leggenda
resta Guglielmo di Malmesbury. Vedi Graf, Il Diavolo] squadre delle maliarde, istruite da lei.
Venere sempre accesa d’amore, non meno bella demonio che dea, usa negli uomini
l’arti antiche, inspira ardori inestinguibili, usurpa il letto alle spose, si
trarrà fra le braccia, sotterra, il cavaliere Tanhäuser, ebbro di desiderio,
non più curante di Cristo, avido di dannazione. Scienza, filosofia e fantasia:
il pensiero femminile e la ”teoria e pratica della dimenticanza”. Il rapporto
latente tra il sapere e il credere. Ogni proposta gnoseologica parte
opportunamente da quelle ben note premesse che GALILEI (si veda) autorevolmente
chiama la sensata esperienza, anche se le pone in relazione con la certa
dimostrazione. Così, prudentemente procedendo, ogni teoria della conoscenza,
pur restando legata alla dimensione esperienziale, per così dire, non esclude
né puo escludere l’elaborazione successiva di ipotesi con l’ausilio della
fantasia, della fede, dell’intuizione oltre che della facoltà razionale con la
quale da sempre la mente umana prova ad elaborare i portati sensoriali, di
volta in volta vari e complicati. Proviamo a valutare, ad esempio, non le
nostre idee, o i nostri elaborati razionali ma alcuni particolari sentimenti o
pulsioni come l’amore, l’erotismo, o, addirittura, la poesia con cui ci
accostiamo ad una persona o ad uno scenario naturale quale, che so? la volta
celeste di kantiana memoria. Gl’eroi greci per comprendere una verità nascosta,
scendevano nell’Ade, entrano nel regno imperscrutabile delle ombre. Da altra
prospettiva, sub specie feminae, da quel che oggi chiamiamo pensiero femminile,
ci viene incontro, spalancandoci una diversa rinnovata visuale, un modo
solitamen-te desueto di scrutare l’imperscrutabile. Abbiamo davanti un
continente dissepolto, il nostro Ade, tutto da esplorare. È così che – s’è
detto e sostenuto da parte delle donne – le poesie vivono delle voci narranti
che, appassionatamente, riflettono su un passato da abbandonare. Quel che
sembra finito e nascosto entro i luoghi del cuore. Da tale prospettiva, per
giungere a tanto bisogna scendere all’Ade, come fa il viaggiatore Odisseo:
provare i dolori più cupi e le delusioni più cocenti a cui seguono le
esperienze. S’entra così nell’universo del senso fantastico senza ripudiare la
possibilità razionale di elaborare non [Graf, Il Diavolo. Utilizzo in questo
paragrafo, frammettendone brani a mie riflessioni e commenti, il testo
originale inedito, cortesemente messo a mia disposizione, dalla filosofa della
mente Bussolati, Teoria e pratica della dimenticanza.] più ciò che è nei sensi
ma quanto ribolle nella fantasia. Un esempio potrebbe fornircelo LEOPARDI
dell’infinito laddove dalla esperienza sensibile -- la siepe, il vento, lo
stormir delle foglie -- che non si lascia elaborare razionalmente, sale, quasi
spinozianamente, ad un sapere più complesso: una sorta d’amor dei
intellectualis che s’apre al mistero sia della poesia che dell’amore. E come il
vento odo stormir tra queste piante, io quello infinito silenzio e questa voce
vo comparando e mi sovviene l’eterno e le morte stagioni e la presente e viva e
il suon di lei. E, ancora, entrando nel campo intricato del male di vivere,
addirittura nelle patologie del comportamento, delle ossessioni, delle
schizofrenie, laddove ci siamo chiesti, con l’angoscia nel cuore, se questo è
un uomo, proviamo a proporre la teoria e pratica della dimenticanza:
l’obliviologia. È certo come un lavoro di scavo; ma non abbiamo da riportare al
celeste raggio nessuna sepolta Pompei. Non procediamo, in senso freudiano, a
rimestare nella memoria, nel sogno, recuperando oggetti rimossi, tutt’altro.
L’oggetto è diventato uno scheletro che va dimenticato, ritenuto per non posto:
mai esistito. La dimenticanza è dapprima una sola pratica; quasi l’abitudine a
dimenticare le chiavi di casa. Poi assurge a tecnica e, infine a teoria e
pratica dell’oblio. Corre, in un certo senso, parallela alla terapia
farmacologica del sonno, indotto da dosi opportune di psicofarmaci. Si tratta
di togliere le fissazioni tramite la dimenticanza: di riportare il conosciuto
agl’elementi puri ma allo scopo di favorire un intervento di maggior forza
ectoplasmica sugli oggetti e sugli eventi esterni, e per eliminare il noto
processo di invecchiamento e, infine, di morte mentale. Scendendo al piano
sperimentale, abbiamo cancellato i sovraccarichi delle impressioni
mnemonizzatrici e fatto sparire le figure retoriche fantasmatiche, i “mostri” o
“giganti” che si fissano e si ripetono continuamente, oberando la mente
affralita. Dimenticare diventa così l’ausilio migliore del vivere senza alcun
sforzo il presente. Non è la panacea, non si raggiunge il Nirvana; non si
recuperano paradi- si perduti. Si vive riconquistando un più corretto rapporto
col corpo, i sensi, la natura. La memoria deve servirci, non turbarci. Se è una
soffitta ingombra rischia di confonderci nel suo disordine; dobbiamo far
pulizia perché la vita va vissuta non sopportata E arriviamo infine a una
considerazione alquanto complessa ma di facile comprensione. Quella stessa
nostra propensione che chiamiamo fede altro non è, finanche nella sua forma più
umile, che sempre e soltanto costruzio- 36 ne della ragione, in quanto
ogni fede presuppone sempre un giudizio della ragione. Da tale considerazione
deriva la plateale conseguenza che la fede non è altro, alla fin fine, che la
nostra visione più o meno razionale della realtà; pertanto quella fede nel
numinoso e nel fantastico che è la fede re- ligiosa dei fedeli e che alla
nostra razionalità più sofisticata ripugna, è solo un puro e semplice equivoco,
imposto dall’educazione, dalle convenzioni e mai può derivare dalla nostra
libera scelta intelligente che in tal modo si contraddirebbe9. Credere, altro
non è che atto razionale; in quanto, rigoro- samente, non c’è fede senza il
sostegno della ragione. Ma, ci si chiede, fino a che punto? Il limite è il sano
buon senso. Oltre c’è la follia e l’assurdo; ma follia, sempre ed
esclusivamente della ragione stessa, unico vero soggetto di quanto chiamiamo
fede! 4. Emarginazione femminile e non. La donna da oggetto a soggetto di
pensiero Da differente angolatura l’oggetto del mistero che chiamano la verità,
si svela gradatamente, di sotto il velame delli versi strani. Del resto, a ben
pensare, quando penso, penso al maschile, ho sempre pensato al maschile. La
storia, la civiltà tutta, occidentale e orientale, hanno pensato soltanto al
maschile. Non solo: per secoli, il vero, il bene, il bello sono stati visti, si
al maschile, ma ancora nella implicita insignificanza oltre che della donna, di
altre figure sociali di grande rilevanza: del bambino, del disadattato o del
diseredato o escluso dalla comunità, dell’alienato o del demente. Interi uni-
versi come continenti inesplorati si sono schiusi appena abbiamo provato a
visitarli. Erano emersi, nella dannazione dell’inferno dantesco, nei mosaici e
negli affreschi allucinati di Coppo, nei battisteri, nelle chiese medioevali,
nelle allucinazioni di raffiguratori fantasiosi fino al paradosso come in Bosch
o in Goja, nei racconti favolosi delle mitiche origini di intere popolazio- 9
Cfr. Martinetti, Scritti di metafisica e di filosofia della religione, a cura
di Agazzi, Ed. di Comunità, Milano, dove tra l’altro si legge: «Anche LA
FILOSOFIA è sotto certi rispetti una fede; in quanto essa è uno sforzo verso
l’unità sistematica che in ogni grado raggiunto si pone come una visione
definitiva della realtà; ciò che non può fare che trasformandosi in una fede
razionale; la fede nella dottrina kantiana. D’altra parte la fede comune non è
assolutamente irrazionale; è una razionalità adatta alla mente comune, ma è una
forma di razionalità; non v’è sistema di dogmi così assurdo che non tenti
subito una razionalizzazione. Ogni esposizione d’un sistema di filosofia è,
sotto questo riguardo, l’esposizione di una fede. Non ha quindi ragion d’essere
la contrapposizione della ragione e della fede (come qualcosa di irrazionale):
la fede è l’espressione stessa di una formazione razionale; ogni grado della
vita razionale in quanto si esprime, si fissa e diventa una realtà operante, è
una fede». Più analitica esposizione della questione si trova nel mio, Ateismo
e filosofia. Considerazioni sull’ateismo latente nel pensiero moderno e
contempora- neo e sul conflitto tra la fede e la ragione, Il Cannocchiale, ni, tramandate oralmente nei miti e nelle
leggende che correvano per l’Eu- ropa come fiumi carsici, uscendo di tanto in
tanto al “celeste raggio”, dove l’oblio di secoli li aveva
segregati....Soltanto oggi cominciamo a prenderne consapevolezza, filosofica e
scientifica: scopriamo un nuovo continente speculativo, il pensiero al
femminile come rinnovato modo di guardare la vita, la storia, la natura.
Proviamo a riandare di qualche secolo addietro. Le cosiddette scienze umane ci
si erano accostate per via di quel loro par- ticolare porsi dalla prospettiva
del diverso, ma solo l’assurgere di quell’og- getto alla dignità di soggetto
pensante e determinante trasforma del tutto la prospettiva. La partecipazione
del femminile come quella del diverso, del disadattato alla ricerca della
verità completa veramente il mondo storico della cultura portandolo al suo
stadio più alto, fuori da ogni gilepposo pa- ternalismo o indulgente
concessione caritatevole. Del tutto trascurati o stipati alla rinfusa nella
soffitta anodina della eru- dizione, alcuni sprazzi di consapevole
disponibilità al diverso erano emersi già nel passato, in ambito borghese
progressista, presso spiriti particolar- mente sensibili. Ma restava un fatto
isolato che non ha vissuto significanza o storicità. Sentite questa: siamo: E
dei disadattati all’ambiente non è giusto parlar con tanto disprezzo. Ol-
trecché esercitano alcune funzioni non esercitate dagli altri, essi sono un
lievito sociale utile e necessario; tengon viva nell’organismo collettivo
un’inquietezza nemica delle stagnazioni prolungate, e non avvien mutazio- ne
alla quale in qualche maniera non cooperino che se i geni fossero pazzi davvero
bisognerebbe riconoscereche i più disadattati fra i disadattati, quali son per
l’appunto i pazzi, resero alla misera umanità più di un buon servigio. Da altra
banda è da considerare che un perfetto adattamento all’ambiente farebbe gli
uomini supinamente contenti e tranquilli e porte- rebbe fine al moto della
storia, per la ragione potentissima che chi sta bene non si muove. Lo direi il
vademecum per l’onest’uomo del nostro tempo! Ma molto an- cora resta da fare: e
questa è la vergogna del nostro tempo. La chiesa cat- tolica ad es., che ha
chiesto, solo di recente, con un pontefice tormentato e disponibile al dialogo,
perdono al mondo islamico, ha ancora da chiedere scusa alle donne, ai bambini,
alle coppie di fatto, agli omosessuali, agli atei, agli agnostici, agli
scienziati onesti e laici che dalle dottrine e dai dogmi della chiesa vengono
quotidianamente offesi, respinti e vilipesi. I libri proibiti e il rapporto
sessuale come “peccato” contro il sesto precetto del Decalogo Tra i compiti
primari che si assunsero al loro tempo gli apologisti catto- lici e i
controversisti, figura subito in primo piano quello della lotta ai libri
proibiti, che è come dire a tutta la prodizione libraria moderna. Prendo an-
cora ad es. emblematico il santo teologo moralista e dottore autorevole della
Chiesa: L. Ne La vera sposa di Gesù Cristo10, a dimostrazio- ne di quanto possa
essere pericolosa la lettura in genere, sconsiglia alle Mo- nache addirittura
lo studio sia della Teologia Morale che di quella Mistica. Parimenti libri
inutili ordinariamente sono, ed alle volte anche nocivi per le Religiose, i
libri di Teologia Morale, poiché ivi facilmente possono inquietarsi con la
coscienza oppure apprendere ciò che lor giova non sapere. An- che nociva può
essere a taluna la lettura dei libri di Teologia Mistica, giacché può essere
che ella si invogli dell’orazion soprannaturale, e così lascerà la via
ordinaria della sua orazione solita, in meditare e fare affetti, e così resterà
digiuna dell’una e dell’altra. Vige, come una sentenza inappellabile, il motto
lapidario di San Paolo: Sapienza carnis inimica est Deo. L’amore del sapere
viene paragonato ad un vizio, alla libidine sessuale: libido sciendi11. Circa i
classici del pensiero che pur contengono delle verità, si domanda con San
Girolamo: Che bisogno hai di andar cercando un poco d’oro in mezzo a tanto
fango, quando puoi leggere i libri devoti, dove troverai tutt’o- ro senza
fango?». La lettura è importante, fondamentale anche alla via della salute, ma
ha dei rigorosi limiti. Quanto è nociva la lettura de’libri cattivi,
altrettanto è profittevole quella de’buoni. Il primo autore de’libri devoti è
lo Spirito di Dio; ma de’li- bri perniciosi l’autore n’è lo spirito del
Demonio, il quale spesso usa l’arte con alcune persone di nascondere il veleno,
che v’è in tali suoi libri, sotto il pretesto di apprendersi ivi il modo di ben
parlare, e la scienza delle cose del mondo per ben governarsi, o almeno di
passare il tempo senza tedio. Con determinate categorie di persone,
l’esclusione si fa radicale. Alle suore scrive così: Ma che danno fanno i
romanzi e le poesie profane, dove non sono parole 10 Cito dall’ed. Remondini,
Bassano, Vedi l’uso di tale espressione nella denuncia controversistica
cattolica (aristotelica) della filosofia cartesiana e moderna nel saggio di chi
scrive, «Libido sciendi». Immagini dell’empietà nell’apologetica cattolica tra
Sei e Settecento (Da Magalotti al padre Valsecchi), Giornale critico della
filosofia italiana, immodeste? Che danno
voi dite? Eccolo: ivi si accende la concupiscenza de’ sensi, si svegliano
specialmente le passioni, e queste poi facilmente si gua- dagnano la volontà, o
almeno la rendono così debole, che venendo appresso l’occasione di qualche
affezione non pura verso qualche persona, il Demonio trova l’anima già disposta
per farla precipitare12. Contro il risveglio delle passioni e contro la
concupiscenza dei sensi, i controversisti scagliano i loro dardi infuocati e
avviano le loro sottili disqui- zioni teologiche su quanto vada considerato
peccato mortale. Ed è questo un fardello che la chiesa si porta dietro così
come uno ster- corale si rotola la sua palla di escrementi. L’ossessione del
sesso: la cura me- ticolosa con cui si prova da secoli a disciplinarlo,
legittimarlo, canalizzarlo, evirandolo della sua essenza: la ricerca del
piacere e costringendolo alla sola funzione riproduttiva. Ci serviremo non di
un semplice scrittore di opere di pietà ma di un autorevole moralista della
chiesa cattolica, santo per giunta, dottore della chiesa, uomo di grande pietà
e d’erudizione: che CROCE define il più santo dei napoletani, il più napoletano
dei santi. Ecco cosa scrive il nostro moralista sul sesto precetto del Decalogo
e in che modo espone le sue precauzioni con cui anticipa una minuziosa tratta-
zione di quanto potremo chiamare la fattispecie del peccato mortale. Il peccato
contro questo precetto è la materia più ordinaria delle Confessioni, ed è quel
vizio che riempie d’Anime l’Inferno; onde su questo precetto parleremo delle
cose più minutamente; e le diremo in latino, affinché non si leggano facilmente
da altri che dai confessori, o da quei sacerdoti che in- tendano abilitarsi a
prendere la Confessione; e preghiamo costoro a non leg- gere né in questo né in
altro libro di quella materia (che colla sola lezione o discorso infetta la
mente) se non dopo tutti gli altri trattati e quando ormai sono prossimi ad
amministrare il Sacramento della Penitenza. Affronta perciò subito lo scabroso
tema della fornicazione, e dei rapporti carnali con l’altro sesso con minuta
casistica sessuofobica: de tactibus, de muliebre permittente se tangere, an
puella oppressa teneatur clamare, an possit unquam permittere sua violationem,
de aspectis, de verbis, de audientibus verba turpie, ecc. Ma non manca di
precisare: Ante omnia advertendum, quod in materia luxuriae (quidquid alii
dicant de levi attrectatione manus foeminae, vel de in torsione digiti) non
datur par- vitas materiae; ita uti omnis delectaio carnalis, cum plena
advertentia, et consensu capta, mortale peccatum est. 12 La vera Sposa di G.C.,
L., Istruzione e pratica per li Confessori, Giuseppe Di Domenico, Napoli, e
sgg., anche per le citaz. successive. 40 Il pio moralista, scaltrito
nella casistica giuridica, sa che bisogna scende- re nei minimi particolari per
trovare la situazione peccaminosa: se grave o lieve o poco rilevante o,
addirittura, del tutto inesistente; perciò distingue gli atti sessuali compiuti
nel matrimonio o extra matrimonium. In situazio- ne extra coniugale, tutti i
toccamenti, oscula et amplexus ob delectatione, mortale sunt. Vi sono numerosi
casi dubbi da esplicitare: ne va di mezzo la salute delle anime, calate in
situazioni mondane sempre diverse e comunque sempre a stretto contatto con le
tentazioni della carne. Ad es., la donna o il fanciullo non peccano se si fanno
toccare secondo la consueta pudicizia dettata dalla simpatia o dalla buona
affettuosa disposizione; peccano invece se non si op- pongono a contatti
impudichi, o a baci insistenti (morosis) e furtivi. E anco- ra: la fanciulla
aggredita allo scopo di usarne violenza è tenuta a urlare ad se liberandam a
turpitudine? Nel caso non invocasse aiuto con la dovuta forza e insistenza lo
stupro si cambierebbe facilmente in consenso peccaminoso. Ma la questione resta
controversa se debba ritenersi consenso il non aver gridato o invocato aiuto,
secondo un’antica sentenza per la quale, praesume- batur puella non clamans
consentiente. Perviene infine a definizioni accurate degli atti turpi,
differenziando quelli compiuti naturalmente da quelli innaturalmente. Ecco la
definizione di fornicazione e di concubinaggio, quali peccati mortali:
Fornicatio est coitus intersolutos ex mutuo consensu. Concubinatus autem non
est aliud quam continuata fornicatio, habita uxorio modo in eadem vel alia
domo; [e quella di stupro, come:] defloratio virginis ipsa invita, et ideo
praeter fornicationis malitiam habet etiam injustitiae. Attraverso una
minuziosa casistica quasi boccaccesca, buona – si direbbe - ad arricchire la
documentazione erotica di un romanziere libertino, il moralista passa in
rassegna le svariate forme di rapporti sessuali, da quelle legittime a quelle
addirittura più strane e peregrine, come l’accoppiarsi in luogo sacro, quali
una chiesa, il cimitero, l’oratorio, il monastero, ecc. Pone addirittura
questioni dubbie sulle maniere e le condizioni in cui tale rap- porto potrebbe
verificarsi. Pur ammettendosi il peccato, sorge la questio se si tratti o meno
di sacrilegio. Ad es. «an copula maritalis, aut occulta abita in Ecclesia, sit
sacrilegium?» Vi si potrebbero emanare tre sentenze differenti: una che ritiene
irrilevante la condizione di coniugi, un’altra la situazione occulta (che
l’abbiano fatto di nascosto) e una terza che ritiene essere sacri- lego l’atto
in ogni caso. Addirittura se si tratta di marito e moglie, secondo alcuni
teologi, l’atto consumato in chiesa potrebbe essere scusato, si ipsi sint in
morali necessitate coeundi, puta si ipsi in pericolo continentitiae, vel si diu
in Ecclesia permanere debeant. Il lettore ne trae l’impressione che l’autore
(più che dietro suggerimenti letterari coevi) vada ad estirpare direttamente
dalla vita, dalle lussuriose esperienze dei peccatori, dalle situazione più
impensabili, apprese nelle lun- ghe ore passate al confessionale ad ascoltare
ed a sollecitare le confessioni più intime dei fedeli, tutte le forme, i modi
che la secolare ricerca del piacere ha suggerito di epoca in epoca all’uomo,
dalle più rozze e volgari maniere di accoppiamento fino alle più raffinate arti
di amare e trarre godimento che proprio I LIBERTINI andano perfezionando e praticando
in forme sempre più sofisticate. La stessa lingua latina – ma qui dovrebbe- ro
dirla i linguisti – si fa molto particolare fino all’uso di neologismi non
presenti nei classici. Parlando della sodomia distingue quella propriamente
detta da quella impropria ed eterosessuale coitum viri in vase praepostero
mulieris esse sodomiam imperfectam, specie distinctam a perfecta. Si quis autem
se pollueret inter crura aut brachia mu- lieres, duo peccata diversa
committeret, unum fornicationis inchoatae, alterum contra naturam. An pollutio
in ore fit diverse speciei? Affirmant aliqui, vocantque hoc peccatum
irrumantionem, dicentes quod sempre ac sit pollutio in alio vase quan naturali,
speciem mutat. Sed probabilius sentiunt quod si pollutio viri sit in ore maris
est sodomia; si in ore feminae, sit fornicatio inchoata, et in super peccatum
contra naturam ut mox diximus... Arriva addirittura ad ipotizzare il coito cum
femina morta, che non rien- trerebbe nella fattispecie dei rapporti bestiali ma
nella polluzione e in quella che Alfonso chiama fornicatio affective. Dalla
sessuofobia all’erotismo peccaminoso: Cortigiane poetesse e libertini filosofi.
L’Eros redento Prendiamo due secoli di storia molto emblematici. Dall’Italia
delle corti signorili alla Francia della grande rivoluzione. Due secoli in cui
l’eros vive una sua storia illustre, tra cortigiane raffinate poetesse e abati
filosofi e libertini. A dirla franca alla sua maniera sull’eros e a dargli
veste poetica disinibita, ci pensa subito Pietro Aretino: ma sempre da una
angolatura tutta maschile. Nonostante si salvi la dignità della partner che qui
giuoca un ruolo attivo di co-protagonista del rapporto amoroso, in cui l’atto
sessuale si trasforma in una sticomitia drammatica non priva di poetica
oscenità. Soltanto nel petrarcheggiare delle cortigiane, come la soave Franco
che riceve sotto le sue lenzuola di tela d’Olanda finanche Enrico III di
Valois, la donna trova finalmente il suo primo vero riscatto sul maschio, con
un suo modo raffinato (di alto erotismo) di 42 pilotare la barca
dell’Amorosa Dea; ad esse, tra principi, sovrani, alti prela- ti, pontefici
gaudenti, spetta il compito di riscattare dall’eterna dannazione l’Eros e
fargli recuperare il valore perduto colla tradizione ebraica-cristiana. Un
recupero, tutto al femminile, del paradiso perduto. Così canta il suo ufficio
amoroso, guidato da Apollo, la dolce Veronica. Febo che serve a l’ amorosa Dea
E in dolce guiderdon da lei ottiene Quel che via più che l’esser Dio il bea, A
rilevar nel mio pensier ne viene Quei modi che con lui Venere adopra Mentre in
soavi abbracciamenti il tiene. Ond’io instrutta a questi so dar opra, Si ben
nel letto, che d’Apollo all’arte Questa ne va d’assai spazio di sopra E il mio
cantar e ‘l mio scrivere in carte S’oblia in chi mi prova in quella guisa Ch’a
suoi seguaci Venere comparte. Nel Settecento, cui ora vogliam far cenno, sia
pur per sommi capi, le cose stavano in modo ben differente da come ce le hanno
rappresentate quando a scuola ci hanno spiegato quel periodo. I libri del
Marchese de Sade rap- presentano, ad es., una nuova filosofia morale e non sono
la pura e semplice invenzione di tecniche erotiche pervertite, come comunemente
si crede. I recenti studi hanno sfatato quella immagine del divin marchese. “La
filo- sofia deve dire tutto”, egli ha affermato: tutto senza ipocrisie e
fingimenti. Egli non fu né il primo né il solo a sostenere i diritti della
carne, che grida la sua legittima soddisfazione contro le assurde costrizioni
della cosiddetta civiltà. Il celeberrimo sadismo: ricerca del piacere
attraverso il godimento per la sofferenza del partner, ha ben altre origini che
le sole discendenze da Sade. Bisognerebbe intanto rifarsi alle meticolese
ricerche di Skipp, di Leeds, che ha schedato tutti i testi erotici inglesi scoprendovi
come l’uso educativo della frusta e le sculacciate a pelle nuda sui ragazzi,
era praticato dai gesuiti in chiave educativa e correttiva, ma finiva per
confinare molto spesso con l’erotismo portando addirittura all’orgasmo vero e
proprio. Nacque un termine: “orbinolismo” che vuol dire “smania di frustare”
(Cfr. Rodez, Memorie storiche sull’orbinolismo). Né si dimentichi, oltre la
pratica, anche l’elogio cattolico, presso non solo l’ordine dei gesuiti ma
anche di Scolopi e Salesiani, fatto in termini pedagogici della frusta e della
sua frequente pratica a scopi educativi e correttivi: virga tua et baculus tuus
salus mea fuerunt!.... A tali osservazioni sul costume del secolo va aggiunto
che la proverbia- le sporcizia che caratterizzava il ménage domestico
dell’epoca anche tra le famiglie nobili e abbienti, non era poi così
generalizzata. Soprattutto le donne avevano introdotto l’uso davvero innovativo
dell’erotico bidet (che ha la forma di violino e, al tempo stesso, quella dei
fianchi femminili) che permetteva loro di mantenere igiene e pulizia in quelle
parti del corpo che ne avevano più bisogno. A tal proposito restano molto
istruttive le pagine dei romanzi erotici e libertini, tra i quali spicca Restif
de La Breton con il suo Anti Justine dove si nota l’uso frequente e
generalizzato di tale strumento da toilette, prima e dopo gli incontri
amorosi.. Perciò, una volta sfatata l’immagine stereotipata del Settecento
illumi- nistico, astrattamente razionalista, irreligioso e dai costumi
depravati, pro- viamo a riguardare sotto diversa luce e angolatura, libere da
pregiudizi e remore moralistiche e confessionali, la letteratura erotica e
d’amore di quel secolo che, oltre tutto, fu di Mozart, di Kant, di Bach, oltre
che di Voltaire, di Rousseau e di Goethe e ci lasciò in eredità non soltanto la
grande rivoluzione dell’89 ma anche quella che fu la più colossale e universale
summa di sapere moderno: l’Enciclopedia, ovverosia dizionario ragionato di
tutte le scienze, le arti e i mestieri contro la quale pullularono subito una
serie di Anti-Enciclo- pedie anche da noi in Italia per porre un argine
all’avanzata di quelle idee di libertà e di progresso civile. Il ricordare LEOPARDI
è qui d’obbligo: Così ti spiacque il vero, dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci diè, per questo il tergo vigliaccamente rivolgesti al lume che il
fe palese... Insomma lo zelo sessuofobico, la guerra dichiarata all’istinto
sessuale porta il sacerdote, il ministro del culto cattolico, il confessore a
scendere nei particolari della vita sessuale singola e della coppia, sia entro
che fuori del matrimonio: a scoprire i più segreti momenti dell’intimità delle
coppie fino a scrutare e distinguere, entro le fantasie erotiche più raffinate,
i comporta- menti più o meno peccaminosi, cioè conformi a canoni tutti da
verificare di volta in volta (casistica). Una sorta di filo invisibile lega
pertanto il pio cen- sore al libertino e al peccatore o la peccatrice (lo
denuncia la stessa corrente espressione possessiva: il” mio” confessore!) tanto
da diventare complemen- tari, avvincersi in un legame indissolubile fino a non
poter più fare a meno l’uno dell’altro14. Ma il legame tra religiosità e
libertinismo, così come tra l’erotismo e la religione cattolica in particolare,
si fa sempre più stretto fino a dipendere l’uno dall’altro: come, in regime
capitalistico, domanda e offerta. Il cattoli- 14 Cfr., infine, “L’Asino” di
Podrecca a Galantara e le critiche positivistiche e anticlericali alla morale
alfonsiana, Feltrinelli, Milano] cesimo deve disciplinare a suo modo il sesso
e, in genere, tutta l’attività e la fantasia umane; l’eros deve trovare entro
una nuova coscienza storica la sua rinnovata voluttà. Ecco allora il piacere
stesso trovar vie differenti rispetto al piacere degli antichi, allor quando
quella ricerca non veniva combattuta, non era un tabù, anzi era apprezzata come
uno dei più ambiti doni della na- tura. Vengono a far parte del piacere anche i
marchingegni e i sotterfugi per eludere le prescrizioni correnti e i limiti che
le norme religiose impongono dall’esterno. Finanche i pregiudizi siano di
ispirazione cattolica o meno - diventano materia di raffinato erotismo.
L’esecrabile peccato della lussu- ria, prodotto tipico del Cristianesimo,
diventa perciò stesso fonte di piacere (la Jouissance illuministica), proprio
perché vietato e esecrato: soprattutto quando l’atto viene compiuto di
nascosto, cogliendo quello che è diventato, dopo la mitica cacciata dal
Paradiso terrestre, il frutto proibito, il godimen- to raggiunto di soppiatto e
contro la legge o la morale corrente perciò più seducente e ricercato per la
sua illegtittimità! La letteratura è piena zeppa di esempi e finisce per
produrre un genere di scrittura narrativa particolare che chiamiamo “erotica” o
“pornografica”: di libri che s’han «da leggere con una mano sola», un genere
che non si spiegherebbe prima del cristianesimo e della dannazione dell’eros e
del piacere e che va dai canti carnascialeschi al Decamerone, al Ruzante, all’ARETINO,
ai poeti dialettali: da BAFFO, veneziano, al grandissimo BELLI, romanesco, al
dimenticato TEMPIO, siciliano, nato a Catania, per arrivare alla letteratura
erotica del romanzo libertino francese in cui confluiscono le innumerevoli
forme e modi di estraniazione, di sogno, di fuga dalla realtà che delineano
l’universo fantastico che sarà la base della letteratura romantica europea e
soprattutto del romanzo e della grande narrativa ottocentesca e contemporanea,
da Balzac a Flaubert, a Hugo a Dumas, dal romanzo russo al nostro MANZONI, a
Zola, a VERGA alla miriade dei narratori dei nostri giorni. In conclusio-ne, ma
in una maniera tutta nuova, possiamo ritenere avesse davvero visto giusto il
grande saggio napoletano CROCE quando affermò che non possiamo non dirci cristiani.
Se persino l’erotismo è stato, malgré lui, influenzato e raffinato dal
cristianesimo. Se ne stanno accorgendo anche in Francia dove nasce la
letteratura libertina e la illuminata filosofia del piacere: dal materialista
La Mettrie all’esecrato marchese De Sade16. 15 Emblematico, per quanto qui si
va rilevando, il romanzo libertino, non ancora tradot- to, D.A.F. de SADE,
Alina et Valcour, ovvero il romanzo filosofico. Cfr., la Mostra: BNF, L’Enfer
de la Biblioteque Nazionale. Eros au secret, Paris, 2 Ricco di titoli, è venuto
alla luce un significativo numero di opere e autori soltanto ad opera di specialisti che li vanno
pubblicando e illustrando. Intanto segnalo l’originale antologia da Mettrie e
Diderot, curata da Quintili, L’Arte di godere. Testi dei filosofi libertini,
Manifesto libri, Roma. Alfonso di Liguori. Girolamo de Liguori. Liguori. Keyword:
“Associazione Filosofica Ligure” – Keywords: implicature critica, ‘… is the
true abyss of human reason” – “il baratro della ragione conversazionale” –
l’anima distilata – il lambicco dell’anima”, redenzione dell’eros, la lussuria,
la degenerazione, la metamorfosi dei linguaggi – The Swimming-Pool Library.
Grice e
Lilla: l’implicatura conversazionale di Vico – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Francavilla
Fontana). Filosofo italiano. Grice: “I like Lilla; for one, he ‘revindicated,’
as he puts it, the philosophy of Vico, which, in Italy, is like at Oxford ‘revinidcare’
Locke!” Formatosi nelle scuole dei Padri Scolopi aderì alle idee cattolico
liberali divulgate dai filosofi della prima metà dell'Ottocento: Gioberti,
Minghetti, Balbo e SERBATI al quale dedicherà molteplici studi subendone una
marcata influenza. Lascia Francavilla per l'ostentata contrarietà di tutto il
clero alle sue idee patriottiche
d'ispirazione giobertiana, manifestate apertamente nel "Programma
d'insegnamento filosofico" pubblicato sul giornale il "Cittadino
leccese", decise di trasferirsi a Napoli ove ebbe modo di confrontarsi con
le idee di Sanctis, Spaventa, Settembrini, Tari e Vera. Si laurea e insegna a
Napoli. Durante questi anni videro la luce "La provvidenza e la libertà
considerate nella civiltà", "Dio e il mondo", e "La
personalità originaria e la personalità derivata" (Nappoli, Rocco), nei
quali getta le premesse degli studi filosofici e giuridici in cui si cimenterà
per tutta la vita: la storia della filosofia, la filosofia teoretica e la
filosofia del diritto; sviluppando altresì e precorrendo una moderna concezione
del rapporto tra "diritti umani e progresso scientifico" sin da “La
scienza e la vita” (Torino, Borgarelli) -- titolo paradigmatico del suo saggio
– cf. Grice, “Philosophical biology,” “Philosophy of Life” Insegna a Messina.
Furono quelli gli anni più fecondi della produzione scientifica volta a
perfezionare la sua concezione dello Stato, approfondire le fonti rosminiane,
confrontarsi con le teorie evoluzionistiche di Spencer e contemporaneamente
intrattenere contatti epistolari con alcuni fra i maggiori filosofi, giuristi,
patrioti e storici dell'epoca quali:
Jhering, Bluntschli, Roy, Tommaseo, Capponi e molti altri. Altri saggi: “Kant
e SERBATI” (Borgarelli, Torino); “AQUINO” (Torino, Borgarelli); “Filosofia del
diritto,”“Critica della dottrina utilitarista liberale empirica etico-giuridica
di Mill”“Le supreme dottrine filosofiche e giuridiche di Vico ri-vendicate” --
“La pretesa persona giuridica e le funzioni personali degl’enti morali” (L.
Gargiulo); “Della Riforma civile di Spedalieri” (Messina, Amico); “Le fonti del
sistema filosofico di Serbati-Rosmini” (L.F. Cogliati); “Due meravigliose
scoperte di Rosmin-Serbatii: l'essere possibile e l'unità della storia dei
sistemi ideologici, Cogliati, Il Canonico Annibale Maria Di Francia e la sua
Pia Opera di beneficenza, Messina, San Giuseppe, Manuale di filosofia del
diritto, Milano, Società editrice , Pagine estratte. Martucci, Il concetto
dello stato Antonio Tarantino, Diritti
umani e progresso scientifico: Polacco, La "Filosofia del diritto”
(Randi); “Filosofia” (Milano, Giuffré); Tarantino, “La filosofia della
giustizia sociale, Milano” (Giuffré) – cfr. H. P. Grice, “Social justice” in
“The H. P. Grice Papers,” Bancroft, MS. In occasione del conferimento della
"Cittadinanza onoraria (di Messina) alla memoria, su nettuno press.Tarantino,
Diritti umani e progresso scientifico: emeroteca.provincia.brindisi. Martucci,Il
concetto dello stato, su emeroteca.provincia.brindisi. Treccani, su treccani. Lettere a Jhering. non
accordabile col supremo principio della Scienza Nuova Ilmiolavoro Vico rivendicato»
meritòl'onoredi essere preso in considerazione dai due più competenti degli stu
dii vichiani, ed al giudizio dei competenti bisogna dare gran peso, perchè
effetto di conoscenza bene approfondita sopra un determinato autore,
specialmente se si mira ricostruire la mente di Vico. Questi scrittori sono
Ferri e Fornari i quali si trovarono in pienissimo accordo, tanto da far
supporro che fosse effetto di un concetto prestabilito. L'accordo fu pie
nissimo nella prima parte del lavoro di carattere puramente critico e
riconobbero che la rivendicazione delle dottrine filoso fiche e giuridiche da
tutte le fallaci interpetrazioni fatte in Europa Rivista Italiana di Filosofia.
Quando gli opuscoli hanno un valore così notevole come quello qui sopra
indicato del prof. Lilla , è giusto segnalarli all'attenzione degli studiosi
piuttosto che i volumi di gran molo o di poca sostanza. Questo lavoro dice
molto in poche pagine e il suo intento è questo: rivedere i giu dizi che sulle
dottrine del Vico sono stati portati in Italia , in Germania e in Francia
particolarmente, ricostruire dietro indagino esatta il concetto di questa
dottrina e questo intento ci pare raggiunto. Il Vico non è sem plicemente un
ontologista platonico, come parrebbe dal giudizio del Gioberti, nè un
razionalista kantiano, o piuttosto un precursore del Kant, come sembra a Spaventa,
nè un positivista como fu rappresentato da altri. Questi apprezzamenti risultarono
dall'interpetrazione parzialeesoggetti va di qualche parte dei pensieri
filosofici del Vico che nelle sue opero non sono esposti in ordine sistematico
, e che l'autore di questo lavoro con grande dili genza raccoglie e combina
riferendo le formole e le parole proprie dell'autore della scienza nuova sparse
nei moltiplici suoi scritti. » era esauriente e condotta con
criterii elevati. La mia interpretazione sulla vera mente di Vico fu
riconosciuta vera ed adeguata tanto che il Fornarì mostrò vivissimo desiderio
di veder fecondare quelle supreme linee con svolgimenti ed appli cazioni.
Dominato da tale pensiero concepii il disegno di scrivere un lavoro di lena,
mirante ad un triplice scopo di rivendicare, illustrare, ed integrare la mente
dell'autore della « Scienza Nuova» A tale scopo indirizza i tutte le mie ricerche
attingendo sempre maggiori lumi dalle sue opere edite ed inedito e fin anche
dai manoscritti che si conservano gelosamente nella bi· blioteca Nazionale di
Napoli. I grandi genii, e segnatamente il Vico che, come non ha guari, fu
appellato da un poderoso intelletto di una delle più famose Università il più
grande filosofo del mondo, muovono da una idea madre fecondissima ed alla quale
rannodava tutte le idee secondarie e particolari. Uvità ed armonia cioè
perfetto organismo è la nota caratteristica del lavoro dei sommi.Ed io vado
riunendo non poche idee per ricostruire su solide basi quest'opera di
architettura gigante e le mie indagini non ric scono infruttuose, e ne è prova
evidentissima questo frammento inedito dal titolo « Pratica della Scienza nuova
. » Non poche censure mosse la turba dei filosofanti al Vico perchè s'ispirava
a concezioni idealistiche negligentando la pra tica della vita. Tale critica
presenta apparenze di verità tanto che VICO stesso no rimase impressionato,ma
raffrontando dottrine a dottrine si coglie il genuino e loro vero significato.
La grand o idealità diquestamassima la storia ideale eterna delle nazioni. L.
ha liberato la dottrina del VICO da tutte le fallaci inter petrazioni. La sua
dottrina che mi pare giusta, merita di essere più larga mente svolta. » Nel
volume delle Onoranze; è una vera esagerazione , e chi si addentra nella parte
riposta del sistema Vichiano si accorgerà che non si possa ascrivere ad essa
une perfetta interpetrazione astratta e specialmente raffrottandola colla
psicologia sociale che sta a base del processo del filosofo napoletano. Bisogna
por mente innanzi tutto alle tre fasi che percorre l'umanità nella sua storica
evoluzione; età del senso, della fantasia, e della ragiono. E molto più alla
dottrina del corso e ricorso delle nazioni, cioè al loro periodo d'infanzia, di
giovinezza e di vecchiaia. Valga ciò a smentire l'assoluto idealismo del VICO
il quale è puramente immaginario. Tutta la seconda Scienza nuova è derivata
dalla psicologia sociale evoli tiva e tutti i diritti, i costumi, le religioni,
le costituzioni plitiche degli stati sono emanazionidiquesto principio. Nelprimo
stadio tutto è divino, gli uomini inselvatichiti hanno un diritto divino, tuttoprocededagli
Dei; il Governo teocraticorappresen ato dagli oracoli, la lingua divina per
atti muti di religiose cerimonie. In Giove e Giunone si personifica ciò che si
riferisce agli auspicii ed alle nozzo: la Giurisprudenza è scienza d'intendere
i misteri della divinazione; il giudizio divino, cio è che nei templi
divini,tutte le azioni sovo invocazioni agli Dei :ogni dritto è divino,ogni
pena è sacrificio, ogni guerra assume carat tere religioso ed ha giudici gli
Dei: od il giudizio di Dio si riduce a duello ed alle rappressaglie : tali
categorie sono sim boleggiate dal lituo, dall'acqua e fuoco sopra un altare.
Seguo poi un ordine di fatti eroici da cui deriva la natura eroica, o dei nati
sotto gli auspicii di Giove, il costumo eroico como quello di Achille, il
governo civico o aristocratico o dei for tissimi, la lingua eroica o delle armi
gentilizie o stemmi. I caratteri eroici come Achille ed Ulisse, che personificano
tutte le grandezze e i savii consigli. La giurisprudenza eroica, che stà nella
solennità delle formule della legge, la ragione di stato conosciuta dai
pochi provetti del governo, il giudizio eroico che consiste nell'esatta
osservanza delle formule e precipua mente deriva il feudo dalla proprietà dei
forti. Infine c'è un or dine di fatti umani, cui corrisponde la natura umana
intelligente e perciò benigna,modesta, che riconosce per legge lacoscienza, la
ragione, il dovere, e poi il costume officiale, indi il diritto umano fondato
dalla ragione, il governo umano dettato dalla ragione, la lingua umana, Abbiamo
motivo di credere che VICO impressionato dalle obiezioni dei contemporanei
vollo dichiarare il supremo princi pio della Scienza Nuova, cioè la storia
eterna ed ideale delle nazioni con questo frammento e senza addarsene
disconobbe l'efficacia positiva della Scienza nuova. Egli dotato di
mente speculativa, pratica e progressiva, non si poteva mai acconciare a
vivere di formule astratte e di umana , il parlare articolato , i
caratteri in telligibili, che la mente umana rivelò dai generi fantastici se
parando le forme e le proprietà dai subietti. La giurisprudenza umana che mira
non al certo, ma alvero delle leggi. L'auto rità umuna che nasce dalla rinomanza
di persone capaci e sa pienti nelle agibili ed intelligibili cose , la ragione
umana o ragione naturale che divide a tutte le uguali utilità. Il giu dizio
umano velato di pudore naturale e mallevadore della buona fode che ai fatti
applica benignamente le leggi temperandone il rigore. E questi fatti hanno ancheiloro
simboli nellabilanciache rappresenta le qualità civili nelle repubbliche
popolari, perchè la natura ragionevole è uguale in tutti gli uomini. Questi tre
ordinidifatti riposanointreprincipii, chesono:iltimore, l'amore , il dolore,
simboleggiati dallo altare, dalla pace e dal l'urnacineraria,ecosì sifondarono
loreligioni, imatrimoni e l'immortalità dell'anima.In questi concetti
siriassume tutta la seconda Scienza nuova. Rispettaro tutto quanto i nostri
maggiori operarono di grande è la disposizione più favorevole a quest'opera di
conciliazione, ma perchè il ri spettonon portia delle idee esclusive e non soffochi
la libertà dei nostri giudizi verso lo scopo ultimo della scienza, avvicinata a
questo scopo la pro duzione più perfetta dell'uomo, ci rivela la sua
imperfezione , in questo modo è riconosciuta la necessità dell'Ideale, perchè
fossecriticatoemiglio rato il presente.
puri concetti metafisici, poichè il processo inquisitivo che egli
seguiva aveva un fondamento storico e dava origine ad un temperato e
ragionevole positivismo, pel quale non si poteva disgiungere la scienza dalla
vita.Egli ben vedeva che la scienza fuori la vita era una vana supellettile
intellettuale, un giuoco dialettico del pensiero e non punto proficua al
beninteso pro gresso delle nazioni. Esiste un ideale di perfettibilità , supe
riore , ma non indipendente dalla vita , verità questa intuita dall'antesignano
della scuola storica tedesca, da Savignys, ilquale era ammiratore passionato
delle istituzioni giuridiche romane nelle quali vedeva la più alta
manifestazione del progresso giu ridico. Ma fatto maturo di anni e di senno
confessò apertamente che per quanto possono sembrare perfette le istituzioni
romane, pure comparate all'idealità mostrano la loro incompiutezza. VICO gittò
le basi di una vasta costruzione scientifica fondata nel processostorico–
filosofico. E dàbiasimo al divorzio fraquesti due processi metodici, in questa
memoranda sentenza Peccarono per metà i filosofi perchè non accertarono le loro
idee coll’autorità dei filogici; peccarono per metà i filologi perchè non
inverarono la propria conoscenza coll'autorità dei filosofi». La storia ci
rivela il certo, l'origine, le fasi o gl'incrementi degl'istituti politici,
sociali giuridici, e la filosofia rivela l'ele mento razionale e addita le
perfezioni ideali, cui si possono inalzare; veritá questa intuita da Bacone da Verulamin.
I filosofi, dic'egli, scoprono molte cose belle a contemplarsi, ma impossi bile
ad essere attuate, ed i giuristi ragionanı) come prigionieri nelle catene. Alla
mente di VICO si affaccia, un dubbio che poteva presentare questo supremo
principio della scienza studiossi ripararvi con questo frammento inedito. Tutla
quesť opera è stata ragionata come una scienza puramente spe culativa intorno
alla comune natura dello nazioni. Però sembra per quest’istesso mancare di
soccorrere alla prudenza umana, ond'ella si adoperi perchè le nazioni, le quali
vanno a cadere o non ruinino affatto, o non s'affrettino alla loro ruina ed in
conseguenza mancare nella pratica , qual dev'essere di tutte le scienze, che si
ravvalgono d'intorno a materie , le quali dipendano dall'umano arbitrio , che
tutte si chiamano attive. Anche nella coscienza dei grandi vi sono delle oscil
lazioni sulle loro concezioni. VICO nel fram . citato, dice che la scienza
pratica non si possa dare dai FILOSOFI, ma i filosofi civili e i reggitori
degli stati possono creare costituzioni politiche e leggi, e richiamare le
nazioni al loro stato di perfe zione. Niente di più vero: le nazioni e tutto il
mondo moralo creato dall'arbitrio umano non può ridursi a categorie logiche,
non può essere sottoposto alla legge ferrea della necessità, e quindi la
scienza puramente contemplativa o ideale non può contenere nella sua orbita le
leggi relative dei fatti umani. Se quest'ordine è indipendente dalla necessità
logica, può essere [Qui do legibus scripserunt, omnes vel tanquam PHILOSOPHI,
vel tan quam Jureconsulti, argumentum illud tractaverunt. Atque Philosophi
proponunt multa dictu pulcra, sed ab uso remoto. Jureconsulti autem, suae
quisque patria legum , vel etiam Romanorum, aut Pontificiarum placctis
abnoxüetad dicti, judicio sincero non utuntur,sedtanquam evincolis
sermocinantur. Tractatus de dignite et augmentis scientiarum ; solo regolato o
disciplinato dalle scienze pratiche ed attive e non dall'ordine puramente
scientifico. Nel capitolo VIII della seconda Scienza nuova pare che VICO
incorra in un'incoe renza, in quanto si propone di trattare di una storia
eterna sulla quale corre di tempo la storia di tutte le nazioni con certo
originiecerteperpetuità,e poidico chelescienze pratiche possono regolare la vita.
Ma come si può parlare d'una storia eterna, sulla quale sono modellate le
storie di tutte le nazioni se il mondo morale, con tutti i suoi fattori ,
procede dall'arbitrio umano ? Questo ardito disegno del filosofo napoletano
racchiude un pen siero riposto. Questa Storia eterna delle nazioni,
modellatrice, esemplatrice di tutte le storie delle nazioni è uno dei più
grandi problemi della Scienza Nuova, che è assai bisognoso di com menti
illustrativi ed esplicativi. In questo capitolo si nasconde una speculazione
alta, e, dirò meglio, vertiginosa. Qui il Vico si rivela come idealista, o
meglio tale appare, poichè nello stabilire un ideale comune a tutte le nazioni
pare che proceda con un metodo astratto e formale, cioè como un ideale fanta
stico di pura creazione del cervello. Parvenza vana inganna trice! Ad un
pensatore meditativo apparisce,com'è infatti, una dottrina a fondo realistico.
Essa non è generata ma è ricavata da uno studio coscienzioso ed accurato dei
fatti. Il diritto naturale delle genti è reale quanto la natura umana, ed è la
fonte di questa dottrina. Secondo la mente di VICO non si potrà revocare in
dubbio l'esistenza d'un dritto naturale, comune a tutti i popoli. Cotal
diritto, comune a tutte le nazioni, ricavasi dalla psicologia sociale , la
quale ci attesta la natura comune sociale dei popoli. Questo argomento
comparativo trova la sua conferma nel fatto irrecusabile che questo diritto comune,
patrimonio di tutto le genti, non poteva essere stato trasferito o comunicato
da popolo a popolo, perchè fra loro non vi era, nè era possibile nes suna
comunanza di relazione. Ponendo mente all'esistenza di un diritto naturale
identico a tutti, o perciò universale e necessario, non si può negare un sicuro
fondamento all'esistenza d'una sto ria eterna nella quale corrono di tempo in
tempo le storie di tutte le nazioni. Il diritto é uno, come uno è il tipo
umano. Nella varietà dei costumi dei popoli vi è qualche cosa che non va ria nè
si trasforma. Dunque uno è il diritto, ed una è la storia ideale delle nazioni
, la quale è fondata sull'unità del diritto. Dunque dalla medesimezza del
costume, sigenera ildirittona turale,e da ciò nasce ildisegno di una storia
eterna delle na zioni Concetto ardito e profondo, poichè in tanto è possibile
una storia eterna ed ideale, in quanto vi è un tipo unico nel di ritto e nel
costume. I grandi genii hanno il presentimento di certe verità che poscia
approfondite dalle venture generazioni acquistano piena coscienza. Questa
divinazione del VICO oggi è rifermata dalla analisi comparativa degli istituti
giuridici e politici, e questa scienza divinata dal Vico è una delle più belle
glorie dei nostri tempi, a cui un forte ingegno siciliano addisse il suo
ingegno e ne abbozzò il primo disegno. E qui si adombrano le prime lince di un
metodo armonico fra il vero e il fatto, fra LA FILOSOFIA e la Storia La Storia
dei costumi deve emanare da due cause coefficienti: dall'ordine reale e
dell'ordine ideale,e così si avvera il gran principio di VICO, verum et factum
reciprocantur. Ma l'ordine ideale per non essere una chimera deve Ideo uniformi
nate appo interi popoli fra essi loro non conosciuti, debbono avere un motivo
comune di vero. Scienza nuova, Dignitá. avere un'origine per quanto
rimota,ma sempre realistica, non è fantasmagorico, ma ricavato,o meglio
osservato nell'elemento comune che presenta il costume dei popoli,e perciò non
è in fecondo e sterile,ma proficuo alla vita. (1Questo brano è tolto dal capitolo
Incoerenze di Vico del mio saggio: La mente del VICO rivendicata, illustrata e
integrata. A riassumere la dottrina giuridica di Vico è
indispensabile determinare i principi fondamentali dell» scuola
storico-filosofica da Ini splendidamente rappresentata. La
Scienza Nuova è lu riprova più sicura della lenominazione apposta ; iu
quel lavoro di architettura gigante si vede adombrato il disegno dell’armonia
fra i principii razionali e il fatto storico. La psicologia sociale è il
substratum delle leggi, delle religioni, delle lingue e di tutti gli
altri elementi della civiltà. In quella filosofia della storia contenuta
in germe LA FILOSOFIA DEL DIRITTO POSITIVO, perchè le costituzioni civili,
sociali e politiche sono conseguenza necessaria della vita, della cultura
e dei costumi delle varie nazioni. Egli divide in tre grandi
periodi la storia civile delle nazioni, cioè l’età del senso, della
fantasia e della ragione, e tutti i fattori dell’incivilimeiito,
dalla religione alla lingua, da questa alla giurisprudenza c infine
alla politica rispecchiano fedelmente le immagini e i caratteri di quei tre
grandi avvenimenti '‘tarici. Anche nell’opera, De universi iurte et
prtnùfno et fine uno le ricerche del DIRITTO FILOSOFICO sono accompagnate
dall’indagine storica e innumerevoli applicazioni fa al diritto romano, da
cui poi si eleva ai supremi principii giuridici. Questo sapiente
indirizzo trova la ragion di essere in quel supremo pronunziato del De
antiquissima Italorum sapiential, che « verum et factum reeiprocantur. Il fatto
adunque deve procedere di conserva col vero, altrimenti si cade o nel
formalismo astratto o nell’imperiamo gretto. E con questo criterio VICO dà
biasimo ai FILOSOFI ed ai filologi; mancarono per metà I FILOSOFI perché
non accertarono le loro idee con l’autorità dei filologi, e mancarono per meta
i filologi perchè non avverarono le loro idee con l’autorità dei
filosofi. Il vero e il fatto sono due termini convertibili, e,
perchè convertibili, l’indagine storica trova la sua vera integrazione
nei principii di ragione, e questi hanno il loro fondamento nell’ordine
dei fatti bene accertati. Storia e Ragione sono adunque i due
fattori del diritto filosofico e, quando si scinde il fatto dal
vero, si avrà del diritto un’idea esclusiva, incompiuta,
o fallace. Il diritto, secondo VICO, è un’idea umana, vale a
dire un principio ideale e storico, o meglio un principio ideale che si
attua nella storia; e tanto è vero ciò che mette radice nell’ordine
eterno dell’eterna ragione o dell’eterna volontà in quanto prescrive alia
volontà umana l’equo bono. Secondo questa dottrina il diritto deriva da
due cause coefficienti, cioè: l’utile e l’eterna ragione. L’una dà la
forma e l’altra la materia. Utilità» fiiit occasio iuris, honestas causa.
Tutto ciò risponde esattamente allo spirito del sistema vichiano. Infatti la
plebe, insorgendo contro il patriziato, conquistava i propri diritti, eppure
era mossa dalla molla dell’interesse. Sicché il progresso morale e
civile delle nazioni era occasionato dalle passioni, lagli interessi, i
quali contribuivano a far riconoscere i principii razionali. Quao vis veri sen
liumann ratio virtus est quantuin cum cupiditate pugnat. Quantum utilitates
diligit et exquat, quao nnum universi iuris principium unusque iincs. L’utile
non è per sè stesso né onesto nè turpe, ma pnò divenire l’uno o l’altro
quando è o confonne o disforme alla giustizia. Ecco dunque come il diritto
ha l’anima e il corpo, la materia e la forma, ed lia un contenuto etico,
che applica nell’utile. E da ciò segue la definizione del
diritto: Igitur ius est in natura utile a eterno, coniincusu acquale. I
punti salienti nei quali si rias mine la teorica del Vico sono i seguenti
: l’indagine storica, base della ricerca razionale, convertibilità. del vero
col fatto; insidenza del diritto nel bene, incarnata nella formula dell’equo
buono : inerenza dell’equo buono nell’ordine eterno; futilità in quanto è
regolata dalla ria veri; l’utile è materia; e la ragione forma del
diritto. Vincenzo Lilla. Lilla. Keywords: implicature, Vico, Vico ri-vendicato,
Vico ri-vendicate, Luigi Speranza, “Grice e Lilla: la semiotica di Vico” – The
Swimming-Pool Library. “Il Vico di Lilla” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Limone: l’implicatura
conversazionale della simbolica del potere – filosofia italiana – Luigi
Speranza (Atella). Filosofo
italiano. Grice: “I like Limone; like me, he has explored the idea of value in
terms of catastrophe – I didn’t. He has explored the poetics of philosophy –
and he has investigated on a concept that Strawson and I always found
fascinating, that of a person!” -- “Che cosa è, nel mondo umano, la persona?” “Tutto.”
“Che cosa è, nel mondo contemporaneo, la persona?”” Nulla.” Persona e
memoria, Rubbettino. La sua ricerca filosofica si inserisce nel solco del
personalismo comunitario. Si laurea a Napoli e il Roma. Studia a Parigi e a Châtenay-Malabry,
sede dell'Association des amis de Mounier, presso la Comunità dei muri bianchi,
cui appartenevano Fraisse, Ricœur, Mounier, Domenach. Insegna a Napoli. I suoi
interessi di ricerca abbracciano aspetti epistemologici, etici,
filosofico-pratici e simbolici. Al centro della sua attenzione teoretica è “la
persona”. Fonda la rivista "Persona” e "Symbolicum" sulla
simbolica. SIMBOLO. Sonda in profondità l’idea di persona. Là dove la persona
non è né la semplice nobilitazione dell’essere umano in generale, né una
singola unità seriale. Della persona si può dare idea, non “concetto”, perché
l’idea è aperta come la vita, mentre il concetto è chiuso. L’idea di persona,
però, non è l’idea di un quid ma di un “QVIS” perché la persona è un “chi” (“Someone
is hearing a noise”) non un “che” (“Something is hearing a noise”)– That’s why
it’s very wrong to call “the chair is red” as third-PERSON seeing that the
chair is hardly a person!” è l’idea di un’essenza che non può essere separata
dalla concreta singola esistenza, originalissima e dotata di dignità. In quanto
idea di un “quis”, la persona si presenta come l’altro versante del teorema
d’incompletezza di Gödel. Il significato della persona si delinea all’interno
di una costellazione in cui essa: -è realtà singolare e la sua idea; -è
prospettiva ontologica sussistente e la sua verità; -è la parte di un tutto che
solo parzialmente è parte, perché per altro verso si presenta come un tutto, in
quanto è irriducibile al tutto e indivisibile in sé; -è l’eccezione istituente
una regola che riesce, e non riesce, a farsene istituire; -è l’idea di qualcosa
che resiste alla possibilità di essere ricondotto a un’idea; -è l’idea di un
appartenere che resiste all’idea di appartenere. L’essere della persona
richiama, a suo modo, il problema delle antinomie di Russell. Un tale
arcipelago di paradossi costituisce, però, una forza virtuosa che interroga
ogni sistema. La persona si configura come invenzione teorica, paradosso logico
e misura epistemologica, e rappresenta il punto strutturale di base che istituisce
la visione del gius-personalismo. Altri saggi: “Tempo della persona e sapienza
del possibile: Valori, politica, diritto (ESI, Napoli); “Tempo della persona e
sapienza del possibile: Per una teoretica, una critica e una metaforica del
personalismo (ESI, Napoli); La catastrofe come orizzonte del valore, Monduzzi,
Milano. Bellezza e persona, su “Aisthema” “La macchina delle regole, la verità
della vita. Appunti sul fondamentalismo macchinico nell’era contemporanea, in
La macchina delle regole, la verità della vita (Angeli, Milano); Che cos’è il
gius-personalismo? Il diritto di esistere come fondamento dell’esistere del
diritto, Monduzzi, Milano. Ars boni et aequi. Ovvero i paralipòmeni della
scienza giuridica. Il diritto fra scienza, arte, equità e tecnica (Angeli,
Milano), Filosofia e poesia come passioni dell’anima civile. La persona fra potere
e memoria in Persona, Artetetra, Capua. Persona e memoria – cf. Grice,
“Personal identity” -- “Oltre la maschera” il compito del pensare come diritto
alla filosofia, Rubbettino, Soveria Mannelli. Poesia Polifonia d’un vento
(Salerno-Roma). Dentro il tempo del sole (Salerno-Roma). Ore d’acqua
(Salerno-Roma). Incontrando il possibile re (Salerno-Roma). “Notte di fine
millennio” (Bari). Fenicia, sogno di una stella a nord-ovest (Roma). L'angelo
sulle città, in onore del figlio (Roma ). Le ceneri di Pasolini (Pasturana, Alessandria).
Aforismi di un impiccato felice (Salerno). Aforismi del passato duemila:
distruzioni per l'uso (Salerno). Ossi di limone. Aforismi di uno scostumato
(Vatolla). Sierra Limone. Dai taccuini fenici di Er Limonèro (Vatolla). NV. Melchiorre,
Essere persona, Fondazione A. e G. Boroli, Milano Fondazione roberto farina. Giuseppe
Limone. Limone. Keywords: simbolo, simbolismo, la dimensione del simbolo, ventennio, fascismo, simbolica del potere,
mistica fascista, damnatio memoriae, la composita, la simbolica, simbolo,
composito. Strawson, “The concept of a person” – Ayer: “The concept of a
person” – Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Limone: la composita” --. Luigi Speranza, “Grice e Limone: umano e
persona” – The Swimming-Pool Library.
Grice
e Lisi: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A Pythagorean.
When the Pythagoreans were being persecuted in Italy, L. escapes and makes his
way to Teba. There he becomes the tutor of Epaminonda, the city’s military
leader. He writes a letter to Ipparco. Lisi
Grice
e Lisiade: all’isola – la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana –
Luigi Speranza (Catania). Filosofo
italiano. A Pythagorean according to Giamblico di Calcide.
Grice
e Lisibio: la diaspora di Crotone -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Taranto). Filosofo italiano. A
Pythagorean according to Giamblico di Calcide.
Grice
e Lisimaco: il portico romano -- Roma –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Firenze). Filosofo italiano. He belonged to The Porch. The
tutor of Amelio Gentiliano. Since Amelio comes from Firenze, that may be taken
as having been the home of L. as well.
Grice
e Livio: la storia romana come fonte della morale romana – etica togata -- Roma
– filosofia italiana – Luigi Speranza (Padova) Filosofo italiano. Although famous as one of the
great Roman historians, he is also a philosopher, who popularises the genre of
the ‘dialogo filosofico.’ Pre-testo. DISCORSI SOPRA LA PRIMA DECA
DI LIVIO di MACHIAVELLI, FIRENZE, G. BARBÈRA, EDITORE. MACHIAVELLI A ZANOBI BUONDELMONTI
E COSIMO RUCELLÀI SALUTE. o vi mando un presente,
il quale se non corrisponde agl’obblighi clic io
ho con voi, è tale senza dubbio, quale ha potuto Niccolò Machiavelli
mandarvi maggiore. Perchè in quello io ho espresso
quanto io so, quanto io ho imparato
per una lunga pratica e continova lezione
delle cose del mondo. E non porlendo
nè voi nè altri disiderare da me più,
non vi potete dolere se io non vi ho
donato più. Bene vi può incrcsccre della
povertà dello ingegno mio, quando siano
queste mie narrazioni povere ; e della fallacia del
giudizio, quando io in molte parli , discorrendo, m'inganni. Il che
essendo , won so quale di noi si abbia
ad esser meno obbligato all’altro; o io a voi ,
che mi avete forzalo a scrivere quello ch’io
mai per me medesimo non arci scritto; o
voi a me, quando scrivendo non abbi soddisfatto.
Pigliate, adunque, questo in quello modo
che si pigliano tulle le cose degli
amici: dove si considera più sempre la
intenzione di chi manda, che le qualità
della cosa che è mandata. E crediate che in
questo io ho una salis fazione , quando io penso
che, sebbene io mi fussi ingannato in
molle sue circostanze, in questa sola so eh
io non ho preso errore, di avere
delti voi, ai quali sopra tutti gli altri
questi miei Discorsi indirizzi : sì perché,
facendo questo, ini pnre aver mostro
qualche gratitudine de benefizii ricevuti : si
perchè e mi pare esser uscito fuora dell’uso
comune di coloro che scrivono , i quali sogliono
sempre le loro opere a qualche principe
indirizzare ; e, accecati dall’ambizione c dall’avarizia,
laudano quello di tutte le virtuose
qualitadi, quando di ogni vituperevole parte
doverrebbono biasimarlo. Onde io, per non
incorrere in questo errore, ho eletti non
quelli che sono Principi, ma quelli che
per le infinite buone parti loro
meriterebbono di essere ; nè quelli che
polrebbono di gradi, di onori e
di ricchezze riempiermi, ma quelli che, non
polendo, vorrebbono farlo. Perchè gli uomini,
volendo giudicare dirittamente, hanno a stimare quelli
che sono , non quelli che possono esser
liberali; e così quelli che sanno , non
quelli che, senza sapere, possono governare un regno.
E gli scrittori laudano più Icronc Siracusano
quando egli era privato, che
Perse Macedone quando egli era re: perchè a
Icronc a esser principe non mancava altro
che il principato; quell’altro non avera parte alcuna
di re, altro che il regno. Godetevi,
pertanto quel bene o quel male che voi
medesimi avete voluto : e se voi starete in
questo errore, che queste mie oppinioni vi
siano grate , non mancherò di seguire il
resto della istoria, secondo che nel
principio vi promisi. Valete Ancouaciiè, per
la invida natura degli uomini, sia sempre
stato pericoloso il ritrovare modi ed
ordini nuovi, quanto il cercare acque e
terre incognite, per essere quelli più
pronti a biasimare che a laudare le azioni d’
altri ; nondimeno, spinto da quel naturale
desiderio che fu sempre in me di
operare, senza alcun rispetto, quelle cose
che io creda rechino comune benefìzio a
ciascuno, ho deliberato entrare per una via,
la quale, non essendo stata per ancora
da alcuno pesta, se la mi arrecherà fastidio e
diffìcultù, mi potrebbe ancora arrecare
premio, mediante quelli che umanamente di
queste mie fatiche conside-rassero. E se T
ingegno povero, la pocoesperienza delle
cose presenti, la de-bole notizia delle
antiche, faranno que-sto mio conato difettivo e
di non moltautilità ; daranno almeno la via
ad al-cuno, che con più virtù, più
discorso egiudizio, potrà a questa mia
intenzionesatisfare: il che se non mi
arrecheràlaude, non mi dovrebbe partorire
bia-simo. E quando io
considero quantoonore si attribuisca all’antichità, c
comemolte volte, lasciando andare moltialtri
esempi, un frammento d’ una antica statua
sia stato comperato granprezzo, per averlo
appresso di sè, onorarne la sua casa,
poterlo fare imitareda coloro che di
quella arte si diletta-no; e come quelli
poi con ogni indu-stria si sforzano in
tutte le loro opererappresentarlo: e vcggendo,
dall’altrocanto, le virtuosissime operazioni che
leistorie ci mostrano, che sono state
operate da regni cda repubbliche
auliche,dai re, capitani, cittadini, datori
di leggi,ed ultri che si sono per
la loroatfaticati, esser più presto
ammirate cheimitate; au/i in tanto da
ciascuno inogni parte fuggite, che di
quella anticavirtù non ci è rimaso alcun
seguo:posso fare che insieme non me
nelavigli e dolga; e tanto più, quantoveggio
nelle differenze che intra iladini
civilmente nascono, o nelle inalattie nelle
quali gli uomini incorrono,essersi sempre
ricorso a quelli giudiciio a
quelli rimedi che dagli antichi sonostati giudicati
o ordinati. Perchè le leggicivili non sono
altro che sentenzio datedagli antichi
iurcconsulti, le quali, ridotte in ordine, a’
presenti nostri iure-consulti giudicare
insegnano; nè ancorala medicina è altro che
cspcrienzia fattadagli antichi medici, sopra
la quale fon-dano i medici presenti li loro
giudicii. Nondimeno, nello ordinare le repubbli-che,
nel mantenere gli Stati, nel govcr-nai e i
regni, nell’ ordinare la milizia
edamministrar la guerra, nel giudicare
isudditi, nello accrescere lo imperio,
nonsi trova uè principi, nè repubbliche,
nècapitani, nè cittadini che agli
esempidegli antichi ricorra. Il che mi
persuadoche nasca non tanto dalla
debolezzanella quale la presente educazione
hacondotto il mondo, o da quel male
cheuno ambizioso ozio ha fatto a
molteprovincie c città cristiane, quanto dalnou
avere vera cognizione delle istorie,per non
trarne, leggendole, quel senso,nè gustare
di loro quel sapore che lehanno in
sè. Donde nasce che infinitiche leggono,
pigliano piacere di udirequella varietà
delli accidenti che in essesi contengono,
senza pensare altrimeuted’ imitarle, giudicando
la imitazione nonsolo difficile ma impossibile:
come se ilcielo, il sole, gli
elementi, gli uominifossero variati di
moto, d’ordine e dipotenza, da quello eli’
egli erano antica-mente. Volendo, pertanto,
trarre gli uo-mini di questo errore,
ho giudicalo ne-cessario scrivere sopra tutti
quelli libri di L. che dalla malignità
deitempi non ci sono stati interrotti,
quelloche io, secondo le antiche e modern cose,
giudicherò esser necessario permaggiore
intelligenzia d'essi; acciocchécoloro che questi
miei discorsi legge-ranno, possino trarne quella
utilità perla quale si debbe ricercare
la cogni-zione della istoria. G
benché questa impresa sia difficile, nondimeno,
aiutato dacoloro che mi hanno ad
entrare, sotto aquesto peso confortato,
credo portarloin modo, che ad un
altro resterà brevecammino a condurlo al
luogo destinato. I. Quali siano stati
universalmente i pr incipit’ di qualunque città ,c
quale fosse quello di ROMA. Coloro che
leggeranno qual principio fosse quello della
città di ROMA, e da quali legislatori e
come ordinato, non
si maraviglieranno che tanta virtù sisia
per più secoli mantenuta in quella città; e
che dipoi ne sia nato quello im-perio,
al quale quella repubblica ag-giunse. E volendo
discorrere prima il nascimento suo, dico
che tutte le cittàsono edificate o dagli
uomini natii delluogo dove le si
edificano, o dai forestieri. Il primo caso
occorre quandoagli abitatori dispersi in
molte e piccole parli non par vivere
sicuri, nonpotendo ciascuna per sè, e per
il sitoe per il piccol numero, resistere
all’impeto di chi le assaltasse; e ad
unirsi perloro difensione, venendo il nemico,
nonsono a tempo; o quando fossero, converrebbe
loro lnsciare abbandonati molti de’ loro ridotti,
e cosi verrebbero ad esser sùbita preda dei
loro nemici: talmente che, per fuggire
questi pericoli, mossi o da loro medesimi, o
da alcunoche sia infra di loro di
maggior autorità, si ristringono ad abitar
insieme in luogo eletto da loro,
più comodo a vivere e più facile a difendere.
Di queste,infra molle altre, sono state
Atene e Vincaia. La prima, sotto l’autorità
di Teseo, fu per simili cagioni dalli
abitatoridispersi edificata; l’altra, sendosi
moltipopoli ridotti in certe isolette che
eranonella punta del mare Adriatico, per fuggire quelle
guerre che ogni dì, per loavvenimento
di nuovi barbari, dopo ladeclinazione dello
imperio romano, na-scevano in ITALIA,
cominciarono infra loro, senza altro principe
particolareclic gli ordinassi, a vivere sotto
quelleleggi che parvono loro più atte a
mantenerli. Il che successe loro felicemente per
il lungo ozio che il sito dette loro,
non avendo quel mare uscita, e nonavendo
quelli popoli che affliggevano ITALIA, navigi
da poterli infestare: talché ogni picciolo
principio li potò fare ve-nire a quella
grandezza nella quale sono. Il secondo
caso, quando da genti forestiere è edificata
una città, nasce o dauomini liberi, oche
dipendano da altri come sono le colonie
mandate o da unarepubblica o da un principe,
per Sgra-vare le . loro terre d’abitatori, o
per di-fesa di quel paese che, di
nuovo acqui-stato, vogliono sicuramente e senzaspesa
mantenersi; delle quali città IL POPOLO ROMANO ne
edificò assai, e pertutto l’imperio suo:
ovvero le sono edi-ficate da un principe,
non per abitarvi,nia per sua gloria;
come la città di Alessandria da Alessandro.
E per nonavere queste cittadl la loro
origine libera,rade volte occorre che le
facciano pro-gressi grandi, e possinsi intrai
capi deiregni numerare. Simile a queste fu
V edificazione di FIRENZE, perchè (fi edificatada’
soldati di SILLA, o, a caso, dagli
abitatori dei monti di Fiesole, i quali,
confi-datisi in quella lunga pace che sotto
OTTAVIANO nacque nel mondo, si ridusseroad
abitare nel piano sopra Arno) si edi-ficò sotto
l’imperio romano; nè potette,ne’ principii
suoi, fare altri augumentiche quelli che
per cortesia del principe li erano
concessi. Sono liberi li edificatori delle
cittadi, quando alcuni popoli,o sotto un
principe o da per sé, sonocostretti, o per
morbo o per fame o perguerra, od
abbandonare il paese potrio,e cercarsi nuova
sede : questi tali, oegli abitano le
cittadi elle e’ trovano neipaesi eli’ egli
acquistano, come fece Moisè; o ne edificano
di nuovo, come fe ENEA. In questo
caso è dove si conosce la virtù dello
edificatore, e la fortunadello edificato: la
quale è più o menomeravigliosa, secondo che
più o menoè virtuoso colui che ne è stato
principio.La virtù del quale si conosce
in duoimodi: il primo è nella elezione
del sito;F altro nella ordinazione delle
leggi. Eperchè gli uomini operano o per
necessità o per elezione; e perchè si vede quivi
esser maggiore virtù dove la elezione ha
meno autorità; è da considerare se sarebbe
meglio eleggere, per laedificazione delle
cittadi, luoghi sterili,acciocché gli uomini, costretti
ad indùstriarsi, meno occupati dall’ozio,
vives-sino più uniti, avendo, per la
povertàdel sito, minore cagione di
discordie;come intervenne in Raugia, e in
moltealtre cittadi in simili luoghi
edificate:la quale elezione sarebbe senza
dubbiopiù savia e più utile, quando gli
uo- .mini fossero contenti a vivere delloro,e
non volcssino cercare di comandarealtrui.
Pertanto, non potendo gli uominiassicurarsi
se non con la potenza, ènecessario fuggire
questa sterilità del
pnese, e porsi in luoghi fertilissimi
;dove, potendo per la ubertà del sito
ampliare, possa e difendersi da chi l’ assaltasse, e
opprimere qualunque alla grandezza sua si
opponesse. G quanto a quell’ozio che le
arrecasse il sito, si debbe ordinare che a
quelle necessitadi le leggi la costringhino
che ’l sito non la costringesse; ed
imitare quelli che sono stati savi, ed
hanno abitato in paesiamenissimi e fertilissimi,
c alti a pròdurre uomini oziosi ed inabili
ad ogni
virtuoso esercizio: chè, per ovviare
aquelli danni i quali l’amenità del
paese,mediante l’ozio, arebbero causati,
hannoposto una necessità di esercizio a
quelliche avevano a essere soldati: di
qualitàche, per tale ordine, vi sono
diventatimigliori soldati che in quelli
paesi i qualinaturalmente sono stati aspri e
steriliIntra i quali fu il regno degli
Egizi, chenon ostante che il paese
sia amenissi-mo, tanto potette quella necessità
ordi-nata dalle leggi, che vi nacquero uo-mini
eccellentissimi; e se li nomi loronon
fussino dalla antichità spenti, sivedrebbe
come meriterebbero più laudeche Alessandro
Magno, c molti altri deiquali ancora* è la
memoria fresca. E chiavesse considerato il
regno del Soldano,e l’ordine de’Mammaluchi. e di
quellaloro milizia, avanti che da Sali,
GranTurco, fusse stata spenta ; arebbe ve-duto
ili quello molti esercizi circa i sol-dati,
ed arebbe in fatto conosciutoquanto essi
temevano quell’ozio a che la benignità del
paese gli poteva con-durre, se non vi
avessino con leggi for-tissime ovviato. Dico,
adunque, esserepiù prudente elezione porsi
in luogofertile, quando quella fertilità
con leleggi infra* debili termini si
restringe.Ad Alessandro Magno, volendo
edificareuna città per sua gloria, venne
Dino-erate architetto, e gli mostrò come
eila poteva fare sopra il monte Albo;
ilquale luogo, oltre allo esser forte,
po-trebbe ridursi in modo che a quellacittà
si darebbe forma umana; il chesarebbe
cosa meravigliosa e raro, e de-gna della sua
grandezza: e domandan-dolo Alessandro di quello
che quelli abi-tatori viverebbono, rispose, non
ci averepensato: di che quello si
rise, e lasciatostare quel monte, edificò
Alessandria,dove gli abitatori avessero a stare
vo-lentieri per la grassezza del paese, e
perla comodità del mare e del Nilo.
Chi esa-minerò, adunque, la edificazione di Ro-ma,
se si prenderà Enea per suo
primoprogenitore, sarà di quelle citladi
edifi-cate da’ forestieri ; se Romolo, di
quelleedificate dagli uomini natii del
luogo;ed in qualunciic modo, la Vedrà
avereprincipio libero, senza depcndere da
al-cuno: vedrà ancora, come di sotto
sidirà, a quante necessitadi le leggi
fatteda Romolo, Numa, e gli altri, la
costrin-gessino ; talmente clic la fertilità
del sito,la comodità del mare, le
spesse vittorie,la grandezza dello imperio,
non la po-terono per molti secoli
corrompere, e Ir» -» **mantennero piena di
tante virtù, djp^quante mai fusse alcun’
altra repubblicaornata. E perchè le cose
operate da lejj, ^e che sono da Tito
Livio celebrate, sonoseguite o per pubblico o
per privatoconsiglio, o dentro o fuori della
cittade,io comincerò a discorrere sopra
quellecose occorse dentro, e per consiglio
pub-blico, le quali degne di maggiore
an-notazione giudicherò, aggiungendovi tut-to quello
che da loro dependessi : coni quali
Discorsi questo primo libro, ovvero Questa
prima parte, si terminerà. Cap. II. — Di
quante spezie sono le *epnbbtiche , e di
quale fu la Repubblica Romana. Io voglio
porre da parte il ragionare di quelle
cittadi clic hanno avuto il loro principio
sottoposto ad altri; e parlerò di quelle
che hanno avuto il principio 'ontano do
ogni servitù esterna, nia si ; j sono
subito governate per loro arbitrio, o come
repubbliche o come principato: U quali hanno
avuto, come diversi principi, diverse leggi
ed ordini. Perchè ad alcune, o nel
principio d’esse, o dopo non molto tempo,
sono state date da un
solo le leggi, e ad un tratto ; come
quelle che furono date da Licurgo agli
Spartani: alcune le hanno avute a caso, ed in
più volte, e secondo li accidenti, come Roma.
Talché, felice si può chiamare quella
repubblica, la quale sortisce uno uomo sì
prudente, che le dia leggi ordinate in
modo, che senza avere bisogno di
correggerle, possa vivere sicuramente sotto
quelle. E si vede che Sparta le osservò
più che ottocento anni senza corromperle, o
senza alcuno tumulto pericoloso: e, pel
contrario, tiene qualche grado d’ infelicità
quella città, che, non si sendo abbattuta
ad uno ordinatore prudente, è necessitata da
sè medesima riordinarsi: e di queste ancora è più
infelice quella che è più discosto dall’ordine; e
quella è più discosto, con suoi ordini è al
tutto fuori del dritto cammino, che la
possi condurre al perfetto e vero fine:
perchè quelle clic sonoiu questo grado, è
quasi impossibile che per qualche accidente
si rassettino. Quel le altre che, se le
non hanno V ordine perfetto, hanno preso il
principio buono,e atto a diventare migliori,
possono perla occorrenza delli accidenti
diventareperfette. Ma fia ben vero questo, mai
non si ordineranno senza pericolo
perchè li assai uomini non si accordano mai
ad una legge nuova che riguardi uno
nuovo ordine nella cit tà, se non è mostro
loro da una necessità che bisogni farlo ; e
non potendo venire questa necessità senza
pericolo, è facil cosa che quella repubblica
rovini, avanti che la si sia condotta a
una perfezione d’ordine. Di che ne fa
fede appieno la re-pubblica di Firenze, la
quale fu dalloaccidente d’ Arezzo, nel
11, riordinata, eda quel di Prato,
nel XII, disordinata.Volendo, adunque, discorrere
quali fu-rono li ordini della città di
Roma, equali accidenti alla sua perfezione
lacondussero) dico, come alcuui che
hannoscritto delle repubbliche, dicono essere
in quelle uno de' tre stati,
chiamati daloro Principato, d’Ottimati e Popolare; e
come coloro che ordinano una città, debbono
volgersi ad uno di questi, secondo pare
loro più a proposito. Alcuni altri, e secondo
la oppinione di molti più savi, hanno
oppinione che siano di sei ragioni governi;
delti quali tre ne siano pessimi; tre
altri siano buoni in loro medesimi, ma
sì focili a corrompersi, che vengono ancora
essi ad essere perniziosi. Quelli che sono
buoni, sono i soprascritti tre: quelli clic sono rei,
sono tre altri, i quali da questi tre dependono;
c ciascuno d’ essi è in modo simile a quello
che gli è propinquo, che facilmente saltano
dall’ uno all’ altro: perchè il Principato
facilmente diventa tirannico; li Ottimati con
facilità diventano stato di pochi ; il
Popolare senza diflìcultà in licenzioso si
converte. Talmente che, se uno ordinatore
di repubblica ordina in una città uno di
quelli tre stati, ve lo ordina per
poco tempo; perchè nessuno rimedio può
farvi, a far che non sdruccioli nel suo
contrario, per la similitudine che ha in
questo caso la virtù ed il vizio.
Nacquono queste variazioni di governi a caso
intra li uomini: perchè nel principio del
mondo, sendo li abitatori rari, vissono un tempo
dispersi, a similitudine delle bestie; dipoi,
multiplicando la generazione, si ragunorno
insieme, e, per potersi meglio difendere,
cominciorno a riguardare fra loro quello che
fusse più robusto c di maggiore cuore, c fecionlo
come capo, e lo obedivano. Da questo nacque
la cognizione delle cose oneste e
buone, differenti dalle perniziose e ree:
perchè, veggendo che se uno noceva al
suo benefattore, ne veniva odio e compassione
intra gli uomini, biasimando li ingrati ed
onorando quelli che fusscro grati, e pensando
ancora che quelle medesime ingiurie potevano
esser fatte a loro; per fuggire simile
male, si riducevano a fare leggi, ordinare
punizioni a chi contea facesse: donde venne la
cognizione della giustizia. La qual cosa
faceva che avendo dipoi ad eleggere un
principe, non andavano dietro al più
gagliardo, ma a quello che fussi più
prudente c più giusto. Ala come di poi si
cominciò a fare il principe per successione, e
non pei* elezione, subito cominciorno li
eredi a degenerare dai loro antichi ; e lasciando
1’ opere virtuose, pensavano che i principi non avessero
a fare altro clic superare li altri di
sontuosità e di lascivia c d’ ogni altra' qualità
deliziosa: in modo che, cominciando il
principe ad essere odialo, e per tale
odio a temere, e passando tosto dal timore
all’ offese, ne nasceva presto una
tirannide. Da questo nacquero appresso i
principi» delle rovine, c delle conspirazioni e
congiure contea i principi; non fatte da
coloro clic fussero o timidi o deboli, ma
da coloro che per genei'osità, grandezza d’
animo, ricchezza e nobiltà, avanzavano gli altri;
i quali non potevano sopportare la inonesta vita di
quel principe. La moltitudine, adunque, seguendo
l’ autorità di questi potenti, si armava
contra al principe, c quello spento,
ubbidiva loro come a suoi liberatori. E quelli,
avendo in odio il nome d’ uno solo
capo, constituivano di loro medesimi un
governo; e nel piincipio, avendo rispetto
alla passata tiratinide, si governavano
secondo le leggi ordinate da loro,
posponendo ogni loro comodo alla comune
utilità ; e le cose private e le pubbliche con
somma diligenzia governavano c conservavano.
Venuta dipoi questa amministrazione ai loro
figliuoli, i quali, non conoscendo la variazione
della fortuna, non avendo mai provato il
male, e non volendo stare contenti alla
civile equalità, ma rivoltisi alla avarizia,
alla ambizione, alla usurpazione delle donne,
feciono clic d’ uno governo d’ Ottimati
diventassi un governo di pochi, senza
avere rispetto ad alcuna civiltà : tal che
in breve tempo intervenne loro come al
tiranno; perchè infastidita da’ loro governi
la moltitudine, si fe ministra di qualunque
disegnassi in alcun modo offendere quelli governatori;
e cosi si levò presto alcuno che, con
I’ aiuto della moltitudine, li spense. Ed
essendo ancora fresca la memoria del
principe e delle ingiurie ricevute da quello,
avendo disfatto lo Stato de’ pochi e non
volendo rifare quell del principe, si
volsero allo Stato popolare; c quello ordinarono
in modo, che nè i pochi potenti, nè
uno principe vi avesse alcuna autorità. E
perchè tutti gli Stali nel principio hanno
qualche reverenza, si mantenne questo Stato
popolare un poco, ma non molto, massi-
me spenta che fu quella generazione che l’aveva
ordinato; perchè subito si venne alla
licenzia, dove non si temevano nè li
uomini privati nè i pubblici; di qualità
che, vivendo ciascuno a suo modo, si
facevano ogni di mille ingiurie: talché, costretti
per necessità, o per suggestione d’ alcuno
buono uomo, o per fuggire tale licenzia, si
ritorna di nuovo al principato; e da
quello, di grado in grado, si riviene
verso la licenzia, nei modi e per le
cagioni dette. E questo è il cerchio nel
quale girando tutte le repubbliche si sono
governate, e si governano: ina rade volte
ritornano nei governi medesimi; perchè quasi
nessuna repubblica può essere di tanta vita, che
possa passare molle volte per queste
mutazioni, c rimanere in piede. Ma bene
interviene che, nel travagliare, una repubblica,
mancandoli sempre consiglio e forze, diventa
suddita d'uno Stato propinquo, clic sia
meglio ordinato di lei : ina dato che
questo non fusse, sarebbe atta una
repubblica a rigirarsi infinito tempo in questi
governi. Dico, adunque, che lutti i detti
modi sono pestiferi, per la brevità della
vita che è ne’ tre buoni, e per la
malignità che è ne* tre rei. Talché, avendo
quelli che prudentemente ordinano leggi
conosciuto questo difetto, fuggendo ciascuno di
questi modi per se stesso, n’ elessero
uno che partieipasse di lutti, giudicandolo
più fermo e più stabile ; perchè l’uno
guarda l’altro, scudo in una medesima città
il Principato, li Ottimati ed il Governo
Popolare. Infra quelli che hanno per simili constituzioni
meritato più laude, è Licurgo; il quale
ordinò in modo le sue leggi in Sparta,
che dando le parti sue ai He, agli
Ottimali e al Popolo, fece uno Stato che
durò più che ottocento anni, con somma
laude sua, e quiete di quella città. Al
contrario intervenne a Solone, il quale
ordinò le leggi in Atene che per
ordinarvi solo lo Stato popolare lo fece
di sì breve vita, che avanti morisse
vi vide nata la tirannide di
Pisistrato: e benché dipoi anni quaranta ne
fusscro cacciati gli suoi eredi, c ritornasse
Atene in libertà, perchè la riprese lo
Stato popolare, secondo gli ordini di
Solone; non lo tenne più cliccento
anni, ancora che per mantenerlo facesse
molte constituzioni, per le quali si
reprimeva la iusolenzia grandi c la licenzia
dell’ universale, le quali non furou da
Solonc considerate nientedimeno, perchè la non
le mescolò con la potenzia del Principato e
con quella dclli Ottimali, visse Atene, spetto
di Sparla, brevissimo tempo. Ria vegniamo a ROMA
; la quale nonostante che non avesse uno
Licurgo che la ordinasse in modo, ilei
principio, che la potesse vivere lungo
tempo libera, nondimeno furon tanti gli
accidenti che in quella nacquero, per la
disunione che era intra la Plebe ed
il Senato, che quello che non aveva
fatto uno ordinatore, lo fece il caso.
Perchè, se ROMA non sortì la prima
fortuna, sortì la seconda; perchè i primi
ordini se furono defettivi, nondimeno non
deviarono dalla diritta via che li potesse
condurre alla perfezione. Perchè ROMOLO e tutti
gli altri Re fecero molte e buone leggi,
conformi ancora al vivere libero: ma perchè il
fine loro fu fondare un regno e non una
repubblica, quando quella città rimase libera,
vi mancavano molte cose che era necessario
ordinare in favore della libertà, le quali
non erano state da quelli Re ordinate. E
avvengachè quelli suoi Re perdessero V imperio
per le cagioni e modi discorsi; nondimeno quelli
clic li cacciarono, ordinandovi subito duoi
Consoli, che stessino nel luogo del Re,
vennero a cacciare di Roma il nome, e non
la potestà regia: talché, essendo in quella
Repubblica i Consoli ed il Senato, veniva
solo ad esser mista di due qualità
delle tre soprascritte: cioè di Principato e
di Ottimali. Restavali solo a dare luogo
al Governo Popolare: onde, essendo diventatala
Nobiltà romana insolente per le cagioni che
di sotto si diranno, si levò il
Popolo contro di quella ; talché, per non
perdere il tutto, fu costretta concedere al
Popolo la sua parte; e, dall’altra parte,
il Senato e i Consoli restassino con
tantaautorità, che potcssino tenere in quella Repubblica
il grado loro. E cosi nacque la creazione
de’ Tribuni della plebe ; dopo la quale
creazione venne a essere più stabilito lo
stato di quella Repubblica,
avendovi tutte le tre qualità di governo la
parte sua. E tanto li fu favorevole la fortuna,
che benché si passasse dal governo de’ Re e
delli Ottimati al Popolo, per quelli
medesimi gradi e per quelle medesime cagioni
che di sopra si sono discorse : nondimeno
non si tolse mai, per dare autorità
alli Ottimati, tutta l’autorità alle qualità
regie; nè si diminuì l’autorità in tutto
alli Ottimati, per darla al Popolo; ina
rimanendo mista, fece una repubblica perfetta :
alla quale perfezione venne per la
disunione della Plebe e del Senato, come
nei duoi prossimi seguenti capitoli largamente
si dimostrerà. III. Quali accidenti facessino creare
in Roma i Tribuni della plebe ; il che
fece la Repubblica più perfetta. Come
dimostrano lutti coloro che ragionano del
vivere civile, e come ne è piena di
esempi ogni istoria, è necessario a chi dispone
una repubblica, ed ordina leggi in quella,
presupporre tuttigli uomini essere cattivi, e
clic li abbinosempre od usure la
malignità dello animo loro, qualunchc volta
ne abbino libera occasione: e quando alcuna
malignità sta occulta un tempo, procede da una
occulta cagione, ebe, per non si essere
veduta esperienza del contrario, non si conosce;
ma la fa poi scoprire il tempo, il
quale dicono essere padre d’ogni verità.
Pareva clic fusse in Roma intra la
Plebe cd il Senato, cacciati I Tarquiili,
una unione grandissima; e che i Nobili,
avessino deposta quella loro superbia, c russino
diventati d'animo popolare, c sopportabili da
qualuncbc, ancora ebe infimo. Stette nascoso
questo inganno, nè se ne vide la cagione, infino
ebe i Tarquini vissono; de’ quali temendo la
Nobiltà, ed avendo paura che la Plebe
mal trattata non si accostasse loro, si
portava umanamente con quella: ma come
prima furono morti I Tarquini, e die a’
Nobili fu la paura fuggita, cominciarono a
sputare contro Olla Plebe quel veleno che
si avevàno tenuto nel petto, ed in
tutti i modi che potevano la offendevano:
la qual cosa fa testimonianza a quello che
di sopra ho detto, che gli uomini non
operano mai nulla bene, se non per
necessità; ma dove la elezione abbonda, e
che vi si può usare licenzia, si
riempie subito ogni cosa di confusione e di
disordine. Però si dice che la fame e
la povertà fu gli uomini industriosi, e le
leggi gli fanno buoni. E dove una cosa
per sè medesima senza la legge opera
bene, non è necessaria la legge; ma quando
quella buona consuetudine manca, è subito la
legge necessaria. Però, mancati i Tarqnini, che
con la paura di loro tenevano
laNobiltà a freno, convenne pensare a unonuovo
ordine ehe facessi quel medesimoeffetto che
facevano i Tarquini quandoerano vivi. E però,
dopo molte confu-sioni, romori e pericoli di
scandali, chenacquero intra la Plebe c la
Nobiltà, sivenne per sicurtà della Plebe
alla creazionc ile* Tribuni ; e quelli
ordinaronocon laute preminenze e tanta riputa-zione,
che potcssino essere sempre dipoi mezzi
intra la Plebe e il Senato, eovviare
alla insolenzia de’ Nobili. IV. Che la
disunione della Plebe c del Senato romano
fece libera e polente quella Repubblica. H0U njt
fil ùi òVvil tf, ; il "iit* lo
non voglio mancare di discorrere sopra
questi tumulti che furono in Roma dalla
morte de’ Tarquini alla creazione de’ Tribuni; e
di poi alcune cose contro la oppinionc
di molti clic dicono. Roma esser stata
una repubblica tumultuaria, e piena di tanta
confusione, clicse la buona fortuna c la
virtù militare non avesse supplito a’ loro
difetti, sarebbe stata inferiore ad ogni
altra repubblica. Io non posso negare che
la fortuna e la milizia non fussero cagioni dell’imperio
romano; ma e’ mi pare bene, che costoro
non si avvegghino, clic dove è buona
milizia, conviene clic sia buono ordine, e
rade volte anco occorre clic non vi
sia buona fortuna. Ma vegniamo all i altri
particolari di quella città. Io dico clic
coloro clic dannano I tumulti intra i
Nobili c la Plebe, mi pare clic biasimino
quelle cose che furono prima cagione di
tenere libera Roma ; c clic considerino più
a’ romori ed alle grida clic di tali
tumulti nascevano, che a’ buoni effetti clic
quelli partorivano: e che non considerino come ei
sono in ogni repubblica duoi umori diversi,
quello del popolo, c quello dei grandi ; c
come tutte le leggi che si fanno in
favore delia libertà, nascono dalla disunione
loro, come facilmente si può vedere essere
seguito in Roma: perchè da’ Tarquini ai
Gracchi, che furono più
di trecento anni, i tumulti di Roma rade volte
partorivano esilio, radissime sangue. Nè si
possono, per tanto, giudicare questi tumulti
nocivi, nè una repubblica divisa, che in tanto
tempo per le sue differenze non mondò
in esilio più che otto o dieci cittadini, e
ne ammazzò pochissimi, e non molti ancora
condennò in danari. Nè si può chiamare
in alcun modo, con ragione, una repubblica
inordinata, dove siano tanti esempi di virtù; perchè
li buoni esempi nascono dalla buona
educazione; la buona educazione dalle buone
leggi ; e le buone leggi da quelli tumulti
che molti inconsideratamente dannano: perchè chi
esaminerò bene il fine d’essi, non
troverà ch’egliabbino partorito alcuno esilio o
violenza in disfavore del comune bene, ma
leggi ed ordini in benefizio della pubblica
libertà. E se alcuno dicesse : i modi erano straordinari,
e quasi efferati, vedere il Popolo insieme
gridare contro il Senato, il Senato contra
il Popolo, correre tumultuariamente per le
strade, serrare le botteghe, partirsi tutta la
Plebe di Roma. le quali tutte cose
spaventano, nonclic altro, chi legge; dico
come ogni città debbe avere i suoi modi,
con i quali il popolo possa sfogare
l’ambizione sua, e massime quelle ciltadi che uelle
cose importanti si vogliono valere del
popolo: intra le quali la città di
Roma aveva questo modo, che quando quel
Popolo voleva ottenere una legge, o e’
faceva alcuna delle predette cose, o e’ non
voleva dare il nome per andare alla
guerra, tanto che a placarlo bisognava in
qualche parte satisfargli. E i desiderò de’
popoli liberi, rade volle sono perniziosi
alla libertà, perchè e’na- seono o da
essere oppressi, o da suspizionc di avere a
essere oppressi. E quando queste oppinioni
fussero false, e’ vi è il rimedio delle
concioni, che sorga qualche uomo da bene,
che, orando, dimostri loro come c’ s’
ingannano: e li popoli, come dice Tullio CICERONE,
benché siano ignoranti, sono capaci della
verità, e facilmente cedono, quando da uomo degno
di fede è detto loro il vero. Debbesi, adunque,
più parcamente biasimare il governo romano, e
considerare che tanti buoni effetti quanti
uscivano di quella repubblica, non erano
causati se non da ottime cagioni. E se i
tumulti furono cagione della creazione dei
Tribuni, meritano somma laude; perchè, oltre
al dare la parte sua all’ amministrazione
popolare, furono constituiti per guardia della libertà
romana, come nel seguente capitolo si mostrerà. V.
Dove più sccurnmentc si ponga la guardia
della libertà , o nel Popolo o ne * Grandi ; c c/uali
hanno maggior cagione di tumultuare , o chi vuole
acquistare o chi vuole mantenere. Quelli clic
prudentemente hanno constituita una repubblica,
intra le più necessarie cose ordinate da
loro, è stato constituire una guardia alla
liberta: e secondo che questa è bene
collocala,dura più o meno quel vivere
libero. Eperché in ogni repubblica sono
uomingrandi e popolari, si è dubitato nellemani
di quali sia meglio collocata dettaguardia.
Ed appresso i Lacedemoni, c,ne’ nostri
tempi, appresso de’ Viniziani,la è stata
messa nelle mani de’ Nobili ;ma
appresso de’ Romani fu messa nellemani
della Plebe. Per tanto, è necessa-rio esaminare,
quale di queste repub-bliche avesse migliore
elezione. E se siandassi dietro alle
ragioni, ci è chedire da ogni pajte:
ma se si esaminassiil fine loro, si
piglierebbe la partede’ Nobili, per aver
avuta la libertà diSparla c di Vinegia
più lunga vita chequella di Roma. E
venendo alle ragio-ni, dico, pigliando prima
la parte de’ Ro-mani, come e’ si
debbe mettere in guar-dia coloro d’ una
cosa, che hanno menoappetito di usurparla.
E senza dubbio,se si considera il fine
de’ nobili e deiliignobili, si vedrà in
quelli desideriogrande di dominare, cd in
questi solodesiderio di non essere
dominati; e, perconseguente, maggiore volontà
di vivereliberi, potendo meno sperare d’
usurparla che non possono li granili:
tal-ché, essendo i popolani preposti a guar-dia d’ una
libertà, ò ragionevole neabbino più cura : e
non la putendo occu-pare loro, non
permettino clic altri laoccupi. Dall’ altra
parte, chi difendel’ordine sparlano e veneto,
dice cliccoloro che mettono la guardia
in inanode’ potenti, fanno due opere
buone:I’ una, che satisfanno più all’
ambizionedi coloro che avendo più parte
nellarepubblica, per avere questo bastone
inmano, hanno cagione di contentarsi più;I’
altra, clic bevano una qualità di au-torità
dagli animi inquieti della plebe,che è
cagione d’ infinite dissensioni escandali in
una repubblica, e alta a ri-durre la nobiltà a
qualche disperazio-ne, che col tempo faccia
cattivi eliciti.E ne danno per esempio la
medesimaRoma, che per avere i Tribuni
dellaplebe questa autorità nelle mani,
nonbastò loro aver un Consolo plcbeio,
chegli vollono avere ambedue. Da questo, c*
voltano la Censura, il Pretore, e tuttili
altri gradi dell’imperio della città:nè
bastò loro questo, chè, menati dalmedesimo
furore, cominciorno poi, coltempo, a adorare
quelli uomini che ve-devano atti a battere
la Nobiltà ; dondenacque la potenza di
Alarlo, e la rovinadi Roma. E veramente,
chi discorressebene I’ una cosa c l’ altra,
potrebbestare dubbio, quale da lui fusse
elettoper guardia tale di libertà, non
sapen-do quale qualità d’uomini sia più no-civa
in una repubblica, o quella ohedesidera
acquistare quello che non ha,‘ o quella che
desidera mantenere V ono-re già acquistato. Ed
in fine, chi sot-tilmente esaminerà tutto,
ne farà que-sta conclusione: o tu ragioni
d’ unarepubblica che vogli fare uno
imperio,come Roma ; o d’ una che li
basti man-tenersi. Nel primo caso, gli è
necessa-rio fare ogni cosa come Roma; nel
se-condo, può imitare Yinegia e Spartaper quelle
cagioni, e come nel seguente capitolo si
dirà. .Ma, per tornare a di-scorrere quali
uomini siano in una re-pubblica piu nocivi,
o quelli clic desi-derano d’acquistare, o quelli clic
te-mono di perdere lo acquistato; dicodie,
scudo fatto Marco Meiiennio ditta-tore, e Marco
Fulvio maestro de’ caval-li, tutti duoi plebei,
per ricercare certecongiure clic si erano
falle in Capovaconlro a Roma, fu dato
ancora loro au-torità dal Popolo di poter
ricercare chiin Roma per ambizione e modi
straor-dinari s’ingegnasse di venire al con-solato,
ed agli altri onori della città.
Eparendo alla Nobiltà, che tale
autoritàfusse data al Dittatore contro a
lei,sparsero per Roma, clic non i
nobilierano quelli che cercavano gli
onoriper ambizione e modi straordinari, magl’
ignobili, i quali, non confidatisi nelsangue e
nella virtù loro, cercavano pervie
straordinarie venire a quelli gradi;e particolarmente
accusavano il Ditta-tore. E tanto fu potente
questa accusa, che Mencnnio, fatta una
conclone c do-lutosi deite calunnie dategli da*
Nobilidepose la dittatura, e sottomessesi
aigiudizio che di lui fussi fatto dal
Po*polo; c dipoi, agitala la causa sua,
nefu assoluto: dove si disputò assai,
qualesia più ambizioso, o quel che
vuolemantenere o quel che vuole acquistare;perchè
facilmente 1* uno e V altro ap-petito può
essere cagione di tumultigrandissimi. Pur
nondimeno, il più dellevolte sono causali
da chi possiede, per-chè la paura del
perdere genera in lorole medesime voglie
che sono in quelliche desiderano
acquistare; perchè nonpare agli uomini possedere
sicuramente
quello clic l’uomo ha, se non si
acqui-sta di nuovo dell’ altro. E di più
vi è,che possedendo molto, possono con
mag-gior potenzia c maggiore moto fare alterazione.
Ed ancora vi è di più, che li loro
scorretti e ambiziosi portamenti accendono ne’
petti di chi non possiede voglia di
possedere, o per vendicarsi contro di loro
spogliandoli, o per potere ancora loro entrare
in quella ricchezza c in quelli onori clic
veggono essere male usati dagli altri. VI. —
Se in 1 ionia si poteva ordinare uno
stalo che togliesse via le inimicizie intra
il Popolo ed il Senato. Noi abbiamo
discorsi di sopra gli effetti che facevano
le controversie intra il Popolo ed il
Senato. Ora, sendo quelle seguitate in fino
al tempo de’ Gracchi, dove furono cagione
della rovina del vivere libero, potrebbe
alcuno desiderare che Roma avesse fatti gli
effetti grandi che la fece, senza che
in quella fussino tali inimicizie. Però mi
è parso cosa degna di considerazione, vedere
se in Roma si poteva ordinare uno
stato che togliesse via dette controversie.
Ed a volere esaminare questo, è necessario
ricorrere a quelle repubbliche le quali senza
tante inimicizie c tumulti sono state lungamente
libere, e vedere quale stato era il
loro, e se si poteva introdurre in
Roma. In esempio tra lì antichi ci è
Sparta, tra i moderni Yinegia, state da me
di sopra uominate. Sparla fece uno Re,
con unpicciolo Senato, che la governasse.
Vinegia non ha diviso il governo con
i nomi ; ma, sotto una appellazione, lutti quelli
che possono avere amministrazione si chiamano
Gentiluomini. Il quale modo lo dette il
caso, più che la prudenza di elùdette
loro le leggi: perchè, sendosi ridotti in
su quegli scogli dove è ora quella città,
per le cagioni dette di sopra, molti
abitatori; come furon cresciuti in tanto
numero, che a volere vivere insieme bisognasse
loro far leggi, ordinorono una forma di
governo; c convenendo spesso insieme ne’
consigli a deliberare della città, quando
parve loro essere tanti che fussero a
sufficienza ad un vivere politico, chiusono
la via a tutti quelli altri che vi
venissino ad abitare di nuovo, di potere
convenire ne’ loro governi: e, col tempo,
trovandosi in quel luogo assai abitatori
fuori del governo, per dare riputazione a
quelli clic governavano, gli chiamarono Gentiluomini, e
gli altri Popolani. Potette questo modo
nascere e mantenersi senza tumulto, perchè quando
e’ nacque, qualunque allora abitava in
Vinegia fu fatto del governo, di modo
che nessuno si poteva dolere; quelli che.
dipoi vi vennero ad abitare, trovando lo
Stato fermo c terminato, non avevano
cagione nè comodità di fare tumulto. La
cagione non y* era, perchè non era
stato loro tolto cosa alcuna: la comodità
non v’era, perché chi reggeva gli teneva
in freno, c non gli adoperava in cose
dove e’ potessino pigliare autorità. Oltre
di questo, quelli che dipoi vennono ad
abitare Vinegia, non sono stali molli, c di
tanto numero, che vi sia disproporzione da chi
gli governa a loro che sono governati;
perchè il numero de’ Gentiluomini o egli è eguale
a loro, o egli è superiore: sicché, per
queste cagioni, Vinegia potette ordinare
quello Stalo, e mantenerlo unito. Sparta, come
ho detto, essendo governata da un Re c
da una stretto Senato, potette mantenersi così lungo
tempo, perchè essendo in Sparta pochi
abitatori, ed avendo tolta la via n chi
vi venisse ad abitare, ed avendo prese
le leggi di Licurgo con reputazione, le
quali osservando, levavano via tutte le
cagioni de’ tumulti, poterono vivere uniti
lungo tempo: perchè Licurgo con le sue leggi fece in
Sparta più cqualità di sustanze, e meno
equalità di grado; perchè quivi era una eguale
povertà, ed i plebei erano manco ambiziosi,
perchè i gradi della città si distendevano
in pochi cittadini, ed erano tenuti
discosto dalla plebe, uè gli nobili col
trattargli male dettero mai loro desiderio
di avergli. Questo nacque dai Re spartani,
i quali essendo collocati in quel principato e
posti in mezzo diquella nobiltà, non
avevano maggiore ri-medio a tenere fermo la
loro degnità,ehc tenere la plebe difesa
da ogni in-giuria : il che faceva che
la plebe nontemeva, c non desiderava
imperio ; e nonavendo imperio nè temendo,
era levatavia la gara che la potessi
avere con !unobiltà, c la cagione de’
tumulti; e po-terono vivere uniti lungo tempo.
Ma duecose principali causarono questa unione:T una
esser pochi gli abitatori di Sparta,e per
questo poterono esser governatida pochi;
l’altra, che non accettandoforestieri nella
loro repubblica, non ave-vano occasione nè
di corrompersi, nè dicrescere in tanto
che la fusse insoppor-tabile a quelli pochi
che la governavano.Considerando, adunque, tutte
queste cose ,si vede come a’ legislatori di
Roma eranecessario fare una delle due
cose, a vo-lere che Roma stessi quieta come
le so-praddette repubbliche: o non adoperarela
plebe in guerra, corne i Viniziani;onon
aprire la via a’ forestieri, come
gliSpartani. E loro feceno 1’una e
l’altra; il che dette alla plebe forza
ed augu-mento, ed infinite occasioni di
tumul-tuare. E se lo stato romano veniva
adessere più quieto, ne seguiva questo
in-conveniente, ch’egli era anco più
debile,perchè gli si troncava la via
di poterevenire a quella grandezza dove ei
per-venne: in modo che volendo Roma le-vare le
cagioni de’ tumulti, levava ancole cagioni
dello ampliare. Ed in tutte lecose
umane si vede questo, chi le esa-minerà
bene: che non si può mai can-cellare
uno inconveniente, che non nesurga un
altro. Per tanto, se tu vuoifare un
popolo numeroso ed armato perpotere fare
un grande imperio, lo faidi qualità
che tu non lo puoi poi ma-neggiare a
tuo modo: se tu lo mantienio piccolo o
disarmato per potere ma-neggiarlo, se egli acquista
dominio, nonlo puoi tenere, o diventa sì
vile, che tusei preda di quaiunche ti
assalta. E però,in ogni nostra deliberazione si
debbeconsiderare dove sono meno inconve-nienti, c
pigliare quello per migliorepartito: perchè
tutto netto, tutto senzasospetto non si
trova mai. Poteva, adun-que, Roma a similitudine
di Sparta fareun Principe a vita, fare
un Senato pic-colo; ma non poteva, come
quella, noncrescere il numero de’ cittadini
suoi, vo-lendo fare un grande imperio; il
chefaceva che il- Re a vita ed il
picciol nu-mero del Senato, quanto alla
unione, glisarebbe giovato poco. Se alcuno
volesse,per tanto, ordinare una repubblica
dinuovo, arebbe a esaminare se volessech’ella
ampliasse, come Roma, di domi-nio e di
potenza, ovvero ch’ella stessedentro a brevi
termini. Nel primo caso,è necessario ordinarla
come Roma, edare luogo a’ tumulti e alle
dissensioniuniversali, il meglio che si
può; perchèsenza gran numero di uomini, e
benearmati, non mai una repubblica
potràcrescere, o se la crescerà, mantenersi.Nel
secondo caso, la puoi ordinare comeSparta c
come Yinegia: ma perchè l’anipitale è il
veleno di simili repubbliche, tlebbc, in
tutti quelli modi che si può,citi le
ordina proibire loro lo acquistare; perchè
tali acquisti fondati sopra
una repubblica debole, sono al tutto la rovina
sua. Come intervenne a Sparta ed a Yinegia :
delle quali la prima avendosi sottomessa
quasi tutta la Grecia, mostrò in su
uno minimo accidente il debole fondamento
suo ; perchè, seguita la ribellione di
Tebe, causata da Pelopitia, ribellandosi V
altre cittadi, rovinò al tutto quella
repubblica. Similmente Yinegia, avendo occupato
gran parte d’Italia, e la maggior parte non
con guerra ma con danari e con astuzia, come
la ebbe a fare prova delle forze sue,
perdette in una giornata ogni cosa. Crederei
bene, che a fare una repubblica che durasse
lungo tempo, fussi il miglior modo
ordinarla dentro come Sparla o come Yinegia ;
porla in luogo forte, e di tale potenza,
che nessuno cre-desse poterla subito opprimere; e
dal-l’altra parte, non fussi si grande, che
la fussi formidabile a’ vicini : c così
potrebbe lungamente godersi il suo stato. Perchè,
per due cagioni si fa guerra ad una
repubblica: Cuna per diventarne signore, l’altra
per paura ch’ella non ti occupi. Queste
due cagioni il sopraddetto modo quasi in
tutto toglie via; perchè, se la è difficile
ad espugnarsi, come io la presuppongo,
sendo bene ordinata alla difesa, rade volte
accadere, o non mai, che uno possa fare
disegno d’ acquistarla. Se la si starà
intra i termini suoi, e veggasi per esperienza,
che in lei non sia ambizione, non occorrerà
mai che uno per paura di sè gli
faccia guerra : e tanto più sarebbe questo, se e’
fusse in lei constituzione o legge che le
proibisse l’ampliare. E senza dubbio credo, clic
polendosi tenere la cosa bilanciata in
questo modo, che e’ sarebbe il vero vivere
politico, e la vera quiete di una città.
Ma scudo tutte le cose degli uomini
in moto, c non potendo stare salde,
conviene che le saglino o clic le scendino
; e a molte cose che la ragione non t'
induce, t’ induce lo necessità: talmente
che, avendo ordinata una repubblica atta a
mantenersi non ampliando, e la necessità la
conducesse ad ampliare, si verrebbe a torre
via i fondamenti suoi, ed a farla rovinare
più presto. Così, dall’altra parte, quando
il Cielo le fusse si benigno, che la
non avesse a fare guerra, ne nascerebbe
che l’olio la farebbe o effeminata o divisa;
le quali due cose insieme, o ciascuna per
sè, sorebbono cagione della sua rovina. Pertanto,
non si potendo, come io credo, bilanciare
questa cosa, nò mantenere questa via del
mezzo a punto ; bisogna, nello ordinare la
repubblica, pensare alla parte più onorevole;
ed ordinaria in modo, che quando pure
la necessità la inducesse ad ampliare, ella
potesse quello ch’ella avesse occupato, conservare.
E, per tornare al primo ragionamento, credo
che sia necessario seguire l'ordine romano, e
non quello dell’altre repubbliche; perchè trovare
un modo, mezzo infra l’uno e l’altro, non
credosi possa: e quelle inimicizie che
intra il popolo ed il senato nascessino,
tollerarle, pigliandole per uno inconveniente necessario
a pervenire alla romana grandezza. Perchè, oltre
all’ altre ragioni allegate dove si dimostra Y
autorità tribun zia essere stata necessaria
per la guardia della libertà, si può
facilmente considerare il benefizio che fa
nelle repubbliche l’autorità dello accusare, la
quale era intra gli altri commessa a’
Tribuni ; come nel seguente capitolo si
discorrerà. VII. Quanto siano necessarie in una
repubblica le accuse per mante-nere la libertà.A
coloro che in una città sono preposti
per guardia della sua libertà, non si
può dare autorità più utile e necessaria,
quanto è quella di potere accasare i
cittadini ai popolo, o a qualunque magistrato o
consiglio, quando che pcccassino in alcuna
cosa contea allo stato libero. Questo
ordine fa duoi effetti utilissimi ad una
repubblica. Il primo è che i cittadini, per
paura di non essere accusati, non tentano
cose contro allo Stato: e tentandole, sono
incontinente e senza rispetto oppressi. 1/ altro è
che si dà via onde sfogare a quelli
umori che crescono nelle citladi, in
qualunque modo, contea a qualunque cittadino: e
quando questi umori non hanno onde sfogarsi
ordinariamente, ricorrono a’ modi straordinari, che fanno
rovinare in tutto una repubblica. G non è
cosa che faccia tanto stabile e ferma
una repubblica, quanto ordinare quella in
modo, che l’ alterazione di questi umori
che la agitano, abbia una via da
sfogarsi ordinata dalie leggi. Il che si
può per molti esempi dimostrare, e massime
per quello che adduce Livio di CORIOLANO,
dove ei dice, che essendo irritala contro
alla Plebe la Nobiltà romana, per parerle
che l Plebe avesse troppa autorità mediante la
creazione de’ Tribuni che la difendevano;
ed essendo Roma, come avviene, venuta in
penuria grande di vettovaglie, ed avendo il
Senato mandato per grani in Sicilia;
Coriolano, nimico alla fazione popolare,
consigliò come egli era venuto il tempo
da potere gastigare la Plebe, e torte
quella autorità die ella si aveva
acquistata c in pregiudizio della nobiltà presa,
tenendola affamata, c non li distribuendo il
frumento; la qual sentenza sendo venuta alii
orecchi del Popolo, venne in tanta indegnazione
contro a Coriolano, che allo uscire del
Senato lo arebbero tumultuariamente morto, se
gli Tribuni non 1’ avessero citato a
comparire a difendere la causa sua. Sopra
il quale accidente, si nota quello che
di sopra si è detto, #quanto sia utile e
necessario che le repubbliche, con le leggi
loro, diano onde sfogarsi oli’ ira clic
concepc la universalità contra a uno cittadino; perchè
quando questi modi ordinari non vi siano,
si ricorre agli estraordinari; c senza dubbio
questi fanno molto peggiori effetti che non
fanno quelli. Perchè, se ordinariamente uno
cittadino è oppresso, ancora che li fusse
fatto torto, ne seguita o poco o nessuno
disordine in la repubblica: perchè la esecuzione
si fa senza forze private, e senza forze
forestiere, che sono quelle che rovinano il
vivere libero; ma si fa con forze ed
ordini pubblici, che hanno i termini loro
particolari, nè trascendono a cosa che rovini
la repubblica. E quanto a corroborare questa
oppinione con gli esempi, voglio che degli
antichi mi basti questo di Coriolano; sopra
il quale ciascuno consideri, quanto male saria resultato
alla repubblica romana, se tumultuariamente ci
fussi stato morto; perchè ne nasceva offesa
ila privati a privati, la quale offesa
genera paura; la paura cerca difesa; per
la difesa si procacciano i partigiani; dai
partigiani nascono le parti nelle cittadi; dalle parti
la rovina di quelle. Ma sendosi governata
la cosa mediante chi ne aveva autorità,
si vennero a tór via tutti quelli mali
che ne potevano nascere governandola con
autorità privata. Noi avemo visto ne’
nostri tempi, quale novità ha fatto alla
repubblica di Firenze non potere la
moltitudine sfogare l’ nniino suo ordinariamente
contra a un suo cittadino; come accadde nel
tempo di VALORI, clic era come principe
della città : il quale essendo giudicalo
ambizioso da molti, e uomo che volesse con
la sua audacia e animosità trascendere il
vivere civile; e non essendo nella repubblica
via a poterli resistere se non con una
setta contraria
alla sua ; ne nacque che non avendo paura
quello, se non di modi straordinari, si
cominciò a fare fautori che lo difendessino;
dall’ altra parte, quelli clic lo
oppugnavano non avendo via ordinaria a
reprimerlo, pensarono alle vie straordinarie :
intanto che si venne alle armi. E dove,
quando per l’ordinario si fusse potuto
opporseli, sarebbe la sua autorità spenta
con suo danno solo; avendosi a spegnere per
lo straordinario, seguì con danno non solamente suo,
ma di molti altri nobili cittadini. Potrebbesi
ancora allegare, a fortificazione della soprascritta
conclusione, l’ accidente seguito pur in Firenze
sopra SODERINI; il quale al tutto segui per
non essere in quella Repubblica alcuno modo
di accuse contra alla ambizione de’ potenti
cittadini: perchè lo accusare un potente a
otto giudici in una repubblica, non basta :
bisogna che i giudici siano assai, perchè pochi sempre
fanno a modo de’ pochi. Tanfo che, se tali
modi vi fussono stati, o icittadini lo
arebbono accusato, vivendo egli male; e per
tal mezzo, senza far venire l’ esercito
spagnuolo, arebbono sfogato l’animo loro: o non
vivendo male, non arebbono avuto ardire operarli
contra, per paura di non essere accusati
essi : e cosi sarebbe da ogni parte cessato
quello appetito che fu cagione di scandalo.
Tanto che si può concludere questo, che
qualunque volta si vede che le forze
esterne siano chiamate da una parte d’
uomini che vivono in una città, si
può credere nasca da’ cattivi ordini di
quella, per non esser dentro a quello
cerchio, ordine da potere senza modi
islraordinari sfogare i maligni umori che nascono
nelli uomini: a che si provvede al tutto
con ordinarvi le accuse alii assai giudici,
e dare riputazione a quelle. Li quali modi furono
in Roma sì bene ordinati, che in
tante dissensioni della Plebe e del Senato,
mai o il Senato o la Plebe o alcuno
particolare cittadino non disegnò valersi di
forze esterne; perche avendo il rimedio in
casa, non erano necessitati andare per
quello fuori. E benché gli esempi
soprascritti siano assai sufficienti a provarlo,
nondimeno ne voglio addurre un altro,
recitato da L. nella sua istoria: il quale riferisce
come, scudo stato in Chiusi, città in
quelli tempi nobilissima in TOSCANA, da uno
Lucumone violata una sorella di Aruntc, c
non potendo Arunte vendicarsi per la
potenia del violatore, se n'andò a trovare i
Franciosi, che allora regnavano in quello
luogo che oggi si chiama Lombardia; e
quelli confortò a venire con annata mano a
Chiusi, mostrando loro come con loro utile
lo potevano vendicare della ingiuria ricevuta :
che se Arunte avesse veduto potersi
vendicare con i modi della città, non
arebbe cerco le forre barbare. Ma come
queste accuse sono utili in una repubblica,
così sono inutili e dannose le calunnie ;
come nel capitolo seguente discorreremo. Vili. —
Quanto le accuse sono utili alle
repubbliche, tanto sono perniziose le
calunnie.Non ostante che la virtù di Cnmmillo,
poi ch’egli ebbe libera Roma dalla
oppressione de’ Franciosi, avesse fatto che tutti
i cittadini romani, parer loro tòrsi reputazione
o cedevano a quello; nondimeno MAULIO Capitolino
non poteva sopportare chegli fusse
attribuito tanto onore e tanta gloria;
parendogli, quanto alla salute di Roma, per
avere salvato il Campidoglio, aver meritato
quanto CAMMILLO; c quanto all’ altre belliche
laudi, non essere inferiore a lui. Di modo
che, carico d’ invidia, non potendo quietarsi per
la gloria di quello, c veggendo non potere
seminare discordia infra i Padri, si volse
alla Plebe, seminando varie oppinioni sinistre
intra quelfb. E intra V altre cose che
diceva, era come il tc-
soro il quale si era adunato insieme per
dare ai Franciosi, e poi non dato loro,
era stato usurpalo da privati cittadini ; e
quando si riavesse, si poteva convertirlo
in pubblica utilità, alleggerendo la Plebe
da’ tributi, o da qualche privato debito.
Queste parole poterono assai nella Plebe;
talché cominciò avere concorso, ed a fare u sua
posta tumulti assai nella città: la qual
cosa dispiacendo al Senato, e parendogli di
momento e pericolosa, creò uno Dittatore, perchè
ei riconoscesse questo caso, e frenasse lo
impeto di MANLIO. Onde che subito il
Dittatore lo fece citare, e eondussonsi in
pubblico all’incontro l’uno dell’altro; il Dittatore
in mezzo de’ Nobili, e MANLIO in mezzo
della Plebe. Fu domandato Manlio che
dovesse dire, appresso a chi fusse questo
tesoro che ei diceva, perchè ne era
cosi desideroso il Senato d’ intenderlo come
la Plebe: a che MANLIO non rispondeva
particularmenfe; ma, andando fuggendo, diceva
come non era
necessario dire loro quello die e’ si
sapevano: tanto che il Dittatore lo fece mettere
in carcere. È da notare per questo testo,
quanto siano nelle città libere, ed in
ogni altro modo di vivere, detestabili le
calunnie; e come per reprimerle, si debbe
non perdonare a ordine alcuno che vi faccia
a proposito. Nè può essere migliore ordine a
torle via, che aprire assai luoghi alle
accuse; perchè quanto le accuse giovano alle
repubbliche, tanto le calunnie nuocono: e dall’
altra parte è questa differenza, che le
calunnie non hanno bisogno di testimone, nè
di alcuno altro particulare riscontro a provarle,
in modo che ciascuno da ciascuno può essere
calunniato; ma non può già essere accusato,
avendo le accuse bisogno di riscontri veri,
e di circostanze, che mostrino la verità
dell’ accusa. Accusatisi gli uomini a’
magistrati, a’ popoli, a’ consigli ; calunniatisi per
le piazze è per le logge. Usasi più
questa calunnia dove si usa meno 1’
accusa, c dove le città sono meno ordinate
a riceverle* Però, uno ordinatore d’ una
repubblica debbe ordinare che si possa in
quella accusare ogni cittadino, senza alcuna
paura o senza alcuno sospetto; e fatto questo e
bene osservato, debbe punire aeremente i
calunniatori: i quali non si possono dolere
quando siano puniti, avendo i luoghi aperti a
udire le accuse di colui che gli
avesse per le logge calunniato. E dove non
è bene ordinata questa parte, seguitano sempre
disordini grandi : perchè le calunnie irritano, c
non castigano i cittadini; e gli irritali pensano
di valersi, odiando più presto, che temendo
le cose che si dicono contea a loro.
Questa parte, come è detto, era bene
ordinata in Roma ; ed è stata sempre
male ordinala nella nostra città di FIRENZE.
E come a Roma questo ordine fece molto
bene, a FIRENZE questo disordine fece molto male.
E chi legge le istorie di questa città, vedrà
quante calunnie sono state in ogni tempo
date a’ suoi cittadini che si sono
adoperati nelle cose importanti di quella.
Dell’ uno dicevano, ch’egli aveva rubati
danari al comune; dell’ altro, che non
aveva vinto una impresa per essere stato
corrotto; e che quell’ altro per sua
ambizione aveva fatto il tale e tale
inconveniente. Del che ne nasceva che da
ogni parte ne surgeva odio : donde si
veniva alla divisione; dalla di- visione alle
sètte; dalle sètte alla rovina. Che se
fusse stato in Firenze ordine d’ accusare i
cittadini, c punire i calunniatori, non seguivano
infiniti scandali che sono seguiti: perchè
quelli cittadini, o condennati o assoluti che russino,
non arebbono potuto nuocere alla città; e
sarebbono stati accusati meno assai clic
non ne erano calunniali, non si potendo,
come ho detto, accusare come calunniare ciascuno.
Ed intra l’ altre cose di clic si è
valuto alcuno citadino per ventre alla
grandezza sua, sono state queste calunnie:
le quali venendo conira a’ cittadini
potenti che allo appetito suo si
opponevano, facevano assai per quello; perchè,
pigliando la parte del Popolo, e confirmandolo nella
mala oppiatone eh’ egli aveva di loro,
se lo fece amico. E benché se ne potesse
addurre assai esempi, voglio essere contento
solo d’ uno. Era lo esercito fiorentino a
campo a Lucca, coman- dato da GUICCIARDINI (si veda), commissario
di quello. Vollono o i cattivi suoi governi, o
la cattiva sua fortuna, che Ja espugnazione
di quella città non seguisse. Pur, comunque
il caso stesse, ne fu incolpato inesser
Giovanni, dicendo com’ egli era stato corrotto
da’ Lucchesi: la quale calunnia sendo
favorita da’ nimici suoi, condusse messer
Giovanni quasi in ultima disperazione. E benché,
per giustificarsi, ei si volessi mettere
nelle mani del Capitano; nondimeno non si
potette mai
giustificare, per non essere modi in quella
repubblica da poterlo fare. Di che ne
nacque assai sdegno intra li amici di
messer Giovanni, che erano la maggior parte
delli uomini Grandi, ed infra coloro che
desideravano fare novità in Firenze. La
qual cosa, e per queste e per altre simili
cagioni, tanto crebbe, che ne seguì la
rovina di quella repubblica. Era dunque MANLIO
Capitolino calunniatore, e non accusatore*, ed i Romani
mostrarono in questo caso appunto, come i
calunniatori si debbono punire. Perchè si
debbe fargli diventare accusatori; e quando 1’
accusa si riscon- tri vera, o premiarli, o non
punirli : ma quando la non si
riscontri vera Uf»5 IX. Come egli è
necessario esser solo a volere ordinare una
repubblica di nuovo , o al lutto fuori delti
antichi suoi ordini riformarla.
E’ porrà forse ad alcuno,- che io sia
troppo trascorso dentro nella istoria romana,
non avendo fatto alcuna menzione ancora
degli ordinatori di quella Repubblica, nè
di quelli ordini che o alla religione o
alla milizia riguardassero. E però, non
volendo tenere più sospesi gli animi di
coloro che sopra questu parte volessino
intendere alcune cose; dico, come molti per
avventura giudicheranno di cattivo esempio, che
uno fondatore d’ un vivere civile, quale è
ROMOLO, abbia prima morto un suo fratello,
dipoi consentito alla morte di Tito TAZIO Sabino,
eletto da lui compagno nel regno; giudicando
per questo, che gli suoi cittadini
potessero con T autorità del loro principe,
per ambizione e desiderio di comandare, offendere
quelli che alla loro autorità si
opponessino. La quale oppinionc sarebbe
vera, quando non si considerasse che line
l’avesse indotto a fare lai OMICIDIO. E debbesi
pigliare questo per una regola generale:
clic non mai o di rado occorre che
alcuna repubblica o regno sia da principio
ordinato bene, o al tutto di nuovo
fuori delti ordini vecchi riformato, se non
è ordinato da uno; anzi è necessario che
uno solo sia quello clic dia il modo,
e dalla cui mente dependa qualunque simile
ordinazione. Però, uno prudente ordinatore d’ una
repubblica, e che abbia questo animo di
volere giovare non a sé ma al BENE COMUNE,
non alla sua propria successione ma alla
comune patria, debbe ingegnarsi di avere l’autorità
solo; nè mai uno ingegno savio riprenderà
alcuno di alcuna azione istraordinaria, che
per ordinare un regno o constituire una
repubblica usasse. Conviene bene, che,
accusandolo il fallo, lo effetto lo scusi ;
e quando sia buono,
come quello di ROMOLO, sempre lo scuserà:
perchè colui che è violento per guastare,
non quello che è per racconciare, si debbe
riprendere. Debbe bene in tanto esser
prudente e virtuoso, che quella autorità che
si ha presa, non la lasci ereditaria
ad un altro : perchè, essendo gli uomini
più proni al male che al bene,
potrebbe il suo successore usare ambiziosamente
quello che da lui virtuosamente fusse stato
usato. Oltre di questo, se uno è atto
ad ordinare, uoti è la cosa ordinata per
durare molto, quando la rimanga sopra le
spalle d’ uno; ma si bene, quando la
rimane alla cura di molti, e che a molti
stia il mantenerla. Perchè, cosi come molti
non sono atti ad ordinare una cosa,
per non conoscere il bene di quella,
causato dalle diverse oppinioni che sono
fra loro; cosi conosciuto che lo hanno,
non si accordano a lasciarlo. E che ROMOLO fusse di
quelli che NELLA MORTE DEL FRATELLO e del compagno
meritasse scusa; e che quello che fece,
fusse per IL BENE COMUNE, e non per
ambizione propria ; lo dimostra lo avere
quello subito ordinato uno Senato, con il
quale si consigliasse, e secondo l’oppinione del
quale deliberasse. E chi considera bene P autorità
che ROMOLO si riserbò, vedrà non se
ne essere riserbata alcun’ altra che comandare
alli eserciti quando si era deliberata la
guerra, e di ragunare il Senato. Il che
si vide poi, quando Roma divenne libera
per la cacciata de’ Tarquini; dove
da’ Romani non fu innovato alcun ordine
dello antico, se non che in luogo d’
uno Re perpetuo, fussero duoi Consoli annuali;
il che testifica, tutti gli ordini primi
di quella città essere stati più conformi
ad uno vivere civile e libero, che ad
uno assoluto e tirannico. Polrebbesi dare in corroborazione
delle cose sopraddette infiniti esempi; come
Licurgo, Solonc, ed nitri fondatori di
regni e di repubbliche, i quali poterono, per
aversi attribuito un’ autorità, formare leggi a proposito
del bene comune; ma gli voglio lasciare
indietro, come cosa nota. Addurronne solamente •
uno, non si celebre, ma da
considerarsi per coloro che desiderassero essere
di buone leggi ordinatori: il quale è,
che desiderando Agide re di Sparta ridurre
gli Spartani intra quelli termini che le
leggi di Mcurgo gli avessero rinchiusi, parendoli
che per esserne in parte deviati, la
sua città avesse perduto assai di quella
antica virtù, e, per conseguente, di forze
e d’ imperio ; fu ne' suoi primi
principii ammazzato dalli Efori spartani, come
uomo che volesse occupare la tirannide. .Ma
succedendo dopo lui . nel regno Cleomene c
nascendogli il medesimo desiderio per gli
ricordi e scritti eh’ egli aveva trovati di
Agide, dove si vedeva quale era la
mente ed intenzione sua, conobbe non potere
fare questo bene alla sua patria se
non diventava solo di autorità; parendogli,
per 1* arabizione degli uomini, non
potere fare utile a molti contra alla
voglia di pochi: e presa occasione conveniente,
fece ammazzare tutti gli Efori, e qualunque altro
gli potesse contrastare ; dipoi rinnovò in
tutto le leggi di Licurgo. La quale
deliberazione era atta a fare risuscitare Sparta,
e dare a Clcomcne quella reputazione che ebbe
Licurgo, se non fussc stato la potenza
de’ Macedoni e la debolezza delle altre
repubbliche greche. Perchè, essendo dopo tale
ordine assaltato da’ Macedoni, e trovandosi per
sè stesso inferiore di forze, c non avendo
a chi rifuggire, fu vinto; e restò quel suo
disegno, quantunque giusto e laudabile, imperfetto. Considerato
adunque tutte queste cose, conchiudo, come a
ordinare una repubblica è necessario essere solo;
c ROMOLO per LA MORTE DI REMO E DI TAZIO meritare iscusa, e
non biasmo. X. — Quanto sono laudabili *
fondatori d* una repubblica o dJ uno regno,
tanto quelli dJ una tirannide sono vituperabili. Intra
tutti gli uomini laudati, sono i laudatissimi
quelli die sono stati capi e ordinatori
delle religioni. Appresso dipoi, quelli che
hanno fondato o repubbliche o regni. Dopo
costoro, sono celebri quelli che, preposti
alti esercìti, hanno ampliato o il regno
loro, o quello della patria. A questi si
aggiungono gli uomini iilterati; e perchè questi
sono di più ragioni, sono celebrati ciascuno
d’ essi secondo il grado suo. A qualunque
altro uomo, il numero de’ quali è infinito,
si attribuisce quut* che parte di laude, la
quale gli arreca l’ arte e V esercizio suo.
Sono, per lo contrario, infumi e detestabili
gli uomini destruttori delle religioni, dissipatori
de’ regni e delie repubbliche, ini-
mici delle virtù, delle lettere, e d'ogni altra
arte che arrechi utilità ed onore alla
umana generazione; come sono gli empii e
violenti, gl* ignoranti, gli oziosi, i vili, e i
dappochi. E nessuno sarà mai sì pazzo o si
savio, si tristo o si buono, che,
propostogli la elezione delle due qualità
d’ uomini, non laudi quella che è da
laudare, e Biasini quella che è da
biasmare: nientedimeno, dipoi, quasi tutti,
ingannati da un falso bene e da una
falsa gloria, si lasciano andare, o
voluntariamente o ignorantemente, ne’ gradi di coloro
che meritano più biasimo che laude; c
potendo fare, con perpetuo loro onore, o
una repubblica o un regno, si volgono alla
tirannide: nè si avveggono per questo partito quanta
fama, quanta gloria, quanto onore, sicurtà,
quiete, con satisfazione d’animo, e’fuggono; e in
quanta infamia, vituperio, biasimo, pericolo e
inquietudine incorrono. Ed è impossibile che quelli
che in stato privato vivono in una repubblica,
o che per fortuna o virtù ne diventano
principi, se leggcssino l’ istorie, e delle
memorie delle antiche cose facessino capitale,
che non volessero quelli tali privati,
vivere nella loro patria piuttosto Soipioni
che Cesari; e quelli che sono principi, piuttosto
Agesilai, Timolconi e Dioni, clic Nabidi, Falari
e Dionisi : perchè vedrebbono questi essere
sommamente vituperati, e quelli eccessivamente laudati. Vedrebbono
ancora come Timoleone e gli altri non
ebbero nella patria loro meno autorità che
si avessiuo Dionisio e Falari; ma vedrebbono
di lungo avervi avuto più sicurtà. Nè
sia alcuno che si inganni per la
gloria di Cesare, sentendolo, massime, celebrare
dagli scrittori: perchè questi che lo
laudano, sono corrotti dalla fortuna sua, e
spauriti dalla lunghezza dello imperio, il
quale reggendosi sotto quel nome, non permetteva
che gli scrittori parlassero liberamente di
lui. Ma chi vuole conoscere quello che
gli scrittori liberi ne direbbono, vegga
quello che dicono di CATILINA. E tanto è
più detestabile GIULIO (si veda) CESARE , quanto più è
da biasimare quello che ha fatto, che
quello che ha voluto fare un inule.
Vegga ancora con quante laudi celebrano BRUTO (si
veda); talché, non potendo biasimare quello
per la sua potenza, e’ celebrano il nemico
suo. Consideri ancora quello eh’ è diventato
principe in una
repubblica, quante laudi, poiché ROMA fu
diventata imperio, meritarono più quelli
imperadori che vissero sotto le leggi e
come principi buoni, che quelli che vissero
al contrario: e vedrà come a Tito, Nerva,
Traiano, ADRIANO, Antonino e Marco, non erano
necessari i soldati pretoriani nè la moltitudine
delle legioni a difenderli, perchè i costumi L loro,
la benivolenza del Popolo, lo amore i del
Senato gli difendeva. Vedrà ancora come a
Caligola, Nerone, Vitellio, ed a tanti
altri scellerati imperadori, non bastarono gli
eserciti orientali ed occidenItili a salvarli
conira a quelli nemici, che li loro rei
costumi, la loro malvagia vita aveva loro
generati. E se la istoria di costoro fusse
ben considerata, sarebbe assai ammaestramento a
qualunque priucipe, a mostrargli la via
della gloria o del biasmo, e della sicurtà
o del timore suo. Perchè, di ventisei
imperadori che furono da Cesare a Massimiuo,
sedici ne furono ammazzati, dicci morirono
ordinariamente; c se di quelli che furono morti
ve ne fu alcuno buono, come Galba e
Pertinace, fu morto da quella corruzione
che lo antecessore suo aveva lasciata nc’
soldati. E se tra quelli che morirono
ordinariamente ve ne fu alcuno scellerato, nome
Severo, nacque da una sua grandissima
fortuna e virtù ; le quali due cose pochi
uomini accompagnano. Vedrà ancora, per la
lezione di questa istoria, come si può
ordinare un regno buono: perchè tutti gl'
imperadori che succederono all* imperio per
eredità, eccetto Tito, furono cattivi ; quelli
che per
adozione, furono tutti buoni, come furono quei
cinque da Nervo a Marco: e come P imperio
cadde negli eredi, ei ritornò nella sua
rovina. Pongasi, adunque, innanzi un principe i
tempi da Nerva a Marco, e conferiscagli con
quelli che erano stati prima e che furono
poi; edipoi elegga in quali volesse
essere nato,o a quali volesse essere preposto. Per-chè
in quelli governali da’ buoni, vedràun
principe sicuro in mezzo de’ suoi si-curi
cittadini, ripieno di pace e di giu-stizia
il mondo: vedrà il Senato con lasua
autorità, i magistrati con i suoi ono-ri ;
godersi i cittadini ricchi le loro ric-chezze ;
la nobiltà c la virtù esaltata :vedrà
ogni quiete ed ogni bene; e, dal-l’altra
parte, ogni rancore, ogni licenza,corruzione e
ambizione spenta: vedrà itempi aurei, dove
ciascuno può tenere edifendere quella
oppinione che vuole. Ve-drà, in fine,
trionfare il mondo; pienodi riverenza e di
gloria il principe,d’ amore e di sveurilà i
popoli. Se con-sidererà, dipoi, tritamente i tempi
deglialtri imperadori, gli vedrà atroci per
leguerre, discordi per le sedizioni,
nellapace e nella guerra crudeli: tanti prin-cipi
morti col ferro, tante guerre civili,tante
esterne ; P Italia afflitta, e piena dinuovi
infortunii ; rovinate e saccheggiatele città di quella.
Vedrà Roma arsa, ilCampidoglio da’ suoi
cittadini disfatto,desolati gli antichi templi,
corrotte lecerimonie, ripiene le città di
adulterii:vedrà il mare pieno di esilii,
gli scoglipieni di sangue. Vedrà in
Roma seguireinnumerabili crudeltadi ; e la
nobiltà, le ricchezze, gli onori, e sopra
tutto ia virtùessere imputata a peccato
capitale. Ve-drà premiare li accusatori, essere
corrotti i sèrvi contro al signore, i liberi contro
al padrone; e quelli a chi fusscro mancati
i nemici, essere oppressi dagli amici. E
conoscerà allora benissimo quanti obblighi Roma,
Italia, e il mondo abbia con Cesare. E
senza, dubbio, se e* sarà nato d’uomo,
si sbigottirà I da ogni imitazione dei
tempi cattivi, c accenderassi d’uno immenso
desiderio di
seguire i buoni. E veramente, cercando un
principe la gloria del mondo, doverrebbe
desiderare di possedere una città corrotta,
non per guastarla in tutto come Cesare, ma
per riordinarla come lloinolo. E veramente i
cieli non possono dare all i uomini maggiore
occasione di gloria, nè li uomini la
possono maggiore desiderare. E se, a volere
ordinare bene una città, si avesse di
necessità n dcporrc il principato, meriterebbe
quello clic non la ordinasse, per non
cadere di quel grado, qualche scusa: ma
potendosi tenere il principato ed ordinarla, non
si merita scusa alcuna. E in somma,
considerino quelli a chi i cieli danno tale
occasione, come sono loro proposte due vie:
1’ una che gli fa vivere
sicuri, e dopo la morte gli rende gloriosi
; I’ altra gli fa vivere in continove angustie,
e dopo la morte lasciare di sè una
sempiterna infamia. XI. — Delta religione de*
Romani. Ancora che Roma avesse il primo suo
ordinatore ROMOLO, e che da quello abbia
riconoscere come figliuola il nascimento e la
educazione sua; nondimeno, giudicando i cieli che
gli ordini di ROMOLO non bastavano a tanto
imperio, niessono nel petto del Senato
romano di eleggere NUMA (si veda) Pompilio per SUCCESSORE
A ROMOLO, acciocché quelle cose che da lui
fossero state lasciate indietro, fossero da
Numa ordinate. II quale trovando un popolo
ferocissimo, e volendolo ridurre nelle ubbidienze
civili con le arti della pace, si
volse alla religione, come oosa al tutto
necessaria a volere mantenere una civiltà ; e la
costituì in modo, che per più secoli
non fu mai tanto timore di Dio quanto
in quella Repubblica : ilche facilitò
qualunque impresa che ilSenato o quelli
grandi uomini romanidisegnassero fare. E ehi
discorrerà in-finite azioni, e del popolo
di Roma lutto insieme, e di molli de’
Romani di per sé, vedrà come quelli
cittadini temevano più assai rompere il
giuramento che le leggi ; come coloro
clic stimavano più la potenza di Dio,
che quella degli uomini: come si vede
manifestamente per gli esempi di SCIPIONE e
di MANLIO TORQUATO. Perchè, dopo la rotta
che Annibale aveva dato a’ Romani a Canne,
molti cittadini si erano adunati insieme, c
sbigottiti e paurosi si erano convenuti
abbandonare l’ITALIA, e girsene in Sicilia: il
che sentendo SCIPIONE, gli andò a trovare, e col
ferro ignudo in mano gli costrinse a
giurare di non abbandonare la patria. LUCIO
MANLIO, padre di TITO MANLIO, che fu dipoi chiamato
Torquato, era stato accusato da MARCO POMPONIO,
Tribuno della plebe ; ed innanzi che
venissi il di del giudizio, Tito andò a
trovare Marco, e minacciando d’ ammazzarlo se non
giurava di levare l’accusa al padre, lo
costrinse al giuramento ; e quello,
per timore avendo giurato, gli levò
t'accusa. E cosi quelli cittadini i quali l'amore
della patria e le leggi di quella non
ritenevano in ITALIA, vi furon ritenuti da
un giuramento che furono forzati a pigliare; e
quel Tribuno pose da parte l'odio che
egli aveva col padre, la ingiuria che
gli aveva fatta il figliuolo, c i’ onore
suo, per ubbidire al giuramento preso: il
che non nacque da altro, che da
quella religione che Numa aveva introdotta
in quella città. E vedesi, chi considera
bene le istorie romane, quanto serviva la
religione a comandare agli eserciti, a riunire la
plebe, a mantenere gli uomini buoni, a fare vergognare
li tristi. Talché, se si avesse a disputare
a quale principe Roma fusse più obbligata, o a ROMOLO
o a Numa, credo più tosto Numa otterrebbe
il primo grado: perchè dove è religione,
facilmente si possono introdurre l’armi; e dove
sono l’armi e non religione, con diflìcultà
si può introdurre quella. E si vede che a ROMOLO
per ordinare il Senato, e per fare altri
ordini civili e militari, non gli fu
necessario dell’ autorità di Dio; ma fu
bene necessario a Numa, il quale simulò di
avere congresso con una Ninfa, la quale
lo consigliava di quello ch’egli avesse a
consigliare il popolo : e tutto nasceva perchè
voleva mettere ordini nuovi ed inusitati in quella
città, e dubitava che la sua autorità non
bastasse. G veramente, mai non fu alcuno
ordinatore di leggi straordinarie in uno
popolo, che non ricorresse a Dio ; perchè
altrimenlc non sarebbero accettate: perchè sono
molli beni conosciuti da uno prudente, i
quali non hanno in sè ragioni evidenti
da potergli persuadere ad altri. Però gli
uomini savi, che vogliono torre questa
diflìcultà, ricorrono a Dio. Cosi fece Licurgo,
cosi Solone, cosi molti altri che hanno
avuto il medesimo fine di loro. Ammirando, adunque,
il popolo romano la bontà e la prudenza
sua, cedeva ad ogni sua deliIterazione,
Ben è vero che l’essere quelli tempi pieni
di religione, e quelli uomini, con i quali
egli aveva a travagliare, grossi, gli detlono
facilità grande a conseguire i disegni suoi,
potendo imprimere in loro facilmente qualunche
nuova forma. E senza dubbio, ehi volesse
ne’presenti tempi fare una repubblica, più
facilità troverebbe negli uomini montanari, dove
non è alcuna civilità, che in quelli che
sono usi a vivere nelle città, dove la
civilità è corrotta: ed uno scultore trarrà
più facilmente una bella statua d’ uno
marmo rozzo, che d’ uno male abbozzato
d’altrui. Considerato adunque tutto, conchiudo
che la religione introdotta da Piuma fu
intra le primecagioni della felicità di
quella città: perchè quella causò buoni
ordini; i buoni ordini fanno buona fortuna ; e
dalla buona fortuna nacquero i felici successi delle
imprese. E come la osservanza del culto
divino è cagione delia grandezza delle
repubbliche, cosi il dispregio di
quella è cagione della rovina d’esse. Perchè,
dove manca il timore di Dio, conviene
che o quel regno rovini, o che sia
sostenuto dal timore d’ un principe che
supplisca a’ difetti della religione. E perchè i
principi sono di corta vita, conviene che
quel regno manchi presto, secondo che manca
la virtù d’ esso. Donde nasce che i
regni i quali dependono solo dalla virtù d’
uno uomo, sono poco durabili, perchè quella
virtù manca con la vita di quello ; e
rade volte accade che la sia rinfrescata
con la successione, come prudentemente ALIGHIERI (si
veda) dice: tt Rade volte risurge per li
ramiL'umana probitade: e questo vuoloQuel che
la dà, perchè da lui si chiami.
„Non è, adunque, la salute di una
repubblica o d’uno regno avere uno principe che
prudentemente governi mentre vive ; ma uno
che l’ordini in modo, clic, morendo ancora,
la si mantenga. E benché agli uomini rozzi
più facilmente si persuade uno ordine o una
oppinione nuova, non è per questo
impossibile persuaderla ancora agli uomini civili,
e che si presumono non essere rozzi. Al
popolo di Firenze non pare essere nè
ignorante nè rozzo: nondimeno da frate Girolamo
Savonarola fu persuaso che parlava con Dio.
lo non voglio giudicare s’egli era vero o
no, perchè d’ un tanto uomo se ne
debbe parlare con reverenza : ma io dico
bene, che infiniti lo credevano, senza
avere visto cosa nessuna istraordinaria da
farlo loro credere; perchè la vita sua,
la dottrina, il soggetto che prese, erano
sufhzienti a fargli prestare fede. Non sia,
pertanto, nessuno che si sbigottisca di non
potere conseguire quello che è stato conseguito da
altri ; perchè gli uomini, come nella Prefazione
nostra si disse, nacquero, vissero e morirono
sempre con un medesimo ordine. XIF. — Di
quanta importanza sia tenere conto della
religione j e come la Italia per esserne mancata
mediante la Chiesa romana y è rovinata. Quelli
principi, o quelle repubbliche, le quali si vogliono
manienere incorrotte, hanno sopra ogni altra
cosa a mantenere incorrotte le cerimonie della
religione, e tenerle sempre nella loro venerazione;
perchè nissuno maggiore indizio si puote
avere della rovina d’una provincia, che
vedere dispregiato il culto divino. Questo è
facile a intendere, conosciuto che si è in
su che sia fondata la religione dove V
uomo è nato; perchè ogni religione ha il
fondamento della vita sua in su qualche
principale ordine suo. La vita della
religione gentile era fondata sopra i responsi
delti oracoli e sopra la setta delli aridi
e delli aruspici: tutte le altre loro cerimonie, sacrifìcii,
riti, dependevano da questi; perchè loro
facilmente credevano che quello Dio che ti
poteva predire il tuo futuro bene o il
tuo futuro male, te lo potessi ancora
concedere. Di qui nascevano i tempii, di
qui i sacrifici!, di qui le supplicazioni,
ed ogni altra cerimonia in venerarli:
perchè l’oracolo di Deio, il tempio di GIOVE
Aminone, ed altri celebri oracoli, tenevano
il mondo in ammirazione, e devoto. Come costoro cominciarono
dipoi a parlare n modo de’ potenti, e questa
falsità si fu scoperta ne’ popoli,
divennero gli uomini increduli, ed atti a
perturbare ogni ordine buono. Debbono,
adunque, i Principi d’uria repubblica o d’un
regno, i fondamenti della religione che
loro tengono, mantenerli; e fatto questo, sarà loro
facil cosa a mantenere la loro repubblica
religiosa, e, per conseguente, buona ed
unita. C debbono, tutte le cose che nascono
in favore di quella, come che le
giudicassino false, favorirle ed accrescerle; e tanto
più Io debbonofare, quanto più prudenti
sono, e quanto più conoscitori delle cose
naturali. E perchè questo modo c stato osservato dagli
uomini savi, ne è nata l’oppinione dei
miracoli, che si celebrano nelle religioni
eziandio false: perchè i prudenti gli aumentano,
da qualunche principio e’ si nascano; e
l’autorità loro dà poi a quelli fede
appresso a qualunque. Di questi miracoli ne
fu a Roma assai; e intra gli altri
fu, che saccheggiando i soldati romani la
città de’ Veienti, alcuni di loro entrarono
nel tempio di Giunone, ed accostandosi alla
immagine di quella, e dicendole vis venire Romani
,parve od alcuno vedere che la accennasse;
ad alcun altro, che ella dicesse di
si. Perchè, sendo quelli uomini ripieni di
religione (il che dimostra L. perchè
nell’entrare nel tempio,
vi entrarono senza tumulto, tutti devoti e
pieni di reverenza), parve loro udire quella
risposta che alla domanda loro per
avventura si avevano presupposta : la quale
oppiuione e credulità, da Cammillo e dagli
altri principi della città fu ni tutto
favorita ed accresciuta. La quale religione
se ne’ Principi della repubblica cristiana si
fusse mantenuta, secondo che dal datore d’
essa ne fu ordinato, sarebbero gli stati e
le repubbliche cristiane più unite e più
felici assai ch’elle non sono. Nè si
può fare altra maggiore conieltura della
declinazione d’essa, quanto è vedere come quelli
popoli che sono più propinqui alla Chiesa
romana, capo della religione nostra, hanno meno religione.
E chi considerasse i fondamenti suoi, e vedesse l’
uso presente quanto è diverso da quelli,
giudicherebbe esser propinquo, senza dubbio, o la
rovina o il flagello. E perchè sono alcuni
d’oppinione, che ’l ben essere delle cose
d’ Italia dipende dalla Chiesa di Roma,
voglio contro ad essa discorrere quelle
ragioni che mi occorrono :e ne allegherò
due potentissime, le quali, secondo me, non
hanno repugnanza. La, prima è, che per
gli esempi rei di quella i corte, questa
provincia ha perduto oguI divozione ed ogni
religione: il clic si i lira dietro
infiniti inconvenienti e infi-niti disordini; perchè,
così come religione si presuppone ogni bene, dove
ella manca si presuppone il contrario.
Abbiamo, adunque, con la Chiesa e con i
preti noi Italiani questo primo obbligo,
d’essere diventati senza religione c cattivi: ma
ne abbiamo ancora un maggiore, il quale è
cagione della rovina nostra. Questo è die
la Chiesa ha tenuto e tiene questa nostra
provincia divisa. E veramente, alcuna provincia non fu
mai unita o felice, se la non viene
tutta alla obedienza d’ una repubblica o
d’uno principe, come è avvenuto alla Francia. E
la cagione che la Italia non sia in
quel medesimo termine, nè abbia aneli’ ella
o una repubblica o uno principe che la governi,
è solamente la Chiesa ; perchè, avendovi abitalo
e tenuto imperio temponile, non è stata sì
potente nè dì tal virtù, che l'abbia
potuto occupare il restante d’Italia, e farsene
principe; e non è stata, dall’altra parte,
si debile, che, per paura di non
perder il dominio delie cose temporali, la
non abbi potuto convocare uno potente che
la difenda contra a quello che in Italia
fusse diventato troppo potente: come si è veduto
anticamente per assai esperienze, quando mediante
Carlo Magno la ne cacciò i Lombardi, eh’
era no già quasi re di tutta Italia;
e quando ne’ tempi nostri ella tolse la
potenza a’ Veneziani con l’aiuto di
Francia; dipoi ne cacciò i Franciosi eoa
l’aiuto de’ Svizzeri. Non essendo, dunque, stata
la Chiesa potente da potere occupare l’
Italia, nè avendo permesso che un altro
la occupi, è stata cagione che la non è
potuta venire sotto un capo; ma è stata
sotto più principi e signori, da’ quali è nata
tanta disunione e tanta debolezza, che la
si è condotta ad essere stata preda, non
solamelile di barbari polenti, ma di
qualunque I* assalta. Di clic noi altri
Italiani abbiamo obbligo con la Chiesa, c non con
altri. E chi ne volesse per esperienza certa
vedere più pronta la verità, bisognerebbe
che fusse di tanta potenza, che mandasse
ad abitare la corte romana, con l’autorità
che l’ha in Italia, in le terre de’
Svizzeri; i quali oggi sono quelli soli popoli
che vivono, e quanto alla religione e quanto
agli ordini militari, secondo gli antichi : e
vedrebbe che in poco tempo furebbero più
disordine in quella provincia i costumi tristi
di quella corte, che qualunchc altro
accidente clic in qualunche tempo vi
potessi surgere. XIII. — Come t Romani si
servirono della religione per ordinare la città,
e per seguire le loro imprese e fermare i
tumulti.Ei non mi pare fuor di
proposito ad-durre alcuno esempio dove i Romani
si
servirono della religione per riordinare la
cillà, e per seguire l’imprese loro; e quantunque
in L. ne siano molti, nondimeno voglio
essere contento a questi. Avendo creato il Popolo
romano i Tribuni, di potestà consolare, e,
fuorché uno, tutti plebei; ed essendo occorso quello
anno peste c fame, e venuti certi prodigii ;
usorono questa occasione i Nobili nella nuova
creazione de’ Tribuni, dicendo che li Dii
erano adirati per aver Roma male usata
la maestà del suo imperio, e che non
era altro rimedio a placare gli Dii,
che ridurre la elezione de’ Tribuni nel
luogo suo: di che nacque
che la Plebe, sbigottita da questa religione,
creò i Tribuni tutti nobili. Vedesi ancora
nella espugnazione della città de’ Ycienti,
come i capitani degli eserciti si valevano
della religione per tenergli disposti ad
una impresa : ehè essendo il lago Albano, quello
anno, cresciuto mirabilmente, ed essendo i
soldati romani in fastiditi per la lunga
ossidione, e volendo tornarsene a Roma, trovarono i
Romani, come Apollo e certi altri responsi
dicevano che quell* anno si espugnerebbe la
città de’ Veienti, che si derivasse il Ingo
Albano : la qual cosa fece ai soldati
sopportare i fastidi della guerra e della
ossidione, presi da questa speranza di espugnare la
terra ; e stettono contenti a seguire la impresa,
tanto che Cammillo fatto Dittatore espugnò
detta città, dopo dieci anni che l’era
stala assediata. E cosi la religione, usata
bene, giovò e per la espugnazione di quella
città, e per la restituzione dei Tribuni nella
Nobiltà: chè senza detto mezzo difficilmente
si sarebbe condotto e l’uno e l’altro. Non voglio
mancare di addurre a questo proposito un
altro esempio. Erano nati in Roma assai
tumulti per cagione di Terentillo Tribuno,
volendo lui promulgare certa legge, per le
cagioni che di sotto nel suo luogo si
diranno ; e tra i primi rimedi che vi
usò la Nobiltà, fu la religione: della
quale si servirono i duo modi. Nel
primo fecero vedere i li- bri Sibillini, e
rispondere, come alla città, mediante la
civile sedizione, soprastavano quello anno
pericoli di non perdere la libertà : la
qual cosa, ancora che fusse scoperta da’
Tribuni, nondimeno messe tanto terrore ne*
petti della plebe, che la raffreddò nel
seguirli. L’altro modo fu, che avendo uno APPIO
ERDONIO, con una moltitudine di sbanditi e di
servi, in numero di quattromila uomini,
occupato di notte il Campidoglio, in tanto
che si poteva temere, che se gli Equi
ed i Volsci, perpetui nemici al nome
romano, ne fossero venuti a Roma, la
arebbono espugnata ; e non cessando i Tribuni per
questo di insistere nella pertinacia loro
di promulgare la legge Terentilla, dicendo
che quello in- sulto era fittizio c non
vero: uscì fuori del Senato uno Publio
Rubezio, cittadino grave e di autorità, con
parole parte amorevoli, parte minacciatiti, mostrandoli
i pericoli della città, e la intempestiva
domanda loro; tanto che e’ constrinse la
Plebe a giurare di non si partire dalla
voglia del Consolo: onde che la Plebe
obediente, per forza ricuperò il Campidoglio.
Ma essendo in tale espu-gnazione morto
Publio Valerio consolo, subito fu rifatto
consolo Tito Quinzio; il quale per non
lasciare riposare la Plebe, nè darle spazio
a ripensare alla legge Terentilla, le
comandò s’ uscissi di Roma per andare
contra a’ Volsci, dicendo che per quel
giuramento aveva fatto di non abbandonare
il Consolo, era obbligata a seguirlo: a che
i Tribuni si opponevano, dicendo come quel
giuramento s’era dato al Consolo morto, e
non a lui. Nondimeno L. mostra, come la
Plebe per paura della religione volle più
presto obedire al Consolo, che credere a’
Tribuni; dicendo in favore della antica
religione queste parole: Nondum htiDPj quce
nunc tenet sceculum, negligcntict Dcùm venerai ,
nec interpretando sibi quisque jasjurandum et
legcs aplas■ a La *faciebal. Per la qual
cosa dubitando i Tribuni di non perdere
allora tutta la lor degnila, si accordarono
col Consolo di stare alla obedienza di
quello; e che per uno anno non si
ragionasse della legge Terentilla, ed i Consoli
per uno anno non potessero trarre fuori
la Plebe alla guerra. E cosi la religione
fece al Senato vincere quella diffìcultà,
che senza essa mai non arebbe vinto. XIV. I
Romani interpretavano gli auspicii secondo la
necessità , con la prudenza mostravano di
osservare la religione j quando forzali non V
osservavano ; c se alcuno (emwariamente la
dispregiava , lo punivano. Non solamente gli
auguri!, come di sopra si è discorso, erano
il fondamento in buona parte dell'antica
religione de’ Gentili, ma ancora erano quelli che
erano cagione del bene essere della
Repubblica romana. Donde i Romani ne uvevano più
cura che di alcuno altro ordine di
quella; ed usavangli ne’ comizi consolari, nel
principiare le imprese, nel trai* fuori gli
eserciti, nel fare le giornate, ed in
ogni azione loro importante, o civile o militare;
nè maisarebbono iti ad una espedizionc,
che non avessino persuaso ai soldati che
gli Dei
promettevano loro la vittoria. Ed infra gli
altri nuspicii, avevano negli eserciti certi
ordini di aruspici, che e’ chiamavano Pollarii: e
qualunque volta eglino ordinavano di fare
la giornata col nemico, volevano che i
Pollarii fucessino i loro auspicii; e beccando i
polli, combattevano con buono augurio: non
beccando, si astenevano dalla zuffa. Nondimeno,
quando la ragione mostrava loro una cosa
doversi fare, non ostante che gli auspicii
fossero avversi, la facevano in ogni modo;
ma rivoltavanla con termini e modi tanto
attamente, che non paresse che la fucessino
con dispregio dello religione : il quale
termine fu usato da Papirio consolo in una
zuffa clic fece importantissima coi Sanniti,
dopo la quale restorno in lutto deboli
ed afflitti. Perchè sendo Papirio in su’
campi rincontro ai Sanniti, e parendogli avere
nella zuffa la vittoria certa, e volendo
per questo fare la giornata, comandò ai
Pollarii che fucessino i loro auspicii; ma
non beccando i polli, e veggendo il principe de’
Pollarii la gran disposizione dello esercito di
-combattere, e la oppinione che era nei capitano
cd in tutti i soldati di vincere, per
non torre occasione di bene operare a
quello esercito, riferi al Consolo come gli
auspicii procedevano bene: talché Papirio
ordinando le squadre, ed essendo da alcuni
de' Pollarii detto a certi soldati, i polli non
aver beccato, quelli lo dissono a Spurio
Papirio nipote del Consolo; e quello riferendolo
al Consolo, rispose subito, eh’ egli attendesse a
fare l’oflìzto suo bene, e che quanto a lui
ed allo esercito gli auspicii erano rolli;
e se il Pollarlo aveva detto le bugie,
ritornerebbono in pregiudicio suo. E perchè lo
effetto corrispondesse al pronostico, comandò ni
legati clic constituìssino i Pollarii nella
primo fronte della zuffa. Onde nacque che,
andando contra ai nemici, sendo da un
soldato romano tratto uno dardo, a caso ammazzò
il principe de’ Pollarii; la qual cosa
udita il Console, disse come ogni cosa
procedeva bene, e col favore degli Dii;
perchè lo esercito con la morte di quel
bugiardo si era purgato da ogni colpa, e
da ogni ira che quelli avessino preso
contra di lui. E cosi, col sapere bene
accomodare t disegni suoi agli auspicii, prese
partito di azzuffarsi, senza clic quello
esercito si avvedesse che in alcuna parte
quello avesse negletti gli ordini della
loro religione. Al contrario fece APPIO Pillerò
in Sicilia, nella prima guerra punica: che
volendo azzuffarsi con P esercito cartaginese, fece fare
gli auspicii a’ Pollarii; e referendogli quelli,
come i polli non beccavano, disse : veggiamo
se volessero bere ; e gli fece giUare
in mare. Donde che, azzuffandosi, perdette
la giornata : di che egli ne fu a
Roma condennato, e Papirio onorato; non tanto
per aver V uno vinto e P altro perduto,
quanto per aver 1’ uno fatto contra
agli auspicii prudentemente e l’altro temerariamente.
Nè ad altro line tendeva questo modo
dello aruspicare, che di fare i soldati
confidentemente ire alla zuffa ; dalla quale
confidenza quasi sempre uasce la vittoria. La qual
cosa fu non solamente usala dai Romani,
ma dalli esterni : di che mi pare di
addurre uno esempio nel seguente capitolo. XV. Come
i Sanniti, per estremo rimedio alle cose
loro afflitte, ricorsono alla religione. Avendo i
Sanniti avute più rotte dai Romani, ed
essendo stati per ultimo distrutti in
Toscana, e morti i loro eserciti e gli loro
capitani ; ed essendo stali vinti i loro
compagni, come Toscani, Franciosi ed Umbri ;
ncc suis, nec extcrnis viribus jam
slare polcrant : t amen bello non abstinebantj
adeo ne infeliciler quidem defensae libcrtatis
tcedcbalj et vinci > quarti non tentare
victorianij malebant. Onde deliberarono far
ultima prova: e perché ei sapevano che a
voler vincere era necessario indurre ostinazione
negli animi de’ soldati, c che a indurla non v’
era miglior mezzo che la religione; pensarono
di ripetere uno antico loro sacrifìcio,
mediante Ovio Faccio, loro sacerdote. Il
quale ordinarono in questa forma : che,
fatto il sacrificio solenne, e fatto intra
le vittime morte e gli altari accesi
giurare lutti i capi dello esercito, di non
abbandonare mai la zuffa, citarono i soldati
ad uno ad uno ; ed intra quelli
altari, nel mezzo di più centurionicon
le spade nude in mano, gli face-vano
prima giurare che non ridirebbono cosa
che vedessino o sentissino; dipoi,con parole
esecrabili e versi pieni di spa-vento, gli
facevano giurare e promettereagli Dii, d’essere
presti dove gli impe-radori gli
comandassino, c di non si fug-gire mai
dalla zuffa, e d’ ammazzarequalunque vedessino
che si fuggisse: laqual cosa non
osservata, tornasse soprail capo della sua
famiglia e della sustirpe. Ed essendo
sbigottiti alcuni diloro, non volendo giurare,
subito da’ lorocenturioni erano morti; talché
gli altriche succedevano poi, impauriti
dalla fe-rocità dello spettacolo, giurarono tutti.E
per fare questo loro assembramentopiù
magnifico, sendo quarantamila uo-mini, ne
vestirono la metà di pannibianchi, con
creste e pennacchi sopra lecelate ; e così
ordinati si posero pressoad Aquilonia.
Contra a costoro vennePapirio; il quale,
nel confortare i suoisoldati, disse: Non
enim crislas vulnerafacere, et pietà alque
aurata scuta tran-sirc ttomanum pileum. E
per debilitarela oppinione clic avevano i
suoi soldatide’ nemici per i) giuramento. preso,
disseche quello era per essere loro a
timore,non a fortezza; perchè in quel medesi-mo
tempo avevano uvere paura de’ cit-tadini, degli
Dii, c de* nemici. E venutial conflitto, furono
superati i Sanniti;perchè la virtù romana,
ed il timoreconccputo per le passate
rotte, superòqualunque ostinazione ei potessino
averepresa per virtù della religione e per
ilgiuramento preso. Nondimeno si vedecome a
lóro non parve potere avere al-tro rifugio,
nè tentare altro rimedio apoter pigliare
speranza di ricuperare laperduta virtù. Il
che testifica appieno,quanta confidcnzia si
possa avere me-diante la religione bene
usata. E benchéquesta parte piuttosto, per
avventura, sirichiederebbe esser posta intra
le coseestrinseche ; nondimeno, dependendo dauno
ordine de’ più importanti dellaRepubblica
di Roma, mi è parso dacommetterlo in
questo luogo, per nondividere questa
materia, cd averci aritornare più
volte.Gap. XVI. — Un popolo uso a
vìveresotto un principe, se per qualche
ac-cidente diventa libero, con difficultàmantiene
la libertà.Quanta difficultà sia ad uno
popolouso a vivere sotto un principe, preser-vare
dipoi la libertà, se per alcuno ac-cidente
l’acquista, come l’acquistò Ro-ma dopo la
cacciala de’Tarquini; iodimostrano infiniti
esempi che si leggononelle memorie delle
antiche istorie. Etale difficultà è ragionevole;
perchè quelpopolo è non altrimenti che uno
ani-male bruto, il quale, ancora che di
fe-roce natura e silvestre, sia stato nu-drito
sempre in carcere ed in servitù,che
dipoi lasciato a sorte in una cam-pagna
libero, non essendo uso a pa-scersi, nè
sappiendo le latebre dove siabbia a
rifuggire, diventa preda delprimo che cerca
rincatenarlo. Questo me-desimo interviene ad uno
popolo, il qualesetido uso a vivere sotto i
governi d’al-tri, non snppiendo ragionare nè
delledifese o offese pubbliche, non cogno-scendo
i principi nè essendo conosciutoila loro,
ritorna presto sotto un giogo,il quale
il più delle volte è più graveche
quello che per poco innanzi si
avevalevato d’ in su ’1 collo : e trovasi
in que-ste difficullà, ancora che la
materia nonsia in tutto corrotta; perchè
in unopopolo dove in lutto è entrata
la corru-zione, non può, non che picciol
tempo,ma punto vivere libero, come di
sotto sidiscorrerà: e però i ragionamenti no-stri
sono di quelli popoli dove la corru-zione
non sia ampliata assai, c dove siapiù
del buono che del guasto. Aggiun-gesi
alla soprascritta, un’ altra difficultò;la
quale è, che lo Stato che diventa
li-bero, si fa partigiani nemici, e nonpartigiani
amici. Partigiani nemici glidiventano tutti
coloro che dello Stalo ti-nodei dìscorsi Tannico
si prevalevano, pascendosi dellericchezze del
principe; a’ quali sendotolta la facoltà
del valersi, non possovivere contenti, e
sono forzati ciascunodi tentare di
riassumere la tirannide,per ritornare nell’
autorità loro. Non siacquista, come ho
detto, partigiani ami-ci ; perchè il vivere
libero propone onorie premii, mediami alcune
oneste e de-. terminate cagioni, e fuori di
quelle nonpremia nè onora alcuno; e quando
unoha quelli onori e quelli utili che
gli paremeritare, non confessa avere
obbligo concoloro che lo rimunerano. Oltre
a que-sto, quella comune utilità che del viverelibero
si trae, non è da alcuno, mentreche
ella si possiede, conosciuta: la qualeè di
potere godere liberamente le cosesue senza
alcuno sospetto, non dubitaredell’onore delle
donne, di quel de’ fi-gliuoli, non temere
di sè; perchè nis-suno confesserà mai
aver obbligo conuno che non 1’
offenda. Però, come disopra si dice,
viene ad avere lo Statolibero c che
«li nuovo surge, partigianinon partigiani
amici. E vonemicilendo rimediare a questi inconvenienti,c
a quegli disordini che le soprascrittediflìculta
si arrecherebbono seco, non ciè più potente
rimedio, nè più valido, nèpiù sano,
nè più necessario, che am-mazzare i figliuoli
di Bruto: i quali,come l’istoria mostra,
non furono in-dotti, insieme con altri
gioveni romani,n congiurare contra alla patria
per al-tro, se non perchè non si
potevano va-lere straordinariamente sotto i
Consoli,come sotto i Re; in modo che
la libertàdi quel popolo pareva che
fusse diven-tata la loro servitù. E chi
prende a go-vernare una moltitudine, o per
via„dilibertà o per via di principato, e non si
assicura di coloro che a quell’ ordine nuovo
sono nemici, fa uno Stato di poca vita.
Vero è ch’io giudico infelici quelli principi,
che per assicurare lo Stato loro hanno a
tenere vie straordinarie, avendo per. nemici
la moltitudine: perchè quello che ha per
nemici i pochi, facilmente e senza molti
scandali, si assicura; ma chi ha per
nemico 1’ universale, non si assicura mai;
e quanta più crudeltà usa, tanto diventa
più debole il suo principalo. Talché
il maggior rimedio che si abbia, è cercare
di farsi il popolo amico. E benché questo
discorso sia disformo dal soprascritto, parlando
qui d’ un principe e quivi d’ una repubblica
; nondimeno, per non avere a tornare più in su
questa materia, ne voglio parlare bre-vemente.
Volendo, pertanto, un principe guadagnarsi un
popolo che gli fusse nemico, parlando di
quelli principi che sono diventati della
loro patria tiranni ; dico eh’ ci debbe
esaminare prima quello che il popolo
desidera, e troverà sempre ch’ei desidera due
cose; Y una vendicarsi contro a coloro che
sono cagione che sia servo; l’altra di
riavere la sua libertà. Al primo desiderio
il principe può satisfare in tutto, al
secondo in parte. Quanto al primo, ce
n’ è lo csempio appunto. Clearco, tiranno
di Eraelea, scudo in esilio, occorse
che, per controversia venuta intra il
popolo e gli ottimati di Eraclea, veggendosi
gli ottimati inferiori, si volsono a favorire Clearco,
c congiuratisi seco lo missono, contea alla
disposizione popolare, in Eraclea, c toisono la
libertà al popolo. In modo che, trovandosi
Clearco intra la insolenzia degli ottimati, i
quali non poteva in alcun modo nè
contentare nè correggere, c la rabbia de’
popolari, che non potevano sopportare lo
avere perduta la libertà, deliberò ad un
tratto liberarsi dal fastidio de’ grondi, c guadagnarsi
il popolo. E presa sopra questo conveniente
occasione, tagliò a pezzi tutti gli ottimali,
con una estrema satisfazione de’ popolari. E
così egli per questa via satisfece ad
una delle voglie che hanno i popoli, cioè
di vendicarsi. Ma quanto all’altro popolare
desiderio di riavere la sua libertà, non
potendo il principe satisfargli, debbe esaminare quali
cagioni sono quelle che gli fanno desiderare
d’essere liberi; e troverà che una piccola
parte di loro desidera d’essere libera per
comandare; ma tutti gli altri, che sono
infiniti, desiderano la libertà per vivere
securi. Perchè in tutte le repubbliche, in
qualunque modo ordinate, ai gradi del
comandare non aggiungono mai quaranta o cinquanta
cittadini: e perchè questo è piccolo numero, è facil
cosa assicurarsene, o con levargli via* o con
far lor parte di tanti onori, che
secondo le condizioni loro essi abbino in
buona parte a contentarsi. Quelli altri, ai
quali basta vivere securi, si satisfanno
facilmente, facendo ordini e leggi, dove insieme
con la potenza sua si comprenda la
sicurtà universale. E quando uno principe
faccia questo, e che il popolo vegga
che per accidente nessuno ei non rompa
tali leggi, comincerà in breve tempo a
vivere sccuro e contento. In esempio ci è
il regno di Francia, il quale non
vive securo per altro, che per essersi
quelli Re obbligati ad infinite leggi,
nelle quali si comprende la securtn di
tutti i suoi popoli. E chi ordinò quello
Stato, volle che quelli Re, dell’ arme e
del danaio facessino a loro modo, ma
che d’ogni altra cosa non ne potessino
altrimenti disporre che le leggi si
ordinassino. Quello principe, adunque, o quella
repubblica che non si assicura nel
principio dello stato suo, conviene che si
assicuri nella prima occasione, come fecero i
Romani. Chi lascia passare quella, si pente
tardi di non aver fatto quello che
doveva fare. Sendo, pertanto, il popolo
romano ancora non corrotto quando ci
recuperò la libertà, potette mantenerla, morti i
figliuoli di BRUTO e spenti i Tarquini, con tutti quelli
rimedi ed ordini che altra volta si
sono discorsi. Ma se fussc stato quel popolo
corrotto, nè in Roma nè altrove si
trovano rimedi validi a mantenerla; come nel
seguente capitolo mostreremo. XVII. Uno popolo
coitoIIo , venuto in libertà, si può con
difficullà ( grandissima mantenere libera. lo giudico
che gli era necessario, o die i Re si
estinguessino in Roma, o che Roma in
brevissimo tempo divenissi debole, e di nessuno valore:
perchè, considerando a quanta corruzione erano venuti
quelli Re, se l'ussero seguitati così due o
tre successioni, e che quella corruzione che
era in loro, si fossi cominciata a
distendere per le membra; come le membra
fussino state corrotte, era impossibile mai
più riformarla. Ma perdendo il capo quando
il busto era intero, poterono facilmente
ridursi a vivere liberi cd ordinati. E debbesi
presupporre per cosa verissima, che una città
corrotta che vive sotto un principe, ancora
che quel principe con tutta la sua
stirpe si spenga, inai non si può ridurre
libera; anzi conviene che Putì principe
spenga l’ allro; e senza creazione d’un nuovo
signore non si posa mai, se già la
bontà d’ uno, insieme con la virtù,
non la tenessi libera ; ma durerà tanto
quella libertà, quanto durerà la vita di
quello: come intervenne a Siracusa di Dione e
di Timoleone, la virtù de’ quali in
diversi tempi, mentre vissero, tenne libera
quella città; morti clic furono, si ritornò
nell'antica tirannide. Ma non si vede il
più forte esempio che quello di Roma;
la quale cacciati i Tarquini, potette
subito prendere e mantenere quella libertà: ma
morto Cesare, morto Caligula, morto Nerone,
spenta tutta la stirpe cesarea, non potette
inai, non solamente mantenere, ma pure dare principio
alla libertà. Nè tanta diversità di evento
in una medesima città nacqueda altro,
se non da non essere ne’ tempi de’Tarquini
il popolo romano ancora corrotto; ed in
questi ultimi tempi essere corrottissimo. Perchè
allora, a mantenerlo saldo e disposto a fuggire i Re, bastò
solo furio giurare che non eon sentirebbe
mai che a Roma alcuno regnasse; e negli
altri tempi, non bastò T autorità e severità
di BRUTO, con tutte le legioni orientali, a
tenerlo disposto a volere mantenersi quella
libertà che esso, a similitudine del primo BRUTO,
gli aveva rendutu. Il che nacque da quella corruzione
che le parli mariane avevano messa nel
popolo; delle quali essendo capo Cesare
potette accecare quella moltitudine, eh* ella non
conobbe il giogo che da sè medesima
si metteva in sul collo. E benché questo
esempio di Roma sia da preporre a qualunque
altro esempio, nondimeno voglio a questo proposito addurre
innanzi popoli conosciuti ne* nostri tempi.
Pertanto dico, che nessuno accidente, benché
grave e violento, potrebbe redurre mai Milano o
Napoli libere, per essere quelle membra
tutte corrotte. H che si vide dopo la
morte di VISCONTI; che volendosi ridurre
Milano alia libertà, non potette e non
seppe mantenerla. Però, fu felicità grande
quella di Koma, che questi Re diventassero corrotti
presto, acciò ne fussino cacciati, cd
innanzi che la loro corruzione fosse passata
nelle viscere di quella città: la quale
incorruzione fu cagione che gl’ infiniti tumulti
che furono in Roma, avendo gli uomini
il fine buono, non nocerouo, anzi giovarono
alla Repubblica. E si può fare questa
conclusione, che dove la materia non è
corrotta, i tumulti cd altri scandali non
nuòcono: dove la è corrotta, le leggi
bene ordinate non giovano, se già le
non son mosse da uno che con una
estrema forza le facci osservare, tanto che
la materia diventi buona. Il che non
so se sie mai intervenuto, o se fusse
possibile ch’egli intervenisse: perchè c’ si
vede, come poco di sopra dissi, che
una città venuta in declinazione per
corruzione di materia, se mai occorre che
la si levi, occorre per la virtù d’
uno uomo eh’ è vivo allora, non per
la virtù dello universale clic sostengo gli
ordini buoni ; c subito che quei tale è
morto, la si ritorna nei suo pristino
abito; come intervenne a Tebe, la quale
per la virtù di Epaminonda, mentre lui
visse, potette tenere forma di repubblica e
di imperio ; ma morto quello, la si
ritornò ne’ primi disordini suoi. La
cagione è, che non può essere un uomo
di tanta vita, che ’l tempo basti ad
avvezzare bene una città lungo tempo male
avvezza. E se unod’ una lunghissima vita, o
due successioni virtuose conlinove non la
dispongono; come una manca di loro, come di
sopra è detto, subito rovina, se già con
molti pericoli c molto sangue c’ non la
facesse rinascere. Perchè tale corruzione e poca
attitudine olla vita libera, nasce da una
inequulità che è in quella città: e volendola
ridurre equale, è necessario usare grandissimi
estraordinari; i quali pochi sanno o vogliono usare,
come in altro luogo più particolarmente si
dirà. XVIII. — In che modo «ci.c; mi corrotte
si potesse mantenere tino stalo liòerOj
essendovi; o non essendovi , ordinartelo. Io credo
clic non sia fuori di proposito, nè
disformo dal soprascritto discorso, considerare
se in una città corrotta si può
mantenere lo stato libero, scndovi ; o quando
e’ non vi fosse, se vi si può
ordinare. Sopra la qual cosa dico, come
gli è mollo difficile fare o l’uno o l'
altro: e benché sia quasi impossibile darne
regola, perchè sarebbe necessario procedere
secondo i gradi della corruzione; nondimnneo, essendo bene
ragionare d’ogni cosa, non voglio lasciare
questa indietro. E presuppongo una città
corrottissima, donde verrò ad accrescere più
tale difficoltà; perché non si trovano nè
leggi nè ordini che bastino a frenare una
universale corruzione. Perchè, così come gli
buoni costumf, per mantenersi, hanno bisogno delle
leggi; cosi le leggi, per osservarsi, hanno
bisogno de’ buoni costumi. Oltre di questo,
gli ordini e le leggi fatte in una
repubblica nel nascimento suo, quando erano
gli uomini buoni, non sono dipoi più a
proposito, divenuti che sono tristi. E se
le leggi secondo gli accidenti in una
città variano, non variano mai, 0 rade
volte, gli ordini suoi: il che fa che
le nuove leggi non bastano, perchè gli
ordini, che stanno saldi, le corrompono. E
per dare ad intendere meglio questa parte,
dico come in Roma era l’ordine del
governo, o vero dello Stato; c le leggi
dipoi, che con i magistrati frenavano i
cittadini. L’ordine dello Stato era l’ autorità
del Popolo, del Senato, dei Tribuni, dei
Consoli, il modo di chiedere e del creare i
magistrati, ed il modo di fare le
leggi. Questi ordini poco o nulla variarono
nelii accidenti. Variarono le leggi che frenavano
1 cittadini; come fu la legge degli
adulferi!, la suntuaria, quella della ambizione,
e molte altre ; secondo clic di mano in
mano i cittadini diventavano corrotti. Ma lenendo
fermi gli ordini dello Stato, che nella
corruzione non erano più buoni, quelle
leggi che si rinnovavano, non bastavano a
mantenere gli uomini buoni; ma sarebbonn bene giovate,
se con la innovazione delle leggi si
fussero rimutati gli ordini. G che sia il
vero che tali ordini nella- città corrotta
non fossero buoni, e’ si vede espresso in
due capi principali. Quanto al creare i
magistrati e le leggi, non dava il Popolo
romano il consolato, e gli altri primi
gradi della città, se non a quelli
che lo dimandavano. Questo ordine fu nel
principio buono, perchè e’ non gli domandavano
se non quelli cittadini che se ne
giudicavano degni, ed averne la repulsa era
ignominioso; si che, per esserne giudicati
degni, ciascuno operava bene. Diventò questo modo,
poi, nella città corrotta perniziosissiiuo ;
perchè non quelli che avevano più virtù,
ma quelli che avevano più potenza,
domandavano i magistrali; e gl’ impotenti, comecché
virtuosi, se ne astenevano di domandargli
per paura. Vcnnesi a questo inconveniente, non ad
un tratto, ma per i mezzi, come si
cade in tutti gli altri iuconveiiienti : perchè avendo
i Romani domata l’Affrica e l’Asia, e ridotta
quasi tutta la Grecia a sua ohidienza,
erano divenuti sicuri della libertà loro,
nè pareva loro avere più nimici che
dovessero fare loro paura. Questa securtà e
questa debolezza de’ nemici fece che il
Popolo romano, nel dare il consolato, non
riguardava più la virtù, ma la grazia ;
tirando a quel grado quelli che meglio
sapevano iutrattenere gli uomini, non quelli
che sapevano meglio vincere i nemici: di
poi, da quelli che avevano più grazia,
discesero a dargli a quelli che avevano più
potenza;talché i buoni, per difetto di tale
ordine, ne rimasero al tutto esclusi. Poteva uno
Tribuno, e qualunque altro cittadino, proporre al
Popolo una legge; sopra la quale ogni
cittadino poteva parlare, o in favore o incontro,
innanzi che la si deliberasse. Era questo
ordine buono, quando i cittadini erano buoni ;
per-
che sempre fu bene, che ciascuno clic intende
uno bene per il pubblico, lo possa
proporre; ed è bene che ciascuno sopra
quello possa dire l’oppinione sua, acciocché
il Popolo, inteso ciascuno, possa poi
eleggere il meglio. Ma diventati i cittadini
cattivi, diventò tale ordine pessimo, perchè
solo i potenti proponevano leggi, non per
la comune libertà, ina perla potenza loro;ccontra
a quelle non poteva parlare alcuno per paura
di quelli : talché il Popolo veniva o
ingannato o sforzato a deliberare la sua rovina.
Ero necessario, pertanto, a volere che Roma
nella corruzione si mantenesse libera, che,
cosi come aveva nel processo del vivere
suo fatte nuove leggi, l’avesse fatti nuovi
ordini: per-«thè altri ordini e modi di
vivere si debbe ordinare in un soggetto
cattivo, che in un buono ; nè può
essere la forma simile in una materia
al tutto contraria. Ma perchè questi
ordini, o e’ si hanno a rinnovare tutti ad
un tratto, scoperti che sono non esser
più buoni, o a poco a poco, in prima che
si conoschiuo per ciascuno ; dico che
1* una e l’altra di queste due cose è
quasi impossibile. Perchè, a volergli rinnovare a poco
a poco, conviene che ne sia cagione uno
prudente, che veggio questo inconveniente assai
discosto, e quando e’ nasce. Di questi tali è
facilissima cosa che in una città non
ne surga mai nessuno : e quando pure ve
ne surgesse, non potrebbe persuadere mai ad
altrui quello che egli proprio intendesse; perchè
gli uomini usi a vivere in un modo,
non lo vogliono variare; e tanto più non
veggiendo il male in viso, ma avendo ad
essere loro mostro per con letture. Quando
ad innovare questi ordini ad un (ratio,
quando ciascuno conosce clic non sono
buoni, dico che questa inutilità, clic
facilmente si conosce, è diffìcile a ricorreggerla:
perchè a fare questo, non basta usare
termini ordinari, essendo i modi ordinari
cattivi; ma è necessario venire allo
istraordinario, come è alla violenza ed all’
armi, e diventare innanzi ad ogni cosa
principe di quella città, e poterne disporre a
suo modo. E perchè il riordinare una
città al vivere politico presuppone uno
uomo buono, ed il diventare per violenza
principe di una repubblica presuppone un uomo cattivo;
per questo si troverà che radis- sime volte
accaggia, che uno uomo buono voglia
diventare principe per vie cattive, ancoraché
il fine suo fusse buono; e che uno
reo divenuto principe, voglia operare bene, e che
gli caggia mai nell’animo usare quella
autorità bene, che egli ha male acquistata.
Da tutte le soprascritte cose nasce
la diffìcultà, o impossibilità, che è nelle città
corrotte, a mantenervi una repubblica, o a
crearvela di nuovo. E quando pure la
vi si avesse a creare o a mantenere, sarebbe necessario
ridurla più verso lo stato regio, che
verso lo stato popolare; acciocché quelli
uomini i quali dalle leggi, per la loro
insolenzia, non possono essere corretti, lusserò
da una podestà quasi regia in qualche
modo frenati. Ed a volergli fare per altra
via diventare buoni, sarebbe o crudelissima
impresa, o al tutto impossibile; come io
dissi di sopra che fece Cleomene; il
quale se, per essere solo, ammazzò gli
Efori; e se ROMOLO, per le medesime
cagioni, AMMAZZO IL FRATELLO E TITO TAZIO SABINO, e dipoi usarono
bene quella loro autorità ; nondimeno si
debbe avvertire che V uno e T altro di
costoro non avevano il soggetto di quella
corruzione macchiato della quale in questo
capitolo ragioniamo, e però poterono volere e,
volendo, colorire il disegno loro. XIX. Dopo
uno eccellente principio si può mantenere
un principe debole ; ma dopo un debole, non
si può con un (diro debole mantenere alcun
regno. Considerato la virtù ed il modo del procedere
di ROMOLO, NUMA e TULIO, I PRIMI TRE RE ROMANI, si vede come Roma
sortì una FORTUNA GRANDISSIMA, AVENDO IL PRIMO RE FEROCISSIMO E
BELLICOSO, 1’ altro quieto e religioso, il terzo simile
di ferocia a Romolo, e più amatore della
guerra che della pace. Perchè in Roma
era necessario che surgesse ne’ primi
principii suoi un ordinatore «lei vivere
civile, ina era bene poi necessario che
gli altri Re ripigliassero LA VIRTU DI ROMOLO; ALTRIMENTI
QUELLA CITTA SAREBBE DIVENTATA EFFEMINATA, e preda de’ suoi
vicini. Donde si può notare, che uno successore
non di tanta virtù quanto il primo,
può mantenere uno Stato per la virtù
di colui che PImretto innanzi, e si
può godere te sue fatiche: ma s’ egli
avviene o che sia di lunga vita, o che
dopo lui non surga
un altro che ripigli la virtù di
quel primo, è necessitato quel regno a rovinare. Cosi,
per il contrario, se due, 1* uno dopo
P altro, sono di gran virtù, si vede
spess che fanno cose grandissime, e che ne vanno
con la fama in fino al cielo.
Davit, senza dubbio, fu un uomo per
arme, per dottrina, per giudizio eccellentissimo; e
fu tanta la sua virtù, che, avendo vinti
ed abbattuti tutti i suoi vicini, lasciò a
Salomone suo figliuolo un regno pacifico:
quale egli si potette con le arti «Iella
pace, e non della guerra, conservare; e si
potette godere felicemente la virtù di suo
padre. Ma non potette già lasciarlo a
Roboan suo figliuolo; il quale non essendo
per virtù simile allo avolo, nè per
fortuna simile al padre, rimase con fatica
erede della sesta parte del rt'guo. Baisit,
sultan de’ Turchi, ancora die fusse più
amatore della pace che della guerra,
potette godersi le fatiche di Maumelto suo
padre; il quale avendo, come Davit, battuti
i suoi vicini, gli lasciò un regno fermo, e
da poterlo con F arte della pace facilmente
conservare. Ma se il figliuolo suo Salì,
presente signore, fusse stalo simile al padre,
c non all’avolo, quel regno rovinava : ma e’ si vede
costui essere per superare la gloria
dell'avolo. Dico pertanto con questi esempi,
clic dopo uno eccellente principe si può
mantenere un principe debole; ma dopo un
debole non si può con un altro debole
mantenere alcun regno, se già e’ non
fusse come quello di Francia, che gli
ordini suoi antichi lo mantenessero: e quelli
principi sono deboli, che non stanno in
su la guerra. Couchiudo pertanto con questo
discorso, clic LA VIRTU DI ROMOLO E TANTA che la
potette dare spazio a Numa Pompilio di potere
molti anni con 1’ arte della pace reggere
Roma : ma dopo lui successe
Tulio, il quale pei* la sua ferocia
riprese la reputazione di ROMOLO: dopo il
quale venne Anco, in modo dalla natura
dotato, che poteva usare la pace, e
sopportare la guerra. E prima si dirizzò a
volere tenere la via della pace: ma
subito conobbe come i vicini, giudicandolo
effeminato, lo stimavano poco: talmente che
pensò che, a voler mantenere Roma, bisognava
volgersi alla guerra, e somigliare Romolo, e non
Numa. Da questo piglino esempio tutti i principi
che tengono stato, che chi somiglierà Numa,
lo terrà o non terrà, secondo ehe i tempi o
la fortuna gli girerà sotto: ma chi
somiglierà Romolo, e lui come esso armato
di prudenza e d’armi, lo terrà in ogni
modo, se da una ostinata ed eccessiva
forza non gli è tolto. K certamente si può
stimare, che se Roma sortiva per terzo
suo Re un uomo che non sapesse con
le armi renderle la sua reputazione, non
arebbe mai poi, o con grandissima dilTìcultà,
potuto pigliare piede, nè fare quelli
effetti ch’ella fece. E così, in mentre eh’
ella visse sotto i Re, la portò questi
pericoli di rovinare sotto un Re o debole o
tristo. Due continove
successioni di principi virtuosi fanno grandi
effetti: c come le repubbliche bene ordinate hanno
di necessità virtuose successioni: c però gli
acquisti ctl auQumcnli loro sono grandi. Poi
che Roma ebbe cacciati i Re, mancò di
quelli pericoli i quali di sopradetti che
la portava, succedendo in lei uno Re o
debole o tristo. Perchè la somma dello
imperio si ridusse nc’ Consoli, i quali non
per eredità o per inganni o per ambizione
violenta, ma per suffragi liberi venivano a
quello imperio, ed erano sempre uomini
eccellentissimi: de’quali godendosi Roma la virtù e
la fortuna di tempo in tempo, potette venire
a quella sua ultima grandezza in
altrettanti unni, che la era stata
sotto i Re. Perchè si vede, come due
coutinove successioni di principi virtuosi sono
suffìzienti ad acquistare il mondo: come
furono Filippo di Macedonia ed Alessandro Magno,
il clic tanto più debbe fare una repubblica,
avendo il modo dello eleggere non solamente
due successioni, ma infiniti principi
virtuosissimi, che sono l’uno dell'altro
successori: la quale virtuosa successione fia
sempre in ogni repubblica bene ordinata. Quanto
biasimo meriti quel principe e quella repubblica
che manca d'armi proprie. Debbono i presenti principi
c le moderne repubbliche, le quali circa le
difese ed offese mancano di soldati propri,
vergognarsi di loro medesime j e pensare,
con lo esempio di Tulio, tale difetto
essere non per mancamento d’uomini alti
alla milizia, ma per colpa loro, che
non hanno saputo fare i loro uomini militari.
Perchè Tulio, scudo stata Roma in pace
quaranta anni, non trovò, succedendo lui
nel regno, uomo che fussc stato mai
alla guerra : nondimeno, disegnando lui fare
guerra, non pensò di valersi nè di
Sanniti, nè di Toscani, nè di altri
che fussero consueti stare nell'armi; ma
deliberò, come uomo prudentissimo, di valersi de’
suoi. E fu tanta la sua virtù, che in
un tratto il suo governo gli potè
fare soldati eccellentissimi. Ed è più vero
che alcuna altra verità, che se dove
sono uomini non sono soldati, nasce per
difetto del principe, e non per altro
difetto o di sito o di natura : di che
ce n’*è uno esempio freschissimo. Perchè
ognuno sa, come ne’ prossimi tempi il re
d’Inghilterra assaltò il regno di Francia,
nè prese altri soldati clic i popoli suoi ;
e per essere stato quel regno più clic
trenta anni senza far guerra, non aveva
nè soldato nè capitano che avesse mai
militato: nondimeno, ei non dubitò con
quelli assaltare uno regno pieno di
capitani e di buoni eserciti, i quali erano
stati continovamcnte sotto l'armi nelle guerre d’Italia.
Tutto nacque da essere quel re prudente
uomo, e quel regno bene ordinato; il quale
nel tempo della pace non intermette gli
ordini della guerra. Pelopida ed Epaminonda
tebani, poiché gli ebbero libera Tebe, e trattola
dalla servitù dello imperio spartano; trovandosi in
una città usa a servire, ed in mezzo di
popoli effeminati ; non dubitarono, tanta era
la virtù loro ! di ridurgli sotto Parrai, e
con quelli andare a trovare alla campagna
gli eserciti spartani, e vincergli : e chi
he scrive, dice come questi due in
breve tempo mostrarono, che non solamente
in bacedemonia nascevano gli uomini di
guerra, ma in ogni altra parte dove
nascessino uomini, pur che si trovasse chi
li sapesse indirizzare alla milizia, come
si vede che Tulio seppe indirizzare i
Romani. E VIRGILIO non potrebbe meglio esprimere questa
oppinione, nè con altre parole mostrare di
aderirsi a quella, dove dice: u ... . Desidesque
movebit Tullus in arma viros. Quello che
sia da notare nel caso dei tre Orazi
romani , e dei Tulio, re di Roma, e Mezio,
re di Alba, convennero che quel popolo
fusse signore dell’ altro, di cui i soprascritti tre
uomini vincessero. Furono MORTI TUTTI I CURIAZI albani,
restò vivo uno degli Orazi romani; e per
questo, restò Mezio, re albaiio, con il
suo popolo, suggello ai Romani. E tornando quello
ORAZIO VINCITORI IN ROMA e scontrando una sua sorella,
che era ad uno de’ tre Curiazi morti
maritata, clic PIANGEVA LA MORTE DEL MARITO, L’AMMAZZO. Donde quello
Orazio per questo fallo fu messo' in
giudizio, e dopo molte dispute fu libero,
più per li prìeglii del padre, clic per
li suoi meriti. Dove sono da notare Ire
cose: una, che mai non si debbe con
parte delle sue forze arrischiare tutta la
sua fortuna ; l’ altra, che non mai in
una città bene ordinata li devmeriti
con li ineriti si ricompensano; la terza,
che non mai sono i partiti savi, dove
si debba o possa dubitare della inosservanza.
Perchè, gl’ importa tanto a una città lo
essere serva, che mai non si doveva
credere che alcuno di quelli Re o di
quelli Popoli stessero contenti che tre
loro cittadini gli avessino sotto* messi ;
come si vide che volle fare Mezio:
il quale, benché subito dopo la vittoria
de’ Romani si confessassi vinto, e promettessi
la obedienza a Tulio; nondimeno nella prima
espedizione che egli ebbono a convenire contra i
Veienli, si vide come ci cercò d’
ingannarlo ; come quello che tardi s’era
avveduto della temerità del partito preso
da lui. E perchè di questo terzo notabile
se n’’è pnr luto assai, parleremo solo
degli altri due ne’ seguenti duoi capitoli. Che
non si debbe mettere a pericolo tutta la
fortuna e non tutte le forze ; c per questo j
spesso il
guardare i passi è dannoso. Non fu mai
giudicato partito savio mettere a pericolo tutta
la fortuna tua, e non tutte le forze.
Questo si fu in più modi. L’uno è
facendo come Tulio e Mezio, quando e’
commissouo la fortuna tutta della patria
loro, e la virtù di tanti uomini quanti
avea l’uno e l’altro di costoro negli
eserciti suoi, alla virtù e fortuna di
tre de’loro cittadini, clic veniva ad
essere una minima parte delle forze di
ciascuno di loro. Nè si avvidono, come
per questo partito tutta la fatica che avevano
durata i loro antecessori nell’ ordinare la
repubblica, per farla vivere lungamente libera e
per fare i suoi cittadini difensori della
loro libertà, era quasi che suta vana,
stando nella potenza di sì pochi a
perderla. La qual cosa da quelli Re
non potè esser peggio considerata. Cadesi
ancora in questo incon-
veniente quasi sempre per coloro, che, venendo
il nemico, disegnano di tenere i luoghi diffìcili,
e guardare i passi: perchè quasi sempre questa
deliberazione sarà dannosa, se giù in
quello luogo diffìcile comodamente tu non
potessi tenere tutte le forze tue. In
questo casotuie partito è da prendere; ma
scndo il luogo aspro, e non vi potendo
tenere tutte le forze tue, il partito è
dannoso. Questo mi fa giudicare cosi lo
esempio di coloro che, essendo assaltati da
un nemico potente, ed essendo il paese loro
circondato da’ monti e luoghi alpestri, noti
hanno mai tentato di combattere il nemico
in su’ passi e in su’ monti, ma sono
iti ad incontrarlo di là da essi: o, quando
non hanno voluto far questo, lo hanno
aspettato dentro a essi monti, in luoghi benigni
e non alpestri. E la cugioite ne è suta
la preallegata : perchè, non si polendo
condurre alla guardia de’ luoghi alpestri molli
uomini, sì per non vi potere vivere
lungo tempo, si per essere i luoghi stretti
e capaci di pochi; non è possibile sostenere
un nemico clic venga grosso ad urtarti:
ed al nemico è facile il venire grosso,
perchè la intenzione sua è passare, e non
fermarsi; ed a chi l’ aspetta è impossibile aspettarlo
grosso, avendo ad alloggiarsi per più
tempo, non sapendo quando il nemico voglia
passare in luoghi, com’ io ho detto,
stretti e sterili. Perdendo, adunque, quel passo
che tu ti avevi presupposto tenere, e nel
quale i tuoi popoli e lo esercito tuo
confidava, entra il più delle volte ne’
popoli e nel residuo delle genti tue tanto
terrore, che senza potere esperimentare la
virtù di esse, rimani perdente; c così
vieni ad avere perduta tutta la tua
fortuna con parte delle tue forze. Ciascuno
sa con quanta diftìcultà Annibaie passasse r
Alpi che dividono la Lombardia dalia
Francia, e con quanta difficoltà passasse
quelle che dividono la Lombardia dalla
Toscana : nondimeno i Romani l’aspettarono prima in
sul Tesino, e dipoi uel piano d’Arezzo; e
vollon più tosto, che il loro esercito
fusse consumato dal nemico nelli luoghi
dove poteva vincere, che condurlo su per
l’Alpi ad esser destrutto dalla malignità
del sito. E chi leggerà sensatamente tutte
le istorie, troverà pochissimi virtuosi capitani
over tentato di tenere simili passi, e per
le ragioni dette, e perchè e' non si
possono chiudere tutti; sendo i monti come
campagne, ed avendo non solamente le vie consuete
e frequentate, ma molte altre, le quali se
non sono note a’ forestieri, sono note a’
paesani ; con l’aiuto de’quali sempre sarai
condotto in qualunque luogo, contra alla
voglia di citi ti si oppone. Di che
se ne può addurre uno freschissimo esempio,
nel T 51 5 . Quando Francesco re di Francia
disegnava passare in Italia per lu
recuperatone dello Stalo di Lombardia, il
maggiore fondamento clic facevano coloro eli’
erano alla sua impresa contrari, era che
gli Svizzeri lo terrebbono a’ passi in su’
monti. E, come per esperienza poi si
vide, quel loro fondamento restò vano:
perché, lasciato quel re da parte due o
tre luoghi guardati da loro, se ne
venne per un’ altra via incognita ; e fu
prima in Italia, e loro appresso, che lo
avessino presentilo. Talché loro isbigottiti si
ritirarono in Milano, e tutti i popoli di
Lombardia si aderiron alle genti franciose;
sendo mancali di quella oppinione avevano,
che i Franciosi dovessino essere tenuti su’ monti. Le
repubbliche bene ordinate costituiscono premii c pene aJ
loro cittadini; ne compensano mai r uno con
l* altro. Erano stati I MERITI D’ORAZIO GRANDISSIMI,
avendo con la sua virtù VINTI I CURIAZIl. Era
stato il fallo suo atroce,
avendo MORTO LA SORELLA: nondimeno dispiacque tanto
tale omicidio ai Romani, che io condussero
a disputare della vita, non ostante che gli
meriti suoi fossero tanto grandi c sì
freschi. La qual cosa a chi superficialmente
la considerasse, parrebbe uno esempio d’ ingratitudine popolare:
nondimeno chi la esaminerà meglio, e con
migliore considerazione ricercherà quali debbono
essere gli ordini delle repubbliche, biasimerà
quel popolo più tosto per averlo assoluto, che
per averlo voluto condeunare. E la ragione è
questa, che nessuna repubblica bene ordinata,
non mai cancellò i demeriti con gli
meriti de’ suoi cittadini; ma avendo ordinati i
preraii ad una buona opera e le pene
ad una cattiva, ed avendo premiato
uno per aver bene operato, se quel
medesimo opera
dipoi male, lo gastica, senza avere
riguardo alcuno alle sue buone opere. E quando
questi ordini sono bene osservati, una
città vive libera molto tempo; altrimenti,
sempre rovinerà presto. Perchè, se ad un
cittadino che abbia fatto qualche egregia
opera per la città, si aggiugne, oltre alla
riputazione che quella cosa gli arreca, una
audacia e confidenza di potere, senza temer
pena, fare qualche opera non buona ; diventerà
in brievc tempo tanto insolente, che si
risolverà ogni civilità. È ben necessario,
volendo clic sia temuta la pena per
le triste opere, osservare i premii per le
buone; come si vede che fece Roma. C
benché una repubblica sia povera, e possa
dare poco, debbe di quel poco non
astenersi; perchè sempre ogni piccolo dono,
dato ad alcuno per ricompenso di bene
ancora che grande, sarà stimato, da chi
lo riceve, onorevole e grandissimo. È notissima
la istoria di ORAZIO CODE e quella di MUZIO SCEVOLA: come
V uno sostenne i nemici sopra un ponte,
tanto che si tagliasse: l’altro si arse
la mano, avendo errato, volendo
ammazzare Porscna, re delli Toscani. A costoro
per queste due opere tanto egregie, fu
donato dal pubblico due staiora di terra
per ciascuno. È nota ancora la istoria di MANLIO
Capitolino. A costui, per aver salvato il
Campidoglio da' Galli che vi erano a campo,
fu dato da quelli che insieme eon lui
vi erano assediati dentro, una piccola
misura di farina, il quale premio, secondo
la fortuna che allora correva in Roma,
fu grande; e di qualità che, mosso poi
Manlio, o da invidia o dalla sua cattiva
natura, a far nascere sedizione in Roma, e
cercando guadagnarsi il popolo, fu, senza
rispetto alcuno de’ suoi meriti, gittato precipite da
quello Campidoglio ch’egli prima, cou tanta
sua gloria, aveva salvo.
Chi vuole riformare uno stalo antico in
una città libera, ritenga almeno l’ombra
desmodi antichi. Colui che desidera o clic
vuole riformare uno stato d’una città, a
volere elle sia accetto, e poterlo con
satisfazione di ciascuno mantenere, è necessitato a
ritenere l’ombra almanco de’ modi antichi, acciò
che a’ popoli non paia avere mutato ordine,
ancora che in fatto gli ordini nuovi
fussero al tutto alieni dai passati; perchè
lo universale degli uomini si pasce così
di quel che pare, come di quello che
è; anzi molte volte si muovono più
per le cose che paiono, che per
quelle clic sono. Per questa cagione i
Romani, conoscendo nel principio del loro
vivere libero questa necessità, avendo in
cambio d’ un Re creali duoi Consoli, non
vollono ch’egli avessino più clic dodici
littori, per non passare il numero di
quelli che ministravano ai Re. Olirà di
questo, facendosi in Roma uno sacrifizio
anniversario, il quale non poteva esser
fatto se non dalla persona del Re; e
volendo i Romani che quel popolo non avesse
a desiderare per la assenzia degli Re alcuna cosa
dell’ antiche j, creorono un capo di detto
sacrifìcio, il quale loro chiamorono Re
Sacrifìcolo, e lo sottomessono al sommo Sacerdote
: talmentechè quel popolo per questa via
venne a satisfarsi di quel sacrifizio, e non
avere mai cagione, per mancamento di esso,
di desiderare la tornata dei Re. E questo
si debbe osservare da tutti coloro che
vogliono scancellare uno antico vivere in una città,
e ridurla ad uno vivere nuovo c libero.
Perchè alterando le cose nuove le menti
degli uomini, ti debbi ingegnare che quelle
alterazioni ritenghino più del-r antico sia
possibile; e se i magistrati variano e di numero
e d'autorità e di tempo dagli antichi, che
almeno ritengliino il nome. E questo, come
ho detto, debbe osservare colui che vuole
ordinare una potenza assoluta, o per via di
repubblica o di regno: ma quello che vuol fare
una potestà assoluta, quale dagli autori è
chiamala tirannide, debbe rinnovare ogni cosa,
come nel seguente capitolo si dirò. Un
principe nuovo , in
i ima città o provincia presa da lui , 1
debbe fare ogni cosa nuova. Qualunque
diventa principe o d’ unacittà o d’uno
Stato, e tanto più quando i fondamenti suoi
lussino deboli, c non si volga o per via
di regno o di repubblica alla vita civile;
il mcgliore rimedio che egli abbia a tenere
quel principato, è, sendo egli nuovo principe, fare
ogni cosa di nuovo in quello Stalo: come
è, nelle città fare nuovi governi con
nuovi nomi, con nuove autorità, con nuovi
uomini; fare i poveri ricchi, fece Davil
quando ei diventò Re: qui csuricnles
implevil bonis, et divites dimirti inanes ;
edificare oltra di questo nuove città,
disfare delie fatte, cambiare gli abitatori
da un luogo ad un altro;
ed in somma, non lasciare cosa niuna intatta
in quella provincia, e che non vi sia
nè grado, nè ordine, nè stato, uè ricchezza,
che chi la tiene non la riconosca da
te; c pigliare per sua mira Filippo di
Macedonia, padre di Alessandro, il quale
con questi modi, di piccolo Re, diventò
principe di Grecia. E chi scrive di
lui, dice che tramutava gl uomini di
provincia in provincia, come i mandriani
tramutano le mandrie loro. Sono questi modi
crudelissimi, e nemici d’ogni vivere, non
solamente cristiano, ma umano; e debbegli
qualunche uomo fuggire, c volere piuttosto vivere
privato, che Re con tanta rovina degli
uomini : nondimeno, colui che non vuole pigliare
quella prima via del bene, quando si
voglia mantenere, convien die entri in
questo male. >la gli uomini pigliano
certe vie del mezzo, clic sono dannosissime;
perchè non sanno essere nè tutti buoni
nè tutti cattivi: come ne seguente
capitolo, per esempio, si mostrerà. Sanno
rarissime volle gli uomini essere al lutto
tristi o al fulto buoni. Papa Giulio secondo,
andando na Bologna per cacciare di quello
Stato la casa de’Bentivogli, la quale aveva
tenuto il principato di quella città cento anni,
voleva ancora trarre Giovampagoto Buglioni
di Perugia, della quale era tiranno, come
quello che aveva congiurato contro a tutti
gli tiranni che occupavano le terre della
Chiesa. E pervenuto presso a Perugia con questo
animo e deliberazione nota a ciascuno, non
aspettò di entrare in quella città
con lo esercito suo che lo guardasse,
mn % entrò disarmato, non ostante vi fusse dentro
Giovampagolo con genti assai, quali per
difesa di sè aveva ragunate. Sicché,
portato da quel furore con il quale
governava tutte le cose, con la semplice
sua guardia si rimesse nelle mani del
nemico ; il quale dipoi ne menò seco,
lasciando un governadore in quella citta,
che rendesse ragione per la Chiesa. Fu
notala dagli uomini prudenti che col papa
erano, la temerità del papa e la
viltà di Giovampagolo ; uè potevano stimare
donde si venisse che quello noti avesse,
con sua perpetua fama, oppresso ad un
tratto il nemico suo, e sè arricchito di
preda, sendo col papa tutti li cardinali,
con tutte le lor delizie. Nè si poteva
credere si fusse astenuto o per bontà, o
per conscienza che lo ritenesse; perchè in
un petto d’ un uomo facinoroso, che si
teneva la sorella, che aveva morti i cugini
cd i nepoti per regnare, non poteva
scendere alcuno pietoso rispetto: ina si
conchiuse, che gli uomini no sanno essere
onorevolmente tristi, o perfettamente buoni; e come
una tristizia ha in sè grandezza, o è in
alcuna parte generosa, eglino non vi sanno
entrare. Cosi Giovampagolo, il quale non stimava essere
incesto e pubblico parricida, non seppe, o, a
dir meglio, non ardì, avendon giusta
occasione, fare una impresa, dove ciascuno
avesse ammirato l’animo suo, e avesse di sè
lasciato memoria eterna; sendo il primo che
avesse dimostro ai prelati, quanto sia da
stimar poco chi vive c regna come loro; ed avesse
fatto una cosa, la cui grandezza avesse
superato ogni infamia, ogni pericolo, clic
da quella potesse depeudere. Per qual
cagione i Romani furono meno ingrati agli loro cittadini
che gli Ateniesi. Qualunque legge le cose
fatte dalle repubbliche, troverà in tutte qualche
spezie di ingratitudine contro a’ suoi
citladini; ma ne troverà meno in Roma che
in Atene> e per avventura in qualunque
altra repubblica. E ricercando la cagione di
questo, parlando di Roma c di Atene,
credo accadesse perchè i Romani avevano meno
cagione di sospettare de’ suoi cittadini, che
gli Ateniesi. Perchè a Roma, ragionando di
lei dalla cacciata dei Re intino a Siila e
Mario, non fu mai tolta la libertà da
alcuno .suo cittadino: in modo che in
lei non era grande cagione di sospettare
di loro, e, per conseguente, di offendergli
inconsideratamente. intervenne bene ad Atene il
contrario: perché, sendole tolta la libertà
da Pisistrato nel suo più florido tempo, e
sotto uno inganno di bontà ; come
prima la diventò poi libera, ricordandosi
delle ingiurie ricevute e della passata servitù,
diventò acerrima vendicatrice non solamente degli
errori, ma delP ombra degli errori de' suoi
cittadini. Di qui nacque l’esilio e la morte di
tanti eccellenti uomini; di qui Pordine
dello ostracismo, ed ogni altra violenza
che contra i suoi ottimati in vari tempi
da quella città fu fatta. Ed è verissimo
quello che dicono questi scrit-
tori della civiltà: che i popoli mordono più
fieramente poi ch’egli hanno recuperala la
libertà, che poi che l’hanno conservala.
Chi considerrà adunque, quanto è detto, non
biasimerà in questo Atene, nè lauderà Roma;
ma ne accuserà solo la necessità, per
la diversità degli accidenti che in queste
città nacquero. Perchè si vedrà, chi
considererà le cose sottilmente, che se a
Roma fusse siila tolta la libertà come a
Atene, non sarebbe stata Roma più pia
verso i suoi cittadini, che si fusse
quella. Di che si può fare verissima
conieltura per quello che occorse, dopo la
cacciata dei Re, contra a Collatino ed a
Publio Valerio: de’ quali il primo, ancora
elicsi trovasse a liberare Roma, E MANDATO IN ESILIO NON PER
ALTRA CAGIONE CHE PER TENERE IL NOME DE’ TARQUINI; P altro, avendo
sol «lato di sè sospetto per edificare una casa
in sul monte Celio, fu ancora per essere
fatto esule. Talché si può stimare, veduto
quanto Roma fu in questi due sospettosa e
severa, che Farebbe usata la ingratitudine
come Atene, se da’suoi cittadini, come
quella ne’ primi tempi ed innanzi allo
augumento suo, fosse stata ingiuriata. G per
non avere a tornare più sopra questa
materia della ingratitudine, ne dirò quello
ne occorrerà nel seguente capitolo. Quale sia
più ingrato , o un popolo j o un principe. Egli
mi pare, a proposito della soprascritta materia,
da discorrere quale usi con maggiori esempi
questa ingratitudine, 0 un popolo, o un principe.
E per disputare meglio questa parte, dico, come
questo vizio della ingratitudine nasce o dalla
avarizia, o dal sospetto. Perchè, quando o un
popolo o un priacipe ha mandato fuori
un suo capitano in una cspedizione
importante, dove quel capitano, vincendola, ne
abbia acquistata assai gloria ; quel principe o quel
popolo è tenuto allo incontro a premiarlo: e se,
in cambio di premio, o ei lo disonora o
ei T offende, mosso dalla avarizia, non
volendo, ritenuto da questa cupidità, satisfarli;
fa uno errore che non ha scusa, anzi
si tira dietro una infamia eterna. Pure
si trovano molti principi che ci peccano. E
Cornelio TACITO dice, con questa sentenzia,
la cagione: Proclivius est inj ur ite, quarti
beneficio vicem cxsolvcre, quia grafia oneri,
ultio in questu fiabe tur. Ma quando ei
non lo premia, o, a dir meglio, l’offende,
non mosso da avarizia, ma da sospetto;
allora merita, e il popolo e il principe,
qualche scusa. E di queste ingratitudini usate
per tal cagione, se ne legge assai :
perchè quello capitano il quale virtuosamente
ha acquistato uno imperio al suo signore,
superando i ne-mici, e riempiendo sè di
gloria e gli suoi soldati di ricchezze; di
necessità, e con i soldati suoi, e con i
nemici, e coi sudditi propri di quel
principe acquista tanta reputazione, che quella
vittoria non può sapere di buono a quel
signore che lo ha mandato. G perchè la
natura degli uomini è ambiziosa e sospettosa, e non
sa porre modo a ntssuna sua fortuna, è
impossibile che quel sospetto che subito
nasce nel principe dopo la vittoria di
quel suo capitano, non sia da quel
medesimo accresciuto per qualche suo modo o
termine usato insolentemente. Talché il
principe non può peusare ad altro che
assicurarsene; e per fare questo, pensa o di
farlo morire, o di torgli la reputazione
che egli si ha guadagnala nel suo
esercito e ne’ suoi popoli: e con ogni industria
mostrare che quella vittoria è nata non per
la virtù di quello, ma per fortuna, o per viltà
dei nemici, o per prudenza degli altri
capitani clic sono stati seco in tale l’azione.
Poiché Vespasiano, sendo in Giudea fu
dichiarato dal suo esercito imperadore ;
Antonio Primo, che si trovava con un
altro esercito in llliria, prese le parti
sue, e ne venne in Italia contea a Vitellio
il quale regnava a Roma, e virluosissimamente
ruppe due eserciti Vitelliani, c occupò
Roma ; talché Muziano, mandato da Vespasiano,
trovò per la virtù d’Antonio acquistato •
il tutto, e vinta ogni di ffìcultà. 11
premio che Autonio ne riportò, fu che
Muziano gli tolse subito la ubidienza dello
esercito, e a poco a poco io ridusse in Roma senza
alcuna autorità: talché Antonio ne andò a
trovare Vespasiano, il quale era ancora in
Asia; dal quale fu in modo ricevuto,
che, in breve tempo, ridotto in nessun
grado, quasi disperato morì. E di questi
esempi ne sono piene le istorie. Ne’
nostri tempi, ciascuno che al presente
vive, sa con quanta industria e virtù
Consalvo Ferrante, militando nel regno di
Napoli contra a’ Franciosi per Ferrando Re
di Ragona, conquistasse e vincesse quel
regno; e come, per pre-
mio di vittoria, ne riportò che Ferrando si
parti da Ragona, e, venuto a Napoli, in
prima gli levò la obedienza delle genti d’
arme, c dipoi gli tolse le fortezze, ed
appresso lo menò seco in Spagna; dove
poco tempo poi, inonorato, mori. È tanto,
dunque, naturale questo sospetto ne’ principi,
che non se ne possono difendere; ed è
impossibile ch’egli usino gratitudine a quelli
che con vittoria hanno fatto sotto le
insegne loro grandi acquisti. E da quello
che non si difende un principe, non è
miracolo, nè cosa degna di maggior
considerazione, s.e un popolo non se ne
difende. Perchè, avendo una città che vive
libera, duoi fini, V uno lo acquistare,
l’altro il mantenersi libera ; conviene che
nell’ una cosa e nell’ altra per troppo
amore erri. Quanto agli errori nello
acquistare, se ne dirà nel luogo suo.
Quanto agli errori per mantenersi libera,
sono, intra
gli altri, questi: di offendere quei
cittadini elicla doverrebbe premiare; aver sospetto
di quelli in cui si doverrebbe confidare. E
benché questi modi in una repubblica venuta
alla corruzione siano cagione di grandi
mali, c che molle volte piuttosto la viene
alla tirannide, come intervenne a Roma di
Cesare, che per forza si tolse quello
che la ingratitudine gli negava; nondimeno
in una repubblica non corrotta sono cagione
di gran beni, e fanno che la ne vi\e
libera più, mantenendosi per paura ili punizione
gli uomini migliori, e meno ambiziosi. Vero è
che infra tutti i popoli che mai ebbero
imperio, per le cagioni di sopra discorse,
Roma fu la meno ingrata : perchè della
sua ingratitudine si può dire che non
ci sia altro esempio che quello di
Scipione; perchè Coriolano c Cammillo fumo
fatti esuli per ingiuria che l’uno e
l’altro aveva fatto alla Plebe. Ma all’
uno non fu perdonato, per aversi
sempre riserbato
contea al Popolo l’animo nemico; Paiteo
non solamente fu richiamato, ma per tutto
il tempo della sua vita adorato come
principe. Ma la ingratitudine usata a Scipione,
nacque da un sospetto che i cittadini
cominciorno avere di lui, che degli altri
non s’era avuto: il quale nacque dalla
grandezza del nemico che Scipione aveva
vinto; dalla reputazione che gli aveva data
la vittoria di sì lunga e pericolosa
guerra; dalla celerità di essa ; dai favori
che la gioventù, la prudenza, e le
altre sue memorabili virtuti gli acquistavano.
Le quali cose furono tante, che, non
che altro, i magistrati di Roma temevano
della sua autorità: la qual cosa spiaceva
agli uomini savi, come cosa inconsueta in
Roma. E parve tanto straordinario il vivere
suo, che CATONE PRISCO, riputato santo, fu IL PRIMO a
fargli contra ; e a dire che una città non
si poteva chiamare libera, dove era un
cittadino che fusse temuto dai magistrati.
Talché, se il popolo di Roma 1 seguì
in questo caso L’OPINIONE DI CATONE, merita
quella scusa che di sopra ho detto
meritare quelli popoli e quelli principi che
per sospetto sono ingrati. Conchiudendo adunque
questo discorso, dico, che usandosi questo
vizio della ingratitudine o per avarizia o per
sospetto, si vedrà come i popoli non mai
per T avarizia la usorno, e per sospetto assai i
manco che i principi, avendo meno cagione
di sospettare: come di sotto si dirà. Quali
modi debbo usare un principe o una
repubblica per fuggire questo vizio della
ingratitudine : c quali quel capitano o quel
cittadino per non essere oppresso da quella. Un
principe, per fuggire questa necessità di
avere a vivere con sospetto, o esser ingrato,
debbe personalmente andare nelle espedizioni;
come facevano nel principio quelli imperadori
romani, come fu ne’ tempi nostri il Turco,
c come hanno fatto e fanno quelli che sono virtuosi.
Perchè, vincendo, la gloria e lo acquisto è
tutto loro; e quando non vi sono, sendo
la gloria d’altrui, non pare loro potere
usare quello acquisto, s’ ei non spengono
in altrui quella gloria che loro non
hanno saputo guadagnarsi, e diventare ingrati
ed ingiusti : e senza dubbio, è maggiore la
loro perdita, che il guadagno. Ma quando, o
per negligenza o per poca prudenza, e’ si
rimangono a casa oziosi, c mandano un capitano;
io non ho che precetto dar loro altro,
che quello che per lor medesimi si
sanno. .Ma dico bene a quel capitano, giudicando
io che non possa fuggire i morsi
della ingratitudine, che faccia una delle
due cose: o subito dopo la vittoria lasci
lo esercito c rimettasi nelle mani del suo
principe, guardandosi da ogni atto insolente o
ambizioso; acciocché quello, spogliato d’ogni
sospetto, abbia cagione o di premiarlo o di
non lo offendere : o, quando questo
non gli paia di fare, prenda animosamente
la parte contraria, e tenga tutti quelli
modi per li quali creda che quello
acquisto sia suo proprio e non del principe
suo, facendosi benivoli i soldati ed i sudditi; e
faccia nuove amicizie coi vicini, occupi
con li suoi uomini le fortezze, corrompa i
principi del suo esercito, e di quelli che
non può corrompere si. assicuri; e per
questi modi cerchi di punire il suo
signore di quella ingratitudine che esso
gli userebbe. Altre vie non ci sono:
ma, come di sopra si disse, gli
uomini non sanno essere nè al tutto tristi,
nè al tutto buoni: e sempre interviene che,
subito dopo la vittoria, lasciare lo
esercito non vogliono, portarsi modestamente non
possono, usare termini violenti e che abbino
in sè Tonorevole, non sanno; talché,
stando ambigui, intra quella loro dimora ed
ambiguità, sono oppressi. Quanto ad una repubblica,
volendo fuggire questo vizi dello ingrato,
non si può dare il medesimo rimedio
che al principe; cioè che vadia, e non
mandi, nelle cspedizioni sue, sendo necessitate a
mandare un suo cittadino. Conviene, pertanto, che
pei*rimedio io le dia, che la tenga i
medesimi modi che tenne la repubblica romana,
ad esser meno ingrata che l’altre: il
che nacque dai modi del suo governo. Perchè,
adoperandosi tutta la città, e gli nobili e
gli ignobili, nella guerra, surgeva sempre
in Roma in ogni età tanti uomini
virtuosi, ed ornati di varie vittorie, che
il popolo non avea cagione di dubitare
di alcuno di loro, sendo assai, c guardando
P uuo Patirò. E in tanto si mantenevano
interi, e respettivi di non dare, ombra di
alcuna ambizione, uè cagione al popolo,
come ambiziosi, d* offendergli ; che venendo
alla dittatura, quello maggior gloria ne
riportava, che più tosto la deponeva. E
cosi, non potendo simili modi generare sospetto, non
generavano ingratitudine. In modo che, una
repubblica che nott voglia avere cagione
d’essere ingrata, si debbo governare come
Roma ; c uno cittadino che voglia fuggire
quelli suoi morsi, debbc osservare i termini
osservati dai cittadini romani. Che » capitani romani per
errore commesso ?io« furono mai istraordinariamcnlc
puniti; nè furono mai ancora puniti quando,
per la ignoranza loro o tristi partiti presi da
loro, ne fissino seguiti danni alla repubblica. 1
Romani, non solamente, come di sopra avemo
discorso, furono manco ingrati die V altre
repubbliche, ma furono ancora più pii e più
respctlivi nella punizione de’ loro capitani degli
eserciti, che alcune altre. Perchè, se il
loro errore fussc stato per malizia, e’
lo gastigavano umanamente; se gli era per ignoranza,
non che lo punissino, e’ lo premiavano ed
onoravauo. Questo modo del procedere era
bene considerato da -loro: perchè e' giudicavano
che fusse di tanta importanza a quelli che
governavano gli eserciti loro, lo avere
l’animo libero ed espedito, e senza altri
estrinsechi rispetti nel pigliare i parliti, che non
volevano aggiugnere ad una cosa per sè
stessa difficile e pericolosa, nuove difficultà c
pericoli ; pensando che aggiugttendovcli, nessuno
potesse essere che operasse mai virtuosamente.
Verbigrazia, e’ mandavano uno esercito in Grecia
contra a Filippo di Macedonia, o in Italia
contra ad Annibale, o contro a quelli
popoli che vinsono prima. Era questo
cupitano clic era preposto a tale espedizione,
angustiato da tutte quelle cure che si
arrecavano dietro quelle faccende, le quali
sono gravi e importantissime. Ora, se a tali
cure si fus»sino aggiunti più esempi
di Romani ch’eglino avessino crucifissi o altrimenti morti
quelli che avessino perdute le giornale,
egli era impossibile che quello capitano
intra tanti sospetti potesse deliberare
strenuamente. Però, giudicando essi che a questi
tali fusse assai pena la ignominia dello
avere perduto, non gli vollono con altra
maggior pena sbigottire. Uno esempio ci è,
quanto allo errore commesso non per ignoranza. Erono
Sergio e Virginio a campo a Veio, ciascuno
preposti ad una parte dello esercito; de’
quali Sergio era all’incontro donde potevano
venire i Toscani, c Virginio dall’ altra
parte. Occorse che sendo assaltato Sergio
dai Falisci e da altri popoli, sopportò d’
essere rotto c fugato prima che mandare
per aiuto a Virginio. E dall’altra parte,
Virginio aspettando che si umiliasse, volle
piuttosto vedere, il disonore della patria sua,
e la rovina di quello esercito, clic
soccorrerlo. Caso veramente esemplare e tristo, c
da fare non buona coniettura della
Repubblica romana, se 1’ uno c l’altro non
fusscro stati gasligali. Vero è che, dove
un’altra repubblica gli a r ebbe puniti di
pena capitale, quella gli punì in danari.
II che nacque non perchè i peccali
loro non meritassino maggior punizione, ma
perchè -gli Romani voiiono in questo
caso, per le ragioni già dette, mantenere
gli antichi costumi loro. E quanto agii
errori per ignoranza, non ci è il più
bello esempio che quello di VARRRONE (si veda):
per la temerità del quale sendo rotti i
Romani a Canne da Annibaie, dove quella
Repubblica portò pericolo della sua libertà;
nondimeno, perchè vi fu ignoranza e non
malizia, non solamente non lo gastigorno
ma lo onororno, e gli andò incontro
nella tornata sua in Roma tutto l’Ordine
senatorio; e non lo potendo ringraziare della
zuffa, Io ringraziarono eh’ egli era
tornato in Roma, c non si era disperato
delle cose romane. Quando Papirio Cursore volevu fare
morire Fabio, per avere contea al suo
comandamento combattuto coi Sanniti; intra le
altre ragioni che dal patire di Fabio
erano assegnale conira alla ostinazione del
Dittatore, era che il Popolo romano in
alcuna perdita de’ suoi Capitani non aveva
fatto mai quello che Papirio nella vittoria
voleva fare. XXXII. Una repubblica o uno principe
non < lebbe differire a beneficare gli uomini
nelle sue necessitati. Ancora che ai Romani
succedesse felicemente essere liberali al Popolo,
sopravvenendo il pericolo, quando Porsena venne
ad assaltare Roma per rimettere i Tarquini ;
dove il Senato dubitando della Plebe, che
non volesse piuttosto accettare i Re che
sostenere la guerra, per assicurarsene la
sgravò delle gabelle del sale, e d’ogni
gravezza ; dicendo come i poveri assai operavano
in benefizio pubblico se ci nutrivano i
lorofigliuoli ; e che per questo benefizio quel Popolo
si esponesse a sopportare ossidione, fame e
guerra: non sia alcuno
che, confidatosi in questo esempio, differisca
ne’tempi de’ pericoli a guadagnarsi il Popolo;
perchè mai gli riuscirà quello che riuscì
ni Romani. Perchè lo universale giudicherà
non avere quel bene date, ma dogli
avversari tuoi; e dovendo temere che, passata
la necessità, tu ritolga loro quello che
hai forzatamente loro dato, non arà tcco
obbligo alcuno. E la cagione perchè ai
Romani tornò bene questo partilo, fu perchè
lo Stato era nuovo, e non per ancora
fermo; ed aveva veduto quel Popolo, come
innanzi si erano fatte leggi in benefizio
suo, come quella delia appellagione alla Plebe; in
modo che ei potette persuadersi che quel
bene gli era fatto, non era tanto causato
dalla venuta dei nemici, quanto dalla
disposizione del Senato in beneficarli. Olirà
di questo, la memoria dei Re era
fresca; dai quali erano stati in molti
modi vilipesi ed ingiuriati. E per-chè simili
cagioni accaggiono rade volte, occorrerà ancora
rade volte che simil remedi giovino. Però,
debbe qualunque tiene stato, cosi repubblica
come principe, considerare inuanzi, quali tempi gli
possono venire addosso contrari, c di quali
uomini ne’ tempi avversi si può avere di
bisogno; e dipoi vivere con loro in quel
modo che giudica, sopravvegnente qualunque
caso, essere necessitato vivere. E quello che
altrimenti si governa, o principe o repubblica, e
massime un principe; e poi in sul fatto crede,
quando il pericolo sopravviene, coi benefìzii
riguadagnarsi gli uomini; se ne inganna :
perchè non solamente non se ne assicura,
ma accelera la sua rovina. Quando uno
inconveniente è cresciuto o in uno Stalo o con
tra ad uno Stato , è più salutifero partito
temporeggiarlo che urtarlo. Crescendo In
Repubblica romana in reputazione, forze ed
imperio, i vicini, i quali prima non
avevano pensato quanto quella nuova Repubblica
potesse arrecare loro di danno, coniinciorno, ma tardi,
a conoscere lo errore loro ; e volendo rimediare
a quello che prima non avevano rimediato,
conspirorno ben quaranta popoli contra a Roma :
donde i Romani, intra gli altri rimedi
soliti farsi da loro negli urgenti
pericoli, si volsono a creare il Dittatore ;
cioè dare potestà ad uno uomo che
senza alcuna consulta potesse deliberare, e senza
alcuna appellagione potesse eseguire le sue
deliberazioni. Il quale rimedio come allora fu
utile, e fu cagione che vincessero gl*
imminenti pericoli, cosi fu sempre utilissimo
in tutti quelli accidenti che,
nello augumento dello imperio, in qualunque
tempo surgessino contra alla Repubblica. Sopra
il qual accidente è da discorrere prima,
come quando uno inconveniente che surga, o
in una repubblica o contra ad una
repubblica, causato da cagione intrinseca o
estrinseca, è diventalo lauto grande clic e’ comincia
far paura a ciascuno; è mollo più sicuro
partilo temporeggiarsi con quello, che tentare
di estinguerlo. Perchè, quasi sempre coloro
che tentano di ammorzarlo, fanno le sue
forze maggiori, e fanno accelerare quel
male che da quello si suspettava. E di
questi simili accidenti ne nasce nella
repubblica più spesso per cagione intrinseca,
che estrinseca : dove molte volte, o e’ si
lascia pigliare ad uno cittadino più forze
che non è ragionevole, o e’ si comincia a corrompere
uua legge, la quale è il nervo e la
vita del vivere libero; e lasciasi trascorrere
questo errore in tanto, che gli è più
dannoso partito il volervi rimediare, che
lasciarlo seguire. E tanto più è difficile il
conoscere questi inconvenienti quando e’ nascono,
quanto e’pare più naturale agli uomini
favorire sempre i principii delle cose. E tali
favori possono, più che in alcuna altra cosa,
nelle opere che paiono che abbino in
sè qualche virtù, e siano operale da’ giovani:
perchè, se in una rcpubblica si vede
surgere un giovane nobile, quale abbia in
sè virtù istraordinaria, lutti gli occhi
de’ cittadini si cominciano a voltare verso
di lui, e concorrono senza alcuno rispetto
ad onorarlo ; in modo che, se in
quello è punto d* ambizione, accozzati i favori
che gli dà la natura e questo accidente,
viene subito in luogo, che quando i
cittadini si avveggono dell'errore loro, hanno
pochi rimedi ad ovviarvi; e volendo quelli tauti
ch’egli hanno, operarli, non fanno altro
che accelerare la potenza sua. Di questo
se ne potrebbe addurre assai esempi, ma
io ne voglio dare solamente uno della
citta nostra. Cosimo de’ MEDICI, dal quale
la casa de’ Medici in la nostra città
ebbe il principio della sua grandezza,
venne in tanta reputazione col favore che
gli dette la sua prudenza e la
ignoranza degli altri cittadini, che ei cominciò
a fare paura allo Stato; in modo clic
gli altri cittadini giudicavano l’offenderlo
pericoloso, ed il lasciarlo stare cosa
pericolosissima. Ma vivendo in quei tempi
Niccolò da Uzzano,' il quale nelle cose
civili era tenuto uomo espertissimo, ed
avendo fatto il primo errore di non
conoscere i pericoli clic dalla reputazione di
Cosimo potevano nascere; mentre che visse,
non permesse mai clic si facesse il
secondo, cioè che si tentasse di volerlo
spegnere, giudicando tale tentazione essere al
tutto la rovina dello Stato loro; come
si vide in fatto clic fu, dopo la
sua morte : perchè, non osservando quelli
cittadini che rimasono, questo suo
consiglio, si feciono forti contra a Cosimo, e
lo cacciorno da Firenze. Donde ne nacque
che la sua parte, per questa ingiuria
risentitasi, poco dipoi lo chiamò, e lo
fece principe della repubblica: al quale
grado senza quella manifesta opposizione non
sarebbe mai potuto ascendere. Questo medesimo intervenne
a Roma con Cesare; chè favorita da
Pompeio e dagli altri quella sua virtù, si
convertì poco dipoi quel favore in paura:
di che fa testimonio CICERONE, dicendo che
Pompeio aveva tardi cominciato a temer Cesare. La
qual paura fece che pensorono ai rimedi ; e
gli rimedi che feciono, accelerorno la
rovina della loro Repubblica. Dico adunque,
che dipoi che gii è difficile conoscere
questi mali quando e’surgono, causata
questa difficultà da uno inganno che ti
fanno le cose in principio ; è più savio
partito il temporeggiarle poiché le si
conoscono, che l’oppugnarle : perchè temporeggiaudole,
o per lor medesime si spengono, o almeno il
male si differisce in più lungo tempo. E
in tutte le cose debbono aprir gli
occhi i principi che disegnano cancellarle, o
alle forze ed impeto loro opporsi; di
non dare loro, in cambio di detrimento,
augumento ; e credendo sospingere una cosa,
tirarsela dietro, ovvero soffocare una pianta
con anuaffiarla. Ma si debbe considerare
bene le forze del malore, c quando ti
vedi suffizientc a sanarlo, mettervili senza
rispetto: altrimenti, lasciarlo stare, nò in alcun
modo tentarlo. Perchè interverrebbe, come di
sopra si discorre, e come intervenne a’
vicini di Roma: ai quali, poiché Roma
era cresciuta in tanta potenza, era più
salutifero con gli modi della pace cercare
di placarla c ritenerla addietro, che coi modi della
guerra farla pensare a nuovi ordini e nuove
difese. Perchè quella loro congiura non
fece altro che farli più uniti, più
gagliardi, e pensare a modi nuovi, medinoti i
quali in più breve tempo ampliorono la
potenza loro. Intra’quali fu la creazione
del Dittatore; per lo quale nuovo ordine
non solamente superorono gli imminenti pericoli,
ma fu cagione di ovviare a infiniti mali ,
ne’ quali senza quello rimedio quella repubblica
sarebbe incorsa, v-.j. ;• vk'u Urlimi* llìl tòt*
XXXIV. — l/autorità dittatoria fece bene , c non danno
, alla repubblica romana: c come le autorità
che i cittadini si tolgono s non quelle che sono loro
dai suffragi liberi date , sono alla vita
civile perniciose. E’ sono stati dannati da
alcuno scrittore quelli Romani che trovorono in quella
città il modo di creare il Dittatore,
come cosa che fusse cagione, col tempo,
della tirannide di Roma; allegando, come il
primo tiranno che fusse in quella città,
la comandò sotto questo titolo dittatorio;
dicendo che se non vi fusse stato
questo, Cesare non arebbe potuto sotto
alcuno titolo pubblico adonestare la sua
tirannide. La qual cosa non fu bene
da colui che tenne questa oppinione
esaminala, e fu fuori d’ogni ragione creduta.
Perchè, e’ non fu il nome nè il
grado del Dittatore che facesse serva Roma,
ma fu l’ autorità presa dai cittadini per
ia diuturnità dello imperio: c se in Roma
fusse mancato il nome dittatorio, ne
arebbon preso un altro; perchè e’ sono
le forze che facilmente s’acquistano i nomi,
non i nomi le forze. si vedde che ’1
Dittatore, mentre che fu dato secondo gli
ordini pubblici, c non per autorità propria,
fece sempre bene alla città. Perchè e’
nuocono alle repubbliche i magistrati che si
fanno e l’autoritati che si danno per
vie istraor-dinarie; non quelle che vengono
per vieordinarie: come si vede che
segui inRoma in tanto progresso di
tempo, chemai alcuno Dittatore fece se
non benealla Repubblica. Di che ce ne
sono ra-gioni evidentissime. Prima, perchè a vo-lere che
un cittadino possa offendere epigliarsi
autorità istraordinaria, convienech’egli abbia
molte qualità le quali inuna repubblica
non corrotta non puòmai avere: perchè
gli bisogna esserericchissimo, ed avere
assai aderenti epartigiani, i quali non può
avere dovele leggi si osservano; e quando
pure vgli avesse, simili uomini sono
in modoformidabili, che i suffragi liberi
nonconcorrono in quelli. Oltra di questo,il
Dittatore era fatto a tempo, e nonin
perpetuo, e per ovviare solamente quella
cagione mediante la quale eracreato ; e la
sua autorità si estendevain potere
deliberare per sè stesso circai modi di
quello urgente pericolo, e fareogni cosa
senza consulta, e punire cia-scuno senza
appellagione: ma non po-teva far cosa che
fusse in diminuzionedello Stato; come
sarebbe stato torreautorità al Senato o al
Popolo, disfaregli ordini vecchi della
città, e farnede’ nuovi. In modo che,
raccozzato ilbreve tempo della sua
dittatura, c l’ autorità limitata che egli aveva,
ed il po-polo romano non corrotto; era
impos-sibile ch’egli uscisse de’ termini suoi,
enoccsse alla città: e per esperienza
sivede che sempre mai giovò. E veramen-te,
infra gli altri ordini romani, questoè uno
che merita esser consideralo, econnumerato
infra quelli che furono ca-gione della
grandezza di tanto imperio;perchè senza un
simile ordine le cittàcon difficoltà usciranno
degli accidentiistra ordinari : perchè gli ordini
consuetinelle repubbliche hanno il moto
tardo(non potendo alcuno consiglio nè
alcunomagistrato per sè stesso operare
ognicosa, ma avendo in molle cose
bisognol’uno dell’altro), e perchè nel
raccozzareinsieme questi voleri va tempo,
sono irimedi loro pericolosissimi, quando
eglihanno a rimediare a una cosa che
nonaspetti tempo. E però le repubblichedebbono
intra’ loro ordini avere un sl-mile modo :
e la Repubblica veneziana,la quale intra le
moderne repubblicheè eccellente, ha riservato
autorità a pa-chi cittadini, che ne’
bisogni urgenti,senza maggiore consulta, tutti
d’accordopossino deliberare. Perchè quando inuna
repubblica manca un simil modo
è necessario, o servando gli ordini ro-vinate, o
per non rovinare rompergli.Ed in una
repubblica non vorrebbe maiaccader cosa,
che coi modi estraordinaris’ avesse a governare.
Perchè, ancorache il modo istraordinario
per allorafacesse bene, nondimeno lo
esempio famale ; perchè si mette una
usanza dirompere gli ordini per bene
che poisotto quel colore si rompono
per male.Talché mai Ha perfetta una
repubblica,se con le leggi sue non ha
provvisto atutto, e ad ogni accidente posto
ti ri*medio, e dato il modo a governarlo.
Eperò, conchiudendo, dico che quelle re-pubbliche
le quali negli urgenti pericolinon hanno
rifugio o al Dittatore o asimili autoritati,
sempre ne’ gravi acci-denti rovineranno. È da
notare in que-sto nuovo ordine, il modo
dello elegger-lo, quanto dai Romani fu
saviamenteprovvisto. Perchè, sendo la
creazionedel Dittatore con qualche vergogna
deiConsoli, avendo, di capi della città,
avenire sotto una ubidienza come gli
al- tri ; e presupponendo che di
questoavesse a nascere isdegno fra i cittadini; vollono
che l' autorità dello eleggerlo fusse nei
Consoli: pensando che quando V accidente venisse,
che Roma avesse bisogno di questa regia
potestà, e’ lo avessino a fare volentieri; e
facendolo loro, che dolessi lor meno.
Perchè le ferite ed ogni altro male
che Y uomo si fa da sè spontaneamente e
per elezione, dolgono di gran lunga tneuo,
che quelle che ti sono fatte da
altri. Ancora che poi negli ultimi tempi i
Romani usassino, in cambio del Dittatore,
di dare tale autorità al Cousole, con
queste parole: Videat Constila ne Respublica
quiddetrimenti captai . E per tornare alla materia
nostra, conchiudo, come i vicini di Roma
cercando opprimergli, gli fcciono ordinare,
non solamente a potersi difendere, ma a potere,
con più forza, più consiglio e più
autorità, offender loro. XXXV.- — La cagione perchè in Roma
la creazione del decemvirato fa nociva alla
libertà di quella repubblicaj non ostante
che fosse creato po' suffragi pubblichi e liberi.
E’ pare contrario a quel clic di sopra è discorso;
che quella autorità che si occupa con
violenza, non quella eh’ è data con gli
suffragi, nuoce alle repubbliche; la elezione
dei dicci cittadini creati dal Popolo
romano per fare le leggi in Roma: i
quali ne diventorno col tempo tiranni, e
senza alcun rispetto occuporno la libertà
di quella. Dove si debbe considerare i modi
del dare {'autorità, ed il tempo perchè
la si dà. E quando e’ si dia autorità
libera, col tempo lungo, chiamando il tempo
lungo un anno, o più; sempre fia
pericolosa; e farà gli effetti o buoni o tristi,
secondo che fieno tristi o buoni coloro a
chi la sarà data. E se si considera
l’autorità che ebber i Dicci, e quella che
avevano i Dittalori, si vedrò senza
comparazione quella de’ Dieci maggiore. Perchè,
creato il Dittatore, rimanevano i Tribuni, i Consoli, il
Senato, con la loro autorità ; nò il Dittatore
la poteva torre loro: e s* egli avesse
potuto privare uno del consolato, uno del
senato, ei non poteva annullare l’ordine
senatorio, e fare nuove leggi. In modo che
il Senato, i Consoli ed i Tribuni, restando
con l’autorità loro, venivano ad essere
come sua guardia, a farlo non uscire della
via diritta. Ma nella creazione dei Dieci
occorse tutto il contrario ; perchè gli
annullorno i Consoli cd i Tribuni, dettono loro
autorità di fare leggi, ed ogni altra cosa,
come il Popolo romano. Talché, trovandosi soli,
senza Consoli, senza Tribuni, senza appcllagionc
al Popolo ; e per questo non venendo ad
avere chi osscrvassegli, ei poterono, il
secondo anno, mossi dall’ ambizione di
Appio, diventare insolenti. E per questo si
debbo notare, che quando e’ si è detto che
una autorità data da’ suffragi liberi,
non offese mai alcuna repubblica; si presuppone
che un popolo non si conduca inai a
darla, se non con le debite
circonstanzie, e ne’ debiti tempi: ma quando, o
per essere ingannato, o per qualche altra
cagione che lo accecasse, e’ si conducesse a
darla imprudentemente, e nel modo che ’l
Popolo romano la dette a’ Dieci, gl’
interverria sempre come a quello. Questo si
prova facilmente, considerando quali cagioni
mantenessero i Dittatori buoni, e quali facessero i Dieci
cattivi; e considerando ancora, come hanno fatto
quelle repubbliche che sono state tenute
bene ordinate, nel dare 1* autorità per
lungo tempo; come davano gli Spartani agli
loro Re, e come danno i Veniziani ai loro
Duci: perchè si vedrà, all* uno ed
all’ altro modo di costoro esser poste
guardie, che facevano che i Re non
potevano usare male quella autorità. Nè
giova in questo caso, che la materia
non sia corrotta; perchè una autorità
assoluta, in brevissimo tempo corrompe la
materia, c si fa amici c partigiani. Nè
gli nuoce o esser povero, o non avere
parenti; perché le ricchezze cd ogni altro
favore subito gli corre dietro: come
particolarmente nella creazione de’ detti Dieci
discorreremo. XXXVI. — Pioti debbono i cittadini che
hanno avuti » maggiori onori, sdegnarsi de*
minori. Avevano i Romani fatti Marco Fabio e G.
Manilio consoli, e vinta una gloriosissima
giornata contea a’ Veicnti e gli Etruschi;
nella quale fu morto Quinto Fabio, fratello
del consolo, quale Io anno davanti era
stato consolo. Dove si debbe considerare, quanto
gli ordini di quella città erano atti a
farla grande; c quanto le altre repubbliche
che si discostano dai modi suoi, s’ingannano. Perchè,
ancora che i Romani fussino amatori grandi
della gloria, nondimeno
non stimavano cosa disonorevole ubbidire ora a
chi altra volta essi avevano comandato, e
trovarsi a servire in quello esercito del
quale erano stati principi. 11 qual costume
è contrario alla oppinione, ordini e modi
de’ cittadini de’tempi nostri: ed in
Vinegia è ancora questo errore, che uno
cittadino avendo avuto un grado grande, si
vergogni di accettare uno minore; e la
citta gli consente che se ne possa
discostare. La qual cosa, quando fusse
onorevole per il privato, è al tutto
inutile per il pubblico. Perchè più
speranza debbe avere una repubblica, e più
confidare in uno cittadino che da un
grado grande scenda a governare uno minore,
che in quello clic da uno minore
salga a governare un maggiore. Perchè a costui
non può ragionevolmente credere, se non li
vede uomini intorno, i qiiali siano di tanta riverenza
o di tanta virtù, che la novità di
colui possa essere con il consiglio ed autorità
loro moderata. E quando in Roma fosse stata
la consuetudine quale in Vinegia, e nell'
altre repubbliche c regni moderni, che chi
era stato una volta Consolo, non volesse
mai più andare negli eserciti se non
consolo; ne sarebbono nate infinite cose in
disfavore del viver libero; e per gli
errori che arebbono fatti gli uomini nuovi,
e per P ambizione che loro arebbono potuto usare
meglio, non avendo uomini intorno, nel
conspetto de’ quali ei temessino errare; e cosi
sarebbero venuti ad essere più sciolti : il
che sarebbe tornato tutto in detrimento pubblico.
XXXVII. — Quali scandali partorì in Roma la
legge agraria : e come fare una logge in
una repubblica che risguardi assai indietro > e
sia conira ad una consuetudine antica della
città , è scandalosissimo. Egli è sentenza degli
antichi scrittori, come gli uomini sogliono
affliggersi nel male c stuccarsi nel benej e
come dul1’ una e dall* altra di
queste due passioni nascono i medesimi effetti.
Perchè, qualunque volta è tolto agli uomini
il combattere per necessità, combattono per ambizione:
la quale è tanto potente ne’ petti umani,
che mai, a qualunque grado si salgano, gli
abbandona. La cagione è, perchè la natura
ha creati gli uomini in modo, che
possono desiderare ogni cosa, e non possono
conseguire ogni cosa : talché, essendo sempre
maggiore il desiderio che la potenza dello
acquistare, ne risulta la mala contentezza di quello
che si possiede, e la poca satisfazionc
di esso. Da questo nasce il variare
della fortuna loro: perchè desiderando gli
uomini, parte di avere più, parte temendo
di non perdere lo acquistato, si viene
alle inimicizie ed alla guerra ; dalla
quale nasce la rovina di quella provincia,
e la esaltazione di quel1’ altra. Questo
discorso ho fatto perchè alla Plebe romana
non bastò assicurarsi de’ Nobili per la
creazione de’ Tribuni, al quale desiderio
fu constretta per necessità ; che lei
subito, ottenuto quello, cominciò a combattere
per ambizione, e volere con la Nobiltà
dividere gli onori e le sustanze, come cosa
stimata più dagli uomini. Da questo nacque
il morbo che partorì la contenzione della
legge agraria, ed in (ine fu causa
della distruzione della Repubblica romana. E perchè le
repubbliche bene ordinate hanno a tenere ricco
il pubblico, e li loro cittadini poveri ;
convenne che fusse nella città di Roma
difetto in questa legge: la quale o non
fusse fatta nel principio in modo che
la non si avesse ogni di a ritrattare;
o che la si differisse tanto in farla,
che fusse scandotoso il riguardarsi indietro; o
sendo ordinata bene da prima, era stata
poi dall’ uso corrotta; talché, in
qualunque modo si fusse, mai non si
parlò di questa legge in Roma, che
quella città non andasse sottosopra. Aveva
questa legge duoi capi principali. Ter l’
uno si disponeva clic non si potesse
possedere per alcun cittadino più che tanti
iugeri di terra; per V altro, che i campi
di che si privavano i nimici, si
dividessino intra il popolo romano. Veniva
pertanto a fare di duoi sorte offese ai
Nobili: perchè quelli che possedevano più
beni non permetteva la legge (quali erano
la maggior parte de’ Nobili), ne
avevano ad esser privi ; e dividendosi intra
la Plebe i beni de’ nimici, si toglieva a
quelli la via dello arricchire. Sicché,
venendo ad essere queste offese contra ad
uomini potenti, e che pareva loro, contrastandola,
difendere il pubblico; qualunque volta, com’ è
detto, si ricordava, andava sottosopra quella
città : ed i Nobili con pazienza ed
industria la temporeggiavano, o con trac fuora
un esercito, o che a quel Tribuno che la
proponeva si opponesse uno altro Tribuno; o
talvolta cederne parte; ovvero mandare una
colonia in quel luogo che si avesse a
distribuire: come intervenne del contado di
Anzio, per il quale surgendo questa disputa
della legge, si mandò in quel luogo
una colonia traila di Roma, alla quale
si consegnasse detto contado. Dove L. usa
un termine notabile, dicendo clic con
ditTìcultà si trovò in Roma eli i desse il
nome per ire in detta colonia: tanto
era quella Plebe più pronta a volere
desiderare le cose in Homa, che a
possederle in Anzio ! Andò questo umore di
questa legge così travagliandosi un tempo,
tanto che i Romani cominciarono a condurre le
loro armi nelle estreme parti di Italia, o
fuori di Italia; dopo al qual tempo
parve che la restasse. Il che nacque
perchè i campi che possedevano i nimici di
Roma essendo discosti dagli occhi della
Plebe, cd in luogo dove non gli era
facile il coltivargli, veniva meno ad
esserne desiderosa: ed ancora i Romani erano
meno punitori tic’ loro nemici in siinil
modo; e quando pure spogliavano alcuna terra
del suo contado, vi distribuivano colonia. Tanto che
per tali cagioni questa legge stette come
addormentata inOno a’ Gracchi: da’ quali essendo
poi svegliata, rovinò al tutto la libertà
romana; perchè la trovò raddoppiata la
potenza de’ suoi avversari, e si accese per
questo tante odio intra la Plebe ed
il Senato, che si venne all’ armi ed
al sangue, fuor d’ogni modo e costume
civile. Talché, non potendo i pubblici magistrati
rimediarvi, nè sperando più alcuna delle
fazioni in quelli, si ricorse a’ rimedi
privati, e ciascuna delle parti pensò di
farsi uno capo che la difendesse. Pervenne
in questo scandalo e disordine la Plebe, e
volse la sua riputazione a Mario, tanto che
la lo fece quattro volte Consolo; ed
in tanto continuò con pochi intervalli il
suo consolato, che si potette per sè
stesso far Consolo tre altre volte. Contra
alla qual peste non avendo la Nobiltà
alcuno rimedio, si volse a favorir Siila; e fatto
quello capo della parte sua, vennero alle guerre
civili * e dopo molto sangue e variar di
fortuna, rimase superiore la Nobiltà.
Risuscitorono poi questi umori a tempo di
Cesare c di Pompeo; perchè, fattosi Cesare
capo della parte di Mario, c Pompeo di
quella di Siila, venendo alle mani rimase
supcriore GIULIO CESARE: IL QUALE E IL PRIMO TIRANNO IN ROMA, TALCHE MAI
E POI LIBERA QUELLA CITTA. Tale, adunque, principio e fine
ebbe la legge agraria. E benché noi
mostrassimo altrove, come le inimicizie di
Roma intra il Senato c la Plebe
mantenessero libera Roma, per nascerne da
quelle leggi in favore della libertà ; e
per questo paia disforme a tale conclusione
il fine di questa legge agraria ; dico
come, per questo, io non mi rimuovo
da tale oppinionc: perchè egli è tanta P
ambizione de’ grandi, che se per varie
vie ed in vari modi la non ò in
una città sbattuta, tosto riduce quella
città alla rovina sua. In modo che,
se la contenzione della legge agraria penò
trecento anni a fare Roma serva, si sarebbe
condotta, per avventura, molto più tosto
iti servitù, quando la Plebe, e con questa
legge c con altri suoi appetiti, non
avesse sempre frenato la ambizione de’
Nobili. Vedasi per questo ancora, quanto
gli uomini stimano più la roba che
gli onori. Perchè la Nobiltà romana sempre
negli onori eedè senza scandali istraordinari alla
Plebe; ma come si venne alla roba, fu
tanta la ostinazione sua nel difenderla,
che la Plebe ricorse, per Sfo-gare 1’
appetito suo, a quelli istraordinari che di
sopra si discorrono. Del quale disordine
furono motori i Gracchi; de’ quali si dcbbe
laudare più la intenzione che la prudenza.
Perchè, a voler
levar via uno disordine cresciuto in una repubblica,
e per questo fare una legge che riguardi
assai indietro, è partito male considerato; e,
come di sopra largamente si discorse, non
si fa altro che accelerare quel male a
che quel disordine ti conduce : ma
temporeggiandolo, o il male viene più tardo, o
per sè medesimo col tempo, avanti che
venga al fine suo, si spegne. XXXVIII. — Le
repubbliche deboli sono male risolute , e non si
sanno deliberare ; c se le pigliano mai alcuno
partito j nasce più da necessità che da elezione.
Essendo in Roma una gravissima pestilenza, e
parendo per questo agli Volaci ed agli
Equi che fusse venuto il tempo di
potere oppressar Roma; fatti questi due
popoli uno grossissimo esercito, assalirono gli
Latini e gli Ernici, e guastando il loro
paese, furono constretti gli Latini c gli
Ernici farlo intendere a Roma, c pregare che
fussero difesi da' Romani: ai quali, sendo i
Romani gravati dal morbo, risposero che pigliassero
partito di difendersi da loro medesimi e
con le loro armi, perchè essi non li
potevano difendere. Dove si conosce la
generosità e prudenza di quel Senato, e come
sempre in ogni fortuna volle essere quello
che fusse principe delle deliberazioni che
avessero a pigliare i suoi; nè si vergognò
mai deliberare una cosa che fusse contraria al
suo modo di vivere o ad altre deliberazioni
fatte da lui, quando la necessità gliene
comandava. Questo dico perchè altre volte
il medesimo Senato aveva vietato ai detti
popoli l’armarsi e difendersi ; talché ad uno
Senato meno prudente di questo, sarebbe
parso cadere del grado suo a concedere loro tale
difensione. Ma quello sempre giudicò le
cose come si debbono giudicare, e sempre
prese il meno reo partilo per migliore;
perchè male gli sapeva non potere difendere
i suoi sudditi; male gli sapeva che si
armassino senza loro, per le ragioni dette,
e per molte altre che si intendono:
nondimeno, conoscendo che si sarebbono armati,
per necessità, a ogni modo, avendo il
nimico addosso; prese la parte onorevole, e
volle che quello clic gli avevano a fare,
lo facessino con licenzia sua, acciocché avendo
disubbidito per necessità, non si avvezzassino a
disubbidire per elezione. E benché questo paia
partito che da ciascuna repubblica dovesse esser preso;
nientedimeno le repubbliche deboli e male
consigliate non gli sanno pigliare, nè si
sanno onorare di simili necessità. Aveva il
duca Valentino presa Faenza, e fatto calare
Bologna agli accordi suoi. Dipoi, volendosene
tornare a Roma per la Toscana, mandò
in Firenze uno suo uomo a domandare il passo
per sé e per il suo esercito.
Consultossi in Firenze come si avesse a
governare questa cosa, nè fu mai consigliato
per alcuno di concedergliene. In che non
si seguì il modo romano: perchè, sendo
il Duca armatissimo, ed i Fiorentini in
modo disarmati che non gli potevano vietare
il passare, era molto piu onore loro,
che paresse che passasse con permissione di
quelli, che a forza; perchè, dove vi fu
al tutto il loro vituperio, sarebbe stato
in parie minore quando I* avessero
governata altrimenti. Ma la più cattiva
parte che abbino le repubbliche deboli, è
essere irresolute; in modo che lutti i
partili che le pigliano, gli pigliano per
forza; e se vieti loro fatto alcuno bene,
lo fanno forzato, c non per prudenza loro.
Io voglio dare di questo duoi altri
esempi, occorsi ne* tempi nostri nello
stato della nostra città, nel mille
cinquecento. Ripreso che il re Luigi XII
di Francia ebbe Milauo, desideroso di
rendergli Pisa, per aver cinquanta mila
ducati che gli erano stati promessi da’
Fiorentini dopo tale restituzione, mandò gli
suoi eserciti verso Pisa, capitanati da
monsignor Beaumonte; benché francese, nondiraanco uomo
in cui i Fiorentini assai confidavano. Condussesi
questo esercito e questo capitano intra Cascina e
Pisa, per andare a combattere le mura; dove
dimorando alcuno giorno per ordinarsi alla
espugnazione, vennero oratori Pisani a Beaumonte, e
gli offerirono di dare la città allo
esercito francese con questi patti: che,
sotto la fede del re, promettesse non
la mettere in mano de’ Fiorentini, prima
che dopo quattro mesi. Il qual partito
fu dai Fiorentini al tutto rifiutato, in
modo che si seguì nello andarvi a campo, e
partissene con vergogna. Nè fu rifiutato il
partito per altra cagione, che per
diffidare dellafede del re; come quelli
che per debolezza di consiglio si erano
per forza messi nelle mani sue: e
dall’altra parte, non se ne fidavano, nè
vedevano quanto era meglio che il re
potesse rendere loro Pisa sendovi dentro, e
non la rendendo scoprire P animo suo, che
non la avendo, poterla loro promettere, e loro
essere forzati comperare quelle promesse. Talché
molto più utilmente arebbono fatto a consentire
che Beaumonlc V avesse, sotto qualunque
pròmessa, presa: come se ne vide la
espcrienza dipoi, die essendosi ribellato Arezzo,
venne a’ soccorsi de* Fiorentini mandato
dal re di Francia monsignor Imbalt con
gente francese; il qual giunto propinquo ad
Arezzo, dopo poco tempo cominciò a praticare
accordo con gli Aretini, i quali sotto certa fede
volevano dare la terra, a similitudine de’
Pisani. Fu rifiutato in Firenze tale
partito ; il che veggendo monsignor Imbalt, e
parendogli come i Fiorentini se ne inlendessino
poco, cominciò a tenere le pratiche dello
accordo da se, senza participazione de’
Commessaci : tanto che e’ io conchiuse a
suo modo, e sotto quello con le sue
genti se ne entrò in Arezzo, facendo
intendere a’ Fiorentini come egli erano matti,
e non si intendevano delle cose del mondo:
che se volevano Arezzo, lo fucessino intendere
al re, il quale lo poteva dar loro molto
meglio, avendo le sue genti in quella
città, che fuori. Non si restava in
Firenze di lacerare e biasimare detto Imbalt;
nè si restò mai, infino a tanto che
si conobbe che se Beaumonte fusse stato
simile a Imbalt, si sarebbe avuto Pisa come
Arezzo. E cosi, per tornare a proposito, le
repubbliche irresolute non pigliano mai partiti
buoni, se non per forza, perchè la
debolezza loro non le lascia mai deliberare
dove è alcuno dubbio; e se quel dubbio non
è cancellalo da una violenza, che le sospinga, stanno
sempre mai sospese. XXXIX. — In diversi popoli si
veggono spesso i medesimi accidenti. E’ si
conosce facilmente per chi considera le
cose presenti e le antiche, come in tutte
le città ed in tutti i popoli sono
quelli medesimi desiderii e quelli medesimi
umori, e come vi furono sempre : in modo
che gli è facil cosa a chi esamina con
diligenza le cose passate, prevedere in
ogni repubblica le future, c farvi quelli
rimedi che dagli antichi sono stati usati ;
o non ne trovando degli usati, pensarne de’
nuovi, per la similitudine degli accidenti.
Ma perchè queste considerazioni sono neglette, o non
intese da chi legge ; o se le sono intese,
non sono conosciute da chi governa ; ne
seguita che sempre sono i medesimi scandali
in ogni tempo. Avendo la città di Firenze perduto
parte dello imperio suo, come Pisa ed altre
terre, fu necessitata a fare guerra* a coloro
che le occupavano. E perchè chi le occupava
era potente, ne seguiva che si spendeva
assai nella guerra, senza alcun frutto ;
dallo spendere assai ne risultava assai
gravezze ; dalle gravezze, infinite querele del
popolo ; e perchè questa guerra era amministrata
da uno magistrato di dieci cittadini che
si chiamavano i Dieci della guerra, 1* universale
cominciò a recarselo in dispetto, come quello
che fusse cagione della guerra e delle
spese di essa; e corniliciò a persuadersi
che tolto via detto magistrato, fusse tolto
via la guerra : tanto che avendosi a
rifare, non se gli fecero gli scambi ; e
lasciatosi spirare, si commisero le azioni
sue alla Signoria. La qual deliberazione fu
tanto perniziosa, che non solamente non
levò la guerra, come lo universale si
persuadeva ; ma tolto via quelli uomini
che con prudenza la amministravano, ne
seguì tanto disordine, die, oltre a Pisa,
si perde Arezzo e molti altri luoghi: in
modo che, ravvedutosi il popolo dello errore suo,
e come la cagione del male era la febbre
e non il medico, rifece il magistrato de’
Dieci. Questo medesimo umore si levò in
Roma conira al nome de’ Consoli : perchè,
veggendo quello Popolo nascere 1’ una guerra
dall' altra, e non poter mai riposarsi ;
dove e' dovevano pensare che la nascesse
dalla ambizione de’ vicini che gli volevano
opprimere; pensavano nascesse dall’ ambizione dei Nobili,
che non potendo dentro in Roma gastigar
la Plebe difesa dalla potestà tribunizia,
la volevano condurre fuori di Roma sotto i
Consoli, per opprimerla dove non aveva
aiuto alcuno. E pensarono per questo, che
fusse necessario o levar via i Consoli, o
regolare in modo la loro potestà, che
e* non avessino autorità sopra il popolo,
nè fuori nè in casa. 11 primo che
tentò questa legge, fu uno Terentillo
tribuno ; il quale proponeva che si
dovessero creare cinque uomini che dovessino
considerare la potenza de* Consoli, e limitarla.
II che alterò assai la Nobiltà, parendoli
che la maiestà dell’ imperio fusse al
tutto declinata, talché alla Nobiltà non restasse
più alcuno grado in quella Repubblica. Fu
nondimeno tanta la ostinazione dei Tribuni,
che il nome consolare si spense ; e furono
in fine contenti, dopo qualche altro
ordine, piuttosto creare Tribuni con potestà
consolare, che i Consoli : tanto avevano più
in odio il nome che le autorità loro.
E cosi seguitorno lungo tempo, infino che
conosciuto io errore loro, còme i Fiorentini
ritornorno ai Dieci, così loro ricreorno i
Consoli. XL. La creazione del DECEMVIRATO in Roma,
e quello che in essa è da notare: dove
si considera , intra molte altre cose, come
si può salvare per simile accidente, o
oppressore una repubblica. Volendo discorrere
particolarmente sopra gli accidenti che nacquero
in Roma per la creazione del decemvirato, non
mi pare soperchio narrare prima tutto
quello che segui per simile creazione, e
dipoi disputare quelle porti che sono in
esse azioni notabili : le quali sono molte,
e di grande considerazione, cosi per coloro
che vogliono mantenere una repubblica libera,
come per quelli che disegnassino sommetterla.
Perchè in tale discorso si vedranno molti
errori fatti dal Senato e dalla Plebe in
disfavore della libertà; e molli errori fatti
da APPIO, capo del decemvirato; in
disfavore di quella tirannide che egli si
aveva pre-supposto stabilire in Roma. Dopo molte deputazioni
c contenzioni seguite intra il Popolo e la
Nobiltà per fermare nuove leggi in Roma,
per le quali e’ si stabilisse più la
libertà di quello stato; mandarono, d’
accordo, Spurio Postumio con duoi altri
cittadini ad Atene per gli essenti di
quelle leggi che Solone dette a quella
città, acciocché sopra quelle potessero fondare
le leggi romane. Andati e tornati costoro,
si venne alla creazione degli uomini eh’
avessino ad esaminare e fermare de.tte leggi; e
ercorno dieci cittadini per un anno, tra i
quali fu creato APPIO CLAUDIO, il primo filosofo romano, uomo
sagace ed inquieto. E perchè e' potessimo
senza alcuno rispetto creare tali leggi, si
levarono di Roma tutti gli altri magistrati, ed
in particolare i Tribuni e i Consoli, e levossi
lo appello al Popolo ; in modo che
tale magistrato veniva ad essere al tulio
principe di Roma. Appresso ad APPIO si
ridusse tutta 1’ autorità degli altri suoi
compagni, per gli favori clic gli faceva
la Plebe : perché egli s’ era fatto in
modo popolare con le dimostrazioni, che
pareva meraviglia eh’ egli avesse preso sì
presto una nuova natura c uno nuovo
ingegno, essendo stato tenuto innanzi a questo
tempo un crudele persecutore della Plebe.
Governaronsi questi Dieci assai civilmente, non tenendo
più che dodici littori, i quali andavano
davanti a quello ch’era infra loro preposto. E
bench’egli avessino 1’ autorità assoluta, nondimeno
avendosi a punire un cittadino romano per
omicidio, lo citorno nel conspelto del Popolo, e
da quello lo fecero giudicare. Scrissero le
loro leggi in dicci tavole, ed avanti
che le confirmassero, le messono in
pubblico, acciocché ciascuno le potesse leggere c
disputarle; acciocché si conoscesse se vi
era alcuno difetto, per poterle binanti
alla confirmazionc loro emendare. Fece, in
su questo, Appio nascere un rornorc per
Bomn, che se a queste dieci tavole se
n’ aggiungcssiuo due altre, si darebbe a
quelle la loro perfezione ; talché questa
oppinionc dette occasione al Popolo di
rifare i Dieci per uno altro anno: a che
il Popolo si accordò volentieri; si perchè i
Consoli non si rifacessino; sì perchè
speravano loro potere stare senza Tribuni,
sendo loro giudici delle cause, come di
sopra si disse. Preso, adunque, partito di
rifargli, tutta la Nobiltà si mosse a
cercare questi onori, ed intra i primi era
Appio; ed usava tanta umanità verso la
Plebe nel domandarla, che la cominciò ad
essere sospetta a suoi compagni : credebant cnim
liaud gratuitam in lanla superbia comilatcmfore.
E dubitando di opporsegli apertamente, diliberarono
farlo con arte; e benché e’ fusse
minore di tempo di tutti, dettono a lui
autorità di proporre i futuri Dieci al
popolo, credendo eh* egli osservasse i termini
degli altri di non
proporre sè medesimo, sendo cosa inusitata e
ignominiosa in Roma, Me vero imprdimentum
prò occasione arripuit ; e nominò sè intra i
primi, con meraviglia e dispiacere di tutti i
Nobili: nominò poi nove altri al suo
proposito. La qual nuova creazione fatta
per uu altro anno, cominciò a mostrare al
Popolo cd alla Nobiltà lo error suo. Perchè
subito Appio: finem fedi ferenda aliena
persona ; e cominciò a mostrare la innata sua
superbia, ed in pochi dì riempiè di
suoi costumi i suoi compagni. E per Sbigottire
il Popolo ed il Senato, in scambio di
dodici littori, ne feciono cento venti.
Stette la paura eguale qualche giorno ; ma
cominciarono poi ad intrattenere il Senato, e
battere la Plebe: e s’ alcuno battuto dall*
uno, appellava ali’ altro, era peggio
trattalo nelP appeltagione che nella prima
causa. In modo che la Plebe, conosciuto
lo errore suo, cominciò piena di afflizione
a riguardare in viso i Nobili; et inde libcrtatis
captare a urani , linde servitutem tiinendoj in
cum s taluni rempublicam adduxerant. E alla
Nobiltà era grata questa loro afflizione,
ut ipsij teedio prcesenliunij Consules desiderar
ent. Vennero i di clic terminavano l’anno:
le due tavole delle leggi erano fatte,
ma non pubblicate. Da questo i Dicci
presono occasione di continovare nel
magistrato, c cominciorono a tenere con violenza
lo Stato, e farsi satelliti della gioventù
nobile, alla quale davano i beni di quelli
che loro condannavano. Quibus donis Juventus
coirumpebatur , et malebat liccnliam suoni , i quatn
omnium liberlatcm. Nacque in questo tempo,
che i Sabini ed i Volsci mossero guerra a’
Romani: in su la qual paura cominciarono i
Dieci a vedere la debolezza dello Stato
loro; perchè senza il Senato non potevano
ordinare la guerra, e ragunando il Senato
pareva loro perdere lo Stato. Pure,
necessitati, presono questo ultimo partito: e ragunali i
Senatori insieme, molti de’ Senatori parlorono
contro alla superbia de’Dieci, ed in particolare
Valerio ed Orazio : e la autorità loro
si sarebbe al tutto spenta, se non
che il Senato, per invidia della Plebe,
non volle mostrare l’autorità sua, pensando
che se i Dieci deponevano il magistrato
voluntarii, che potesse essere che i Tribuni della
plebe non si rifacessero. Dcliberossi adunque la
guerra; uscissi fuori con due eserciti
guidati da parte di detti Dieci; APPIO
rimase a governare la città. Donde nacque
che si innamorò di Virginia, e che
volendola torre per forza, il padre VIRGINIO, PER
LIBERARLA, L’AMMAZZO: donde
seguirono i tumulti di Roma e degli eserciti ; i
quali ridottisi insieme con il rimanente
della Plebe romana, se ne andarono nel
Monte Sacro, dove stettero tanto clic i
Dieci deposono il magistrato, e che furono
creali i Tribuni ed i Consolide ridotta Roma
nella forma della antica sua libertà.
Notasi, adunque, per questo testo, in prima
esser nato in Roma questo inconveniente
di creare questa tirannide, per quelle
medesime cagioni che nascono la maggiore parte delie
tirannidi nelle città: e questo è da troppo
desiderio del popolo d* esser libero, e da
troppo desiderio de’ nobili di comandare. E
quando c’ non convengono a fare una legge
in favore della libertà, ma gettasi
qualcuna delle parti a favorire uno, allora è
che subito la tirannide surge. Convennono
il Popolo ed i Nobili di Poma a creare i
Dieci, e crearli con tanta autorità, per
desiderio che ciascuna delle parti aveva,
1’ una di spegnere il nome consolare,
l’altra il tribunizio. Creati che furono, parendo
alla Plebe che Appio fusse diventato popolare
c battesse la Nobiltà, si volse il Popolo a
favorirlo. E quando un popolo si conduce a
far questo errore di dare riputazione ad
uno perchè balta quelli che egli ha
in odio, e che quello uno sia savio,
sempre interverrà che diventerà tiranno di
quella città. Perchè egli attenderà, insieme
con il favore del popolo, a spegnere la
nobiltà ; e non si volterà inai alla
oppressione del popolo, se non quando ei V
arà spenta; nel qual tempo conosciutosi il
popolo essere servo, non abbi dove
rifuggire. Questo modo hanno tenuto tutti
coloro che hanno fondato tirannidi in le
repubbliche: c se questo modo avesse tenuto APPIO,
quella sua tironnide arebbe preso più vita,
e non sarebbe mancata si presto. Ma ei fece
tutto il contrario, nè si potette governare
più imprudentemente; cliè per tenere la
tirannide, c’si fece inimico di coloro che
glie T avevano data c che gliene potevano
mantenere, ed amico di quelli che non erano
concorsi a dargliene e che non gliene arebbono
potuta mantenere; e perdèssi coloro che gli erano
amici, e cercò di avere amici quelli che
non gli potevano essere amici. Perchè,
ancora che i nobili desiderino tiranneggiare,
quella parte della nobiltà che si truova
fuori della tirannide, è
sempre inimica al tiranno; nè quello se la
può mai guadagnare tutta, per l’ambizione
grande e grande avarizia che .è in lei,
non polendo il tiranno avere nè tante
ricchezze nè tanti onori, che a tutta
satisfaccia. E così Appio, lasciando il Popolo
ed accostandosi a’ Nobili, fece uno errore
evidentissimo, e per le ragioni dette di
sopra, e perchè a volere con violenza tenere
una cosa, bisogna che sia più potente
chi sforza, che chi è sforzato. Donde
nasce che quelli tiranni che hanno amico
lo universale ed mimici i grandi, sono più
sicuri; per essere la loro violenza
sostenuta da maggior forze, che quella di
coloro che hanno per inimico il popolo
ed amica la nobiltà. Perchè con quello
favore bastano a conservarsi le forze
intrinseche; come bastorno a Nabide tiranno di
Sparta, quando tutta Grecia ed il popolo
romano lo assaltò : il quale assicuratosi
di pochi nobili, avendo amico il popolo,
con quello si difese; il che non
arebbe potuto fare
avendolo inimico. In quello nitro grado per
aver pochi amici dentro, non bastano le
forze intrinseche, ma gli conviene cercare
di fuora. Ed hanno ad essere di tre
sorti: 1’ una satelliti forestieri, die li
guardino la persona; l’altra armare il
contado, che faccia quell’ oflìzio che arebbe
a fare la plebe; la terza aderirsi co’
vicini potenti, che li difendino* Chi tiene
questi modi e gli osserva bene, ancora
ch’egli avesse per inimico il popolo,
potrebbe in qualche modo salvarsi. Ma APPIO
non poteva far questo di guadagnarsi il
contado, scudo una medesima cosa il contado
e Roma; c quel che poteva fare, non seppe:
talmente che rovinò nc’ primi principii
suoi. Fecero il Senato ed il Popolo
in questa creazione del decemvirato errori
grandissimi : perchè ancora che di sopra si
dica, in quel discorso che si fa del
Dittatore, che quelli magistrati che si
fanno da per loro, non quelli che fa
il popolo, sono nocivi alla libertà;
nondimeno il popolo debbe, quando egli
ordina i magistrali, fargli in modo che gli
abbino avere qualche rispetto a diventare tristi.
E dove e’ si debbe proporre loro guardia per mantenergli
buoni, i Romani lalevorono, facendolo solo
magistrato in Roma, ed annullando tutti gli
altri, per la eccessiva voglia (come di
sopra dicemmo) che il Senato aveva di
spegnere i Tribuni, e la Plebe di spegnere i
Consoli; la quale gli accecò in modo,
che concorsono in tale disordine. Perchè
gli uomini, come diceva il re Ferrando,
spesso fanno come certi minori uccelli di
rapina ; ne’ quali è tanto desiderio di
conseguire la loro preda, a che la natura
gli incita, che non sentono un altro
maggior uccello che sia loro sopra, per
ammazzargli. Conoscesi, adunque, per questo discorso,
come nel principio proposi, lo errore del
Popolo romano, volendo salvare la libertà ; e
gli errori di APPIO, volendo occupare la
tirannide. XLI. — Sahare
dalla Umilila alla superbia j dalla pietà alta
crudeltà senza debiti mezzij è cosa imprudente ed
inutile. Oltre agli altri termini male
usati da APPIO per mantenere la tirannide,
non fu di poco momento saltare troppo
presto da una qualità ad un’altra. Perchè la
astuzia sua nello ingannare la Plebe, simulando
d’essere uomo popolare, fu bene usata;
furono ancora bene usati i termini che
tenue perchè i Dieci si avessino a rifare;
fu ancora bene usata quella audacia di
creare sè stesso contra alla oppinione
della Nobiltà; fu bene usato creare
colleghi a suo proposito: ma non fu già
bene usato, come egli ebbe fatto questo,
secondo che di sopra dico, mutare in
un subito natura; e di amico, mostrarsi
nimico alla Plebe; di umano, superbo; di
facile, difficile; e farlo tanto presto, che
senza
scusa veruna ogni uomo avesse a conoscer
la fallacia dello animo suo. Perchè chi è
paruto buono un tempo, e vuole a suo
proposito diventar tristo, io debbe fare
per gli debiti mezzi ; ed in modo condurvisi
con le occasioni, che innanzi che la
diversa natura ti tolga de’ favori vecchi,
la te ne ubbia dati tanti degli nuovi,
che tu non venga a diminuire la tua
autorità: altrimenti, trovandoti scoperto e senza
amici, rovini. XL1I. — Quanto gli uomini facilmente
si possono corrompere. Notasi ancora in
questa materia del decemvirato, quanto facilmente
gli uomini si corrompono, e fatinosi diventare di
contraria natura, ancora che buoni e bene
educati; considerando quanto quella gioventù che
Appio si aveva eletta intorno, cominciò ad
essere amica della tirannide per uno poco
d’utilità che gliene conseguiva ; e come Quinto
Fabio, uno del numero de’ secondi Dieci,
sendo uomo oliimo, accecalo da un poco
di ambizione, e persuas dulia malignità di APPIO,
mutò i suoi buoni costumi in pessimi, e
diventò simile a lui. Il che esaminato bene, farà
tanto più pronti i legislatori delle repubbliche
o de’ regni a frenare gli appetiti umani, c torre
loro ogni speranza di potere impune errare. XLIII.
— Quelli che combattono per la gloria
propria, sono buoni e fedeli soldati. Considerasi
ancora per il soprascritto trattato, quanta
differenza è da uno esercito contento e che
combatte per la gloria sua, a quello che è
male disposto e che combatte per la
ambizione d’ altri. Perchè, dove gli
eserciti romani solevano sempre essere vittoriosi
sotto i Consoli, sotto i Decemviri sempre
perderono. Da questo essempio si può
conoscere parte delle cagioni della inutilità de’
soldati mercenurii; i quali non hanno altra
cagione clic li tenga fermi, che un poco di
stipendio che tu dai loro. La qual cagione
non è nè può essere bastante a fargli
fedeli, nè tanto tuoi amici, che voglino
morire per le. Perchè in quelli eserciti
che non è una affezione verso di quello per
chi e’ combattono, che gli facci diventare
suoi partigiani, non mai vi potrà essere
tanta virtù che basti a resistere ad
uno nimico un poco virtuoso. G perchè
questo amore non può nascere, nè questa
gara, da altro che da’ sudditi tuoi; è
necessario a volere tenere uno stato, a volere
mantenere una repubblica o uno regno, armarsi de’
sudditi suoi : come si vede che hanno
fatto tutti quelli che con gli eserciti hanno
fatti grandi progressi. Avevano gli eserciti
romani sotto i Dieci quella medesima virtù;
ma perchè in loro non era quella
medesima disposizione, non facevano gli usilati
loro effetti. Ma com prima il magistrato
de’ Dieci fu spento, e che loro come liberi
cominciorno amilitare, ritornò in loro il
medesimo animo; e per conscguente, le loro
imprese avevano il loro fine felice, secondo
la antica consuetudine loro. XLIV. — Una
moltitudine senza capo, è inutile: e non si
debbo minacciare prima, c poi chiedere l'autorità. Era
la Plebe romana per lo accidente di
Virginia ridotta armata nel Monte Sacro.
Mandò il Senato suoi ambasciadori a
dimandare con quale autorità egli avevano
abbandonati i loro capitani, e ridottisi nel
Monte. E tanta era stimata l’autorità del
Senato, che non avendo la Plebe intra
loro capi, ninno si ardiva a rispondere. E L. dice,
ohe e’ non mancava loro materia a
rispondere, ma mancava loro chi facesse la
risposta. La qual cosa dimonstra appunto
la inutilità d’ una moltitudine senza
capo. Il qual disordinefu conosciuto da
Virginio, e per suo ordine si creò venti
Tribuni militari, che fussero loro capo a
rispondere e convenire col Senato. Ed avendo
chiesto che si mandasse loro Valerio ed
Orazio, ai quali loro direbbono la voglia
loro, non vi volsono andare se prima i
Dieci non deponevano il magistrato: ed arrivati sopra
il Monte dove era la Plebe, fu domandato
loro da quella, che volevano che si
creassero i Tribuni della plebe, e che si
avesse ad appellare al Popolo da ogni
magistrato, e che si dessino loro tutti i
Dieci, chè gli volevano ardere vivi.
Laudarono Valerio cd Orazio le prime loro
domande; biasimorono P ultima come impia, dicendo
: Crude - litatcm dannatisj in crudclitaiem ruitis ; e
consigliamogli che dovessino lasciare il fare
menzione de’ Dieci, e ch’egli attendessino a pigliare
V autorità e potestà loro: dipoi non mancherebbe
loro modo a satisfarsi. Dove apertamente si conosce
quanta stultizia c poca prudenza è domandare una
cosa, e dire prima: io voglio far male
con essa; perchè non si debbo mostrare
l’animo suo, ma vuoisi cercare d’ottenere quel suo
desiderio in ogni modo. Perchè e’ basta a
dimandare a uno le armi, senza dire: io
ti voglio ammazzare con esse; potendo poi
che tu bai l’arme in mano, satisfare
allo appetito tuo. XLV. — E cosa di malo
esempio | non osservare una legge falla , c
massime dallo autore d'essa: e rinfre- scare
ogni di nuove ingiurie in una t città, è a
chi la governa dannosis-i simo. Seguito lo
accordo, e ridotta Roma in la antica sua
forma, Virginio citò Appio innanzi al
Popolo a difendere la sua causa. Quello
comparse accompagnato da molti Nobili. Virginio
comandò che fussc messo in prigione.
Cominciò Appio a gridare, ed appellare al
Popolo. Virginio diceva che non era degno
di avere quella nppellagionc che egli aveva distrutta,
ed avere per difensore quel Popolo che
egli aveva offeso. Appio replicava, come e’
non aveano a violare quella appellagionc ch'egli
avevano con tanto desiderio ordinata. Pertanto
egli fu INCARCERATO ED AVANTI AL DI DEL GIUDIZIO AMMAZZO SE STESSO. E
benché la scellerata vita di Appio
meritasse ogni supplicio, nondimeno fu cosa
poco civile violare le leggi, e tanto più
quella che era fatta allora. Perchè io
non credo che sia cosa di più cattivo
esempio in una repubblica, che fare una
legge e non la osservare; e tanto più,
quanto la non è osservata da chi l’ ha
falla. Essendo Firenze stala riordinala nel suo
stato con l'aiuto di frate Girolamo
Savonarola, gli scritti
del quale mostrano la dottrina, la
prudenza, la virtù dello animo suo ; ed avendo
intra P altre conslituzioni per assicurare i
cittadini, fatto fare una legge, che si
potesse appellare al popolo dalle sentenze
che, per caso di Stato, gli Otto c la
Signoria dessino; la qual legge persuase
più tempo, e con difficoltà grandissima ottenne:
occorse che, poco dopo la confirmazicne
d’essa, furono condcunati a morte dalla Signoria per
conto di Stato cinque cittadini; e volendo
quelli appellare, non furono lasciati, e non
fu osservata la legge. Il che tolse
più riputazione a quel frate, che nessun
altro accidente: perchè, se quella appellagione
era utile, ei doveva farla osservare; s’
ella non era utile, non doveva farla
vincere. E tanto più fu notato questo
accidente, quanto che il frate in tante
predicazioni che fece poi clic fu rotta
questa legge, non mai o dannò chi P aveva
rotta, o lo scusò ; come quello che
dannare non voleva, come cosa che gli
tornava a proposito ; e scusare non la
poteva. Il che avendo scoperto l’animo suo
ambizioso e paitigiano, gii tolse riputazione, e
dettegli assai carico. Offende ancora uno Stato assai,
rinfrescare ogni dì nello animo de’ tuoi
cittadini nuovi umori, per nuove ingiurie
ebe a questo e quello si fucciano : come intervenne
a Roma dopo il decemvirato. Perché tutti i
Dieci, ed altri cittadini, in diversi tempi
furono accusati e condannati: in modo che gli era
uno spavento grandissimo in tutta la
Nobiltà, giudicando che e’ non si avesse
mai a porre fine a simili condennagioni,
fino a tanto che tutta la Nobiltà non
fusse distrutta. Ed arebbe generato in
quella città grande inconveniente, se da
Marco Duellio tribuno non vi fusse stato
provveduto; il qual fece uno edit-to, che
per uno anno non fusse lecito ad
alcuno citare o accusare alcuno cittadino contano
: il che rassicurò tutta la Nobiltà. Dove
si vede quanto sia dannoso ad una
repubblica o ad un principe, tenere con le continove
pene ed offese sospesi e paurosi gli animi
dei sudditi. E senza dubbio, non si può
tenere il più pernicioso ordine: perchè gli uomini
che cominciano a dubitare di avere a capitar
male, in ogni modo si assicurano ne’
pericoli, e diventano più audaci, e meno
rispettivi a tentare cose nuove. Però è
necessario, o non offendere mai alcuno, o fare
le offese ad un tratto; e dipoi rassicurare
gli uomini, e dare loro cagione di quietare
e fermare l’animo. XLVI. — Gli uomini salgono da una
ambizione ad unJ altra ; c prima si cerca
non essere offeso t dipoi di offendere altrui. Avendo
il Popolo romano ricuperala la libertà,
ritornato nel suo primo grado, ed in
tanto maggiore, quanto si erano fatte
dimolte leggi nuove In corroborazione della
sua potenza ; pareva ragionevole che Roma
qualche volta quictasse. Nondimeno, per
esperienza si vide il contrario; perchè
ogni di vi surgeva nuovi tumulti e nuove
discordie. E perchè Tito Livio prudentissimamente rende
la ragione donde questo nasceva, non mi
pare se non a proposito riferire appunto le
sue parole, dove dice che sempre o il
Popolo o la Nobiltà insuperbiva, quanto V altro
si umiliava ; e stando la Plebe quieta
intra i termini suoi, cominciarono i giovani
nobili ad ingiuriarla ; ed i Tribuni vi
potevano farepochi rimedi, perchè ancora
loro erano
violati. La Nobiltà, dalP altra parte,
ancora che gli paresse che la sua gioventù fusse
troppo feroce, nondimeno aveva a caro che
avendosi a trapassare il modo, lo trapassassino i
suoi, e non la Plebe. E cosi il desiderio
di difendere la libertà faceva che ciascuno
tanto si prevaleva, eh’ egli oppressava l’
altro. E V ordine di questi accidenti è,
che mentre clic gli uomini cercano di
non temere, cominciano a far temere altrui; e
quell ingiuria ch’egli scacciano da loro, la pongono
sopra un altro: come se fussc necessario
offendere, o essere offeso. Vedesi, per
questo, in quale modo, fra gli altri,
le repubbliche si risolvono; e in che modo
gli uomini salgono da una ambizione ad
un’ altra ; e come quella sentenza salustiaua
posta in bocca di Cesare, è verissima :
quod omnia mala exempla bonis mitiis orla
sunt. Cercano, come di sopra è detto,
quelli cittadini clie ambiziosamente vivono in
una repubblica, la prima cosa di non potere
essere offesi, non solamente dai privati, ma
eziam da’ magistrali : cercano, per potere
fare questo, amicizie ; e quelle acquistano per
vie in apparenza oneste, o con sovvenire di
danari, o con difendergli da’ potenti : e perchè
questo pare virtuoso, s’ inganna facilmente ciascuno, c
per questo non vi si pone rimedio ; intanto
che egli senza ostacolo perseverando, diventa
di qualità, che i privati cittadini ne
hanno paura, ed i magistrati gli hanno
rispetto. E quando egli è saJito a questo
grado, c non si sia prima ovvialo alla
sua grandezza, viene od essere in termine,
che volerlo urtare è pericolosissimo, per
le ragioni che io dissi di sopra del
pericolo che è nello urtare uno inconveniente
che abbi di già fatto augumento in
una città: tanto che la cosa si
riduce in termine, che bisogna o cercare
di spegnerlo con pericolo di una subita
rovina j o lasciandolo fare, entrare in una
servitù manifesta, se morte o qualche accidente
non te ne libera. Perchè, venuto
a’soprascrilti termini, che i cittadini ed i
magistrati abbino paura ad offender lui e
gli amici suoi, non dura dipoi molta
fatica a fare che giudichino ed offendino a
suo modo. Donde una repubblica intra gli
ordini suoi debbe avere questo, di
vegghiarc che i suoi cittadini sotto ombra
di bene non possino far male ; e di’
egli abbino quella riputazione che giovi, e
non nuoca, alla libertà: come nel suo
luogo da noi sarà disputato. XLVII. — Gli nomini j ancora
clic si ingannino ncJ generali j nei particolari
non si ingannano. Essendosi il Popolo
romano, come di sopra si dice, recato a
noia il nome consolare, e volendo che
potessiao esser fatti Consoli uomini plebei, o
che fusse limitata la loro autorità ; la
Nobiltà, per non deonestare l’ autorità consolare
nè con Tuna nè con 1’ altra cosa,
prese una via di mezzo, e fu contenta che
si creassino quattro Tribuni con potestà
consolare, i quali potcssino essere cosi plebei come
nobili. Fu contenta a questo la Plebe,
parendogli spegnere il consolato, ed avere
in questo sommo grado la parte sua. Nacquene
di questo un caso notabile : che
venendosi alla creazione di questi Tribuni, e
potendosi creare tutti plebei, furono dal
Popolo romano creati tutti fiobiii. Onde L.
dice queste parole: Quorum comitiorum eoenlus
docuit, alias animo s in contcntione l ib erta ti
s et honoris, alios secundum deposita certamina
in incorrupto judicio esse. Ed esaminando
donde possa procedere questo, credo proceda
che gii uomini nelle cose generali s’ ingannano assai,
nelle particolari non tanto. Pareva generalmente
alla Plebe romana di meritare il consolato,
per avere più parte in la città, per
portare più pericolo nelle guerre, per
esser quella che con le braccia sue
manteneva Roma libera, e la faceva potente. E
parendogli, come è detto, questo suo desiderio
ragionevole, volse ottenere questa autorità in
ogni modo. Ma come la ebbe a fare
giudizio degli uomini suoi particolarmente,
conobbe la debolezza di quelli, e giudicò
che nessuno di loro meritasse quello che
tutta insieme gli pareva meritare. Talché
vergognatasi di loro, ricorse a quelli che Io meritavano.
Della quale deliberazione meravigliandosi meritamente L.,
dice queste parole : /lane modestiam , aquila
IcmquCj et allitudinem animi, ubi moie in
uno inveneris , qua: lune populi universi fuit ?
In corroborazione di questo, se ne può
addurre un altro notabile essempio, seguito
in Capova da poi che Annibaie ebbe
rotti i Romania Canne; per la qual rotta
sendo tutta sollevata Italia, Capova stava
ancora per tumultuare, per P odio eli’ era
intra il Popolo ed il Senato; e trovandosi
in quel tempo nel supremo magistrato
Pacuvio Calano, e conoscendo il pericolo che
portava quella città di tumultuare, disegnò con suo
grado riconciliare la Plebe con la Nobiltà
; e fatto questo pensiero, fece ragunare il
Senato, c narrò loro Podio che M popolo
aveva contra di loro, ed i pericoli
che portavano di essere ammazzati da
quello, e data la città ad Annibaie, sendo
le cose de’ Romani afflitte : dipoi
soggiunse, che se volevano lasciaregovernare
questa cosa a lui, farebbe in modo che
si unirebbono insieme ; ma gli voleva
serrare dentro al palazzo, e co fare
potestà al popolo di potergli gastigare,
salvargli. Cederono a questa sua oppinione i
Senatori, e quello chiamò il Popolo a coocione,
avendo rinchiuso in palazzo il Senato ; e
disse com’ egli era venuto il tempo
di potere domare la superbia della
Nobiltà, e vendicarsi delle ingiurie ricevute da
quella, avendogli rinchiusi tutti sotto la
sua custodia : ma perchè credeva che loro
non volessino che la loro città rimanesse
senza gover-
no, era necessario, volendo ammazzare i Senatori
vecchi, crearne de* nuovi. E per tanto
aveva messo tutti gli nomi degli Senatori
in una borsa, e comincierebbe a trargli in
loro presenza j ed egli farebbe i tratti di
mano in mano morire, come prima loro
avessino tro-
vato il successore. E cominciato a trarne uno, fu
al nome di quello levato un rumore
grandissimo, chiamandolo uomo superbo, crudele ed
arrogante : e chiedendo Paeuvio che facessino lo
scambio, si racchetò tutta la conclone ; c dopo alquanto
spazio, fu nominato uno della plebe ; al
nome del quale chi cominciò a fischiare,
chi a ridere, chi a dirne male in uno
modo, e chi in un altro: o così seguitando
di mano in mano, tutti quelli che
furono nominati, gli giudicavano indegni del
grado senatorio. In modo che Pacuvio, presa
sopra questo occasione, disse: Poiché voi
giudicate che qucslu città stia male senza
Senato, ed a fare gii scambi a’ Senatori
vecchi non vi accordate, io penso che
sia bene che voi vi riconciliate insieme ;
perchè questa paura in la quale i Senatori
sono stati, gli arà fatti in modo
raumiliare, che quella umanità che voi
cercavate altrove, troverete in loro. Ed
accordatisi a questo, ne segui la unione di
questo ordine ; e quello inganno in che egli erano
si scoperse, come e’ furono constretti
venire a’ particolari. Ingannansi, olirà di
questo, i popoli generalmente nel giudicare le
cose e gli accidenti di esse j le quali
dipoi si conoscono particolamento, si
avveggono di tale inganno. Sendo stati i principi
della città cacciati da Firenze, e non vi essendo
alcuno governo ordinato, ma piuttosto una
certa licenza ambiziosa, ed andando le cose
pubbliche di inale in peggio ; molti
popolari veggiendo la rovina della città, e
non ne intendendo altra cagione, ne
accusavano la ambizione di qualche potente
che nutrisse i disordini, per poter fare
uno Stato a suo proposito, c torre loro la
libertà : c stavano questi tali per le
logge c per le piazze, dicendo male di
molti cittadini, e minacciandoli che se mai
si trovassero de’ Signori, scoprirebbono questo
loro inganno, e gli gastigarebbono. Occorreva spesso
che de’ simili ne ascendeva al supremo
magistrato; e come egli era salilo in quel
luogo, e che e* vedeva le i cose più
dappresso, conosceva i disordini donde nascevano,
ed i pericoli che soprastavano, e la difficoltà
del rimecitarvi. C veduto come i tempi, e no gli
uomini, causavano il disordine, diventava subito
d’ un altro animo, c di un’ altra fatta ;
perché la cognizione delle cose particolari
gli toglieva via quello inganno che nel
considerare generalmente si aveva presupposto.
Dimodoché, quelli che lo avevano prima,
quando era privato, sentito parlare, e vedutolo
poi nel supremo magistrato stare quieto,
credevano che nascesse, non per più vera
cognizione delle cose, ma perchè fusse stalo aggirato
e corrotto dai grandi. Ed accadendo questo a
molti uomini c molte volte, ne nacque tra
loro un proverbio, che diceva : Costoro
hanno uno animo in piazza, cd uno in
palazzo. Considerando, dunque, tutto quello si è
discorso, si vede come e’ si può fare
tosto aprire gli occhi a’ popoli, trovando
modo, veggendo che uno generale gl’ inganna,
ch’egli abbino a descenderc ai particolari ; come
fece Pacuvio in Capova, ed il
--Senato in Roma. Credo ancora, che si
possa conchiudere, che mai un uomo prudente
non debbe fuggire il giudizio popolare
nelle eo9e particolari, circa le distribuzioni
de' gradi e delle dignità : perchè solo in
questo il popolo non si inganna ; e se
si inganna qualche volta, Ha sì raro,
che s’ inganneranno più volte i pochi uomini
che avessino a fare simili distribuzioni.
Nè mi pare superfluo mostrare nel seguente
capitolo, P ordine che teneva il Senato per
isgannare il popolo nelle distribuzioni sue. XLYIII.
— Chi vuole che uno magistrato non sia
dato ad un vile o ad un tristo j lo
facci domandare o ad un troppo vile e
troppo tristo , o ad uno troppo nobile c troppo
buono. Quando il Senato dubitava che i Tribuni
con potestà consolare non fussino fatti d’
uomini plebei, teneva uno de’duoi modi: o
egli faceva domandare ai più riputati
uomini di Roma;o veramente, per i debiti
mezzi, corrompeva qualche plebcio sordido ed
ignobilissimo, che mescolati con i plebei che,
di miglior qualità, per T ordinario lo
domandavano, anche loro lo domandassino. Questo
ul-
timo modo faceva che la Plebe si vergognava
a darlo ; quel primo faceva che la si
vergognava a torlo, li che tutto torna a
proposito del precedente discorso, dove si
mostra che il popolo se s’ inganna de’
generali, de’particolari non s’inganna. XLIX. —
Se quelle città che hanno avuto il
principio libcrOj come Romaj hanno diffìcultà a
trovare leggi che le mantenghino ; quelle che
lo hanno immediate servo , ne hanno quasi una impossibilità.
Quanto sia difficile, nello ordinare una
repubblica, provvedere a tutte quelle leggi che
la mantenghino libera, lo dimostra assai
bene il processo della Repubblica romana:
dove non ostante che fussino ordinate di
molte leggi da ROMOLO prima, dipoi da
Nuraa, da Tulio Ostilio e Servio, ed
ultimamente dai dieci cittadini creali a simile
opera ; nondimeno sempre nel maneggiare quella città
si scoprivano nuove necessità, ed era
necessario creare nuovi ordini: come intervenne
quando crearono i Censori, i quali furono uno
di quelli provvedimenti che aiutarono tenere Roma
libera, quel tempo che la visse in
libertà. Perchè, diventati arbitri de’ costumi di Roma,
furono cagione potissima che i Romani
diflerissino più a corrompersi. Feciono bene nel
principio della creazione di tal magistrato
uno errore, creando quello per cinque anni;
ma, dipoi non molto tempo, fu corretto
dalla prudenza di Mamereo dittatore, il
qual per nuova legge ridusse detto
magistrato a diciolto mesi. Il che i
Censori che vegghiavano, ebbono tanto per
male, che privorno Mamcrco del senato: la
qual cosa e dalla Plebe c dai Padri fu
assai biasimata. perchè
la istoria non ino*stra che Mamerco
se ne potesse difen-dere, conviene o che lo
istorico sia di-fettivo, o gli ordini di
Roma in questa parte non buoni : perchè non
è bene che
una repubblica sia in modo ordinata, ebe
un cittadino per promulgare una legge
conforme al vivere libero, ne possa essere
senza alcuno rimedio offeso. Ma tornando al
principio di questo discorso, dico che si
dehbe, per la creazione di questo nuovo
magistrato, considerare, che se quelle città
che hanno avuto il principio loro libero, e
che per se medesimo si è retto, come
Roma, hanno difHcultà grande a trovar leggi buone
per mantenerle libere ; non è meraviglia che
quelle città che hanno avuto il principio
loro immediate servo, abbino, non che
dilfìcultà, ma impossibilità ad. ordinarsi mai
in modo che le possino vivere civilmente e
quietamente. Come si vede che è intervenuto
alla città di Firenze; la quale, per
avere avuto il principio suo sottoposto
allo imperio ro-
mano, ed essendo vivuta sempre sotto governo
d* altri, stette un tempo soggetta, e senza
pensare a sè medesima: dipoi, venuta la
occasione di respirare, cominciò a fare suoi
ordini; i quali sendo
mescolati con gli antichi, che erano
tristi, non poterono essere buoni: e così è ita
maneggiandosi per dugento anni che si lia
di vera memoria, senza avere mai avuto
stato per il quale ella possa veramente
essere chiamata repubblica. E queste diflicultà
che sono state in lei, sono state
sempre in tutte quelle città che hanno
avuto i principii simili a lei. E benché molte
volte, per suffragi pubblici e liberi, si
sia dato ampia autorità a pochi cittadini
di potere riformarla; non pertanto mai l’
hanno ordinata a comune utilità, ma sempre
a proposito della parte loro : il che ha
fatto non ordine, ma maggiore disordine in
quella città. E per venire a qualche essempio particolare,
dico come intra le altre cose che si
hanno a considerare da uno ordinatore d’
una repubblica, è esaminare nelle mani di
quali uomini ci ponga 1’ autorità del
sangue coutra de’ suoi cittadini. Questo
era bene ordinato in Roma, perchè e’
si poteva appellare al Popolo ordinariamente : e
se pure fussc occorsa cosa importante, dove
il differire la esecuzione mediante la
appellagione fusse pericoloso, avevano il refugio
del Dittatore, il quale eseguiva immediate; al
qual rimedio non rifuggivano mai, se non
per necessità. Ma Firenze, c Y altre città
nate nel modo di lei, sendo serve, avevano
questa autorità collocata in un forestiero,
il quale mandato dal principe faceva tale
uffizio. Quando dipoi vennono in libertà,
mantennero questa autorità in un forestiero,
il quale chiamavano Capitano: il che, per
potere essere facilmente corrotto da’ cittadini
potenti, era cosa perniciosissima. Ma dipoi, mu-
randosi per la mutazione degli Stati questo
ordine, creorno otto cittadini che
facessino V uffizio di quel Capitano. Il
quale ordine, di cattivo, diventò pessimo, per le
cagioni che altre volte sono dette: che i
pochi furono sempre ministri dc’po-ehi, e
de* più potenti. Da che si è guardata
la città di Vinegia; la quale ha dieci
cittadini, che senza appello possono punire
ogni cittadino. E perchè e* non basterebbono a
punire i potenti, ancora die ne nvessino
autorità, vi hanno constituito le
Quarnntie: c di più, hanno voluto che il
Consiglio de’ Pregai, elicè il Consiglio
maggiore, possa gastigargli; In modo che
non vi mancando lo accusatore, non vi
manca il giudice a tener gli uomini potenti
a freno. Non è dunque meraviglia, reggendo come
in Roma, ordinata da sè medesima e da tanti
uomini prudenti, surgevano ogni di nuove
cagioni per le quali si aveva a fare
nuovi ordini in favore del viver libero j
se nelle altre città che hanno più
disordinalo principio, vi surgono tuli
difficoltà, che le non si possino riordinar
mai. L. — iVon dcbbc uno consiglio o uno
magistrato potere fermare le azioni della città. tirano
consoli in Roma Tito Quinzio Cincinnato c
Gneo Giulio Mento, i quali sendo disuniti,
avevano ferme tutte le azioni di quella
Repubblica. 11 che veggcndo il Senato,
gli confortava a creare il Dittatore, per
fare quello che per le discordie loro
non poteva fare. Ma i Consoli discordando
in ogni altra cosa, solo in questo
erano d’accordo, di non voler creare il
Dittatore. Tanto che il Senato, non avendo
altro rimedio, ricorse allo aiuto de’ Tribuni; i
quali, con l’autorità del Senato, sforzarono i
Consoli ad ubbidire. Dove si ba a notare,
in prima, la utilità del tribunato; il
quale non era solo utile a frenare l’
ambizione che i potenti usavano contra alla
Plebe, ma quella ancora ch’egli usavano
infra loro: 1’ altra, che mai si
debba ordinare in una città, che i pochi
possino tenere alcuna deliberazione di quelle
che ordinariamente sono necessarie a mantenere la
repubblica. Yerbigrazia, se tu dai una autorità
nd uno consiglio di fare una distribuzione
di onori c di utile, o ad uno magistrato
di amministrare una faccenda; conviene o imporgli
una necessità perchè ei l’ abbia a fare in
ogni modo; o ordinare, quando non la voglia fare
egli, che la possa e debba fare un altro:
altrimenti, questo ordine sarebbe difettivo e
pericoloso; come si vedeva che era in
Roma, se alla ostinazione di quelli Consoli
non si poteva opporre P autorità de’ Tribuni.
Nella Repubblica veneziana il Consiglio grande
distribuisce gli onori e gli utili. Occorreva
alle volte che P universalità, per isdegno o per
qualche falsa suggestione, non creava i
successori ai magistrati della città, ed a
quelli che fuori amministravano lo imperio
loro. Il che era disordine grandissimo:
perchè in un tratto, e le terre suddite e
la città propria mancavano de’ suoi legittimi
giudici; nè si poteva ottenere cosa alcuna,
se quella universalità di quel Consiglio
non si satisfaceva, o non s’ingannava. Ed avrebbe
ridotta questo inconveniente quella città a mal
termine, se dagli cittadini prudenti non vi
si fusse provveduto: i quali, presa occasione
conveniente, fecero una legge, che tutti i
magistrati che sono o fussino dentro e
fuori della città, mai vacassero, se non
quando fussino fatti gli scambi e i successori
loro. E cosi si tolse la comodità a quel
Consiglio di potere, con pericolo della
repubblica, fermare le azioni pubbliche. LI. Una
repubblica o uno principe debbe mostrare di
fare per liberalità quello a che la
necessità lo consiringe. Gli uomini prudenti
si fanno grado sempre delle cose, in
ogni loro azione, ancora che la necessità
gli constringesse a farle in ogni modo.
Questa prudenza fu usata bene dal Senato
romano, quando ei deliberò che si desse
lo stipendio del pubblico agli uomini che
militavano, essendo consueti militare del loro
proprio. Ma veggendo il Senato come in quel
modo non si poteva fare lungamente guerra,
e per questo non potendo nè assediare
terre, uè condurre gli eserciti discosto; e
giudicando essere necessario potere fare 1*
uno e 1’ altro ; deliberò che si dessino
detti stipendi; ina lo feciono in modo,
che si fecero grado di quello a che
la necessità gli constringeva; e fu tanto
accetto alla Plebe questo presente, che
Roma andò «sottosopra per la allegrezza,
parendole uno benefizio grande, quale mai
speravano di avere, e quale mai per loro
medesimi arebbono cerco. E benché i Tribuni s*
ingegnassero di cancellare questo grado, mostrando
come ella era cosa che aggravava, non
alleggeriva, la Plebe, scodo necessario porre i
tributi per pagare questo stipendio ;
nientedimeno non potevano fare tanto che la
Plebe non lo avesse accetto: il che
fu ancora augumentalo dal Senato per
il modo che distribuivano i tributi; perchè i
più gravi ed i maggiori furono quelli chVposono alla
Nobiltà, e gli primi che furono pagati. LII. — A reprimere la
insolenza di uno che surga in una
repubblica potente , non vi c più securo e
meno scandaloso modo , che preoccuparli quelle vie
per le quali e* viene a quella potenza. Yedesi
per il soprascritto discorso, quanto credito
acquistasse la Nobiltà con la Plebe per
le dimostrazioni fatte in benefizio suo, sì
del stipendio ordinato, si ancora del modo
del porre i tributi. Nel quale ordine se
la Nobiltà si fosse mantenuta, si sarebbe
levato via ogni tumulto in quella città, e
sarebbesi tolto ai Tribuni quel credito che
egli avevano con la Plebe, e, per
conseguente, quella autorità. E veramente, non si
può in una repubblica, e massime in quelle
che sono corrotte, con miglior modo, meno scandaloso
e più facile, opporsi alla ambizione di
alcuno cittadino, che preoccuparli quelle vie,
per le quali si vede che esso cammina
per arrivare al grado che disegna, li
qual modo se fusse stalo usato contra
Cosimo de’ Medici, sarebbe stato miglior partito
assai per gli suoi avversari, che cacciarlo
da Firenze: perchè, se quelli cittadini che
gareggiavano seco, avessino preso lo stile
suo di favorire il popolo, gli venivano
senza tumulto e senza violenza a trarre di mano quelle
arme di che egli si valeva più. SODERINI si
aveva fatto riputazione nella città di
Firenze con questo solo, di favorire
l’universale: il che nello universale gli
dava riputazione, come amatore della libertà
della città. E veramente, a quelli cittadini che
portavano invidia alla grandezza sua, era
molto più facile ed era cosa molto
più onesta, meno pericolosa, e meno dannosa
per la repubblica, preoccupargli quelle vie
con le quali si faceva grande, che
volere contrapporsegli, acciocché con la
rovina sua rovinasse tutto il resto della
repubblica: perchè, se gli avessero levate
di mano quelle armi con le quali si
faceva gagliardo (il che potevano fare
facilmente), arebbono potuto in lutti i consigli,
e in tutte le deliberazioni pubbliche, opporsegli
senza sospetto, e senza rispetto alcuno. E se
alcuno replicasse, che se i cittadini che
odiavano Piero, feciono errore a non gli
preoccupare le vie con le quali ei si
guadagnava riputazione nel popolo, Piero ancora
venne a fare errore, a non preoccupare quelle
vie per le quali quelli suoi avversari
lo facevano temere; di’ che Piero merita
scusa, si perchè gli era difficile il
farlo, sì perchè le non erano oneste a
lui : imperocché le vie con le quali
era offeso, ciano il favorire i Medici; con
li quali favori essi io battevano, e alla
fine !o rovinorno. Non poteva, pertanto, Piero onestamente
pigliare questa parte, per non potere
distruggere con buona fama quella libertà
alla quale egli era stato preposto a
guardia : dipoi, non potendo questi favori
farsi segreti e ad uno tratto, erano per
Piero pericolosissimi; perchè comunelle ei si
fusse scoperto amico de’ Medici, sarebbe
diventato sospetto ed odioso al popolo;
donde ai nimici suoi nasceva molto più
comodità di opprimerlo, che non avevano
prima. Debbono, pertanto, gli uomini in
ogni partito considerare i difetti ed i pericoli
di quello, e non gli prendere, quando vi
sia più del pericoloso che dell’ utile ;
nonostante che ne fusse stata data sentenza
conforme alla deliberazion loro. Perchè, facendo
altrimenti, in questo caso interverrebbe a quelli
come intervenne a Tullio; il quale volendo
torre i favori a Marc’ Antonio, gliene
accrebbe. Perchè, sondo Marc’ Antonio stato
giudicalo inimico del Senato, ed avendo
quello grande esercito insieme adunato, in
buona parte, dei soldati che avevano
seguitato la parte di Cesare; Tullio, per
torgli questi soldati, confortò il Senato a dare
riputazione ad Ottaviano, e mandarlo con lo esercito
e con i Consoli contra a Marc' Antonio: allegando,
che subito che i soldati che seguitavano
Marc’ Antonio, scntissino il nome di
Ottaviano nipote di Cesare, e che si faceva
chiamar Cesare, lascerebbono quello, c si
aceosterebbono a costui ; e così restato Marc’ Antouio ignudo
di favori, sarebbe facile lo opprimerlo. La
qual cosa riuscì tutta al contrario; perchè
Marc’ Antonio si guadagnò Ottaviano; e lasciato
Tullio ed il Senato, si accostò a lui.
La qual cosa fu al tutto la
destruzione della parte degli Ottimati. 11
che era facile a conietturare: nè si doveva
credere quel che si persuase Tullio, ma
tener sempre conto di quel nome che
con tanto gloria aveva spenti i nimici
suoi, ed acquistatosi il principato in
Roma; nè si dovea credere mai potere, o
da suoi eredi o da suoi fautori, avere cosa
che fusse conforme al nome libero. LUI. — Il
popolo molte volte desidera la rovina sua j
ingannato da una falsa spezie di bene : e
come le grandi speranze e gagliarde promesse
facilmente lo muovono. Espugnata che fu la
città de’ Veienti, entrò nel Popolo romano
una oppinione, che fusse cosa utile per
la città di Roma, che la metà
de’ Romani andasse ad abitare a Veio ;
argomentando che, per essere quella città
ricca di contado, piena di edifizii e
propinqua a Roma, si poteva arricchire la metà
de’ cittadini romani, e non turbare per la
propinquità del sito nessuna azione civile. La qual
cosa parve al Senato ed a’ più savi Romani
tanto inutile e tanto dannosa, che liberamente
dicevano, essere piuttosto per patire la
morte, che consentire ad una tale
deliberazione. In modo che, venendo questa
cosa in disputa, si accese tanto la
Plebe contra al Senato, che si sarebbe
venuto alle armi cd al sangue, se il
Senato non si fusse fatto scudo di
alcuni vecchi e stimati cittadini ; la riverenza
dc’quali frenò la Plebe, che la non
procede più avanti con la sua insolenza.
Qui si hanno a notare due cose. La
prima, che ’l popolo molte volte, ingannato
da una falsa immagine di bene, desidera
la rovina sua ; e se non gli è fatto
capace, come quello sia male, e quale sia
il bene, da alcuno in chi esso abbia
fede, si pone in le repubbliche infiniti
pericoli c danni. E quando la sorte fu
che il popolo non abbi fede in
alcuno, come qualche volta occorre, sendo
stato ingannato per lo addietro o dalle
cose o dagli uomini; si viene alla rovina
di necessità. Ed ALIGHIERI (si veda) dice a questo
proposito, nel discorso suo che fa De
Monarchia > che il popolo molte volte
grida viva la sua morie j C muoia la sua
vita. Da questa incredulità nasce, che
qualche volta in le repubbliche i buoni
partiti non si pigliano : come di sopra
si disse de’ Veneziani, quando assaltati da
tanti inimici non poterono prendere partito
di guadagnarsene alcuno con la restituzione
delle cose tolte ad altri (per le
quali era mosso loro la 'guerra, e fatta
la congiura de’ principi loro contro),
avanti che la rovina venisse. Pertanto,
considerando quello che è facile o quello che è
diffìcile persuadere ad un popolo, si può
fare questa distinzione: o quel che tu hai
a persuadere rappresenta in prima fronte guadagno, o
perdita ; o veramente pare partito animoso, o
vile: e quando nelle cose che si mettono
innanzi ai popolo, si vede guadagno, ancora
che vi sia nascosto sotto perdila; e quando
e* paia animoso, ancora che vi sia nascosto
sotto la rovina della repubblica, sempre sarà facile
persuaderlo alla moltitudine: e così fia
sempre difficile persuadere quelli partiti dove
apparisce o viltà o perdita, ancoraché vi fusse
nascosto sotto salute e guadagno. Questo che
io ho detto, si conferma con infiniti
esempi, romani e forestieri, moderni ed
antichi. Perchè da questo nacque la
malvagia opinione che surse in Roma di
Fabio Massimo, il quale non poteva
persuadere al Popolo romano, che fusse
utile a quella Repubblica procedere lentamente in
quella guerra, e sostenere senza azzuffarsi V
impeto di Annibaie; perchè quel Popolo giudicava questo
partito vile, c non vi vedeva dentro quella
utilità vi era ; nè Fabio aveva ragioni
bastanti a dimostrarla loro: c tanto sono i
popoli accecati in queste oppinioni gagliarde,
che benché il Popolo romano avesse fatto
quello errore di dare autorità al Maestro
de’ cavalli di Fabio di potersi azzuffare,
ancora che Fabio non volesse; e che per
tale autorità il campo romano fusse per
esser rotto, se Fabio con la sua
prudenza non vi rimediava; non gli bastò
questa esperienza, che fece dipoi consolo VARRONE
(si veda), non per altri suoi meriti che
per avere, per tutte le piazze e tutti i
luoghi pubblici di Roma, promesso di
rompere Annibaie, qualunque volta gliene fusse
data autorità. Di che ne nacque la
zuffa e rotta di Canne, e presso che
la rovina di Roma. Io voglio addurre a
questo proposito ancora uno altro essempio
romano. Era stato Annibaie in Italia otto o
dieci anni, aveva ripieno di occhione de’
Romani tutta questa provincia, quando venne
in Senato Marco Centenio Penula, uomo
vilissimo (nondimanco aveva avuto qualche grado
nella milizia), ed offersegli, che se gli
davano autorità di potere fare esercito di
uomini volutitari in qualunque luogo
volesse in Italia, ei darebbe loro, in
brevissimo tempo, preso o morto Annibaie. Al
Senato parve la domanda di costui
temeraria; nondimeno ei pensando che s’ ella
se gli negasse, e nel popolo si fusse
dipoi sapula la sua chiesta, che non
ne nascesse qualche tumulto, invidia e mal
grado contro all’ordine senatorio, gliene
concessono : volendo più tosto mettere a pericolo
tutti coloro che lo seguitassino, che fare surgere
nuovi sdegni nel Popolo; sappiendo quanto
simile partito fusse per essere accetto, e
quanto fusse difficile il dissuaderlo. Andò,
adunque, costui con una moltitudine inordinata
ed incomposita a trovare Annibaie; e non gli
fu prima giunto all* incontro, che fu con
tutti quelli che lo seguitavano rotto e
morto. In Grecia, nella città di Atene, non
potette mai Nicia, uomo gravissimo e
prudentissimo, persuadere a quel popolo, che non
fusse bene andare ad assaltare Sicilia:
talché, presa quella deliberazione contra alla
voglia de’ savi, ne seguì al tutto la
rovina di Atene. Scipione quando fu fatto
consolo, e che desiderava la provincia di
Affrica, promettendo al tutto la rovina di
Cartagine; a che non si accordando il Senato per
la sentenza di Fabio Massimo, minacciò di
proporla nel Popolo, come quello clic
conosceva benissimo quanto simili deliberazioni
piaccino a’ popoli. Potrebbesi a questo proposito
dare esempi della nostra città : come fu
quando messere Ercole Bentivogli, governadore delle
genti fiorentine, insieme con Antonio Giacomini,
poiché ebbono rotto llartolommeo d’ Alviano a
San Vincenti, andarono a campo a Pisa ; la
qual impresa fu deliberata dal popolo in
su le promesse gagliarde di messcr Ercole, ancora
che molti savi cittadini la biasimassero:
nondimeno non vi ebbero rimedio, spinti da
quella universale volutila, la qual era
fondata in su le promesse gagliarde del
governadore. Dico, adunque, come non è la
più facile via a fare rovinare una
repubblica dove il popolo abbia autorità,
che metterla' in imprese gagliarde : perchè, dove
il popolo sia di alcuno momento, sempre
fieno accettale; nè vi arà, chi sarà
d’ altra
oppinione, alcuno rimedio. Ma se di questo
nasce la rovina della città, ne nasce ancora,
e più spesso, la rovina particolare de*
cittadini che sono preposti a simili
imprese : perchè, avendosi il popolo presupposto
la vittoria, eomee’vienc la perdita, non ne
accusa nè la fortuna, nè la impotenza
di chi ha governato, ma la tristizia e
la ignoranza sua; e quello il più
delle volte o ammazza, o imprigiona, o confina:
come intervenne a infiniti capitani Cartaginesi,
ed a molti Ateniesi. Nè giova loro alcuna
vittoria che per lo addietro avessino
avuta, perchè tutto la presente perdita
cancella : come intervenne ad Antonio Giacomini nostro,
il quale non avendo espugnata Pisa, come
il popolo aveva presupposto ed egli
promesso, venne in tanta disgrazia popolare,
che non ostante infinite sue buone opere
passate, visse più per umanità di coloro
che ne avevano autorità, che per alcun’
altra cagione che nel popolo lo difendesse. liv#
— Quanta autorità abbia uno uomo grande a
frenare una moltitudine concitata. Il secondo
notabile sopra il testo nel superiore
capitolo allegato, è, che veruna cosa è
tanto atta a frenare una moltitudine concitata,
quanto è la riverenza di qualche uomo grave
e di autorità, che se le faccia incontro j
nè senza cagione dice VIRGILIO (si veda): “Tutn
vietate graverà ac meritis si forte virum Conspexere
, sileni , arrectisque aur^®n^ci* Per tanto, quello
che è proposto a uno esercito, o quello che
si trova in una città, dove nascesse
tumulto, debbe rappresentarsi in su quello
con maggior grazia e piu onorevolmente che
può, mettendosi intorno le insegne di quel
grado che tiene, per farsi più reverendo.
Era, pochi anni sono, Firenze diviso in due
fazioni, Fratesche ed Arrabbiate, che cosi si
chiamavano; e venendo ali’ arme, ed essendo
superati i Frateschi, intra i quali era
Pagolantonio Soderini, assai in quelli tempi
riputato cittadino; cd andandogli
in quelli tumulti il popolo armato a casa per
saccheggiarla; messer Francesco suo fratello,
allora vescovo di Volterra, ed oggi
cardinale, si trovava a sorte in casa : il
quale, subito sentito il romore e veduta la
turba, messosi i più onorevoli panni indosso, e
di sopra il rocchetto episcopale, si fece
incontro a quelli armati, e con la persona e
con le parole gli fermò ; la qual
cosa fu per tutta la città per molti
giorni notata e celebrata. Conchiudo, adunque,
come e’ non è il più fermo nè il più
necessario rimedio a frenare una moltitudine
concitata, che la presenza d’ uno uomo che
per presenza paia e sia reverendo. Vedesi,
adunque, per tornare al preallegato testo, con
quanta ostinazione la Plebe romana accettava
quel partito d’ andare a Yeio, perchè Io
giudicava utile, nè vi conosceva sotto
il danno vi era ? e come nascendone assai
tumulti, ne sarebbero nati scandali, se il
Senato con uomini gravi e pieni di
riverenza non avesse frenato il loro furore. lv.
— Quanto facilmente si conduellino le cose
in quella città dove la moltitudine non è
corrotta: e che dove è e qualità , non si può
fare principato / e dove la non èj non si può
far repubblica. Ancora clie di sopra si
sia discorso assai quello sia da temere o
sperare delle città corrotte; nondimeno non mi pare
fuori di proposito considerare una deliberazione
del Senato circa il voto ehe Cammillo
aveva fatto di dare la decima parte
ad Apolline della preda de’ Veienti : la
qual preda sendo venuta nelle mani della
Plebe romana, nè se ne potendo altrimenti
riveder conto, fece il Senato uno editto,
che ciascuno dovesse rappresentare al
pubblico la decima parte di quello gli
aveva predalo. E benché tale deliberazione non
avesse luogo, avendo dipoi il Senato preso
altro modo, c per altra via satisfatto ad Àpolliue
in satisfazione della Plebe; nondimeno si
vede per tali deliberazioni quanto quel
Senato confidasse nella bontà di quella, e
come e’ giudicava che nessuno fusse per
non rappresentare appunto tutto quello che
per tale editto gli era comandato. E dall’
altra parte si vede, come la Plebe
non pensò di fraudare in alcuna parte
lo editto con il dare meno che non
doveva, ma di liberarsi da quello con
il mostrarne aperte indignazioni. Questo
essempio, con molti altri che di sopra
si sono addotti, mostrano quanta bontà e
quanta religione fusse in quel Popolo, e
quanto bene fusse da sperare di lui. E
veramente, dove non è questa bontà, non si
può sperare nulla di bene; come non
si può sperare nelle provincic che in
questitempi si veggono corrotte: come è la Italia
sopra tutte le altre; ed ancora la Francia
di tale corruzione ritengono parte. E se in
quelle provincie non si vede tanti
disordini quanti nascono in Italia ogni di,
deriva non tanto dalla bontà de' popoli,
la quale ìh buona parte è mancata; quanto
dallo avere uno re che gli mantiene uniti, non
solamente per la virtù sua, ma per l’ordine
di quelli regni, che ancora non sono
guasti. Vedesi bene nella provincia della
Magna, questa bontà e questa religione ancora
in quelli popoli esser grande; la qual
fa che molte repubbliche vi vivono libere,
ed in modo osservano le loro leggi,
che nessuno di fuori nè di dentro
ardisce occuparle. E che sia vero che in
loro regni buona parte di quella antica
bontà, io nc voglio dare uno essempio
simile a questo detto di sopra del Senato e
della Plebe romana. Usano quelle repubbliche,
quando gli occorre loro bisogno di avere a
spendere alcuna quantità di danari per
conto pubblico, che quelli magistrati o consigli
che ne hanno autorità, ponghino a tutti
gli abitanti della città uno per cento, o
dua, di quello che ciascuno ha di valsente.
E fatta tale deliberazione secondo 1’ ordine
della terra, si rappresenta ciascuno dinanzi
agli esecutori di tale imposta; e, preso
prima il giuramento di pagare la
conveniente somma, getta in una cassa a ciò
deputata quello clic secondo la conscienza
sua gli pare dover pagare: del qual
pagamento non è testimonio alcuno, se non
quello che paga. Donde si può conictturare,
quanta bontà e quanta religione sia ancora in quelli
uomini. E debbesi stimare che ciascuno paghi
la vera somma: perchè, quando la non
si pagasse, non pitterebbe la imposizione
quella quantità che loro disegnassero secondo
le antiche che fussino usitate riscuotersi; e non
gitlando, si conoscerebbe la fraude; e
conoscendosi, arebbon preso altro modo che
questo. La quale bontà è tanto più da
ammirare in questi tempi, quanto ella è più
rara : anzi si vede essere rimasa
sola in quella provincia. Il che nasce
da due cose : Y una, non avere avuti
commerzi grandi co’ vicini; perchè nè quelli
sono ili a casa loro, nè essi sono
iti a casa altrui; perchè sono stati
eontenli di quelli beni, e vivere di quelli
cibi, vestire di quelle lane che dà il
paese: d’onde è stata tolta via la cagione
d’ogni conversazione, ed il principio di
ogni corruttela; perchè non hanno possuto
pigliare i costumi nè franciosi nè spagnuoli
nè italiani, le quali nazioni tutte insieme
sono la corruttela del mondo. L’ altra
cagione è, che quelle repubbliche dove si è
mantenuto il vivere politico ed incorrotto, non
sopportano che alcuno loro cittadino nè sia
nè viva ad uso di gentiluomo: anzi
mantengono infra loro una pari equalità, ed
a quelli signori e gentiluomini che sono in
quella provincia, sono inimicissimi ; c se per
caso alcuni pervengono loro nelle mani,
come priacipi di corruttela e cagione di
ogni scandalo, gli ammazzano. E' per chiarire questo
nome di gentiluomini quale e’ sia. dico
che gentiluomini sono chiamali quelli che
ociosi vivono de’ proventi delle loro
possessioni abbondantemente, senza avere alcuna
cura o di coltivare, o di alcuna altra
necessaria fatica a vivere. Questi tali
sono perniciosi in ogni repubblica ed in
ogni provincia; ma più perniciosi sono
quelli che, oltre alle predette fortune,
comandano a ca- stella, ed hanno sudditi che
ubbidiscono a loro. Di queste due sorti di
uomini ne sono pieni il regno di
Napoli, terra di Roma, la Romagna e la
Lombardia. Di qui nasce che in quelle
provincie non è mai stata alcuna repubblica, nè alcuno
vivere politico; perchè tali generazioni di
uomini sono al tutto nemici di ogni
civiltà. Ed a volere in provincie fatte in
simil modo introdurre una repubblica, non
sarebbe possibile: ma a volerle riordinare, se
alcuno ne fusse arbitro, non arebbe altra
via che farvi un regno. La ragione è
questa, che dove è tanto la materia corrotta che
le leggi non bastino a frenarla, vi bisogna
ordinare insieme con quelle maggior forza ;
la quale è una mano regia, che con la
potenza assoluta ed eccessiva ponga freno
alla eccessiva ambizione e corruttela de’
potenti. Verificasi questa ragione cou lo
esempio di Toscana : dove si vede in
poco spazio di terreno stale longamente tre
repubbliche, Firenze, Siena e Lucca ; e le altre
città di quella provincia essere in modo
serve, che, con l’ animo e con T ordine, si
vede o che le mantengono, o che le
vorrebbono mantenere la loro libertà. Tutto è
nato per non essere in quella provincia
alcun signore di castella, c nessuno o pochissimi
gentiluomini ; ma esservi tanta equalità, che facilmente
da uno uomo prudente, e che
delle antiche civilità avesse cognizione, vi
si introdurrebbe un viver civile. Ma lo
infortunio suo è stato tanto grande, che
infino a questi tempi non ha sortito alcuno
uomo che lo abbia potuto o saputo fare.
Trassi adunque di questo discorso questa
conclusione: che colui che vuole fare dove
sono assai gentiluomini una repubblica, non la
può fare se prima non gli spegne
tutti: e che colui che dove è assai
equalità vuole fare uno regno o uno
principato, non lo potrà mai fare se
non trae di quella «qualità molti di
animo ambizioso ed inquieto, e quelli fa
gentiluomini in fatto, e non in nome,,
donando loro castella e possessioni, c dando loro
favore di sustanze e d’uomini ; acciocché, posto
in mezzo di loro, mediante quelli mantenga
la sua potenza ; cd essi, mediante quello,
la loro ambizione; e gli altri siano
constretti n sopportare quel giogo che la
forza, e non altro mai, può far sopportare
loro. Ed essendo per questa via
proporzione da chi sforza a chi è sforzato,
stanno fermi gli uomini ciascuno nello
ordine loro. E perchè il fare d’ una
provincia atta ad essere regno una repubblica,
c d’ una atta ad essere repubblica farne un
regno, è materia da uno uomo che per cervello
e per autorità sia raro; sono stati molti
che Io hanno voluto fare, e pochi che
lo abbino saputo condurre. Perchè la
grandezza della cosa parte sbigottisce gli
uomini, parte in modo gli ’mpedisce, che
ne’ primi principii mancano. Credo che a questa
mia oppiatone, che dove sono gentiluomini non si
possa ordinare repubblica, parrà contraria la
esperienza della Repubblica veneziana, nella
quale non usano avere alcuno grado se
non coloro che sono gentiluomini. A che si
risponde, come questo essempio non ci fa
alcuna oppugnazione, perchè i gentiluomini in quella
Repubblica sono piu in nome che in
fatto; perchè loro non hanno grandi entrate
di possessioni, sendo le loro ricchezze
grandi fondate in sulla mercanzia e cose
mobili; e di più, nessuno di loro tiene
castella, o ha alcuna iurisdizione sopra gli
uomini: ma quel nome di gentiluomo in
loro è nome di degnila e di riputazione,
senza essere fondato sopra alcuna di quelle
cose che fa che nell’ altre città si
chiamano i gentiluomini. E come le altre
repubbliche hanno tutte le loro divisioni sotto vari
nomi, così Vinegia si divide in gentiluomini
e popolari ; e vogliono che quelli abbino, ovvero
possino avere, tutti gli onori; quelli
altri ne sieno al tutto esclusi. Il
che non fa disordine in quella terra,
per le ragioni altra volta dette. Gonstituisca,
adunque, una repubblica colui dove è, o è
fatta una grande egualità; ed alP incontro
ordini un principato dove è grande inequalità :
altrimenti farà cosa senza propprzione, e poco
durabile. LYI. — Innanzi
che segnino i grandi accidenti in una
città o in una provincia , vengono segni che
gli pròìioslicanOj o uomini che gli predicono. Donde
e* si nasca io non so, ina si vede
pei* gli antichi e per gli moderni essempi,
che mai non venne alcuno grave accidente
in una città o in una provincia, che
non sia stato, o da indovini o da
revelazioni o da prodigi, o da altri segni
celesti, predetto. E per non mi discostare
da casa nei provare questo, saciascuno
quanto da frate Girolamo Savonarola fusse
predetta innanzi la venuta del re Carlo
Vili di Francia in Italia; e come, olirà
di questo, per tutta Toscana si disse
esser sentite in aria e vedute genti d’
arme, sopra Arezzo, che si azzuffavano
insieme. Sa ciascuno olirà di questo, come
avanti la morte di Lorenzo de’ Medici
vecchio fu percosso il duomo nella sua
più alta parte con una saetta celeste,
con l'ovina grandissima di quello edilìzio.
Sa ciascuno ancora,, come poco innanzi che
Soderini, quale era stato fatto gonfaloniere a
vita dal popolo fiorentino, fosse cacciato e privo
del suo grado, fu il palazzo medesimamente
da un fulgore percosso. Potrcbbesi, olirà
di questo, addurre più essempi, i quali per
fuggire il tedio lascerò. Narrerò solo
quello che L., innanzi alla venuta
de’ Franciosi in Roma : cioè, come uno
Marco Cedizio plebeio, riferì al Senato avere udito
di mezza notte, passando per la Via
Nuova, una voce maggiore che umana, la
quale lo ammoniva che riferisse ai
magistrati, come i Franciosi venivano a Roma. La
cagione di questo credo sia da essere discorsa
ed interpretata da uomo che abbia notizia
delle cose naturali e soprannaturali: il che
non abbiamo noi. Pure, potrebbe essere che,
sendo questo aere, come vuole alcuno filosofo, pieno
d’ intelligenze ; le quali per naturale
virtù prevedendo le cose future, ed avendo
compassione agli uomini, acciò si possino
preparare alle difese, gli avvertiscono con
simili segni. Pure, comunelle si sia, si
vede cosi essere la verità; e che sempre
dopo tali accidenti sopravvengono cose
istraordinarie e nuove alle provincie. L VII. — La plebe
insieme è gagliarda; di per se è debole. Erano
molti Romani, scudo seguita per la passata
de* Franciosi la rovina della lor patria,
andati ad abitare a Yeio, contea alla
constituzione ed ordine del Senato: il
quale, per rimediare a questo disordine, comandò
per i suoi editti pubblici che ciascuno,
infra certo tempo e sotto certe pene,
tornasse ad abitare a Roma. De’quali editti,
da prima per coloro contea a chi e*
venivano, si fu fatto beffe; dipoi, quando
si appressò il tempo dello ubbidire, tutti
ubbidirono. E Tito Livio dice queste parole :
Ex fcrocibus universtSj singtili metti suo
obedienfes fuere. E veramente, non si può mostrare
meglio la natura d’ una moltitudine in
questa parte, che si dimostri in questo
testo. Perchè la moltitudine è audace nel
parlare molte volte contra alle deliberazioni
del loro principe; dipoi, come veggono la
pena in viso, non si fidando Y uno
dell’ altro, corrono ad ubbidire. Talché si
vede certo, che di quel che si dica
uno popolo circa la mala o buona
disposizion sua, si debbe tenere non gran
conto, quando tu sia ordinato in modo
da poterlo mantenere, s’ egli è ben disposto; s’
egli è mal disposto, da poter provvedere
che non ti offenda. Questo s’intende per
quelle male disposizioni che hanno i popoli,
nate da qualunque altra cagione, che o per
avere perduto la libertà, o il loro principe stato
amato da loro, e che ancora sia vivo;
perchè le male disposizioni che nascono da
queste cagioni, sono sopra ogni cosa
formidabili, e che hanno bisogno di grandi
rimedi a frenarle : 1' altre sue indisposizioni
fieno facili, quando ci non abbia capi a
chi rifuggire. Perchè non ci è cosa, dall’
un canto, più formidabile che una
moltitudine sciolta e senza capo; e, dall’
altra parte, non è cosa più debole :
perchè, quantunque ella abbi 1’ armi in
mano, fia facile ridurla, purché tu abbi
ridotto da potere fuggire il primo impeto;
perchè quando gli animi sono un poco
raffreddi, e che ciascuno vede di aversi a
tornare a casa sua, cominciano a dubitare di
loro medesimi, e pensare alla salute loro, o con fuggirsi
o con l’accordarsi. Però una moltitudine così
concitata, volendo fuggire questi pericoli, ha
subito a fare infra sè medesima un capo
che la corregga, tenghila unita e pensi alla
sua difesa ; come fece la Plebe romana,
quando dopo la morte di Virginia si
partì da Roma, e per salvarsi feciono infra
loro venti Tribuni: e non facendo questo,
interviene loro scmj)re quel che dice L.
nelle soprascritte parole, che tutti insieme
sono gagliardi; e quando ciascuno poi comincia a
pensare al proprio pericolo, diventa vile e
debole. LVIIL — ì.a moltitudine è più savia e più
costante che un principe. Nessuna cosa
essere più vana e più inconstante che la
moltitudine: cosi L. nostro, come tutti
gli altri istorici affermano. Perchè spesso
occorre, nel narrare le azioni degli
uomini, vedere la moltitudine avere condannato alcuno
a morte, e quel medesimo di poi pianto e
sommamente desiderato: come si vede avere
fatto il Popolo romano di Manlio
Capitolino, il quale avendo CONDENNATO A MORTE,
sommamente dipoi desiderava. E le parole dell*
autore son queste: Populum brevi, posteaquam ab co
periculum nullum eral , dcsidcrium rjus tenuit.
Ed altrove, quando mostra gli accidenti che
nacquero in Siracusa dopo la morte di
Girolamo nipote di Ierone, dice: Hcec
natura mulliludinis est : aut umiliter servii ,
aut superbe domi • natur. Io non so
se io mi prenderò una provincia dura, e
piena di tanta difficoltà, che mi convenga
o abbandonarla con vergogna, o seguirla con carico; volendo
difendere una cosa, la quale, come ho
detto, da tutti gli scrittori è accusata.
Ma, comunehc si sia, io non giudico
nè giudicherò mai essere difetto difendere
alcune oppinioni con le ragioni, senza
volervi usare o la autorità o la forza.
Dico adunque, come di quello difetto di
che accusano gli scrittori la moltitudine,
se ne possono accusare tutti gli uomini
particolarmente, e massime i principi; perchè ciascuno
che non sia regolato dalle leggi, farebbe
quelli medesimi errori che la moltitudine
sciolta. E questo si può conoscere facilmente, perchè
e’ sono c sono stati assai principi, e de’
buoni e de’ savi ne sono stati pochi; io
dico de’ principi che hanno potuto rompere
quel freno che gli può correggere; intra i
quali non sono quegli re che nascevano
in Egitto, quando in quella antichissima
antichità si governava quella provincia con
le leggi; nè quelli che nascevano in
Sparta; nè quelli che a’ nostri tempi
nascono in Francia: il quale regno è
moderato più dalle leggi, che alcuno altro
regno di che ne’ nostri tempi si abbi
notizia. E questi re che nascono sotto
tali constituzioni, non sono da mettere
in quel numero, donde si abbia a considerare la
natura di ciascuno uomo per sè, e vedere
se egli è simile alla moltitudine: perchè a
rincontro loro si debbe porre una
moltitudine medesimamente regolata dalle leggi
come sono loro; e si troverà in lei
essere quella medesima bontà che noi
veggiamo essere in quelli, e vedrassi quella
nè superbamente dominare nè umilmente servire:
come era il Popolo romano, il quale
mentre durò la Repubblica incorrotta, non
servì mai umilmente nè mai dominò superbamente; anzi
con li suoi ordini e magistrati tenne il
grado suo onorevolmente. E quando era necessario
insurgerc contra a uno potente, lo faceva;
come si vede in Manlio, ne’ Dieci, ed
in altri che cercorno opprimerla : e quando
era necessario ubbidire a’ Dittatori ed a’
Consoli per la salute pubblica, lo faceva.
E se il Popolo romano desiderava Manlio
Capitolino morto, non è meraviglia; perchè e* desiderava
le sue virtù, le quali erano state
tali, che la memoria di esse recava compassione
a ciascuno; cd arebbono avuto forza di fare
quel medesimo effetto in un principe,
perchè 1* è sentenza di tutti li scrittori,
come la virtù si lauda e si ammira
ancora negli inimici suoi: e se Manlio,
infra tanto desiderio, fusse risuscitato, il
Popolo di Roma arebbe dato di lui il
medesimo giudizio, come ei fece, tratto che
lo ebbe di prigione, che poco di poi
lo condennò a morte; nonostante die si
vegga di principi tenuti savi, i quali
hanno fatto morire qualche persona, e poi
sommamente desideratala : come Alessandro, Clito ed altri
suoi amici ; ed Erode, Marianne. Ma quello
che lo istorico nostro dice della natura
della moltitudine, non dice di quella che è
regolata dalle leggi, come era la romana;
ma della sciolta, come era la siracusana:
la quale fece quelli errori che fanno
gli uomini infuriati e sciolti, come fece
Alessandro magno, ed Erode, ne’ casi detti.
Però non è più da incolpare la natura
della moltitudine che de’ principi, perchè tutti
egualmente errano, quando tutti senza rispetto
possono errare. Di che, oltre a quello che ho
detto, ci sono assai essempi, ed intra
gli imperadori romani, ed intra gli altri
tiranni e , principi; dove si vede tanta
incostanza e tanta variazione di vita, quanta
mai non si trovasse in alcuna moltitudine.
Conchiudo, adunque, contea olla comune oppimene,
la qual dice come i popoli, quando sono
principi, sono vari, mutabili, ingrati;
affermando che in loro non sono altrimente
questi peccati che si siano ne’ principi particolari.
Ed accusando alcuni i popoli ed i principi
insieme, potrebbe dire il vero; ma
traendone i principi, s’inganna; perchè un popolo
che comanda e sia bene ordinato, sarà
stabile, prudente e grato non altrimenti
che un principe, o meglio che un
principe, eziandio stimato savio: e dall’altra
parte, un priucipe sciolto dalle leggi,
sarà ingrato, vario ed imprudente più che
uno popolo. E che la variazione del
procedere loro nasce non dalla natura
diversa, perchè in tutti è ad un modo: e
se vi è vantaggio di bene, è nei popolo;
ma dallo avere più o meno rispetto alle
leggi, dentro alle quali l’uno e l’altro
vive. E chi considerrà il Popolo romano,
lo vedrà essere stato per quattrocento anni
iuimico del nome regio, ed amatore della
gloria e del bene comune della sua
patria: vedrà tanti essempi usati da lui,
clic testiiuoniauo 1’ una cosa e V altra. £
se alcuno mi allegasse la ingratitudine eh7
egli usò centra a Scipione, rispondo quello die di
sopra lungamente si discorse in questa
materia, dove si mostrò i popoli essere
meno iugraii de’ principi. Ma quanto alla
prudenza ed alla stabilità, dico, come uno
popolo è più prudente, più stabile e di
miglior giudicio che un principe. E uon
senza cagione si assomiglia la voce d7
un popolo a quella di Dio; perchè si
vede una oppinioue universale fare effetti
meravigliosi ne’ pronostichi suoi: talché pare
che per occulta virtù e’ prevegga il suo
male ed il suo bene. Quanto al
giudicare le cose, si vede rarissime volte,
quando egli ode due concionanti che tendino
in diverse parti, quando e’ sono di egual
virtù, che non pigli *ia oppinione
migliore, e che non sia capace di quella
verità ch’egli ode. £ se nelle cose
gagliarde, o che paiano utili, come di
sopra si dice, egli erra ; molte volte
erra ancora uri principe nelle sue proprie
passioni, le quali sono molle più che
quelle de’ popoli. Yedesi ancora, nelle sue
elezioni ai magistrati, fare di lunga
migliore elezione che uno principe; nè mai
si persuaderà ad un popolo, che sia
bene tirare alla degnila uno uomo infame e
di corrotti costumi: il che facilmente e
per mille vie si persuade ad un
principe. Yedesi un popolo cominciare ad
avere in orrore una cosa, e molti secoli
stare in quella oppinione: il che non
si vede in uno principe. E dell’ una
e dell’ altra di queste due cose voglio
mi basti per testimone il Popolo romano:
il quale, in tante centinaia d’anni, in
tante elezioni di Consoli e di Tribuni, non
fece quattro elezioni di che quello si
avesse a pentire. Ed ebbe, come ho detto,
tanto in odio il nome regio, che
nessuno obbligo di alcuno suo cittadino,
che tentasse quel nome, potette fargli
fuggire le debite pene. Yedesi, oltra di
questo, le città dove i popoli sono
principi, fare in brevissimo tempo augumenti
eccessivi, e molto maggiori che quelle che
sempre sono state sotto un principe ! come
fece Roma dopo la cacciata de’ re, ed
Atene da poi che la si liberò da
Pisistrato. 11 che non può nascere da
altro, se non che sono migliori governi
quelli de* popoli che quelli de* principi.
Nè voglio che si opponga a questa mia
oppinione tutto quello che lo istorico
nostro ne dice nel preallcgato testo, ed
in qualunque altro; perchè, se si
discorreranno tutti i disordini de’popoli, tutti
i disordini de* principi, tutte le glorie
de* popoli, tutte quelle de’ principi, si
vedrà il popolo di bontà e di gloria
essere di lunga supcriore. E se i principi
sono superiori a* popoli nello ordinare
leggi, formare vite civili, ordinare statuti
ed ordini nuovi ; i popoli sono tanto
superiori nel mantenere le cose ordinate,
eh’ egli aggiungono senza dubbio alla
gloria di coloro che l’ordinano. Ed in
somma, per epilegare questa materia, dico
come hanno durato assai gli stati de’
principi, hanno durato assai gli stati
delle repubbliche, e l’uno e l’ altro ha
avuto bisogno d’essere regolato dalle leggi :
perchè un principe che può fare ciò
che vuole, è pazzo; un popolo che può
fare ciò che vuole, non è savio. Se,
adunque, si ragionerà d' un principe obbligato
alle leggi, ed’ un popolo incatenalo
da quelle, si vedrà più virtù nel
popolo che nel principe: se si ragionerà
dell’ uno e dell’altro sciolto, si vedrà • meno
errori nel popolo che nei principe; e
quelli minori, ed aranno maggiori rimedi.
Perchè ad un popolo licenzioso e tumultuario, gli
può da un uomo buono esser parlato, e
facilmente può essere ridotto nella via buona
: ad un principe cattivo non è alcuno che
possa parlare, nè vi è altro rimedio che
il ferro. Da che si può far coniettura
della importanza della malattia dell’uno e
dell’altro: chè se a curare la malattia del
popolo bastano le parole, ed a quella del
principe bisogna il ferro, non sarà mai
alcuno che non giudichi, che dove bisogna
maggior cura, siano maggiori errori. Quando
un popolo è bene sciolto, non si temono
le pazzie che quello fa, nè si ha
paura del mal presente, ma di quello
che ne può nascere, potendo nascere infra
tanta confusione un tiranno. Ma ne’ principi
tristi interviene il contrario: che si teme il
male presente, e nel futuro si spera; persuadendosi
gli uomini che la sua cattiva vita
possa far surgere una libertà. Sì che
vedete la differenza dell’ uno e dell’
altro, la quale è quanto dalle cose che
sono, a quelle che hanno ad essere. Le
crudeltà della moltitudine sono contra a
chi ei temono clic occupi il ben comune
: quelle d’ un principe sono contro a chi
ci temono che occupi il bene proprio.
Ma la oppiti ione contro ai popoli
nasce perchè de’ popoli ciascuno dice male
senza paura e liberamente, ancora mentre che
regnano: de’ principi si parla sempre con
mille paure e mille rispetti. Nè mi pare
fuor di proposito, poiché questa materia mi
vi tira, disputare nel seguente capitolo di
quali confederazioni altri si possa più
fidare, o di quelle falle con una
repubblica, o di quelle fatte con ui>
principe. LIX. — Di quali confederazioni , o lega,
altri si può più fidare ; o di quella
fatta con una repubblica , o di quella fatta
con uno principe. Perchè ciascuno dì
occorre che P uno principe con l’altro, o V
una repubblica con l’altra, fanno lega ed
amicizia insieme ; ed ancora similmente si
contrae confederazione ed accordo intra una
repubblica ed uno principe mi pare di esaminare
qual fede è più stabile, e di quale si
debba tenere più conto, o di quella d’
una repubblica, o di quella d’ uno principe,
lo, esaminando tutto, credo che in molti
casi e’ siano simili. ed in alcuni vi
sia qualche disformità. Credo per tanto,
che gli accordi fatti per forza non
ti saranno nè da un principe nè da
una repubblica osservali; credo che quando
la paura dello stato venga, l'uno e
l'altro, per non lo perdere, ti romperà
la fede, e ti userà ingratiludine.
Demetrio, quel che fu chiamato espugnatore
delle cittadi, aveva fatto agli Ateniesi
infiniti benefici! : occorse dipoi, che sendo
rotto da’ suoi inimici, e rifuggendosi in Atene,
come in città amica ed a lui obbligata,
non fu ricevuto da quella : il che
gli dolse assai più che non aveva
fatto la perdita delle genti e dello
esercito suo. Pompeio, rotto che fu da
Cesare in Tessaglia, si rifuggì in Egitto a
Tolomeo, il quale era per lo addietro
da lui stato rimesso nel regno; e fu
da lui morto. Le quali cose si vede che
ebbero le medesime cagioni; nondimeno fu
più umanità usata e meno •ingiuria dalla
repubblica, che dal principe. Dove è,
pertanto, la paura, si troverà in
fallo la medesima fede. E se si troverà o
una repubblica o uno principe, che per
osservarti la fede aspetti di rovinare, può
nascere questo ancora da simili cagioni. E
quanto al principe, può molto bene
occorrere che egli sia amico d’ un
principe potente, che se bene non ha
occasione allora di difenderlo, ei può
sperare che col tempo e* lo restituisca
nel principato suo; o veramente che, avendolo
seguito come partigiano, ei non creda
trovare nè fede nè accordi con il
nimico di quello. Di questa sorte sono
stati quelli principi del reame di Napoli
che hanno seguite le parti franciose. E
quanto alle repubbliche, fu di questa sorte
Sagunto in Ispagna, che aspettò la rovina
per seguire le parti romane; e di questa
Firenze, per seguire nel 4512 le parti franciose.
E credo, computata ogni cosa, che in questi
casi, dove è il pericolo urgente, si
troverà qualche stabilità più nelle repubbliche,
che ne’ principi. Perche, sebbene le repubbliche
avessino quel medesimo animo e quella medesima voglia
che un principe, lo avere il moto loro
tardo, farà che le porranno sempre
più a risolversi che il principe, e per
questo porranno più a rompere la fede di lui.
Romponsi le confederazioni per lo utile. In
questo le repubbliche sono di lunga più
osservanti degli accordi, che i principi. E
potrebbesi addurre essempi, dove uno miuinio
utile ha fatto rompere la fede ad uno
principe, e dove una grande utilità non ha fatto
rompere la fede ad una repubblica : come
fu quello partito che propose Temistocle
agli Ateniesi, a’ quali nella conclone disse
che aveva uno consiglio da fare alla
loro patria grande utilità ; ma non lo
poteva dire per non lo scoprire, perchè
scoprendolo si toglieva la occasione del
farlo. Onde il popolo di Atene elesse
Aristide, al quale si comunicasse la cosa,
e secondo dipoi che paresse a lui se
ne deliberasse: al quale Temistode mostrò
come I* armata di tutta Grecia, ancora
che stesse sotto la fede loro, era in
lato che facilmente si poteva guadagnare o
distruggere; il che faceva gli Ateniesi al
tutto arbitri di quella provincia. Donde
Aristide riferì ai popolo, il partito di
Temistocle essere utilissimo, ma disonestissimo :
per la qual cosa il popolo al tutto
lo ricusò. II che non arebbe fatto
Filippo Macedone, e gli altri principi che
più utile hanno cerco e più guadagnato con
il rompere la fede, che con verun
altro modo. Quanto a rompere i patti per
qualche cagione di inosservanza, di questo
io non parlo come di cosa ordinaria;
ma parlo dì quelli che si rompono per
cagioni istrasordinarie: dove io credo, per
le cose (lette, che il popolo facci
minori errori che il principe, e per questo
si possa Fidar più di lui che del
principe. LX. — Come il consolato e qualungue
altro magistrato in Roma si (lava senza
rispetto di età. E’ si vede per V
ordine della istoria, come la Repubblica
romana, poiché ’i consolato venne nella
Plebe, concesse quello ai suoi cittadini
senza rispetto di età o di sangue; ancora
cbe il rispetto della età mai non
fusse in Roma, ma sempre si andò a
trovare la virtù, o in giovane o in vecchio
cbe la fusse. Il che si vede per
il testimone di Valerio Corvino, che fu
fatto Consolo nell! Ventitré anni: e Valerio
detto, parlando ai suoi soldati, disse come
il consolato crai prcetnium virfulisj, non
sanguinis. La qual cosa se fu bene
considerata, o no, sarebbe da disputare assai. E
quanto al sangue, fu concesso questo per
necessità ; e quella necessità che fu in
Roma, sarebbe in ogni città che volesse
fare gli effetti che fece Roma, come
altra volta si è detto: per- i! chè
e’ non si può dare agli uomini
disagio senza premio, nè si può torre la
SPERANZA di conseguire il premio senza pericolo.
E però a buona ora convenne che la Plebe
avesse speranza di avere il consolato ; e
di questa SPERANZA si nutrì un tempo
senza averlo. Dipoi non bastò la speranza,
che e’ convenne che si venisse allo
effetto. Ma la città che non adopera
la sua plebe ad alcuna cosa gloriosa,
la può trattare a suo modo, come altrove
si disputò: ma quella elle vuole fare
quel che fe Roma, non ha a fare
questa distinzione. E dato che così sia,
quella del tempo non ha replica ; anzi
è necessaria : perchè nello eleggere uno giovane
in uno grado che abbi bisogno d’ una
prudenza di vecchio, conviene, avendovelo ad
eleggere la moltitudine, che a quel grado
lo facci pervenire qualche sua nobilissima
azione. E quando un giovane è di tanta virtù, che
si sia fatto in qualche cosa notabile conoscere
; sarebbe cosa dannosissima che la città
non se «e potesse valere allora, e che
la avesse ad aspettare che fusse
invecchiato con lui quel vigore deir animo,
quella prontezza, della quale in quella età
la patria sua si poteva valere : come
si valse Roma di Valerio Corvino, di
Scipione, di Pompeio e di molti altri che
trionfarono giovanissimi. Laudano sempre gli
uomini, ma noti sempre ragionevolmente, gli
antichi tempi, e gli presenti accusano: ed
in modo sono delle cose passate partigiani,
che non solamente celebrano quelle etadi che
da loro sono state, per la memoria che
ne hanno lasciata gli scrittori, conosciute ;
ma quelle ancora che, sendo già vecchi,
si ricordano nella loro giovanezza avere
vedute. E quando questa loro oppinionc sia
falsa, come il più delle volte è, mi
persuado varie essere le cagioni che a
questo inganno gli conducono. E la prima
credo sia, che delle cose antiche non
s’intenda al tutto lu verità; e che di
quelle il più delle vollesi nasconda
quelle cose che recherebbono a quelli tempi
infamia; e quelle altre che possono partorire
loro gloria, si remlino magnifiche ed amplissime.
Però che i più degli scrittori in
modo * alla fortuna de’ vincitori ubbidiscono, che
per fare le loro vittorie gloriose, non
solamente accrescono quello che da loro è
virtuosamente operato, ma ancora le azioni
de’ nimici in modo illustrano, che
qualunque nasce dipoi in qualunque delle
due provincie, o nella vittoriosa o nella vinta,
ha cagione di maravigliarsi di quelli
uomini e di quelli tempi, ed è forzato
sommamente laudargli ed amargli. Olirà di questo,
odiando gli uomini le cose o per timore o
per invidia, vengono ad essere spente due
potentissime cagioni delP odio nelle cose
passate, non ti potendo quelle offendere, e
non ti dando cagione d’ invidiarle. Ma
al contrario interviene di quelle cose che
si maneggiano e veggono ; le quali, pei* la
intera cognizione di esse, non ti essendo
in alcuna parte nascoste* e conoscendo in quelle
insieme con il bene molte altre cose
che ti dispiacciono, sei forzato giudicarle
alle antiche molto inferiori, ancora che
in verità le presenti molto più di
quelle di gloria e di fama meritassero:
ragionando non delie cose pertinenti alle
arti, le quali hanno tanta chiarezza in
sè, che i tempi possono torre o dar loro
poco più gloria che per loro medesime
si meritino ; ma parlando di quelle
pertinenti alla vita e costumi degli
uomini, delle quali non se ne veggono
sì chiari testimoni. Replico, pertanto, essere
vera quella consuetudine del laudare e biasimare
soprascritta ; ma non essere già sempre vero
che si erri nel farlo. Perchè qualche
volta è necessario che giudichino la verità ;
perchè essendo le cose umane sempre in
molo, o le salgono, o lescendono. E vedesi
una città o una provincia essere ordinata
al vivere politico da qualche uomo
eccellente; ed, un tempo, per la virtù
di quello ordinatore, andare sempre in
augumento verso il meglio. Chi nasce allora
in tale stato, ed ei laudi più li
antichi tempi che i moderni, s’ inganna ;
ed è causato il suo inganno da quelle
cose che di sopra si sono dette. Ma
coloro che nascono dipoi, in quella città o
provincia, che gli è venuto il tempo
che la scende verso la parte più rea,
allora non s’ ingannano. E pensando io come
queste cose procedino, giudico il mondo
sempre essere stalo ad un medesimo modo,
ed in quello esser stato tanto di
buono quanto di tristo ; ma variare questo
tristo e questo buono di provincia in provincia: come
si vede per quello si ha notizia di quelli
regni antichi che variavano dall’uno all’altro
per la variazione de’ costumi; ma il mondo
restava quel medesimo. Solo vi era questa
differenza, che dove quello aveva prima collocata
la sua virtù in Assiria, la collocò
in Media, dipoi in Persia, tanto che
la ne venne in Italia ed a Roma: e se
dopo 10 imperio romano non è seguito imperio
che sia durato, nè dove il mondo abbia
ritenuta la sua virtù insieme; si vede
nondimeno essere sparsa in di molte nazioni
dove si viveva virtuosamente; come era il
regno de’ Franchi, 11 regno de’ Turchi,
quel del Soldano; ed oggi i popoli della
Magna ; e prima quella setta Saracina che
fece tante gran cose, ed occupò tanto
mondo, poiché la distrusse lo imperio
romano orientale. In tutte queste provincie,
adunque, poiché i Romani rovinorono, ed in tutte queste
sètte è stata quella virtù, ed è ancora
in alcuna parte di esse, che si desidera,
e che con vera laude si lauda. E chi
nasce in quelle, e lauda i tempi passati
più che i presenti, si potrebbe ingannare;
ma chi nasce in Italia ed in Grecia,
e non sia divenuto o in Italia oltramontano o
in Grecia turco, ha ragione di biasimare i
tempi suoi, e laudare gli altri : perchè in
quelli vi sono assai cose, che gli
fanno meravigliosi ; in questi non è cosa
alcuna che gli ricomperi da ogni estrema
miseria, infamia e vituperio: dove non è osservanza di
religione, non di leggi, non di milizia;
ma sono maculati d’ ogni ragione bruttura. E
tanto sono questi vizi più detestabili,
quanto ei sono più in coloro che
seggono prò tribunali, comandano a ciascuno, e
vogliono essere adorati. .Ha tornando al
ragionamento nostro, dico che se il
giudicio degli uomini è corrotto in
giudicare quale sia migliore, o il secolo
presente o l’antico, in quelle cose dove
per l’antichità ei non ha possuto
avere perfetta cognizione come egli ha de’
suoi tempi ; non doverrebbe corrompersi ne’
vecchi nel giudicare i lempi della gioventù
e vecchiezza loro, avendo quelli e questi egualmente
conosciuti e visti. La qual cosa sarebbe
vera, se gli uomini per tutti i tempi
della lor vita l'ussero del medesimo
giudizio, ed avessero quelli medesimi appetiti :
ma variando quelli, ancora che i tempi nou variino,
non possono parere agli uomini quelli
medesimi, avendo altri appetiti, altri diletti,
altre considerazioni nella vecchiezza, che nella
gioventù. Perchè, mancando gli uomini quando
li invecchiano di forze, e crescendo di giudizio e
di prudenza; è necessario che quelle cose
che in gioventù parevano loro sopportabili e
buone, ineschino poi invecchiando insopportabili e
cattive ; e dove quelli ne doverrebbono accusare
il giudicio loro, ne accusano i tempi.
Sendo. ultra di questo, gli appetiti umani
insaziabili, perchè hanno dalla natura di potere
e voler desiderare ogni cosa, e dalla
fortuna di potere conseguirne poche; ne
risulta continuamente una mala contentezza nelle
menti umane, ed un fastidio delle cose
che si posseggono: il che fa biasimare i
presenti tempi, laudare i passati, e desiderare i
futuri ; ancora che a fare questo non
fussino mossi da alcuna ragionevole cagione. Non so,
adunque, se io meriterò d’ essere numerato
tra quelli che si ingannano, se in
questi mia discorsi io lauderò troppo i
tempi degli antichi Romani, e biasimerò i
nostri. E veramente, se la virtù che allora
regnava, ed il vizio che ora regna,
non fussino più chiari che il sole,
andrei col parlare più rattenuto, dubitando
non incorrere in quello inganno di che
io accuso alcuni. Ma essendo la cosa
si manifesta che ciascuno la vede, sarò
animoso in dire manifestamente quello che
intenderò di quelli e di questi tempi;
acciocché gli animi de’ giovani che questi
mia scritti leggeranno, possino fuggire questi, e
prepararsi ad imitar quegli, qualunque volta la
fortuna ne dessi loro occasione. Perchè gli
è offizio di uomo buono, quel bene che
per la malignità de’ tempi e della
fortuna tu non hai potuto operare. insegnarlo
nd altri, acciocché sendone molti capaci,
alcuno di quelli, più amato dal Cielo,
possa operarlo. Ed avendo ne’ discorsi del
superior libro parlato delle deliberazioni fatte
da* Romani pertinenti al di dentro della
città, in questo parleremo di quelle, che
’\ Popolo romano fece pertinenti allo augumento dello
imperio suo. I. — Quale fu più cagione
dello imperio che acquistarono i Romani , o la
virtùj o la fortuna. Molti hanno avuta
oppinione, intra i quali è Plutarco, gravissimo
scrittore, che ’1 Popolo romano nello acquistare lo
imperio fusse più favorito dalla fortuna
che dalla virtù. Ed intra le altre ragioni
che ne adduce, dice che per confessione
di quel popolo si dimostra, quello avere
riconosciute dalla fortuna tutte le sue
vittorie, avendo quello edificati più templi
alla Fortuna, che ad alcun altro Dio. E
pare che a questa oppinione si accosti
Livio; perchè rade volte è che facci
parlare ad alcuno Romano, dove ei racconti
della virtù, che non vi aggiunga la
fortuna. La qual cosa io non voglio
confessare in alcun modo, nè credo ancora
si possa sostenere. Perchè, se non si è
trovato mai repubblica che abbi fatti i
progressi che Roma, è nato che non si è
trovata mai repubblica che sia stata
ordinata a potere acquistare come Roma. Perchè la
virtù degli eserciti gli feciono acquistare
Io imperio; e l’ordine del procedere, ed il
modo suo proprio, e trovato dal suo primo
legislatore, gli fece mantenere lo acquistato:
come di sotto largamente in più discorsi
si narrerà. Dicono costoro, che non avere
mai ac*» cozzate due potentissime guerre in
uno medesimo tempo, fu fortuna e non virtù
del Popolo romano ; perchè e’ non ebbero
guerra con i Latini, se non quando egli
ebbero non tanto battuti i Sanniti, quanto
che la guerra fu da* Romani fatta in
difensione di quelli ; non combatterono con i
Toscani, se prima non ebbero soggiogati i
Latini, ed enervati con le spesse rotte
quasi in tutto i Sanniti: che se due
di queste potenze intere si fussero, quando
erano fresche, accozzate insieme, senza dubbio
si può facilmente conietturare che ne sarebbe seguito
la rovina della romana Repubblica. Ma,
comunelle questa cosa nascesse, mai non
intervenne che eglino avessino due potentissime
guerre in un medesimo tempo: anzi parve
sempre, o nel nascere dell’ una, l’altra si
spegnesse; o nel spegnersi dell’ una, l’altra nascesse.
11 che si può facilmente vedere per T
ordine delle guerre fatte da loro: perchè,
lasciando stare quelle che feciono prima
che Roma fusse presa dai Franciosi, si
vede che, mentre che combatterno con gli
Equi e con i Volsci, mai, mentre questi
popoli furono potenti, non si levarono
contro di lor uitre genti. Domi costoro,
nacque la guerra contea ai Sanniti; e
benché innanzi che finisse tal guerra i popoli latini
si ribellassero da’ Romani, nondimeno quando
tale ribellione segui, i Sanniti erano in
lega con Roma, e con il loro esercito
aiutorono i Romani domare la insolenza latina. I
quali domi, risurse la guerra di Sannio.
Battute per molte rotte date a’ Sanniti
le loro forze, nacque la guerra de’
Toscani; la qual composta, si rilevarono di
nuovo i Sanniti per la passata di Pirro
in Italia. Il quale come fu ribattuto, e
rimandato in Grecia, appiccarono la prima guerra con
i Cartaginesi: nè {ìrima fu tal guerra
finita, che tutti i Franciosi, e di là e di
qua dall’ Alpi, congiurarono conti a i Romani;
tanto che intra Popolonia e Pisa, dove è
oggi la torre a San Vincenti, furono con
massima strage superati. Finita questa guerra,
per ispazio di venti anni ebbero guerra
di non molta importanza; perchè non
eombatterono con altri che con i Liguri, c
con quel rimanente de’ Franciosi che era in
Lombardia. E così stettero tanto che nacque
la seconda guerra cartaginese, la qual per
sedici anni tenne occupata Italia. Finita
questa con massima gloria, nacque la guerra
macedonica ; la quale tìnita, venne quella d’
Antioco e d’ Asia. Dopo la qual vittoria,
non restò in tutto il mondo nè
principe nè repubblica che, di per sè, o
tutti insieme, si potessero opporre alle
forze romane. Ma innanzi a quella ultima
vittoria, chi considerrà l’ ordine di queste
guerre, ed il modo del . procedere loro,
vedrà dentro mescolate con la fortuna una
virtù e prudenza grandissima. Talché, chi
esaminasse la cagione di tale fortuna, la
ritroverebbe facilmente: perchè gli è cosa certissima,
che come un principe e un popolo viene
in tanta riputazione, che ciascuno principe e
popolo vicino abbia di per sè paura
ad assaltarlo, e ne tema, sempre interverrà
che ciascuno d essi mai lo assalterà,
se non necessitato ; in modo che e’ sarà
quasi come nella elezione di quel polente,
far guerra con quale di quelli suoi
vicini gli parrà, e gii altri con la
sua industria quietare. I quali, parte rispetto
alla potenza suo, parte ingannati da quei
modi che egli terrà per nddormentargli, si quietano
facilmente; e gli altri potenti che sono
discosto, e che non hanno coinmerzio seco,
curano la cosa come cosa longinqua, e che
non appartenga loro. Nel quale errore
stanno tanto che questo incendio venga loro
presso : il quale venuto, non hanno rimedio
a spegnerlo se non con le forze proprie; le
quali dipoi non bastano, sendo colui diventato
potentissimo. Io voglio lasciare andare, come i
Sanniti stettero a vedere vincere dal Popolo
romano i Yolsci e gli Equi; e per non
essere troppo prolisso, mi farò da’
Cartaginesi : i quali erano di gran potenza c
di grande estimazione quando i Romani combattevano con
i Sanniti e con i Toscani ; perchè tii già
tenevano tutta 1’ Affrica, tenevano ia
Stintigna e la Sicilia, avevano dominio in
parte della Spagna. La quale polenza
loro, insieme con V esser discosto ne’ confini
dal Popolo romano, fece che non pensarono
mai di assaltare quello, nè di soccorrere i
Sanniti e Toscani: anzi fecero come si fa
nelle cose che crescono, più tosto in
lor favore collegandosi con quelli, e cercando
l’amicizia loro. Nè si avviddono prima
del1’ errore fatto, che i Romani, domi
tutti i popoli mezzi infra loro ed i Cartaginesi,
cominciarono a combattere insieme dello imperio
di Sicilia e di Spagna. Intervenne questo
medesimo a’ Franciosi che a’ Cartaginesi, e cosi
a Filippo re de’ Macedoni, e ad Antioco; e ciascuno di
loro credea, mentre che il Popolo romano
era occupato con l’altro, che quell’ altro
lo superasse, ed essere a tempo, o con
pace o con guerra, difendersi da lui. In
modo che io credo che la fortuna che
ebbono in questa parte i Romani, 1’
arebbono tutti quelli principl che
procedessero come i Romani, c fussero di
quella medesima virtù che loro. Sarebbeci
da mostrare a questo proposito il modo
tenuto dal Popolo romano nello entrare
nelle provincie d’ altri, se nei nostro
trattato de’ principati non ne avessimo
parlato a lungo ; perchè in quello questa
materia è diffusamente disputata. Dirò solo
questo brevemente, come sempre s’ingegnarono avere
nelle provincie nuove qualche amico che
fusse scala o porta a salirvi o entrarvi, o
mezzo a tenerla : come si vede che per.
il mezzo de’ Capovani entrarono in Sannio, de’
Camertini in Toscana, de’ Mamertini in
Sicilia, de’ Saguntini in Spagna, di
Massinissa iti Affrica, degli Eloli in
Grecia, di Eumene ed altri principi in
Asia, de’ Massiliensi e deili Edui in Francia. E
così non mancarono mai di simili appoggi,
per potere facilitare le imprese loro, e nello acquistare
le provincie e nel tenerle. Il che quelli
popoli che osserveranno, vedranno avere meno
bisogno della fortuna, che quelli che ne
saranno non buoni osservatori. E perchè ciascuno possa
meglio conoscere, quanto potè più la virtù
che la fortuna loro ad acquistare quello
imperio ; noi discorreremo nel seguente capitolo
di che qualità furono quelli popoli con i
quali egli ebbero a combattere, e quanto erano
ostinati a difendere la loro libertà. 11. — Con
quali popoli i Romani ebbero a combattere , e come
ostinatamente quelli difendevano la loro libertà. Nessuna
cosa fece più faticoso a* Romani superare i
popoli d* intorno, c parte delle provincie
discosto, quanto lo amore che in quelli
tempi molti popoli avevano alla libertà; la
quale tanto ostinatamente difendevano, che mai
se non da una eccessiva virtù sarebbono
stati * soggiogati. Perchè, per molti essempi si conosce
a quali pericoli si mettessino per mantenere o
ricuperare quella ; quali vendette e’
facessino contra a coloro che V avessino loro
occupata. Conoscesi ancora nelle lezioni
delle istorie, quali danni i popoli e le
città riccvino per la servitù. E dove in
questi tempi ci è solo una provincia la
quale si possa dire che abbia in sè
città libere, ne* tempi antichi in tutte
le provincie erano assai popoli liberissimi.
Vedesi come in quelli tempi de’ quali
noi parliamo al presente, in Italia, dall’
Alpi che dividono ora la Toscana dalla
Lombardia, insino alla punta d’Italia, erano
molti popoli liberi; com’erano i Toscani, i
Romani, i Sanniti, e molti altri popoli che
in quel resto d’ Italia abitavano. Nè si
ragiona mai che vi fusse alcuno re,
fuora di quelli che regnarono in Roma, e
Porsena re di Toscaua; la stirpe del
quale come si estinguesse, non ne parla
la istoria. Ma si vede bene, come in
quelli tempi che i . Romani andarono a
campo a Veio, la Toscana era libera : e
tanto si godea della sua libertà, e tanto
odiava il nome del principe, che avendo
fatto i Veienti per loro difensione un re
in Veio, e domandando aiuto a' Toscani
contra ai Romani ; quelli, dopo molte
consulte fatte, deliberarono di non dare
aiuto a’Veienti, infino a tanto che vivessino
sotto ’1 re; giudicando non esser bene
difendere la patria di coloro che V avevano
di già sottomessa ad altrui. E facil cosa è
conoscere donde nasca ne’ popoli questa affezione
del vivere libero; perchè si vede per
esperienza, le cittadi non avere mai ampliato
nè di domiuio nè di ricchezza, se non
mentre sono state in libertà. E veramente
meravigliosa cosa è a considerare, a quanta grandezza
venne Atene per ispazio di cento anni,
poiché la si liberò dalla tirannide di
Pisistrato. Ma sopra tutto meravigliosissima cosa
è a considerare, a quanta grandezza venne Roma,
poiché la si liberò da’ suoi Re. La
cagione è facile ad intendere; perchè non
il bene particolare, ma il bene comune è
quello che fa grandi le città.
E senza dubbio, questo bene comune non è
osservato se non nelle repubbliche; perchè
lutto quello che fa a proposito suo, si
eseguisce; e quantunque e’ torni in danno di
questo o di quello privato, e’ sono tanti
quelli per chi detto bene fa, che lo
possono tirare innanzi contra alla disposizione
di quelli pochi che ne fussino oppressi.
Al contrario interviene quando vi è uno
principe; dove il più delle volte quello
che fa per lui, offende la città; e
quello che fa per la città, offende
lui. Dimodoché, subito che nasce una
tirannide sopra un viver libero, il manco
male che ne resulti a quelle città, è non
andare più innanzi, nè crescere più in
potenza o in ricchezze ; ma il più delle
volte, anzi sempre, interviene loro, che le
tornano indietro. E se la sorte facesse che
vi surgesse un tiranno virtuoso, il quale ,
per animo e per virtù d’ arme ampliasse
il dominio suo, non ne risulterebbe alcuna
utilità a quella repubblica, ma a lui proprio:
perchè e’ non può onorare nessuno di quelli
cittadini che siano valenti c buoni, che egli
tiranneggia, non volendo avere ad avere
sospetto di loro. Non può ancora le
città che egli acquista, sottometterle o farle
tributarie a quella città di che egli è
tiranno: perchè il farla potente non fa
per lui; ma per lui fa tenere lo Stato
disgiunto, e che ciascuna terra e ciascuna
provincia riconosca lui. Talché di suoi acquisti,
solo egli ne profitta, e non la sua
patria. E chi volesse confermare questa oppinione
con infinite altre ragioni, legga Senofonte
nel suo trattato che fa De Tirannide.
Non è meraviglia adunque, che gli antichi popoli con
tanto odio perseguitassino i tiranni, ed
nmassiiio il vivere libero, e che il nome
della libertà fusse tanto stimato da loro:
come intervenne quando Girolamo nipote di
lerone siracusano fu morto in Siracusa, che
venendo le novelle della sua morte in
nel suo esercito, che non era molto
lontano da Siracusa, cominciò prima a
tumultuare, e pigliare 1’ armi contro agli
ucciditori di quello; ma come ei sentì
che in Siracusa si gridava libertà,
allettato da quel nome, si quietò tutto,
pose giti V ira contra a’ tirannicidi, e
pensò come iti quella città si potesse
ordinare un viver libero. Non è meraviglia
ancora, che i popoli faccino vendette
istraordinaric contra a quelli che gli hanno
occupata la libertà. Di che ci sono
stali assai esempi, de’ quali ne intendo
referire solo uno, seguilo in Coreica,
città di Grecia, ne’ tempi della guerra
peloponnesiaca; «love sendo divisa quella
provincia in due fazioni, delle quali 1’
una seguitava gli Ateniesi, V altra gli
Spartani, ne nasceva che di molte città,
che erano infra loro divise, T una parte
seguiva F amicizia di Sparta, l’altra di
Atene: ed essendo occorso clic nella detta
città prcvalessino i nobili, e togliessino la
libertà al popolo, i popolari per mezzo degli Ateniesi
ripresero le forze, e posto le mani addosso
a tutta la nobiltà, gli rinchiusero in una
prigione capace di tutti loro; donde gli
traevano ad otto o dieci per volta, sotto
titolo di mandargli in esilio iti diverse
parli, e quelli con molti crudeli essempi
facevauo morire. Di che sendosi quelli che
restavano accorti, deliberarono, in quanto era a loro
possibile, fuggire quella morte ignominiosa ; ed
armatisi di quello potevano, combattendo con
quelli vi volevano entrare, la entrata
della prigione difendevano; di modo che il
popolo, a questo romore fatto concorso, scoperse
la parte superiore di quel luogo, e quelli
con quelle rovine sufìbeorno. Seguirono ancora in
delta provincia molti altri simili casi orrendi
e notabili : talché si vede esser vero, che
con maggiore impeto si vendica una libertà
che ti è suta tolta, che quella che
li è voluta torre. Pensando dunque donde
possa nascere, che in quelli tempi antichi,
i popoli fussero più amatori della libertà
che in questi; credo nasca da quella
medesima cagione che fa ora gli uomini
manco forti : la quale credo sia la
diversità della educazione nostra dalla antica,
fondata nella diversità della religione nostra
dalla antica. Perchè avendoci la nostra religione
mostra la verità e la vera via, ci fa
stimare meno l’onore del mondo: onde i
Gentili stimandolo assai, ed avendo posto
in quello il sommo bene, erano nelle
azioni loro più feroci. Il che si può
considerare da molte loro constituzioni,
cominciandosi dalla magnificenza de’ sacrificii
loro, alla umilila de’ nostri ; dove è
qualche pompa più dilicata che magnifica,
ma nessuna azione feroce o gagliarda. Quivi
non mancava la pompa nè la magnificenza
delle cerimonie, ma vi si aggiungeva 1*
azione del sacrificio pieno di sangue e di
ferocia, ammazzandovisi moltitudine di animali :
il quale aspetto sendo terribile, rendeva gli
uomini simili a lui. La religione antica,
oltre di questo, non beatificava se non
gli uomini pieni di mondana gloria: come
erano capitani di eserciti, e principi di
repubbliche. La nostra religione ha glorificato
più gli uomini umili e contemplativi, che
gli attivi. Ha dipoi posto il sommo
bene nella umilila, abiezione, nello dispregio
delle cose umane: quell’ altra lo poneva
nella grandezza dello animo, nella fortezza
del corpo, ed in tutte le altre cose
atte a fare gli uomini fortissimi. E se la
religione nostra richiede che abbi in te
fortezza, vuole che tu sia atto a patire
più che a fare una cosa forte. Questo
modo di vivere, adunque, pare che abbi
rendutoil mondo debole, e datolo in preda
agli uomini scellerati; i quali sicuramente lo possono
maneggiare, veggendo come la università degli
uomini, per andare in paradiso, pensa più a
sopportare le sue battiture, che a vendicarle. E
benché paia che si sia effeminato il
mondo, e disarmato il cielo, nasce più
senza dubbio dalla viltà degli uomini, che
hanno interpretato la nostra religione secondo l’
ozio, e non secondo la virtù. Perchè, se
considerassino come la permette la esultazione e
la difesa della patria, vedrebbono come
la vuole che noi l’amiaino ed
onoriamo, e prepariamoci ad esser tali che
noi la possiamo difendere. Fanno adunque
queste educazioni, e si false interpretazioni,
che nel mondo non si vede tante
repubbliche quante si vedeva aulicamente; nè,
per conscguente, si vede ne’ popoli tanto
amore alla libertà quanto allora : ancora
che io creda piuttosto essere cagione di
questo, che lo imperio romano con le
sue arme e sua grandezza spense tutte le
repubbliche e lutti i viveri civili E benché
poi tal imperio si sia risoluto, non
si sono potute le città ancora rimettere
insieme nè riordinare alla vita civile, se
non in pochissimi luoghi di quello imperio.
Pure, comunelle si fusse, i Romani in ogni minima
parte del mondo trovarono una congiura di
repubbliche armatissime, ed ostinatissime atia
difesa della libertà loro. Il che mostra
che '1 Popolo romano senza una rara
ed estrema virtù mai non le arebbe
potute superare. E per darne esseinpio di
qualche membro, voglio mi basti lo essempio
de’ Sanniti : i quali pare cosa mirabile, e
Tito Livio lo confessa, che fussero sì
potenti, e 1’ arme loro si valide, che
potessero infino al tempo di Papirio
Cursore consolo, figliuolo del primo Papirio,
resistere a’ Romani (che fu uno spazio
di XLVI anni), dopo tante rotte, rovine
di terre, e tante stragi ricevute nel paese
loro; massime veduto ora quel paese dove
erano tante cittadi e tanti uomini, esser
quasi che disabitato : ed allora vi era
tanto ordine, e tanta forza, eh’ egli
era insuperabile, se da una- virtù romana
non fusse stato assaltato. E facil cosa è
considerare donde nasceva quello ordine, c donde
proceda questo disordine; perchè tutto viene dal viver
libero allora, ed ora dal viver servo. Perchè
tutte le terre e le provincie che vivono
libere in ogni parte, come di sopra
dissi, fanno i progressi grandissimi. Perchè
quivi si vede maggiori popoli, per essere i
matrimoni più liberi, e più desiderabili dagli
uomini : perchè ciascuno procrea volentieri
quelli figliuoli che crede potere nutrire,
non dubitando che il patrimonio gli sia
tolto; thè eT conosce non solamente che
nascono liberi e non schiavi, ma che
possono mediante la virtù loro diventare
principi. Veggonvisi le ricchezze multiplicare
in maggiore numero, e quelle che vengono dalla cultura,
e quelle che vengono dalle arti. Perchè
ciascuno volentieri multiplica in quella cosa, e
cerca di acquistare quei beni, che crede
acquistati potersi godere. Onde ne nasce
che gli uomini a gara pensano ai privati
ed a’ pubblici comodi; e l’ uno e l’altro
viene meravigliosamente a crescere. II contrario
di tutte queste cosesegue in quelli
paesi che vivono scivi; c tanto più mancano
del consueto bene, quanto è più dura la
servitù. E di tutte" le servitù dure,
quella è durissima che li sottomette ad una
repubblica : E una, perchè la è più durabile, e
manco si può sperare d’ uscirne; Y altra,
perchè il fine della repubblica è enervare
ed indebolire. per accrescere il corpo suo,
tutti gli altri corpi. 11 che non la
un principe che ti sottometta, quando quel principe
non sia qualche principe barbaro, destruttore
de’ paesi, e dissipatore di tutte le
civilità degli uomini, come sono i principi
orientali. Ma s’ egli ha in sè ordini
umani ed ordinari, il più delle volte
ama le città sue soggette egualmente, ed a
loro lascia T arti tutte, e quasi lutti gli
ordini antichi. Talché, se le non possono
crescere come libere, elle non rovinano
anche come serve; intendendosi della servitù
in quale vengono le città servendo ad
un forestiero, perchè di quella d’ uno loro
cittadino
ne parlai di sopra. Chi considerrù,
adunque, tutto quello che si è detto, non
si meraviglierà della potenza che i Sanniti avevano
sendo liberi, e della debolezza in che e’
vennero poi servendo: e L. ne fa fede
in più luoghi, e massime nella guerra d’
Annibaie, dove ei mostra che essendo i Sanniti
oppressi da una legione d’ uomini che
era in Nola, mandorono oratori ad Annibale,
a pregarlo che gli soccorresse; i quali nel parlar
loro dissono, che avevano per cento anni
combattuto con i Romani con i propri loro
soldati e propri loro capitani, e molte volte
avevano sostenuto duoi eserciti consolari e duoi
consoli; e che allora a tanta bassezza
erano venuti, che non si potevano a pena
difendere da una piccola legione romana che
era. III. — Roma divenne grande città rovinando
le città circonvicine , e ricevendo i forestieri
facilmente aJ suoi onori. Crescit inlerea
Roma Albce ruinis. Quelli che disegnano che
una città faccia grande imperio, si debbono
con ogni industria ingegnare di farla piena
di abitatori ; perchè senza questa abbondanza di
uomini, mai non riuscirà di fare grande
una città. Questo si fa in duoi modi;
per amore, e per forza. Per amore, tenendo
le vie aperte e secure a’ forestieri
che disegnassero venire ad abitare in
quella, acciocché ciascuno vi abiti volentieri :
per forza, disfacendo le città vicine, e mandando
gli abitatori di quelle ad abitare nella
tua città. Il che fu tanto osservato
in Roma, che nel tempo del sesto Re
in Roma abitavano ottantamila uomini da portare armi.
Perchè i Romani vollono fare ad uso del
buono cultivatore; il quale, perche una
pianta ingrossi, e possa pròdurre e maturare i
fruiti suoi, gli taglia i primi rami che
la mette, acciocché, rimasa quella virtù
nel piede di quella pianta, possino col
tempo nascervi più verdi e più fruttiferi. E
che questo modo tenuto per ampliare e fare
imperio, fusse necessario e buono, lo dimostra Io
essempio di Sparta e di Atene : le quali
essendo due repubbliche armatissime, ed ordinate
di ottime leggi, nondimeno non si
condussono alla grandezza dello imperio romano; e
Roma pareva più tumultuaria, e non tanto bene
ordinata quanto quelle. Di che non se
ne può addurre altra cagione, che la
preallegata: perchè Roma, per avere ingrossato
per quelle due vie il corpo della sua
città, potette di già mettere in arme
dugentottantamila uomini; e Sparta ed Atene non
passarono mai ventimila per ciascuna. Il
che nacque, non da essere il sito di
Roma più benigno che quello di coloro,
ma solamente da diverso modo di procedere. Perché
Licurgo, fondatore della repubblica spartana ,
considerando nessuna cosa potere più facilmente
risolvere le sue leggi che la commistione
di nuovi abitatori, fece ogni cosa perchè i
forestieri non avessino a conversarvi: ed, oltre
al non gli ricevere ne’ matrimoni, alla
civiltà, ed alle altre conversazioni che
fanno convenire gli uomini insieme, ordinò
che in quella sua repubblica si spendesse
monete di cuoio, per tor via a ciascuno
il desiderio di venirvi per portarvi
mercanzie, o portarvi alcuna arte; di qualità
che quella città non potette mai ingrossare
di abitatori. E perchè tutte le azioni
nostre imitano la natura, non è possibile
nè naturale che uno pedale sottile sostenga
un ramo grosso. Però una repubblica piccola
non può occupare città nè regni che siano più
validi nè più grossi di lei; e se
pure gli occupa, gP interviene come a quello
albero che avesse più. grosso il ramo
che ’l piede," che sostenendolo con
fatica, ogni piccolo vento lo fiacca: come si
vede che intervenne a Sparla, la quale avendo
occupate tutte le città di Grecia, non
prima se gli ribellò Tebe, che tutte P
altre cittadi se gli ribellarono, e rimase
i! pedale solo senza rami. Il che non
potette intervenire a Roma, avendo il piè
si grosso, che qualunque ramo poteva
facilmente sostenere. Questo modo adunque di
procedere, insieme con gli altri che di
sotto si diranno, fece Roma grande e
potentissima. Il che dimostra L. in due
parole, quando disse: Crcscit intcrea Roma
Albce ruinis. IV. — Le repubbliche hanno tentili
tre modi circa lo ampliare. Chi ha
osservato le antiche istorie, Iruova come
le repubbliche hanno tre modi circa lo
ampliare. L* uno è stato quello che
osservorono i Toscani antichi, di essere una
lega di più repubbliche insieme, dove
non sia alcuna che avanzi l’ altra nè
di autorità nè di grado; e nello
acquistare, farsi 1’ altre città compagne, in
simil modo come in questo tempo fanno i
Svizzeri, e come nei tempi antichi feciono
in Grecia gli Achei e gli Etoli. E perchè
gli Romani feciono assai guerra con i Toscani,
per mostrar meglio la qualità di questo
primo modo, ini distenderò in dare notizia
di loro particolarmente. In Italia, innanzi allo imperio
romano, furono i Toscani per mare e per
terra potentissimi: e benché delle cose loro
non ce ne sia particolare istoria, pure
c’è qualche poco di memoria, e qualche
segno della grandezza loro; e si sa
come e* mandarono una colonia in su
’l mare di sopra, la quale chiamarono
Adria, che fu si nobile, che la dette
nome a quel mare che ancora i Latini
chiamano Adriatico. Intendesi ancora, come
le loro arme furono ubbidite dal Tevere
per infìno ai piè dell’ Alpi, che ora
cingono il grosso di Italia; non ostante
che dugento anni innanzi che i Romani
crescessino in molte forze, detti Toscani
perderono lo imperio di quel paese che
oggi si chiama la Lombardia; la quale
provincia fu occupata da’ Franciosi : i quali
mossi o da necessità, o dalla dolcezza dei
frutti, e massime del viuo, vennono in Italia sotto
Bellovcso loro duce; e rotti e cacciati i
provinciali, si posono in quel luogo, dove
edificarono di molte cittadi, e quella provincia
chiamarono Gallia, dal nome che tenevano
allora ; la quale tennono fino che da’
Romani fussero domi. Vivevano, adunque, i Toscani
con quella equalità , e procedevano nello ampliare in
quel primo modo che di sopra si dice:
e furono dodici città, tra le quali era
Chiusi, Yeio, Fiesole, Arezzo, Volterra, e
simili: i quali per via di lega governavano
lo imperio loro; nè poterono uscir d’Italia
con gli acquisti ; e di quella ancora
rimase intatta gran parte, per le cagioni
che di sotto
si diranno. V altro modo è farsi compagni j
non tanto però che non ti rimanga il
grado del comandare, la sedia dello imperio
ed il titolo delle imprese : il quale
modo fu osservato da’ Romani. 11 terzo
modo è farsi immediate sudditi, e non compagni;
come fecero gli Spartani e gli Ateniesi.
De' quali tre modi, questo ultimo è al
tutto inutile; come c’ si vide che fu
nelle sopraddette due repubbliche: le quali
non rovinarono per altro, se non per
avere acquistato quel dominio che le non
potevano tenere. Perchè, pigliar cura di
avere a governare città con violenza, massime quelle
che tassino consuete a viver libere, è una
cosa diffìcile e faticosa. E se tu non
sei armato e grosso d’ armi, non le
puoi nè comandare nè reggere. Ed a voler
esser così fatto, è necessario farsi compagni
che ti aiutino ingrossare la tua città
di popolo. E perchè queste due città non
feciono nè1’ uno nè I’ altro, il
modo del procedere loro fu inutile. E
perché Roma, la quale è nello esempio del
secondo modo, fece l’uno e T altro; però
salse a tanta eccessiva potenza. E perchè la è
stata sola a vivere cosi, è stata ancora
sola a diventar tanto potente : perchè, avendosi ella
fatti di molti compagni per tutta Italia, i
quali in di molte cose con eguali leggi
vivevano seco; e dall’ altro canto» come di
sopra è detto, sendosi riservato sempre la
sedia dello imperio ed il titolo del
comandare; questi suoi com-pagni venivano, che
non se ne avvedevano, con le fatiche e
con il sangue loro a soggiogar sè stessi.
Perchè, come cominciorono a uscire con gli
eserciti di Italia, e ridurre i regni in
provincie, e farsi soggetti coloro che per esser
consueti a vivere sotto i Re, non si
curavano d* esser soggetti; ed avendo governadori
romani, ed essendo stati vinti da eserciti
con ii titolo romano ; non riconoscevano
per superiore altro che Roma. Di modo
che quelli compagni di Roma che erano
in Italia, si trovarono in un tratto
cinti da’ sudditi romani, cd oppressi da
una grossissima città come era Roma ; e
quando e’ si avviddono dello inganno sotto
i! quale erano vissuti, non furono a tempo
a rimediarvi: tanta autorità aveva presa Roma
con le provincie esterne, e tanta forza si
trovava in seno, avendo la sua città
grossissima ed armatissima. E benché quelli suoi
compagni, per vendicarsi delle ingiurie, gli
congiurassino contea, furono in poco tempo
perditori della guerra, peggiorando le loro
condizioni; perchè di compagni, diventarono ancora
loro sudditi. Questo modo di procedere,
come è detto, è stato solo osservato da’
Romani: nè può tenere altro modo una
repubblica che voglia ampliare; perchè la
esperienza non te ne ha mostro nessuno
più certo o più vero. 11 modo preallegato
delle leghe, come viverono i Toscani, gii
Achei e gli Etoli, e come oggi vivono i
Svizzeri, è dopo a quello de’ Romani il miglior
modo; perchè non si potendo con quello
ampliare assai, ne seguitano duoi beni: l’
uno, che facilmente non ti tiri guerra
addosso; l’altro, che quel tanto che tu
pigli, lo tieni facilmente. La cagione del
non potere ampliare, è lo essere una
repubblica disgiunta, e posta in varie
sedi: il che fa che difficilmente possono
consultare e deliberare. Fa ancora che non
sono desiderosi di dominare: perchè essendo
molte comunità a* participarc di quel
dominio, non istimano tanto tale acquisto,
quanto fa una repubblica sola, che spera
di goderselo tutto. Governansi, oltra di questo,
per concilio, c conviene che siano più
tardi ad ogni deliberazione, che quelli che
abitano dentro ad un medesimo cerchio.
Vedesi ancora per esperienza, che simile
modo di procedere ha un termine fisso,
il quale non ci è esempio che mostri
che si sia trapassato: e questo è di
aggiugnere a dodici o quattordici comunità ;
dipoi non cercare di andare più avanti :
percliè sendo giunti al grado che par
loro potersi difendere da ciascuno, non
cercano maggiore dominio ; sì perchè la necessità
non gli stringe di avere piò potenza; si
per non conoscere utile negli acquisti, per
le cagioni dette di sopra. Perchè gli
arebbono a fare una delle due cose; o
seguitare di farsi compagni, e questa
moltitudine farebbe confusione; o gli arebbono a
farsi sudditi : e perchè e’ veggono in
questo difficultà, e non molto utile nel
tenergli, non lo stimano. Pertanto, quando
e’ sono venuti a tanto numero che paia
loro vivere sicuri, si voltano a due cose:
P una a ricevere raccomandati, e pigliare protezioni ;
c per questi mezzi trarre da ogni parte
danari, i quali facilmente intra loro si
possono distribuire: 1* altra è militare per
altrui, e pigliar stipendio da questo e da
quello principe che per sue imprese gli
soldo ; come si vede che fanno oggi i
Svizzeri, e come si legge che facevano i
preallegati. Di che il* è testimone Tito
Livio, dove dice che, venendo a parlamento
Filippo re di Macedonia con Tito Quinzio
Flamminio, e ragionando d'accordo alla presenza
d’ un pretore degli Etoli ; in venendo a
parole detto pretore con Filippo, gli fu
da quello rimproverato la avarizia e la
infidelità, dicendo che gli Etoli non si
vergognavano militare con uno, e poi mandare
loro uomini ancora al servigio del nimico ;
talché molte volte intra dnoi contrari
eserciti si vedevano le insegne di Etolia.
Conoscesi, pertanto, come questo modo di
procedere per leghe, è stato sempre simile, ed
ha fatto simili effetti. Vedesi ancora, che
quel modo di fare sudditi è stato sempre
debole, ed avere fatto piccoli profitti; e
quando pure egli hanno passato il modo,
essere rovinati tosto. E se questo modo di
fare sudditi è inutile nelle repubbliche armate,
in quelle che sono disarmate è inutilissimo:
come sono state ne’ nostri tempi le
repubbliche di Italia. Conoseesi, pertanto,
essere vero modo quello che tennono i
Romani 5 il quale è tanto più mirabile,
quanto e’ non ee il’ era innanzi a
Roma essempio, e dopo Roma non è stalo
alcuno elio gli abbi imitati. E quanto alle
leghe, si trovano solo i Svizzeri e la lega
di Svevia che gli imita. E, come
nel fine di questa materia si dirà,
tanti ordini osservati da Roma, così
pertinenti alle cose di dentro come a
quelle di fuora, non sono ne* presenti nostri
tempi non solamente imitati, ma non n’è
tenuto alcuno conto ; giudicandoli alcuni non veri,
alcuni impossibili, alcuni non a proposito
ed inutili : tanto che standoci con questa
ignoranza, siamo preda di qualunque ha voluto
correre questa provincia. E quando la imitazione
de’ Romani paresse difficile, non doverrebhe parere
cosi quella degli antichi Toscani, massime
a’ presenti Toscani. Perchè, se quelli non
poterono, per le cagioni dette, fare uno
imperio simile a quel di Roma, poterono
acquistare in Italia quella potenza che
quel modo del procedere concesse loro. 11
che fu per un gran tempo securo, con
somma gloria d’ imperio e d’arme, e massima
laude di costumi e di religione. La
qual potenza e gloria fu prima diminuita
da’ Franciosi, dipoi spenta da’ Romani; e fu
tanto spenta, che, ancora che duemila anni
fa la potenza de’ Toscani fusse grande,
al presente non ce n’ è quasi memoria. La qual
cosa mi ha fatto pensare donde nasca
questa oblivione delle cose: come '
nel seguente capitolo si discorrerà. V. —
Che la variazione delle sèlle e delle lingue
insieme con l'accidente de' diluvi o delle
pesti j spegno la
memoria delle cose. A quelli FILOSOFI che hanno
voluto che’l mondo sia stato eterno, credo
che si potesse reificare, che se tanta
antichità fusse vera, e’ sarebbe ragionevole che ci
fusse memoria di più che cinque mila
anni; quando e’ non si vedesse come
queste memorie de* tempi per diverse
cagioni si spengano: delle quali parte
vengono dagli nomini, parte dal cielo.
Quelle che vengono dagli uomini, sono LE
VARIAZIONI DELLE SETTE E DELLE LINGUE. Perchè quando surge
una setta nuova, cioè una religione nuova,
il primo studio suo è, per darsi
reputazione, estinguere la vecchia; e quando egli
occorre che gli ordinatori delia nuova setta
siano di lingua diversa, la spengono
facilmente. La qual cosa si conosce
considerando i modi che ha tenuti la
religione cristiana contra alla SETTA GENTILE;
la quale ha cancellati tutti gli ordini,
tutte le ceremonie di quella, e spenta
ogni memoria di quella antica teologia.
Vero è che non gli è riuscito spegnere in
tutto la notizia delle cose fatte dagli
uomini eccellenti di quella : il die è
nato per AVERE QUELLA MANTENUTA LA LINGUA LATINA; il
che fecero forzatamente, avendo a scrivere questa legge
nuova con essa. Perchè, se V avessino
potuta scrivere con nuova lingua, considerato
le altre persecuzioni gli feciono, non
ci sarebbe ricordo alcuno delle cose
passate. E chi legge i modi tenuti da san
Gregorio e dagli altri capi della religione
cristiana, vedrà con quanta ostinazione e’
perseguitarono tutte le memorie antiche, ardendo
P opere de* poeti e delli istorici, minando le
immagini, e guastando ogni altra cosa che
rendesse alcun segno della antichità. Talché,
se a questa persecuzione egli avessino aggiunto
una nuova lingua, si sarebbe veduto in
brevissimo tempo ogni cosa dimenticare. È da
credere, pertanto, che quello che ha voluto
fare la religione cristiana contra alla setta gentile,
la gentile abbi fatto contra u quella
che era innanzi a lei. E perchè queste
sètte in cinque o in seimila anni variarono
due o tre volle, si perdè in memoria
delle cose fatte innanzi a quel tempo. E se
pure ne resta alcun segno, si considera
come cosa favolosa, e non è prestato loro
fede : come interviene alla istoria di
Diodoro Siculo, che benché e’ renda ragione
di quaranta o cinquanta mila anni, nondimeno è
riputata, come io credo che sia, cosa
mendace. Quanto alle cause che vengono dal
cielo, sono quelle che spengono la umana generazione,
e riducono a pochi gli abitatori di parte
del mondo. E questo viene o per peste o per
fame o per una inondazione d* acque : e la
più importante è questa ultima, sì perchè
la è più universale, sì perchè quelli
che si salvano sono uomini tutti montanari
e rozzi, i quali non avendo notizia di
alcuna antichità, non la possono lasciare a’
posteri. E se infra loro si salvasse alcuno
che ne avesse notizia, per farsi riputazione
e nome, la nasconde, e la perverte a suo
modo ; talché ne resta solo a* successori
quanto ei ne ha voluto scrivere, e non
altro. E che queste inondazioni, pesti e fami
venghino, non credo sia da dubitarne; sì
perchè ne sono piene tutte le istorie,
sì perchè si vede questo effetto della
oblivione delle cose, sì perchè e’ pare ragionevole
che sia: perchè la natura, come ne’ corpi semplici,
quando vi è ragunato assai materia superflua,
muove per sè medesima molte volte, e fa
una purgazione, la quale è salute di quel
corpo ; così interviene in questo corpo
misto della umana generazione, che quando
tutte le provincie sono ripiene di
abitatori, in modo che non possono vivere,
nè possono andare altrove, per esser occupati e
pieni tutti i luoghi; e quando la astuzia e
malignità umana è venuta dove la può
venire, conviene di necessità che il mondo
si purghi per uno de’ tre modi ;
acciocché gli uomini essendo divenuti pochi e
battuti, vivano più comodamente, e diventino
migliori. Era adunque, come di sopra è
detto, già tu Toscana potente, piena di
religione e di virtù ; aveva i suoi costumi
e la sua LINGUA PATRIA: il che tutto è
stato spento dalla potenza romana. Talché,
come si è detto, di lei ne rimane
solo la memoria del nome. Vi. — Come i
Romani procedevano nel fare la guerra. Avendo
discorso come i Romani procedevano nello
ampliare, discorreremo ora come e’ procedevano
nel fare la guerra ; ed in ogni loro
azione si vedrà con quanta prudenza ei
diviarono dal modo universale degli altri,
per fa-
cilitarsi la via a venire a una suprema grandezza.
La intenzione di chi fa guerra per
elezione, o vero per ambizione, è acquistare e
mantenere lo acquistato; e procedere in modo
con esso, che I’ arricchisca c non
impoverisca il paese e la patria sua. È
necessario dunquc, e nello acquistare e nel
mantenere, pensare di non spendere; anzi
far ogni cosa con utilità del pubblico suo.
Chi vuol fare tutte queste cose, conviene
che tenga lo stile e modo romano: il
quale fu in prima di fare le guerre, come
dicono i Franciosi, corte e grosse; perchè,
venendo in campagna con eserciti grossi,
tutte le guerre eh’ egli ebbono co’ Latini,
Sanniti e Toscani le espedirono in brevissimo
tempo. E se si noteranno tutte quelle che
feciono dal principio di Roma infino alla
ossidione de’ Yeienti, tutte si vedranno
espedite, quale in sei, quale in dieci, quale
inventi di. Perchè l’uso loro era questo: subito
che era scoperta la guerra, egli uscivano
fuori con gli eserciti all’ incontro del
nimico, e subito facevano la giornata. La
quale vinta, i nimici, perchè non fussc
guasto loro il contado affatto, venivano
alle condizioni; ed i Romani gli
condennavano in terreni: i quali terreni
gli convertivano in privati comodi, o gli
consegnavano ad una colonia; la quale posta
in su le frontiere di coloro, veniva
ad esser guardia de’ confini romani, con
utile di essi coloni, che avevano quelli
campi, e con utile del pubblico di Roma,
che senza spesa teneva quella guardia. Nè
poteva questo modo esser più seeuro, o più
forte, o piu utile: perchè mentre che i
nimici non erano in su i campi, quella
guardia bastava : come e’ fussino usciti fuori grossi
per opprimere quella colonia, ancora i Romani
uscivano fuori grossi, e venivano a giornata con
quelli; e fatta e vinta la giornata, imponendo
loro più gravi condizioni, si tornavano in
casa. Così venivano ad acquistare di mano in
mano riputazione sopra di loro, e forze
in sè medesimi. E questo modo vennono
tenendo infino che mutorno modo di
procedere in guerra: il che fu dopo
la ossidione de’ Veienti ; dove, pei*potere
fare guerra lungamente, gli ordinarono di
pagare i soldati, che prima, per non
essere necessario, essendo le guerre brevi,
non gli pagavano. E benché i Rotflani
dessino il soldo, e che per virtù di
questo ei potessino fare le guerre più
lunghe, e per farle più discosto la
necessità gli tenesse più in su’ campi ;
nondimeno non variarono mai dal primo
ordine di finirle presto, secondo il luogo
ed il tempo; nè variarono mai dal
mandare le colonie. Perchè nel primo ordine
gli tenne, circa il fare le guerre
brevi, olirà il loro naturale uso, T
ambizione de’ Consoli ; i quali avendo a
stare un anno, e di quello anno sei
mesi alle stanze, volevano finire la guerra
per trionfare. Nel mandare le colonie, gli
tenne 1’ utile e la comodità grande
che ne risultava. Variarono bene alquanto
circa le prede, delie quali non erano
cosi liberali come erano stati prima ; sì
perchè e* non pareva loro tanto necessario,
avendo i soldati lo stipendio; sì perchè
essendo le prede maggiori, disegnavano d*
ingrassaie di quelle in modo il
pubblico, che non lussino constretti a fare
le imprese con tributi della città. li *
quale ordine in poco tempo fece il
loro erario ricchissimo. Questi duoi modi,
adunque, e circa il distribuire la preda, e
circa il mandar le colonie, feciono che
Roma arricchiva della guerra j dove gli altri principi
e repubbliche non savie ne impoveriscono. E
ridusse la cosa in termine, che ad un
Consolo non pareva poter trionfare, se non
portava col suo trionfo assai oro ed
argento, e d’ ogni altra sorte preda, nello
erario. Cosi i Romani con i soprascritti
termini, e coti il finire le guerre presto,
sendo contenti con lunghezza straccare i nemici, e
con rotte e con le scorrerie e con accordi
a loro avvantaggi, diventarono sempre più ricchi
e più potenti. VII — Quanto terreno i Romani davano
per colono. Quanto terreno i Romani
distribuiisino per colono, credo sia molto
diffìcile trovarne la verità. Perchè io
credo ne dessino più o manco, secondo i luoghi dove
e* mandavano le colonie. E giudicasi che ad
ogni modo ed in ogni luogo la
distribuzione fusse parca : prima, per poter
mandare più uomini, sendo quelli diputati
per guardia di quel paese; dipoi perchè
vivendo loro poveri a caso, non era
ragionevole che volessino che I loro uomini
abbondassino troppo fuora. E Tito Livio
dice, come preso Veio e’ vi mandorno
una colonia, e distribuirono a ciascuno tre
iugeri e sette once di terra; che sono
al modo nostro. Perchè, oltre alle cose soprascritte,
e’ giudicavano che non lo assai terreno,
ma il bene coltivato bastasse. È necessario
bene, che tutta la colonia abbi campi
pubblici dove ciascuno possa pascere il suo
bestiame, e selve dove prendere del legname
per ardere ; senza le quali cose non
può una colonia ordinarsi. Vili. — La cagione
perchè i popoli si partono da * luoghi patriij cd
inondano il paese altrui. Poiché di sopra
si è ragionato del modo nel procedere della
guerra osservato da’ Romani, c come i Toscani
furono assaltati da* Franciosi ; non mi pare alieno
dalla materia discorrere, come e’ si fanno
di due generazioni guerre. L’una è fatta
per ambizione de* principi o delle repubbliche,
che cercano di propagare lo imperio; come
furono le guerre che fece Alessandro Magno,
e quelle che feciono i Romani, e quelle che
fanno ciascuno di, 1* una potenza con F
altra. Le quali guerre sono pericolose, ma
non cacciano al tutto gli abitatori d*
una provincia ; perchè e’ basta al
vincitore solo la ubbidienza de’ popoli, e
il più delle volte gli lascia vivere
con le loro leggi, e sempre con le
loro case, e ne’ loro beni. L’altra
generazione di guerra è, quando un popolo
intero con tutte le sue famiglie si
beva d’ uno luogo, necessitato o dalla fame
o dalla guerra, e va a cercare nuova sede e
nuova provincia; non per comandarla, come quelli di
sopra, ma per possederla tutta particolarmente, e
cacciarne o ammazzare gli abitatori antichi di
quella. Questa guerra è crudelissima e paventosissima. E
di queste guerre ragiona Salustio nel fine
dell’ Iugurtiuo, quando dice che vinto lugurta,
si senti il moto de’ Franciosi che venivano
in Italia : dove e’ dice che ’l Popolo
romano con tutte le altre genti combattè
solamente per chi dovesse comandare, ma con
i Franciosi si combattè sempre per la
salute di ciascuno. Perchè ad un principe o
una repub-
spegnere solo coloro che comandano ; ma a
queste popolazioni conviene spegnere ciascuno,
perchè vogliono vivere di quello che altri
viveva. I Romani ebbero tre di queste
guerre pericolosissime. La prima fu quella
quando Roma fu presa, la quale fu
occupata da quei Franciosi che avevano
tolto, come di sopra si disse, la Lombardia
a’ Toscani, e fattone loro sedia; della quale L.
ne allega due cagioni: la prima, come
di sopra si disse, che furono allettati
dalla dolcezza delle frutte, c del vino di
Italia, delle quali mancavano in Francia;
la seconda che, essendo quel regno francioso moltiplicato
in tanto di uomini, che non vi si
potevano più nutrire, giudicarono i principi di
quelli luoghi, che fusse necessario che una
parte di loro andasse a cercare nuova
terra; e fatta tale deliberazione, elcssono per
capitani di quelli che si avevano a
partire, Belloveso e Sicoveso, duoi re de’
Franciosi : de’ quali Belloveso venne in
Italia, e Si» coveso passò in Ispagna.
Dalla passata del quale Belloveso, nacque
la occupazione di Lombardia, c quindi la guerra che
prima i Franciosi fecero a Roma. Dopo questa,
fu quella che fecero dopo la prima
guerra cartaginese, quando tra Piombino e Pisa
ammazzarono più che dugentomila Franciosi. La
terza fu quando i Todeschi e Cimbri vennero
in Italia : i quali avendo vinti più
eserciti romani, furono vinti da Mario.
Vinsero adunque i Romani queste tre guerre
pericolosissime. Ne era necessario minore virtù a
vincerle; perchè si vede poi, come la virtù
romana mancò, e che quelle arme perderono
il loro antico valore, fu quello imperio
distrutto da simili popoli : i quali furono
Goti, Vandali c simili, che occuparono tutto
lo imperio occidentale. Escono tali popoli
de* paesi loro, rome di sopra si
disse, cacciati dalla necessitò: e la necessitò
nasce o dalla fame, o da una guerra ed
oppressione clic ne’ paesi propri è loro fatta;
talché e’ sono constretti cercare nuove
terre. E questi tali, o e’ sono grande
numero ; ed allora con violenza entrano
ne' paesi altrui, ammazzano gli abitatori,
posseggono i loro beni, fanno uno nuovo regno,
mutano il nome della provincia: come fece
Moisè, e quelli popoli che occuparono lo
imperio romano. Perchè questi nomi nuovi
che sono nella Italia e nelle altre
provincie, non nascono da altro che da
essere state nomate così da’ nuovi occupatoci
: come è la Lombardia, che si chiamava
Gallia Cisalpina: la Francia si chiamava
Gallia Transalpina, ed ora è nominata da’
Franchi, chè cosi si chiamavano quelli
popoli che la occuparono: la Schiavoniu si
chiamava Illiria, l’Ungheria Pannonia; l’Inghilterra
Britannia: c molte altre provincie che hanno mutato
nome, le quali sarebbe tedioso raccontare.
Moisè ancora chiamò Giudea quella parte di
Soria occupata da lui. E perchè io ho
detto di sopra, che qualche volta tali
popoli sono cacciati della propria sede per
guerra, donde -sono constretti cercare nuove
terre; ne voglio addurre lo essempio de’
Maurusii, popoli anticamente in Soria : i quali,
sentendo venire i popoli ebraici, e giudicando
non poter loro resistere, pensarono essere
meglio salvare loro medesimi, t* lasciare
il paese proprio, che per volere salvare
quello, perdere ancora loro; e levatisi con
loro famiglie, se ne andarono in Affrica,
dove posero la loro sedia, cacciando via
quelli abitatori che in quelli luoghi
trovarono. G così quelli che non avevano
potuto difendere il loro paese, poterono
occupare quello d’ altrui. E Procopio, che
scrive la guerra che fece Bellisario co’
Vandali occupatori della Affrica, riferisce aver
letto lettere scritte in certe colonne ne’
luoghi dove questi Maurusii abitavano, le
quali dicevano : S os Maurusii , qui fugimus a
facie Jesu latronis filii flava. Dove
apparisce In cagione della partita loro di
Soria. Sono, pertanto, questi popoli formidolosissimi, sendo
cacciati da una ultima necessità ; e s’
egli non riscontrano buone armi, non saranno
mai sostenuti. Ula quando quelli che sono
constretti abbandonare la loro patria non
sono molti, non sono sì pericolosi come
quelli popoli di chi si è ragionato;
perchè non possono usare tanta violenza, ma
conviene loro con arte occupare qualche
luogo, e, occupatolo, mantenervisi per via
di amici e di confederali : come si vede
che fece ENEA, Didone, i Massiliesi e simili ; i
quali lutti, per consentimento de’ vicini,
dove e’ posorno, poterono mantenervisi. Escono i popoli
grossi, e sono usciti quasi tutti de’ paesi
di Scizia ; luoghi freddi e poveri: dove,
per essere assai uomini, cd il paese
di qualità da non gli potere nutrire,
sono forzati uscire, avendo molte cose che
gli cacciano, e nessuna che gli ritenga. E
se da cinquecento anni in qua, non è
occorso che alcuni di questi popoli abbino
inondato alcuno paese, è nato per più
cagioni. La prima, la grande evacuazione
che fece quel paese nella declinazione
dello imperio; donde uscirono più di trenta
popolazioni. La seconda è che la Magna e 1’
Ungheria, donde ancora uscivano di queste
genti, hanno ora il loro paese bonificato
in modo, che vi possono vivere agiatamente;
talché non sono necessitati di mutare luogo. Dall’
altra parte, sendo loro uomini bellicosissimi,
sono come uno bastione a tenere che
gli Sciti, i quali con loro confinano, non
presumino di potere vincergli o passargli. E
spesse volte occorrono movimenti grandissimi da’
Tartari, che sono dipoi dagli Ungheri e da
quelli di Polonia sostenuti; e spesso si
gloriano, che se non fussino 1’ arme
loro, la Italia e la Chiesa arebbe molle
volle sentito il peso degli eserciti
tartari. E questo voglio basti quanto a’
prefati popoli. IX. Quali cagioni comunemente faccino
nascere le guerre intra i polenti. La
cagione che fece nascere guerra intra i
Romani ed i Sanniti, che erano stati in
lega gran tempo, è una cagione comune che
nasce infra tutti i principati potenti. La
qual cagione o la viene a caso, o la è
fatta nascere da colui che desidera muovere
la guerra. Quella che nacque intra i Romani
ed i Sanniti, fu a caso; perchè la
intenzione de’ Sanniti non fu, muovendo guerra
a’Sidicini, e dipoi a’ Campani, muoverla ai
Romani. .\Ia sendo i Campani oppressati, e ricorrendo a
Roma fuora della oppinione de’ Romani e de’
Sanniti, furono forzati, dandosi i Campani ai
Romani, come cosa loro difendergli, e pigliare
quella guerra che a loro parve non potere
con loro onore fuggire. Perchè e’pareva
benea’Romani ragionevole non potere difendere i
Campani come amici, eontra ai Sanuiti
amici, ma pareva ben loro vergogna non
gli difendere come sudditi, ovvero raccomandali;
giudicando, quando e’ non avessino presa
tal difesa, torre la via a tutti quelli
che disegnassino venire sotto la potestà
loro. Ed avendo Roma per fine lo
imperio e la gloria, e non la quiete,
non poteva ricusare questa impresa. Questa
medesima cagione dette principio alla prima
guerra conira a’ Cartaginesi, per la
difensione che i Romani presono de*
Messinesi in Sicilia: la quale fu ancora a
caso. Ma non fu
già a caso di poi la seconda guerra
che nacque infra loro; perchè Annibaie capitano
Cartaginese assaltò i Saguntini amici de’ Romani
in Ispagna, non per offendere quelli, ma
per muovere l’arme romane, ed avere
occasione di combatterli, c passare in Italia.
Questo modo nello appiccare nuove guerre è stato sempre
consueto intra i potenti, e che si hanno e
della fede, e d’altro, qualche rispetto. Perchè,
se io voglio fare guerra con uno
principe, ed infra noi siano fermi capitoli
per un gran tempo oservati, con altra
giustificazione e con altro colore assalterò io
un suo amico che lui proprio 5 sappiendo
massime, che nello assaltare lo amico, o ci
si risentirà, ed io arò V intento mio
di fargli guerra ; o non si risentendo, si
scuoprirà la debolezza o la infidelità sua
di non difendere un suo raccomandato. E 1’
una e I' altra di queste due cose è
per torgli riputazione, e per fare più facili i
disegni miei. Debbesi notare, adunque, e per
la dedizione de' Campani, circa il muovere
guerra, quanto di sopra si è detto; e
di più, qual rimedio abbia una città
che non si possa per sè stessa difendere,
e voglisi difendere in ogni modo da quel
clic l'assalta: il quale è darsi Uberamente a
quello che tu disegni che ti difenda;
come feciono i Capovani ai Romani, ed i
Fiorentini al ré Roberto di Napoli : il
quale non gli volendo difendere come amici,
gli difese poi come sudditi contra alle
forze di Castruceio da Lucca, die gli
opprimeva. X. — I danari non sono il nervo della
guerra j secondo che è la comune oppi ninne. Perchè
ciascuno può cominciare una guerra a sua
posta, ma non finirla, debbe uno principe,
avanti che prenda una impresa, misurare le
forze sue, e secondo quelle governarsi. Ma
debbe avere tanta prudenza, che delle sue
forze ei non s’inganni; ed ogni volta
s’ingannerà, quando le misuri o dai danari, o dal
sito, o dalla benivoienza degli uomini, mancando
dall’ altra parte d’ arme proprie. Perchè
le cose predette ti accrescono bene le
forze, ma le non te ne danno ; e per sè
medesime sono nulla ; e non giovano alcuna
cosa senza l’arme fedeli. Perchè i danari
assai, non ti bastano senza quelle; non
ti giova la fortezza de! paese; e la fede
‘e benivoienza
degli uomini non dura, perchè questi non
ti possono essere fedeli, non gli potendo
difendere. Ogni monte, ogni lago, ogni
luogo inaccessibile diventa piano, dove i forti
difensori mancano. I danari ancora non solo
non ti difendono, ina ti fanno predare
più presto. Nè può essere più falsa
quella comune oppinione che dice che i
danari sono il nervo della guerra. La
quale sentenza è detta da Quinto Curzio
nella guerra che fu intra A'ntipatro
macedone c il re spartano: dove narra, che
per difetto di danari il re di Sparta
fu necessitato azzuffarsi, e fu rotto; che
se ei differiva la zuffa pochi giorni,
veniva la nuova in Grecia della morte
di Alessandro, donde e* sarebbe rimaso
vincitore senza combattere. Ma mancandogli i
danari, e dubitando che lo esercito suo per
difetto di quelli non Io abbandonasse, fu
constretto tentare la fortuna della zuffa:
talché Quinto Curzio per questa cagione
afferma, i danari essere il nervo della
guerra. La qual sentenza è allegata ogni
giorno, v da’ principi non tanto prudenti
che basti, seguitata. Perchè, fondatisi sopra quella,
credono che basti loro a difendersi avere
tesori assai, e non pensano che se ’1
tesoro bastasse a vincere, che Dario arebbe
vinto Alessandro, i Greci nrebbon vinti i Romani;
ne’ nostri tempi il duca Carlo arebbe vinti
i Svizzeri; e pochi giorni sono, il Papa ed
i Fiorentini insieme non arebbono avuta
difficultà in vincere Francesco Maria, nipote
di papa Giulio II, nella guerra di Urbino.
Ma tutti i soprannominali furono vinti da
coloro che non il danaro, ma i buoni
soldati stimano essere il nervo della
guerra. Intra le altre cose che Creso
re di Lidia mostrò a Solone ateniese, fu
un tesoro innumerabile ; c domandando quel che
gli pareva della potenza sua, gli rispose
Solone, che per quello non lo giudicava
più potente; perchè la guerra si faceva
col ferro e non con P oro, e che poteva
venire uno che avesse piu ferro di
lui, e torgliene. Olir’ a questo, quando, dopo
la morte di Alessandro Magno, una
moltitudine di Franciosi passò in Grecia, e
poi in Asia; e mandando i Franciosi oratori
al re di Macedonia per trattare certo
accordo ; quel re, per mostrare la
potenza sua e per {sbigottirli, mostrò loro
oro ed argento assai: donde quelli
Franciosi che di già avevano come ferma
la pace, la j uppono ; tanto desiderio in
loro crebbe di torgli quell’oro: e cosi fu
quel re spogliato per quella cosa che
egli aveva per sua difesa accumulata. 1
Yeniziani, pochi anni sono, avendo ancora
lo erario loro pieno di tesoro, perderono tutto
lo Stato, senza potere essere difesi da quello.
Dico pertanto, non l’ oro, come grida la
comune oppinione, essere il nervo della
guerra, ma i buoni soldati : perchè 1’
oro non è suflìzienle a trovare i buoni soldati,
ma i buoni soldati son ben sutlìzienti a
trovare l’ oro. Ai Romani, s’egli avessero
voluto fare la guerra più con i danari
che con ii ferro, non sarebbe bastato
avere tutto il tesoro del mondo,
considerato le grandi imprese che fcciono, e
le difficoltà che vi ebbono dentro. Ma
facendo le loro guerre con il ferro,
non patirono mai carestia dell' oro; perchè
da quelli cheli temevano era portato Toro
infino ne’ campi. E se quel re spartano per
carestia di danari ebbe a tentare la
fortuna della /uffa, intervenne a lui quello,
per conto de’danari, che molte volte è
intervenuto per altre cagioni; perchè si è
veduto che, mancando ad uno esercito le
vettovaglie, ed essendo necessitati o a morire di fame
o azzuffarsi, si piglia il partito sempre
di azzuffarsi, per essere più ono*revole, e
dove la fortuna ti può in qualche
modo favorire. Ancora è intervenuto molte volte,
che veggendo uno capitano al suo esercito
nimico venire soccorso, gli conviene o azzuffarsi
con quello e tentare la fortuna della zuffa
; o aspettando eh’ egli ingrossi, avere a combattere
in ogni modo, con mille suoi disavvantaggi.
Ancora si è visto (come intervenne ad
Asdrubale quando nella Marca fu assaltato
da Claudio Verone, insieme con l’altro
Consolo romano), che un capitano che è
necessitato o a fuggirsi o a combattere, come sempre
elegge il combattere ; parendogli in questo
partito, ancora che dubbiosissimo, potere vincere;
ed in quello altro, avere a perdere in
ogni modo. Sono, adunque, molte necessitati
che fanno a uno capitano fuor della sua
intenzione pigliare partito di azzuffarsi; intra
le quali qualche volta può essere la
carestia de’ danari : nè per questo si
debbono i danari giudicare essere il nervo
della guerra, più che le altre cose
che inducono gli uomini n simile necessità.
Non è, adunque, replicandolo di nuovo. 1’
oro il nervo della guerra; ma i buoni
soldati. Son bene necessari i danari in
secondo luogo, ina è una necessità che i
soldati buoni per sè medesimi la vincono;
perchè è inipossibile che a’ buoni soldati
manchino i danari, come che i denari pei* loro medesimi
truovino i buoni soldati. Mostra questo che
noi diciamo essere vero, ogni istoria in
mille luoghi; non ostante che Pericle
consigliasse gli Ateniesi a fare guerra con
tutto il Peloponneso, mostrando che e*
potevano vincere quella guerra con la
industria e con la forza del danaio. E
benché in tale guerra gli Ateniesi
prosperassino qualche volta, in ultimo la
perderono; e valsoti più il consiglio e gli
buoni soldati di Sparta, che la industria
ed il danaio di Atene. Ma L. è di
questa oppinione più vero testimone che
alcuno altro, dove discorrendo se Alessandro
Magno fusse venuto in Italia, s’ egli
avesse vinto i Romani, mostra esser tre
cose necessarie nella guerra ; assai soldati e
buoni, capitani prudenti, e buona fortuna : dove
esaminando quali o i Romani o Alessandro prevalessino
in queste cose, fa dipoi la sua
conclusione senza ricordare mai i danari.
Doverono i Capovani, quando furono ricfiiesti da’
Sidicini che prendessino T arme per loro
contea ai Sanniti, misurare la potenza loro
dai danari, c non dai soldati: perchè,
preso ch’egli ebbero partito di aiutarli,
dopo due rotte furono constretti farsi
tributari de’ Romani, se si vollono salvare. Non
è partito prudente fare amicizia con un
principe che abbia più oppinionc che forze. Volendo
Tito Livio mostrare lo errore de’ Sidicini
a fidarsi dello aiuto de’ Campani, e lo
errore de’ Campani a credere potergli
difendere, non lo potrebbe dire con più
vive parole, dicendo: Campani magie nomen
in auxilium Sidicinorunij quam vires ad
prcesidium atlulcrunl. Dove si debbe notare,
che le leghe si fanno co’ principi che
non abbino o comodità di aiutarti per la
distanzia del sito, o forze di farlo per
suo
disordine o altra sua cagione, arrecano più
fama che aiuto a coloro ehe se ne fidano:
come intervenne ne’ dì nostri a* Fiorentini,
quando, nel 147£t, il papa ed il re
di Napoli gli assaltarono; che essendo
amici del re di Francia, trassono di
quella amicizia magis nomcn , r/nam praesidium :
come interverrebbe ancora a quel principe, che
confidatosi di Massimiliano imperatore, facesse qualche
impresa; perchè questa è una di quelle
amicizie che arrecherebbe a chi la facesse
magis nomcn 9 quam prassi -ditinij come si
dice in questo testo, che arrecò quella de’
Capovani ai Sidicini. Errarono, adunque, in
questa parte i Capovani, per parere loro
avere più forze che non avevano. E così
fa la poca prudenza delti uomini qualche
volta, che non sappiendo nè potendo difendere
sè medesimi, vogliono prendere imprese di
difendere altrui : come fecero ancoro i
Tarentini, i quali, sendo gli eserciti romani
allo Incontro dello esercito de’ Sanniti,
mandorono ambasciadori al Consolo romano, a
fargli intendere come ci volevano pace
intra quelli duoi popoli, e come erano per
fare guerra centra a quello che dalla pace
si discostasse*, talché il Consolo, ridendosi di
questa proposta, alla presenza di detti ambasciadori
fece sonare a battaglia, ed al suo esercito
comandò che andasse a trovare il nimico,
mostrando ai Tarentini con 1’ opera, e non
con le parole, di che risposta essi
erano degni. Ed avendo nel presente capitolo ragionato
dei parliti che pigliano i principi al
contrario per la difesa d’ altrui, voglio
nel seguente parlare di quelli che si
pigliano per la difesa propria. XII. — Scegli è meglio , temendo di
essere assaltalo > inferire , o aspettare la guerra. lo
lio sentito da uomini assai pratichi nelle
cose della guerra qualche volta disputare,
se sono duoi principi quasi di eguali
forze, se quello più gagliardo abbi bandito
la guerra contra a quello altro, quale sia
miglior partito per Poltro; o aspettare il
nimico dentro ai confini suoi, o andarlo a
trovare in casa, ed assaltare lui: e ne
fio sentito addurre ragioni da ogni parte.
E chi difende lo andare assaltare altrui,
nc allega il consiglio che Creso dette a
Ciro, quando arrivato in su* confini de’
Massageli per fare lor guerra, la lor
regina Tarniri gli mandò a dire, che eleggesse
quale de' duoi partiti volesse; o entrare
nel regno suo, dovè essa Ip aspetterebbe; o
volesse che ella venisse a trovar lui. E
venuta la cosa in disputazionc, Creso,
contra alla oppinione degli altri, disse
che si andasse a trovar lei ; allegando che
se egli la vincesse discosto al suo
regno, che non gli torrebbe il regno,
perchè ella arebbe tempo a rifarsi; pia se
la vincesse dentro a’ suoi confini, potrebbe
seguirla in su la fuga, e non le
dando spazio a rifarsi, torli io Stato.
Allegane ancora il consiglio che dette
Annibaie ad Antioco, quando quel re
disegnava fare guerra ai Romani: dove ei
mostrò come i Romani non si potevano
vincere se non in Italia, perchè quivi
altri si poteva valere delle arme e delle
ricchezze e degli amici loro ; chi gli
combatteva fuora d’ Italia, e lasciava loro la
Italia libera, lasciava loro quella fonte, che mai
li mancava vita a somministrare forze dove
bisogna ; e conchiuse che ai Romani si
poteva prima torre Roma che lo imperio;
prima la Italia che le altre provincie.
Allega ancora Agatocle. che non potendo
sostenere la guerra di casa, assaltò i
Cartaginesi clic glieuc facevano, e gli ridusse a
domandare pace. Allega Scipione, che per
levare la guerra d’ Italia, assaltò la
Affrica. Chi parla al contrario dice, che
chi vuole fare capitare male uno nimico,
lo discosti da casa. Allegane gli Ateniesi, che
mentre che feciono la guerra comoda alla
casa loro, restarono superiori; e come si
discostarono, ed andarono con gli eserciti
in Sicilia, perderono la libertà. Allega le
favole poetiche, dove si mostra che Anteo,
re di Libia, assaltato da Ercole Egizio,
fu insuperabile mentre che Io aspettò
dentro a* confini del suo regno; ma
come e’ se ne discosto per astuzia di
Ercole, perdè lo Stalo e la vita. Onde è
dato luogo alla favola di Anteo, che
sendo in terra ripigliava le forze da
sua madre, che era la Terra; e che
Ercole avvedutosi di questo, lo levò in
alto, e discostollo dalla terra. Allegane ancora
i giudizi moderni. Ciascuno sa come Ferrando
re di .Napoli fu ne’ suoi tempi
tenuto uno savissimo principe: e venendo la
fama, duoi anni avanti la sua morte,
come il re di Francia Carlo Vili
voleva venire ad assaltarlo, avendo fatte
assai preparazioni, ammalò; e venendo a morte,
intra gli altri ricordi che lasciò ad
Alfonso suo figliuolo, fu che egli
aspettasse il nimico dentro al regno; e per
cose del mondo non traesse forze fuori
dello Stato suo, ma lo aspettasse dentro
aisuoi confini tutto intero; il che
non fuosservato da quello; ma mandato uno esercito
in Romagna, senza combattere perdè quello c
lo Stato. Le ragioni che, oltre alle
cose dette, da ogni parte si adducono,
sono : che chi assalta viene con maggiore
animo che chi aspetta, il che fa più
confidente lo esercito; toglie, oltra di
questo, molte comodità al nimico di potersi
valere delle sue cose, non si potendo
valere di quei sudditi che sieno
saccheggiati; e per avere il nimico in
casa, è constretto il signore avere più
rispetto a trarre da loro danari ed
affaticargli : sicché e’ viene a seccare
quella fonte, come dice Annibaie, che fa
che colui può sostenere la guerra. Oltre
di questo, i suoi soldati, per trovarsi ne*
paesi d’ altrui, sono più necessitati a
combattere; e quella nccessila fa virtù,
come più volte abbiamo detto. Dall’ altra
parte si dice ; come aspettando il nimico,
si aspetta con assai vantaggio, perchè
senza disagio alcuno tu puoi dare a quello
molti disagi di vettovaglia, e d’ ogni
altra cosa che abbia bisogno uno esercito :
puoi meglio impedirli i disegni suoi, per la notizia
del paese cheta hai più di lui: puoi
con più forze incontrarlo, per poterle
facilmente tutte unire, ma non potere già
tutte discostarle da casa: puoi sendo rotto
rifarti facilmente; sì perchè del tuo
esercito se ne salverà assai, per avere i
rifugi propinqui; si perchè il supplemento
non ha a venire discosto: tanto che tu vieni
arrischiare tutte le forze, e non tutta la
fortuna ; e discostandoti, arrischi tutta la
fortuna, e non tutte le forze. Ed
alcuni sono stati che per indebolire meglio
il suo nimico, Io lasciano entrare
parecchie giornate in su il paese loro, e
pigliare assai terre; acciò che lasciando i
presidii in tutte, indebolisca il suo
esercito, e possiulo dipoi combattere più
facilmente. Ma, per dire ora io quello
che io ne intendo, io credo che si
abbia a fare questa distinzione: o io ho il
mio paese armato, come i Romani, o come hanno i
Svizzeri; o io l’ho disarmato, come avevano i
Cartaginesi, o come Y hanno i re di Francia
e gli Italiani. In questo caso, si debbe
tenere il nimico discosto a casa; perchè
scudo la tua virtù nel danaio e non
negli uomini, qualunque volta ti è impedita
la via di quello, tu sei spacciato;
nè cosa veruna te lo impedisce quanto
la guerra di casa. In essempi ci sono
i Cartaginesi; i quali mentre che ebbero la
casa loro libera, poterono con le rendite
fare guerra con i Romani; e quando la
avevano assaltata, non potevano resistere ad
Agatoeie. I Fiorentini non avevano rimedio ulcuuo
con Castruccio signore di Lucca, perchè ci
faceva loro la guerra in casa; tanto
che gli ebbero a darsi, per essere difesi,
al re Roberto di Napoli. Ma morto Castruccio,
quelli medesimi Fiorentini ebbero animo di
assaltare il duca di Milano in casa,
ed operare di torgli il regno: tanta
virtù monstrarono nelle guerre louginque, e tanta
viltà nelle propinque. Ma quando i regni
sono armati, come era armata Roma e come sono
i Svizzeri, sono più difficili a vincere quanto
più ti appressi loro: perchè questi corpi
possono unire più forze a resistere ad
uno impeto, che non possono ad assaltare
altrui. Nè mi muove in questo caso I’
autorità di Annibaie, perchè la passione e Y
utile suo gli faceva cosi dire ad
Antioco. Perchè, se i Romani avessino avute
in tanto spazio di tempo quelle tre
rotte in Francia* ch’egli ebbero in .Italia
da Annibaie, senza dubbio erano spacciati: perchè
non si sarebbono valuti de’ .residui degli
eserciti, come si valsono in Italia; non
arebbono avuto a rifarsi quelle comodità; nè
potevano con quelle forze resistere ai
nimico, che poterono. Non si trova che,
per assaltare una provincia, loro mandassino
mai fuora eserciti clic passassino cinquantamila
persone; ma per difendere la casa ne
misono in arme conira ai Franciosi, dopo
la prima guerra punica, diciotto centinaia
di migliaia. Nè arebbono potuto poi romper quelli
in Lombardia, come gli ruppono in Toscana;
perchè contro a tanto numero di ninnici
non arebbono potuto condurre tante forze sì
discosto, nè combattergli con quella comodità. I
Cimbri ruppono uno esercito romano in la
Magna, nè vi ebbono i Romani rimedio. Ma
come egli arrivorono in Italia, e che poterono
mettere tutte le loro forze insieme, gli
spacciarono. I Svizzeri è facile vincergli fuori
di casa, dove e’ non possono mandare
più che un trenta o quarantamila uomini;
ma vincergli in casa, dove e’ ne
possono raccozzare centomila, è difficilissimo.
Conchiuggo adunque di nuovo, che quel
principe che ha i suoi popoli armati ed
ordinali alla guerra, aspetti sempre in
casa una guerra potente e pericolosa, e non la vadia
a rincontrare: ma quello che ha i suoi
sudditi disarmati, ed il paese inusitato
della guerra, se la discosti
sempre da casa il più che può. E così
r uno e l* altro, ciascuno nel suo grado, si
difenderà meglio. XIII. — Che si viene di
bassa a gran fortuna più con la
fraude, che con la forza. Io stimo essere
cosa verissima, che rado, o non mai,
intervenga che gli uomini di piccola
fortuna venghino a gradi grandi, senza la
forza e senza la fraude; purché quel grado
al quale altri è pervenuto, non ti sia o
donalo, o lasciato per eredità. Xè credo
si truovi mai che la forza sola
basti, ma si troverà bene che la fraude
sola basterà: còme chiaro vedrà colui che
leggerà la vita di Filippo di Macedonia,
quella di Agatocle siciliano, e di molti
altri simili, che d’ infima ovvero di bassa
fortuna, sono pervenuti o a regno o ad imperi grandissimi.
Mostra Senofonte, nella sua vita di Ciro,
questa necessità delio ingannare; consideralo che
la prima ispedizione che fa fare a
Ciro contea il re di Armenia, è piena
di fraude, e come con inganno, e non con
forza, gli fa occupare il suo regno; e
non conchiude altro per tale azione, se
non che ad un principe che voglia
fare gran cose, è necessario imparare a
ingannare. Fagli, olirà di questo, ingannare
Ciassare, re de’ .Medi, suo zio materno,
in più modi; senza la quale fraude
mostra che Ciro non poteva pervenire a
quella grandezza che venne. Nè credo che
si truovi mai alcuno constiluito in bassa
fortuna, pervenuto a grande imperio solo con la
forza aperta ed ingenuamente, ma sì bene
solo con la fraude : come fece Giovanni
Galeazzo per tor lo Stato e lo imperio
di Lombardia a messer Bernabò suo zio. E
quei che sono necessitati fare i principi
ne’ principi! degli augumenti loro, sono
ancora necessitate a fare le repubbliche, infimo
che le sieno diventate potenti, e che basti
la forza sola. E perchè Roma tenne in
ogni parte, o per sorte o per elezione,
tutti i modi necessari a venire a grandezza, non mancò
ancora di questo. Nè potè usare, nel
principio, il maggiore inganno, che pigliare
il modo di sopra discorso da noi, di
farsi compagni ; perchè sotto questo nome
se li fece servi: come furono i Latini,
ed altri popoli all’ intorno. Perchè prima
si valse dell* arme loro in domare i
popoli convicini, e pigliare la riputazione dello
Stato: dipoi, domatogli, venne in tanto
augumento, che la poteva battere ciascuno.
Ed i Latini non si avviddono mai di essere
al tutto servi, se non poi che
viddono dare due rotte ni Sanniti, e
costrettigli ad accordo. La (piale vittoria,
come ella accrebbe gran riputazione ai
Romani eoi principi longinqui, clic
mediante quella sentirono il nome romano e
non l’armi; così generò invidia e sospetto
in quelli che vedevano e sentivano l’armi,
intra i quali furono i Latini. E tanto potè
questa invidia e questo timore, che non solo i
Latini, ma le colonie che essi avevano
in Lazio, insieme con i Campani, stati poco
innanti difesi, congiurarono contra al nome
romano. E mossono questa guerra i Latini nel
modo che si dice di sopra, che si
muovono la maggior parte delle guerre, assaltando
non i Romani, ma difendendo i Sidicini contra ai
Sanniti; a’ quali i Sanniti facevano guerra con
licenza de’ Romani. E che sia vero che i
Latini si movessino per avere conosciuto
questo inganno, lo dimostra L. nello bocca
di Annio Setiuo pretore latino, il quale
nel consiglio loro disse queste parole :
Nam, si ctìam mine sub umbra feederis
cequi servilutem pati possumus ctc. Yedesi
pertanto i Romani ne’ primi augumenti loro non
essere mancati eziam della fraude; la quale fu
sempre necessaria ad usare a coloro che di
piccoli principii vogliono a sublimi gradi salire
: la quale è meno vituperabile quanto è più
coperta, come fu questa de’ Romani. XIV. —
Ingannatisi molte volle gli uomini j credendo con
la umilila vincere la superbia. Vedesi molle
volte come la umilila non solamente* non
giova, ma nuoce, massimamente usandola con
gli uomini insolenti, che, o per invidia o
per altra cagione, hanno concetto odio
teco. Di che ne fa fede lo istorico
nostro in questa cagione di guerra intra i
Romani ed i Latini. Perchè, dolendosi i Sanniti con
i Romani, che i Latini gli avevano assaltati, i
Romani non vollono proibire ai Latini tal
guerra, desiderando non gli irritare: il
che non solamente non gli irritò, ma
gli fece diventare più animosi contro a
loro, e si scopersono più presto inimici.
Di che ne fanno fede le parole usate
da! prefato Annio pretore
latino nel medesimo concilio, dove dice: Tentaslis
patientiam negando mililem: (jais dubitai
cxarsisse eos ? Pcrtulerunt (amen hunc dolorem.
Excrcitus nos parare adversus Snmnilcs feederatos
suos audierunl, ncc mnverunt se ab urbe. I
Inde hcec illis tanta modestia j, ni
si a eonscienlia virium , et n os trarum , et suarum?
Conoscesi, pertanto, chiarissimo per questo
testo, quanto la pazienza de’ Romani accrebbe P
arroganza de’ Latini. E però, mai uno principe debbe
volere mancare del grado suo, e non
debbe mai lasciare alcuna cosa d’accordo,
volendola lasciare onorevolmente, se non quando
e’ la può, o e’ si crede che la
possa tenere : perchè gli è meglio quasi
sempre, sendosi condotta la cosa in termine
che tu non la possa lasciare nel modo
detto, lasciarsela torre con le forze, che
con la paura delle forze. Perchè se
tu la lasci con In paura, lo fai
per levarli la guerra, ed il più delle
volte non te la lievi: perche colui a
chi tu arai con una viltà scoperta concesso
quella, non starà saldo, rao ti vorrà
torre delle altre cose, e si accenderà più
contra di te, stimandoti meno; e dall'altra
parte, in tuo favore troverai i difensori
più freddi, parendo loro che tu sia o
debole, o vile: ma se tu, subito scoperta
la voglia dello avversario, prepari le
forze, ancoraché le siano inferiori a lui.
quello ti comincia a stimare; stimanti più
gli altri principi allo intorno; ed a tale
viene voglia di aiutarti, sendo in su P
arme, che abbandonandoti non ti aiuterebbe mai. Questo
si intende quando tu abbia uno inimico;
ma quando ne avessi più, rendere delle
cose che tu possedessi ad al •euno
di loro per riguadagnarselo, ancoraché fusse
di già scoperta la guerra, e per smembrarlo
dagli altri confederati tuoi inimici, fia
sempre partito prudente. XV. — Gli Stati
deboli sempre fieno ambigui nel risolversi : e sempre
le deliberazioni lente sono nocive.
in questa medesima materia, ed in questi
medesimi principi! di guerra intra i Latini
ed i Romani, si può notare come in
ogni consulta è bene venire allo individuo
di quello die si ha a deliberare, e non
stare sempre in ambiguo, nè in su lo
incerto della cosa. Il che si vede
manifesto nella consulta che feciono i
Latini, quando c’pensavano alienarsi da’ Romani.
Perchè avendo presentito questo cattivo umore
che ne’ popoli latini era entrato, i
Romani, per eertificarsi della cosa, c per
vedere se potevano senza mettere mano
all’arme riguadagnarsi quelli popoli, fecero loro intendere,
come e’ mandassero a Roma otto cittadini,
perchè avevano a consullare con loro. I
Latini, inteso questo ed avendo conscienza
di molte cose fatte centra alla voglia
de’ Romani, fcciono consiglio per ordinare
chi dovesse ire a Roma, e dargli commissione di
quello ch’egli avesse a dire. E stando nel
consiglio in questa disputa, Annio loro pretore
disse queste parole: Ad sumiuam veruni
nostrarum pertinerc arbitrar , ut vogilctis magis ,
quid agendum nobis, quam quid loqucndum
sii. Facile crii, cxphcatis consiliis j accommodarc
rebus nerba. Sono, senza dubbio, queste parole
verissime, e debbono essere da ogni principe e
da ogni repubblica gustate : perchè nella
ambiguità e nella incertit udine di quello che
altri voglia fare, non si sanno accomodare
le parole; ma fermo una volta 1’
animo, e deliberalo quello sia da eseguire, è
facil cosa trovarvi le parole, lo ho
notato questa parte più volentieri, quanto
io ho molte volte conosciuto tale ambiguità
avere nociuto alle pubbliche azioni, con danno i*
con vergogna della repubblica nostra. E sempre
mai avverrà, che ne* partiti ilubbii, e
dove bisogni animo a deliberargli, sarà questa
ambiguità, quando abbino ad esser consigliati e
deliberati da uomini deboli. Non sono meno
nocive ancora le deliberazioni lente e tarde, che
ambigue ; massime quelle che si hanno a
deliberare in favore di alcuno amico :
perchè con la lentezza loro non si
aiuta persona, e nuocesi a sè mede- simo. Queste
deliberazioni così fatte procedono o da debolezza
di animo e ili forze, o da malignità di
coloro che hanno a deliberare; i quali, mossi
dalla passimi propria di volere rovinare lo
Stato o adempire qualche suo desiderio, non lasciano
seguire la deliberazione, ma la impediscono e
la attraversano. Perchè i buoni cittadini,
ancora che vegghino una foga popolare
voltarsi alla parte perniciosa, mai impediranno
il deliberare, massime di quelle cose che
non aspettano tempo. Morto che fu Girolamo
liranno in Siracusa, essendo la guerra grande
intra i Cartaginesi ed i Romani, vennono i
Siracusani in disputa se dovevano seguire V amicizia
romana o la cartaginese. E tanto era lo
ardore delle parti, che la cosa stava
ambigua, uè se ne prendeva alcuno partito;
insino a tanto che Apollonide, uno de’
primi in Siracusa, con una sua orazione
piena di prudenza, mostrò come non era da biasmare
chi teneva E oppinione ili aderirsi ai
Romani, nè quelli che volevano seguire la
parte cartaginese; ma era bene da detestare
quella ambiguità e tardità di pigliare il
partito, perchè vedeva al tutto in tale
ambiguità la rovina della repubblica; ma
preso che si fusse il partito, qualunque
e’ si fosse, si poteva sperare qualche
bene. Nè potrebbe mostrare più Tito Livio
che si faccia in questa parte, il
danno che si tira dietro lo stare
sospeso. Dimostralo ancora in questo caso
de’ Latini : perchè, sendo i Latini ricerchi
da loro gli stessine neutrali, e che il
re venendo in Italia gli avesse a mantenere nello
Stato e ricevere in proiezione: e dette
tempo un mese alla città a ratificarlo. Fu
differita tale ratificazione da chi per
poca prudenza favoriva le cose di Lodovico:
intantoehè, il re già sendo in su la
vittoria, e volendo poi i Fiorentini ratificare , non
fu la ratificazione accettata ; come quello
che conobbe i Fiorentini essere venuti forzati, e
non voluntari nella amicizia sua. Il che
costò alla città di Firenze assai danari, e
fu per perdere lo Stato : come poi altra volta
per simile causa li intervenne. E tanto
più fu dannabile quel partito, perchè non
si servi ancora il duca Lodovico; il
quale se avesse vinto, arebbe mostri molti
più segni di inimicizia conira ai
Fiorentini, che non fece il re. E benché
del male che nasce alle repubbliche di
questa debolezza se ne sia di sopra
in uno altro capitolo discorso; nondimeno,
avendone di nuovo occasione per un nuovo
accidente, ho voluto replicarne', parendomi,
massime, materia che debba esser dalie
repubbliche simili alla nostra notala. XVI. —
Quanto i soldati ne’ nostri tempi si
disformino dalli anttcht ordini. ha più
importante giornata che fu mai fatta in
alcuna guerra con alcuna nazione dal Popolo
romano, fu questa che ei fece con i
popoli latini, nel consolato di Torquato e
di Decio. Perchè ogni ragione vuole, che
cosi come i Latini per averla perduta
diventarono servi, così sarebbono stati servi i
Romani, quando non la avessino vinta. E di
questa oppinone è L.; perchè in ogni parte
fa gli eserciti pari di ordine, di virtù,
di ostinazione c di numero : solo vi fa
differenza, che i capi dello esercito romano
furono più virtuosi che quelli dello
esercito latino. Yedesi ancora come nel
maneggio di questa giornata nacquero duoi
accidenti non prima nati, e che dipoi hanno
rari esempi: che de’ duoi Consoli, per
tenere fermi gli animi de’ soldati, ed
ubbidienti al comandamento loro, e diliberati al
combattere, 1’ uno ammazzò sè stesso, e I’
altro il figliuolo. La parità, che L. dice essere
in questi eserciti, era che, per avere
militato gran tempo insieme, erano pari di
lingua, d’ ordine e d’ arme: perchè nello
ordinare la zuffa tenevano uno modo
medesimo $ e gli ordini ed i capi degli
ordini avevano medesimi nomi. Era dunque
necessario, sondo di pari forze e di pari
virtù, che nascesse qualche cosa istraordinaria,
che fermasse e facesse più ostinati gli
animi dell’ uno che dell’altro: nella quale
ostinazione consiste, come altre volte si è
detto, la vittoria; perchè, mentre che la
dura ne’ petti di quelli che combattono,
mai non danno volta gli eserciti. E perchè la
durasse più ne’ petti de’ Romani che de’
Latini, parte la sorte, parte la virtù de’
Consoli fece nascere, che Torquato ebbe ad
ammazzare il figliuolo, e Decio sè stesso.
Mostra Tito Livio, nel mostrare questa
purililà di forze, tutto l’ ordine che
tenevano i Romani nelli eserciti e nelle zuffe.
Il quale esplicando egli largamente, non
replicherò altrimenti; ma solo discorrerò quello
che io vi giudico notabile, e quello che
per essere negletto da tutti i capitani di
questi tempi, ha fatto negli eserciti e nelle zuffe
di molti disordini. Dico, adunque, che per
il testo di Livio si raccoglie, come
lo esercito romano aveva tre divisioni
principali, le quali toscanamente si possono
chiamare tre schiere; e nominavano la prima
astati, la seconda principi, la terza
triarii: e ciascuna di queste aveva i suoi
cavalli. Nello ordinare una zuffa, ei
mettevano gli astatiinnanzi ; nel secondo
luogo, per diritto,
dietro alle spalle di quelli, ponevano i principi
; nel terzo, pure nel mede»imo filo,
collocavano i triadi. I cavalli di tulli questi
ordini gli ponevano a destra ed a sinistra
di queste tre battaglie; le schiere de’
quali cavalli, dalla forma loro e dal
luogo, si chiamavano alce , perchè parevano come
due alie di quel corpo. Ordinavano la
prima schiera delli astati, che era nella
fronte, serrata in modo insieme che la
potesse spignere e sostenere il nimico. La
seconda schiera de’ principi, perchè non
era la prima a combattere, ma bene le
conveniva soccorrere alla prima quando fusse
battuta o urtata, non la facevano stretta, ma mantenevano
i suoi ordini radi, e di qualità che la
potesse ricevere in sè senza disordinarsi
la prima, qualunque volta, spinta dal
nimico, fusse necessitata ritirarsi. La terza
schiera de* triadi aveva ancora gli ordini
più radi che la seconda, per potere
ricevere in sè, bisognando, le due prime
schiere de’ principi e degli astati. Collocate,
dunque, queste schiere in questa forma,
appiccavano la zuffa : e se gli astati
erano sforzati o vinti, si ritiravano nella
ra-dila degli ordini de’ principi ; e
tuttiinsieme uniti, fatto di due schiere un
J corpo, rappiccavano la zuffa: se questi ancora
erano ributtati e sforzati, si ritiravano tutti
nella radila degli ordini de* trioni; e
tutte tre le schiere diventate un corpo,
rinnovavano la zuffa : dove essendo
superati, per non avere più da rifarsi,
perdevano la giornata. E perchè ogni volta
che questa ultima schiera de’ triarii si
adoperava, lo esercito era in pericolo, ne
nacque quel proverbio: Res redacta est ad
triarios ; che ad uso toscano vuol dire:
Noi abbiamo messo I’ ultima posta. I
capitani dei nostri tempi, come egli hanno
abbandonato tutti gli altri ordini, e della
antica disciplina ei non ne osservano parte
alcuna, cosi hanno abbandonata questa parte, la
quale non è di poca importanza: perchè chi
si ordina da potersi nelle giornate rifare
tre volte, ha ad avere tre volte
inimica la fortuna a volere perdere, ed ha
ad avere per riscontro una virtù che
sia atta tre volte a vincerlo. Ma chi
non sta se non in su M primo
urto, come stanno oggi gli eserciti
cristiani, può facilmente perdere ; perchè
ogni disordine, ogni mezzana virtù gli può
torre la vittoria. Quello che fa agli
eserciti nostri mancare di potersi rifare
tre volte, è lo avere perduto il modo
di ricevere I* una schiera uelP altra.
Il che nasce perchè al presente sf
ordinano le giornate con uno di questi
duoi disordini: o ei mettono le loro
schiere a spalle P una delP altra, e fanno
la loro battaglia larga per traverso, e
sottile per diritto; il che la fa più
debole, per aver poco dal petto alle
schiene. E quando pure, per farla più
forte, ei riducono le schiere per il verso
de’ Romani, se la prima fronte è rotta,
non avendo ordine di essere ricevuta dalla
seconda, s’ ingarbugliano insieme tutte, e rompono
sè medesime: perché se quella dinanzi è
spinta, ella urta la seconda; se la
seconda si vuol far innanzi, ella è
impedita dalla prima : donde che urlando
la prima la seconda, e la seconda la
terza, ne nasce tanta confusione, che
spesso uno minimo accidente rovina uno
esercito. Gli eserciti spagnuoli e franciosi
nella zuffa di Ravenna, dove mori monsignor
de Pois, capitano delle genti di Prandi
(la quale fu, secondo i nostri tempi, assai
bene combattuta giornata) s’ ordinarono con uno
de’ soprascritti modi; cioè clic l’uno e 1’ altro
esercito venne con tutte le sue genti
ordinate a spalle : in modo che non
venivano’ avere nè 1’ uno nè 1’ altro
se non una fronte, ed erano assai più
per il traverso cìie per il diritto.
E questo avviene loro sempre dove egli hanno la
campagna grande, come gli avevano a Ravenna :
perché, conoscendo il disordine che fanno
nel ritirarsi, mettendosi per un filo, lo
fuggouo quando e’ possono col fare la
fronte larga, coni’ t detto ; ma quando
il paese gli ristringe, si stanno nel
disordine soprascritto, senza pensare il rimedio.
Con questo medesimo disordine cavalcano per il paese
inimico, o se e’ predano, o se e’ fanno
altro maneggio di guerra. Ed a santo Regolo
in quel di Pisa, ed altrove, dove i
Fiorentini furono rotti da' Pisani ne’ tempi
della guerra che fu tra i Fiorentini e
quella città, per la sua ribellione dopo
la passata di Carlo re di Francia in
Italia, non nacque tal rovina d’ altronde,
clic dalla cavalleria amica; la quale sendo
davanti e ributtata da’ nimici, percosse nella fanteria
fiorentina, e quella ruppe : donde tutto il
restante delle genti dierono volta : e messcr
Ciriaco dal Borgo, capo antico delle
fanterie fiorentine, ha affermato alla presenza
mia molte volle, non essere mai stato
rotto se non dalla cavalleria degli amici.
1 Svizzeri, che sono i maestri delle
moderne guerre, quando ei militano coi
Franciosi, sopra tulle le cose hanno cura
di mettersi in lato, che la cavalleria
amica, se fusse ributtata, non gli urti. E
benché queste cose paiano facili ad
intendere, e facilissime a farsi; nondimeno non
si è trovato ancora alcuuo de’ nostri
contemporanei capitani, che gli antichi ordini
imiti, e gli moderni corregga. E benché gli
abbino ancora loro tripartito lo esercito, chiamando
1’ una parte antiguardo, l’altra battaglia e
l’altra retroguardo; non se ne servono ad
altro che a comandargli nelli alloggiamenti: ma
nello adoperargli, rade volte è, come di
sopra è detto, che a tutti questi corpi
non faccino correre una medesima fortuna. E perchè
molti, per scusare la ignoranza loro,
allegano che la violenza delle artiglierie
non patisce che in questi tempi si
usino molti ordini degli antichi, vo-glio
disputare nel seguente capitolo que-sta materia,
ed esaminare se le artiglierie impediscono
che non si possa usare l’ antica virtù. XVII.
— Quanto si debbino sii inave dagli
eserciti ne' presenti tempi le artiglierie; e
se quella oppiatone che se ne ha in
universale j è vera. Considerando io, oltre alle
cose soprascritte, quante zuffe campali (chiamate
ne’ nostri tempi, con vocabolo francioso,
giornate, e dagl’ Italiani fatti d’arme) furono
fatte dai Romani in diversi tempi ; mi è
venuto in considerazione la oppinione universale
di molti, che vuole che se in quelli
tempi fussino state le artiglierie, non
sarebbe stato lecito a’ Romani, nè sì
facile, pigliare le provincie; farsi tributari i
popoli, come e’ feciono ; nè arebbono in
alcuno modo fatti si gagliardi acquisti. Dicono aiTcora,
che mediante questi instrumenti de’ fuochi,
gli uomini non possono usare nè mostrare la
virtù loro, come e’ potevano anticamente. E
soggiungono una terza cosa : che si viene
con piu diflìeultà alle giornale che
non si veniva allora, nè vi si può
tenere dentro quegli ordini di quelli tempi
; talché la guerra si ridurrà col tempo
in su le artiglierie. E giudicando non
fuora di proposito disputare se tali oppiuioui sono
vere, e quanto le artiglierie abbino cresciuto o
diminuito di forze agli eserciti, e se le
tolgano o danno occasione ai buoni capitani
di operare virtuosamente ; comiucerò a parlare quanto alla
prima loro oppinione : che gli eserciti
antichi romani non arebbono fatto gli
acquisti che feciono, se le artiglierie lussino
state. Sopra che, rispondendo, dico: come
e’si fa guerra o per difendersi, o per
offendere; donde si ha prima ad esaminare a
quale di questi duoi modi di guerra
le faccino più utile, o più danno. E
benché sia che dire fla ogni parte,
nondimeno io credo che senza comparazione
faccino più danno a chi si difende, che a
chi offende. La ragione che io ne
dico è, che quel che si difende, o
egli è dentro a una terra, o egli è in su’
campi dentro ad uno steccato. S* egli è
dentro ad una terra, o questa terra è
piccola, come sono la maggior parte delle
fortezze, o la è grande: nel primo caso,
chi si difende è al tutto perduto, perchè P
impeto delle artiglierie è tale, che non
trova muro, ancoraché grossissimo, che in pochi giorni
ei non abbatta; e se chi è dentro non
ha buoni spazi da ritirarsi c con fossi e
con ripari, si perde; nè può sostenere
1* impeto del nimico che volesse dipoi
entrare per la rottura del muro, nè a
questo gli giova artiglieria che avesse:
perchè questa è una massima, che dove gli
uomini in frotta e con impeto possono
andare, le artiglierie non gli sostengono.
Però i furori oltramontani nella difesa delle
terre non sono sostenuti: sou bene
sostenuti gli assalti italiani, i quali non
in frolla, ma spicciolati si conducono alle
battaglie, le quali loro, per nome mollo
proprio,
chiamano scaramuccio. E qucsli che vanno con
questo disordine e questa freddezza ad una
rottura d’ un muro dove sia artiglierie,
vanno ad una manifesta morte, c conira a
loro le artiglierie vogliono: ma quelli
clic in frotta condensati, e che runo
spinge l’altro, vengono ad una rottura, se
non sono sostenuti o da fossi o da ripari,
entrano in ogni luogo, c le artiglierie non gli
tengono; e se ne muore qualcuno, non
possono essere tanti che gl’ impedischino
la vittoria. Questo esser vero, si è
conosciuto in molte espugnazioni fatte dagli
oltramontani in Italia, e mas-
sime in quella di Brescia : perchè, sendosi
quella terra ribellata da’ Franciosi, e tenendosi
ancora per il re di Francia la
fortezza, avevano i Veneziani, per sostenere V
impeto che ila quella potesse venire nella
terra, munita tutta la strada di
artiglierie che dalla fortezza alla città scendeva,
e postane a fronte e ne’ fianchi, ed in
ogni altro luogo opportuno. Delle quali
monsignor di Fois non fece alcuno conto ;
anzi quello con il suo squadrone, disceso a
piede, passando per il mezzo di quelle,
occupò la città, nè per quelle si
sentì eli’ egli avesse ricevuto alcuno
memorabile danno. Talché, chi si difende in
una terra piccola, conte è detto, c trovisi
le mura in terra, e non abbia spazio
di ritirarsi con r ripari e con fossi, ed
abbiasi a fidare in su le artiglierie, si
perde subito. Se tu difendi tuta terra
gronde, e che tu abbia comodità di
ritirarti, sono nondiinanco senza comparazione
più utili le artiglierie a chi è di fuori,
che a chi è dentro. Prima, perchè a volere
che una artiglieria nuoca a quelli che sono
di fuora, tu sei necessitato levarti con
essa dal piano della terra; perchè, stando in
sul piano, ogni poco di argine e di riparo
che il nimico faccia, rimane sicuro, e tu
non gli puoi nuocere. Tanto che avendoti
ad alzare, e tirarti sul corridoio delle mura,
o in qualunque modo levarti da terra, tu
ti tiri dietro due difficoltà: la prima,
che non puoi condurvi artiglieria della
grossezza e della potenza che può trarre
colui di fuora, non si potendo ne’
piccoli spazi maneggiare le cose grandi ;
I’ altra, che quando bene tu ve la
potessi condurre, tu non puoi fare quelli
ripari fedeli e sicuri, per salvare detta
artiglieria, che possono fare quelli di
fuora, essendo in su M terreno, ed
avendo quelle comodità e quello spazio che
loro medesimi vogliono: talmentechè, gli è
impossibile a chi difende una terra, tenere
le artiglierie ne’ luoghi alti, quando
quelli che soli di fuora abbino assai
artiglierie e polenti; e se egli hanno a venire
con essa ne’ luoghi bassi, ella diventa in
buona parte inutile, come è detto. Talché
la difesa della città si ha a ridurre a
difenderla con le braccia, come anticamente
si faceva, e con la artiglieria minuta : di che
se si trae un poco di utilità
rispetto a quella artiglieria minuta, se ne cava incomodità
che contrappesa alia comodità della artiglieria ;
perchè, rispetto a quella,. si riducono le mura
delle terre, basse e quasi sotterrate ne’ fossi:
talché, com’e’ si viene alle battaglie di mano,
o per essere battute le mura o per
essere ripieni i fossi, ha chi è dentro
molti più disavvantaggi che non aveva
allora, E però, come di sopra si disse,
giovano questi instrumenti molto più a chi
campeggia le terre, che a chi è campeggiato.
Quanto alla terza cosa, di ridursi in
uno campo dentro ad uno steccato per
non fare giornata, se non a tua comodità o
vantaggio; dico che in questa parte tu
non hai più rimedio ordinariamente a difenderti
di non combattere, che si avessino gli
antichi; e qualche volta, per conto delle
artiglierie, hai maggiore disavvantaggio. Per- chè, se
il nimico ti giunge addosso, ed abbia
un poco di vantaggio del paese, come
può facilmente intervenire; e truovìsi più
alto di te; oche nello arrivare alio
tu non abbi ancora fatti i gini, e
copertoli bene con que luto, e senza che
tu abbi alcun ti disalloggia, e sei forzato
usci fortezze tue, e venire alla zuffa intervenne
agli Spagnuoli nel nata di Ravenna* i quali
essent nili tra il fiume del Ronco ed gine,
per non lo avere tirato U che
bastasse, e per avere i Frai poco il
vantaggio del terreno, constretti dalle
artiglierie usci fortezze loro, e venire alla zi dato,
come il più delle volte de sere, che
il luogo che tu avess con il campo
fusse più eminenti altri all’ incontro, c
che gli ar; sino buoni e sicuri, tale
che, r il sito e 1’ altre tue preparazio miro
non ardisse di assaltarti; in questo caso a
quelli modi c cainente si veniva, quando
uno il suo esercito in lato da non pi
sere offeso: i quali sono, co paese,
pigliare o campeggiare le terre tue amiche,
impedirti le vettovaglie; tanto che tu
sarai forzato da qualche necessità a
disalloggiare, e venire a giornata ; dove le
artiglierie, come di sotto si dirà, non
operano molto. Considerato, adunque, di quali
ragioni guerre feciono i Romani, e reggendo come
ei feciono quasi tutte le lor guerre
per offendere altrui, e non per difender
loro; si vedrà, quando sieno vere le
cose dette di sopra, come quelli arebbono
avuto più
vantaggio, e piu presto arebbono fatto i loro
acquisti, se le fussino state in quelli
tempi. Quanto alla seconda cosa, che gli
uomini non possono mostrare la virtù loro,
come ei potevano anticamente, mediante la
artiglieria ; dico eh’ egli è vero, che
dove gli uomini spicciolati si hanno a
mostrare, eh’ e’ portano più pericoli che
allora, quandoavessino a scalare una terra, o
fare simili assalti, dove gli uomini non ristretti
insieme, ma di per sè 1’ uno
dall’ altro avessiuo a comparire. E vero die gli
capitoni e capi degli stanno sottoposti più
al perii! morte che allora, potendo esser con
le artiglierie in ogni lu giova loro
lo essere nelle ultii «Ire, e muniti di
uomini fortissi dimeno si vede che P uno c
P questi duoi pericoli fanno ra danni
istraordinari : perchè munite bene non si
scalano, i con assalti deboli ad assaltarh volerle
espugnare, si riduce la una ossidionc, come
anticamen ceva. Ed in quelle clic pure pe si
espugnano, non sono molto i pericoli che
allora: perchè n cavano anche in quel
tempo a fendeva le terre, cose da trarre se
non erano si furiose, facevam all’ ammazzare
gli uomini, *il s fello. Quanto alla
morte de’ci de’ condottieri, ce ne sono,
in v tro anni che sono state le
guerre simi tempi in Italia, meno esempi,
che non era in dieci anni di tempo
appresso agii antichi. Perchè, dal conte Lodovico
della Mirandola, che morì a Ferrara quando i
Veniziani pochi anni sono as- saltarono quello
Stato, ed il Duca di Nemors, che morì
alla Ciriguuola, in fuori; non è occorso
che d’artiglierie ne sia morto alcuno;
percdiè monsignor di Pois a Ravenna mori di
ferro, e non di fuoco. Tanto che, se
gli uomini non dimostrano particolarmente la
loro virtù, nasce non dalle artiglierie, ma
dai cattivi ordini, e dalla debolezza degli
eserciti; i quali, mancando di virtù nel tutto,
non la possono dimostrare nella parte.
Quanto alla terza cosa detta da costoro,
che non si possa venire alle mani, fc
che la guerra si condurrà tutta in su
P artiglierie, dico questa oppinione essere al
tutto falsa; e così ila sempre tenuta da
coloro che secondo P antica virtù vorranno
adoperare gli eserciti loro. Perchè, chi
vuole fare uno esercito buono, gli
conviene, con eser<o veri, assuefare gli
uomini scostarsi al nimico, e venire
cmenare della spada, e al pig
il petto; e si debbe fondare ile
fanterie clic in su’ cavagli, gioni che
di sotto si diranno, si fondi in su i
fanti ed in i predetti, diventano al
tutto le inutili; perchè con più facilit terie
nello accostarsi al nimict fuggire il colpo
delle artiglieri) potevano anticamente fuggire degli
elefanti, de’ carri falcati riscontri inusitati,
clic le farmane riscontrarono ; contra sempre
trovarono il rimedio: più facilmente lo
arebbono tr<tra a queste, quanto egli è pi tempo
nel quale le artiglierie i nuocere, che
non era quello potevano nuocere gli
elefanti < Perchè quelli nel mezzo delb disordinavano;
queste solo in zuffa (i Spediscono: il
quale impedìmento facilmente le fanterie
fuggono, o con andare coperte dalla natura
del sito, o con abbassarsi in su la
terra quando le tirano. 11 che unclie
per esperienza si è visto non essere
necessario, massime per difendersi dalle artiglierie grosse
; le quali non si possono in modo bilanciare,
o che se le vanno alte le non ti
truovino, o che se le vanno basse le non
ti arrivino. Venuti poi gli eserciti alle
mani, questo è più chiaro che la luce,
che nè le grosse nè le piccole ti possono
poi- offendere: perchè, se quello che ha 1’
artiglierie è davanti, diventa tuo prigione; s’
egli è dietro, egli offende prima 1’ amico
che te; a spalle ancora non ti può
ferire in modo che tu non lo possa
ire a trovare, e ne viene a seguitare l’effetto
detto. Nè questo ha molta disputa ; perchè
se ne è visto l’essempio de’ Svizzeri, i quali a
Novara, nel 4513, senza artiglierie e senza cavagli,
andarono a trovare lo esercito francioso munito
di artiglierie alle fortezze sue, e Io ruppon aver
alcuno impedimento da q la ragione è,
oltre alle cose sopra, clic l’artiglieria
ha biso sere guardata, a volere che la da
mura o da fossi o da argini gli manca
una di queste guani prigione, o la diventa
inutile : interviene quando la si ha a e con
gli uomini; il che gli ii nelle
giornate e zuffe campali. P le non si
possono adoperare, s quel modo che
adoperavano gl gli instrumenti da trarre; che levano
fuori delle squadre, p comhatlessino fuori dell i
ordini volta che o da cavalleria o erano
spinti, il refugio loro er alle legioni.
Chi altrimenti ne ! non la intende
bene, e fidasi s< cosa che facilmente lo
può in E se il Turco, mediante l’ ar conila
al Sofi ed il Soldauo h vittoria, è
nato non per altra virtù di quella,
che per lo spavento elle lo inusitato
roraore messe nella cavalleria loro. Conchiuggo
pertanto, venendo al fine di questo
discorso, l’ artiglieria essere utile in
uno esercito quando vi sia mescolata l’antica
virtù; ma senza quella, contea a uno
esercito virtuoso è inutilissima. XVIII. — Come
per V autorità de’ Romani j c per lo cssempio
della antica milizia, si debbe stimare più
lè fanterie che i cavagli.
E’ si può per molte ragioni e per
molti essempi dimostrare chiaramente, quanto i Romani
in tutte le militari azioni stimassino
più la milizia a piè che a cavallo, e sopra
quella fondassino tutti i disegni delle
forze loro: come si vede per molti
essempi, ed infra gli altri, quando si
azzuffarono con i Latini appresso il lago
Regiilo; dove già essendo inclinato lo
esercito romano, per soccorrere ai suoi
fecero discenti uomini da cavallo a piede, e f via,
rinnovata la zuffa, ebbon< toria. Dove
si vede manifeste Romani avere più
confidato in scudo a piede, che manleneiu vallo.
Questo medesimo termini in molte altre
zuffe, e sempre rono ottimo rimedio in gli
lort Nè si opponga a questo la < di
Annibaie, il quale veggendo i nata di
Canne, che i Consoli fatto discendere a piè
gli loro facendosi belle di simile parti Quatti
tnallem vinclos milii cquilcs ; cioè: io
arci più car gli dessino legati. La
quale < ancoraché la sia stata in bo uomo
eccellentissimo, nondimt ha a ire dietro alla
autorità, più credere ad una Repubblicf e a tanti
Capitani eccellentissin rono in quella, che
ad uno s<baie: ancoraché senza le auto siano
ragioni manifeste. Perchè 1’ uomo
a piede può andare in molti luoghi, dove uon
può andare il cavallo; puossi insegnarli
servare 1' ordine, e turbato che fusse,
come e’ lo abbia a riassumere: a’ cavagli è
diffìcile fare servare l’ordine, ed impossibile,
turbati che sono, riordinargli. Olirà di
questo, si trova, come negli uomiui, de’
cavagli che kanno poco animo, e di quelli
che ne hanno assai: e molte volte
interviene che un cavallo animoso è cavalcato
da un uomo vile, ed uno cavallo vile
da uno animoso; ed in qualunque modo
che segua questa disparità, ne nasce
inutilità e di- sordine. Possono le fanterie
ordinate facilmente rompere i cavagli, e difficilmente
esser rotte da quelli. La quale oppinione è
corroborata, oltre a molti essempi antichi e
moderni, dalla autorità di coloro che danno
delle cose civili regola : dove mostrano
come in prima le guerre si cominciarono a
fare con i cavagli, perchè non era ancora 1’
onlinc delle fanterie; ma coi si
ordinarono, si conobbe subi loro erano più
utili, che quell per questo però che i
cavalli i necessari negli eserciti, e per perle,
e per scorrere e predai per seguitare i nimici
quando in fuga, c per essere ancora una
opposizione ai cavagli dej. sari: ma il
fondamento e il n l’esercito, c quello chesi debl
mare, debbono essere le fan infra i peccali
de* principi ita1 hanno fatto Italia serva
de’ I n q ii ci è il maggiore, clic ave poco
conto di questo ordine, volto tutta la
loro cura alla cavallo. Il quale disordine
è na malignità de* capi, e per la ign coloro
che tenevano stato. Pere dosi ridotta la
milizia italiana, ticinque anni indietro, in uo non
avevano stato, ma erano < pitali! di
ventura, pcusorono s me polessino mantenersi
la riputazione stando armati loro, e disarmati i
principi. E perchè uno numero grosso di fanti
non poteva loro essere continuamente pagato, e
non avendo sudditi da poter valersene, ed
uno piccolo numero non dava loro
riputazione, si volgono a tenere cavagli :
perchè dugcnto o trecento cavalli che erano
pagati ad uno condottiere, lo mantenevano
riputato; ed il pagamento non era tale,
che dagli uomini che tenevano stato non
potesse essere adempiuto. E perchè questo seguisse
più facilmente, e per mantenersi più in
riputazione, levarono tutta l’ affezione e la
riputazione da’ fanti, e ridussonla in quelli
loro cavalli: e in tanto crebbono questo
disordine, che in qualunque grossissimo esercito
era una minima parte di fanteria. La
quale usanza fece in modo debole, insieme
con molti altri disordini che si
mescolarono con quella, questa milizia italiana,
che questa provincia è stata facilmente calpesta
(ia tutti gii oltramontani. >più
apertamente questo errore, mare più i cavalli
che le fantei uno altro essempio romano. E Romani
a campo a Sora, ed i usciti fuori della
terra una tu cavalli per assaltare il
campo, fece all’ incontro il Maestro de romano
con la sua cavalleria, e di petto, la
sorte dette che nel scontro i capi dell’
uno e dell’ alti
cito morirono; e restali gli alti*governo, e
durando nondimeno I i Romani per superare
più fac lo inimico, scesono a piede, e cc sono
i cavalieri nimici, se si voi fendere, a
fare il simile: e co questo, i Romani ne
riportarom toria. Non può esser questo eì maggiore
in dimostrare quanto virtù nelle fantericche ne’
cavag che se nelle altre fazioni i Con cevano
discendere i cavalieri i era per soccorrere
alle fanterie i tivano, e che avevano
bisogno ili aiuto; ma in questo luogo
e’ discesono, non per soccorrere alle
fanterie nè per eombattere con uomini a
piè de’ nimici, ma combattendo a cavallo co’
cavalli, giudicareno, non potendo superargli a
cavallo, potere scendendo più facilmente vincergli.
Io voglio adunque conchiudere, che una
fanteria ordinata non possa senza grandissima
diffìcultà esser superata, se non da
una altra fanteria. Crasso e Marc’ Antonio
romani corsone per il dominio de’ Parti
molte giornate con pochissimi cavalli ed
assai fanteria, ed all’ incontro avevano
innumerabili cavalli de’ Parti. Crasso vi
rimase con parte dello esercito morto.
Marc’ Antonio virtuosamente si salvò. Nondimanco, in
queste afflizioni romane si vede quanto le
fanterie prevalevano ai cavalli : perchè essendo
in un paese largo, dove i monti son
radi, ed i fiumi radissimi, le marine
longinque, e discosto da ogni comodità;
nondimanco Marc’ Antonio, al giudicio de’ Parti
medesimi, mente si salvò; nè mai ebbe tutta
la cavalleria pnrtica te ordini dello
esercito suo. Se rimase, chi leggerà bene
le s vedrà come e’ vi fu piuttosto che
forzato: nè mai, in tutti sordini, i Parti
ardirono di uri sempre andando costeggiando pedendogli
le vettovaglie, prò gli e non gli
osservando, lo et od una estrema miseria.
Io avere a durare più fatica in p quanto
la virtù delle fanterie lente ebe quella
de’ cavalli, : fussino assai moderni essenv rendono
testimonianza pieniss è veduto novemila Svizzeri i da
noi di sopra allegata, and frontale
diecimila cavalli ed fanti, e vincergli: perchè i
cf li potevano offendere: i fanti, ] gente
in buona parte guascoi ordinata, stimavano
poco. Yi ventiseimila Svizzeri andare a trovare sopra
Milano Francesco re di Francia, che aveva
seco ventimila cavalli, qua-♦ rantamila fanti e
cento carra d’artiglieria ; e se non vinsono
la giornata come a Novara, combatterono due
giorni virtuosamente; e dipoi, rotti che furono, la
metà di loro si salvarono. Presunse Marco
Regolo Attilio, non solo con la fanteria
sua sostenere i cavalli, ma gli elefanti; e
se il disegno non gli riuscì, non fu
però che la virtù della sua fanteria
non fusse tanta, che ei non confidasse
tanto in lei che credesse superare quella
difficoltà. Replico, pertanto, che a voler
superare i fanti ordinati, è necessario opporre
loro fanti meglio ordinati di quelli:
altrimenti, si va ad una perdita manifesta.
Ne’ tempi di Filippo Visconti, duca di
Milano, scesouo ili Lombardia circa sedicimila
Svizzeri: donde il Duca avendo per capitano
allora il Carmignuola, lo mandò con circa mille
cavalli e pochi fanti allo incontro loro.
Costui non sappiendo 1* 01 combatter loro,
ne andò ad inc< con i suoi cavalli,
presu me nd( subito rompere. Ma trovatogli
i avendo perduti molti de’ suoi u ritirò :
ed essendo valentissimo sappiendo negli accidenti
nuovi nuovi partiti, rifattosi di gente a
trovare; e venuto loro all’i fece smontare a
piè tutte le s d’ arme, e fatto testa
di quelle fanterie, andò ad investire i S quali
non ebbono alcun rimet chè, sendo le
genti d’arme de gnuola a piè e bene armate, facilmente
entrare infra gli 01 Svizzeri, senza patire
alcuna lei entrati tra questi, poterono- fu offendergli:
talché di tutto il ni quelli, ne
rimase quella parte per umanità del Carmignuola servata.
Io credo che molti co questa differenza
di virtù che I’ uno e 1’ altro di
questi ordir: tanta la infelicità di questi
tempi, che nè gli essempi antichi nè i
moderni, nè la confessione dello errore è
sufficiente a fare che i moderni principi si
rav-vegghino ; e pensino che a volere ren-dere
riputazione alla milizia d’ una pro-vincia o
d’ uno Stato, sia necessario ri-suscitare
questi ordini, tenergli appresso,dar loro
riputazione, dar loro vita, ac-ciocché a lui e
vita c riputazione ren-dino. E come e’diviano da
questi modi,così diviano dagli altri modi
detti disopra : onde ne nasce che gli
acquistisono a danno, non a grandezza d’uno Stato,
come di sotto si dirà.Cap. XIX. — Che
gli acquisii nelle re-pubbliche non bene
ordinate e che
secondo la romana virtù non procedono, sono
a rovina, non a esalta-
zione di esse. Queste contrarie oppinioni alla
verità, fondale in su’ mali essempi che
da que-sti nostri corrotti secoli sono
stati in-trodotti, fanno che gli uomini non
pen-sano a limare dai consueti modi. Quandosi
sarebbe potuto persuadere a uno ita-liano da
trenta anni in dietro, che die-cimila fanti
potessino assaltare in uiipiano diecimila
cavalli ed altrettanli, fanti, e con quelli non
solamente combattere,ina vincergli; come si
vede per lo essempio da noi più
volle allegato, a Novara? E benché le istorie
ne siano piene, /amen non ci arebbero
prestato fede; e se ci avessero prestato
fede, arebbero detto che in questi tempi
s’arma meglio, e che una squadra d’ uomini d’arme
sarebbe atta ad urtare uno scoglio, non
che una fanteria: e così conqueste false
scuse corrompevano il giudizio loro; nè
arebbero considerato, che Lucullo con pochi
fanti ruppe cento cinquanta mila cavalli di
Tigrane; e che tra quelli cavalieri era una
sorte di cavalleria simile al tutto agii
uomini d’arme nostri: c così questa fallacia è
stata scoperla dallo essempio delle genti
oltramontane. E come e’ si vede per quello essere
vero, quanto alla fanteria, quello che
nelle istorie si narra; così doverrebbero
credere esser veri ed utili tutti gli altri
ordini antichi. E quando questo fusse credulo,
le repubbliche ed i principi er rerebbero meno;
sariano più forti ad op-porsi ad uno
impeto che venisse loro ad-dosso; non
spererebbero nella fuga: e quelli che
avessino nelle mani un vivere civile, Io
saperebbero meglio indirizzare, o per la via
dello ampliare, o per la via del mantenere;
e crederebbero che lo accrescere la città
sua d’ abitatori, farsi compagni e non
sudditi, mandare colonie a guardare i paesi acquistati,
far capitale delle prede, domare il nimico
con le scorrerie e con le giornate e non
con le ossidioni, tenere ricco il pubblico,
povero il privato, mantenere con sommo
studio li esercizi militari, sono le vie a
fhre grande una repubblica, ed acquistare
imperio. E quando questo modo dello ampliare
non gli piacesse, penserebbe che gli
acquisti per ogni altra via sono la
rovina delle repubbliche, e porrebbe freno ad
ogni ambizione; regolando bene la sua città dentro
con le leggi e co’ costumi, proi- bendogli r
acquistare e solo pensando a difendersi, e le
difese tenere ordinate bene: come fanno le
repubbliche della Magna, le quali in questi
modi vivono e sono vi v ute libere un
tempo. Nondi- meno, come altra volta dissi
quando di- scorsi la differenza che era da
ordinarsi per acquistare a ordinarsi per mante- nere; è
impossibile che ad una repubblica riesca lo
stare quieta, c godersi la sua libertà e
gli pochi confini: perchè, se lei non
molesterà altrui, sarà molestata ella ; e dallo
essere molestata le nascerà la voglia e la
necessità dello acquistare; c quando non avesse
il nimico fuora, lo troverebbe in casa :
come pare necessario intervenga a tutte le grandi
cittadi. b se le repubbliche della Magna
possono vivere loro in quel modo, ed
hanno potuto durare un tempo; nasce da
certe condizioni che sono in quel paese,
le quali non sono altrove, - senza le
quali non potrebbero tenere simil modo
di vivere. Era quella parte della Magna
di che io parlo, sottoposta allo imperio
romano come la Francia e la Spagna:
ma venuto dipoi in declinazione 1* imperio,
e ridottosi il titolo di tale imperio in
quella provincia, comin-ciarono quelle ciltadi
più potenti, se-condo la viltà o necessità
degFimpera-dori, a farsi libere, ricomperandosi dallo imperio,
con riservargli un piccolo censo annuario;
tanto che, a poco a poco, tutte quelle
cittadi che erano immediate dello imperadore, e
non erano soggette ad alcuno principe, si
sono in simil modo ricomperate. Occorse in
questi medesi- mi tempi che queste cittadi
si ricomperavano, che certe comunità sottoposte
al duca d’Austria si ribellarono da lui;
tra le quali fu Filiborgo, c Svizzeri, e si- mili
; le quali prosperando nel principio, pigliarono
a poco a poco tanto augumento, che, non
che e’sieno tornati sotto il giogo d’
Austria, sono in timore a tutti i loro
vicini: e questi sono quelli che si
chiamano Svizzeri. É, adunque, questa provincia
compartita in Svizzeri, repubbliche (che chiamano
terre franche), principi ed imperadore. E la
cagione che, intra tante diversità di vivere, non
vi nascono, o, se le vi nascono, non vi
durano molto le guerre, è quel segno dell’
imperadore ; il quale, avvenga che non abbi
forze, nondimeno ha fra loro tanta
riputazione, eli’ egli è uno loro
conciliatore, e con T autorità sua, interponendosi
come mezzano, spegne subito ogni scandalo. E
le maggiori e le più lunghe guerre vi
siano state, sono quelle che sono seguite
intra i Svizzeri ed il duca d’Austria; e
benché da molti anni in qua lo
imperadore ed il duca d’Austria sia
una cosa medesima, non per tanto non
ha mai potuto superare l’audacia ilei
Svizzeri, dove non è mai stato modo
d’accordo, se non per forza. Nè il
resto della Magna gli ha porti molti aiuti;
sì perchè le comunità non sanno offendere
chi vuole vivere libero come loro ; sì
perchè quelli principi, parte non possono
per esser poveri, parte non vogliono per
avere invidia alla potenza sua. Possono
vivere, adunque, quelle comunità contente del
piccolo loro dominio, per non avere
cagione, rispetto aii’dulorità imperiale, di
disiderarlo maggiore: possono vivere unite dentro
alle mura loro, per aver il nimico
propinquo, e. che piglierebbe 1’ occasione
d’-oc-euparle, qualunque volta le discordassino. Che
se quella provincia fusse condizionata
altrimenti, converrebbe loro cercare d’ ampliare
e rompere quella loro quiete. E perchè altrove
non sono tali condizioni, non si può
prendere questo modo di vivere; e bisogna o ampliare
per via di leghe, o ampliare come i Romani.
E ehi si governa altrimenti, cerca non la
sua vila, ma la sua morte e rovina:
perchè in mille modi e per molte cagioni
gli acquisii sono dannosi; perchè gli sta
molto bene insieme acquistare imperio, c non
forze; e chi acquista imperio e non forze
insieme, conviene che rovini. Non può
acquistare forze chi impoverisce nelle guerre,
ancora che sia vittorioso; che ei mette
più che non trae degli acquisti: come
hanno fatto i Veniziani ed i Fiorentini, i
quali sono stati molto più deboli, quando V
uno aveva la Lombardia e V altro la Toscana, che
non erano quando 1’ uno era contento
del mare, e V altro di sei .miglia di
confini. Perchè tutto è nato da avere voluto
acquistare, e non avere saputo pigliare il
modo; e tanto più meritano biasimo, quanto
egli hanno meno scusa, avendo veduto il
modo hanno tenuto i Romani, ed avendo
potuto seguitare il loro essempio, quando i
Romani, senza alcuno essempio, per la
prudenza loro, da loro medesimi lo seppono
trovare. Fanno, oltra di questo, gli
acquisti qualche volta non mediocre dauuo
ad ogni bene ordinata repubblica, quando e’ si acquista
una città o una provincia piena di delizie,
dove si può pigliare di quelli costumi
per la conversazione che si ha con
quelli: come intervenne a Roma, prima, nello
acquisto di Capova; e dipoi, ad Annibale. E
se Capova fusse stata più longinqua dalla
città, che lo errore de* soldati non
avesse avuto il rimedio propinquo; o che
Roma fusse stata in alcuna parte corrotta;
era senza dubbio quello acquisto la rovina
della Repubblica romana. E L. fa fede di
questo con queste parole: Jam lune minime
salubris militari disciplina Capita j instrumentum
omnium nolupta- tunij dclinitos militimi animos
avertit a memoria patria, E veramente, simili città
o provincie si vendicano contra al vincitore
senza zuffa e senza sangue ; perchè,
riempiendoli de’ suoi tristi co- stumi, gli
espongono ad essere vinti da
qualunque gli assalta.
E Iuvenale non potrebbe meglio, nelle sue
salire, aver considerata questa parte, dicendo:
thè nei petti romani per gli acquisti delle
terre peregrine erano intrati i costumi peregrini
; ed in cambio di parsimonia e di altre
eccellentissime virtù, gala et luxuria incubuitj
victumque ulciscìtur orbem. Se, adunque, V
acquistare fu per esser perniziosi ai
Romani nei tempi che quelli con tanta
prudenza e tanta virtù procedevano, che sarà
adunque a quelli che discosto dai modi
loro pro- cedono ? e che, oltre agli altri errori
che fanno, di che se ne è di
sopra di- scorso assai, si vagliono dei
soldati o mercenari o ausiliari ? Donde ne
risulta loro spesso quei danni di che
nel se- guente capitolo si farà menzione. Gap.
XX. — Quale pericolo porti quel principe o
quella repubblica che si vale della milizia
ausiliare o merce- naria. Se io non avessi
lungamente trattato in altra mia opera,
quanto sia inutile la milizia mercenaria ed
ausiliare, e quanto utile la propria, io
mi disten-derei in questo discorso assai
più clic non farò ; ma avendone altrove
parlato a lungo, sarò in questa parte brieve. Nè
mi è paruto in tutto da passarla, avendo
trovato in L., quanto ai soldati ausiliari,
sì largo essempio ; per- chè soldati ausiliari sono
quelli che un principe o una repubblica
manda, capitanati c pagati da lei, in tuo
aiuto. E venendo al testo di L., dico che,
avendo i Romani, in diversi luoghi, rotti due
eserciti de’ Sanniti con li eserciti loro,
i quali avevano mandati al soccorso de*
Capovani; e per questo liberi i Capovani da
quella guerra ehe i Sanniti facevano loro; e
volendo ritornare verso Roma; ed acciò che
i Capovani, spogliati di presidio, non diventassino di
nuovo preda dei Sanniti; lasciarono due
legioni nel paese di Capova, che gli difendesse.
Le quali legioni marcendo nell* ozio,
cominciarono a dilettarsi in quello; tanto che, dimenticata
la patria e la riverenza del Senato,
pensarono di- prendere T armi, ed insignorirsi di
quel paese che loro con la loro virtù
avevano difeso, parendo loro che gli abitatori non
fussino degni di possedere quelli beni che
non sapevano difendere. La qual cosa
presentita, fu dai Romani op- pressa e corretta:
come, dove noi par- leremo delle congiure,
largamente si mostrerà. Dico pertanto di
nuovo, come di tutte V altre qualità di
soldati, gli ausiliari sono i più dannosi.
Perchè in essi quel principe o quella repubblica che
gli adopera in suo aiuto, non ha autorità
alcuna, ma vi ha solo V autorità colui
che li manda. Perchè i soldati au- siliari
sono quelli che ti sono mandati da un
principe, come ho detto, sotto suoi
capitani, sotto sue insegne e pagati da
lui: come fu questo esercito che i Romani
mandarono a Capova. Questi tali soldati, vinto
eh’ egli hanno, il piùdelle volte predano
così colui che gli hacondotti, come
colui contea a chi e’ sonocondotti ; e lo
fanno o per malignità delprincipe che gli
manda, o per ambizionloro. E benché la
intenzione de’ Romaninon fusse di rompere
1’ accordo e leconvenzioni che avevano
fatte coi Capo-vani; nondimeno la facilità
che parevaa quelli soldati di opprimergli
fu tanta,che gli potette persuadere a
pensare ditorre ai Capovani la terra e
lo stato.Potrebbesi di questo dare assai
essempi;ma voglio mi basti questo, e quello
deiRegini, ai quali fu tolto la vita
e laterra da una legione che i Romani
viavevano messa in guardia. Debbe, adun-que,
un principe o una repubblica pi-gliare
prima ogni altro partilo, che ri-correre a
conti aì re nello Stato suo persua
difesa genti nusiliarie, quando eis’ abbia a
fidare sopra quelle ; perchèogni patto,
ogni convenzione, ancora chedarà, di’ egli
arà col nemico, gli saràpiù leggieri
che tal partito. E se si leg-geranno bene
le cose passate, c diseor-rerannosi le
presenti, si troverà, peruno che n’abbia
avuto buon fine, infi-niti esser rimasi
ingannati. Ed uno prin-cipe o una repubblica
ambiziosa nonpuò avere la maggiore
occasione di oc-cupare una città o una
provincia, cheesser richiesto che mandi gli
esercitisuoi alla difesa di quella.
Pertanto, co-lui che è tanto ambizioso che,
non so-lamente per difendersi ma per
offenderealtri, chiama simili aiuti, cerca
d’acqui-stare quello che non può tenere, e
cheda quello che gliene acquista gli
puòfacilmente esser tolto. Ma l’ ambizionedell’
uomo è tanto grande, che per ca-varsi una
presente voglia, non pensa almale che è
in brieve tempo per risul-targliene. Nè lo
muovono gli antichi es-sempi, cosi in
questo come nell’ altrecose discorse;
perchè, se e’ fussino mossida quelli,
vedrebbero come quanto piùsi mostra la
liberalità coi vicini, e d’es-sere più alieno
da occupargli, tanto piùti si gettano
in grembo: come di sotto,per lo
essempio de’ Capovani, si dirà.Gap. XXI. —
Il primo Pretore che i Ro-mani mandarono in
alcun luogoj fua Capova, dopo quattrocento
anni chZcominciarono a far guerra. Quanto i
Romani nei modo del pro- cedere loro circa
Y acquistare fossero differenti da quelli che
ne’ presenti tempi ampliano la iuri&dUionc
loro, si è assai di sopra discorso; e come
e’ lasciavano quelle terre, che non disfacevano,
vivere con le leggi loro, eziandio quelle
che non come compagne, ma come soggette si
arrendevano loro; ed in esse non lu- sciavano
alcun segno d’ imperio per il Popolo
romano, ma Y obbligavano ad alcune condizioni,
le quali osservando, le mantenevano nello
stato e dignità loro. E conoscesi questi modi
esser stati osservati infino che gli
uscirono d’ Ita- lia, e che cominciarono a ridurre i
re- gni e gli Stati in provincie. Di questo ne
è chiarissimo essempio, che il primo
Pretore che fusse mandato da loro in alcun
luogo, fu a Capova: il quale vi mandarono,
non per loro ambizione, ma perchè e’
ne furono ricerchi dai Capo-vani; i quali,
essendo intra loro discordia, giudicarono esser
necessario avere dentro nella città un
cittadino romano che gli riordinasse e riunisse.
Da questo essempio gli Anziati mossi, e
constretti dalla medesima necessità, domandarono ancora
loro un Prefetto; e Tito Livio dice in
su questo accidente, ed in 6U questo
nuovo modo d’ imperare, quod /aro non
solttm arma j sed jura romana pollebant. Yedesi,
pertanto, quanto qu$- sto modo facilitò I’
augumento romano. Perché quelle città, massime,
che sono use a viver libere, o consuete
governarsi per suoi provinciali, con altra quiete
stanno contente sotto uno dominio che non
veggono, ancora eli’ egli avesse in sè
qualche gravezza, che sotto quello che
veggendo ogni giorno, pare loro che ogni
giorno sia rimproverata loro la servitù.
Appresso, ne seguita un al-tro bene per
il principe: che non avendo i suoi ministri
in mano i giudizi, ed i magistrati che
civilmente o criminal- mente rendono ragione in
quelle cittadi, non può nascere mai
sentenza con ca- rico o infamia del principe; e
vengono per questa via a mancare molte cagioni «li
calunnia e d’ odio verso di quello. E che
questo sia il vero, oltre agli antichi esscinpi
che se ne potrebbono addurre, ee n’ è
uno essempio fresco in Italia. Perchè, come
ciascuno sa, scudo Genova stata più volte
occupata da’ Franciosi, sempre quel re,
eccetto che ne’ presenti tempi, vi ha
mandato un governatore francioso che in suo
nome la governi. Al presente solo, non
per elezione del re, ma perchè cosi
ha ordinato la ne- cessità, ha lasciato
governarsi quella città per sè medesima, e
da un gover- natore genovese. E senza dubbio, chi
ricercasse quali di questi duoi modi rechi
più sicurtà al re dell* imperio di essa,
e più contentezza a quelli popolari, senza dubbio
approverebbe questo ultimo modo. Oltra di
questo, gli uomini tanto più ti si
gettano in grembo, quanto più tu pari
alieno dallo occupargli ; e tanto meno ti
temono per conto della loro li- bertà,
quanto più sei umano e dome- stico con
loro. Questa dimestichezza e liberalità fece i
Capovani correre a chie- dere il Pretore ai
Romani : che se dai Romani si fusse
mostro una minima voglia di mandarvelo,
subito sarebbono ingelositi, c si sarebbono
discostati da loro. Ma che bisogna ire
per gli essempi a Capova ed a Roma,
avendone in Fi-lenze ed in Toscana?
Ciascuno sa quanto tempo è che la città
di Pistoia venne volontariamente sotto V imperio
fioren-tino. Ciascuno ancora sa quanta inimi-cizia è
stata intra i Fiorentini, ed i Pi-sani, Lucchesi
e Sanesi : e questa diver-sità d’animo non è nata
perchè i Pi-stoiesi non prezzino la loro libertà come
gli altri, e non si giudichino da quanto
gli altri; ma per essersi i Fio-rentini
portoti con loro sempre come fratelli, e
con gli altri come nimici. Questo ha
fatto clic i Pistoiesi sono corsi volontari
sotto F imperio loro : gli altri hanno
fatto e fanno ogni forza per non vi
pervenire. E senza dubbio, i Fioren- tini se, o
per vie di leghe o di aiuto, avessero
dimesticati e non inselvatichiti i suoi vicini, a
quest’ora sarebbero si-gnori di Toscana. Non è
per questo che io giudichi che non si
abbia ad operare l’armi e le forze; ma
si debbono riser- vare in ultimo luogo,
dove e quando gli altri modi non bastino. Cap.
XXII. — Quanto siano false molte volte le
oppinioni degli uomini nel giudicare le
cose grandi. Quanto siano false molte volle
le op-
pinioui degli uomini, 1’ hanno visto e veggono
coloro che si trovano testimoni delle loro
deliberazioni: le quali molle volte, se non
sono deliberate da uomini eccellenti, sono
contrarie ad ogni verità. E perchè gli
eccellenti uomini nelle repubbliche corrotte, nei
tempi quieti massime, e per invidia c per
altre ambiziose cagioni, sono inimicati; si va dietro
a quello che da uno comune in- ganno è
giudicato bene, o da uomini
che più presto vogliono i favori che il bene
deir universale, è messo innanzi. Il quale
inganno dipoi si scuopre nei tempi avversi,
e per necessità si rifugge a quelli che
nei tempi quieti erano come dimenticati :
come nel suo luogo in questa parte appieno
si discorrerà. Nascono an cora certi
accidenti, dove facilmente sono ingannali gli
uomini che non hanno grande Esperienza
delle cose, avendo in sè quello accidente
che nasce molti ve* risimili, atti a far
credere quello die gli uomini sopra tal
caso si persuadono. Queste cose si sono
dette per quello che Numicio pretore,
poiché i Latini furono rotti dai Romani,
persuase loro; e per
quello che pochi anni sono si credeva per
molti, quando Francesco 1 re di Francia
venne ali’ acquisto di Milano, che era
difeso dai Svizzeri. Dico per- tanto, che,
essendo morto Luigi XII, e succedendo nel
regno di Francia Fran- cesco d’ Angolem, c
desiderando resti- tuire al regno il ducato
di Milano, stato pochi anni innanzi
occupato dai Sviz- zeri mediante il conforto
di Papa Giu-lio II, desiderava aver aiuti
in Italia che gli facilitassero l’ impresa ;
cd oltre ni Veniziani, che il re
Luigi s’aveva rigua- dagnati, tentava i Fiorentini e
Papa Leone X ; parendogli la sua impresa più fucile
qualùnque volta s’ avesse riguada-gnati costoro,
per essere le genti del re di Spagna
in Lombardia, ed altre forze dello
imperadore in ^Verona. Non cede Papa Leone
alle voglie del re, ma fu persuaso da
quelli che lo consigliavano (secondo si
disse), si stesse neutrale, mostrandogli in
questo partito consistere la vittoria certa:
perchè per la Chiesa non si faceva
avere potenti in Italia nè il re nè i
Svizzeri; ma volendola ridurre nell’antica
libertà, era necessario liberarla dalla servitù
dell’ uno e dell’altro. E perchè vincere 1’
uno e 1’ altro, o di per sè o tutti
due insieme, non era possibile 'r conveniva
che superassino 1’ uno l’altro, e che la
Chiesa con gli amici suoi urlasse quello
poi che rimanesse vincitore. Ed era
impossibile trovare migliore occasione che la
presente, sen-do 1’ uno e 1’ altro in
su’ campi, ed aven-do il Papa le sue
forze ad ordine da potere rappresentarsi in
sui confini di Lombardia, e propinquo all’
uno e l’altro esercito, sotto colore di
voler guardare le cose sue, e quivi tanto
stare che ve- nissero alla giornata; la
quale ragione- volmente, sendo Y uno e V altro esercito
virtuoso, doverrebbe esser sanguinosa per tutte
due le parti, e lasciare in modo debilitato
il vincitore, che fusse al Papa facile
assaltarlo e romperlo: e cosi ver- rebbe con sua
gloria a rimanere signore di Lombardia, ed
arbitro di tutta Italia. E quanto questa
oppiuione fusse falsa, si vide per lo
evento della cosa: perchè, sendo dopo una
lunga zuffa sufi supe- rati i Svizzeri, non
che le genti del Papa c di Spagna
presumessero assaltare i vincitori, ma si
prepararono alla fuga ; la quale ancora non
sarebbe loro giovata, se non fusse stato o
la umanità o la freddezza del re, che
non cercò la seconda vittoria, ma gli
bastò fare accordo con la Chiesa. Ha
questa oppinione certe ragioni che discosto
paiono vere, ma sono al tutto aliene
dalla verità. Perchè, rade volte accade che
M vincitore perda assai suoi soldati: perchè de5
vincitori ne muore nella zuffa, non nella
fuga ; e nello ardore del combattere, quando
gli uo- mini hanno volto il viso 1*
uno all* altro, ne cade pochi, massime
perchè la dura poco tempo il più
delle volte; e quando pur durasse assai
tempo, e de’ vincitori ne morisse assai, è tanta
la riputazione che si tira dietro la
vittoria, ed il ter- rore che la porta
seco, che di lunga avanza il danno
che per la morte de'suoi soldati avesse
sopportato. Talché, se uno esercito il
quale, in su la oppinione che e*
fusse debilitato, andasse a trovarlo, si
troverebbe ingannato; se già non fusse l’esercito
tale, che d’ogni tempo, e to- nanti alla
vittoria e poi, potesse com- batterlo. In questo
caso e’ potrebbe, se- condo la sua fortuna
e virtù, vincere e perdere; ma quello clic
si fusse az- zuffato prima, ed avesse
vinto, arebbe piuttosto vantaggio dall’altro. 11
che si conosce certo per la esperienza
de’ Lati- ni e per la fallacia che Nummo
pretore prese, e per il danno che ne
riportorno quelli popoli che gli crederono:
il quale, vinto che i Romani ebbero i
Latini, gri-dava per tutto il paese di
Lazio, che allora era tempo assaltare i
Romani de- bilitati per la zuffa avevano
fatta con loro; e che solo appresso i
Romani era rimaso il nome della vittoria,
ma tutti gli altri danni avevano sopportati
come se fussino stati vinti; c che ogni
poco di forza che di nuovo gli
assaltasse, era per spacciargli. Donde quelli
popoli che gli crederono, fecero nuovo
esercito, e su- bito furono rotti, e patirono
quel danno che patiranno sempre coloro che
ter- ranno simili oppinioni. Gap. XXIIL — Quanto i
Romani nel giudicare i sudditi per alcuno acci- dente
che necessitasse tal giudizio j fuggivano la
via del mezzo.
Jam Laiio is status crai rerum * ut ncque
pacem , ncque bcllum pati possnnt. Di tutti
gli stati infelici, è infelicissimo quello d’
un principe o d’ una repub- blica clic è
ridotto in termine che non
può ricevere la pace, o sostenere la guerra
: a che si riducono quelli che sono dalie
condizioni della pace troppo offesi ; e dall’
altro canto, volendo far guerra, convien
loro o gittarsi in preda di chi gli
aiuti, o rimanere preda del nimico. Ed a
tutti questi termini, si viene per cattivi
consigli, e cattivi pala- titi, da non avere
misuralo bene le forze sue, come di
sopra si disse. Perchè quella repubblica o
quei principe che bene le misurasse, con
difficultà si cou- durrebbe nel termine si
condussono i Latini: i quali quando non dovevano accordare
con i Romani, accordarono; e quando non dovevano
rompere loro guerra, la ruppono: e così
seppono fare in modo, che la inimicizia
ed amicizia dei Romani fu loro ugualmente
danno- sa. Erano, adunque, vinti i Latini ed al tutto
afflitti, prima da Manlio Torquato, e dipoi
da Cammillo: il quale avendogli costretti a
darsi e rimettersi nelle brac- cia de’ Romani, ed
avendo messo la guar- dia per tutte le
terre di Lazio, e preso da tutte gli
staticità ; tornato in Roma, riferì al
Senato come tutto Lazio era nelle mani' del
Popolo romano. E per- chè questo giudizio è
notabile, e ineritad’ essere osservato, per
poterlo imitare
quando simili occasioni sono date a’ principi,
io voglio addurre le parole di Li- vio
poste in bocca di Cammillo; le quali fanno
fede e del modo che i Romani tennono in
ampliare, e come ne’ giudizi di Stato sempre
fuggirono la via del mezzo, e si volsono
agli estremi: perchè un governo non è altro
che tenere in modo i sudditi, che non
ti possano o debbano offendere. Questo si
fu o con assicurarsene in tutto, togliendo loro ogni
via da nuocerti; o con beneficargli in
modo, che non sia ragionevole ch’egli- no
abbino a desiderare di mutar fortuna. li
che tutto si comprende, e prima per la
proposta di Cammillo, c poi per il giudizio
dato dal Senato sopra quella. Le parole
sue furono queste: Dii im- mortale s ita
vos potentcs hujus constiti fecerunl, ut
sit Lalium, an non sii , in vostra manu
posuerint. Jtaque pacctn vobiSj quod ad
Lalinos allinei, parare in perpeluum, vcl
scevicndo, vel ig na- scendo potestis. Vultis
crudeliter consti- leve in dedilos, viclosque ?
licei delere omno I. aduni. Vultis, exemplo
majorum, auqcrc rem romanam , viclos in civita- lem
accipiendo ? materia crescendi per summam gloriam
suppeditat. Certe id fìrmissimum imperium est,
quo obedien- tes gaudenl. Illorum igitur anirnos
, dum cxpcctatione , slupenl, seti pana, seu benefìcio
prceoccupari opportet. A questa proposta successe
la deliberazione del Senato: la quale fu,
secondo le parole del Consolo, che recatosi
innanzi, terra per terra, tutti quelli eh’
erano di mo- mento, o gli beneficarono o gli
spenso- no ; facendo ai beneficati esenzioni, pri
vilegi, donando loro la città, e da ogni parte
assicurandogli ; di quelli altri dis- fecero le
terre, mandaronvi colonie, ri- dussongli in
Roma, dissiparongli tal- mente che con \9
arme e con il consiglio non potevano più
nuocere. Nè usorno mai la via neutrale
in quelli, come ho detto, di momento.
Questo giudizio deb- bono i principi imitare. A
questo do- vevano accostarsi i Fiorentini, quando nel
1502 si ribellò Arezzo, e tutta la Val
di Chiana : il che se avessino fatto, nrebbero
assicurato l’ imperio loro, e fatta grandissima
la città di Firenze, e datogli quelli
campi che per vivere gli mancano. Ma
loro usarono quella via del mezzo, la
quale è perniziosissima nel giudicare gli uomini;
e parte degli Aretini ne confinarono, parte
ne con- dennarono; a tutti tolsono gli
onori e gli loro antichi gradi nella
città; e la- sciarono la città intera. E se
alcuno cit- tadino nelle deliberazioni consigliava che Arezzo
si disfacesse ; a quelli che pareva esser
più savi, dicevano come sarebbe poco onore
della repubblica disfarla, perchè parrebbe che
Firenze mancasse di forze di tenerla. Le
quali ragioni sono di quelle che paiono e
non sono vere; perchè con questa medesima
ragione non si arebbe ad ammazzare uno
parricida, uno scellerato e scandaloso, sendo vergogna
di quel principe mostrare di non aver
forze da poter frenare uno uomo solo. E
non veggono questi tali che hanno simili
oppinioni, come gii uomini particolarmente, ed
una città tutta in-sieme pecca talvolta
contra ad uno Stato, che per esempio
agli altri, per sicurtà di sé, non ha
altro rimedio un principe che spengerla. E
l’onore con-siste nel sapere e potere castigarla
; non nel potere con mille pericoli tenerla: perchè
quel principe che non castiga chi erra,
in modo che non possa più errare, è
tenuto o ignorante o vile. Questo giudizio che i
Romani dettero, quanto sia necessario si
conferma ancora per la sentenza che dettero
de’ Privernati.
Dove si debbe, per ii testo di
Livio, no-tare due cose: 1’ una, quello
che di so-pra si dice, che i sudditi
si debbono o beneficare o spengere: Poltra,
quanto la generosità dell’ animo, quanto il
par- lare il vero giovi, quando egli è detto uel
conspetto degli uomini prudenti. Era ragunato
ii Senato romano per giudicare de’ Privernati, i
quali sendosi ribellati, erano di poi per
forza ritornati sotto la ubbidienza romana.
Erano mandati dal popolo di Priverno molti
cittadini per impetrare perdono dal Senato; ed essendo
venuti al conspetto di quello, fu detto
ad un di loro da un de’ Sena- tori,
quam pcenam merilos Privernales censeret. Al
quale Privernate rispose : E am y quam
merentur qui se libevtale dignos ccnsent.
Al quale il Consolo re- plicò : Quid si
pcenam remiltimus vobis, qualcm nos pacati i
vobiscum habituros speremus ? A che quello
rispose: Si bo~m tm dederitis , et fidelem
et perpetuarli ; si malam , haud diuturna
m. Donde la più savia parte del
Senato, ancora che molli se n’ alterassino,
disse: se audi •visse vocem el liberi
et viri ; nec credi posse Uhm popolum , aul
hominem, de nique in ea condilione cujus
eum pestìi -teat, diutius quam nccesse sii,
mansu rum. ibi pacem esse fidam , ubi
volun-tarii pacati svit , ncque eo loco ubi
scr-vitutem esse velini , / idem sperandovi esse.
Ed in su queste parole, deliberorno che i
Privcrnati fussero ciltadini roma- ni, e de’
privilegi della civililà gli ono- rarono, dicendo
: eos demum qui nihil prceterquam de
liberiate cogitant,dignos esse , qui Romani fiant.
Tanto piacque agli animi generosi questa
vera e ge- nerosa risposta; perchè ogni altra ri-
sposta sarebbe stata bugiarda e vile. E coloro
che credono degli uomini altri- menti, massime
di quelli che sono usi o ad essere o a
parere loro essere li- beri, se n’ingannano; e
sotto queslo inganno pigliano partiti non
buoni per sé, e da non satisfare a
loro. Di che nascono le spesse ribellioni e
le rovine degli Stati. Ma per tornare
al discorso nostro, conchiudo, e per questo e per
quello giudizio dato dai Latini: quando si
ha a giudicare cittadi potenti, e che sono
use a vivere libere, conviene o * spegnerle o
carezzarle ; altrimenti, ogni giudizio è vano. E
debbesi fuggir al tutto la via del
mezzo, la quale è pcr-niziosn, come la
fu a’ Sanniti quando avevano rinchiuso i
Romani alle forche Caudine; quando non
volleno seguire il parere di quel vecchio,
che consigliò che i Romani si lasciassero
andare ono-rati, o che s’ ammazzassero tutti ; ma
pigliando una via di mezzo disarman- dogli c
mettendogli sotto il giogo, gli lasciarono
andare pieni d’ ignominia e di sdegno.
Talché poco dipoi conobbero con lor danno
la sentenza di quel vec- chio essere stata
utile, e la loro dili-berazione dannosa; come
nel suo luogo più appieno si discorrerà..
XXIV. — Le fortezze generalmente sono molto
più dannose che utili.
Parrà forse a questi savi de* nostri tempi
cosa non bene considerata, che i Romani
nel volere assicurarsi dei popoli di Lazio
e della città di Priverno, non pensassino
di edificarvi qualche fortezza, la qual
fusse un freno a tenergli in fe- de; sendo,
massime, un detto in Firenze, allegato da*
nostri savi, che Pisa e P al- tre simili
città si debbono tenere con le fortezze. E
veramente, se i Romani fus- sino stati
fatti come loro, egli arebbero pensato di
edificarle; ma perchè egli erano d* altra
virtù, d’ altro giudizio, d’ altra potenza,
e’ non le edificarono. E mentre che Roma
visse libera, e che la seguì gli ordini
suoi e le sue vir- tuose constiluzioni, mai
n’edificò per tenere o città o provincie; ma
salvò bene alcune delle edificate. Donde ve- duto
il modo del procedere de’ Romani
in questa parte, e quello eie’ prìncipi de’
nostri tempi, mi pare da mettere in considerazione,
se gli è bene edificare fortezze, se le
fanno danno o utile a quello che I’
edifica. Dehbesi, adunque, considerare come le
fortezze si fanno o per difendersi
da’nimici, o per difen- dersi da’ soggetti. Nel
primo caso le non sono necessarie; nel
secondo dan- nose. E cominciando a render ragione perchè
nel secondo ^caso le siano dan- nose, dico
che quel principe o quella repubblica che
ha paura de’ suoi sud- diti e delta
ribellione loro, prima con- viene che tal
paura nasca da odio che abbiano i suoi
sudditi seco; l’odio, da’ mali suoi portamenti ;
i mali porta-menti nascono o da poter credere
te-nergli con forza, o da poca prudenza di
chi gli governa : ed una delle cose
clic fa credere potergli forzare, è l’ avere loro
addosso le fortezze; perchè i mali trattamenti,
clic sono cagione dell’ odio, nascono in
buona parte per avere quel principe, o
quella repubblica, le fortez- ze: le quali,
quando sia vero questo, di gran lunga
sono più nocive, che utili. Perchè in
prima, come è detto, le ti fanno essere
più audace e più violento nei sudditi;
dipoi, non ci è quella si- curtà che tu
ti persuadi : perchè tutte le forze, tutte
le violenze che si usano per tenere
un popolo, sono nulla eccetto che due; o
che tu abbia sempre da met- tere in
campagna* un buono esercito, come avevano i
Romani; o che gli dis- sipi, spenga, disordini,
disgiunga, in modo che non possino
convenire ad of- fenderti. Perchè se tu gP impoverisci,
spoliatis arma supersunt : se tu gli di- sarmi,
furor arma ministrai: se tu ammazzi i capi,
e gli altri segui d’ ingiu- riare, rinascono i
capi, come quelli det- P idra: se tu
fai le fortezze, le sono utili ne’ tempi
di pace, perchè ti danno più animo a
far loro male; ma ne’ tempi di guerra
sono inutilissime, perchè le so- no assaltate
dal nimico e da’ sudditi, nè è possibile
che le faccino resistenza ed all’uno ed
all’altro. E se inai furono disutili, sono
ne’ tempi nostri rispetto alle artiglierie ;
per il furore delle quali i luoghi piccoli,
e dove altri non si possa ritirare con
li ripari, è impossibile di- fendere, come di
sopra discorremmo. Io voglio questa materia
disputarla più tritamente. 0 tu, principe, vuoi
con que- ste fortezze tenere in freno il
popolo delia tua città; o tu, principe, o
tu, re- pubblica, vuoi frenare una città
occu-pata per guerra. Io ini voglio voltare al
principe, e gli dico: che tal fortezza per
tenere in freno i suoi cittadini non può
essere più inutile di quello eh’ ella è,
per le cagioni dette di sopra ; perchè la
ti fa più pronto c men rispettivo ad oppressateli
; e quella oppressione gli fa si esposti
alla tua roviua, e gli ac-cende in modo,
che quella fortezza che ne è cagione, non
ti può poi difendere. Tanto che un
principe savio e buono, per mantenersi buono,
per non dare cagione nè ardire a’ figliuoli
di diven-tare tristi, mai non farà
fortezza, ac-ciocché quelli non in su le
fortezze, ina in su la benivolenza degli
uomini si fondino. E se il conte Francesco
Sforza, diventato duca di Milano, fu riputato savio,
e nondimeno fece in Milano una fortezza ;
dico che iti questo caso ei non fu
savio, e V effetto ha dimostro, come tal
fortezza fu a danno, e non a sicurtà de’
suoi eredi. Perchè giudicando me-diante quella
viver sicuri, e potere of-fendere gli cittadini e
sudditi loro, non perdonarono ad alcuna
generazione di violenza; talché diventati sopra
modo odiosi, perderono quello Stato come prima
il nimico gli assaltò: nè quella fortezza
gli difese, nè fece loro nella guerra
utile alcuno, e nella pace avea loro fatto
danno assai. Perchè se non avessiuo avuto
quella, e se per poca prudenza avessino
maneggiati agramente i loro cittadini, arebbero
scoperto il pe- ricolo più presto, e sarebbonsene
riti- rati; ed orebbero poi potuto più
ani-mosamente resistere all’ impeto franciosoco’
sudditi amici senza fortezza, die con quelli
inimici con la fortezza: le quali non
ti giovano in alcuna parte; perchè, o le
si perdono per frali de di chi le guarda,
o per violenza di chi I’ assalta, o per
fame. E se tu vuoi che le ti gio- vino,
e ti aiutino a ricuperare uno Stato perduto,
dove ti sia solo rimaso la for- tezza ;
ti conviene avere uno esercito, con il
quale tu possa assaltare colui che t’ha
cacciato: e quando tu abbia questo esercito,
tu riavesti lo Stato in ogni mo- do,
eziandio che la fortezza non \i fusse
; c tanto più facilmente, quanto gli uomini ti
fussiuo più amici che non ti erano avendogli
mal trattati per l’orgoglio della fortezza. E
per isperienzn s’ è vi- sto, come questa
fortezza di Milano, nè agli Sforzeschi nè
a’ Franciosi, ne’ tempi avversi dell’ uno e
dell’ altro, non ha fatto a alcunb di
loro utile alcuno; anzi a tutti ha recato
danni e rovine assai. non avendo pensato
mediante quella a più onesto modo di
tenere quello Stato. Guido Ubaldo duca di
Urbiuo, figliuolo di Federigo, che fu ne’
suoi tempi tanto stimato capitano, sendo
cacciato da Ce* sarc Borgia, figliuolo di
papa Alessan- dro VI, dello stato; come
dipoi, per uno accidente nato, vi ritornò,
fece rovinare tutte le fortezze clic erano
in quella pro- vincia, giudicandole dannose. Perchè, sendo
quello amato dagli uomini, per rispetto di
loro non le voleva ; e per conto de’
nimici, vedeva non le poter di- fendere,
avendo quelle bisogno d’ uno esercito in
campagna, che le difendesse; talché si
volse a rovinarle. Papa Iulio, cacciati i
Bentivogli di Bologna, fece in quella città
una fortezza ; e dipoi faceva assassinare quel
popolo da un suo go- vernatore : talché quel
popolo si ribellò, e subito perde la
fortezza ; e cosi non gli giovò la fortezza
e 1* offese, intanto clic portandosi altrimenti,
gli arebbe giovato. Niccolò da Castello,
padre de’ Yi teili, tornato nella sua
patria donile era esule, subito disfece due
fortezze vi aveva edificale papa Sisto IV,
giudican- do, non la fortezza, ma la benivolenza del
popolo l’avesse a tenere in quello stato.
Ma di tutti gli altri essempi il più
fresco, il più notabile in ogni parte, ed
atto a mostrare la inutilità dello edi- ficarle e
1’ utilità del disfarle, è quello di
Genova, seguito ne’ prossimi tempi. Ciascuno
sa come, nel 1507, Genova si ribellò
da Luigi XII re di Francia, il quale
venne personalmente e con tutte le forze
sue a racquietarla ; e ricuperata che 1’ ebbe,
fece una fortezza, fortissima di tutte l’
altre delle quali al presente si avesse
notizia: perchè era per silo e per
ogni altra circonstanza inespugna-) bile, posta
in su una punta di colle che si
distende nel mare, chiamato dai Ge- novesi
Codefa ; e per questo batteva tutto il
porto, e gran parte della terra di Ge- nova.
Occorse poi, nel 1512, che sendo cacciate
le genti franciose d’ Italia,. Gc- novo,
nonostante la fortezza, si ribellò; e prese
lo stalo di quella Ottaviano Fre-
*goso, il quale con ogni industria, in termine
di sedici mesi, per fame la espugnò. E ciascuno
credeva e da molti» n* era consigliato, che
la conservasse per suo rifugio in ogni
accidente: ma esso, come prudentissimo,
conoscendo che non le fortezze, ma la
volontà degli uomini mantenevano i principi in
stato, la ro-vinò. E cosi, senza fondare lo
stato suo in su la fortezza, ma in
su la virtù e prudenza sua, lo ha
tenuto e tiene. E dove a variare lo stato
di Genova sole- vano bastare mille fanti,
gli avversari suoi l’ hanno assaltato con
diecimila, e non T hanno potuto offendere. Vedesi
adunque per questo, come il disfare la fortezza
non ha offeso Ottaviano, ed il farla
non difese il re di Francia. Per- chè,
quando e’ potette venire in Italia con
l’ esercito, e’ potette ricuperare Ge- nova,
non vi avendo fortezza; ma quando e’
non potette venire in Italia con
l’cser-cito, e* non potette tenere Genova,
aven-dovi la fortezza. Fu, adunque, di spesa al
re di farla, e vergognoso il perderla; a
Ottaviano glorioso il racquistarla, ed utile
il rovinarla. Ma vegnamo alle re- pubbliche
che fanno le fortezze noli nella patria,
ma nelle terre che le acqui- stano. Ed a
mostrare questa fallacia, quando e’ non
bastasse V essempio detto di Francia e di
Genova, voglio mi basti Firenze e Pisa :
dove i Fiorentini fecero le fortezze per
tenere quella città ; e non conobbero che
una città stata sempre inimica del nome
fiorentino, vissuta li- bera, e che ha alla
ribellione per rifu- gio la libertà, era
necessario, volendola tenere, osservare il modo
romano; o farsela compagna, o disfarla. Perchè la
virtù delle fortezze si vidde nella venula del
re Carlo; al quale si dettono o per poca
fede di chi le guardava, o per ti- more
di maggior male: dove, se le non fussino
state, i Fiorentini non arcbbero fondato 11
potere tenere Pisa sopra quelle, e quel
re non arebbe potuto per quella via
privare i Fiorentini di quella città; e gli
modi con li quali si fussi mantenuta
fino a quel tempo, sarebbero stati per
avventura sufficienti a conser- varla, e senza dubbio
non arebbero fatto più cattiva pruova che
le fortezze. Con- chiudo dunque, che per
tenere la patria propria, la fortezza è
dannosa ; per te- nere le terre che si
acquistano, le for- tezze sono inutili: e voglio
mi basti I’ autorità de’ Romani, i quali
nelle terre che volevano tenere con
violenza, smu- ravano, e non muravano. E chi contra questa
oppinione n’allegassi negli anti- chi tempi
Taranto, e ne’ moderni Bre- scia, i quali luoghi
mediante le fortezze furono ricuperati dalla
ribellione dei sudditi ; rispondo che alla
ricuperazione di Taranto, in capo d’ uno
anno, fu mandato Fabio Massimo con tutto lo
esercito, il quale sarebbe stato alto a ricuperarlo
eziandio se non vi fusse stata la
fortezza; e se Fabio usò quella via, quando
la non vi fusse stata dareb- be usata
un’altra, che arebbe fatto il medesimo
effetto. Ed io non so di che utilità
sia una fortezza che, a renderti la terra,
abbia bisogno, per la ricupe-razione d’
essa d* uno esercito consolare, e d’ un
Fabio Massimo per capitano. E che i Romani
1* avessino ripresa in ogni modo, si
vide per V essempio di Capova ; dove
non era fortezza, e per virtù dello
esercito la riacquistarono. Ma vegliamo a Brescia.
Dico, come rade volte occorre quello che è
occorso in quella ribellione, clic la
fortezza che rimane nelle forze tue, sendo
ribellata la terra, abbia uno esercito
grosso e propinquo, coiti’ era quel de’
Franciosi : perchè, essendo mon- signor di Fois,
capitano del re, con l’esercito a Bologna,
intesa la perdita di Brescia, senza
differire ne andò a quella volta, ed
in tre giorni arrivato a Brescia, per la
fortezza riebbe la terra. Ebbe, pertanto,
ancora la fortezza di Brescia, a volere
clic la giovasse, bi-sogno d’ un monsignor
di Fois, c d’ un esercito francioso che
in tre dì la soc- corresse. Sì clic F
esscmpio di questo, all’ incontro degli
essempi contrari, non basta ; perchè assai
fortezze sono state, nelle guerre de’
nostri tempi, prese e riprese con la
mcdesimu fortuna che si è ripresa e presa
la campagna, non so- lamente in Lombardia,
ma in Romagna, nel regno di Napoli, c
per tutte le parti d’ Italia. Ma, quanto
allo edificar for- tezze per difendersi da’ n
inaici di fuora, dico che le non sono
necessarie a quelli popoli nè a quelli regni
che hanno buoni eserciti; ed a quelli che
non hanno buoni eserciti, sono inutili:
perchè i buoni eserciti senza le fortezze
sono sufficienti a difendersi ; le fortezze senza
i buoni eserciti non ti possono difendere. E
que-sto si vede per isperienza di quelli
che sono stati e nei governi e nell* altre cose
tenuti eccellenti; comesi vede dei Romani e
degli Spartani: che se i Ro- mani non
edificavano fortezze, gli Spar-tani non
solamente si astenevano da quelle, ma non
permettevano d’ aver mura alla loro città;
perchè volevano che la virtù dell* uomo
particolare, non .altro difensivo, gli
difendesse. Dondechè, essendo domandato uno
Spartano da uno Ateniese, se le mura
d’ Atene gli parevano belle, gli rispose:
Si, se le fussino abitate da donne.
Quel principe, adunque, che abbi buoni
eserciti, quan- do in sulle marine alla
fronte dello Stato suo abbia qualche
fortezza che possa qualche dì sostenere lo
inimico infino che sia a ordine, sarebbe qualche volta
cosa utile, ma la non è necessaria. Ma
quando il principe non ha buono esercito,
avere le fortezze per il suo Stato o
alle frontiere, gli sono o dan- nose o inutili :
dannose, perchè facil- mente le perde, e perdute
gli fanno guerra ; o se pur le fussino
sì forti che M nimico non le potesse
occupare, sono lasciate indietro dallo esercito
nimico, evennono ad essere di nessuno
frutto:
perchè i buoni eserciti, quando non hanno gagliardissimo
riscontro, entrano neipaesi nitnici senza
rispetto di città o di fortezza che si
lascino indietro; come si vede nell*
antiche istorie, e come si vede fece
Francesco Maria, il quale ne’ prossimi tempi
per assaltare Urbino si lasciò indietro
dieci città ni miche, senza alcuno
rispetto. Quel principe, adunque, che può
fare buono esercito, può fare senza
edificare fortezza; quello che non ha V
esercito buono, non debbe edificare. Debbe bene
afforzare la città dove abita, e tenerla
munita, e ben di- sposti i cittadini di quella,
per poter sostenere tanto un impelo nimico,
o che accordo, o che aiuto esterno lo liberi. Tutti
gli altri disegni sono di spesa ne’
tempi di pace, ed inutili ne’ tempi di
guerra. E così, chi considererà tutto quello
ho detto, conoscerà i Romani, come savi in
ogni altro loro ordine, cosi furono
prudenti in questo giudizio dei Latini e
de’ Privernati ; dove, non pensando a fortezze,
con più virtuosi modi e più savi se
ne assicurarono. Gap. XXV. — Che lo
assaltare una città disunita, per occuparla
mediante la sua disunione, è partito contrario. Era
tanta disunione nella Repubblica romana intra
la Plebe e la Nobiltà, clic i Veienti
insieme con gli Etrusci, me- diante tale
disunione, pensarono potere estinguere il nome
romano. Ed avendo fatto esercito, e corso
sopra i campi di Roma, mandò il Senato
loro contra Gii. Manlio e 2M. Fabio; i
quali avendo con- dotto il loro esercito
propinquo allo eser- cito de’ Veienti, non
cessavano i Veien- ti, e con assalti e con
obbrobri, offendere e vituperare il nome romano:
e fu tanta la loro temerità ed insolenza,
che i Ro- mani di disuniti diventarono uniti; e venendo
alla zuffa, gli ruppono e vin- sono. Vedesi
pertanto, quanto gli uomini s’ ingannano, come
di sopra discorrem- mo, nel pigliare
de’ parliti; c come molte volte credono
guadagnare una cosa, e la perdono.
Credeltono i Veienti assal- tando i Romani disuniti,
vincergli; c quello assalto fu cagione
della unione di quelli, e della rovina
loro. Perchè la cagione della disunione
delle repubbli- che il più delle volte è P
ozio e la pace; la cagione della unione è
la paura e la guerra. E però, se i Veienti
fussiuo stati savi, eglino arebbono, quanto
più disu- nita vedevano Roma, tanto più tenuta da
loro la guerra discosto, e con Parti della
pace cerco d’oppressargli. Il modo è cercare
di diventare confidente di quella città
ciré disunita; ed infino che non vengono
alP arme, come arbitro, maneg- giarsi intra
le parli. Venendo alParme, dare lenti
favori alla parte più debole; si per
tenergli più in su la guerra, e fargli
consumare; si perchè le assai forze non
gli facessero tutti dubitare che tu volessi
opprimergli, e diventar loro principe. E quando
questa parte è go-vernata bene, interverrà
quasi sempre che Y ara quel fine che
tu hai presup- posto. La città di Pistoia,
come in altro discorso e ad altro proposito
dissi, non venne alla Repubblica di Firenze con
altra arte che con questa; perchè, sendo
quella divisa, c favorendo i Fio- rentini or
Furia parte or l’altra, senza carico dell’
una e dell’ altra, la condus- sono in
termine, che, stracca di quel suo vivere
tumultuoso, venne sponta- neamente a gittarsi nelle
braccia di Fi- renze. La città di Siena
non ha mai mu- tato stato col favore de’
Fiorentini,' se non quando i favori sono stati
deboli e pochi. Perchè, quando e’ sono
stali assai e gagliardi, hanno fatto quella
città unita alla difesa di quello stato
che regge. Io voglio aggiungere ai
soprascritti un al- tro essempio. Filippo
Visconti, duca di Milano, più volte mosse
guerra ai Fio- rentini, fondatosi sopra le
disunioni loro, e sempre ne rimase perdente;
talché gli ebbe a dire, dolendosi delle sue
imprese, come le pazzie de’ Fiorentini gli avevano
fatto spendere inutilmente due milioni d’
oro. Restarono, adunque, co- me di sopra si
dice, ingannati i Veienli e gli Toscani da
questa oppinione, e fu- rono alfine in una
giornata superati dai Romani. IT così per
Io avvenire ne re- sterà ingannato qualunque
per simile via e per simile cagione crederà
oppres- sore un popolo. Cai». XXVI. — Il
vilipendio e V impro-perio genera odio conira a
coloro che r usano j senza alcuna loro utilità. lo
eredo che sta una delle grandi pru-denze
che usino gli uomini, astenersi o dal
minacciare, o dallo ingiuriare alcuno con le
parole: perchè 1’ una cosa e l’al- tra non
tolgono forze al nimico; ma l’una lo
fa più cauto; l’altra gli fa avere
maggiore odio contra di te, e pensare
con maggiore industria di of-fenderti. Yedesi
questo per lo essempio de* Veienti, de’
quali nel capitolo supe-riore si è discorso; i
quali alla ingiu-ria della guerra aggiunsono,
contra ai Romani, l’obbrobrio delle parole: dal quale
ogni capitano prudente debbe fare astenere i
suoi soldati ; perchè le son cose che
infiammano ed accendono il nimico alla
vendetta, ed in uessuna parte lo
impediscono, come è detto, alla offesa; tanto
che le sono tutte arme che ven- gono
contra a te. Di che ne seguì già uno
essempio notabile in Asia: dove Gabade,
capitano de’ Persi, essendo stato a campo ad
Amida più tempo, ed avendo diliberato,
stracco dal tedio della ossi- dione,
partirsi; levandosi già col campo, quelli
della terra venuti tutti in su le mura,
insuperbiti della vittoria, non perdonarono a
nessuna qualità d’ ingiu- ria, vituperando, accusando,
rimprove-rando la viltà e la poltroneria del
ni-mico. Da che Gabade irritato, mutò consiglio;
e ritornato alla ossidione, tan-ta fu la
indegnazione della ingiuria, che in pochi
giorni gli prese e saccheggiò. E questo medesimo
intervenne a’Veienti: a’ quali, coni’ è detto,
non bastando il far guerra a’ Romani,
ancora con le pa- role gli vituperarono; ed
andando in- iìno in su lo steccato
del campo a dir loro ingiuria, gl’ irritarono
molto più con le parole che con P
arme : e quelli soldati che prima combattevano
mal vo- lentieri, costrinsero i Consoli ad appic- care
la zuffa; talché i Veienti portarono la
pena, come gli antedetti, della con-tumacia
loro. Hanno adunque i buoni principi di
esercito, ed i buoni governa-tori di repubblica,
a far ogni opportuno
l imedio, che queste ingiurie e rimproveri non
si usino o nella città o nello eser- cito
suo, nè infra loro, nè contra il
ni-mico: perchè usati contra al nimico, ne nascono
gli inconvenienti soprascritti; infra loro,
farebbono peggio non vi si riparando, come
vi hanno sempre gli uomini prudenti
riparato. Avendo le le-gioni romane state
lasciate a Capova congiurato conil a a’ Capovani,
come nel
suo luogo si narrerà; ed essendone di questa
congiura nata sedizione, la quale fu poi
da Valerio Corvino quietata ; in- tra all*
altre conslituzioni che nella con- venzione si
fecero, ordinarono pene gra-vissime a coloro che
improverassino mai ad alcun di quelli
soldati tale sedizione. Tiberio Gracco, fatto
nella guerra di An- nibaie capitano sopra
certo numero di servi che i Romani, per
carestia d’uo- mini, avevano armati, ordinò,
intra le prime cose, pena capitale a qualunque rimproverasse
la servitù di alcuno di loro. Tanto
fu stimato dai Romani, co- me di sopra
s’è detto, cosa dannosa il vilipendere gli
uomini, ed il rimprove- rare loro alcuna
vergogna; perchè non è cosa che accenda
tanto gli animi loro, nè generi maggiore
sdegno, o da vero o da beffe che si
dica : ISam facetice aspcrcCj quando nimium
ex vero traxe rc, acretn sui memorianx
relinquunt. Cap. XXVII. — Ai principi e repubbli-che
prudenti debbe bastare vincere;perchè il
più delle volle j quando non basti j si perde. Lo
usare parole contra al nimico
pocoonorevoli, nasce il più delle volte
dauna insolenza che ti dà o la
vittoria ola falsa speranza della vittoria;
la qualefalsa speranza fa gli uomini ‘non
sola-mente errare nel dire, ma ancora
nellooperare. Perchè questa speranza, quandola entra
ne’ petti degli uomini, fa loropassare
il segno, e perdere il più dellevolte
quella occasione d’ avere un benecerto,
sperando d’ avere un meglio in-certo. E
perchè questo è un terminedie merita
considerazione, ingannando-cisi dentro gli uomini
molto spesso, econ danno dello stato
loro; e’ mi pareda dimostrarlo particolarmente
con es-sempi antichi e moderni, non si
potendocon le ragioni così distintamente
dimo-Digitized by Googlestrare. Annibaie, poi ch’egli
ebbe rottii Romani a Canne, mandò suoi oratoria
Cartagine a significare la vittoria, echiedere
sussidi. Disputossi nel senatodi quello s’
avesse a fare. ConsigliavaAnnone, un vecchio e
prudente cittadinocartaginese, che si usasse
questa vitto-ria saviamente in far pace coi
Romani,potendola avere con condizioni onesteavendo
vinto; e non s’aspettasse d’averlaa fare dopo
la perdita: perchè la in-tenzione de’
Cartaginesi doveva essere,mostrare ai Romani
come e’ bastavan
a combattergli ; ed avendosene avutovittoria, non
si cercasse di perderla perla speranza d’
una maggiore. Non fupreso questo partito;
ma fu bene poidal senato cartaginese
conosciuto savio,quando 1’ occasione fu
perduta. AvendoAlessandro Magno già preso
tutto l’orien-te, la repubblica di Tiro, nobile
in quellitempi e potente per avere la
loro cittàin acqua come i Veniziani, veduta
lagrandezza d’ Alessandro, gli mandaronooratori a
dirgli, come volevano esseresuoi buoni
servitori e dargli quella ub-bidienza voleva, ma
che non erano giàper accettare nè lui
nè le sue genti nellaterra : donde
sdegnato Alessandro cheuna città gli
volesse chiudere quelleporte che tutto il
mondo gli aveva aper-te, gli ributtò, e non
accettate le condi-zioni loro, vi mandò a
campo. Era laterra in acqua, e benissimo
di vettova-glie e d’ altre munizioni necessarie
alladifesa munita: tanto che Alessandro do-po
quattro mesi s* avvide, che una
cittàgli toglieva quel tempo alla sua
gloriache non gli avevano tolti molti
altriacquisti ; e diliberò di tentare 1*
accordo,e concedere loro quello che per
loromedesimi avevano domandato. Ma quellidi
Tiro insuperbiti, non solamente nonvolsero
accettare l* accordo, ina ammaz-zorono chi
venne a praticarlo. Di cheAlessandro sdegnato,
con tanta forza simise alla espugnazione,
che la prese edisfece, ed ammazzò e
fece schiavi gliuomini. Venne, nel 4512,
uno esercitospagnuolo in su 'I dominio
fiorentinoper rimettere i Medici in Firenze, e
ta-glieggiare la città, condotti da’ cittadinid’ entro,
i quali avevano dato loro spranza, che
subito fussero in su ’1 domi-nio
fiorentino, piglierebbono V arme inloro favore;
ed essendo entrati nel piano,e non si
scoprendo alcuno, ed avendocarestia di
vettovaglie, tentarono V ac-cordo: di che
insuperbito il popolo dFirenze, non lo
accettò-; donde ne nacquela perdita di
Prato, e la rovina di quelloStato. Non
possono, pertanto, i principiche sono assaltati
far il maggiore errore,quando 1* assalto è
fatto da uomini digran lunga più
potenti di loro, che ri-cusare ogni
accordo, massime quandogli è offerto: perchè
non sarà mai of-ferto si basso, che
non vi sia dentro inqualche parte il
bene essere di coluiche io accetta, e
vi sarà parte della suavittori?. Perchè
e’ doveva bastare al po-polo di Tiro,
clic Alessandro accettasse quelle condizioni
che egli aveva prima rifiutate; ed era
assai vittoria la loro, quando con Y armi
in mano avevano fatto condiscendere un
tanto uomo alla voglia loro. Doveva bastare
ancora al popolo fiorentino, e gli era
assai vittoria, se lo esercito spagnuolo
cedeva a qual- cuna delle voglie di quello, e
le sue non adempieva tutte: perchè la
intenzione di quello esercito era mutare lo
stato in Firenze, e levarlo dalla devozione di Francia,
e trarre da lui danari. Quando di tre
cose e’ ne avesse avute due, che son
1’ ultime; ed al popolo ne fusse re* stata
una, che era la conservazione dello stato
suo; ci aveva dentro ciascuno qual- che
onore e qualche satisfazione, nè si doveva
il popolo curare delle due cose, rimanendo
vivo ; nè doveva, quando bene egli avesse
veduta maggiore vittoria, e quasi certa,
voler mettere quella in al- cuna parte a
discrezione della fortuna, andandone Y ultima
posta sua: la quale qualunque prudente mai
arrischierà se non necessitato. Annibaie partito
iT Ita-lia, dove era stato sedici anni
glorioso, richiamato da’ suoi Cartaginesi a soc- correre
la patria, trovò rotto Asdrubale e Siface;
trovò perduto il regno di Nu- midia;
ristretta Cartagine intra i termini delle sue
mura, alla quale non restava altro rifugio,
che esso e T esercito suo : e conoscendo
come quella era 1’ ultima posta della
sua patria, non volle prima metterla a
rischio, di’ egli ebbe ten- tato ogni altro
rimedio; e non si ver- gognò di domandare
la pace, giudicando se alcuno rimedio aveva
la sua patria, era in quella, e non
nella guerra: quale sendogli poi negata,
non volle mancare, dovendo perdere, di
combattere; giudi- cando potere pur vincere ; o
perdendo, perdere gloriosamente. E se Annibaie, il
quale era tanto virtuoso ed aveva il suo
esercito intero, cercò prima la pace che
la zuffa, quando ci vide che per- dendo
quella, la sua patria diveniva ser-va ; che
debbe fare un altro di manco virtù e
di manco isperienza di lui? Ma gli
uomini fanno questo errore: che non sanno
porre termini alle speranze loro, ed in
su quelle fondandosi, senza mi*surarsi
altrimenti, rovinano.Cap. XXVIII. — Quanto sia
pericoloso
ad una repubblica o ad uno principe non
vendicare una ingiuria falla con-tro al
pubblico o conira al privalo. Quello che
facciano fare agli uomini gli sdegni,
facilmente si conosce per quello che
avvenne ai Romani, quando e’ mandarono i
tre Fabi oratori ai Fran- ciosi, che erano
venuti ad assaltare la Toscana, ed in
particolare Chiusi. Per- chè, avendo mandato il
popolo di Chiusi per aiuto a Roma, i Romani
mandarono ambasciatori a’ Franciosi, che in nome del
Popolo romano significassero a quelli, si
astenessino di far guerra ai Toscani. I
quali oratori, sendo in su M luogo, e più
atti a fare che a dire, venendo i Franciosi
c i Toscani alla zuffa, si mi- sero intra i
primi a combattere contra a quelli : onde ne
nacque che essendo conosciuti da loro,
tutto lo sdegno che avevano contra a’
Toscani, volsero con- tea ai Romani. 11
quale sdegno diventò maggiore, perchè, avendo i
Franciosi per loro ambasciadori fatto querela con
il Senato romano di tale ingiuria, e do- mandato
che in satisfazione del danno fussino dati
loro i soprascritti Fabi; non solamente non
furono consegnati loro, o in altro modo
castigati; ma ve- nendo i comizi, furono fatti
Tribuni con potestà eousolare. Talché, veggendo i
Franciosi quelli onorati che dovevano esser
puniti, ripresono tutto esser fatto in loro
dispregio ed ignominia; ed ac- cesi d’ ira
e di sdegno, vennero ad as- saltare Roma, e
quella presero, eccetto il Campidoglio. La
quale rovina nacque a* Romani solo per
la inosservanza della
giustizia; perchè avendo peccato i loro ambasciatori
conira jus gcntiunij e do-
vendo esser gastigati, furono onorati. Però è
da considerare quanto ogni re- pubblica ed
ogni principe debbe tenere conto di fare
simile ingiuria, non sola- mente contra ad
una universalità, ma ancora contra ad uno
particolare. Per- chè, se uno uomo è offeso
grandemente o dal pubblico o dal privato, e non
sia
vendicato secondo la satisfazione sua; se
e’ vive in una repubblica, cerca an- cora
con la rovina di quella vendicarsi ; se
e’ vive sotto un principe, ed abbia in
sè alcuna generosità, non si acquieta mai,
in fino che in qualunque modo si vendichi
contra di lui, ancora che egli vi
vedesse dentro il suo proprio male. Per
verificare questo, non ci è il più bello
nè il più vero essemrpio che quello di
Filippo di Macedonia, padre di Ales- sandro.
Aveva costui in la sua corte Pausania,
giovine bello e nobile, del quale era
innamorato Aitalo; uno de' pri- mi uomini che
fusse presso a Filippo; cd a\endolo più
volte ricerco che dovesse consentirgli, e
trovandolo alieno da si- mili cose, deliberò
di avere con inganno e per forza quello
che per altro verso vedeva non potere
avere. E fatto un so- lenne convito, nel
quale Pausania e molti altri nobili baroni
convennero, fece, poi- ché ciascuno fu pieno
di vivande e di vino, prendere Pausania ; e
condottolo allo stretto, non solamente per forza sfogò
la sua libidine, ma ancora, per maggiore
ignominia, lo fece da molti degli altri
in simile modo vituperare. Della quale
ingiuria Pausania si dolse più volte con
Filippo ; il quale, avendolo tenuto un
tempo in speranza di vendi- carlo, non
solamente non lo vendicò, ma prepose Attalo
al governo d’ una provincia di Grecia.
Donde Pausania, vedendo il suo nimico
onorato e non gastigato, volse tutto lo
sdegno suo non contra a quello che gli
aveva fatto in-giuria, ma conira a Filippo
che non P aveva vendicato: ed una mattina
so- lenne, in su le nozze della figliuola
di Filippo maritata ad Alessandro di Epiro, andando
Filippo al tempio a celebrarle, in mezzo di
due Alessandri, genero e figliuolo, l’ammazzò.
Il quale essempio è molto simile a quello
de’ Romani, no- tabile a qualunque governa: che
mai non debba tanto poco stimare un uomo, che
e’ creda, aggiungendo ingiuria sopra ingiuria,
che colui che è ingiuriato non pensi di
vendicarsi con ogni .suo peri-colo e particolar
danno. Cap. XXIX. — La fortuna accieca gli animi
degli uominij quando la non imolc che
quelli si opponghino a* di-segni suoi. Se
e’ si considerrà bene come proce-dono le
cose umane, si vedrà molte volte nascere
cose e venire accidenti a’ quali i cieli al
tutto non hanno voluto che si provvegga. E
quando questo eh’ io dico intervenne a
Roma, «love era tanta virtù, tanta
religione e tanto ordine; non è meraviglia
che gli intervenga molto più spesso in
una città o in una provincia che manchi
delle cose sopradette. E per-chè questo luogo è
notabile assai a di-mostrare la potenza del
cielo sopra le cose umane, Tito Livio
largamente e con parole efficacissime lo
dimostra ; di-cendo come, volendo il cielo a
qualche fine, che i Romani conoscessono la
po-tenza sua, fece prima errare quelli
Fa-bi che andarono oratori a’ Franciosi, e
mediante F opera loro gli concitò a far
guerra a Roma: dipoi ordinò, che per
reprimere quella guerra non si fa-cesse in
Roma cosa alcuna degna del Popolo romano;
avendo prima ordinato che Camillo, il quale
poteva essere solo unico rimedio a tanto
male, fusse man- dato in esilio ad Ardea:
dipoi venendo i Franciosi verso Roma, coloro
che per rimediare allo impeto de’Volsci, ed
altri finitimi loro inimici, avevano creato molte
volte un Dittatore, venendo i Franciosi non
lo crearono. Ancora, nel fare la elezione
de’ soldati, la feciono debole e senza
alcuna istraordinaria diligenza; e furono tanto
pigri a pigliare l’ arme, che a fatica
furono a tempo a scontrare i Franciosi sopra
il fiume d’ Allia, disco* sto a Roma dieci
miglia. Qui i Tribuni posero il loro campo,
senza alcuna con* sueta diligenza ; non
provvedendo il luogo prima, nou si
circondando con fossa e con steccato, non
usando alcuno rimedio umauo o divino ; e nello
ordi- nare la zuffa, fecero gli ordini rari
e deboli: in modo che nè i soldati uè
i capitani fecero cosa degna della romana disciplina.
Combattessi poi senza alcuno sangue; perchè e’
fuggirono prima che fussiuo assaltati, e la
maggior parte se ne andò a Veio, 1’
altra si ritirò a Ro- ma; i quali senza
entrare altrimenti nelle case loro, se ne
entrarono in Cam-
pidoglio; in modo che il Senato, senza peusare
di difender Roma, non chiuse, non che
altro, le porte; e parte se ne fuggi,
parte con gli altri se ne entra- rono
in Campidoglio Pure, nel difender quello
usarono qualche ordine non tu-multuario; perchè
e’ non lo aggravarono di genti inutili;
messonvi tutti i fru-menti che poterono,
acciocché potessino sopportare 1’ ossidione j e
della turba inutile de’ vecchi e delle
donne e de’ fan-ciulli, la maggior parte se
ne fuggi nelle
terre circunvicine, il rimanente restò in Roma
in preda de’ Franciosi. Talché, chi avesse
letto le cose fatte da quel popolo tanti
anni innanzi, e leggesse dipoi quelli tempi,
non potrebbe a nessun modo cre- dere che
fusse stato un medesimo po- polo. E detto
che Tito Livio ha tutti i sopraddetti
disordini, conchiude: Adeo obcoecat animo» fortuna ,
cum vini suam ingruentem refringi non vult.
Nè può essere -43ÌÙ vera «{«està
conclusione: on- de gli uomini che vivono
ordinariamente nelle grandi avversità 0 prosperità, me-
ritano manco laude 0 manco biasimo. Perchè il
più delle volte si vedrà quelli ad
una rovina e ad una grandezza es- scr
stati condotti da una comodità grande che
gli hanno fatto i cieli, dandogli oc-casione, o
togliendoli di potere operare virtuosamente. Fa
bene la fortuna que-sto, che la elegge
uno uomo, quando la voglia condurre cose
grandi, di tanto spirito e di tanta virtù,
che e’ conosca quelle occasioni che la gli
porge. Cosi medesimamente, quando la voglia con- durre
grandi rovine, la vi prepone uo-mini che
aiutino quella rovina. E se alcuno fusse
che vi potesse ostare, o la lo ammazza, o
la lo priva di tutte le facultà da
potere operare alcun bene. Conoscesi questo benissimo
per questo testo, come la fortuna per
far maggiore Roma, e condurla a quella grandezza venne,
giudicò fusse necessario batterla (come a lungo
nel principio del seguente libro discorreremo),
ma non volle già in tutto rovinarla. E
per questo si vede che la fece
esulare, e non morire, Cam- mino; fece pigliare
Roma, e non il Cam-pidoglio ; ordinò che i
Romani, per ri parare Roma, non pensassino
alcuna cosa buona; per difendere il Campido-glio,
non mancarono di alcuno buono or-dine.
Fece, perchè Roma fusse presa, che la
maggior parte de’ soldati che fu-rono rotti
ad Allia, se n’ andarono a Veio; e
così, per la difesa della città di Roma,
tagliò tutte le vie. E nell’ ordinar questo,
preparò ogni cosa alla sua ricupe- razione ;
avendo condotto uno esercito romano intero a
Veio, e Cammillo ad Ardea, da poter fare
grossa testa, sotto un capitano non
maculato d’ alcuna igno- minia per la ' perdita,
ed intero nella sua riputazione, per la
ricuperazione della patria sua. Sarebbeci da
addurre in confirmazione delle cose delle qual- che
essempio moderno; ma per non gli giudicare
necessari, potendo questo a qualunque satisfare,
gli lascerò indietro. Affermo bene di
nuovo, questo essere verissimo, secondo che
per tutte ì’islo- rie si vede, che
gli uomini possono se- condare la fortuna e
non opporsegli; possono tessere gli orditi
suoi, e non rompergli. Debbono bene non si
abban- donare mai ; perchè non sappiendo il fine
suo, ed andando quella per vie tra- verse
ed incognite, hanno sempre a spe-rare, e sperando
non si abbandonare in qualunque fortuna ed
in qualunque tra-vaglio si trovino.
Cap. XXX. — Le repubbliche c gli prin-cipi
veramente polenti non comperano l* amicizie
con danari, ma con la virtù e con la
riputazione delle forze. Erano i Romani assediati
nel Campi-doglio, ed ancoraché gli aspettassino
il soccorso da Veio e da Cammillo, sendo cacciati
dalla fame, vennono a compo- sizione con i
Franciosi di ricomperarsi certa quantità d'oro; e
sopra tale con-venzione pesandosi di già
l’oro, so-pravvenne Cammillo con V esercito suo
:il che fece, dice lo istorico, la
fortuna,ut Romani auro redempti non vivcrent.
La qual cosa non solamente è notabile in
questa parte, ma cziam nel processo delle
azioni di questa Repubblica ; dove si vede
che mai acquistarono terre con danari, mai
feciono pace con danari, ma sempre con
la virtù delle armi: il che non credo
sia mai intervenuto ad alcuna altra
repubblica. Ed intra gli altri segni per i
quali si conosce la po-tenza d’ uno
Stato, è vedere come e' vive con gli
vicini suoi. E quando e’ si go- verna in
modo che i vicini, per averlo amico, siano
suoi pensionari, allora è certo segno che
quello Stato è potente: ma quando detti
vicini, ancoraché in- feriori a lui, traggono da
quello danari, allora è segno grande di
debolezza di quello. Legghinsi tutte le
istorie romane, e vedrete come i Massiliensi, gli
Edui, Rodiani, lerone siracusano, Eumene e Massinissa
regi, i quali tutti erano vi- cini ai
confini dello imperio romano, per avere
l’amicizia di quello, concor- revano a spese ed a
tributi ne’ bisogni d’ esso, non cercando
da lui altro pre- mio che lo essere
difesi. Al contrario
si vedrà negli Stati deboli: e comin- ciandosi
dal nostro di Firenze, ne’ tempi passati,
nella sua maggior riputazione, non era
signorotto in Romagna che non avesse da
quello provvisione; e di più la dava ai
Perugini, ai Castellani, e a tutti gli
altri suoi vicini. Che se questa città
fusse stata armata e gagliarda, sa- rebbe tutto
ito per contrario: perchè tutti, per avere
la protezione di essa, arebbero dato danari
a lei, e cereo non di vendere la loro amicizia,
ma di com-perare la sua. Nè sono in
questa viltà vissuti soli i Fiorentini, ma i
Yiniziani, ed il re di Francia; il
quale, con uno tanto regno, vive tributario
de’ Svizzeri
e del re d’ Inghilterra. Il che tutto
na-sce dallo avere disarmali i popoli suoi, ed
avere piuttosto voluto, quel re e gli altri
prenominati, godersi un presente
utile di potere saccheggiare i popoli, e fuggire
uno immaginato piuttosto che vero pericolo,
che fare cose che gli as- sicurino, e
faccino i loro Stati felici in perpetuo. li
quale disordine se parto- risce qualche tempo
qualche quiete, è cagione col tempo di
necessità, di danni e rovine irrimediabili. E
sarebbe lungo raccontare quante volte i
Fiorentini, Ve- niziani, e questo regno, si
sono ricom- perati in su le guerre ; e
quante volte si sono sottomessi ad una
ignominia, che i- Romani furono una sola
volta per sottomettersi. Sarebbe lungo raccontare quante
terre i Fiorentini e Veniziatri hanno comperate;
di che si è veduto poi ii disordine, e
come le cose che si acquistano con 1’
oro, non si sanno difendere col ferro.
Osservarono i Ro- mani questa generosità e questo modo di
vivere, mentre che vissono liberi; ma
poiché egli entrarono sotto gli im- peradori,
e che gli imperadori comin- ciarono ad esser
cattivi, ed amore più P ombra che il
sole, cominciarono an- cora essi a ricomperarsi,
ora dai Parti, ora dai Germani, ora
da altri popoli convicitty: il che fu
principio della ro- vina di tanto imperio.
Procedevano, per- tanto, simili inconvenienti dallo
avere disarmati i suoi popoli: di che ne
re- sulta un altro maggiore, che quanto il nimico
più ti s’ appressa, tanto ti trova più
debole. Perchè chi vive ne’ modi delti
di sopra, traila male quelli sud- diti che
sono dentro all’ imperio suo, per avere
uomini ben disposti a tenere il nimico discosto.
Di questo nasce, che per. tenerlo più
discosto, ei dà provvi- sione a questi signori e
popoli che sono propinqui ai confini suoi.
Donde nasce che questi Stati così fatti
fanno uu poco di resistenza in sui
confini, ma comeii nimico gli ha passati,
ei non hanno ri- medio alcuno. E non si
avveggono, co- me questo modo del loro
procedere è conila ad ogni buono ordine.
Perchè il cuore c le parti vitali d*
uu corpo si hanno a tenere armate, e non l’
estre- mità d’esso; perchè senza quelle si vive, ed
offeso quello si muore : c questi Stati tengono
il cuore disarmato, e le maui c li piedi
armati. Quello che abbia fatto questo
disordine a Firenze, si è veduto, e vedesi ogni
di: chè come uno eser- cito passa i
confini, e che gli entrano propinquo al
cuore, non ritrova più alcuno rimedio. De’
Veniziani si vidde pochi anni fono la
medesima pruova; c se la lorp città non
era fasciata dal- P acque, se ne sarebbe
veduto it fine. Questa isperienza non si è
vista sì spesso in Francia, per essere
quello sì gran regno, eh* egli ha
pochi nimici supe-riori. Nondimeno, quando gli
Inghilesi, nel 1513, assaltarono quel regno,
tremò tutta quella provincia; ed il re
mede- simo, e ciascuno altro, giudicava che una
rotta sola gli potesse torre lo Stato. Ai
Romani interveniva il contrario; per- chè quanto
più il nimico si appressava a Roma, tanto
più trovava quella città potente a resistergli. E
si vidde nella ventila d’ Annibaie in
Italia, che dopo tre rotte, c dopo tante
morti di capi- tani e di soldati, ei
poterono non solo sostenere il nimico, ma
vincere la guerra. Tutto nacque dallo avere
bene armato il cuore, e delle estremità
tenere poco conto. Perchè il fondamento
dello stato suo era il popolo di
Roma, il nome la-tino, e V altre terre
compagne in Italia, e le loro colonie;
donde e' traevano tanti soldati, che furono
suftmenti con quelli a combattere, e tenere il
mondo. E che sia vero, si vede per la
domanda che fece Annone cartaginese a quelli
oratori d’ Annibaie dopo la rotta di Canne:
i quali avendo magnificato le cose fatte da
Annibaie, furono domandali da An-none, se
del popolo romano alcuno era venuto a
domandar pace, e se del nome latino e delle
colonie alcuna terra si era ribellata dai
Romani; e negando quelli l’ una e l’altra cosa,
replicò Annone: Questa guerra è ancora intera
come prima. Vedesi, pertanto, e per questo discorso,
e per quello che più volte ab bianio
altrove detto, quanta diversità sia dal
modo del procedere delle repub-bliche presenti, a
quello delle antiche. Vedesi ancora per
questo ogni di mira- colose perdite e miracolosi
acquisti. Per- chè, dove gli uomini hanno
poca virtù, la fortuna dimostra assai la
potenza sua; e perchè la è varia, variano
le repubbliche e gli Stati spesso; e varieranno sempre,
iniino che non surga qualcuno
che sia dell’ antichità tanto amatore, che la
regoli in modo, che la non abbi
ca-gione di dimostrare ad ogni girare di sole
quanto ella puote. Cap. XXXI. — Quanto sia
pericoloso credere agli sbandili. E’ non mi
pare fuori di proposito ra-gionare, intra
questi altri discorsi, quanto sia cosa
pericolosa credere a quelli che sono cacciati
della patria sua, essendo cose che ciascuno
di si hanno a prati- care da coloro che
tengono Stati: po- tendo, massime,
dimostrare questo con uno memorabile essempio
detto da Tito Livio nelle sue istorie,
ancora che sia foo- x ra di proposito
suo. Quando Alessandro Magno passò con Y
esercito suo in Asia, Alessandro di Epiro,
cognato e zio di quello, venne con genti
in Italia, chia- mato dagli sbanditi Lucani, i
quali gli dettono speranza che potrebbe mediatiti
loro occupare tutta quella provincia. Donde
che quello, sotto la lode e spe-ranza loro,
venuto in Italia, fu morto da quelli;
sendo loro promesso Hi ritor-nata nella
patria dai loro cittadini, se 10
ammazzavano. Debbesi considerare, pertanto, quanto
sia vana e la fede e le promesse di
quelli che si trovano privi della loro
patria. Perchè, quanto alla fede, si ha
ad estimare che qualunque volta possono per
altri mezzi che per 11 tuoi rientrare
nella patria loro, che iasceranno te ed
aceosterannosi ad altri, nonostante qualunque
promessa ti aves- sino fatta. E quanto alla
vana promessa
e speranza, egli è tanta la voglia estrema die
è in loro di ritornare in casa, che e’
credono naturalmente molte cose che sono
false, e molte ad arte ne aggiun- gono:
talché, tra quello che credono e quello
che dicono di credere, ti riem- piono di
speranza }. tulmentechè fonda-toti in su quella,
tu fai una spesa in vano, o tu fai
una impresa dove tu ro-vini. Io voglio
per cssempio mi basti Alessandro predetto, e
di più Temisto- cle ateniese; il quale
essendo fatto ri- bello, se ne fuggi in
Asia a Dario, dove gli promisse tanto,
quando ei volesse assaltare la Grecia, che
Dario si volse alla impresa. Le quali
promesse non gli potendo poi Temistocle
osservare, o per vergogna o per tema di
supplicio, av- velenò sè stesso. E se questo
errore fu fatto da Temistocle, nomo
eccellentissi- mo, si debbe stimare che tanto
più vi errino coloro che, per minor
virtù, si lasceranno più tirare dalla
voglia e dalla passione loro. Debbe, adunque,
un prin-cipe andare adagio a pigliare imprese sopra
la relazione d’ un confinato, per- chè il
più delle volle se ne resta o con vergogna,
o con danno gravissimo. E perchè ancora
rade volle riesce il pi- gliare le terre
di furto, e per intelli- genza che altri
avesse in quelle, non mi pare fuor di
proposito discorrerne nel seguente capitolo;
aggiungendovi con quanti modi i Romani le
acquistavano. Cap. XXXII. — In quanti modi i
Romani occupavano le terre. Essendo i Romani
tutti volti alla guer- ra, fecero sempre
mai quella con ogni vantaggio, e quanto
alla spesa, e quanto ad ogni altra cosa
che in essa si ricerca. Da questo
nacque che si guardarono dal pigliare le
terre per ossidione ; perchè giudicavano questo
modo di tanta spesa e di tanto scomodo,
che superasse di gran lunga la utilità
che dello acquisto si potesse trarre: e per
questo pensa-rono che fusse meglio e più
utile sog-giogare le len e per ogni altro
modo che assediandole; donde in tante
guerre ed in tanti anni ci sono
pochissimi essem- pi di ossidioni fatte da
loro. I modi, adunque, con i quali gli
acquistavano le città, erano o per espugnazione,
o per dedizione. La espugnazione era o per
forza e per violenza aperta, o per forza
mescolata con fraude. La violenza aperta
era o con assalto, senza percuo- tere le
mura (il che loro chiamavano aggredì urbem
coronaj perchè con tutto l’ esercito circondavano
la città, e da tutte le parti la
combattevano; e molte volte riuscì loro che
in uno assalto piglia-rono una città,
ancora che grossissima,
come quando Scipione prese Cartagine nuova
in (spaglia) : o, quando questo assalto non
bastava, si dirizzavano a rompere le mura
con arieti, o con al- tre loro macchine
belliche: o e’ facevano una cava, e per quella
entravano nella città (nel qual modo
presono la città de’ Veìenti) : o, per
essere eguali a quelli che difendevano le
mura, facevano torri di legname, o facevano
argini di terra appoggiati alle mura di
fuori, per ve-nire all’ altezza di esse
sopra quelli. Contea questi assalti, chi
difendeva le terre, nel primo caso circa
lo essere assaltato intorno intorno, portava più subito
pericolo, ed avea più dubbi rime-di: perchè
bisognandoli in ogni loco avere assai
difensori, o quelli ch’egli aveva non erano
tanti che potessero o supplire per tutto, o
cambiarsi ; o se potevano, non erano tutti
di eguale ani- mo a resistere, e da una
parte che fusse inclinata la zuffa, si
perdevano tutti. Però occorse, come io ho
detto, che molte volte questo modo ebbe
felice suc-cesso. Ma quando non riusciva al
primo, non lo ritentavano molto, per esser
mo-do pericoloso per lo esercito : perchè difendendosi
in tanto spazio, restava per tutto debile a
potere resistere ad una eruzione che quelli
di dentro avessino fatta, ed anche si
disordinavano e strac-cavano i soldati; ma per
una volta ed allo improvviso tentavano tal
modo. Quanto alla rottura delle mura, sì
op-
ponevano, come re’ presenti tempi, con ripari. E
per resistere alle cave, face-vano una
contraccava, e per quella si opponevano al
nimico, o con le armi o con altri
ingegni: intra i quali era que- sto, che
egli empivano dogli di penne, nelle quali
appiccavano il fuoco, ed ac- cesi gli
mettevano nella cava, i quali con il fumo e
con il puzzo impedivano l'entrata a'
nimici. E se con le torri gli assaltavano,
s' ingegnavano con il fuoco rovinarle. E quanto
agli argini di terra, rompevano il muro
da basso, dove l'ar- gine s'appoggiava, tirando
dentro la ter- ra che quelli di fuori
vi ammontavano; talché ponendosi di fuori
la terra, e le- vandosi di dentro, veniva a
non cre-scere 1' argine. Questi modi di
espugna-zione non si possono lungamente tentare: ma
bisogna o levarsi da campo, e cer-care per
altri modi vincere la guerra; come fece
Scipione, quando entrato in
Affrica, avendo assaltato litica e non gli riuscendo
pigliarla, si levò dal campo, e cercò di
rompere gii eserciti cartagi-nesi: ovvero
volgersi alla ossidione; come feciono a Vcio,
Capova, Cartagine e lerusalem e simili terre, che
per os-sidione occuparono. Quanto allo acqui-
stare le terre per violenza furtiva, oc-corre come
intervenne di Palepoli, cheper trattato di
quelli di dentro i Romani la occuparono. Di
questa sorte espugna-zione dai Romani c da
altri ne sono state tentate molte, e poche
ne sono riu-scite : la ragione è che ogni
minimo impedimento rompe il disegno, e gli impedimenti
vengono facilmente. Perchè, o la congiura si
scuopre innanzi che si venga all’atto : e
scuopresi non con molta diftìcultà, sì per
la infedelità di coloro con chi la è
comunicata, sì per la diffì- cullù del praticarla,
avendo a convenire con nimici, e con chi
non ci è licito, se non sotto qualche
colore, parlare. Ma quando la congiura non
si scoprisse nel
maneggiarla, vi surgono poi nel met-terla
in atto mille dilYicultà. Perchè, o se
tu vieni innanzi al tempo disegnato, o se
tu vieni dopo, si guasta ogni cosa : se
si lieva un rumore furtivo, come 1’
oche del Campidoglio : se si rompe uno
ordine consueto : ogni minimo erro-re ed
ogni minima fallacia che si piglia, rovina
la impresa. Aggiungonsi a que- sto le tenebre
della notte; le quali met- tono più paura a
chi travaglia in quelle cose pericolose. Ed
essendo la maggior parte degli uomini che
si conducono a simili imprese, inesperti
del sito del paese e de’ luoghi, dove
ei sono menati, si confondono, inviliscono,
ed implicano per ogni minimo e fortuito
accidente; ed ogni immagine falsa è per
fargli met-tere in volta. Nè si trovò
mai alcuno che fusse più felice in
queste espedizioni
fraudolente c notturne, che Arato Sicio-neo;
il quale quanto valeva in queste,tanto
nelle diurne ed aperte fazioni era pusillanime:
il che si può giudicare fusse più
tosto per una occulta virtù clic era
in lui, che perchè in quelle natu- ralmente
dovesse essere più felicità. Di questi
modi, adunque, se ne praticano assai, pochi
se ne conducono alla pruova,-
e pochissimi ne riescono. Quanto allo acquistare
le terre per dedizione, o le si danno
volontarie, o forzate. La vo-lontà nasce o per
qualche necessità estrin-seca che gli costringe a
rifuggirsi sotto; come fece Capova ai
Romani; o per de-siderio di esser governati
bene, sendo allettati dal governo buono che
quel prin-cipe tiene in coloro che se
gli sono vo-lontari rimessi in grembo ;
come fcrono i Rodiani, i Massiliensi ed altri
simili cittadini, che si deltono al Popolo
ro-'mano. Quanto alla dedizione forzata, o tale
forza nasce da una lunga ossidione, come
di sopra si è detto; o la nasce da una
continua oppressione di correrie, depredazioni,
ed altri mali trattamenti, i quali volendo
fuggire, una città si arren- de. Di tutti i
modi detti, ì Romani usa- rono più questo
ultimo che nessuno; ed attesono più che
quattrocento cinquanta anni a straccare i vicini
con le rotte e con le scorrerie, e pigliare
mediani! gli accor- di riputazione sopra di
loro, come altre volte abbiamo discorso. E
sopra tal modo si fondarono sempre, ancora
che gli ten-tassino tutti; ma negli
altri trovarono cose o pericolose, o inutili.
Perchè nella ossidione è la lunghezza e la spesa;
nella espugnazione, dubbio e pericolo; nelle
congiure, la incerlitudine. E vid-dono che
con una rotta d’esercito ini-mico acquistavano
un regno in un gior-no; e nel pigliare
per ossidione una città ostinata, consumavano
molti anni. XXXUI. — Come i Romani davano agli
loro capitani degli eserciti le commissioni
libere. lo stimo che sia da considerare,
leg-gendo questa liviana istoria, volendone far
profitto, tutti i modi del procedere del
Popolo e Senato romano. E infra P altre cose
che meritano considerazione, sono : vedere con
quale autorità ei man-davano fuori i loro
Consoli, Dittatori ed altri Capitani degli
eserciti ; de’ quali si vede V autorità
essere stata grandis-
sima, ed il Senato non si riservare al-tro
che P autorità di muovere nuove guerre, e
di confirmare le paci; tutte P altre cose
rimetteva nell’ arbitrio e potestà del
Consolo. Perchè, deliberata
eh* era dal Popolo e dal Senato una guerra,
verbigrazia contra ai Latini, tutto il
resto rimettevano nelP arbitrio del Consolo;
il quale poteva o fare uua giornata o non
la fare, e campeggiare questa o quell* altra
terra, come a lui pareva. Le quali cose
si verificano per molti essempi, e massime
per quello che occorse in una ispedizione
contra ai Toscani. Perchè, avendo Fabio Consolo vinto
quelli presso a Sutri, e disegnando con P
esercito dipoi passare la selva Cimino, ed
andare in Toscana; non so-lamente non si
consigliò col Senato, raa non gli ne
dette alcuna notizia, an-cora che la guerra
fusse per aversi a fare in paese
nuovo, dubbio e pericoloso. Il che si
testifica ancora per la dilibe-razione che
all’ incontro di questo fu fatta dal
Senato : il quale avendo inteso la vittoria
che Fabio aveva avuta, du-bitando che
quello non pigliasse partitodi passare per
le dette selve in Tosca-na, giudicando che
fusse bene non ten-tare quella guerra e
correre quel peri-colo, mandò a Fabio due
Legati u far-gli intendere non passasse in
Toscana;
i quali arrivarono che vi era già pas-sato,
ed aveva avuta la vittoria, ed in cambio
di impeditoci della guerra, tor-narono
ambasciadori dello acquisto e della gloria
avuta. E chi considera bene questo termine,
lo vedrà prudentissima-mente usato : perchè,
se il Senato avesse
voluto che un Consolo procedesse nella guerra
di mano in mano, secondo che quello
gli commelteva, lo faceva meno circunspetlo e
più lento; perchè non gli sarebbe parato
che la gloria della vittoria fusse tutta
sua, ma che ne participasse il Senato
con il consiglio del quale ei si
fusse governato. Oltra di questo, il Senato
si obbligava a voler consigliare una cosa
che non se ne po-teva intendere; perchè,
nonostante che in quello fussino tutti
uomini esercita-tissimi nella guerra, nondimeno non essendo
in sul luogo, e non sappiendo infiniti
particolari che sono necessari sapere a voler
consigliar bene, areb-bono, consigliando, fatti
infiniti errori. E per questo e’ volevano
che ’1 Consolo per sè facesse, e che
la gloria fusse tutta sua; lo amore
della quale giudica- vano che fusse freno e
regola a farlo operar bene. Questa parte si
è più vo- lentieri notata da me, perchè io
veggio che le repubbliche de’ presenti tempi, come
è la veneziana e fiorentina, la intendono
altrimenti ; e se gli loro ca-pitani,
provveditori o commissari hanno a piantare una
artiglieria, lo vogliono
intendere, e consigliare. Il quale modo merita
quella laude che meritano gli altri, i
quali tutti insieme I’ hanno con- dotte ne’
termini che al presente si truovano. .LIBRO
TERZO. I. — A volere
che una sella o una repubblica viva lungamente ,
è neces-sario ritirarla spesso verso il suo principio. Egli
è cosa verissima, come tutte le cose del
mondo hanno il termine della vita loro.
Ma quelle vanno tutto il corso che è
loro ordinato dal cielo general- mente, che
non disordinano il corpo loro, ma tengonlo
in modo ordinato, o che non altera, o s'
egli altera, è a sa-lute, e non a danno suo. E
perchè io parlo de’ corpi misti, come
sono le re-pubbliche e le sètte, dico clic
quelle al-(eruzioni sono u salute, che le
riducono verso i principi! loro. E però quelle
sono meglio ordinate, ed hanno più lunga vita,
che mediatiti gli ordini suoi si pos sono
spesso rinnovare; ovvero che per accidente,
fuori di detto ordine, vengono a detta
rinnovazione. Ed è cosa più chiara che la
luce, che non si rinnovando que- sti corpi,
non durano. Il modo del rin- novargli è,
come è detto, ridurgli verso i principii suoi.
Perchè tutti i pri nei pi i delle
sètte, e delle repubbliche, e dei regni, conviene
che abbino in sè qual- che bontà, mediante
la quale ripiglino la prima riputazione, ed
il primo augu- mento loro. E perchè nel
processo del tempo quella bontà si
corrompere non interviene cosa che la
riduca al segno, ammazza di necessità quel
corpo. E que- sti dottori di medicina dicono,
parlando dei corpi degli uomini, quoti quolidie aggregatur
aliquidj quod quandoque indiget curalione. Questa
riduzione verso il
principio, parlando delle repubbliche, si fa o
per accidente estrinseco, o per prudenza
intrinseca. Quanto al primo, si vede come
gli era necessario che Roma fusse presa
dai Franciosi, a volere che la rinascesse; e
rinascendo, ripigliasse nuova vita e nuova virtù;
e ripigliasse la osservanza della religione e
della giu-
stizia, le quali in lei cominciavano a macularsi.
Il che benissimo si comprende per l’istoria
di, Livio, dove ei mostra che nel
trar fuori 1’ esercito contra ai Franciosi,
e nel creare i Tribuni con potestà consolare,
non osservarono al- cuna religiosa cerimonia.
Così medesi-mamente, non solamente non privarono i
tre Fabi i quali conira jus gcntium avevano
combattuto contra i Franciosi, ma gli crearono
Tribuni. E debbesi fa- cilmente presupporre, che dell’
altre con stituzioni buone ordinate da
Romolo, e ila quelli altri principi
prudenti, si co- minciasse a tenere meno conto
che non era ragionevole e necessario a tenere il vivere
libero. Veline, adunque, questa
battitura estrinseca, acciocché tutti gii ordini
di quella città si ripigliassero; e si
mostrasse a quel popolo, non so- lamente essere
necessario mantenere la religione e la giustizia,
ma ancora sti- mare i suoi buoni cittadini, e
far più conto della loro virtù, che
di quelli co- modi che e’ paresse loro
mancare me-diante 1’ opere loro. Il che
si vede che successe appunto; perchè,
subito Ripresa Roma, rinnovarono tutti gli
ordini del 1’ antica religione loro;
punirono quelli Fabi die avevano combattuto
conira jus genfìum ; ed oppresso stimarono tanto
la virtù e bontà di Cammillo, che posposto,
il Senato e gli altri, ogni in- vidia,
rimettevano in lui tutto il pondo di
quella Repubblica. È necessario, adun- que, come è
detto, che gli uomini che vivono insieme
in qualunque ordine, spesso si riconoschino, o
per questi ac-cidenti estrinsechi o per gli
intrinsechi. E quanto a questi, conviene che nasca o
da una legge la quale spesso rivegga il
conto agii uomini che sono in quel corpo;
o veramente da uno uomo buono che nasca
fra loro, il quale con gli suoi essempi
e con le sue opere virtuose, faccia il
medesimo effetto che l’ordine. Surge, adunque,
questo bene nelle re- pubbliche, o per virtù
d’un uomo o per virtù d’ uno ordine. E
quanto a questo ultimo, gli ordini che
ritirarono la Re-pubblica romana verso il
suo principio, furono i Tribuni della plebe, i
Censori, e tutte 1’ altre leggi che
venivano con tra all’ambizione ed alla
insolenza degli uomini. I quali ordini hanno
bisogno d’ esser fatti vivi dalla virtù d’
un cit- tadino, il quale animosamente concorra ad
eseguirli contra alla potenza di quelli che
gli trapassano. Delle quali esecu- zioni, innanzi
alla presa di Roma dai Franciosi, furon
notabili, la morte de’ figliuoli di Bruto,
la morte de’ dieci cit-tadini, quella di
Melio Frumentario: dopo la presa di Roma,
fu la morte di Man-lio Capitolino, la
morte del figliuolo di Manlio Torquato, la
esecuzione di Papi-rio Cursore conira a Fabio
suo maestro
de’ Cavalieri, la accusa degli Scipioni. Le quali
cose, perchè erano eccessive e notabili,
qualunque volta ne nasceva una, facevano
gli uomini ritirare verso il se- gno: e
quando le cominciarono ad es-ser più rare,
cominciarono ancora a dare più spazio agii
uomini di corrompersi, e farsi con maggiore
pericolo e più tu- multo. Perchè dalP una
all’altra di simili esecuzioni non vorrebbe
passare, il più, dieci anni: perchè,
passato questo tempo, gli uomini cominciano a
variare co’ co-stumi, e trapassare le leggi ; e
se non nasce cosa per la quale si
riduca loro a memoria la pena, e ritruovisi negli
animi loro la paura, concorrono tosto tanti
delinquenti, che non si possono più punire
senza pericolo. Dicevano, a questo proposito,
quelli che hanno go-vernato lo Stato di
Firenze dal 1434 infino al 1494, come
egli era necessario ripigliare ogni cinque
anni lo Stato; altrimenti, era difficile
mantenerlo : e chiamavano ripigliare lo Stato,
mettere quel terrore e quella paura negli uo- mini
che vi avevano messo nel pigliarlo, avendo
in quel tempo battuti quelli che avevano,
secondo quel modo di vivere, male operato.
Ma come di quella batti- tura la memoria
si spegne, gli uomini prendono ardire di
tentare cose nuove, e di dir male; c però è
necessario prov-vedervi, ritirando quello verso i suoi principii.
Nasce ancora questo ritira-mento delle
repubbliche verso il loro principio dalle
semplici virtù d’un uomo, senza dipendere
da alcuna legge che ti stimoli ad
alcuna esecuzione: nondiman co sono di
tanta riputazione e di tanto essempio, che
gli uomini buoni dispe-rano imitarle, e gli
tristi si vergognano a tenere vita contraria a
quelle. Quelli che in Roma particolarmente
feciono questi buoni effetti, furono Orazio Code,
Scevola, Fabrizio,* i duoi Deci, Regolo Attilio,
ed alcuni altri ; i quali con i loro essempi
rari e virtuosi facevano in Roma quasi il
medesimo effetto che si faces-sino le
leggi e gli ordini. E se le ese-cuzioni
soprascritte, insieme con questi particolari
essempi, fussino almeno se-guite ogni dieci
anni in quella città, ne seguiva di
necessità che la non si sarebbe mai
corrotta: ma coinè e’ cominciarono a diradare
1’ una e V altra di queste due cose,
cominciarono a moltiplicare le cor- ruzioni. Perchè
dopo Marco Regolo non vi si vidde
alcun simile essempio: e ben- ché in Roma
surgessino i duoi Catoni, fu tanta distanza
da quello a loro, ed intra loro dall’
uno all’ altro, e rimasono sì soli, che
non potettono con gli es- sempi buoni
fare alcuna buona opera; e massime P ultimo
Catone, il quale tro- vando in buona parte
la città corrotta, non potette con lo
essempio suo fare che i cittadini diventassino
migliori. E questo basti quanto alle
repubbliche. Ma quanto alle sètte, si vede
ancora queste rinnovazioni essere necessarie per
lo essempio della nostra religione; la
quale se non fusse stata ritirata verso
il suo principio da san Francesco c da
san Do- menico, sarebbe al lutto spenta. Perchè questi,
con la povertà e con ressempio della vita
di Cristo, la ridussono nella mente degli
uomini, che già vi era spen- ta : e furono
sì potenti gli ordini loro nuovi, cli’ei
sono cagione che la diso- nestà de’ prelati
e de’ capi della reli- gione non la rovini;
vivendo ancora po- veramente, ed avendo tanto
credito nelle confessioni con i popoli e nelle
predi- cazioni, che c’ danno loro ad intendere come
egli è male a dir male del male, e che
sia bene vivere sotto 1* ubbidienza loro, e
se fanno errori, lasciargli gasli gare a
Dio: e così quelli fanno il peg- gio che
possono, perchè non temono quella punizione
che non veggono e non credono. Ha, adunque,
questa rinnova- zione mantenuto, e mantiene questa re- ligione.
Hanno ancora i regni bisogno di rinnovarsi, e
ridurre le leggi di quelli
verso il suo principio. E si vede quanto buono
effetto fa questa parte nel regno di
Francia; il quale regno vive sotto le leggi
e sotto gli ordini più clic alcuno altro
regno Delle quali leggi ed ordini ne
sono mnntenitori i parlamenti, c mas- sime quel
di Parigi ; le quali sono da lui
rinnovate qualunque volta e’ fa una esecuzione
contra ad uno principe di quel regno, e
che ei condanna il re nelle sue
sentenze. Ed infino a qui si è mantenuto
per essere stato uno ostinato esecutore
contra a quella nobiltà : ma qualunque volta
e’ ne lasciasse alcuna impunita, c che le
venissino a multi- plicare, senza dubbio ne
nascerebbe o che le si arebbono a
correggere con disordine grande, o che quel
regno si
risolverebbe. Conchiudesi, pertanto, non esser
cosa più necessaria in un vivere comune, o
setta o regno o repubblica che sia, che
rendergli quella riputazione ch’egli aveva ne’
princi pii suoi; ed in-gegnarsi che siano
ol gli ordini buoni O i buoni uomini che
facciano questo effetto, e non l’ abbia a fare
una for/.a estrinseca. Perchè, ancora che qualche
volta la sia ottimo rimedio, come fu
a Roma, ella è tanto pericolosa, che non è
in modo alcuno da disperarla. E per dimostrare
a qualunque, quanto le azioni degli uomini
particolari facessino grande Roma, e causassimo
in quella città molti buoni effetti, verrò
alla narrazione e is- corso di quelli:
intra i termini de qua I. questo terzo
libro ed ultima parte d. questa prima
Deca si conchiudera. E benché le azioni
degli re bissino grand, e notabili, nondimeno,
dichiarandole la istoria diffusamente, le
lasceremo indie- tro; nè parleremo altrimenti di
loro, eccetto che di alcuna cosa che
«vessino operata appartenente alti loro privat, comodi
; e coniincierenci da BiutOj pa drc della
romana libertà. FI. — Come gli è cosa
sapientissima simulare in tempo la pazzia. Non
fu alcuno mai tanto prudenti1, -nè
tanto stimato savio, per alcuna sua egregia
operazione, quanto merita d’ es- ser tenuto lunio
Bruto nella sua simu- lazione della stultizia.
Ed ancora che Tito Livio non esprima
altro che una cagione che Io inducesse a
tale simula- zione, quale fu di potere più
sicura- mente vivere, e mantenere il patrimonio suo;
nondimanco, considerato il suo modo di
procedere, si può credere che simulasse
ancora questo per essere man- co osservato,
ed avere più comodità di opprimere i re e
di liberare la sua pa- tria, qualunque
volta gliene fussc data occasione. E che
pensasse a questo, si vide, prima, nello
interpretare l’oracolo di Apolline, quando simulò
cadere per baciare la terra, giudicando per
quello aver favorevoli gli Dii ai pensieri
suoi; e dipoi, quando sopra la moria Lucre-zia,
inira il padre ed il marito ed altri parenti
di lei, ei fu il primo a trarle il coltello
dalla ferita, e far giurare ai circonstanli,
che mai sopporterebbono che per lo avvenire
alcuno regnasse in Roma. Dallo essempio di
cgsIuì hanno ad imparare tutti coloro che
sono mal- contenti d’ uno principe; e debbono
pri- ma misurare e pesare le forze loro, e se
sono si potenti che possino scoprirsi suoi
nimici e fargli apertamente guerra, debbono
entrare per questa via, come manco
pericolosa e più onorevole. Ma se sono di
qualità che a fargli guerra aperta le forze
loro non bastino, deb- bono con ogni
industria cercare di far- segli amici ; cd
a questo effetto, entrare per tutte quelle
vie che giudicano esser necessarie, seguendo i
piaceri suoi, e pigliando diletto di tutte
quelle cose che veggono quello dilettarsi.
Questa dipie- sticliezza, prima, ti fa
vivere sicuro; e, senza portare alcun
pericolo, ti fa go-derc la buona
fortuna di quel principe insieme con esso
lui, e ti arreca ogni comodità di satisfare
all* animo tuo. Vero è ebe alcuni dicono
che si vorrebbe con gli principi non
stare sì presso che la rovina loro ti
coprisse, nè sì discosto che rovinando
quelli tu non fussi a tempo a salire
sopra la rovina loro: la qual via del
mezzo sarebbe la più vera, quando si
potesse conservare; ma per- chè io credo
che sia impossibile, con- viene ridursi ai
duoi modi soprascritti, cioè di allargarsi o
di stringersi con loro. Chi fa altrimenti,
e sia uomo per le qualità sue notabile,
vive in conti* novo pericolo. Nè basta
dire: io non mi curo d’ alcuna cosa,
non desidero nè onori nè utili, io mi
voglio vivere quie- tamente e senza briga; perchè
queste scuse sono udite e non accettate : nè possono
gii uomini che hanno qualità eleggere lo
starsi, quando bene lo eleg- gessino
veramente e senza alcuna am- bizione, perchè non
è loro creduto ; tal chè se si vogliono
star loro, non sono lasciati stare da
altri. Conviene adun- que fare il pazzo,
come Bruto ; ed assai si fa il matto,
laudando, parlando, veg- gendo, faccendo cose
eontra all* animo tuo, per compiacere al
principe. E poi- ché noi abbiamo parlato della
prudenza di questo uomo per ricuperare la
li- bertà di Roma, parleremo ora della sua severità
in mantenerla. Cap. HI. — Come egli è
necessariOj a voler mantenere una libertà
acquistata di nuovo 9 ammazzare i figliuoli di Bruto. Non
fu meno necessaria che utile la severità
di Bruto nel mantenere in Roma quella libertà
che egli vi aveva acqui-stala ; la quale è
di un essempio raro in tutte le
memorie delle cose: vedere il padre sedere
prò tribunali, e non solamente condennare i suoi
figliuoli a morte, ma esser presente alla
morte loro. E sempre si conoscerà questo per coloro
che le cose antiche leggeranno: come dopo
una mutazione di Stato, o da repubblica
in tirannide o da tiran- nide in repubblica, è
necessaria una esecuzione memorabile contra a’
nimici delle condizioni presenti. E chi piglia una
tirannide e non ammazza Bruto, e chi fa
uno Stato libero e non ammazza i figliuoli
di Bruto, si mantiene poco tempo. E perchè
di sopra è discorso questo luogo largamente,
mi rimetto a quello che allora se ne
disse: solo ci addurrò uno essempio stato
ne’ dì no- stri, e nella nostra patria
memorabile. E questo è Piero Soderini, il quale
si credeva con la pazienza e bontà sua superare
quello appetito che era ne’ fi- gliuoli di
Bruto di ritornare sotto un altro governo,
e se ne ingannò. E ben- ché quello, per la
sua prudenza, cono- scesse questa necessità J e
che la sorte e la ambizione di quelli
che lo urtava- no, gli desse occasione a
spegnerli ; non-dimeno non volse mai Y
animo a farlo. Perchè, oltre al credere di
potere con la pazienza e con la bontà
estinguere i mali umori, e con i premi
verso qual- cuno consumare qualche sua inimicizia; giudicava
(e molte volle ne fece con gli amici
fede) che a volere gagliardamente urtare le
sue opposizioni, e battere i suoi avversari,
gli bisognava pigliare straordinaria autorità, e
rompere con le leggi la civile equalità :
la qualcosa, ancora che dipoi non fusse
da lui usata tirannicamente, arebbe tanto
sbigottito I’ universale, che non sarebbe
mai poi concorso dopo la morte di
quello a ri-fare un gonfaloniere a vita; il quale
ordine egli giudicava fusse bene
uugu-mentarc c mantenere. Il quale rispetto era
savio e buono : nondimeno, e’ non si debbe
mai lasciare scorrere un male rispetto ad
un bene, quando quel bene facilmente possa
essere da quel male oppressalo. E doveva
credere che, aven- dosi a giudicare* Y opere sue
c la intenzione sua dal One, quando
la fortuna e la vita lo avesse
accompagnato, che poteva certificare ciascuno,
come quello aveva fatto, era per salute
della patria, e non per ambizione sua ; e
poteva re- golare le cose in mòdo, che
un suo suc- cessore non potesse fare per
male quello che egli avesse fatto per
bene. Ma lo ingannò la prima oppinione,
non cono- scendo che la malignità non è
doma da tempo, nè placata da alcun
dono. Tanto che, per non sapere somigliare
Bruto, ei perde, insieme con la patria
sua, lo Stato e la riputazione. E come egli
è cosa difficile salvare uno Stato libero, cosi
è difficile salvarne un regio; come nel
seguente capitolo si mostrerà. Cap. IV. - —
Non vive sicuro un prin-cipe in un
principato, mentre vivono coloro che ne
sono stati spogliali. La morte di Tarquinio
Prisco causata
dai figliuoli di Anco, e la morte di
Ser-vio Tulio causata da Tarquinio Super-bo,
mostra quanto difficile sia e peri-coloso
spogliar uno del regno, e quello lasciar
vivo, ancora che cercasse con meriti
guadagnarselo. E vedesi come Tarquinio Prisco fu
ingannato da pa-rergli possedere quel regno
giuridica-mente, essendogli stato dato dal Popolo, e
confermato dal Senato: nè credette che nei
figliuoli di Anco potesse tanto lo sdegno,
che non avessino a conten- tarsi di quello
che si contentava tutta Roma. E Servio
Tulio s’ ingannò, cre- dendo potere con nuovi
meriti guada-gnarsi i figliuoli di Tarquinio. Dimodo- ché,
quanto al primo, si può avvertire ogni
principe, che non viva mai sicuro del
suo principato, finché vivono coloro che ne
sono stati spogliati. Quanto al secondo, si
può ricordare ad ogni po- tente, che mai
le ingiurie vecchie non furono cancellate da’
benefizi nuovi; e tanto meno, quanto il
benefizio nuovo è minore che non è stata
l’ingiuria. E
senza dubbio, Servio Tulio fu poco
pru-dente a credere che i figliuoli di Tar quinio
fussino pazienti ad esser generi di colui
di chi e’ giudicavano dovere es-sere re. E
questo appetito del regnare è tanto grande,
che non solamente en-tra nei petti di
coloro a chi s’ aspetta il regno, ma
di quelli a chi non s’ aspet- ta: come
fu nella moglie di Tarquinio giovine,
figliuola di Servio; la quale, mossa da
questa rabbia, coutra ogni pietà paterna,
mosse il marito contro al padre a torgli
la vita ed il regno: tanto stimava
più essere regina, che figliuola di re !
Se, adunque, Tarquinio Prisco e Servio
Tulio perdettono il regno per non si
sapere assicurare di coloro a chi ei l avevano
usurpato, Tarquinio Superbo lo perdè per
non osservare gli ordini degli antichi re;
come nel se- guente capitolo si mostrerà.
V. — Quello che fa perdere uno regno
ad uno re che sia ereditario di quello. Avendo
Tarquinio Superbo morto Ser-vio Tulio, e di
lui non rimanendo eredi, veniva a possedere
il regno sicuramen-te, non avendo a temere
di quelle cose che avevano offeso i suoi
antecessori. E benché il modo dell’
occupare il regno fusse stato istraordinario
ed odioso;nondimeno, quando egli avesse osservato
gli antichi ordini degli altri re,
sarebbestato comportato, nè si sarebbe conci-tato
il Senato e la Plebe contra di lui
per torgli lo Stato. Non fu, adunque, costui
cacciato per aver Sesto suo figliuo-lo
stuprata Lucrezia, ma per aver rotte le
leggi del regno, e governatolo tiran-nicamente;
avendo tolto al Senato ogni autorità, e
ridottola a sé proprio; e quelle faccende
che nei luoghi pubblici con satisfazione
del Senato romano si facevano, le ridusse a
fare nel palazzo suo con carico ed
invidia suo ; talché in breve tempo egli
spogliò Roma di tutta quella libertà cl»’
ella aveva sotto gli altri Re mantenuta.
Nò gli bastò farsi nimici i Padri, che
si concitò an- cora contra la Plebe,
affaticandola in cose meccaniche, e tutte aliene
da quelloa che P avevano adoperata i suoi
ante-cessori: talché, avendo ripiena Roma di
essempi crudeli e superbi, aveva dispo-sti già
gli animi di tutti i Romani allaribellione,
qualunque volta ne avessino occasione. E se
lo accidente di Lucrezianon fusse venuto,
come prima ne fussc nato un altro,
arebbe partorito il me-desimo effetto. Perchè,
se Tarquinio fusse vissuto come gli altri
Re, e Sestosuo figliuolo avesse fatto
quello errore, sarebbero Bruto e Collatino
ricorsi aTarquinio per la vendetta contru a
Se-sto, e non al Popolo romano. Soppino
adunque i principi, come a quella ora e*
cominciano a perdere lo Stato, eh’
eicominciano a rompere le leggi, e quelli modi e
quelle consuetudini che sonoantiche, e sotto
le quali gli uomini lungo tempo sono
vivuti. E se privati di’ eisono dello
Stato, e' diventassino mai tanto prudenti,
che conoscessino conquanta facilità i principati
si tenghino da coloro che saviamente si
consiglia-no; dorrebbe molto più loro tal
perdi-ta, ed a maggiore pena si condanne-rebbono,
che da altri fussino condan-nati. Perchè
egli è molto più facile es-sere amato da’
buoni che dai cattivi, ed ubbidire alle
leggi che volere comandareloro. E volendo
intendere il modo aves-sino a tenere a fare
questo, non hannoa durare altra fatica che
pigliare per loro specchio la vita dei
principi buo-ni; come sarebbe Tiinoleone Corintio, Arato
Sicioneo, e simili: nella vitade’ quali ei
troveranno tanta sicurtà e tanta «atisfazione
di chi regge e di chiè retto, che
doverrebbe venirgli voglia di imitargli, potendo
facilmente, per leragioni dette, farlo.
Perchè gli uomini, quando sono governati
bene, non cer-cano uè vogliono altra
libertà : come intervenne ai popoli governati
dai duoiprenominati ; che gli costrinsono
ad es-sere principi mentre che vissono,
ancorache da quelli più volte fusse
tentato di ridursi in vita privata. E
perchè in que-sto, e ne' duoi antecedenti
capitoli, si è ragionato degli umori
concitati contraa' principi, e delle congiure
fatte dai figliuoli di Bruto contra alla
patria, edi quelle fatte contra a Tarquinio
Pri-sco ed a Servio Tulio; non mi parecosa
fuori di proposito, nel seguente capitolo,
parlarne diffusamente, sendomateria degna di
essere notata dai prin-cipi e dai privati. Cap.
VI. — Delle congiure.E' non mi è parso
da lasciare indie-tro il ragionare delle congiure,
essendocosa tanto pericolosa ai principi ed
ai privali ; perché si vede per quelle
mollipiù principi aver perduta la vita e lo
Stato, die per guerra aperta. Perchè
ilpoter fare aperta guerra con un
prin-cipe, è conceduto a pochi ; il poterglicongiurar
contra, è conceduto a ciascuno' DalP altra parte,
gli uomini privati nonentrano in impresa
più pericolosa nè più temeraria di questa;
perchè la èdifficile e pericolosissima in
ogni sua parte. Donde ne nasce, che
molte se netentano, e pochissime hanno il
line de-siderato. Acciocché, adunque, i principi imparino
a guardarsi da questi pericoli, e che i privati
più timidamente vi siniellino; anzi
imparino ad esser contenti a vivere sotto
quello imperio che dallasorte è stato loro
preposto; io ne par- lerò diffusamente, non
lasciando indietroalcun caso notabile in
documento del-1’ uno e dell’ altro. E
veramente, quellasentenza di Cornelio Tacito è
aurea, che dice: che gli uomini hanno
ad ono-rare le cose passate, ed ubbidire
alle presenti ; e debbono desiderare i
buoniprincipi, e comunque si siano fatti
tol-lerargli. E veramente chi fa altrimenti,il
più delle volte rovina sè e la sua patria.
Dobbiamo, adunque, entrandonella materia,
considerare prima contra a chi si fanno le
congiure; e troveremofarsi o contra alla patria,
o contra ad uno principe; delle quali due
voglioche al presente ragioniamo; perchè di quelle
che si fanno per dare una terraai
nimici che la assediano, o che abbino per
qualunque cagione similitudine conquesta, se,
n’ è parlato di sopra a suf- ficienza. E
tratteremo in questa primaparte di quelle
contra al principe, e pri-ma esamineremo le
cagioni di esse: lequali sono molte;
ma una ne è impor-tantissima più che tutte
V altre. E que-sta è l’essere odiato dall’universale; perchè
quel principe che si è concitatoquesto universale
odio, è ragionevole che abbi de’ particolari i
quali da luisiano stati più offesi, e
che desiderino vendicarsi. Questo desiderio è
accresciutoloro da quella mala disposizione
univer- sale, che veggono essergli concitata
con-tra. Debbe, adunque, un principe fug-gire
questi carichi pubblici : e come egliabbia a
fare a fuggirli, avendone altrove trattato, non
ne voglio parlare qui; per-chè guardandosi
da questo, le semplici offese particolari
gli faranno meno guer-ra. L’ una, perchè si
riscontra rade volte in uomini che stimino
tanto una ingiu-rio, che si menino a tanto
pericolo per vendicarla; l’altra, che quando
pur eilussino d’animo e di potenza da
farlo, sono ritenuti da quella benivolenza
uni-versale, che veggono avere ad uno prin-cipe.
Le ingiurie, conviene che sianonella roba,
nel sangue, o nell’onore. Di quelle del
sangue sono più pericolose leminacce che
la esecuzione; anzi, le mi-nacce sono
pericolosissime, e nella ese-cuzione non vi è
pericolo alcuno: perchè chi è morto, non
può pensare alla ven-detta; quelli che
rimangono vivi, il più delle volte ne
lasciano il pensiero almorto. Ma colui
che è minacciato, e che si vede constretto
da una necessità o difare o di patire,
diventa un uomo pe-ricolosissimo per il
principe: come nelsuo luogo particolarmente
diremo. Fuora di queste necessità, la roba
e l’onoresono quelle due cose che offendono
più gii uomiui che alcun’ altra offesa, e
dallequali il principe si debbe guardare :
per-chè e’ non può mai spogliare uno
tanto,che non gli resti un coltello
da vendi-carsi: non può mai tanto
disonorareuno, che non gli resti un
animo ostinato alla vendetta. E degli onori
che si tol-gono agli uomini, quello delle
donne importa più: dopo questo, il
vilipendiodella sua persona. Questo armò
Pausa-sania contro a Filippo di Macedonia;questo
ha armato molti altri contra a molti
altri principi: e nei nostri tempiIulio
Belanti non si mosse a congiurare contra
Pandolfo tiranno di Siena, se nonper
avergli quello data, e poi tolta per moglie
una sua figliuola ; come nel suoluogo
diremo. La maggior cagione che fece che i
Pazzi congiurarono conteaa’ Medici, fu
l’eredità di Giovanni Bon- romei, la quale
fu loro tolta per ordinedi quelli.
Un’altra cagione ci è, e gran-dissima, che
fu gli uomini congiurarecontro al principe;
la quale è il, disi-derio di liberare
la patria stata daquello occupata. Questa
cagione mosse Bruto e Cassio contro a Cesare;
questaha mosso molti altri contro ai
Palali, Dionisi, ed altri oceupatori della
patrialoro. Nè può da questo umore alcuno tiranno
guardarsi, se non con diporrela tirannide.
E perchè non si truovu alcuno che faccia
questo, si truovauo pochi che non capitino
male; donde nacque quel verso di Iuvenale:«
Adgcnerum Cereria sineccedeet vulnere parici Descendunt
reges, et sicca morte tiranni. »1 pericoli
che si portano, come io dissi di
sopra, nelle congiure, sono grandi, portandosi
per lutti i tempi; perchè in tali casi
si coire pericolo nel maneg-giarli, nello
eseguirli, ed eseguiti che sono. Quelli che
congiurano, o e’sonouno, o e’ sono più. Uno
non si può dire che sia congiura, ma
è una ferma dispo-sizione nata in un uomo
d’ ammazzare il principe. Questo solo dei
tre pericoliche si corrono nelle congiure,
manca del primo; perchè innanzi alla esecu-zione
non porta alcun pericolo, non avendo altri
il suo segreto, nè portandopericolo che
torni il disegno suo all* orec-chie del
principe. Questa diliberazionecosi fatta può
cadere in qualunque uomo, di qualunque
sorte, piccolo, grande, no-bile, ignobile,
famigliare e non famiglia-re al principe; perchè
ad ognuno è le-cito qualche volta parlargli;
ed a chi è lecito parlare, è lecito sfogare
T animosuo. Pausanio, del quale altre volte
si è parlato, ammazzò Filippo di
Macedoniache andava al tempio, con mille
armati d* intorno, ed in mezzo intra
il figliuoloed il genero: ma costui
fu nobile e co- gnito al principe. Uno
Spagnuolo poveroed abietto, dette una
coltellata in su M collo al re
Ferrante, re di Spagna : nonfu la
ferita mortale, ma per questo si vidde
che colui ebbe animo e comoditàa farlo. Uno
dervis, sacerdote turchesco, trasse d’ una
scimitarra a Baisit, padredel presente Turco:
non lo ferì, ma ebbe pur animo e
comodità a volerlo fare.Di questi animi
«fatti cosi, se ne truo- vano, credo,
assai che lo vorrebbonofare, perchè nel
volere non è pena uè pericolo alcuno ; ma
pochi che lo facci-no. Ma di quelli
che lo fanno, pochis- simi o nessuno che
non siano ammaz-zati in sul fatto: però
non si truova chi voglia andare ad
una certa morte. Malasciamo andare queste
uniche volontà, e veniamo alle congiure intra i
più.Dico, trovarsi nelle istorie, tutte le
con-giure esser fatte da uomini grandi,
ofamigliarissimi de! principe: perchè gli altri,
se non sono matti affatto, non pos-sono
congiurare ; perchè gli uomini de-boli, e
non famiglial i al principe, man-cano di
tutte quelle speranze e di tutte quelle
comodità che si richiede alla ese-cuzione
d’ una congiura. Prima, gli uo-mini deboli
non possono trovare riscon-tro di chi tenga
lor fede; perchè uno non può consentire
alla volontà loro,sotto alcuna di quelle
speranze che fa entrare gli uomini ne’
pericoli grandi;in modo che, come e’
si sono allargati in due o in tre
persone, e’ trovano loaccusatore c rovinano:
ma quando pure ei fussino tanto felici
che mancassinodi questo accusatore, sono
nella esecu-zione intorniati da tale difficultà,
pernon aver V entrata facile al principe, che
gli è impossibile che in essa ese-cuzione
ei non rovinino. Perchè, se gli uomini
grandi, e che hanno Y entratafacile, sono
oppressi da quelle difficultà. che di sotto
si diranno, conviene che incostoro quelle
difficultà senza fine crc-schino. Pertanto
gli uomini (perchè dovene va la vita
e la roba non sono al tutto insani),
quando si veggono deboli, se neguardano; e
quando egli hanno a noia un principe, attendono
a biastemmarlo,cd aspettano che quelli che
hanno mag-giore qualità di loro, gli
vendichino. Ese pure si trovasse che
alcuno di que-sti simili avesse tentato
qualche cosa, sidebbe laudare in loro
la intenzione, e non la prudenza. Vedesi,
pertanto, quelliche hanno congiurato, essere
stali tutti uomini grandi, o famiglial i del
princi-pe; de’ quali molti hanno congiuralo, mossi
cosi da troppi benefìzi, comedalle troppe
ingiurie: come fu Peren-nio contra a
Commodo, Plauziano con-tro a Severo, Sciano
contra a Tiberio. Costoro tutti furono dai
loro imperadoricon stituiti in tanta ricchezza,
onore e grado, che non pareva che
mancasseloro alla perfezione della potenza altro che
l’ imperio; e di questo non volendomancare,
si missono a congiurare con- ila al principe:
ed ebbono le loro con-giure tutte quel
fine che meritava la loro ingratitudine;
ancora che di que-ste simili ne’ tempi
più freschi ne avesse buon fine quella
di Iacopo d’Appianocontra a messer Piero
Gambacorti, prin-cipe di Pisa : il quale
Iacopo, allevato enutrito e fatto riputato da
lui, gli tolse poi lo Stato. Fu di
queste quella delCoppola, ne’ nostri tempi,
contra al re Ferrando d' Aragona ; il quale
Coppolavenuto a tanta grandezza che non gli pareva
gli mancasse se non il regno,per
volere ancora quello, perde la vita. E
veramente, se alcuna congiura contraa’ principi
fatta da uomini grandi do-vesse avere buon
fine, doverrebbé es-sere questa; essendo fatta
da un altro re, si può dire, e da
chi ha tanta co-modità di adempire il
suo desiderio: ma quella cupidità del
dominare chegli accieca, gli accieca ancora
nel ma-neggiare questa impresa ; perchè,
sesapessino fare questa cattività con pru-denza,
sarebbe impossibile non riuscisseloro. Debbe,
adunque, un principe che si vuole guardare
dalie congiure, temerepiù coloro a chi egli
ha fatto troppi piaceri, che quelli a chi
gli avesse fattetroppe ingiurie. Perchè
questi mancano di comodità, quelli ne
abbondano; e lavoglia è simile, perchè gli è
così grande o maggiore il desiderio del
dominare,che non è quello della vendetta.
Deb-bono, pertanto, dare tanta autorità agliloro
amici, che da quella al principato sia
qualche intervallo, e che vi sia inmezzo
qualche cosa da disiderare: al-trimenti, sarà
coso rara se non inter-verrà loro come
ai principi soprascritti. .Ma torniamo all’
ordine nostro. Dico,che avendo ad esser
quelli che congiu-rano uomini grandi, e che
abbino l’aditofacile al principe, si ha a
discorrere i successi di queste loro
imprese qualisiano stati, e vedere la
cagione che gli «ha fatti essere
felici ed infelici. E comeio dissi di
sopra, ci si trovano dentro in tre
tempi, pericoli: prima, in su ’lfatto, e
poi. Però se ne trovano poche che abbiano
buono esito, perchè gli èimpossibile quasi
passargli tutti felice-mente. E cominciando a
discorrere ipericoli di prima, che sono i
più impor-tanti; dico, come e’ bisogna
essere moltoprudente, ed avere una gran
sorte, che nel maneggiare una congiura la
non siscuopra. E si scuoprono o per relazio-ne, o
per coniettura. La relazione nasceda
trovare poca fede, o poca prudenza, negli
uomini con chi tu la comunichi.La
poca fede si truova facilmente, per-chè tu
non puoi comunicarla se noncon tuoi
fidati, che per tuo amore si mettino
alla morte, o con uomini chesiano
malcontenti del principe. De’ fidati se ne
potrebbe trovare uno o due; macome tu
Li distendi in molti, è impos-sibile gli
truovi: dipoi, c’bisogna beneche la
benevolenza che ti portano sia grande, a
volere che non paia loro mag-giore il
pericolo e la paura della pena. Dipoi gli
uomini s' ingannano il piùdelle volte dello
amore che tu giudichi che un uomo ti
porti, nè le ne puoimai assicurare,
se tu non ne fai espe- rienza: e farne
esperienza in questo èpericolosissimo: e sebbene
he avessi fatto esperienza in qualche altra
cosa perico-losa dove e’ ti fussono stali
fedeli, non puoi da quella fede misurare
questa,passando questa di gran lunga ogni
al-tra qualità di pericolo. Se misuri la
fededalla mala contentezza che uno abbia del
principe, in questo tu ti puoi facil-mente
ingannare: perchè subito che tu hai
manifestato a quel malcontento l’ani-mo tuo,
tu gli dai materia di conten- tarsi, e
convien bene o che 1’ odio siagrande, o
che 1’ autorità tua sia gran-dissima a
mantenerlo in fede. Di quinasce che
assai ne sono rivelate ed oppresse ne’
primi principii loro; e chequando una è
stata infra molti uomini segreta lungo
tempo, è tenuta cosa mi-racolosa: come fu
quella di Pisone con-tea a Nerone, e ne' nostri
tempi quellade’ Pazzi conira a Lorenzo e Giuliano
de' Medici; delle quali erano
consapevolipiù clic cinquanta uomini, c condus- sonsi
alla esecuzione a scoprirsi. Quantoa scoprirsi
per poca prudenza, nasce quando uno
congiurato ne parla pococauto, in modo
che un servo o altra terza persona intenda;
come intervenneai figliuoli di Bruto, che
nel maneggiare la cosa con i legali di
Tarquinio, fu-rono intesi da un servo, che
gli accusò: ovvero quando per leggerezza ti
vienecomunicala a donna o a fanciullo che tu ami,
o a simile leggieri persona ;come fece
Dinno, uno de* congiurati con Filota centra
ad Alessandro Magno, ilquale comunicò la
congiura a Nicomaco fanciullo amato da lui, il
quale subito lo disse a Ciballino suo
fratello, e Ci-bullino al re. Quanto a
scoprirsi perconieltura, ce tf è in
essempio la con-giura Pisoniana conira a Nerone;
nellaquale Scevino, uno de’ congiurati, il
dì dinanzi eh’ egli aveva ad
ammazzareNerone, fece testamento, ordinò che
Me-lichio suo liberto facesse arrotare
unsuo pugnale vecchio e rugginoso, liberò tutti i
suoi servi e dette loro danarifece ordinare
fasciature da legare ferite: per le quali
conietture accertatosi .Meli-chio della cosa,
lo accusò a Nerone. Fu preso Scevino, e con
lui Natale, un altrocongiurato, i quali
erano stati veduti parlare a lungo e di
segreto insieme ildi davanti; e non si
accordando del ragionamento avuto, furono forzati
aconfessare il vero; talché la congiura fu
scoperta, con rovina di tutti i con-giurati.
Da queste cagioni dello scoprire le
congiure è impossibile guardarsi, cheper malizia,
per imprudenza o per leg- gerezza, la non
si scuopra, qualunquevolta i conscii d’essa
passano il numero di tre o di quattro. E
come e’ ne è presopiù che uno, è
impossibile non riscon- trarla, perchè due non
possono esserconvenuti insieme di tutti i
ragiona- menti loro. Quando e’ sia preso
solouno che sia uomo forte, può egli
con la fortezza dello animo tacere i
congiurati;ina conviene che i congiurati non
ab-bino meno animo di lui a star saldi,e
non si scoprire con la fuga : perchè da
una parte che P animo manca, o dachi è
sostenuto o da chi è libero, la congiura è
scoperta. Ed è raro lo es-sempio addotto
da Tito Livio nella con-giura fatta contra
a Girolamo re diSiracusa ; dove, sendo Teodoro
uno de’congiurati preso, celò con una
virtùgrande tutti i congiurati, ed accusò gli amici
del re; e dall’altra parte, tulli
icongiurati confidarono tanto nella virtù di
Teodoro, che nessuno si parti diSiracusa, o
fece alcuno segno di timore. Passasi,
adunque, per tutti questi peri-coli nel
maneggiare una congiura in-nanzi che si
venga alla esecuzioned'essa: i quali volendo
fuggire, ci sono questi rimedi. Il primo
ed il più vero,anzi a dir meglio,
unico, è non dare tempo ai congiurati di
accusarti; eperciò comunicare loro la cosa
quando tu ia vuoi fare, e non prima:
quelliche hanno fatto cosi, fuggono al
certo i pericoli che sono nel praticarla, e
il piùdelle volte gli altri ; anzi
hanno tutte avuto felice fine: e qualunque
prudentearebbe comodità di governarsi in que-sto
modo, lo voglio che mi basti ad-durre
due essempi. Nelemato, non po-tendo sopportare
la tirannide di Ari-slotimo tiranno di
Epiro, ragunò in casa sua molti parenti
ed amici, e conforta-togli a liberare la patria,
alcuni di loro chiesono tempo a deliberarsi
ed ordi-narsi; donde Nelemato fece a’ suoi
servi serrare la casa, ed a quelli che
essoaveva chiamati, disse: 0 voi giurerete di
andare ora a fare questa esecuzione,o io vi
darò tutti prigioni ad Aristoti-mo. Dalle
quali parole mossi coloro,giurarono; ed
andati senza intermissio-ne di tempo, felicemente
l’ ordine diNelemato eseguirono. Avendo un Mago, per
inganno, occupato il regno de’Persi,ed
avendo Orlano, uno de’grandi uomini del
regno, intesa e scoperta la fraude,lo
conferì con sei altri principi di quello Stato,
dicendo come egli era da vendi-care il
regno dalla tirannide di quel Mago; e
domandando alcuno di lorotempo, si levò
Dario, uno de’ sei chia- mati da Orlano, e
disse: 0 noi andre-mo ora a far questa
esecuzione, o io vi andrò ad accusar tutti.
E così d’ac-cordo levatisi, senza dar tempo
ad al- cuno di pentirsi, eseguirono felicementei
disegni loro. Simile a questi duoi essempi
ancora è il modo che gli Etolitennero
ad ammazzare Nabide, tiranno spartano ; i quali
mandarono Alessame-no loro cittadino, con
trenta cavalli e dugento fanti, a Nabide,
sotto colore dimandargli aiuto; ed il
segreto solamente comunicarono ad Alessameno; ed
agli altri imposono che lo ubbidissino in ogni
e qualunque cosa, sotto pena diesilio. Andò
costui in Sparta, e non co-municò mai la
commissione sua se nonquando ei la
voile eseguire: donde gli riusci d’
ammazzarlo. Costoro, adunque,per questi modi
hanno fuggiti quelli pericoli che si
portano ne! maneggiarele congiure ; e chi
imiterà loro, sempre gli fuggirà. E che
ciascuno possa farecome loro, io ne
voglio dare lo essein- pio di Pisone,
preallegato di sopra. EraPisone grandissimo e
riputatissimo uomo, e famigliare di Nerone, e in
chiegli confidava assai. Andava Nerone ne’
suoi orli spesso a mangiare seco.Poteva,
adunque, Pisone farsi amici uomini d’animo,
di cuore, e di dispo-sizione atti ad una
tale esecuzione (il che ad uno uomo
grande è facilissimo);e quando Nerone fusse stato
ne* suoi orti, comunicare loro la cosa, e
conparole convenienti inanimirli a far quello che
loro non avevano tempo a ricusa-re, e che
era impossibile che non riu- scisse. E cosi,
se si esamineranno tutte1’ altre, si
troverà poche non esser po- tute condursi
nel medesimo modo: magli uomini per
lo ordinario poco inten-denti delie azioni
del mondo, spessofanno errori grandissimi, e
tanto mag-giori in quelle che hanno più
dello istraordinario, come è questa. Debbesi, adunque,
non comunicare mai la cosase non
necessitato ed in sul fatto; e se
pure la vuoi comunicare, comunicalaad un
solo, del quale abbi fatto lun-ghissima
isperienza, o che sia mossodalle medesime
cagioni che tu. Tro-varne uno così fatto è
molto più facileche trovarne più, e per
questo vi è meno pericolo; dipoi, quando
pure eiti ingannasse, vi è qualche rimedio
a difendersi, che non è dove siano con-giurati
assai: perchè da alcuno prudente ho sentito
dire che con uno si può par-lare ogni
cosa, perchè tanto vale, se tu non ti
lasci condurre a scrivere di tuamano, il
sì dell* uno quanto il no del- l’altro; e
dallo scrivere ciascuno debbeguardarsi come
da uno scoglio, perchè non è cosa che
più facilmente ti con-vinca, che lo scritto
di tua mano. Plau- ziano volendo fare
ammazzare Severoimperadore ed Antonino suo
figliuolo, commise la cosa a Saturnino tribuno;il
quale volendo accusarlo e non ubbi- dirlo, e
dubitando che venendo alla ac-cusa non
fusse più creduto a Plauziano che a lui,
gli chiese una cedola di suamano, che
facesse fede di questa cora-missione ; la
quale Plauziano , acce-cato dalla ambizione, gli
fece: donde seguì che fu dal tribuno
accusato econvinto ; e senza quella cedola, e certi
altri contrassegni, sarebbe statoPlauziano
superiore : tanto audacemente negava. Truovasi,
adunque, nella accusad’uno qualche rimedio,
quando tu non puoi esser da una
scrittura, o altricontrassegni, convinto: da che
uno si debbe guardare. Era nella congiura
Pi-soniana una femmina chiamata Epicari, 9tata
per lo addietro amica di Nerone;la
quale giudicando che fusse a propo-sito mettere
tra i congiurati uno capi-tano di alcune
triremi che Nerone teneva per sua guardia,
gli coipunicò la con-giura, ma non i
congiurati. Donde, rom-pendogli quel capitano la
fede ed accu-sandola a Nerone, fu tanta l’ audacia
di Epicari nel negarlo, che Nerone,
rimasoconfuso, non la condennò. Sono, adun-que,
nel comunicare la cosa ad un solodue
pericoli : l’ uno, che non ti accusi in pruova;
l’altro, che non ti accusi con-vinto e
constretto dalla pena, sendo egli preso per
qualche sospetto o per qual-che indizio avuto
di lui. Ma nell’ uno e nell’altro di
questi duoi pericoli è qual-che rimedio,
potendosi uegare l’uno al- legandone l’odio che
colui avesse teco,e negare l’altro allegandone
la forza che lo costringesse a dire le
bugie. E,adunque, prudenza non comunicare la cosa
a nessuno, ma fare secondo quelliessenipi
soprascritti; o quando pure la comunichi, non
passare uno, dove se èqualche più
pericolo, ve n’è meno assai che comunicarla
con molti. Propinquo a questo modo è quando
una necessità ti constringa a fare quello
al principeche tu vedi che '1
principe vorrebbe fare a te, la quale sia
tanto grande chenon ti dia tempo se
non a pensare d’as* sicurarti. Questa necessità
conduce quasisempre la cosa al (ine
disiderato: ed a provarlo voglio bastino
duoi essempi.Aveva Commodo, imperadore, Leto ed Eletto,
capi de’ soldati pretoriani, intrai primi amici e
famigliaci suoi, ed aveva Marzia intra le
sue prime concubine edamiche; e perchè egli
era da costoro qualche volta ripreso de'
modi con iquali maculava la persona
sua e lo im-perio, deliberò di fargli
morire, e scrissein su una lista: Marzia,
Leto ed Eletto, ed alcuni altri che
voleva la notte se-guente far morire; e
questa lista messe sotto il capezzale del
suo letto. Ed essen-do ito a lavarsi, un
fanciullo favorito di lui scherzando per
camera e su pelletto, gli venne trovata
questa lista, ed uscendo fuora con essa
in mano, ri-scontrò Marzia; la quale gliene
tolse, e lettola, e veduto il contenuto
d’essa,subito mandò per Leto ed Eletto; e
co-nosciuto tutti tre il pericolo in
qualeerano, diliberarono prevenire; e, senza metter
tempo in mezzo, la notte
seguenteammazzarono Commodo. Era Antonino Caracalla,
imperadore, con gli esercitisuoi in
Mesopotamia, ed aveva per suo prefetto
Macrino, uomo più civile chearmigero; e,
come avviene che. i prin- cipi non buoni
temono sempre che altrinon operi contra
di loro quello che par loro meritare,
scrisse Antonino a Ma-terniano suo amico a
Roma, che inten-desse dagli astrologi, se
gli era alcunoche aspirasse allo imperio, e
gliene av-visasse. Donde Materniano gli
riscrisse,come Macrino era quello che vi
aspira-• va; e pervenuta la lettera, prima
allemani di Macrino che dello imperadore,e
per quella conosciuta la necessità
od’ammazzare lui prima che nuova let-tera
venisse da Roma, o di morire,commise a
Marziale centurione, suo fida-lo, ed a chi
Antonino aveva morto pochigiorni innanzi un
fratello, che lo am-mazzasse: il che fu
eseguito da lui fe-licemente. Vedesi, adunque,
che questa necessità che non dà tempo,
fa quasiquel medesimo effetto che ’l
modo da me sopraddetto che tenne Nelemato
diEpiro. Vedesi ancora quello che io dissi quasi
nel principio di questo discorso,come le
minacce offendono più gii prin- cipi, e sono
cagione di più efficaci con-giure che le
offese : da che un principe si debbe
guardare; perchè gli uomini si hanno o a
carezzare, o assicurarsi di loro, e non gli
ridurre mai in termineche gli abbino a
pensare che bisogni loro o morire, o far
morire altrui.Quanto ai pericoli che si
corrono in su la esecuzione, nascono questi
o da va-riare l’ordine, o da mancare V animo a
colui che eseguisce, o da errore chelo
esecutore faccia per poca prudenza, o per
non dar perfezione alla cosa, ri-manendo
vivi parte di quelli che si di- segnavano
ammazzare. Dico, adunque,come e' non è cosa
alcuna che faccia tanto sturbo o impedimento a
tutte leazioni degli uomini, quanto è in
uno instante, senza aver tempo, avere a va-riare
un ordine, e pervertirlo da quello che si
era ordinato prima. E se questavariazione
fa disordine in cosa alcuna, lo fa
nelle cose della guerra, ed in
cosesimili a quelle di che noi parliamo;
per-chè in tali azioni non è cosa tanto
ne-cessaria a fare, quanto che gli uomini fermino
gli animi loro ad eseguire quellaparte
che tocca loro; e se gli uomini hanno
volto la fantasia per più giorniad un
modo e ad uno ordine, e quello subito
varii, è impossibile che non siperturbino
tutti, e non rovini ogni co-sa; in modo
ch'egli è meglio assai ese-guire una cosa
secondo l' ordine dato, ancora che vi si
vegga qualche incon-veniente, che non è,
per voler cancellare quello, entrare in
mille inconvenienti.Questo interviene quando e’
non si ha tempo a riordinarsi; perchè
quando siha tempo, si può 1’ uomo
governare a suo modo. La congiura de’ Pazzi
contraa Lorenzo e Giuliano de’ Medici, è nota. L’
ordine dato era, che dessino desinareal
cardinale di San Giorgio, ed a quel desinare
ammazzargli: dove si era di-stribuito chi
aveva a ammazzargli, chi aveva a pigliare il
palazzo, e chi correrela città e chiamare
il popolo alla libertà. Accadde che essendo
nella chiesa catte-drale in Firenze i Pazzi, i
Medici ed il Cardinale ad uno offizio
solenne, s’in-tese come Giuliano la mattina
non vi desinava : il che fece che i
congiuratis’adunarono insieme,^ quello che gli avevano
a far in casa i Medici, dilibe-rarono di
farlo in chiesa. Il che venne a perturbare
tutto l’ordine; perchè Gio-vambatista da
Montesecco non volle con-correre all’ omicidio,
dicendo non lo co-lere fare in chiesa:
talché gli ebbono a“mutare nuovi ministri
in ogni azione; iquali, non avendo
tempo a fermare l’ani-mo, feci ono tali
errori, che in essa ese-cuzione furono
oppressi. Manca l’animo a chi eseguisce, o per
riverenza, o perpropria viltà dello esecutore,
lì) tanta la maestà e la riverenza che
si tira dietrola presenza d’uno principe,
eh’ egli è fa-cil cosa o che mitighi o
ch’egli sbigot-tisca uno esecutore. A Mario, essendo preso
da’ Minturnesi, fu mandato uno ser-vo che
lo ammazzasse ; il quale spaventato dalla
presenza di quello uomo e dalla me-moria
del nome suo divenuto vile, per-de ogni
forza ad ucciderlo. E se que-sta potenza è
in uno uomo legato e prigione, ed
affogato in la mala fortuna,quanto si
può temere che la sia mag-giore in un
principe sciolto, con lamaestà degli ornamenti,
della pompa c della comitiva sua? talché
ti può questapompa spaventare, o vero con
qualche grata accoglienza raumiliare. Congiura-rono
alcuni contro a Sitalce re di Tra- cia;
deputarono il dì della esecuzione;convennono
al luogo deputato, dov’ era il principe;
nessuno di loro si mosseper offenderlo:
Unto che si partirono senza aver tentato
alcuna cosa e senzasapere quello che se
gli avesse impediti; ed incolpavano 1’ uno
1’ altro. Caddonoin tale errore più
volte ; tanto che sco-pertasi la congiura,
portarono pena diquel male che poterono e
non volleno fare. Congiurarono contra Alfonso
ducadi Ferrara due suoi fratelli, ed
usarono mezzano Giennes prete e cantore delduca;
il quale più volte a loro richiesta, condusse
il duca fra loro, talché gliavevano
arbitrio di ammazzarlo. Nondi-meno, mai nessuno
di loro non ardì difarlo; tanto che
scoperti, portarono la pena della cattività e
poca prudenzaloro. Questa negligenza non
potette na-scere da altro, se non che
convenne oche la presenza gli sbigottisse o
che qualche umanità del principe gli umi-liasse.
Nasce in tali esecuzioni inconve-niente o errore
per poca prudenza, oper poco animo;
perchè V una e 1’ altra di queste due
cose ti ’nvasa, e, portatoda quella
confusione di cervello, ti fa dire e fare
quello che tu non debbi. Eche gli
uomini invasino e si confondino, non lo può
meglio dimostrare Tito Livioquando descrive
d’ Alessameno elolo, quando ei volse
ammazzare Nabide spar-tano^ di che abbiamo
di sopra parlato; che, venuto il tempo
della esecuzione,scoperto che egli ebbe a’
suoi quello che af aveva a fare," dice
Tito Livioqueste parole: Collegi! et i psc
animunij confusimi tanice cogilatione rei.
Perchègli è impossibile eh* alcuno, àncora che di
animo fermo, ed uso alla morte de-gli
uomini e ad operare il ferro, non si
confonda. Però si debbe eleggere uo-mini
sperimentati in tali maneggi, ed a nessun
altro credere, ancora che tenutoanimosissimo.
Perchè, dello animo nelle cose grandi,
senza avere fatto isperien-za, non sia
alcuno che se ne prometta cosa certa.
Può, adunque, questa con-fusione o farti cascare
Panni di mano, o farti dire cose che
faccino il medesi-mo effetto. Lucilla, sorella
di Commodo, ordinò che Quinziano lo
ammazzasse.Costui aspettò Commodo nella entrata dello
anfiteatro, c con un pugnale ignudoaccosta
ndosegli, gridò: Questo ti manda il Senato:
le quali parole fecero che fuprima
preso eh’ egli avesse calato il braccio
per ferire. Messer Antonio daVolterra,
diputato, come di sopra si disse, ad
ammazzare Lorenzo de* Medici,nello accostategli,
disse: Ah traditore! la qual voce fu
la salute di Lorenzo, ela rovina di
quella congiura. Può non si dare perfezione
alla cosa, quando sicongiura contro ad
un capo, per le ca-gioni delle: ma
facilmente non se le dàperfezione quando
si congiura contro a due capi; anzi è
tanto difficile, che gliè quasi impossibile
eli» la riesca. Per-chè fare una simile
azione in un mede-simo tempo in diversi
luoghi, è quasi impossibile; perchè in diversi
tempinon si può fare, non volendo che
l’una guasti 1’ altra. In modo clic,
se il con-giurare contro ad uu principe è
cosa dubbia, pericolosa e poco prudente
;congiurare contro a due, è al tutto vana e
leggieri. E se non fusse la riverenzadello
istorieo, io non crederei mai che fusse
possibile quello che Erodiano dicedi
Plauziano, quando ei commise a Sa-turnino
centurione, che egli solo am-mazzasse Severo
ed Antonino, abitanti in diversi luoghi:
perchè la è cosa tantodiscosto dal
ragionevole, che altro che questa autorità
non me lo farebbe cre-dere. Congiurarono
certi giovani ateniesi contra a Diocle ed
Ippia, tiranni diAlene. Ammazzarono Diocle;
ed Ippia che rimase, Io vendicò. Chione e
Leo-nide, eradensi e discepoli di Platone, congiurarono
contro a Clearco e Satiro,tiranni: ammazzarono
Clearco; e Satiro che restò vivo, lo
vendicò. Ai Pazzi, piuvolte da noi
allegati, non successe di ammazzare se non
Giuliano. In modoche, di simili congiure
contro a più capi se ne dcbbe astenere
ciascuno, perchènon si fa bene nè a
sè nè olla patria nè ad alcuno: anzi
quelli che riman-gono , diventano più
insopportabili c più acerbi; come sa
Firenze, Ateneed Eraclea, state da ine
preallegate. È vero che la congiura clic
Pelopidafece per liberare Tebe sua patria , ebbe
tutte le diffìcultù; nondimenoebbe felicissimo
fine: perchè Pelopida non solamente congiurò contra
a duetiranni, ma contra a dieci; non sola-mente
non era confidente e non gli erafacile
1’ entrata ai tiranni, ma era ri-bello:
nondimeno ei potè venire iti Te-be,
ammazzare i tiranni, e liberare la patria. Pur
nondimeno fece lutto, conI’ aiuto d’
uno Carione, consigliere de’ ti-ranni, dal quale
ebbe 1’ entrata fucilealla esecuzione sua.
Non sia alcuno, non-dimeno, che pigli lo
essempio da co-stui : perchè come la fu
impresa impos-sibile, e cosa maravigliosa a
riuscire,cosi fu ed è tenuta dagli
scrittori i quali la celebrano come cosa
rara, equasi senza essempio. Può essere
inter-rotta tale esecuzione da una falsa
im-maginazione, o da uno accidente im-provviso che
nasca in su M fatto. Lamattina che
Bruto e gli altri congiurati volevano ammazzare
Cesare, accadde, chequello parlò a lungo
con Gneo Popiiio Cenate, uno de’ congiurati ; e
vedendogli altri questo lungo parlamento,
du-bitarono che detto Popiiio non rivelassea
Cesare la congiura. Furono per ten-tare d*
ammazzare Cesare quivi, e nonaspettare che
fusse in Senato; ed areb-bonlo fatto,
se non che il ragionamentofini, e visto
non fare a Cesare moto alcuno straordinario,
si rassicurarono.Sono queste false immaginazioni
da con-siderarle, ed avervi con prudenza
ri-spetto ; e tanto più, quanto egli è facile ad
averle. Perchè chi ha la sua
con-scienza macchiata, facilmente crede che si
parli di lui: puossi sentire una pa-rola
detta ad un altro fine, che ti
fac-eia perturbare t’ animo, e credere
cheia sia detta sopra il caso tuo; e
farti o con la fuga scoprire la congiura
date, o confondere I' azione con accelerarla fuora
di tempo. E questo tanto più fa-cilmente
nasce, quanto ei sono molti ad esser
consci della congiura. Quanto agliaccidenti,
perchè sono insperati, non si può se
non con gli essempi mostrargli,e fare gli
uomini cauti secondo quelli, lulio Belanti
da Siena, del quale di so-pra abbiamo
futto menzione, per lo sdegno aveva contra
a Pandolfo, che gliaveva tolta la figliuola
che prima gli aveva data per moglie,
deliberò d’ am-mazzarlo, ed elesse questo
tempo. An-dava Pandolfo quasi ogni giorno a
vi-sitare un suo parente infermo, e nello andarvi
passava dalle case di lulio. Co-stui
adunque, veduto questo, ordinò d* avere i
suoi congiurali in casa ad ordine per ammazzare
Pandolfo nel pas-sare ; e messisi dentro alP
uscio armati,teneva uno alla fenestra, che,
passando Pandolfo, quando ci fosse slato
pressoall’ uscio, facesse un cenno. Accadde
che venendo Pandolfo, ed avendo fallo
coluiil cenno, riscontrò uno amico che Io fermò;
ed alcuni di quelli che erano conlui,
vennero a trascorrere innanti, e veduto e sentito
il rornore d’arme, sco-persono l’agguato;
in modo che Pan- dolfo si salvò, e tulio
coi compagni s’ eh*bono a fuggire di Siena.
Impedì quello accidente di quello scontro
quella azione,e fece a Iulio rovinare la
sua impresa. Ai quali accidenti, perchè ei
sono rari,non si può fare alcuno
rimedio. È ben necessario esaminare tutti quelli
chepossono nascere, e rimediarvi. Restaci, al
presente, solo a disputare de’ pericoliche
si corrono dopo la esecuzione : i quali
sono solamente uno; e questo è,quando e’
rimane alcuno che vendichi il principe
morto. Possono rimanere,adunque, suoi fratelli, o
suoi figliuoli, o altri aderenti, a chi s’
aspetti il prin-cipato; e possono rimanere o per
tua. negligenza, o per le cagioni dette di
so-pra, che faccino questa vendetta: come intervenne
a Giovannandrea da Lampo-gnano, il quale,
insieme con i suoi con-giurati, avendo morto
il duca di Mi-lano, ed essendo rimaso
uno suo figliuolo c due suoi fratelli,
furono a tempo avendicare il morto. E
veramente, in questi casi i congiurati sono
scusati,perchè non ci hanno rimedio; ma
quando ei ne ripiene vivo alcuno per
poca pru-denza, o per loro negligenza, allora è che
non meritano scusa. Ammazzaronoalcuni congiurati
Forlivesi il conte Gi-rolamo loro signore,
presono la moglie,cd i suoi figliuoli, che
erano piccoli ; e non parendo loro poter
vivere sicuri senon si insignorivano della
fortezza, e non volendo il castellano darla
loro,Madonna Caterina (che così si chiamava la
contessa) promise a’ congiurati, se
lalasciavano entrare in quella, di farla consegnare
loro, e che ritenessino ap-presso di loro i
suoi figliuoli per ista- ticiii. Costoro
sotto questa fede ve la la-sciarono entrare
; la quale come fu den-tro dalie mura
rimproverò loro la mortedel marito, e minacciógli
d’ ogni qua-lità di vendetta. B per mostrare
chede’ suoi figliuoli non si curava, mostrò loro
le membra genitali, dicendo cheaveva ancora
il modo a rifarne. Cosi costoro, scarsi di
consiglio e tardi av-vedutisi del loro errore,
con uno per-petuo esilio patirono pene
della pocaprudenza loro. Ma di tutti i
pericoli che possono dopo la esecuzione
avvenire,non ci è il più certo, nè
quello che sia più da temere, che
quando il popolo èamico del principe
che tu hai morto: perchè a questo i
congiurati non hannorimedio alcuno, perchè
e’ non se ne pos- sono mai assicurare.
In essempio ci èCesare, il quale per
avere il popolo di Roma amico, fu
vendicato da lui; per-chè avendo cacciati i
congiurati di Ro-ma, fu cagione che furono
tutti in varitempi e in vari luoghi
ammazzati. Le congiure che si fanno contro
alla patriasono meno pericolose per coloro
che le fanno, che non sono quelle che
si fannocontro ai principi: perchè nel
maneg-giarle vi sono meno pericoli che
inquelle; nello eseguirle vi sono quelli medesimi;
dopo la esecuzione, non veli* è alcuno.
Nel maneggiarle non vi è pericoli molti:
perchè un cittadino puòordinarsi alia
potenza senza manifestare l’animo e disegno suo
ad alcuno; e sequelli suoi ordini non gli
sono inter- rotti; seguire felicemente I* impresa
sua;se gli sono interrotti con qualche
legge, aspettar tempo, ed entrare per altra
via.Questo s’ intende in una repubblica dove è
qualche parte di corruzione; perchèiu una
non corrotta, non vi avendo luogo nessuno
principio cattivo, nonpossono cadere in un
suo cittadino que- sti pensieri. Possono,
adunque, i cittadiniper molti mezzi e molte
vie aspirare al principato, dove ei non
portano peri-colo d’ essere oppressi: si
perchè le re-pubbliche sono più tarde
che uno prin-cipe, dubitano meno, e per
questo sono manco caute; sì perchè hanno
più ri-spetto ai loro cittadini grandi, e
per questo quelli sono più audaci e più animosi
a far loro contro. Ciascuno ha letto la
congiura di Catilina scritta daSalustio, e
sa come poi che la congiura fu
scoperta, Catilina non solamente stettein
Roma, ma venne in Senato, e disse villania
al Senato ed al Consolo: tantoera il
rispetto che quella città aveva ai suoi
cittadini. E partito che fu di Roma,e eh’
egli era di già in su gli eserciti, non
si sarebbe preso Lentolo e quellialtri, se
non si fussero avute lettere di lor
mano che gli accusavano manifesta-mente. Annone,
grandissimo cittadino in Cartagine, aspirando
alla tirannide,aveva ordinato nelle nozze d’
una sua figliuola di avvelenare tutto il
Senato,e dipoi farsi principe. Questa cosa in- tesasi,
non vi fece il Senato altra prov-visione
che d’ una legge, la quale po- neva
termine alle spese de’ conviti edelle
nozze: tanto fu il rispetto die gli ebbero
alle qualità sue. È ben vero, chenello
eseguire una congiura contra alla patria,
Vi è più difficoltà e maggioripericoli; perchè1
rade volte è che ba- stino le tue forze
proprie conspirandocontra u tanti; e ciascuno non
è prin-cipe d’ uno esercito, come era
Cesare oAgatocle o Cleomene e simili, che hanno ad
un tratto e con la forza occupata
lapatria. Perchè a simili è la via assai facile,
ed assai sicura; ma gli altri chenon
hanno tante aggiunte di forze, con-viene
che faccino la cosa o con ingannoed
arte, o con forze forestiere. Quanto allo
inganno ed all’arte, avendo Pisi-strato
ateniese vinti i Megarensi, e per questo
acquistata grazia nel popolo, uscìuna
mattina fuori ferito, dicendo che la
nobiltà per invklia P aveva ingiuria-to, e
domandò di poter menare armati seco per
guardia sua. Da questa auto-rità facilmente
salse a tanta grandezza, che diventò tiranno d’
Alene. PandolfoPetrucci tornò con altri
fuorusciti in Siena, e gli fu data la
guardia dellapiazza in governo, come cosa
meccanica, e che gli altri rifiutarono;
nondiinaneoquelli armati, con il tempo, gli
dierono tanta riputazione, che in poco
tempone diventò principe. Molti altri hanno tenute
altre industrie ed altri modi, econ
ispazio di tempo e senza pericolo vi si
sono condotti. Quelli che con forzaloro, o
con eserciti esterni, hanno con-giurato per
occupare la patria, hannoavuti vari eventi,
secondo la fortuna. Catilina preallegato vi
rovinò sotto. An-none, di chi di sopra
facemmo men- zione, non essendo riuscito il
veleno,armò di suoi partigiani molte migliaia di
persone, e loro ed eglino furono mor-ti.
Alcuni primi cittadini di Tebe per farsi
tiranni chiamarono in aiuto unoesercito
spartano, e presono la tirannide di quella
città. Tanto che, esaminatetutte le
congiure fatte contro alla pa-Iria, non
ne troverai alcuna, o poche,che nel
maneggiarle siano oppresse; ma tutte q sono
riuscite, o sono rovi-nate nella esecuzione.
Eseguite che le sono, ancora non portano
altri pericoli,che si porti la natura
del principato in sé: perchè divenuto che
uno è tiranno,ha i suoi naturali ed
ordinari pericoli che gli arreca la
tirannide, alli qualinon ha altri rimedi
che di sopra si siano discorsi. Questo è
quanto mi èoccorso scrivere delle congiure;
e se io ho ragionato di quelle che si
fanno conil ferro, e non col veleno,
nasce che P hanno tutte un medesimo ordine.
Veroè che quelle del veleno sono più
pe-ricolose, per esser più incerte: per-chè non
si ha comodità per ognuno; e bisogna
conferirlo con chi la ha ; equesta
necessità del conferire ti fa pe-ricolo.
Dipoi, per molte cagioni, un be-veraggio di
veleno non può esser mor-tale: come
intervenne a quelli che am-mazzarono Commodo,
che, avendo quello ributtato il veleno che
gli avevano dato,furono forzati a strangolarlo,
se volleno che morisse. Non hanno, pertanto,
iprincipi il maggiore nimico che la con* giura
; perchè fatta che è una congiuraloro
conira, o la gli ammazza, o la gli infama.
Perchè, se la riesce, e’ muoio-no; se
la si scopre, e loro ammazzino i congiurati,
si crede sempre che lusia stata
invenzione di quel principe, per isfogarc
1* avarizia e la crudeltà suaconira al
sangue ed alla roba di quelli eh’
egli ha morti. Non voglio però man-care
di avvertire quel principe o quella repubblica
contra a chi fusse congiu-rato, che abbino
avvertenza, quando una congiura si manifesta
loro, innanziche faccino impresa di
vendicarla, di cercare ed intendere molto
bene la qua-lità di essa, e misurino bene
le condi- zioni de’ congiurati e le loro ; c
quandola truovino grossa e potente, non la scuoprino
mai, infimo a tanto che sisiano preparati
con forze sufficienti ad opprimerla: altrimenti
facendo, scopri-rebbono la loro rovina.
Però debbono con ogni industria dissimularla,
perchèi congiurati veggendosi scoperti, cac-ciati da
necessità, operano sema ris-petto. In esseinpio
ci sono i Romani; i quali aveudo lasciate
due legioni disoldati a guardia de’
Capovani contra ai Sanniti, come altrove
dicemmo, con-giurarono quelli capi delle legioni
in-sieme di opprimere i Capovani: la qualcosa
intesasi a Roma, commessono a Rutilio nuovo
consolo che vi provve-desse: il quale, per
addormentare i con-giurali, pubblicò come il
Senato avevaraffermo le stanze alle legioni
capovane. Il che credendosi quelli soldati, e
pa-rendo loro aver tempo ad eseguire il disegno
loro, non cercarono di accele-rare la cosa
; e così stettono infino che cominciarono a
vedere che il Consologli separava 1’
uno dull’ altro ; la qual cosa generato
in loro sospetto, fece chesi scopersono, e
mandarono ad esecu-zionc la voglia loro.
Nè può esserequesto maggiore essempio nell’
una e nel-Y altra parte: perchè per questo
si vede,quanto gli uomini sono lenti
nelle cose dove ei credono avere tempo; e
quantoei sono presti dove la necessità
gli cac-cia. Nè può uno principe o una
repub-blica, che vuole differire lo scoprire una congiura
a suo vantaggio, usare ter-mine migliore che
offerire di prossimo occasione con arte ai
congiurati, accioc-ché aspettando quella, o parendo
loro aver tempo, diano tempo a quello o
aquella a castigargli. Chi ha fatto altri-menti,
ha accelerato la sua rovina:come fece
il duca di Atene e Guglielmo de* Pazzi.
Il duca, diventato tiranno diFirenze, ed
intendendo essergli congiu-rato contro, fece,
senza esaminare altri-menti la cosa, pigliare uno
de’ congiu-rali: il che fece subito
pigliare V anniagli altri e torgli lo
Stato. Guglielmo, sendo commessario in Val
di Chiananel 1501, ed avendo inteso
come in Arezzo erti congiura in favore
de* Vi-telli per tórre quella terra ai
Fiorentini, subito se uè andò in quella
città, esenza pensare alle forze de’ congiurati o
alle sue, e senza prepararsi di
alcunaforza, con il consiglio del Vescovo
suo figliuolo, fece pigliare uno de’ congiu-rati:
dopo la qual presura, gli altri subito
presono 1’ armi e tolseno In ter-ra ai
Fiorentini; e Guglielmo, di com-tnessario,
diventò prigione. Ma quandole congiure sono
deboli, si possono e debbono senza rispetto
opprimere. Nonè ancora da imitare in alcun
modo duoi termini usati, quasi contrari 1’
uno al-I’ altro ; 1’ uno dal
prenominato duca d’ Atene, il quale, per
mostrare di cre-dere d’ avere la
benivolenza de’ cittadini fiorentini, fece morire
uno che gli ma-nifestò una congiura:
l’altro da Dione siracusano, il quale, per
tentare 1’ animodi alcuno ch’egli aveva a
sospetto, con-sentì a Callippo, nel quale ei
confidava,che mostrasse di fargli una congiura contra.
E tutti due questi capitaronomale: perchè
l’uno tolse l’animo agli accusatori, e dettelo a
chi volse congiu-rare: l’altro dette la via
fucile alta morte sua, anzi fu egli
proprio capodella sua congiura; come per
isperienza gli intervenne, perchè Callippo
potendosenza rispetto praticare contra a Dione, praticò
tanto, che gli tolse lo Stato ela
vita. Cap. VII. — Donde nasce che le
muta-zioni dalla libertà alla servitù , e dallaservitù
alla libertàj alcuna n' è senza sangue , alcuna
n* è piena.Dubiterà forse alcuno donde nasca che
molte mutazioni che si fanno dallavita
libera alla tirannica e per contra-rio, alcuna
se ne faccia con sangue, al-cuna senza ;
perchè, come per le istorie si comprende,
in simili variazioni alcunavolta sono stali
morti infiniti uomini, alcuna volta non è
stato ingiurialo al-cimo: come intervenne
nella mutazione clic fece Roma dai Re
ai Consoli, dovenon furono cacciati altri
die i Tarquini, fuora delia offensione di
qualunque altro.Il che dipende da questo:
perchè quello stato che si muta, nacque
con violenza,o non ; e perchè quando e’
nasce con violenza, conviene nasca con
ingiuria dimolti, è necessario poi, nella
rovina sua, che gl’ ingiuriati si vogliono
vendicare;e da questo disiderio di vendetta nasce
il sangue e la morte degli uomini.
Maquando quello stato è causato da uno comune
consenso di una universalitàche lo lia
fatto grande, non ha cagione poi, quando
rovina detta universalità,di offendere altri
che il capo. E di que-sta sorte fu lo
stato di Roma e la cac-ciata de* Tarquini;
come fu ancora in Firenze lo stato de*
Medici, che poi nellerovine loro nel
1494, non furono offesi altri che loro. E
così tali mutazioni nonvengono ad esser
molto pericolose : ma son bene pericolosissime
quelle che sonofatte da quelli che si
hanno a vendica-re; le quali furono sempre
mai di sorte,da fare, non che altro,
sbigottire chi le legge. E perchè di questi
essempi ne-son piene l’ istorie, io le
voglio lasciare indietro.Cap. Vili. — Chi vuole
alterare una re-pubblicaj debbo considerare
il sogget-to di quella. E’ si è di sopra
discorso, come un tri-sto cittadino non può
male operare in una repubblica clic non
sia corrotta : laquale conclusione si
fortifica, oltre alle ragioni che allora si
dissono, con l’es*sempio di Spurio Cassio e
di Manlio Capitolino. 11 quale Spurio sendo
uomoambizioso, e volendo pigliare autorità istraordinaria
in Roma, e guadagnarsila Plebe con il
fargli molti benefizi, come era di
vendergli quelli campi che i Ro-mani avevano
tolti alt i Ernici; fu sco-perta dai Padri
questa sua ambizione,ed in tanto recata a
sospetto, r:lie par-lando egli al Popolo,
ed offerendo dìdargli quelli danari che
s’ erano ritratti de’ grani che il
pubblico aveva fatti ve-nire di Sicilia, al
tutto gli recusò, pa-rendo a quello che
Spurio volesse dareloro il pregio della
loro libertà. Ma se tal Popolo fusse
stato corrotto, non areb-be recusato detto
prezzo, e gli arebbe aperta alla tirannide
quella via che glichiuse. Fa molto
maggiore essempio di questo, Manlio Capitolino ;
perchè me-diante costui si vede quanta
virtù d’ani- mo e di corpo, quante buone
opere fattein favore della patria, cancella
dipoi una brutta cupidità di regnare: la
quale,come si vede, nacque in costui
per la invidia che lui aveva degli
onori eranofatti a Cammillo; e venne in
tanta cecità di niente, che nou pensando
al mododel vivere della città, non
esaminando il soggetto quale esso aveva,
non attoa ricevere ancora trista forma, si
mise a fare tumulti in Roma contra al
Se-nato e con tra alle leggi patrie. Dove si
conosce la perfezione di quella città,e la
bontà della materia sua : perchè nel caso
suo nessuno della Nobiltà, an-cora che
fussino acerrimi difensori l’uno deli’ altro,
si mosse a favorirlo ; nessunode’ parenti fece
impresa in suo favore: e con gli altri
accusati solevano com-parire sordidati, vestiti
di nero, tutti mesti, per cattare
misericordia in fa-vore dello accusato; e con
Manlio non se ne vide alcuno. I Tribuni
della plebe,che solevano sempre favorire le
cose che pareva venissino in benefizio
delPopolo ; e quanto erano più contra ai Nobili,
tanto piu le tiravano innanzi; inquesto
caso si unirono coi Nobili, per opprimere
una comune peste. Il Popolodi Roma,
disiderosissimo dello utile pro-prio, ed amatore
delle cose che veniva-no contra alla
Nobiltà, avvenga clic facesse a Manlio assai
favori; nondi-meno, come i Tribuni lo citarono, e
che rimessono la causa sua al giudizio
delPopolo, quel Popolo, diventalo di
difen*sore giudice, sema rispetto alcuno
locondennò a morte. Pertanto io non credo che
sia essempio in questa istoria piùatto a
mostrare la bontà di tutti gli ordini
di quella Repubblica, quanto èquesto ;
veggendo che nessuno di quella città si
mosse a difendere un cittadinopieno d’ ogni
virtù, e che pubblicamente e privatamente aveva
fatte moltissimeopere laudabili. Perchè in
tutti loro potè più T amore della patria,
che nessuno-altro rispetto; e considerarono molto più
ai pericoli presenti che da lui
di-pendevano, che ai meriti passati: tanto che
con la morte sua e’ si liberarono..E
Tito Livio dice: Hunc ex itimi habuìt vii',
nisi in libera civilate natus esset,memorabili
Dove sono da considerare due cose: P una,
che per altri modis’ ha a cercare
gloria in una città cor-rotta, che in
una che ancora viva poli-ticamente; V altra (che
è quasi quel me-desimo che la prima) , che
gli uomini nel proceder loro, e tanto più
nelle azioni grandi, debbono considerare itempi,
ed accomodarsi a quelli. E coloro cbe, per
cattiva elezione o per naturaleinclinazione, si
discordano dai tempi, vivono il più delle
volte infelici, ed hannocattivo esito
razioni loro; al contrario Y hanno quelli
cbe si concordano coltempo. E senza dubbio,
per le parole preallegate dello istorico si
può con-chiudere, che se Manlio fusse nato
ne’ tempi di Mario e di Siila, dove
già lamateria era corrotta e dove esso
arebbe potuto imprimere la forma dell’ ambi-zione
sua, arebbe avuti quelli medesimi seguiti e
successi cbe Mario e Siila, egli altri
poi, che dopo loro alla tiran-nide
aspirarono. Così medesimamente,se Siila e Mario
fussino stati ne’ tempi di Manlio,
sarebbero stati intra le primeloro imprese
oppressi. Perchè un uomo può bene
cominciare con suoi modi econ suoi
tristi termini a corrompere un popolo di
uno città, ma gli è impossi-bile che
la vita d* uno basti a corrom- perla in
modo che egli medesimo nepossa trai*
frutto; e quando bene e’fusse - possibile
con lunghezza di tempo che lofacesse,
sarebbe impossibile quanto al modo del
procedere degli uomini, chesono impazienti, e
non possono lunga- mente differire una loro
passione. Ap-presso, s’ ingannano nelle còse
loro, ecl in quelle, massime, che
disiderano assai:talché, o per poca pazienza o
per in-gannarsene, entrerebbero in impresacontea a
tempo, e capiterebbero male.Però è bisogno, a
voler pigliare auto-rità in una repubblica e
mettervi trista forma, trovare la materia
disordinatadal tempo, e che a poco a poco, e di generazione
in generazione, si sia con-dotta al
disordine: la quale vi si con-duce di
necessità, quando la non sia,come di
sopra si discorse, spesso rin-frescata di
buoni essempi, o con nuoveleggi ritirata
verso i principii suoi. Sa- rebbe, adunque, stato
Manlio un uomoraro e memorabile, se lusso
nato in una città corrotta. E però debbono
i citta-dini che nelle repubbliche fanno alcuna impresa
o in favore della libertà o infavore della
tirannide, considerare il soggetto che eglino
hanno, e giudicareda quello la dilficultà
delle imprese loro. Perchè tanto è diffìcile e
pericoloso volerfare libero un popolo che
voglia viver servo, quanto è voler fare
servo un po-polo che voglia viver libero. E
perchè di sopra si dice, che gli
uomini nellooperare debbono considerare la
qualità de’ tempi e procedere secondo quelli,
neparleremo a lungo nel seguente capi- tolo. Cap.
IX. — Come conviene variare coitempi , volendo
sempre aver buona fortuna.Io ho considerato
più volte come la cagione della trista e
della buona for-tuna degli uomini è riscontrare
il modo del procedere suo coi tempi:
perché e’ sivede che gli uomini nell’
opere loro pro-cedono alcuni con impeto,
alcuni conrispetto e con cauzione. E perchè
nel-l’uno e nell’ altro di questi modi si
pas-sano i termini convenienti, non si po-tendo
osservare la vera via, nell’uno enell’
altro si erra. Ma quello viene ad errar
meno, ed avere la fortuna pro-spera, che
riscontra, come io ho detto, con il
suo modo il tempo, e sempre maisi
procede, secondo ti sforza la natura. Ciascuno
sa come Fabio Massimo proce-deva con lo
esercito suo rispettivamente c cautamente, discosto
da ogni impetoe da ogni audacia romana; e
la buona fortuna fece, che questo suo
modo ris-contrò bene coi tempi. Perchè, sendo venuto
Annibaie in Italia, giovine e conuna
fortuna fresca; ed avendo già rotto il
popolo romano due volte; ed essendoquella
repubblica priva quasi della sua buona
milizia, e sbigottita ; non potettesortire
miglior fortuna, che avere un capitano il
quale, con la sua tardità ecauzione,
tenesse a bada il nimico. Nè ancora Fabio
potette riscontrare tempipiù convenienti ai
modi suoi: di che nacque che fu
glorioso. E che Fabiofacesse questo per
natura e non per elezione, si vede, che
volendo Scipionepassare in Affrica con
quelli eserciti per ultimare la guerra,
Fabio la con-tradisse assai, come quello
che non si poteva spiccare dai suoi
modi e dallaconsuetudine sua; talché, se
fosse stato, a lui, Annibaie sarebbe ancora
in Italia,come quello che non si
avvedeva che gli erano mutati i tempi, e
che bisogna-va mutar modo di guerra. E se
Fabio fusse stato re di Roma, poteva
facil-mente perdere quella guerra : perchè non
arebbe saputo variare col proce-dere suo,
secondo che variavano i tempi : ma sendo
nato in una repubblica doveerano diversi
cittadini e diversi umori, come la ebbe
Fabio, che fu ottimo ne’tempi debiti a
sostenere la guerra, cosi ebbe poi Scipione
ne’ tempi atti a vin-cerla. Di qui nasce,
che una repubblica ha maggior vita, ed
ha più lungamentebuona fortuna che un
principato; per-chè la può meglio accomodarsi
alla di-versità de’ temporali, per la diversità de’
cittadini che sono in quella, che
nonpuò un principe. Perchè un uomo che sia
consueto a procedere in un modo,non si
muta mai, come è detto; e con-viene di
necessità, quando si mutano itempi disformi
a quel suo modo, che rovini. Piero
Soderini, altre volte preal-legato, procedeva
in tutte le cose sue con umanità e
pazienza. Prosperò eglie la sua patria
mentre che i tempi fu-rono conformi al modo
del procedersuo: ma come vennero dipoiìempi
dove bisognava rompere la pazienza e 1’ umi-lila,
non lo seppe fare; talché insieme con
la sua patria rovinò. Papa lulio
11procedette in tutto il tempo del
suo pon- tificato con impeto e con furia ; e
per-chè i tempi l’accompagnarono bene, gli riuscirono
le sue imprese tulle. Ma sefossero
venuti altri tempi che avessero ricerco
altro consiglio, di necessità ro-vinava; perchè
non arebbe mutato nè modo nè ordine
nel maneggiarsi. E clicnoi non ci possiamo
mutare, ne sono cagione due cose: V una,
che noi non cipossiamo opporre a quello a
che c’ in-clina la natura ; 1* altra,
che avendo unocon un modo di procedere
prosperato assai, non è possibile persuadergli
chepossa far bene a procedere altrimenti: donde
ne nasce che in uno uomo la for-tuna
varia, perchè ella varia i tempi, ed egli
non varia i modi. Nascene an-cora la rovina
della città, per non si variare gli
ordini delle repubblicheco’ tempi ; come
lungamente di sopra dis-corremmo : ma sono
più tarde, perchèle penano più a variare,
perchè biso-gna che venghino tempi che
commovinotutta la repubblica; a che un solo
col variare il modo del procedere non
ba-sta. E perchè noi abbiamo fatto inenzione
di Fabio Massimo che tenne a badaAnnibale,
mi pare da discorrere nel ca-pitolo
seguente, se un capitano, volendofar la
giornata in ogni modo col nimico, può
essere impedito da quello, che nonla
faccia. Cap. X. — Che un capitano non
puòfuggire la giornata , quando V av-versario la
vuol fare in ogni moda.Cncus Sulpitius
Diclator advcrsus Gal-lo s bcllum trahcbal,
nolens se fot tuncecoturni Nere ad
versus hostentj qucm lem-pus dcteriorcm in
dieSj et locus alte-rnisi faccrct. Quando e’
seguita uno er-rore dove lutti gli uomini o
la maggiorparte s' ingannino, io non credo
che sia male molte volle riprovarlo.
Pertanto,ancora che io abbia di sopra
più volte mostro, quanto le azioni circa
le cosegrandi siano disformi a quelle degli antichi
tempi, nondimeno non mi parsuperfluo al
presente replicarlo. Perchè, se in alcuna
parte si devia dagli anti-chi ordini, si
devia massime nelle azioni militari, dove
al presente non è osser-vata alcuna di
quelle cose che dagli an-tichi erano
stimate assai. Ed è natoquesto inconveniente,
perchè, le repub-bliche ed i principi hanno
imposta que-sta cura ad altrui; e per
fuggire i pe-ricoli, si sono discostati da
questo eser-cizio: e se pure si vede
qualche volta un re de’ tempi nostri
andare in per -sona, non si crede
però che da lui na- scano altri modi
clic meritino più laude.Perchè quello
esercizio, quando pure Io fanno, lo fanno a
* pompa, e non peralcuna altra laudabile
cagione. Pure, questi fatino minori errori
rivedendo iloro eserciti qualche volta in
viso, te-nendo appresso di loro il titolo
del-V imperio, che non fanno le repubbli-che, e
massime le italiane; le quali, *fidandosi
d’ altrui, nè s’ intendendo in alcuna cosa
di quello che appartengaalla guerra; e
dall’ altro canto, volendo, per parere d*
essere loro il principe,diliberarne, fanno
in tale diliberazione mille errori. E benché
d’ alcuno ne abbidiscorso altrove, voglio
al presente non ne tacere uno
importantissimo. Quandoquesti principi ociosi, o
repubbliche ef-feminate, mandano fuori un loro
capi-tano, la più savia commissione che
paia loro darli, è quando gl* impongono
cheper alcun modo non venga a giornata, anzi
sopra ogni cosa si guardi dallazuffa ; e
parendo loro in questo imitare la prudenza
di Fabio Massimo, clic dif-ferendo il
combattere salvò lo Stato a’ Romani, non
intendono che la mag-giore parte delle
volte questa commis-sione è nulla o è dannosa.
Perchè sidebbe pigliare questa conclusione: che un
capitano che voglia stare alla cam-pagna, non
può fuggire la giornata qualunche volta il
nimico la vuole farein ogni modo. E
non è altro questa commissione che dire :
fa* la giornata aposta del nimico, e
non a tua. Perchè a volere stare in
campagna, e non farla giornata, non ci è
altro rimedio si-curo che porsi cinquanta
miglia almenodiscosto al nimico; e dipoi
tenere buonespie, che venendo quello verso
di te,tu abbi tempo a discostarti. Uno
altropartito ci è; rinchiudersi in una
città:e P uno e P altro di questi due partitè
dannosissimo. Nel primo si lascia inpreda
il paese suo al nimico ; ed
unoprincipe valente vorrà più tosto
tentarela fortuna della zuffa, che
allungare la- guerra con tanto danno de’
sudditi. Nelsecondo partito è la perdita
manifesta;perchè conviene che, riducendoti conuno
esercito in una città, tu venga
adessere assediato, ed in poco tempo pa-tir
fame, e venire a dedizione. Talchéfuggire la
giornata per queste due vie,è dannosissimo.
Il modo che tenne Fa-bio Massimo di
stare ne’ luoghi forti, èbuono quando
tu hai si virtuoso eser-cito, che il
nimico non abbia ardire divenirti a trovare
dentro a’ tuoi vantag-gi. Nè si può
dire che Fabio Ila giornata, ma più
tosto che lafare a suo vantaggio. Perchè
sbuie fusse ilo a trovarlo, Fabio
1aspettato, e fatto giornata seAnnibale non
ardi mai di concon lui a modo di
quello. Tantigiornata fu fuggita cosi da
Acome da Fabio: ma se unol’ avesse
voluta fare in ogni moIrò non vi
aveva se non unorimedi; cioè i due
sopraddettigirsi. Clic questo eh’ io dico
sisi vede manifestamente con nsempi, e
massime nella guerraRomani feciono con
Filippo dinia, padre di Perse: perchèseudo
assaltato dai Romani,non venire alla zuffa;
e per ncnire, volle fare prima come
aveFabio Massimo in Italia; e si ;suo
esercito sopra la sommilmonte, dove si
afforzò assai, giuche i Romani non avessero
ardiiilare a trovarlo. Ma andativi c combat-tutolo,
lo cacciarono di quel monte; edegli
non potendo resistere, si fuggì conla
maggior parte delle genti. E quelche lo
salvò, che non fu consumato intutto,
fu la iniquità del paese, qual
feceche i Romani non poterono seguirlo.Filippo,
adunque, non volendo azzuf-farsi, ed essendosi
posto con il campopresso ai Romani,
si ebbe a fuggire;ed avendo conosciuto per
questa espe-rienza, come non volendo
combattere,non gli bastava stare sopra i
monti, enelle terre non volendo
rinchiudersi,diliberò pigliare l’altro modo, di
starediscosto molte miglia al campo
romano.Donde, se i Romani erano in una
pro-vincia, ei se ne andava nell’altra;
ecosì sempre donde i Romani, partivano,esso
entrava. E veggendo, al fine, comenello
allungare la guerra per questavia, le
sue condizioni peggioravano, eche i suoi soggetti
ora da lui ora daiminici erano
oppressi, diliberò di ten- lare la
fortuna della zu(¥coi Romani ad una
gioriutile, adunque, non comigli eserciti
hanno questeaveva 1’ esercito di
Fabicquello di Caio Sulpizio:esercito sì
buono, che ildisca venirti a trovare
<tezze tue ; e che il nimhtua senza
avere preso irei patisca necessità
delquesto caso il partito utgioni che
dice Tito Li'far lance commi lieve adìquem
lempus deterioraticus alicnuSj faccret. Matermine
non si può fuggse non con tuo
disonoreche fuggirsi, come feceessere rotto; e
con più vimeno s’ è fatto prova dese
a lui riuscì salvarsi, iad un altro
che non fuspaese come egli. Che
Annmaestro di guerra, nessuno mai non
iodirà ; ed essendo allo ’neontro di
Sèi- pione in Affrica, s’egli avesse
vedutovantaggio in allungare la guerra,
eiFarebbe fatto; e per avventura, sendolui
buon capitano, ed avendo buonoesercito, lo
arebbe potuto fare, comefece Fabio in Italia:
ma non l’avendofatto, si debbe credere
che qualche ca-gione importante lo movesse.
Perchè unprincipe che abbi uno esercito
messoinsieme, e vegga che per difetto di
da- !> nari o di amici ei non
può tenere lun-gamente tale esercito, è matto
al tuttose non tenta la fortuna
innanzi che taleesercito si abbia a
risolvere: perchèaspettando, ei perde al
certo; tentando,potrebbe vincere. Un’altra cosa
ci èancora da stimare assai : la
quale è,che si debbe, eziandio perdendo,
volereacquistar gloria; e più gloria si ha
adesser vinto per forza, che per
altro in-conveniente che t’abbia fatto perdere.Sì
che Annibaie doveva essere constretto«la
queste necessità. E dìScipione, quando
Anuibaferita la giornata, e nonstalo l’animo
andarlo a tghi forti, non pativa, pevinto
Siface, e acquistateAffrica, che vi poteva
stacomodità come in Italia,terveniva ad
Annibaie, qV incontro di Fabio ; nèciosi,
che erano all’ inctzio. Tanto meno
ancoragiornata colui che con l’il paese
altrui ; perchè,trare nel paese del
niiviene quando il nimico scontro,
azzuffarsi seco; <campo ad una terra, si
più alla zuffa: come ne’ ttervenne al
duca Carlo di sendo a campo a Moratto,zeri,
fu da’ Svizzeri assa come intervenne all’
eseeia, che campeggiando P desimamentc da’
SvizzeriCap. XI. — Che chi ha a fare
con assaij ancora che sia inferiore, purché
possasostenere i primi impeli, vince. La potenza
de’ Tribuni della plebe nellacittà di Roma
fu grande, e fu necessaria, come molte
volte da noi è stato discorso;perchè
altrimenti non si sarebbe potuto por freno
all’ambizione della Nobiltà, la({«ale arebbe
molto tempo innanzi corrot-ta quella Repubblica,
che la non si cor-ruppe. Nondimeno, perchè
in ogni cosa, come altre volte si è
detto, è nascosoqualche proprio male, che fa
surgere nuo-vi accidenti, è necessario a questi connuovi
ordini provvedere. Essendo, per-tanto, divenuta
l’autorità tribunizia in-solente e formidabile alla
Nobiltà ed a tutta Roma, e’ ne
sarebbe nato qualcheinconveniente dannoso alla
libertà ro-mana, se da Appio Claudio non
fossestato mostro il modo con il
quale si avevano a difendere contro all’ ambizionede’
Tribuni: il quale fu sempre infra loro
qualci pauroso, o corruttibile, comun bene ;
talmenteebèad opporsi alla volontà che volessino
tirare inn liberazione contro alla i nato.
Il quale rimediotemperamento a tanta f molti
tempi giovò a Ron ha fatto considerare,volta e’
sono molli poter ad un altro potente, an insieme
siano molto più nondimanco si debbpiù in
quello solo ■, che in quelli
assai,gliardissimi. Perchè,» 1 ulte quelle cose
delle q più die molti previ infinite),
sempre occorripotrà, usando un poco sunire
gli assai, e quel gagliardo, far debole.
liquesto addurre antichi essempi, che ce ne
sarebbono assai j ma voglio mi ba-stino i
moderni, seguiti ne’ tempi no-stri. Congiurò
net 1484 tutta Italia con- .tra a’
Vinizianij e poiché loro al tutto erano
persi, e non potevano stare piùcon 1’
esercito in campagna, corruppono il signor
Lodovico che governava Mi*lano; e per tale
corruzione feciono uno accordo, ne! quale
non solamente deb-bono le terre perse, ma
usurparono parte dello Stato di Ferrara. E
cosi co-loro che perdevano nella guerra,
resta-rono superiori nella pace. Pochi annisono
congiurò contea a Francia tutto il mondo:
nondimeno, avanti che si ve-desse il
fine della guerra, Spagna si ribellò da’
confederati, e fece accordoseeo; in modo
che gli altri confederati furono constretti
poco dipoi ad accor-darsi ancora essi.
Talché, senza dubbio, si debbe sempre mai
fare giudizio,quando e’ si vede una
guerra mossa da molti contea ad uno,
che quello unoabbia a restar superio»di
tale virtù, che possa se impeti, e col
temporeggtempo. Perchè quando e’ porterebbe mille
perieoi venne ai Viniziani nclPavessero potuto
tempori esercito francioso, ed i guadagnarsi
alcuni dierano collegati contra, ai quella
rovina; ma non i armi da potere temporegc
per questo non aventi a separarne alcuno, rovi si
vidde che il papa, 1ebbe le cose
sue, si fece così Spagna : e molto v e V
altro di questi duebono salvato loro
lo Stai contea a Francia, per i grande in
Italia, se gli ;Potevano, adunque, i parte
per salvare il resti avessino fatto in
tempola non fusse stata necessità, ed
innanzi ai moti della guerra, era savissimo
par-tito; ma in su’ moti era vituperoso, e per
avventura di poco profitto. Ma in-uanzi a
tali moti, pochi in Yinegia de’ cittadini
potevano vedere il pericolo,pochissimi vedere
il rimedio, e nessuno consigliarlo. Ma, per
tornare al princi-pio di questo discorso, conchiudo:
che così come il
Senato romano ebbe rime-dio per la salute
della patria contra al-1' ambizione de’
Tribuni, per essere mol-ti; così arà rimedio
qualunque principe che sia assaltato da
molti, qualunquevolta ei sappia con
prudenza usare ter- mini convenienti a disunirgli.Cap.
XII. — Come un capitano prudente debbo
imporre ogni necessità di com-battere ai
suoi soldati, e a quelli delti ninnici
torta.Altre volte abbiamo discorso quanto sia
utile alle umane azioni la necessità,ed a
qual gloria siano sul da quella; c come
da alcunisofi è slato scritto, le mani degli
uomini, due nobilissimi ia nobilitarlo, non
arcbbero o fellamente, nè condotte l’opa quella
altezza si veggono < dalla necessità non
fussero spconosciuto, adunque, dagli a talli
degli eserciti la virtù c sita, e quanto
per quellade’ soldati diventavano ostini battere;
facevano ogni oper soldati loro fussino
costrettiE dall’altra parte, usavano stria, perchè
gli nimiei se sino: e per questo molte
volial nimico quella via che lor vano
chiudere ; ed a’ suoi s< pri chiusono
quella che pcsciare aperta. Quello, adì disidera
o che una città si di natamente, o che
uno esercìpaglia ostinatamente comba sopra ogni
altra cosa, ingegnarsi dimettere ne’ petti
di chi ha a combat- lere, tale necessità.
Onde, un capitanopi udente, che avesse
ad andare ad una espugnazione d’ una
città, debbe misu-rai e la facilità o la
difficultà ilell’ espu- gnarla dal conoscere e
considerare qualenecessità costringa gli
abitatori di quella a difendersi: e quando vi
trovi assainecessità che gli constringa
alla difesa, giudichi la ispugnazioue difficile;
altri-menti la giudichi facile. Di qui nasce che
le terre dopo la ribellione sono
piùdifficili ad acquistare, che le non sono
nel primo acquisto: perchè nel princi-pio
non avendo cagione di temer di pena,
per non avere offeso, si
arrendonofacilmente; ma parendo loro, scndosi dipoi
ribellate, avere offeso, e per que- sto temendo
la pena, diventano difficili ad essere
ispugnate. Nasce ancora taleostinazione dai
naturali odii che hanno i principi vicini e
repubbliche vicinel’uno con l’altro: il che
procede da ambizione di dominare, e gelosia
delloro Stato, massimamente se le sono repubbliche,
come interviene in Tosca-na • la quale gara
c contenzione ha fatto e farà sempre difficile
la espugnatonep una dell’ altra. Pertanto,
chi considerila bene i vicini della città
di Firenze ed ivicini della città di
Yincgia, non si me- ra viglierà, come molti
fanno, che Firenzeabbia più speso nelle
guerre, ed acqui-stato meno di Yinegia:
perchè tuttonasce da non avere avuto i
NmUiani le terre vicine si ostinate alla
difesa, quantoha avuto Firenze, per esser
state tutte le ciltadi finitime a Yinegia
use a vi-vere sotto un principe, e non
libere; c quelli che sono consueti a
servire, sti-mano molte volle poco il
mutare pa-drone, anzi molte volte lo
desiderano.Talché Yinegia, benché abbia avuti i vicini
più potenti che Firenze, per averetrovate
le terre meno ostinate, le ha potute
piu tosto vincere, che non hafatto
quella scudo circundala da tutte città
libere. Debbe adunque un capitano,per
tornare al primo discorso, quando egli
assalta una terra, con ogni dili-genza
ingegnarsi di levare a* difensori di quella
tale necessità, e per conse-guenza tale
ostinazione; promettendo perdono, se gli hanno
paura della pe-na ; c se gli avessino paura
della li- bertà, mostrare di non andare
contraal comune bene, ma contra a pochi ambiziosi
della città: la quale cosa moltevolte
ha facilitato V imprese e 1’ espu-gnazioni delle
terre. E benché simili co-lori siano facilmente
conosciuti, e mas-sime dagli uomini prudenti;
nondimenovi sono spesso ingannati i popoli, i quali,
cupidi della presente pace, chiug-gono gli
occhi a qualunque altro laccio che sotto le
larghe promesse si ten-desse. E per questa
via infinite città sono diventale serve:
come intervennea Firenze nei prossimi tempi; e
come intervenne a Crasso ed allo esercito
suo,il quale ancora che conoscesse le vane promesse
de’ Parti, le quper tor via la
necessità \del difendersi, nondimam tenerli ostinati,
accecatidella pace che erano fall nimici:
come si vnde p leggendo la vita di
queltanto, che avendo i Sano convenzione dello
accordo zionc di pochi corso e picampi de’
confederali Rom dipoi mandati ambasciati chieder
pace, offerendo dcose predate, c di dare p tori
de’ tumulti e della \ributtati dai Romani:
e rinio senza speranza d’ acc Ponzio, capitano
allora de’ Sanniti, con una suazionc
mostrò, come i Roi in ogni modo guerra; e
l)<si desiderasse la pace, lafaceva
seguire la guerra ; sic parole : Juslum
est bi necessariuitij et pia arma , quibus
ni siin armis spes est : sopra la
qual ne- cessità egli fondò con gli suoi
soldatila speranza della vittoria. E per non avere
a tornare più sopra questa ma-teria, mi
pare da addurvi quelli essempiromani che
sono più degni (E annota-zione. Era
Caio Manilio con lo esercito alP incontro
dei Vcienti; ed essendoparte dello esercito
veicolano entrato dentro agii steccati di
Manilio, corseManilio con una banda al
soccorso di quelli; e perchè i Vcienti non
potessinosalvarsi, occupò tutti gli aditi
del cam-po: donde veggendosi i Veienti rin-chiusi,
cominciarono a combattere con tanta rabbia, eh’
egli ammazzarono Ma-nilio; ed arebbero tutto
il resto dei Romani oppressi, se dalla
prudenzad* uno Tribuno non fusse stato loro
aperta la via ad andarsene. Dove si
ve-de, come mentre la necessità costrinse i
Veienti a combattere, e* combatteronoferocissiraamente;
ma quando videro aperta la via, pensarono
|elio a combattere. Erano < sci egli
Equi con gli nc* confini romani. MandiI’
incontro i Consoli. Talcl gliare la zuffa,
lo esercito del quale era capo Vettitrovò
ad un tratto rinchit steccati suoi occupali
da P altro esercito romano;eome gli bisognava o
mor via col ferro, disse ai suo ste
parole: Ile mecum ; n< valium , armati
arinatis obi pareSj qii(e ullùnum ac ma est,
necessitate super ioresquesta necessitò è chiama vio
ultimum ac maximum millo prudentissimo di
tuiromani, sendo già dentro i Yeienti con
il suo esercito, il pigliare quella e torre
iultima necessità di difende in modo che i
Yeienti udir suno offendesse quelli che
fussino disar-mati; talché, gittate Tarmi in
terra, si prese quella città quasi senza
sangue.Il quale modo fu dipoi da
molli capi- tani osservato.Gap. XIII. — Dove sia
più da confidare , o in uno buono capitano
che abbial* esercito debole, o in uno buono
esercito che abbia il capitano
debole.Essendo diventato Coriolano esule di Roma,
se ne andò ai Volsci, dove con-tratto
uno esercito per vendicarsi con-tro ai suoi
cittadini, se ne venne a Ro-ma ; donde
dipoi si parti, più per pietà della
sua madre, che per le forze
deiRomani. Sopra il quale luogo Tito Li-vio
dice, essersi per questo conosciuto,come la
Repubblica romana crebbe più per la virtù
dei Capitani, che de’ sol-dati; considerato
come i Volsci per lo addietro erano stati
vinti, e solo poiavevano vinto che
Coriolano fu loro Capitano. E benché
Liviopinionc, nondimeno si v luoghi della
sua istoria I; dati senza capitano
avergliose pruove, ed esser sta e più
feroci dopo la nr soli loro, che
innanzi clcome occorse nello esercì mani
avevano in Ispagna pioni ; il quale, morti
i <potè con la virtù sua n salvare
sè stesso, ma vin e conservare quella
provipubblica. Talché, discorre troverà molli
essempi, dov dei soldati ara vinto lamolti
altri, dove solo la pitan i ara fatto il
medesi modo che si può giudicarbisogno
dell’ altro, e V a Ecci bene da considerare sia
più da temere, o d’ uicito male
capitanato, o capitano accompagnato d cito. E
seguendo in questo 1’ oppinioucdi Cesare,
si debbe stimare poco l’uno e l’altro.
Perchè andando egli in Ispa-gna contra ad
Afranio e Petreio, che avevano un buono
esercito, disse chegli stimava poco, quia
ibat ad exercitum sino duce, mostrando la
debolezza deicapitani. Al contrario, quando
andò in Tessaglia conira Pompeo, disse:
Vadoad ducem sine exerciiu. Puossi consi-derare
un’ altra cosa : a quale è più fa-cile, o
ad uno buono capitano fare un buono
esercito, o ad uno buono eser-cito fare un
buono capitano. Sopra che dico, che tale
questione pare decisa ;perchè più
facilmente molti buoni tro-veranno o inslruiranno
uno, tanto chediventi buono, che non
farà uno molti. Lucullo, quando fu mandato
contra aMitridate, era al tutto inesperto
della guerra; uondimanco quel buono eser-cito,
dove erano assai ottimi capi, lo feciono
tosto un buon capitano. Arma-rono i Komani,
per difetto d’ uomini, assai servi, o gli
dieronon Sempronio Gracco, il qi tempo fece
un buono eseri ed Epaminonda, come alt r<poich’egli
ebbero tratta T trio della servitù degli
Spa: tempo feciono de’conladindati ottimi, che
poterono n sostenere la milizia spartii cerla.
Sì clic la cosa èV uno buono' può trovare dimeno,
un esercito buoni buono suole diventare
insricoloso; come diventò l’e cedonia dopo
la morte di come erano i soldati
velerancivili. Tanto che io credo da
confidare assai in uno abbi tempo a
instruire utdità di armargli, che in insolente,
con uno capo fatto da lui. Però è da
diiria e la laude a quelli caj solamente
hanno avuto a mieo, ma prima che
venghino alle manicon quello, è convenuto
loro instruire l’esercito loro e farlo buono:
perchèin questi si mostra doppia virtù, e tanto
rara, che se tale fatica fusse
statadata a molti, ne sarebbero stimati e ri- putati
meno ussai che non sono.Cap. XIV. —
Le invenzioni nuove che appariscono nel
mezzo della zuffa, ele voci nuove che
si odono, quali ef-fetti faccino.Di quanto
momento sia ne* conflitti e nelle zuffe
un nuovo occidente che na-sca per cosa
che di nuovo si vegga o oda, si
dimostra in assai luoghi, e mas-sime per
questo essempio che occorse nella zuffa che
i Romani fecero coi Vol-sci ; dove Quinzio
veggendo inclinare uno de’ corni del suo
esercito, cominciòa gridare forte, che gli
stessino saldi, perchè 1’ altro corno dello
esercito era vittorioso: con la qual
parola, avendo dato animo a’ suoi e
sinimici, vinse. E se tali ve cito bene
ordinato fanno in uno tumultuario e ni;fanno
grandissimi, pere mosso da siinil vento. Io durre
uno cssenipio ncne’ nostri tempi. Era
la ( pochi anni sono divisa Oddi e Buglioni
Questi realtri erano esuli: i qua elianti
loro amici, ragun ridottisi iu alcuna loro
ta Perugia con il favor una notte entrarono
in senza essere scoperti, sper pigliare la
piazza. F città iu su tutti i cani catene
che la tengono sb;le genti oddesche davani una
mazza ferrata romjr di quelle, acciocché i
C£passare; e restandogli i quella che sboccava
iu pi;già levato il romore all7 armi,
ed essen- do colui che rompeva oppresso
dallaturba che gli veniva dietro, nè
potendo per questo alzare bene le braccia
perrompere per potersi maneggiare gli venne
detto: Fatevi indietro: la qualvoce andando
di grado in grado dicendo addietro,
cominciò a far fuggire gliultimi, e di mano
in mano gii altri, con tanta furia,
che per loro medesimisi ruppono; e cosi
restò vano il disegno degli Oddi, per
cagione di sì debole acci-dente. Dove è da
considerare, che non tanto gli ordini in
uno esercito sononecessari per potere
ordinatamente com- battere, quanto perchè ogni
minimoaccidente non ti disordini. Perchè, non per
altro le moltitudini popolari sonodisutili
per la guerra, se non perchè ogni
rumore, ogni voce, ogni strepitogli altera,
e fagli fuggire. E però un buon capitano
intra gli altri suoi ordinidebbe ordinare
chi sono quelli che ab- bino a pigliare la
sua voce e rimetterlaad altri, ed assuefare
i suoi soldati che non credino se non a
quelli suoi capi,che non dichino se
non quel che da lui è commesso ; perchè,
non osservata benequesta parte, si è visto
molte volte avere fatti disordini grandissimi.
Quantoal vedere cose nuove, debbe ogni
capi-tano ingegnarsi di farne apparire al-cuna,
mentre che gli eserciti sono alle mani,
che dia animo agli suoi e tolgaloagli
nimici; perchè, intra gli accidenti che ti
diano la vittoria, questo è effica-cissimo. Di
che se ne può addurre per testimone
Caio Sulpizio dittatore roma-no; il quale
venendo a giornata con i Franciosi, ormò
tutti i saccomanni egente vile del campo; e
quelli fatti sa- lire sopra i muli ed altri
somieri conarmi ed insegne da parere gente
a ca- vallo, gli mise dietro a un colle, e
co-mandò che ad un segno dato, nel tempo che
la zuffa fusse più gagliarda, si
sco-prissero e mostrassiusi a* nimici. La qual
cosa così ordinata e fatta, dettetanto
terrore ai Franciosi, che perita-rono la
giornata. E però un buon ca-pitano debbo
fare due cose: 1* una, di vedere con
alcune di queste nuove in-venzioni di
sbigottire il nimico; 1’ altra, di stare
preparato che essendo fattedal nimico contro
di lui, le possa sco- prire, c fargliene
tornar vane: comefece il re d’india a
Semiramis; la quale veggendo come quel re
aveva buon nu-mero d’elefanti, per sbigottirlo, e
per mostrargli che ancora essa n’ era
co-piosa, ne formò assai con cuoia di
bu-fali e di vacche, e quelli messi sopra
icammelli, gli mandò davanti; ma cono- sciuto
dal re 1’ inganno, gli tornò
nonsolamente quel suo disegno vano, ma dannoso.
Era Mamerco dittatore conteaa’ Fidenati, i
quali, per isbigott ire lo esercito romano,
ordinarono che in sul-P ardore della zuffa
uscisse fuora di Fi-ttane numero di soldati
con fuochi insulle lance, acciocché i
Romani occupati dalla novità della cosa,
rompessino in-Ira lóro gli ordini. Sopra
clic è da no-tare, che quando tali
invenzioni hannopiù del vero che del
fìnto, si può bene allora rappresentarle
agli uomini, per-chè avendo assai del
gagliardo, non si può scoprire così presto
la debolezzaloro: ma quando Y hanno pjp
del fìnto che del vero, è bene o non
le fare, o,facendole, tenerle discosto, di
qualità clic le non possino essere così
presto sco-perte; come fece Caio Sulpizio
de* mu- lattieri. Perchè quando vi è dentro
de-bolezza, appressandosi, le si scuoprono tosto, e
ti fanno danno, e non favore;come feciono
gii elefanti a Semiramis, e a’ Fidenali i fuochi: i
quali benchénel principio turbassino un
poco l’eser- cito; nondimeno come e’ sopravvenne
ilDittatore, e cominciò a sgridargli, di- cendo che
non si vergognavano a fug-gire il fumo come
le pecchie, e che do- vessino rivoltarsi a
loro, gridando: Suisflammit deletc FidenaSj
qnas veslris bc -nefìctts placare non
potuistis ; tornòquello trovato ai Fidenati inutile,
e re-starono perditori della zuffa.Cap. XV. —
Come uno c non molti sia-no preposti ad
uno esercito , e coinèi più comandatovi offendono. Essendosi
ribellati i Fidenati, ed aven-do morto quella
colonia che i Romani avevano mandata in
Fidene, crearono iRomani, per rimediare a
questo insulto, quattro Tribuni con potestà
consolare;de’ quali lasciatone uno alla guardia
di Roma, ne mandarono tre contro ai
Fi-denati ed i Veienti: i quali per esser divisi
intra loro e disuniti, ne riporta-rono disonore,
e non danno. Perchè del disonore, ne furono
cagione loro; delnon ricevere danno, ne
fu cagione la virtù de* soldati. Donde i
Romani, veu-gendo questo disordine, ricorsono
alla creazione del Dittatore, acciocché unsolo
riordinasse quello che tre avevano disordinato.
Donde si conosce la inuti-lilà di
molti comandatoci in uno eser-cito, o in
una terra die s’abbia a di-fendere; e Tito
Livio 11011 lo può più chiaramente dire
che con le infrascritteparole! Tres Tribuni
potcsUitc consil- iari documento fucre , quam
pluriumimperium bello inutile esscl ; tendendo ad
sua quisque consilia , cutn aht ali
advidereluvj aperuerunt ad occasionem lo- cum
hosti. E beneliè questo sia assaicsscmpio a
provare il disordine che fanno nella guerra
i più comandatori,ne voglio addurre alcuno
altro, e mo-derno ed antico, per maggiore
dichia-razione. Nel 1500, dopo la ripresa che fece
il re di Trancia Luigi XII di
Mi-lano, mandò le sue genti a Pisa per restituirla
ai Fiorentini; dove furonomandali commessaci
Giovambatista Ri- dolfi e Luca iV Antonio
degli Albizi. Eperchè Giovambatista era
uomo di ri- putazione, e di più tempo, Luca
lasciavaal tutto governare ogni cosa a lui:
e se egli non dimostrava la sua
ambizionecon opporseli, la dimostrava col ta- cere,
e con lo stracurare e vilipendereogni cosa in.
modo, che non aiutava le azioni dei
campo nè coll’ opere nè colconsiglio,
come se fosse stato uomo di nessuno
momento. Ma si vidde poi tuttoil
contrario quando Giovambatista, per certo
accidente seguito, se n* ebbe a tor-nare a
Firenze; dove Luca, rimasto solo, dimostrò
quanto con V animo, con laindustria e con
il consiglio valeva : le quali tutte cose
mentre vi fu la com-pagnia erano perdute.
Voglio di nuovo addurre in confirmazione di
questo leparole di Tito Invio; il
quale referendo come essendo mandato dai
Romani con-tro agli Equi Quinzio cd Agrippa
suo collega, Agrippa volle che tutta 1*
am-ministrazione della guerra fusse ap-presso a
Quinzio, e’ dice: Suluberri -mum in
adminislralione magnarum re-rum eilj summam
imperii apud unumesse. Il che è contrario a
quello che oggi fanno queste nostre
repubbliche cprincìpi, (li mandare ne’ luoghi,
per mi- nistrargli meglio, più d’ un commessa-rio
e più d’ un capo: il che fa una inestimabile
confusione. E se si cercassela cagione
della rovina degli eserciti italiani e franciosi
ne’ nostri tempi, sitroverebbe la potissima
cagione essere stata questa. E puossi conchiudere
ve-ramente, come gli è meglio mandare in una
espedizione un uomo solo di co-munale
prudenza, che duoi valentissimi uomini insieme
con la medesima au- torità.Cap XVf. — Che
la vera viriti si va ne ' tempi difficili a
trovare ; e ne3 tem-pi facili non gli uomini
virtuosi , ma quelli che per ricchezze o per
paren-tado prcvaglionO; hanno più grazia. Egli fu
sempre, e sempre sarà, chegli uomini grandi
e rari in una repub-blica nei tempi
pacifichi sono negletti ;perchè per la
invidia che s’ ha tiratodietro la
riputazione che la virtù d’essi ha dato
loro, si truova in tali tempiassai
cittadini che vogliono, non che esser loro
eguali, ma esser loro supe-riori. E di
questo n’ è un luogo buono in Tucidide
istorico greco; il quale mo-stra come sendo
la repubblica ateniese rimusa superiore in
la guerra pelopon-nesiaca, ed avendo frenato l’
orgoglio degli Spartani, e quasi sottomessa
tuttala Grecia, satse in tanta riputazione, che
la disegnò d’ occupare la Sicilia.Venne
questa impresa in disputa in Atene.
Alcibiade e qualche altro citta-dino consigliavano
che la si facesse, come quelli che
pensando poco al benepubblico, pensavano
all’ onor loro, di-segnando esser capi di
tale impresa.Ma Micia, che era il primo
intra i ri- putati d’ Atene, la dissuadeva; e
la mag-gior ragione che nel concionare al
po-polo, perchè gli fusse prestato
fede,adducesse, fu questa: clic consigliando esso
che non si facesse questa guerra,ci
consigliava cosa che non faceva per lui;
perchè stando Atene in pace, sa-peva come
v’ erano infiniti cittadini che gli
volevano andare innanzi; ma facen-dosi guerra,
sapeva che nessuno citta-dino gli sarebbe
superiore, o eguale.Vedesi, pertanto, come nelle
repubbliche è questo disordine, di fare poca
stimade’ valentuomini ne’ tempi quieti. La qua)
cosa gli fa indeguare in due modi:I’
uno per vedersi mancar del grado loro;
l’altro per vedersi fare compagnie superiori
uomini indegni e di manco sufficienza di
loro. 11 quale disordinenelle repubbliche
ha causato di molte rovine; perchè quelli
cittadini che ini-meritamenle si veggono
sprezzare, e co- noscono clic e’ ne sono
cagione i tempifacili c non pericolosi, s’
ingegnano di turbargli, movendo nuove guerre
inpregiudizio della repubblica. E pensan-do quali
potessino essere i rimedi, cene trovo due:
l’uno, mantenere i cit-tadini poveri, acciocché
con le ricchezze senza virtù non potessino
corrompere ni loro nò altri; l’altro, eli
ordinarsiin modo alla guerra, die sempre
si po-tesse far guerra, e sempre s’avesse
bi-sogno di cittadini riputati, come fe Ro-ma
ne’ suoi primi tempi. Perchè te-nendo fuori
quella città sempre eserciti, sempre v’ era
luogo alla virtù degli uo-mini ; nè si
poteva torre il grado .ad uno che lo
meritasse, e darlo ad unoaltro che non
lo meritasse. Perchè se pure lo faceva
qualche volta per er-rore, o per provare,
ne seguiva tosto tanto suo disordine e
pericolo, che laritornava subito nella vera
via. Ma le altre repubbliche che non
sono ordinatecome quella, e che fanno solo
guerra quando la necessità le constringe,
nonsi possono difendere da tale inconve- niente:
anzi sempre vi correranno den-tro; e sempre
ne nascerà disordine, quando quel cittadino
negletto e vir-tuoso, sia vendicativo, ed abbia
nella città qualche riputazione e aderenza. E se
la città (ti Roma un tempo se ne difese,
a quella ancora, poiché la ebbevinto
Cartagine cd Antioco (come al-trove si
disse), non temendo più diguerra, pareva
poter commettere gli eserciti a qualunque la
voleva ; non ri-guardando tanto alla virtù,
quanto alle altre qualità che gli dessino
grazia nelpopolo. Perchè si vede che
Paulo Emi-lio ebbe più volte la repulsa
nel con-solato, nò fu prima fatto Consolo
che surgesse la guerra macedonica ; la
qualegiudicandosi pericolosa, di consenso di tutta
la città fu commessa a lui. Sendonella
città nostra di Firenze seguite dopo il
1494 di molte guerre, ed aven-do fatto i
cittadini fiorentini tutti una cattiva pruova,
si riscontrò la città, asorte, in uno
che mostrò in che ma-niera s’aveva a
comandare agli eser-citi; il quale fu Antonio
Giacomini: e mentre che si ebbe a far
guerre peri-colose, tutta P ambizione degli altri
cit-tadini cessò, e nella elezione del Com-messa
rio e capo degli eserciti non aveva competitore
alcuno ; ma come s’ ebbe ufare una
guerra dove non era dubbio alcuno, ed
assai onore e grado, ei vitrovò tanti
competitori, che avendosi ad eleggere tre
Commessa ri per campeg-giar Pisa, fu
lasciato indietro. E benché e* non si
vedesse evidentemente che male ne seguisse
al pubblico per non v’avere inandato
Antonio, nondimenose ne potette fare
facilissima coniettura; perchè non avendo più i
Pisani da di-fendersi nè da vivere, se
vi fusse stalo Antonio, sarebbero stati
tanto innanzistretti, che si sarebbero dati
a discre-zione de’ Fiorentini. Ma sendo loro as-sediati
da capi che non sapevano nè stringerli
nè sforzarli, furono tanto in-trattenuti, che
la città di Firenze gli comperò, dove
la gli poteva avere aforza. Convenne
che tale sdegno potesse assai in Antonio; e
bisognava che fussebene paziente e buono, a
non dispe- rare di vendicarsene o con la
rovinadella città, potendo, ocon i* ingiuria d’
alcuno particolare cittadino; da chesi
debbe una repubblica guardare; come nel
seguente capitolo si discorrerà.Cap. XVII. —
Che non si offenda uno, e poi quel
medesimo si mandi in am-ministrazione e governo
d* impor-tanza. Debbe una repubblica assai
conside-rare di non preporre alcuno ad alcuna importantè
amministrazione, al qualesia stato fatto da
altri alcuna notabile ingiuria. Claudio Nerone,
il quale si part ìdallo esercito che
lui aveva a fronte ad Annibaie, e con parte
d’esso n’andònella Marca a trovare 1* altro
Consolo per combattere con Asdrubale avanti
chesi congiungesse con Annibaie ; s’ era trovato
per lo addietro in Ispagna afronte d’
Asdrubale, ed avendolo serrato in luogo con
lo esercito, che bisognavao che Asdrubale
combattesse con suo disavvantaggio, o si morisse
di fame,fu da Asdrubale astutamente tanto
in*trattenuto con certe pratiche d*
accordo,che gli usci di sotto, e totsegli
quella occasione d’ oppressarlo. La qual
cosasaputa a Roma, gli dette carico grande appresso
al Senato ed al Popolo, e dilui fu
parlato inonestamente per tutta quella città,
non senza suo grande di-sonore ed isdegno.
Ma sendo poi fatto Consolo, e inandato all*
incontro d’ An-nibale, prese il soprascritto
partito: il quale fu pericolosissimo; talmente
cheRoma stette tutta dubbia c sollevata, infino a
tanto che vennono le nuovedella rotta
d’ Asdrubale. Ed essendo do- mandato poi
Claudio per qual cagioneavesse preso si
pericoloso partito, dove senza una estrema
necessità egli avevagiocata quasi la
libertà di Roma ; ri- spose che V aveva
fatto perchè sapevache, se gli riusciva,
riacquistava quella gloria che s'aveva perduta
in Ispagua;e se non gli riuscivo, e che
questo suo partito avesse avuto contrario
fine, sa-peva come ei si vendicava contra a
(jucila città ed a quelli cittadini
clicTavevano tanto ingratamente ed indi-scretamente
offeso. E quando questepassioni di tali
offese possono tanto in un cittadino
romano, e in quelli tempiche Roma ancora
era incorrotta, si debbe pensare quanto
elle possino in uncittadino d’ una
città che non sia fatta come era
allora quella. E perchè a si-mili disordini che
nascono nelle repub- bliche non si può dare
certo rimedio,ne seguita che gli è
impossibile ordi-nare una repubblica perpetua,
perchèper mille inopinate vie si causa
la sua rovina.Cip. XVIII. — Nessuna cosa è
più de-gna d* un capitano che presentire
«parlili del nimico. Diceva Epaminonda tebano,
nessunacosa esser più necessaria c più
utile ad un capitano, che conoscere le
^libera-zioni e partiti del nimico. E perchè tale cognizione
è diffìcile, merita tanto piùlaude quello
che adopera in modo che le conicttura. E
non tanto è diffìcile in-tendere gli disegni
del nimico, eh’ egli è qualche volta
diffìcile intendere leazioni sue ; e non
tanto le azioni sue che per lui si
fanno discosto, quanto lepresenti e le
propinque. Perché molte volte è accaduto, che
sendo durala unazuffa infino a notte, chi
ha vinto crede aver perduto, e chi ha
perduto credeaver vinto. 11 quale errore
ha fatto di- liberare cose contrarie alla
salute di co-lui che ha diliberato: come
intervenne a Bruto e Cassio, i quali per
questo er-rore perderono la guerra; perchè,
aven-do vinto Bruto dal corno suo,
credetteCassio, che aveva perduto, che tutto 1’
esercito fusse rotto ; e disperatosi perquesto
errore della salute, ammazzò «è stesso. Nei
nostri tempi, nella giornata che fece in
Lombardia a Santa Cecilia Francesco re di
Francia con i Svizzeri,sopravvenendo la notte,
credetleno quella parte dei Svizzeri che
erano rimasti in-teri aver vinto, non
sappiendo di quelli che erano stati rotti e
morti: il qualeerrore fece che loro
medesimi non si salvarono, aspettando di
ricombatterela mattina con tanto loro
disavvantag-gio ; e fecero ancora errare, e per
taleerrore presso che rovinare, F esercito del
papa e di Spagna, il quale in sula
falsa nuova della vittoria passò il Po, e
se procedeva troppo innanzi, re-stava prigione
de’ Franciosi che erano vittoriosi. Questo
simile errore occorsene’ campi romani e in
quelli delli Equi. Dove, sendo Sempronio
consolo conl’esercito all’ incontro degli
inimici, ed appiccandosi la zuffa, si
travagliò quellagiornata infino a sera con
varia fortuna dell’ uno e dell’altro: e venuta
la notte,sendo l’ uno e l’ altro esercito mezzo rotto,
non ritornò alcuno di loro ne’
suoialloggiamenti; anzi ciascuno si ritrasse uc’
prossimi colli, dove credevano esserpiù
sicuri; e l’esercito romano si di-vise in
due parti : 1’ una n’ andò
colConsolo, 1’ altra con un Teinpanio
cen-turione, per la virtù del quale 1’
eser-cito romano quel giorno non era stato rotto
interamente. Venuta la mattina,il Consolo
romano senza intendere altro de’ nimici si
tirò verso Roma ; il similefece l’esercito
degli Equi: perchè cia- scuno di questi
credeva che il nimicoavesse vinto, c però
ciascuno si ritrasse senza curare di
lasciare i suoi allog-giamenti in preda. Accadde
che Tempa-nio, eh’ era col resto
dello esercito ro-mano, ritirandosi ancora esso,
intese da certi feriti degli Equi, come i
capi-tani loro s’ erano partiti, cd avevano abbandonati
gli alloggiamenti: dondeche egli, in su
questa nuova, se ne en-trò negli
alloggiamenti romani, c salvò-gli; e dipoi saccheggiò
quelli degli Equi, e se ne tornò a Roma
vittorioso. Laqual vittoria, come si vede,
consistè solo in chi prima di loro
intese i disordinidel nimico. Dove si debbe
considerare, come e’ può spesso occorrere
che i ducieserciti che siano a fronte V uno
del-P altro, siano nel medesimo disordine,e
patischino le medesime necessità; e che
quello resti poi vincitore che è ilprimo a
intendere le necessità dell’ al-tro. Io
voglio dare di questo un essem-pio
domestico e moderno. Nel 1498, quando i
Fiorentini avevano uno eser-cito grosso in
quel di Pisa, e stringe- vano forte quella
città; della qualeavendo presa i Viniziani
la protezione, non veggeudo altro modo a
salvarla,diliberarono di divertire quella guerra, assaltando
da un’altra banda il domi-nio di Firenze; e
fatto uno esercito po-tente, entrarono per
la Val di Lamona,ed occuparono il
borgo di Marradi, ed assediarono la ròcca
di Castiglione, cheè in sul colle di
sopra. Il che sentendo i Fiorentini, diliberarono
soccorrer Mar-radi, e non diminuire le forze
avevano in quel di Pisa; e fatte nuove
fanterie,ed ordinale nuove genti a cavallo, le mandarono
a quella volta: delle qualine furono capi
Iacopo quarto d’ Appiano signore di Piombino,
ed il conte Rinuc-cio da Marciano.
Sendosi, adunque, con* dotte queste genti
in sul colle sopraMarradi, si levarono i
ninnici di ’ntorno a Castiglione, e ridussonsi
tutti nel bor-go: ed essendo stato P uno e
P altro di questi due eserciti a fronte
qualchegiorno, pativa P uno e l’altro assai di vettovaglie
e d’ogni altra cosa neces-saria : e non avendo
ardire P uno d* af-frontare P altro, nè
sappiendo i disor-dini P uno dell’altro, diliberarono
in una sera medesima P uno e P altro
dilevare gli alloggiamenti la mattina ve-gnente,
e ritirarsi in dietro; il Mili-ziano verso
Berzighella e Faenza, il Fiorentino verso
Casaglia e il Mugello. Ve-nula adunque la
mattina, ed avendo cia-scuno de’ campi cominciato
ad avviare*i suoi impedimenti; a caso una donna si
partì dal borgo di Ùarradi, e venneverso
il campo fiorentino, secura per la vecchiezza
e per la povertà, disiderosadi vedere certi
suoi che erano in quel campo: dalla
quale intendendo i capitanidelle genti
fiorentine, come il campo vi-niziano
partiva, si fecero in su questanuova
gagliardi; e mutato consiglio, come se gli
avessino disalloggiati i ni-nnici, ne andarono
sopra di loro, e scris-sero a Firenze avergli
ributtati, e vintala guerra. La qual vittoria
non nacque da altro, che dallo aver
inteso primadei nemici, come e’ se ne
andavano: la quale notizia se fusse prima
venuta dal-r altra parte, arebbe fatto
conira ai no-stri il medesimo effetto.Cap.
XIX. — Se a reggere una molti-tudine è più
necessario lo ossequioche la pena. Era la
Repubblica romana sollevata per le inimicizie de’
Nobili e de’ Plebei: nondimeno, soprastando loro
la guerra, mandarono fuori con gli eserciti
Quin-zio ed Appio Claudio. Appio, per essere crudele
e rozzo nel comandare, fu maleubbidito da’
suoi; tanto che quasi rotto si fuggì
della sua provincia. Quinzio,per esser
benigno e di umano ingegno, ebbe i suoi
soldati ubbidienti, e ripor-to mie la vittoria.
Donde e’ pare elle sia meglio, a governare
una moltitudine,essere umano che superbo,
pietoso che crudele. Nondimeno, Cornelio Tacito,
alquale molti altri scrittori acconsentono, in
una sua sentenza couchiude il con-trario,
quando dice : In molliludine regenda plus
pana, quam obsequiumvaici. E considerando come
si possa sal- vare I’ una e l’altra di
queste oppinio-ni, dico: o clic tu bai a
reggere uomini che ti sono per l’ordinario
compagni,o uomini che ti sono sempre soggetti. Quando
ti sono compagni, non si puòinteramente
usare la pena, nè quella se- verità di
che ragiona Cornelio: e perchèla Plebe
romana aveva in Roma eguale imperio con
la Nobiltà, non poteva unoche ne
diventava principe a tempo, con crudeltà e
rozzezza maneggiarla. £ moltevolle si vide
che miglior frutto feciono i Capitani romani
che si facevano amaredagli eserciti, e che
con ossequio gli maneggiavano, che quelli
che si face-vano straordinariamente temere; se
già e’ non erano accompagnati da una ec-cessiva
virtù, come fu Manlio Torquato. Ma chi
comanda ai sudditi, de’ qualiragiona
Cornelio, acciocché non diven- tino insolenti, e
che per troppa tua fa-cilità non ti
calpestino, debbe volgersi più tosto alla
pena che allo ossequio.Ma questa ancora
debbe esser iu modo moderata, che si
fugga l’odio; perchèfarsi odiare non torna
mai bene ad al- cuno principe. Il modo
del fuggirlo èlasciar stare la roba de’
sudditi: perchè del sangue, quando non vi
sia sottoascosa la rapina, nessuno principe
ne è disideroso se non necessitato, c que-sta
necessità viene rare volte; ma seti» dovi
mescolata la rapina, viene sempre,nè
mancano mai le cagioni ed il disi* derio
di spargerlo: come in altro trat-tato sopra
questa materia s’ è larga- mente discorso. Meritò,
adunque, piùlaude Quinzio che Appio ; e la
sentenza di Cornelio dentro ai termini
suoi, cnon ne* casi osservati da
Appio, merita d* essere approvata. E perchè
noi ab-biamo parlato della pena e dello osse- quio,
non mi pare superfluo mostrare,come uno
essempio d’ umanità potè ap- presso ai
Falisci più che V armi.Cap. XX. — Uno
essempio df umanità appresso ai Falisci potette
più d* ogniforza romana.Essendo Cammillo
con V esercito in-torno alla città de*
Falisci, e quella as-sediando,un maestro di
scuola de’ più nobili fanciulli di quella
città, pensandodi gratificarsi Cammillo ed
il Popolo romano, sotto colore di esercizio
usciendocon quelli fuora della città gli
con-dusse lutti nel campo innanzi a Cani-inilio,
e, presentatigli, disse, come me-diami loro
quella terra si darebbe nellesue mani.
Il quale preseute non sola-mente non fu
accettato da Cammillo,ma fatto spogliare
quel maestro, c lega-togli le mani di
dietro, e dato a cia-scuno di quelli fanciulli una
verga in inano, lo fece da quelli con
di molte bat-titure accompagnare nella terra.
La qual cosa intesa da quelli cittadini,
piacquetanto loro l’ umanità ed integrità di Cammillo,
che senza voler più difendersi,diliberarono
di dargli la terra. Dove è da
considerare, con questo vero essem-pio,
quanto qualche volta possa più nelli animi
degli uomini un atto umanoe pieno di
carità, che un atto feroce e violento; e
come molte volte quelle pro-vincie e quelle
città che le armi, gl’ instru- menti
bellici ed ogni altra umana forzanon
ha potuto aprire, uno essempio ti* umanità
c di pietà, di castità o diliberalità, ha
aperte. Di che ne sono nelle istorie,
oltre a questo, molti altriessempi. E vedesi
come 1* armi romane non potevano cacciare
Pirro d’ Italia, ene lo cacciò la
liberalità di Fabrizio, quando li manifestò Y
offerta die avevafatta ai Romani quel
suo famigliare, d’avvelenarlo. Vedesi ancora,
come a Sci-pione Afifricano non dette tanta
riputa-zione in Ispagna la espugnazione
diCartagine nuova, quanto gli dette quello essempio
di castità, d’ aver fenduta lamoglie
giovine, bella ed intatta al suo marito;
la fuma della quale azione glifece
amica tutta l’Ispagna. Vedesi ancora questa
parte quanto la sia disideratadai popoli
negli uomini grandi, c quanto sia laudata
dagli scrittori ; e da quelliche descrivono
la vita dei principi, e da quelli che
ordinano come debbonovivere. Intra i quali Senofonte
s' affatica assai in dimostrare quanti
onori, quantevittorie, quanta buona fama
arrecasse a Ciro l’essere umano ed
affabile; c nondare alcuno essempio di sè
nè di su-perbo, nè di crudele, nè di
lussurioso,nè di nessuno altro vizio che
macelli la vita degli uomini. Pur
nondimeno,veggendo Annibaie con modi contrari a
questi avere conseguito gran fama egrandi
vittorie, mi. pare da discorre* re nel
seguente capitolo, donde questonacque.Cap. XXI. —
Donde nacque che Annibaie con diverso modo
dì procedere daScipionCj fece quelli
medesimi effetti in Italia che quello in I
spugna.Io stimo che alcuni si potrebbono meravigliare
veggendo qualche capitano,nonostante eh’ egli
abbia tenuta contra-ria via, aver nondimeno
fatti simili ef-fetti a coloro che sono
vissuti nel modo soprascritto : talché pare
che la cagionedelle vittorie non dipenda
dalle predette cause; anzi pare che quelli
modi nonfi rechino nè più forza nè
più fortuna, potendosi per contrari modi
acquistaregloria e riputazione. E per non mi
par-tire dagli uomini soprascritti, e perchiarir
meglio quello che io ho voluto dire;
dico come e’ si vede Scipioneentrare
in Ispagna, c con quella sua umanità e
pietà subito farsi amica quellaprovincia, e
adorare ed ammirare dai popoli. Vedesi,
all* incontro, entrare An-nibaie in balia, e
con modi tutti con-trari, cioè con violenza
e crudeltà erapina ed ogni ragione d’
infedeltà, fa-re il medesimo effetto che
aveva fattoScipione in Ispagna; perchè ad
Annibaie si ribellarono tutte le città d’
Italia, tuttii popoli lo seguirono. E pensando
donde questa cosa possa nascere, ci si
veggonodentro più ragioni. La prima è,
che gli uomini sono disiderosi di cose
nuove;in tanto che cosi desiderano il
più delle volte novità quelli che stanno
bene, comequelli che stanno male : perchè
come altra volta si disse, ed è il
vero, gli uomini sistuccano nel bene, e
nel male s’ afflig-gono. Fu, adunque,
questo disiderio apri-re le porle a ciascuno
che in una pro-vincia si fa capo d’
una innovazione; es’ egli è forestiero, gli
corrono dietro; s’ egli è provinciale, gli
sono intorno,angumentanlo e favoriscono: lalmente- cliè,
in qualunque modo che egli pro-ceda, gli
riesce il fare progressi grandi in quelli
luoghi. Oltre a questo, gliuomini sono
spinti da due cose princi-pali ; o dallo
amore, o dal timore: tal-ché cosi gli
comanda chi si fa amare, come colui
che si fa temere; anzi, ilpiù delle
volte è seguito ed ubbidito più chi si
fa temere, che chi si fa
amare.Imporla, pertanto, poco ad un capitano, per
quaiunehe di queste vie ei si cam-mini,
purché sia uomo virtuoso, e che quella
virtù lo faccia riputato intra gliuomini.
Perchè, quando la è grande, come la fu
in Annibaie ed in Scipione,ella cancella
tutti quelli errori che si fanno per
farsi troppo amare, o perfarsi troppo
temere. Perchè dell’ uno c delP altro
di questi duoi modi possono nascere
inconvenienti grandi, ed atti a far rovinare
un principe : perchè co-lui che troppo
disidera esser amato, ogni poco che si
parte dalla vera via,diventa disprezzabile:
quell’ altro che disidera troppo d’ esser temuto,
ognipoco ch’egli eccede il modo, diventa odioso.
E tenere la via del mezzo, nonsi può
appunto, perchè la nostra natura non ce
io consente: ma è necessarioqueste cose che
eccedono mitigare con una eccessiva virtù,
come faceva Anni-baie e Scipione. Nondimeno
si vede co-me l’ uno e l’ altro furono
offesi da questiloro modi di vivere, e
così furono es-saltati. La essudazione di
tutti due s’èdetta. La offesa quanto a
Scipione fu, che gl» suoi soldati in
Ispagna se gliribellarono insieme con
pai*te degli suoi amici: la qual cosa
non nacque da altroche da non lo
temere; perchè gli uomini sono tanto
inquieti, che ogni poco diporta clic
si apra loro all’ambizione, dimenticano subito
ogni amore ch’egliavessero posto al
principe per la umanità sua; come fecero i
soldati ed amicipredetti: tanto che Scipione,
per rime- diare a questo inconveniente, fu con-stretto
usare parte di quella crudeltà che egli
aveva fuggita. Quanto ad Au-nihaie, non
ci è essempio alcuno parti- colare, dove quella
sua crudeltà e pocafede gli nocesse: ma
si può bene pre- supporre che Napoli e
molte altre terre,che stettero in fede
del Popolo romano, stessero per paura di
quella. Vedcsibene questo, che quel suo
modo di vi- vere impio, lo fece più
odioso al Popoloromano, che alcuno altro
nimico che avesse mai quella Repubblica: in
modoche dove a Pirro, mentre che egli era con
lo esercito in Italia, manifestaronoquello
che lo voleva avvelenare, ad An- nibaie
mai, ancora che disarmalo edisperso,
perdonarono, tanto che lo fe- ciono morire.
Nacquero, dunque, adAnnibaie, per essere
tenuto impio e rom-pitore di fede e
crudele, queste incomo-dità; ma gliene risultò
all’ incontro una comodità grandissima, la quale
è am-mirata da tutti gli scrittori: clic nel suo
esercito, ancoraché composto divarie generazioni
d’ uomini, non nacque mai alcuna dissensione,
nè infra loromedesimi, nè contra di
lui. Il che non potette derivare da
altro, che dal ter-rore che nasceva dalla
persona sua: il quale era tanto grande,
mescolato conla riputazione che gli dava
la sua vir-tù, che teneva gli suoi
soldati quieti eduniti. Conchiudo, adunque,
come e’ non importa molto in qual
modo un capi-tano si proceda, purché in
esso sia virtù grande, che condisca bene
l’uno e l’al-tro modo di vivere: perchè,
come è detto, nell’uno e nell’ altro è difetto epericolo,
quando da una virtù istraor- dinaria non
sia corretto. C se Annibaiee Scipione, l’uno
con cose laudabili, l’altro con detestabili,
feciono il mede-simo effetto; non mi
pare ila lasciar indietro il discorrere
ancora di duoicittadini romani, che
conseguirono con diversi modi, ma tutti
duoi laudabili,una medesima gloria. Cap. XXII. —
Come la durezza di Man-lio Torquato e T
umanità di Valerio' Corvino acquistò a ciascuno
la mede-sima gloria. E* furono in Roma in
un medesimotempo due capitani eccellenti, Manlio Torquato
e Valerio Corvino: i quali dipari virtù, di
pari trionfi e gloria, vis-sono in Roma; e
ciascuno di loro, inquanto s’ apparteneva
al nimico, con pari virtù l’acquistarono;
ma quantos’apparteneva agli eserciti ed agl’
in-trattenimenti de’ soldati, diversissima-mente procederono:
perchè Manlio con ogni generazione di
severità, senza in-termettere ai suoi soldati o
fatica, o pe-na, gli comandava: Valerio, dall’
altraparte, con ogni modo e termine umano, e
pieno d’ una famigliare dimestichezzagl’ intratteneva.
Perchè si vede, che per aver 1’
ubbidienza dei soldati, 1’ uno ani'mazzo
il figliuolo, e 1’ altro non offese mai
alcuno. Nondimeno, in tanta diver-sità di
procedere, ciascuno fece il me-desimo frutto, e
contro a’ nimici, ed infavore della
Repubblica e suo. Perchè nessuno soldato non
mai o detratto lazuffa, o si ribellò da
loro, o fu in alcuna parte discrepante
dalla voglia di quel! i ;quantunque gl’
imperii di Manlio fussino si aspri, che
tutti gii altri imperii cheeccedevano il
modo, erano chiamati man liana imperia.
Dove è da considerareprima donde nacque che
Manlio fu co- stretto procedere sì rigidamente;
l’al-tro, donde avvenne che Valerio potette procedere
si umanamente; l’altro, qualcagione fe che
questi diversi modi faces-sero il medesimo
effetto; ed in ultimo,quale sia di
loro meglio e più utile imita-re. Se alcuno
considera bene la natura diManlio dall’ora
che Tilo Livio nc comin-cia a far menzione,
lo vedrà uomo fortissi-mo, pietoso verso il
padre e verso la pa-tria, e reverentissimo a’
suoi maggiori.Queste cose si conoscono
dalla morte di quel Francioso; dalla difesa
del padrecontea al Tribuno; e come avanti ch'egli
andasse alla zuffa del Francioso, ein’andò
al Consolo con queste parole: Injussu tuo
adversus hoslem nunquampugnalo, non si
ccrtam victoriam vi- dcam. Venendo, adunque,
un uomo cosìfatto a grado che comandi,
desidera di trovare tutti gli uomini simili
a sè; e l’animo suo forte gli fa
comandare cose forti; e quel medesimo, comandate
chele sono, vuole si osservino. Ed è una regola
verissima, che quando si coman-da cose
aspre, conviene con asprezza farle osservare:
altrimenti, te ne tro-veresti ingannato. Dove è
da notare, clic a voler essere ubbidito, è
necessariosaper comandare : e coloro sanno co- mandare,
che fanno comparazione dellaqualità loro a
quelle ili dii ha a ubbi- dire; e quando vi
veggnino proporzio-ne, allora comandino; quando
spropor-zione, se ne astenghino. E però dicevaun
uomo prudente, che a tenere una repubblica
con violenza, conveniva fusseproporzione da
chi sforzava a quel ch’ero sforzato. E qualunque
volta questa pro-porzione v’ era, si poteva
credere che quella violenza fusse durabile:
ma quan-do il violentato era più forte
del violen-tante, si poteva dubitare che
ogni giornoquella violenza cessasse. Ma
tornando al discorso nostro, dico che a
comandarele cose forti, conviene esser
forte; e quello che è df questa fortezza e
che lecomanda, non può poi con
dolcezza farle osservare. Ma chi non è di
questa for-tezza d’animo, si debbe guardare
da-gl’imperii istraordinari, e negli ordi-nari può
usare la sua umanità: perchè le punizioni
ordinarie non sono impu-tate al principe,
ma alle leggi ed agli ordini. Debbesi,
adunque, credere che Manlio fosse costretto
procedere si ri-gidamente dagli istraordinari
suoi im-perii, ai fjuali lo inclinava la sua
natu-ra: i quali sono utili in una
repubblica,perchè e’ riducono gli ordini di
quella verso il principio loro, e nella sua
an-tica virtù. E se una repubblica fussc si felice,
eh* ella avesse spesso, come disopra dicemmo,
citi con io esseinpio suo le rinnovasse
le leggi; e non solo la ri-tenesse che
la non corresse alla rovi-na, ma la
ritirasse indietro; la sarebbeperpetua. Si che
Manlio fu uno di quelli che con
l’asprezza de’ suoi i inperii ri-- tenne la
disciplina mUitarc in Roma, constretto prima
dalla natura sua, dipoidal desiderio che
aveva s’ osservasse quello che il suo
naturale appetito giiaveva fatto ordinare.
Dall’ altro canto, Valerio potette procedere
umanamente,come colui a cui bastava s’
osservassino le cose consuete osservarsi negli
esercitiromani. La qual consuetudine, perchè era
buona, bastava ad onorarlo, c nonera
faticosa ad osservarla, e non neces-sitava
Valerio a punire i transgressori;si perchè e’ non
ve n’ erano; sì perchè quando e* ve
ne Tassino stati, imputa-vano, come è detto,
la punizione loro agli ordini, c non alla
crudeltà del prin-cipe. In modo che,
Valerio poteva far nascere da lui ogni
umanità, dalla qualeei potesse acquistare
grado con i solda-ti, e la contentezza loro.
Donde nacque,che avendo l’uno e l’altro la
medesima ubbidienza, poterono, diversamente ope-rando,
fare il medesimo effetto. Possono quelli
che volessero imitar costoro, ca-dere in
quelli vizi di dispregio e d* odio che
io dico di sopra d’ Annibaie e diScipione:
il che* si fugge con una virtù eccessiva
che sia in te, e non altrimenti.Resta
ora considerare quale di questi modi di
procedere sia più laudabile. Ilche credo
sia disputabile, perchè gli scrittori lodano l’
un modo e l’ altro.Nondimeno, quelli che
scrivono come un principe s’ abbia a governare,
siaccostano piu a Valerio che a Manlio ; c
Senofonte, preallegato da me, dandodi molti
essempi della umanità di Ciro, si conforma
assai con quello che dicedi Valerio
Tito Livio. Perchè, sendo fatto Consolo
contro i Sanniti, e venendo ildì che doveva
combattere, parlò ai suoi soldati con
quella umanità con la qualeei si
governava ; e dopo tal parlare, Tito Livio
dice queste parole: Nonalias militi
familiarior dux fuit , inter infimos militimi
omnia hauti gravatemunia obcuntlo. In ludo
praterea mili-tari, cum velocitatis viriumquc in
ter secequales cer lamina ineuntj comiler
faci-lis vincere ac vinci, nulla eodcm ;
necqucmquam aspcrnari parem qui se
offer-ret ; factis benignus prò re; clic ti
shauti minus libertalis aliena , quam sua dignilatis
memor ; et (quo nihil popu-lariit8 est)
quibus artibus pelierat magi-strati^, iisdem
gerebat. Parla medesi-mamente di Manlio Tito
Livio onorévol-mente, mostrando che la sua
severitànella mol te del figliuolo fece
tanto ub-bidiente l' esercito al Consolo, che
fucagione delia vittoria che il Popolo
ro-mano ebbe contro ai Latini ; ed in
tantoprocede in laudarlo, che dopo tal
vit-toria, descritto eh’ egli ha tutto 1’
ordinedi quella zuffa, e mostri tutti i pericoli che
’1 Popolo romano vi corse, e le dif-ficoltà
che vTTurono a vincere, fa questa conclusione:
che solo la virtù di Manliodette
quella vittoria ai Romani. E facen-do
comparazione delle forze dell’ uno .edell’
altro esercito, afferma come quella parte
arebbe vinto che avesse avuto perConsolo
Manlio: talché, considerato tutto quello che
gli scrittori ne parlano, sa-rebbe difficile
giudicarne. Nondimeno, per non lasciare questa
parte indecisa,dico, come in un cittadino
che viva sotto le leggi d’ una
repubblica, credosia piu laudabile c meno
pericoloso il procedere di Manlio; perchè
questo modotutto è in favore del pubblico,
e non risguarda in alcuna parte all’
ambizioneprivata; perchè per tale modo non
si può acquistare partigiani, mostrandosisempre
aspro a ciascuno, ed amando solo il ben
comune; perchè chi fa que-sto, non s’ acquista
particolari amici, quali noi chiamiamo, come
di soprasi disse, partigiani. Talmentechè, simil modo
di procedere non può esser piùutile
nè più desiderabile in una repubblica; non
mancando in quello l’ utilitàpubblica, e non
vi potendo essere alcun sospetto della
potenza privata. Ma nelmodo di procedere
di Valerio è il con-trario: perchè se bene
in quanto alpubblico si fanno i medesimi
effetti, nondimeno vi surgono molte
dubitazioni,per la particolar benivolenza che
colui s’ acquista con i soldati, da fare
in unlungo imperio cattivi effetti contra
alla libertà. E se in Publicola questi
cattivieffetti non nacquero, ne fu cagione
non essere ancora gli animi dei Romani
cor-rottile quello non esser stato lun-gamente e
continovamente al governoloro. Ma se noi
abbiamo a considerare un principe, come considera
Senofonte,noi ci accosteremo al tutto a
Valerio, e lasceremo Manlio; perchè un
principedebbe cercare nei soldati e nei sudditi 1*
ubbidienza e 1’ amore. 1/ ubbidienzagli dà
lo essere osservatore degli ordini, Tesser
tenuto virtuoso: lo amore glidà P
affabilità, P umanità, la pietà e quell' altre
parli che erano in Valerio,e che Senofonte
scrive essere state in Ciro. Perchè lo
essere un principe ben^voluto particolarmente,
ed avere lo eser-cito suo partigiano, si
conforma contutte P altre parti dello Stato
suo: ma in un cittadino che abbia P
esercito suopartigiano, non si conforma già
questa parte con P altre sue parti, che P
hannoa far vivere sotto le leggi, ed
ubbidire ai magistrali. Leggesi intra le
cose an-tiche della Repubblica viniziana, come essendo
le galee viniziane tornate inVinegia, e
venendo certa differenza intra quelli delle
galee ed il popolo, dondesi venne al
tumulto ed all’ armi; nè si potendo la
cosa quietare nè per forzadi ministri,
nè per reverenza de’ citta-dini, nè timore
di magistrati; subitoche a quelli marinari apparve
innanzi un gentiluomo che era 1’ anno
davantistato capitano loro, per amore di
quello si partirono e lasciarono la zuffa.
Laqual ubbidienza generò tanta sospizioue al
Senato, che poco tempo dipoi i Vini-ziani,
o per prigione o per morte, se ne
assicurarono. Conchiudo pertanto, ilprocedere di
Valerio essere utile in uno principe, e
pernizioso in un cittadino;non solamente
alia patria, ma a sè: a lei, perchè
quelli modi preparano la viaalla tirannide;
a sè, perchè in sospet-tando la sua città
del modo del proce-dere suo è costretta assicurarsene
con suo danno. E così, per il contrario,
af-fermo il procedere di Manlio in un
prin-cipe esser dannoso, ed in uno
cittadinoutile, e massime alla patria: ed aneora rare
volte offende; se già questo odioclic
ti tira dietro la tua severità non è accresciuto
da sospetto che 1’ altre tuevirtù per
la gran riputazione ti arrecas-sino: come
di sotto di Cammillo si di-scorrerà. Cap.
XXIH. — Per quale cagione Cammillo fosse
cacciato di Roma.Noi abbiamo conchiuso di
sopra, come procedendo come Valerio, si
nuoce allapatria ed a sè; c procedendo come Manlio,
si giova alia patria, e nuocesiqualche
volta a sè. Il che si pruova assai
bene per lo essempio di Cammillo,il
quale nel procedere suo simigliava più.
tosto Manlio che Valerio. DondeTito Livio,
parlando di lui, dice, come ejus virlutem
mililes odorante et mira-banlur . Quello che
lo faceva tenere me-raviglioso, era la
sollicitudine, la pru-denza, la grandezza dell’
animo, il buono ordine che lui servava
nello adoperarsie nel comandare agli eserciti:
quello che lo faceva odiare, era essere
piu se-vero nel gastigargli, che liberale
nel ri-munerargli. G Tito Livio ne adduce
diquesto odio queste cagioni: la prima, che
i danari che si trassero de* benidei
Veienti che si venderono, esso gli applicò
al pubblico, e non gli divise conla
preda : V altra, che nel trionfo ei fece tirare
il suo carro trionfale da quattrocavagli
bianchi, dove essi dissero che per superbia
ei s’ era voluto agguagliareal sole :
la terza, che fece voto di dare ad
Apolline la decima parte della predadei
Veienti, la quale, volendo satisfare al
voto, s’ aveva a trarre dalle mani
deisoldati che l’ avevano di già occupata. Dove
si notano bene e facilmente quellecose che
fanno un principe odioso appresso il
popolo; delle quali la princi-pale è privarlo
d’ uno utile. La qual co-sa è di
importanza assai; perchè le coseche hanno
in sè utilità, quando I’ uomo n* è
privo, non le dimentica mai, edogni
minima necessità te ne fa ricorda-re; e
perchè le necessità vengono ognigiorno, tu
te ne ricordi ogni giorno. L’altra cosa è lo
apparire superbo edenfiato; il che non
può essere più odioso ai popoli, e massime
ai liberi. E ben-ché da quella superbia e
da quel fasto non ne nascesse loro
alcuna incomodi-tà, nondimeno hanno in odio
chi l’usa: da che un principe si
debbe guardarecome da uno scoglio; perchè
tirarsi odio addosso senza suo profitto, è
altutto partito temerario e poco pru-dente. Cap.
XXIV. — La prolungazionedegl* imperi fece
serva Roma. Se si considera bene il
procederedella Repubblica romana, si vedrà due cose
essere state cagione della resolu-zione di
quella Repubblica: l’una fu-rono le contenzioni
che nacquero dallalegge agraria; l’altra la
prolungazione degli imperi: le quali cose
se fussinostale conosciute bene da
principio, e fattivi debiti rimedi, sarebbe
stato il vi-ver libero più lungo, e per
avventura più quieto. C benché, quanto alia
pro-lungazione dello imperio, non si vegga che
in Roma nascesse mai alcuno tu-multo;
nondimeno si vedde in fatto, quanto noce
alla città quella autoritàche i cittadini
per tali diliberazioni pre-sono. E se gli
altri cittadini a chi eraprorogato il
magistrato, fussino stali savi e buoni come
fu Lucio Quinzio,non si sarebbe incorso
in questo incon-veniente. La bontà del
quale è d’ unoessempio notabile; perchè, sendosi
fatto intra la Plebe ed il Senato
convenzioned’ accordo, ed avendo la Plebe
prolun-gato in uno anno V imperio ai
Tribuni,giudicandogli atti a poter resistere
al-l’ambizione dei Nobili, volle il Senato,per
gara della Plebe e per non parere da
meno di lei, prolungare il consolatoa Lucio
Quinzio: il quale al tutto negò questa
diliberazionc, dicendo che i cat-livi essempi
si volevano cereare ili spe-gnergli, non di
accrescergli con uno al-tro più cattivo
essempio; e volle si fa-cessino nuovi
Consoli. La qual bontà eprudenza se
fusse stata in tutti i citta-dini romani,
non arebbe lasciata intro-durre quella
consuetudine di prolungare i magistrati, e da
quella non si sarebbevenuto alla
prolungazione delti imperi: la qua! cosa,
col tempo, rovinò quellaRepubblica. Il
primo a eli i fu proro-gato l’imperio, fu Publio
Pilone; ilquale essendo a campo alla città
di Pa-lepoli, e venendo la line del
suo conso-lato, e parendo al Senato ch’egli
avesse in mano quella vittoria, non gli
manda-rono il successore, ma lo fecero
Procon-solo; talché fu il primo Proconsolo.
Laqual cosa, ancora che mossa dal Senato per
utilità pubblica, fu quella che conil
tempo fece serva Roma. Perchè, quanto più i
Romani si discostaron con le ar-mi, tanto
più pareva loro tale proroga-zione necessaria, e
più P usarono. Laqual cosa fece due
inconvenienti: l’uno che meno numero di
uomini si eserci-tarono negl’imperi; e si venne
per questo a ristringere la reputazione inpochi:
l’altro, che stando un cittadino assai
tempo comandatole d’ uno eserci-to, se lo
guadagnava, e facevaselo par-tigiano; perchè quello
esercito col tem-po dimenticava il Senato, e
riconosceva quello capo. Per questo Siila e
Mario po-terono trovare soldati che contea
al bene pubblico gli seguitassino : per
questo Ce-sare potette occupare la patria.
Che se mai i Romani non avessiuo prolungati
imagistrati e gli imperi, se non venivano si
tosto a tanta potenza, e se fussinostati
più tardi gli acquisti loro, sarebbe-ro
ancora venuti più tardi nella servitù.Cap.
XXV. — Della povertà di Cincinnato , e di
molti cittadini romani.; Noi abbiamo ragionato
altrove, come la più ulil cosa che si
ordini in un vi-ver libero è che si
mantenghino i citta-dini poveri. E benché iti
Roma non ap-parisca quale ordine fusse
quello che facesse questo effetto, avendo,
massime,la legge agraria avuta tanta
oppugna-zione; nondimeno per esperienza si
vid-de, ' che dopo quattrocento anni che Roma
era stata edificata, v’era una gran-dissima
povertà ;**nè si può credere che altro
ordine maggiore facesse questo ef-fetto, che
vedere come per la povertà non t’ era
impedita la via a qualunquegrado ed a
qualunque onore, e come s’ andava a trovare
la virtù in qualun-que casa l'abitasse. 11
qual modo di vivere faceva manco
disperabili le ric-chezze. Questo si vede
manifesto; per-chè essendo Minuzio consolo
assediatocon lo esercito suo dagli Equi,
si empiè di paura Roma, che quello
esercito nonsi perdesse; tanto che
ricorsero a creare il Dittatore, ultimo rimedio
nelle lorocose afflitte. E crearono Lucio Quinzio
Cincinnato, il quale allora si trovava«ella
sua piccola villa, la quale lavora-va di
sua mano. La qual cosa con pa-role
auree è celebrala da Tito Livio, di-cendo:
Opera precium est audire, quiomnia prue
divifiis Humana spera uni,ncque honori
magno locum, neque tir-tuli putanl esse,
nisi effuse affluant opes. Arava Cincinnato
la sua piccolavilla, la quale non
trapassava il termi-ne di quattro iugeri,
quando da Romavennero i Legati del Senato a
signifi*Carli la elezione della sua
dittatura, eda mostrarli in quale pericolo
si trovava la romana Repubblica. Egli,
presa la suatoga, venuto in Roma e
ragunato uno esercito, n’andò a liberar Minuzio;
edavendo rotti e spogliati i nimici, e libe-rato
quello, non volle che 1’ esercito
as-sediato fusse partecipe della preda, di-cendogli
queste parole: Io non voglioche tu
participi della preda di coloro de’ quali
tu sei stato per essere preda;— e privò
Minuzio del consolato, e fe-eclo Legato,
dicendogli: Starai tanto inquesto grado,
che tu impari a sapere essere Consolo. —
Aveva fatto suo Maestrode’ cavalli Lucio
Tarquiuio, il quale per la povertà militava
a piede. Notasi, co-me è detto, T onore che
si faceva in Roma alla povertà; e come
ad uno uo-mo buono e valente, quale era
Cincin-nato, quattro iugeri di terra bastavanoa
nutrirlo. La quale povertà si vede co-me
era ancora nei tempi di Marco Re-golo;
perchè sendo in Affrica con gli eserciti,
domandò licenzia al Senato perpoter tornare
a custodire la sua villa, la quale gli
era guasta da’ suoi lavora-tori. Dove si
vede due cose notabilissi-me : 1* una la
povertà, e come vi sta-vano dentro contenti, e
come bastava a quelli cittadini trarre
della guerra ono-re, e l’ utile tutto lasciavano
al pub-blico. Perchè, s’ egli avessero
pensatod’arricchire della guerra, gli sarebbe dato
poca briga, che i suoi campi fus-sino
stati guasti. L’ altra è, considerare la
generosità dell’ animo di quelli citta-dini, i
quali preposti ad uno esercito, saliva la
grandezza dell’animo loro so-pra ogni principe;
non stimavano i re, non le repubbliche ;
non gli sbigottivanè spaventava cosa
alcuna; e tornati dipoi privati, diventavano
parchi, umili,curatori delle piccole facultà
loro, ubbi-dienti ai magistrati, reverenti alti
loromaggiori: talché pure impossibile che uno
medesimo animo patisca tanta mu-tazione. Durò
questa povertà ancora to-sino ai tempi di
Paulo Emilio, che fu-rono quasi gli ultimi
felici tempi di quella Repubblica, dove un
cittadino checol trionfo suo arricchì Roma,
nondi-meno mantenne povero sè. E cotanto
sistimava ancora la povertà, che Paulo nell’
onorare chi s’ era portato benenella
guerra, donò a un suo genero una tazza d’
oriento, il quale fu il primooriento
che fusse nella sua casa. E potrebbesi
con un lungo parlare mostrarequanti
migliori frutti produca la po-vertà che la
ricchezza, e come V una haonorato le città,
le provincia, le sètte; c l’altra V ha
rovinate; se questa ma-teria nou fusse
stata molte volte da al-tri uomini
celebrata.C\p. XXVI. — Come per cagione di
femmine si rovina uno Slato.Nacque nella
città d’ Ardea intra i pa-trizi e i plebei una
sedizione per ca-gione d’ un parentado,
dove avendosi a maritare una. femmina
erede, la doman-darono parimente un plebeo
ed un nobile; e non avendo quella padre, i
tu-tori la volevano congiugnere al plebeo, la
madre al nobile: di che nacque.
tantotumulto, che si venne all’ armi ; dove
tutta la Nobiltà s’ armò in favore
delnobile, e tutta la Plebe in favore del plebeo.
Talché essendo superata la Ple-be, s’ uscì
d’ Ardea, e mandò ai Yolsci per aiuto: i
nobili mandarono a Roma.Furono prima i Volsci,
e, giunti intorno ad Ardea, s’accamparono.
Sopravvenne-ro i Romani, e rinchiusone i Volsci in- fra
ia terra e loro; tanto che gli
co;slrinsono, essendo stretti dalla fame, a darsi
a discrezione. Ed entrati i Romaniin Ardea, e
morti lutti i capi della se-dizione, composono
le cose di quellacittà. Sono in
questo testo più cose da notare. Prima
si vede, come le donnesono state
cagioni di molte rovine, ed hanno fatti
gran danni a quelli che go-vernano una
città, ed hanno causato di molte divisioni
in quella : e, come si èveduto in
questa nostra istoria, V eccesso fatto contra a
Lucrezia tolse lostato ai Tarquini; quell’
altro fatto contra a Virginia privò i Dieci
dell’ auto-rità loro. Ed Aristotele intra
le prime cose che mette della rovina
dei tiranni,è V avere ingiuriato altrui per
conto di donne, o con stuprarle, o con violarle,o
corrompere i matrimoni ; come di questa parte,
nel capitolo dove noi trat-tammo delle
congiure, largamente si parlò. Dico, adunque,
come i principiassoluti ed i governatot i delle
repubbliche non hanno a tenere poco contodi
questa parte ; ma debbono considerare i disordini
clic per tuie accidentepossono nascere, e
rimediarvi in tempo che il rimedio non
sia con danno e vi-tuperio delio Stato loro
o della loro re? pubblica: come intervenne
agli Ardenti,i quali per avere lasciato
crescere quella gara intra i loro cittadini,
si condusso-tio a dividersi infra loro; e
volendo riunirsi, ebbono a mandare per
soccorsiesterni : il che è un gran principio
d’una propinqua servitù. Ma vegniamo all’ al-tro
notabile del modo del riunire le città, del
quale nel futuro capitolo parleremo.C*r.
XXVII. — Come e* si ha a unire una
città divisa ; c come quella oppi-nionc non
è vera , che a tenere le città bisogna tenerle
disunite.Per lo essempio dei Consoli romani che
riconciliarono insieme gli Ardeati,si nota
il modo come si debbe comporre una
citta divisa: il quale non è altro,nè
altrimenti si debbe medicare, clic ammazzare i
capi de’ tumulti. Perchégli è necessario
pigliare uno de’ tre modi : o ammazzargli,
come fecero co-storo ; o rimuovergli della città;
o far loro far pace insieme, sotto obblighi
dinon si offendere. Di questi tre modi, questo
ultimo è più dannoso, men cer-to e più
inutile. Perchè gli è impossibile, dove sia
corso assai sangue, o al-tre simili ingiurie,
che una pace fatta per forza duri,
riveggendosi ogni di in-sieme in viso; ed è
difficile che si asten-gano dallo ingiuriare V
uno V altro, po-tendo nascere infra loro
ogni dì, per la conversazione, nuove
cagioni di querele.Sopra che non si
può dare il migliore essempio che la
città di Pistoia. Era di-visa quella città,
come è ancora, quin-dici anni sono, in
Panciatichi e Cancel-lieri ; ma allora era in
sull’ orme, ed oggi V ha posate. E dopo
molte disputeinfra loro, vennero al sangue,
alla rovina delle case, al predarsi la
roba, ead ogni altro termine di
nimico. Ed i Fiorentini, che gli avevano a
comporre,sempre vi usarono quel terzo modo;
e sempre ne nacquero maggiori tumultic maggiori
scandali: tanto che, strac-chi, si venne al
secondo modo, di ri-muovere i capi delle
parli; de’ quali al-cuni messono in prigione,
alcuni altriconfinarono in vari luoghi:
tanto che 1’ accordo fatto potette stare,
ed è statoinfino a oggi. Ma senza dubbio
più si-curo saria stato il primo. Ma
perchèsimili esecuzioni hanno il grande ed
il generoso, una repubblica debole non lesa
fare, ed ènne tanto discosto, che a fatica
la si conduce al rimedio secondo.E questi
sono di quelli errori che io dissi
nel principio, che fanno i principidei
nostri tempi, che hanno a giudicare le cose
grandi; perchè doverebbouo vo-ler vedere, come
si sono governati co-loro che hanno avuto a
giudicare auti-canìcole simili casi. Ma la
debolezza de’ presenti uomini, causala dalla
deboleeducazione loro e dalla poca notizia delle
cose, fa che si giudichino i giudiziantichi
parte inumani, parte impossibili. Ed hanno
certe loro moderne oppinionidiscoste al
tutto dal vero; corn’è quella che dicevano
i savi della nostra città,un tempo è:
che bisognava tener Pistoia con le parti j e
Pisa con le fortezze ; e non s’avveggono, quanto
runa e l’ altra di queste due cose è inutile. Io
voglio lasciare le fortezze, perchè di sopra
ne parlammo a lungo; e vogliodiscorrere la
inutilità che si trae dai tenere le
terre, che tu hai iu governo,divise.
In prima, c impossibile che tu ti mantenga
tutte due quelle parti amicheo principe o
repubblica che le governi. Perchè dalla
natura è dato agli uominipigliar parte in
qualunque cosa divisa, e piacergli più questa
che quella. Tal-ché, avendo una parte di
quella terra malcontenta, fa che lu prima
guerra cheviene, tu la perdi ; perchè
gli è impos-sibile guardare una città che
abbia ini mici fuori e dentro. Se la
è una re-pubblica che la governi, non ci è
il piùbel modo a far cattivi i tuoi
cittadini cd a far dividere la tua città,
clic averein governo una città divisa;
perchè cia-scuna parte cerca d’aver favori,
ciascu-na si fa amici con varie corruttele
: tal-ché ne nasce due grandissimi inconve-nienti;
l’uno, che tu non to gli fai mai amici,
per non gli poter governar bene,variando
il governo spesso, ora con l’uno, ora
con l’altro umore; l’altro,clic tale studio
di parte divide di neces-sità la tua
repubblica. Ed il Biondo,parlando dei
Fiorentini c de’ Pistoiesi, ne fa fede,
dicendo: Mentre che i Fio-ventini disegnavano
di riunir PistoiaJ divisano se medesimi.
Pertanto, si puòfacilmente considerare il
male che da questa divisione nasca. Nel
1501, quan-do si perdè Arezzo, c tutto Val
di Tevere e Val di Chiana, occupatoci
daiVitelli e dal duca Valentino, venne un monsignor
di Lant, mandato dal re diFrancia a
fare restituire ai Fiorentini tutte quelle
terre perdute; e trovandoLant in ogni
castello uomini die, nel visitarlo, dicevano
che erano della partedi Marzocco, biasimò
assai questa divi-sione: dicendo, che se in
Francia uuodi quelli sudditi del re
dicesse d’essere della parte del re,
sarebbe gastigato,perchè tal voce non
significherebbe al-tro, se non che in
quella terra fussegente nimica del re ; e
quel re vuole che le terre tutte
siano sue amiche, uni-te, e senza parti. Ma
tutti questi modi e queste oppinioni diverse
dalla veritànascono dalla debolezza di chi
sono si-gnori; i quali, veggendo di non
potertenere gli Stati con forza e con
virtà, si voltano a simili industrie: le
quali qual-che volta nei tempi quieti
giovano qual-che cosa; ma come e’ vengono
l’avver-sità ed i tempi forti, le mostrano la fallacia
loro. Gap. XXVIII. — Che si debbe por
mentealle opere de* cittadini , perchè molte volte
sotto un'opera pia si nascondeun principio
di tirannide. Essendo la città di Roma
aggravata dalla fame, e non bastando le
provvi-sioni pubbliche a cessarla, prese animo uno
Spurio Melio, essendo assai riccosecondo
quelli tempi, di far provvisione di
frumento privatamente, e pascernecon suo grado
la Plebe. Per la qual cosa egli ebbe
tanto concorso di popolo insuo favore,
che ’l Senato pensando al-P inconveniente
che di quella sua libe-ralità poteva
nascere, per opprimerla avanti che la
pigliasse più forze, glicreò un Dittatore
addosso, e fecelo morire. Qui è da notare,
come molle volteP opere che paiono pie c
da non le potere ragionevolmente dannare,
diventanocrudeli, e per una repubblica sono
pericolosissime, quando non siano a buo-n* oi a
corrette. E per discorrere questa cosa più
particolarmente, dico che unarepubblica senza
cittadini riputati non può stare, nè può
governarsi in alcunmodo bene. Dall’ altro
canto, la ripu-tazione de’ cittadini è cagione
della ti-rannide delle repubbliche. E volendo re-golare
questa cosa, bisogna talmenteordinarsi, che i
cittadini sieno riputati di riputazione che
giovi, c non nuoca,alla città ed alla
libertà di quella. E però si debbe
esaminare i modi con iquali ei pigliano
riputazione j che sono in effetto due: o
pubblici o privati. Imodi pubblici sono,
quando uno consi-gliando bene, e operando meglio
in be-nefìzio comune, acquista riputazione. A questo
onore si debbe aprire la via
aicittadini, e proporre prèmi ed ai con- sigli
ed all’ opere, talché se n’abbinoad onorare
e satisfare. E quando queste riputazioni prese
per queste vie, sianoschiette e semplici,
non saranno mai pericolose: ina quando le
sono preseper vie private, che è l’altro
modo preal-legato, sono pericolosissime ed in
tuttonocive. Le vie private sono, facendo
be-nefizio a questo ed a quell’ altro privato,con
prestargli danari, maritargli le fi-gliuole,
difendendolo dai magistrali, efacendogli simili
privati favori, i quali si fanno gli uomini
partigiani, e dannoanimo a chi è cosi favorito
di poter corrompere il pubblieoe sforzar le
leggi.Debbe, pertanto, una repubblica bene ordinata
aprire le vie, come è detto, achi
cerca favori per vie pubbliche, e chiuderle
a chi li cerca per vie private;come
si vede che fece Roma: perchè in premio
di chi operava bene per il pubbli-co,
ordinò i trionfi c tutti gli altri onori che
la dava ai suoi cittadini ; ed in
dannodi chi sotto vari colori per vie
private cercava di farsi grande, ordinò
l’accuse;e quando queste non bastassero, per èssere
accecato il popolo da una speziedi
falso bene, ordinò il Dittatore, il quale con
il braccio regio facesse tornare den-tro
al seguo chi ne fusse uscito, come la
fece pei* punir Spurio Melio. Ed
unache di queste cose si lasci
impunita, è atta a rovinare una repubblica;
perchèdifficilmente con quello essempio si
ri-duce dipoi in la vera via.Cap. XXIX. —
Che gli peccali dei popoli nascono dai principi.Non
si dolghino i principi d’ alcuno peccato che
faccino i popoli €11’ egli ab-biano in
governo ; perchè tali peccali conviene che
naschino o per sua negli-genza, o per esser
lui macchialo di simili errori. E chi
discorrerà i popoliche nei nostri tempi
sono stati tenuti pieni di ruberie e di
simili peccati, ve-drà che sarà al tutto
nato da quelli che gli governavano, che
erano di similenatura. La Romagna, innanzi
che in quella fossero spenti da papa
Alessan-dro \ 1 quelli signori che la comanda-vano,
era uno essempio d’ ogni seclle-ratissima
vita, perchè quivi si vedeva per ogni
leggiere cagione seguire occi-sioni e rapine
grandissime. Il che na-sceva dalla tristizia
di quei principi $non dalla natura
trista degli uomini, come loro dicevano.
Perchè sendo quelliprincipi poveri, e volendo
vivere da ric-chi, erano forzati volgersi a
molte ra-pine, e quelle per vari modi
usare. Ed intra Poltre disoneste vie che e’
tene-vano, facevano leggi, e proibivano alcuna azione;
dipoi erano i primi che davanocagione della
inosservanza d’ esse, nè inai punivano gli
inosservanti, se nonpoi quando vedevano
esser incorsi assai in simile pregiudizio;
ed allora si vol-tavano alla punizione, non
per zelo della legge fatta, ma per
cupidità di riscuo-ter la pena. Donde
nascevano molti inconvenienti, e sopra tutto
questo: che ipopoli si impoverivano, e non
si cor-reggevano; e quelli che erano impove-riti, s’
ingegnavano contra ai meno po-tenti di loro
prevalersi. Donde surgevanotutti questi mali
che di sopra si dicono, de’ quali era
cagione il principe. E chequesto sia vero,
lo mostra Tito Livio quando ei narro,
che portando i Legatiromani il dono della
preda dei Veienti ad Apolline, furono presi
dai corsari di Lipari in Sicilia, e
condotti in quella terra : ed inteso
Timasiteo loro principe che dono era
questo, dove egli andavae chi lo mandava,
si portò, quantunque nato a Lipari, come
uomo romano, emostrò al popolo quanto
era impio oc-cupare simil dono; tanto che,
con il con-senso dell* universale, ne
lasciò andare i Legati con tutte le cose
loro. E le pa-role dello istorieo sono
queste: Tima-sitheus muhitudinem religione
impleviljguoe seniper regenti est similis. E
Lorenzo dei Medici, a con Orinazione di
questasentenza, dice :u E quel che fa il
signor, fanno poi molti ; Chè nel
signor son tutti gli occhi volti.
„Cap. XXX. — Ad uno cittadino che t co-glia
nella sua repubblica far di suaautorità
alcuna opera buona , è neces-sario prima spegnere
/* invidia: c co-me, venendo il nimico j s'
ha a ordi-nare la difesa dJ una città. Intendendo
il Senato romano come laToscana tutta
aveva fatto nuovo deletto per venire a'
danni di Roma; e corne iLatini e gli
Ernici, stati per lo addietro amici del
Popolo romano, s’ erano acco-stati coi
Volaci, perpetui nimici di Roma ; giudicò
questa guerra dovere esserpericolosa. E
trovandosi Cnnimilio tribuno di potestà
consolare, pensò che sipotesse fare senza
creare il Dittatore, quando gli altri
Tribuni suoi collegllivolessino cedergli la
somma dello imperio. Il che detti Tribuni
fecero volonta-riamente: nec quicquam (dice Tito
Livio) de majestate sua delractum crcdcbant,rjund
ma j està li ejus concessissent. Onde Cammillo,
presa a parole questa ubbi-dienza, comandò che
si scrivessino tre eserciti. Del primo
volse esser capo lui,per ire eontra i
Toscani. Del secondo fece capo Quinto
Servilio, il quale vollestesse propinquo a
Roma, per ostare ai Latini ed agli
Ernici, se si movessino.Al terzo esercito
prepose Lucio Quinzio, il quale scrisse per
tenere guardata lacittà, e difese le porte
e la curia, in ogni caso che nascesse.
Oltre a questoordinò che Orazio, uno de’
suoi colleglli, provvedesse 1* arme, ed il
frumento, el’ altre cose che richieggono i tempi della
guerra. Prepose Cornelio, ancorasuo collega,
al Senato ed al pubblico consiglio,
acciocché potesse consigliarele azioni che
giornalmente s’ avevano a fare ed eseguire.
Iu questo modo furo-no quelli Tribuni, in
quelli tempi, per la salute della patria
disposti a coman-dare e ad ubbidire. Notasi per
questo testo, quello che faccia uno uomo buonoe
savio, e di quanto bene sia cagione, c
quanto utile ei possi fare alla sua
pa-tria, quando, mediante la sua bontà e virtù,
egli ba spenta l’ invidia ; la qualeè molte
volte cagione che gli uomini rton possono operar
bene, non permet-tendo detta invidia che
gli abbino quella autorità la quale è
necessaria averenelle cose d’ importanza.
Spegnesi questa invidia in duoi modi: o per
qualcheaccidente forte e difficile, dove ciascuno veggendosi
perire, posposta ogni ambi-zione, corre
volontariamente ad ubbidire a colui che crede
che con la suavirtù lo possa
liberare: come intervenne a Cammillo; il quale
avendo dato disè tanti saggi d’ uomo
eccellentissimo, ed essendo stato tre volte
Dittatore, edavendo amministrato sempre quel
grado ad utile pubblico, e non a propria
uti-lità, aveva fatto che gli uomini non
te-mevano della grandezza sua ; e per essertanto
grande e tanto ripututo, non sti-mavano cosa
vergognosa essere inferio-re a lui. E però dice
Tito Livio saviamente quelle parole: JSep
quicquam eie.In un altro modo si
spegne l’invidia, quando o per violenza o per
ordine na-turale muoiono coloro che sono stati tuoi
concorrenti nel venire a qualcheriputazione ed a
qualche grandezza ; i quali veggendoti riputato
più di loro, èimpossibile che mai
acquieschino, e stiano pazienti. E quando sono
uomini eh»siano usi a vivere in una
citta corrotta, dove la educazione non
abbia fattoin loro alcuna bontà, è
impossibile che per accidente alcuno mai si
indichino;e per ottenere la voglia loro, e
satisfare alla loro perversità d’animo,
sarebberocontenti vedere la rovina della
loro patria. A vincer questa invidia non ci
èaltro rimedio che la morte di coloro che
l’hanno; e quando la fortuna ètanto
propizia a quell’ uomo virtuoso, che si
muoiano ordinariamente, diventasenza scandalo
glorioso, quando senza ostacolo e senza offesa
ei può mostrarela sua virtù: ma
quando ei non abbi questa ventura, gli
conviene pensare perogni via torsegli
dinanzi; e prima che ei facci cosa alcuna,
gli bisogna teneremodi eli* ei vinca questa
difTìcultà. E chi legge la Bibbia sensatamente,
vedràMoisè essere stato sforzato, a volere che le
sue leggi e gli suoi ordini
andasseroinnanzi, ad ammazzare infiniti uomini, ì
quali, non mossi da altro che da
in-vidia, si opponevano a* disegni suoi. Questa
necessità conosceva benissimofrate Girolamo
Savonarola; conoscevala ancora Pietro Soderini,
gonfaloniere diFirenze. V uno non potette
vincerla, per non avere autorità a poterlo
fare (chefu il frate), e per non
essere inteso be-ne da coloro che lo
seguitavano, che nearebbono avuto autorità.
Nondimeno per lui non rimase, e le sue
prediche sonopiene d’ accuse dei savi
del mondo, e di invettive contro a loro;
perchè chiama-va così questi invidi, e quelli
che si opponevano agli ordini suoi. Quell’
altrocredeva col tempo, con la bontà,
con la fortuna sua, con beneficarne alcuno,
spe-gner questa invidia ; vedendosi d* assai fresca
età, e con tanti nuovi favori chegli
arrecava il modo del suo procedere, che
credeva poter superare quelli tantiche per
invidia se gli opponevano, senza alcuno
scandalo, violenza e tumulto : enon sapeva
che M tempo non si può aspettare, la
bontà non basta, la fortu-na varia, e la
malignità non trova dono che la plachi.
Tanto che V uno e l’altrodi questi due
rovinarono, e la rovina loro fu causata da
non aver saputo opotuto vincere questa
invidia. 1/ altro notabile è 1’ ordine che
Cammillo dettedentro e fuori per la salute
di Roma. E veramente, non senza cagione,
gli isto-rici buoni, com’ è questo nostro, metto-no
particolarmente e distintamente certicasi, acciocché i
posteri imparino come gli abbino in simili
accidenti a difen-dersi. E debbesi in questo
testo notare, che non è la più pericolosa
nè la piùinutile difesa, che quella
che si fa tu-multuariamente e senza ordine.
E que-sto si mostra per quello terzo esercito che
Carminilo fece scrivere per lasciarloin
Roma a guardia della città : perchè molti
arebbero giudicato e giudichereb-bono questa
parte superflua, scudo quel popolo per 1’
ordinario armato e belli-coso; e per questo, che
non gli biso-gnasse di scriverlo altrimente,
ma ba-stasse farlo armare quando il bisogno venisse.
Ma Cammillo, e qualunche fussesavio come
era esso, la giudica altri-mente; perchè
non permette mai cheuna moltitudine pigli 1’
arme, se non cou certo ordine e certo
modo. E però, iusu questo essempio, uno
che sia preposto a guardia d’ una città,
debbe fug-gire come uno scoglio il fare
armare gli uomini tumultuosamente; ma dcbbcprima
avere scritti e scelti quelli che voglia s’
armino, chi gli abbino a ubbi-dire, dove a
convenire, dove andare; ed a quelli che non
sono scritti, comanda-re che stiano ciascuno
alle case sue a guardia di quelle.
Coloro che terrannoquesto ordine in uiia
città assaltata, fa-cilmente si potranno
difendere: chi faràaltrimenti, non imiterà
Cammillo, e non si difenderà.Gap. XXXI. — Le
repubbliche forti e gli uomini eccellenti
ritengono in ognifortuna il medesimo animo
e la loro medesima dignità.Intra 1* altre
magnifiche cose che il nostro istorico fa
dire e fare a Cammil-lo, per mostrare come
debbo esser fatto un uomo eccellente, gii
mette in boccaqueste parole: iSec mi
hi diclattira ani mo8 fecilj nec exilium
ademil. Per lequali parole si Yede,
come gli uomini grandi sono sempre io
ogni fortunaquelli medesimi ; e se la
varia, ora con esaltargli ora con
opprimergli, quellinon variano, ma tengono
sempre P ani- mo fermo, ed in tal modo
congiuntocon il modo del vivere loro,
che fncil-mente si conosce per ciascuno,
la for-tuna non aver potenza sopra di loro.
Altrimenti si governano gli uomini de-boli;
perchè invaniscono ed inebriano nella buona
fortuna, attribuendo tuttoil bene che gli
hanno a quelle virtù che' non conobbero
mai. D’onde nasce chediventano insopportabili ed
odiosi a tutti coloro che gli hanno
intorno. Da chepoi dipende la subita variazione
della sorte; la quale come veggono in
viso,caggiono subito nell’ altro difetto, e
diventano vili ed abietti. Di qui nasce
chei principi così fatti pensano nella avversità
più a fuggirsi che a difendersi,come quelli
che per aver male usata la buona
fortuna, sono ad ogni difesa im-preparati.
Questa virtù e questo vizio, eh’ io dico
trovarsi in uno uomo solo, sitrova
ancora in una repubblica: ed in fessempio
ci sono i Romani ed i Vini-ziani. Quelli
primi, nessuna cattiva sorte gli fece mai
divenire abietti, nè nessu-na buona fortuna
gli fece mai essere in-solenti; come
si vidde manifestamentedopo la rotta eli’
egli ebbouo a Canile, e dopo la vittoria
eli’ egli ebbono con-tea ad Antioco; perchè
per quella rot-ta, ancora che gravissima
per esserstata la terza, non invilirono
mai; e mandarono fuori eserciti; non
vollenoriscattare i loro prigioni contra agli
or-dini loro; non mandarono ad Annibaieo a
Cartagine a chiedere pace : ma, la-sciate stare
tutte queste cose abiette in-dietro, pensarono
sempre alla guerra ; armando, per carestia
d’ uomini, i vec-chi ed i servi loro. La
qual cosa conosciuta da Annoile cartaginese,
come disopra si disse, mostrò a quel Senato
quanto poco conto s’ aveva a teneredella
rotta di Canne. E così si vidde come i
tempi difficili non gli sbigottiro-no, nè
gli renderono umili. Dall’ altra parte, i
tempi prosperi non gli feceroinsolenti;
perchè mandando Antioco oratori a Scipione a
chiedere accordo,avanti che fussino venuti
alla giornata, e eh' egli avesse perduto,
Scipione glidelle certe condizioni della
pace; quali erano che si ritirasse dentro
alla Siria,ed il resto lasciasse nello
arbitrio de’ Romani. Il quale accordo ricusando
Antio-co, e venendo alla giornata, e perdendola,
rimandò ambasciadori a Scipione,con commissione
che pigliassero tutte quelle condizioni erano
date loro da)vincitore: ai quali non
propose altri patti che quelli s’avesse
offerti innanziche vincesse; soggiungendo queste
parole: quod Romani j si vincunluVj nonminuunlur animi
s ; ncc si vincimi insolescere solent. Al
contrario appunto diquesto s’è veduto fare
ai Yiniziani: i quali nella buona fortuna,
parendo loroaversela guadagnata con quella
virtù che non avevano, erano venuti a tanta
inso-lenza, che chiamavano il re di Francia figliuolo
di San Marco; non stimavanola Chiesa ;
non capivano in modo alcuno in Italia; e
avevansi presupposto nel-1’ animo d’ aver a
fare una monarchia simile alla romana.
Dipoi, come la buo-na sorte gli
abbandonò, e eli’ egli eb*bero una mezza
rotta a Vaila dal re diFrancia, pcrderono
non solamente tutto lo Stato loro per
ribellione, ma buonaparte ne dettero ed
al papa ed al redi Spagna per viltà
ed abiezione d’animo;ed in tanto
invilirono, che mandarono nmbasciadori allo
imperadore a farsi(libatori; e scrissono al papa
lettere piene di viltà, e di sommissione
permuoverlo a compassione. Alla quale in* felicità
pervennero in quattro giorni, edopo una
mezza rotta: perchè avendo combattuto il
loro esercito, nel ritirarsivenne a combattere
ed essere oppresso circa la metà; in
modo che, l’uno de’provveditori che si
salvò, arrivò a Verona con più di
venticinquemila soldati,intra piè e cavallo. Talmentechè,
se a Vinegia e negli ordini loro fusse
stataalcuna qualità di virtù, facilmente si
po-tevano rifare, e dimostrare di nuovo ilviso
alla fortuna ed essere a tempo o a vincere,
o a perdere più gloriosamente,o ad avere accordo
più onorevole. Ma la viltà dell’ animo
loro, causata dalla qualità de’ loro ordini
non buoni nelle cose della guerra, gli
fece ad un tratto per-dere lo Stato e
1’ animo. E sempre intervewà così a
qualunque si governi come loro. Perchè
questo diventare in-solente nella buona fortuna
ed abiettonella cattiva, nasce dal modo
del proceder tuo, e dalla educazione, nella
qualetu sei nudrito: la quale quando è
debole c vana, ti rende simile a sè: quan-do-è
stata altrimenti, ti rende ancora d’ un’
altra sorte; e facendoli miglioreconoscitore del
mondo, ti fa meno rallegrare del bene, e
meno rattristare delmale. E quello che si dice
d’ un solo, si dice di molti che
vivono in una repubblica medesima; i quali
si fanno di quella perfezione, che ha
il modo del vivere di quella. E benché
altra volta sisia detto, come il
fondamento di tutti gli Stali è la buona
milizia ; e come dove non è questa, non
possono essere nè leggi buone, nè alcuna
altra cosa buona ; non mi pare superfluo
replicarlo : perchè ad ogni punto nel
leggere questa istoria si vede apparire
questa necessità; e si vede come la milizia
nonpuote essere buona, se la non è
«ecci-tata; e come la non si può
esercitare,se la non è composta di tuoi
sudditi. Perchè sempre non si sta in
guerra, nèsi può starvi ; però conviene
poterla cser-, citare a tempo di pace: e
con altri checon sudditi non si può
fare questo esercizio, rispetto alla spesa.
Era Cammilloandato, come di sopra dicemmo,
con l’esercito conira ai Toscani; ed avendoi
suoi soldati veduto la grandezza dello esercito
dei nimici, s’ erano tutti sbigot-titi,
parendo loro essere tanto inferio-ri da non
poter sostenere l’ impeto diquelli. E pervenendo
questa mala dispo-sizione del campo agli
orecchi di Cam-millo, si mostrò fuora, ed
andando par-lando per il campo a questi ed
a quellisoldati, trasse loro del capo
quella op-pinione; e nell’ultimo, senza
ordinarealtrimenti il campo, disse: Quod qinsque didicit,
aiti consucvilj facict. E chi con-sidererà bene
questo termine, e le pa-role disse loro,
per inanimarli a ire con-tro al nimici,
considererà come e’ non si poteva nè
dire nè far fare alcuna diquelle cose
ad uno esercito che prima non fusse
stalo ordinato ed esercitatoed in pace
ed in guerra. Perchè di quelli soldati
che non hanno imparato a farcosa alcuna,
non può un capitano fidar-si. e credere che
faccino alcuna cosa chestia bene; e se gli
comandasse un nuo-vo Annibaie, vi rovinerebbe
sotto. Per-chè, non potendo un capitano essere mentre
si fa la giornata in ogni parte,se
non ha prima in ogni parte ordinato di
potere avere uomini che abbino lospirito
suo, e bene gli ordini ed i modi del
procedere suo, conviene di necessitàche ci
rovini. Se, adunque, una città sarà armata
ed ordinata come Roma; cche ogni dì
ai suoi cittadini, ed in par*ticolare
ed in pubblico, tocchi a fareisperienza c della
virtù loro, e delia po-tenza della fortuna;
interverrà sempreche in ogni condizione di
tempo e’ siano dei medesimo animo, e
manterranno lamedesima loro degnila: ma
quaudo e’ sia-no disarmati, e che si
appoggerannosolo olii impeti della fortuna, e non
alla propria virtù, varieranno col variare
diquella, e daranno sempre di loro quello essempio
che hanno dato i Viniziani.Gap. XXXII. —
Quali modi hanno tentili alcuni a turbare
una pace.Essendosi ribellate dal Popolo romano Circe»
e V elitre, due sue colonie, sottosperanza d’
esser difese dai Latini; ed essendo dipoi
vinti i Latini, e mancandodi quelle speranze;
consigliavano, assai cittadini che si dovesse
mandare a Romaoratori a raccomandarsi al Senato :
il qual partilo fu turbato da coloro cheerano
stali autori della ribellione, i quali temevano
che tutta la pena non si vol- tasse
sopra le teste loro. E per tor via ogni
ragionamento di pace, incitarono la moltitudine
ad armarsi, ed a correr sopra i confini
romani. E veramente,quando alcuno vuole o che
uno popolo o un principe levi al tutto
1’ animo dauno accordo, non ci è
altro modo più vero nè più stabile,
che fargli usarequalche grave scelleratezza
contro a co-lui con il quale tu non
vuoi che l’ac-cordo si faccia : perchè
sempre lo terrà discosto quella paura di
quella pena chea lui parrà per lo
errore commesso aver meritata. Dopo la
prima guerrache i Cartaginesi ebbono coi Romani, quelli
soldati che dai Cartaginesi eranostati
adoperati in quella guerra in Si*cilia
ed in Sardigna, fatta che fu la
pa-ce, se ne andarono in Affrica; dovè non essendo
satisfatti del loro stipendio, mos-sono
l’armi contra ai Cartaginesi; e fatti di
loro due capi, Nato e Spendio,occuparono
molte terre ai Cartaginesi, e molte ne
saccheggiarono. I Cartagine-si, per tentare prima
ogni altra via che la zuffa, mandarono a
quelli ainbascia-dore Asdrubale loro cittadino,
il quale pensavano avesse alcuna autorità
conquelli, essendo stato per lo addietro
lor capitano. Ed arrivato costui, e
volendoSpendio e .Muto obbligare tutti quelli
sol-dati a non sperare d’ aver mai più
pacecoi Cartaginesi, e per questo obbligarli alla
guerra; persuasono loro, ch’egliera meglio
ammazzare costui, con lutti i cittadini
cartaginesi, quali erano ap-presso loro prigioni.
Donde, non sola-mente gli ammazzarono, ma
con millesupplizii in prima gli straziarono
; ag-giungendo a questa scelleratezza unoeditto, che
tutti i Cartaginesi che per lo avvenire si
pigliassino, si dovessino insimil modo
oecidere. La qual dilibera-zione ed esecuzione
fece quello esercitocrudele ed ostinato
contra ai Cartagi-nesi. Gap. XXXlll. — Egli è
necessario , a vo-ler vincere una giornalaj fare
lJ eser-cito confidente ed infra lorOj e
con ilcapitano. A volere che uno esercito
vinca una giornata, è necessario farlo
confidente,in modo che creda dovere in
ogni modo vincere. Le cose che lo
fanno confi-dente sono: che sia armato ed
ordinato bene; conoschinsi l’uno 1’ altro. Nè
puònascer questa confidenza o questo ordi-ne, se
non in quelli soldati che sononati e
vissuti insieme. Conviene che ’l capitano
sia stimato, di qualità che con-fidino
nella prudenza sua: e sempre confideranno, quando
lo vegghino ordi-nato, sollecito ed animoso, e
che tenga bene e con riputazione la maestà
del grado suo: c sempre la manterrà, quan-do
gli punisca degli errori, e non gli affatichi
invano; osservi loro le promes- se; mostri
facile la via del vincere; quelle cose
che discosto potessino mo-strare i pericoli, le nasconda,
le alleggerisca. Le quali cose osservate
bene, sonocagione grande che P esercito
confida, e confidando vince. Usavano i Romani
difar pigliare agli eserciti loro questa
confidenza per via di religione: donde na-sceva,
che con gli augurii ed auspizii creavano i
Consoli, facevano il dcletto,partivano con
li eserciti, e venivano alla giornata: e senza
aver fatto alcuna diqueste cose, non
inai arebbe un buon capitano e savio
tentata alcuna fazione,giudicando d’ averla
potuta perdere facilmente, se i suoi soldati
non avesseroprima inteso gli dii essere
dalla parte loro. E quando alcuno Consolo, o
altroloro capitano, avesse combattuto contra agli
auspizii, P arebbero punito; comee* punirono
Claudio Pulero. E benché questa parte in
tutte P istorie romanesi conosca, nondimeno
si pruova più certo per le parole che
Livio usa nellabocca di Appio Claudio;
il quale, dolen-dosi col popolo della
insolenza de’ Tri-buni della plebe, e mostrando
che me-diatiti quelli, gli auspizii e 1’ altre
cosepertinenti alla religione si corrompeva-no,
dice così : Etudaut nttnc licet reli
-gionem. Quid cnim interest , si pulii non pasccnlur
, si ex cavea tardine rxierint ,si
occinuerit avis ? Parva sunt hcec ; sed parva
isla non contemnendoj major e*nostri
maximam Itane Rcmpublicam fe-cerunt. Perchè
in queste cose piccole èquella forza
di tenere uniti e confidenti i soldati: la
qual cosa è prima cagioned’ ogni vittoria.
Nondi manco, conviene con queste cose sia
accompagnata lavirtù: altrimenti, le non
vogliono. I Pre- nestini, avendo contra ai
Romani fuoriil loro esercito, se n*
andarono ad al-loggiare in sul fiume d’
Allia, luogo do-ve i Romani furono vinti
da* Franciosi ; il che fecero per
metter fiducia nei lorosoldati, e sbigottire i
Romani per la fortuna del luogo. E benché
questo loropartito fusse probabile, per
quelle ra-gioni che di sopra si sono
discorse ;nientedimeno il (ine della cosa
mostrò, che la vera virtù non teme
ogni mini-mo accidente. Il che l’ istorico
benissi-mo dice con queste parole, in bocca
po-ste del Dittatore, che parla così al suo
Maestro de’ cavagli : Vides tu,
fortunaillos fvelos ad Alliam conscdisse ;
al tu, frelus armis animisque, invade
medianiacietn. Perchè una vera virtù, un
ordi-ne buono, una sicurtà presa da
tantevittorie, non si può con cose di
poco momento spegnere; nè una cosa vanafa
lor paura, nè un disordine gli offen-de:
come si vede certo, che essendo
dueManlii consoli contra ai Volsci, per
aver mandato temerariamente parte del cam-po a
predare, ne seguì che in un tem-po e
quelli che erano iti, e quelli cheerano
rimasti, si trovarono assediati; dal qual
pericolo non la prudenza deiConsoli, ma
la virtù de’ propri soldati gli liberò.
Dove Tito Livio dice questeparole:
Militimi, etiam sine reclorc , sta -bilia virtus
lutala est. Non voglio lascia-re indietro
un termine usato da Fabio, sendo entrato
di nuovo con V esercitoin Toscana, per
farlo confidente; giudi-cando quella tal fidanza
esser più ne-cessaria per averlo condotto in
paese nuovo, e contra a ninnici nuovi :
che,parlando avanti la zuffa ai soldati, e detto
eli* ebbe molte ragioni, mediantele quali
e’ potevano sperare la vittoria, disse che
potrebbe ancora loro dire certecose buone,
e dove e’ vedrebbono la vit-toria certa, se
non fusse pericoloso il ma-nifestarle. Il qual
modo come fu savia-mente usato, così merita
d’essere imitato. XXXIV. — Quale fama o voce o oppiatone
fa che il popolo comincia a favorire un
cittadino: e se ei di-stribuisce i magistrati con
maggior prudenza che un principe. Altra volta
parlammo come Tito Manlio, clic fu poi
detto Torquato, salvò Lu-ciò Manlio suo
padre da una accusa clic gli aveva
fatta Marco Pomponio tribuno della plebe. E
benché il modo del salvarlo fusse alquanto
violento ed istraor-dinario, nondimeno quella
Oliale pietà verso del padre fu tanto
grata all’uni-versale, che non solamente non
nc furipreso, ma avendosi a fare i Tribuni delle
legioni, fu fatto Tito Manlio nelsecondo
luogo. Per il quale successo, credo che
sia bene considerare il modoche tiene
il popolo a giudicare gli uo-mini nelle
distribuzioni sue; e che perquello noi
veggiamo, se egli è vero quanto di sopra
si conchiuse, che il popolo siamigliore
distributore che un principe. Dico, adunque,
come il popolo nel suodistribuire va
dietro a quello che si dice d’uno per
pubblica voce e fama, quandoper sue opere
note non lo conosce al-trimenti; o per
presunzione o oppinioneche s’ ha di 1 ni.
Le quali due cose sono causate o dai
padri di quelli tali, cheper esser
stati grandi uomini e valenti nelle città,
si crede che i figliuoli deb-bino esser
simili a loro, infino a tanto che per l’
opere di quelli non s’intendeil contrario;
o la è causata dai modi che tiene quello
di chi si parla. I modimigliori che
si possono tenere, sono : avere compagnia
d’uomini gravi, di buoni co-stumi, e riputati
savi da ciascuno. E per-chè nessuno indizio
si può aver mag-giore d’uii uomo, che
le compagnie con quali egli usa; meritamente
uno che usacon compagnia onesta, acquista
buon nome, perchè è impossibile che non ab-bia
qualche similitudine con quella. 0 veramente
s’ acquista questa pubblicafama per qualche
azione istraordinaria e notabile, ancora che
privata, la qualeti sia riuscita
onorevolmente. E di tutte tre queste cose
che danno nel principiobuoua riputazione ad
uno, nessuna la dà maggiore che questa
ultima : perchèquella prima de’ parenti e
de’ padri è sì fallace, che gli
uomini vi vanno arilento ; ed in poco
si consuma, quando la virtù propria di
colui che ha ad es-sere giudicato non
I’ accompagna. La seconda che ti fa
conoscere per via dellepratiche tue, è
miglior della prima, ma è mollo inferiore
alla terza ; perchè, in-fino a tanto che
non si vede qualche segno che nasca
da te, sta la riputa-zione tua fondata
in su V oppili ione, la quale è facilissima
a cancellarla. Maquella terza, essendo
principiata e fon-data in su le opere lue,
ti dà nel prin-cipio tanto nome, che
bisogna bene che tu operi poi molte
cose contrarie a questo, volendo annullarla.
Debbono, adun-que, gli uomini che nascono
in unarepubblica pigliare questo verso, ed
in- gegnarsi con qualche operazione istraor-dinaria
cominciare a rilevarsi. Il che molti a Roma
in gioventù feciono o conil promulgare una
legge che venisse in comune utilità ; o con
accusare qualchepytente cittadino come transgressore delle
leggi; o col fare simili cose nota-bili c
nuove, di che s’ avesse a parlare. Nè
solamente sono necessarie simili coseper
cominciare a darsi riputazione, ma sono ancora
necessarie per mantenerlaed accrescerla. Ed a
voler fare questo, bisogna rinnovarle; come
per tutto iltempo della sua vita fece
Tito Manlio: perchè, difeso eh’ egli ebbe
il padretanto virtuosamente e straordinariamen-te, e
per questa azione presa la primareputazione
sua, dopo certi anni com-battè con quel
Francioso, e morto glitrasse quella collana
d’oro che gli dette il nome di
Torquato. Non bastò questo,che dipoi, già
in età matura, ammazzò il figliuolo per
aver combattuto senzalicenza, ancora ch’egli
avesse superato il nimico. Le quali tre
azioni allora glidettono più nome e per
tutti i secoli lo fanno più celebre, che
non lo fece alcunotrionfo, alcuna vittoria,
di che egli fu or-natoquanto alcun altro
Romano. E la ca-gione è perchè in quelle
vittorie Manlio ebbe moltissimi simili; in
queste partico-lari azioni n’ebbe o pochissimi o
nessuno. A Scipione maggiore non arrecaronotanta
gloria tutti i suoi trionfi, quanto gli
dette l'avere, ancora giovinetto, insul
Tesino difeso il padre; e l’aver, dopo la
rotta di Canne, animosamente con laspada
sguainata fatto giurare più gio-veni
romani, che ei non abbandonerei)-bono
Italia, come di già intra loro ave-vano
diliberato: le quali due azioni fu-rono
principio alla riputazione sua, e gli
fecero scala ai trionfi della Spagnae dell’
Affrica. La quale oppinione da lui fu
ancora accresciuta, quando ei ri-mandò la
figliuola al padre e la moglie al marito
in Ispagna. Questo modo delprocedere non è
necessario solamente a quelli cittadini che
vogliono acqui-star fama per ottenere gli
onori nella loro repubblica, ma è ancora
necessa-rio ai principi per mantenersi la
riputazione nel principato loro : perchè nessuna
cosa gli fa tanto stimare, quanto dare
di sè rari esempi con qualche fatto o
detto raro, conforme al bene comune, il
quale mostri il signore o magnanimo o
liberale o giusto, e che sia tale che si
riduca come in proverbio intra i suoi
soggetti. Ma, per tornare donde noi
cominciammo questo discorso, dico come il
popolo quando ei comincia a dare un grado
ad un suo cittadino, fondandosi sopra
quelle tre cagioni soprascritte, non si
fonda male; ma quando poi gli assai
essempi de’ buoni portamenti d’uno lo fanno
più noto, si fonda meglio, perchè in
tal caso non può essere che quasi mai
s’ inganni, lo parlo solamente di quelli
gradi che si danno agli uomini nel
principio, avanti che per ferma isperienza
siano conosciuti, o che passano da una
azione ad un’altra dissimile: dove, e quanto alia
falsa oppinione, e quanto alla corruzione, sempre
fanno minori errori che i principi. E perchè
e’ può essere che i popoli s’
ingannerebbono della fama, della oppinione e
delle opere d’ uno uomo stimandole maggiori
che in verità non sono; il che non
interverrebbe aduno principe, perchè gli
sarebbe detto, e sarebbe avvertito da chi
lo consiglias-se : perchè ancora i popoli non
manchino di questi consigli, i buoni ordi-natori
delle repubbliche hanno ordinalo che, avendosi a
creare i supremi gradinelle città, dove
fusse pericoloso mettervi uomini insufficienti, e
reggendosila voglia popolare esser diritta a
creare alcuno che fusse insuffiziente, sia
lecitoad ogni cittadino, e gli sia imputato
a gloria, di pubblicare nelle concioni i di-fetti
di quello, acciocché il popolo, non mancando
della sua conoscenza, possameglio giudicare. E
che questo si usasse a Roma, ne rende
testimonio la ora-zione di Fabio Massimo,
la quale ei fece al Popolo nella
seconda guerra punica,quando nella creazione
dei Consoli i favori si volgevano a creare
Tito Otta-cilio;e giudicandolo Fabio insuffiziente a
governare in quelli tempi il consolato, gli
parlò contro, mostrando la insuffi*ziciua
sua ; tanto che gli tolse quel grado, e
volse i favori del Popolo a chi più lo
meritava che lui. Giudicano, adunque, i popoli
nella elezione a’ magistrati secondo quei
contrassegni che degli uo- mini si possono
aver più veri; e quando ei possono esser
consigliati come i principi, errano meno che i
principi; e quel cittadino che voglia cominciare
ad avere i favori del popolo, debbe con
qualche fatto notabile, come fece Tito Manlio, guadagnarseli.
XXXV. — Quali perìcoli si portino nel farsi
capo a consigliare una cosa ;e quanto ella
ha più dello straordinario, maggiori
pericoli vi si corrono. Quanto sia cosa
pericolosa farsi capo d’ una cosa nuova
che appartenga a molti, e quanto sia
difficile trattarla ed a condurla ; e condotta, a
mantenerla, sarebbe troppo lunga e troppo alta
maleria a discorrerla: però, riserbandola a luogo
più conveniente, parlerò solo di quelli
pericoli che portano i cittadini, o quelli
che consigliano uno principe a farsi capo
d’ una diliberazione grave ed importante, in
modo che tutto il consi-glio d’ essa
sia imputato a lui. Perchè, giudicando gli
uomini le cose dal fine, tutto il male
che ne risulta, s’ imputa all’autore del
consiglio; e se ne risulta bene, ne è
commendato: ma di lunga il premio non
contrappesa il danno. Il pre-sente Sultan
Sali, dello Gran Turco, essendosi preparato
(secondo che uè ri- feriscono alcuni che
vengono de’ suoi paesi) di fare l’ impresa
di Soria e di Egitto, fu confortato da
un suo Rascia, quale ei teneva ai
confini di Persia, d’an-dare contea al
Sofi: dal quale consiglio mosso, andò con
esercito grossissimo a quella impresa; ed
arrivando in paese larghissimo, dove sono
assai deserti e le fiumare rade, e
trovandovi quelle diflìculta che già fecero
rovinare molli eserciti romani, fu in modo
oppressalo da quelle, che vi perdè per
fame e per peste, ancora che nella guerra
fusse superiore, gran parte delle sue genti
: tal- ché irato contro all’autore del consiglio, l’ammazzò.
Leggesi, assai cittadini stati confortatori d’
una impresa, e per avere avuto quella
tristo fine, essere stati man- dati in
esilio. Fecionsi capi alcuni cittadini romani,
che si facesse in Roma il Consolo
plebeo. Occorse che il primo che uscì
fuori con gli eserciti, fu rotto ; onde
a quelli consigliatori sarebbe avvenuto qualche
danno, se non fusse stata tanto gagliarda
quella parte, in onore della quale tale
diliberazione era venuta. È cosa adunque
certissima, che quelli che consigliano una
repubblica, e quelli che consigliano un principe,
sono posti intra queste angustie, che se
non con-sigliano le cose che paiono loro
utili, o per la città o per il
principe, senza ri-spetto, ei mancano dell’
uffìzio loro; se le consigliano, egli
entrano nel pericolo della vita e dello
Stato: essendo lutti gli uomini in questo
ciechi, di giudi-care i buoni e cattivi consigli
dal fine. E pensando in che modo ei
potessino fuggire o questa infamia o questo pericolo,
non ci veggo altra via che pi- gliar
le cose moderatamente, e non ne prendere
alcuna per sua impresa, e dire V oppinione
sua senza passione, e senza passione con
modestia difenderla : in modo che, se la
città o il principe la segue, (die la
segua volontario, e non paia che vi venga
tirato dalla tua importunità. Quando tu
faccia così, non è ragione- vole che un
principe ed un popolo del tuo consiglio
ti voglia male, non essendo seguito contra
alla voglia di molti : perchè quivi si
porta pericolo dove molti han- no contradetto, i
quali poi nello infelice fine concorrono a
farti rovinare. E se in questo caso si
manca di quella gloria che si acquista
nell’ esser solo contra molti a consigliare
una cosa, quando ella sortisce buon fine,
ci sono al riucontro due beni : il
primo, di mancare del pericolo ; il
secondo, che se tu con- sigli una cosa
modestamente, e per la contradizione il tuo
consiglio non sia preso, e per il consiglio
d’altrui ne seguiti qualche rovina, ne
risulta a te grandissima gloria. E benché la
gloria che s’acquista de’ mali che abbia o la tua
città o il tuo principe, non si possa godere,
nondimeno è da tenerne qualcheconto. Altro
consiglio non credo si possa dare agli
uomini in questa parte: per-chè consigliandogli
che tacessino, e non dicessino I’ oppinione
loro, sarebbe cosainutile alla repubblica o
ai loro principi, e non fuggirebbono il
pericolo ; perchèin poco tempo diventerebbono
sospetti: e ancora potrebbe loro intervenire co-me a
quelli amici di Perse re dei Macedoni,
il quale essendo stato rotto daPaulo
Emilio, c fuggendosi con pochi amici, accadde
che nel replicar le cosepassate, uno
di loro cominciò a dire a Perse molti
errori fatti da lui, che eranostati
cagione della sua rovina; al quale Perse
rivoltosi, disse: Traditore, si chetu hai
indugiato a dirmelo ora ch’io non ho più
rimedio; e sopra queste pa-role, di sua
mano l’ammazzò. E cosi colui portò la pena
d’essere stato chetoquando ci doveva
parlare, e d’aver parlato quando ei doveva
tacere; nè fuggiil pericolo per non
avere dato il consiglio. Però credo che
sia da tenere edosservare i termini
soprascritti. XXXVI. —
La cagione perchè « Fran-ciosi sono stali e
sono ancora giudicati nelle zuffe da
principio più cheuomini j e dipoi meno che femmine.
La ferocità di quel Francioso che
pro-vocava qualunque Romano appresso al Piume
Aniene a combatter seco, dipoila zuffa
falla intra lui e Tito Manlio, mi fa
ricordare di quello che Tito Liviopiù
volte dice, che i Franciosi sono ne principio
della zuffa più che uomini, enel
successo di combattere riescono poi meno
che femmine. E pensando dondequesto nasca,
si crede per molti che sia la natura
loro così fatta: il che credosia
vero; ma non è per questo, che questa
loro natura che gli fa feroci
nelprincipio, non si potesse in modo con I*
arte ordinare, che la gli mantenesseferoci
infino nell’ ultimo. Ed a voler provare
questo, dico come e’ sono di
treragioni eserciti: V uno dove è furore ed ordine;
perchè dall’ ordine nasce il furo-re e la
virtù, come era quello dei Romani: perchè
si vede in tutte l’ istorie,clic in
quello esercito era uno ordine buono, che
v’ aveva introdotto una di-sciplina militare
per lungo tempo. Perchè in uno esercito
bene ordinato, nes-suno debbe fare alcuna
opera se non regolato: e si troverà per
questo, chenello esercito romano, dal
quale, avendo egli vinto il mondo, debbono
prendereessempio tutti gli altri eserciti,
non si mangiava, non si dormiva, non
si mer-calava, non si faceva alcuna
azione o militare o domestica senza l'ordine
delconsolo. Perchè quelli eserciti che fanno altrimenti,
non sono veri eserciti; c sefanno alcuna
pruova, la fanno per furore e per impeto,
non per virtù. Mudove è la virtù
ordinata, usa il furore suo coi modi e co’
tempi; nè diflicultàveruna lo invilisce, nè
gli fa mancare l'animo: perchè gli ordini
buoni glirinfrescano l’ animo ed il furore,
nutriti dalla speranza del vincere; la
qualemai non manca, infìno a tanto che gli ordini
stanno saldi. Al contrario inter-viene in
quelli eserciti dove è furore c non ordine,
come erano i franciosi : iquali tuttavia
nel combattere mancavano; perchè non riuscendo
loro col primoimpeto vincere, e non essendo
sostenuto da una virtù ordinata quello loro
furorenel quale egli speravano, nè avendo
fuori di quello cosa in la quale ei
confidassi-no, come quello era raffreddo,
mancavano. Al contrario i Romani, dubitandomeno
dei pericoli per gli ordini loro buoni,
non diffidando della vittoria, fer-mi ed
ostinali combattevano col medesimo animo e con
la medesima virtùnel fine che nel
principio: anzi, agitati dall’ arme, sempre s’
accendevano. Laterza qualità d’eserciti, è,
dove non è furore naturale, nè ordine
accidentale:come sono gli eserciti nostri
italiani de’ nostri tempi, i quali sono al
tuttoinutili; e se non si abbattono ad uno esercito
che per qualche accidente sifugga, mai
non vinceranno. E senza addurne altri essempi,
si vede ciascunodi come ei fanno pruove
di non avere alcuna virtù. E perchè con
il testimonio di Tito Livio ciascuno
intenda come debbe esser fatta la buona
milizia,e come è fatta la rea; io voglio
addurre le parole di Papirio Cursore,
quando eivoleva punire Fabio maestro de’ cavalli,
quando disse: Nano hominum y nanoDeorum
verecundiam hubcat ; non cdù da impcralorum^
non auspicio, obser-ventar: sine commenta , vagì
tnililcs in pacato , in hostico errcnt;
immcmoressacramenti , se ubi velini exauctorenl
/infrequentia deserant tigna ; ncque con -veniant
ad edictum, nec discernant interdiuj nodo ;
(equo, iniquo loco, jussu,injussu imperatorie
pugncnt ; et non sigila, non ordines
serventi lalroctntimodo, cieca et fortuita,
prò solcami et sacrala rnilitia sit. Puossi
per questotesto, adunque, facilmente vedere,
se la milizia de’ nostri tempi è cieca e
fortuita,o sacrata e solenne j e quanto le manca
ad esser simile a quella die si può
chiamarmilizia ; e quanto ella è discosto da. essere
furiosa ed ordinala come la roma-na, o
furiosa solo come la franciosa. XXXVII. —
Se le piccole battaglieinnanzi alla
giornata sono necessarie, e come si debbe
fare a conoscere unnimico nuovo , volendo fuggire
quelle. E’ pare che nelle azioni degli
uomini,come altre volte abbiamo discorso, si tvuovi,
oltre all’ altre diftìcultà, nel vo-ler
condurre la cosa olla sua perfezione, che
sempre propinquo al bene siaqualche male,
il quale con quel bene sì facilmente
nasce, che pare impossibilepoter mancare
dell’ uno volendo I’ altro. E questo si
vede in tutte le cose chegli uomini
operano. E però s’ acquista il bene con
diftìcultà, se dalla fortunatu non se’
aiutato in modo, che ella con la sua
forza vinca questo ordinario enaturale
inconveniente. Di questo mi ha fatto
ricordare la zuffa di Manlio Tor-quato e
dei Fraucioso, dove Tito Livio dice: Tanti
ca dimicatio ad universibelli eventtim
momenti fuitj ut Gallorum excrciluSj relictis
trepide castri s,in Tiburlem agrum , inox in
Campaniam transierit. Perchè io considero dall’
uncanto, che un buon capitano debbe fuggire
al tutto di operare alcuna cosa
che,essendo di poco momento, possa fare cattivi
effetti nel suo esercito: perchècominciare
una zuffa dove non si opel ino tutte
le forze e vi si arrisichi tuttala
fortuna, è cosa al tutto temeraria; come io
dissi di sopra, quando io dan-nai il
guardare de’ passi. Dall’ altra parte io
considero come capitani savi, quandoei
vengono all’ incontro d’ un nuovo nimico, e
che sia riputato, ei sono neces-sitati,
prima che venghino alia giornata, far
provare con leggieri zuffe ai lorosoldati
tali nimici; acciocché cominciandogli a conoscere c
maneggiare, perdinoquel terrore che la fama
e la riputazione aveva dato loro. E questa
partein un capitano è importantissima ; perchè
ella ha in sé quasi una necessità
cheti constringe a farla, parendoti andare ad
una manifesta perdita, senza averprima
fatto con piccole isperienze deporre ai
tuoi soldati quello terrore chela
riputazione del nimico aveva messo negli
animi loro. Fu Valerio Corvinomandato dai
Romani con gli eserciti contro ai Sanniti,
nuovi nimici, e cheper lo addietro mai
non avevano provate 1* arme 1’ uno
dell’ altro; dove diceTito Livio, che
Valerio fece fare ai Romani coi Sanniti
alcune leggieri zuffe:jV© eos novum bellutn ,
ne novus hoslis . lerreret. Nondimeno è pericolo
grandis-simo, che restando i tuoi soldati in
quelle battaglie vinti, la paura e la viltà
noncresca loro, e ne conseguitino contrari effetti
ai disegni tuoi; cioè che tu
glisbigottisca, avendo disegnalo d’ assicurarli:
tanto che questa è una di quellecose
che ha il male sì propinquo al bene, e
tanto sono congiunti insieme, che gliè
facil cosa prendere l’ uno credendo pigliar P
altro. Sopra che io dico, che• un
buon capitano debbo osservare con ogni
diligenza, che non surga alcunacosa che
per alcuno accidente possa torre Panimo alP
esercito suo. Quello che glipuò torre P
animo è cominciare a perdere; e però si debbe
guardare dallezuffe piccole, e non le permettere
se non con grandissimo vantaggio e concerta
speranza di vittoria ; non debbo fare
impresa di guardar passi, dovenon possa
tenere tutto l’esercito suo: non debbe
guardare terre, se non quelleche perdendole
di necessità ne seguisse la rovina sua; e
quelle che guar-da, ordinarsi in modo, e con
le guardie d’ esse e con l’esercito, clic
trat-tandosi della espugnazione di esse, ei possa
adoperare tutte le forze sue;P altre debbe
lasciare indifese. Perchè ogni volta che si
perde una cosa che siabbandoni, e P
esercito sia ancora insieme, e’ non si
perde la riputazione dellaguerra, nè la
speranza di vincerla: ma quando si perde
una cosa che tu haidisegnata difendere, e
ciascuno crede che tu la difenda, allora è
il danno e la per-dita ; ed hai quasi,
come i Franciosi, con una cosa di piccolo
momento perduta laguerra. Filippo di
Macedonia padre di Perse, uomo militare e
di gran condizione ne’ tempi suoi, essendo
assaltato dai Romani; assai de’ suoi paesi,
i qualiei giudicava non potere guardare,
abbandonò e guastò scoine quello che,
peressere prudente, giudicava più pernicioso
perdere la riputazione col non potere
difendere quello che si metteva a difendere,
che lasciandolo in preda alnimico, perderlo
come cosa negletta. I Romani, quando dopo
la rotta di Cannele cose loro erano
afflitte, negarono a molti loro raccomandati e
sudditi li aiuti,commettendo loro che si
difendessino il meglio potessino. I quali partiti
sonomigliori assai, che pigliare difese, e poi non
le difendere: perchè in questo par-tito si
perde amici e forze; in quello, amici solo.
Ma tornando alle piccole zuffe, dico che
se pure un capitano è costretto per la
novità del nimico far qualche zuffa, debbe
farla con tanto suo vantaggio, che non
vi sia alcun pericolo di perderla : o
veramente far come Mario (il che è migliore
partito), il quale andando contro ai
Cimbri, popoli ferocissimi, che venivano e
predare Italia, e venendo con uno spavento
grande per la ferocità e moltitudine loro,
e per avere di già vinto un esercito
romano ; giudicò Mario esser necessario, innanzi
che venisse alla zuffa, operare alcuna cosa
per la quale l’ esercito suo deponesse quel
terrore che la paura del nimico gli
aveva dato; e, come prudentissimo capitano,
più che una volta collocò l’esercito suo
in luogo donde i Cimbri con 1* esercito
loro dovessino passare. E così, dentro alle
fortezze del suo campo, volle che i suoi
soldati gli vedessino, ed assuefacessino gli
occhi alla vista di quello nimico ;
acciochè, vedendo una moltitudine inordinata, piena di
impedimenti, con arme inutili, e parte disarmati,
si rassicurussino, e diventassino disiderosi
della zuffa. 11 quale partito come fu
da Mario saviamente preso, così dagli altri
debbe essere diligentemente imitato, per non
incorrere in quelli pericoli che io di
sopra dico, e non avere a fare come i
Franciosi, qui ob rem parvi ponderis trepidi
iti Tiburietn agrum et in Campaniam
transierunt. E perchè noi abbiamo allegato in
questo discorso Valerio Corvino, voglio,
mediatiti le parole sue, nel seguente capitolo,
come debbe esser fatto un capitano, dimostrare. XXXVIII. — Come debbe
esser fatto un capitano nel quale V
esercito suo possa confidare. Era, come di
sopra dicemmo, Valerio Corvino con 1’
esercito contea ai Sanniti, *nuovi nimici
del Popolo romano: donde che, per
assicurare i suoi soldati, e per fargli conoscere
i nimici, fece fare ai suoi certe leggieri
zuffe j nè gli bastando questo, volle
avanti alla giornata parlar loro, e mostrò
con ogni efficacia quanto e' dovevano
stimare poco tali nimici, al-legando la
virtù de’ suoi soldati e la propria. Dove
si può notare, per le parole che
Livio gli fa dire, come debbe essere fatto
un capitano in chi I’ esercito abbia a
confidare j le quali parole sono queste: Tutti
ctiam intuerì cujtis ductu auspi- cioque
ineunda pugna sii: ulritm qui audtcndus
dumlaxat magnifìcus adhor- tator sit, ver
bis tantum ferox , operimi mililarium expers ; an
qui, et ipsc tela frodare, procedere ante
signa, versavi media in mole pugna sciai.
Facla mea, non dieta vos militcs sequi
volo ; nec disciplinavi modo, sed cxcmplum ctiam a
me potere , qui hac dextra tnihi tres consulalus,
summamque laudem pepcri. Le quali parole
considerate bene, insegnano a qualunque, come ei
debbe procedere a voler tenere il grado del
capitano : e quello che sarà fatto altrimenti, troverà,
con il tempo, quel grado, quando per
fortuna o per ambizione vi sia con- dotto,
torgli e non dargli riputazione; perchè non i
titoli illustrano gli uomini, ma gli uomini
i titoli. Debbesi ancora dal principio di
questo discorso consi-derare, che se i capitani
grandi hanno usato termini istraordinari a fermare gli
animi d’uno esercito veterano quando coi
nimici inconsueti debbe affrontarsi ; quanto
maggiormente si abbia ad usare l’ industria
quando si comandi uno esercito nuovo,
che non abbia mai veduto il nimico in
viso. Perchè, se lo inusitato nimico allo
esercito vecchio dà terrore, tanto maggiormente
lo debbe dare ogni nimico ad uno
esercito nuovo. Pure, s’ò veduto molte
volte dai buoni capitani tutte queste
diflìcultù con somma pru- denza esser vinte:
come fece quel Gracco romano, ed Epaminonda
tebano, de’quali altra volta abbiamo parlato,
che con eserciti nuovi vinsono eserciti veterani ed
esercitatissimi. I modi che tenevano, erano:
parecchi mesi esercitargli in bat-taglie fìnte;
assuefargli alla ubbidienza ed all’ ordine: e da
quelli dipoi, con massima confidenza, nella
vera zuffa gli adoperavano. Non si debbe,
adunque, diffidare alcuno uomo militare di non poter
fare buoni eserciti, quando non gli manchi
uomini ; perchè quel principe che abbonda
d’ uomini e manca disoldati, debbe
solamente, non della viltà degli uomini, ma
della sua pigrizia e e poca prudenza dolersi. XXXIX.
— Che un capitano debbe esser conoscitore
dei eiti. Intra 1’ altre cose che
sono necessarie ad un capitano d’ eserciti, è
la cognizione dei sili e de’ paesi; perchè senza questa
cognizione generale e particolare, un capitano d’
eserciti non può be-ne operare alcuna cosa.
E perchè tutte le scienze- vogliono pratica a
voler per- fettamente possederle, questa è una che ricerca
pratica grandissima. Questa pratica, ovvero
questa particolare cognizione, s’ acquista più
mediatiti le cacce, che per verun altro
esercizio. Però gli antichi scrittori dicono,
che quelli ^roi che governarono nel loro
tempo il mondo, si nutrirono nelle selve e
nelle cac- ce; perchè la caccia, oltre a
questa cognizione, ti insegna infìttile cose che sono
nella guerra necessarie. E Senofonte, nella
vita di Ciro, mostra che andando Ciro
od assaltare il re d’ Armenia, nel
divisare quella fazione, ricordòa quelli suoi,
che questa non era altro che una di
quelle cacce le quali mollevolte avevano
fatte seco. E ricordava a quelli che
mandava in aguato su i monti, che gli
erano simili a quelli eh’ andavano a tendere le
reti in su i gioghi; eda quelli che
scorrevano per il piano, che erano simili a
quelti che andavano a levare del suo
covile la fera, acciocché, cacciata, desse
nelle reti. Questo si dice per mostrare
come le cacce, secondo che Senofonte
appruova, sono una immagine d’ una guerra:
e per questo agli uomini grandi tale
esercizio è onorevole e necessario. Non si può
ancora imparare questa cognizione de’ paesi
in altro comodo modo che per via di
caccia; perchè la caccia fa a colui che
1’ usa sapere come sta particolarmente quel
paese dove ei 1* esercita. E fatto che
uno s’ è familiare bene una regione,
con facilità comprende poi tulli i paesi
nuovi j per-chè ogni paese ed ogni membro
di quelli hanno insieme qualche conformità, in modo
clic dalla cognizione d’ uno facilmente si
passa alla cognizione dell’ altro. Ma chi
non ne ha ancora bene pratico uno,
con difficoltà, anzi non mai se non
con un lungo tempo, può conoscer 1’
altro. E chi ha questa pratica, in
unvoltar d’ occhio sa come giace quel
piano, come surge quel monte, dove arriva quella
valle, e tutte l* altre simili cose, di
che ei ha per lo addietro fatto una ferma
scienza. E che questo sia vero, ce lo
mostra Tito Livio con lo essempio di
Publio Decio; il quale essendo Tribuno de’
soldati nello esercito che Cornelio consolo
conduceva contro ai Sanniti, ed essendosi
il Consolo ridotto in una valle, dove l’
esercito dei Romani poteva dai Sanniti
esser rinchiuso, evedendosi in tanto
pericolo, disse al Consolo : Vtdes tuj Aule
Corneli, cacume»iilud supra hostcm ? arx ilici
est spei salutisquc nostra, si eam fquoniam
caarcliquerc SamnitesJ impigre capimus. Ed innanzi
a queste parole dette da Decio,Tito Livio
dice: Publtus Dcctus, tribùnus militimi , unum
editum in saltu collenij immincnteni
hostium castns , adilu arduum impedito agmini,
expeditis hauddifficilcm. Donde, essendo stato
mandatosopra esso dal Consolo con tremila
soldati,ed avendo salvo l’esercito romano j e
dise-gnando, venendo la notte, di partirsi e
sal-vare ancora sè ed i suoi soldati, gii
fa direqueste parole: Ite niecum, ut
dum lucisaliquid superest, quibus locts
hostesprcesidia ponant, qua palcat hinc
exitus,exploremus. Hcec ornnta sagulo
militariamiclus, ne ducem circuire hostes
no-larentj perlustrarli. Chi considererà,adunque,
tutto questo testo, vedrà quantosia utile e
necessario ad un capitanosapere la natura
de’ paesi: perché seDecio non gli avesse
saputi e conosciuti,non arebbe potuto giudicare
qual utilefaceva pigliare quel colle allo esercitoromano;
uè arebbe potuto conoscere didiscosto, se
quel colle era accessibile ono ; e condotto
che si fu poi sopra esso,volendosene partire
per ritornare al Con-solo, avendo i nimici
intorno, non arebbedal discosto potuto
speculare le vie delloandarsene, e li
luoghi guardati dai ni-mici. Tanto che, di
necessità conveniva,che Decio avesse tale
cognizione per-fetta: la qual fece che con
il pigliarequel colle, ei salvò l’esercito
romano;dipoi seppe, scndo assedialo, trovare
lavia a salvare sè e quelli che erano
statiseco.Cap. XL. — Come, usare la
fraudenel maneggiare la guerra è cosa
gloriosa.Ancoraché usare la fraude in
ogniazione sia detestabile, nondimanco
nelmaneggiar la guerra è cosa laudabile
egloriosa; e parimente è laudato coluiche con
fraude supera il nimico, comequello che M
supera con le forze. E ve-desi questo
pei* il giudizio che ne fannocoloro
che scrivono le vite degli uominigrandi, i
quali lodano Annibaie e gli* altri che sono
stati notabilissimi in si-mili modi di
procedere. Di che per leg-gersi assai
essempi, non ne replicheròalcuno. Dirò solo
questo, che io nonintendo quella fraudo
essere gloriosa,che ti fa rompere la
fede data ed i pattifatti; perchè questa,
ancora che la tiacquisti qualche volta
stalo e regno, co-me di sopra si discorse,
la non ti acqui-sterà mai gloria. Ma
parlo di quella fraudoche si usa con
quel nimico che non sifida di te, e
che consiste proprio nelmaneggiare la
guerra : come fu quellad’Annibale, quando
in sul lago di Peru-gia simulò la
fuga per rinchiudere ilConsolo e lo
esercito romano; e quando,per uscire di
mano di Pabio Massimo,accese le corna
dello armento suo. Allequali fraudi fu
simile questa che usòPonzio capitano dei
Sanniti, per rin-chiudere 1’ esercito
romano dentro alleforche Caudine-. i( quale
avendo messolo esercito suo a' ridosso dei
monti, mandòpiù suoi soldati sotto vesti
di pastori conassai armento per il
piano; i quali sen--do presi dai Romani, e
domandati doveera l’esercito dei Sanniti,
convennerotutti, secondo 1’ ordine dato da
Ponzio,a dire come egli era allo assedio di
No-terà. La qual cosa creduta dai
Consoli,fece eh’ ei si rinchiusero dentro
ai balzicaudini; dove entrati, furono
subito as-sediati dai Sanniti. E sarebbe stata
que-sta vittoria, avuta per fraude, glorio-sissima a
Ponzio, se egli avesse seguitatii consigli
del padre ; il quale voleva chei Romani o
si salvassino liberamente, osi ammazzassino
tutti, e che non si pi-gliasse la via
del mezzo, qu ce neque ami-co* parai , ncque
inimicos tollil. La qualvia fu sempre
perniziosa nelle cose diStato; come di
sopra in altro luogo sidiscorseC*p. XLi. —
Che la patria si debbo di-fendere o con
ignominia o con glo-ria; ed in qualunque
modo è ben di-fesa.Era, come di sopra
s’è dello, il Con-solo e l’esercito romano
assedialo daiSanniti: i quali avendo proposto
ai Ro-mani condizioni ignominiosissime; comeera,
volergli mettere sotto il giogo, edisarmati
mandargli a Roma: e per que-sto stando i Consoli
come attoniti, e tuttol’esercito disperato; Lucio
Lentolo le-gato romano disse, che non gli
parevache fusse da fuggire qualunque
partitoper salvare la patria: perchè, consisten-do
la vita di Roma nella vita di
quelloesercito, gli pareva da salvarlo in
ognimodo; e che la patria è ben difesa
inqualunque modo la si difende, o
conignominia, o con gloria : perchè
salvandosiquello esercito, Roma era a tempo a
cancel-lare l’ignominia: non si salvando,
ancorache gloriosamente morisse, era perdutaKoma
e la libertà sua. E così fu segui-tato il
suo consiglio. La qual cosa me-rita d’
esser notata ed osservata da qua-lunque
cittadino si truova a consigliarela patria
sua: perchè dove si diliberaal tutto
della salute della patria, nonvi debbe
cadere alcuna considerazionenè di giusto nè
di ingiusto, nè di pie-toso, nè di
crudele, nè di laudabile, nèdi ignominioso;
anzi, posposto ogni al-tro rispetto, seguire
al tutto quel par-tito che li salvi
la vita, e mantenghile lalibertà. La
qualcosa è imitata con i detti econ i fatti
dai Franciosi, per difendere lamaestà del
loro re e la potenza del lororegno;
perchè nessuna voce odono piùimpazientemente
che quella che dicesse:il tal partito è
ignominioso per il re;perchè dicono che il
loro re non puòpatire vergogna in
qualunque sua dili-berazione, o in buona o in
avversa for-tuna: perchè se perde o se
vince, tuttodicono esser cosa da re.Cap.
XLII. — Che le promesse fatteper forza
non si debbono osservare.♦ »Tornati i Consoli
con 1’ esercito di-sarmato e con la
ricevuta ignominia aRoma, il primo che
in Senato disseche la pace fatta a
Cuudo non si do-veva osservare, fu il
consolo Spurio Po-stumio; dicendo, come il
Popolo romanonon era obbligato, ma eh’
egli era beneobbligato esso, e gli altri
che avevanopromesso la pace : e però il
Popolo vo-lendosi liberare da ogni obbligo,
avevaa dar prigione nelle mani dei
Sannitilui e tutti gli altri che V avevano
pro-messa. E con tanta ostinazione tenne questa
conclusione, che il Senato ne fu contento;
e mandando prigioni lui e gli altri in
Sannio, protestarono ai Sanniti,la pace non
valere. E tanto fu in questo caso a
Postumio favorevole la fortuna, che i Sanniti
non lo ritennero; e ritornato in Roma,
fu Postumio appresso.ai Romani più glorioso
per avere perduto, che non fu l’onzio
appresso ai Sanniti per aver vinto. Dove
sono da no-tare due cose ; 1* una,
che in qualunque azione si può acquistar
gloria, perchènella vittoria s’ acquista
ordinariamente; nella perdita s’ acquista o col
mostrare tal perdita, non esser venuta per
tua colpa, o per far subito qualche azione virtuosa
che la cancelli : 1’ altra è, che non
è vergognoso non osservare quelle promesse che
ti sono state fatte promettere per forza ;
e sempre le promesseforzate che riguardano
il pubblico, quando e’ manchi la forza, si
romperanno, e fia senza vergogna di chi le
rompe. Di che si leggono in tutte l’
istorie variessempi, e ciascuno dì ne’
presenti tempi se ne veggono. E non
solamente non siosservano intra i principi
le promesse forzate, quando e* manca la
forza ; ma non si osservano ancora tutte
\* altre promesse, quando e’ mancano le
cagioni che le fanno promettere. Il che
se è cosa laudabile o no, o se da un
principe si debbono osservare simili modi o no, largamente
è disputato da noi nel nostro trattato del
Principe; però al presente lo taceremo. XLIII. —
Che gli uomini che nascono in una provincia
, osservano per lutti i tempi quasi quella
medesima natura.Sogliono dire gli uomini
prudenti, e non a caso nè immeritamente,
che cbi vuol veder quello che ha ad
essere, consideri quello che è stato; perchè
tutte le cose del mondo, in ogni
tempo, hanno il proprio riscontro con gli
antichi tempi. Il che nasce perchè essendo
quelle operate dagli uomini che hanno ed
ebbero sempre le medesime passioni, conviene di
necessità che le sortischino il medesimo
effetto. Vero è, che le sono P opere
loro ora in questa provincia più virtuose
che in quella, ed in quella più che
in questa, secondo la forma delia educazione
nella quale quelli popoli hanno preso il
modo del viver loro. Fa ancorafacilità
il conoscere le cose future per le
passate; vedere una nazione lungo tempo
tenere i medesimi costumi, essendo o continovamente
avara, o continovamente fraudolenta, o avere alcun
altro si* mile vizio o virtù. E chi leggerà
le cose passale della nostra città di
Firenze, e considererà ancora quelle che
sono ne*prossimi tempi occorse, troverà i popoli tedeschi
e franciosi pieni d’ avarizia, disuperbia, di
ferocia e di infcdelità; perchè tutte queste
quattro cose in diversi tempi hanno offeso
molto la nostra città. E quanto alla poca
fede, ognuno sa quante volte si dette
danari al re Carlo Vili, ed egli
prometteva rendere le fortezze di Pisa, c
non mai le rendè. In che quel re
mostrò la poca fede, e la assai avarizia
sua. Ma lasciamo andare queste cose
fresche. Ciascuno può avere inteso quello
che segui nella guerra che feceil
popolo fiorentino contea ai Visconti duchi
di Milano; che essendo Firenze privo degli
altri espedienti, pensò dicondurre T iroperadore
in Italia, il quale con la riputazione e
forze sue assaltassela Lombardia. Promise l’
imperadore venire con assai gente, e far
quella guerra contra ai Visconti, e difendere
Firenze dalla potenza loro, quando i Fiorentini gli
dessino centomila ducati per levarsi, e centomila
poi che fusse in Italia. Ai quali
patti consentirono i Fiorentini; e pagatogli i
primi danari, e dipoi i secondi, giunto che
fu a Verona, se ne tornò indietro senza
operare alcuna cosa, causando esser restato
da quelli che non avevano osservato le
convenzioni erano fra loro. In modo che,
se Firenze non fusse stata o constretla
dalla necessitào vinta dalla passione, ed
avesse letti e conosciuti gli antichi
costumi de’borbari,non sarebbe stata nè
questa nè molte altre volte ingannata da
loro; essendoloro stati sempre a un modo,
ed avendo in ogni parte e con ognuno
usati i me-desimi termini. Come e' si vede eh’ e’
fecero anticamente ai Toscani ; i qualiessendo
oppressi dui Romani, per essere stati da
loro più volte messi in fuga erotti;
e veggendo mediami le loì* forze non poter
resistere aìr impeto di quelli;convennero
con i Franciosi che di qua dall' Alpi
abitavano in Italia, di dar lorosomma
di danari, e che fussino obbligati congiugnere
gli eserciti con loro,ed andare contea
ai Romani: donde ne seguì che i Franciosi,
presi i danari,non volleno dipoi pigliare l’
arme per loro, dicendo averli avuti non
per farguerra coi loro nimici, ma
perchè s’astenessino di predare il paese
toscano. E così i popoli toscani, per l’
avarizia e poca fede dei Franciosi,
rimasono ad untratto privi de' loro
danari, e degli aiuti che gli speravano da
quelli. Talché sivede per questo essempio
dei Toscani antichi, e per quello de’
Fiorentini, iFranciosi avere usati i medesimi
termini; e per questo facilmente si può
con-ielturare, quanto i principi si possono fidare
di loro. XLIV. — E' si ottiene con V
impetoc con lJ audacia molte volte quello
che con modi ordinari non si otterrebbe mai. Essendo
i Sanniti assaltati dallo esercito di Roma, e
non polendo con l’esercito loro stare alla
campagna a petto ai Romani, diliberarono, lasciate
guardate le terre in Sannio, di passare con
tutto V esercito loro in Toscana, la
qualeera in triegua coi Romani; e vedere
permtal passata, se ei potevano con
la presenza dello esercito loro indurre i Toscani
a ripigliar 1’ arme ; il che avevano fregato
ai loro ambasciadori. E nel parlare che
feeiono i Sanniti ai Toscani, nel mostrar,
massime, qual cagione gli aveva indotti a
pigliar 1* arme, usarono un termine
notabile, dove dissono : Rebollasse j quod pax
sci'vicnlibus gravior t quam liboris bcllum
esset. E cosi, parie con le persuasioni,
parte con la presenza dello esercito loro,
gli indussono a pigliar 1* arme. Dove è da
notare, che quando un principe disidera d’
ottenere una cosa da un altro, debbe,
se l’ occasione lo patisce, non gli dare
spazio a diliberarsi, e fare in modo ch’ei vegga la
necessità della presta diliberazione: la quale è
quando colui che è domandato vede che dal
negare o dal differirene nasca una subita e
pericolosa inde-gnazione. Questo termine s’ è
vedutobene usare nei nostri tempi da
papalulio con i Franciosi, eda monsignordi
Fois capitano del re di Francia
colmarchese di Mantova : perchè papa
luliovolendo cacciare i Bentivogli di Bologna,e
giudicando per questo aver bisognodelle
forze franciose, e che i Yinizianistessino
neutrali j ed uvendone ricercoF uno e I’
altro, e traendo da loro ri-sposta dubbia e
varia j diliberò col nondare lor tempo
far venire I’ uno e l’al-tro nella sentenza
sua : e, partitosi daRoma con quelle
tante genti cli’ei potòraccozzare, n’ andò
verso Bologna, eda’Viniziani inandò a dire
che stessinoneutrali, ed ai re di
Francia che glimandasse le forze. Talché,
rimanendotutti ristretti dal poco spazio di
tempo,e veggeudo come nel papa doveva na-scere
una manifesta indegnazione difle-rendo o negando,
cederono alle vogliesue; ed il re gli
mandò aiuto, ed i Vi*uiziani si steltono
neutrali. Monsignordi Fois, ancora, essendo
con l’esercitoili Bologna, ed avendo intesa
la ribel-lione di Brescia, e volendo ire
alla ri-cuperazione di quella, aveva due
vie ;F una per il dominio del re,
lunga etediosa; l’altra brievc per il
dominiodi Mantova: e non solamente era
neces-sitato passare per il dominio di
quelmarchese, ina gli conveniva entrare
percerte chiuse intra paludi e laghi, di
cheè piena quella regione, le quali con
for-II acuì avelli, Discorsi. — 1. 49lezzo
cd altri modi erano serrate c guar-dale da
lui. Onde che Pois, diliberalod* andare
}>er la più corta, e per vin-cere ogni
di (Tic ulta nè dar tempo al
mar-chese a diliberarsi, ad un tratto mossele
sue genti per quella via, cd al
mar-chese significò gli mandasse le chiavi
diquel passo. Talché il marchese, occu-pato
da questa subita diliberazione, glimandò le
chiavi: le quali mai gli arebbemandate
se Pois più lepidamente si fusscgovernato,
essendo quel marchese in legaeoi papa e
coi Viniziani, ed avendo uusuo figliuolo
nelle mani del papa; lequali cose gli
davano molte oneste scusea negarle. Ma
assaltato dal subito par-tito, per le
cagioni che di sopra si di-cono, le
concesse. Cosi feciono i Toscanieoi Sanniti,
avendo per la presenza del-T esercito di
Sannio preso quelle armeche gli avevano
negato per altri tempipigliare.Cap. XLV. —
Qual sia miglior partitonelle giornale , o
sostenere lf impetode* nimicij c sostenuto
urtargli ; ov-vero dapprima con furia assaltargli.Erano
Decio e Fabio, consoli romani,con due
eserciti all’ incontro degli eser-citi dei
Sanniti e dei Toscani; e venendoalla zuffa
ed alla giornata insieme, è danotare in
tal fazione, quale di due di-versi modi
di procedere tenuti dai dueConsoli sia
migliore. Perchè Decio conogni impeto e cor»
ogni suo sforzo as-saltò il nimico; Fabio
solamente lo so-stenne, giudicando V assalto
lento es-sere più utile, riserbando l' impeto
suonell’ ultimo, quando il nimico
avesseperduto il primo ardore del combat-tere, e
come noi diciamo, la sua foga.Dove si
vede, per il successo della eosa,che a
Fabio riuscì molto meglio il di-segno che a
Decio : il quale si straccònei primi
impeti ; in modo che, veden-do la banda
sua piuttosto in volta diealtrimenti, per
acquistare con la mortequella gloria alla
quale con la vittorianon aveva potuto
aggiungere, ad imita-zione del padre sacrificò sè
stesso perle romane legioni. La qual
cosa intesada Fabio, per non acquistare
manco ono-re vivendo, che s’avesse il suo
collegaacquistato morendo, spinse innanzi
tuttequelle forze che s’ aveva a tale
necessitàriservate ; donde ne riportò una
felicis-sima vittoria. Di qui si vede che
’l mododel procedere di Fubio è più
sicuro epiù imitabile. Cap. XLVI. — Donde
nasce che una fa-mìglia iìi una città
tiene un tempo imedesimi costumi. E’
pare clic non solamente 1’ una
cittàdall* altra abbi certi modi ed
institutidiversi, e procrei uomini o più duri
opiù effeminati; ma nella medesima cittàsi
vede tal differenza esser nelle fumi-glie
I’ una dall’ altra. H che si
riscontraessere vero in ogni città, e nella
cittàili Roma se ne leggono assai
essempi :perché e’ si vede i Manlii
essere statiduri ed ostinati, i Pubi icoli
uomini be-nigni ed amatori del popolo, gli
Appiiambiziosi e ni mici della Plebe: e
cosimolte altre famiglie avere avute
ciascunale qualità sue spartite dall’
altre. La qualcosa non può nascere
solamente dal san-gue, perchè e’ conviene eh’ ei
varii me-diante la diversità dei matrimoni; maè
necessario venga dalla diversa educa-zione che
ha una famiglia dall’ altra.Perchè gl’
importa assai che un giova-netto dai teneri
anni cominci a sentirdire bene o male di
una cosa; perchèconviene che di necessità
ne faccia im-pressione, e da quella poi
regoli il mododel procedere in tutti i
tempi della vitasua. E se questo non
fosse, sarebbe im-possibile che tutti gli Appii
avessinoavuta la medesima voglia, c Rissino
statiagitati dalle medesime passioni, comenota
Tilo Livio in molti di loro: e
perultimo, essendo uno di loro fatto
Censore, ed avendo il suo collega alla
finede* diciotto mesi, come ne disponeva
lalegge, deposto il magistrato, Àppio nonlo
volle deporre, dicendo che lo potevatenere
cinque anni secondo la primalegge ordinata
dai Censori. E benchésopra questo se ne
facessero assai con-cioni, e se ne generassino
assai tumulti,non pertanto ci' fu mai
rimedio che vo-lesse deporlo, conira alla
volontà delPopolo e della maggior parte del
Senato.E chi leggerà P orazione che gli fececontro
Publio Sempronio tribuno dellaplebe, vi
noterà tutte l’ insolenze oppiane,e tulle le
bontà ed umanità usale da in-finiti
cittadini per ubbidire alle leggi edagli
auspicii della loro patria.Cap. XLVII. < —
Che un buon cittadinoper amore della
patria debbo dimen-ticare l* ingiurie private.Era
Manlio consolo con l’esercito con-ira ai
Sanniti* ed essendo stato in unazuffa
ferito, e per questo portando legenti sue
pericolo, giudicò il Senato es-ser necessario
mandarvi Papirio Cur-sore dittatore, per sopplire
ai difetti delConsolo. Ed essendo
necessario che ’lDittatore fusse nominato
da Fabio, ilquale era con gli
eserciti in Toscana; edubitando, per
essergli nimico, che nonvolesse nominarlo;
gli mandarono i Se-natori due ambasciadori a
pregarlo, che,posti da parte gli privati
odii, dovesseper benefìzio pubblico nominarlo.
Il cheFabio fece, mosso dalla carità
della pa-tria; ancora che col tacere e con
mol-ti altri modi facesse segno che
talenominazione gli premesse. Dal qualedebbono
pigliare essempio tutti quelli,che cercano
d* essere tenuti buoni cit-tadini.Cap.
XLVJII. — Quando si vede fareuno errore
grande ad un nimico ,si debbe credere
che vi sia sono in-ganno.Essendo rintaso
Fulvio Legato nelloesercito che i Romani
avevano in To-scana, per esser ito il
Consolo per al-cune cerimonie a Roma; i Toscani,
pervedere se potevano avere quello
allatratta, posono un aguato propinquo
aicampi romani, e mandarono alcuni sol-dati con
veste di pastori con assai ar-mento, e gli
feciono venire alla vista dello esercito
romano: i quali così tra-vestiti si accostarono
allo steccato delcampo; onde il Legato
meravigliandosidi questa loro presunzione, non
gli pa-tendo ragionevole, tenne modo
ch’egliscoperse la fraude; e cosi restò il
di*>igno de Toscani rotto. Qui si
può co-moramente notare, che un capitano
dieserciti non debbe prestar fede ad
unoerrore che evidentemente si vegga fareal
nimico: perchè sempre vi sarà sottofronde,
non sendo ragionevole che gliuomini siano
tanto incauti. Ma spesso ildisiderio del
vincere acceca gli animidegli uomini, che
non veggono altro chequello pare facci
per loro. I Franciosi avendo vinti i Romani
ad Allia, e venendo a Roma, e trovando le
porte aperte e senza guardia, stettero tutto
quel giorno e la notte senza entrarvi,
temendo di fraude, e non potendo credere
clic fusse tanta viltà c tanto poco
consiglio ne’ petti romani, che gli
nbbandonassino la patria. Quando nel 4508
s’andò per gli Fiorentini a Risa a campo,
Alfonso del Mutolo, cittadino pisano, si
trovava prigione dei Fiorentini, e promise che
s’egli era libero, darebbe una porta di
Pisa all’esercito fiorentino. Fu costui
libero.Dipoi, per praticare la cosa, venne
molte volte a parlare coi mandati dc’commissari;
e veniva non di nascosto, ma scoperto, ed
accompagnato da’ Pisani; i quali lasciava da
parte, quando parlava eoi Fiorentini. Talmentechè
si poteva conietturare il suo animo doppio
; perchè non era ragionevole, se la pratica fussc
stata fedele, eh’ egli 1’ avesse trattata
sì alla scoperta. .Ma il disiderio che s*
aveva d’ aver Pisa, accecò in modo i Fiorentini,
che condottisi con l’ ordine suo alla porta
a Lucca, vi lasciarono più loro capi ed
.altre genti con disonore loro, per il
tradimento doppio che fece detto Alfonso. Una
repubblica, a volerla mantenere libera, ha
ciascuno di bisogno di nuovi provvedimenti ; e
per guali meriti Quinto Fabio fu chiamato Massimo.
E di necessità, come
altre volte s’ è «letto, che ciascuno
dì in una città grande 'taschino' accidenti
che abbino bisogno elei medico ; e secondo
che gli importano più, conviene trovare il
medico più savio. E se in alcune città
nacquero mai simili accidenti, nacquero in
t\oma e strani ed insperati; come fu quello
quando e’parve cha tutte le donne
romane avessino congiurato contra ai loro
maritid’ ammazzargli : tante
se ne trovò clicgli avevano avvelenati, e
tante eh’ ave-vano preparato il veleno per
avvelenar-gli. Come fu ancora quella congiura
de’Baccanali, clic si scopri nel tempo
dellaguerra macedonica, dove erano già
in-viluppati molti migliaia d’ uomini e didonne;
e se la non si scopriva, sarebbestata
pericolosa per quella città ; o sep-pure i Romani
non fussino stati con-sueti a gasligare le
muititudiui degli uo-mini erranti: perchè, quando
e’ non sivedesse per altri infiniti
segni la gran-dezza di quella Repubblica, e
la potenzadelle esecuzioni sue, si vede
per la qua-lità della pena che la
imponeva a chi errava. Nè dubitò far morire
per via digiustizia una legione intera
per volta,ed una città tutta; e di
confinare ottoo diecimila uomini con condizioni
straor-dinarie, da non essere osservate da
unsolo, non che da tanti: come intervennea
quelli soldati che infelicemente ave-vano
combattuto a Canne, i quali con-finò in Sicilia,
c impose loro che nonalkergassino in terre,
e che mangias-sino ritti. Ma di tutte
1’ altre esecuzioniera terribile il
decimare gli eserciti, dovea scorte da
tutto uno esercito era mortod’ogni dieci
uno. Nè si poteva, a gasli-gare una multit
udine, trovare più spa-ventevole punizione di
questa. Perchè quando una moltitudine erra,
dove nonsia 1’ autore certo, tutti
non si possonogastigare, per esser troppi;
punirneparte e parte lasciare impuniti, si
fa-rebbe torto a quelli che si punissino,
egli impuniti arebbono animo di errareun’
altra volta. Ma ammazzare la decimaparte a
sorte, quando lutti la meritano,0,1 ' è
punito si duole della sorte; ehinon è
punito, ha paura che un’ altravolta
non tocchi a lui, c guardasi di er-rare.
Furono punite, adunque, le vene-fiche e le
baccanali secondo che meri-tavano i peccali loro.
K. benché questi morbi in una repubblica
faccino cattivieffetti, non sono a morte,
perchè semprequasi s’ ha tempo a
correggerli : ma nons’ ha già tempo
in quelli che riguardanolo Stato, i quali
se non sono da un pru-dente corretti,
rovinano la città. Eranoin Roma, per
la liberalità che i Romaniusavano di donare
la civilità a’ forestieri,nate tante genti
nuove, che le comin-ciavano avere tanta
parte ne’ suffragi,che ’l governo cominciava a
variare, epartivasi da quelle cose e da
quelli uo-mini dove era consueto andare. Di
cheaccorgendosi Quinto Fabio che era Cen-sore,
messe tutte queste genti nuoveda chi
dipendeva questo disordine sot-to quattro Tribù,
acciocché non potessino, ridotte in si
piccioli spazi,corrompere tutta Roma. Fu questa
cosaben conosciuta da Fabio, e postovi
sen*za alterazione conveniente rimedio; ilquale
fu tanto accetto a quella civi-lità, che
meritò d’esser chiamato Mas*sirno.FI .v E. INDICE.Niccolò
Machiavelli a Zanobi Buondel-monti e Cosimo
Rucellai salute. Pag. 1Libro Primo. .I.
Quali siano stati universalmente iprincipii
di qualunque città, e qualefosse quello di
Roma 9II. Di quanto spezie sono le
repubbliche,e di quale fu la Repubblica
Romana. 1$III. Quali accidenti facessino
creare inRoma i Tribuni della plebe; il
chefece la Repubblica più perfetta ...
30IY. Che la disunione della Plebe e
delSenato romano' fece libera e potentequella
Repubblica ; . . . 33Y. Dove più securamente si
ponga laguardia della libertà, o nel Popolo
one’ Grandi; e quali hanno maggiorecagione di
tumultuare, o chi vuoleacquistare o chi vuole
mantenere. . . 37VI. Se in Roma si
poteva ordinare unoStato che togliesse via
le inimicizieintra il Popolo ed il Senato
43VII. Quanto siano necessarie in una
Re-pubblica le accuse per mantenere lalibertàPag.
53Vili. Quanto lo accuse sono utili
allerepubbliche, tanto sono perniziose
lecalunnie. hiIX. Come egli ènecessario
esser soloavolere ordinare una repubblica dinuovo,
oal tutto fuori delli antichisuoi ordini
riformarla 68X. Quanto sono laudabili i
fondatorid’una repubblica o d’uno regno,
tantoquelli d’ una tirannide sono vitupera-bili
74XI. Della religione de’ Romani 8*2XII. Di
quanta importanza sia teneroconto della
religione, e come la Italiaper esserne
mancata mediante la Chie-sa romana, è rovinata
89XIII. Come i Romani si servirono
dellareligione per ordinare la città, e per seguire
le loro imprese e fermare itumulti . .
9.~>XIV. I Romani interpretavano gli auspicii
secondo la necessità, o con la prudenza
mostravano di osservare la religione, quando
forzati non 1‘ osser-vavano; e se alcuno
temerariamentela dispregiava, lo punivano 100dio
alle cose loro afflitte, ricorsonoalla religione
~Un popolo USO a vivere sotto unprincipe,
se per qualche accidente diventa libero,
con difficult-à mantienela libertà. . ^ag.
^XVII. Uno popolo corrotto, venuto in
li-bertà, si può con dit'ticnltà grandissima
mantenere libero LLHXVIII. In che modo
nelle città corrotte si potesse mantenere
uno Stato libero,essendovi; o non essendovi,
ordinarveloXIX. Dopo uno eccellente principe si
puòmantenere un principe debole; madopo un
debole, non si può con unaltro debole
mantenere alcun regno. 1*20XX. Due
continove successioni di principi virtuosi fanno
grandi effettivecome le repubbliche bene
ordinatehanno di necessità virtuose successioni: e
però gli acquisti ed augu-menti loro
sono grandi ~ •XXI. Quanto biasimo meriti
quel prin-cipe e quella repubblica che
mancad"armi proprieXXII. Quello che sia
da notare nel casodei tre Orazi
romani, e dei tre CuriazalbaniXXIII. Che
non si debbe mettere a pericolo tutta la
fortuna e non tutte le forze; e per questo,
spesso il guardare i passi è dannoso Le repubbliche bene
ordinatecostituiscono premii e pene a' loro cittadini,
nè compensano mai P uno con r altro Pag.
143XXV. Chi mole riformare nno Stato antico
in una città libera, ritenga almeno V ombra
desmodi antichi Un principe nnoro, in
nna cittào provincia presa da Ini, debbo
faro ogni cosa nnova ♦ . 14yXXVII. Sanno
rarissime volte gli nomi-ni essere al tutto
tristi o al tatto buoni. IniXXVIII. Per
qual cagione i Romani fu-rono meno ingrati agli
loro cittadini che gli Ateniesi 153XXIX. Quale
sia più ingrato, o un po-polo, o un principe
Quali modi debbe usare un prìncipe o nna
repubblica per fuggirò questo vizio della
ingratitudine; e qnali quel capitano o quel
cittadino per non essere oppresso da quella
Che i capitani romani per errore commesso
non furono mai istraordi- nariamente puniti;
nè furono inai an-cora puniti quando, per
la ignoranza loro o tristi partiti presi da
loro» ne fussino seguiti danni alla
repubblica, lfil Una repubblica o nno principenon
dobbe differire a beneficare gli uomini nelle
sue necessitati. Quando uno inconveniente è cresciuto
o in uno Stato o contra ad uno Stato, è
più salutifero partito temporeggiarlo che urtarlo
P&g» XXXIV. L'autorità dittatoria fece tene,e
non danno, alla repubblica romana :o come
lo autorità che i cittadini si toPgono,
non quelle che sono loro dai suffragi
liberi date, sono alla- vita ci^vile
pernicioseXXXV. La cagione perchè in Roma
la creazione del decemvirato fu nociva alla
libertà di quella repubblica, non ostante
che fosse creato per suffragi pubblichi e liberi Non
debbono i cittadini che hanno avuti i maggiori
onori, sdegnarside' minoriXXXVII. Quali scandali
partorì in Roma la legge agraria: e come
fare una legge in una repubblica che
risguardi assai indietro, e sia contra ad
unaconsuetudine antica della città,
èscandolosissimoXXXVIII. Le repubbliche deboli
sonomale risolute, e non si sanno delibe-rare; e
se le pigliano mai alcuno par-tito, nasce
più da necessità che daelezioneXXXIX. In
diversi popoli si veggonospesso i medesimi
accidenti . . rrr~. mXL. La creazione del
decemvirato inRoma, e quello che in essa è
da no-tare: dove si considera, intra
moltealtre cose, come si può salvare
persimile accidente, o oppressare una re-pubblica
Pag. 200XLI. Saltare dalla urailità alla superbia,
dalla pietà alla crudeltà, senza debiti mezzi,
è cosa imprudente ed inutile. Quanto gli
uomini facilmente si possono corrompere . Quelli
che combattono per la gloria propria, sono
buoni e fedeli soldati Una moltitudine
senza capo èinutile: e non si debbe
minacciare prima, e poi chiedere P autorità È
cosa di malo esempio non osservare una
legge fatta, e massimedallo autore d'essa: e
rinfrescare ogni dì nuove ingiurie in una
città, è a chi la governa dannosissimo Gli
uomini salgono da un' ambizione ad
un'altra; e prima si cercanon essere
offeso, dipoi di offendere altrui Gli uomini,
ancora che si ingannino ne’ generali, nei
particolari non si ingannano XLYIII. Chi vuolo
che uno magistrato non sia dato ad un
vile o ad un tristo, lo facci domandare o
ad un troppo vile e troppo tristo, o ad uno
troppo nobile e troppo buono XLIX. Se
quelle città che hanno avuto il principio
libero, come Roma, hanno difficoltà a trovare
leggi che le mantenghino; quelle che
lo hanno immediate servo, ne hanno quasi
una impossibilita L. Non debbo uno consiglio o
uno magistrato potere fermare le azioni della città
LT. Una repubblica o uno principe debbo mostrare
di fare per liberalità quello a che la
necessità lo constringe LII. A reprimere la
insolenza di uno che sorga in una
repubblica potente, non vi è piu securo e
meno scando- loso modo, che preoccuparli
quelle vie per lo quali o’vieno a quella
potenza. LIII. Il popolo molte volto
desidera la rovina sua, ingannato da una
falsa spezie di bene : e come le grandi
speranze e gagliardo promesse facilmente lo muovono 25S LIV.
Quanta autorità abbia uno uomo grande a
frenare una moltitudine LY. Quanto facilmente
si conduchino le cose in quella città
dove la moltitu-dine non è corrotta: e che
dove è eqnalità, non si può faro
principato;e dove la non è, non si
può far re-pubblica 26SLVI. Innanzi
che seguino i grandi acci-denti in una
città o in una provin-eia, vengono segui
che gli pronosti-cano, o Domini che gli
predicono. Pag. 279LV1I. La plebe insieme è
gagliarda; diper se è debole 260LVIII. La
moltitudine è più savia e piùcostante che
un principe 283altri si può più fidare; o
di quellafatta con una repubblica, o di
quellafatta con nno principe 294LX. Come il
consolato o qualunque altro magistrato in Roma
si dava senzarispetto di età 299Libro
Secondo.I. Quale fu più cagione dello
imperioche acquistorono i Romani, o la virtù,o la
fortuna 310 .II. Con quali popoli i Romani
ebbero acombattere, e come ostinatamentequelli
difendevano la loro libertà. . . 31SIII.
Roma divenne grande città rovi-nando le
città circonvicine, e rice-vendo i forestieri
facilmente a' suoionori 333IV. Le repubbliche
hanno tenuti tre modicirca lo ampliare 335lingue,
insieme con 1~ accidente de-1 diluvi o delle
pesti, spegno la memo-ria dello cose, .
34.r>VI. Come i Romani procedevano nel
farela guerra Pag. 350VII. Quanto terreno i
Romani davanoper colono 355Vili. La cagione
perchè i popoli si par-tono da’ luoghi patrii,
ed inondano ilpaose altrui 356IX. Quali
cagioni comunemente faccinoX. I danari non sono
il nervo dellaguerra, secondo elio è la
comune op-pinone 367 XI. Non è partito
prudento fare amici-zia con un principe che
abbia piùoppinione che forze 374assaltato,
inferire, o aspettare laguerra 37fiXIII. Che si
viene (li bassa a gran for-tuna più con
la fraude, che con laforza t 385XIV.
Ingannansi molte volto gli uomini,credendo
con la nmilità vincere la su-perbia
389XV. Gli Stati deboli sempre fieno
ambi-gui nel risolversi: e sempre le deli-berazioni
lente sono nocive 392XVI. Quanto i soldati
ne’ nostri tempi si disformino dalli
antichi ordini . 398XVII. Quanto si debbino
stimare daglieserciti ne’ presenti tempi le
artiglie-rie ; e se quella oppinione che se
neha in universale, è vera Pag. iiLZXYIII.
Come per I’ autorità de* Romani,e per
lo essempio della antica mili-zia, si debbe
stimare più le fanterieche i cavagli . 421XIX.
Che gli acquisti nelle repubbli-che non
bene ordinate e che secondola romana virtù
non procedono, sonoa rovina, non a esaltazione
di esse . 431XX. Quale pericolo porti
quel principeo quella repubblica che si
vale dellamilizia ausiliare a mercenaria . . . .
441XXI. Il primo Pretore che i
Romanimandarono in alcun luogo, fu a
Capo-va, dopo quattrocento anni che co-minciarono
a far guerra 445XXII. Quanto siano false
molte volte leoppinioni degli uomini nel
giudicarele cose grandi 450XXIII. Quanto i Romani
nel giudicarei sudditi per alcuno accidente
che ne-cessitasse tal giudizio, fuggivano lavia
del mezzo 455XXIY. Le fortezze generalmente
sonomolto più dannose che utili 464XXV. Che
Io assaltare una città disu-nita, per
occuparla mediante la suadisunione, è partito
contrario. . . . .479XVI. Il vilipendio e
l’improperio ge-nera odio contra a coloro che
l’usa-no, senza alcuna loro utilità 482XXVII. Ai
principi e repubbliche pru-denti debbe bastare
vincere ; perchè ilpiù delle volte, quando
non basti, siperde Pag. 4S0*XXVIII. Quanto
sia pericoloso ad unarepubblica o ad uno
principe non ven-dicare una ingiuria fatta
contra alpubblico o contra al privato 492XXIX.
La fortuna accieca gli animi de-gli uomini,
quando la non vuole chequelli si
opponghino a’ disegni suoi . 49(5XXX. Le
repubbliche e gli principi ve-ramente potenti non
comperano l' ami-cizie con danari, ma con
la virtù econ la riputazione delle
forzo .... 502XXXI. Quanto sia pericoloso
credere agli sbanditi 509XXXII. In quanti modi i
Romani occu-pavano le terre 512XXXIII. Come i
Romani davano agliloro capitani degli
eserciti le commis-sioni libere 519Libro Terzo. I. A
volere che una setta o una repub-blica viva
lungamente, è necessarioritirarla spesso verso il
suo principio. 524II. Come gli è cosa
sapientissima simu-lare in tempo la pazzia
535III. Come egli è necessario, a volermantenere
una libertà acquistata dinuovo, ammazzare i
figliuoli di Bru-to Pag- 538IV. Non
vive sicuro un principe in unprincipato,
mentre vivono coloro chene sono stati
spogliati 541V. Quello che fa perdere uno
regno aduno re che sia ereditario di
quello . 544VI. Delle congiure 547VII. Donde
nasce che le mutazioni dallalibertà alla
servitù, e dalla servitùalla libertà, alcuna
n1 è senza sangue,alcuna n" è piena 595Vili.
Chi vuole alterare una repubbli-ca, debbo
considerare il soggetto diquella 591IX. Come
conviene variare coi tempi,volendo sempre
aver buona fortuna . 603X. Che uu capitano
non può fuggire lagiornata, quando 1’
avversario la vuolfare in ogni modo 608XI.
Che chi ha a fare con assai, an-cora
Che sia inferiore, purché possasostenere i
primi impeti, vince. . . . 617XTI. Come un
capitano prudente debboimporre ogni necessità
di combattereai suoi soldati, e a quelli
delli minicitorla golP0Ye 8*a Più confidare, o
innuo buono capitano che abbia l;eser-cp°
debole, o in uno buono esercitoche abbia
il capitano debole . XIV Le invenzioni
nuove che appari-scono nel mezzo della
zuffa, e le vocinuove che si odono,
quali effetti fac-cino Pag. 633XV.
Come uno e non molti siano pre-posti ad
uno esercito, o come i piùcomandatori offendono
630XVI. Che la vera virtù si va ne'
tempidifficili a trovare; e ne* tempi facilinon
gli uomini virtuosi, ma quelliche per
ricchezze o per parentado pre-vagliono, hanno
più grazia 642XVII Che non si offenda uno,
e poiquel medesimo si mandi in ammini-strazione e
governo d’ importanza . . 648XVIII. Nessuna cosa
è più degna d' uncapitano, che presentire i
partiti delnimico 650 XIX. Se a reggere una
moltitudine èpiù necessario lo ossequio che
la pena. 656XX. Uno essempio d'umanità
appresso ai Falisci potette più d' ogni forza romana
Donde nasce che Annibale con diverso modo di procedere da Scipione,
fa quelli medesimi effetti in Italia che
quello in Ispagna. Come la durezza di
Manlio Torquato e l’umanità di Valerio Corvino acquistò
a ciascuno la medesima gloria. Per quale cagione Cammillo fnsse
cacciato di Roma. La prolungazione degl’imperi fa serva Roma. Della
povertà di Cincinnato, e dimolti cittadini romani. Come per cagione di femmine si
rovina uno Stato . Come e' si ha a
nnire una città divisa; e come quella
oppinione non è vera, che a tenere le città
bisogna tenerle disunite. Che si debbe por
mente alle opere de’ cittadini, perchè
molte volte sotto un’opera pia si nasconde
un principio di tirannide. Che gli peccati dei popoli nascono
dai principi. Ad uno cittadino che voglia
nella sua repubblica far di sua autorità
alcuna opera buona, è necessario prima spegnere l’invidia:
e come, venendo il nimico, s’ha a ordinare
la difesa d’una città
Le repubbliche forti o gli uomini
eccellenti ritengono in ogni fortuna il
medesimo animo e la loro medesima dignità. Quali
modi hanno tenuti alcuni a turbare una paco. Egli
è necessario, a voler vincere una giornata, fare l’esercito
conattente ed infra loro, e con il capittano.
Quale fama o voce o oppinione fa che il
popolo comincia a favorire un cittadino: e se
ei distribuisce I magistrati con maggior
prudenza che un principe. Quali pericoli si
portino nel farsi capo a consigliare una cosa; e
quanto ella ha più dello straordinario, maggiori
pericoli vi si corrono . La cagione perchè i
Franciosi sono stati e sono ancora giudicati nelle
zuffe da principio più che uomini, e dipoi
meno che femmine . Se le piccolo
battaglie innanzi alla giornata sono necessarie,
e come si debbo fare a conoscere un nimico nuovo,
volendo fuggire quelle . Come debbe esser
fatto un capitano nel quale 1’esercito suo
possa confidare Che un capitano debbe esser conoscitore
dei siti Come usare la fraudo nel
maneggiare la guerra è cosa gloriosa. .
Che la patria si debbe difendere o con
ignominia o con gloria; ed in qualunque
modo è ben difesa Che le promesse fatte
per forza non si debbono osservare Clie gli
uomini che nascono in una provincia,
osservano per tutti I tempi quasi quella
medesima natura E’ si ottiene con
l'impeto e con 1’audacia molte volte quello
che con modi ordinari non si otterrebbe
mai . Qual sia miglior
partito nelle giornate, o sostenere l'impeto de'
nimici, e sostenuto urtargli; ovvero dapprima con furia
assaltargli Donde nasce che una famiglia in
una città tiene un tempo i medesimi costumi
Che un buon cittadino per amore della
patria debbe dimenticare l’ingiurie private. Quando
si vede fare uno errore, grande ad un nimico,
si debbe credere die vi sia sotto inganno. Una
repubblica, a volerla mantenere libera, ha
ciascuno di bisogno di nuovi provvedimenti; e
per quali meriti Quinto Fabio è chiamato
Massimo. Tito Livio. Keywords: filosofia romana, Romolo. Refs.: Luigi Speranza,
“Grice e Livio” – The Swmming-Pool Library, Villa Speranza. For H. P. G.
Grice’s Gruppo di Gioco. Tito Livio.
Grice e Lodovici: l’implicatura
conversazionale della virtù – verso la meta – la meta è l’origine -- filosofia
siciliana – filosofia italiana -- Luigi Speranza (Messina). Filosofo italiano. – Grice: “I like Emanuele Samek
Lodovici – very Italian – his metamorfosi della gnosi is good!” -- samek
lodovici -- one of the two. Il
suo pensiero d'impronta metafisica si oppone al materialismo e al riduzionismo.
Esperto della filosofia di Plotino, Sant'Agostino e Marx, si occupa dello
gnosticismo che a suo parere si trova ripresentato in diverse filosofie e
ideologie dell'età moderna e contemporanea. Figlio del bibliotecario e
bibliografo Sergio Samek Lodovici, nativo di Carrara, che lo chiamò come suo fratello
maggiore, noto medico e politico. Rimase in Sicilia per breve tempo per poi
vivere sempre a Milano. Scampò a soli cinque anni alla tragedia di Albenga,
quando dopo il naufragio di un'imbarcazione carica di bambini era stato
inserito nel gruppo delle piccole salme, ma il tempestivo intervento di un
medico lo salvò. Di formazione e cultura cattoliche, studia a Milano dove si
laurea con «Filosofia classica e spiritualità cristiana nel Commento di
Sant'Agostino al Vangelo di San Giovanni». Insegna aTorino. Pubblicò due
monografie, una su Agostino (con il contributo del C.N.R.), e l'altra sulla
gnosi moderna, che gli valsero la cattedra di Filosofia a Trieste. In una lettera Noce si riferiva così. Nella
prima delle sue due opere fondamentali, Dio e mondo, inizia considerando la
grave accusa rivolta da Heidegger alla metafisica, ovvero di non aver compreso
che cos'è l'«essere» e di aver reificato Dio, di averlo cioè reso una
«cosa». Questa critica può essere legittima ma non nei riguardi della
metafisica neoplatonica nella forma in cui è stata mediata da Agostino. Individua
il fulcro di tale metafisica nella dottrina della «partecipazione» delle idee
col mondo, in forza della quale il rapporto di Dio col mondo è una relazione
sostanziale e non oggettualità. In Metamorfosi della gnosi, delinea una
fenomenologia della cultura come influenzata da una mentalità inconsciamente
gnostica. Tale mentalità ha assunto in sé le tesi dello gnosticismo antico,
ovvero la sostanziale negatività del mondo, la possibilità di redenzione dalla
oscurità del mondo attraverso un sapere salvifico (gnosi) e la possibilità di
un redenzione del mondo realizzata, senza bisogno della grazia divina, dalla
sola azione dell'uomo tramite la politica e/o la scienza. Così nel pensiero
gnostico la finitezza e la creaturalità vengono disprezzate e rifiutate, con
l'ambizione di creare l'Uomo Nuovo e la Gerusalemme terrena. Insomma, sintesi
del pensiero gnostico è quella formulazione che trova il proprio culmine nel
«rifiuto di non poter essere Dio»; in tal modo nella visione gnostica non è più
Dio, ma l'uomo gnostico a identificarsi con l'infinito, sgravato com'è da
qualsiasi limite. Da ciò appaiono evidenti gli obiettivi polemici e
critici di ogni metamorfosi dello gnosticismo rappresentato nelle forme del
riduzionismo antireligioso, del prometeismo marxista, della filosofia
radical-relativista diffusa attraverso i media, della corruzione della memoria
storica attuata anche attraverso la corruzione del linguaggio ed infine nella
strategia della distruzione della famiglia, che è stata potentemente colpita in
particolare con la rivoluzione sessuale e con alcuni tipi di femminismo.
Per quanto riguarda la sua pars construens, Safferma che proprio a partire
dalla post-marxistica crisi del pensiero secolarista gnostico si deve delineare
la necessità di ritornare alla tradizione metafisica, da lui indicata sulla
linea di Platone, Plotino e soprattutto Agostino. In sintonia con l'ermeneutica contemporanea, e
pur evitandone le derive nichilistiche, riconosce la struttura storicamente
condizionante del linguaggio nei confronti dell'esistenza e della conoscenza,
secondo una sua favorita formula per cui «chi non ha le parole non ha le cose»,
e d'altra parte il filosofo riconosce anche la funzione inversa del linguaggio
per cui, oltre che elemento condizionante, esso è anche il mezzo con cui l'uomo
storico può trascendere i vincoli della storia e del linguaggio stesso (i
baconiani «idola fori» e «idola theatri») ed esprimere le verità eterne. Rievoca
la valenza dell'autocoscienza della ragione e delle sue vastissime
potenzialità, sia in bene che in male, e a partire da queste, ne ricorda i
limiti, i fallimenti storici e le costitutive incapacità che emergono
specialmente nel momento in cui essa viene elevata ad una illuministica
idolatria, concretizzandosi nella moderna vita di massa che «ha affermato la libertà politica da ogni
autorità spirituale, finendo per favorire il potere dell’uomo sull’uomo; ha
affermato la libertà dell’amore dalla morale per vanificarlo nel sesso; ha
affermato di lottare contro ogni religione in quanto superstizione, solo per
prepararne una più esiziale, quella della scienza e del successo.»
Piuttosto, una ragione accorta deve, restando autonoma, interagire con la religione,
per corroborarla e giustificarla razionalmente o per cercarvi le risposte prime
ed ultime. Tipica poi del suo pensiero è la «cultura del ricordo», intesa come
cultura non di una memoria archeologica bensì di una memoria che guardando ai
fallimenti del passato possa liberare il presente dalle menzogne ideologiche e
dai progetti utopistici che, ripetendosi nella storia, hanno generato i
totalitarismi del XX secolo, e che oggi producono la dittatura del relativismo
e del nichilismo. Così la memoria assume una funzione spirituale nel senso che «mi rende migliore di quello che sono». La
riflessione è dunque nel complesso di carattere etico-sapienzale, consapevole
che in ogni agire umano si esplica la ricerca della felicità, una ricerca che,
per essere efficace e compiuta, deve però essere immune da qualsiasi utopismo
onirico: è alla luce di questa precisazione che può affermare che «non vi è
nessuna felicità senza virtù, in altre parole non vi è nessuna felicità senza
quell'unica attività che è in grado di rendere l'uomo pienamente umano», perciò
«non si può pretendere che l'acquisto della felicità non passi attraverso lo
sforzo, la lotta, e in ultima analisi la sofferenza», ed è in tal modo che
trovano un senso il limite umano e la sofferenza. Non sfugge al filosofo la
coscienza della precarietà della felicità umana, però questa «ben lungi dallo
spingerci alla tristezza per l'insaziabilità dell'uomo, va tuttavia vistaottimisticamente,
come l'indizio che è un'altra la felicità conforme al livello spirituale degli
esseri umani», perché «ultima hominis felicitas non est in hac vita. Saggi: “
Plotino nel In Johannis Evangelium di Agostino, in Contributi dell'Istituto di filosofia, Vita e
Pensiero, La Lettera ai Galati” in Marcione e Tertulliano, in «Aevum», Milano, Agostino,
in Questioni di storiografia filosofica,
La Scuola, Brescia); Sul processo di Gesù e su Gesù e gli zeloti, Vita e
Pensiero, Marxismo o Cristianesimo, Ares, Sesso, matrimonio e concupiscenza in,
Etica sessuale (Milano); Tra cosmologia e metafisica. Note sul concetto di
cosmo, in “Il demoniaco nella musica, Giappichelli, La felicità e la crisi della cultura radicale
ed illuministica, in La crisi della
coscienza politica e il pensiero personalista, Libreria Gregoniana, “Dio e mondo:
relazione, causa e spazio” (EStudium); “Metamorfosi della gnosi” Ares, Dominio dell'istante, dominio della morte.
Alla ricerca di uno schema gnostico, in «Archivio di Filosofia», Istituto di
studi filosofici, Roma, “La gnosi e la genesi delle forme, in «Rivista di
Biologia», Il gusto del sapere, Universitas); “L'arte di non disperare. Il
gusto del sapere Estratti di L'arte di
non disperare M. Picker, Il mio professore di filosofia, Studi
Cattolici, Alabiso, La critica dell'attacco macro-strutturale al cristianesimo,
Catania. Giacomo L., Profili. L., Studi Cattolici, Sciffo, Le maschere della
gnosi, «Avvenire», Barbiellini Amidei, Il filosofo che insegna l'arte della speranza.,
in «Corriere della Sera», filosofo che insegna arte_della_co shtml G. Feyles,
La battaglia di Samek, in «Tempi», tempi la-battaglia-di-samek Fumagalli, L. e
Noce: Gnosi e secolarizzazione, Santa Croce, Roma //sergiofumagalli/files/ tesi.pdf
Taddeo, Verità e diritto, Trento G. Segre,
una vita per la Verità, «la Bussola Quotidiana» /la nuova bussola quotidiana.com/it/archivio
Storico Articolo-emanuele-samek- lodoviciuna vita-per-la-verit- A. Galli, Il
ritorno della gnosi, in «Avvenire», Anna, L'origine e la meta. Ares, Milano. Gnosticismo Cattolicesimo, Noce, Voegelin, Mathieu
su Santi, beati e testimoni, santiebeati. Il gusto del sapere Universitas, Documentazione
interdisciplinare di scienza e fede, Gnosi moderna e secolarizzazione
nell'analisi” Fumagalli, Pontificia Università della Santa Croce, Roma, “la
gnosi come vero avversario della verità di Restelli, sito "Cultura Cattolica.
Emanuele Samek Lodovici. Lodivici. Keywords. la virtù, l’amore sessuuale, il sessuale – la
sessualita, il maschile, il machio, il sesso maschile, il vir, virile,
virilita. Refs.: Luigi Speranza, “ Grice e Lodovici” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Lodovici: l’implicatura conversazionale -- filosofia
italiana – Luigi Speranza (Roma)
“Giacomo samek lodovici is the author of a fascinating essay on philosophical
psychology. Figlio di Emanuele Samek Ludovici. Giacomo Samek Lodovici.
Lodovici.
Grice e Lombardi: l’implicatura conversazionale -- la
filosofia italiana – Luigi Speranza (Napoli).
Filosofo italiano. Grice: “I like
Lombardi; he took seriously my idea of Philosophy’s Longitudinal Uniity, and
like Passmore or Warnock, engaged iin a study of the ‘last hundred years of
Italian philosophy. This shows that his interests on Kant, etc., are
Italian-based, mainly!” Il padre e avvocato e docente di diritto e procedura
penale a Napoli, già allievo prediletto di Bovio, deputato prima e dopo il
fascismo, autore di scritti vari di sociologia. La madre Rosa Pignatari fu
nipote di Ciccotti, nella cui casa era
cresciuta. Tradusse alcuni degli scritti di Marx nelle Opere edite dal Ciccotti
e la Storia del movimento operaio di Edouard Dolleans. Laureato e libero docente in filosofia lavora
in filosofia. Pubblica “Il mondo degli uomini” (Firenze, Le Monnier) Insegna a
Roma. Presidente della Società Filosofica Italiana e (sin dalla fondazione)
della Società filosofica romana, diresse il "Centro di Ricerca per le
Scienze Morali e Sociali" presso l'Istituto di filosofia della Roma. Direttore
della rivista De Homine cui si è affiancato il Bollettino Bibliografico per le
Scienze morali e sociali. Membro dell’Accademia nazionale dei Lincei. Gli e
conferito il premio nazionale "Croce" per la filosofia. Saggi: “L'esperienza e l'uomo.”“Fondamenti di
una filosofia umanistica” (Firenze: Sansoni); “Il mondo morale;”“Feuerbach” (Firenze:
Nuova Italia); “Feuerbach e Marx: “Kierkegaard” (Firenze: La Nuova Italia); “La
libertà del volere” (Milano: Bocca); La filosofia critica, Roma: Tumminelli;
“Il problema kantiano, “Commento alla Critica della ragion pura” Kant vivo (Firenze:
Sansoni); Nascita del mondo modern (Firenze: Sansoni); Concetto e problemi di
Storia della filosofia” (Asti: Arethusa); “Le origini della filosofia” (Asti:
Arethusa); “Libertà” (Asti, Arethusa); “Dopo lo Storicismo” (Firenze: Sansoni);
“Ricostruzione filosofica” (Asti: Arethusa); “La filosofia italiana” Asti:
Arethusa, Il piano del nostro sapere, Asti: Arethusa); “La posizione dell'uomo
nell'universo, Firenze: Sansoni); “Problemi della libertà, Firenze: Sansoni, Filosofia e civiltà” (Firenze: Sansoni, Saggi
Manoscritti inediti Scritti vari di filosofia, Scritti politici Filosofia e
Società, Firenze: Sansoni, Filosofia e Società Firenze: Sansoni, Il senso della
storia” (Firenze: Sansoni); Aforismi inattuali sull'arte” (Firenze: Sansoni); Galilei:
un ante-signano”(Firenze: Sansoni, scritti per l'università, Firenze: Sansoni,
“Continuità e Rottura, Firenze: Sansoni, Una svolta di civiltà, n.d.: ERI, Gaetano
Calabrò, Torino: Filosofia, Atti del Congresso internazionale di Filosofia,
Milano: Castellani & C Editori, Il materialismo storico Atti del Congresso
internazionale di Filosofia; Roma: Fratelli Bocca, Il problema della filosofia
oggi Varie Taccuini di viaggio Dodici canzoni napoletane, su versi di Salvatore
Di Giacomo, Firenze: Forlivesi, Torino: Edizioni di Filosofia, Treccani
L'Enciclopedia italiana. Un contributo significativo per la costruzione della
filosofia italiana contemporanea, Lincei, in Biblioteca di Filosofi, Sapienza Roma.
Franco Lombardi. Lombardi. Keywords: la filosofia italiana, Galilei. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lombardi” –
The Swimming-Pool Library.
Grice e Longino:
il filosofo della regina -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. An adviser to Queen
Zenobia. Oddly, when Zenobia is defeated by the Romans, she is taken off to
Rome, whereas her adviser is executed.
Grice e Longino:
il diritto romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A legal scholar and
theorist. Uno degl’uccisori di GIULIO (si veda) Cesare. Gaio Cassio Longino.
Longino
Grice e Longano: l’implicatura conversazionale dell’uomo
naturale – filosofia italiana – Luigi Speranza (Ripalimosani). Filosofo italiano. Grice: “Longano
took ‘naturalness’ so seriously that he would apply it to anything: ‘man’
(‘uomo naturale’) and morals (‘morale naturale’).” “I like Longano; he is a
systematic logician, as I’m not – therefore he thinks that to study semantics,
which logic is, starts with studying signs – as I did in my seminars on Peirce
– so Longano is the one I was referring when I mentioned what ‘people were at
when they display an interest in natural versus conventional signs; he also has
interesting things to say about my favourite parts of speech, syncategoremata!””Allievo
di ZURLO, si trasfere a Campobasso e quindi
a Napoli dove divenne allievo di GENOVESI. Fa parte della massoneria ed è
considerato un importante esponente dell'illuminismo, fu sostenitore dello
stretto rapporto tra anima e corpo e di una visione dell'uomo nella sua
interezza. Propugna la rinascita dell'Italia, proponendo un piano di riforme e
il superamento del feudalesimo. Altri saggi: “Piano di un corpo di filosofia
morale; ossia, Estratto d'un corso di Etica, di economia e di politica” (Napoli,“Dell'Uomo
Natural Napoli, “Saggio sul commercio” (Napoli, presso Vincenzo Flauto, Raccolta
di Saggi economici per gli abitanti delle due Sicilie, Napoli, presso Sangiacomo e Campo, “Dell'uomo e della
sua morale natura -- Esame fisico, e morale dell'uomo, Napoli, Morelli, Dell'uomo,
e sua morale natural, Della morale naturale, Napoli, M. Morelli, Dell'uomo
Religioso e cristiano, Dell'uomo religioso,
Napoli, Morelli, “Logica” Viaggio per lo contado di Molise ovvero descrizione
fisica, economica e politica del medesimo, Napoli, Viaggio per la Capitanata,
Napoli, Sangiacomo, Il Purgatorio ragionato, Lepore, postfazione di Martelli,
Campobasso, Palladino, Philosophiae rationalis elementa; De arte logica, Napoli;
De metaphysica, Napoli, Orsino; De Jure humanae, Napoli, Biblioteca provinciale
di Foggia; L'anno di Genovesi, su biblioteca provincial foggia. Gaetano, su
webcache .googleusercontent.com A. Rao, L'amaro della feudalità: la devoluzione
di Arnone e la questione feudale a Napoli, Guida, Rizzo, La civiltà del
Purgatorio: riformismo e anti-clericalismo nella provincia molisana, S. Borgna,
su delpt.unina, Dizionario biografico degli italiani, Roma, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Francesco Longano. Longano. Keywords: dell’uomo
naturale, metafisica, logica. Luigi Speranza, “Grice e Longano: esame fisico
dell’uomo” “Grice e Longano: la semiotica” – The Swimming-Pool Library.
Grice e Losano: l’implicatura conversazionale della filosofia
del diritto romano – filosofia italiana – Luigi Speranza (Casale Monferrato). Filosofo italiano. Grice: “I like Lossano; his research overlap with that
of H. L. A. Hart, but Losano is more interested in the philosophy and he is
obviously more continental, as he should, given the prominence of Kelsen in the
field!” Si occupa di filosofia del diritto e informatica giuridica. Si
laurea a Torino. Insegna a Milano e Alessandria, e Torino. Si occupa di storia
della filosofia del diritto; teoria generale del diritto; circolazione mondiale
delle idee giuridiche e sociali; filosofia politica; diritti umani;
geopolitica; informatica giuridica; privacy; e-publishing; edizioni di archivi
storici. Pubblica un completo panorama sull'evoluzione della nozione di sistema
nel diritto dalla Roma antica ad oggi. Cura carteggi di Jhering ed opere di Jhering e di Kelsen. Curato l'edizione critica
delle corrispondenza di Roesler. Come informatico giuridico, ha pubblicato un
manualedi informatica giuridica e diritto informatico e un progetto di legge
sulla tutela della privacy; Presidente del "Centro di calcolo automatico”
a Milano. Altri saggi: La dottrina pura del diritto, Einaudi, Torino; La teoria
di Marx ed Engels sul diritto e sullo stato. Materiali per il seminario di
filosofia del diritto” (Milano. Anno Accademicom Cooperativa Libraria Università
Torinese, Torino); “Gius-cibernetica” Macchine e modelli cibernetici nel diritto,
Einaudi, Torino); Libia Materiali sui rapporti fra ideologia ed economia” (Milano.
Anno Accademico Cooperativa Libraria Università Torinese, Torino); “Lo scopo
nel diritto. Einaudi, Torino, Jhering, Lo scopo nel diritto” (Aragno, Torino, Corso
di informatica giuridica, Cooperativa Milano), Corso di informatica giuridica; L'elaborazione
dei dati non numerici, Unicopli, Milano; Il diritto dell'informatica, Unicopli,
Milano Corso di informatica giuridica; Stato
e automazione. Etas Kompass, Babbage: la macchina analitica. Un secolo di
calcolo automatico, Etas Kompass, Milano Scheutz: La macchina alle differenze.
Un secolo di calcolo automatico, Etas Libri, Milano); Invenzioni francesi del
Settecento. Testi originali con 15 tavole dell'epoca, Bottega d'Erasmo, Torino);
I grandi sistemi giuridici. Introduzione ai diritti europei ed extra-europei,
Einaudi, Torino, I grandi sistemi giuridici. Introduzione ai diritti europei ed
extraeuropei, Einaudi, Torino, I grandi sistemi giuridici. Introduzione ai
diritti europei ed extraeuropei, Laterza, Roma Bari, L'informatica legislativa
regionale. L'esperimento del Consiglio Regionale della Lombardia, Rosenberg e
Sellier, Torino Forma e realtà in Kelsen, Comunità, Milano, Automi arabi. Dal
"Libro sulla conoscenza degli ingegnosi meccanismi" (Maestri, Milano);
Automi d'Oriente. "Ingegnosi meccanismi" arabi del XIII secolo,
Milano Il diritto economico, Unicopli, Milano); L'ammodernamento giuridico,
Unicopli, Milano); Corso di informatica giuridica: Informatica per le scienze
sociali, Einaudi, Torino Il diritto privato dell'informatica, Einaudi, Torino, Scritto
con la luce. Il disco compatto e la nuova editoria elettronica, Unicopli,
Milano, L'informatica e l'analisi delle procedure giuridiche, Unicopli, Milano,
Diritto e CD-ROM. Esperienze italiane, Giuffrè, Milano, Storie di automi. Dalla
Grecia classica alla Belle Époque, Einaudi, Torino Saggio sui fondamenti
tecnologici della democrazia, Quaderni della Fondazione Adriano Olivetti, Istituto
per la Documentazione Giuridica, Firenze, Kelsen Umberto Campagnolo, Diritto
internazionale e Stato sovrano. L. Con un inedito di Kelsen e un saggio di
Norberto Bobbio, Giuffrè, Milano, Un giurista tropicale. Tobias Barreto fra
Brasile reale e Germania ideale, Laterza, Roma); “Sistema e struttura nel
diritto: Dalle origini alla scuola storica” (Giuffrè, Milano, Il Novecento” (Giuffrè,
Milano); Dal Novecento alla postmodernità, Giuffrè, Milano U. Campagnolo, Verso
una costituzione federale per l'Europa. Una proposta inedita. Giuffrè, Milano, "Cedant arma Un giudice e due leggi. Pluralismo
normative, Giuffrè, Milano, Funzione sociale della proprietà e latifondi
occupati, Diabasis, Reggio Emilia, Kelsen, Scritti autobiografici. Traduzione e
cura di L., Diabasis, Reggio Emilia Peronismo e giustizialismo: dal Sudamerica
all'Italia, e ritorno. M. Rosti, Diabasis, Reggio Emilia, Memoria
dell'Accademia delle Scienze di Torino, Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche,
Accademia delle Scienze, Torino Academia delle scienze editorial memorie morali
Campagnolo, Conversazioni con Kelsen. Documenti dell'esilio ginevrino Giuffrè,
Milano La geopolitica del Novecento. Dai Grandi Spazi delle dittature alla de-colonizzazione”
(Mondadori, Milano); Kelsen Arnaldo Volpicelli, Parlamentarismo, democrazia e
corporativismo” (Aragno, Torino); Alle origini della filosofia del diritto a
Torino: Albini. Con due documenti sulla collaborazione di Albini con Mittermaier,
Memorie della Accademia delle Scienze di Torino, Classe di Scienze Morali,
Storiche e Filologiche, Accademia delle Scienze, Torino accademia delle scienze/attivita
editorial periodici-e-collane/ memorie/morali I carteggi di Albini con Sclopis e Mittermaier. Alle
origini della filosofia del diritto a Torino, Memoria dell'Accademia delle
Scienze di Torino, Classe di Scienze Morali, Storiche e Filologiche, Accademia
delle Scienze, Torino accademia delle Scienze attivita editorial, periodici-e-collane/memorie
morali Alle origini della filosofia del diritto, Il corso di Alessandro
Paternostro a Tokyo. In appendice: Paternostro, Lexis, Torino I La Rete e lo
stato” (Mimesis, Milano); Bobbio. Una biografia culturale, Carocci, Roma, Kelsen, Due saggi sulla democrazia in
difficoltà” (Aragno, Torino); “La libertà d’insegnamento in Brasile e
l’elezione del Presidente Bolsonaro” (Mimesis, Milano). Mario Giuseppe Losano. Losano.
Keywords: filosofia del diritto romano, Livio -- Luigi Speranza, “Grice e
Losano: storia del diritto romano – what Kelsen never had!” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Losurdo: l’implicatura
conversazionale del ribelle aristocratico – filosofia italiana – Luigi Speranza
(Sannicandro di Bari).
Filosofo italiano. Grice: “Losurdo has contributed to a collection on ‘fatti
normativi’ which is fascinating!” -- Grice:
“I like Losurdo: describing Nietzsche as the aristocratic rebel is genial; he
also engages in some linguistic botanising with his ‘linguaggio dell’impero’:
something Romans and Brits know well – cf. ‘Great Britaiin’ and my little
England!” -- losurdo, Italian philosopher, expert not
on Grice, but Nietzsche, “Nietzsche, ribelle aristocratico” -- essential Italian philosopher. Si laurea a
Urbino sotto la guida di SALVUCCI con la tesi, “La semantica di Rodbertus”. Direttore
dell'Istituto di Scienze filosofiche e pedagogiche "Pasquale
Salvucci" all'Urbino, insegnò storia della filosofia nella stessa
università presso la facoltà di Scienze della Formazione. Inoltre fu presidente
dell'hegeliana Società internazionale Hegel-Marx per il pensiero dialettico, membro
della Società di scienze di Leibniz a Berlino (un'associazione di scienziati
che si rifà alla settecentesca Accademia Reale Prussiana delle Scienze nella tradizione
di Leibniz) e direttore dell'associazione politico-culturale Marx XXI. Dalla
militanza comunista alla condanna dell'imperialismo statunitense, fino allo
studio della questione afroamericana e di quella dei nativi, Losurdo fu
studioso anche partecipe della politica nazionale e internazionale. Di
formazione marxista, descritto sia come un «marxista controcorrente» sia come
un «marxista eterodosso» e un «comunista militante», la sua produzione spazia
dai contributi allo studio della filosofia kantiana (la cosiddetta autocensura
di Kant e il suo nicodemismo politico), alla rivalutazione dell'idealismo
classico tedesco, specie di Hegel, nel tentativo di riproporne l'eredità (sulla
scia di Lukács in particolare), alla riaffermazione dell'interpretazione del
marxismo tedesco e non (Gramsci e i Spaventa), con incursioni nell'ambito del
pensiero nietzscheano (la lettura di un Nietzsche radicale aristocratico) e di
quello heideggeriano (in particolare la questione dell'adesione al nazismo di Heidegger).
La sua riflessione filosofico-politica, attenta alla contestualizzazione del
pensiero filosofico nel proprio tempo storico, muove in particolare dai temi
della critica radicale del liberalismo, del capitalismo, del colonialismo e
dell'imperialismo, nonché della concezione tradizionale del totalitarismo (Arendt),
nella prospettiva di una difesa della dialettica marxista e del materialismo
storico, dedicandosi anche allo studio dell'antirevisionismo in ambito
marxista-leninista. Losurdo ha una visione molto critica della tradizione
intellettuale europea del liberalismo, in particolare della tradizione classica
e delle sue origini, sostenendo che pur pretendendo di enfatizzare l'importanza
della libertà individuale in pratica il liberalismo reale è a lungo
contrassegnato dalla sua esclusione di persone da questi diritti, con
conseguente sfruttamento come razzismo, schiavitù e genocidio. Afferma che le
origini del nazismo si trovano in quelle che considera politiche colonialiste e
imperialiste del mondo occidentale. Esaminando le posizioni intellettuali e
politiche degli intellettuali sulla modernità, Kant e Hegel furono i più grandi
pensatori della modernità mentre Nietzsche fu il suo più grande critico.
I suoi lavori, che lui stesso fa rientrare nell'ambito della storia delle idee,
riguardano inoltre l'indagine delle questioni di storia e politica contemporanee,
con una attenzione critica costante al revisionismo storico e la polemica
contro le interpretazioni di Furet e Nolte. In particolare critica una tendenza
reazionaria tra gli storici contemporanei revisionisti riconoscibile nel lavoro
di autori come Nolte, che traccia l'impeto dietro l'Olocausto agli eccessi
della rivoluzione russa; o Furet, che collega le purghe staliniane a una
«malattia» originata dalla rivoluzione francese. Secondo L. l'intenzione di
questi revisionisti è di sradicare la tradizione rivoluzionaria in quanto le
loro vere motivazioni hanno poco a che fare con la ricerca di una maggiore
comprensione del passato, ma si trovano nel clima e nei bisogni ideologici
delle classi politiche, come è più evidente nel lavoro dei revivalisti
imperiali Johnson e Ferguson. Fornisce inoltre una nuova prospettiva su
rivoluzioni come quella inglese, americana, francese, russa e quelle contro il
colonialismo e l'imperialismo. Si discosta anche dalle posizioni elogiative che
la maggior parte delle biografie prende nell'analisi di Gandhi e la
nonviolenza. L. volge la sua attenzione alla storia politica della
filosofia moderna tedesca da Kant a Marx e del dibattito che su di essa si
sviluppa in Germania, per poi procedere a una rilettura della tradizione del
liberalismo, in particolare partendo dalla critica e dalle accuse di ipocrisia
rivolte a Locke per la sua partecipazione finanziaria alla tratta degli
schiavi. Riprendendo ciò che afferma Arendt in Le origini del totalitarismo,
per Losurdo il vero peccato originale del Novecento è nell'impero coloniale di
fine Ottocento, dove per la prima volta si manifesta il totalitarismo e
l'universo concentrazionario. Controversia degli storici L. critica il
concetto di totalitarismo, sostenendo che fosse un concetto polisemico con
origini nella teologia cristiana e che applicarlo alla sfera politica
richiedeva un'operazione di schematismo astratto che utilizza elementi
isolati della realtà storica per collocare la Germania nazista e altri regimi
fascisti e l'Unione Sovietica e l'esperienza del socialismo reale e di altri
Stati socialisti nello stesso insieme, servendo così l'anticomunismo degli
intellettuali della guerra fredda piuttosto che riflettere la ricerca
intellettuale. Forte critico dell'equiparazione tra nazismo e comunismo
(in particolare quello sovietico) fatta da studiosi come Furet e Nolte, ma
anche da Arendt e Popper, nonché del concetto di «olocausto rosso», il suo
Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, sollevò un dibattito sulla
figura di Iosif Stalin, sul quale a suo avviso peserebbe una sorta di leggenda
nera costruita per screditare tutto il comunismo. Porta l'esempio che nel lager
vi era volontà omicida esplicita in quanto l'ebreo che vi entrava era destinato
a non uscire più (vi è una despecificazione naturalistica) mentre nel gulag no
(si tratta di despecificazione politico-morale) e nel primo venivano rinchiusi
quelli che il nazismo chiamava Untermensch – sottouomini -- mentre nel secondo
(in cui afferma finissero solo una parte dei dissidenti), pur essendo una
pratica da condannare, erano rinchiusi dissidenti da rieducare e non da
eliminare. Losurdo afferma che «il detenuto nel Gulag è un potenziale compagno
[la guardia stessa era tenuta a chiamarlo in questo modo] e dopo l'inizio del
biennio delle grandi purghe che seguono l'assassinio di Kirov] è comunque un
cittadino». Riprendendo anche l'opinione di Levi (internato ad Auschwitz,
secondo cui il lager era moralmente più grave del gulag) e contro Solženicyn
(internato in Siberia e che affermava l'equiparazione della volontà
sterminazionistica),sostiene che pur essendo grave che un Paese socialista nato
per abolire lo sfruttamento usi sistemi imperialisti e capitalisti, il gulag
sia analogo a molti campi di concentramento occidentali (i cui governi hanno
sostenuto e sostengono di essere paladini della libertà), che per certi versi
furono anche più affini al lager in quanto campo di sterminio e non di
rieducazione, riprendendo la storia del genocidio indiano. Egli sostiene anche
che i campi di concentramento e le colonie penali britanniche erano peggio di
qualsiasi gulag, accusando anche politici come Churchill e Truman di essere
autori di crimini di guerra e contro l'umanità pari (se non peggiori) di
quelli che sono stati poi attribuiti a Stalin. Losurdo ritiene inoltre che i
comunisti soffrano di autofobia, cioè paura di se stessi e della propria
storia, problema patologico che va affrontato, a differenza dell'autocritica
sana. Despecificazione politico-morale e despecificazione naturalistica La
despecificazione è l'esclusione di un individuo o di un gruppo dalla comunità
dei civili. Esistono due tipi di despecificazione: La despecificazione
politico-morale (in questo caso l'esclusione è dovuta a fattori politici o
morali). La despecificazione naturalistica (in questo caso l'esclusione è
dovuta a fattori biologici). Per L. la despecificazione naturalistica è
qualitativamente peggiore rispetto a quella politico-morale. Infatti mentre
quest'ultima offre almeno una via di scampo mediante il cambio di ideologia,
questo non è possibile nel caso in cui sia in atto una despecificazione
naturalistica, che è irreversibile in quanto rimanda a fattori biologici che
sono di per sé immodificabili. A differenza di altri pensatori ritiene quindi
che l'olocausto degli ebrei non è incomparabile ed è quindi disposto ad
ammettere in questo caso una tragica peculiarità. La comparatistica che L.
offre a proposito non vuole essere una relativizzazione o uno sminuire, ma
semplicemente considerare l'olocausto degli ebrei come incomparabile significa
perdere la prospettiva storica e dimenticarsi dell'olocausto nero (l'olocausto
dei neri) o dell'olocausto americano (l'olocausto dei nativi indiani d'America ottenuto
negli Stati Uniti mediante la continua deportazione sempre più a ovest e la
diffusione ad arte del vaiolo), oltre ad altri stermini di massa come il
genocidio armeno. Polemiche riguardanti Stalin Una recensione effettuata
da Guido Liguori su Liberazione (organo ufficiale del Partito della
Rifondazione Comunista) di Stalin. Storia e critica di una leggenda nera, libro
in cui L. critica la demonizzazione di Stalin effettuata dalla storiografia
maggioritaria e cerca di sottrarlo a quella che definisce «la leggenda nera su
di lui», è al centro di una polemica all'interno della redazione del suddetto
quotidiano. Venti redattori inviano una lettera di protesta al direttore del
giornale in cui si critica sia il tentativo di riabilitazione di Stalin
presente nel libro di Losurdo sia la recensione di Liguori (giudicata troppo
positiva nei confronti del libro), oltre che la scelta del direttore del
giornale di pubblicare tale recensione. Il libro riceve delle recensioni
critiche per le sue affermazioni e per la metodologia di lavoro utilizzata.I
critici di L. lo accusano di essere un «neostalinista». Grover Furr, autore di
Krusciov mentì e descritto come un «revisionista storico», un «revisionista in
una ricerca lunga una carriera per scagionare Stalin» e un «prezioso contributo
alla scuola revisionista storica degli studi sovietici e comunisti», elogia il
lavoro di L., in particolare quello su Stalin, iniziando un'amicizia reciproca.
Nel introduce Furr a un editore italiano
che pubblica la traduzione italiana di Khruschev mentì, per cui scrive
l'introduzione. Aveva già scritto l'introduzione e il retrocopertina del libro
di Furr sull'assassinio di Kirov che rimane inedito. Negli estratti di un
convegno organizzato per rivalutare la figura di Stalin a cinquant'anni
dalla morte critica le rivelazioni contenute nel rapporto segreto di Chruščёv,
l'allora segretario generale del Partito Comunista dell'Unione Sovietica.
Secondo Losurdo la cattiva fama di Stalin deriverebbe non dai crimini commessi
da quest'ultimo (paragod altri del suo tempo), ma dalle falsità presenti in
quel rapporto che Chruščёv lesse nel corso del Congresso. Nella relazione al
convegno dà credito a una delle accuse principali che stavano alla base della
sanguinosa repressione staliniana contro gli oppositori, ovvero l'esistenza
nell'Unione Sovietica della «realtà corposa della quinta colonna» pronta ad
allearsi col nemico. Losurdo ribadisce di non voler riabilitare Stalin, seppur
calato nella sua epoca, volendo presentare solo un'analisi dei fatti più
neutrale e attuare un revisionismo sull'esperienza generale del socialismo
reale ritenuta passata, ma utile da studiare per capire le dinamiche future del
socialismo. Losurdo apparteneva alla corrente del marxismo-leninismo, ma
ammirava anche l'interpretazione che Mao Zedong diede della pluralità della
lotta di classe, da collocare nel contesto dell'attenzione che rivolge al
processo di emancipazione femminile e dei popoli colonizzati. Vicino prima al
Partito Comunista Italiano, poi al Partito della Rifondazione Comunista e
infine al Partito dei Comunisti Italiani, confluito nel Partito Comunista
d'Italia e nel Partito Comunista Italiano, di cui è stato membro, fu anche
direttore dell'associazione politico-culturale Marx XXI. Critico del liberalismo,
della NATO e dell'imperialismo, in particolare quello statunitense, Losurdo
contestò l'assegnazione del Premio Nobel per la pace a Xiaobo, considerato un
sostenitore aperto del colonialismo occidentale, in particolare per la sua
idealizzazione del mondo occidentale e per aver affermato che ci sarebbe
bisogno di «300 anni di colonialismo. In 100 anni di colonialismo Hong Kong è
cambiata fino a diventare ciò che è oggi. Data la grandezza della Cina,
ovviamente ci vorrebbero 300 anni per trasformarla in quello che Hong Kong è
oggi. E ho dei dubbi che 300 anni siano abbastanza». Saggi: “Auto-censura e
compromesso” (Napoli, Bibliopolis); “La questione nazionale, restaurazione.
Presupposti e sviluppi di una battaglia politica” (Urbino, Università degli
Studi);“La rivoluzione e la crisi della cultura” (Roma, Riuniti); “Lukacs” Urbino,
Quattro venti, Il comunismo e sui critici (Urbino, Quattro venti, La catastrofe
e l'immagine” (Milano, Guerini, Metamorfosi del moderno.Urbino, Quattro venti);
“La tradizione liberale. Libertà, uguaglianza, Stato, Roma, Riuniti); “Tramonto
dell'Occidente? Atti del Convegno organizzato dall'Istituto italiano per gli
studi filosofici e dalla Biblioteca comunale di Cattolica. Cattolica, Urbino,
Quattro venti, Antropologia, prassi, emancipazione. Problemi del comunismo, e Urbino,
Quattro venti, Égalité-inégalité. Atti del Convegno organizzato dall'Istituto
italiano per gli studi filosofici e dalla Biblioteca comunale di Cattolica. Cattolica,
Urbino, Quattro venti, Prassi. Come orientarsi nel mondo. Atti del convegno
organizzato dall'Istituto Italiano per gli Studi filosofici e dalla Biblioteca
Comunale di Cattolica (Urbino, Quattro venti); La comunità, la morte,
l'Occidente. L’ideologia della guerra, Torino, Boringhieri, Massa folla
individuo. Atti del Convegno organizzato dall'Istituto italiano per gli studi
filosofici e dalla Biblioteca comunale di Cattolica. Cattolica, Urbino, Quattro
venti, La libertà dei moderni, Roma, Riuniti, Napoli, La scuola di Pitagora,.
Rivoluzione francese e filosofia, Urbino, Quattro venti); “Democrazia o
bonapartismo. Trionfo e decadenza del suffragio universale” (Torino, Bollati
Boringhieri, Il comunismo e il bilancio storico del Novecento, Gaeta,
Bibliotheca, Napoli, La scuola di Pitagora, Gramsci e l'Italia. Atti del
Convegno internazionale di Urbino, Napoli, La città del sole, La seconda
Repubblica. Liberismo, federalismo, post-fascismo, Torino, Boringhieri); “Autore,
attore, autorità” (Urbino, Quattro venti); Il revisionismo storico. Problemi e
miti, Roma, Laterza, Utopia e stato d'eccezione. Sull'esperienza storica del
socialismo reale, Napoli, Laboratorio politico, Ascesa e declino delle
repubbliche, Urbino, Quattro venti, Lenin, Atti del Convegno internazionale di
Urbino, Napoli, La città del sole, Metafisica. Il mondo Nascosto, Roma, Laterza,
Gramsci dal liberalismo al comunismo critic, Roma, Gamberetti, Dai fratelli
Spaventa a Gramsci. Per una storia politico-sociale della fortuna di Hegel in
Italia” (Napoli, La città del sole); “Hegel e la Germania. Filosofia e
questione nazionale tra rivoluzione e reazione, Milano, Guerini, Nietzsche. Per
una biografia politica, Roma, Manifesto); “Il peccato originale del Novecento,
Roma, Laterza, Dal Medio Oriente ai Balcani. L'alba di sangue del secolo
americano, Napoli, La città del sole, Fondamentalismi. Atti del Convegno
organizzato dall'Istituto italiano per gli studi filosofici e dalla Biblioteca
comunale di Cattolica. Cattolica Urbino, Quattro venti, URSS: bilancio di
un'esperienza. Atti del Convegno italo-russo. Urbino, Urbino, Quattro venti, L'ebreo,
il nero e l'indio nella storia dell'Occidente, Urbino, Quattro venti, Fuga
dalla storia? Il movimento comunista tra autocritica e auto-fobia, Napoli, La
città del sole, poi Fuga dalla storia? La rivoluzione russa e la rivoluzione
cinese oggi, La sinistra, la Cina e l'imperialismo, Napoli, La città del sole, Universalismo
e etno-centrismo nella storia dell'Occidente, Urbino, Quattro venti, La
comunità, la morte, l'Occidente. Heidegger e l'ideologia della guerra (Torino,
Boringhieri); “Nietzsche, il ribelle aristocratico. Biografia intellettuale e
bilancio critico, Torino, Boringhieri, Cinquant'anni
di storia della repubblica popolare cinese. Un incontro di culture tra Oriente
e Occidente. Atti del Convegno di Urbino, Napoli, La città del sole, Dalla
teoria della dittatura del proletariato al gulag?, Marx e Engels, Manifesto del
partito comunista, Laterza, Bari, Contro-storia del liberalismo, Roma, Laterza,
La tradizione filosofica napoletana e l'Istituto italiano per gli studi
filosofici, Napoli, nella sede dell'Istituto, Auto-censura e compromesso nel
pensiero politico di Kant, Napoli, Bibliopolis, Legittimità e critica del
moderno. Sul marxismo di Gramsci” (Napoli, La città del sole); “Il linguaggio
dell'Impero. Lessico dell'ideologia americana” (Roma-Bari, Laterza); “Stalin.
Storia e critica di una leggenda nera, Roma, Carocci); “Paradigmi e fatti
normativi. Tra etica, diritto e politica, Perugia, Morlacchi, La non-violenza.
Una storia fuori dal mito, Roma, Laterza, La lotta di classe. Una storia
politica e filosofica, Roma, Laterza, La sinistra assente. Crisi, società dello
spettacolo, guerra, Carocci,. Un mondo senza guerre. L'idea di pace dalle
promesse del passato alle tragedie del presente, Carocci. Il comunismo occidentale.
Come nacque, come morì, come può rinascere, Laterza. PCI Ancona: cordoglio per la scomparsa, su il
partito comuista italiano, A. Orsi, Scienza e militanza. Un ricordo, MicroMega,
Cordoglio, Il Metauro, Verso, Il linguaggio dell'Impero. Lessico dell'ideologia
americana, Roma, Laterza. Il comunista contro-corrente. Un comunista eterodosso.
Auto-censura e compromesso in Kant, Napoli, Bibliopolis, Hegel e la libertà dei
moderni, Roma, Riuniti, Napoli, La scuola di Pitagora, Lukacs, Urbino, Quattro
venti, Dai fratelli Spaventa a Gramsci. Per una
storia politico-sociale della fortuna di Hegel in Italia, Napoli, La città del
sole, Nietzsche. Il ribelle aristocratico. La comunità, la morte, l'Occidente.
Heidegger e l'deologia della guerra; Controstoria del liberalismo, Laterza, Revisionismo
storico. Peccato originale del
Novecento. La non-violenza. Una storia
fuori dal mito. La non-violenza. Una
storia fuori dal mito, su L'Ernesto, Associazione Marx, Dalla teoria della
dittatura del proletariato al gulag?, in
Marx, Engels, Manifesto del partito comunista, Editori Laterza, Bari David
Broder. Jacobin. Stalin. Storia e critica di una leggenda nera. URSS: bilancio
di un'esperienza. Atti del Convegno italo-russo. Urbino, Urbino, Quattro venti,
Popper falso profeta, Contro Popper, Armando Editore, B. Lai e L.
Albanese. Fuga dalla storia? Il
movimento comunista tra auto-critica e auto-fobia. Il linguaggio dell'impero.
Lessico dell'ideologia, Lettere su Stalin; Stalin. Storia e critica di una
leggenda nera, su sissco. Stalin. Storia
e critica di una leggenda nera. A.
Romano, Canfora e lo stalinismo che non
fa male, ilcannocchiale. In Memoriam, La Città del Sole, Stalin nella storia
del Novecento, R. Giacomini, Teti, Una teoria generale del conflitto
sociale", Intervento al Congresso Nazionale del PdCI. Il Consiglio Direttivo
dell'associazione Marx Il Nobel per la
pace» a un campione del colonialismo e della guerra, il cavallo oscuro della
letteratura, Open Magazine, Open Magazine, H. Arendt Controstoria del
liberalismo A. Gramsci Genocidio indiano Grandi purgh, Heidegger, Marx, Nietzsche
Olocausto, Stalin Università degli Studi di Urbino "Carlo Bo" - blogspot.com.
Intervista RAI Filosofia, su filosofia.rai. Intervist RTV Svizzera, su you tube.com.
Domenico Losurdo. Losurdo. Keywords: il ribelle aristocratico. Refs.: Luigi Speranza, "Grice, Losurdo, e
Nietzsche, ribelle aristocratico," per il Club Anglo-Italiano, The
Swimming-Pool Library, Villa Speranza, Liguria, Italia.
Grice e Lottieri: l’implicatura conversazionale del bene
commune – diritto individuale – l’età degl’eroi – la ragione del stato --
filosofia italiana – Luigi Speranza (Brescia).
Filosofo italiano. Grice: “I like
Lottieri; he has quoted Hobbes and Hume and Gauthier from a game-theoretical
approach to co-operation, conversational and other – all very Griceian, if I
may mayself so say it!” Allievo di Caracciolo, studia a Genova, Ginevra e
Parigi, su la filosofia di Mosca. Insegna a Siena e Verona. Da vita
all'Istituto Bruno Leoni, un istituto che si ispira alla tradizione
intellettuale di Einaudi e Ricossa, e di cui egli è direttore del dipartimento
Teoria Politica. Cura Leoni. La filosofia di Lottieri si sviluppa all'interno
del liberalismo classico e, grazie allo studio degli autori elitisti, si
delinea quale critica del sistema di dominio iscritto nei regimi democratici
rappresentativi. Mostra l'adesione a tale prospettiva, che rapidamente evolve
grazie al contatto con il libertarianismo. Il suo libertarianismo ottieri metta
in discussione "la psicologia regolamentativa e anti-innovativa del
burocrate", avverso a ogni forma di rischio e cambiamento. Il saggio
sul libertarismo evidenzia l'adesione ai temi classici del pensiero liberale
lockiano e giusnaturalista (difesa della proprietà, del mercato, dell'auto-nomia
negoziale), ma anche il maturare di questioni che sono invece tutte interne al
realismo politico: specie nel confronto con Schmitt, Brunner e Miglio.
Mentre il testo sul rapporto tra economia di mercato e ordine sociale/comunitario
(Denaro e comunità) è una critica della sociologia, a cui è rimproverato di
avere frainteso la natura inter-personale della moneta e delle relazioni di
mercato, il saggio su Leone muove dal pensatore torinese per delineare una
filosofia libertaria anche oltre la lettera stessa dell'autore di Freedom and
the Law. In particolare, in questa fase della riflessione Leoni viene
individuato come uno studioso in grado di dare una maggiore consapevolezza
filosofico-giuridica alla teoria libertaria, fino ad ora elaborata per lo più
da economisti e teorici politici. “Denaro e comunità: relazioni di mercato
e ordinamenti giuridici nella società liberale” (Napoli, Guida) “Il pensiero
libertario contemporaneo. Tesi e controversie sulla filosofia, sul diritto e
sul mercato, Macerata, Liberi “Le ragioni del diritto: libertà individuale e
ordine giuridico” (Treviglio Mannelli, Rubbettino); “Come il federalismo fiscale
può salvare il Mezzogiorno” (Soveria Mannelli, Rubbettino); “Credere nello Stato?
Teologia politica e dissimulazione da Filippo il Bello a Wiki Leaks” (Soveria
Mannelli, Rubbettino); “Liberali e non: (cf. Griceiani e non.) percorsi di
storia del pensiero politico” (Brescia, La Scuola); Ferrero in Svizzera.
Legittimità, libertà e potere, Roma, Studium,
Un'idea elvetica di libertà. Nella crisi della modernità europea” (Brescia,
Scuola); ““Beni comuni, diritti individuali e ordine evolutivo,”Torino, IBL. Nella
sua filosofia sull'unificazione europea, in particolare, è cruciale
l'opposizione tra l'armonizzazione spontanea emergente dal basso e
l'unificazione coercitiva. Lottieri identifica quattro superstizioni o quattro
credenze erronee che sotto alla base dei tentativi di creare un nuovo stato
chiamato ‘Europa'. Primo, l'idea che la libertà individuale e il poli-centrismo
giuridico causino tensioni e, in definitiva, conflitti; Secondo, che il mercato
derivi dall'ordine giuridico creato dallo Stato; Terzo, che l'esistenza di una
distinta identità europea esiga la costruzione di un singolo stato
continentale; e quarto, che un'Europa unificata e più armoniosa e meglio in
grado di sostenere lo sviluppo delle sue componenti più povere. Individuato
come uno degl’esponenti di un liberalismo particolarmente radicale e volto a
proporre una sorta di fuga dallo stato: Dario Fertlio, "Libertari: la
grande fuga dallo Stato, Corriere della Sera. Una disamina molto critica al
limite dell'insulto personale di tale liberalismo libertarian si ha nella
recensione che Vitale dedica al volume su Rothbard scritto a quattro mani da lui
assieme a Diciotti (basato su un confronto assai franco tra prospettive molto
diverse): una recensione che, rivolgendosi al solo Diciotti, si chiudeva con
l'invito per il futuro “ad occuparsi di un autore più interessante con un
autore più interessante” (E. Vitale, “Rothbard, un Trasimaco piccolo piccolo. E
una modestissima proposta”, Teoria politica). Vernaglione, Il libertarismo. La
teoria, gli autori, le politiche, Mannelli,
Rubbettino). Un riferimento garbatamente polemico alle sue posizioni gius-naturaliste
di si trova in D Antiseri (Laicità.. Le sue radici, le sue ragioni,
Rubbettino). La stessa contrapposizione è al fondo di una discussione tra i due
riguardante proprio i contenuti di quel volume://blog. centrodietica/?p=2005. Questo saggio e una presentazione completa e
approfondita della filosofia libertaria nelle sue diverse varianti, mentre si
evidenzia anche un approccio libertario ai problemi eco-logici. Ce sono riserve
nei riguardi delle tesi libertarie e dell'ispirazione anarchica della sua teoria
del diritto. Nella sua monografia su Leoni (L'ordine giuridico dei private” (Soveria
Mannelli, Rubbettino) pure Grondona sviluppa alcune critiche nei riguardi
dell'interpretazione dello studioso torinese offerta da lui mentre in maggiore
sintonia con le sue posizioni si trova Favaro (“ Dell'irrazionalità della legge
per la spontaneità dell'ordinamento” (Napoli, Scientifiche). Mostra che,
contrariamente a un'opinione diffusa, le distanze fra la concezione del diritto
di Leoni e quella di Hayek sono notevoli. In ogni caso non e Hayek a
influenzare Leoni ma il secondo a influenzare, almeno in parte, il primo. Per
un'equilibrata analisi del saggio si veda: M. Grondona, "Recensione Le ragioni del diritto", Nuova
Giurisprudenza Ligure. Carlo Lottieri. Lottieri. Keywords: bene commune,
diritto individuale. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Lottieri” – The
Swimming-Pool Library.
Grice e Luca: l’implicatura conversazionale nell’arte
d’amare – filosofia italiana – Luigi Speranza (Marostica). Filosofo italiano. Grice: “Luca expands on
Alcibiades – I have touched the topic of Alcibiade when discussing eudaemonia,
as literally having to do with the eudaemon – and the expression occurs in
connection with Socrate/Alcibiade -- Grice: “One good thing about Luca is that
if my philosophy revolves around ‘reason,’ his does it around ‘eros’!” -- Frequenta
il Liceo Ginnasio Brocchi di Bassano del Grappa. Si laurea a Firenze, con la
tesi, “Platone e il problema del linguaggio” con relatore Adorno. È stato incentrato inizialmente sulla
tematica dell’’amore’ nella tradizione greco-romana del Convitto e Fedro. Mmantenuto
però una costante apertura al ‘mythos’ di Omero, nella convinzione che per
quanto differenti possano essere i costumi o gli statuti sociali, rimane un
elemento per così dire “originario”, intrinsecamente umano, nell’approccio con
il desiderio, l’amore, l’amicizia, la sessualità. In Labirinti dell’Eros, pur
sviluppandosi la tematica all'interno di un arco di tempo definito, l’intento
non è quello di affrontare l’argomento nella sua unita longitudinale ma di
esprimere, senza costrizioni di un “per-corso pre-figurato” una distinzione
logico concettuale, attraverso la quale conseguire, almeno, un punto fermo
nell'amatoria. Riguarda anche lo sviluppo della tradizione
pitagorico-platonica, sia nelle sue caratteristiche peculiari ed in rapporto
alla metafisica, sia nell'accezione più ampia rispetto all'esigenza di dare
conto "dei fenomeni" o sensibilia. Si orientata alla tarda produzione
platonica e al pitagorismo di seconda generazione, che vengono analizzati anche
attraverso la cosmologia. Saggi: “Il Simposio, Nuova Italia, Firenze, Platone,
Fedro, Nuova Italia, Firenze, Eros e Epos: il lessico d'amore nei poemi
omerici, L’amatoria, L.S. Gruppo editoriale, Quarto Inferiore (BO); “Platone e
la sapienza antica. Matematica, filosofia e armonia, Marsilio, Venezia, Labirinti
dell’Eros. Da Omero a Platone, con un saggio, Marsilio Venezia. Roberto Luca. Luca.
Keywords: l’arte d’amare, Ovidio, il convito, I dialogui dell’amore: il convito
e Fedro, l’amore degl’eroi – achille e patroclo – niso ed eurialo – la
filosofia dell’amore nel convito, la morte di Patroclo, la morte di Niso, la
morte di Eurialo, l’eroe tragico, Achille eroe tragico, Eurialo e Niso, eroi
tragici, Enea, eroe tragico, Aiace, eroe tragico, Catone di Utica, eroe tragico,
la morte di Eurialo – la morte d’Eurialo – la pederastia – Eurialo piu giovane
da Niso. Luigi Speranza, “Grice e Luca: amatoria conversazionale: la massima o
principio dell’amore proprio conversazionale e la massima dell’amore all’altro.
Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Luca” – The Swimming-Pool Library. Luca.
Grice e Lucano:
il portico romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. The nephew of Seneca. He achieves fame with a poem
about the civil war between GIULIO (si veda) Caesar and Pompeo. He followed the
Porch, as tutored by Lucio Anneo Cornuto. Farsaglia. Marco Anneo Lucano.
Lucano.
Grice e Lucceio:
l’orto romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. A historian and a friend
of Cicerone. Some of Cicerone’s letters to L. suggests that he may have
followed the sect of the Garden. Citato da Svetonio. Amico di Giulio Cesare.
Citato da Livio. Lucio Lucceio. Keywords: Livio. Lucceio.
Grice e Luciano:
la gnossi -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He was a gnostic, a
follower of Cerdo. Luciano.
Grice e Luciano:
il cinargo romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. He studied at Rome with
Nigrino -- whom some suspect to be his
invention – and Albino, of the Accademia. Also influenced by Demonax, whose
philosophical outlook was more eclectic, although he is generally regarded as a
Cinargo. Luciano is famous for his essays and dialogues, mostly satirical, many
of which have survived. A number of philosophers appear in them, although not
all of them may have existed. As a satirist, he is more interested in mocking
pomposity and exposing hypocrisy than in advocating any positive doctrine.
Loeb. Luciano.
Grice e Lucilio:
l’implicatura conversazionale -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Alcuni romani insigni
nutrirono interesse vivo per i problemi della filosofia. L. Ciò si può dire di
un membro del circolo degli Scipioni, LUCILIO, nato a Sessa Aurunca da famiglia
ricca e distinta. L. ha un fratello che e senatore e, per mezzo della
figlia, nonno di Pompeo. L. conosce la cultura greca (di cui si penetra)
nell’Italia meridionale e a Roma, ove passa la maggior parte della vita. Forse
soggiorna anche in Atene. Come cavaliere L. partecipa alla guerra contro
Numanzia, agli ordini di Scipione Emiliano L'Affricano, con cui aveva già
stretti rapporti.In seguito appoggia delL'Affricano energicamente l'azione
politica. L. fa parte, oltrechè del circolo degli Scipioni, di uno più
ampio. L. e amico dell'accademico Clitomaco, che gli dedica un
libro. Morì a Napoli. L. scrive XXX libri di satire -- un genere
filosofico --, di cui restano frammenti.In esse satire, L. rappresenta e
critica la vita romana dell’età sua, interessandosi soprattutto di questioni
politiche.Dei vizi del tempo L. e giudice severo. L. si occupa molto di
problemi logico-grammaticali, retorici e letterari.Si interessa anche di
filosofia speculativa, alla quale deve avere dedicato una satira. Nei
framm. del l. 28 la teoria epicurea è confutata verisimilmente da un
accademico, anche perchè vi si trovano varie notizie sulla storia di tale
scuola. La forma e il contenuto delle satire di Lucilio rivelano
l’influsso della filosofia popolare del cinismo di Bione e di Menippo. Un
ampio frammento in cui Lucilio dipinta la virtù romana, secondo alcuni proviene
da Panezio, secondo altri da Cleante: però qualche storico pone Lucilio in
relazione con l'Accademia. Gaio Lucilio. Lucilio. Filosofo italiano. A poet, he
wrote many satirical works. Although philosophy was one of his subjects, many
of his writings were concerned with social morals and standards of public life.
Only fragments survive. Climotaco dedicated a work on the suspension of
judgment to him. Ed. Warmington Loeb ‘Remains of Old Latin.’ Gaio Lucilio. Keywords:
Livio. Lucilio.
Grice e Lucilio:
il portico romano -- l’implicatura
conversazionale -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Both a poet and a
philosopher. He is best known as the friend of Seneca, to whom CXXIV letters
were written discussing a wide range of issues from a primarily point of view
of the Porch. Gaio Lucilio Minore.
Grice e Lucio: il
cinargo romano -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza (Roma). Filosofo italiano. Of the Cynargo and an
opponent of Favorino. Lucio.
Grice e Lucrezio: l’orto romano –
l’limplicatura conversazionale dell’alma figlia di Giove – Roma == filosofia
italiana – Luigi Speranza (Pompei). Filosofo italiano. Grice: “By far the most important concept in Lucrezio’s
philosoophy is that of clinamen that Strawson translates as the ‘swerve.’ It
was saved from extinction by an Italian – as the novel tells you!” Grice:
“While Strawson reads it in Latin, I prefer the version in the vulgar!” – Grice:
“And by the vulgar I mean Marchetti!” Grice: “It’s amazing how well Marchetti
interprets Lucezio – there is a little treatise on Epicureanism in the Lucrezio
by Marchetti which is interesting. A real continuity in Italian philosophy!” --
possibly the most important Italian philosopher. Seguace dell'epicureismo. Della sua vita ci è ignoto
quasi tutto: egli non compare mai sulla scena politica romana, né sembra
esistere negli scritti dei contemporanei, in cui non viene mai citato, eccezion
fatta per la lettera di Cicerone ad Quintum fratrem II 9, contenuta nella
sezione Ad familiares, in cui il celebre oratore accenna all'edizione, forse
postuma, del poema di Lucrezio, che egli starebbe curando. Ma in scrittori
romani successivi egli viene spesso citato: ne parlano Seneca, Frontone, Marco
Aurelio, Quintiliano, Ovidio, Vitruvio, Plinio il Vecchio, senza tuttavia
fornire nuove informazioni sulla vita. Questo però dimostra che non si tratta
di un personaggio inventato. Un'altra fonte che lo cita è San Girolamo nel
suo Chronicon o Temporum liber, di cinque secoli dopo, in cui, ispirandosi ad
alcuni dubbi passi di Svetonio, ci dice che sarebbe nato morto suicida. Tale dato non concorda
tuttavia con quanto affermato da Elio Donato, maestro di Girolamo stesso,
secondo il quale Lucrezio sarebbe morto quando indossò la toga virile,
nell'anno in cui erano consoli per la seconda volta Crasso e Pompeo. Questo
dato ha fatto propendere a credere che Lucrezio mori nel 55 a.C., all'età di quarantatré anni.
Queste vengono comunemente considerate le uniche notizie biografiche tramandate
direttamente dall'antichità. Ignoto risulta anche il luogo di nascita,
che tuttavia taluni hanno creduto essere Ercolano, per la presenza di un
Giardino Epicureo in quest'ultima città, in particolare, dall'analisi di
numerose epigrafi risalenti all'epoca dell'autore latino, risulta evidente
un'ingente presenza del cognome Carus nell'antico territorio campano, secondo
la critica recente la suddetta indagine prova fermamente (nei limiti del probabile)
le origini campane di Lucrezio. Neppure la sua militanza politica sembra essere
ricostruibile: il desiderio di pace accennato prima non sembra affatto
ricordare il drammatico rancore dell'aristocratico, per altro solitamente
stoico, che vede sgretolarsi la Repubblica e la libertà, ma il desiderio
dell'"amico" epicureo, che vede nella pace e nel benessere di tutti
la possibilità di fare accoliti e viver serenamente. È tuttavia rilevante il
fatto che la sua opera De rerum natura sia dedicata a Memmio, fine letterato e
appassionato di cultura greca, ma anche e soprattutto membro di spicco degli
optimates. Tale era, del resto, il suo desiderio di pace da auspicare
alla fine del proemio della sua opera una "placida pace" per i
Romani. Questo anelito così forte alla pace è peraltro riscontrabile non solo
in Lucrezio, ma anche in Catullo, Sallustio, Cicerone, Catone l'Uticense e
perfino in Cesare: esso rappresenta il desiderio di un'intera società dilaniata
da un secolo di guerre civili e lotte intestine. La scarsità delle fonti
sulla sua vita ha portato molti a interrogarsi persino sulla stessa esistenza
del filosofo, a volte considerato solo uno pseudonimo sotto il quale si celava
un anonimo filosofo per alcuni un amico epicureo di Cicerone, Tito Pomponio
Attico, che si suicidò, o persino lo stesso Cicerone. Secondo lo storico
Luciano Canfora, è possibile ricostruire una scarna biografia di Lucrezio:
nacque ad Ercolano, dove aveva una villa la famiglia nobiliare di un possibile
parente, Marco Lucrezio Frontone) appartenente quasi sicuramente all'antica
famiglia nobile dei Lucretii (qualcuno ne fa invece un liberto della stessa
famiglia). Studiò l'epicureismo proprio ad Ercolano, dove si trovava un centro
della "filosofia del giardino", diretta da Filodemo di Gadara, allora ospite nella villa
di Lucio Calpurnio Pisone, il ricco suocero di Cesare (la cosiddetta "villa
dei papiri"). Avrebbe sofferto di sbalzi d'umore, chiamati oggi
disturbo bipolare, ma non sarebbe stato pazzo, ma di questo umore alterno risentì
il suo lavoro. In disaccordo con le guerre civili, avrebbe lasciato Roma e non
sarebbe morto suicida ma avrebbe viaggiato ad Atene, nei luoghi del maestro
Epicuro, e oltre, essendo forse il suo nome conosciuto da Diogene di Enoanda, quindi
quasi in Asia minore, nelle cui famose incisioni sotto il portico della sua
casa si ricorda un certo "Caro" (nome poco diffuso), romano, e
sapiente epicureo. Non si sa se il poema fosse diffuso nell'oriente,
quindi è possibile che Lucrezio si fosse davvero recato in Grecia. Lucrezio,
spinto da una delusione d'amore, si sarebbe allontanato lasciando incompiuto il
suo poema, affidato forse a Cicerone stesso (che difatti non parla
effettivamente di suicidio ma afferma: «Lucretii poemata, ut scribis, ita sunt:
multis luminibus ingenii, multae tamen artis» ("le poesie di Lucrezio,
come tu mi scrivi, sono dotate di molti lumi di talento, e tuttavia di molta
arte"), ma, forse, senza impazzire e morire (che fosse suicidandosi o
perché assassinato), esagerazione della fonte di Girolamo o di qualche altro
avversario di Lucrezio, e sarebbe stato forse volutamente confuso dallo stesso
Girolamo con Lucullo, onde screditare l'epicureismo. Il destinatario
dell'opera, Gaio Memmio, caduto in disgrazia ed espulso dal Senato per condotta
immorale, andò ad Atene, causando una nuova delusione a Lucrezio, che, tornato
a Roma, sarebbe morto. La notizia di un
"filtro d'amore" velenoso somministratogli da una donna di facili costumi,
amante gelosa di Lucrezio, viene riportata anche da Svetonio nei confronti di
Caligola e della moglie Milonia Cesonia; in questo caso è apparsa una semplice
diceria, e, data l'ispirazione svetoniana (dal perduto De poetis) del passo di
Girolamo su Lucrezio, anche lì sembra essere una spiegazione semplicistica,
dovuta alla poca conoscenza dei disturbi psichici che si aveva all'epoca (anche
per Caligola si parlò, difatti, come per Lucrezio, di epilessia e malattie
fisiche misteriose che l'avrebbero fatto impazzire improvvisamente, come, nel
caso di studiosi moderni, l'avvelenamento da piombo, oltre che dei detti
"filtri"). Se Lucrezio soffrì di un disagio psichico, che lo
avrebbe spinto a cercare sollievo nella filosofia, non fu a causa di un veleno,
e se il suicidio ci fu (il che potrebbe spiegare l'abbandono improvviso del
poema), la causa potrebbe essere stata di natura politica — come sarà più tardi
il caso di Catone Uticense —, ovverosia la rovina del suo protettore Memmio e
della sua cerchia culturale. Virgilio, che lo rispettava anche se era passato
dall'epicureismo, abbracciato in gioventù, alle teorie pitagoriche, parla di
lui nelle Georgiche e nelle Bucoliche, definendolo "felix" (ossia
"prediletto dalla dea Fortuna") e non "folle". Secondo
Guido Della Valle, la V ecloga, che parla della morte di un personaggio
chiamato Dafni (a volte identificato con Cesare, a volte con Flacco, il
fratello di Virgilio), potrebbe riferirsi invece alla morte dello stesso
Lucrezio, definita "immatura e innaturale", cioè avvenuta per cause
traumatiche. Il movente politico e morale del gesto potrebbe essere la causa
del silenzio attorno ad esso e del fiorire di aneddoti per giustificarlo, dato
che non si poteva cancellare la grandezza filosofica di Lucrezio, con una sorta
di damnatio memoriae di solito riservata ai nemici politici. Essi erano
spesso vittime delle liste di proscrizione dei vincitori, come quella di Marco
Antonio che colpirà Cicerone, e molti si toglievano la vita, in quanto morte
onorevole per i costumi romani; Virgilio e Orazio, estimatori di Lucrezio,
facevano parte della corte di Augusto, e dovevano quindi allinearsi alla linea
culturale dettata dall'imperatore, assertore dell'antica moralità e diffusore
della leggenda di Cesare (per cui venivano cancellate le espressioni scomode di
dissenso), e dal suo amico Mecenate, in cui l'epicureismo, se non sfumato come
in Orazio appuntocosì come ogni opera che non fosse celebrativa del princeps e
della grandezza di Roma non trovava spazio, per cui Lucrezio verrà ricordato
solo come grande poeta, tralasciandone l'aspetto filosofico. Secondo
Della Valle, quindi, Lucrezio si sarebbe tolto la vita come gesto di protesta
contro la classe politica in ascesa, o perché condannato a morte da essa. Lucrezio,
per il periodo in cui è vissuto, personaggio scomodo: gli ideali epicurei di
cui era profondamente intriso corrodevano le basi del potere di una Roma alla
vigilia della congiura di Catilina. In un'epoca di tensioni repubblicane,
infatti, isolarsi dalla realtà politica nell'hortus epicureo significa
sottrarsi ai negotia politici e uscire di conseguenza anche dalla sfera
d'influenza del potere. Le più forti correnti stoiche, ostili all'epicureismo,
avevano permeato la classe dirigente romana in quanto più conformi alla
tradizione guerriera dell'Urbe. L'epicureismo era invece presente anche
attraverso il citato Filodemo e altri in Campania, dove Virgilio avrebbe
approfondito la sua conoscenza dell'epicureismo. Orazio non lo nomina, ma è
evidente che lo conosce, e ideologicamente gli è più vicino di altri. La natura
poetica del De rerum natura fa sì che Lucrezio col suo pessimismo esistenziale
avanzi profezie apocalittiche, visioni quasi allucinate, critiche e ambigue
espressioni (Grice), che accompagnano il poema. Alcuni teologi come San
Girolamo ed altri, hanno dato di lui l'immagine di un ateo psicotico in preda
alle forze del male. Appoggiandosi alla psicoanalisi qualcuno ha sostenuto che
in certi bruschi cambiamenti di immagine e di pensiero ci fossero i sintomi di
una pazzia delirante o di problemi di ordine psichico. In realtà l'ipotizzata
pazzia di Lucrezio appare oggi più plausibilmente un tentativo di
mistificazione per screditare il poeta, così come la presunta morte per
suicidio sarebbe stato l'esito di un modo di pensare perverso, che travia chi
lo segue. L'ipotesi dell'epilessia poi, viene avanzata sulla base dell'arcaica
credenza che il poeta fosse sempre un invasato; elemento quest'ultimo da
collegare alla credenza che gli epilettici fossero sacri ad Apollo e da lui
ispirati nelle loro creazioni. Comunque altri scrittori cristiani come Arnobio
e Lattanzio affermarono che egli non fosse pazzo e che non si fosse ucciso.
L'ipotesi della follia e del suicidio attestata dal Chronicon di Girolamo si
fondava su illazioni di Svetonio, peraltro di difficile verifica. Potrebbe
anche esserci stata una confusione dovuta all'abbreviazione “Luc.,” impiegata
indifferentemente nei codici latini per indicare i nomi di Lucillius, Lucullus
e Lucretius. Plutarco scrisse infatti di un certo Licinio Lucullo, politico,
generale e cultore dei piaceri, che morì dopo essere impazzito a causa di un
filtro d'amore. L'errore di interpretazione dell'abbreviazione “Luc.” potrebbe
così aver permesso lo scambio dei due personaggi. A causa dell'impossibilità di
ricostruire i momenti salienti della sua vita, dunque, il progetto filosofico
che egli volle esprimere è ricostruibile interamente solo dalla sua opera,
considerata tra le più vigorose d'ogni età. Bisogna ora individuare le
motivazioni che spinsero Lucrezio a scrivere il De rerum natura, che
fondamentalmente sono due. La prima è una ragione etico-filosofica, in quanto
Lucrezio, affascinato dalla filosofia epicurea, desiderava invitare il lettore
alla pratica di tale filosofia, incitandolo a liberarsi dall'angoscia della
morte e degli dèi. La seconda motivazione invece è di carattere storico.
Lucrezio era conscio che la situazione politica a Roma peggiorasse di giorno in
giorno: Roma era quadro ormai di continui scontri bellici e conseguenti
dissidi; giustappunto egli, con un evidente positivismo, voleva incoraggiare il
cittadino-lettore romano a non perdere la fiducia verso un successivo miglioramento
della situazione. Lucrezio si proponeva di rivoluzionare il cammino di Roma,
riportandolo all'epicureismo che era stato declinato in favore dello stoicismo.
La prima cosa da distruggere era la convinzione provvidenzialistica stoica e
più propriamente romana. Non c'era un dovere romano di civilizzare "l'orbe
terrifero e de le acque", come farà dire Virgilio alla Sibilla Cumana in
un colloquio con Enea. Non c'è una ragione seminale universale responsabile
della vita nel cosmo, destinata a deflagrare per poi ricominciare un nuovo,
identico, ciclo esistenziale, come voleva la fisica stoica, ma un mondo che non
è unico nell'universo, peraltro infinito, essendo uno dei tanti possibili. Non
c'è quindi nessun fine provvidenziale di Roma, essa è una Grande fra le Grandi,
ed un giorno perirà nel suo tempo. La religione, considerata come Instrumentum
regni, deve essere non distrutta, ma integrata nel contesto del viver civile
come utile ma falsa. Egli afferma fin dal libro I del De rerum natura. Tanto
male poté suggerire la religione. Ma anche tu forse un giorno, vinto dai
terribili detti dei vati, forse cercherai di staccarti da noi. Davvero,
infatti, quante favole sanno inventare, tali da poter sconvolgere le norme
della vita e turbare ogni tuo benessere con vani timori! Giustamente, poiché se
gli uomini vedessero la sicura fine dei loro travagli, in qualche modo
potrebbero contrastare le superstizioni e insieme le minacce dei vati... Queste
tenebre, dunque, e questo terrore dell'animo occorre che non i raggi del sole
né i dardi lucenti del giorno disperdano, bensì la realtà naturale e la
scienza... E perciò, quando avremo veduto che nulla può nascere dal nulla, allora
già più agevolmente di qui potremo scoprire l'oggetto delle nostre ricerche, da
cosa abbia vita ogni essenza, e in qual modo ciascuna si compia senza opera
alcuna di dèi. Lucrezio colpiva direttamente la credenza negli dèi latini
sostenendo che non c'è preghiera che schiuda le fauci di una tempesta, giacché
essa è regolata da leggi fisiche e gli dèi, seppur esistenti e anche loro
composti da atomi così sottili che ne assicurano l'immortalità, non si curano
del mondo né lo reggono; ma la religione deve essere inglobata nella scoperta e
nello studio della natura, che rasserena l'animo e fa comprendere la vera
natura delle cose: infatti l'unico principio divino che regge il mondo è la
Divina Voluptas, Venere: il piacere, la vita stessa intesa come animazione
regge l'universo, ed è l'unica cosa in grado di fermare lo sfacelo che sta
portando Roma alla fine: Marte, ovvero la Guerra. Proprio per questo, egli
elogia Atene, creatrice di quegli intelletti più grandi che hanno illuminato la
natura e quindi l'uomo stesso, ed in ultima istanza Epicuro, sole invitto della
conoscenza rasserenatrice. Non solo, egli stesso si sente quasi un poeta
rasserenatore delle tempeste umane e proprio per questo si sente profondamente
affine ai poeti delle origini, il cui luogo principe è in Empedocle (secondo
infatti per elogi solo a Epicuro) ma con una sola grande differenza: egli non è
portatore di una verità divina fra le umane genti, ma di una verità affatto
umana, universale e per tutti, che attecchirà ben presto per la salvezza di
Roma.[31] Epicuro è comunque, per Lucrezio, il più grande uomo mai esistito,
come risulta dai tre inni a lui dedicati (chiamati anche "trionfi" o
"elogi"): «E dunque trionfò la vivida forza del suo animo. E si
spinse lontano, oltre le mura fiammeggianti del mondo. E percorse con il cuore
e la mente l'immenso universo, da cui riporta a noi vittorioso quel che può
nascere, quel che non può, e infine per quale ragione ogni cosa ha un potere
definito e un termine profondamente connaturato. Perciò a sua volta abbattuta
sotto i piedi la religione è calpestata, mentre la vittoria ci eguaglia al
cielo. Il De rerum natura e un poema didascalico in esametri, di genere
scientifico-filosofico, suddiviso in sei libri (raccolti in diadi),
comprendente un totale di 7415 versi, che illustrano fenomeni di dimensioni
progressivamente più ampie: dagli atomi si passa al mondo umano per arrivare ai
fenomeni cosmici. Riproduce il modello prosastico e filosofico epicureo e la
struttura del poema Περὶ φύσεως di Empedocle (anche un'opera di Epicuro aveva
il medesimo titolo). Secondo i filologi vi sono corrispondenze e simmetrie
interne che corrisponderebbero ad un gusto alessandrino. L'opera infatti è
suddivisa in tre diadi, che hanno tutte un inizio solare ed una fine tragica.
Ogni diade contiene un inno ad Epicuro, mentre il secondo e il terzo libro (in
quest'ultimo è presente anche un'esposizione della sua estetica) si aprono
entrambi con un inno alla scienza. Essendo un poema didascalico, ha come
modello Esiodo e quindi anche Empedocle, che aveva preso il modello esiodeo
come massimo strumento per l'insegnamento della filosofia. Altri modelli
potrebbero essere i poeti ellenistici Arato e Nicandro di Colofone, che usavano
il poema didascalico come sfoggio di erudizione letteraria. Il destinatario e i
destinatari Il dedicatario dell'opera è la Memmi clara propago (I 42), ovvero
il rampollo della famiglia dei Memmi, che solitamente si identifica con Gaio
Memmio. Più in generale, si può dire che il destinatario che l'autore si
prefigge di conquistare è il giovane aperto ad ogni esperienza, che un giorno
prenderà il posto dei politici e attuerà quella rivoluzione propugnata con
tanto fervore da Lucrezio. Ma, almeno con Memmio, egli fallì: da adulto divenne
un dissoluto, fraintendendo il significato di piacere catastematico epicureo, e
fu allontanato dal Senato probri causa, cioè per immoralità. Riparò quindi in
Grecia, dove scrisse poesie licenziose e dove ce lo menziona anche Cicerone
(nelle Ad Familiares), intenzionato a distruggere la casa e il giardino in cui
proprio Epicuro risiedette, per costruirsi un palazzo, suscitando lo sdegno
degli epicurei che fecero istanza a Cicerone stesso di intervenire per
impedirglielo, senza che però Cicerone ci riuscisse. In un simile progetto
Lucrezio scelse di doversi rifare ad un modello di stile arcaico, che vedeva in
Livio Andronico, ma soprattutto in Ennio e in Pacuvio i modelli emuli, per
motivi fra loro quanto meno vari: l'egestas linguae (povertà della lingua), lo
vede costretto a dover arrangiare le lacune terminologiche e tecnicistiche con
l'arcaismo, ancora che proprio Lucrezio, insieme a Cicerone, sia uno dei
fondatori del lessico astratto e filosofico latino, e a colmare e ancor meglio
comprendere l'oscurità del filosofo con la mielosa luce della poesia. Discendendo
più in profondità nelle anguste gole del poema, si notano anche altri problemi
cui dovette far fronte: primo fra tutti, come tradurre parole di pregnanza
filosofica in latino, che ancora non aveva termini confacenti. Finché poté,
egli evitò la semplice translitterazione (ad es. "Atomus" per Ατομος)
e preferì invece usare altri termini presenti già nella sua lingua magari
dandogli altra accezione oppure (come mostrato anche sopra) creando neologismi.
Ed è proprio grazie all'arcaismo che Lucrezio riesce a rendere possibile tutto
questo: infatti era proprio dello stile arcaico il neologismo
"munificenza" ed anche un certo uso (convulso a detta di antichi e
moderni) delle figure di suono quali allitterazioni, consonanze, assonanze e
omoteleuti. Molto importante è anche il fatto che Lucrezio non si limitò a
trasmettere il messaggio di Epicuro con un arido scritto filosofico, ma lo fece
attraverso un poema che, a differenza del rigoroso linguaggio razionale della
filosofia, parla per squarci imaginifici. Sul piano teorico l'opera di Lucrezio
si caratterizza come una puntualizzazione di quella epicurea con alcune
esplicazioni che nel suo referente greco non erano abbastanza chiare. Il
concetto di parenklisis che Lucrezio tradurrà con clinamen mancava di
definizione chiara. Nella Lettera ad Erodoto Epicuro poneva infatti la
parenklisis ma poi parla piuttosto di una deviazione per urto. Il celebre
passaggio del libro II del De rerum natura dice: «Perciò è sempre più
necessario che i corpi deviino un poco; ma non più del minimo, affinché non ci
sembri di poter immaginare movimenti obliqui che la manifesta realtà smentisce.
Infatti è evidente, a portata della nostra vista, che i corpi gravi in se
stessi non possono spostarsi di sghembo quando precipitano dall’alto, come è
facile constatare. Ma chi può scorgere che essi non compiono affatto alcuna
deviazione dalla linea retta del loro percorso? Lucrezio precisa poi
ulteriormente le modalità del clinamen aggiungendo: «Infine, se ogni moto
è legato sempre ad altri e quello nuovo sorge dal moto precedente in ordine
certo, se i germi primordiali con l’inclinarsi non determinano un qualche inizio
di movimento che infranga le leggi del fato così che da tempo infinito causa
non sussegua a causa, donde ha origine sulla terra per i viventi questo libero
arbitrio, donde proviene, io dico, codesta volontà indipendente dai fati, in
virtù della quale procediamo dove il piacere ci guida, e deviamo il nostro
percorso non in un momento esatto, né in un punto preciso dello spazio, ma
quando lo decide la mente? Infatti senza alcun dubbio a ciascuno un proprio
volere suggerisce l’inizio di questi moti che da esso si irradiano nelle membra]»
Per quanto riguarda la sfera del vivente Lucrezio la collega direttamente agli
atomi nel loro processo creativo, scrivendo: «Così è difficile
rescindere da tutto il corpo le nature dell'animo e dell'anima, senza che tutto
si dissolva. Con particelle elementari così intrecciate tra loro fin
dall’origine, si producono insieme fornite d’una vita di eguale destino: ed è
chiaro che ognuna di per sé, senza l’energia dell’altra, le facoltà del corpo e
dell’anima separate, non potrebbero aver senso: ma con moti reciprocamente
comuni spira dall’una e dall’altra quel senso acceso in noi attraverso gli
organi. Lucrezio riprende in maniera radicale la tesi già di Epicuro. La
religione è la causa dei mali dell'uomo e della sua ignoranza. Egli ritiene che
la religione offuschi la ragione impedendo all'uomo di realizzarsi degnamente
e, soprattutto, di poter accedere alla felicità, da raggiungere attraverso la
liberazione dalla paura della morte. Il poema ha come argomenti principali la
lacerante antinomia fra ratio e religio, l'epicureismo e il progresso. La ratio
è vista da Lucrezio come quella chiarità folgorante della verità «che squarcia
le tenebre dell'oscurità», è il discorso razionale sulla natura del mondo e
dell'uomo, quindi la dottrina epicurea, mentre la religio è ottundimento
gnoseologico e cieca ignoranza, che lo stesso Lucrezio denomina spesso con il
termine "superstitio". Indica l'insieme di credenze e dunque di
comportamenti umani "superstiziosi" nei confronti degli dèi e della
loro potenza. Poiché la religio non si basa sulla ratio essa è falsa e
pericolosa. Afferma che sono evidenti le nefaste conseguenze della religione e
adduce come esempio il caso di Ifigenia, dicendo poi che il mito è una
rappresentazione falsata della realtà, come nell'Evemerismo. La religione è
perciò la causa principale dell'ignoranza e dell'infelicità degli uomini. Lucrezio
riprende i temi principali della dottrina epicurea, che sono: l'aggregazione
atomistica e la "parenklisis" (che egli ribattezza clinamen), la
liberazione dalla paura della morte, la spiegazione dei fenomeni naturali in
termini meramente fisici e biologici. Egli opera un completamento di essa in
senso naturalistico ed esistenzialistico, introducendo un elemento di
pessimismo, assente in Epicuro, probabilmente da attribuirsi a una personalità
malinconica. Da un punto di vista ontologico, secondo Lucrezio, tutte le specie
viventi (animali e vegetali) sono state "partorite" dalla Terra
grazie al calore e all'umidità originari. Ma egli avanza anche un nuovo
criterio evoluzionistico: le specie così prodotte sono infatti mutate nel corso
del tempo, perché quelle malformate si sono estinte, mentre quelle dotate degli
organi necessari alla conservazione della vita sono riuscite a riprodursi. Tale
concezione atea, materialista, antiprovvidenzialista e storica della natura
sarà ereditata e rielaborata da molti pensatori materialisti dell'età moderna,
in particolare gli illuministi Diderot, d'Holbach e La Mettrie, anch'essi atei
dichiarati e a loro volta divulgatori dell'ateismo; Lucrezio sarà inoltre
seguito da Ugo Foscolo e Giacomo Leopardi. Lucrezio nega ogni sorta di
creazione, di provvidenza e di beatitudine originaria e afferma che l'uomo si è
affrancato dalla condizione di bisogno tramite la produzione di tecniche, che
sono trasposizioni della natura. Però, il progresso non è positivo a priori, ma
solo finché libera l'uomo dall'oppressione. Se è invece fonte di degradazione
morale, lo condanna duramente. Lucrezio introduce nel III libro del De rerum
natura una chiarificazione che nel mondo latino era stata trascurata generando
non poche confusioni, circa il concetto di “animus” in rapporto a quello di
“anima” «Vi sono dunque calore e aria vitale nella sostanza stessa del corpo,
che abbandona i nostri arti morenti. Perciò, trovata quale sia la natura
dell'animo e dell'anima quasi una parte dell'uomo -, rigetta il nome di
armonia, recato ai musicisti già dall'alto Elicona, o che essi hanno forse
tratto d'altrove e trasferito a una cosa che prima non aveva un suo nome. Tu
ascolta le mie parole. Ora affermo che l'anima e l'animo sono tenuti Avvinti
tra loro, e formano tra sé una stessa natura. Ma è il capo, per così dire, è il
pensiero a dominare tutto il corpo: quello che noi denominiamo animo e mente e
che ha stabile sede nella zona centrale del petto. Qui palpitano infatti
l'angoscia e il timore, qui intorno le gioie provocano dolcezza; qui è dunque
la mente, l’animo. La restante parte dell’anima, diffusa per tutto il corpo,
obbedisce e si muove al volere e all’impulso della mente. Questa da sé sola
prende conoscenza, e da sé gioisce, quando nessuna cosa stimola l’anima e il
corpo. Lucrezio riprende il concetto ellenico di anima come "soffio vitale
che vivifica ed anima il corpo, ciò che i greci chiamavano psyché. Questo
soffio pervade tutto il corpo in ogni sua parte e lo abbandona solo “con
l'ultimo respiro". L'"animus" invece è identificabile col
"noùs" ellenico, traducibile in latino con mens. Dunque animus e mens
paiono essere o la stessa cosa o due elementi coniugati dell'unità mentale.
L'indicazione della “zona centrale del petto” come sede fa pensare al concetto
di “cuore”, ricorrente ancora oggi nel linguaggio comune per indicare la
sensibilità umana, centro dell'emozione e del sentimento. Parrebbe allora che
l'animus sia insieme e conoscenza e emozione, mentre l'anima è soffio vitale. L'angoscia
esistenziale Il De rerum natura è ricchissimo di elementi tipici
dell'esistenzialismo moderno, riscontrabile specialmente in Giacomo Leopardi,
che dell'opera di Lucrezio era un profondo conoscitore, anche se in realtà non
è noto il lasso di tempo in cui Leopardi lesse Lucrezio. Questi elementi di
angoscia hanno indotto alcuni studiosi a sottolineare il pessimismo di fondo
che si opporrebbe alla volontà di rinnovare il mondo a partire dalla filosofia
epicurea; in altre parole, in Lucrezio ci sarebbero due spinte contrapposte; l'una
dominata dalla razionalità e fiduciosa nel riscatto dell'uomo, l'altra
ossessionata dalla fragilità intrinseca degli esseri viventi e dal loro destino
di dolore e morte. Altri studiosi, però ritengono che l'insistenza di Lucrezio
sugli aspetti dolorosi della condizione umana non sia altro che una strategia
di propaganda, per fare emergere più fortemente la funzione salvifica della
ratio epicurea. S'intende, ciechi alla dottrina di Epicuro. Sul luogo di nascita: anche se c'è chi
afferma fosse nato a Roma, si ritiene quasi all'unanimità che fosse originario
della Campania: di Napoli, di Ercolano, o, secondo recenti studi epigrafici, di
Pompei, dove il nomen e il cognomen Tito e Lucrezio sono attestati, e la gens
Lucretia aveva delle ville cfr: Biografia di Lucrezio; o perlomeno vi avesse
abitato a lungo cfr. Enrico Borla, Ennio Foppiani, Bricolage per un naufragio.
Alla deriva nella notte del mondo, cfr. anche la Lucrezio Caro, Tito su
Enciclopedia Treccani Sulla data di
nascita: molti optano per il 98 a.C. o secondo altri 96 a.C. Secondo alcune fonti: Lucretius testimonia
vitae Luciano Canfora, Vita di Lucrezio, Sellerio, o secondo altri 53 a.C., cfr. Paolo Di Sacco,
M. Serio, "Odi et amoStoria e testi della letteratura latina" 1 "L'età arcaica e la repubblica",
Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, Sezione 2, Modulo. Testimonianze su
Lucrezio Canfora. Lucrezio, De rerum
natura, Lucrezio, De rerum natura, Enrico Fichera, I "templa serena"
e il pessimismo di Lucrezio: echi lucreziani nella letteratura, Roma, Bonanno
edizioni, G. Lippold, Testo per Arndt-Bruckmann, Griech. u. röm. Porträts,
Monaco. Enciclopedia dell'arte antica
Cfr. Gerlo, Benedetto Coccia, Il mondo classico nell'immaginario
contemporaneo Nel romanzo epistolare di
Tiziano Colombi, Il segreto di Cicerone, Palermo, Sellerio, Nomi romani:
glossario Canfora, Cicerone, Ep. ad
Quintum fratrem, II 9. SLucrezio Canfora, Classici: Lucrezio e il De rerum
natura Aldo Oliviero, Il suicidio di Lucrezio, su lafrontieraalta.com. Ettore
Stampini, Il suicidio di Lucrezio, Messina, Tipografia D'Amico, La risposta di
Virgilio a Lucrezio Guido Della Valle
(Napoli), pedagogista e docente universitario, autore di Tito Lucrezio Caro e
l'epicureismo campano, Napoli, Accademia Pontaniana, Lucrezio in Enciclopedia
Italiana Lucrezio: informazioni
biografiche ibidem La natura delle cose, Milano, Rizzoli, Eneide,
libro VI. La natura delle cose, cit.
supra81. Lucrezio, La natura delle cose,
La natura delle cose. Il De rerum natura
di Lucrezio Introduzione a Lucrezio accesso= Memmio su Enciclopedia
Italiana Lo stile di Lucrezio C.
Craca, Le possibilità della poesia. Lucrezio e la madre frigia in «De rerum
natura» IBari, Edipuglia, Epicuro, Opere, E. Bignone, Laterza Lucrezio, La
natura delle cose, Biagio Conte, Milano, Rizzoli, La natura delle cose, cit. supra271. De rerum natura, Diego Fusaro, Tito Lucrezio
Caro, su filosofico.net. e rerum natura, VTasso segue Lucrezio stilisticamente,
non ideologicamente: vedasi la famosa similitudine del proemio del libro IV, ripresa
nel proemio della Gerusalemme liberate, La natura delle cose, cit. supra, De rerum natura, Mario Pazzaglia, Antologia
della letteratura italiana. Lucrezio,
introduzione Edizioni De rerum natura, (Brixiae), Thoma Fer(r)ando
auctore, De rerum natura libri sex nuper emendati, Venetiis, apud Aldum, In
Carum Lucretium poetam commentarij a Joanne Baptista Pio editi, Bononiae, in
ergasterio Hieronymi Baptistae de Benedictis, De rerum natura libri sex a
Dionysio Lambino emendati atque restituti & commentariis illustrati,
Parisiis, in Gulielmi Rovillij aedibus, De rerum natura libri VI, Patavii,
excudebat Josephus Cominus, De rerum natura libri sex, Revisione del testo,
commento e studi introduttivi di Carlo Giussani, Torino, E. Loescher (importante edizione critica, tuttora
fondamentale). De rerum natura, Edizione critica con introduzione e versione
Enrico Flores, 3 Napoli, Bibliopolis, Traduzioni italiane Della natura delle
cose libri sei tradotti da Alessandro Marchetti, Londra, per G. Pickard. La
natura, libri VI tradotti da Mario Rapisardi, Milano, G. Brigola, 1880. Della
natura, Armando Fellin, Torino, POMBA. Della natura, Versione, introduzione e
note di Enzio Cetrangolo, Firenze, Sansoni, La natura delle cose, Introduzione
di Gian Biagio Conte, Traduzione di Luca Canali, Testo latino e commento Ivano
Dionigi, Milano, Rizzoli, 1990. La natura, Introduzione, testo criticamente
riveduto, traduzione e commento di Francesco Giancotti, Milano, Garzanti (Per
la specifica sul De rerum natura si
rimanda a tale voce) V.E. Alfieri, Lucrezio, Firenze, Le Monnier, A.
Bartalucci, Lucrezio e la retorica, in: Studi classici in onore di Quintino
Cataudella, Catania, Edigraf, M. Bollack, La raison de Lucrece. Constitution
d'une poetique philosophique avec un essai d'interpretation de la critique
lucretienne, Parigi, Les editions de Minuit, 1978. G. Bonelli, I motivi
profondi della poesia lucreziana, Bruxelles, Latomus, Boyancé, Lucrezio e
l'epicureismo, Edizione italiana Alberto Grilli, Brescia, Paideia, D.
Camardese, Il mondo animale nella poesia lucreziana tra topos e osservazione
realistica, Bologna, Patron,. Luca Canali, Lucrezio poeta della ragione, Roma,
Editori Riuniti, Luciano Canfora, Vita di Lucrezio, Palermo, Sellerio, G. Della
Valle, Tito Lucrezio Caro e l'epicureismo campano, Seconda edizione con due
nuovi capitoli, Napoli, Accademia Pontaniana, 1935. A. Gerlo,
Pseudo-Lucretius?, in: «L'Antiquité Classique»,F. Giancotti, Lucrezio poeta
epicureo. Rettificazioni, Roma, G. Bardi, 1961. F. Giancotti, Religio, natura,
voluptas. Studi su Lucrezio con un'antologia di testi annotati e tradotti,
Bologna, Patron, 1989. G. Giardini, Lucrezio. La vita, il poema, i testi
esemplari, Milano, Accademia, 1974. S. Greenblatt, Il manoscritto. Come la
riscoperta di un libro perduto cambiò la storia della cultura europea,
traduzione di Roberta Zuppet, Milano, Rizzoli,
H. Jones, La tradizione epicurea, Genova, ECIG, R. Papa, Veterum
poetarum sermo et reliquiae quatenus Lucretiano carmine contineantur, Neapoli,
A. Loffredo, [1963]. L. Perelli, Lucrezio poeta dell'angoscia, Firenze, La Nuova
Italia, L. Perelli, Lucrezio. Letture critiche, Milano, Mursia, A. Pieri,
Lucrezio in Macrobio. Adattamenti al testo virgiliano, Messina, Casa Editrice
D'Anna, V. Prosperi, Di soavi licor gli orli del vaso. La fortuna di Lucrezio
dall'Umanesimo alla Controriforma, Torino, N. Aragno, G. Sasso, Il progresso e
la morte. Saggi su Lucrezio, Bologna, Il Mulino, R. ScarciaE. ParatoreG.
D'Anna, Ricerche di biografia lucreziana, Roma, Edizioni dell'Ateneo, O.
Tescari, Lucretiana, Torino, SEI,O. Tescari, Lucrezio, Roma, Edizioni Roma, A.
Traglia, De Lucretiano sermone ad philosophiam pertinente, Roma, Gismondi,
1947. Scritti letterari Luca Canali, Nei pleniluni sereni. Autobiografia
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Tragedia, Roma, Edizioni della Cometa, Tiziano Colombi, Il segreto di Cicerone,
Palermo, Sellerio, 1993. Piergiorgio Odifreddi, Come stanno le cose. Il mio
Lucrezio, la mia Venere, Milano, Rizzoli, Alieto Pieri, Non parlerò degli dèi.
Il romanzo di Lucrezio, Firenze, Le Lettere, Epicureismo Esistenzialismo ateo
Storia dell'ateismo Tito Lucrezio Caro, su TreccaniEnciclopedie on line,
Istituto dell'Enciclopedia Italiana.
Tito Lucrezio Caro, in Enciclopedia Italiana, Istituto dell'Enciclopedia
Italiana. Tito Lucrezio Caro Opere di Tito Lucrezio Caro, su Liber Liber. openMLOL, Horizons Audiolibri di Tito
Lucrezio Caro, su LibriVox. Goodreads. De Rerum Natura: testo con concordanze e
liste di frequenza, su intratext.com. Intervista a Luca Canali su passioni e
razionalità in Lucrezio, dall'Enciclopedia multimediale delle scienze
filosofiche, su conoscenza.rai. Analisi critica del pensiero di Lucrezio, su
lucrezio.exactpages.com. V D M EpicureismoFilosofia Letteratura Letteratura Categorie: Poeti romaniFilosofi
romani 15 ottobre Roma Tito Lucrezio Caro Atomisti Epicurei Filosofi atei Lucretii
Storia dell'evoluzionismo Pre-esistenzialisti Personalità dell'ateismo. Refs.:
Lucretius, in The Stanford Encyclopaedia. Alma figlia di Giove, inclita
madre Del gran germe d'Enea, Venere bella, Degli uomini piacere e
degli Dei: Tu che sotto i girevoli e lucenti Segni del cielo
il mar profondo, e tutta D’ animai d'ogni specie orni la terra,
Che per se fora un vasto orror soUngo : Te Dea , fnggono i
venti: al primo arrivo Tuo svaniscon le nubi: a te germoglia Erbe e
fiori odorosi il suolo indnstre : Tu rassereni i giorni foschi, e
rendi Col dolce sguardo il mar chiaro e tranquillo, E splender fai
di maggior lume il ciclo. Qualor deposto il freddo ispido manto
L'anno ringiovanisce, « la soave Aura feconda di Favonio spira,,
Tosto tra fronde e fronde i vaghi augelli. Feriti il cor da' tuoi
pungenti dardi , Cantan festosi il tuo ritorno, o Diva;
Liete scorron saltando i grassi paschi Le fiere , e gonfi di nuor'
acqae i fìami Varcano a nuoto e i rapidi torrenti: Tal da'
teneri tuoi rezzi lascivi Dolcemente allettato ogni animale Desioso
ti segue ovunque il gnidi. In somma tu per mari e monti e
fiumi, Pe'boschi ombrosi e per gli aperti campi, Di piacevole amore
i petti accendi, E cosi fai che si conservi '1 mondo.
Or se tu sol della Natura il freno Reggi a tua voglia , e senza te
non vede Del di la luce desiata e bella, Nè lieta e amabil
fassi alcuna cosa: Te , Dea, te bramo per compagna all'opra,
In cui di scriver tento in nuovi carmi Di Natura i segreti e le
cagioni Al gran Memmo Gemello a te si caro , In ogni tempo, e d’ogni
laude ornato. Tu dunque , o Diva , ogni mio detto aspergi
D’eterna grazia, e fa’ cessare intanto E per mare e per terra il fiero
Marte, Tu, che sola puoi farlo : egli sovente D’ amorosa
ferita il cor trafitto Umil si posa nel divin tuo grembo. Or
mentr’ ei pasce il desioso sguardo Di tua beltà, ch'ogni beltade
avanza, E che l’anima sua da te sol pende, Deh ! porgi
a lui , vezzosa Dea , deh ! porgi A lui soavi preghi , e fa'ch’ ei
renda Al popol suo la desiata pace. Che se la patria nostra è
da nemiche Armi abitata, io più seguir non posso con animo quieto il
preso stile, nè può di Memmo il generoso figlio aS
l^egar sé stesso alla comaa salate. Tu, gran prole di Memmo,
ora mi porgi Grate ed attente orecchie, e ti prepara, Lungi da te
cacciando ogni altra cura, Alle vere ragioni , e non volere I
miei doni sprezzar pria che gl’ intenda. Io narrerotti in che maniera il
cielo con moto alterno ognnr si volga c giri j Degli Dei la natura,
e delle cose Gli alti principi , e come nasca il tutto ; Come poi
-si nutrichi, e come cresca, Ed in che finalmente ei si risolva
: £ ciò da noi nell’avvenir dirassi primo corpo, materia, o
primo seme, o corpo genitale , essendo quello Onde prima si forma
ogni altro corpo: Che d'uopo é pur che’n somma eterna pace
Yivan gli Dei per lor natura , e lungi Stian dal governo delle cose umane
, Scevri d' ogni dolor, d’ogni periglio, biechi sol di lor
stessi, e di lor fuori di nulla bisognosi, e che nè metto Nostro gli
alletti, o colpa accenda ad ira. Giacca l’ umana vita oppressa e
stanca Sotto religìon grave e severa. Che mostrando dal ciel
l’altero capo Spaventevole in vista e minacciante ne soprasta. Un
iiom d’Atene il primo e, che d’ergerle incontra ebbe ardimento Gli
occhi ancor che mortali, e le s’oppose. Questi non paventò nè eie!
tonante Nè tremoto che ’l mondo empia d’ orrore , Nè fama degli
Dei, nè fulmin torto j Ma qual acciar su dura alpina cote quanto
s’agita più tanto più splende. Tal dell’animo suo mai sempre invitto
Nelle difficoltà crebbe il desio a Di spezzar pria
d'ogni altro i saldi chiostri, E r ampie porte di Natura aprirne.
Cosi vins' egli , e con l' eccelsa mente Varcando oltre a' confin
del nostro mondo, e bastante a capir spazio infinito. Quindi
sicuramente egli n’ insegna Gid che nasca o non nasca, ed in qual
modo Ciò che racchiude l' Universo in seno Ha poter limitato , e
tcrmin certo : E la religion co’pié calcata, L' alta
vittoria sua c’ erge alle stelle. Nè creder già che scelerate ed empie sian
le cose eh’ io parlo. Anzi sovente L' altrui religion ne’
tempi^antichi Cose produsse scelerate ed empie. Questa il
fior degli eroi scelti per duci Deir oste argiva in Aalide indusse
Di Diana a macchiar l' ara innocente Col sangue d' Ifigenia , allor che
cinto di bianca fascia il bel virgineo crine vid’ella a se davanti in
mesto volto Il padre, e alni vicini i sacerdoti Celar 1’ aspra
bipenne , e '1 popol tutto Stillar per gli occhi in larga vena il
pianto Sol per pietà di lei , che muta e mesta Teneva a terra le
ginocchia inchine. Nè giovi punto all’innocente e casta povera
verginella in tempo tale , Ch’ a nome della patria il prence
avesse All’ esercito greco un re donato ; Che tolta dalle man
del suo consorte Fu condotta all’ aitar tutta tremante: Non
perchè terminato il sacrifizio, legata fosse col soave nodo d’un
illustre imeneo. Ma per cadere Nel tempo stesso delle proprie nozze
A* piè del genitore ostia dolente per dar felice e fortunato evento
All' armata navale. Error si grave Persuader la religion poteo. Tu stesso
dall’orribili minacce de’ poeti atterrito, a i detti nostri di negar
tenterai la fe dovuta. Ed oh, quanti potrei fìngerti anch'io Sogni e
chimere, a sovvertir bastanti Del viver tuo la pace, e col timóre
Il sereno turbar della tua mente. Ed a ragion, che se prescritto il
fine vedesse l'uomo alle miserie sue. Ben resister potrebbe alle
minacce Delle religioni, e de' poeti. Ma come mai resister
può, s' ei teme Dopo la morte aspri tormenti eterni. Perchè dell'
alma è a lui 1' essenza ignota: S' ella sia nata, od a chi nasce
infusa, E se morendo il corpo anch' ella muoia? Se le tenebre dense ,
e se le vaste Paludi vegga del tremendo Inferno, O s' entri
ad informare altri animali Per ^divino voler, siccome il nostro
Ennio cantò , che pria d' ogn' altro colse In riva d'Elicona eterni
allori. Onde intrecciossi una ghirlanda al crine FRA L’ITALICA
GENTI illustre c chiara? Bench' ci ne' dotti versi affermi
ancora Che sulle sponde d' Acheronte s' erge Un tempio sacro a gl'
infernali Dei , Ove non 1' alme o i corpi nostri stanno.
Ma certi simulacri in ammirande Guise pallidi in volto, e quivi
narra d’aver visto l'imagine d’Omero Piangere amaramente, e di
Natura Raccontargli i segreti e le cagioni. Dunque non pnr
de’più sublimi effetti Cercar le cause, e dichiarar conviensi Della
luna e del sole i morimenti. Ma come possan generarsi in terra tutte
le cose, e con ragion sagace principalmente investigar dell' alma,
£ dell'animo uman l’occulta essenza, E ciò che sia quel, che
vegliando infermi, £ sepolti nel sonno, in guisa n'empie d’alto
terror , che di veder presente Parne , e d’udir chi già per morte in
nude ossa ò converso, e poca terra asconde e so ben io qual malagevol’
opra Sia r illustrar de’ Greci in toschi carmi L’ oscure
invenzioni, e quanto spesso Nuove parole converrammi usare, non per
la povertà della mia lingua ch’alia greca non cede , e più d’ ogn’ altra piena
è di proprie e di leggiadre vocij ma per la novità di quei concetti
Ch’esprimer tento, e che nuli’ altro espresse. Pur nondimcn la tua
virtude ò tale, e lo sperato mio dolce conforto Della nostr’amistà,
eh’ ognor mi sprona A soffrir volentieri ogni fatica, E
m’induce a vegliar le notti intere, sol per veder con quai parole io
possa Portare innanzi alla tua mente un lume, Ond’ ella vegga ogni
cagione occulta. Or si vano terror , si cieche tenebre
Schiarir bisogna, e via cacciar dall’ animo nn co’ be’ rai del sol,
non già co’ lucidi dardi del giorno a saettar poc’ abili fuorché 1’
ombre notturne e i sogni pallidi , Ma col mirar della Natura , e
intendere D’occulte cause e la velata imagine. Tu, se di conseguir
ciò brami, ascoltami. Sappi , che nulla per diyin volere Pad dal
nalla crearsi, onde il timore, che qaind'il cor d'ogni mortale ingombra
, Vano è del tutto, e se tu vedi ognora Formarsi molte cose in
terra e ’n cielo, nè d'esse intendi le cagioni, e pensi Perciò che
Dio le faccia , erri e deliri. Sia dunque mio principio il
dimostrarti, Che nulla mai si può crear dal nulla. Quindi assai
meglio intenderemo il resto £ come possa generarsi il lutto
Senz'opra degli Dei. Or se dal nnlla- Si creasser le cose, esse di
seme Non avrian d'uopo, e si vedrian produrre Uomini ed animai nel
seti dell' acque, nel grembo della terra uccelli e pesci, e nel vano
dell’aria armenti e greggi; Pe' luoghi culli, e per gl' inculti il
parto D'ogni fera selvaggia incerto fora; Nè sempre ne darian
gl'istessi frutti Gli alberi , ma diversi ; anzi ciascuno D' ogni
specie a produrgli allo sarebbe. Poiché come potrian da certa madre nascer
le cose, ove assegnati i propri semi non fosser da ^Natura a tutte 1
Ma or perché ciascuna è da principi certi creala , indi ha il natale ed
esce Lieta a godere i dolci rai del giorno, ov'è la sua
materia e -i-vorpi primi: E quindi nascer d'ogni cosa il
tutto Non può, perchè fra loro alcune certe cose hall l'interna
facoltà distinta. Inoltre ond' è che primavera adorna sempre è
d’ erlie e di fior? che di mature Biade all' estiv' arsura ondeggia il
campo? e che sol quando Febo occupa i segni O di Libra o di Scorpio,
allor la vite Suda il dolce liquor che inebria i sensi? Se non
perché a'ior tempi alcuni certi Semi in un concorrendo, atti a
produrre Son ciò che nasce, alJor che le stagioni Opportune il
richieggono, e la terra «I Di rigor genital piena c di succo ,
Puote all’ aure inalzar sicuramente Le molli erbette e l’altre cose
tenere i che se pur generate esser dal nulla Potessero, apparir dovrian
repente In contrarie stagioni e spazio incerto , Non vi
essendo alcun seme , che impedito Dall' Union feconda esser potesse
O per ghiaccio o per sol ne' tempi avversi. Né per crescer le cose avrian
mestiere di spazio alcuno in cui si unisca il seme, i' elle fosser
del nulla atte a nutrirsi. Ma nati appena i pargoletti infanti
Diverrebbero adulti , e in un momento Si vedrebber le piante inverso il
cielo Erger da terra le robuste braccia. Il che mai non
succede. Anzi ogni cosa cresce, come conviensi , a poco a poco,
E crescendo, conserva e rende eterna La propria specie. Or tu
confessa adunque Che della sua materia , e del suo seme Nasce, si
nutre e divien grande il tutto. S’arroge a ciò, che non daria la
terra il dovuto alimento ai lieti parti. Se non cadesse a fecondarle
il seno Dal del 1' umida pioggia, e senza cibo propagar non
potrebber gli animali La propria specie, e conservar la vita,
Ond' è ben verisimile, che molte Cose molti fra lor corpi
comuni Àbbian, come le voci han gli elementij Anzi, che sia senza
principio alcuna. In somma ond' è che non forma Natura uomini
tanto grandi e si robusti, che potesser co’ piè del mar profondo varcar
l’ acque sonanti e con la mano sveller dall’imolor l’alte montagne, e
viver molt’ etadi , e molti secoli? L. is known only for his long poem De rerum
natura in which he sets out the doctrines of the Garden. As the only
substantial systematic work of the Garden to survive from antiquity it is a
work of considerable significance. Unfortunately, it is difficult to judge how
accurate an account of the school’s teaching as there is little with which to
compare it. However, the Garden tended towards conservatism in doctrinal
matters and so it isunlikely Lurezio strayed far from orthodoxy. The first two
books of the poem are mainly concerned with espounding atomism, the middle two
are concerned with human nature and knowledge, and the last to analyse a number
of natural phenomena. Tito Lucrezio Caro. Lucrezio. Luigi Speranza, "Grice, Lucrezio, e la natura
delle cose," per Il Club Anglo-Italiano, The Swimming-Pool Library, Villa
Grice, Liguria, Italia. Luigi Speranza, “Grice e Lucrezio: implicatura atomica”
– “implicatura e composizionalita” – “implicatura elementare” – “implicatura
simplex” “implicatura simplice” “implicatura complessa”, “alma figlia di Giove”
--. Lucrezio.
Grice
e Lucullo: l’implicatura conversazionale -- Roma – filosofia italiana – Luigi Speranza. (Roma). Filosofo italiano. Si distingue nella guerra sociale come tribunus
militum. Avendo avuto quale pro-questore sotto Silla nella guerra mitridatica
l’incarico di recarsi dalla Grecia in Cirenaica e in Egitto e di raccogliere
una flotta, Lucullo volle avere presso di sè Antioco d’Ascalona in quel
pericoloso viaggio sul mare. Pretore, propretore in Africa, e console,
ottenne il governo proconsolare della Cilicia e il comando della guerra contro
Mitridate e sconfisse prima questo, poi il suo alleato Tigrane re di
Armenia. Negl'anni del suo comando, batiè con poche forze grossi eserciti
nemici. Ma per il malcontento dei soldati le cose peggiorarono, sicchè i suoi
avversari lo fanno richiamare a Roma ove soltanto gli e concesso il
trionfo. L. contribuì potentemente alla diffuzione della filosofia in
Roma. L. e oratore, storico (scrive un’opera sulla guerra sociale) e si
interessa vivamente per la filosofia, tanto che volle compagno Antioco sia da
pro-questore che da pro-console e con gli studi filosofici si consolò
degli insuccessi politici. L. was a rich Roman who made a career in public and
military life. He was a friend and pupil of Antioco, although his philosophical
tastes appear to have been quite eclectic. He spend his last years quietly
going insane. Lucio Licinio Lucullo. Keywords: Livio. Lucullo.
Grice e Luporini: l’implicatura
conversazionale -- i corpi di Vinci – il leopardi fascista – leopardi fascisti
– ultra-filosofico -- filosofia italiana – Luigi Speranza (Ferrara). Filosofo italiano. Grice:
“I like Luporini; I lerarned from him how silly Austin is when talking of
‘material object’ – a contradiction in terminis for Kant who uses ‘materie’
very strictly; Luporini’s study of Leopardi is brilliant – and he has explored
the genius of Vinci, which is good!” Si recò a Friburgo, dove frequenta le
lezioni di Heidegger, e poi a Berlino, dove poté seguire le lezioni di
Hartmann. Si laurea a Firenze. Insegna a Cagliari, Pisa e Firenze. Dopo un in
interesse per l'esistenzialismo, aderì al marxismo, iscrivendosi al Partito Comunista,
per il quale fu eletto senatore nella terza legislature. Tra le altre
iniziative parlamentari, fu firmatario di un progetto di legge,
"Istituzione della scuola obbligatoria statale dai 6 ai 14 anni.” Fonda la
rivista Società. Collabora ai periodici
politico-culturali del PCI, Il Contemporaneo, Rinascita, Critica marxista.
Durante il dibattito che, a seguito degli eventi, porta alla trasformazione del
PCI in PDS, si schierò decisamente contro la "svolta" di Occhetto,
aderendo alla mozione "due" di opposizione interna, in un'orgogliosa
difesa e per un rilancio della prospettiva e degli ideali comunisti. Il
marxismo di Luporini si fonda su una critica radicale allo storicismo, sul
rifiuto di ogni concezione finalistica dello sviluppo storico: il comunismo,
quello marxista in particolare, non è assimilabile con la tematica tipicamente
storicista del progresso come traccia dell'evoluzione umana. Egli rifiuta
letture dogmatiche del marxismo e le sue deteriori forme di economicismo e
meccanicismo, ma, pur apprezzando lo strutturalismo di Althusser con cui cercò
di far dialogare tutto il marxismo italiano, non ne condivideva
l'anti-umanismo, in quanto il pensiero di Marx conserva per lui un profondo
umanesimo, anche negli scritti successivi alla "rottura
epistemologica" in cui le strutture, cioè i modelli interpretativi della
società, non sono astratti ma in funzione degli individui concreti, umani. Nello stesso ambito marxista, tra i suoi
obiettivi polemici vi furono quelle posizioni che proponevano una interpretazione
di radicale discontinuità tra Marx e Hegel, cioè quelle di Volpe e della sua
scuola. Centrale è infatti per Luporini la nozione di “contra-dizione,” la
marxiana "oggettività reale", che lo pone comunque in relazione con
Hegel. Marx deve essere considerato una concezione aperta e complessa, dove
materialismo e dialettica compongono una sintesi mai totalizzante (da qui il
suo interesse per l'elaborazione di Gramsci) e parte fondamentale di una più
generale teoria dei condizionamenti umani.
Fondamentale è il concetto di formazione economico-sociale, espressione
già utilizzata da Sereni, ma in senso storicistico e cioè la possibilità per il
marxismo di costituire un modello per l'analisi degli specifici modi di
produzione della società capitalista, nonché per la previsione scientifica
delle sue varie forme. La legge generale delle formazioni economico-sociali è
tratta dall’Introduzione ai Lineamenti fondamentali di critica dell'economia
politica di Marx. La struttura economica va indagata secondo logica scientifica
e bisogna stabilire un "criterio oggettivo", il momento dominante che
condiziona tutti gli altri assetti produttivi.
L'approccio storico-genetico non è un continuum evoluzionistico come nella
tradizione storicistica, è la fase dell'osservazione e descrizione empirica del
fenomeno dalla sua origine ed è secondario rispetto all'approccio
genetico-formale, cioè all'indagine che permette di stabilire la categoria
dominante di una determinata fase storica della produzione. Il modello de Il
Capitale può dunque aspirare all'universalità, ma anche alla flessibilità di
applicazione. La formalizzazione di un “modello” attraverso il metodo genetico,
individua anche il processo per cui i rapporti di produzione si riflettono in
qualcos’altro, la coscienza dei singoli, le relazioni inters-oggettive
(l’inter-azione’) e le radici stesse della vita morale. È palese così il
contrasto di L. ad ogni disegno provvidenzialista e di filosofia della storia e
anche in questo si rende chiaro il rapporto dialettico-oppositivo tra Hegel e
Marx. Per quanto riguarda Leopardi, secondo Luporini, la sua poesia non è
permeata solo di pessimismo, ma ci invita anch'essa alla resistenza attiva. La
formazione filosofica di Leopardi, infatti, illuminista e materialista,
permette di leggere ad esempio, nelle "magnifiche sorti e
progressive" de "La Ginestra", una possibilità di rinnovamento
politico-sociale non in antitesi con la concezione della 'natura matrigna', un
compito storico degli esseri umani altrimenti o comunque destill'infelicità
esistenziale. “Filosofia e politica: scritti dedicati a L., Firenze, La Nuova
Italia, Una completa e aggiornata, L.
Fonnesu, è stata pubblicata nel numero speciale dedicato a Luporini di "Il
Ponte" (Firenze). Oltre agli studi sulla storia della filosofia e a un'elaborazione
teorica del marxismo incentrata sui temi etici, si ricordano, fra le sue opere
principali: “Situazione e libertà”
(Firenze, Monnier); “Filosofi vecchi e nuovi” (Firenze, Sansoni); “Spazio e
materia in Kant” (Firenze, Sansoni); “L'ideologia comunista” (Riuniti, Roma);
“Dialettica e materialismo, Roma, Riuniti,
Il soggetto e il comune, Il marxismo e la cultura italiana, in Storia
d'Italia, I documenti, Einaudi. Un'incidenza notevolissima ha sugli studi
leopardiani il suo saggio Leopardi progressivo.
Sulle lezioni di Heidegger e Hartmann vedi l'aneddoto in Intervista in
"Repubblica", E. Sereni, Da Marx a Lenin: la categoria di formazione
economico-sociale, Quaderni di Critica marxista, Realtà e storicità: economia e
dialettica nel marxismo, in Critica marxista, Per l'interpretazione della
categoria formazione economico-sociale, in Critica marxista, Le radici della
vita morale, in Morale e società,
Riuniti, Roma); S. Lanfranchi, Dal Leopardi ottimista della critica fascista al
Leopardi progressivo della critica marxista, Saggi critici in Garin, Esistenza
e libertà, in Critica marxista, G. Mele, Esistenzialismo e significato della
libertà, Critica Marxista, A. Zanardo, Un orizzonte filosofico materialistico,
in Critica marxista, C. Rocca, Esistenzialismo e nichilismo «Belfagor», R.
Mapelli, Milano, ed. Punto Rosso, Ponte, Ponte, Convegni Quarant'anni di filosofia in Italia.
"Critica marxista", Il fascicolo contiene gli atti delle due giornate
di studio sulla sua filosofia oorganizzate dalla Facoltà di Lettere e filosofia
dell'Firenze e dalla fondazione Gramsci di Roma, Feltrinelli. Nella loro
maggior parte i contributi riprendono gli interventi al Convegno promosso
dall'Firenze e organizzato dal Dipartimento di Filosofia. Treccani Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Dizionario biografico degli italiani, Istituto
dell'Enciclopedia Italiana. Senato della Repubblica; Biblioteche dei Filosofi
(SNS), su picus unica. L'ultima lezione (una grande avventura intellettuale
attraverso il Novecento), su hyperpoli. Sebbene
questo titolo rimandi a questioni di critica letteraria, e di fatto i risultati
della critica leopardiana costituiscano l’oggetto principale da cui muove
questo studio, essi saranno presentati e analizzati nelle prossime pagine
innanzitutto come un ‘documento’ storico : un documento che forse non ci darà
risposte soddisfacenti per comprendere meglio il pensiero leopardiano, ma
contribuirà invece alla nostra riflessione sull’iter culturale e ideologico di
alcuni intellettuali italiani. Per affrontare il problema della transizione e
tentare di isolare alcuni elementi di continuità e di rottura, il discorso
svolgerà un percorso circolare : partendo dal saggio pubblicato da L. Leopardi
progressivo, al quale, in un primo momento, si accennerà solo molto brevemente
; seguendo poi un cammino a ritroso per rintracciare l’itinerario e le origini
anche abbastanza lontane del dibattito – iniziato sin da prima del Ventennio –
da cui trae origine questo testo ; e tornando infine al 1947 e al libro di L.,
molto noto, anche fuori dalla cerchia degli specialisti di Leopardi, tanto da
esser divenuto un ‘classico’ studiato spesso sin dal liceo1. 2 Scrive
Sebastiano Timpanaro a proposito del titolo scelto da Luporini : « un titolo
che per un vers (...) 3 Si tratta del v. 51 della Ginestra, in G. Leopardi,
Poesie e prose, vol. I, Poesie, a cura di M. A. L., Leopardi progressivo. La
scelta dell’aggettivo progressivo, benché avesse un’eco politica particolare
nella cultura comunista del primissimo dopoguerra2, era dettata dal richiamo
letterario alle « magnifiche sorti e progressive » de La Ginestra di Leopardi3.
Ma nella citazione di Luporini l’aggettivo perdeva il sapore amaramente ironico
di quel verso leopardiano ed assumeva invece un significato totalmente
positivo, per indicare una forma di fiducia nel « generale progresso
dell’incivilimento »4 che, secondo il critico, emana dalla lettura complessiva
di una poesia come La Ginestra e, forse soprattutto, da un’attenta analisi
dello Zibaldone di Leopardi. Questa fiducia non risiede però, per Luporini,
nell’individuo, bensì nella moltitudine, ovvero nel popolo e nella sua virtù, e
sfocia in una dichiarazione di solidarietà tra gli uomini tutti, contro la
natura, per un progresso generale della condizione umana. La vivacità
delle reazioni che suscitò il saggio quando fu pubblicato dà una preziosa
indicazione di quanto originale e quanto importante fosse l’interpretazione
proposta da L. Per illustrare l’accoglienza che ricevette è particolarmente utile
la recente testimonianza di Brunetti, che sarebbe poi diventato professore di
filosofia e specialista di Galilei, ma che allora era ancora al terzo anno di
studi della Scuola normale superiore di Pisa, dove Luporini appunto insegnava.
Brunetti ricorda perfettamente Leopardi progressivo, la cui lettura creò
interesse e agitazione fra i normalisti : ne discutevano animatamente nei
corridoi, nelle stanze e durante i pasti nella sala da pranzo soprattutto gli
italianisti Bollati, Blasucci, Dante della Terza, che trascinavano tutti gli
altri. Era lecita una definizione politica del poeta ? Era corretta siffatta
operazione ideologica ? Non era forse più opportuna una ricomposizione unitaria
del pensiero leopardiano. Brunetti, Il « nostro » L., in L., a cura di M. M La
discussione, animata e per certi versi lacerante, si protrasse per giorni,
riecheggiando sotto le volte dei corridoi nel Palazzo dei Cavalieri. Fu però
efficace, perché fece rientrare la sensazione provocatoria del saggio e
ricondurre l’elemento ideologico e il « tecnicismo filosofico » nelle giuste
dimensioni, sortendo d’altro canto l’effetto di mettere in discussione
l’apollineità in cui la critica crociana mirava a rinchiudere la poesia e
insieme il poeta. Non è un caso che da quello stesso anno anche il lavoro
critico di Luigi Russo si attestò in una valorizzazione della « politicità »
dei poeti, rompendo, proprio lui, il dominante schema crociano. Una pietra
gettata nello stagno, una fertile provocazione intellettuale.5 4 Quanto
racconta Brunetti è, per molti aspetti, significativo e rappresentativo del
clima ideologico e culturale di quegli anni, e della transizione che si sta
operando, anche nel piccolo mondo della critica letteraria. L., Leopardi
progressivo, cit., p. 38 e 92. 7 W. Binni, La nuova poetica leopardiana,
Firenze, Sansoni. Sebbene molto diversi, il testo di Brunetti definisce
il testo di L. un’« operazione ideologica », in quanto offre una lettura non
solo eminentemente politica dell’opera leopardiana, ma una lettura
esplicitamente comunista. L. vede in Leopardi un « anticipatore di ulteriori
dottrine, fedele ai principi della democrazia rivoluzionaria, anche più
avanzata »6. In questo senso, il 1947 segna, col saggio di L. – e col saggio
altrettanto noto di Binni, La nuova poetica leopardiana, pubblicato lo stesso
anno7 – una svolta decisiva nella storia della fortuna leopardiana, inaugurando
la proficua stagione della critica leopardiana del secondo Novecento,
segnatamente della critica detta marxista. D’altra parte, Brunetti considera
che l’opera di L, era, nel contesto culturale della seconda metà degli anni
Quaranta, una vera e propria « pietra gettata nello stagno » e una « fertile
provocazione intellettuale », in quanto rimetteva in questione il « dominante
schema crociano ». Con quest’ultima osservazione, Brunetti non rende, tuttavia,
conto di quanto fosse recente tale « dominio ». Se è vero, infatti, che il
metodo crociano si era imposto nel mondo culturale di quel primissimo
dopoguerra, durante tutto il Ventennio e anche durante la guerra esso era stato
sì prevalente, ma solo nella cerchia, in realtà abbastanza ristretta, degli
intellettuali ostili o estranei al fascismo. Di sicuro non era stato lo «
schema dominante » imposto negli studi letterari, nelle riviste, nelle accademie
e nelle università dell’Italia fascista. 8 Croce conia la voce « allotrio
» per indicare ciò che è estraneo all’estetica, rifacendosi al vocab Per
l’influenza di Gentile sul mondo culturale in epoca fascista, si veda in
particolare G Il ruolo di Cian negli studi letterari del Ventennio e nel
periodo di transizi. Marpicati compie studi di letteratura italiana a Firenze,
pubblica alcune raccol . Ecco quanto scriveva, ad esempio, Cian, rivolgendosi a
Croce e ai suoi discepoli. Mi sia consentito di rimandare in questa sede a due
testi miei, entrambi accessibili in linea : S. In realtà, durante il
Ventennio solo una minoranza di critici – pur trattandosi di una minoranza
quantitativamente e soprattutto qualitativamente importante – aveva seguito
l’idea crociana dell’autonomia dell’arte, e quindi perlopiù evitato di dare una
lettura apertamente politica dei testi letterari. Erano relativamente pochi i
critici che aderivano al principio secondo cui gli elementi che in un’opera
d’arte contengono un messaggio dichiaratamente politico o morale sono « allotri
»8, ovvero estranei alla vera poesia del testo, perché non corrispondono allo
slancio primo e poetico dell’intuizione estetica. A questi si opponeva la
critica di stampo fascista, nelle cui file, ben più folte, troviamo uomini di
grande influenza e di grande potere nell’ambiente culturale ed accademico, come
un Gentile, un Cian, ma anche un Marpicati. Essi contestavano, anche
violentemente, la lezione crociana12, mentre rivendicavano, per tutti i testi
letterari, la legittimità di una lettura morale, politica, improntata
all’attualità. La tendenza ad ‘attualizzare’ il significato delle opere fu
portata a tal segno da far loro presentare, talvolta e anzi spesso, i classici
della letteratura italiana come precursori del fascismo. Non era dunque la
prima volta che si buttavano pietre nello stagno della critica crociana ; si
potrebbe quasi dire, anzi, che non si era fatto altro che buttarvi pietre
durante tutto il Ventennio. In realtà, i primi sintomi di « insofferenza »
Russo li diede sin dal 1941, mentre scriveva un arti. Perciò, quando Brunetti
denuncia « l’apollineità » in cui Croce rinchiude i poeti, e quando ricorda
l’itinerario di Luigi Russo – che in quegli anni, dopo esser stato a lungo un
fedele discepolo crociano, da Croce prende appunto le distanze14 – egli ci fa
intuire non tanto una rottura, quanto una ‘transizione’ interessante. Tra i
critici che erano stati antifascisti negli anni Venti e Trenta, molti
cominciano, sin dai primissimi anni Quaranta, a maturare un progressivo
allontanamento dalla posizione crociana, proprio perché si sentono vincolati da
quell’implicito divieto di ‘allotrismo’ che caratterizza la produzione critica
crociana, rivendicando la possibilità di considerare « la politicità nascosta »
anche nella « grande poesia. Sembrano ormai giunti al punto di rottura. Ma quel
che preme qui sottolineare è che vi è dunque una continuità, non certo nei
contenuti politici – affatto diversi – ma potremmo dire nel metodo e nei
presupposti teorici ed estetici che vengono opposti a Croce durante e dopo il
Ventennio, ovvero nella comune rivendicazione allotrica. Il testo di L.
segna senz’altro una svolta nella fortuna critica di Leopardi nel Novecento,
quando lo si studia come punto di partenza di una tradizione critica, e in
questo modo esso viene generalmente e giustamente valutato. L’intento di questo
lavoro sarà invece di considerarlo come punto di approdo problematico di
un’altra tradizione critica, non posteriore ma anteriore, vigente nel Ventennio
e di stampo generalmente fascista, con cui il testo di L., nonostante le
fondamentali differenze, ha in comune almeno due aspetti essenziali. Il primo è
appunto l’opposizione all’estetica crociana che è già stata evocata e che
potrebbe, senz’altro, esser estesa a gran parte della critica letteraria, non
trattandosi di una specificità leopardiana ; il secondo è l’idea – sulla quale
verterà più precisamente questo studio – di un fondamentale ottimismo
leopardiano. Ora, una certa paternità del tema dell’ottimismo leopardiano, così
come lo sviluppa Luporini, può essere attribuita a Gentile e ad un suo saggio
sulle Operette morali di Leopardi. Questo, invece, è un discorso specifico,
valido per la sola critica leopardiana. L’ipotesi di una continuità tra
l’interpretazione che L. dà di Leopardi e la produzione critica con una comune
opposizione a Croce, ma anche una comune matrice – almeno parziale –
gentiliana, è convalidata sia dall’analisi dei testi, come vedremo, che dalla
stessa biografia di L. e da quanto lui stesso racconta della propria
esperienza. La vicenda umana, ideologica e culturale di L. in quel decennio che
va dalla seconda metà degli anni Trenta alla fine degli anni Quaranta è, per
molti aspetti, emblematica proprio di quel profilo di intellettuale nella
transizione tra fascismo e Repubblica. L., Critica e metafisica nella
filosofia kantiana, « Rendiconti della Reale Accademia Nazi. Il testo faceva
parte di un volume scritto dai docenti del liceo dove L. insegnava, in occasi. Nella
sua autobiografia, Bobbio cita un disegno di Renato Guttuso che illustra una
delle p C. L., Qualcosa di me stesso, in
L. L. si laurea a Firenze, dopo aver
studiato anche in Germania, dove fu in contatto con Heidegger e Hartmann. La
sua tesi di filosofia su Kant, d’impostazione esistenzialistica, è letta e
molto apprezzata da Gentile, il quale decide di presentarla all’Accademia dei
Lincei di cui era socio. Dopo aver conseguito la laurea, L. insegna al liceo,
prima a Livorno, dove pubblica un primo testo su Leopardi, di cui dà
un’interpretazione esistenzialistica e la cui impostazione reca già segni
evidenti di anticrocianesimo. Torna a Firenze ed entra a far parte del
movimento liberalsocialista di Capitini e Guido Calogero, nel quale frequenta
anche Bobbio, Guttuso e Morra. Gentile
lo chiama alla Scuola Normale Superiore di Pisa, dove era disponibile un posto
di lettore di tedesco. C’era, tra Gentile e L., un rapporto che L. stesso ebbe
a definire di grande franchezza politica, sin da quando i due uomini si
conobbero meglio, e fino alla morte di Gentile. L. non aveva approvato la
decisione del movimento liberal-socialista di confluire nel Partito d’Azione e
si era perciò ritirato per aderire invece al Partito Comunista. L. si trova quindi
agli esatti antipodi politici di Gentile. Eppure egli stesso racconta di come
avesse tentato di convincerlo ad abbandonare la Repubblica di Salò e avesse
anche creduto di riuscire nel suo intento, definendo tragica ma anche
consapevole la sua fine. Non mi soffermerò sull’ultima fase di Gentile,
tragica. Ricordo solo che, certo illusoriamente, cercai di persuaderlo a che si
tirasse fuori dal fascismo, nel frattempo divenuto la Repubblica di Salò. Al
Salviatino, dove abita, ha con lui un incontro che non finiva mai, perché non
riuscivo a rimanere solo con lui. Quando ce la feci, lo misi al corrente di
quello che stava succedendo, dandogli delle notizie che evidentemente non gli
davano le autorità fasciste – era stato anche ucciso uno del suo entourage –
mentre io le avevo dalla rete clandestina in cui mi trovavo. Me ne uscii con la
sensazione che forse qualcosa avevo ottenuto. Invece, non era così : due giorni
dopo, venne fuori che il ministro Biggini s’era recato lì, al Salviatino, per
offrirgli la presidenza dell’Accademia d’Italia, e che Gentile aveva accettato
(ma, quand’ero stato da lui, non me l’aveva detto). E così s’avviò verso un
destino di cui in qualche modo aveva consapevolezza. Poche settimane dopo
quest’episodio, Gentile propone a Luporini di diventare bibliotecario
dell’Accademia d’Italia. Ma Luporini rifiuta, sancendo così la fine del suo
rapporto con Gentile : un rapporto che, nella nostra prospettiva, è senz’altro
importante e che invece è stato quasi integralmente passato sotto silenzio. In
realtà, di L. si ricorda soprattutto l’attività posteriore al 1945, in
particolare quella che svolse come co-fondatore – con Bandinelli – della
rivista “Società”, e in seguito come direttore della stessa. La storia di
questa rivista illustra l’evoluzione di molti intellettuali di sinistra dopo la
Liberazione, proprio per il vincolo che venne rapidamente a crearsi col partito
comunista. Parlando di « Società » e dei suoi intenti programmatici, L.
dichiara che per lui, l’idea principale era 21 Ibid., p. 244. d’una
saldatura fra quella cultura degli anni trenta di cui ho parlato – quella
rottura con il passato che eravamo venuti preparando lentamente, modestamente,
molecolarmente – e la cultura di quelli che venivano da fuori, soprattutto i
dirigenti comunisti, e segnatamente Togliatti. Perciò, non ero d’accordo con
Vittorini, con la sua idea, nel « Politecnico » d’una « nuova cultura ». I
contenuti li avevamo in comune, più o meno ; però io ero per un continuismo,
non assoluto, naturalmente, ma rispetto a quel che ho detto. Per illustrare
meglio le forme di questo « continuismo », bisogna rifarsi alle pagine che
precedono questa citazione, in cui Luporini descrive l’ambiente culturale della
Firenze degli anni Trenta e il gruppo di intellettuali antifascisti che vi
frequentava. L. dichiara in quest’occasione che « da un certo punto di vista la
vera dittatura era proprio quella idealistica » e che, nel campo specifico
della letteratura e della storiografia, l’idealismo « dittatoriale » era forse
più crociano che non gentiliano Continua poi la narrazione del proprio
iterintellettuale, negli anni Trenta e Quaranta, che L. descrive come un
percorso che consta di due tappe fondamentali, due svolte, anzi due
transizioni. La prima avviene negli anni Trenta, quando Luporini prende le
distanze dall’idealismo crociano e scopre l’esistenzialismo ; la seconda, negli
anni Quaranta, quando dall’esistenzialismo L. si sposta verso posizioni
marxiste. Questi pochi elementi biografici offrono due spunti notevoli per
l’analisi della produzione di L. In
primo luogo, il rapporto personale più approfondito che L. aveva con Gentile e
non con Croce induce a riconsiderare l’influenza dell’uno e dell’altro sulla
sua prima formazione, da giovane studente e studioso di filosofia e di
letteratura. In secondo luogo, nell’esprimere a posteriori il programma della
sua rivista Società, L. formula una
precisa volontà culturale ed ideologica propria di quel periodo di transizione,
che consiste nel superare l’idealismo crociano e nel consentire una forma di «
continuismo » tra una certa cultura anticrociana degli anni Trenta e quella
degli anni Quaranta. Applicati alla critica leopardiana del dopoguerra, questi
due elementi dimostrano quanto fosse complessa e problematica l’eredità della
critica fascista e della critica idealista. L., Con Heidegger. Alcune
riflessioni, oggi, tra filosofia e politica, in Heidegger. G. Gentile, Manzoni
e Leopardi, in Opere, Firenze, Sansoni. Leopardi, d’altronde, offre una
prospettiva privilegiata per analizzare il rapporto tra Croce, Gentile e L..
Era il poeta prediletto di Luporini : « Leopardi è stato sempre il mio autore
», dichiarava L., e come tale, egli continuò a leggerlo e a rileggerlo da un
capo all’altro della sua vita. Ma era anche un poeta molto amato da Gentile –
benché numerose e importanti fossero le differenze tra il materialismo dell’uno
e l’attualismo dell’altro – e la costanza del suo interesse per Leopardi ci è
testimoniata dalla regolarità con la quale il filosofo siciliano pubblicò testi
sul pensiero e sulla poesia di Leopardi, poi raccolti in un unico volume24.
D’altro canto, invece, Leopardi non è stato un autore particolarmente
apprezzato né compreso da Croce. Citiamo qui l’allegro commento di uno studioso
che era stato suo discepolo, Vincenzo Gerace, e che nel 1929 dichiarava : Gerace,
Leopardiana, in La tradizione e la moderna barbarie. Prose critiche e
filosofiche, Folig. Croce non ama Leopardi. Non può amarlo. Gli dà forte sui
filosofici nervi. Gli è d’impaccio al teorico passo, uso a scalciare stizzoso,
ovunque lo trovi, quel terribile nemico della sua teoria estetica :
l’intellettualismo e il moralismo nel mondo dell’arte. Or se c’è un
intellettualista e un moralista convinto e di altissimo stile nella storia
della nostra poesia, e tenace in teorie e in fatti, questi è Leopardi.25
26 B. Croce, Leopardi in Poesia e non poesia, Bari, Laterza. Gerace allude qui
senz’altro al celebre testo che Croce pubblica dapprima su « La Critica » e poi
nel volume Poesia e non poesia del 192326. La principale critica che Croce
rivolge alla poesia di Leopardi è di esser intrisa di elementi allotri, di
momenti meditativi, filosofici, polemici, che sono, per il critico idealista,
profondamente estranei alla pura ispirazione e intuizione poetica. Come tali,
Croce non li considera veramente poetici, tanto che, nel suo esame complessivo
dei versi leopardiani, egli considera che solo un numero relativamente ridotto
corrisponda alla sua definizione di poesia. Croce non emette riserve unicamente
sulla poesia di Leopardi, ma ne esprime di ancora più forti sul valore della
sua filosofia. Per Croce, il pensiero leopardiano è dettato innanzitutto dal
sentimento, anzi dal risentimento per una « vita strozzata », ed è dunque
troppo soggettivo per essere considerato un pensiero filosofico universale. In
questa prospettiva, Croce interpreta il pessimismo o ottimismo di Leopardi come
un indizio dell’origine prettamente sentimentale del suo pensiero, e quindi
come una prova della sua pochezza concettuale : « La filosofia », afferma
Croce, « in quanto pessimistica o ottimistica è sempre intrinsecamente
pseudo-filosofia, filosofia a uso privato »27. 28 I due testi si trovano
oggi nel volume di Gentile, Manzoni e Leopardi, cit. Il primo, Le Operett. In
queste pagine, Croce sta in realtà dialogando con colui che era, da molti anni
ma per pochi mesi ormai, un amico ed un collaboratore, Gentile, il quale aveva
pubblicato, due saggi – il primo sulle Operette morali, il secondo intitolato
Prosa e poesia nel Leopardi – decisivi per la questione della filosofia
pessimistica o ottimistica di Leopardi 28. Anche Gentile, come Croce, giudica
severamente la qualità filosofica del pensiero leopardiano, dichiarando che «
se cerchiamo in lui il filosofo, avremo lo scettico, ironista, materialista
piuttosto mediocre nell’invenzione »29. Gentile formula, tuttavia,
un’interpretazione ben diversa, molto più feconda ed originale, della questione
del pessimismo o ottimismo di Leopardi. Senza negare del tutto il suo
pessimismo, Gentile lo ridimensiona attribuendolo storicamente e
concettualmente alla sola influenza della filosofia materialista, direttamente
ereditata dai Lumi. Si tratta quindi di un « pessimismo della ragione »
settecentesca, che Gentile giudica, tutto sommato, superficiale e poco
originale, e al quale oppone invece un « ottimismo del cuore », profondamente
radicato nell’animo leopardiano. Così scrive nel 1919 : « Il Leopardi,
pessimista di filosofia, e quasi alla superficie, fu invece ottimista di cuore,
e nel profondo dell’animo : tanto più acutamente pessimista col progresso della
riflessione, e tanto più altamente e umanamente ottimista »30. 31 Vi è,
nello Zibaldone, un’unica occorrenza del termine « ultrafilosofia », come vi è,
del resto, un (..Ricordiamo, a tale proposito, il giudizio formulato da Augusto
Del Noce, secondo cui Gentile « sent (...) 33 F. Pasini, Tutto il pessimismo
leopardiano, Parenzo, Coanna. Gentile dà particolare rilievo alla tesi di
un’ultra-filosofia leopardiana, supponendo l’esistenza di una sorta di pensiero
leopardiano oltre la filosofia pessimistica e materialistica: un pensiero più
autentico, perché più intimamente poetico, più spirituale e quindi, per
Gentile, più leopardiano. La rivalutazione gentiliana delle Operette morali e
l’interpretazione in chiave ottimistica del pensiero leopardiano segnano un
momento importante nella storia della critica, avviando un nuovo filone
esegetico che gode di particolare successo durante il Ventennio. Si assiste
allora, come nota un critico, ad un « capovolgimento, del punto di vista dal
quale si usava considerare Leopardi » : da « poeta del pessimismo » che era «
per tutti », Leopardi « è diventato il poeta dell’ottimismo. Sanctis,
Schopenhauer e Leopardi, in Scritti critici e Ricordi, Torino, Utet. Per una
presentazione dei testi, dei contenuti e degli autori di questa particolare
produzione crit (...) Sanctis esalta l’effetto positivo prodotto dalla lettura
della poesia leopardiana, dichiarando che Leopardi produce l’effetto contrario
a quello che si propone. Non crede al progresso, e te lo fa desiderare ; non
crede alla libertà, e te la fa amare »34. Negli anni Venti e Trenta, tuttavia,
l’intento della critica leopardiana è rivelare elementi intrinsecamente
positivi ed ottimistici, non nell’effetto prodotto sui lettori, ma alla matrice
stessa del pensiero leopardiano. L’opposizione proposta da Gentile nel 1919,
tra un pessimismo della ragione ed un ottimismo del cuore viene ampliamente
ripresa e riesplorata, dando adito a tutta una serie di interpretazioni che
potremmo definire irrazionali e fideistiche. Oltre il pessimismo materialista,
oltre il razionalismo disperato, la cui importanza viene sistematicamente
sminuita, molti critici cercano ed esaltano lo slancio ottimistico della fede
leopardiana : fede nella poesia, ma anche e spesso soprattutto fede nella patria
e nella stirpe italiana. In questo senso potremmo interpretare alcune letture
mistiche che vengono date di Leopardi e del suo pensiero negli anni Trenta
soprattutto. Lanfranchi, De centenaire en centenaire. L’Italie fasciste célèbre
ses poètes (Foscolo, Leo Non è certo questo il luogo per analizzare questa
produzione, vasta seppur povera di elementi filologici e critici realmente
nuovi. Ai fini del nostro discorso, preme tuttavia osservare che un argomento
ricorre sovente tra questi testi, che consiste nel dare una spiegazione
prettamente contestuale e storica al pessimismo di Leopardi, negandogli di
fatto un valore universale. Il motivo fondamentale del pessimismo leopardiano
è, per la critica di stampo fascista degli anni Venti e Trenta, di natura
politica, anzi patriottica. Leopardi non ha assistito né agli albori del
Risorgimento, né alla prima guerra mondiale, né tanto meno alla marcia su Roma
: se invece fosse stato spettatore e attore di tali avvenimenti, egli –
assicurano tali critici – non sarebbe stato pessimista. Questo argomento
costituisce un vero e proprio topos oratorio, ripetuto centinaia di volte in
occasione dei discorsi ufficiali e delle commemorazioni del Ventennio, poiché,
nonostante sia fondato su un anacronismo e quindi scientificamente non abbia
alcun valore, la sua efficacia retorica è notevole. E segnatamente lo si trova
quando, in occasione del centenario della morte, il regime organizzò, spesso
controllandoli e canalizzandoli, tutta una serie di festeggiamenti ufficiali,
in cui Leopardi veniva molto spesso presentato come un precursore del
fascismo36. 22 Vi furono però alcune celebrazioni che riuscirono a
rimanere in margine delle commemorazioni ufficiali e quindi a garantire una
certa libertà di espressione rispetto alla produzione su Leopardi. Tra queste,
troviamo l’annuario di un liceo livornese, che nel 1938 pubblicò un numero
speciale con vari studi consacrati a Leopardi. Il secondo, intitolato Il
pensiero di Leopardi, era proprio il testo di L., che in quel liceo appunto insegnava
filosofia. In questo saggio, l’intento primo di Luporini non è solo di
presentare un Leopardi esistenzialista, ma anche e forse soprattutto di
contestare la posizione dell’idealismo, sia crociano che gentiliano,
rivendicando innanzitutto il valore filosofico del pensiero leopardiano e
quindi anche del suo pessimismo. L. non
esita a metterlo a confronto con i maggiori filosofi dell’Occidente : 37
C. L, Il pensiero di Leopardi, Tra il pessimismo del Pascal, ultima grandiosa
affermazione del medioevo religioso e il pessimismo del Leopardi, c’è l’età
dell’illuminismo nei suoi ideali più alti, c’è Cartesio e Kant (che pur
Leopardi non conosceva), c’è insomma il pensiero moderno che fonda tutto il
valore dell’uomo nella sua dignità morale e questa sua dignità morale nella
verità che egli ha raggiunto colle proprie forze, rivelata alla sua
ragione.37 38 Secondo Sebastiano Timpanaro : « L’esperienza
esistenzialistica L. se l’era ormai lasciata (...) 39 C. L., Leopardi
progressivo, cit., p. 97. 40 Ibid., pp. 101-102. 23 Sarebbe opportuno
comprendere se vi siano elementi comuni tra i due testi di L. su Leopardi,
scritti a distanza di dieci e decisivi anni. Sussistono poche tracce del
Leopardi esistenzialista del 1938 nel Leopardi progressivo del 194738. Un
lascito più evidente consiste invece nella condanna duratura e permanente di
Croce – di cui L. cita esplicitamente « l’infelice giudizio » su Leopardi. Per
L., non solo la poesia di Leopardi è sempre vera poesia, ma anche il suo
pensiero, potremmo dire, è vero pensiero, vera filosofia. Leopardi, dice L., «
fu un pensatore progressivo ; in certo modo, dentro i limiti della sua funzione
di moralista, di non-tecnico della filosofia né di alcuna disciplina
particolare, il più progressivo che abbia avuto l’Italia nel xix sec.
»40. 24 L’interpretazione data da Gentile – che invece L. nel suo testo
non cita mai – e la stagione di studi sul Leopardi ottimistico che essa
inaugurò per il Ventennio fascista lasciano invece dietro di sé, e sul saggio
di L. in particolare, un’eredità molto più complessa da cogliere e da valutare.
Nell’insistere sul materialismo del pensiero leopardiano, Luporini intendeva
senz’altro opporsi alla lettura idealistica e spirituale di Gentile. È inoltre
significativa la scelta di L., che non parla di un Leopardi ottimista, ma
progressivo, rifacendosi perciò ad un lessico di tutt’altra connotazione
ideologica. Vi sono, tuttavia, anche alcuni elementi di continuità, e ci
soffermeremo brevemente su tre di questi. 41 Ibid., pp. 49 e 69. 42 S. Timpanaro,
Classicismo e illuminismo, cit., p. 180. 25 Il primo sta nell’origine
contestuale e storica che Luporini attribuisce al pessimismo leopardiano, il
quale deriva, secondo lui, da una delusione storica : la delusione della
Rivoluzione francese. « Questa delusione – scrive Luporini – non spiega solo il
pessimismo storico di Leopardi, ma il suo successivo e rapido pessimismo
cosmico; ossia spiega tutto il pensiero leopardiano. I due pessimismi nascono
da un unico germe, appartengono a un unico processo di pensiero »41. Esprimendo
un giudizio complessivamente molto positivo sul testo di L., Timpanaro emette
la principale sua riserva proprio su questa interpretazione, che giudica
insufficiente in quanto non rende conto del « valore permanente del pessimismo
leopardiano »42. Nella nostra prospettiva, è importante notare che la
spiegazione storica, benché usasse altri mezzi e perseguisse altri fini, era
già usata in modo sistematico dalla critica fascista, escludendo a priori
l’idea di un pessimismo non fondato sulla storia, ma sulla condizione umana in
senso universale e astorico. L., Leopardi progressivo, cit., p. 50. 44
Ibid., p. 60. 26 Il secondo elemento di continuità sta nel giudizio, proprio di
Luporini ma anche della critica fascista, secondo cui nonostante il pessimismo
scaturito dalla delusione storica, vi fosse in Leopardi una “inconcussa e
nascosta fede”43, qualcosa che lo induceva comunque a sperare. Come Gentile,
anche Luporini dà un notevole rilievo a quell’unica occorrenza del termine «
ultrafilosofia » nello Zibaldone, ma le attribruisce contenuti affatto diversi
perché in essa « sembra condensarsi la “disperata speranza” dell’individuo
Leopardi »44. 45 Ibid., p. 38. Timpanaro considera che non era «
accettabile » il « rimprovero » mosso a L. Il terzo ed ultimo elemento di
continuità, tra il testo di L. e la produzione critica del Ventennio, sta
infine nel presentare Leopardi quale un « anticipatore di ulteriori dottrine
»45. In entrambi i casi, Leopardi diventa precursore politico di un’ideologia
del Novecento e, in entrambi i casi, diventa precursore di un’ideologia
strutturalmente ottimistica. L’ottimismo era, infatti, un aspetto culturale e
ideologico programmatico per il fascismo ma, d’altra parte, il progresso – e
quindi la visione ottimistica del divenire umano che lo sottende – è a sua
volta un perno essenziale dell’ideologia comunista. L., Leopardi moderno,
intervista a cura di F. Adornato, « L’Espresso ». Su questo punto vorremmo
abbozzare le nostre prime rapide conclusioni. Parallelamente al discorso
critico più tradizionale e canonico, che sin dall’Ottocento va definendo le
varie fasi del pessimismo leopardiano, si possono rintracciare nel Novecento le
tappe di elaborazione del mito di un Leopardi ottimista : un mito che forse
proprio durante il Ventennio conosce la maggiore diffusione, ma che non muore
con la caduta del regime fascista. Il suo permanere, sotto forme diverse, è
forse proprio dovuto al vincolo che lo unisce ad ideologie strutturalmente
ottimistiche, le quali, quando designano nel Leopardi un precursore, lo «
piegano » naturalmente in questo senso. Alla luce di queste considerazioni,
assumono un significato particolare le parole che pronuncia lo stesso Luporini,
in un altro periodo di transizione, alla fine degli anni Ottanta, davanti al
crollo del regime comunista e davanti alla crisi di quest’altra ideologia
novecentesca. Non a caso, Luporini ritorna allora a studiare Leopardi, per
trovarvi l’espressione del suo sgomento : « Il sapersi soli di fronte alla
storia, senza speranze – senza nessuna garanzia, senza nessuna ideologia, senza
nessuna consolazione »46. Siamo molto lontani dal messaggio ottimistico del
Leopardi progressivo, e rimane poco delle antiche speranze di L.. Rimane però
quello stesso amore per Leopardi, e quel sentimento della sua ‘attualità’ più
pregnante : 47 Ibid. Nella nostra epoca così confusa e in fase di
assestamento, nella crisi di tutte le categorie con le quali ci siamo mossi
finora, questa mi sembra un’idea liberatoria. Si può, anzi si deve, essere
disillusi : ma non per questo inerti e rassegnati. Essere nichilisti e insieme
attivi : ecco l’attualissimo messaggio di Leopardi. 47 Débat Inizio
pagina. Il testo Leopardi progressivo fu pubblicato per la prima volta nel
volume Filosofi vecchi e nuovi : Scheler-Hegel-Kant-Fichte-Leopardi, Sansoni,
Firenze. Come L. scrive in un’avvertenza ad una nuova edizione, datata del
febbraio 1980, « questo Leopardi progressivoebbe subito una sua risonanza
particolare, così che poi, nel corso di tutti questi anni, molte volte sono
stato sollecitato a ripubblicarlo in edizione separata. Questa domanda
proveniva da varie parti, ma soprattutto dal mondo della scuola (insegnanti e
studenti), il che mi ha sempre fatto particolare piacere. L., Avvertenze, in
Id., Leopardi progressivo, Roma, Editori Riuniti). 2 Scrive Sebastiano
Timpanaro a proposito del titolo scelto da Luporini : « un titolo che per un
verso alludeva polemicamente alle “magnifiche sorti e progressive” derise nella
ninestra (volendo indicare che Leopardi, nemico del falso progresso
borghese-moderato, mirava ad un progresso molto più radicale, al di là
dell’orizzonte politico della propria epoca e del proprio ambiente), per un
altro accoglieva quell’accezione un po’sottile e non immune da ambiguità che
questo aggettivo ebbe per alcuni anni nel linguaggio politico italiano : non
equivalente a “progressista” (che sapeva troppo di radicalismo borghese), ma
piuttosto a “democratico avanzato”, di una democrazia destinata, senza
rivoluzione, a sfociare nel socialismo. Gli equivoci politici di quest’uso di
“progressivo” ne causarono la rarefazione e poi la scomparsa quando era ancora
in vita Togliatti, che ne era stato, se non l’inventore, certo il massimo
diffusore attraverso la formula della “democrazia progressive -- TIMPANARO,
Anti-leopardiani e neo-moderati nella sinistra italiana, Pisa, ETS. Si tratta
del v. 51 della Ginestra, in G. Leopardi, Poesie e prose, Poesie, a cura di
Rigoni, con un saggio di Galimberti, Milano, Mondadori (I Meridiani. L.,
“Leopardi progressive”. Brunetti, Il « nostro » professore L., in L., a cura di
M. Moneti, numero speciale della rivista « Il Ponte ». L., Leopardi
progressivo. Binni, La nuova poetica leopardiana, Firenze, Sansoni. Sebbene
molto diversi, il testo di L. e quello di Binni hanno in comune l’originalità
dell’impostazione critica, che contribuì a rinnovare gli studi leopardiani nel
dopoguerra. La migliore illustrazione e analisi di tale svolta critica si trova
forse ancora nelle pagine, ormai non più recenti, di TIMPANARO, Classicismo e
illuminismo nell’Ottocento italiano, Pisa, Nistri Lischi. Croce conia la voce «
allotrio » per indicare ciò che è estraneo all’estetica, rifacendosi al
vocabolario filosofico tedesco dell’Ottocento, e al greco “ἀλλóτριος,” che
signifca « estraneo, altrui ». Per l’influenza di Gentile sul mondo
culturale in epoca fascista, si veda in particolare G. Turi, Gentile : una
biografia, Firenze, Giunti. Il ruolo di CIAN negli studi letterari nel periodo
di transizione è stato recentemente studiato d’Allasia in una serie di lavori,
tra cui « Il virus malefico » dell’ideologia nazionale e le illusioni di un «
maestro di metodo » : Vittorio Cian, in Fascisme et critique littéraire. Les
hommes, les idées, les institutions, a cura di Vento e Tabet, Caen, PUC
(Transalpina). MARPICATI compie studi di letteratura italiana a Firenze,
pubblica alcune raccolte di poesie e vari testi di critica letteraria. Ma sin
dalla prima guerra mondiale mette da parte l’attività letteraria – alla quale
si consacra solo sporadicamente – per dedicarsi invece alla politica, dapprima
a Fiume, poi nella militanza e nel regime fascisti. Assume vari incarichi
prestigiosi, tra cui quello di Cancelliere dell’Accademia d’Italia, poi di
direttore, dell’ISTITUTO NAZIONALE DI CULTURA FASCISTA, e anche di vice
segretario del Partito Nazionale Fascista. Ecco quanto scriveva, ad esempio,
Cian, rivolgendosi a Croce e ai suoi discepoli : « Questi cerebrali, più o meno
giovini, chierici sterili e sterilizzatori, officianti nella cappella
all’insegna dello Spegnitoio, dovrebbero ormai decidersi. O smetterla,
rassegnandosi a tacere e a sparire dalla scena letteraria – e sarebbe tanto di
guadagnato – oppure mettersi al passo coi tempi nuovi » (V. CIAN, Rassegna
bibliografica, Giornale Storico della letteratura italiana. Mi sia consentito
di rimandare in questa sede a due testi miei, entrambi accessibili in linea :
S. Lanfranchi, La recherche des précurseurs, Lectures critiques et scolaires de
Alfieri, Foscolo et Leopardi dans l’Italie fasciste --
archives-ouvertes.fr/docs /00/37/21/89/7-12-08.pdf] ; Id., « Verrà un dì
l’Italia vera », Poesia e profezia dell’Italia futura nel giudizio fascista, «
California Italian Studies », II, 1, 2011
[http://escholarship.org/uc/ismrg_cisj], In realtà, i primi sintomi
di’insofferenza RUSSO li da mentre scrive un articolo sulla critica foscoliana
recente, nel quale rivendicava la « politicità » di un testo come Le Grazie e la
legittimità di una lettura che non si attenesse ad un’analisi strettamente
letteraria, estetica e formale. Questo esempio viene a dimostrare quanto detto
subito dopo nel nostro studio, ovvero l’ipotesi di un allontanamento
progressivo dalle posizioni crociane durante gli anni Quaranta (L. Russo, Le
Grazie di Foscolo e la critica contemporanea, “Italia che scrive”. L.,
“Critica e metafisica nella filosofia kantiana, « Rendiconti della Reale
Accademia Nazionale dei Lincei. Classe di Scienze morali, storiche e
filologiche », Il testo faceva parte di un volume scritto dai docenti del liceo
dove L. insegna, in occasione del centenario della morte di Leopardi: L., Il
pensiero di Leopardi, in Studi su Leopardi, Livorno, Belfronte e C.
(Pubblicazioni del R. Liceo Ciano, 1), Nella sua autobiografia, BOBBIO cita un
disegno di GUTTUSO che illustra una delle prime riunioni clandestine del
movimento, riunito nella villa di Morra, vicino a Cortona. Vi si vedono Bobbio,
L., Capitini (con davanti a sé un testo che porta la scritta « Non violenza »),
MORRA, lo stesso GUTTUSO e CALOGERO (con un altro testo intitolato invece «
Liberalismo sociale ») (Bobbio, Autobiografia, Roma-Bari, Laterza. L., Qualcosa
di me stesso, in Questo testo è la trascrizione dell’ultima lezione tenuta,
dall’autore, nella Facoltà di Lettere di Firenze, al momento dell’andata fuori
ruolo. Luporini, Con Heidegger. Alcune riflessioni, oggi, tra filosofia e
politica, in Heidegger in discussione, Atti del Convegno internazionale «
L’eredità di Heidegger », Roma, a cura di Bianco, Milano, Angeli. Gentile,
Manzoni e Leopardi, in Opere, vol. XXIV, Firenze, Sansoni, Gerace, Leopardiana,
in La tradizione e la moderna barbarie. Prose critiche e filosofiche, Foligno,
Franco Campitelli. Croce, Leopardi in Poesia e non poesia, Bari, Laterza. I due
testi si trovano oggi nel volume di GENTILE, Manzoni e Leopardi, cit. Il primo,
Le Operette morali, fu pubblicato per la prima volta in « Annali delle
Università toscane », poi come proemio di un’edizione delle Operette morali
curata da Gentile (G. Leopardi, Operette morali, con proemio e note di Gentile,
Bologna, Zanichelli; il secondo, Prosa e poesia nel Leopardi, fu invece
pubblicato nel « Messaggero della domenica ». Vi è, nello Zibaldone,
un’unica occorrenza del termine « ultrafilosofia », come vi è, del resto, una
sola occorrenza del termine « pessimismo », ma nella critica leopardiana questi
due hapax hanno goduto di grandissimo successo. Leopardi scrive. E un popolo di
filosofi sarebbe il più piccolo e codardo del mondo. Perciò la nostra
rigenerazione dipende da una, per così dire, ultrafilosofia, che conoscendo
l’intiero e l’intimo delle cose, ci ravvicini alla natura. E questo
dovrebb’essere il frutto dei lumi straordinari di questo secolo -- manoscritto
dello Zibaldone. Ricordiamo, a tale proposito, il giudizio formulato da
Noce, secondo cui GENTILE « sentì se stesso come il filosofo di Leopardi, come
il suo vero continuatore perché l’attualismo avrebbe realizzato
quell’ultrafilosofia a cui Leopardi aspira: Noce, Gentile, Per una
interpretazione filosofica della storia contemporanea, Bologna, Il Mulino.
PASINI, Tutto il pessimismo leopardiano, Parenzo, Coanna, Sanctis, Schopenhauer
e Leopardi, in Scritti critici e Ricordi, Torino, Utet. Per una presentazione dei
testi, dei contenuti e degli autori di questa particolare produzione critica
leopardiana, oggi poco nota, rimando alla mia già citata tesi di dottorato (S.
Lanfranchi, La recherche des précurseurs, LANFRANCHI, De centenaire en
centenaire. L’Italie fasciste célèbre ses poètes (Foscolo, Leopardi, in
Fascisme et critique littéraire, Caen, PUC (Transalpina 12). L., Il pensiero di
Leopardi. Secondo TIMPANARO: L’esperienza esistenzialistica [L.] se l’era ormai
lasciata decisamente alle spalle ; eppure essa aveva lasciato una traccia
nell’interesse per i temi leopardiani della “vitalità” e del rapporto
natura-ragione, nel rifiuto di un’interpretazione troppo storicisticamente
angusta del problema Leopardi. Timpanaro, Anti-leopardiani e neomoderati. L.,
Leopardi progressivo, Timpanaro, Classicismo e illuminismo, c L., Leopardi
progressivo.TIMPANARO considera che non era accettabile il « rimprovero » mosso
a Luporini, di aver fatto di Leopardi un « precursore del marxismo. Timpanaro,
Classicismo e illuminismo. Ma certe pagine del libro di Luporini e alcune
formule in esse contenute (segnatamente quell’anticipatore di ulteriori
dottrine) se non rendono « accettabile » un tale giudizio, perlomeno ne
spiegano l’origine. L., Leopardi
moderno, intervista a cura d’Adornato, « L’Espresso ». Cesare Luporini. Luporini. Keywords: corpo e mente, corpo animato –
l’anima di Vinci – la mente di Leonardo – i corpi di Vinci – il Leopardi
fascista. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Luporini” – The Swimming-Pool
Library.
Grice e Luzzago: l’implicatura conversazionale –
filosofia italiana – Luigi Speranza (Brescia).
Filosofo italiano. Nato da Girolamo
e da Paola Peschiera, in una delle più importanti famiglie del patriziato
cittadino, e educato alla pratica devota e all'apostolato. Nel convento di S. Antonio
dei gesuiti si impegna in un corso di filosofia. Dibatte in pubblico 737
argomenti filosofici! Con l'aiuto di Borromeo partecipa a Milano ai corsi di
teologia dei gesuiti di Brera. Si laurea a Padova. Desideroso di entrare a far
parte della Compagnia di Gesù, le difficoltà economiche della famiglia, causate
da alcune transazioni inopportune del padre, glielo impedirono. Conservatore
dei Monti di Pietà, e protettore della
Compagnia delle Dimesse di S. Orsola e di altri due istituti caritativi
bresciani: il Soccorso e le Zitelle. Ri-organizza e da nuovo impulse a un'altra
istituzione sorta dopo il Concilio di Trento: la Scuola della dottrina
cristiana. Fonda la Congregazione di S. Caterina da Siena. Per far sì che il
suo operato continuasse, fonda la Congregazione dello Spirito Santo, che
raccolse i membri della classe dirigente cittadina con l'obiettivo di co-operare
più efficacemente e concordemente al sostegno di tutte le buone istituzioni e
mantenere un clima di Concordia. Infatti, intercede per la conciliazione delle
famiglie nobili bresciane spesso in conflitto.
La sua indole caritativa emerse soprattutto quando venne a far parte del
Consiglio di Brescia, dove sa armonizzare le strutture governative ed organismi
canonici. Nelle opere scritte vi sono indicazioni per i cavalieri di Malta,
sulla carità, ispirati al modello della Compagnia di Gesù. Durante il suo
viaggio a Roma esamina le strutture di beneficenza per poi proporle a Brescia.
Ha la possibilità di conoscere F. Neri. In un'epistola a Morosini, e informato
che Clemente VIII, prende in considerazione il suo nome per la carica di arcivescovo
di Milano. Fu avviata presso la Congregazione dei riti la causa di
beatificazione. Leone XIII, riconosciute le sue virtù eroiche, gli conferì il
titolo di venerabile. Dizionario
Biografico degli Italiani, A. Cottinelli, Vita del venerabile patrizio
bresciano: dedicata ai comitati parrocchiali, Tipografia e libreria Salesiana,
A. Cistellini, Il movimento cattolico a Brescia, Morcelliana. A. Fappani,
Enciclopedia bresciana, Opera San Francesco di Sales, Dizionario Biografico
degli Italiani, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, S. Negruzzo,
L'allievo santo: Roccio precettore, in «Annali di Storia dell'Educazione e
delle Istituzioni Scolastiche», S. Negruzzo, Dalla scuola dell'ajo al collegio
dei gesuiti: il caso di L., in Dalla virtù al precetto. L'educazione del
gentiluomo, Brescia, Fondazione Civiltà
Bresciana, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. Alessandro Luzzago. Luzzago.
Keywords: implicatura. Refs.: Luigi Speranza, “Grice e Luzzago” – The
Swimming-Pool Library.
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